Presentazione Ungheria, 1611. L’alba illumina l’imponente castello di Csejthe. Nella torre più alta, una donna completa...
48 downloads
1861 Views
963KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
Presentazione Ungheria, 1611. L’alba illumina l’imponente castello di Csejthe. Nella torre più alta, una donna completamente vestita di nero è sveglia da ore. Il suo sguardo austero è rivolto verso una feritoia nel muro che mostra solo un piccolo squarcio di cielo. Quello squarcio di cielo è l’unica cosa che scorgerà per il resto della vita. Murata viva in quella stanza fino alla morte: così ha decretato il conte palatino. Ma la contessa Erzsébet Báthory non ha nessuna intenzione di accettare supinamente il destino che le viene imposto. Non l’ha mai fatto nella sua vita. Fin da bambina Erzsébet è stata una ribelle, innamorata solo dei libri e delle folli corse con il suo cavallo, sorda ai severi insegnamenti della madre sulle arti femminili. Ha solo sei anni quando, nella sua dimora tra i freddi monti della Transilvania, assiste ad atti di violenza indicibili. Atti che la segnano nel profondo e che non dimenticherà mai. Neanche quando, appena adolescente, è costretta a sposare l’algido e violento Ferenc Nádasdy. Un uomo sempre lontano, più interessato alla guerra e alle scorribande che a lei. Erzsébet è sola, la responsabilità dei figli e dell’ordine nel castello di Sárvár è tutta sulle sue spalle. Spetta a lei gestire alleanze politiche e lotte di potere. Lotte sanguinose, piene di sotterfugi e tranelli, che fanno emergere la parte più oscura della contessa, un’anima nera. Strane voci iniziano a spargersi sul suo conto. Sparizioni di serve torturate e uccise, nobildonne svanite nel nulla. Chi è davvero la donna imprigionata tra le gelide pietre di Csejthe? È solo vittima di una cospirazione per toglierle il potere? O il male è
l’unico modo per Erzsébet di sopravvivere in un mondo dominato dagli uomini? Un romanzo magistrale e potentemente evocativo. Venduto in tutto il mondo dopo agguerrite aste, La contessa nera si ispira alla figura della prima serial killer della storia, Erzsébet Báthory, la contessa sanguinaria. Padrona spietata, torturatrice di centinaia di giovani donne, assassina crudele. Questo è quello che dice la leggenda. Ma la verità è un’altra. È la verità di una donna fragile, inquieta, ribelle. Con tutte le sue debolezze, ma anche tutta la sua forza. Rebecca Johns insegna al dipartimento di inglese della DePaul University, a Chicago, e scrive su giornali e riviste tra cui «Harvard Review», «Chicago Tribune», «Cosmopolitan». Il suo primo romanzo, Icebergs, è stato finalista dell’Hemingway Foundation/PEN Award per romanzi d’esordio e ha ricevuto il Michener-Copernicus Award. NARRATORI MODERNI Visita www.InfiniteStorie.it Il grande portale del romanzo In copertina: © 2010, Mélanie Delon / Represented by Norma Editorial SA Art Direction: ushadesign Traduzione dall’inglese di Claudia Marseguerra Titolo originale dell’opera: The Countess © 2010 by Rebecca Johns Citazione di «Biancaneve» da: Johan e Wilhelm Grimm, Fiabe, traduzione di Clara Bovero. Per gentile concessione di Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino. ISBN 978-88-11-13226-4 © 2011, Garzanti Libri s.p.a., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol www.garzantilibri.it Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Jouve
Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. A Brandon, il mio lettore ideale DRAMATIS PERSONAE Nell’ungherese del Seicento, la lingua parlata dalla contessa, il cognome precedeva solitamente il nome, perciò lei si sarebbe presentata come Báthory Erzsébet. Nel romanzo, tuttavia, i nomi appaiono secondo un ordine a noi più familiare, però la traslitterazione e la pronuncia si avvicinano a quelle tra XVI e XVII secolo. Per coerenza sono citate con il nome ungherese le città di Vienna (Bécs), Bratislava (Pozsony) e Alba Iulia (Gyulafehérvár), nonché il fiume Danubio (Duna). La pronuncia dei nomi ungheresi mette una forte enfasi sulla vocale, come indicato dall’accento grafico, e addolcisce le consonanti, soprattutto se vicine: per esempio, «Csejthe» si pronuncia Ceite, «Bicske» Bice, «Pozsony» Pojogni (con l a j francese), «Keresztúr» Kerejtúr, «Sárvár» Sciarvar, «György» Giörgi, con la g dolce di gelato e la ö come la eu francese, e «Ferenc» Ferenz, con la z di stazione. Erzsébet Báthory: ricca nobildonna del regno d’Ungheria György Thurzó: conte palatino dell’Ungheria del Nord (160916), rappresentante del re Mattia, quasi un primo ministro Anna Báthory: madre della contessa, sorella del re di Polonia György Báthory: padre della contessa István Báthory: fratello maggiore della contessa Zsofía Báthory: sorella minore della contessa Klára Báthory: la più giovane delle sorelle della contessa Ferenc Nádasdy: marito della contessa Orsolya Kanizsay: suocera della contessa Tamás Nádasdy: suocero della contessa, conte palatino dell’Ungheria dal 1559 al 1562
Imre Megyery: amministratore di Sárvár e in seguito tutore di Pál Nádasdy Griseldis Bánffy: giovane cugina della contessa András Kanizsay: commilitone di Ferenc Nádasdy Rodolfo II: sacro romano imperatore (1576-1612) e re d’Ungheria (1572-1608) Mattia II: fratello di Rodolfo, poi sacro romano imperatore (1612-19) e re d’Ungheria (1608-19) Anna Nádasdy: figlia maggiore della contessa Katalin (Kata) Nádasdy: figlia minore della contessa Pál Nádasdy: figlio della contessa Gábor Báthory: nipote della contessa, principe di Transilvania Miklós Zrínyi: nipote dell’omonimo eroe della guerra ungheresecroata, marito di Anna, figlia della contessa György Homonnai Drugeth: ricco nobile sposato con Katalin, figlia minore della contessa Erzsébet Czobor: seconda moglie di Thurzó Anna Darvulia: domestica di casa Nádasdy, sensitiva e guaritrice Ilona Jó: domestica di fiducia Dorottya Szentes, nota come Dorka: domestica di fiducia Katalin Benecká: lavandaia Erzsi Majorosné: guaritrice della contessa, esperta di erbe Ficzkó: domestico personale della contessa Istók Soós: maggiordomo Doricza: domestica Benedict Deseoő: maggiordomo István Magyari: pastore luterano di Sárvár Reverendo Ponikenus: pastore della chiesa luterana di Csejthe Reverendo Zacharias: pastore di Lešetice, inviato a raccogliere la confessione della contessa durante la sua prigionia Una volta che la regina chiese allo specchio: «Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?». Lo
specchio rispose: «Regina, la più bella qui sei tu, ma Biancaneve lo è molto di più». La regina allibì e diventò verde e gialla d’invidia. Da quel momento la vista di Biancaneve la sconvolse, tanto ella odiava la bimba. E invidia e superbia crebbero come le male erbe, così che ella non ebbe più pace né giorno né notte. Allora chiamò un cacciatore e disse: «Porta la bambina nel bosco, non la voglio più vedere. Uccidila e mostrami i polmoni e il fegato come prova della sua morte». Il cacciatore obbedì e condusse la bimba lontano; ma quando estrasse il coltello per trafiggere il suo cuore innocente, ella si mise a piangere e disse: «Ah, caro cacciatore, lasciami vivere! Correrò nella foresta selvaggia e non tornerò mai più». Ed era tanto bella che il cacciatore disse, impietosito: «Va’ pure, povera bambina». “Le bestie feroci faranno presto a divorarti”, pensava; ma sentiva che gli si era levato un gran peso dal cuore, a non doverla uccidere. E siccome proprio allora arrivò di corsa un cinghialetto, lo sgozzò, gli tolse i polmoni e il fegato e li portò alla regina come prova. Il cuoco dovette salarli e cucinarli, e la perfida li mangiò, credendo di mangiare i polmoni e il fegato di Biancaneve. I FRATELLI GRIMM 22 agosto 1614 Csejthe, Ungheria del Nord Al reverendo Eliáš Láni, Žilina Dominus vobiscum È con profondo rammarico che mi vedo costretto a informarvi che la vedova Nádasdy è spirata ieri sera senza pentirsi dei suoi crimini, sebbene io e il reverendo Ponikenus abbiamo fatto tutto il possibile per indurla a confessare. Come mi avevate richiesto, nelle ultime settimane ho seguito personalmente il caso di questa famigerata signora, sedendomi di fronte alla sua
porta nella torre in cui era rinchiusa e parlandole a lungo della sua anima immortale. Le ho chiesto ripetutamente se non provasse alcuna pena per tutte quelle giovani uccise, se conoscesse il dolore che aveva causato alle famiglie accolte un tempo sotto la sua protezione, il dolore che aveva causato ai suoi stessi figli, ma lei si ostinava a ripetere che era stata imprigionata per ragioni politiche e che il re e il conte palatino volevano semplicemente privarla delle sue ricchezze e del suo potere. Continuava a dire di non aver fatto nulla per meritarsi le accuse mosse contro di lei, anche se in realtà non aveva modo di contraddire le imputazioni del conte palatino e neppure spiegare la presenza delle fanciulle trovate morte a Natale nelle segrete della sua casa. Sapevo che avreste voluto riportarla alla consolazione dello Spirito Santo, e grande sarebbe stata la vittoria per la nostra causa in Ungheria se così fosse stato, ma persino in ultimo, consapevole della fine ormai prossima, si è rifiutata di sgravarsi la coscienza e mi ha cacciato via più di una volta durante le mie preghiere. Forse una simile donna è incapace di pentimento, ma non posso che assumermi la responsabilità del fallimento e augurarmi che in futuro la fiducia riposta in me non rimanga più delusa. Né io né il reverendo Ponikenus eravamo presenti al momento della sua morte, perciò non abbiamo sentito personalmente le sue ultime parole, ma le guardie riferiscono che si lamentava per il freddo nelle ossa e chiedeva in continuazione dei figli. Dicono anche di aver sentito uno scalpiccio di zoccoli sulle scale della torre prima di trovarla morta, come se il diavolo in persona fosse sceso a prenderla. Quando il domestico le ha portato il pane della sera, la contessa era già fredda. Potete stare certo che quella donna era intelligente e perfida come avevate supposto nei vostri resoconti. Sono rimasto spesso sgomento di fronte al suo tetro senso dell’umorismo, alla vastità della sua istruzione e all’originalità delle sue
opinioni. Sono felice di tornare a dedicarmi al mio ministero a Lešetice e lasciarmi alle spalle le fredde mura del castello della contessa. Sento ancora adesso la sua influenza incombere su Csejthe come una nube nera. In paese la gente bisbiglia, mi fissa e cambia lato della strada quando mi incontra, quasi fossi stato contaminato e corrotto dalla sua vicinanza. Un uomo, un contadino del posto sul suo carretto della frutta, si è fermato questa mattina per dirmi che non ero al sicuro nel villaggio, che le colline nei dintorni del castello sono ancora piene dei suoi seguaci, compresa una vecchia strega di nome Darvulia, che infesta le catacombe sotto il castello con novantanove gatti e viene fuori di notte per evocare dal mondo dei morti l’anima della contessa. Sono tutte leggende popolari intese a spaventarmi, ne sono certo, inventate da persone del volgo che non si fidano degli stranieri, ma in ogni caso l’ostilità aleggia ovunque nell’aria, tra le colline, nel vento e nell’acqua. Il genero della contessa, il conte Zrínyi, intende riportarne il corpo a Ecsed, sua città natale, per seppellirla nella cappella di famiglia, perché la tomba non sarebbe di certo al sicuro da queste parti, dove la gente è stata così gravemente colpita dalle sue malefatte. Allego a questa lettera un fascio di fogli ritrovati fra gli averi della contessa, che rendono conto della sua vita. Li teneva stretti al seno e in una nota pregava in caso di morte di recapitarli al figlio a Sárvár. Li ho presi per leggerli ieri sera, nella speranza che potessero rivelare qualcosa di lei che non avevo ancora scoperto, e ve li mando adesso perché servano come testimonianza dei suoi crimini e dell’immensità della sua perfidia, nonché dei miei sinceri e spassionati sforzi per riportarla finalmente a Dio. Noterete che la lettura si fa più difficile verso il finale, dove la grafia diventa più stentata per il progredire della malattia e la crudeltà ogni giorno più manifesta. Le sue professioni d’innocenza sono speciose e la sua ostinazione
nell’incolpare il conte palatino, il re e persino il reverendo Ponikenus per la sua reclusione rasenta il tradimento e la blasfemia. Eppure quante volte, leggendo, mi sono ritrovato a piangere per quella donna così sola, per le sue speranze frustrate e i progetti mancati; quante volte mi si è spezzato il cuore per lei! In tutta onestà, sono stato tormentato dal dubbio sul da farsi. L’attuale conte Nádasdy è ancora un ragazzo sedicenne che non vede la madre dal giorno del suo arresto, tre anni fa, perché il suo integerrimo tutore ha preferito evitare che il buon nome del giovane fosse macchiato dai peccati della madre. Mi ha sfiorato la tentazione di bruciare queste pagine per proteggerlo dalla verità, oppure di inviarle al conte palatino come ulteriore prova a carico della contessa, ma alla fine ho deciso di affidare la decisione alla vostra più vasta esperienza, una volta che le avrete lette. Se è vero che Satana si aggira per il mondo indossando il più umano e seducente dei travestimenti, non poteva che scegliere la contessa Báthory. Mi rattristo per lei e per le povere ragazze che ha ucciso, note e ignote, umili o illustri che fossero, e per la vita di tutti coloro che ha macchiato con la sua perfida esistenza. Crux sancta sit mihi lux, non draco sit mihi dux Reverendo Nicolas Zacharias PARTE I Extra Hungariam non est vita 1. 1º gennaio 1611 Il ragazzo e suo padre sono giunti all’alba per murarmi nella torre. Venivano dal villaggio ai piedi del castello, con il loro asino e il carretto pieno di attrezzi. Io ero sveglia da ore, a fissare dal davanzale il cielo che da nero volgeva all’azzurro chiaro, ed è così che ho sentito il loro scalpiccio sulla neve della corte: due sagome scure strette l’una
all’altra, intente a bisbigliarsi qualcosa all’orecchio, rabbrividendo con lo sguardo rivolto alla mia finestra e segnandosi in fronte quasi fossi un mostro. Il padre rivolgeva al figlio parole troppo sussurrate perché riuscissi a capirle, ma il loro fiato, grosso per l’affanno o forse per la paura, danzava nell’aria gelida dell’inverno. Mi ero rintanata nell’oscurità e non volevo che mi vedessero mentre li osservavo. Non accettavo di avere paura. Ho passeggiato su e giù per la stanza, riscaldandomi le mani sul camino e tornando alla finestra a prendere una boccata d’aria fresca quando il caldo si faceva soffocante. Ho guardato fuori di nuovo e ho visto che ormai erano scomparsi. Due scie di impronte segnavano il loro cammino, una più grande, del padre, e una più piccola, del ragazzo. L’asino li seguiva docile pigiando i suoi piccoli zoccoli nella neve, anche lui uno sbuffo di fiato bianco dalla bocca, un’altra misera creatura di Dio. Ogni attimo vissuto senza vederti, Pál, senza parlarti, è per me una sofferenza immensa. Con mio grande rammarico non ho neppure un ritratto tuo o delle tue sorelle a tenermi compagnia nella mia prigione al castello dove mi hanno portato, perché le pareti di questa stanza sono nude, spogliate dei loro dipinti, specchi e arazzi, di ogni più piccolo lusso, per mano dei soldati del conte palatino venuti due giorni or sono a strapparmi dalla mia casa, il mio kastély, nel villaggio di Csejthe. Qui, nella torre del vár, la fortezza, c’è solo l’intonaco gelido a rivestire i muri, un tavolo di legno grezzo, qualche sedia, una sola candela e per letto un misero pagliericcio buttato in terra. Questo posto somiglia a una stalla, anche nell’odore. Un pezzo di pane secco giace intatto sul pavimento, in attesa che un domestico lo porti via. Io non dormo. Cerco di leggere, ma non trovo riposo e cammino avanti e indietro in questo spazio minuscolo con
l’orecchio teso ad ascoltare i passi sulle scale fuori dalla mia porta. Se solo avessi i miei ricami o un pezzo di stoffa colorata, magari il tempo scorrerebbe più veloce, ma il conte palatino ha ordinato alle guardie di far sparire spilli e aghi, ferri e forbici, specchi e qualsiasi pezzo di vetro, perché non vuole a nessun costo facilitarmi l’uscita dalla mia prigione. Il conte palatino è stato così generoso da lasciarmi qualche libro, La via del distacco di Maestro Eckhart, la Politica di Aristotele, anche se in realtà li conosco già a memoria. Perfectione suscepta, optimum cunctorum animalium est homo; ita si alienus fiat a lege et a iudiciis, pessimum est omnium animalium. Sevissima enim est iniustitia tenens arma: homo vero arma tenet per innatam prudentiam atque virtutem, quibus plurimum valet in contrarium uti. «L’uomo, quando raggiunge la perfezione, è il migliore di tutti gli animali; parimenti, se separato dalle leggi e dalla giustizia, è di tutti gli animali il peggiore. È infatti crudele al massimo grado l’ingiustizia dotata di armi: e l’uomo è dotato di armi per mezzo del valore e della prudenza innate, le quali può egli tuttavia usare a contrario fine.» Mai queste parole mi sono parse vere come ora, qui rinchiusa e isolata dal resto del mondo per il cieco volere di György Thurzó, uomo per certo privo di virtù. La virtù è un bene che sembra mancare alla grande maggioranza degli uomini che ho incontrato nel corso della mia vita, a Thurzó in special modo. Solo qualche giorno fa, proprio dopo Natale, Thurzó si è introdotto nel cuore della notte nella fortezza di Csejthe con un manipolo di guardie del re Mattia e una pergamena con il sigillo reale. Nelle segrete del castello, con la servetta ancora calda ai miei piedi, il conte palatino ha ordinato ai soldati di portarmi nella torre e ha fatto finta di non sentire
quando gli ho chiesto perché si fosse messo contro di me, perché avesse deciso di dare credito alle calunnie diffuse dai miei nemici. E pensare che un tempo lo amavo, che lo avevo persino ammesso nel mio letto! Poi ha dato ordine ai soldati di allontanare la servitù – le tre donne anziane e il giovane Ficzkó – e si è udito un lamento nella pallida luce e l’odore del sangue misto alla cera. Non ci vedevo più dalla rabbia. Mi ha messo in mano un foglio di carta da leggere, quello con il sigillo del re, ma io l’ho accartocciato e gliel’ho gettato in faccia. Tutte menzogne, ho detto. Senza un altro nobile disposto a testimoniare contro di me, nessuno, né Thurzó né il re in persona, ha l’autorità di rinchiudermi in prigione, ma il conte palatino non sembrava dare peso a simili sciocchezze. «A quanto vedo, la legge non conta più nulla in Ungheria», ho replicato. «Cosa vi ha promesso il re per convincervi a voltare le spalle ai vostri amici?» Le borse grigiastre sotto gli occhi di Thurzó, che gli avevano sempre dato un aspetto così vulnerabile, si erano fatte dure come due cuscinetti di pietra. «La nostra amicizia è l’unica cosa che in questo momento vi sta salvando la vita, mia cara», ha risposto. «Vi suggerisco di tacere se non volete che la vostra situazione peggiori ulteriormente.» Quindi ha pronunciato la sua sentenza nelle oscure segrete sotto Csejthe, condannandomi in perpetuis carceribus. Imprigionata tra quattro mura a vita. Ha lasciato un manipolo di soldati nei sotterranei e mi ha rinchiuso qui dentro a chiave, quindi ha portato i miei domestici a Bicske per sottoporli a interrogatorio circa i miei peccati, come li ha chiamati lui. «E quali sarebbero questi peccati?» ho chiesto io, ma lui si è voltato e non si è neppure degnato di rispondermi. Ho sentito la sua carrozza allontanarsi mentre mi conducevano nella torre. Questa mattina ho atteso a lungo, ma il ragazzo e suo padre non si sono fatti vedere. Per un attimo ho sperato che il
conte palatino, ripensandoci, avesse deciso di mandarli via, ma all’improvviso ecco le loro voci fuori dalla mia porta, che salutavano le guardie nel dialetto locale. Mi sono preparata ad accoglierli nella mia stanza offrendo loro il mio perdono, come si perdona il boia che sta per tagliarti la testa. Mi sono ravviata i capelli, stirata la pelle del viso, ho fatto del mio meglio per apparire presentabile, date le circostanze. Ben presto li ho sentiti armeggiare alla porta e in pochi minuti l’avevano sfilata dai cardini e messa da parte. Il vestibolo era immerso nell’oscurità, fiocamente illuminato da un’unica torcia che emanava una luce giallastra, ma sono riuscita a intravedere il ragazzo e suo padre avanzare e inginocchiarsi sulla soglia. Quando ho fatto per andar loro incontro, la mano alzata in segno di amicizia, le guardie mi hanno minacciato con le armi e ordinato di tenermi lontana. Quella più robusta, con una voglia sulla guancia come l’impronta di uno schiaffo, ha grugnito che non dovevo avvicinarmi al ragazzo né al padre, e neppure provare a fare incantesimi o malefici contro di loro, altrimenti mi avrebbe ucciso all’istante. «Non oseresti mai», ho risposto. Lui ha sorriso, mostrando tutti i denti. «Chi me lo potrebbe impedire?» ha chiesto. Il sangue mi è andato alla testa e ho lasciato ricadere la mano lungo il fianco. Poi mi sono accorta che i due muratori, lungi dall’inchinarsi al mio cospetto, si erano messi all’opera, mescolando la malta e impilando pietre, le pietre che mi avrebbero tenuta prigioniera da quel giorno in poi. Già, perché il mio vecchio amico, il conte palatino, me l’aveva detto che non avrei mai lasciato questa torre da viva. Le guardie mi hanno ordinato di rimanere seduta mentre i muratori erano al lavoro. Prima hanno sigillato le finestre, chiudendo le piccole fessure nel muro che mi mostravano la valle del fiume Vág, i villaggi e le fattorie che tuo padre mi
aveva regalato per il giorno del nostro matrimonio. Hanno disposto i mattoni in cerchio, oscurando la luce a poco a poco, lavorando finché non è rimasto che un piccolo buco, largo quanto la mia mano. Se mi metto in piedi su una sedia, riesco a vedere al massimo il colore del cielo, l’incerta luce delle fredde stelle e la macchia in lontananza delle colline su cui mai più poserò piede. Quando hanno finito con la finestra, sono tornati nel vestibolo, dove si sono messi a sigillare la porta della mia stanza, imprigionandomi pietra dopo pietra come un’Antigone nella sua grotta. Li ho osservati mentre lavoravano. Vivevano a Csejthe, l’uomo e suo figlio, e indossavano abiti di lino puliti e farsetti di canapa marrone. Il padre sceglieva le pietre con grande cura per farle aderire alla perfezione l’una all’altra, aggrottando la fronte quasi vi vedesse qualcosa che non andava. Faceva il possibile per non incrociare il mio sguardo, anche se gli ero seduta a neanche un passo di distanza. Il ragazzino avrà avuto dieci o undici anni, ma era un gran lavoratore e obbediva agli ordini del padre, prendendo questo o quell’arnese e mescolando la malta nel secchio. Una volta ha trovato il coraggio di darmi una sbirciata, come se la curiosità avesse avuto la meglio. Il suo viso sembrava quello di Gesù Bambino, con i capelli biondi e le ciglia lunghe che lanciavano ombre sulle gote rosate. Per molti versi mi ricordava te, amore mio, con la tua faccia seria e l’aria timida, anche se tu hai la fronte fiera di tuo padre e il naso orgoglioso dei Nádasdy. Ho fatto un cenno con la mano al ragazzo e ho sorriso. «Ako sa voláte?» ho chiesto nel loro dialetto. Come ti chiami? Negli anni, a furia di prendere a servizio contadini del posto, ho imparato almeno due o tre frasi. Il mio accento non era perfetto, ma il ragazzino sembrava non farci caso. Mi ha guardato con gli occhi spalancati,
mentre un misto di curiosità e paura gli si dipingeva in viso. «Luki», ha risposto, con una voce ancora acuta come quella di una ragazza. «Teší ma», ho proseguito. Piacere di conoscerti. Stavo per chiedergli quanti anni avesse e scoprire se la mia supposizione era giusta quando il padre si è alzato in piedi e gli ha assestato un sonoro ceffone in faccia, sgridandolo in tono infuriato. Sono riuscita a capire una sola parola: škrata. Strega. Il padre ha indicato le scale e ha ringhiato un ordine, e il piccolo Luki è sceso di sotto con la sua cinghia di cuoio, mentre le lacrime gli rigavano le guance. Non fosse stato per le guardie del conte palatino, avrei schiaffeggiato io stessa l’orribile faccia paonazza del muratore per vendicare quella percossa così inutile. Invece ho continuato a tormentarmi le mani guardando altrove, quasi non mi fossi accorta di nulla. Avrei aspettato il momento propizio. Non sono una pazza, che non sa come e quando agire, anche se il conte palatino, Megyery e Ponikenus sostengono il contrario. Mi sono ritirata nella nuova oscurità della stanza, dove ho atteso l’inizio della mia solitudine. Le pareti che avevano appena posato erano destinate a indurirsi come il mio cuore. Poco dopo il figlio del muratore è tornato con un carico di pietre e il padre le ha allineate con grande attenzione. L’uomo è un maestro artigiano e il muro che ha sigillato il vano della porta dovrebbe reggere finché non decideranno di abbatterlo per farmi uscire o portarmi fuori. Una fessura larga all’incirca due palmi consentirà al domestico di passarmi la mia razione di cibo e acqua, nonché di ritirare il bugliolo, e questo sarà il mio unico contatto con il mondo esterno. Per il resto dovrò lavarmi i vestiti, pulirmi la stanza e avere cura dei miei capelli, tutto da sola. Non potrò andare a messa, passeggiare nella mia vigna, venire a trovare te e le tue sorelle nelle vostre dimore lontane, né tanto
meno sentire una parola gentile. In un improvviso accesso d’ira, con la bocca che sapeva di rame, mi sono messa a maledire le guardie, il conte palatino, il muratore, cercando di colpirli attraverso ciò che restava del vano della porta con i tizzoni di carbone del camino. «Buona, buona, signora», ha detto la guardia con la voglia, parlandomi quasi fossi un cavallo imbizzarrito, «non ci potete fare niente qui fuori.» Guardandomi attorno in cerca di un’arma qualsiasi, ho afferrato un ramo in fiamme dentro il camino e mi sono diretta verso il pagliericcio. La mia mano era salda e forte. «Però posso incendiare la casa», ho minacciato. «Non lo farete.» Le sue labbra erano serrate a formare una riga sottile. «Certo che lo farò. Meglio bruciare viva che essere vostra prigioniera.» Il mio corpo sembrava muoversi senza il mio consenso, quasi mi guardassi dall’esterno. Le fiamme guizzavano via dal ramo e danzavano nell’aria gelida, ma la guardia non si è mossa dal suo posto. Di sicuro stava soppesando la serietà della mia minaccia con le bugie sentite sul mio conto: sarei una donnaccia, una strega, un vampiro che si fa il bagno nel sangue delle fanciulle. Poco dopo si è limitato a scrollare le spalle con un sorriso, girandosi per dire una parola sottovoce al suo compagno. Io me ne stavo lì, con il ramo in fiamme stretto in mano, ma lui non mi guardava più. Ho lasciato cadere il braccio. Sono abituata a un’infinità di reazioni diverse da parte delle persone – alcune gradevoli, altre meno –, ma l’indifferenza non è tra queste. Non sono abituata a essere invisibile. Gli occhi mi si sono gonfiati di lacrime, ma non volevo piangere. Le guardie sarebbero state felicissime, immagino, se avessi bruciato il castello, così loro sarebbero potute tornare a casa e dimenticarmi per sempre, raccontando ai
compagni di bevute nelle taverne di Bicske di quella volta in cui avevano visto la Bestia di Csejthe immolarsi per la rabbia. Un gesto da pazza criminale. Invece, siccome dopotutto io sono ancora sana di mente, mi sono limitata a rimettere il ramo nel camino. Non voglio dare alle guardie, né al conte palatino, la soddisfazione di liberarsi di me. Non ancora. Così mi sono seduta al tavolo e con mani tremanti ho cominciato a scrivere queste pagine per te, Pál, perché tu possa sapere qualcosa di tua madre oltre alle bugie che il conte palatino, il re e il tuo tutore ti diranno. Così saprai che anche adesso tua madre ti pensa e prega per te. E spera che tu possa diventare un uomo migliore di quelli che le è toccato in sorte incontrare, e amare, nel corso della sua vita. Adesso tutto ciò che posso vedere attraverso la fessura nella parete è la mano del muratore al lavoro e frammenti del suo abito. Non riesco più a sentire cosa sussurrano le guardie al ragazzo e a suo padre, che nel frattempo hanno messo via i loro attrezzi e, con un rumore di passi sempre più lontano, hanno sceso le scale della torre, uscendo all’aria aperta. Le fiamme del fuoco ondeggiano tremolanti. Non potrò accenderne un altro. I miei poveri domestici saranno di certo sottoposti a tortura, costretti a rinnegarmi pur di salvare sé stessi, perché il conte palatino non mostrerà clemenza. Non c’è un briciolo di pietà in lui. Mi ha condannato alla prigionia per il resto dei miei giorni: questa torre, queste mura, questi pochi libri, questo letto. E io, una donna sola, senza altro da fare che contemplare la mia esistenza. Non ho fatto nulla che non mi spettasse per diritto di sangue e di titolo, né al conte palatino né a nessun altro. Erzsébet Báthory, vedova di Ferenc Nádasdy, figlia della più antica e nobile casata d’Ungheria, non è una strega, una
pazza, un’assassina o una criminale. E non ha nessuna intenzione di accettare supinamente il suo destino. 2. Pronunciando la sua sentenza contro di me, il conte palatino ha detto che la nostra famiglia annoverava un numero davvero eccessivo di pazzi: un commento ingeneroso, per non dire di peggio, e anche ipocrita, visto che la presunta follia che ci scorre nel sangue non gli ha mai impedito di sollecitare il sostegno della famiglia Báthory per soddisfare le sue ambizioni politiche o di amare me quando gli faceva comodo. La nostra famiglia non è più strana di qualsiasi altra, compresa quella del conte palatino. Tua nonna Anna era una Báthory del ramo di Somlyó. Quando avevo quindici anni, suo fratello István, allora principe di Transilvania, fu eletto re di Polonia, dove si distinse come capo militare e statista. Gli altri parenti maschi – fratelli e nipoti – furono tutti governanti illuminati. Mio cugino Zsigmond Báthory, sposato con una principessa d’Asburgo, fu per quattro volte principe di Transilvania, e mio cugino András, prima di essere ucciso e fatto a pezzi, era un cardinale della chiesa romana, nonché principe di Transilvania e gran maestro dell’Ordine dei Dragoni. Mio padre, György Báthory, era un cugino alla lontana del ramo di Ecsed, grande proprietario terriero e fratello di András Bonaventura Báthory, un altro principe di Transilvania. Era sua la fortezza a forma di scala nella palude in cui Vitus, con la sua lancia, uccise il drago che terrorizzava i dintorni e fu in seguito soprannominato bátor, l’«eroe buono». È da lui che prende nome la nostra famiglia e trae origine il nostro onore. Per un millennio il ramo maschile dei Báthory ha difeso l’Ungheria dai sultani stranieri e dai pretendenti al trono, mentre il ramo femminile ha stretto matrimoni e procreato figli in nome dell’orgoglio nazionale e del dovere filiale. Nessuno, me compresa, si è mai affrancato dal giogo del potere
e della gloria, dall’asservimento al nome dei Báthory. Mia madre era una donna colta, convertita alla nuova fede calvinista, che leggeva e scriveva in latino. Fondò una scuola con il primo marito e dopo la sua morte si occupò di amministrare la proprietà a Erdoőd, nello Szathmár, continuando a difendere gli ideali religiosi e politici che avevano sempre condiviso. Mia madre non attese a lungo prima di sposare il suo secondo pretendente, né, quando questi morì all’improvviso, a cedere alla corte del terzo, mio padre. Era una sposa devota, una di quelle donne che, come tante, sono felici unicamente nel talamo nuziale. Una volta, quando avevo sei o sette anni e stavo imparando cosa avesse in serbo per me il futuro, lei mi strinse le mani tra le sue e accostò il suo viso al mio. «Promettimi che non lo dirai a tua sorella, che è molto meno bella di te», mi sussurrò, «ma tu dovrai proteggerla, Erzsébet, quando io non ci sarò più. Una donna che non si sposa rimane alla mercé di chiunque e tua sorella potrebbe anche non trovare mai marito. Invece la bellezza è la tua salvezza e la tua dannazione. Potrai avere tutti gli uomini che vorrai e tua sorella dipenderà da te. Non dimenticartene mai.» Rimasi sconvolta a lungo all’idea che il destino della famiglia sarebbe ricaduto sulle mie spalle e inoltre avrei dovuto trovarmi un marito che mi amasse tanto da voler proteggere la mia sorellina Zsofía per il bene mio. Nessuno mi avrebbe mai amata più di quanto mio padre amasse mia madre, ne ero certa. Passai ore e ore a studiarmi nello specchio d’argento di mia madre: i grandi occhi marroni non abbastanza vivaci – troppo simili a quelli di una mucca –, la fronte troppo alta, il naso troppo lungo, la bocca troppo pallida, torta in un sorriso tra l’ironico e il malizioso, non abbastanza seria, intelligente o obbediente, né arrendevole o sensuale come quella di mia madre. Nell’insieme mi
sentivo goffa e maldestra, direi quasi rozza, e mi chiedevo se per colpa mia saremmo andati tutti in rovina, mia madre, mio padre, mio fratello, Zsofía e io stessa. Saremmo finiti in balia dei turchi, gli invasori, se non fossi riuscita ad assicurarmi un marito che avesse un esercito a disposizione e abbastanza amore da difenderci tutti quanti, un amore come un tetto solido sotto il quale proteggerci dal vento, dalla pioggia e dalla neve. In seguito, quando ero più grandicella e cominciavo a capire i vantaggi che la bellezza può garantire a una donna, sentii per caso mia madre parlare con Zsofía in giardino, dove erano intente a raccogliere erbe. Tutte le donne nobili di mia conoscenza si intendevano di erbalismo e mia madre possedeva grandi doti di guaritrice che desiderava trasmettere a noi figlie. Siccome volevo sgattaiolare di nascosto fuori di casa per fare una passeggiata sul mio pony, passando tra i cespugli dietro la cucina, mia madre non si accorse di me quando cominciò a parlare a Zsofía della sua grande bellezza, l’unica speranza della famiglia contro la rovina, perché le donne che non si sposavano erano messe alla berlina e abbandonate al loro destino in un mondo dominato dagli uomini. «Tua sorella potrebbe non sposarsi mai, Zsofía», le disse, «perciò tu la devi proteggere. Una bellezza come la tua si guadagnerà l’attenzione di tutti gli uomini del regno. Quando avrai un marito, dovrai usare la tua ricchezza e la tua posizione per aiutare la tua famiglia.» La piccola Zsofía aveva annuito solennemente, con le labbra tremanti. Dal canto mio, attesi che rientrassero in casa, mi precipitai nella stalla e lanciai il mio cavallino a un galoppo sfrenato, sconvolta dalla subdola astuzia calcolatrice di mia madre. Prima di quel giorno, per molto tempo ero stata sinceramente convinta che mia madre avesse riposto tutte le sue
speranze solo su di me e mi ero sentita privilegiata e terrorizzata insieme per questa sua preferenza. Il suo amore mi rendeva temeraria. Qualche volta mi gettavo tra le sue braccia in lacrime e la pregavo di stringermi e di accarezzarmi i capelli, per avere la certezza di essere degna del suo affetto; oppure mi ribellavo e correvo a nascondermi nella stalla, o pizzicavo la mia sorellina finché la pelle delle braccia non le diventava rossa, o davo fuoco alle code dei cani da caccia di mio padre con un ramo incandescente del camino. Quando facevo la cattiva, mia madre mi veniva a cercare nella stalla, o sotto una panchina, o nel mio letto, sospirando e lisciandomi i capelli, e allora io mi aggrappavo a lei e ascoltavo il battito del suo cuore fin quando non mi tranquillizzavo e ritrovavo la serenità. «Erzsébet, Erzsébet», mi diceva, «non devi fare così, devi imparare a controllare meglio le tue passioni, tesoro mio, e a custodire gli affanni nel segreto del tuo cuore.» Nonostante le sue macchinazioni, o forse proprio per questo, da piccola adoravo mia madre. Mi piaceva prenderle le mani, accarezzargliele e passarmele sul viso, girarle gli anelli e infilarmene uno, immaginando per un attimo cosa si provasse a essere come lei, una donna che aveva preso al laccio ben tre uomini. La pregai di farmi assistere alla nascita della mia sorellina Klára, nella speranza di poterle essere di qualche aiuto e nel terrore che potesse accaderle qualcosa di brutto durante il parto. Quando venne il momento, io ne rimasi atterrita: le urla di dolore di mia madre, la testolina umida e scura che si affacciava tra le sue cosce, la creaturina inerme che sgusciava fuori più simile a un maiale che a un umano, tutta impiastricciata di muco e sangue. Mi nascosi in un angolo e non volevo avvicinarmi a nessun costo, neppure per tenere in braccio la neonata che avevo voluto a tutti i costi veder nascere, neppure quando
mia madre mi chiamò a sé e mi disse che non c’era nulla da temere. «Anche tu sei nata così», mi spiegò quando le misero Klára in braccio, ma quelle parole riuscirono solo a spaventarmi ancora di più e scappai di corsa in corridoio, dove mi rannicchiai sulle assi fredde del pavimento di legno, con le gambe serrate al petto, rifiutandomi di tornare nella stanza. Mio padre era deluso per tutt’altre ragioni. Voleva da tempo un secondo maschio per dare un compagno di giochi a mio fratello István, un ragazzino solitario e malaticcio più adatto ai libri e alle preghiere che alla politica o alla carriera militare. Assicuratosi che Klára e mia madre fossero fuori pericolo, anche mio padre si rifugiò in corridoio, si nascose la testa fra le mani e scoppiò in singhiozzi, con la testa ciondoloni e le spalle tremanti. L’anziana levatrice che aveva assistito al parto uscì dalla stanza e si mise a consolarlo. «Non dovreste farvene una colpa», gli disse. «Nessuno sa perché certe donne sono più fortunate e altre meno, o addirittura per nulla.» Sul momento lui tacque ma più tardi, quando trovai finalmente il coraggio di tornare da mia madre, lo sentii giurare che non avrebbe mai più voluto figli, maschi o femmine che fossero. Un figlio maschio era abbastanza, ormai aveva deciso. Mia madre sorrideva. «Non fare promesse che non puoi mantenere, György», gli rispose posandogli la mano sui capelli bianchi e arruffati. Mio padre baciò lei e la bambina e poi uscì di nuovo mentre io, mia madre e le mie sorelle rimanemmo tutte insieme a dormire nel letto grande. Quella notte scoppiò un temporale violentissimo, un’infinità di lampi così vicini che era quasi impossibile distinguerli l’uno dall’altro. Io giacevo tremante sotto le coperte mentre Zsofía piagnucolava accanto a me, aggrappandosi al mio collo con le sue minuscole braccine. Mia madre e la neonata dormivano così tranquille che mi avvicinai per controllare
se respirassero ancora. A notte fonda sentii la voce grave di mio padre, ubriaco fradicio, che cantava e incitava mio fratello a bere insieme a lui. «Vieni qui, ragazzo», ripeteva, tra i lamenti e le proteste di István, «beviamo alla salute di un’altra sorella!» «Non voglio, padre, è troppo forte.» «Su, bevi, dovresti essermi riconoscente. Non hai fratelli con cui dividere l’eredità. Bravo, István, non era poi così male, no? Su, bevine un altro. Vedi, anche gli angeli applaudono a te stasera, il piccolo signore di Ecsed.» Tutt’intorno a noi i tuoni rombavano come colpi di cannone e io mi chinai per dare un bacio alla sorellina appena nata e annusare il suo odore di latte caldo e sonno, pregando che non fosse mai l’ultima speranza di nessuno, l’unica possibilità di salvezza di nessuno. 3. Non molto tempo prima che io nascessi, quasi tutta la zona centromeridionale dell’Ungheria era caduta nelle mani di Solimano, che pretendeva il titolo di «Magnifico», ma in realtà era odiato nella zona, come sempre sono stati odiati i dominatori stranieri in queste terre stremate dalle troppe guerre. L’invasore prese il castello di Buda senza sparare un solo colpo, attirando all’esterno con l’inganno la regina vedova e il figlio, per poi sprangargli alle spalle le porte della fortezza. La regina, vedendosi circondata dall’armata del sultano, non poté far altro che caricare il figlio e le damigelle su alcuni carri e abbandonare il paese al suo destino. Interi villaggi si spopolarono di fronte ai giannizzeri del sultano e coloro che non possedevano i mezzi o la salute per affrontare il lungo viaggio verso le terre degli Asburgo, a ovest, o la Transilvania, a est, finirono per rassegnarsi a diventare vassalli del sultano, un popolo sottomesso. La nazione era rimasta a brandelli, divisa in Ungheria del Nord, che seguiva la curva dei Carpazi
dall’Adriatico ai confini della Transilvania, governata da Ferdinando d’Asburgo; Transilvania, che in teoria avrebbe dovuto essere grata al sultano, ma in realtà rimase sempre fedele all’Ungheria; e regioni del Sud, comprese le vaste pianure fino a Buda ed Esztergom, che il sultano tenne per sé. Le terre conquistate dell’Alföld, un tempo così ricche, vennero abbandonate all’invasore turco dai nobili, che in molti casi si portarono via con sé i propri vassalli. Le fattorie furono invase dalle erbacce e i villaggi si trasformarono in città fantasma. Mio zio István, destinato un giorno a diventare re di Polonia, era a quei tempi principe di Transilvania e cullava il sogno di riunire l’Ungheria contro i turchi e gli Asburgo, sogno peraltro appoggiato da mio padre e da molti altri nobili. Le nostre terre si trovavano nell’estremità orientale dell’Ungheria del Nord, vicino al Partium e alla Transilvania, perciò mio padre stava sempre ben attento a capire da che parte soffiasse il vento. Per questa ragione inviò uomini e denaro a mio zio, uno scaltro negoziatore indeciso se appoggiare i turchi o gli Asburgo, che si era guadagnato anche l’amicizia della Polonia sposando la principessa polacca Anna Jagiellonka; mio zio era infatti convinto che la Polonia fosse il più forte alleato dell’Ungheria e la sua speranza più sicura contro le macchinazioni del sultano a Costantinopoli e del sacro romano imperatore a Bécs. Il suo sogno di un’Ungheria unita alla Polonia contro i turchi e gli Asburgo entusiasmò la nobiltà di vecchia data, che rimpiangeva l’antica gloria del proprio paese. Ma, dopo la morte dell’anziano sultano, gli ottomani si dimostrarono sempre meno interessati alle faccende a est del Tisza, abbandonando l’Ungheria del Sud nelle mani di un lungo elenco di pascià, che non rimanevano mai abbastanza a lungo per sentirsi a proprio agio nel palazzo di Buda. I nobili si scontrarono tra loro, con Bécs e Costantinopoli, cercando di
accaparrarsi gli ultimi brandelli dell’antico regno ungherese, con il risultato di non riuscire a rappresentare una seria minaccia per nessuno dei due nemici. Eppure, quando ripenso all’Ungheria della mia infanzia – un paese lacerato dalle rivolte dei contadini, dal disastro di Mohács, dall’occupazione del sultano –, non ricordo un mondo di lacrime e sangue, ma solo le luci e la musica della casa di mio padre nella palude di Ecsed, dove lui e mia madre intrattenevano parenti e amici con quel che restava del regno d’un tempo. Ricordo il suono del clavicembalo e del tamburo, il fruscio delle gonne lunghe durante le danze, le bianche e morbide maniche voluminose dei vestiti. Ricordo i domestici che accendevano le torce qua e là per la casa, illuminando i corridoi, i loro visi accesi come da dentro. Sembrava un mondo ancora pieno di speranza. È il ricordo di una bimba, certamente pennellato di emozione, tuttavia per certi versi lo sento più vero della storia che avrei imparato crescendo, della tristezza di essere ungheresi dopo che l’Ungheria, come l’avevamo sempre conosciuta, aveva cessato di esistere. Quando penso ai tuoi nonni, Pál, tutto ciò che vedo è un festeggiamento continuo, una serie infinita di giorni luminosi e traboccanti di musica. Pochi mesi dopo la nascita della mia sorellina più piccola, mio padre decise di dare una grande festa in onore della moglie, scampata ai rischi del parto, e fu in quell’occasione che mi resi conto di quanto fosse nobile e proteggesse la sua gente con sincero affetto. In quei giorni si era insediata nel villaggio una banda di zingari che cantava, suonava, ballava e in più prediceva il futuro. Li vidi attraversare il ponte del castello e li sentii parlare la loro strana lingua, che nessun altro riusciva a comprendere, mentre portavano i loro strumenti dentro la nostra grande casa in pietra con le pareti imbiancate e il tetto di tegole verdi. Ecsed era affollato di parenti e amici: zie, zii e cugini venuti da Bécs, Praga,
Pozsony e Gyulafehérvár, con la servitù e i figli al seguito, per passare qualche notte a bere e danzare insieme, recando in dono sete, fili di perle e preghiere incorniciate in oro. Mia cugina Griseldis Bánffy – allora solo una bimba di sette anni, ma così radiosa che ogni donna nella sala si fermava ad accarezzarle i riccioli biondi – arrivò con i genitori su una gigantesca carrozza rossa trainata da due coppie di cavalli bianchi. Orsolya Kanizsay, moglie del defunto conte palatino Tamás Nádasdy, aveva attraversato il paese perché viveva a Sárvár, nell’Ovest, e portava in dono un arazzo intessuto in oro appartenuto in passato al grande re Mattia Corvino in persona. Era venuta per valutare la mia candidatura a moglie del suo amatissimo figlio unico, Ferenc, che all’epoca io non conoscevo neppure. La casa fu in fermento tutta la settimana per i preparativi: pulire, cucinare, cuocere pane, macellare buoi, capre e capponi da servire agli ospiti. Gigantesche botti di vino ed enormi ruote di formaggio venivano portate su dalla cantina, mentre dalla campagna arrivavano riserve di paglia da sistemare nella stalla per i numerosi cavalli. Per giorni e giorni risuonarono voci nei corridoi e musiche di zingari dalla sala del banchetto: una cetra pizzicata, un flauto dolce. I bambini delle altre famiglie nobili, cugini e amici, riempivano la casa di grida, giochi e corse sfrenate. In qualità di figlia maggiore, io avevo il compito di intrattenere i più piccoli, organizzare danze e gare di ogni tipo per tenerli buoni. Più di tutti, facevo fatica con mia cugina Griseldis, perché era una bimba ribelle e viziata, accontentata in tutto dalla madre, che non riusciva a superare la perdita degli altri tre figli, uccisi dalla peste. Se Griseldis voleva un dolcetto, Griseldis lo otteneva all’istante. Se Griseldis dava un ordine, Griseldis si aspettava che tutti noi, indipendentemente dal rango o dall’età, le obbedissimo senza discutere. Portai pazienza per giorni, consentendole di mangiare una fetta
di torta poco prima di pranzo o lasciandole inseguire i cagnolini tra le gambe delle domestiche in cucina, ma quando strappò una bambola dalle mani di Zsofía, di un anno più piccola e una testa più bassa, io le pizzicai la coscia così forte da farla piangere e le dissi che se non imparava a comportarsi da bambina beneducata l’avrei rinchiusa in un armadio finché non se ne fossero tornati a casa. Cominciò a piagnucolare e mise il broncio, ma alla fine fece esattamente come le avevo ordinato e io imparai quasi ad apprezzare la sua compagnia. Griseldis mi aiutò a organizzare un gioco all’aperto che avevo ideato per intrattenere quello squadrone di bambini, costruendo piccoli castelli con fasci di legna che fungevano da postazioni da difendere. Convinsi István a mettere da parte le sue idee religiose e ad accettare il ruolo dell’ottomano impegnato ad assediare le porte di Buda, con la testa avvolta in uno straccio a mo’ di turbante, e una volta tanto sembrò quasi divertirsi. I bambini più piccoli, Griseldis compresa, ridevano vedendolo cadere sotto i colpi delle loro frecce spuntate, nella parte del turco che agonizzava teatralmente nella polvere, battendo i calcagni per terra. Lei gli si lanciava addosso come un piccolo combattente hajduk, con un sorriso sanguinario dipinto sulla bocca. La dovevo trascinare via a forza per farla smettere di tirargli calci sugli stinchi tutta contenta. Nel gioco, io facevo la moglie del pascià. Mi ero avvolta in una seta trasparente, mettevo il broncio e chiedevo a mio «marito» di rivolgermi più attenzioni anziché pensare solo alle guerre. Battevo i piedi e lo minacciavo di suicidarmi per amore, finché István non lasciava l’assedio e mi posava un lieve bacio sulla bocca. «Bene», diceva mio fratello in un tono che sembrava proprio quello di un marito, «questo dovrebbe bastarti per adesso.» A quel punto io tornavo per
qualche minuto a recitare la parte della moglie servizievole, ma non avevo granché da fare, a parte starmene seduta a sbattere gli occhioni e sventolarmi per il caldo. Alla fine diedi a Griseldis il mio pezzo di seta e le chiesi di fare il broncio al posto mio, parte che le riuscì alla perfezione. Ormai mi ero annoiata e così affidai a István il compito di badare ai bambini, mentre io volevo andare a dare un’occhiata a Klára e alla sua balia. István guardò quella marmaglia litigare per le spade e le frecce, urlando e rotolandosi sui fasci di legna, e mi supplicò di non lasciarlo da solo con quei piccoli selvaggi. «Non andartene, Erzsébet, per l’amor di Dio», disse con un lampo di terrore negli occhi. Io scoppiai a ridere. «Non temere», replicai, «se rompono qualcosa, puoi sempre legarli a un palo e lasciarli lì fino a domani.» Gli promisi che sarei tornata ad aiutarlo non appena mi fossi accertata che la piccola stava bene. Invece, appena mi fui allontanata, mi introdussi di nascosto nella sala dei banchetti, dove i grandi stavano bevendo e danzando sulle note della musica zingara e mi infilai sotto un tavolo per non essere vista. Le mense erano apparecchiate con delicati piatti di vetro e i domestici facevano su e giù portando vassoi pieni di carne rossa di paprika, grappoli d’uva come cervelli di vitello, gnocchi di pane bollenti che colavano burro. Le signore, le cugine Báthory di Bécs e di Praga, indossavano corpetti bianchi inamidati e gonne di velluto nero, da cui facevano capolino scarpette di pelle troppo morbide e leggere da indossare all’aperto nel fango della primavera ungherese. Ma furono i loro visi a colpirmi, la gelosia che affiorava non appena vedevano mia madre, uscita da poco dal puerperio, con le guance rosate e gli occhi accesi sotto le lunghe ciglia scure, chinare il capo e sorridere a decine di uomini che le si affollavano attorno per farle le congratulazioni o magari offrirle un bicchiere di vino. Le sue damigelle le avevano
intrecciato i capelli con fili di perle, stringendole il collare rigido attorno alla gola come un vassoio bianco su cui servire la sua bellezza. Aveva un viso a forma di cuore, il «viso dell’amore», come lo chiamava mio padre. Piccola e minuta, con un corpo da adolescente, una risata spensierata e una voce alta e cadenzata, era l’invidia di tutte le nobili della zona, anche se per la verità non cercava l’amicizia delle altre donne, preferendo trascorrere le serate a chiacchierare con gli uomini. Conversava con i suoi ammiratori in latino e in tedesco su argomenti di storia, filosofia, persino di guerra, guadagnandosi così il loro rispetto e la loro ammirazione, oltre a eccitarne il desiderio. Dopo che lei ebbe intrattenuto a sufficienza gli ospiti, mio padre la volle tutta per sé, la prese per mano e i due si misero a ballare ridendo e guardandosi negli occhi. Avrei voluto essere come lei, danzare, cantare ed essere l’oggetto dell’attenzione di tutti, uomini e donne. La bambinaia mi trovò addormentata sotto un tavolo, rannicchiata su una pelle d’orso, lo stomaco che brontolava. Mi portò a letto, mi sgridò severamente e mi rimboccò le coperte, ma io continuai a lungo a sentire la musica degli zingari, le loro urla roche entrare nella mia stanza attraverso la finestra. Il mio cuore rimbombava al suo ritmo con una tale gioia che non riuscivo in nessun modo a riprendere sonno. Ben oltre la mezzanotte, la festa cominciò a smorzarsi. Uno dopo l’altro le dame e i gentiluomini si adagiarono sulle pellicce accatastate, oppure si diressero alle stanze che i miei genitori avevano predisposto per loro, barcollando ubriachi e cadendosi addosso sulle scale e nell’ingresso. Gli zingari erano ancora svegli, ridevano e cantavano, bevendo il forte liquore all’albicocca chiamato pálinká e mangiando gli avanzi lasciati sui tavoli dai grassi e sonnolenti
invitati. Nessuno seppe dire in seguito cosa avesse fatto scoppiare la lite. Due zingari ubriachi cominciarono a picchiarsi, dandosi spintoni e imprecando, andando a sbattere sulle panche e svegliando tutta la casa, domestici e guardiani compresi. Alla fine, uno dei due accusò l’altro di aver venduto la figlia ai turchi. Gli invasori erano disprezzati e temuti in tutta la regione quando ero bambina, soprattutto dalle donne. Mia madre mi aveva raccontato una quantità di storie in cui i turchi strappavano le ragazze dal letto nei villaggi di tutto il paese per venderle come schiave nei bordelli oppure per chiedere un riscatto dopo averle portate al sicuro con sé a Costantinopoli. Per una ragazza non c’era niente di peggio che essere rapita dai turchi e nessun ungherese avrebbe mai collaborato con loro senza incorrere nelle conseguenze peggiori. Volarono altre grida e accuse, e ben presto gli zingari mandarono a chiamare mio padre, il signore del castello, perché arrestasse all’istante l’uomo accusato del crimine e lo incatenasse nelle segrete fino al giorno del processo. I compagni dell’accusato lo tennero stretto finché non comparve mio padre, che governava su quelle terre. Le guardie legarono l’uomo mani e piedi e lo trascinarono nei sotterranei, le viscere del castello, ad aspettare l’arrivo dei gendarmi. Era quasi l’alba e il cielo si andava illuminando verso est. Portato via quell’individuo, mio padre e i suoi ospiti tornarono nelle loro stanze, mentre gli zingari furono mandati fuori di casa a dormire nelle terre intorno alla palude. Quando la mattina dopo il magistrato locale fu chiamato a presiedere il processo, l’uomo accusato dichiarò che i turchi gli avevano rapito la figlia, perché lui mai e poi mai l’avrebbe venduta. I gendarmi replicarono che gli era stata
trovata una grossa quantità d’oro nelle tasche e l’accusato non era stato in grado di spiegare come ne fosse entrato in possesso. Sulle prime disse di aver venduto delle capre, poi cambiò versione e sostenne di aver trovato l’oro in un tronco cavo sulla strada da Pozsony. Era chiaro che stava mentendo. Il crimine non poteva rimanere impunito, sentenziò mio padre, e per dare un esempio alla popolazione locale chiese al magistrato che lo zingaro fosse giustiziato il giorno successivo fuori dalle mura della sua proprietà. «Per il bene di quella povera ragazza», aggiunse in seguito mio padre, abbracciando mia madre mentre entrava nella sua stanza, «dobbiamo fare giustizia.» La mascella serrata e la freddezza del suo sguardo mi fecero rabbrividire, perché non ritrovavo in lui più nulla del padre che conoscevo e amavo, ma solo il grande proprietario terriero responsabile del rispetto delle leggi nel villaggio e nei dintorni. Per la prima volta intuivo la possibilità che avesse più di una vita, essendo mio padre e insieme quella severa figura autoritaria, quel nobile così potente. Faceva da padre non solo a me, ma anche a tutte le persone che vivevano sulle sue terre, compresa la povera ragazza venduta a peso come un capo di bestiame. Lo zingaro quella notte fu rinchiuso in una stalla e sorvegliato da una decina di uomini armati. Per ore e ore sentii il condannato piangere e chiedere pietà, affacciato alla finestra, la sua voce che si levava e si increspava in ondate di sofferenza. Non riuscivo a dormire e così rimasi tutta la notte alla finestra ad ascoltare. «Salvatemi, mio signore, abbiate pietà di me», diceva nel suo strano accento, con la voce incrinata dall’emozione. “Come sarà”, mi chiedevo, “sapere che la morte è vicina e di certo non sarà piacevole?” Cercai di immaginarmi il prigioniero chiuso ad aspettare nella sua cella, mentre la luce della luna strisciava lungo il pavimento, scandendo i
minuti della sua ultima notte su questa terra. Cercai di immaginarmelo solo, spaventato e in lacrime, mentre lo sentivo urlare la sua disperazione. Salvatemi. Ma più spesso pensavo a sua figlia. Cosa stava soffrendo adesso, sempre che fosse ancora viva? Suo padre l’aveva lasciata in balia degli invasori, sordo alle sue urla strzianti. Salvatemi. Come poteva un uomo essere così insensibile da accettare soldi e girare le spalle alla propria figlia che invocava il suo aiuto? Il solo pensiero mi spezzava il cuore. Io, così amata dai miei genitori, non concepivo un destino peggiore che essere fatta schiava, costretta a prostituirmi, la mia verginità violata, il mio corpo picchiato. Provai a immaginare una degna punizione per un uomo che avesse vilipeso a tal punto la sua stessa carne. Cavargli gli occhi, strappargli gli heregolyó con tenaglie arroventate? Bruciarlo vivo su un trono di ferro, come il ribelle György Dósza una volta sedata la rivolta dei villici? Nulla sembrava rendere sufficiente giustizia. Tremavo di rabbia sotto le coperte e la mattina seguente, prima che si svegliasse la bambinaia, scivolai fuori dalle mie stanze a scesi giù al cancello. Era una dolce mattina brumosa di giugno e le grigie mura in pietra degli spalti merlati erano cosparse di licheni verdi e tralci di edera in fiore. Una sottile nebbiolina bianca si librava sul castello e sul ponte di legno che collegava la fortezza con l’esterno. Gli ospiti non erano ancora partiti e alcuni, ruzzolati sull’erba del giardino durante la notte, si erano persino sistemati a gruppetti di due o tre a dormire qua e là, avvolti nei mantelli. Mi nascosi dietro le siepi di tasso per non farmi vedere, dirigendomi verso l’ingresso principale del castello interno e oltrepassai il ponte di legno sulla palude. Lì il sole fece capolino e illuminò le canne di una luce dorata, mentre gli aironi si muovevano silenziosi sulle loro gambe sottili in cerca di pesci e rane, e gli insetti si levavano in volo al mio arrivo. Alla fine raggiunsi le mura
più esterne e di lì la strada che conduceva oltre la palude in un declivio erboso. Un boschetto di biancospini nascondeva parzialmente la vista della pianura, ma l’odore penetrante del fango e delle canne, l’aroma fertile della terra ancora intatta permeavano ogni cosa. Sullo sfondo di quel paesaggio idilliaco era stato allestito lo scenario dell’esecuzione. Anche prima di vedere le zingare, si sentivano le loro urla, ogni grido una freccia scagliata contro il condannato nella loro misteriosa lingua affilata. Una grande folla si era radunata per assistere allo spettacolo e io mi nascosi dietro le gonne e i calzoni, disperdendo una folla di galline starnazzanti mentre mi spostavo verso le prime file, dove lo zingaro era inginocchiato a terra, le mani legate dietro la schiena, la corda tenuta stretta da due guardie di mio padre. L’uomo sembrava grande al mio occhio di bimba, ma con ogni probabilità era di media altezza, con la pelle scura e butterata. Piangeva e implorava pietà, e i folti baffi gli pendevano agli angoli della bocca grondando muco e lacrime, mentre si guardava attorno alla disperata ricerca di qualcuno disposto a perorare la sua causa. Alla fine si rivolse a mio padre. «Signore», disse, «sono un misero peccatore, lo confesso. Non ho il diritto di chiederlo, è vero, ma vi prego, signore, risparmiatemi la vita. Non vi gioverà certo uccidere un povero zingaro oggi, con la vostra casa ancora piena di ospiti. Non vorrete certo attirare su di voi la sciagura proprio durante la festa per la nascita di vostra figlia.» Mio padre non ne volle sapere. Disse che il condannato non aveva il diritto di pronunciare la parola «figlia», avendo venduto la sua. Un uomo che vendeva i propri figli all’invasore era peggio di Giuda. «E per quanto riguarda la sciagura», aggiunse mio padre levando la sua grande mano bianca, «la accetto ben volentieri pur di liberarmi della tua
vista.» L’uomo si accasciò in avanti con il mento sul petto, come svenuto. I soldati strinsero forte le corde che gli legavano i polsi dietro la schiena, sorreggendo il suo peso in un’angolazione innaturale perché gli avevano spezzato le braccia. Sembrava uno dei pupazzi con cui io e mia sorella giocavamo nella nostra stanza, un inanimato bambolotto di pezza ripieno di paglia. Provai una gran voglia di mettermi a piangere, ma la vista di mio padre e il tono aspro della sua voce mi avevano intimorito, così rimasi rannicchiata dietro le gonne delle donne del villaggio, dove nessuno mi avrebbe notato. Vidi che le guardie avevano preso una vecchia giumenta tutt’ossa, con la schiena insellata e le costole a vista; la fecero sdraiare a terra e le legarono strette le zampe per impedirle di rialzarsi, nonostante i tentativi disperati. Lo strepito di terrore che emetteva era il suono che io avevo scambiato per le voci delle zingare, che invece erano ammutolite di fronte allo spettacolo allestito da mio padre. Una guardia si fece avanti e squarciò in due il ventre fulvo dell’animale, che nitrì furiosamente e cercò di scalciare, ma legato com’era riuscì soltanto a rabbrividire e sospirare mentre le viscere e il sangue si riversavano sul terreno. In tutta fretta le guardie infilarono il colpevole nel ventre della cavalla, in modo che solo la testa rimanesse fuori, quindi si misero a ricucire lo stomaco con una corda e un grosso ago ricurvo. Lo zingaro urlava e chiedeva pietà, ma le guardie continuavano a cucire. La cavalla era ancora viva, ma non aveva più la forza di lottare; alla fine le si rovesciarono gli occhi all’indietro e mostrò le orbite bianche. Quando ebbero finito di cucire, la testa dell’uomo era incastrata fra le zampe posteriori della giumenta, come se stesse venendo al mondo in quell’istante, come la testolina
scura di mia sorella quando era sbucata fra le gambe di mia madre pochi mesi prima. Era la scena più strana che avessi mai visto: le guardie dritte in piedi nelle loro armature, con gli occhi fissi su un uomo cucito dentro un cavallo come una bambola con la sua imbottitura. Sentivo uno scoppio di risa crescermi dentro, un nodo di sgomento e di terrore salirmi su dallo stomaco, quasi avessi ingoiato una pagnotta cruda e dovessi vomitarla per non stare male. La risata mi sfuggì scoppiettante dalle labbra. Mi misi una mano davanti alla bocca, ma ormai era troppo tardi: mi avevano vista. L’uomo mi guardò negli occhi e mi supplicò di prendere un coltello e liberarlo, perché non aveva fatto nulla di male. «Ti prego, bella bambina», disse nel suo strano ungherese dal forte accento straniero, «ti prego, non ho fatto del male a mia figlia, te lo giuro, era una bimba della tua età, non le avrei mai fatto del male. Ti prego, liberami, bella bambina. Ti farò un bel regalo.» C’era una cattiveria nella sua voce che suonava strana e sconosciuta alle mie orecchie, perché il terrore serpeggiava sotto le sue parole gentili e lo sguardo nei suoi occhi era scintillante e pieno di odio. Non oso pensare cosa mi avrebbe fatto se avessi avuto l’ardire di liberarlo, io, la figlia dell’uomo che lo aveva condannato. I miei piedi erano ancorati a terra, le mie mani strette nella gonna. Ma ecco arrivare mio padre, che mi prese in braccio e mi portò via, sgridandomi per essermi svegliata troppo presto, ma senza il coraggio di punirmi, perché ero la sua preferita. Mi riportò nella mia stanza nella fortezza, rimproverando anche la bambinaia per non avermi tenuta d’occhio, poi mi diede un bacio e mi disse di tornare a dormire, richiesta ormai impossibile da esaudire, quindi uscì e si richiuse la porta alle spalle. Invece di dormire, io andai dritto alla finestra. In lontananza vidi rientrare le guardie nella fortezza, lasciando l’uomo
a dimenarsi e marcire dentro la pancia della cavalla morta. Gli altri zingari, gli uomini che lo avevano accusato in una notte di sbornia, radunarono le loro cose in tutta fretta e lasciarono Ecsed, ansiosi di buttarsi alle spalle l’angoscia di quel posto. Un gruppetto di zingare anziane rimase ancora a maledire quell’uomo, sputandogli addosso in nome della figlia scomparsa, poi anche loro si unirono agli altri e misero una grande distanza tra sé e la casa dei miei genitori, su cui era destinata ad abbattersi la sciagura. Rimasi tutto il giorno chiusa nella mia stanza a pensare all’uomo cucito dentro la pancia della cavalla, a quanto doveva soffrire ed essere assetato, in mezzo alla puzza e alle mosche. Quella sera non cenai e me ne andai a dormire così presto e facendo così poche storie che la bambinaia disse a mia madre che dovevo essere malata. A notte fonda sgusciai fuori dal cancello e mi diressi nel punto dove l’uomo e la cavalla giacevano insieme, l’una morta e l’altro agonizzante. Non feci fatica a trovare la strada al chiaro di luna, seguendo il fetore gassoso dei visceri e del sangue secco. L’uomo delirava e sulle prime non si accorse della mia presenza, la testa che ondeggiava su e giù con gli scatti improvvisi e malfermi dello squilibrato e del moribondo. Aveva la pelle bruciata dal sole e i baffi rinsecchiti da coaguli di lacrime e muco. L’erba secca sotto i miei piedi scrocchiò e lui girò la testa per guardarsi attorno, ma io gli stavo alle spalle, ancora fuori dal suo campo visivo. «C’è qualcuno?» urlò, ma non aveva modo di spostarsi per riuscire a vedermi. «Qualcosa da bere, ti prego», supplicò. Nella sua voce era scomparsa qualsiasi traccia di arroganza e tutto ciò che restava era un tono implorante, fra pietosi sospiri e singulti. «Chiedo solo un goccio d’acqua.» Feci un passo avanti e mi mostrai a lui al chiarore della luna. L’uomo allungò il collo e si dimenò. «Mi ricordo di te,
ragazzina. Sei la figlia del signore di questa casa. Mi potresti dare un po’ d’acqua? Un goccio d’acqua per un uomo che sta morendo? Non ti chiederò altro, te lo prometto, solo un po’ d’acqua fresca per andare meglio all’altro mondo. Oh, ti prego.» «Non ho un boccale», gli risposi. «Immergi la gonna nell’acqua della palude», disse lui. «Poi me la posi sulle labbra e la strizzi. Qualche goccia, non ti chiedo altro. Lo farai, non è vero?» Ci pensai su un momento, quindi mi diressi in riva alla palude, dove le canne si diradavano e una pozza di acqua scura brillava nell’oscurità. Mi inchinai e immersi l’orlo della gonna nell’acqua, lasciandolo inzuppare, poi tornai dall’uomo. Lui mi fece un cenno con la testa e sorrise, mostrando le gengive biancastre e i denti forti, perché doveva aver notato la macchia scura di acqua sulla mia gonna. «Sì», disse. «Sì, vieni più vicina, bimba, e strizzami la stoffa in bocca. Dio ti premierà per aver avuto compassione di un moribondo.» Feci un passo avanti, alzando il lembo della mia gonna. Lo zingaro aprì la bocca e chiuse gli occhi, ansioso di bere, ma io mi fermai a poca distanza da lui e strizzai la stoffa per terra, sulle viscere secche della povera cavalla morta per i peccati di quell’uomo. L’acqua cadde nella polvere e si asciugò all’istante. L’uomo, sentendo il rumore, aprì gli occhi, dimenandosi e imprecando. Io gli sputai in faccia e lo sputo bianco rimase impigliato nei suoi baffi come una piccola ragnatela. La mia più grande soddisfazione fu vederlo soffrire. Mi veniva in mente la figlia, la paura e il dolore che doveva aver patito, la sua tristezza al pensiero che nessuno al mondo si era fatto avanti per difenderla, neppure l’uomo che più di chiunque altro avrebbe dovuto amarla. Gli sputai addosso di nuovo mentre si lamentava nel suo strano
linguaggio per il supplizio della sete, la solitudine, la morte. Mi chinai su di lui, così vicino che sentii il suo fiato di pálinká e qualcos’altro, qualcosa di marcio che risaliva in superficie dall’interno, che sapeva di morte stagnante, ma non avevo paura: «Non soffri ancora abbastanza», gli dissi e me ne tornai a letto. 4. Come sono strani i ricordi che affiorano quando si è privati del sonno e del calore, di tutte le comodità della vita quotidiana. Rammento alla perfezione lo zingaro e la rabbia che provavo, il suono esatto del lamento che gli usciva dalla gola, mia cugina Griseldis con i suoi ricci biondi, ma non riesco a ricordare il nome della guardia che sta piantata davanti alla mia porta e neanche cosa mi ha detto stamattina il vecchio maggiordomo Deseő quando mi ha portato il vassoio. Forse sto solo invecchiando, traboccante di sogni e di ricordi, una donna anziana come tante che non vuole addormentarsi per paura di non risvegliarsi più. Ricordo la prima volta che ho parlato con Orsolya Kanizsay, il modo in cui si chinò per guardarmi in faccia come un commerciante di cavalli al mercato, decidendo la cifra da pagare per i nuovi puledrini. Tua nonna era tra gli ospiti d’onore la sera in cui mi intrufolai nel salone per guardare gli invitati ballare, bere e innamorarsi al suono della musica zingara, prima che l’alcol e l’ingordigia rovinassero la festa. Mi aveva osservato attentamente per tutta la settimana, mentre ricevevo gli ospiti e aiutavo mia madre a intrattenere fratelli e cugini. A quanto pare, non aveva nulla da rimproverarmi, perché la mattina dopo la mia visita notturna allo zingaro mia madre mi venne a svegliare molto presto, spalancando le imposte e dicendomi di vestirmi alla svelta. «Siamo già tutti in piedi», disse, «e tu sei ancora a letto. Cosa penserà la contessa Nádasdy?» «Perché dovrebbe pensare qualcosa?» chiesi.
«Erzsébet», insistette mia madre, «devi alzarti e vestirti in fretta. La contessa è la nostra invitata più importante. Ha chiesto di vederti e tu dovrai essere gentile con lei, altrimenti ti batterò con un ramo di salice finché non riuscirai più a sederti. Dovrai essere dolce, carina e servizievole, e questo è tutto.» Ordinò alla bambinaia di infilarmi con la forza un vestitino pulito e sciogliermi i nodi nei capelli con un pettine, mentre le lacrime mi rotolavano lungo le guance a ogni strattone. István, passando dalla porta, vide forse l’espressione di dolore dipinta sul mio viso e si fermò per canzonarmi, ancora arrabbiato perché lo avevo lasciato solo con tutti quei bambini per andare a curiosare alla festa. Mia madre si accorse che ci stava prendendo gusto e gli disse: «Va’ a dare un’occhiata ai tuoi cugini, István, per l’amor di Dio, renditi utile». E sbatté la porta sulla sua faccia soddisfatta per darmi il tempo di rendermi presentabile per la contessa Nádasdy. Quando fui pronta, corremmo al piano di sotto, in biblioteca, dove mio padre sedeva di fronte a una gran dama dai capelli d’argento, con un abito tutto nero. L’abito di una vedova. L’avevo vista al ricevimento, è chiaro, e sapevo benissimo chi fosse, dato che mia madre si era data molto da fare nelle presentazioni la sera del suo arrivo, ma non riuscivo a capire cosa ci fosse di così importante da convocarmi a colloquio, solo io, lei e i miei genitori, mentre gli altri ospiti si sarebbero riuniti per il pranzo di mezzogiorno. Io mi inchinai, attendendo che mi rivolgesse la parola, come mi aveva insegnato mia madre, e mi feci da parte. Una crema al piombo schiariva le gote macchiate di Orsolya, conferendole uno sguardo cereo e marmoreo: aveva la bocca dipinta di rosso a forma di O e le sopracciglia depilate e inarcate in un’espressione di perenne sorpresa. Non mi
piacevano tutti quei trucchi, anche perché mia madre diceva sempre che le donne che si schiarivano la pelle e si mettevano il rossetto non erano altro che ridicole megere a caccia di un marito giovane. Al collo esibiva un grosso gioiello, un rubino grande come il mio pugno di bambina di nove anni, incastonato in una montatura d’oro a forma di rosa. Le mie dita avevano una voglia matta di sfiorare quel prezioso oggetto, la levigata superficie rossa del rubino. «La contessa è la nostra invitata più importante», aveva detto mia madre e mi bastava guardare quel gioiello per capire che non si sbagliava. Intrecciai le dita delle mani e senza sapere bene il perché sorrisi, chinai il capo e dissi che era un onore conoscerla, che avevo sentito parlare della grandezza della contessa Nádasdy e desideravo poterla servire in ogni modo. «Vi prego», dissi con lo sguardo fisso sulle mie scarpe, «sentitevi parte della nostra famiglia durante il vostro soggiorno.» La contessa chinò leggermente il capo e mi sfiorò il mento con la sua mano fredda e bianchissima. «Oh mio Dio, Anna», disse, «che eloquenza. Devi esserne molto fiera, mia cara. E che visino! Ferenc adorerà i suoi occhi scuri, la sua deliziosa boccuccia. Credo proprio che non potrebbe trovare di meglio.» Mio padre, che preferiva me fra tutti i figli, sulle prime cominciò a dire che ero troppo giovane per fidanzarmi. «Dovrebbe avere almeno dodici anni», obiettò e rivolse uno sguardo implorante alla moglie. Mia madre, però, ben sapendo che il giovane Nádasdy avrebbe ereditato non solo il nome, il titolo e l’appoggio politico del padre, ma anche l’immensa fortuna della madre, prese mio padre da parte. Il patto andava stretto, gli disse, prima che gli occhi dello sposo – o, meglio, di sua madre – si posassero su qualcun’altra. E così, mentre mia madre mi riaccompagnava nella mia
stanza, confusa e felice, Orsolya e mio padre stipulavano un affare vantaggioso: la figlia di lui per il figlio di lei, e una dote così ricca d’oro da non potersi contare e così tanti castelli e villaggi da non potersi nominare, da un capo all’altro dell’Ungheria del Nord. I Báthory e i Nádasdy si sarebbero uniti in matrimonio, nel nome e nel sangue. Sarebbe stato, pensavano, l’inizio di una nuova dinastia, in grado di tenere testa persino agli Asburgo. Per due famiglie con ambizioni di indipendenza – dagli Asburgo a ovest e dai turchi a est –, nulla poteva essere più auspicabile. Quanto a me, avevo capito ben poco di ciò che era accaduto quella mattina nella biblioteca. Fu solo tempo dopo che quel mio strano incontro con Orsolya cominciò a prendere significato e mi chiesi spesso cosa sarebbe accaduto se quel giorno mi fossi rifiutata di alzarmi dal letto quando mia madre mi era venuta a chiamare, se mi fossi rivolta a Orsolya in un tono da pescivendola anziché da rispettosa figlia di un nobile signore. Dopo che mia madre mi aveva raccomandato di cercarmi un uomo che mi amasse per la mia bellezza, non avrei mai immaginato che al momento opportuno sarebbero contati solo la mia dote, il titolo nobiliare, le conoscenze, le buone maniere e i figli che avrei potuto generare. All’epoca sapevo solo di aver superato una sorta di esame ed ero fiera perché mia madre era fiera di me. Quella sera Orsolya e i miei genitori brindarono all’accordo, levando i calici del vino migliore e apponendo la loro firma sul documento che avrebbe deciso il mio destino, mentre al piano di sopra, nel mio letto, io sognavo la musica degli zingari, la luce della luna e un grande gioiello rosso appeso alla volta celeste, sempre troppo lontano da raggiungere. 5. Passarono anni prima che la sciagura invocata dallo zingaro ci colpisse, ma quando lo fece si abbatté come un
fulmine, lasciando la mia famiglia trasformata per sempre. Mio padre morì all’improvviso per un attacco di cuore mentre sedeva a cena con mia madre, poco dopo Natale. Aveva mangiato pochissimo quella sera, lamentandosi per un forte mal di stomaco; si stava alzando per andare a dormire quando cadde a faccia avanti sul tavolo, sbattendo così forte che mia madre ripeté per anni che era stato quel colpo a ucciderlo, non il cedimento del suo vecchio cuore malato. Quando finì a terra – me lo confermò l’anziano maggiordomo, unico testimone dell’intera vicenda –, mio padre era già morto. Io stavo leggendo una storia alle mie sorelline in un’altra stanza quando sentii mia madre urlare, un grido acuto e stridulo come quello di un maiale sgozzato. Mi precipitai in sala da pranzo. Klára mi chiedeva spiegazioni mentre si aggrappava disperata alle mie gonne, però io riuscii a divincolarmi e mi precipitai da mia madre. Arrivai da lei prima di tutti gli altri e la trovai riversa sul corpo di mio padre, con le candide maniche del vestito macchiate di vino rosso, colato da un bicchiere rovesciato. Le corsi incontro, convinta che fosse ferita. Non potevo ancora vedere mio padre in viso, ma lei teneva gli occhi chiusi e la bocca aperta come se stesse cercando di parlare. La casa era in subbuglio, i domestici sbucavano fuori da tutte le stanze per assistere al dramma o cercare di rendersi utili, le damigelle si affollavano attorno a mia madre, l’anziano maggiordomo cercava invano di raccogliere da terra i frammenti di vetro. Con una forza insospettata, strappai mia madre dal corpo inanimato e le diedi dei pizzicotti sulle mani e sul volto per farla tornare in sé. Aveva la pelle fredda e madida di sudore. «Anyu!» la chiamai gridando, mentre i domestici mi portavano via e io mi dimenavo e scalciavo con tutte le mie forze.
