STEPHEN R. LAWHEAD LA CROCE NERA (The Black Rood, 2000) A Fred e Catherine
LIBRO I
10 novembre 1901. Pafos, Cipro La...
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STEPHEN R. LAWHEAD LA CROCE NERA (The Black Rood, 2000) A Fred e Catherine
LIBRO I
10 novembre 1901. Pafos, Cipro La convocazione era giunta mentre mi trovavo in ufficio, con la posta del pomeriggio, appena consegnata, che il fattorino aveva collocato in una pila ordinata nel vassoio sulla mia scrivania. Mentre passavo il tagliacarte sotto il bordo incollato di una busta, non mi aveva neppure sfiorato l'idea che si trattasse di qualcosa di particolarmente importante, ma quel biglietto color crema attrasse tutta la mia attenzione. Vi era vergata con grafia sottile un'unica parola che mi fece sobbalzare sulla sedia: "Stanotte". Avvertii un fremito corrermi per il corpo e un nodo stringermi lo stomaco e, con un sospiro di esasperazione, mi appoggiai all'indietro, allungando il più possibile il braccio per tenere a distanza il biglietto, come per allontanare l'inesorabile richiesta contenuta in quella sola, magica parola. In effetti era trascorso un periodo di tempo piuttosto lungo dall'ultima riunione del Cerchio Interno e, probabilmente, iniziavo a compiacermi un po' troppo della mia ordinata esistenza, per cui quell'improvvisa e inattesa intrusione mi suscitava un certo risentimento. Fissai quella parola insolente, lottando contro il prepotente desiderio di fingere di non averla vista. Provai persino a nascondere il biglietto tra le lettere ancora chiuse, cercando di dimenticarlo, ma la curiosità e il forte senso del dovere ebbero la meglio. Rassegnato alla mia sorte, suonai il campanello e incaricai uno dei fattorini di consegnare a mia moglie una nota di scuse scarabocchiata in tutta fretta, in cui le spiegavo che, a causa di un imprevisto impegno di lavoro della massima importanza, quella sera avrebbe dovuto cavarsela da sola e la pregavo di non aspettarmi in piedi, poiché prevedevo di tornare molto tardi. Un rapido sguardo alla mia agenda da tavolo mi rivelò che, proprio quella sera, a casa mia si sarebbero riunite le illustri socie dell'Associazione femminile per combattere l'analfabetismo e incoraggiare la temperanza, un branco di vecchie signore ciarliere e piene di buone intenzioni, il cui eccesso di istinto materno aveva trovato uno sbocco nel tentativo di rendere migliore la società per mezzo della lettura e dell'astinenza dalle bevande
alcoliche, fatta eccezione per lo sherry. Propositi degnissimi, senza dubbio, ma indicibilmente tediosi. La mia rassegnata irritazione si trasformò all'istante in compiacimento: ero ben lieto di avere un buon motivo per evitare la molestia mortifera di una serata che, stando alle trascorse esperienze, poteva essere descritta solo come una rappresentazione della noia allo stato puro. Liberatomi di quel pesante obbligo domestico, mi si apriva dinanzi una vasta gamma di possibilità. Dapprima pensai di cenare al club, ma poi decisi di desinare rapidamente, così da avere tempo per il viaggio in carrozza verso la cappella dove gli affiliati del nostro ordine clandestino si riuniscono di tanto in tanto. Con animo colpevole e tuttavia rallegrato da un'eccitazione infantile, presi in considerazione le varie alternative che mi si offrivano. In Hannover Street c'erano diversi ristoranti nuovi che avevo da tempo intenzione di provare e, nelle vicinanze, c'era un pub che mi era stato raccomandato da un giovane collega dello studio. Libero per una sera dal guinzaglio coniugale, ero l'unico padrone di me stesso. Quando ebbi finito il lavoro della giornata, mi trattenni ancora in ufficio per sbrigare qualche faccenda di poca importanza, finché non fui certo che i fattorini e gli impiegati più giovani se ne erano andati e che non avrebbero potuto scorgermi, neppure accidentalmente. Ho la convinzione che non ci sia niente di male nel prendere precauzioni speciali in tali circostanze; non c'è dubbio che ciò avvenga in gran parte per mio divertimento, ma mi fa comunque sentire meglio. Non vorrei mai che una mia pur minima disattenzione compromettesse la segretezza del Cerchio Interno. Dopo una pinta di birra scura al Wallace Arms, svoltai e mi diressi all'Alexander's Chop House dove, in attesa della carrozza, mangiai un passabile arrosto di lepre in salsa di senape che accompagnai con un bicchiere di chiaretto di ottima qualità. Poiché era una bella serata, e insolitamente mite per la stagione, chiesi al cocchiere di abbassare la capote e mi godetti una splendida passeggiata attraverso la città e nella campagna circostante. Mi misi d'accordo con il vetturino per il viaggio di ritorno e, quando la carrozza scomparve alla vista, percorsi a piedi l'ultimo tratto di strada verso la cappella dove avrei incontrato gli altri. Mentre mi avvicinavo, scorsi qualcuno che si affrettava davanti a me: riconobbi De Cardou, ma non lo chiamai. Non ci facciamo mai riconoscere quando siamo in pubblico. Anche agli ordini più bassi della Confraternita viene raccomandato di evitare di attirare l'attenzione di un confratello. Per i nuovi membri è una disciplina che, se applicata con costanza, può portare
al raggiungimento dei gradi più elevati, mentre per gli affiliati al Cerchio Interno costituisce un'indiscutibile necessità; ora più che mai. Simili preoccupazioni appaiono lontanissime dall'onesta semplicità della vita sull'isola greca dove adesso mi trovo. Qui, sulle colline immerse nel sole che circondano Pafos, è facile dimenticare le nubi foriere di tempesta che si addensano a occidente, eppure esse sono evidenti a chiunque sappia vedere. Persino io, l'affiliato più recente del nostro santo e sacro ordine, riesco a riconoscere pericoli che uno o due anni fa non esistevano; e in questi ultimi giorni essi non fanno altro che aumentare. Se mai ho dubitato dell'importanza della Confraternita, ora non ho più incertezze. La nostra riunione, quella sera, fu semplice e solenne. Ci incontrammo nella Sala della Stella, nascosta sotto il presbiterio, perché offre un'atmosfera che si adatta meglio alla discussione. Presi il mio posto al tavolo rotondo e, dopo i rituali e la preghiera di inizio, Genotti ci chiese di ascoltare il rapporto sulle attività della Confraternita in Sudamerica e sulla necessità di intervenire nel clima politico in continuo peggioramento. «Anche se il trattato di pace concluso nei primi mesi dello scorso anno fra Cile e Brasile rimane valido» riferì «i tentativi di farlo fallire non cessano. Sono stato informato che alcuni agenti al servizio del Caldero, un pericoloso movimento anarchico, stanno progettando un assalto al palazzo del presidente cileno. Il Brasile verrà accusato dell'attacco per trascinare i due governi in un conflitto aperto.» Evans, il nostro numero due, espresse la sua preoccupazione a nome del gruppo e chiese a Genotti che cosa suggerisse. «È mia convinzione che lo staff presidenziale debba essere avvertito, in modo da poter assumere misure cautelative. Raccomando anche, previa approvazione della Confraternita, che vengano anticipati fondi per addestrare un agente che si introduca nel Caldero e ne provochi la distruzione dall'interno.» Solitamente, una tale proposta avrebbe dato il via a una lunga discussione sui metodi e sulle forme di attuazione del piano. Quella volta, invece, Pemberton si alzò in piedi e, prima che avesse inizio il dibattito, ringraziò Genotti a nome della Confraternita per la sua solerzia. «Comunque» aggiunse in tono tetro «diventa sempre più evidente che i nostri tentativi di manipolare i sistemi politici non possono continuare. È pericoloso e potenzialmente distruttivo per gli scopi generali del Cerchio Interno; soprattutto perché tali ingerenze nelle strutture di potere di nazioni sovrane hanno una capacità di seduzione impercettibile, ma enorme, che ci distoglie dai nostri obiettivi principali.»
Pemberton, alto e snello nella sua veste rossa con la croce d'oro all'altezza del cuore, gettò uno sguardo intorno per sincerarsi che ciascuno di noi avesse ben compreso le sue parole. «Inoltre, signori, è sempre più evidente che il mondo ha intrapreso un nuovo e spaventoso cammino. Non possiamo sperare di rimanere estranei alle forze sempre più distruttive che cominciano a estendere la loro influenza sulle singole popolazioni del pianeta. Il Sudamerica è in fermento, l'Europa orientale sta scivolando rapidamente verso l'anarchia politica e il caos, nubi di guerra si stanno addensando nel cielo di una dozzina di altri paesi.» Citando uno dopo l'altro esempi incontestabili, la nostra saggia guida ci rivelò non solo in quale forma, ma anche con quale estensione il male si sarebbe abbattuto sull'umanità ignara: «Nuove minacce richiedono nuove strategie. In breve, signori, se vogliamo sopravvivere, dobbiamo adottare i loro metodi. Dobbiamo essere pronti a una nuova crociata». Continuò esponendoci il piano al quale ci saremmo dovuti conformare per il futuro, a partire da quella stessa sera. Quand'ebbe finito, tutti noi, seguaci della Santa Luce, custodi del Vero Sentiero, ci alzammo in piedi, uno dopo l'altro, per rinnovare i voti solenni e consacrarci alla nuova crociata. Il nostro eterno nemico attrezza se stesso e le innumerevoli schiere dei suoi servi con armi nuove e sempre più potenti per la distruzione di massa, dunque quella sera anche noi, soldati della Santa Luce, ci attrezzammo per il conflitto imminente. Nel nome dello spirito immortale dei Célé Dé, chiamammo a raccolta l'antico coraggio degli intrepidi crociati celti che ci avevano preceduto e prendemmo posto accanto a loro sulla linea di battaglia. La guerra ci sarà. È inevitabile e imminente. Per ora, tuttavia, mentre guardo il luccichio del mare cipriota, aspiro l'inebriante brezza profumata di fiori, sento il tepore del sole e mi compiaccio dell'affetto tenero e costante della mia cara moglie; voglio solo assaporare l'ultima, residua dolcezza di un'epoca ancora umana, che nessuno conoscerà più, non appena sarà trascorsa. Domani mi occuperò degli affanni del domani. Adesso che ancora splende il sole, voglio godere di questa splendida stagione e serbarne il ricordo in opposto ai giorni del male. Uno
Festa di San Giorgio Anno Domini 1132 Mia dilettissima Caitrìona, è accaduto il peggio. Come direbbe il vecchio Peder, "sono tristemente in bonaccia". Il mio sogno di gloria è ridotto in cenere; è morto nel caldo letale di un deserto siriano senza nome, insieme a ottomila valorosi il cui unico crimine è stato quello di essere fedeli a un ragazzo testardo e arrogante. Li compiangerei, se non fosse che io stesso, non meno caparbio e altezzoso di quel giovane scriteriato, li seguirò presto nella tomba. I saraceni insistono nel definirmi uno stimato ospite del califfo del Cairo, ma il loro non è altro che un modo educato per dire che sono prigioniero. Mi trattano bene e, certamente, da quando sono giunto in Terra Santa, non ho mai visto tanta cortesia, né tanto lusso, tuttavia non posso lasciare il palazzo finché il califfo non mi avrà ricevuto. Sta a lui decidere quale sarà il mio destino, e io so anche troppo bene come finirà. Sia come sia, il potente califfo sta inseguendo i nemici verso sud, e si prevedono tempi lunghi per il suo ritorno in città. Così, ho tempo e modo di mettere per iscritto ciò che può essere rivelato della nostra grande e nobile impresa, in modo che tu conosca le ragioni per cui tuo padre ha messo a repentaglio ciò che amava di più per avere la possibilità di ottenere la suprema ricompensa. Parte di ciò che racconterò ti è già noto. Se diventerò tedioso, ti prego di avere pazienza e di ricordare che questo mio testamento non è solo rivolto a te, mio tesoro, ma a tutti coloro che seguiranno il nostro esempio nei giorni a venire. A Dio piacendo, tutto verrà detto prima della fine. Ebbene, da dove cominciare? Iniziamo dal giorno in cui Torf-Einar fece ritorno dai morti. Mi trovavo in chiesa insieme a tuo nonno Murdo, per aiutarlo a controllare il lavoro dei muratori. L'estate precedente avevamo acquistato un grosso quantitativo di blocchi di pietra per gli archi e le soglie e ci preparavamo per l'arrivo di un nuovo carico che doveva giungere da un momento all'altro. Tuo nonno e l'abate Emlyn erano in cortile, attorno a un tavolo, e stavano studiando i disegni di fratel Paulus per la costruzione, quando un monaco giunse di corsa dai campi per avvisarci che una nave stava attraccando nella baia. Radunammo in fretta un piccolo comitato di benvenuto e ci apprestammo a raggiungere la spiaggia. L'imbarcazione era piccola, come quelle che
fanno la spola tra le isole, ma non era delle Orcadi e non si trattava neppure di uno dei pescherecci di re Sigurd, come avevamo immaginato. A forza di remi, i marinai avevano portato a riva la nave e, quando raggiungemmo la baia, erano intenti a scaricare un fagotto che sembrava pesante. Stando quattro in acqua e tre sul ponte, cercavano di calarlo per mezzo di un tavolato di legno, facendo grande attenzione a non farlo cadere in acqua. " «Sono mercanti irlandesi» suggerì una donna. «Mi chiedo cos'abbiano portato.» «Sembra un mucchio di vecchi stracci» disse un'altra. I marinai infine riuscirono a far scendere il carico oltre la paratia e si apprestarono a raggiungere la riva a piedi. Mentre si avvicinavano, vidi che la tavola era, in realtà, una lettiga su cui era assicurato un corpo inerte. Dopo aver deposto quel misero mucchio di resti e di ossa sulla striscia di sabbia davanti a noi, si allontanarono, con l'aria di essere sollevati per aver portato a termine un compito gravoso. Istintivamente pensai che doveva trattarsi del cadavere di un uomo dell'equipaggio, morto durante la navigazione. Non appena fu posta a terra, però, la salma cominciò a gridare e a dimenarsi: «Slegatemi» urlava, agitando le membra scheletriche. «Fatemi alzare!» Tutti quelli che si trovavano sulla spiaggia sussultarono e fecero un balzo indietro. Murdo, però, si avvicinò e si chinò su quel mucchio di cenci ansanti. «Torf?» chiese, fermandoglisi accanto. «Sei proprio tu, TorfEinar?» E, con grande stupore degli astanti, quel mezzo cadavere rispose: «E chi altri se no? Slegami, presto, e fammi alzare». «Dio del Cielo!» gridò Murdo. «È proprio vero?» e, facendo un cenno a uno dei presenti, aggiunse: «È mio fratello che è tornato dai morti; qualcuno mi aiuti a liberarlo». Mi feci avanti, insieme all'abate e ad altri e fu così che ritrovai uno zio perduto da lungo tempo. Era tornato dalla Terra Santa, dove aveva vissuto sin dai tempi della Grande Crociata. Era il più grande dei due fratelli maggiori di mio padre e, insieme all'altro, Skuli, si era unito a Baldovino di Boulogne. Come compenso per il leale servizio prestato, erano state loro assegnate terre a Edessa, ed essi vi si erano stabiliti. Quando gli veniva chiesto che cosa fosse accaduto ai suoi fratelli, Murdo rispondeva sempre che erano morti cercando fortuna in Terra Santa. Per tutta la mia vita sino a quel giorno, non avevo mai saputo null'altro. E, del
resto, da loro non era mai giunta alcuna notizia, non una lettera e neppure un saluto inviato per mezzo di qualche pellegrino di ritorno a casa, nonostante in tutti quegli anni avessero certo avuto ampie possibilità di farci sapere qualcosa. Fu per questo che Murdo disse che suo fratello era tornato dai morti. In un certo senso era vero; perché nessuno si sarebbe aspettato di rivedere Torf, né in questo mondo né nell'altro. E invece eccolo lì: poco più che un mucchio di pelle rinsecchita e di brutto carattere, ma ancora vivo. Della sua grande ricchezza, però, non era rimasto neppure il pallido luccichio di un bottone d'argento. L'uomo che vidi su quella lettiga improvvisata aveva più cose in comune con i laceri mendicanti che si ammassano al riparo delle mura del monastero di Kirkjuvàgr che non con un nobile giunto dall'Oriente. Anche un umile guardiano di porci avrebbe dato un'immagine migliore di sé. Quando lo liberammo comprendemmo la ragione per cui era stato trasportato a riva legato alla tavola: aveva le gambe coperte da moltissime piaghe purulente; non poteva camminare, e riusciva a malapena a reggersi in piedi. Ciò nonostante, non gradiva affatto di restare in quella posizione e non smise di dimenarsi finché non fu sciolto dalle funi. «Perché ritornare proprio adesso, dopo tanti anni?» chiese Murdo, chinandosi su di lui. «Sono venuto per morire a casa mia» rispose Torf-Einar. «Pensi che avrei potuto sopportare di essere sepolto in quella terra dimenticata da Dio?» «La Terra Santa dimenticata da Dio?» domandò Emlyn, scuotendo la testa per lo stupore. Il viso rugoso di Torf si contrasse come per un pugno, e il vecchio sputò in terra: «Terra Santa!» esclamò sogghignando. «Un porcile è più salubre di quel luogo maledetto, e una fossa di serpenti più ospitale.» «E le tue terre?» chiese Murdo. «Che cosa ne è stato della tua grande fortuna?» «Al diavolo le terre!» ringhiò Torf-Einar. «E anche la fortuna! Se la tengano pure gli infedeli. Una massa di demoni a due facce, tutti quanti. Che la peste colga quei dannati e che l'inferno se li prenda!» Preso dalla foga, cominciò a dimenarsi. Murdo si affrettò a intervenire: «Adesso calmati, Torf. Sei con la tua gente. Non c'è niente che possa nuocerti, qui». Portammo il vecchio al castello e ci adoperammo per assicurargli una sistemazione confortevole. Lo chiamo "vecchio" perché mi sembrava tale,
anche se aveva solo qualche anno più di mio padre. Il suo viso appariva scarnificato dall'esistenza inquieta che aveva condotto e, credo, dall'assidua frequentazione dei bordelli. La pelle, resa scura dall'implacabile sole saraceno, era screpolata e rugosa come un pezzo di cuoio consunto e i capelli scoloriti si erano ridotti a una manciata di ciuffi ispidi; gli occhi erano costantemente socchiusi e braccia e gambe erano costellate da un così gran numero di cicatrici da sembrare tronchi nodosi. Insomma, l'uomo gagliardo di un tempo era ormai un osso spolpato e gettato tra i rifiuti. Giunti al castello, sistemammo il vecchio nel salone. Murdo diede ordine di preparare un giaciglio e di sistemarlo in un angolo accanto al focolare. Attorno fece collocare un paravento, perché Torf non fosse disturbato dal continuo viavai dei servitori, e senza dubbio anche per proteggere gli altri da quella miserevole vista. Le donne si affrettarono a portargli cibo, bevande e abiti. Non fu difficile adempiere a quest'ultima incombenza, dal momento che anche il più malridotto stuoino per cani sarebbe stato in condizioni migliori dei suoi luridi stracci. Mia madre avrebbe preferito che facesse un bagno prima di essere accolto sotto il suo tetto, ma Torf non ne volle sapere. Quando la fantesca gli si avvicinò con l'acqua calda e un pezzo di sapone scozzese, lui la insultò con tanta veemenza da farla scappare in lacrime. Poi, chiamando a testimone il cielo, giurò che avrebbe fatto un bagno solo quando sarebbe stato messo sotto terra. Alla fine, Murdo ordinò che lo lasciassero tranquillo, e Regana non poté far altro che obbedire. Comunque, non permise a nessuna domestica di servirlo e disse che, poiché Torf era incapace di accettare di buon grado anche la minima cortesia, sarebbe stato il ragazzo di stalla a prendersi cura di lui. Ciò nonostante, notai che spesso era proprio lei a occuparsene. Fu presto evidente che Torf-Einar era tornato a casa per morire: le sue ferite continuavano a suppurare, esaurendo sempre più la poca forza che ancora gli restava. La sera in cui arrivò, passai per caso accanto all'angolo in cui giaceva, sul letto che mio padre gli aveva fatto preparare, e udii una specie di guaito. Mi avvicinai senza far rumore e, osservando l'infermo, mi accorsi che si era addormentato e che uno dei cani gli stava leccando le piaghe della gamba scoperta: il povero Torf gemeva nel sonno per il dolore. Che Gesù mi perdoni, non ebbi la forza di restare, e me ne andai lasciandolo ai suoi incubi. Nei giorni seguenti venni a sapere molte cose sulla vita che aveva con-
dotto in Oriente. Benché gravemente ammalato, gli piaceva parlare con chiunque fosse disposto ad ascoltare il suo balbettio da febbricitante. Preso da un senso di pietà, mi assunsi l'incarico di portargli la cena ogni sera, per sollevare mia madre da quell'opprimente incombenza. Restavo seduto accanto a lui mentre mangiava, ed egli mi narrò i particolari della sua esistenza a Edessa e la sorte toccata al povero Skuli. Mantenendo il suo impegno, Baldovino, in cambio dei loro servigi, aveva assegnato a Torf e a Skuli alcune terre, senza lesinare nella concessione. I due fratelli avevano scelto territori confinanti, così da creare un unico regno e da governarlo insieme. «Sulla rocca della città di Khemil possedevamo un palazzo con cinquanta stanze» si vantò l'infermo una sera, mentre gli davo da mangiare brodo di maiale e pane nero. I denti guasti gli dolevano, così dovevo inzuppare i pezzi di pane nel brodo per ammorbidirli e poi darglieli a uno a uno in modo che potesse masticarli e inghiottirli. «Cinquanta stanze, hai sentito?» «Sono davvero tante» ammisi. Doveva stare davvero male e avere le idee confuse. «Avevamo sessantotto servitori e quaranta domestiche. La stanza del tesoro aveva una porta spessa come il torace di un uomo, tutta contornata di ferro. Ci volevano due persone per aprirla. La stanza era ampia quanto un granaio, scavata nella roccia.» Farfugliò qualcosa di incomprensibile a bocca piena, poi aggiunse: «Quant'è vero Iddio, nei primi tempi era sempre colma fino al soffitto». Pensai che stesse raccontando frottole, che fantasticasse di aver posseduto ricchezze incredibili per rendere la sua vicenda meno patetica, e mi imbarazzava vederlo così sciocco e avido. Ma, mia cara Cait, ero io lo sciocco, quella sera. Da quando sono giunto in Oriente, ho capito che la sua storia era vera. Ho veduto con i miei occhi palazzi che farebbero sembrare quello di Khemil solo un riparo di canne per il bestiame, e stanze del tesoro più grandi del salone di tuo nonno Murdo, piene di una tale quantità d'oro e d'argento che il diavolo stesso deve fremere d'invidia alla vista di una simile abbondanza di ricchezze. Quella sera, però, non credetti a una sola parola delle sue vanterie. Gli diedi da mangiare la zuppa e feci qualche piccolo commento quando mi pareva opportuno. Ma, per lo più, rimasi seduto ad ascoltare, cercando di non guardare quel corpo sfigurato e deperito. «Nei nostri possedimenti avevamo frutteti, con centinaia di peri e di fi-
chi e tre vasti uliveti. Oltre alla fortezza e alla città di Khemil, governavamo su due piccoli villaggi e su un mercato che si teneva all'interno dei confini del nostro regno. Inoltre, poiché la strada da Edessa ad Aleppo attraversava la parte meridionale delle nostre terre, avevamo il diritto di riscuotere il pedaggio. Tutto sommato, era un bel posto. «Il primo anno vivemmo da re. Gerusalemme era caduta e partecipammo alla divisione del bottino. A Edessa, il conte Baldovino aumentava di giorno in giorno il suo potere e la sua ricchezza. Ci nominò suoi vassalli, insieme a una ventina d'altri come noi: Skuli e io diventammo signori di Edessa alle dipendenze dal conte. Per tutto il primo anno non dovemmo mai sguainare la spada, né sellare un cavallo se non per andare a caccia. Mangiavamo i cibi più prelibati, bevevamo il vino migliore e ci dedicavamo a far prosperare il nostro regno. «Poi Skuli si ammalò di febbre e morì. Credi a me, i deserti d'Oriente sono un focolaio di malattie e pestilenze d'ogni genere. Rimase a languire per sei giorni e il settimo spirò. Il giorno in cui lo seppellii, bada bene, proprio quel giorno, giunse a Edessa la notizia che Goffredo era morto. La febbre si era portata via anche lui. O forse si trattò di veleno...» Tacque, perso nei suoi pensieri. Per riportarlo con garbo alla realtà, chiesi: «Chi era Goffredo?». Strizzò un occhio e mi guardò con sospetto: «Murdo non ti ha mai raccontato nulla?». «Mio padre mi ha detto un sacco di cose sulla Grande Crociata» risposi sdegnato. Il vecchio storse la bocca con fare beffardo: «Non ti ha raccontato proprio niente; non sai nemmeno chi è Goffredo di Buglione, primo re di Gerusalemme». Invece lo conoscevo, non grazie a mio padre, è vero, perché lui parlava raramente della crociata, ma perché l'abate Emlyn ne ciarlava in continuazione. Ricordo che stavo seduto ai suoi piedi mentre narrava le sue avventure in Terra Santa. Il buon monaco, come tu ben sai, era bravo nel raccontare storie, e io non mi stancavo mai di ascoltarlo. Così avevo sentito molte cose sul difensore del Santo Sepolcro, Goffredo di Buglione, e sulla sua smisurata follia. Però quella sera mi interessava assai più ciò che poteva sapere Torf, perciò preferii non svelare i miei pensieri e dissi: «Goffredo era il fratello di Baldovino». «Esatto. Non ho mai incontrato un uomo più coraggioso di lui. Un vero
leone sul campo di battaglia: nessuno poteva resistergli. Ma quando non era occupato a massacrare gli infedeli, era sempre in ginocchio a pregare. Lo consideravano tutti un santo.» Torf si interruppe, sembrava concentrato nel ricordo di tanta grandezza, poi aggiunse: «Goffredo era un asino». Dopo quanto aveva detto, quel giudizio mi sorprese: «Perché?» chiesi. L'infermo masticò ancora un po' di pane, poi prese la ciotola, la vuotò rumorosamente, la mise da parte e si sdraiò: «Perché?» ripeté, fissandomi con sguardo derisorio. «Immagino che tu sia uno di quelli che lo ritengono un santo.» «Non penso niente del genere» lo rassicurai. «Probabilmente era un uomo buono, ma certo non un santo» dichiarò Torf-Einar acido. «Che il diavolo mi porti se ho mai visto qualcun altro commettere tanti errori per testardaggine. E uno dopo l'altro, senza por tempo in mezzo, come se temesse di non fare abbastanza in fretta. Può darsi che Goffredo fosse un soldato valoroso, ma non aveva abbastanza cervello per fare il re. Lo ha dimostrato con la Lancia di Ferro.» Quel nome, ovviamente, mi fece sobbalzare. Cercai di nascondere la mia sorpresa, ma Torf si rese conto della mia reazione e chiese: «Ah, allora tuo padre ti ha veramente raccontato qualcosa, eh?». «Sì, qualcosina» risposi, benché non fosse proprio così. Murdo non parlava mai della Santa Lancia. Ancora una volta, il poco che sapevo proveniva dal buon abate. «Ti ha detto che quel fior di imbecille la consegnò all'imperatore nel momento in cui l'ebbe in pugno?» Torf se ne uscì in una risatina crudele che si trasformò in un accesso di tosse. «No» risposi «non me l'ha mai detto.» «Lo fece! Giuro su Dio che lo fece!» ridacchiò Torf con astio. «Solo Goffredo avrebbe potuto buttare via un oggetto tanto prezioso. Quello stupido pazzo. E fu anche il suo primo atto come sovrano di Gerusalemme. E, oltretutto, non ricevette niente in cambio, te lo posso assicurare.» Poi Torf continuò a raccontarmi di come Goffredo, dopo aver accettato il trono di Gerusalemme, fosse stato convinto con l'inganno dall'emissario imperiale a cedere la Santa Lancia trovata ad Antiochia, grazie alla quale i crociati avevano sconfitto gli odiati musulmani. Per sfuggire all'infamia di perdere il bene più prezioso della cristianità, il nuovo re di Gerusalemme aveva però pensato di mandare la santa reliquia a papa Urbano perché la custodisse lui. «La scelta era tra mandarla a Roma o combattere l'imperatore» dovette
ammettere Torf suo malgrado «e non ce l'avremmo mai fatta contro le truppe imperiali. Saremmo stati massacrati fino all'ultimo uomo. Nessuno, dopo aver incrociato la spada con gli immortali, resta in vita per poterlo raccontare.» A me sembrava che Goffredo si fosse trovato in un frangente particolarmente difficile, e lo dissi. «Bah!» esclamò Torf. «I greci sono rivali astuti e succhiano la falsità con il latte materno. Goffredo avrebbe dovuto immaginare che non sarebbe mai riuscito a superarli in scaltrezza.» «Mi pare che il suo piano fosse semplice» commentai. «Secondo me era l'unica via d'uscita. Dove avrebbe sbagliato?» «Inviò la Lancia a Giaffa con la scorta di un pugno di cavalieri a cui i selgiuchidi tesero un'imboscata. Se avesse atteso qualche giorno, avrebbe potuto far portare la reliquia da un gruppo più numeroso di uomini, visto che la maggior parte delle truppe era in procinto di lasciare la Terra Santa; così i turchi non se ne sarebbero mai impadroniti.» «Cadde in mano ai turchi?» domandai. «Non te lo sto dicendo?» borbottò. «Certo, se la presero loro, quei dannati predoni.» «Mi pareva che tu avessi detto che Goffredo l'aveva consegnata all'imperatore.» «Avrebbe voluto darla all'imperatore» ringhiò Torf-Einar con irritazione. «Se tu tenessi la bocca chiusa, invece di continuare a blaterare e a interrompermi, potresti imparare qualcosa, ragazzo.» Mi chiamò ragazzo, benché avessi già una moglie e una figlia, perché dovevo sembrargli molto giovane o forse perché non mi considerava un suo pari. Dissi che mi sarei sforzato di non interloquire per permettergli di continuare il racconto. «Sarebbe proprio una grazia» brontolò stizzosamente. «Dunque, come ho già detto i selgiuchidi si impadronirono della Santa Lancia e, se fosse stato per loro, ce l'avrebbero ancora. Ma Boemondo sospettò che Goffredo avrebbe tentato qualche stupido trucchetto e fece in modo di seguire in segreto il percorso della Lancia. Quando i cavalieri di Goffredo partirono da Gerusalemme, il conte di Antiochia ne fu informato e si mise al loro inseguimento.» Ovviamente, anche il principe Boemondo di Taranto sapeva della Lancia. Fu lui a prendere al proprio servizio re Magnus, in modo da poter ricostituire le sue truppe. E la sua amicizia procurò grandi vantaggi a re Magnus, da cui abbiamo avuto le nostre terre a Caithness.
Torf, che certo non era all'oscuro di questi fatti, continuò: «Goffredo e Baldovino non amavano certo Boemondo, né il suo vassallo Magnus. Comunque» aggiunse lanciando uno sguardo alla grande e sontuosa sala «vedo che il re è stato buono con voi. Un uomo deve stringere amicizia con chi può, non è vero?». «Suppongo di sì.» «Supponi!» mi irrise. «Sto dicendo la verità, e tu lo sai. A questo mondo si deve approfittare delle opportunità che capitano, raggiungere un compromesso e sperare per il meglio. Se fossi stato al posto di Murdo probabilmente avrei fatto lo stesso. Non nutro rancore verso tuo padre per questa faccenda.» «Immagino che se lo sapesse farebbe i salti di gioia» mormorai. Fu un'uscita infelice, perché Torf proruppe in un insulto e mi disse che gli davo il voltastomaco. Lo lasciai di pessimo umore e quella notte mi coricai chiedendomi se mi avrebbe mai confidato ciò che sapeva sulla Santa Lancia. Due Torf-Einar era davvero tornato a casa per morire. Divenne ben presto chiaro che aveva consumato nel viaggio la poca salute che gli era rimasta. Nonostante le nostre cure, non riuscì a migliorare; anzi, le sue forze scemavano giorno dopo giorno. La sera successiva al nostro diverbio gli diedi da mangiare in silenzio. A causa della mia mancanza di rispetto del giorno prima, si rifiutò di parlarmi e temetti che sarebbe morto prima di rivelarmi ciò che sapeva sulla Santa Lancia. Ne parlai con mio padre, ma lui non mostrò alcun interesse, e mi consigliò di lasciar perdere. «Sono solo storie» commentò brusco. «È probabile che Torf conosca un quantità di simili aneddoti da crociati.» Quando insistetti che doveva pur esserci qualcosa di vero, si arrabbiò e disse seccamente: «Dio mi è testimone che si tratta di menzogne e di perniciose assurdità, Duncan. Ti ripeto che è meglio lasciar perdere». Ma come avrei potuto? La sera seguente trovai Torf di umore più sereno, così mi azzardai a rivolgergli la parola: «Hai detto che Goffredo fu uno sciocco a perdere la Santa Lancia. Ma se i turchi gli tesero un'imboscata, non vedo come avrebbe potuto evitarlo». «Devo supporre che ormai sei informatissimo sull'argomento» ribatté in tono beffardo. «Eri forse lì?» Gonfiò le guance con un gesto di derisione.
«Se non fosse stato per Boemondo, quei furfanti di turchi sarebbero riusciti a tenersela per sempre.» «Cosa fece Boemondo?» «Inseguì i turchi e li raggiunse fuori da Giaffa» rispose Torf. «Combatterono per tutta la notte e quando spuntò l'alba del giorno successivo, Boemondo aveva la Santa Lancia.» «Allora fu Boemondo a consegnarla all'imperatore» commentai. «Esattamente» confermò Torf. «Perdonami, zio» esordii, deciso a non offenderlo di nuovo. «Ma mi sembra che Boemondo non si sia dimostrato migliore di Goffredo.» Torf mi guardò accigliato e pensai che non avrebbe replicato. Ma dopo un attimo, disse: «Almeno lui è riuscito ad avere qualcosa in cambio del suo disturbo. Grazie alla Lancia riuscì a ottenere l'appoggio dell'imperatore, cosa che, ti assicuro, lo ripagò più che adeguatamente della perdita». Mi stupii, non riuscivo a capire perché Torf biasimasse Goffredo e giustificasse Boemondo, le cui azioni sembravano, da ogni punto di vista, altrettanto sospette, se non di più. Persuaso che avrei raggiunto il solo scopo di farlo arrabbiare di nuovo, mi trattenni dal porgli altre domande. Tuttavia, continuai a rimuginare sulla questione per tutta la notte e decisi di chiedere delucidazioni all'abate Emlyn il giorno seguente. La mattina dopo trovai il buon monaco nella nuova chiesa e riuscii a suscitare il suo interesse con poche domande ben poste. Emlyn sollevò lo sguardo dai disegni che stava esaminando e chiese: «Con chi hai parlato, amico mio?». «Sono io che porto la cena a Torf-Einar» replicai per tutta risposta. «Ed è stato lui a raccontarti queste storie?» «Qualcuna sì.» Il monaco aggrottò la fronte: «Be', può anche darsi che ne sappia qualcosa». Un non so che nel suo tono mi suggerì che stava mentendo. «Ma voi non ci credete» osservai. «Non sta a me dirlo» ribatté evasivamente. Non era mai accaduto che Emlyn desse a me, o a chiunque altro, motivo per dubitare delle sue parole, ma la sua risposta sembrava ambigua e sospettai che sapesse più di quanto diceva. «E a chi allora?» chiesi, insistendo con garbo. «A mio padre, forse?» Emlyn si accigliò di nuovo. «Talvolta» disse lentamente «è meglio lasciare che i morti seppelliscano i morti. Credo proprio che Murdo non ti
ringrazierebbe per aver ficcanasato.» «Già» conclusi. «Gliel'ho già domandato.» «E cosa ti ha detto?» chiese l'abate. «Ha detto che erano solo storie» replicai. «Aneddoti e fantasie di crociati.» Il monaco aggrottò di nuovo la fronte, ma non parlò più. Ciò mi rese ancora più determinato a indagare, perché vedevo chiaramente che in quella faccenda c'era molto più di quanto volessero confessare. Per quel giorno, però, da Emlyn non riuscii a sapere altro. Senza dubbio non sarei mai arrivato al cuore del mistero se Torf fosse morto prima di parlarmi della Croce Nera. Quella sera stessa le forze lo abbandonarono. Fu colto dalla febbre e cadde in un sonno simile alla morte. Murdo mandò a chiamare alcuni monaci dell'abbazia di Sant'Andrea perché facessero il possibile per l'infermo e venne anche Emlyn, accompagnato da un monaco di nome Padraig. Si dà il caso che Padraig sia il nipote di Emlyn, figlio della sua unica sorella, e sia un monaco solerte e premuroso, nonostante sia cresciuto in Manda. Il buon abate ha anche figli suoi, naturalmente: due femmine. Una vive con la famiglia del marito a sud di Caithness, vicino a Inbhir Ness; l'altra, Niniane, anche lei una monaca, è dolce e saggia come il padre e, non certo per colpa sua, ha avuto la grande sfortuna di andare in sposa a mio fratello Eirik. È cosa risaputa che i Célé Dé sono eccezionalmente versati in tutto ciò che concerne l'arte della medicina e sono esperti nel preparare farmaci di eccezionale efficacia. Fratel Padraig si mise dunque a lavorare al focolare e, in breve tempo, distillò una pozione che fece sorbire al moribondo. Ripeté l'operazione per tutta la notte, a intervalli, e quando fu giorno, meraviglia delle meraviglie, Torf-Einar si svegliò ancora una volta. Era ancora molto debole ed era chiaro che non sarebbe guarito, ma adesso riposava più tranquillo, non aveva più gli occhi lucidi di febbre e sembrava molto più sereno quando lo salutai. Gli chiesi se c'era qualcosa che potessi fare per lui. «No» rispose con voce roca e bassa «a meno che tu non possa portarmi un pezzo della Croce Nera per la mia confessione. Non c'è altro che potrebbe giovarmi.» «Che cos'è la Croce Nera?» domandai. «Se ne esiste un frammento nelle vicinanze, sono certo che mio padre può procurartelo.» Le mie parole fecero nascere un sorriso sulle labbra screpolate di Torf.
Scosse debolmente il capo: «Dubito che riusciresti a trovarlo» disse flebilmente. «Ce n'erano solo quattro, in tutto il mondo, e due sono andati perduti per sempre.» Quella strana rivelazione eccitò la mia curiosità: «Ma di cosa si tratta e cos'ha a che fare con la tua confessione?». «Non hai mai sentito parlare della Vera Croce?» mi chiese gettandomi uno sguardo offuscato. «Certo che ne ho sentito parlare» risposi. «La conoscono tutti.» «È la stessa cosa, ragazzo mio, la stessa cosa: Croce Nera è solo un altro nome per la Vera Croce.» Le sue parole non avevano nessun senso: «Se è così perché si chiama Croce Nera?» domandai, diffidando della sua spiegazione. «E perché è in pezzi?» Torf si limitò a sorridere e si inumidì le labbra con la punta della lingua: «Se vuoi che te lo dica» rispose «devi darmi qualcosa per bagnarmi la gola». Volgendomi verso fratel Padraig, che era appena entrato nella sala e si stava avvicinando al giaciglio del malato, chiesi: «Vuole della birra. Posso dargliene un po'?». «Un goccio di birra potrebbe fargli bene» rispose il monaco. «E comunque» aggiunse stringendo le spalle «non potrà fargli male.» Mentre il monaco era intento a preparare un'altra porzione del suo elisir, andai in cucina a prendere la birra. Tornai, reggendo un piccolo barile e un boccale, posai a terra il primo, vi tuffai il boccale e lo porsi a Torf, che bevve avidamente. Ne volle un secondo per dichiararsi pronto a dare inizio alla sua spiegazione. «Dunque» disse, sprofondando di nuovo sul pagliericcio «mi hai chiesto perché la Croce Nera si chiama così. Ebbene, la ragione è che è nera, vecchia e nera.» «E perché ce ne sono tanti pezzi?» «Perché Baldovino l'ha divisa» rispose Torf con una secca risata. Stavo per domandargli perché mai Baldovino avesse compiuto un'azione del genere, quando l'abate Emlyn entrò nella sala per vedere come l'ammalato avesse trascorso la notte. Penso che si aspettasse di trovare un defunto, e non Torf seduto che chiacchierava con me. Dopo un rapido scambio di battute con Padraig, Emlyn si avvicinò e si sedette di fianco al pagliericcio: «A quanto pare, Dio ha voluto concederci la benedizione della tua compagnia ancora per un po', amico mio» esordì.
«Non sarà Dio a trascinarmi sotto terra» rispose Torf «ma il diavolo in persona.» «Non dire così» lo rimproverò garbatamente Emlyn, scuotendo la testa. «Non puoi essere lontano dalla misericordia di Dio, fratello, ne sono certo.» Torf contrasse le labbra in un ghigno malvagio: «Bah! Non ho paura. Ho fatto quello che ho voluto e sono pronto a pagare al traghettatore ciò che gli devo. Vattene, prete. Non ho intenzione di confessarmi». «Come desideri» acconsentì Emlyn «ma sappi che non sarò lontano e che farò il possibile per agevolare il tuo trapasso.» Torf aggrottò la fronte e io, pensando che avrebbe cacciato Emlyn a male parole, mi affrettai a intervenire: «Mio zio era sul punto di spiegarmi perché la Vera Croce è stata fatta a pezzi». «Davvero?» chiese Emlyn. «Già» rispose Torf. «Allora ciò che ho udito è vero» commentò l'abate «la Santa Croce di Cristo è stata ritrovata.» «Già, l'hanno trovata» rispose Torf «e io ero là.» Notai una luce nei suoi occhi e sembrò che il ricordo lo rianimasse. «Straordinario!» mormorò Emlyn. «È stato Goffredo a scoprire la croce, nella chiesa del Santo Sepolcro» proseguì Torf. «Era andato lì a pregare in compagnia del suo cappellano e di alcuni sacerdoti dopo che i nobili crociati avevano cominciato a far ritorno in patria e in Terra Santa erano rimasti soltanto Goffredo, Baldovino e Boemondo a difendere Gerusalemme. Boemondo aveva già fatto vela verso Costantinopoli, insieme al legato imperiale, per consegnare la Santa Lancia nelle mani dei greci. Baldovino invece si stava preparando a raggiungere Edessa, e noi tutti eravamo ansiosi di seguirlo, perché aveva detto che avrebbe iniziato subito a dividere le terre che aveva promesso ai suoi vassalli.» «In parte questa storia mi è nota» commentò Emlyn, annuendo fra sé e sé. «Be', la sera prima della nostra partenza da Gerusalemme ci giunse notizia che la flotta di al-Afdal, il visir dell'Egitto, era attraccata ad Ascalona e che cinquantamila saraceni marciavano alla volta di Gerusalemme. Invece di permettere loro di assediare la città, Goffredo decise di affrontarli lungo la strada prima che riuscissero a ottenere l'aiuto dei turchi sconfitti. In totale le truppe di Goffredo e di Baldovino ammontavano a meno di settemila
uomini, dei quali solo cinquecento erano cavalieri e tutti gli altri fanti. «Lasciato Baldovino a preparare gli uomini per la battaglia, Goffredo si recò alla chiesa del Santo Sepolcro per chiedere al Signore una vittoria rapida e certa. Mentre era raccolto in preghiera, uno dei monaci presenti cadde in trance ed ebbe una visione. Non so come avvenne, ma ho sentito dire che gli apparve un uomo vestito di bianco che gli indicò una cortina e gli disse di scostarla e di prendere ciò che vi avrebbe trovato dietro. Quando il monaco si svegliò, però, la cortina era scomparsa e al suo posto si ergeva la parete della chiesa. «La faccenda sarebbe sicuramente finita lì, ma Goffredo, venuto a sapere ciò che era accaduto, spiegò che talvolta con la parola cortina si intende un muro. Così ordinò di abbattere la parete e, miracolo, dietro c'era la Vera Croce.» «Sia lode a Dio» esclamò Emlyn, giungendo devotamente le mani. «Si dice che quando i saraceni occuparono per la prima volta la Città Santa» continuò Torf, ignorando il trasalimento dell'abate «trasformarono in moschee le chiese che non distrussero. Nella chiesa del Santo Sepolcro trovarono la Vera Croce appesa sopra l'altare, ma persino quei diavoli miscredenti non osarono mettervi sopra le mani, e così la murarono. Impastarono una malta densa con cui la ricoprirono completamente, nascondendola alla vista. Quando Goffredo ordinò di abbattere la parete e la ritrovò, dichiarò che si trattava di un segno del favore di Dio e ci ingiunse di inginocchiarci e di pregare per ottenere la vittoria nella battaglia imminente. «La chiesa però è piccolissima, e i soldati erano tanti. Così Goffredo fece portare fuori la croce per mostrarla alle truppe schierate. Skuli e io eravamo nelle prime file e riuscimmo a vederla bene: davanti c'era il cappellano di Goffredo, poi due preti che la tenevano in alto e altri due che agitavano i turiboli fumanti. «Sollevai lo sguardo mentre passavano e potei scorgere una specie di lunga trave di legno grezzo, leggermente curva. Era lunga circa mezza pertica e grossa come la coscia di un uomo. Sapevo che si trattava della Vera Croce perché era annerita dal tempo e perché la sua superficie era stata consumata da tutte le mani che l'avevano toccata con venerazione nel corso dei secoli. «Ci raccogliemmo in preghiera. Poi i monaci fecero ritorno alla chiesa. Mentre portavano via la Croce, qualcuno alle nostre spalle gridò: "Che la Croce ci preceda!". Non occorse altro perché tutti ripetessero: "Che la Croce ci preceda!".
«Udito ciò, Goffredo ci ordinò di ritornare nei ranghi e disse: "A Dio è piaciuto consegnare nelle nostre mani questa santa reliquia come segno della Sua gioia per avergli restituito la Città Santa. Come noi abbiamo perseverato nel riporre la nostra fiducia in Dio, così Egli ha continuato ad avere fiducia nei suoi servi. In questo preciso momento i nemici di Cristo marciano contro di noi" gridò con voce tremante di giusto furore. "E dunque voglio che questa Croce, la Croce Nera, ci guidi in battaglia. Da oggi in poi essa sarà il vessillo dei difensori di Gerusalemme; e tutti coloro che leveranno la spada contro di noi sapranno che Cristo stesso conduce il Suo esercito alla vittoria contro i nemici della fede." «I monaci cominciarono a cantare: "Gioite, nazioni tutte, con il popolo del Signore. Perché Egli vendicherà il sangue dei suoi servi; Egli farà vendetta dei suoi nemici e purificherà la Sua terra". Fu così che cominciò...» Torf si interruppe, spossato dalla fatica, e si lasciò cadere sul giaciglio. Rimasi a fissarlo, sorpreso che riuscisse a ricordare con tanta precisione avvenimenti così lontani. Fratel Padraig, che si era avvicinato silenziosamente per ascoltare il racconto, mi fece cenno di riempire di nuovo il boccale. Lo colmai di birra e lo avvicinai alle labbra dell'infermo. Torf bevve e si riprese un po'. «Riposate, ora» suggerì Emlyn. «Continueremo a discorrere quando vi sentirete meglio.» Un sorriso amaro distorse le labbra di Torf-Einar: «Non starò mai meglio di così» sussurrò. «Del resto, non c'è molto da aggiungere. L'indomani uscimmo da Gerusalemme e due giorni dopo ci scontrammo con gli infedeli lungo la strada per Ascalona. Non si aspettavano un nostro attacco e non si erano ancora organizzati. Due cavalieri portavano la Croce e Goffredo guidò la carica. Ci lanciammo sull'esercito disordinato di al-Afdal e lo disperdemmo come pula al vento. Sbaragliammo i miscredenti e li ricacciammo indietro verso le loro navi.» Torf bevve un altro sorso e poi respinse il boccale. «Fu la prima volta che la Croce Nera ci guidò in battaglia.» Scosse la testa, quasi tristemente. «Ma non l'ultima, perdio.» «E come mai la Santa Croce fu fatta a pezzi?» chiesi. Torf si voltò dalla mia parte per guardarmi, e mi accorsi che nei suoi occhi la luce della vita era sempre più fievole. «Fu Goffredo a volerlo. Non appena le truppe si resero conto di vincere sempre quando la Croce veniva portata in battaglia, si rifiutarono di combattere senza.» Deglutì e chiuse gli occhi. «Ma gli assalti dei turchi e dei saraceni erano continui e la Croce
non poteva essere dappertutto contemporaneamente.» «Così Goffredo la spezzò» conclusi io. Lui fece un debolissimo cenno di assenso con la testa. «Cos'altro avrebbe potuto fare? Quell'uomo non è mai riuscito a vedere a un palmo dal suo naso. Tutti reclamavano la Croce e Goffredo ordinò che venisse tagliata in due.» «E i sacerdoti gli permisero di farlo?» chiese Emlyn costernato. «Sì, e lo aiutarono anche» rispose Torf, con voce sempre più fievole. «Il patriarca di Gerusalemme sì oppose, ma Goffredo lo convinse.» «Hai detto che la divisero in quattro parti» osservai, ricordando ciò che mi aveva già raccontato. Le mie parole causarono un lampo di indignazione nel malato, che aprì un occhio e rispose: «Ne mandarono metà alla chiesa di Antiochia per sostituire la Lancia di Ferro ceduta all'imperatore. Questa sarebbe stata usata dagli eserciti del Nord, mentre l'altra sarebbe rimasta a Gerusalemme, per servire alle truppe del Sud». «E con gli anni quei due pezzi diventarono quattro» concluse l'abate. «Non è difficile capire come possa essere accaduto.» «Hai detto che ne sono rimasti solo due» intervenni. «Cos'è successo agli altri?» Torf fece un profondo sospiro. La conversazione era gravosa per le sue forze declinanti. «Un pezzo fu dato all'imperatore e l'altro cadde nelle mani degli infedeli.» Sospirò di nuovo e la sua voce divenne ancora più debole: «Non posso continuare». Dopo un po' si assopì. Pensai che fosse spirato, ma fratel Padraig gli appoggiò l'orecchio sul petto e disse: «Sta dormendo» e, osservando il moribondo, aggiunse: «Non credo che si sveglierà presto». Mi alzai a malincuore. Nei pochi giorni trascorsi da quando l'avevo conosciuto, quel vecchio e irascibile crociato aveva cominciato a piacermi. A essere sincero, Cait, mi aveva provocato una ventata di eccitazione. Anche se sentivo parlare della Grande Crociata da una vita, mi era sempre sembrata troppo lontana, nel tempo e nello spazio, per interessarmi. La comparsa inaspettata di Torf mi aveva fatto capire che non era finita. In luoghi a me ignoti, c'erano uomini che continuavano a combattere, e in Terra Santa si potevano ancora compiere grandi gesta. Con l'arrivo di Torf, inoltre, avevo cominciato a farmi una serie di domande. Perché mio padre aveva reagito al suo arrivo con tanto freddo distacco? Non mi era mai sembrato insensibile e indifferente, eppure non
mostrava alcuna considerazione e compassione per il fratello morente, e nemmeno una briciola di curiosità per la sua vita in Oriente. Cos'era accaduto tra loro tanto tempo prima? Dopo aver scambiato qualche parola con Padraig, l'abate Emlyn si alzò e uscì dalla sala; io lo seguii nel cortile, deciso a ottenere una risposta alle mie domande. Tre «Temo che presto tuo zio sarà al cospetto del Trono Celeste» disse Emlyn quando lo raggiunsi nella corte. «Non credo che passerà la notte. Dovrei parlarne a Murdo. Vorrà essere informato.» «Ho l'impressione che mio padre voglia sapere solo ciò che gli fa comodo su Torf-Einar» azzardai. Il piccolo e tondo abate mi osservò con occhi acuti: «Tu pensi che non gli importi niente di suo fratello» rispose «ma ti sbagli, giovane Duncan, gli interessa molto invece». «Lo nasconde bene» commentai acido. Emlyn si fermò e mi si mise di fronte: «Ci sono cose che non sai. Murdo ha le sue buone ragioni per nutrire i sentimenti che ha e per comportarsi come fa. Non sarò io a dirgli che cosa deve provare e come deve agire in questa situazione». Pronunciò queste parole con tale veemenza da sorprendermi e da stupire anche se stesso, tanto che si affrettò ad aggiungere, in tono meno duro: «A quel tempo le ferite furono profonde. Penso che il ritorno di Torf le abbia riaperte e che esse siano molto dolorose». Riconoscendo che poteva essere nel giusto, suggerii: «Forse è giunto il momento che le vecchie ferite guariscano una volta per tutte. Potrebbe essere questo il motivo che ha riportato a casa Torf». L'abate Emlyn riprese a camminare: «Potresti avere ragione. Forse è tempo di...». E mentre rifletteva, la sua voce divenne un sussurro. Mi affrettai a seguirlo: «Cosa?» domandai. «Tempo di cosa?» Stornò la domanda con un gesto della mano e disse: «Lascia fare a me. Parlerò con tuo padre». «E poi?» gli gridai mentre si allontanava. «E poi sarà quel che sarà.» L'abate se ne andò in fretta, e io mi ritrovai da solo e senza niente da fare, una circostanza piuttosto rara per me. Decisi di andare a vedere se Rho-
na fosse occupata, sperando che volesse cavalcare insieme a me sino alla spiaggia sotto la scogliera, a sud della baia. Rhona e io eravamo sposati da sette anni e avevamo avuto tre figli, due maschi e una femmina. Purtroppo, i due maschietti erano morti nell'estate del loro primo anno. Solo tu, Cait, benché fossi la neonata più fragile e minuta che avessi mai visto, eri riuscita a sopravvivere. Ora quel tempo mi sembra lontano, ma quel giorno l'aria era dolce, il sole splendeva alto nel cielo e io speravo ancora di avere un altro figlio maschio. E quello mi sembrava uno splendido momento per concepire un bambino, o almeno per provarci. Trovai Rhona seduta fuori dal magazzino, intenta a togliere la pelle a un mazzo di cipolle rosse. «Mi serve per tingere il vestitino nuovo di Caitrìona» mi spiegò. Poi, vedendo la mia espressione, rise e mi chiese: «Pensavi che te le avrei date per cena?». «Cotte, le avrei mangiate» risposi. «Ma guarda...» cominciò lei. Le tolsi le cipolle di mano e la feci alzare: «Che intenzioni hai?» domandò. «È una giornata così bella, amore mio. Accompagnami a fare una passeggiata.» «Credevo che dovessi lavorare alla chiesa.» «Le pietre non sono ancora arrivate, e mio padre può occuparsi da solo degli operai. Ho pensato che avremmo potuto fare una cavalcata fino alla spiaggia.» Lei mi si avvicinò, tenendo la testa reclinata da un lato: «Credi che non abbia niente di meglio da fare che andarmene a zonzo con te per tutto il giorno?». Le vidi affiorare sulle labbra un sorriso appena accennato: «È un bene che tutti si diano un gran da fare, dal momento che il giovane signore del maniero è un ozioso monello». «Ottimo» commentai arricciando il naso «se tu non vuoi accompagnarmi, lo chiederò a una domestica. Probabilmente quella che ha teneri occhi castani non disdegnerà un invito da parte dell'attraente figlio di Lord Murdo.» «L'attraente figlio di Lord Murdo» ripeté Rhona, cercando di soffocare una risata. «A quanto ne so, il vescovo Eirik è a Inbhir Ness a sbrigare gli affari dell'abbazia.» «Mia signora» replicai, mentre la attiravo a me per rubarle un bacio «era di me che stavo parlando, non del mio erudito fratello.» Cercai di baciarla sulle labbra, ma lei spostò il viso e la raggiunsi su una guancia. «Non qui in cortile dove tutti possono vederci!» esclamò, mettendomi le
mani sul petto e spingendomi gentilmente indietro. «Allora vieni con me.» Feci scivolare le mani dietro la sua vita sottile e slegai il grembiule che le copriva la veste verde chiaro. «È una bella giornata e anche tu sei bella. Pensiamo al nostro piacere, ora che possiamo.» «Qualcuno ha ascoltato troppo i cantori di maggio!» mi burlò lei sfilandosi il grembiule. «Va bene, verrò con te, Duncan Murdosson.» Si chinò e raccolse la ciotola con le pelli di cipolla. «Ma prima devo riporre queste.» «Vado a sellare i cavalli. Ci vediamo al cancello» dissi, poi le rubai un altro bacio e mi allontanai. In breve le cavalcature furono pronte e poco dopo galoppavamo tra le felci e le ginestre della collina diretti a sud. Le terre di proprietà di mio padre sono molto estese, ma il terreno è per lo più arido e pietroso e i nostri vassalli non sono numerosi come quelli di altri nobili, così tutti dobbiamo lavorare sodo per sopravvivere. Ma possediamo anche terre fertili e pascoli, a ovest, e nelle acque della baia riparate dalle alte scogliere ci sono pesci a volontà. Banvard ci ha resi abbastanza ricchi e, benché non possiamo disporre della facile abbondanza di cui hanno fruito altri feudi, tuttavia siamo sempre riusciti a coltivare grano e ad allevare bestiame per sfamare noi e i nostri vassalli e per trarre profitto dalla vendita delle eccedenze. Stando ai racconti di mia madre sulla sua giovinezza nelle Orcadi, mi sembrava che essere cresciuto a Caithness non fosse molto diverso. E, come mio padre, amavo vivere tra quelle colline selvagge e solitarie. Non che avessimo abbandonato le Orcadi per sempre. Non sia mai! Per i nostri commerci ci recavamo regolarmente a Kirkjuvàgr, e spesso Murdo vi andava per sedere in consiglio tra i suoi pari. Una volta all'anno il re riuniva la corte a Orphir e noi intervenivamo sempre. Anche se ormai facevamo parte della nobiltà scozzese, molte ragioni affettive ci legavano alle sperdute isole settentrionali. Quando il cielo era terso, potevamo scorgere le Isole Buie, al di là del mare. Simili a nuvole di tempesta sparse sull'orizzonte o a un branco di foche grigie, le isole sollevavano il loro dorso liscio al di sopra delle onde. Il giorno in cui Rhona e io cavalcammo in direzione della spiaggia, però, la mia mente era volta altrove. Con il sole alle spalle, la mia tenera consorte al fianco e un buon cavallo sotto di me, lasciavo vagare i miei pensieri sulle dolci gioie della vita. La fresca brezza marina mi accarezzava il viso, sentivo l'odore della terra umida e il profumo dei fiori e dell'erba, e il sangue mi scorreva con forza nelle vene.
Quando raggiungemmo la baia, legai i cavalli in cima alla scogliera, dove potevano brucare un po' di erba. Poi Rhona e io scendemmo alla spiaggia e ci fermammo in una conca scaldata dal sole. Mia moglie aprì l'involto che aveva portato con sé, ne trasse una pagnotta, un pezzo di formaggio e una mela, e io tagliai in due parti ogni cosa. Dopo quello spuntino, ci sdraiammo per goderci il tepore del sole e della sabbia e il rumore pigro delle onde sulla battigia. Rhona si lasciò abbracciare e ci abbandonammo all'amore, per poi appisolarci stretti l'uno all'altra. Mi risvegliai con il capo appoggiato sul suo seno quando il sole era già al tramonto. La marea lambiva la base della duna, l'ombra delle colline aveva raggiunto il nostro rifugio prima illuminato dal sole e l'aria era più fredda. Sollevai la testa e baciai la mia dolce signora, che si svegliò tremante. «Meglio tornare» suggerii «prima che mandino i cani a cercarci.» «Un ultimo bacio, amor mio» mormorò Rhona, attirandomi di nuovo a sé. Ci rivestimmo in fretta, raggiungemmo i cavalli e tornammo lentamente verso casa, godendoci lo spettacolo del sole al tramonto che incendiava il cielo di bagliori scarlatti, viola e dorati. Intuii che qualcosa non andava ancor prima di raggiungere la strada che portava al castello. Spronammo i cavalli, percorremmo al galoppo l'ultima salita e, superato il cancello aperto, entrammo nel cortile deserto. Smontai da cavallo e aiutai Rhona a scendere. Non ci preoccupammo di legare le bestie, ma raggiungemmo subito il salone dove fummo accolti da fratel Padraig. Lo guardai e chiesi: «È finita, dunque?». «Tuo zio è spirato poco fa» rispose semplicemente. Annuii. «Che Dio abbia misericordia della sua anima» sussurrai mentre sentivo la mano di Rhona scivolare nella mia. «Lord Murdo e Lady Regana lo stanno vegliando» ci informò Padraig. «L'abate Emlyn recita il Requiem.» «Povera anima» sospirò Rhona. «C'era qualcuno vicino a lui, quand'è mancato?» «C'ero io al suo capezzale, mia signora» rispose il monaco. «Poiché al tramonto dormiva ancora, ho pensato di svegliarlo per fargli prendere qualche cucchiaiata della mia pozione, ma aveva esalato l'ultimo respiro.» Quando entrammo, trovammo una vera e propria folla attorno alla salma. Per lo più erano servitori e domestiche, ma c'erano anche qualche vassallo e una dozzina di monaci che assistevano Emlyn. Tutti tenevano la
testa china e le mani giunte, mentre il buon abate intonava le preghiere per l'anima dello scomparso. Rhona e io ci mettemmo dietro ai monaci e rimanemmo in raccoglimento finché Emlyn non terminò le orazioni, poi i frati si disposero attorno al pagliericcio, lo sollevarono e cominciarono a trasportarlo fuori dalla sala. Allora raggiunsi mio padre e gli dissi: «Mi dispiace che se ne sia andato. Non posso fare a meno di pensare che avremmo potuto fare di più per lui». Murdo scosse la testa: «Voleva solo che lo lasciassimo morire in pace. Ciò che ha chiesto, gli è stato dato». Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi si voltò all'improvviso e seguì i monaci in cortile. Mia madre, passando, mi appoggiò una mano sul braccio: «Ogni cosa ha una fine» sussurrò, stringendomi il braccio per confortarmi. «Lasciamo che ce l'abbia anche questa.» Mi chiesi che cosa intendesse dire, e stavo per domandarglielo quando si allontanò. Poi Rhona mi raggiunse. «È triste» sospirò. «Qualche giorno fa a nessuno interessava se fosse vivo o morto» le ricordai. «Non è cambiato molto.» Rhona mi lanciò un'occhiata in tralice: «Tutto è cambiato» commentò. Penso che le donne possiedano una sensibilità diversa. Non fingerò di capirle. La salma di Torf fu portata in un monastero vicino, dove fu lavata, avvolta in un sudario di lino immacolato e preparata per la sepoltura. Avevo spesso sentito dire, e ora so che è vero, che la Chiesa romana vede la morte come una perdita. I riti per il trapasso di un'anima sono solenni e severi e i preti cattolici non fanno nulla per alleggerire la sofferenza dei congiunti. Sembrano considerare la morte come una punizione per aver accettato dal Creatore il dono della vita, o come la fine sgradevole e inevitabile della carne peccaminosa. I Célé Dé, invece, vedono la morte come un'amica incaricata dall'Onnipotente di liberare i suoi figli dal dolore e dal travaglio dell'esistenza mortale per farli entrare nel suo regno di misericordia. Quando il corpo diventa eccessivamente malato, o il cuore troppo triste per continuare a vivere, allora Nostra Sorella Morte conduce lo spirito sofferente alla dimora che gli spetta di diritto. Naturalmente, il viaggio è accompagnato dai lamenti funebri di chi è rimasto, ma anche da inni di lode e di gioia per il defunto. Mentre i resti mortali di Torf venivano preparati per la sepoltura, Murdo decise di tumularlo in un angolo del cortile della chiesa. Anche se, come disse, Torf-Einar non era stato una delle migliori pecorelle del Signore,
apparteneva pur sempre al suo gregge. Mi offrii di aiutarlo, ma mio padre era deciso a scavare la fossa da solo e non ci fu modo di convincerlo. All'imbrunire, la salma fu portata fuori e condotta nel luogo della sepoltura, dove erano riuniti quasi tutti gli abitanti del villaggio. Gli ultimi raggi del sole tingevano le nuvole di rosso, e illuminavano il cielo. Nel bagliore del crepuscolo il sudario di lino riluceva come la seta più fine, e anche i volti dei monaci e degli astanti splendevano. Intonammo tutti insieme una lamentazione per l'anima del vecchio crociato, poi l'abate Emlyn ci guidò nella recitazione di un salmo, disse una preghiera e invitò i congiunti del defunto a gettare una manciata di terra nella fossa. Murdo si fece avanti, raccolse un pugno di terra e la lasciò cadere, poi anch'io seguii il suo esempio. Pur avendolo conosciuto da poco, sentivo un legame istintivo con Torf-Einar. Nonostante i suoi costumi dissoluti, faceva pur sempre parte del nostro clan, e lo onorammo come avremmo fatto con qualunque altro membro della famiglia. Cantammo un salmo, mentre i monaci si occupavano di riempire la fossa. La buca fu presto colma, e sul cumulo di terra fu eretta una stele di pietra con il nome scolpito. Dopodiché tornammo nella grande sala per mangiare e per brindare alla memoria di Torf. Mentre raggiungevamo il castello, sollevai lo sguardo, vidi due stelle luccicare sopra lo spiovente del tetto di paglia e pensai che una era per Torf e l'altra per Skuli. Nello stesso istante i monaci ripresero a cantare le loro litanie e mi sembrò che le stelle brillassero più intensamente. "Addio Torf" mormorai dentro di me. "Che tutto ti sia propizio nel tuo nuovo viaggio." Quella sera facemmo festa in sua memoria e, dopo vari giri di birra, Murdo si alzò e commemorò brevemente il fratello. Raccontò della loro fanciullezza nelle Orcadi e dell'affetto e della considerazione di suo padre per il primogenito. Non potei fare a meno di notare, tuttavia, che non disse neppure una parola sulle loro avventure in Terra Santa. Allora compresi che, nel cuore di mio padre, si era riaperta una vecchia ferita. Quella sera, mentre eravamo a letto, Rhona e io ci tenemmo stretti l'uno all'altra, godendo del nostro amore e celebrando la vita che scorreva dentro di noi. Il giorno dopo il villaggio riprese le sue normali attività. Giunse la nave che portava le pietre squadrate che attendevamo e faticosamente le scaricammo e le trasportammo sino al luogo dove doveva sorgere la nuova chiesa. Murdo mise al lavoro tutti gli uomini che poteva sottrarre ad altre mansioni, ma si trattò di un compito assai arduo. Alla fine della giornata
eravamo tutti esausti, tanto che la morte e il funerale di Torf non avevano più importanza delle increspature sul pelo dell'acqua dovute a un ciottolo gettato in mare. Con il passare delle settimane, però, mi ritrovai a pensare alle parole di Torf sulla Terra Santa. Una volta chiesi a Murdo qualche chiarimento, ma lui si limitò a rispondermi che sarebbe stato meglio dimenticare qualunque cosa lo zio mi avesse detto: «Erano le farneticazioni di un malato» dichiarò in tono piatto. «Adesso lui è morto ed è finita. Non intendo più parlarne.» Naturalmente questo servì soltanto ad accrescere la mia curiosità. Per tutto il resto dell'estate e della stagione del raccolto fremetti dal desiderio di apprendere qualcos'altro sulla Grande Crociata e sulle sue tante battaglie, ma riuscii a sapere ben poco. Nessuno, nel nostro villaggio o in quelli vicini, aveva preso la croce per partecipare al pellegrinaggio tranne l'abate Emlyn e Murdo. Quando chiesi al buon frate cosa fosse accaduto in Terra Santa e perché mio padre fosse così restio a parlarne, egli mi rispose: «Un giorno, forse, si sentirà pronto a raccontarlo. Senza dubbio si comporta così a fin di bene». Quello stesso anno, verso la fine della stagione del raccolto, Rhona mi comunicò che i nostri tentativi di generare un figlio avevano dato frutto: avremmo avuto un bimbo a primavera. Ricordo, cara Cait, di averti guardato, quando la mia adorata moglie mi diede la bella notizia: stavi seduta accanto al focolare e rimestavi in una pentola piena d'acqua con un cucchiaio di legno che tua madre ti aveva dato perché la aiutassi a cucinare. «Hai sentito, piccola?» gridai. «Avrai un fratellino!» Ero certo che sarebbe stato un maschio e che finalmente avrei avuto un erede. Sognammo l'avvenimento per tutto il lungo e freddo inverno. Mentre il ventre le si ingrossava, Rhona osservava spesso di non aver mai portato in seno creatura tanto grossa e pesante, e che quello era un indizio certo che in primavera sarebbe nato un maschio. Alla fine dell'inverno attendemmo con ansia il tempo prestabilito. Una mattina ci svegliammo al ticchettio della neve che si scioglieva e gocciolava dal tetto formando piccole pozze. Sentii Rhona muoversi accanto a me e quando mi voltai vidi che mi guardava. «Hai dormito bene, amor mio?» chiesi. «Come posso dormire?» ribatté. «Tuo figlio non mi dà pace. Scalcia e si agita tutta la notte.» Posando la mano sulla cima rigonfia del suo ventre tondo, dissi: «È solo perché non vede l'ora di uscire per conoscere la sua famiglia».
