JACQUES ELLUL
UNA PARENTELA IMPOSSIBILE prefazione
di Alain Besonçon
Titolo originale: lslimz tt judhKh,i5linnis lll...
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JACQUES ELLUL
UNA PARENTELA IMPOSSIBILE prefazione
di Alain Besonçon
Titolo originale: lslimz tt judhKh,i5linnis lll~
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Traduzione dal francese di Gianluca Pcrrini Copertina di Dada Effe - Torino
c PI1;'S.SeS Universitaires de France " 2006 Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: novembre 2006 ISBN-IO 88-7180-612-3 ISBN-13 978-88-7180-612-9
Jacques Ellul
ISLAM E CRISTIANESIMO Una parentela impossibile
prefazione di Alaill Besançon
Prefazione
Nell'anno 622 dell'era volgare nasceva ufficialmente, a Medina, una nuova religione che negava in maniera netta i tre dogmi cristiani fondamenta1i della Trinità, dell'Incarnazione e della Redenzione. Oggi, i seguaci di quella religione stanno per superare, in numero, i cristiani. Da mezzo secolo a questa parte il panorama è cambiato radicalmente a causa di tre fattori. I paesi musulmani colonizzati dagli imperi europei (ovvero gli imperi inglese, francese, russo e olandese: considerati come cristiani dai seguaci dell'Islam) hanno ritrovato l'indipendenza (con la sola eccezione della Cisgiordania palestinese). Le minoranze cristiane presenti in Turchia, Egitto e Medio Oriente, ancora numerose all'inizio del XX secolo si sono convertite, sono state espulse (come nel caso dei Greci dell' Asia Minore) o massacrate (è questo il caso degli Armeni). Infine, consistenti minoranze musulmane si sono stabilite pacificamente nell'Europa occidentale. In Francia esse rappresentano all'incirca il 10% della popola-
• zione, cifra che secondo i demografi è destinata a raddoppiare entro una ventina d'anni; in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti le percentuali sono più basse, ma pur sempre significative. Quest'ultimo fattore genera ovviamente una certa inquietudine nei paesi ospitanti: il problema è posto in termini di demografia, di assimilazione, di lotta al «razzismo», ma è assai raro che lo si consideri da un punto di vista religioso. Infatti, da più di mezzo secolo, l'atteggiamento delle Chiese è improntato aU'irenismo e all'ecumenismo. Benché molte di queste istituzioni appaiano in crisi - o forse proprio a causa di ciò - non si osservano in loro inquietudini di carattere propriamente religioso: sono preoccupate piuttosto di tributare una buona accoglienza all'Islam, di ricercare il contatto, di trovare punti in comune e di coltivare il dialogo. In Francia, in particolare, la religione del Corano si è radicata poco per volta e senza far rumore: soltanto in tempi recenti i francesi si sono resi conto - bruscamente - che essa poneva un problema assai grave, perché nel loro territorio stavano nascendo un' altra civiltà e un altro paese. Colti di sorpresa, hanno reagito e reagiscono in modo disordinato, come si è visto in occasione delle discussioni sull'accettazione o sulla proibizione del velo islamico nelle scuole pubbliche. [ francesi hanno tuttavia la scusante di essere stati informati poco e male e, inoltre, nutrono da sempre il timore di essere accusati di intolleranza e di razzismo, benché si tratti di
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un problema religioso che nulla ha a che vedere con la razza. Se appartenenti alla religione cristiana, hanno attinto a una letteratura spesso scritta da studiosi non s0lo desiderosi di difendere i valori delI'Islam, ma anche impegnati a sottolineare i pretesi punti in comune tra le due fedi. Quei libri possono essere letti come un'involontaria propaganda a favore del mondo islamico. Eppure le cose non sono sempre andate in questo modo. Molti grandi autori classici hanno constatato l'incompatibilità teologica che separa il cristianesimo dall'lslam: citiamo ad esempio Giovanni Damasceno e Tommaso d'Aquino. Giovanni Mansùr, detto il Damasceno, discendeva da una famiglia di alti funzionari bizantini che avevano svolto un ruolo importante durante la capitolazione di Damasco. Egli servi dapprincipio il Califfo come addetto al fisco; allorché sopraggiunsero le prime persecuzioni, entrò nel convento di San Saba dove morÌ nel 749. Ci ha lasciato soltanto poche pagine riguardo alla nuova religione, ma preziose in quanto scritte da un testimone diretto. Un suo testo si trova inserito nel catalogo (da lui stesso compilato) denominato Libro delle eresie (altrimenti noto come Sull'eresia), in cui l'lslam è trattato al capitolo 100, il che indica che all'epoca, in particolare presso i monofisiti e i nestoriani - i quali detestavano l'ortodossia melchita, che per loro rappresentava l'oppressione bizantina - non era ancora chiaro se l'lslam rappresentasse un'altra religione o l'ennesima variante della nebulosa cristiana: una simile incertezza può essere ri-
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scantrata persino oggi. In ogni caso, la descrizione che Damasceno dà dell'Jslam è improntata al puro sarcasmo: Maometto è un falso profeta e le sue dottrine sono assurde - e non possono che essere considerate tali, dal momento che negano le verità cristiane. Un altro testo del Damasceno, più tardo, si presenta come una Controversia tra un nwsulmano e IIn cristiano (opera nota anche come Conversazione tra un saraceno e un cristiano). Si tratta di un breve catechismo, scritto allo scopo di evitare che i cristiani si convertissero, come in effetti stavano facendo in massa. In esso si tenta una difesa del libero arbitrio contro il fatalismo che pervade l'Islam, nonché della compattezza del mondo e delle leggi che lo governano, in opposizione al puro capriccio di Dio che caratterizza la religione musulmana. Giovanni usa un tono di patemalistica condiscendenza, lo stesso che avrebbe potuto usare un distinto teologo del XIX secolo nel trattare la rivelazione di Joseph Smith e il suo Libro di Mormon. Uno dei cardini della tradizione di rifiuto puro e semplice dell'lslam è senz'altro Tommaso d'Aquino. Nella $umma contra Gentiles (I, 5), egli elenca i seguenti argomenti: Maometto ha sedotto le persone con comandamenti che soddisfano la concupiscenza carnale; ha propinato verità facili da cogliere per gli spiriti rozzi, mischiandole con favole e dottrine che sminuiscono quella verità naturale che pur esiste nel suo insegnamento; le prove che egli offre della verità della sua fede poggiano sulla forza delle armi: si tratta di prove che possono essere esibite da qualunque brigante o tiranno.
PREFAZIONE
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Né l'Antico né il Nuovo Testamento testimoniano in suo favore; al contrario, Maometto li ha deformati con racconti favolosi e ha proibito ai suoi discepoli di leggerli. In breve, condude l'Aquinate, ((coloro che prestano fede alla sua parola credono con leggerezza». Si noti che i due autori citati, i quaH rifiutano nel modo più netto la religione musulmana, hanno entrambi prodotto delle summae, cioè esposizioni complete della dottrina cristiana. Infatti, sembra ormai chiaro che ogni discussione con l'Islam richiede un~ conos~nza approfondita della teologia cristiana e che il miglior modo di mettere in guardia il fedele cristiano consiste nell'jstruirlo a proposito della sua stessa religione, che in generale gli è nota in maniera approssimativa. La polemica con 1'!s1am è efficace soltanto se accompagnata da una catechesi, ed è a questo principio che si è attenuto }acques EUul nel testo che ci apprestiamo a leggere. È importante che un celebre teologo ci parli oggi dell'Islam dal punto di vista che più conta, quello della teologia. Jaeques Ellul è un teologo protestante, come protestante è anche la sua catechesi. Egli si colloca nella tradizione di Karl Barth, che ha segnato profondamente la teologia protestante del XX secolo (e anche, in qualche misura, la teologia cattolica). Ricordiamo che, invitato in qualità di osservatore al Concilio Vaticano II, Karl Barth protestò solennemente contro un testo di quello stesso Concilio il quale, a suo dire, non insisteva a sufficienza né in maniera abbastanza chiara sul fatto che Cristo è il solo mediatore e il solo salvatore. La critica
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all'!slam di Ellul è anche una professione di fede: l'una non esiste senza l'altra. Tuttavia, Jacques ElIul non ha avuto il tempo di terminare il proprio lavoro. Il testo qui presentato è una minuta decifrata dopo la sua morte, ed è un documento di grande ricchezza. Prendendo spunto dal suo scritto, vorrei raccontare la stessa storia in modo leggermente diverso, ancorché io mi senta assai prossimo alle sue posizioni per quasi tutto ciò che concerne l'Islam. Quale statuto può essere assegnato all'lslam dalla teologia cristiana? Si tratta di una religione rivelata o di una religione naturale? Secondo la teologia cristiana, gli esseri umani si suddividono come segue: alcuni falUlo parte dell' Alleanza detta di Noè: grazie a quest'alleanza gli uomini possono prendere coscienza della legge di natura, cioè della morale comune, e formarsi un'idea del divino nell'ambito delle religioni che chiameremo pagane. All'interno di quest'umanità comune, Dio ha «scelto» un uomo, Abramo, e la sua «casa», con cui ha stipulato un' alleanza, ripresa e ampliata da quella accordata a Mosè nel nome del popolo che Dio si «crea» ai piedi del monte Sinai. Infine Dio, per mezzo del suo Verbo incarnato venuto come «Messia» d'Israele, istituisce una «Nuova Alleanza», capace di estendersi, partendo da Israele e dal suo Messia, all'umanità intera. Ma come si colloca l'Islam all'interno di questa classificazione?
PREFA;t;JONf
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La difficoltà e l'imbarazzo che provano cristiani ed ebrei nell'assegnarlo al gruppo delle religioni naturali nasce dal fatto che esso proclama di credere in un solo Dio, eterno, onnipotente, creatore, misericordioso. Sembra qui di riconoscere il primo dei Dieci Comandamenti trasmessi a Mosè, ma c'è una differenza sostanziale: il Dio dell'Esodo si presenta come il liberatore del proprio popolo in una particolare situazione storica: «lo sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù». Nel Corano, invece, la storia non esiste. La professione di fede islamica è all'apparenza simile al primo articolo del Credo cristiano: «Credo in un solo Dio onnipotente, creatore del Cielo e della Terra». Ma il Dio cristiano è chiamato Padre e ha con gli esseri umani un rapporto personale e di reciprocità. Va detto che i musulmani propongono un'altra classificazione, che oppone i pagani a coloro che, ebrei, cristiani e musulmani, haIUlo «ricevuto una rivelazione)). Il secondo gruppo è legato da una somiglianza formale (l'avere appunto ricevuto una rivelazione), e non da una concatenazione storica. A questo punto posso formulare la mia tesi teologica: l'lslam è la religione naturale del Dio rivelato. ~
classica la distinzione tra religioni naturali e religioni rivelate: le religioni naturali, quelle dei pagani, possono eventualmente condurre, più o meno chiaramente, al vero Dio (cioè al Dio rivelato); al punto che la
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stessa Chiesa, che ha condannato gli idoli, ha tuttavia riconosciuto nel dio della filosofia il Dio vero, seppur cercato a tentoni. D'altra parte, la Chiesa è convinta che questo Dio abbia voluto manifestarsi e comunicare la propria volontà riguardo alla salvezza degli uomini, permettendo loro di conoscere verità che superano le possibilità dello spirito umano. Per gli ebrei, tale rivelazione è contenuta nel1a Bibbia, cui i cristiani hanno aggiunto un «Nuovo Testamento», pur riconoscendo piena autorità al documento biblico elaborato prima della venuta dettaro Messia. Anche i musulmani sono convinti di aver ricevuto una rivelazione. Essa è concepita come la trasmissione di un testo preesistente: in tale trasmissione il profeta non svolge alcun ruolo attivo, ma si limita a ricevere una serie di brani provenienti dalla «Madre del Libro» *, ripetuti come sotto dettatura. A differenza della Bibbia, che per gli ebrei è «ispirata» da Dio, il Corano è increato. Esso è la parola inereata di Dio. L'Islam distingue tra il profeta (nabl) e !'inviato (rasai), il quale è, tra i profeti, colui che ha ricevuto un messaggio legislativo. In tal modo, Adamo, Lot, Noè, Mosè, Davide e Gesù devono essere considerati degli inviati che hanno recato un messaggio a determinati popoli, ma soltanto Maometto, il «sigillo dei profeti)), è stato incaricato di una missione universale. I grandi inviati di Dio, ovvero Mosè, Davide e Gesù, hanno anche * l'o ri g inale incteato. rN .d. T.I
Pf/EfAZIONE
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trasmesso, alla lettera come Maometto, i libri che sono stati loro dettati: la Toràh, i Salmi, il Vangelo (al singolare); anche Adamo, Set e Abramo hanno scritto libri. Tuttavia - e questo punto è di capitale importanza quei libri, reali o immaginari, non sono considerati veritieri dall'Islam, perché il loro testo è stato falsificato: gli ebrei e i cristiani hanno manipolato le scritture e ne hanno deformato il senso. In più, dal momento che il Corano contiene tutta la verità, quand' anche quei libri fossero autentici non direbbero nulla di nuovo: da ciò consegue che i musulmani non riconoscono il valore dei documenti rivelati prima del loro. La vera Toràh e l'autentico Vangelo vanno ricercati nel Corano e non altrove: i veri discepoli di Cristo sono i musulmani. A questo punto, la parola passa agli ebrei e ai cristiani: possono essi riconoscere la Bibbia nel Corano? La risposta è no. Quali sono i rapporti di filiazione che legano la Bibbia al Corano? Non c'è nessun rapporto assicurano i musulmani: Maometto era analfabeta. Dio ha dichiarato al Profeta: «Prima, tu non conoscevi cosa fossero le Scritture e la fede». Che esistano affinità è più che naturale, dicono, dal momento che tutti gli «inviati» hanno ricevuto lo stesso messaggio; e se vi sono differenze, è perché ebrei e cristiani lo hanno mutilato e falsato. I cristiani non possono credere a questi argomenti. Maometto aveva una certa conoscenza della Bibbia; Medina era zeppa di ebrei e cristiani appartenenti a diverse sette. Giovanni Damasceno era convinto che il Profeta
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dell'Islam fosse stato influenzato da un monaco ariano; altri pensano a un monaco nestoriano. A chi ha familiarità con la Bibbia, le figure bibliche citate nel Corano appaiono nel contempo identificabili e deformate. Abramo non è IbrahIm e Mosè non è Masa. Prendiamo il caso di Gesù. flsa è fuori dal tempo e dallo spazio, disancorato dalla terra di Israele; sua madre, Maria, che è la sorella di Aronne, lo mette al mondo sotto una palma. In seguito, 'Isa compie molti miracoli che sembrano tratti dai vangeli apocrifi; inoltre, egli annuncia la venuta futura di Maometto e fungerà da testimone nel giorno della resurrezione. Capita talvolta che l'importanza accordata a Gesù nel Corano impressioni i cristiani; non si tratta, tuttavia, della stessa persona nella quale ripongono la loro fede. n Gesù del Corano ripete ciò che era già stato annunciato dai profeti che lo avevano preceduto: Adamo, Abramo, Lot ecc. Infatti, tutti i profeti posseggono la stessa conoscenza e proclamano il medesimo messaggio, l'Islam. Sono insomma tutti musulmani. Gesù è stato inviato per predicare l'unicità di Dioi egli rivendica di non essere uno «che associa altri dèi a Dio». E nega la Trinità: «Non dite "Tre"» (sura IV, 171 «Le donne»). Non è il figlio di Dio, ma una semplice creatura; non è un mediatore, perché l'Islam non conosce la mediazione; inoltre, dal momento che per l'Islam è inconcepibile che un inviato di Dio sia vinto, Gesù non è morto sulla croce, ma è stato sostituito da un sosia. Questo tipo di cristologia, da un punto di vista cristiano, presenta tratti misti di nestorianesimo e docetismo.
PR EF.... ZIONE
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L'idea di una rivelazione progressiva è estranea a11'Islam. Il messaggio divino è insti1lato già nel primo uomo, Adamo, il primo profeta; semplicemente, gli uomini dimenticano il messaggio ed è necessaria una ripetizione. Maometto è l'ultimo inviato ed è il riformatore definitivo. La sola prospettiva dalla quale è possibi1e contemplare la storia è rappresentata dalla legge del trionfo degli inviati e dall' annientamento di coloro che a essi si sono opposti. L'Islam, ovvero la «sottomissione», è l'orologio che riconduce il tempo al suo istante eterno, così come Dio periodicamente riconduce gli uomini al proprio decreto eterno. Quindi, per gli ebrei e i cristiani, non c'è continuità tra la Bibbia e il Corano: gli uni e gli altri notano che la storia raccontata nella Bibbia risulta nel Corano frammentaria, deformata, modellata da una matrice dogmatica coerente che fa apparire i fatti sotto un'altra luce e dà loro un significato diverso. Ciò è evidente soprattutto in quello che dovrebbe essere il vero punto di raccordo tra l'Islam e la religione biblica: il concetto del Dio Unico, creatore, onnipotente e misericordioso. Infatti, sebbene i musulmani amino sciorinare i 99 nomi di Dio, tali nomi non sono stati rivelati nell'ambito di un' Alleanza come nel caso del roveto ardente o come nel Vangelo, in cui il Signore si manifesta agli uomini come loro Padre. Questo Dio Unico che pretende sottomissione è un dio separato dagli uomini: chiamarlo Padre sarebbe un sacrilego antropomorfismo. Dio ha accettato di far discendere una legge sacra; egli pre-
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tende obbedienza, ma non si impegna in un rapporto di amore. Il Dio musulmano è assolutamente impassibile, e amarlo sarebbe cosa sospetta. In luogo dell'amore, egli reclama un'obbedienza gratuita e una buona disposizione d'animo nei suoi confronti. Ecco perché gli ebrei e i cristiani sono obbligati a rifiutare al Corano lo statuto di rivelazione, ed ecco perché essi contestano altresì all'Islam la definizione di religione abramitica. L'Abramo rivendicato dall'Islam è un «inviato» e un musulmano; non è il padre comune di Israele e, successivamente, dei cristiani che condividono la sua fede. «Abramo non è né ebreo né cristiano», dice l'Islam. Ha partecipato al culto musulmano costruendo la Ka'ba e istituendo il pellegrinaggio alla Mecca. Non è nemmeno lontanamente vero che Maometto abbia condiviso la fede di Abramo: è Abramo che ha condiviso la fede di Maometto. Dal momento che, secondo il Corano, la verità è rivelata per intero fin dal primo giorno e fin dalla creazione del primo uomo, è inconcepibile che Abramo abbia ·svolto il ruolo di fondatore che gli viene assegnato dagli ebrei e dai cristiani. Quando i musulmani si richiamano a IbrahIm, non professano né la fede originale di Abramo che gli storici delle religioni tentano di ricostruire, né la fede di Abramo come l'intendono l'ebraismo e il cristianesimo.
Affrontiamo adesso il problema dal lato opposto: provIamo a considerare l'Islam come una religione naturale.
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Una caratteristica comune delle religioni naturali è l'evidenza di Dio o del divino in ogni luogo. L' Islam, che viene rappresentato come la religione della fede per eccellenza, non ha affatto bisogno della fede per ~rede re, o, piuttosto, per constatare l' evidenza di Dio. Come per i Greci e i Romani, la contemplazione del cosmo, della creazione, è sufficiente di per sé per avere la certezza, prima di ogni ragionamento, che Dio o il divino esistono, di modo che il fatto di non credere diventa un segno di insensatezza che esclude il non credente dalla compagine umana. Ques ta opinione non è condivisa dalla teologia cristiana, secondo la quale la ragione può accettare l'esistenza di Dio soltanto attraverso l' indagine e le argomentazioni. La fede teologale, che è soprannaturale, pone un sigillo a questa certezza. Dio ha dato agli uomini una legge attraverso un patto unilaterale: si tratta di una legge che nuna ha in comune con quella del Sinai, che fa di Israele l' interlocutore di Dio, né con quella dello Spirito di cui parla san Paolo. La legge dell' lslam è una legge esterna all' uomo, che esclude in modo categorico !'imitazione di Dio qual è suggerita dalla Bibbia: dall'uomo si pretende soltanto che rimanga entro i termini stabiliti da Dio nella sua parola increata e nella sunna, la tradizione autentica. Qualunque desiderio di superare questi limiti è visto con sospetto: per ricevere la ricompensa promessa e sfuggire ai castighi. previsti è sufficiente fare il bene ed evitare il male. Ritroviamo qui alcune norme dell'etica pagana, e ciò non deve stupire: l'ascetismo è estraneo allo s pirito del-
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l'Islam. La civiltà islamica è una civiltà della bona vita: essa offre una vasta gamma di piaceri, Vi è un carpe diem musulmano, una felicità musulmana che ha spesso affascinato i cristiani, così come essi hanno avuto nostalgia del mondo antico. La predestinazione, come !'intende l'Islarn, non è lontana dal sentimento antico del fatum. Naturalmente, iI musulmano riconduce tali vantaggi alla perfezione della sua Legge, la quale è moderata, più adatta alla natura umana di quanto non lo sia quella dei cristiani e più mite di quella degli ebrei. Una simile moderazione, che viene chiamata «facilitazione (o "agevolazione") della religione», è citata per dimostrare la bontà dell'Islam, e rende ancor più difficilmente scusabile il fatto di non accettarlo. Non c'è un peccato originale e non esiste un inferno eterno per il credente. Sbaglia chi si fa beffe del paradiso musulmano, anche se è vero che non contempla, come nel caso del paradiso ebraico e cristiano, la visione di Dio e la partecipazione alla vita divina. In effetti, nell'aldilà musulmano Dio continua a essere separato e irraggiungibile; tuttavia, con il perdono e la pace, l'uomo vi trova la «soddisfazione». La Bibbia fa percorrere all'uomo un itinerario che comincia in un giardino, l'Eden, e termina in una città, la Gerusalemme celeste; nel Corano, invece, c'è il ritorno al giardino. Le antiche mitologie ci offrono immagini non dissimili di banchetti ideali all'insegna di libagioni, efebi, giovani vergini, in un identico clima di soddisfazione e realizzazione di tutti i desideri.
