ALFRED E. VAN VOGT LA CITTÀ IMMORTALE (The Beast, 1963)
CAPITOLO PRIMO Il motore grigiazzurro giaceva semisepolto sul...
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ALFRED E. VAN VOGT LA CITTÀ IMMORTALE (The Beast, 1963)
CAPITOLO PRIMO Il motore grigiazzurro giaceva semisepolto sul fianco verde della collina. Vi giaceva in quella estate del 1972: era una cosa priva di anima, fatta di metallo e di energie potenti quasi quanto la vita stessa. La pioggia batteva sulla sua forma insensata. Il sole di luglio e poi il sole di agosto l'investiro-no con tutta la loro violenza. Di notte, le stelle si riflettevano debolmente sul metallo, senza curarsi del suo destino. La nave che quel motore aveva spinto stava scendendo nell'atmosfera terrestre, quando il meteorite era piombato attraverso il blocco che lo teneva a posto. Immediatamente, con forza irresistibile, il motore aveva fatto a pezzi ciò che ancora rimaneva della struttura ed era precipitato attraverso la falla spalancata dal meteorite, giù, verso la Terra. Da molte settimane, giaceva sulla collina, apparentemente privo di vita, ma in realtà vivo, pieno di titaniche energie. C'era polvere entro il suo campo di forza, così compatta che sarebbero occorse speciali facoltà per-cettive per vedere con quanta rapidità stava ruotando. Neppure i ragazzi che un giorno vennero a sedersi su una flangia del motore notarono le con-vulsioni della polvere. Se uno di loro avesse infilato una mano sudicia nell'inferno di energia che era il campo di forza, muscoli, ossa e sangue ne
sarebbero sprizzati come gas in esplosione. Ma i ragazzi si allontanarono, e il motore era ancora lì, il pomeriggio in cui i ricercatori passarono ai piedi della collina. La possibilità della scoperta era vicinissima. I cercatori erano due, forse un po' stanchi in quell'ora tarda; tuttavia erano osservatori abilissimi, che ispezionarono ansiosi la collina. Ma una nube stava velando lo splendore del sole, e gli uomini passarono oltre, senza vedere. Una settimana più tardi, sempre nel pomeriggio avanzato, un cavallo che saliva la collina scavalcò la massa sporgente del motore. Il cavaliere si accinse a scendere, in un modo sbalorditivo. Con una mano afferrò il pomo della sella e si sollevò. Con disinvoltura e agilità ruotò la gamba sinistra, si tenne librato a mezz'aria, poi si lasciò cadere al suolo. Quello spiegamento di energia sembrava non comportare il minimo sforzo, tanto più che quel gesto era automatico. La sua attenzione era interamente concentrata sull'oggetto posato al suolo. Il suo volto magro si contrasse, mentre esaminava la macchina. Si guardò intorno, socchiudendo gli occhi. Poi sorrise sardonicamente, quando comprese il pensiero che gli sorgeva nella mente. Alla fine alzò le spalle. Era poco probabile che qualcuno lo vedesse lì. La città di Crescentville di-stava più di un chilometro e mezzo, e non c'era segno di vita attorno alla grande casa bianca che
sorgeva tra gli alberi, circa cinquecento metri verso nordest. L'uomo era solo, con il suo cavallo e la macchina. E dopo un attimo, la sua voce echeggiò, carica di fredda ironia, nell'aria del crepuscolo. — Bene, Dandy, ecco un lavoro per noi. Questo rottame dovrebbe procurarti un bel mucchio di cibo. Lo trascineremo fino dal rigattiere, quando sarà buio. In questo modo, lei non lo saprà, e noi potremo salvare ciò che resta del nostro orgoglio. Si interruppe. Involontariamente, si voltò a guardare la tenuta che si stendeva per una ampiezza di quasi un chilometro e mezzo tra lui e la città. Una staccionata bianca, nebbiosa e simile a una aureola nel crepuscolo, tracciava un vasto circuito attorno a una zona verdeggiante di alberi e di pascoli. La staccionata spariva tra i fossati e gli arbusti; si perdeva, a nord, aldilà della maestosa casa bianca. L'uomo brontolò impaziente: — Che sciocco sono stato, a rimanere a Crescentville per aspettarla. — E tornò a guardare il motore. Bisogna che mi renda conto del suo peso, pensò. Poi: Chissà che cos'è.
Salì in cima alla collina e ne ridiscese, portando un bastone lungo circa un metro e dal diametro di quasi dieci centimetri. Cominciò a liberare il motore dal suolo in cui era affondato. Era un lavoro difficile da farsi, con il solo braccio sinistro. E così, quando notò il foro ingorgato di terra, al centro, vi piantò il bastone per servirsene come di una leva. Il suo grido di sorpresa e di dolore echeggiò, rauco, nell'aria della sera. Perché il legno sussultò. Come una pallottola distorta dalla canna rigata di un fucile, come la lama d'una zangola, gli sobbalzò nella mano, tagliente come un trincetto, bruciante come il fuoco. Fu sollevato in alto, in alto e fu scagliato per sei metri lungo la discesa della collina. Gemendo, stringendo contro di sé la mano straziata, si rimise in piedi, incespicando. Il suono gli si spense sulle labbra, poi, non appena il suo sguardo si posò sulla cosa pulsante e vorticante che era stata un morto ramo d'albero; spalancò gli occhi. Risalì, tremante, sul cavallo nero. Riparandosi la mano insanguinata, battendo le palpebre per il dolore, spronò l'animale giù per la collina, verso la strada che portava alla città. Con l'equipaggiamento per Dandy, preso a nolo da un contadino, la fune e il paranco, una mano irrigidita nella
fasciatura e ancora intorpidita per il dolore... un viaggio attraverso l'oscurità, con una cosa che sussultava sulla slitta... per tre ore Pendrake si sentì una creatura in un incubo. Ma adesso il motore era sul pavimento della sua stalla, al sicuro da ogni possibilità di scoperta, a eccezione del suono che sgorgava dal pezzo di legno prigioniero nel suo campo di forza. Adesso gli pareva strano il modo in cui aveva lavorato la sua mente. La decisione di trasportare in segreto il motore fino alla sua casetta era stata come scegliere tra la vita e la morte, come raccogliere in fretta un biglietto da cento dollari in una strada deserta: un atto così automatico da trascendere la necessità della logica. E gli sembrava ancora naturale come il vivere. La luce gialla della lanterna riempiva l'interno di quella che un tempo era stata una rimessa e un'officina privata. In un angolo c'era Dandy, dal nero mantello lucente, gli occhi scintillanti quando girava la testa per guardare la cosa che condivideva con lui il suo alloggio. L'odore del cavallo, non spiacevole, era più intenso, ora che la porta era chiusa. Il motore stava accanto alla porta, rovesciato su un fianco. E il guaio peggiore era che il pezzo di legno che vi era infisso non era diritto. Oscillava nell'aria come una caricatura d'un propulsore, battendo l'atmosfera e traendone un suono con la violenza e la velocità della sua rotazione. Pendrake calcolò che quella velocità corrispondesse a
circa quattromila rivoluzioni al minuto. Rimase ritto, immobile, cercando di comprendere la natura d'una macchina che poteva afferrare un pezzo di legno e farlo ruotare così violentemente. Quel pensiero non lo condusse a nessun risultato apprezzabile. L'espressione preoccupata del suo viso s'incupì, mentre guardava il pezzo di legno, in quel moto confuso. Non riusciva ad afferrarlo. E, anche se al mondo c'erano senza dubbio molti strumenti che avrebbero potuto afferrare un oggetto ruotante e strapparlo via, non erano a sua disposizione, lì in quella stalla illuminata da una lanterna. — Deve esserci un comando, — pensò Pendrake. —
Qualcosa che possa interrompere l'energia. Ma l'involucro esterno, grigiazzurro, dalla forma di ciambella, era liscio come vetro. Persino le flange che sporgevano alle estremità e in cui c'erano i fori per i bulloni sembravano crescere dall'involucro, come se fossero state modellate dallo stesso blocco di metallo, come se vi fosse stato un progetto originale fluentissimo, che aveva abolito tutto ciò che non fosse uni-tario. Sconcertato, Pendrake girò attorno alla macchina. Gli pareva che il problema fosse insolubile per un uomo che aveva, come unico strumento disponibile, una sola mano ferita e fasciata. Notò qualcosa. La macchina era posata sul pavimento, solidamente, pesantemente. Non vibrava, non sussultava. Non faceva il minimo sforzo per iniziare un lieve movimento
di reazione in opposizione alla cosa pazzamente ruotante che sporgeva dal suo stesso centro. Il motore ignorava la legge secondo cui azione e reazione sono eguali e contrarie. Rendendosi bruscamente conto delle possibilità di quella situazione, Pendrake si chinò e sollevò il blocco metallico. Immediatamente lame di dolore gli colpirono la mano. Le lagrime gli riempirono gli occhi. Ma quando, alla fine, lasciò la presa, il motore era appoggiato su una delle sue quattro serie di flange. E il legno contorto continuava a ruotare, non più verticalmente, ma in una posizione più o meno orizzontale rispetto al pavimento. La pulsazione di dolore nella mano di Pendrake rallentò. Si asciugò le lacrime e si accinse a compiere il secondo passo, seguendo il piano che gli era scaturito in mente. Chiodi! Li cacciò nei fori, li ribatté sopra il metallo. Questo gli servì per assicurarsi che il motore - la cui base era molto stretta - non si rovesciasse, se per caso lui avesse urtato con troppa forza sull'involucro esterno. Poi prese una cassetta. Deposta sul fianco, nel senso della lunghezza, arrivava, in altezza, a circa un centimetro dal centro esatto del grande foro da cui sporgeva, sul lato opposto, il pezzo di legno. Due libri tenevano fermo un
pezzo d'un tubo, lungo circa trenta centimetri e dal diametro di un paio di centimetri. Era doloroso impugnare il piccolo martello con la mano sofferente, ma Pendrake colpì con forza. Il pezzo di tubo rinculò, sotto il colpo di martello, urtò il legno incastrato nel foro del motore e lo fece schiz-zare fuori. Vi fu un botto fragoroso che scosse il piccolo edificio. Dopo un attimo, Pendrake si accorse che nel soffitto c'era una lunga fenditura scheggiata, attraverso la quale il pezzo di legno lungo un metro era schizzato via, dopo aver urtato il pavimento. Lentamente, la sua mente gravitò, riverberando, all'unisono con il silenzio che stava scendendo attorno a lui. Pendrake trasse un profondo respiro. C'erano ancora molte cose da scoprire, un intero mondo meccanico da esplorare. Ma una cosa pareva chiara: lui aveva do-minato il motore. A mezzanotte era ancora sveglio. Continuava ad alzarsi, a deporre la ri-vista che stava leggendo, per andare nella cucina buia della sua casetta a guardare, fuori, la rimessa ancora più buia. Era una notte quieta. Nessun malandrino disturbava la pace della piccola città. Ogni tanto, si udiva in distanza il rumore d'una macchina che passava. Pendrake cominciò a comprendere il pericolo psicologico quando, per la decima volta, si trovò con il volto appoggiato contro il freddo vetro della finestra della cucina. Imprecò a voce alta e ritornò in soggiorno. Cosa stava
cercando di fare? Non poteva sperare di tenere quel motore. Doveva essere un'invenzione nuova, una radicale scoperta del periodo postbellico finita su quella collina in seguito a un incidente di cui uno sciocco come lui, che non leggeva mai i giornali e non ascoltava mai la radio, non poteva sapere nulla. In casa, ricordò, c'era un New York Times che lui aveva comprato non molto tempo prima. Trovò il giornale nello scaffale delle riviste, insieme a tutti gli altri vecchi giornali e alle riviste che aveva comprato di tanto in tanto, e che non aveva mai letto. La data era del 7 giugno 1971, e adesso si era al 16 agosto. Non c'era poi una grande differenza.
Ma non era il 1971. Era il 1972. Con un grido, Pendrake balzò in piedi, poi si lasciò lentamente ricadere sulla sedia. E allora ebbe l'ironica visione, il caleidoscopio dell'esistenza di un uomo così poco toccato dalla frizione del tempo che quattordici mesi erano scivolati attorno a lui come se fossero stati soltanto quattordici giorni. Era un cane pigro e miserabile, pensò Pendrake, che si serviva della sua mutilazione e del rancore d'una donna come di pretesti per continuare a vegetare. Ma tutto era finito. Tutto. Avrebbe ricominciato... Si accorse di avere in mano il giornale. E la collera lo lasciò mentre con un senso di eccitazione crescente cominciava a guardare i titoli: IL PRESIDENTE FA
APPELLO ALLA NAZIONE PER UN NUOVO SFORZO INDUSTRIALE IL REDDITO NAZIONALE DI UN TRILIONE DI DOLLARI È SOLO UN INIZIO, DICE JEFFERSON DAYLES 6.350.000 CAROVANE-RAZZO PER FAMIGLIA VENDUTE NEI PRIMI CINQUE MESI DEL 1971 Pendrake pensò, a questo punto, che in effetti lui era strisciato via, rifu-giandosi in quella casetta, quasi fuori del mondo, ma la vita era andata avanti, dinamica. E in qualche luogo, non molto tempo prima, un'invenzione titanica era scaturita da quell'incalzante marea di volontà e di ambizione e di genio creativo. L'indomani avrebbe cercato di ottenere un'ipoteca sulla sua casetta. Questo gli avrebbe procurato un po' di contanti e avrebbe spezzato per sempre la sua schiavitù verso quel luogo. Avrebbe mandato Dandy a Eleanor così come lei glielo aveva mandato tre anni prima, senza una parola. I verdi pascoli della tenuta sarebbero stati un paradiso per un cavallo che aveva sofferto la fame ormai per troppo tempo, vivendo con una minima parte della pensione di un ex pilota. Probabilmente si addormentò su quel pensiero. Perché si
svegliò alle tre del mattino, coperto del sudore della paura. Si lanciò nella notte, aprì a un-ghiate la porta della stalla prima di rendersi conto che era stato soltanto un brutto sogno. Il motore era ancora lì, con il tubo lungo trenta centimetri incastrato nel campo di forza. Nella luce della lampada tascabile, il tubo scintillava mentre ruotava; splendeva d'un chiarore bruno che era difficile riconciliare con l'oggetto di metallo, sporco di terra e arrugginito che aveva tirato fuori dalla cantina. Dopo un attimo, Pendrake notò, per la prima volta, che il tubo ruotava molto più lentamente di quanto avesse ruotato il pezzo di legno: la velocità era ridotta a circa un quarto, non più di millequattrocento o millecinquecento rivoluzioni al minuto. La velocità della rotazione doveva dipendere dal materiale, doveva essere basata sul peso atomico o sulla densità, o su qualcosa del genere. Incerto, convinto che non era prudente farsi vedere in giro a quell'ora, Pendrake chiuse la porta e ritornò in casa. Non provava collera verso se stesso, neppure per la breve frenesia che l'aveva spinto a correre fuori, nella notte. Ma i significati impliciti di quegli eventi erano inquietanti. Sarebbe stato duro, per lui, cedere quel motore al suo legittimo proprietario.
CAPITOLO SECONDO Il giorno seguente Pendrake si recò, per prima cosa, negli uffici del giornale locale. Quaranta numeri arretrati del settimanale di Crescentville, Cla-rion, non contenevano nessuna notizia che lo interessasse. Lesse le prime due pagine di ogni edizione, senza lasciarsi sfuggire un solo titolo. Ma non c'era nessuna notizia di un incidente aereo, né il minimo riferimento a una grande nuova invenzione nel campo dei motori. Alla fine uscì, nella mattina d'agosto, allegro e soddisfatto. Era difficile crederlo. Eppure, se continuava veramente così, il motore sarebbe stato suo! Dagli uffici del giornale si recò alla filiale locale di una banca nazionale. Il funzionario addetto ai prestiti sorrise debolmente mentre Pendrake for-mulava la sua richiesta, poi lo condusse dal direttore. — Signor Pendrake — disse il direttore, — non è necessario che lei accenda un'ipoteca sulla sua casetta. Lei ha un conto molto cospicuo, qui. Si presentò come Roderick Clay e proseguì: — Come sa benissimo, quando lei andò in Cina con
l'aviazione, rinunciò a tutti i suoi averi in favore di sua moglie, con l'eccezione della casetta in cui abita ora. E, a quanto mi sembra di capire, questa fu un'omissione involontaria. Pendrake annuì; non osava parlare. Ormai sapeva ciò che stava per udire; e le parole del direttore valsero soltanto a confermare ciò che aveva compreso. — Alla fine della guerra — disse il direttore, — pochi mesi dopo che lei si separò da sua moglie, la signora le riassegnò segretamente l'intera proprietà, comprese le azioni, i buoni del Tesoro, i contanti, i terreni e la tenuta Pendrake, con la clausola che lei non sarebbe stato informato fino a che non avesse dimostrato, in un modo o nell'altro, di avere bisogno di danaro. La signora stabilì che, nel frattempo, si sarebbe trattenuta una minima parte del reddito, per provvedere al proprio mantenimento e alla manutenzio-ne della villa Pendrake. — Posso affermare — il direttore era blando, orgoglioso, soddisfatto del modo in cui conduceva un colloquio che doveva avere preparato per molto tempo, nei suoi momenti d'ozio, — che i suoi affari hanno prosperato insieme a quelli del nostro paese. Le azioni, i buoni del tesoro e il danaro liquido ammontano a circa un milione e duecentoventiquattromila dollari.
Vuole che incarichi un impiegato di prepararle un assegno? Quanto le occorre? Fuori faceva più caldo. Pendrake ritornò alla sua casetta, riflettendo. Avrebbe dovuto sapere che Eleanor avrebbe fatto qualcosa del genere. Quelle donne intense, introverse, incapaci di dimenticare... Il giorno in cui le aveva fatto visita, era stata fredda, remota, incapace di uscire dalla sua corazza di riserbo. Eppure sapeva di essersi messa, finanziariamente, nelle mani di lui. Avrebbe dovuto pensare a ciò che significava quel gesto, avrebbe dovuto trovare un modo di avvicinarla, stabiliare in anticipo le parole e le azioni più adatte. E, intanto, c'era il motore. Il motore era ancora dove l'aveva lasciato. Gli lanciò una rapida occhiata, poi richiuse di nuovo la porta. Mentre tornava verso la cucina accarezzò Dandy, che era chiuso nel praticello sul retro. Quando fu rientrato in casa cercò e trovò l'indirizzo d'una società di brevetti che aveva sede a Washington. Era stato in Cina insieme al figlio d'uno dei dirigenti. Scrisse una lettera, un po' impacciato. Mentre si dirigeva verso l'ufficio postale per spe-dirla, si fermò all'unica officina del paese e ordinò una specie di volante, capace di ruotare insieme all'oggetto cui venisse collegato. La risposta alla sua lettera arrivò due giorni dopo, prima che il «volante» fosse completato. La lettera diceva:
Caro signor Pendrake, in riferimento alla sua richiesta, abbiamo incaricato gli addetti all'Ufficio Ricerche di occuparsi del suo problema. Sono stati e-saminati tutti i documenti relativi a motori brevettati negli ultimi tre anni. Inoltre, ho avuto un colloquio personale con il direttore dell'apposito dipartimento dell'Ufficio Brevetti. Di conseguenza, sono in grado di affermare con sicurezza che dopo la guerra non sono state brevettate invenzioni importanti relative ai motori, a eccezione di alcune varianti di reattori. Per conoscenza includiamo alla presente le copie di novantasette recenti brevetti di motori, scelti tra varie migliaia dai nostri dipendenti. La fattura le verrà inviata separatamente. La ringraziamo del suo assegno anticipato di duecento dollari.
suo N. V. Hoskins P.S. - Credevo che fossi morto. Avrei giurato di aver visto il tuo nome in uno degli elenchi dei dispersi dopo che io fui tratto in salvo, e da allora ti ho pianto per morto. Ti scriverò una lunga lettera entro questa settimana. In questo momento ho in pugno il mondo dei brevetti, ma non fisicamente... soltanto il grande Jim Pendrake potrebbe farlo. Tuttavia, sto recitando la parte di un At-lante della mente, e parecchia gente mi ha guardato brutto perché ho
dato la precedenza alla tua richiesta. E questo spiega perché la fattura è così salata. Arrivederci, per il momento. NED Pendrake si sentì soffocare, mentre leggeva e rileggeva la lettera. Lo faceva soffrire il pensiero di essersi tagliato fuori da tutti i suoi amici. La frase «il grande Jim Pendrake» lo spinse a lanciare involontariamente uno sguardo alla manica destra, vuota, del suo maglione. Sorrise, cupo. Passarono parecchi minuti prima che si ricordasse del motore.
Ordinerò uno chassis di automobile, pensò allora. E un aereo senza motore, e sbarre di molti metalli... per prima cosa debbo fare parecchie prove, naturalmente. Si interruppe, spalancando gli occhi al pensiero di tutte le possibilità che gli si offrivano. La vita si riapriva davanti a lui. Ma era stranamente difficile accettare che il motore non aveva altro proprietario, all'infuori di lui. Due giorni dopo andò a prendere il suo «volante». Mentre spiegava un pezzo di stoffa per avvolgerlo, Pendrake udì un rumore. Poi la voce di un giovane disse, alle sue spalle: — Che cos'è quello? Si stava facendo buio, e il camion che aveva noleggiato sembrava quasi informe, nella notte che scendeva.
Accanto a Pendrake incombeva l'officina, un edificio tetro e rozzo. Le luci nell'interno dell'officina splendevano debolmente dalle finestre sporche. I dipendenti dell'officina, che avevano caricato il volante sul camion, erano rientrati attraverso la porta: sentiva ancora echeggiare nelle orecchie i loro rauchi saluti. Pendrake era solo con l'uomo che gli aveva rivolto quella domanda. Con un gesto deliberato e rapido insieme tirò la tela sul volante e si volse a guardare l'uomo che gli aveva parlato. L'uomo stava nell'ombra: era alto, poderoso. La luce del lampione più vicino si rifletteva sugli zigomi alti, ma era difficile distinguere i contorni di quel viso. Fu l'aria intenta di quell'uomo, che fece rabbrividire Pendrake. Non era una curiosità oziosa, ma un interesse, una decisione sorprendente e diretta. Pendrake riacquistò con uno sforzo il controllo di sé. — E a lei che gliene importa? — disse, con voce secca e sbrigativa. Salì nella cabina. Il motore ronzò. Pendrake manovrò goffamente il pulsante dei comandi, e il camion si mise in moto. Poteva vedere l'uomo nello specchietto retrovisore; era ancora ritto nell'ombra dell'officina: una figura alta e forte. Lo sconosciuto si avviò lentamente nella stessa direzione
in cui stava guidando Pendrake. Un secondo più tardi Pendrake svoltò a un angolo e proseguì in una strada laterale. Fa-rò un giro vizioso, pensò, per raggiungere
casa mia, poi riporterò in fretta il camion all'uomo che me lo ha noleggiato e poi... Qualcosa di umido gli sgocciolò lungo le guance. Lasciò andare il volante e si toccò il viso. Era coperto di sudore. Rimase immobile. Sono pazzo? pensò. Non posso credere che qualcuno stia cercando il
motore, in segreto. I suoi nervi scossi si quietarono, lentamente. Ciò che alla fine lo convin-se fu la coincidenza della presenza di quell'uomo accanto a un'officina d'un paesetto nel preciso istante in cui vi si trovava Jim Pendrake. Era come un vecchio melodramma in cui i cattivi seguivano costantemente l'eroe che non sospettava di nulla. Ridicolo! Eppure, quell'episodio sottolineava un aspetto importante del suo possesso di quel motore. Quel motore doveva pure essere stato costruito da qualche parte. E da qualche parte doveva pu-re esistere il suo proprietario. Non doveva mai dimenticarlo. L'oscurità della notte si era fatta più fonda quando Pendrake entrò finalmente nella rimessa-stalla e accese la luce che aveva installato quello stesso giorno. La lampada
da duecento watt emetteva una luce simile a quella solare, che in un certo senso rendeva la piccola stanza ancora più estranea di quanto fosse mai apparsa alla luce della lanterna. Il motore era esattamente dove l'aveva inchiodato la prima notte. Sembrava un pneumatico molto gonfio per una ruota piccola e larga; una grande ciambella azzurrogrigia coperta di glassa. Se si eccettuavano le quattro serie di flange e le proporzioni, la somiglianza con una ciambella era sbalorditiva. Le pareti si incurvavano verso l'alto, a partire dal foro centrale; lo stesso foro era soltanto un po' più piccolo di quello che avrebbe dovuto essere se le proporzioni fossero state perfette. Ma qui finiva la somiglianza con qualcosa di noto. Il foro era la cosa più straordinaria che fosse mai esistita. Aveva un diametro di circa quindici centimetri. Le sue pareti interne erano lisce, traslucide, non metalliche, all'apparenza; e nel suo centro geo-metrico galleggiava il pezzo di tubo da idraulico. Il tubo era letteralmente sospeso nello spazio, trattenuto da una forza che pareva non avere origine. Pendrake trasse un respiro lento e profondo, prese il martello, lo posò delicatamente sull'estremità sporgente del tubo. Il martello gli sobbalzò nella mano, ma lui sopportò gli aghi pulsanti di dolore, ed esercitò una pressione. Il tubo continuò a girare, senza arrestarsi, senza
subire nessun effetto. Pendrake fece una smorfia di dolore e staccò di colpo il martello. Attese, pazientemente, fino a che la mano smise di pulsare, poi sferrò un colpo secco all'estremità sporgente del tubo. Il tubo affondò nel foro, ed emerse, per una lunghezza di venti centimetri, dall'altra parte del motore. Era quasi come far rotolare una palla. Dopo aver preso con cura la mira, Pendrake colpì il tubo dalla parte opposta, e quello schizzò indietro così facilmente che ne spuntarono ben venticinque centimetri, mentre rimaneva nel foro centrale per una lunghezza di soli tre centimetri. Continuò a ruotare come lo stantuffo d'una turbina a vapore; solo, non si udiva un fruscio, neppure il più debole sibilo. Sporgendo le labbra, Pendrake si accosciò sui calcagni. Il motore non era perfetto. La facilità con cui il tubo e, prima ancora, il pezzo di legno erano stati immessi e tolti dimostrava che era necessario un ingranaggio, o qualcosa di simile. Qualcosa che rimanesse saldo anche ad alte velocità, sotto uno sforzo massimo. Si alzò in piedi, assorto. Mise a posto l'arnese che aveva fatto costruire nell'officina. Occorsero parecchi minuti per regolare la ruota a morsa alla giusta altezza. Alla fine manovrò la leva di controllo. Affascinato, osservò le due metà della ruota chiudersi sul tubo, stringere e
cominciare a ruotare. Una sensazione di calore lo invase. Era il piacere, la soddisfazione maggiore che avesse provato in tre lunghi anni. Dolcemente, Pendrake tirò lo strumento, cercò di trascinarlo con sé sul pavimento. Ma il meccanismo non si mosse. Pendrake si accigliò. Aveva l'impressione che la macchina fosse troppo pesante per una pressione delicata. Qui occorrevano i muscoli, e senza le-sinare. Si fece coraggio e cominciò a dare strattoni energici. Più tardi ricordò di essersi ributtato indietro, sul pavimento, nel tentativo di togliersi di lì. Ricordò di aver visto, mentre il motore si ribaltava, i chiodi con cui era stato assicurato al pavimento sradicarsi tutti assieme. Nell'attimo successivo il motore si sollevò, si sollevò leggermente, in mo-do incomprensibile, staccandosi dal pavimento. Ruotò lento per un attimo, poi cadde pesantemente, e la prima cosa che toccò il pavimento fu il volano. Con uno scroscio, le assi lignee del pavimento si spaccarono. Il cemento che vi stava sotto, e che un tempo era stato il pavimento della rimessa, si scheggiò con un rumore stridente, mentre il volano vi sbatteva contro millequattrocento volte al minuto. Il metallo cigolava, torturato, e si spezzava in frammenti, con un gemito straziante di morte. La confusione del fra-stuono e della
polvere, del cemento sminuzzato e del metallo causò, per pochi attimi, lo stordimento di Pendrake. Il silenzio ricadde sulla scena come la notte che segue una giornata di battaglie: un silenzio teso, innaturale. C'era del sangue, sul fianco tremante di Dandy, dove qualcosa lo aveva ferito. Pendrake calmò il cavallo atterrito, mentre valutava la portata di quella distruzione. Vide che il motore era posato al suolo, evidentemente non toccato dalla propria violenza. Era una cosa scintillante, nella luce della lampada elettrica miracolosamente intatta. Gli occorse mezz'ora per trovare tutti i pezzi di quello che era stato il volano. Raccolse i pezzetti uno a uno e li portò in casa. Il primo, vero espe-rimento con la macchina era finito. Con successo, stabilì. Si sedette nell'oscurità della cucina, in attesa. I minuti ticchettarono via. E fuori non c'era il minimo movimento. Alla fine Pendrake sospirò. Pareva chiaro che nessuno aveva notato il cataclisma nella sua rimessa. O, se qualcuno l'aveva notato, non si era mostrato curioso. Il motore era ancora al sicuro. L'allentamento della tensione gli ricordò quanto lui fosse solo. All'improvviso, la stessa irrequietudine del silenzio l'oppresse. Provò una brusca, netta convinzione che quella
sua progressiva vittoria sul motore non sarebbe stata affatto piacevole per un uomo isolato dal mondo dal suo carattere malinconico. Dovrei andare a trovarla, pensò, squallidamente. No... non sarebbe servito. Eleanor aveva acquisito un'inerzia emotiva in una data direzione. Non sarebbe servito a nulla andare a trovarla. Ma c'era un'altra possibilità. Pendrake calzò il capello e uscì nella notte. Al drugstore dell'angolo, puntò diritto verso la cabina telefonica. — C'è la signora Pendrake? — chiese, quando risposero alla sua chiamata. — Sissignore! — La voce profonda della donna indicava che c'era almeno una nuova persona di servizio nella grande casa bianca. Non era una voce familiare. — Un momento, signore. Pochi secondi dopo, la splendida voce di contralto di Eleanor disse: — Sono la signora Pendrake. — Eleanor, sono Jim. — Sì? — Pendrake sorrise malinconicamente al lieve mutamento del to-no di lei, alla sfumatura difensiva che vi
era apparsa, improvvisa. — Vorrei ritornare, Eleanor — disse lui, sottovoce. Vi fu silenzio, poi... Click! Quando fu di nuovo fuori, nella notte, Pendrake alzò lo sguardo al cielo stellato. Era di un azzurro scurissimo. L'intero tessuto dell'universo della Terra occidentale era annidato nella notte. Crescentville divideva con l'intera costa orientale l'ombra del grande pianeta madre. Pendrake pensò: forse è stato un errore, ma ora lei lo sa. La mente di Eleanor era probabilmente intorpidita a morte, quando si trattava di pensare a lui. Ma adesso sarebbe ritornata viva. Avanzò a passo sicuro lungo il viottolo che portava alla sua casetta. Quando arrivò in cortile, represse l'impulso di arrampicarsi su un albero da cui avrebbe potuto vedere la grande casa bianca. Si gettò sull'erba fresca del prato, guardò la rimessa e pensò, intimorito: un motore che fa ruotare
qualsiasi cosa inserita nel suo campo di forza o, se incontra resistenza, la fracassa con la facilità d'una energia illimitata. Un motore attraverso il quale è possibile spingere una biella, ma dal quale è impossibile
strapparla via. Questo significa che un propulsore per
aerei deve soltanto venire assicurato a una sbarra di metalli graduati... graduati a seconda del peso atomico e della densità. Qualcuno stava bussando all'ingresso principale della casetta. Pendrake balzò in piedi, subito allarmato. Ma era soltanto un ragazzo con un telegramma che diceva: AEREO MODELLO PUMA CONSEGNATO DOMANI AEROPORTO DORMANTOZN STOP MORSE MOTORE SPECIALE E COMANDI INSTALLATI COME RICHIESTO STOP COSTRUZIONE LEGA MAGNESIO E PLASTICA AEROGEL STOP ATLANTIC AIRCRAFT CORP. Vi andò il giorno seguente, per ricevere l'aereo. Aveva affittato un hangar in fondo al campo, e vi aveva fatto scaricare nell'interno l'aereo. Quando gli uomini che avevano effettuato la consegna se ne furono andati, chiuse a chiave le porte. All'alba del giorno seguente portò il motore e cominciò le laboriose operazioni per installarlo,
con l'attrezzatura che aveva comprato a quello scopo. Occorse molto tempo, per un uomo con un solo braccio; ma Pendrake era perseverante, e portò a termine l'impresa. Quella notte dormì nell'hangar e si alzò quando la prima luce del giorno scintillò sotto la porta. Aveva portato il necessario per prepararsi la colazione; fece un po' di caffè e mangiò, in fretta. Poi aprì le porte dell'hangar e trascinò fuori l'aereo. Fece un semplice volo di prova; per prudenza non superò la quota di millecinquecento metri né la velocità di duecentocinquanta chilometri ora-ri. Era inquietante non sentire il rombo del motore, perciò ridiscese, ansioso, chiedendosi se qualcuno se ne fosse accorto. Immaginò che, anche se non era accaduto quella volta, prima o poi il suo aereo, con quei voli silenziosi, sarebbe stato notato. E ogni giorno che passava, ogni ora in cui si aggrappava al suo segreto, la sua posizione morale sarebbe peggiorata. Qualcuno era proprietario di quel motore. Ne era proprietario e lo voleva. Lui doveva decidere una volta per tutte se doveva informare il pubblico di esserne in possesso. Era tempo di prendere una risoluzione. Si trovò a guardare, corrugando la fronte, i quattro uomini che venivano verso di lui lungo la linea d'ombra. Due di loro portavano una grande cassa di ferri, e uno trascinava un
carrello su cui era ammucchiato altro materiale. Il gruppo si fermò a quindici metri dall'aereo di Pendrake. Poi uno degli uomini si fece avanti, si frugò in tasca. Bussò allo sportello della cabina. — Vorrei chiederle qualcosa! — gridò. Pendrake esitò, imprecando in silenzio. Gli avevano assicurato che nessun altro aveva affittato un hangar in quella parte del campo e che le grandi rimesse lì accanto erano vuote, destinate a venire usate soltanto negli anni futuri. Attivò con impazienza la leva che apriva il portello. — Cosa... — cominciò. Si interruppe, quasi soffocandosi. Fissò la rivoltella che scintillava contro di lui, stretta in una mano salda come la roccia, poi levò lo sguardo verso un viso che - lo notò con un trasalimento improvviso - era coperto da una maschera di carne. — Scenda. Mentre Pendrake scendeva al suolo, l'uomo indietreggiò cautamente, mettendosi fuori della portata del suo braccio; gli altri corsero avanti, tra-scinando il carrello e reggendo i ferri. Caricarono tutto sull'aereo e vi sali-rono. L'uomo che aveva in pugno la pistola si fermò sull'entrata, trasse un piccolo involto dal taschino della giacca e lo buttò ai piedi di Pendrake.
— Questo la ripagherà dell'aereo. E si ricordi: riuscirà soltanto a rendersi ridicolo se insisterà su questa faccenda. Questo motore è in uno stadio spe-rimentale. Vogliamo esplorare ogni possibilità prima di richiedere il brevetto, e non vogliamo accontentarci di semplici brevetti secondari, per mi-gliorie e cose del genere, che potrebbero intralciare il perfezionamento dell'invenzione. È tutto. L'aereo cominciò a muoversi. Si staccò quasi subito dal suolo. Diventò una minuscola macchia nel cielo, a occidente, e fu sommerso nella nebulosità azzurra della lontananza. Il pensiero che colpì finalmente Pendrake fu che qualcun altro aveva deciso per lui. La sensazione della perdita subìta si fece più forte. E anche la vacua sensazione di impotenza. Per un po' rimase a osservare gli aerei che decolla-vano e atterravano sulla pista nord; ma dopo parecchi minuti, non aveva ancora un piano né un'intenzione. Poteva andare a casa. Immaginò se stesso che ritornava nella casetta di Crescentville come un cane bastonato, pensò ai giorni interminabili che lo attendevano. Oppure - e quel tetro pensiero gli fece corrugare la fronte avrebbe potuto rivolgersi alla polizia. L'impulso si fece più profondo, lo spinse a ricordare il pacchetto che gli era stato buttato ai piedi. Si chinò, lo raccolse dalla distesa di
cemento, lo lacerò, contò i biglietti verdi che conteneva. Quando ebbe finito, sul suo volto si dipinse un sorriso ironico. Cento dollari più di quanto aveva speso per il Puma. Ma era una vendita forzata e non contava. Con brusca decisione, Pendrake avviò il motore del camion preso a nolo e si diresse verso la sede della polizia statale a Dormantown. Tutti i dubbi gli si ripresentarono alla mente quando il sergente della polizia prese nota, con molta gravità, della sua denuncia. — Lei dice di aver trovato il motore? — Finalmente il poliziotto arrivò a quel punto. — Sì. — Ha denunciato il ritrovamento alla polizia di stato a Crescentville? Pendrake esitò. Era impossibile spiegare l'istinto che l'aveva indotto a nascondere il suo possesso del motore, ora che non aveva più il motore per dimostrare che si era trattato d'una scoperta insolita. In principio credevo che fosse un rottame — disse, alla fine. — Quando mi sono accorto che non lo era, ho saputo anche che non era stata segnalata la perdita di un oggetto di quel genere.
— E adesso l'hanno i legittimi proprietari? — Direi di sì! — ammise Pendrake. — Ma il fatto che si siano serviti d'una pistola, la loro segretezza, il modo in cui mi hanno costretto a vende-re l'aereo mi fa pensare che dovrei indagare più a fondo. Il poliziotto prese un appunto; poi chiese: — Può dirmi il numero di fabbrica del motore? Pendrake gemette. Alla fine uscì nel giorno che diventava sempre più fulgido, con l'impressione di aver sparato un colpo a casaccio in una notte impenetrabile.
CAPITOLO TERZO Arrivò a Washington con il volo del mattino da Dormantown e andò immediatamente all'ufficio della Hoskins, Kendlon, Baker & Hoskins, procuratori di brevetti. Un attimo dopo che il suo nome era stato annunciato, un giovane magro ed elegantissimo piombò fuori da una porta e attraversò a grandi salti l'anticamera. Ignorando lo scandalizzato sbalordimento dell'usciere, gridò con voce penetrante: — L'Uomo d'Acciaio dell'Aviazione! Jim, io... Si interruppe, i suoi occhi azzurri si spalancarono. Le sue guance perdettero un po' di colore: fissò, con espressione stordita, la manica vuota di Pendrake. Senza dir nulla, lo condusse nel suo ufficio privato. — L'uomo che strappava le maniglie dalle porte quando aveva fretta — mormorò, — e stritolava tutto quello che aveva tra le mani, quando era agitato... — Si scosse, si liberò con uno sforzo da quella tristezza. — Come sta Eleanor, Jim? Pendrake sapeva che l'inizio sarebbe stato duro. Spiegò, il più brevemente possibile: — Sai che tipo era. Aveva quel lavoro nell'ufficio ricerche dell'Enciclopedia Hilliard, una esistenza fuori dal mondo da cui io l'avevo strappata e...
Si interruppe, alzò le spalle e proseguì: — Poi scoprì, in qualche modo, che c'erano altre donne. Non so chi glielo abbia detto. Mi mostrò una lettera e mi chiese se era vero... Hoskins disse, gentilmente: — Siamo stati tre anni in Cina. Io ho avuto una decina di donne, in quel periodo; un paio erano anche ragazze per be-ne. Ne avrei sposata una, se non fossi già stato sposato. Cosa diceva quella lettera, e da chi proveniva? — Non la lessi — rispose Pendrake. E sospirò. — Non so perché mi ero innamorato di Eleanor. Forse mi ricordava mia madre. Riusciva a fare apparire trascurabili le altre donne. Ma lasciamo perdere. Senza preamboli, si lanciò in una descrizione particolareggiata del motore. Prima che avesse finito di raccontare la sua storia, Hoskins stava camminando nervosamente avanti e indietro. — Una fazione segreta con un motore nuovo, meraviglioso. Jim, mi sembra una cosa enorme. Ho buone amicizie nell'Aviazione e conosco il Commissario Blakeley. Ma non c'è tempo da perdere. Hai molto danaro? Pendrake era dubbioso. — Dipende da quello che intendi per «molto».
— Intendo dire che non possiamo perdere tempo con le pratiche buro-cratiche. Puoi investire cinquemila dollari per una macchina fotografica elettronica? Sai, quella che inventarono verso la fine della guerra con la Ci-na. Forse ne varrà la pena, forse no. L'importante è che tu torni sulla collina dove hai trovato il motore e fotografi gli elettroni del suolo. Dobbiamo avere una foto del motore per convincere i cinici che credono soltanto a ciò che vedono, e che non ti danno retta se non gli porti prove convincenti. L'energia e l'interessamento di quell'uomo erano contagiosi. Pendrake balzò in piedi. — Me ne vado immediatamente. Dove posso trovare una di quelle macchine fotografiche? — In città c'è una ditta che le vende al governo e alle varie istituzioni scolastiche per ricerche geologiche e archeologiche. E adesso ascoltami, Jim: mi dispiace mandarti via così in fretta. Vorrei che venissi a casa mia per conoscere mia moglie, ma per queste foto è essenziale non perdere tempo. Il terreno è esposto alla luce, e l'immagine diventerà confusa. — Ci vedremo presto — disse Pendrake, e si avviò verso la porta. Le copie delle foto erano splendidamente chiare, l'immagine della macchina era inconfondibile. Pendrake se
ne stava seduto in soggiorno ad am-mirarle quando bussò alla porta un fattorino dell'ufficio telefonico. — C'è un'interurbana da New York per lei — disse. — Chi l'ha chiamato sta aspettando. Vuole venire subito?
Hoskins, pensò Pendrake, anche se non riusciva a immaginare cosa poteva fare a New York. Ma il suono della voce sconosciuta, al telefono, l'agghiacciò. — Signor Pendrake — disse la voce, — abbiamo ragione di credere che lei sia ancora affezionato a sua moglie. Sarebbe molto spiacevole se capitasse qualcosa alla signora soltanto perché lei si immischia in qualcosa che non la riguarda. Stia attento. Si udì uno scatto. Il lieve, secco rumore echeggiava ancora nella mente di Pendrake, qualche minuto più tardi, quando si avviò, stordito, lungo la strada. Era chiara una cosa soltanto: le sue indagini erano finite. I giorni passarono. Non per la prima volta, Pendrake pensò che il motore l'aveva galvanizzato, togliendolo dal suo lungo torpore. E lui si era lanciato nelle indagini con tanta prontezza perché si era reso conto che senza quel motore lui non avrebbe avuto nulla. Era anche peggio. Cercò di riprendere la sua esistenza di un tempo. E non vi riuscì. Le cavalcate su Dandy, quasi insensate, che un tempo erano durate dall'alba al cader della notte cessarono
bruscamente prima delle dieci del mattino, in due giorni consecutivi, e non furono più riprese. Non che non desiderasse più andare a cavallo. Ma la vita era qualcosa di più del sogno di un ozioso. Il sonno durato tre anni era finito. Il quinto giorno arrivò un telegramma di Hoskins. COSA SUCCEDE? ASPETTAVO TUE NOTIZIE. - NED Pendrake stracciò il telegramma, imbarazzato. Aveva intenzione di rispondere, ma si stava ancora stillando il cervello per formulare esattamente la risposta quando, due giorni dopo, arrivò la lettera. «...non riesco a capire il tuo silenzio. Ho interessato alla cosa il Commissario all'Aeronautica Blakeley, e alcuni funzionari dello stato maggiore tecnico si sono già messi a mia disposizione. Se ti-ra avanti così per una settimana farò la figura del matto. Tu hai comperato la macchina fotografica: l'ho controllato. Devi avere le foto, quindi, per amor del cielo fammi sapere qualcosa...». Pendrake rispose in questo modo: «Intendo lasciar perdere la cosa. Mi dispiace di averti disturbato, ma ho scoperto qualcosa che modifica completamente il mio punto di vista sulla faccenda, e non sono autorizzato a rivelare di che si tratta». Sarebbe stato più esatto dire che lui non voleva rivelarlo, ma sarebbe stato inutile dire così. Quegli attivissimi ufficiali
dell'Aeronautica - ai suoi tempi lo era stato anche lui - non si erano ancora messi in testa che la pace era radicalmente diversa dalla guerra. La minaccia contro Eleanor li avrebbe resi soltanto impazienti; se lei fosse stata uccisa o ferita, questo avrebbe significato una perdita così trascurabile da non venire neppure presa in considerazione. Naturalmente, avrebbero preso precauzioni. Ma andassero pure al diavolo! Dopo tre giorni che ebbe spedito la lettera, un tassi si fermò davanti al cancello della casetta e ne scesero Hoskins e un gigante barbuto. Pendrake li fece entrare, fece un quieto cenno di saluto, quando Ned gli presentò il grande Blakeley, e rimase gelido di fronte alle domande dell'amico. Dopo dieci minuti, Hoskins era pallido come un lenzuolo. — Non riesco a capire — delirò. — Hai scattato quelle fotografie, non è vero? Nessuna risposta. — Come sono riuscite? Silenzio. — La cosa che hai scoperto e che ha cambiato il tuo punto di vista... hai ottenuto ulteriori informazioni circa il gruppo che sta dietro quel motore?
Pendrake pensò, angosciato, che avrebbe dovuto mentire più apertamen-te nella sua lettera, invece di fare una dichiarazione stupida e compromet-tente. Ciò che aveva detto era destinato a provocare una intensa curiosità, e la sofferenza di quell'interrogatorio. — Lasci che gli parli io, Hoskins. — Pendrake provò un senso di sollievo quando Blakeley intervenne. Sarebbe stato più facile trattare con uno sconosciuto. Vide che Hoskins scrollava le spalle, mentre sedeva sul divano e accendeva nervosamente una sigaretta. L'uomo cominciò in tono freddo e deliberato. — Credo che ci troviamo di fronte a un caso psicologico. Pendrake, lei ricorda quel tale che nel 1956 o giù di lì affermava di avere un motore che traeva direttamente la sua energia dell'aria? Quando i giornalisti esamina-rono la sua macchina, trovarono una batteria accuratamente nascosta. E poi — continuò la voce fredda e mordente, — c'è stata la donna che, due anni fa, sostenne di aver visto un sommergibile russo nel lago Ontario. Il suo racconto diventò sempre più pazzesco, via via che le indagini della Marina progredivano, e alla fine, la donna ammise di aver raccontato la storia ai suoi amici per attirare la loro attenzione e il loro interesse; e poi quando la faccenda era diventata di dominio pubblico, non aveva avuto il coraggio
di dire la verità. In questo caso, lei è molto più furbo. La portata di quell'insulto accese sul viso di Pendrake un sorriso contorto. Rimase immobile, fissando il pavimento, ascoltando quasi pigramente l'umiliazione verbale cui era sottoposto. Si sentiva tanto lontano da quella voce martellante che la sua sorpresa fu immensa, per un attimo, quando due grandi mani l'afferrarono per il bavero e il bel viso barbuto si accostò bellicosamente al suo, mentre la voce tagliente urlava: — Questa è la verità, non è così? Non si era accorto di essere diventato così nervoso. Non provò nessuna sensazione di furore mentre, con un colpo impaziente della mano, si libe-rava dalla duplice morsa del colosso, lo faceva girare su se stesso, l'affer-rava per il colletto della giacca e lo trascinava, scalciante e urlante e sbalordito, attraverso il corridoio, oltre la porta, fuori, sulla veranda. Vi fu un momento di follia quando Blakeley fu gettato sul prato sottostante. Si rimise in piedi urlando. Ma Pendrake stava già tornando indietro. Sulla porta incontrò Hoskins. Hoskins aveva il soprabito e il cappello a bombetta; e disse, con voce piatta: — Voglio ricordarti qualcosa... — E recitò le parole del giuramento di lealtà verso gli Stati Uniti. E non poté capire di averla spuntata, perché scese i gradini senza voltarsi indietro. Il tassì scomparve prima che Pendrake comprendesse fino a qual punto quelle parole conclusive avessero distrutto la sua
decisione. Quella notte scrisse la lettera a Eleanor. Il giorno seguente si presentò al-l'ora fissata: le tre e mezzo del pomeriggio. Quando una negra grassottella gli aprì la porta della grande casa bianca, Pendrake ebbe la fuggevole impressione di essere sul punto di sentirsi annunciare che Eleanor era fuori. Invece venne condotto attraverso i corridoi che gli erano familiari, fino al soggiorno lungo dodici metri. Le veneziane erano chiuse, per smorzare la luce solare, e a Pendrake occorse un attimo per distinguere nella penombra la figura della donna giovane e snella che si era alzata per accoglierlo. La voce di lei risuonò armoniosa, familiare, interrogativa, nella luce fio-ca. — La tua lettera non spiegava molto. Tuttavia, avevo in ogni caso intenzione di vederti; ma lasciamo perdere. In quale pericolo mi trovo? Ora Pendrake poteva vederla più chiaramente. E per un attimo poté rimanere lì, fermo, a berla con gli occhi... il suo corpo snello, ogni linea del suo viso, i capelli neri che lo coronavano. Si accorse che lei stava arros-sendo sotto quell'attenta osservazione. Cominciò le sue spiegazioni, rapidamente.