«È perché è figlio del suo testardo padre» rispose dolcemente, accarezzandomi i capelli con la punta delle dita. Tu, piccola Cait, ti svegliasti e ti infilasti nel nostro letto. Rannicchiata in mezzo a noi ti mettesti a cantare una canzoncina che parlava di un pesce. Ricordo ancora quanta tenerezza provai in quel momento sereno insieme alle persone a me più care. E ora che so quanto saranno bui e dolenti i giorni a venire, quell'immagine mi è ancora più dolce. Quattro Le doglie cominciarono il giorno successivo, all'alba, ma Rhona continuò a occuparsi delle sue faccende sino a mezzogiorno, quando i dolori si fecero più forti. Corsi ad avvisare mia madre; ed essa venne insieme a una delle donne più anziane del villaggio, che spesso aveva fatto da levatrice, e a una domestica. Presero subito in mano la situazione e Regana mi mandò ad aiutare Murdo con la chiesa in costruzione, promettendo che mi avrebbe fatto chiamare non appena la nascita fosse stata imminente. Ero ancora laggiù, quando Ingrid, la domestica, ci raggiunse affannata: «Lord Duncan, dovete sbrigarvi!». «Come?» chiesi, scendendo dall'impalcatura. «Mio figlio è già nato?» «La padrona ha detto che dovete venire subito» rispose, torcendo il grembiule tra le mani. L'afferrai per le spalle, cercando di calmarla: «Dimmi cos'è accaduto». «Si tratta di vostra moglie» rispose. «Oh, vi prego, fate presto.» Mio padre si accorse della confusione e mi chiamò dall'alto per sapere cosa stesse accadendo. Glielo spiegai rapidamente, e lui mi disse di non indugiare e aggiunse che sarebbe andato a cercare l'abate Emlyn e che sarebbero venuti quanto prima. Mi lanciai lungo la collina, arrivai al castello, oltrepassai il portone d'ingresso e fui in casa: c'erano molte donne fuori dalla stanza; mi infilai fra loro ed entrai. Al capezzale di Rhona trovai mia madre Regana, con il volto serio e triste: «Non c'è molto tempo, figliolo» disse a voce bassa, stringendomi la mano. «Ha chiesto di vederti.» Sentii le sue parole senza riuscire a dare loro un senso compiuto: «Cos'è successo, madre?». «Il parto ha lacerato qualcosa dentro a Rhona» rispose lei con dolcezza. «Non sopravviverà.» «No... non è possibile» balbettai. «Tornerà a star bene. E il bimbo... do-
vevamo...» «Ci sarà tempo di parlarne dopo» ribatté, conducendomi verso il letto. «Fatti coraggio, figliolo, e va' da tua moglie.» Mi avvicinai a Rhona, e lei, con il viso ingrigito dal pallore della morte, aprì gli occhi e mi sorrise debolmente. La fissai incredulo: poco prima il suo bel viso era raggiante d'amore e di vita. Com'era possibile che un tale cambiamento avesse avuto luogo tanto in fretta? Sollevò un dito e mi fece cenno di accostarmi. Mi chinai avvicinandole l'orecchio alle labbra. «Mi dispiace tanto... anima mia» disse con la voce ridotta a un impercettibile sussurro. «Ho cercato di darti un figlio...» «Sst» bisbigliai nel tentativo di calmarla. «Ora riposa. Ne parleremo dopo.» «Ti amo» mormorò, muovendo appena la bocca. «Dammi un bacio.» Posai le labbra sulle sue, che erano secche e fredde. «Addio, amore mio» sospirò. Il suo corpo fu attraversato da un fremito. Le presi la mano e la strinsi forte. Rhona esalò un respiro lungo e lento, e mi lasciò. «Addio» mormorai, ma la parola mi si strozzò in gola, dai miei occhi iniziarono a sgorgare le lacrime. Poi presi il suo corpo fra le braccia per l'ultima volta, chinai la testa, avvicinai il mio viso al suo, e la tenni stretta finché non sentii sulle spalle le mani di mia madre che mi tiravano dolcemente indietro. Lasciai che mi stringesse nel suo abbraccio, e restammo per un po' immobili, mentre lei mi sussurrava parole di conforto. L'abate Emlyn e mio padre giunsero in quel momento. Non appena il monaco entrò nella stanza, capì immediatamente ciò che era accaduto, e le sue spalle tonde si accasciarono, mentre l'allegria del suo viso si dissolveva in un'espressione di profondo dolore. Mio padre corse verso il letto come se potesse ordinare alla vita di tornare nel corpo di Rhona. Solo quando si trovò di fronte al pallore assoluto di quel volto e allo sguardo vuoto di quegli occhi rovesciati si persuase che non c'era più nulla da fare. Allora si voltò verso di me e mi cinse le spalle con un braccio. «Duncan, figlio mio» disse, attirandomi a sé. «Mi dispiace enormemente.» Rimanemmo lì insieme per un po', dando libero sfogo alle lacrime. Poi l'abate Emlyn si avvicinò e iniziò i riti funebri. Tenendo le mani sul corpo ancora caldo di Rhona, cominciò a salmodiare, non in latino o in greco, ma nell'antica e nobile lingua dei celti, chiedendo alla Mano Rapida e Sicura di afferrare l'anima della mia amatissima consorte e di guidarla presto alla
dimora eterna. Poi prese le mani di Rhona e gliele congiunse sul petto, le distese le gambe e ordinò alle domestiche di andare a prendere le sue vesti più belle. Rivolto a me, disse: «Dio ha chiamato questa devota fedele accanto a sé in paradiso. Stasera intoneremo il lamento per il posto vuoto che ha lasciato. Domani celebreremo la sua vita terrena e gioiremo, perché ha ricevuto la giusta e meritata ricompensa. Guardala per l'ultima volta, mio caro amico, e io fra breve farò ritorno per portare via il suo corpo e preparare le esequie». Lo fissai in preda alla disperazione. "Così presto?" pensai. "Perché dev'essere così presto?" Ma non aprii bocca, limitandomi ad annuire. Emlyn si allontanò e io mi voltai ancora una volta verso il letto. Rhona appariva più serena: i lineamenti tesi si erano rilassati e sembrava che stesse dormendo tranquillamente. Per un istante, il cuore mi balzò in petto per la gioia. Mi venne voglia di gridare "Vedete? È stato tutto un orribile sbaglio: è viva! Rhona è ancora tra noi!". Ma non era così. Libero dalla sofferenza dell'agonia, il suo corpo stava riacquistando una parte della naturale calma. Chino su di lei, le allontanai dal volto una ciocca di capelli umidi e le baciai la fronte. «Va' con Dio, amore mio» mormorai, alzandomi. Solo allora scorsi una figuretta immobile accanto a lei: avvolto nelle fasce, simile a un fagottino adagiato nel letto, c'era il corpo minuscolo di mio figlio. Giaceva vicino a sua madre, con i capelli neri e il visino contratto come un pugno diretto contro un mondo che non avrebbe mai conosciuto. Mentre lo fissavo, mi accorsi che la mia cara madre era al mio fianco: «Il piccino non è riuscito a respirare» disse. «Non c'è stato nulla da fare.» Annuii e posai sul piccolo torace immobile una mano, che lo copriva quasi per intero. «Dio ti benedica, figlio mio. Voglia il cielo che un giorno possiamo incontrarci nel Santo Regno di Cristo.» Restammo in attesa accanto alle salme finché non giunsero i monaci per portarle al monastero. Non riuscii a trovare la forza di accompagnarli, né di prendere parte ai preparativi. Invece scesi alla spiaggia e camminai sino al calare della notte, quando Emlyn mandò fratel Padraig a cercarmi per ricondurmi al castello. «Sono stati preparati cibi e bevande» mi disse «e vi stanno aspettando tutti.» «No» risposi con asprezza. «Tornate indietro e dite che mangino senza di me.» «Lord Duncan» insistette lui con garbo, e il suo richiamo fu così gentile
e compassionevole che non ebbi il cuore di rifiutarmi un'altra volta di seguirlo e mi lasciai ricondurre al castello. Entrato nel salone, volsi intorno un rapido sguardo e la prima persona che mi capitò di vedere fu Niniane. Mi si avvicinò subito e mi prese fra le braccia «Mio caro, caro Duncan» sospirò. «Mi dispiace... mi dispiace tanto.» Mi lasciai consolare per un attimo, poi chiesi: «Come mai sei qui?». «Ero diretta all'abbazia. Sono arrivata in tempo per aiutare a vestire la... la defunta.» Sopraffatto dal dolore, non mi ero accorto del viavai intorno. «C'è anche Eirik con te?» Scosse la testa: «Ci sono stati problemi a Inbhir Ness. Il figlio di un nobile in visita ha ucciso accidentalmente il figlio di un dignitario del posto. Il clan ha giurato di vendicarsi, e lo sfortunato giovane ha chiesto rifugio al monastero. Eirik ha pensato che sarebbe stato meglio rimanere finché la questione non fosse stata risolta». Niniane mi guardò tristemente: «Rhona era una mia buona amica e io cercherò di essere un'amica altrettanto buona per te. Farò tutto ciò che posso per aiutarti». La ringraziai con calore e l'accompagnai al tavolo dove stavano servendo il pranzo. Mi avevano lasciato un posto accanto a mia madre, che teneva in grembo la piccola Cait. Tu, mia diletta, ignara di quei tristi momenti, allungasti le braccine verso di me, chiedendomi di giocare. Ma io non ero in animo di accontentarti; mi limitai a sedermi e fissai cupamente il tuo visino allegro, sordo alle tue infantili richieste. Riuscivo a pensare soltanto che sarei stato felice di prendere il posto della mia povera moglie. La sua morte era colpa mia, perché, se non avessi insistito tanto per avere un altro figlio, la mia amata Rhona sarebbe stata ancora viva. L'avrei avuta accanto a me in quel momento, avrei potuto guardare i suoi occhi luminosi e il suo volto, avrei potuto stringere la sua mano tesa verso la mia. Ci furono molti canti, quella sera, ma io non ricordo quasi nulla. Emlyn intonò il lamento funebre, accompagnato da alcune donne del villaggio, e Padraig suonò l'arpa. La mia mente, come il mio cuore, erano con la mia amata che giaceva, fredda e sola, nella cripta della chiesa, e non riuscivo a trarre alcuna consolazione dalle espressioni di affetto di coloro che mi stavano accanto. Quella sera non avrebbe potuto esserci uomo più disperato di me. Quando finalmente tutti andarono a coricarsi, anch'io mi ritirai nella mia stanza.
Continuai per un po' a rigirarmi nel letto vuoto e, infine, decisi di alzarmi e raggiunsi la scogliera a picco sul mare scuro e mosso, dove restai sino al mattino. Dopo il rito funebre nella vecchia chiesa di legno, seppellimmo Rhona nella corte della chiesa nuova. Penso che il luogo del suo estremo riposo le sarebbe piaciuto, perché vi crescevano alcuni alberi di susino i cui frutti aveva sempre amato. Fui l'ultimo a lasciare la tomba. Rimasi a lungo inginocchiato vicino al tumulo di pietre rubate al mare, chiedendomi come avrei potuto sopravvivere quando la mia vita, la mia luce, giaceva sotto quel mucchio di terra e rocce. I giorni seguenti non mi portarono alcuna consolazione. Svolgevo i miei compiti con distaccata efficienza, ormai privo di speranza e di vitalità, senza che nulla mi interessasse, senza sentire le parole gentili che mi venivano rivolte, incapace di provare gioia per ciò che mi circondava. E ogni notte vagavo lungo la scogliera. Rimasi in tali condizioni finché non ressi più. Una sera, mentre la luce della luna riempiva il cortile, mi alzai e uscii. Seguii il ben noto sentiero che conduceva alla spiaggia. Con il cuore spezzato, sfinito dal dolore, raggiunsi la battigia ed entrai in mare. Che Dio mi perdoni, non potevo più sopportare il dolore che mi divorava. Sentii l'acqua gelida circondarmi le ginocchia, ma continuai a camminare. Riuscivo a pensare solo che presto sarebbe finito tutto e che sarei stato per sempre con la mia amata sposa. L'acqua mi arrivò alle cosce, poi alla vita; ma continuai a camminare. Mentre l'acqua scura cominciava a mulinarmi attorno al torace, sentii qualcuno che mi chiamava dalla spiaggia: «Duncan, aspetta!». Riconobbi la voce: era Padraig. Deciso a non farmi dissuadere, non gli prestai attenzione e continuai a procedere con fermezza. Un istante dopo, udii il diguazzare dei passi del monaco che mi seguiva. Non volendo che mi raggiungesse e che mi convincesse a venir meno ai miei propositi, non risposi e avanzai ancora. «Duncan!» gridò. «Torna indietro, Duncan, ho una cosa per te!» Lo ignorai e continuai a camminare. Ormai l'acqua mi arrivava alla gola e la corrente mi spingeva avanti. Lui mi lanciò un altro richiamo, poi sentii una seconda voce, una voce infantile, spaventata, che piangeva. Mi volsi verso di lui e lo vidi avanzare a fatica verso di me, con Caitrìona fra le braccia. Quell'apparizione fu così strana che mi fermai. «Cosa credi di fare?» urlai. «Portala via da qui!»
Lui si avvicinò e, mia carissima Cait, tu avevi il visino contratto per la paura e mi tendevi le mani perché ti aiutassi, perché ti salvassi dall'acqua, dalla notte e dalla stranezza di ciò che stava accadendo. «Allora?» gridò Padraig. «Vorresti andartene senza dire addio a tua figlia? Meglio ancora, perché non la porti con te?» Allungò le braccia, porgendomi la bimba. «Riportala a riva, folle!» gridai con rabbia. Lui si limitò a scuotere la testa. Lo guardai furente. «Sei diventato pazzo?» «Prendila» mi intimò, tendendomela di nuovo. Cait cominciò a gridare, mentre l'acqua gelida le lambiva le gambe. «Prendila adesso e falla finita. Sarà un sollievo.» «Sei davvero pazzo!» ringhiai. «Forse» ammise. «Comunque, penso che sarebbe meglio morire fra le braccia di un padre affettuoso, che non perdere entrambi i genitori prima di essere cresciuti abbastanza da poterli ricordare. Poiché desideri mettere fine alla tua vita, faresti bene a porre fine anche alla sua.» Infuriato, avanzai verso di lui e gli strappai la mia cara figlioletta dalle braccia. «Stupido prete! Non sai niente di bambini.» «Vero» confermò bonariamente. «Ma so che l'acqua è fredda, che la notte volge al termine e che ho nostalgia del mio letto tiepido. Pensi che potremmo tornare a casa?» Cullando la mia piccina in lacrime, mi diressi verso riva. Percorremmo in silenzio la strada di ritorno verso il castello; Cait aveva smesso di piangere quando lo raggiungemmo. Padraig mi salutò e io entrai nella mia stanza, avvolsi mia figlia in uno dei caldi mantelli di sua madre, la misi a letto e le rimasi accanto finché non si addormentò. Anch'io dormii e fu solo un rumore di voci a svegliarmi. Pensando che Padraig avesse raccontato a qualcuno ciò che era accaduto durante la notte, mi sentii in imbarazzo e uscii pronto ad affrontare sguardi di disapprovazione e di rimprovero. Ma si trattava soltanto di alcune donne del villaggio che avevano portato a me e a Caitrìona qualcosa da mangiare. Mi porsero un cesto e si accomiatarono, dicendo che sarebbero state liete di prendersi cura della casa ogni volta che ne avessi avuto bisogno. Le donne se ne andarono per la loro strada, ma per tutto il giorno continuai a temere che si venisse a sapere dell'incidente della notte prima. Tuttavia non accadde nulla. Quella sera, dopo i vespri, vidi Padraig uscire dalla cappella e andai a
ringraziarlo per non aver fatto parola con nessuno del mio vergognoso comportamento della notte precedente. Mi guardò incuriosito. «Comportamento vergognoso? Di cosa stai parlando?» «Lo sai benissimo» borbottai, irritato dal fatto che mi costringesse a ricordarlo. «Sono arrivato giù, sino al mare.» «Che cosa strana» commentò soavemente, ma con un'espressione che tradiva un accenno di malizia. «Anch'io ho camminato nel sonno, ieri notte. E adesso, per quanto mi sforzi, riesco a malapena rammentarmene.» Avvicinatosi, aggiunse: «Rimanga fra noi, ma ti sarei grato se non lo dicessi all'abate. Non dovremmo uscire dal monastero, dopo le preghiere». «D'accordo» risposi «stai pur certo che manterrò il segreto. Ma fa' in modo che non accada più.» «Oh, me ne sono già pentito cento volte.» Mi fissò con aria furba. «Credo che non mi capiterà mai più di passeggiare nel sonno.» Ciò mise fine alla questione, e nessuno ne parlò più. Ma lascia che te lo dica, da allora mi sono rammaricato di quella notte centinaia di volte. Comunque, Dio è buono: quel disgraziato incidente fece nascere un'amicizia di valore inestimabile. Perché, da quella notte, Padraig divenne il mio compagno più caro, la mia guida spirituale e, come dice lui, la mia anam cara, la mia anima amica. Un altro risultato della follia di quella notte fu che cominciai a pensare a come fare ammenda per il mio penoso errore, quale penitenza impormi. So che alcuni potranno considerarlo eccesso di devozione, o persino gretto bigottismo; ma pensino pure ciò che vogliono: so bene di essere andato vicino a gettare via il dono più prezioso di Dio. Se mi fossi annegato, Cait, mi sarei condannato all'infelicità eterna, lo so bene. Invece Colui che Tutto Concede mi ha benedetto oltre misura. Anche se siedo in questa cattività dorata in attesa della condanna a morte, sono il più riconoscente degli uomini, perché ho conosciuto l'amore di veri amici, ho una figliola vivace e deliziosa e mi è stato concesso di osare e di fare molto per il Regno Invisibile del mio Salvatore. Oh, be', pensa ciò che vuoi. Ovunque si volgesse il mio animo, cominciavo a pensare a quali eccezionali atti di penitenza compiere. Nel riflettere su quale forma avrebbe dovuto assumere il mio gesto, trovai sollievo dal trauma e dal dolore per la scomparsa della mia Rhona. Ritrovai il gusto e l'entusiasmo di vivere e, insieme a essi, un nuovo interesse per le cose dello spirito. Padraig notò quella rinnovata devozione. Una sera, dopo i vespri, mentre
chiacchieravamo davanti a un boccale di birra, mi avvertì: «Attento, Duncan, se continui così ti verrà voglia di farti monaco». «E cosa ci sarebbe di male?» chiesi, con un tono di sfida che mi induriva la voce. «Pensi che non ne sarei all'altezza? Ricorda che mio fratello è un chierico. So bene quali sarebbero i miei doveri. Potrei...» «Mi arrendo!» rispose alzando le mani. «Stavo scherzando. Saresti un ottimo sacerdote, non ho dubbi.» Nonostante le sue parole, sentii una nota di riserva nella sua voce. «Ma?» Fece una smorfia e mi guardò pensieroso, ma non disse nulla. «Coraggio, cosa ti passa per la testa?» «Lungi da me l'intenzione di scoraggiare chiunque intenda dedicarsi alla Chiesa...» «Ma vorresti scoraggiare me, non è così? Bella cosa.» «Mi hai frainteso» si affrettò a dire. «Ci sono molti sacerdoti fra i Célé Dé, ma pochi sono nobili. Nostro Signore ti ha concesso moltissime benedizioni, Duncan. Se vuoi fare qualcosa per onorarlo, fallo senza rinnegare la condizione nella quale ti ha creato.» «In quanto nobile, intendi?» Allargò le braccia. «Considera tutto ciò che tuo padre è riuscito a realizzare per i Célé Dé. Pensi che avrebbe potuto fare anche solo la metà, se fosse stato un monaco?» Quella frase, buttata lì per caso senza alcuna intenzione, mi portò a pensare in modo diverso. Riflettei su ciò che mio padre aveva fatto in gioventù, sul fatto che era molto più giovane di me quando aveva partecipato alla Grande Crociata. Riuscivo solo a rimuginarci sopra e ben presto non potei pensare ad altro. Forse anch'io, mi chiedevo, venivo chiamato a un pellegrinaggio? Qualche giorno più tardi, parlai di queste riflessioni a mio padre. Eravamo seduti a tavola per la cena e, come sempre in casa sua, attorno al tavolo erano riuniti anche alcuni vassalli e amici. Quella sera erano stati invitati a desinare con noi anche alcuni capomastri che lavoravano alla chiesa, e dunque la birra e la conversazione scorrevano liberamente. Il discorso cadde sul ritorno di Torf-Einar e su come aveva vissuto in Terra Santa. Qualcuno osservò di aver sentito dire che Torf aveva lasciato in Oriente un'enorme fortuna; altri cominciarono a speculare sull'entità di quelle misteriose ricchezze, chiedendosi se fossero in oro o in argento. La loro rozza superficialità mi infastidì, e dichiarai: «Forse andrò di persona
in Terra Santa, reclamerò quel tesoro e diventerò re di Edessa». Mia madre, che dava istruzioni alla servitù e contemporaneamente ascoltava le chiacchiere dei commensali, mi guardò come se avessi detto che intendevo bruciare la stanza e tutti quelli che vi si trovavano. Il sorriso svanì all'istante dal volto di mio padre, che si girò lentamente verso di me. Se avessi pronunciato la bestemmia più terribile che si possa immaginare, ne sarebbe stato meno scandalizzato. Inghiottì il boccone di pane che stava masticando, sforzandosi di reprimere l'ira montante. «Hai detto una sciocchezza» disse con voce bassa e roca. «Le fantasticherie inutili sono opera del demonio.» Cercai di obiettare che non si trattava affatto di una fantasticheria inutile e che stavo pensando all'Oriente da un po' di tempo, ma scorsi mia madre che disperatamente mi faceva segno di tacere. La reazione dei miei genitori mi ferì, ma soprattutto rimasi attonito per la rapidità e la violenza con cui il mio innocente commento aveva suscitato l'ira di mio padre. Mormorai qualche vaga scusa e gli chiesi di perdonarmi. La tensione del momento sparì in fretta come era venuta e la conversazione riprese, ma non venne detto altro sulla Terra Santa e, non appena se ne presentò l'occasione, mi alzai e uscii dalla sala. Quando giunsi in chiesa, il mattino seguente, mio padre mi prese da parte: «Tua madre ritiene che, ieri sera, io ti abbia giudicato troppo frettolosamente. Crede che ti abbia condannato ingiustamente per un commento che valeva meno dell'aria usata a pronunciarlo». Lo guardai dritto negli occhi. «E voi cosa ne pensate, padre mio?» Lui distolse lo sguardo. «So che la mia buona sposa è saggia, e con gli anni ho imparato che bisogna fidarsi della sua opinione su certi argomenti.» Si strinse nelle spalle e volse di nuovo gli occhi su di me. «Se mi assicuri che ha interpretato rettamente le tue parole, e mi prometti che non dirai mai più cose simili, sarò felice di perdonarti senza riserve e di non tornarci più sopra.» «Perdonare!» esclamai con voce resa rauca dallo sdegno. «Nominare la Terra Santa è un peccato, adesso? Come è certo che io sono vostro figlio, padre mio, così penserò e parlerò come meglio mi aggrada.» Mi lanciò uno sguardo furente. «Solo uno sciocco scherza su cose che non comprende. Non ti avevo mai considerato uno sciocco, figliolo.» Per evitare di dire qualcosa di cui mi sarei pentito, mi voltai per allontanarmi. «C'è un'altra possibilità» aggiunsi gettandomi uno sguardo alle spalle.
«E sarebbe?» mi ringhiò dietro. «Che non fosse affatto uno scherzo!» La sua ostinazione irragionevole, lo confesso, rafforzò la mia determinazione. Mi ritrovai a rimuginare su ciò che mi aveva detto Torf-Einar riguardo alla Terra Santa e a immaginare come sarebbe stato raggiungerla. Quel giorno non presi parte ai lavori della chiesa e trascorsi la giornata in barca, con tre servitori, per catturare sgombri da affumicare. Poiché la pesca era stata buona, tornai solo con il crepuscolo e passai metà della notte a sventrare il pesce perché fosse pronto per essere messo a essiccare il giorno dopo. Ero appunto intento ad appendere gli sgombri puliti e aperti alle travi di betulla, quando vidi giungere l'abate Emlyn. «E così mio padre vi ha mandato a rimbrottarmi» esordii in tono scherzoso. «Senza dubbio era stanco di farlo da solo.» Il buon monaco mi gettò un'occhiata e sospirò: «Somigli tanto a un altro giovane che conoscevo» disse. «Testardo come un mulo.» «Se siete qui per parlare della discussione fra me e mio padre» replicai «siete nel posto sbagliato. La colpa non è mia, ma sua.» «Vieni» mi propose, facendomi segno di mettermi al suo fianco. «Andiamo a fare una passeggiata.» Ero deciso a rifiutare: «Ho da fare» dissi. «Vieni con me, Duncan» insistette gentilmente. «Il pesce può aspettare.» Chi potrebbe negare qualcosa al buon abate? Così, camminando affiancati, attraversammo la corte, e uscimmo sulla strada; incrociammo il sentiero che conduce alla spiaggia, lo imboccammo e superammo i campi, dove alcuni contadini stavano raccogliendo i cardi. La brezza spirava da nord e nell'aria tersa che odorava leggermente di sale si coglieva l'annuncio di tempo sereno e asciutto. Raggiungemmo la riva del mare e proseguimmo per un po', accompagnati dallo scricchiolio dei nostri passi sulla ghiaia. I mucchi di alghe marce che segnavano la linea dell'alta marea pullulavano di granchiolini bianchi che al nostro passaggio fuggivano a nascondersi. Infine, l'abate tirò un profondo respiro e disse: «Sono inquieto, Duncan». Ritenni di sapere cosa avrebbe aggiunto, per cui rimasi in attesa della ramanzina e mi preparai a difendermi dalla sua ingiusta disapprovazione. «Murdo non è in sé.» Rimasi sorpreso a quelle parole, mi fermai e lo guardai. «Come?» «Tuo padre e io siamo amici da molti anni, ma non l'ho mai visto tanto irascibile.»
«Nemmeno io.» «Ti giuro sulla mia vita che non so perché sia così antipatico.» «E volubile.» «Sì» concordò l'abate. «Lord Murdo è sempre stato un uomo costante e risoluto. Mi fa male vederlo più insoddisfatto ogni giorno che passa.» Mi guardò con la fronte corrugata per il disappunto. «Di cosa credi che abbia paura?» «Perché mai dovrebbe aver paura?» replicai, aggirando la sua domanda. «Niente lo ha mai spaventato. Penso che si sia intestardito sulle sue idee e che lo irriti il fatto che qualcuno abbia un'opinione diversa.» Emlyn scosse appena la testa: «Sai che non è vero». «Suppongo di no» ammisi. «Ma perché dite che ha paura?» «Se si guarda abbastanza a fondo, si comprende che alla base dei nostri peccati e delle nostre debolezze c'è sempre la paura.» «Mio padre ha paura che io parta per la Terra Santa.» Non avevo avuto intenzione di dirlo. Anzi, lo feci senza rifletterci, ma compresi subito che si trattava della verità. Emlyn concordò: «E perché credi che ciò lo spaventi?». «Perché» cominciai lentamente «pensa che diventerò come Torf-Einar e che abbandonerò la mia famiglia e i miei doveri.» «Probabilmente è per qualcosa del genere» rispose l'abate. Riprendemmo a passeggiare: le onde increspate dalla brezza lambivano i ciottoli della battigia che mandavano un suono di risatine soffocate. «Tuo padre non parla mai della Grande Crociata» riprese Emlyn dopo un po'. «È vero.» «Per tuo padre, la crociata ha rappresentato soltanto fatica e sofferenza. Come molti altri, anche lui vi ha perduto quasi tutto ciò che gli era più caro. Da quando è ritornato, non ha fatto che lavorare per sostituire ciò che non aveva più, e c'è riuscito in modo ammirevole.» «L'arrivo di Torf-Einar deve avergli ricordato qualcosa» riflettei. «Peggio» assicurò l'abate. «Se Torf non fosse venuto, il passato sarebbe rimasto un ricordo lontano, anche se doloroso.» Cominciai a capire il senso di ciò che mi stava dicendo. «Murdo ha paura che, se vado in Terra Santa, perderà anche me.» «Considerati i precedenti, non è una paura irragionevole.» L'abate mi guardò, ma io tenni gli occhi fissi davanti a me in modo da non dover incontrare il suo sguardo.
«Capisco. Dunque voi siete d'accordo con lui.» «Le cose non stanno così, Duncan.» «E se vi dicessi che Dio mi sta chiedendo di prendere la croce? Che consiglio mi dareste, allora?» Non replicò, perciò pensai di averlo spiazzato e approfittai del mio vantaggio: «Ebbene, abate?» domandai. «Devo obbedire a Dio o a mio padre: quale dei due?» Non udendo risposta, volsi lo sguardo verso di lui e notai che stava scrutando a occhi socchiusi la foschia che si alzava dal mare, lontano, all'orizzonte. «C'è una nave» disse. «Sta arrivando qualcuno.» «Dove?» chiesi, aguzzando la vista. «Laggiù» rispose, indicando un puntino nero sul tratto di mare. «Mi chiedo chi possa essere.» Continuammo a guardare, mentre il puntolino si faceva sempre più grande. Era un'imbarcazione di discrete dimensioni, con le vele rosse, che si avvicinava rapidamente alla costa, spinta dalla brezza di mare. Tutt'a un tratto capii: «È Eirik!». Un momento dopo, correvamo tutti e due lungo il sentiero in direzione del castello, per avvisare gli altri che mio fratello era finalmente di ritorno. Cinque Quella sera demmo il benvenuto a Eirik con un piccolo banchetto e gli riservammo il posto d'onore a tavola. Egli era felice di aver fatto ritorno nella terra del Signore e di essere lontano dagli scoti del Sud e dalle loro interminabili liti. «Da come si affannano a difenderlo, pensereste tutti che l'onore sia il materiale più raro e prezioso della terra» disse. «Se qualcuno è convinto di averne un po', però, è l'uomo più infelice del mondo, perché deve stare continuamente in guardia contro l'eventualità che un altro lo offenda con una parola sventata.» «Verissimo» concordò energicamente Emlyn. «Ho sentito che una volta un uomo di Dunedin uccise un mendicante che aveva calpestato la sua ombra.» «Sono tutti così litigiosi, al Sud?» chiese Regana. «Se è così, non ho alcuna intenzione di andarci.» «E voi cosa ne dite, Lord Murdo?» chiese uno dei capomastri. «Voi e l'abate Emlyn siete stati più a sud di chiunque altro si trovi in questa stan-
za. La gente di laggiù è davvero feroce?» Murdo guardò di traverso l'uomo che si era permesso di sollevare l'argomento: «Peggio» borbottò e, sebbene tutti desiderassero sentire qualche aneddoto, si rifiutò recisamente di aggiungere altro. A Eirik non sfuggì la scortesia del padre e, saggiamente, prese a parlare d'altro. Domandò al muratore notizie della chiesa in costruzione, che cominciava ad assumere un aspetto un po' diverso da quello di un cumulo di sassi sparsi sul terreno. L'argomento si dimostrò quasi inesauribile e terminammo il pasto con il racconto della costruzione più o meno pietra per pietra. Dopo cena Eirik mi si avvicinò e mi espresse il suo cordoglio per la morte di Rhona. Dopo le parole di conforto, mi domandò: «Cos'è accaduto a nostro padre mentre ero via? Un orso con una ferita alla testa sarebbe meno ringhioso. Si sente bene?». «Sta abbastanza bene» ammisi. «Ma è venuto un fantasma a tormentarlo.» A quelle parole, Eirik sollevò un sopracciglio e mi chiese di spiegarmi meglio. Allora gli raccontai dell'imprevisto ritorno di Torf-Einar, della sua malattia e della sua morte. «Adesso comincio a capire» rispose mio fratello. «Le vecchie ferite si sono riaperte.» «È proprio ciò che dice Emlyn» continuai. «Per quanto mi riguarda, ho l'impressione che quei due nascondano un segreto.» La mia supposizione incuriosì Eirik e io mi sentii talmente lusingato nel vedere mio fratello maggiore pendere dalle mie labbra che, imprudentemente, proseguii: «Sono convinto che sia accaduto qualcosa mentre erano insieme in Terra Santa, qualcosa che hanno giurato di non rivelare mai a nessuno». Benché le mie fossero solo illazioni, mi ero avvicinato alla verità più di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. «Emlyn che mantiene un segreto?» si stupì Eirik. «Deve trattarsi di una cosa davvero terribile.» «Già» dissi impulsivamente «e qualunque orrore ci sia sotto, ha mostrato di nuovo il suo volto rendendo infelice nostro padre.» «Pensi che avesse a che fare con Torf?» chiese Eirik. «Potrebbe essere» risposi «ma non intendevo quello. Piuttosto, si è trattato di una cosa che ha detto lo zio.» «Quale cosa?» «Be', abbiamo parlato di tanti argomenti. Soprattutto della sua vita in
Terra Santa: delle battaglie alle quali ha partecipato, delle sue ricchezze e cose simili. Nostro padre si rifiutava di ascoltarlo. Ha commentato che si trattava di storie da viaggiatori e di pericolose fantasie.» «Davvero?» Eirik rifletté un momento, poi chiese: «Dimmi, fratello, papà era turbato sin dall'inizio? O c'è stato un momento particolare in cui il suo atteggiamento è cambiato?». «È stato così sin dal principio» risposi. «Dal momento in cui ha posato gli occhi su Torf-Einar, è stato...» mi interruppi, capendo all'improvviso la domanda di mio fratello. «No, ora che ci rifletto meglio» ripresi «fu quando Torf cominciò a parlare delle reliquie.» Quel particolare parve colpire Eirik. «Quali reliquie?» domandò, venendomi ancora più vicino con aria interessata. «La Santa Lancia e la Croce Nera. Fu quando chiesi a papà di quelle due reliquie che si arrabbiò. Non voleva sapere cos'aveva raccontato Torf, e disse che erano tutte menzogne e che si rifiutava di ascoltare una sola parola. Quando cercai di avere informazioni da Emlyn, l'abate si schernì dicendo che non toccava a lui dare spiegazioni. «Un vero mistero» commentò Eirik. Capii che stava già immaginando chissà quale trama. «Che probabilmente resterà tale. Nessuna forza al mondo riesce a far cambiare idea a nostro padre.» «È vero» assentì Eirik, stringendo le labbra. «Comunque, vedremo.» Mio fratello è inarrestabile quando si tratta di ottenere l'impossibile. Ditegli che una cosa è inattuabile o assurda, o meglio inattuabile e assurda, e farà di tutto per averla. Non desidererà altro. La sua inesauribile energia non conosce ostacoli, freni o limiti. Quand'era ragazzo, lo vedevo buttarsi a testa bassa in ogni genere di impresa senza speranza. Non credere che lo stia giudicando troppo severamente, Cait: te lo direbbe lui per primo, se glielo chiedessi. È un vanto, per lui! Soprattutto perché, di quando in quando, ha avuto successo, con somma meraviglia sua e degli altri. Una delle sue imprese impossibili fu quella di ottenere un vescovado prima dell'età in cui la maggior parte dei sacerdoti sta ancora pensando all'eventualità di diventare abate. Un'altra fu Niniane. Se vuoi conoscere le vicende del loro corteggiamento, Cait, chiedi alla tua dolce zietta. È una storia che vale la pena di ascoltare. Nei giorni successivi Eirik si dedicò al nostro problema. Vedevo che ci si arrovellava parallelamente ai suoi compiti sacerdotali. E continuò a ela-
borare piani sino all'autunno inoltrato. Se non lo avessi conosciuto bene, avrei pensato che se ne fosse dimenticato, invece stava solo aspettando il momento propizio per entrare in azione. Aveva di fronte un uomo la cui capacità di sfidare l'impossibile superava persino la sua: niente di meno che Lord Murdo Ranulfson. Senza dubbio, Eirik pensava che se avesse sprecato l'occasione, non ne avrebbe avuta una seconda. Il che era vero, anche se, come vedrai, la Mano dell'Onnipotente si stava già muovendo per attuare i suoi imperscrutabili piani. Subito dopo la stagione del raccolto, Eirik lasciò l'abbazia per fare un giro del feudo. Portò con sé quattro monaci, caricò su un cavallo vettovaglie e mercanzie, e partì. Erano passati solo tre giorni quando fece ritorno, dicendo che aveva avuto una visione. Tutti gli si fecero intorno per apprendere l'accaduto. «Ci eravamo accampati vicino a un torrente» raccontò «e stavo cercando di accendere il fuoco mentre i miei confratelli preparavano il porridge. Ero chino sulla fiamma, quando sentii che una voce mi chiamava dal bosco. Mi guardai intorno e chiesi ai monaci chi potesse essere, visto che non c'erano villaggi nei dintorni. Ma essi non avevano udito nulla. «Attesi un po': la voce chiamò ancora e ancora. Pensate che i fratelli sentissero qualcosa? No, assolutamente niente. Ecco» si interruppe Eirik «chiedeteglielo.» «Cosa avete sentito?» domandò un uomo. «Niente» risposero i monaci. «Mentre mi chiedevo cosa potesse significare quella voce, vidi un uomo uscire dal bosco. Era tutto vestito di bianco e mi chiamò per nome. Lo salutai e lo indicai ai confratelli, che non riuscirono a scorgerlo.» «Non l'abbiamo visto» confermarono i monaci. «Non l'abbiamo né visto né sentito.» Gli astanti, colpiti dal prodigio, si scambiavano occhiate piene di meraviglia. In quel momento cominciai a mangiare la foglia. E notai anche che mio padre era ammutolito e aveva sul viso un'espressione molto pensierosa. «Lo sconosciuto mi chiese di seguirlo ma, a dire il vero, io non avevo nessuna voglia di farlo» riprese Eirik. «Allora lui mi disse: "Non temere, fratello. Non ti accadrà alcun male". E io risposi: "Chi siete, mio signore?" Perché pensavo che si trattasse di un angelo.» «Ma certo» mormorarono i presenti, con la naturalezza di chi è avvezzo a conversare tutti i giorni con gli angeli.
Eirik alzò la mano per avere silenzio e continuò: «Lo sconosciuto mi guardò e disse: "Sono un amico che la tua famiglia conosce bene". Io rimasi interdetto: "Com'è possibile?" chiesi "è la prima volta che vi vedo". Quelle parole fecero sorridere il mio strano visitatore. "Fratello Eirik" insistette, perché, come ho detto, sapeva il mio nome. "Vieni con me, devo badare alle mie faccende." «Si allontanò un po' dall'accampamento e mi fece segno di seguirlo. Obbedii e lui disse: "Arriverà il giorno in cui la chiesa che tuo padre sta costruendo sarà la mia casa. Dì a Murdo di cercarmi". «Acconsentii a riferire il messaggio e gli chiesi: "Chi glielo manda?". E questa è la parte più strana di tutte, perché lo sconosciuto si limitò a salutarmi con la mano e a rispondere: "Digli che il Signore della Promessa è assai compiaciuto dei suoi servi". «Poi» concluse Eirik «scomparve nel bosco da cui era venuto.» Gli astanti, in preda alla meraviglia, farfugliarono qualcosa e, quando furono certi che Eirik non avesse altro da aggiungere, se ne andarono scuotendo la testa, sconvolti dal miracolo. «Vi ho riferito il messaggio, padre mio» disse Eirik. «Che cosa significa?» «È la tua visione» rispose lui brusco. «Devi dirlo tu.» Poi girò sui tacchi e si allontanò rapidamente. Il vescovo mandò i monaci all'abbazia e io lo accompagnai verso casa. «Ben fatto» commentai quando fummo soli. «Come hai saputo del Monaco Bianco?» Si fermò di colpo e mi guardò: «Come fai a sapere che si trattava di un monaco?» chiese. «Devi averlo raccontato prima.» «Non ho detto niente» negò recisamente, e io avvertii un brivido che mi fece venire la pelle d'oca. «Era un monaco o no?» insistetti. «Certo che lo era» rispose Eirik. «Ma non ne ho fatto cenno di proposito. Devi averlo saputo da qualcun altro.» «Lo stesso vale per te» lo accusai. «So cosa stai cercando di fare. Puoi anche abbindolare i contadini con le tue visioni notturne, ma non me. E credo che nemmeno papà si lascerà ingannare.» Eirik mi rivolse uno sguardo tra l'irritazione e il compatimento: «Duncan, Duncan, che cosa stai dicendo? Pensi che mi sia inventato tutto? È questo che pensi?».
«Certo» risposi. «A me, in un certo senso, non interessa affatto, ma...» lui sollevò gli occhi al cielo e scosse il capo. «Cosa c'è? Vuoi farmi credere che è vero?» «Nel nome di tutto quanto c'è di sacro, è la pura verità» dichiarò. «È accaduto esattamente come ho detto. Perché mai avrei dovuto inventarmi una storia simile?» «Per scoprire il segreto...» Solo allora mio fratello cominciò a capire. «Il segreto di nostro padre e di Emlyn intendi? Credi che io abbia macchinato tutto per farli confessare?» «Sì» ammisi. «È quello che penso. E spero che funzioni, anche.» «Fratello mio» commentò Eirik con un sorriso «sei molto più sospettoso di quanto immaginassi. Mi sembra di scorgere in te la stessa astuzia di nostro padre da giovane, e non mi sbaglio. Ma chiamo Dio a testimone» soggiunse con accento sincero «che tutto è accaduto esattamente come ho detto.» «D'accordo» concessi, senza insistere oltre. «Ma credi che funzionerà?» «Potrebbe» rispose Eirik, tamburellandosi pensosamente il labbro inferiore con un dito. «Dovremo agire con prudenza. Non dire niente a nessuno. Lascia fare a me. Penso di conoscere il modo.» Ci separammo, e lui si affrettò a raggiungere l'abbazia. «Quando?» gli gridai mentre si allontanava. «Presto» rispose. «Lascia fare a me.» Quella sera, a cena, Eirik sedette a tavola con un aspetto austero e cupo. Parlò poco e continuò a fissare il cibo come se sospettasse di essere avvelenato. Se qualcuno gli rivolgeva la parola, otteneva soltanto un debole cenno del capo, o un grugnito a mezza bocca. Il suo volto accigliato influenzò talmente il pasto, che la conversazione a un certo punto si interruppe e i commensali cominciarono a bisbigliare furtivamente per non disturbarlo. All'inizio Murdo, in qualità di padrone di casa, cercò di ignorare la tetraggine del figlio ma, alla fine, quando risultò impossibile far finta di niente, dovette arrendersi e gli domandò: «Ti senti poco bene? Sembra che ti porti sulle spalle il peso del mondo». Eirik sollevò lentamente lo sguardo, come se stesse contemplando la causa di tutta la miseria umana: «Non datevi pensiero per me, padre mio» rispose con gravità. «Il peso che porto è solo mio.» «C'è niente che possiamo fare per te, figliolo?» chiese Lady Regana.
«Temo di no» rispose lui sospirando. «Mi è stato concesso di avere una visione e, finché non sarò in grado di comprenderne il significato, potrò solo stare male. Devo riuscirci, anche se temo che lo sforzo mi farà impazzire.» Si alzò e fece l'atto di allontanarsi. «Mi dispiace. Non avrei dovuto venire a tavola, stasera. Ho rovinato una buona cena e vi prego di perdonarmi, signori.» Si inchinò a Regana: «Mia signora, vi auguro la buona notte». I nostri genitori si scambiarono un'occhiata e Regana lanciò una tacita supplica al marito. «Aspetta» disse allora Murdo, richiamandolo indietro. «Può esserci un rimedio al tuo malessere. Farò chiamare Emlyn e, non appena ti sentirai meglio, parleremo.» «Padre mio» ribatté Eirik, rimettendosi a sedere «posso sperare che siate a conoscenza di qualcosa che ridarà pace alla mia mente?» «Forse» ammise Murdo. «Ma questo non è il luogo adatto per discuterne. Mangia qualcosa, figliolo, ritrova l'appetito, se ti riesce. Fra poco l'abate sarà qui.» Murdo mandò uno dei servitori a prendere il sacerdote e la cena proseguì in un'atmosfera più rilassata. Notai che Eirik non ebbe alcuna difficoltà a nutrirsi e infatti, quando giunse Emlyn, aveva già quasi finito la terza pagnotta d'orzo e il secondo piatto di stufato. Il buon abate si sedette a tavola, rifiutò la carne che gli veniva offerta e accettò invece un boccale di birra scura. Gli altri ospiti, che non vedevano l'ora di saperne di più sulla vicenda, smisero di parlare e volsero gli occhi verso mio padre. «Mio caro Emlyn» cominciò lui, con un certo imbarazzo «sembra che una straordinaria visione abbia causato molta sofferenza al nostro giovane vescovo.» «Davvero?» si stupì l'abate. Poi, gettando uno sguardo comprensivo a mio fratello, gli chiese: «Avresti dovuto rivolgerti a me, amico mio. Cosa ti è successo?». Eirik spiegò brevemente l'accaduto ed Emlyn commentò: «Murdo, se questo non è un segno del nostro Signore e Salvatore, non so cos'altro potrebbe essere». «È ciò che ho pensato anch'io» assentì Murdo. Si alzò e chiamò uno dei servitori. «Porta una caraffa di birra nella sala del tesoro» ordinò. Poi, rivolto agli altri ospiti, aggiunse: «Vi prego di perdonarci, cari amici, ma si tratta di una questione che dobbiamo discutere in privato. Trattenetevi pure per tutto il tempo che desiderate. Mia moglie farà in modo che i vostri
boccali siano sempre colmi». Detto ciò, i tre si alzarono da tavola e uscirono dal salone. Gli altri si resero conto all'improvviso che sarebbero stati esclusi dalla conversazione e che non avrebbero mai conosciuto la spiegazione del mistero. Fra loro includo anche me stesso, perché non fui invitato a prender parte alla discussione. Guardai uscire mio padre, mio fratello e l'abate e provai una fitta pungente di delusione. La cena ebbe termine e gli ospiti se ne andarono. Io rimasi seduto per un po' con mia madre a guardare cupamente il fuoco nel camino, sentendomi abbandonato come un cane scacciato dal fianco del padrone. Poco dopo Haldi, il servo, passò portando dei boccali di birra. Mentre si dirigeva verso la porta in fondo al salone, mia madre lo richiamò. «Porta qui il vassoio, Haldi.» Egli tornò indietro e appoggiò il vassoio sul tavolo. Regana lo congedò dicendo: «Penso che la conversazione si protrarrà. Aiuta la cuoca a rassettare la cucina, poi va' pure a dormire. Penserò io a servire la birra a Lord Murdo». Haldi la ringraziò e corse via, felice all'idea di terminare prima le sue incombenze. Lady Regana sbadigliò e disse: «Anch'io sono stanca e credo che me ne andrò a letto. Spero che non ti dispiaccia pensarci tu, Duncan». «Certamente no, madre mia» risposi. «Sarò felicissimo di accontentarvi.» Mi baciò sulla guancia e le augurai la buonanotte. Poi, per non perdere nemmeno un momento, afferrai il vassoio ed entrai nella sala del tesoro, dove avrei conosciuto il mistero della visione di Eirik. Sei Il tesoro è conservato nel cuore del castello, in uno stanzino senza finestre, con una porticina bassa e robuste pareti di solida pietra. Credo che sia stata la prima parte della dimora a essere edificata e che tutto il resto, cioè le camere da letto, i magazzini, le stanze da lavoro, la cucina e il salone, siano state costruite attorno a essa. Ho saputo che, diversamente dai sovrani orientali, pochi nobili del Nord possiedono simili locali, perché le loro ricchezze consistono nella terra stessa, nei campi, nel bestiame e nei pascoli. Murdo dispone in abbondanza di tali ricchezze, ma possiede anche un tesoro che farebbe morire di invidia qualunque re venisse a sapere quanto è ingente. È sempre stato assai riservato al proposito, non ne parla mai e
raramente si reca nella stanza dov'è custodito. Una volta, quando avevo sei o sette anni, presi di nascosto la grande chiave di ferro dal suo nascondiglio, aspettai che tutti fossero intenti alle loro occupazioni e andai a vedere cosa avrei trovato dietro quel piccolo uscio. La camera era angusta e aveva il soffitto basso persino ai miei occhi di fanciullo. Al centro vi erano un tavolo, una sedia e un candelabro con tre candele mezzo consumate; contro le pareti quattro grandi bauli di rovere, ciascuno cinto da larghe sbarre di ferro, assicurate con un lucchetto. Non avevo le chiavi per aprirli, ma scoprirli fu quasi altrettanto eccitante che trovare un mucchio di monete. Sbirciai attraverso il buco della serratura centrale del forziere più grande e potei vedere il luccichio corrusco dell'oro che vi era conservato. Un rumore di passi fuori dalla porta mi impedì di ispezionare gli altri tre. Ma quell'unico, rapido sguardo fu sufficiente ad alimentare la mia fervida immaginazione per molti giorni. Comunque, mia cara Cait, la realtà è assai più prodigiosa. Un giorno te ne accorgerai da sola. Quella sera il tesoro era l'ultimo dei miei pensieri. Entrai nella stanza, illuminata dalla luce di una candela, reggendo il vassoio della birra e, senza che nessuno si fosse accorto della mia presenza, cominciai a mescerla come se fosse una delle mie mansioni abituali. Riempii prima il boccale di Emlyn, poi quello di Eirik e, infine, quello di mio padre. Quest'ultimo mi ringraziò distrattamente e poi mi chiese cosa ne fosse stato di Haldi. Gli risposi che mia madre lo aveva mandato ad aiutare la cuoca e che mi aveva incaricato di servire la birra al posto suo. «Dal momento che sei qui» intervenne Eirik «tanto vale che resti ad ascoltare ciò che diremo.» Mi accorsi subito che la proposta non piaceva troppo a Murdo e che stava per avversarla, ma l'abate Emlyn prese la parola: «Sì, Duncan, rimani anche tu». «Pensate che sia saggio?» chiese mio padre dubbioso. «È bene che conosca la verità» dichiarò l'abate «se deve servirla. Sì, è bene che sia qui.» Le sue parole mi fecero fremere d'eccitazione. Doveva esserci ancor più di quanto immaginassi, sotto quella faccenda! Murdo rimase accigliato ancora per un po', e rimanemmo tutti in attesa che prendesse una decisione. «Va bene» concesse infine, facendomi segno di chiudere la porta e di sedermi. Obbedii, sistemandomi sul grande forziere di rovere dentro cui avevo
sbirciato molti anni prima. «Stavamo parlando della visione di tuo fratello» spiegò mio padre. «Ciò che sto per dire è noto solo a tre persone al mondo. Emlyn, il mio vecchio amico, è una di loro. L'altra è tua madre.» Poi si interruppe, come se fosse incerto se continuare o no. «Parla pure» lo esortò Emlyn garbatamente. «Credo che sia per il meglio.» Mio padre annuì e, rivolgendosi a Eirik, proseguì: «Molto tempo fa, quand'ero poco più che un ragazzo, anch'io vidi il Monaco Bianco...». Ciò mi sorprese. «Due volte» aggiunse «una ad Antiochia e una a Gerusalemme. Mi apparve e mi chiese di costruirgli un regno.» Murdo, al ricordo, si interruppe, e fece un largo gesto con la mano, comprendendo non soltanto il castello e il feudo, ma anche i campi e le terre incolte. «Cosa che ho cercato di fare meglio che potevo.» «La promessa» commentò Eirik. «Mi ha detto che il Signore della Promessa era compiaciuto. Che i vostri sforzi, padre mio, avevano incontrato il Suo favore.» Murdo annuì pensosamente. «In Terra Santa accaddero molte cose, e per la maggior parte è meglio dimenticarle. Benché avessi mantenuto la promessa, ultimamente avevo cominciato a temere che non sarei vissuto abbastanza per vederla realizzata. Anzi, non pensavo che il Monaco si sarebbe mostrato di nuovo.» «Sino a oggi» disse Eirik. «Già» annuì Murdo. «Perdonatemi, padre mio» intervenni. «Ma chi è questo Monaco Bianco? È uno spettro?» «Forse» rispose Murdo «o forse è un angelo. Non lo so. Mi disse di chiamarsi Andrea e mi apparve sotto le spoglie di un monaco, o almeno, a me sembrava che lo fosse.» Si interruppe perso nel ricordo, poi aggiunse: «Comunque, anche se allora non ne ero consapevole, sono certo che fu lui a guidarmi passo dopo passo attraverso tutto ciò che accadde da allora in poi». Murdo continuò raccontando di quando era entrato nelle catacombe del monastero della chiesa di Santa Maria, fuori dalle mura di Gerusalemme, e aveva visto il Monaco Bianco per la seconda volta. «Rimasi solo soltanto per pochi minuti, in attesa che gli altri tornassero, ed egli mi apparve» spiegò abbassando la voce, mentre con la mente tornava indietro negli anni sino a quell'incontro straordinario. «Mi chiese di servirlo e, quando gli domandai come, rispose che voleva
che gli costruissi un regno dove il suo gregge avrebbe potuto pascolare sicuro. Disse: "Fa' che non vi sia posto per le ambizioni degli avidi e per le loro infinite lotte. Fa' che sia un regno dove sia possibile seguire in pace il Vero Sentiero e dove la Santa Luce brilli come la fiamma di un faro nella notte". Vedete» proseguì Murdo con un sorriso vagamente imbarazzato «ricordo ancora le parole esatte dopo tutti questi anni.» «È stata la prima volta che hai sentito parlare del Vero Sentiero?» chiesi io. «No» rispose Murdo, sorpreso per la domanda. «Fu Emlyn ad accennarmene per primo, e anche Ronan e Fionn mi istruirono sull'argomento. Ve li ricordate, vero? Tu ed Eirik li avete visti un paio di volte quando eravate ragazzi. A dire la verità, all'inizio provai ben poco interesse per i loro discorsi. Odiavo gli uomini di Chiesa, e non senza ragione.» «Quindi questa faccenda è più importante di quanto non sospettassi» intervenne Eirik. «Come sarebbe a dire?» chiese Emlyn. «I Célé Dé sono sempre stati i guardiani del Vero Sentiero e i custodi della Santa Luce!» «E in ciò sta la mia fede» disse mio fratello con convinzione. «Ma oggi ho avuto la visione di un uomo che mi ha detto che sarebbe venuto a vivere qui. Sembra che tutti conoscano il Monaco Bianco tranne me. Perché?» «Io non ne ho mai fatto parola fino a oggi» rispose Murdo. «E nemmeno Emlyn. Chi altri potrebbe saperlo?» Eirik mi puntò il dito: «Duncan» disse, narrando a nostro padre la conversazione che avevamo avuto il giorno prima. «È vero, Duncan?» chiese Murdo e, mentre lo ammettevo, «Chi te l'ha detto?» «È stato Torf-Einar, prima di morire» risposi, raccontando tutto ciò che mi aveva rivelato lo zio sulle sacre reliquie e sul loro misterioso guardiano. «Torf mi ha detto che il Monaco Bianco apparve ai pellegrini ad Antiochia e spiegò loro che, scavando nella chiesa, avrebbero trovato la Vera Croce.» E, allargando le braccia per professare la mia innocenza, aggiunsi: «Non potevo sapere che fosse un segreto». Emlyn, a poco a poco, era diventato sempre più pensieroso e taciturno e infine gettò a Murdo uno sguardo di mite rimprovero. Mio padre allora sembrò arrabbiarsi e facendo un gesto con la mano in direzione dell'abate sbottò: «Va bene! Se servirà a farvi smettere di tormentarmi, vi dirò tutto». Poi si avvicinò a un forziere, e io pensai che intendesse aprirlo. Invece fece scivolare di lato una delle grandi fasce di ferro e ne estrasse una perti-
ca sormontata da un gancio piatto. Lo vidi con curiosità crescente procedere verso il centro della stanza e scegliere una delle lastre di pietra dell'impiantito. Infilò il gancio tra le fessure del pavimento, fece leva e sollevò la lastra. Si chinò su una cavità nella roccia, ne estrasse un involto di pelle lungo e sottile, lo posò sul tavolo e cominciò ad aprirlo. Eirik e io ci avvicinammo per vedere che cosa fosse e anche Emlyn ci si mise accanto, intrecciando le mani, con uno sguardo rapito sul viso paffuto. Dentro la custodia di pelle c'era un drappo di lino finissimo e, sotto il primo, un secondo. Il mio cuore si mise a battere all'impazzata quando anche l'ultimo velo venne rimosso e apparve... una vecchia asta di ferro, ammaccata, deformata e arrugginita. Dalla reverenza che mostravano Murdo ed Emlyn, compresi che doveva trattarsi di un oggetto molto prezioso, anzi sacro. Ma confesso che non riuscivo a capirne l'importanza. Guardai la lunga asta e mi sentii mancare il cuore. Era tutto lì, dunque, il grande segreto che avevano custodito per tanti anni? Eirik sembrava sbalordito. Ansimò, cadde in ginocchio e, levando le mani al cielo, chiuse gli occhi. Poi si prosternò a terra e rimase in preghiera. Murdo si limitava a contemplare l'oggetto in ammirato silenzio. «Che cos'è?» chiesi infine. Mio padre lanciò uno sguardo a Emlyn. L'abate tese la mano, l'appoggiò sull'asta e disse: «Quella che vedi è la Lancia di Ferro». La osservai attentamente: lunga circa un braccio e leggermente curva al centro, aveva una punta tozza a un'estremità e un piccolo foro sull'altra. Com'era possibile che quel rottame di ferro, che mi sembrava un attizzatoio rotto o un vecchio spiedo per gli arrosti, fosse invece la Lancia che aveva trafitto il costato del Salvatore sul Golgota? «Se è vero» commentai «mi chiedo come mai l'imperatore non sia accampato fuori dai nostri bastioni. E perché il papa non sia venuto in pellegrinaggio a renderle omaggio.» «Tieni a freno la lingua, ragazzo» mi apostrofò Murdo. «Stai bestemmiando e io non voglio sentirti.» Emlyn alzò le mani in un gesto di pace e disse: «Hai promesso di raccontare loro tutto quanto». Poi, rivolto a me, aggiunse: «Una semplice spiegazione chiarirà ogni cosa, Duncan. La ragione per cui godiamo in pace di quest'inestimabile bene è che né il papa, né l'imperatore, né nessun altro in tutta la cristianità, sa che ce l'abbiamo. Per tutto il mondo, la santa reliquia è conservata nel tesoro di Costantinopoli».