Alla fine fu mio fratello István – comparso sulla scena a passo lento, quasi sapesse già di essere divenuto il signore del castello – a ordinarmi di smetterla di fare la pazza, perché mia madre stava bene ma per mio padre ormai non c’era più nulla da fare. «È morto», disse, sfiorando il corpo con le sue dita lunghe, quasi misurasse la temperatura di un piatto poco gradito. «Guarda.» Io smisi di urlare e mi divincolai dalle braccia dei domestici, riacquistando piano piano un respiro regolare e la calma. István aveva ragione: ogni traccia di colorito era scomparsa dal largo viso rosato di mio padre e gli occhi spalancati parevano fissare un’apparizione dell’ultimo momento, e io mi chiesi se davvero dopo la morte ci fosse la pace e si rincontrassero i propri cari defunti, come mi avevano assicurato i religiosi e i miei genitori; per molte notti non riuscii a dormire ripensando all’espressione sul viso di mio padre, temendo che non ci fosse nessun paradiso ad aspettarci, nessun inferno, ma solo altri spiriti, né buoni né cattivi, che giungevano negli ultimi istanti di vita a portar via le nostre anime. Le anziane domestiche annunciarono che si sarebbero occupate di mia madre e di mio padre, accompagnando l’una a letto e l’altro nel feretro. «Mettete le bambine a dormire», mi dissero e io obbedii. Presi con me Klára e Zsofía e ci rannicchiammo tutt’e tre nel mio letto, sopra le coperte, aspettando che arrivasse la mamma a consolarci. Le manine umide delle mie sorelle rimasero incollate al mio viso per tutta la notte, quasi a sincerarsi che io fossi ancora viva e vegeta. Lo seppellimmo un mese dopo nella cappella di famiglia, in una mattina fredda e luminosa dopo una forte nevicata; il vento ci strappava il fiato dai polmoni mentre seguivamo il feretro fino alla chiesa, quasi a volerci strappare anche
l’anima. Mia madre era stata costretta ad alzarsi dal letto e vestita a forza dalle sue damigelle. Camminava a stento e István era costretto a sorreggerla per non farla crollare a terra; aveva i capelli in disordine, la pelle chiazzata e l’espressione desolata. Mi sembrava che stesse dando uno spettacolo deplorevole e rabbrividii per la vergogna pensando agli ospiti che la vedevano in quello stato così poco dignitoso. Quando finalmente il corteo raggiunse la chiesa, la bambinaia mi ordinò di intrattenere le mie sorelle almeno durante il rito funebre. «Pensa a tuo padre», mi disse, «a come vorresti che fosse ricordato», e così feci. Appena prendemmo posto, sfiorai i dolcetti nascosti nelle mie tasche – dei datteri secchi, i preferiti di Klára –, sottratti quella mattina in cucina. A otto anni, Zsofía era in realtà troppo grande per aver bisogno di essere corrotta e abbastanza grande per comportarsi bene in chiesa ma Klára, a soli tre anni, non era affidabile e serviva una buona dose di zucchero per essere sicuri di riuscire a convincerla. Zsofía, però, si sarebbe messa di sicuro a fare i capricci se avessi dato i dolcetti a Klára e non a lei, così ne avevo portati abbastanza per entrambe. Le sentivo masticare mentre il pastore dava inizio alla funzione. Il feretro in cui giaceva mio padre era cosparso di vischio e rami di pino e asperso di gocce di olio aromatico per coprire il fetore che cominciava a emanare, un fetore dolciastro e disgustoso che ricordava una pelle non conciata lasciata troppo a lungo al sole. Non riuscivo a ricondurre quel fetore e il corpo freddo nella bara a mio padre, l’uomo che aveva danzato con mia madre una sera al suono della musica zingara. Mi aspettavo quasi che si alzasse e mi mettesse sulle sue spalle come amava fare quando si sentiva allegro o aveva bevuto troppo, o entrambe le cose. Era un peccato, mi dicevo, che non potesse partecipare al suo funerale.
Tenevo gli occhi fissi su István ma, poiché era seduto davanti a me – essendo l’erede di mio padre e il confidente di mia madre –, non riuscivo a vederlo in faccia, né a intuire quali fossero i suoi pensieri durante la cerimonia. Dopo la morte di nostro padre non l’avevo quasi più visto, neppure di sfuggita nei corridoi o all’ora di pranzo. La mia famiglia mi stava diventando estranea, senza un padre a tenerci tutti uniti. Quella mattina, la testa di mio fratello e le spalle del suo mantello nero foderato di pelliccia erano umidi di neve sciolta, e io riuscivo a percepire l’odore caldo di fieno della sua pelle, ma mi sentivo lontana da lui come dall’uomo rinchiuso nella bara. All’improvviso mio padre non c’era più e mio fratello era diventato il signore di Ecsed, nel titolo se non ancora nell’autorità. Vedevo già mia madre dipendere da lui, chiedergli consiglio per la cerimonia e l’elogio funebre. Lui aveva assunto un’aria molto solenne e trascorreva ore e ore inginocchiato in preghiera nella cappella di famiglia o dietro la sua porta chiusa a chiave. Aveva sedici anni, cinque più di me, e ormai era maggiorenne. Avrebbe assunto i titoli di mio padre e lasciato le stanze dei bambini a me e alle mie sorelle, per diventare un vero gentiluomo a tutti gli effetti, piuttosto che giocare solo a farlo, e niente al mondo gli avrebbe fatto cambiare idea. István stava prendendo il posto di nostro padre e io quello di nostra madre, come custode e protettrice delle mie sorelle e della miriade di cuginetti che capitavano nella casa di Ecsed. Io e István non eravamo più piccoli. Era vero quel che aveva detto mia madre tanto tempo prima: adesso il destino della famiglia era nelle nostre mani. Speravo che mio fratello si girasse, che si girasse a guardarmi, sorridermi o sussurrarmi una parola di conforto, come aveva sempre fatto. Invece la sua schiena era diritta, le sue spalle strette immobili. Non poteva leggermi nel pensiero, anche se era la cosa che più desideravo al mondo.
Il pastore stava dicendo quanto fosse colto e nobile mio padre, un grande signore e statista, una perdita immensa per l’Ungheria, l’eroe più grande per la famiglia Báthory. «Il suo nome risuonerà per mille generazioni», proclamò in tono grave. A un certo punto István si girò verso di me e alzò gli occhi al cielo, e in quel momento tornò l’István che ricordavo e amavo. Fui costretta a reprimere una risata coprendomi il viso con le mani come per nascondere le lacrime, le spalle tremanti, ma me ne vergognai all’istante, perché amavo mio padre e volevo piangerlo degnamente. Zsofía si strinse a me per consolarmi e io la lasciai fare. In prima fila, accanto a István, la schiena di mia madre era rigida e impettita come un attizzatoio, ma io sapevo che aveva passato tutto quel mese curva a piangere sulla morte del marito. Quando la cerimonia si concluse, István, il nuovo signore del castello, le porse il braccio e la riportò alla slitta, mentre noi ragazze li seguivamo dappresso. Mia madre lasciava impronte profonde nella neve e io ci camminavo dentro per fare meno fatica. 6. Qualche mese dopo la morte di mio padre, Orsolya Kanizsay scrisse a mia madre invitandomi nella sua casa di Sárvár, dove mi avrebbe accolto in famiglia come una figlia e perfezionato la mia istruzione mentre mi abituavo a vivere come una futura Nádasdy. A soli undici anni, sarei stata mandata via di casa per essere cresciuta come una giovane dama, una moglie di nobili natali per l’unico figlio della contessa Nádasdy. Mia madre un pomeriggio mi convocò nella sua stanza per farmi leggere la lettera di Orsolya. I saluti occupavano quasi tutta la prima pagina: «Carissima sorella Anna», scriveva, «possa il Signore Dio Onnipotente rafforzarci con la Sua fortezza nella vera religione, che non ci
induca in errore, ci unisca anima e corpo nella chiesa e ci conduca verso questa piena unità nella fede vera e nell’amore reciproco. E possa il Signore farti prosperare, amica mia diletta, cosa che spero e mi auguro di cuore, e credo con certezza che così sarà perché in Lui solo è la speranza, amen». Vidi la grafia stentata e incerta di una donna che aveva imparato a scrivere da adulta, dopo il matrimonio, le formule goffamente formali e gli errori di grammatica e di coerenza che già a undici anni ero in grado di attribuire senza esitazione a una mente inferiore. Se non altro le parole suonavano gentili e Orsolya ringraziava caldamente mia madre per la generosità della dote e l’onore di poter unire il casato dei Báthory a quello dei Nádasdy, un’unione che avrebbe giovato a entrambe le famiglie e all’intero paese, e così via. Se mia madre non aveva nulla in contrario, scriveva, avrebbe mandato una carrozza a prendermi entro la fine del mese. Restituii la lettera a mia madre, dando per scontato che non mi avrebbe mai mandata via di casa a così pochi giorni dalla morte di mio padre. A quei tempi le fanciulle non si sposavano mai prima dei quindici, sedici anni e, quando i documenti erano stati firmati ai tempi di quella famosa festa zingara, io mi ero detta che avrei avuto almeno altri cinque o sei anni da trascorrere tranquilla con i miei genitori, mio fratello e le mie sorelline, prima di andare in sposa al giovane Nádasdy e trasferirmi nell’estremo occidente del regno, dove avrei avuto ben poche occasioni di rivedere la mia famiglia. Anche se non era insolito spedire le ragazze a casa delle loro future suocere prima del matrimonio, avevo sempre pensato che mia madre non avrebbe mai acconsentito a una simile eventualità e mi avrebbe tenuta accanto a sé ancora per molti anni.
Quando dissi a mia madre come la pensavo – ero onorata, certo, ma preferivo rimanere a casa mia fino al giorno del matrimonio –, lei distolse lo sguardo. «Molto bene», rispose, «farò sapere alla contessa che tu desideri attendere ancora qualche tempo.» Quindi si adagiò nuovamente sui cuscini e abbassò le palpebre, pregandomi di chiudere la porta uscendo dalla stanza. E così feci, anche se controvoglia. Mia madre non aveva mai apprezzato le assenze di mio padre, anche quando viaggiava per affari o per politica, e dopo la sua morte passava il tempo sdraiata a letto, dormendo e mangiando pochissimo, incapace di alzarsi e affrontare il mondo. Non era fatta per essere vedova. Se altre donne con la morte del marito riuscivano finalmente ad affrancarsi e a diventare libere – autorevoli e potenti vedove e proprietarie terriere a pieno titolo –, per mia madre era semplicemente la fine di tutto. Era come se fosse morta insieme a mio padre, perché non fu più capace di tornare quella d’un tempo: il suo umore quasi sempre malinconico portò alla brusca interruzione dei ricevimenti e dei balli che i miei genitori amavano organizzare nel castello di Ecsed. Era ancora immensamente bella e ricca, però il marito aveva lasciato scritto che se si fosse risposata avrebbe perso il diritto di educare i suoi figli. Era una pratica abituale tra i nobili dello stampo di mio padre, ma difficile da digerire per una donna del temperamento di mia madre. Forse lui non aveva voluto che i suoi figli cadessero in balia dei capricci di un patrigno o magari conosceva semplicemente la natura della moglie e voleva tenerla asservita alla sua memoria, possederla anima e corpo fino alla fine dei suoi giorni. Per una ragione o per l’altra, mia madre non poteva risposarsi. Era la vedova di György Báthory e tale sarebbe rimasta per sempre. Nel corso degli anni avrei capito tutta la crudeltà, la gelosia e l’asservimento di una tale pratica. Se mio padre le
avesse permesso di tenere con sé i suoi figli, mia madre avrebbe potuto riprendersi e trovare un nuovo marito e una nuova speranza per gli anni che ancora le restavano da vivere. Invece lei non si alzò mai più dal letto. Condusse gli affari di famiglia alla meglio, con la testa riversa sui cuscini e i capelli spettinati lungo le spalle, scrivendo le sue lettere o dettandole ai domestici, gli occhi cerchiati per il pianto e l’insonnia. I suoi gioielli e i vestiti eleganti cominciarono a riempirsi di polvere e lei sembrava ogni giorno più vecchia. Molte donne, come Orsolya, vestivano di nero per esibire di fronte al mondo la loro perdita incolmabile. Nel caso di mia madre, invece, fu come se il suo stesso spirito si fosse vestito a lutto. Durante il giorno si teneva alla larga da noi figli, che pure l’amavamo alla follia, insofferente ai nostri giochi e alla guarigione troppo rapida – per lei – dal dolore del lutto, ma di notte ci chiamava a uno a uno per dormire insieme nel suo letto, e persino István, che all’epoca aveva sedici anni ed era decisamente troppo grande per rannicchiarsi nel letto con la mamma, l’abbracciava stretta e la lasciava dormire contro di lui. Sulle prime noi speravamo che la nostra vicinanza la potesse aiutare a tornare la madre che avevamo conosciuto; attendevamo da un momento all’altro un improvviso lampo d’affetto, ma eravamo ogni notte più spaventati dai versi che emetteva nel sonno e prendemmo l’abitudine di sgattaiolare via, senza che lei se ne accorgesse, per tornarcene al sicuro nei nostri lettini. Alla fine prendemmo talmente in antipatia quella sua abitudine che cercavamo ogni mezzo per evitarla. Io e István usavamo il nostro turno di notte come mezzo di scambio: se accettava di dormire con nostra madre, gli dicevo, io avrei copiato i versetti della Bibbia che il tutore ci faceva imparare a memoria. Se prendevo io il suo posto, mi rispondeva lui, avrebbe
badato a Klára e Zsofía per due pomeriggi interi e io avrei potuto fare una bella passeggiata con il mio pony. Gli incanti di mia madre si erano dileguati con il lutto e persino i suoi figli facevano a gara per evitare la sua compagnia. Dopo la morte di nostro padre, soprattutto Klára voleva a tutti i costi dormire con me, tanto che faceva i capricci e piagnucolava ogni volta che era il suo turno di stare con nostra madre, ma io gliela mettevo accanto sotto le coperte sussurrandole all’orecchio che poteva venire da me non appena la mamma si fosse addormentata. Le davo un bacio e me ne andavo. Nel cuore della notte, poi, lei arrivava puntuale a spingermi il gomito con la sua testolina scura, finché io non l’accoglievo tra le mie braccia, e solo allora riusciva a cadere in un sonno profondo e senza sogni, con il suo fiato sulla mia guancia e le manine intrecciate ai miei capelli. Klára non riusciva a capire perché nostra madre avesse un così disperato bisogno di lei e come potesse la mancanza di amore deformare lo spirito; probabilmente neppure io la biasimavo perché preferiva stare con me: da quando avevo perso mia madre e al suo posto era subentrato un fantasma dagli occhi vuoti, ero ben felice di avere un’altra creatura umana a cui aggrapparmi. La promessa che la mia partenza non sarebbe stata imminente mi rasserenò, ma nelle settimane che seguirono non facevo altro che sentire il nome dei Nádasdy. Era sulla bocca di tutti i domestici, di mio fratello e delle mie sorelle. Zsofía sosteneva di sapere dove vivesse la contessa, che faccia avesse, come fosse la carrozza che mi avrebbe inviato al momento di partire. I Nádasdy erano accanto a me quando facevo il bagno o quando mangiavo, quando dormivo o mi vestivo o ero china sui quaderni. Sin dall’inizio del mio fidanzamento, avevo fatto il possibile per non pensare a Sárvár, alle pietanze sconosciute che mi avrebbero servito, ai diversi odori della natura che avrei incontrato laggiù, nel
lontano occidente del paese, ai confini con l’Austria degli Asburgo. Ero stata a Bécs una sola volta, da piccola con i miei genitori, ma a parte questo non sapevo quasi nulla della zona in cui viveva la mia futura famiglia. Le proprietà di Orsolya a Keresztúr e Sárvár non dovevano assomigliare affatto alla frenetica Bécs, dove le vie e le piazze erano sempre piene di gente. La mia nuova casa di Sárvár sarebbe stata ben più piccola della reggia di Bécs, ma meno isolata della paludosa fortezza di Ecsed. Il defunto conte palatino, il padre del mio fidanzato, aveva portato schiere di intellettuali e musicisti, niente meno che da Padova e Amsterdam, per intrattenere la sua corte quando era stato eletto a quella carica. Speravo con tutto il cuore che Ferenc Nádasdy fosse un uomo disinvolto, estroverso e spontaneo, non severo, formale e solitario come mio fratello István, che aveva la stessa età del mio promesso, ma si distaccava da me ogni giorno di più. Speravo con tutto il cuore che Ferenc mi amasse tanto da voler proteggere la mia famiglia per il bene mio e che il suo amore fosse un tetto solido sotto il quale ripararci dal vento, dalla pioggia e dalla neve. Un giorno chiesi a mia madre cos’altro sapesse della famiglia Nádasdy. Era stato il suo primo marito a presentarle Orsolya Kanizsay e loro due avevano conversato spesso ai balli e alle cene di Bécs e Pozsony. Eravamo nella stanza di mia madre e io ero seduta sul bordo del letto, con gli occhi fissi sulla forma dei suoi piedi che si muovevano sotto le coperte, come due talpe in una fossa appena scavata. «Non ti preoccupare, amore mio», disse. «Ti sposerai e sarai felice. Sarai felice come lo sono stata io con tuo padre. Ferenc Nádasdy sarà un uomo potente e un uomo potente ha sempre bisogno di una donna potente al suo fianco.» Non parlò di amore e neppure del fatto che il suo primo marito era stato una scelta personale, un’unione d’amore,
così come il secondo e pure il terzo. Aprì le braccia per stringermi a sé e io l’assecondai, perché in quel momento non sapevo cos’altro fare e non avevo voglia di contraddirla. Ma la verità è che la sola idea di diventare moglie mi spaventava a morte, se ciò significava fare la fine di mia madre, quella donna patetica, vedova ben tre volte. Avrei preferito di gran lunga lanciare il mio pony al galoppo sfrenato in mezzo alle paludi o portare le mie sorelline a raccogliere uova di pettirosso in mezzo ai boschi. Avrei preferito di gran lunga scappare a Bécs, a Praga, a Parigi, nella dissoluta Venezia o nell’assolata Roma, e persino nella fredda e lontana Londra, dove la regina che portava il mio stesso nome non aveva nessuna intenzione di sposarsi, era ancora vergine e non era legata a nessun uomo al mondo. Invece aspettai che mia madre mi liberasse dall’abbraccio, mi baciasse in fronte e mi lasciasse andar via. Mi precipitai allora nella stalla, arrampicandomi sul fienile per nascondermi in compagnia di un buon libro, e rimasi là così a lungo che mi addormentai e dimenticai di scendere per la cena. Ma quello era l’unico posto in cui non ero costretta a sentire di continuo il nome di Ferenc Nádasdy o a pensare alla vita che mi aspettava. 7. Mia madre aveva provveduto alla mia istruzione sin dalla più tenera età, ospitando a Ecsed i migliori precettori della scuola del suo primo marito. Io e i miei fratelli imparammo a leggere le opere di Erodoto, Tommaso d’Aquino e Paracelso; imparammo l’ungherese, il tedesco, il greco e il latino sulle ginocchia del nostro tutore, Leopold, un severo e bruttissimo tedesco che aveva la passione di battere i suoi giovani pupilli con un bastone di salice verde, lasciandoci il segno rosso sul sedere o sulle gambe se non ripetevamo la lezione correttamente: una punizione a cui i nostri
genitori posero fine non appena ne furono informati, ma non prima che io subissi per almeno tre volte il morso della frusta di Leopold. All’inizio non ero una brava allieva, troppo distratta da ogni minimo dettaglio – una rondine che finiva dentro casa volando attraverso il camino o la nuova cucciolata dei cani da caccia di mio padre, oppure il primo spiraglio di sole in una giornata uggiosa –, e non c’è da stupirsi se non amavo studiare. Appena Leopold mi girava le spalle, io scappavo nella stalla e uscivo a fare una passeggiata con il mio pony, oppure mi nascondevo in un angolo della cucina, dove tenevano il bucato, per schiacciare un pisolino dopo pranzo. Con il tempo, però, quando feci meno fatica a leggere e scrivere, quando imparai che i libri che non avevo mai voglia di aprire contenevano un’evasione così autentica e completa che neppure il tutore poteva impedirmi di volare oltre le mura di casa, cominciai ad apprezzare le lezioni che lui cercava di impartirmi. Leggevo sempre, leggevo alla luce del camino o della candela. Leggevo nella stalla e a tavola, leggevo scienze e astronomia, soprattutto le opere di Copernico e i trattati di Tycho Brahe sull’ordine e i movimenti degli astri. Prima di rimanere vedova, mia madre diceva sempre che mi sarei rovinata gli occhi a furia di leggere tanto. «Finirai per diventare strabica», mi ripeteva inginocchiandosi per togliermi di mano il volume. «Cosa farai? Nessun uomo ti vorrà più.» Allora io ci pensavo su, finché capivo che mi stava solo prendendo in giro e aveva già letto anche lei tutti i libri su cui posavo lo sguardo. A quel punto scoppiava a ridere e mi restituiva il libro. Dopo la morte di mio padre, mia madre mi sottopose a un nuovo tipo di istruzione, impartendomi lezioni sui doveri e le arti di una brava moglie, che si adattavano a pennello più a lei che a me. «Tuo marito ti desidererà», mi disse una
volta, «e tu devi evitare di soddisfare pienamente il suo desiderio. Non renderti mai troppo disponibile, ma rimani sempre un po’ sulle tue. Non confidargli mai i segreti del tuo cuore, perché altrimenti cadrai in suo potere e non viceversa.» L’ultima frase la pronunciò con un leggero sorriso sulle labbra. Ascoltandola, non potevo fare a meno di chiedermi se fosse stata proprio quella filosofia dell’amore a permetterle di accalappiare non uno, bensì tre uomini, e cominciai a provare un briciolo di pietà per mio padre, schiavo anima e corpo di quella fiera ammaliatrice, mia madre. Mi spiegò tutto sui cicli mensili, come si sarebbero accordati alle fasi della luna, finché non mi fossi sposata e avessi accolto mio marito nel mio letto aprendomi a lui. Allora avrei potuto aspettare un bambino. Quando gli avessi dato un figlio maschio, per mio marito sarei diventata la cosa più preziosa al mondo. «Sarai il suo più grande tesoro», mi disse accarezzandomi il mento con delicatezza, e per molto tempo io ne fui convinta. Ogni giorno, dopo le lezioni, mia madre mi permetteva di scegliermi un libro a piacere. Nonostante la mia assoluta insofferenza per le lezioni di arti muliebri, non vedevo l’ora di ottenere quella ricompensa e passavo ore e ore immersa nei libri cercando sempre di scegliere il più bello o il più interessante. Tra gli altri, mi capitò sotto mano un antichissimo esemplare della Poetica di Aristotele in latino, il primo stampato in Europa, e una bella copia miniata della Bibbia appartenuta un tempo alla mia nonna materna. Adoravo quel libro, soprattutto perché le immagini di Maria che adornavano la storia della nascita di Gesù mostravano una sorprendente somiglianza con me. Ogni libro che prendevo era un ricordo da portare con me nella mia vita futura, un futuro che io credevo ancora lontano negli anni.
Invece, appena un mese dopo l’arrivo della lettera, la mia futura suocera ci informò che un uomo di nome Imre Megyery, cugino del suo defunto marito e suo più fidato consigliere, stava arrivando a Ecsed per scortarmi a palazzo, esattamente come preannunciato. Quando chiesi a mia madre di mantenere la sua promessa e tenermi a casa ancora un po’, lei si limitò a sospirare e mi disse di fare la brava, senza spiegarmi le ragioni del suo tradimento. «Ti prego, Erzsébet», disse, «devi essere riconoscente. Sarai invidiata da tutte le fanciulle del regno. La contessa ti vuole e io non ho motivo di rifiutare. D’ora in poi sarà la tua nuova famiglia e devi fare il possibile per compiacerla.» Così Megyery stava venendo a prendermi per portarmi nella loro casa di famiglia nell’Ungheria occidentale, lontano da tutto ciò che amavo e mi era familiare, e la discussione era chiusa. La casa fu in subbuglio per giorni e giorni: i domestici lustravano ogni stanza da cima a fondo, l’aroma del pane appena cotto e della carne arrostita si diffondeva ovunque, come accadeva solo prima della morte di mio padre. Non c’erano zingari e musica, ma argento lucido e buon vino, e la luce di mille candele. Nelle sale risuonavano le chiacchiere squillanti delle ricamatrici, a cui facevano eco le voci più gravi dei domestici che si appostavano alla porta per guardarle all’opera. La casa si era risvegliata a nuova vita e, se la fine dei festeggiamenti non avesse coinciso con la mia partenza, mi sarei messa a ballare per la gioia. Ma io non avevo nessuna voglia di incontrare Imre Megyery e neppure la contessa Nádasdy, né tanto meno suo figlio. Non avevo nessuna voglia di lasciare mio fratello e le mie sorelle, e neanche la mia casa, e così ero villana con tutti, prendevo a schiaffi le domestiche e scappavo via quando i bambini più piccoli avevano bisogno di me. Passai quasi tutta la settimana nascosta sotto i tavoli o in cima agli alberi, i
capelli così pieni di rami e bacche che sembravano il nido di un uccello. Quando mio fratello mi trovò nascosta in un cespuglio di biancospino sulla riva della palude, tutta coperta di piume di gufo, mi disse che mi avrebbe tagliato a zero i capelli se non avessi cominciato a prendermene cura come una vera signora. «E se non ti decidi a comportarti come una figlia brava e riconoscente», proseguì, «ti terrò rinchiusa nella tua stanza finché non sarà il momento di partire.» Per un attimo fui tentata di accettare la sua minaccia, visto che ormai mi restavano così pochi giorni da trascorrere a casa mia, ma alla fine decisi di scegliere la poca libertà di cui ancora potevo godere e promisi di comportarmi bene, indossando una maschera di civiltà che sentivo del tutto estranea. Imre Megyery arrivò a Ecsed un pomeriggio, mentre io ero nella stalla con le bambine. Stavamo giocando con dei cagnolini appena nati, sedute nella paglia con i mucchietti di pelo rannicchiati nella mia gonna impolverata. Zsofía lanciava gridolini di giubilo perché un cucciolo le stava leccando la faccia e Klára piagnucolava perché un altro l’aveva graffiata con le unghiette affilate. Un segno rosso era affiorato dove il piccolo si era arrampicato con troppa veemenza sulla gamba di Klára e io stavo tamponando una chiazza di sangue quando entrò di corsa una domestica. «Cosa succede?» chiesi. «Gli ospiti stanno arrivando, signorina», mi rispose. «Vostra madre desidera che vi vestiate in fretta e la raggiungiate nella corte.» Mi alzai e uscii nella corte, verso il cancello, dove salii sui gradini per guardare oltre la palude. In lontananza arrivava sferragliando una grande carrozza, lasciandosi alle spalle una nuvola di polvere. Sarebbero arrivati a Ecsed nel giro di un’ora, ma io tornai in casa a passo lento, rifiutandomi di correre. Avevo una voglia immensa di tornare
nella stalla, prendere i cagnolini e tuffare il viso nel loro soffice pelo, arrampicarmi nella loro cuccia di paglia e nascondermi in mezzo a loro. Dentro casa, mia madre correva di qua e di là dando mille ordini ai domestici. «Mio Dio, Erzsébet, sei un disastro», mi disse. «Indossa la tua gonna più bella, quella con le rose. L’inviato di tua suocera sarà qui a minuti. Non deve pensare che sei una selvaggia maleducata e incivile.» Io non riuscivo a parlare per paura di scoppiare a piangere. Non ricordo come, le domestiche mi fecero indossare una gonna nuova e una camicetta, levarono i fili di paglia dai capelli e mi rifecero le trecce, ma io non vedevo altro che la piccola Klára seduta su una sedia con gli occhi scuri gonfi di lacrime, che chiedeva se la signora stava venendo per portarmi via. Mi alzai e le diedi un bacio. «Sì, tesoro mio», le risposi. «Ma non proprio adesso. Abbiamo ancora qualche giorno da passare insieme.» La mia sorellina scoppiò in un pianto dirotto e a quel punto mia madre alzò le mani al cielo e si infuriò con me. «Perché mai dovevi dirle una cosa simile quando sai benissimo che la farà piangere?» Pochi minuti dopo raggiunsi mia madre e mio fratello nella corte e attesi l’arrivo della carrozza. I cavalli sbuffavano e sudavano sotto il sole a picco, ma l’interno della carrozza rimaneva in ombra, impedendomi di vedere con chiarezza il nuovo arrivato. Imre Megyery non si sarebbe presentato ufficialmente finché non fossi andata io ad accoglierlo. Alla fine mi decisi a fare la mia parte e al segnale convenuto la portiera si aprì. «Erzsébet Báthory?» «Sono io.» Un gentiluomo alto e pallido, dalla faccia da rana, con due enormi occhi sporgenti e lunghe dita affusolate con piccoli
cuscinetti di grasso in punta, uscì dalla carrozza e posò i piedi sull’erba della corte con il contegno di un sultano. Era giovane, forse non superava i venticinque anni, ma i suoi capelli rossicci erano già radi, mentre la barba era folta e ispida, d’un rosso più scuro, come se viso e cuoio capelluto gareggiassero in bruttezza. Non sapevo con precisione cosa aspettarmi, ma di certo non quella specie di anfibio. Allungò una mano bianchissima per carezzarmi i capelli e la guancia. «È davvero una bella bambina», disse senza rivolgersi a nessuno in particolare, e io dovetti far forza su me stessa per non ritrarmi. «Io sono Imre Megyery, cugino del conte Nádasdy, e sono qui per darvi il benvenuto nel castello della mia signora.» «Ma non siamo ancora nel castello della vostra signora», replicai, «siamo in quello di mio padre. Sono io a darvi il benvenuto a Ecsed e spero che possiate godervi la sosta dal vostro lungo viaggio durante il soggiorno nella nostra casa.» «Ben detto», rispose Megyery. «La mia signora sarà felice di darvi il benvenuto nella sua famiglia.» Mia madre sorrise a quello scambio di formalità, sollevata dal fatto che non la stessi mettendo in imbarazzo nel momento più cruciale, mi ricordassi qual era il mio ruolo e mi comportassi di conseguenza. Sono sempre stata brava a capire quale ruolo interpretare e lo facevo quando mi conveniva o quando sapevo di non avere altra scelta, proprio come quel giorno, quando seguii mio fratello e Megyery nelle fauci del castello di Ecsed. Nei giorni seguenti osservai attentamente l’inviato della contessa, cercando di immaginare l’indole del mio futuro marito dal viso di suo cugino. Megyery era detto «il Rosso» dal colore della sua barba, mi aveva detto mia madre, ma un nome simile si adattava più a un guerriero che a quel girino sempre prono agli ordini della contessa. Rimase offeso
a morte dal comportamento delle domestiche di mia madre, che lo giudicarono troppo brutto per passarci la notte insieme. «Così brutto», sussurrò una senza accorgersi di me, «che persino gli avvoltoi gli sputerebbero addosso.» Anch’io ero costretta a soffocare il riso di fronte alle sue maniere così impettite e formali quando ci sedevamo a tavola o passeggiavamo in giardino, oppure leggevamo la sera alla luce della candela. Era interessato a tutto ciò che mi riguardava – i libri che leggevo, gli abiti che indossavo, il tempo che trascorrevo con i bambini più piccoli – e mi riservava un commento su ognuno di loro. Un giorno era presente quando Klára venne da me piagnucolando per la fame e chiedendomi qualcosa da mangiare per mettere a tacere lo stomaco poco prima dell’ora di cena. Da quando era arrivato Megyery, cenavamo molto più tardi per via della ricercatezza dei menu ideati da mia madre. Klára, che all’epoca non aveva neanche quattro anni, faceva fatica ad aspettare un’ora e più, così quella sera andai nelle cucine a prenderle qualche dattero secco, con cui si riempì la bocca fin quasi a scoppiare. Megyery, che fino a un attimo prima stava leggendo un libro comodamente seduto nella poltrona in pelle di mio padre, non apprezzò la mia eccessiva indulgenza ai capricci della bambina. «Qualcosa non va?» chiesi. «No, mia cara», rispose freddamente e per un attimo sembrò sprofondare nuovamente nella lettura. Ma poi tornò a guardarmi, posando il libro sulle ginocchia. «Pensavo solo che un po’ di fame non farebbe certo male alla bimba. La contessa Nádasdy non dava mai a Ferenc un dolcetto prima di cena. Diceva che gli avrebbe rovinato l’appetito.» Teneva ancora la mano ferma sul libro, quasi si aspettasse da parte mia un ringraziamento per il suo zelo nello spiegarmi come svolgere i miei incarichi.
«La contessa dev’essere una donna davvero saggia», replicai in tono mordace. «Spero solo di diventare come lei un giorno o l’altro.» Sentendo quelle parole Megyery si illuminò all’istante, riaprì il libro e tornò a leggere. «Ne sono certo.» Non aggiunsi altro. Megyery era il consigliere di Orsolya e di sicuro le avrebbe riportato ogni mia singola frase e azione. Mio fratello e mia madre si erano entrambi preoccupati di avvertirmi che, se fossi partita con il piede sbagliato con Orsolya, la mia vita a Sárvár non sarebbe stata facile. A giudicare dall’uomo che aveva spedito a rappresentarla, non potevo dar loro torto. Così mi morsi la lingua e uscii dalla stanza con Klára, per evitare lo sguardo inquisitorio di Megyery almeno fino all’ora di cena. Quando arrivò il giorno della partenza, la corte era affollata di domestici, amici e familiari venuti a salutarmi. C’erano i miei cuginetti e le mie sorelline. Le piccole piangevano. C’era anche mia madre, con il viso a cuore bagnato di lacrime per la solennità dell’evento, l’addio alla sua figlia maggiore. Vedendola dritta in piedi in mezzo alla corte nel suo elegante abito a lutto con i ricami dorati, i capelli acconciati con pettinini di perle apposta per l’occasione, mi intristii all’istante perché sapevo che forse non ci saremmo mai più riviste e che quella era l’immagine che lei voleva lasciarmi di sé. Era tutto vero: stavo abbandonando per sempre Ecsed. Mi abbracciò posandomi le mani sulla testa per darmi la sua benedizione. «Sii buona e rispettosa con la contessa Nádasdy come fosse tua madre», mi disse senza perdersi l’ultima opportunità per impartirmi una lezione. «Non darle motivo di rimandarti a casa.» Quindi baciai le bimbe e infine mio fratello. Gettai le braccia al collo a István e lui mi strinse forte, baciandomi come aveva fatto il giorno in cui giocavamo al pascià e sua moglie, con un’aria incuriosita, quasi mi vedesse per la prima
volta. Le mie sorelline piangevano e mi pregavano di portarle via con me. Mi sentii più sola che mai quando Megyery mi aiutò a salire sulla carrozza e diede ordine al cocchiere di partire. Allora dissi addio a Ecsed, alla palude dove il drago aveva ruggito, agli aironi e alle rane, ai cuccioli che abbaiavano in mezzo alla paglia, al mio pony dalla criniera intrecciata. Mi stavo avventurando verso la mia nuova vita, verso il mio futuro di moglie, madre e contessa. Giurai a me stessa che avrei fatto il possibile per amare la contessa e suo figlio, ma non avrei mai permesso loro di trasformarmi in qualcosa che non ero. Superammo colline e alberi, mentre le cime verdi del grano ondeggiavano cullate dal vento. Non sarei mai stata come il grano, pronto a piegarsi a ogni soffio di vento. Sarei stata come le rocce e le colline, ferma e rigida in tutto, anche se non avessi mai più rivisto mia madre, mio fratello e le mie sorelle, anche se avessi dimenticato la mia casa, la mia lingua, la mia educazione, l’amore dei miei genitori, il battito del mio stesso cuore. Avrei vissuto in mezzo a estranei, ma avrei sempre ricordato chi ero. Non avrei mai permesso loro di cambiarmi. C’è un detto che ho imparato da piccola: «Extra Hungariam non est vita et si est vita, non est ita», che significa «Fuori dall’Ungheria non c’è vita e, se c’è vita, non è la stessa». Per me, il mondo familiare di Ecsed era tutta l’Ungheria che esistesse al mondo. Nella carrozza mi asciugai le lacrime. La vita che stavo per affrontare sarebbe stata mia, la mia vita alle mie condizioni, anche se non sarebbe stata la stessa che avevo conosciuto sino ad allora. 8. Impiegammo quasi due settimane a raggiungere il castello della contessa a Sárvár, settimane durante le quali ci capitò di inerpicarci su ripidi passi di montagna e fummo costretti a scendere dalle carrozze e proseguire a piedi per
non affaticare troppo i cavalli, o attraversammo paludi secche in cui le ruote rimanevano incastrate nel fango e andavano liberate. Il più delle volte, tuttavia, percorremmo ampie vallate e campi coltivati, campi di grano e segale, di viti, di covoni di fieno lasciati a seccare al sole. Ci lasciammo alle spalle antichi villaggi dove i ragazzini sbucavano da ogni angolo per ammirare il corteo di carrozze e ci inseguivano per un tratto schiamazzando. Ogni tanto mi sporgevo fuori dal finestrino e salutavo neanche fossi un’imperatrice, mentre loro applaudivano e gridavano «urrà», malgrado la severa disapprovazione di Megyery. Dato che era sconveniente lasciare la futura nuora sola con un uomo per l’intero tragitto, la contessa aveva provveduto a mandare anche una domestica di nome Anna Darvulia, in qualità di mia damigella. Era una creatura minuta, che incuteva timore nonostante gli abiti dimessi, con minuscoli occhi brillanti e una peluria sottile sul mento che le davano uno strano aspetto da tasso. Il suo impressionante groviglio di folti capelli neri era annodato stretto sulla nuca e lei parlava solo se interpellata, con una voce profonda come quella di un uomo. Quando il primo giorno le chiesi quanti anni avesse, lei mi fissò con quei suoi strani occhi da animale e rispose che dovevano essere almeno ventitré. «Non si sa con certezza», precisò, «mia madre non me l’ha mai detto.» Cos’era accaduto a sua madre? Non osavo chiederglielo. Darvulia poteva essere una zingara o una turca travestita, o magari una táltos, una sciamana venuta al mondo con sei dita o la dentatura già completa. Le osservai attentamente le mani, ma non c’erano tracce di dita in sovrannumero. A volte assumeva un contegno che ispirava grande forza e coraggio, come se stesse aspettando il momento giusto per gettare via il suo sgraziato travestimento e rivelare la principessa incantata intrappolata
all’interno, anche se io l’avevo vista in parecchie occasioni ingobbirsi e simulare un’aria stanca e malata, magari per farsi aiutare da un soldato a sollevare un tronco, oppure per comprare il pane dalle donne di un villaggio. A differenza di Megyery, sembrava che non le importasse affatto quel che leggevo, indossavo o facevo. Dopo la nostra prima conversazione ebbi il timore di averla in qualche modo offesa, ma a parte l’accenno alla sua età non ricordavo di avere detto nulla, se non un saluto il giorno della partenza. Per qualche strana ragione, volevo a tutti i costi piacerle. Oltre alla mia carrozza, il nostro corteo comprendeva numerosi altri carri su cui viaggiava la mia dote: scrigni pieni di fiorini d’oro, ciotole d’argento, candelabri lavorati, antichi ritratti della famiglia Báthory, i miei abiti e gioielli più eleganti. La mia futura suocera non aveva badato a spese e assoldato un gran numero di guardie per proteggere quel tesoro durante il viaggio e la nostra processione dava spettacolo ovunque passasse, lasciandosi alle spalle una grande nuvola di polvere. La campagna alle pendici dei Carpazi era lussureggiante, rivestita ora di prati ora di paludi, ma eravamo in piena estate ed era tutto verde e in fiore: colture d’orzo e d’avena, fiori di campo, distese d’erba che mormoravano al vento. Qua e là si aprivano boschetti di betulla, pioppi tremoli, abeti o scure querce e sterpaglie così fitti che le guardie della scorta le attraversavano tenendo una mano sull’elsa della spada, per paura che tra gli alberi si nascondesse qualche malintenzionato. Evitammo di passare attraverso le zone occupate dai turchi della Bassa Ungheria, compresa Buda, che avrei tanto voluto vedere. Dovevamo comunque stare sempre in allerta e avvicinarci alle guarnigioni con grande cautela perché, sebbene potessimo mostrare un gran numero di lasciapassare forniti da nobili amici della mia famiglia,
era sempre possibile incontrare un ufficiale avido o una banda di hajduk fuorilegge o di zingari, che avrebbero potuto assalirci e portarci via tutto. L’intero viaggio fu condotto all’insegna della massima prudenza, con il risultato che impiegammo un’infinità di tempo per arrivare a destinazione, tempo in cui io avevo davvero poco da fare e nessuno con cui chiacchierare, a parte il girino dai capelli rossi Megyery, Anna Darvulia e pochi altri domestici. Al di fuori di Ecsed, io conoscevo il mondo solo per il poco che mi ero immaginata leggendo i libri di mia madre. Non pensavo che il mio paese fosse così ricco e variegato, che le proprietà dei miei fossero così estese, perché attraversammo così tante città, villaggi e fattori fedeli in qualche modo ai Báthory che io faticavo a ricordarne i nomi. Il mondo era pieno di tali stranezze che ogni giorno sembrava trasformarsi per offrirmi altre novità: un uomo che camminava sui trampoli per attraversare un fiume, il muro di una città trafitto di palle di cannone turche, un gruppo di soldati che trascinavano una donna urlante – una strega, mi spiegò Megyery – sul luogo dell’esecuzione ai margini di un piccolo villaggio. All’improvviso il mio desiderio di vedere i canali della dissoluta Venezia, oppure di visitare Roma e Londra, mi sembrava una semplice fantasia infantile. In realtà, il posto in cui avrei desiderato di più trovarmi in quei giorni trascorsi sulla sferragliante, deprimente, polverosa carrozza, con la strada dissestata che ogni poco mi faceva sobbalzare le ossa, era il mio letto, rannicchiata accanto alle piccole Klára e Zsofía, il dolce profumo dei loro riccioli neri nelle narici. Nel tragitto, quando scivolavo in un leggero e agitato torpore, quasi mi convincevo di essere tornata davvero a casa mia, finché la carrozza non mi riportava con uno scossone a me stessa e alla vista dell’affilato viso di Megyery, i cui occhi sporgenti non mi facevano ricordare chi ero e dove stavo andando.
Durante il viaggio Megyery parlò instancabilmente di Sárvár, della gente che vi avrei conosciuto e della campagna attorno alla dimora, ma a me non servivano le sue ciance per sapere dove fossi diretta, da chi e perché. La famiglia del mio promesso sposo era famosa, ricca e potente, anche se non famosa, ricca e potente quanto la mia. L’ex conte palatino Tamás Nádasdy, morto quando io avevo appena due anni, era un uomo colto e liberale, mi aveva spiegato mia madre, difensore delle arti e della letteratura. Dopo essersi convertito alla fede luterana, aveva aperto una stamperia a Sárvár per favorire la diffusione della Bibbia e di altri volumi scritti in ungherese. Il mio futuro marito era nato quando Tamás aveva cinquantotto anni, l’erede tanto atteso che lui e Orsolya disperavano ormai di poter concepire, dopo molte delusioni. Orsolya, erede di una fortuna immensa, era decisamente più giovane del marito: aveva solo quattordici anni quando si erano sposati, e lui trentasette. Era una ragazzina bella e ignorante, che il marito aveva fatto il possibile per istruire dopo lo scambio delle promesse. Il loro matrimonio sembrava davvero un’unione d’amore. Tra loro usavano dei nomignoli – lei era «piccola Mary» e lui era «il tuo nonnino» – che io ritenevo alquanto bizzarri, ma in fin dei conti i rapporti matrimoniali degli altri per me sono sempre stati un mistero. Pur andando così d’accordo, Tamás viaggiava molto alle dipendenze del re o per gestire le sue proprietà, e Orsolya gli scriveva spesso pregandolo di tornare a casa, soprattutto dopo la nascita di Ferenc, perché senza di lui morivano di solitudine. Nutro il sospetto che nelle sue lettere Orsolya propendesse leggermente per l’esagerazione. Propendeva per l’esagerazione anche in altri campi, come ben presto avrei appreso. Tamás Nádasdy non visse abbastanza a lungo per vedere il mio matrimonio con suo figlio. Infatti quando giunsi al
castello era già morto da ben dieci anni e sua moglie, come tante altre nobildonne vedove, aveva spedito il figlio a vivere alla corte del re, a Bécs, per perfezionare la sua istruzione. Lei mi aveva voluto a Sárvár solo perché la intrattenessi come un animale da compagnia, anche se a quei tempi io non ne avevo la minima idea. Nel viaggio verso Sárvár ebbi solo il tempo di maledire la decisione improvvisa di Orsolya di portarmi via di casa, la necessità del figlio di sposare una Báthory, la risolutezza della mia stessa madre nel vendermi come una giumenta senza alcun rispetto per i miei gusti e la mia volontà. Chissà se Ferenc era un bel ragazzo, mi domandai, o una copia del suo cugino facciadirana, che proprio in quel momento mi stava riempiendo di domande sulla mia educazione religiosa e la mia assiduità nella preghiera. Forse Megyery stava cercando di sincerarsi se io fossi una brava protestante e non uno di quei papisti sabotatori sotto mentite spoglie, o magari tentava di farmi tradire l’amato Calvino di mia madre per convertirmi agli insegnamenti di Lutero. Io rispondevo alle sue domande, ma presto mi stancai di tale insistenza e dopo qualche giorno di quel continuo interrogatorio decisi di limitare la conversazione alle formule di pura cortesia, rimanendo seduta a far finta di ascoltarlo mentre ripeteva per la centesima volta quanto fosse buona, bella ed elegante la sua signora di Sárvár. Era quasi buio quando alla fine avvistammo il castello in lontananza; il cocchiere e i cavalli erano stremati dallo sforzo che avevamo imposto loro per evitare di fermarci ancora una notte fuori casa. Avevamo ormai accumulato più di cinque giorni di ritardo e Megyery nell’ultima settimana era diventato sempre più
ansioso e irritabile, rimproverando con la sua lingua tagliente il cocchiere o il capitano delle guardie ogni volta che il tempo, le strade dissestate o la necessità di cambiare i cavalli ritardavano il nostro arrivo. Cominciavano davvero a farmi pena, poveretti. Sembrava proprio che non fossi la sola a dover sopportare il brutto carattere del rigido e ambizioso cugino della contessa. Al nostro arrivo il tempo era secco e torrido, e la carrozza e ogni cosa al suo interno – persino i miei capelli, le mie ciglia, ogni filo del mio vestito – erano ricoperti da uno spesso strato di polvere scura. A un miglio dalla città, finalmente in vista della casa dei Nádasdy – una stella bianca in un’ansa assolata del fiume –, Megyery ordinò al cocchiere di fermarsi e ad Anna Darvulia di portarmi nel bosco sulla riva del fiume, al riparo dallo sguardo indiscreto dei soldati che ridevano. Lì Anna e altre domestiche mi tolsero i vestiti e li sbatterono a lungo contro i tronchi facendo uscire nuvoloni fitti di polvere e mosche. Poi mi districarono i capelli, cercando di ravviarli, quindi me li legarono nuovamente in trecce così strette che mi si gonfiarono gli occhi di lacrime. Darvulia mi aiutò a indossare l’abito che Megyery aveva scelto per me, un vestito marrone scuro di un velluto soffice come il visone, con un elaborato ricamo a volute e coccarde e un collare rigido attorno al collo. Un vestito da matrimonio, perché io arrivavo come una futura sposa. Quella sera sarebbe stata la prima volta che il mio fidanzato avrebbe posato gli occhi su di me ed evidentemente non doveva rimanere deluso. Darvulia si spogliò davanti a me e si tolse anche lei la polvere di dosso, chinandosi e scrollando i suoi arruffati capelli neri. Senza vestiti sembrava molto più giovane di quanto non avessi immaginato sulle prime. Come una fatina sotto un maleficio, si disfece di quella parvenza di vecchiaia e povertà per esporre alla vista la delicata linea della sua schiena,
la pelle soda e chiara delle cosce. Le chiesi come mai si stesse cambiando. Mi sembrava una seccatura inutile cercare di sembrare freschi e riposati come appena usciti da un bagno dopo così tanti giorni di viaggio. Mi rispose semplicemente: «La mia signora non ama veder arrivare gli ospiti ricoperti di polvere. Lo trova poco riguardoso». Le mie speranze in Orsolya Kanizsay si affievolivano sempre di più. Darvulia si rivestì alla svelta, tornando più vecchia e più brutta di quanto non fosse in realtà, e subito dopo mi esortò a rimontare in fretta in carrozza. Io sudavo a fiumi sotto quel velluto: in fin dei conti era un vestito invernale ed eravamo in piena estate, ma Megyery ci teneva tantissimo. In più, l’ampio collare bianco mi impediva di guardare per terra e feci una gran fatica a non inciampare quando tornammo indietro aprendoci un varco tra i rami nella sterpaglia scoscesa. Al nostro ritorno, il cocchiere aveva già finito di strigliare i cavalli e ripulire l’interno della carrozza, dopo avere aperto le pesanti tendine e sbattuto i cuscini dalla polvere per farli tornare rossi da grigiastri. Salimmo in vettura e ci apprestammo a concludere quel viaggio estenuante con un aspetto fresco e riposato, quasi ci fossimo appena messi in cammino. La tenuta si trovava al centro di un isolotto, con un lungo ponte di legno che lo collegava alla città sulla riva opposta. Sentivo l’odore dell’acqua scura del fossato farsi sempre più intenso. All’interno si ergeva la dimora vera e propria, che circondava una corte di prato molto curato con un singolo albero di tasso, enorme e potato quasi fino allo stremo. Lo scalpiccio degli zoccoli sul ponticello di legno ci colse di sorpresa e, quando io sporsi la testa fuori dal finestrino per ammirare il castello, Megyery mi diede un colpetto sulla spalla per farmi voltare. «Alla contessa non piacerà vedervi a
bocca aperta», commentò. Il nostro seguito entrò nella corte con un grande strepito e mille cerimonie, mentre i domestici correvano fuori per darci il benvenuto a gran voce. Megyery si alzò e scese dalla carrozza, sussurrandomi che dovevo rimanere seduta finché la contessa Nádasdy non fosse venuta ad accogliermi di persona. Dopo tanti giorni passati lì dentro, sempre insieme a Megyery e Darvulia, ero davvero felice di essere arrivata. Non vedevo l’ora di sgranchirmi le gambe, correre su e giù per la corte, respirare un po’ d’aria fresca, invece ero costretta a rimanere ferma, rinchiusa nella mia pesante impalcatura di velluto e merletti, ansiosa di non disonorare il nome dei Báthory proprio in quel momento cruciale, alla fine del mio lungo viaggio. Il sole stava tramontando e le ombre della corte si allungarono per poi dissolversi quando il sole si immerse dietro il tetto della casa, dipingendo il cielo di striature rosate, e le nuvole divennero mille coccarde arancioni. Nella corte i domestici si fermarono in attesa, gli occhi fissi sulla carrozza. Erano figure confuse nella tenebra crescente, scure e strette l’una all’altra come un crocchio di suore, e io riuscivo a intravedere giovani fanciulle che mi guardavano parlandosi all’orecchio e ridacchiando. Un improvviso calore mi avvampò in gola, ma non c’era niente da fare: un giorno, forse, sarei diventata la padrona di casa, ma adesso non ero altro che un’estranea, senza la minima autorità neppure sull’ultimo dei domestici. Per il momento dovevo sopportare il loro scherno. Poi calò il silenzio sulla corte, interrotto solo dal sereno tubare delle colombe che si preparavano per la notte e dai richiami delle rondini sotto le gronde. Ben presto Orsolya venne a darmi il benvenuto. Era vestita di nero, come l’ultima volta che l’avevo vista, e i capelli d’argento erano acconciati in maniera semplice, perfino severa, tirati
all’indietro sui due lati fin quasi ad allungarle gli occhi. E come l’ultima volta portava un trucco pesante, bianco e rosso. Al posto dei vistosi gioielli del nostro primo incontro, adesso indossava una catenina sottile con un piccolo crocifisso d’oro e teneva le mani incrociate davanti a sé, conferendo un’aria ricercata e leziosa alla sua andatura. Non somigliava per nulla a mia madre prima del lutto, sempre così vitale e accomodante, una donna istruita, sicura di sé e del proprio posto nella società. Questa, ne ero più certa che mai, era una donna ombrosa e infelice, orgogliosa di una bellezza ormai svanita da tempo. Il mio buonumore si dileguò all’istante. Orsolya era seguita da un giovane con il mento volitivo e lo sguardo a metà tra l’annoiato e il divertito, un’espressione che si accordava per certi versi a quella che io tenevo ben celata sotto il sorriso impostato e il contegno dignitoso che avevo predisposto per l’incontro con il mio futuro sposo e la sua famiglia. Doveva avere tra i sedici e i diciassette anni, l’età di mio fratello István, era più alto della madre di tutta la testa e indossava un abito semplice con un farsetto di velluto, una camicia bianca e calzoni di pelle scuri con delle toppe più chiare alle ginocchia, su cui una macchia di sporco doveva essere stata appena grattata via in fretta e furia. Portava anche una spada in vita, che spostava camminando per evitare che gli si impigliasse tra le gambe, e non potei fare a meno di notare che aveva il portamento di un soldato, un giovane abituato al cavallo e all’esercizio sul campo. Per lo meno era tanto educato e gentile da cedere il passo alla madre, come ogni figlio rispettoso dovrebbe fare. Rivolse uno sguardo ai domestici in piedi sui bastioni e fece cenno di abbassare la voce. Le ragazze ammutolirono all’istante, con una fulmineità che mi fece subito venire in mente la parola «riverente». Un silenzio riverente. Oh, lo ammiravano davvero
tanto, il mio futuro marito, le ragazze di Sárvár: lo intuivo già con certezza. Alla fine si fermarono davanti alla carrozza, in attesa che io scendessi: la mia futura suocera e il mio promesso sposo. Megyery fece un profondo inchino e annunciò che, come gli era stato richiesto, aveva portato da Ecsed la futura sposa del conte Nádasdy. Sembrava tutto un po’ formale ed esagerato mentre attendevo che chiamassero il mio nome, io, una ragazzina con il sedere dolorante e le unghie mangiucchiate. Megyery aprì lo sportello della carrozza. Mi diedi una sistemata, perché scendere da una vettura potrebbe far sembrare anche la più aggraziata delle donne molto simile a un pollo decapitato che razzoli in un cortile. Dovevo chinarmi in avanti per non sbattere la testa contro il soffitto della carrozza e insieme tirare su le elaborate e pesanti sottogonne del mio abito, il tutto stando bene aggrappata al bordo dello sportello se volevo evitare di inciampare atterrando ai piedi del mio futuro marito. Era un’impresa che avevo provato un’infinità di volte a Ecsed, ma mai con tutti quei fronzoli addosso, e mai con tutto quel caldo. L’abito che Darvulia mi aveva fatto indossare era così pesante che per un attimo ebbi il timore di svenire: il mondo diventò improvvisamente tutto grigio mentre abbassavo la testa per uscire dalla carrozza. Stavo per cadere a terra quando il giovane si precipitò verso di me e mi sorresse per la vita, mentre Megyery e la contessa lanciavano un urlo e correvano verso di noi. Rimanemmo fermi così, finché alla fine io riuscii a recuperare l’equilibrio, il ragazzo imbarazzato per lo sguardo attento delle donne, io imbarazzata e risentita per la mia stessa goffaggine e per il vestito ridicolo che ero stata costretta a indossare. Sulle mura, sentii le domestiche sghignazzare di nuovo con la mano sulla bocca.
«Va tutto bene?» mi chiese il giovane e io mi ricomposi liberandomi dalla sua stretta. «Sì, grazie», risposi. «Siete davvero la benvenuta», aggiunse facendo un inchino un po’ troppo profondo per il figlio di un conte palatino, o almeno così mi parve. Mi chiesi cosa intendesse, se magari fosse una sorta di commento all’accaduto. Uno scherzo, forse. Orsolya fece qualche passo avanti per accogliermi degnamente, stringendomi a sé in un rigido e forzato abbraccio. «Benvenuta a Sárvár e nella casa dei Nádasdy, mia cara.» Fui percorsa da un brivido quando disse «mia cara» – era così che mio padre chiamava mia madre e ogni volta che sentivo quelle due parole mi tornava alle orecchie l’eco triste della sua voce –, ma Orsolya non sembrò farci caso. «Ti presento», proseguì indicando con un cenno il giovane che mi aveva impedito di ruzzolare nella polvere, «tuo cugino, András Kanizsay.» Impiegai qualche istante a comprendere il significato della sua frase, cioè che il giovane accanto a lei non era il mio futuro marito, ma solo uno dei tanti cugini legati al casato. Un soldato o un domestico, forse, ma di certo non l’uomo che avrei dovuto sposare. «Non siete Ferenc Nádasdy?» chiesi. Orsolya aveva un’aria costernata. «No, certo che no», precisò. «Ferenc è ancora a Bécs, impegnato nei suoi studi. Tornerà a casa per le vacanze, in inverno. Megyery avrebbe dovuto dirtelo durante il viaggio.» Quindi si girò verso il suo consigliere, che mi guardò storto e arrossì vistosamente. Era la prima di tante volte in vita mia in cui avrei dovuto mascherare la mia sorpresa, ma ero convinta di essermela cavata abbastanza bene, impostando un sorriso rigido e formale e presentando i miei rispetti con tutta la compostezza
che riuscii a trovare. «Sono molto felice di rivedervi», dissi concentrando tutta la mia attenzione unicamente sulla contessa. «Vi ringrazio per avermi accolto nella vostra casa e nella vostra famiglia.» Di fronte a me, vedevo lo sguardo torvo di Imre Megyery, forse ancora risentito per il rimprovero che aveva ricevuto. In effetti mi aveva detto che Ferenc studiava a Bécs, ma io non gli avevo prestato la minima attenzione. Quindi mi rivolsi ad András: «E lo stesso vale per voi, cugino», proseguii dando alle parole un tono affettuoso. «Grazie ancora per il vostro aiuto.» Il giovane si portò una mano alla fronte e quell’espressione divertita si insinuò nuovamente nei suoi occhi. Mi rimproverai all’istante per essere stata così affettuosa con lui, tanto al di sotto del mio livello, quasi un semplice domestico, e per di più incline alla presa in giro. Per lui non ero altro che una ragazzina, una ragazzina goffa e viziata. «Benvenuta a Sárvár, cugina», rispose. Il sole stava tramontando. Orsolya mi prese sottobraccio quasi fossimo sorelle e mi condusse dentro casa, con la sua solita andatura ricercata che rischiò quasi di farmi inciampare per tenere il passo. «Devi essere esausta dopo un viaggio così lungo», mi sussurrò. «Ti abbiamo preparato la stanza e qualcosa per cena. Gradisci la carne di cervo? È freschissima ed è perfetta per lo sviluppo delle fanciulle che desiderano essere madri.» A quelle parole mi imbarazzai, per non dire di peggio, ma Orsolya non sembrò accorgersene e una volta ancora io fui costretta a controllare le mie reazioni. La casa era più piccola della mia e sembrava più indifesa, senza la distesa di paludi attorno, ma le stanze erano grandi e ariose, i pavimenti lucidati di fresco e tutti splendenti. I mobili erano di legno nobile, lavorato e intarsiato, con
caldi arazzi alle pareti e candelabri dorati su ogni tavolo. In una sala notai il ritratto di un ragazzino di otto o nove anni, vestito tutto di nero, giacca, calzoni e cappa sulle spalle. Aveva un naso lungo e dritto su una bocca rossa increspata in una posa sensuale, e un’espressione seria, quasi sinistra, negli occhi neri. Orsolya si fermò quando si accorse che stavo osservando il quadro. «Questo è Ferenc», mi spiegò. «Ti piace? L’ho fatto dipingere dopo la morte di suo padre. Ogni tanto mi sembra un po’ triste.» «Forse un po’», risposi. Facevo una gran fatica ad associare il ragazzino infelice del ritratto al mio futuro marito, un uomo che mi avrebbe amato come mio padre aveva amato mia madre. Mi voltai per guardare fuori, ma nell’oscurità non si vedeva altro che la sagoma confusa della carrozza su cui avevo viaggiato per tutta l’Ungheria e, di tanto in tanto, la candela di una domestica che attraversava la corte. La contessa mi tirò con insistenza per un braccio, sussurrandomi all’orecchio un’infinità di domande sulla cena e sulla stanza. «Come ti piacciono le lenzuola? Qual è il tuo dolce preferito? Non è meravigliosa la campagna intorno a Sárvár?» Non la smetteva più di chiedere, chiedere, chiedere, mentre io non vedevo l’ora di rimanere da sola per avere un attimo di pace e riflettere su quello che mi stava accadendo. Orsolya mi accompagnò nella mia stanza, parlandomi di Ferenc, di quanto fosse ansioso di conoscermi e delle sue lettere in cui si informava del mio arrivo. Ci godeva a descrivermi minuziosamente tutti i dettagli che lei e Megyery avevano predisposto per me: il letto di legno intarsiato, i portacandele, il tavolo e i bauli decorati. Sullo schienale di una sedia era intagliata una testa di leone e i portacandele si piegavano all’improvviso nella foggia di un drago. La
stanza era luminosa, imbiancata di fresco – sentivo ancora l’odore pungente della calce – e ampia, con un camino di pietra così alto che vi sarei potuta entrare in piedi in tutta comodità. L’aria si faceva sempre più fresca, così la contessa diede ordine di accendere il fuoco in camera mia e di portarmi un vassoio con una porzione di stinco di maiale alle mele speziate e un bicchiere d’acqua di fonte profumata alla menta. Era un benvenuto che persino mia madre sarebbe stata fiera di offrire e, se avessi scelto io di soggiornare in quel posto, avrei anche potuto trovare una ragione per essere felice nella mia nuova casa, un bel posto su un’isola in mezzo a un fiume, dove un’anziana donna sola aveva deciso di tenermi con sé come una figlia. Ma quella notte e per lungo tempo in seguito non vidi altro che pareti di pietra imbiancate chiuse attorno a me: la più bella prigione del mondo, è vero, ma pur sempre una prigione. 9. 13 maggio 1611 È primavera adesso a Csejthe. Il sole alla finestra addolcisce e riscalda come una composta di albicocche e le notti sono più brevi, le stelle più brillanti. Il cambio di costellazioni è uno dei pochi piaceri che mi concede la vista dalla mia torre. Ho guardato Orione dileguarsi con il suo fiero bastone, sostituito dalla leggiadra Vergine con la sua spiga di grano. Questi ultimi mesi trascorsi in prigione – più di quattro, stando ai miei calcoli – sono stati i più difficili della mia vita. Il processo contro i miei domestici si è ormai concluso, senza il minimo accenno a cosa ne sarà di me. Il mio vecchio cameriere, Deseő, è venuto a riferirmi che il conte palatino ha fatto bruciare Dorka e Ilona Jó sul palo come streghe qualsiasi, strappando loro le dita con le pinze arroventate. Il mio giovane Ficzkó, invece, è stato decapitato e il suo
corpo bruciato sul rogo. È stato uno spettacolo orribile, ha detto Deseő. Le donne sono state caricate su un carretto di legno, mani e piedi incatenati, mentre la gente del posto, i domestici e i contadini del conte palatino si erano radunati nei campi fuori dal castello di Bicske per gridare insulti e maledizioni e ricoprire d’ignominia le mie povere domestiche mentre le fiamme lambivano i loro piedi e i vestiti. La gente ha voluto buttare sul fuoco i propri fasci di legna per prendere parte personalmente all’avvenimento, poi si è portata via la cenere come ricordo. Solo Katalin Benecká, l’anziana lavandaia, è stata risparmiata. La tengono rinchiusa nella prigione di Bicske, almeno finché il conte palatino non si sarà stancato di umiliarla. Un anno, magari anche due, poi probabilmente la lascerà tornare a casa. Dio solo sa cosa devono aver promesso al conte palatino i suoi figli per convincerlo a salvarle la vita. Dio solo sa cosa devi avergli promesso tu, tesoro mio, per convincerlo a salvare la mia. Nel frattempo il mio nome è stato trascinato nel fango più di quanto potessi mai immaginare. Dicono che ho mangiato la carne delle mie domestiche, picchiandole con le mie stesse mani fino a ricoprirmi del loro sangue, usando incantesimi e pozioni contro il conte palatino e Megyery nella speranza di ucciderli. Mi hanno fatto diventare una donna vampiro, un abominio. Una leggenda comoda da usare contro un nemico politico e un modo sicuro per tenermi rinchiusa dentro questa torre molto a lungo. Di certo saprai che Thurzó, Mattia e Megyery hanno molto da guadagnare a tenermi prigioniera. Soldi, terre, potere. È tuo cugino Gábor che temono, e l’aiuto che noi potremmo dargli per unire gli ungheresi contro gli Asburgo. Sono convinti che la mia disgrazia costringerà te e le tue sorelle a rientrare nei ranghi per proteggere voi stessi, i vostri beni e la vostra posizione. Ecco perché ti scrivo queste pagine.
Se il conte palatino deciderà di cambiare la mia condanna e chiederà la mia testa, se continuerà a impedirmi di difendermi davanti a una corte, non avrò mai modo di spiegarti che non ho fatto nulla di male, che le mie azioni, qualsiasi siano state, facevano parte dei miei diritti di nobildonna e proprietaria terriera. Le ragazze morte erano donnacce e ladre, un cancro ulceroso nella mia casa. Avevo tutti i diritti di punirle come meglio credevo. Dovevo forse permettere che la dissolutezza e il furto si perpetrassero sotto il mio naso senza muovere un dito per impedirlo? Avrei dovuto distogliere lo sguardo mentre loro rubavano non solo i miei beni ma anche la tua eredità, finché non ci avessero ridotto sul lastrico, come poveri mendicanti? No, non potevo, non l’avrei mai permesso. Vorrei tanto che venissi a Csejthe, così potrei parlartene di persona. Vorrei tanto che per un solo istante Megyery ti allentasse le briglie, così potrei rivederti, baciarti ancora e prenderti la mano attraverso la fessura in questo muro di pietra. Sarai cresciuto, ormai, e magari avrai le spalle larghe di tuo padre, e sarai alto e bello come lui. Peccato che tu non l’abbia conosciuto meglio. Se tuo padre fosse vivo, il conte palatino e il re non avrebbero mai osato rinchiudermi in prigione. Se tuo padre fosse vivo, tu saresti qui con me adesso, e non a miglia di distanza, controllato a vista da un uomo di cui non mi sono mai fidata. Saremmo ancora una famiglia. Ma Dio ha piani diversi per noi, a quanto pare, ed è nostro dovere sopportare il presente con l’aiuto della Sua grazia divina. 10. Nonostante le rassicurazioni della mia futura suocera circa lo smisurato desiderio del figlio di conoscermi, passarono ancora sei mesi prima che io potessi posare per la prima volta gli occhi su tuo padre, in occasione delle vacanze di
Natale. Nel frattempo Orsolya non mi lasciava mai sola e ogni giorno c’era qualcosa di importantissimo da fare: un nuovo vestito da scegliere o una lettera da scrivere a qualche parente sconosciuto che magari mi aveva spedito un regalo. La sua ostinazione nel volermi insegnare come si educavano i bambini era davvero ridicola, se pensi che lei aveva tirato su un solo figlio mentre io avevo sempre badato alle mie sorelline e a un’infinità di cugini a Ecsed, senza ricevere grande aiuto da parte di mia madre, che aveva contato sulla mia maturità sin da quando ero piccola. Nulla di quanto facessi sfuggiva all’attenzione di Orsolya. Entrava nella mia stanza a qualsiasi ora del giorno e della notte con la solita sfilza di domande su come volevo la gonna nuova, se bastava il pane per la settimana o se bisognava invitare questo o quel parente a Sárvár. Dentro di me io gridavo: “Non me ne importa niente! Non me ne importa niente!”, ma sin dal primo giorno mi ero ripromessa di fare onore al buon nome della mia famiglia e così quelle parole non mi uscirono mai di bocca, sebbene mi risuonassero spesso in testa in quei primi mesi, quando Orsolya mi trattava come il suo cagnolino da compagnia. Nel giorno di Ognissanti Ferenc scrisse che sarebbe tornato a Sárvár prima di Natale. Sua madre era così euforica che il suo interesse per me si fece ancora più morboso. Durante le settimane che precedettero il suo arrivo, la contessa fece il possibile perché il mio aspetto e le mie maniere fossero tali da piacere al mio futuro marito quando finalmente ci saremmo conosciuti. Diede istruzioni sul mio abbigliamento, sul vitto e sull’acconciatura; mi fece cambiare persino la forma dei cuscini nella speranza di farmi dormire meglio, perché si era accorta che al mattino ero spesso stanca e avvilita e aveva attribuito il malumore a una carenza di sonno. «No», continuavo a dire, «non ho mai
dormito meglio in vita mia.» Non alzai mai la voce e non fui mai irrispettosa, almeno in sua presenza; davo ordine alle domestiche di portarle il suo bicchierino di vino alla sera per aiutarla a dormire e le sistemavo i cuscini con le mie stesse mani. Orsolya mi amava, mi amava così tanto che, a differenza di mia madre, non mi mandò mai via di casa. Non era solo la paura a guidarmi. Mostrandole obbedienza e gratitudine, speravo di conquistarmi un minimo di indipendenza nella mia vita con la vedova Nádasdy e suo figlio, il ragazzo che stavo per conoscere. Accadde a novembre, prima che cominciasse a nevicare. La residenza di Orsolya a Sárvár era la sua preferita, perché era stata la preferita del marito, a soli pochi giorni di viaggio da Bécs, nell’estremo occidente dell’Ungheria, al confine con gli Asburgo. L’ex conte palatino aveva fatto erigere una torre bianca nella fortezza, in cui erano situati gli appartamenti della famiglia, oltre a numerose sale dai soffitti alti, ed era lì che Orsolya aveva deciso di trascorrere i suoi inverni, circondandosi di amici se si sentiva in forma oppure recandosi ai bagni termali quando non stava bene, perché molto spesso lamentava attacchi di debolezza, nausea e mal di testa, che in realtà erano semplicemente normalissimi acciacchi dovuti all’avanzare dell’età. Ebbene, in quel periodo si era messa in testa di andare alle terme ogni giorno, sperando di accogliere Ferenc in buona salute e ottimo umore. Dovevamo mostrarci tutti al meglio per l’arrivo di Ferenc, sua madre compresa. Il mio fidanzato giunse da Bécs una sera, così tardi che eravamo già andati tutti a dormire e fummo informati della grande novità solamente il giorno seguente. Io stessa lo venni a sapere solo quando Darvulia entrò nella mia stanza per attizzare il fuoco e aiutarmi a indossare il mio abito. Avevo dormito pochissimo quella notte, perché ero rimasta
sveglia fino a tardi a leggere quei libri che Orsolya mi toglieva di mano la sera, quando ce ne stavamo sedute insieme davanti al caminetto: Aristotele, Platone, Tolomeo. A Ecsed normalmente mi svegliavo all’alba, ma Orsolya, abituata a destarsi prima del sorgere del sole per pregare, era convinta che l’alba fosse troppo tardi per una damigella altolocata e si era messa in testa di svegliarmi un’ora prima che i raggi di luce rosata si levassero sulle mura di Sárvár. Così, quando Anna Darvulia entrò nella mia stanza per attizzare il fuoco e accendere le candele, aprendo le tendine del mio letto e trasformando la penombra del mio giaciglio in una parvenza di chiarore del giorno, pensai che fosse semplicemente uno dei tanti tentativi di Orsolya per rendermi una rispettabile copia in miniatura di sé stessa. Emisi un lamento e infilai la testa sotto le coperte, ma Darvulia aveva ordini precisi. «La signora desidera che vi alziate e vi vestiate all’istante», disse. Prese un abito dall’armadio e io scivolai giù dal letto per indossarlo con le poche forze che avevo. Pensavo che Orsolya avesse in serbo per me qualche altra ora di lezione. Oltre che con la lettura della Bibbia e dei suoi studiosi e religiosi preferiti, riempiva le mie giornate perfezionando la mia abilità nelle arti che le sembravano imprescindibili nell’educazione di una donna: danza, disegno, musica, ricamo. Il ritmo del latino e le interminabili frasi del tedesco, gli ultimi trattati di astronomia e fisiognomica, le scoperte degli esploratori alla conquista del Nuovo Mondo, a cui Leopold aveva dato tanta importanza, erano del tutto ignoti a Sárvár: argomenti più adatti agli uomini, secondo l’opinione della mia futura suocera. Noi invece dovevamo stare sedute a ricamare per tutto il giorno. Per me era un’assoluta perdita di tempo. «Cosa?» chiesi a Darvulia. «Ancora ricamo? Secondo te crollerà il regno se non finisco un altro cuscino?»
La cameriera sorrideva, ormai abituata alla mia lingua tagliente. Lei non sparlava mai di me con la signora come ogni tanto facevano le altre domestiche, solo per guadagnarsi il favore della contessa. Si rivolgeva a me in modo rispettoso e preferiva stare zitta se non aveva niente da dire, cosa che accadeva di sovente; ma ogni tanto, quando aveva un attimo libero, mi portava di nascosto una melagrana o un piattino di datteri, oppure mi spazzolava i capelli a lungo perché sapeva che lo adoravo, e io le raccontavo della mia famiglia e dei miei amici lontani, o delle mie ultime letture notturne, oppure mi lamentavo per le continue e soffocanti attenzioni della contessa. In quei pochi mesi a Sárvár, Darvulia era diventata per me una specie di seconda madre, premurosa e sollecita, l’unica persona a cui avessi il coraggio di mostrare i miei veri sentimenti. Adesso mi agitava sotto il naso una gonna pulita da indossare. «Il vostro fidanzato è qui», disse. «È arrivato ieri sera tardi. La mia signora vuole che li raggiungiate per cena e io devo farvi il bagno e vestirvi per l’incontro.» Mi sedetti di fronte allo specchio. Darvulia evitava il mio sguardo e mi dava le spalle mentre posava sul tavolino il vassoio della colazione e rimetteva in ordine la pelle d’orso sul pavimento. Erano anni che lavorava in quella casa e di sicuro sapeva qualcosa sul conto del giovane Ferenc Nádasdy, ma ogni volta che le avevo chiesto se sapeva che tipo di ragazzo fosse, bello, gentile o qualunque altra cosa le venisse in mente, lei si era sempre limitata a rispondermi: «Niente, signorina, salvo che è un giovane signore raffinato e voi siete molto fortunata a sposarlo». Una risposta diplomatica che si addiceva a una domestica diplomatica. E io avevo sempre lasciato stare, per non far arrabbiare l’unica amica che avevo a Sárvár.