— Avevo intenzione — disse, — di lasciar cadere la cosa. Ma quando mi sono convinto di aver concluso la faccenda buttando fuori Blakeley, Hoskins mi ha ricordato il mio giuramento di lealtà verso il mio paese, che ho pronunciato quando sono entrato nell'aviazione. — Oh! — Per il tuo bene e la tua sicurezza — continuò, in tono più deciso, — devi lasciare Crescentville, per il momento; devi perderti nell'immensità di New York fino a che questa faccenda sarà stata esaminata a fondo. — Capisco! — Lo sguardo scuro di Eleanor era neutro. Sembrava stranamente rigida, nella poltrona in cui si era accomodata, come se non si sentisse del tutto a suo agio. Alla fine aggiunse: — Le voci dei due uomini che ti hanno parlato, l'uomo con la pistola e quello che ti ha parlato al telefono... come erano? Pendrake rifletté. — Una era la voce di un giovane. L'altra, la voce d'un uomo di mezza età. — Non intendevo questo. Intendevo dire l'accento, la padronanza della lingua, il grado di istruzione. — Oh! — Pendrake la fissò. Poi disse, lentamente: — Non ci avevo pensato. Sembravano voci di uomini colti.
— Inglesi? — No. Americani. — È questo che intendevo. Non erano stranieri, quindi? — No, affatto. Ora, notò Pendrake, erano entrambi più disinvolti. E fu felice di vedere che Eleanor affrontava con freddezza il pericolo. Dopotutto, non era stata abituata ad affrontare il terrore fisico. Prima che riuscisse a pensare ad altro, lei proseguì: — Quel motore... di che tipo è? Ne hai un'idea? Se ne aveva un'idea! Si era torturato il cervello durante una decina di notti cupe e insonni. — Deve essere il prodotto — disse Pendrake, cautamente, — di un immenso lavoro di ricerca. Nulla di così perfetto potrebbe esistere senza una base poderosa di lavoro e di dati su cui costruire. E anche in questo caso, qualcuno deve avere avuto un'ispirazione di autentico genio. — E aggiunse, pensieroso: — Deve essere un motore atomico. Non può essere null'altro. Non c'è altra possibilità. Eleanor lo fissava, come se non fosse sicura di ciò che
stava per dire. Al-la fine chiese, con tono formale: — Non ti dispiace che ti rivolga queste domande? Pendrake capì cosa intendeva dire. Si era improvvisamente accorta di cominciare a sgelarsi. Accidenti a questa gente ipersensibile! , pensò. Poi disse, con voce pronta e premurosa: — Hai già chiarito alcuni punti importanti. Ma dove questo possa condurre... è un'altra faccenda. Puoi suggerirmi qualcosa d'altro? Vi fu un silenzio. — Mi rendo conto — disse poi lentamente Eleanor, — che non sono qualificata... non ho una preparazione scientifica, ma sono abituata al lavoro di ricerca. Non so se la mia prossima domanda sarà sciocca o no, ma... quale è la data decisiva per un motore atomico? Pendrake corrugò la fronte e rispose: — Credo di capire che cosa intendi. Quale è la data più recente in cui non può essere stato realizzato un motore atomico? — Qualcosa del genere — ammise lei. Gli occhi le brillavano. Pendrake rifletté. — Ho letto molto in proposito, in questi ultimi tempi.
Millenovecento-cinquantaquattro potrebbe andare... ma millenovecentocinquantacinque è più probabile. — Mi sembra un periodo di tempo abbastanza lungo. Pendrake annuì. Sapeva cosa stava per dire Eleanor, ed era esatto, ma attese di sentirlo dire da lei. Eleanor lo fece, dopo un attimo. — Hai la possibilità di controllare l'attività di ogni persona che abbia svolto importanti ricerche in questo paese, dopo quell'epoca? Lui chinò il capo. — Per prima cosa — disse, — andrò a consultare il mio vecchio profes-sore di fisica. È uno di quei vecchi eternamente giovani che si tengono al corrente di tutto. La voce di Eleanor, salda e fredda, lo interruppe: — Intendi svolgere di persona questa ricerca? Mentre concludeva la frase, lanciò senza volerlo uno sguardo verso la manica destra di lui, poi arrossì violentemente. Non c'era dubbio sul ricordo che le attraversava la mente. Pendrake rispose subito, con un lieve sorriso: — Temo che non ci sia nessun altro. Non appena avrò compiuto qualche progresso, andrò da Blakeley e mi scuserò per averlo trattato in quel modo. Fino ad allora, con o senza il braccio destro, dubito che ci
sia qualcuno in grado di farlo meglio di me. — E si accigliò. — Certo, resta il fatto che un uomo mutilato d'un braccio è facilmente individuabile. Eleanor aveva ripreso il controllo di sé. — Stavo per suggerirti di farti applicare un braccio artificiale e una maschera di carne. Quella gente doveva portare maschere da civili, se hai riconosciuto così rapidamente il loro travestimento. Tu puoi procurarti il ti-po del perfetto militare. Si alzò e finì, con voce calma: — In quanto a lasciare Crescentville, ho già scritto alla mia vecchia ditta; mi riassumono nel mio vecchio posto. È per questo che intendevo vederti. Lascerò la casa questa sera, e domani tu sarai libero di compiere le tue indagini. Buona fortuna. Rimasero uno di fronte all'altra; Pendrake era scosso fino in fondo all'anima dalla brusca conclusione dell'incontro e dalle parole di lei. Si separarono come due persone che fossero state sottoposte a una tensione enorme.
E questa, pensò Pendrake mentre usciva nella luce del sole, è la verità. Quella notte rimase a Crescentville. Doveva assumere qualcuno che sor-vegliasse la proprietà durante la sua
assenza; e, fra le altre cose, bisognava riportare Dandy nella stalla della grande casa bianca. Era quasi mezzanotte quando Pendrake fece un bagno, preparandosi ad andare a letto. Si distese nella vasca e sciolse la fasciatura che copriva il moncherino del braccio destro. Da qualche giorno gli aveva dato una sensazione di fastidio, quasi di dolore. Dopo aver tolto la fascia, fece per chinarsi, per im-mergere nell'acqua calda il moncherino, lungo dieci centimetri. Si fermò, di colpo. E guardò, fisso. Poi emise un grido. Si quietò, tremando. E tornò a guardare. Non c'era dubbio. Il braccio si era allungato di cinque centimetri, almeno. E c'era un vago disegno d'una mano e delle dita, minuscolo ma inconfondibile. Sembrava una distorsione della carne liscia. Erano quasi le tre del mattino quando riuscì a rilassarsi abbastanza per dormire. Gli pareva di aver scoperto per mezzo del ragionamento, l'unica possibile causa del miracolo. In tutti quei giorni così eccitanti, si era avvi-cinato soltanto a un oggetto, diverso da tutti gli altri oggetti del mondo: il motore.
Ora doveva scoprire la verità, a qualunque costo. Aveva uno strano pensiero, circa l'appartenenza della macchina. A causa di tutto ciò che era accaduto, a causa della segretezza e delle minacce e adesso di questo evento inspiegabile, era come se avesse acquistato progressivamente dei diritti. E così aveva la netta convinzione, mentre se ne stava disteso in letto, che il grande motore appartenesse a chi riusciva a impadronirsene.
CAPITOLO QUARTO Era mezzanotte passata, l'8 ottobre. Pendrake camminava, a testa china, nel forte vento che soffiava da est, lungo una strada bene illuminata nel quartiere Riverdale di New York City. Mentre passava, guardava i numeri delle case: 418, 420, 432. Il numero 432 era la terza casa dopo l'angolo; le passò davanti, dirigendosi verso il lampione. Voltando le spalle al vento, rimase ritto in quella luce viva, studiando ancora una volta il suo prezioso elenco, per una verifica finale. La sua intenzione, in origine, era stata quella di interrogare tutti i settantatre americani che figuravano su quell'elenco, a partire dalla lettera A. Pensandoci meglio, si era reso conto che gli scienziati alle dipendenze di aziende come la Westinghouse, la Fondazione Rockefeller, i laboratori privati con scarsi mezzi, e i fisici e i professori che svolgevano ricerche individuali erano i candidati meno probabili; i primi perché non avevano la possibilità di lavorare in segreto, gli altri perché chi aveva costruito il motore doveva avere avuto larga disponibilità di mezzi. E questo lasciava soltanto ventitré fondazioni private. Anche questa era un'impresa enorme per un uomo solo; la possibilità di essere sorpreso aveva dato una particolare tensione al suo viso e ai muscoli del suo corpo, gli aveva
irrigidito il braccio che stava ricrescendo, e questa era soltanto la sua undicesima indagine. Le altre si erano dimostrate infrut-tuose quanto pericolose. Pendrake ripose l'elenco e sospirò. Non serviva a nulla indugiare. Era sceso in ordine alfabetico fino all'Istituto Lambton, il cui dirigente, il famoso fisico McClintock Grayson, abitava nella terza casa dopo l'angolo. Raggiunse la porta dell'abitazione buia e provò la sua prima delusione. Aveva sperato vagamente che la porta fosse aperta. Non lo era, e questo significava che tutte le porte da lui aperte nella sua vita senza neppure accorgersi che fossero chiuse dovevano costituire dei precedenti, delle prove che una serratura Yale poteva essere rotta senza far rumore. Sembrava diverso, ora che lo faceva di proposito, ma si tese e afferrò la maniglia. La serratura si spezzò con un lieve tintinnìo di metallo bruscamente assoggettato a una pressione intollerabile. Nel corridoio tenebroso, Pendrake rimase immobile per un attimo, in ascolto. Ma l'unico suono che udì fu il battito del suo cuore. Avanzò cautamente, usando la lampada tascabile mentre guardava oltre le porte. Alla fi-ne stabilì che lo studio doveva trovarsi al primo piano. Salì i gradini. Il corridoio del secondo piano era ampio, con cinque porte
chiuse e due porte aperte. La prima porta aperta conduceva in una camera da letto, la seconda in una stanza grande e accogliente dalle pareti coperte di scaffali carichi di libri. Pendrake sospirò di sollievo, mentre vi entrava in punta di piedi. In un angolo c'era una scrivania, un piccolo schedario e parecchie lampade a stelo. Dopo una rapida osservazione, chiuse la porta dietro di sé e accese la lampada accanto alla sedia dietro la scrivania. Attese ancora, ascoltando, con i nervi tesi. Giungeva fino a lui il suono fievole di un respiro regolare. Ma questo era tutto. La casa del dottor Grayson riposava pacificamente dopo una giornata di lavoro, il che era logico, rifletté Pendrake mentre si sedeva alla scrivania. Cominciò a leggere. Alle due aveva scoperto ciò che voleva. La prova era una nota scarabocchiata estratta da una massa di documenti insignificanti che riempivano un cassetto. C'era scritto: La pura meccanica dell'attività del motore dipende dal numero di giri al minuto. A una velocità di rotazione molto bassa - cioè da cinquanta a cento - la pressione sarà esercitata quasi interamente su una linea verticale rispetto al piano assiale. Se i pesi sono stati accuratamente calcolati, una macchina, a questo stadio, si solleverà senza difficoltà, ma il movimento in avanti sarà quasi nullo. A questo punto Pendrake si fermò, perplesso. Non poteva riguardare altro che quel motore. Ma cosa significava?
Continuò a leggere. Quando la velocità di rotazione aumenterà, la pressione si sposterà rapidamente sull'orizzontale, fino a che, a circa cinquecento giri, la spinta si eserciterà lungo il piano assiale... e tutte le con-tropressioni e le pressioni secondarie cesseranno. A questo punto il motore può essere spinto lungo un albero o asse di trasmissione, ma non può essere tirato. Il campo è così intenso che... Il riferimento all'albero era estremamente convincente. Ricordava troppo bene la sua violenta scoperta: l'albero non poteva essere strappato dal motore. Lo stregone atomico dell'epoca era dunque il dottor Grayson. All'improvviso, Pendrake si sentì molto debole. Si appoggiò alla spalliera della sedia, in preda a una strana sensazione di vertigine. Devo andar-mene di qui, pensò.
Adesso che so, non devo assolutamente farmi sorprendere. La sensazione di folle trionfo si impadronì di lui quando la porta d'ingresso si chiuse dietro di lui. Si avviò per la strada, con la mente sommersa da un'ebbra esultanza, vacillando come un ubriaco. Stava facendo colazione in un bar, a un chilometro di distanza, quando venne la reazione. Dunque il dottor Grayson, famoso savant, era l'uomo che
stava dietro il motore meraviglioso! E adesso? Dopo aver dormito un po', chiamò Hoskins.
È impossibile, pensò mentre aspettava che gli passassero la comunicazione, che io continui da solo in questa impresa tremenda. Se gli fosse accaduto qualcosa, ciò che aveva scoperto si sarebbe perduto nella grande oscurità, per non essere ritrovato forse mai più. Dopotutto, era qui perché aveva preso sul serio un illimitato giuramento di fedeltà al suo paese, un giuramento che non aveva mai considerato importante fino a che non glielo avevano ricordato. La sua fantasticheria finì quando la centralinista disse: — Il signor Hoskins rifiuta di parlare con lei, signore. Il suo problema gli parve annoso quanto la sua stessa esistenza. Quel pomeriggio, mentre si trovava nella biblioteca dell'albergo, la sua mente ritornava costantemente alla sua solitudine, alla realtà che tutte le decisioni relative al motore spettavano a lui, come spettava a lui agire. Quanto era stato sciocco! Avrebbe dovuto togliersi dalla mente quella storia e ritornare a Crescentville. Doveva occuparsi della sua tenuta, prima che venisse l'inverno. Ma sapeva che non sarebbe tornato. Cosa poteva fare, in quel paese solitario, durante i lunghi giorni e le ancora più lunghe notti degli anni futuri?
C'era soltanto il motore. Tutto il suo interesse nella vita, la rinascita del suo spirito, datavano dal momento in cui aveva trovato quella strana cosa a forma di ciambella. Senza il motore, o meglio - fece consciamente la distinzione - senza la ricerca del motore, era un'anima perduta che vagava senza scopo attraverso quell'eternità che era l'esistenza sulla Terra. Dopo un periodo incommensurabile si accorse all'improvviso che il libro gli pesava tra le mani, e ricordò perché era venuto in quella biblioteca. Il libro era l'edizione 1968 dell'Enciclopedia Hilliard, e rivelava che il dottor McClintock Grayson era nato nel 1911, aveva una figlia e due figli, e aveva dato un contributo notevole alla teoria della fissione, nelle scienze ato-miche. Di Cyrus Lambton l'Enciclopedia diceva: «...industriale, filantropo, fondò nel 1952 l'Istituto Lambton. Dopo la guerra, Cyrus Lambton si è attivamente interessato del movimento per il ritorno alla terra, e il quartier generale di questo movimento, una costruzione dall'architettura estremamente originale, si trova a...». Alla fine Pendrake uscì nel caldo pomeriggio d'ottobre e acquistò una macchina. I suoi giorni diventarono una routine monotona. Osservare Grayson che usciva di casa, la mattina, seguirlo fino a che scompariva nel Palazzo Lambton, pedinarlo fino a casa, la sera. Sembrava un
gioco intermi-nabile, senza scopo. Il diaciassettesimo giorno, finalmente, la routine si spezzò. All'una del pomeriggio Grayson uscì a passo vivace dall'edificio di plastica aerogel che era la sede della Fondazione Lambton. Era un'ora insolita. E subito, la differenza tra quel giorno e gli altri si rivelò più nettamente. Lo scienziato ignorò la sua berlina grigia ferma davanti al palazzo, percorse mezzo isolato fino a una stazione di tassì, e si fe-ce portare a un edificio sulla Cinquantesima Strada, formato da due torri gemelle: una insegna di plastica luccicante era stesa tra le due torri: ENTE CYRUS LAMBTON PER LA RIVALUTAZIONE DELLA TERRA Mentre Pendrake l'osservava, Grayson licenziò il tassì e sparì oltre una porta girevole nell'interno d'una delle due torri. Perplesso ma vagamento eccitato, Pendrake si avvicinò a una vetrina in cui c'era un grande cartello luminoso. C'era scritto: IL PROGETTO CYRUS LAMBTON cerca giovani coppie laboriose e oneste, disposte a lavorare duramente per stabilirsi su ricchi terreni, in un clima meraviglioso, in una zona verdeggiante. Sono in particolare benvenuti gli ex agricoltori, i figli di
agricoltori e le loro mogli, figlie di agricoltori. Chi desideri stabilirsi vicino a una città o abbia parenti cui intenda fare visita può rinunciare fin d'ora a presentarsi. Vi si offre una grande occasione, finanziata da un grande progetto privato. Per l'ultimo contingente occorrono oggi altre tre coppie, che partiranno prestissimo, sotto la supervisione del dottor McClintok Grayson. L'Ufficio è aperto fino alle ore 23. AFFRETTATEVI! Quel cartello non pareva avere rapporti con il motore abbandonato su una collina. Ma destava un pensiero che non recedeva: un pensiero che era in realtà il prodotto di un impulso che l'aveva sospinto in tutti i terribili giorni passati. Per un'ora lottò con quell'impulso, che alla fine divenne troppo forte per la sua volontà e si proiettò nei suoi muscoli, e lo portò, privo di resistenza, a una cabina telefonica. Un attimo dopo stava facendo il numero dell'Enciclopedia Hilliard. Trascorse un momento, mentre la comunicazione veniva passata a Eleanor. Pendrake pensò mille pensieri, per due volte fu sul punto di riattaccare il ricevitore. Poi: — Jim, cos'è successo? L'ansia nella voce di lei era la cosa più dolce che avesse mai udito. Pendrake cercò di farsi forza mentre spiegava
ciò che voleva: — Dovrai trovare un vecchio cappotto e indossare un vestito di cotone da poco prezzo o qualcosa di simile; io comprerò qualche vestito di seconda mano. Voglio scoprire che cosa si nasconde sotto questo piano per il ritorno alla terra. Dovremmo presentarci prima che faccia buio, questa sera. Una semplice indagine non dovrebbe essere pericolosa. Si sentiva confuso, al pensiero di rivederla ancora. E così, l'idea imba-razzante di un possibile pericolo rimase sepolta dentro di lui, e non venne alla superficie fino a che non vide Eleanor venirgli incontro, lungo la via. Lei gli sarebbe passata oltre senza riconoscerlo, ma lui si fece avanti e la chiamò. — Eleanor! Lei si fermò di colpo; e, quando la guardò, si rese conto per la prima volta che la ragazzina sposata sei anni prima era cresciuta. Era ancora abbastanza snella da destare invidia in qualsiasi donna, ma c'erano in lei i contorni più ricchi della maturità. — Avevo dimenticato la maschera e il braccio artificiale — disse lei. — Ti fanno sembrare quasi...
Pendrake sorrise, rigidamente. Eleanor non sapeva neppure la metà di quanto era accaduto. Il suo nuovo braccio gli arrivava ormai quasi al gomito, e la mano e le dita erano robuste e ben distinte. Il nuovo braccio si inseriva perfettamente nel tubo cavo del braccio artificiale e dava fermezza e direzione ai suoi movimenti. — Quasi umano, eh? — fece lui; cercava di essere spiritoso, perché era in uno stato di grave tensione. Subito si rese conto di aver sbagliato. Eleanor impallidì, poi, pian piano, riacquistò colore. Sorrise, tristemente. — Non mi importa che tu abbia un braccio solo. Non era quello il nostro problema, anche se tu hai cercato di fingere che lo fosse. Pendrake aveva dimenticato. Adesso ricordava che nell'angoscia di essere stato respinto da lei l'aveva amaramente accusata di averlo allontanato perché era mutilato... era stata soltanto una manovra verbale, ma Eleanor ne era stata evidentemente ferita. Mentre lui rifletteva, Eleanor si era scostata da lui, e stava fissando il palazzo, con un sorriso compiacente sulle labbra. — Torri di aerogel! — meditò, a voce alta, — alte cinquanta metri; una completamente opaca, priva di finestre, priva di porte... mi chiedo che cosa significhi. E
l'altra... Saremo i coniugi Cranston di Winora, Idaho. Stavamo per lasciare New York questa sera, ma abbiamo visto il loro annuncio. Il loro progetto ci piace moltissimo. Si avviò per attraversare la strada. E Pendrake, seguendola, varcò la porta prima di capire, con intuizione improvvisa, che era stato il desiderio emotivo di vederla a indurlo ad attirarla lì. — Eleanor — disse, teso, — non entriamo. Avrebbe dovuto sapere che sarebbe stato inutile dirglielo. Lei avanzò, senza dargli ascolto. Lui la seguì con passi riluttanti, verso una ragazza che sedeva dietro una spaziosa scrivania di plastica, al centro della stanza. Si sedette prima che il cartello lucente sull'orlo della scrivania attirasse il suo sguardo: SIGNORINA GRAYSON La signorina Grayson! Pendrake si agitò sulla sedia, poi un'immensa in-quietudine l'inchiodò. La figlia del dottor Grayson! Dunque in quella storia erano immischiati i componenti della famiglia dello scienziato. Era addirittura possibile che due dei quattro uomini che gli avevano preso l'aereo fossero i figli del fisico. E forse anche Lambton aveva figli maschi. Non riusciva a ricordare ciò che diceva l'enciclopedia a proprosito dei figli di Lambton. Nell'intensità dei suoi pensieri, ascoltò con attenzione solo
parziale la conversazione tra Eleanor e la figlia di Grayson. Ma quando Eleanor si al-zò, ricordò che nella conversazione si era parlato di un esame psicologico da compiersi in un'altra stanza. Pendrake guardò Eleanor varcare la porta che conduceva nella seconda torre, e fu lieto quando, dopo circa tre minuti, la signorina Grayson disse: — Vuole accomodarsi, signor Cranston? La porta si apriva su uno stretto corridoio, in fondo al quale c'era un'altra porta. Quando le sue dita toccarono la maniglia della seconda porta, una rete cadde su di lui e l'avviluppò strettamente. Nello stesso tempo, alla sua destra si aprì una fessura. Il dottor Grayson, con una siringa tra le dita, si tese, infilò l'ago nel braccio sinistro di Pendrake, sopra il gomito, poi si voltò a gridare verso qualcuno che rimaneva fuori di vista: — Questo è l'ultimo, Peter. Possiamo andarcene non appena sarà scuro. — Un momento, dottore. È meglio controllare questa coppia. C'è qualcosa di strano nel braccio destro dell'uomo. Guardi questa lastra. La fessura si richiuse.
Pendrake si dibatté disperatamente. Ma sentiva crescere in sé una sonno-lenza invincibile, e la rete lo tratteneva, nonostante i suoi sforzi. In un lampo, l'oscurità scese su di lui.
CAPITOLO QUINTO — Nei due anni che lei ha passato qui — disse Nypers, — questa ditta è andata benissimo. Pendrake rise. — Mi piace la sua battuta, Nypers. Cosa vuol dire, nei due anni che ho passato qui? Sono qui da tanto tempo che mi sento un vecchione. Nypers chinò il viso magro e saggio. — Capisco, signore. Tutto il resto diventa vago e irreale. Si ha l'impressione che sia stata un'altra personalità a vivere la nostra vita passata. — E si voltò. — Bene, le lascerò il contratto Winthrop. Alla fine Pendrake riuscì a staccare lo sguardo sbalordito dagli impassibili pannelli della porta di quercia, dietro la quale era scomparso il vecchio impiegato. Scosse il capo, meditabondo, poi irritato con se stesso. Ma quando sedette alla scrivania sogghignò. Il vecchio signor Nypers doveva sentirsi strano, quella mattina. — Nei due anni che ha passato qui... — Da quanto tempo era direttore della Società Nesbitt? Fattorino a sedici anni, nel 1956, impiegato d'ordine a diciannove, poi impiegato di concetto, e finalmente direttore. Quando
era scoppiata la guerra con la Cina, nel 1965, si era arruolato. Nel 1968 era ritornato al suo posto, e da allora aveva lavorato duramente. Il tempo soffiava attorno a lui come un costante vento del nord. Era il 1975. Uhm, sedici anni con quella ditta, senza contare la guerra; sette anni come direttore generale. Quindi, quell'anno lui aveva esattamente trentacinque anni. Corrugò la fronte, improvvisamente irritato. Cosa poteva aver spinto Nypers a dire quel che aveva detto? «Nei due anni che ha passato qui...» Quelle parole si erano impresse nella sua mente. L'azione che compì, alla fine, fu semiautomatica. Premette un pulsante sulla scrivania. La porta si aprì ed entrò una donna magra, dal viso bianco, sui trentacinque anni. — Ha chiamato, signor Pendrake? Pendrake esitò. Cominciava a sentirsi sciocco, e piuttosto sbalordito di quel suo turbamento interiore. — Signorina Pearson — disse, — da quanto tempo lavora nella Società Nesbitt? La donna gli lanciò un'occhiata acuta, e Pendrake ricordò troppo tardi che, in quei tempi di aggressiva
emancipazione femminile, un dirigente non rivolgeva a una impiegata domande che potessero venire interpretate come personali. Dopo un attimo, gli occhi della signorina Pearson perdettero il loro duro scintillìo ostile, e Pendrake respirò più sollevato. — Cinque anni — rispose lei, seccamente. — E chi l'ha assunta? — si costrinse a dire Pendrake. La signorina Pearson alzò le spalle, ma il gesto doveva aver rapporto con qualche suo pensiero. La voce di lei era normale, quando disse: — L'allora direttore generale, il signor Letstone. — Oh — fece Pendrake. Per poco non le aveva fatto osservare che negli ultimi cinque anni era stato lui, il direttore generale. Non lo fece, soprattutto perché il pensiero che stava dietro a quelle parole si dissolse in una nebulosità vaga. La sua mente si impuntò, vuota ma relativamente poco confusa. L'idea che ne sgorgò, alla fine, era logica e chiara. La formulò con tono calmo. — Mi porti la contabilità del personale del 1973, per favore. Lei gli portò il registro, lo posò sulla scrivania. Quando fu
uscita, Pendrake aprì il volume alla voce STIPENDI del mese di dicembre. C'era scritto: «James Pendrake, direttore generale, dollari 3.250». Novembre era lo stesso. Impaziente, sfogliò a ritroso, fino a gennaio. C'era scritto: «Angus Letstone, direttore generale, dollari 2.200». Non c'erano spiegazioni per lo stipendio inferiore. Da febbraio ad agosto c'era solo Angus Letstone, a 2.200 dollari. Due anni! «Nei due anni che lei ha passato con noi...». Il contratto Winthrop giaceva dimenticato sulla grande scrivania di quercia. Pendrake si alzò, andò a guardare fuori dalle finestre di vetro che for-mavano un disegno curvilineo in un angolo della stanza. Sotto di lui si stendeva un'ampia strada, un viale orlato d'alberi con molti palazzi di pietra. Era fluito molto danaro, in quella strada... e in quella stanza. Pensò quanto spesso si era considerato uno di quegli uomini fortunati, all'estremità inferiore della classe dei grandi redditi, un uomo che aveva raggiunto una posizione di preminenza nella sua ditta, dopo anni di lavoro. Pendrake scosse malinconicamente il capo. Gli anni di
lavoro non c'erano stati. Quindi c'era quel problema: in che modo aveva ottenuto quell'ottimo posto con quello stipendio soddisfacente, quella clientela esclusiva, quella organizzazione che funzionava in maniera così perfetta? La vita era stata splendida e dolce come un sorso di acqua fresca e limpida, un idillio imperturbato, un semplice modello di vita felice. E adesso... questo! In che modo un uomo poteva scoprire che cosa aveva fatto nei primi trenta e più anni della sua vita? C'erano pochi, semplici fatti che poteva controllare prima di agire. Con brusca decisione, tornò alla scrivania, prese il dittafono e cominciò: — Dipartimento Archivio, Ufficio di Guerra, Washington, D.C. Vi prego di inviarmi, il più presto possibile, i dati che mi riguardano durante il periodo della guerra con la Cina. Ero nel... Spiegò tutti i particolari, acquistando fiducia via via che continuava. Il suo ricordo era così chiaro, sui fatti principali! La vita militare, le battaglie, erano vaghe e lontane. Ma questo era comprensibile. C'era stato quel viaggio in Canada che aveva fatto l'anno prima, con Anrella. Era un sogno va-go, ora, con qualche lampo di immagini mentali a dimostrare che era realmente accaduto.
Tutta la vita era un progressivo dimenticare il passato. Indirizzò la seconda lettera all'Anagrafe dello stato in cui era nato. — Sono nato — dettò, — a Crescentville, il primo giugno millenovecento-quaranta. Vi prego di inviarmi il mio certificato di nascita il più presto possibile. Chiamò la signorina Pearson e le diede la bobina del dittafono, quando lei entrò. — Controlli gli indirizzi — l'istruì, sbrigativo. — Credo che ci sia da pagare qualcosa. Cerchi di sapere cosa c'è da mandare, alleghi il danaro, e spedisca le due lettere per via aerea. Si sentì soddisfatto di sé. Non serviva a nulla eccitarsi per quella storia. Dopotutto era lì, ben saldo nel suo impiego, e la sua mente era solida come una roccia. Non c'era ragione di sentirsi sconvolto, e ancora meno di permettere agli altri di notare la sua perplessità. A tempo debito sarebbero arrivate le risposte alle sue due lettere. E poi avrebbe avuto tutto il tempo di occuparsi ulteriormente della cosa. Riprese il contratto Winthrop e cominciò a leggere. Venti minuti dopo si accorse, con un sussulto, di aver
impiegato quasi tutto il tempo nello sforzo di ricordare che cosa aveva fatto durante il mese di settembre del 1973. Era il mese in cui gli americiani erano sbarcati sulla Luna, tre anni dopo i sovietici. Pendrake ricordò i titoli dei giornali, così come li aveva visti. E non c'era dubbio. Li aveva visti. Incombevano nella sua mente, grandi e neri. Poteva considerare settembre, il primo mese trascorso con la Società Nesbitt secondo il libro paga, come parte della continuità della sua esistenza attuale. Ma agosto? In agosto c'era stato il dissidio interno che aveva quasi spac-cato in due la potentissima unione dei circoli femminili. E i titoli erano stati... come? Pendrake si sforzò di ricordare, ma non vi riuscì. E il primo settembre? , pensò. Se agosto e l'inizio di settembre erano stati la linea di con-fine, allora forse il primo settembre aveva qualche particolare caratteristica di vivezza che lo distingueva in maniera netta. A quell'epoca, ricordava vagamente, lui era stato ammalato. I suoi pensieri non riuscivano a fissarsi su quel primo giorno di settembre. Presumibilmente aveva fatto colazione. Presumibilmente era andato in ufficio, dopo aver ricevuto uno dei lunghi baci di saluto di Anrella. La sua mente si arrestò in volo, come un animale colpito durante la corsa. Anrella!, pensò. Lei doveva esserci stata il 30 e il 29 di agosto, e in luglio, in giugno, in maggio, in aprile, e ancora prima.
Nella sua memoria non c'era nulla a suggerire che non fossero sposati da anni; e non c'era stato nulla di simile neppure nel comportamento di Anrella durante quel vitale mese di settembre. Di conseguenza... Anrella sapeva! Era una consapevolezza che aveva le sue limitazioni emotive. I curiosi lampeggiamenti della sua mente alla prima, nitida consapevolezza di quell'idea vennero frenati dalla rete d'una logica più tranquilla e si acquietaro-no. Dunque Anrella sapeva. Bene, doveva sapere. Ovviamente lui era in circolazione da molti anni. Qualsiasi cambiamento che poteva essere accaduto, era accaduto nella sua mente, non in quella di lei. Pendrake guardò l'orologio appeso alla parete: mancava un quarto a mezzogiorno. Aveva giusto il tempo di andare a casa per il pranzo. Di solito mangiava in città, ma l'informazione che desiderava era troppo urgente. Quando si avviò verso l'ascensore, parecchie donne di bell'aspetto erano ferme nel corridoio. L'impressione che lo guardassero attentamente mentre passava fu così forte che Pendrake si sentì strappato ai suoi pensieri tempestosi. Si volse a guardare indietro. Una delle donne stava dicendo qualcosa nel piccolo ordigno scintillante che portava al polso. Una radio
magica, pensò Pendrake, interessato. Poi entrò nell'ascensore, e dimenticò l'episodio durante la discesa. Nell'atrio, quando uscì, c'erano altre donne, e altre ancora stavano sull'entrata. Accanto al marciapiede c'erano cinque o sei imponenti macchine nere, e dietro il volante di ciascuna di esse c'era una donna. Fra pochi minuti la strada sarebbe stata piena della gente che usciva dagli uffici, a mezzogiorno. Ma adesso, a eccezione delle donne, era quasi deserta. — Il signor Pendrake? Pendrake si girò. Era una delle giovani donne che erano ferme davanti alla porta, una donna efficiente dal volto stranamente severo. Pendrake la fissò. — Eh? — disse. — È lei il signor James Pendrake? Pendrake uscì dalla sua fantasticheria. — Sì, certo, io... Che cosa... — Sta bene, ragazze — fece la giovane donna. Sorprendentemente, spuntarono le pistole, che splendettero metalliche nel sole. Prima che Pendrake
avesse il tempo di battere le palpebre, delle mani l'afferrarono per le braccia e lo spinsero verso una delle macchine. Avrebbe potuto resistere. Ma non lo fece. Non provava nessuna sensazione di pericolo. Nel suo cervello c'era soltanto un enorme sbalordimento che lo paralizzava. Salì in macchina, e la macchina si mosse, prima che la sua mente riprendesse a funzionare. — Ehi, senta un po'! — comminciò. — La prego di non fare domande, signor Pendrake. — Era la giovane donna che gli aveva già parlato e che adesso sedeva alla sua destra. — Non le verrà fatto del male... a meno che non si comporti in modo riprovevole. Come per ribadire quella minaccia, le due donne che sedevano sui piccoli seggiolini ribaltabili di fronte a lui impugnando delle pistole, agitarono con fare significativo le loro armi lucenti. Dopo un attimo non fu più un sogno. Pendrake disse: — Dove mi state portando? — Niente domande, per favore! Essere trattato come un bambino lo spazientì. Cupo, furioso, Pendrake si abbandonò all'indietro e studiò con occhi ostili le sue catturatrici. Erano le tipiche «donne
nuove», dalle gonne cortissime. Le due donne armate sembravano molto aldilà della quarantina, eppure erano snelle e agili. I loro occhi avevano lo sguardo vivace delle donne che avevano fatto la cura della droga chiamata Egualizzatore - La Droga che Ti Rende Eguale a un Uomo. La giovane capitana e la ragazza seduta alla sinistra di Pendrake avevano un aspetto non diverso. Avevano tutte l'aria molto efficiente. Prima che Pendrake riuscisse a pensare qualcosa d'altro, la macchina svoltò, a un angolo, e si avviò lungo una salita obliqua e lunghissima. Pendrake ebbe il tempo di riconoscere che era l'ingresso del garage del gratta-cielo del McCandless Hotel; poi furono nel garage e si diressero verso una porta lontana. La macchina si fermò. Senza una parola, Pendrake ubbidì alla pistola che gli accennava di scendere. Fu guidato lungo un corridoio deserto, verso un montacarichi. Il montacarichi si fermò al terzo piano. Circondato dalla sua scorta femminile, Pendrake venne costretto ad attraversare il corridoio luccicante e a varcare una porta. La stanza era grande, ammobiliata con gusto e magnificenza. In fondo, su un divano verde, sedeva un uomo dai capelli grigi e dall'aria distinta, che voltava le spalle a una enorme finestra. Alla destra dell'uomo, dietro una scrivania, sedeva una giovane donna. Pendrake la
guardò appena. Con gli occhi sbarrati, rimase a osservare mentre la giovane comandante della sua scorta si avvicinava all'uomo dai capelli grigi e gli diceva: — Secondo la sua richiesta, Presidente Dayles, le abbiamo condotto il signor James Pendrake. Fu quel nome, pronunciato in tono così blando, che confermò l'identificazione. Incredulo, Pendrake aveva già riconosciuto quel viso tanto foto-grafato. Non c'era più possibilità di dubbio. Quello era Jefferson Dayles, Presidente degli Stati Uniti.
CAPITOLO SESTO La collera svanì, e Pendrake fissò il grand'uomo. Si accorse che le donne che l'avevano scortato fin lì stavano lasciando la stanza. La loro partenza sottolineava la stranezza di quel colloquio forzato. Notò che l'uomo lo stava osservando attentamente. Pendrake si avvide che, a eccezione degli occhi grigi, dallo splendore di perle color fumo, il presidente dimostrava tutta la sua età di cinquantanove anni. Le foto dei quotidiani avevano suggerito un viso giovanile, privo di rughe. Ma, guar-dandolo da vicino, era chiaro che la tensione di quella seconda campagna elettorale stava esigendo un grosso tributo dalla sua energia vitale. Tuttavia, l'espressione di Dayles era inequivocabilmente forte, autoritaria, serena e sicura. La sua voce, quando parlava, aveva tutta la potenza risonante e fulgida che aveva tanto contribuito al suo grande successo. Disse con il più lieve dei sorrisi sardonici: — Cosa ne pensa delle mie amazzoni? La sua risata omerica echeggiò nella stanza. Evidentemente non si attendeva una risposta, perché il suo divertimento cessò di colpo e lui continuò, senza pause:
— Queste donne sono una manifestazione molto curiosa. E, credo, una manifestazione tipicamente americana, in quanto a questo. Una volta presa, la droga non ha antidoti; e io considero come una prova del fondamentale desiderio di avventura delle ragazze americane il fatto che si siano sottoposte al trattamento a migliaia. Per sfortuna, questo le ha portate in un vicolo cieco, le ha lasciate senza futuro. Le donne non egualizzate le dete-stano, e gli uomini le giudicano «strane», per usare una frase colloquiale. La loro esistenza può essere valsa a galvanizzare i circoli femminili e a in-durii a sostenere la campagna presidenziale. Ma, individualmente, le amazzoni hanno scoperto che ben pochi datori di lavoro sono disposti ad as-sumerle e che nessun uomo è disposto a sposarle. «Per disperazione, le loro dirigenti si sono rivolte a me, e poco prima che la situazione raggiungesse la fase tragica, io predisposi un'abile pubblicità preliminare e le assunsi, en masse, per quelli che in genere vengono considerati scopi perfettamente legittimi. In realtà, queste donne sanno chi è il loro benefattore e si considerano miei agenti personali. Jefferson Dayles fece una pausa, poi continuò, in tono blando: — Spero, signor Pendrake, che questo le spiegherà almeno in una certa misura lo strano metodo con cui è stato portato davanti a me. La signorina Kay Witewood — indicò la giovane donna seduta alla scrivania, —
è il loro capo intellettuale. Pendrake non seguì con lo sguardo la mano del presidente. Rimase ritto, impietrito, con la mente quasi vuota. Aveva ascoltato la breve storia del gruppo di amazzoni con una affascinata sensazione di irrealtà. Perché quella spiegazione non spiegava nulla. Non era il modo con cui era stato condotto lì che aveva importanza. Ciò che contava era il perché. Vide che gli splendidi occhi grigi gli sorridevano, divertiti. Jefferson Dayles disse quietamente: — Esiste la possibilità che ora lei desideri riferire alle autorità o ai giornali ciò che le è successo. Kay, mostri al signor Pendrake la notizia che abbiamo preparato per questa eventualità. La giovane donna si alzò dalla sedia e girò attorno alla scrivania, dirigendosi verso Pendrake. In piedi, sembrava più vecchia. Aveva gli occhi azzurri e un viso grazioso ma duro. Porse a Pendrake un foglio dattiloscrit-to. Pendrake lesse.
Big Town, luglio 1975 - Un increscioso incidente ha turbato il viaggio compiuto in macchina dal Presidente Jefferson Dayles, che proveniva da Middle City. Un apparente tentativo di investire la macchina del Presidente, da parte di un giovane al volante d'u-na automobile elettrica, è stato frustrato dalla pronta azione delle guardie presidenziali. Il
giovane è stato fermato e più tardi condotto nella residenza presidenziale per un interrogatorio. Le sue spiegazioni sono state considerate soddisfacenti. Di conseguenza, su richiesta del Presidente Dayles, non è stata presentata nessuna denuncia e l'uomo è stato rilasciato. Dopo un attimo, Pendrake si concesse una secca risata. Quella notizia era, naturalmente, decisiva. Non poteva impegnarsi in un duello con Jefferson Dayles attraverso i quotidiani più di quanto potesse... ecco, attraversare a cavallo Main Street sparando con una pistola a tamburo. Mentalmente vide i titoli clamorosi: UN OSCURO UOMO D'AFFARI ACCUSA JEFFERSON DAYLES
Una campagna di calunnie contro il Presidente. Pendrake rise di nuovo, con aria più sardonica questa volta. Non c'era dubbio. Qualsiasi fosse la ragione per cui Jefferson Dayles l'aveva fatto rapire... La sua mente si soffermò su quel pensiero. Qualsiasi fosse la ragione! E quale poteva essere? Scosse il capo, perplesso. Non riuscì più a fre-narsi. Il suo sguardo si fissò negli occhi grigi, un po' divertiti, del Capo dell'Esecutivo. — Tutto questo — disse, con aria stupita, — tutto questo spiegamento di forze, questa disonorevole menzogna deliberamente preparata... perché?
E in quell'istante, mentre fissava l'altro, gli parve che il colloquio stesse arrivando al punto decisivo. Il Presidente si schiarì la gola e disse: — Signor Pendrake, è in grado di citare le principali invenzioni realizzate dopo la seconda guerra mondiale? Si interruppe. Pendrake attese che proseguisse. Ma il silenzio si prolun-gò, e il Presidente continuò a guardarlo, paziente. Pendrake era sbalordito. A quanto pareva era una domanda genuina, non retorica. Alzò le spalle e disse: — Be', non c'è stato molto; in fatto di invenzioni fondamentali, voglio dire. Non sono al corrente di queste cose, ma direi il razzo che è arrivato sulla Luna, e qualche perfezionamento delle valvole termoioniche e... — Si interruppe, stordito. — Ma, senta, che significa? Che cosa... La voce ferma si ricollegò a una delle sue frasi. — Lei dice che non c'è stato molto. Quella dichiarazione, signor Pendrake, è il commento più tragico che si possa immaginare sullo stato del nostro mondo. Non c'è stato molto. Ha parlato dei razzi. Amico, non osia-mo dire al mondo che i razzi, se si eccettua qualche particolare
minore, so-no stati perfezionati durante la seconda guerra mondiale e che ci sono oc-corsi più di trent'anni per risolvere quei particolari minori. Si era teso in avanti, accalorandosi nella discussione; ora si riappoggiò alla spalliera, con un sospiro. — Signor Pendrake, certuni dicono che la causa di questo incredibile ri-stagno della mente umana sia il risultato diretto della situazione mondiale determinata dalla seconda guerra mondiale. In parte, credo, è così. Un'atmosfera morale negativa stanca la mente in modo curioso; è difficile de-scriverlo. È come se il cervello fosse sfinito per aver lottato contro l'ambiente che lo circonda. Fece una pausa, accigliandosi, come se cercasse una descrizione più ap-propriata. Pendrake ebbe il tempo di pensare, sorpreso: perché intratteneva lui con quella discussione intima e particolareggiata? Il Presidente alzò lo sguardo. Sembrava non ricordare di aver fatto una pausa. Continuò: — Ma questa è solo una parte della verità. Lei ha parlato delle valvole. — E ripeté, con voce stranamente disperata: — Valvole termoioniche. — Sul suo volto si dipinse un debole sorriso. — Signor Pendrake, ho anche una laurea in scienze e questo mi ha reso consapevole del tremendo problema che si para davanti alla tecnologia moderna: il problema dell'impossibilità per un uomo, di imparare tutto ciò che c'è
da sapere anche su una sola scienza. «Ma per ritornare alle valvole termoioniche... non tutti sanno che per molti anni parecchi laboratori famosi hanno intercettato deboli segnali radio che si crede provengano da Venere. Sei mesi fa, decisi di scoprire perché non si riusciva ad amplificare quei segnali. Ho invitato tre degli uomini più eminenti nei vari campi dell'elettronica a spiegarmi che cosa andava male. «Uno di questi uomini progetta valvole, un altro circuiti; il terzo tenta di ricavare un prodotto perfetto dal lavoro separato degli altri due. Il guaio è che le valvole rappresentano un campo di studio cui dedicare una vita intera. Colui che progetta le valvole non può non avere che nozioni vaghe sui circuiti, che a loro volta rappresentano un argomento di studio cui dedicare tutta una vita. Lo specialista dei circuiti deve accontentarsi delle valvole che può procurarsi perché, conoscendole soltanto teoricamente, non può specificare e neppure immaginare come dovrebbe essere una valvola per rispondere ai requisiti che lui ha in mente. Messi insieme, questi tre uomini possiedono la conoscenza necessaria per costruire radio nuove, straordinariamente potenti. Ma continuano a fallire. Non possono unire le loro conoscenze. Loro...» Dayles dovette accorgersi dell'espressione del viso di Pendrake. Si interruppe e disse, con un lieve sorriso: — Mi segue, signor Pendrake?
Pendrake si inchinò davanti alla smorfia ironica del sorriso dell'altro. Il lungo monologo gli aveva dato tempo per riordinare i suoi pensieri. — La situazione, come la vedo io, è la seguente — replicò. — Un oscu-ro uomo d'affari è stato prelevato per la strada con la forza ed è stato condotto davanti al Presidente degli Stati Uniti. Immediatamente il Presidente si lancia in una lezione sulle valvole delle radio e dei televisori. Signore, questo non ha senso. Cosa vuole da me? La risposta venne, lentamente. — In primo luogo, volevo vederla. In secondo luogo... — Jefferson Dayles fece una pausa, poi: — Qual è il suo gruppo sanguigno, signor Pendrake? — Ecco io... — Pendrake lo fissò. — Il mio che cosa? — Voglio un campione del suo sangue — spiegò il Presidente. E si rivolse alla ragazza. — Kay — disse, — prelevi il campione, per favore. Sono sicuro che il signor Pendrake non si opporrà. Pendrake non si oppose. Lasciò che la ragazza gli prendesse la mano. L'ago gli colpì il pollice, con una lieve stilettata di dolore. Osservò curiosamente mentre il sangue rosso risaliva
lungo lo stretto tubo dell'ago. — È tutto — disse il Presidente. — Arrivederci, signor Pendrake. È stato un piacere conoscerla. Kay, per favore, chiami Mabel e le dica di riac-compagnare il signor Pendrake nel suo ufficio. A quanto pareva, Mabel era il nome della comandante della scorta, poiché fu lei a entrare nella stanza, seguita dalle donne armate. Pochi secondi dopo, Pendrake aveva attraversato il corridoio ed era già nell'ascensore. Dopo che Pendrake se ne fu andato, il Presidente rimase seduto, con un sorriso fisso sul volto. Guardò una volta la giovane donna, ma lei teneva lo sguardo abbassato sulla scrivania. Lentamente Jefferson Dayles si voltò e guardò un paravento sistemato nell'angolo accanto alla finestra dietro di lui. Con voce quieta e sicura, disse: — Tutto bene, signor Nypers, può uscire. Nypers era evidentemente in attesa del segnale; apparve prima che la frase fosse completata, e si diresse a passo vivace verso la sedia indicata dal Presidente. Jefferson Dayles attese fino a che le dita del vecchio furono pigramente posate sul pomo metallico del bracciolo, poi disse, sottovoce: — Signor Nypers, giura di averci detto la verità?