PREFAZIONE
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In accordo con le religioni naturali e con il sostrato ellenistico al quale l'Islam si è sovrapposto, la vita religiosa comporta modalità e livelli diversi. Per le anime religiose si aprono due vie, che esistevano già nel mondo greco-romano:]a filosofia (la/alsa/a, impregnata di neoplatonismo) e la mistica. Agli spiriti meno esigenti è permesso, a patto che rispettino la Legge e che pratichino, per quanto in forma leggera, i «cinque pilastri» dell'Islam, di condurre una vita religiosa perfettamente superficiale e tuttavia perfettamente lecita e accettabile. Si tratta di un grande vantaggio sulle due religioni bibliche, le quali reclamano in linea di principio un maggior scrupolo e una maggior attenzione nei confronti della sfera interiore. La stabilità di questa religione superficiale e legale non è priva di somiglianze con la religione antica, ricca di rituali che accompagnavano il sentimento naturale e spontaneo del divino. Due fatti hanno sempre stupito i cristiani: la difficoltà di convertire i musulmani e la solidità della loro fede, persino tra le persone più superficialmente religiose. Per il musulmano, diventare cristiano è un' assurdità: in primo luogo perché il cristianesimo è una religione del passato, da cui nslam ha preso il meglio superandola, e poi perché il cristianesimo gli sembra innaturale. Le esigenze morali di questa religione oltrepassano, secondo il musulmano, le capacità umane. Il dogma trinitario lo mette a disagio: teme di esporsi al sirk, il peccato imperdonabile consistente nell'associare a Dio al-
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tre divinità. Sospetta che il cristianesimo sia una religione misterica (ed egli condanna i misteri), di conseguenza irrazionale. Ebbene, l'Islam si considera una religione razionale, anzi, la sola religione razionale. In quest' affermazione vi è qualcosa di minaccioso, dal momento che, se la ragione è ciò che caratterizza la natura dell'uomo, seguire l'irrazionalismo cristiano equivale a porsi al di fuori della razza umana: stando così le cose, lo statuto di dhimmj1r rappresenta un'assai debole protezione. In fatto di tolleranza, dunque, gli Stati musulmani non possono garantire, in senso stretto, la reciprocità che pretenderebbero da loro gli Stati cristiani: i cristiani che la reclamano non fanno altro che dimostrare la propria ignoranza in materia di Islam. Per quanto attiene alla solidità della fede musulmana, essa si traduce semplicemente nello shIpore dei musulmani di fronte a un fenomeno intimamente legato alla storia del cristianesimo: l'ateismo moderno. Noi cristiani moderni abbiamo la tendenza a considerare l'ateismo come la sola alternativa alla fede. Tuttavia, nel mondo antico, i cristiani erano accusati di ateismo perché rifiutavano di accettare l'esistenza degli dèi: ebbene, l'indignazione dei musulmani è di natura identica. Eppure, nei loro incontri con essi, i cristiani non hanno ritrovato la stessa natura che vedevano nel paganesimo greco-romano, germanico, slavo o amerindio: si potrebbe dire che la natura e la rivelazione si siano mu*Per la definizione di dllimm ; si veda l'Appendice.
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tilate a vicenda. Non intendo parlare dell' aspetto esteriore, della struttura della città musulmana, dell' organizzazione familiare, dello status della donna o dei costumi tradizionali: intendo invece rivelare tre tratti specifici che riguardano il mondo interiore, l'essenza di questa religione. Il primo tratto consiste nella negazione della natura nella sua stabilità e nella sua consistenza. Non esistono leggi naturali: atomi, accidenti e corpi non durano che per un istante e sono creati a ogni istante da Dio. Non esiste una relazione di causalità tra due eventi: esistono soltanto «abitudini» di Dio. Il giorno coincide solitamente con la presenza del sole, ma Dio può cambiare le proprie abitudini e far risplendere il sole nel bel mezzo della notte: il miracolo non corrisponde dunque a una sospensione delle leggi di natura, ma a un cambiamento nelle abitudini di Dio. 11 principio di causalità è abolito, di conseguenza tutto può accadere. La creazione di Adamo non fa di costui il capostipite di una stirpe: infatti, come lui, ogni uomo è creato «di bel nuovo»: «Vi ha creato nel seno delle vostre madri, creazione dopo creazione». Ogni momento della crescita rappresenta un nuovo atto creatore. Ci troviamo di fronte a un Dio • la cui natura e i cui scopi ci sono tenuti nascostii il tempo è ridotto a una serie di atomi e istanti slegati l'uno dall'altro e l'universo dipende dalle «abitudini» dell'Onnipotente. Agli occhi degli Occidentali, il cosmo musulmano sembra privo di stabilità: non si distingue pi Ù il confine tra realtà e sogno.
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Il secondo tratto, come abbiamo visto, è rappresentato dalla negazione della storia. La Bibbia racconta una storia e la rivelazione procede a tappe. Dio interviene nella storia con parole e atti il cui ricordo è conservato dalla tradizione e da un libro ispirato, continuamente suscettibile di nuove interpretazioni. Il Corano, invece, è increato: non esiste quindi alcun magistero interpretatiVQ. Il Corano narra alcune storie, non una storia; l' intervento di Dio consiste nella protezione dei profeti - i quali sono infallibili e immuni dal peccato -, e nell'annientamento dei loro nemici. Dal'momento che a tutti gli inviati è trasmesso invariabilmente lo stesso messaggio, il senso della storia che ne deriva è quello di una ripetizione indefinita della stessa lezione. Non esiste alcuna differenza di fondo tra il presente, il passato e il futuro. Il terzo tratto riguarda la virtù religiosa. Si tratta di una virtù morale che si ritrova sia nelle religioni naturali che in quelle rivelate e che, secondo la definizione di Cicerone, «offre le proprie cure e le proprie cerimonie a una natura superiore, che chiamiamo divina». In tutte le religioni essa governa la pietà, la preghiera, l'adorazione, i sacrifici e gli atti consimili. Ebbene, se si rifiuta al Corano lo statuto di autentica rivelazione, pare difficile evitare di definire la fede musulmana come una forma particolare di virtù religiosa. Il fatto che nell'Islam questa virtù possa essere spinta al di là di ciò che appare conveniente nella religione biblica può generare confusione. Nella religione bibilica, infatti, l'uomo è responsabile delle sue azioni nel quadro di una natura fi-
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sica, sociale e politica che ubbidisce a un ordine e a leggi regolari. I doveri religiosi, quindi, sono confinati entro i limiti di una zona ragionevole al di qua o al di là della quale si pecca per difetto o per eccesso. Al contrario, nell'lslam !'idea di un ordine naturale non è così radicata, visto che il capriccio di Dio si estende tanto alle cause seconde quanto alle prime. La virtù religiosa rischia dunque di assumere un'intensità e un'ampiezza che per un ebreo o un cristiano potrebbero oltrepassare i confini del giusto mezzo. In conclusione: adesso capiamo meglio il nostro problema iniziale, rappresentato dal malinteso che attende al varco il cristiano quando questi si avvicina all'lslam. Il cristiano è colpito dallo slancio religioso che il musul mano manifesta nei confronti di un Dio che riconosce, volente o nolente, come suo; tuttavia, egli non si identifica né in questo Dio «separato)), né nel rapporto che il musulmano ha con lui. 11 cristiano è abituato a distinguere l'adorazione dei falsi dèi, cui dà il nome di idolatria, dall'adorazione del vero Dio, che egli chiama vera religione. Per trattare convenientemente con 1'1slam, occorrerebbe formulare un nuovo concetto difficile da pensare: /'idolalria del Dio di lsraele. . Ritorniamo alla situazione storica contemporanea. L'lslam, che attraversa una fase di crescita, non sembra essere attratto dal cristianesimo più di quanto non lo sia stato in passato. Viceversa, i cristiani sono attratti dalla
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religione musulmana, e possono persino essere tentati di convertirsi a essa. Tale attrazione si avverte particolarmente presso uno studioso che ha contribuito non poco a influenzare la visione cristiana del1'Islam nel XX secolo: Louis Massignan. Egli ha instillato in alcuni ambienti teologici due opinioni ancora vive, e cioè che il Corano è a suo modo una rivelazione - probabilmente monca, primitiva, in ogni caso pur sempre una rivelazione di natura essenzialmente biblica -, e che l'Islam, come esso stesso pretende, è una religione abramitica. Quando nelle nostre librerie diamo un' occhiata alla letterahlra favorevole all'Islam, per la maggior parte opera di preti cristiani influenzati da Massignon, osserviamo che l'attrattiva che questa religione esercita nasce da più sentimenti. Una certa critica della nostra modernità liberale, capitalista, individualista e competitiva è affascinata dalla civiltà musulmana tradizionale, alla quale attribuisce caratteri del tutto opposti, come la stabilità delle tradizioni, lo spirito comunitario, il calore nei rapporti umani. Questi ecclesiastici, disorientati a causa del raffreddarsi della fede e della pratica del culto nei paesi cristiani - e in special modo in Europa - ammirano la devozione dei musulmani, meravigliandosi davanti a quegli uomini che, nel deserto o in un capannone industriale in Francia o in Germania, si prostemano cinque volte al giorno per la preghiera di rito. Sono convinti che credere in qualcosa sia meglio che non credere in nulla, e si convincono che, dal momento che quelle persone credo-
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no, esse credano press'a poco nelle stesse cose in cui credono loro, e non si rendono conto di confondere la fede con la religione. Si rallegrano, inoltre, nel constatare l'alta considerazione di cui nel Corano godono Gesù e Maria, senza riflettere sul fatto che quel Gesù e quella Maria sono semplici omonimi, che con il Gesù e la Maria che noi conosciamo halU10 in comune soltanto i nomi. Quest' aspetto è grave, perché disturba le relazioni tra cristiani ed ebrei. In questa prospettiva, i musulmani sembrano «migliorb) degli ebrei, dal momento che onorano Gesù e Maria - cosa che gli ebrei non fanno. In tal modo, si paragonano «simmetricamente» Islam e religione ebraica, con l'Islam che ne esce avvantaggiato. Ma anche gH ebrei fanno un simile confronto tra il cristianesimo e l'Islam, e ancora una volta è quest'ultimo a risultare vincitore, dal momento che esprime un monoteismo che pone meno problemi di quello cristiano. Tuttavia, i cristiani non possono avvalorare una simile «simmetria» e la Chiesa cattolica l'ha espressamente condannata: se l'accettasse, rinnegherebbe la propria derivazione da Abramo e da Israele; rinuncerebbe all'eredità davidica del Messia e trasformerebbe il cristianesimo in un messaggio atemporale, privato delle proprie radici e della propria storia. In tal caso, il Vangelo si trasformerebbe in un altro Corano, dissolvendosi così nell'universalismo espresso dal libro dell'lslam. Ecco perché sarebbe opportuno eliminare dal lessico cristiano contemporaneo espressioni pericolose come «le tre religioni abramitiche», «le tre religioni rivelate» e persino «le tre reli-
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ABESANç ON
gialli monoteistiche» (anche perché ce ne sono ben più di tre). La più falsa di tutte queste espressioni è «le tre religioni del Libro», perché essa non significa che l'Islam si rifà alla Bibbia, bensì che è prevista, per cristiani, ebrei, sabei e zoroastriani, una speciale categoria giuridica. Essi sono la «gente del Libro): hanno quindi il diritto di elemosinare lo statuto di dhimmi che garantisce loro salva la vita e i beni, e possono scampare alla morte e alla schiavitù cui sono destinati i kafir, i pagani. Il fatto che simili espressioni siano usate con tanta facilità è un segno che il mondo cristiano non è più in grado di distinguere chiaramente tra la propria religione e l'Islam. Siamo forse tornati ai tempi di san Giovanni Damasceno, quando ci si domandava se l'Islam non fosse una forma come un'altra di cristianesimo? Non si può escludere che sia cast Per lo storico non c'è nuna di nuovo: quando una Chiesa non sa più in cosa crede, né perché crede, scivola verso l'Islam senza nemmeno rendersene conto. Questo è successo ai monofisiti in Egitto, ai nestoriani in Siria, ai donatisti nell' Africa settentrionale e agli ariani in Spagna. I cristiani hanno il grave torto di considerare l'!slam una religione semplicistica, elementare, una «religione da cammellieri». Al contrario, si tratta di una religione estremamente forte, di una cristallizzazione specifica del rapporto tra l'uomo e Dio in totale opposizione con la visione giudeo-cristiana, ma non per questo meno coerente. I cristiani commettono altresì l'errore di credere che l'adorazione da parte del1'Islam del Dio unico di Israele
PREf A ZIONE
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renda loro i musulmani più vicini rispetto ai pagani. In realtà, come dimostra la storia delle loro relazioni, la religione musulmana è più lontana dal cristianesimo di quanto non lo sia il paganesimo per quanto concerne il modo di adorare quello stesso Dio: si potrebbe dire che ci troviamo in presenza di due religioni separate dallo stesso Dio. Da tutto ciò consegue che se i cristiani vogliono capire i musulmani e «dialogare» - come si usa dire oggi - con loro, devono far leva su ciò che in seno all'Islam rimane della religione naturale, della virtù naturale: soprattutto, devono far leva sulla comune appartenenza al genere umano. Ma sia chiaro che il Corano, a differenza di Omero, Platone O Virgilio, non può essere considerato alla stregua di una praeparatio evangelica. Jacques Ellul non espone il problema negli stessi termini in cui l'ho appena affrontato io. È noto, e qui lo ripeto, come egli, sulle orme di Karl Barth, rifiuti al cristianesimo lo statuto di «religione». Vorrei segnalare soltanto che, da un punto di vista teologico che non è necessario approfondire in questa sede, ciò non cambia in nulla il suo giudizio sull'Islam. Come sarebbe bello se Jacques Ellul potesse oggi riprendere la discussione! Ma il testo qui proposto è l'ultimo scritto da lui. Aveva sentito l'urgenza, prima di lasciare il mondo, di lanciare un avvertimento piuttosto solenne. Lo si legga come un testamento. Oggi, a distanza di dieci aMi, ne comprendiamo meglio la gravità.
Alain Besançon
Premessa
Jacques Ellul, giurista, storico, sociologo e teologo protestante, mancato nel 1994 all'età di 82 anni, ci ha lasciato un notevole corpus di scritti (53 opere e migliaia di articoli tradotti in una decina di lingue). Benché non sia molto considerato né come sociologo nei circoli intellettuali parigini né come teologo negli ambienti delle Chiese protestanti, è ritenuto, negli Stati Uniti, tra i migliori pensa tori francesi grazie ai suoi lavori sui rapporti tra società e tecnologia, agli studi sui testi biblici e alla sua Éthique de la liberté in tre volumi. È stato insegnante all'Università di Bordeaux, e i suoi allievi lo hanno apprezzato non solo per i suoi corsi riguardanti la Storia delle istituzioni, il Marxismo e la Propaganda, ma anche per la sua umanità. Chi ha avuto a che fare con lui ricorda il suo impegno e la sua lotta come uomo di fede: un impegno che ha avuto parecchie ripercussioni sulla vita pubblica, sociale e politica. Il suo pensiero si articola attorno a due grandi temi: da una parte c'è l'analisi critica dei problemi generati dalla crescente importanza della tecnologia nella nostra
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società, dall'altra un'etica cristiana della libertà e della speranza che a tale società possa adattarsi. L'originalità della sua opera ha ispirato intellettuali e uomini politici di diversi schieramenti. Al giorno d'oggi, infatti, vi sono no global che ammettono di aver subito la sua influenza, e lo stesso vale per alcuni cristiani ed ebrei sostenitori di Israele. Contrariamente a ciò che qualcuno potrebbe pensare, questi due estremi, la cui coincidenza è in qualche modo disturbante, si toccano, si spiegano e si completano a vicenda; non sarebbe dunque giusto volerli separare, dal momento che riflettono la singolarità di questo pensiero basato interamente sulla testimonianza profetica di Ellul. Sei mesi dopo la sua morte, Patrick Troude-Chastenet ha pubblicato un libro nel quale si legge: «Possiamo mettere in discussione o persino rifiutare le analisi di Ellul, ma non possiamo più limitarci a ignorarle» I. ccJacques Ellul, il grande disturbatore», scriveva a sua volta jean-Claude Guillebaud. Islam e cristianesimo si compone di un testo centrale intitolato dali' autore l tre pilastri del conformismo. Questo manoscritto di una cinquantina di fogli, di difficile decifrazione, scritto probabilmente verso la fine del 1991 e mai pubblicato in precedenza, fa parte di un corpus più ampio: infatti, tra il 1980 e il 1991 Ellul ha pubblicato diversi scritti che trattano delle tre cosiddette «religioni del Libro». Il secondo testo qui presentato è la prefazione a un lavoro molto ben documentato sul problema della dhimmitudine: The Dhimmi. Jews and Christians Under
PREMESSA
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Islam (il volume tratta della condizione degli ebrei e dei cristiani che vivono in una società musulmana), scritto da una specialista della materia, Bat Ve' or, e pubblicato ne11985 negli Stati Uniti. Questa prefazione, redatta nel 1983, non è mai stata pubblicata in francese. È un testo molto importante, in quanto riprende gli argomenti trattati nel capitolo dedicato all'Islam in Subversion du Christianisme, scritto nello stesso periodo. Nel contesto della dhimmitudine, l'Islam è presentato come una religione che non si evolve né dal punto di vista giuridico né da quello politico, e che ha stabilito uno status di inferiorità per i popoli sottomessi non dissimile da quelIo dei servi della gleba nel Medioevo. Nel capitolo V di Subversion du Christianisme l'Islam è presentato come una religione totalitaria fondata su una nozione a carattere non evolutivo del Diritto divino, responsabile di aver introdotto nel cristianesimo il concetto di guerra santa, l'idea cioè che la guerra possa essere buona. In questo Jacques Ellul scorge una profonda incompatibilità ideologica tra l'Islam e il cristianesimo: quello riposa sul Diritto, espressione della volontà divina, e sul potere guerresco; questo si basa sulla Grazia, che da un punto di vista teologico è il contrario del diritto, considerato un male necessario. Possiamo così notare la differenza tra diritto ed etica. I due testi, sostenuti dai fatti storici, sono concordi nel ritenere l'Islam «una minaccia guerresca costante per l'Occidente» 2 e che, dal momento che il mondo isla-
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D. ELLUL
mica non è cambiato nel suo modo di percepire il non musulmano, «sappiamo come sarebbero trattati coloro che entrassero a fame parte» 3. Nel 1984, nel contesto della guerra in Libano e della carta dell'OLP che prevedeva la distruzione di Israele da parte degli Stati arabi, lacques Ellul scrisse Un chrétien paur Israel~. Si tratta di un corso di storia cui è annesso un corso di fede cristiana: un capitolo è riservato alla propaganda; tutti gli ingredienti del conflitto oggi in atto sono già rivelati in quel testo, nel quale troviamo il rigore dello storico delle istituzioni, alla base anche delle due opere scritte sempre riguardo alla propaganda s, L'opera si conclude con un commovente appello per la sopravvivenza del Popolo eletto: Che cos'è un cristiano per Israele? Niente, una calUla al vento, il fruscio di una foglia, un libro in mezzo a migliaia di altri libri, il quale, con amarezza, sa che potrà essere usato dai propagandisti o frainteso dagli ideologi. È un semplice tentativo che non sposterà di un millimetro le lancette del tempo politico; tuttavia, rappresenta uno sforzo che va fatto, perché un cristiano per Israele è prima di tutto un uomo che vive nella Speranza del Signore e che prega.