«È quel che credeva anche Torf-Einar» confermai. «Mi ha raccontato che c'era quando il principe Boemondo consegnò la Lancia all'incaricato dell'imperatore. Mi ha detto di averlo visto con i suoi occhi.» «Erano presenti molte persone quel giorno» mi assicurò l'abate. «C'ero anch'io. Oh, sì. Ero sul molo del porto di Giaffa quando arrivò Boemondo. E anch'io lo vidi consegnare la Santa Lancia a Dalasseno, il legato imperiale.» Udendo tali parole, Murdo si concesse un sorrisetto soddisfatto: «Non sempre le persone vedono davvero ciò che credono di vedere» disse; quindi prese la brocca, si riempì un boccale di birra, la bevve d'un fiato e finalmente incominciò a spiegare gli avvenimenti di quel tempo lontano. Quella sera ci svelò il segreto che aveva serbato tanto a lungo; e certo lo rivelerà anche a te, Cait, quando sarai più grande. «Perché sino a ora non ce ne hai mai parlato?» chiesi quand'ebbe finito. «Se tu avessi visto solo la metà di ciò che è accaduto a Gerusalemme» rispose mio padre «non me lo domanderesti.» «Fu terribile!» esclamò Emlyn. «I crociati si satollarono del sangue degli innocenti come lupi lasciati liberi fra gli agnelli. La loro avidità non conobbe limiti e ciò che non poterono razziare, lo distrussero.» Il buon abate, che quasi tremava di indignazione, chinò il capo e concluse tristemente: «Infransero i loro voti e si disonorarono davanti a Dio e agli uomini. Avevano l'opportunità di mostrare al mondo la misericordia dei veri cristiani ma, anziché presentarsi come i migliori fra gli uomini, si comportarono come i peggiori». Dopo un istante, aggiunse: «Ciò rende il compito dei Célé Dé ancora più prezioso e importante». «Forse è per questo» suggerì Eirik «che il Monaco Bianco vuole fare del nostro feudo la sua casa.» «Non c'è dubbio» rifletté Murdo. «A tale riguardo, hai certamente ragione.» Appoggiò con reverenza una mano sulla Santa Lancia, poi la sollevò e me la porse. Strinsi tra le dita quella vecchia asta di ferro: era fredda al tatto, com'era logico, ma leggermente più pesante di quanto sembrasse. Tuttavia, oltre a ciò, non aveva assolutamente niente di particolare. Passai l'antica arma a Eirik, che nel prenderla chinò la testa e mormorò una preghiera. Quand'ebbe terminato, riavvolgemmo la sacra reliquia nel lino e nella pelle e la nascondemmo di nuovo sotto il pavimento. Quella notte non riuscii a prender sonno e ripensai alla strana storia che
avevo appreso. Avevo passato tutta la vita in quella casa senza mai sospettare che vi fosse nascosto l'oggetto più sacro del mondo. Non solo, l'avevo anche toccato e tenuto tra le mani. Pensai ai nobili d'Occidente, alla loro cupidigia e malvagità, e all'insopportabile arroganza del papa, che con inaudita leggerezza aveva mandato al massacro migliaia di esseri umani. Mentre stavo sdraiato, desto e immerso nei miei pensieri, cominciai a sentire dentro di me una giusta indignazione all'idea che pochi uomini spietati potessero dominare incontrastati sui poveri e sugli umili, affidati alle loro cure. E, mentre la notte insonne lasciava il posto a un'alba serena, iniziai a elaborare il piano che mi avrebbe portato verso il mio destino. Sette Non confidai il mio piano a nessuno. Volevo abituarmi alla mia decisione, lasciarla crescere e maturare. In genere, è meglio non gettarsi a capofitto in progetti nati nel cuore della notte, perché spesso la luce del giorno rivela crepe nascoste dall'oscurità, e io non avevo intenzione di essere avventato. Così mi dedicai come di consueto al mio lavoro e nessuno sospettò nulla. Eirik riprese a viaggiare, e questa volta Niniane si unì al suo seguito, e l'abate Emlyn partì per le Orcadi. Murdo si concentrò nella costruzione della nuova chiesa, occupandosene di buona lena dall'alba al tramonto e costringendo gli altri a fare altrettanto. Ci dedicammo alle rispettive incombenze in un'atmosfera cordiale, senza mai parlare delle rivelazioni di quella sera o dell'incomparabile tesoro nascosto nel cuore della casa. I giorni cominciavano ad accorciarsi e le notti a farsi più lunghe. Il lavoro alla chiesa cominciò a rallentare perché, assai di frequente, gli operai dovevano continuare la loro attività alla luce delle torce. Alcuni capomastri decisero di rimanere con noi per tutto l'inverno, per evitare che le tormente di vento e di neve vanificassero le loro fatiche; altri, invece, erano ansiosi di far ritorno alle loro case nei territori meridionali. Scrutavano il cielo e, quando le anatre delle Orcadi cominciarono a migrare, migrarono anche loro. Murdo aveva acconsentito ad accompagnare a Inbhir Ness coloro che volevano andarsene, così che potessero imbarcarsi sulle navi dirette a Eoforwik. Partii anch'io, più che altro per dare il mio aiuto nel riportare indietro la nostra barca: benché possa essere governata da un uomo solo, infatti,
è più facile farlo in due, e mio padre ci tiene molto. Con Sarn Dito Corto al timone, procedemmo veloci lungo la costa. Era passato un certo tempo dall'ultima volta che ero stato a Inbhir Ness ed ero ansioso di raccogliere tutte le notizie che riguardassero la Terra Santa. Visto che il tempo era buono, e sembrava voler restare così, convinsi Sarn a trattenersi in città per un giorno. Egli concordò con me che non sarebbe stata una cattiva idea e, sistemati capomastri e operai a bordo di una nave in partenza quella sera stessa, ci mettemmo a passeggiare per il porto parlando con i marinai. Non trovai nessuno che avesse notizie della Terra Santa, ma il comandante del porto mi consigliò di provare nelle taverne affacciate sui moli. Così facemmo, ma senza miglior fortuna: nessuno sapeva niente. Dopo la seconda taverna e il terzo boccale di birra, Sarn chiese: «Perché vi interessa la Terra Santa?». «Non sei mai stato curioso, Sarn?» «Una volta, da ragazzo» rispose pensieroso. «Volevo sapere dove si fosse nascosto un piccolo tasso.» Mi tese la mano e notai che aveva il medio più corto delle altre dita. «Lo scoprii, e da allora non sono più stato curioso.» Rimase per un attimo in silenzio, poi aggiunse: «Per questo preferisco navigare; in mare non ci sono tassi». Finimmo la birra e facemmo un giro in paese per schiarirci le idee. Vidi un'anziana donna che fabbricava babbucce di cuoio foderate di pelle d'agnello: ne aveva un paio, da bambino, ornato di uccellini rossi e blu ricamati ad arte. Le acquistai per te, Cait. Ti tennero i piedini caldi per tutto l'inverno, e penso che le indosseresti ancora, se non fossi tanto cresciuta. In paese c'era anche un fornaio, che vendeva pagnottelle ripiene di carne speziata e rape: pensando alla cena ne comprai due, insieme a un po' di pane nero e di salsicce. Prima di ritirarci sulla barca per la notte, ci fermammo di nuovo alla taverna e prendemmo una caraffa di birra. Mangiammo ascoltando le chiacchiere dei marinai che si trovavano intorno. Alcuni si ubriacarono e cominciarono a cantare. Dopo un po', dalle canzoni si passò alla lite e tre di loro finirono in acqua. Furono ripescati dai compagni, e insieme se ne andarono a cercare qualcos'altro da bere. Tornata la calma, Sarti e io ci avvolgemmo nei nostri mantelli e ci addormentammo. Il mattino dopo partimmo di buon'ora e, al sorgere del sole, eravamo già al largo. Giunti a Banvard, tirammo in secco la barca e la mettemmo al riparo per l'inverno. Murdo fu felice di sapere che gli operai avevano tro-
vato facilmente un passaggio verso casa, perché così, commentò, sarebbero tornati più volentieri in primavera. La sua osservazione, del tutto innocente, mi mise di malumore. Dapprima pensai di essere semplicemente deluso perché i miei sforzi a Inbhir Ness erano falliti: benché infatti non avessi contato sul fatto di venire a sapere qualcosa di importante, ci avevo comunque sperato. Poi, mentre le giornate diventavano sempre più scure, si incupiva anche il mio umore. Diventai irritabile; quando qualcuno mi parlava, rispondevo brontolando, inveivo per sciocchezze e mi demoralizzavo facilmente, tenendo il broncio per offese inesistenti. Una notte sognai Rhona e la sua immagine risvegliò un dolore che credevo scomparso. Cominciai a sentire sempre di più la sua mancanza. Passavo intere giornate a fissare il fuoco mentre il vento faceva fremere le grondaie; oppure camminavo lungo la spiaggia fra il nevischio finché non mi si congelavano i piedi e il viso non mi diventava blu. Sobbalzavo nel sonno e mi svegliavo con l'impressione che qualcuno mi stesse strangolando: era una sensazione talmente terrificante che mi stendevo a letto e mi rifiutavo di chiudere gli occhi. Fu allora che mi resi conto della fonte della mia angoscia: il mio progetto era ormai maturo, ma io non ero pronto a realizzarlo. Avendoci meditato sopra dalla festa di Santa Brigida a quella di San Tommaso, era ormai tempo di cominciare a concretizzarlo, ma, temendo la resistenza che la mia decisione avrebbe suscitato, esitavo. Era questa la causa del mio malessere. Mio padre non avrebbe accolto con favore la mia decisione, lo sapevo, così pensai di annunciare il mio piano in occasione delle festività di Natale, nella speranza che qualunque obiezione sarebbe stata addolcita dall'atmosfera della festa. Dopo che ebbi stabilito cosa fare, le nuvole dell'inquietudine cominciarono a diradarsi e mi dedicai ai preparativi per i giorni di festa, il che fu assai gradito a mia madre. Quando giunse il Natale ero di ottimo umore, tanto che tutti pensarono che avessi cessato di dolermi per la scomparsa della mia giovane sposa. Di conseguenza cominciai a ricevere le attenzioni di alcune fanciulle, i cui genitori dovevano nutrire la speranza di nobili nozze. Anche se le loro moine mi lusingavano, feci di tutto per non incoraggiarne le aspettative. Il mio cuore e la mia mente erano concentrati su altre cose, e niente mi avrebbe dissuaso dal mio proposito. Tuttavia devo ammettere che non mi fece difetto la compagnia femminile, e che trascorsi un piacevolissimo Natale.
Ora, mia cara Cait, mi pento di non essermi unito a una di quelle giovani donne per il tuo bene; di non averti dato una madre che, con la mia partenza, sarebbe stata una benedizione. Ahimè, è un'idea che ho avuto troppo tardi. Attesi il momento opportuno per rivelare il mio proposito. L'ultimo giorno dell'anno ci riunimmo tutti per celebrare la Dodicesima Notte. Il salone del maniero era pieno di vassalli, monaci e amici giunti dalle Orcadi; i tini erano colmi di birra aromatizzata, i paioli pieni di stufato di maiale e di manzo; caraffe fumanti di vino speziato erano allineate sulle lunghe tavole. Su invito di mio padre, prendemmo posto e cominciammo a bere e a mangiare. Una dopo l'altra furono portate e offerte agli invitati altre pietanze: salsicce cotte nella birra con salsa di mele, pesce arrosto con finocchi e lingua di manzo affumicata con cavoli marinati. Su ciascun tavolo campeggiavano piccole piramidi di pagnotte tonde, il pane tipico della Dodicesima Notte, cotto in occasione della festa. Mangiammo e bevemmo a sazietà tutte quelle leccornie e, quando ci fummo saziati, l'abate Emlyn si alzò e chiese che nel salone si facesse silenzio. «Amici miei!» esordì, alzando la voce per superare l'allegro chiasso. «In queste liete occasioni è bene soffermarsi un momento per rendere grazie a Dio del sontuoso banchetto che egli ha concesso ai suoi fedeli.» Ciò detto, chinò il capo e giunse le mani. La sua preghiera di ringraziamento fu semplice, spontanea e breve, qualità che rendevano l'abate assai caro al suo gregge. Nei suoi sermoni infatti Emlyn non dava mai l'impressione di scagliare anatemi o di rivolgere velate minacce all'uditorio, e non approfittava dell'occasione per fare sfoggio di erudizione e impressionare o mortificare i suoi fedeli, tentazione a cui troppi ecclesiastici non riescono a resistere. Quando pregava, si limitava a esprimere sentimenti di amore e di devozione per un Creatore tanto generoso e misericordioso. Quand'ebbe finito, fu Murdo ad alzarsi. Chiese a tutti di riempire coppe e boccali e disse: «Brindiamo all'anno appena cominciato! Che il Dio della Bontà e della Luce ci colmi delle Sue benedizioni e che il nostro feudo possa prosperare in ogni cosa buona e degna». Dopo che avemmo bevuto, aggiunse: «A Dio piacendo, l'anno prossimo, di questi tempi, ci riuniremo per consacrare la nuova chiesa». «Amen!» gridò l'abate Emlyn. «Così sia!» Levammo nuovamente le coppe e a quel punto fui io a levarmi in piedi. Tutti si volsero verso di me, in attesa.
«Davanti a Dio e a questa fiera compagnia» iniziai «faccio giuramento di compiere il pellegrinaggio a Gerusalemme per la salvezza della mia anima. Se piacerà a Dio concedere un buon esito al mio viaggio laggiù, pregherò per il nostro feudo e chiederò al Signore di benedire tutti noi.» Quell'inaspettata dichiarazione fu accolta con grande stupore, e subito la sala si riempì di mormorii ed esclamazioni di sorpresa. Emlyn si affrettò ad alzarsi e a mettersi al mio fianco. Mi gettò uno sguardo indagatore: «Sei davvero deciso?» chiese. «Sì» risposi. Mi abbracciò con forza, dicendo: «Dio ti benedica, figliolo! È stato Gesù Cristo nostro Salvatore a guidare il tuo cuore». Lo ringraziai e improvvisamente fui circondato da tutti gli invitati, che mi si accalcarono attorno per augurarmi ogni bene e per unire i loro voti al mio. Gli uomini più giovani si offrirono di accompagnarmi e gli altri di farmi avere vettovaglie e denaro per il viaggio. Sembrava che tutti fossero felici all'idea del pellegrinaggio. Tutti, tranne colui alla cui approvazione tenevo di più: mio padre. Egli rimase a fissarmi come se una freccia gli avesse trafitto il cuore. Poi, molto lentamente, venne verso di me. L'espressione dura del suo viso guastò l'allegria generale: le risate cessarono e un silenzio imbarazzato scese nella sala. Sentivo il fuoco scoppiettare nel camino mentre mi sì avvicinava e vidi i suoi occhi ardere di rabbia. «Non avresti dovuto dire una cosa simile» sussurrò a voce bassissima, come se stesse lottando per trattenersi. Mia madre, sconvolta, mi raggiunse. «Padre mio» risposi «è da molto tempo che penso di farlo. Credo che Dio mi abbia chiamato al Suo servizio.» «Ne parleremo dopo» replicò con durezza. «Facciamolo adesso invece» ribattei sfrontatamente. «Dopo» insistette. «Non è il momento adatto per una lite in famiglia.» Stavo per dire che non vedevo differenza tra quel momento o un altro, quando avvertii sul braccio la mano di mia madre che cercava di trattenermi. Mi implorò silenziosamente con un cenno del capo. «Come desiderate, padre mio» risposi allora, cedendo alla garbata supplica di Regana. «Ne parleremo dopo.» I festeggiamenti ripresero, ma io mi sentivo come un orsetto litigioso afferrato con una zampata da un adulto della sua specie. Mi rimisi a sedere e cercai di dimenticare il rimbrotto paterno, senza riuscirci. L'umiliazione mi
bruciava e non potevo soffocare facilmente il mio risentimento. Dopo un po' trovai un'occasione per andarmene via e lasciai il salone senza che nessuno mi notasse. Uscii all'aperto nella fredda notte e mi sentii sul viso accaldato il morso del vento gelido. Cosa mi ero aspettato, in fondo? Come avevo potuto credere che mio padre approvasse e accogliesse la mia decisione di partire con parole di lode e di esultanza? Era successo ciò che temevo, niente di più. L'unica consolazione era che, avendo dichiarato le mie intenzioni, qualunque cosa fosse accaduta il mio progetto non sarebbe più stato un segreto. Il giorno dopo attesi di essere convocato nelle stanze private di mio padre per ricevere la reprimenda che sapevo inevitabile. Ma così non accadde: la giornata trascorse senza scosse; salutammo i nostri ospiti e li vedemmo partire. In segno di rispetto nei miei confronti, nessuno parlò dell'annuncio che avevo fatto la sera precedente. Il tempo si guastò, così rimasi con te, piccola mia, e quella sera cenai in compagnia di mia madre. «È molto arrabbiato con te, Duncan» esordì, stringendo le labbra per il disappunto. «Ha ululato e ringhiato come un lupo con il mal di denti per tutto il giorno e si è rifiutato di venire a tavola.» Si interruppe, servendomi la minestra, poi mi guardò e aggiunse: «Devi andare a dirgli che sì è trattato di una incomprensione». «E perché mai?» chiesi. «Forse a lui non piacerà, ma non c'è stato nessun fraintendimento. Voglio andare a Gerusalemme, proprio come ho detto. Certo, partirei con il cuore più leggero se avessi la sua benedizione ma, con o senza la sua approvazione, ci andrò.» Regana aggrottò la fronte: «Duncan, ti prego, non sai di cosa stai parlando». «Credete davvero, madre mia?» commentai. «Pensate che dopo aver vissuto così a lungo in questa casa non abbia opinioni a riguardo?» «Non è quello che intendevo» rispose, mettendomi davanti la scodella. Poi si sedette e, intrecciando le dita, si sporse verso di me attraverso il tavolo. «Quando tornò dalla crociata» disse «tuo padre giurò che né lui, né nessuno della sua famiglia si sarebbe più avventurato in Terra Santa. Con la tua decisione ti sei messo contro di lui, e temo che ci saranno conseguenze.» «Sono spiacente, madre» risposi. «Ma non sapevo nulla del suo giuramento.» «Se solo mi avessi parlato del tuo progetto, figliolo, avrei potuto metterti
al corrente.» Mi guardò mestamente: «È tanto importante per te questo pellegrinaggio?». «Sì, madre» risposi con sincerità. «Non ho pensato ad altro da quando Rhona è morta. Credo che sia stato il Signore a mettermi in cuore questo desiderio, e soltanto Lui potrebbe farlo svanire.» «Se andrai a Gerusalemme, tuo padre morirà di dolore» osservò Regana. Aggrottò di nuovo la fronte e mi strinse la mano. «Credimi, non riuscirebbe a sopportare il dolore della tua partenza.» «Il dolore sarebbe mio» ribattei in tono tagliente «non suo.» Lady Regana scosse il capo: «No» proseguì «perché lui, a differenza di te, sa ciò che ti aspetta. Lui c'è stato, Duncan, e conosce i pericoli che dovrai affrontare. Non potrebbe sopravvivere sapendo quali difficoltà e quali sofferenze ti saranno riservate». «Se Dio mi ha ispirato la volontà di partire e io non dovessi farlo» risposi «cosa ne sarebbe di me? Come potrei sopravvivere?» Otto Lasciai Banvard senza aver parlato di nuovo con mio padre e ancora mi rammarico e mi addoloro per quell'amara partenza. Credimi, Cait, darei la vita e tutti i suoi doni per essere partito con la benedizione dell'unica persona al mondo la cui approvazione mi avrebbe sostenuto nelle prove che ho affrontato. Ma Murdo fu irremovibile: si rifiutò di rivolgermi la parola finché non mi fossi pentito della mia decisione. E io non potevo farlo. Da allora, mi sono chiesto spesso come si sarebbe comportato se avesse saputo qual era il vero scopo del mio pellegrinaggio. Avrebbe fatto qualche differenza? Chi può dirlo? Devi sapere una cosa, piccola mia, e ricordarla sempre: non temo la morte. Per me lasciare questa vita significa entrare trionfante nell'altra. Ma il pensiero di spirare in un paese straniero senza rivedere i volti di coloro che più ho amato, mi riempie di un dolore così grande da togliermi il respiro. Comunque sopporto il mio destino con pazienza e prego che il califfo ritardi ancora un po' il suo ritorno, in modo da poter portare a termine ciò che ho cominciato. Ti assicuro che è una condizione assai bizzarra: mi danno le vivande e i beveraggi migliori, e soddisfano i miei pur modesti bisogni senza le umi-
liazioni che spesso accompagnano la prigionia. Ho persino un servo che si prende cura di me e, sotto molti aspetti, vengo trattato come un ospite, con grande cortesia e rispetto. In ogni caso accetto ciò che mi viene dato con gratitudine, sapendo che potrebbe facilmente avvenire altrimenti. I musulmani sono un popolo nobile, non dubitarne mai. Se fra noi fosse possibile la pace, penso che ci scopriremmo fratelli. Ma, ahimè, troppo sangue è stato versato in battaglia perché entrambi possiamo perdonare. Non ci sarà mai pace fra i nostri popoli, fino a che non ritornerà Nostro Signore Gesù Cristo. Ne sono profondamente convinto. Ora ti racconterò come giunsi a Marsiglia. Una mattina presi la barca e chiesi a Sarn di accompagnarmi senza dirgli dove stavo andando. La sera, all'insaputa di tutti, mi ero preparato e, giunta l'alba, mi ero alzato e mi ero recato alla baia per svegliare Sarn che dormiva nel suo rifugio fatto di remi e stoffa per le vele. Nella stagione calda era solito trascorrere la notte nel capanno sulla spiaggia, al di sotto della scogliera. Lasciai che credesse che stessimo uscendo a pesca finché non raggiungemmo il promontorio, e solo allora gli dissi di far vela verso Inbhir Ness. In quel momento notò il fagotto che avevo portato a bordo. «Dove state andando, mio signore?» chiese. «Vado via per un po'» risposi. «Si tratta del pellegrinaggio, dunque?» sul suo viso aperto e sincero apparve un'espressione di malizia, che gli diede un'aria un po' sciocca. Naturalmente tutto il feudo sapeva del mio desiderio di partire per il pellegrinaggio e dell'inflessibile opposizione di mio padre. Il villaggio ne aveva discusso a lungo e la gente si era schierata a favore dell'uno o dell'altro. «Hai scommesso su di me?» Sarn si aprì immediatamente in un sorriso: «Sì, mio signore» ammise schiettamente. «Siete il degno figlio di vostro padre. Alcuni sostenevano che sareste rimasto, ma io ero certo che non avreste rinunciato.» «Dopo che mi avrai portato a Inbhir Ness, potrai tornare indietro a riscuotere la tua vincita.» «Il vento è buono; ci saremo prima di sera» annunciò, guardando il cielo. Poi, indicando il mio fagottello, aggiunse: «Siete sicuro di avere cibo sufficiente sino a Gerusalemme? L'abate dice che è molto lontana». «Mi basterà per tre o quattro giorni» ammisi. «Poi sarò nelle mani di Dio. Lui provvederà.»
«Avete una spada?» chiese, guardando dubbioso il mio scarno bagaglio. «Se ne avrò bisogno, me la procurerò» risposi. «I veri pellegrini non portano armi.» A quelle parole aggrottò la fronte, ma poi si rimise al timone mentre io riflettevo su ciò che dovevo fare. Volevo seguire l'esempio di mio padre: arrivare al porto di Inbhir Ness e chiedere di entrare a far parte della ciurma di una nave diretta a sud. Ritenevo che non sarebbero occorsi più di due o tre giorni per trovare qualcuno disposto a prendermi a bordo. Quando dissi addio a Sarn e lo rimandai a casa, non pensavo davvero di incontrarlo di nuovo. Ma, un paio di giorni dopo, ero ancora in attesa sul molo quando lo vidi entrare in porto; mi sentii mancare il cuore, perché pensai che portasse con sé mio padre, deciso a ricondurmi a casa. Ma con Sarn non c'era Murdo, bensì Padraig. «Se sei venuto per persuadermi a non partire, puoi tornare indietro anche subito» gli dissi senza mezzi termini. «Ho preso una decisione. Il mio pellegrinaggio è già iniziato.» Quel monaco alto e gentile mi guardò con dolcezza: «Allora, anche il mio» rispose. «Cosa intendi dire?» gli chiesi con tono diffidente. «Ti ha mandato mio padre o no?» «Lord Murdo ha detto che, se partirai, sarà per sempre. Non dovrai sperare di rivedere la tua casa, perché i morti non ritornano.» «Per lui è come se fossi morto, vero?» «Sono le parole che mi ha incaricato di riferirti.» «Bene, adesso puoi tornare indietro e dirgli che devo compiere ciò che Dio mi ha ordinato di fare.» «Mio zio mi aveva avvertito che avresti reagito così» osservò Padraig pacatamente. «L'abate Emlyn mi ha detto che, se eri deciso a portare avanti il tuo progetto, avrei dovuto accompagnarti.» «Accompagnarmi? Sino a Gerusalemme?» «Sì, amico mio» rispose il monaco. «Per aiutarti e consigliarti.» «Ti ringrazio, Padraig» gli dissi. «Ma la decisione è solo mia. Sei libero di tornare a casa. Dì all'abate che non posso assumermi la responsabilità di un'altra vita oltre alla mia. Comunque gli sono grato della sua generosa intenzione.» «Glielo riferirà Sarn. Io vengo con te.» Alzando una mano, dichiarò: «Ascolta, un pellegrinaggio è un'impresa santa. O lo si intraprende con
fede, o si lascia perdere. Se viaggeremo sorretti dalla speranza, confidando nel Santo Redentore, non avremo nulla da temere perché sul nostro cammino incontreremo angeli che ci saranno amici». «Per quanto la tua compagnia possa essermi gradita, non posso permetterti di seguirmi» replicai. «Non hai con te né provviste, né mantello, né borraccia.» E, indicando i suoi piedi scalzi, aggiunsi: «Non hai neppure un paio di calzature». Padraig sorrise: «Mantello e bastone sono nella barca. Se avrò bisogno di qualcos'altro, provvederà l'infinita generosità divina». Sarn, che era rimasto ad ascoltare la discussione dal suo posto al timone, si intromise divertito: «Ecco, proprio quello che voi avete risposto a me, mio signore». «Tu restane fuori» lo zittii seccato, guardando entrambi di traverso. Il sole stava scomparendo in fretta e calava il crepuscolo; anche se li avessi mandati via subito, sarebbe stato buio prima che riuscissero a raggiungere il mare aperto. «Molto bene» decisi ritrovando la calma «potete passare la notte qui con me, ma domattina dovrete andarvene.» Padraig non rispose nulla e si mise tranquillamente ad accendere il fuoco. Sarn ormeggiò la barca a una bitta, portò a terra un involto, lo aprì e ne tirò fuori alcune pagnotte, carne di maiale, pesce affumicato e altre cibarie per la nostra cena. «La birra è in quella botticella» disse. «Lady Regana ha pensato che avresti gradito una buona bevuta prima di partire per la Terra Santa.» Salii a bordo e trovai il recipiente. «Come facevate a sapere che mi avreste trovato ancora qui?» Il marinaio si strinse nelle spalle: «Non ho visto nessuna nave nel porto quando vi ho lasciato e, anche se ne fosse arrivata una, non sarebbe ripartita così in fretta». «Suppongo che ora dovrò chiamarti Sarn lo Scaltro.» Sorrise: «Che voi ci foste o no, avremmo bevuto la birra comunque». «Cercate di non bere troppo» ordinai scherzosamente. «Partirete domattina: tutti e due.» Cenammo mentre la notte calava intorno a noi. Lungo il molo furono accese alcune torce e ci trattenemmo a osservare le luci tremolanti e a bere birra. Tutto era tranquillo: c'erano poche navi nel porto e quasi tutti i marinai erano nelle locande del paese. «Mi sa che qui non arrivano tante navi» osservò Sarn. «Quanto avete intenzione di aspettare?»
«Tutto il tempo che sarà necessario» risposi, leggermente irritato dalla domanda. «Ieri ho parlato con un uomo che in primavera era a Rouen e mi ha detto che i franchi stanno cercando uomini per andare in Terra Santa.» «Rouen» ripeté Padraig. «È la città dove Lord Ranulf e gli altri nobili del Nord si sono uniti ai crociati.» «Già» confermai. «Allora presumo che sia quella la prima meta da raggiungere» suggerì il monaco. «Ed è appunto mia intenzione farlo» ribattei, con stizza crescente «non appena troverò una nave.» «Ma ne hai già una» osservò Padraig indicando la barca con cui era arrivato. «Può portarci Sarn.» Avrei potuto risentirmi per quell'idea, se non l'avessi trovata vagamente ridicola. «Potrebbe» ammisi altezzosamente «se avesse una mappa e abbastanza provviste per un viaggio così lungo.» Il viso di Sarn si illuminò, il suo sorriso spiccava nel buio. «Le ho» rispose. Lo fissai. Mi chiesi se quei due non stessero cospirando. «La barca è troppo piccola» protestai. In realtà, avevo sognato di salpare per Gerusalemme su una nave vichinga come quella su cui aveva viaggiato mio padre. «Sì, è piccina» ammise amabilmente Sarn «ma è sicura e il tempo è buono. Potremmo compiere la traversata senza difficoltà.» «E dove hai preso la mappa?» chiesi. «Al monastero» ripose Padraig, spiegandomi che l'abate Emlyn ne aveva controllato personalmente la copia, e la stesura. «Avete le provviste?» «Sì» confermò Sarn. «E sono sufficienti per tre uomini per parecchie settimane; benché l'abate ritenga che non ci impiegheremo tanto.» «Possiamo partire domattina» osservò Padraig. «Se non hai obiezioni, naturalmente.» «Dato che sembrate tutti e due decisi» dissi «vi permetterò di venire con me a Rouen e sarò lieto della vostra compagnia. Però, quando avremo raggiunto il porto» continuai, sollevando un dito per ammonirli «farete vela verso casa. Ci siamo capiti?» Mi guardarono entrambi perplessi. «La terra dei franchi è lontana» rifletté Padraig. «Forse sarebbe meglio aspettare di vedere cosa troveremo laggiù.»
Fu così che, il mattino seguente, non appena ci fu abbastanza luce per salpare, facemmo vela per Rouen. Il vento era stabile e il tempo si mantenne bello; per i primi cinque o sei giorni procedemmo a buona velocità, rimanendo sempre in vista della costa. Qualche volta scendevamo a terra per la notte, ma spesso dormivamo sulla barca. Perdemmo di vista la terraferma solo in una circostanza, quando la nebbia la coprì completamente una notte intera e per metà del giorno seguente. Fu solo dopo aver attraversato lo stretto ed essere giunti in prossimità della regione dei franchi che il tempo cominciò a guastarsi e fummo colpiti da una tempesta. Un vento furioso scagliava senza posa ondate sferzanti oltre le paratie. Padraig, stretto all'albero maestro, pregava, mentre Sarn e io svuotavamo la barca usando boccali e brocche. Restammo lontani dalla costa finché la tempesta non si calmò; quindi, sollevati anche se un po' scossi, levammo lodi a Dio e procedemmo verso sud, fino all'estuario del fiume che i franchi chiamano Senna. La città di Rouen è situata molto più all'interno rispetto alla foce del fiume, ma il gran movimento di imbarcazioni ci aiutò a trovare agevolmente l'imboccatura del canale che vi giungeva. In effetti seguimmo una grande nave fiamminga e arrivammo a destinazione in due giorni. Mentre Sarn si occupava della barca, Padraig e io parlammo con i capitani e i piloti di altre navi per sapere chi fosse diretto a sud. Padraig conosceva perfettamente il latino e io scoprii con soddisfazione che esprimermi in quella lingua che avevo studiato da bambino mi riusciva sempre più facile man mano che la ascoltavo. Sembrava proprio che fossimo arrivati nel posto giusto, perché il porto era affollato e, in cambio della mia collaborazione a bordo, mi furono offerti almeno tre passaggi. Dopo averne discusso con Padraig, decisi di accettare l'imbarco su una nave danese diretta a Genova, uno dei luoghi indicati sulla mappa di Sarn. Stavamo proprio Camminando lungo il molo per informare il capitano della mia decisione, quando comparvero due uomini. Il loro arrivo fu causa di una tale eccitata confusione che Padraig e io ci fermammo a vedere cosa stesse succedendo. I due erano alti e slanciati, avanzavano con l'autorevolezza di un re e scrutavano le banchine del porto con un'espressione altera e imperiosa dipinta sui nobili volti incorniciati dalle barbe brune. Portavano alla cintura lunghe spade che dovevano essere state lucidate di recente e indossavano stivali nuovi e semplici tuniche, una marrone e l'altra bianca. Notai che quello vestito di bianco portava una grande croce di stoffa rossa cucita sul
petto. Improvvisamente un gruppo di marinai che sedeva sul molo si alzò. Sentii uno di loro pronunciare un nome, allora mi voltai e gli chiesi cosa avesse detto. Quello indicò la croce rossa cucita sulla tunica dello sconosciuto e ripeté: «Templari». Rivolto a Padraig, gli domandai: «Lo hai mai sentito?». Il monaco confessò la sua ignoranza e mi suggerì di unirci alla folla che si stava rapidamente radunando attorno ai nuovi arrivati per ascoltarli. «Amici!» gridò quello con la veste bianca. «Avvicinatevi.» Fece cenno di accostarsi e, quando tutti gli furono intorno, dichiarò: «Vi saluto nel nome del nostro Redentore e vi prego di concedermi la vostra cortese comprensione. Il mio nome è Renaud di Bracineaux e, come potete vedere dalla croce che porto sul petto, sono un cavaliere dell'ordine dei Poveri Soldati di Cristo e del Tempio di Salomone». Un fremito di eccitazione percorse la folla: qualunque cosa fosse, l'ordine dei Poveri Soldati suscitò grande interesse ed entusiasmo fra la gente, che accorse numerosa per unirsi ai curiosi. «Non intendo distogliervi a lungo dalle vostre faccende» continuò il cavaliere. «Desidero solo informarvi del fatto che il nostro illustre Gran Maestro, Hugo de Payns, è arrivato da poco da Gerusalemme ed è qui per indurre uomini di nobile lignaggio a entrare nel nostro ordine, che si dedica a soccorrere i pellegrini cristiani in Terra Santa e a proteggere la Vera Croce.» Le ultime parole mi fecero salire le lacrime agli occhi. Decisi che dovevo assolutamente parlargli in privato, e stavo appunto pensando alla maniera migliore per riuscirci, quando il cavaliere concluse: «Vi ringrazio per la vostra attenzione. Se qualcuno desiderasse conferire con noi più a lungo, sappia che e io il mio aiutante ci tratterremo a Rouen sino all'alba». Poi congedò la folla benedicendola e tutti si dispersero lentamente. Alcuni giovani che volevano saperne di più seguirono i due mentre si allontanavano. Padraig e io ci unimmo a loro e giungemmo a una casupola di legno, davanti a cui un uomo, seduto dietro a un banchetto di giunchi intrecciati, vendeva pane, birra e polli arrosto. C'erano alcune panche rudimentali, fatte con tronchi d'albero e tavole di legno, dove gli avventori potevano sedere per godersi il pasto. «Amici» disse Renaud «ci fareste cosa assai gradita se voleste pranzare con Gislebert e con me.» Naturalmente tutti accettarono di buon grado, e il cavaliere chiese al pa-
drone di servirci con abbondanza un assortimento delle sue vivande. Il taverniere e sua moglie si diedero subito un gran daffare, offrendo boccali di birra scura e spumosa, cesti di pane e piatti di pollo arrosto. Padraig e io ci accomodammo su una panca, mentre i nostri giovani compagni discutevano animatamente e ponevano numerose domande al cavaliere. Egli rispondeva con pazienza, spiegando quali requisiti fossero necessari per entrare nell'ordine e quali ricche ricompense attendevano chi vestiva la sua bianca tunica. Bevemmo e mangiammo a sazietà, e ascoltammo attentamente tutto ciò che veniva detto. In breve fummo informati che quello dei Cavalieri del Tempio era un ordine monastico composto di nobili che giuravano di servire Cristo per un periodo di tempo prestabilito, durante il quale dovevano abbandonare le loro famiglie e i loro averi e fare voto di povertà, castità e fedeltà ai confratelli. In cambio, i prescelti avrebbero ricevuto un cavallo, un usbergo in maglia di ferro, uno scudo, un elmo da battaglia e una fine tunica bianca con la caratteristica croce rossa. «Hai sentito, Padraig?» sussurrai. «Sono monaci, monaci guerrieri. È incredibile.» Lui annuì, guardando i due cavalieri allibito. Infatti, chi mai aveva udito un simile controsenso? Quando i giovanotti di Rouen si furono allontanati, promettendo di ritornare più tardi con il permesso delle famiglie per entrare nell'ordine, il templare mi chiese: «E voi cosa desiderate, amico mio?» chiese con tono amabile. «C'è qualcosa in cui posso esservi utile?» «Vi ringrazio di cuore per la vostra generosità» risposi nel mio miglior latino. «Poiché sono anch'io un pellegrino in procinto di partire per la Terra Santa, molto di ciò che avete detto mi interessa immensamente.» «Ma guarda, a volte, le bizzarrie del caso. Non pare anche a voi, Gislebert?» gridò al suo compagno. Poi, rivolto a me: «Mio caro amico, suppongo dal vostro modo di parlare che siate di nobili natali. Posso garantirvi che, se decideste di prendere i nostri sacri ordini, giungereste ai gradini più alti della gerarchia. Nostro Signore Gesù Cristo richiede i servigi di uomini come voi in Terra Santa per proteggere i suoi fedeli dalle brutali ruberie dei miscredenti». Mi scusai dicendo che, per quanto l'occasione di entrare nell'ordine dei Poveri Soldati di Cristo fosse senza alcun dubbio affascinante, avevo già fatto un voto personale che non potevo disattendere con tanta leggerezza.
«Comprendo» rispose magnanimo Renaud. «Comunque, trascurerei il dovere che ho giurato di compiere se non vi facessi notare che potete godere di un'opportunità che potrebbe tornarvi preziosa.» «E quale?» «Il nostro stimato fondatore chiese e ricevette da papa Onorio II il permesso di concedere un'ordinazione piena, anche se limitata nel tempo, a chi lo desiderasse.» «E per quanto tempo dovrei rimanere nell'ordine?» domandai, incuriosito da quell'idea. «Tutto il tempo che Dio, nella sua sconfinata saggezza, vi suggerisce, amico mio» rispose Renaud. «È mia opinione personale che due anni sarebbero un tempo sufficiente per aiutare l'Ordine, anche se ho conosciuto molti che hanno pronunciato i voti per cinque, sei o sette anni. Pochi altri hanno prestato servizio solo per un anno.» «Capisco.» «Se vi dico questo» proseguì Renaud sorridendo e facendo lampeggiare i denti tra la scura nube della barba «è perché mi sembrate un uomo assennato e capace, che pronuncia un voto con lealtà. Inoltre, poiché viaggiate in compagnia di un monaco, sono convinto che siate in grado di capire la sacralità del nostro compito meglio di molti altri. Ditemi, ho forse errato nel giudicarvi?» «Per nulla, mio signore» risposi. «Allora, permettetemi di aggiungere che non c'è alcun bisogno di sciogliere il vostro precedente voto, basterà sospenderlo per un anno.» Mi alzai e dissi: «State pur certo che rifletterò attentamente sulla vostra offerta». Lo ringraziai di nuovo per la sua generosità e lo salutai. Il templare fece un cenno al suo aiutante, Gislebert, perché andasse dall'oste a saldare il conto della birra e del cibo e intanto mi accompagnò per un tratto di strada. «Domani dovremo rimetterci in viaggio» riprese, spiegandomi che i suoi confratelli si erano recati in altri villaggi e città per cercare volontari per la Terra Santa. «Ci ritroveremo tutti a Marsiglia alla fine dell'estate» aggiunse «e da lì faremo vela per Otranto, dove ci uniremo a Boemondo e raggiungeremo la Terra Santa.» Mentre Renaud parlava con me, scoppiò una lite fra il suo compagno e il taverniere. Ero così attento a ciò che mi veniva detto, che non sentii l'inizio dell'alterco e mi riscossi solo quando udii l'oste gridare: «Questo non basta! Signore, mi avete chiesto il meglio ed è ciò che vi ho dato!». Con la coda dell'occhio, lo vidi tendere le mani costernato mostrando le
poche monete che gli erano state pagate. «È più che abbastanza. Sta' zitto» gli rispose seccamente Gislebert, facendo l'atto di allontanarsi. L'altro allungò un braccio per fermarlo, e il templare reagì come se fosse stato toccato dalla lama di una spada: si voltò con i pugni levati, pronto a colpire. «Taci!» sibilò. «Vuoi che tutta la città sappia che sei un ladro?» «C'è forse qualche problema, Gislebert?» gridò Renaud, occupandosi finalmente della questione. «Ho chiesto dieci denari» gridò il povero venditore. «È un prezzo equo, domandate a chiunque, è un prezzo equo.» Poi indicò con la mano le monete. «Me ne ha dati solo sette! Non è giusto!» Il templare fece segno all'uomo di tacere: «Dategli ciò che vuole, Gislebert» concluse, aggiungendo «E cerchiamo di stare più attenti nelle transazioni commerciali, la prossima volta». «Il mio è un buon prezzo» insistette il locandiere, prendendo altre monete dalla mano dell'imbronciato subalterno. «Chiedete a chiunque in città, ve lo diranno tutti.» Ma le sue parole accorate caddero nel vuoto. Renaud si era già voltato di nuovo verso di me, e si stava congedando: «Ora dobbiamo andare, amico mio. Ma ricordate che, se cambierete idea, saremo lietissimi di accogliervi». Poi aggiunse: «Però è necessario che vi decidiate in fretta. Marsiglia è lontana». Promisi che avrei riflettuto sulla sua proposta, lo ringraziai per il pranzo e lo salutai. «Pax vobiscum» disse il cavaliere, sollevando una mano per benedirci. «Dio vi accompagni.» «Pax vobiscum» rispose Padraig. Quindi riprendemmo a camminare in silenzio e tornammo al molo, dove ci unimmo ai mercanti e ai facchini che trasportavano cesti, barili, balle e casse di merci. Incapace di trattenere oltre la sua curiosità, Padraig mi chiese: «Stai considerando se entrare nell'ordine?». «Sono tentato» ammisi. «Ma ho la testa altrove.» «A cosa stai pensando, amico mio?» «Pensavo» risposi «che, se un pellegrino fosse diretto in Terra Santa, non potrebbe fare scelta migliore di quella di viaggiare in compagnia dei cavalieri di Dio.» Nove Trascorremmo il resto della giornata, e buona parte di quella successiva,
cercando altre notizie su Marsiglia. Benché Padraig sostenesse di conoscere la città, infatti, non aveva la minima idea di dove potesse essere né di come raggiungerla. Mostrammo le mappe di Sarn ad almeno sei piloti delle navi più grandi, chiedendo loro di indicarci la posizione di Marsiglia: un paio non ne aveva mai sentito parlare; uno la conosceva solo di nome e sapeva che si trovava sulla costa meridionale, ma non c'era mai stato; gli altri tre si limitarono a chiederci di acquistare le mappe. Infine, mentre il sole cominciava a calare, un giovanotto slanciato si avvicinò al luogo dove avevamo ormeggiato la barca. Sarn e io eravamo seduti sul molo a ragionare sul problema, Padraig stava trafficando fra le provviste per preparare la cena. Lo sconosciuto ci raggiunse e fece un profondo inchino: «Pax vobiscum» esordì «vi sarei molto grato se poteste dirmi se sto parlando con coloro che hanno chiesto informazioni su Marsiglia». Si era espresso in tono educato ma freddo, come se fosse stato costretto a dire parole contrarie alla sua volontà. Lo guardai attentamente: aveva occhi grandi e scuri, carnagione olivastra e capelli folti, neri e ricci, così corti che aderivano al cuoio capelluto come una cuffia lavorata a maglia. Era magrissimo, ma gli abiti che gli coprivano il corpo ossuto erano di ottima qualità e di fattura accurata. Portava al dito un enorme anello d'oro e dalla cintura che gli stringeva la vita pendeva una borsa rigonfia. Fra le pieghe della veste si intravedeva un grosso pugnale con l'impugnatura d'osso. «Sì, siamo noi che abbiamo chiesto informazioni su Marsiglia» risposi, spiegando che avremmo voluto raggiungere la flotta dei templari diretta in Terra Santa. Alle mie parole i suoi occhi scuri, che dapprima mi erano parsi velati, si illuminarono all'improvviso: «Questa barca è vostra?» domandò, indicando il piccolo scafo massiccio alle nostre spalle. «Sì» risposi. «Siete voi il proprietario?» insistette, quasi tremando nell'eccitazione. «Appartiene a mio padre» spiegai «che me ne ha concesso l'uso.» «Magnifico!» gridò, e pensai che sarebbe svenuto. Quando si fu calmato, aggiunse: «Vi prego di non considerarmi un impudente, ma vorrei prenderla a nolo». «Ammiro la vostra audacia» gli risposi «ma dovrò deludervi; ciò che chiedete non è possibile. Vedete...» «Ho del denaro con me» si affrettò a precisare. «Pagherò qualunque
prezzo. È importante che io faccia ritorno alla mia casa ad Anazarbus il più presto possibile.» «Continuo a credere che dovrò deludervi» risposi e gli spiegai che, per quanto ne sapevamo, il viaggio verso la nostra destinazione sarebbe stato molto lungo e che, com'era facile constatare, la nostra imbarcazione era assai piccola. Avere a bordo quattro passeggeri non sarebbe stato solo scomodo, ma anche pericoloso. «Sono spiacente» continuai «ma vi trovate in un porto molto frequentato, e sono certo che troverete qualcun altro che possa accompagnarvi.» Aggrottò la fronte, addolorato, e chinò la testa fissandosi i piedi, tanto che pensai che stesse per scoppiare in lacrime. Poi tirò un respiro profondo, si ricompose e disse: «Non vorrei darvi l'impressione di essere impertinente, ma la serietà della mia situazione mi costringe a insistere dove altri si ritirerebbero. Se ciò vi reca offesa, vi domando scusa. Ma mi sembra che intendiate raggiungere Marsiglia via mare». Sarn sorrise. Conosceva abbastanza latino da capire buona parte di ciò che il giovane stava dicendo. «Con una barca è la cosa più facile» commentò seccamente. «Certo» ammise lo sconosciuto «come marinaio voi non potete pensarla altrimenti. Ma vorrei farvi notare un particolare che potrebbe essere sfuggito alla vostra attenzione. Vedete, esiste un'altra strada.» «E voi la conoscete?» «Sì, certo» «E ce la mostrereste?» «Naturalmente, se fossi un passeggero» proseguì «sarebbe mio interesse seguire la via più rapida.» Sorrise e improvvisamente il suo volto assunse un'espressione trionfante. «Che ne dite, amico mio? Sarei lietissimo di farvi da guida.» Ora fu Sarn ad aggrottare la fronte. Avvicinò il viso al mio. «Non mi piace questo tizio» bisbigliò. «Come facciamo a essere sicuri che stia dicendo la verità?» «Cercheremo di saperne di più» risposi. Poi, rivolto al giovane, chiesi: «Confesso che le vostre parole mi hanno incuriosito. Accettereste di fermarvi a desinare con noi, in modo da continuare a discutere della faccenda?». Il giovane osservò Padraig, che stava radunando le vivande per la cena, e ribatté: «Siete molto gentile, signore. Accetto il vostro invito, ma vi prego di permettermi di offrire il mio contributo alla mensa».
Nonostante gli assicurassi che non era assolutamente necessario, lo sconosciuto si allontanò e ricomparve di lì a poco accompagnato da un uomo che reggeva con una mano un grande involto e, con l'altra, due grosse caraffe. Quest'ultimo, seguendo le istruzioni del giovane, posò a terra il suo carico e, con un mezzo inchino, si allontanò. «Prego» disse lo sconosciuto, facendoci segno di aprire l'involto. Sarn obbedì e sciolse le cocche annodate del telo, che rivelò un vero e proprio banchetto: polli allo spiedo, pesci di varie qualità, pasticcio di carne, stufato di maiale e fagioli in salsa di erbe aromatiche, pane croccante, frutta secca, tortini di miele e mandorle ricoperti di sesamo. Ce n'era in abbondanza per tutti e quattro. Indicando le due caraffe, lo sconosciuto proseguì: «Non sapevo se avreste preferito vino o birra, così li ho portati entrambi». Sarn fu contentissimo di tutto quel ben di Dio e, sorridendo tra sé, mormorò: «Tutto sommato dovremmo ascoltare quel che ha da dirci» cominciando poi a disporre le pietanze. Chiamai Padraig perché si unisse a noi e invitai il giovane a sedersi. «Sono Duncan Murdosson di Banvard, nella terra di Caithness» mi presentai. «Il mio timoniere, Sarn Dito Corto, e Padraig di Carradoc, mio amico e consigliere.» Il giovanotto, dichiarandosi lietissimo di fare la nostra conoscenza, fece un profondo inchino e rispose: «Mi chiamo Rupen, e sono figlio di re Leone d'Armenia». Quindi si tolse le calzature e si sedette a gambe incrociate. Padraig benedisse il cibo e diede a ciascuno di noi una scodella e un boccale. Incominciammo a mangiare: era tutto squisito e ben presto eravamo intenti a leccarci le dita e a far schioccare le labbra. Il nostro giovane amico, però, piluccava soltanto, come se le vivande non fossero di suo gusto. Di tanto in tanto sorrideva debolmente, quando Sarn, incapace di trattenersi, si lanciava in qualche commento colorito. «A quanto pare, la vostra generosità vi ha guadagnato la simpatia del mio timoniere» osservai, versando del vino nel boccale del principe. «Ma non ho potuto fare a meno di notare che voi non condividete il suo entusiasmo.» «È vero, ahimè» sospirò il giovane. «Per quanto deliziose possano essere le vivande, non posso mangiarle.» Udite quelle parole, Sarn chiese: «Siete forse ebreo?». Rupen sorrise mestamente: «Non sono né ebreo né musulmano, nonostante molti lo credano. I principi d'Armenia sono cristiani da centinaia
d'anni». Guardò il cibo con pensierosa tristezza. «Ahimè, la mia mancanza di appetito è dovuta a un morbo misterioso di cui ho sofferto da quando sono arrivato in questo paese.» «Mi dispiace.» «Grazie. Comunque sono stato più fortunato del mio scudiero e del mio consigliere, che hanno contratto la malattia e ne sono morti.» Poi ci spiegò di essere giunto a Parigi insieme a una delegazione reale inviata per stabilire relazioni ufficiali con il re dei franchi. Erano in tutto quindici, fra uomini e donne, e tutti erano stati contagiati da quello strano male, spirando a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro. «Anch'io mi sono ammalato gravemente, e per molte settimane ho visto in faccia la morte. Per volontà di Dio, sono l'unico sopravvissuto.» «Che sciagurata circostanza» commentai, mescendo il vino. «Posso ben comprendere il vostro desiderio di far ritorno in patria al più presto.» Gli porsi il boccale, che accettò chinando il capo in segno di ringraziamento. Bevemmo insieme un sorso, poi chiesi: «L'altra via di cui parlate prevede forse di navigare lungo il fiume?». Annuì, sollevando due dita: «Ci sono due fiumi, poco distanti l'uno dall'altro. Per un'imbarcazione più grande, sarebbero troppo bassi e stretti, ma la vostra non avrà alcuna difficoltà». Sarn avvicinò la testa e mi sussurrò qualcosa. «Il mio timoniere desidera sapere se lo avete già fatto» tradussi. «Dubitate di me, signore?» chiese il giovane con un'improvvisa punta di irritazione «Il percorso che vi suggerisco è lo stesso che abbiamo compiuto i miei compagni e io per giungere in terra franca. Vi prego di assicurare il vostro timoniere che, a parte un breve tragitto che bisognerà coprire via terra, non ci sono impedimenti a fare ciò che suggerisco. In caso contrario, non ne avrei fatto menzione.» «Non fraintendetelo» replicai. «Egli mette in discussione non la vostra sincerità ma la vostra memoria.» Gli spiegai in breve che, grazie a quel viaggio, Sarn intendeva aggiungere nuovi dettagli alle mappe in nostro possesso. Il principe sorrise debolmente: «Devo chiedervi di nuovo di perdonarmi. I molti travagli sopportati in questo paese mi hanno reso sospettoso e avventato nei giudizi. Vi prego di concedermi la vostra indulgenza. Non accadrà più». Bevemmo ancora, e mi sembrò rilassarsi un poco. Avevo già deciso che la sua conoscenza di quella via fluviale ci sarebbe stata preziosa, ma non
era mia intenzione farglielo sapere senza il consenso dei miei compagni. Così, dopo aver finito di mangiare, gli chiesi di concederci un momento per discutere la sua proposta. Parlammo nella nostra lingua madre per non fargli capire cosa dicevamo. «Penso che ci converrebbe portarlo con noi» cominciai. «È molto più facile e vantaggioso seguire il fiume che riprendere il mare. Secondo me, dobbiamo fidarci della sua parola e lasciare che ci guidi sino a Marsiglia.» Anche Padraig approvò: «È un cristiano come noi, e ci ha chiesto di aiutarlo. È evidentemente malato. Respingerlo sarebbe un'offesa contro il Cielo, e potremmo pentircene». «Certo la nostra barca è piccola» intervenne Sarn. «Ma, se mi aiuterà con la mappa, sarò felice di dividere con lui il mio posto sul ponte.» Annuì, riflettendo sulla propria decisione, poi aggiunse: «Però dovrà tenere a bada la lingua. Se ci riuscirà, sono sicuro che ci troveremo bene». «Allora siamo d'accordo» conclusi. «Vado a farglielo sapere.» Rupen si commosse quando seppe della fortuna che gli era capitata. Mi strinse la mano e mi giurò gratitudine e fedeltà eterne. «Ora, però» disse ritrovando il controllo «dobbiamo stabilire il prezzo del passaggio.» «Abbiamo deciso che vi prenderemo a bordo in cambio delle vostre indicazioni sul percorso da seguire» ribatté Padraig. «Non occorre altro.» Ma il principe non volle intendere ragioni: «Il servizio che mi rendete è preziosissimo. Vi pagherò, e sarò lieto di farlo. E mio padre, dal canto suo, non esiterà a ricompensarvi largamente per la vostra inestimabile assistenza». Prese la borsa che aveva alla cintura, la aprì e cominciò a lasciarsi cadere sul palmo della mano alcune monete d'oro: contò venti bisanti, li divise in due parti uguali e me ne porse una. «Queste sono per il passaggio fino a Marsiglia» disse. «Ne riceverete altrettante se arriveremo sani e salvi.» Poi prese le altre monete: «Queste sono per le provviste necessarie al viaggio. In quanto figlio di un principe, sono abituato ad avere il cibo e le bevande migliori ovunque vada. Mi aspetto perciò che la barca sia rifornita adeguatamente». Accettai l'oro di buon grado e senza discutere, cosa che, mi accorsi, sorprese Padraig. Non era questione di cortesia o di magnanimità: avevo lasciato Banvard senza neppure il denaro sufficiente a comprarmi un po' di pesce, affidandomi solo alla divina provvidenza, e la comparsa del giovane Rupen mi era sembrata la risposta dell'Onnipotente alle mie necessità, quindi non ritenevo saggio rifiutare quella grazia di Dio.
Concluso l'accordo, annunciai: «Partiremo domani, dopo aver acquistato le provviste per il viaggio. Raggiungeteci non appena sarete pronto. Vi attenderemo qui». Rupen sorrise, lievemente imbarazzato: «Se non vi arreca troppo disturbo» disse «mi farebbe piacere passare la notte sulla vostra barca. Così non sarà necessario che mi aspettiate». Più tardi Sarn mi fece notare che, a suo parere, non si trattava di un riguardo, quanto di mancanza di fiducia. «Quel tizio ha paura che lo lasciamo qui» commentò. «Dopo tutto, ora che abbiamo il suo denaro, non abbiamo più bisogno di lui.» «Il nostro amico ha ragione a essere prudente» replicai. «Fra noi quattro, è quello che ha di più da perdere. Tutto sommato la sua diffidenza è comprensibile, finché non ha modo di conoscerci meglio.» «Mi pare che dovreste chiarirgli che non siamo né ladri né tagliagole» insistette Sarn. «Altrimenti, averlo tra i piedi giorno e notte con tutte le sue fisime sarà una bella seccatura.» «Diglielo tu» proposi. «Ti ringrazierà della premura.» Accortosi che dicevo sul serio, Sarn si avvicinò al giovane e, in un latino incerto, gli spiegò che aveva a che fare con pellegrini cristiani e non con tre malfattori senza scrupoli, pronti ad aprirgli la pancia e a gettarlo nel fiume alla prima occasione. Non so cosa ricavò Rupen da simili assicurazioni, ma certamente Sarn sembrò soddisfatto di aver chiarito una volta per tutte l'onestà delle nostre intenzioni. Lasciammo che il nostro nobile passeggero si sistemasse sul ponte per la notte; Sarn dormì sulla panca accanto al timone, Padraig e io ci sdraiammo sulla banchina. Il giorno seguente, non appena il porto cominciò ad animarsi, acquistammo il necessario e, pregando Dio di concederci un buon viaggio, ci apprestammo a risalire il fiume. Dieci La navigazione fluviale è più tediosa di quella marittima, anche se non è priva di vantaggi. Se il vento cala, le correnti sono troppo forti o il vento è contrario, si può sempre sbarcare e procedere a piedi lungo la sponda, tramando la propria imbarcazione. Inoltre, poiché il fiume scorre in un'unica direzione, non c'è pericolo di perdere la rotta. La Senna, come la chiamano i franchi, ci avrebbe accompagnato nel nostro viaggio per molti giorni. Rupen disse che la prima città che avremmo toccato sarebbe stata Parigi
e ipotizzò che ci sarebbero voluti cinque giorni per raggiungerla, anche se ne bastarono quattro. Ci fermammo solo per il tempo necessario a reintegrare le provviste e ripartimmo subito, anche perché i mercanti di quella città si rivelarono una cricca boriosa, arrogante e avida dell'oro delle nostre borse. Man mano che ci abituavamo a quel nuovo modo di viaggiare, trovavo le giornate sempre più piacevoli: navigavamo sul fiume e, di tanto in tanto, procedevamo a piedi, trainando la barca per mezzo di funi legate alla prua. In questi frangenti cercavamo di sfruttare le correnti ma si trattava sempre di una grossa fatica anche se alternandoci, nessuno doveva sottoporsi a quel compito ingrato troppo a lungo. Comunque, al termine di una giornata di traino, eravamo ben contenti di avere soltanto una barca da pesca e non una nave carica di merci. Mentre ci inoltravamo sempre più nel cuore della terra franca, la temperatura si mantenne piuttosto mite, e il tempo incredibilmente secco. Lungo il tragitto, incontrammo un gran numero di villaggi. Alcuni erano popolosi, e avevano belle chiese di pietra, ma i più erano minuscoli: una manciata di case sparse intorno a un viottolo fangoso in riva al fiume, circondato da qualche campo e da un paio di recinti per il bestiame. Quando ci fermavamo per acquistare provviste, contrattavamo direttamente con i contadini o con le loro mogli, che erano ben più astute dei mariti nel fare affari. Ci procurammo così uova fresche, latte, pane, carne e formaggio; e, con l'avanzare della stagione, mele, susine, pere e fragole. Grazie a questi cibi genuini, il pallido principe iniziò a rimettersi in salute: acquistò un colorito migliore e riprese le forze. Continuava sempre a stancarsi prima di noi, ma faceva ciò che doveva senza la minima lamentela. Poiché, a causa della malattia, Rupen non riusciva a digerire la carne, gli davamo il pesce del fiume. Sarn diventò molto abile a catturare le trote, che cominciarono a piacerci quasi quanto gli sgombri del mare di casa nostra. Rupen sembrava affascinato dalla sua abilità nella pesca. Quando Sarn lanciava la lenza nelle cupe acque del fiume lo guardava con tale ammirazione, che il marinaio decise di insegnargli a pescare. In cambio, Rupen si offrì di aiutarlo a migliorare il suo latino. I due diventarono buoni amici. Sarn è riservato, e racconta qualcosa di sé solo quando è sicuro che le sue confidenze non vadano sprecate o derise. In Rupen trovò una persona capace di onorare la sua amicizia, mentre il giovane trovò nel timoniere un compagno schietto che gli chiedeva soltanto gentilezza.