— Assolutamente. — Il vecchio parlò con energia. — Le ho raccontato l'intera storia della nostra organizzazione senza citare né nomi né luoghi. Siamo giunti a un punto morto, in cui potremmo avere presto bisogno dell'aiuto del governo; ma, fino a che io non lo chiederò, l'avverto... qualsiasi tentativo di indagine potrebbe indurci a rifiutare di rivelarle ciò che sappiamo. Voglio che questo sia chiaro. Vi fu un silenzio. Alla fine Kay disse, in tono secco: — Non minacci il Presidente degli Stati Uniti, signor Nypers. Nypers alzò le spalle e continuò: — Un po' più di due anni fa, il signor Pendrake fu esposto accidentalmente a un tipo di radiazione insolita. Non riuscimmo a evitare tale esposizione. Pendrake trovò qualcosa che noi avevamo perduto e poi, invece di lasciar perdere, ci rintracciò, e così sco-primmo che, come già alcuni di noi, era divenuto totipotente. Durante le condizioni più gravi, quando la ricrescita delle cellule progredisce, la persona dotata di cellule toti-potenti perde la memoria, e così noi fornimmo ipnoticamente a Pendrake i ricordi che volevamo avesse. Nella sua qualità di toti-potente, ritornò nello stato di gioventù, e il suo sangue, adeguata-mente trasfuso, può ringiovanire chiunque appartenga al suo stesso gruppo sanguigno. — Ma queste trasfusioni non provocano perdite di
memoria nella persona che le riceve? — Fu Kay a formulare quella pronta domanda. — Assolutamente no! — disse Nypers, con sicurezza. — E per quanto tempo — chiese il Presidente Dayles, dopo una pausa, — il signor Pendrake rimarrà nello stato toti-potente? — Lo è sempre — fu la risposta, — ma è una condizione latente fino a che qualche tensione fisiologica non l'attiva. Noi abbiamo scoperto che certe iniezioni provocano questa condizione di tensione, anche se occorrono molti mesi perché le cellule acquisiscano la piena toti-potenza. — E queste inieizioni vengono ora praticate al signor Pendrake? — chiese il Presidente. — Sì... dal suo medico. Pendrake crede che siano iniezioni di vitamine. Gli abbiamo instillato un interesse per queste cose, ma lui è normalmente un uomo molto sano, virile e attivo. È stata una fortuna per le sue ragazze che non abbia opposto resistenza. — Ma sono forti come uomini! — insorse Kay.
— Non sono forti come Jim Pendrake — dichiarò Nypers. Sembrava disposto a continuare su quel tono, poi evidentemente cambiò idea. Disse, invece: — Verso la fine dell'estate o l'inizio dell'autunno si avvicinerà all'estremo stato di toti-potenza, e lei potrà farsi praticare la trasfusione di sangue. — Si rivolse a Jefferson Dayles. — Noi abbiamo un elenco dei personaggi politici più importanti, classificati a seconda dei gruppi sangui-gni, e quando lei si è aggiunto all'elenco - questi dati non sono facili da ottenere - siamo stati oltremodo soddisfatti nello scoprire che avevamo una persona appartenente allo stesso gruppo sanguigno: cioè, sotto la classifi-cazione AB, o Gruppo IV, secondo la nomenclatura Janski. Questo ci ha messo nella posizione di poterla avvicinare con un'offerta che ci consenti-rebbe di accettare il suo aiuto senza metterci completamente in suo potere. Kay disse, risentita: — E cosa ci impedirebbe di impadronirci del signor Pendrake e di trattenerlo fino all'autunno? — La trasfusione — rispose con fermezza Nypers, — richiede particolare abilità, e noi la possediamo. Voi no. Spero che questo chiarisca tutto. Jefferson Dayles non rispose. Provò l'impulso di chiudere gli occhi davanti alla luce abbagliante. Ma la luce abbagliante era nel suo cervello, non esterna, ed era convinto che avrebbe potuto bruciarglielo, se non fosse
stato prudente. Finalmente riuscì a volgersi verso Kay. Vide, sollevato, che lei stava alzando gli occhi dal rivelatore di menzogne posato sulla sua scrivania. Il rivelatore era collegato ai pomi ornamentali della poltrona su cui sedeva Nypers. Quando Dayles la guardò, Kay annuì. Il bagliore divenne bruscamente simile a un fuoco bianco, e il Presidente dovette lottare con se stesso per rimanere lì seduto, rigido, cercando di resistere alla gioia senza nome che vorticava dentro di lui. Provò l'intenso desiderio di precipitarsi alla scrivania di Kay, di guardare il quadrante del rivelatore, di costringere Nypers a ripetere le sue parole. Ma riuscì a resistere anche a questo. Poi si accorse che il vecchio stava parlando di nuovo. — Ha altre domande, prima che me ne vada? — chiese Nypers. — Sì. — Era Kay. — Signor Nypers, lei non è un buon esempio di gioventù toti-potente. Come può spiegarlo? Il vecchio la guardò con gli occhi scintillanti, che erano la parte più viva di lui. — Signora, sono ringiovanito due volte, e adesso... francamente, non so. Debbo rifarlo? Il mondo è così malvagio, la gente così folle, che non riesco a decidermi di rimanere vivo in un'epoca così primitiva. — Sorrise, debolmente. — Il mio medico
afferma che sono in buona salute, e posso ancora cambiare idea. Si voltò e si avvicinò alla porta; poi si fermò, si girò verso i due, con uno sguardo interrogativo. Kay disse: — Questa fase toti-potente di Pendrake... come è, quell'uo-mo, quando vi si trova? — Questo è un problema che riguarda lui, non voi — fu la fredda risposta. — Ma... — Nypers mostrò i lucenti denti bianchi, — non sarei qui se fosse pericoloso. E se ne andò. Quando si fu allontanato, Kay disse, furiosa: — Quella assicurazione non significa assolutamente nulla. Ci sta nascondendo informazioni vitali. Quale può essere il loro gioco? — Socchiuse gli occhi, calcolando. Molte volte sembrò sul punto di parlare, ma ogni volta si fermò, stringendo le labbra. Jefferson Dayles osservò il gioco delle emozioni su quel viso intensa-mente vivo, assorto per un po' nell'osservazione di quella strana donna che sentiva ogni cosa con tanta violenza. Alla fine scosse il capo; la sua voce era forte, quando disse: — Kay, non ha importanza. Non capisce? Il loro gioco, come lo chiama lei, non significa nulla. Nessuno, né un individuo né una fazione,
può contrastare l'esercito, l'aviazione e la marina degli Stati Uniti. — Trasse un respiro lento e profondo. — Non si rende conto, Kay, che il mondo è nostro?
CAPITOLO SETTIMO Pendrake sedeva al ristorante: stava mangiando. La sua attenzione non era rivolta al cibo ma ai due avvenimenti di quel mattino, che si accaparra-vano a turno il suo pensiero, per poi cedere il posto all'altro. Gradualmente l'episodio di Jefferson Dayles cominciò a perdere il suo fascino. Perché non significava nulla. Era come un incidente che capita a un uomo mentre attraversa la strada; non ha nessun nesso con la continuità normale della sua vita e viene dimenticato non appena il trauma e il dolore sono cessati. Il resto, il problema di ciò che era accaduto due anni prima, era diverso. Faceva ancora parte della sua mente e del suo corpo. Era un problema suo, e non poteva accantonarlo fondandosi sulla distratta convinzione che qualcuno era pazzo. Pendrake consultò l'orologio. Mancavano dieci minuti all'una. Respinse il piatto del dessert e si alzò, deciso ad andare subito a interrogare Anrella. La sua mente rimase quasi vuota durante il tragitto fino a casa. Fu solo quando guidò l'automobile attraverso il cancello di ferro massiccio e vide la sua casa che una nuova certezza lo colpì. Quella casa era stata lì, certo, anche due anni prima.
Era un edificio straordinariamente costoso, con una piscina all'aperto e giardini curatissimi, che aveva acquistato, secondo i suoi ricordi, al prezzo di novantamila dollari. Prima di allora non gli era mai capitato di chiedersi in che modo avesse accantonato il danaro sufficiente a pagare una cosa tanto splendida. In qualche modo quella somma gli era parsa accessibile. L'abitazione sorgeva dal suolo. L'architetto doveva essere stato un fedele discepolo di Frank Lloyd Wright, perché il profilo della costruzione si fondeva mirabilmente con gli alberi e la terra. C'erano solidi camini, ali sporgenti che si innestavano con coerenza sulla struttura centrale, e un uso generoso di grandi vetrate. Era sempre stata Anrella a occuparsi delle finanze, del loro comune conto in banca. Quella soluzione lo lasciava libero di dedicare il tempo libero alla sua passione per la lettura, a qualche partita di golf, alla caccia e alla pesca, al suo aeroporto privato con l'aereo elettrico. E naturalmente lo lasciava libero per il suo lavoro. Ma non gli aveva dato un'idea chiara della sua situazione finanziaria. Di nuovo, e con maggiore intensità si rese conto di quanto era strano che lui non si fosse mai preoccupato per quella soluzione. Fermò la macchina ed entrò in casa. Sono un uomo d'affari perfettamente normale, e mi sono imbattuto in qualche cosa di inspiegabile, pensò. Sono sano di mente. Non ho nulla da perdere o da guadagnare, sotto il
punto di vista fisico, da una indagine. La mia vita è davanti a me e non dietro di me. Si disse, spazienti-to, che non aveva importanza neppure se fosse riuscito o no a scoprire qualcosa. Il passato non contava. Poteva vivere il resto della sua vita quasi senza fremiti di curiosità... Dove diavolo era Nickson? Con il cappello in mano, si fermò nel grande atrio, in attesa che il maggiordomo dimostrasse, con la sua presenza, di essersi accorto che la porta s'era aperta. Ma non comparve nessuno. Sulla grande casa si stendeva il silenzio. Premette dei pulsanti, ma non vi fu nessuna risposta. Pendrake buttò il cappello su una sedia, guardò nel soggiorno deserto, poi si avviò verso la cucina. — Sybil — cominciò, irritato. — Voglio... Si fermò. Il riverbero della sua voce echeggiò nella cucina vuota. Non c'era traccia della cuoca né delle due graziose aiutanti, né in dispensa né nel magazzino. Pochi minuti dopo Pendrake stava salendo la scala, quando un suono di voci sommesse gli sfiorò le orecchie. Il suono veniva dal salotto del piano superiore. Con la mano sul pomo della porta, si fermò quando un silenzio spasmodico fu rotto dalla chiara voce di Anrella. — Non è necessario discutere. Alla mia età, non mi sento
affatto posses-siva. Non hai bisogno di persuadermi che il povero Jim è la sola persona adatta per quel lavoro. Che altro avete fatto, senza dirmelo? — Stiamo riportando indietro sua moglie. — Con grande stupore di Pendrake, quella era la voce di Peter Yerd, uno dei clienti milionari della Società Nesbitt. — Oh! — Dovrebbe arrivare a Crescentville tra un paio di mesi o giù di lì. — E cosa le direte? — La voce di Anrella era fermissima. — Non abbiamo ancora deciso, ma se le affidiamo Jim quando lei ritorna, e lei vede in che condizioni è e deve curarlo, non darà fastidi a nessuno. — Questo è vero. — Anrella sembrava pensierosa. — Che altro avete fatto? Fu la voce di Nypers a risponderle, e per un attimo questo sbalordì Pendrake più di tutto il resto. Ma certo, pensò poi. Che altra spiegazione c'era, per ciò che il vecchio gli aveva detto? Non poteva non essere uno dei cospiratori. Quando Pendrake si riprese dal colpo, si accorse che Nypers stava nar-rando la conversazione del mattino. Nypers ridacchiò.
— Ho potuto notare che gli ha fatto effetto; più tardi ha chiesto parecchi documenti. Quindi ha cominciato subito a pensarci sopra. La voce asciutta del vecchio continuò: — Mi sono scoperto insospettate qualità per l'intrigo. Ho fatto tutto quello che ero stato incaricato di fare nell'ultima riunione. Sconvolgere il signor Pendrake è stato abbastanza facile, ma il colloquio con il Presidente Dayles ha reso necessario, come so-spettavamo, una cautissima formulazione di risposte per via del rivelatore di menzogne. Poiché, essenzialmente, ho detto la verità non temo nessuna ripercussione, anche se credo che quella donna ci rintraccerà. Temo sia un rischio che dobbiamo correre. — E finì, con tranquilla convinzione: — Secondo me, il momento di informare il Presidente era quello, quando aveva la possibilità di incontrare faccia a faccia il signore Pendrake. — Non abbiamo scelta — disse una nuova voce. E Pendrake rimase di nuovo stupito, poiché era la voce di Nesbitt, il proprietario della Società Nesbitt. — Minacciano di annientarci. Quei delitti sono stati commessi come se qualcuno avesse compreso la portata dell'intero progetto Lambton. Se non ci siamo sbagliati - se i responsabili sono i tedeschi orientali che agiscono dietro istruzioni sovietiche allora non è più sufficiente un'azione privata. Abbiamo
bisogno d'aiuto. Dobbiamo chiamare in causa il governo. E questo ha reso necessario l'incontro preliminare con il Presidente Dayles. La voce di Nickson, il maggiordomo, intervenne con fermezza: — Eppure, ciò che stiamo facendo corrisponde a un ultimo sforzo da parte di privati. Mentre Pendrake cercava di comprendere come mai persino i servitori erano personaggi importanti in quel gruppo, Sybil, la cameriera, disse con tranquilla autorità: — Anrella, abbiamo pensato addirittura di mandare Jim sulla Luna. — E perché mai? — Anrella sembrava sinceramente sorpresa. — Mia cara — rispose Sybil, — stiamo per giungere a un momento molto delicato, ed è tempo di controllare la versione del defunto signor Lambton circa l'origine del motore. — Bene — fece Anrella, dopo una pausa. — Certamente Jim è la persona più adatta per andare, poiché è l'unico che non può rivelare i nostri segreti, se qualcosa andasse male. — Sembrava rassegnata. Più tardi Pendrake imprecò contro se stesso per essersene andato in quel momento. Ma non poté farne a
meno. La paura si impadronì di lui: la paura di essere scoperto lì, in quel momento, prima di poter riflettere su ciò che aveva udito. Scese le scale, afferrò il cappello e si diresse verso la porta. Quando uscì all'aperto, vide per la prima volta che c'era una decina di macchine ferme dietro la casa. Quando era entrato, era stato troppo assorto per accorgersene. Qualche minuto dopo, stava guidando la sua macchina attraverso i cancelli di ferro, lungo la vecchia viuzza di campagna che portava alla strada per la città. Aveva la ferrea convinzione che lo attendesse un pomeriggio di caos mentale.
CAPITOLO OTTAVO I giorni passarono in fretta, e la vita continuò. Ogni mattina, eccetto il sabato e la domenica, Pendrake saliva in macchina e andava al lavoro. Ogni sera tornava nella grande casa dietro la cinta di ferro, verso un pranzo serale che veniva servito in un ambiente im-peccabile da servitori espertissimi, verso un piacevole, tranquillo periodo di lettura nel suo studio, e finalmente verso il letto che divideva con una donna bella e innamorata. Gli eventi che l'avevano tanto turbato cominciarono a sembrare un po' ir-reali. Ma non li dimenticò; pensava consciamente a se stesso come a un uomo che viveva una vita non sua. La mattina del diciassettesimo giorno arrivò la lettera con il suo certificato di nascita. Pendrake lo lesse con soddisfazione e, ammise francamente di fronte a se stesso, con sollievo. Era lì, nero su bianco: James Somers Pendrake. Nato il 1° giugno 1940, a Crescentville, Contea di Goose Lake, da John Laidlaw Pendrake e da Grace Rosemary Somers... Era nato. La sua memoria non l'aveva ingannato. Il mondo
non era completamente capovolto. C'era una lacuna nella sua memoria, non un abisso. La sua posizione era stata quella di chi si trova in equilibrio, su un piede solo, davanti a un precipizio di immensità incommensurabile. Ora si sentiva un uomo che sta a cavallo di una fossa stretta, anche se profonda. Era vero che bisognava riempire quella fossa, ma in ogni caso poteva continuare il suo cammino senza l'orribile sensazione di vacillare nell'oscurità sull'orlo d'un precipizio. Pendrake si sentì afferrare da una profonda stanchezza. Barcollò, si riprese, quindi si appoggiò pesantemente alla spalliera della poltrona. Accidenti, sono sul punto di svenire, pensò stupito. La nausea svanì. Cautamente, Pendrake si alzò e riempì d'acqua un bicchiere. Tornò a sedersi, portò il bicchiere alle labbra... e vide che la mano gli tremava. Questo lo sbalordì. Si rese conto di aver permesso che la situazione lo influenzasse. Grazie a Dio, il peggio della parte puramente personale era superato; non del tutto, era vero. Ma per lo meno aveva stabilito la sua origine. Appena fosse arrivato il suo stato di servizio militare, avrebbe avuto una base solida fino all'età di ventiquattro anni. Era una base solida, a pensarci bene. E la sua vita conscia aveva ripreso all'età di trenta-tre anni: c'erano nove anni che doveva ricostruire.
La sicurezza l'abbandonò. Nove anni! Non era certo un breve periodo di tempo. Anzi, era maledettamente lungo. Il suo stato di servizio militare arrivò il pomeriggio del diciannovesimo giorno. Era un modulo stampato, su cui le risposte erano dattiloscritte negli appositi spazi bianchi. C'era il suo nome, la sua età... l'unità delle Forze Aeree... il nome del parente più prossimo, «Eleanor Pendrake, moglie»... Ferite: «Amputazione del braccio destro, sotto la spalla, resa necessaria da lesioni causate da un incidente al caccia...». Pendrake spalancò gli occhi. Ma aveva ancora il braccio destro, pensò, con cupa gravità. Quella gravità si infranse quando fissò l'immutabile modulo stampato.
Che errore! , pensò infine. Qualche stupido, al distretto, ha scritto un dato sbagliato. E mentre una parte del suo cervello sviluppava quella discussione, un'altra parte accettava tutto, accettata e sapeva che non c'erano errori, che non v'era nulla di sbagliato in quel modulo. L'errore non era in qualche ufficio governativo. Era lì, in lui. Ma non poteva più ingannarsi. Ovviamente, non era il Jim Pendrake descritto da quei documenti. Era perciò venuto il momento di affrontare coloro che conoscevano la sua identità. Qualsiasi fosse stato il loro
scopo, quando gli avevano instillato la convinzione di essere Jim Pendrake, ora doveva venire dichiarato. Erano le quattro quando varcò il cancello aperto, alto otto metri, e guidò la macchina lungo il viale, che si snodava pittorescamente tra gli alberi. Portò la macchina nel grande garage. L'autista di Anrella, che fungeva anche da meccanico nella proprietà, si avvicinò. — È arrivato a casa presto, signor Pendrake — disse Gregory. — Sì! — rispose Pendrake, con il tono deliberato d'un uomo deciso. Mentre attraversava il giardino verso le porte-finestre, un'ombra scivolò sul suolo dietro di lui. Alzò lo sguardo e vide che un aereo si stava dirigendo verso il suo campo d'atterraggio privato. In rapido ordine, altri quattro aerei seguirono il primo, e scomparvero tutti dietro gli alberi. Pendrake si accigliò per quell'intrusione; Anrella venne alla finestra. — Che cos'era, caro? — gridò. Lui glielo disse e lei replicò, sbalordita: — Aerei! — E immediatamente aggiunse: — Jim... salta in macchina!
Vattene subito! Pendrake la fissò. — Sarà bene che venga anche tu. Lei ubbidì correndo, il che era già strano. Mentre saliva in macchina, lo incalzò, ansimando. — Jim... se tieni alla tua libertà... presto! Mentre la macchina si lanciava verso il cancello che si apriva sulla strada di Alcina, Pendrake vide due jeep avanzare lungo il viale e bloccargli la strada. Rallentò e, poiché avrebbe dovuto fare dietro-front per allontanarsi, si fermò. Una delle jeep si avvicinò rombando. Le donne dallo sguardo freddo che erano a bordo gli puntarono contro delle pistole con la maggiore tenerezza che Pendrake avesse mai visto. Gli fecero cenno di ritornare verso la casa. Ubbidì, senza una parola, ma aveva già riconosciuto in quelle donne le agenti speciali del Presidente Dayles, e questo lo sollevò visibilmente. Avvicinandosi alla casa, vide che l'intera banda era stata circondata. Riuniti in giardino c'erano Nesbitt, Yerd, Shore, Cathcott e tutti i servitori, compreso Gregory; nel complesso, quasi quaranta persone erano in fila davanti a una specie d'arsenale di mitra impugnati da cento donne. — Era lui! — riferì la capitana del plotoncino che aveva
catturato Pendrake. — Avevi ragione di pensare che avrebbero cercato di portarlo via in gran fretta. La donna cui aveva fatto rapporto era giovane e bella, ma molto seria in viso. Annuì seccamente e ordinò, con voce profonda: — Sorvegliate Jim Pendrake notte e giorno. Soltanto sua moglie avrà il permesso di avvicinar-lo. Tutti gli altri verranno trasportati in aereo alla prigione di Kaggat. Presto! Pochi minuti più tardi, Pendrake era solo con Anrella. — Cara — chiese lui, con voce tesa, — che significa tutto questo? — Gli sembrava che quella rivelazione suprema non potesse più venirgli negata. Lei era ritta accanto alla finestra del grande soggiorno, e guardava fuori. Si voltò e gli venne accanto, l'abbracciò. Lo baciò leggermente sulla bocca. Poi si piegò all'indietro e scosse il capo. C'era un lieve sorriso ironico sulle sue labbra. Nel cervello di Pendrake esplose un furore di reazione. Era vagamente conscio, mentre si strappava dall'abbraccio di Anrella, che la subitaneità della sua ira dimostrava quanto si fossero logorati i suoi nervi durante quelle settimane.
— Devi dirmelo! — gridò furente. — Come posso pensare qualcosa, se non so nulla? Non capisci, Anrella... Si interruppe. Sul viso di lei c'era sempre la stessa espressione divertita. Un po' della sua collera svanì, ma era ancora irrigidito, vagamente offeso, quando riprese a parlare. — Immagino che tu sappia — disse, — che nessuno può avere mandato quelle amazzoni tranne Jefferson Dayles. Se tu lo sai, e sai il perché, dim-melo, in modo che io possa studiare una via d'uscita. — Non c'è nulla da studiare — replicò lei. — Tanto vale che rimaniamo relegati qui. Pendrake la fissò. — Sei pazza? — disse. Si sentì all'improvviso travolto da un'irresistibile impulso e urlò: — Ho sentito qualcosa, durante la vostra riunione, quel giorno. Il viso di Anrella cambiò. Il sorriso svanì. — Quale riunione? — chiese, seccamente. Quando lui glielo disse, si mostrò preoccupata. — Che cosa hai sentito?
— Hai detto qualcosa a proposito di un cambiamento. Che significa? Un cambiamento in che cosa? L'espressione di Anrella mutò di nuovo. La preoccupazione era scomparsa. — Credo che tu non abbia sentito molte cose. Il cambiamento è in te. Questo è quanto ti dirò. Lui tese una mano verso Anrella, come se cercasse a tentoni nell'oscurità. — Mi hai già detto questo. Perché non mi dici di più? Anrella era di nuovo divertita. — Non ti ho detto nulla — ribatté. Gli si avvicinò, tornò ad abbracciarlo e lo guardò con occhi che erano intelligenti e saggi e dolci e sorridenti. — Jim — disse, — il cambiamento avviene con estrema rapidità quando tu sei sottoposto a una tensione, e lo sei, non è vero? — Si interruppe. — È stato piacevole per te, Jim, no? Due anni di piacere inalterato.
Era troppo incollerito per considerare la verità di quelle parole. E scattò: — Secondo ciò che ho sentito, tu non sei neppure mia moglie. — Quindi ti abbiamo procurato una compagna, — disse lei. — Dovrai ammettere che è stato tutto gratis. Anzi, sei stato ben pagato. Poiché Pendrake era di quell'umore, quella frase suonò come un insulto conclusivo. — Io non sono il tipo del gigolò — dichiarò bruscamente, girò su se stesso e lasciò la stanza. Sentiva che tutto era finito, con Anrella. Quella sera, dopo che furono andati a letto, Anrella disse: — Può darsi che rimaniamo qui per molti mesi. Intendi essere ostile verso di me per tutto questo tempo? Pendrake si voltò e la guardò; Anrella era sdraiata sull'altro letto. Con voce secca e brusca fece: — Mesi? — Si sentiva stordito. Presumibilmente la sua prigionia sarebbe finita, prima o poi... per un motivo che lei conosceva. Si calmò, con uno sforzo. — Non intendi dirmi nulla? — chiese. — No.
— Ma vorresti continuare a giocare a marito e moglie? — Come sempre. Pendrake scosse il capo, ma non riuscì a sentirsi adirato; la sua non fu una ripulsa totale. — Ci penserò su — disse lentamente, — ma forse tu sai che un uomo non è capace di starsene immobile in una situazione come questa. Perlo-meno, io non ne sono capace. — Fai come ti senti — fu la risposta di lei. — Ma non essere ostile. Pendrake la fissò, sconcertato. — Se mi arrendo a questo pensiero — disse, — diventerò soltanto un mangiatore di loto. Passerei i giorni e le settimane in sogno, in un idillio sessuale. — Non è il peggio che possa capitare. — Lei rise, sommessamente. — O no? — Ecco il lato che cerca di annullare la mia volontà — replicò lui. — E la mia vera moglie?
Una sfumatura di rossore le salì alla guance. Quando parlò, assunse un tono lievemente difensivo. — Mi sono decisa ad accettare questa relazione solo quando fummo certi che tu e lei non vivevate più insieme da anni. — E aggiunse: — Credo che tua moglie avesse deciso di ritornare con te, ma non era ancora accaduto. Pendrake, che aveva formulato la sua domanda quasi controvoglia quell'altra vita era irreale - tornò a guardare Anrella. Era di nuovo serena, perché tornò a sorridergli. L'estate trascorse in un sogno. Come Pendrake aveva previsto, diventò irrequieto. Ma solo quando cominciarono ad apparire i primi segni dell'autunno, decise finalmente che era venuto il momento di svegliarsi.
CAPITOLO NONO Pendrake strinse il sasso. Cercava di darsi un'aria distratta con tanto im-pegno che la mano gli tremava. Era allarmato, temeva di tradirsi. Si distese sull'erba vellutata, circondato dalle sue sette guardiane. Il sasso aveva cinque centimetri di diametro: cinque centimetri di pietra inerte. Eppure conteneva, nella sua massa minuscola, tutta la sua speranza; e Pendrake tremò, per un attimo. Gradualmente, tuttavia, si quietò e si preparò ad attendere i ragazzi. Ogni sabato, da quando era cominciata la scuo-la, all'inizio di settembre, aveva sentito le loro voci acute, a quell'ora del giorno. Quel suono veniva da oltre una cortina d'alberi che nascondevano al suo sguardo la cancellata di ferro: la cancellata che circondava completamente la tenuta, diventata ormai il suo penitenziario personale. Gli alberi e la cancellata separavano i ragazzi da lui, e lui da tutto il mondo. Non aveva pensato che l'evasione richiedesse tanti piani, progetti così complicati, e due lunghi mesi di attesa priva di eventi. Durante quei mesi aveva smesso di chiedersi perché dall'ufficio non veniva nessuno a informarsi sul suo conto; senza dubbio, qualcun altro doveva dirigere ora la ditta. Aveva ormai rinunciato a discutere seriamente con Anrella. Lei non ne voleva
sapere. Era una situazione avvilente. Fra qualche minuto i ragazzi sarebbero passati di lì, con le loro canne da pesca, dirigendosi verso lo stagno poco lontano. E lui non poteva contare su altro che sul suo piano... Che cos'era? Alla fine comprese che era un suono, una debole vibrazione di risate fanciullesche, ancora lontane. Ma era venuto il momento. Pendrake giacque immobile, studiando nervosamente le possibilità. Due delle donne se ne stavano tranquille sull'erba, a tre metri da lui, a destra. Altre tre donne oziavano alla sua sinistra, a due metri di distanza, un po' indietro rispetto a lui. Non si sentiva di sottovalutarle. Non dubitava che gli fossero state assegnate guardie abbastanza forti da ridurre alla ragione uomini della loro stessa mole. Delle altre due, una stava ritta dietro di lui a una distanza di circa due metri. L'altra era davanti a lui, a un metro e mezzo, tra lui e gli alti alberi che nascondevano la cancellata oltre la quale sarebbero passati i ragazzi. Gli occhi grigiofumo di quella poderosa creatura sembravano assorti e distratti, come se la sua mente fosse altrove. Pendrake sapeva che
non c'era da fidarsi. Quella donna era una delle macchine di Jefferson Dayles, ed era la cosa più pericolosa tra quelle che lo circondavano. Il suono che precedeva i ragazzi si avvicinava. Pendrake sentì il sangue pulsargli alle tempie, mentre si infilava una mano in tasca, con forzata calma, e ne estraeva lentamente un cristallo di vetro. Tenne il minuscolo oggetto tra le dita, lasciando che i raggi del sole mattutino ne incendiassero di riflessi le profondità. Il cristallo lampeggiò, mentre Pendrake lo lanciava in aria. Quando lo riafferrò, nascondendone la fulgida luce, fu preternaturalmente consapevole degli sguardi puntati su di lui, delle sentinelle che lo sorvegliavano, non con sospetto ma con grande attenzione. Tre volte Pendrake lanciò il cristallo in alto, per parecchi metri, verso il cielo. Poi, come se si fosse bruscamente stancato del gioco, lo gettò al suolo, a una distanza di circa un braccio. Il cristallo giacque scintil-lando al sole: era l'oggetto più lucente attorno a lui. Aveva preso in attenta considerazione quel cristallo. Era ovvio che nessuna delle guardie poteva mantenere su di lui un'osservazione concentrata. Doveva suppore che solo tre delle sette donne lo fissavano con attenzione in un determinato istante. Quando finalmente si fosse mosso, anche quelle tre avrebbero dovuto guardare due volte, perché la fiamma riflessa del
cristallo avrebbe confuso la loro vista e avrebbe distorto la loro immagine mentale da ciò che lui stava facendo in realtà. Quella era la sua teoria... e i ragazzi erano più vicini. Le loro voci si alzarono e si abbassarono, in un lieto chiacchiericcio, ora in orgogliose vanterie, ora in affermazioni; ora una voce diventava domi-nante, ora parlavano tutti insieme. Era impossibile tentare di indovinare quanti fossero. Ma erano là, realtà fisiche: le presenze che gli erano necessarie per il suo piano d'evasione. Pendrake trasse il libro dalla tasca sinistra della giacca. L'apri, pigramente, non al punto contrassegnato, ma guardando qua e là, per perdere tempo, per dare alle donne il tempo necessario per adattare le loro menti al fatto, immensamente normale, che lui si accingeva a leggere. Attese ancora un attimo. E poi... depose il libro sull'erba, con l'orlo superiore appoggiato contro il sasso. A questo punto aprì con decisione il libro al contrassegno, che era un foglio di carta da notes. Per le guardie, quella lettera somigliava esattamente ai molti altri pezzi di carta bianca che aveva usato negli ultimi due mesi per prendere appunti. E, cosa ancora più importante, era bianca. Nonostante la sua decisione di porre fine a una prigionia
intollerabile, non aveva nulla da dire, in realtà, alle autorità locali. Fino a che non sapeva che cosa significava quella maledetta faccenda, si trattava di un suo problema personale. Una volta libero, poteva occuparsene a modo suo. Se ne sentiva in grado. Vi fu un movimento alla sua destra. Pendrake non alzò lo sguardo, ma il cuore gli si trinse. Le due donne dalle quali non si era atteso la minima in-terferenza stavano dando segni di vita. Era un maledetto contrattempo. Ma non poteva più indugiare, ormai. Le sue dita toccarono la missiva bianca; sudando, la spinse sotto l'orlo del libro, proprio sopra il sasso. Il foglio, con gli elastici accuratamente attaccati, che dovevano essere solo infilati nel sasso per abbracciarlo con decine di minuscoli fili di gomma, fu sistemato rapidamente. Con un grido - per sbalordire le donne - balzò in piedi e, con tutta la sua forza, scagliò il sasso e il suo carico bianco e svolazzante. Non ebbe tempo di recuperare l'equilibrio per proteggersi. Due corpi gli piombarono simultaneamente addosso da angoli diversi, lo fecero volare nell'aria per tre metri. Pendrake rimase disteso dove era caduto, stordito dal colpo, ma con la certezza di non essere ferito. Udì la capitana, la donna che poco prima era ritta di fronte a lui, impartire secchi ordini: — Carla, Marian, Jane... tornate
alla casa, prendete la jeep... impedite a quei ragazzi di avvicinarsi al paese. Nancy, tu ed io scavalcheremo la cancellata e inse-guiremo i ragazzi e cercheremo quella lettera. Olive, tu resta qui con il signor Pendrake. Pendrake udì il rumore dei passi, mentre le guardie correvano via. Attese. Doveva dar loro tempo. Doveva dare a Nancy e alla capitana il tempo di scavalcare la cancellata. E poi... veniva il secondo passo. Dopo due minuti cominciò a gemere. Si levò a sedere. Vide che la donna lo stava osservando. Olive era una bella donna, un po' troppo ossuta, dalle labbra sottili. Si avvicinò. — Ha bisogno d'aiuto, signor Pendrake?
Signor Pendrake! Quella gente, quell'educata sollecitudine lo facevano impazzire. Era detenuto illegalmente. Eppure, tutto era fatto con delicatezza. Ma, se mai poteva fuggire, doveva fuggire adesso! Quel trucco per sba-razzarsi delle sue guardie non poteva essere ripetuto. Pendrake finse di fa-ticare per sollevarsi su un ginocchio. Poi scosse il capo come se fosse ancora stordito. Alla fine mormorò: — Mi dia una mano. Non aveva pensato che la donna lo avrebbe veramente aiutato, anche se questo era possibile, considerando la premura di tutte verso di lui.
La donna ubbidì. Si avvicinò e fece per piegarsi. E in quel momento Pendrake scattò. Non c'era pietà in lui, nell'attimo in cui colpì. Quelle donne, con le loro armi e la loro implacabilità, sembravano cercare guai. Un fulmineo undue alla mascella pose fine a quel primo scontro. Olive crollò come un tronco abbattuto. Con assoluto abbandono, proprio come se stesse attaccando un uomo, Pendrake le balzò addosso e la fece rotolare. Si tolse fulmineamente dalla tasca uno dei bavagli che aveva preparato. Gli occorse circa un minuto per legarlo sulla bocca della donna. Con più calma, ma senza sprecare energie, Pendrake si alzò la camicia e cominciò a sciogliere la lunga fascia di tela che aveva avvolto attorno alla cintura. Mentre la donna si agitava debolmente, cominciò a legarla. Questo richiese un po' più di tre minuti. Si alzò, tremante ma calmo. Non sprecò neppure un'occhiata sulla prigioniera, ma si allontanò a grandi passi, tenendosi per un po' parallelo alla cancellata. Infine si spinse tra gli alberi, studiò il terreno oltre le sbarre: era come lo ricordava, coperto fitta-mente di alberi. Soddisfatto, Pendrake si accostò alla cancellata e cominciò a scalarla. Come aveva scoperto durante il suo primo tentativo, più di due mesi prima, la cancellata non era difficile da scalare. Era quasi come arrampicarsi su una fune.
Arrivò in cima, impaziente, e si sollevò al disopra delle punte di lancia delle sbarre. Poi si accorse di essere stato troppo impaziente. Scivolò. E allora commise un secondo errore: l'errore istintivo di cercare cieca-mente di salvarsi. Mentre cadeva, una delle lance gli pugnalò l'avambraccio destro, appena sotto il gomito, e lo trapassò. Rimase lì appeso, con il braccio infilzato a quell'uncino. Il dolore proruppe e ruggì in tutto il suo corpo, e qualcosa di caldo, di salato e di viscido gli sprizzò contro la bocca e negli occhi: un orrore soffocante e accecante. Per qualche secondo non vi fu altro. Si stava sollevando. Quella fu la prima cosa che Pendrake seppe, al disopra della lacerante sofferenza. Si sollevava con il braccio sinistro e simultaneamente cercava di liberare l'avambraccio destro dalla rozza lancia scura che l'aveva trapassato. Si sollevava! Riusciva a farcela! Ci riusciva! Tremando, cadde dall'altezza di sei metri, fino al suolo. Fu un duro colpo. I muscoli del suo corpo erano corde contratte dal dolore. L'urto fu un colpo massacrante ricevuto da parte di quell'ariete di ses-santasei milioni di milioni di miliardi di tonnellate che era la Terra. Cadde; poi
si rialzò come un animale, e nel suo corpo martoriato c'era soltanto un impulso. Andarsene! Andarsene di lì! Loro sarebbero venute a cercarlo. Doveva andarsene! Via! Nessun altro pensiero cosciente sfiorò Pendrake fino a che arrivò al ruscello. L'acqua era calda, ma era un calore autunnale. Placò le sue labbra brucianti; riportò la lucidità nei suoi occhi febbrili. Si sciacquò il viso, poi si strappò la manica della giacca e immerse il braccio, lo lavò. L'acqua diventò rossa. Il sangue sgorgò e ribollì da una ferita così aperta e così orribile che Pendrake vacillò ed ebbe appena il tempo di ributtarsi indietro, sulla riva erbosa. Non ebbe idea di quanto rimase lì. Ma alla fine pensò: Devo mettermi un laccio, se non voglio morire. Con uno sforzo di volontà enorme, si strappò la manica della camicia, umida e insanguinata, e l'avvolse bene attorno alla parte superiore del braccio. L'attorse con un pezzo di ramo d'albero, l'attorse così strettamente che i muscoli gli dolsero. L'emorragia cessò. Si rimise in piedi, barcollando, e cominciò a seguire il ruscello. Quella era stata la sua intenzione, e adesso il suo corpo la ricordava. Era più facile seguire una rotta scelta in precedenza che escogitarne una nuova. Passò del tempo. A un certo punto incontrò qualcuno e disse: — Mi sono ferito al braccio! Dove c'è un dottore, qui vicino?
Dovette esservi stata una risposta. Perché dopo un altro intervallo incal-colabile di tempo, si accorse di camminare lungo una strada coperta dal fogliame autunnale. Ogni tanto si accorgeva di cercare una targa con un nome. Ormai da tempo, il braccio era completamente intorpidito. Penzolava lungo il fianco, dondolando mentre lui camminava, ma era il dondolìo privo di vita d'un oggetto inanimato. Era più debole, e la debolezza l'opprimeva come un peso. Continuava a toccare il laccio per essere sicuro che non si allentasse e non permettesse al sangue che ancora gli rimaneva di fluire via. Poi salì dei gradini, in ginocchio. — Gesù! — disse una voce d'uomo. — Che c'è? Vi fu una lunga lacuna, attraverso la quale una voce riusciva a penetrare a intervalli; poi si trovò in un'automobile, e la stessa voce gli parlava e svaniva nelle sue orecchie. — Chiunque lei sia, è stato incredibilmente sciocco. Ha tenuto quel laccio per almeno un'ora. Non lo sapeva che i lacci devono essere allentati ogni quindici minuti... per lasciare che il sangue scorra... il braccio deve avere sangue per rimanere vivo. Adesso non c'è altro da fare che amputare!
CAPITOLO DECIMO Pendrake si svegliò improvvisamente e, girando il capo, fissò stordito il moncherino del braccio. La spalla era tenuta sollevata da una specie di fascia, e il braccio era nudo, ben visibile. Una lampada a infrarossi l'inondava di calore, e il resto del suo corpo si sentiva perfettamente a suo agio. Non provava affatto dolore. Il braccio non sanguinava, e ne sporgeva un'escrescenza, una cosa contorta, rosea e carnosa che sembrava una parte lacerata del braccio martoriato che per qualche ragione non fosse stata amputata. Poi vide che aveva una forma. Guardò, con gli occhi sbarrati, e in lui c'era il ricordo di un documento che aveva letto: «amputazione del braccio resa necessaria da...» Si addormentò mentre cercava di risolvere quel rompicapo. In lontananza, una voce maschile stava dicendo: — Non c'è più dubbio. È un braccio nuovo che sta crescendo al posto di quello
amputato. Abbiamo fatto un lieve intervento chirurgico... anche se, come ho detto a Pentry, che io sia impiccato se non credo che quella escrescenza sia fondamentalmente così sana da non aver bisogno di assistenza medica. Occorreranno molti giorni prima che riacquisti la piena conoscenza. Il trauma, sa bene. La voce svanì, poi ritornò: — Cellule toti-potenti... toti-potenti. Abbiamo sempre saputo, naturalmente, che in ogni cellula umana è latente la forma dell'intero corpo; in tempi remotissimi, a quanto pare, il corpo umano aveva adottato la strada più semplice per riparare i tessuti danneggiati. Vi fu una pausa. Pendrake ebbe la netta impressione che qualcuno si stesse fregando le mani, soddisfatto. Una seconda voce maschile mormorò qualcosa di incomprensibile, poi la prima voce continuò, risonante: — Non abbiamo ancora nessuna notizia sulla sua identità. Il dottor Philipson, che lo ha portato qui, non l'aveva mai visto prima. Naturalmente molta gente di Big Town e di Middle City abita nel distretto di Alcina, ma... No, non daremo pubblicità alla cosa. Vogliamo prima osservare gli ulteriori miglio-ramenti di quel braccio. Sì, le telefonerò. La seconda voce sussurrante disse qualcosa, e poi si udì il rumore d'una porta che si chiudeva.
Il sonno scese con un dolce lenzuolo d'oblio. Quando si svegliò di nuovo, non sapeva chi era. Se ne rese conto quando un'infermiera, accorgendosi che era sveglio, chiamò il dottore. Questi entrò, seguito da una seconda infermiera, con un taccuino in mano. Il dottore sedette, allegrissimo, e disse in tono vivace: — E adesso, signore, qual è il suo nome? L'uomo disteso sul letto lo fissò, perplesso. — Il mio che cosa? Il dottore sembrò perdere un po' della sua eccitazione. La sua voce era già più smorzata quando chiese, lentamente: — Come la chiamavano? Lei sa... il suo nome? L'essere senza nome se ne rimase fermo, molto quieto. Non aveva nessuna difficoltà ad afferrare quel concetto. Senza sapere come l'avesse compreso, si rese conto che quello era il dottor James Trevor e che questo era un nome. Alla fine scosse il capo. — Provi! — l'incalzò l'uomo. — Cerchi di ricordare! Un rivolo di sudore scese lungo il volto di Pendrake. Nel suo corpo magro e forte sentì la crescente tensione di uno sforzo enorme, poi vi fu un dolore acuto e improvviso nel braccio. In maniera molto vaga, era conscio della figura
bianca e inamidata della sua infermiera, e dell'altra infermiera che sedeva, con la matita puntata sul taccuino, e della notte buia, oltre la finestra. Scacciò il dolore dalla sua mente e, con tutta la sua forza mentale, cercò di penetrare il caos confuso che si stendeva come una nuvola sulla sua memoria. Si stavano formando vaghe immagini, pensieri informi e spettra-li, ricordi di giorni indescrivibilmente oscuri e remoti. Non era un ricordo, ma il ricordo di un ricordo. Era prigioniero in una piccola isola di impressioni del momento, e il mare terribile del vuoto che lo circondava lo incal-zava, più forte a ogni minuto, a ogni secondo. Con un singulto lasciò che la pressione dello sforzo si allentasse. Fissò il dottore, impotente. — È inutile — disse semplicemente. — C'è qualcosa a proposito d'una cancellata e... Che città è questa? Forse potrà aiutarmi il saperlo. — Middle City — rispose il dottore. I suoi occhi bruni osservarono con attenzione Pendrake. Ma quello scosse il capo. — E Big Town? — chiese il dottore. — È una città a sessanta chilometri da qui. Il dottor Philipson l'ha portata a Middle City, da Alcina, perché conosce gli ospedali di qui. — Ripeté lentamente: — Big Town!
Per un attimo sembrò esistesse una vaga familiarità. Poi Pendrake scosse il capo. Interruppe quel lieve movimento quando un'idea lo colpì. — Dottore, come mai ricordo la nostra lingua, quando tutto il resto è co-sì poco chiaro? Il dottore lo fissò, cupo, senza sorridere. — Fra qualche giorno non riuscirà più a parlare, a meno che lei dedichi tutto il tempo possibile a leggere e a parlare, per mantenere vivi questi particolari riflessi condizionati. Notò che il dottore si scostava da lui, per rivolgersi alle due infermiere. — Voglio un resoconto particolareggiato, scritto a macchina, che dovrà venire presentato al paziente, dovrà contenere la storia completa del suo caso clinico, almeno per quanto ne sappiamo noi. Fate portare qui una radio e... — si volse di nuovo verso il letto, sorridendo cupamente. — E lei la terrà accesa. Ascolterà anche le commedie sentimentali, se non ci sarà nient'altro. E quando non ascolterà e non dormirà, legga, legga a voce alta. — E se non lo farò? — Le sue labbra erano aride come la cenere. — Perché debbo farlo?
La voce del dottore era grave. — Perché, se non lo fa, il suo cervello diventerà vuoto come quello di un neonato. Possono esservi altre reazioni... — ed esitò. — Ma non sappiamo quali. Sappiamo che lei sta dimenticando il passato, con una velocità im-pressionante. Noi pensiamo che ordinariamente le cellule del corpo e del cervello umano sono usate e riparate in continuazione. Ogni ora, ogni giorno, i nostri miliardi di cellule-memoria sono sottoposte a quella ri-parazione, e a quanto pare, nel restauro, la piccola onda di memoria elettricamente accumulata non viene danneggiata. A lungo andare, senza dubbio, la sostituzione dei tessuti diminuisce la memoria. Ora, nel suo caso, è diverso. Lei, in questo momento, ha cellule totipotenti. Invece di venir riparate, le cellule del suo braccio sono state sostituite da cellule sane, nuove di zecca; e quelle nuove cellule non hanno nulla dei ricordi contenuti nelle vecchie, perché la memoria non è ereditaria. Se anche ricordano, non esiste il meccanismo per trasmettere questo ricordo. Di conseguenza, lei ha cellule potenzialmente capaci di accumulare ricordi come le vecchie cellule, ma tutto ciò che lei può accumulare in esse prima che vengano a loro volta sostituite saranno le impressioni acquisite nella sua mente in un periodo di una settimana, diciamo, o un po' più lungo. A quanto pare, il processo di toti-potenza, cominciato nel braccio, si è diffuso per tutto il corpo. Questa completezza è piuttosto
sorprendente, perché gli esperimenti di laboratorio sui vermi chiamati planarie hanno stabilito che i riflessi condizionati vengono mantenuti nei tessuti nuovi. Possiamo supporre che questi ricordi la-sceranno qualche traccia. Ma evidentemente le parole e le azioni imparate scendono al disotto del livello di utilità. — Ma cosa farò, in futuro? — chiese sbalordito Pendrake. — Abbiamo mandato le sue impronte digitali a Washington — disse il dottore, calmandolo. — Una volta che sia stata stabilita la sua identità, possiamo stabilire un programma continuo di rieducazione basato sulla verità. Nel frattempo, faccia come le ho suggerito. Pendrake fissò l'uomo, e mentre l'osservava gli parve di sentirne l'eccitazione, l'interesse, un po' di simpatia. Ma gli interessa di più il fenomeno che l'uomo, pensò Pendrake. Lui sentiva inoltre che la situazione non era tragica come l'immaginava il dottore e che, completata la ricrescita del braccio, si sarebbe stabilita una condizione di normalità.
CAPITOLO UNDICESIMO Il nuovo arrivato disse: — Io sono il dottor Coro, signor Smith. Sono psicologo, e vorrei sottoporla ad alcuni esami. È d'accordo? L'uomo senza nome disteso sul letto guardò con occhi brillanti il nuovo arrivato. Si accorgeva di essere trattato come un bambino, ma questo non lo turbava. E indovinava, in un modo strano di sapere che era tutto suo, che molti di quegli esami non avrebbero funzionato, con lui. Il perché non era chiaro, e non gli venne in mente di chiedersi come lo sapesse. Ma non disse nulla; si limitò a osservare mentre lo psicologo, ritenendo scontato il suo consenso, stendeva alcune carte sul tavolino accanto al letto, prendeva una sedia e si sedeva. Era un uomo robusto, dai modi fermi e gentili; spiegò pazientemente di aver parlato con il suo dottore, il quale crede che sarebbe un bene per tutti noi sapere che cosa accade nel suo cervello. — È d'accordo? — domandò. Pendrake continuò a tacere. Il miasma di pensieri e di sensazioni che e-salava dal dottor Coro non permetteva altra risposta che un sì. Pendrake non era riluttante; si
limitò ad attendere. Il dottor Coro pose uno dei fogli su una tavoletta e la porse a Pendrake, insieme a una matita. — Questo è un labirinto — disse. — Ora, voglio che lei prenda la matita, ne posi la punta sulla freccia, e poi voglio che lei trovi la strada attraverso il labirinto e la segni con una linea. Pendrake guardò il disegno, vide il passaggio aperto e vi tracciò una linea. Rese la tavoletta allo psicologo che la guardò, sorpreso, ma la depose senza dir nulla. Porse a Pendrake un foglio su cui erano tracciati più d'un migliaio di minuscoli quadrati, disposti in serie di due, uno sopra l'altro. Ogni coppia era numerata; le coppie erano cinquecentonovantaquattro. Il dottor Coro disse: — Le leggerò un'affermazione a proposito di questi numeri. Se la dichiarazione, secondo lei, è valida, segni una croce nel quadrato superiore. Se è falsa metta una croce nel quadrato inferiore. La dichiarazione numero uno è: «Mi piacerebbe fare il bibliotecario». È vera o falsa? — Falsa — rispose Pendrake. — Numero due — disse lo psicologo. — «Mi piacciono le riviste di meccanica». Vero o falso?