Nel solco di quest'opera è apparso, nel 1991, Ce Diell injuste, tlléologie chrétienne paur le peuple d'lsrai/. In questo libro fondamentale le tre religioni occupano un posto preciso: il popolo ebraico è il popolo testimone usci-
P~EMfSSA
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to dalla schiavitù grazie all'azione di un Dio liberatore, e scelto per portare agli uomini la testimonianza del suo amore attraverso la proclamazione della Legge rivelata a Mosè. I cristiani sono gli «innesti» del popolo ebraico, messaggeri della fedeltà e dell' amore di Dio, chiamati a testimoniare concretamente l'amore divino attraverso la mediazione della non potenza di Gesù Cristo e a proclamare agli uomini la salvezza eterna, il perdono e la vittoria sulle forze della morte attraverso la resurrezione del salvatore Gesù. Prendendo ispirazione da Rosenzweig, Jacques Ellul definisce l'Islam come un «nuovo testamento senza il vecchio». Pur rivestito di un abito biblico, l'Islam sarebbe dunque profondamente impregnato di pratiche idolatriche e pagane, nonché di antisemitismo. A questo punto è importante prendere coscienza del fatto che, a differenza dell'Islam, quando i cristiani scivolano nel culto degli idoli, nella violenza e nell'antisemitismo, sono in contraddizione con il loro testo fondante, mentre cos1 non è nel caso dell'Islam. In questo libro Jacques Ellul ricorda che l'ignominia dell'antisemitismo non rappresenta soltanto l'odio del popolo scelto da Dio, ma anche «l'odio nei confronti del progetto stesso di Dio»6. Il popolo ebraico ha secondo lui un rapporto diretto con la redenzione universale; l'enigma della sua esistenza e della sua sofferenza è legato alla fine della Storia '. Ce Dieu injuste, con lslam e cristianesimo, offre una visione completa del pensiero di Jacques Ellul a proposito delle tre religioni dette monoteistiche. La prima
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opera è più specificamente dedicata ai rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, mentre la seconda prende in esame le relazioni tra la religione giudaico-cristiana e l'Islam. Nello stesso periodo, durante la prima guerra del Golfo, jaeques Ellul scrisse l tre pilastri del conformismo e la prefazione al secondo libro di Bat Ye' or sul jihad e sulla dhimmitudine 8 • l tre pilastri del conformismo pone il problema globale dell'infatuazione degli intellettuali per l'Islam. L'introduzione preannuncia tre capitoli di natura teologica"intitolati rispettivamente: «Siamo tutti figli di Abramo», «lI monoteismo» e «Le religioni del Libro». Questi tre concetti, che oggi stravolgono il significato profondo di contenuti teologici specifici per piegarti a fini ideologici, rappresentano i tre pilastri di un nuovo conformismo. A questo proposito, si noti la strizzata d'occhio sarcastica contenuta nel titolo - a cui Ellul teneva molto - e nel quale si può scorgere un riferimento ai «Cinque Pilastri» dell'Islam, come vengono chiamate le cinque pratiche fondamentali della religione musulmana. Ma vi è anche un' allusione al titolo che Thomas E. Lawrence aveva dato al proprio libro: I sette pilastri della saggezza, un volume che aveva fatto molto rumore all'epoca negli ambienti parigini. Il cololU1ello Lawrence (il famoso Lawrence d'Arabia), si era unito ai beduini per liberare l'Arabia dai turchi; tuttavia, il libro, che racconta con dovizia di particolari quelle battaglie, non ha in definitiva niente a che vedere con i «sette pilastri» cita-
PR IOM IOSSA
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ti nel libro dei Proverbi (9,1), ma assomiglia piuttosto a
un grande affresco dipinto su uno sfondo di indipendentismo: evidentemente, esso è riuscito ad affascinare gli intellettuali occidentali dell' epoca, pervasi di buoni sentimenti e tormentati da un senso di colpa derivante dall'essere stati dei colonizzatori. Infine, la seconda prefazione allibro di Bat Ye' or The Decline oJ Eastem Christianity under Islam: from fihad lo Dhimmitude si situa su un terreno familiare a Jacques Ellul, ovvero l'aspetto sociologico, e si presenta come una sintesi di tutti gli argomenti già trattati. Essa ruota attorno al concetto di jihnd, che costituisce il tema principale del libro. Il jihifd è fondamentalmente diverso dalle guerre tradizionali a causa della sua componente istituzionale; esso non ha lo scopo di ristabilire la pace, ma di perpetuare la propria esistenza. D'altra parte, l'idea del jihad come guerra spirituale (contro se stessi) non convince l'autore, perché si tratta di un'interpretazione accettata soltanto da una minoranza pacifista (e quindi, per definizione, vulnerabile). Nella parte finale dell'articolo vengono poste le basi per una maggiore apertura a questo vasto problema che, evidentemente, nel contesto attuale desta il massimo interesse sul piano politico e sociale. Ecco perché mi prendo la libertà di citare integralmente le ultime righe di lacques Ellul su questo argomento: Certamente, numerosi governi islamici tentano di contrastare la corrente islamista, ma per riuscire a sconfiggerla bisognerebbe cambiare completamente la mentalità mu-
v. EUUL
sulmana e nel contempo giungere a una desacralizzazione del jihiId; dovrebbe verificarsi una presa di coscienza autocritica dell'imperialismo islamico, unita a un'accettazione della laicità del potere politico e al rifiuto di alcuni fra i dogmi coranici. D'accordo, dopo tutto ciò che abbiamo visto prodursi in Unione Sovietica, non si tratta di un'idea impensabile, ma la sua realizzazione implica un'enorme cambiamento globale, il mutamento del corso della storia e la riforma di una religione assai solidamente strutturata.
Lo storico Ellu! terminava la sua prefazione ricordandoci che «la storia non si ripete». A conclusione di questa presentazione, ricordo che I tre pilastri del conformismo è stato pubblicato dieci anni dopo la morte di Jacques EHul su iniziativa di suo figlio Jean, il quale ha inviato il manoscritto a David G. Littman, storico e amico dell' autore, che ha curato l'edizione definitiva. Desideriamo ringraziare in modo particolare David Littman per il suo lavoro di decifrazione, di preparazione iniziale nonché per il suo contributo amichevole al buon esito della pubblicazione. Desideriamo altresì manifestare la nostra viva riconoscenza ad Alain Besançon per la sua notevole prefazione, che conferisce all' opera di Jacques Ellul un valore storico di importanza capitale e che contiene una nota di simpatia e di calore che non possono lasciare insensibili chi ha avuto modo di conoscere l.eques Ellu!'
PREMESSA
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Per dovere d'informazione, aggiungo che a Jacques Ellul è stato conferito nel luglio 2002, in segno di omaggio postumo, il titolo di «Giusto tra le Nazioni» dalla fondazione Yad Vashem di Gerusalemme per aver aiutato, a suo rischio e pericolo, alcune famiglie di ebrei durante l'occupazione nazista.
Dominique Ellul
Patrick Troude-Chastenet, Sur lacques ElIul, un penseur de notre temps, L'Ésprit du Temps, Bordeaux-le-Bouscat 1994. ' Jacqucs Ellu!, La sufroersion du christianisme, La Table Ronde, Paris 2001, p. 149. ) Prefazione, non pubblicata in francese, per la versione americana del libro di Bat Ve'or (vedi l'Appendice). 'Jacques Ellul, Un chrétien pcur Israel, Éditions du Rocher, Monaco-Paris 1986. ' Jacques ElIul, Propagandes, Armand Coli!\. Paris 1962; e Histoire de la propagande, PUF, l'aris 1967. ' Jacques Ellu!, Le Dieu injuste, Arléa, Pans 1991 p. 156. ' Ivi, p. 157. 'Bat Ve'or, The Decline of Easlern Chrislianity Under fs/amo' from lihad lo Dhimmilude, Fairlcigh Dickinson University Press-Associated University Presses, Madison (Nn - London 1996. I
ISLAM E CRISTIANESIMO
I TRE PILASTRI DEL CONFORMISMO
Introd uzione
È da una decina d'anni ormai, che un numero sempre più consistente di intellettuali francesi manifesta una passione smodata per l'Islam. Non passa giorno senza che si leggano le lodi più disparate della religione di Maometto: è la religione dell'assoluto ultimo, ha dato vita a una ricca civiltà, è permeata di profondo umanesimo e di devozione spirituale. Ovviamente, tutto ciò viene contrapposto al materialismo grossolano della nostra civiltà barbarica, alla nostra sete di denaro, alla nostra passione per il lavoro, alla nostra società tecnologica che disumanizza l'uomo. Mi è capitato di leggere in più occasioni che la «vittoria» di Poitiers del 732 e la disfatta dei l<Saraceni)) sono state un disastro per la civiltà; che gli arabi erano mille volte più civili dei barbari franchi di Carlo Martello; che, se i primi avessero vinto quella battaglia, avremmo goduto i frutti di una civiltà, di una cultura e di un'organizzazione sociale assai superiori. Si esalta lo splendore del regno di Granada per ciò che attiene all'arte e alla letteratura: sfortunatamente, ancora una volta i barbari del Nord sono riusciti a so-
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l TRE PILASTRI DEL CONfORMISMO
praffare una creazione così bella. Ho anche letto che dovremmo affidarci agli insegnamenti della saggezza e della spiritualità musulmane: troveremmo così una risposta e un antidoto all'intollerabile inettitudine del nostro Occidente. Alcuni hanno cominciato a combattere con coraggio le «leggende» inventate dagli occidentali sui massacri che sarebbero stati compiuti dai conquistatori arabi e dai turchi. Altri hanno tentato di dimostrare che sono sempre stati gli europei a cercare pretesti per attaccare i paesi arabi e ho letto con i miei occhi che erano gli europei - proprio così! - a solcare il Mediterraneo depredando le regioni costiere, non i pirati barbareschi; d'altra parte - e questo è un argomento che colpisce - uno dei grandi capi di quei «pirati», il Barbarossa, era un europeo! Un intellettuale assai importante, mio amico, ha proclamato davanti a me che il Corano è «il più grandioso e il più perfetto di tutti i poemi del mondo». Potrei continuare nell'enumerare le testimonianze di entusiasmo e di ammirazione che numerosi studiosi nutrono nei confronti dell'!slam. Per non restare indietro, mi sono tuffato anch'io nella lettura del Corano, di un breve condensato degli hadrth * e di molti libri riguardanti l'lslam: ebbene, non ho trovato ciò che mi era stato promesso. Tuttavia, sapevo bene che è vano discutere quando ci si trova di fronte a una passione intellettuale di questa natura, e stabilire un nesso tra il Corano, ~Raccolta
di te$ti extracoranici contenenti fatti e detti del Profeta. (N.d.T.]
INTRODUZIONE
le società musulmane e le conquiste sarebbe stata un'impresa troppo impegnativa. Lo studio dei fatti storici e della situazione dei vinti oltrepassava le mie competenze I; mi mancava inoltre uno studio serio del Corano, che deve esser letto in arabo, se si vogliono evitare grossolani abbagli 2. Rimaneva comunque una questione per me insolubile: com'è possibile che generazioni di studiosi di cose arabe abbiano potuto ingaJU1arsi in modo così netto a proposito dell'Islam, presentandolo come uno spauracchio e una minaccia? Perché è esistita un' opinione unanime (basata su fatti inesatti, si dice oggi) riguardo alle conquiste islamiche e perché generazioni di persone appartenenti alle popolazioni costiere del Mediterraneo hanno vissuto nel terrore dei pirati barbareschi? E via discorrendo. Ecco il mistero: a proposito dell'Islam e della civiltà musulmana si è creata un' opinione (pubblica) negativa che è durata nel tempo e oggi .è ritenuta completamente falsa, ma nessuno tenta di spiegare perché si sia creata. Oggi la situazione è stata «raddrizzata» e la «verità» è stata ristabilita. Il Corano è un libro di preghiere dal contenuto altamente mistico (come è noto, quasi tutti spiegano che il jihnd, la guerra santa, non è affatto un conflitto contro altri esseri umani ma una battaglia spirituale che il credente deve combattere dentro di sé). Le «conquiste» musulmane sono del tutto pacifiche e, se se ne deve parlare, si preferisce restare nel vago (per esempio, l'Encyclopaedia Universalis afferma: «Dall'VlII all'XI secolo si è verificata un'espansione dell 'Islam .. . », ma si
I TRe. P/LASTRl DEL CONFORMISMO
evita accuratamente di dire come l'Islam si sia espanso: forse per magia o grazie alla propria spiritualità ... ). Quanto ai massacri, all' oppressione dei popoli cristiani ecc., sono soltanto leggende diffuse in Occidente per giustificare le nostre conquiste. Infatti, in tutta questa faccenda, i colpevoli siamo noi europei: c'è l'abitudine di soffermarsi a lungo sulle crociate, sul terribile intervento militare degli europei nel pacifico Vicino Oriente (e ci si dimentica di parlare dell'invasione araba dell'Impero bizantino!). Siamo quindi in presenza di una riscrittura del passato e della storia interamente favorevole ai popoli musulmani, a una reinterpretazione del Corano e a un' apertura volontaria a tutte le correnti intellettuali e spirituali dell'Islam. Dobbiamo in ogni caso domandarci a cosa possa essere dovuto un cambiamento di giudizio così profondo e nel contempo così vistoso. Una simile «conversione» non può essere attribuita a una causa sola: occorre ricercare il concorso di diversi fattori. Un primo ed evidente fatto è rappresentato, in Francia, dalla presenza massiccia di magrebini Inel1991 erano - secondo alcune stime - cinque milioni]. Non possiamo dunque considerarli come una popolazione lontana e priva di relazioni con noi: siamo per forza di cose obbligati ad avere rapporti con loro. Ebbene, ci viene ripetuto di continuo che essi sono indispensabili all'economia francese. Non siamo ancora arrivati ad affermare che l'intera economia francese si regge sul loro lavoro, ma siamo sulla buona strada. Se non ci fossero i
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magrebini, ci vien detto, la Francia colerebbe a picco, essendo i francesi notoriamente incapaci di lavorare. Ne consegue che non siamo affatto noi a fare un favore a loro (la Francia terra d'asilo che raccoglie i disperati, i perseguitati politici o le persone provenienti da paesi troppo poveri per sfamare tutta la popolazione ecc): sono gli stranieri che ci rendono un servizio di inestimabile valore e siamo noi che dobbiamo esser loro riconoscenti. Inoltre, essi svolgono spesso i lavori più faticosi o umili - quelli che i francesi si rifiuterebbero di svolgere - perché sono «poveri» (anche se è un fatto risaputo che posseggono denaro a sufficienza per paterne inviare ai loro familiari rimasti nei paesi d'origine). Sono i poveri della nostra società dell' opulenza (benché, e ciò è degno di nota, non vi sia quasi nessuno di loro tra i cosiddetti barboni), e il cuore dei cristiani si commuove per loro e accoglie tutte le loro richieste. Inoltre, essi sono stranieri (<
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f TRE PIU,STRI DEL CONFORMISMO
partiene (nominaI mente, per tradizione familiare ecc.) a una data religione, è sempre suscettibile di ridiventare un religioso entusiasta; a volte addirittura un integralista se si produce uno «shock», come può essere una persecuzione, un risveglio auspicato da un piccolo gruppo dedito al misticismo, un'ingiustizia che si verifica in un paese nel quale è praticata un' altra religione ecc. La conservazione di un determinato numero di rituali predispone la persona a un'eventuale rinascita religiosa: ed è ciò che sta avvenendo, almeno in Francia. Da una parte c'è l'immersione in una società laica (inconcepibile per un uomo allevato in un ambiente islamico) e dall'altra - come si sa - c'è il mondo musulmano che si sta risvegliando un po' ovunque. Tale risveglio, veicolato e diffuso dai mezzi di comunicazione di massa, assume proporzioni forse persino esagerate rispetto alla realtà (per esempio, in Algeria, il FIS' rappresenta un'infima minoranza tenuta a bada dal1e autorità, ma è assai influente negli ambienti degli immigrati algerini in Francia). Questi due fattori contribuiscono a rendere viva la religione musulmana presso i magrebini residenti in territorio francese. Di conseguenza, abbiamo un insieme di fattori che concorrono a imporre la realtà musulmana ai media, agli intel1ettuali e alle popolazioni che vivono a contatto con gruppi di origine magrebina: si tratta di una realtà alla quale, in quanto nuova, viene data notevole • Fronte dì Salvezza Islamico. fN.d.T.]
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importanza. Gli ebrei o i protestanti non creano problemi, perché si tratta di gruppi la cui presenza è antica e consolidata: non rappresentano una novità né una sorpresa, dunque le loro credenze non attirano l'attenzione. Al contrario, l'interesse è concentrato sulle convinzioni dei musulmani, e i nostri intellettuali non possono far altro che tentare di conoscerle e comprenderle; essi sono affascinati da qualcosa che sembrava trascurabile trent'anni fa (quando soltanto gli specialisti si interessavano all'Islam) e che oggi si va imponendo. L'impatto di tutto ciò è reso ancora più forte dai nostri sensi di colpa nei confronti dei paesi del Terzo Mondo: sensi di colpa per esser stati conquistatori (<
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I TRI: PILASTRI D f.LCONFORM/SMO
festata nel momento della nostra sconfitta. Finché eravamo i più forti, conservavamo intatta la coscienza pulita di «civilizzatori». L'interesse nei confronti dei magrebini, per esempio, è suscitato dalla loro vittoria e dalla loro potenza militare, come l'interesse per i popoli del Medio Oriente coincide con l'emergere della loro potenza petrolifera e con la crisi del 1973-74. La [prima] guerra irachena" per esempio, ha rappresentato un successo pieno per il mondo arabo, perché per vincerla gli Stati Uniti hanno dovuto impiegare tutta la loro forza bellica. Rispetto, quindi, enorme rispetto: non siamo più i più forti. La buona disposizione d'animo nei confronti dei magrebini, semplice manodopera
sfruttata; la cattiva coscienza dell'Occidente per il passato coloniale; il rispetto nei confronti della nuova potenza: tutto concorre a far concentrare l'attenzione sul mondo arabo, suscitando un vasto interesse che riguarda qualunque suo aspetto, compresa, beninteso, la religione, la quale, come abbiamo detto, sta rinascendo nei suoi aspetti più intransigenti presso gli stessi arabi. In sintesi, dunque, si registra una tendenza diffusa all'accettazione dell'Islam. Comincerò col prendere in esame il caso della maggioranza dei francesi, fatta di laici e di liberi pensa tori. Fintanto che la laicità era una battaglia e un ideale, essa dava un senso alla vita di coloro che combattevano principalmente - la Chiesa cattolica. Ma da quando la laicità, la Repubblica e l'agnosticismo hanno reso salda la loro unione, essa non è più di alcun interesse! Questo
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si accompagna~ nella nostra società contraddittoria~ a due fatti di grande rilevanza: non esiste più una morale (intesa in senso lato come «dover essere», non come semplice conformismo) e non si crede più in alcun valore (gli ultimi, quali il patriottismo o il socialismo, sono ormai defunti). Non si crede più in nulla, e non si hanno veri punti di riferimento: infatti, guadagnare soldi o possedere belle auto sono cose che non bastano a dare la felicità. Il lettore non s'inganni: io non do alcun valore ane ideologie (infatti so fino a quale punto possano rivelarsi pericolose: nazismo, comunismo ... ), ma mi limito a constatare che nessuna società può sopravvivere senza un insieme di credenze comuni e senza un'ideologia che fornisca una ragione per stare insieme. Ed ecco che all'improvviso arriva come per miracolo una religione forte, la quale possiede tutti i requisiti per dare un senso all'esistenza: una verità rivelata, riti, una morale specifica, un codice di comportamento intransigente che non ammette deviazioni ... Come non essere attratti da questa manna piovuta dal cielo apposta per riempire il nostro vuoto? Gli integralisti fanno certamente paura, ma intorno a noi ci sono così tanti musulmani caritatevoli con cui è un piacere avere a che fare ... dopo tutto, perché no? Gli intellettuali vedono nell'Islam la rinnovata possibilità di dare un senso alle cose e di trovare una verità (seppur spogliata del suo carattere religioso; ma pensiamo alle ricchezze e ai lumi di cui sono portatori i filosofi musulmani da noi ignorati: al-Kindi, al-Farabi, Avicenna, Averroè ... Ce n'è a suffi-
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'TRE PILASTRI DE'- CONFORMISM O
clenza per usare dalla monotona diatriba hegeliana!. .. ). In altre parole, sotto ogni aspetto, l'arrivo in forze del mondo musulmano in Occidente si presenta come una possibilità di reviviscenza della nostra cultura più che • • come una mmacaa. Perché questo panorama tracciato a grandi linee sia completo, occorre ancora parlare dei cristiani. Anch'essi subiscono la fascinazione che nasce dalla vicinanza, dalla serietà, dal carattere esigente della religione musulmana e dalle somiglianze (apparenti) che la legano al cristianesimo. Si fanno sempre più numerosi i colloqui tra musulmani e cristiani: questi ultimi, almeno stando alla mia esperienza personale, danno l'impressione di perdere terreno ogni giorno di più; non siamo più in presenza di un cristianesimo duro e puro che si afferma come tale. Durante uno di tali colloqui, ho potuto ascoltare il dialogo tra un noto teologo cattolico e un teologo musulmano a proposito di «Dio», senza alcuna riserva riguardo aIla natura del Dio in questione; ebbene, il teologo cattolico è riuscito a terminare la discussione senza mai nominare Gesù Cristo. Il fatto è che - al di là di quanto ho esposto sopra - i cristiani sono attratti da una religione intransigente e senza pecche, dotata di un estremo rigore logico e illustrata da mistici famosi. I cristiani percepiscono la fiacchezza della fede comune e il disinteresse generale nei confronti del cristianesimo (pur constatando, peraltro, che nella nostra società c'è un gran bisogno di crede re,
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di dare un senso alla vita ecc.). Le chiese si svuotano, non si registrano più sforzi di evangelizzazione e i gruppi collegati alle chiese spariscono uno dopo l'altra ... Si è tentato in vari modi di porre rimedio a questa situazione, ma i giovani s.ono attratti da altre cose. E anche il rinnovamento della liturgia non ha considerato il semplice fatto che soltanto coloro che già praticano il culto sapranno che tale liturgia è più accessibile, più moderna ecc. Gli esterni non ne sann.o nulla e non se ne interessano; la cosa non li riguarda più. E proprio lì a due passi. .. c'è un popolo del tutto religioso (i cristiani considerano ancora un valore il senso del «religioso», seppur inteso genericamente, dal momento che il «cristianesimo» è solo più una religione come le altre). Ho dimostrato altrove l'incompatibilità totale tra la religione e la Rivelazione biblica e non intend.o riprendere qui il discorso. Dunque, Islam e cristianesim.o: una religione vale l'altra. Probabilmente i cristiani non sono ancora pronti a rinnegare Gesù Crist.o, lungi da me l'insinuarlo! Tuttavia, a parte ciò - e vi sono già molte altre interpretazioni della specificità del cristianesimo - non è possibile trovare un terreno d'incontro o, almeno, di dialogo? Si è partiti da questo e va detto che la cosa ha avuto un cert.o successo. Basta sorvolare su alcune particolarità ignorando volutamente il giudizio - che non è mai cambiato - dei musulmani nei confronti dei cristiani e degli ebrei. Da alcuni anni, da parte cristiana, si cercano elementi di parentela tra le rispettive religioni ed è stato abbastanza facile trovarle. In prim.o luogo non si
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può negare che si tratti di religioni monoteiste; in secondo luogo esse sono religioni del «Libro»: ciascuna possiede un libro sacro. Che fortuna inaspettata, che bella base comune! Infine, ci si è ricordati che gli arabi discendono da Ismaele, di conseguenza discendiamo tutti da Abramo. Se mi sono deciso a scrivere questo piccolo libro è a causa del successo di questi tre argomenti, che attesterebbero la parentela dell'Islam con il cristianesimo. Intendo esaminare questi tre «principi)}, sperando di riuscire a dimostrare che sono soltanto aria fritta, parole vuote.