Grazie al cameratesco ascendente di Sarn, Rupen cominciò a rilassarsi e ad assumere atteggiamenti meno rigidi. Un giorno, per esempio, ci sorprese scoppiando a ridere per un involontario strafalcione del nostro timoniere: gettò indietro la testa, si mise le mani sui fianchi e fu scosso da un vero e proprio accesso di ilarità. E noi tre, stupefatti, vedemmo il velo di malinconia che gli offuscava il volto squarciarsi all'improvviso, rivelando un giovane che, molto probabilmente, da anni non si concedeva un momento di allegria. La sua reazione mi incuriosì, ma non volevo metterlo in imbarazzo davanti a tutti, e così attesi il giorno seguente per interrogarlo. I nostri compagni stavano trainando la barca, io ero al timone e Rupen intrecciava le funi che Sarn gli aveva affidato perché facesse pratica. «Che tipo di vita conducete a casa vostra?» gli domandai. Rifletté per un momento prima di rispondere: «È come vivere in un monastero, un grandissimo monastero pieno di sacerdoti, di penitenti e di pellegrini. Nel palazzo di mio padre le funzioni religiose si susseguono senza sosta, giorno e notte; le preghiere salgono al cielo su nuvole di incenso e le campane suonano di continuo; è consuetudine che ci si raccolga in preghiera almeno sei volte nell'arco della giornata, e così fanno tutti, dal principe mio padre, sino all'ultimo garzone di stalla». «Potrebbe essere considerato un vero e proprio paradiso» osservai. «Forse lo sarebbe» ammise «se il mondo intero non stesse cercando di annientarci. Non c'è mano che non sia levata contro di noi, e dobbiamo stare perennemente all'erta perché i nostri nemici non ci distruggano e spargano le nostre ceneri al vento.» Quando gli chiesi come mai il suo popolo fosse circondato da tanta ostilità, mi rispose che era sempre stato così: «La chiesa latina non riconosce la nostra fede» spiegò con amarezza. «Ci considerano peggio degli infedeli e Bisanzio non avrà pace finché non saremo sottomessi all'autorità imperiale. Inoltre, poiché siamo in maggioranza cristiani, i musulmani non perdono occasione di farci subire razzie e vessazioni. «È per questo che mio padre ha mandato la nostra delegazione al re dei franchi» continuò. «Sperava di stringere un'alleanza con uno o più sovrani d'Occidente, che avrebbero potuto usare la loro autorità per impedire ai crociati di aggredirci. In cambio, li avremmo aiutati a proteggere le strade e a difendere i pellegrini dai turchi e dai predoni.» «E il re ha accettato la vostra proposta?» Rupen scosse tristemente la testa. «Non abbiamo mai avuto occasione di
parlargliene. Abbiamo presentato petizioni ai suoi consiglieri e dignitari di corte, che hanno accettato i nostri doni e promesso che avrebbero riferito al sovrano, ma il giorno dell'udienza veniva sempre rimandato, per una ragione o per l'altra. Quando il re si è finalmente degnato di riceverci, la malattia aveva compiuto la sua opera e non era rimasto nessuno tranne me, che ero troppo debole persino per reggermi in piedi, figuriamoci per sostenere una lunga conversazione.» Sospirò, curvandosi in avanti. «Quando mi sentii di nuovo abbastanza in forze per potergli parlare, il re si era ormai trasferito da tempo nella tenuta di caccia settentrionale, con tutta la corte.» «Quantomeno siete ancora vivo per poter fare un altro tentativo» osservai. «Certamente è per questo che Dio vi ha risparmiato, perché possiate aiutare il vostro popolo.» «Può essere» ammise con riluttanza. «Benché i disegni divini non mi siano del tutto chiari. Se il Signore degli Eserciti voleva assisterci, avrebbe potuto permetterci di parlare con il re, come avevamo progettato» si interruppe pensieroso, e poi concluse: «Così facendo avrebbe salvato la vita di quattordici persone». «Le vie del Signore sono imperscrutabili» intervenne Padraig. Sollevai lo sguardo e vidi che la barca era vicina alla riva. Il monaco stava ascoltando e cercava di consolare Rupen. «Pregherò perché il Re dei re vi manifesti la Sua volontà così che ne comprendiate gli scopi.» Prendemmo il posto di Padraig e di Sarn al traino: ci legammo alle funi fissate a prua, cominciammo a tirare in maniera costante per rimettere in moto la barca e ripartimmo. Era una bella giornata di sole, e a poco a poco mi ritrovai a immaginare la mia casa lontana, in Scozia. Pensai a te, mia diletta Cait, e mi chiesi cosa tu stessi facendo in quel momento. Ti vidi intenta a raccogliere bacche insieme a Regana, o a inseguire le oche brandendo un ramoscello di salice. Pensai all'abate Emlyn, e mi diede un po' di conforto la certezza che avrebbe sempre pregato per noi. Allora ricordai il vero scopo del mio pellegrinaggio, che non avevo rivelato ad anima viva, neppure a Padraig. Sapevo che, prima o poi, avrei dovuto confidarglielo, ma ritenni che, in fondo, non c'era niente di male ad aspettare ancora un po'. Era il giorno del Signore, per cui, quando ci accampammo per la notte, Padraig celebrò la messa. Mi sedetti sulla riva del fiume e ascoltai la sua voce ferma e chiara che pronunciava le antiche parole in gaelico, mentre timide stelle cominciavano ad accendersi a una a una nel cielo. Mi dissi che non avevo mai udito niente di così suggestivo e desiderai che Rhona
fosse lì con me per udirlo. Anche se i giorni sembravano scorrere pigramente e senza problemi, ci stavamo avvicinando alla parte più difficile del viaggio: il passaggio via terra sulle alture che conducevano alla valle della Saona. Quando arrivammo al villaggio presso cui il fiume cessava di essere navigabile, cercammo coloro che si guadagnavano da vivere trasportando persone e merci da una valle all'altra. Essi si facevano pagare per garantire un viaggio sicuro sino all'altro fiume. Rupen, che aveva già avuto a che fare con loro, si assunse l'incarico di concordare la transazione. Sarn, che non era per nulla contento di affidare la sua barca a sconosciuti, magari maldestri, lo accompagnò per aiutarlo a scegliere un carrettiere accettabile. Di lì a poco li vedemmo tornare assai soddisfatti per gli accordi conclusi. «L'uomo che ha accettato di rimorchiarci verrà a prenderci domattina con un carro tramato da buoi» spiegò Sarn. «Dobbiamo scaricare bagagli e provviste, in modo che possa tirare la barca in secco.» Indicò un punto della riva, un po' più a monte rispetto a noi, dove si vedevano molti lunghi pali, l'uno accanto all'altro, conficcati nel fondo del fiume. «È lì che dobbiamo aspettarlo.» Il mattino seguente eravamo pronti, ma a mezzogiorno stavamo ancora aspettando. Nel frattempo erano giunte due imbarcazioni che erano state trascinate fuori dall'acqua e portate via, ma non c'era traccia del nostro carrettiere. Mandai Sarn a cercarlo per due volte, senza alcun risultato. Quando finalmente arrivò, il giorno volgeva al tramonto. «Eccomi qui» gridò. «Sono Dodu, al vostro servizio.» «Ci era stato detto che saresti venuto stamattina» gli dissi in tono severo. «Siamo stati ad aspettarvi tutta la giornata.» L'uomo si scusò, spiegandoci che, mentre si apprestava a raggiungerci, si era accorto che una delle stanghe del carro era scheggiata, e che ripararla gli aveva richiesto molto più tempo di quanto avesse sperato. Avrebbe voluto mandare il figlio ad avvisarci, ma il ragazzino si era fatto male a un piede e aveva dovuto restare a casa. Il carrettiere si esprimeva in un latino elementare come quello di un fanciullo. Sorrise e spalancò le braccia: «Non si poteva certo partire con il carro fuori posto» disse. «Le cose tendono sempre a peggiorare, non certo a migliorare.» Gli diedi ragione ed egli si mise subito a lavorare, canticchiando allegramente fra sé e sé e incitando di tanto in tanto la docile coppia di buoi pezzati bianchi e marroni. Il carro consisteva soltanto di quattro ruote, poste su due semiassi mas-
sicci collegati a una catena di ferro che poteva essere allargata o accorciata secondo la misura dell'imbarcazione da trasportare. Trainata la barca a riva, ne sollevammo la prua con lunghe pertiche e la legammo alle ruote anteriori. Poi furono aggiogati i buoi, che la trascinarono per un altro tratto e, infine, sollevata la poppa, la fissammo alle ruote posteriori. Quindi caricammo di nuovo a bordo le provviste e il sartiame e ci legammo sopra l'albero maestro. Quando terminammo, il sole era già tramontato e ci stava venendo fame. Io però ero tanto ansioso di mettermi in cammino, prima che scendesse la notte, che decisi di partire. Poiché da vari giorni il tempo si era mantenuto bello, la strada era asciutta e in buone condizioni. Ci allontanammo dagli alberi che crescevano in riva al fiume e ci inerpicammo su una salita lunga e scoscesa che portava alla prima altura. Il caldo della giornata andava rapidamente calando e l'aria era piena dei richiami degli uccelli che tornavano al nido. I buoi procedevano lentamente, arrancando sulle zampe robuste e sollevando piccole nuvole di polvere con i pesanti zoccoli. Il carrettiere, con il pungolo in mano, camminava al loro fianco, incitandoli ad avanzare con fischi e schiocchi della lingua. La nostra guida era un'anima semplice che, pur non essendo stata benedetta da un eccesso di acume, suppliva a tale mancanza con una disposizione d'animo mite e cortese. Dodu aveva un carattere tanto dolce che dimenticai il ritardo con cui ci aveva costretti a partire e, rasserenato, cominciai a sentir scendere su di me la pace della sera. Continuammo ad avanzare per un po' e raggiungemmo la cima della collina: lì mi voltai verso la valle per guardare la strada che avevamo percorso. Il fiume era nascosto da una linea scura e irregolare di alberi, la cui ombra andava allungandosi nella luce del crepuscolo. La mite brezza notturna odorava di fieno tagliato e di salvia e dal fondovalle saliva un odore di legna bruciata. Un muretto di pietra separava il viottolo da un campicello coltivato. Poiché il cielo si faceva sempre più scuro, decidemmo di accamparci lì per la notte. Sarn accese il fuoco e Padraig preparò una zuppa di piselli secchi e orzo, che avremmo accompagnato con qualche fetta di pane nero. Dopo cena, il monaco ci cantò una ballata e Dodu ci raccontò la storia di un contadino del suo villaggio, il quale aveva trovato la figura della Santa Vergine tra il muschio che ricopriva la parete della sua stalla. Tutti erano accorsi per vedere la Madonna, compresi il signore e il sacerdote del luogo; e quest'ultimo aveva dichiarato che si trattava di un miracolo e aveva
ordinato di onorare l'immagine. Poiché l'inverno prima la moglie del contadino era diventata cieca, si pensò di portarla dinanzi al muro dipinto. «Quando fu lì di fronte» continuò a raccontare la nostra guida «cominciarono a bruciarle gli occhi. Si mise a piangere come una fontana e, quando si asciugò gli occhi con l'orlo della veste e sollevò il capo, le era ritornata la vista.» Rupen ascoltava, ravvivando pigramente la brace con un ramoscello. «Nessun altro fu guarito dall'immagine sacra?» chiese, con il viso illuminato dal bagliore del fuoco. «Ahimè, no» rispose Dodu. «La notizia si diffuse in lungo e in largo, naturalmente, e storpi e malati cominciarono ad arrivare in gran numero.» «E cosa accadde?» chiese Sarn. «Si mise a piovere e l'acqua cancellò il dipinto. Da allora» concluse «la Madonna non è più riapparsa.» Sarn annuì con aria meditabonda e Padraig sorrise fra sé e sé, ma Rupen fece uno strano rumore con il naso, come se un insetto gli stesse solleticando le narici. Allora il carrettiere si voltò e lo guardò con indignazione. «Be'? Credete forse che io menta? Posso mostrarvi la stalla e anche la donna!» «Ne sono certo» rispose Rupen, continuando a rivoltare le braci. «Non dubito affatto di voi. Semplicemente mi sembra strano che Dio perda tempo con il muschio e le immagini. Se voleva che la donna riacquistasse la vista, perché non si è limitato a guarirla? O meglio ancora: se voleva davvero aiutarla, perché ha permesso che diventasse cieca?» «Chi siete voi» domandò Dodu adirato «per conoscere le vie del Signore Iddio Onnipotente?» «Non sono nessuno» rispose Rupen, mortificato. «Vi prego, non offendetevi per ciò che ho detto. E considerate le mie parole come il ronzio di un moscerino, niente di più.» Poi spezzò a metà il ramoscello e lo gettò nel fuoco, sollevò le ginocchia sotto il mento e rimase a fissare le fiamme, senza dire altro per il resto della serata. Dopo questo episodio la conversazione cominciò a languire finché non ci addormentammo là dove ci trovavamo. All'alba ci svegliammo e ci rimettemmo in viaggio, e procedemmo lentamente ma con regolarità per tutto il giorno successivo. La strada era tutta per noi e non vedemmo transitare anima viva né in una direzione né nell'altra. Quella sera ci accampammo di nuovo lungo la via, ma fummo destati poco prima del sorgere del sole da un rumore di zoccoli di cavalli che salivano sulla collina.
Sentii il debole scalpitare e mi svegliai di colpo. Padraig si alzò e si avvicinò. «Quanti sono?» chiese, scrutando in lontananza nell'oscurità. «Riesci a vederli?» «No» gli risposi. «Almeno due o tre. Forse di più.» La luna era calata e, anche se sentivo che i cavalieri si stavano avvicinando, non riuscivo a scorgerli. «Sveglia gli altri» ordinai «potrebbero esserci problemi.» Padraig stava per obbedire, quando si udì una voce esclamare: «Oh! Chi abbiamo qui?». I cavalli si erano fermati; ci fu un basso parlottare, poi uno dei cavalieri si avvicinò a noi emergendo dalle tenebre. Era un uomo corpulento dall'aspetto ordinario, con un logoro mantello gettato sulle larghe spalle. Rimase fermo per un attimo, e capii che ci studiava attentamente per capire chi fossimo. «Salve, siate il benvenuto» esordii, facendomi avanti senza timore. «Vi siete messi in viaggio di buon'ora.» L'uomo si piegò in avanti e accarezzò il collo dell'animale: «È un peccato sprecare la giornata poltrendo» ribatté, sogghignando. «E poi così si evita la folla.» «Giacché avete tutta questa fretta» risposi «non voglio trattenervi. La strada è lì, proseguite pure.» Senza smettere di sorridere, l'uomo guardò la nostra imbarcazione e i buoi legati lì accanto. «È faticoso trasportare una barca oltre i monti» osservò. «Forse potremmo aiutarvi.» «Non abbiamo denaro» replicai subito in tono brusco. «Non possiamo pagarvi.» «Ho forse parlato di soldi?» ribatté quello, come se il mio accenno lo avesse offeso. «Sono certo che riusciremo a metterci d'accordo.» Fece un cenno con la mano e i suoi compagni si avvicinarono. Sentii il freddo tintinnio delle lame che venivano sguainate e vidi comparire altri tre cavalieri che brandivano corte spade. Padraig, che aveva svegliato gli altri, mi raggiunse. «Nel nome di Cristo» disse pacatamente «lasciateci in pace.» Il primo figuro estrasse la spada da sotto il mantello, mentre sul suo volto ghignante si dipingeva un'espressione malvagia: «Vogliamo soltanto alleggerirvi del vostro carico, amici, nient'altro. Non createci difficoltà e noi faremo lo stesso con voi. Ora alzatevi, tutti quanti! Mettetevi laggiù!». Indicò un punto poco lontano.
Padraig e io obbedimmo immediatamente. Il carrettiere, intontito dal sonno, avanzò barcollando e lamentandosi; Sarn lo seguì, borbottando insulti in norvegese; e Rupen, guardingo e silenzioso, fu l'ultimo a muoversi. Mentre ci raggiungeva, lo vidi armeggiare con una mano e slacciarsi la cintura, che cadde a terra alle sue spalle. Mentre il capo dei briganti ci teneva d'occhio, i suoi uomini cominciarono a gettare qua e là tutto ciò che stava nella barca. Agivano con destrezza e senza la benché minima indecisione, tanto da farmi capire che erano professionisti, abituati a quel tipo di operazioni. Ammucchiarono tutto ciò che trovarono e lo divisero in vari fardelli che legarono alle selle dei cavalli, mentre noi restavamo a guardare, impotenti. Quando rivolsero la loro attenzione ai buoi, Dodu fece un balzo in avanti: «No! No!» si mise a gridare. «Prendete qualunque altra cosa! Prendete le provviste, prendete il bagaglio, ma lasciate stare le mie bestie!». «Sta' zitto!» gli intimò il capo dei briganti. «Fatti indietro!» Il carrettiere sembrò non aver sentito e iniziò a correre verso i buoi, che stavano per essere portati via. Il capo allora spronò il cavallo verso di lui e caricò a spada sguainata. Udii il rumore sordo di un colpo, Dodu emise un gemito e cadde a terra a gambe e braccia aperte. Padraig fece l'atto di accorrere in suo aiuto. Il ladro, voltatosi di nuovo dalla nostra parte, minacciò: «Voialtri, laggiù! Non vi muovete o toccherà anche a voi!». Trattenni Padraig. «Sbrigatevi» ringhiai. «Prendete tutto e andatevene» Uno dei ladri cominciò ad allontanarsi tirandosi appresso i buoi, mentre gli altri tornarono ai cavalli e montarono in sella. «Ecco, vi accontentiamo subito» gridò il capo. Poi indicò con la punta della spada la borsa di Rupen che era caduta a terra. «Ora, se vorrete cortesemente porgermi quella cinta e quella borsa, toglieremo il disturbo.» Rupen non si mosse, ma lo fissò con occhi truci, tenendo la bocca serrata in un atteggiamento di sfida. Allora il capo dei briganti diede una voce a uno dei suoi uomini che, raccolta la cintura, frugò il giovane dalla testa ai piedi senza trovare nient'altro e allungò la borsa al capo. Quest'ultimo si affrettò ad agguantarla, voltò il cavallo e, prima di allontanarsi, ordinò: «Ammazzateli tutti!». Uno dei banditi venne verso di noi brandendo la spada. Mi resi conto che stava scegliendo mentalmente chi uccidere per primo e, essendo Rupen il più vicino e il più debole, capii che aveva deciso di iniziare da lui. Allora aspettai che mi passasse accanto e allungai una gamba per farlo inciampa-
re. Il bruto cadde a terra a quattro zampe con la spada stretta in pugno; ma la lama cozzò sul terreno e si spezzò all'altezza dell'elsa. Subito mi gettai in avanti, gli premetti con violenza il piede sul braccio, al di sopra del polso, e sentii una sorta di scricchiolio. Il brigante gridò di sorpresa e di dolore: mi piegai su di lui e gli strappai il moncone dell'arma dalle mani. «Tirati su!» gli ordinai. Il malvivente si mise lentamente a sedere, mentre mi lanciava occhiate di odio e si massaggiava il braccio rotto. Sarn si precipitò alla barca e vi guardò dentro: «Hanno rubato tutto» gridò «anche le borracce». Padraig, intanto, corse da Dodu e gli si chinò sopra per sentire se respirava ancora: «È vivo» annunciò. Poi, tastandogli con cautela la testa e il collo, aggiunse: «Non perde sangue. Penso che si salverà, ma dobbiamo cercare di farlo rinvenire». Raggiunsi il monaco per aiutarlo e diedi a Sarn e a Rupen l'incarico di legare il ladro: «Stringete bene» raccomandai. «Voglio essere sicuro di poterlo trascinare davanti al primo giudice che troveremo.» Sorreggendolo io da un lato e Padraig dall'altro, sistemammo con ogni riguardo il corpo inerte dello sfortunato carrettiere in posizione seduta. Eravamo ancora intenti a quell'operazione, quando udii Sarn gridare. Sollevai lo sguardo e lo vidi ruzzolare sulla schiena, a gambe all'aria, mentre il bandito correva verso il suo cavallo. Con tre lunghi balzi riuscì a raggiungerlo, saltò in sella, spronò l'animale e si lanciò sulle orme dei compagni ormai lontani, lasciandoci finalmente soli. Era ancora buio e non c'era niente che potessimo fare, perciò, mentre Padraig si prendeva cura del bernoccolo sulla testa di Dodu, io riaccesi il fuoco, e ci sedemmo sconsolati ad attendere l'alba. La luce del sole diede ragione a Sarn: i briganti ci avevano portato via tutto, tranne la barca, che non potevamo spostare senza i buoi. «Quanto dista il prossimo villaggio?» chiesi al carrettiere. «È piuttosto lontano» rispose lui con aria afflitta. «Quei buoi sono tutta la mia vita; senza di loro sono rovinato.» Si prese la testa fra le mani e gemette: «Rovinato! Mi hanno rovinato». «Lontano quanto?» insistetti. «Dimmelo, Dodu.» Rifletté per un attimo. «Se siamo alla prima collina...» cominciò. «È così» confermai. «Non ne abbiamo superate altre. Siamo alla prima.» «Allora ce ne sono ancora tre, prima di incontrare qualche casa; una mezza giornata di cammino» sospirò, chiudendo gli occhi. «Mezza giornata per andare avanti, due giorni per tornare indietro»
commentai. «Mi pare sia meglio procedere.» «Ma laggiù non troveremo aiuto. Ci sono solo due fattorie e un porcile. Non hanno niente, neanche un cane.» «E il borgo successivo?» chiesi ancora. «Quanto dista?» «Non ce ne sono altri» mormorò Dodu «fino alla Saona: c'è solo un mulino e il mugnaio ha dei buoi che girano la mola.» «Quant'è lontano il mulino?». «Quattro giorni di marcia» gemette. «E Babeau, il mugnaio, è un uomo molto scorbutico.» Lasciai il carrettiere alla sua disperazione e mi avvicinai alla barca. Mi appoggiai alla poppa con tutto il peso e spinsi: dondolò leggermente in avanti, e le ruote scricchiolarono. «Che cosa pensi di fare?» mi domandò Padraig. «Non possiamo spingere la barca sino al fiume.» «Non possiamo nemmeno lasciarla qui» si intromise Sarn. «Se volete farlo resto anch'io. Non abbandonerò la mia barca.» «Calma!» gli dissi. «Non ho alcuna intenzione di abbandonare la barca. Se riusciremo a trasportarla sino al prossimo villaggio, tu e Rupen potrete restare lì a custodirla finché noi non raggiungiamo il mulino.» Padraig guardò il pendio davanti a noi e poi, in lontananza, la salita che conduceva alla cima successiva. «Non diventerà più breve, a guardarla» commentai. «Allora sarà bene che ci mettiamo subito in cammino.» Undici Presi le funi che avevamo usato per trainare la barca lungo il fiume e le legai alla poppa. «Ci vogliono due uomini per ogni corda» spiegai, porgendone una a Padraig. «Faremo scendere la barca lungo la collina un metro alla volta.» «E il quinto uomo?» chiese Sarn. «Si terrà pronto a mettere una trave sotto le ruote per fermare il carro, in caso si metta a rotolare troppo velocemente.» «E dov'è la trave?» domandò Dodu. Guardai l'albero maestro, ma era troppo lungo e ingombrante per essere maneggiato da una sola persona e non volevo che si danneggiasse finendo sotto al carro. «Useremo due pietre finché non riusciremo a trovare un ramo abbastanza grande.»
Così, con Padraig e Sarn che reggevano una corda, Dodu e io che tenevamo l'altra e Rupen che trasportava due grandi pietre che avevamo tolto al muricciolo che fiancheggiava la strada, ci mettemmo al lavoro. All'inizio ci sembrò di cavarcela abbastanza bene: portato il carro sulla strada, il pendio scendeva così gradualmente che bastò tenere le corde tese per evitare che la barca acquistasse troppa velocità. Quando fummo a metà strada, il carrettiere esclamò: «Non è poi così male. Adesso capisco come devono sentirsi i miei buoi quando sono aggiogati». «Aspetta di arrivare alla salita, prima di decidere di prendere il posto dei tuoi buoi» osservò Padraig. Raggiungemmo le pendici dell'altura e ci fermammo a riposare. Il sole era sempre più alto e la temperatura stava salendo. Bioccoli di nuvole attraversavano il cielo, ma non ci avrebbero certo fatto ombra. L'aria era ferma, e non ci sarebbe stata neanche un po' di brezza a rinfrescarci. Capii che ci aspettava una giornata lunga, torrida ed estenuante, al cui termine non avremmo avuto né cibo né acqua con cui rifocillarci e riprendere le forze. I fianchi della collina successiva non erano così ripidi come ci erano sembrati da lontano, ma Rupen, il cui aiuto non ci era mai servito durante la discesa, dovette faticare duramente. Sfrecciava senza sosta da un lato all'altro del carro per mettere le pietre dietro alle ruote e impedire alla barca di tornare indietro dopo che, a forza di braccia, eravamo riusciti a guadagnare qualche passo prezioso. Con enorme fatica a mezzogiorno raggiungemmo la cima e ci fermammo di nuovo a riposare. Guardammo la strada in entrambe le direzioni, ma non vedemmo né altri viaggiatori, né qualche segno che indicasse le presenza di abitazioni nelle vicinanze. Padraig trovò una polla d'acqua in una piccola fenditura nelle rocce ai piedi di un dirupo. Scendemmo tutti a bere, poi ci arrampicammo di nuovo e ci sdraiammo all'ombra della barca. Lasciammo passare le ore più calde del giorno poi, con le mani doloranti, afferrammo le funi e ci rimettemmo in marcia. Ancora una volta la discesa fu facile e abbastanza breve: per raggiungere il fondovalle impiegammo la metà del tempo che ci era occorso per salire. La collina successiva non sembrava molto più ripida di quella che avevamo superato la mattina, perciò ero sicuro che saremmo riusciti a raggiungere la cima verso sera. «Ci accamperemo lassù per la notte» dissi, esortando la mia piccola ed esausta truppa. «Ci ripareremo sotto gli alberi. Penso che sia meglio andare avanti se vogliamo arrivare prima che faccia
buio.» Le mie parole suscitarono brontolii di contrarietà ma riprendemmo i nostri posti. Ormai eravamo tutti e cinque stanchissimi: un intero giorno di fatica aveva esaurito completamente le nostre forze; ogni passo era una lotta e i progressi erano minimi. Purtroppo la mia speranza di raggiungere la cima prima del calar della notte si dimostrò troppo ottimistica. Al sorgere della luna eravamo soltanto a metà percorso, e le stelle erano già alte nel cielo quando, incuneate le pietre dietro alle ruote per l'ultima volta, ci lasciammo cadere tra l'erba sotto gli alberi. Troppo stanchi per parlare, ci addormentammo là dove eravamo crollati. Il giorno successivo non fu molto diverso dal precedente, a parte il fatto che eravamo rigidi e indolenziti per aver dormito per terra e per la fatica accumulata; inoltre, l'altura che si ergeva davanti a noi era più scoscesa delle due che avevamo già superato. «Il villaggio è là dietro, nel fondovalle» ci informò il buon Dodu. «C'è un ampia radura erbosa e un torrente. Troveremo acqua in abbondanza e anche un po' di cibo.» «E allora cosa stiamo aspettando?» chiese Sarn. «Prima ci arriveremo, prima riusciremo a mettere qualcosa sotto i denti.» Il tratto iniziale della salita andò bene ma, quando il pendio divenne più ripido, non riuscimmo più a far avanzare la barca trainandola con le corde e fummo costretti a spingere. La giornata trascorse in una sorta di annebbiamento fatto di sudore e di sole cocente. Avevo i muscoli delle spalle, della schiena e delle gambe contratti, la gola riarsa e la lingua gonfia. I piedi mi dolevano e dovevo sforzarmi per reggermi diritto. Mentre arrancavamo, lentamente e penosamente, ogni singolo passo rappresentava uno sforzo immane di volontà e determinazione. Giunti in cima, crollammo in mezzo alla strada e giacemmo lì ansimanti, fissando il cielo, mentre il sudore ci colava per tutto il corpo in piccoli rigagnoli. Dopo un po' mi tirai a sedere e guardai in fondo alla vallata. Come aveva detto Dodu, il borgo consisteva in un pugno di case, disposte lungo un viottolo, strette fra loro e circondate da qualche campo. Un muretto di pietra racchiudeva lo spazio destinato ai maiali; poi c'erano alcuni covoni di grano, un fienile a due piani e un boschetto. Forse non era granché ma, grazie a Dio, non era distante e la discesa non era ripida. Dissi ai miei compagni che stavamo per arrivare e che le nostre fatiche erano giunte al termine; che dovevamo solo portare il carro giù dalla collina, e poi avremmo potuto riposarci e rifocillarci. «Stasera mangeremo e berremo» conclusi «e dormiremo su un pagliericcio. Venite! La cena ci
aspetta.» «Mi chiedo se avranno della birra» commentò Sarn. «Mi accontenterei anche solo di pane e acqua» osservò Padraig. «Statemi bene a sentire» intervenne il carrettiere, ansimando mentre si raddrizzava faticosamente. «Laggiù vive una donna che fa la migliore birra e le più gustose costolette di maiale affumicato tra la Senna e la Saona. Ne prendo sempre un piatto, quando passo di qui.» «Perché ce l'hai taciuto fino a ora?» chiese Sarn. «Avresti dovuto dircelo sin dall'inizio.» «Non volevo farvi del male» rispose Dodu. «Pensieri simili, a stomaco vuoto, possono distrarre da ciò che si sta facendo.» Quando ci alzammo per metterci alle funi per l'ultima volta, le nostre ombre si allungavano sul terreno. Fra imprecazioni, mugugni e un gran digrignare di denti trascinammo giù il carro, un metro dopo l'altro. A ogni passo, le case coloniche sul fondo erano più vicine, e mi sembrava quasi di sentire il sapore della birra. Ma la mia piacevole fantasticheria fu bruscamente interrotta dall'urlo di Sarn, che inciampò in un sasso, cadde in avanti e stramazzò a terra, lasciandosi sfuggire di mano la corda. Il contraccolpo fece perdere l'equilibrio a Dodu, che indietreggiò con tutta la forza di cui fu capace ma non riuscì a sostenere il peso della barca e venne trascinato a terra. Senza pensarci un attimo, Padraig e io ci precipitammo lungo il pendio, nel tentativo disperato di rallentare la corsa del carro. Rupen si lanciò in nostro soccorso e corse a infilare un ramo davanti alle ruote, ma il veicolo aveva ormai preso velocità. Le ruote cozzarono contro il ramo, ma continuarono a girare. Non potemmo far altro che mollare le funi e metterci in salvo. Padraig, che stringeva ancora in mano la sua estremità, inciampò e fu trascinato nella polvere. «Mollala, Padraig!» gli gridai, lasciando andare la mia. Il carro acquistava velocità seguendo la sua folle corsa lungo il pendio, scricchiolando e sferragliando per i salti e le buche del terreno, inclinandosi e deviando da una parte e dall'altra. Padraig si alzò e si scosse la polvere dalla tonaca. «Preghiamo Dio che non vada a sbattere contro una casa» commentò. Non aveva ancora finito di dirlo, quando una ruota urtò contro il ciglio della strada, rimbalzò e si girò di lato, mutando la traiettoria del carro che si diresse dritto verso l'edificio più vicino. Padraig mi superò a tutta velocità, gridando con quanto fiato aveva in gola: «Attenzione! Pericolo! Scap-
pate!». Non so a chi potesse giovare quell'avvertimento, ma all'improvviso ci ritrovammo tutti a inseguire il carro. Nonostante la stanchezza e i muscoli indolenziti, corremmo come pazzi verso il centro abitato, urlando a più non posso: «Pericolo! Allontanatevi!». Il carro, nella sua corsa impetuosa, incontrò una sporgenza del terreno e sbandando fra l'erba alta rallentò un po' la sua avanzata. Vicino alla casa c'era il muricciolo che delimitava il recinto dei maiali: la fiancata della barca vi entrò, facendo cadere alcune pietre, e rallentando così la corsa del carro; ma ciò non bastò a evitare la collisione. La chiglia andò a sbattere contro un mucchio di letame, facendolo volare in aria, poi il veicolo rimbalzò e cadde, con un terribile schianto, contro il muro della casa. Padraig fu il primo a raggiungere il luogo del disastro: infilò la testa nello squarcio della parete e chiese a voce alta se qualcuno si fosse ferito. Lo raggiunsi poco dopo. «Credo che non ci sia nessuno» disse, voltandosi verso di me. Sarn, che era a qualche passo di distanza, ci corse incontro: «La barca ha subito dei danni?» domandò arrampicandosi velocemente sullo scafo per controllare. Rupen, con il magro corpo fremente di eccitazione, si mise al mio fianco: «Non avevo mai visto niente del genere in tutta la mia vita» ansimò, trafelato. «È stato...» si interruppe per cercare l'aggettivo giusto: «... È stato fantastico!». «Lo scafo è intatto!» annunciò Sarn sollevato. «Mi chiedo dove siano andati tutti quanti» disse Padraig, girando intorno alla casa per guardare nel cortile. «Non c'è nessuno, qui?» domandò Rupen. Infilò la testa attraverso il muro crollato, gettò una rapida occhiata e commentò: «È una fortuna. Qualcuno avrebbe potuto restare ucciso». Sarn cominciò a esaminare il punto dello scafo che aveva strusciato contro il muricciolo. Padraig riapparve solo per informarci che non c'erano ammali né nel recinto né nella stalla; e neppure esseri umani, nemmeno nei campi lì intorno. Poi sparì di nuovo, per andare a controllare le case dall'altro lato della strada. «Avete trovato un po' di birra?» chiese Dodu, che finalmente stava arrivando a passo lento. Congestionato e ansante per lo sforzo sostenuto, si sedette sul bordo di una ruota e si asciugò il sudore con la manica. «Sto
morendo» disse. «Qui non c'è nessuno» lo informai. «Impossibile» ribatté. «Ci vengo da anni e c'è sempre stato qualcuno.» «Guarda tu stesso» risposi. «Nelle case non c'è anima viva e neanche nei campi.» Padraig tornò proprio in quel momento con un secchio. «Ho trovato un pozzo» annunciò, passandomelo. Bevvi e lo porsi a Rupen, che immerse la faccia nell'acqua e cominciò a bere a sua volta. Mentre il secchio faceva lentamente il giro, chiesi a Padraig cos'altro avesse scoperto. «C'è del foraggio nella mangiatoia e dell'acqua nell'abbeveratoio» rispose «e grano nel magazzino. Almeno avremo farina e acqua.» Dodu gemette e scosse la testa. Sarn girò attorno alla prua e disse: «Che sfortuna. L'albero maestro è spezzato. La cima si è rotta quando è andata a sbattere contro la casa». «Si può riparare?» «Forse» rispose mestamente. «È da vedere». Si allontanò scuotendo la testa. «E adesso che cosa facciamo?» chiese Rupen. «Padraig ha trovato acqua e farina» spiegai. «Vediamo se riusciamo a procurarci qualcos'altro di commestibile.» Mentre Dodu e Rupen cercavano nelle case dei contadini, Padraig e io cominciammo ad accendere il fuoco nel cortile. Presi un po' di legna dal mucchio accanto all'uscio, una pietra focaia e un attizzatoio dalla stanza ormai in rovina. Mentre tentavo faticosamente di far scoccare qualche scintilla, il monaco trovò un paiolo, lo riempì con l'acqua del pozzo, e tolse un po' di farina da uno dei sacchi nel magazzino e la gettò nell'acqua. Poi mi raggiunse e, quando il fuoco ebbe preso, mise il paiolo sulla fiamma e si sedette per controllarlo. Dodu e Rupen uscirono dalla casa vicina: il giovane principe reggeva un sacchetto in una mano e una ciotola nell'altra. Dodu portava una caraffa e una tazza di legno. «Sapevo che doveva esserci della birra» annunciò, posando con cura la caraffa a terra. Si sedette e cominciò a versare il dolce liquido bruno. «Io ho trovato del sale» disse Rupen, porgendomi il sacchetto. Poi tirò fuori dalla ciotola due grandi uova e un pezzo di formaggio bianco e duro e passò il tutto a Padraig suggerendo: «Possiamo farle sode». «Io ho un'idea migliore» rispose il monaco. Prese la ciotola dalle mani di
Rupen, vi ruppe le uova battendole sul bordo, staccò un pezzo di formaggio, lo spezzettò dentro il recipiente. Poi sbatté velocemente le uova e il formaggio con le dita, finché la mistura non assunse un colore giallo pallido. Rupen lo guardava affascinato: «Siete il cuoco del vostro monastero?». Padraig sorrise: «L'abbazia non è grande» spiegò «perciò ciascuno di noi svolge a turno tutte le incombenze». Poi svuotò la ciotola nel paiolo dove sobbollivano la farina e l'acqua. Prese un pizzico di sale dal sacchetto e mise anche quello nel paiolo. «Adesso» disse raccogliendo un rametto da cui cominciò a staccare la corteccia «dobbiamo solo aspettare.» Ci passammo di mano in mano il boccale di birra per occupare il tempo, mentre aspettavamo che il contenuto del paiolo cuocesse. Sarn decise saggiamente che l'albero maestro poteva aspettare che lui mettesse qualcosa sotto i denti, si unì a noi e volle la sua parte di birra, che Dodu gli fornì con riluttanza. Dopo un po' la zuppa cominciò ad addensarsi e Padraig si mise a rigirarla con il rametto. Sarn tornò nella casa, per vedere se Dodu non si fosse lasciato sfuggire qualche altra caraffa di birra. Io mi sdraiai, chiusi gli occhi e rimasi ad ascoltare il borbottio del paiolo: il profumo della zuppa mi faceva venire l'acquolina in bocca e il mio stomaco cominciò a brontolare. Stavo ricordando il mio ultimo pranzo in famiglia prima della partenza, quando sentii che qualcuno mi toccava il braccio. Aprii gli occhi: Rupen era inginocchiato accanto a me e teneva gli occhi fissi sul cortile lì accanto. Mi voltai nella direzione verso cui stava guardando, ma scorsi soltanto gli alberi del bosco al limitare del campo. «Cosa succede?» gli chiesi. «C'è qualcuno laggiù» sussurrò. Padraig smise di mescolare la zuppa; appoggiò il bastoncino sul paiolo e osservò il boschetto. «Ne siete sicuro?» insistetti. Il giovane annuì. Mi alzai e feci segno a Padraig di seguirmi. «Andremo a dare un'occhiata. Voi rimanete qui a controllare la zuppa» dissi a Rupen. Padraig e io raggiungemmo il limitare del cortile e attraversammo il campo, scrutando tra gli alberi alla ricerca di eventuali presenze, ma scorgemmo solo ombra. Ci fermammo al limite del campo e io gridai in direzione del bosco: «Venite fuori! Vi abbiamo visto. Non avrete niente da temere. Ci serve il vostro aiuto. Uscite, così potremo parlarvi». Rimanemmo in attesa, ma dal boschetto non giungevano rumori né movimenti. Ero sul punto di lanciare un altro richiamo quando il mio compa-
gno disse: «Lascia provare a me». Avanzò di qualche passo e sollevò le mani in un gesto benedicente: «Pax vobiscum! Vi saluto nel nome di Cristo Redentore». Si interruppe e attese un istante prima di aggiungere: «Abbiamo preparato un po' di zuppa. Venite a dividerla con noi». «Che cosa stai facendo?» mi lagnai. «Ce n'è appena a sufficienza per noi.» Ignorandomi, Padraig ribadì: «La zuppa è pronta. Vi prego, venite a mangiare». «Non possiamo sfamare tutto il contado!» protestai di nuovo. «Sst, Duncan! Stai zitto.» Perseverando nella sua smodata generosità, il monaco ripeté l'invito, e aspettammo ancora. Pensai che Rupen si fosse sbagliato, che la fame gli avesse fatto venire le traveggole. Ma prima che potessi mettere a parte Padraig della mia supposizione, udii un fruscio tra il fogliame e vidi uscire dal bosco un vecchio incartapecorito, con un coltellino in una mano e un rozzo bastone nell'altra: aveva uno sguardo minaccioso sul volto solcato di rughe, quasi di sfida. Dodici «Veniamo in pace, buon uomo» disse Padraig. «Siamo pellegrini e non intendiamo farvi del male.» Il vecchio avanzò di qualche passo, poi si fermò, sollevò il bastone che teneva in mano e lo puntò contro Padraig: «Siete davvero un monaco?» chiese esprimendosi in un rozzo latino. «Sì» rispose Padraig, tendendogli la mano. «Venite a dividere il pane con noi, così potrete raccontarci cosa vi è accaduto.» Il vecchio lasciò cadere il ramo e fece un cenno di rassicurazione a due anziane donne che si nascondevano alle sue spalle: «Tutto a posto» gridò. «È un prete.» A quelle parole, le donne uscirono dal bosco correndo, si gettarono su Padraig, gli afferrarono le mani e le baciarono benedicendo Dio a voce alta. Lui le lasciò fare, poi guidò il suo nuovo gregge verso la casa. Quando raggiunsero Rupen che aspettava accanto al paiolo di zuppa in cortile, i nuovi venuti rimasero a fissare con sguardo bramoso la zuppa fumante che gorgogliava nella pentola. Sarn e Dodu, che avevano frugato inutilmente nella casa accanto, comparvero proprio in quel momento. I tre vecchi riconobbero il carrettiere e corsero verso di lui. «Dodu! Do-
du!» gridarono e cominciarono a raccontargli qualcosa nella loro lingua. Il nostro amico li ascoltava con espressione sempre più addolorata e ogni tanto dava loro un'amichevole pacca sulle spalle. Infine alzò il capo e spiegò: «Sono stati derubati due giorni fa. Senza dubbio erano gli stessi briganti che abbiamo incontrato noi». Dopo che i tre gli ebbero riferito qualcos'altro, aggiunse: «Hanno portato via i maiali, tutti e sei, vi rendete conto? E anche due mucche. Il marito di Anna ha cercato di impedirlo, e quelli gli hanno dato un colpo in testa». Il vecchio fece un gesto con la mano per mostrare come avevano colpito il suo amico, stringendo le labbra in una smorfia di raccapriccio e disperazione. «È morto ieri» disse Dodu. Poi, dopo aver scambiato qualche altra parola con il contadino, tradusse: «L'hanno sepolto nel bosco accanto al ruscello dove si erano nascosti». Le donne annuirono vigorosamente e indicarono gli alberi alle loro spalle. A quanto capimmo, ci avevano visti scendere dalla collina e, temendo un altro attacco dei banditi, si erano nascosti nel bosco. Non era escluso che, proprio in virtù della loro prudenza, avessero evitato di essere feriti quando il carro aveva sfondato la loro parete. Glielo spiegai, conducendoli a vedere il disastro: fecero schioccare la lingua e si mormorarono qualcosa l'un l'altro ma, tutto sommato, sembravano più interessati alla zuppa che alle rovine della loro modesta abitazione. Una delle donne entrò in casa attraverso lo squarcio del muro e cominciò a rovistare fra le macerie: trovò alcune ciotole di legno che allungò alla compagna, un sacco pieno di pagnottelle rafferme che mi porse, un mestolo di legno. Poi si avvicinò al paiolo fumante e, con un gesto, chiese a Rupen di farsi da parte. Accoccolandosi accanto al fuoco, prese un po' di zuppa con il mestolo, vi soffiò sopra per raffreddarla e l'assaggiò. Poi strinse le labbra e gridò un ordine al vecchio, che si allontanò trotterellando in direzione del magazzino, vi entrò e ne uscì qualche secondo dopo reggendo un involto di stoffa marrone, grande quanto un neonato, che portò alla moglie. Lei si mise il fagotto in grembo, sollevò il telo che conteneva un bel pezzo di pancetta affumicata, cominciò a tagliarne dei pezzetti con un coltellino che teneva nascosto nel risvolto della manica, e li lasciò cadere nella zuppa. Intanto il vecchio le aveva portato due cipolle, che la donna affettò e aggiunse agli ingredienti nel paiolo, rimestando tutto con vigore. Di lì a poco, il profumo della zuppa era straordinariamente migliorato. La vecchia assaggiò ancora una volta, fece un largo sorriso sdentato e co-
minciò a scodellare la densa minestra nelle ciotole che tutti noi, accorsi nel frattempo ad attorniarla, tenevamo tra le mani. Spezzammo il pane dentro la zuppa fumante, sollevammo le ciotole alle labbra e mangiammo il nostro primo pasto caldo in tre giorni. Ce ne fu abbastanza per calmare i morsi della fame e per darci la forza necessaria ad allontanare il carro dalla casa. Passammo il resto della giornata a ripulire le macerie e a trasportare i pochi mobili intatti in un fabbricato vicino che, per via di un buco nel tetto, era disabitato da vari anni. Quella sera le donne fecero cuocere il pane sulle pietre del focolare e rosolarono la pancetta nella birra; poi misero le fettine di carne nel pane e ce le servirono. Era cibo semplice, ma buono e nutriente, e quella notte dormimmo senza sentire i crampi della fame; eccetto Rupen, il cui stomaco delicato non riuscì a digerire quella pietanza pesante. Egli mangiò come noi, ma ne pagò il prezzo con spasimi e flatulenza che lo tennero sveglio e lo fecero stare male per l'intera notte. Il mattino dopo, di buon'ora, mentre gli altri dormivano, Padraig e io partimmo per il mulino sulla Saona. Avevo deciso che dovevamo raggiungere il fiume al più presto; là, con un po' di fortuna, saremmo riusciti a convincere uno dei carrettieri del posto a seguirci per riprendere la barca. Ero assillato dal problema di come pagarlo per i suoi servigi, ma poiché, a quanto diceva Dodu, ci aspettavano almeno tre giorni di cammino, ero certo che sarei riuscito a escogitare una soluzione durante il viaggio. In ogni caso, era assolutamente chiaro che alla fattoria non potevamo essere di alcun aiuto. I tre vecchi erano poveri contadini, resi ancora più miserevoli dal brutale furto del bestiame e delle loro provviste. La nostra sola presenza li metteva in difficoltà. Con le scarse risorse di cui disponevano, avrebbero avuto non poche difficoltà a sfamare i compagni che avevo lasciato presso di loro: Sarn e Dodu, di guardia alla barca, e Rupen, che doveva rimettersi e recuperare le forze. Almeno i primi due avrebbero lavorato per guadagnarsi il pane; infatti avevo promesso al vecchio che, durante la nostra assenza, si sarebbero preoccupati di riparare il danno procurato alla casa, ma Rupen doveva stare a riposo. Giudicando dall'indigestione della sera prima, infatti, era chiaro che non era ancora guarito del tutto dalla malattia che aveva causato la morte dei suoi amici. Le poche forze che aveva ripreso mentre eravamo sul fiume erano state consumate dalla fatica di portare la barca su e giù per le colline, e ritenevo che qualche giorno di inattività lo avrebbe rimesso in forma.
Ma Rupen aveva in mente ben altri piani, come scoprii a mezzogiorno, quando Padraig e io facemmo una sosta per riposarci e rifocillarci dopo aver camminato di buona lena per tutta la mattinata, fermandoci soltanto una volta per dissetarci. Le buone donne ci avevano dato del pane e due borracce d'acqua. Stavamo dividendoci il cibo, quando vedemmo comparire all'improvviso Rupen alle nostre spalle. Appena fu abbastanza vicino da potermi sentire, mi alzai e lo apostrofai: «Pensavo fossimo d'accordo che sareste rimasto insieme agli altri. Qualcosa non va?». «Niente» rispose. «Ma ho pensato che avreste potuto avere bisogno d'aiuto.» Lo ringraziai per la premura, ma aggiunsi: «Veramente, Padraig e io siamo perfettamente in grado di trattare con i carrettieri. Fareste meglio a riposarvi per il viaggio che ci attende». «Senza dubbio il vostro potere di persuasione supera quello di Mosè» rispose il giovane principe. «Ma, a meno che i carrettieri della Saona non siano molto diversi da quelli che abbiamo incontrato fino a ora, penso che sia improbabile riuscire a convincerli a lavorare gratuitamente.» Ammisi che era vero, tuttavia gli feci notare che i banditi avevano rubato anche la sua borsa: «Dal momento che non avete denaro, non vedo come possiate aiutarci in questa faccenda». Il giovane sorrise alle mie parole, poi sollevò il pugno chiuso, si avvicinò fino a mettermi la mano davanti agli occhi e aprì le dita: stringeva nel palmo il pesante anello d'oro che portava al pollice la notte in cui eravamo stati derubati. «Credevo che vi avessero derubato di tutto» dissi. «Li ho visti perquisirvi.» «Mi sono nascosto in bocca l'anello quando Padraig mi ha svegliato» sorrise furbescamente, e scoprii in lui un'audacia che non avevo mai sospettato. «Se mi avessero frugato meglio, lo avrei inghiottito.» Pensai che Rupen, forse per la prima volta in vita sua, si stava davvero divertendo. Deluso di essere stato lasciato indietro, ci aveva seguiti per metà della giornata, solo per spirito d'avventura. Rimandarlo indietro sarebbe stata un'offesa imperdonabile, poiché evidentemente quella prova di coraggio aveva un grande significato per lui. «Venite con noi, allora» acconsentii, passandogli la borraccia e un pezzo di pane. «Saremo felici della vostra compagnia.» Così, tre giorni dopo, fummo in tre a entrare nel villaggio dove si trovava il mulino. Il borgo, che sorgeva su un'ansa della Saona, godeva di una
buona posizione mentre il mulino si trovava un po' più a monte. A nord del mulino, il fiume attraversava una gola stretta e rocciosa ed era troppo basso e impetuoso per il passaggio di una barca. Passato l'abitato, invece, si allargava, e diventava navigabile. Osservando la valle dall'alto, vedemmo un gran movimento di imbarcazioni, benché non capissimo se fossero in arrivo o in partenza. Decisi di non perdere tempo e di scendere subito al fiume per parlare con i carrettieri e trovare una soluzione al nostro problema. Prima di arrivare al villaggio la strada passava vicino al mulino, e ce lo eravamo appena lasciato alle spalle quando Rupen si fermò e tornò sui suoi passi. Padraig e io continuammo a camminare per un bel po', prima di accorgerci che non era più di fianco a noi. Quando guardai indietro lo vidi fissare immobile i campi intorno al mulino, dove il mugnaio teneva il bestiame. Il piccolo pascolo era circondato da un muretto di pietra, dietro al quale stavano due mucche e una coppia di buoi. Chiamai il nostro compagno, ma egli non mi rispose. Padraig ipotizzò: «Deve aver visto qualcosa». Ansioso com'ero di arrivare al villaggio per incontrare i carrettieri, mi innervosii non poco per quella fermata fuori programma quando la meta era così vicina. «Cosa c'è?» gli domandai irritato, avvicinandomi. Senza staccare gli occhi dal campo, il giovane principe alzò una mano e indicò le due bestie: «Quelli sono i buoi di Dodu» affermò. Osservai i due placidi animali che pascolavano e commentai: «Cerchiamo di non dare giudizi affrettati; dopo tutto, i buoi si assomigliano tutti». «Sono loro» insistette Rupen. «Ho camminato dietro di loro abbastanza a lungo per riconoscerli.» Poi, indicando le due mucche da latte, aggiunse: «E ho il sospetto che quelle siano del contadino». Guardai Padraig, che si strinse nelle spalle disorientato, e dissi: «Anche se ciò che sostenete fosse vero, non so cosa potremmo farci. Abbiamo altre...». Prima che potessi finire, sentimmo uno strillo acuto levarsi da dietro il mulino. Rupen si diresse verso il punto da cui proveniva: «Stanno scannando qualcuno» esclamò. «Sì» concordò Padraig pacatamente «un maiale.» Si udì un altro strillo, più convulso e terribile. La sventurata creatura doveva soffrire atrocemente, ma sembrava che nessuno volesse abbreviare la sua agonia. «Per essere una macellazione» osservai «non mi sembra eseguita granché bene. E, a meno che qui non seguano altre usanze, non è ancora sta-
gione di ammazzare i maiali.» «A meno che» suggerì Rupen «non si tratti dei maiali di qualcun altro.» A questo punto ci dirigemmo verso il mulino che era un imponente edificio in legno, costruito interamente con travi di quercia tenute insieme da calce mista a pietre del fiume. La cascata d'acqua proveniente dalla gola rocciosa faceva girare lentamente una grande ruota di legno. Il cortile era ampio e pavimentato con lastre di pietra, in modo che i pesanti carri carichi di grano non si impantanassero quando pioveva. Il lastricato, comunque, era la sola concessione all'ordine e alla pulizia; infatti, mentre ci avvicinavamo, il fetore di quel luogo ci colpì sgradevolmente: ai lati della stalla addossata all'abitazione erano ammassati cumuli di letame putrido e di paglia marcita, che riempivano l'aria di un lezzo acidulo che faceva pizzicare gli occhi e dava il voltastomaco. Mucchi di feci umane erano disseminati sul terreno sotto le finestre della casa; il cortile era cosparso di escrementi di cane e lo stallatico era rimasto dove i cavalli l'avevano deposto. «Il nostro mugnaio non deve essere un tipo molto raffinato» osservò Padraig. Anche la casa avrebbe avuto un urgente bisogno di qualche riparazione: il tetto, che un tempo era stato ricoperto di eleganti coppi rossi, mostrava larghi vuoti riempiti da rozzi lastroni di pietra fuori misura e un gran numero di tegole giaceva a pezzi nel cortile, qua e là. E la ruota del mulino era verde di alghe, che pendevano come una barba viscida e gocciolante dai raggi e dalle pale. La porta della stalla, divelta, era appoggiata a una parete; una parte del muretto di recinzione per il bestiame era crollato e la cavità era stata colmata non con le pietre cadute, ancora sparse sul terreno, ma con rami e pezzi di cordame. Oltre il recinto, in mezzo al letame, c'erano due macilenti buoi marroni a testa china che, mi parve, non avevano più la forza di muoversi, e cinque grassi maiali con le zampe legate. In fondo al cortile c'era un'enorme macina di pietra, che veniva fatta girare tramite una trave di legno attaccata a un palo centrale. Se non fosse stato per i quattro uomini che stazionavano lì intorno, avrei pensato che il mulino fosse andato in rovina e fosse abbandonato. Guardando la vecchia macina, ricordai l'osservazione di Dodu sul fatto che il mugnaio possedesse una coppia di buoi; certamente, quando il caldo estivo trasformava il fiume in un rigagnolo insufficiente per far girare la grande ruota di legno, il mugnaio attaccava i buoi alla macina e così continuava a soddisfare i
clienti. Gli uomini erano intenti alle loro faccende e non ci prestarono attenzione mentre attraversavamo il cortile lurido. L'aria fu lacerata da un nuovo gemito del maiale, simile in modo impressionante a un grido umano. Sentii una sensazione di nausea percorrermi le viscere, mentre ciò che vedevo confermava le mie più tristi supposizioni. Un ragazzino di circa dieci anni, armato di picca, si stava divertendo a massacrare il maiale: incitato nei suoi sforzi dalle grida esultanti dei presenti, torturava con zelo feroce la povera bestia. Gli aveva già cavato tutti e due gli occhi e staccato un lungo brandello di pelle sanguinolenta dal dorso. Ora gli stava conficcando la picca nel fianco spingendola avanti e indietro, mentre lo sventurato animale, con le zampe legate perché non potesse scappare strillando e gemendo, vomitava sangue dalla bocca. L'espressione di ebbra felicità dipinta sul viso del ragazzo mi riempì di rabbia. Permettere un'azione simile era orribile, ma incoraggiarla era mostruoso. Stavo già per intervenire, quando mi sentii trattenere dalla mano di Padraig: «Sii cauto» mi avvertì. «C'è molto male in questo luogo.» Liberandomi dalla sua stretta, replicai: «Dovrebbero essere puniti per ciò che stanno facendo». «Accadrà, puoi esserne certo» mi rassicurò. «Ma potresti non essere tu lo strumento del castigo. Penso che Dio abbia altri progetti in serbo per te.» «Allora, secondo te, cosa dovrei fare?» chiesi. «Forse la nostra presenza sarà sufficiente a farli vergognare» rispose. «E se non fosse così?» «Sarà quel che Dio vorrà, Duncan.» Mi fissò: «Credimi». «D'accordo!» mi arresi. Tirai un profondo respiro e soffocai l'ira; quand'ebbi ritrovato la calma, mi avvicinai agli sconosciuti, salutandoli a gran voce per far notare la nostra presenza. Al suono delle mie parole, uno di essi si voltò lentamente e ci guardò con cupa malevolenza. «Cosa volete?» ci apostrofò, con una voce profonda resa aspra dall'irritazione di vedere interrotto il proprio divertimento. Sentii il respiro affannoso di Rupen alle mie spalle e lo udii sussurrare a Padraig: «È lui il brigante che ci ha derubati!». Anche se fui colto di sorpresa quasi quanto Rupen, non potevo permettere che quell'uomo si accorgesse di essere stato riconosciuto, perciò mi affrettai a dire: «Siamo venuti a chiedervi se per caso avete una coppia di buoi da noleggiare per due o tre giorni».
«Andate da un carrettiere» borbottò, voltandoci la schiena. «Io, di lavoro, faccio il mugnaio.» «Vedete» insisterti, avvicinandomi «abbiamo subito un piccolo incidente lungo la strada. Se potessimo persuadervi a prestarci due dei vostri buoi, si sistemerebbe tutto. Potremmo pagarvi il disturbo.» Il corpulento individuo si girò verso di me con fare adirato: «Siete sordo, oltre che stupido?» ringhiò, sputacchiando saliva dalle labbra tumide. Sentendogli alzare la voce, due degli astanti si voltarono a guardarci. Uno si chinò, raccolse un ciocco di legno che si trovava accanto alla macina e lo brandì come un randello. «Non oserei importunarvi» insistetti «se non ne avessimo davvero bisogno. Si tratterebbe solo di qualche giorno, non di più; e gli animali sarebbero trattati bene.» Dissi l'ultima frase per metterlo in imbarazzo, ma quello non vi fece caso. «Siamo in un mulino, non in una stalla!» gridò. «Andatevene, prima che vi aizzi contro i cani!» E con un calcio mi lanciò addosso le feci di un cane mentre l'uomo che impugnava il pezzo di legno lo sollevava, come se intendesse aggredirci. Dal momento che non c'era niente da guadagnare continuando a provocarli, mi allontanai in fretta. Avevo fatto appena due o tre passi, quando avvertii un colpo doloroso alla schiena, fra le scapole, dove il ciocco di legno mi aveva colpito. Non mi voltai a guardare, ma raddrizzai le spalle e continuai a camminare accompagnato dalle risate del mugnaio e dei suoi compari. «Allora?» chiese il giovane principe quando li raggiunsi. «È lui l'uomo che ci ha derubati?» «No» risposi «questo è più anziano e più robusto. Comunque, la somiglianza è troppo grande per essere casuale.» Padraig assentì: «Pensi che siano fratelli?». «Sì.» «Che siano fratelli, sorelle, mariti o mogli» ringhiò Rupen con insolita rabbia «quei buoi pezzati sono di Dodu e i maiali del contadino.» «Calmati» gli ingiunsi. «Ne sono convinto anch'io, così come sono sicuro che il giorno segua la notte.» «E allora perché scappiamo?» «Non scappiamo» replicai, rimettendomi in cammino. «Stiamo andando a cercare un posto dove riposare.» «Riposare!» fremette. «Mentre loro ridono di noi e torturano impunemente quei poveri porcelli?»
«No» risposi. «Mentre aspettiamo che la notte ci protegga.» Rupen aggrottò la fronte, insoddisfatto. «Codardi» borbottò. Padraig gli si avvicinò: «Duncan intende dire» spiegò posandogli una mano sulla spalla «che dopo essere stati miti come colombe, ora diventeremo astuti come serpenti per rendere un po' di giustizia ai crimini di quegli uomini malvagi». «Abbiamo dato a quel farabutto un'occasione per trattarci con cortesia e giustizia» intervenni «ora ci comporteremo nel solo modo che possa capire.» «Che cosa intendete fare?» chiese Rupen. «Abbiate pazienza e lo vedrete» risposi, continuando a camminare. Tredici Ci sdraiammo a riposare in un campo lì vicino, dietro a un covone di paglia, e trascorremmo il resto di quel lungo pomeriggio in un continuo dormiveglia. Sonnecchiare nelle ore più calde del giorno fu così piacevole che ci alzammo soltanto quando il sole cominciò a calare. Avevo studiato bene il cortile e il fabbricato del mulino e sapevo come intendevo procedere. La mia sola preoccupazione erano i cani di cui aveva parlato il mugnaio: pur non avendoli visti, la loro presenza era evidente dalle tracce di escrementi sparsi per il sudicio cortile. Tuttavia ignoravo quanti potessero essere, e se fossero grandi e feroci, o piccoli e rissosi. «Con i buoi non avremo alcun problema» spiegai alla mia banda di ladri di bestiame improvvisati. «Con i maiali, invece, sarà più difficile. Anche se riusciremo a evitare di svegliare i cani, i suini si metteranno a strepitare non appena ci sentiranno avvicinarci.» Ne discutemmo per un po' e infine Padraig dichiarò: «Lasciate a me i maiali, me ne occuperò io». Poi si alzò in piedi, camminò fino al centro del campo e si sdraiò bocconi, con le braccia spalancate a croce. «Cosa sta facendo?» chiese Rupen. «Sta pregando» risposi. «Per i maiali?» «Per tutti noi.» Di lì a poco il sole tramontò e fummo avvolti dalla luce cilestrina del crepuscolo. Rimasi sdraiato ad ascoltare i rumori del villaggio che si preparava a dormire. Dagli alberi lungo il fiume giungeva il rauco grido dei corvi tornati ai loro alti nidi e, dai campi vicini, il muggito del bestiame
che veniva ricoverato nelle stalle e nei recinti; qua e là si udiva il latrare dei cani e il tintinnio dei campanacci delle capre. Quando si fece completamente buio, ci mettemmo all'opera. Incaricai Rupen di fare il palo sulla via fra il mulino e il villaggio, nell'eventualità che arrivasse qualcuno; poi, insieme a Padraig, mi diressi al recinto dove avevamo visto i buoi di Dodu. Era come mi aspettavo: l'abborracciato muro di cinta stava cadendo a pezzi e le bestie non erano state portate nella stalla, per la notte, ma lasciate all'aperto. Trovammo con facilità un punto debole nel muretto, spingemmo con forza e lo buttammo giù. Poi cominciammo a scostare in fretta le pietre cadute per aprire un passaggio abbastanza largo: in pratica ci limitammo a togliere di mezzo l'indispensabile perché i buoi potessero uscire. Corsi dentro, liberai dalle pastoie gli animali e li condussi fuori, mentre Padraig mi seguiva trascinando le mucche da latte. Quando raggiungemmo Rupen sulla strada, dichiarai: «Lo scopo del nostro viaggio è stato raggiunto; se ce ne andiamo, il successo è certo. Se procediamo, corriamo il rischio di perdere tutto». Gettai un'occhiata ai miei compagni cospiratori: «Cosa pensate si debba fare?». «Se non volete liberare i maiali, lo farò io da solo» affermò Rupen. «Non è giusto che quei furfanti ne traggano profitto.» «I maiali a noi non servono» osservò Padraig «ma per il contadino, sua moglie e sua sorella sono questione di vita o di morte. Credo che dovremmo tentare.» «Molto bene» conclusi «allora siamo d'accordo. Qualunque cosa accada, non ci saranno recriminazioni.» E, rivolto al giovane principe, aggiunsi: «Portate via i bovini. Vi raggiungeremo lungo la strada». «Io vengo con voi» rispose. «I buoi sono lenti ed è facile raggiungerli» spiegai in tono paziente. «Se ci seguono, sarà bene che voi siate già lontano.» «Io vengo» ripeté Rupen, incrociando le braccia sul petto. Prima che potessi sollevare altre obiezioni, Padraig alzò la mano: «Andiamo tutti e tre. Se avremo qualche difficoltà, potremmo avere bisogno di un altro paio di braccia». Trovandomi in minoranza, mi arresi e impastoiai i bovini sul ciglio della strada. Avanzammo fino al limitare del cortile, dove ci fermammo ad ascoltare: l'edificio era immerso in un silenzio totale, rotto solo dal rumore lento e ritmico della ruota che girava nell'acqua. All'interno della casa non c'erano lumi. Solo la luce della luna che stava sorgendo gettava sul cortile
deserto un pallido chiarore, che mi consentì di distinguere il recinto e le scure forme dei buoi macilenti e dei maiali superstiti. «Non vedo cani» sussurrai. «Devono essere dentro.» «Oppure dormono» suggerì Rupen. «Comunque sia, dobbiamo fare piano in modo da non farci scoprire.» Attraversammo il cortile con la massima cautela e il fetore ci colpì come uno schiaffo in pieno viso. Un mucchio di interiora indicava il punto in cui i maiali erano stati squartati e l'odore dolciastro e nauseabondo che ne proveniva si aggiungeva al lezzo acre che ci aveva accolti la prima volta, provocando un tanfo nauseabondo che ci fece quasi svenire. Non impiegammo molto a smantellare il cadente muretto di recinzione e dovemmo impedire che crollasse del tutto, con un frastuono che avrebbe certo svegliato il mugnaio e i suoi cani. Quando avemmo aperto un varco abbastanza largo, sussurrai a Padraig: «Se conosci qualche runa per calmare i maiali, è il momento per recitarla». Con mia grande sorpresa, rispose: «L'ho già fatto». Poi chiese a Rupen e me di allontanarci e di stare in silenzio. Quindi si avvicinò all'apertura nel muro, si fermò, congiunse le mani e chinò il capo. Dopo qualche minuto di raccoglimento, si fece il segno della croce ed entrò nel recinto: si avvicinò ai suini, slegò loro le zampe e, continuando a parlare con voce suadente, li sollecitò ad alzarsi e a muoversi. Poi, incitandoli con gentilezza, li condusse in cortile. Gli animali lo seguirono come cani fedeli. Quando ci passò vicino, non si fermò, ma uscì in fretta sulla strada; neanche lì si arrestò, continuando imperterrito a percorrere la via per la quale eravamo giunti. Dopo aver gettato un ultimo sguardo verso il mulino per controllare che non fossimo stati scoperti, dissi a Rupen: «Sarà bene che ci affrettiamo a prendere i buoi, o Padraig se ne andrà con i suoi porcelli senza aspettarci». La luna era ormai alta e la strada che si stendeva davanti a noi splendeva come un fiume serpeggiante fra le colline. Quando ci mettemmo in cammino con i buoi, il monaco era già un pezzo avanti a noi: lo vedevo procedere di buon passo circondato dal piccolo branco di maiali che gli trotterellava allegramente accanto. Potrà sembrare un'osservazione bizzarra, ma conosco Padraig da quando arrivò all'abbazia della nostra isola come giovane novizio e, dal nostro primo incontro, l'ho visto e gli ho parlato praticamente ogni giorno; eppure riuscivo sempre a scoprire qualcosa di nuovo e di particolare in lui. La sua
capacità di stupire era di per sé straordinaria. Per questo aspetto era come suo zio, l'abate Emlyn, che sapeva sempre sorprendere la gente con una parola o con un gesto. Era come se una sorgente da cui si attinge acqua ogni giorno rivelasse continuamente nuove vene nascoste. Naturalmente entrambi erano celti, e questo, in parte, spiega ogni cosa. E anche gli insegnamenti impartiti nel loro ordine dovevano entrarci, benché io non potessi sapere come. Ma, mia cara Cait, avrei ben presto avuto modo di scoprire che l'abbazia di Sant'Andrea era responsabile di faccende molto più grandi dell'originalità dei suoi monaci. Superata la prima collina, al di là della portata degli abitanti del mulino, Padraig si fermò per permetterci di raggiungerlo. Era in mezzo al sentiero, circondato dal piccolo branco di suini come da una congregazione devota. «Avrei voluto aspettarvi» disse «ma non sapevo quanto tempo sarebbe durato l'effetto delle rune. Ho pensato che fosse meglio proseguire finché non ci fossimo allontanati abbastanza da quel sordido luogo.» «Come avete fatto?» chiese Rupen. «Se fossero stati topi, non avrebbero potuto essere più silenziosi.» «Mi sono limitato a dir loro che li stavo portando a casa» spiegò il monaco «e che dovevano fare silenzio, così gli uomini malvagi che li avevano rapiti non avrebbero cercato di fermarci.» «Siete stato bravissimo» mi complimentai. «Nessuno si è svegliato, persino i cani hanno continuato a dormire tranquilli.» «Eppure» disse Padraig guardando la strada alle nostre spalle «qualcuno ci ha seguito.» Mi voltai, aspettandomi il peggio, e scorsi i due miserevoli buoi che ci seguivano lemme lemme. Immaginai che fossero usciti dal varco nel recinto e che, vedendo il resto del bestiame, si fossero limitati a seguire i compagni. «Cosa facciamo?» chiese Rupen. Anche se l'idea di venire acciuffato con quella specie di bottino non mi allettava affatto, perché sostanzialmente avevamo preso i maiali solo per restituirli al legittimo proprietario, non potevo certo riportare indietro due buoi. «Se vogliono seguirci, non vedo come potremmo impedirglielo. E, in ogni caso, sarebbe una vera crudeltà lasciarli in quel posto orribile.» Camminammo quasi sino all'alba, poi cominciammo a cercare un luogo riparato per trascorrervi la giornata. Avevo già deciso che sarebbe stato meglio riposare durante le ore diurne e viaggiare di notte. Ritenevo che il mugnaio avrebbe scoperto il furto in mattinata e che sarebbe uscito a cer-
carlo. Al mulino non avevo notato la presenza di cavalli, ma il fratello ladro ne aveva e, con il suo aiuto, ci avrebbero raggiunti facilmente. Ai piedi del colle successivo trovammo ciò che stavamo cercando: un gruppo di alberi poco distante dalla strada, ma nascosto dietro il fianco della collina e fuori dalla vista di eventuali passanti. Così, mentre Padraig e Rupen portavano gli animali nel boschetto, staccai qualche ramo da un cespuglio di saggina e, usando le frasche come una ramazza, mi diedi a cancellare le orme impresse nella polvere. Terminai quando stava sorgendo il sole e, dopo essermi guardato un'ultima volta alle spalle, corsi al riparo tra gli alberi: erano in maggioranza querce e benché le ghiande non fossero del tutto mature, ne staccammo qualcuna per sfamare i maiali. Poi ci sdraiammo per riposare e attendere la notte: «Ci rimetteremo in cammino al tramonto» ribadii, passando la borraccia a Rupen. «Dovremo fare dei turni per sorvegliare gli animali, in modo che non si allontanino.» Padraig si offerse di essere il primo e Rupen il secondo; io mi misi a dormire e fui svegliato verso mezzogiorno da un ticchettio. Gettai un'occhiata intorno e scorsi il giovane principe che, seduto su di un masso e intento a custodire i maiali che grufolavano nelle vicinanze, stava battendo sulla roccia con un bastone. «Dov'è Padraig?» chiesi. «Ha detto di aver sentito un rumore ed è andato a vedere da quella parte» mi rispose con uno sbadiglio, indicando la strada con la punta del bastone. Attraversai di corsa il boschetto e raggiunsi il monaco, che era appoggiato a un albero. «Hai visto qualcosa?» gli domandai. «Qualche minuto fa sono passati due uomini a cavallo» spiegò. Gli chiesi se li avesse riconosciuti. «È difficile dirlo, ma forse ne ho già visto uno.» Rimanemmo in attesa finché non sentimmo il battere ritmico e costante degli zoccoli di un cavallo: due cavalieri che procedevano al passo, piegati in cerca di tracce, comparvero alcuni istanti dopo. «Ci hanno seguito fin qui» bisbigliai «preghiamo Dio che non vadano oltre.» Come aveva detto Padraig, la fisinomia di uno dei due mi sembrò familiare. Anche se era difficile essere certi a quella distanza, credo che si trattasse proprio del capo dei banditi. I due superarono il punto in cui avevamo lasciato il sentiero e si fermarono poco oltre, dove la strada cominciava a inerpicarsi sulla collina. Per alcuni minuti sostarono per guardarsi intorno, mentre noi continuavamo a osservarli nascosti dietro l'albero.