Ma quella mattina, quando le ripetei la domanda e lei mi diede la solita risposta – «È un giovane signore raffinato e voi siete molto fortunata a sposarlo» –, io persi davvero il controllo. «Santo cielo, Darvulia!» le urlai. «Io sono una serva qui, proprio come te, quindi cerchiamo di essere oneste tra noi, d’accordo?» Scoppiò a ridere forte, un fulmineo squillo di campanella che non avrei mai pensato potesse uscire da una bocca come la sua. «Sì, signorina», rispose. «Avete ragione. Adesso vestitevi e poi vi dirò tutto quello che so.» Mi fece il bagno, mi pettinò e mi infilò un elegante abito rosso di seta fiorentina a righe, all’epoca il mio preferito perché faceva risaltare il colore dei miei occhi. Basta velluto marrone per me: non volevo assolutamente che si ripetesse con Ferenc Nádasdy l’imbarazzante spettacolo avvenuto con András Kanizsay la sera del mio arrivo a Sárvár. Darvulia cominciò a intrecciarmi i capelli castani con un filo di perle bianche e nel frattempo mi parlò del ragazzo che stava per diventare mio marito. Aveva imparato a leggere e scrivere in ungherese a soli cinque anni, non era andato a studiare a Bécs subito dopo la morte del padre, ma era stato seguito da un tutore a Sárvár e solo pochi anni prima era stato spedito con il cugino András Kanizsay a completare la sua istruzione alla corte del re, dove viveva con la famiglia di György Bocskai. István Bocskai, il figlio di György, era infatti un suo intimo amico e viaggiavano sempre insieme. Evidentemente il mio futuro marito era uno dei favoriti del re, un giovane brillante già nominato capitano della cavalleria a soli otto anni in onore del servizio reso dal padre al paese. Un ottimo partito, mi avrebbe sussurrato all’orecchio mia madre, se solo avesse potuto ascoltare la conversazione. «Sono sicura che ne sai di più», dissi alla fine. «Ho già sentito questi racconti da Orsolya. Mi hai detto che vivi in
questa casa da quasi dieci anni.» Rimase zitta per qualche momento, esitante, e io mi chiesi a che gioco stesse giocando. Mi guardò e le rughe sulla sua fronte si approfondirono. «Posso davvero parlare liberamente con voi, signorina?» «Mi stai mettendo alla prova?» Darvulia scrollò le spalle. «Le signorine nobili dicono di apprezzare la sincerità, ma quello che vogliono davvero è che qualcuno le aduli, dicendo quanto sono importanti i loro mariti e, di riflesso, loro stesse. Non so se anche voi siete fatta così.» Io mi scostai con impazienza una ciocca dagli occhi. «Sto per incontrare Ferenc per la prima volta e mi piacerebbe davvero sapere che razza di uomo sia. Lascia che siano gli altri a adularmi.» «D’accordo, come volete», rispose e ricominciò da capo. Disse che Ferenc era un uomo onesto, un valoroso soldato e un abile cavallerizzo, molto più colto di quanto si potesse immaginare vedendo la sua passione per i cavalli e la vita militare. Era noto per essere orgoglioso e sulla prime poteva anche sembrare altezzoso, soprattutto con le signore. Spesso tollerava a fatica persino la madre, che lo riempiva sempre di premure e attenzioni. «Sembra proprio che lei straveda per lui, persino quando non c’è», confermai io. «Ma anche mia madre era così con mio fratello. Dopo la morte di mio padre, non parlava quasi con nessun altro. Credo sia normale tra madre e figlio. Qual è il pettegolezzo che gira tra le domestiche?» «Quale pettegolezzo?» «Lo so che le domestiche ridono di me quando pensano che non le senta. Cosa dicono di Ferenc?» Darvulia fece una pausa come per riflettere sulle mie parole e soppesando con la propria scala di giudizio le
informazioni in suo possesso. «Qualcuna si è vantata di essere andata a letto con Ferenc. Una sostiene addirittura di essere rimasta incinta, ma di aver abortito.» «Chi?» «Judit, la ricamatrice.» Conoscevo questa Judit e sapevo che cuciva in una stanza sul retro con altre quattro o cinque ragazze di pari età e stupidità. Più di una volta mi ero accorta del loro sorrisetto malevolo e mi ero chiesta cosa avessi fatto per offenderle. Adesso era tutto chiaro: la risata scoppiata fra le domestiche al mio arrivo, la reazione di András Kanizsay per zittirle. «E tu credi che queste storie siano vere?» chiesi. Lei si strinse nelle spalle, con aria incerta, ma non era abbastanza per placare i miei timori. «Chissà, forse sì. Ma il padrone è bello e potrebbe anche essere un loro modo per vendicarsi, vedendosi rifiutate.» «Mi chiedo se rifiuterà anche me.» «Sono certa che non lo farà. Chiunque sarebbe felice di avere in sposa una fanciulla deliziosa come voi. E poi, con la vostra ricchezza e istruzione, sarete ben più che un visino grazioso per lui. Una vera compagna.» Quindi prese una spazzola per sciogliermi i nodi dei capelli, mi abbracciò stretta e aggiunse: «Io stessa non potrei essere più fiera di voi se foste mia figlia». Immersa nel calore del suo affetto, chiusi gli occhi e mi godetti le carezze della spazzola mentre Darvulia mi legava i capelli infilando fra le trecce una vera fortuna in perle. Eppure dentro di me io continuavo a rimuginare su ciò che mi aveva detto. Che le domestiche di Orsolya avessero l’ardire di parlare così male di Ferenc era davvero inammissibile. Mi sarebbe piaciuto punire quelle insolenti, ma non ne avevo il coraggio. Non ero ancora la padrona di casa. Orsolya aveva tutti i diritti di tollerare tanta malizia e
disonestà in casa sua. Tuttavia cominciai a chiedermi cos’avevano da dire anche su di me. Ovunque andassi mi sembrava di incrociare il loro sorriso malevolo, le guance rosate e gli occhi cattivi. Non uscivo da una stanza senza lasciarmi alle spalle le risate delle ragazze. Pensavano forse che Ferenc non mi avrebbe mai amato, che mi avrebbe rispedita a Ecsed? Non riuscivo a capire come mai Orsolya si circondasse di gente così stupida, perché affidasse il cucito, la cucina e le pulizie a delle sciocche oche giulive senza un briciolo di cervello. Ma in realtà certe donne preferiscono circondarsi di stupidità sia per compassione sia per sentirsi superiori. Dopo un certo periodo iniziai a domandarmi se Orsolya non appartenesse proprio a quest’ultima specie: una sciocca che per contrasto appariva colta e raffinata. Comunque stessero le cose, cominciai a essere consapevole non solo del pettegolezzo che circolava nella residenza, ma anche dell’assoluta mancanza di paura delle domestiche. Non temevano Orsolya e nemmeno me. Solo Darvulia riusciva a imporre il rispetto, infatti la smettevano di ridacchiare solo quando entrava lei nella stanza e rimanevano zitte almeno finché quella creatura temibile si allontanava nuovamente lasciandole alle loro faccende. Allora la chiacchiera riprendeva, un brusio che mi dava sui nervi ogni giorno di più. Quando Darvulia ebbe finito di vestirmi, mi guardai allo specchio. La mia pelle era liscia e bianca, senza macchie o segni: ci tenevo a lavarmi la faccia più volte al giorno, come mi aveva insegnato mia madre, e, sebbene non fossi bella quanto lei e non avessi il viso a forma di cuore, avevo pur sempre la fronte ampia, occhi scuri ed espressivi, mani delicate che sapevano scrivere elegantemente in quattro lingue e suonare con il liuto le ultime musiche composte in
Italia. Abbozzai un sorriso e la mia espressione solenne si trasformò in qualcosa di più brioso, animato dalla stessa vivacità che possedeva mia madre prima che mio padre morisse. Un giovane uomo come il conte Nádasdy sarebbe stato felice di sedersi a conversare con me. Mi posai le mani sui capelli quasi in preghiera, quasi a voler proteggere me stessa e tutte le speranze di mia madre da quello che sarebbe potuto accadere di lì a poco. Volevo con tutto il cuore che mio marito mi amasse, di un amore abbastanza forte da proteggermi da qualsiasi avversità il futuro potesse portare: guerre, malattie, carestie. Sarei stata al sicuro da tutto se solo fossi riuscita a guadagnarmi l’amore di Ferenc Nádasdy, o almeno la sua ammirazione. Nel tardo pomeriggio Darvulia mi condusse in sala da pranzo, seguendo gli ordini di Orsolya. Ovviamente sapevo benissimo dove fosse, ma lei faceva in modo che non mi aggirassi mai da sola per casa. L’ingresso era illuminato dall’ultima grigia luce di novembre, ma io non volevo farmi distrarre dal tempo ed esibii la mia espressione più solare, la mia faccia migliore. Alla luce delle candele che rischiaravano appena la penombra riuscii a intravedere la sagoma di András Kanizsay, l’insignificante cugino dal sorriso beffardo, seduto con gli stivali sul camino. Era tornato a Bécs poco dopo il mio arrivo a Sárvár e sembrava cresciuto un po’ da quando l’avevo visto l’ultima volta. Era davvero migliorato: gambe e braccia più lunghe, torace più ampio, aspetto meno infantile, meno delicato, qualche filo di barba a temperare l’insolenza della sua bocca. Si alzò e mi rivolse un inchino quando mi vide entrare. Io risposi al saluto con meno enfasi possibile. Accanto a lui sedeva un giovane dalle spalle larghe con una massa di capelli neri e due intensi occhi neri ai lati di un naso prominente che gli dava uno sguardo da animale predatore. Un uccello da caccia, un falco. I vestiti erano
eleganti, eppure indossati senza cura, stropicciati e abbottonati a metà, quasi non volesse perder tempo dietro simili sciocchezze. Era molto alto e muscoloso, quasi il doppio di me. Accanto al piccolo ed esile András, la sua ferocia positiva saltava subito agli occhi. Non alzò lo sguardo quando entrai nella stanza, ma continuò a parlare con Orsolya, che non mi vide arrivare o non prestò attenzione al mio ingresso. Inizialmente nessuno si diede la pena di presentarci. Orsolya era seduta a un capo del tavolo, tutta emozionata, le guance rosse, immersa in una conversazione concitata. Mi sorse il sospetto che non soffrisse di nessuna malattia fisica, ma che la sua eterna prostrazione dipendesse semplicemente dalla mancanza del figlio e che il suo arrivo avesse migliorato non solo il suo spirito ma anche la sua salute. Poco dopo colse il mio sguardo e si alzò, con atteggiamento distaccato, per presentarci. «Ferenc», disse finalmente, «sono lieta di presentarti Erzsébet Báthory.» Capii all’istante che non aveva nessuna voglia di condividere le attenzioni del figlio con me. Era abituata a essere lei il centro del suo mondo. Lui mi salutò con un leggero cenno del capo e si schiarì la gola con un lieve fruscio, ahmmm. «Salve», si decise poi a dire. La sua voce era più profonda di quella degli altri giovani, quasi da adulto, ma carica di una timidezza che gli altri in genere non avevano, tanto che fece fatica a incrociare il mio sguardo e i suoi occhi oscillavano instancabilmente tra il mio viso e il pavimento, neanche dovessimo finire a letto insieme in quel preciso istante. «È un piacere conoscervi finalmente.» Io stavo per tendergli la mano, ma notai che lui non sembrava intenzionato a fare altrettanto. «Anche per me.» «Spero che diventeremo amici.» «Ne sono certa.» Feci una leggera riverenza come mi aveva insegnato Orsolya. Era tutto terribilmente formale.
András rimase in piedi accanto a Ferenc ma, quando fu evidente che il mio fidanzato non aveva più nulla da dirmi, suo cugino si rivolse a me e mi chiese come stessi. «Come vi sentite?» si informò. «State per svenire ancora? Lo chiedo perché così mi tengo pronto. Non vorrei mai che sbatteste la testa sul pavimento.» Aggrottai la fronte cercando di pensare a una risposta: non mi piaceva essere presa in giro, però non sapevo come trattarlo. Non era un domestico, ma non era neppure un membro stretto della famiglia e non mi parlava con il rispetto che normalmente mi riservavano persino i miei cuginetti, appartenenti ai rami poveri della famiglia, a cui avevo badato quando vivevo a Ecsed. Da Darvulia avevo saputo che András era un lontano parente di Orsolya accolto in casa dopo che il padre era morto e sua madre era andata in rovina. Lui e Ferenc erano stati mandati a studiare insieme a Bécs, come accadeva spesso in quei casi. In quel momento mi dissi che forse lui si sentiva molto intelligente e, chissà, forse anche terribilmente ironico. «Il sarcasmo», risposi, «indica solitamente una mancanza di intelligenza, nonché di rispetto.» Le sue maniere si fecero fintamente serie. «La mia è solo una sincera preoccupazione per la vostra salute.» «Oh, ma naturalmente», ribattei io, «ho riconosciuto la vostra preoccupazione nell’attimo stesso in cui sono entrata nella stanza. Dovete tenerla sul dorso della vostra mano, suppongo, perché ho notato che vi osservavate attentamente le unghie mentre attraversavo la soglia. Temevate forse che fossero sporche di sterco di cavallo?» «Alla faccia della vostra affermazione sul sarcasmo.» Io arrossii, ma ogni traccia di ironia si era dileguata dagli occhi di András mentre si dichiarava lieto di scoprire che non ero più la ragazzina cupa e impacciata che aveva conosciuto
nella corte di Sárvár quasi sei mesi prima, bensì una giovane fanciulla piena di ironia e temperamento. «Temevo», proseguì, «che mio cugino stesse per sposare un’austera suorina che l’avrebbe rinchiuso in una tomba ben prima del tempo.» «Sono felice che mi troviate migliorata», dissi con tutta l’acidità che riuscii a tirar fuori. «Vorrei tanto poter dire lo stesso di voi.» András piegò la testa di lato e scoppiò a ridere. Orsolya prese il figlio sottobraccio e gli raccontò quanto le avessero giovato le terme di Sárvár, quando il suo stato di salute le aveva finalmente concesso di lasciare il letto. Ferenc la fece accomodare di nuovo sulla sedia, sistemandosi rispettosamente accanto a lei per ascoltarla, anche se ogni tanto lo sorpresi a guardare fuori dalla finestra, dove la neve stava cominciando a cadere, come se avesse preferito trovarsi da qualche altra parte. Per il resto, non badò più alla mia presenza. Mi sentii abbandonata da entrambi, dal mio fidanzato e da sua madre. Le mie speranze, come il mio cuore, si erano infrante. «Non fate caso a mio cugino», disse András porgendomi una sedia. «Orsolya dipende da lui, come potete vedere.» «Sì», risposi, «stravede decisamente per lui.» András socchiuse gli occhi, anche se l’espressione ironica che gli danzava sulla bocca non voleva sapere di andarsene. «È lui che invidiate, o lei?» Io sospirai, sentendo scivolare via la maschera di formalità. «Entrambi, suppongo», mi decisi a dire, «se devo essere onesta.» András sorrise ancora. «Con me, spero tanto che sarete sempre onesta, cara cugina.» Mi prese la mano e se la portò alla bocca per baciarla. Volevo alzare gli occhi in segno di fastidio di fronte a quelle attenzioni indesiderate da parte del cugino povero, il
ragazzo sarcastico, ma feci il possibile per mantenere impassibile la mia espressione una volta ancora. «Grazie», fu tutto ciò che dissi. Per tutta la serata Orsolya subissò Ferenc di domande sui suoi insegnanti, gli studi, la gente che avevano conosciuto a corte, i balli e i ricevimenti a cui erano andati e gli amici che avevano conosciuto. Ogni tanto riuscivo a percepire un nome noto e intervenivo nella conversazione, sperando di impressionarlo con la mia consuetudine con la vita di corte e la politica – come faceva un tempo mia madre con i suoi ammiratori – , ma ogni volta che io aprivo bocca lui mi fissava per un istante come se fossi un maiale che avesse improvvisamente imparato a parlare, poi tornava a rivolgersi a sua madre senza nemmeno degnarmi di una risposta. Per la maggior parte del tempo, quindi, mi limitai a sorbire la minestra, accontentandomi di ascoltare, o al massimo scambiai due parole con András. Si informò sui miei studi, sulla mia famiglia e sugli amici che potevamo avere in comune; ogni tanto si chinava verso di me per spiegarmi il contesto di qualche storiella che Ferenc raccontava alla madre sulla vita di corte: la timidezza dell’arciduca Rodolfo, tornato di recente dalla Spagna, la sfrontatezza e la gelosia di suo fratello minore, Mattia, che riteneva di dover essere lui l’erede degli Asburgo al posto del primogenito così introspettivo. András era seduto così vicino a me che sentivo l’odore di alcol del suo alito e il calore della sua gamba attraverso la sottile seta rossa del mio abito. Si chinò su di me nel bel mezzo di una storiella sul cavallo del conte palatino per dirmi quanto il cugino amasse il teatro e come si esibisse per la famiglia reale all’Hofburg dopo aver finito i compiti pomeridiani. «Avreste dovuto vedere mio cugino con la parrucca», disse. «Una parrucca bionda con i riccioli. Sembrava un cherubino infuriato che
tira frecce dal tetto della cattedrale contro i peccatori di sotto.» Io scoppiai a ridere mio malgrado. «Shh, cugino», lo ripresi, «sto cercando di sfoggiare le mie buone maniere.» «Al diavolo le buone maniere», rispose levando il bicchiere. «Se voi foste la mia fidanzata, io vi presterei molta più attenzione, Erzsébet.» Io chinai il capo per impedire che lui o suo cugino vedessero l’espressione sul mio viso. András non era il mio fidanzato e non lo sarebbe mai stato. Non doveva permettersi di chiamarmi per nome né tanto meno di criticare quel che Ferenc faceva o diceva nei miei riguardi. Certo, avrei preferito che Ferenc mi parlasse, ma non spettava ad András farmelo notare. Non potei fare a meno di pensare a Rodolfo e a Mattia, a come si era tinta di gelosia quella che avrebbe dovuto essere l’intimità tra due fratelli. Mi girai, scostando leggermente la sedia, e non gli rivolsi più la parola per l’intera serata. Dopo cena Orsolya mi congedò e io diedi la buonanotte e mi ritirai, esausta neanche avessi camminato ininterrottamente per due mesi di fila. Darvulia mi accompagnò nella mia stanza, dove mi gettai tra le sue braccia come avrei fatto un tempo con mia madre, lamentandomi che il mio futuro marito dopo avermi salutato non mi aveva più guardato in faccia. «Non vi scoraggiate», mi disse lei spazzolandomi i capelli per calmarmi. «Vedrete che cambierà. Quale uomo potrebbe mai resistervi?» Io volevo crederle ma non ero così sicura che Ferenc Nádasdy si sarebbe mai accorto di me. Il giorno dopo ci provai ancora, e ancora quello successivo, chiedendogli notizie degli amici e degli studi, cadendo così in basso da informarmi sul tempo e le condizioni della strada durante il suo viaggio da Bécs. Ma era tutto inutile: Ferenc era formale e gentile
con me come con la madre, quasi si degnasse di rivolgermi la parola per mera educazione. Durante quelle vacanze di Natale mi parlò appena, preferendo intrattenere parenti e amici e affidandomi alle cure di András Kanizsay. Cominciai a cercare il modo di evitarli, pregando Darvulia di dire che non mi sentivo bene; invece me ne restavo a letto a leggere o scrivere lettere, tanto per passare il tempo e attendere che Ferenc ripartisse. Scrissi a mio fratello István, che cominciò a preoccuparsi quando venne a sapere che il conte Nádasdy mostrava così poco interesse per la sua futura sposa. Nella sua lettera di Natale István mi aveva chiesto infatti come andassero i miei rapporti con Ferenc e io gli confessai che in realtà erano inesistenti, perché lui sembrava del tutto disinteressato a me. «Persino ai domestici rivolge più attenzioni, persino ai cavalli, dato che passa quasi tutto il tempo nelle stalle. Non mi guarda mai e comincio a temere seriamente che, se sua madre dovesse morire prima del matrimonio, lui mi rispedirebbe subito a Ecsed visto quanto poco gli interessa la mia compagnia.» La risposta di mio fratello giunse quasi un mese dopo e io venni a sapere quanto fosse addolorato della situazione, perché l’alleanza con i Nádasdy era fondamentale per lui e per la mia famiglia. «Devi obbligarlo a guardarti», scriveva István. «Devi fargli dimenticare tutte le altre donne. Pensa a nostra madre, a tutto ciò che ti ha insegnato. Lei sa come incantare un uomo meglio di chiunque altro. Renditi bella, come fa lei, e Ferenc Nádasdy si innamorerà di te, se Dio vorrà. Se dovesse rimandarti a casa, non so proprio cosa ne sarebbe di te.» E così presi a seguire i consigli di mio fratello. Nell’ultima settimana della sua permanenza a Sárvár, cercai di conversare con Ferenc come avevo visto fare a mia madre con gli uomini di sua conoscenza, abbassando il mento e
alzando gli occhi verso di lui per comunicargli la mia modestia e la gratitudine per avermi scelta come fidanzata; oppure ridendo con aria allegra per sembrare virtuosa ma anche vivace. Il massimo che fece fu arrossire, balbettare e trovare qualche scusa per andare a controllare i suoi cavalli o a parlare con il suo domestico. Feci il possibile per abbagliarlo con la mia istruzione, discutendo della recente occupazione turca di Cipro e della sconfitta del pascià, l’anno precedente, nella battaglia di Lepanto. Ma fu tutto inutile. A cena o in compagnia, mi guardava storto ogni volta che aprivo bocca, quasi fossi una strega intenta a pronunciare un incantesimo. Negli ultimi anni tuo padre si sarebbe pentito di quei giorni, caro Pál, ma non esagero se ti dico che in quei primi tempi, da quando arrivò a Sárvár alla sua partenza due mesi dopo, io e Ferenc ci tenemmo ben lontani e ci frequentammo sempre il meno possibile. L’unico che sembrava apprezzare i miei sforzi era András Kanizsay, che cercava sempre di starmi accanto quasi per rimediare all’indifferenza del cugino, ridendo, scherzando e facendomi tanto irritare con le sue battute sfacciate, che avrei voluto essere la padrona di casa per poterlo cacciare via. Era difficile non fare paragoni tra i due – Ferenc sempre così cupo e serio, András che mi strizzava l’occhio non appena mi vedeva, quasi fossi la sua cuginetta preferita –, ma io badavo il meno possibile a quel cugino così insolente e cercavo di concentrarmi unicamente sul mio futuro marito. Ma Ferenc quando mi incontrava si limitava ad arrossire, chinando il capo e allontanandosi il più in fretta possibile nella direzione opposta. Non osavo andare a cercare Ferenc Nádasdy di persona, neppure per conversare onestamente e a cuore aperto, neppure per diventare semplici amici. C’erano troppi occhi puntati su di noi, troppe ragazzine stupide pronte a parlar male di me. La posta in gioco era troppo alta.
E così tuo padre e io non diventammo amici, non ancora. Il giorno della sua partenza non lo andai neppure a salutare, tanto ero felice di essermi liberata del peso di Ferenc Nádasdy e di poter tornare a essere me stessa. I due giovani fecero i bagagli, salutarono la contessa e se ne andarono. In seguito sentii Orsolya piangere in camera sua, ma non feci nulla per confortarla. Non potevo condividere con lei il dolore per la partenza dei ragazzi. Invece mi chiusi nella sala della musica e suonai un brano allegro con il liuto, una palotás da ballare. 11. L’amore della mia futura suocera per il figlio era così grande che lei non riusciva a sopportare la sua assenza e poche settimane dopo la sua partenza, in gennaio, rimase bloccata a letto con uno strano dolore alle gambe e al petto, che ben presto si diffuse anche alla testa. Nei mesi successivi le sue condizioni andarono di male in peggio, tanto che più di una volta arrivò persino a confondermi con una giovane cugina conosciuta da bambina, oppure con la sua stessa madre. Una notte, mentre mi chinavo su di lei per aggiustarle i cuscini, mi schiaffeggiò con tale violenza che le domestiche volevano chiamare un prete per farla esorcizzare, ma io le convinsi che era semplicemente un problema dell’età e che Ferenc non avrebbe voluto sentir parlare di diavoli e possessioni. Nei giorni seguenti Orsolya si tranquillizzò e riuscì a dormire meglio, salvo quando si lamentava dei dolori al petto e costringeva i domestici a portarla in lettiga al fiume per bagnarsi con l’acqua termale. Morì nel sonno una notte verso la fine di giugno. I domestici la trovarono la mattina riversa sui cuscini con gli occhi aperti, un po’ come quando era morto mio padre. Chiesi alla migliore ricamatrice di confezionare un lenzuolo di lino e perle in cui avvolgerla e mi comportai in pubblico quasi avessi perduto una madre, mantenendo un contegno serio,
evitando la musica e passando ore e ore in ginocchio a pregare nella cappella o in confessionale con István Magyari, il pastore di famiglia. Sapevo che Ferenc sarebbe stato informato del mio comportamento da Megyery e in quel modo speravo di dimostrargli tutta la mia amicizia e fedeltà. Dovevano passare ancora due anni prima della data fissata per le nostre nozze e sapevo alla perfezione che dovevo assolutamente convincere Ferenc che il nostro matrimonio, benché imposto dai genitori, lo avrebbe reso felice. Quando tornò a Sárvár per qualche settimana per occuparsi del funerale della madre e della sua degna sepoltura accanto all’illustre marito, il mio fidanzato era ovviamente di pessimo umore. Io gli parlai con grande affetto la sera del suo arrivo, dicendogli quanto fossi felice di rivederlo, persino in circostanze così penose, e aggiungendo che poteva contare su di me per qualsiasi cosa. Tutti i miei sforzi furono ricambiati con un semplice cenno del capo, un ringraziamento biascicato e un saluto frettoloso. Quando non scriveva lettere ai parenti, Ferenc usciva a caccia e rimaneva fuori quasi tutto il giorno. András Kanizsay e il loro amico István Bocskai gli tenevano spesso compagnia. Io mi assicuravo che al loro ritorno i domestici servissero bicchieri di vino e frutta fresca, mentre mi prendevo grande cura dell’acconciatura e dell’abbigliamento ogni volta che sapevo di doverlo incontrare, in modo che Ferenc mi vedesse sempre al meglio. Ma la situazione non cambiò di molto. All’arrivo del caldo più afoso, Ferenc e i suoi compagni tornarono a Bécs per il resto dell’estate, lasciandomi a Sárvár con Darvulia, Megyery e il resto della servitù. Nel suo testamento, Orsolya aveva nominato Megyery non solo amministratore di Sárvár, ma anche mio tutore personale nelle lezioni di luteranesimo a cui teneva così tanto. Io lo trovavo invadente come sempre e mi ritraevo se
per caso gli capitava di avvicinarsi. Anche lui sembrava non apprezzare la mia presenza in quella casa e mi parlava con freddezza ogni volta che c’era una questione da sbrigare o una lezione da studiare. Era ancora risentito con me, suppongo, perché l’avevo messo in imbarazzo di fronte alla sua adorata Orsolya. Quell’estate Megyery fu colpito da una violentissima forma febbrile che lo fece cadere in delirio per alcuni giorni e in quel periodo Darvulia si dedicò interamente a lui; già, perché tra le sue tante doti la mia amica aveva anche una straordinaria capacità di guarire i malanni, al punto che a Sárvár tutti ricorrevano a lei quando c’era un problema di salute. Se proprio non potevo rendermi utile a Ferenc, forse potevo fare qualcosa almeno per il suo odioso cugino. Chiesi a Darvulia di farle da assistente e mi misi a preparare bende e infusi, oltre a raccogliere il sangue e le sanguisughe ogni volta che Megyery doveva sottoporsi a un salasso. Mi impegnai in tale incarico con tutto l’entusiasmo e l’umiltà di cui ero capace, leggendo all’amministratore la corrispondenza o i brani della Bibbia quando si sentiva gli occhi stanchi, e chiesi al suo pastore di stargli accanto e tenergli compagnia quando io rubavo un paio di ore di sonno. Ogni sera gli servivo personalmente un bicchiere di vino per farlo riposare meglio, non dissi mai nulla di offensivo e alla fine Megyery si affezionò a me sempre di più. Mi confidò persino di avere scritto a Ferenc per lodare il mio comportamento, cosa che ovviamente io avevo sperato sin dall’inizio. Ben presto Megyery cominciò ad affidarmi incarichi sempre più delicati, come pagare il saldo del chirurgo con la rendita della proprietà o rispondere alle lettere dei mezzadri. Volle che chiamassi il figlio del macellaio, un certo László
Bende, per fargli qualche domanda circa una rissa avvenuta la settimana prima con uno dei nostri domestici. Il giovane – semplice e nervoso, con le mani straordinariamente pulite – fece fronte al mio interrogatorio con un’aria imbarazzata, il mento alzato e gli occhi fissi sulla mia spalla sinistra. Non era abituato a rispondere a una donna, oltretutto così giovane. Lo mandai via, certa che in futuro avrebbe saputo gestire le discussioni con più sangue freddo. Mi stavo preparando a diventare la signora di Sárvár e a familiarizzare con i problemi quotidiani di una casa così grande, con così tanto personale. Un giorno Megyery mi pregò di risolvere un litigio tra due domestiche per una gonna scomparsa. La colpevole era la stessa Judit che aveva confidato a Darvulia di essere rimasta incinta di Ferenc e di aver perso il bambino l’estate prima del mio arrivo a Sárvár. L’altra domestica aveva accusato Judit di averle rubato il suo capo d’abbigliamento preferito, una gonna con raffinati e preziosi ricami in seta regalatale da Orsolya prima di morire. Judit aveva negato tutto ed erano arrivate alle mani nella stanza del cucito. Le due ragazze avevano cominciato a spingersi, strapparsi i capelli e graffiarsi fino a farsi uscire il sangue. Le loro urla erano risuonate per tutta la casa prima che gli altri domestici riuscissero a separarle e mandassero a chiamare Megyery, che spedì me in sua vece. Quando fui sul posto, mi misi a interrogare davanti alle altre domestiche la ragazza accusata del furto, in modo che fosse ben chiaro a tutti che mi comportavo in maniera equa, dando a Judit l’opportunità di difendersi, ma lei si rifiutò di dirmi dov’era nascosta la gonna, anzi, continuò addirittura a negare di averla rubata. «Non ho niente da dirvi», ripeteva alzando il mento in aria di sfida. Judit – una donna ormai fatta, con il seno e i fianchi ben sviluppati mentre i
miei erano ancora piatti come quelli di un ragazzo – era grossolana nell’abbigliamento e nella pulizia, ma rosea e formosa, e guardandola da vicino, con i suoi occhi blu che mi lanciavano strali di odio, capii perché fra tutte le domestiche Ferenc sarebbe potuto andare a letto proprio con lei. Pensai ai piccoli occhi animaleschi di Ferenc che cercavano i languidi occhi blu di Judit e provai una voglia immensa di schiaffeggiare quel viso insolente. La dissolutezza e il furto non potevano rimanere impuniti tra i domestici di casa Nádasdy. Ferenc forse non aveva un’alta opinione di me, tuttavia, se fossi diventata la padrona in quella casa, avrei dovuto occuparmi di persona e quotidianamente della servitù: sarei stata io ad assumerli e a licenziarli, e a farli lavorare in armonia. Ferenc non era tenuto ad amarmi però, per Dio, avrebbe rispettato il mio ruolo e la mia dignità, e così avrebbero fatto anche i domestici. Loro, almeno, avrei potuto controllarli. Ma come risolvere la questione? Quello era il problema. Mia madre non avrebbe avuto esitazioni. A Ecsed la servitù la adorava, sebbene lei sapesse essere severa quando serviva, soprattutto in caso di furto ma anche di comportamenti licenziosi o indisciplinati. Essendo una devota seguace di Calvino e della sua dottrina della depravazione totale, cioè dello stato abietto di peccato in cui tutti gli uomini vivono, puniva le domestiche colpevoli di concupiscenza facendole spogliare e mandandole a lavorare nude nella corte, dove gli uomini potevano radunarsi e ridere di loro e schernirle, facendo versi animali e scherzi volgari. In quel modo mia madre voleva indurre le ragazze a comprendere il valore del pudore e della modestia, nonché il loro posto all’interno della casa. Dopo la punizione di solito tornavano da lei piangendo e chiedendole perdono. Si era
guadagnata la loro fedeltà occupandosi dell’educazione dei loro figli o della dote delle loro figlie, promettendo alle sue favorite che le figlie sarebbero state assunte al loro posto o raccomandate a qualche altro parente. Loro la amavano per quello. Le domestiche di mia madre superavano sé stesse quando dovevano confezionarle un abito nuovo e facevano a gara per portarle un mazzo di fiori se pensavano che potesse esserle gradito. Lei le ricompensava anche con qualche regalo: una stoffa pregiata, un oggettino d’argento, ogni tanto un fiorino d’oro, che loro conservavano gelosamente come fossero hajduk. Era la sua specialità farsi amare da chiunque la incontrasse. Così quel giorno io dissi a Darvulia che Judit, colpevole di aver rubato un vestito, non doveva indossare il suo fino all’ora di cena, e fare le pulizie nella corte, sotto gli occhi tutti. Judit scoppiò a ridere. «Chi vi darà ascolto?» obiettò. «Non siete la padrona qui e il signore neppure vi guarda.» Io diedi un’occhiata alle altre domestiche radunate nella stanza del cucito, le ricamatrici e l’aiutante della cuoca con una bimba piccola sempre in mezzo ai piedi. Povere donne, con ben poche qualità, niente istruzione e niente dote. Erano arrivate al castello anni prima, quando comandava Orsolya, era vero, eppure in futuro quel ruolo sarebbe spettato a me e a me dovevano dimostrare fedeltà. «Forse non sono ancora la padrona», replicai, «ma lo sarò tra non molto e terrò presente chi mi è stato fedele e chi no. Chiunque mi ritenga ingiusta è libero di cercarsi un’altra sistemazione.» Le domestiche si guardarono, ma nessuno si mosse. Io mi girai verso Darvulia. «Spogliala e spediscila a lavorare nella corte per il resto della giornata.» Quando Darvulia si avvicinò a Judit per scioglierle i lacci dell’abito, la ragazza perse tutto il suo piglio aggressivo. Scoppiò in lacrime e si buttò ai miei piedi, supplicandomi di non sottoporla a una simile umiliazione, ma io rimasi
impassibile. Due ricamatrici più anziane la spogliarono a forza e la mandarono nella corte a cucire i suoi pezzi di stoffa su una panca di pietra, tremando e piagnucolando sotto il sole cocente. I domestici e gli stallieri uscirono all’aperto apposta per prenderla in giro e gridarle insulti, mentre le altre cameriere evitavano di guardarla quando passavano con il secchio del sapone o del bucato. Io ero soddisfatta di avere scovato una punizione adatta al furto e alla lascivia insieme, e ritenevo la reazione di Judit vagamente esagerata, dal momento che il castigo era durato un solo giorno e aveva sofferto unicamente la vergogna e il calore del sole. Verso il tramonto la feci rientrare a casa e ordinai a Darvulia di spalmarle della crema sulla pelle arrossata, soprattutto tra le scapole e sul seno. Le mandai anche una domestica con del pollo arrosto e un bicchiere di vino, facendole sapere che il giorno dopo poteva prendersi una mattinata libera ma che per il pomeriggio la attendevo di nuovo nella stanza del cucito. Si sarebbe ristabilita completamente nel giro di un paio di giorni, ne ero certa. Judit non venne da me piangendo e chiedendomi perdono come le domestiche di mia madre, ma la mattina dopo la gonna riapparve magicamente nel baule della sua proprietaria e per diversi mesi non sorsero più discussioni tra le donne di servizio a Sárvár. Un trionfo, commentò in seguito Megyery, perché adesso tutti sapevano che io ero una padrona imparziale che agiva all’insegna della giustizia e dell’onestà, avrebbe mantenuto la pace dentro casa anche in assenza di Ferenc e badato alla salute e al benessere di tutti, come è compito di una brava moglie. Al suo ritorno, Ferenc avrebbe trovato una proprietà ben amministrata che funzionava grazie a me e in me avrebbe finalmente visto una futura consorte pronta a prendere il suo posto accanto a lui. 12.
Quell’autunno Sárvár doveva ospitare un evento che Orsolya aveva programmato ben prima del mio arrivo: la festa in onore del fidanzamento tra il figlio del conte palatino e la figlia dei conti Báthory. È vero, l’inchiostro sui documenti ufficiali si era ormai seccato da anni, ma solo adesso la famiglia e gli amici si sarebbero riuniti per vedere Ferenc mettermi l’anello al dito e riconoscere pubblicamente ciò che prima era solo sottinteso. Adesso che mi ero guadagnata il suo rispetto, Megyery chiedeva il mio consiglio per sistemare la proprietà in previsione dell’arrivo di Ferenc e del suo seguito. Mi sarei occupata io di far pulire le stanze e cambiare la biancheria, piantare nuovi alberi nella corte e imbiancare i muri prima che il mio fidanzato tornasse dalla corte degli Asburgo. Mi ero sforzata così tanto di appartenere a Sárvár, che adesso quel luogo era diventato la mia vera casa. L’unico tassello che mancava era che Ferenc Nádasdy si innamorasse di me e potessimo godere insieme del nostro rapporto e del matrimonio ormai imminente. Il pomeriggio in cui arrivò il mio futuro sposo mi trovavo nella stanza di Megyery, in attesa delle ultime istruzioni sull’arredamento nelle camere degli ospiti e sulla cena, quando sentimmo i domestici annunciare che erano giunti gli uomini da Bécs. «Andate, andate», si affrettò a dirmi il mio tutore. «Non fate attendere il vostro signore. Sarà lieto di vedervi e di apprezzare quanto siete migliorata in questi ultimi mesi, in bellezza e temperamento.» Attraversando le sale di Sárvár per andargli incontro, speravo tanto che Megyery avesse ragione, ma non osavo credere che potesse essere vero. Era una giornata grigia, carica di nuvole che minacciavano pioggia. Avevo dato ordine ai domestici di radunarsi in attesa nella corte, dove Ferenc era già smontato da cavallo e stava dando istruzioni agli stallieri. Indossava un
elegante mantello giallo che contrastava con i suoi colori scuri e la carnagione abbronzata dal sole estivo; i capelli diventati più lunghi conferivano un’aria trasandata al suo abbigliamento, sebbene gli occhi sotto le sopracciglia nere sembrassero ancora più fieri di quanto non ricordassi. Alcune ciocche nere gli si erano incollate alla fronte per il sudore. «Benvenuto a casa, signore», lo salutai. «Grazie, Erzsébet», rispose lui. Era la prima volta che mi chiamava per nome. Fece un leggero inchino e si voltò verso i suoi compagni di viaggio. «È bello essere a casa.» Diede una pacca al suo cavallo nero e sussurrò qualcosa a István Bocskai, così piano che io non riuscii a sentire, suscitando all’istante un sonoro scoppio di risate, carico di allusioni e sottintesi. Si era già scordato di me. Mi rivolsi allora ad András Kanizsay nel tono più formale che riuscii a trovare. «Benvenuto, cugino. Spero che il viaggio non sia stato troppo faticoso.» András mi osservò da capo a piedi e il suo volto si aprì in un sorriso. «La tua signora è cresciuta dall’inverno scorso, Ferenc», disse. «E guarda un po’, le è cresciuto anche il seno! Sarà un’ottima moglie, vedrai.» Io avvampai, un rosso acceso che mi partiva dalla pancia e mi arrivava alla punta dei capelli, ma Ferenc si limitò a darmi un’occhiata per poi rivolgere lo sguardo altrove. Forse era imbarazzato quanto me, oppure la tredicenne che aveva di fronte non destava in lui alcun interesse, né il suo viso né il suo seno appena abbozzato. Invece rimase a parlare a lungo con lo stalliere del suo cavallo, che temeva si fosse azzoppato. András abbassò la voce e in tono più serio mi disse: «Perdonatemi, cugina, non avevo intenzione di offendervi». «Non datevene pena.»
«È un piacere rivedervi. No, non fate quella faccia arrabbiata. Ho cavalcato ore e ore per venire qui da Bécs e in tutto questo tempo non ho visto nulla di più delizioso di voi.» «Grazie cugino, i vostri complimenti mi fanno piacere.» «Allora perché sembrate così offesa?» «Oh no, non lo sono affatto. Mi dispiace davvero... abbiamo così poca compagnia da queste parti, che alle volte dimentico le buone maniere.» Rivolsi uno sguardo a Ferenc. «Anche il mio signore sembra dimenticare sé stesso ogni volta che torna a casa. Anche una semplice occhiata da parte sua potrebbe bastare.» «Mio cugino al momento è distratto dai problemi del re. Il vecchio Massimiliano è stato molto malato ultimamente e per Ferenc è un grande dispiacere.» Aggrottò la fronte. «Va tutto bene, signorina? State forse piangendo?» Io mi asciugai il viso. «No, affatto, è solo una goccia di pioggia.» Sulla loggia attorno alla corte interna le schiere di domestiche e cuochi, valletti e stallieri osservavano attentamente la scena, ansiosi di vedere come mi avrebbe trattato Ferenc dopo il problema con Judit. Lo vidi lanciare uno sguardo alla ragazza, che se ne stava alla ringhiera con il mento alzato, gli occhi blu e caldi come la brace che oscillavano tra lui e me. Non bastava a confermare il suo amore per lei, è vero, ma era sufficiente per lasciare una piccola scheggia di ghiaccio nel mio cuore, destinata a non sciogliersi mai più. Agli occhi del conte io ero ancora una bambina, una sposa che gli veniva imposta contro il suo volere, e adesso lo sapevano tutti, compresi i domestici. Arrivai persino a chiedermi se Ferenc e Judit sarebbero finiti a letto insieme non appena io avessi distolto lo sguardo. András venne a consolarmi porgendomi il braccio e accompagnandomi dentro casa per ripararmi dalla pioggia. La
sua pelle, a contatto con le mie mani, era calda e piacevole, come il corpo di un cavallo. Ferenc ci seguiva, deliziando István Bocskai a bassa voce con una storiella su una ragazza di loro conoscenza, domestica di una famiglia nobile di Bécs, che era rimasta incinta dopo che un loro amico le aveva dedicato un po’ troppe attenzioni. Era stata licenziata, avevano sentito dire, non appena la padrona era venuta a conoscenza del problema. Entrai in casa a testa alta, con l’eco delle loro risate nelle orecchie. Cosa dicevano di me, mi chiedevo, la sera mentre bevevano l’ultima coppa prima di andare a dormire? Cosa venivano a sapere le domestiche di Bécs di me, la moglie bambina di Ferenc Nádasdy, nel buio delle loro stanze? Mi convincevo sempre più che il nostro matrimonio sarebbe stato una mera unione politica, privo della benché minima gioia, sia per lui sia per me. Ripensai al matrimonio dei miei, al bene che si volevano e che volevano ai loro figli, e mi sentii terribilmente sola. Non amavo Ferenc più di quanto lui non amasse me, ma avevo sperato che potessimo almeno diventare amici, godendo della reciproca compagnia oltre che del potere e della ricchezza che la nostra unione ci avrebbe arrecato. Salvo András, a casa Nádasdy non c’era nessuno della mia età. Darvulia era una cara amica, ma non potevo certo cercare compagnia tra le domestiche – ricamatrici, lavandaie, cuoche, cameriere –, del tutto prive di buone maniere e istruzione. Qualsiasi cosa dicessi o facessi, Ferenc non cercava mai la mia compagnia e a poco a poco tutti gli sforzi che facevo per guadagnarmi il suo amore cominciarono a sembrarmi ridicoli, persino spregevoli. Rientrata in casa, mi accertai che ai signori non mancassero cibo e vino fino a sera, poi, inchinandomi in segno di deferenza – più di quanta ne sentissi in realtà –, mi ritirai per la notte, godendomi l’aria fresca sul viso in fiamme. Nei
corridoi camminai nell’ombra per evitare gli sguardi delle domestiche, le risatine maligne dei valletti, affinché nessuno potesse assistere alla mia vergogna. 13. In ottobre, in occasione della festa di fidanzamento, vennero a trovarmi mia madre e mio fratello insieme ad altri amici e parenti, nobili provenienti da tutta l’Ungheria del Nord. Ero al colmo della felicità all’idea di rivedere finalmente István e mi misi a correre per le sale e attraverso la corte non appena sentii alla finestra le note familiari della voce di mio fratello. Non era ancora smontato da cavallo che si ritrovò le mie braccia strette al collo; quando mi baciò teneramente sulla fronte, mi ricordai dei nostri giochi nella corte di casa, il pascià e sua moglie, che faceva di tutto per farsi amare. «Erzsébet, mio Dio», esordì, «sei davvero tu? Sei così alta, ormai sei proprio una donna.» Mia madre scese dalla carrozza. Era cambiata molto in quell’anno e mezzo, grigia sulle tempie e cerea in viso, ma mi abbracciò a lungo e io attesi finché non mi lasciò andare. «Ma guardati», mi disse, «le donne saranno tutte invidiose della tua bellezza.» Era il complimento più lusinghiero che potessi immaginare. Io abbozzai un sorriso e mi lasciai baciare, quindi li feci accomodare dentro casa. Nell’ultima ondata di caldo soffocante che patimmo quella settimana, i raccolti appassirono e i fiumi si ritirarono più del solito dai loro argini erbosi, lasciando allo scoperto pozze maleodoranti di pesci morti e fango secco. Ogni giorno gli uomini andavano in città, prima a fare una capatina ai bagni, quindi al di là del fiume, in cerca di una casa dove bere e giocare a carte per sfuggire al gran caldo. Io ero ben felice di liberarmi di loro e della pena di dover vedere Ferenc e sopportare András, sebbene le loro passeggiate mi privassero anche della compagnia di István. Poi
scendevano quelle serate afose e immobili in cui il mondo intero sembrava arrestarsi e le stelle smettere di muoversi nel firmamento. Io, mia madre e Darvulia ci rifugiavamo in una stanza più fresca al piano di sotto, dove ci alzavamo le gonne fino al ginocchio sventolandoci e succhiando pezzettini di ghiaccio che ci portavano i domestici dalla serra fredda, briciole d’inverno conservate nella segatura per quei momenti di disagio. Dato che avevo fatto spegnere un gran numero di candele per non aumentare ulteriormente la temperatura, le stanze erano più buie del solito e tutto quello che riuscivo a intravedere era la capigliatura nera di Darvulia mentre attendevamo il ritorno di Ferenc, András e mio fratello. Una sera gli uomini rientrarono ben oltre la mezzanotte, ubriachi e allegri, e io scesi per augurare loro la buonanotte e accertarmi che fosse tutto in ordine prima di andare a dormire. Ferenc mi seguiva, come sempre, mentre lo guidavo alla luce della mia candela verso la porta della sua stanza. Non ci scambiavamo mai neppure una parola, ma penso fosse consapevole – come del resto lo ero io – che prima o poi saremmo diventati entrambi i padroni di quella casa. Lui era un orfano, io quasi, e al riparo dallo sguardo vigile dei nostri accompagnatori in quel momento eravamo finalmente soli. Mi fermai davanti alla porta e stavo per augurargli la buonanotte in modo educato come al solito, quando, guardando i suoi occhi scuri e il suo bel viso rapace, mi venne istintivo posargli una mano sul braccio e accostarmi a lui per sussurrargli in un tono confidenziale che ancora non mi conoscevo: «Buonanotte». Era la prima volta che lo toccavo e, sotto la mia mano, la sua pelle era bollente. Quel contatto era molto più piacevole di quanto avessi immaginato, caldo, intimo e pieno di aspettative. «Spero che possiate dormire bene.»
Lui fece un passo indietro, paonazzo e infuriato. «Cosa state facendo?» esclamò. «Tornate nella vostra stanza, signorina, e tenete sempre bene in mente chi siete e dove vi trovate. » Ero tornata «signorina», non più «Erzsébet». Intravedevo la sua espressione severa nella penombra, lo sguardo da falco di un prete che rimprovera una prostituta. Se incoraggiava la sfrontatezza nelle sue domestiche, di sicuro non l’apprezzava nella sua promessa sposa. Per lui dovevo essere sempre casta, obbediente e virtuosa, gli occhi bassi come quelli delle antiche statue della Vergine nascoste nei bauli, negli armadi e nei sotterranei ovunque la nuova fede aveva soppiantato quella antica. Non c’erano mariti in quelle immagini, mi resi conto in quel momento, solo la madre e il figlio. Nessun amore terreno, ma solo sottomissione al volere di Dio. Ferenc fece ancora qualche passo indietro, aprendo la porta mentre la luce della candela allungava le nostre ombre. Sentii la porta chiudersi a chiave e rimasi sola sulle scale della torre. Alla luce fioca della mia candela, che riusciva a stento a dissolvere l’oscurità, mi sentii più sola che mai. Ferenc mi avrebbe sposato e sarei diventata di sua proprietà, su quello non c’erano dubbi. Il mio nome e la mia dote, io stessa, tutto sarebbe finito nelle mani dei Nádasdy, ma il cuore di tuo padre, Pál, mi sarebbe rimasto precluso, almeno per il momento. La casa era sempre più buia e silenziosa e sentivo solo il brusio dei valletti di Ferenc che parlavano con lui, il mormorio lontano degli altri ospiti rimasti nella sala grande a bere alla luce del fuoco, il fruscio delle gonne delle domestiche che andavano avanti e indietro al ritmo del caldo battito pieno di vergogna del mio cuore. Per un attimo alzai la mano come per bussare alla porta di Ferenc, ma la abbassai subito e rimasi tremante al buio, senza sapere
dove andare o cosa fare. Al piano di sotto sentii un rumore, un trepestio sulle assi di legno. Nella debole luce della candela, intravidi una sagoma scura: András Kanizsay che cercava di nascondersi nell’ombra. Aveva la faccia rivolta verso di me e per un attimo mi parve di scorgere un’espressione divertita sulle sue labbra. Non avevo proprio idea di cosa ci facesse lì. Dopo un momento lo vidi ritrarsi in gran fretta e udii i suoi passi che si allontanavano. Era davvero intollerabile che avesse assistito alla mia umiliazione, così mi precipitai a chiudermi nella mia stanza in fondo al corridoio, dove mi attendeva il letto candido con le sue coperte e le tendine, i cuscini e il materasso, un nido accogliente per un’imperatrice. Un’imperatrice che avrebbe dormito, come sempre, da sola. Le mie damigelle sciolsero i lacci del vestito e mi slegarono i capelli, sfilando perle e pettinini. Darvulia si presentò con un intruglio di fichi messi a bagno nel brandy che secondo lei mi avrebbe aiutato a prendere sonno. Mi gettai tra le sue braccia e scoppiai a piangere. Lei fece finta di essere all’oscuro di tutto, ma io ero quasi certa che in qualche modo la voce si fosse già sparsa a Sárvár, giungendo alle orecchie delle domestiche che ridevano maliziose quando mi vedevano e degli uomini nella sala che brindavano e cantavano allegri. Bevvi la pozione e chiusi gli occhi mentre Darvulia mi spazzolava i lunghi capelli castani, poi sprofondai in un torpore agitato in cui rivedevo di continuo l’espressione di Ferenc trasformarsi sotto i miei occhi e riempirsi di paura e repulsione. La stanza mi girava intorno per effetto del brandy. Era passata la mezzanotte da un pezzo e io ero ancora nel dormiveglia, quando la porta della mia stanza emise un cigolio, rivelando una sagoma scura contro il muro, l’ombra di qualcuno che stava entrando. Mi alzai di scatto a
sedere, facendo gemere le corde che reggevano il materasso. «Darvulia? » chiesi. «Non proprio», rispose una voce maschile. Poi l’uomo entrò e si chiuse la porta alle spalle. Eravamo soli nell’oscurità. Un riflesso di chiarore lunare filtrava dalle imposte trasformando le sagome in forme mostruose: la sedia con il leone in una belva feroce con le fauci sgocciolanti, il tavolo nell’angolo in un catafalco. Le coperte del letto giacevano attorno ai miei fianchi come mucchi di terra su una tomba fresca, ma non osavo scostarle. La stanza ondeggiò, poi tornò a fermarsi, mentre il liquore mi scorreva ancora nelle vene. Mi accorsi che stavo trattenendo il fiato e ripresi a respirare con un lieve sospiro, l’unico suono che si udì in quello spazio buio, quell’umida ed effimera oscurità in cui i suoi passi sul pavimento si avvicinavano verso di me. «Devi sentirti molto sola, senza nessuno che ti tenga compagnia», disse András Kanizsay. Mi strinsi le coperte al petto. Avevo paura di lui, paura di me stessa insieme a lui. Ero in preda all’assurdo desiderio di chiedergli di restare, di gettargli le braccia al collo e baciargli la pelle calda, ma sapevo che non era possibile. «Vattene», sibilai. «Non credo che sia quello che desideri davvero. Secondo me vuoi che resti qui con te.» «Torna nella tua stanza, András, non sto scherzando.» Stavolta la mia voce era più ferma, più decisa, più consapevole del pericolo in cui mi trovavo. András era in piedi accanto al letto, così vicino che potevo sentire l’odore di pálinká del suo alito, dolce, ramato e zuccheroso. Sapevo che avrei dovuto chiamare le guardie, ma lui era già nella mia stanza e ormai mi aveva compromessa. Eravamo già complici nella colpa. Nessuno mi avrebbe creduto se avessi detto che non era accaduto
nulla di male. Nessuno gli avrebbe creduto se avesse detto di non avermi costretto con la violenza. Nella stanza il caldo di quell’ottobre si era fatto soffocante e quando venne a sedersi sul bordo del letto il sudore oleoso della sua pelle si unì al mio, all’odore vagamente acre delle sue ascelle, al profumo più dolce dei suoi capelli e all’aroma zuccherino del suo fiato. Io rimanevo immobile, sentendo il sangue pulsarmi nelle orecchie. Nonostante le lezioni di mia madre sulle arti muliebri, non sapevo cosa fare. Non ero ancora una moglie. Sentivo che ogni mossa da parte nostra ci avrebbe messo ancora più in pericolo. Intravedevo il suo contorno nella debole luce che filtrava dalla finestra. Il vino aveva cancellato la sua solita aria beffarda, facendo posto a una sorta di triste onestà che riuscì quasi a impietosirmi. Il cugino insignificante, diventato per un momento importante. «Sei così bella», disse. «Ferenc non la pensa così.» «Ferenc non ti vede. Io invece ti vedo. Se fossi stato il figlio del conte palatino, se fossi stato un conte abbastanza ricco, sarei potuto diventare tuo marito.» «Smettila di parlare di cose che non avverranno mai. Io sposerò Ferenc.» «Ma non l’hai ancora sposato.» Venne più vicino e mi spinse contro il materasso. «Dal primo momento che ti ho vista, quando mi sei caduta fra le braccia dalla carrozza, ho saputo che eri fatta per me.» Io scoppiai a ridere. «Ero convinta di essere una bambina, più piatta di un ragazzino, un’austera suorina che avrebbe rinchiuso tuo cugino nella tomba.» «Adesso non sei più piatta come un ragazzino. Ho visto come mi guardi. Ferenc non ti conosce. Lui adora la scherma e i cavalli, e poi ha il suo buon nome da difendere. In più ci sono le domestiche e gli amici. Non ha tempo per la sua
deliziosa fidanzatina.» Le sue mani erano più ruvide di quanto pensassi, rovinate dalla spada e dalle briglie, e mi stringevano forte i polsi contro il materasso morbido. «Adesso urlo», dissi ma le parole uscirono impalpabili come un sospiro. «No, non lo farai. Desideri che resti qui come lo desidero io. Sarai dolce e arrendevole, e mi lascerai essere tuo marito per questa notte.» Se avessi voluto, mi sarei difesa. Anche a quel punto avrei potuto scalciare, prenderlo a schiaffi, rovesciare i mobili, chiamare le guardie, chiamare Ferenc. Forse avrei dovuto. Ma Ferenc non mi voleva, invece András sì. Lui mi dava piacere e amicizia, al posto di solitudine e rancore. Avevo davanti un uomo che mi avrebbe amato non per la mia dote e gli obblighi familiari, non per i figli che gli avrei dato, ma per me stessa. Se avessi immaginato allora che genere d’uomo era davvero András, se avessi saputo come mi avrebbe voltato le spalle, lo avrei cacciato all’istante. Ma quella notte, che Dio abbia pietà di me, desiderai che rimanesse lì, con il suo peso a schiacciarmi sul letto e le sue mani fra i miei capelli. Le sue attenzioni mi avevano sempre fatto più piacere del dovuto e in quel momento, nell’oscurità, fui certa di amarlo. Con l’innocenza di una bambina, pensai che, se non potevo avere l’uomo che in teoria avrebbe dovuto desiderarmi, avrei avuto l’altro al posto suo. Le sue mani si posarono sulla mia camicia da notte e la sollevarono, e io non ero più da nessuna parte, ero buio e oscurità. In qualche punto del corpo sentii un dolore lacerante, e lui era solo un’ombra sopra di me, inconsistente, come uno spirito frutto di un incubo. Ormai dovevo arrendermi, era troppo tardi per mandarlo via. Allora gli misi le
braccia attorno al collo e le mani tra i capelli, lisci e morbidi e odorosi di tabacco. Ma la sua barba mi lasciò le guance rosse e scorticate, tanto che Darvulia – senza lasciarsi sfuggire un commento – fu costretta a spalmarmi un unguento sulle zone più delicate, arrossate e in fiamme, una terra vergine invasa dallo straniero. 14. Così furono piantati i semi della disgrazia. Ho ripensato spesso a quella notte, Pál, alla fanciulla che ero allora, una sciocca convinta di essere innamorata, di essersi scelta un uomo che l’avrebbe amata. Che aveva rischiato di rovinare tutto per un attimo di disperazione. Quando io e Ferenc ci ritrovammo di fronte ai nostri amici e parenti per la cerimonia di fidanzamento, quando alzai la mano di fronte ai nostri amici e parenti per consentirgli di infilarmi l’anello d’oro e rubini un tempo appartenuto a sua madre, nel mio grembo già cresceva il figlio di András Kanizsay. Il vestito rosso che mia madre e Darvulia mi avevano fatto indossare quella mattina aderiva a tal punto alle costole che temevo di svenire da un momento all’altro, ed ero così pallida e verde che Ferenc mi sussurrò all’orecchio se non preferissi rimandare la festa di un giorno o due. «Certo che no», risposi in un tono più secco del dovuto, così per tutto il resto della giornata Ferenc rimase di cattivo umore ed evitò persino di rivolgermi la parola, senza neppure dirmi «buonanotte» a fine serata. Invece ballai con István Bocskai, amico di Ferenc presso la corte imperiale e alleato dei miei zii Báthory della Transilvania, il suo braccio stretto intorno alla mia vita mentre mi faceva volteggiare sulle vivaci note di una palotás. Gli occhi di tutti erano puntati su di noi, compresi quelli del mio András, che non mi invitò a ballare. Invece preferì guardare e continuare a bere, prendendo in giro il cugino per causa mia, come aveva sempre fatto. La
sua freddezza mi spaventò e mi indusse a pensare che forse la notte insieme era stata solo un episodio, un errore dovuto all’alcol che alla luce del giorno lui intendeva rinnegare. Cercai di convincermi che non mi interessava più, che non m’importava nulla se mi amava o no, ma non riuscivo a soffocare l’ondata di calore che sentivo ogni volta che i nostri sguardi si incontravano, la morsa improvvisa nelle viscere che mi sembrava amore. In tutta la serata mi disse solo un «buonasera signorina» e io andai a letto domandandomi perché allora mi sorrideva a quel modo ogni volta che mi sorprendeva a fissarlo. Mi ero quasi rassegnata a cancellarlo dalla mente, a chiudergli la porta per sempre, ma lui venne di nuovo nella mia stanza, protetto dall’oscurità, giurando che quella sera si era comportato così solo per proteggermi. «Devo essere distaccato quando ci sono gli altri», mi disse, «altrimenti dovrei dichiarare davanti a tutti che ti amo, e tradire entrambi.» Provai un immenso sollievo e gli credetti. Piansi e lo coprii di baci, supplicandolo di non lasciarmi mai, e gli dimostrai per la seconda volta l’amore che suo cugino non voleva o non poteva accettare da me. In pubblico io e András continuammo a comportarci come sempre, io fingendo irritazione e András manifestando il suo solito umorismo bonario. Nessuno faceva caso al fatto che la mia irritazione adesso nascondeva un nucleo di timore che qualcuno potesse scoprire il nostro segreto, né che il suo umorismo celava in realtà sentimenti ben più affettuosi, o almeno così credevo. Non fece più commenti sul mio seno o la mia età, né di fronte a Ferenc né in privato. Venne a trovarmi altre due o tre volte quel mese, quando gli sembrava sicuro, mormorando paroline dolci e portandomi qualche regalino: un pettinino, un nastro comprato al mercato, piccole cose, il massimo che si potesse
permettere. Ogni sera io stavo ben attenta a non chiudere la porta a chiave e mi fingevo sorpresa ogni volta che mi svegliavo sentendo il suo fiato dolce sulle labbra, eccitata di avere un segreto tutto mio da nascondere, qualcuno da amare per mia scelta. András si tratteneva un’ora o due, poi sgattaiolava via prima che Darvulia entrasse con la colazione. Pensavamo di essere davvero furbi: in pubblico tenevamo un comportamento serio e onesto, ma la notte, come diceva lui, era tutta per noi. Nessuno avrebbe mai scoperto il nostro segreto. Passarono un paio di mesi o forse di più prima che mi accorgessi che mi era scomparso il ciclo. Non era mai stato regolare e io ero troppo giovane per farci caso. Ma mi resi conto di quanto fossero cambiati gli odori: il viburno era diventato così dolciastro e nauseante sotto la mia finestra che pregai il giardiniere di sradicarlo, mentre l’odore del pane appena sfornato era forte come la puzza del concime nelle stalle. Dopo qualche settimana, il cibo era così sgradevole che riuscivo a mandar giù solo qualche scodella di brodo e un goccio di birra chiara. Non uscivo quasi più dalla mia stanza, con la scusa di una violenta forma di febbre infettiva. Giravano così tante malattie a quei tempi che nessuno ebbe il minimo sospetto, o almeno nessuno venne a dirmelo. Più di una volta pensai di confidarmi con András e mi domandavo come avrebbe reagito, se sarebbe stato orgoglioso o spaventato. Se mi avrebbe tradito, lasciandosi scappare il mio segreto in un attimo di ubriacatura o di paura o se mi avrebbe chiesto di fuggire con lui, di prendere tutti i soldi e i gioielli che riuscivamo a racimolare per poi sparire per sempre insieme. Potevamo andare a Venezia, a Roma, nelle terre degli Asburgo in Spagna, persino nel Nuovo Mondo, se volevamo. Mi immaginavo una fuga con il favore delle tenebre, i nomi falsi, i ponti beccheggianti delle navi al largo,
una nuova vita in paesi sconosciuti. Sognavo tutto questo, ma quando alla fine glielo rivelai, quando una notte trovai il coraggio di confessargli che aspettavo un bambino da lui, András si mise a ridere e disse che in effetti gli era venuto il sospetto. Avevo sempre un colorito così verdastro. Ma non sapevo come si faceva a non rimanere incinta? mi chiese. Mia mamma non mi aveva insegnato niente di utile? Certo, ribattei, ma niente del genere. Mia madre dava per scontato che ogni figlio che avessi concepito sarebbe stato il frutto di un matrimonio nobile, non di una tresca con un cugino dai natali più umili. Il fatto che esistessero metodi per evitare di rimanere incinta, e che András li conoscesse mentre io no, mi diede ancora più fastidio della sua indifferenza per il mio stato. Per la prima volta mi venne il dubbio di non potere fidarmi di lui. Lui mi baciò con lo stesso trasporto di sempre, ma quella notte se ne andò via senza fare nessuna delle promesse e nessuno dei progetti che io avevo tanto sperato... niente carrozze né navi, nessuna fuga disperata nelle tenebre verso un destino ignoto. Qualche giorno dopo, quando mia madre mi chiese di dirle la verità e io mi resi conto che non avrei potuto nascondere il mio segreto ancora a lungo, le confessai in gran segreto di essermi concessa a László Bende, il figlio del macellaio che avevo rimproverato per una rissa, un ragazzo a cui in vita mia non avevo rivolto più di otto, nove parole. Nessuno doveva sapere la vera identità dell’uomo che amavo e io ero intenzionata a proteggerlo a ogni costo. Quando lo seppe, mio fratello si infuriò, continuando a ripetermi che mi ero buttata via e rischiavo di perdere un’unione che avrebbe giovato a tutti noi, ma alla fine promise di mantenere il segreto e di aiutarmi a lasciare Sárvár prima che il bimbo nascesse. Nel riserbo più assoluto, mia madre organizzò il mio trasferimento in una proprietà dei Nádasdy a
Léka, fingendo di volersi occupare personalmente della mia convalescenza. Non avevamo il coraggio di tornare a Ecsed, dove la verità sarebbe venuta ben presto a galla. Léka, cittadina di montagna salubre e isolata dal resto del mondo, sarebbe stato il posto ideale per nascondere la mia vergogna. Persino allora non avevo perduto tutte le speranze. Forse, dopo un periodo di separazione, András ci avrebbe ripensato e sarebbe venuto a cercare me e il bambino. Forse la mia assenza gli avrebbe fatto ricordare che mi amava e che la mia vergogna era anche la sua. Un freddo e limpido mattino, mia madre mi avvolse in una coperta e ci mettemmo in viaggio, portandoci dietro solo Darvulia, la táltos, con le sue misteriosi pozioni medicinali. La sua abilità nelle arti curative e il profondo affetto che ormai nutrivo per lei mi impedivano di lasciarla a Sárvár. Mi aiutò a montare in carrozza e mi sistemò la coperta sul grembo mentre mia madre spiegava al cocchiere la strada da seguire in montagna. Megyery venne a salutarci, riparandosi dal sole gli sporgenti occhi da rana e augurandomi una pronta guarigione. Io lo ringraziai e guardai qua e là per la corte, nella speranza di intravedere un giovane dispiaciuto della mia partenza, ma c’erano solo domestici che trascinavano bauli, lo stalliere che controllava i finimenti dei cavalli e una cameriera che portava a lavare le lenzuola bianche del mio letto, lanciandomi una rapida occhiata mentre passava. «Non cercatelo, signorina», disse Darvulia. «Lui non verrà e voi non dovete sembrare arrabbiata. Si suppone che siate malata.» Abbassai lo sguardo e fissai le mani posate in grembo. «Perché mai non viene a salutarmi? In fondo l’anno prossimo dovremmo sposarci.» «Non parlavo del padrone, signorina. Sapete bene che l’altro non oserà venire a salutarvi se il vostro fidanzato non
lo fa.» E così quell’astuta creatura aveva indovinato l’identità del mio visitatore notturno. Avrei dovuto immaginarlo: nulla sfuggiva agli occhi attenti di Darvulia. Da quel momento in poi, seppi con certezza che non avrei mai dovuto dubitare di lei e che saremmo state unite per sempre da un legame di completa fiducia. Nel frattempo Megyery aveva aiutato mia madre a montare in carrozza. Lei si sistemò accanto a me e si mise una coperta sulle ginocchia. Il cocchiere incitò i cavalli, che barcollarono in avanti con un rollio che metteva la nausea, diretti a Léka, dove tre donne andavano in silenzio incontro al futuro. 15. Io, mia madre e Darvulia trascorremmo il resto di quell’inverno in un’ala privata dell’ampio vár di Léka, un’alta fortezza a più livelli su una collina tra le montagne a nord di Sárvár, immersa nella nebbia che saliva dal fiume, fredda persino in piena estate. Lì rimanemmo a guardare il mio ventre arrotondarsi, badando noi stesse al fuoco e cucinando con l’aiuto della sola Darvulia, perché temevamo la presenza di personale non del tutto fidato. Siccome in quella zona dell’Ungheria si stava diffondendo un’epidemia di vaiolo, avevamo un’ottima scusa per restarcene isolate, limitando i contatti allo stalliere e alle poche domestiche che risiedevano al castello in assenza della famiglia Nádasdy. Eravamo sempre indaffarate in un’infinità di faccende domestiche ed evitavamo di parlare del problema, il bambino che portavo in grembo. Quando lo sentivo scalciare, ripensavo ad András che mi schiacciava sul letto e mi chiesi cosa sarebbe accaduto se fosse stato Ferenc, e non András, a presentarsi nella mia stanza quella notte, quando tutte le luci erano spente.
Le prime doglie si fecero sentire un mattino di mezza estate. Mi svegliai stringendomi il ventre, spaventata, ripensando alla nascita della mia sorellina Klára... la testolina umida, il sangue e le urla di mia madre. Un’ondata di panico mi invase, per poi dileguarsi all’istante. Forse, pensai, se fossi rimasta immobile, senza neppure aprire bocca, il dolore sarebbe passato, così non svegliai mia madre accanto a me e neppure Darvulia, che dormiva su un pagliericcio vicino alla porta. La stanza era piccola e il calore soffocante. Tirai indietro le coperte, mi diressi alla finestra e la socchiusi. Il cielo era una cortina tremolante e un sottile velo di nebbia risaliva dal fiume fin dentro la corte. In basso c’era un uomo con un mantello blu e la barba lunga su un cavallo bianco, che sembrava volare sul lastricato. Lui guardò in su, per un istante, e mi salutò. Io ricambiai il saluto, chiedendomi se fosse reale o un fantasma. Allora mia madre si precipitò a chiudere i vetri. «Non stare alla finestra», mi raccomandò, «altrimenti ti vedranno.» Io guardai giù, ma l’uomo e il cavallo erano spariti. Mia madre mi portò pane e frutta per colazione, ma io non avevo per niente fame e non volevo neppure stare seduta immobile a sentirla recitare i suoi brani preferiti di Calvino, o a ricamare il farsetto a cui lavoravo da giorni, o peggio ancora a suonare il liuto per farla contenta. Il dolore non si fece più sentire per qualche ora, ma io non riuscivo a trovare pace e facevo continuamente su e giù tra la finestra e il letto, come un cane che cerchi un posto in cui mettersi a dormire. Non volevo ancora dire a nessuno che i dolori erano cominciati. «Erzsébet, santo cielo», diceva mia madre, «mettiti seduta o mi farai venire mal di testa.» La verità è che ero terrorizzata. Conoscevo molte donne che erano morte dando alla luce un figlio. Io ero giovane e forte, ma lo erano state anche molte altre prima di me. Io non avevo nessuna voglia di morire partorendo il figlio di
András Kanizsay. Pensavo alle storie della Vergine, che aveva messo al mondo Gesù in una stalla con l’aiuto solo di Giuseppe. Se non altro io mi trovavo in una condizione migliore. Avevo con me dei validi aiuti, e ne sarebbe arrivato un altro, perché qualche mese prima mia madre aveva mandato a chiamare una levatrice, una donna di nome Birgitta, di cui si fidava ciecamente. Questa levatrice aveva generato quattro figli, ma erano morti tutti. Di malattia, si affrettò a precisare mia madre, non durante il parto. Ma Birgitta non era ancora arrivata la mattina in cui i dolori erano incominciati. Sarebbe venuta a momenti, lo sapevo, ma non ancora, non ancora. Mi alzai di nuovo e tornai alla finestra. La nebbia stava cominciando a diradarsi, svelando la strada che seguiva il fiume e la riva opposta dove le colline si innalzavano al cielo, ma non c’era traccia della carrozza della levatrice. Mi sentivo il grembo sempre più pesante e arrivò un’altra fitta. Chiusi gli occhi. Non volevo gridare. Se non avessi gridato, se non avessi ammesso la mia sofferenza, il bambino non sarebbe uscito e io sarei stata salva. Mia madre mi guardava con un’aria strana. Sentivo i suoi grandi occhi neri sul mio viso, i suoi occhi che sapevano. Venne un’altra doglia, poi un’altra ancora. «Ci siamo», disse. «Darvulia, portala a letto. È arrivato il momento.» «Ma la levatrice non è ancora arrivata, madre.» «Ti faremo partorire io e Darvulia, se non si può fare altrimenti. » «La levatrice non è ancora arrivata. Il bambino non può nascere finché non arriva la levatrice.» «Erzsébet, va’ a letto, tesoro mio. È ora.» Uno spruzzo di liquido verdastro esplose dal mio corpo, riversandosi sulle doghe di legno e macchiandomi la camicia
da notte e i piedi. Era così tanto che all’inizio pensavo che Darvulia avesse rovesciato un secchio d’acqua sul pavimento. Ma la mia pancia si era contratta e riuscivo a sentire il contorno del bambino sotto la pelle. Si muoveva. «Verde», commentò Darvulia. «Dobbiamo stare molto attente. » Mia madre si fece seria in volto. Io non sapevo che significato potesse avere il liquido verde, ma rimasi immobile mentre Darvulia mi sfilava la camicia da notte e mi aiutava a tornare a letto. Mia madre sistemò in un angolo la sedia per il parto, uno sgabello di legno con un buco al centro su cui mi sarei dovuta accovacciare. Mia madre mi aveva già spiegato ogni minimo dettaglio, ma io mi sentivo ancora del tutto impreparata mentre risalivo sul letto e i dolori si facevano sempre più frequenti. La stanza diventava ogni minuto più stretta, finché non rimasi soltanto io con il colore del dolore, rosso brillante, e una pressante, soffocante urgenza che si spingeva all’ingiù nella mia pancia con il passare delle ore. All’improvviso sentii una voce nuova nella stanza: era arrivata la levatrice, che si era precipitata su per le scale togliendosi il mantello e urlava ordini alle due donne nella stanza e a me, il viso scuro e rugoso ma gradevole. Mi aiutò a sistemarmi sulla sedia per il parto, dura e rigida come un confessionale. Si inginocchiò davanti a me e cominciò a darmi istruzioni. «Spingete. Spingete, Erzsébet, o il bambino morirà. Spingete.» Salvatemi. Mi rannicchiai sulla pancia, spinsi e spinsi, poi ci fu come un’esplosione e un rilascio, e la creatura scivolò fuori, una bella bimba con una massa di capelli neri come i miei, i miei stessi occhi scuri e il tipico naso lungo dei Báthory. La levatrice le pulì con un rapido gesto la bocca e il nasino, e si sentì il suo pianto, un vagito che mi girava nella testa
mentre Darvulia mi asciugava il viso e aspettava l’espulsione della placenta, che portò via nelle profondità del castello. Cosa ne fece non l’ho mai saputo, né avrei voluto saperlo. Era una táltos e faceva le cose a modo suo. Mia madre mi lasciò tenere per un attimo la bimba in braccio. Era così leggera, dopo tutta la pesantezza che avevo sentito in pancia durante quei mesi, così bianca e rosa e così calda che sembrava appena uscita dal forno. «Si chiamerà Erzsébet come sua madre», dichiarò, «ma da te non riceverà altra eredità.» Quindi mi tolse dalle braccia la bambina e la diede alla levatrice, che prese a coccolarla e a parlarle in una lingua strana che non riuscivo a capire. Mia madre allungò a quella Birgitta anche una cospicua quantità d’oro, sufficiente al riscatto di un pascià, a condizione che si portasse via la bambina, lasciasse per sempre l’Ungheria e non contattasse mai più le famiglie Báthory e Nádasdy. La levatrice accettò. E mentre io piangevo e cercavo di alzarmi dal letto, mentre schiaffeggiavo le mani che volevano trattenermi e giuravo di odiare mia madre e che non l’avrei mai perdonata, Birgitta si rimise il mantello, portò via la mia bambina dal castello di Léka per tornare forse al suo paese natale, e io non le rividi mai più. Mia madre badò a me per le settimane successive, finché non mi fui completamente ristabilita, quindi organizzò il mio ritorno a Sárvár in compagnia di Darvulia. Mi baciò prima di farmi salire in carrozza, un bacio freddo sulla guancia che io non ricambiai. Non l’avrei ringraziata né le avrei mostrato affetto, per via di quello che aveva fatto a me e alla mia bambina in nome della sua ambizione. «Ferenc Nádasdy è un brav’uomo», disse con voce stanca. «È solo giovane e imparerà con il tempo cos’è l’amore. Fa’ del tuo meglio per farti amare e sarete entrambi felici.» Non le dissi quanto poco sperassi nel suo amore né quanto poco desiderassi sposarlo, ora che il mio cuore apparteneva ad András
Kanizsay. Mia madre si fece da parte per permettere ai cavalli di portarmi nella mia nuova vita, limpida e ripulita da ogni traccia di peccato, quasi non fosse mai accaduto nulla. Morì nel giro di poche settimane, di quel vaiolo che stava devastando i villaggi dell’Ungheria del Nord, il viso sfregiato dalle pustole di quella terribile malattia, lasciando me e Darvulia come uniche testimoni di quanto era avvenuto nelle stanze del castello di Léka. Anni dopo l’avrei perdonata, quando capii che nessuna di noi aveva avuto scelta: mia madre mi aveva abbandonato al mio futuro e io avevo fatto altrettanto con la mia figlia segreta, augurandole che tutte le gioie che avesse incontrato in questa vita fossero solo sue, che avesse la capacità di sceglierle con la sua testa e il coraggio di afferrarle. 16. Scontato il mio isolamento a Léka, fui rispedita a Sárvár e affidata nuovamente alle fastidiose cure di Imre Megyery. Gli uomini erano ripartiti per Bécs durante la mia assenza, così c’era ben poco da divertirsi a casa Nádasdy. András mi mancava terribilmente, ma non osavo scrivergli. Preferii trascorrere quei mesi perfezionando la mia istruzione, lavorando al corredo, scrivendo lettere alle mie sorelle, a mio fratello e ai cugini a Ecsed, con cui condividevo il dolore per la perdita di nostra madre. Qualche mese dopo ci trasferimmo nella residenza dei Nádasdy a Varannó, all’estremo oriente del regno, non lontano dalla casa dei miei. Lì mi sarei sposata l’8 di maggio dell’anno 1575, di fronte a quasi cinquemila invitati, tra cui il sacro romano imperatore Massimiliano II in persona, nonché i membri di tutte le più nobili famiglie di Ungheria, Austria e Transilvania: i Batthyány, gli Esterházy, gli Zrínyi, i Rákóczi, i Drugeth e i Pálffy avrebbero affollato il kastély, e la corte dei Nádasdy avrebbe ospitato più gioia di quanta ne avessi mai conosciuta... e con ogni probabilità ne avrei
conosciuta in futuro. I preparativi proseguirono per mesi con la massima solennità e compostezza. Megyery organizzò personalmente il mio trasferimento da Sárvár a Varannó con un vasto seguito di domestici, tra cui Darvulia e alcune damigelle, giovani cugine delle famiglie Báthory e Nádasdy, pigiate dentro le carrozze a spettegolare dei giovanotti di corte e delle ultime novità di Praga e Pozsony. Io attendevo con ansia il mio matrimonio, non per amore di Ferenc ma perché avevo la certezza che avrei finalmente rivisto András, oltre a mio fratello e alle mie sorelle, le uniche persone che mi volevano davvero bene e il cui amore io ricambiavo senza riserve. Negli ultimi tempi la mia vita era stata costellata da così tanti episodi tragici – la nascita della bambina, la morte di mia madre – , che anelavo disperatamente a un briciolo di felicità. Avrei danzato fino a rompermi le scarpe, bevuto vino e ascoltato per ore la musica suonata solo per me. Durante il viaggio attraverso l’Ungheria, Megyery non faceva che ripetermi di non agitarmi e non sporgermi fuori dal finestrino come una zingara, raccomandandomi piuttosto di comportarmi come una giovane donna alle soglie del suo più grande trionfo. La sera mi raggomitolavo tra le braccia di Darvulia e le chiedevo di cantarmi una canzone, per alleviare la mia ansia. Lei faceva il possibile per accontentarmi, mi dava un tonico per calmarmi i nervi e mi lasciava riposare tra gli scossoni della carrozza, sperando che la smettessi di irritare Megyery con la mia impazienza. Ovunque posassi gli occhi, vedevo qualcosa che mi riempiva di gioia. Contadini ai piedi dei Carpazi che seminavano il grano primaverile nelle zolle di terra dissodate, bambini che nei villaggi inseguivano la carrozza per le strade chiedendoci qualche monetina. Io, la futura sposa, li accontentavo: una pioggia di fillér cadeva al nostro passaggio e
loro li raccoglievano agitando le manine e lanciandoci benedizioni quasi avessero visto la Madonna in persona. Al nostro arrivo, il palazzo di Varannó – una delle proprietà più piccole e isolate della famiglia Nádasdy, scelta appositamente per la sua vicinanza con le residenze della mia famiglia a Ecsed e Szathmár – era già pieno di gente indaffarata a organizzare il matrimonio. Due decine di cuochi e una decina abbondante di maestri di cerimonia erano stati assunti per allestire la casa e intrattenere la folla di ospiti che sarebbe giunta a momenti. Sarte, cuochi, cameriere e lavandaie arrivavano a frotte dalle campagne, ben contenti di avere un ingaggio così proficuo, mentre musicisti da Praga e Bécs, persino da Venezia e Firenze, erano giunti ad allietare le nobili famiglie ungheresi. L’unione tra i Báthory e i Nádasdy era un affare di stato, sancito dal re e gradito all’Altissimo in persona, che nella sua infinita saggezza guardava ai nobili come protettori e difensori della povera gente. Le nostre famiglie erano coscienti di dover abbagliare i vicini con lo splendore della cerimonia e spesero in abbondanza a questo preciso scopo: Ferenc come capo della sua famiglia e mio fratello della mia. Sin dal primo momento in cui misi piede a Varannó, mi sentii al centro di una danza che non avrebbe atteso il mio consenso per procedere, sebbene io stessa – o meglio il nome e la fortuna della mia famiglia, e i bambini che avrei generato – fossi l’oggetto di tutta quella messinscena. Me ne stavo dritta in piedi su uno sgabello davanti alla sarta in una stanza piena di finestre, mezza morta di fame, mentre le damigelle appuntavano con gli spilli scampoli di seta e merletto e i domestici correvano su e giù per casa portando farina, noce moscata, miele, uova, arance, limoni, fichi, albicocche vellutate, melagrane rosse e pallidi polli spennati. I macellai spellavano la carne di castrato e cuocevano il
maiale, gli aiutanti portavano su dalle cantine immense botti di vino e forme intere di formaggio. Tutt’intorno a me, donne giovani e anziani spazzavano e strigliavano ovunque, impastavano e frullavano, mentre all’esterno i valletti ripulivano le stalle, rammendavano le livree e davano una mano di bianco alle mura, per far brillare il castello alla luce del sole, che sorgeva ogni giorno quasi unicamente per me. Gruppi di zingari in abiti colorati erano venuti dalla campagna e suonavano fuori dalle mura del castello per la gente del posto, radunata per assistere alla cerimonia e sbirciare i grandi d’Ungheria; mi ricordavano lo zingaro che avevo visto giustiziare da bambina. Avevo dato ordine ai maestri di cerimonia di fare arrostire carne di maiale lungo le rive del fiume, dove la gente beveva e ballava fino all’alba alla luce delle torce. Per qualche settimana il palazzo di Varannó rivaleggiò in splendore e magnificenza con la stessa corte di Bécs. Alla sera facevo una gran fatica a prendere sonno: ascoltavo le dolci note fuori dalla finestra e sentivo che ben presto la mia solitudine e la mia tristezza sarebbero finite, perché avrei rivisto finalmente il mio caro András Kanizsay. Il pensiero che stessi per sposare Ferenc mi sfiorava appena, concentrata com’ero sull’oggetto del mio desiderio. Io e Ferenc dovevamo sposarci – così era deciso e così sarebbe stato, per non incorrere in terribili conseguenze per entrambi –, ma il mio cuore non gli sarebbe mai appartenuto. Come voleva l’usanza, i miei parenti vennero da Ecsed per restarmi accanto durante i preparativi della cerimonia. Giunsero un pomeriggio a bordo della stessa carrozza scricchiolante che un tempo mi aveva portato a Sárvár; le mie sorelle si sporsero a salutarmi mentre attraversavano il ponte ed entravano nel castello. Mi precipitai nella corte ad accoglierle non appena sentii il rumore delle ruote sulle assi del ponte levatoio, senza attendere che un domestico
salisse ad avvertirmi del loro arrivo. Lo sportello della carrozza si aprì e le bambine saltarono giù e mi abbracciarono, cresciute in bellezza e salute in quei tre lunghi anni di lontananza. La piccola Klára, la cui nascita mi aveva terrorizzato, aveva ereditato l’ossatura sottile di nostra madre, che la faceva sembrare ancora più piccola dei suoi sei anni. Con i suoi occhi scuri, Zsofía, che aveva quasi dodici anni, era il ritratto di nostra madre, ma la sua immensa facilità al sorriso cancellava all’istante la somiglianza e leniva la fitta di dolore nel mio cuore. Ci stavamo ancora abbracciando e già cominciava a prendermi in giro. «Ferenc Nádasdy dovrà mettersi in punta di piedi per baciarti, sorellina», disse. «O è davvero alto come dicono? Un gigante d’uomo, e non solo in altezza?» Io le lanciai uno sguardo di rimprovero e replicai: «Mi sa che i pastori avranno un bel daffare con te, a meno che non ti giudichino una causa persa, una ragazzina selvaggia senza buone maniere né speranze di redenzione». Ma poi le carezzai dolcemente i capelli scuri, neri come l’acqua profonda, e lei disse: «È bello rivederti», e fu come se il tempo non fosse mai passato. Poi si avvicinò ad abbracciarmi István, un po’ ingobbito sebbene fosse cresciuto di diversi centimetri dall’ultima volta che ci eravamo visti, le labbra serrate in una sottile linea bianca. Com’era diventato austero! Aveva sempre mostrato un’inclinazione speciale per la contemplazione e l’isolamento, per i libri e la preghiera, e gli doveva essere costata una grande fatica lasciare la sua casa a così breve distanza dalla morte di nostra madre. Era stata seppellita in fretta per via del vaiolo e io, immersa nei preparativi del matrimonio ormai imminente, non avevo fatto in tempo a partecipare alla cerimonia, perciò non vedevo István da quando ero partita per Léka, un anno e mezzo prima, per dare alla luce in gran segreto la mia figlia illegittima.