Pendrake scrisse in silenzio una crocetta nella casella «falso». Alzò lo sguardo e vide che il dottor Coro l'osservava. Lo psicologo disse pazientemente. — Accertiamoci di aver ben compreso questo test. Vuol dirmi perché non desidera fare il bibliotecario? — Qui mi hanno dato alcuni libri — rispose Pendrake, — e le parole di-storcevano ogni verità che io vedo nel mondo e nella gente attorno a me. Quindi, perché dovrei desiderare di avere qualcosa a che fare con i libri? Inoltre, è un'occupazione femminile. Lo psicologo aprì le labbra come per fare un commento, poi parve cambiare idea. Dopo aver riflettuto un istante, replicò: — Ma questo non vale per le riviste di meccanica. Descrivono processi meccanici, eppure lei ha indicato come falsa anche la seconda affermazione. Perché? — Ho una serie di libri di meccanica, in quello scaffale — rispose Pendrake, indicando i libri con il braccio sinistro. — Sono troppo elementari. Spiegano come fare cose completamente ovvie. — Capisco — fece il dottor Coro. Ma sembrava
sopraffatto. Esitò, poi disse: — Supponiamo che io le affidassi il compito di costruire qualcosa. Come se la caverebbe? — Costruire che cosa? — chiese Pendrake, interessato. Il dottor Coro frugò nella cartella e ne trasse una scatola rettangolare. Si avvicinò al letto e ne vuotò il contenuto sulla coperta. C'erano molte forme di plastica verde, di varie dimensioni. Lo psicologo spiegò: — Qui vi sono ventisette pezzi, e c'è un solo modo di metterli insieme per formare un cubo. Che ne direbbe di tentare? Pendrake separò i pezzi sul letto, per vederli meglio. Senza una pausa, li dispose in uno schema rigoroso che, in circa trenta secondi, creò un cubo perfetto. Rese al dottor Coro l'oggetto completo. Lo psicologo disse, con voce tesa: — Come c'è riuscito? Pendrake esitò; aveva già dimenticato, e sentiva il vago impulso di scu-sarsi. — Lo smonti e lasci che lo rifaccia. Questa volta osserverò il metodo. Senza dir nulla, il dottor Coro rovesciò i pezzi sul letto. Pendrake gli porse il cubo venti secondi più tardi e disse: — È molto meno complesso del modo in cui gli atomi e gli
elettroni sono adattati uno all'altro, quindi non è un problema. Questi pezzi sono modellati in maniera da adattarsi uno all'altro, e basta notare quale si adatta a un altro. Nel metterli insieme, si è limitati soltanto dalla velocità delle mani. Lo psicologo deglutì a vuoto, ma alla fine chiese: — Cosa intende dire? Il modo in cui gli atomi e gli elettroni sono adattati uno all'altro? — È una costruzione fatta di miliardi di sfere lucenti — cominciò Pendrake. Si interruppe, corrugando la fronte. — Non è una buona spiegazione, perché non le dice come vanno le cose, in realtà. Prenda qualla scrivania, per esempio... quella dietro la quale sta seduto lei. Quando io pervado l'area dove le gambe incontrano il pavimento, vedo un fenomeno interessante. — Pervade? — boccheggiò il dottor Coro. L'esame proseguì in questo modo. Circa quattro ore più tardi, quando il dottor Trevor entrò, fu accolto dal giovane psicologo che gli disse, pallidissimo: — Temo che i test che ho portato con me non siano troppo adatti a ciò che ci troviamo di fronte. Secondo i miei test, ha un quoziente d'intelligenza pari a circa cinquecento; è completamente sano di mente o completamente pazzo, e
ha una comprensione dei rapporti spaziali che sembra ope-rare su un livello di percezione extrasensoriale. Dovrò pensarci sopra e ritornare tra qualche giorno. Il medico spiegò che tutti i test avrebbero dovuto essere fatti mentre il processo di rigenerazione era in atto, poiché l'intera struttura cellulare sembrava in uno stato di speciale eccitazione. Predisse che, quando la crescita del braccio sarebbe stata completata, - il che doveva ormai avvenire in pochi giorni - vi sarebbe stato un ritorno alla normalità. — E poi — proseguì, — scopriremo che si tratta di una persona di tipo medio cui deve essere laboriosamente insegnato tutto ciò che non ha serba-to dai suoi istanti finali come essere toti-potente. Il dottore si tolse una lettera dalla tasca. La porse al suo collega, che la lesse e gliela restituì. — Così, si chiama Pendrake — disse il dottor Coro. L'altro annuì. — Scriverò a sua moglie non appena la rigenerazione del braccio sarà completata. Dopotutto, quando starà bene, la cosa migliore per lui sarà trovarsi nelle mani di qualcuno che conosce i suoi precedenti. Dal suo letto, Pendrake disse: — Come ha detto che è il mio vero nome?
I due uomini si voltarono e lo guardarono, sorpresi. Si erano comportati come se fossero in presenza di un oggetto, o almeno di qualcosa che non sapeva pensare. E adesso, come un bambino precoce, quel paziente richiedeva la loro attenzione. Il dottor Trevor esitò, poi rispose: — James Pendrake. Questo nome le sembra familiare? Non lo era affatto. — Continui a ripeterlo — disse il dottore, — fino a che vi si sarà abitua-to. — Questa è sua moglie, la signora Eleanor Pendrake — disse soddisfatto il dottore. Pendrake era stato preavvertito dell'arrivo di lei, così guardò con genuina curiosità la giovane donna, snella e graziosa, che si era fermata sulla soglia. Non riusciva a ricordare di averla mai vista, prima, ma lei si avvicinò prontamente, l'abbracciò, lo baciò sulle labbra. Poi si trasse indietro. — È lui — dichiarò; sembrava che avesse appena varcato i cancelli d'una prigione e fosse improvvisamente libera. Guardò il dottore, con gratitudine. — La ringrazio per averci riuniti — disse. — Fra quanto
potrò portarlo via di qui? — Oggi — fu la risposta. — Dal momento che avrà un'adeguata assistenza medica, la sua casa è il luogo migliore per riacquistare... — esitò. — Per ricostruire la sua memoria. E non si preoccupi. Non daremo pubblicità alla cosa. Parlerò io con il suo medico. Come lei probabilmente sa, l'ordine dei medici scoraggia la pubblicazione prematura dei dati relativi a un caso clinico. Faremo uno studio sulla guarigione di suo marito, ma non emetteremo una relazione in proposito per tre, quattro, o cinque anni. Pendrake non ritornò mai alla «normalità». Qualcosa delle sue insolite capacità rimase. Ma non era più soltanto una condizione autoprotettiva. Mentre prima gli era bastato guardare le cose e le persone, senza interesse ad alcun verbalismo al loro riguardo, adesso era ansioso di conoscere tutti i dati possibili. I libri, con le loro informazioni, divennero importanti. Nella casa della tenuta Pendrake di Crescentville, il suo cervello venne ben presto sottilmente diretto su canali erronei. Eleanor si comportò in modo molto femminile, in quanto non riuscì a trattenersi dall'alterare i fatti della loro lunga separazione. Poiché questo richiese un
cambiamento in molti altri fatti personali, Eleanor eresse ben presto, attorno al loro passato, una costruzione fantastica di immenso amore. Gli disse come lui aveva trovato il motore, gli parlò della loro visita alle torri di aerogel, gli spiegò come avesse trascorso qualche tempo in una colonia agricola su Venere. — Si proclamano idealisti — raccontò indignata. — Dicono che non vogliono che la follia della Terra venga trasmessa agli altri pianeti. Ma mi hanno trattenuta là, senza mio marito. Ero l'unica donna sola. — Ma io dov'ero? — chiese attonito Pendrake. Si stavano preparando per andare a letto, una sera tardi, quando ebbe luogo questa conversazione. Eleanor non rispose fino a che non ebbe in-dossato la camicia da notte; poi gli si avvicinò e gli disse, con voce turba-ta: — È accaduto qualcosa di terribile, e poiché il tuo corpo è stato esposto alle energie del loro motore spaziale, e poiché il tuo sangue appartiene a un gruppo molto raro, hanno dovuto servirsi di te, in questa situazione di emergenza. Non l'ho mai capito, ma dacché questo ha reso possibile la ricrescita del tuo braccio, non li odio, in realtà. Non riesco a immaginare come tu sia riuscito a sfuggire loro, eppure ti ho ritrovato in quell'ospedale. Più tardi, Pendrake rimase sveglio, ad ascoltare il dolce respiro di lei, e a riflettere sull'informazione che lo
riguardava. Era ben poco, e si sentiva completamente esposto e vulnerabile. Perché coloro che avevano tentato di colonizzare in segreto i pianeti sapevano senza dubbio che la sua casa era a Crescentville. Prova: avevano trasportato Eleanor sulla Terra e poi l'avevano ricondotta a casa.
Loro sapevano... ma lui non sapeva. Prima di girarsi nel letto e di addormentarsi, prese la sua decisione. La situazione non doveva rimanere bloccata a quel punto morto. Doveva scoprire la verità.
CAPITOLO DODICESIMO Pendrake passò sotto l'arcata del drugstore, uscì nella Cinquantesima Strada... e si fermò di colpo. Le due torri gemelle di aerogel sorgevano dall'altra parte della strada, esattamente dove aveva detto Eleanor. Provò persino una sensazione di familiarità, come se un ricordo si agitasse in lui. Ma la respinse come una vuota fantasia. Ammetteva che ciò che sapeva di se stesso era esattamente ciò che gli era stato detto, e nulla di più. Tuttavia, dopo un attimo si accorse che qualcosa non andava. E vide di che si trattava. Eleanor aveva detto: — C'è una grande scritta che dice: En-te Cyrus Lambton per
la Rivalutazione della Terra. Ma quell'insegna non c'era. Accigliandosi, Pendrake attraversò la strada e guardò attraverso una vetrina. Ma anche il cartello più piccolo che un tempo ne abbelliva l'interno, fornendo particolari accurati, sia pure formulati con cautela, ai futuri emigranti... era scomparso. Dietro la cornice della vetrina, molto indietro, una donna sedeva a una scrivania. Gli voltava le spalle, e Pendrake
dedusse, senza pensare, che doveva essere Mona Grayson, la figlia dell'inventore del motore. Pendrake spinse la porta. Era venuto per parlare con il dottor Grayson, e tanto valeva farlo subito. — Tesìtera qualcosa? Il pesante accento tedesco fu come uno schiaffo, per lui. Pendrake si fermò, poi si avvicinò lentamente alla scrivania. Rimase ritto a guardare la donna. Aveva un volto grassoccio, capelli e occhi scuri; e dopo un momento il suo aspetto grossolano, il suo inglese rozzo e gutturale servirono ad allen-tare la tensione nervosa di Pendrake. Si costrinse a respingere le sue impressioni critiche. Dopotutto, c'erano molti scienziati che si erano rifugiati negli Stati Uniti insieme alle loro famiglie. Per quel che ne sapeva, quella donna faceva parte d'una famiglia di quel genere. — C'è il dottor Grayson? — disse. — Che nome tefo riferire? Pendrake fremette. — Pendrake — rispose, burbero. — Jim Pendrake.
— Ti tofe? Pendrake fece un gesto impaziente, indicando la porta chiusa che conduceva all'altra torre. — È lì? — La farò annunciare se prima lei mi tira ta tofe fiene. Il signor Birdman le spiecherà tutto. — Il signor chi? — Un momento, atesso lo chiamo. Pendrake si tese. C'era qualcosa di strano; ma non sapeva che cosa. E quella comica caricatura di impiegata non contribuiva a semplificare le co-se. Per qualche ragione, Grayson e gli altri avevano rinunciato alle torri come centro di attività interplanetaria, e un gruppo di tedeschi avevano ri-levato l'edificio. Alzò lo sguardo, con brusca decisione. — Non si disturbi a chiamare nessuno. Mi accorgo di avere sbagliato. Io... Si interruppe, chiuse gli occhi, poi li riaprì. La rivoltella dal calcio di madreperla era ancora contro di lui, oltre l'orlo
della scrivania. — Non si muofa — disse la ragazza. — O le sparerò con questa pistola a silenziatore. Apparve un uomo robusto, tarchiato. Aveva i capelli color sabbia e le lentiggini. Il suo sguardo esaminò rapidamente Pendrake; poi disse, con un perfetto accento americano: — Buon lavoro, Lena. Stavo cominciando a pensare che avevamo raccolto tutte le fila, e adesso ne arriva un altro. L'in-fileremo in una tuta spaziale e lo spediremo con un camion al Campo A. C'è un aereo che parte fra mezz'ora. Possiamo interrogarlo più tardì. Deve avere una moglie, e forse anche qualche amico. Dopo un'ora, il terribile, massacrante tragitto ebbe fine; e le catene che bloccavano Pendrake furono tolte. Mentre si alzava, in preda alle vertigini, vide una casa e altre costruzioni; in mezzo c'era un piccolo aereo a reazione. Uno dei caminonisti gli fece un cenno con una pistola. — Là. Nell'aereo c'erano tre uomini. Indossavano tute di metalplastica come quella di Pendrake; non dissero nulla mentre lui veniva issato a bordo. Uno degli uomini indicò un sedile; l'uomo che stava ai
comandi premette una leva, e l'aereo cominciò ad avanzare e poi a sollevarsi... senza rumore. Il silenzio assoluto di quel moto immensamente potente fu ciò che occorreva a Pendrake. Eleanor aveva descritto quel fenomeno. Era un motore Grayson. Con sbalorditiva subitaneità il cielo assunse un color azzurro cupo. Il so-le perdette la sua forma rotonda e divenne una sagoma di fuoco fiammeg-giante in un universo notturno. Dietro l'aereo, la Terra cominciò a mostrare la sua forma sferica. Davanti a loro, scintillava il disco crescente della luna. Le luci del telefono lanciarono il segnale familiare. Birdman sollevò il ricevitore, in preda alla sensazione di vuoto che gli dava sempre quella chiamata. — Qui Birdman, Eccellenza. La fredda voce all'altra estremità del filo disse: — Sarà lieto di sapere che dopo tre soli giorni abbiamo tutti i dati necessari su questo Pendrake. Come lei sa, è di importanza vitale che noi indivi-duiamo, per un interrogatorio, tutte le persone che possano sapere qualcosa del motore Grayson, e che lo facciamo senza sollevare il minimo sospetto.
Perciò lei farà in modo che la signora Pendrake venga rapita e condotta sulla Luna. La costringa a scrivere un biglietto per i suoi servitori, in cui afferma che raggiunge il marito e che resterà assente per qualche tempo. — Non vuole che la si uccida? — Sulla Luna non è necessario. Là le donne scarseggiano, come lei sa. Le dica che ha un mese di tempo per scegliersi un marito tra quelli che vi lavorano stabilmente. La luce nebbiosa si spense. Birdman si scrollò come un animale uscito da una torrenziale pioggia. Si avvicinò a un mobile in un angolo dell'ufficio, che si aprì al suo tocco. Le bottiglie di liquore scintillarono. Quasi senza guardare ne afferrò una, si riempì un bicchiere di liquido ambrato, e lo vuotò in un sorso. Rabbrividì mentre il liquore vorticava dentro di lui, poi tornò lentamente alla scrivania. Strano, pensò, come il suono di quella voce avesse su di lui un effetto così forte. Sempre. Ma prese le disposizioni che gli erano state imposte.
CAPITOLO TREDICESIMO Era disteso nell'oscurità. Pendrake corrugò la fronte. Ricordò la zuffa con i tre tedeschi - quegli sciocchi non l'avevano considerato pericoloso! - e ricordò i momenti in cui l'aereo era precipitato sulla Luna. Non aveva voluto lui quella catastrofe. Ma tutto era accaduto con estrema rapidità, e non aveva avuto il tempo di scoprire in quale modo funzio-nassero esattamente i comandi di quella macchina. Sì... l'incidente, e ciò che l'aveva preceduto... era abbastanza chiaro. Eppure quell'oscurità lo sorprendeva. Era un nero fondo; lo spazio non era così. Lo spazio era stato una cortina di velluto punteggiata di minuscoli brillanti, con il sole che lampeggiava e sfolgorava attraverso gli oblò dell'aereo che precipitava... sì, era stata l'oscurità, ma una oscurità diversa. Pendrake corrugò la fronte, sbalordito, e cercò di muovere il braccio. Il braccio si mosse con riluttanza, come se fosse imprigionato nelle sab-bie mobili. O come se fosse sepolto
nell'arena. La sua mente sussultò, in un'immensa, improvvisa comprensione. Pomice polverizzata! Era disteso in un «mare» di polvere depositata, in qualche punto dell'emisfero lunare che volgeva eternamente nella direzione opposta alla Terra. E tutto quello che doveva fare... Si alzò di scatto dalla prigione di polvere e rimase ritto, a battere le palpebre contro il bagliore tremendo del sole. Il cuore gli si strinse. Era in un immenso deserto. A cento metri, sulla sua sinistra, un'ala d'aeroplano spun-tava dalla sabbia. Alla sua destra, a una distanza di mezzo chilometro, c'era una lunga, bassa catena collinosa attraverso la quale i raggi del sole cadevano obliquamente, creando dense ombre. Il resto era deserto. Fino a perdita d'occhio, si stendeva quella pianura morta di pomice polverizzata. Lo sguardo di Pendrake ritornò all'ala d'aeroplano. Il motore! pensò, con cruda intensità. Cominciò a correre. I suoi passi erano lunghi ed elastici, ma ben presto imparò a conservare l'equilibrio. Era tornata in lui la speranza, perché i danni subiti dalla struttura di quella supernave non avevano importanza. Le ali potevano essere strappa-te, il corpo metallico lacerato e schiacciato. Ma finché il motore e l'albero di trasmissione erano intatti e collegati, l'aereo avrebbe volato.
Fu l'inclinazione quasi verticale dell'ala a ingannarlo. Si servì di una lastra metallica e scavò, ostinatamente per circa mezz'ora. Poi arrivò all'estremità lacerata dell'ala. E sotto non c'era nulla: né l'aereo, né il motore, né i meccanismi di co-da... nulla, tranne la polvere di pomice. L'ala puntava contro il cielo, muto avanzo di un aereo che in qualche modo aveva abbandonato lì una parte di sé e poi era scomparso nell'eternità. Se la legge delle probabilità aveva un qualche significato, l'aereo e il suo motore avrebbero continuato a volare per sempre nello spazio. Ma c'era ancora una speranza. Pendrake si avviò a passi affrettati verso la catena collinosa. I pendii erano più ripidi di quanto avesse calcolato, ed erano sepolti nelle ombre nere. Era difficile vedere; continuò a scivolare. La polvere scendeva a rivoli. Dopo parecchi minuti di sforzo, era giunto soltanto a metà della salita; eppure la collina non era alta più di sessanta metri. E la temperatura si stava abbassando. Dapprima il freddo lo toccò appena, ma poi divenne un gelo mordente che gli premeva sulla pelle e cominciava a insinuarsi dentro di lui. Dopo qualche minuto si sentì il corpo intorpidito; i denti gli battevano. La tuta, pensò in preda a un crudo sbalordimento, quella tuta maledetta doveva essere costruita in modo da di-stribuire uniformemente il calore terribile e indiretto della luce solare non diffusa, senza la minima considerazione per il freddo.
Raggiunse la vetta della collina e rimase ritto, a occhi chiusi, davanti al pieno fulgore del sole basso; lentamente il calore gli rifluì nelle vene. Ricordò la sua speranza e si guardò intorno; guardò a lungo e con disperazione crescente. Ma l'aereo, dopo aver perduto l'ala, non era precipitato lì vicino. A perdita d'occhio, la distesa piatta del mare di pomice era intatta, a eccezione di sette crateri che sorgevano in distanza, come bocche di stre-ghe che succhiassero il cielo. Aveva camminato in quella direzione per circa un'ora, con la «pala» co-stituita da una lastra metallica ancora stretta tra le dita, prima di accorgersi che adesso il sole era più basso all'orizzonte. Stava scendendo la notte. Era solo, un uomo solo che correva da un cratere all'altro, mentre un sole fantasticamente fulgido si abbassava in un cielo più buio dei cieli terrestri a mezzanotte. I vulcani spenti erano tutti piccoli; il più grande aveva un diametro di circa trecento metri. Le lunghe ombre disegnate dai raggi obli-qui del sole cadevano attraverso il fondo dei crateri; soltanto grazie al riverbero delle pareti Pendrake riusciva a vedere che anche qui l'oceano di pomice aveva disteso le sue onde di polvere silenziose e avviluppanti. Due... quattro, cinque crateri, e non c'era ancora traccia di ciò che cercava. Come aveva fatto con gli altri, scalò il
sesto cratere lungo il pendio as-solato e poi si fermò, a guardare, nauseato, le ombre nere nell'abisso poco profondo che si stendeva davanti a lui. Pomice, spuntoni tormentati di la-va, mucchi sporgenti di roccia ancora più scuri delle ombre che li avvolge-vano... era ormai un panorama così familiare che i suoi occhi compivano una valutazione automatica e proseguivano, in un stordito sbigottimento. Il suo sguardo aveva già oltrepassato di una trentina di metri l'ingresso della caverna, sul fondo, prima che Pendrake si rendesse conto di essere giunto alla conclusione della sua ricerca. Si sentì sull'orlo dell'eternità. Il ciglio del cratere pareva incastrato tra l'oscurità spruzzata di luce dello spazio e le dure sporgenze del vulcano spento. Corse avanti. Il sole era una macchia di fiamma in un cielo di velluto. Sembrava tremolare alla sua destra, come se cercasse l'equilibrio prima di tuffarsi a capofitto. La sua luce gettava ombre che sembravano più lunghe e più dense a ogni istante; ogni roccia, ogni ineguaglianza del suolo aveva il suo letto d'oscurità. Pendrake evitò le ombre. Erano pozzi di freddo che gli intorpidivano le gambe, quando vi entrava. Nella sua tuta c'era una torcia elettrica, l'unica cosa di cui l'avevano fornito i suoi catturatori. L'accese. Il sole era un quarto di ruota raggiata, una forma arcuata di luce in bilico sul
terreno, alla sua sinistra. I crateri erano in ombra: un'altra oscurità abissale che faceva tre-mare la mente. Pendrake rabbrividì e balzò nell'imboccatura della caverna. Il raggio di luce del suo casco gli rivelò il suolo coperto di polvere di pomice. Il freddo spaventoso l'aggredì, mentre scavava. Persino quel moto violento non era più sufficiente, come era stato invece fino a che parte del sole aveva continuato a splendere su di lui. Il freddo gli erodeva le forze. La lastra metallica continuava a scivolare dalla sua mano intorpidita. Come un vecchio sfinito, si tese infine nella trincea poco profonda che aveva scavato nella polvere. Con volontà frenetica cominciò a ricoprirsi, laboriosamente. Il suo ultimo sforzo fisico fu compiuto quando infilò il braccio sotto la polvere e spense la lampada. Poi giacque immobile, con il corpo simile a un pezzo di ghiaccio, le guance simili a fredde piastre in-curvate. Ed ebbe la sensazione di essere nella propria tomba. Ma la sua forza vitale era tenace, indefettibile. Cominciò a riscaldarsi. Il gelo lasciò le sue ossa, la sua carne cominciò a formicolare, la mano intorpidita fu percorsa da un fortissimo dolore, le dita si sgelarono. Il suo calore animale si sparse nella tuta: era una sensazione piacevole, confortante.
Non riuscì a scaldarsi come avrebbe voluto. La temperatura era troppo bassa. Dopo molto tempo si rese conto che starsene sepolto non era una soluzione. Doveva scendere profondamente, molto più profondamente, nelle viscere della Luna. Mentre giaceva nella sua tomba di pomice, Pendrake provò una strana sensazione: la sensazione di sapere qualcosa, di non essere perduto per sempre. La sensazione che vi fosse una via d'uscita. La sua mente razionale si aggrappò a quell'impressione bizzarra e ne costruì una convinzione: lui doveva trovarsi molto vicino alla segreta base lunare dei tedeschi orientali. Anche i tedeschi dovevano essere discesi nelle viscere della Luna. Più sotto doveva esservi più calore. Lo stesso attrito, l'attrito della roccia semi-viscida e del metallo, prodotto dal tortuoso contorcimento della Luna, doveva creare una temperatura più alta che sarebbe stata mantenuta dalla pomice e dalla lava isolante della superficie. C'era, naturalmente, il problema di procurarsi cibo e acqua, ma con un motore spaziale perfetto si poteva trasportare tutto ciò che si voleva. Pendrake si stava dibattendo per uscire dalla sua fossa, perciò allontanò dalla mente gli altri pensieri. Si rimise in piedi, riaccese la luce e cominciò a penetrare nell'interno della caverna.
Il sentiero era tortuoso, come se un tempo quella grotta fosse stata lo sbocco tubolare d'un vulcano attivo, e poi fosse stata modificata dallo slit-tamento della crosta lunare. E scendeva, scendeva obliquamente. Pendrake non ricordò quante volte dovette cercare un po' di calore in un letto di polvere. Due volte si addormentò: non ebbe un'idea di quanto durasse il suo sonno. Poteva essere stato un dormiveglia d'un minuto; e poteva essere stato un sonno di ore. La caverna era senza tempo. Un mondo notturno attraverso il quale la luce del suo casco frugava a intervalli, come una fiamma sottile. Senza pietà per se stesso, continuò a scendere, spesso a corsa cieca, dopo un breve lampeggiare della lampada per rivelare i possibili pericoli. Altre grotte cominciarono a diramarsi dalla caverna principale. Qualche volta era evidente che si trattava di semplici diramazioni. Ma quando esisteva una possibilità di confusione, Pendrake si costringeva a fermarsi, a rimanere fermo mentre il freddo mostruoso lo divorava... a rimanere lì e a tracciare con chiarezza una freccia per indicare la direzione da cui era venuto. Dormì ancora; e poi ancora una volta. Cinque giorni, pensò, e sapeva che poteva ingannarsi. Un corpo assoggettato a quel freddo mortale doveva avere bisogno di sonno più del normale, per recuperare energie. Tutta la sua forza non bastava per scongiurare quella reazione del fisico umano.
Ma cinque sonni... erano cinque giorni. Cupamente, li contò e considerò ogni sonno come un giorno: sei, sette, otto, nove... Gradualmente, sentì più caldo. Per molto tempo non se ne era accorto. Ma alla fine ebbe la consapevolezza che gli intervalli tra quei frenetici au-toseppellimenti stessero allungandosi. Il decimo «giorno» faceva ancora un freddo terribile, ma il gelo era una pressione più lenta, non più così mordente. Il calore rimase in lui più a lungo. Per la prima volta poté camminare e rendersi conto chiaramente di essere pazzo a continuare, in quella notte eterna. Vennero altri pensieri. Avrebbe dovuto rinunciare alla speranza che la salvezza fosse davanti a lui. Avrebbe dovuto ritornare verso la superficie, dove avrebbe potuto tentare una disperata ricerca d'uno degli accampa-menti tedeschi. Quella era la cosa più logica da fare, pensò. Ma i pensieri non facevano scattare l'azione, poiché lui continuava ad avanzare. Nelle ore che seguirono vi furono momenti in cui Pendrake dimenticò la propria speranza, e vi furono ore amare in cui maledisse l'intensità della forza vitale che lo spingeva a quella disperata ricerca. Ma la stessa nebulosità dei suoi piani logorava la sua volontà, già indebolita dagli spasimi
della fame e da una sete così orribile che ogni minuto sembrava un'ora, e ogni secondo un inferno. Torna indietro, diceva la sua mente. Ma i suoi piedi lo portavano avanti. Incespicò, cadde. E si rialzò. Percorse la stretta curva a forcina che portava al corridoio illuminato quasi senza vedere. E varcò l'ingresso prima di rendersi conto della realtà. Pendrake si nascose dietro uno sperone roccioso. Si distese, tremando, così debole, così sofferente per la reazione, che per qualche minuto ebbe soltanto un pensiero: era arrivata la fine. Si riprese a fatica. La sua energia nervosa, quella riserva straordinaria della sua forza eccezionale, si era esaurita. Ma dopo un poco, il suo spirito si lanciò di nuovo verso la vita. Cautamente guardò oltre lo sperone di roccia dietro cui si era afflosciato. Era pazzo, a pensare d'aver visto in distanza figure che si muovevano, ma... Il corridoio si stendeva davanti ai suoi occhi in un graduale pendio di-scendente. La sua prima, intensa occhiata gli mostrò che era deserto. Poi gli occorse un lungo attimo per capire che non era illuminato da lampade elettriche, e che la sua prima impressione, secondo cui quella luce significava la presenza dei tedeschi, era errata.
Era solo in una antica caverna, nelle profondità del satellite della Terra, come un verme che avesse strisciato lungo un'arteria disseccata nella carne putrefatta di un essere umano. La radiazione delle pareti non era eguale di intensità, e non era disposta secondo un disegno comprensibile. Mentre avanzava cautamente, punti e sprazzi di luce splendevano attorno a lui. Sulla parete destra c'era una linea tremula e molto lunga, su quella sinistra una rozza mezzaluna, e altre forme prive di significato brillavano e ammiccavano lungo il corridoio, a perdita d'occhio. Pendrake, pensò, di colpo: un minerale radiante che poteva essere pericoloso. .. Pericoloso! La sua risata amara echeggiò nel casco, aprì nuovi tagli nelle sue labbra gonfie per la sete, e finì bruscamente quando il dolore diventò intollerabile. Un uomo sull'orlo della morte non doveva preoccuparsi di nuovi pericoli. Si lanciò avanti, quasi alla cieca. Poi, lentamente, la presenza della luce penetrò di nuovo nel suo cervello. La verità esplose su di lui improvvisa, quando si fermò a una svolta e si trovò davanti a un lungo corridoio luminoso che svaniva in distanza. Il corridoio era artificiale! E antico! Fantasticamente antico. Così antico che le pareti, le quali dovevano essere state lisce come vetro e più dure di qualsiasi cosa creata da esseri umani, pareti radianti in
ogni elemento, si erano scrostate sotto la pressione di innumerevoli secoli. Si erano scrostate ed erano crollate: e quella galleria contorta e chiazzata di luce era il risultato. Proseguì, incespicando; pensò che quella radiazione era abbastanza intensa da permettergli di risparmiare la sua lampada. Per qualche oscura ragione, che gli pareva immensamente importante, cominciò a ridacchiare. Il fatto che lui, sul punto di morire, fosse arrivato, in quel momento supremo della sua vita, a un universo sotterraneo di cui un tempo avevano vissuto altri esseri, gli parve all'improvviso di una comicità irresistibile. Il lieve ridacchiare diventò una risata folle, incontrollabile. Finalmente, tuttavia, cessò per lo sfinimento, e lui si appoggiò, debolissimo, contro la paerete, a fissare il piccolo ruscello che scorreva attraverso la grotta, gorgogliando da una grossa crepa, per sparire alla vista in una fenditura nella parete di fronte.
Attraverserò questo ruscello, si disse, con sicurezza, e poi... Ruscello! Il trauma della consapevolezza fu così terribile, per la nausea che gli portò, da farlo barcollare e cadere come un animale stordito. Il tonfo del metallo e della plastica sulla roccia gli risuonò nelle orecchie; e l'impatto, il clangore gli resero in parte la lucidità.
Divenne più conscio, più attento; emerse con più decisione dal suo stato di stupore. Acqua! La sorpresa della sua presenza lo colpì più nettamente. Quel pensiero, quella comprensione divennero così grandi che si proiettarono con chiarezza attraverso il suo cervello, gli scesero nei muscoli e ancora rimasero troppo grandi. Acqua! Acqua corrente! Pensandoci meglio, lì dentro non faceva più freddo, ormai da molto tempo. Doveva liberarsi la testa, aria o non aria. In qualche modo sarebbe riuscito a sopravvivere, se avesse bevuto l'acqua. Si rimise in piedi, un po' vacillante, e vide gli uomini che venivano verso lui. Batté le palpebre. Niente armatura, niente elmi! pensò infine, in un preoccupato sbalordimento. Ma sono vestiti in modo bizzarro. Strano! Prima che riuscisse a pensare altro, vi fu un fruscio di passi dietro di lui. Girò su se stesso e vide una decina di uomini che venivano da quella direzione. Immediatamente lampeggiarono i coltelli. Una voce urlò: — Am-mazzate quel maledetto pidocchio! Lurida spia! — Ehi! — mormorò ruaco Pendrake. La sua voce si perdette in un coro di grida sanguinarie. Fu spinto, sollevato, e non ebbe neppure la forza di alzare il
braccio. Nel preciso istante in cui la clava lo colpì di striscio, il suo sbalordimento raggiunse il culmine; sbalordimento perché... I suoi aggressori non erano tedeschi!
CAPITOLO QUATTORDICESIMO Erano passati quattro anni da quando Pendrake aveva trovato il motore, in quel pomeriggio dell'agosto 1972; era ormai passato un anno da quando era sfuggito alle amazzoni di Jefferson Dayles; aveva trascorso con Eleanor quasi tutto quel tempo, recuperando le forze mentre il braccio gli ricre-sceva ancora una volta. Era di nuovo estate. In quel mese d'agosto del 1976, secondo ogni apparenza, non esistevano tracce che potessero portare alla scoperta della sorte d'un aviatore scomparso e di sua moglie, che era stata rapita. In tutti quei giorni di vitale importanza, a nessuno sembrava interessare il destino dei coniugi Pendrake. Ma c'era una traccia. L'agosto 1976 finì. La Terra sospirava al soffio di diecimila venti. Il primo settembre passò lampeggiando sulla linea internazionale del cambiamento di data. Prima che raggiungesse la costa orientale americana, soffiò un vento da nord-est, e numerosi meteorologi tracciarono le isobare e annotarono malinconicamente che l'inverno sarebbe stato precoce, quell'anno.
Verso la metà del pomeriggio del primo settembre la traccia nascosta fu scoperta dal Commissario dell'Aeronautica. Blakeley guarì da un brutto caso di influenza e ritornò in ufficio. Mentre si metteva al corrente, si imbatté in un fascicolo che riguardava la signora Pendrake. Quel nome non destò in lui nessun ricordo, sul momento. — Perché è sulla mia scrivania? — chiese al segretario. — Questa donna ha cercato di mettersi in contatto con lei, mentre era ammalato — fu la risposta. — Era isterica e balbettava qualcosa a proposito di un motore atomico e di una organizzazione che trasportava gli emi-granti su Venere. Era una cosa pazzesca, ma quando ho cercato di mettermi in contatto con quella donna, ieri, a casa sua, sono stato informato che se ne era andata senza avvertire nessuno. Più tardi avevano trovato un biglietto, ma la donna di servizio che me l'ha riferito dice che non le sembra la calligrafia normale della signora Pendrake. In considerazione dei suoi precedenti rapporti con i Pendrake - cioè, con il signor Pendrake - ho pensato che fosse meglio sottoporle il problema. Blakeley annuì e si appoggiò alla spalliera della sedia.
Pendrake! meditò. Poi arrossì, ricordando l'umiliazione subita. Era quell'uomo, mutilato di un braccio, che mi buttò fuori di casa sua; poi qualche tempo dopo mi
mandò un elenco di nomi e di indirizzi di scienziati atomici. .. Il suo pensiero si fermò su questo, in un'impaurita premonizione. Una tempesta di sangue gli martellò le tempie.
Questo potrebbe rovinarmi! pensò. Dopo un poco, pallidissimo, sfogliò l'incartamento Pendrake e rilesse la lettera con l'elenco dei nomi: dr. McClintock Grayson, Cyrus Lambton... Pensandoci meglio, aveva letto da qualche parte che quegli uomini erano morti in un incidente... La faccenda sembrava sempre più grossa via via che i minuti passavano. Lesse, sudando, la propria risposta alla lettera di Pendrake: «... sarebbe inutile ogni ul-teriore corrispondenza...». Per un lungo attimo fissò il documento. Finalmente irrigidì la mascella. Tese la mano verso il pulsante del cicalino, lo premette con fermezza e disse: — Per prima cosa voglio Cree Lipton, dell'FBI, poi chimatemi Ned Hoskins, dell'Ufficio Brevetti... L'uomo tarchiato raggiunse l'albergo attraverso l'ingresso segreto. Si sentì osservato ma alla fine la porta si aprì. Fu guidato lungo un corridoio. Pochi minuti più tardi era nel sacrario più interno.
— Eccellenza! — Si inchinò. L'uomo alto e magro che sedeva dietro una grande scrivania metallica in un ufficio affacciato sulla Quinta Strada lo fissò con occhi che erano fori brillanti nel viso, tanto erano duri e lucenti. — Herr Birdman — disse, — quelli dell'FBI stanno indagando sulla spa-rizione della signora Pendrake. Hanno già scoperto che un aereo atterrò e decollò subito dopo. Questo avrebbe dovuto essere impedito. L'uomo tarchiato gorgogliò, sbigottito. — Forse gli uomini non avevano scelta. Qualche volta le partenze rapide sono necessarie. — Le ragioni non mi interessano. — La voce fredda era implacabile. — Soltanto una cosa salva quegli uomini da una severa punizione. Fino a ora, nessuno ci ha collegati con questa faccenda, e così forse, come precauzio-ne finale, è venuto il momento di bruciare certi edifici, secondo il Piano D2. Dobbiamo accertarci che non rimanga nulla che possa incriminarci. Provveda.
— Sarà fatto, Eccellenza, e immediatamente. — Un'altra cosa. A proposito di Pendrake... non dobbiamo essere troppo certi della sua morte. Le sue tracce portavano dall'ala dell'aereo fino a una caverna del cratere. Un'affrettata indagine ci ha mostrato che era ancora vivo alla profondità di un chilometro, ma che ogni tanto si seppelliva nella polvere, quindi possiamo pensare che il meccanismo di riscaldamento automatico della tuta spaziale sia stato danneggiato nell'incidente. «Per essere sicuri, credo che ora dobbiamo essere pronti a organizzare una campagna militare contro gli abitatori delle caverne. Abbiamo tollera-to fin troppo a lungo i loro saccheggi...»
CAPITOLO QUINDICESIMO Pendrake si svegliò al suono d'un mormorio melodioso. Veniva da lontano, alla sua sinistra, ma per un momento la deliziosa debolezza di tutti i suoi nervi e di tutti i suoi muscoli, il bizzarro piacere fisico di stare disteso su qualcosa di morbido e di comodo diminuì l'impulso di girare il capo e di guardare l'uomo la cui melodiosa cantilena l'aveva destato. Dopo un momento Pendrake fu colpito dall'acuta consapevolezza di essere vivo, e questo non corrispondeva a ciò che era accaduto. Ma rimase disteso. E dopo un po' si trovò a guardare sbalordito il tetto d'una caverna illuminata che doveva essere alta almeno un chilometro. Chiuse gli occhi, si scrollò come per liberarsi il cervello da ogni fantasia, poi riaprì le palpebre. Quel tetto altissimo era ancora là. Quella che era stata una stretta caverna serpeggiante si era aperta, e lì c'era una immensa cavità sotterranea. Quella vista accelerò tutti i suoi processi fisiologici. Si accorse d'una lieve brezza che lo sfiorava e gli portava un dolce odore di erbe, di giardini e di alberi in fiore.
Pendrake si agitò, in preda a un'eccitazione crescente. Quel movimento gli diede la prima certezza di non essere più chiuso nella tuta spaziale. Il suo movimento ebbe anche un altro effetto; fece cessare la cantilena. Si udì un suono di passi. La voce di un giovane disse: — Oh, sei sveglio. Colui che aveva parlato si mostrò a Pendrake. Era un giovane snello, con il viso magro e gli occhi vivaci. Indossava una giacca curiosamente anti-quata e lisa, e aveva le gambe infilate in calzoni che si allacciavano sotto le scarpe. — Sei rimasto privo di conoscenza per quattro turni di sonno — disse. — Ti ho fatto colare tra le labbra acqua e succo di frutta, ogni tanto. Mi chiamo Morrison, tra l'altro. — Mi ero perduto — spiegò Pendrake, e batté le palpebre, perché non era riuscito a pronunciare le parole, ma soltanto un suono rauco e grac-chiante. — È meglio che non tenti di parlare, per il momento — consigliò il giovane. — Sei ancora malconcio. Non appena sarai abbastanza forte, dovrai essere condotto da Big Oaf
per essere interrogato... ecco perché ti hanno tenuto in vita. Il significato di quelle parole non penetrò subito nella sua mente. Pendrake giacque immobile, pensando che il freddo e la sua volontà di vivere l'avevano aiutato a resistere. Dunque era vivo. In quanto a quel tale, Big Oaf... Big cosa? Brontolò il proprio sbalordimento e questa volta riuscì a sussurrare qualcosa. Il giovane sogghignò. — È un nome, ecco tutto. Qualcuno l'ha chiamato così, una volta, e lui si è incapricciato di quel nome, e nessuno ha mai osato dirgliene il significato: Grosso Stupido. È un neanderthaliano, sai. È qui da un milione di anni, per lo meno... è qui quasi da altrettanto tempo della belva-diavolo nella fossa. Un'espressione stravolta apparve sul viso del giovane. — Oh — fece, allarmato. — Questo non avrei dovuto dirtelo. — Fu improvvisamente in preda al panico. Boccheggiando, si accoccolò vicino a Pendrake, gli strinse il braccio. — Per amor del cielo — sussurrò con voce rauca, — non dire a nessuno che ti ho riferito quanto siamo vecchi, quaggiù. Ho fatto del mio meglio per te. Ti ho riportato alla vita, ti ho nutrito. Avrei dovuto tenerti rinchiuso... sono la tua guardia, sai, e
tu sei in carcere. Ma ti ho portato qui e... — Si interruppe. — Ti prego di non dirlo. Il suo viso era una maschera contorta di paura... poi cambiò. Cambiò in astuzia, poi in ferocia. Bruscamente l'uomo indicò il coltello che Pendrake vide, per la prima volta, in un fodero appeso sotto la giacca. — Se non prometti — minacciò, furioso, — dovrò fingere che tu hai tentato di scappare e che io sono stato costretto a ucciderti. Pendrake ritrovò la voce. — Prometto, sicuro — sussurrò. Si accorse subito che una semplice promessa non poteva placare la creatura atterrita accosciata accanto a lui. Il pericolo costrinse Pendrake a sussurrare con voce più alta e più forte: — Non capisci? Se io so qualcosa che loro non vogliono che io sappia, è mio interesse tenere per me l'informazione. Tu lo capisci, non è vero? Lentamente la paura si spense negli occhi del giovane. Si rimise in piedi, tremando, poi cominciò a fischiettare sottovoce. Alla fine disse: — In ogni caso, ti butteranno alla
belva-diavolo. Non corrono rischi, tranne che con le donne. Ma non fare il mio nome, ecco tutto, e non parlare di quello che ti ho detto. — D'accordo! Pendrake sussurrò la risposta e riuscì ad esibire un sorriso, ma pensò, cupamente: Dormi un sonno leggero.
Stai attento ai coltelli... Doveva essere già addormentato mentre quel pensiero prendeva forma nella sua mente. La sua prima considerazione, quando si svegliò la seconda volta, fu: un uomo che si chiamava Morrison... al centro della Luna. Quegli uomini venivano dalla Terra, e dovevano essere lì ormai da molto tempo. Era un fenomeno bizzarro, e doveva scoprire in fretta di che si trattava. Vi fu un rumore accanto a lui. Un viso magro e familiare si piegò su di lui. — Uh — disse Morrison. — Ti sei svegliato ancora. Ho aspettato, ti ho sentito parlare nel sonno... e hai parlato parecchio. Io devo riferire tutto quello che tu dici. Pendrake annuì, quasi rivolgendosi a se stesso, limitandosi a registrare quelle parole; poi il significato più ampio di quelle stesse parole, l'immagine mentale di
qualcuno - lassù - qualcuno che si chiamava Big Oaf e impartiva ordini, riceveva i rapporti delle spie, concedeva rinvii temporanei alle esecuzioni... All'improvviso, si sentì urtato. Si levò a sedere. — Stammi a sentire — comminciò. — Chi diavolo... — La sua voce era chiara e forte, ma non fu la consapevolezza della forza ritornata che l'in-dusse a interrompersi. Fu la visione, nell'attimo in cui si sollevava, di una scena che non era stata visibile finché lui era rimasto disteso. Sotto di lui c'era una città costruita in un giardino di alberi e di fiori. C'erano ampie strade, e poteva vedere alcuni uomini e - strano! - donne in uniforme. Dimenticò subito gli abitanti della città. Il suo sguardo andò da orizzonte a orizzonte. C'era un pascolo verde, dall'altra parte della città, dove del bestiame stava pascolando. Più oltre, la volta della caverna scendeva a sal-darsi con il suolo in un punto che Pendrake non riusciva a scorgere, dal luogo in cui si trovava. Quella vista l'affascinò per un momento: la linea dove il radiante cielo della caverna si univa all'orizzonte della grotta stessa. Poi il suo sguardo ritornò sulla graziosa città. Cominciava a trenta metri da lui. Prima c'era una fila di alti alberi appesantiti da grandi frutti grigi.
Gli alberi riparavano il più vicino dei molti edifici. Era una struttura piccola, delicata. Sembrava costruita con una sostanza simile a quella d'una conchiglia. E splendeva, come se avesse una luce, nell'interno, che traspa-risse dalle pareti traslucide. La sua forma assomigliava più a un alveare che a una conghiglia marina, ma c'era anche una somiglianza con quest'ultima. Gli altri edifici che scintillavano affascinanti tra gli alberi erano molto diversi nei particolari, ma il motivo architettonico centrale e il materiale base erano sempre presenti. — La città era già così — spiegò la voce di Morrison, — quando sono venuto io nel 1853, e Big Oaf dice che era così quando... Pendrake si girò. Quella data lo colpì: ma si aggrappò al suo significato. — È lui è qui da un milione d'anni, mi hai detto. Il volto magro si contorse in una smorfia. L'uomo si guardò frettolosamente intorno. La sua mano strisciò verso il coltello. Poi colse lo sguardo di Pendrake, e lasciò l'impugnatura. Stava tremando. — Non ripeterlo — sussurrò, con voce carica di disperazione. — Sono stato pazzo a dirtelo, ma mi è scappato, ecco. Mi è scappato. Non era possibile ingannarsi, sulla sua paura. Era
autentica, e rendeva reale tutto il resto: il milione di anni, Big Oaf, la città immortale lì sotto. Per un lungo attimo Pendrake fissò l'espressione di Morrison, poi disse: — Non dirò una parola, ma voglio sapere tutto. Come sei arrivato qui, sulla Luna? Morrison si agitò. Una goccia di sudore gli corse lungo la guancia. Pendrake non riusciva a credere che un uomo potesse avere tanta paura. — Non posso dirtelo — ribatté Morrison con voce rotta dal panico. — Butterebbero anche me alla belva. Big Oaf dice che siamo in troppi, qui, da quando abbiamo rapito quelle ragazze tedesche. — Tedesche! — esclamò Pendrake, e si interruppe, socchiudendo gli occhi. Questo spiegava la presenza delle donne in uniforme che aveva visto per le strade. Ma che nido di vespe avevano stuzzicato gli abitanti delle caverne! Morrison continuò, in tono acuto: — Big Oaf e i suoi amici vanno pazzi per le donne. Big Oaf ha cinque mogli, adesso, senza contare le due che si sono uccise, e ha mandato fuori un'altra spedizione per rapire altre donne.