Alla fine spronarono i cavalli e proseguirono; e noi li osservammo fino a quando non li vedemmo scomparire, restando poi di vedetta per un po'. A eccezione di un pastore con il suo gregge di pecore e di capre, non passò nessun altro per il resto della giornata e, all'imbrunire, riunimmo le nostre bestie e ci rimettemmo in marcia. Camminammo per tutta la notte, imbattendoci solo in un tasso dal pessimo carattere che si riteneva il padrone della strada. La mattina dopo Dodu ebbe la gioia di riavere i suoi buoi e i contadini rimasero senza parole quando videro i maiali e le mucche. Come la maggior parte della gente di campagna, avevano grande dimestichezza con la miseria, ma non conoscevano la buona sorte e non sapevano come comportarsi davanti all'improvviso miglioramento della loro fortuna. Chiudevano gli occhi e scuotevano la testa, accarezzando gli animali e continuando a ripetere che non avevano mai visto un simile miracolo. Decisi di affidare loro la coppia di buoi macilenti che, quando avessero ripreso peso e forze, sarebbero stati utili per arare e tirare i carri. Quando lo dissi al contadino, gli vidi spuntare le lacrime agli occhi. Incapace di esprimere a parole la propria gratitudine, mi prese la mano e cominciò a baciarla senza sosta. Chiamai Dodu: «Vi prego, riferitegli che i buoi non sono un regalo, ma solo un segno di gratitudine per la sua generosità e un modico risarcimento per avergli quasi distrutto la casa». Dodu tradusse ciò che avevo detto, e il vecchio, imbarazzato per le mie parole, si allontanò a testa bassa per andare a prendersi cura dei nuovi animali. Il carrettiere mi spiegò che i contadini gli avevano raccontato che dovevano usare le mucche da latte per dissodare il terreno: «E, quando le bestie sono esauste, tocca a loro tirare l'aratro. L'anno scorso non sono riusciti a seminare tutti e due i campi». Sorridendo aggiunse: «Penso che, con il vostro regalo, abbiate salvato loro la vita». Nei pochi giorni in cui eravamo stati assenti, non solo Sarn aveva riparato il muro della casa, ma anche l'albero maestro. Nonostante avesse avuto a disposizione solo pochi attrezzi rudimentali, si dichiarò soddisfatto del risultato. «L'albero è un po' più corto, adesso» osservò «ma funzionerà.» Mi complimentai con lui e gli raccontai cos'era accaduto al mulino: «Dovremo stare in guardia quando torneremo da quelle parti» conclusi. «Lasciate che provino a crearci difficoltà» brontolò. «Vorrei trovarmi faccia a faccia con quel furfante: imparerebbe una volta per tutte a conoscere l'ira di un norvegese.» Il mattino dopo ci congedammo; le donne ci avevano preparato alcune
fette di pane e un bel pezzo di pancetta per il viaggio. Riposero le provviste dentro un sacco e lo misero tra le mani di Dodu con un gesto semplice e silenzioso. Rimasero tutti e tre a guardarci andar via, fermi sulla soglia della loro casa appena riparata. Tre giorni dopo scendevamo la collina antistante il borgo in riva alla Saona. Considerai la possibilità di evitare il mulino e di raggiungere il fiume per un'altra via, ma non c'erano sentieri alternativi, e così ci demmo da fare per raggiungere l'approdo dei carrettieri il più in fretta possibile. Passando accanto al mulino, gettai uno sguardo all'interno del cortile con la coda dell'occhio, per vedere se si erano accorti di noi, ma tutto era immerso nel silenzio e non c'era anima viva. Anche la banchina sul fiume era deserta, e così ci affrettammo a rimettere la barca in acqua. Mentre Dodu e i suoi buoi erano al lavoro, Rupen si recò al villaggio per comprare le provviste. La barca fu pronta in pochi minuti, e io ero ansioso di mettermi in viaggio, soprattutto per timore che il mugnaio, o quel brigante di suo fratello, si accorgessero della nostra presenza. Ma il giovane principe non c'era ancora. «Che cosa lo starà trattenendo?» brontolai e, dopo aver detto a Sarn e a Padraig di rimanere sulla barca e di tenersi pronti a salpare non appena fossimo stati di ritorno, andai a cercare Rupen. Non ebbi difficoltà a trovarlo, perché, dopo aver percorso la stretta via che attraversava il borgo, entrando nello slargo di terra battuta che fungeva da mercato, udii un clamore di voci irate. Le bancarelle dei mercanti e i carretti dei contadini erano disposti tutt'intorno a un fontanile al centro dello spiazzo. Avanzai e vidi un capannello di gente che vociava vicino alla fontana. Mi avvicinai ancora e sentii uno schiocco di frusta, seguito da un lamento. Facendomi largo tra la folla, raggiunsi il centro dell'assembramento e dissi con voce alta e ferma: «A meno che non vogliate perdere tutti i denti e mangiare minestrine per il resto della vostra vita, vi ordino di mettere giù quella frusta». Il ribaldo si fermò mentre era sul punto di colpire di nuovo e si voltò lentamente verso di me. Rupen stava rannicchiato ai suoi piedi, il braccio con cui si era riparato la testa era coperto dei segni rossi delle sferzate. Alle mie parole, tra i presenti cadde il silenzio. Avevo in animo di far cessare le percosse, ma non volevo provocare una rissa, anche perché non avevo un'arma con cui affrontare un confronto così impari. «Sei tu!» esclamò l'uomo con la frusta, riconoscendomi immediatamen-
te. Benché quella notte sulla strada fosse buio pesto, lo riconobbi anch'io. Il brigante si infuriò e divenne ancora più terribile. «Fatti avanti» mi ingiunse «e somministrerò anche a te un po' della lezione che sto dando a quell'ebreo del tuo amico. E poi discuteremo del bestiame che mi hai rubato.» Io non mi mossi. «Lascialo andare» gli intimai. «Non puoi prendertela con lui, non ha fatto niente.» Qualcuno fra la gente gridò: «È uno sporco ebreo! Ha rubato un anello d'oro e ha cercato di venderlo». «Non è un ebreo» dissi rivolto alla folla. «È un cristiano. E non solo, suo padre è Leone, re d'Armenia. Questo giovane porta al dito un anello con il suo sigillo, e questa città dovrà rispondere a lui, se sarà fatto del male a suo figlio.» Mi interruppi per dar loro il tempo di riflettere, poi aggiunsi: «Il re Leone ha ai suoi ordini diecimila guerrieri, mentre voi non ne avete nessuno... a meno che non contiate questo furfante qui davanti a me». Un mormorio di perplessità si diffuse tra gli astanti, già un po' meno entusiasti nell'incitare alle frustate. Due o tre dei più timorosi si allontanarono alla chetichella. «E tu chi sei, per preoccuparti tanto di lui?» chiese il brigante. «Sono la sua guardia del corpo» risposi. Ignorando il malfattore, mi chinai accanto a Rupen: «Riuscite a mettervi in piedi, mio signore?». Rimanendo ancora rannicchiato, il giovane annuì. «Molto bene, allora possiamo tornarcene alle nostre faccende.» Proprio in quel momento il tipaccio mi aggredì. Immaginavo che lo avrebbe fatto, ed ero pronto. Mi si gettò contro senza preavviso, a braccia tese, pronto a serrarmi in un abbraccio da spezzare le ossa. Restai accovacciato e lo lasciai avanzare. All'ultimo momento incassai la testa fra le spalle e mi gettai contro di lui con tutto il mio peso. Lo colpii sotto le costole, facendogli sputare tutta l'aria che aveva nei polmoni. Cadde all'indietro sulla terra battuta a gambe e braccia spalancate. Non volendo prolungare lo scontro, gli saltai subito addosso, premendogli un ginocchio sulla gola. Il bruto non riusciva a respirare e iniziò ad agitarsi e ad ansimare mentre il colore della sua faccia passava rapidamente dal rosso al blu. «Così lo ammazzate!» gridò qualcuno. Alzai la testa e squadrai la folla: «Eravate disposti a lasciare uccidere un uomo solo perché pensavate che fosse un ebreo. Ho ripagato questo farabutto con la sua stessa moneta, eppure mi chiedete di avere pietà di lui.
Volesse il cielo che aveste fatto lo stesso anche a favore di uno straniero innocente venuto fra di voi in pace». Il brigante sotto di me smise di lottare: spalancò gli occhi, rovesciò le orbite e si afflosciò. Solo allora lasciai la presa. Mi alzai lentamente. «Assassino!» gridò qualcuno. «Ha ammazzato Garbus!» «Questo farabutto non è morto» constatai «è solo svenuto. Anche se, per questo villaggio, sarebbe meglio se fosse morto.» Mi chinai, gli infilai due dita sotto la cintura e lo misi seduto. Quell'atto produsse due effetti considerevoli: il ladro gemette all'improvviso, mentre l'aria gli riempiva di nuovo i polmoni, e contemporaneamente l'anello d'oro, che aveva nascosto sotto la cintura, scivolò fuori e cadde a terra tra lo stupore dei presenti. Lo raccolsi e lo porsi a Rupen: «Venite, mio signore, la barca ci aspetta. Ci scuoteremo dai piedi la polvere di questo luogo». Gli cinsi le spalle con un braccio e lo condussi via. «E le provviste?» chiese Rupen mentre ci allontanavamo dalla piazza. «Troveremo un altro villaggio lungo il fiume» risposi. «Compreremo là ciò che ci serve. Non voglio avere più niente a che fare con questa gente.» Raggiungemmo la barca, e dovemmo dire addio a Dodu. Gli dispiacque vederci partire e ci confessò che, se non avesse avuto moglie e figli ad attenderlo, ci avrebbe chiesto di venire con noi in pellegrinaggio in Terra Santa. Gli risposi che saremmo passati a chiedere sue notizie sulla strada del ritorno: «Dopo tutto, sono ancora in debito con voi per il trasporto della barca». «Non ditelo neanche!» protestò. «Avete salvato i miei preziosi buoi. Dovrei essere io a pagarvi.» «Comunque» insistetti «attenderò con ansia l'occasione di estinguere il mio debito. Fino ad allora, amico mio, vi auguro ogni bene.» Alcuni paesani curiosi ci avevano seguito fino al molo. Mentre Sarn spingeva la barca nelle pigre acque del fiume, Padraig si rivolse loro e, indicando Dodu, disse: «Quest'uomo è un mio amico. Da questo momento in poi, lo tratterete come un fratello. Un giorno tornerò e, se verrò a sapere che è stato maltrattato da qualcuno di voi, invocherò su questo luogo l'ira del Signore. Non pensate di sfuggire al giudizio divino per i vostri peccati». Stettero a guardarci a bocca spalancata, sbalorditi nell'udire simili minacce. La corrente trascinò lontano la barca e li lasciammo immobili sul molo, mentre continuavano a seguirci con lo sguardo. Rupen taceva an-
ch'egli stupefatto ma, quando fummo al sicuro sul fiume, si tolse l'anello dal dito e me lo offrì, dicendo: «Mi avete salvato la vita a rischio della vostra e mio padre vi ricompenserà largamente. Intanto considerate questo pegno come un piccolo anticipo della ricchezza che vi aspetta». Lo ringraziai per la sua premura, ma rifiutai: «Se prendo io il vostro anello, non avrete niente con cui acquistare le provviste al prossimo villaggio. Eravamo rimasti d'accordo che ci avreste pensato voi». «È vero» concordò, infilandosi di nuovo l'anello. «Comunque, rimarrete mio creditore finché la mia famiglia non avrà soddisfatto il proprio debito d'onore.» Quattordici Il villaggio successivo era a due giorni di navigazione. Eravamo di nuovo affamati, ma Dio è misericordioso: arrivammo a mezzogiorno di una giornata di mercato, e la piazza era piena di gente, di mercanzie e di venditori ansiosi di concludere buoni affari. In cambio dell'anello di Rupen, riuscimmo a ottenere due sacchi di farina, un quarto di maiale salato, cinque pagnotte, mezza forma di formaggio stagionato, qualche pezzo di manzo essiccato e vari altri prodotti tra cui uova, piselli secchi e pesce salato. Comprammo anche una botte di sidro, la bevanda tipica dei vigorosi abitanti della regione. Da qualche altra parte, avremmo potuto avere molto di più, perché dopo tutto si trattava di un anello di grande valore, ma sentivamo già i morsi della fame e non sapevamo a quanta distanza avremmo trovato il prossimo mercato. Inoltre, a bordo disponevamo di uno spazio assai limitato e non potevamo correre il rischio di far capovolgere la nostra imbarcazione con un peso eccessivo. Ci impegnammo molto a trattare sul prezzo e riuscimmo a procurarci le provviste, ma niente di più. Mentre Sarn e Rupen sistemavano tutto sulla barca, Padraig e io andammo a chiedere informazioni sulla rotta da tenere. Infatti, benché il giovane principe avesse già percorso il fiume e, a grandi linee, conoscesse la rotta da seguire, non riusciva a ricordare con precisione quanto poteva durare il viaggio. «All'incirca nove giorni» rispose il mercante a cui lo domandai. «Certo, in questo periodo dell'anno» osservò tamburellandosi gli incisivi con l'unghia bordata di nero «con l'acqua bassa, immagino che potrebbe volerci di più.» Lo ringraziammo per le informazioni e ci voltammo per andarcene, ma
lui ci richiamò indietro, aggiungendo: «Non ci sono difficoltà, basterà che seguiate la corrente finché non arriverete a Lione, dove il fiume si unisce a un altro e cambia nome». «E cioè?» «Diventa il Rodano» rispose. «Seguite il fiume e non avrete nessun problema. Io lo so bene, sono stato a Lione piuttosto spesso.» «Ma noi vogliamo andare a Marsiglia» gli feci notare. «È molto lontana da lì?» «Oh, sì. Se fossi in voi, lascerei perdere Marsiglia e mi fermerei a Lione. È meglio sotto tutti gli aspetti. Faccio sempre buoni affari, a Lione; gli abitanti sono molto ricchi. Non come qui, ma non posso lamentarmi. I miei compaesani sono dei gran lavoratori e conoscono il valore dei loro prodotti.» Lo ringraziammo di nuovo per averci dato consigli tanto preziosi e ci accingemmo ad andarcene, ma lui continuò: «Dopo Lione, sarete solo a sette giorni... o forse otto, da Avignone, e da lì non impiegherete molto a raggiungere Marsiglia via mare. Se potete, dovreste trattenervi per qualche giorno. La cattedrale è magnifica... o almeno lo sarà una volta terminata. Hanno appena cominciato a costruirla, ma, sul serio, vale la pena di vederla. Nemmeno Parigi ha chiese così imponenti». Padraig e io tornammo alla barca. «Il nostro giovane principe avrebbe potuto dirci che la meta era così distante! Sembra non ricordare assolutamente nulla del viaggio precedente» commentai. «Ti sei pentito di averlo fatto venire con noi?» chiese il monaco. Ci riflettei per un istante: «No. O, almeno, non ancora» risposi. «Ma Marsiglia è ancora lontana.» Il mercante aveva ragione: quattro giorni dopo raggiungemmo senza problemi Lione e, trascorsi altri sei giorni, Avignone che, come venni a sapere con disappunto, non era affatto vicina al mare. La nostra destinazione era ancora distante. Consapevoli che il tempo stringeva, proseguimmo senza fermarci neppure per una breve visita alla città e alla sua magnifica cattedrale. Eravamo quasi a metà pomeriggio quando incontrammo la prima secca: decidemmo allora di accamparci per la notte e di riprendere il viaggio il giorno dopo. Ci fermammo in un punto in cui i giunchi crescevano alti, formando intorno a noi una sorta di palizzata verde; trainammo la barca su una spiaggetta di ciottoli e Padraig cominciò a preparare la cena con ciò che restava delle nostre provviste.
Ci eravamo appena seduti per mangiare, quando fummo attaccati e sopraffatti da una densa nube di zanzare. Nonostante il fumo del fuoco, che di solito tiene alla larga questo genere di visitatori, i famelici insetti si avventarono su di noi, trafiggendoci con invisibili aculei. Più simili a demoni che ad animali, ci costrinsero ad allontanarci dal cibo e ad avvolgerci nei nostri mantelli per trovare un po' di sollievo. Terminammo così la cena in condizioni quasi insopportabili. Poi ci sdraiammo per dormire, anche se faceva ancora piuttosto caldo e il cielo era chiaro. Passai tutta la notte con il volto coperto, quasi incapace di respirare, sentendo un incessante ronzio nelle orecchie. La mattina dopo ci svegliammo prestissimo per il prurito provocato dalle migliaia di minuscole punture. Non intendendo trattenerci nemmeno un minuto di più, saltammo la colazione, afferrammo le funi e cominciammo a trainare la barca oltre la secca, impazienti di lasciare quel luogo al più presto. Fu un lavoro faticoso, anche a causa delle maleodoranti pozze d'acqua stagnante tiepida e verdognola che si erano formate negli avvallamenti tra i banchi di sabbia. Il loro fetore opprimente ci riempiva le narici, togliendoci dalla mente qualunque pensiero concernente il cibo. Perciò, a parte qualche rara pausa per bere un sorso d'acqua, non facemmo interruzioni per i pasti; e del resto era rimasto ben poco delle nostre provviste. Così, nel caldo della giornata, continuammo a tirare la barca a forza di braccia senza un attimo di tregua. Purtroppo, quando il sole cominciò a calare, allentando il suo torrido abbraccio alla terra, le zanzare tornarono a reclamare una nuova porzione del nostro sangue. Passammo un'altra insopportabile notte avvolti nei mantelli. Chiunque fosse capitato nel nostro accampamento avrebbe creduto che fossimo cadaveri avvolti nel sudario per la sepoltura. Dopo tre giorni trascorsi a combattere una battaglia persa contro quei malefici insetti, il fiume tornò a essere più profondo e, anche se potevamo contare solo su una leggera e timida brezza, Sarn issò la vela così da allontanarci da quei luoghi malsani il più velocemente possibile. Più a valle ci fermammo abbastanza a lungo da poter preparare un'ultima, magra cena, una zuppa di pezzi di carne secca e di farina, che divorammo avidamente come cani famelici, leccando persino le ciotole vuote. Poi ci rimettemmo in viaggio. Il fiume era facilmente navigabile e la luna alta, perciò proseguimmo per l'intera notte, giungendo ad Arles il giorno successivo a mattino inoltrato. Eravamo esausti, indolenziti, mezzi morti di fame e senza un soldo per comprare del cibo.
Mendicare non sarebbe stato dignitoso, anche se, in caso di estrema necessità, mi sarei umiliato e l'avrei fatto. Rupen, dal canto suo, affermò che avrebbe preferito morire di fame piuttosto che chiedere l'elemosina, ma Sarn sostenne che non riusciva a capire la differenza tra essere dei morti di fame, come ormai eravamo a tutti gli effetti, o mendicanti. «Comunque» intervenni «penso che la nostra sola speranza sia raggiungere Marsiglia il prima possibile; là supplicheremo i templari di avere pietà di noi.» Ma Padraig non era d'accordo: «Sì, i templari potrebbero anche aiutarci» disse con freddezza udendo la mia proposta «ma non vedo che motivo avrebbero di farlo». «Se hai un'idea migliore, aspetto di sentirla» replicai, mettendomi una mano a coppa intorno all'orecchio e avvicinandomi a lui. «Ebbene? Sto ancora aspettando.» «Se smetti di giocare, forse puoi imparare qualcosa di interessante» rispose lui irritato. «Tuo padre si fermò qui mentre andava in Terra Santa, o te lo sei scordato?» In effetti l'avevo dimenticato, e del resto, a causa della riluttanza di Murdo a parlare della sua partecipazione alla Grande Crociata, conoscevo ben poco della città. Quasi tutto ciò che sapevo a proposito di Arles mi era stato detto da Emlyn che, a quanto pareva, ne aveva parlato anche con Padraig, e molto più diffusamente di quanto avesse fatto con me. «Sostarono qui per l'inverno» ricordai a voce alta. «E c'era un monastero. Potremmo chiedere ristoro lì. È questa la tua intenzione?» «Vieni. Ti farò vedere che cosa ho pensato.» Si incamminò lungo il pontile e io mi affrettai a seguirlo, lasciando Rupen e Sarn a rifornire la barca d'acqua e a sistemarla. Padraig e io raggiungemmo la piazza del mercato vicino al porto dove, come accade in ogni villaggio o città, trovammo un gruppetto di anziani intenti a chiacchierare per passare il tempo. Padraig li salutò con reverenza, e loro, sentendo che eravamo stranieri, ci domandarono da dove arrivassimo e dove fossimo diretti. Il monaco spiegò loro che volevamo andare in pellegrinaggio in Terra Santa, e tutti annuirono con espressione seria. Avevano sentito parlare della Grande Crociata, ovviamente, e molti affermarono di avere amici e conoscenti che vi avevano partecipato e incominciarono a raccontarcene le vicende. Conversammo insieme per un bel po', finché gli anziani non si furono convinti che eravamo persone oneste, allora Padraig buttò lì con noncuranza: «Mio zio trascorse qui l'inverno mentre andava in Terra Santa; era un monaco, e viaggiava con una compagnia di
guerrieri norvegesi. Forse qualcuno di voi lo ricorda». I vecchi scossero la testa. No, non se lo ricordavano, ma erano certi che una cosa del genere fosse accaduta. «C'era anche un armaiolo che viveva qui. Fece amicizia con il padre di quest'uomo» continuò Padraig indicandomi. «Mi chiedevo se c'è ancora.» La sua frase suscitò una grande impressione fra i nostri informatori che si accalorarono subito. Non solo quel tale abitava ancora in città, secondo loro, ma produceva anche armi di ogni tipo, destinate esclusivamente ai nobili della regione. «Persino i templari sono venuti fin qui a servirsi da lui» proclamò con orgoglio un vecchietto sdentato. «Sapete, sono preti guerrieri. Vogliono solo il meglio.» Quando poi dichiarammo che per l'appunto eravamo diretti a Marsiglia per raggiungere la flotta dei templari, fummo entusiasticamente informati che una nave dell'Ordine era arrivata da poco per ritirare le armi commissionate l'anno precedente. «Dovevano tornare a Marsiglia e salpare per la Terra Santa tre giorni dopo.» «Quanti giorni fa è accaduto?» chiesi. «Quattro» rispose il vecchio. «Ormai saranno partiti. Se erano gli stessi templari che speravate di trovare, temo che sia troppo tardi, amico.» Si intromise un altro: «Ma dove hai la testa Arnal? I templari solo arrivati solo due giorni fa». «Quattro» ribatté ostinato quello di nome Arnal. «Pensi che non riesca più a distinguere un giorno dall'altro?» «E cosa ci sarebbe di nuovo?» replicò l'amico. «Ti ripeto che i templari erano qui due giorni fa. Anche Charles se lo ricorda.» E, rivolgendosi a un terzo vecchietto, chiese quando fosse partita la nave templare. L'uomo si sporse in avanti, appoggiandosi al bastone. Per un momento spalancò la bocca, poi la richiuse, rifletté ancora poi sentenziò: «Tre giorni fa». «Ecco, vedi?» gridò Arnal trionfante. «Ti avevo detto che non potevano essere due.» «Dove possiamo trovare l'armaiolo?» domandai, interrompendo la discussione. «Forse lui potrebbe dirci qualcosa di più.» Ci spiegarono come arrivare alla bottega di Bezu; li ringraziammo per il prezioso aiuto e andammo a cercarlo. Oltrepassammo il priorato di san Trofimo, dove, come ricordò Padraig, Emlyn e i suoi confratelli avevano trascorso molte cupe giornate invernali a discutere animatamente con i monaci di Arles. Il sole cominciava a tramontare mentre percorrevamo le stradine e i vicoli della città vecchia.
«I vecchietti hanno detto che la bottega di Bezu occupa un'antica guardiola delle mura romane» rifletté Padraig e, indicando un muraglione di pietra che si innalzava oltre i tetti del sottostante, fitto agglomerato di case, annunciò: «Ecco le mura, ed ecco la bottega del nostro fabbro». Si trattava di una costruzione in solida pietra, incorporata nella cinta muraria: era ancora visibile il punto in cui l'antica porta d'accesso alla città era stata chiusa. Del fumo nero usciva da un tozzo comignolo e, dall'interno, risuonava il battere regolare di un martello sull'incudine. Poiché l'uscio basso e largo era aperto, il mio scaltro amico entrò senza esitare e salutò il padrone a gran voce, dicendo che eravamo dei visitatori che desideravano fare la sua conoscenza. Anch'io varcai la soglia e mi trovai davanti un omone largo di spalle, con una folta barba e il viso arrossato dalla barra di ferro incandescente che teneva in mano. Aveva la camicia ridotta a un cencio sudicio, costellato da minuscole bruciature dovute alle scintille e alle schegge di metallo fuso che sprizzavano sotto i colpi del martello. Ci guardò con indifferenza e tornò al suo lavoro. Sentii una punta di delusione. «Siete Bezu?» chiesi, ma quello non rispose. A farlo fu invece un uomo uscito improvvisamente dal buio del retro della fucina: era basso e grassoccio, aveva i capelli completamente bianchi, e il volto liscio congestionato per il calore della fonderia; indossava una lunga veste di stoffa pregiata, stretta in vita da un'ampia cintura di cuoio da cui pendeva una spada elegante e affusolata. Ci guardò con aria gentile e si presentò: «Sono Balthazar di Arles, al vostro servizio, signori». Mi scusai per la nostra intrusione, e gli dissi che stavamo cercando un armaiolo di nome Bezu. «I miei numerosi amici mi chiamano così» dichiarò. «Potete farlo anche voi, se lo desiderate.» «Sono onorato di fare la vostra conoscenza, mastro Bezu» esordì. «Il mio nome è Duncan Murdosson, e questo è il mio amico e compagno fratel Padraig.» «Un uomo che viaggia accompagnato da un monaco deve essere o molto pio» osservò Bezu divertito «o talmente malvagio da aver continuamente bisogno di un confessore.» «C'è una terza possibilità» suggerii. «Che sia un pellegrino.» «Ebbene sì, credo che questa sia la spiegazione più plausibile» ridacchiò Bezu e poi aggiunse: «Mi stavate cercando? Eccomi qui, a vostra disposi-
zione». «Sono venuto per conoscervi e per ringraziarvi» ripetei. «Dite davvero?» chiese. «Sono felice di fare la vostra conoscenza, ma perché mai volete ringraziarmi?» «Una volta, molti anni fa» spiegai «avete dato rifugio per l'inverno a un giovane che, al pari di me, veniva dalle isole del Nord ed era in pellegrinaggio. Si chiamava Murdo.» Gli occhi chiari del vecchio fabbro si persero nel vuoto, mentre la sua mente tornava indietro nel tempo. «Sapete» disse, con un'espressione sempre più concentrata «credo di aver avuto un giovane apprendista con quel nome. Non ci pensavo più da molti anni, ma ora che me ne avete parlato, mi sono ricordato di lui. Be', era solo un ragazzo.» L'armaiolo mi scrutò attentamente, come se si chiedesse se mi aveva già visto da qualche parte. «Del resto, perché vi interessa tanto, amico mio?» Io sorrisi e risposi: «Quel giovane era mio padre». Bezu spalancò gli occhi, mi fissò e scosse la testa, stupito. «Vostro padre?» «Proprio così.» Gli spiegai che Padraig era il nipote di uno dei monaci che viaggiavano con mio padre e che, dal momento che eravamo di passaggio in città, non potevamo perdere l'opportunità di ringraziare il fabbro per la generosità dimostrata tanti anni prima. «Ma non feci nulla di straordinario!» protestò Bezu. «Era affamato e infreddolito. Gli diedi qualcosa da mangiare e un posto per dormire. In cambio mi ha aiutato nel lavoro. E, anzi, io avrei voluto che restasse. Era uno che lavorava bene e, a quei tempi, con la Grande Crociata avevo bisogno dell'aiuto di tre garzoni.» Bezu sorrise e scosse nuovamente il capo, sentendosi piacevolmente stordito. «Amici miei!» esclamò all'improvviso. «Trattenetevi a cena con me, stasera. Dobbiamo festeggiare questo felice incontro. Così mi racconterete che ne è stato del mio apprendista, dall'ultima volta che l'ho visto. Venite! La mia casa non è lontana.» «Niente mi farebbe più piacere che desinare con voi, caro Bezu» risposi «ma viaggiamo in compagnia di altre due persone che ci aspettano al porto.» E gli raccontai che avevamo fretta di raggiungere Marsiglia per unirci alla flotta di templari. «I templari?» commentò Bezu. «Alcuni di loro sono passati di qui. Cosa avete a che fare voi con i Soldati del Tempio?»
Senza dilungarmi troppo, gli spiegai semplicemente che speravamo di trovare un passaggio per la Terra Santa sulle loro navi: «Salperanno da Marsiglia fra un paio di giorni, credo, e dobbiamo raggiungerli prima che partano». L'anziano armaiolo annuì meditabondo, poi, fregandosi le mani, annunciò: «Ma che fortunata coincidenza... davvero fortunata: Potete aiutarmi a risolvere un problema che mi ha assillato fino a ora». «Saremmo ben lieti di soccorrervi» affermai. «Sempre che riusciamo a raggiungere Marsiglia prima che la flotta si metta in viaggio.» «Ma è proprio quello il problema» asserì Bezu. «Come vi ho già detto, i templari sono stati qui due o tre giorni fa. Erano venuti a ritirare le armi che mi avevano ordinato l'anno scorso. Al momento ho altri due fabbri alle mie dipendenze, e siamo occupati giorno e notte per tutto l'anno. L'incudine non cessa mai di risuonare.» Mi appoggiò la mano sul braccio con fare confidenziale e continuò: «Mi hanno chiesto di fabbricare dei pugnali, armi speciali, per i comandanti. Venite, ve li mostrerò». Ci condusse in una stanzetta scavata nelle pietre dell'antico muro romano, indicò un drappo rosso brillante che copriva un oggetto posto al centro della stanza e chiese a Padraig di scostarlo. Il monaco si chinò e lo sollevò, rivelando uno scrigno bordato di ferro. «Apritelo» disse Bezu. «Non è chiuso a chiave.» Padraig spalancò il piccolo forziere foderato di seta rossa: conteneva sei pugnali di squisita fattura con la lama d'argento e l'impugnatura d'oro finemente cesellata, che presentava alle estremità la caratteristica croce templare con un piccolo rubino al centro. «Sono splendidi» commentai. «Non ne ho mai visti di simili.» L'armaiolo estrasse dallo scrigno un pugnale. «Sì, sono molto belli» affermò, tenendolo in equilibrio sulla mano per soppesarlo prima di porgermelo. «Io non lavoro l'oro. Ma ho un amico di lunga data, un orafo senza eguali che si intende anche di cesello. Come me, è oberato di richieste. Quest'anno, oltre tutto, è stato poco bene cosicché, quando sono venuti i templari, i pugnali non erano pronti.» Fece un breve sorriso: «Ho promesso che glieli avrei recapitati in qualche modo, se mi fossero stati consegnati prima della partenza della flotta. Voi state appunto andando a Marsiglia, se acconsentiste a consegnare i pugnali per mio conto, mi risparmiereste un sacco di problemi. Cosa ne dite?». Padraig mi guardò e annuì, esortandomi ad accettare la commissione.
«Benissimo» risposi «saremo onorati di aiutarvi. Lasciate fare a noi, e non preoccupatevene più.» «Ahi» sospirò l'armaiolo soddisfatto. «Mi sento già meglio e ve ne sono grato. E ora» dichiarò strofinandosi le mani «a cena! Venite con me e non preoccupatevi per i vostri amici. Chiederò a un garzone di andare al porto e di avvertirli, così potranno unirsi a noi.» Naturalmente accettammo l'invito con enorme piacere e quella sera consumammo un pasto sontuoso nella luminosa dimora di Bezu che, dall'alto della collina, si affacciava sulla città e sul porto. Era notte inoltrata quando infine ci alzammo da tavola; salutammo il nostro ospite e facemmo ritorno alla barca. Il mattino seguente ci svegliammo tardi e, mentre ci preparavamo a salpare, vedemmo comparire il nostro generoso anfitrione che portava un grande sacco di tela. «Bene, speravo proprio di trovarvi ancora qui. È rimasto tanto cibo dalla cena di ieri, che ho pensato non vi sarebbe dispiaciuto averne un po' per il viaggio.» Subito consegnò il grosso sacco a Sarn che, senza farsi pregare, lo caricò a bordo. «Ho portato un'altra cosa.» Prese una piccola borsa da sotto la cintura e me la lanciò. «È per la consegna dei pugnali. Avrei dovuto comunque pagare qualcuno, perciò tanto vale che li abbiate voi.» Ero sul punto di rifiutare il denaro, quando Padraig scese dalla barca e abbracciò Bezu. «Dio vi benedica, amico mio» disse. «Che la luce celeste possa sempre illuminarvi e che l'Onnipotente vi accolga quando entrerete nel Suo Regno.» Poi si inchinò con deferenza. Bezu, confuso dal gesto di Padraig, arrossì violentemente e, non sapendo cosa dire o fare in risposta, finse che per lui fosse un saluto del tutto normale e si limitò a sorridere. Dopo esserci congedati, mollammo gli ormeggi: l'armaiolo rimase sul molo a guardarci partire. Lo salutammo un'ultima volta con grida e cenni della mano, e poi volsi lo sguardo in direzione di Marsiglia, sperando di arrivare in tempo. Quindici Caitrìona, diletta del mio cuore, dobbiamo essere forti. Il giorno del terrore è vicino: il califfo è tornato. Sono stato informato che mi convocherà presto. Wazim Kadi, il mio amabile carceriere saraceno, mi ha comunicato che devo essere pronto: domani, o dopodomani al massimo, sarò chiamato al cospetto del califfo al-Hafiz per rispondere dei miei crimini.
Ti ho già detto e ti ripeto che non mi illudo su come finirà. Morire, del resto, non mi spaventa affatto. Rimpiango solo di non poterti rivedere, bambina mia. Avevo sperato mi rimanesse il tempo per terminare di scrivere; ma sembra che il nostro Misericordioso Redentore, nella sua suprema saggezza, abbia disposto altrimenti. Rileggo le pagine che ho steso e mi dolgo: avevo tante altre cose da dirti. Non posso immaginare che cosa concluderai da questo racconto, necessariamente frammentario e poco approfondito. Il tempo era contro di me sin da principio, ho già avuto la fortuna di riuscire a vergare le poche pagine che avrai in mano. Ebbene, non c'è dubbio che tutto sia andato come doveva. Non posso che lasciarti quel che mi resta, e cioè il mio immenso amore e questo documento rozzo e incompiuto che, se non altro, ti renderà certa che, nelle mie ultime ore di vita, ho pensato a te, mia diletta figlia. Wazim mi ha assicurato che questa lettera verrà trattata con il massimo riguardo. Ho la promessa del califfo che ti verrà recapitata. E in ciò confido. La parola del califfo è legge. Comunque, ho chiesto al fedele Wazim, qualora dovesse sorgere qualche complicazione, di consegnare il plico ai templari che, in un modo o nell'altro, faranno in modo che tu lo riceva. Così potrò riposare in pace, sicuro che avrai notizie del tuo affezionato padre, anche se dalla tomba. Perché, quando riceverai queste righe, io sarò morto. Devo fermarmi qui. Il mio racconto si interrompe per mancanza di tempo. Ho preparato una seconda lettera per mio padre e mia madre. Se, per un malaugurato caso, non arrivasse insieme alla tua, ti prego di riferire a tuo nonno Murdo che aveva ragione su tutto: la Terra Santa è un regno di demoni e solo i pazzi possono credere di conquistarla. Ma io dovevo tentare. Addio, amore mio, mia luce. Prego il Re dei Re di circondarti di angeli radiosi per tutti i giorni della tua vita. Addio... LIBRO II
11 novembre 1901. Pafos, Cipro Nei giorni e nelle settimane successive alla fatidica riunione del Cerchio Interno, avevo deciso di informarmi sui cruciali avvenimenti che si stavano verificando nel mondo. Ispirato, per non dire allarmato dall'importanza vitale del compito che dovevamo affrontare, mi ero impegnato a emulare l'esempio dei miei compagni documentandomi il più possibile sulla situazione politica e sociale dell'Europa e dell'Occidente, pensando che una profonda comprensione dei fatti mi sarebbe stata d'aiuto nella battaglia imminente. Ma i Sette avevano altri piani per me, come avrei scoperto in un piovoso pomeriggio di inizio primavera. Un gelido vento invernale soffiava dal mare del Nord e si insinuava tra gli infissi delle finestre, facendo tremolare la lampada sospesa sulla mia scrivania. Era quasi l'ora di chiusura e non mi allettava affatto l'idea di dover affrontare il maltempo per far ritorno a casa. Sentii dei passi che si avvicinavano al mio ufficio, e subito dopo un rapido bussare alla porta. «Avanti» dissi, sollevando lo sguardo mentre l'uscio si apriva. Con mia grande sorpresa si trattava di Pemberton, accompagnato da Zaccaria. Balzai immediatamente in piedi, perché mai un affiliato della Confraternita si era presentato nel mio ufficio, e ora ce n'erano addirittura due. «Benvenuti, signori. Entrate» dissi, facendomi avanti con premura per liberarli dai cappelli e dai cappotti gocciolanti. «Che tempo da lupi. Accomodatevi, vi prego, e sedetevi accanto al fuoco. Vi asciugherete in men che non si dica.» «Grazie, Gordon» salutò Pemberton con tono cordiale. «Spero vorrete perdonare la nostra intrusione.» «Ma cosa dite? Quale intrusione?» replicai, avvicinando due poltrone al caminetto dove, dietro la grata parafiamme, ardevano le braci rosse e lucenti. «È anzi un gradevole intermezzo alla monotonia che, in uno studio legale, passa per diligente operosità.» «Siete molto gentile» disse Zaccaria, sedendosi con un sospiro sulla poltrona che gli veniva offerta e tamponandosi il viso bagnato con un fazzoletto. Spostai la mia sedia da dietro la scrivania e, dopo un attimo di imbarazzo, intendendo mostrarmi gentile con i miei visitatori, chiesi: «Posso offrirvi qualcosa per riscaldarvi, un po' di brandy, forse?». «Splendido» rispose Pemberton, strofinandosi le mani per riscaldarle. «È proprio quello che ci vuole.»
Mi avvicinai al vassoio pieno di bottiglie appoggiato sullo stipo, riempii tre bicchieri da cognac del discreto brandy in dotazione all'ufficio e li porsi ai miei ospiti. «Salute!» brindò Pemberton, sollevando il bicchiere. Sorseggiammo il brandy, e io restai seduto aspettando che mi rivelassero la ragione della visita. «Certamente ricorderete che, l'ultima volta che ci siamo incontrati, è stata fatta menzione degli... degli "imperativi" ai quali ci troviamo di fronte» esordì Pemberton, cercando una posizione più comoda sulla poltrona. Strinse il bicchiere panciuto fra le lunghe dita, facendo muovere l'aromatico liquore ambrato. «Sì, certo» risposi. Le tristi congetture espresse in quella riunione continuavano a occupare i miei pensieri. «Se non sbaglio, all'università avete seguito studi classici» intervenne all'improvviso Zaccaria. Si tratta di un ometto energico e robusto con la carnagione olivastra, che brucia di una vitalità che a malapena riesce a contenere, spesso scambiata erroneamente per superficialità. «Be', sì» ammisi, non senza cautela, perplesso sulla pertinenza dell'argomento «poiché lo fate rilevare, non posso che rispondervi affermativamente. È passato talmente tanto tempo, che quasi non ricordo più.» «Studiavate anche storia, giusto?» «Spero che non abbiate sprecato troppo tempo a fare ricerche sull'annuario dei migliori laureati del mio corso. Temo che il mio curriculum accademico non sia una lettura molto coinvolgente.» Zaccaria sorrise, ma assentì: «Quanto meno, avete dimostrato una simpatia per l'antichità che è raro trovare di questi tempi. Siete da elogiare». «Avrete studiato il latino» intervenne Pemberton. «Vi piaceva?» «In un certo senso sì. Il mio professore era un ampolloso manico di scopa soggetto a crisi di distrazione. Ma non è giusto addossare a lui tutta la colpa; se mi fossi applicato un po' di più, avrei potuto fare una riuscita migliore. Comunque Virgilio, Cicerone e Giulio Cesare mi sono stati accanto nella buona e nella cattiva sorte. E poi, esercitando la professione legale, ho l'occasione di fare qualche citazione di quando in quando.» «E il greco?» «Ah, no» risposi. «Il greco non è mai stato uno dei miei punti forti. Dopo un iniziale momento di passione, ho abbandonato completamente l'impresa. Euripide mi ha quasi ucciso. Ho imparato quel che dovevo per cavarmela, ma giusto il minimo.» «L'avevo immaginato» commentò Zaccaria, con una tale intonazione da
farmi pensare che nutrisse gravi sospetti sull'onestà della mia famiglia o sul mio patriottismo. «Allora cominceremo da lì» dichiarò Pemberton. Finì il suo brandy e appoggiò il bicchiere. «Abbiamo pensato che è giunto il momento in cui prendiate più familiarità con il vostro, per così dire, retaggio.» «Il mio retaggio greco?» chiesi. «Non ero al corrente di averne uno.» «Oh, è sempre una sorpresa» ribatté Pemberton con un sorriso. «Non avete idea di quali segreti escano dai vecchi armadi di famiglia.» «Credo che sia più esatto parlare di retaggio linguistico» precisò Zaccaria. «Mi incuriosite» affermai. «Continuate, vi prego.» «Le isole greche sono incantevoli. Ci siete mai stato?» «Solo attraverso Omero.» «Un'introduzione eccellente, non c'è dubbio, ma, a mio parere, una quisquilia a paragone della realtà.» Pemberton si chinò in avanti con espressione franca: «Dobbiamo proporvi una sfida, Gordon. Volete conoscerla?». «Certamente.» Posai il bicchiere e dedicai al mio interlocutore tutta la mia attenzione. Immaginavo che quella visita fosse dovuta al nuovo ordine che il Cerchio Interno intendeva instaurare e, conscio dell'importanza del progetto, mi preparai ad ascoltare ciò che di lì a breve mi sarebbe stato rivelato. «Vogliamo che apprendiate il greco.» «Il greco!» la proposta mi fece scoppiare in una risata. Considerando il clima apocalittico verso cui si stava incamminando il mondo, mi ero aspettato un compito più nobile, e più pericoloso. «Nientemeno! Pensate che sarò all'altezza?» «Ritengo che sarete più che all'altezza» rispose Zaccaria solennemente. «Posso chiedere perché desiderate che impari il greco?» «La ragione, al momento, non deve preoccuparvi» disse Pemberton, cercando di sorvolare. «Vi basti sapere che di recente si è presentata un'occasione che desideriamo voi sfruttiate al massimo. Per farlo, è necessario che abbiate una buona conoscenza del greco, antico e moderno.» Li fissai, prima l'uno e poi l'altro: sembravano seri. Anzi, Pemberton mi guardava con una tale intensità che cominciai a pensare che la sua proposta fosse ben più importante di quanto sembrava. Il solo modo per saperne di più, capii, consisteva nell'accettare ciò che mi veniva proposto. Oltretutto, non avevo alcuna intenzione di rifiutare il primo, vero incarico che mi ve-
niva conferito in quanto affiliato del Cerchio Interno. Avrei detto di sì in ogni caso, almeno per vedere cosa sarebbe successo. «Ebbene, perché no?» risposi. «Accetto. Se la fortuna mi assiste, riuscirò a parlare come un madrelingua nel minor tempo possibile.» «È appunto il tempo che avrete» commentò Pemberton seccamente. «Come?» «Potrete studiare da ora sino alla fine di settembre» disse. «Santo cielo!» esclamai, facendo un rapido conto sulle dita. «Ma sono meno di sei mesi.» «Se dipendesse da me, vi darei tutto il tempo che desiderate. Purtroppo, non possiamo più concederci un tale lusso.» «Adesso capisco perché l'avete definita una sfida.» Avevo immaginato che sarei stato chiamato a compiere imprese nobili e gloriose per rispondere al vibrante appello che avevo udito tanto chiaramente durante l'ultima riunione dei Sette. Mi ero illuso che, quando sarebbe giunto il mio turno di servire la causa, mi sarei dedicato a un compito ben più appassionante e prestigioso di quello di riempirmi la testa con la sintassi del greco antico. A dire la verità, ero leggermente deluso. All'acuto Pemberton non sfuggì il mio disappunto. «È importante, Gordon» mormorò «vitale, o non ve lo avrei chiesto. Inoltre, ciò che imparerete vi sarà molto utile. Ve lo prometto.» «È vero» concordò Zaccaria. «Quindi» proseguì, infilando una mano in tasca e prendendo un biglietto di visita «mi sono preso la libertà di dare il vostro nome a un mio conoscente. Si chiama Rossides ed è uno studioso di prim'ordine.» Mi porse il biglietto. «Vive a Lothian Street, vicino all'università.» Presi il cartoncino e lessi il nome ad alta voce: «M. Rossides, dottore in filosofia». Era scritto sia in latino che in inglese. «Pensate che sarà disposto a prendere uno studente con la mia scarsa predisposizione e le mie modeste qualifiche?» «Oh, certo» mi rassicurò Zaccaria serio. «Ha guidato molti emuli di Ulisse tra le Scilla e Cariddi degli spiriti aspri e delle forme duali. Se c'è qualcuno che può prepararvi in tempo, è lui.» Allungò la mano e picchiò con l'indice sul biglietto: «Rimetterà in sesto anche il vostro latino». «Allora mi recherò da lui alla prima occasione. Gli manderò il mio biglietto da visita e organizzerò un incontro per la prossima settimana.» «Vi aspetta domani» mi informò Zaccaria «alle sei in punto. Cercate di non arrivare in ritardo. Il buon professore esige che i suoi studenti siano
puntuali.» Simile a una premonizione, l'orologio del corridoio batté l'ora e i miei due ospiti si alzarono per andarsene. «Immagino che sarete ansioso di tornare a casa» disse Pemberton. «Portate alla cara Caitlin i miei omaggi e riferitele che sarebbe una buona idea se per quest'autunno non prendesse impegni.» Sorrise, crogiolandosi nel suo piccolo mistero. «Ho la sensazione che voi due trascorrerete qualche tempo in un clima più soleggiato.» Sedici Ho visto il califfo. Sia lode a Gesù Cristo, sono ancora in vita; sotto pena di morte imminente, è vero, ma, a quanto pare, mi è stato concesso un altro giorno. Infatti, dopo una brevissima udienza, sono stato ricondotto nelle mie stanze a pregare per la salvezza della mia anima. Poiché non ho ragione di dubitare della mia redenzione, userò questo tempo per raccontarvi ancora un po' della mia storia, così che tu, mia cara Cait, possa trarne insegnamento. Ho riletto le pagine scritte ieri e non ne cambierei neanche un rigo. È accaduto tutto come avevo previsto: poco dopo mezzogiorno, Wazim è entrato nella mia stanza. «Da'ounk» ha detto, facendo un profondo inchino «l'ora è giunta. Sua signoria il califfo Muhammad Ibn al-Hafiz, protettore dei fedeli e sovrano del Cairo, ha ordinato che siate condotto al suo cospetto per rispondere dei vostri misfatti.» È così che si esprimono. "Da'ounk" è ciò che di più simile al suono del mio nome il piccolo carceriere saraceno è riuscito a riprodurre. In quanto al termine "ora", esso piace molto alle tribù arabe, in special modo agli egiziani: non è facile spiegare cosa significa, ma se dividi in quarti la giornata, dall'alba al tramonto, e poi dividi ogni quarto per tre, avrai suddiviso il giorno in dodici parti. Ciascuna parte viene chiamata "ora", e ce ne sono dodici anche per la notte, tutte con un appellativo diverso, che però non conosco. I filosofi arabi impiegano vari metodi per contare queste ore nell'arco della giornata; e anche se la ragione per cui lo fanno mi sfugge, il calcolo li tiene assai occupati. Naturalmente Wazim intendeva solo dire che era arrivato il momento del giudizio. Gli uomini che lo accompagnavano erano vestiti con la sgargiante uniforme delle guardie di corte: brache e giubbe gialle, corte tuniche rosse aperte sul davanti e grandi turbanti, che sono una specie di elmo fatto
di lunghe strisce di stoffa arrotolate più volte intorno alla testa nel modo più ingegnoso che si possa immaginare. Impugnavano la spada ricurva tipica dei saraceni, infilata nella fusciacca di tessuto stretta in vita che gli arabi usano come cintura. Avevano anche lunghe picche dal largo puntale ed eleganti pugnali ricurvi, chiusi in foderi tempestati di pietre preziose, che portavano appesi a pesanti collane d'oro. Quando mi alzai in piedi, Wazim si inchinò profondamente e fece un passo in avanti. Avevo deciso ormai da tempo di non discutere mai con i miei carcerieri e di non cercare di difendere i miei atti, ma di accettare il mio destino con serenità qualunque cosa mi fosse accaduta. Vedendomi calmo e pacato, le guardie non mi toccarono neanche con un dito e mi permisero di giungere alla presenza del califfo a testa alta e di mia volontà. Fui condotto in un'ala del palazzo che non avevo mai visitato, con corridoi più larghi e stanze più sfarzose di quelle che mi era stato concesso di vedere sino a quel momento; una profusione di oro risplendeva negli arredi, nelle suppellettili e persino nelle stoffe che ricoprivano pareti e pavimenti. Le travi del soffitto erano di cedro levigato e le enormi porte di un legno durissimo chiamato ebano, nero e lucido come l'onice. La sala del trono era più grande di qualunque salone per banchetti usato in Occidente. Wazim mi ha raccontato che una volta, durante le celebrazioni per il compleanno del precedente califfo, cinquanta uomini a cavallo vi misero in scena una battaglia, per il divertimento di centinaia di invitati. Non mi è stato difficile credergli, perché il salone era davvero smisurato. Al centro, sotto un albero di palma, alla cui ombra era stato eretto un baldacchino simile a una tenda, si trovava il trono del Cairo, in oro massiccio. E lì assiso c'era Hafiz in persona che mi fissava con occhi duri come schegge di ossidiana. Circondato da schiere di servitori, di scribi e di funzionari di corte di vario genere, quasi tutti seduti su enormi cuscini imbottiti appoggiati al pavimento di marmo lucido, il califfo del Cairo era molto più piccolo di quanto mi fossi aspettato e aveva il colorito e l'aspetto di chi ha trascorso la giovinezza sotto il sole cocente del deserto. Aveva la pelle profondamente rugosa, simile al cuoio consunto, e i capelli folti e completamente grigi. Come molti musulmani osservanti, aveva la barba lunga e divisa in due ciuffi fermati in qualche modo dal turbante. Inoltre, fatta eccezione per il copricapo, bianchissimo e lucente come la neve fresca sotto il sole, ornato al centro da un enorme rubino rosso sangue, circondato da punte di piume di pavone turchesi incastonate nell'oro, era vestito come un sempli-
ce mercante o un uomo del popolo. I suoi abiti, puliti e ben tagliati, erano di stoffa semplice e resistente. Sedeva a gambe incrociate su un grande cuscino appoggiato sul trono, e sembrava che fosse nella tenda di un accampamento nel deserto. Aggrottò la fronte quando mi vide, e seppi che la mia condanna era decisa. Comunque feci un profondo inchino quando Wazim mi presentò e, come saluto, pronunciai le poche parole di arabo che il mio carceriere mi aveva insegnato: «Eccellentissimo e magnifico califfo, possa l'Unico Dio Creatore di tutti gli uomini conservarvi per sempre. Sono profondamente onorato di incontrare il mio signore e padrone, la cui cortesia e generosità mi hanno sostentato tanto a lungo». Anche se le parole erano di Wazim, le avevo pronunciate con sincerità. Gli ero davvero grato: la clemente prigionia sotto il suo tetto sarebbe potuta facilmente essere ben peggiore. Il califfo sì accigliò ancor di più, ma ora sembrava costernato. Non rispose nulla e cominciò a tirarsi i lunghi baffi grigi, guardandomi con gli occhi socchiusi. «Poiché siete un uomo colto» disse in buon latino «parliamo senza intermediari.» Fui enormemente rincuorato, perché ogni volta che un musulmano, sia esso saraceno, selgiuchide, turco o egiziano, decide di parlare nella tua lingua, puoi ritenerti fortunato. Comunque, non lasciai trasparire la mia soddisfazione né nel mio contegno né nelle mie parole, poiché sarebbe stato irrispettoso: «Come desiderate, mio signore» risposi imperturbabile. Mi osservò in silenzio per un tempo che mi parve lunghissimo, poi constatò: «È stato il califfo di Baghdad a mandarvi da me». «Ciò risponde a verità, mio signore. Egli ha senza dubbio ritenuto che sarei stato un utile ornamento della vostra nobile corte.» Al-Hafiz grugnì davanti al mio tentativo di essere spiritoso. «Come vi chiamate?» «Lord Duncan, di Caithness, in Scozia. Sono in pellegrinaggio, mio signore, e soggiornavo ad Anazarbus quando fu attaccata dall'emiro Ghazi. Fui catturato e fatto prigioniero dai selgiuchidi.» «Il califfo al-Mutarshid sostiene che siete una spia e un traditore dell'Islam. Vi ha condannato a morte.» Poi fece un gesto con la mano per congedarmi e aggiunse: «Non vedo alcuna ragione per mutare la sua decisione». Rivolto alle guardie, ordinò: «Dovrà essere giustiziato immediatamente. Portatelo via».
Mentre le guardie si facevano avanti e mi afferravano le braccia, alHafiz chiese: «Non avete nulla da dire?». Affidandomi alla mano sempre tesa di Cristo, risposi: «No, mio signore. Tutto andrà come il Re dei Re ha decretato». Le guardie mi fecero voltare e mi condussero fuori dalla sala. Wazim, che ci seguiva con passo silenzioso, mi bisbigliava addolorato qualche parola di consolazione. Non gli prestavo alcuna attenzione, perché stavo chiamando a raccolta tutto il mio coraggio per affrontare la scure del boia. Giungemmo alle grandi porte di ebano e ci fermammo, in attesa che i due guardiani vestiti di blu le aprissero. Dal trono, il califfo mi gridò: «Infedele, di chi stavate parlando?». Le guardie si fermarono e mi costrinsero a voltarmi per guardarlo in faccia. «Come, mio signore?» Sollevando una mano, il califfo fece segnò alle guardie di portarmi di nuovo davanti a lui. «Avete appena parlato del Re dei Re. A chi vi riferivate?» «Mi riferivo a Dio, il Signore del Cielo e della Terra, l'Artefice dei destini, l'Architetto dei tempi, il Difensore dei fedeli.» Sono gli appellativi con cui i musulmani chiamano l'Onnipotente, ma anche un cristiano può usarli senza venir meno alla propria fede. Gli occhi scuri del califfo si strinsero come fessure, non saprei dire se per ira o per diffidenza. «C'è un solo Dio» dichiarò, puntando un lungo dito verso l'alto. «Allah è uno.» «Così è, mio signore» ammisi, chinando la testa in segno di deferenza. «Non c'è altro Dio che il Solo Dio.» Il cipiglio ricomparve sul suo viso scuro e rugoso. «Cosa sapete voi di queste cose?» «Molto poco, mio signore. Sono soltanto un umile pellegrino...» «Così affermate» mi interruppe incollerito. «Ma, sospetto, non così umile come vorreste far credere.» Si piegò in avanti, accigliato, con il mento appoggiato sulla mano e mi lanciò uno sguardo torvo, come se stesse decidendo cosa fare di me. Infine, mi chiese: «Negate forse di essere un cristiano?». «No, mio signore» risposi. «Sono cristiano. Ma, con vostra licenza, vorrei farvi notare che non ho niente a che fare né con Roma né con Bisanzio. Nessun papa e nessun imperatore hanno autorità su di me.» La mia affermazione lo sorprese e, stranamente, lo rallegrò: era come se avesse subodorato fin dall'inizio che c'era qualcosa di curioso in me; e i
suoi sospetti venivano confermati. Il cipiglio svanì all'improvviso, e il califfo mi guardò con un'espressione di cauto interesse. «Dunque siete un armeno. Li conosciamo.» «Vi domando perdono, eccellentissimo califfo» risposi «ma non sono neanche un armeno.» «No?» chiese. «E che cristiano siete, allora? Ditemelo subito.» «Mio signore, sono un Célé Dé» spiegai. «Siamo una setta poco conosciuta, un tempo assai potente ma ormai ridotta a pochi fedeli. Mentre un tempo governavamo l'intera Britannia, ora siamo confinati in un piccolo regno dell'estremo nord.» Per qualche ragione, le mie parole sembrarono compiacerlo enormemente. «Ho sentito parlare di questa Pritania.» ribatté. «È molto lontana da Roma e da Bisanzio?» «Sì, mio signore. Lontana come l'Oriente dall'Occidente, e con tre mari in mezzo.» Il califfo si agitò con impazienza sul cuscino. «Poiché siete un cristiano particolarmente devoto» dichiarò «vi concederò un giorno per mettervi in pace con Dio prima di comparire al suo cospetto per essere giudicato.» «Vi ringrazio, mio signore» risposi, inchinandomi con riconoscenza alla sua generosità. Fece di nuovo segno alle guardie che mi condussero fuori dalla sala e poi nelle mie stanze, da dove ti scrivo di questi avvenimenti. Anche se sono grato per il breve rinvio, non riesco a immaginare cosa possa far presagire. Sia come sia, mi è stato dato un ultimo giorno. Potrei sperare in qualcosa di più? Prego che la mano del boia mi risparmi ancora per il tuo bene, Cait. Nell'attesa, non posso pensare a niente di meglio che proseguire con il mio racconto; e lo farò immediatamente. Marsiglia è una vivace città di mare, fervida di attività. Ospita almeno cinque cantieri navali dai quali si alza un frastuono da svegliare i morti, dall'alba a dopo il tramonto. Metà della città e della campagna circostante lavora per gli armatori, l'altra metà si guadagna da vivere fornendo viveri e merci di ogni genere al porto e alle banchine. Il porto è ben protetto, largo e profondo; e fu là che trovammo gli ultimi templari che si preparavano a salpare. Il grosso della flotta, quarantadue navi in tutto, era già partito, ma diciotto erano rimaste in porto per caricare le provviste che non erano state pre-
parate in tempo. Diedi ordine a Sarn di attraccare lì vicino e poi Padraig e io andammo a cercare il cavaliere con cui avevamo parlato a Rouen. «Pax vobiscum» salutai, avvicinandomi al primo monaco soldato che incontrammo. «Dio vi sia propizio, amico. Stavamo cercando un vostro confratello.» Gli spiegai che dovevamo incontrare un membro del suo Ordine proprio in quella città: lo sconosciuto ci domandò come si chiamasse e io glielo dissi. «Bracineaux?» ripeté il templare, squadrandoci da capo a piedi. «Renaud di Bracineaux, ne siete certo? Se si tratta di lui, siete davvero fortunati. Sarebbe dovuto partire con le prime navi, ma è stato trattenuto. È ancora qui.» Ci rivelò che Renaud, come tutti gli altri comandanti dell'Ordine, stava partecipando a una riunione con il Gran Maestro per discutere i problemi sortì mentre si trovavano nel paese. «Dovrebbe tornare non appena il consiglio si sarà concluso, forse domani o dopo. Poi andrà in Terra Santa.» Lo ringraziammo per il suo aiuto, poi ritornammo alla barca e ci accingemmo ad attendere. Rupen aveva deciso di chiedere un passaggio su una nave diretta a oriente: senza denaro non aveva alcuna possibilità di pagarsi il viaggio come aveva progettato, e il pensiero che avrebbe dovuto umiliarsi a supplicare lo rendeva irritabile e di pessimo umore. Oltre tutto, anche se non si era mai espresso negativamente a proposito dei templari, era facile intuire che non gli andavano a genio. Ne accennai a Padraig, che mi rivelò di aver notato anche lui che il giovane principe diventava nervoso ogni volta che si menzionavano i monaci guerrieri. Anche Sarn era triste: ora che avevamo raggiunto la nostra destinazione, sapeva che lo avrei rimandato a casa, mentre lui avrebbe voluto proseguire con noi sino a Gerusalemme. Ovviamente non potevo permetterlo, ma, considerati i rischi del viaggio, non potevo neppure mandarlo a casa da solo. Per tutto il resto della giornata cercammo una soluzione ai nostri problemi, e discutemmo aspramente senza trovarla. Sarn non riusciva a capacitarsi del perché, essendosi spinto tanto lontano, non potesse proseguire il viaggio. «Avrete bisogno di un servitore fidato, in Terra Santa» continuava a ripetere. Al che rispondevo: «Mio padre ha bisogno di servitori fidati in Scozia. E inoltre gli serve la barca». «Mi mandereste indietro da solo?» ribatteva senza darsi per vinto, in tono risentito.
«Credimi, vorrei poter scegliere, ma non possiamo fare altro: devi tornare a casa.» Il giorno dopo, un giovane templare venne al molo e ci riferì che Renaud di Bracineaux era stato informato della nostra presenza e che stava aspettando di incontrarci. Padraig e io prendemmo lo scrigno con i pugnali di Bezu e seguimmo il messaggero sino alla lunga fila delle navi dei templari. Qui, attraversata la passerella d'imbarco, fummo condotti sul ponte dell'imbarcazione più grande su cui avessi mai messo piede in vita mia. Renaud ci aspettava accanto all'albero di maestra ed era impegnato a dirigere le operazioni di carico delle provviste, che venivano accatastate sul vasto ponte di coperta. Quando udì l'annuncio del nostro arrivo, si voltò esclamando affabilmente: «Eccovi dunque! Alla fine siete riusciti a trovarmi. Sono felice di vedervi, amici miei». Ci posò le mani sulle spalle e aggiunse: «Siete pronti a pronunciare il giuramento per entrare nel nostro Ordine?». «Niente mi farebbe più piacere» risposi. «Ma, come vi ho detto, sono già legato da un giuramento e non posso farne un altro.» Renaud accolse amabilmente le mie parole. «Mi rammarica sentirlo. Ma ciò nonostante siete venuto. Perché?» «Siamo in pellegrinaggio per la Terra Santa» risposi, indicando Padraig «e avevamo sperato di ottenere un passaggio.» «Capisco» annuì, con una certa freddezza. «Avrei dovuto immaginarlo. Purtroppo, temo di dovervi deludere. Sulle nostre navi c'è posto soltanto per i nostri fratelli e per coloro che hanno rapporti ufficiali con l'Ordine.» Ci rivolse un sorriso sconsolato: «Ahimè, a quanto pare avete fatto tutta questa strada per niente. Mi dispiace». Poi si congedò senza alcuna cordialità: «E ora dovete scusarmi. Come potete vedere, ci stiamo preparando a salpare. C'è bisogno di me altrove». Mortificato, rimasi per un secondo interdetto, riflettendo sul da farsi. Allora Padraig mi porse lo scrigno. Richiamai immediatamente Renaud: «Siete stato molto cortese con noi, e non intendiamo trattenervi oltre, ma il mio compagno mi ha rammentato che abbiamo qualcosa che vi appartiene». «Ne dubito» rispose, pronto ad allontanarsi. «Per conto di Balthazar di Arles» dissi, alzando leggermente la voce. Il templare si voltò di colpo: «L'armaiolo?» chiese, fermandosi a riflettere per un momento. «Proprio lui» continuai. «Dovreste ricordarlo: avete comprato da lui un
carico di armi.» «È vero» ammise con circospezione «ma non vedo proprio come questo particolare possa riguardarvi.» Gli spiegai che, a Marsiglia, il nostro amico armaiolo ci aveva consegnato un forziere contenente sei preziosi pugnali con l'impugnatura d'oro. Aprii lo scrigno per fargli verificare il contenuto. «Non erano pronti quando siete andati a ritirare le altre armi, e Bezu ci ha chiesto di consegnarveli.» Glieli diedi. «Ora che l'abbiamo fatto vi lasceremo in pace.» Il templare si incupì di nuovo, si voltò e chiamò un cavaliere che si trovava sull'altra fiancata della nave. I due parlottarono fra loro, poi Bracineaux disse: «È vero che nel carico mancavano i pugnali. Vi devo molti ringraziamenti per avermeli consegnati e vi pagherò il disturbo, poiché anch'io sono un uomo onesto». «L'ha già fatto Bezu» ribattei. «Non ci dovete niente.» Il templare annuì, rivolgendo a Padraig e a me uno sguardo che mi parve di rammarico. «Siete sicuro che non possiamo convincervi a entrare nei nostri ranghi?» «Sarei tentato di prendere in considerazione l'offerta» risposi «se poteste accogliere a bordo tre pellegrini diretti in Terra Santa.» «Tre?» ripeté Bracineaux. «Vi moltiplicate come conigli. Un momento fa eravate solo due.» «C'è una terza persona con noi» replicai «un giovane e nobile armeno che si chiama Rupen.» Nell'udire quel nome, il suo interesse si destò con stupefacente rapidità: «Conosco solo una famiglia nobile, in Armenia» commentò «quella di re Leone. È forse la sua?». «Già» risposi. «Ho promesso di aiutarlo a far ritorno a casa.» «Dovete assolutamente venire con noi» esclamò Bracineaux all'improvviso. «A bordo c'è posto per persone del vostro rango: sarete i benvenuti e vi metteremo a disposizione tutte le comodità che potremo. Fate pure i preparativi che ritenete necessari, salperemo domattina all'alba.» Lo ringraziai e poi Padraig e io ci incamminammo verso il molo dove ci aspettavano Sarn e Rupen. Lungo la strada, mi accorsi che Padraig mi osservava con un'espressione acida, come se avesse inghiottito dell'aceto. «Cosa c'è?» chiesi, fermandomi sui miei passi. «Cosa c'è che non va, adesso?» «Hai detto al templare di aver fatto un giuramento» cominciò «e che per questo non puoi prendere i voti del Tempio.»