Gli chiesi se stesse bene e lui mi rispose di sì, baciandomi con affetto. «Devi scusarmi», aggiunse, «è solo che vorrei tanto che ci fosse anche nostra madre. Comunque sono felice per te. Dobbiamo pensare solo a te e al tuo matrimonio. » Quindi mi prese sottobraccio e mi condusse dentro casa. Sembravamo due adulti severi, István nei panni di mio padre e io in quelli di mia madre, e mi si spezzò il cuore per il mio povero fratello, che doveva aver sofferto terribilmente. Ma avevamo davvero poco tempo per pensare alle nostre pene familiari. Ben presto ci fu un’infinità di rituali nuziali da rispettare, primo fra tutti la venuta dei messaggeri dello sposo con l’annuncio dell’imminente arrivo di Ferenc. Un domestico sorvegliava la strada da giorni e ogni volta che qualcuno si avvicinava ai cancelli si risvegliavano in me antiche speranze e desideri, aneliti e timori sopiti, mentre Ferenc Nádasdy e i suoi percorrevano la lunga strada da Bécs a Varannó. Non vedevo András Kanizsay dalla fine dell’autunno di due anni prima, quando mia madre mi aveva portato a Léka con la sua bambina in grembo. Ricordavo bene come, dopo avergli confessato di essere incinta, il suo atteggiamento verso di me fosse completamente cambiato. Non prendeva più in giro Ferenc per la sua mancanza di interesse nei miei confronti, né me per la mia trasformazione, come aveva sempre fatto prima. Mi guardava appena, quasi non mi rivolgeva la parola e trovava sempre una scusa per andarsene non appena io mi avvicinavo. All’epoca aveva giustificato il suo comportamento dicendomi che dovevamo stare attentissimi a non destare sospetti sulla nostra relazione, ma ora non ero più così sicura che fosse quello il motivo. Cosa avrebbe fatto rivedendomi? Sarebbe stato contento oppure avrebbe mantenuto un atteggiamento distaccato, ridendo di me come la notte che gli avevo
confessato di aspettare un figlio? Non mi aveva mai scritto durante la mia assenza, né io avevo scritto a lui, sebbene fossi disperata all’idea di stargli lontana. Eravamo costretti a mantenere il massimo riserbo sulla nostra passione segreta. Avevo scritto a Ferenc un paio di volte, come ci si aspettava, ma le mie lettere erano puramente formali e raccontavo solo dei miei studi, del viaggio, delle malattie che colpivano i boschi e i campi intorno a Léka, della mia stessa salute, concludendo immancabilmente con una formale quanto prevedibile manifestazione di gioia all’idea della nostra imminente unione. Non avevo mai fatto il nome di András, se non per chiedere a Ferenc di porgere i miei saluti ai suoi amici e parenti, e sempre nel tono più indifferente possibile. Ferenc mi aveva risposto dicendo che stava bene, che la vita a Bécs era sempre frenetica e divertente, ma non aveva mai menzionato il cugino András nelle sue lettere. L’avvicinarsi del matrimonio mi rendeva ansiosa di rivedere l’uomo che amavo, anziché di giurare eterno amore a Ferenc Nádasdy. Il giorno in cui il valletto ci avvisò di aver visto i messaggeri dello sposo sulla strada per Varannó, chiesi a István di scendere a salutarli in qualità di capofamiglia e mi chiusi nella mia stanza ad aspettare che il domestico salisse ad avvisarmi. Cercai di mettermi a ricamare, tanto per nascondere il tremore alle mani che mi aveva colto all’improvviso, e provai un’ondata di gratitudine verso Orsolya, la cui passione per il ricamo avevo sempre denigrato giudicandolo il passatempo ideale per le ragazze non istruite: adesso invece mi serviva a tenere le mani e gli occhi occupati, mentre la mente era libera di viaggiare a suo piacimento. Mi immaginavo András che si avvicinava a Varannó e non sapevo se sarei stata capace di rimanere seduta tranquilla ad aspettare. Le mie impazienti sorelline venivano ogni poco a darmi notizie dell’avanzata dei cavalieri verso il castello e sono certa
che speravano di vedermi arrossire. La possibilità di conoscere gli amici di Ferenc, giovani ricchi in età da marito, le rendeva audaci. «Adesso entrano nel villaggio», diceva Klára, «adesso sono al fiume, adesso sulla collina del castello, adesso sul ponte levatoio, adesso scendono da cavallo e si scrollano la polvere di dosso. Non riesco a vederli bene da qui», aggiunse, «ma sono due uomini giovani.» «Grazie al cielo», ribatté Zsofía alzandosi per andare a guardare. «Almeno Nádasdy non ci ha mandato due vecchi sdentati.» A quell’epoca, lei era già promessa sposa ad András Fígedy e così si sentiva libera di lanciare ipotesi sulle identità dei due messaggeri senza troppo imbarazzo, precisando che sembravano belli, almeno a quella distanza. «Perché non vieni anche tu alla finestra a guardare?» «No», risposi io, ma feci il possibile per sorridere al loro scherzo. Non avevo il coraggio di affacciarmi e preferii continuare a ricamare, facendo finta di non badare all’identità dei due messaggeri. Infilai l’ago nella stoffa bianca di un fazzoletto, ma mi tremò la mano e sbagliai il punto, rovinando il profilo di un fiordaliso. Fui costretta a sfilare il punto e ricominciare da capo, ma sbagliai di nuovo e mi punsi un dito. «Guarda com’è nervosa», disse Zsofía. «Non ti ho mai visto in questo stato, Erzsébet, devi avere una gran paura della prima notte di nozze.» «Niente affatto», ribattei. «Ho sentito che non è poi così terribile come dicono. Pare che con l’uomo giusto possa addirittura essere piacevole.» «Guarda alla finestra e fa’ la brava, sorellina», le suggerii succhiandomi il dito. «Magari riesci a scorgere il tuo futuro marito, a meno che vedendoti lui non ci ripensi e scappi via di corsa.» Dopo qualche tempo, un domestico venne a chiamarci e finalmente potei smettere di ricamare. Mi fermai davanti a
uno specchio a sistemarmi i capelli e la faccia, come il giorno in cui ero arrivata a Sárvár ed ero venuta a sapere che il giovane accanto alla mia futura suocera non era Ferenc Nádasdy, bensì suo cugino. Scesi le scale lentamente, anche se mi sarebbe piaciuto volare, seguita dalle mie damigelle, che mi stavano tutte attorno mentre varcavamo la soglia della grande sala di Varannó. I due gentiluomini avevano già indossato abiti puliti e ci stavano aspettando, parlando sottovoce ma in tono confidenziale con mio fratello István, che evidentemente li conosceva. Il mio cuore per un attimo si fermò. Poi loro si girarono e io ebbi la prontezza di nascondere la delusione. Riconobbi István Bocskai, tanto gentile quanto Ferenc era freddo. Sembrava cresciuto da quando avevamo ballato insieme alla festa di fidanzamento quasi due anni prima. Io abbozzai un’espressione di piacere, chinai il capo e mi dissi felice di rivederlo dopo l’inverno trascorso lontano da Sárvár. «Ci siete mancata a Natale», disse. «Ferenc si sentiva solo senza di voi.» Una punta di sarcasmo si insinuò nella mia voce quando risposi: «Sì, ne sono certa». «Mi rallegro che la vostra salute sia migliorata dall’inverno scorso.» Cercai di capire se avesse qualche sospetto circa la natura della mia malattia, ma tutto ciò che vidi fu l’espressione onesta di un vero amico. «Grazie», risposi, colma di gratitudine e sul punto di scoppiare a piangere per il sollievo, «adesso mi sento molto meglio.» Mio fratello rivolse la mia attenzione al secondo messaggero, un giovane magrolino con le spalle strette e irregolari che lo facevano sembrare più giovane e due borse grigie e profonde sotto gli occhi, che avrei scoperto essere perenni
su quel viso gradevole ma di certo non bello. Non l’avevo mai visto in vita mia. Lui si inchinò, la schiena un po’ più rigida di Bocskai, l’abito troppo elegante per l’occasione – ricamato con passamaneria dorata e lucida, quasi volesse impressionare le persone di rango più elevato –, ma i suoi occhi vagarono per la stanza, rivelando irrequietezza e impazienza. Un uomo del mio stesso temperamento, non c’erano dubbi. «Erzsébet», disse mio fratello, «ti presento György Thurzó, un amico di Bécs e nuovo commilitone di tuo marito.» «Benvenuto. Spero che faremo amicizia.» «Grazie», rispose prendendomi la mano. La sua era calda e stringeva la mia con troppa veemenza. «Ne sono certo. Avevo sentito dire che la futura moglie di Nádasdy era molto bella e devo ammettere che non erano esagerazioni.» Non so quanto fosse sincero, ma in ogni caso lo ringraziai. Il suo nome mi era noto – era il rampollo di una ricca famiglia di recente nobiltà, proprietaria di terre e miniere, che aveva raggiunto il potere finanziando le guerre contro la Spagna –, ma per il resto non avevo idea di chi fosse. Non sapendo di cos’altro parlare, preferii mantenermi sul generico. «Come sta Ferenc?» Strizzò gli occhi stanchi, forse un guizzo di ilarità di cui non compresi la ragione. «Abbastanza bene. Adora passare il suo tempo nelle stalle: partecipa ai tornei, corre e beve per tre.» «Sembra quasi che non approviate.» «Non spetta a me approvare o disapprovare, ma lui gode di certo del favore del re. Il vecchio Massimiliano va pazzo per la sua originalità.» «E voi lo invidiate. No, non vi inquietate, ve lo leggo negli occhi.» Lui abbassò il capo, ma ormai l’avevo annusato, l’odore della gelosia. «Bene, Ferenc fa come vuole e io sono felice che abbia il favore del re.» «E grazie a lui, anche voi.»
«Immagino di sì. Una donna può arrivare in alto grazie al marito, ma è vero anche il contrario.» Si chinò sulla mia mano. «Allora possano le vostre famiglie trarre beneficio da questa unione», disse e mi lasciò per raggiungere il suo amico Bocskai all’altro capo della sala, con quelle spalle strette che gli davano un’aria giovane e inesperta. Chissà perché Ferenc sceglieva di circondarsi di uomini che invidiavano la sua ricchezza e la sua posizione; forse quel dettaglio rivelava una debolezza che mi ricordava per certi versi sua madre. Anche Orsolya si era circondata di incompetenti, parassiti e smidollati. Una volta diventata la padrona, li avrei fatti sparire tutti quanti, su quello non c’erano dubbi. Feci servire del vino agli ospiti assetati e, più tardi, chiesi ai musicisti di suonare, tutto secondo le regole formali della cerimonia nuziale. Quella sera ballai una palotás con Bocskai, che in qualità di vecchio amico pretese il primo ballo. Era un eccellente danzatore e si batteva così forte le cosce con le mani che mi venne da ridere. Il nuovo venuto, Thurzó, ballò prima con mia sorella Zsofía, che rise e chiacchierò con fin troppo entusiasmo. Con tutta quell’eccitazione rischiava di offendere Thurzó, oppure la famiglia del suo promesso, i Fígedy, che potevano venire a sapere del suo comportamento. Ma Thurzó non sembrava per nulla offeso mentre la faceva volteggiare attorno alla sala, così tornai a rivolgere l’attenzione a Bocskai, chiedendogli quale musica suonassero alla corte del re e insistendo per farmi rivelare qualche indiscrezione sulla vita privata dei figli dell’imperatore, che lui e Ferenc conoscevano bene. Mi rispose con la mia stessa vivacità e temperamento, perché noi due ci volevamo davvero bene, István Bocskai e io, come fratello e sorella. Il suo legame con i miei zii della Transilvania ne avevano fatto un grande favorito dei Báthory.
La sua famiglia si aspettava grandi cose da lui e io non dubitavo che sarebbe riuscito a soddisfare pienamente le aspettative, rendendo famoso il suo nome per centinaia di generazioni. Dopo la prima danza cambiammo cavaliere e io mi ritrovai con Thurzó. Era abitudine che entrambi i messaggeri ballassero con la sposa, perciò mi fece volteggiare per la sala chiedendomi notizie del viaggio da Sárvár e dei nostri amici in comune. Venni a sapere che aveva conosciuto mio fratello a Bécs, dove si erano incontrati a corte. In tono solenne, mi espresse il suo rammarico, sia per me sia per mio fratello, per la morte di nostra madre. Guardò verso István, che sedeva da solo al tavolo osservando gli ospiti da lontano e sfogliando un libro che si era portato per avere qualcosa da fare durante i festeggiamenti. «István sembra davvero molto afflitto per la sua perdita», proseguì. «Oh sì», risposi, stupita dall’interesse di Thurzó per la mia famiglia. «Erano molto uniti, soprattutto dopo la morte di mio padre. Mia madre dipendeva da lui in tutto e per tutto. Non so proprio come farà senza di lei, e io sarò così lontana che non potrò aiutarlo.» «E chi aiuterà voi nel vostro dolore?» mi chiese. La domanda mi parve alquanto strana, ma risposi ugualmente: «Mi starà vicino mio marito, è ovvio». «È ovvio», ripeté lui, ma io non riuscii a interpretare la sua espressione e il suo tono di voce. Non capivo se era una concessione o una minaccia. Dopo poco le danze si chiusero e gli uomini, ormai concluso il loro dovere formale, rimontarono a cavallo per tornare da Ferenc. «Lo sposo arriverà a Varannó fra un paio di giorni», disse Bocskai, «ed è ansioso di fare di voi la sua sposa.» «Come lo sono io di diventarlo», confermai. Fui costretta a sopportare tutte quelle formalità, intese a dare una
parvenza di romanticismo a un matrimonio che ne era totalmente privo. Forse sarei scoppiata a ridere se non fossi stata così impegnata a tenere a bada i miei sentimenti, desideri e timori. «Grazie per essere venuti, signori», proseguii. «Vi prego, porgete i miei saluti al mio promesso sposo e ditegli di venire presto qui da me.» Risposero che l’avrebbero fatto e noi rientrammo in casa ad attendere il suo arrivo. 17. Il giorno in cui Ferenc e il suo seguito di ospiti, amici e servitori finalmente arrivarono e presero posto in un’ala al lato opposto del vár, io mi tenni in disparte. La conversazione avuta con Thurzó pochi giorni prima mi aveva messo in allarme e così preferii evitare le voci degli uomini che si sentivano nell’atrio per paura di tradirmi vedendo András, e mandare così a monte l’unione che mia madre aveva predisposto per me, un’unione con un giovane ricco e potente, non un povero cugino senza un soldo. Mi sentivo sovrastata da una sensazione incombente di possesso, come se io fossi un oggetto comprato per Ferenc: il mio nome e la mia famiglia, i miei beni, il mio futuro sarebbero stati suoi. Gli abiti lussuosi, le danze, le cerimonie e la musica avevano solo l’apparenza dei festeggiamenti gioiosi, ma erano del tutto privi di sostanza; erano solo una parte che io e Ferenc dovevamo interpretare per il bene di parenti e amici. A cena ci sedemmo vicini e quando la musica ebbe inizio il mio fidanzato si girò verso di me e con i suoi occhi impenetrabili mi chiese di ballare. Io rimasi sorpresa, visto che era la prima volta che mostrava interesse nei miei confronti, ma accettai. Mi posò una mano sulla schiena e mi condusse al centro della sala, un gesto d’intimità che mi provocò un’inaspettata vampata di calore. Il suo viso era imperscrutabile, eppure intensamente concentrato. Era più
alto di me almeno di tutta la testa, così quando ci mettemmo l’uno di fronte all’altra i miei occhi erano puntati in mezzo al suo petto. Quando cominciammo a volteggiare, cercai con lo sguardo nella sala András Kanizsay, mio marito solo per un mese, e sebbene notassi un gran numero di giovanotti che Ferenc aveva conosciuto a Bécs e Pozsony – tra cui Bocskai e il nostro nuovo amico Thurzó – di András non c’era nemmeno l’ombra. E neppure ai tornei o alle corse. Cominciai a chiedermi se fosse venuto. Magari non riusciva a sopportare l’idea che mi sposassi con suo cugino. Alla fine giunse anche il giorno del matrimonio, torrido e secco, con un vento da sud che faceva ondeggiare le bandiere sui bastioni come cani scodinzolanti e rischiava di svelare le vergogne delle signore alzando le loro gonne. Oltre le mura del vár, un fuoco che bruciava nella pianura sfuggì al controllo e incendiò l’erba secca dei prati, inondando il castello di fumo per qualche ora, finché non si riuscì a domare l’incendio a furia di rovesciarci sopra secchi d’acqua del fiume, ma ormai i nostri abiti puzzavano di bruciato e quel sapore mi riempì la bocca a lungo anche in seguito. Lungo le mura del castello, le imposte colorate sbattevano al vento, creando una cacofonia che si insinuava tra le dolci note della musica allegra come un persistente richiamo alle armi. Prima della cerimonia, mio fratello andò da Ferenc in qualità di mio rappresentante per porgergli i regali di nozze: innanzitutto degli abiti molto eleganti, tra cui un ampio mantello bordato di ermellino bianco da utilizzare durante i freddi mesi invernali, quindi il piccolo pugnale spagnolo che mio padre aveva sempre apprezzato enormemente. Infine, István regalò da parte sua al mio futuro sposo la spada di Vitus, l’eroe della famiglia Báthory, uno dei nostri beni più cari, in segno di unione tra i Nádasdy e i Báthory. A quanto mi riferì István, il mio fidanzato accettò i regali con grande
piacere. Da parte sua, Ferenc mi mandò, tramite Bocskai e Thurzó, un abito in seta gialla di taglio milanese che mi piacque molto e una preziosa collana d’oro con un rubino rosso brillante tagliato a cabochon su un pendente a forma di rosa, lo stesso gioiello che avevo visto al collo della madre a Ecsed quando ci eravamo conosciute. Decisi di indossarlo con l’abito di nozze per dimostrare quanto avessi gradito il dono. Quindi Bocskai mi porse un rotolo con il sigillo in ceralacca della famiglia Nádasdy. Lo aprii: era l’atto di proprietà del mio personale pezzo di terra, nel Nordovest dell’Ungheria, a due giorni di viaggio dalla capitale Pozsony. Il documento mi nominava unica proprietaria della roccaforte dei Nádasdy a Csejthe, nonché dei diciassette villaggi attorno al castello, di cui potevo disporre a mio piacimento. Quando mi resi conto del significato di quel documento, provai un moto di affetto verso Ferenc Nádasdy. Nel momento stesso in cui tutti i miei beni, la mia dote, le mie terre, compresa me stessa, stavano per diventare suoi, il dono più grande che un marito potesse fare alla moglie era un posto nel mondo che lei potesse considerare suo. La sua capacità di comprensione rivelava molto più sentimento di quanto gliene avessi mai attribuito. Il rotolo mi tremò fra le mani. Ringraziai Bocskai e Thurzó e li pregai di esprimere a Ferenc la mia più profonda gratitudine. Quando fui pronta, ci raggiunsero mio fratello e gli altri uomini della famiglia, e all’ora convenuta uscimmo di casa per andare incontro al mio futuro sposo. Il matrimonio si sarebbe celebrato in un nuovo edificio che Orsolya, prima di morire, aveva fatto costruire per l’occasione, un’ala matrimoniale edificata all’interno delle strette mura del castello nel corso dei due anni passati. Nel primo pomeriggio, quando il sole aveva ormai superato lo zenit, scesi nella sala
delle nozze con le mie sorelle, mio fratello e un lungo seguito di persone. Nei pressi del torrione si sparavano salve e risuonava una musica dolcissima, e nelle pianure fuori dalle mura la gente in festa acclamava la sposa. Le mie sorelle mi reggevano lo strascico del vestito – un pesante broccato di seta fiorentina intessuta di fili d’oro – per impedire che si riempisse della polvere che si sollevava ricoprendo ogni cosa. All’interno della sala gli ospiti erano giù tutti radunati in attesa. Quando eravamo quasi all’ingresso, Bocskai, come testimone dello sposo, si fece avanti per darci il benvenuto in nome di Ferenc. Ferenc – davvero splendido nei suoi calzoni di velluto color sangue e giacca abbinata, con i bottoni dorati e morbidi stivali di vitello – attendeva poco più indietro, circondato dai suoi amici. Tra quelli riconobbi András, con la sua solita aria scanzonata negli occhi. Occhi verdi come lo smeraldo, il colore della gelosia. Mi rivolse lo sguardo soltanto una volta. Sulle prime pensai che volesse solo essere prudente e mantenere segreti i suoi sentimenti. Ma una strana espressione – era forse gioia? – gli danzava agli angoli della bocca mentre osservava mia cugina Griseldis Bánffy arrossire alle mie spalle. Fino a quel momento mi ero quasi dimenticata della sua esistenza. All’epoca la piccola Griseldis era una sciocca ma graziosa ragazzina che aveva ereditato i colori germanici della madre: lunghe trecce color del grano d’agosto e occhi grigio chiaro. Un seno piatto come uno scudo per tenere a bada gli uomini, aveva scherzato Zsofía quel mattino. Non era istruita, ma era l’unica erede sopravvissuta di una famiglia con numerose seppur modeste proprietà nell’Ovest del paese, compresi una bella vigna, un terreno e un piccolo kastély. In quei giorni erano in molti a chiedersi chi sarebbe stato così fortunato da assicurarsi il suo piccolo patrimonio, i suoi riccioli d’oro e la sua boccuccia carnosa. Adesso sentivo ridacchiare le ragazze dietro di me, che la
prendevano in giro per il suo fidanzamento con l’elegante giovane cugino di Ferenc Nádasdy. Per un istante mi sentii mancare e mi aggrappai al braccio di Zsofía per non cadere. Mia sorella mi sorresse chiedendomi piano se non avessi troppo caldo o magari il sole o la polvere non mi avessero irritato gli occhi. «No», risposi io, «ho solo perso l’equilibrio.» Le scarpette italiane che indossavo richiedevano una certa abilità. Ripresi a camminare, ma Zsofía preferì non lasciarmi il braccio, per sicurezza. Io non riuscivo a interpretare l’espressione di Ferenc e mi era impossibile dire se fosse compiaciuto e divertito o se, al solito, sopportasse tutte quelle formalità solo per amore della sua defunta madre e delle smodate ambizioni che nutriva per lui. Bocskai ci accolse con un inchino e i lembi del suo elegante mantello sfiorarono il terreno. Gli brillavano gli occhi per le frasi scherzose che stava per pronunciare, quel tanto di umorismo da inscenare alla cerimonia per mettere alla prova lo sposo prima del matrimonio, un’antichissima tradizione che tutti attendevano con ansia. «Benvenuti», esordì Bocskai, salutando il clan dei Báthory e augurando salute e felicità. «Vorrebbe cortesemente la promessa farsi avanti per sposare quest’uomo?» A quel punto, le ragazze del mio seguito si proposero a turno come spose di Ferenc Nádasdy, inchinandosi e sorridendo e mostrandosi degne di attenzione da parte di un così grand’uomo e valoroso guerriero, il primo uomo d’Ungheria. I complimenti aumentavano sempre più. Io mi sentivo male e le bandiere dei torrioni si agitavano con tale furia da farmi girare la testa. Griseldis e le altre cugine furono le prime, poi le mie sorelle, Klára e Zsofía nell’ordine, entrambe in eleganti abiti dorati, più belle che mai. Ferenc si inchinava di fronte a ogni ragazza, poi scuoteva la testa. «No, non è lei», diceva e la damigella tornava al
suo posto accanto a me. Ben presto fu il mio turno. Io feci un passo avanti, una riverenza e sorrisi a Ferenc Nádasdy, elogiando la grandezza e la magnificenza della sua famiglia, quindi mi offrii come sua sposa. I miei occhi guizzarono per un istante sul viso di András, per riconoscere un segno di dolore in quel momento cruciale, ma lui non guardava dalla mia parte. Ferenc si fece avanti e mi alzò il velo scoprendomi il viso. La sua espressione era indecifrabile: impossibile dire se i suoi occhi esprimessero gioia o speranza, piacere o attesa. Ma poi si avvicinò e premette le labbra sulla mia guancia, dicendomi: «Eccola, è lei la signora del mio cuore». Quindi mi fece accomodare al suo fianco, sussurrandomi: «Va tutto bene, signorina? Qualcosa non va?». «No, va tutto benissimo», risposi. «Ma certo, cosa potrebbe mai andar male in una simile occasione, l’unione dei casati Nádasdy e Báthory?» C’era del risentimento nella sua voce, lo stesso risentimento che avevo provato anch’io fino a quella mattina, quando lui mi aveva regalato un posto tutto mio nel mondo e per un attimo mi aveva riempito di speranza. Adesso la voce di Ferenc mi colò addosso come acqua fredda dal soffitto di una grotta. Il suo desiderio di sposarmi era pari al mio, cioè quasi inesistente. Forse avrebbe scelto qualcun’altra se la decisione fosse stata lasciata a lui. Magari Judit o qualcuna come lei. «I nostri genitori sarebbero stati lieti di assistere, non trovate? » mi chiese. «Sì», sussurrai io con un filo di voce, cercando di mantenermi calma nonostante l’uragano che mi esplodeva nel cuore. «Di sicuro sarebbero stati molto felici per noi.» «Sì, ne sono certo», replicò Ferenc. «Un gran giorno per l’Ungheria, non è vero?» Quindi mi prese sottobraccio e mi condusse nella cappella davanti agli ospiti, le più grandi famiglie ungheresi, tutti parenti e amici. Rimanemmo fermi in
piedi davanti al pastore, che ci sposò secondo il sacro rituale. Ferenc mi baciò ancora davanti a tutti, tra grida di gioia e battiti di piedi. «Congratulazioni, contessa», mi disse in un orecchio il mio nuovo marito. «Il Signore ha appena sancito l’unione delle nostre famiglie e delle nostre fortune. Preghiamo affinché sappia ciò che fa.» 18. Per i primi dieci anni di matrimonio io e Ferenc ci vedemmo assai di rado, tanto era impegnato nelle guerre in Europa. Voleva a tutti i costi diventare un grande eroe, proprio come il padre era stato un grande statista. Erano infiniti i conflitti grazie ai quali riuscire a distinguersi. Il fatto che mio zio István fosse assurto alla carica di re di Polonia aveva creato dissapori tra Massimiliano d’Asburgo e la mia famiglia, dal momento che mio zio era convinto che la Polonia fosse il più forte alleato dell’Ungheria e la sua carta vincente contro i piani del sultano a Costantinopoli e del re a Bécs. Il proposito di mio zio di unire l’Ungheria e la Polonia contro i turchi e gli Asburgo entusiasmò molti nobili dell’antico regno, ansiosi di recuperare la vecchia gloria. E così, quando il re di Polonia Enrico di Valois abdicò in favore del trono di Francia, mio zio – che nel frattempo aveva sposato la regina di Polonia – reclamò il sostegno del suo paese. Il primate polacco, tuttavia, sfidò il volere della gente e decise di sostenere il cattolico Massimiliano contro i diritti legittimi di mio zio. Eravamo alle soglie di una guerra civile. Ferenc – unitosi di recente alla famiglia Báthory ma ancora in buoni rapporti con Massimiliano – si recò in visita al re nella speranza di allentare le tensioni tra le fazioni, portando con sé i suoi amici: István Bocskai, György Thurzó, Miklós Zrínyi, Adám Batthyány. E András Kanizsay. Partirono un mattino all’alba, prima che il tempo peggiorasse, ansiosi di distinguersi come i loro padri avevano fatto in
passato, scherzando e facendo a gara su chi fosse il più valoroso fra loro. Li vidi allontanarsi in colonna da Sárvár, sollevando una bianca nuvola di polvere nell’oscurità, la mia mano alzata a salutare nessuno in particolare. Li salutavo tutti. Io e Ferenc avevamo trascorso mesi difficili insieme dopo il nostro matrimonio, recitando una messinscena a beneficio dei nostri amici e parenti mentre ci trasferivamo da Varannó a Csejthe, da Csejthe a Sárvár, ma era evidente che il matrimonio non era servito a riscaldare il cuore di Ferenc. Mi prendeva per mano in pubblico o mi baciava sulla guancia se gli amici lo prendevano in giro, ma in privato non mostrava alcun interesse nei miei confronti e preferiva bere e sprofondare da solo nel suo letto, chiuso nella sua stanza, parecchio tempo dopo che io avevo spento la candela sul mio comodino. Persino la prima notte di nozze, quando Darvulia mi aveva aiutato a indossare una camicia da notte di lino bianco consegnandomi una fiala di sangue di bue per camuffare la mia mancata verginità, Ferenc aveva fatto una gran fatica a toccarmi. Conclusi i festeggiamenti e le danze, era entrato nella mia stanza barcollando, leggermente ubriaco, lasciandosi alle spalle i commenti piccanti dei suoi amici. Mi aveva sorriso mentre io me ne stavo seduta sul bordo del letto con le braccia incrociate sul seno e mi aveva detto di sdraiarmi per accettare ciò che Dio e il paese, il dovere e l’onore pretendevano da noi. Quando fu tutto finito, si addormentò appena ebbe posata la testa sul cuscino e non si accorse della fiala di sangue che avevo versato prontamente sulle lenzuola. Avevo trascorso tutta la notte all’altro capo del letto, senza riuscire a chiudere occhio perché mio marito russava terribilmente, e il mattino dopo le mie damigelle avevano mostrato il lenzuolo macchiato come prova della mia verginità. Nessuno al corrente della verità avrebbe osato
tradire il mio segreto: Darvulia per il bene della nostra amicizia, András per il bene del suo proficuo fidanzamento. Era un uomo fortunato, con una piccola eredità e una graziosa fanciulla ad aspettarlo. Anche il giorno delle nozze si era limitato a dirmi «congratulazioni», senza guardarmi negli occhi, per poi andare a ridere e scherzare con i suoi amici sull’incredibile fortuna che aveva avuto a trovare una bella ragazza con una dote ragguardevole e una madre ansiosa di dare ai propri nipotini l’illustre nome dei Kanizsay. Lo avevo osservato volteggiare insieme a Griseldis per la sala, non più invidioso del matrimonio e della fortuna del cugino, ora che li aveva profanati entrambi. «Se fossi stato il figlio del conte palatino», mi aveva detto una volta, «sarei potuto diventare tuo marito, Erzsébet.» All’epoca avevo pensato che stesse parlando solo di sentimenti. Invece quella notte, dopo avere completato il suo trionfo, András si era dimenticato del tutto di me. Lui e Griseldis non facevano che scambiarsi sorrisi furtivi, l’immagine del pudore in pubblico: lui orgoglioso, lei che arrossiva e si inchinava mentre il suo fidanzato le prendeva la mano e la invitava a ballare. Io mi ero seduta, avvolta nel mio vestito tutto d’oro, e avevo creduto di morire dal dolore. Quando tornammo a Sárvár e Ferenc non ebbe più occasione di frequentare la corte, io mi adattai alla mia nuova condizione di padrona delle numerose proprietà del casato dei Nádasdy. C’era sempre molto lavoro da sbrigare, servitù da gestire, mobili da riparare, bestie da nutrire, campi da seminare. Come molte donne del mio rango, mi occupavo di amministrare le faccende domestiche quando mio marito non c’era, sebbene io ne avessi davvero una quantità spropositata. Le proprietà più estese di Keresztúr, Varannó, Léka, Sárvár, nonché la mia di Csejthe,
richiedevano sorveglianza costante e grande attenzione in quei tempi così burrascosi. Quasi ogni giorno dovevo rispondere alle lettere di qualche parente, oppure di un mezzadro che si rifiutava di pagare la decima, o magari ero costretta a risolvere un litigio per una questione di confini. Ogni tanto un vicino più povero, credendomi vulnerabile in assenza di mio marito, occupava una delle nostre proprietà e io ero costretta a inviare i nostri soldati per cacciare via gli abusivi e riportare l’ordine. Non ero certo la classica mogliettina fragile che se ne stava a casa ad aspettare che arrivassero gli uomini a salvarla. Anzi, ero io a proteggere i beni che il matrimonio e il diritto di nascita mi avevano concesso; ero padrone e padrona insieme. Per tre anni scrissi a Ferenc aggiornandolo sull’andamento degli affari, sia per avere la sua approvazione sia per non dargli l’impressione di volermi prendere troppe libertà. Dovevo essere molto prudente. Ogni tanto mio marito rispondeva ai miei dubbi o mi elogiava per come avevo risolto una disputa, ma il più delle volte era troppo indaffarato con la politica e tornava a casa solo se era assolutamente indispensabile. Lo vedevo di solito a Natale, quando si presentava con i suoi amici per l’inverno, e ogni tanto in piena estate, ma solo se le guerre lo portavano nelle vicinanze delle bianche mura di Sárvár. Ogni volta che Ferenc faceva ritorno, lui dormiva nei suoi appartamenti e io nei miei. Raramente si dava la pena di fingere che la mia presenza nella sua casa non si riducesse a una semplice decisione politica stabilita per noi dalle nostre ambiziose famiglie. Andava a letto sempre da solo e se trovava compagnia tra le damigelle o le domestiche del castello, io non lo sapevo o preferivo non saperlo. Le domestiche, come avevo immaginato, si dimostrarono una perenne fonte di discordia. Come molte altre
nobildonne, avevo spesso l’abitudine di assumere le figlie dei parenti più poveri, ragazze con poca istruzione e ancor meno fortuna, che decidevo di aiutare garantendo un posto di lavoro, una dote modesta e un matrimonio onorevole. Insegnavo loro a cantare e a suonare, a leggere i versetti della Bibbia e a scrivere il proprio nome. Anche mia madre a Ecsed ne aveva assunte a decine, forse a centinaia. Adesso, in qualità di padrona di tutte le proprietà dei Nádasdy, era mio compito badare alla salute e al benessere delle persone che vivevano alle mie dipendenze. Come avevo imparato quando ero arrivata a Sárvár, tuttavia, la presenza di così tante ragazze poco istruite in età da marito poteva causare problemi. Uno di questi aveva le forme di una domestica di nome Amália, una graziosa ragazza con i riccioli rossi che le scendevano in vita e due occhi accesi e ardenti, quasi avesse sempre appena ricevuto un bacio o uno schiaffo. Sua madre era una lontana cugina di Orsolya, il padre invece era un ubriacone che aveva dilapidato le sostanze di famiglia. Fu così che entrò in casa nostra e io ero felice della sua compagnia. Spesso Amália mi aiutava a fare il bagno e a vestirmi, e io le avevo concesso il mio favore perché sapeva essere dolce con me e, mentre lavorava, aveva l’abitudine di cantare con una voce chiara e squillante come l’argento. Le avevo regalato uno specchietto, un pezzo di vetro inserito in una cornice di ottone lucido a forma di drago con tanto di coda, perché un giorno vi si era ammirata a lungo, rigirandoselo tra le graziose manine. «Prendilo, è tuo», le dissi. «Il tuo viso in quello specchio risalta più del mio e preferisco che sia tu a tenerlo.» «Oh no, signora», rispose, come si conviene a una ragazza che sa stare al suo posto, «non potrei mai essere bella quanto voi.» Eppure sembrava aver apprezzato il regalo e se lo tenne stretto. Spesso la sorprendevo a rimirarsi,
sporgendo le labbra per renderle più carnose o pizzicandosi le guance per prendere colore. Era consapevole della sua bellezza e la sfoggiava di fronte al resto della servitù, facendo girare la testa ai valletti più belli di Sárvár e rubando i fidanzati delle altre ragazze. Più di una volta le domestiche erano venute da me in lacrime perché questo o quel ragazzo era rimasto ammaliato dal fascino della fanciulla dai capelli rossi. Io cercavo di intervenire, di farle comprendere il valore dell’onestà e del pudore – una lezione che, a quanto pareva, io avevo imparato troppo tardi –, ma mi accorgevo che non mi prestava attenzione e sembrava annoiata, quasi pensasse: “Cosa vuoi che ne sappia la signora dei ragazzi? Cosa vuoi che ne sappia dell’amore quando persino il marito disdegna il suo letto?”. In quel periodo Ferenc si presentò a casa durante i mesi estivi, arrivando da Bécs in compagnia dei suoi amici, fra i quali Bocskai e Thurzó, per godersi qualche giorno di riposo dopo una lunga e difficile spedizione. Siccome non mi aveva avvertito che sarebbe tornato, il giorno del suo arrivo io e i domestici ci demmo un gran daffare per rinfrescare le stanze, cambiare le lenzuola e preparare un buon pasto. Mi sforzai di indossare un bel vestito e di acconciarmi i capelli all’ultima moda, ma come al solito quella sera il nostro rapporto non andò oltre la pura gentilezza formale a cena. Qualche giorno dopo Darvulia venne al tavolino dove scrivevo le lettere per avvertirmi che quella mattina due domestiche avevano litigato strappandosi di mano lo specchietto a forma di drago, lanciandosi imprecazioni e tirandosi schiaffi. A quanto pare, la mia dolce Amália si era vantata di fronte a un gruppetto di ragazze di aver sedotto Ferenc Nádasdy in persona e di andarci spesso a letto insieme. Forse avrebbe dato un figlio al conte, aveva aggiunto, visto
che non sembrava mostrare grande interesse per la moglie. Forse sarebbe diventata lei la padrona del castello un giorno o l’altro, diceva, e non Erzsébet Báthory. Era già accaduto altre volte. Le vecchie mogli morivano e le nuove prendevano il loro posto. Una delle domestiche che avevano assistito a quella scena scandalosa era una giovane lavandaia, una ragazza dall’aspetto ordinario, con il viso deturpato dal vaiolo e il cuore lacerato dalla gelosia, e si era precipitata da Darvulia a lamentarsi. Non doveva passarla liscia, ripeteva la lavandaia. La signora del castello doveva sapere che tra le sue domestiche si annidava una persona così sleale, che sperava addirittura di riuscire a prendere il suo posto. Adesso Darvulia stava dritta di fronte a me e mi chiedeva, senza perdere la calma, che tipo di punizione intendessi infliggere ad Amália. Invece a me tremava il pennino in mano e delle gocce di inchiostro macchiarono la lettera che stavo scrivendo alla mia amica, la contessa Zrínyi. Abbassai lo sguardo e vidi la chiazza che si allargava, coprendo le parole scritte solo un attimo prima. Amália mi aveva tradito. La macchia di inchiostro continuò a estendersi finché riuscii a vedere solo nero. In passato avevo spesso lasciato la scelta del castigo a Darvulia, che era temuta e rispettata da tutte le ragazze di servizio. Era bravissima a incidere il palmo delle mani delle ladre con le forbici o a pungere con gli spilli le dita delle sarte più sfaticate. Affidando la scelta a Darvulia, non dovevo preoccuparmi dei banali problemi quotidiani e al tempo stesso riuscivo a mantenere l’ordine in quel branco di ragazze turbolente e maleducate, così molto spesso le permettevo di gestire la situazione senza neppure chiedere il mio parere. Ma stavolta una di loro aveva davvero esagerato, arrivando a minacciare non solo la felicità di una servetta, ma addirittura la stabilità dell’intero castello. La
mia posizione e il mio orgoglio. Ridendo di me e augurandosi che morissi per sistemare il suo piccolo e ignorante didietro al mio posto. “Che si renda allora conto di cosa significhi essere una contessa, se desidera così tanto diventare la moglie di un nobile.” Dissi a Darvulia che avrei provveduto personalmente alla punizione. Lei parve sorpresa, ma si limitò a chiedere: «Cosa intendete fare?». Ripensai a Judit, a quella gonna svanita e miracolosamente ricomparsa dopo l’umiliazione inflitta nella corte. In quel caso non c’erano oggetti da restituire, perché a essere rubati erano stati l’affetto di mio marito, il mio buon nome e la mia reputazione. «Lo deciderò quando la vedrò», risposi. «Non dovete essere troppo morbida con lei», si raccomandò Darvulia. «Se le altre penseranno che la temete, non riuscirete più a controllarle. Si sentiranno in diritto di dire qualsiasi cosa di voi.» «Non temere. Imparerà chi è la sua padrona.» La casa era insolitamente tranquilla mentre attraversavo la corte diretta alle camere della servitù. Gli uomini erano fuori a caccia, mentre i servi, fiutando l’imminente scenata, mi seguirono fino alla soglia della stanza del cucito, dove erano radunate Amália e le altre. Alcune domestiche si erano disposte a semicerchio per attendermi, ricamatrici, sguattere e persino la lavandaia bruttina che aveva fatto esplodere il caso con le sue chiacchiere. Confabulavano tra loro in tono acido e tagliente – si sentivano fin dalla sala –, ma ammutolirono all’istante non appena mi affacciai alla porta, come se la casa intera trattenesse il respiro. Parlai, con la voce più neutra che riuscii a impostare. «Amália», dissi, «ho saputo che vai a trovare il conte di notte da quando è tornato a casa. Che pensi di potergli dare un figlio se non sarà sua moglie a farlo. Ho saputo che ti auguri apertamente la mia morte, così da poter prendere il mio posto.»
«Non ho mai detto una cosa del genere, signora, sono tutte bugie», ribatté lei arrossendo. «Molto bene», risposi guardando l’accusatrice di Amália, la sua faccia piena di cicatrici, la carnagione giallastra e i denti storti, una povera creatura che probabilmente non sarebbe mai uscita dalla lavanderia, che non sarebbe riuscita ad attirare su di sé nemmeno lo sguardo dell’ultimo degli stallieri. Esisteva sempre la possibilità che si fosse inventata una bugia su Amália, che avesse architettato tutta quella storia per vendicarsi, ma anche così non potevo permettere che la ragazza la passasse liscia, che la storia continuasse a girare indisturbata come un ospite sgradito, altrimenti se ne sarebbero aggiunte altre. La lavandaia non guardava nessuno nella stanza. Sapendo di essere stata lei a causare tutto quel trambusto, per lo meno aveva il buonsenso di vergognarsi e tenere gli occhi bassi, fissi sulle scarpe. Invece Amália sosteneva il mio sguardo, con l’aria fiera e lo specchietto ancora stretto in mano. «Hai davvero un’opinione troppo alta di te stessa, mia cara», le dissi. «Mi pento di avere incoraggiato la tua vanità. Ridammi lo specchio.» «È un regalo, signora», ribatté stringendoselo al seno. «Siete stava voi a darmelo.» «Visto che sono stata io a dartelo, sarò io a riprendermelo. » Rivolse un’occhiata implorante alle altre ragazze, quasi a scongiurarle di difenderla o di unirsi a lei contro di me. Per un istante ebbi il timore che potessero darle retta, che decidessero di prendermi a schiaffi, strapparmi i vestiti, cavarmi gli occhi, rubarmi i gioielli e portarmi via tutti i miei beni. Loro erano in tante, mentre io ero da sola. Avrebbero potuto farlo, lo sapevo bene. Decisi di aspettare, guardandole dritto negli occhi, senza dire una parola. Una dopo l’altra abbassarono lo sguardo, oppure si misero a
fissare la finestra o il muro. Da qualche parte una candela guizzò e da fuori giungevano le risate dei servi che si raccontavano facezie. Nessuna aveva il coraggio di guardare Amália: non era lì davanti a me, pronta a sfidarmi, non esisteva neppure. Forse le ragazze scelsero la mia protezione o forse sapevano cosa sarebbe successo loro se avessero osato alzare una mano contro di me. La loro volontà era debole, mentre la mia era forte. Ben presto avrebbero saputo quanto. Alla fine Amália mi porse lo specchietto e io lo scaraventai contro il pavimento di pietra, mandandolo in frantumi. Le domestiche sussultarono e una di loro, la lavandaia che lo desiderava tanto, scoppiò a piangere. «Ecco cosa capita a essere presuntuose e arroganti. La prossima volta che ti vanterai dell’amore del conte per te sarà l’ultima in questa casa.» Amália non scoppiò a piangere e non si gettò ai miei piedi per chiedermi perdono, come mi sarei aspettata, anzi si infuriò, le labbra serrate, gli occhi infuocati. Allora non c’erano dubbi, era davvero una vipera. «Signora», ripeté lentamente, «non ho mai detto una cosa simile. Non mi verrebbe mai in mente di offendervi.» «Invece l’hai fatto. Certe parole sono sempre pronunciate con l’intenzione di offendere. Non sono così ingenua da credere alle tue stupide bugie, ma non posso tollerare che il tuo comportamento resti impunito.» A un mio cenno, Darvulia e la sarta più anziana, una donna con il triplo dei miei anni, l’afferrarono per le braccia. «Spogliatela, poi dite alla guardia di portarla nella corte e lasciatela fuori a lavorare sotto il sole per tutto il giorno», dissi. «Se ti comporti da donnaccia, questo è il trattamento che meriti.» Amália continuava a dichiararsi innocente, dicendo che erano tutte calunnie e non si sarebbe mai sognata di dire
che il conte si era innamorato di lei. Le altre ragazze, ripeteva, invidiavano il suo specchio così bello, la sua amicizia con la padrona e dicevano bugie per rovinarle la reputazione. Non è giusto, diceva. Le facevo un torto. Perché la contessa doveva credere a tutto quello che sosteneva una stupida ragazza gelosa? Perché la raffinata signora del castello doveva dar credito alle bugie di una lavandaia pettegola con le mani tutte screpolate? Non la smetteva più di agitarsi e di imprecare. Io non guardavo la giovane carina la cui compagnia mi aveva sempre fatto piacere, bensì appena sopra la sua spalla, per non vedere la gelosia e la rabbia che aveva dipinte in volto, per riuscire a mantenere il mio viso impassibile e trattenere le lacrime che cominciavano a raccogliersi agli angoli degli occhi. Avendo iniziato l’opera, dovevo portarla a termine. Speravo che si rassegnasse e confessasse la sua colpa, chiedendo una buona volta perdono. Era stata la mia favorita, dopotutto, e mi dispiaceva molto essere costretta a punirla. Se solo avesse confessato i suoi errori, se avesse ammesso di avermi offeso, di essere stata vanitosa ed egoista, se avesse chiesto il mio perdono, gliel’avrei concesso all’istante e mi sarei gettata tutta quella brutta storia alle spalle. Le avrei portato un vestito pulito e l’avrei personalmente aiutata a indossarlo, l’avrei accarezzata e consolata. Invece non fece altro che urlare e lanciare insulti per tutta la mattina, mentre il sole infuocava sempre più le mura della corte. Una piccola folla di uomini e ragazzi si radunò per guardarla, insultandola e lanciandole sassi che le lasciarono dei segni sulle guance e sulle natiche. Ogni volta che passavo nella corte, la vedevo dritta in piedi sotto il sole, le spalle e i seni arrossati fino a diventare dello stesso colore dei capelli. Non osava rivolgermi la parola, ma i suoi occhi lanciavano
fiamme. Neppure in quel momento ebbe il buonsenso di mostrarsi pentita. Si era approfittata del mio affetto, si era scagliata contro di me non appena le avevo girato le spalle, così il mio affetto svaniva sempre più ogni attimo che lei passava in quella corte. Verso mezzogiorno, sfinita dalla scenata del mattino, scesi nuovamente sperando di mettere fine alla cosa. Nella corte si era riunita una folla di curiosi a guardare, uomini e donne insieme, con ancora in mano gli attrezzi del loro lavoro. Amália cercò di rimettersi in piedi, coprendosi il seno con le mani, come se si ricordasse di dover provare vergogna per la propria nudità. «Perché hai parlato male di me?» le chiesi ancora. E ancora Amália si ostinò a rispondere che non era vero, che le altre erano gelose di lei e la odiavano perché tutti gli uomini di casa guardavano lei e non loro. Quando fu chiaro che non aveva intenzione di cedere, decisi di rincarare la dose. Dissi a Darvulia di portare un vaso di miele e glielo feci versare addosso mentre le guardie la tenevano ferma. Il miele le finì sulla testa, sulle spalle, sul seno, gocciolava alla luce del sole, ricoprendola d’oro. Prim’ancora che le guardie la lasciassero libera, il miele aveva attirato tutti gli insetti di Sárvár. Mosche, api e moscerini si accanirono contro di lei, mordendola e pizzicandola ovunque. Ben presto le braccia e le gambe si riempirono di chiazze rosse, il ventre morbido, la linea di pelle bianca attorno ai capelli e al collo. Si tirava schiaffi e si grattava, correndo nella polvere e facendo un gran trambusto, cadendo sulle ginocchia e supplicandomi di farle fare il bagno per levarsi il miele di dosso. Poi scoppiò a piangere; le lacrime attirarono ancora più mosche e le si gonfiarono gli occhi. Verso sera era crollata a terra in un angolo, sull’orlo del delirio. Le altre domestiche, sulle prime deliziate alla vista della loro
tormentatrice tormentata, si erano pian piano disperse tornando ognuna alla propria occupazione. Quando Ferenc quella sera tornò dalla città, smontando da cavallo nel crepuscolo che avanzava, passò davanti alla ragazza nella corte e si fermò un istante a guardarla. A quel punto lei era ormai solo un ammasso tremolante, con la pelle bruciata dal sole e ricoperta di ponfi e punture, le labbra riarse dalla sete, il miele sui seni e sulle braccia uno strato di polvere e insetti intrappolati. Un essere orribile, corrotto dalla vanità. Che spettacolo doveva dare di sé mentre mio marito rientrava a casa: la faccia irriconoscibile, la sua bellezza bruciata, tanto che Ferenc dovette chiedere a un servo chi fosse. Io stavo per dare ordine a Darvulia di portare in casa la ragazza, lavarla e curarle le punture, quando Ferenc mi venne a chiedere cosa avesse combinato. Io pensai che volesse rimproverarmi per avere punito la sua attuale preferita ed ero pronta a difendere le mie azioni. «Tormentava le altre ragazze sfoggiando il regalo che le avevo fatto», risposi. «C’è stata una lite e tutti avevano smesso di lavorare. E poi metteva in giro certe voci...» aggiunsi. «Su di te?» «Sì, e anche su di te.» «Capisco.» Ferenc ci pensò su un momento, ma non chiese cosa andasse in giro a dire. Forse lo sapeva. Forse lo sapeva con precisione. «Ci penserà su due volte prima di rifarlo. Ha urlato, si è grattata, ha cercato di proteggersi dagli insetti?» «Ha fatto una gran confusione. Ha distratto gli altri domestici dal lavoro per tutto il giorno.» «La prossima volta», suggerì Ferenc, «falla incatenare nella corte. Ci sono dei ferri per tenere fermi i cavalli malati. Usa quelli. E se urla dovresti farla imbavagliare. Così sconterebbe la punizione che merita senza far soffrire nessun
altro con lei.» «Va bene, me ne ricorderò.» «Ah, Erzsébet?» «Sì?» «Ben fatto, mia cara. Un generale non avrebbe saputo fare di meglio.» «Grazie.» Lui sorrise, la sua espressione da falco sempre più predatoria. Rimase a fissarmi per un istante, come se valutasse fino a che punto avrebbe potuto confidarsi con me, fino a che punto avrei capito. Come se io potessi diventare qualcosa di più di un nome e di un’alleanza con cui condividere la casa: un’amica e una compagna. Una moglie. «Se ti fa piacere, ti posso mostrare qualche trucco che potrebbe esserti utile in futuro, tecniche di battaglia che ho trovato davvero istruttive.» «E quali sarebbero?» «Adesso te la rianimo. Sta’ a guardare.» Prese un pezzo di carta dalla tasca, lo stracciò e immerse i foglietti nell’olio. Quindi uscì nella corte, si chinò e li infilò tra le dita dei piedi della ragazza. Poi prese un ramoscello da terra, gli diede fuoco e lo avvicinò alla carta, che avvampò all’istante in una grande fiammata arancione. Seppure nel suo stato di semincoscienza, la ragazza balzò in piedi con un lieve gemito di dolore e cominciò a dimenare i piedi per far cadere i foglietti. Si guardò attorno come un cavallo che avesse calpestato un serpente. «Ecco», disse Ferenc e mi guardò con l’espressione più raggiante che gli avessi mai visto in viso, il suo bel viso con la barba nera e gli occhi neri. Mio marito. «Visto? Si chiama “tirare calci alle stelle”. Adesso può rientrare a casa con le sue forze e risparmiare la fatica a chi avrebbe dovuto caricarsela in spalla. Oppure potrà sopportare un’altra
punizione, se pensi che non ne abbia avuto abbastanza.» Nell’oscurità crescente della corte, con l’odore dell’olio bruciato che mi penetrava nelle narici, sentii qualcosa in lui aprirsi a me, alle mie future possibilità. «Voglio saperne di più», dissi. 19. Da quel momento in poi, Ferenc cominciò a prestarmi sempre maggiore attenzione. Era come se prima fossi stata appena un’ombra ai suoi occhi e solo adesso – dopo avere scoperto che avevamo un interesse in comune, lui la guerra fuori, io le battaglie a casa, entrambi ugualmente dediti alla vittoria – io cominciassi a prendere forma e sostanza. Più di una volta, nei giorni successivi, sorpresi mio marito a fissarmi con aria deliziata durante la cena o mentre giocava a carte davanti al fuoco. Quando riprendevo con asprezza la cuoca per come aveva preparato l’arrosto o schiaffeggiavo in faccia una servetta che aveva lasciato cadere una bottiglia di vino mandandola in frantumi sul tappeto, se alzavo lo sguardo vedevo che mi fissava e giudicava le mie azioni in modo nuovo. Non saprei dire se fosse il calore dell’estate o qualcosa di più stuzzicante ad accendergli le braci negli occhi, tuttavia mi tornarono alla mente i consigli di mia madre, e cioè che i mariti desiderano le mogli, ma queste devono stare attente a non soddisfare mai completamente le loro voglie. Non devono essere mai troppo disposte a compiacerli, mi aveva raccomandato, ma conservare un pizzico di mistero per sollecitare la loro curiosità. Forse, dopo la punizione di Amália, Ferenc aveva finalmente deciso di voler svelare di persona i miei misteri. Una sera decisi di preparare una cena speciale per mio marito, dando un giorno di libertà alla cuoca e mettendomi ai fornelli io stessa: selvaggina aromatizzata con chiodi di garofano e farcita con cipolle, barbabietole da zucchero e olive
sott’aceto, pane di segale e per finire cedri e ciliegie candite. Avevo lavorato per tutto il giorno nella cucina torrida, fin quasi a non reggermi più in piedi, e quando Ferenc e i suoi amici Bocskai e Thurzó si sedettero a tavola quella sera, alla luce dei candelabri tirati a lucido, servii personalmente la cena per dimostrare quanto fossi lieta della loro presenza, facendo su e giù dalla cucina con il piattino d’argento per il burro e il vassoio dorato con le fette di carne e gnocchetti irrorati di sugo alle erbe. Ferenc mangiò tutto di gusto e dopo ogni portata si dava una pacca sullo stomaco complimentandosi per le mie doti culinarie. «Forse dovrei venire a casa un po’ più spesso», disse. «Mi farebbe molto piacere», risposi con un sorriso, cercando di dimostrargli che ero sincera e non c’erano tracce di sarcasmo nelle mie parole. Quando gli passai accanto, mi prese un lembo della gonna tra le dita, e il suo odore – sudore, cavallo, capelli umidi e liscivia – mi penetrò nelle narici misto all’aroma del cibo. Gli occhi mi si gonfiarono di lacrime. Era un’eternità che un uomo non mi guardava più con affetto, figuriamoci con amore. Quella sera Ferenc sembrava sempre più felice, mi faceva complimenti in quantità e si dimostrava insolitamente affettuoso nei miei confronti. Seguiva con sguardo attento i miei movimenti attorno al tavolo e, quando mi avvicinai a lui con il cappone e glielo servii per primo, mi afferrò il polso. Sentivo il calore del suo corpo attraverso il tessuto del farsetto e il fuoco della sua mano attorno al mio braccio. «Erzsébet», sussurrò, in modo che solo io potessi sentirlo. «La mia Erzsébet.» Era ubriaco – la bottiglia di vino rosso che avevo portato in tavola era mezza vuota –, ma non ancora abbastanza. Avrebbe avuto bisogno di bere ancora un bel po’ prima di perdersi del tutto. Invece aveva le gote rosse e reclinava la
testa all’indietro per guardarmi negli occhi, mentre io me ne stavo in piedi dietro la sua sedia. Mio marito mi aveva notato. Gli feci un cenno per dimostrargli che avevo capito, quindi posai il vassoio e gli servii la prima fetta di cappone, irrorandola di sugo mescolato a pezzettini verdi di vischio che, secondo i consigli di mia madre, avrebbe sicuramente eccitato il suo desiderio. Avevo fatto bene a seguire i suoi suggerimenti di tanto tempo prima e gli insegnamenti sulle erbe che mi aveva impartito. Finalmente potevo dimenticare tutte le mie umiliazioni. Ci guardammo per tutta la sera. Indossava farsetto e calzoni color vinaccia, con un paio di stivali neri lucidi come i suoi occhi scuri e brillanti, le guance rosse e accalorate. Lungo il collo e sotto il vestito mi sentivo affiorare un rossore caldo come nei primi giorni d’estate. Arrivai persino a chiedermi se le erbe avessero avuto effetto anche su di me, ma capii ben presto che era semplicemente il desiderio che nasce dal sentirsi desiderati. I suoi occhi sotto le folte sopracciglia scure si muovevano come quelli di un animale, soffermandosi sul mio viso e immobilizzandolo, quasi sfidandomi a fare un movimento, a sgusciare via. La sua bocca e la sua lingua erano macchiate di vino rosso. Accorgendosi che Ferenc era distratto, ogni tanto Thurzó diceva una battuta per farlo ridere, ma subito dopo mio marito ritrovava il mio viso e tornava a fissarmi dritto negli occhi, e per la prima volta in vita mia mi sentii arrossire per l’eccitazione, un calore che mi serpeggiava lungo il collo, sul viso e tra le radici scure dei capelli. A fine serata, quando gli uomini si erano messi a far chiasso chiacchierando vivacemente, io annunciai che ero stanca. Mi ritirai come al solito nella mia stanza, guardandomi alle spalle solo una volta per controllare se i suoi occhi mi stessero ancora seguendo. Il suo sguardo – testa bassa, occhi rivolti all’insù – mi trafisse attraversando l’intera
stanza. Mi sentii sollevata quando scivolai nel buio umido e fresco delle scale, quasi avessi rischiato di soffocare e potessi di nuovo tornare a respirare liberamente. Darvulia mi aiutò a spogliarmi e mi disfece le trecce, pettinandomi i capelli in lunghe onde scure che mi incorniciavano il viso pallidissimo scivolando giù fino al seno. Mi sedetti nel letto con un libro e lessi alla luce della candela, aspettando da un momento all’altro l’arrivo di Ferenc. Lessi una pagina, poi la rilessi, ma non riuscivo a trattenere neppure una parola. Non veniva ancora. Mi chiesi se per caso non avessi frainteso le sue occhiate, le sue intenzioni. Fu solo quando misi da parte il libro e spensi la candela che sentii la porta della stanza aprirsi e riconobbi la sagoma scura di mio marito ferma sulla soglia. «Erzsébet?» disse. «Qui», risposi. «Qui, segui la mia voce.» Nel buio inciampò nel cassettone e nella sedia con la testa di leone, e borbottò: «E io che volevo farti una sorpresa!». «Ci sei riuscito.» Ero stata attenta a bere poco quella sera, per tenere sotto controllo tutte le mie facoltà, e ora scelsi le parole con cura, perché il più piccolo errore avrebbe potuto essermi fatale. Lui doveva fidarsi di me. «Non sono mai stata più sorpresa.» «Perciò sei felice che io sia qui?» Sentii un’incertezza nella sua voce, che attribuii a timidezza, al timore che io potessi rifiutarlo. In fondo era ancora un marito alle prime armi, di soli ventidue anni, e doveva imparare cosa una moglie avesse da offrire. La sua esitazione, la sua timidezza, mi scaldarono il cuore. «Ho aspettato questo momento dalla prima volta che ti ho visto e ho pensato che fossi l’uomo più bello del mondo.» «Così mi lusinghi.» Adesso si era imbronciato, pensando che volessi prenderlo in giro.
Feci un sospiro e mi distesi sui cuscini, soppesando con attenzione le mie parole. «Lusingo solo me stessa, per essere la moglie di un uomo simile», ribattei. «Vuoi fermarti?» Lui si chinò su di me e posò la sua bocca sulla mia, la sua bocca morbida e rossa che sapeva ancora di vino. Mi accarezzò i capelli, fece scivolare la mano lungo la clavicola e giù fino al seno. Sospirò e disse che tutto sommato era felice che i nostri genitori ci avessero unito, che eravamo molto simili anche se non era stato capace di capirlo subito. «Non sapevo», mi disse, «che tu fossi una donna così passionale, che avessi un temperamento come il mio. Pensavo che mi volessi solo per il mio nome e la mia posizione, il mio titolo, e non credevo di amarti. Potrai mai perdonarmi? » Come risposta, lo feci entrare sotto le lenzuola e lo strinsi a me. Finalmente l’amore di mio marito era capace di difendermi, un amore grande e forte in grado di proteggermi da qualsiasi cosa avesse in serbo il futuro: guerre, malattie e persino la morte. PARTE II Sidereus Nuncius 1. 21 giugno 1612 Al di là della mia torre, il mondo si tinge d’oro e di verde, i colori dell’estate; lungo le valli e le colline riecheggiano i richiami delle pecore uscite al pascolo e il rumore dei carri che viaggiano lungo la strada di Vág diretti a Buda. È più di un anno che sono rinchiusa nella mia prigione e, anche se l’aria alla finestra è dolce e soffice come una piuma, all’interno c’è odore di stantio. La paglia del mio materasso andrebbe cambiata, il pavimento spazzato. I topi mi vengono a trovare di notte per rubare le briciole cadute a terra e i refoli d’aria smuovono le braci ormai fredde. Il
reverendo Ponikenus, che un giorno mi denunciò davanti a tutti, ogni tanto viene a trovarmi, si siede fuori dalla porta e cerca di valutare lo stato della mia anima immortale, ma solo le lettere che mi scrivete tu e le tue sorelle, caro Pál, sanno darmi qualche conforto. Mi fa piacere sapere che sei così bravo negli studi e che sei migliorato tanto nel latino e nel tedesco dall’ultima volta che ti ho visto. Ho fatto tutto il possibile affinché la tua istruzione fosse persino più vasta della mia. Ho letto con grande interesse il libro che mi hai mandato sul movimento delle stelle medicee, i corpi in orbita attorno a Giove. Da ragazza ho letto il De caelo di Aristotele e studiato il movimento delle sue sfere cristalline, ma questo matematico, questo Galilei, sostiene che l’esistenza dei nuovi corpi dimostra che il cielo è pieno di stelle che si girano attorno. Che è il Sole a essere al centro dell’universo e non la Terra. Mi piacerebbe vederlo con i miei occhi, certo... poter scrutare nel cannocchiale del matematico e posare lo sguardo su altri mondi, altri cieli. Stamattina il vecchio domestico Benedict Deseő è salito ansimando in cima alla torre per portarmi la colazione un’ora più tardi del solito. Ha posato a terra il vassoio con le croste di pane e la ciotola di frutta cotta, sbuffando senza fiato come un bue sotto il giogo. «Era ora», ho detto, con la pancia che brontolava. «Dove sei stato?» «Sono arrivati ospiti importanti a Csejthe. Il conte palatino e sua moglie sono qui.» Mi sono portata una mano alla gola. «Dove?» ho chiesto. «Nella corte, proprio adesso.» Questa sì che è una grande novità. Che Thurzó abbia accettato di venire a Csejthe non è affare da poco. Sono rinchiusa nella mia torre da diciotto mesi e non sono stata capace neppure di convincere il conte palatino a rispondere
a una delle mie lettere. A che gioco sta giocando? Di sicuro non avrà fatto tutto quel viaggio da Bicske senza almeno fermarsi a darmi un’occhiata, per curiosità o per godersi il suo trionfo. O magari pensa che in qualità di prigioniera ormai non sia più degna delle sue attenzioni? Non la pensava così, un tempo. Mi amava, e io amavo lui. Con la voce tremante di sdegno o di paura, Deseő mi ha informato che Erzsébet Czobor, la giovane moglie del conte palatino, questa mattina è entrata nel torrione di Csejthe ordinandogli di mostrarle il tesoro. Oltre al mio abito di nozze e ai gioielli, che secondo il mio testamento dovrebbero appartenermi finché avrò vita, il tesoro comprende una modesta quantità d’oro per l’acquisto di cibo e provviste, nonché per pagare i pochi domestici rimasti. La piccola ladra ha ordinato ai suoi valletti di impacchettare ogni cosa e caricare tutto sulla sua carrozza. A quanto pare, dopo è scesa al castello e ha fatto la stessa cosa anche lì, rovistando tra i bauli e le cassapanche rimasti dopo il mio arresto. Con l’avvicinarsi del matrimonio della sua figliastra Borbála, deve aver pensato che le sarebbe piaciuto indossare i miei gioielli. «Le guardie non potevano fermarla, signora», ha detto il domestico. «Mi ha riso in faccia quando le ho fatto notare che non aveva l’autorità per portarsi via tutto.» «E poi cos’ha risposto?» «Preferirei non doverlo ripetere.» «Ti prego», ho insistito, anche se queste parole erano come cenere nella mia bocca, «non ho altro modo di sapere cos’è successo.» Allora ha spostato il peso da un piede all’altro, neanche stesse preparandosi a spiccare il volo. «Ha detto: “Di’ alla tua signora che la mia autorità viene da Dio, che ha in odio tutti i peccatori”.» Sbalordita di fronte alla perfidia della moglie di Thurzó, alla sua meschinità e profonda cattiveria, ho preso a
camminare su e giù per la cella. Il piano del marito di rinchiudermi in prigione era evidentemente premeditato, visti gli enormi vantaggi politici e personali che ne avrebbe ricavato, ma che lei dovesse comportarsi in maniera così impietosa con me e con i miei figli è davvero imperdonabile. E poi, dopo che il marito mi aveva supplicato di dimostrarle amicizia e io avevo acconsentito per amor suo! Chissà, un giorno potrebbe diventare anche lei una ricca vedova alla mercé dei suoi vicini e parenti, vittima di terribili pettegolezzi, senza un marito o un figlio grande capaci di difendere la sua causa. Io lo so che è lei ad aizzare il conte palatino contro di me, ad avergli riferito quelle voci sul mio conto a cui lui ha deciso di dare credito. Forse sa che un tempo suo marito era innamorato di me, e magari è per questo che mi odia. In un accesso di rabbia, ho maledetto il suo nome e pregato Satana di far ammalare lei e il conte palatino, di farli morire. Di farmi uscire dalla mia torre solo per un attimo e darmi il tempo di stringere le mani attorno a quel suo piccolo collo bugiardo, ladro e profittatore. Sono salita in piedi sulla sedia e ho cercato di guardare fuori dalla finestra. La corte non si riusciva a vedere, ma per un istante mi è sembrato di sentire una voce – quella di Thurzó – che parlava con qualcuno, e una voce più acuta che rispondeva. «Di’ al conte palatino che voglio parlargli», ho detto. «Digli che ho una cosa importantissima da chiedergli, una cosa che solo lui può fare. Chiediglielo in nome della nostra vecchia amicizia.» Quando il domestico si è allontanato, mi sono guardata attorno. Non c’erano armi, nulla salvo una penna e qualche foglio, e le mie due mani. Le unghie erano rotte e scheggiate, la penna storta per l’uso e macchiata d’inchiostro nero, ma forse poteva ancora servire a qualcosa. L’ho spezzata a metà e ho stretto nel pugno la parte appuntita. Se il conte
palatino si fosse avvicinato abbastanza alla fessura nella pietra, se avesse chinato la testa per parlarmi, avrei potuto infilargliela in un occhio, o magari anche in gola, prima che le guardie avessero modo di immobilizzarmi. Se non altro, sarebbe stato un ottimo metodo per uscire di prigione. Deseő ha fatto ritorno di nuovo senza fiato, da solo. Il conte palatino non aveva intenzione di venire. Lui e la moglie stavano per ripartire. «Ha detto che non è disposto a sentire richieste da parte vostra.» Niente richieste, così ha detto. Io non esisto più, punto e basta. Un dolore acuto mi ha scalfito la mano mentre la punta della penna mi si conficcava nel palmo. Il sangue ha cominciato a zampillare, macchiandomi la camicia da notte. Con l’altra mano l’ho estratta e gettata a terra, poi ho nascosto il viso tra le mani e mi sono sporcata le guance di sangue. Di lì a breve sono giunti alle mie orecchie lo scalpiccio degli zoccoli sul selciato e lo scricchiolio di una carrozza. Il conte palatino e la sua mogliettina ignorante stavano partendo così come avevano deciso, senza rivolgere neppure una parola alla padrona di casa. Chissà, magari anche cantando una canzone dei pirati. Il vento faceva sbattere le imposte del torrione e i nibbi si lanciavano richiami l’un l’altro, grida solitarie mentre cacciavano topi nei campi. Deseő ha invocato il mio nome ma, non ricevendo risposta, si è allontanato in silenzio, lasciandomi al mio dolore solitario, in cui io non faccio che pensare a te, Pál, e a quanto mi sembri lontano, orfano e indifeso. Scegli bene la donna di cui ti innamorerai, tesoro mio. Non c’è cura per l’inganno, né in Ungheria né altrove, in questo vecchio e malandato mondo. 2. Nel corso dei lunghi anni in cui fui indaffarata ad amministrare la nostra fortuna e a provvedere alla gestione e
manutenzione delle proprietà della famiglia Nádasdy, tuo padre era lontano in battaglia insieme a Thurzó, Bocskai e altri commilitoni, impegnati a costruire un muro di soldati cristiani contro la minaccia turca ai confini dell’Ungheria, in previsione della guerra che tutti sapevano prima o poi sarebbe scoppiata. E quando alla fine scoppiò, le forze alleate di mio zio Zsigmond Báthory, principe di Transilvania, e del re Rodolfo d’Asburgo strapparono alle truppe del sultano le fortezze di Esztergom e Györ, tra le altre. In questo modo, Ferenc Nádasdy si guadagnò grande fama presso il re a Bécs e rispetto presso i turchi, che lo soprannominarono il «Bey Nero d’Ungheria». Ogni vittoria contribuiva ad accrescere la stima del re nei nostri confronti e una volta in cui Ferenc era incerto se prestare una grossa somma di denaro alla tesoreria reale – più di trentamila fiorini per gli sforzi bellici – , io feci il possibile per incoraggiarlo, nonostante il sacrificio richiesto alle nostre finanze personali, le migliorie a cui rinunciare e i campi da mettere a maggese. «È sempre vantaggioso avere un re in debito con te», gli scrissi. «Rodolfo ricorderà chi gli è stato amico quando verrà il momento.» Tuo padre sarebbe anche potuto diventare conte palatino, se solo fosse vissuto abbastanza e avesse conservato il favore del re. Il pensiero di diventare la moglie del conte palatino non mi dispiaceva affatto, specialmente dopo che avevo conquistato l’affetto di Ferenc e non dovevo più sopportare il sarcasmo di domestiche insolenti, visto che ormai mi ero guadagnata il posto che mi spettava di diritto nel cuore di tuo padre. Mi chiedevo spesso quanto sarebbe stata orgogliosa di me mia madre, se avesse visto come funzionava bene l’unione che lei aveva voluto così fermamente, una volta che ci eravamo decisi a entrare nello spirito giusto. Eppure non mancavano i dispiaceri, perché per i primi dieci anni non riuscimmo ad avere figli. Senza figli, tutte le
nostre vittorie erano temporanee. Tuo padre non me ne faceva una colpa, come fanno tanti altri mariti, ma percepivo la sua disperazione. I mesi passavano al ritmo delle mie delusioni e le poche volte all’anno che Ferenc riusciva a lasciare il campo di battaglia, ansioso di condividere il mio letto, non recavano alcun frutto. Mi portò da un dottore di Bécs, che mi colpiva e mi stimolava usando strumenti appuntiti e le sue mani fredde, legandomi al letto per tenermi immobile mentre infilava dentro di me lunghi aghi per cercare di aprire il mio corpo con punteruoli e pezzi di ghisa e renderlo capace di accogliere il seme che avrebbe generato un figlio. I giorni seguenti sanguinavo abbondantemente, tanto che non riuscivo quasi ad alzarmi dal letto. Ferenc convocò addirittura da Padova il dottore che aveva aiutato i suoi genitori a concepire un figlio e che ormai era molto anziano. Lui mi trattò in maniera meno aggressiva, ma i mesi passavano e il medico non otteneva alcun risultato. Ferenc si sentiva in colpa e promise che non mi avrebbe più fatto visitare da nessuno, anche se in realtà ordinò da Praga e da Parigi pozioni speciali che dovevano aumentare la mia fertilità e che Darvulia mi fece ingoiare a forza al mattino e alla sera, nonostante le proteste e le lacrime da parte mia. Io temevo che l’unico rimedio valido fosse trascorrere più tempo insieme a Ferenc e glielo dissi, anche se prestai attenzione a non piangere per non rendermi ridicola come le altre mogli. Non doveva mai pensare, nemmeno in quella circostanza, che la sua assenza potesse distruggermi, altrimenti sarei stata in suo potere invece che essere io a tenerlo in pugno. Doveva tornare a casa almeno tre o quattro volte all’anno, gli dissi. «Non sai quanto lo vorrei», mi rispose. «Nulla mi farebbe più felice. Ma il re ha bisogno di me.» «Io di più.»