'La lacuna è colmata dalle opere fondamentali di Bat Ve'or, di cui l'ultima, L'Occidenl mire djil,ad et dhimmitude, è radicale. Uacques Ellul cita il titolo iniziale del manoscritto di Bat Ve'or per il quale scrisse una prefazione. n libro fu pubblicato nel settembre del 1991 presso le ~ditions du Cerf sotto il tito-lo, Les chré/ienlés d'Qrienl mire Jihad et Dhimmilude: vlr - XX' siècle; tit. ingl.
Tlle Dec/ine DJ Enslern Christianify Under /sMm: /rom lillad lo D/JimmillldeJ.
' II mio amico Jl'an Bichon, che era un emerito arabista e che conosceva alla perfezione il Corano, ha scritto alcuni articoli di critica del tutto inattaccabili.
Capitolo 1 Siamo tutti figli di Abramo
Sembra che per i cristiani la frase «siamo tutti figli di Abramo) si riferisca più a una somiglianza con la religione musulmana piuttosto che a un'affinità con quella ebraica! Si tratta di un' affermazione contenente una verità chiara - ma con un'importante sfumatura di cui parleremo - ma è anche un argomento piuttosto delicato. Comunque, sul numero di «Le Monde» uscito il 30 luglio del 1991, si poteva leggere un bell'articolo intitolato Figli di Abramo in processione insieme in Bretagna, incentrato su un pellegrinaggio comune organizzato da cristiani e musulmani, i quali hanno celebrato insieme il culto dei Sette Dormienti di Efeso in un vi1laggio bretone. Si tratta del ricordo del martirio, avvenuto nel III secolo, di sette giovani che, dal momento che non volevano riIUlegare la propria fede cristiana, furono murati vivi in una grotta in Turchia l e sono adorati sia dai cristiani che dai musulmani; infatti, la loro storia è narrata nella sura XVIII del Corano. Da qui nasce un accostamento: adoriamo gli stessi santi. In quanto protestante, potrei far notare che il «culto» o l'adorazione dei santi non
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ha nulla di cristiano nel senso biblico del termine; appare assai tardivamente nella Chiesa primitiva e non ha alcun valore teologico, né per ciò che concerne la grazia e la fede, né per quanto attiene alla Trinità, alla Resurrezione e, soprattutto, all'Intercessione! Infatti è su questo punto che cattolici e protestanti divergono. Da un punto di vista biblico, c'è un solo intercessore, Gesù Cristo, il quale, attraverso il suo sacrificio ha riscattato tutti i peccati: lui 5010 siede alla destra di Dio come intercessore e la sua è l'unica intercessione assolutamente vera, perché proviene dal Figlio e arriva al Padre. Che bisogno c'è di aggiungere altri intermediari? Non c'è alcun bisogno di mediatori per accedere al solo e unico mediatore. Di conseguenza, tutto il culto dei santi si fonda su errori teologici e deriva unicamente da una pietà popolare che risale al paganesimo, ai tempi in cui si pregavano innumerevoli piccoli dèi locali che in seguito sono stati spesso trasformati in santi 2 • In altre parole, la famosa vicinanza tra cristianesimo e Islam rilevata nel succitato articolo di giornale si fonda soltanto su un aspetto popolare e non cristiano del culto del Dio biblico e di Gesù Cristo 3: questo non è che l'esempio di un'idea che si sta trasformando in un luogo comune: «Siamo tutti Figli di Abramo». Proviamo allora a esaminare più da vicino questa formula. Secondo la tradizione, gli arabi discenderebbero da Ismaele. Dal momento che essi fanno riferimento al racconto biblico e si proclamano Figli di Abramo, ricapitoliamo brevemente la storia cos1 com'è narrata nen' Antico Testa-
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mento. Abramo ha ricevuto da Dio la promessa di un figlio, ma ciò che conta qui non è l'esistenza reale di quel figlio; il dramma, infatti, ruota intorno all' «avere o meno una discendenza». Ma Abramo ha ricevuto una benedizione straordinaria da Dio e la promessa di una discendenza illimitata. 11 dramma è doppio: a chi trasmetterò la benedizione di Dio? Dio manterrà o no la promessa fatta? In altre parole, questo Dio a cui Abramo continua a obbedire è proprio il Dio potente e rivelato, oppure si tratta di un Dio ingannatore che non tiene fede al1a parola data, se non addirittura di una semplice illusione? Se la promessa di Dio non diventa realtà, allora tutto quello su cui Abramo ha fondato la propria vita crolla. Abramo ritiene che questa realizzazione si faccia attendere troppo a lungo: è passato molto tempo da quando ha udito la Parola, eppure il figlio tanto atteso non è ancora venuto. È allora che decide razionalmente di fare ciò che fa: se il figlio non è venuto la ragione va ricercata nella sterilità della moglie Sara. Cosa ci si deve aspettare da un vegliardo e da una donna sterile? Succede a questo punto una cosa che a noi pare scandalosa, ma che era perfettamente ammessa dai costumi dell' epoca: alla padrona sterile viene sostituita una serva (il che era normale, dal momento che il padrone si appropriava interamente della schiava). Dio non disapprova l'unione tra Abramo e Agar, anzi, la benedice e fa una promessa al figlio concepito. Tutti conoscono la storia. Sara scaccia Agar, la quale fugge portandosi appresso il fi-
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glio Ismaele, che sarà salvato nel deserto da un angelo. IHWH (Jahwèh) si rivela già allora come il dio di tutti i popoli: infatti, Agar è egiziana. Quasi in risposta all'ostilità di Sara, l'angelo benedice il figlio di Agar e gli fa una singolare promessa: avrà una discendenza illimitata (e fin qui la cosa può sembrare banale), ma sarà selvaggio come un onagr0 4, la sua mano si solleverà contro tutto il mondo e tutto il mondo sarà contro di lui (ma lui è «illimitato»!). Si tratta, quindi, di una promessa che si rea1izza concretamente nel mondo e nella storia: a Ismaele non viene promessa la pace, né viene proposta un'alleanza con Dio. Ciò che Abramo ha creduto di realizzare non è altro che una chimera: bisogna attendere ancora a lungo. Alla fine Sara partorisce, nel momento scelto da Dio, un figlio che si rivela essere, lui solo, il bambino della promessa, nato contro ogni possibilità umana. Isacco è il figlio del miracolo (e la sua nascita è prodigiosa come quella di Gesù), ed è su di lui che da quel momento sarà posta la benedizione di Dio. In che cosa consiste tale benedizione? Isacco avrà, come Ismaele, una posterità numerosa, ma la cosa veramente importante è la promessa contenuta nel libro della Genesi: «In lui si diranno benedette tutte le nazioni della Terra» (Gen 18,18). Si può immaginare una realtà più stupefacente? Fin dalla nascita, il bambino porterà dentro di sé e trasmetterà ai suoi discendenti una benedizione che riguarda tutti i popoli del mondo presenti e futuri. La promessa sarà compiuta mille anni dopo con la nascita dell'ultimo discendente di Isacco, Gesù Cristo
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(e nel suo cantico - Luca 1,5 e 1,67-80 - Zaccaria S dimostra di esserne ben conscio). Inoltre, Isacco è il testimone dell' alleanza che Dio ha deciso di stabilire con l'uomo e che, anch'essa, trova il suo compimento in Gesù Cristo. Tra Ismaele e Isacco esiste un' opposizione totale: da un lato, abbiamo una benedizione temporale che assicura il potere nel mondo; dall'altro, una benedizione eterna che riguarda la salvezza dell'umanità, con un' alleanza che alla fine sarà estesa a tutti: ecco la promessa che reca Isacco, e che dovrà essere trasmessa da una generazione all'altra. L'opposizione tra i due fratellastri nasce dall' «erroren di Abramo! Gli è stata promessa una discendenza, ed egli è convinto che Dio sia stato sincero. Ma, come ho accennato sopra, l'attesa gli sembra troppo lunga; decide allora di realizzare da sé, con i propri mezzi, la benedizione: dopo tutto non fa altro che portare a compimento la promessa di Dio! È impaziente e farà ciò che deve! D'altra parte, Dio non ostacola la decisione di Abramo. Agar avrà un figlio: va benissimo, «Dio capisce». Ma ... se l'impresa tentata dall'uomo per dar compimento a una promessa di Dio riesce sul piano umano, essa risulta un completo fallimento sul piano spirituale. Non sarà Ismaele a ricevere la benedizione, ovvero la promessa dell' alleanza universale tra Dio e l'uomo. Abramo, nella sua impazienza, vuole strappare a Dio ciò che gli è stato promesso, invece di aspettare il tempo scelto da Dio: il momento e l'ora giusta (di cui si parla cos1 spesso nella vicenda di Gesù: la mia ora non
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è ancora venuta .. ,). E Dio non lo condanna per aver voluto fare da solo ciò che può essere fatto soltanto da Dio, non ridicolizza lo sforzo dell'uomo, non l'ostacola. Semplicemente ... conserva la propria libertà! L'uomo assisterà a un apparente successo, che però nasconde un sostanziale fallimento: infatti, la promessa-benedizione non andrà a colui che è stato scelto dall'uomo! Ismaele riceve una promessa puramente secolare che riguarda la sua storia (il che significa che non è destinata a tutti gli uomini), ma non si tratta né di una promessa universale né di una promessa per l'eternità. In Isacco tutti i popoli saranno benedetti e, infine, a conclusione della lunga storia di Israele, tutti i popoli saranno effettivamente benedetti da Gesù Cristo, discendente di Isacco, nel quale si compie l'alleanza. Ma il rapporto tra Isacco e Ismaele non è privo di sviluppi: Ismaele diventa un abile arciere, dunque un combattente, come era stato profetizzato. Bisogna segnalare anche una nota curiosa (Gen 21,8-9): Abramo organizza una grande festa per celebrare il giorno dello svezzamento di Isacco, ed ecco che Ismaele si mette a ridere, sbeffeggiandolo. Fin dall'inizio tra i due nasce una rivalità, e Ismaele, che è il primogenito, ritiene di avere maggiori diritti rispetto a Isacco. Infine, c'è un particolare che marca la distanza infinita che separa Isacco dal fratellastro: Ismaele è figlio di un'egiziana e sposa un' egiziana. Non bisogna dimenticare che l'Egitto, il paese della cattività, rappresenta anche un simbolo terribile: il nome ebraico Mitsràyim 6, che appare alla
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forma duale, vuoI sì dire Egitto, ma significa anche «duplice angoscia)), che è esattamente ciò che reca in sé Ismaele, il quale costituirà d'ora in avanti una minaccia per i discendenti di Isacco. Come si vede, non basta essere discendenti di Abramo perché la parentela sia positiva e amichevole! Inoltre, esistono anche altri discendenti di Isacco: dopo la morte di Sara, Abramo prende in moglie non Agar, bensì Chetura, da cui ha sei figli, che potrebbero far concorrenza a Isacco come Ismaele, ma i loro discendenti non avanzano alcuna pretesa (con l'eccezione dei madianiti *). Esistono quindi molti altri discendenti di Abramo oltre agli ebrei e agli arabi! Infine, Isacco viene a trovarsi in una situazione unica: è lui, alla morte di Abramo, a ricevere l'intera eredità del padre. lo credo che si non si debba intendere questa eredità soltanto in senso materiale: di essa fanno parte anche la promessa e l'alleanza! Dio stesso lo conferma: «Dopo la morte di Abramo, Dio benedì il figlio di lui Isacco») (Gen 25,11). Come si vede, essere «discendenti di Abramo)) non significa granché, né si può sostenere che tale parentela familiare comporti anche la condivisione di un'eredità comune, dal momento che, come abbiamo appena visto, il solo depositario di tale retaggio, dell' alleanza e della promessa, è Isacco! A questo punto, risulta chiaro che la formula: «Siamo tutti figli di Abramo)) non vuoi dire nulla . • Cosi chiamali da Madian. un figlio di Abramo citato in Genesi 25,2. (N.d.cl
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Si tratta adesso di vedere a chi è applicabile questa formula: infatti, gli ebrei e i musulmani non sono gli unici a essere toccati da questo problema: anche i cristiani lo sono, visto che si cerca di stabilire una parentela di fondo che legherebbe il cristianesimo alla religione musulmana. Possiamo dunque dire che tutti coloro che si definiscono cristiani sono figli di Abramo? Possiamo dire che basta far parte di una Chiesa per essere Figli di Abramo e che esiste una relazione diretta tra «i cristiani e Abramo»? In realtà, le cose non sono cos1 semplici. Nei Vangeli e nelle Epistole, figlio di Abramo non è il «membro di una Chiesa», ma «chi compie il bene», Questo tema si trova nel racconto di Zaccheo, un pubblicano - quindi una persona che collaborava con i Romani riscuotendo i tributi imposti agli ebrei. Ma, contrariamente a ciò che spesso si dice, i pubblicani non erano disonesti e non «derubavano» i contribuenti: per riscuotere l'imposta bisognava far parte di una compagnia di fermieri '; ma essi non erano che gerenti, o semplici esattori come nel caso di Levi (o Matteo: si veda Luca 5,27). In quanto a Zaccheo, definito «capo dei pubblicani», si tratta più probabilmente del gerente di una di queste società. Dopo aver parlato con lui, Gesù dichiara che Zaccheo è in realtà un Figlio di Abramo, perché egli, che era «perdutO», compie tuttavia opere eccezionali (per esempio dà in beneficenza la metà dei suoi profitti ecc.). Gesù, che dichiara di essere venuto a salvare chi si era perduto, lo proclama Figlio di Abramo. Ciò non significa che Zaccheo
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è stato salvato dalle sue opere, ma che le sue opere testimoniano a tal punto in suo favore che Gesù lo dichiara Figlio d'Abramo, e quindi salvo. Questa dichiarazione ci pennette di comprendere meglio la salvezza di Zaccheo: è il Figlio dell'Uomo che è venuto a cercare e a salvare; la salvezza non deriva dalle opere. Abbiamo qui una prima indicazione: chi «compie il bene», cioè la volontà di Dio (attraverso i doni, la misericordia, oppure occupandosi dei poveri ecc.) è dichiaralo figlio di Abramo. Non si è automaticamente figli di Abramo. Ebbene, non bisogna dimenticare che l' «opera» più importante di Abramo consiste nell'aver prestato fede alla parola di Dio (Abramo ha creduto in Dio e nella sua parola, e per questo la giustizia umana lo ha perseguitato .. . ). Nella stessa prospettiva, ci avviciniamo ulteriormente al significato dell'espressione «Figli di Abramo» quando leggiamo la decisiva discussione tra Gesù e gli Ebrei riportata in Giovanni (8,39-40). Gesù annuncia a tutti che «la libertà vi renderà liberi ... » I suoi interlocutori obiettano: come sarebbe a dire? Siamo figli di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. D'accordo, risponde Gesù, voi discendete fisicamente da Abramo, eppure volete condannarmi a morte (che è come dire: non riconoscete colui che viene per conto del Dio di Abramo). Gli ebrei controbattono: Abramo è nostro Padre. E Gesù: « Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l'ha fatto»). In altre parole, per essere figli di Abramo biso-
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gna agire come lui (ritorniamo al semplice concetto in base al quale è figlio di Abramo colui che compie il bene). Gesù non contesta il rapporto di discendenza fisica, la genealogia, ma dice chiaramente che la filiazione spirituale è stabilita dall'atteggiamento nei confronti di Dio (la fede) e delle conseguenze che esso comporta (le azioni). Quindi, dichiarare: «Siamo tutti figli di Abramo», a figor di logica non significa nulla. Si tratta piuttosto di sapere chi, tra gli ebrei, i musulmani e i cristiani compie le opere di Abramo, che tendono tutte a una fede assoluta e senza tentennamenti nel Dio che si è rivelato. In altre parole, l'argomento di una presunta discendenza fisica non può assolutamente essere usato per proclamare che i cristiani e i musulmani sono parenti! Questo «tipo» di filiazione non ha nulla a che vedere con un modello genealogico: ci troviamo qui su un terreno 1spirituale; inoltre, le azioni raccomandate dal Corano mi sembrano assolutamente incompatibili con quelle di Abramo! Abbiamo quindi esaminato la differenza più importante tra la filiazione ebraica e quella araba; successivamente, abbiamo constatato le differenze tra la filiazione cristiana e quella araba. In altre parole, proclamare che siamo tutti figli di Abramo equivale più o meno a dichiarare che siamo tutti figli di Adamo. Giustificare una parentela tra musulmani e cristiani sulla base di questo argomento significa prestarsi a un'indebita e infondata generalizzazione. Concluderò il capitolo con una nota
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ironica: in una delle discussioni che Gesù ha 'a vuto con i farisei (riportata in Matteo 3,8·9), egli li rigetta dicendo: «Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre». Ritorniamo a una verità fondamentale: infatti sono le azioni, non la genealogia, che fanno di un uomo un figlio di Abramo. Ed ecco l'ironia: «Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre». C'è forse un' allusione alla nascita di Isacco - per Dio far nascere figli di Abramo dalle pietre non è più difficile dell' avere creato Isacco! Dunque, il fatto di discendere fisicamente da Abramo di per sé non ha alcuna importanza. Ed ecco che la nostra famosa affermazione: ((Siamo tutti figli di Abramo» ne esce definitivamente smontata. La discendenza genealogica da Abramo è priva di significato e ·non crea alcun vero legame tra noi! Ecco cosa si può ottenere da un' analisi coerente di quella formula.
n racconto, che appartiene alla
tradizione cristiana, narra che nel III secolo, durante la pcn;ecuzione voluta dall'imperatore Decio, sette giovani si erano rifugiati in una caverna presso Efeso, dove dormirono per due secoli per risvegliarsi al tempo dell'imperatore Teodosio, e morendo poco dopo. In seguito, il Corano si è appropriato di questa storia. La sura XVllI (dal versetto 8 al versetto 26) racconta questa vicenda. ' Presso i pagani esisteva l'abitudine di adorare divinità minori relative a un luogo particolare come, per esempio, una fonte. Si parlava di «genius» che i missionari hanno fatto proprio assimilandolo a un santo e trasponendo il culto popolare del genio pagano in quello del santo cristiano. ' Per concludere con l'articolo citato, colpiscono particolarmente le parole pronunciate da Padre [Michel] Lelong durante la cerimonia; «Dato che ogI
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gi l'integrazione della comunità musulmana in Francia è un problema, non dobbiamo impiegare tre secoli per accettare i musulmani come abbiamo fatto con i protestanti». Ecco, I musulmani sono paragonati al «cristianesimo» e sono messi sullo stesso piano dei protestanti! 'II termine «onagro» ha due significati: 1) asino selvatico di piccola taglia, diffuso in Mongolia, Afghanistan, Iran e Arabia; 2) antica macchina da guerra simile alla catapulta, usata per lanciare grossi sa<;"'ii. • Zaccaria è vissuto poco prima dci Cristo. Egli è il padre di Giovanni Battista e il suo racconto nel Nuovo Testamento ricorda quello di Abramo. È un giusto che osserva la legge in modo irreprensibile e, benché diventi vecchio, continua a non avere figli . • La radice della parola «mels» significa colui che opprime, colui che calpesta e .. metsar», singolare di mitsràyim, vuoi dire tormento, angoscia. ' Fenruere: titolare o mallevadore di un appalto di riscossione delle imposte.