«Sì» ammisi. «E allora?» «Non me ne hai mai parlato.» «Pensi che gli abbia mentito, non è così?» «L'hai fatto?» «No. Ho fatto un voto personale.» Incrociò le lunghe braccia sul petto e mi guardò con sospetto: «Come tuo amico e compagno, penso che dovrei essere a conoscenza di questo voto». Mi rimisi a camminare: «Non ti riguarda». «Duncan!» esclamò secco. Padraig alza la voce così di rado che a volte dimentico di quanto possa essere testardo. «Tutto ciò che riguarda il pellegrinaggio riguarda anche me. Voglio che tu mi metta al corrente del voto che dici di aver fatto.» «Te ne parlerò quando lo riterrò opportuno» risposi senza voltarmi e continuando a camminare in modo da troncare la conversazione. Raggiungemmo rapidamente Sarn e Rupen, che erano in attesa di sentire com'era andata con i templari. Rupen non fu per nulla soddisfatto delle novità: borbottò qualche parola di ringraziamento e andò a vedere se riusciva a procurarsi notizie del suo paese dai marinai e dai mercanti del porto. Sarn mi fissò addolorato e divenne improvvisamente scontroso e taciturno, ma non proferì parola. Intanto, Padraig e io ci mettemmo alla ricerca di compagni adatti a riaccompagnarlo in Britannia. Alla fine Padraig trovò un pellegrino di nome Robert Tookes che, essendo stato gravemente ferito da una freccia selgiuchide in Terra Santa, stava facendo ritorno alle isole britanniche in compagnia dell'anziano padre. I due erano arrivati a Marsiglia tre giorni prima, a bordo di una nave da carico veneziana proveniente da Giaffa, e ora stavano cercando un passaggio per l'Inghilterra. Padraig li incontrò nella piccola cappella usata da marinai e naviganti. Si era fermato lì per la preghiera di mezzogiorno e li aveva visti all'uscita. Li aveva sentiti parlare fra loro e, riconosciuta la loro lingua, si era fermato a chiedere dove fossero diretti. Saputa la loro destinazione, li aveva condotti alla barca. Anche se Sarn fece del suo meglio per scoraggiarli, lanciando loro sguardi torvi e aggrottando la fronte, come se si stesse parlando di salpare per i confini del mondo con il Diavolo e suo fratello, i due furono cortesi e ben disposti. Ci mettemmo subito d'accordo: avrebbero pagato i rifornimenti e Sarn li avrebbe portati a Inbhir Ness, dove avrebbero facilmente
trovato una barca diretta a sud. Alla fine Robert Tookes mi strinse la mano in segno d'amicizia: «Mio padre e io vi siamo molto grati» disse. «Non preoccupatevi né per il marinaio né per la barca: Dio mi sia testimone che li riporteremo a casa sani e salvi.» Chiedemmo loro di tornare con i bagagli alle prime luci dell'alba, e i due si allontanarono per procurarsi le provviste e prepararsi per il viaggio. Ormai tutto si stava sistemando, e prevedevo una traversata serena e piacevole. Soddisfatto di me stesso, mi sdraiai e feci un ben meritato sonno, nonostante i borbottii e il rumoroso andirivieni di Sarn. Diciassette Rupen fece ritorno poco dopo il tramonto e cenammo tutti insieme. «Nessuno, in questa palude infestata di zanzare, ha mai sentito parlare di Anazarbus» si lamentò, deluso per non essere riuscito ad avere notizie della sua patria. Il giovane armeno e il marinaio norvegese, seduti l'uno accanto all'altro, offrivano un insieme talmente sconsolato che Padraig e io preferimmo ignorarli. Parlammo svogliatamente di argomenti senza importanza mentre pian piano attorno a noi calava la notte. Il silenzio scese sul porto, e restammo a osservare le rondini che sfioravano l'acqua mentre la luna sorgeva. Ero sdraiato al mio posto e pensavo che era una notte per guardare le stelle, quando Padraig mi disse: «Credo che una preghiera prima di dormire ci aiuterebbe per il viaggio di domani». Si alzò: «Vieni, la cappella non è lontana». «Possiamo benissimo dire le nostre preghiere qui» osservai, non avendo alcuna voglia di lasciare il porto. «La cappella è meglio» insistette scendendo velocemente dalla barca. «Venite anche voi, Rupen.» Mi alzai lentamente e lo seguii, mentre il principe declinava l'offerta, affermando che sarebbe rimasto con Sarn a sorvegliare la barca. Raggiunsi il monaco dalle lunghe gambe mentre attraversava lo spiazzo deserto che si trovava di fronte al molo. «Ti piacerà la cappella, Duncan» disse mentre mi mettevo al suo fianco. «C'è una scultura piuttosto insolita.» Mi condusse a una piccola costruzione quadrata in pietra. La luce filtrava dalle finestrelle ai lati di un portale di legno ad arco, chiuso da un chiavistello di ferro che si sollevò facilmente. Padraig aprì la porta: all'interno
c'erano due candele accese ai lati di un semplice altare di legno sopra il quale si ergeva la scultura a cui il monaco aveva accennato. Le candele erano di cattiva qualità ed emanavano un fumo nero che puzzava di peli bruciati; contribuivano a malapena ad attenuare il buio ma, essendo la stanza completamente vuota, potemmo avvicinarci all'altare per guardare la scultura più da vicino: era una Madonna con il bimbo stretto fra le braccia. Un'aureola d'oro circondava il capo delle due figure, il cui corpo era scolpito in un blocco di legno molto scuro. A parte questo, si trattava di un'opera che si sarebbe potuta trovare in qualunque chiesa. «Cosa noti?» chiese Padraig. «Lo scultore era piuttosto bravo. Ma, a parte questo, non ci trovo nulla di strano.» «Sono neri» constatò il monaco. «Certo, il legno è nero» ammisi. «No» ribatté. «Guarda più da vicino.» Feci come mi aveva detto e accostai il viso alla scultura. Le due figure erano state rese con grande abilità. Il bimbo sollevava una manina verso il volto solenne della madre, e lei guardava con serena consapevolezza il mondo che avrebbe insultato e crocifisso suo figlio. Fatta eccezione per l'espressione grave, quasi dolente, del viso della madre, non vidi assolutamente niente di insolito. «C'è un mistero di cui dovrei accorgermi?» chiesi. «Sono neri» ripeté Padraig. «Sì, questo lo abbiamo stabilito: sono neri...» «Ma il legno non è nero: sono stati dipinti di nero.» Guardai di nuovo, più da vicino, e mi accorsi che aveva ragione. Vicino alla base alcuni graffi sulla vernice rivelavano il colore più chiaro del legno sottostante. «Che strano» osservai, sfiorando con il dito il legno colorato. «Perché mai qualcuno li ha dipinti? Pensava forse che la madre di Gesù fosse etiope?» «Viene chiamata la Madonna Nera» annunciò una voce dalla porta alle nostre spalle. Rupen aveva cambiato idea e ci aveva raggiunti. Si avvicinò all'altare e, indicando la scultura, spiegò: «È Maria, ma non è la madre di Gesù». «Chi è allora?» chiesi. «Maria Maddalena.» «Ma è ridicolo. Perché mai la Maddalena dovrebbe tenere in braccio Gesù? Non ha senso.» «Già.» Padraig fece un sorriso malizioso. «A meno che il bambino non
sia qualcun altro.» Aspettai che mi spiegassero di chi si trattava. «Bene, sono l'unico nella terra dei franchi a non sapere chi sia questo neonato?» «È il figlio di Gesù» disse Rupen. La sua risposta mi stupì talmente che mi ci volle un momento per capire cosa implicava quella straordinaria rivelazione. «Il figlio di Cristo!» esclamai ad alta voce, fissando l'immagine scolpita. «Ma è terribile!» Mettendosi un dito sulle labbra per farmi segno di tacere, Padraig si limitò ad annuire: «Alcuni credono che Gesù e Maria Maddalena fossero marito e moglie. Le scritture parlano spesso del discepolo amato da Gesù. La maggior parte degli studiosi ritiene che l'appellativo si riferisca all'apostolo Giovanni, ma non c'è ragione per cui non possa indicare qualcun altro». «Inoltre» aggiunse Rupen «è noto che molte donne seguivano Gesù e aiutavano il suo ministero in vari modi; anche questo è ben attestato nelle Scritture.» «Ma insomma» protestai «il figlio di Cristo: riflettete sull'enormità di ciò che state dicendo.» «Quanto a questo» rispose il monaco con lo stesso tono calmo e sornione «i rabbini ebrei di solito sono sposati, anzi, sarebbe strano, se non improbabile, il contrario. Se, come crede la chiesa che porta il suo nome, il nostro Signore e Redentore condivideva la natura umana che noi tutti possediamo, perché mai avrebbe dovuto negarsi l'esperienza del matrimonio? L'unione tra l'uomo e la donna è parte essenziale del disegno divino per l'umanità. E il fondatore della nostra fede non dovrebbe aderire alle stesse regole imposte ai suoi seguaci?» «La Maddalena era una prostituta e un'indemoniata» protestai. «Vorreste forse farmi credere che il Signore si sia unito nella carne con una meretrice posseduta dal diavolo?» «Usi di nuovo preconcetti e supposizioni infamanti. Nelle Scritture non è scritto che fosse una meretrice, ma solo che fu liberata dai demoni e guarita. È molto probabile che la definizione di prostituta le sia stata attribuita molto più tardi, quando per il papa divenne scomodo ammettere che una donna avesse un ruolo tanto potente e influente.» Padraig sfiorò la scultura con una mano e continuò: «Comunque sia, coloro che praticano questo culto credono che dall'unione di Gesù e della Maddalena sia nato un figlio. Dopo che Cristo venne crocifisso, e che cominciò la persecuzione della nuova fede, la sacra famiglia fuggì, prima a Damasco e poi a Roma. Ma
alla fine si stabilirono qui». «A Marsiglia?» chiesi. «Questa storia diventa sempre più fantastica.» «Sì» assentì Rupen. «questa parte del racconto mi è ignota.» «Allora si chiamava Massilia» spiegò Padraig «ed era un porto romano molto importante. Grano e bestiame venivano spediti in Oriente da qui, e a quei tempi il commercio era assai fiorente. Era una città bella e prospera, e lontana dagli intrighi e dalle persecuzioni. La sacra famiglia e i suoi seguaci portarono con sé la propria fede, e da allora continuano a essere venerati in questa regione, come potete vedere.» Aveva parlato con tale sicurezza che non potei fare a meno di chiedere: «Come fai a sapere tutto questo?». Padraig sorrise: «Il culto della Madonna Nera è ben noto ai Célé Dé. È un'eresia, naturalmente, anche se non grave, paragonata ad altre. La scoprimmo quando il beneamato Pelagio, nostro grande maestro e difensore, venne accusato di praticarla. Egli si difese energicamente, rispondendo ai suoi calunniatori con un coraggioso trattato che è conservato e studiato dai custodi della Santa Luce.» Padraig recitò con noi una breve preghiera e poco dopo ce ne andammo. Rupen si allontanò, lasciando me e Padraig a parlare da soli. «Sapevi che la Madonna Nera era qui» dissi. «È per questo che mi hai portato alla cappella?» Scosse la testa. «Ho scoperto che si trovava qui oggi, quando sono entrato per pregare.» Poi fece un gesto, come per cancellare la scultura. «Non ha alcuna importanza; è solo una curiosità, nient'altro.» «E allora perché?» «Volevo ricordarti che le cose non sono sempre come sembrano» rispose. «E che ciò che appare in superficie, spesso nasconde un significato più profondo, per chi sa come guardare.» Nonostante la luce tremolante e fioca delle candele, vidi il suo sguardo diventare più penetrante e capii che non sarei riuscito a sfuggirgli oltre. «Ti ho portato qui perché tu possa confidarmi il vero scopo del tuo pellegrinaggio.» Non avrei dovuto stupirmi più di tanto, ma come ho già detto e ripeterò ancora, i monaci Célé Dé riescono sempre a essere sorprendenti. Probabilmente il mio amico aveva progettato di mettermi alle strette sin dalla breve conversazione che avevamo avuto quella mattina. Anche se avrei preferito raccontargli tutto quando fossimo stati un po' più vicini alla nostra destinazione, sapevo che ormai non potevo più rimandare, e così
commentai ironico: «Molto bene. A quanto pare questa è la serata delle rivelazioni». Padraig sorrise con l'aria di chi la sa lunga: «Proprio così». «È presto detto» cominciai mentre ci lasciavamo alle spalle la cappella «e non è un mistero come quello della Madonna Nera. Ma prima devo chiederti se non hai mai sentito parlare della Lancia di Ferro.» «Certo.» Non si mise a ridere apertamente, ma la mia domanda lo divertì. «È la lancia che colpì il costato di Cristo.» «Esatto» affermai. «E, visto che i monaci Célé Dé sembrano sapere sempre tutto, sicuramente sai anche che si trova nella stanza del tesoro di mio padre.» «Ora che me ne parli, sì, credo di ricordare di averlo sentito.» «L'hai sempre saputo?» chiesi, sentendomi uno sciocco per aver creduto di potergli nascondere qualcosa. Mi fermai per osservare la sua reazione. «No» rispose. «Anzi, l'ho scoperto solo qualche giorno prima della nostra partenza.» «Suppongo che te l'abbia detto l'abate Emlyn.» «Infatti» confermò Padraig. «Ma lo zio mi ha chiesto di non parlarne mai con nessuno, a meno che, come adesso, qualcuno non l'avesse fatto per primo.» «Hai visto la Santa Lancia?» «Ahimè no. Forse, un giorno... chi lo sa?» «Bene» commentai, riprendendo a camminare «io l'ho vista e l'ho tenuta in mano la sera in cui mio padre mi ha raccontato di averla strappata dalle mani degli infedeli e degli empi crociati che ne avrebbero fatto un uso sacrilego. Quella stessa sera ho giurato a me stesso che avrei portato in salvo la Croce, così come mio padre aveva fatto con la lancia.» «La Vera Croce» mormorò Padraig tra sé e sé. Non riuscii a capire se approvasse o no la mia intenzione. «Prima di morire, Torf-Einar mi ha narrato di come la santa reliquia sia stata profanata» proseguii. «C'eri anche tu, l'hai sentito: fecero a pezzi la croce della nostra redenzione con la stessa noncuranza che avrebbero usato con un ciocco di legno.» «Sì, c'ero e ho sentito.» Si spostò lentamente di lato e mi si mise di fronte: «Ed è per questo che non hai potuto giurare per i templari». «Pensavo che non sarebbe stato corretto, dal momento che non so dove o come riuscirò a recuperare i frammenti della Santa Croce. Devo essere libero, per fare le mie ricerche.»
«Capisco.» «E approvi?» Invece di rispondere, Padraig mi chiese: «Cosa ne farai della Croce se, per miracolo, riuscirai a entrarne in possesso?». «La porterò a Caithness e la metterò nel tesoro di mio padre insieme alla Santa Lancia.» «Ah.» Rimase per un po' in silenzio a fissare l'oscuro cielo notturno, come se cercasse una risposta nelle stelle. «Il tuo piano» disse infine «non manca certo di audacia. E ciò che gli difetta in concretezza, è compensato dal fervore.» «Ma lo approvi?» «A essere sincero, no» dichiarò con fermezza. «Se è questo il motivo per cui hai intrapreso il pellegrinaggio in Terra Santa, lasciando tutto ciò che ami e ti è più caro, allora, come amico e sacerdote, devo dirti che non approvo assolutamente.» Nel profondo del mio cuore avevo sempre temuto che il mio piano non gli sarebbe piaciuto, eppure il suo aiuto mi sarebbe stato indispensabile. Poi Padraig sorrise e spalancò le braccia: «Il Signore Iddio percorre sentieri misteriosi per portare a buon fine i propri meravigliosi disegni» disse. «E, contrariamente a quanto sembri credere, di solito non chiede la mia approvazione, prima di agire.» «Stai cercando di farmi capire che in fondo la giudichi una buona idea?» «No, è una pessima idea» affermò Padraig. «Ma, ciò nonostante, potrebbe trattarsi di un'ispirazione.» «Ti prego, il tuo modo di rassicurarmi mi mozza il respiro» gli feci notare. «Non lo sai?» replicò. «Il Buon Dio si serve spesso di poveri folli per umiliare i sapienti. Se il tuo progetto ti è stato dettato dall'Onnipotente, allora anche gli sforzi uniti di tutte le nazioni della terra non possono opporvisi.» Accettai il suo giudizio e proseguimmo in silenzio nell'oscurità della via. Giunti al molo, domandai: «Padraig, non mi hai spiegato perché la Maddalena è stata dipinta di nero». «Non lo so. C'è chi sostiene che, quando la Maddalena giunse su questi lidi, vestisse un manto di quel colore e fosse nota al popolo con il nome di Maria Nera. Altri dicono che fu perché i devoti non la confondessero con la Madre di Gesù.» Si interruppe, pensieroso, poi aggiunse: «Il saggio Pe-
lagio ha scritto che ciò serve a nascondere un segreto che i fedeli del culto difendono a costo della vita». «Quale segreto?» esclamai. «Nessuno lo sa fra i non adepti» rispose il monaco. «E i seguaci non lo sveleranno mai.» Diciotto I templari erano pronti a salpare quando Padraig, Rupen e io raggiungemmo la loro nave la mattina dopo. Prima di andarmene, volevo veder partire tranquillo Sarn; e, sebbene i suoi passeggeri, i Tookes, fossero pronti, dovemmo aspettare l'alba perché i mercanti consegnassero le provviste. Subito le caricammo a bordo e salutammo i tre viaggiatori. «Addio, Sarn» gridai spingendo via la barca dal molo. «Quando sarai a casa, racconta ciò che è successo e chiedi ai miei di pregare perché torniamo sani e salvi.» Li seguimmo con lo sguardo finché non furono al largo, poi ci affrettammo a raggiungere la nave dei templari. Al nostro arrivo fummo accolti con grande cortesia e, non appena ci imbarcammo, fu dato l'ordine di salpare. Rimanemmo sul ponte e osservammo la città di Marsiglia scomparire lentamente mentre la nave usciva dalla baia. Quando fummo al largo, il timoniere fece rotta a sud ovest lungo la costa, e noi ci sistemammo nelle nostre cabine. Ora ti descriverò una nave dei templari, che è diversissima da qualunque imbarcazione solchi i nostri mari. Simili navi sono larghissime e munite di alte paratie, dispongono di numerosi ponti, disposti uno sopra l'altro, e di un albero maestro di dimensioni gigantesche. Navigano a pelo d'acqua e tendono a sobbalzare alla minima onda; sono quindi instabili e difficili da manovrare quasi quanto una botte nel pieno di un'inondazione; ed è per questo motivo che i marinai le chiamano "navi rotonde". Insomma, sono goffe e del tutto inadatte a scopi diversi da quello per cui sono state costruite: il trasporto di uomini e animali nel mare temperato della Terra di Mezzo. Dio non voglia che tali navi debbano mai essere sorprese da una delle tempeste che battono le nostre isole durante l'inverno; sono certo che, alla prima raffica di vento, affonderebbero come un'incudine. Comunque sono usate dai veneziani, dai genovesi e da molti altri. Il nostro vascello, per esempio, apparteneva a un mercante di Otranto, e suo figlio, un uomo rubizzo e bonaccione di nome Domenico, era il capitano.
Gli fummo presentati poco dopo che Marsiglia scomparve alla vista, ed egli ci invitò a desinare insieme a lui nella sua cabina. Vedi, cara Cait, sovente le grandi navi, sotto il ponte superiore, dispongono di molte stanze, a volte ampie come quelle di un palazzo. Quella del capitano era una camera con un letto incassato e una lunga tavola, con panche da una parte e dall'altra, sufficiente per sei convitati. Così, Padraig, Rupen, io, Renaud e altri templari d'alto rango fummo invitati a cena dal capitano. Rupen si scusò, dicendo che aveva dei disturbi di stomaco. Per quanto ne so, poteva anche essere la verità, e non una scusa per evitare di unirsi a noi, ma ritengo più probabile che il suo stomaco avesse difficoltà a digerire i templari, a prescindere dal cibo. Padraig e io, invece, accettammo assai volentieri l'invito e, poiché ci venne detto che non ci sarebbe stata nessuna pietanza speciale, scoprii come mai il nostro capitano si fosse conservato così ben pasciuto nonostante i lunghi viaggi. Non mancavano certo carne e pane. Ci vennero serviti pollame arrosto e maiale affumicato, manzo, pesce, focacce con olio d'oliva, che i siciliani apprezzano particolarmente, e piccole pagnotte d'orzo con il miele. Il tutto fu innaffiato da vino, perché i tarantini amano molto quello della loro terra, e non si preoccupano di servirlo e berlo a profusione. Dato che volevamo mantenerci lucidi, Padraig e io cercammo di mangiare e bere con moderazione, come Renaud. Tutti gli altri, però, si comportarono come se fossero appena usciti da un lungo digiuno. Rimasi stupefatto dalla quantità di cibo e di vino che furono capaci di ingurgitare, ingozzandosi di enormi bocconi di pane e di carne. Bevvero smodatamente, fino a che il vino non gocciolò dalle loro barbe in rivoletti rossi che cadevano fin sotto i gomiti piantati sulla tavola. Il mio imbarazzo di fronte a tanta rozzezza passò del tutto inosservato, e i commensali continuarono allegramente a divorare una quantità di provviste che sarebbe bastata a sfamare una dozzina di braccianti per un mese. Domenico di Otranto, raggiante davanti all'entusiasmo dei suoi ospiti, diede ordine ai servitori di riempire continuamente le caraffe e i boccali. La conversazione fu dunque libera e vivace, e io imparai molte cose utilissime su come si viveva in Terra Santa. Quando i convitati appresero che Padraig e io non eravamo mai stati a Gerusalemme, ad Antiochia o a Costantinopoli, decisero di renderci edotti su ciò che avremmo trovato, benché non fossero troppo d'accordo uno con l'altro sui particolari. Venni così a sapere che in quei paesi il clima era caldo e secco e che erano infestati da ogni genere di insetti molesti e di piante urticanti che li
rendevano un inferno. In estate la maggior parte dei fiumi era in secca, dalla primavera all'inverno non pioveva mai, e un vento forte sferzava il deserto riempiendo le case di sabbia. La maggior parte della popolazione era povera e riusciva a stento a sopravvivere lavorando la terra, quasi ovunque arida e improduttiva, tranne che nelle rare valli dove i corsi d'acqua venivano alimentati dalle sorgenti montane. Là i campi coltivati erano un vero paradiso e producevano frutta e verdura di ogni tipo in quantità pressoché illimitata. Inoltre la lingua era incomprensibile, il cibo pessimo e l'acqua imbevibile. Certamente non era mai esistita una terra altrettanto ostile. Se non fosse stato perché il Dio Incarnato, per qualche imperscrutabile motivo, l'aveva scelta per nascervi, nessuno l'avrebbe tenuta nella minima considerazione. Per quanto riguardava gli abitanti, le donne erano tutte vecchie ciabatte rinsecchite, e i loro seni sembravano acini d'uva appassiti lasciati troppo al sole; gli uomini erano scontrosi, subdoli e vendicativi, abili nel tessere inganni e capaci di protrarre un litigio fino alla sesta generazione. In più, giovani o vecchi, erano esperti in ogni tipo di perfidia, iniquità e macchinazione. «Gli arabi sono demoni, signore» dichiarò uno dei presenti. «Conoscono soltanto menzogne e bestemmie. Diffidatene sempre.» «Sono nati ladri» concordò un altro. «Rubano qualunque cosa non sia legata con una catena e ti accoltellano alla schiena non appena volti loro le spalle.» «Turchi o saraceni, sono tutti uguali» aggiunse il primo. «E anche i greci, non li si può fare avvicinare più della distanza di uno sputo.» «Ma i greci sono cristiani» osservò Padraig candidamente «sono nostri alleati e compagni d'armi.» Le sue parole causarono grande ilarità fra i commensali. «Se ci credete» sbraitò un templare dalla barba nera seduto accanto a me «vi troverete presto con la gola tagliata e le palle in bocca!» Pensai che quel linguaggio non meritava nemmeno di essere censurato, e non replicai. Ma tutti quanti diedero la stura alle volgarità, finché non mi sentii autorizzato a far notare la loro mancanza di educazione: «La vita in Terra Santa dev'essere davvero cambiata molto» osservai «se scurrilità così basse suscitano più ilarità che vergogna». Sapevo benissimo che sarei stato insultato per le mie parole e mi preparai a difendermi mentre le labbra di barbanera si curvavano in un sogghigno sarcastico. Ma, quando già stava per rispondermi, Renaud sollevò lo
sguardo con espressione severa: «I nostri amici hanno ragione a rammentarci le buone maniere, fratelli» asserì, lanciando uno sguardo truce lungo il tavolo, come per sfidare gli astanti a contraddirlo. «Nella preghiera che pronunceremo stasera, ciascuno di noi chiederà perdono e si pentirà del suo peccato.» Le sue parole placarono la rumorosa tavolata, e il pranzo terminò in un'atmosfera, se non più rispettosa, almeno più contenuta. Più tardi Renaud venne a cercarmi sul ponte dove Padraig e io ci stavamo godendo l'aria mite della sera. Fece un inchino profondo ed esordì: «Permettetemi di porgere a entrambi le mie scuse per l'indecoroso comportamento dei miei confratelli». «Non è a noi che dovete rivolgere le vostre scuse» ribattei. «Non erano nostri ospiti, non ci dovete rendere conto di nulla.» «Ciò nonostante» proseguì il templare «siete stati voi a richiamarci all'ordine, e avete fatto bene. I miei uomini sono rimasti troppo a lungo lontani dal rigore del chiostro e si sono lasciati andare all'irriverenza.» «So come sono i soldati» gli risposi. «Non dovete sentirvi in dovere di darmi spiegazioni.» Sorrise seccamente: «Comunque, vi pregò di accettare le mie sincere scuse per la nostra incresciosa debolezza. Con l'aiuto di Dio, non accadrà più». Ci mettemmo a passeggiare insieme lungo la fiancata, mentre Padraig ci seguiva senza dare nell'occhio, ascoltando ma tenendo per sé le proprie riflessioni, e arrivammo così al timone, dove alcuni marinai stavano chiacchierando e scherzando fra loro. Quando li superammo e Renaud fu sicuro che non potevano vederci, disse: «Mi interesserebbe sapere come mai viaggiate in compagnia del figlio del re Leone». «L'abbiamo incontrato a Rouen» spiegai «dove stava cercando un passaggio per ritornare in patria.» Gli raccontai come il principe fosse riuscito a sopravvivere alla malattia che aveva causato la morte dei suoi compagni di viaggio, lasciandolo sperduto in una terra straniera senza nessuno che potesse aiutarlo. «Sapete niente della sua famiglia?» «So che suo padre è il sovrano del suo paese, ma niente di più» risposi. Qualcosa, nel tono che aveva usato il templare, mi fece venire l'impulso di difendere Rupen: «Il fatto che i suoi parenti siano nobili d'alto lignaggio o servi della gleba, non fa alcuna differenza. Rupen aveva bisogno di un passaggio in patria e a noi serviva qualcuno che ci guidasse sino a Marsi-
glia. Abbiamo fatto un patto vantaggioso per entrambi, e lui si è rivelato un amico fedele». A quelle parole, Renaud sollevò un sopracciglio: «Siete sempre così fiducioso?». «Finché qualcuno non mi dimostra che non dovrei» risposi, irrigidendomi un po' per i sottintesi della sua domanda. «Lo tengo nella più alta considerazione. Non è mai un errore trattare qualcuno come si vorrebbe essere trattati.» «No» si affrettò ad ammettere Renaud «certo. Vi prego di nuovo di perdonarmi, non intendevo offendervi, desideravo solo capire quanto sapete della situazione della famiglia del vostro giovane protetto.» «Come ho già detto, so assai poco della famiglia di Rupen e ancor meno delle loro vicende. C'è forse qualcosa che dovrei sapere?» Il templare strinse le labbra con aria pensosa. Infine parlò: «Il padre del vostro amico, il re Leone, ha la sfortuna di trovarsi in una posizione pericolosa. Temo che non ci si possa fidare di lui». «Mi rincresce sentirlo» risposi esitante. Non capivo a cosa mirasse quel discorso. Quasi in risposta alla mia perplessità, Renaud continuò: «Credetemi, non mi procura alcun piacere rivelarvi queste cose. Ho molta comprensione per il vostro amico Rupen: la sua situazione è davvero grave». Rivolse lo sguardo al mare, verso la costa che diventava sempre più scura, come se stesse guardando una ferita aperta e purulenta e aggiunse, tra sé e sé: «Sovente l'agire di Boemondo sconfina dalle sue prerogative». Sentir parlare del valoroso principe di Taranto mi fece tornare in mente l'impresa di mio padre e commentai: «Ciò che dite mi interessa. Mio padre ha conosciuto Boemondo d'Altavilla. Lo incontrò a Giaffa, durante la Grande Crociata, e gli diede una mano ad assicurarsi l'aiuto dell'imperatore Alessio». «Davvero?» rispose il templare punto dalla curiosità. «Oh sì» gli garantii «e il principe gli ha restituito il favore. Se non fosse stato per Boemondo, forse mio padre non avrebbe mai rivisto la sua casa.» «Furono in molti a non tornare» commentò Renaud. Il suo interesse crebbe visibilmente e mostrò un intenso piacere mentre diceva: «Mi avete frainteso; stavo parlando del giovane Boemondo, il figlio del principe. Non che abbia molta importanza, perché assomiglia molto al padre e purtroppo ne condivide anche gli insaziabili appetiti». Mi spiegò che Boemondo II, figlio di Boemondo d'Altavilla principe di
Taranto, aveva finalmente raggiunto la maggiore età, era arrivato in Terra Santa per reclamare la propria eredità e aveva ricevuto il principato di Antiochia. Essendo però insoddisfatto delle sue dimensioni, aveva deciso di portarne i confini alla massima estensione raggiunta nel passato. «Da quando è sbarcato in Terra Santa, quattro anni or sono» continuò Renaud «Boemondo ha condotto numerose campagne vittoriose e ha riconquistato buona parte del territorio perduto al tempo in cui suo padre deteneva il potere. È un giovane irrequieto e un formidabile stratega.» Bracineaux mi guardò significativamente: «Non avrà pace finché non si sarà ripreso l'intera regione». «Ed è qui che sorgono i problemi» dedussi. «Precisamente» assentili templare. «La parte settentrionale della contea ora appartiene al regno di Armenia. Quando il padre di Boemondo la conquistò, era ormai da molti anni sotto il dominio selgiuchide, e i principi armeni erano troppo occupati a difendere quel poco che restava loro.» Era facile indovinare cosa fosse accaduto. Mentre il templare continuava il racconto, potevo vedere gli avvenimenti come mosse su una scacchiera. Quando i turchi erano stati sconfitti, il popolo di Rupen aveva rivendicato il proprio diritto di proprietà, aspettandosi che i fratelli cristiani soddisfacessero le loro legittime rivendicazioni. Ma erano stati delusi: le richieste di risarcimento erano state ignorate, le istanze di giustizia misconosciute... finché il disastro non si abbatté sugli esosi occidentali. Alla fine, Boemondo si era messo in urto con l'imperatore Alessio, e le sue ambizioni erano state ridimensionate. Dopo una disastrosa battaglia contro i greci, il principe di Taranto era stato costretto a restituire le terre contese, che erano passate sotto il controllo degli armeni. Così, con l'aiuto dell'imperatore, i principi di Armenia erano riusciti a rientrare in possesso del loro antico territorio. «Ma la pace di questi ultimi anni è destinata a non durare» annunciò cupamente Renaud. «Boemondo II è ostinato e testardo come suo padre. Temo che presto scorrerà del sangue tra i due popoli.» Sembrava attendersi una risposta, ma io non riuscivo a capire lo scopo di quelle confidenze e non sapevo come commentare. «La vostra schiettezza mi onora e mi lusinga» cominciai «ma vi condurrei fuori strada se vi lasciassi credere di avere qualche ruolo in questi fatti.» «Certo» concesse lui «vi comprendo. Ritenevo soltanto che avreste potuto ricavare un vantaggio da queste informazioni, considerando la vostra amicizia con il principe Rupen. Naturalmente, se vi doveste trovare nella
posizione di influenzare il giudizio del giovane armeno, terreste presente il vostro dovere di buon cristiano.» Quelle parole mi provocarono una vaga confusione. Capivo benissimo che il templare mi stava chiedendo di intervenire, in qualche modo, ma non mi era chiaro che cosa si aspettasse da me. «Vi prego» risposi «parlate chiaramente. Non sono abituato alle ambiguità e agli intrighi d'Oriente. Se qualcosa vi preoccupa, ditemi apertamente di che si tratta. Vi assicuro che vi presterò la massima attenzione.» Renaud annuì e piegò le braccia dietro alla schiena: «Come comandante dell'Ordine dei cavalieri templari di Antiochia, ho il dovere, conferitomi da Sua Santità, di mantenere la pace non solo nella città, ma anche nel territorio circostante. Inoltre ho giurato di sostenere il sovrano di quella terra le cui sofferenze hanno causato la nascita del mio Ordine». Mi gettò uno sguardo d'intesa: «Non posso essere più chiaro di così». Cominciai a cogliere i contorni del dilemma. Per mantenere la pace, Renaud avrebbe dovuto rompere la promessa di fedeltà a Boemondo, provocando così la revoca del privilegio dell'Ordine e l'espulsione dei templari da Antiochia. La sua descrizione della situazione mi sembrò onesta, anche perché ne sapevo troppo poco per dubitarne. Così non potei trattenermi dal chiedergli: «Perché mi rivelate questi fatti? Sono solo un pellegrino che si reca per la prima volta in Terra Santa. Questa è una controversia che spetta ad altri risolvere e, mi sembra, sarebbe più opportuno discuterne in un consiglio di principi». Il sorriso di Renaud divenne amaro: «Certo, avete ragione. Non vi importunerò oltre». E si volse per allontanarsi. Lo presi per un braccio e lo trattenni: «Confessatemi ciò che avete in mente, amico mio. A chi può nuocere?». Guardò Padraig, serrando le labbra: «Ho detto tutto ciò che mi premeva». «Allora andate pure per la vostra strada» risposi, lasciandolo andare. «Poiché, se tenete in così poco conto l'onore e la riservatezza di un monaco Célé Dé, meritate tutta l'angoscia che vi procura il vostro silenzio.» Indicando Padraig, aggiunsi: «Quest'uomo è mio amico e mio consigliere, è il mio amam cara, il vero amico della mia anima; conosce i miei più reconditi pensieri ed è il compagno e la guida della mia esistenza. Sta a voi scegliere di parlare o di tacere. Ma sappiate che, qualunque cosa mi chiediate, ne discuterò con il mio saggio consigliere».
Renaud annuì seccamente. Non era abituato a sentirsi apostrofare con quel tono, ma era abbastanza sensibile da capire le mie ragioni. Non mi congedò, né mi scostò bruscamente, ma calpestò ancora una volta il suo orgoglio. «Perdonatemi, fratello» disse volgendosi verso Padraig e inchinandosi in segno di umiltà. «Non intendevo mancarvi di rispetto.» Padraig chinò la testa per accettare le scuse. «Vi perdono con gioia. Se può aiutarvi a togliervi un peso dall'anima, mi allontanerò un po', così che possiate parlare più liberamente.» «No» rispose il templare, prendendo finalmente una decisione «non è necessario. Visto che sono arrivato a questo punto, condurrò a termine il discorso.» Si voltò e riprese a camminare, con le mani serrate dietro la schiena e gli occhi bassi. Poiché ormai cominciava a imbrunire, un marinaio si avvicinò per accendere le torce appese ai loro sostegni di ferro a prua e alla base dell'albero maestro. Percorremmo il ponte in silenzio, finché non fummo nuovamente soli. «Se ciò che sto per dire giungesse all'orecchio del mio signore, verrebbe considerato tradimento» dichiarò Renaud. Il tono grave della sua voce mi fece capire che era arrivato al nocciolo delle sue paure. Cercai di rassicurarlo: «Vi do la mia parola che la vostra fiducia non verrà tradita». «Boemondo ha passato l'estate a reclutare uomini dai suoi possedimenti di Sicilia» mormorò Renaud. «Sta usando le navi dei templari per portarli ad Antiochia.» Non capivo in che modo quell'informazione potesse essere considerata un tradimento, e manifestai la mia perplessità all'angosciato cavaliere. «Certo» rispose lui «è un particolare di cui chiunque potrebbe facilmente venire a conoscenza. Il segreto è che sta progettando un attacco a sorpresa contro Anazarbus per la fine dell'estate.» Si interruppe e, rivolto a me, aggiunse: «Ecco, ora lo sapete. Vi ho confidato una notizia che potrebbe causare la sconfitta del mio signore sul campo di battaglia e determinare la rovina di Antiochia. Ciò vi dà un enorme potere: fatene buon uso». Mi sentii venir meno l'animo per il peso della tremenda responsabilità gettata sulle mie fragili spalle. Nel fioco bagliore delle torce il templare mi scrutò con occhi indagatori: «Poco fa avete citato ambiguità e intrighi. Permettetemi di darvi un consiglio: fidatevi più di un nemico che di un amico». «Strano consiglio.»
«Sì» ammise «e la difficoltà, ve ne accorgerete, sta nel distinguerli.» Diciannove Così, sin dal primo giorno a bordo della nave, fui calato nelle trame intricate dell'Oriente tessitore di intrighi ancor prima di metter piede in Terra Santa. Nelle settimane che seguirono, riflettei preoccupato su ciascuna delle parole che mi erano state dette quella notte. Ciò che avevo saputo gravava sempre di più sulla mia coscienza e avvelenava i miei giorni e le mie notti con il timore e la cupa consapevolezza che qualunque scelta avessi fatto mi sarei dannato. Salvare uno dei contendenti avrebbe infatti significato mandare in rovina l'altro. Perché il templare si era confidato con me? Voleva fare di me un alleato per impedirmi di parteggiare per Rupen? O voleva usare la nostra amicizia? Vi aveva anche accennato, ma io non capivo cos'avrei dovuto fare. Per quanto tentassi, non riuscivo a trovare un modo per servire il bene comune. E, comunque, a cosa sarebbe servito? Al momento Rupen non poteva fare nulla per sventare l'attacco, e il fatto di conoscere il progetto gli avrebbe causato soltanto angoscia e amarezza. Inoltre avrebbe potuto sospettare di essere circondato da nemici, e prendere decisioni avventate: evitando di parlare, gli avrei risparmiato tutto ciò, benché il silenzio mi costasse tantissimo. Solo quando giungemmo a Cipro ebbi l'opportunità di discutere con calma con Padraig a proposito delle delicate informazioni che mi aveva rivelato il comandante templare: «Come dobbiamo comportarci?» gli chiesi, sentendo scorrere dentro la paura. Avevamo approfittato della possibilità di fare una passeggiata per la graziosa città portuale e mercantile di Limassol mentre la nave faceva rifornimento d'acqua e di provviste. «Sai bene che non possiamo limitarci a essere spettatori passivi.» «Ho forse sostenuto qualcosa di simile?» «Che cosa facciamo, allora?» Prima che potesse rispondere, aggiunsi: «Ricorda che, in ogni caso, sono a rischio centinaia e forse migliaia di vite umane. Per non nominare...». Padraig alzò una mano: «Stai calmo! Lascia per un momento da parte i tuoi tremori e piagnistei e lasciami parlare». «Parla, dunque!» «Innanzitutto» cominciò «non sei l'unico ad aver meditato sul problema, l'ho fatto anch'io.»
«Sì sì, va' avanti.» «Benissimo. Dobbiamo incontrare Boemondo alla prima occasione e chiedergli di ritornare sulla sua decisione di attaccare gli armeni.» Fissai il monaco, invidiando la sua inaudita ingenuità. «Sei stupefacente» commentai. «Conosci bene i principi e la loro insaziabile brama di ricchezza e potere, eppure riesci a suggerire una cosa simile? Cosa credi che succederebbe?» «Mi aspetto che Dio commuova il cuore di Boemondo, gli faccia riconoscere il suo errore e lo dissuada prima che sia troppo tardi.» «La tua fede è incrollabile, Padraig, se credi che il principe acconsentirà ad ascoltare anche una sola delle tue parole, per non parlare di dar retta ai tuoi consigli.» «Deciderà lui» rispose. «Per noi la strada da percorrere è chiara: dobbiamo seguire il volere di Dio.» Fissai il monaco e mi resi conto che era convinto delle sue parole; secondo lui ci saremmo dovuti presentare davanti a Boemondo e convincerlo dicendo: "Abbandona i tuoi propositi malvagi, o potente signore. Pentiti e chiedi perdono, o preparati a subire la punizione divina per i tuoi peccati!". Già! potevo ben immaginare come sarebbe stato accolto il nostro appello al pentimento. «Ci farà scorticare vivi per la nostra impertinenza, e le nostre teste orneranno la porta della città infilzate su una picca» borbottai. «Ecco cosa succederà.» «Forse» ammise Padraig alzando le spalle. «Ma non possiamo rifiutarci di fare ciò che è giusto solo perché potrebbe essere doloroso.» «Sarà più che doloroso» ribattei «puoi stare certo. Ma, ammesso e non concesso che riuscissimo a salvare la pelle, poi cosa faremo?» «Se non entreremo nella pace eterna, saremo liberi di avvertire il popolo di Rupen.» Lo fissai: «E come sei arrivato a questa conclusione?». «Dopo che avremo manifestato la nostra preoccupazione a Boemondo, le sue intenzioni saranno sotto gli occhi di tutti, che si penta oppure no. Se metterà in atto il suo piano nefasto, lo farà malgrado il nostro invito a onorare la pace di Dio. A questo punto saremo legittimati a proclamare chiaramente le sue intenzioni a tutti gli interessati.» Ci riflettei per un momento. Sembrava davvero l'unica soluzione al tormentoso dilemma in cui Renaud ci aveva fatto piombare. «Allora siamo d'accordo» decisi «ci faremo ricevere da Boemondo non appena saremo
arrivati in città. Ma lascia che sia io a parlargli. Farò appello al suo onore, non ai suoi peccati. Se Bracineaux sarà d'accordo, e credo di sì, anche se per ragioni diverse dalle nostre, ci aiuterà nel tentativo. Se uniremo le nostre voci, avremo una possibilità di scampare all'ira funesta del principe.» «Ben detto» concluse Padraig. «Comunque, dovremo essere estremamente cauti. Se Boemondo venisse a sapere che il figlio del suo nemico è alla sua portata, lo farebbe prigioniero per ottenerne un riscatto, o peggio. Dovremo dire a Rupen ciò che intendiamo fare. La sua vita sarà in pericolo non appena avremo messo piede ad Antiochia. Non possiamo tacere.» Il giorno dopo, mentre la nave affrontava l'ultima parte del viaggio, salimmo in coperta con Rupen e camminammo lungo il ponte, guardando le alture frastagliate e scure dell'isola di Cipro che scomparivano in lontananza nell'azzurra vastità del cielo. Quando fui certo che nessuno dei marinai occupati sul ponte avrebbe potuto udirci, informai Rupen dei piani di Boemondo di attaccare la fortezza armena di Anazarbus. «Vi ringrazio per avermelo rivelato» disse, profondamente rattristato. «Ora so che siete amici leali. Vi imporrò la mia presenza solo finché non potrò sbarcare sano e salvo. Quando avremo attraccato a San Simeone, lascerò la vostra compagnia e continuerò il viaggio verso casa da solo.» Anche se parlò con fermezza, mi accorsi che quella prospettiva gli causava grande ansietà; infatti, quando terminò, si rivolse a Padraig con sguardo esitante, come per chiedere la sua approvazione. «Comprendiamo le ragioni del vostro proposito» mi intromisi «ma c'è un'altra possibilità: venite con noi ad Antiochia.» «Antiochia!» esclamò. «Tra le braccia dei miei nemici? Non lo farò mai.» «Calmatevi e ascoltatemi. Padraig e io abbiamo intenzione di affrontare Boemondo e di chiedergli di abbandonare il suo folle...» colsi lo sguardo di Padraig «... ed empio piano di attaccare la vostra gente. Sono quasi certo che il comandante Bracineaux ci darà il suo appoggio. Se Boemondo si mostrerà ragionevole, non avrete più nulla da temere e potrete ritornare a casa per raccontare l'accaduto al vostro popolo.» «E se Boemondo non cambiasse idea?» mormorò. «Allora vi affretterete a raggiungere l'Armenia per avvertire del pericolo, e noi vi aiuteremo. Non posso parlare a nome dei templari, ma credo che potremo contare anche sulla loro collaborazione.» «Possiamo fidarci di loro?» chiese. «Ritengo di sì» gli risposi. «Renaud sa chi siete da quando siete salito a
bordo. Se avesse voluto nuocervi, a quest'ora ce ne saremmo già accorti. È vincolato dai voti sacerdotali, ma credo che stia cercando di aiutarvi come può.» «Dunque procederemo verso Antiochia e ci nasconderemo sotto il naso del principe Boemondo» riassunse Rupen, animandosi a quell'idea. «E poi?» «Quando avremo parlato con lui, sapremo come stanno veramente le cose» proseguì Padraig. «Ma state tranquillo; comunque vada, faremo in modo che possiate tornare a casa sano e salvo.» Inutile dire che qualche giorno dopo, giungendo ad Antiochia, avevamo paura di venire scoperti mentre attraversavamo le enormi porte e percorrevamo i viali fiancheggiati di palme della grande città. Quanto avrei desiderato essere più sereno e disteso per godere a pieno delle bellezze del luogo. Partendo dalle rive pietrose del placido fiume Oronte, le bianche mura si ergono sino a un'altezza che, per quanto ne so, non ha eguali. Dalla chiusa in riva al fiume sino alla cittadella annidata nell'abbraccio roccioso della montagna, alla luce dorata dell'alba, la città splende come ambra. E la sua vista dà una sensazione di timoroso rispetto. Scortati da duecento templari a cavallo, con le croci rosse fiammeggianti sui mantelli bianchi e gli scudi e gli elmi splendenti, scendemmo dalle colline e attraversammo la valle dell'Oronte per raggiungere la strada che conduceva in città. Superato un ponte, entrammo dalla porta principale e imboccammo un ampio viale alberato che, essendo il corso centrale, è fiancheggiato dai palazzi delle famiglie più importanti, dalle basiliche più antiche, da ricche botteghe, da chiese e da cappelle. Sapevo che la Santa Lancia era stata scoperta in una di quelle chiese e, mentre avanzavamo lentamente, continuavo a voltare la testa da una parte e dall'altra nella vana speranza di poter identificare il luogo. Non seppi mai se mi fu concesso di vederlo, perché nessuna chiesa mi colpì in modo particolare, e anzi, rimasi un po' deluso. Non ebbi neppure l'opportunità di domandare informazioni a qualcuno, perché, quando ancora non eravamo arrivati alla guarnigione nella città bassa, Boemondo chiese di vedere il comandante de Bracineaux. I templari di alto rango erano alloggiati nella cittadella, e così Renaud dovette recarsi immediatamente dal principe. Avevo confidato al templare la mia decisione di presentare una supplica a Boemondo non appena se ne fosse presentata l'occasione, e lui si era dichiarato d'accordo, benché avesse evitato di pronunciarsi apertamente a
favore del mio piano. Dopo che ebbe terminato di conferire con il messo del principe, mi disse: «Siete fortunato, amico mio. Boemondo vuole vedermi ora. Porterò anche voi e il monaco così affronteremo subito la questione». «Ora?» chiesi. «Sudati e impolverati come siamo?» Per evitare l'afa diurna, ci eravamo svegliati poco dopo mezzanotte e avevamo attraversato le impervie colline intorno alla città prima dell'alba. Eravamo nell'arida stagione estiva, quando il sole infuocato riversa sulla terra la vampa di una fornace e anche il più lieve passo sulle strade battute solleva nuvole di polvere e nugoli di insetti molesti. Più ci inoltravamo nell'entroterra, più la pista diventava polverosa e il caldo torrido. La polvere grigia alzata dagli zoccoli di duecento cavalli si era posata su di noi e ci dava l'aspetto di uomini che avessero passato giorni e giorni a frantumare mattoni. «Il principe è giunto in città quattro giorni fa ed è ansioso di pianificare la sua campagna militare» replicò Renaud. «Se vogliamo cercare di dissuaderlo, non avremo occasione migliore.» Chiamò il suo luogotenente, e poi ci disse: «Potete andare a ripulirvi e a rinfrescarvi, ma fate in fretta. Quando sarete pronti, Gislebert vi condurrà a palazzo. Vi aspetterò lì». Il luogotenente ci guidò attraverso una porta bassa e ci fece entrare in una piccola corte circondata da una teoria di vecchie caserme di stile romano, adibite a guarnigione delle forze templari di stanza ad Antiochia. Moltissimi soldati davano il benvenuto ai loro compagni e li aiutavano a sistemarsi nei loro alloggi. Gislebert ci condusse alla fontana che zampillava al centro del cortile. Rupen, di malumore e a disagio, rimase in piedi, rigido, a guardare cupamente Padraig e me che affondavamo il viso nell'acqua fresca della vasca di pietra. «Verrò con voi» dichiarò. «No» replicai «non sarebbe prudente.» «Non posso rimanere ad aspettare da solo. Cosa accadrà se qualcuno dice a Boemondo che sono qui?» «Renaud ha dato la sua parola» risposi pazientemente. «Finché resterete qui, sarete al sicuro, ma non dovete mostrarvi a palazzo.» «Non ho paura» replicò con noncuranza. «Voglio parlare con Boemondo di persona.» «Forse vi sarà data l'occasione di incontrarlo» affermai. «Ma prima di abbandonare il nostro piano, cerchiamo di capire che tipo d'uomo sia questo Boemondo.» «E io cosa dovrei fare mentre siete via?» chiese Rupen in tono sconsola-
to, prendendo a calci la base del fontanile. «Aspettateci qui con pazienza» intervenne Padraig «e pregate affinché il nostro appello sia accolto con disponibilità e contrizione.» «E se ciò non dovesse accadere?» domandò il giovane, amareggiato. Non riuscì a trattenersi, e non potei biasimarlo; se fossi stato al suo posto, mi sarei comportato nello stesso modo. «Possiamo fare un solo passo alla volta» risposi. «Abbiate fede» aggiunse Padraig con dolcezza. «Fatevi coraggio e lasciate che sia la mano del Buon Pastore a guidarvi. Riponete in Lui la vostra fiducia, ed Egli vi concederà ciò di cui avete bisogno.» Rupen accolse quelle parole con malagrazia e non aggiunse altro. Ci lavammo e ci rassettammo alla meglio, poi mi rivolsi ancora al giovane armeno: «Restate calmo e non uscite da qui. Torneremo il prima possibile» promisi, appoggiandogli una mano sulla spalla. «Con l'aiuto di Dio, vi porteremo buone notizie.» Poi seguimmo Gislebert che ci condusse fuori dal cortile, ci fece attraversare il caotico dedalo di stradine e di scale della città vecchia e ci accompagnò sino alla cittadella e al palazzo dove il conte di Antiochia teneva la sua corte. Venti Il palazzo di Boemondo mi fece pensare a una gran dama ridotta in miseria. Molto tempo prima doveva essere stato un vero splendore, ma anni di trascuratezza e di abbandono avevano deturpato i particolari più belli. Le preziose pannellature lignee erano scalfite e graffiate; i ricchi tappeti di lana e seta erano consunti sino alla trama e i loro bei colori erano sbiaditi dalla polvere e dall'uso; le tappezzerie sgargianti erano annerite dal fumo e dal grasso dei cibi; i pavimenti levigati erano opachi, corrosi dall'andirivieni e dal sudiciume. Molti corridoi esterni erano insozzati di acqua sporca e di escrementi che emanavano un fetore nauseabondo. In generale vi si respirava un'atmosfera di declino e di rovina. Mi rattristò vedere a che estremi di decadenza fosse giunto il palazzo e provai un sentimento di indignazione contro chi permetteva quello stato di cose. Nel mondo ci sono problemi più gravi, lo so, ma colsi in quella colpevole sciatteria un'indifferenza malevola, che mi parve imperdonabile. Non so dire quanto di quel degrado fosse imputabile a chi ci viveva in quel momento; ma il fatto che il principe abitasse quelle sale un tempo splendide e
non facesse nulla per fermare lo sfacelo, mi fece capire qualcosa della sua natura. Il suo aspetto, però, cancellò subito la deplorevole impressione creata dall'ambiente circostante. Boemondo II era un uomo vigoroso e attraente, alto e slanciato, con le spalle dritte, le mascelle robuste e i lineamenti gradevoli. Aveva i capelli lunghi e biondi, la barba corta, tagliata a punta nella foggia cara ai nobili franchi e le mani grandi, forti e sempre in movimento, come se non sapessero cosa fare quando non stringevano una spada. Renaud, Padraig e io fummo condotti nelle sue stanze private da uno dei consiglieri, un anziano dignitario di Antiochia che ci guardò con l'aria annoiata di chi ha visto troppo. Il principe era chino su un lungo tavolo imbandito con pollame, arrosto e frutta ed era pronto ad assaltare il cibo. Brandiva in una mano un coltello e nell'altra una coppa d'oro. Quando la porta si aprì per lasciarci entrare, sollevò lo sguardo ed esclamò: «Bracineaux! Finalmente siete qui! Dio sia lodato, amico mio, che piacere rivedervi. Quando mi hanno detto che eravate arrivato, non potevo credere alla mia buona sorte. Non speravo di vedervi prima della prossima settimana». Dimenticando il suo rango e il luogo dove ci trovavamo, ci venne incontro, aggirando il tavolo a lunghi passi. Circondò con le braccia le spalle del templare, lo abbracciò come un fratello, e poi, accortosi dei due estranei immobili dietro a Renaud, gli domandò a voce alta: «Chi sono i tuoi accompagnatori? Accomodatevi, signori! Siate i benvenuti. Vi prego di unirvi a me, il pranzo è pronto ed ero sul punto di fargli onore». «Ne saremmo felici, mio signore» rispose Renaud e, voltandosi verso di noi, ci presentò: «Lord Duncan di Caithness e fratel Padraig, suo cappellano». «Lieto di fare la vostra conoscenza, signori» disse il principe, chinando garbatamente il capo. Sorrise e, a dispetto di me stesso, dovetti ammettere che mi piaceva. «Non dovete essere da molto qui in città.» «Siamo appena arrivati» risposi. «Avete fatto un buon viaggio?» «Ottimo, mio signore» dissi. «Il Mediterraneo è calmo come un lago paragonato ai mari agitati che circondano la Scozia.» «Ho sentito parlare di questa Scozia, sapete?» esclamò Boemondo. Poi si voltò e ci fece segno di seguirlo a tavola. «Dicono che laggiù uomini e donne si dipingano di blu.» Guardò Padraig, poi me, sorridendo. «Ma voi non siete affatto blu.»
«No, mio signore, anche se è risaputo che i pitti si tingono con il guano quando vanno in battaglia. È un'antica usanza, ma ancora seguita, di tanto in tanto.» Sorrise di nuovo, mettendo in mostra i denti bianchi e regolari. «Mi piacerebbe vederli» commentò, infilzando un volatile con la punta del coltello: «Coraggio, amici miei, mangiamo». E chiamando il servitore: «Hemar! Versa del vino ai nostri assetati ospiti. Vengono dalla Scozia e il loro viaggio è stato lungo». Seguendo l'invito del principe, ci servimmo di carne e di frutta. Boemondo e Renaud discutevano del viaggio e della sistemazione delle truppe, e io fui lieto di avere la possibilità di osservarli a mio piacimento. Decisi che il principe doveva essere un po' più giovane di quel che sembrava a prima vista; e, poiché il suo contegno e il suo modo di parlare erano quelli di un uomo maturo e sicuro di sé, pensai che adottasse quelle maniere per nascondere la sua vera età. Era poco più di un ragazzo che giocava a fare l'adulto, e mi rattristò. Mentre Boemondo e Renaud discorrevano riflettevo su come affrontare l'argomento della progettata aggressione all'Armenia. Pensai che l'ideale sarebbe stato che ne parlasse per primo Boemondo, così che potessi cogliere l'occasione di intervenire come per caso. Ma sembrava che il principe volesse solo continuare a chiacchierare del viaggio e del tempo, e mi venne in mente che forse non desiderava affatto parlare dei suoi piani davanti a Padraig e me. Toccava dunque a noi sollevare l'argomento, e decisi che lo avrei affrontato io. Mentre mi accingevo a farlo, Boemondo, incapace di trattenersi oltre, batté con l'impugnatura del coltello sul tavolo: «Ordunque, Bracineaux, abbiamo menato abbastanza il can per l'aia. Voglio parlare della campagna. Su quanti soldati posso contare?». Renaud posò la coppa e si preparò a rispondere: «Ho riflettuto molto attentamente sulla vostra richiesta, signore» rispose. «A essere sincero, questa faccenda mi mette in una situazione di grave disagio.» «Ma davvero?» chiese Boemondo innocentemente. «Mi dispiace sentirvelo dire.» Non sembrava per nulla preoccupato. «Vedete principe, la nostra regola non ci accorda la potestà di combattere una guerra di aggressione. Ci siamo assunti l'impegno di difendere le strade e coloro che le percorrono, ma qualunque azione militare che esuli da ciò sarebbe una violazione alla regola dell'Ordine. In breve, signore, attaccare un re cristiano nostro alleato sarebbe impossibile, oltre che ripro-
vevole.» Boemondo si incupì per la rabbia, ma mantenne un atteggiamento cordiale: «Suvvia, signore» lo blandì «sapete bene che altri comandanti si sono uniti a me per combattere il nemico comune. Non vi sto chiedendo qualcosa che i vostri confratelli rifiuterebbero di fare». «Le scelte degli altri sono un problema della loro coscienza. Quanto a me, non posso permettere che i miei uomini vengano usati come mercenari.» «Il Gran Maestro mi ha assicurato che non ci sarebbero state difficoltà» disse il principe, in tono petulante. «E non ce ne saranno... finché non verrà chiesto ai miei uomini di infrangere i loro voti monacali. Con tutto il rispetto, mio signore, noi siamo difensori, non aggressori.» «Negate forse che la protezione dei confini del mio territorio sia della massima importanza per la sicurezza dei pellegrini e dei sudditi?» «Al contrario» ribatté Renaud, lieto di trovare un punto d'accordo «se questo paese dovesse mai trovarsi sotto la minaccia del nemico, i templari sarebbero in prima linea.» «Sono lieto di sentirvelo dire» rispose in fretta Boemondo. «Per un attimo avevo cominciato a dubitare di aver agito saggiamente concedendo ai Poveri Soldati di Cristo di alloggiare ad Antiochia in così gran numero e, potrei aggiungere, con così grande spesa. Dopotutto, non potersi fidare del coraggio delle proprie truppe significa essere in balia del nemico.» «Non dovete dubitare del coraggio dei templari» disse Renaud, con voce inasprita dall'ira repressa. «Abbiamo giurato di combattere per l'Onnipotente e preferiremmo morire piuttosto che disonorare il nostro voto.» «Dunque perché esitate?» chiese Boemondo. «Vi assicuro che, fino a quando i confini di questo paese saranno in mano agli armeni, i miei sudditi non saranno al sicuro.» L'attrito fra i due era palpabile e, resosi conto che la discussione con Renaud era giunta a un punto morto, Boemondo rivolse la sua attenzione a Padraig e a me: «Dovete scusarci» dichiarò «sembra che il buon comandante e io abbiamo toccato un argomento su cui siamo in disaccordo». Era la mia occasione per intervenire, e ne approfittai: «Perdonatemi, mio signore. Sono un estraneo in questo luogo e non ho il diritto di parlare. Ma, se vorrete prestarmi ascolto, ve ne sarò grato». «Se avete qualcosa di sensato da dire, siete il benvenuto, signore» concesse il principe con tono di sufficienza. «Sarà piacevole sentire qualcosa
di diverso dalle scuse ipocrite di un templare vigliacco.» Renaud pensò che fosse meglio non ribattere nulla e tacque. Boemondo era giovane e impetuoso, era una testa calda e gli era impossibile reprimere il suo temperamento altezzoso. Contrastarlo avrebbe fatto precipitare le cose. «Anche se sono appena arrivato ad Antiochia, la mia famiglia ha una certa esperienza di questa regione. Mio nonno combatté nella Grande Crociata e cadde a Gerusalemme. Mio padre, a quel tempo, ebbe l'onore di incontrare il vostro, il principe di Taranto. Fu a Giaffa, se ricordo bene, e mio padre aveva più o meno la vostra età, mio signore. Il ricordo del loro colloquio è ancora vivo nella mia famiglia.» Padraig aggrottò la fronte e mi scoccò un'occhiata di avvertimento, probabilmente per farmi capire che mi stavo avvicinando troppo al nostro segreto per farlo sentire tranquillo. Il mio racconto piacque molto a Boemondo e pensai che l'avesse disposto favorevolmente nei miei confronti. «Che storia, signore!» gridò. «Vedete, Renaud? Non tutti in questo luogo abbandonato da Dio ignorano i propri doveri di cristiani, come fate voi.» E, rivolto a me, aggiunse: «Vi prego di continuare». «Perciò» proseguii, sentendo che un nodo mi chiudeva lo stomaco «spero che non pensiate che mi spingo troppo oltre se oso credere che il comandante de Bracineaux abbia ragione nel suo rifiuto di appoggiare un attacco contro gli armeni.» Ahimè, le mie parole non ebbero l'effetto che avrei desiderato. Boemondo contrasse il viso e si rabbuiò per l'ira. «Come osate?» sibilò furente. Poi si rivolse a Renaud, dando libero sfogo alla propria collera: «Verme! Siete stato voi a sobillarlo! Viscido codardo! Andate via! Fuori tutti!». «Calmatevi, mio signore» intervenni, cercando di quietarlo. «Non dovete dare la colpa a Renauld. La mia opinione è del tutto personale e, anche se non avessi mai incontrato il buon comandante, la sosterrei comunque: un attacco agli armeni è un errore. Sono cristiani battezzati, alleati dell'Impero d'Oriente, e hanno la stessa vostra fede.» «Sono farabutti!» ruggì Boemondo, con il viso contorto dalla collera. «E come se non bastasse, sono farabutti intriganti: hanno rubato la terra di mio padre, ma io la riprenderò.» Ci squadrò tutti, con occhi truci, furibondo e deluso per essere stato contraddetto su più fronti. Padraig si alzò e, con il tono più dolce e garbato possibile, disse: «In
nome di Dio, vi esorto a tornare in voi. Accantonate le vostre ingiuste ambizioni, mio signore. Abbandonate il vostro piano e il vostro empio disegno, prima...». Ahimè, Padraig non concluse la sua apostrofe, perché Boemondo afferrò un coltello dalla tavola e glielo scagliò contro, urlando: «Come osate! Andatevene!». Il monaco scansò di misura l'arma, che colpì il muro e cadde a terra. Boemondo balzò in piedi e diede uno scossone al tavolo, rovesciando le coppe e facendo rotolare il cibo dai piatti. «Andate via tutti! Lasciatemi solo!» urlò, mentre il suo pallido volto diventava rosso per la rabbia. Era completamente fuori di sé. Mentre si accingeva a brandire un altro coltello, Renaud, già in piedi, si mosse verso di me: «Andate!» mi esortò. «Tornate alla guarnigione e aspettatemi là.» «Restiamo con voi.» «No, lasciateci soli. Lo calmerò e vi raggiungerò appena possibile. Andate.» E, rivolgendosi in fretta al principe, disse: «Ciò non vi si addice, mio signore. Mettete giù quel coltello e discutiamo da uomini ragionevoli». Ma Boemondo non era più disposto ad ascoltare e continuava a gridare e ad agitare il coltello. Mentre sfogava la sua ira sul templare, Padraig e io uscimmo in fretta dalla sala, attraversammo le grandi stanze del piano inferiore e, dopo aver sceso molte rampe di scale buie, arrivammo alle antiche scuderie. Passammo rapidamente fra i templari affaccendati, ci dirigemmo verso la porta, la varcammo e fummo di nuovo sulla strada illuminata dal sole. Dopo un momento di esitazione, ritrovammo la via da cui eravamo saliti alla cittadella e riprendemmo il cammino a passo svelto, ma senza correre, poiché niente attira di più l'attenzione degli abitanti di un luogo della vista di uno straniero che sembra fuggire. Di quando in quando mi fermavo e mi guardavo alle spalle ma, a quanto sembrava, nessuno ci stava inseguendo. Ripercorremmo molte viuzze ripide e tortuose finché non arrivammo alla città bassa, rallentando gradualmente il passo mentre procedevamo. Le strade diventavano sempre più affollate di gente che andava e veniva dai mercati. Eravamo madidi di sudore per lo sforzo e la tensione, e stavo appunto pensando di fermarmi e riposarmi un po' prima di proseguire, quando Padraig individuò la guarnigione. Finalmente, al riparo di quelle solide mura, ci permettemmo di rilassarci: andammo alla fontana nella corte, ci rinfrescammo e bevemmo a lungo,
per poi raggiungere l'angosciato Rupen che attendeva il resoconto dell'incontro. «Abbiamo fallito» riferii senza reticenze. «Boemondo non ha voluto sentire ragioni. Renaud è rimasto con lui per cercare di calmarlo, ma non ho alcuna speranza che cambi idea.» Il giovane principe annuì mestamente: «Grazie per aver tentato» mormorò. Mi accorsi che era terrorizzato e che aveva sperato troppo nel successo. «Non tutto è perduto» gli dissi, cercando di confortarlo. «Quando tornerà Renaud, decideremo insieme cosa fare.» Ah, se solo fosse stato così semplice. Ventuno Aspettammo inquieti il ritorno del comandante de Bracineaux. Padraig e io trascorremmo le ore calde della giornata dormendo a turno per fare compagnia a Rupen, in modo che non si lasciasse prendere dall'ansia e dal panico. L'andirivieni dei nuovi arrivati continuava, ma senza causare eccessivo rumore: portavano la loro calma e compostezza anche nelle attività frenetiche della vita militare. L'antica caserma romana somigliava molto a un monastero: il silenzioso cortile interno con la cappella in fondo, la teoria di edifici simili a celle; le cucine frementi e operose; il refettorio con le lunghe file di tavoli e di panche; e i templari stessi, affaccendati nelle loro mansioni e vestiti della bianca tunica dell'Ordine. Se non fosse stato per le spade, che raramente abbandonavano, si sarebbe potuto facilmente scambiarli per pacifici monaci. Si trattava, dopo tutto, di un Ordine religioso, benché composto di monaci soldati: i confratelli erano, innanzitutto, uomini d'arme e solo dopo di Chiesa. Per lo più ci lasciarono tranquilli in disparte, presi com'erano a sistemare i nuovi arrivati. Di tanto in tanto si sentiva la voce gioiosa di un templare che aveva scoperto un compaesano fra le nuove reclute, ma altrimenti nel cortile prevaleva il silenzio. Verso sera cominciai a preoccuparmi che, alla cittadella, fosse accaduto qualcosa di grave. Andai in cerca del luogotenente di Renaud e lo trovai nelle scuderie, intento a controllare i cavalli appena arrivati dalla Gallia. Lo salutai e gli esposi le mie preoccupazioni. Mi ascoltò, ma mi accorsi che non credeva a una parola di quanto gli stavo dicendo. Gislebert probabilmente era un ottimo soldato, ma di certo non era una persona cordiale.