Quando torneranno... be', lui sta aspettando l'occasione per uccidere tutti gli uomini onesti. Ora l'immagine era più chiara: i particolari che ancora mancavano non erano di importanza fondamentale. Pendrake rimase seduto, cupo e freddo, immaginando mentalmente il cataclisma che aveva portato l'inferno nell'Eden della Luna. Quegli sciocchi, Morrison e gli altri come lui, pensò, stavano aspettando il macello come pecore spaventate, e canterellavano allegramente, per passare il tempo! Aprì le labbra per parlare... e fu interrotto da una voce taurina che ruggì, alle sue spalle: — Cosa c'è, Morrison? Il prigioniero è abbastanza forte per mettersi a sedere, e tu non l'hai riferito! Muoviti, straniero. Ti condurrò da Big Oaf. Per un attimo, Pendrake rimase immobile come un morto. Il pensiero acutissimo che venne finalmente in lui fu: era troppo debole, troppo sofferente. La crisi era venuta troppo presto. Tuttavia era molto attento mentre camminava lungo le strade del villaggio. Era consolante che potesse camminare. Non osò tentare un'azione di forza, per il momento, ma doveva sopravvivere ancora per qualche «giorno»... doveva guadagnar tempo per osservare, comparare e organizzare gli uomini «onesti» e tanto spaventati che, secondo Morrison, erano destinati al
massacro. Dedicò appena un'occhiata alle case, e l'assortimento d'uomini vestiti d'abiti laceri e di donne imbronciate nelle loro divise sfiorò appena le frange del suo pensiero. La sua mente, tutto il suo essere erano concen-trati nel tentativo di localizzare le posizioni chiave della città. Con brusca comprensione delle regole militaresche riguardanti il rifor-nimento del materiale indispensabile, notò che due uomini seminudi, dalla pelle azzurra e dai nasi larghi e piatti, stavano di guardia a un corso d'acqua che sgorgava da una parete e spariva di vista, gorgogliando, attraverso un foro nel terreno. C'erano altri luoghi ben sorvegliati. In particolare quattro grossi edifici; ma a prima vista non si poteva capire per quale ragione venissero protetti. Pendrake avanzò per pochi metri, poi si fermò. E spalancò gli occhi. Quasi al centro esatto della cittadina, seminascosto da un folto d'alberi, c'e-ra un recinto. Era fatto di rami d'albero legati insieme. Sorgeva alto, lungo un fronte di cinquanta metri, per un'altezza di quindici, e aveva un massiccio cancello sorvegliato da una decina d'uomini armati di lance, archi e coltelli sguainati. Quella costruzione sembrava fuori luogo fra le case delicate, simili a conchiglie. Ma non c'era dubbio che lì, in quel fortino mostruoso, abitava l'autorità suprema di quel mondo
chiuso nell'interno d'un mondo. Quel pensiero si spezzò quando una delle guardie, un individuo dagli abiti stracciati che portava stivali alti forniti di speroni e che sembrava una pessima caricatura di un cowboy, esclamò: — Porti questo tipo da Big O-af, Troger? — Già — rispose l'uomo barbuto, dalla voce taurina, che scortava Pendrake. — Ma farai bene a perquisirlo. — E Morrison? Entra anche lui? — chiese un uomo dagli occhi scuri, che portava i resti laceri di ciò che un tempo doveva essere stato un abito nero. Mentre dita estranee gli frugavano impazienti nelle tasche, Pendrake pensò con un trasalimento che questa seconda sentinella assomigliava, con sbalorditiva esattezza, alla versione cinematografica d'un giocatore d'azzardo del vecchio West. Pendrake si sentì di colpo bizzarramente affascinato. Nonostante tutto, nonostante la sua decisione di non guardare ciò che avrebbe potuto con-fonderlo, acquistò consapevolezza della presenza di quegli uomini. Erano stati una massa confusa, al suo sguardo; adesso si mettevano a fuoco: uomini di tutte le epoche del West, un assortimento sbalorditivo, anche se qualcuno non quadrava affatto con il resto. Ma Pendrake non provava ombra di dubbio. Erano tutti
americani occidentali. Era come se fosse stata lanciata una rete dalla Luna, e in quella re-te fossero caduti uomini del periodo mediano dell'evoluzione degli Stati Uniti occidentali. Poi i prigionieri si erano raccolti lì e, come quel villaggio immortale, erano rimasti immuni dagli oltraggi del tempo. C'era un centinaio di uomini visibili, dal punto in cui si trovava, accanto al cancello del recinto. Sette di quegli uomini erano indiani in perizoma, rossi di pelle, al-ti, dal dorso diritto. Loro quadravano alla perfezione. E così era anche per gli uomini vestiti rozzamente, con camicie dal collo slacciato e dai calzoni aderenti; così era anche per i cowboy laceri. Morrison non quadrava; non del tutto, almeno, sebbene senza dubbio vi fossero stati tipi d'impiegato come lui, nelle città del West. C'erano alcuni uomini bassi e molto brutti, e alcuni uomini alti, splendidi, bruni, che non quadravano affatto; e c'era un altro uomo seminudo, dalla pelle azzurra e dal naso schiacciato. Una cosa pareva chiara. Chiunque avesse raccolto lì quell'orda di esseri umani, si era impadronito di alcuni dei tipi più duri del vecchio West. Una grossa mano l'afferrò per il colletto, lo strappò, fisicamente e mentalmente, dalla sua osservazione. — Entra lì! — disse la voce di Troger. La reazione di Pendrake fu automatica. Se avesse
riflettuto, se non fosse stato così sprofondato nelle sue cupe speculazioni, si sarebbe controllato in tempo. Ma l'insulto di venire afferrato e spinto brutalmente era stato troppo improvviso. La sua reazione fu violenta quanto involontaria. Alzò un braccio, le sue dita afferrarono il polso dell'altro, e per un breve istante ognuno dei nervi stanchissimi del suo corpo immise forza nei muscoli. Vi fu un ruggito di dolore e un duro tonfo quando Troger fece una ca-priola nell'aria e crollò al suolo, sei metri più in là. L'uomo balzò in piedi immediatamente, urlando furioso: — Ti farò schizzar fuori il cervello. Nessuno può... Si interruppe; il suo sguardo si fissò su qualcuno che stava dietro Pendrake, e il suo corpo si irrigidì. Pendrake, tremando per la nausea prodotta dallo sforzo e sbigottito dalla stupidità con cui aveva rivelato la propria forza, si girò, in preda alle vertigini. Sull'entrata stava ritta una creatura, e bastò un'occhiata per identificarla. Era Big Oaf, un mostro neanderthaliano. Era un uomo. Aveva una sagoma rozzamente umana, una testa con naso, occhi e bocca. Ma a questo punto la rassomiglianza con un essere umano finiva. La sua figura era alta non più d'un metro e sessanta, ed era ampia quasi
un metro, al torace. Le braccia penzolavano fin sotto le ginocchia. Il suo viso era... belluino; i denti erano troppo lunghi e sporgevano tra le labbra enormemente spesse. Sembrava una creatura uscita da una giungla primordiale, nuda e villosa a eccezione d'una pelle nera appesa con una fune attorno al ventre. Occorse un lungo attimo a Pendrake per accorgersi che gli occhi porcini dell'essere lo stavano studiando acutamente. Quando se ne avvide, la creatura a-prì quelle labbra terribili e disse in un inglese gutturale ma inconfondibile: — Portatelo dentro! Gli parlerò dal mio trono. Fate entrare una cinquantina di persone. Nell'interno del recinto c'era una grande, lucente casa a conchiglia, un fiumicello d'acqua gorgogliante, alberi da frutta, un orto, e un palco di legno su cui stava una grande sedia, pure di legno. La sedia era il trono, ed era evidente per Pendrake che chiunque avesse suggerito a Big Oaf l'idea della regalità non aveva un'idea troppo chiara dello splendore regale. Ma Big Oaf sedette baldanzosamente e domandò: — Come ti chiami? Non era il momento di opporre resistenza. Pendrake gli disse con calma il proprio nome.
Big Oaf si girò sulla sedia, puntò un grosso dito peloso verso un uomo alto, dagli occhi grigi, che indossava uno sbiadito abito nero. — Che specie di nome è questo, McIntosh? L'uomo alzò le spalle. — Inglese. — Oh! — Gli occhi porcini tornarono a posarsi su Pendrake, lo fissarono, meditabondi. La belva disse: — È meglio che ti sbrighi a parlare, straniero. L'accento western rese quasi impossibile a Pendrake comprendere che era sottoposto a un processo. Era un ostacolo psicologico molto difficile da superare. Ma, alla fine, quando comprese che doveva parlare per difendere la propria vita, Pendrake cominciò la sua spiegazione. Finì frettolosamente; girando sui calcagni e volgendosi verso il giovane magro che era stato il suo carceriere, disse con voce squillante: — E Morrison, qui, può confermare ogni mia parola. Dice che nel delirio ho parlato di ciò che mi era accaduto. Non è esatto, Morrison? Pendrake fissò il viso del giovane e provò un breve, gelido sentimento di ironia per quell'espressione impietrita. Gli occhi grigi di Morrison si spalancarono; poi l'uomo deglutì: — Sì, è vero, Big Oaf. Ricordi che mi avevi detto di ascoltare quello che avrebbe detto. Lui... — Sta' zitto! — fece Big Oaf, e Morrison si afflosciò in
silenzio, come un palloncino bucato. Pendrake non si sentiva pentito di aver posto sotto pressione quel piccolo codardo. Vide che il mostro lo stava studiando con estrema attenzione, e c'era qualcosa, nella sua espressione... Pendrake dimenticò Morrison quando Big Oaf disse con voce stranamente blanda: — Pestatelo un po', ragazzi. Voglio vedere in che modo sopporta una battitura. Dopo un minuto, disse: — Sta bene, basta così. Pendrake si rimise in piedi, stordito; non era una commedia. Nell'eccitazione di quella specie di processo, aveva dimenticato di essere ancora sofferente e debole. Si alzò, tremando e udì l'uomo-belva dire: — Bene, amici, che cosa ne facciamo? — Uccidilo! — Fu il grido rauco di molte gole. — Gettalo alla belva-diavolo. È da molto tempo che non ci godiamo uno spettacolo. — Non c'è ragione di uccidere nessuno — ribatté un uomo magro, in fondo al gruppo. — Se questi individui potessero fare a modo loro, avremmo uno spettacolo alla settimana, e ben presto saremmo tutti morti. — Già, Chris Devlin — ringhiò un altro, — è quello che capiterà a te, uno di questi giorni.
— Non hai che da provarci — scattò Devlin di rimando. — È quello che stiamo aspettando. — Basta così! — Fu Big Oaf a parlare. — Lo straniero vivrà. Puoi restare con Morrison, per un po'. E, senti, Pendrake, voglio parlare con te, dopo che avrai dormito ancora un poco. Avete ascoltato, gente? Lasciatelo entrare, quando verrà. Adesso squagliatevi, tutti. Pendrake era fuori del recinto prima ancora d'aver compreso che gli era stata risparmiata la vita.
CAPITOLO SEDICESIMO Pendrake mangiò e dormì; poi mangiò e dormì di nuovo. Si svegliò dal suo terzo sonno con la sensazione di non poter più ritardare la sua visita a Big Oaf. Ma rimase disteso ancora per qualche minuto. Non che la sua camera da letto fosse particolarmente comoda. La luce scintillante delle pareti era troppo intensa per occhi umani bisognosi di oscurità e di riposo. Il letto, sebbene morbido, era concavo; e così erano anche le due lunghe sedie senza schienale. La porta che conduceva nella stanza accanto era alta appena sessanta centimetri, come l'entrata di un igloo. Vi fu un rumore raschiante. Una testa si affacciò alla porta, e un uomo alto e magro entrò strisciando e si rialzò. Occorse un attimo perché Pendrake riconoscesse Chris Devlin, l'uomo che si era opposto alla sua ucci-sione. Devlin disse: — Sono sorvegliato. Quindi, venendo qui, ho fatto cadere i sospetti anche su di te. — Bene — fece Pendrake. — Eh! — L'uomo lo guardò fisso, e Pendrake gli rese l'occhiata con molta freddezza. Devlin continuò, lentamente: — Hai riflettuto, a quanto vedo!
— Infatti — disse Pendrake. Devlin si sedette in una delle sedie concave. — Ecco — fece, — tu sei un uomo che mi va a genio. Vorrei farti una domanda: il modo con cui hai trattato Troger... è stato un caso? — Potrei fare la stessa cosa a Big Oaf — dichiarò seccamente Pendrake. Si avvide che Devlin era rimasto impressionato e sorrise ironicamente all'efficienza della psicologia di cui si era servito... la psicologia della voluta positività. — Peccato — disse Devlin, — che un uomo dotato del tuo spirito sia un po' sciocco. Nessuno può spuntarla contro Big Oaf. Inoltre, quello evite-rebbe un attacco diretto. Pendrake rispose prontamente. — La cosa più importante è questa: su quanti uomini puoi contare? — Circa un centinaio. Altri duecento passerebbero dalla nostra parte, se ne avessero il coraggio, ma aspetteranno per vedere come si metteranno le cose. Quindi vi sono duecento uomini sicuramente contro di noi... e potrebbero convincerne altri cento a combattere al loro fianco. — Ma un centinaio d'uomini è sufficiente — disse
Pendrake. — Il mondo è governato da piccoli gruppi. Cinquecento uomini decisi e duecento-mila seguaci rovesciarono il regime zarista in una Russia di centocinquanta milioni di persone. Hitler si impadronì della Germania con un pugno di fe-deli molto attivi. Ma vorrei darti qualche consiglio, Devlin. — Sì? — Prendete la sorgente dell'acqua. Prendete i posti sorvegliati delle sentinelle, e teneteli a tutti i costi. Impadronitevi del bestiame! — Pendrake fece una pausa, poi: — Quante mogli hai, Devlin? L'uomo sussultò, cambiò colore. Infine disse, violentemente: — Sarà meglio lasciare le donne fuori da questa faccenda, Pendrake. I nostri uomini sono stati senza donne così a lungo che... perderemmo tutti i nostri seguaci. — Quante mogli? — chiese con fermezza Pendrake. Devlin lo fissò. Adesso era pallido, e la sua voce era più rauca. — Big Oaf è stato furbo — ammise. — Quando catturammo quelle donne tedesche, diede due mogli a ciascuno dei suoi cento nemici più ostinati. — Di' ai tuoi uomini — fece Pendrake, — di scegliere la
donna che pre-feriscono e di lasciare andare l'altra. Capisci? Devlin si alzò. — Pendrake — disse con voce spessa. — Ti avverto, lascia perdere questo argomento. È dinamite. — Sciocco! — scattò Pendrake. — Non capisci che devi cominciare di qui? La mente umana ha la tendenza ad adottare certe abitudini. Se le abitudini sono sbagliate - e il modo con cui queste donne sono state assegnate è estremamente sbagliato - ripeto, se le abitudini sono sbagliate, non puoi cominciare rimodellando soltanto la mente. Devi spezzare quella matrice e cominciare con una nuova... — Si interruppe. — Inoltre, non avete altra scelta. Siete destinati a venire uccisi, e quelle mogli devono servire a te-nervi tranquilli fino a che si presenterà la buona occasione. Lo sai, non è vero? Devlin annuì, riluttante. — Credo che tu abbia ragione. — Puoi scommetterci — disse freddamente Pendrake. — E tanto vale che io chiarisca la mia posizione. O questo gioco viene giocato a modo mio, o verrà giocato senza di me. — Si alzò con un movimento rapido e agile, e concluse con voce cupa: — E io provo pietà per quelli che attaccheranno Big Oaf senza avere i miei muscoli per tenerlo a
bada. Bene, co-sa ne dici? Devlin stava fissando il pavimento, corrucciato. Finalmente alzò gli occhi, con un lieve sorriso. — Hai vinto, Pendrake. Non ti garantisco i risultati, ma farò del mio meglio. I nostri uomini sono bravi ragazzi, in fondo... e per lo meno sa-pranno di trattare con un tipo a posto. Ma adesso sarà bene che tu vada da Big Oaf. E grida forte, se combina qualcosa. — Hai idea di quello che può volere da me? — chiese Pendrake. — No — fu la risposta. Pendrake aveva già percorso metà del tragitto che lo separava dal recinto prima di rendersi conto che ancora non sapeva in che modo quegli uomini del vecchio West fossero arrivati sulla Luna, e che aveva dimenticato di chiedere a Devlin se gli abitatori delle caverne avevano avuto l'intelligenza di fare dei piani per proteggersi dalle rappresaglie tedesche. Si era lasciato rapidamente assorbire dal pensiero del pericolo immediato e aveva dimenticato il pericolo più grande e più remoto. Fu fatto entrare nel recinto, in silenzio. Pochi minuti dopo Big Oaf uscì dalla porta di casa sua, strisciando; poi si alzò.
— Ce ne hai messo del tempo — grugnì. — Sono ammalato — spiegò Pendrake, — e la gravità lunare rende possibile camminare quando sulla Terra si sarebbe obbligati a stare distesi. La battitura che mi hanno impartito i tuoi uomini non mi è stato d'aiuto, d'altra parte. La risposta del mostro fu un grugnito, e Pendrake lo fissò, cautamente. Erano soli, nel recinto; sembrava di essere isolati rispetto all'universo... una sensazione vacua e curiosa di essere tagliati fuori, in un mondo innaturale. Vide, con un sussulto, che i minuscoli occhi della creatura lo stavano studiando. Big Oaf ruppe il silenzio. — Sono qui da molto tempo, Pendrake. Quando arrivai qui ero uno stupido, come lo sono gli altri, ma il mio cervello si è evoluto, con gli anni, e adesso ho il buon senso di preoccuparmi di cose cui loro non pensano mai. Come quei tedeschi, per esempio. Si interruppe e guardò Pendrake. Pendrake esitò, poi disse: — Farai be-ne a preoccuparti di loro... e a preoccuparti parecchio.
Big Oaf agitò un braccio scimmiesco e scrollò le spalle massicce. — Li ho citati soltanto come esempio. Ho i miei piani, per quei tipi. Quello che voglio dire è che, quando mi guardi, devi pensare che ho un cervello sensato quanto il tuo, senza badare al mio aspetto. Cosa ne dici? Pendrake batté le palpebre. Quell'appello era così inatteso, così straordinario - poiché recava l'immagine d'una mente acutissima in un corpo be-stiale - che se ne sentì toccato, nonostante tutto. Poi ricordò le cinque mogli e le altre due donne... quelle che si erano uccise. Chiese, lentamente: — Quali altre preoccupazioni hai, Big Oaf? Gli parve che, mentre pronunciava quelle parole, una lieve sfumatura di disappunto lampeggiasse nel viso peloso. Poi Big Oaf disse: — Stavo camminando lungo un sentiero, sulla Terra... e all'improvviso mi sono trovato qui. — Dunque è così! — ansimò Pendrake. Incredula, la sua mente superò le parole dell'uomoscimmia, e il trauma lo colpì di nuovo. Gli occorse un lungo attimo per capire che gli era stato rivelato il segreto del trasferimento di quegli uomini sulla Luna.
Big Oaf stava continuando. — Per gli altri è stato lo stesso, e dal modo in cui lo descrivono, tutti stavano scendendo lo stesso sentiero. Questo mi spaventa, Pendrake. Pendrake corrugò la fronte. — Cosa vuoi dire? — C'è qualcosa, sulla Terra, qualcosa che non si può vedere, ma qui... si esce da una macchina. Pendrake, noi dobbiamo bloccare quella macchina. Non possiamo vivere qui, senza sapere chi o che cosa potrà percorrere quel sentiero e uscire dalla macchina. — Capisco — fece Pendrake, pensieroso. Questa volta fu la calma delle sue stesse parole a scuoterlo. Perché stava tremando in ogni nervo; il suo corpo divenne freddo, poi caldo, poi di nuovo gelido. Una macchina... una macchina che trasportava oggetti, senza danneggiarli, messa a fuoco su un sentiero nella parte occidentale degli Stati Uniti, una macchina attraverso la quale poteva arrivare un esercito per attaccare le basi sovietiche sulla Luna, impadronirsi di un motore, di tutto... Con un sussulto, Pendrake vide che il neanderthaliano lo fissava corrucciato. Si era seduto contro l'orlo della
piattaforma di legno su cui era posto il trono; ora si tese in avanti. I grandi muscoli pettorali spuntarono. — Straniero — disse, sibilando le parole, — mettiti questo in testa: questo posto è un territorio cintato. Non c'è mai stata molta gente che è capita-ta qui. Il mondo impazzirebbe, se scoprisse che sulla Luna c'è una città in cui è possibile vivere per sempre. Ora, capisci perché dobbiamo disattivare quella macchina e isolarci dall'esterno? Abbiamo qualcosa, qui, che la gente vorrebbe a costo di qualsiasi delitto. — Aspetta... — La sua voce colpì Pendrake. — Ti mostrerò cosa capita a quelli che si mettono in testa certe idee. Vieni con me. Pendrake lo seguì. Big Oaf percorse la strada, addentrandosi nella campagna, e Pendrake, che gli veniva dietro a grossi balzi, comprese subito che si stava dirigendo verso il costone roccioso. Big Oaf vi giunse per primo. Indicò in basso. — Guarda! — gridò con voce rauca. Pendrake si accostò all'orlo dell'abisso con grande cautela, e guardò. Era affacciato su un precipizio che scendeva liscio e diritto per parecchie decine di metri. In fondo c'erano arbusti, una pianura erbosa e... Pendrake boccheggiò. Poi si sentì in preda alle vertigini.
Barcollò, poi con uno sforzo controllò la mente vacillante. E guardò di nuovo, tremando. Nella fossa, la belva gialla-verde-azzurra-rossa era seduta sulle zampe posteriori. Sembrava grande quanto un cavallo. Teneva la testa inclinata e i suoi occhi terribili fissavano con ferocia i due uomini. E i denti spaventosamente lunghi che sporgevano dalle sue fauci confermarono l'immediata identificazione di Pendrake. La belva-diavolo era una tigre dai denti a sciabola. Lentamente, la respirazione di Pendrake ritornò normale, il cuore rallentò le frenetiche pulsazioni. Sopravvenne uno stupore immenso: da quanti eoni quella macchina doveva essere puntata su quel sentiero della Terra, per aver catturato quel mostro preistorico? E da quanto tempo doveva essere morto il popolo che aveva costruito la macchina e il villaggio? Venne un altro pensiero, immensamente estraneo e conturbante; in realtà più una paura, una sensazione, un fremito della carne che un vero concetto. Fu un'essenza di memoria primordiale dentro di lui che emise un grido di terrore e di incredulità, come se ogni cellula urlasse, inorridita: «Dio, credevo di aver superato da molto tempo questo incubo». Le cellule ricorda-vano un nemico antichissimo e si contraevano in un panico istintivo.
Pendrake si leccò le labbra aride, e questa volta ebbe un pensiero conscio. Naturalmente il pericolo rappresentato
dal mondo delle belve non è finito. L'uomo sta lottando per sconfiggere non soltanto le bestie e il disordine della natura, ma anche i propri impulsi animaleschi. Il pensiero svanì. Guardò Big Oaf, socchiudendo gli occhi. L'uomo-scimmia si stava inginocchiando sull'orlo dell'abisso, a circa tre metri da lui, e l'osservava intento. Pendrake disse, sottovoce: — Deve essere stata sfamata. Deve essere stata tenuta viva deliberatamente. Un paio d'occhi azzurrogrigi, duri come la pietra, incontrarono i suoi. — In principio — disse Big Oaf, — la tenevo in vita per avere compa-gnia. Mi sedevo sul costone roccioso e le urlavo contro con tutto il fiato che avevo in gola. Poi quando arrivarono gli uomini azzurri, con un'orda di bisonti, pensai che forse mi sarebbe venuta utile. Adesso mi conosce. — Finì, oscuramente: — Ha divorato molti uomini, e altri ne divorerà. Meglio non essere uno di loro, Pendrake. Con voce lenta e ferma, Pendrake rispose: — Comincio a capire. Tutta l'attenzione che mi hai prodigato... tu hai parlato di disattivare la macchina: e io sono l'unico uomo giunto qui fino a ora dotato d'una certa esperienza in fatto di macchine. Ci sono arrivato, Big Oaf?
Big Oaf si alzò in piedi, e Pendrake lo imitò. Indietreggiarono dall'orlo del precipizio, passo passo, sorvegliandosi reciprocamente. Fu Big Oaf che parlò. — Non sei il primo, ma gli altri non sono più in circolazione. — Fece una pausa, poi: — Pendrake, ti offro metà di tutto. Tu e io potremo essere i padroni, qui, con diritto di prima scelta sulle donne e su quanto c'è di meglio. Sai che non possiamo permettere che il mondo si intrufoli in questo posto. Non è possibile. Vivremo qui per sempre, e forse, se tu puoi rimettere in attività tutte le macchine che sono qui dentro, potremo uscire e pro-curarci tutto quello che vogliamo. — Big Oaf — disse Pendrake, — hai mai sentito parlare di un'elezione. — Uh! — Gli occhi porcini lo fissarono sospettosi. — Che cos'è? Pendrake spiegò, e la scimmia villosa lo fissò a bocca aperta. — Vuoi dire — esplose, — che se quegli idioti non approvano il modo in cui dirigo la baracca possono buttarmi fuori a calci? — È così — assentì Pendrake. — E questo è il solo modo che accetterò.
— All'inferno — fu la risposta irridente. E, mentre tornavano alla città, Big Oaf disse, in tono minaccioso: — Qualcuno mi ha detto che hai parlato a Devlin, Pendrake. Tu... — Si interruppe. L'ira si spense in lui come se fosse stata recisa da un bisturi, nettamente. Mentre Pendrake osservava sbalordito quella trasformazione, un sogghigno si distese sul volto scimmiesco. — Ascoltami bene — disse Big Oaf. — Un tizio che ha vissuto un milione d'anni e vivrà un altro milione d'anni se gioca bene le sue carte. Pendrake taceva, conscio dello sguardo dell'altro fisso su di lui. Era sorpreso, impensierito. Sotto ogni aspetto, Big Oaf si stava rivelando come un individuo estremamente pericoloso. — Ho tutti gli assi nella manica, Pendrake. — La voce di Big Oaf penetrò sommessa attraverso la sua breve fantasticheria. — E anche una scala reale. Non posso rimanere ucciso, a meno che non cada un masso dal soffitto... — Alzò lo sguardo, poi guardò Pendrake, con un sogghigno più ampio. — Una volta è capitato, a un tale. Si erano fermati. Erano in una piccola valle, sotto una distesa d'alberi. La città sorgeva oltre la cresta della collina. Ma per il momento non si udiva rumore di risate né suono di voci.
Erano soli in un bizzarro universo, un uomo e un semiuomo, uno di fronte all'altro. Pendrake ruppe la stasi. — Non faccio conto che questo accada anche a te. Big Oaf sghignazzò. — Così va bene. Immaginavo che avresti capito in fretta. Senti, Pendrake, non puoi battermi, quindi pensa a quello che ti ho detto. Nel frattempo, voglio la tua promessa che non ti inguaierai con gli altri. È chiaro? — Assolutamente — disse Pendrake. Non provò nessun rimorso per quella rapida promessa. Era chiaro che era arrivato fino all'orlo dell'abisso, nella sua opposizione, e non era ancora pronto. Se c'era una cosa che anni di lotta avevano insegnato a ogni essere umano ragionevole della Terra, era che la morte colpiva facilmente quelli che con lealtà combattevano contro avversari sleali. Big Oaf continuò: — Forse potremo lavorare insieme su un paio di problemi, come quei tedeschi. Forse ti lascerò dare un'occhiata alla macchina, dopo il prossimo sonno. E... — Sì? — Pendrake lo fissò, intento. — Non mi hai detto che quei tali che t'hanno catturato
avevano affermato di tenere prigioiera tua moglie? Ti piacerebbe impiegare un paio di settimane in una spedizione, per vedere se riesci a salvarla? Pendrake provò un'improvvisa speranza. Poi vide che i piccoli occhi a-stuti dell'altro lo contemplavano attentamente, e l'eccitazione lo lasciò. Eleanor doveva essere salvata, certo, ma lui non poteva condurla lì fino a che non avesse consolidato la propria posizione con Devlin e gli altri. Non poteva immaginarsi alla testa d'una spedizione il cui scopo principale sarebbe stato fare razzia di donne. Il compromesso, più la sua disperata necessità, avrebbero finito per provocare parecchie complicazioni.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO — È ora di alzarsi! Morrison entrò nella camera da letto, la mattina dopo, con quell'annuncio. — Che ora? — Pendrake guardò il giovane snello. — Qui il tempo non è sempre eguale? Perché non dovrei starmene qui fino a quando mi viene fame? Con sua sorpresa, Morrison scosse ostinatamente il capo. — Sei stato male, ma è passato. Adesso devi adattarti alle nostre abitudini. Lo dice Big Oaf. Pendrake fissò il viso magro dell'altro. Era convinto che Morrison veniva usato come spia per controllare le sue attività. Da qualche tempo, sospettava che quell'uomo fosse un lacché di Big Oaf, ma non sapeva fino a qual punto ne fosse schiavo. Poi pensò che il suo piano di dedicare qualche giorno alla scrupolosa scoperta di tutto ciò che esisteva in quella strana terra poteva cominciare anche subito. Non che Morrison fosse pericoloso, come individuo. Quell'uomo avrebbe sostenuto sempre il regime dominan-te. — Big Oaf — rispose Morrison alla sua domanda, — ha
organizzato ogni cosa. Dodici ore per dormire, quattro per mangiare e così via... naturalmente non sei obbligato a mangiare o a dormire. Puoi fare quello che vuoi, purché tu sia disposto a fare le tue otto ore di lavoro al giorno. — Lavoro? Morrison spiegò: — C'è il servizio di guardia; e bisogna mungere le mucche due volte al giorno. Poi ci sono gli orti da coltivare; e ogni settimana macelliamo parecchi manzi. È tutto lavoro. — E fece un gesto con il braccio, vagamente. — Gli orti sono là, dietro gli alberi, nella direzione opposta a quella dove si trova la fossa della belva. — E finì: — Big Oaf vuole sapere cosa sai fare. Pendrake sorrise ironicamente. Dunque l'uomo-scimmia gli permetteva di scoprire quale sarebbe stata la sua vita se non fosse stato un capo. Non fu il lavoro ma l'improvvisa immagine del rigido sistema gerarchico che esso sottintendeva a sconvolgerlo. Corrugò la fronte e disse: — Riferisci a Big Oaf che so mungere le mucche, lavorare nell'orto, montare di guardia e fare anche altre cose. Ma per quel giorno non c'erano ordini per lui. E non ve ne furono neppure il giorno seguente. Vagabondò per la città. Alcuni uomini rifiutarono di lasciarsi avvicinare: altri erano così imbarazzati che parlare con loro era inutile; altri ancora, compresi alcuni sostenitori di Big Oaf, volevano avere notizie della Terra. Alcuni di questi avevano l'idea
che lui stesse per diventare uno di loro. Durante queste conversazioni, Pendrake imparò la storia dei minatori, dei giocatori d'azzardo, dei cowboy. Il quadro d'insieme si fece più chiaro. Il gruppo principale apparteneva al periodo che andava dal 1825 al 1875. Pendrake localizzò il sentiero su cui era puntata la macchina trasportatrice: doveva trovarsi a meno di trenta chilometri da una antica cittadina di fron-tiera chiamata Canyon Town. La terza mattina Devlin entrò strisciando nella camera da letto di Pendrake mentre questi si stava alzando. — Ho notato che Morrison si dirige verso il recinto — disse. — Quindi sono venuto qui. Siamo pronti, Pendrake. Pendrake sussultò, poi sedette sul letto. Rimase immobile, cupo, chiedendosi che cosa intendessero per «essere pronti» quegli uomini che avevano una assoluta inesperienza in fatto di guerra pianificata. Ascoltò, cercando di immaginare tutto sotto forma di scene, mentre Devlin cominciava: — L'idea principale è di prendere il recinto e costringerli alla resa. I nostri uomini non vogliono una strage. I particolari sono...
Pendrake ascoltò quel piano puerile; si sentiva sfinito e irritato. Tutti i suoi consigli erano stati ignorati. Lo spietato attacco di sorpresa che sarebbe stata l'unica possibilità di ottenere una rapida vittoria, senza spargimento di sangue da parte degli attaccanti, era stato accantonato per far posto al vago progetto di bloccare il nemico entro il recinto. — Ascolta, Devlin — disse alla fine. — Da due giorni non faccio nulla. Probabilmente penserai che non ho un pensiero al mondo. Eppure mia moglie è nelle mani della più feroce banda di criminali che sia mai esistita sulla Terra. Il mio paese è in un pericolo di cui non è neppure a conoscenza. Inoltre, tre giorni fa, Big Oaf mi ha chiesto se mi piacerebbe guidare un attacco contro i tedeschi, nella speranza che mia moglie sia loro prigioniera qui sulla Luna. Perché non mi sono precipitato, visto che sono quasi impazzito per l'ansia? Perché la sconfitta è dieci volte più facile della vittoria, e più definitiva. Perché tutta la forza di volontà del mondo non è sufficiente, se la strategia è confusa. In quanto allo spargimento di sangue... sembra che tu non capisca di trovarti di fronte a un uomo che non esitereb-be un secondo a impartire l'ordine di un massacro generale, se la sua posizione fosse minacciata. E mi sembra che tu non ti renda conto che questo posto è organizzato con estrema abilità. L'aspetto esteriore è
ingannevole. A meno che operiate in fretta, avrete contro tutti i dubbiosi, che combatte-ranno con slancio doppio per provare a Big Oaf di essere sempre stati dalla sua parte. Dunque, organizziamoci per un combattimento, non per un gioco. Dimmi, cosa c'è negli edifici sorvegliati? — Fucili, in uno; lance e archi e frecce in un altro, strumenti in un terzo... tutto quello che è venuto dalla Terra è diventato proprietà di Big Oaf. — Dove sono le munizioni per i fucili? — Lo sa soltanto Big Oaf... Ehi, comincio a capire che cosa intendi. Se quello mette in azione i fucili... Dobbiamo impadronircene. — Se la prima freccia scagliata da ciascuno dei nostri potesse uccidere o ferire gravemente un avversario — disse Pendrake, — la guerra finirebbe in dieci minuti, ma... Vi fu un rumore, sulla porta. Morrison entrò strisciando. Respirava a fatica, come se avesse corso. — Big Oaf vuole mostrarti la macchina trasportatrice — boccheggiò. — Devo dirgli che stai arrivando?
Su questo non c'erano dubbi. Pendrake si mosse immediatamente. La macchina trasportatrice era nell'interno d'un alto recinto di tronchi, sull'orlo d'un precipizio. Era fatta di metallo scuro, quasi opaco, e la sua base era massiccia. Fermo sulla piattaforma di legno che correva attorno l'orlo superiore del recinto, Pendrake osservò corrugando la fronte quella struttura sgraziata. Nonostante la sua decisione, si sentiva eccitato, perché se fosse riuscito a fare funzionare quello strumento meraviglioso, se avesse potuto metterlo a fuoco su qualsiasi luogo, per esempio sulla prigione te-desca in cui era Eleanor, o sul quartier generale americano o... O se almeno avesse potuto semplicemente scoprire in che modo invertirne la direzione! Scacciò con decisione quella speranza dalla propria mente. La macchina era lunga dieci metri, calcolò, alta e larga più di cinque. Era abbastanza grande per trasportare qualsiasi cosa, tranne una locomotiva. Si avviò lungo la piattaforma e alla fine si fermò dove questa si affacciava sull'orlo del precipizio. L'abisso che si apriva sotto di lui lo sbalordì. Il suo corpo non cedeva facilmente alle vertigini, ma non era necessario correre il rischio soltanto per dare un'occhiata all'imboccatura della macchina. Si ritrasse. Si volse verso Big Oaf, che si era seduto e l'osservava con occhi inespressivi.
— Come fai a entrare nel recinto? — chiese Pendrake. — C'è una porta, dall'altra parte. C'era, infatti: e chiusa con un lucchetto. Big Oaf frugò nella pelle legata attorno al suo ventre massiccio e tirò fuori una chiave. Mentre l'uomo-scimmia spalancava la pesante porta, Pendrake tese la mano. — Cosa ne diresti di lasciarmi il lucchetto? Non credo che potrei scalare quelle pareti se per caso rimanessi chiuso dentro. Parlò deliberatamente. Aveva pensato molto alla politica da adottare nei confronti di Big Oaf, e adesso gli pareva che mostrare una sfiducia aperta e priva di rancore fosse psicologicamente esatto. Big Oaf fece una smorfia. — Non è un posto per te. Ho costruito questo recinto così alto e solido perché dalla Terra non arrivasse niente e nessuno abbastanza forte da co-gliermi di sorpresa. — Tuttavia — insistette Pendrake, — non riuscirei a concentrarmi a dovere se avessi la sensazione che forse... Big Oaf grugnì. — Senti — disse, — forse ti piacerebbe chiudermi dentro.
Pendrake tese la mano. — Vedi quella collinetta laggiù, a circa cento metri? — Sì? — Buttalo là. Big Oaf lo fissò, irritato, poi imprecò. — Per l'inferno! E se là c'è qualcuno che lo prende e ci chiude dentro, tutti e due? Poi, mi ucciderebbero con un colpo di freccia e farebbero uscire te. Nonostante la sua tensione, Pendrake sorrise. — Sei più astuto di me — confessò. Poi corrugò la fronte. Non aveva veramente paura di Big Oaf, in quel momento. Quell'uomo non aveva ancora usato dei trucchi. E poteva essere una buona idea, dopo aver espresso le proprie proteste, lasciare che l'uomo-bestia la spuntasse. Ma non troppo in fretta. — Non hai lasciato mai nessuno, lì dentro? — domandò. Big Oaf esitò. — Sì — disse. — Due tipi strani vestiti tutti di metallo. Avevano una pistola maledettamente strana, con tanti fili sottilissimi, che scintillava di una luce azzurra. Ho una cicatrice sulla spalla, dove m'hanno scottato, con quella.
Avevo una paura terribile che bruciassero il recinto, ma credo che con il legno non servisse. — Sospirò pesantemente. — Mi sarebbe piaciuto avere quella pistola. Ma l'hanno tenuta con loro, quando si sono buttati nel precipizio. — Big Oaf spiegò: — È accaduto molto tempo fa, circa a metà della mia permanenza qui. Esseri umani armati di pistole a raggi calorifici e vestiti di tute metalliche, cinquecentomila anni prima... chiusi per settimane insieme a quella macchina. Cercò di immaginarli, chiusi in quella gabbia orribile e impo-nente, con un uomo-scimmia che li guardava dall'alto. L'immagine divenne così vivida che per un attimo poté quasi vedere quegli uomini, vacillanti per la fame, la sete e la follia, gettarsi nel precipizio, verso una morte mise-ricordiosa. L'immensità del tempo che era trascorso, e un pensiero assillante, divennero enormi. Alla fine disse, debolmente: — Devi essere uno sciocco, Big Oaf. Se degli uomini capaci di costruire e di usare armi come quelle non sono stati in grado di invertire il funzio-namento della macchina, come puoi aspettarti che sappia farlo io? Nella loro disperazione, debbono avere tentato tutto. — Uh! — fece Big Oaf. Poi bestemmiò, comprendendo di essere di fronte a una sconfitta. — Darò un'occhiata, comunque — disse Pendrake.
La macchina era posata sulla roccia: una distesa di metallo liscio, con una profonda cavità dove funzionava. Pendrake entrò, senza molte speranze. Vide che la parete attiva era trapassata da milioni di fori minuscoli, non più grandi di punte di spillo. Era tiepida, al tatto. Non c'erano pulsanti, né leve. Si stava guardando intorno con curiosità quando si rese conto di avere già compreso in che modo funzionava la macchina. La certezza era giunta istantaneamente eppure dolcemente, come se l'avesse sempre saputo. Lo spazio, il tempo e la materia erano prodotti di moti caotici che, per caso, avevano prodotto l'universo nel suo stato attuale. La scienza era un tentativo di portare ordine in qualcuno di quei movimenti casuali. Quella macchina rettificava tutti i moti casuali, nel punto in cui si trovava e nel punto cui era collegata. La sua stessa forma, compreso l'incavo a forma di grotta, era una condizione di ordine puro e perfetto in contrappo-sizione al disordine. Poiché eliminava totalmente le distorsioni della con-glomerazione casuale, non aveva una sola funzione ma poteva essere con-vertita a qualsiasi produzione di energia, a seconda di ciò con cui era con-nessa. E non era, in realtà, un trasmettitore di materia tra la Luna e la Terra. In uno spazio ordinato, quella piccola area nell'interno della Luna era conti-gua alla piccola area della
Terra sulla quale la gente e gli animali avevano camminato quando erano stati bruscamente precipitati in una terra di vita eterna. Poiché in una natura perfetta i flussi d'energia seguono ritmi esatti e si invertono a intervalli precisi, i due spazi non erano sempre connessi. Il ritmo, come percepiva Pendrake in completa comprensione, consisteva approssimativamente in dieci minuti di flusso dalla Terra alla Luna, seguiti da un po' più di otto ore di adattamento (il che era già un fenomeno sbalorditivo in se stesso), poi dieci minuti di flusso dalla Luna alla Terra, poi altre otto ore di adattamento. Quindi il ciclo si ripeteva, ricominciando con dieci minuti di flusso dalla Terra alla Luna. Solo durante quel flusso la gente poteva compiere la traversata, come se la distanza non esistesse. A seconda della direzione del flusso, la gente poteva andare sulla Terra o venire dalla Terra alla Luna. Pendrake percepì che erano passate parecchie ore di adattamento e che altre ore avrebbero dovuto passare prima che il prossimo flusso, dalla Luna alla Terra, mettesse automaticamente in grado chiunque entrasse nella cavità di passare dalla Luna alla Terra. Tutto questo rappresentava soltanto una piccola funzione della macchina. Quasi tutte le altre funzioni richiedevano un catalizzatore specifico perché avesse luogo ogni singolo
processo. Pendrake si volse e uscì dalla «grotta» metallica; non dubitava che avrebbe dovuto dire a Big Oaf d'aver scoperto il modo di usare la macchina. Lui era importante, agli occhi di quell'uomo, soltanto se gli era utile. Disse, quietamente: — Ho scoperto come funziona la macchina. Posso andare sulla Terra o mandare qualcuno, se ho il tempo di fare preparativi... Forse ci vorrà un giorno intero per organizzare tutto. Il neanderthaliano lo guardò sospettoso. — Stai dicendo che tu ci sei riuscito, e quei tizi che avevano la pistola a raggi no? Pendrake alzò le spalle. — Forse quei due erano uomini comuni, nella loro civiltà, che sapevano usare certi oggetti, ma non sapevano come fun-zionavano. Il mostro non si lasciò convincere facilmente. — Io e gli altri siamo passati qui senza preparativi. Perché dovrebbe oc-correre del tempo per sistemare la macchina? — chiese. Era una domanda acuta, ma se Big Oaf avesse trovato la risposta non avrebbe più avuto bisogno di Pendrake.
— È per questo che siete così pochi — rispose Pendrake. — Se vuoi, regolerò la macchina in modo che prelevi tutti coloro che percorrono quel sentiero. Era una menzogna; ma poiché senza dubbio, era anche l'ultima cosa che Big Oaf desiderava, era un'offerta che poteva formulare con sicurezza. Big Oaf si allarmò. — Non ti lascerò mai più avvicinare a questo posto. Pendrake esitò, poi cambiò argomento. — Non è mai scappato nessuno, di qui? — chiese. Vi fu una lunga pausa. — Un tale — ammise alla fine Big Oaf, con una smorfia. — Circa cento anni fa. Si chiamava Lambton. Era un ingegnere che lavorava nel West per costruire una ferrovia, diceva. Un tipo in gamba! Parlava così bene che io gli lasciai guardare le macchine. Salì su una di quelle macchine e se la squagliò, attraverso una caverna. Io feci chiudere quella galleria, puoi star certo, ma poi mi sentii a disagio per molto tempo. Alla fine mi convinsi che non poteva essere riuscito ad arrivare sulla Terra, e così cominciai a sentirmi meglio. Pendrake udì solo vagamente i commenti finali, perché
nell'udire il no-me di Lambton la serie di eventi che l'avevano travolto cominciò, all'improvviso, ad avere un senso. Una piccola macchina - il motore - d'una antica civiltà lunare aveva trovato la strada per raggiungere la Terra. A quanto pareva, quel Lambton non ne aveva fatto nulla. Ma non molti anni prima, un figlio o un nipote dell'uomo noto a Big Oaf aveva interessato evidentemente un gruppo di idealisti - scienziati, uomini d'affari e professionisti presentando il motore come un mezzo per una pacifica colonizzazione dei pianeti. Dove fosse stato il motore per tutti quegli anni, da quando era stato portato via dalla Luna, non era facile spiegarlo. Ma una cosa era chiara. Una larga percentuale delle persone che avevano avuto a che fare con quel motore era stata uccisa o era finita in carcere; e i superstiti avevano probabilmente cambiato idea sul problema di portare la pace su un pianeta abitato da gente ostile. Poiché molti idealisti erano a loro volta degli arrabbiati, l'intera faccenda era realmente spinosa. Pendrake pensò che la civiltà si sarebbe sempre evoluta secondo il proprio lento ritmo naturale e che persino uomini coltissimi e bene intenziona-ti non potevano accelerare quel ritmo se non in modo infinitesimale. Pendrake disse, diplomaticamente: — Hai detto che c'erano altre macchine... — E lasciò in sospeso la
domanda. La secca risposta arrivò accompagnata da una smorfia. — Non vedrai le altre macchine se prima non avremo fatto un patto. E se credi di potere oziare da queste parti facendo finta di aggiustare tutto, in attesa che Devlin mi butti giù dal piedestallo, sappi che l'ultima spedizione partirà domani per prelevare altre donne. Non aspetto neppure che torni l'altra. Pendrake tacque. Era del tutto impotente, nonostante l'immensa conoscenza che ora possedeva. Il prossimo flusso di energia dalla Luna alla Terra era lontano ancora di parecchie ore. E lui non aveva i catalizzatori necessari per stimolare le altre funzioni, egualmente potenti, della macchina. Big Oaf continuò: — Non volevo mandare la seconda spedizione prima che l'altra tornasse, ma ho l'impressione che sia il momento di cominciare ad abbattere le grotte fra noi e quei tedeschi. Tu puoi andare o no, a tua scelta, ma farai bene a decidere in fretta. Adesso andiamo, ritorniamo in città. Tacquero, mentre camminavano. La mente di Pendrake stava ribollendo. Dunque Big Oaf stava forzando la situazione, senza
correre rischi. Lo studiò con la coda dell'occhio, cercando di leggere in quei lineamenti massicci e brutali qualcosa dei suoi pensieri. Ma l'impassibilità era una condizione naturale di quella struttura facciale. Soltanto una forza fisica implacabile appariva in ogni movimento, in ogni muscolo. Alla fine Pendrake disse: — In che modo uscite alla superficie? Non c'è né aria né calore, lassù, vero? — E aggiunse, prima che Big Oaf potesse parlare: — Che genere di quartier generale si sono costruiti i tedeschi? Passò un minuto. Sembrava che l'uomo-scimmia non volesse rispondere. Poi grugnì, bruscamente: — Sono i passaggi illuminati che hanno luce e calore. Molti arrivano diritti alla superficie, e qualcuno è abilmente nascosto da porte che sembrano rocce o detriti. È così che abbiamo ingannato i tedeschi, fino a ora. Noi facciamo irruzione ogni volta da una porta nuova e... Un grido li interruppe. Un uomo comparve sulla collina accanto e corse verso di loro. Pendrake lo riconobbe per un tirapiedi di Big Oaf. L'uomo si avvicinò, ansando. — Sono tornati, con le donne. Gli uomini stanno impazzendo. — Faranno bene a stare attenti! — ringhiò Big Oaf. — Sanno cosa gli capita se ne toccano una prima che le
abbia viste io!
CAPITOLO DICIOTTESIMO C'erano circa trenta donne ammucchiate nella radura, davanti al recinto dell'uomo-scimmia. La folla di uomini sdraiati raccolta attorno a loro lanciò un grido selvaggio quando Big Oaf e Pendrake apparvero. Voci bramo-se si levarono, facendo richieste e controrichieste. — Io ho solo una moglie; ho diritto a un'altra. — — È il mio turno! — — Big Oaf! tu devi... — — Io ho meritato... — Silenzio! Il silenzio fu immediato e quasi assordante; alla fine venne rotto da un uomo dal collo taurino che si avvicinò a Bif Oaf e disse: — Credo che sia l'ultima razzia di donne che abbiamo fatto, capo. Quei maledetti tedeschi erano pronti a riceverci, e sembrava che avessero esplorato tutti gli ingressi alla loro base. Ci hanno seguiti, e siamo riusciti a fuggire soltanto perché abbiamo preso quella scorciatoia che... — La conosco. Quanti morti? — Ventisette.
Big Oaf tacque per un lungo attimo, corrugando la fronte. Alla fine disse: — Bene, facciamo la scelta. Questa la prendo per me e... — Jim! Pendrake aveva assistito, cupo, alla conversazione. Ora girò su se stesso e fissò, sconvolto, la donna giovane e snella che correva verso di lui, pian-gendo. Gli si buttò fra le braccia e si appoggiò a lui, semisvenuta. Al disopra del capo bruno della donna Pendrake fissò il volto ghignante di Big Oaf. — La conosci? — ridacchiò il mostro. — È mia moglie! — esclamò Pendrake, e provò una sensazione terribile. Si voltò per cercare Devlin, ma questi non era tra la folla. Deglutendo a vuoto, tornò a girarsi. Il sogghigno di Big Oaf era immenso: mostrava i denti simili a zanne. Disse ironicamente, senza smettere di sogghignare: — Puoi prendertela, Pendrake. Riabituati ad averla e poi, fra una settimana potremo parlare. Fu una specie di sospensione d'una condanna a morte.