«Thurzó è tornato dalla moglie al massimo quattro volte negli ultimi tre anni, e Zrínyi ancora meno. Noi ci siamo visti di più.» «Thurzó e Zrínyi hanno già figli. Quattro femmine e un maschio fra tutti.» «Avremo anche noi i nostri bambini, non temere», disse, ma avevo l’impressione che neppure lui ne fosse troppo convinto. «Forse Darvulia potrebbe aiutarci. Conosce tutte le erbe e i sortilegi di queste terre.» «Sì, forse», risposi. Non gli confessai che Darvulia mi aveva già somministrato un’infinità dei suoi rimedi, nessuno dei quali aveva avuto effetto: bere spremute di melagrane rosse; spalmare nella cavità buia del mio corpo un impiastro di Tribulus terrestris ammollato nel tè e poi pestato; guardare un gatto che si lecca recitando una preghiera alla Vergine. «Voglio che tu abbia dei figli, mia cara. Smuoverò mari e monti per te, te lo giuro», mi diceva Ferenc scostandomi i capelli dagli occhi e accarezzandomi con dolcezza infinita. Ma poi doveva ripartire e io non lo rivedevo più per mesi e mesi, durante i quali non facevo che aspettare senza troppe speranze. Assai raramente mi consentivo di pensare alla mia figlia perduta, portata via dalla levatrice. Non avevo nessun modo di cercarle, non sapendo da dove venisse la levatrice né dove avesse portato la piccola. Poverina, che sfortuna essere nata femmina. Se fosse nato un maschio, magari avrei trovato il coraggio di dirlo a Ferenc, e chissà, magari con il tempo lo avrebbe anche accettato e mostrato a tutti come se fosse figlio suo. Ma una femmina era un peso, a meno che non avesse un cognome e una dote a proteggerla. La mia bimba, nata in segreto, non poteva avere niente di tutto ciò. Mia figlia non mi avrebbe mai conosciuto, né saputo mai nulla di me.
Suo padre, che pur sapeva dell’esistenza della bambina, non mostrava alcun interesse per quel che era successo alla figlia o ciò che aveva significato per me quella gravidanza. Le rare volte in cui mi capitava di incontrare András Kanizsay alle riunioni di corte o in occasione delle vacanze in famiglia, pensavo spesso a nostra figlia. Ancora bello, ancora elegante e spiritoso con i suoi amici, András manteneva sempre le distanze da me, quasi vergognandosi dell’intimità che avevamo condiviso, del nostro passato segreto. Non riuscivo a coinvolgerlo in nessun genere di conversazione, né sul suo futuro matrimonio né sui progetti per la proprietà che avrebbe ereditato quando lui e Griseldis si fossero sposati. Niente di niente. András non sembrava fare caso alle mie dimostrazioni di affetto nei confronti di Ferenc, né agli inviti che facevo a lui e a Griseldis per trascorrere insieme il Natale a Sárvár, dove ci sarebbero stati balli sfarzosi, vino buono e compagnia piacevole. Ai suoi occhi ero diventata trasparente e trovava sempre qualcun altro con cui parlare, qualche altro posto dove andare. «Scusatemi, contessa, se non sbaglio mi stanno chiamando», diceva, poi sentivo il rumore dei suoi passi che si allontanavano lungo i corridoi bui, al sicuro da me, che bruciavo di odio nei suoi confronti per quello che mi aveva fatto in nome della sua meschina gelosia. Con il passare degli anni si fece sempre più evidente che il suo amore per me era ormai soltanto un lontano ricordo. Al suo matrimonio a Bécs, a cui avevo partecipato insieme a Ferenc e altri amici e familiari, ci mancò poco che non scoppiassi a piangere vedendo il suo sguardo rapito mentre davanti al pastore prometteva fedeltà eterna a Griseldis, perché era chiaro che lui amava sua moglie, che in quel momento pensava a lei soltanto e io ero sparita dalla sua vita. András sposò Griseldis e ben presto ebbero dei figli. La sua prestanza virile e la bellezza florida di Griseldis diedero
vita a tante belle figlie femmine, cinque in otto anni, tutte snelle e dagli occhi come gioielli, tutte sane, tutte vive. Era la benedizione del Signore alla loro unione, dicevano tutti. Tutti, tranne me. Ogni volta che vedevo mia cugina con la sua banda di piccole pesti, cercavo nei loro visi qualcosa che mi ricordasse la mia bimba lontana, chiedendomi come poteva essere diventata, e i loro visini mi sembravano trasformarsi nel suo, pur sapendo che era un’assurdità. Mia figlia aveva ereditato i miei colori scuri e il naso tipico dei Báthory. Di sicuro non somigliava affatto a quelle sorellastre. Era mia nella memoria, mia nella bellezza e nel temperamento, e lì l’avrei conservata per sempre. E così, quando tua sorella Anna finalmente venne al mondo, una calda giornata d’autunno del 1585, fu come se il sole fosse spuntato sulle nostre speranze. Un bambino avrebbe garantito il nostro futuro, di tuo padre e mio, e ci avrebbe fatto dimenticare le nostre passate sofferenze. Il travaglio fu impegnativo – ero stata quasi sempre male e alla fine avevo ormai esaurito le forze –, ma Darvulia mi rimase sempre accanto insieme al dottore che Ferenc aveva fatto appositamente venire da Grác. Quando l’acuto vagito della piccola lacerò l’aria calda del pomeriggio, tuo padre si precipitò nella stanza e se la strinse al petto, ancora tutta umida e appiccicosa. «Una femmina», disse. Per mascherare il suo disappunto, aggiunse che era la più bella bambina che avesse mai visto, una futura regina, il conforto della nostra vecchiaia. Le sfiorò le labbra con un dito e me la restituì all’istante. Non era stato brusco, ma semplicemente perplesso, come se non sapesse cosa fare della piccola. «Per il maschio», aggiunse, «vorrà dire che ci riproveremo.» La notte in cui era nata la mia sorellina Klára, mio padre si era seduto in corridoio, aveva affondato il viso tra le mani ed era scoppiato a piangere. Adesso ero io a cullare tra le braccia la mia bambina. La nostra figlioletta aveva la
bellezza in bianco e nero di sua nonna, come se la mia defunta madre fosse lì davanti a strizzarmi un occhio. La bambina si girò e si rannicchiò contro di me, poi, quando non fui abbastanza lesta a sbottonarmi la camicia da notte e ad attaccarla al seno, lei aprì la sua boccuccia di rosa ed emise un urlo penetrante. Io la diedi alla balia, una vedova di nome Ilona Jó che avevo assunto per badare alla bimba. Aveva la mia stessa età, venticinque anni, ma era già vecchia nello spirito, una donna magra e triste in abito grigio che si spaventava ogni volta che le rivolgevo la parola, neanche fosse un gatto selvatico. Suo marito era morto di colera l’inverno precedente e sua figlia, svezzata da poco, viveva con la nonna in un piccolo villaggio nei dintorni della proprietà dei Thurzó a Tokaj. La moglie di Thurzó, Zsofía Forgách – una mia cara amica e compagna di balli e feste a Pozsony e a Bécs –, me l’aveva raccomandata caldamente. Ilona Jó – tutta pelle e ossa a furia di allattare, ma con due polsi possenti come quelli di un uomo – si slacciò i bottoni del vestito e si portò al seno la bimba, che si attaccò e cominciò a succhiare il latte con la sua boccuccia avida. «Si chiamerà Anna», disse Ferenc, «in memoria di tua madre.» Io la guardai attaccata al seno della balia, le manine incollate alla pelle nuda di quella donna, e sentii una forte fitta di dolore stringermi il petto. Nessuna nobildonna del mio rango si abbassava ad allattare al seno i figli, ma io non potei fare a meno di sentirmi disperata perché una volta ancora avevo partorito una bimba e l’avevo data a qualcun altro, anche se questa volta si trattava solo di una balia, per lo più bruttina e arcigna. Scoppiai a piangere, un solco di lacrime lento e continuo mi divideva le guance separandomi da me stessa. Ferenc si sedette sul letto e mi abbracciò. «Non preoccuparti, amore mio», mi sussurrò baciandomi in fronte. «Sei stata brava e la prossima volta sarai ancora più brava.» Non gli dissi che riponevo ben poche speranze in
una prossima volta, che mi sentivo condannata a perdere tutti i miei figli come castigo per la bambina che un giorno avevo abbandonato. 3. Dopo Anna venne Orsika, e dopo Orsika fu il turno di Katalin, un seguito di belle figlie che riempirono la nostra casa e i nostri giorni con le loro voci squillanti, le loro manine e i loro piedini veloci. Anna, che con il passare del tempo somigliava sempre più a mia madre, era molto sveglia e cominciò a camminare prima dell’anno, sebbene fosse una bimba diffidente che si aggrappava a Ilona Jó anche dopo lo svezzamento, osservandomi con un’aria sospettosa nei suoi begli occhi neri, soprattutto quando non volevo darle il giochino che pretendeva o il dolcetto che era certa di meritare. Avevo spesso la sensazione che mi avesse giudicato e trovato in difetto, proprio come mi sentivo io stessa. Ero delusa che non mi amasse quanto io amavo mia madre, in maniera altrettanto incondizionata, ma non sapevo come guadagnarmi il suo affetto. Orsika somigliava alla sua omonima, mia suocera, la boccuccia e le sopracciglia inarcate in un’espressione di perenne sorpresa, ma era una bambina dinamica ed espansiva che abbracciava me e il padre con lo stesso affetto che riservava alla balia e trattava perfino Darvulia, che tutti gli altri temevano, come una zia un po’ speciale. Estroversa, con un fascino naturale che la sorella più grande nemmeno si sognava, fu seguita tre anni dopo da Katalin, sempre malata, i cui mal di denti e raffreddori imposero a me e Darvulia lunghe nottate insonni a curare questo o quel malanno a furia di sciroppi e unguenti. Doveva andare spesso dal chirurgo per un dente marcio e si aggrappava a me come un’indemoniata se lo vedeva avvicinarsi, infilandomi le unghie nel collo quando l’anziano dottore le metteva il
ferro arroventato in bocca per cauterizzare la ferita. Io odiavo doverla immobilizzare a quel modo, perché mi ricordava i tempi in cui i dottori cercavano di curarmi per la sterilità, ma facevo il possibile per consolarla con baci e promesse prima e lacrime e medicine dopo, dandole un goccio di brandy per non farla soffrire troppo. Forse per via di queste attenzioni costanti, Kata era la figlia che mi amava di più, l’unica che mi chiamava nel cuore della notte o si infilava nel mio letto se aveva paura. Io la chiamavo «la mia piccola zecca», perché non riuscivo quasi a camminare nei corridoi di Sárvár o di Csejthe senza ritrovarmela attaccata a una gamba, a supplicarmi di prenderla in braccio. Era sempre in mezzo alle mie cose: specchi, spazzole, vestiti, libri. L’amore che ogni tanto facevo fatica a provare per la sua sorella maggiore, sempre così sospettosa, non avevo nessun problema a riversarlo a fiumi sulla piccola Kata. Eppure, nonostante tutte queste benedizioni, tuo padre sperava ancora in un maschio. Ogni volta che tornava a casa, mi veniva a cercare nel mio letto nella speranza di generare un erede che portasse il nome dei Nádasdy. Alla nascita di ogni figlia, fece sempre del suo meglio per mostrarsi contento, ma io sentivo che la sua felicità non era completa. Ferenc cullava tra le braccia la nuova arrivata e diceva che era persino più bella della precedente, ma aggiungeva sempre che ci sarebbe stata una prossima volta. La sua speranza era così intensa, così radicata nel suo essere uomo, che non sarei riuscita a dissuaderlo in alcun modo. Avrei fatto del mio meglio per dargli un maschio. Nell’inverno del nostro ventesimo anno di matrimonio, quando io avevo già trentacinque anni, sentii nuovamente le prime avvisaglie di una nuova gravidanza: svogliatezza, sonnolenza, rifiuto del cibo ed estrema sensibilità agli odori. Permisi a Darvulia di sottopormi ai suoi trattamenti in quei mesi, accettando senza discutere le sue tisane per lo
stomaco, i suoi unguenti e i suoi massaggi per mantenere la pelle elastica. Ferenc era fuori casa in quel periodo, al comando della sua armata, e non ci vedemmo per l’intera gravidanza, anche se scriveva spesso per chiedere notizie della nostra salute, assicurarsi che tutto procedesse per il meglio e domandarmi se non mi servisse un medico per assistermi durante il travaglio. Dopo ben quattro gravidanze, ormai ero diventata una veterana e non avevo la minima paura del parto, così mi disposi ad attendere l’arrivo del neonato nella certezza che questa volta Ferenc avrebbe finalmente avuto il suo tanto atteso figlio maschio. Secondo i miei calcoli, la data prevista sarebbe dovuta cadere a metà settembre, ma cominciai ad avere i dolori una notte d’inizio agosto, nel bel mezzo di una siccità che faceva avvizzire i raccolti e le vigne. Erano brutti tempi per Sárvár. Un vento torrido soffiava quell’anno da Costantinopoli, diffondendo le notizie di guerra e il fetore della peste. Alcuni domestici si erano ammalati e, anche se Darvulia li aveva confinati in quarantena in un magazzino fuori dalle mura di recinzione, ormai era troppo tardi per mettere Sárvár al sicuro. In quelle poche, sciagurate settimane estive le campane risuonavano a morto in continuazione per le vittime dell’epidemia. I cadaveri bruciavano giorno e notte, mentre il vento portava il miasma nelle case anche con le imposte sprangate. Io diedi ordine a Darvulia di amministrare la casa al posto mio e lei svolse l’incarico in maniera abbastanza soddisfacente, anche se una volta o due fu costretta a ricorrere alla frusta con una domestica sfaticata o dovette cacciar via una sciocca in lacrime rimasta inavvertitamente incinta. Quanto a me, non mi alzavo dal letto e soffrivo un caldo orribile mentre il piccolo si agitava nel mio grembo e non mi lasciava chiudere occhio. Partorii una notte di tuoni e pioggia torrida. Quando Darvulia prese il bimbo in braccio e mi annunciò che finalmente
avevamo avuto un maschio, io lo cullai tra le mie braccia e piansi di gioia. Ferenc aveva scritto che se fosse stato un maschio avrebbe dovuto portare il nome di suo nonno, e così feci. Tamás era piccolo, più piccolo delle sue sorelle, un esserino macilento dalla pelle giallastra e dai lineamenti delicati, con braccine e gambe sottili come ramoscelli di salice, ma finalmente potevo ritenermi soddisfatta: i nostri averi erano al sicuro, ora che c’era un maschio Nádasdy a proteggerli, e con loro le sue sorelle e me stessa. All’inizio andò tutto bene, il bimbo succhiava il latte avidamente e la sua pelle diventava sempre più rosea. La sorellina Orsika adorava tenerlo in braccio e mi supplicava di lasciarglielo cullare ogni tanto, accarezzandogli le guance con il ditino sottile. Il bambino riportò l’entusiasmo tra noi. L’isolamento e la costrizione in uno spazio così angusto cominciavano a esasperarci. Ilona Jó e la balia asciutta che badava ai bambini più grandi, un donnone immenso di nome Dorottya Szentes, facevano a gara per aggiudicarsi il mio favore, litigando per chi doveva avere il privilegio di mettermi una pezzuola fresca sulla fronte o massaggiarmi i piedi gonfi. Avevano entrambe paura di Darvulia e, ogni volta che la mia buona amica entrava in camera, le due donne si trovavano sempre qualche lavoro da sbrigare, una stoffa da cucire, un pavimento da spazzare, i bambini da intrattenere o un pannicello da cambiare. Sapevo che mi rispettavano come loro signora, ma era di Darvulia che avevano davvero timore. Le terrorizzava il rumore delle assi di legno sotto il suo piede, le note gravi della sua voce, quasi maschile. Se trovavano un suo capello grigio su un vestito o sulle lenzuola, lo raccoglievano e lo gettavano all’istante nel fuoco, come una coppia di vecchie streghe superstiziose. Ma il piccolo Tamás cresceva bene e a me
stavano tornando le forze. Speravamo che il contagio finisse da un momento all’altro, così preferii non fare commenti sulla loro ignoranza adesso che eravamo costrette a vivere così vicine, faceva tanto caldo e non ne potevamo più di vederci per forza ogni istante. Un giorno il piccolo era più agitato del solito. Sulle prime pensai che si fosse sporcato, ma quando aprii il pannicello lo vidi: un piccolo bubbone all’inguine, segno inequivocabile della peste. Nel giro di un paio di giorni, il viso si riempì di ponfi nerastri. Darvulia gli fece ingurgitare una pozione disgustosa che secondo lei avrebbe arrestato il peggioramento della malattia, ma nel giro di poche ore morì. La piccola Orsika – che stravedeva per il fratellino – seguì il suo destino pochi giorni dopo, la delicata pelle chiarissima chiazzata da orribili lividi neri. La tenni tra le braccia mentre esalava l’ultimo respiro, e maledissi Dio per avermi fatto nascere donna. Solo Darvulia mi convinse a separarmene e portò il suo corpicino rigido nelle segrete del castello per prepararlo alla sepoltura. Le altre due – Ilona Jó e Dorka – sussurravano che era tutta colpa di Darvulia, che aveva fatto un incantesimo sui bambini. Le vidi io stessa parlottare tra loro con un filo di voce. «È stata Darvulia», dicevano. «La signora dovrebbe cacciarla via prima che uccida anche gli altri piccoli.» Quelle megere, che dilaniavano i miei figli come due lupi con un gregge di agnelli... com’erano odiose ai miei occhi, maleducate e volgari, e quanto le detestavo in quel momento per essersela presa con Darvulia. Mi scagliai contro di loro come una furia, le mie mani come artigli d’uccello. «Nessuno», dissi, «si azzardi a parlar male di Darvulia in mia presenza, Darvulia che per anni è stata la mia più cara compagna, Darvulia che amo come fosse una madre. Ha fatto tutto il possibile per salvare i miei poveri bambini», aggiunsi, «e voi due farete bene a ricordarlo.
Per quanto mi riguarda, potete lasciare queste stanze e affrontare i rischi della malattia anche subito», conclusi. Le due donne se ne andarono bisbigliando cattiverie e lanciando occhiate sospettose a me e a Darvulia. Quando ci lasciarono sole, ritrovammo finalmente un po’ di serenità. Come mia madre dopo la morte del marito, presi l’abitudine di rimanere per ore e ore a letto, ma io non piangevo per i miei figli morti. Guardavo nello specchio sul muro quella donna spiritata con i capelli arruffati e gli occhi stralunati che mi guardava di rimando. Come avrei fatto a spiegarlo a Ferenc, l’arrivo della peste e la morte di nostro figlio e della sorellina, e tutto così in fretta? Ero dilaniata dalla rabbia e dal dolore, sempre sul punto di esplodere. La domestica che aveva lasciato il pavimento bagnato facendo scivolare Kata, che andò a sbattere la testa contro un tavolo, la punii colpendola con un pesante portacandele, limitando i colpi alle braccia e alle gambe in modo che resistesse più a lungo, come mi aveva insegnato Ferenc. La cuoca che aveva bruciato il pesce che ci avevano regalato la frustai nella corte finché il suo sangue non mi schizzò l’abito bianco e fui costretta a cambiarmi. Le serve rabbrividivano al suono della mia voce, scappando via quando sentivano i miei passi, ma io non ci facevo caso. Erano tutte peggio che inutili, donnacce sfaticate che mangiavano il mio cibo, sparlavano di me e andavano in calore come cagne non appena giravo le spalle, portando morte e malattia nella mia casa. Non avevano a cuore le sofferenze mie e dei miei bambini. «Che vadano tutte all’inferno», mi ripetevo. Dicevo a Darvulia di portarmi le mie due figlie sopravvissute, come faceva mia madre un tempo, e le cullavo strette al mio petto, volenti o nolenti. Anna in particolare non sapeva che farsene di me e del mio dolore. Si faceva piccola piccola, rannicchiandosi quasi mi facesse una colpa della morte dei suoi fratelli, e non poteva sopportare che la
toccassi. Kata, che aveva solo tre anni, sembrava non farci caso e continuava a giocare tranquilla, portandomi qualche oggettino dalla mia toletta come trastullo, mostrandomi le sue bambole e prendendomi le mani per baciarle con la sua boccuccia inarcata. «Dov’è Orsika?» mi chiedeva e io me la stringevo al seno ma non riuscivo quasi a tenerla tra le braccia o a sentire il suo odore di bambina, perché si trasformava continuamente in qualcun altro. Orsika. Tamás. L’altra figlia, quella scomparsa. Avevo strane visioni di un cavallo sdraiato che partoriva un bambino, un bambino dai capelli neri con i baffi e la voce terrorizzata. «Salvami», diceva. Strinsi Kata così forte da farla piagnucolare e Anna me la strappò di mano e me la tenne lontana finché Darvulia non la minacciò di chiuderla nelle segrete con i pipistrelli se non avesse cominciato a obbedire alla madre, che aveva il cuore spezzato per il dolore. «Ma non lo vedi che tua madre ha bisogno di te adesso?» la sgridò e Anna tornò da me, controvoglia, e si sdraiò accanto a me nel letto, i suoi begli occhi neri pieni di sfiducia. Appena informato della terribile notizia, Ferenc si precipitò a casa per stare con noi, ma ormai era troppo tardi e non fece in tempo a vedere il piccolo Tamás vivo. Pochi giorni dopo, seppellimmo i nostri due piccoli tesori. Vestii Orsika con un abitino bianco decorato con minuscole perline, mentre il piccolo Tamás, l’erede che avevamo tanto desiderato, lo avvolsi in un lenzuolino di lino ricamato con fili dorati. Un principino, persino da morto. Non invitammo nessuno al funerale. I funerali per peste non erano pubblici e, anche se lo fossero stati, noi volevamo piangere la morte dei nostri figli da soli, lontano dalla vista degli altri. Tuo padre voleva provare subito ad avere un altro figlio, ma io non riuscivo a sopportare l’idea. Per quasi un anno non gli permisi di avvicinarsi a me, ripetendo che non avrei mai più messo al mondo un figlio solo per vedermelo morire
sotto gli occhi. Ferenc cercò di avere pazienza con me, stringendomi tra le sue braccia possenti finché non mi sembrava di scomparire, ma ogni tanto esagerava e io ero costretta a supplicarlo: «No, ti prego. Basta bambini, Ferenc». Non tolleravo l’idea. Lui diceva che avevamo ancora due belle bambine sane e non c’era ragione di pensare che un altro bambino non sarebbe sopravvissuto. La peste era stata una grande sciagura, ripeteva, ma la sciagura non dura per sempre. Ripensai allo zingaro morto nella pancia del cavallo, alla sua gente che lo aveva lasciato laggiù, dove si era abbattuta la sciagura. Mi chiesi se forse, fra tutte quelle persone, avesse scelto proprio me come sua vittima prediletta. Ripensai alla figlia che avevo abbandonato, a come mi fossi sentita condannata a perdere tutti i miei bambini per espiare quella colpa. Ma non parlai delle mie angosce a Ferenc, che voleva disperatamente un altro figlio. Invece, in un accesso di sconforto e dolore che con ogni probabilità mio marito scambiò per amore, lo riaccolsi nel mio letto. La semplice possibilità di un figlio maschio, di un erede capace di proteggerci nella vecchiaia, gli risollevò l’animo, e quando si staccò da me lo strinsi forte tra le braccia e pensai che se Dio fosse stato così caritatevole da concedermi un altro bambino, un altro maschio, avrei dato qualsiasi cosa – qualsiasi, lo ripeto – per vederlo crescere sano. Anche me stessa. 4. Il nostro piccolo Pál nacque una mattina di primavera del 1598, una fredda mattina di nebbia e pioggia. Tu sei sempre stato il più bravo dei miei figli, sin dall’inizio, tanto che il parto non durò neanche un’ora dall’inizio del travaglio. Non appena ti strinse fra le braccia, tuo padre ti contò le dita delle mani e dei piedi e scoppiò a ridere così forte che gli vennero le lacrime agli occhi. «Si chiamerà Pál», disse. Darvulia fece quasi fatica a convincerlo a separarsi
da te per darle modo di ripulire il tuo corpicino paffuto e roseo. Un bimbo sano, un figlio maschio. Finalmente le nostre preghiere erano state esaudite. Poco dopo tuo padre organizzò solenni festeggiamenti, un ricevimento che durò più di una settimana, con abbastanza cibo, vino e danze per un esercito intero, come anche mio padre aveva fatto un giorno in onore di mia sorella Klára e di mia madre. Parenti e amici giunsero da tutta l’Ungheria per festeggiare con noi la nascita dell’erede della dinastia Nádasdy, il nipote del conte palatino, su cui riponevamo tutte le nostre speranze. Thurzó venne da Bicske, ma lasciò a casa la mia amica Zsofía Forgách e le loro due figlie, in convalescenza dopo una grave malattia. Tuo zio István arrivò da Ecsed nonostante la salute cagionevole, portando con sé i piccoli Gábor e Anna, i due orfanelli Báthory che aveva adottato dopo che lui e Fruzsina Drugeth si erano rassegnati a non poter avere figli propri. Gábor in particolare era un vero spasso, un allegro e spensierato ragazzino che preferiva ballare e giocare anziché dedicarsi alle occupazioni più serie che mio fratello non si stancava mai di proporgli: scienza e filosofia, i grandi dilemmi dei nostri giorni. Anna e Kata non vedevano l’ora di conoscere i loro cuginetti e si misero a correre su e giù per le sale strillando così forte che tuo padre le minacciò, scherzando solo a metà, di cucire loro la bocca fino alla fine della festa. Io dissi loro di andare a giocare all’aria aperta, lontano dalle orecchie del padre, e loro corsero ridendo in giardino e ricominciarono a giocare. Mia cugina Griseldis, rimasta vedova di recente, scrisse che non sarebbe riuscita a venire, ma mi ringraziava tanto per l’invito. Il marito era stato ferito in battaglia a Mezőkeresztes ed era morto dopo una lunga agonia, lasciando Griseldis ad amministrare da sola la modesta proprietà che avevano ereditato. Quella notizia, che in altri tempi mi
avrebbe distrutto dal dolore, mi lasciò del tutto indifferente. András Kanizsay, un uomo che in fondo valeva molto meno di Ferenc Nádasdy, era morto. Griseldis mi scrisse anche che, dopo la morte del marito, due generi, in combutta con un paio di vicini facoltosi, si erano rivoltati contro di lei e le avevano rubato le terre e le vigne, oltre al piccolo castello che lei aveva promesso loro in eredità. Evidentemente, non avevano nessuna voglia di aspettare che morisse per mettere le mani sulle sue proprietà. I bambini più piccoli erano stati spediti a vivere con le sorelle maggiori, mentre mia cugina era stata chiusa in convento. Nella lettera si lamentava amaramente dei maltrattamenti che le infliggevano le figlie e della solitudine in cui era sprofondata. Gli altri nobili si professavano scandalizzati, ma nessuno aveva alzato un dito per difenderla. «Così va il mondo», dicevano. Non avrebbe dovuto tenere il castello per sé, dopo averlo promesso ai generi. Io le spedii delle coperte ricamate e delle bottiglie di vino, del buon formaggio e qualche altra prelibatezza, ma nutrivo ben poca simpatia per una donna come Griseldis. Se i suoi vicini e parenti si erano presi la libertà di trattarla a quel modo, vuol dire che era stata lei a permetterglielo. Come facevo a immaginare che un giorno anche i miei amici e i miei parenti, i miei generi e i miei vicini mi avrebbero trattata allo stesso modo? A Sárvár riunimmo tutti i nostri amici per festeggiare il lieto evento. Le mie amiche nobildonne – la zia di mio marito, Margit Choron, la contessa Zrínyi, la contessa Batthyány... tutte le donne che un tempo mi avevano compatito per la mia mancanza di figli, che avevano sparlato di me, sfoggiando sotto i miei occhi la loro nutrita prole come premi vinti – ora mi raggiungevano nelle mie stanze e ti riempivano di complimenti e attenzioni. Vennero anche le mie sorelle con i
bambini ancora piccoli, e mia cognata, tua zia Fruzsina Drugeth, ti tenne in braccio e ti coccolò più a lungo di chiunque altro, lei che aveva adottato i suoi figli quando erano già grandi. Com’era bello starmene seduta nella camera bianca di Sárvár circondata da sorelle e amiche, con in braccio il mio piccolo maschietto, e avvertire la loro ammirazione ora che la mia felicità era completa. Si rallegravano con me e pregavano anche loro che, dopo tutte le nostre sofferenze, almeno tu saresti cresciuto fino a diventare un adulto forte e robusto, l’erede che ogni famiglia vorrebbe e di cui avrebbe bisogno. Per un’intera settimana ti avvolsi nelle stoffe più raffinate e ti mostrai orgogliosa a tutti gli ospiti. Le donne di casa Báthory e Nádasdy ammirarono a lungo la tua fronte alta e il naso dritto e sottile. Tuo padre ti strinse tra le braccia di fronte ai commilitoni e annunciò che il sultano di Costantinopoli doveva stare ben attento, perché un altro Nádasdy era destinato a diventare il suo tormento. Il bambino più bello e più sano del mondo, l’invidia di tutti, parenti e amici. Come premio per essere finalmente riuscita a dargli un erede, tuo padre mi regalò un anello con un grande diamante giallo e a me vennero in mente le parole di mia madre, che quando avessi dato un erede a mio marito sarei diventata per lui più preziosa di tutte le sue proprietà. Assai di rado Ferenc mi rivolse lo sguardo in quei giorni, ma sembrava felice, più felice che mai. Fu proprio in quell’occasione che cominciai a sentirmi addosso gli occhi di Thurzó. Come migliore amico di Ferenc, pretendeva di sedersi accanto a me a tavola, sorridendomi di continuo e avvicinandosi a tal punto che a volte sentivo le sue labbra sfiorarmi l’orecchio, tanto che mi domandavo che cosa avesse in mente. Una
sera, durante la cena, si mise a parlare delle dispute di corte provocate da mio zio Zsigmond di Transilvania, che si era separato dalla moglie, un’Asburgo, e aveva abdicato in favore di mio cugino, il cardinale cattolico András Báthory. Stavo prendendo il mio bicchiere di vino quando lui mi scostò una ciocca di capelli dall’orecchio e si chinò in avanti per chiedermi a bassa voce se avessi notizie dai miei cugini di Transilvania. Come se la cavavano di questi tempi? mi domandò, e il suo fiato sapeva di erbe e di vino. Scossi la testa e risi, anche se la faccenda non era certo uno scherzo. Forse Thurzó voleva ficcare il naso nei segreti di famiglia per usarli come arma contro mio zio e i suoi seguaci. Cambiai quindi argomento e gli chiesi notizie della moglie e dei figli rimasti a casa, se stavano bene. Mi studiò per qualche istante, come per valutare se potesse fidarsi di me, poi il suo sguardo si fece all’improvviso malinconico. Zsofía Forgách, mi confessò, era gravemente malata, ben più di quanto non avessero voluto dire. «Temo che non arriverà alla fine dell’anno», concluse con un sospiro, posando il bicchiere. Io gli misi una mano sul braccio, più esile di quello di Ferenc, persino con la giacca. Zsofía Forgách era stata la sua sorellastra prima di diventare sua moglie. Erano cresciuti insieme e avevano sempre saputo di essere fatti l’uno per l’altra. Il pensiero di perderla doveva essere terribile per lui. «Mi dispiace davvero», dissi. «Spero che vorrete portarle una mia lettera al ritorno. Ho delle erbe che potrebbero farle bene, se avrete la bontà di fargliele avere.» Intanto lui aveva messo la sua mano – ruvida e callosa per i tanti anni trascorsi a cavallo, ma calda e piacevole – sopra la mia. Non mi ero mai fidata troppo di lui, ma eravamo sempre stati buoni amici, io e Thurzó. «Sì, grazie. Sarà felice di ricevere vostre notizie. Se non le gioverà al corpo, almeno la metterà di buonumore.»
Stava per aggiungere qualcos’altro quando Ferenc venne accanto a noi, l’aria allegra di chi ha bevuto troppo. Sentivo nel suo fiato l’aroma di pálinká, di carni speziate e frutta, e sapevo che quella sera avrebbe fatto fatica a digerire. Non era più venuto a trovarmi di notte dalla nascita di nostro figlio, ma ricordavo ancora bene le sue debolezze. Se Thurzó non fosse stato presente, l’avrei forse rimproverato di bere troppo, ma non volevo metterlo in imbarazzo di fronte a un amico, così non dissi una parola, limitandomi a sfilare la mia mano da quella di Thurzó e portarmela in grembo. «Ebbene?» disse Ferenc. «Metti le mani sulle mie proprietà, vecchio amico mio?» «Niente affatto», ribattei io in tono un po’ troppo acceso, perché avevo sempre odiato che qualcuno mi ritenesse proprietà di un uomo, compreso mio marito. «Thurzó mi stava proprio parlando della malattia della moglie.» L’espressione di Ferenc si accigliò. Sapeva quanto Thurzó amasse Zsofía Forgách. Allora abbozzò un’aria contrita e chiese: «C’è qualcosa che possiamo fare?». Thurzó sospirò e distolse lo sguardo, fissando distrattamente i domestici che si aggiravano per la sala, le cameriere nelle loro gonne colorate, i valletti vestiti di nero, come se uno di loro potesse svelargli il segreto per salvarla. Sollevò il bicchiere e bevve un lungo sorso. «Grazie, ma credo proprio di no. Forse tornerò a casa un po’ prima per farle compagnia. Magari ci farà bene. Buonanotte a tutti, amici miei», rispose svuotando il bicchiere e posandolo sul tavolo. Ordinai a un valletto di portargli una candela, in modo che potesse riposarsi prima di ripartire, e mi chiesi cosa stesse per dirmi Thurzó prima che Ferenc lo interrompesse. Dopo che Thurzó si fu allontanato, Ferenc mi si appoggiò pesantemente addosso chiedendo altro vino, altra musica,
ridendo mentre io lo supplicavo di darsi un tono. Stava chiedendo ancora di tutto quando il sole comparve all’orizzonte e gli ospiti si addormentarono l’uno dopo l’altro avvolti nelle loro pellicce, corpi ammucchiati qua e là nelle sale di Sárvár come dopo una battaglia. Io mi misi il suo braccio attorno alle spalle e lo portai a letto. 5. Le tue sorelle erano diventate due deliziose giovani donne e io le pregavo spesso di badare al loro fratellino, un ragazzino serio con le sopracciglia folte e gli occhi neri del padre. Kata era una mammina solerte che adorava prenderti sotto le ascelle e portarti a spasso per la casa. Ovviamente questo trattamento ti faceva scoppiare a piangere, soprattutto se eri impegnato a giocare e tua sorella ti portava via a forza. Anna, la mia responsabile figlia maggiore, rimproverava la sorella ripetendole che il fratellino non era una bambola, ma Kata non riusciva a resistere a uno più piccolo di lei, dopo che era stata la piccina di casa per tutti quegli anni. Come una falena attirata dalla luce, non riusciva a starti lontana, finché alla fine non ti venne l’abitudine di aggrapparti a me o a Ilona Jó ogni volta che la vedevi arrivare. «Mamma!» urlavi e mi tendevi le braccine paffute perché ti salvassi. Ma Kata aspettava che io mi girassi o che il fratellino si distraesse e ci riprovava. Non si è mai data per vinta facilmente. Anna cresceva ogni giorno più serena, meno dispettosa, ma non veniva mai da me a confidarmi i suoi segreti, né le venne mai voglia di sedersi sulle mie ginocchia mentre scrivevo una lettera o leggevo un libro, come capitava con sua sorella. Rendeva onore al suo nome di battesimo, perché aveva ereditato gli occhi freddi di mia madre, il suo temperamento opportunista, nonché la sua straordinaria bellezza. Una combinazione pericolosa. Ogni volta che la
vedevo passare davanti ai valletti di Sárvár o ai ragazzacci di strada di fronte alla nostra residenza di Bécs – quanto le piaceva farsi guardare, alzando la mano per aggiustarsi il vestito o ravviarsi i capelli, tanto per attirare l’attenzione alle parti di sé che preferiva e farli fremere di desiderio –, mi sembrava di vedere una versione ridotta di mia madre prima della mia nascita, inflessibile, controllata e del tutto consapevole del potere del suo fascino. A tredici anni, Anna attirava l’attenzione di tutti gli uomini, anziani compresi, alle feste che si tenevano a Pozsony o a Praga, la nuova capitale dell’impero asburgico. Ogni volta che alzava le ciglia si levava un sospiro tra i ranghi maschili della sala, e la sua nutrice – la robusta Dorottya Szentes, dalla fronte prominente – era costretta a spingerla fuori con l’accanimento di un capitano alle prese con un soldato inesperto e avventato. Ferenc cominciò ad accennare al possibile fidanzamento di Anna con il figlio del suo vecchio amico Miklós Zrínyi, un ragazzo di sedici anni con il nome del padre e la sua stessa passione per la guerra. Aveva l’età giusta per fidanzarsi, essendo più grande di com’ero io quando i nostri genitori avevano deciso che ci saremmo sposati, e la madre del ragazzo era una mia cara amica, ma per il bene di Anna speravo che Ferenc scegliesse un uomo meno ansioso di andare in guerra del figlio di Zrínyi. Pensavo che avrebbe potuto essere una brava moglie per mio nipote Gábor, che più di una volta avevo visto parlottare insieme ad Anna nelle sale di Sárvár, quasi una coppia di giovani cospiratori. Il pensiero che mia figlia potesse diventare la signora di Ecsed mi riempiva di gioia, ripensando ai bei tempi che vi avevo trascorso da ragazza. Eppure non posso negare che quando tuo padre le propose di fidanzarsi con Zrínyi, Anna non sembrò affatto dispiaciuta. Il giovane Zrínyi aveva le spalle larghe e i fianchi snelli come il suo ricco e famoso padre
croato, e Anna sembrava davvero apprezzarlo più di chiunque altro, sedendosi accanto a lui a tavola e premurandosi di servirgli per primo la ciotola delle olive o un calice di vino. Una volta la sorpresi a sfiorargli una gamba sotto il tavolo, le dita vellutate che correvano agili sulla stoffa dei suoi calzoni, il viso di lui sognante, io sempre più agitata finché non la chiamai per nome, in tono tagliente, e la vidi ritrarre la mano all’istante. E così alla fine diedi la mia approvazione. Aveva bisogno di un marito, e anche in fretta. Il giorno in cui Anna compì quattordici anni, celebrammo il loro fidanzamento festeggiando con fiumi di vino e musica a volontà, mentre i due ragazzi arrossivano scambiandosi gli anelli. Davvero una bella coppia, mi disse Ferenc, ed erano tutti d’accordo. Anna si trasferì a casa Zrínyi non molto tempo dopo e io l’abbracciai stretta e le augurai ogni bene, ricordando la mia partenza per Sárvár insieme a Megyery e Darvulia. Mia figlia indossava l’abito di seta rossa che portavo la sera che conobbi Ferenc, ancora in perfetto stato, i capelli acconciati in uno chignon a incorniciare il suo viso così giovane, che ebbi paura per lei, per il suo futuro. Sembrava troppo immatura e testarda per un’impresa simile, l’unione di due ricche e potenti famiglie. Per un istante fui tentata, se solo ne avessi avuto il coraggio, di riprendermela indietro e tenerla a casa finché non fosse divenuta più donna. Ma ormai il patto era stato stretto e nessuno di noi poteva più scegliere diversamente. Mi chinai e le sussurrai all’orecchio di comportarsi da brava figlia a casa Zrínyi, raccomandandole di scriverci ogni volta che poteva e ricordare sempre che era una Nádasdy e una Báthory, a prescindere dall’uomo che avrebbe sposato. Extra Hungariam non est vita et si est vita, non est ita. Quante volte avevo ripensato a quelle parole negli anni dopo avere lasciato la casa di mia madre, dopo essere venuta ad abitare a Sárvár
che ero ancora una bambina... Quanto tempo sembrava essere passato, eppure, mentre me ne stavo in piedi nel cortile polveroso insieme a mia figlia vestita di rosso e pronta per la partenza, capii che non era cambiato niente. Le madri mandavano le figlie allo sbaraglio nel mondo, per diventare a loro volta madri. Anna mi baciò con deferenza e montò in carrozza, ma non pianse, neppure quando salutò con la mano te e Kata affacciati alla finestra, e i cavalli la portarono verso il suo futuro, lontana dalla nostra vista. Sapevo che sarebbe stata felice con il giovane Zrínyi, almeno all’inizio, finché il suo fascino, o quello di lei, non avesse cominciato a venir meno. Ma sapevo che la mia amica, la contessa Zrínyi, la futura suocera, l’avrebbe aiutata a prendere il suo posto nella famiglia e Anna si sarebbe resa utile nella sua nuova casa come io avevo fatto nella famiglia Nádasdy. Una donna può trarre grande soddisfazione dalla propria casa e dalla propria vita, anche se queste con il tempo non si dimostrano proprio come se le aspettava. Nel frattempo, con un precario accordo di pace stretto tra Praga e Costantinopoli, io attendevo con ansia il ritorno di tuo padre dalla guerra. Arrivò finalmente a casa l’inverno del 1599, poco prima di Natale, insieme ai suoi amici Thurzó, Bocskai, Zrínyi e Batthyány, e alle rispettive mogli, mie care amiche. Trascorremmo insieme qualche giorno a bere e far festa, mentre gli uomini si divertivano a farsi scherzi pesanti e prendendosi in giro a vicenda: se uno si ubriacava, lo lasciavano sulla branda a dormire nella neve; scommettevano su chi avrebbe resistito di più appeso al fianco del proprio cavallo lanciato al galoppo senza cadere; si bagnavano nell’acqua gelida del fiume e l’ultimo che arrivava al portone di casa veniva lasciato fuori a gelare finché non aveva le
labbra blu e supplicava gli amici di avere pietà di lui. Più pericoli affrontavano in guerra, più violenza manifestavano nei loro svaghi, quasi avessero perso la paura di morire e deciso di sfidare Dio. Alla sera io e le altre dame avevamo la possibilità di stare con i mariti e ascoltare il resoconto delle loro avventure al fronte, la fierezza degli uomini del sultano, il sangue scorso sui campi di questa o quella città strategica, l’odore di carne bruciata che saliva nell’aria con le pire funebri dopo ogni battaglia. Guardavo i nostri amici mentre si davano un’occhiata attorno, osservando con invidia la casa costruita dall’ex conte palatino, con i suoi ricchi tappeti, il suo oro e i suoi tesori d’argento. Quanti di loro erano diventati poveri durante gli anni di guerra, mentre le terre e le vigne di Ferenc rendevano sempre di più? Le mogli degli altri nobili non erano brave quanto me ad amministrare i loro beni, tenendoli al sicuro e rendendoli proficui. Per me era motivo d’orgoglio che mentre Ferenc combatteva per l’Ungheria io combattevo per Ferenc e per i nostri figli. Anche senza il denaro che avevamo prestato alla tesoreria reale, ero riuscita a mettere insieme una dote ragguardevole per Anna e i soldi per l’istruzione di Pál. La dote di Kata era ancora nelle mani del re, ma Ferenc mi garantiva che Rodolfo ci avrebbe ripagato con gli interessi ora che la guerra era finita. Eppure le proprietà dei Nádasdy rimanevano l’invidia della nobiltà ungherese. Anche mio fratello me lo ripeteva ogni volta che le forze gli permettevano di scrivere. «Sei stata brava, sorellina», scriveva. «Chiunque veda le tue vigne e i tuoi campi, le tue case e le tue stalle, ne decanta lo splendore e reputa Ferenc molto fortunato ad averti al suo fianco. Nostra madre sarebbe fiera di te.» Fu durante una di quelle serate di baldoria che Thurzó smise di scherzare con gli amici e venne a trovarmi nella
biblioteca, dove tenevo una grande scrivania di legno e un baule con le carte e i documenti importanti. Stavo rispondendo a una lettera di Anna in cui mi chiedeva dei consigli quando sentii dei passi, alzai gli occhi e vidi il suo viso non bello e le sue occhiaie profonde. Sembrava più stanco del solito. Zsofía Forgách era morta quella primavera, e da allora in poi avevo notato un cambiamento in lui, uno scivolamento sottile dall’allegria alla contemplazione, dagli scherzi tra uomini a un bisogno quasi femminile di rimanere in disparte e osservare con occhio giudicante, come se i suoi compagni fossero diventati degli estranei e non sapesse più come comportarsi. «Va tutto bene, Thurzó?» gli chiesi e all’improvviso mi resi conto che in quel momento nulla andava bene. Si appoggiò allo stipite della porta e i capelli grigi, più radi del solito, tenuti dietro le orecchie sporgenti, gli davano un’espressione da coniglio braccato. Si sporse in avanti per vedere cosa stessi scrivendo. Un gesto presuntuoso da parte sua, e io d’istinto coprii il foglio con il braccio. «Scusatemi», disse. «La vostra corrispondenza non è affar mio. Come stanno i ragazzi?» «Kata ha ancora mal di denti, e questo la distoglie spesso dai libri, invece Anna sta bene. La suocera dice che è una grande risorsa per la famiglia e bada ai cuginetti meglio di una madre. E Pál ha cominciato a parlare, come avrete notato. Si fa fatica a farlo stare zitto.» «Me ne rallegro, siete davvero fortunata.» Percepii di nuovo una sottile vena di gelosia nelle sue parole, una punta di risentimento contro la fortuna dell’amico. Thurzó, in effetti, non aveva figli maschi, ma solo due figlie. La più grande era sposata, ma la seconda, Borbála, aveva l’età di Kata, sei anni, ed era troppo piccola per trovare un fidanzato. Viveva con l’anziana nonna a Bicske quando Thurzó era al fronte. «Magari un giorno avrete un erede.»
«O forse no. Sto diventando troppo vecchio per pensare a queste cose.» Si appoggiò ancora alla porta e io mi chiesi se fosse il tipo d’uomo che si sposa una volta sola. Avevo la sensazione che non si sentisse a suo agio tra le donne ora che sua moglie era morta, e non sapesse di cosa parlare o quale ruolo svolgere nella loro vita. «Non siete poi così anziano», lo corressi posandogli una mano sul braccio, desiderosa di offrirgli un po’ di conforto. Era sempre stato un fedele amico di Ferenc, anche se io, personalmente, non mi fidavo del tutto di lui. «Avete solo quarant’anni. Ferenc, per esempio, non ha ancora rinunciato all’idea di un altro figlio.» «Ferenc ha una bella moglie e un erede sano. Ha ben ragione di sperare.» «Oh, György», feci per riprenderlo, chinando il capo. Thurzó non doveva permettersi di dire cose simili alla moglie del suo amico e io avevo sentito subito la voce squillante di Ferenc che rideva a una battuta di Zrínyi. Thurzó era l’uomo più brutto che avessi mai visto, di certo non il tipo d’uomo con cui avrei voluto avere una relazione, sempre che volessi trovarmi un amante. Eppure avevamo entrambi sofferto così tante perdite, così tanti dolori, che mi sembrava del tutto naturale cercare di consolarlo. In quelle circostanze non c’era nulla che potessi dire per aiutarlo o per alleviare la sua sofferenza. Non c’era famiglia in Ungheria che non si trovasse in una situazione simile. Voleva dirmi qualcos’altro, ne ero certa. Ma quando sentimmo avvicinarsi i passi di un domestico, Thurzó si ricompose all’istante e le parole gli morirono sulle labbra. Mi chiesi a lungo cosa volesse dirmi, cosa avesse in mente. «Vi lascio al vostro lavoro, contessa», concluse e tornò a raggiungere i suoi amici. 6. Il coraggio e l’eroismo dimostrato nel corso della lunga guerra contro i turchi non bastarono a preservare illeso
Ferenc. Era stato ferito più di una volta a Buda e le lesioni subite alle braccia, alla schiena e sul viso avevano fatto infezione ed erano state cauterizzate con la lama incandescente di un coltello. Gli si era tagliato in due il sopracciglio, come un bruco nero schiacciato dalla ruota di una carrozza. A Esztergom gli si era conficcata una freccia nella spalla e la ferita era guarita bene, ma a Pápa il suo grosso cavallo nero, ucciso da un colpo di arma da fuoco, gli era caduto sulla gamba sinistra fratturandogliela in diversi punti. Thurzó e Bocskai l’avevano riportato a Sárvár sdraiato su una barella, completamente ubriaco e felice per la vittoria. Nonostante le cure del chirurgo, la gamba non tornò più quella di un tempo. Qua e là la pelle si era scurita, e la gamba destra – che sopportava tutto il peso del corpo quando Ferenc non riusciva ad appoggiarsi sulla sinistra – era spesso dolorante. I dottori gli ordinarono di rimanere a casa e farsi curare dalla moglie, ma Ferenc non dava retta a nessuno e spesso andava a cavallo a far visita ai mezzadri. Furono costretti a rompere nuovamente e riaggiustare la gamba diverse volte. Era una scena davvero macabra. L’ultima volta fui costretta a immobilizzarlo con le mie stesse mani mentre il dottore gli dava una mazzata. «Tienimi fermo con tutte le tue forze, Erzsébet», mi raccomandò Ferenc. «Potrei divincolarmi e non voglio farti male.» Il dottore gli fece bere del brandy per alleviare il dolore e io gli salii sul petto, premendogli le spalle muscolose con le mie mani delicate e sussurrandogli all’orecchio che quella posizione poteva essere perfetta per fare l’amore. «Se dopo ne hai voglia, lo facciamo», proposi. Lui arrossì, temendo che il dottore potesse aver sentito, ma io non ci feci caso. Stavo cercando di distrarlo per evitare che pensasse a quanto stava per accadere. Guardai mio marito negli occhi, impedendogli la vista della mazza con il corpo, e così vidi soltanto la smorfia di dolore dipingersi sul suo volto mentre il
dottore gli spaccava l’osso e lo rimetteva in posizione con un orribile scricchiolio. Tuo padre, sono fiera di dire, non emise un lamento. Nei giorni seguenti, gli medicai le ferite io stessa, vietandogli di andare a Praga dal re finché non fossero completamente guarite. Mentre gli davo da bere la valeriana per alleviargli il dolore e aiutarlo a prendere sonno, mi sorrise e mi accarezzò la mano. «Sono fortunato», disse, «che tu abbia lo stomaco forte.» «È vero», ribattei, «altrimenti dovresti farti accudire dalla vecchia Darvulia. Potrebbe anche cercare di baciarti, facendoti il solletico con i baffi mentre dormi.» Ferenc fece finta di rabbrividire e sprofondò nel torpore indotto dalla valeriana. Non gli confessai mai che Darvulia prendeva il mio posto quando io avevo bisogno di riposare, e neppure che se si fosse rotto nuovamente la gamba il dottore sarebbe stato costretto ad amputarla. Era inutile che si preoccupasse prima del tempo. Gli somministrai la valeriana a lungo per farlo dormire e impedire che cercasse di alzarsi e camminare sull’arto malato. In questo modo guarì molto meglio e poche settimane dopo era di nuovo in piedi e si muoveva a piccoli passi, ma sempre più decisi. Passò ancora qualche settimana e rimontò a cavallo prima che facessi in tempo a minacciarlo di legarlo al letto se avesse lasciato la casa. Nel frattempo, io continuavo ad amministrare le proprietà dei Nádasdy, aumentando le richieste di avena, orzo, vino e bestiame da vendere a Bécs o a Gyulafehérvár. I mezzadri si lamentavano, ma io non volevo saperne di cedere. La dote di Kata andava rimpinguata, perché ormai aveva nove anni e ben presto avremmo dovuto trovarle un marito. Tuo padre non voleva vendere nessuna proprietà, nella speranza di donarle tutte a te, Pál, quando fossi cresciuto.
Ferenc aveva chiesto a Rodolfo di saldare il debito, ma il re ripeteva che le casse erano vuote dopo la guerra, e di sicuro mio marito avrebbe dovuto aspettare ancora a lungo. Ferenc scrisse a casa lamentandosi che Rodolfo aveva abbastanza soldi per pagare le sue schiere di alchimisti, poeti, astronomi e architetti, ma non per rifondere i nobili che lo avevano aiutato durante i lunghi anni di guerra. «Il re», scriveva, «è tale solo di nome. Il potere vacilla e noi dobbiamo tenerci pronti al cambiamento.» Si rivolse allora a Mattia, che diventava ogni giorno più potente del fratello, ma ufficialmente l’arciduca disse a mio marito che lui non aveva il potere di effettuare un pagamento senza l’autorizzazione del re. In privato, tuttavia, gli promise di saldare il debito se Ferenc lo avesse aiutato a spodestare il fratello. Ferenc avrebbe preferito non essere costretto a scegliere tra i due, entrambi amici e alleati, ma in segreto ammise che la sovranità di Rodolfo era al tramonto e che Mattia sarebbe stato un re migliore, più partecipe della vita oltre le mura di corte. Ferenc accettò di fare il possibile per sostenere Mattia, se questi avesse accettato di saldare il debito. Ferenc mi chiese consiglio sulla questione e io gli risposi che il suo appoggio a Mattia era la strada giusta. Senza i trentamila fiorini che avevamo prestato al re, temevo che i conti non sarebbero tornati e saremmo stati costretti a vendere qualche proprietà, per esempio Léka, o anche la mia Csejthe, per pagare la dote di Kata. Senza una ricca dote, infatti, la nostra piccola Kata, la nostra adorata figlioletta, non sarebbe mai riuscita a sposarsi e le donne senza marito erano alla mercé di chiunque. Dopo la guerra, gli scapoli disponibili nell’alta nobiltà erano diminuiti enormemente. Dovevamo fare qualcosa per Kata e non c’era tempo da perdere.
Tre anni dopo che avevamo spedito Anna dalla futura suocera a casa degli Zrínyi, Ferenc si ammalò di nuovo e rimase immobilizzato a letto con le gambe doloranti e le estremità gelate. Negli ultimi mesi la salute lo faceva disperare, infliggendogli un perenne stato di prostrazione che sembrava preoccupante, dato che non era più un ventenne sempre pronto a dar battaglia ai turchi, bensì un padre di quasi quarantotto anni che aveva passato praticamente tutta la vita a cavallo con una spada in mano. Ricordo con chiarezza una notte orribile. Avevo lasciato Ferenc tranquillo davanti al fuoco con un cuscino comodo sotto il piede. Mi sembrava che stesse bene, così me ne andai a letto e sprofondai in un sonno profondo e senza sogni. In seguito tuo padre mi riferì che si era svegliato e aveva sentito il bisogno di andare in bagno, ma quando aveva cercato di mettersi in piedi la gamba non aveva retto e lui era crollato a terra. Gli arti inferiori erano diventati così deboli che non riuscivano più a sostenere il suo peso, e quando riprovò ad alzarsi, aggrappandosi allo schienale di una sedia, il dolore fu talmente intenso che si morse la lingua fino a sanguinare. La domestica che si era portato a letto quella notte chiamò subito Darvulia, che venne a svegliarmi, chinandosi su di me così vicina che i peli del mento mi fecero il solletico. «Cosa succede?» chiesi. «Il conte è caduto», mi rispose la mia vecchia amica, «e io non riesco a sollevarlo. Il signore non vuole che chiami il domestico.» «Dov’è?» «Nella sua camera da letto.» Lo trovai disteso a terra al centro della stanza, la fronte imperlata di sudore e un’espressione selvaggia negli occhi neri che ricordava quella di un vitello alla marchiatura. In un angolo della stanza, una ragazzina persino più giovane di
mia figlia Anna, con i seni piccoli come boccioli di caprifoglio, cercava di coprirsi con la camicia da notte. Ci fu un attimo di pausa in cui io fui indecisa se ordinare a Darvulia di portare la ragazza nelle segrete del castello e frustarla. Se le domestiche si abbassavano a sottostare alle voglie di mio marito, dovevano avere almeno il buon gusto di tenermelo nascosto. Ma in quel momento avevo altro a cui pensare. «Si può sapere che ci fai lì?» le chiesi. «Torna nel tuo letto. Penserò a te domani mattina.» La sentii correre via a piedi scalzi, facendo tanto rumore da svegliare tutta la casa. Sdraiato ai miei piedi, Ferenc ansimava e si dibatteva. Mio marito non mi era mai sembrato così impotente: Ferenc Nádasdy, il Bey Nero d’Ungheria, non riusciva a reggersi sulle gambe. «Mi serve il tuo aiuto, Erzsébet», disse. «Non posso tollerare che i domestici mi vedano in questo stato. Mi aiuti a mettermi in ginocchio, così riesco a liberarmi? Mi sta per scoppiare la vescica.» Gli portai il vaso da notte e mi inginocchiai accanto a lui, commossa e spaventata che mi chiedesse aiuto, perché non si sarebbe mai abbassato a tanto se non ne avesse avuto davvero bisogno. Lo sostenni come mi aveva chiesto e, quando ebbe finito, io e Darvulia lo aiutammo a rialzarsi. Una volta a letto, lo coprii con una pelle d’orso, perché diceva di sentire un freddo terribile. Chiesi anche a Darvulia di portare tutte le sue erbe, polveri e pozioni per farlo sentire meglio. Gli rimanemmo tutte e due accanto per l’intera nottata e ce ne prendemmo cura finché non riuscimmo a far scendere la febbre. Solo a quel punto decisi di occuparmi della ragazza che era stata così stupida da farsi sorprendere nella stanza del conte nel cuore della notte. Mi assicurai che non facesse più lo stesso errore. Ferenc rimase immobilizzato a letto diverse settimane, quell’inverno. Con l’arrivo della primavera, la malattia diede i
primi segni di miglioramento, anche se c’erano giorni in cui si sentiva di nuovo peggio e rimaneva fermo a letto con le gambe appoggiate a un’alta pila di cuscini. Stava di nuovo bene quando venne il giorno del matrimonio di Anna, e festeggiò e danzò come tutti gli altri ospiti, fiero dell’unione appena consacrata tra la figlia e il figlio del suo amico. Ferenc, il vecchio Zrínyi e Thurzó trascorsero quasi tutto il ricevimento in un angolo, bevendo vino e pálinká tra vecchi amici. Si raccontarono aneddoti e ricordarono per la centesima volta antiche battaglie, con tanto di suoni e rumori, mentre io e la moglie di Zrínyi ridevamo e alzavamo gli occhi al cielo, stanche di sentire sempre le stesse storie. Il numero di teste tagliate, il numero di nemici sconfitti si triplicava ogni volta, ma nessuno aveva il coraggio di correggerli vedendo che si divertivano così tanto. Ma l’inverno successivo, dopo un’altra estate trascorsa a cavallo qua e là in giro per il regno a badare agli affari del re e alle nostre proprietà, Ferenc tornò a casa più dolorante che mai. I suoi capelli neri sembravano all’improvviso pieni di fili grigi, gli occhi sprofondati nelle orbite livide come noccioli di ciliegie. Quando gli andai incontro nella corte, ebbi paura che stesse per cadere da cavallo. Mi abbracciò e lo sentii terribilmente dimagrito; mi sembrò persino fragile, e dire che un tempo era un omone, così alto e possente, quasi il doppio di me. Ora gli riuscivo a contare le costole attraverso il farsetto. Mi accertai che il suo letto fosse pronto e dissi al domestico che mi sarei occupata personalmente della salute di mio marito per quella prima notte. Ferenc fece il possibile per riprendersi e si sforzò persino di venire a tavola per cena, dicendo che non voleva perdersi le delizie della mia ospitalità – ripensando al vischio con cui avevo condito il suo cibo tanti anni prima, mi
sfuggì un sorriso –, ma tornò in camera prima del solito e trascorse a letto gran parte dei giorni seguenti, mangiando poco e dormendo a lungo. Gli facevano male le gambe, diceva, e quando lo aiutai a togliersi i calzoni le trovai fredde come il ghiaccio e pallide come la morte. Disse che sotto le ginocchia non sentiva più niente. Nel corso delle settimane successive, il torpore e il freddo gli risalirono lungo i fianchi, invadendo anche le mani. Riusciva a stento a stringere una penna ed era costretto a chiedere al suo segretario di scrivere le lettere al posto suo, e anche un nuovo testamento, che a quel punto sembrava un’impellente necessità. Ferenc passava le giornate seduto con le gambe adagiate su una pila di cuscini, mentre un domestico gli sfregava le mani gelide e le gambe intorpidite con pepe e chiodi di garofano per stimolare il sangue a fluire. Darvulia gli portò delle erbe di campo da posare sulle piaghe in suppurazione che gli si aprivano sulla schiena, e ramoscelli di pino per mitigare l’odore di morte che aleggiava nella stanza, un odore che si faceva sempre più intenso nonostante tutti i nostri sforzi. Verso la metà dell’inverno, mio marito capì che stava per accadere il peggio e chiese al segretario di scrivere una lettera a Thurzó. «Abbi cura di mia moglie e dei miei figli», scrisse. «In nome della nostra vecchia amicizia, provvedi al loro bene quando io non ci sarò più.» Nominò Thurzó curatore legale delle tue sostanze, Pál, e Imre Megyery tuo tutore e domestico personale. Un uomo deve prendere queste decisioni, lo sapevo bene, eppure mi amareggiava che Ferenc non avesse voluto chiedermi chi preferissi, visto che era una scelta che avrebbe cambiato la mia vita. Tutti tranne Megyery, gli avrei risposto. Ma ormai le cose stavano così e non c’era più nulla che io potessi fare per cambiare la situazione.
Ferenc non riusciva ad alzare la penna per firmare il documento e chiese al segretario di farlo al posto suo. Mi venne quasi da piangere vedendolo ridotto in quello stato. Lo baciai sulla fronte e gli chiesi se potessi fare qualcosa per aiutarlo, per dargli un po’ di conforto. «Sì», mi rispose, «resta qui con me, Erzsébet, abbracciami e accarezzami i capelli. Sì, così. Ricordi quella notte, quando venni da te dopo tanti anni di stupidità?» «Certo, me ne ricordo bene. Dicesti che in fondo eri contento che i nostri genitori ci avessero fatto fidanzare. Che eravamo più simili di quanto pensassi.» «È vero. Eravamo due gran testardi e all’inizio non avevamo nessuna voglia di sposarci. Ma adesso sei felice? Ti dispiace aver passato la vita insieme a me?» «No, tesoro, non mi dispiace per niente.» «Ne sono contento. Adesso devo chiederti un favore.» «Cosa?» «Risposati. Non permettere che la tua bellezza finisca con me dentro la tomba. Devi avere un altro compagno con cui invecchiare insieme.» «Nessuno potrebbe mai prendere il tuo posto, amore mio», replicai. Ferenc sembrò non ascoltare le mie parole, o preferì non farci caso. «Non voglio che Pál cresca senza un padre. Risposati. Sposa Thurzó, se ti fa piacere. Ho visto come ti guarda. Lui sarebbe buono con te, con Pál e con le ragazze. Sono certo che proteggerà te e i nostri figli.» «Non parlare così», lo supplicai. Il pensiero di Thurzó come marito – con i suoi occhi tristi e il viso terreo – non mi attirava affatto. «Adesso riposa e vedrai che domani ti sentirai meglio.» Gli accarezzai i capelli e mi addormentai nel letto accanto a lui. La mattina dopo, quando aprii gli occhi, lo sentii
gelido fra le mie braccia. Con grande attenzione, badando bene a non disturbare il suo corpo, scivolai via da sotto di lui e chiamai i domestici. Facevo su e giù per la stanza, mentre le prime luci dell’alba si affacciavano alla finestra. Fuori l’aria odorava di neve. Chiesi a Darvulia di portarmi una tazza di tè forte e mi sedetti a guardare i domestici che ripulivano le stalle, le cameriere che portavano il latte fresco del mattino, poi scesi in cucina e osservai le sguattere che lucidavano le pentole di rame per il pane e il burro, lanciando riflessi di luce sul muro. Il gatto nell’angolo, vedendo la macchia danzare sulla parete, smise di leccarsi e si precipitò a inseguirla, senza sapere che non sarebbe mai riuscito ad afferrarla. Di lì a poco avrei dovuto dire ai bambini che il padre era morto e cominciare a scrivere ai parenti e agli amici di Ferenc – György Thurzó, István Bocskai –, nonché al re in persona. «Ferenc Nádasdy è morto.» L’avrei scritto un’infinità di volte, quasi a ricordarmelo di continuo, quasi a inciderlo a fuoco nella mia memoria. Ma per adesso nella cucina mi accontentavo di fissare il gatto che giocava e respirare la quiete delle mie prime ore da vedova, la serena vita di casa, le occhiate incuriosite dei domestici. La seconda parte della mia vita aveva avuto inizio. Qualche settimana dopo lo seppellimmo nel cimitero di Sárvár. Il pastore elogiò Ferenc come il migliore dei padroni, il più valoroso dei generali, nobile del più elevato rango. Le grandi famiglie ungheresi intervenute alla cerimonia mi porsero le loro condoglianze, baciandomi e augurandomi ogni bene. I loro occhi non cercavano i miei. Vedevo che guardavano alle mie spalle, soppesando le ampie sale di Sárvár, gli argenti e le sete, i campi, le vigne e i frutteti. Vedevo l’avidità nei loro occhi. Ora che Ferenc non c’era più e tu, figlio mio, eri solo un bambino, speravano di
accaparrarsi tutto ciò che io e lui avevamo costruito insieme, e io cominciai a temere per te. Sarebbe toccato a me proteggere me stessa e la mia famiglia, adesso che Ferenc non c’era più. «Una donna che non si sposa è alla mercé di chiunque», mi aveva detto mia madre, ma una vedova ricca con un figlio troppo piccolo per ereditare il titolo del padre ha quasi altrettanto da perdere. Parenti o vicini avidi avrebbero potuto portarmi via i miei possedimenti, marciando vittoriosi su Léka, su Keresztúr, su Csejthe, persino sulla stessa Sárvár. Gli altri nobili magari si sarebbero scandalizzati, ma nessuno avrebbe alzato un dito per difendermi. Persino i migliori amici di mio marito – Zrínyi, Thurzó – potevano diventare così avidi da mettere gli occhi sulle mie terre prima che tu fossi cresciuto. Non volevo finire come mia cugina Griseldis, con la testa rasata e i piedi congelati come una povera mendicante, rinchiusa chissà dove e dimenticata per sempre, mentre i generi e i vicini si dividevano i suoi vestiti e i gioielli, le terre e le case. Niente mi terrorizzava più dell’idea di finire in un convento, segregata dal mondo, dove mi sarebbero rimaste solo le preghiere e le lacrime. Una mezza vita, una mezza morte. Se volevo conservare ciò che era mio, mi servivano appoggi potenti, qualcuno in grado di proteggermi tra gli amici più ricchi e altolocati, e non avevo tempo da perdere. Dovevo andare a Bécs. Dovevo andare da Thurzó. 7. I due giorni di viaggio da Sárvár a Bécs furono uno strazio, tra gli scossoni della carrozza e i battibecchi sciocchi delle due giovani ricamatrici che mi ero portata dietro per far compagnia a me e a mia figlia. Le ragazze, come del resto quasi tutte le domestiche, erano lontane parenti, mie o del mio defunto marito, spedite a casa nostra dalle loro madri nella speranza di procurarsi una dote o un marito, o per lo meno un mestiere utile. Le guerre contro i turchi
avevano ridotto a tal punto il numero di giovani scapoli che molte ragazze impiegate a casa nostra non riuscivano a trovare marito. Eppure le madri continuavano a raccomandarmele, e loro a sperare. Le ragazze, due quattordicenni arrivate da poco, presero posto di fronte a me, Darvulia e Kata, e anziché cucire non facevano altro che litigare e darsi gomitate a vicenda. La più giovane, una graziosa biondina con le guance come due rotonde mele gialle, si lamentava che l’altra occupava troppo spazio con il suo grasso didietro. L’altra, una grossa e ottusa ragazza di nome Doricza, che stava con noi solo da pochi mesi, rifilava uno spintone alla sua compagna ogni volta che questa la punzecchiava, protestando che i suoi gomiti ossuti le lasciavano i lividi. Più di una volta ordinai loro di tenere la bocca chiusa se non avevano niente di interessante da dire, e allora se ne restavano buone per qualche minuto, finché una delle due non ricominciava a piagnucolare. Eravamo tutte scomode nell’angusto spazio della carrozza, con le buche e le pietre che ci facevano sobbalzare, ma nessuna di noi tre era così stupida da lamentarsi di continuo per il male alle ossa, la panca troppo piccola, le riserve d’acqua troppo modeste. Mi pentivo di aver chiesto a quelle due di accompagnarci e rimpiangevo il viso affilato di Ilona Jó, l’anziana balia che avevo tenuto a servizio per la sua lealtà, o Dorottya Szentes, con quella sua strana fronte prominente. Le conoscevo da un’eternità e ormai si erano guadagnate la mia fiducia; spesso, se Darvulia aveva da fare, chiedevo a loro di farmi compagnia davanti al fuoco oppure a cena. Se non altro, sapevano tenere la lingua a freno davanti alla padrona. A un certo punto Darvulia tirò fuori qualche pagnotta, della birra scura e un po’ di formaggio, e ci dividemmo il pranzo in parti eque. Ci mettemmo a mangiare in silenzio, ma poco dopo la biondina ricominciò a lamentarsi. «Quant’è
scomodo», ripeteva, «sentirsi un’altra persona addosso che ti stringe. Forse dovresti darlo a me il tuo pranzo, Doricza», aggiunse con un sorrisetto compiaciuto, «visto che tu hai già mangiato per due.» Fu allora che io persi davvero la pazienza, strappai l’ago dalla stoffa che stava cucendo e glielo infilai nel dito, sulla punta del polpastrello, sotto l’unghia sporca e mangiucchiata. La piccola sciocca lanciò un urlo e chiese perché la trattassi in quel modo. Le risposi che non ne potevo più delle sue chiacchiere e le rammentai dove si trovava e con chi. Allora ritirò la mano, gli occhi gonfi di lacrime, e finalmente potemmo goderci il nostro modesto pranzo in relativa tranquillità. Il giorno seguente, durante il viaggio le due ragazze rimasero sedute a cucire senza più aprire bocca. In effetti, stavano così zitte che facevano ben poca compagnia e quando ci fermammo per cambiare i cavalli chiesi a Ilona Jó e Dorka di viaggiare con noi e spedii quelle due in un’altra carrozza con un paio di cameriere e il giovane Ficzkó, un ragazzino orfano di quindici anni che avevo preso come mio personale factotum e apprezzava la compagnia delle ragazze carine. Le due domestiche anziane erano decisamente più piacevoli e ci mettemmo a conversare del paesaggio, dei problemi con i mariti, dell’educazione dei figli e degli acciacchi della vecchiaia. Se sulla carrozza di dietro quelle due si lamentavano ancora, almeno io non ero costretta a sentirle. Le ondulate colline dell’Ovest quell’anno erano ancora ricoperte a tratti dalla neve e da umide chiazze di fango, nonché dai resti del raccolto mancato dell’anno prima, perché il tempo era stato così freddo e piovoso l’estate precedente che le messi non erano giunte a maturazione. L’avena era marcita e le viti erano avvizzite. Con la fine della
guerra, tutti noi speravamo in un raccolto abbondante, ma purtroppo non eravamo stati esauditi e i mezzadri ancora una volta non erano riusciti a pagare il dovuto. Fui costretta a licenziare domestici a Sárvár e a Csejthe, eppure le casse dei Nádasdy si facevano lo stesso sempre più magre. Se il re non avesse saldato il debito non saremmo stati in grado di mettere insieme la dote di Kata, né quell’anno, né il prossimo, né il successivo. Ormai aveva quasi undici anni e quei soldi servivano al più presto. L’abbracciai e me la strinsi forte al petto, la mia piccolina, forse destinata a rimanere senza marito se il re non si fosse deciso a darmi retta. Eravamo tutte di cattivo umore e il freddo dell’inverno ci faceva rabbrividire. Anche Darvulia sembrava più pallida del solito. I suoi lineamenti, mai particolarmente belli, sembravano persino più raggrinziti, gli occhi più stanchi, con quella vaga nebbiolina tra il bluastro e il bianco che faceva presagire un’imminente perdita della vista. I peli sul suo mento si erano fatti bianchi e d’un tratto la mia amica mi sembrò la donna più vecchia del mondo, più rugosa di chiunque altro avessi mai visto. Non mi era mai venuto in mente che prima o poi l’avrei potuta perdere, che sarebbe stata vittima dello stesso processo di invecchiamento di tutti gli altri mortali. «Ti senti bene, cara?» le chiesi e lei mi rispose di sì, ma non le credetti. Doveva andarsene subito a letto appena fossimo arrivate in città, le ordinai, e niente scuse, anche se lei ovviamente provò a opporsi, dicendo che doveva aiutarmi a sistemare la casa, perché lei pensava sempre prima al mio benessere e poi al suo. «Te ne vai a letto e basta, Darvulia», ripetei. «Se c’è qualcuno che si merita di riposare quando è malata, quella sei tu. Per una volta lascia che siano gli altri a fare le cose al posto tuo.» «Come volete, signora», rispose, ma era ovvio che mi stava solo compiacendo. Del resto, facevano tutti così.