Benché fossimo stati compagni di viaggio, continuava a trattarmi con una freddezza indifferente e quasi ostile, comportandosi come se fosse stato deluso e fosse quindi costretto a tollerare in silenzio il peso della mia inadeguatezza. «Riesco solo a immaginare che a Renaud sia capitato qualcosa di spiacevole» conclusi, dopo avergli spiegato cos'era accaduto durante l'incontro con Boemondo. «Altrimenti, sarebbe qui già da un pezzo.» «Sono certo che non c'è motivo di allarmarsi» mi rispose con freddezza, liquidando le mie preoccupazioni come se fossero gli sciocchi sospetti di un bambino viziato e capriccioso. «I problemi di una guarnigione talvolta richiedono un'attenzione più particolare di quanto possa supporre gente ignorante della vita militare.» Immaginai che, con quelle parole, volesse rimettermi al mio posto e infatti tornò alla sua ispezione, facendo scorrere la mano sulla zampa anteriore del cavallo che aveva di fronte, uno splendido stallone roano. Allora decisi che discutere con lui era inutile e gli girai le spalle per andarmene. «Se vi ha detto di attenderlo, probabilmente voleva che lo faceste senza assumere iniziative» aggiunse Gislebert senza guardarmi in faccia, poi borbottò a voce bassa: «Solo uno stupido potrebbe dubitare del comandante». Tornai sui miei passi: «Non sono affatto uno stupido, Gislebert» esordii con tono tagliente «contrariamente a quanto pensate. E ho la massima fiducia nel comandante. Ci ha chiesto di aspettarlo, ed è ciò che abbiamo fatto per tutta la giornata. Ma ha anche detto che ci avrebbe raggiunto al più presto e, evidentemente, non lo ha fatto. Perciò, considerando l'umore di Boemondo, non credo che sia stupido domandarsi se Renaud de Bracineaux stia bene». Gislebert si girò con lentezza, guardandomi con vera e propria avversione. «Lascio a voi decidere» conclusi. «In fondo basterebbe poco a provare che ho torto.» Dopo un po', rispose: «Cosa volete che faccia, mio signore?» pronunciando le parole come se sputasse vermi. «Vi arrecherebbe troppo disturbo mandare un messaggio ai vostri compagni nella cittadella e chiedere loro di scoprire che cosa ha trattenuto il comandante?» «Sarà fatto» disse a denti stretti. «Bene.» Raggiunsi Rupen e Padraig, e ricominciammo ad aspettare. Il crepuscolo
era ormai inoltrato e dalla porta aperta cominciava ad arrivare l'odore del cibo delle cucine. Sempre più irrequieto, uscii nel cortile e, dopo aver camminato per un po' senza meta, mi sedetti sul bordo della vasca della fontana. La notte era serena e la luna era già alta sui tetti; nel cielo limpido brillava qualche stella. Oltre le mura della caserma, vedevo il fumo che si alzava dalle case circostanti. Cercai di immaginare che cosa tu, mia cara Cait, stessi facendo a Banvard in quel momento. Ti vidi mentre giocavi sulla spiaggia e raccoglievi conchiglie luccicanti da mostrare a tua nonna Regana. Ero immerso in quel sogno a occhi aperti quando sentii qualcuno entrare nel cortile. Quando sollevai lo sguardo, vidi Gislebert che si dirigeva in fretta verso di me. «È come temevate» ammise con sincerità. Visibilmente agitato, cercava di sorridere mentre era costretto ad annunciarmi la brutta notizia: «Boemondo tiene prigioniero a palazzo il comandante». «Dunque è avvenuto quel che pensavo.» Gislebert sembrava sulle spine: «Sono riuscito ad avere sue notizie tramite i miei confratelli. È rinchiuso, ma sta bene. Vi ha mandato un messaggio: dovete lasciare immediatamente la città. Ha cercato di ricondurre Boemondo alla ragione, ma senza risultato. Il principe di Taranto ha ordinato di trovarvi. Quando i suoi uomini cercheranno nella città bassa, la nostra guarnigione non sarà più un luogo sicuro. Il comandante si raccomanda che voi e il giovane principe non esitiate oltre: dovete fuggire». «Ha detto dove dobbiamo andare?» «Non direttamente, mio signore» rispose Gislebert. «Ma si suppone che il giovane principe sia ansioso di far ritorno a casa prima possibile.» «Sì, certo» ribattei. «Ma parlate chiaramente, cosa vuole che facciamo?» Il soldato mi guardò con ottusa ostinazione: «Non so altro, signore». Lo fissai, cercando di capire la nuova svolta presa dalla conversazione. Pensai che si trattasse della stessa difficoltà a cui aveva alluso Renaud: il giuramento di fedeltà lo vincolava a non ostacolare in modo diretto il volere di Boemondo. «Gislebert» chiesi «Renaud vi ha detto per quale motivo ha incontrato il principe di Taranto?» «Di tanto in tanto, mi fa le sue confidenze.» «Credo di capire.» Fece un cenno con il capo: «Credo che la questione sia chiusa». «Se lo dite voi.» «Allora penso che vogliate andarvene. Le porte della città verranno presto chiuse e non sarebbe saggio aspettare sino a domattina.»
«Se non c'è altro...» mi interruppi per permettergli di aggiungere qualcosa. «Bene, allora noi andiamo.» Padraig e Rupen ascoltarono in silenzio mentre riferivo le notizie di Gislebert. Conclusi: «A meno di non voler rischiare di essere scoperti in città durante la notte, dobbiamo andarcene prima che chiudano le porte». Non mi piaceva l'idea di chiedere viveri all'intendente della caserma, ma non ebbi scelta. Se anche avessimo incontrato un mercato sul nostro cammino, a quell'ora sarebbe stato deserto, e la strada da percorrere era lunga. Padraig si incaricò di procurarsi l'indispensabile: qualche pagnotta, un po' di carne essiccata e tre otri d'acqua; abbastanza per arrivare a San Simeone, dove speravamo di trovare una barca. Gislebert avrebbe potuto aiutarci, ma era scomparso e non si fece vedere sino a quando non fummo usciti dalla caserma. Ci raggiunse lungo la strada complicando ulteriormente la nostra fuga senza meta: «Il comandante ha detto che, se fosse costretto ad abbandonare Antiochia, andrebbe a Famagosta» mormorò con aria allusiva. Non avevo idea di dove si trovasse, e nemmeno Padraig e Rupen. «È un porto sull'isola di Cipro» proseguì Gislebert. «Ci abita un uomo che si chiama Giordano Ippolito.» Ne ripetei il nome. «Pensate che valga la pena di cercarlo?» «Forse» ammise incerto. «È famoso perché offre aiuto ai viaggiatori bisognosi.» Dopo averci riferito quell'oscuro messaggio, Gislebert tornò alla guarnigione e noi ci incamminammo per la nostra strada, veri pellegrini, con nient'altro che un mantello sulle spalle, le borracce a tracolla e un fagottello di provviste in comune. Attraversammo rapidamente le vie semideserte e raggiungemmo l'ingresso della città mentre i soldati si accingevano a chiudere le porte per la notte. Stranamente, i viaggiatori che intendevano lasciare Antiochia dopo il tramonto li preoccupavano come se si trattasse di invasori che cercassero di entrarvi. Penso che tutti i guardiani si assomiglino in questo: considerano con la medesima diffidenza tutti coloro che attraversano le porte a loro affidate, soprattutto quando si preparano a sbarrarle. Ci fermarono, ci interrogarono minuziosamente e ci perquisirono con accigliati sguardi di disapprovazione. Se non fosse stato per Padraig che, in quanto religioso, ci fece da garante, non credo che ci avrebbero mai lasciato andare. Finalmente ci permisero di uscire attraverso un usciolo, perché le grandi porte della città erano già chiuse e così ci ritrovammo sulla stessa strada
che avevamo percorso quella mattina. Avendo dormito per buona parte del pomeriggio, Padraig e io eravamo in ottima forma, ma Rupen era stato troppo preoccupato per approfittare dell'opportunità di riposare e dunque fummo costretti a procedere lentamente e a fermarci più spesso di quanto avrei voluto. Purtroppo non c'era altro da fare: il giovane principe non aveva ancora recuperato completamente le forze, e non ci avrebbe certo facilitato il rischio che si stancasse eccessivamente e si ammalasse di nuovo. Ci fermammo all'alba, per bere un sorso d'acqua e poi ancora a mezzogiorno, per rifocillarci e sdraiarci all'ombra nelle ore più calde della giornata. Per precauzione, ci allontanammo dalla pista e ci riparammo sotto alcuni olivi bassi e contorti. Terminammo in fretta le nostre scarse provviste, poi mi misi di guardia sulla strada per evitare che i soldati di Boemondo ci sorprendessero mentre dormivamo. Non scorsi traccia di inseguitori: strada, cielo e dune erano tutte per noi. A breve distanza dallo sparuto oliveto c'era una misera fattoria, i cui aridi campi mostravano più pietre che grano. Nell'aria torrida come la vampa di un forno languivano alcuni rinsecchiti alberi da frutta, e le loro foglie appassite scricchiolavano all'alito caldo del vento. Spaccarsi la schiena su quella terra disperata sembrava uno spreco di fatica, ma era lo stesso dappertutto, in quel paese desertico. Per quanto potevo vedere, la Terra Santa non era altro che un ammasso di sabbia e terra sterile; ci si litigava da secoli come se fosse un paradiso dove scorrevano latte e miele, anziché polvere e vento, un regno meraviglioso, ricco d'oro e di pietre preziose, anziché di sassi e spine. Che qualcuno fosse interessato a chi governava quel paese inospitale mi stupiva; ma che si potesse addirittura combattere e morire per regnarvi, mi metteva nella costernazione. "Ecco" pensai cupamente "il trionfo dell'avidità sulla ragione, dell'ambizione sulla saggezza." Mentre ci riposavamo, cercammo di stabilire come avremmo raggiunto la nostra destinazione finale: Anazarbus, in Armenia. «È molto lontana» ci informò Rupen. «Il territorio da attraversare è assai selvaggio e spoglio; ci sono poche strade e quelle che esistono non sono affatto buone. Per arrivarci, avremo certamente bisogno d'aiuto e di buoni cavalli.» Gli chiesi in che direzione si trovasse l'Armenia e quale fosse la via migliore per andarci. Rupen spiegò che il suo paese era a nord, sulle alture del Tauro, e che si potevano seguire diversi percorsi. «La strada più pratica, comunque, è quella che passa attraverso Mamistra» rifletté. «Possiamo
arrivarci via mare, da Famagosta.» «Mamistra è un porto marittimo?» «No, fluviale. Le acque del fiume sono abbastanza profonde, ed è il porto più vicino ad Anazarbus.» Quando il calore del sole cominciò a diminuire un po', ci rimettemmo in marcia e camminammo fino al tramonto. Continuai a controllare la strada, ma non vidi nessuno finché non ci imbattemmo in un gruppo di mercanti veneziani accampati per la notte. I mercanti, sette in tutto, avevano concluso i loro affari ad Antiochia e si stavano dirigendo a sud, verso Ascalona. Ci salutarono gentilmente e ci invitarono a dividere con loro la cena, chiedendoci che opinione avessimo della Terra Santa e dei suoi abitanti. Padraig sarebbe rimasto a chiacchierare con loro per tutta la notte, ma io pensai che fosse meglio non farsi notare troppo, e perciò, dopo aver augurato loro ogni bene, li pregai di scusarci, spiegando che avevamo camminato tutto il giorno ed eravamo stanchissimi. Mi trovai un posto libero da pietre e da cardi spinosi, mi coricai e dormii profondamente sino all'alba, quando Padraig mi svegliò dandomi leggermente di gomito. «Arriva qualcuno» sussurrò. «Stavo pregando quando ho sentito dei cavalli sulla strada.» «Gli uomini di Boemondo?» «Forse. Sono ancora troppo lontani per esserne sicuro.» «Allora ci resta una possibilità.» Svegliammo Rupen e lasciammo silenziosamente l'accampamento per nasconderci in un fossato asciutto a qualche centinaio di passi di distanza. Poco dopo comparvero tre soldati a cavallo che si fermarono all'altezza del gruppo di veneziani. Benché non potessimo sentire ciò che dicevano, era facile intuirlo. I cavalieri svegliarono i mercanti e fecero loro svariate domande; questi si guardavano intorno stringendosi nelle spalle, come per dire: "Non sappiamo se fossero gli uomini che state cercando. Erano qui ieri notte, ma adesso se ne sono andati". I cavalieri non si trattennero e si allontanarono in fretta, senza dubbio nella speranza di raggiungerci più avanti. Dopo che se ne furono andati, aspettammo nel fossato fino alla partenza dei mercanti e solo allora riprendemmo la marcia, controllando con attenzione la strada davanti a noi nel caso che i tre soldati fossero tornati indietro. Proseguimmo sino a mezzogiorno, poi ci concedemmo un'altra sosta, progettando di rimetterci in cammino al tramonto e di avanzare per l'intera notte, in modo da raggiungere il porto il mattino successivo e da riuscire a
imbarcarci sulle prime navi in partenza. Così facemmo: viaggiammo tranquilli nelle ore notturne sotto il cielo stellato e arrivammo al piccolo porto di San Simeone subito dopo l'alba. Non c'era traccia dei soldati, ma due delle navi dei templari erano ancora nella baia e facevano sembrare minuscole le barche da pesca ancorate al largo. Seguimmo la stradina che conduceva al porto, dove Rupen si fece valere, negoziando il noleggio di un'imbarcazione e il trasporto sino a Famagosta. Il pescatore con cui trattò conosceva bene il percorso e fu felice di essere pagato in argento sonante per i suoi servigi. Chiamò il figlio e un amico sfaccendato perché lo aiutassero con la barca e, dopo che ci ebbe riforniti di qualche pagnotta, un po' di vino, uova sode e pezzi di formaggio di capra, disse che eravamo pronti a salpare. Mentre uscivamo dalla baia, scrutai per l'ultima volta le strade e le colline cercando qualche traccia dei nostri inseguitori, ma non li vidi. Decisi che Boemondo non si era impegnato molto per trovarci; se ne avesse avuto veramente intenzione, i suoi uomini ci avrebbero già raggiunto da tempo. Conclusi perciò che i suoi sforzi erano stati diretti altrove e diminuii la vigilanza. La vera sfida, pensai, non era sfuggire a chi ci inseguiva, ma raggiungere Anazarbus. Dovevo concentrarmi su quell'obiettivo. Del viaggio posso raccontare che fu breve e, grazie a Dio, tranquillo. Dopo due giorni raggiungemmo il porto situato all'estremità orientale di Cipro e ci mettemmo subito alla ricerca di Giordano. Pensai che non correvamo alcun rischio: se per una qualunque ragione quell'uomo non ci fosse piaciuto, o non potesse esserci utile, avremmo semplicemente ripreso il nostro viaggio e raggiunto Anazarbus con le nostre forze. Quella sera, mentre la luna sorgeva sulle acque tranquille del porto, tutto sembrava facile e prevedibile. Ma, come avrei imparato a mie spese, era meglio non fare programmi da quelle parti. Fummo subito costretti a interrompere la nostra ricerca perché, al calare della sera, nessuno voleva parlare con estranei per la strada. Ci sembrò quindi necessario pernottare presso un mercante di lana del posto, che affittava parte della sua grande casa ai visitatori. Nella modesta somma che ci chiese era compreso anche un eccellente pasto: mangiammo con gusto e dormimmo ottimamente su soffici materassi imbottiti di lana. La mattina dopo ci svegliammo di buon'ora per trovare Giordano. Eravamo spinti da un'urgenza sempre maggiore, perché ogni giornata sprecata portava un po' più vicino l'attacco di Boemondo ad Anazarbus. Prima di lasciare la casa del mercante di lana, gli domandammo se sape-
va dove avremmo potuto trovare Giordano Ippolito. Il nostro bonario ospite ne aveva sentito parlare e ci diede qualche informazione: «Vive nella città alta, cioè la città vecchia. È un orafo, un brav'uomo e un vero santo, dedito alle opere di carità, se intendiamo la stessa persona». «Quello di cui parli tu» intervenne sua moglie «non abita affatto nella città vecchia, ma in una grande casa in fondo alla strada dietro la collina.» Il viso giocondo del mercante si rabbuiò: «Come fai a sapere di chi parlo? Taci, donna, confonderai questa brava gente». «Non più di quanto abbia già fatto tu» ribatté acida la moglie del mercante. «Datemi retta, chiedete a qualcuno di indicarvi la strada che porta alla casa dietro la collina.» «Sta nella città vecchia» ci garantì il mercante. «Non date retta a mia moglie. Evidentemente si confonde con qualcun altro.» Armati di informazioni tanto concordi, cominciammo la nostra ricerca dando fiducia al mercante. Per il prezzo di una focaccia di sesamo, un ragazzo del porto ci indicò la strada per la città vecchia e ci fece da guida fino alla piazza del mercato, dove moltissimi artigiani e mercanti esponevano e vendevano i loro prodotti. A Famagosta si parla greco e Padraig, che l'aveva studiato, si incaricò di domandare se qualcuno conoscesse l'uomo che stavamo cercando. «Ma certo» affermò un venditore di ciotole d'ottone «lo conoscono tutti. Possiede molte navi. Se volete trovarlo, dovete andare al porto, perché sta sempre laggiù a badare alla sua flotta.» «Vi ringrazio» disse Padraig «ma ci hanno fatto intendere che è un orafo che abita nella città vecchia.» Intanto, vedendo degli stranieri nel loro mercato, i venditori che non stavano servendo i clienti ci si erano raccolti intorno per tentare di venderci qualcosa. «Ma no» rispose a Padraig il primo interlocutore. «Temo vi abbiano mentito. Non ha nessuna casa, dorme su una nave. Cercate la più grande di tutto il porto: è quella di Giordano.» «Cosa stai raccontando a questa gente, Adonis? L'uomo di cui stai parlando è morto l'anno scorso.» «Impossibile!» gridò Adonis. «L'ho incontrato al porto non più di un paio di giorni fa.» «Forse hai visto un fantasma» ribatté l'altro, un vasaio dalle robuste braccia nude e pelose coperte di argilla. «Le navi sono in vendita. Volete comprare una nave?» chiese in tono speranzoso.
«Non ora» rispose Padraig. «Forse in seguito.» «Giordano Ippolito avete detto?» intervenne un terzo commerciante, che vendeva sandali e cinture e aveva le mani completamente rosse per via del colorante usato per tingere la pelle. «Lo conosco io» esclamò. «Ma non è un armatore. Viene da Damasco e coltiva fichi.» «Un coltivatore di fichi di Damasco?» sbottò il primo. «Non ce n'è uno in tutta Famagosta!» «E invece sì» replicò il calzolaio con invidiabile sicurezza. «Ha una figlia che viene a fare compere al mercato. Una volta le ho venduto un paio di sandali e mi ha detto che erano i più belli che avesse mai visto, persino a Damasco. Forse, quando avrete finito di parlare» si offrì «vi andrà di comprare un paio di sandali. O magari una cinta.» «Per la barba di san Pietro!» lo rimproverò il vasaio. «Queste persone stanno cercando il loro amico. Non vogliono i tuoi sandali.» «I miei sandali sono di prima scelta. E anche le mie cinture. Dovreste venire a vederli» insistette senza darsi per vinto. «Sentite, amici» intervenne un altro mercante «qui non ci sono né orafi né armatori di nome Giordano. Lavoro qui da ventitré anni e conosco tutti. Non c'è nessuno che si chiami così.» I venditori cominciarono a discutere tutti insieme dell'identità del nostro uomo. Rassegnato, Padraig si volse verso di noi: «A questo punto credo che avesse ragione la moglie del mercante di lana. Forse dovremmo provare a cercare la casa dietro la collina». E, di nuovo, una cosa che sembrava semplicissima si caricò di inimmaginabili difficoltà e nessuno seppe darci indicazioni. Come ci spiegò una delle nostre ineffabili guide: «Il problema non è tanto la casa, quanto la collina. Ce ne sono moltissime a Cipro, e dietro di solito ci sono delle case». Rupen, che cominciava a farsi prendere dallo sconforto, espresse l'opinione di tornare al porto, noleggiare una barca e lasciarci per sempre Famagosta alle spalle. Ma io, visto che avevamo già perso quasi tutta la giornata, ero più deciso che mai a scoprire chi fosse il fantomatico Giordano Ippolito. Padraig fu d'accordo con me. «Se non riusciremo a trovarlo entro stasera» promisi a Rupen «domattina ci metteremo in viaggio.» Fu così che perlustrammo ogni collina circostante il porto, domandando casa per casa, finché non arrivammo a una bella villa romana, circondata da un muro diroccato. Sulla strada davanti a noi camminava una donna che reggeva una brocca
e che, a un certo punto, svoltò di lato e scomparve attraverso un portoncino che si apriva nel muro. Faceva molto caldo e noi eravamo stanchi. Così, con l'intenzione di chiederle un sorso d'acqua, o almeno un'indicazione per il pozzo più vicino, affrettai il passo e la seguii oltre la soglia, ritrovandomi nel cortile ombroso di quella che doveva essere stata una splendida dimora patrizia. Tutt'intorno c'erano grandi vasi di terracotta con grandi piante frondose e, al centro, accanto a una vasca bordata di pietre, un armonioso alberello carico di fichi. Il caldo abbacinante del giorno scomparve all'improvviso e mi sembrò di essere in un angolo di paradiso. Padraig e Rupen apparvero sull'uscio alle mie spalle ed entrarono cautamente nel cortile. «Allora avevo ragione!» esclamò una voce dall'ombra. «Mi stavate seguendo.» Mi voltai e vidi la donna, con la brocca ancora fra le mani, che ci osservava nascosta dietro i rami di una pianta. «Vi chiedo scusa, signora» mi affrettai a rassicurarla. «Non era mia intenzione spaventarvi.» «Ci vuole ben altro che un lacero viandante per mettermi paura» rispose, facendosi avanti. Era alta e flessuosa, aveva lunghi capelli neri e indossava una semplice tunica azzurra, che ricadeva in pieghe ordinate tranne nel punto in cui stringeva la brocca al petto formoso e lungo la curva sinuosa dei fianchi. «Cosa volete?» chiese. Parlava in latino e non in greco, ma con uno strano accento in cui ogni parola assumeva un tono piatto. «Vi prego, non vogliamo disturbare...» «Ma lo avete già fatto» il suo sguardo era così ardito da risultare imbarazzante. «Vi domando nuovamente perdono» replicai, a disagio. Non avevo pronunciato che una decina di parole e mi ero già scusato due volte. La fissai a mia volta, quasi sfidandola a interrompermi di nuovo senza lasciarmi terminare la frase. «Stiamo cercando la casa di un certo Giordano.» «E perché mai?» «Dobbiamo discutere di un affare.» «Bugiardo!» esclamò. «Non vi conosce nemmeno.» «Come?» «Andatevene subito, prima che ordini ai servi di cacciarvi.» Ricordando che il calzolaio aveva sostenuto di conoscere la figlia di Giordano, le guardai i piedi e vidi che calzava un paio di sandali della stessa sfumatura di rosso che macchiava le mani dell'artigiano. «Allora abita
qui!» «Sì. Ma non pensate di poterlo vedere. Non riceve nessuno.» «Veniamo da molto lontano» le spiegai. «Addirittura da Antiochia. Ci ha indirizzari qui Renaud de Bracineaux, comandante dei templari.» L'ombra del dubbio le oscurò il volto. Mi fissò per un istante. «E chi è questo de Bracineaux?» chiese infine. «A quanto ne so, un amico di Giordano Ippolito.» «Ed è anche amico vostro?» Era una domanda facile, ma esitai. Dopo aver gettato un'occhiata a Padraig, che si limitò a restituirmi uno sguardo serafico, asserii: «Conosciamo il comandante e lo stimiamo, ma no, non siamo precisamente amici». Quell'ammissione sembrò placarla. «Potete entrare» concesse, aggiungendo però immediatamente: «Solo uno. Chiederò a mio padre se vuole ricevervi». «Vai tu, Duncan» mi esortò Padraig. Così, mentre lui e Rupen si sedevano all'ombra, la donna mi condusse attraverso il cortile, mi fece girare intorno alla vasca, e mi guidò lungo un vialetto lastricato che portava all'ingresso di casa. Senza fermarsi, aprì la grande porta di legno ed entrò rapida, facendomi cenno di seguirla. Entrammo in un vestibolo fresco e buio, rivestito di marmo e piastrelle. La luce, che penetrava solo da una piccola finestra rotonda posta sopra la porta, gettava un cerchio luminoso sulle piastrelle azzurre delle pareti, lungo le quali era disposta una fila di statue - busti e figure intere - scolpite in una splendida pietra bianca come il latte. Non capisco mente di arte, ma quelle figure sembravano persone in carne e ossa e pensai che il loro autore dovesse essere un maestro. Il fatto che in una casa ci fossero sculture come quelle mi sembrò un segno di grande gusto e raffinatezza; e il fatto che lì ce ne fossero tante, significava che il padrone era ricco come un re. «Aspettate qui» mi ordinò la figlia di Giordano, indicando una camera oltre l'ingresso. «Vado a vedere se mio padre si sente abbastanza bene da ricevere un ospite.» Si allontanò, e io entrai nella stanza che mi aveva indicato, una grande sala, che doveva essere almeno tre volte più vasta del salone di Murdo, piena zeppa di tavoli, sedie, tappeti, cuscini e altri mobili. Sui tavoli e sul pavimento erano ammucchiati disordinatamente brocche, boccali, ciotole e piatti, mentre numerose lance e alabarde da parata, con nappine intrecciate e fasce di seta erano appoggiate alle pareti. Il pavimento non era rivestito da piastrelle, come avevo creduto sulle
prime, bensì da tavolette quadrate di legno levigato, sapientemente unite a formare complicati disegni policromi. Due pareti erano affrescate con una scena di caccia al cinghiale, con figure a cavallo accompagnate da una muta di enormi cani. Gli uomini rappresentati nel dipinto erano armati di lance e di piccoli scudi rotondi e indossavano le vesti gonfie e sgargianti in uso fra i principi orientali. L'ampia volta della sala era tinteggiata del colore del cielo a mezzogiorno. Come ho detto, gran parte della stanza era occupata da oggetti di vario genere, tutti alla rinfusa: tappeti accatastati o arrotolati e legati in modo da sembrare tronchi; grandi giare e orci di bronzo e di rame; armi da parata fra cui spade, lance e scudi; grandi ceste ricolme di coppe, calici, boccali d'onice, ottone o corno. Contai sette tavoli da banchetto, ciascuno abbastanza grande da ospitare comodamente venti commensali, e una dozzina di tavolini fra cui alcuni in legno dorato e ornati di intagli accurati. C'erano anche numerose sedie, alcune grandi come troni. Ne adocchiai un paio che il signore delle Orcadi avrebbe posseduto volentieri. Ero così assorto nell'esame di ciò che mi circondava, che non mi resi conto che qualcuno mi stava osservando. «Prendete ciò che volete» disse una voce rauca e asciutta in un latino preciso e solenne. «Prendete tutto ciò che riuscite a trasportare, ma lasciateci in pace.» Mi voltai, e sulla soglia alle mie spalle vidi un uomo calvo ed emaciato. Era alto, ma teneva le spalle basse e le braccia ciondoloni lungo i fianchi. Aveva lineamenti affilati, un grande naso a becco e il mento sfuggente, e la sua fisionomia mi fece venire in mente un'aquila. Gli occhi scuri e mesti e la curva amara della bocca umidiccia, però, gli davano l'aspetto desolato di un rapace sofferente. Dapprincipio immaginai che la sua espressione angustiata fosse dovuta al pensiero di dover affrontare un malfattore deciso a derubarlo, e perciò mi affrettai a chiarire l'equivoco. «Pax vobiscum» salutai. «Vi prego di non temere, non sono un ladro. Vostra figlia è stata tanto cortese da permettermi di entrare e stavo semplicemente aspettando il suo ritorno.» Sospirò rumorosamente e continuò a osservarmi con occhi tristi come se la mia giustificazione, oltre che falsa, non fosse neppure degna di una risposta. Era più alto di quanto sembrasse, ma stava curvo e ingobbito, come se un peso gli gravasse sul collo. «In verità» ripetei, sperando di farmi capire «mi è stato detto di aspettare qui.» Non parlò neppure stavolta, e continuò a fissarmi. «Siete voi Giorda-
no?» «Lo ero» rispose gravemente. Si raddrizzò e sollevò la testa. «Giordano Ippolito non c'è più.» La pelle grinzosa del collo gli penzolava in pieghe flaccide, come pure quella delle braccia. «Chi siete?» Gli dissi il mio nome, e gli raccontai che i miei amici e io eravamo giunti a Cipro da Antiochia e che il comandante dei templari ci aveva detto di cercarlo e di chiedere il suo aiuto. Sperai che questo potesse servire a fargli accettare la mia presenza, ma mi sbagliavo. «I vostri problemi non mi interessano affatto» ribatté, voltandosi all'improvviso. «Prendete ciò che volete e andatevene. Voglio stare in pace.» Si allontanò lentamente, trascinando i piedi, lasciandomi a bocca aperta. Ventidue Carissima Caitrìona, è accaduta una cosa che mi ha procurato un'eccitazione che non provavo più da molto tempo: è un fatto piuttosto enigmatico, è vero, al quale tuttavia posso solo attribuire un'importanza straordinaria. So bene che non sarebbe la prima volta che un prigioniero, vissuto a lungo in solitudine, intravede una falsa speranza in ogni cambiamento, anche minimo e ingiustificato, della propria squallida condizione. Ma la mia mente già corre, e le mani mi sudano nell'attesa. Stamattina di buon'ora, prima del sorgere del sole, quando il palazzo era ancora sprofondato nell'oscurità, sono venute le guardie. Sono stato svegliato e condotto via in tutta fretta, senza che mi fosse concesso il tempo di prepararmi a lasciare la mia cella, né di sigillare questa missiva indirizzata a te, mia diletta. Fortunatamente Wazim, svegliato dal rumore, mi è corso dietro lungo il corridoio e così ho potuto dargli le istruzioni del caso. Sono dunque andato verso il mio destino sapendo almeno che, qualunque fosse stata la sorte che mi avrebbe atteso, un giorno avresti letto questi fogli vergati con fatica e amore. Sono poi stato trascinato davanti al califfo al-Hafiz per udire la sentenza. Se non fossi stato consapevole che era trascorso qualche giorno da quando mi ero trovato lì la prima volta, avrei potuto credere di aver lasciato la sala solo per fare un giretto lungo i corridoi e di essere rientrato ritrovando tutto precisamente come l'avevo lasciato appena qualche minuto prima. Il califfo, splendido nel suo turbante bianco come la neve ornato di piume di pavone, era ancora seduto sul suo trono d'oro sotto la palma e osservava con palese ostilità il mio ingresso.
Sono stato costretto a inginocchiarmi davanti a lui e a baciare il pavimento di pietra, e sono stato rimesso in piedi rudemente. Poi il califfo ha fatto un gesto con il dito, e le guardie si sono allontanate lasciandomi solo alla sua presenza. Allora mi ha squadrato in modo ostile, accarezzandosi i lunghi baffi grigi, e io gli ho restituito lo sguardo con tutta la calma possibile. «Dunque!» ha esordito dopo un po'. «Mi dicono che in questi giorni siete stato molto occupato a scrivere.» «Sì, eccellentissimo califfo. Cerco di occupare il tempo.» «E che cosa state scrivendo?» «Un resoconto de...» «Della vostra prigionia» ha concluso al posto mio. «Dei miei viaggi» l'ho corretto. «Sto stendendo un resoconto dei miei viaggi in Oriente.» Ha borbottato qualcosa e si è tirato i baffi, riflettendo sulla mia risposta. Mi sono reso conto in quel momento di avere di fronte un uomo scontento e preoccupato. Gli occhi che mi fissavano erano affaticati anche se la giornata era appena all'inizio. «E chi lo leggerà?» mi ha chiesto. «Mia figlia. Anche se è ancora molto giovane, spero che un giorno vorrà conoscere il destino di suo padre e che leggerà le mie pagine.» «Ah!» ha gridato, come se mi avesse colto in flagrante. «E come credete che riuscirà a ricevere il vostro scritto? Chi glielo porterà?» «Non lo so» ho risposto prontamente. «Questa decisione spetta al senso dell'onore del califfo.» La mia riposta lo ha colto alla sprovvista: «Devo decidere io?». «Proprio così, mio signore. Mi è stato promesso che il mio ultimo desiderio sarebbe stato esaudito. E io vi chiedo che il mio resoconto raggiunga mia figlia.» Il califfo si è rivolto a uno dei suoi numerosi consiglieri: «È vero?». Il dignitario, un uomo dalla barba scura, ha consultato una pergamena che teneva arrotolata in mano e ha annuito: «Sì, eccellentissimo e sommo califfo. La promessa è stata fatta in riconoscimento della nobiltà del prigioniero, secondo la consuetudine in vigore a Baghdad». Il califfo ha strizzato ancor più gli occhi, ha inspirato profondamente, ha buttato fuori tutto il fiato e ha detto: «Ebbene, così sia». Inchinandomi con deferenza ho mormorato: «Vi ringrazio, nobile califfo.» «Immagino che amiate vostra figlia» ha sibilato.
«Certo, mio signore. È la luce dei miei occhi e mi è immensamente cara.» «Un padre deve amare i suoi figli» ha dichiarato al-Hafiz, con il tono che si usa con un discepolo testardo. «Così sta scritto nel sacro Corano.» «E nella Bibbia» ho fatto notare. «Non avete paura di morire» ha osservato. «No, mio signore.» «Siete dunque così puro di cuore da non tremare all'idea di trovarvi di fronte al trono del Giudice Supremo?» «Perché dovrei aver paura, mio signore, se anche ora il mio imparziale difensore intercede per me davanti a quel trono?» Il califfo è parso incuriosito dalle mie parole: «Quale difensore?». «Gesù Cristo, il Messia.» «Lo conosco» ha detto al-Hafiz, con un gesto d'impazienza. «Fra i credenti è considerato un grande profeta.» Poi, aggrottando la fronte per sfidarmi a rispondere, mi ha domandato: «E perché mai un profeta dovrebbe intercedere per voi?». «Intercede per chiunque abbia fede in Lui» ho ribattuto. Al-Hafiz ha sollevato il mento, indicando così che il nostro colloquio era concluso: «Vedremo presto se il vostro difensore gode del favore di Allah» ha affermato. «All'ora sesta la vostra testa cadrà sotto la scure, e voi vi presenterete al Trono del Giudizio: vi auguro che l'eloquenza del vostro avvocato possa aprirvi le porte del paradiso.» Anche se mi aspettavo da tempo quella sentenza, sentirla mi ha fatto cedere le ginocchia. Eppure, in qualche modo, ho trovato la forza di inchinarmi per mostrare che la accettavo umilmente. «Non siete preoccupato?» ha chiesto il califfo, che sembrava scontento del mio atteggiamento sereno. «Mio nobile signore» ho risposto, cercando di mantenere la voce ferma «come qualunque altro uomo, amo la vita. La mia è nelle vostre mani, voi ne siete il padrone, poiché io sono il vostro servo. Sta a voi giudicarmi.» «Sperate che mi impietosisca per la vostra inutile deferenza e vi perdoni» ha commentato in tono minaccioso, come per sfidarmi a supplicarlo di graziarmi. Sapevo già cosa avrei risposto: «Con tutto il rispetto, mio signore, io ripongo la mia speranza in Dio Onnipotente, il Santo e Misericordioso Redentore, poiché Lui solo ha potere di vita e di morte, in questo mondo e in quello che verrà».
Il califfo mi ha fissato per qualche istante e mi è parso di scorgere un'ombra di dubbio tra le rughe profonde del suo volto. Improvvisamente, come se un pensiero gli si fosse affacciato solo allora alla mente, ha chiesto: «Cosa sapete degli avvenimenti del Cairo?». Tale interrogativo mi ha colto di sorpresa, lasciandomi interdetto. «Non so nulla di ciò che succede al Cairo» ho risposto alla fine, dopo che la domanda mi era stata posta una seconda volta. «Sono prigioniero a palazzo fin dal mio arrivo. Non ho avuto modo di vedere né di parlare con nessuno.» «Già!» ha dichiarato in tono trionfante, facendomi intuire che mi aveva messo alla prova, anche se io non ho capito dove fosse il trabocchetto. Intanto, con un cenno alle guardie, ha ordinato di portarmi via. Sono stato ricondotto alla mia prigione dove ho passato le mie ultime ore di vita pregando e preparandomi spiritualmente alla morte. Non so quanto tempo sia trascorso, mi è sembrato di essere stato in ginocchio per un'eternità. Poi ho sentito un rumore di passi fuori dalla porta e la chiave girare nella toppa e mi sono alzato in piedi per accogliere le guardie che mi avrebbero accompagnato sul luogo dell'esecuzione. Invece è entrato Wazim, da solo. «Da'ounk» ha annunciato, con il volto bruno radioso come il sole. «Buone notizie! L'esecuzione è stata rimandata.» «Rimandata?» sono stato invaso da una sensazione di sollievo. «Perché?» «La ragione non mi è stata detta» ha risposto. «Ma so che ci sono disordini in città e che il califfo ha mandato tutte le guardie a sedarli. Ha deciso che nessun prigioniero sarà giustiziato finché la calma non verrà ristabilita.» Ho riconosciuto che si trattava di una splendida notizia e gli ho chiesto: «Che genere di disordini? E perché sospendere le esecuzioni?». «Non so che cosa sia successo» ha risposto Wazim. «Ma, se lo desiderate, mi incaricherò di scoprirlo. Volete?» In quel momento ho ricordato che il califfo mi aveva domandato cosa sapevo dei fatti del Cairo. Se, a quanto pareva, la mia sorte era strettamente collegata con tali avvenimenti, sarebbe stato bene conoscerli il più possibile. «Certo» ho infine detto a Wazim «cercate di sapere tutto ciò che potete, ve ne prego.» «Con piacere, Da'ounk.» È uscito dalla cella salutandomi con un sorriso, e si è allontanato in fret-
ta. Mi sono raccolto in preghiera per ringraziare il Signore per aver rimandato ancora la mia fine. Seduto al mio tavolo, dopo aver lungamente riflettuto sui possibili sviluppi di quest'imprevista novità, ho preso di nuovo in mano la penna e sono tornato al mio lavoro di scrivano. Lasciata la stanza in cui avevo incontrato Giordano Ippolito, raggiunsi Rupen e Padraig che erano seduti accanto alla vasca di pietra del cortile e parlottavano a bassa voce. Osservata l'espressione del mio viso, il monaco commentò: «Non ha voluto riceverti». «No, l'ho visto, ma si rifiuta di aiutarci.» Raccontai brevemente di essermi presentato a nome di Renaud: «Ha risposto che non gliene importa nulla delle nostre difficoltà». «Allora dobbiamo scuoterci dai piedi la polvere di questo luogo» sbottò Rupen. «Questa storia ci ha già fatto perdere troppo tempo.» Si alzò di scatto: «Non saremmo mai dovuti venire qui. A quest'ora saremmo già in viaggio verso Anazarbus, se non avessimo dato retta a quel dannato templare». Fui costretto a dargli ragione, così decidemmo di tornare al porto e di tentare di noleggiare una barca, benché, considerando che ci restava ben poco della prodigalità di Bezu, ritenevo che avessimo scarse possibilità di farcela. Comunque, attraversammo il cortile e, proprio mentre mi accingevo a oltrepassare il portoncino d'uscita, sentii qualcuno che mi chiamava, mi voltai e vidi la figlia di Giordano che correva verso di noi. Dissi agli altri di aspettare e tornai indietro. «Dove state andando?» chiese la giovane donna. «Pensavo voleste vedere mio padre.» «Gli ho parlato» risposi. «Non desidera aiutarci. Ha affermato che non gli interessano affatto i nostri problemi.» «Lo dice a tutti» sospirò lei. «Avrei dovuto avvisarvi.» Le sue maniere brusche si erano un po' addolcite, e ciò mi stupii. «Talvolta non è facile capirlo.» «L'ho capito perfettamente. Mi dispiace di avervi importunato» la ringraziai per il suo aiuto e mi accomiatai. «E ora, se volete scusarmi, i miei amici mi aspettano.» «Non andatevene.» Il tono accorato della sua voce mi colse di sorpresa: «Signora?». «Vi prego, cenate con noi stasera. Parlerò a mio padre. Vi riceverà con
una migliore disposizione d'animo, ve lo prometto.» Fu il mio turno di aggrottare la fronte: «Abbiamo passato tutto il giorno a cercare questo posto solo per sentirci dire di andarcene, prima da voi e poi da vostro padre. Ora che ci accingiamo a togliere il disturbo, ci chiedete di restare». Inaspettatamente sorrise, e i suoi denti candidi balenarono in modo incantevole e seducente contro l'incarnato d'ambra della pelle. Mi accorsi solo allora che era una donna orientale, bruna, con capelli e occhi di un nero lucente e la pelle luminosa del colore del miele impastato con la panna. «I nostri affari sono urgenti» dichiarai. «Non possiamo permetterci di sprecare il nostro tempo per i capricci di un vecchio.» «Vi prego» ripeté lei, appoggiandomi una mano sul braccio. «Avete bisogno di rifocillarvi, ed è passato molto tempo dall'ultima volta che abbiamo ricevuto ospiti sotto il nostro tetto. Cenate con noi stasera e non avrete di che pentirvene.» Non aveva tutti i torti: ormai la giornata volgeva al termine e avremmo comunque dovuto trovare un rifugio per la notte. Pensai che, dal momento che eravamo lì, tanto valeva restarci qualche altra ora: «Va bene» risposi. «Ne parlerò con i miei amici.» «Ottimo» commentò la giovane, illuminandosi di colpo. «Andate a riprenderli e vi mostrerò dove potrete riposarvi e rinfrescarvi.» Uscii, comunicai a Padraig e Rupen che c'era stato un cambiamento di programma e raggiungemmo di nuovo la figlia di Giordano nel cortile. Ci accolse dicendo: «Per preparare la cena devo andare al mercato. Il cortile è ombroso e potrete approfittare dell'acqua della vasca per darvi una rinfrescata. Tornerò presto». La ringraziai per le sue premure ma, mentre si allontanava, Rupen se ne uscì con un'osservazione inaspettata: «Vorreste mangiare insieme a loro?». Senza lasciarmi il tempo di rispondere, aggiunse: «Io non mangio con i giudei!» e indicò una placca di bronzo sulla porta. Vi erano incisi due triangoli, uno rovesciato sull'altro, che formavano la stella di David, un simbolo in uso fra gli ebrei. «Non siederò alla stessa tavola di un giudeo» ringhiò Rupen fuori di sé. «Voi fate come volete, ma io non spezzerò il pane con loro, preferisco morire di fame.» «Fate pure» ribattei seccamente, sbalordito da tanta retriva rozzezza. Non lo avevo mai visto tanto indignato.
«Sono giudei!» esclamò ad alta voce, senza alcun riguardo. «Sono infidi. E, in ogni caso, non abbiamo bisogno di loro. Io me ne vado.» Ciò detto, girò sui tacchi e si incamminò lungo la via. Padraig si affrettò a seguirlo, per tentare di placarlo e di riportarlo indietro a chiedere scusa. Mortificato dalla scortesia dimostrata dal giovane principe, mi affrettai a raggiungere la donna per esprimerle il mio rincrescimento: «Mi scuso per lui, signora. È sconvolto, non sopporta la tensione, e i nostri problemi diventano sempre più urgenti, anche se non è una giustificazione per il suo comportamento incivile». «E voi?» chiese lei in tono tagliente. «Nutrite lo stesso disprezzo per gli ebrei?» «Confesso di non averne mai conosciuto uno» risposi e, cercando disperatamente di fare ammenda, aggiunsi: «Comunque, se la loro amabile generosità è anche solo la metà della vostra, sono certo un nobile popolo, e lo sosterrò davanti a chiunque sostenga il contrario». Respinse il complimento sbuffando e mi fissò sprofondando i suoi penetranti occhi neri nei miei e serrando le labbra. Dopo un po' mi domandò: «Desiderate ancora cenare con noi?». «Ne sarei onorato, mia signora.» «Allora potete tornare stasera.» «Con grande piacere» risposi, cercando di rimediare all'offesa. «Nel frattempo calmerò il mio giovane amico e gli insegnerò le buone maniere.» «Fatelo» rispose seccamente la donna. «Forse vale anche la pena che riflettiate sul fatto che mio padre e io non siamo ebrei» «No?» «Siamo copti» affermò e scomparve dal cortile, sbattendosi la porta alle spalle. Ventitré Passammo le poche ore di luce che restavano nella piazza del mercato della città alta. Grazie ai buoni uffici di Padraig e al fatto che il nostro ospite, a quanto pareva, non era ebreo, il superbo principe si lasciò persuadere a partecipare alla cena rinunciando al proprio comportamento ingiurioso. Mentre una pallida luna sorgeva dalle colline, ci ritrovammo ancora una volta davanti all'alto muro in cima alla lunga salita e al suo portoncino. Accanto allo stipite pendeva una catena con un anello di ferro. Padraig la
tirò con forza e dall'interno venne il suono lontano di una campanella. Attendemmo qualche minuto inutilmente, e perciò il monaco diede un altro strattone e poi un terzo., per maggior sicurezza. Stava per tirare una quarta volta, quando la porta si aprì e un ometto dalla pelle scura sporse fuori la testa. Ci vomitò addosso una sequela di invettive in una lingua incomprensibile, poi richiuse di nuovo l'uscio con un tonfo. «Ecco, avete visto?» brontolò Rupen, prontissimo ad abbandonare quella che sembrava un'impresa disperata. «Suoniamo ancora» insistetti, non volendo darmi per vinto. Il portoncino si riaprì e di nuovo l'ometto, lanciandoci uno sguardo torvo, ci riempì di improperi. A quel punto, però, mi feci avanti, lo afferrai per la veste e lo trascinai sulla strada. Quello sputò e inveì, poi cominciò a prenderci a calci con i piedi nudi. «Pace!» urlai, tenendolo a distanza. «Non intendiamo farvi del male. Smettete di aggredirci. Vogliamo solo parlare con voi.» Ci riversò addosso un fiume ribollente di parole rabbiose, continuando a tirar calci e agitando i pugni. Mi schermavo con il braccio teso, per impedirgli di fare del male a se stesso e a noi, riflettendo sul da farsi quando comparve sull'uscio un omone grasso coperto da una larga tunica. Ci guardò con grandi occhi slavati e inespressivi e disse: «Sì?». Lo salutai educatamente, sempre tenendo a distanza il rabbioso ometto, e dichiarai: «Giordano ci ha invitati a cenare con lui, stasera». «Davvero?» rispose l'uomo, con un'aria di totale indifferenza. Poi allungò una mano e assestò un pugno in testa all'ometto, che smise immediatamente di dimenarsi e di sputare e, non appena lo lasciai libero, si allontanò in fretta. «Avete qualcosa per me?» chiese il grassone quando il piccolo portinaio fu scomparso. Non sapendo cosa rispondere, gettai uno sguardo a Padraig, che si limitò a stringersi nelle spalle incapace di aiutarmi. «No» risposi infine. «Dovrei averlo?» «Sta a voi stabilirlo.» «Non mi è stato dato niente per voi» dissi. «Peccato» ribatté. Ci osservò pigramente, sospirò e tacque. «Giordano è in casa?» domandai dopo un momento d'imbarazzo. L'uomo sbadigliò, si voltò e ci fece segno di seguirlo. Oltrepassammo la soglia, attraversammo il cortile avvolto nell'ombra e fummo finalmente condotti all'ingresso della casa. «Aspettate qui» ci ordinò l'omone e, aperto
l'uscio, scomparve nel buio. Poco dopo ritornò il piccoletto: vedendoci in attesa davanti alla porta, si lanciò immediatamente contro di noi, gridando e agitando le mani. Sembrava deciso a buttarci fuori, e ci sarebbe riuscito se non fosse improvvisamente apparsa la figlia di Giordano: indossava una lunga tunica bianca e teneva in mano uno scudiscio fatto di listarelle di cuoio intrecciate con cui si mise a sferzare l'ometto. «Vattene, Omero!» gridava. «Vattene subito!» Stavo per intervenire quando mi accorsi che la maggior parte delle staffilate, se non tutte, andavano a colpire il terreno. Comunque, l'effetto venne raggiunto e il piccoletto corse via brontolando. «Dovete perdonare Omero» si scusò la donna riavvolgendo la frusta. «Non sta molto bene.» Avvicinandosi alla porta, aggiunse: «Da questa parte, prego». La casa era buia, e procedemmo come ladri da un corridoio all'altro sino a raggiungere una delle ali della casa. Infine entrammo in un salone illuminato dalla luce di molte candele, disposte su grandi candelabri a piantana, le cui fiammelle tremolavano a causa della dolce brezza notturna che entrava dalle finestre spalancate. Non c'erano sedie e così, secondo l'uso orientale, ci sdraiammo su grandi cuscini collocati su entrambi i lati di un tavolo basso coperto da una tovaglia di fine damasco sontuosamente ricamato. Al mercato Padraig e io avevamo colto l'occasione di farci spazzolare le vesti, in modo da avere un aspetto un po' più ordinato. Non appena fummo nella sala da pranzo, la padrona di casa ci offrì un bacile colmo di acqua profumata. Rupen, però, insisteva nel suo atteggiamento scortese non solo rifiutando di lavarsi le mani, ma guardando di traverso tutti e tutto, come se stesse sopportando un'umiliazione tanto forte da causargli dolore. La padrona di casa si allontanò, lasciandoci alle nostre abluzioni, ma ben presto ricomparve. Se non fosse stato perché l'avevo veduta qualche minuto prima, avrei giurato che si trattava di un'altra persona: non indossava più la tunica bianca, ma una veste del tessuto più sottile e leggero che avessi mai visto. Come se non bastasse, quel velo impalpabile splendeva sotto la luce, emanando lo stesso bagliore dei raggi lunari sull'acqua. L'abito era blu scuro, come il cielo di mezzanotte, e la profonda scollatura rivelava l'incantevole turgore del seno. Una larga fusciacca di stoffa dorata le stringeva la vita sottile, mettendo in evidenza la curva dei fianchi; i lunghi capelli corvini le scendevano sciolti e ondulati sulle spalle nude.
All'improvviso la vista delle sue braccia affusolate e ben tornite mi fece sentire un'intensa fitta di desiderio, come quello che avevo provato quando la mia diletta Rhona mi stringeva a sé. Mi sforzai in tutti i modi di non fissare con interesse troppo manifesto la nostra incantevole ospite che ci invitava a sederci e a metterci comodi dicendo: «Mio padre è stato informato del vostro arrivo. Ci raggiungerà non appena sarà pronto». «La vostra gentilezza, signora, è inferiore soltanto alla vostra bellezza» mormorai. Avrei desiderato offrirle qualcosa di meglio che una banale lusinga. Accolse comunque il complimento con un sorriso e cominciai a sospettare che, dietro alle sue maniere decise e franche, non fosse tanto sicura quanto appariva. In effetti, si può ben dire che vivesse in una casa di pazzi, ed era probabile che non fosse avvezza alla normale cortesia. «Mi chiamo Sydoni» annunciò. «Io sono Duncan di Caithness» risposi, porgendole la mano. Lei mi tese la sua senza esitazione e io me la portai alle labbra e la sfiorai con un bacio. Poi presentai Sydoni a Padraig e a Rupen e, mentre le stavo spiegando chi fossimo e per quale ragione viaggiassimo insieme, Giordano entrò nella stanza. Con il volto accigliato e le labbra serrate, ci salutò con fredda, se non ostile indifferenza e la cena ebbe inizio. Il nostro scorbutico ospite si accomodò a capotavola con l'atteggiamento stizzoso e malevolo di chi sia costretto in una posizione scomoda. Faceva sospiri profondi e sonori, fremeva e si agitava, mostrando chiaramente che avrebbe preferito trovarsi ovunque piuttosto che lì con noi. Il suo era un comportamento davvero indegno in un padrone di casa e avrebbe irrimediabilmente compromesso la serata se non ci fosse stato il fatto che io avevo occhi solo per Sydoni e che lei ignorava l'ostilità di suo padre. Quella era la serata di Sydoni e lei non avrebbe permesso a nessuno di rovinargliela. Quando fummo tutti seduti, Sydoni fece servire delle piccole ciotole di pere cotte in una salsa dolce, lasciate raffreddare e condite con una spezia che non avevo mai assaggiato, dal sapore forte e penetrante che faceva pizzicare la bocca e la lingua. Quando chiesi alla padrona di casa di cosa si trattasse, mi rispose sorridendo: «Si chiama cannella». Rupen reagì con un mugugno, come per dire che si trattava di un gusto talmente ordinario da non meritare il minimo accenno. Io, però, lo trovai delizioso e lo lodai a voce alta. Elogiai anche il piatto successivo: uova di pesce, formaggio fresco, panna, aglio e limone, mescolati sino a formare
una crema densa in cui intingere strisce di focaccia. C'erano anche vino rosso e vari tipi di pane e di uva. Quando ci fummo saziati di quelle delizie, Sydoni fece portare in tavola quaglie arrosto ripiene di pane grattugiato, pinoli ed erbe e ricoperte da una glassa al miele, cucinate con tale perfezione, che persino Rupen fu costretto, suo malgrado, a encomiare l'abilità del cuoco. Senza accorgermene, ne mangiai due porzioni e stavo per servirmene una terza quando notai che Sydoni mi osservava con il sorriso orgoglioso e compiaciuto di una donna soddisfatta di sé. Era un'espressione che conoscevo bene, la stessa che aveva sul volto Rhona quando aveva cucinato qualcosa che mi piaceva molto. Il cibo e il vino compirono la loro antica magia e, a poco a poco, Rupen e Giordano divennero più affabili. Mentre la cena procedeva, infatti, il giovane principe diventò abbastanza gioviale e il vecchio padre si tramutò in un ospite cortese e cordiale. «Riempite le coppe!» gridò a un certo punto, levando in alto la sua. «Voglio bere alla salute dei miei nuovi amici.» Felice di accontentarlo, presi la caraffa e gli versai del vino rosso. Giordano propose un brindisi: «Bevo all'amicizia, alla salute e alla pace: che Dio benedica tutti i suoi figli». Ci associammo gioiosamente all'augurio, e il nostro anfitrione continuò: «Che il Signore del miracolo di Cana benedica la nostra mensa con buon cibo, buon vino e buoni amici, ora e sempre! Amen!». Rupen brindò con noi, ma non poté evitare di commentare: «Signore del miracolo di Cana? Mi sembra un appellativo di Gesù Cristo». Giordano si volse dalla sua parte e lo fissò con aria interrogativa: «Ebbene?». «Strane parole, in bocca a un copto» osservò Rupen sprezzante e un po' alterato dal vino. Il vecchio si irrigidì, il sorriso gli si gelò sul viso e gli occhi divennero due fessure. Il giovane principe, resosi conto di aver offeso il padrone di casa, mi guardò cercando aiuto, ma io rimasi in silenzio e lo lasciai ad affrontare le conseguenze della sua intolleranza. «Non alludevo a niente» mormorò. «Perché mi squadrate tutti in questo modo?» «Credete che i copti siano indegni della salvezza?» chiese Giordano, controllando la collera. Rupen, rosso in viso, alzò una mano per tentare di giustificare le proprie parole: «Non intendevo mancarvi di rispe...».
«Pensate che, poiché sono copto, io sia meno cristiano di voi?» lo sfidò, indignato. Stavo già per intercedere in favore del giovane principe, quando Padraig me lo impedì: «Lascia che si impaurisca un po'» mi sussurrò. «Gli servirà di lezione.» Giordano fissò corrucciato Rupen: «Una volta» sibilò con voce gelida «non avrei sopportato di essere insultato sotto il mio tetto. Ma ora» e sollevò le spalle in segno di rassegnazione «non sono più l'uomo che ero». Puntò il lungo dito ossuto contro Rupen: «Ed è una fortuna per voi». «Padre, vi prego» intervenne Sydoni, allungando un braccio e tirandolo per la manica. Il vecchio sollevò le mani: «Non ho altro da dire». Posò la coppa vuota e si alzò: «Dovete scusarmi. Sono stanco e vado a letto». Rupen, turbato e mortificato, balbettò: «Vi prego, signore, sono io quello che dovrebbe andarsene. E così farò». Si alzò di scatto dal suo posto. «Ma prima vi supplico di accettare le mie più profonde scuse e di perdonare l'offesa che vi ho arrecato.» Si espresse con un accento di tale sincera contrizione che Giordano, esortato dalla supplica silenziosa della figlia, fu quasi costretto ad addolcirsi: «D'accordo» disse. «Sedete, giovanotto. Sedete. Non è successo nulla.» Sospirò e sorrise tristemente. Agitando la mano in direzione del giovane principe, aggiunse: «Coraggio, sedetevi. Dimentichiamo quest'increscioso malinteso». Riluttante, Rupen tornò al suo posto, sotto lo sguardo pensieroso di Giordano: «Da più di trenta generazioni» esordì il vecchio, puntando un dito verso il cielo «la casa degli Ippolito è cristiana: sotto Bisanzio, sotto Roma, prima ancora che il Vangelo di Cristo fosse annunciato per le strade di Atene, noi eravamo cristiani». «Una discendenza di cui gloriarsi» osservò Padraig. «Se ogni famiglia potesse rivendicare un'osservanza così lunga, il mondo non soffrirebbe tanto sotto il peso dell'empietà e della menzogna.» «Proprio così» rispose orgogliosamente Giordano. «Quando coloro che seguivano la Via furono scacciati da Gerusalemme, i miei avi erano tra loro. Il giorno in cui santo Stefano fu messo a morte, i miei avi deposero nella tomba il suo povero corpo martoriato. E quando cominciarono le persecuzioni, la Chiesa appena nata si disperse a nord, a sud, a est e a ovest, ovunque sperasse di sfuggire alla spietata crudeltà e alla tirannide dei capi del Tempio.»
Giordano sollevò la coppa, e Sydoni vi versò ciò che restava nella caraffa. Il vecchio bevve e concluse: «Tutto ciò è accaduto molto tempo fa. Nessuno vuole più sentirne parlare». Rupen, meritatamente svergognato e ansioso di fare ammenda, si affrettò a dire: «Se non vi dispiace, signore, io sarei felice di ascoltarvi». Era certamente la cosa giusta da dire, perché gli occhi del vecchio ritrovarono di colpo la precedente allegria. «Ebbene, allora, forse, aggiungerò qualcos'altro, solo perché possiate comprendere meglio» assentì Giordano, vincendo in men che non si dica la propria riluttanza. Prese un campanello di bronzo dal tavolo, lo scosse energicamente più volte, e cominciò: «Quando Gerusalemme divenne troppo pericolosa, la mia gente fuggì verso sud. Sin dai tempi del patriarca Adamo, quando la Palestina era minacciata, gli ebrei cercavano rifugio in Egitto. Lo fece anche il mio popolo, e si stabilì in Egitto. Con il tempo divenimmo egiziani anche noi, e coloro che rimasero fedeli al credo cristiano si chiamarono copti. I miei avi si arricchirono, divennero mercanti, alcuni solcarono i mari con le navi, altri viaggiarono a dorso di cammello, altri ancora aprirono empori e botteghe nei mercati delle grandi città. «Questa è la vita che ho ereditato. Scelsi di essere un mercante, e così mio figlio». A quelle parole, un'ombra passò sul volto del vecchio e gli venne meno la voce: «Mio figlio...» si interruppe, si schiarì la gola e riprese dicendo: «Una volta il mio giro d'affari si estendeva dal Nilo sino alla catena del Tauro. Ora tutto è perduto... scomparso, finito, morto... come mio figlio. L'ultima speranza della mia illustre famiglia». Giordano sollevò gli occhi e sorrise tristemente: «Mi dispiace» mormorò, curvandosi di nuovo su se stesso. «Il mio dolore è un peso che non intendo imporre a nessuno. Vogliate essere indulgenti con un povero vecchio.» Mentre finiva di parlare comparve l'omone che ci aveva accolto all'ingresso. «Gregior» ordinò Giordano. «Portaci altro vino.» Lo stolido servitore si voltò senza dire una parola e si allontanò con passo pesante. «E cerca di non berlo tutto prima che raggiunga la nostra tavola» gli gridò dietro il suo padrone. «Non mi piace avere servitori» spiegò Giordano. «Ma faccio un'eccezione per Gregior e Omero. Sono senza speranza, dovete ammetterlo. Se li mandassi via, sarebbero destinati a morire di fame, e perciò la mia coscienza di cristiano non mi permette di farlo. Così li tengo per il loro bene, perché nessuno li vorrebbe.» Sorrise debolmente e spalancò le braccia: «Vi
domando scusa per essere stati accolti in modo tanto sgradevole. Credetemi, sarebbe avvenuto lo stesso con chiunque: califfi o re, mendicanti, lebbrosi, ladri o malfattori, Omero vi avrebbe trattato nello stesso modo». «Che lingua parla?» chiese Padraig. «Non sono riuscito a capirne una parola.» «Per quanto ne so, nessuna» rispose il nostro anfitrione, ridacchiando fra sé. «Omero pensa di parlare latino, ma da quando lo conosco non gli ho mai sentito pronunciare una parola comprensibile in nessuna lingua.» Scosse la testa stancamente: «Senza speranza». Il vino arrivò in una grande brocca d'argento e Sydoni lo versò nelle coppe che Giordano ci offrì ancora una volta, esclamando: «Bevo alla salute dei miei amici, vecchi e nuovi! Iddio vi benedica e vi conservi. Amen!». Brindammo, e il nostro ospite, posando la coppa sul tavolo, chiese: «E ora veniamo al punto. Ditemi, perché il nostro buon templare vi ha mandati dal vecchio Giordano?». Ventiquattro Giordano ascoltò a occhi semichiusi il mio breve resoconto dei fatti che ci avevano condotto alla sua porta. Annuì e osservò Padraig, mentre gli raccontavo di come il monaco e io avessimo deciso di intraprendere il pellegrinaggio, di come a Rouen ci fossimo imbattuti nel principe armeno e nei cavalieri templari e di come quell'incontro avesse condizionato gli avvenimenti successivi. Insomma, gli riferii tutto quanto, tranne il progetto di Boemondo di riconquistare Anazarbus perché ritenni fosse meglio tenerlo per me. Quand'ebbi terminato, Giordano aggrottò leggermente la fronte e commentò: «Una narrazione davvero affascinante. Ma credo che abbiate omesso due o tre dettagli significativi. Senza dubbio avete le vostre buone ragioni, ma se devo aiutarvi...». Voltò il palmo delle mani verso l'alto, come per offrirmi una scelta. Esitai, cercando di decidere se valeva la pena di rischiare e di dirgli di più. Si accorse della mia riluttanza e insistette: «Per esempio» continuò «non mi avete detto perché siete stati costretti a fuggire da Antiochia tanto in fretta». E, indicando Rupen, aggiunse: «Sbaglierei a pensare che i vostri problemi, qualunque essi siano, siano iniziati e finiti a causa del nostro giovane amico?».