Per due giorni Pendrake provò un sollievo disperato e collerico. Sollievo perché gli era stato concesso un poco di tempo. Collera perché non poteva fare virtual-mente niente per impedire la degradazione delle altre donne. Disse a uno dei luogotenenti di Devlin di fare correre la voce che chiunque avesse preso una delle donne appena arrivate avrebbe subito gravi rappresaglie. Ma questo servì soltanto ad accrescere la disperazione, perché quella voce, per essere efficace, doveva indicare lui come vendicatore. Pensò, ansiosamen-te, che quella faccenda sarebbe arrivata alle orecchie di Big Oaf, e che quella maligna creatura avrebbe supposto, a ragione, che Pendrake stava per minacciare la sua autorità. Pendrake tenne bloccate tutte le porte durante i periodi di sonno. E ogni «notte» lui ed Eleanor parlarono fino a tardi. In principio, lei era molto drammatica. — Puoi star certo — disse fieramente, — che mi ucciderò subito, se quel mostro o qualcun altro cercherà di mettermi le mani addosso. Io apparten-go soltanto a te. Era una donna che parlava al suo uomo, e Pendrake ascoltò, imbarazzato, perché neppure lui aveva una possibile soluzione. Il terzo giorno, Devlin venne a cercarlo. Si fermò sulla
soglia e fissò Pendrake, con un'espressione cupa sul viso. — Bene — fece, — adesso puoi capire cosa significhi essere contro Big Oaf. Dobbiamo rinunciare e metterci agli ordini di Sua Maestà? Pendrake scosse il capo. — Ho riflettuto — disse. — C'è il modo di dividere questo posto in zo-ne; una zona che possiamo controllare noi, e una che lasceremo a Big Oaf e ai suoi. Indicò la porta con un cenno del capo: uscirono, strisciando. Pendrake fece da guida; si diresse verso una vicina altura. Mostrò il panorama sottostante: il resto della città, i prati, la bella valle più oltre. — Ci sono molte sorgenti d'acqua. Se possiamo prendere quelle che so-no da quella parte... — E indicò. — Possiamo sempre ritornare nelle grotte, in caso di emergenza, raggiungere la superficie, e metterci in contatto con i tedeschi, come ultima risorsa... Non concluse la frase. I tedeschi non avrebbero certo offerto loro un ri-fugio ideale - questo era ovvio - ma quegli uomini non capivano chiaramente fino a qual punto fossero spietati. — Per il cielo! — esclamò Devlin. — Forse hai avuto una idea nuova...
— Si interruppe. — Ma hai cambiato la prospettiva. Ora non si tratta più di una lotta alla morte. — Se riusciamo a ottener la metà — ammise Pendrake. Devlin annuì, pensieroso. — Metà del bestiame, metà delle armi... — Nella nostra metà fonderemo una democrazia — disse Pendrake, — e ci batteremo per difenderla, ma non varcheremo i confini. Si abitueranno all'idea. Devlin taceva. — E come conti di riuscire? — domandò bruscamente. — Dillo ai tuoi uomini più fidati — rispose Pendrake. — Agiremo prima che finisca questa settimana. Non abbiamo scelta. Devlin tese la destra. Si strinsero la mano e si separarono; Devlin scese da un fianco della collina e Pendrake scese dalla parte opposta. Quando Pendrake ritornò a casa vide che, per quanto la sua assenza fosse stata breve, aveva un visitatore. Big Oaf stava acquattato davanti alla bassa porticina. Il mostro sogghignò, allegramente.
— Ho pensato di venire a salutarti — disse, — e a fare quattro chiacchiere con te, eh? Pendrake lo studiò con cauto rispetto. Pensò che mai, nella sua vita, aveva incontrato un avversario così pericoloso e intelligente. Non dubitava che quello stava per rivolgergli un ultimo avvertimento. — Pendrake — disse Big Oaf, — sono stato informato della faccenda delle donne. Pendrake si irrigidì. Il mostro lo fissò, improvvisamente calmo. — Ho l'impressione che ti dia fastidio il fatto che io abbia quelle donne. Era una formulazione molto blanda. Pendrake si sentiva fremere ogni volta che ci pensava. Replicò: — Nel mio paese, una donna può scegliere l'uomo che sposerà. Big Oaf sporse le labbra e alzò una mano, come per respingere quell'argomento. — Su, su... Sai che non ne avrei mai trovata una, se avessi lasciato a loro la scelta. Quelle femmine sceglierebbero una nullità come Miller piuttosto che prendere me. Non è così?
Pendrake lo ammise. Ma si rendeva conto di non poter discutere obietti-vamente quel problema. Era troppo emotivo, per quanto riguardava i rapporti tra maschio e femmina. Lo sorprese accorgersi quanto fosse forte quel sentimento, ma il suo atteggiamento ostile non si rilassò. — Pendrake, sai una cosa? Tre di quelle donne stanno cominciando a li-tigare per me. Cosa ne pensi? — Big Oaf scosse il capo terribile, perplesso ma evidentemente compiaciuto. — Le donne non sono come gli uomini, Pendrake. Se me lo fossi chiesto quando le ho scelte, avrei giurato su una montagna di Bibbie che nessuna di loro si interessava a me. Ma io sono stato furbo. Le ho tenute a distanza. Capisci, volevo stuzzicarle, credimi, ma immaginavo che se avessi tentato un approccio fisico troppo diretto... ecco, lo sai, due di quelle donne si sono uccise. Questo è stato un colpo, per me. Non volevo che capitasse di nuovo, così le ho lasciate in pace. — E le altre tre donne? — chiese Pendrake. Big Oaf fece una smorfia. Rimase accosciato per almeno un minuto; tutta la sua cordialità era scomparsa. Poi lo sguardo truce gli svanì dagli occhi, e si rilassò visibilmente. — Queste cose richiedono tempo, Pendrake — spiegò, cauto. — Ti sto dicendo che cosa ho imparato, sul conto
delle donne. Secondo me, una donna deve avere un uomo. Se non può avere un brav'uomo, ne prenderà uno cattivo. Se non può averne uno bello, ne prenderà uno brutto. La natura l'ha fatta così, e lei non può farci niente. In molte situazioni riesce a ra-gionare quanto un uomo, ma sotto quell'aspetto... Ah, le altre tre donne. Vuoi sapere come mi regolo, con loro? Prima comincio a insegnare loro l'inglese. Qui c'è un tale che parla anche tedesco, e me ne servo come in-terprete. L'ho incaricato di dire a tutte che qui si continua a vivere per sempre. Questo le induce a riflettere. Nello stesso tempo, gli faccio dire che qui il capo sono io. Alle donne piace mettersi con il capo. Allora, non appena quelle hanno imparato qualche parola, faccio capire che sono un ti-po molto gentile, se non mi contrastano. Te lo dico io, Pendrake, funziona. Be', cosa ne pensi? Era un appello all'amicizia. Quell'essere semibelluino desiderava veramente la considerazione del suo principale avversario potenziale. Pendrake scosse il capo. — Big Oaf — disse, — libera quelle sei donne. Ordina ai tuoi seguaci di liberare le loro. Se tre delle tue mogli litigano davvero per amor tuo, allora una di essere rimarrà sempre con te come moglie permanente. Se tutte le donne saranno liberate, prevedo che gli uomini cominceranno a corteggiar-le, e rimarranno sorpresi nel vedere che, una
volta superato il trauma di trovarsi qui, le donne li considereranno come possibili mariti. Non passerà molto tempo prima che comincino i matrimoni. Il neanderthaliano si alzò. — È tutto quello che hai da dire? — Era corrucciato. — Sai benissimo che sto dicendo la verità — replicò Pendrake, con voce ferma. — Ti stai mettendo nei guai — fu la dura risposta. — Io non mi accon-tento di una sola donna, e sono io il padrone di questa città. Pendrake non disse nulla, rimase immobile. Big Oaf gli rivolse una smorfia, poi con un ringhio sardonico girò su se stesso e si allontanò. Pendrake si inginocchiò ed entrò strisciando in casa. Trovò Eleanor accanto alla porta, in attesa ansiosa. — Cosa credi che farà? — gli chiese. Pendrake scosse il capo. — Non lo so — ammise. Ma la sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco gli diceva che il da-do era tratto.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO Il giorno seguente Devlin riferì ciò che aveva detto ai suoi quattro luogotenenti e precisò che anche loro erano convinti della necessità di far preci-pitare la situazione. Avevano affermato - così disse Devlin - di essere soddisfatti del progetto di compromesso. Avevano accolto con favore l'idea di due distinte comunità. Quando lo seppe, Pendrake pensò che quegli uomini erano probabilmente contenti per la ragione sbagliata: per debolezza invece che per forza. Ma l'importante era che accettassero l'idea. Si accorse di essere lieto a sua volta di potere evitare, forse, la guerra totale. Il piano su cui Pendrake e Devlin si accordarono era semplice. Si sarebbero impadroniti di metà delle sorgenti d'acqua e i mandriani che stavano dalla parte di Devlin avrebbero guidato metà del bestiame verso le grotte. Si sarebbero impadroniti di due dei quattro recinti, quello con le frecce e gli archi e quello con le armi da fuoco. Questo avrebbe lasciato nelle mani di Big Oaf le munizioni nascoste e un certo numero di pistole e fucili, senza dubbio. Pendrake pensava che una piccola quantità di armi da fuoco potesse essere compensata da una pioggia di frecce, in particolare in una zona ristretta come la città.
Sarebbero state poste delle guardie nei punti chiave, e gruppi mobili d'uomini sarebbero stati tenuti in allarme, pronti ad accorrere in aiuto delle guardie nei punti chiave che venissero attaccati. Devlin ammise che quello era il piano migliore, ma sudava copiosamen-te, mentre l'ammetteva. — Questo è il progetto più difficile in cui mi sia mai trovato coinvolto — confessò, — ma sistemerò tutto e affiderò gli incarichi agli uomini in un giorno o due, e poi ti informerò. E se ne andò. Il giorno seguente passò senza che si sapesse nulla. La mattina successiva, Morrison bussò alla porta. — Big Oaf ha ordinato che metà di ogni gruppo si presenti nello spiazzo davanti al suo recinto — annunciò. — Mi ha incaricato di dirti che ti vuole là e che sa bene che c'è qualcosa in aria, e vuole sistemare tutto concludendo una pace prima che si arrivi al combattimento. Le donne devono presentarsi insieme agli uomini. La riunione è fissata tra un'ora. Pendrake, tenendo Eleanor a braccio, si recò alla «riunione». Si sentiva a disagio, e mentre si avvicinava fu
sollevato nel vedere che stava arrivando un gran numero di seguaci di Devlin, accompagnati dalle loro donne. Prese in disparte un luogotenente di Devlin e disse: — Informa Devlin di riunire tutti i suoi e di rimanere in attesa. — È quello che Devlin sta già facendo — rispose l'uomo, — quindi credo che tutto sia a posto. Pendrake si sentì ancor più sollevato. Perché questo significava che veniva fatto tutto il possibile. Per la prima volta pensò che forse, dopotutto, si poteva trovare una soluzione senza spargimento di sangue. Davanti al recinto la folla aumentò, fino a che vi furono raccolti circa duecento uomini e trecento donne. Quasi tutte le ragazze tedesche erano piuttosto belle. Non c'era dubbio; quella banda di coloni del Vecchio West aveva raccolto una rara collezione di femmine attraenti, e con simili premi in palio tutti erano impazienti: il piano di pace annunciato da Big Oaf avrebbe dovuto essere ottimo, per dare a ciascuno un sentimento di sicurezza. Vicino all'ingresso del recinto vi fu una certa agitazione. Il grande cancello si aprì, e un attimo dopo ne uscì il neanderthaliano. Salì su una piccola piattaforma e si guardò intorno. Il suo sguardo si puntò su Pendrake; poi tese un dito. — Ehi, Pendrake! — ruggì. Doveva trattarsi di un segnale, perché Eleanor lanciò un
urlo. — Jim! Attento! Un attimo dopo qualcosa lo colpì duramente al capo. Si accorse di cadere. Tenebre. Quando Pendrake rinvenne, Devlin si stava chinando ansioso su di lui. Quasi tutti se ne erano andati. Era avvilito. — Siamo stati sciocchi — disse. — Si è impadronito di tua moglie, e adesso la tiene là dentro. Penso che abbia compreso che tu eri il capo della ribellione, e che se poteva fermarli avrebbe fermato tutti noi. — E aggiunse, vergognandosi: — Forse è vero. Pendrake si levò a sedere con un gemito. Poi si alzò in piedi, e la rabbia lo invase. — Quanto tempo occorre per lanciare l'attacco? — scattò. Devlin gli mostrò un fischietto. — Basta che io soffi qui dentro due volte — rispose, — e fra cinque minuti saremo in movimento.
— Capisco. — Pendrake si stava riprendendo rapidamente; i suoi occhi erano socchiusi, mentre calcolava. Poi disse: — Fischia, non appena sarò entrato nel recinto. Devlin deglutì, impallidendo. — Credo che ci siamo — mormorò. Si tolse un coltello da una tasca interna. — Ecco, prendi questo. Pendrake lo prese e l'infilò nella tasca. Devlin ebbe un altro pensiero. — Come farai ad entrare? — domandò. — Non preoccupartene — ribatté Pendrake, voltandosi. E disse alle guardie: — Avvertite Big Oaf che sono pronto a discutere con lui. Big Oaf uscì strisciando e sogghignando dalla casa nel recinto. — Immaginavo che avessi un po' di buon senso — osservò, poi grugnì, quando il coltello scagliato da Pendrake gli si infisse per una profondità di quindici centimetri nel petto enorme. Strappò l'arma sanguinante dalla carne e, con una smorfia, la gettò al suolo. — Finirai nella fossa, per questo — disse.
— Ti legherò e... Avanzò, e un brivido corse lungo la spina dorsale di Pendrake. Il mostro teneva la testa bassa. Le sue braccia animalesche erano protese. La sua forza anormale si mostrava in tutta la sua potenza terribile. Mentre guardava quell'essere avanzare verso di lui, Pendrake fu improvvisamente colpito dal pensiero che nessun uomo nato nelle ultime centinaia di millenni aveva la forza necessaria per sconfiggere quella belva villosa e titanica. Pendrake indietreggiò, cautamente. L'orrore per quel colosso muscoloso che gli veniva contro svanì. Ma la convinzione di dovere attendere un attimo favorevole era una terribile imposizione per i suoi nervi; era un fremito acuto, intenso come mai aveva provato. Senza vergognarsi della propria riluttanza, eppure disperato nella necessità di affrettarsi, attese l'attacco che Devlin e i suoi uomini stavano per lanciare... qualsiasi cosa che servisse a distrarre l'attenzione del mostro. Quando l'attacco arrivò, con un improvviso ruggito di voci maschili, Pendrake si gettò avanti, contro l'uomo peloso. Un braccio degno d'un orso si tese per afferrarlo. Deviò il colpo e per un attimo fuggevole ebbe la possibilità di vincere. Il diretto che sferrò contro quella massiccia mascella quasi gli spezzò il polso. Tutto sarebbe andato bene, se il suo pugno poderoso avesse raggiunto lo scopo. Ma ciò non avvenne. Il mostro, invece di vacillare per
quell'istante su cui Pendrake contava per potersi allontanare, piombò in avanti. Le sue braccia enormi si chiusero attorno alle spalle di Pendrake. Il neanderthaliano lanciò un urlo di trionfo. Mentre la creatura cominciava a stringerlo terribilmente, Pendrake liberò le braccia, piantò due dita negli occhi porcini di Big Oaf, spinse con violenza... e si strappò dall'abbraccio mortale. Toccò a lui gridare, con la selvaggia felicità d'un uomo in preda al furore della battaglia. — Sei sconfitto, Big Oaf! Sei finito. Tu... Con un grido rauco, il mostro balzò verso di lui. Pendrake indietreggiò quasi danzando, con una dura risata. Troppo tardi, notò la piattaforma del trono immediatamente dietro di lui. La sua ritirata, resa agevole dalla scar-sa gravità lunare, era troppo rapida perché potesse fermarsi. Con un tonfo cadde riverso sulla piattaforma. Tutto finì rapidamente. In piedi, avrebbe potuto vincere; era una prova di forza in cui non era battuto in partenza. Ma Big Oaf inginocchiato su di lui, Big Oaf che lo colpiva con pugni massacranti, era un'altra cosa. Dopo un minuto, Pendrake era legato ai suoi sensi soltanto da un lieve filo di coscienza. Si accorse soltanto in modo vago di venire legato in maniera rude e sbrigativa.
A poco a poco, la sua mente uscì strisciando dall'oscurità, ebbe una maggiore comprensione del disastro che si era abbattuto su di lui. Alla fine disse, con voce spessa: — Sciocco! Hai sentito che si combatte, là fuori? Questo significa che tu sei finito, qualsiasi cosa farai a me. È meglio fare un patto, Big Oaf, finché sei ancora in tempo. Bastò uno sguardo a quegli occhi belluini per capire che aveva lanciato la sua minuscola pietra di speranza in un mondo d'ombra. Tutto ciò che c'era di animalesco in quell'uomo era venuto a galla. Le labbra enormi erano contratte, e i denti sporgevano come zanne. Big Oaf lanciò ringhi di furore: infine disse, con voce rauca e gutturale: — Sbarrerò il cancello da questa parte. Questo indurrà i miei uomini a combattere più duramente perché non potranno rifugiarsi qui. E in questo modo saremo sicuri di avere un piccolo spettacolo tutto per noi. Uscì pesantemente dalla linea di visuale di Pendrake. Si udì il tonfo di una trave che veniva lasciata cadere. Poi il mostro peloso ricomparve, sogghignando. Ma quando parlò era simile a un carnivoro che sputasse furore. — Io vivrò qui per un altro milione di anni, Pendrake, e tua moglie sarà una delle mie donne. Pendrake sibilò: — Pazzo, idiota, anche se adesso hai vinto, morirai presto,
quando arri-veranno i tedeschi. E non credere che non verranno. Per loro siete soltanto un branco di banditi, una seccatura che non sopporteranno molto a lungo. Quelle parole non parvero colpire i pensieri dell'altro. Big Oaf stava, stranamente, spingendo la piattaforma del trono. Pendrake osservò, perplesso, mentre il mostro esercitava tutta la sua forza enorme sull'oggetto ligneo. Bruscamente, la struttura si sollevò. Si alzò e si rovesciò con un tonfo, mentre Big Oaf si scostava con un balzo. Là sotto, c'era l'ingresso d'una grotta. — Quegli sciocchi — disse Big Oaf con disprezzo, — credevano che io tenessi qui questa piattaforma e questo recinto solo perché volevo giocare a fare il re. Gli uomini azzurri conoscono la verità, ma non vogliono imparare altra lingua eccetto la loro, quindi non potrebbero dirlo neppure se lo volessero... e non lo vogliono. Mentre finiva di parlare si piegò su Pendrake. Con un grugnito se lo issò sulle spalle e balzò nella grotta illuminata. Fu un salto di sei metri. Quando fu sul fondo, gettò senza cerimonie il suo prigioniero sul pavimento e risalì alla superficie. — Non essere ansioso — gridò, irridente. — Vado soltanto a rimettere a posto la piattaforma.
Un attimo dopo atterrò con un tonfo e tornò a sollevare Pendrake. — Questa grotta — disse, sogghignando, — porta diritto alla fossa. Ti calerò alla mia vecchia amica, la belvadiavolo, e mi divertirò! Sarà diver-tente, amico, eh!
CAPITOLO VENTESIMO La grotta aveva un dolce pendio verso il basso; alla fine, cominciò ad al-largarsi. Si aprì bruscamente in un grande vano pieno di forme metalliche. Macchine! Scintillavano nella luce riflessa delle pareti e del soffitto della grotta. Erano là, silenziosi testimoni segreti della gloria di un popolo che aveva raggiunto non l'immortalità, poiché si era estinto, ma una grandezza probabilmente senza eguali nel sistema solare, nel passato o nel futuro. Arrivato al punto in cui si biforcavano due corridoi, Big Oaf si fermò. Rimase immobile per un lungo attimo, poi depose deliberatamente Pendrake sul duro pavimento. Si inginocchiò in silenzio e con le dita enormi e goffe sciolse i legami attorno alle caviglie di Pendrake. — Alzati — ordinò in tono secco. Non era un problema, con la gravità lunare, anche se aveva le mani strettamente legate dietro il dorso. — La galleria di destra! — ordinò Big Oaf.
Mentre Pendrake ubbidiva senza una parola, il neanderthaliano lo seguì e disse: — C'è qualcosa, qui, che voglio mostrarti. Mi dà sempre una sensazione strana, e sarei un pazzo se ti uccidessi senza chiedere a un tipo come te che effetto gli fa. Le pareti radianti illuminavano il cammino: giunsero in una grande sala. Al centro esatto sorgeva un cubo trasparente dal diametro di circa sei metri. Big Oaf l'indicò; Pendrake si avvicinò, conscio di essere seguito dal mostro. — Guarda giù! — ordinò Big Oaf, con voce quasi gentile. Pendrake aveva già visto. A una certa profondità, una fiamma biancazzurra splendeva, con viva intensità. Dopo un'occhiata, Pendrake dovette distogliere lo sguardo. Ma continuò a lanciarle ogni tanto altre occhiate. — Splende così — spiegò Oaf, — da quando sono arrivato io. Cosa te ne pare, amico? Pendrake disse silenziosamente, disperatamente, dentro al cubo: — Vi prego di salvarmi. Ho bisogno di aiuto. Da una distanza immensa, entro il cubo, una voce gli rispose nel cervello.
— Amico, la tua capacità di sentire la nostra presenza non ti sarà utile, perché occorrerà molto tempo prima che gli uomini possano servirsi di ciò che noi abbiamo e di ciò che conosciamo. — Abbiate misericordia — insisté Pendrake, tremando, — sto per essere ucciso e divorato da un animale selvaggio. — Bene, puoi scegliere. Unisciti a noi per sempre. — Vuoi dire... — Assorbito per sempre nell'unità, libero da tutte le passioni e da tutte le sofferenze, per sempre. Pendrake rabbrividì. La sua reazione istantanea fu una ripulsa totale. Non aveva affatto la sensazione che gli venisse offerta la libertà. Per un istante il terrore della tigre dai denti a sciabola svanì, perché l'alternativa offertagli sembrava un inferno vivente. — Mia moglie, la Terra, tutta questa gente! — protestò Pendrake, tremando. — È un pericolo terribile... La voce nella sua mente disse: — Decidi prima di lasciare questa stanza. Qui possiamo aiutarti. Fuori... non possiamo.
— Voi siete il popolo della Luna? — chiese, disperato. — Noi siamo il popolo della Luna. Tremando, Pendrake voltò le spalle al cubo per affrontare il suo cattura-tore. — Big Oaf — disse, con voce tesa, — poiché tu hai mia moglie, puoi farmi fare tutto ciò che vuoi. Senza dubbio, l'ultima cosa che faresti a un uomo disposto ad ubbidirti è ucciderlo. — Tu sei troppo furbo. Non mi fido di te! — ringhiò la creatura. — Non credo che tu sia disposto a trattare. — Io devo trattare — incalzò Pendrake. — Non ho scelta. — Sei un uomo troppo pericoloso — lo contraddisse il mostro. — Nessuno è mai riuscito a contrastarmi, prima d'ora. Pendrake disse, seccamente: — Finché mia moglie è qui, mi hai in pugno. — Questo non ti ha impedito di attaccarmi. — Ero quasi impazzito per quel colpo in testa — ribatté Pendrake. — E
non pensavo con lucidità. Big Oaf sembrò riflettere, a bocca aperta, gli occhi semichiusi. Bruscamente serrò i denti. — All'inferno! — ringhiò. — Non correrò rischi. Da quando sei arrivato tu non ho avuto che guai, così mi sbarazzerò di tutti questi indisciplinati, cominciando da te. Ho molto tempo, Pendrake, per risolvere gli altri miei problemi. E adesso muoviti. Pendrake si avviò, lentamente. Non disse più nulla all'essenza vitale la cui presenza aveva riconosciuto nella fiamma. Non pensò più a quella soluzione che gli era stata offerta. L'esistenza di quegli esseri era aldilà della sua realtà. Percorsero il corridoio, e presto incontrarono altre macchine. — Ti ho portato per questa strada — lo pungolò Big Oaf, — per mostrarti quello che avresti potuto avere. E avresti potuto avere tua moglie. Ma adesso aspetterò fino a che arriverà qualcun altro che conosca le macchine e non sia così difficile. E forse gli darò tua moglie — aggiunse, ri-pensandoci, e si sbellicò dalle risa. Pendrake rimase in silenzio. Ma la sua mente oscillava, come un'altalena che balza più in alto e più violentemente a ogni spinta. E in ogni momento, il peso che opprimeva il
suo cervello diventava più enorme. C'era il motore, una Terra che non sospettava ciò che stavano facendo i tedeschi orientali; c'era Eleanor... Il pensiero cessò, come se fosse stato reciso dalla sua mente con un coltello. Il sangue gli defluì dalle guance. I muscoli del suo plesso solare si te-sero in modo così violento che fu come un acuto dolore appendicolare. Perché lui e Big Oaf erano ritornati al recinto che conteneva la macchina trasportatrice. Mentre Pendrake osservava con occhi carichi di sofferenza, l'uomo-mostro aprì il lucchetto e spalancò il cancello. — Entra! — ringhiò Big Oaf. Pendrake, che aveva continuato nel vano tentativo di forzare i legami, mentre camminava, avanzò rapidamente.
Ho un'altra possibilità, pensò, e soltanto la velocità e l'assoluto disprezzo per il dolore la rendeva tale. Quando ebbe varcato il cancello si fermò per un istante, si chinò in avanti, sollevò al massimo le braccia dietro di sé, e le agganciò a una sporgenza della palizzata. Con tutta la sua forza, con tutta l'energia delle gambe, si lanciò in avanti. Si era accorto, prima, che la fune era vecchia e disseccata. E ora si spezzò come erba.
E fu libero. Roteò su se stesso, un po' sbilanciato. Poi balzò verso il cancello. Il cancello gli si chiuse in faccia, e si udì un tonfo metallico quando il lucchetto scattò. Da oltre il cancello venne la voce di Big Oaf. — Sei un tipo in gamba, Pendrake. Troppo in gamba perché io possa correre rischi. Non aspetterò che tu metta in funzione quella macchina. Vado a prendere un fucile e tornerò per sistemarti, in meno di mezz'ora. Si udì un rumore di passi che si allontanavano. Non era davvero una buona giornata per lui o per Big Oaf, pensò tremando Pendrake. Aveva già sentito che il flusso verso la Terra sarebbe iniziato tra poco più di quindici minuti. Sebbene fosse riluttante ad andarsene, non aveva scelta, ovviamente. Attese con ansia che i quindici minuti passassero. Pensò, in preda a una sofferenza terribile: Oh, Dio,
Eleanor è nelle sue mani! Eppure non c'era altra alternativa.
Pensò, disperato: Crederanno che Big Oaf mi abbia dato
in pasto alla belva-diavolo, e cederanno. Immaginò il dolore e la degradazione di Eleanor, e pensò:
Devo andare a procurarmi equipaggiamento e armi, e ritornare tra otto ore. Questo avrebbe posto un limite alla catastrofe e alle umiliazioni che il mostro avrebbe potuto infliggere. Big Oaf, forse, non avrebbe fatto nulla a Eleanor nel timore che Pendrake ritornasse. Era l'unica speranza per la salvezza di quella povera donna. Non c'erano alternative. Quando il flusso cominciò, Pendrake si avviò riluttante verso l'invisibile linea divisoria sotto la cavità a forma di grotta, si fermò, allargò le gambe per avere un appoggio più saldo, poi si chinò in avanti e sporse il capo e le spalle. Voleva vedere bene ciò che l'attendeva dall'altra parte. Tenebre. No. Era piuttosto una specie di nebbioso nulla. Pendrake si ritrasse, sopraffatto. Forse sulla Terra era notte? Senza dubbio era possibile. Eppure di rado le notti erano così buie. Insoddisfatto, si sporse ancora una volta. Era come infilare la testa in un sacco. Non si vedeva nulla.
Ma si sentì in preda a una leggera vertigine quando si ritrasse per la seconda volta. Provò una sensazione ancora più inquietante: i secondi passavano e dieci minuti erano un tempo spaventosamente breve, per le precauzioni che doveva prendere. Si diresse rapido verso una parete della cavità, si mise in equilibrio, poi vi infilò, goffamente, la gamba destra. Il suo piede incontrò soltanto l'aria. Pendrake si ritrasse, si spostò di parecchi centimetri, tentò ancora. Era una strana sensazione vedere la propria gamba scomparire, ma fu ancora più inquietante scoprire che non c'era altro che il vuoto. Calcolò che gli occorressero almeno cinque minuti per passare da una estremità della macchina all'altra... E neppure una volta il suo piede toccò qualcosa di solido dall'altra parte. Pendrake pensò, quasi stordito: È
possibile che io debba azzardarmi a saltare? Almeno un minuto passò mentre lui rimaneva immerso in una spaventosa indecisione. Poi, alla fine, non vi furono dubbi. Da un momento all'altro poteva tornare Big Oaf. Pensò, speranzoso: C'è un sentiero. Tutti lo confermano.
È sulle colline, ma è relativamente al livello del suolo.
Così, se io salto e mi rilasso, pronto ad afflosciarmi per non atterrare con un colpo troppo duro... Mentre Pendrake saltava, ebbe una visione caleidoscopica di varie impressioni. Una parete di terra si levò di fronte a lui. Cadde battendo il viso e il corpo, e cominciò a scivolare giù per un ripido pendio. Contemporane-amente udì il rombo di un trattore. Quando guardò, vide con orrore che stava scivolando sul cammino di un gigantesco compressore stradale. Pendrake lanciò un urlo al guidatore, ma l'uomo stava guardando da un'altra parte, guidando il suo strumento mostruoso lungo un percorso esattamente calcolato. Un solo grido di avvertimento fu quanto Pendrake riuscì a lanciare. Un attimo dopo cadde davanti alla macchina. Con tutta la sua volontà cercò di spingersi fuori dalla portata del compressore. E quasi vi riuscì. Quasi...
CAPITOLO VENTUNESIMO Ogni tanto, durante la giornata, Jefferson Dayles studiò il rapporto degli scienziati. Quell'osservazione momentanea lo lasciò perplesso. Più tardi, quando il lavoro della dura giornata presidenziale fu finito, portò con sé il rapporto allorché andò a coricarsi, e nel cuore della notte rilesse lo sbalorditivo documento. Riguardo ai tre motori sequestrati dai suoi agenti quando fu perquisita la tenuta Pendrake... non c'è modo adeguato di descrivere quelle macchine perfette. Sembrano il risultato finale dell'applicazione d'un principio nuovo. La forza motrice sembra derivare dalla forma e dalla costruzione del tubo metallico a forma di ciambella. Quando è stato aperto, questo tubo è apparso realizzato secondo una tecnica metallurgica molto avanzata; sfida ogni analisi nonostante le nostre attente annotazioni d'ogni fase dell'operazione. Si è detto che il tubo traesse l'energia da una lontana stazione tra-smittente, ma non è possibile stabilirlo con certezza. Senza dubbio non è un motore atomico. Non c'è traccia di radioattività. Gli stessi risultati negativi si sono avuti quando abbiamo aperto un secondo motore: perciò abbiamo deciso di non smantellare il terzo e ultimo motore, fino a che saranno state meglio studiate le parti dei primi due, ma-gari da altri
incaricati. È possibile che il segreto della reazione consista in qualche perfetta combinazione di leghe usata come materiale da costruzione. Persino il composto delle saldature deve essere esaminato e analizzato per valutarne la possibile influenza... L'enorme importanza di uno studio molto cauto è sottolineata dal fatto che quell'energia ha altri poteri, sui quali viene preparato un altro rapporto... Jefferson Dayles giacque nell'oscurità, a occhi chiusi. Gli pareva la solita, vecchia storia: troppo complicata per molte menti mortali. Quando finalmente si girò per addormentarsi, pensò: Tre
anni, non di più. Tre anni per trovare Pendrake. Poi sarebbe troppo tardi. E, anche in questo caso, prima doveva vincere le elezioni più fantastiche nella storia americana. Le donne erano sulla breccia. Avevano una loro candidata per la presidenza, e questo stava scardinando la mente di milioni di donne che fino ad allora si erano dimostrate dotate di buon senso. La candidata, una donna forte, femminile, dalle idee chiare, si teneva in bilico sull'orlo dell'abisso e faceva del suo
meglio per non precipitarvi. Sembrava conscia di tutti i trabocchetti, e sebbene gli agenti di Dayles controllassero accuratamente ogni dichiarazione e ogni discorso formulati in pubblico, i mesi passavano e lei non faceva passi falsi, non cadeva mai. Dayles osservava da lontano quell'esibizione; dapprima con incredulità, poi con ammirazione, e alla fine con vivo senso di allarme. — Dovrà stancarsi — disse. — Uno di questi giorni sarà troppo esausta per stare in piedi, e in quel momento i nostri potranno rovesciarla. Ciò che si poteva dire sulla razionalità della candidata non valeva per le sue seguaci. Stava per arrivare la fine del mondo. Le donne avrebbero posto fine alle guerre, avrebbero portato la pace a una terra sconvolta. Avrebbero riparato i torti della società, avrebbero messo un freno alla rapa-cità del mondo degli affari, e una volta per tutte avrebbero posto fine all'in-fedeltà del maschio americano. Molte di queste idee, naturalmente, non erano mai arrivate al livello della discussione pubblica. Un mese prima che gli elettori si recassero alle urne, il Presidente si trovava di fronte alla sgradevole prospettiva di poter essere sconfitto. Da ogni parte, dai suoi incaricati, dalle macchine politiche, dai dirigenti locali del partito, dai
sondaggi privati e pubblici, giungeva sempre la conferma: la candidata era in testa. — Abbiamo bisogno d'un colpo di fortuna — disse a Kay in una giornata rovente, tra due discorsi. — Ho l'impressione che le mie parole non rie-scano a penetrare oltre le emozioni scatenate in favore di Wake. — Chiamava sempre la sua avversaria «Wake», non signora Wake, non Janet Wa-ke... soltanto Wake. Era la tecnica di usare soltanto il cognome, per sottoli-neare l'eguaglianza di una competizione in cui, per la prima volta nella storia politica, l'uomo era svantaggiato dal semplice fatto di essere un uomo. Kay replicò freddamente: — Nel caso che il colpo di fortuna non arrivi, posso dirle che sono state prese tutte le misure necessarie per dare inizio a un migliaio di disordini, in modo che lei possa proclamare lo stato di emergenza nazionale e disdire le elezioni. — Bene — fece il Presidente Dayles, ma aveva le guance e la fronte co-stellate di gocce di sudore. Prese il fazzoletto. — Sono deciso, Kay — disse, — quindi non si preoccupi. Questa trovata di una donna candidata alla presidenza è soltanto una follia in più in un mondo già confuso da troppe trovate strane. La campagna divenne più scottante. Parate. Comizi immensi. Donne che gridavano slogan: — Pace! Felicità
Domestica! Una Nazione Sana! Come si poteva realizzare tutto questo? Si parlava di pene corporali per gli uomini che abbandonassero le loro famiglie. Le mogli e le madri ab-bandonate, in preda a sentimenti vendicativi, imbarazzavano la loro candidata chiedendo che i colpevoli d'abbandono del tetto coniugale venissero rimandati a casa a colpi di sferza. Non fu mai chiaramente definito quanto sarebbe stato utile alle mogli riavere i mariti con i cuori colmi di collera e le schiene coperte dai segni delle frustate. Qualche donna dichiarò aperta-mente che una delle cose che questi mariti non dovevano ottenere era la soddisfazione dei loro istinti libidinosi. Due settimane prima delle elezioni, alla fine d'una serata in cui la signora Wake stava parlando a una folla oceanica, una donna afferrò un micro-fono e gridò una domanda: — La candidata approva o no le punizioni corporali per i maschi che abbandonano le loro famiglie? — Amiche mie — rispose un po' irritata la signora Wake, — cercate di non esagerare! Quella fu l'osservazione disgraziata. La stampa che sosteneva Dayles si aggrappò a quella frase. Il giorno seguente, e per molti giorni, la Wake cercò di
spiegare che stava soltanto cercando di frenare le estremiste. Ma il suo periodo di grande fortuna era finito. Milioni di uomini che si erano fidati implicitamente di lei cambiarono idea. All'improvviso, ogni sua parola non fu più l'epitome del buon senso: era diventata una femmina astuta che muoveva un passo alla volta. Venne riferito che anche le donne cominciavano ad avere dei dubbi sull'utilità di un presidente di sesso femminile. L'antico, facile odio delle donne per le altre donne, accantonato nell'intensa atmosfera emotiva della campagna elettorale, tornò ad affermarsi all'improvviso. La marea si invertì, visibilmente. Con sollievo, il Presidente Dayles abbandonò il suo piano di disdire le elezioni. Una settimana prima delle votazioni affermò, in un discorso: — Conto fiduciosamente sull'elettorato maschile e femminile, perché voti sulla base dei risultati, sulla documentata validità della mia amministrazione. Ormai era così certo della vittoria che poteva formulare simili dichiara-zioni stereotipate come se fossero nuove e originali. Si ritirò presto e a mezzanotte fu svegliato da Kay, con le
notizie arrivate da Los Angeles. Un lungo corteo di donne aveva fatto una dimostrazione, reggendo cartelli con slogan di questo genere: EVVIVA I DIRITTI DELLE DONNE! IL LAVORO FISICO AGLI UOMINI, IL LAVORO AMMINISTRATIVO ALLE DONNE! UN MONDO ORDINATO E PACIFICO AMMINISTRATO DALLE DONNE. Poi, così affermava il rapporto, si era levato il grido di un uomo: — Fini-tela! Finiamola! Loro contano sul nostro rispetto, mentre ci rendono schiavi! Avanti! Gli uomini si erano fatti irosamente avanti, erano diventati un'orda sca-tenata. Quando alla fine le autoblinde avevano spazzato le strade, ventiquattro donne giacevano morte, altre novantasette erano seriamente ferite, e più di quattrocento dovettero ricorrere alle cure ospedaliere. Era una di quelle crisi che potevano decidere dell'esistenza delle elezioni. A mezzanotte e mezzo il Presidente Dayles stava facendo un discorso alla radio, promettendo accurate indagini e immediata punizione dei colpevoli. Risultava che fossero stati arrestati trentadue uomini. Furono giudicati il giorno seguente. Tutti avevano chiesto un avvocato: tutti si dichiararono non colpevoli. Il giudice interrogò brevemente ognuno di loro, e stabilì che quindici di loro erano davvero innocenti, ma gli altri diciassette
erano colpevoli. E condannò quei diciassette a morte. Nel tribunale si scatenò il finimondo, e occorsero cento agenti speciali per sgombrare l'aula e separare i condannati, divenuti isterici, dai familiari e dagli avvocati sbalorditi. Più tardi, il giudice difese, con calma, la propria decisione. — È perfettamente legale che un giudice stabilisca se un uomo è colpevole o non colpevole. Non si deve credere che le democrazie siano troppo deboli per re-primere questi disordini. Poi partì per una vacanza, che - si disse - avrebbe portato lui e la sua famiglia in un lungo viaggio all'estero. Richiesta di commentare la sentenza, la signora Wake dichiarò, imbarazzata: — Non c'è dubbio, è stata fatta giustizia. Ho chiesto a una com-missione di esaminare la procedura del processo e di fornirmi un rapporto. Dayles disse: — È un problema che riguarda soltanto la magistratura, che, come tutti sapete, è un organo del governo degli Stati Uniti completamente separato dal potere amministrativo. Si seppe che i condannati intendevano presentare appello contro la sentenza. Su questa nota di suspense ebbero
luogo le elezioni. Jefferson Dayles fu rieletto con una maggioranza di due milioni. Ne fu grandemente sollevato ma, come fece osservare a Kay più tardi: — Bene. Alla fine di questo mandato non avrò più diritto di ripresentarmi. Ogni continuazione dipende da... — Pendrake — concluse Kay. — Pendrake — assentì lui, cupo. Scosse il capo, perplesso. — Cosa può essere accaduto a quell'uomo? Ho dato l'incarico di cercarlo all'FBI, allo spionaggio militare e alla polizia. Non c'è traccia di lui. Kay disse, prosaicamente: — Ma lei ha ancora qualche anno. — Tre. — E annuì. — In questi tre anni dovrò decidermi. Poi, forse sarà troppo tardi.
CAPITOLO VENTIDUESIMO La cerimonia dell'insediamento... Troppo tardi, troppo tardi. Per tutto quel grande giorno, quelle parole gli vorticarono nella mente, spegnendo i suoi sorrisi, offuscando la sua esultanza, oscurando i suoi pensieri. Trovare Pendrake! Trovare l'uomo il cui sangue avrebbe potuto, in una settimana, togliergli di dosso la vecchiaia e rendere immortale il suo potere e la possente civiltà che vagheggiava. Quel pensiero era come una sofferenza, una necessità: era ancora in lui, qualche mese più tardi, quando gli portarono il contadino. Era alto e magro. Mentre ascoltava il racconto dell'uomo, una domanda tremava nella mente di Jefferson Dayles. Il problema della formulazione di quel pensiero avvinse la sua attenzione, mentre il contadino parlava, con un forte accento dialettale. — Come stavo dicendo, è stato da me dieci giorni, e il vecchio dottor Gillespie è venuto due volte a vederlo, ma non pareva che avesse bisogno di assistenza medica; aveva bisogno solo di mangiare. Ecco, si comportava in modo strano. Non riusciva a dirmi il suo nome o qualcosa d'altro. Ma, dopo che la sua gamba è guarita, l'ho portato a Carness, all'ufficio collo-camento. Ho detto che si
chiamava Bill Smith. Lui non ha protestato, così l'hanno registrato come... Bill Smith. Gli hanno trovato un lavoro; non ricordo però che lavoro era. Vuole sapere qualcosa d'altro? Jefferson Dayles rimase freddo, impassibile. Ma quella era una masche-ratura per la sua eccitazione interiore. Pendrake era vivo; era stato scoperto, a quanto aveva riferito Kay, quando la polizia di Carness aveva mandato, in ritardo, le impronte digitali di Bill Smith a Washington. — È tutto ciò che abbiamo potuto scoprire — aveva detto Kay. — Ma per lo meno abbiamo un punto di partenza. — Sì — aveva risposto Jefferson Dayles, con un profondo respiro. — Sì. L'uomo toti-potente era vivo. C'era ancora un problema, una verifica: il braccio di Pendrake. Il braccio che era ricresciuto. La voce del contadino risuonò di nuovo. — C'è un'altra cosa, signor Presidente... Jefferson Dayles attese; stava pensando a come formulare la sua domanda. Era una frase difficile da pronunciare
perché... bene, come potevi chiedere se a un essere umano era ricresciuto un braccio? Non potevi chieder-lo, sebbene quell'idea fosse tanto affascinante e prepotente da far vacillare la mente. — Si tratta di questo — disse il contadino. — Quando l'ho raccolto, avrei giurato che una delle sue gambe era più corta dell'altra. Ma quando se ne andò, erano tutte e due della stessa lunghezza. Ora, o sono matto io... — Non sembra molto logico, vero — osservò Jefferson Dayles. E continuò, prontamente: — Ma per il resto era normale, vero? Il contadino annuì. — Era l'uomo più forte che avessi mai visto. Le dico, quando ha sollevato quel carro con quelle sue due mani che... Il Presidente Dayles non udì il resto. La sua mente si era fermata su quelle parole: «due mani». Si alzò, strinse la destra al vecchio, che era raggiante. — Mi ascolti, amico mio — disse il Presidente Dayles, — da questo momento il suo nome figurerà in uno schedario speciale, e ogni volta che vorrà un favore dalla Casa Bianca, scriva alla mia segretaria e se ciò che chiederà sarà possibile, verrà accontentato. Nel frattempo lei
continuerà a mantenere il segreto su questo colloquio; è il suo dovere verso il suo paese. — Può contare su di me — dichiarò l'uomo con la calma di un sublime, cieco patriottismo. — E non voglio favori speciali. — L'offerta rimane valida — disse Dayles, cordialmente, — con i miei auguri migliori. Più tardi Kay osservò: — Sembrava che dicesse sul serio... un tipo raro, in questi tempi. La democrazia vacilla. — Lo dice come se ne avesse le prove — replicò lui. — Cos'è accaduto? Lei gli porse in silenzio un messaggio. Il Presidente lo lesse a voce alta. — La Corte Suprema ha confermato la sentenza di morte per gli uomini che presero parte ai disordini, prima delle elezioni. — Fischiò, sottovoce, poi disse: — I condannati si sono battuti con ogni mezzo, ma alla fine, do-po un anno, non hanno potuto più far rimandare la sentenza. — Guardò pensieroso Kay. — Su quali basi la Corte ha emesso il suo verdetto? — Non ha dato spiegazioni. Il Presidente tacque. Considerava un segno dei tempi
anche il fatto che la sentenza emessa in prima istanza non fosse stata modificata. Kay interruppe i suoi pensieri. — Non vorrà interferire, per caso? — disse in tono severo. Il Presidente tacque. Tre giorni prima della data fissata per l'esecuzione, nel dicembre 1977, i diciassette uomini condannati per il massacro alla parata femminista evase-ro dalla prigione. Vi furono disordini in una decina di città, e numerose delegazioni femminili chiesero la punizione dei carcerieri responsabili e l'immediata ricat-tura ed esecuzione degli evasi. — Credevo che quelle donne fossero amanti della pace — disse Jefferson Dayles. Ma lo disse in privato a Kay. Pubblicamente promise che sarebbero state prese tutte le misure necessarie. Il secondo giorno dopo questo discorso arrivò una lettera che diceva: Cella 676, Prigione di Kaggat 27 gennaio 1978 Signor Presidente, ho saputo che mio marito era uno dei diciassette
condannati a morte, e io so dove si trova e dove si trovano i suoi compagni. È necessario agire in fretta, se si vuole salvargli la vita. La prego di affrettarsi. ANRELLA PENDRAKE Kay attese con gli occhi lampeggianti fino a che il Presidente ebbe finito di leggere il messaggio, poi gli porse un rapporto dell'FBI: Vi fu una grande confusione al tempo in cui furono arrestati quegli uomini. Non furono prese le loro impronte digitali fino al giorno successivo alla sentenza. Poi tutte le foto e le impronte originali andarono perdute. Questo non venne scoperto fino a quando i condannati furono trasferiti a una prigione sicura; è significativo che il cellulare che li portava a questa prigione sia finito in un fossato durante il tragitto. Molti prigionieri sostennero che un uomo era sparito, in quelle circostanze, ed era stato sostituito da un altro. Le autorità della nuova prigione non accettarono questa versione, poiché nessuno dei diciassette dichiarò di essere stato trascinato lì dentro per errore. Per prevenire che questa voce si spargesse, tuttavia, separarono gli uomini... A questo punto Kay l'interruppe. — Pendrake deve essere stato l'uomo sostituito. È impossibile che abbia preso parte a quei disordini.
Dovremmo postulare una coincidenza di tale... — Ma come mai sono riusciti a trovarlo, se non ci siamo riusciti noi? — intervenne il Presidente Dayles. Kay tacque per un po'. Alla fine disse: — Faremmo bene ad andare a parlare con quella donna. La cella non sembrava confortevole come era stato ordinato. Jefferson Dayles prese mentalmente nota di impartire una severa reprimenda in proposito, poi dedicò la sua attenzione alla creatura pallida che era Anrella Pendrake. Era il loro primo incontro diretto. E, nonostante Anrella fosse sfiorita, si sentì impressionato. C'era qualcosa nei suoi occhi... una dignità, una forza, una maturità che erano inquietanti. Dopo quella prima impressione, la voce scialba della donna lo sorprese. Sembrava più abbattuta di quanto non ap-parisse a prima vista. Anrella Pendrake disse: — No, voglio dirglielo. Jim si nasconde nel grande deserto della California. Il ranch si trova circa sessanta chilometri a nord del villaggio di Mountainside... — Si interruppe. — La prego, non mi chieda in quali circostanze ha fatto ciò che ha fatto. La cosa più importante è assicurarsi che non venga ucciso, quando verrà trovato il suo nascondiglio. — Sorrise,
debolmente. — La nostra convinzione, in origine, era questa: come gruppo, avremmo potuto dominare attraverso di lui la politica mondiale. Temo che abbiamo sopravvalutato le nostre possibilità. — Signora Pendrake — disse Kay, — noi dobbiamo assolutamente avere una spiegazione: come è possibile che lei abbia trovato suo marito quando, con tutte le risorse dello spionaggio degli Stati Uniti, noi non vi siamo riusciti? La donna nella cella sorrise, per la prima volta durante il colloquio. — Quando ci impadronimmo di Jim, la prima volta — disse, — gli inse-rimmo chirurgicamente un minuscolo trasmettitore a transistor nei muscoli della spalla. Il trasmettitore emette un segnale che noi possiamo percepire. Questo risponde alla sua domanda? Il Presidente Dayles rispose: — Certamente sì. Lei avrebbe potuto loca-lizzarlo in ogni momento? — Sì — dichiarò Anrella. Se ne andarono. Sull'aereo che puntava verso il nord, Kay disse: — Non vedo per quale ragione la signora Pendrake o gli altri
dovrebbero venire rilasciati. Ora che ha così scioccamente rivelato il suo asso nella manica, l'identità di Pendrake come uno dei condannati a morte, non le dobbiamo nulla. Vi fu un'interruzione. — Un radiogramma, signor Presidente, dalla prigione di Kaggat. Jefferson Dayles lesse il lungo messaggio, sporgendo le labbra, poi lo porse a Kay senza una parola. — Fuggiti! — gridò Kay. — Tutta la banda! — Rimase immobile. — Quella piccola attrice pallida, che se ne stava lì fingendo di essere depressa al punto che non le importava altro, se non la salvezza di lui! Ma perché ce l'ha detto? Perché? Si interruppe, rilesse il messaggio, e alla fine sussurrò: — Se lo immaginava? Novanta aerei equipaggiati con quel motore speciale hanno preso parte all'operazione! Che organizzazione debbono avere! Questo significa che l'evasione avrebbe potuto essere compiuta in qualsiasi momento. Eppure, hanno atteso fino a ora. Signore, questo è molto grave. Jefferson Dayles si sentiva stranamente lontano dal panico della sua segretaria. Si sentiva esaltato; provava una intensa, crescente volontà di vittoria. La situazione era
davvero grave: si era giunti a una crisi. Tuttavia, la sua voce era calma, quando disse: — Kay, ci serviremo di cinque divisioni, di cui due corazzate, e di tutti gli aerei che ci serviranno... non novanta ma novecento. Circonderemo il deserto. Controlleremo tutto il traffico terrestre e aereo e lo faremo deviare. Ci serviremo, la notte, del radar, dei riflettori, dei caccia notturni. Ci serviremo della potenza illimitata delle forze armate degli Stati Uniti. Cattureremo Pendrake! Si rendeva conto di battersi per la propria vita.