Il secondo giorno puntammo con decisione verso nord e, quando il sole calò a ovest e il cielo si dipinse d’oro, scorgemmo finalmente le mura di Bécs. Il Duna ghiacciato serpeggiava attorno alla città, il tetto maiolicato a zigzag e la scura guglia di Santo Stefano si ergevano dal centro come il tronco di un albero colpito da un fulmine e le tegole rosse delle case catturavano le ultime luci del sole, colorando il cuore della città sui toni dell’ocra. Oltre le mura i platani e le betulle diventavano quasi neri in lontananza, mentre i campi e le fattorie sprofondavano nell’oscurità a uno a uno. Le ruote della carrozza scricchiolarono sotto il nostro peso quando i cavalli giunsero al ponte levatoio e ci condussero in città, attraverso l’imponente porta sud e lungo le strade, affollate di gente e di odori. Al nostro passaggio si sporgevano tutti a guardare dentro la carrozza, quasi pensassero di trovarci il re in persona, anche se Rodolfo aveva trasferito la capitale a Praga dopo l’ascesa al trono, circondandosi di artisti e matematici. I suoi rapporti con l’Ungheria e la Transilvania si erano guastati al punto che il mio vecchio amico István Bocskai si era messo a capo di un’insurrezione contro il cattolico Rodolfo, che aveva deciso di negare ai protestanti ungheresi la libertà di religione. Si era sparsa la voce che Rodolfo fosse malato e stesse perdendo il suo potere; dato che non aveva un legittimo erede, tutto l’impero, Bécs compresa, attendeva gli eventi con il fiato sospeso. Accanto a me, Dorka emise uno strano rumore dalla gola e si sporse fuori dal finestrino a bocca aperta. Era la prima volta che andava in città. «Oh mio Dio», esclamò, lei che aveva trascorso tutta la sua vita nelle cittadine del Transdanubio, «sembra Gerusalemme!» «Spero proprio di sì», replicai, pensando alla salvezza mia e dei bambini. Ora che Ferenc era morto, per proteggerli
avrei dovuto presentare la mia richiesta direttamente al fratello del re, Mattia. In assenza del re, il potere dell’arciduca a Bécs cresceva ogni giorno di più, così aveva detto Ferenc. Ed era su quello che riponevo tutte le mie speranze. Nelle settimane successive al funerale, ero rimasta rinchiusa a Sárvár e mi ero concentrata solo sul lavoro e sulla mia solitudine. Il periodo di lutto si estendeva di fronte a me come un anno di soli inverni; neppure i miei bambini erano riusciti a far spuntare la primavera in quei primi giorni, quando tutti quanti dovevamo rassegnarci a vivere senza un marito e un padre. Anna era andata a vivere da sua suocera, ma perfino Kata ti trattava male, povero Pál, rubandoti i soldatini per farti piangere. E tu, che eri sempre stato un bambino così allegro e spensierato – saltavi in groppa al tuo pony da un muretto o incrociavi la spada di legno con i tuoi cuginetti –, eri diventato così svogliato che alle volte trascorrevi l’intera giornata nascosto tra le mie braccia, evitando Megyery, l’anziano tutore, che stava antipatico a tutti e due ma almeno aveva il pregio di tenerti a casa a Sárvár, anziché a Praga alla corte del re come tanti altri figli di famiglie nobili. Scappavi via e ti nascondevi in un angolo di casa come facevo anch’io da bambina, schiacciando un pisolino sotto un tavolo o in un tronco d’albero cavo, ridendo in faccia a Megyery ogni volta che cercava di insegnarti qualcosa. Ma siccome era volere di tuo padre che tu studiassi il latino e il tedesco e diventassi un uomo istruito quanto lui, io continuavo a insistere. Dopo averti assicurato alle cure di Megyery, decisi di portare tua sorella con me nella nostra casa in Lobkowitzplatz. Anche se era contrario all’etichetta comparire alla corte di Mattia durante il lutto, gli affari importanti che dovevo discutere con l’arciduca mi fornirono un’ottima scusa per scappare da Sárvár. E poi a Bécs ero piena di amici che avrebbero potuto sostenere la mia causa. Al funerale di Ferenc, Thurzó mi aveva
confidato che intendeva trascorrere gran parte della primavera a corte, in qualità di confidente sia di Rodolfo sia di Mattia, un uomo degli Asburgo in tutto e per tutto. Se esisteva una persona in grado di convincere il re a saldare il suo debito con noi, quello era certamente Thurzó. Forse si sarebbe comportato da amico con me, ora che mio marito era morto ed eravamo le persone più sole che esistessero al mondo. Giungemmo finalmente alla casa in Lobkowitzplatz in cui Ferenc aveva vissuto da giovane quando studiava a corte, dove io e lui alloggiavamo ogni volta che ci recavamo in Austria. Era un elegante edificio in stile italiano a tre piani, con archi di pietra attorno a una corte, al centro della quale cresceva un platano con il tronco ritorto, adesso ricoperto di neve. Con il trepestio della carrozza sui ciottoli, tutte le persone di casa si affacciarono all’istante dalla doppia fila di finestre che davano sulla corte per vedere chi fosse arrivato. Dato che il castello era stato costruito da mio suocero in previsione dei suoi soggiorni in città, era abbastanza vicino all’Hofburg, ed era frequente sentire lo scalpiccio dei muscolosi lipizzani tra il castello e l’anello di pratica nella vicina Josefsplatz. Un monastero agostiniano si ergeva quasi contro le mura del castello e spesso, al mattino presto o alla sera tardi, sentivamo cantare i monaci, un lamento basso che permeava le pareti e mi teneva sveglia di notte. I monaci, ogni volta che noi donne passavamo per la strada, ci osservavano con diffidenza, quasi timorosi che potessimo saltar loro addosso e indurli in tentazione. Ammetto che il pensiero ogni tanto mi aveva sfiorato, soprattutto la prima sera che ero arrivata da vedova e li avevo visti scappare via all’arrivo della carrozza come gli ebrei in fuga dall’Egitto. In casa i domestici avevano spalancato le imposte, arieggiato le stanze, messo lenzuola pulite ai letti, lucidato l’argento, acceso torce e candele nei corridoi, stappato bottiglie di vino. Qua e là erano rimasti segni di Ferenc – le
spade luccicanti appese alla parete, la sedia su cui amava trascorrere le serate davanti al fuoco dopo cena, un fascio di lettere abbandonate –, ma ogni volta che incappavo in qualcosa che me lo ricordava ordinavo alla servitù di portarlo via. Quando finalmente mi affacciai alla finestra per respirare a pieni polmoni l’aria della sera, vidi un domestico svuotare un vaso da notte e un cavallo con i finimenti orinare in mezzo alla strada. In lontananza si sentivano voci discutere e i lampionai comparvero con le torce in mano, mentre la fredda aria della sera portò un accenno di neve e dai miei capelli si sprigionò il forte aroma dell’olio di lavanda che Dorka mi aveva spalmato quel mattino. Con il trasferimento della corte a Praga, la città era più silenziosa che mai, ma c’erano ancora amici da vedere, cene e balli a cui assistere con questa o quella famiglia nobile, e mogli e figlie con cui chiacchierare al pomeriggio, e davvero poco tempo per rimanere con le mani in mano. A Bécs, al contrario di Sárvár, nessuno mi avrebbe visto come la povera vedova chiusa dentro il suo castello e sempre vestita di nero, sempre in lacrime per il suo defunto marito. A Bécs ero ancora una donna degna di nota. Quella notte erano quasi tutti già a dormire quando scoppiò un alterco nelle stanze della servitù. La biondina e Doricza si erano rimesse a litigare, questa volta per il fiorino che avevo dato alla grassa Doricza per aver ricamato venti merletti durante il viaggio, perché avevo l’abitudine di ricompensare sempre la buona volontà dei miei servitori. La biondina diceva che dovevano dividersi il premio perché l’aveva aiutata con il lavoro, così aveva rubato il fiorino dalla tasca di Doricza e l’aveva nascosto nel buco di un tacco. Ovviamente Doricza l’aveva trovato subito ed era esplosa la lite. Dorka e Ilona Jó le tenevano separate quando arrivai nelle stanze dei domestici, richiamata dal rumore mentre
mi stavo per addormentare sprofondata nel mio letto soffice e caldo. «Ecco, guardate cos’avete combinato», le rimproverò Ilona Jó, il suo viso affilato così acido che potevo quasi sentirne il sapore. «Avete svegliato la padrona e messo in subbuglio l’intera casa.» La pace tra le servette è una vera rarità, persino in tempi tranquilli. Tanti anni prima, con l’incidente di Amália, Ferenc mi aveva insegnato non solo a rianimare una ragazza svenuta facendole «tirare calci alle stelle», ma anche a somministrare una bastonata in modo che la colpevole fosse ancora in grado di lavorare il giorno dopo, oppure a nascondere i segni di una bastonata in modo che non rimanessero prove, neppure agli occhi di un amante. La punizione di Amália era stato l’inizio del nostro matrimonio, la prima volta che Ferenc mi aveva guardato come una persona con cui condividere qualcosa di più che un semplice tetto. Mi ero dimostrata una studentessa volenterosa delle tecniche che voleva insegnarmi e lui non aveva esitato a darmi il permesso di metterle in pratica quando lo avessi ritenuto opportuno. Non interferì mai nella mia gestione della casa, neppure la volta in cui il mio bastone ricadde sulla schiena di una delle sue predilette. Credo fosse il suo modo di dimostrarmi rispetto. Dopo che punivo la sua ultima favorita, lui se ne trovava una nuova e io una ragione qualsiasi per cacciarla di casa: una nuova casa in cui serviva una domestica o un matrimonio con un parente povero e una dote modesta. La pace tornava, almeno per un po’, finché la nuova favorita non si montava la testa e aveva la sfrontatezza di sbandierare la sua conquista in faccia alle altre. Allora io ero costretta a dare l’esempio, per ricordare a tutte che se anche Ferenc se le portava a letto ero sempre io a dirigere la casa e provvedere al loro mantenimento. Che cosa dovevo fare... dare spazio alla loro insolenza?
Permettere che mi trasformassero nello zimbello di casa? Se avevano il coraggio di andare a letto con mio marito e poi anche la sfacciataggine di vantarsene di fronte a me, avrei fatto il possibile perché non potessero farlo una seconda volta. Rientrava nei miei diritti di nobildonna, oltre che di moglie. Il furto era il secondo problema che mi assillava costantemente. Avevo escogitato un sistema infallibile per mantenere il controllo di tutti i nostri piatti, vestiti, dipinti e monete. Tenevo un registro nascosto nel mio baule delle carte e spesso stilavo un inventario senza farne parola con nessuno. Quando scoprivo qualche oggetto mancante – un candelabro, oppure una tazza –, facevo perquisire la casa finché non saltava fuori da una cassapanca o da sotto un materasso. Quelle povere sciocche si accorgevano troppo tardi che la loro padrona era così attenta e io dovevo educarle a furia di bastonate per dare il buon esempio. Bastavano pochi minuti nella corte con il mio bastone o la mia frusta e la casa intera rimaneva in pace per mesi, senza nessuno che rubasse, bevesse o fornicasse: solo un timido senso di gratitudine e un po’ di sano lavoro. Adesso sembrava giunto il momento di dar loro un’altra bella lezione. Nelle stanze della servitù nella mia casa di Lobkowitzplatz, presi la biondina per un polso di fronte alle sue compagne e diedi la moneta rubata a Ilona Jó, ordinandole di scaldarla sulla grata del fuoco che bruciava in un angolo. La ragazzina era piccola ma forte e si divincolava tirando calci e dandomi strattoni per cercare di scappar via. «Non voglio», diceva, «non voglio.» Io però la tenevo stretta. Quando la moneta fu arroventata, Ilona Jó la prese con le pinze e la depose sul palmo della ladra. Io e Dorka la tenevamo ferma mentre la carne della sua mano bruciava per qualche secondo; lei tremava e si agitava, ma
noi eravamo più forti. Alla fine lanciò un urlo e fece cadere la moneta a terra, stringendosi la mano al petto, la mano che adesso portava l’immagine del re impressa al centro del palmo. Tutt’intorno le altre ragazze mormoravano e guardavano a terra. Ero certa che per il resto della nostra permanenza a Bécs anche le altre domestiche non avrebbero creato problemi. Quindi ordinai a Dorka e Ilona Jó di portare la ragazza in lavanderia e medicarle la ferita, per evitare che si infettasse e le impedisse di eseguire il suo lavoro. E poi non ero così crudele da volere che continuasse a soffrire. Non ero certo una pazza che godeva delle sofferenze altrui, solo una padrona giusta che aveva assegnato la sua punizione sotto gli occhi di tutti e non aveva nulla da nascondere. «Prendetela e datele qualcosa per il dolore», dissi alle due anziane domestiche, «poi fasciatele la ferita e mettetela a letto.» Se ne andarono tutte e tre, la ragazza con la mano stretta al petto, il viso rigato di lacrime, gli occhi pieni di rabbia. Io tornai nella mia stanza e cercai di riprendere sonno, ma ero sconvolta dallo sguardo di quella biondina, che sembrava accusare me dell’accaduto, mentre in realtà era stata tutta colpa sua. Avevo la sensazione che avrebbe creato ancora molti problemi. Durante la notte la sentii piangere spesso, così scesi in lavanderia furiosa perché era la seconda volta che mi disturbava mentre dormivo. Lì trovai la ragazza rannicchiata in un angolo, seminuda, che soffiava come un gatto selvatico. «Cos’è questo chiasso?» chiesi. «Stai svegliando tutta la casa. Se tu avessi un pizzico di cervello, avresti imparato a stare zitta. Ogni volta che devo tornare a parlarti, peggiori la tua situazione.» «Non mi lascia avvicinare, signora», disse Dorka con una voce che non tradiva neanche una punta di risentimento.
«Le ho detto che le devo medicare la ferita prima che si infetti, ma lei continua a ripetere che vuole scrivere alla madre per farle sapere come la trattiamo. Ha minacciato di andare dal conte palatino in persona per parlar male di voi e mostrargli la ferita. È anche diventata aggressiva, così ho dovuto difendermi con questo.» Mostrò l’attizzatoio che aveva preso dal camino spento. «Mi ha picchiato con quello», piagnucolò la ragazza, «e non per difendersi.» «Ho capito», replicai, quindi mi rivolsi a Dorka. «È vero? L’hai picchiata?» «L’ho colpita una volta, ma l’ho fatto per impedirle di cavarmi gli occhi, solo per questo. Ha perso completamente la testa, guardate voi stessa.» E così dovevo scegliere da che parte stare, ma la ragazza mi aveva davvero fatto perdere la pazienza. Con aria svogliata le chiesi se Dorka dicesse la verità: era vero che aveva minacciato di andare dal conte palatino per dirgli che la trattavamo male? «Sì, è vero», rispose la ragazza, troppo giovane e stupida per capire quando mordersi la lingua. «Voglio andare dal conte palatino e dirgli cosa succede in questa casa. Voglio dirgli che mi avete punto con l’ago in carrozza solo perché scherzavo sul grasso di Doricza. Voglio dirgli che picchiate le ragazze se scoprite che sono incinte. Voglio dirgli che quelle due vecchie megere ci tengono chiuse in camera senza cibo né acqua se non ci sbrighiamo a finire il lavoro. Non è giusto. Neppure le signore ricche sono al di sopra della legge. Voglio dirgli tutto quanto, lo giuro.» Le pareti si scurirono e la luce nella stanza si concentrò in un sottile fascio bianco tra me e la ragazzina. «Non credo che lo farai», risposi. Nelle mie orecchie sentivo un suono come di acqua corrente. Presi l’attizzatoio dalle mani di
Dorka e mi diressi verso la ragazza, che si rannicchiò su sé stessa. Glielo picchiai sulla schiena una, due volte. Usai tutta la forza che avevo, tutta la rabbia che mi scatenava l’idea che volesse addossarmi le sue stesse colpe e tramutare la mia generosità in qualcosa di orribile. Chi l’aveva presa dalla strada e le aveva dato un lavoro? Chi le aveva dimostrato benevolenza facendola montare in carrozza? Chi aveva avuto pietà di lei e voleva medicarle la ferita? Aveva mutilato la mia generosità verso di lei, trasformandola in qualcosa di spregevole. L’attizzatoio le ricadde sulle spalle ancora e ancora, emettendo un tonfo sordo come un batticarne su una bistecca. Un verso disgustoso uscì dalla bocca della ragazza, allora la picchiai ancora più forte. Non avrebbe detto nulla al conte palatino, non avrebbe detto nulla a nessuno. Avrebbe chiuso quella bocca insolente o sarei stata io stessa a farlo. Alla fine cadde a terra e finalmente la smise di parlare. «Hai altro da dire, adesso», chiesi, «o finalmente hai imparato a tenere la bocca chiusa?» Lei giaceva a terra immobile, il petto tremante, e non disse una parola. C’era tanto silenzio che dal monastero accanto sentii qualcuno scagliare una pentola contro il muro di casa mia, un forte clang che riecheggiò nelle strade deserte: si lamentavano per tutto quel rumore. La mattina dopo, una delle sguattere ritrovò la pentola che i religiosi avevano lanciato durante la notte e gliela riportò, ma i monaci non vollero accettarla, neanche fosse contaminata. Mi venne quasi voglia di dire due parole all’abate e consigliargli di educare meglio i suoi confratelli, ma avevo già abbastanza da fare senza dovermi preoccupare dei monaci e delle loro sciocche superstizioni. Intanto restituii l’attizzatoio a Dorka e le dissi di tenere la ragazza nella lavanderia finché non avesse
ripreso conoscenza. Ordinai di curarle le ferite di nascosto per non mettere in allarme le altre domestiche, dato che la ragazzina era tutta piena di lividi e le scendeva un rivolo di sangue dal naso. Mi aveva provocato oltre ogni limite. La prossima volta le sarebbe servito di lezione. Ora che Dorka aveva preso in mano la situazione mi sentivo tranquilla e finalmente potei tornarmene a letto, dove mi addormentai di un sonno profondissimo, come non mi accadeva più da tempo, almeno dalla morte di Ferenc. Quando Dorka il giorno dopo mi riferì che durante la notte la ragazza era morta, avvertii una strana curiosità per l’accaduto, per il fatto che ero stata io a ucciderla, sebbene non fosse stata mia intenzione. La luce entrò nella mia stanza in lunghe strisce gialle come nastri dorati che andarono a posarsi sulle coperte, ma per il resto non vedevo niente, non sentivo niente. La ragazza era morta. Be’, almeno non avrebbe più dato fastidio, né a me né a nessun altro. Non avrei dovuto trovarle un posto nella casa di chissà chi. Non avrei dovuto sborsare soldi per la sua dote, né sopportare mai più la sua oltraggiosa ingratitudine. Me ne lavai le mani, di lei e di tutte quelle come lei. La sera dopo, con il favore delle tenebre, ordinai alle due domestiche di portare il suo cadavere al nostro pastore luterano e di seppellirla nel cimitero in una bara modesta, con una moneta o due per le casse della chiesa. Dorka e Ilona Jó protestarono che qualcun altro avrebbe potuto occuparsi di quella faccenda – magari Ficzkó, che era giovane e molto più forte di loro –, ma alla fine mi obbedirono e portarono via il corpo dalla lavanderia. Ci tenni a precisare che non potevo fidarmi di nessun altro, rendendole così orgogliose che la smisero all’istante di lamentarsi. Dopo mi premurai di regalare loro un bel vestito di seta per il disturbo. Era stata una ladra, un fastidio per la mia casa, e per di
più una rammollita, che non sapeva neanche prendersi una bastonata senza svegliare tutta Bécs nel cuore della notte. Non potevo tollerare persone simili nella mia servitù, permettere che questa fosse contagiata dalla loro avidità e gelosia. Meglio spedirle tutte al cimitero, così non avrebbero creato più problemi a nessuno. 8. Quando finimmo di svuotare i bauli e finalmente ci sistemammo nella casa di Bécs, la prima cosa che feci fu avvertire György Thurzó del nostro arrivo in città. Thurzó trascorreva diversi mesi l’anno in Austria con i suoi amici Asburgo e amava restarci soprattutto in inverno, quando la capitale lo attirava con la musica, i balli e le fanciulle in satin, velluto e merletto, anche se in realtà non si era mai concesso storie d’amore come tanti altri nobili par suo. Sembrava sinceramente distrutto da quando era morta Zsofía Forgách e cominciavo seriamente a dubitare che avesse intenzione di risposarsi. Eppure ero certa che avrebbe trovato una buona compagna in me, se solo avesse avuto voglia di accorgersene. Il giorno successivo Thurzó rispose alla mia lettera – con un certo stupore, perché di solito le vedove restavano a casa almeno per un anno dopo la morte del marito, ma in fondo anche con piacere –, invitandomi ad andarlo a trovare alla prima occasione. «Mia cara signora», scriveva, «è con stupore e sincero compiacimento che vengo a sapere della vostra venuta a corte e mi rallegro con tutti gli abitanti della città che ci onoriate della vostra presenza. Vogliate accettare, non appena lo riterrete opportuno, un invito a cena a casa mia…» La sua lettera mi piacque, non perché la cena a casa Thurzó sarebbe stata un grande evento – adesso che era
rimasto vedovo non era più così ospitale come ai tempi in cui la moglie era viva –, ma perché la rapidità della risposta faceva presupporre che avrebbe apprezzato enormemente la mia compagnia, proprio come avevo immaginato. Risposi che avrei accettato il suo invito per la settimana successiva e mi riproposi di rendermi irresistibile agli occhi del conte Thurzó. Le sarte che avevo portato da Sárvár lavorarono instancabilmente per confezionarmi un abito nuovo da indossare apposta per l’invito di Thurzó. Non doveva sembrare troppo appariscente – in fondo ero rimasta vedova da poco, lo sapevano tutti –, ma essere appropriato nei colori e nello stile. Scelsi un satin rosso sangue con un ampio colletto e un paio di scarpette di pelle così sottili e morbide che sarebbe bastato scendere le scale e montare in carrozza per consumarle. Mi unsi i capelli con olio di rosa e li lasciai sciolti ad asciugare vicino al fuoco, poi Darvulia mi aiutò ad acconciarli secondo una nuova foggia che mi nascondeva le orecchie e mi incorniciava gli occhi con qualche ricciolo. Nelle mie trecce scure affiorava qua e là qualche perla come una goccia di rugiada, e la grassa ricamatrice Doricza portò il nuovo collare di pizzo che aveva appena finito, più largo e sottile che mai. La ringraziai facendole i complimenti e volevo a tutti i costi regalarle un tallér d’argento, che lei rifiutò con grande modestia dicendo che le davo già abbastanza e non era degna di tanta attenzione. Dorka la fece uscire senza darmi il tempo di dirle quanto mi facesse piacere che la punizione della biondina le avesse giovato tanto. Quella sera mi soffermai a lungo alla toletta per non apparire troppo ansiosa di andare da Thurzó. Più l’avrei fatto attendere, più lui avrebbe sospirato il mio arrivo. Quando alla fine fui pronta, Darvulia fece arrivare la carrozza. Un attimo prima che vi salissi, la mia vecchia amica mi
infilò in mano un rotolo di pergamena. «Una preghiera», mi spiegò, «affinché possiate ottenere tutto ciò che volete.» Srotolai la pergamena. Come sempre, Darvulia conosceva i miei pensieri più segreti. «Funzionerà?» «Con me ha sempre funzionato.» Sorrisi. «Davvero?» Mi chiesi cosa potesse mai desiderare Darvulia e cosa avesse ottenuto senza dirmelo. L’animo di quella strana creatura era sempre rimasto un mistero per me, anche se l’amavo più di chiunque altro. Le altre due, Ilona Jó e Dorka, fecero una smorfia e si lanciarono un’occhiata, ma ebbero il buonsenso di tacere, sapendo quanto fossi affezionata a Darvulia. «Quante volte devo ripetere questa preghiera affinché funzioni?» «Quante più volte potete da adesso al momento in cui poserete gli occhi sulla persona che desiderate. E dopo, quando vi sarete separati, ripetete la preghiera altre tre volte.» Thurzó non era Ferenc Nádasdy. Non sarebbero bastati il vischio e le formule magiche per farlo innamorare di me, ma decisi di fidarmi di Darvulia una volta ancora. «Nuvoletta, concedimi la tua protezione. Santa Trinità, proteggi Erzsébet nel momento del bisogno e concedi il tuo amore a tua figlia.» Ripetei queste parole ancora e ancora, sussurrandole con un filo di voce. Alla fine montai in carrozza, stando ben attenta a non strapparmi il vestito nuovo, e ci addentrammo nelle strade illuminate della silenziosa Bécs. La musica scendeva dalle finestre e atterrava nel mio grembo come una pioggia d’argento. L’oscurità delle strade lambiva la carrozza e io mi sentivo inondata di speranza e di possibilità nella città imperiale, che aveva resistito all’attacco dei turchi dopo il disastro di Mohács, all’assedio del sultano che imperversava a nord e a ovest nel regno, prima che io nascessi. Come il sultano, adesso anch’io avrei messo sotto assedio la città e i
suoi abitanti: l’arciduca Mattia, György Thurzó. Ma, al contrario del sultano, io speravo di raggiungere il mio obiettivo e tornare a casa vittoriosa. La residenza di Thurzó, un edificio nuovo con colonne di marmo e mattoni scuri, era abbastanza vicina da andarci a piedi, ma era impensabile che una nobildonna si aggirasse per la città senza carrozza. Oltrepassammo i tetti rossi dell’Hofburg seguendo le mura di Bécs, tranquilla e silenziosa ora che il suo re era a Praga, solo qualche luce accesa qua e là. Dopo pochissimo passammo sotto un arco ed entrammo in una corte aperta su una breve fila di finestre illuminate, piena di domestiche che si affaccendavano su e giù portando mazzi di fiori, argento lucido e candelabri dorati senza ombra di macchia. Thurzó in persona scese ad accogliermi e ad aprire lo sportello della carrozza, lo sguardo persino più stanco del solito, le borse sotto gli occhi infossati gonfie come due cuscini imbottiti. Mi chiesi se fossero i problemi con Rodolfo a preoccuparlo, o magari la solitudine dopo la morte della moglie, solitudine che anch’io avevo imparato a conoscere fin troppo bene nelle settimane precedenti. Mi prese le mani tra le sue e mi diede un leggero bacio sulla guancia, solleticandomi la bocca con la barba. «Benvenuta, cugina», disse. Il gesto affettuoso mi riscaldò il cuore perché, pur non essendo consanguinei, eravamo lontani parenti acquisiti, come quasi tutti i nobili ungheresi. Io non arrossii, ma gli rivolsi uno sguardo fermo e limpido e gli risposi che ero felice del suo invito e che per una povera vedova come me era un onore essere ricevuta a casa Thurzó. Lui scoppiò a ridere. «Per essere una povera vedova, siete davvero splendida», azzardò. «Sembra quasi che il lutto vi doni. Sbaglio o il vestito che indossate è nuovo?»
«Sì», risposi, felice che se ne fosse accorto. «Non potevo andare in giro per Bécs come una vecchia megera, vedova o no.» «Magari un’altra sì, ma non voi», precisò Thurzó. «Ho come l’impressione che non ci sia stato giorno in tutta la vostra vita in cui vi sia capitato di essere brutta.» Questa volta scoppiai a ridere io. «Grazie davvero», dissi, «una donna anziana ha sempre bisogno di sentirsi dire qualche piccola bugia. Aiuta a sentirsi vivi.» «Mi state forse dando del bugiardo, signora?» chiese Thurzó con aria inorridita, ma sorridendo a questo vecchio gioco. Finta e controfinta. Un politico dalla testa ai piedi. Sarebbe stato ancora il mio amico fidato... o altrimenti un pericoloso avversario. «Cosa vi porta in città?» «Sárvár mi stava un po’ stretta, ora che Ferenc non c’è più e la mia figlia maggiore si è sposata. Sono stata così triste in questi ultimi tempi che avevo un disperato bisogno di compagnia, così ho deciso di portare Kata in città. Voi siete stato la prima persona a cui ho pensato quando sono arrivata, perché ero certa che avreste trovato il modo di rallegrarmi.» «Lo farò senz’altro, non dubitate. Vogliamo entrare?» Mi porse il braccio e ci avviammo dentro casa. Trascorremmo una piacevolissima serata insieme, seduti vicini a tavola nella sua sala da pranzo privata. Mentre parlavo, lui mi guardava con il mento appoggiato alle mani e gli occhi gli brillavano al minimo accenno scherzoso o a qualche novità su un conoscente comune. Sembrava davvero solo, perché dopo cena continuava a ordinare altro vino, quasi per trattenermi più a lungo. Si accostò ancora di più quando gli chiesi dei problemi tra il nostro amico Bocskai e il re, venendo così vicino a me che le nostre teste quasi si sfioravano. «È un gran peccato», disse, «che István Bocskai
abbia deciso di mettersi dalla parte dei nazionalisti ungheresi e dei transilvani contro il re.» Ma nel campo della religione, obiettai, gli ungheresi avevano il diritto di scegliere la propria fede piuttosto che rassegnarsi ad accettare quella imposta dai cattolici Asburgo di Bécs. Essendo anche lui luterano, Thurzó doveva comprendere il mio punto di vista. «Forse sarebbe meglio sorvolare sulle questioni religiose per il bene dello stato», ribatté Thurzó. «Gli Asburgo restano la nostra migliore speranza contro Costantinopoli. Bocskai commette un grande errore a sottovalutare questo aspetto. Rodolfo è più legato all’Ungheria che a Roma.» Replicai che la sua capacità di mediare tra Rodolfo e Mattia in tempi così turbolenti era prova di grande accortezza e abilità nel risolvere i problemi. Lui sorrise, perché non era uno sciocco e sapeva bene che l’adulazione di una donna non è mai fine a sé stessa. Ma il mio interesse per le sue vicende e l’elogio delle sue decisioni non parvero infastidirlo. «Rodolfo è vostro amico, giusto?» chiesi. «Sì, un re nobile, estremamente colto.» «Non molto diverso da voi stesso.» «I suoi interessi sono diversi dai miei, ma come intellettuale mi piace pensare di essere all’altezza di qualsiasi altro uomo.» “O donna.” «Trascorre molto tempo con i suoi artisti e astronomi, a quanto si dice. Ha chiamato persino Keplero come matematico di corte. Gli costerà una fortuna.» «Sì, un bel po’. Molti amici spagnoli vengono a chiedergli consiglio e incoraggiamento, e anche le grandi menti d’Europa lo considerano un amico insostituibile. All’Ungheria serve un re come lui, se vuole essere all’altezza degli altri grandi imperi d’Occidente.» «E al re serve un alleato come voi, credo, se vuole ottenere questa trasformazione.»
Thurzó sorrise, ma i suoi occhi gonfi si strinsero per mettermi a fuoco, quasi non mi conoscesse. «Allora, di cosa avete bisogno, contessa? Non vi ho mai sentito fare un complimento senza chiedere nulla in cambio.» «Non posso fare un complimento a un vecchio amico?» «Sì, certo che potete, ma mi chiedo quale sarà il prezzo da pagare.» Io sorrisi. Era molto simile a me, in fondo. «Ricorderete che la mia figlia minore è quasi in età da marito. Potrei considerare molti partiti interessanti se solo fossi in condizione di farlo, ma ultimamente le nostre casse sono a corto di denaro e non mi posso permettere una dote.» Thurzó incurvò gli angoli della bocca e disse in tono sarcastico: «Certo, capisco le vostre difficoltà, contessa... magari avessimo tutti gli stessi problemi economici. Non mi starete chiedendo in prestito qualche fiorino, vero? Qualche moneta per farvi superare questo brutto momento?». «Certo che no, amico mio, e potete anche evitare di usare quel tono. Forse saprete che parecchi anni fa, quando sua maestà era impegnato nelle guerre turche, il mio povero Ferenc aveva prestato alla tesoreria reale una grande quantità di denaro. Adesso che i turchi sono stati sconfitti, speravo che il re potesse ricordarsi di noi e saldare il suo debito.» «Mi state chiedendo di convincere il re a rimborsarvi?» «Pensavo solo che potreste aiutarmi a organizzare un incontro con l’arciduca. Mi sembra che qui a Bécs sia più influente del re, e una simile richiesta potrebbe avere più successo se formulata da un amico, anziché da una donna a lui quasi sconosciuta.» Thurzó scoppiò a ridere. «Siete una donna furba, forse anche troppo. Molto bene, organizzerò un incontro con Mattia e verrò anch’io per aiutarvi a perorare la vostra causa.»
«Grazie, sapevo che non mi avreste negato il vostro aiuto. » Lui non rispose e mi fissò con tale franchezza che mi costrinse a chinare lo sguardo, prendere il bicchiere e bere un sorso di vino. Al contrario del mio caro Ferenc, Thurzó non era mai stato bello, ma gli uomini di potere hanno sempre qualità capaci di compensare la loro mancanza di prestanza fisica. «Come intendete dimostrarmi la vostra gratitudine... ci avete pensato?» mi chiese. Non esitai a posargli la mano sul braccio. La manica della sua giacca era fredda, più ruvida di quelle di Ferenc. Un giorno gliene avrei regalata una più fine, così morbida che sarebbe stato un piacere accarezzarla. Ma per il momento mi limitai a rispondere: «Come potrei non averci pensato?». Ci stavamo prostituendo, entrambi. Ma per lo meno eravamo onesti. 9. In autunno Thurzó organizzò l’incontro con l’arciduca, accompagnandomi sulla sua carrozza dalla mia casa di Lobkowitzplatz fin dentro l’Hofburg, nello Schweizerhof – il Cancello Svizzero –, con i suoi fregi e le sue lettere dorate in onore di Ferdinando, il nonno di Rodolfo, l’antico re che l’aveva fatto costruire. Sedevamo vicini e il conte mi accarezzava la mano sovrappensiero, guardando in lontananza fuori dal finestrino, perché nelle ultime settimane eravamo diventati così intimi che spesso non avevamo quasi bisogno di parlare. Quando uscimmo dal cortile in pietra e ci ritrovammo per strada, fui invasa da un’ondata di felicità, la gioia che proviene dall’amare, per la prima volta in quasi trent’anni, un uomo scelto da me. Quell’estate, mentre Bocskai fomentava la sua ribellione, era morto il mio povero fratello István. Non aveva mai goduto di buona salute, neppure da bambino, ed evidentemente il freddo dell’Est aveva compromesso definitivamente
le sue ultime forze. Era morto di tosse convulsiva nel bel mezzo di una torrida estate. Il castello di famiglia nelle paludi di Ecsed era passato a mio nipote Gábor e a sua sorella Anna, i due orfanelli – entrambi lontani parenti dei Báthory – adottati da mio fratello e sua moglie. Gábor Báthory aveva sedici anni, era quasi un uomo e sembrava in grado di difendere la fortezza in caso di pericolo. Eppure io ero in ansia per lui e per la sorellina, oltre che per Kata e Pál. Non appena ero venuta a sapere della morte di mio fratello, avevo deciso di recarmi a Ecsed per assistere al suo funerale. Thurzó, tuttavia, giudicava imprudente lasciarmi attraversare il Duna e tornare a Ecsed mentre Bocskai e i suoi hajduk erano in azione. Potevo essere vulnerabile, mi aveva detto, visto che i Báthory avevano forti legami con la Transilvania e con Bocskai. Thurzó mi aveva consigliato di rimanere in città e dimostrarmi fedele al re e all’impero. In parte Thurzó voleva tenermi vicina per potermi controllare, lo sapevo bene, ma in realtà era anche convinto che se fossi rimasta in città sarebbe stato più facile per me ottenere dal re la restituzione dei soldi. Thurzó desiderava offrirmi la forza della sua protezione e amicizia, e anche del suo amore, così alla fine avevo acconsentito. Sarei rimasta a Bécs almeno fino alla primavera seguente, quando le strade sarebbero ritornate più agevoli, poi sarei andata a Csejthe per l’estate, fermandomi lungo la strada a visitare una proprietà che mio fratello mi aveva lasciato in eredità. Avevo scritto a Gábor che purtroppo non sarei riuscita ad assistere al funerale ed ero rimasta nella mia casa di Lobkowitzplatz. Forse fu un errore, lo riconosco, ma oltre all’aiuto che desideravo da György Thurzó ormai c’era dell’altro: avevo imparato ad apprezzare la sua compagnia anche nel mio letto e non avevo nessuna voglia di farne a meno così presto. In quel momento, qualsiasi motivo per restargli accanto era ben accetto.
Per mesi io e Thurzó avevamo trascorso le serate insieme. Tre o quattro volte alla settimana cenavamo davanti al fuoco, congedando la servitù per goderci indisturbati la nostra intimità. Lui si chinava su di me e mi prendeva la mano tra le sue per baciarmela, poi mi scioglieva l’acconciatura perché mi preferiva con i capelli lunghi sulle spalle. Come una vasca profonda di acqua immobile, diceva. Dopo qualche giorno, avevo chiesto a Darvulia un’acconciatura meno elaborata, per dare modo a Thurzó di scioglierli con un semplice gesto. Lui mi baciava i capelli, mentre io premevo le mie labbra sulle sue borse scure sotto gli occhi, sulla sua bocca dall’aria stanca. Era magnifico nella sua bruttezza, splendidamente tenero e semplice, come un principe ranocchio. Cominciai a pensare che mia madre avesse fatto bene ad avere più di un marito. Quando entrammo nella corte dell’Hofburg e Thurzó mi strinse la mano per rassicurarmi, pensai che magari un secondo marito avrebbe potuto darmi la felicità che avevo cercato per tutta la vita. Il salone in cui ci ricevette l’arciduca Mattia era semplice ma raffinato, con finestrelle di legno piccole ma estremamente luminose, pareti intonacate e soffitti altissimi, molto più del normale. Al centro della sala era sistemato un tavolo di legno intarsiato su cui era posata l’argenteria più preziosa che avessi mai visto, pesante e lucidissima, con l’odore del vino appena versato che aleggiava nell’aria; alle pareti erano appese decine di quadri, compreso un ritratto del re in persona, robusto e rosso di capelli, con la barba color rame e lo sguardo imperioso. Il ritratto accanto, del fratello Mattia, in giacca nera con colletto bianco e ampi calzoni rossi e oro a pieghe, mostrava la loro somiglianza non solo nell’aspetto, ma anche nello sguardo, altezzoso e glaciale. A quanto mi aveva detto Thurzó, le somiglianze finivano lì, perché mentre Rodolfo era un sognatore, più poeta che principe, Mattia era un uomo d’azione. L’avevo incontrato
una volta o due in precedenza, quando Ferenc era ancora vivo, ma non avevamo mai avuto occasione di scambiare qualche parola e non avevo idea di come avrebbe reagito alla richiesta di una donna. Dovevo stare molto attenta con lui, su quello non c’erano dubbi. Accanto al ritratto era appesa una curiosa tela molto luminosa, larga quanto il mio braccio, che mostrava un litorale con una barca a vela, il sole giallo come un grosso gioiello sull’acqua blu del mare e le colline bianche in lontananza, dove si raccoglievano le nuvole. In primo piano, un contadino con il cavallo e l’aratro faceva solchi nel terreno e un pastore con il suo gregge guardava verso il temporale imminente. Nell’angolo in basso a destra, le esili gambine bianche di quello che sembrava un ragazzo che cadeva nell’acqua passavano del tutto inosservate. Mi avvicinai per osservare meglio il dipinto. Sì, le gambe scomposte del ragazzo venivano risucchiate dai flutti, ma nessuno sembrava prestarvi la minima attenzione. Il contadino, il pastore, il pescatore sulla scogliera, i marinai sulla barca, tutti continuavano a badare ai fatti loro come se nulla fosse. «Icaro», disse una voce alle mie spalle. «Vi piace?» Mi girai e davanti a me vidi l’arciduca Mattia, molto più anziano di quanto non apparisse nel ritratto. Indossava un abito nero con bottoni d’ottone lucido e un sottile colletto di pizzo bianco, con una lunga catena d’oro appesa al collo. Portava i capelli corti, alla foggia tedesca, rossi come quelli del fratello e striati di grigio, e aveva profonde rughe sotto gli occhi e sulla fronte. Il suo viso rimase serio anche quando sorrise per dimostrarmi di avere apprezzato il mio interesse per il quadro. «Sì, molto», risposi, «trovo geniale dare così poca importanza all’incidente. Icaro, che era volato così in alto, adesso cade negli abissi mentre il mondo neppure se ne accorge.»
«Mmm», commentò l’arciduca, «mio fratello ha un gusto strano in fatto di arte. A me non è mai piaciuto. Ho sempre pensato che Icaro meritasse il centro della scena, non un misero angolino. Ma suppongo che sia destino dei grandi uomini passare inosservati agli occhi dei propri contemporanei.» Si chinò sul quadro e lo osservò per un istante, quindi si rialzò. «Dunque, in cosa posso esservi utile, signora Nádasdy?» Notai subito che mi aveva chiamato «signora» anziché «contessa», ma decisi di non farglielo notare. «Sono venuta a porgervi i miei rispetti, anche se avrei preferito farlo in circostanze più felici.» «Sì, sono davvero costernato per la perdita di vostro marito. Era un soldato coraggioso, il migliore di tutti noi, e un caro amico. Ci mancherà molto.» Io lo ringraziai, ma l’arciduca fece un cenno con la mano e aggiunse: «Il mio amico Thurzó non mi ha voluto confidare la ragione per cui volete parlarmi, ma ha detto che avrei sicuramente trovato piacevole la vostra compagnia. Se non altro, devo ammettere che non si sbagliava». Chinai il capo per ringraziarlo nuovamente. «Vengo a chiedervi aiuto. Ho assoluto bisogno che mi venga rimborsato il prestito che il mio defunto marito ha fatto alle casse del re quando il paese era in guerra. Vostro fratello a Praga non ha mai risposto alle ripetute richieste di mio marito, così speravo che almeno voi poteste convincerlo ad aiutarmi in questo momento così difficile per me.» «Il paese è ancora in guerra. Bocskai, l’amico di vostro marito, cerca di metterci contro gli ungheresi, quindi siamo costretti a usare ogni risorsa a nostra disposizione per sedare la rivolta.»
«Mi dispiace enormemente, ma siccome sono rimasta vedova, adesso spetta a me amministrare le proprietà lasciatemi da mio marito. Mia figlia ha bisogno di una dote e mio figlio è ancora piccolo. Devo fare il possibile affinché non perdano la loro eredità.» «Certo, avete ragione, ma le casse reali al momento sono agli sgoccioli. Forse dovreste aspettare ancora un po’, almeno finché non avremo superato questo problema con Bocskai. Prima non potrei mai fare una richiesta simile a mio fratello.» Non avevo intenzione di rinunciare così facilmente. «Vostra grazia…» cominciai, ma Thurzó mi posò una mano sul braccio per porre fine alle mie proteste. «Avete la nostra più sincera gratitudine per la lealtà di vostro marito nelle guerre contro i turchi», proseguì l’arciduca, «ma purtroppo il risarcimento del debito dovrà attendere ancora qualche tempo.» «Forse dovrei scrivere io stessa al re. Magari lui saprebbe trovare i fondi, soprattutto pensando che ha abbastanza soldi per pagare tutto quello stuolo di musicisti, matematici e artisti di corte.» Il viso di Mattia si contrasse e un’espressione irritata affiorò nei suoi occhi. Non gli faceva piacere che la sua autorità fosse considerata inferiore a quella del fratello e sapevo bene che era molto rischioso minacciarlo di rivolgermi direttamente al re. Thurzó mi aveva confidato che Mattia riteneva il fratello un re sciocco, debole e smidollato, colpevole di aver trascurato l’Ungheria causando la rottura con Bocskai. Forse entro breve il re assente sarebbe rimasto assente per sempre e Mattia – o persino István Bocskai, se le condizioni fossero mutate – avrebbe preso la corona d’Ungheria. I tempi cambiavano: il potere passava da un uomo all’altro. Ma per il momento il re era ancora
Rodolfo e io avevo bisogno di quei soldi. Kata ne aveva bisogno. Avrei fatto tutto il possibile per riaverli. «Fate come preferite», replicò l’arciduca, «ma non aspettatevi che Rodolfo vi dia retta. È troppo impegnato con i suoi astronomi e poeti per occuparsi degli affari di stato. Ve ne accorgerete subito se deciderete di fargli pressione su questo argomento. Ma se lo desiderate, potete sempre scrivergli. » Fece un altro gesto con la mano ed ebbi la netta sensazione che mi stesse cancellando dalla sua vista. «Grazie per essere venuta, signora, è sempre un piacere incontrarvi quando passate da Bécs.» La mano di Thurzó sul mio braccio era una pressione e un ammonimento costante. Mi ricordava mia madre, che faceva lo stesso in chiesa se mi mettevo a ridere. Non aveva nessuna intenzione di lasciarmi parlare ancora, perché sarebbe stato solo a mio svantaggio, e forse anche suo. La pressione sul mio braccio mi fece ricordare che dovevo stare al mio posto. E così feci, almeno per il momento. «Grazie», risposi, ma per me la questione non era ancora chiusa. Fui travolta dalla rabbia: come osava liquidarmi così frettolosamente? Rodolfo avrebbe avuto mie notizie, su quello non c’erano dubbi. Un uomo che poteva permettersi argenteria e quadri di tale pregio, di sicuro non avrebbe avuto troppe difficoltà a restituirmi le poche migliaia di fiorini che mio marito gli aveva prestato. Dopo averci congedato, l’arciduca tornò a fissare il quadro, il povero Icaro che scompariva tra le onde, ignorato da tutti. «Che peccato», disse, «poteva essere un bel quadro.» Uscendo dalla stanza, lo sfiorò lievemente con il dito, lasciandolo un po’ storto. Eravamo di nuovo soli e Thurzó mi tolse la mano dal braccio. «Non avresti dovuto rischiare di inimicarti Mattia.» «Non posso concedermi il lusso di aspettare finché l’arciduca avrà cambiato idea. I miei figli sono ancora piccoli e
hanno perso il padre. Se non combatterò io per i loro diritti, chi ci penserà?» «Non guastare i rapporti con gli amici. Se tu fossi più paziente e mostrassi più umiltà, ne trarresti giovamento.» «Come fai tu? Quanto mi faranno aspettare il re e l’arciduca se non faccio il possibile perché non dimentichino i loro obblighi?» «Esistono altri modi per farglieli ricordare senza rovinare l’amicizia.» Adesso mi cingeva in vita e mi teneva stretta a sé.«Cosa?» sussurrai alzando la testa per guardarlo dritto negli occhi. «Mi stai proponendo di sedurre Mattia? Sei così salomonico da potermi dividere con lui?» Adesso teneva la bocca contro i miei capelli. «Mai», rispose. «Non ti potrei dividere con nessuno, Erzsébet.» «Allora temo che non mi restino altro che le minacce», sospirai. «Ma forse, quando mi lascerai, Mattia vorrà venire a patti con me.» Thurzó scoppiò a ridere. «O forse, quando avrai ottenuto quello che vuoi, sarai tu a lasciarmi.» «Allora forse dovremmo sposarci e sigillare il nostro patto prima che uno di noi ci ripensi.» «Un secondo marito? Non sarebbe terribilmente seccante per te, ora che hai il controllo indiscusso di tutte le proprietà? Potrebbe intromettersi nei tuoi progetti di gloria per i Nádasdy.» «In questo momento l’unica gloria dei Nádasdy», dissi appoggiandogli una mano sul collo, «è riposta in te, mio caro.» Scoppiò a ridere. «Ben detto, mia signora.» Gli permisi di baciarmi lì, nella stanza del re, davanti alla bianca figura di Icaro che si inabissava tra le onde. Subito dopo facemmo ritorno alla nostra carrozza, attraversando di nuovo il Cancello Svizzero, dove le sentinelle facevano la guardia senza un motivo, perché il re era lontano, a Praga, e non pensava affatto a Bécs o all’Ungheria, ma solo alla
nuova Parigi che stava costruendo al Nord con i soldi di mia figlia. Con l’eredità dei miei figli, il re si divertiva a fare da mecenate ad artisti e scienziati. Ma avrebbe sentito ancora parlare di me. 10. Trascorsi tutto l’inverno a Bécs con Thurzó, scrivendo a Megyery per avere notizie dei tuoi studi, Pál, e ordinandogli di vendere qualche proprietà dell’Ovest per mettere insieme la dote di Kata. Di lì a breve avrebbe compiuto dodici anni e non potevo più aspettare, ormai. Quell’anno fidanzai ufficialmente tua sorella con György Homonnai Drugeth, figlio del conte omonimo e nipote acquisito di mio fratello. I Drugeth erano un’antica famiglia magiara di nobili guerrieri e statisti, e György, le cui proprietà di Homonna erano l’invidia di tutto il regno, aveva fatto pressione per ottenere la mano di Kata. Io l’avevo rifiutato più di una volta, facendolo innamorare ancora di più, proprio come speravo. La riempiva di lettere e regali e scriveva orribili poesie d’amore esaltando la bellezza dei suoi occhi o delle sue labbra. Io lo respinsi il più a lungo possibile, ma con il tempo anche Kata prese a tessermi le lodi di Drugeth, facendomi notare quanto avrebbe guadagnato in ricchezza e onore la nostra famiglia grazie a quel matrimonio. Mi convinsi addirittura che fosse stato il giovane Drugeth a istruirla a dovere. «Vi prego, madre», mi supplicava gettandosi tra le mie braccia. «Se non posso avere lui, preferisco non avere nessuno. Preferisco morire sola e senza figli piuttosto che sposare qualcun altro.» Quante volte avevo riso con Thurzó di quelle scene teatrali! «Siamo stati anche noi così giovani e disperati», gli chiedevo, «da minacciare di ucciderci per amore?» Lui rideva e rispondeva di no. Ma una sera a casa di Thurzó vidi
Kata e Drugeth ballare insieme e notai l’adorazione incondizionata che mia figlia provava per quel ragazzo. Mi ricordava la prima volta che avevo incontrato András Kanizsay, quanto era beffardo, sicuro di sé, consapevole che ogni donna nella stanza, e anche ogni uomo, gli posasse gli occhi addosso. Non volevo dare in sposa la mia adorata Kata a un individuo già innamorato di sé stesso, ma se non altro la sua scelta aveva diversi vantaggi concreti: Drugeth era ricco e potente, oltre che giovane e bello. Thurzó era contrario perché sperava di fidanzare Kata con uno dei Forgách, suoi parenti acquisiti, ma in quella vicenda io non volevo mettere in secondo piano i sentimenti di mia figlia: firmai i documenti quell’estate e scrissi a Megyery di vendere Lendva, una delle nostre proprietà più piccole, per pagare la dote. Ero ancora infuriata con il re, perché era dalle tue tasche che stava rubando, caro Pál, ma almeno Kata non sarebbe rimasta senza soldi. Ero continuamente consapevole della precarietà della mia situazione e della facilità con cui la pace e la prosperità che mi ero costruita, il futuro che avevo progettato per me e per i miei figli, sarebbero potuti finire in mille pezzi. Ora che non dovevo più inchinarmi ai voleri di un marito, avevo finalmente assunto una mia autorità autonoma di nobildonna, ma senza un marito sarei stata comunque vulnerabile, e anche tu, Pál. Ai balli e alle feste, dove incontravo le mie conoscenze fra la nobiltà, gli statisti di Ungheria e le loro mogli, stavo in guardia per individuare complotti e trame, origliavo dietro gli angoli, cercavo di cogliere uno sguardo geloso o ambizioso, chiedendomi di chi mi potessi ancora fidare fra i miei amici. Sarebbe stata la contessa Zrínyi, mia amica, a buttarmi fuori da Sárvár, se suo marito ci avesse messo sopra gli occhi? Margit Choron avrebbe avanzato pretese contro di me, invocando presunti diritti
familiari? Thurzó avrebbe deciso di annettere Keresztúr, così vicino alla sua proprietà di Tokaj? Non sapevo di chi fidarmi. Sapevo solo che dovevo fare tutto ciò che era in mio potere per consentirti di entrare in possesso della tua eredità quando fossi diventato maggiorenne, e che avrei fallito come madre, Pál, se avessi perso anche solo una minima parte di ciò che tuo padre aveva accumulato per te. Io e Thurzó continuammo a trascorrere insieme quasi ogni sera, mantenendo la massima discrezione per non far sparlare la servitù. Dopo cena, a casa sua o a casa mia, ci davamo la buonanotte facendo finta di separarci, ma subito dopo lui veniva nella mia stanza, o io nella sua, e passavamo la notte insieme godendo del favore delle tenebre, per poi separarci prima dell’alba. Nelle nostre notti d’amore, lui mi sussurrava i suoi piani per il futuro e progettava per l’estate nuovi incontri segreti a Csejthe o a Bicske. Sognava di farti sposare la sua figlia minore, Borbála, anche se a mio avviso lei era troppo grande per poter formare con te una coppia equilibrata. Thurzó ne parlava in continuazione. «Unire le nostre due famiglie sarebbe un grande onore per entrambi», diceva, e sebbene io cercassi di dissuaderlo per il tuo bene – avevi solo sette anni e non eri certo pronto per fidanzarti – , cominciai a chiedermi se non si riferisse a noi due anziché ai nostri figli. Se stava pensando a una seconda moglie con cui trascorrere il resto dei suoi giorni, chi meglio di me? Il pensiero di sposarlo non mi dispiaceva affatto, perché, anche se era uno degli uomini più brutti che avessi mai conosciuto, la sua compagnia era oltremodo piacevole. Oserei dire che l’amavo. Era un politico accorto, sicuramente molto più di Ferenc, e decisamente più attento alle sue amicizie: non si sarebbe mai portato a letto una domestica, sbattendomelo in faccia come aveva fatto il mio defunto marito. Eravamo ben assortiti, io e György Thurzó,
per età e temperamento. Troppo anziani per essere stupidi, troppo giovani per restare soli. Il resto della mia vita si apriva dinnanzi a me come una porta spalancata su una casa nuova, piena di luce e di possibilità. Quando cominciò a farsi sentire il caldo e le strade furono asciutte, mi accinsi a organizzare il viaggio a nord verso Csejthe, insieme a Kata e alle mie damigelle, dove intendevamo sfuggire ai miasmi cittadini dell’estate. La sera prima della partenza cenammo insieme per l’ultima volta a casa sua, nella sua saletta privata, e Thurzó mi raccomandò caldamente di non inimicarmi Mattia esagerando con le mie richieste. Era così insistente che arrivai addirittura a chiedermi cosa potesse avergli detto di me l’arciduca dopo il nostro incontro per farlo preoccupare a tal punto. Mi incuriosiva che Mattia fosse così irritato. Del resto lo ero anch’io: in fondo mi doveva una fortuna. Ma non era il caso di dirlo a Thurzó. Anche lui era in procinto di recarsi a Bicske per l’estate, per poi trasferirsi a sud per cercare di risolvere i problemi con István Bocskai, ma promise che sarebbe tornato a Bécs in novembre, quando io sarei arrivata per l’inverno. I pochi mesi che avremmo trascorso lontani, diceva, avrebbero semplicemente rafforzato il nuovo legame che ci univa. Si chinò per baciarmi i capelli e mi disse che detestava l’idea di non potermi vedere così a lungo, ma i continui problemi con Bocskai lo mettevano in una situazione davvero terribile. Aveva l’incarico di convincere il vecchio amico a rinunciare all’offensiva contro gli Asburgo, o altrimenti a incontrarlo sul campo di battaglia. Thurzó avrebbe affrontato alcuni mesi a cavallo tra Bécs e la Transilvania, alcuni mesi di polvere e caldo. Ero sorpresa che il re avesse una tale considerazione di Thurzó da affidargli una missione tanto delicata – tentare di porre fine a una sedizione –, e
addirittura più sorpresa che Thurzó l’avesse accettata. Sapevo che erano amici e nutrivano una grande stima reciproca, ma non pensavo che Thurzó fosse così legato agli austriaci da servire come strumento contro la ribellione guidata dal suo vecchio commilitone István Bocskai. Quella notte, però, alla luce dorata delle candele e con il profumo all’olio di lavanda dei miei capelli, Thurzó mi disse che non era István Bocskai a occupare i suoi pensieri, bensì io, e la lunga separazione che ci attendeva. «Mi dimenticherai prima che ci rivediamo», disse sospirando con tale sicurezza da riuscire quasi convincente. «Una donna come te sarà piena di pretendenti.» «Forse», risposi, per fare la preziosa e per non dargli a intendere che lo ritenessi del tutto sincero, «ma forse preferisco te a chiunque altro.» «Spero che la penserai ancora così quando ci rivedremo», ribatté. «Sai, avrei una mezza idea di riprendere moglie.» «Solo mezza?» «L’altra metà dice che forse non ne vale la pena se questa donna non impara a tenere a freno la lingua.» «Strano, pensavo che la mia lingua ti piacesse. Adesso hai intenzione di baciarmi o dobbiamo continuare a chiacchierare per tutta la notte?» Lui scoppiò a ridere e mi abbracciò stretta, scoccandomi un bacio sulla bocca. Il suo fiato sapeva di vino, la sua pelle di chiodo di garofano. Quando cominciò a sfiorarmi il collo con le labbra, io rovesciai la testa all’indietro sospirando di piacere. Ah, quanto tempo sarebbe passato prima di poterci rivedere! 11. Insieme alle mie damigelle, lasciai Bécs la mattina seguente. Viaggiammo verso sud lungo la strada che costeggia il Duna, diretti a Pozsony, la capitale dell’Ungheria, che i tedeschi del posto chiamano Presburgo. Uscimmo di casa e
salimmo in carrozza che era ancora buio. Darvulia, muovendosi a piccoli passi e appoggiandosi al bastone che usava da quando eravamo arrivati a Bécs, si sedette accanto a me e io le sistemai la coperta sulle ginocchia. Poi arrivò Kata, radiosa di felicità da quando si era fidanzata, e dopo di lei la grassa Doricza, che si sistemò sulla panca con il suo cestino del cucito senza lasciarsi sfuggire neppure una lamentela. Quindi fu la volta di Gizela Modl, una ragazza tedesca arrivata qualche anno prima a Sárvár con la madre in cerca di lavoro. A quei tempi eravamo a corto di domestiche e io mi ero decisa ad assumerla perché temevo che la madre, povera com’era, mi avrebbe lasciato la metà dei suoi figli sulla soglia di casa se non avessi preso con me la giovane Modl, la maggiore di nove femmine e tre maschi. L’aspetto della ragazza mi aveva lasciato subito perplessa. La sua pelle di pesca e i grandi occhi marroni con lunghe ciglia scure la facevano sembrare vulnerabile e insieme agguerrita, come la lama di un coltello piegata fin quasi alla rottura. Era snella e fragile ai polsi e al collo, ma con un seno da donna che sembrava sempre in esposizione sotto morbide camicette bianche o corpetti troppo attillati. Dopo neanche una settimana dal suo arrivo, già gli stallieri trascuravano il lavoro e passavano il loro tempo a guardarla mentre batteva i tappeti nella corte; persino il domestico di mio marito le sorrideva e le stava sempre intorno, mostrandole colpi di spada ed esagerando il servizio reso al suo signore nelle guerre contro i turchi per sembrare più coraggioso di quanto potesse essere all’epoca, quando era un semplice scudiero di dieci anni. Ma la cosa non pareva importarle: lei sbatteva i suoi occhioni a tutti indistintamente. Eppure pulsava in lei un cuore di pietra che si rivelò solo quando cominciò a sentirsi a suo agio in casa mia e che i
giovani adoratori solo di rado riuscivano a intravedere. Dell’ungherese conosceva solo qualche imprecazione e volgarità, che distribuiva a piene mani nei suoi discorsi persino di fronte ai miei figli, mandando al diavolo questo e quello, compresi i sassi per terra e le lenzuola del letto. In mia presenza abbozzava sempre una specie di eterno sorrisino compiaciuto che mi faceva venire voglia di darle uno schiaffo e togliermela di torno. Mi trattenni dal farlo solo finché non potei lamentarmi del suo lavoro, e non durò a lungo. Dopo un mese o due che si comportava così, per tenerla lontana dai guai Darvulia fu costretta a trasferirla in lavanderia; da quel momento si mise a lavorare in maniera così seria che non ebbi più lamentele da parte delle domestiche. Sembrava davvero diventata un’altra persona e ben presto non pensai più a lei. Tuttavia, al momento della partenza, apprezzando la sua aria dimessa e gli occhi bassi, decisi di premiarla facendola salire sulla nostra carrozza, dove si sedette nel posto di fronte a Darvulia con l’aria docile di un agnellino. Ci faceva strada un manipolo di soldati in uniforme e dietro di noi viaggiavano quattro carrozze con le altre damigelle e i bauli pieni di provviste per il nostro soggiorno estivo nella casa di Csejthe. Chiudeva il corteo il resto della compagnia di soldati che abitualmente scortava i miei viaggi, in armatura leggera e con le spade scintillanti. Era uno spettacolo davvero impressionante vederci attraversare le porte di Bécs per poi inoltrarci nella campagna sollevando nuvole di polvere al nostro passaggio. In carrozza, tanto per passare un po’ il tempo, leggevo spesso alle mie compagne di viaggio qualche brano dei libri che mi ero portata, oppure insegnavo loro a scrivere le lettere su una lavagnetta. Erano ben pochi gli uomini di mia conoscenza che potessero definirsi davvero istruiti – salvo Ferenc e Thurzó –, e le donne ancor meno. Le domestiche,
in particolare, erano del tutto ignoranti e, anche se ogni tanto alzavano gli occhi al cielo se tentavo di far scrivere loro «A» e «Á» e «B», il più delle volte erano felici di sfruttare quell’occasione per imparare, se non altro, a scrivere il proprio nome. Ogni donna, ripetevo loro, deve sapere fare almeno quello, a prescindere dal suo rango per nascita o matrimonio. Doricza e la giovane Modl ascoltarono attentamente le mie parole o scambiarono al massimo due chiacchiere sul paesaggio e trascorremmo un viaggio piacevole lungo la via del Duna, con il fiume sulla nostra sinistra e l’intera Ungheria davanti a noi, diretti alla fortezza di Dévény, dove avevo qualche affare da sbrigare. Mio fratello mi aveva lasciato alcune proprietà nel suo testamento, compreso il vár di Dévény, appena a nord di Pozsony. Il castello era appollaiato su un alto dente di roccia calcarea, una singola torre che si ergeva solitaria sulla nuda pietra, come un’antica divinità al bordo dell’Olimpo con lo sguardo torvo rivolto all’ingiù. La tenuta aveva una notevole importanza strategica, trovandosi a metà strada tra Pozsony e Bécs, alla confluenza tra il Duna e la Morava. Avevo intenzione di conoscere i domestici e trattenermi solo qualche notte, giusto per dare un’occhiata alla mia proprietà, e avevo perciò scritto alla servitù di tenersi pronta al mio arrivo. Thurzó aveva cercato di dissuadermi, avvisandomi che la mia sosta a Dévény, in un momento in cui i rapporti fra l’Austria e l’Ungheria erano tesi, avrebbe suscitato l’irritazione del re e di Mattia. Mio fratello era stato infatti un fervido sostenitore del nostro amico István Bocskai e della sua rivolta contro gli Asburgo, un fautore della riunificazione dell’Ungheria contro i turchi e gli Asburgo, e Mattia sapeva che io, nonostante la mia amicizia con Thurzó, intrattenevo ancora rapporti amichevoli con Bocskai e con i nostri parenti e conoscenti della Transilvania.
Anche mio nipote Gábor, il cui potere in Transilvania era in crescita, sosteneva gli sforzi di Bocskai contro la repressione degli Asburgo. Thurzó era convinto che fosse un errore presentarsi come la nuova padrona di Dévény quando avevo così tanti legami dichiaratamente antiasburgici e non era chiaro da quale parte avessi deciso di schierarmi. Ma io ero decisa a fermarmi a Dévény, prima di dirigermi a Csejthe, e a presentarmi alla servitù come la nuova signora del castello. Lungo la via del Duna, le sagome confuse e le colline violacee in lontananza assunsero via via contorni più decisi – le pareti rocciose e gli alberi della città di Dévény –, e ben presto riuscimmo a distinguere anche la fortezza, lo sperone di roccia a forma di pugno chiuso, perfetto come punto di vedetta per avvistare i nemici in avvicinamento sin dall’epoca dei romani. Da quando i turchi avevano occupato il centro dell’antico regno da Buda a Eger, Dévény era diventata più importante che mai per mantenere la pace e, ora che Bocskai era sul piede di guerra e mio nipote Gábor stava consolidando il suo potere in Transilvania, sarebbe stato nuovamente così. Ero molto orgogliosa che István avesse deciso di lasciarla a me, perché io avevo intenzione di lasciarla a te, Pál, un gioiello nella corona della tua eredità. A mano a mano che ci avvicinavamo al traghetto fra le due rive, cominciammo a distinguere la casa e le stalle del barcaiolo, i cavalli che tiravano le grosse corde delle pesanti barche attraverso il fiume, il presidio bianco dove dormivano i soldati. Sull’altra sponda del Duna era radunato un gruppo di anziani tutti vestiti di nero, affiancati da un discreto numero di soldati in armatura leggera. Sulle prime pensai che fossero venuti a darci il benvenuto, come mi era successo da ragazza quando attraversavo l’Ungheria per trasferirmi nella casa della mia futura suocera. Ma pian
piano riconobbi i loro sguardi torvi e li sentii strisciare i piedi a terra come pastori a un funerale. Era chiaro che c’era qualcosa che non andava. Forse Mattia aveva deciso che avevo esagerato a pretendere la restituzione dei soldi che avevamo prestato alla tesoreria reale e adesso voleva punirmi per dare il buon esempio. O magari i cittadini di Dévény, per mostrare la propria fedeltà a Mattia, avevano scelto di opporsi a me e alle mie pretese sul castello. Imprecai sottovoce. L’avrei detto subito a Thurzó. Decisi di scrivergli per lamentarmi non appena avessi messo piede a Csejthe. A cosa serviva la mia amicizia con lui se il re, suo alleato, usava i suoi uomini contro di me, per tenermi lontana dalla mia proprietà? Sulla riva del fiume, dove la strada si allargava e l’odore dell’acqua e delle canne si faceva più intenso, ci fermammo ad aspettare che il capitano della mia guarnigione chiedesse al barcaiolo di portarci sull’altra sponda. Dal mio posto dentro la carrozza vedevo il mio uomo, seduto tranquillo a cavallo, offrire al barcaiolo una bella ricompensa mentre questi scrollava la testa e indicava il fiume come a volergli attribuire la colpa del suo rifiuto. Dopo poco il mio uomo tornò alla carrozza e riferì che il barcaiolo aveva ordine di non farci attraversare il fiume. «Gli anziani della città sono venuti ad assicurarsi che non disobbedisca», spiegò il soldato, un veterano dai capelli grigi che avevo tenuto come capitano della mia guardia personale in onore dei servigi resi a mio marito. Il suo viso tradiva un misto di angoscia e stanchezza, quasi stessi per chiedergli di sfidare la guarnigione del posto e pretendere con la forza che mi lasciassero attraversare il fiume. Invece gli ordinai di far smontare i suoi uomini da cavallo mentre mandavo Gizela Modl a parlamentare con il barcaiolo. Gizela, pensavo, era perfetta per convincere quell’uomo a lasciarci passare. «Offrigli il doppio della tariffa
normale», le ordinai porgendole un secondo sacchetto pieno di monete d’oro, una vera fortuna per un uomo nella sua posizione. Doveva usare tutto il suo fascino irresistibile su quell’uomo e, se i soldi non fossero riusciti a convincerlo, ci avrebbe pensato Gizela. La ragazza parlò con il barcaiolo per molti, lunghi minuti, poi fece ritorno alla carrozza con il sacchetto pieno ancora in mano. «Dice che non c’è prezzo per convincerlo ad accettare. » Io maledissi quell’uomo, la sua insolenza, gli anziani della città e il re. Non ero stata io a dare inizio alla ribellione, dissi, e neppure a sostenerla quando era scoppiata. Avevo passato l’inverno a Bécs con Mattia e Thurzó, ero un’umile suddita del re e dell’Ungheria, e rivendicavo solo i miei diritti su una proprietà. Non valeva proprio più nulla la legge?, chiesi. Dovevamo sottostare per forza al capriccio di un dittatore? Forse Bocskai non aveva tutti i torti a insorgere contro un re che non aveva il minimo rispetto per il suo popolo, dissi. «Forse Bocskai dovrebbe diventare re, così dopo staremmo tutti meglio.» Il barcaiolo, un uomo dall’aspetto orribile, con i denti gialli e scheggiati e la giacca macchiata di umido che puzzava di creosoto, aveva le mani ruvide a furia di tenere strette le redini dei cavalli che tiravano la corda attraverso il Duna. Mentre guardava Gizela, sembrava così triste che con ogni probabilità ci avrebbe portato sull’altra sponda anche sulle spalle se solo gli anziani non fossero stati lì a guardarlo. «Mi dispiace», si scusò, «ma mi tagliano la testa se vi faccio attraversare.» La sfrontatezza di quella gente, che negava i miei diritti come proprietaria di Dévény, era davvero inaccettabile. «Il re ne sarà informato», minacciai e, con la massima dignità, aprii lo sportello della carrozza per far risalire Gizela e
ripartimmo. Mentre ci allontanavamo, vidi gli anziani della città abbandonare le rive del Duna come tanti scarafaggi che corrono al sicuro nella loro tana. Viaggiammo lungo il fiume fino a sera e finalmente trovammo un altro barcaiolo che fu ben felice di prendere il mio oro e portarci sulla riva opposta nonostante il buio, ma quando ci ritrovammo sull’altra sponda del Duna capii che non avrei mai avuto il coraggio di ritornare a Dévény. Quella gente era certamente ancora in guardia, perché sperava nella ricompensa di Rodolfo… o di Mattia? Il barcaiolo ungherese era molto affabile e per tutto il viaggio non la smise un attimo di chiacchierare, riempiendoci di domande sugli ultimi avvenimenti. Si mostrò ammirato e colpito quando venne a sapere il nome della signora che stava trasportando sul suo barcone, elogiando il mio defunto marito e il nome della mia nobile famiglia. «Ho combattuto agli ordini di vostro marito nell’assedio di Esztergom», disse l’uomo. Aveva una cicatrice sulla guancia e, quando lo guardai più da vicino, mi accorsi che gli mancavano delle dita a una mano. «Un grand’uomo, gentile e generoso, il miglior soldato che abbia mai conosciuto. Come un santo sceso in terra», insisteva il barcaiolo. «Quando ho saputo della sua morte, ho sofferto come se avessi perso un padre.» Lo pagai con il sacchetto di monete che volevo usare per corrompere il barcaiolo tedesco di Dévény e l’uomo scoppiò in lacrime e mi giurò che avrebbe pregato perché mi fosse riservato un posto in Paradiso. Eppure per molto tempo non riuscii a superare l’amarezza per l’accoglienza che mi era stata riservata a Dévény, neanche quando attraversammo le pianure deserte, le miglia e miglia di prati erbosi che un tempo – prima di Mohács, prima dell’occupazione turca, prima che il mondo andasse a rotoli – erano stati il granaio d’Europa, con i suoi campi di frumento, d’orzo e di segale che si
estendevano a perdita d’occhio tra il Duna e i Carpazi. Del passato glorioso non restava traccia e il futuro rimaneva per me ancora un’incognita. 12. Dopo la scena incresciosa con il barcaiolo a Pozsony, ci dirigemmo verso la mia casa di Csejthe, dove ero giunta novella sposa ormai trent’anni prima. Lì trascorremmo un’estate tranquilla, una sorta di calma prima della tempesta, con un sommesso senso di attesa e di fretta per l’esplosione finale. Spedii diverse lettere velenose al re e altre meno accese a Thurzó, pregandolo di intervenire a mio nome nella questione del castello di Dévény. Thurzó mi rispose che avrebbe fatto il possibile, ma che per una volta dovevo dargli retta e smetterla di far innervosire il sovrano. «Ricorda sempre chi sono i tuoi amici e rimani al tuo posto», scriveva, «e alla fine vedrai che tutto andrà per il meglio.» «Il mio posto», gli risposi, «è accanto a te. Quando vieni, mio signore?» «Presto», mi assicurò. «Presto, te lo prometto.» L’estate si volse in autunno, e l’autunno in inverno, ma Thurzó non si vedeva ancora. Io rinunciai alla mia idea di trasferirmi a Bécs per l’inverno, dal momento che Thurzó mi fece sapere che per quell’anno non gli era possibile tornare in città. Mi scriveva all’incirca una volta al mese, ripetendomi che i problemi con Bocskai non lo lasciavano respirare e anche il re lo riempiva di incarichi che lo tenevano lontano da Bicske, a soli due giorni di viaggio dalla mia casa di Csejthe. Dal canto mio, mi sforzai di accettare le sue ragioni, ma continuavo a sperare di poterlo rivedere almeno in settembre, per il matrimonio di mia figlia con il giovane Drugeth. «Vieni presto, amico e compagno carissimo», gli scrivevo. «Ogni giorno senza vederti è come un anno.» «Vengo appena posso», mi rispondeva. «Ci puoi contare.»