Capitolo 2 Il monoteismo 1
«Siamo tutti monoteisti.» Ecco l'argomento più importante, nonché il più stupido! Decisamente, bisogna tentare di confutarlo. In primo luogo, Thebs, Dio, è una parola del tutto vuota. La si può riempire - e la si riempie - con ciò che si vuole. Tutte le civiltà, ovunque si siano sviluppate, hanno conosciuto uno o più dèi, e il termine «Dio» non ha mai designato dappertutto la stessa cosa. Si dice, in modo assai vago e incerto, che esiste «qualche cosa» al di sopra di noi, qualcosa di potente da cui tutti dipendiamo. Non ha alcuna importanza che questa impressione nasca dalla paura, dall'osservazione ammirata dei «fenomeni naturali» o dalla sensazione che tutto sia ordinato secondo uno scopo, che tutto sia già prestabilito ecc. Faccio fatica a capire le discussioni tra coloro che credono in un dio trascendente, in un dio che si identifica nelle forze naturali o in un dio che si esprime per bocca della Pizia ... Tutto ciò è irrilevante. Talvolta, coloro che si professano atei o agnostici fanno ancora riferimento, vagamente o esplicitamente,
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al destino o al caso, dal momento che la loro credenza nel Dio tradizionale non è stata completamente sostituita dalla fede nella Scienza. La parola «(credere» svolge un ruolo centrale: non sto dicendo che l'uomo è un animale religioso, dico soltanto che crede. Il verbo «credere» si applica a tutto. Noi crediamo in tutto, e tutto riposa sul1e nostre credenze. In quanto alle verità scientifiche, sono obbligato a prenderle per buone - a credereperché non sono in grado di verificare per conto mio ciò che è stato dimostrato. Nella vita quotidiana, il fatto di credere svolge un ruolo di primaria importanza: non può esserci comunicazione, non può esistere nemmeno la più semplice conversazione se non credo a ciò che il mio interlocutore mi sta dicendo. Persino il disaccordo e la discussione si basano sulla convinzione che l'interlocutore abbia detto qualcosa che merita di essere discusso: se non credo a questo, alzo le spalle e me ne vado. Farò qui due esempi che mi sembrano caratteristici di alcune credenze: prima di tutto, la fede nel gruppo. Non posso pretendere di vivere come Robinson Crusoe: ho bisogno di un gruppo al quale appartenere e che mi permetta di avere nello stesso tempo rapporti umani e punti fermi per poter agire (la famiglia, il sindacato, una corporazione, varie associazioni, chiese ecc.). In ogni caso, ho bisogno di essere collocato all'interno di un gruppo che mi protegge, mi dà sicurezza e funziona come un punto di riferimento soltanto se io credo in esso! Il mio attaccamento al gruppo è innanzitutto una questione affettiva! Mi viene in mente una trasmissione te-
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levisiva (andata in onda il 20 settembre del 1991) sulla crisi del Partito comunista francese: vi partecipavano anche alcuni militanti di quella forza politica. Il senso di smarrimento manifestato da quegli uomini mi ha commosso. Non si stava sciogliendo un'associazione, ma era la verità stessa a crollare, e il loro passato di fedeltà e di devozione alla causa perdeva di significato. Nessuno di loro prendeva la cosa alla leggera: avevano creduto, e in loro si notava uno sconcerto simile a quello provato dai cristiani di fronte alle trasformazioni della loro Chiesa. Bisogna credere nel proprio gruppo, perché è ciò che dà senso e stabilità alla vita. Un altro esempio è costituito dalle «credenze e tradizioni contadine» ancora vive all'inizio del secolo XX. Ebbene, tali credenze, che riguardavano la vita e la morte, la cultura e i rapporti umani, erano straordinariamente precise e appropriate, e solo ora cominciamo a rendercene conto dopo averle considerate a lungo semplici superstizioni. Queste brevi righe introduttive erano necessarie per parlare di un aspetto comune a tutti gli uomini: la fede religiosa. Niente la può distruggere, perché chi la mette in dubbio diventa immediatamente oggetto, a sua volta, di una fede religiosa -l'ho dimostrato in altra sede a proposito del sacro. La forza che desacralizza un luogo, un consiglio, una religione è a sua volta immediatamente sacralizzata. È quello che succede nel caso che ci si proponga di distruggere una fede. La forza distruttrice diventa immediatamente oggetto di una nuova fede. Lo
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si è visto molto bene in occasione della grande offensiva laica contro la «religione»: in poco tempo, la laicità si è trasformata in laicismo, intendendo con questo termine una salda credenza in determinati valori, una morale indipendente, una sorta di comunione intellettuale e persino spirituale. Quindi, il «fenomeno» della fede parrebbe inerente all'essere umano! In questo universo di credenze si situa la fede «religiosa», caratterizzata in maniera simile rispetto alle altre. Non è il caso di insistere in questa sede a proposito della moltitudine di divinità alle quali gli uomini appartenenti alle civiltà passate e presenti hanno potuto o possono credere; vale invece la pena di ribadire che la parola «dio» di per sé non ha alcun senso, e il bisogno di credere può essere spiegato in vari modi: tirando in ballo la sociologia, la psicologia, la psicanalisi ecc. Tuttavia, con le religioni le cose si complicano, perché esse ci pongono di fronte a uomini che sono passati attraverso esperienze mistiche inspiegabili, che provenivano senz' altro da un «al di là» extraumano. Altri hanno riflettuto su questo fenomeno, imprescindibile per l'uomo, della fede nel trascendente: tale riflessione, che interessa anche i filosofi, ha portato alla scoperta di un dio veramente trascendente, cioè inaccessibile. CosÌ, partendo da una credenza diretta e innocente, si è scoperto un limite: Dio è diventato una realtà che non può essere confinata nell'ambito dell'esperienza umana. Con l'ebraismo, il cristianesimo e - in modo diverso l'Islam, si accede a un Dio indicibile, il quale viene de-
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finito attraverso l'uso di aggettivi come «Misericordioso», Onnipotente)), «Assoluto» ecc., per far risaltare la differenza qualitativa tra ciò che continuiamo a chiamare Dio e ciò che abbiamo, a un certo punto, ricevuto o scoperto. Si tratta tuttavia di un artifizio del tutto inadeguato: se Dio è davvero Dio, non può essere definito - non può, cioè, essere collocato all'interno di certi limiti - né analizzato, né provato. La grande discussione sulla prova dell'esistenza o della non esistenza di Dio è assolutamente sterile e priva di un vero oggetto: infatti, Dio sfugge alla nostra comprensione e alla nostra intelligenza. Ciò che possiamo dimostrare con il nostro intelletto non è certamente Dio, ma al massimo una sua rappresentazione. Tuttavia, se Dio è Dio, non può «per natura)) essere dimostrato, né in un senso né nell' altro: altrimenti vorrebbe dire che egli è inferiore alla mia intelligenza e alla mia comprensione. Se la mia ragione e la mia scienza sono in grado di spiegarlo, è evidente che non può essere né il Trascendente, né l'Assoluto, né l'Eterno di cui non dovremmo poter neanche concepire l'esistenza! Se egli non può essere compreso da una mente umana, allora è impossibile parlare di lui in modo adeguato: hanno perfettamente ragione gli ebrei, quando dicono che il «vero» nome di Dio, YHWH, non può essere pronunciato. Per non sminuirlo, si fa ricorso a giri di parole e traslati come per esempio Adonài, oppure lo si chiama semplicemente Shem, «Nome». Tuttavia, dal momento che di lui bisogna parlare, esiste un'altra designazione,
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Elohìm *, che userò qui come si usa «diew} in francese e «dio» in italiano. Occorre comunque rendersi conto del!'inadeguatezza della designazione rispetto alla verità e dell'inadeguatezza di una realtà da noi definita rispetto al vero, che supera infinitamente tutto ciò che possiamo comprendere o intuire. Ma si deve fare un altro passo: il termine astratto «Dio», usato per designare ciò che in tedesco si chiama Wirklichkeit ** - una parola assai comoda, dal momento che racchiude sia la verità che la realtà - assume valore soltanto allorché si passa dalla domanda che abbiamo posto fin qui (<
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tiva per addentrarmi in un discorso esistenziale: «Chi è?}). Ciò che cerco di dire è esemplificato chiaramente dalla discussione tra Dio e Mosè: quando Dio sceglie Mosè perché vada dal suo popolo e rechi la notizia che esso sarà liberato dal Faraone, Mosè obietta: «"Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?". Dio disse a Mosè: "lo sono colui che sono!". Poi disse: "Dirai agli israeliti: 10Sono mi ha mandato a voi"» (Esodo 3,13-14). Ciò che più importa, come si vede, non è tanto credere in Dio, quanto conoscere il nome di questo Dio. Ecco che il ponte che dovrebbe unire l'Islam al giudeo-cristianesimo improvvisamente barcolla. Il monoteismo? Abbiamo dimostrato che di per sé non è una prova che esista una parentela. Da una parte, c'è YHWH, il dio di Abramo e di Gesù Cristo, e c'è Gesù Cristo stesso, che è Dio nel Padre e con il Padre; dall'altra abbiamo Allah. In quale rapporto sono fra loro? Qua1i sono le somiglianze e quali le differenze? È ciò che tenteremo di chiarire. Prima di tutto, comunque, è importante far luce su un punto fondamentale della discussione: per l'Islam il cristianesimo non è una religione monoteista a causa della fede nella Trinità. Si deve ammettere che ci troviamo in presenza di una questione terribilmente difficile, e che è impossibile per chi non è cristiano (e spesso anche per un cristiano che rifletta) concepire che tre sia uguale a uno (senza dimenticare che per molti musulmani il terzo termi-
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ne della Trinità è costituito da Maria). Tuttavia, ciò che davvero rende ingarbugliata la matassa è la faccenda delle «persone», Parlare di Tre persone si è rivelata un'idea veramente diabolica, perché in realtà si tratta di «tre modi di essere Dio)), Dio stesso è colui che gli sta davanti. In Dio sussistono un primo e un secondo elemento (e quando dico «secondo» non intendo affatto «meno importante,)): unità di Dio non vuoI dire solitudine o isolamento. L'unità di Dio è aperta, libera, mobile in se stessa: si tratta di un'unità dinamica. In Gesù Cristo, per esempio, vi è un'obbedienza alla volontà divina: Dio, quindi, in qualità di sovrano regna e comanda, ma contemporaneamente obbedisce con umiltà. Egli è entrambe le cose, senza divisioni O differenze, in un'unità e un'eguaglianza perfette, perché è Dio anche in un terzo modo: è il Dio che afferma la propria divinità, una ed eguale, attraverso le sue due prime forme, senza contraddizione né separazione. In virtù di questa sua terza maniera di essere, egli è Dio in tutto e per tutto, nella storia e nell'interdipendenza delle relazioni intradivine. E, dal momento che non possono verificarsi separazioni O contraddizioni di alcun tipo, allo stesso modo è esclusa ogni tendenza all'identità dei «modi di essere Dio)). Dio è Dio, in questi modi di essere se stesso che sono inseparabili e nello stesso tempo rifiutano una reductio ad unum. Certamente, non è un Dio metafisica o filosofico, ma si rivela da sé nel1ibro che racconta !'intera storia di «Dio con l' uomo» e che contiene anche quella di «Dio con Dian,
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Dunque nella Rivelazione biblica (e come lo conosceremmo se non attraverso ciò che rivela di se stesso?) egli è totalmente diverso da ciò che eravamo abituati a chiamare «dio», cioè una divinità neutra, pura, vuota, la quale, per citare Karl Barth, rappresenta il capolavoro illusorio di un «monoteismo» astratto che, all' apogeo dell'evoluzione di tutte le religioni naturali e di tutte le mitologie, rivela di essere nient'altro che una «beffa contro gli uomini». Il vero Dio, «il Dio vivente è colui la cui divinità consiste in una storia e che può essere definito, nei suoi tre modi di essere, il Dio Uno, l'Onnipotente, il Santo, il Misericordioso - colui che ama la propria libertà ed è libero nel proprio amore» l. Se si vuole capire sul serio la Trinità, bisogna rendersi conto che essa non è in alcun modo in contraddizione con l'unità: la comprensione della Trinità permette di afferrare, se non proprio di analizzare, il rapporto complesso di Dio con l'uomo. Si tratta di un rapporto che, non dimentichiamolo mai, esprime «l'Amore nel1a libertà» e la «Libertà nell'amore», La sua azione esterna consiste nel rendere partecipi il mondo e l' uomo da lui creati alla storia nella quale egli è Dio. Ciò significa che l'opera della creazione diviene un'immagine riflessa, il faccia a faccia tra il creatore e la creatura, una parabola: la dualità insita nell'esistenza dell'essere umano è un'immagine della vita interna di Dio stesso. Infine, al termine dell'azione divina, si produce ciò che era già previsto dall' origine: Dio stesso, nel suo «modo d'essere,} caratterizzato dall'obbedienza e dall'umiltà, si fa uomo tra e per gli uo-
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mini. La relazione intradivina tra colui che comanda e colui che obbedisce in umiltà sfocia in un'identità, e si esplica nell' opera di riconciliazione e nel rapporto tra Dio e una delle sue creature, l'uomo, la cui azione è 1'ultimo sviluppo della storia interna di Dio. Dopo aver ricordato per sommi capi questi concetti, chiediamoci quale relazione abbia il dio della Bibbia con Allah '. Innanzitutto, tra musulmani e cristiani esiste un'immensa frattura a proposito dell'incarnazione. Il Dio biblico esce dal suo cielo, si spoglia della sua maestà e della sua eternità per donarsi a noi facendosi uomo. Dio è tanto più grande e meritevole di adorazione proprio in quanto rinuncia ai suoi «attributi» divini (il che è davvero incomprensibile per l'uomo, che non riesce a concepire un dio che abbandoni quelli che noi riteniamo essere g1i attributi di Dio!). Dio ha quindi la possibilità di presentarsi sotto un secondo aspetto, reale, e di essere lui stesso diverso dal suo primo modo di esistere, venendo a noi e stando con noi, donando e donandosi. Tuttavia, quel Dio è, nello stesso tempo, colui che ha creato tutto ciò che esiste: l'accettazione della venuta di Dio, del dono che Dio fa di se stesso, non è lasciata all'arbitrio, all'indifferenza o al gusto degli uomini. Naturalmente, dio rispetta l' uomo, e non l'ha creato per avere un robot senz' anima. Quando però nasce la Fede nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo, e quando l'uomo riceve nella gioia il dono del perdono e della salvezza, ciò avviene ancora una volta grazie all'azione di Dio, che rappresenta la perfezione dell'amore del Padre per il Figlio e
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del Figlio per il Padre! Per esempio, nei Salmi Dio è adorato, proclamato e osannato dall'uomo: ebbene, si tratta di una rivelazione di Dio stesso e di una sua opera; la risposta dell'uomo è anch'essa opera di Dio. Ebbene, nell'Islam tutto ciò è assolutamente inaccettabile. In questa religione, Dio è rigorosamente uno, il che significa che abbiamo a che fare con una concezione «esterna» dell'unità. Dio è unico come può essere unica un'opera d'arte. Si può anche dire che in questo caso si tratta di un'unità numerica e non antologica. Mi spiego: l'essere umano, per esempio, è uno; tuttavia, secondo la distinzione accettata correntemente dai teologi, possiede un corpo, un'anima e un'intelligenza; si tratta di una trinità che il materia1ismo ha cercato di sopprimere sene za riuscirvi. E al grande scienziato il quale dichiara che il suo bisturi non ha mai messo a nudo nessuna anima, va risposto che quello strumento non sarà nemmeno in grado di svelargli le motivazioni complesse e straordinarie (rispetto al funzionamento biologico) alla base della vita dell'uomo. Inoltre l'unità del Dio della Bibbia Padre, Figlio e Spirito Santo - è «ontologica»: infatti, l'Ee sistenza stessa di Dio creatore e Padre, il quale non fabbrica un universo a propria (
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dell'!slam è così assolutamente trascendente da non poter avere una relazione personale con l'uomo. Inoltre tale trascendenza non concepisce alcuna incarnazione, mentre il Dio biblico, il Dio vivente, è amore. È trascendente, certo, ma è anche amore che crea un legame, un rapporto tra questa trascendenza e l'uomo! Siamo qui di fronte a un concetto inimmaginabile per l'Islam, che non ammette alcuna incarnazione: Dio non è generato, quindi «non genera figli». Nell'!slam non può esistere una relazione personale tra Dio e l'uomo. Dio, in quanto «(persona), è un sovrano inaccessibile. Arbitra e giudica le azioni degli esseri umani senza intervenire; non ama, quindi non assume su di sé i peccati degli uomini. È un Dio giudice, ma non è, nello stesso tempo, il dio «avvocato difensore» (Paracleto) dei cristiani. È evidente che questa grande saga di Dio e dell'uomo non può schiudere la porta del trascendente assoluto: manca l'amore. Manca il trasporto che Dio sente nei confronti della sua creatura. Non esiste redenzione (e non esiste redentore!); qui Dio non ricrea la libertà nel cuore dell'uomo: non c'è nessun «cuore nuovo», e non esiste un'etica fondata sul rapporto personale tra l'uomo e Dio. Come si vede, il termine «Dio» copre una vasta gamma di significati del tutto diversi tra loro. Inoltre, gli attributi riconosciuti a Dio non sono gli stessi nell'Islam e nella Bibbia. Esaminiamo soltanto due aspetti: l'Unità e la Trascendenza. Cominciamo dall'Unità: ( Tu credi che c'è un Dio solo? Fai bene; anche i demoni lo credono e tre-
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mano! » (Lettera di Giacomo 2,19). Credere che Dio sia uno solo, non una pluralità di dèi, non significa credere il falso, ma non serve per conoscerlo. Dio non si è rivelato per dirci questo, bensì per comunicarci egli stesso il suo messaggio nella sua vita e nel suo mistero. Conosciamo la realtà interiore di Dio quando contempliamo il Figlio «che è in seno al padre» o quando riceviamo lo Spirito Santo «vivificatore». Al contrario, l'Islam afferma che Dio è Uno e compiuto in sé, fino a rifiutare ogni distinzione e rapporto interno a lui stesso. A questo punto, l'unità di Dio equivale al vuoto interiore del numero «uno». Ne consegue che ciò che Dio è per noi non ha nulla a che vedere con ciò che Dio è in se stesso (contrariamente a ciò che abbiamo visto per il Dio biblico). La sua azione è del tutto arbitraria e la morale umana, invece di essere il frutto di una liberazione, si fonda esclusivamente sul timore e sulla rassegnazione. La frattura insanabile riguarda la persona e l'opera di Gesù. In altre parole, invece di partire da una concezione di Dio (sulla quale potrebbero anche innestarsi elementi concernenti Gesù, come la sua natura divina e il carattere di redenzione che si attribuisce alla sua morte), il nostro fondamento è uno e uno solo: Gesù Cristo è alla base della dottrina cristiana, come ci ricorda Paolo di Tarso; per costruire bisogna partire da Gesù. Paolo parla di un «edificio di paglia»: senza la base rappresentata da Gesù Cristo ogni teologia non è altro che paglia pronta per essere gettata nel fuoco! Ciò vale anche per le caratteristiche che si attribuiscono a Dio - unità, tra-
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scendenza, eternità -, che sono semplici astrazioni prive di contenuto se non sono armoniosamente ordinate in Gesù Cristo. In compenso, quando vediamo il Figlio, ci viene rivelato chi è Dio. Affrontiamo adesso il secondo punto: la trascendenza, che in Allah è connotata da due elementi fondamentali. Innanzitutto una distanza lo separa dagli esseri umani: la teologia musulmana respinge categoricamente qualunque forma di avvicinamento di Dio all'uomo, di «discesa». Inoltre, nell' ambito di questa distanza infinita, Allah decide e agisce riguardo agli esseri umani in modo imprevedibile e del tutto arbitrario, senza che vi sia alcuna possibilità di un incontro tra Allah e l'uomo. La rivelazione avviene secondo un'unica modalità: attraverso i profeti. Costoro sono vincolati da un messaggio uniforme, costituito da parole e pensieri fissati in termini identici, che riproducono un libro assoluto e già scritto, unico ed etern0 4• Infine, non bisogna stancarsi di ripetere che è Gesù Cristo a impedirci di identificare lo spirito biblico con quello che pervade l'Islam. Non si tratta né della stessa «unità» divina, né della stessa
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l'estremo e per avvicinarsi il più possibile all'uomo nell'amore; la Bibbia ci parla di un Dio la cui rivelazione nel corso della storia non avviene attraverso parole, né attraverso un libro preconfezionato, ma tramite un incontro personale: l'incontro con una persona. Per concludere, dirò che le affermazioni dei musulmani a proposito di Dio (la sua unità e la sua trascendenza) e del carattere storico della sua rivelazione all'uomo non costituiscono per nulla una «verità» parziale; un principio in base al quale proseguire e completare il cammino (il completamento è rappresentato da Gesù Cristo!). Infatti, è partendo da (e non concludendo con) Gesù Cristo che noi impariamo il senso dell'unità di Dio, la sua trascendenza e l'incontro di Dio con il mondo. La verità non consiste in parole o idee, per quanto dotte o esatte esse possano essere, ma nella realtà viva di qualcuno. Quando Gesù dice: «lo sono la verità», egli trasforma totalmente il concetto stesso di verità! Non si tratta più di un dibattito filosofico e la verità non può essere scoperta dalla scienza, dal momento che - ed è qui che risiede lo scandalo per l'intelligenza umana essa non è un'astrazione, bensì una (e una sola) persona. Bisogna rendersi conto che ciò non significa che le parole di Gesù siano delle verità o ancora che Gesù, svelandoci fin dove possono arrivare l'amore di Dio e l'amore dell'uomo, ci dica una verità primaria, quella dell'amore ... Niente affatto. Se le sue parole sono verità è perché lui è la verità e se gli atti che compie esprimono la pienezza dell'amore, è perché chi li compie è la Ve-
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rità! Ed è qui che inciampiamo. Sì, Gesù è una pietra in cui si inciampa. Credere o meno che Egli non sia un semplice esempio ammirevole o un affascinante mistico, ma la Verità: il problema è tutto qui. Ammettere questo o quello, o sottolineare, per esempio, che il Corano riconosce Gesù e gli attribuisce persino dei miracoli, non è importante e non serve a niente. Per inciso, segnaliamo un dettaglio che evidenzia il malinteso. Nel Corano non viene citato nessuno dei miracoli riportati dai Vangeli. Peraltro, a Gesù ne vengono attribuiti tre. Ecco il primo: quando «il bambino era ancora nella madre», si mette a parlare e pronuncia un discorso per metà mistico e per metà teologico; il secondo miracolo, derivato dai Vangeli apocrifi, riguarda Gesù che, bambino, fabbricava uccellini d'argilla -e con un soffio li faceva vivere. Il terzo miracolo fornisce il titolo alla sura che ne dà conto, «La mensa»: alcune persone dicono a Gesù: «Crederemmo in te se tu facessi scendere dal cielo una tavola imbandita di leccornìe ... ». Gesù leva le mani e la tavola discende dal cielo. Qui c'è più di una semplice discrepanza nel narrare gli eventi! Esiste una differenza fondamentale di comprensione: infatti, nei Vangeli, tutti i miracoli di Gesù scaturiscono dall' amore, anche quelli in cui manifesta il proprio «POtere». Per esempio, nel caso della «Tempesta chetata», egli risponde alla paura dei suoi discepoli; compie il miracolo per ridar loro pace e fiducia. Al contrario, i miracoli riportati nel Corano sono soltanto manifestazioni di potere. Non hanno alcun significato se non l'ostenta-
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zÌone di questo e mostrano chiaramente quale sia la differenza di prospettiva che separa il Gesù del Corano da quello dei Vangeli! Inoltre, occorre tener conto di una contraddizione che conferma il nostro assunto: nella sura della Mensa viene detto a Gesù: crederemo in te se compirai questo miracolo! E Gesù compie il miracolo. Nei Vangeli, invece, ogni volta che gli si propone di fare un miracolo come se fosse una sorta di prova, egli si rifiuta di compierlo, a maggior ragione se gli viene detto che sarà creduto se ... Gesù non si presta a questo gioco; non è un taumaturgo. Egli è, e ricerca il rapporto da persona a persona. Infine, la prova più evidente dell'incompatibilità tra i Vangeli e il Corano a proposito del modo di intendere Gesù Cristo riguarda la crocifissione. Sappiamo dai Vangeli che Gesù va fino in fondo nel suo amore ... dopo una dura lotta spirituale, accettando di morire sulla croce. Viceversa, per il Corano è impensabile che un personaggio di cui si cerca di dimostrare il potere sia crocifisso! Pertanto, per i musulmani Gesù non è mai stato crocifisso (quindi la questione della resurrezione è saltata a piè pari), ma al suo posto è morto un altro! Questo fatto merita una riflessione: come si può concepire che Gesù, che incarna l'amore di Dio e la cui vita non è stata altro che sacrificio, che compie la profezia dell'uomo che soffre; in una parola, questo Gesù, la cui vita non significa più nulla se non esprime costantemente l'amore di Dio, possa accettare che un altro uomo sia condannato al suo posto, crocifisso in vece sua, dal mo-
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mento che egli è venuto per assumere su di sé la nostra condanna e le nostre sofferenze? Di fronte a un simile controsenso, si può dire ciò che si vuole sulla presenza di Gesù nel Corano e sul rispetto che gli viene tributato in quel testo: si tratta di considerazioni del tutto prive di
valore. Nel concludere questo capitolo, dico che, contrariamente a ciò che si è spesso sostenuto, l'Islam non è un 'eresia cristiana, ma una religione decisamente non cristiana, e che la contraddizione tra le due fedi non può essere superata. Quando si esamina l'Islam alla luce della Bibbia, esso cessa di essere un problema per la fede cristiana.