CAPITOLO VENTITREESIMO I venti lamentosi dell'inverno soffiavano costantemente, in gennaio. Il giorno quindici una tempesta di neve seppellì quasi tutto lo stato di New York e la Pennsylvania. La gente si svegliò, la mattina del sedici, in un mondo che era ancora bianco e puro e pacifico. Lo stesso giorno, molto più a sud, Hoskins e Cree Lipton, dopo aver seguito piste che li avevano condotti nel Sud America, lasciarono il Brasile e si diressero verso la Germania, via Dakar, Algeri e Vichy. La loro destinazione era il quartier generale americano sulla Unter den Linden di Berlino, e nella grande Sala Rossa del secondo piano un importante generale americano li fece entrare in una stanza sorvegliata da sentinelle. — Questa — indicò con la mano, — è ciò che noi chiamiamo la mappa degli omicidi. In considerazione dell'attenzione che abbiamo tenuta puntata su di voi nelle ultime due settimane, la mappa è diventata un documento estremamente interessante. La mappa era lunga dieci metri e coperta di spilli colorati... non era esattamente un «documento», pensò ironico
Hoskins. Ma non disse nulla; si limitò a osservare e ad ascoltare nell'ansiosa determinazione di udire il risultato conclusivo. — Esattamente un mese fa — continuò il generale, — noi mandammo dei camion in tutta quella parte dell'Europa che un tempo è stata occupata, con manifesti che invitavano a dare informazioni sul motore; i manifesti erano stati preparati sulla base delle vostre istruzioni telegrafiche. Si tolse di tasca un pacchetto di sigarette, le offrì ai due uomini; Hoskins rifiutò con un lieve cenno del capo e attese, impaziente, mentre gli altri ac-cendevano. Il generale proseguì: — Ora, prima di dirvi la portata e i limiti del nostro successo, credo sia necessario descrivere brevemente la situazione esistente oggi in Germania. Come sapete, il metodo di Hitler consisteva nel mettere un uomo del partito in ogni posizione di controllo di ogni comunità. Nella Germania occidentale abbiamo allontanato da molto tempo questi meschini führer, sostituendoli con i più convinti democratici che abbiamo potuto trovare. Nella Germania orientale i sovietici cercarono di servirsi di molti hitleriani, giudicando che i terroristi del comunismo e del nazismo erano in fondo eguali. Ciò che non compresero è che i tedeschi più istruiti non avrebbero mai accettato come eguale lo slavo medio - per lo meno, non in questa generazione - secondo la dottrina di Lenin sulle nazionalità.
«Soltanto quando rivelammo ai sovietici le vostre scoperte compresero la verità... che un gruppo terroristico segreto, interamente pro-germanico, si era costituito sotto il loro naso nella Germania orientale. Ecco perché hanno lasciato entrare i nostri, ed ecco ciò che abbiamo scoperto. In questo momento, i tedeschi commettono circa mille omicidi ogni settimana nella sola Germania orientale, e altri ottocento nel resto dell'Europa.» — E questo che c'entra con la scoperta di informazioni sul motore e sui sette scienziati scomparsi, insieme alle loro famiglie, di cui non siamo riusciti a trovare i corpi negli Stati Uniti? — chiese Lipton. — Abbiamo fatto un grafico degli assassinii in ogni distretto d'Europa — fu la risposta, — e mentre veniva diffuso l'invito a fornire informazioni, noi abbiamo sorvegliato, giorno per giorno, l'andamento degli assassinii, poiché eravamo convinti che i nazisti avrebbero preso grandi precauzioni nei distretti in cui esistevano informazioni da nascondere. Si girò verso i due uomini, con un sorriso cupo sul volto. — Di conseguenza vi faccio presente che il numero degli assassinii in due territori molto lontani, Hohenstein in Sassonia e la città di Latsky, in Bulgaria, è aumentato in proprozione anormale.
— Bulgaria! — Fu Lipton a parlare, in tono perplesso. Hoskins disse, prontamente: — Dopotutto, noi abbiamo sempre sorvegliato con maggiore attenzione la Germania. Devono avere scoperto che è più facile organizzare basi interplanetarie fra popoli simpatizzanti. E, tra questi, i bulgari erano senza dubbio i più ostili al comunismo. Il generale lo fissò con i suoi acuti occhi scuri. — Proprio così. Abbiamo indagato molto cautamente in quei due distretti. Il terzo giorno delle nostre indagini abbiamo scoperto un pozzo in una miniera di Hohenstein, arredato in maniera lussuosa, che era stato evidentemente abbandonato in gran fretta. — Interrogando gli abitanti della cittadina — continuò il generale, — siamo venuti a sapere che una strana macchina, simile a uno Zeppelin, era stata vista di notte in prossimità del pozzo abbandonato. — Santo cielo! Hoskins si accorse appena di aver lanciato quell'esclamazione. Dopo un attimo di stordimento si rese conto di aver ascoltato il generale in preda a una vaga impazienza, all'ansia di finirla con le parole per proseguire attivamente le ricerche. E adesso...
Era finita. La ricerca era finita, o quasi. Tutti i preliminari si erano conclusi in modo soddisfacente. — Signore — disse con calore, — lei è un uomo straordinario. — Mi lasci finire. — Il generale sorrise. — Ho ancora da dirle. Continuò, in tono preciso: — Abbiamo ricevuto in totale tre lettere - su molte migliaia - che sono inconfondibilmente genuine e importanti. La terza, e più importante, di una certa Frau Kreigmeier, moglie dell'uomo che è stato il capo del partito nazista bulgaro di Latsky per tre anni, è pervenuta ieri sera, quando avevo già saputo che voi due stavate arrivando qui. — Signori — la sua voce era quieta ma sicura, — per la fine della settimana voi avrete tutte le informazioni ancora disponibili su questo conti-nente. — Naturalmente — concluse, e la cauta formulazione della sua promessa aveva già provocato il primo colpo a Hoskins, — i nazisti hanno fatto ogni sforzo per assicurarsi che nessuna informazione di importanza vitale cada nelle nostre mani. Tuttavia... Entro il mezzogiorno del quattro febbraio avevano trovato i corpi degli organizzatori del Piano Lambton. Sette uomini
anziani, nove donne, due ragazze e dodici giovani giacevano, uno accanto all'altro, sul suolo gelido. Furono caricati in silenzio sui furgoni e portati verso la costa, dove sarebbero stati trasportati in America per un funerale più degno. Quando i furgoni furono scomparsi lungo la strada, Hoskins si fermò, con gli altri, in un gruppo di cespugli, dove erano stati condotti dal marito di Frau Kreigmeier. Soffiava un freddo vento da nord, e gli uomini dei carri armati che li avevano scortati fin lì battevano le mani per riscaldarsele. Nonostante il freddo, notò con feroce sarcasmo Hoskins, il grassoccio Herr Kreigmeier stava sudando abbondantemente.
Se mai c'è stato un uomo che merita di essere impiccato... pensò. Ma loro avevano promesso... i manifesti avevano promesso... danaro, al-lontanamento dalla zona pericolosa, illimitata protezione della polizia. Il generale si avvicinò. — Gli spalatori resteranno qui a finire il lavoro — disse. — Andiamo. Desidero ritorvarmi nel calore d'una stanza d'albergo. Lei
può meditare sui nostri successi e... — lanciò un rapido sguardo a Hoskins, — e sui nostri fallimenti. Non c'era molto da esaminare. In silenzio, Hoskins sedette in una poltrona davanti a un caminetto ruggente di fiamme e rilesse la traduzione dell'unica nota che era stata riesumata: Ogni movimento richiede un movimento contrario, una cancellazione, una equilibrazione. Un corpo che si muove tra due punti nello spazio usa energia, che è un'altra parola per indicare il movimento contrario. La scienza del moto contrario comprende, nelle sue più importanti funzioni, una relazione tra il microcosmo e il macrocosmo, tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo. Quando si è stabilito un equilibrio tra due forze nel macrocosmo, una perde ciò che l'altra acquista. I motori sbuffano rumorosamente; le creature organiche svolgono laboriosamente i loro compiti. La vita sembra infinitamente dura. Tuttavia, quando si crea un moto contrario nel microcosmo per un moto che si verifica nel macrocosmo, allora si ottiene l'assoluto in fatto di rela-zioni di energia. C'è anche un risultato di completo equilibrio; la legge secondo la quale, ogni moto è eguale al moto contrario è rigorosamente valida quanto prima...
— Non vorrei — disse irritato Hoskins, — chiedere la concessione di un brevetto sulla base di questa roba. Temo che siamo arrivati in fondo alla pista, per quanto riguarda il motore, e questo significa che la mia speranza per una pronta azione intesa a salvare Pendrakè e sua moglie è svanita. Il resto di questa roba — e sfogliò le pagine dattiloscritte, — consiste in appunti sui problemi tecnici dell'installazione. C'è una grande lacuna, in qualche punto, e io credo che sia questo, il buco nel sacco vuoto che ci troviamo tra le mani. Alzò lo sguardo. — Nessuna novità da Hohenstein, l'altro epicentro degli assassinii? — Nessuna — disse Cree Lipton. — È evidente che era solo una delle basi per le loro astronavi, ed è stata frettolosamente evacuata durante le nostre ricerche. Hanno la loro attrezzatura principale, tutti i loro segreti, su Marte o su Venere... Hoskins intervenne: — Sulla Luna! Non si lasci indurre in errore. Marte e Venere sarebbero troppo lontani, anche durante il periodo più favorevole. E inoltre, non permetterebbero che i loro giovani vedessero ciò che deve essere Venere, se si può credere alle promesse fatte dall'Ente Cyrus Lambton ai suoi coloni.
I capi tedeschi hanno in mente ferro e sangue... re-cupero della Germania Orientale e riunificazione del loro paese. Fino a che non avranno realizzato tutto questo, i capi terranno i ranghi inferiori a una dieta di lavoro duro, di ambienti duri, e di speranze. Non hanno avuto tempo di stabilire in qualche posto buone basi. Quindi credo che noi due faremmo meglio a tornare in America. Abbiamo da fare. Fu tre giorni dopo. Il Presidente Dayles, diretto verso Mountainside, in California, sedeva sull'elicar insieme a Cree Lipton e ascoltava il rapporto sulla congiura nella Germania orientale e l'urgente richiesta di uomini e di mezzi per raggiungere la Luna. Annuì, in segno di assenso totale. — Sì, sì — disse, — faccia anche questo. Abbiamo in orbita i satelliti. Possiamo raggiungere la Luna, con una spesa favolosa... ma io posso trovare una giustificazione per stornare a questo scopo i fondi del Dipartimento della Guerra, se questo significa fermare gli ultimi avanzi della banda hitleriana. Tiri fuori dalla naftalina tutti i razzi che occorrono. Mi pare che ne abbiamo fabbricati diecimila prima di raggiungere l'accordo con i sovietici, sulla base della convinzione che l'universo di lassù è immenso, ma non ha nessun valore pratico, se non possiamo raggiungerlo
senza mandare in rovina economica i nostri paesi. I razzi non sono a buon mercato. E continuò, malinconicamente: — Coloro che hanno scoperto un modo migliore di fare tutto questo non credevano che avremmo fatto buon uso della loro invenzione. E poi, come noi e loro abbiamo scoperto, si sono scontrati con la follia d'un nazionalismo represso. Siamo un mondo pazzo, signor Lipton. Kay, che aveva ascoltato in silenzio, intervenne. — Signor Lipton, lei ha detto che uno degli scopi del suo amico, il signor Hoskins, è quello di salvare Jim Pendrake e sua moglie dai nazisti della base lunare. — Sì. — L'agente si mostrò sorpreso. Vi fu una pausa. Il Presidente e la sua segretaria si scambiarono una rapida occhiata. — Ci metta al corrente — disse alla fine il Presidente Dayles. Lipton ubbidì, poi concluse: — Quando abbiamo fatto indagini sulla scomparsa della signora Pendrake, abbiamo scoperto che un aereo era at-terrato nella tenuta e che lei era partita con quello. Il biglietto che lasciò, lo stesso modo in cui se ne andò, la descrizione del decollo dell'aereo indica-vano che si trattava di un rapimento... compiuto da
qualcuno che possedeva un tipo molto particolare di veicolo aereo. Il Capo dell'Esecutivo si rivolse a Kay. — Può spiegarmi perché la notizia della scomparsa della signora Pendrake non mi è mai stata riferita? La donna alzò le spalle. — Al Pentagono arrivano milioni di dati. Soltanto una minima parte viene inoltrata alla Casa Bianca. Il Presidente Dayles sporse le labbra. — Bene, questo significa presumibilmente che la signora Pendrake si trova sulla Luna. Ma perché immaginare che anche il signor Pendrake abbia compiuto lo stesso viaggio? Lipton spiegò che il messaggio lasciato dalla signora Pendrake indicava che suo marito si era diretto alle Torri Lambton. E finì: — Poiché, come abbiamo scoperto, quell'edificio era nelle mani del gruppo di cospiratori tedesco-orientali, possiamo desumere che Pendrake fu catturato o ucciso. Se è stato catturato, allora è possibile che sia stato portato lontano dal nostro pianeta. Il signor Hoskins è personalmente interessato alla sorte dei Pendrake. I due
uomini hanno combattuto nella stessa formazione aerea, in Cina. Il Presidente Dayles, che era a sua volta interessato alla sorte di James Pendrake, si limitò ad annuire. I documenti che autorizzavano le forze armate a preparare in segreto u-n'invasione della Luna furono firmati in un piccolo ufficio, nel Mountainside Inn, dal Presidente, che si era abilmente travestito per passare inosservato. Dopo che Lipton se ne fu andato, Kay disse: — Molte domande restano ancora senza risposta. Se Pendrake è stato portato sulla Luna, in che modo è fuggito ai tedeschi? In che modo è ritornato qui?
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO Pendrake si svegliò. Non c'era nulla cui pensare. Dove c'era stato il vuoto, all'improvviso vi fu luce. Rimase immobile. Non aveva coscienza d'avere un nome, non sapeva che vi fosse nulla d'insolito nella situazione. Lui - l'entità che era lui stesso - era lì, disteso. Persino quella posa sembrava normale, l'essenza stessa della vita come veniva vissuta. Era disteso, e consapevole di sé. Per lungo tempo, questo fu tutto. Non aveva altro scopo se non essere ciò che era, non aveva ricordo di null'altro, non la minima concezione di movimento. Era disteso e fissava un soffitto che era di colore azzurro chiaro. Non era la regione più luminosa del suo universo e quindi, dopo un po', il suo sguardo fu attratto verso la finestra attraverso la quale la luce splendeva, abbagliante. Come un bambino affascinato da una lucentezza, sollevò un braccio e lo tese verso la finestra. Il vuoto che lo separava dalla finestra lo deluse. Immediatamente, la cosa non ebbe più importanza, perché lui passò a interes-sarsi del proprio braccio. Si rese conto che il braccio era parte di lui. Nel momento in cui cessò l'istintivo movimento per
afferrare, i muscoli che sorreggevano il braccio nell'aria cominciarono a rilassarsi. Il braccio ricadde sul letto. E poiché il suo sguardo seguì quell'impacciata caduta, per la prima volta si accorse dell'esistenza del letto. Lo stava ancora esaminando, semiseduto, per vedere meglio, quando il rumore di passi si insinuò nella sua attenzione. Il rumore si avvicinò, ma lui non si fece domande in proposito. Era nelle sue orecchie, normale come tutto il resto. La differenza era questa: lui era mentalmente diviso in due sezioni. Una parte rimaneva sul letto. L'altra guardava il mondo attraverso gli occhi d'un uomo che si stava avvicinando, attraverso una stanza vicina, alla porta della camera da letto. Sapeva che l'altra entità era un uomo e che la porta della stanza e l'atto del camminare erano ciò che erano perché, per la seconda parte della sua mente, quei fatti erano realtà casuali della vita. La seconda mente era conscia anche di altre cose; e il suo cervello era così rapido, così pronto ad assorbire le nozioni che, quando la porta si aprì, gettò le gambe giù dal letto e disse: — Portami i miei vestiti, ti dispiace, Peters? Il cervello di Peters sopportò l'impatto di quella richiesta con completa acquiescenza. Si allontanò, e vi fu una soddisfacente immagine mentale di lui che frugava in un armadio. Ritornò, si fermò accanto alla porta, sbattendo le
palpebre dinanzi a un pensiero nuovo. Era un ometto in maniche di camicia che reggeva un fascio di indumenti. Li guardò e disse: — Signore! Bill, non puoi ancora alzarti. Eri ancora privo di conoscenza mezz'ora fa, quando abbiamo trovato qui quella donna. — E aggiunse, sollecito. — Chiamerò il dottore e ti porterò un po' di minestra calda. Dopo che ci hai tirati fuori dalle celle della morte, non vogliamo correre il rischio che ti capiti qualcosa. Sdraiati, ti prego. Pendrake osservò l'altro che deponeva i vestiti su una sedia ed esitò. L'argomento gli pareva ragionevole, eppure, in un certo senso, non si ap-plicava a lui. Dopo un momento non aveva ancora posato mentalmente un dito sulla lacuna. La sua esitazione finì. Ritirò di nuovo le gambe sotto la coperta e disse: — Forse hai ragione. Ma il modo con cui quella donna è stata catturata proprio in questa stanza mi ha indotto a preoccuparmi per la sicurezza del nostro nascondiglio. Si interruppe, corrugando la fronte. Ebbe la sensazione folgorante di non essersi preoccupato fino a che non era comparso Peters e che in realtà il suo stato mentale, in principio, era stato... quale? Il ricordo galvanizzò il suo pensiero. La sua mente ritornò al momento in cui aveva ripreso coscienza. Era davvero difficile immaginare se
stesso come era stato in quel primo istante: con il cervello vuoto, privo di memoria. E poi, di colpo, aveva assorbito l'intera mente di Peters, con tutte le paure e l'immaturità emotiva di Peters. Era proprio sbalorditivo che la sua memoria avesse in-globato la mente e la conoscenza di Peters. Ma null'altro. Nulla di lui stesso. Fissò l'uomo. Quell'esame rapido ma profondo assorbì tutta la memoria di Peters e risalì a ritroso la semplice carriera di un ragazzo che voleva diventare meccanico. Non esisteva nessuna particolare ragione perché Peters si fosse unito all'orda che aveva aggredito il corteo femminile. E la stessa scena dell'aggressione era confusa, il processo che ne era seguito era un incubo di forme di pensieri contorti, dominati da paure così terribili che non una sola immagine ne usciva chiaramente. La paura si era tramutata in una eccitata speranza durante l'evasione, e così c'era un ricordo ragione-volmente particolareggiato di quella che era stata la fuga dalla prigione, tre giorni prima della data fissata per l'esecuzione in massa.
Sono stato davvero io a fare tutto questo? , pensò incredulo Pendrake. Dopo un momento quel fatto era ancora presente, una parte rigida del ricordo che Peters aveva dell'avvenimento. Aveva smontato la radio della sua cella e, aggiungendovi alcuni pezzi di altre radio, passategli da altre celle, era riuscito a creare una pallida luce bianca che divorava il
cemento e l'acciaio come se fossero materie inconsistenti. Un guardiano che era comparso davanti a loro aveva lanciato un grido, mentre la pistola gli si dissolveva tra le mani, gli abiti si disintegravano sul suo corpo. Il grido doveva essere dettato dall'isterismo, perché la fiamma pallida e intensa non gli aveva fatto del male. La stessa natura dell'arma e la possibilità di fuga che offriva resero inef-ficaci i rinforzi richiamati da quel grido. La polizia non pensava che le mu-ra massicce potessero venir distrutte. Le macchine erano in attesa nei punti fissati e gli aerei, ciascuno con il suo pilota, erano nascosti dietro il prato che i fuggiaschi avevano attraversato. Tutto questo era nella memoria di Peters, come il fatto che l'uomo conosciuto come Bill Smith era stato colpito da un proiettile di mitra mentre le macchine lasciavano la prigione a tutta velocità... era stato l'unico ferito: un ferito che venne curato amorosamente. Era rimasto privo di conoscenza per molti giorni. Pendrake continuò a riflettere mentre Peters si allontanava per andare a prendere la minestra. Alla fine stabilì di essere diverso. Gli occorse soltanto una riflessione minima per comprendere che l'abilità di leggere il pensiero, addirittura di assorbire la mente di un altro, era inaudita, secondo l'esperienza di Peters. Stava sorseggiando con calma la minestra quando en-trò il dottor McLarg. Visto direttamente, e non solo come un ricordo nella mente
trasferita di Peters, il dottore era un uomo sparuto, sui trentacinque anni, con un paio di acuti occhi scuri. Dietro quell'aspetto fisico c'era una storia più complessa di quella di Peters, ma i fatti rilevanti erano semplici. McLarg, che era stato un funzionario dell'ufficio d'igiene, era stato costretto a dare le dimissioni per scarso rendimento, ed era stato sostituito da una dottoressa. La vigilia di Natale, in uno stato avanzato di povertà e ubriachezza, aveva preso parte all'aggressione contro il corteo femminile. La visita che fece a Pendrake fu quella di un uomo sbalordito. — Non ci capisco niente — confessò, alla fine. — Tre giorni fa le ho e-stratto dal torace un proiettile di mitra, e da ventiquattro ore non c'è più il segno della ferita. Se non sapessi che è impossibile, direi che lei è perfettamente guarito. Non pareva vi fosse altro da dire. La mente di McLarg era scivolata con tale delicatezza nella sua, ogni conoscenza si era integrata con tale facilità e naturalezza con quelle assorbite da Peters che era difficile immaginare che quelle informazioni non erano state sempre un patrimonio suo. Più tardi, corrugando la fronte, pensò alla donna. Era stata nella stanza, si era piegata su di lui. Aveva detto di essere
entrata molto semplicemente. Era entrata senza che nessuno la vedesse... in un covo di fuorilegge bracca-ti e in perpetuo allarme! Sembrava ridicolo. Poiché non sapevano che fare di lei, gli uomini l'avevano chiusa in una delle stanze libere dell' hacienda. Era strano che, sebbene la casa brulicasse di pensieri, mentre gli uomini andavano avanti e indietro, innervositi, le idee della donna non fossero percepibili. Neppure una volta Pendrake colse un solo tentacolo di pensiero che potesse apparte-nere a una donna. Senza dubbio, i pensieri d'una donna dovevano essere inconfondibili. Il sonno colse Pendrake mentre stava ancora meditando su quel problema.
CAPITOLO VENTICINQUESIMO Si svegliò con un sussulto, nell'oscurità profonda, conscio della presenza di qualcuno nella stanza. — Silenzio! — gli sussurrò all'orecchio la voce della donna. — Ho una pistola. La cosa che lo paralizzò fu il fatto che non riusciva a cogliere il pensiero di lei. La sua mente ritornò alle precedenti speculazioni e poi a una semplice conclusione:
Non poteva leggere le menti femminili! Disse, stordito: — Che cosa vuoi? Nell'oscurità, sentì il metallo toccargli il capo, e il suo pensiero subì una pausa spaventosa. La donna tornò a parlare. — Prendi i tuoi abiti... non occorre che ti vesta... e incamminati lentamente verso lo sportello del tuo armadio. Nell'interno c'è un pannello aperto, e una scala che porta verso il basso. Scendila! Coperto dal sudore d'una angoscia mortale cercò a tentoni gli abiti. Stava pensando: come poteva essere fuggita
dalla sua stanza, quella donna?
— Vorrei — sussurrò rauco, — che gli altri ti avessero ucciso invece di limitarsi a discutere sulla tua sorte, perché tu... Si interruppe, perché la pistola gli premeva contro il dorso, incalzandolo. — Silenzio! — venne il sussurro perentorio. — La verità è, Jim, che de-vi sapere alcune cose sul tuo conto prima che le autorità ci accerchino, come faranno ben presto. E adesso ti prego di affrettarti. — Come mi hai chiamato? — Muoviti! Si incamminò, lentamente, ma i suoi pensieri si stavano serrando attorno alla tremenda realtà: lei lo conosceva. Quella donna che avevano catturato, quella... come aveva detto di chiamarsi... quella Anrella Pendrake conosceva la sua vera identità. Aveva pensato vagamente, di girarsi e di buttarsi su di lei nella oscurità, di strapparle la pistola. Ma quella decisione era stata infranta dalle parole di lei. Passò a fatica attraverso il pannello, che era strettissimo. La scala era a chiocciola, molto ripida, e portava in basso. Dopo il primo giro completo, cominciava una serie di minuscole lampade. I loro raggi nebulosi rendevano più
vivo il passaggio, più reale. Per la prima volta, la loro realtà gli colpì il cervello. Quello era un vecchio ranch in cui si erano rifugiati diciassette assassini condannati alla camera a gas... e adesso si rivelava pieno di passaggi segreti. Non era possibile che fosse un caso. Doveva buttarsi contro la donna e afferrarla per le gambe, decise. — Jim! — la voce di lei fu un lieve sospiro, alle sue spalle. — Ti giuro che questo non aggraverà il pericolo in cui vi trovate, tutti voi. Se consideri che è stata la nostra organizzazione a mettere le macchine e gli aerei a vostra disposizione, quando siete evasi dalla prigione, tu... — Che cosa? — Lui si fermò, protestando. — Senti, quelle macchine e quegli aerei ci sono stati procurati dall'amico di... — Un privato che vi avrebbe dato quattro macchine e due aerei? Non di-re sciocchezze. — Ma... Si interruppe, affascinato dalla logica di lei; poi chiese: — Continui a chiamarmi Jim. Jim, e poi? — Jim Pendrake. — Ma tu ti chiami Anrella Pendrake.
— Esatto. Tu sei mio marito. Avanti, continua a scendere. — Se sei mia moglie — lampeggiò Pendrake, — me lo dimostrerai dan-domi la pistola e fidandoti di me. Consegnami la pistola! L'arma gli venne tesa, oltre la sua spalla, così bruscamente che lui la guardò sbattendo le palpebre; poi tese la mano per prenderla, imbarazzato, quasi aspettandosi che gli venisse sottratta. Ma ciò non accadde. Le sue di-ta si chiusero sull'arma; le dita della donna la lasciarono. Pendrake rimase ritto, con la pistola in pugno, sopraffatto da quella facile vittoria, privato di ogni possibilità di ricorrere alla violenza. — Ti prego di scendere — risuonò la voce di lei. — Ma chi è Jim Pendrake? — Lo saprai fra pochi minuti. Avanti, ti prego. Lui scese. Giù, giù, giù. Due volte passarono sopra lastre d'acciaio assi-curate alle pareti della scala, simili alle protezioni dei ponti delle corazzate. Lo spessore di quelle piastre gli fece spalancare gli occhi. Erano venti centimetri ciascuna! Era una fortezza.
Arrivarono in fondo, all'improvviso. Uno stretto corridoio, una porta, e poi un bagliore di luci, una grande stanza piena di macchine. C'erano porte che davano su altre stanze, visioni affascinanti di scale lucenti che scendevano... affascinanti perché suggerivano l'esistenza di numerosi altri ambienti, più sotto. Il peso cominciò a sollevarsi dalla sua mente; il peso della convinzione che era rimasta per tutto il pomeriggio nel suo cervello e nel suo corpo, la convinzione che lui e Peters e gli altri non avevano possibilità di salvarsi. Ma lì, in quel mondo sotterraneo, c'era la salvezza! Sentì l'impulso di una nuova vita, d'una speranza. Fu una lucidità improvvisa, un tepore che soffondeva tutto il suo essere. Il suo sguardo girò attorno nella sala macchine, interrogativo. La sua mente si sforzò di indi-viduare segni di presenze umane. Ebbe il tempo di notare, con chiara percezione, che persino i pensieri di Peters e degli altri non penetravano in quelle profondità isolate dal metallo. Una parete si aprì nella parete, alla sua destra. Ne uscirono tre uomini. L'atto fisico di quell'entrata importò poco. Nell'istante in cui la porta si a-prì, i loro pensieri sfrecciarono verso di lui. Vi fu un piccolo flusso di immagini e di idee su lui stesso, sul suo passato e la sua vita.
In quel vortice di impressioni, udì uno degli uomini sussurrare alla donna: — Ci sono state difficoltà? — No — rispose lei. — Tutte le precauzioni più complicate non sono state necessarie. La loro perquisizione è stata superficiale. Hanno parlato di uccidermi, ma io avrei potuto impedirlo in qualsiasi momento. Neppure una volta hanno pensato a esaminare i bottoni del mio abito per controllare se erano saturi di gas letale. Dopotutto, non sono fondamentalmente dei criminali... Ma silenzio, adesso... lasciamo che legga ciò che vi è nelle vostre menti, senza interruzione. L'immagine che gli pervenne era ristretta, in quanto a tempo. Cominciava con Nypers che gli faceva capire come vi fosse qualcosa di strano. E finiva lì, in quella fortezza, con un piano mortale. La loro conoscenza della sua vita era molto limitata. Pendrake ruppe il silenzio con voce tesa, stupita: — Devo credere che Peters, McLarg ed io stesso, insieme a Kelgar, Rai-ney e gli altri, verremo tenuti alla superficie mentre le forze armate degli Stati Uniti tenteranno di catturarci? E voi intendete assistere per vedere come riusciremo a trovare il modo di trarci d'impaccio, senza fare nulla per aiutarci? Vide che sua moglie stava annuendo con un sorriso. Poi quell'espressione divertita svanì. Gli occhi di lei si
accesero d'una strana comprensione. — Sei arrivato a un punto critico, Jim. Devi fare anche meglio di quando sei evaso dal carcere. Dovrai fare letteralmente l'impossibile e diventare un superuomo, in via temporanea. Vedi... sei nella fase finale del tuo mutamento finale. Qualsiasi stato potrai raggiungere ora sarà permanente. Non vi saranno altri mutamenti. Gli occhi le si inumidirono di colpo. Si tese in avanti, d'impulso, l'afferrò per un braccio. — Jim, non capisci? Se ci indeboliamo, ora, tradiremmo te e tutti gli altri che vivono là fuori, in quel povero mondo confuso... Jim, abbiamo deciso che nessuno di noi sopravviverà, se tu fallisci. Quindi il nostro destino è legato al tuo. Ascolta, qui sottoterra, c'è una meravigliosa officina. Fra pochi minuti i più grandi scienziati maschi della nostra organizzazione verranno condotti qui, uno a uno, e tu potrai impadronirti della conoscenza che è nella loro mente e farla tua. Mi dispiace che tu non possa leggere le menti delle donne, perché abbiamo dalla nostra parte alcune scienziate formidabili. Lo guidò a una sedia, sedette davanti a lui e disse: — Jim, noi toti-potenti - tu ed io e pochi altri rappresentiamo un prodotto incidentale collegato al ritrovamento di un motore straordinario. Ognuno di noi può
donare il suo sangue, ogni pochi mesi, a gente che appartiene allo stesso gruppo sanguigno, per rendere a questa gente la giovinezza. Ma nessuno è mai diventato toti-potente in seguito a una trasfusione. Questo li lega a noi con vincoli disumanamente forti, perché debbono avere ogni tanto un po' del nostro sangue, per non ricominciare a invecchiare. «Quando tu consideri che ogni toti-potente ha una capacità mentale almeno doppia rispetto alla media umana, puoi capire che noi rappresentiamo l'inizio di qualcosa di nuovo e di grande per la razza umana. Per esempio, abbiamo risolto il segreto del motore Lambton. Nessun altro lo ha fatto, o può farlo. I tedeschi si impadronirono di più dell'ottanta per cento dei nostri motori, e questo fu grave... ma quei motori sono tutto ciò che hanno. Eppure, la nostra normale capacità intellettiva è soltanto una frazione di ciò che è possibile. Sappiamo questo, poiché alcuni di noi hanno raggiunto facoltà venti volte superiore alla media umana durante i mesi grigi e dimenticati che costituiscono un periodo toti-potente. «Ascolta, questa è la mia storia, la mia prova della realtà. Sono nata nel 1896, sono stata infermiera durante la prima guerra mondiale, ed ebbi il braccio destro dilaniato da un proiettile esplosivo. Deve essere stato il fango a impedire che morissi dissanguata. Per giorni interi io giacqui senza
assistenza, e nota questo: non si ha notizia di qualcuno che sia divenuto to-ti-potente se non sottoposto a severa pressione. È l'unica traccia che abbiamo. Un corpo che riceve una pronta assistenza medica non può diventare toti-potente. Naturalmente quella volta non accadde nulla, ma più tardi, quando lavorai a un programma di ricerca della fondazione Lambton, fui esposta al motore, il mio braccio ricrebbe e io riebbi la mia giovinezza.» — E da dove veniva il motore Lambton? — chiese Pendrake. — Questo è il mistero — disse la donna. — Il signor Lambton sosteneva che suo nonno era stato trovato morto, in quel motore, nell'anno 1870. Aveva tentato di farlo atterrare nella fattoria di famiglia, ma la macchina evidentemente urtò il suolo con troppa forza. All'ultimo minuto, dovette rendersi conto di ciò che stava per accadere, perché aprì lo sportello e tentò di lanciarsi. Il fatto è che fu trovato morto con il corpo metà dentro e metà fuori dal portello. Quando liberarono il suo corpo straziato, il portello si richiuse automaticamente e nessuno riuscì mai più a entrarvi. Non era un oggetto pesante, quindi lo trascinarono in un grande granaio, dove rimase per tre quarti di secolo, secondo il signor Lambton. Quando abbatterono il vecchio granaio, Io ritrovarono; il signor Lambton ricordò la storia e fece trasportare l'apparecchio alla sua fondazione. Fu allora che il dottor Grayson scoprì di che si trattava.
E continuò, dopo una pausa: — Durante la seconda fase del mio periodo toti-potente, io inventai una piccola piastra metallica idrorepellente. Quando assicurai una di queste piastrine alla suola di ogni scarpa, riuscii a camminare sull'acqua. Non sappiamo ancora come funzionino. Pensiamo che io debba essermi trovata in serio pericolo di morire annegata, ma non lo sappiamo con certezza. Non possiamo farne duplicati, sebbene sembrino costruite con il materiale ordinario che si può trovare a bordo d'una nave. Questa è la vera meraviglia. Questa nostra immensa terra, con le sue molti-tudini di invenzioni, ha bisogno in apparenza soltanto d'una mente più acuta per valutare i fatti che si pongono sotto i nostri occhi, nella nostra vita quotidiana. L'addestramento e l'istruzione sono surrogati di questa capacità, ma non sono surrogati soddisfacenti. «Jim, sai qual è il tuo compito. Al disopra del livello del suolo troverai un assortimento di macchine. Motori, strumenti elettronici ed elettrici, quasi tutto di tutto. Quella decina di edifici è piena di materiale che sembra di scarto, ma non lo è. Osserva tutto, e lascia che la tua mente cerchi di creare combinazioni nuove da quelle vecchie forme. Nel momento in cui avrai trovato qualcosa, mettiti in comunicazione con gli uomini che stanno quaggiù. Costruiranno in poche ore qualsiasi cosa tu vorrai. «Jim, la nostra esperienza in fatto di attività idealistica è
stata triste. Occorre qualcosa di più. Vogliamo fare un altro tentativo prima di decidere di lasciare l'uomo al suo destino o di continuare nel tentativo di affrettare l'evoluzione della civiltà. Mi comprendi?» Mentre Pendrake veniva ricondotto nella sua camera da letto, gli parve che lo scopo di quel gruppo non avrebbe potuto venire espresso più chiaramente. Rimase sveglio, coperto dal sudore della paura. Per due volte, immerso in un dormiveglia, si disse di aver sognato la sua visita alla fortezza sotterranea, sotto il ranch. Ma ogni volta una certezza più cupa rimproverava la sua mente per quella illusione. Il giorno prima, quando il pericolo sembrava remoto, si era illuso che fossero realmente al sicuro in quel nascondiglio nel deserto. Adesso sapeva che non era così. Un esercito di carri armati e di aerei avrebbe attaccato... I suoi pensieri seguirono una rotta ineguale durante quella lunga notte. Una volta gli si presentò il problema: quella capacità del cervello umano, di venti volte superiore alla media... non poteva essere un quoziente di intelligenza. Soltanto una macchina pensante elettronica poteva avere un quoziente d'intelligenza di 2.000. C'erano altri fattori, nel cervello, che potevano venire influenzati. Per esempio, come era possibile che una persona dal quoziente d'intelligenza pari
a 100 avesse una personalità e qualità di leadership due volte superiore a quelle d'un individuo con un QI di 160? No, quella capacità mentale di venti volte superiore alla media non era un quoziente intellettivo. Era qualcosa di diverso, qualcosa che non riusciva a immaginare. Doveva essersi addormentato su quel pensiero. Quando si svegliò, era ancora buio; e ormai aveva deciso. Avrebbe tentato. Non si sentiva diverso, non si sentiva dotato di una eccezionale abilità creativa, ma avrebbe tentato. All'alba, Jefferson Dayles si alzò e guardò attraverso i fori della sua perfetta maschera di carne, dalla finestra del Mountainside Inn. Era l'attesa, pensò. Tutto quello che poteva fare era stato fatto. Gli ordini, i piani complicati, i particolari intesi ad assicurare che non rimanessero aperte vie di fuga... di tutto questo si era occupato di persona. E adesso dovevano essere altri a fare il lavoro, mentre lui camminava avanti e indietro, impotente, nello spazio limitato di quella piccola stanza... in attesa. La porta dietro di lui si aprì, ma non si voltò. Le ombre si stendevano pesanti sul deserto, ma le montagne, a destra, erano visibili contro il cielo che si illuminava. E, a sinistra, tra gli alberi sparsi, oltre il villaggio, poteva vedere le tende bianche dell'esercito che si stava svegliando.
Kay disse, dietro di lui: — Le ho portato la colazione. Lui aveva dimenticato che fosse entrato qualcuno. Sobbalzò, udendo quella voce. Poi sorrise cupamente tra sé. Si voltò e fece: — Colazione? Bevve il succo d'arancia e mangiò il rognone sul pane tostato, in silenzio. Quando ebbe finito, Kay tornò a parlare. — Sono certa che nessuno sospetta la sua presenza qui. — E aggiunse, dopo un attimo: — Cominceremo tra circa un'ora. Occorreranno almeno tre ore per coprire quei sessanta chilometri sulla sabbia. Alcuni dei nostri esploratori sono arrivati fino a poche centinaia di metri dalla casa, durante la notte, senza essere intercettati. Tuttavia, hanno ubbidito agli ordini e non hanno tentato di invadere la proprietà. — E concluse: — Comincio a credere che le nostre precauzioni sono state ridicole, ma sono convinta che sia meglio esagerare piuttosto che doverci pentire poi. Non vi sono più dubbi. Dobbiamo impadronirci di quell'uomo prima di poter pensare a un terzo mandato presidenziale. Non ebbe risposta. Quattro ore, stava pensando Jefferson Dayles, quattro ore prima di conoscere il suo destino.
CAPITOLO VENTISEIESIMO Nel ranch, il freddo della notte del deserto svanì in un'aurora che riscaldò lentamente la terra grigia. Gli uomini si alzarono presto. Fecero colazione quasi in silenzio; non fecero obiezioni quando Pendrake dichiarò di volersi occupare personalmente della prigioniera, e poi si dispersero. Qualcuno andò a dare il cambio a coloro che avevano montato di guardia durante la notte, sui picchi che sovrastavano le colline e le diseguali distese di sabbia. Soltanto uno o due sembravano veramente indaffarati. L'atmosfera era carica di tensione, di nervosismo, di aspettazione. Mentre chiudevano la porta del terzo fabbricato, Anrella disse, accigliandosi: — Mi aspettavo che gli uomini protestassero quando hai detto che ti avrei accompagnato dovunque andassi, oggi. Questo deve averli stupiti. Pendrake taceva. Il ruolo di capo che gli era stato affidato meravigliava anche lui. Molte volte aveva notato un principio di opposizione nelle menti di quegli uomini, ma l'aveva sempre visto svanire prima che venisse espresso. Si accorse che Anrella stava parlando di nuovo, imbarazzata.
— Vorrei non averti consigliato di tornare a dormire. Volevamo che fossi riposato, per ciò che dovevi fare. Ma volevamo anche sistemare tutto in modo che tu avessi a disposizione almeno mezza giornata. Curiosamente, quelle parole l'irritarono. Disse, con voce tagliente: — I miei mezzi sono troppo limitati, per ottenere successo. E sono convinto di affrontare l'argomento da un punto di vista errato. È l'aspetto meccanico che non è giusto. Potrei vedere parecchie possibilità, per esempio, nell'apparecchiatura elettrica dell'ultimo capannone. L'uso di un vuoto a più del 99,9% offre parecchie possibilità, se unito alle bobine elettriche, ma... La fissò, cupamente. — C'è un difetto gravissimo, in tutti. Uccidono. Bruciano e distruggono. In tutta franchezza, preferirei essere impiccato piuttosto che uccidere un gruppo di poveri soldati che fanno il loro dovere. E posso dirti subito che comincio a essere stufo. — Agitò le braccia, impaziente. — Questa faccenda è troppo stupida. Mi chiedo se sono nella mia piena lucidità di mente. — E le rivolse una smorfia di collera. — Lascia che ti faccia una domanda. È possibile, per te fare venir qui un'astronave, in poco tempo, che ci prelevi e salvi la
vita di tutti coloro che non si trovano nei sotterranei? Lo sguardo di Anrella era quieto, i suoi modi tranquilli. — È ancora più semplice. Possiamo portarti sotto terra. Ma abbiamo a disposizione anche l'astronave. Ce n'è una a circa trenta chilometri sopra di noi, un modello piuttosto grande che tu credevi un aereo elettrico. Potrei chiamarla immediatamente. Ma non voglio. Questo è un momento critico, in un piano che abbiamo maturato sin dalla prima volta che ti abbiamo trovato. Pendrake scattò: — Non credo alla vostra minaccia di ucciderli. È un altro trucco per esercitare una pressione su di me. Anrella disse sottovoce: — Tu sei stanco, Jim, e sei sottoposto a un grave sforzo fisico. Giuro, sulla mia parola d'onore, che quanto ti ho detto è la verità. — E che cos'è una semplice parola d'onore, per una superdonna? Lei rimase calma. — Se pensi alle implicazioni del tuo rifiuto di uccidere la gente che sta venendo ad attaccarci, ti renderai conto che tutte le nostre intenzioni sono onorevoli. Jim, io ho più di ottant'anni. Fisicamente, certo, non me ne accorgo, ma mentalmente sì. E questo vale anche per gli altri.
Diciassette so-no più vecchi di me, dodici hanno circa la mia stessa età. È strano che dall'ultima guerra siano usciti così pochi potenziali toti-potenti; forse l'assistenza medica era migliore, ma non importa. Tutti noi abbiamo visto molte cose, abbiamo pensato molto. E crediamo, sinceramente, che possiamo essere soltanto un ostacolo per la razza umana, a meno che non riusciamo ad affrettare la sua marcia sulla via del progresso. A questo scopo, dobbiamo avere una guida più forte e più capace di quella che siamo riusciti ad avere fino a ora. Noi... Si udì un lieve ticchettio nella radio da polso di Anrella. Lei l'alzò perché anche Pendrake potesse udire. Una voce esile ma chiara disse: — Una colonna di autoblinde e di carri armati sta avanzando sulla strada che porta all'Arroyo Pass, a quindici chilometri a sud di Mountainside. Un certo numero di aerei continua a passare qui sopra, fin dall'alba. Se non li avete visti, questo significa che si tengono fuori di vista del ranch. È tutto. Il minuscolo ticchettìo si ripeté. E poi vi fu silenzio. Anrella lo ruppe, con voce tesa. — Jim, penso che faremmo bene a tornare alla realtà. Comincio a credere nell'importanza di avere un'arma preliminare che tenga a bada le forze terrestri e ti dia il
tempo di realizzare un'invenzione superiore. Non dobbiamo preoccuparci dei bombardamenti aerei, ne sono certa, perché l'ultima cosa che Jefferson Dayles desidera è la tua morte. — Ed esitò. — E quel raggio disintegratore che ha effetto soltanto sulla materia inorganica? — I suoi occhi azzurri gli rivolsero un breve sguardo interrogativo. — Siamo disposti a procurare il filo necessario per innestare l'arma alla presa più vicina, come abbiamo fatto nella prigione. O anche un generatore mobile. — Esitò di nuovo, poi: — Questo distruggerebbe i loro carri armati e le loro autoblinde, e li spoglierebbe delle loro uniformi. — Rise, nervosamente. — Questo disorganizzerebbe qualsiasi esercito esistente. Pendrake scosse il capo. — L'ho esaminata prima di colazione. E non c'è altro da fare. È completa così com'è, quell'arma. Potrei ridurla alle dimensioni d'un'arma da tenere in pugno, e avrebbe lo stesso potere. Ma se ne ingrandissi la mole, non servirebbe a incrementarne la potenza. Tutto dipende dalla valvola che... — E alzò le spalle.
— Tutto ciò che devono fare è accertarsi che io non la posso manovrare, e poi tenere l'artiglieria aldilà della sua portata, pari a mezzo chilometro, servendosi di esplosivi potentissimi. È possibile — e sorrise selvaggiamente, — che uno dei miei uomini preferisca morire così, piuttosto che nella camera a gas. Ma, come vedi, non c'è soluzione. Cosa stai facendo, Haines? Avevano raggiunto un giovane robusto, dalla barba lunga, che lavorava sul motore d'una macchina. Il cofano era sollevato, e l'uomo stava ritto, con una delle candele in mano, e ne spazzolava la punta. La domanda di Pendrake, in realtà, non era necessaria. Nella mente dell'uomo era delinea-ta la chiara intenzione di rimettere in sesto il motore e di lasciare il ranch. Dan Haines era un attore di poco conto, che aveva partecipato all'attacco contro il corteo per la sola ragione che, come aveva dichiarato scontrosa-mente al tribunale, non poteva sopportare «un mondo governato dalle donne» e si era «eccitato». Aveva dichiarato anche che era pronto ad accettare «ciò che gli sarebbe accaduto». Non aveva contribuito all'evasione, se non con il peso della sua nervosissima presenza. E adesso, in uno scatto di ap-prensione, i suoi nervi si erano spezzati. Alzò lo sguardo con aria colpevole. — Oh — disse quando vide Anrella. Poi, più
distrattamente: — Stavo soltanto sistemando il motore dell'autobus. Voglio che siamo in grado di servircene, se sarà necessario. Pendrake gli passò davanti e fissò incuriosito il motore scoperto. Nella sua mente stava visualizzando l'intera macchina, dapprima come unità, poi ogni singola funzione in particolare. Fu un esame fulmineo e puramente mentale - motore, batteria, accensione, generatore... Si fermò e tornò indietro: batteria... Con calma, disse: — Cosa accadrebbe, Haines, se tutta l'energia d'una batteria venisse scaricata in un centomiliardesimo di secondo? — Eh! — esclamò Haines, stordito, — ma non è possibile! — Sarebbe possibile — ribatté Pendrake, — se la piastra di piombo fosse pre-indurita elettricamente e se usassi una valvola schermata, del tipo che viene usato per controllare la corrente non necessaria. È... Si fermò. All'improvviso, tutti i particolari furono nitidi e chiari nella sua mente. Fece un calcolo mentale e poi, alzando lo sguardo, vide su di sé gli occhi scintillanti di Anrella. Dopo un attimo lo sguardo di lei si oscurò. — Capisco dove vuoi arrivare — disse sorpresa. — Ma la
temperatura non sarebbe troppo alta? Le cifre che ottengo io sono incredibili. — Possiamo usare una batteria in miniatura — replicò pronto Pendrake. — Dopotutto, è soltanto la percussione. La ragione per cui la temperatura sarebbe così alta è che nell'interno d'un sole non c'è una valvola di controllo, e quindi l'ambiente adatto esiste soltanto qua e là nello spazio, e allora abbiamo un sole del tipo Nova-O. «Con una batteria normale la temperatura sarebbe troppo alta. Ma credo che potremmo cancellare i quattro zeri più pericolosi servendoci di una piccola pila a secco, così potremmo stare sicuri. Naturalmente vi sarebbe una reazione a catena, ma il risultato sarebbe un punto di calore, non un'esplosione. E durerebbe per parecchie ore. — Fece una pausa, corrugando la fronte; poi disse. — Non andartene, Haines. Resta qui al ranch. — Sta bene. Pendrake si allontanò pensieroso, poi tornò a fermarsi.