E così, a più di un anno dal nostro ultimo incontro e con immutata nostalgia, mi misi in viaggio da Csejthe a Varannó per organizzare le nozze di mia figlia. Gli ospiti avrebbero cominciato ad arrivare in agosto, anche se in effetti la cerimonia si sarebbe celebrata in settembre. Come al solito, mi gustai il ruolo di padrona di casa organizzando ogni cosa senza badare a spese, come un tempo avevano fatto i miei genitori a Ecsed, intrattenendo gli ospiti. Nel pomeriggio io e le altre dame facevamo cavalcate in campagna o ci divertivamo a pescare sulle rive del Vág, con le gonne alzate fino al ginocchio, lontano dagli uomini per non far loro ascoltare i nostri discorsi; per pranzo mangiavamo pollo freddo e dolcetti al miele. Quanto mi piacevano quei pomeriggi, quando il gracidio delle rane toro e l’acqua fredda alle caviglie mi distraevano dai problemi che incontravo tutti giorni nella gestione delle mie proprietà e dall’obbligo di rispondere alle continue lettere di parenti e amici. Ma sempre, e ripeto sempre, per mantenere la pace dentro casa ero costretta a punire qualche domestica che, dopo la morte di mio marito, era diventata più incontrollabile. Quell’anno passai molte ore nelle segrete a battere le più sfaticate o insolenti con la frusta e il bastone. Poco prima che arrivassero gli ospiti, per una settimana intera trascorsi tutte le sere nei sotterranei, le braccia doloranti a furia di dare bastonate, i vestiti tutti insanguinati. Il giovane Ficzkó mi doveva riportare nella mia stanza in braccio perché non riuscivo più a camminare per la stanchezza. E ogni sera Ilona Jó e Dorka mi portavano altre ragazze da punire, scoperte a rubare o a battere la fiacca, ma anche qualcuna che si dava da fare con gli stallieri e rispondeva male alle due anziane domestiche. Le più graziose e ammirate costituivano anche il problema più grave. Erano convinte che la bellezza fosse una loro esclusiva e spettava a me farle ricredere. La
bellezza era un castigo da sopportare, non certo una benedizione. Quasi tutte tolleravano bene le punizioni, guarivano in pochi giorni e tornavano al lavoro con rinnovata umiltà, ma ogni tanto capitava qualche ragazza cagionevole che si ammalava dopo il mio trattamento e finiva al cimitero. Non mi facevano per niente pena, perché almeno così mi risparmiavano il tempo e le spese per farle tornare in salute. Ogni volta ci tenevo a occuparmi personalmente del funerale e nessuno poteva accusarmi di non adempiere al mio dovere di buona cristiana, anche se István Magyari, da sempre pastore della famiglia Nádasdy, osò addirittura minacciarmi di rivolgersi alle autorità se avessi insistito nelle mie attività notturne. «Desistete», mi disse, «o rischiate di offendere il Signore. » Io gli risposi che per prima cosa gli conveniva evitare di offendere me. Gli garantii una lauta donazione e in seguito ordinai ai domestici di seppellire altrove le ragazze morte, per evitare lo sguardo attento di Magyari. Oltretutto fui costretta a sopportare queste seccature senza l’aiuto della mia cara Darvulia, che quell’estate fu colpita da un inizio di paralisi, un attacco improvviso che una mattina le immobilizzò metà corpo, impedendole di camminare e perfino di stare in piedi. Non riusciva più ad alzarsi dal letto, e gli altri – Ilona Jó, Dorka e Ficzkó – furono costretti a prendere il suo posto. La andavo a trovare tutti i giorni e le portavo i fiori che mi chiedeva raccogliendoli nei campi e nelle foreste intorno a Varannó. Poi lei li tritava e si preparava delle tisane curative, ma non riuscì mai a trovare il modo di guarire. Le guance le si afflosciarono pesantemente sul mento, come una barca sciolta dagli ormeggi, e ormai muoveva la lingua così lentamente che aveva seri problemi a parlare. Solo i suoi occhi color
dell’inchiostro erano rimasti quelli di sempre, dandomi l’illusione che da un momento all’altro si sarebbe tolta di dosso la sua malattia come un mantello vecchio, solo un altro dei suoi mille travestimenti per mandare il diavolo in confusione. Lei non sapeva la sua età, ma io conoscevo la táltos da più di trent’anni e, secondo me, ormai doveva essere sulla sessantina, la donna più anziana che avessi mai conosciuto. Per settimane mi strinsi le sue vecchie mani nodose al petto, supplicandola di guarire, ma lei si limitava a sorridere e dire che non esisteva cura per la sua malattia. «Tra poco tornerò alla casa del Signore», ripeteva all’infinito, «e non ho paura di ciò che potrà dirmi.» Ogni mattina, quando aprivo gli occhi, temevo che qualcuno venisse a riferirmi che era morta durante la notte, guastando i gioiosi preparativi che stavamo allestendo in quei giorni. La mia felicità non era felicità se non potevo dividerla con Anna Darvulia. Quando fu chiaro che Darvulia non sarebbe più guarita, i problemi con i domestici aumentarono, come il giorno in cui una delle sorelle Sittkey, fatua e frivola come un uccellino, fu colta in flagrante delicto con un giovane stalliere, la gonna alzata fino alle orecchie. Dorka ordinò alle altre servette di portare mazzi di ortiche dai campi e costrinse la piccola Sittkey a sedercisi sopra, tutta nuda, in mezzo alla corte, mentre lei si contorceva e piangeva e gli stallieri la prendevano in giro, compreso il responsabile della sua punizione. Io ricompensai Dorka affidandole il ruolo che un tempo rivestiva Darvulia e ben presto gli altri domestici impararono a rispettarla e temerla allo stesso modo. A Varannó mi occupai dei preparativi del matrimonio ingaggiando più di venti maestri di cerimonia, tra cui un certo Istók Soós, un omone dal collo taurino che aveva l’incarico di spendere i quasi diecimila fiorini che gli avevo affidato in
capponi, selvaggina e pesce, burro, vino e formaggio, arance e cedri da Firenze, ciliegie e datteri dai frutteti delle mie proprietà. Svolse bene il suo lavoro. Ogni giorno arrivavano carrettate di prelibatezze. Vennero artisti dall’Italia per affrescare le pareti della sala con le immagini dello sposo, György Homonnai Drugeth, e del padre della sposa, Ferenc Nádasdy. I tappeti più soffici furono stesi a terra per gli ospiti. L’Ungheria intera era invitata alle nozze. Il re mandò le sue scuse da Praga, com’era ovvio, mentre sarebbero intervenuti sicuramente, da tutte le parti del regno, i Báthory e i Nádasdy, i Drugeth e i Forgách, gli Zrínyi e i Batthyány. E naturalmente non sarebbe mancato György Thurzó, l’uomo che era innamorato di me. Quell’estate avevo quarantasei anni, non potevo più avere figli ed ero vedova da quasi due anni ma, dopo un iniziale rifiuto, cominciavo davvero a prendere in considerazione l’ipotesi di sposarmi con Thurzó, come mi aveva consigliato Ferenc prima di morire. Il suo testamento parlava chiaro: l’eventuale patrigno non avrebbe mai messo le mani sull’eredità destinata al figlio. Dal canto mio, la perdita di status che avrei dovuto sopportare rinunciando a gestire le proprietà dei Nádasdy sarebbe stata bilanciata dalla protezione che mi garantiva il ruolo di moglie di Thurzó. Il suo amore per me sarebbe stato il conforto della mia vecchiaia ed ero ansiosa di rivederlo come un tempo mi accadeva con Ferenc, se non addirittura di più. Il signore della casa – il signore del mio cuore – sarebbe arrivato da un momento all’altro. Di certo il mio amante non era stato abbastanza discreto nelle sue manifestazioni, perché a Sárvár, a Csejthe e a Varannó lo sapevano tutti che io e Thurzó non eravamo semplici amici, e ogni volta che si accennava al suo nome vedevo spuntare sorrisini e sguardi maliziosi. Se davo ordine ai domestici di preparare le stanze per l’arrivo di Thurzó,
si scambiavano subito un’occhiata d’intesa. Se dicevo che aveva in programma di arrivare il tal giorno, le sarte si mettevano a sorridere sul loro pezzo di stoffa e, persino dopo averle minacciate di prenderle a bastonate se si distraevano dal lavoro, il mormorio mi seguiva ovunque andassi. Ogni nostro gesto sarebbe stato notato e i pettegolezzi avrebbero invaso le case dell’intera Ungheria del Nord: tutti avrebbero saputo che la contessa Báthory e il conte Thurzó erano innamorati. Consapevole del fatto che nel regno lui aveva sempre più potere, mi pregustavo già l’idea di presentarmi alla cerimonia al braccio di Thurzó, come un tempo avevo fatto con Ferenc Nádasdy. Da quel momento in poi, i miei nemici mi avrebbero temuto e rispettato, su quello non c’erano dubbi. Trascorsi ore e ore alla toletta, aspettando l’arrivo di Thurzó. Nel gran caldo dell’estate, senza neppure la forza di schiacciarmi una zanzara sul braccio e il sudore che mi colava lungo il collo nonostante i ventaglietti di seta agitati senza sosta dalle mie damigelle, resistevo in piedi come una madonna mentre la sarta imbastiva la stoffa dei nuovi vestiti, tutti sete, velluti e broccati. Ilona Jó e Dorka, in piedi su una sedia, mi cercavano tra i capelli qualche filo grigio da strappare. Dopo tutti quei mesi di lontananza, volevo apparire al meglio per il ritorno di Thurzó e ciò significava niente capelli grigi e niente pelle secca e arrossata. Odiavo il trucco pesante, che mi sembrava il rimedio delle vecchie signore ansiose di accalappiare un marito. Io non ne avevo bisogno, ma le mie damigelle mi portarono creme e unguenti di olio di rosa da spalmare sul viso e sulle mani, profumo di caprifoglio da spruzzare sui capelli e menta per le borse scure sotto gli occhi, causate dall’ansia per quei preparativi così grandiosi e impegnativi. Avevo scarpe nuove di pelle – rosse e gialle – e pantofole di satin e velluto. L’orefice mi aveva realizzato una collana con una grande pietra
verde proveniente dai domini degli Asburgo nel Nuovo Mondo. Thurzó non mi avrebbe visto indossare niente di vecchio: doveva essere tutto nuovo, tutto una sorpresa. Solo alla sposa avrei concesso di essere più bella e più ammirata. Con tutti quei lavori di sartoria – abiti nuovi per me, mia figlia e le damigelle, divise fiammanti per i soldati e i domestici – , Ilona Jó e Dorka furono costrette a perlustrare la campagna in cerca di sartine, e portarono ragazze nuove da Pozsony, da Kassa, carrettate piene di giovanette di campagna. Arrivarono portandosi dietro madri e sorelle, spinte dal vento di necessità che spirava da Varannó. Arrivavano brandendo lettere di raccomandazione che ne esaltavano le capacità e il carattere, il temperamento vivace e l’innata modestia. Assumemmo cuoche e cameriere, lavandaie e ricamatrici a decine, spesso figlie minori di un ramo cadetto della famiglia Báthory o Nádasdy, parenti da ogni angolo del regno. Come sempre, io feci il mio dovere e mi presi cura di loro quasi fossero figlie mie. Le ospitavo e le nutrivo, davo loro bei vestiti e cibo a volontà, nonché la possibilità di istruirsi e fare conoscenze interessanti. Era mio dovere come membro anziano della nobiltà fare da madre alla mia gente. Ben presto i maestri di cerimonia finirono di preparare le stanze per gli ospiti e di far dipingere tutto il castello di bianco, dentro e fuori. Kata era radiosa, sempre indaffarata a provare i vestiti e i gioielli nuovi che avevo ordinato per lei, persino più belli dei miei, e ad accogliere amiche e cugine destinate a diventare le sue damigelle. Sembrava che da un giorno all’altro si fosse trasformata da goffa adolescente in una donna nel fiore della gioventù; le braccia e le gambe un tempo allampanate erano più rotonde, più morbide, più dolci e vellutate, come la peluria sullo stelo di un
fiore, e io avrei voluto premerle contro il naso e tenermi stretto il suo odore per annusarlo nuovamente quando fossi rimasta sola. Al contrario di Anna, che, a suo tempo, sembrava imbarazzata per tutto il trambusto dell’organizzazione del matrimonio, Kata era molto più sorridente del solito e tornava ad abbracciarmi con l’affetto di quando era piccola e io la prendevo dal lettino al mattino presto e la cullavo per ore fra le mie braccia. Alla fine dell’estate cominciarono a presentarsi i primi ospiti. Mia cugina Griseldis, ancora chiusa in convento, mi scrisse una lettera scusandosi per la sua assenza. Del resto come avrebbe fatto a intervenire, scriveva, visto che non aveva carrozza, cavalli, né soldi per il viaggio? Le suore la costringevano a mangiare male come loro, a vivere nelle loro stesse celle fredde, a pulire, cucinare e cucire tutto il giorno come loro. Quanto erano stati ingiusti i vicini e anche i due giovani che avevano sposato le sue figlie maggiori! Quanto era amara la sua vecchiaia! Non accennò quasi all’eccellente matrimonio della mia piccola Kata. Quando le sue figlie giunsero a Varannó in tutto il loro splendore, con le scarpette nuove che sbucavano da sotto gli abiti di satin, la bellezza dorata della madre e la falsità che brillavano sui loro volti, io espressi il mio rammarico per la morte del padre e ricordai quanto la sua amicizia avesse significato per il mio caro marito. Della madre non dissi nulla, salvo che mi auguravo che godesse di buona salute. «Non è mai stata così serena», rispose la figlia maggiore e io mi mostrai felice per le buone notizie. Poi le mandai via con il cameriere, che aveva ordine di alloggiarle nelle stanze più piccole e strette di tutta Varannó. Una modesta vendetta, forse, ma dava comunque una certa soddisfazione. Arrivarono anche le mie amiche: Margit Choron, la contessa Zrínyi e mia cognata Fruzsina Drugeth, nel suo abito
nero di vedova, che si era portata dietro i figli da Ecsed. Le abbracciai tutte, a turno, e le accompagnai nelle belle stanze che avevo riservato loro, felice per il profluvio di lodi che rivolgevano alla mia casa e ai preparativi. Erano nozze, dicevano, che tutto il regno avrebbe invidiato. «E anche tu, Erzsébet», mi disse la contessa Zrínyi, «sembri davvero raggiante. Verrebbe quasi da pensare che sei incinta.» A questa uscita le altre si misero a ridere, perché tutte noi avevamo ormai superato l’età fertile. Ma poi Margit Choron mi lanciò un’occhiata furtiva e disse: «Oppure è innamorata». Seguì un lungo silenzio eloquente, mentre percorrevamo il sentiero verso le stanze degli ospiti. Dietro di me, Fruzsina Drugeth ridacchiava come se fosse anche lei una damigella della sposa. Le mie amiche non ebbero bisogno di chiedermi chi fosse il fortunato. Nessuno me lo chiese mai. Le camere più belle, come sempre, le avevo destinate a te, Pál, visto che stavi per arrivare da Sárvár in compagnia di Imre Megyery e qualche domestico. Radunai nella corte tutta la servitù per darti il benvenuto. I servitori si allinearono su due file, gli uomini da una parte e le donne dall’altra, vestiti eleganti nelle loro divise nuove, mentre io e Kata venimmo a salutarti alla carrozza. Te lo ricordi? Lo sportello si aprì e un ragazzino di otto anni, vestito di rosso, scese sul soffice tappeto che avevo fatto adagiare sul selciato polveroso del cortile. Quanto somigliavi a tuo padre, così serio e formale! Eri anche bello come lui, con la fronte ampia e le sopracciglia scure di Ferenc, mentre da me avevi preso la pelle chiara e la bocca volitiva. Pensavo che ti saresti lanciato fra le mie braccia, come avevi sempre fatto, ma questa volta mi venisti incontro con fare timido, quasi fossi un’estranea. «Grazie per la vostra affettuosa accoglienza, madre»,
e facesti un inchino. Capii subito che era stato Megyery a istruirti, magari durante il viaggio da Sárvár. Un bambino così piccolo e così formale! Quando ti abbracciai per darti un bacio, arrossisti fino alla punta dei capelli, assumendo lo stesso colore del tuo abito. «Tesoro», dissi, «hai un’aria stanca. Ti senti bene?» «Benissimo, grazie», rispondesti con una vocina timida. Tua sorella si chinò su di te per baciarti sulle guance. «Non sarebbe stata una vera festa senza di te, caro fratellino», disse e tu arrossisti ancora, diventasti rosso come il tappeto su cui poggiavi i piedi e ti facesti da parte. Dov’era andato a finire il mio soldatino? Dov’era il ragazzino che saltava in groppa al suo cavallino e giocava alla guerra nel cortile con gli altri bambini? Al suo posto c’era un signorino impettito e spento, un ragazzo timido con le mani candide, più a suo agio con i libri che con la sua stessa famiglia, pallido e tremante proprio come Megyery. Il mio cuore ebbe un sussulto. Alle tue spalle ecco il girino, più vecchio e compiaciuto d’un tempo, i baffi rossi girati all’insù, che sorrideva condiscendente alle mie manifestazioni di affetto materno. Un attimo dopo era davanti a me, che si inchinava e rendeva omaggio alla madre del suo giovane pupillo, dicendo quanto fosse meraviglioso rivedermi e quanto si sentisse onorato per l’invito... tutte bugie a cui non credetti. Megyery si chinò su di te e disse che non dovevi mai dimenticarti di rendere omaggio a una signora, neppure se era tua madre. «Sua madre», replicai, «considera la compagnia del figlio l’omaggio più grande. Non ne servono altri.» «Scusate, signora», replicò il tutore, «non intendevo offendervi. » «Scusate, madre», ripetesti tu, «Megyery non intendeva offendervi. Vuole solo insegnarmi le buone maniere, tutto
qui.» All’improvviso la bilancia del potere pendeva a mio sfavore ed ebbi la spiacevole sensazione che la mia presa su di te, il mio unico figlio, si stesse allentando. Poco più di un anno nelle mani di Imre e mi sembravi già un estraneo: non eri più il ragazzino felice che avevo lasciato a Sárvár dopo la morte di tuo padre. Ferenc aveva commesso il peggiore degli errori scegliendo Megyery come tuo tutore, perché quel girino ti manipolava a sua immagine e somiglianza. Era un errore che avevo intenzione di correggere: Thurzó, a cui Ferenc aveva affidato me e i nostri figli prima di morire, ti avrebbe trovato un tutore migliore dell’anziano Imre. Un uomo più battagliero – meno letterato, più soldato – sarebbe stato molto più adatto del vecchio, noioso, ossequioso Megyery. Decisi che ne avrei parlato a Thurzó non appena fosse arrivato. Se c’era qualcuno che poteva fare di te un uomo, quello era senz’altro György Thurzó. Chinasti nuovamente il capo e – povero tesoro mio! – ti facesti indietro per cedere il passo a Megyery. Neanche fosse tuo padre, invece di Ferenc Nádasdy. Io guardai con odio la schiena del girino mentre si avviava dentro casa. 13. Thurzó si presentò finalmente il giorno dell’equinozio d’autunno, quando la durata del giorno è uguale a quella della notte: un buon segno, mi dissi, per parlare tra uomo e donna. Arrivò a cavallo, seguito da un corteo di carrozze e servitori. Mancavano ancora tre anni alla sua elezione a conte palatino, ma nessuno l’avrebbe mai detto, vista la maestosità delle sue carrozze dipinte d’oro e tappezzate di velluto rosso, il manto nero lucido dei suoi cavalli e il grande onore che gli resi inchinandomi al suo cospetto di fronte a tutta la servitù. Lui ricambiò la cortesia, inchinandosi a sua volta neanche fosse alla corte di re Rodolfo. Quindi mi porse il braccio ed entrammo insieme dentro
casa, mentre i valletti correvano su e giù pieni di bauli e tappeti e sistemavano nelle cucine il cibo e il vino portati in regalo da Bicske. Aveva più servi di un pascià, pensai, guardando i domestici nelle loro stupende livree colorate che si aggiravano per le sale del mio kastély. Solimano in persona non aveva con sé così tanti uomini alle porte di Buda. Quando finalmente ci trovammo un attimo da soli, gli dissi, accarezzandogli il ventre arrotondato: «Se volevi occuparmi la casa da conquistatore, bastava chiederlo». Lui sorrise e mi spostò la mano. «Lo terrò presente», rispose. «Ma per adesso preferisco rimanere in pace. Sono felice di rivederti. Quando hai un momento, vorrei parlarti di una questione della massima importanza.» «C’è qualcosa che non va?» «No, o almeno lo spero.» E così pensava ancora al matrimonio, ne ero certa. Rimasi con lui per accertarmi di persona che le stanze fossero di suo gradimento, aspettando che i domestici ci lasciassero finalmente soli. Ma quel suo valletto impalato con la faccia affilata non la smetteva di chiedergli dove mettere questo o quel baule, come incalzare le coperte del letto, quando portargli un bicchiere di vino. Il valletto ci interruppe così tante volte che io scrollai la testa e dissi a Thurzó che sarei tornata quando fosse stato meno indaffarato. Lui scoppiò a ridere e mi assicurò che sarebbe venuto da me non appena si fosse sistemato. Aspettai per tutto il giorno, fino a tarda sera. Leggevo, scrivevo lettere o cercavo di dedicarmi a un ricamo che intendevo regalare a Kata. Thurzó non mi raggiunse per cena: mi fece sapere che preferiva mangiare da solo nella sua stanza e che ci saremmo incontrati dopo. Mandai Ilona Jó a chiedergli se fosse malato, ma lui rispose che si sentiva benissimo, aveva solo importanti questioni d’affari da risolvere al più presto. E così ricominciai ad aspettare. Aspettai
finché la casa non fu immersa nel silenzio e solo la fiamma della mia candela ardeva nell’oscurità. A mezzanotte passata mi stavo quasi appisolando quando sentii bussare alla porta. Era Thurzó, che sussurrava il mio nome. Aprii tenendomi nascosta e lo feci accomodare. Non aveva portato neppure una candela per passare inosservato, pensai. Stavo per abbracciarlo, ma lui alzò una mano e mi disse che non era venuto a parlare d’amore. «Cosa significa?» chiesi. «György, ti senti bene?» «Benissimo. C’è una faccenda delicata che devo discutere con te, Erzsébet. Un problema con i domestici.» Ancora i domestici. Avrei avuto voglia di mandarli tutti al diavolo e smetterla di pensare a loro, ma mi ricomposi all’istante e mi limitai a chiedere cosa avessero combinato questa volta. Qualcuno era stato scortese con lui? «No, no», rispose, «ma si dice che la tua servitù abbia avuto qualche problema. Soprattutto le domestiche. Megyery ha scritto al conte palatino e gli ha riferito che dopo la morte di Ferenc sono scomparse decine e decine di cameriere a casa tua.» «Ho assunto delle ragazze solo per il ricevimento, questo lo sanno tutti.» «In realtà Magyari dice che le ragazze sono morte. Secondo lui, non c’è famiglia a Csejthe o a Varannó che non abbia perso una figlia assunta alle tue dipendenze. Come faccio a dirti una cosa simile?» Si schiarì la voce e mi guardò dritto negli occhi, con un’espressione indecifrabile. «Dice che sei stata tu a ucciderle, oppure le tue damigelle. E che che le seppellite in segreto, senza funerale.» Feci un passo indietro e incrociai le braccia sul petto, sentendo un brivido lungo la schiena. Cosa aveva in mente di fare Megyery? Voleva farsi dichiarare padrone delle proprietà dei Nádasdy, approfittando dell’enorme influenza che
ora esercitava su mio figlio? Essere interrogata da Thurzó era intollerabile. Quell’uomo, con i lembi della camicia penzolanti e le pantofole ai piedi, che prestava fede ai pettegolezzi più velenosi, non era certo il Thurzó che ero ansiosa di rivedere. «Come puoi dirmi una cosa del genere?» «Voglio sapere se è la verità. Volevo chiedertelo di persona e capire se c’è qualcosa di vero in tutta questa storia.» Io proclamai la mia innocenza. «Ogni tanto le domestiche vanno punite», precisai, «ma non sono certo un’assassina. Anche tu hai una casa da gestire, György, e lo sai bene quant’è difficile mantenere l’ordine quando rubano o rimangono incinte, creando scompiglio ovunque. Ogni tanto vanno picchiate, è un mio diritto. Non esiste nobildonna che non picchi i servi quando se lo meritano, e nessuno le giudica per questo. Ma addirittura pensare che io possa arrivare a uccidere con le mie stesse mani? Come puoi credere a una simile calunnia?» «Megyery sta alzando un gran polverone, Erzsébet, volevo solo avvisarti. La gente parla.» «Allora lasciamoli parlare», replicai abbracciandolo, perché per me la discussione era chiusa. «L’unica cosa che mi interessa è se anche tu ci credi. Ci credi davvero? Ti sembra possibile che io sia un’assassina?» Attesi a lungo che si chinasse su di me e mi baciasse, come faceva un tempo. Avrei premuto le mie labbra sulle borse sotto i suoi occhi e sussurrato tutto l’amore che provavo per lui, come più di un anno prima. Gli avrei ricordato come stavamo bene insieme e come avremmo potuto ancora star bene. «Vieni a letto. È passato troppo tempo dall’ultima volta.» Ma lui si divincolò dal mio abbraccio e fece un passo indietro, tenendomi strette le mani. «Non sai quanto mi piacerebbe, ma ho ancora molte lettere da scrivere prima di domani, e importanti questioni da risolvere», mi disse
guardando altrove, verso la porta. «Spero che da adesso in poi tu stia più attenta. Se ci saranno altri problemi, non potrò fare nulla per proteggerti», concluse lasciandomi le mani e uscendo dopo essersi assicurato che in corridoio non ci fosse nessuno. Io rimasi lì a imprecare contro Imre Megyery, il conte palatino e lo stesso Thurzó, che aveva osato interrogarmi come un testimone a un processo per omicidio. «Non potrò fare nulla per proteggerti», così aveva detto. Oppure era: «Non ti proteggerò»? A questo punto, non ne sono più tanto sicura. 14. Il giorno fissato per il matrimonio scoppiò un temporale improvviso con tanto di tuoni e vento, che trasformò il cortile polveroso in un’immensa pozzanghera di fango e fieno. Le finestre della camera di Kata erano rimaste aperte, e la pioggia inzuppò l’abito da sposa. Il blu dei fiordalisi lasciò una grande macchia scura sulla seta. Dorka portò in lavanderia la servetta colpevole di aver lasciato la finestra aperta e la picchiò duramente, dieci o dodici colpi di bastone, finché non le lasciò la schiena blu e verde. Quindi, ricordando l’ammonimento di Thurzó, le ordinai di tenerla nascosta nei sotterranei finché gli ospiti non fossero ripartiti. L’abito ormai era rovinato. Decidemmo di rimandare il matrimonio di un giorno, sperando che il tempo migliorasse. Le sarte furono rimesse al lavoro e si affannarono a più non posso, fino a notte fonda, per confezionare un abito nuovo, tutto pizzo di Bruxelles e seta veneziana. Come trentun anni prima, in occasione del mio matrimonio, i contadini e i mercanti dei villaggi del Nord del regno si erano radunati nei campi fuori dalle mura di Varannó senza badare al brutto tempo. Si misero a bere e cantare alla luce del fuoco come avrebbero fatto a casa loro, davanti al camino. I maestri di cerimonia fecero portare fuori maiali e
manzi da arrostire all’aperto e botti di vino economico ma abbondante; ogni poco si sentiva brindare alla salute delle famiglie Nádasdy, Drugeth o Báthory. La gente aveva una gran voglia di riconoscere qualche viso delle nobili famiglie ungheresi, i guerrieri e gli statisti famosi in tutto il regno. Dalla mia finestra vedevo le luci dei loro fuochi e delle loro torce come un sentiero di stelle dorate. Da qualche parte, laggiù, la dolce voce squillante di un ragazzo trafiggeva la fredda cortina di pioggia: «Júlia è i miei occhi, / il mio fuoco inestinguibile, / il mio amore infinito ...». «Balassi», sussurrai. «Quel vecchio farabutto. Era con mio zio quando fu incoronato re di Polonia.» «Bella», disse Kata, seduta vicino a sua zia Fruzsina Drugeth, che le intrecciava i capelli. «Ma chi è Júlia?» «Siamo tutte Júlia», risposi. «O almeno ci meriteremmo di esserlo, almeno una volta nella vita.» La gente cominciò a gridare che voleva vedere la sposa, e così mandai Kata alla finestra a salutare e lanciare baci: ci fu un’immediata esplosione di gioia ed entusiasmo. Kata disse che non riusciva a capire perché ci tenessero tanto a vedere una ragazza che sta per sposarsi, cosa sperassero di ottenere. «Vogliono vedere un lampo di divinità in terra», risposi. «E oggi tocca a te. Ti conviene soddisfarli finché dura, perché domani sarà il turno di qualcun’altra.» La esortai a uscire di nuovo a salutare e dall’esterno giungevano grida di gioia in tutta la vallata; Kata arrossì di piacere quasi fosse la Vergine nel giorno dell’Annunciazione. Dentro casa c’era una gran baldoria. Gli uomini avevano approfittato del brutto tempo per ubriacarsi, mentre lo sposo e i suoi amici stavano alzati fino a notte fonda, bevendo il Tokaj portato in regalo da Thurzó. Li sentivo cantare nella sala – non le romantiche melodie di Balassi, bensì antiche canzoni di guerra –, e mi sembrava quasi di vederli
prendersi sottobraccio e raccontarsi storielle, mentre il giorno dopo i camerieri avrebbero fatto una gran fatica a svegliarli per la cerimonia. Le dame si riunirono per guardare i regali di nozze, le coppe d’argento e d’oro, i tappeti, i dipinti. Alle mie amiche diedi in dono tessuti o gioielli. Quelle più sincere mi presero sottobraccio e mi fecero i loro più sentiti complimenti, ma fra le altre dame vedevo qua e là visi gelosi: una donna più anziana con una figlia zitella o un parente povero dell’Est che se la passava male. Credevano anche loro a quelle storie su di me, delle ragazze morte e delle sepolture segrete? Si sarebbero rivoltate contro di me quando fosse giunta l’ora, godendo della mia disgrazia, ma in quel momento vedevo solo la loro invidia per la mia buona sorte. Le proprietà più grandi del regno. Due figlie sposate e mio figlio quasi adulto. Quanto sono arrivata vicino, in quegli attimi, alla felicità. A un certo punto, quella notte – te lo ricordi, Pál? –, entrasti piano piano nella mia stanza perché non riuscivi a dormire e mi chiedesti se potevi andare di sotto con gli altri uomini. «Non ancora, amore mio», ti risposi, «sei troppo piccolo.» Sembravi così deluso che ebbi la tentazione di accontentarti. «Ma io sono il conte Nádasdy adesso, no?» ribattesti. «Non ancora. Presto sarai un uomo, e allora saranno gli altri a venire da te. Sarai un grande guerriero come tuo padre, o un grande statista come tuo zio Thurzó e tuo nonno, il conte palatino. Ma per adesso devi avere pazienza.» «Forse sarò entrambe le cose», replicasti, unendo le sopracciglia nere a formare un’unica linea scura. «Un grande guerriero e un grande statista.» Io sorrisi e ti baciai sulla testa, in quel punto dolcissimo su cui le ossa si erano richiuse ormai da tanto. «A tuo padre piacerebbe molto.»
Thurzó non venne a bussare alla mia porta. Aveva cercato spesso di parlarmi a cena o davanti al fuoco, ma arrivava sempre qualcuno a interromperci, un domestico con qualche richiesta, un amico con qualche novità. Thurzó sorrideva, ma aveva un colorito grigiastro e l’aspetto malato, ne ero certa. Pensando che soffrisse di stomaco, quel pomeriggio gli mandai la nuova esperta di erbe, ma lui la rimandò indietro dicendo che si sentiva benissimo. Una bugia. Qualcosa lo preoccupava. Il giorno dopo era limpido e freddo, con un cielo azzurro e qualche nuvola chiara che passava senza lasciar cadere una goccia. Soffiava un forte vento freddo, proprio come il giorno del mio matrimonio, e i gonfaloni svolazzavano, ma come per volere divino il vento cessò non appena Kata scese nella corte con le sue damigelle, tutte vestite di seta gialla come un mazzetto di ranuncoli. L’abito di Kata era rivestito di perle luccicanti, alcune grandi come uova d’anatra, e il pizzo era così fine da aver procurato i crampi alle cucitrici. Nessuno avrebbe saputo che fino al giorno prima doveva indossare un altro abito. La sua boccuccia di rosa si aprì in un sorriso quando il corteo dello sposo si fermò a salutare e il giovane Drugeth, con un mantello di velluto blu e i calzoni neri, la prese per mano sul tappeto rosso e annunciò: «Ecco la sposa», facendola arrossire di piacere. Poi la musica trionfale riprese e lo scapolo più ambito d’Ungheria condusse mia figlia all’altare. Dietro di lei, tu mi accompagnasti dentro. Anziché l’abito nero con il velo a lutto, io indossavo un vestito tutto rosso, rosso come il tappeto, mentre le ultime luci della sera si riflettevano sulle pareti. Tu diventasti paonazzo e mi dicesti che non ero mai stata così bella. Quanto sei stato dolce a pensare a tua madre in un momento simile! Fortunata la donna che ti sposerà, perché da come un uomo tratta la madre si capisce come tratterà la moglie, e tu eri – sei tuttora
– il figlio migliore che una madre possa desiderare. Facemmo il nostro ingresso a passi lenti, con la massima dignità, anche se sentivo che ti dimenavi e mi tiravi per il braccio. Ti sussurrai che un gentiluomo non va mai di fretta, ma il suo incedere deve essere lento e posato, soprattutto in occasioni così importanti. «Tieni su il mento», ti dissi. «Un gentiluomo non guarda mai a terra, ma negli occhi dei suoi pari. Tuo padre non ha mai guardato a terra in vita sua.» «E se poi inciampo nel tappeto?» replicasti. «Non sarebbe ancora peggio che guardare a terra?» «Allora sta’ attento a dove metti i piedi», risposi. «Adesso fa’ il bravo.» Attaccò una musica maestosa, le dolci note di un liuto suonate da un italiano con un cappello piumato, e un ragazzino di dodici o tredici anni con una voce acuta come quella di un tordo cantò le promesse di un nuovo amore. Osservai attentamente la folla presente, cercando Thurzó, ma non lo vidi tra le centinaia di dignitari nella sala meravigliosamente affrescata, dove i raggi di luce filtravano dalle finestre come le dita di Dio. Nella prima fila vidi tua sorella Anna con il marito, Miklós Zrínyi; lei nascondeva il ventre prominente della gravidanza sotto i vestiti. Il posto che avevo tenuto per Thurzó, proprio accanto a me, era vuoto. Il pastore cominciò a officiare e, senza perdere di vista Kata e la felicità che le si leggeva in viso, rivolsi uno sguardo agli invitati, con i posti assegnati in ordine di nobiltà. Avevano tutti superato sé stessi in eleganza, sfoggiando i colori più vivaci e le decorazioni più raffinate, argento, oro, perle. Avevo già visto i loro visi in altri matrimoni, altri festeggiamenti, riunioni della dieta di Pozsony, balli a Bécs, ma ogni tanto c’era qualcuno che faticavo a riconoscere. Un cugino, per esempio, acquisito o di sangue. Un figlio o una figlia ormai cresciuti. C’erano i Révay, i Forgách, i
Rákóczi. Mia cognata Fruzsina Drugeth era seduta accanto alla figlia adottiva, mia nipote e cugina Anna Báthory, e suo fratello Gábor, ormai quasi un uomo, biondo e bello, con il tipico naso lungo e largo dei Báthory e gli occhi lontani. Ecco Erzsébet Czobor, cugina dei Nádasdy, in piedi accanto all’affresco che ritraeva il mio Ferenc a cavallo, circondato di luce, slanciarsi contro i turchi. Feci fatica a riconoscerla. Era una ragazzina pallida e malaticcia quando due inverni prima aveva assistito con la madre al funerale di Ferenc, e si diceva che fosse guarita di recente da una lunga malattia. Problemi con un uomo, dicevano i pettegolezzi, un rampollo di nobile famiglia che le aveva preferito una ragazza più ricca. Dicevano anche che il giovane Drugeth le avesse fatto la corte finché non aveva saputo quanto fosse modesta la sua dote. E adesso eccola lì, con le gote rosate, un abito color caprifoglio, in piedi accanto a un gentiluomo di mezz’età che le porgeva il braccio. Un gentiluomo alto con una barba lunga e due profonde borse sotto gli occhi, un mantello blu e i calzoni marroni, il viso non bello acceso da chissà quale segreto piacere. György Thurzó in persona. La sala divenne buia, come se una nuvola avesse oscurato il sole. Io ti strinsi il braccio un po’ troppo forte e tu mi guardasti sorpreso chiedendomi se mi sentivo bene. «Benissimo», risposi. Non potevo certo svenire in quel momento, davanti a tutti i miei ospiti. Di fronte a Thurzó, che adesso all’improvviso guardava verso di me. Maledetto. Lo sapeva che non avrei mai fatto una scenata di fronte ai miei invitati, al matrimonio di mia figlia. Da quanto stava programmando quella sorpresa? Quante volte nelle mie lettere gli avevo parlato d’amore, supplicandolo di tornare, mentre lui aspettava solo il momento più adatto per mettermi da parte.
Tornai a girarmi verso gli sposi, ma vedevo tutto scuro, come all’interno di una caverna. La voce del pastore era un ronzio monotono e fuori il vento faceva sbattere un’imposta contro il muro quasi fosse uno sparo. Avevo le mani fredde e non sentivo nulla, neppure il tuo braccino caldo che cercava di sorreggermi. Sulla parete opposta, Thurzó abbozzava un’aria colpevole: occhi imploranti, spalle immobili come se venisse rimproverato dal suo signore asburgico, anziché umiliare lui stesso la vedova del suo amico più caro. Che facesse pure finta di essere dispiaciuto era davvero troppo. Guardai subito altrove. Accanto a me, mio nipote mi afferrò l’altro braccio. «Non vi sentite bene, zia?» chiese Gábor. «Posso portarvi qualcosa? Qui, sedetevi sul cuscino prima di cadere.» «No», ribattei allontanando la sua mano. Gli occhi di Kata incrociarono i miei per un istante, stupiti, allarmati. Non avrebbe dovuto guardarmi. Si girarono tutti per capire cosa l’avesse distratta e un mormorio cominciò a farsi strada tra la folla. Più forte, adesso. Ancora più forte. «Adesso sto bene, grazie», sussurrai sforzandomi di sorridere. «Ho solo perso l’equilibrio. Tutta colpa di questi tappeti.» Nel frattempo riuscii a liberarmi di Gábor, che voleva a tutti i costi farmi sedere. «Come state, madre?» chiedesti. Quando ti guardai, notai che eri pallidissimo. «Va tutto bene, tesoro. Grazie. Sei un ometto ormai e tuo padre sarebbe orgoglioso di te.» Il tuo braccio si strinse al mio e io cercai di raddrizzare la schiena. Come Icaro, anch’io venivo risucchiata nei flutti davanti a una folla di persone – una barca a vela, un contadino, un pastore –, ma nessuno sembrava farci caso. 15. Non avevo visto male alla cerimonia: parlavano tutti di un prossimo matrimonio tra Thurzó ed Erzsébet Czobor. Il
fidanzamento era stato celebrato il mese prima, dopo che Thurzó si era fermato diversi giorni a casa Czobor durante i suoi viaggi estivi. La madre aveva incaricato la ragazza di fare da padrona di casa, servendo personalmente Thurzó e suonando il liuto per lui durante le gite in barca lungo il fiume. Non erano passati neanche tre giorni che Thurzó aveva già chiesto la sua mano. A quanto pare, aveva raccontato al suo amico Batthyány che era così ansioso di sposarsi che aveva pregato la famiglia della ragazza di ridurre i tempi del consueto periodo di fidanzamento. La dote che i genitori avevano messo da parte importava ben poco a un uomo che era già stato sposato, era rimasto vedovo e aveva una fortuna e una carriera politica assicurate. Una seconda moglie, per di più così giovane, gli avrebbe dato altri figli. Una benedizione per la sua vecchiaia, diceva la gente. Feci uscire dalla mia stanza le damigelle, le figlie e le amiche, tutte con un sorrisino stampato agli angoli della bocca, per avere il tempo di pensare in pace, senza gli occhi della gente puntati addosso. Solo di fronte a Darvulia potevo concedermi il lusso di essere me stessa, così andai a trovare la mia amica, irrompendo nella sua cameretta accanto alla cucina con tale foga che la svegliai di soprassalto. Si sentiva odore di carne arrostita e delle erbe che teneva chiuse dentro una fila di boccette di vetro sul davanzale. Darvulia si mise seduta sul letto nella sua camicina da notte bianca quando le raccontai cos’era accaduto durante il matrimonio, come fossi stata scalzata nel cuore di Thurzó da una semplice ragazzina, senza seno, senza istruzione e con pochi soldi. Mi scagliai contro la vigliaccheria di Thurzó, che aveva avuto il coraggio di presentarsi al matrimonio di mia figlia con la sua nuova fidanzata senza prima avermi avvertito che i suoi sentimenti erano mutati per sempre. Tutto ciò che quell’uomo mi aveva detto – tutte le promesse
che ci eravamo scambiati – erano solo bugie. «Sono diventata lo zimbello di tutti», conclusi. «Mi prenderanno in giro per questa storia.» Darvulia aveva un’aria stanca, ma mi strinse le mani tra le sue e me le accarezzò finché non mi fui calmata. La vista aveva ormai quasi abbandonato del tutto i suoi occhi, diventati d’un colore blu-verde torbido come la superficie del lago Balaton, eppure si sforzava di guardarmi fisso. Non avrei dovuto affaticarla con i miei crucci, ma non potevo farne a meno. Chi altri sapeva cosa significasse davvero per me Thurzó? «Sarete lo zimbello di tutti se vi interessa quello che fa», mi rispose. «A voi interessa?» Trassi un sospiro. «Pensavo di sì. Mi interessava. Fino a stamattina avrei dato qualsiasi cosa per stare con lui. Adesso preferirei dormire insieme al grasso Rodolfo in persona.» «Allora è perfetto, siete soddisfatti tutti e due.» La mia bocca si aprì in un piccolo sorriso, dal sapore amaro. «Più soddisfatta di quando stavo con lui, se non altro.» La mia vecchia amica scoppiò a ridere, e io scrollai la testa per la mia stessa sfacciataggine. A Darvulia potevo dire davvero tutto. Stava morendo – ne ero certa adesso, mi sembrava così fragile e delicata – e sapevo che avrei dovuto lasciarla riposare, eppure mai prima d’allora avevo avuto così tanto bisogno di lei, mai. Nessun altro doveva sapere l’amarezza che stavo provando. «Lavatevi il viso, signora, su. L’acqua fresca vi farà sgonfiare gli occhi e svanire il rossore dalle guance.» Come facesse a intuire che avevo gli occhi gonfi e le guance rosse, non saprei dirlo. «Poi scendete e intrattenete i vostri ospiti. Fate finta di essere felice. Non mostrate a lui e a nessun altro quanto vi sta facendo soffrire o diventerete davvero lo zimbello di tutti.»
Come al solito, Darvulia aveva ragione. Mi sciacquai il viso nel catino, guardandomi allo specchio e cercando di esibire un’aria tranquilla. «Andate», mi disse. «Godetevi i vostri ospiti, e quando la festa sarà finita tornate qui da me e raccontatemi tutto, parola per parola. Vi sentirete meglio dopo, ve lo prometto.» Era la sua benedizione. Io l’abbracciai e uscii dalla stanza. I domestici si affaccendavano su e giù con vassoi di pane e burro fresco e brocche in vetro soffiato di Venezia piene di vino. Un grande fuoco ardeva in un angolo della sala e c’era così tanto rumore che quasi non si riusciva a sentire cosa diceva la persona accanto. Eppure, nel preciso istante in cui feci la mia comparsa, tutti gli sguardi si puntarono su di me e la conversazione si smorzò, come se la stanza stesse trattenendo il fiato per vedere che mossa avrei fatto. Thurzó si avvicinò a me per parlarmi, lasciando da parte, quasi ridicole, la ragazzina con cui si era fidanzato e sua madre. «Erzsébet», cominciò, «lascia che ti spieghi.» «Non c’è niente da spiegare. Dove sono finite le tue buone maniere, György? Perché non mi presenti la tua adorabile fidanzata?» E subito dopo, davanti a tutti, mi avvicinai a Erzsébet Czobor e alla madre. Se Thurzó era stato così perfido da mentirmi per tutto quel tempo, io non sarei stata da meno. Presi il viso di quella sempliciotta fra le mani e lo baciai su tutt’e due le guance. Volevo mostrare a tutti quanto sapevo essere cortese e comprensiva. «È davvero la gemma d’Ungheria, Thurzó. Siete un uomo fortunato.» La madre della ragazza ricambiò i miei baci come una sorella ed elogiò l’organizzazione del matrimonio. «Di certo non sarà facile eguagliarvi quando la mia piccola sposerà il nostro caro Thurzó», disse. «Non ho mai visto una festa così vivace, sembra di essere nella reggia degli Asburgo.» Che strega. Lo sapeva benissimo che Thurzó era stato
innamorato di me, e sapeva anche che mi aveva lasciato per sposare sua figlia. Adesso, all’apice del trionfo, quella donna aveva l’ardire di porgermi i suoi complimenti da quattro soldi come un ramoscello d’olivo. «È vero, nessuno può eguagliare la contessa Báthory in cortesia e ospitalità», ribatté Thurzó. «In tutto il regno non esiste padrona di casa che le sia pari. Dovreste mandare vostra figlia a casa sua qualche tempo per fare la sua conoscenza. Chi meglio della contessa potrebbe insegnarle l’arte di amministrare una casa?» Mi sforzai di sorridere al complimento, come se mi facesse piacere, e per un istante mi chiesi se fosse davvero convinto che avrei potuto essere una brava maestra, persino un’amica, per la sua ottusa sposa bambina. «Lo fareste davvero, signora?» chiese quella donna odiosa. «Ve ne sarei così grata.» Avrei preferito ucciderla con le mie stesse mani piuttosto che diventarle amica. Invece mi limitai a dire: «Ma certo, mandatemela pure quando volete. C’è sempre bisogno di damigelle che sappiano cantare, suonare, danzare e intrattenerci durante i lunghi mesi invernali. Mandatela a Sárvár e l’accoglierò sotto la mia ala, almeno fino al giorno del matrimonio. Ho sentito dire che sarà anticipato, ma dovremmo fare ancora in tempo a istruire la piccola e presentarle altre fanciulle del suo rango». «Vi saremmo entrambi enormemente riconoscenti», riprese Thurzó ignorando la mia allusione al rango della fanciulla. Mi prese la mano e fece per baciarla. Io rimasi immobile e accettai il suo ringraziamento. Mi sentivo addosso gli occhi di tutti. La sala era un mare di musica e luce, mentre le coppie danzavano sulle note del liuto e della chitarra che accompagnavano la voce acuta del cantante italiano; ovunque si diffondeva l’odore del manzo e del tacchino
arrosto, tra l’ebbrezza del vino migliore. Tutto mi ruotava attorno, ma io avevo lo sguardo così perso nel vuoto che al massimo riuscivo a vedere le cuciture sulla giacca di Thurzó. Come sempre, ero il ritratto della cortesia, della nobiltà e dell’onore, del dovere e dell’abnegazione, mentre venivo risucchiata nei flutti dimenando le gambe. All’improvviso fummo interrotti dal maestro di cerimonia, Istók Soós, che richiamò la mia attenzione con un cenno del capo. Gli ero così grata che gli avrei buttato le braccia al collo e sarei scoppiata a piangere. Invece lo seguii in un angolo e lui mi riferì che eravamo a corto di domestiche per la cena perché due ragazze si erano ammalate proprio quel giorno. «In che senso, ammalate?» mi informai. «Dorka ha deciso che andavano punite», rispose il maggiordomo, «ma le ha picchiate tanto che non si reggono più in piedi, nessuna delle due.» «Dovrebbe saperlo. Devono riuscire ancora a lavorare dopo la punizione. Sta eccedendo.» «Non abbiamo ancora risolto la questione della cena. Ci sono due tavoli senza cameriere. Su suggerimento di Dorka, ho chiesto alle signorine Modl e Sittkey, ma la signorina Modl mi ha risposto che non poteva servire al tavolo dato che è una donna sposata. Dorka sostiene che se fosse vero sarebbe una bella novità e vi prega di andare nel cortile della cucina per parlare di persona con la signorina Modl.» Adesso Dorka stava davvero esagerando se pretendeva che andassi a discutere con una domestica il giorno del matrimonio di mia figlia. Stava diventando un po’ troppo presuntuosa e anche se era un valido aiuto non doveva mai dimenticare che la padrona ero io, e non Dorottya Szentes. «Seguimi», ordinai a Istók e ci recammo insieme sul retro
del castello. I cuochi stavano arrostendo un grosso bue sulla brace e i domestici che avevano finito di lavorare si erano riuniti a bere, in attesa che la cuoca servisse le fette di carne. Anche i paggi si erano radunati nel cortile, e le sartine e le cameriere, libere dagli impegni della sera, si divertivano a ballare e flirtare con i domestici dei grandi signori. C’erano zingari anziani che suonavano, e l’odore della carne che cuoceva sulla carbonella, misto al fumo e al sudore, mi faceva girare la testa. Dei fasci di legna erano ammucchiati accanto alla brace, mentre la cuoca ordinava di aggiungere altri ceppi per ravvivare il fuoco. Si levò un brusio quando attraversai il cortile e mi diressi verso Gizela Modl, che se ne stava seduta su una panchina a chiacchierare tranquilla con un’altra domestica, ridendo come se nulla fosse e bevendo un bicchiere di vino dopo l’altro. «Signorina Modl, signorina Sittkey», le chiamai, «sono felice che siate qui. Mi servono due ragazze per servire ai tavoli stasera, dato che Eva e Arda non si sentono bene. Voi due potete sostituirle.» Gizela sembrava stupita di vedermi. «Non posso, signora, l’ho già detto anche al maggiordomo.» Non solo stava bevendo, ma era anche ubriaca. Anzi, ubriaca fradicia, tanto che le parole le uscivano biascicate e faticavo a capirne il significato. «E perché mai?» «Solo le ragazze servono ai tavoli.» «E tu non sei una ragazza?» «No, signora, io ho un figlio.» «E da quando hai un figlio?» chiesi. «È la prima volta che ne sento parlare.» «Non me l’avete mai chiesto.» «Quanti anni ha tuo figlio? Come si chiama?» «Ha tre anni, signora. Si chiama Ferenc.» «Capisco.»
«Come suo padre.» «Dov’è suo padre adesso?» «È morto un paio di anni fa.» Sul cortile calarono le tenebre nonostante le fiamme che lambivano la carcassa del bue, mentre il fetore del sangue impregnava l’aria attorno a noi. Non mi piacevano quelle allusioni, così la presi a schiaffi in pieno viso. Lei si coprì, ma i suoi occhi lanciavano scintille. «Servirai a tavola stasera», ripetei, «e basta.» «No, non lo farò.» Barcollò per un attimo, poi ritrovò l’equilibrio. Nel cortile non si sentiva volare una mosca. La musica si era spenta, e i boccali di vino erano fermi tra le mani dei servi, dei paggi, dei cuochi e delle cameriere che solo un attimo prima brindavano alla salute di mia figlia e adesso fissavano Gizela Modl mentre osava sfidarmi. Bevevano il mio vino, mangiavano la mia carne e non vedevano l’ora di farsi beffe di me. Non l’avrei mai permesso. Mai. Il maggiordomo era alle mie spalle. «Molto bene», dissi. «Prendi quel tronco», gli ordinai indicando il fascio di legna. Il maggiordomo mi obbedì e prese un tronco lungo quasi quanto una coscia. «Adesso dallo alla ragazza.» «Scusate?» «Da’ il tronco alla signorina Modl, Istók.» Il maggiordomo porse il tronco alla ragazza. Lei non ebbe il coraggio di rifiutarlo, dopo aver rifiutato totalmente di obbedirmi, ma era pesante, e fu costretta a usare tutt’e due le braccia per reggerlo. «Che cosa ci devo fare?» mi chiese. «Visto che sei una madre, vediamo cosa sai fare. Questo è tuo figlio, mia cara. Cosa si fa con un bambino non ancora svezzato?» Allora la ragazza spalancò gli occhi, intuendo quello che volevo. «Voi siete pazza», disse.
«Fallo», ripetei, «o dirò a Dorka di portarti in lavanderia, così imparerai cosa significa obbedire.» La ragazza spalancò gli occhi ancora di più, socchiuse la bocca come per parlare, ma non disse nulla. Un’ombra le attraversò il viso, l’ombra della sottomissione di chi si sente umiliato. Era in mio potere, per il bene di suo figlio e di sé stessa, per sua madre e la sua famiglia, che non potevano permettersi di mantenerla, ma sapeva bene che gli uomini avrebbero cominciato a guardarla e a prenderla in giro, mentre i ragazzini le avrebbero lanciato le pietre non appena avesse tirato fuori un seno per porgerlo al tronco. Se temeva di perdere la sua dignità servendo a tavola, l’avrebbe persa del tutto allattando quel tronco come fosse un bambino. «Su, fallo», dissi ancora, «e magari ti permetterò di rimanere qui a casa mia con tuo figlio. Se invece ti rifiuti, dovrai trovarti qualcun altro disposto a sopportare ogni mattina la tua insolenza.» Alla fine la ragazza si rassegnò e con mani tremanti cominciò a sbottonarsi il vestito. Aveva i capezzoli scuri di chi ha davvero partorito un figlio, ma la pelle era chiarissima, e facevo una gran fatica a non immaginare Ferenc che sprofondava il viso nel suo seno morbido, come di sicuro aveva fatto più di una notte mentre io dormivo a qualche porta di distanza. Aveva sempre avuto un debole per le domestiche, le più graziose, le più semplici e ignoranti. La giovane Modl si portò il tronco al seno, cullandolo tra le braccia quasi fosse un vero neonato. La sua espressione cambiava come il tempo, ora infuriata ora umiliata, e io attesi finché non riconobbi nei suoi occhi un odio tale per me che non le avrebbe consentito di tacere un attimo dopo che gli ospiti fossero partiti. Avrebbe maledetto me e ogni altra cosa. Mi avrebbe chiamato in ogni possibile modo e io sarei stata costretta a farle capire quanto poco valesse.
Non era il tipo di ragazza che impara la lezione e se la ricorda per la vita. Mi avrebbe costretto a picchiarla finché non si fosse più retta in piedi. Le avrei strappato l’arroganza di dosso con le mie stesse mani. Ma per adesso continuava ad allattare il suo tronco. Gli uomini avevano già cominciato a ridere e a prenderla in giro. Io attraversai il cortile e mi fermai a parlare con il maggiordomo. «Accertati che non si copra quando non ci sono», mi raccomandai. «No, signora, non mi sognerei mai di permetterglielo.» Chinò il capo, ma un lieve sorriso gli si dipinse in viso mentre guardava la giovane Modl subire la sua punizione. Gli piaceva. Lo spettacolo, oppure l’umiliazione della ragazza. O magari entrambe le cose. Aveva la bocca sensuale, le labbra rosse e carnose su cui passava la lingua, una volta, un’altra ancora. Quando vide che lo stavo guardando, chinò la testa con aria sottomessa. Era un uomo di poche parole, al contrario di Thurzó, al contrario di molti altri uomini che avevo conosciuto in vita mia e dipendevano interamente dalla mia benevolenza. Capii che stava soppesando la mia benevolenza in quel momento, e un attimo dopo trovò il coraggio di sorridermi, un sorriso sfrontato e impudico. Se non l’avevo mai guardato era solo perché qualcun altro occupava i miei pensieri. Ma Istók Soós poteva essere il tipo d’uomo che avevo sempre cercato. Un servitore poteva essere un validissimo amante: uno che fosse pronto al mio volere quando lo desideravo e stesse al suo posto quand’era opportuno. Non era Thurzó. Non avrebbe osato mettermi da parte per una ragazzina con il fondoschiena sodo e senza istruzione. «Comincio a pensare che tu sia un uomo di valore, Istók. Vieni a trovarmi più tardi e parleremo.» «Sì, signora», rispose sorridendo con lo sguardo basso.
Cercai di godermi il resto della serata, ma quando tornai nella stanzetta accanto alla cucina mi resi conto che Darvulia se n’era andata. Aveva preso poche cose con sé, un minuscolo fagotto di vestiti, qualche boccetta di erbe, una mantellina rossa che le avevo regalato io. Ma il suo letto era vuoto. Non mi aveva lasciato neppure un messaggio per dirmi dov’era andata o in che modo pensasse di trovare la strada, cieca com’era. Allora mi precipitai da Ilona Jó e le chiesi se avesse visto la mia cara amica. «Ha detto che voleva andarsene da sola, signora», mi rispose la vecchia balia, coprendosi il viso per paura che la picchiassi. «Ha detto di non cercarla, perché tanto non la troverete. Ho ribattuto che vi sareste arrabbiata, le ho detto: “La signora si arrabbierà, Darvulia”, ma lo sapete com’è fatta.» Sì, lo sapevo com’era fatta Darvulia. La mia morte, avrebbe spiegato, riguarda solo me. Un modo saggio di lasciare questo mondo, ho pensato allora, e adesso ne sono più convinta che mai. Se fossi stata anch’io così furba, saremmo potute andar via insieme, io e Darvulia, e vivere la nostra vita finché eravamo ancora libere di sceglierla. 16. 31 dicembre 1613 L’inverno mi sovrasta una volta ancora e una volta ancora il freddo è così intenso che mi penetra nelle ossa. Sono tre anni che vivo rinchiusa in questa torre, tre anni di solitudine e degrado, e stamattina – come tante altre volte – ho sentito la voce esitante di Ponikenus al di là della fessura, quel misto di ungherese, latino e slovacco con cui cerca di parlarmi. Il pastore di Csejthe dev’essere convinto che queste visite facciano parte del suo dovere cristiano, perché altrimenti non avrebbe mai il coraggio di mostrarsi al mio cospetto. In realtà quell’uomo si chiama Jan Ponicky, ma ha
cambiato nome in Ponikenus per darsi più importanza. Questa volta non è venuto da solo, ma ha portato con sé un altro confratello da Lešetice per assistere a quello che senza dubbio doveva essere uno spettacolo gustosissimo per entrambi: la contessa Báthory in gabbia. Cosa potesse volere quel nuovo visitatore era un vero mistero, a meno che non si trattasse della mia anima immortale. Hanno sistemato le loro sedie di fronte alla fessura in modo che potessi vederli in faccia e in un ungherese stentato e dal forte accento mi hanno chiesto notizie della mia salute, dato che avevano saputo che ero malata. Quando ho risposto che mi sentivo benissimo, hanno cominciato a esclamare che era un piacere e un onore per loro mettersi al mio servizio nella torre. Io sono scoppiata a ridere e ho detto che potevano dirlo forte, visto che era tutta colpa loro se ero chiusa là dentro. «Mia signora», si è schermito Ponikenus, ponendosi – oh, con quale devozione! – la mano sul cuore, «non dovete pensare che io abbia voluto in qualche modo farvi del male.» «Non siamo mai stati amici, Ponicky, ammettiamolo. Di sicuro avete spifferato al conte palatino un mucchio di bugie.» Il reverendo ha risposto che non era affatto vero e che aveva sempre nutrito la massima stima nei miei confronti. Sapevo benissimo che voleva solo vantarsi di potermi essere utile in questo momento di difficoltà, come se mi servisse l’aiuto di gente come lui. Il visitatore da Lešetice – un tirapiedi di Thurzó, ci scommetterei – ha confermato che neanche lui provava alcun astio verso di me, anzi, aveva sentito parlare della grandezza della vedova Nádasdy e desiderava mettersi a mia disposizione nell’ora del bisogno. Teneva le mani strette al suo abito, pizzicando la stoffa come le corde di un liuto. Allora mi ha colto una stanchezza improvvisa. Ho detto che mi ero spiegata male e non intendevo certo dire che fosse stato il pastore di Lešetice a rinchiudermi nella torre. «Ma il pastore di Csejthe conosce
le sue colpe», ho precisato, «perché ha usato il pulpito per accanirsi contro di me.» «Non l’ho mai fatto», ha ribattuto Ponikenus, cercando le parole giuste. Gli avrei chiesto di parlare in latino, ma in realtà conosce quella lingua ancora meno dell’ungherese, e il mio slovacco non mi consentiva di discutere con lui. «Ho predicato il Vangelo, ho predicato l’umiltà e la bontà d’animo», ha proseguito. «Non vi ho mai nominata e, se le mie parole vi hanno messa a disagio, vuol dire che ho scalfito la vostra coscienza.» Coscienza, certo. «Non ci vuole una grande immaginazione per capire che, quando parlate della corruzione della nobiltà nella chiesa di Csejthe, parlate della famiglia padrona di queste terre. State attento, Ponicky, al momento opportuno posso chiamare dei testimoni, e ho ancora amici potenti che mi aiuteranno.» Ha scrollato la testa come se non riuscisse a comprendermi, ma lo so benissimo che quando gli conviene fa finta di non capire la mia lingua. Lo vedevo che stringeva la mascella e serrava i denti, non era sicuro della sua posizione. Si chiedeva se i miei figli o i miei amici adesso gli sarebbero diventati ostili e l’avrebbero rimosso dal suo incarico nella chiesa di Csejthe. O anche di peggio. Poi ha cercato di darsi un tono e ha cambiato argomento, chiedendomi come stesse la mia anima. Pregavo?, voleva sapere, e quanto? Le guardie gli avevano riferito che di notte piangevo spesso, maledicendo Dio e invocando la morte quando pensavo di essere sola. Era convinto che, come pastore di Csejthe, fosse suo compito proteggermi dalla tentazione. «Avete forse l’impressione che voglia suicidarmi?» ho chiesto. «Molti prigionieri sono tentati da questa idea.» Quanto mi esasperano gli uomini che si credono importanti, peggio ancora se sono uomini di Dio! «Non potrei
neppure se lo volessi», ho ribattuto. «Thurzó non mi ha lasciato neanche un ago per rammendarmi l’abito o un coltello per affilare le penne d’oca. E le guardie controllano che i domestici non mi portino nulla senza permesso.» «Potreste trovare un altro modo. Per esempio, usare il vostro abito per impiccarvi.» Io ho sorriso. «State cercando di darmi un’idea? Vi piacerebbe ritrovarmi appesa alle travi, tutta nuda?» Lui faceva finta di essere inorridito, ma io l’ho anticipato prima che ricominciasse a parlare. Non gli avrei permesso di dire altre bugie sull’importanza che aveva per lui la mia vita. «Vi posso assicurare che non ho intenzioni autodistruttive. Solo una donna colpevole potrebbe pensarci, e io non ho nessuna colpa.» Allora il prete di Lešetice mi ha chiesto se credessi ancora nella divinità di Cristo, nella mia redenzione mediante la crocifissione. «Certo», gli ho risposto, ma mi sono rifiutata di accettare il libro di preghiere che mi porgeva attraverso la fessura nel muro. «Non ne ho bisogno», gli ho detto. «Conosco le mie preghiere a memoria, perché le ho recitate ogni giorno della mia vita. Chiedete a Thurzó se lui se le ricorda», ho aggiunto. Abbiamo proseguito di questo passo per qualche tempo, con i due pastori che continuavano a girare attorno alla salvazione della mia anima e alla purezza dei miei pensieri. Ho visto le mani di quei due eseguire danze elaborate, sferzando l’aria con enfasi o accasciandosi con rassegnazione. Le mani di Ponicky erano morbide ed eleganti, macchiate d’inchiostro sull’indice, le mani di uno studioso, di un uomo innamorato della sua voce. Cos’avrebbe fatto, mi sono chiesta, se gli avessero tolto il privilegio di predicare ogni domenica? Si sarebbe chiuso in sé stesso e poi sarebbe morto, come un’anziana signora prigioniera in
una torre? Dopo più di un’ora, io non ne potevo davvero più di chiacchierare con loro ed ero ansiosa che si decidessero ad andarsene. Mi sono alzata in piedi e stavo per congedarli quando Ponikenus è arrivato finalmente al punto: chi mi aveva detto che era stato lui a tradirmi con Thurzó? Chi aveva messo in giro quelle bugie contro di lui? In quel momento mi si è dipinto un sorriso in viso. «Non me l’ha detto nessuno», gli ho risposto, «ma siete stato voi stesso ad ammetterlo facendomi questa domanda.» «Non ho mai detto bugie su di voi, signora.» «Mi state dicendo una bugia adesso, se lo negate. Lo so che avete scritto ai vostri superiori, che hanno spedito una lettera a Thurzó e l’hanno convinto della mia colpevolezza. Vi siete inventato una storia sulla giovane Modl. Avete detto in giro che l’ho uccisa proprio il giorno del matrimonio di mia figlia.» «Da quel giorno, nessuno l’ha più vista, mia signora.» «Perché l’ho rispedita a casa dalla madre. Andava in giro sfoggiando il suo figlio bastardo per tutta la casa.» «Ma come mai nessuno ha più avuto sue notizie da allora?» «E a chi avrebbe dovuto scrivere, sempre che sapesse scrivere, Ponicky? A voi?» «Uno dei miei confratelli ha visto il suo corpo su un carro che usciva da Csejthe. Aveva il viso sfregiato, sembrava che le avessero lacerato la bocca.» «I vostri religiosi bevono troppo, si sa. Vedranno anche il diavolo, m’immagino, con qualche goccio di brandy.» «Con il favore delle tenebre, il vostro Ficzkó l’ha portata a Pozsony, insieme ad altre due o tre. Perché mai avrebbe dovuto portare fuori i corpi in piena notte, se voi non stavate cercando di nascondere i vostri crimini?» «L’unico crimine che mi piacerebbe nascondere è la vostra nomina a pastore di Csejthe. La giovane Modl è tornata a
casa dalla madre. Le altre sono morte di peste. La malattia infestava il paese in quei mesi e i corpi dovevano essere portati via appena le ragazze morivano. Pensate forse che sarei capace di tagliare a metà il viso di una ragazza? Pensate di potermi giudicare colpevole di un simile abominio? Ho assistito i vostri religiosi, senza distinzione, quasi fossero figli miei. Come una madre, mi sono assicurata che ricevessero istruzione, cibo e affetto. Vi ho accolto qui dopo la morte del vecchio Barthony e vi ho nominato pastore al suo posto. La vostra ingratitudine è davvero impressionante.» «Non sono mai stato ingrato con voi, signora. Vi ricordo nelle mie preghiere ogni giorno. Prego il Signore affinché vi perdoni per i vostri peccati e nella sua infinita misericordia vi conceda nuovamente la prosperità.» «Oh, sì», ho risposto, «pregare per la prosperità altrui è la cosa più importante. Congratulazioni, Ponicky, dovete essere proprio un santo se pensate che il Signore esaudirà le vostre preghiere.» Lui ha scrollato la testa e ha sussurrato qualcosa al suo amico, ma io non sono riuscita a sentire. Il reverendo Zacharias ha detto che sarebbe tornato a trovarmi e mi avrebbe parlato ancora. Io gli ho risposto di non prendersi il disturbo, ma lui ha insistito, quindi si sono alzati e se ne sono andati. Ho sentito i loro passi scendere lungo le scale. Mi chiedo perché mai non vieni a trovarmi tu nella mia torre, Pál, e mi lasci sola alle prese con tutti questi pastori e questi sciocchi. 17. Dopo il matrimonio di Kata, trascorsi un periodo di relativa tranquillità, recandomi spesso in visita alle numerose proprietà Nádasdy per controllare che tutto fosse in ordine, da Sárvár a Bécs, da Bécs a Keresztúr, da Keresztúr a
Csejthe. Ogni tanto avevo qualche problema di salute – una febbre ricorrente mi faceva alzare la temperatura a tal punto che pur restando in sottoveste continuavo a sudare, oppure avevo i brividi di freddo in piena estate –, ma per il resto non potevo certo lamentarmi. Entrambe le mie figlie erano sposate, e tu ben presto avresti potuto prendere il titolo di tuo padre. Istók Soós, che era venuto a trovarmi per la prima volta la sera del matrimonio di Kata, divenne il mio più caro amico e confidente, indispensabile nei rapporti con i mezzadri e i domestici, soprattutto con quelli convinti che io non fossi altro che una povera vedova, facile da raggirare. Gli altri servitori – che l’avevano soprannominato «Testa di ferro» per via della forma del cranio e del collo massiccio – ben presto fecero a gara per guadagnarsi il suo favore come avevano sempre fatto con me, ma lui non perdeva occasione per chiedere qualcosa in cambio. «Cosa puoi fare per la mia signora», lo sentivo chiedere spesso, «se decido di aiutarti?» Quando ero in viaggio, affidavo la gestione della casa a lui, alle due anziane domestiche e a Ficzkó, e in premio gli regalavo cavalli nuovi, uno stiletto d’argento o un abito elegante con cui si pavoneggiava come un rude, piccolo generale. In effetti si era un po’ montato la testa e camminava impettito di fronte agli altri guadagnandosi qualche inimicizia, ma nel buio della mia stanza la sua bocca morbida era dolce come quella di un nobile. Ormai sfioravo i cinquanta ed ero meno schizzinosa di un tempo, ma volevo davvero un gran bene a Istók e, dopo la delusione con Thurzó, non avevo più voglia di struggermi per uno dei vari leccapiedi degli Asburgo. Se Thurzó ci teneva tanto alla sua sposa bambina, Erzsébet Czobor, per me poteva tenersela. Al diavolo tutti e due. Nell’autunno del 1608, dopo una lotta di potere all’interno della famiglia Asburgo, Mattia divenne re d’Ungheria e
l’anno seguente György Thurzó fu eletto conte palatino. Dopo la nomina, prese con la forza alcune proprietà di un vicino più debole e cominciò a perseguitare la vedova del vecchio conte palatino, István Illésházy, affinché gli cedesse delle terre. Scovava ogni mezzo per consolidare il suo potere e la sua ricchezza. Quando venimmo a sapere queste notizie, eravamo a Csejthe e rimanemmo stupiti e disgustati in egual misura. Istók era stato informato da un mezzadro, avvisato a sua volta da un soldato di Thurzó che viaggiava lungo la via del Vág. Istók venne a riferirmi le novità mentre me ne stavo seduta accanto al fuoco, e io posai il mio libro con il fruscio del vento nelle orecchie, osservando le fiamme quasi potessi leggerci il futuro. Avrei dovuto capirlo. Ecco perché cercava in tutti i modi di guadagnarsi il favore degli Asburgo, prima di Rodolfo e poi di Mattia. Cosa poteva aver promesso a Mattia su di me, mi chiedevo, per rafforzare la sua posizione? Due anni prima, quando Thurzó ed Erzsébet Czobor si erano sposati a Bicske, non avevo esitato ad assistere alla cerimonia, indossando il velluto rosso più bello che si fosse mai visto e arrivando nella carrozza più lussuosa, tanto per dimostrare a Thurzó che non era riuscito ad abbattere il mio spirito. Thurzó si era dimostrato molto onorato che fossi intervenuta al suo matrimonio. «Contessa Nádasdy», mi aveva detto, «sono davvero felice che siate riuscita a venire. Siete davvero splendida, solo la sposa è più bella di voi.» «Certo», avevo risposto con un sorriso forzato. «La sposa più bella che io abbia mai visto. Congratulazioni, mio caro.» La bambina gli si era aggrappata al braccio, guardandolo con occhi adoranti e rivolgendomi un sorrisetto compiaciuto, incapace di nascondere la sua aria di trionfo. Lei gli aveva sussurrato qualcosa a proposito della loro
prima notte di nozze e Thurzó era stato costretto a zittirla di fronte a me. Io mi ero sforzata di non mostrare tutto il mio disgusto. Se era quello che voleva in una seconda moglie, aveva fatto davvero bene a lasciarmi. Avevo augurato loro ogni bene e mi ero messa a danzare con mio nipote Gábor, eletto da poco principe di Transilvania, e con mio genero György Drugeth. Avevo conversato con tutti i miei vicini e amici, trattenendomi fino a tarda sera, finché gli sposi non si erano appartati nella camera nuziale. Non volevo sembrare troppo ansiosa di andarmene di fronte a tutti quegli ospiti, che sapevano benissimo quanto Thurzó mi avesse amato un tempo. Agli occhi degli altri, la loro felicità non doveva interessarmi, altrimenti, come aveva detto una volta Darvulia, sarei diventata lo zimbello di tutti. Come promesso, dopo il viaggio di nozze scrissi per invitare la signora Thurzó nel mio castello per qualche settimana, sicura che avrebbe rifiutato e mi sarei liberata degli obblighi nei suoi confronti. Rimasi davvero sorpresa quando la ragazza mi rispose che sarebbe stata felicissima di venirmi a trovare a Csejthe quell’autunno e sperava tanto che diventassimo amiche. Ordinai ai domestici di mettere la casa sottosopra e le assegnai le stanze migliori, le stesse in cui dormiva Ferenc quando veniva a Csejthe. Lei sorrise confusa, mi ringraziò e disse che era un grande onore. «Mio marito sostiene che nessuno in Ungheria sa amministrare una casa come voi», mi confessò tenendo gli occhi bassi come una brava mogliettina sottomessa. «Spero che un giorno possa dire lo stesso anche di me. Vi prego, sono la vostra più devota pupilla. Insegnatemi tutto quello che c’è da sapere.» Io avrei preferito strangolarla, ma le diedi il benvenuto e la feci accomodare nel mio kastély, sulla sedia di Ferenc davanti al fuoco, e le offrii un bicchiere di vino. Mentre si riscaldava e scambiava due chiacchiere con Istók Soós, il riflesso delle fiamme che le illuminava il viso, mi
domandai cosa ci facesse in casa mia, cos’avesse in mente, perché ero certa che la nostra amicizia non le interessasse affatto, esattamente come non interessava a me. In effetti aveva solo voglia di suonare il liuto e lo faceva davvero bene, riempiendosi d’orgoglio ogni volta che posava le dita sulle corde. Si offriva di suonare per noi ogni sera dopo cena; sulle prime decisi di accontentarla, essendo l’ospite, mai poi mi accorsi che non c’era modo di farle fare altro. Disdegnava tutte le lezioni che il marito mi aveva pregato di impartirle, senza il minimo interesse per la contabilità con i mezzadri, la catalogazione degli oggetti preziosi, l’esame del bestiame prima dell’acquisto. Preferiva stare seduta davanti al fuoco a chiacchierare con le sue damigelle, suonare e cantare o schiacciare un pisolino dopo pranzo. Non mi era neppure di grande compagnia perché, non conoscendo i grandi libri del nostro tempo, i trattati religiosi di Lutero e Calvino o le dissertazioni astronomiche di Keplero e Copernico, aveva ben pochi argomenti di cui conversare, salvo i pettegolezzi più infimi: cos’aveva detto l’amante del re, chi aveva indossato un vestito vecchio al suo matrimonio, chi era ingrassata tanto da doversi rinnovare l’intero guardaroba. Ogni tanto facevo fatica a non dirle di tapparsi quella sua stupida bocca. Eppure per quasi tre lunghe settimane feci del mio meglio per insegnarle qualcosa, come mi aveva chiesto suo marito, costringendola a leggere qualche libro, ad assistere ai colloqui con i mezzadri e a trattare con le domestiche e gli stallieri. Di fronte a me era tutta zuccherosa, ma nelle sue lettere a Thurzó – che Istók Soós intercettava e apriva per me prima di spedirle a Bicske – si lamentava che spesso ero sgarbata con lei. Una volta, malignava, le avevo addirittura dato uno schiaffo sulle mani quando aveva preso un libro dal mio scaffale. In realtà si trattava della Bibbia
di mia madre, che io non avevo nessuna voglia di lasciar imbrattare d’inchiostro da quella piccola sciocca con le dita sempre sporche. Scrisse a Thurzó che ero una donna fredda, bisbetica e calcolatrice, che flirtavo con i domestici e mi circondavo solo di persone di basso rango, sguattere e vecchie balie, anziché preferire compagnie più raffinate, come si sarebbe convenuto a una nobildonna. «La contessa Nádasdy», scriveva, «ha una casa ben amministrata, come mi hai sempre detto, ma a che prezzo! Le domestiche più giovani la odiano e si lamentano del trattamento che ricevono da lei dalle due donne anziane e da quel ragazzo crudele di nome Ficzkó, che mi guarda con aria lasciva ogni volta che la padrona si gira. Quei tre comandano a bacchetta i servi più giovani e li trattano male, e la signora dà retta solo a loro, perché la adulano e la riempiono di bugie. Ti prego, amore mio, fammi tornare a casa al più presto. Non ce la faccio più a rimanere lontana dalla nostra cara casetta di Bicske, l’unico posto a cui appartengo davvero.» Non riuscii a leggere la risposta di Thurzó perché Istók non aveva fatto in tempo a metterci sopra le mani, ma dal tono della sua lettera successiva era chiaro che il marito l’aveva esortata a non muovere accuse con troppa leggerezza, almeno per iscritto. «Mio amatissimo, mi dispiace averti fatto perdere la pazienza; ti prometto che in futuro starò più attenta. Quando sarò di ritorno a casa, avremo ancora occasione di parlare di quelle due donne e della signora di Csejthe. Le chiederò di rimandarmi a casa nel giro di un paio di giorni, perché mi manchi infinitamente, e allora potrò raccontarti di persona tutte le cose che ho imparato in questo periodo di lontananza.» Non c’era da stupirsi che io preferissi la compagnia della servitù, se le nobildonne erano come lei. Dovevo
immaginarmelo che quella stupida non avrebbe saputo apprezzare tutte le gentilezze che le avevo riservato e si sarebbe messa a spettegolare con il marito della mia abitudine di punire la servitù, ma all’epoca non pensavo che in tre anni sarebbe riuscita a convincere Thurzó che fossi addirittura una strega, un vampiro, il peggio che si potesse immaginare. Dorka e Ilona Jó non mi avrebbero mai tradito come fece lei, sia perché mi temevano sia perché sapevano appena scrivere il loro nome. Dopo neanche tre settimane decisi di accontentarla e rispedii Erzsébet Czobor a casa dal marito, in modo da liberarmi della sua presenza. La baciai nella corte e le augurai buon viaggio. «Salutatemi tanto vostro marito», mi raccomandai, e lei abbozzò un sorrisino e disse «Senz’altro», e quella fu l’ultima volta che fui costretta a sopportare la compagnia della nuova contessa Thurzó. 18. Nell’autunno del 1610, Anna e Miklós vennero a trovarmi e, siccome avevo deciso di trattenermi a Csejthe per tutto l’inverno, si portarono dietro la famiglia al completo, compresi i domestici, i cavalli e i cani da caccia, montagne di bauli, carretti e carrozze. Il mio kastély di Csejthe era molto più piccolo di quello di Sárvár o della casa immensa di Keresztúr, perciò eravamo tutti un po’ stretti. Per fare spazio, spedii alcune domestiche e gli uomini più giovani – tra cui Istók Soós, che desideravo tenere lontano durante la visita di mia figlia – nel castello in collina. Sarebbe stato solo per poche settimane, finché Anna e Miklós non fossero tornati a casa in Croazia portandosi via tutto il loro armamentario. Istók non era affatto felice, ma non si azzardò a discutere la mia decisione. Lo baciai e gli ordinai di accertarsi che non sorgessero problemi tra le ragazze di servizio. Non avrei potuto affidare a nessun altro un compito
così delicato, aggiunsi. Lui increspò le sue labbra carnose e rispose che sarebbe stato felice di servirmi in ogni modo. Mandai in collina anche Dorka, con l’ordine tassativo di impedire che le ragazze bevessero un solo goccio di vino o uscissero dalle loro stanze di notte. Anche durante la visita della contessa Thurzó avevo deciso di mandare qualche ragazza al vár in collina per mancanza di spazio, ma ben presto le avevo trovate tutte ubriache e in calore come tante cagne. Alcuni soldati erano sgattaiolati nei loro letti di notte e avevano trasformato le stanze della servitù in una specie di bordello. Dopo la partenza della contessa Thurzó, avevo fatto portare le ragazze in lavanderia per dar loro una sonora frustata, brandendo io stessa la cinghia con le più indisciplinate. Eppure sembrava quasi che dimenticassero la punizione appena le lasciavo andare. Le trovavo in giro a perdere tempo anziché lavorare, ed ero costretta a batterle ancora. Poi ci fu il problema di Ponikenus, che si rifiutò di seppellire altre ragazze morte in casa mia. Venne a trovarmi un pomeriggio al kastély, mangiandosi le unghie per l’agitazione e supplicandomi di cambiare la mia condotta o avrei rischiato di condannare la mia anima. «Se accuserete ancora la vostra benefattrice di omicidio», lo minacciai, «dovrete cercarvi un altro posto.» Lui si scusò, disse che aveva parlato unicamente per manifestarmi la sua preoccupazione, ma io non mi fidai e ordinai a Ficzkó e alla vecchia lavandaia, Katalin Benecká, di portare le ragazze morte in qualche posto nascosto, lontano dalle arie boriose e supponenti di Ponikenus. Non doveva sapere troppo, o avrebbe sicuramente trovato il modo di darmi fastidio. E così, quando il conte e la contessa Zrínyi vennero a farmi visita, decisi di mettere Dorka a guardia delle domestiche e le spedii in collina con tanto di lenzuola pulite, frutta, pane e formaggio. Dissi che le avrei richiamate se ci fosse stato
bisogno di aiuto, ma nel frattempo dovevano essere brave e oneste, evitando di mescolarsi con i soldati del castello. Dorka chinò la faccia, rossa e rugosa per l’età e la fatica, e mi assicurò che non dovevo preoccuparmi di nulla. Per un istante mi chiesi se non fosse un errore mandare lei, ma non c’era nessuno che le ragazze temessero di più. Sospirai. Solo per una volta, mi sarebbe piaciuto potermi fidare delle donne al mio servizio. «Ti riterrò personalmente responsabile, Dorottya», aggiunsi, «se sorgeranno dei problemi.» «Sì signora», ripose avviandosi verso l’uscita. Quando furono partiti, mi godetti la pace che era scesa sulla mia casa, il silenzio delle stanze, svuotate del personale più turbolento, e attesi Anna e Miklós, che non vedevo dalla nascita del loro primo figlio, un bel maschietto che avrebbe portato il nobile nome di suo padre e di suo nonno, erede del bano di Croazia. Il bambino, ancora troppo piccolo per viaggiare, questa volta era rimasto a casa con la balia, ma io ero tutta contenta di poter finalmente riabbracciare mia figlia. Quando la carrozza giunse alla porta e vidi la mia cara Anna, gli occhi rossi, infuriata con il ragazzo di cui un tempo era così innamorata, il mio stupore non avrebbe potuto essere più grande. Adesso se ne stavano lontani, senza scambiarsi neppure un’occhiata, il giovane Zrínyi così pallido che sembrava malato. Andai loro incontro e li abbracciai, prima mia figlia, rigida come sempre, poi mio genero. «Grazie dell’invito», disse lui. Facevano finta che andasse tutto bene e non avessero litigato fino a un attimo prima. Mia figlia sorrise come se nulla fosse e mi baciò, dichiarando che non si sentiva bene e aveva bisogno di riposo. «Ma certo», risposi. Ordinai alle cameriere di mostrarle subito la sua stanza, ma quando rimanemmo sole e cercai di chiederle come andassero le cose, si rifiutò di confidarmi le ragioni del
suo malessere. «Non mi sento bene, tutto qui. Grazie davvero, madre.» Perciò richiusi la porta e la lasciai sola. Io e Miklós cenammo soli quella sera, con il fuoco scoppiettante e un buon vino rosso. Anna era rimasta a letto e non voleva essere disturbata. Miklós era avvilito e, quando gli chiesi se volesse un’altra fetta di carne o dell’altro pane, mi rispose sospirando che non aveva più appetito. Una volta o due trovò il coraggio di alzare gli occhi, aprire la bocca come per dire qualcosa, ma poi abbassò di nuovo lo sguardo sul piatto. Mio genero aveva qualcosa in mente. Il giovane Zrínyi non si era mai sentito del tutto a suo agio con me, sebbene ci conoscessimo da una vita. La sua defunta madre era stata una delle mie più care amiche, con cui avevo condiviso i dolori del parto e i disagi della maternità. Il minimo che potessi fare era cercare di risolvere i problemi di quel ragazzo, di qualunque natura fossero. «Come vi sentite, Miklós?» azzardai. «Sembrate afflitto.» «Scusate, mi dispiace molto.» Sospirò, rimescolando il fondo del vino nel bicchiere. Alle sue spalle, le corna del cervo ucciso anni prima da Ferenc erano appese sul caminetto, sopra le due spade lucide – di mio marito e di mio padre – incrociate sul muro. «Non dovete scusarvi. Ma lo sapete che, se avete qualche problema, non dovete far altro che parlare.» «Lo so, grazie.» Bevve l’ultimo dito di vino, se ne versò ancora e svuotò il bicchiere in un lungo sorso. «Ero indeciso sul da farsi, signora, ma immagino che voi possiate darmi un consiglio sulla questione. Negli ultimi tempi, le proprietà di mio padre non hanno dato un buon rendimento e purtroppo adesso abbiamo accumulato qualche debito.»