L'Islam si oppone violentemente alle religioni politeiste comc il giudaismo e il cristianesimo. Ecco perché oggi si parla delle tre religioni monotesiste (infatti la definizione è moderna). 'Karl Barth, Die kirchliche Dogmatik, Theologischer Verlag, Zurich 1986-93 (ed. it. DoglmifiaJ Ecclesiale, Il Mulino, Bologna,. 1980) ) Nei successivi appro(ondimenti relativi all'Islam e al cristianesimo, mi sono di gran lunga ispirato agli appunti manoscritti, agli appunti delle conferenze, agli abbozzi di articoli e alle riflessioni personali di Jean Bichon. E devo rendere omaggio a questo emerito arabista e islamista e alla sua enorme erudizione, che avrebbe potuto godere di una reputazione paragonabile a quella dei più grandi studiosi, se solo egli avesse voluto pubblicare la mole di appunti accumulati nel corso di un'esistenza trascorsa nei paesi musulmani. Tuttavia, non ha mai cercato la notorietà, per indifferenza o per perfezione. Notiamo un dettaglio significativo: J. Bichon insegnava in arabo presso l'Università di Algeri dopo l'indipendenza algerina . • Si è voluto riavvicinare l'Is1am e il giudeo-cristiancsimo tramite la linguistica: Allah, è anche Eloah - che è il singolare di Elorum -, dunque siaI
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ma in p,esenza dello stes~ Dio; a rigar di logica, Allah rappresenta soltanto un singolo aspetto, di cui Elohìm ci rivela la diversità, Tutto ciò non mi convince molto, (Manzitutto, il singolare è raramente impiegato nel testo biblico; inoltre, abbiamo una conoscenza sufficiente della parentela tra le lingue semitiche per non stupirei di fronte all' identità di termini per indicare in modo .. , generale «Dio»!
Capitolo 3
Le religioni del Libro
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Eccoci giunti all'ultimo grande argomento usato per accostare )'Islam al cristianesimo: entrambe sono religioni «del Libro», il che significa che tutta la verità che proclamano, i loro fondamenti e la loro ragion d'essere sono contenuti in un testo: la Bibbia per i cristiani, il Corano per i musulmani. Come si può resistere alla tentazione di avvicinare due religioni che hanno un fondamento comune, essendo basate su uno scritto? Bisogna cercare di esaminare la questione più da vicino, anche se è d'obbligo una premessa: non si tratta delle uniche religioni a rifarsi a un libro sacro. Ho presentato in altra sede la mia teoria del «libro fondatore". Il Mein l<.Jlmpf fu senz'altro un testo di questo genere, per non parlare del caso emblematico del libretto rosso di Mao. Comunque, se si vogliono evitare generalizzazioni, risulta necessario tentare un confronto: infatti, dichiarare che si tratta di religioni del libro, in fin dei conti, non chiarisce la loro natura, come abbiamo visto nelle pagine precedenti; la domanda che dobbiamo porci è piuttosto: di quale libro si tratta? Dopotutto, qualunque libro può
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dare origine a un gruppo di entusiasti capace di trasformarsi in una setta. È importante capire, soprattutto, la provenienza delle credenze custodite in tale libro. Tenterò dunque di fare un paragone tra la Bibbia e il Corano partendo da più punti di vista e non limitandomi al contenuto. Innanzitutto esiste un' opposizione radicale tra i due testi per quanto riguarda la loro origine. Da un lato, abbiamo un libro che è stato scritto da un solo uomo (eccetto, forse, qualche interpolazione), anche se certamente non di getto, visto che alcune parti sono state concepite a Medina e altre alla Mecca; dall' altro, ci troviamo di fronte a un libro che è il risultato di una lunga stratificazione, scritto da decine di autori e rimodellato in epoche successive. A volte è il frutto di una sintesi, come nel caso delle diverse tradizioni raccolte dopo l'esilio babilonese per comporre il Pentateuco. Nel caso del primo libro, la garanzia della sua veridicità è legata alla certezza che il suo contenuto sia stato ispirato da Dioi il secondo, invece, ha una storia complessa, e la sua verità riposa sul fatto che un popolo prima e una Chiesa in seguito hanno ricevuto un messaggio, l'hanno preso in esame e l'hanno accettato o rifiutato sulla base di esperienze e discussioni. Si potrebbe dire che è un libro ben strano quello che considera parola di Dio testi in cui viene espressa una condanna nei confronti del popolo che lo ha accettato! Questi testi, composti lungo un arco di tempo che abbraccia dieci secoli, racchiudono un pensiero chiaro e coerente (malgrado le
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contraddizioni apparenti, che possono però essere risolte una volta compreso il modo corretto di leggerli). Come si vede, il solco originario che separa i due libri non potrebbe essere più profondo. Ma c'è di più: il Corano si vuole sia stato «dettato» parola per parola da Dio in persona a Maometto, il quale diventa un semplice ricevitore, fedele finché si vuole, ma pur sempre nulla più di un «apparecchio registratore». Da ciò consegue che il Corano può essere letto correttamente soltanto in arabo, che è la lingua scelta da Dio, e la «Madre» del Corano si trova presso Allah. Per ciò che concerne la Bibbia, so bene che, periodicamente, si manifesta la tentazione di crederla dettata da Dio. Viene in mente il celebre dipinto nel quale si vede un angelo nell'atto di dettare a un apostolo intento a scrivere: tuttavia, nulla, né nella Bibbia ebraica né nel Nuovo Testamento, autorizza a pensare che il libro sacro sia giunto all'uomo in quel modo. L'unico testo che avrebbe potuto essere considerato come «dettato» era il primo Decalogo, ma le Tavole furono spezzate da Mosè. Tutti i libri della Bibbia sono stati scritti sotto la responsabilità dei loro autori, i quali non erano semplici «magnetofoni» che registravano la voce di Dio. Considerarli tali significherebbe fraintendere la natura del rapporto che si instaura tra Dio e l'uomo nella Bibbia: infatti Dio, nell'Esodo, viene definito «Liberatore». Significherebbe anche scontrarsi con ciò che Paolo -ci dice a proposito della morte di Gesù Cristo e con l'affermazione: «La verità vi renderà liberi»; ed equivarrebbe, infine, a porsi in
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contraddizione con la resurrezione, con l'affrancamento dalla morte. La libertà rappresenta l'essenza stessa dell'opera di Dio attraverso l'uomo.. quale ci viene insegnata dalle Scritture. In queste condizioni, non si possono concepire Dio o un «arcangelo» nell'atto di dettare parola per parola il «messaggio». Se la Bibbia fosse stata scritta sotto dettatura, non vi troveremmo le contraddizioni che fanno la gioia degli esegeti. In realtà, la Bibbia stessa ci spiega come stanno le cose: Dio parla a un uomo; questi riceve il messaggio, lo capisce (più o meno bene), lo interpreta e lo mette per iscritto. Mi rendo conto che potrei scandalizzare qualcuno affermando che lo scrittore biblico può capire più o meno compiutamente ciò che gli viene rivelato, eppure le cose stanno così! I Profeti stessi riconoscevano di non essere sempre in grado di comprendere il senso del messaggio di cui erano latori. Il Vangelo di Giovanni, inoltre, mi sembra davvero il «Vangelo dei Malintesi», nel senso che Giovanni è animato dalla chiara volontà di sottolineare gli equivoci che si creano tra Gesù e i suoi interlocutori (Nicodemo, la Samaritana ecc). La Bibbia non è un libro dettato, ma «ispirato». Dio parla a un uomo, il quale è incaricato, in base ai suoi mezzi, ai suoi limiti e alla sua cultura, di tradurre la parola di Dio e di trasmetterla per iscritto. Anche se l'autore è del tutto fedele nel trascrivere ciò che gli è stato rivelato, bisogna comunque fare i conti con il passaggio fondamentale dalla Parola alla Scrittura. Questo significa che la formula, tipicamente
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protestante, che proclama la Bibbia «Parola di Dio» è errata. La Bibbia non è «Parola di Dio»: essa, piuttosto, trae origine dalla Parola divina, e può ridiventare Parola di Dio quando il testo è di nuovo parlato e lo Spirito Santo dona a questa Parola «rediviva» il sigillo della verità! Possiamo notare ancora una volta come il Dio biblico consideri l'uomo un interlocutore, un collaboratore che ha il compito di proclamare la Verità che Dio gli rivela e di metterla per iscritto; un interlocutore capace di far rivivere la Parola di Dio che giace muta nelle Scritture, trasformandola in un testo scritto e diventando portatore della verità (non solo con le sue parole ma anche con la sua vita!). Alla luce di ciò che abbiamo detto, risulta difficile parlare di due «religioni del Libro)) per tentare di avvicinare l'Islam al cristianesimo. La seconda differenza radicale che separa i due libri mi pare ancora più fondamentale, dal momento che essa riguarda l'idea di Dio e il rapporto tra Dio e gli uomini. La Bibbia è prima di tutto, e quasi esclusivamente, un libro di Storia e di storie. Beninteso, alcune sue parti non rientrano in questa definizione (il libro di Giobbe, l'Ecclesiaste, i Salmi, l'Apocalisse); tuttavia, anch'esse sono incluse in una storia. Ebbene, tale storia, che come ogni altra è costituita da un succedersi di avvenimenti accaduti prima a un popolo, Israele, poi a un gruppo di uomini, i discepoli fondatori della Chiesa, si contraddistingue per una particolarità notevole: si tratta della storia di... «Dio con l'uomo». È evidente che non ci troviamo in presenza di una storia di Dio «in cui
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non si registrano variazioni O cambiamenti» (i quali, se si verificassero, resterebbero a noi sconosciuti!): i rapporti che Dio instaura con l'uomo sono condizionati da «eventi}} non da poco, che possono dipendere sia dall' uomo che da Dio. La Bibbia descrive il cammino di Dio con l'uomo: Dio si mette «alla portata» di esso, si pone al suo livello affinché egli possa capirlo. Egli instaura un dialogo con gli esseri umani (anche quando dà loro i comandamenti), e anche se ciò non significa che lui, il Trascendente, possa essere afferrato nella sua pienezza dall'uomo, resta tuttavia in grado di farsi capire dal suo interlocutore. Non è sempre facile spiegare le contraddizioni presenti nella Bibbia, ma esse sono giustificate dal fatto che Dio si è adattato a uomiIÙ appartenenti a una certa cultura e a un certo modo di vivere. Certi storici dimostrano di non capire nulla quando spiegano un dato passo del testo biblico sostenendo che, essendo costoro dei nomadi, concepivano un Dio a misura di nomade ecc. Al contrario: è Dio che si è maIÙfestato in un certo modo per essere capito anche da una tribù di nomadi. Se non avesse agito in questo modo - sia ben chiaro - non sapremmo nulla riguardo a Dio e non ci sarebbe stata nessuna rivelazione, per il semplice motivo che se Egli si fosse rivelato senza tener conto della persona a cui si rivolgeva, si sarebbe rivolto all'Uomo in abstracto, a un'Essenza dell'Uomo; a un Modello teorico che non è mai esistito in alcun luogo: un'astrazione divina si sarebbe rivelata a un' astrazione umana e io, uomo con-
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creta che vive al giorno d'oggi, non avrei compiuto alcun progresso. Qualcuno potrebbe obiettare: d'accordo, ma questo Dio ha smesso di parlare, quindi la sua rivelazione indirizzata a nomadi, pastori, guerrieri e schiavi, ha ancora qualcosa a che fare con noi? Dio non parla più all'uomo della tecnologia, della mondializzazione, all'uomo che ha studiato e legge ... Ebbene, non sono sicuro che si tratti di un' obiezione valida. In effetti, dal momento che la Parola di Dio si è rivolta a un uomo concreto, ritengo che i problemi, i dilemmi e le sventure dell'uomo moderno non siano poi cos1 diversi da quelli dell'uomo vissuto 3000 anni fa. Saremmo forse dotati di un'intelligenza più sofisticata? Va bene, ma la cosa davvero straordinaria della rivelazione di Dio è proprio di non essere monocorde, di non essere rigida: essa contiene una pluralità di significati (la cosa non ci deve stupire, se riteniamo che si tratti davvero di una parola di Dio, che risulta affascinante per il suo polimorfismo e la sua polisemia). All'epoca in cui è stata rivelata, essa avrà assunto una determinata forma perché il messaggio era rivolto a un uomo appartenente a una determinata cultura, ma noi, gli eredi e successori di quella persona, abbiamo ricevuto la Parola Scritta e, sapendo che ci riguarda, dobbiamo ricercare, partendo dal senso che essa aveva per il pastore, il significato che continua ad avere (lo stesso, certo!) per l'automobilista! Comunque attenzione: non sto dicendo che non ci siano stati dei cambiamenti tra l'uomo di Neanderthal e quello dei
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giorni nostri, ma semplicemente che gli «incidenti» fondamentali della vita umana sono gli stessi oggi come 3000 anni fa. Tra la sofferenza di uno schiavo del II secolo e quella di un minatore del 1900 non c'è una grande distanza; cosi come tra un romano della decadenza, privo di valori e di verità, incapace di dare un «senso» alla vita e un'occidentale di oggi. 11 nostro compito consiste nel ricercare coscienziosamente - non limitandoci a una lettura ovvia e letterale che risulterebbe sterile - il nucleo di verità che riguarda anche noi moderni! Si tratta senz'altro di un compito difficile, come fu difficile per Mosè capire le parole del roveto in fiamme, per Elia, ((rimasto solo>1e per Paolo, che viene a trovarsi nella più paradossale delle situazioni l, Tuttavia, ciò che rende straordinario questo libro, è che ci fa vedere fino a che punto Dio è disposto a mettersi alla nostra portata: come dimostrano migliaia di casi, leggendo questa Scrittura anche il più semplice, umile e innocente tra gli uomini intende una verità, mentre il dotto si rende conto che più approfondisce la propria conoscenza più lo spazio che Dio gli schiude appare infinito ... Dio accompagna l'uomo nella sua storia, personale e collettiva; egli ama a tal punto la sua creatura - creata a sua immagine e somiglianza - da condividerne la felicità e la sofferenza. Dio cambia? Ovviamente no: Dio è Tutto! Semplicemente, si modifica il suo rapporto con l' uomo. Il punto d 'arrivo dell'avventura di «Dio con l'uomo» è rappresentato ovviamente dall'incarnazione di Gesù Cristo, che di per sé non rap-
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presenta un evento radicalmente nuovo, ma porta alle estreme conseguenze questo «viaggio insieme)), che da quel momento diventa un'unione indissolubile. D'altra parte, non bisogna limitare la sfera d'azione di Dio all'uomo, poiché egli è presente nella più piccola delle sue creature ed è testimone di tutta la propria creazione 2. Inoltre.. quando parliamo d'amore, parliamo anche di libertà: infatti, non esiste amore se c'è paura o costrizione; l'amore presuppone la libertà e il senso dei comandamenti non deve essere interpretato come «tu devi amare ... ». Dio, che è Libero per eccellenza, sa ancor meglio di noi che non si può obbligare ad amare. Il comandamento: «Amerai ... )) indica sI un dovere, ma soprattutto una promessa: verrà il tempo in cui potrai amare veramente. Notiamo ancora una volta l'infinita distanza che separa i due libri. Nel Corano non si parla d'amore, ma ci troviamo in presenza di un obbligo e di una costrizione illimitati, pena l'inferno per chi disubbidisce. L'lslam è sottomissione completa, e che cosa si intenda con essa è spiegato appunto nel Corano. Il libro degli ebrei e dei cristiani contiene una promessa e una speranza di libertà, mentre il Corano è il libro della costrizione definitiva. Infatti, se per noi Gesù Cristo è venuto a portarci la salvezza eterna, la rivelazione contenuta nel Corano non ammette alcun ripensamento, né in essa si trova una qualunque speranza di salvezza (che non ci meritiamo). Si tratta di una differenza abissale: da un lato, Dio ha parlato e poi ha taciuto per sempre, mentre dal-
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l'altro Dio continua a rivelarsi e a parlare al credente e alla sua Chiesa nel corso della storia, senza che sia previsto alcun automatismo: Dio parla in piena libertà a un «livello» scelto da lui, ma può anche tacere. Anche il silenzio di Dio ha un senso, pur se risulta a volte incomprensibile all'uomo: all'inizio del primo libro di Samuele, si legge che «la parola del Signore era rara in quei giorni» (1 Sam 3,2); «Noi non vediamo più nessun segno; non c'è più profeta, né chi tra noi sappia fino a quando ... ~) (Salmi 74,9); «Allora andranno errando da un mare all'altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la Parola del Signore, e non la troveranno» (Amos 8,12). Tuttavia, il silenzio di Dio è vissuto come un dramma nel rapporto tra questi e l'uomo: non come una semplice constatazione, bensì come una rottura e un giudizio. Ci ritroviamo nuovamente alle prese con la storia in cui la «normalità» è rappresentata daUa preghiera al Padre in cambio della Parola dell'Onnipotente: non c'è nulla di prestabilito O prelissato. Questo rapporto può darci e farci conoscere una pace straordinariamente duratura e profonda, ma non éè alcuna sicurezza, né il fedele può comportarsi da «proprietario}) della rivelazione divina una volta che l'ha ricevuta. Quindi, se da un lato abbiamo una parola immutabile, che peraltro è contenuta in un' ammirevole opera letteraria, dall'altra c'è una storia che cambia, che può a volte essere «piena di strepito e di furore)) o caratterizzata da una pace soprannaturale, dall'incontro più banale al più inaudito, talmente inaudito che, ancor
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prima di assistere all'incredibile, cioè all'incarnazione di Dio che si fa uomo per soffrire come lui, la Bibbia ebraica ci dà testimonianza del Dio che soffre e dell'uomo che lo fa soffrire, il che è assolutamente impensabile nel Corano e nell'Islam. «Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle; essi andavano per una strada non buona, seguendo i loro capricci [... ]. Essi dicono: "Sta lontano!"~) (Isaia 64,2-5) si lamenta Dio. Ancora più commovente è la domanda che si legge in Michea (6,3): «Popolo mio, cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato?». Come si vede,.non ci troviamo di fronte al Dio immutabile dell'lslam ... Dio è colui che attende costantemente un ritorno a sé, uno slancio d'amore. E non si dica che questo è antropomorfismo di grana grossa: chi dice così ragiona in base all'idea del tutto antibiblica di un Dio Eterno, Impassibile, Sovrano e Giudice, dimenticando l'Incarnazione, la sofferenza di Dio, un concetto incomprensibile per l'Islam; un intero universo separa infatti Allah Clemente e Misericordioso da YHWH, non meno s0vrano, ma che ritiene di mettersi al posto di colui che ha creato non per giudicarlo, come dice il Corano, ma per fame il proprio interlocutore, perché egli è amore e ha assoluto bisogno di aver vicino qualcuno da amare. L'uomo, che è state creato a sua immagine e somiglianza e che Dio ha amato per primo, è destinato anch'egli ad amare. Quanto siamo lontani dalla Legge (Toràh significa infatti (
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dalla relazione unilaterale che lega il padrone al servo sottomesso. Anche il Dio biblico potrebbe essere definito Misericordioso, ma non nel senso in cui l'aggettivo è inteso dal Corano! In un caso c'è un sovrano che fa discendere dall'alto - da molto in alto -la propria misericordia nei confronti del credente; nell' altro abbiamo un Dio che entra nella vita stessa di colui verso il quale si dimostra misericordioso, per condividerne la debolezza e il dolore. Un Dio la cui misericordia non si esprime con la concessione di qualche consolazione superficiale, ma attraverso la condivisione della sofferenza: egli vuole essere il più vicino possibile a colui che soffre. Certamente, in entrambi i casi Dio non elimina la sofferenza; ma, per quanto riguarda l'Islam, lascia che esista (è questo il significato del mektub, la volontà di Dio: non ci possiamo fare niente ed è inutile chiedere ad Allah di cancellare il dolore). Nel caso della Rivelazione cristiana, invece, le cose stanno in modo del tutto diverso: la sofferenza non nasce da una sola sorgente, ma può anche - e più spesso - derivare dalle forze del male, da Satana (Si veda il libro di Giobbe) o da qualunque altra forza malvagia in grado d'impadronirsi dell'uomo. Ma non è soltanto questa differenza originaria a fare della sofferenza cristiana «un'altra cosa»: nell'ambito della Rivelazione cristiana, la sofferenza deve essere accettata, sia come punizione (presenza dell'inferno in mezzo a noi), sia come prova destinata a fortificare la nostra fede, sia come un richiamo all'interrogativo che essa contiene. Inoltre, Dio non è mai per la sofferenza. Gesù, che
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è venuto a farsi carico dei nostri travagli affinché non fossimo mai soli, presenta questi due aspetti: da una parte guarisce e allevia il dolore umano e dall' altra assume su di sé tale dolore perché esso è inevitabile nel disordine di un mondo in cui si scatenano le forze del male. L'importante, per il cristiano, è capire, nel contesto della Rivelazione, quale senso può o deve dare alla propria sofferenza: il cristiano è chiamato a riflettere su di essa, non a sottomettersi all' arbitrio di Dio. Se Dio permette che ciò mi accada, qual è il significato di questa prova? Che cosa mi vuoi dire con questo castigo, con questo richiamo? Ancora una volta ci troviamo in presenza della ({duttilità» che caratterizza il nostro rapporto con il Dio biblico, il quale ci chiede di partecipare al progetto che ha elaborato per noi, e percepiamo ancora meglio l'incolmabile distanza che separa il nostro Dio, che ci invita a collaborare con lui, dalla solitaria maestà di Allah.