Si è dichiarato d'accordo molto in fretta, pensò. Come mai? Spalancò gli occhi, si girò e fissò Haines. L'uomo gli aveva voltato le spalle, ma tutti i contorni mentali del suo cervello
erano scoperti. Pendrake rimase immobile, facendo paragoni, ricordando; e alla fine, soddisfatto, si girò verso Anrella e disse quietamente: — Di' ai tuoi che lavorino su questa base, alla massima velocità. E che scoprano qualche sistema di refrige-razione per il ranch. Credo che la batteria dovrebbe venire sepolta circa tre metri nella sabbia, a quattro o cinque chilometri a sud. E non capisco perché si dovrebbe impiegare più di tre quarti d'ora. In quanto a me e a te... — la fissò, sardonicamente, — ordina all'astronave di scendere. Andiamo a Mountainside. — Che cosa? — Lei lo guardò all'improvviso pallida. — Jim, sai che questa non è una conseguenza logica di questa invenzione. Lui non rispose, si limitò a fissarla; e dopo un attimo Anrella disse: — È un errore, non dovrei farlo. Io... — scosse il capo, sconcertata. Poi, senza altre proteste, alzò la radio da polso. Alle otto del mattino, i vecchi erano tutti radunati sulla veranda del Mountainside Inn. Pendrake li poteva vedere mentre guardavano obliquamente Anrella e lui stesso e una decina di donne che appartenevano al Servizio Segreto, ferme attorno alla porta. I vecchi di Mountainside non erano
abituati a vedere la loro quiete violata da estranei, in particolare da donne dall'aria così dura. Ma negli ultimi tempi erano accadute molte cose. Le lo-ro menti mostravano un miscuglio di eccitazione e di irritazione. La loro conversazione era un po' stordita. Circa dieci minuti dopo le otto, uno di loro si asciugò il sudore dalla fronte e si avvicinò al termometro accanto alla porta. Poi tornò indietro. — Novantotto gradi Fahrenhait — annunciò agli altri. — Fa maledettamente caldo per Mountainside, in questa stagione. Vi fu una breve, animata discussione sulle temperatureprimato per quel mese, negli anni passati. Le voci si spensero lentamente in un silenzio imbarazzato, mentre la calda brezza soffiava più forte, dal deserto. Ancora una volta, un vecchio si avvicinò al termometro, ritornò scuotendo il capo. — Centocinque — disse. — E sono soltanto le otto e venticinque. Sembra che farà un caldo terribile. Pendrake si avvicinò agli uomini. — Io sono medico — dichiarò. — I cambiamenti improvvisi di temperatura possono essere pericolosi per le persone anziane. Andate al Mountain Lake. Prendetevi una giornata di vacanza. Ma andate!
Quando tornò da Anrella, i vecchi stavano già scendendo dalla veranda. Pochi minuti dopo passarono a bordo di due vecchie automobili. Anrella guardò Pendrake corrugando la fronte. — Hai sbagliato psicologia — disse. — I vecchi topi del deserto di solito non danno ascolto al consiglio dei giovani. — Non sono topi del deserto — ribatté Pendrake. — E per loro un dottore è Dio. — Sorrise e aggiunse: — Camminiamo un po' per la strada. Ho visto una vecchia, in una di queste case, cui dovremmo consigliare di re-carsi tra le colline. La vecchia si lasciò persuadere facilmente ad andare a fare picnic, poiché era un dottore a dirglielo. Caricò un po' di scatolame su una vecchia macchina cigolante e si allontanò in una nube di polvere. In un piccolo edificio bianco a una ventina di metri c'era una stazione meteorologica. Pendrake aprì la porta e gridò all'uomo coperto di sudore che stava seduto nell'interno: — Che temperatura abbiamo, adesso? L'uomo grassoccio e occhialuto si trascinò alla scrivania. — Centoventi — gemette. — È un incubo. Gli uffici di Denver e di Los Angeles continuano a farsi vivi per
chiedermi se sono ubriaco. Ma — e fe-ce una smorfia, — farebbero meglio a cominciare a correggere le loro isobare e ad avvertire la popolazione. Prima di sera i venti dell'uragano solle-veranno il fondo dei loro pantaloni. Quando furono usciti di nuovo, Anrella fece, irritata: — Jim, ti prego di dirmi di che si tratta. Se diventerà ancora più caldo, noi verremo trascinati via da un fiume di sudore. Pendrake rise cupamente. Sarebbe diventato più caldo, certo. Provò un improvviso timore. Un punticino di calore se lo immaginava là, nel sud ardente - che lanciava un lampo di diciotto milioni di miliardi di gradi Fa-hrenheit, più caldo di migliaia di bombe all'idrogeno. La temperatura, qui a Mountainside, sarebbe salita per lo meno a 135, e nel luogo in cui c'erano le forze corazzate... 145... 150. Non avrebbe ucciso nessuno. Ma gli ufficiali avrebbero indubbiamente ordinato ai loro uomini di ritirarsi e di dirigersi verso le fresche colline. Faceva più caldo, quando tornarono verso la locanda. E c'erano altre macchine che puntavano verso la strada della montagna, una lunga fila di macchine. Il calore riverberava sulla sabbia e sulle colline grige. C'era un odore arido, cotto, nell'aria, che indolenziva i polmoni. Anrella disse, tristemente: — Jim, sei certo di sapere ciò che fai? — È molto semplice. — Pendrake annuì, con aria vivace. — Penso che abbiamo l'equivalente di un bell'incendio in
una foresta. Se hai mai visto una foresta in fiamme - e molti dei miei ricordi comprendono conoscenze al riguardo saprai che questi furiosi incendi fanno fuggire tutti gli animali selvatici. C'è una corsa folle verso le zone più fresche. Persino il re degli animali accondiscende a correre, davanti a una simile conflagrazione. Secondo me, dovremmo trovare un re, qui. — E finì, in tono compiaciuto: — Adesso è là, all'aperto, dove posso assicurarmi, con un pericolo minimo, di non essermi ingannato. Pendrake indicò la porta della locanda, da cui stava uscendo un uomo dalla corporatura robusta. Il viso di quell'uomo era truccato in modo da somigliare a quello di un qualsiasi americano di mezz'età, ma la sua voce, quando parlò, era la voce autoritaria e risonante di Jefferson Dayles. — Non avete ancora avviato quei motori? — chiese, irritato. — Mi sembra strano, due macchine che si guastano nello stesso momento. Vi furono mormorii di scusa, qualcuno parlò di un'altra macchina che sarebbe arrivata dal campo entro pochi minuti. Pendrake sorrise e sussurrò ad Anrella: — Vedo che il pilota della tua astronave sta ancora riversando raggi che creano interferenze. Benissimo. Avanti, portagli il nostro invito.
— Ma non verrà. Sono sicura che non verrà. — Se non verrà, vorrà dire che mi sono ingannato, e torneremo subito al ranch. — Ti sei ingannato a che proposito? Jim, si tratta di vita o di morte, per noi! Pendrake la guardò. — Come! — esclamò, beffardo. — Non ti piace essere sottoposta a pressione? Forse raddoppierà il tuo quoziente di intelligenza. Anrella lo fissò; alla fine disse lentamente: — Deve esservi qualche qualità in questa fase toti-potente in cui ti trovi, di cui noialtri non siamo consapevoli. — Ed esitò. — Jim, in considerazione del tuo misterioso conte-gno, non oso più esitare a dirti quanto ti dirò ora, anche se per ragioni personali avrei preferito attendere. A sua volta Pendrake esitò, poi respinse l'idea di spiegare ad Anrella le sue azioni. Non ancora. Poteva avere ancora bisogno di condurla a forza in qualche situazione critica, L'automatica accettazione del suo ordine di rimanere al ranch, da parte di Haines - e di non fuggire come era stata sua intenzione - gli aveva fornito una traccia. Il resto - il ricordo di come ciascuno dei suoi ordini, ciascuna delle sue decisioni erano stati immediatamente accettati - era
una prova a conferma di quell'ipotesi. Prima Peters che gli aveva portato i vestiti, e soltanto più tardi aveva discusso l'ordine; poi Anrella che gli passava la pistola e ordinava all'astronave di scendere, e i vecchi e la vecchia che si recavano verso le montagne: tutto questo dimostrava che uomini e donne erano soggetti al suo potere. Questo non c'entrava affatto con la mente conscia. Neppure una volta qualcuno ne era stato consapevole. Era qualcosa di più profondo. Qualcosa che agiva su una struttura nervosa fondamentale del cervello. A coloro che ubbidivano doveva sembrare di avere ubbidito alla loro stessa logica. Una considerazione importante, questa. Più tardi l'avrebbe detto ad Anrella. O-ra... Anrella aveva ripreso a parlare. — Sento che tu sei dotato di una particolare capacità che non è utile né a te né agli altri, e così, prima che diventi permanente... — Poi, con ansia: — Jim, che cosa ricordi? Pendrake aprì le labbra per farle un breve riassunto dell'immensità dei suoi ricordi. E si rese conto che non erano affatto ricordi suoi. Erano ricordi di circa cinquanta persone: comprese, ora, le esperienze totali del Presidente degli Stati Uniti. Alla fine, riluttante, lo spiegò ad Anrella.
— Percepisci lo spazio attorno a te! — ordinò lei. Toccò a Pendrake, ora, rimanere sbalordito. — Non capisco. Cosa debbo cercare? — La tua memoria. Lui aprì di nuovo le labbra, per osservare che la trasformazione toti-potente delle cellule le aveva private di tutte le impressioni; era stata una cancellazione molto efficace dei suoi ricordi. Ma non proferì quella protesta. Perché vide il campo di energia. Fu una visione mentale, e ciò che era sbalorditivo era il fatto che in realtà sembrava splendere debolmente. Lo splendore era più intenso vicino al suo corpo e si affievoliva via via che si estendeva in distanza. Pendrake non riuscì a valutarne l'estensione, ma aveva l'impressione che si trattasse di parecchi metri. Dopo un attimo respinse quella limitazione. La distanza non sembrava un fattore valido. Si rese conto che quella parte della sua conoscenza comprendeva il ricordo del lavoro d'uno scienziato dell'Università di Yale, il quale aveva misurato il campo elettrico attorno a ogni corpo vivente, dal seme più minuscolo agli esseri umani. Quel pensiero svanì, perché l'intero ricordo della sua vita
stava fluendo in lui: l'infanzia, gli studi, l'aviazione, la scoperta del motore, la Luna, Big Oaf, Eleanor... Oh, Dio, pensò. Eleanor... per tutti questi mesi... più di un anno... nelle mani di quel neanderthaliano... Gemette. Poi, con uno sforzo, dominò i sentimenti che erano fluiti in lui. — Portagli l'invito — disse con voce rauca. La donna lo guardò, con fare di compatimento. — Non so che cosa hai ricordato — osservò. — Ma faresti meglio a cercare di riprenderti. — Mi sentirò benissimo fra un istante — replicò Pendrake. E pensò: Prima le cose più importanti. E fu di nuovo se stesso.
CAPITOLO VENTISETTESIMO Anrella gli voltò le spalle e salì i gradini della veranda. Pendrake la sentì formulare le parole necessarie con una voce lievemente alterata. Quando ebbe finito, Pendrake esclamò: — Sì, venga! La sua macchina potrà seguirci. Il Presidente, Kay e le due donne egualizzate seguirono Anrella giù per i gradini. — Credi — chiese Anrella, — che possiamo prendere a bordo quattro persone? — Certamente — rispose Pendrake. — Uno può salire davanti, insieme a noi. Kay salì davanti, accanto ad Anrella. Un attimo dopo la macchina mar-ciava a discreta velocità. — Sai cara — disse Pendrake, — ho pensato alle donne egualizzate che costituiscono l'esercito privato del Presidente Dayles. La droga che presero può venire neutralizzata da una seconda dose, la cui struttura chimica varia lievemente rispetto alla prima. L'elemento cristallino di manganese che c'è ora nella droga è legato al composto da quattro valenze. È instabile. Ri-muovendo due delle valenze, la connessione si rafforzerà. Questo
servirà a... Si interruppe perché, con la coda dell'occhio, vide l'espressione tesa di Anrella. Dal sedile posteriore, Jefferson Dayles disse, asciutto: — Lei è un chimico, signor... non ho capito il suo nome. — Pendrake — rispose in tono affabile Pendrake. — Jim Pendrake. — E continuò: — No, non sono un chimico. Mi può definire una specie di sol-vente universale. Vede, ho scoperto di avere una strana qualità mentale. — Si interruppe. Nello specchietto retrovisore, vide che le due donne avevano impugnato le pistole. La voce di Jefferson Dayles risuonò con fermezza: — Continui, signor Pendrake. — Signor Presidente — disse Pendrake, — che cos'è che indebolisce la democrazia? Vi fu una lunga pausa. — Nessuno può rispondere a una domanda come questa — rispose infine Jefferson Dayles, piccato. — La gente ha bisogno della certezza che la vita abbia un significato e quando vede soltanto confusione, menzogne e stupidità, cade in una debolezza di spirito che non può combattere.
Pendrake attese, continuando a guidare, addentrandosi nelle colline. Sentiva che la sua tranquilla domanda aveva calmato le due donne sedute a fianco del Presidente. Impugnavano ancora le pistole, ma un gesto del loro comandante in capo le aveva trattenute dall'agire. Il Presidente Dayles ruppe il silenzio. — Superficialmente, si potrebbe dire che noi soffriamo per colpa della immoralità, dei politicanti corrotti, e del fatto che quasi tutti, nel nostro paese, sono in un certo senso neurotici. Pendrake ribatté: — Io credo che noi soffriamo della mancanza d'una guida sicura. — A giudicare dal silenzio scandalizzato, intuì che le sue parole erano arrivate a segno. Continuò: — Vede, signor Presidente, in una democrazia noi eleggiamo un capo per un periodo limitato. Questo non significa che quell'uomo abbia meno potere d'un monarca ereditario. Se non riesce ad associare una guida spirituale e temporale su un fermo livello, allora il nostro sistema di governo comincia a decadere, e noi ci domandia-mo che cosa è accaduto. Ma non è accaduto nulla: soltanto, noi abbiamo eletto un debole che non ci ha dato la guida necessaria a causa di ragioni sue proprie. Vi fu un silenzio mortale, a eccezione del ronzio e del cigolio della macchina.
— La mia impressione — disse Pendrake, — è che sia lei, signor Presidente, ad aver bisogno della conferma del significato della vita. Così io le farò un'offerta leale. — Un'offerta? — Quelle parole non erano un'autentica reazione, ma u-n'eco automatica da parte d'un uomo in profondo stato di trauma. — Un'offerta — ripeté calmo Pendrake. — Se lei, fra tre anni, ci avrà dato la guida necessaria e avrà riabilitato la democrazia, le donerò sponta-neamente il mio sangue. Fu Kay a rispondere, con asprezza: — Temo, signor Pendrake, che lei non sia in grado di stabilire quando sarà utilizzato il suo sangue. — Silenzio, Kay! — ordinò seccamente Jefferson Dayles. La donna gli lanciò uno sguardo stupito e riaffondò nel sedile. Adesso era lei a essere in stato di shock. Durante la loro collaborazione, pensò Pendrake, quell'uomo non aveva mai parlato in quel tono a quella donna bellissima, tesa e aberrata. Il Presidente Dayles si schiarì la gola. — Sono perplesso — disse. — Sembra che ci siamo imbattuti in lei per caso, signor Pendrake, ma è evidente che lei è passato in mezzo a parecchie divisioni delle forze armate americane. Ora comincio a chiedermi che cosa
stia accadendo, in realtà. Per esempio, come è riuscito a evadere dalla prigione? — Diglielo, cara — fece Pendrake. Anrella descrisse l'arma a energia che Pendrake aveva escogitato. Dayles esclamò, sbalordito: — E come può avere inventato un'arma simile partendo da una radio? — Evidentemente era una domanda retorica, perché continuò, in fretta: — Che altro? — Quando Anrella gli ebbe parlato del punto di calore-Nova sepolto dietro di loro nella sabbia del deserto, il Presidente disse, boccheggiando: — È stato lui a provocare questa ondata di calore? Mio Dio! Il Presidente Dayles rimase immobile. Sul suo viso c'era l'espressione di chi vede all'improvviso una soluzione a ciò che gli era parso un problema insolubile. — Ecco! — esplose. — Tutti noi... tutta la gente... dovremmo vergognarci! — Quale gente? — chiese attonita Anrella. — La gente comune, i cacciatori di sesso, i frequentatori fissi dei bar, i cervelli fangosi, gli uomini-contrari-alledonne, le donne-contrarie-agli-uomini, i tipi duri, i deboli, gli stupidi, gli sciocchi, i poveri, i ricchi... tutti quei rottami degradati, collerici, timorosi, infelici, sciocchi, miserabili che sono laggiù. — E indicò, vagamente, includendo
mezzo mondo nel suo gesto. — E qui. — E indicò se stesso. — Tutta questa gente, votata a una impresa idiota che non è affatto importante, a paragone di ciò di cui sarebbe capace. Tre miliardi di persone hanno permesso che il più grande meccanismo cerebrale dell'universo diventasse un rottame, e il nostro compito è in primo luogo renderle consapevoli di ciò che hanno fatto, e poi aiutarle a migliorare. — Che cosa propone di fare? — chiese Anrella. Il Presidente non diede segno di averla udita. Continuò, meditabondo: — Mi sono sempre chiesto perché sia così scarso il lavoro creativo. E l'unica ragione è questa: l'uomo è precipitato nella confusione. Scosse il capo. — Temo che non sarà molto facile — osservò Anrella. Pendrake decise che era giunto il momento di smettere ogni temporeg-giamento. — Credo — disse, — che si dovrebbe richiamare l'esercito, commutare la sentenza di morte in una pena detentiva di cinque anni, disegualizzare le donne egualizzate, proteggere il progetto Lambton, liberare dalla minaccia di persecuzione coloro che vi prendono parte,
ammettere in numero maggiore le donne nelle posizioni amministrative e dirigenziali... In quel momento Anrella l'urtò con il gomito. — Basta così — fece, incollerita. — Jim, smettila! Pendrake tacque, sbalordito. Vide che gli occhi di Anrella lampeggiava-no di collera. La sua analisi istantanea gli rivelò che lei sapeva ciò che lui stava facendo. — Sta bene — disse lentamente. — La smetterò. — Ma era stupito dall'intervento di lei.
CAPITOLO VENTOTTESIMO Era passata un'ora. Le due macchine del Presidente li avevano raggiunti, e Pendrake stava assicurando il Capo dell'Esecutivo che avrebbe potuto proseguire senza pericoli con il suo veicolo, mentre lui e sua moglie sarebbero ritornati al ranch. Nessuno tentò di fermarli. Non appena furono scomparsi, oltre una svolta, Anrella disse: — Ti prego, ferma la macchina. Pendrake fu sorpreso, ma ubbidì. Lei continuò, cupa: — Tu ti sei servito dell'ipnosi telepatica. — E con questo? — Pendrake non si mostrò affatto preoccupato. — Ecco! — Anrella aveva frugato nella borsetta. E ne aveva tratto una minuscola lampada tascabile, che lampeggiò contro di lui con una luce intensa. La luce sembrava sintonizzata con qualcosa nel suo cervello, perché lo ferì profondamente nell'interno del cranio. Senza volerlo, lanciò un grido.
Si accorse che Anrella stava dicendo qualcosa, ma non udì realmente le parole. Poi lei si interruppe. Vi fu una pausa. Poi la sentì dire: — Non hai più quella facoltà. Pendrake batté le palpebre. Sembrava conscio e indenne, in tutto e per tutto. La fissò. — Mi hai ipnotizzato meccanicamente? — chiese in tono d'accusa. — No, mi sono limitata a cambiare uno schema cerebrale. — Era molto decisa. — Jim, è davvero molto semplice. Non possiamo avere qualcuno nel nostro gruppo o nel mondo dotato della capacità di influenzare gli altri senza che quelli se ne rendano conto. — Io me ne sono servito soltanto per ristabilire la democrazia, come hai visto. — La democrazia deve trovare da sola la salvezza — ribatté lei, seccamente. — Può progredire soltanto con la rapidità con cui progredisce la gente. Pendrake osservò, sbalordito: — È una strana dichiarazione, da parte del vero capo del progetto Lambton. — Abbiamo imparato la lezione — disse Anrella, con amarezza. — Gli individui privati non possono esautorare il
loro governo. Nessun piccolo gruppo nell'interno d'uno stato può arrogarsi una posizione morale superiore. Abbiamo avuto quasi ottocento morti, Jim, e se non induciamo il governo ad aiutarci la colonia Lambton su Venere verrà espugnata da quei tedeschi orientali. Loro sanno bene dove siamo. — Questo non accadrà — asserì Pendrake, scuotendo il capo. Poi parlò della spedizione sulla Luna che il Presidente Dayles aveva autorizzato. Quindi aggiunse: — Anrella, ho bisogno di armi e di qualcosa che mi porti, in fretta, in un certo punto tra le colline del Middle West. Devo fare un balzo fino alla Luna, attraverso lo spazio. Descrisse la situazione in tutti i minimi particolari. Anrella aveva gli occhi spalancati, quando lui ebbe finito. — Chiamerò l'astronave — disse prontamente. Poi: — Ma perché non aspettare un giorno o due, fino a che troveremo qualcuno dei nostri giovani che venga con te? Potresti avere bisogno di aiuto. Pendrake pensò a Eleanor e scosse il capo. — Mi sono sentito saturo di rabbia e di orrore fin da quando mi è ritornata la memoria. Puoi dire loro di seguirmi, ma io non posso attendere.
Anrella fissò davanti a sé, con un'espressione di sofferenza sul viso. E alla fine disse, sottovoce: — Ti capisco, Jim. Lungo il percorso, lui le parlò del popolo lunare e concluse: — Questo collima con ciò che tu hai detto. L'asilo che mi offrirono era così lontano dalla mia realtà che preferii correre il rischio di affrontare una tigre dai denti a sciabola. Evidentemente l'uomo è ancora in parte nello stadio belluino, benché sia dotato dell'autocoscienza del primo stadio davvero umano, che soltanto ora sta cominciando a manifestarsi. Nelle mie fa-si toti-potenti io ho mostrato cosa potrebbe essere un cervello umano. Ma sento che il cervello si sta ancora evolvendo. Ciò che potremo comprendere quando avrà superato il prossimo mutamento, può non avere nessun rapporto con ciò che siamo attualmente. La conversazione finì quando la nave-missile arrivò nel punto fissato e si fermò a mezz'aria, sopra l'autostrada. Vi fu qualche manovra, dietro istruzioni di Pendrake, poi venne il momento degli addii. — Non preoccuparti — disse Anrella, baciandolo. — Sono stata fortuna-ta ad averti, e ti rendo di mia spontanea volontà la tua Eleanor. Ci incontre-remo ancora.
Con fermezza, Pendrake si diresse verso lo sportello, poi scese la scalet-ta che era stata calata dalla nave. L'ultimo gradino sfiorava quasi il terreno proprio sopra il punto di flusso tra la Terra e la Luna. Pendrake si tese in avanti, quindi vide la propria mano scomparire, poi scese fiduciosamente in ciò che sembrava l'aria vuota. Provò la sensazione di trovarsi in una nebbia nera che ricordava. L'attimo successivo... Qualcosa, duro come la roccia, lo colpì al capo, e con un tonfo cadde sul pavimento metallico. Quella fu l'ultima sensazione prima che le tenebre si chiudessero su di lui.
CAPITOLO VENTINOVESJMO Pendrake tornò in sé parecchio tempo dopo. Aveva le mani legate dietro il dorso. Ritto accanto a lui c'era Big Oaf. La scena che lo circondava era orribilmente familiare. Lì, a pochi netri, c'era l'orlo del precizizio. Il neanderthaliano ridacchiò, rauco. Era in un chiaro stato di euforia. — Adesso posso rilassarmi. Per tutti questi mesi mi hai tenuto in sospeso, e io ho lasciato a Devlin e ai suoi uomini la seconda città perché non ero sicuro di quello che stavi facendo tu. Naturalmente, avevo preparato questa piccola trappola per pescarti, caso mai ricomparissi. Adesso ci sono riuscito. Adesso li perseguiterò e li farò fuori uno per uno, fino a che urle-ranno per invocare misericordia. — Si interruppe per riprendere fiato. — Ricominceremo al punto in cui ci siamo interrotti, Pendrake. La bestia-diavolo ti avrà e, credimi, non perderò tempo. Pendrake lo fissò. Le forze gli ritornavano, ma questo non aveva significato, ormai. Aveva commesso l'ultimo dei suoi
molti errori, e fra pochi minuti sulla carriere di James Pendrake sarebbe stata scritta la parola finis. Per un attimo folgorante si stupì nel rendersi conto di quanto fosse vulnerabile, in realtà, l'essere umano. Senza la sua toti-potenza, lui sarebbe morto o sarebbe stato storpiato da tante amputazioni che il solo pensiero lo faceva star male. La verità era che chiunque corresse troppi rischi fisici non poteva sopravvivere a lungo. Quel pensiero cessò e svanì. Vide che l'uomo-scimmia sogghignava, tremando d'una tremenda eccitazione sadica. Pendrake ritrovò la voce. — Big Oaf — disse, ma c'era poca convinzione nella sua voce, — le forze armate degli Stati Uniti atterreranno sulla Luna entro una settimana, e un'altra schiera composta d'un migliaio di uomini arriverà attraverso quella macchina. Io li ho preceduti per parlare con te e per ottenere la tua cooperazion;. Se mi uccidi... verrai giustiziato entro sette giorni. Ti faranno un processo militare e ti impiccheranno. — Silenzio! — Gli occhi minuscoli lampeggiarono. — Non riuscirai a ottenere niente con queste chiacchiere, Pendrake. Ti aspettavo, ma nessun altro passerà per quella macchina. Non appena ti avrò tolto di mezzo, la fa-rò saltare. In quanto all'esercito che dovrebbe arrivare qui... gli
occorrerà qualche anno solo per scoprire da quale parte dovrà cominciare a scavare per arrivarci. Scommetto cento a uno che non hanno neppure l'attrezzatura necessaria per scavare... — Si interruppe. — Ciò che accadrà qui sarà tra te e me. Nessun altro ne saprà mai nulla. Devlin crede che tu sia morto. Che altro può pensare, dato che non ti ha visto da mesi? Pendrake dovette ammettere che questo era vero. Quell'episodio riguardava soltanto lui, Big Oaf e la belva gigantesca nella fossa sottostante. Il neanderthaliano continuò, in tono sempre più allegro: — Puoi vedere che la macchina è piazzata solo a pochi metri dall'orlo del precipizio. C'è stato un periodo durante il quale tutto ciò che usciva da quella macchina precipitava nell'abisso, ed è ancora tutto lì... non c'è niente cui aggrapparti sulle pareti della fossa. Io stavo semplicemente camminando, così riuscii a saltare indietro, ma la bestia-diavolo e gli animali di cui si nutriva prima che arrivassi io dovevano esser passati di corsa su quel sentiero sulla Terra. «Dopo che ebbi costruito questo recinto, potei salvare tutti i cervi e i bisonti e il bestiame che arrivava qui, e nutrivo la belva con gli avanzi. L'ho sempre nutrita io stesso, quindi riconosce il mio richiamo. Ascolta! Si avvicinò all'orlo del precipizio ed emise un grido basso
e penetrante. Per un lungo attimo rimase ritto, a guardare giù; volgendo le spalle a Pendrake. Si piegò leggermente, e per un attimo sembrò incarnare l'eredità be-stiale dell'uomo: una sagoma tozza, villosa, inumana, un uomo-bestia uscito dall'alba della preistoria, una creatura sorta da un sogno terribile, quasi impossibile. Eppure era realmente l'antenato dell'uomo e qualche vestigia di quell'essere mostruoso si annidava ancora entro la gabbia toracica d'ogni uomo moderno. Ma per brevi istanti di eternità stava guardando altrove. Tremando in ogni nervo, coperto da minuscoli rivoli di sudore, Pendrake scivolò avanti, sul dorso. Big Oaf si voltò. — Sta arrivando — disse. Non parve notare il corpo proteso, l'espressione del viso del suo prigioniero. In tono prosaico, tanto più terribile perché privo di passione e di furore, continuò: — Ti lascerò scivolare lungo una fune, e ti libererò i polsi prima di calarti oltre l'orlo del precipizio. In questo modo potrai fuggire per un po' quando sarai arrivato in fondo. Alla belva questo piace; le procura un po' di esercizio. C'era una fune arrotolata con cura, in un angolo della caverna. Mentre la raccoglieva e ne gettava un'estremità nell'abisso, Big Oaf spiegò:
— La tengo a portata di mano. Tu non sei il primo, sai, che se ne è andato così, in segreto. Vedi che un capo è legato a un palo del recinto? Strano — continuò, — quanta roba hanno portato gli uomini venuti dalla Terra: corda, una quantità di strumenti, dinamite, fucili, pistole... li ho tutti io. Una parte, specie le munizioni, l'ho nascosta in questa caverna, e il resto in altre caverne che ho bloccato, e di cui nessuno sa nulla. — Mi servirò di quelle armi contro Devlin. Non ci vuole molto a uccidere un centinaio di uomini in un'imboscata, se si hanno le pallottole. — Vedi — concluse con un sogghigno, — ho calcolato tutto. Pendrake si rimise in piedi con un ultimo sforzo e si precipitò contro il mostro. Big Oaf si fermò e attese ringhiando e tendendo le braccia immani. Pendrake spiccò un balzo, ma fu un balzo da acrobata, con i piedi in avanti. Con le suole delle scarpe colpì duramente lo stomaco dell'avversario, con tutto l'impatto dei suoi cento chili, e Big Oaf cadde a sedere. Mentre Pendrake cadeva a sua volta, impotente poiché aveva le braccia legate, si servì dei piedi come d'una leva
e si lanciò lontano dalle temibili braccia, rotolò via, pazzamente... e ancora una volta si rialzò. Big Oaf si alzò tremando e grugnì: — Sei un duro, Pendrake, ma non ti è servito a nulla. In fretta e in silenzio, Pendrake corse incontro al suo poderoso nemico in uno slancio cieco. Non si faceva illusioni. O tutto o niente. E doveva essere subito, prima che Big Oaf recuperasse le forze che poteva aver perso a causa del colpo improvviso allo stomaco. Il neanderthaliano stava aspettando che Pendrake tentasse nuovamente di colpirlo con i piedi, quindi ciò che seguì fu un'altra sorpresa, per lui. Con tutta la sua energia, Pendrake si buttò a testa bassa contro la sua sagoma gigantesca. Big Oaf indietreggiò barcollando e tendendo al contempo le braccia: con un urlo di trionfo riuscì a stringere Pendrake. — Ti ho preso! — ruggì. Con tutta la forza delle gambe, Pendrake lottò per continuare ad avanzare. Ed era una forza sufficiente per il suo scopo. L'inerzia di quello slancio fu così immenso che Big Oaf perdette l'equilibrio e continuò a indietreggiare verso l'orlo del precipizio.
Pendrake disse: — Precipiteremo insieme. La verità di quell'asserzione dovette penetrare nella mente del mostro al penultimo istante, perché lanciò un grido, un grido straziante. Poi fece ciò che fa automaticamente una persona sul punto di cadere nel precipizio... lasciò andare Pendrake e si afferrò al palo del recinto. Pendrake lo spinse senza misericordia e Big Oaf, urlando come un maia-le ferito, cadde oltre l'orlo del costone roccioso.
CAPITOLO TRENTESIMO Pendrake si appoggiò al palo del recinto, vacillando, ansimando. Infine, quando le forze rifluirono in lui, guardò oltre l'orlo del precipizio. Big Oaf si stava rialzando, sull'erba, e la tigre dai denti a sciabola gli stava cautamente girando intorno. Mentre Pendrake guardava, Big Oaf cominciò a indietreggiare dall'animale. Questo era abbastanza normale. Era la tigre dai denti a sciabola che si comportava in modo anormale. L'enorme belva stava gemendo in preda a una inconfondibile perplessità... e indietreggiava dall'uomo-scimmia. Stava indietreggiando... Non poteva essere per paura. Nessuna cosa vivente che fosse vissuta sulla Terra negli ultimi dieci milioni di anni avrebbe potuto provocare un tremito di paura in quel cuore selvaggio. Big Oaf stava scrollando il capo, stordito, e l'attenzione di Pendrake si concentrò sull'uomo, mentre l'animale si allontanava e scompariva. Vide che il neanderthaliano si dirigeva verso la fune che penzolava dalla caverna.
Con un rapido movimento, servendosi dei piedi, Pendrake strappò la fu-ne fuori dalla sua portata. — Pendrake! — Il corpo tozzo era proprio sotto di lui. La testa di Big Oaf si girò timorosamente verso il punto in cui la tigre era scomparsa; poi: — Pendrake, deve avermi riconosciuto, ma ritornerà. Pendrake, cala quella fune. Pendrake non provava pietà. Il suo corpo era gelato dai terribili pensieri che erano nella sua mente. Tutto il suo essere stava pulsando. — Vai nell'inferno in cui hai sempre mandato gli altri uomini — disse. — Giaci nel ventre della belva che hai nutrito con i corpi delle tue vittime. Possa il dio che ti ha creato avere pietà di te; io non ne ho. — Prometto che farò tutto ciò che vorrai! Il furore di Pendrake non si placò. Crebbe. Pensò alla donne che dovevano aver tremato alla vista, per non dire al contatto, del mostro che ora stava invocando, con voce umana, quella misericordia che non aveva mai concesso ad alcuno. Pensò a Eleanor...
La sua mente si raggelò in una nuova profondità di ferreo volere. — Promesse! — esclamò beffardo, e la sua risata echeggiò su quell'antica valle della Luna morta da molte età. E finì... Tra gli arbusti a un centinaio di metri sulla destra vi fu un lampo di giallo-rosso-azzurro-verde. Un attimo prima, Pendrake aveva desiderato il ritorno di quel poderoso uccisore. Ma adesso... la repulsione si aggiunse prontamente alle emozioni che l'avevano aggredito. L'orrore lampeggiò lungo i suoi nervi.
Sono pazzo, pensò. Un uomo non può arrogarsi il diritto di amministra-re la giustizia. Non può lasciare che un altro essere umano incontri una simile morte. Dopotutto, non è un parallelo esatto. Diede un calcio alla fune che cadde. — Presto! — gridò. — Potremo parlare quando sarai al difuori della portata di... La fune si tese, sotto il peso; Pendrake osservò l'uomo disperato nella sua lotta per la vita. La tigre avanzava furiosamente, guatando il corpo dondolante sopra di lei in una chiara febbre d'eccitazione. Continuò a guardare in
alto con occhi di fuoco giallo, ruggendo nella crescente consapevolezza di vedersi sfuggire il cibo. All'improvviso, il legame che l'aveva trattenuta, il legame d'un cameratismo fantasticamente antico che l'aveva avvinta all'uomo, si spezzò. Corse indietro, poi tornò a volgersi verso il costone e divenne un lampo di colore sfolgorante contro le pareti grigio-brune. Per dieci metri, quindici, venti corse su per quella parete perpendicolare. E mancò Big Oaf. Lo mancò per meno di un metro. L'animale ricadde. Quando raggiunse il fondo della fossa, ruotò su se stesso, e con quello che parve un calcolo ragionato corse fino alla parete opposta e ritornò, a velocità enorme. Ancora una volta si catapultò sul costone ripido. Questa volta mancò Big Oaf soltanto di pochi centimetri. Ma lo mancò. Quando ricadde per la seconda volta, la tigre non fece altri tentativi. Rimase semplicemente seduta sulle zampe posteriori, a osservare la preda sfuggita che si arrampicava al difuori della sua portata. Dall'alto, Pendrake guardava la figura che oscillava, sudata e frenetica. Era imbarazzato, ma deciso. Quando Big Oaf fu a pochi
metri da lui, ordinò: — Sta bene, basta così. L'altro si fermò immediatamente e alzò lo sguardo, supplichevole. — Pendrake, non ributtarmi giù. Avremo una democrazia. Libereremo le donne. Potranno essere loro, a scegliere. — Butta quassù il coltello — disse Pendrake. Un attimo dopo il coltello descrisse una curva nell'aria e cadde sul pavimento metallico, cinque metri dietro di lui. — Adesso — ordinò Pendrake, — ridiscendi per circa dieci metri. Avrò bisogno di un po' di tempo per prendere il coltello. Prontamente, ma con cautela, Big Oaf ridiscese per più d'una decina di metri. — Te l'ho detto, Pendrake, avrai la mia collaborazione. Pendrake fissò il coltello e si accostò all'orlo del precipizio. Gli occorsero molti minuti per manovrare, con le mani legate, la lama in modo da ta-gliare le corde che lo avvincevano. Ma quando ebbe finito si sentì più sicuro, più convinto che tutto sarebbe andato per il meglio. Attese per qualche prezioso minuto, mentre ristabiliva la circolazione nei polsi e nelle dita intorpidite. Poi...
— Sali! — ordinò al neanderthaliano. Big Oaf si issò fin quasi all'orlo. — Fermo! — ordinò Pendrake. L'altro si fermò, imbarazzato. — Cosa devo fare? — ansimò. Pendrake rispose: — Fai girare la fune attorno a te, in modo che sosten-ga il tuo peso senza che tu debba aggrapparti. Big Oaf ubbidì prontamente: fece una specie di cappio su cui poté rimanere seduto. — E adesso alza le mani: te le legherò — disse Pendrake. Quando anche questo fu fatto, aggiunse lentamente: — Bene, Big Oaf, ora ti farò la domanda decisiva. Che ne è stato di mia moglie? — Il mostro ansimò. — Sta benissimo, amico — mormorò. — Devlin l'ha portata via dalla mia casa il giorno in cui mi attaccò. Qualcuno dice che c'è un tale che le fa la corte, ma lei aspetta. Dice che niente può uccidere un uomo come te. Una sensazione di calore si diffuse nel corpo di Pendrake. Cara, vecchia Eleanor, pensò. Poi disse: — Big Oaf, ti
isserò qui e poi ti condurrò al villaggio. — Non mi consegnerai agli altri legato in questo modo? — Il neanderthaliano fu subito in preda al panico. — Non intendo consegnarti a nessuno — disse pazientemente Pendrake. — Abbatteremo il tuo recinto e ti daremo un posto nella comunità, come a tutti gli altri. Già altre volte prima d'ora dei tipi duri come te sono diventati buoni cittadini. Mentre tirava Big Oaf oltre l'orlo del precipizio, pensò che, ovunque, l'uomo stava lottando con la sua eredità primitiva. Sulla scala immensa dell'esistenza internazionale e nell'arena del potere nazionale era quasi impossibile ingabbiare la bestia selvaggia. Ma qui, nel mondo limitato d'una piccola popolazione, si poteva probabilmente riuscire... se la strada verso la Terra fosse stata lasciata aperta e se i contatti segreti fossero stati mantenuti, per esempio, attraverso il gruppo di Anrella. C'erano molti se. E poiché era dubbioso, poiché l'uomo non aveva mai risolto quei problemi, e poiché qui, sulla Luna, non voleva fallimenti, Pendrake si fermò con il suo prigioniero nella grotta in cui c'era il cubo trasparente e l'intensa luce azzurra, dove il popolo della Luna conservava ciò che gli rimaneva della sua vita aliena. Parlò, silenziosamente, nel centro della luce. — Sto
agendo in maniera giusta? Sospirò, avvilito, quando la risposta gli arrivò nel cervello.
Amico, l'universo di illusioni verso il quale ti sei orientato non è giusto. Pensò di nuovo: Ma devono esserci vari livelli di giustizia.
Entro il limite in cui opero, mi sono comportato saggiamente? L'universo materiale, fu la risposta, è un tentativo momentaneo - in ter-mini di eternità - di differenziazione, ma la verità fondamentale è che tutto è eguale a tutto il resto. Questo colpì Pendrake. Disse, con assoluto stupore: Tutte
le differenze sono illusioni? Tutte. C'è una sola unicità? , domandò. Per sempre. Pendrake deglutì e diventò ostinato.
Ma, allora, che cos'è la molteplicità che noi percepiamo?
Segnali d'energia, deboli e forti, ma illusori. Ma a chi lanciamo segnali? Gli uni agli altri. Per un attimo Pendrake si sentì stordito, ma non era ancora soddisfatto. Tuttavia il suo tono era amaro, quando disse: — Se questo
è vero, perché avete assunto la forma che avete ora, e continuate a esistere? — La risposta è il segreto che l'uomo deve conquistare,
lentamente e fa-ticosamente. Ma anche questo è transitorio, il risultato del nostro allonta-namento dalla verità eterna. Molto prima che noi possiamo ritornarvi, ti accoglieremo... nell'unicità. — Non è vero — disse cupo Pendrake. — La vita
dell'uomo è breve, per quanto si sforzi di raggiungere l'immortalità. — Nessun segnale è mai perduto — fu la calma risposta. — Poiché tutti i segnali sono uno solo. Pendrake non riuscì a trovare una risposta, ed era ovvio che quelle analisi metasocratiche non contenevano nessun messaggio, per lui.
— Addio! — Fu tutto quello che disse. Gli rispose il silenzio. In meno d'un'ora il dolce bacio di Eleanor rese insignificante per Pendrake tutto quello che aveva detto il popolo della Luna. Perché lei era nelle sue braccia, non in quelle d'un altro; era verso di lui che irradiava un'intenso sentimento d'amore... Anche gli altri sviluppi nella situazione della comunità lunare furono piuttosto individuali. Cosa non troppo sorprendente, in considerazione di ciò che aveva detto una volta Big Oaf, una delle mogli dell'uomo-bestia decise di rimanere sposata a lui. Il neanderthaliano sembrava rassegnato a diventare un comune cittadino. Questo fu particolarmente avvertibile dopo che il recinto fu abbattuto. Fu allora che Big Oaf rivelò dove aveva nascosto le munizioni e altri materiali preziosi. Quelle azioni sembravano promettere un futuro molto più pacifico. Come Pendrake spiegò a Eleanor: — Può darsi che non riusciamo a scoprire molto presto che cosa è la vita. Forse non sapremo mai cosa crede di avere scoperto il popolo lunare. Ma se avremo qui una polizia che agisce sotto un preciso sistema di leggi, avremo il tempo di mettere in
attività quelle supermacchine senza timore che qualcuno se ne serva contro di noi. In questo, i sostenitori del progetto Lambton saranno i nostri migliori col-laboratori. Dopotutto... ecco, faremo ciò che è razionale. Eleanor chiese, rabbrividendo: — E quella spaventosa belva nella fossa? Pendrake sorrise. — Credo di sapere esattamente come dovremo regolarci, per quanto riguarda la tigre dai denti a sciabola. Vedrai.
CAPITOLO TRENTUNESIMO L'inverno si protraeva. La neve sembrava decisa a rimanere per sempre. Quando infine si sciolse, il nuovo Palazzo Interplanetario, scintillante e tutto di materia plastica, venne aperto con una fanfara trionfante; Hoskins aveva già ricevuto l'attesa nomina: Commissario-Presidente... — È molto ingiusto — disse a Cree Lipton, — che io debba avere tutto questo. Vi sono decine di uomini che hanno svolto il lavoro fondamentale e hanno lottato nell'oscurità. Francamente, ho accettato soltanto quando ho saputo che il famigerato governatore Cartwright, che è stato sconfitto nelle ultime elezioni, cercava di ottenere questo posto come una forma di pensione per i servizi da lui resi al partito. — Io non mi preoccuperei — replicò Lipton. — Lei può aiutarli, tutti, più di quanto loro stessi possano fare. Fra parentesi, ha visto l'annuncio riguardo a Venere? Riconoscimento della colonia Lambton come mandato di primo grado da parte delle Nazioni Unite, con cittadinanza venusiana concessa come uno status speciale di prima classe. Il professor Grayson, gli altri scienziati e le loro famiglie non sono morti invano.
Hoskins annuì. — È una grande vittoria. L'altro l'interruppe: — Senta, Ned, per la verità sono venuto da lei perché... prenda il cappello e mi segua. Hoskins scosse il capo sorridendo. — Impossibile, vecchio mio. I rapporti della nostra vittoriosa spedizione sulla Luna stanno raggiungendo la fase dell'inondazione. C'è una notiza davvero curiosa... Tolse un fascicolo da un cassetto e lo sfogliò. — I prigionieri nazisti — lesse, — sostengono di essere stati facilmente sconfitti perché le loro forze militari sono state impegnate per mesi a scavare gallerie crollate, nel tentativo di stanare alcune creature che vivono nell'interno della Luna. Sostengono che quegli esseri siano umani. Le nostre indagini hanno portato soltanto alla scoperta di grotte che prima o poi arrivavano a punti ciechi. Vide che Lipton stava consultando l'orologio. L'agente dell'FBI notò quella occhiata e si scusò. — Mi dispiace insistere, ma si avvicina l'ora zero, e abbiamo giusto il tempo di volare a New York per assistere alla conclusione.
Hoskins boccheggiò. — Non vorrà dire... — Balzò in piedi, afferrò il cappello e il cappotto. — Andiamo! Quando il tumulto cominciò, l'uomo massiccio guardò fissamente il suo capo. — Eccellenza — cominciò. Si interruppe quando vide che l'uomo magro era seduto, ancora con il telefono tra le mani, e fissava nel vuoto davanti a sé... Birdman osservò imbarazzato, mentre il ricevitore cadeva dalle dita dell'altro, immobile, con il viso simile a una maschera buia e senza vita. Birdman azzardò: — Eccellenza, prima che la spia del telefono si accen-desse, lei stava dicendo che ormai le nostre postazioni sulla Luna e quasi tutti i nostri motori sono stati catturati, ma possiamo servirci di ciò che ci è rimasto per depredare le rotte interplanetarie che ora verranno aperte. Lei stava dicendo che saremmo divenuti i pirati del ventunesimo secolo. Noi... Si interruppe, gelato dall'orrore. Le lunghe dita ossute del capo stavano frugando nel cassetto della scrivania. E ne emersero stringendo una Mau-ser automatica.
Quando Hoskins, Lipton e una decina d'altri uomini fecero irruzione nella stanza, l'uomo massiccio era in piedi, di fronte all'uomo magro seduto alla scrivania, che si stava portando una pistola alla tempia. — Eccellenza — gridò selvaggiamente Birdman. — Lei mentiva! Anche lei ha paura! La pistola tuonò, l'uomo magro si torse nella breve agonia e scivolò sul pavimento. Birdman rimase ritto, accanto a lui, in preda a un atterrito stordimento; avvertiva solo vagamente la presenza degli estranei. Quando lo portarono via, c'erano in lui soltanto continue ondate di delusione. Era una mattina di primavera, cinque anni più tardi. Len Christopher, aiuto guardiano dei Giardini Zoologici di New York, camminava lentamente lungo la fila delle gabbie dei grandi felini. All'improvviso si fermò e fissò una grande struttura dalle sbarre di metallo che scintillava ai raggi del sole nascente. — Strano — mormorò, — avrei giurato che non c'era, ieri sera. Vorrei sapere quando è arri... Si interruppe. La volta del suo cranio fece uno sforzo tremendo per rimanere attaccata al resto del suo corpo. Per un attimo rimase a guardare, a bocca spalancata,
l'incubo giallo-rosso-azzurro-verde che incombeva, colossale, dietro le sbarre metalliche spesse venti centimetri. E poi... Poi corse via, urlando, verso l'ufficio del sovrintendente. La belva era ingabbiata in quello spazio ristretto. FINE