«Ma considerate che ci sarà l’eredità di Anna, le proprietà che le spettano dopo la mia morte.» Lui alzò lo sguardo; sulla sua testa aleggiava un sottile velo di fumo. «In effetti mi chiedevo se non potreste considerare l’ipotesi di assegnare ad Anna la sua parte prima di quel momento.» «Fare testamento adesso, intendete?» «Non avevo intenzione di chiedervelo, ma mi sentirei molto più tranquillo sapendo che il piccolo Miklós potrà avere la sua eredità.» «Capisco che siate in pensiero per il bene del bambino.» Nonostante il calore del fuoco, cominciavo a sentire freddo. «Valuterò la questione, Miklós», risposi, «non pensavo di dovermene occupare così presto.» «Sareste davvero gentile a farlo», disse. «Siete una madre e sapete bene quanto sia faticoso allevare dei figli. Come ho già detto, non ve lo avrei mai chiesto se non fosse stato per il bene di Anna e di vostro nipote.» Continuando a scusarsi, si congedò, mentre io rimasi seduta davanti al fuoco a riflettere sul da farsi. Riflettevo ancora la mattina successiva, quando Miklós disse che aveva intenzione di ripartire di lì a tre giorni, lasciando Anna al castello con me. Si era fermato a Csejthe solo di passaggio, perché in realtà era diretto a Pozsony, dove era stato convocato da Thurzó. Mio genero rimase con noi pochissimo, sedendo davanti al fuoco nelle fredde notti gelate. Rabbrividiva sotto la sua coperta, tanto che chiesi ad Anna se fosse malato. «Credo di no», rispose. «È solo preoccupato per la situazione politica. Thurzó, ora che è diventato conte palatino, sta forzando i nobili a dichiarare apertamente la propria lealtà al re e a giurare fedeltà di fronte a tutti. Lo sai che Miklós preferirebbe farne a meno, ma lo zio Thurzó sta insistendo davvero tanto.»
«Sì, è vero, è un tipo davvero insistente», replicai. La mattina della sua partenza, chiesi a Zrínyi di firmare in qualità di testimone del mio testamento. Avevo fatto redigere due copie del documento originale, una per Zrínyi e una da portare a Pozsony per il giovane Drugeth, convocato anche lui da Thurzó per il giuramento. Mi era sembrato strano che il marito di Kata non avesse trovato il tempo per fermarsi a Csejthe sulla strada per Pozsony, ma decisi di non badarci. Doveva avere fretta, niente di più. Nel testamento lasciavo ogni cosa ai miei tre figli e pregavo i miei generi di rispettare i diritti del piccolo Pál, finché era ancora bambino. Nessun bene era specificamente assegnato, e del resto non volevo che lo fosse. Il giovane Zrínyi mi ringraziò infinitamente per la mia generosità, dicendo quanto fosse grato di far parte di una così nobile famiglia e quanto la moglie lo rendesse felice. Io sperai che dicesse la verità, ma non ne ero troppo convinta. Poi montò a cavallo con il suo domestico e pochi altri servitori per i due giorni di viaggio che li separavano da Pozsony, alzando una nuvola di polvere dietro di loro. Mentre io e Anna li guardavamo allontanarsi, mi sentii improvvisamente travolta da un’ondata di sfinimento al pensiero dei continui dissidi e contrasti che regnavano a Pozsony, la capitale di quello che restava dell’antica Ungheria. Per un istante ebbi il timore che gli uomini che conoscevo da sempre – uomini per bene, uomini d’onore che avevano sfruttato le alleanze per restituire all’Ungheria la sua gloria passata – negli ultimi tempi non fossero più guidati dall’onore nazionale, ma semplicemente dalla loro avidità e sete di potere. L’antica Ungheria, che avevo conosciuto solo sui libri, forse era davvero scomparsa per sempre. 19.
Io e Anna trascorremmo insieme diverse piacevoli serate, ma dopo cena io mi sentivo sfinita per tutto il vino, la selvaggina, la carne con gnocchi di pane, il gulasch e le arance che Anna e Miklós avevano portato dai loro frutteti in Croazia. Andavo a letto presto e mi alzavo tardi, piena di dolori al collo, alle spalle e alle mani, e avevo la temperatura sempre troppo alta. Ero esausta nella mente ed esausta nel corpo. Pioveva di continuo e faceva sempre più freddo, e un dolore cominciò a farsi strada nelle mie gambe, quasi avessi un osso fuori posto. Nei giorni successivi risalì e si diffuse alle braccia e ai fianchi. Decisi di rimanere a letto per vedere se il male diminuiva, e Anna sedeva accanto a me tutto il giorno, leggendomi le poesie d’amore di Balassi e ridendo con me della palpitante sincerità di quel vecchio farabutto. Vedendo che con il tempo i miei dolori non facevano che peggiorare, Anna propose di recarci a Pöstyén, lungo le rive del Vág, dove i bagni di fango erano noti per le doti terapeutiche. Ci eravamo andati ogni tanto quando lei era piccola, insieme a qualche damigella, mettendo da parte tutte le formalità della vita quotidiana per il piacere del fango bollente e del vapore, del buon cibo e della compagnia piacevole. La mia casa lì era piccola ma confortevole, abbastanza vicina alle rive del fiume per andare ai bagni a piedi. «Non vi piacerebbe, mamma», disse massaggiandomi tra le sue manine i miei piedi doloranti, «scaldarvi le ossa a Pöstyén prima che inizi a nevicare?» E così, anche se non mi allettava affatto l’idea di un viaggio in carrozza tra mille scossoni da Csejthe a Pöstyén, convenni che avevamo entrambe bisogno di cambiare aria. Quanto a me, i bagni minerali avrebbero sicuramente lenito
i dolori che mi affliggevano giorno e notte, mentre ad Anna magari avrebbero facilitato una seconda gravidanza. Le dissi di avvertire Ilona Jó che saremmo partiti il giorno dopo. Anna uscì a chiamare la sua vecchia balia e dalla mia stanza potevo sentire la musica nella sua voce, la gioia in previsione della partenza. «Ilona!» urlò. «Ce l’abbiamo fatta, andiamo a Pöstyén! Bisogna cominciare a fare i bagagli.» Un attimo dopo giunsero rumori dalla sala, voci concitate, poi comparve Ilona Jó portando un vassoio con il tè e la minestra per pranzo. Il suo viso pallido e affilato tradiva più ansia del solito e la testa oscillava su e giù, facendo tremolare la crocchia di capelli bianchi. La conoscevo da una vita, eppure mi dava sempre l’idea di un cavallo imbizzarrito sul punto di scappare. «Che succede?» le chiesi. «Cos’è successo? Si tratta del conte Zrínyi? È scoppiata la guerra?» «No, signora, ma ho appena scoperto che c’è qualche problema in collina», rispose. Posò il vassoio, versando una goccia di minestra e asciugandolo subito con il lembo della gonna. «Le ragazze si sono ammalate. Due sono già morte e altre tre sono così deboli che la signora Majorosné teme che non supereranno la notte.» «Che malattia hanno preso?» «Non lo so con precisione, signora. Me l’ha detto la vecchia Majorosné quando è arrivata a prendere cibo e tè per le ragazze malate. Ha fatto una gran confusione in cucina e la cuoca si è arrabbiata.» «Cerca di scoprire cos’è successo e torna subito a riferirmelo. Dorka avrebbe dovuto avvertirci che stavano così male. » La vecchia balia fece un inchino e se ne andò, ma un’oretta più tardi tornò con altre inquietanti notizie: non era stata la malattia a uccidere le ragazze al vár, bensì la fame. Due erano già morte e altre tre stavano per morire.
«Fame?» ripetei incredula. «Ma com’è possibile? Ho mandato viveri per un mese.» «Non ne ho idea. Io sono salita al castello e la lavandaia, Kata Benecká, mi ha detto che Dorka ha tenuto chiuse le ragazze nelle loro stanze per tutta la settimana, al gelo e senza vestiti, senza fuoco nel camino né cibo. Dorka ha detto che avrebbe punito chiunque si fosse azzardato a dar loro anche un solo boccone. La signora Benecká ha provato con un pezzetto di pane, ma Dorka l’ha picchiata così forte con il manico della scopa che è rimasta a letto per quattro giorni. Le due ragazze morte sono ancora incatenate alle altre tre, e il fetore è tremendo.» Incredibile. Questa volta Dorka aveva davvero esagerato. Le avevo espressamente ordinato che non dovevano sorgere problemi finché c’era mia figlia, finché la casa era piena di ospiti – il domestico di mio genero, i servitori e le cameriere di mia figlia –, tutti perfetti estranei, non avvezzi ai nostri metodi. «Di’ alla cuoca di portare del brodo per le ammalate e a Istók Soós di farle rimanere a letto se non si reggono in piedi. Falle stare subito al caldo, Ilona, ma non dar loro troppo da mangiare, altrimenti vomiteranno tutto. Un po’ di brodo per adesso, e poi qualche fetta di pane.» «E dei cadaveri, cosa ne faccio?» Non volevo pettegolezzi finché i domestici di Anna erano in casa mia, e Ponikenus aveva detto qualche mese prima che non avrebbe sepolto altre salme per noi nel cimitero di Csejthe. Sarebbe stato molto difficile spostare i cadaveri con i servitori di Anna in casa, perché se ne sarebbero accorti sicuramente. «Nascondili. Kata Benecká ti potrebbe aiutare a portarli in lavanderia. Ordina a Erzsi Majorosné di portare scorte di cibo e tè alle altre e di’ a Dorka di venire da me immediatamente. Da adesso in poi, Ilona Jó, la responsabilità delle domestiche è affidata a te.» «Grazie, signora.»
«Ce n’è qualcuna disponibile per accompagnarci a Pöstyén? » «Nessuna che stia abbastanza bene.» «Neppure quella grassona di Doricza?» «È stata mandata in lavanderia per punizione, l’hanno sorpresa ad amoreggiare con uno degli uomini.» «Con chi?» chiesi io, stupita che un uomo se la volesse portare a letto. «Non importa. Se proprio non possiamo farne a meno, andrà bene anche lei. Mandala da me domani mattina, sarà tutta felice di lasciare la lavanderia.» «Ne sono sicura.» «Grazie, Ilona», dissi restituendole il vassoio. «Voglio vedere Dorka al più presto, devo ricordarle chi di noi due è la padrona.» 20. Partimmo per Pöstyén con pochissimi domestici, solo Ilona Jó, la nuova erborista Majorosné – che avevo assunto dopo che Darvulia se n’era andata – , il giovane Ficzkó e la lenta Doricza. Dorka era rimasta a casa per punizione e noi trascorremmo giornate piacevolissime, andando spesso in riva al fiume a fare i bagni di fango. Ilona Jó ed Erzsi Majorosné mi prendevano sottobraccio per non farmi cadere a terra; io odiavo sentirmi così debole, tutta scricchiolante come una vecchia barca a vela, ma consentivo loro di aiutarmi nella speranza che i bagni minerali mi procurassero sollievo, come un tempo era accaduto a Orsolya. A quanto pare, gli anni stavano avendo la meglio su di me. Le acque puzzavano di uova marce, ma i domestici ne riempivano tazze su tazze per Anna perché si diceva che facessero aumentare la fertilità. Lei si tappava il naso e ingoiava il liquido a forza, scrollando la testa per liberarsi del cattivo sapore. Subito dopo si immergeva nell’acqua per riscaldarsi e rilassarsi. Io mi spalmavo sulle articolazioni e sul
petto il fango, denso e bollente come dentro un calderone, e sedevo immobile mentre l’anziana Majorosné me lo passava sulla schiena. Quando si raffreddava, dovevo sciacquarmi e ricominciare da capo. Majorosné diceva che per trarne qualche beneficio sarei dovuta rimanere immersa nell’acqua dal mattino alla sera, ma dopo due o tre ore mi girava la testa per la puzza e il caldo insopportabile e non riuscivo a resistere oltre. Le damigelle mi aiutavano a rivestirmi e mi riaccompagnavano a casa, e il dolore sembrava davvero così diminuito che al ritorno ero molto più agile rispetto all’arrivo. Dopo pranzo tornavamo ancora ai bagni e rimanevamo a galleggiare nell’acqua scura ridendo come ragazzine, finché il calore e la puzza non ci costringevano a tornare a casa nella fresca oscurità della sera. Doricza era lenta e pigra a svolgere le sue mansioni e spesso, al nostro ritorno, trovavamo i letti ancora disfatti e i vestiti ammucchiati sul pavimento dove li avevamo lasciati. Spesso le capitava di servire la minestra fredda o magari bruciare il pane ma, essendo l’unica domestica di casa, aveva davvero tanto da fare e io non volevo essere troppo severa con lei, quindi la rimproveravo solo quando mi faceva davvero disperare, per esempio bruciando con il ferro da stiro il vestito che volevo indossare per cena. Ilona Jó ed Erzsi Majorosné davano una mano alla sera, ma durante il giorno dovevano aiutarmi nei bagni, perché io volevo che mi rimanessero vicine mentre sedevo accanto alle fonti d’acqua bollente e non le lasciavo tornare a casa ad aiutare la ragazza. Ordinai a Ficzkó di cercare nuove domestiche nel vicino villaggio, ma più di una volta tornò indietro dicendo che non aveva trovato nessuno disposto a seguirlo. Ogni tanto Anna chiese alla sua domestica, Margit, di rimanere a casa ad aiutare Doricza mentre noi eravamo ai bagni, e allora se non altro il pranzo era più decente, ma la casa rimaneva, da mattina a sera, un disastro di vestiti e
asciugamani, bicchieri vuoti e libri capovolti per terra. Dopo una settimana di questo andazzo, pur apprezzando la compagnia di mia figlia, non vedevo l’ora di tornare a casa, dove tutto era in ordine, il cibo era sempre caldo e Istók Soós veniva a trovarmi nel mio letto. Decidemmo di andarcene da Pöstyén quando iniziò a cadere la prima neve, che rivestì le pendici della vallata e le colline dei Piccoli Carpazi. Le foglie secche delle querce e dei faggi scricchiolavano sotto le ruote della carrozza. Anna chiacchierava con Doricza, che si informava del clima in Croazia, e le raccontava delle estati in Dalmazia e del blu intenso del Mediterraneo. Doricza disse che le sarebbe piaciuto tanto poterci andare un giorno. «Forse, se mia madre può fare a meno di te», suggerì Anna, «potrei portarti con me quando parto, così vedresti quei posti con i tuoi occhi.» Io sorrisi a mia figlia, alla sua amabilità verso quell’ottusa creatura. «Sei davvero molto gentile con lei, mia cara», risposi, «ma questa qui ha fin troppo lavoro da sbrigare. Magari l’anno prossimo.» Doricza aggrottò la fronte e si guardò le mani, mentre Anna le dava una carezza per consolarla. «Su, vedrai che l’estate prossima ci andremo molto presto, quando le arance sono ancora piccole e verdi. Posso darti un albero da curare tutto per te, se lo desideri. Ti farebbe piacere?» La ragazza alzò gli occhi. Il suo viso era rotondo e sgraziato, piatto come una pagnotta non lievitata, ma mi sembrò di leggere un’ombra di muta speranza sulle sue guance morbide, nei suoi occhi vacui. Cos’avesse da sperare, non riuscivo proprio a capirlo. Era ovvio che non l’avrei mandata neppure l’estate successiva. «Mi farebbe molto piacere», disse alla fine e Anna si girò a parlare con Ilona Jó, soddisfatta di aver dimostrato tanta gentilezza con quella povera
ragazza. Ficzkó era partito a cavallo prima di noi e aveva avvertito i domestici del nostro arrivo anticipato, così quando arrivammo al kastély trovammo Dorka e Istók Soós pronti ad aspettarci. Il risentimento che sentivo aleggiare nell’aria mi convinse ben presto che quei due dovevano aver avuto una discussione. In effetti Istók si dimostrò più burbero del solito quando ci aiutò a smontare dalla carrozza e latrò al cocchiere di tenere fermi i cavalli per dargli modo di tirare giù i bauli. Dorka attese che mi fossi spogliata e sistemata davanti al fuoco per sciorinarmi la sua lista di lamentele: il nuovo stalliere era stato sorpreso a spiare una domestica mentre si faceva il bagno, due cavalli zoppicavano e le riserve di Tokaj erano quasi esaurite. Le risposi che Ficzkó doveva dare una bella bastonata al ragazzo, mentre gli stallieri dovevano avvolgere gli zoccoli dei cavalli in un panno caldo e il domestico di Thurzó inviarci altro Tokaj, visto che le sue vigne producevano la qualità migliore. «E come stanno le domestiche? » mi informai. «Quelle malate, intendo.» «Sono morte anche le ultime tre, signora», rispose. «Vi chiedo perdono, ma ero convinta di obbedire ai vostri ordini. Quando le ho sorprese a sgattaiolare nelle stanze dei soldati ho deciso di punirle come mi avevate ordinato voi stessa. In questo modo non l’avrebbero più fatto.» «Sì, capisco, ma così mi hai messo nei guai: ci siamo ritrovate senza domestiche a Pöstyén, solo quella grassona così goffa che non è buona a far nulla. Avevo affidato la casa nelle tue mani e mi sembra che tu abbia un po’ esagerato. Non posso essere sempre dappertutto, così adesso ho detto a Ilona Jó di sostituirti finché non avrai imparato a comportarti meglio.» «Certo, signora.» «Per adesso è tutto, puoi andare.»
Poco dopo mi raggiunsero davanti al fuoco mia figlia e il conte Zrínyi, arrivato quella mattina stessa e ansioso di riabbracciare la moglie. Dopo i bagni termali di Pöstyén, Anna nutriva nuove speranze di poter concepire un secondo figlio e non vedeva l’ora di mettere alla prova la cura. Pensando di passare inosservata, sussurrò qualcosa all’orecchio di Miklós, che arrossì e mi guardò imbarazzato. «Non adesso», rispose con un filo di voce. «Sono sicuro che puoi aspettare almeno dopo cena.» Ma le mise un braccio intorno alla vita mentre si scaldavano davanti alla legna crepitante e io fui ben felice di rivederli così innamorati. La visita a Pozsony o la generosità del mio testamento – o magari entrambe le cose – avevano forse restituito loro la felicità d’un tempo. Quella sera a cena mangiammo fagiano, cappone e baccalà del lago Balaton portato in regalo da mio genero. Ci raccontò come il nuovo conte palatino stesse organizzando la sua corte, quanto poco Thurzó si fidasse degli ungheresi, insistendo che giurassero fedeltà a Mattia, soprattutto chi era maggiormente legato ai Báthory. I suoi occhi incrociarono i miei da un capo all’altro del tavolo. «Thurzó sa benissimo che Gábor, come nuovo principe di Transilvania, sta sobillando i nazionalisti. Vuole essere sicuro di averci in pugno, se non altro in pubblico.» «Fa’ ciò che devi», risposi. «Adesso il vento soffia da Bécs, ma domani potrebbe soffiare da Gyulafehérvár. È meglio non farsi troppi nemici prima che scoppi il temporale.» «Proprio come ho detto io», intervenne Anna con uno sbadiglio. Il suo bicchiere di vino era vuoto, ma non volle che Istók Soós gliene riempisse un altro e disse che andava in camera a dormire. Guardò con aria complice il marito, che arrossì di nuovo – gli vedevo le gote arrossate persino alla luce del fuoco – e disse che l’avrebbe raggiunta subito. Prima voleva ancora scambiare due parole con me, aggiunse.
«Ebbene?» chiesi. L’ultima volta che Zrínyi aveva avuto bisogno di parlare con me mi era costato un terzo delle mie proprietà. Anna rivolse un’occhiata al marito, ma poi mi baciò e si congedò, lasciandoci soli, seduti davanti al fuoco. I domestici erano andati a dormire e la casa era immersa nel silenzio. Miklós bevve un lungo sorso e tornò a posare il bicchiere sul tavolo, facendo oscillare il liquido rosso. Ero convinta che mio genero volesse chiedermi un consiglio su Thurzó, oppure pregarmi di riferire un messaggio a Gábor a Gyulafehérvár all’insaputa del conte palatino. Non era un segreto per nessuno che Miklós nutrisse il sogno di accrescere la gloria dell’illustre nome di suo nonno e, se c’era uno che poteva offrirsi come alleato di Gábor Báthory in Ungheria, quello era senz’altro Miklós Zrínyi. Ma quando mio genero aprì la bocca, non intendeva parlarmi né di Gábor né di Thurzó. Quel mattino era andato a caccia nei boschi intorno al castello con il suo fucile nuovo e uno dei suoi tre segugi aveva fiutato una traccia e scovato qualcosa. Lui aveva richiamato il cane, ma gli altri due si erano messi a inseguirlo tra gli alberi. Quando finalmente li aveva raggiunti, stavano scavando nella terra e avevano estratto la mano tumefatta di una ragazza. La pelle era piena di lividi e ai polsi e alle caviglie si vedevano dei segni di catene. Mentre lui osservava il primo cadavere, i cani ne avevano tirati fuori almeno altri tre o quattro. Riuscivo quasi a vederlo, nel frutteto di fichi sul pendio della collina dove la vecchia lavandaia doveva aver sepolto le ragazze, in groppa al suo cavallo bianco, mentre si chinava a terra per scoprire cosa avevano fiutato i suoi cani. Quando si era reso conto della situazione, era rimasto paralizzato dall’orrore e aveva richiamato subito indietro i suoi animali. I cadaveri puzzavano terribilmente.
Zrínyi mi raccontò che aveva fatto una gran fatica ad allontanare i cani da quei corpi per riportarli a casa, dove aveva chiesto a Dorka perché mai ci fossero cinque ragazze sepolte nel frutteto. L’anziana aveva risposto che erano morte di peste l’estate precedente ed erano state sepolte in tutta fretta, per evitare di spaventare la gente di Csejthe. Zrínyi non aveva creduto a una sola parola, anche perché era certo che i cadaveri risalissero al massimo a una settimana prima. «Sembrava quasi che la vostra domestica avesse il diavolo in corpo», precisò. «Ma prima volevo chiedere la vostra versione, signora, in nome dell’affetto che nutro per voi. Non vorrei mai pensare al peggio.» «Non dovete, infatti», rispose. «Le ragazze sono effettivamente morte di peste, caro Miklós, ma solo una settimana fa, come avete appena detto, nel castello in collina, mentre voi e Anna eravate qui in casa. Non volevamo spaventare l’intero villaggio con queste brutte notizie. Quelle poverette erano così sfigurate dai bubboni, quando Dorka le ha trovate, che erano quasi irriconoscibili.» «E i lividi delle catene?» «Le hanno dovute legare ai polsi, come sempre, per rimuovere i cadaveri, altrimenti i servitori non sarebbero riusciti a sollevarli.» Miklós guardò pensieroso verso il camino, agitando il fondo del suo bicchiere. Il fuoco crepitava e la casa intorno a noi era sempre più silenziosa. Accanto alla porta sentivo i cani accucciarsi e sospirare soddisfatti prima di addormentarsi. «Allora è come pensavo», disse Zrínyi. «Lo sapevo che mi avreste dato una spiegazione ragionevole.» Si alzò e mi baciò in fronte come un figlio devoto. «Ovviamente, non ne farò parola con Anna. Preferisco non metterla in agitazione.»
«Grazie, Miklós», risposi, guardandolo andar via. Nella linea delle sue spalle intuivo il germe della diffidenza. Avrei dovuto tenerti d’occhio, giovane Zrínyi, per mantenere la pace nella mia casa. Lo sa il Signore che di problemi ne avevo già abbastanza. «Avete ragione, non c’è motivo di agitarla per niente», conclusi, prendendo anch’io una candela e avviandomi verso la mia stanza. 21. A Natale, quando la neve attutiva le grida dei nibbi e dei falchi in cielo e il ghiaccio cresceva sui bordi del fiume come muffa sul pane raffermo, io aprii ad amici e vicini le porte di Csejthe per festeggiare insieme la Santa Notte. Le acque termali di Pöstyén mi avevano giovato allo spirito, così decisi di invitare al castello i miei figli e tutti i miei più cari amici. Thurzó rispose da Bicske che la moglie era prossima al parto e intendeva starle accanto per la nascita del loro primo figlio. Non mi dispiaceva affatto fare a meno di loro. I miei figli accettarono l’invito, come del resto anche lo zio di mio marito, Kristóf Nádasdy, e sua moglie. Feci preparare le stanze per tutti, trasferendo nuovamente una parte della servitù in collina, questa volta alle dipendenze di Ilona Jó, con l’ordine tassativo di non creare problemi di alcun tipo finché i miei parenti non fossero ripartiti. «Le ragazze devono tornare a casa esattamente come sono partite», mi raccomandai, fissando con aria severa Dorka, che mi guardava facendo finta di non capire. Se mi fosse servita qualche domestica, avrei mandato Ficzkó a prenderla con un carretto. Il primo ad arrivare al castello fosti tu, mio caro Pál, in compagnia di Megyery, quel pomeriggio gelido in cui il vento soffiava la neve contro le imposte, depositandola sui davanzali e negli angoli delle stanze come polvere sottile. Io e Istók Soós eravamo seduti davanti al fuoco del camino, dove avevamo trascorso la giornata, certi che nessuno sarebbe
stato così pazzo da arrivare con quel tempo, quando sentimmo qualcuno bussare e chiamare con voce attutita. Andai alla porta, gettandomi addosso una pelliccia di volpe argentata, e vidi diverse sagome bianche, uomini a cavallo, che si muovevano nella corte, scossi dai brividi, i baffi e la barba bianchi e ricoperti di ghiaccio. Montavi la cavallina araba che ti avevo regalato, un animale che avrei ritenuto troppo delicato per il faticoso tragitto da Pozsony a Csejthe e che invece saltellava e nitriva come se i due giorni di viaggio nella tormenta attraverso i Piccoli Carpazi fossero stati una cosa da niente. Eri cresciuto dall’estate precedente, ormai eri alto quasi quanto me, e non avevo riconosciuto all’istante la figura ricoperta di neve in sella alla tua giumenta, ma un attimo dopo tu smontasti da cavallo e ti precipitasti verso di me urlando di gioia e io ti presi tra le mie braccia. Eri avvolto in un mantello di velluto rosso bordato di pelliccia e indossavi un colbacco rotondo come un tamburo, però quando ti abbracciai mi accorsi che tremavi per il freddo. Gli altri si avvicinarono alla porta scuotendo la neve dagli stivali e scrollandosi i baffi, le gote color del vino appena pigiato. Rimproverai Megyery per esservi arrischiati a viaggiare in una giornata simile. «Sareste dovuti rimanere a Pozsony finché non fosse migliorato il tempo», dissi. L’anziano tutore chinò il capo e mormorò una delle sue solite scuse, ma tu prendesti la parola al posto suo. «Non è stata colpa di Imre, madre. La neve ha cominciato a scendere quando eravamo già a metà strada, e lui ha proposto di tornare indietro, ma io ho preferito continuare, visto che ormai eravamo quasi arrivati. Sono stato io a insistere perché ero ansioso di rivedervi.» Io guardai il tutore, che teneva ancora gli occhi bassi, ma sapevo bene che quel girino avrebbe voluto dire ben altro.
Se Megyery avesse davvero avuto intenzione di tornare, non saresti mai riuscito a convincerlo del contrario, caro Pál, ma per quella volta preferii non dire nulla. Non volevo discutere con il tuo amico e farti soffrire. Come ogni volta, mi dispiaceva che mio figlio fosse costretto a mentire per proteggere il suo tutore dai miei rimproveri. Se il vecchio Imre ti avesse chiesto di farlo duca, non saresti riuscito a dirgli di no, ci giurerei. Questa cosa mi faceva paura, e me ne fa tuttora. Se dovesse accadermi qualcosa – se dovessi morire prima che tu raggiunga la maggiore età e diventi indipendente –, nessuno sarà in grado di contrastare l’influenza del tuo tutore su di te. Dopo i dolori provati quell’autunno, avevo cominciato a pensare che il numero di giorni che mi restavano da vivere era inferiore, e di molto, rispetto a quelli passati. «Molto bene», dissi, «ma adesso è meglio che ti riscaldi davanti al fuoco. Sembri mezzo assiderato, tesoro mio.» «Non ho freddo, madre», rispondesti tu. «Mi hai visto cavalcare Sabina? Il maestro Bálint dice che sono diventato bravo come papà.» «Sono certa che ha ragione e tuo padre ne sarebbe fiero. Adesso dico a Deseő di portarti una ciotola di minestra. Tu intanto togliti quegli abiti fradici perché altrimenti ti prenderai un raffreddore.» «Anche Megyery ha bisogno di abiti asciutti e di una minestra calda.» «Sì, certo, Megyery... aggiungeremo un posto a tavola anche per lui», dissi spingendolo in casa davanti a me. «Adesso raccontami che libri hai letto negli ultimi tempi.» 22. Il mattino di Natale ci riunimmo tutti insieme a mangiare e bere attorno al grande tavolo di legno. György Drugeth e
Kata proprio quell’estate si erano convertiti alla fede cattolica, dopo un’intensa campagna condotta dal vescovo Pázmány in nome del papa, e non avrebbero partecipato con noi alle funzioni, ma avrebbero assistito nella cappella a una breve messa celebrata dal loro prete, che li aveva seguiti da Homonna. In realtà devo ammettere che avevano invitato anche me, ma Ferenc aveva convertito queste terre alla chiesa riformata e io non avevo alcuna intenzione di rinnegare la fede che mio marito aveva scelto per loro. Quando lo dissi a mia figlia, lei sorrise, fece un cenno con il capo e non commentò, ma quando i suoi occhi incrociarono i miei capii che lei avrebbe di gran lunga preferito assistere con me alle nostre funzioni, anziché dover sopportare le rigide formalità del rito cattolico a cui il marito si era opportunamente convertito. «Usate pure la cappella del vár, se il vostro prete non ha nulla in contrario», dissi per non farli sentire a disagio. «Il vecchio Ponikenus finirà per ammorbare tutti i fedeli con il suo alito fetido, ma non posso proprio saltare la funzione della mattina di Natale.» Kata, con il viso d’uno strano colorito verdastro, scoppiò a ridere carezzandosi la pancia arrotondata per la prima gravidanza. «Va’ a letto con due cucchiai di miele», le consigliai. «Se non potrai assistere alle funzioni, il buon Dio capirà che stai solo facendo il tuo dovere di madre.» Kata mi ringraziò e tornò nella sua stanza. Quindi io indossai cappello e soprabito e mi recai in chiesa tenendo Pál e Anna per mano lungo il sentiero che i domestici avevano sgombrato per noi. Ilona Jó e Dorka ci seguivano, avvolte nei mantelli di velluto che avevo regalato loro per la lealtà che avevano dimostrato in tutti quegli anni. Di solito non assistevo alle funzioni della domenica nella chiesa del paese, perché i sermoni di Ponikenus avevano il potere di sfinirmi, ma almeno a Natale mi imponevo di unirmi alla gente di Csejthe per ascoltare la storia della natività
letta ad alta voce dal prete, e poi distribuire monete d’oro e d’argento ai parrocchiani. Negli ultimi anni era diventato un grande evento a Csejthe. Le persone più umili, soprattutto donne, venivano da lontano per ringraziarmi ed espormi qualche problema, o magari presentarmi una figlia perché l’assumessi a servizio, o anche soltanto per sfiorarmi le maniche mentre mi dirigevo alla porta lasciando monete al mio passaggio. Davo soldi solo alle madri. Le madri non li avrebbero sperperati in vino o donnacce. Le madri li avrebbero usati per il meglio. Quando passavo in mezzo alla folla cercavo sempre le madri, gli occhi spalancati per il bisogno, la pancia vuota per dare il pane ai figli. Tiravo fuori un sacchetto pesante e mettevo loro in mano tutte le monete di rame, argento, oro che avevo. La gente cantava risalendo la collina verso la chiesa, che in mezzo a tutta quella neve sembrava grigia nonostante lo strato d’intonaco immacolato, ma le campane suonavano e l’aria era frizzante. I rintocchi argentini delle campane rimbombarono tra le colline e rimbalzarono indietro fino a noi. I padri arrivavano con i figli piccoli in spalla, aprendo sentieri nella neve per le mogli e i figli più grandi, sorridenti, le gote rosate. Riconobbi la famiglia del macellaio e ricambiai l’inchino con un sorriso. La gente era vestita a festa, abiti puliti e stirati, giacche e farsetti ricamati, mantelli e cappelli come giardini di primavera in fiore, rossi, gialli e blu. Si tenevano indietro per farci passare, senza osare aprir bocca. Alle porte della chiesa, venne a salutarci Ponikenus in persona, chinando la testa e bisbigliando come al solito qualcosa di insulsamente gentile nel suo ungherese stentato e porgendomi il braccio per accompagnarmi all’interno. I nostri occhi non erano abituati al buio e tu inciampasti facendomi quasi cadere. Il pastore mi afferrò l’altro braccio. «Grazie, Ponicky», dissi.
Lui aggrottò la fronte. «Vi prego, state più attenta, signora. » Ponikenus ci fece accomodare nei posti d’onore in prima fila, dove il pulpito in legno lavorato si ergeva sui fedeli radunati; le candele accese e gli odorosi rami di abete e pino mi rammentarono all’improvviso la morte di mio padre e quanto avevo sperato che mio fratello si girasse verso di me e mia madre mi prendesse tra le sue braccia. Era passata un’eternità, eppure il dolore era ancora così intenso che per un istante vidi le luci offuscarsi. «Va tutto bene, madre?» mi chiedesti. «Vi ho fatto male?» «No, amore mio, sta’ tranquillo», risposi accarezzandoti i morbidi capelli neri. Quando le campane si acquietarono, la funzione ebbe inizio con le letture dal Vangelo. La Vergine accettava il volere di Dio, concepiva un figlio suo e dopo nove mesi la sacra famiglia si recava a Betlemme, la città di Davide, dove la Vergine partoriva nella stalla di una locanda, tra gli asini, le pecore e le mucche; nasceva il Dio più grande nelle condizioni più umili, per essere la luce del mondo, mentre i ricchi e i potenti dall’Oriente venivano a portare doni e a rendere omaggio alla stella più nuova del firmamento, che lo consacrava Re di ogni cosa. Dorka traduceva per me, visto che Ponicky non parlava in ungherese ma nel dialetto locale, l’unica lingua parlata dalla gente del posto. Quando ebbe finito di leggere con voce tonante, Ponikenus salì sul pulpito dorato e osservò i fedeli convenuti da Csejthe e Felsövisnyó. Fu una lunga pausa e si sentì un’anziana tossire e un bambino piangere, finché la madre non lo zittì. Seduta di fianco a me, Dorka si agitò sulla panca. Aveva un gusto molto teatrale, Ponicky. Teneva gli occhi puntati su di me e stavo quasi per chiedere a Dorka cosa accadesse, quando finalmente si decise a cominciare il suo sermone. Parlò della meraviglia dell’umiltà di Gesù, che si permetteva di nascere in una stalla, nel più umile dei posti umili al
mondo, anziché presentarsi a noi vestito di seta, raso e ricami dorati, perché si curava così poco dei beni materiali da rifuggirli sin dal momento della sua venuta al mondo. Il più grande dei re viveva come un povero mendicante, proprio al tempo di Augusto, per servire da esempio. Ponikenus trasse un sospiro, gli occhi ancora fissi su di me. Poi riprese, con una nota nuova nella voce, ottone anziché argento. Disse che la corruzione della ricchezza e del potere aveva reso gli ungheresi schiavi degli Asburgo, dei turchi, delle loro stesse avide ambizioni. Che il denaro e il potere rendevano malvagie le persone buone, facendo dimenticare i propri fratelli e pretendere sempre di più. Un mormorio si diffuse tra la folla, un fremito di paura e attesa, e uno dopo l’altro, tutti si girarono verso di noi. Dorka aveva smesso di tradurre, gli occhi che lanciavano fiamme contro il pastore. «Cos’altro sta dicendo?» Nella sua voce vibrava la rabbia. «Non voglio ripeterlo. Dice le menzogne più abominevoli.» «Cos’altro sta dicendo?» ripetei. «Dice che l’umiltà di Cristo non può raggiungere chi è già corrotto dalla ricchezza e dal potere», tradusse, «chi dimentica il suo dovere verso la vedova e l’orfano, l’ammalato e il ferito. Chi sa solo prendere e non ha mai un pensiero per le persone da cui prende. Chi uccide i più umili e nasconde i propri peccati sotto gli occhi di tutti.» Era di me che parlava: mi denunciava in pubblico, il giorno di Natale, davanti alla mia famiglia e ai miei amici, a tutti coloro che amavo. E pensare che ero stata proprio io a dargli quel posto nelle mie terre e avevo accolto nella mia casa vedove e orfani, dando loro cibo e vestiti e un tetto sotto cui ripararsi, una dote, un’istruzione. Io, che lui chiamava assassina e criminale davanti a tutti gli abitanti di Csejthe. Era un atto oltraggioso ideato da un piccolo rospo gonfio di
presunzione, niente di più. Non avevo ancora capito che era lo sparo d’inizio di una guerra contro di me, che era l’insorgere del problema, anziché la fine. Accanto a me, tu e Miklós Zrínyi vi eravate alzati per andarvene, facendomi segno di seguirvi. Zrínyi disse che il pastore stava davvero esagerando. «Non resteremo seduti qui un minuto di più ad ascoltare questi insulti vergognosi», concluse. Quindi ci accompagnò fuori dalla chiesa – me, te e Anna –, fino al kastély, il sacchetto ancora pieno delle monete che non avevo distribuito alla mia gente. Dietro di me udii una donna sibilare: «Assassina!» ma quando mi voltai a guardare non vidi altro che facce confuse, fra cui non distinsi quella che aveva pronunciato quella terribile accusa. Vedevo rosso e mi sarei scagliata contro di loro come una furia, mi sarei messa a gridare fino a far venire giù quella chiesa, se Zrínyi non mi avesse tenuto sottobraccio e non mi avesse trascinato via, facendomi quasi inciampare per la fretta. «Ah, ma non finisce qui!» esclamò mio genero. «Avete modo di cacciarlo via? Potete lamentarvi con i suoi superiori?» «Come può dire simili bugie su di me?» dissi quando riuscii finalmente a parlare. «Non gli ho mai fatto del male, anzi, ho sempre cercato di accontentarlo in tutto.» «Sa benissimo che non potete lasciar correre», aggiunse Megyery. «Certo che no», concordai togliendomi il mantello di dosso, ma le mie mani tremavano per la rabbia. Denunciarmi di fronte all’intera congregazione, per di più il giorno di Natale: o Ponikenus aveva perduto il senno o aveva trovato un nuovo benefattore, qualcun altro disposto a riempirgli le casse. L’idea che potesse trattarsi di Thurzó in quel momento non mi sfiorò neppure. 23.
Prima di cena mandai Zrínyi, Drugeth e Megyery a parlare con Ponikenus dell’accaduto, per avvertire quel piccolo rospo che camminava su un terreno scivoloso. Nel frattempo, tu, io, Anna e Kata ci accontentammo di una ciotola di zuppa tiepida con del pane vecchio in attesa del loro ritorno, mentre Dorka continuava a chiederci per quanto ancora avremmo rimandato la cena. Visto che la chiesa era praticamente attaccata alle mura del nostro kastély, non riuscivo a capire come mai gli uomini tardassero tanto. Quando si fece buio e un sottile nevischio cominciò a scendere, stavo quasi per mandare Ficzkó a cercarli, ma in quel momento comparvero sulla porta, sbattendo i piedi a terra e scrollandosi la neve dai baffi. «Ho parlato con il pastore, signora», disse Zrínyi. «Ci raggiunge prima di cena per porgervi le sue scuse.» «Non mi basta», replicai. «Deve accusarsi pubblicamente davanti a tutti come ha accusato me oggi in chiesa.» «Lo farà», confermò Drugeth. «Ha promesso che domenica prossima ritratterà ogni parola.» «Domenica è tra una settimana. Fino a quel momento non deve azzardarsi a mettere piede in questa casa», dissi rivolgendomi al vecchio Deseő. «Ci siamo intesi?» «Sì, signora. Cosa gli devo dire quando arriva?» chiese il domestico. «Potrà porgermi le sue scuse da fuori, sotto la neve. Io lo ascolterò dalla porta e lo perdonerò, se sarà sincero. Ma finché non avrà cancellato il disonore dal mio buon nome di fronte a tutti, non potrò dimenticare quanto è accaduto oggi.» Deseő andò immediatamente a riferire le mie istruzioni alla servitù. Ci sedemmo a tavola un po’ a disagio e le cameriere servirono selvaggina con un contorno di gnocchi di pane
bollenti. Kata e il marito avevano saputo cos’era accaduto in chiesa e mi sedevano accanto, cercando di consolarmi e ripetendo che il vecchio Ponicky non poteva dire sul serio e doveva sicuramente esserci un errore. Anna era pallidissima. I domestici facevano su e giù con i piatti di portata, versando vino e sparecchiando nel più assoluto silenzio, come se bastasse una sola parola per infrangere la campana di vetro attorno a noi. Il tintinnio delle posate d’argento e il rumore del vino versato nei calici furono interrotti unicamente quando tu facesti cadere a terra un bicchiere mandandolo in frantumi. «Oh!» esclamasti, scusandoti mille volte, anche se io continuavo a ripeterti che non ce n’era bisogno. In tutta la sera dissi appena qualche parola, invece le domestiche continuarono a chiacchierare e non ci lasciarono tranquilli. La mia famiglia sembrava aver perso l’appetito e la cena, preparata con tanta cura, rimase quasi intatta. Quando arrivarono le portate finali – frutta spennellata con il miele o flambé al brandy –, solo tu e Drugeth vi serviste, mentre noi rimanemmo a fissare il piatto con lo stomaco chiuso. Dissi a Doricza di sparecchiare e mi alzai per dare la buonanotte. Per quel giorno ne avevo avuto davvero abbastanza di tutti e l’unica cosa che desideravo era chiudermi da sola nella mia stanza. Ilona Jó mi aiutò a sfilarmi i vestiti. Fuori i cani abbaiavano e per un attimo pensai che fosse Ponikenus, ma dopo poco si calmarono, guaendo al di là del recinto. «Forse hanno visto un gatto», disse Ilona allentandomi il corpetto. Quando ebbe finito di sciogliere i lacci, trassi un respiro profondo, il primo della giornata. Alla luce della candela, la sua mascella sembrava meno affilata del solito. Evidentemente, per quel giorno Ponikenus non si sarebbe venuto a scusare.
Più mi faceva aspettare, peggio sarebbe stato per lui. Ilona Jó stava per cominciare a spazzolarmi i capelli quando entrò Dorka brontolando e scrollando la gonna che avevo strappato quel mattino per l’agitazione e una sarta aveva appena ricucito. Me la porse senza rivolgermi lo sguardo, così fui costretta a chiederle cosa avesse, perché mai fosse così agitata. «Doricza, signora», rispose, «l’ho appena sorpresa nelle stanze della servitù con la ciotola di pere speziate che avete avanzato a cena. Le stava distribuendo alle domestiche. Ho chiesto alla cuoca e mi ha detto che le aveva messe da parte ed era convinta che le avessi prese io. Se le avessi prese io, le ho risposto, te l’avrei detto. Le ha rubate Doricza per pura avidità, compresa la ciotola.» Rubare proprio il giorno di Natale... come aveva potuto fare una cosa simile, e per di più con i miei figli in casa? Che strega. Se mi avesse chiesto quelle dannate pere, gliele avrei date più che volentieri, ma prendersele da sola era fuori questione. Ero costantemente circondata da personale incompetente, ogni giorno dell’anno, ogni anno della mia vita. Sin da quando ero ragazza non avevo mai avuto un attimo di pace con i miei domestici, non un solo giorno in cui non sorgesse qualche problema da risolvere. Avrei fatto qualsiasi cosa per liberarmi di tutti loro, delle loro stupide chiacchiere, della loro insolenza, della loro avidità. Un attimo dopo mi ritrovai nella sala in cui alcuni domestici stavano ancora finendo di cenare e mi diressi nella penombra verso le stanze della servitù, dove sentii le domestiche chiacchierare e ridere mentre entravo; il rumore dei miei passi era così forte che calò il silenzio non appena mi avvicinai e vidi le ragazze sedute in semicerchio sui loro letti alla luce della candela. Vi era un intenso odore di cannella, cardamomo e noce moscata. La ciotola di pere rubata da Doricza – del diametro del mio braccio e profonda il doppio, con leoni e uccelli incisi nel metallo – venne nascosta in
tutta fretta sotto il letto, un riflesso d’oro e d’argento nella fioca luce della sera. Era una mia eredità, quella ciotola, un regalo di mia madre quando ero partita per Sárvár tanti e tanti anni prima. Non si trattava solo di pere, allora, ma di qualcosa di ben più prezioso. Era una ladra, una sciocca sfaticata. Più di una volta era stata punita per ghiottoneria, dopo aver rubato il pane di qualcun altro. Avevo tollerato la sua pigrizia sul lavoro, la sua muta ostilità, il suo passo goffo e strascicato. L’avevo portata a Bécs, a Pöstyén, le avevo insegnato a scrivere il suo nome durante i viaggi sulla mia carrozza e regalato qualche moneta, e questo era il suo modo di ringraziarmi! Con il furto. Gli occhi di quella grassona si spalancarono, lucidi di lacrime non versate. Le strappai la ciotola di mano, versai le pere e la salsa appiccicosa sul suo letto e minacciai di colpirla sulla testa. Lei si accovacciò per coprirsi il ventre con le mani, un ventre che non era semplicemente grasso. «Chi è il padre del tuo bambino?» urlai. Spostò le mani all’istante, ma ormai era troppo tardi. «Non aspetto un bambino, signora.» «Dimmelo o sarà peggio per te, te lo giuro.» «Io...» cominciò, ma era chiaro che stava soppesando la sua risposta. Verità contro menzogna. «Il maggiordomo, signora», disse alla fine. «Il vecchio Deseő?» chiesi. «Stai scherzando.» «No, signora, l’altro, il maestro di cerimonia.» Istók Soós, allora. Guardai giù, verso la ragazza, da una distanza che sembrava aumentare sempre più. Più la guardavo, più mi sembrava brutta, la pelle rosa come quella di una scrofa, i suoi occhi muti, umidi e astuti. Pigrizia, avidità e disonestà, tutto in uno. Se mi fosse stata fedele, le avrei dato quella ciotola ben volentieri, l’avrei favorita fra tutte le altre. Le
avrei regalato una fortuna in vestiti nuovi e in dote, e le avrei trovato un marito. Ma era grassa, stupida e inutile, più inutile di una vecchia mucca, che almeno poteva essere macellata per la cena. Adesso non sarei neanche più riuscita a farla sposare. La stanza era poco illuminata e piena di facce, facce che sembravano prendermi in giro, ridere delle mie disgrazie, scovando sempre nuovi modi per rubare, mentire, fornicare. Disonestà e inganno erano le uniche virtù per quelle sciagurate, che io avevo sempre cercato di aiutare. Avevo offerto loro impiego, istruzione, buon cibo e buona compagnia, una possibilità di distinguersi, ma in tutti quei lunghi anni nessuna se ne era mai mostrata degna. Donnacce e banditi, solo hajduk là in mezzo. Le loro scuse e giustificazioni mi giungevano confuse, come fossero lontanissimi, e le loro lacrime erano lacrime di attori, bugiardi e imbroglioni della peggior specie. Mi coprii le orecchie con le mani per non sentire. Per non sentire altre sudicie bugie, dissi. Quello che accadde subito dopo è avvolto nella nebbia e lo ricordo solo in maniera confusa, quasi fosse un sogno. Chiamai Ficzkó, che con Dorka radunò quella banda di ladre e le spinse verso le segrete, mentre piangevano e si stringevano l’un l’altra, le loro teste nella fioca luce delle torce come le criniere di una mandria di cavalli imbizzarriti. Tenevo qualcosa in mano e cominciai a colpirle, ancora e ancora, per farle camminare. Qualcuno gridava. Vidi la grassa Doricza girarsi e con gli occhi al cielo dire qualcosa che non sentii o adesso non ricordo. Il sangue mi ribolliva nelle vene. «Salvatemi», ecco cosa diceva. Alla fine entrammo nelle cantine sotterranee di Csejthe, dove tenevamo le botti di vino e Dorka aveva rinchiuso le ragazze l’autunno prima. Uno strano odore aleggiava nell’aria, marcio e freddo. Io e Ficzkó legammo insieme cinque
ragazze e le facemmo uscire dalla stanza, mentre Dorka spogliava la grassona fino alla vita. La sua pelle somigliava a quella di un maiale e, come quella di un maiale, era flaccida e rosea. Quando il primo colpo del mio bastone le ricadde sulle spalle, il verso di un maiale le uscì dalla bocca, assieme a una macchia rosa di sangue di maiale. La stanza era gelida, silenziosa e sapeva di rame, un intenso odore di pietra. La battei ancora e ogni volta era come se calasse il buio, la vista mi si oscurava per poi tornare normale. Era un’inetta, non valeva niente. Poco dopo, la ragazza crollò a terra con i segni delle mie unghie sul collo. La vista mi si schiarì. Rimisi a fuoco la cella nella debole luce delle torce; fuori sentivo piangere e ai miei piedi c’era un ammasso di carne che forse un tempo era stata una ragazza, rosa e rossa e flaccida, ma respirava ancora; se la sarebbe cavata. Ficzkó mi chiese cosa doveva farne. Gli ordinai di lasciarla dov’era e incatenare le altre lì davanti. Come monito, dissi, e me ne risalii nelle sale del kastély . Ilona Jó mi aiutò a togliermi di dosso i vestiti imbrattati di sangue e finalmente potei infilarmi nel letto, dove sprofondai in un sonno profondo e senza sogni, finché i primi raggi di sole non mi colpirono in viso e mi svegliai di ottimo umore, come non mi capitava più da mesi, mille volte meglio delle cure di Pöstyén. L’alba di un nuovo giorno. 24. Ponikenus non venne a scusarsi il giorno dopo, e neppure il successivo. Per due giorni mi preparai ogni mattina convinta di ricevere una sua visita, e ogni sera andando a dormire ricordavo a Ficzkó che non doveva far entrare il pastore se fosse arrivato. Eppure continuavo ad aspettarlo. Avevo dato ordine alle guardie di cacciarlo via con i cani, se fosse stato necessario. Non l’avrei ammesso in casa mia neppure se fosse stato in punto di morte, colpito dalla
peste. Me ne stavo chiusa nella mia stanza a leggere un libro nella fioca luce dell’inverno, senza ricordare neppure una parola di quello che leggevo e sentendo ogni poco un rumore di passi sulle scale. Le mie figlie e i miei generi si misero in viaggio per arrivare a Pozsony prima che la neve aumentasse e ci salutammo in lacrime lamentandoci che eravamo stati insieme troppo poco, ma ognuno aveva la sua casa a cui badare e ben presto le strade sarebbero diventate impraticabili. Anna doveva tornare dal figlio e Kata voleva portare a termine la gravidanza a casa sua. Tu e Megyery vi recaste a Pozsony e poi di seguito a Sárvár. Gli uomini non erano stati di grande compagnia negli ultimi giorni, sempre nervosi e annoiati o fuori a caccia fino a tarda sera, con un’aria colpevole stampata in faccia al ritorno. Siccome erano stati avvistati dei lupi intorno al castello e Megyery si era messo in testa di prendere un cucciolo, gli altri decisero di portarlo in giro a cercarne uno. La sola idea di quel vecchio girino con un lupo mi suonava del tutto ridicola, e mi chiedevo se in realtà gli uomini non ne approfittassero per andare a fare una visitina alla taverna del villaggio e fermarsi a bere in compagnia anziché passare il proprio tempo a casa in mezzo a noi donne. Ma mi ero ben guardata dal manifestare i miei sospetti per amore delle mie figlie e per te, che eri così affezionato a tutti loro. Quando furono partiti e la casa tornò tranquilla, io, Ilona Jó e Kata Benecká trascorremmo il pomeriggio davanti al fuoco a giocare a carte o leggendo i poemi latini che avevo insegnato loro. La casa era immersa in uno strano silenzio, e persino i cani di guardia alla porta dormivano sbuffando e scalciando, forse sognando di cacciare. Ma in realtà io mi sentivo invasa da un’intensa agitazione, una rabbia muta che mi covava dietro gli occhi, nel palmo delle mani. Mi
capitava spesso di urlare a Dorka o a Ficzkó per qualsiasi inezia. Istók Soós non osava quasi avvicinarsi a me, perché da quando avevo saputo che si era portato a letto quella stupida di Doricza – di sicuro su al castello, quando era venuta a trovarmi Anna – non riuscivo a guardarlo senza farlo sentire in colpa. Il suo massiccio collo taurino e la faccia rossa, le braccia così robuste che non riusciva quasi ad allinearle ai fianchi... Perché non mi ero mai accorta di quanto fosse rozzo, stupido e avido? Non riuscivo a credere che proprio lui mi avesse voltato le spalle dopo tutto il bene che gli avevo fatto. «Cosa ti piaceva di lei?» continuavo a chiedergli, la voce spezzata dalla rabbia. «La sua stupidità, la sua pigrizia? I rotoli di grasso che aveva sulla pancia? Cosa?» «Il suo silenzio», rispose un giorno. Eravamo nella mia stanza, la stessa che avevo condiviso con lui notte dopo notte per oltre quattro anni. Le sue parole erano ancora sospese nell’aria che ci separava come fumo da una candela appena spenta. Silenzio, aveva detto. Se era il silenzio che voleva, gliene avrei dato in abbondanza. Era in piedi vicino alla porta e aspettava di vedere che cosa avrei fatto, se lo avrei aggredito o se sarei caduta ai suoi piedi piangendo. Per l’ennesima volta ero stata abbandonata per una donna più giovane. Mi passò per la mente di farlo rinchiudere in cantina per frustarlo e picchiarlo, ma chi tra i miei servi era abbastanza forte da avere la meglio su di lui? Di chi mi potevo fidare a parte Ficzkó, che però era un nano in confronto a Istók, e una manciata di vecchie? Gli suggerii allora di cercarsi un altro impiego perché la sua presenza in casa mia non era più gradita. Per un istante fu quasi sul punto di dire qualcosa, qualcosa di cui sicuramente sapeva che si sarebbe pentito. Poi ci ripensò, raddrizzò il collo taurino e si congedò. Mi lasciò lì da sola, senza nemmeno prendersi la briga di chiudersi la porta alle
spalle. Lo guardai andar via e mi affacciai alla finestra per vederlo partire. Un paio d’ore dopo, giusto il tempo che gli serviva per mettere via le sue poche cose e sellare il cavallo, udii uno scalpiccio di zoccoli che si allontanava dal kastély, e da quel momento in poi vietai a chiunque di pronunciare il suo nome davanti a me. Avremmo fatto finta che Istók Soós, il maestro di cerimonia, non fosse mai esistito. Erano passati quattro giorni da Natale e le ragazze rinchiuse nelle segrete con l’accusa di furto continuavano a dichiararsi innocenti. Ordinai a Dorka e Ficzkó di frustarle un paio di volte al giorno finché non si fossero decise a confessare e a chiedermi perdono, ma fino a quel momento non c’era stato alcun progresso. Insistevano ancora a dire che non avevano fatto niente di male. La sera della partenza di Istók, scesi con Dorka nei sotterranei che portavano alle celle sotto il castello. Erano immersi nell’oscurità e pieni di stalattiti che pendevano dai soffitti. Passammo davanti agli antri dove erano immagazzinati barili di vino e forme di ghiaccio tagliate dal fiume in inverno e conservate sepolte nella segatura. Ogni tanto l’impronta bianca di una mano o scritte scolorite dal tempo facevano intuire la lunga storia di quel posto, e io mi provai a immaginare le donne che avevano vissuto lì prima di me e tutte quelle che sarebbero venute dopo. Ovunque regnava un fortissimo odore di umido, pervaso di effluvi acidi e nauseanti, quasi fossero marcite anche le pietre e la terra. Ficzkó, che camminava davanti a me, faceva una gran fatica a orientarsi fra tutti quei vicoli ciechi. Parecchie volte fummo costretti a tornare sui nostri passi per riprendere la direzione giusta, finché non gli tirai una sberla sulle orecchie dicendogli di stare più attento, che non avevo tutto il giorno a disposizione per vagare lì al buio. Dopo la mia sfuriata trovammo facilmente la via.
Di lì a poco arrivammo nella cella dove erano rinchiuse le ragazze, incatenate al muro e strette l’una all’altra. Erano tutte nude e tremanti, con le impronte sudicie degli schiaffi di Dorka, Ilona Jó e Ficzkó in faccia e piene di lividi sulle natiche e sui polsi, sotto le catene. Il pavimento della stanzetta era fradicio, c’era odore di piscio e di sangue e faceva così freddo che il fiato si condensava in piccole nuvolette bianche. C’era del fieno buttato negli angoli, e cenere a terra per assorbire l’umidità, e il fetore di gente ammucchiata... puzza di stalla e di parto. Una puzza di terrore animale. La luce della torcia guizzò e diede a ogni particolare un aspetto sinistro, come di cose appena intraviste. Quando mi videro, le ragazze incatenate cominciarono subito a lamentarsi, ripetendo di essere innocenti. Non avevano fatto niente, dicevano, non avevano rubato niente. «Pietà, signora», imploravano. «Pietà, per l’amor di Dio.» La grassa Doricza, con la pancia in bella vista e la schiena piena di lividi e croste, piagnucolava dando strattoni alle catene e cercando inutilmente di coprirsi. La carne sulla sua schiena era drappeggiata in piccole pieghe, come un secondo paio di mammelle, e le cosce gonfie si toccavano all’altezza dell’inguine, nel punto in cui Istók Soós si era spinto così volentieri. Me li immaginai che fornicavano nella mia stanza quando ero impegnata con mia figlia, insozzando il letto bianco su cui avevo trascorso tante notti piacevoli con lui. Lei che gli avvolgeva intorno le gambe grasse, lui che affondava la sua morbida bocca rossa fra i suoi seni. Facendosi beffe di me e raccontandosi storie sulla «contessa». Trasformando tutte le gentilezze che avevo fatto loro in meno di niente, in escrementi. Tolsi la frusta di mano a Dorka. Doricza lanciò un urlo e guardò Ficzkó, ma il ragazzo decise saggiamente di non aprire bocca. «Ti decidi a chiedere perdono per ciò che hai rubato?» chiesi.
«Non avevo preso la ciotola, ma solo le pere. Volevo rimettere la ciotola a posto in cucina appena finite le pere, lo giuro.» Giurava di non aver rubato, ma io stessa le avevo visto stringere la ciotola in mano, le dissi. Era stata la cuoca a darle le pere, ribatté. Risposi che proprio la cuoca aveva denunciato il furto. A quel punto, lei scoppiò a piangere. «Non è vero», disse. «Non ho mai rubato niente in vita mia, lo giuro. Non ricordate», aggiunse, «non ricordate quando siamo andate a Bécs e l’altra ragazza, quella che è morta, ricordate che mi avevate regalato una moneta? Me l’avevate regalata perché eravate contenta del mio lavoro. Avevate promesso a mia madre di trovarmi un marito, ma sono sette anni che abito qui e non ho mai sentito parlare di un marito. L’avevate promesso a mia madre», ripeté, «quando mi ha portato qui e io vi sono sempre stata fedele e non vi ho mai risposto in maniera villana. Volevo solo una pera», disse. Aveva il viso tutto sporco di lacrime e muco. Salvatemi. «Era Natale e volevo una pera. Tutto qui. Solo una pera. Avevo una gran fame e voi le avevate avanzate, perché non potevo prenderle?» «Se me le avessi chieste», le dissi, «te le avrei date.» «L’ho chiesto», replicò lei. «Ho chiesto a Istók Soós se potevo prenderle. Chiedeteglielo e lui ve lo dirà. Ho chiesto il suo permesso e lui ha detto che potevo prenderle. Me l’ha data lui la ciotola, ve lo giuro.» «Istók Soós è andato via», ribattei. «È partito stamattina. Ha preso il suo cavallo ed è sparito, lasciandoti qui con me.» I suoi piagnistei rimbombarono nelle caverne sotterranee e contagiarono le altre, scatenando un’ondata di lamenti che mi ronzava nelle orecchie. La ragazza si era dimostrata un’incapace sin dal primo giorno in cui l’avevo assunta al
mio servizio. Era stata una completa inetta a Pöstyén, e a Bécs non era certo andata meglio. Non potevo tenermi domestici ladri, disonesti e incompetenti, e per di più aveva sedotto Istók Soós, costringendomi a licenziarlo. Una volta ancora una ragazza – una sempliciotta, una donnaccia – si era messa tra me e l’uomo che mi amava. Una volta ancora avevo perso il conforto dell’amore, e del piacere, per colpa di una ragazza un tempo fidata, una ragazza senza istruzione, senza soldi, senza niente. Come in sogno, alzai il braccio e la frustai io stessa sulla schiena, ancora e ancora, finché non cadde a terra, la pelle a brandelli e il grasso giallo che si intravedeva dalle ferite. Il pavimento tutto imbrattato di sangue, come i miei abiti, le mie mani, il mio viso. La luce tornò a lampeggiarmi negli occhi, nelle orecchie solo il battito lieve del mio cuore, ma vedevo le sue labbra muoversi e sapevo cosa dicevano. Salvatemi. La ragazza si accasciò in avanti e si raggomitolò per terra come un maiale a cui fosse stata tagliata la gola. Zitta. Alle mie spalle, come sommerso dall’acqua, sento un rumore di pianti, forse le mie domestiche, forse le ragazze ancora incatenate insieme ad assistere alla punizione di Doricza. Forse io stessa. Viene da lontano, come il suono di un corno, come uno scalpiccio di zoccoli. La ragazza è nuda sulle pietre gelide e ha gli occhi chiusi; io penso che deve aver freddo, che dobbiamo sollevarla da terra prima che geli, altrimenti non mi servirà più a niente. Ordino a Ficzkó di liberarla e a Ilona Jó di curarle le ferite con le ragnatele e la polvere di gesso. Le donne si guardano. Ficzkó si china e la prende sotto le ascelle, ma la ragazza è più grossa di lui e lo fa barcollare. «È morta», dice. «Cos’hai detto?» «Contessa, la ragazza è morta», ripete Ficzkó. «Il gesso e le ragnatele non servono.»
Qualcuno dietro di me scoppia a piangere. Poi una delle ragazze incatenate si mette a urlare. «Škrata», mi dice. Strega. Uno sputo mi colpisce su una guancia. Rabbia. Rabbia cieca. Alzo una mano e la pesante estremità della mia frusta – un bastone di piombo avvolto in strisce di pelle – finisce sulla testa della ragazza che ha parlato, quella più vicina a me, così sporca che non capisco neanche chi sia. Un rumore stridulo, come di pietra frantumata, e la stanza si confonde sotto i miei occhi, buio pesto. Sono sola nel buio, poi, da una distanza quasi infinita, i colori finalmente riappaiono, i suoni, la luce. C’è una ragazza di fronte a me, una ragazza che piange. Ha il naso sporco di sangue e gli occhi gonfi di lacrime, che le rigano il viso. Ha qualcosa di familiare negli occhi. Ha gli occhi verdi e acquosi, come qualcuno che conoscevo tanto tempo fa. La riconosco, credo. Una cugina che avevo preso a servizio qualche anno prima, quando la madre mi aveva scritto per dirmi che tutti gli uomini del villaggio erano morti nelle guerre contro i turchi. Le avevo promesso di trovarle un marito. Éva, ecco il suo nome. Éva Cziráky. Una ragazza graziosa, con una voce dolce e una massa di riccioli biondi, come mia cugina Griseldis tanto tempo prima. Quanto sembra piccola e spaventata, adesso. Per un attimo mi chiedo come sono i suoi giorni, i suoi amori, se prova paura, rabbia, compassione o affetto. Chi amerà? Che cosa le hanno fatto coloro che ama? Ha il viso tutto imbrattato di sangue, che le scivola lungo il mento. Non so come ha fatto a sporcarsi. Ho le mani intorpidite e qualcosa cade a terra. Sento voci e urla, e un latrato di cani, ma è solo un’eco distante, come un tuono in lontananza. Il mio battito rallenta e diventa più regolare; la mia pelle è umida. È tutta insanguinata. Qualcuno mi prende per un braccio, qualcuno mi parla all’orecchio. Non sento niente, non so cosa
dicono. Una mano ruvida mi scuote finché non vedo davanti a me la faccia rossa di Ficzkó, tutto agitato, che urla. Non lo sento. Ho le orecchie piene d’acqua. Mi scrolla ancora, e ancora, sempre più forte. «Contessa!» grida, sempre più terrorizzato. «Il conte palatino è qui, è venuto a prenderci. Dobbiamo scappare subito o sarà peggio per noi.» Mi tira per un braccio, ma i miei piedi hanno messo radici come alberi vecchi, nel profondo di Csejthe, la mia casa. Un attimo dopo è sparito, Ficzkó, nei tunnel da cui siamo arrivati, diretto a casa, dove gli uomini del conte palatino lo stanno già aspettando. Dal vár sopra di noi provengono voci, profonde e soffocate, le urla delle mie domestiche e delle ragazze nella stanza, e l’odore della morte. Non mi sono mai sentita così sola. Ci sono soldati ovunque, lo scintillio del metallo, e piano piano, nell’oscurità, riconosco il viso del giovane Zrínyi, il viso del giovane Drugeth, il viso di Megyery. Sono stati loro a tradirmi, allora. Il viso di Thurzó in persona viene verso di me, galleggiando, i suoi occhi infossati, la brutta bocca infedele, ordinando ai suoi uomini di liberare le ragazze. Come ho mai fatto ad amarlo? Come ho fatto a dividere il mio letto con lui, che non ama altri se non sé stesso? «Arrestatela», dice indicandomi e le guardie si avvicinano con la mano sulla spada. Io faccio cadere la frusta – le mani intorpidite –, poi gli uomini sono su di me, urlando, ma il conte palatino rimane celato nell’oscurità, lontano da me; non mi guarda, ma sulla sua bocca – lo ripeterò finché avrò vita – vedo dipingersi un sorriso. 25. 20 agosto 1614 Fuori dalle mura della mia torre, immobile, Csejthe è immersa nel calore di un’altra estate, mentre i falchi sorvolano lentamente i campi in cerca di topi e i lunghi serpenti neri si godono il sole sulla nuda roccia, arrotolati a forma di
punto interrogativo. Ci sono impronte nella polvere fuori dalla mia torre, gli zoccoli caprini del diavolo in persona, di cui sento in continuazione i passi impazienti al di là del muro. Le guardie mi portano ogni giorno un vassoio con il cibo e la posta, e si lamentano che le stanze sono troppo piccole e calde, ma io ho sempre più freddo. «Sentite», dico loro, «sentite che mani fredde ho. Sentite come sono gelata.» Ma loro si limitano a scrollare le spalle e se ne vanno. Per più di tre anni ho seguito la scia di luce sul muro man mano che la primavera diventava estate e l’estate inverno. Il solstizio d’estate è passato, ma queste sono ancora le notti più corte dell’anno. L’aria che filtra dalla finestra s’impregna all’improvviso dell’odore della pioggia, e riesco a vedere ben poco all’esterno, salvo le colline che si srotolano lontano da me, verso la Polonia, verso la Moravia, verso il mondo che non vedrò mai più. Una volta alla settimana le guardie mi portano vestiti puliti e li supplico sempre di darmi uno specchio. Mi basta un frammento, dico, per vedere almeno un viso amico prima di morire. Oggi uno di loro mi ha portato una scheggia rotta dai bordi irregolari, che deve aver trovato in qualche angolo della fortezza. Sentire in mano il peso dello specchio mi tranquillizza un po’. Ho trovato spesso una certa consolazione nel guardarmi allo specchio, nell’osservare i miei lineamenti che, nel corso di una lunga vita, sono cambiati dalla rosea e rotonda floridezza della gioventù alle rughe severe ed evidenti della maturità. Il mio viso è stato il mio fedele compagno in tutti questi anni, anche quando gli amici e i parenti mi hanno abbandonato, o l’amore si è rivelato una delusione. Guardandomi allo specchio adesso, vedo che i miei capelli sono spettinati e con più fili grigi di quanti ne ricordassi, specialmente alle tempie. Sciolti, senza le perle che vi infilavo sempre, ricadono ondulati fino in vita e hanno un
aspetto pesante e ispido, come la criniera ingarbugliata di un cavallo. La pelle, solitamente chiara, è segnata da scure fosse grigie spuntate sotto gli occhi e nelle cavità delle tempie; in mezzo alla fronte si è formata una piega causata dall’insonnia e dalle preoccupazioni. Agli angoli degli occhi il reticolo di rughe si fa sempre più profondo e mi fa assomigliare a una vecchia megera che abbia passato la vita ad allevare capre sotto il sole torrido, più che a una nobildonna di cinquantaquattro anni che ha curato la propria bellezza come un monaco una preziosa icona. Come si sciupa in fretta la bellezza, com’è definitiva la sua fine. Rimetto via lo specchio con attenzione, scuotendo la testa. Non voglio piangere, non qui, non davanti ai miei carcerieri. Ci sarà tutto il tempo per farlo più tardi. Mi spoglio e non riesco quasi a riconoscere il mio corpo nudo. La pelle della pancia, sformata da sei gravidanze, mi pende sotto l’ombelico ed è striata di bianco, così flaccida che riesco a stringerla tra le mani. I seni pendono flosci e svuotati come otri e il collo è rugoso, chiazzato di rosso e marrone, mentre i piedi sono callosi e ruvidi. Sulle gambe si è disegnata una ragnatela di vene blu e verdi, i confini di una vecchia mappa che dividono il mio nuovo essere, sopraffatto dagli anni e dall’indifferenza, da quello di un tempo. Indosso i vestiti puliti, ma pendono troppo larghi sulle spalle e lunghi sui polsi. Sono dimagrita molto negli ultimi tre anni, a furia di zuppe e grasso di carne, maiale poco cotto e formaggio troppo vecchio, e vino acido rimasto in cantina. Ho perso il gusto del cibo, come ho perso il gusto del mio stesso respiro. Forse è meglio che tu non venga a trovarmi. Vorrei tanto che potessi rivedermi com’ero un tempo, Pál: le guance rosate, il seno traboccante dal corpetto aderente, i capelli lucidi e sani, il sorriso di una donna sicura dell’amore del suo uomo più di qualsiasi altra. Ora la gonna mi
pende larga in vita perché non ho nessuno che mi aiuti ad allacciarla, nessuno mi stira i volant del collare, in modo da servire il mio viso come su un vassoio, come le damigelle di mia madre facevano un tempo per lei. Io faccio il possibile con i lacci, ma i risultati non sono perfetti. Mi tiro su le maniche del vestito e infilo la stoffa sotto il corpetto. Quando mi vesto, mi spalmo olio di mandorle sulle mani e sul viso. Qualche bacca schiacciata su labbra e guance mi aiuta a riportare in vita l’antico colore d’un tempo, bianco e rosa. Poche gocce d’inchiostro aiutano a coprire i capelli grigi sulle tempie. Quando mi guardo allo specchio, torno piano piano a riconoscermi, un vago ricordo della Erzsébet arrivata novella sposa a Sárvár, che alla luce della luna aveva ballato con Thurzó nelle sale di Bécs. Mi tocco il viso, e sento le vecchie ossa sotto la carne. Un giorno avevo deriso la vanità delle donne di quaranta e cinquant’anni che si truccavano ai balli e alle feste, o si sbiancavano la pelle arrossata con il piombo, ma adesso ho capito che questi rimedi non sono maschere per le vecchie megere che pretendono di accalappiare un uomo. Sono solo travestimenti da indossare quando vogliamo tornare a riconoscerci. Adesso che mio nipote Gábor è morto – assassinato in Transilvania dai suoi stessi uomini –, il conte palatino non avrà più alcun motivo per pensare a me. Ormai non gli servo più, qui rinchiusa nella mia torre, sono solo una vecchia signora malandata con le mani doloranti per il freddo persino nel pieno dell’estate. Quello che diceva mia madre tanto tempo fa era vero: una donna senza marito è alla mercé di chiunque, ma altrettanto fragile è una vedova con un figlio piccolo, una vedova rinchiusa in un angolo remoto della casa, un relitto di un’era passata. Quando sarai cresciuto, quando sarai abbastanza grande per capire cosa ho scritto in queste pagine, spero tanto che ricorderai la tua vecchia
madre e quanto ti ha amato, Pál, quanti sacrifici ha sopportato per te. Kata ha promesso di venirmi a trovare presto, ma è di nuovo incinta e ovviamente ha paura di affrontare un viaggio così lungo. Temo che non la vedrò prima del prossimo inverno, se non addirittura quando in primavera si sgombreranno le strade tra Pozsony e Csejthe. La notizia peggiore, in ogni caso, è che dopo l’ultimo aborto Anna non vuole più alzarsi dal letto e, anche se i dottori la visitano in continuazione, non sono capaci di trovare una cura per risollevarle lo spirito. È Miklós a mandarmi sue notizie, perché quella povera ragazza non ha neppure la forza di tenere in mano una penna. Sono certa che, se potessi andare da lei, troverei il modo di farla guarire. Sono in pensiero per Anna. È ancora giovane e potrebbe essere felice, ma la perdita del bambino l’ha rattristata e lei sta avvizzendo quanto la sua vecchia madre in prigione. Temo di non essere stata giusta con lei, lasciandola senza i mezzi per sopravvivere a questa sciagura. Ma ormai non si può tornare indietro e forse è meglio così. Dei peccati di giovinezza ci si può pentire solo da vecchi, come dice sempre il reverendo Zacharias quando mi viene a trovare. «Perché la misericordia di Dio è infinita ed eterna», ripete. Io non gli dico però che, anche se Dio ti perdona, sei tu a non perdonare te stesso. Vivi nel rammarico come in una stanza rivestita di specchi che riflettono la tua immagine per l’eternità. Se la confessione e la prigionia portassero l’oblio, come le acque del Lete, ben volentieri cadrei sulle ginocchia, aprirei la mia anima all’Onnipotente e comincerei ad amare queste pareti anguste. Quale sollievo, provare finalmente almeno un attimo di pace. Scrivere le mie tristi memorie è servito solo a renderle più chiare, più vivide. Mi ha riportato alla mente i visi dei miei cari, mia madre e mio padre, soprattutto perché non ho altri visi davanti a me. István, Zsofía,
Klára, Darvulia, Ferenc. Sono sopravvissuta a tutti loro, e a due figli miei. I greci dicevano che nessun uomo si può dire felice prima che sia morto, perché fino a quel momento non è felice, ma solo fortunato. Ho vissuto cinquantaquattro anni su questa vecchia terra, abbastanza per vedere i miei capelli diventare grigi e la mia bellezza svanire, abbastanza per seppellire mio marito e i miei amici, mia madre e mio padre, le mie sorelle e mio fratello, i miei figli, e so di essere la persona più sfortunata della terra. Solo la morte sarà la mia consolazione, quando giungerà, eppure ne ho un gran timore. Temo quello che mi attenderà al di là del sipario, quale nuovo cielo, o nuova terra, mi accoglierà. Ogni tanto penso alle ragazze morte, quelle che hanno subito le conseguenze della mia rabbia e della mia gelosia. Judit, Amália, Gizela, Éva, Doricza. E tutte quelle di cui non ho mai saputo il nome. Ci sono volte in cui penso che sarei disposta a restituire loro la vita, a rinunciare a ogni frustata e percossa, per rivedere te, figlio mio. Tutte loro insieme non valgono l’avere perso te. Se potessi esprimere un solo desiderio nella mia vecchiaia, oltre a uscire da questa torre e sfuggire alle alte guglie del castello di Csejthe, tornerei una volta ancora nelle paludi di Ecsed, dove con i miei fratelli giocavo da bambina tra le pietre ricoperte di muschio della fortezza, dove i miei genitori, la mia famiglia, furono un tempo così felici. Forse mi affaccerei alla finestra alla luce della luna e tornerei a sentire la voce dello zingaro condannato per aver venduto la sua figlioletta ai turchi, lo strano modo in cui il suo accento si infrangeva sulle parole ungheresi come un martello sulla pietra. Salvatemi, diceva. Forse mi visiterebbero i fantasmi di tutti i miei cari defunti, genitori e fratelli, marito, figli, tutti i morti Báthory e Nádasdy che sono scomparsi prima di me. E gli altri fantasmi, tutte quelle ragazze che sono
morte per mano mia, i cui visi vedo sempre entrare nella mia cella attraverso le crepe delle pareti, la fessura della porta. Ho forse sbagliato a trattarle così? Non era forse mio diritto, come padrona di casa, punirle nel modo che ritenevo più giusto? In cambio ho perso i miei figli, la mia fortuna, il mio buon nome... tutto. La loro vita non valeva molto ai miei occhi, ma gliela restituirei all’istante in cambio di un solo altro giorno insieme a te, Pál, e alle tue sorelle. Salvatemi , dicevano, ma non l’ho fatto. E ben presto sarò destinata a raggiungerle. Ben presto dovranno abbattere il muro e portarmi all’aria aperta. Mi porteranno nella cappella di Csejthe, lontano dalla mia cripta di famiglia a Nyírbátor, lontano dalla tomba di tuo padre a Sárvár. E allora vi proteggerò, figli miei, ovunque voi siate. Anna, Kata, Pál. E anche la mia altra figlia scomparsa. Vi toccherò la guancia con la mia mano che non sarà più la mia. Chissà se mi sentirete quando chiamerò il vostro nome. Tengo i bauli pronti, così quando tu o le tue sorelle verrete a dirmi che sono libera, mi troverete pronta. Osservo l’orizzonte in attesa che sorga il sole. Ogni giorno, osservo e attendo. RINGRAZIAMENTI Un grazie di cuore a Richard Abate, Suzanne O’Neill, Emily Timberlake, Louise Quayle, Ray Ventre, Catherine Knepper, Michelle Falkoff, Colette Sartor, Stacey Shrontz, Aubrey Ryan, Melissa Cottenham, a tutta la mia famiglia e ai miei amici, nonché ai miei colleghi del dipartimento d’inglese presso la Northern Michigan University e la DePaul University per il loro preziosissimo contributo durante la stesura di questo libro. Un ringraziamento particolare anche a Amy Hickey per avermi aiutato nella trascrizione e nella pronuncia delle parole e dei nomi ungheresi, e a Chet DeFonso per avermela presentata.
Per le ricerche sulla vita di Erzsébet Báthory e il mondo in cui è vissuta, sono in debito con Tony Thorne per il suo libro La Contessa Dracula. La vita e i delitti di Erzsébet Báthory (Mondadori, Milano 1998) e con Katalin Péter per il suo Beloved Children: History of Aristocratic Childhood in Hungary in the Early Modern Age (Central European University Press, Budapest 2001).__