••• Concluderò questo breve studio, che potrebbe essere migliorato e approfondito - ma le conclusioni non cambierebbero - affermando che esistono somiglianze verbali tra la Rivelazione biblica e l'Islam, le quali nascondono la fondamentale estraneità delle due religioni. Nell'Islam si parla di un solo Dio creatore, di Spirito e Peccato, di un giudizio seguito dalla resurrezione dei morti, il tutto all'interno di un libro rivelato ... Ciò por-
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ta naturalmente a ritenere che vi sia una grande somiglianza con la Rivelazione biblica. Eppure, si tratta soltanto di parole: appena ci sforziamo di precisame il significato scorgiamo l'abisso, impossibile da colmare, che separa le due fedi. La somiglianza lessicale nasconde totalmente le differenze, che riguardano il Significato e l'Essere.
' Paolo, in seguito alla visione sulla strada di Damasco, poté fregiarsi del titolo di Apostolo, anche se non era stato un testimone oculare della vita e della resurrezione del Cristo. 'Mi sembra che ci sia un passaggio dove il concetto viene spiegato in modo eccellente: si tratta del famoso testo sul «passero», che viene in genere tradotto in modo errato, in Maueo 10,29. Gesù, esortando i discepoli a non avere più paura, ricorda loro ciò che egli ha detto a proposito degli uccel· li dei campi: «Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia,. (Si traduce spesso: ..La volontà del Padre vostro,. - frase che in gle
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Questo testo è stato scritto da 'acques Ellul nel maggio del 1983, ed è stato tradotto in inglese per essere pubblicato come prefazione nel libro di Bat Ye'or ' The Dhimmi. lews and Christians Under Islam l , Il testo, edito in inglese, ebraico, russo e francese, non è mai apparso in italiano. Questo libro è molto importante, perché affronta uno dei problemi più delicati del nostro tempo: delicato per la difficoltà stessa dell'argomento, che riguarda la dottrina e le pratiche attraverso cui l'Islam regola i rapporti con i non musulmani; e delicato altresl in quanto si tratta di un argomento d'attualità che ha destato in tutto il mondo un certo interesse. Mezzo secolo fa, nessuno sarebbe stato particolarmente curioso di conoscere la situazione dei non musulmani nell'Islam. Se ne sarebbe magari data una descrizione da un punto di vista storico a uso degli specialisti, O avrebbe potuto essere analizzata da un punto di vista giuridico (penso ai lavori di M. Gaudefroy-Demombynes, e del mio ex collega G.-H. Bousquet che ha descritto molti aspetti del diritto mu-
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sulmano senza che ciò abbia suscitato la benché minima polemica), oppure sotto il profilo filosofico e teologico, ma senza passione. Tutto ciò che concerneva 1'1slam e il mondo musulmano apparteneva a un passato non morto ma certamente non più vivo di quanto non fosse, per esempio, il cristianesimo medievale. I popoli musulmani non avevano alcun potere, erano fortemente divisi e in gran parte soggetti al dominio coloniale. Gli europei ostili al colonialismo nutrivano qualche simpatia per gli «arabi» e nulla più. Ma, a partire dal 1950, il panorama è completamente cambiato. Credo che si possano individuare quattro tappe: la prima è rappresentata dalla volontà di liberarsi dagli invasori. In questo, peraltro, i musulmani non sono stati «originali»: la guerra d'Algeria, con tutto que110 che ne è seguito, non è stata altro che una conseguenza de11a prima guerra del Vietnam, ovvero l'inizio di un movimento generale di decolonizzazione, che spingeva quei popoli a ricercare una propria identità, a essere non soltanto liberi ma diversi dagli europei. La seconda tappa è una conseguenza della prima: la specificità di quei popoli non era legata a caratteristiche etniche o a un' organizzazione, ma a una religione. Si è quindi assistito a un ritorno alla religione, anche all'interno di movimenti di sinistra socialisti o addirittura comunisti; da qui il rifiuto della tendenza a voler creare uno Stato laico: per esempio, quello voluto da AtatUrk. Molto spesso, si pensa che l'esplosione di religiosità islamica sia una peculiarità del regime di Khomeini. Niente affatto. Non biso-
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gna dimenticare la terribile guerra combattuta nel 1947 in India tra musulmani e indù, sulla base di motivazioni esclusivamente religiose: le vittime sono state più di un milione e non si può ignorare che alla base di quel conflitto c'era la volontà di creare una Repubblica islamica indipendente (infatti, finché i musulmani rimasero integrati nel mondo indù e buddista non si verificarono massacri). Il Pakistan si è proclamato ufficialmente Repubblica islamica nel 1953, proprio nel momento in cui questi popoli compivano un grande sforzo per ritrovare la propria identità. Anno dopo alUlO, il rinnovamento religioso del1'Isiam è continuato senza sosta (ripresa delle conversioni nell' Africa nera, ritorno alle pratiche rituali da parte di popolazioni che se ne erano allontanate, obbligo per alcuni Stati arabi socialisti di proclamarsi «musulmani» ecc.), a tal punto che l'Islam si presenta attualmente come la religione più attiva e più viva del mondo. L'estremismo dell'Imam Khomeini si può comprendere soltanto nell'ottica di questo movimento; non si tratta in nessun modo di un fatto straordinario, a parte: ne è il seguito logico. Tuttavia, ed eccoci al terzo elemento, parallelamente alla rinascita religiosa cresce la ·coscienza di una certa unità del mondo islamico, al di là delle diversità politiche e culturali. Beninteso, non bisogna dimenticare i conflitti tra gli Stati musulmani, gli interessi divergenti e le guerre vere e proprie; ma queste lotte, in ogni caso, non devono farci dimenticare una realtà fondamentale: la loro unità religiosa di fronte al mondo non musulmano.
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Siamo qui in presenza di un fenomeno interessante: sarei tentato di dire che sono gli «altri», i paesi «comunisti», «cristiani» ecc., che accentuano la tendenza all'unità nel mondo musulmano e in qualche modo svolgono il ruolo di unifica tori dei popoli islamici! Infine, e siamo all'ultimo punto, va considerata la scoperta dei giacimenti petroliferi e la potenza economica che ne è derivata. Su questo non insisto; mi limito a dire che si tratta di un percorso coerente: indipendenza politica - rinascita religiosa - potenza economica. Tutto ciò ha cambiato l'aspetto del mondo in meno di mezzo secolo e attualmente assistiamo a una vasta operazione di propaganda islamica che prevede l'edificazione di moschee in ogni luogo (persino in URSS), la diffusione della letteratura e della cultura arabe e l'insegnamento della propria storia: l'Islam si vanta di aver rappresentato la culla di tutte le civiltà mentre l'Europa era sprofondata nella barbarie e l'Oriente era continuamente dilaniato da guerre. Sentiamo spesso dire che l'lslam è all'origine di tutte le scienze e di tutte le arti. Probabilmente, questo tipo di propaganda ha colpito gli Stati Uniti in misura minore rispetto alla Francia (anche se non si devono dimenticare i Black Muslirns); peraltro, mi sembra che la situazione francese sia del tutto esemplare. Non appena si affronta un problema relativo all'Islam, si entra in un campo in cui sentimenti e sensibilità sono spesso esasperati: in Francia, le critiche rivolte all'lslam o ai paesi arabi non sono più tollerate. Vi sono diversi motivi che spiegano un simile atteggiamento: la
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cattiva coscienza dovuta al fatto di esser stati invasori e colonizzatori dell' Africa del Nord; i sensi di colpa per la guerra d'Algeria (di conseguenza, la tendenza a solidarizzare con l'avversario e a giudicarlo favorevolmente); e la scoperta, vera, del fatto che per secoli è stato tenuto nascosto il contributo fondamentale dato dai musulmani alla civiltà occidentale. A tutto ciò si aggiunga il continuo aumento (in Francia) di lavoratori immigrati di origine araba, che rappresentano attualmente una fetta non trascurabile della popolazione; essi sono generalmente svantaggiati e disprezzati (con un certo razzismo) ed è per questo che gli intellettuali, i cristiani ecc. sono pieni di buoni sentimenti nei loro confronti e non tollerano che li si critichi. Assistiamo quindi a una riabilitazione generale dell'Islam, che viene espressa in due modi. In primo luogo, sul piano intellettuale, si registra l'apparizione di un numero crescente di opere con pretese di scientificità, e con l'obiettivo dichiarato di distruggere pregiudizi, luoghi comuni e falsità sull'lslaml sia dal punto di vista dottrinale sia da quello dei costumi e delle abitudini. In tal modo si ((dimostra» che è falso che gli arabi siano stati crudeli invasori, che abbiano seminato il terrore e massacrato i popoli che non si sottomettevano; è falso che l'Islam sia intollerante: al contrario, esso è il simbolo stesso della tolleranza. È falso che alla donna sia accordato uno status inferiore rispetto all'uomo; è falso che il jihdd (la guerra santa) sia una guerra vera e propria ecc. In altre parole, tutto ciò che abbiamo sempre considerato come storicamente ve-
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ro riguardo all'Islam non è nient' altro che il risultato di una propaganda volta a diffondere in Occidente delle immagini fasulle. Diventa quindi necessario ristabilire la verità facendo riferimento a una interpretazione molto spirituale del Corano, e dimostrando l'eccellenza dei costumi dei paesi musulmani. Ma c'è di più. Nei paesi europei l'Islam esercita un fascino di ordine spirituale. Nella misura in cui il cristianesimo non ha più il valore religioso che deteneva un tempo ed è radicalmente criticato, e dal momento che il comunismo ha perso il suo prestigio e il suo messaggio di speranza, l'uomo europeo cerca di soddisfare altrove il suo bisogno di religione ed ecco che scopre 1'1slam! Non si tratta più in alcun modo di discussioni intellettuali, ma di vere e proprie adesioni religiose. Molti intellettuali francesi di grande fama si sono clamorosamente convertiti all'Islam. La religione musulmana è presentata come un evidente progresso rispetto al cristianesimo e si citano i grandi mistici musulmani. Ci viene ricordato che le tre religioni del Libro (ebraismo, cristianesimo, Islam) sono parenti, dal momento che tutte e tre proclamano di discendere da Abramo. La più progredita delle tre ... è evidentemente l'ultima, la più recente. Non sto per niente esagerando: tra gli ebrei vi sono persino intellettuali seri che sperano, se non proprio in una fusione, almeno in una riconciliazione tra le tre fedi. Ebbene, se io descrivo ciò che sta succedendo in Europa è perché, piaccia o no, l'lslam possiede una vocazione universale e dichiara di essere la sola vera re-
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ligione a cui tutti devono aderire: non facciamoci illusioni, perché nessuna parte del mondo sarà -risparmiata. Ora che l'lslam può contare su una potenza nazionale, militare ed economica tenterà di diffondersi sul piano religioso in tutto il globo. Anche il Commonwealth britannico e gli Stati Uniti saranno presi di mira. Di fronte a questa espansione -la terza dell'lslam -, non bisogna reagire con il razzismo, con una chiusura ortodossa, con persecuzioni o con la guerra. Ci vuole una reazione di ordine spirituale e psicologico (non bisogna lasciarsi vincere dalla cattiva coscienza), nonché di tipo scientifico. Di che cosa si tratta realmente? Cos'è vero? La crudeltà della conquista musulmana oppure la dolcezza e la benignità del Corano? Cosa può esser definito esatto sul piano della dottrina e del1a sua applicazione nella vita quotidiana in seno al mondo arabo? Occorrerà compiere un lavoro intellettualmente serio che indaghi aspetti precisi: è impossibile giudicare il mondo islamico per sommi capi, dal momento che 1'1slam ha assorbito un gran numero di culture diverse. È altresì impossibile studiare in un'unica soluzione tutte le credenze, le tradizioni e le loro applicazioni pratiche. Non si può far altro che limitarsi ad approfondire una serie di questioni, per stabilire un confine tra ciò che è vero e ciò che è falso. È questo il contesto nel quale si situa i11ibro di Bat Ye' or sui dhimmi. Si tratta di un lavoro esemplare nell'ambito del grande dibattito che ci vede coinvolti. Non voglio decantare i meriti di questo libro, ma desid ero
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soltanto sottolineame l'importanza. Il dhimmi è colui il quale vive in una società musulmana senza essere musulmano (è questa la condizione degli ebrei, dei cristiani e, talora, degli «animisti}}). Quest'uomo ha uno status sociale, politico ed economico particolare. Il libro si occupa essenzialmente di indagare su come siano stati effettivamente trattati i «refrattari»; tuttavia, ci rendiamo subito conto di trovarci di fronte a ben più di un semplice studio su una delle tante «condizioni sociali». Il lettore noterà che, sotto molti aspetti, il dhimmi può essere paragonato al servo della gleba europeo del Medioevo. Peraltro, la condizione del servo era il risultato di una serie di evoluzioni storiche (trasformazione della schiavitù, sparizione dello Stato, comparsa della feudalità ecc.). Di conseguenza, quando le condizioni storiche sono cambiate, la figura del servo si è trasformata fino a sparire. Lo stesso non si può dire per il dhimmi: la sua situazione non è affatto il prodotto di una circostanza storica, ma è il risultato di un particolare punto di vista religioso e della concezione musulmana del mondo. In altre parole, è l'espressione della visione totale, permanente e teologicamente fondata del rapporto tra l'Islam e il non Islam. Non è un incidente della storia che potrebbe rivestire un interesse retrospettivo, bensì un dover essere. Di conseguenza, è nello stesso tempo un soggetto storico (si cerca il concetto originario e se ne descrivono le applicazioni passate) e un soggetto attuale, pienamente attuale, dal momento che l'Isia m si sta espandendo. In effetti, si deve leggere i1la-
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voro di Bat Ve' or come un libro di attualità, che si propone di dar conto nel modo più esatto possibile di ciò che i musulmani hanno fatto dei popoli sottomessi non convertiti, perché corrisponde a ciò che faranno (e fanno tuttora). Suppongo che questa mia affermazione non convincerà immediatamente il lettore. E comunque, com'è noto, le nozioni e i concetti evolvono. La concezione cristiana di Dio o di Gesù Cristo non è, per i cristiani di oggi, la stessa del Medioevo, e si potrebbero citare numerosi esempi. Al contrario, c'è una particolarità dell'Islam che colpisce e mi pare interessante: la fissità dei concetti. È evidente che l'evoluzione è maggiore laddove non esistono briglie ideologiche. Il regime dei Cesari a Roma poteva essere soggetto a molte più trasformazioni rispetto al regime staliniano, perché non esisteva alcuna intelaiatura dottrinale o ideologica che gli desse una continuità e una certa rigidezza. Invece, laddove l'organizzazione sociale si fonda su un «sistema», tende a riprodursi molto più esattamente. Ebbene, l'Islam, ancor più del cristianesimo, è una religione che pretende di dare una forma definitiva all' ordine sociale e alle relazioni tra gli uomini, e di regolare in maniera rigida ogni momento della vita di ciascun individuo. Esso tende dunque a una fissità che la maggior parte delle forme di ordinamento sociale che lo hanno preceduto non possedevano. Inoltre, cosa assai più importante, è noto che l'intera dottrina dell'Islam (compreso il pensiero religioso) ha assunto un aspetto giuridico. Tutti i testi sono sottoposti a un'inter-
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pretazione giuridica e cosI le loro applicazioni (anche in campo spirituale). Non bisogna dimenticare che il diritto è caratterizzato dalla netta tendenza a fissare le relazioni e i rapporti, a fermare il tempo, a stabilire i significati (affinché una parola non possa avere più di un' accezione) e a decretare le possibili interpretazioni. Tutto ciò che riguarda il diritto si trasforma con grande lentezza e non obbedisce ad alcun rivolgimento. Beninteso, possono verificarsi cambiamenti (nella pratica, nella giurisprudenza ecc.), tuttavia, quando esiste un testo considerato in qualche modo «fondante», basta che ci si riferisca a esso e tutte le novità prodotte crollano. Tale è la situazione dell'Islam. L'interpretazione giuridica dei testi religiosi, introdotta ovunque, ha prodotto una fissità (non assoluta, che sarebbe impossibile, ma di massima) la quale rende indispensabile lo studio storico. Quando ci si rifà a una parola o a un'istituzione islamica del passato, occorre sapere che, dal momento che i1 testo fondamentale (in questo caso il Corano) non è cambiato - quali che siano le trasformazioni apparenti e le evoluzioni - può verificarsi in ogni momento un ritorno ai principi e alle regole di un tempo; a maggior ragione in questo caso dal momento che l'Islam è riuscito nell'impresa davvero rara di integrare la religione, la politica, la morale, il sociale, il diritto e la cultura, costruendo un insieme coerente nel quale ogni elemento è parte del tutto. Peraltro, proprio il termine «dhimmi» è al centro di una discussione. In effetti, questa parola significa «pro-
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tetto». Incontriamo qui uno degli argomenti cari ai moderni difensori dell'Islam: il dhimmi non è mai stato perseguitato né maltrattato; al contrario, egli è protetto. Non ci potrebbe essere miglior esempio della tolleranza dell'Islam: ci sono persone che non condividono le credenze dei musulmani e, invece di escluderle dalla comunità, le si protegge. Ho letto numerosi testi in cui si sosteneva che nessuna religione è stata così tollerante né ha protetto con tale efficacia le minoranze. Ovviamente, si approfitta di questo discorso per mettere sotto accusa il cristianesimo medievale (che qui non difendo), sottolineando che mai l'Islam ha conosciuto l'Inquisizione o la «caccia alle streghe». Accettiamo questo punto di vista e limitiamoci a riflettere sulla parola stessa: «protetto». La domanda è: «Protetto contro chi?». Nella misura in cui questo «straniero» vive in terra d 'Islam, la risposta non può che essere: «Contro i musulmani stessi». Il termine «protetto» racchiude in sé una latente ostilità, ed è bene che ciò sia chiaro. Nella Roma primitiva esisteva un'istituzione simile, quella del cliens. Lo straniero era sempre un nemico e come tale andava trattato (anche se non si era in situazione di guerra). Tuttavia, se lo straniero otteneva il favore di un grande capofamiglia, diventava un suo protetto (cliens) e poteva risiedere a Roma: il suo ((padrone» l'avrebbe protetto dalle aggressioni di altri cittadini romani. In realtà, in questo tipo di rapporto il protetto non gode di nessun vero diritto. Il lettore di questo libro constaterà che la condizione del dhimmi è definita da un trattato (dhimma) che egli (o il
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gruppo a cui appartiene) stipula con questo o quel gruppo musulmano. Si tratta di un patto che ha valore legale, ma che sarei propenso a definire un contratto impari: in effetti, la dhimma è un «contratto per gentile concessione» (si veda C. Chehata a proposito del diritto rnusulmano), il che implica due conseguenze. La prima è che chi «concede» il contratto lo può dichiarare nullo in ogni momento (in realtà non si tratta di un contratto «consensuale» stipulato sulla base di un accordo tra le parti). La seconda è che ci troviamo in una situazione che contrasta fortemente con quanto sostenuto nella carta dei diritti dell' uomo, secondo la quale l'essere umano in quanto tale gode obbligatoriamente di un certo numero di diritti ed è chi non li rispetta ad avere torto. Al contrario, nel caso del contratto concesso al «protetto» esistono soltanto i diritti previsti dal contratto stesso finché è in vigore. Il solo fatto di «esistere» non garantisce alcun diritto: ecco la situazione dei dhimmi. Ho spiegato sopra perché questa condizione non varia nel corso della storia: non si tratta di un problema sociale ma di un principio radicato. Oggi, per l'Islam conquistatore, chi non è musulmano non beneficia di diritti umani riconosciuti automaticamente: in una società islamica, oggi come un tempo, questa persona è un dhimmi. Da ciò consegue che le ipotesi di una soluzione del dramma mediorientale grazie all'inserimento di Israele in una federazione di Stati musulmani o attraverso la creazione di uno Stato «ebraico-islamico» sono del tutto illusorie, fantasiose e
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soprattutto impensabili da un punto di vista musulmano. Quindi, a seconda che si intenda il termine «protetto» in senso morale o giuridico, si ottengono due interpretazioni in totale contraddizione tra loro, come si può constatare assistendo agli attuali dibattiti sull'Islam. Sfortunatamente, il termine deve essere considerato in modo obbligatorio in senso giuridico. So bene che qualcuno obietterà: «Ma il dhimmi gode di alcuni diritti». Siamo d'accordo, ma si tratta di diritti concessi: ecco il punto. Se consideriamo per esempio il Trattato di Versailles del 1918, grazie a esso la Germania ha ottenuto un certo numero di «diritti», certo, ma concessi dai vincitori; non per niente si è parlato di Diktat. Tutto ciò ci fa vedere fino a che punto lo studio di questo tipo di problemi sia delicato. Infatti, i giudizi possono cambiare completamente a seconda che si sia a priori favorevoli o contrari all'Islam; nel contempo, diventa estremamente difficile compiere uno studio davvero scientifico e «oggettivo» (ma io, personalmente, non credo all'oggettività delle Scienze umane; nel migliore dei casi il ricercatore può essere onesto e analizzare criticamente i presupposti da cui parte). Tuttavia, come abbiamo detto, proprio perché questo argomento suscita passioni estreme, si rende più che mai indispensabile lo studio serio di ogni problema concernente l'Islam. Si pone cosÌ la questione del presente libro: ci troviamo in presenza di un testo scientifico? L'avevo già recensito in francese (si trattava di un'edizione assai meno completa e ricca, soprattutto per ciò che riguarda le
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appendici, che sono essenziali) sulle colonne di un importante giornale, ricevendo in risposta al mio articolo una lettera di rara violenza speditami da un collega [il professor Claude Cahen] specializzato in questioni musulmane, nella quale mi si diceva che il libro di Bat Ve' or era animato da intenti puramente polemici e non aveva alcun valore scientifico. Tuttavia, dalle sue critiche si evinceva che non aveva letto il volume, e gli argomenti che usava (basandosi sul mio articolo) erano interessanti per dimostrare a contrario il carattere scientifico di quell' opera. In primo luogo, si serviva dell' «argomento d'autorità», rimandandomi a studi sul problema che egli considerava inattaccabili dal punto di vista scientifico (quelli di S. D. Goitein, Bernard Lewis e Norman Stillman), generalmente favorevoli all'Islam. Ho sottoposto l'obiezione all' attenzione di Bat Ye' or, la quale mi ha risposto che conosceva di persona i tre autori succitati e che aveva tenuto in debito conto i loro scritti. Mi sarei stupito del contrario, vista la vastità delle ricerche sulle quali si fonda il lavoro dell'autrice. Inoltre, ella ha affermato che una lettura attenta dei loro testi non permette un'interpretazione restrittiva come quella data dal mio collega nella sua lettera. Comunque, partendo proprio da quei libri, quali erano gli argomenti di fondo usati per criticare l'analisi di Bat Ye' or? In primo luogo, il mio collega sosteneva che quando si parla della condizione dei dhimmi non si deve generalizzare, dal momento che esiste una grande varietà di situazioni. Ebbene, questo è ciò che dimostra
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il nostro libro, costruito con grande abilità: a partire da dati comuni e da un identico fondamento, l'autrice fornisce documenti che permettono di farsi un'idea precisa sulle differenti maniere in cui sono trattati i dhimmi nel Maghreb, in Persia, in Arabia ecc. Effettivamente, bisogna constatare che esiste una gran varietà di situazioni: questo però non cambia la realtà profonda e identica della condizione del dhimmi. In secondo luogo, l'autore della lettera faceva notare che si è esagerato molto a proposito delle «persecuzioni»: egli parlava di «qualche accesso di collera popolare»". Tuttavia, Bat Ye'or non basa il suo libro su questo argomento, e inoltre - ed è qui che si manifesta la faziosità del mio collega - i «pochi accessi») di violenza sono stati in realtà numerosissimi e i massacri di dhimmi assai frequenti. Sarebbe sbagliato rifiutare oggi le importanti testimonianze (che un tempo erano usate fin troppo) a proposito delle uccisioni di ebrei e cristiani in tutti i paesi occupati dagli arabi e dai turchi, le quali avvenivano periodicamente senza che le forze dell' ordine intervenissero. Il dhimmi poteva godere di diritti anche ufficiali agli occhi delle autorità, ma quando si scatenava l'odio popolare (per un motivo spesso incomprensibile), essi erano indifesi e privi di protezione. Si trattava di veri e propri pogrom, ed è proprio su questo punto che il mio corrispondente dimostrava di non attenersi a criteri scientifici. In terzo luogo, il professore ribadiva che ai dhimmi sono garantiti «diritti» personali e confessiona1i: tutta-
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via, non essendo un giurista, gli sfuggiva la distinzione tra diritti personali e diritti «concessi», Ne abbiamo parlato sopra: è un argomento che non regge; inoltre, Bat Ve' or ha studiato in modo assai esaustivo i diritti in questione. Il mio collega sottolineava tra }' altro i1 fatto che nei paesi musulmani gli ebrei hanno raggiunto il massimo livello culturale, e che hanno sempre considerato lo Stato da cui dipendevano come il loro Stato. Riguardo al primo punto, è esistita ed esiste un' enorme diversità: è vero che in alcuni paesi arabi e in determinate epoche gli ebrei (e i cristiani) hanno raggiunto un alto livello di cultura e di benessere materiale - e infatti il libro di Bat Ye' or non lo nega -, ma non si tratta di un fatto straordinario. A Roma, a partire dal I secolo dopo Cristo, poteva succedere che gli schiavi - pur rimanendo tali conseguissero un' ottima posizione: potevano esercitare quasi tutte le professioni intellettuali (professori, medici, ingegneri ecc.); potevano dirigere imprese ed essere addirittura a loro volta proprietari di schiavi; ciò, tuttavia, non impediva che la loro condizione restasse immutata. Il caso dei dhimmi è simile, in quanto essi potevano ricoprire un ruolo importante (come questo libro mostra in modo esauriente) ed essere «felici»: ma questo non significa che non fossero degli inferiori il cui status, assai variabile, li rendeva strettamente dipendenti dalla comunità musulmana e soprattutto li privava di veri «diritti». Inoltre, non è vero, almeno per i cristiani, che essi consideravano come proprio lo Stato in
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cui vivevano: in quanto agli ebrei, erano dispersi da così tanto tempo che non avevano altra scelta. Comunque, è noto che un' autentica corrente «assimilazionista» si è manifestata soltanto nelle democrazie occidentali. Infine, il mio collega dichiarava che «in tempi recenti si è verificato un degrado della condizione degli ebrei nei paesi islamici» e che non bisogna giudicare la condizione dei dhimmi sulla base di ciò che è successo nei secoli XIX e XX. A questo punto sono costretto a domandarmi se l'autore di queste critiche non sia tentato - come molti storici - di abbellire il passato. È sufficiente constatare la notevole concordanza delle fonti storiche - che riferiscono fatti - con i concetti basilari dell'Islam per far dubitare che vi sia stata una grande evoluzione. ,Mi sono dilungato su queste critiche perché mi paiono importanti per definire il carattere «scientifico) di questo libro. Per quanto mi riguarda, ritengo di trovarmi davanti a uno studio assai onesto, poco polemico e per quanto possibile oggettivo (tenendo conto del fatto che appartengo a una Scuola di storici per i quali l'oggettività pura non può esistere). In questo volume è raccolta una gran messe di fonti e documenti utilizzati correttamente; si nota altresì la preoccupazione di collocare ogni situazione nel contesto storico appropriato: infatti, un' opera di questo genere richiede il rispetto di alcuni fondamentali criteri scientifici. Ecco perché io considero questo lavoro assolutamente esemplare e significativo. Inoltre, intervenendo nel dibattito cui ho accen-
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ISLAM [CRlSTlA.NE:SIMO
nato sopra, questo libro reca un avvertimento decisivo: il mondo islamico non si è evoluto nel suo modo di considerare i non musulmani; se fossimo assorbiti, sapremmo cosa attenderci. 11 libro di Bat Ve' or è un raggio di luce di cui la nostra epoca ha assoluto bisogno.
I
Bat Ve'or (<
tannica di origine egiziana Gizelle littman. Come lei stessa racconta, ha assistito alla distruzione dell'antichissima comunità ebraica presente in Egitto (da cui è fuggita, perdendo la nazionalità di quel Paese, che le è stata revocata). Ha compiuto studi in Inghilterra e in Svizzera, dove attualmente risiede. Bai Ve'or ha dedicato gran parte della sua vita professionale allo studio dei dhimmi, i non musulmani che vivono in condizione di inferiorità nei paesi islamici. Il suo primo libro, The Jews in Egypt, risale al 1971; l'ultimo, Eurabia (2005), ha suscitato vivaci polemiche. Una sua intervista in italiano è apparsa !;ul quotidiano di Foglio» (9 ottobre 2004). 1 Bat Ve'or, The Decline 01 filslern Christianily Under Islam: from li/md lO Dhimmitude, Fairleigh Dickinson University Press-Associated University Presses, Madison (NH - London 1996.
Opere di Jacques Ellul
SlORIA
tlude sur f'tvolution et la nature juridique du Mancipium, Delmas, Bordeaux 1936 (tesi di dottorato in diritto).
Essai sur le recrutement de /'année française aux xvr sikle et xVlr sikles, Mé· moire de "Académie des Sciences Morales et Politiques, Paris 1941 (prix d'Histoire de 1'Académie Française). Introduction à /'histoire de la discipline des tglises r~formks de France, presso l'autore, 1943. Hisloire des institutions, PUF, Paris: tomi l e 2 (L'antiquitt, 1951); tomo 3 (LL Moyen Age, 1953); lomo 4 (XV'-XVlf sikles, 1956); tomo 5 (XIX' siècle, 1957); riedizione PUF, coli ... Drcit fondamenta! .., Paris 1991 (ed. il. Storia delle istituzioni. Il Medioevo, Mursia,. Milano 1976). Hisloire de la propagande, PUF, Paris 1967 (ed. il. Storia della p'OJMganda, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1983).
SooOWGIA
lA technique ou l'enjeu du sièc/e, Armand Colin, Paris 1954 (ed. il. La tecnica. Rischio del secolo, Giuffrè, Milano 1%9). Propagandes, Armand Colin, Paris 1962. L'illusion po/itique, Roberl Laffont, Paris 1965 (nuova ed. La Table Ronde, Paris 2004).
Extgke des nouVt'aux Iieux communs, Calmann-Uvy, Paris 1966 (nuova ed. La Table Ronde, Paris 1994).
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IS/.AM E. CRISTIANESIMO
Métamorphoses du oourgeois, Calmann-Lévy, Pans 1966 (nuova ed. La Tablc Ronde, Paris 1998; ed. it. Metamorfosi del borghese, Giuffrè, Milano 1979). Autopsie de la Révolution, Calmann-Lévy, Paris 1969. Jeunesse dé/illquante, Mcrcure de France, Paris 1971 (in collaborazione con Yves Charrier), De la réoolution aux réooltes, Calmann-Lévy, Paris 1972. Les nouveaux possédts, Fayard, Pans 1973. Trahison de l'Occident, Calmann-Lévy, Paris 1975 (ed. it. 1/ tradimento dell'Occidente, Giuffrè, Milano 1977). Le système lechnicien, Calmann-Lévy, Paris 1977 (nuova ed. Le Cherche-Mi-
di, Paris 2(04).
L'idio/agie marxiste chrétienne: qUt Jail-on de l'Évangile?, Bayard-Le Centurion, Paris 1979.
L'empire du non-sens: l'art et la sodété technicienne, rup, Paris 1980. ÙI parole Ilumiliée, Le Seuil, Paris 1981. Changer de révolution. L'iné/uclable pro/étariat, Le Seuil, Paris 1982. Le bluff technologique, Hachctte, Pans 1988. Dévumces et dévianfs, Eres, Toulouse 1992. Ul pensée marxistc. Cours professé à /'lnstitut d'études politiques de Bordeaux de 1947 à 1979, La Table Ronde, Paris 2003.
TEOlQGtA
Le fondement théologique du droit, Delachaux, Paris 1946. Présence au monde moderne, Roulet, Genève 1948 (nuova ed. Presses Bibliques Univcrnitaires, Genève 1988). Le LiVTe de Jonas, Fai et Vie, Paris 1952. L'homme el l'argent, Delachaux, Paris 1953 (nuova ed. Presscs Bibliques Universitaires, Genève 1979). Le vouloir et le !aire (introduction à l'éthique chrétienne), labor & Fides, Paris 1964. Fausse présrnce au monde moderne, e:dilions de l'ERF, Paris 1964. Politique de Dieu, poli/ique des hommes, t:ditions Universitaires, Pans 1966. COlltre Jes vioJents, Bayard-le Centurion, Paris 1972. L'impossib/e Prière, Bayard-Le Centurion, Paris 1972. L'éthique de la liberté, 3 voll., Labor & Fides, Paris 1974-1981. Sans feu ni /ieu. Théologiede la ville, Gallimard, Paris 1975 (nuova ed. La Table Ronde, Paris 2003).
OPERE DI IACQUE S ELLUL
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L'espérance aubliie, Gallimard, Paris 1975 (ed. il. La spertmm dimeulicata, Queriniana, Brescia 1975).
L'Apocalypse: archi/eclure en mouvement, Desclée de Brouwer, Paris 1975. La foi au prix de dou/e: encore quarante jours .. ., Hachette, Paris 1980. Les combats de la liberté, Le Centurion, Paris 1984. La subversion du christianisme, Le SeuiL Paris 1984 (nuova ed. La Table Ronde, Paris 2001). Conférence sur l'Apoca/ypse de Jran, ÉdHions de)' AREFPPI, Nantes 1985. La ralson d '~lre: médi/ation sur l'Ecc/ésiaste, Le Seui}, Paris 1987. La gen~ aujourd'hui, Éditions de l'AREFPPl, Nante8 1987. Anarchie et christinnisme, Atelier de Creation Libertaire, Lyon 1988 (nuova ed. La Table Ronde, Paris 1998; ed. il. Anarchia e cristianesimo, E1èuthera, Milano 1993). Si tu es le Fils de Dieu. Souffrances et tentations de Jésus, Bayard-Le Centurion, Paris 1991. Ce Dieu injusfe.. .? Théologie chrétienne poUT le peuple d'Israifl, Arléa, Paris 1991.
VARIA
A temps
à contretemps. Enlreliens avec MadcIeine Garrigou-lAgrange, Le Centurion, Paris 1981Un chrétien pour lsrai!l, Éditions du Rocher, Monaco 1986. L'homme à lui-meme. Correspondance Jacques fUul et Didier Nordon, Éditions du Fé1in, Paris 1992. CHA!o1l:'.NET Patricl<.. Entretiens avcc Jacques ElluI, La Table Ronde, Pans 1994. Silences, Opales, Pessac 1995. Oratorio: les qU1Jtre alValiers dd'Apocalypse? Opales, Pessac 1997. ef
Su JACQUE$ ELLUL
CHASTENET Patrick, Lire El/ul, Presses Univcrsitaires de Bordeaux, Bordeaux 1992. PORQua ]ean-Luc, L'homme qui avait presque tout prévu, Le Cherche-Midi, Paris 2003. Les cahiers lacques EIIIII, Association intemationale Jacques ElIul, 21 rue Brun, 33800 Bordeaux.
Indice
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Prefazione di Alain Besançon
29
Premessa di Dominique Ellul I TRE PILASTRI DEL CONFORMISMO
43 55
Introduzione Siamo tutti figli di Abramo
67 87
TI monoteismo Le religioni del Libro ApPENDICE
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Prefazione di Jacques Ellul per il libro di Bat Ve'or «'!be Dhimmi. Jews and Christians Under Islam»
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Opere di Jacques Ellul