«Non molto» risposi cautamente. Rupen abbassò lo sguardo senza dir nulla. «Coraggio, amici miei, se devo aiutarvi, devo sapere tutto di questa faccenda. Cosa avete combinato? Avete messo in discussione l'onorabilità del principe? Denigrato il buon nome del patriarca? Rubato il Sacro Legno di Antiochia?» A sentir menzionare la Santa Croce, sentii una stretta al cuore: «Perdonatemi» mi affrettai a dire «la verità è che non volevo addossarvi una montagna insormontabile di problemi». Fece un gesto come per respingere quella debole scusa: «Avanti». Così gli raccontai dell'intenzione del principe Boemondo di attaccare la roccaforte armena e di come Padraig e io, per amicizia verso Rupen e per esaudire la strana e velata richiesta del comandante templare, avessimo deciso di tentare di frenare l'irriflessiva sete di potere di Boemondo. «Siamo andati a chiedergli di rinunciare al suo progetto di conquista» affermai. «Purtroppo il colloquio ci è sfuggito di mano e Renaud è stato fatto prigioniero nella cittadella. Padraig, Rupen e io siamo stati costretti a fuggire prima che Boemondo potesse catturare anche noi. E allora il buon comandante ci ha suggerito di rivolgerci a voi.» Giordano prese una prugna da un cesto, la addentò e ne sorbì il sugo. Poi osservò: «Mi sembra che la vostra via fosse segnata sin dal principio». «Davvero?» chiesi. Padraig annuì e sorrise, guardando il vecchio con un'espressione di accresciuto rispetto e di enorme stima. Giordano si allontanò dal tavolo ed esclamò: «Rallegratevi, amici miei! Giordano Ippolito è il solo uomo al mondo che abbia la volontà e la possibilità di far sì che raggiungiate il vostro scopo». Poi, guardando il giovane principe che non aveva ancora mutato la propria espressione corrucciata e spaventata, si chinò verso di lui e gli batté paternamente la mano su un braccio: «State allegro, ragazzo mio! I vostri nemici, per quanto numerosi siano, dovranno vedersela con me. Che ne dite?». «Non sapevo di avere tanti nemici» rispose Rupen, sforzandosi goffamente di essere all'altezza della situazione. «Eppure è proprio così» dichiarò Giordano. «Molti, in questa regione, sarebbero assai felici di vedere la casa d'Armenia cancellata dalla faccia della terra il più rapidamente possibile. È spiacevole, ma è la pura verità.» Rivolgendosi a Padraig e a me, chiese: «Ordunque, chi altri sa della vostra missione?». «Di certo Renaud de Bracineaux» risposi.
«E, ormai, probabilmente anche Boemondo» aggiunse Padraig. «Nessun altro?» «A parte voi e vostra figlia» guardai Sydoni che mi osservava tenendo il mento appoggiato sul palmo della mano «nessuno.» «Ne avete parlato con qualcun altro lungo la via?» «Non ne abbiamo fatto parola ad anima viva» risposi. Padraig scosse la testa, mentre Rupen continuava a guardare cupamente davanti a sé. «Molto bene.» Giordano si alzò dal suo cuscino con un'energia insospettabile: «Dobbiamo agire in fretta e fare i preparativi necessari. Inizieremo stanotte». Era tardi, ed ero esausto; quella giornata di salite e discese per le colline di Famagosta cominciava a far sentire i suoi effetti. «Stanotte!» esclamai. «Non volevo allarmarvi, so che siete stanchi per il viaggio. Lasciate fare tutto a me e pensate a riposare; domattina, a Dio piacendo, saremo pronti a partire.» Suonò il campanello e diede ordine a Gregior di condurci nelle nostre stanze. Augurammo la buona notte al nostro anfitrione e andammo a coricarci sollevati come non ci capitava da giorni. Padraig rimase sveglio ancora un po' per dire le preghiere, ma io mi misi subito a letto e caddi in un sonno profondo e senza sogni. Fui svegliato qualche tempo dopo da un mormorio basso ma imperioso proveniente dal cortile: rimasi in ascolto per un po', ma ero troppo insonnolito per capire di cosa si trattasse e mi riaddormentai. Poi, all'improvviso, sentii delle mani che mi scuotevano per destarmi e mi rizzai a sedere. «Tranquillo» sussurrò Sydoni, accoccolandosi accanto a me. «È tutto a posto, ma è ora di partire.» Si alzò in piedi. «Gregior vi ha portato dell'acqua. Vi lascio solo perché possiate lavarvi e vestirvi. Raggiungeteci nel salone non appena sarete pronto.» Uscì e, mentre raccoglievo i miei pensieri, la udii svegliare il giovane principe nella stanza accanto e spiegare anche a lui quel che doveva fare. Entrai nella tinozza fumante e mi lavai, lodando il Divino Dispensatore di doni per il lusso del sapone. Mi asciugai in fretta con il telo di lino che mi era stato portato, mi vestii, uscii dalla camera, mi incamminai per il lungo corridoio, e arrivai al salone. Il cielo era scuro e, secondo i miei calcoli, l'alba era ancora lontana. Sbadigliando, mi avvicinai a Giordano e agli altri, già riuniti oltre la porta del salone. Gregior si aggirava lentamente qua e là, accendendo le can-
dele e lanciando turpi occhiate al suo padrone. Quest'ultimo attraversò in fretta l'enorme sala, invitandoci a seguirlo. Lo raggiungemmo mentre si faceva spazio fra mucchi di vecchie mappe, accatastate su uno dei numerosi tavoli. «Ecco! Guardate qui» disse, indicando un puntolino nero al centro della carta, «questa è Antiochia. Il porto di San Simeone è qui e...» fece scorrere l'indice verso l'alto lungo una linea ondulata che rappresentava la costa e si fermò su un cerchietto marrone appena al di sotto di un lunga catena di montagne «... quassù c'è Anazarbus.» Accigliato, Rupen si chinò per osservare da vicino quella rudimentale rappresentazione della sua patria. «Guardate» continuò Giordano, segnando con il dito il percorso sino ad Antiochia. «Boemondo deve marciare via terra, perché non ha imbarcazioni sufficienti a trasportare tanti uomini, cavalli e vettovaglie.» «Quando abbiamo lasciato il porto di San Simeone, c'erano ancora due navi all'ancora» fece notare Padraig. «Non fa alcuna differenza» affermò Giordano senza esitazione. Sembrava ringiovanito, era diventato deciso e diretto e mi resi conto che ora avevo di fronte un pallido riflesso dell'uomo che era stato. «Due, dite? Due navi non basterebbero a trasportare neppure il foraggio per i cavalli. Gliene servirebbero almeno venti.» «Perciò» continuò, riprendendo il filo delle sue riflessioni «l'esercito di Boemondo deve per forza spostarsi a piedi. Il percorso più veloce attraversa Marionis, qui, sulla costa.» Posò la punta del dito su un cerchietto vicino al mare, a nord di Antiochia. «Da qui si può raggiungere facilmente Mamistra via fiume. La vedete là?» Indicò una traccia nera e serpeggiante che rappresentava il fiume, e che andava a finire su un puntolino scuro a nord-ovest. «Da Mamistra, bisogna percorrere tutto il resto del tragitto a cavallo; con un po' di fortuna e l'aiuto di Dio, Anazarbus è raggiungibile in dieci giorni di viaggio. Ammesso che Boemondo abbia riunito le truppe e lasciato Antiochia lo stesso giorno in cui siete fuggiti, arriverete ad Anazarbus almeno quattro o cinque giorni prima di lui e del suo esercito.» Sollevò lo sguardo per assicurarsi che avessimo capito tutti. «Vi vedo di nuovo dubbiosi, amici miei. Cosa c'è ora?» «Abbiamo del denaro con noi» spiegai «ma non abbastanza per comprare dei cavalli.» «Ma io ho denaro sufficiente per qualunque cosa» rispose Giordano, strofinandosi le mani entusiasta «e verrò con voi. Gregior, corri a prendere il mio baule.» L'improvvisa alacrità del vecchio mercante era sorprenden-
te: era come se si fosse liberato non solo del cupo sfinimento e della malinconia che lo avevano imprigionato, ma anche di decenni. Il servitore tornò recando un piccolo bauletto di legno scuro e massiccio. Giordano lo aprì e ne trasse tre borse di cuoio, poi ci ripensò e ne prese altre tre: «Prendete» disse, gettandomi le prime «per chi viaggia, il denaro non è mai abbastanza». Lo ringraziai per la sua sollecitudine e la sua generosità, mi legai una delle borse alla cintura e consegnai le altre due a Padraig perché le riponesse nella sua sacca. «Con il vostro aiuto, viaggeremo come re» commentai. «Re straccioni, al massimo» ribatté Giordano, indicando i nostri abiti. «Fortunatamente ho qualcosa per voi.» Si avvicinò a un grande baule, lo spalancò, si mise a frugarci dentro e gettò tutt'intorno sul pavimento tagli di stoffa e abiti. «Ah, ecco, ecco!» esclamò infine, tirando fuori una grande veste simile a una giubba troppo lunga. Era di un tessuto fine e leggerissimo, del colore del mare del Nord quando scende la notte. C'erano anche delle brache della stessa stoffa e un paio di stivali di pelle morbidissima con un ricamo in seta a forma di piuma su un lato dei gambali. Le maniche della tunica erano lunghe, ampie e arricciate ai polsi, mentre le brache erano strette in vita da un'alta fusciacca di stoffa intrecciata color porpora, da cui pendevano decine di dischetti di bronzo. Erano le vesti di un principe orientale e, anche se erano bellissime, non riuscivo a immaginarmi con un simile abbigliamento. «La gente penserà che fingo di essere un arabo» mi lamentai. «Mi sento ridicolo; è meglio che rimanga come sono.» «Sciocchezze» replicò Giordano, ignorando le mie obiezioni «i vostri abiti non sono adatti al clima che incontreremo durante il viaggio. Non solo, ma fanno subito capire a tutti che siete stranieri. Se volete viaggiare agevolmente, senza suscitare curiosità moleste e pericolose, non dovete farvi notare come forestieri sprovveduti.» Sydoni si dichiarò d'accordo con lui e, nonostante lo scetticismo iniziale, mi lasciai convincere. Anche a Padraig, benché protestasse di non aver mai indossato altro che il saio di lana tessuto, tinto e cucito nel monastero, fu riservato lo stesso trattamento. Alla fine ci cambiammo gli abiti e rimanemmo stupefatti dalla differenza: mi sentii subito meno accaldato e più comodo e dissi addio ai miei indumenti consunti in favore del più confortevole abbigliamento orientale.
Solo quando Padraig e io fummo adeguatamente rivestiti, Sydoni ci permise di uscire di casa. «Vi accompagnerò sino al porto» dichiarò. Lasciata la villa, attraversammo il cortile e aspettammo che Gregior aprisse il portoncino, poi uscimmo silenziosamente sulla strada buia e deserta. Scendemmo dalla collina e raggiungemmo la città nuova, poi, mentre l'alba tingeva di rosso il cielo, proseguimmo verso la zona vecchia di Famagosta e il porto ancora immerso nel sonno. «Andrò a parlare direttamente con il responsabile del porto» ci annunciò Giordano quando arrivammo al molo. «Saprà certamente quali marinai sono disposti ad accompagnarci e di quali possiamo fidarci.» «In effetti» fece rilevare Padraig «sappiamo come cavarcela a bordo di una nave. Potete contare su di noi, come ciurma.» «Magnifico» commentò il mercante. «Meno persone sono a conoscenza degli affari nostri meglio è.» Tra i natanti all'ancora c'erano le consuete barche da pesca, alcune imbarcazioni più solide usate dai mercanti dell'isola e quattro grandi scafi che credetti veneziani o genovesi. Mi sbagliavo. Giunto alla banchina, Giordano mi indicò le quattro grandi navi, dicendo: «Ecco le mie bellezze. Quale vi piace di più?». «La più piccola» risposi, pensando alla fatica di issare la vela. «La più veloce» suggerì Padraig. L'astuto monaco fu, come al solito, più pratico. «La Persefone, allora» decise il vecchio, indicando un'imbarcazione lunga e piatta in fondo alla fila. Benché dipinta in stile greco - con lo scafo verde, lo snello albero maestro rosso, le paratie e la chiglia giallo acceso assomigliava molto alle antiche navi romane che avevano dominato quella regione per secoli «Non è la più piccola, ma prende letteralmente il volo alla più leggera brezza. Con l'aiuto di Dio, saremo ad Anazarbus prima che Boemondo raggiunga la Porta Siriaca.» Venticinque Cait, non crederai mai a ciò che è accaduto. Anch'io ci riesco a malapena e non so da dove cominciare a spiegarlo. Non posso nemmeno stabilire se sia una notizia buona o cattiva. Buona, penso. Perché, se non altro, ha ritardato la mia esecuzione almeno di un giorno, forse di più. Signore Misericordioso, fa' che sia di più! Dopo che Wazim se ne era andato per scoprire il più possibile sugli av-
venimenti del Cairo, mi sono rimesso a scrivere senza pensare alle parole del califfo riguardo a ciò che stava succedendo in città. Nelle pagine precedenti hai letto i risultati dei miei sforzi. Confesso che questo resoconto diventa ogni giorno più faticoso: la mia povera mano è colta da crampi e mi duole, l'impegno mi stanca, e talvolta mi sembra di aver lottato contro i giganti dall'alba al tramonto, anche se non mi sono alzato dalla sedia! Sia come sia, quel giorno ho scritto dalla mattina alla sera, come faccio ormai abitualmente; la sola novità è stata che non mi hanno portato niente da mangiare. Ho creduto che fosse perché presto sarei stato giustiziato, e questa triste considerazione mi ha spinto ad affrettarmi. Per quanto stanco fossi, ho lavorato con zelo indefesso, pensando che ognuna delle pagine che terminavo avrebbe potuto essere l'ultima. Era molto tardi quando ho sentito di nuovo dei passi rapidi nel corridoio. Ho posato la penna e, quando mi sono voltato, ho visto entrare nella stanza Wazim, con gli occhi fuori dalle orbite per l'eccitazione. Aveva scoperto perché il califfo aveva sospeso le esecuzioni ed era tornato subito per raccontarmi perché ci fosse tanto allarme in città. Mi appresto a riferirlo anche a te; prima, però, devo spiegarti un dettaglio indispensabile. Come avrai capito, il califfo è il sovrano supremo dei musulmani, ma non è l'unica autorità. Egli infatti condivide i doveri del governo con altre personalità, fra cui la più importante è il wazir, o visir, come dicono alcuni. La separazione dei poteri viene fatta perché il califfo possa dedicarsi al proprio compito principale, quello di capo spirituale del suo popolo, lasciando l'amministrazione degli affari correnti nelle mani del visir. Devi anche sapere che il califfo del Cairo, per quanto baciato dalla fortuna sotto molti aspetti, è stato colpito dalla maledizione di avere un figlio caparbio e ribelle, di nome Hasan. Così quando è salito al trono, ha avuto la bella idea di rappacificarsi con lui e di tenerlo sotto controllo innalzandolo al rango di visir. Nonostante molti si fossero opposti, inizialmente il disegno funzionò egregiamente. Dopo qualche tempo, però, Hasan ha cominciato a trovare l'incarico troppo limitativo ed è tornato alle sue vecchie abitudini, cioè ha cominciato a comportarsi in modo vergognoso, solo che stavolta si trovava in una posizione da cui poteva causare grave danno a chiunque tentasse di contrastarlo. Io ignoravo tutto della vicenda, che pure era risaputa lungo l'intero corso del Nilo, da Alessandria a Luxor, perché il pessimo giovane passava da un sopruso all'altro, facendo precipitare il governo del Cairo in scandali
e controversie a non finire. La situazione si era fatta tanto precaria e spiacevole, e il malcontento dei cittadini angariati tanto forte, che ultimamente il califfo aveva cominciato a dare ascolto a chi gli consigliava di deporre subito Hasan dalla carica di visir. Immagino che al-Hafiz alludesse a questo quando si è informato di cosa sapessi delle vicende del Cairo; ma te ne riparlerò in seguito. Ordunque, eccomi qui. Devo solo aggiungere che, il giorno in cui doveva aver luogo la mia esecuzione, il visir Hasan, colto da un attacco di follia, aveva convocato più di quaranta emiri e atabeg della città e della regione circostante. Quando poi se lì è trovati davanti, li ha accusati di aver congiurato contro di lui. Pensando che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto, i nobili hanno reagito con ilarità. Furibondo perché ridevano di lui, Hasan li ha fatti gettare in un hafir - un granaio e ha ordinato agli uomini della sua guardia di ucciderli tutti sul posto. Disarmati e senza la possibilità di avere aiuto, c'era ben poco che quelli sventurati potessero fare: i soldati sono entrati nell'hafir e hanno massacrato quelli che cercavano di opporre resistenza, tutti gli altri sono stati trucidati a uno a uno mentre cercavano di fuggire. Ho ascoltato attonito il raccapricciante racconto di Wazim. «Quando è successo?» gli ho chiesto alla fine. «L'orribile strage si è verificata proprio nel momento in cui vi trovavate davanti al trono del califfo, Da'ounk» mi ha risposto. «Sono morti quaranta emiri» ha aggiunto, scrollando la testa per l'orrore. «Sono tutti molto turbati.» «Li capisco» ho osservato. «Cosa ne è stato del visir?» «Il califfo, come sapete, è stato costretto a servirsi dell'esercito. I soldati hanno circondato il palazzo del visir, hanno chiesto ad Hasan di arrendersi, e, quando lui si è rifiutato, hanno combattuto.» Wazim si è interrotto per riprendere fiato e poi ha proseguito: «Quando le guardie personali del visir hanno constatato di non potere resistere alle truppe del califfo, hanno capitolato e hanno consegnato Hasan. Si dice che i soldati lo abbiano portato via dalla città, in una fortezza segreta dove verrà tenuto prigioniero finché il califfo non deciderà della sua sorte». Ecco, Cait, qual è la situazione in questo momento. Come Padraig mi ricordava spesso, tutto si muove per il bene di chi ama il Signore. Signore Iddio del Cielo e della Terra, questa è la mia preghiera. Sydoni non volle restare indietro. Mentre il padre discuteva con il re-
sponsabile del porto, ancora mezzo addormentato, su quali marinai ingaggiare, lei si offrì di farci visitare la nave. Prendemmo posto in una scialuppa, e Rupen e Padraig ci portarono a remi sino al luogo in cui era ancorata la snella Persefone: salimmo sul ponte e, una volta a bordo, fu subito chiaro che Sydoni non aveva alcuna intenzione di essere rimandata a casa. Quando le ultime provviste furono caricate e stivate sotto coperta e Giordano tentò di congedarsi dalla figlia, lei gli posò un bacio leggero sulla guancia e disse: «Risparmiate il fiato, padre, io vengo con voi». Poiché il mercante era contrario, segui una breve discussione e, naturalmente, Sydoni ebbe la meglio. Più la conoscevo, più mi convincevo che, se voleva una cosa, l'otteneva, e che nessuna discussione, lusinga, minaccia o appello alla ragione l'avrebbe dissuasa. Credo che da questo punto di vista avesse lo stesso carattere del padre, ma nemmeno lui riusciva a opporsi alla sua volontà. Così, con l'aiuto di due marinai e di un timoniere, salpammo molto prima di mezzogiorno. La Persefone era una nave magnifica: con una linea pulita ed essenziale, ma capace di trasportare con agio un carico di grande entità. Poiché non avevamo merci a bordo, il timoniere e i marinai furono in grado di manovrare la nave quasi da soli. Una volta spiegate le vele, Padraig e io li aiutammo assai raramente e potemmo disporre di molto tempo libero. Il primo giorno di navigazione fu una gioia. C'era poco vento, ma la nave procedeva speditamente. Era piacevole sapere che stavamo avanzando verso la meta, con efficienza e onestà di intenti. Ben presto il nostro umore salì alle stelle e le nostre preoccupazioni scomparvero come l'isola alle nostre spalle. Ormai intimamente persuaso che il successo della nostra missione fosse inevitabile, e convinto che, grazie a Giordano, Boemondo non sarebbe mai riuscito a precederci e che avremmo raggiunto Anazarbus in tempo per avvertire la popolazione prima dell'arrivo dell'esercito, sentii venir meno la pressione dell'urgenza del nostro compito. Verso sera un gruppo di delfini giocosi si radunò davanti alla prua. Sydoni si rallegrò nel vederli e io, trascinato dal suo entusiasmo, la raggiunsi per guardare con lei i loro balzi e le loro immersioni. «Secondo la leggenda i delfini erano bambini discoli che, al sicuro sulla terraferma, si facevano beffe di Nettuno» mi disse la giovane. «Il dio irato mandò una grande ondata che li trascinò in mare, facendoli affogare; ma il vecchio Nereo non ebbe cuore di vederli morire, e così li riunì e li trasformò in pesci.»
«Non avevo mai sentito questa storia» commentai. «Ma, vedendo come giocano fra le onde, posso ben crederci.» Continuammo a osservare quei corpi snelli e scuri sfrecciare in alto e poi tuffarsi sollevando fontane di schizzi; frangere sinuosi le onde; fendere agilmente il pelo dell'acqua, lasciandosi dietro una scia di spuma ribollente; piroettare e zigzagare nel mare acceso dalle fiamme del tramonto. Sul ponte alle nostre spalle i marinai avevano acceso il fuoco in un piccolo braciere, e il profumo del pesce arrosto cominciò a diffondersi nell'aria. «Adoro il mare» mormorò Sydoni pigramente, chinandosi sul parapetto e appoggiando il mento sul palmo della mano. «Ho passato metà della mia vita sulle navi.» «E vostro padre?» chiesi, perché il prode mercante si era ritirato sottocoperta subito dopo che avevamo raggiunto il largo e, da allora, non aveva più cacciato fuori la testa. «È il peggior marinaio che si possa immaginare» osservò lei allegramente. «Alla minima onda diventa verde in faccia e si rintana di sotto.» «Scomodo, per un uomo che deve guadagnarsi da vivere a bordo di una nave.» Sydoni mi guardò per un momento, mentre il sole al tramonto le brillava fra i capelli scuri e dava al suo incarnato una sfumatura calda e lucente color del bronzo. «Sì» concordò a bassa voce. Mentre parlava, mi accorsi che avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro, confidarmi qualcosa di più intimo, ma che si era trattenuta all'ultimo momento. Restammo in silenzio, e pensai che non avrebbe detto altro. Con un ultimo bagliore di ventri pallidi i delfini si immersero sott'acqua e scomparvero, lasciandosi dietro una scia di bollicine. Ma Sydoni ormai sembrava essersi distratta: continuava a fissare le onde, con un'espressione pensierosa sul bel volto. «Voglio ringraziarvi per aver salvato mio padre.» Pensai a come ribattere a quella sbalorditiva affermazione, ma mi resi conto che era sincera: «Ne aveva bisogno?». Rivolse il viso verso l'orizzonte: «Stava morendo in quella casa». Dal suo tono, sembrava che stesse parlando di una prigione. «Aveva perso interesse al cibo, agli affari, alla vita stessa... avete visto anche voi in che condizioni era.» «Già» assentii. «Ma adesso è cambiato. Per il nostro bene è diventato un vero leone.» «Sì, grazie a voi. Ve ne sono grata.» «Io non ho fatto nulla, signora. Vostro padre si è preso a cuore il nostro
problema per ragioni che sono solo sue e ha deciso di aiutarci. Credetemi, sono io che dovrei essergli grato; e lo sono.» «Non mi aspetto che capiate» replicò lei con freddezza e si allontanò. Quella sera, seduti sull'ampio ponte, mangiammo focaccia unta con olio d'oliva e cosparsa di rosmarino e sale. La luna si alzava lentamente nel cielo sereno, facendo risplendere la superficie del mare. Sydoni scese sotto coperta appena terminata la cena per portare un po' di cibo al padre. Padraig, Rupen e io restammo a parlare con i marinai, che erano stati in Terra Santa parecchie volte. Quando gli altri andarono a letto, decisi di fare un giretto sul ponte prima di coricarmi anch'io. Passeggiavo pigramente, lasciandomi penetrare nell'anima la tranquillità della notte. I miei pensieri si innalzarono: pregai per i familiari che avevo lasciato a casa e per un rapida e positiva conclusione del nostro viaggio. Ero così concentrato nelle mie orazioni, che non mi accorsi di aver compagnia. Sentii un rumore leggero di passi, mi guardai intorno e vidi che Sydoni mi stava osservando. «Mi dispiace disturbarvi» mormorò e, senza timidezza, si avvicinò. «Ho finito.» «Una bella serata» osservò, sollevando il viso verso il cielo. «Non riesco mai a dormire quando la luna è così luminosa e l'aria così tiepida. Spesso passo tutta la notte fuori, da sola, a guardare la luna e le stelle.» «Lo faccio anch'io, a casa.» Continuando a guardare verso l'alto, domandò: «È bello il posto in cui vivete?». «È molto diverso da qui» risposi «e credo anche dalla vostra patria, l'Egitto.» Sorrise e i suoi denti lampeggiarono per un istante nel buio: «Non tutti i copti nascono sulle rive del Nilo. Non ho mai vissuto in Egitto, e nemmeno mio padre». «Ma credevo...» «Sono cresciuta a Damasco» spiegò. «E ci sarei rimasta volentieri. È una splendida città... o almeno lo era. Sono stata molto felice, laggiù.» «Perché ve ne siete andata?» «Siamo stati costretti a fuggire» rispose, in tono mesto. «E non siamo stati i soli. Tremila cristiani furono scacciati dalle loro case. Siamo stati assai più fortunati della maggior parte di loro. Molti hanno perso tutto, anche la vita. Ci hanno portato via oro e argento, ma ci hanno permesso di
portare con noi qualunque cosa riuscissimo a trasportare.» «È stato a causa della crociata?» chiesi. Sydoni scosse appena la testa: «No, sono stati i fida'in». Esitai: «Cos'è un fida'in?». «Fida'in, al plurale. Non ne avete mai sentito parlare?» «No» risposi «ma sono in Terra Santa da poco.» «Anch'io vorrei non averli mai conosciuti. Sono vili e odiosi assassini» spiegò disgustata. «Alcuni li chiamano batini, che significa "quelli che hanno una religione segreta". È a causa loro che siamo stati obbligati a lasciare Damasco.» Tacque, come se temesse di aver detto troppo. Cercai di riprendere la conversazione, ma lei sostenne di essere stanca e poco dopo si ritirò sotto coperta, lasciandomi di nuovo solo a guardare le stelle. Il giorno dopo, né Sydoni né suo padre comparvero sul ponte prima di mezzogiorno. Padraig e io passammo la giornata a pescare, e le nostre prede furono sufficienti per la cena di quella sera. Raccontai al monaco ciò che mi aveva confidato Sydoni e gli chiesi se avesse mai sentito nominare i fida'in. Anche lui, come me, ammise di non sapere chi fossero, e così lo domandammo a Rupen. «Chi ve ne ha parlato?» lanciò uno sguardo al ponte deserto, come se pensasse che qualcuno potesse nascondersi dietro l'albero di maestra. «Sydoni» risposi. «Ha detto che per colpa loro sono stati costretti a lasciare Damasco, insieme a tremila cristiani.» Il giovane principe si strinse nelle spalle: «Non mi sorprende. Queste cose succedono, soprattutto quando ci sono di mezzo i fida'in». «Ma chi sono?» chiese Padraig. «Fida'in significa "quelli la cui vita...» cercò la parola adatta «... viene offerta in sacrificio".» «Sydoni ha detto che hanno una religione segreta» intervenni. Rupen annuì: «Già, infatti nessuno li conosce bene. Sono molto riservati. Anzi, ho sentito dire che preferiscono togliersi la vita piuttosto che cadere in mano al nemico. Se muoiono combattendo per il loro Dio, vanno immediatamente in paradiso. Almeno» proseguì alzando le spalle «così credono». Proprio in quel momento uno dei marinai gridò che la terra era in vista. Poco dopo comparve Giordano, che attraversò barcollando il ponte e, tenendosi stretto al parapetto con entrambe le mani, si mise a scrutare la linea dell'orizzonte.
Noi tre lo raggiungemmo, e io gli dissi che mi faceva piacere vederlo lì fuori. «Vi farà bene prendere un po' d'aria» aggiunse Padraig. Il vecchio mercante guardò la linea irregolare delle colline avvolte nella foschia stagliate contro il cielo azzurro in lontananza, oltre la vasta distesa d'acqua. «Non metto piede sul continente da quando ho lasciato Damasco» mormorò. «Pensavo che non l'avrei più fatto.» «Sydoni mi ha raccontato delle vostre vicissitudini» commentai. Mi guardò con occhi tristi e umidi: «Davvero?» chiese dubbioso. «Ne sono sorpreso.» Volse altrove lo sguardo. «È la prima volta che ne fa parola con qualcuno.» Ventisei Ci avvicinammo al continente al calar della sera, trascorremmo la notte al largo e, il mattino successivo, procedemmo lungo la costa. Il sole era appena sorto nel cielo chiaro e senza nubi quando il timoniere avvistò la foce del fiume e, mentre la nave la raggiungeva, Padraig e io fummo molto occupati con funi, vele e tutto il resto. Quando infine riuscii a sollevare lo sguardo, vidi i canali poco profondi di un ampio estuario che sboccava in mare fra due ripidi argini. Sulla riva destra del fiume si trovava il villaggio di Marionis, le cui bianche case dalle cupole azzurre strette una all'altra brillavano nella violenta luce solare. Quando si accorsero che la nave intendeva fermarsi, alcuni abitanti saltarono sulle barche e si apprestarono a venirci incontro, cercando di attirare rumorosamente la nostra attenzione. Giordano ne pagò due perché ci trasportassero a terra, e ben presto ci ritrovammo nella piccola piazza del mercato a mercanteggiare sul prezzo di un montone. Il vecchio Giordano se la cavò splendidamente nelle contrattazioni: partecipava al rituale botta e risposta con un gusto che avevo visto raramente anche in persone con la metà dei suoi anni. Conduceva le trattative parlando in greco, e non potei fare a meno di notare che, pur assumendo un atteggiamento che incuteva soggezione, si accordava sempre su un prezzo un po' più alto di quello che avrebbe spuntato se avesse insistito. «Si tratta in massima parte di contadini e pastori, non di ricchi mercanti» mi spiegò quando gliene accennai. «La vita è dura in questi villaggi. Se pago la loro merce un po' di più, torneranno a casa contenti e, stasera, una delle loro preghiere sarà per me. Sono ricco, ho bisogno di tutte le preghiere che riesco a procurarmi.» Sorrise con soddisfazione crescente. «Inoltre,
non possiamo sapere se ripasseremo ancora da queste parti: seminiamo un po' di bene adesso, e forse potremo raccoglierlo domani.» A mezzogiorno aveva concluso tutti gli acquisti e se ne stava soddisfatto accanto a una montagna di provviste: grandi focacce, orci di terracotta pieni di olive in salamoia, un quarto di montone, carne e pesce essiccati, quattro polli vivi legati per le zampe, due sacchi di farina, orci d'olio, vasi di formaggio di capra fresco, trecce d'aglio e di cipolla e mazzi di tuberi di un genere che non avevo mai visto. C'era anche vino, non meno di cinque grandi giare coperte di giunchi di fiume essiccati e intrecciati. Sotto la direzione di Giordano, i ragazzi del villaggio si accollarono i sacchi, le giare, i polli, il pane e tutto il resto e lo portarono al fiume. Padraig e io, in piedi sulla sponda, osservavamo il lungo serpentone di facchini improvvisati che procedeva sul sentiero fangoso dalla piazza del villaggio sino alla riva, dove le varie mercanzie furono caricate sulle due barche noleggiate da Giordano. Quando i ragazzi ebbero completato il lavoro, il mercante diede a ciascuno di loro una moneta d'argento, ed essi tornarono correndo verso casa, gridando di felicità. Raggiungemmo Rupen e Giordano accanto alle barche. «Mamistra è a due di giorni di navigazione sul fiume» stava dicendo il vecchio mercante quando arrivammo «forse tre, in questo periodo dell'anno. È passato molto tempo dall'ultima volta che ci sono stato. C'è un mio conoscente che commercia in cavalli e animali da soma e ci farà un buon prezzo, se è ancora lì.» «Da Mamistra ci vogliono dieci giorni di viaggio per raggiungere Anazarbus» calcolò Rupen. «Giungeremo troppo tardi.» Da quando eravamo partiti da Cipro, il giovane era sempre più ansioso e aveva il volto, già pallido, ancora più smorto e tirato del solito. Sapevo che era preoccupato di non riuscire ad arrivare in tempo per avvertire la sua gente dell'attacco di Boemondo e, anche se tutti conoscevano già il rischio, ora l'agitazione cominciava a produrre i suoi effetti. Giordano guardò le aride colline alle spalle della città, picchiettandosi l'indice sul labbro inferiore. Rifletté per un momento e ribatté: «Un esercito si sposta alla velocità dei fanti. Abbiamo cominciato bene: anche se percorressero l'intero tragitto di corsa, non riuscirebbero a superarci. Raggiungeremo Anazarbus molto prima di Boemondo, non temete». Rupen, per nulla convinto, si affrettò a prendere posto nella barca, ansioso di riprendere il viaggio il prima possibile. Poi venne caricato il resto delle provviste e fummo pronti a salpare. «Manca qualcuno» annunciò
Padraig, guardandosi intorno. «Dov'è Sydoni?» «Era al mercato quando ce ne siamo andati» ricordai, e mi offrii di andare a prenderla. Tornai in fretta al villaggio, passai fra le case e raggiunsi di nuovo la piazza. La giovane non era più lì, ma tre dei ragazzi che ci avevano aiutato a trasportare le vettovaglie mi indicarono un'abitazione davanti alla quale c'erano un paio di donne anziane e tre o quattro ragazzine che guardavano all'interno attraverso la porta aperta. Mi diressi da quella parte, mi affacciai all'uscio e vidi una stanza spoglia con il pavimento di terra battuta appena spazzato e un tavolo accostato al muro. In piedi al centro della camera stava Sydoni, che si stringeva attorno al corpo un lungo taglio di stoffa, mentre una donna glielo drappeggiava addosso, rincalzandolo qua e là, e un'altra, probabilmente madre della prima, sedeva in un angolo dietro a un telaio e dirigeva le operazioni. Chiacchieravano in greco tutt'e tre contemporaneamente, dimentiche di qualunque altra cosa. Varcai la soglia e bussai sullo stipite; Sydoni sollevò il capo, mi vide e sorrise. Era un sorriso di riconoscimento e di benvenuto, ma anche di enorme e indiscutibile sicurezza: quello di una regina nel proprio regno, di una donna completamente a suo agio che mi permetteva di dare una sbirciatina. «Le provviste sono state caricate e siamo pronti a partire» la informai. «Fra un attimo» rispose e tornò ad ammirare la stoffa, ignorandomi finché non ebbe concluso le sue faccende. Sydoni riaffidò il tessuto alla donna che lo piegò con cura, lo legò con un pezzo di panno e lo mise su uno scaffale vuoto. Quest'ultima consegnò in cambio uno strano oggetto, che a me parve un bastone di salice ricurvo avvolto in un pezzo di cotone bianco. Poi finalmente Sydoni si accomiatò dalle due donne che la seguirono oltre la soglia e la salutarono baciandola sulle guance. Mentre attraversavamo la piazza, la donna più anziana gridò qualcosa a una delle ragazzette che si trovavano sulla porta della sua casa, e quella si affrettò a seguirci. «A quanto pare avremo un'accompagnatrice» commentai, ma Sydoni non mi rispose. Allora, indicando il bastone avvolto nella stoffa, chiesi: «Quello cos'è?». «Questo?» ripeté in tono distratto. «Guardate.» Prese l'estremità ricurva di quella specie di asta, aprì con delicatezza la stoffa che la avvolgeva e fece comparire un anello di legno che rimaneva nascosto fra le pieghe del tessuto. Afferrò l'anello, lo fece scorrere lungo
tutta la lunghezza dell'asta, ed ecco che accadde una cosa davvero incredibile: il tessuto sembrò sbocciare in un grande disco rotondo e si distese su un ingegnoso traliccio di canne. Sydoni assicurò l'anello in qualche modo e la stoffa rimase tesa. «Ma cos'è?» chiesi di nuovo, rimirando quello strano oggetto simile a una vela. La giovane osservò per un momento la mia espressione stupita e lei scoppiò a ridere. Che suono magico: una calda risata femminile, piena di sentimento e di gioia, con una punta di superiorità, ma priva di qualunque accento derisorio. «Non avete mai visto un parasole?» mi interrogò divertita. «Un parasole» ripetei, felice di passare per sciocco se ciò serviva a suscitare quel riso delizioso. «E cos'è?» Senza smettere di ridere, mi domandò: «Cosa usano le donne del vostro paese quando sono in viaggio?». «Niente» risposi. «E allora» si stupì «come fanno a impedire che il sole cocente avvizzisca loro la pelle e le faccia invecchiare prematuramente?» «Da noi, il sole splende così di rado» replicai «che la gente lo accoglie con gioia, piuttosto che sfuggirlo.» «State dicendo che non c'è mai il sole?» chiese guardandomi in tralice. «Non vi credo.» «Ma è vero» insistetti. «Quando gli scozzesi vedono il sole fanno festa. A nessuno verrebbe in mente di ripararsi dal suo calore e dalla sua luce.» «Allora spero di non venirci mai» commentò con enfasi. «Si direbbe una terra buia e tetra.» Inspiegabilmente quelle parole mi colpirono al cuore come una pugnalata: sentii un'acuta fitta di rimorso per aver parlato della mia patria in modo tale da suscitare il suo disprezzo. «Come si usa questo aggeggio?» le domandai cambiando argomento. «Così» rispose, appoggiandosi la sottile asta sulla spalla. Il suo viso, il collo e le spalle si trovavano ora nell'ombra del cerchio di stoffa. «Vedete?» «Ingegnoso» ammisi. «Ma perché non indossate semplicemente un copricapo?» Dal mio arrivo in Terra Santa, avevo visto molti cappelli a tesa larga, fatti di corteccia di giunco o di paglia intrecciata, che davano l'impressione di essere adattissimi a fornire lo stesso servizio di un parasole. «Ma quelli
li usano i contadini» si scandalizzò Sydoni. «Suvvia, provate» mi esortò, porgendomi quello strano affare. Feci come lei, ma la vista di uno straniero che usava un parasole fu troppo per la nostra giovane accompagnatrice, che fu colta da un attacco di ilarità e continuò a ridacchiare finché non raggiungemmo la barca. Restituii il parasole a Sydoni, che continuò a camminare allegramente al mio fianco, facendo roteare il cerchio di stoffa e canticchiando a bassa voce, e così, per la seconda volta in pochi giorni, ebbi la gioia di un'insperata intimità con la sua deliziosa persona. Quando fummo giunti sulla riva del fiume, Sydoni informò il padre che aveva ordinato la confezione di una veste da una sarta del villaggio e gli chiese di pagare la ragazzina che avrebbe portato i soldi alla madre. Giordano mise in mano alla giovinetta alcune monete d'argento. «Anche per il parasole» intervenne Sydoni, e il mercante ne aggiunse qualche altra. Poi, sotto lo sguardo attento degli abitanti di Marionis, ci imbarcammo e cominciammo a risalire lentamente il fiume in direzione di Mamistra. Padraig e io facevamo a turno a remare con i due marinai del villaggio, prendendo il loro posto quando cominciavano a stancarsi, e così facemmo fino alla fine del viaggio. Passammo la prima notte su una secca di ciottoli al centro del fiume, senza nient'altro sul capo che il cielo pieno di stelle. La seconda notte ci accampammo sotto alcune piante di fico sulla riva e, mentre il sole calava sul terzo giorno, arrivammo a Mamistra. L'indomani, di buon mattino, mentre Rupen e Padraig aiutavano i marinai a scaricare le barche, Giordano e io ci recammo in città per cercare il suo conoscente che commerciava in cavalli. Lungo la strada fermammo un contadino con un maialino sotto il braccio e gli domandammo se conoscesse qualcuno nella zona che allevasse o vendesse equini. Quello strinse gli occhi, si grattò la guancia ispida e infine affermò che forse ne aveva sentito parlare. Quando poi Giordano gli porse una moneta d'oro per il suo disturbo, ci fece un largo sorriso sdentato e ricordò che l'uomo che aveva in mente si chiamava Nurmal. «Sì! Speravo di trovare proprio lui. Dove vive?» «Non saprei dirvelo» rispose il contadino. «Forse l'ho dimenticato.» Giordano tirò fuori altre due monete e gliele mise sul palmo ruvido. «Queste vi aiutano a ritrovare la memoria?» «No, mio signore» ribatté quello, guardando tristemente il denaro. «Continuo a non saperlo, ma so dove potete trovarlo.» «Se me lo direte» dichiarò Giordano «potrete tenere le monete.»
«C'è un mulino, laggiù» spiegò il contadino, indicando un'altura, alle spalle del villaggio, su cui si ergeva un mulino a vento. «Nei giorni di mercato Nurmal ci compra il grano e il foraggio.» E aggiunse: «Il mercato è oggi». Lo ringraziammo e lasciammo che si godesse quell'inattesa ricchezza. Il mulino era più lontano di quanto sembrasse, e impiegammo un bel po' di tempo a risalire il ripido e roccioso pendio della collina. Quando finalmente fummo in cima però ci accorgemmo che dall'altra parte c'era una strada invece del roccioso sentiero da capre che avevamo seguito noi raggiungendo il retro del mulino. Il mugnaio era un uomo burbero e di poche parole, ma il denaro di Giordano gli sciolse la lingua e venimmo a sapere che Nurmal prima o poi sarebbe arrivato. «Io lo aspetterò qui» suggerì Giordano. «Voi andate a dire agli altri che l'abbiamo trovato. Poi Nurmal e io vi raggiungeremo al fiume.» Non mi piaceva l'idea di abbandonarlo lì da solo ma, mentre uscivo dal cortile, la moglie del mugnaio gli portò una ciotola di latte e così, quando me ne andai, era seduto all'ombra della casa, intento a sorseggiare il latte fresco, con l'aspetto di chi non ha una preoccupazione al mondo. Dopo che Padraig e i barcaioli avevano scaricato le provviste sotto un albero, le barche erano ripartite. Al momento il monaco stava preparando il pranzo su un fuocherello vicino alla riva del fiume, mentre Sydoni dormiva all'ombra di un albero e Rupen sedeva su un masso, con le ginocchia ripiegate sotto il mento, intento a fissare tristemente le acque scure e vorticose del fiume. «È tutto a posto» annunciai, prendendo posto accanto a lui. «Le cose procedono abbastanza in fretta. Raggiungeremo Anazarbus prima di Boemondo e del suo esercito, vedrai.» «Non fa nessuna differenza» borbottò senza alzare lo sguardo. «I soldati di tutta l'Armenia non basteranno a respingere i crociati. Ci massacreranno come cani.» «Rupen» risposi dopo un po' «faremo ciò che possiamo e per il resto abbi fiducia in Dio.» Gli posai una mano sulla spalla per rassicurarlo: «Non smettere di sperare e prega». «Spera tu!» ringhiò, allontanando la mia mano. «Prega tu!» Lo lasciai alla sua disperazione e andai ad aiutare Padraig. Mangiammo e poi ci appisolammo, mentre la temperatura saliva. Il sole continuò a splendere incandescente in un cielo reso bianco dalla foschia dell'afa e infine cominciò la sua lunga discesa dietro le colline polverose coperte di
salvia alle spalle di Mamistra. Padraig e io stavamo discutendo dell'opportunità di tornare al mulino per cercare Giordano, quando sentimmo nitrire dei cavalli e vedemmo apparire, lungo la strada che conduceva in città, il vecchio mercante e un secondo cavaliere. Dietro di loro venivano altri due uomini con due cavalli ciascuno. Si fermarono in riva al fiume e, mentre le bestie si abbeveravano, Giordano ci presentò Nurmal, un vecchio sorridente e gentile, con i capelli bianchi, e la pelle tanto scura da sembrare cuoio lucidato, che indossava le vesti di seta di un nobile arabo e, quando parlava, faceva tremare d'eccitazione i lunghi baffi. «Cosa ne pensate dei miei cavalli?» chiese Nurmal dopo i convenevoli d'obbligo. «Sono splendidi» osservai. «In Scozia nemmeno i re ne possiedono di così belli.» «Non mi sorprende. Anche se, probabilmente, è perché qui ce ne sono di più» commentò Nurmal con modestia. «Gli arabi attribuiscono un grande valore ai loro destrieri e allevano i migliori del mondo. Giordano e io ci siamo già messi d'accordo. Potete scegliere quello che volete, fra quelli rimasti.» Indicò gli animali, invitandoci a esaminarli. «Uno qualsiasi andrà benissimo» dissi con noncuranza. «Vi accontentate troppo in fretta» commentò Nurmal. «E non dovreste. Chiunque affidi la sua vita e la sua ombra a un cavallo farebbe meglio a dedicare una lunga riflessione alla propria scelta.» Così mi avvicinai agli animali e li esaminai con più attenzione. Avevano le zampe lunghe e sottili, il capo eretto, la coda e la criniera folte e fluenti e il collo elegantemente arcuato. Passai la mano sul mantello lustro di una bestia e mi parve già di essere sulla sua robusta groppa fremente, divorando senza sforzo il terreno sotto di me. Erano davvero creature superbe, sicuramente al di là della mia modesta capacità di giudizio. A quanto potevo vedere, oltre al colore del manto, non c'era alcuna differenza fra loro. Perciò ne presi uno grigio con il dorso chiazzato che mi faceva pensare alla nebbia che si alza sulla brughiera della mia amata terra. Dopo che anche gli altri ebbero scelto le loro cavalcature, Nurmal annunciò: «E ora, amici, andremo a casa mia, dove trascorreremo la notte. Ceneremo insieme e domattina partiremo per Anazarbus». «Intendete venire con noi?» chiese Rupen. Capii subito che l'idea non gli piaceva.
«Certo, signore. Voi avete bisogno di una guida e io devo badare ai miei cavalli.» Il sorriso di Nurmal era aperto e attraente. «Fidatevi di quest'uomo come vi fidereste di me» intervenne Giordano. «Gli ho già parlato della vostra urgenza e della necessità che tutto si svolga con il massimo riserbo.» «Per questo è meglio che stanotte vi fermiate da me e non in città» spiegò Nurmal. Rupen aggrottò la fronte, poco convinto. «Almeno potremo metterci subito in viaggio» gli dissi «e più comodamente di come abbiamo fatto finora.» Tutti i dubbi vennero ben presto fugati dall'entusiasmo di avere cavalcature tanto straordinarie: erano così vivaci, intelligenti e docili, che cavalcarli era davvero una gioia. Era passato molto tempo dall'ultima volta che avevo montato un cavallo, ma sapevo di non averne mai posseduto uno altrettanto ubbidiente e ben addestrato. Ci incamminammo per una vecchia strada che, passando alle spalle della città, conduceva alla quiete delle colline. L'aria della sera era fresca e aveva il profumo della salvia e delle ginestre. Il cielo si oscurò lentamente e sorse la luna. Continuammo la nostra cavalcata, felici di restare in silenzio attraversando la campagna buia, continuando a salire lungo alture accidentate e deserte. Infine raggiungemmo una grande villa circondata da un alto muro, nascosta tra gli anfratti di una gola e circondata da scuderie e cortili. Smontammo nella corte principale e Nurmal ci diede il benvenuto: «Domani affronteremo le fatiche del viaggio, ma stasera» promise mentre il suo sorriso lampeggiava candido alla luce della luna «mangeremo e dormiremo come re. Venite, la cena è pronta. Non vi mancherà nulla, amici miei». Fummo accolti con tale munificenza e cortesia che grazie a un semplice pasto dimenticammo traversie e privazioni e ci alzammo da tavola in forma e distesi, pronti ad affrontare il resto del viaggio. Mentre andavamo a coricarci, Padraig mi confidò: «Se la salvezza è legata all'ospitalità, sono certo che, quando gli angeli ci chiameranno al banchetto celeste, troveremo Nurmal di Mamistra seduto alla destra di Dio». «Amen» risposi allegramente. «Con Nurmal accanto, Dio non potrebbe desiderare un convitato più amabile.» Ventisette
Era ancora buio quando lasciammo la villa, e già all'alba ci fermammo a bere, perché la giornata si annunciava torrida e riarsa. Il cielo notturno divenne prima di un color grigio lattiginoso, poi giallo e infine azzurro. Mentre guardavamo le pallide dita dell'aurora distendersi sulle vallate e separare la massa scura delle colline, cominciammo a sentire l'afa che si diffondeva come un'onda sul terreno. Rimontammo subito a cavallo e ci rimettemmo in cammino, in modo da avanzare quanto più possibile prima di essere costretti a fermarci e ad attendere il tramonto. Durante la marcia pensavo a coloro che avevo lasciato in Scozia: mia madre, mio padre, l'abate Emlyn e tutti gli altri, ma soprattutto te, mia adorata Cait. Sapevo che Murdo e Regana si sarebbero presi cura di te come avrei fatto io, anzi meglio, ma mi sentivo ugualmente in colpa per averti abbandonata e mi venne voglia di essere un gabbiano, o un'aquila, per poter volare sino a te, e vederti, e sapere, anche solo per un istante, cosa stavi facendo in quel momento. Ti tenni nella mia mente, cercando di immaginare quanto fossi cresciuta dall'ultima volta che ti avevo vista e poi, tesoro mio, ti presentai al Trono della Grazia e chiesi al Re del Cielo di mandare tre angeli a proteggerti giorno e notte sino a che io non avessi fatto ritorno. Sì, su quella strada sconnessa, fra quelle colline impervie e polverose coperte di salvia, desiderai di tornare alla mia terra e provai quella straziante sofferenza che Padraig chiama hiraeth, nostalgia di casa. Era un dolore acuto, che mi attanagliava il cuore, era uno squarcio aperto nel mio animo da cui penetrava un vento gelido e violento. Per la prima volta da quando avevo lasciato Caithness, avrei voluto trovarmi sulla strada di casa. Era passato mezzogiorno quando finalmente vedemmo un posto adatto a sostare per bere e per riposare in attesa della sera: una macchia di lecci a cespuglio bassi e coperti di minuscole spine che potevano dare ombra a non più di due persone. Purtroppo anche le mosche li trovavano accoglienti, e ci infastidirono senza sosta, ma almeno le fronde coperte di fitto fogliame ci riparavano il capo dal sole. Lasciammo i cavalli a brucare quel poco che potevano trovare e ci sedemmo. Non parlavo da solo con Giordano da parecchi giorni e avevo molte domande da fargli, così lo raggiunsi sotto l'albero dove si era sdraiato. Fu lieto di avere compagnia e iniziammo a discorrere. «C'è una cosa che desidero chiedervi sin da quando siamo partiti da Famagosta» esordii. «Una domanda inespressa è come il mal di denti, bisogna estrarla» dichiarò, voltandosi dalla mia parte. «Cosa vi angustia, amico mio?» «Perché state facendo tutto questo?» chiesi, e notando il suo sguardo
perplesso, aggiunsi: «Le navi, le provviste, i cavalli. Perché ci state aiutando?». «Ah, be'» rispose. «Non è più permesso soccorrere un amico in difficoltà?» «Perdonatemi, Giordano, ma deve muovervi qualche altra ragione.» Mi venne in mente in quel momento che forse non alludeva a me, parlando di un amico. «Si tratta di Bracineaux?» suggerii. «Ci ha mandato da voi sapendo che ci avreste dato una mano. Ma perché? Cosa c'è fra voi due perché dobbiate prendere tanto a cuore i nostri problemi?» Giordano si sistemò contro il piccolo tronco contorto, appoggiò la testa alla corteccia e si mise a scrutare la stretta vallata che sembrava ondeggiare nella calura. Il ronzio delle mosche sembrava più intenso nel silenzio circostante. Non insistetti e lasciai che mi rispondesse con comodo. Infine tirò un sospiro profondo e, con un tono di voce carico di sofferenza e di malinconia, disse: «Lo sto facendo per mio figlio». «Me lo avete già menzionato» commentai per aiutarlo a continuare. «Ho capito che gli volevate molto bene.» «Si chiamava Giuliano» intervenne Nurmal che ci aveva sentiti e raggiunti con un otre e una scodella di legno. «Posso?» «Prego» concesse Giordano e batté con la mano sul terreno per fargli segno di sedersi. «Giuliano aveva tutto ciò che un padre desidera in un figlio e nell'erede del suo nome e della sua casata» continuò, con un accento di orgoglio nella voce. «Era la mia speranza e la mia gioia.» Continuò poi a narrare i tragici avvenimenti dei loro ultimi giorni a Damasco. I problemi erano cominciati con la caduta di Gerusalemme, che aveva gettato i selgiuchidi e i saraceni nella disperazione. In una sola notte tutte le loro sicurezze si erano infrante e il mondo era piombato in un caos di proporzioni inimmaginabili, da cui erano emerse nuove, e spesso pericolose, alleanze. Ovunque i vecchi califfi ed emiri si accordavano con chiunque offrisse loro la speranza di essere protetti contro la crescente mole di pericoli e di insidie che sorgeva giorno dopo giorno. «Lo stesso accadde a Damasco» continuò Giordano. «L'atabeg Tughtigin resistette finché poté. Dapprincipio, era stato un monarca capace e giusto, ma alla fine l'età e la cattiva salute ebbero un effetto funesto e si alleò con i fida'in.» Ricordai improvvisamente ciò che mi avevano raccontato Sydoni e Rupen su quell'oscura setta. Giordano si accorse che avevo reagito udendo quel nome e commentò:
«Vedo che ne avete sentito parlare». «Sydoni me ne ha accennato. Li ha chiamati assassini e ha detto che hanno un religione segreta, anche se non sapeva quale.» «Sono musulmani» spiegò Giordano «ma fanno parte di una corrente fanatica e fondamentalista. Il loro più ardente desiderio consiste nel riunire tutti i maomettani nella stessa osservanza della fede islamica. Per farlo, sono disposti a tutto, anche ad affrontare il martirio.» «Sono pericolosi» osservai. «Sono criminali» mi corresse Nurmal. «Soprattutto a causa dell'hashish.» «L'hashish?» Non avevo mai sentito quella parola e chiesi di che cosa si trattasse. «Oh, è un'erba molto speciale che può essere usata in vari modi. I fida'in la mangiano o ne fumano le foglie essiccate. È una droga assai potente, che li rende follemente coraggiosi. Quando sono sotto l'effetto dell'hashish non temono niente» dichiarò Nurmal. «Per questo, alcuni li chiamano hashishin, ma è un appellativo che detestano.» «È vero» confermò Giordano. «La morte non li spaventa affatto, e neppure la vita futura. Sacrificano tutto alla loro fede, credendo di essere gli strumenti che Dio usa per instaurare la Sua giustizia.» «Uccidendo i loro nemici.» «Massacrando chiunque si opponga ai loro piani» sottolineò Giordano. «Adesso sono dappertutto, e dappertutto li odiano. Come Dio, vedono e sentono qualunque cosa venga fatta o detta; e, come Dio, giudicano tutti.» «E il verdetto è sempre lo stesso» aggiunse Nurmal. «Di colpevolezza.» «Purtroppo è così» ammise Giordano, annuendo. «Stavate dicendo che vennero a Damasco» suggerii, tentando di riportarlo garbatamente al racconto. «Sì, ed è stata la più grande disgrazia mai capitata a quella nobile città. Ai fida'in fu concesso di rifugiarsi a Damasco per il loro contributo alla sua difesa. Non capirò mai perché il vecchio Tughtigin abbia accettato un tale patto. Deve aver pensato che fosse meglio averli come alleati che come nemici. Non lo so. «Ma, come chiunque avrebbe potuto prevedere, fu una decisione disastrosa. Una volta insediatisi all'interno delle mura, i fida'in cominciarono a ricoprire ogni possibile carica. Dopo pochi mesi tenevano sotto controllo il visir ed esercitavano la loro influenza su tutti gli affari di stato. Tughtigin divenne un fantasma nel suo stesso palazzo; silenzioso e inavvertito, vaga-
va per i corridoi gemendo e tremando per il rimorso di essere stato tanto ingenuo. Ma ormai il danno era fatto: i fida'in non potevano più essere eliminati. «La popolazione cercò di sopportare meglio che poté. Esercitare il commercio era difficile ed estremamente complicato. Per esempio, se ai fida'in non piaceva il colore di una stoffa esposta, la dichiaravano impura, la confiscavano, e imponevano una tassa di vendita altissima. Se vedevano per strada una donna con il capo scoperto, o se pensavano che qualcuno avesse un turbante troppo vistoso, o la barba troppo corta, imponevano un'ammenda salata. E, se il colpevole non poteva pagare, lo gettavano in prigione. «In breve una metà degli abitanti si ritrovò coperta di debiti insolvibili e l'altra in prigione.» Giordano scosse forte la testa: «E se qualcuno era così sconsiderato da dichiararsi innocente, scompariva. Se era fortunato, la sua testa veniva trovata inchiodata sulla porta della città, altrimenti non se ne sapeva più nulla». «Immagino che i più vessati siano stati i cristiani» riflettei ad alta voce. «Verrebbe spontaneo pensarlo» ammise Giordano. «E invece no: il sopruso veniva perpetrato con grandissima equità. Oh, sì, quei criminali provvedevano a tutti i cittadini, ricchi e poveri, giovani e vecchi, cristiani, ebrei e musulmani, con demoniaca imparzialità. La situazione peggiorava di anno in anno, per tutti, non solo per mercanti e usurai. I buoni affari non dipendono solo da scambi di beni e servizi affidabili e regolari, ma anche dalla possibilità di progredire e dalla speranza nel futuro. Se si lasciano seccare queste sorgenti, qualunque tipo di economia si esaurisce in fretta, come un fiume nel deserto.» Nurmal versò dell'acqua nella scodella e la passò a Giordano. «Cercammo di far fronte alla situazione al meglio, per quanto ci fu possibile» continuò il vecchio mercante dopo aver bevuto. «Ma, alla fine, era divenuta intollerabile.» «Fu allora che decideste di andarvene?» chiesi. «Magari» mormorò Giordano. «Giuliano sarebbe ancora vivo.» Piegò le labbra in una smorfia di rimpianto in cui c'era tanto dolore che non riuscii a tollerarne la vista e mi voltai dall'altra parte. «Tutto è vanità» bisbigliò «e niente lo è più del cuore dell'uomo.» Vedendo il suo amico in preda a un'angoscia così profonda, Nurmal portò la conversazione su un argomento meno doloroso, lasciandomi con più domande di quante ne avessi quando avevamo cominciato a parlare. Non
appena la calura del giorno cominciò a diminuire, ci rimettemmo in viaggio. Riflettei su ciò che mi aveva detto Giordano, collegando nella mia mente le varie tessere del racconto. Mi sembrava che il fulcro del mistero fossero Giuliano e il suo triste destino e, pensando che non sarei riuscito a sapere più nulla dal padre, decisi di chiedere alla sorella. Ma quel giorno non ebbi occasione di parlarle a quattr'occhi, e nemmeno il successivo. Riuscii a restare da solo con lei soltanto a sera inoltrata, dopo che ci fummo accampati per la notte, quando tutti gli altri si stavano preparando a dormire. «Sydoni» la chiamai, avvicinandomi al fuoco morente accanto al quale era seduta. «Vorrei parlarvi.» Lei sollevò lo sguardo verso di me e il bagliore della brace le illuminò il volto come la luce rosata di un'alba lontana. «Sedete accanto a me» mormorò con tono ammaliante. I capelli raccolti le lasciavano scoperte le spalle, ma qualche ricciolo ribelle le scendeva dietro le orecchie e lungo la linea sottile e armoniosa del collo. Mi chiesi cosa avrei provato ad arrotolare attorno a un dito uno di quei boccoli. «Ho chiesto a vostro padre di raccontarmi cosa accadde a Damasco» cominciai, sedendomi a terra accanto a lei. «E l'ha fatto?» mi gettò lo stesso sguardo diretto e disarmante con cui mi aveva accolto la prima volta nel cortile di casa sua. Adesso, però, non aveva un'aria di sfida, ma di apprezzamento. «Mi ha confidato qualcosa» risposi. «Mi ha raccontato di Giuliano.» «Allora vi ha detto molto» mi corresse, tornando a fissare la brace. «Gli ho domandato perché ci sta aiutando, e lui ha sostenuto che lo sta facendo per suo figlio... per Giuliano.» Sembrò riflettere sulle mie parole, ma respinse l'idea: «No» disse pensierosa «qualunque sia la ragione, non è Giuliano». «La vanità, allora?» chiesi. Era l'ultimo concetto a cui aveva accennato Giordano, e speravo che Sydoni sapesse che cosa significava. «Forse» concesse. «Vedete, mio padre voleva diventare governatore di Damasco.» Mi guardò di sottecchi: «Vedo che di questo non vi ha parlato». Scossi la testa: «No». «Eppure è vero. Giuliano non lo approvava e in numerose occasioni esortò nostro padre a lasciare la città. Ma lui si rifiutò di ascoltarlo poiché desiderava ardentemente avere quell'incarico.» «Ha dato la colpa ai fida'in» osservai.
«Certo» rispose lei come se fosse del tutto evidente. «Altrimenti non sarebbe successo nulla. Erano loro a volere che mio padre facesse il governatore.» Quella storia non aveva senso: «Ma pensavo che i fida'in fossero musulmani» intervenni. «Giordano ha detto che avevano la città in pugno.» «Sst» sussurrò «parlate sottovoce, o sveglierete tutti. Se state zitto vi racconterò com'è andata.» Piegò le lunghe gambe abbracciandosi le ginocchia, poi, fissando la brace come se stesse contemplando un passato luminoso, cominciò a descrivere i loro ultimi giorni a Damasco: «L'atabeg...» «Volete dire Tughtigin?» «Sì. Era un uomo vecchio e malato, e con il tempo diventava sempre più debole. Il visir era un leccapiedi inconcludente di nome al-Mazdaghani, che si era messo dalla parte dei batini, altro nome dei fida'in. Un giorno l'atabeg non poté più alzarsi dal suo letto. Resosi conto che stava per morire, passò il titolo al figlio, Buri. Gli emiri accolsero la scelta con favore, perché Buri aveva giurato di liberare la città dai fida'in. E fu allora» dichiarò Sydoni con trasporto «che cominciarono i nostri guai.» Parlava con calma e candore, e ascoltarla era un piacere, una sensazione che non provavo da molto tempo in compagnia di una donna. «I fida'in si consideravano i soli musulmani autentici» continuò «e, ai loro occhi, Buri e gli emiri erano miscredenti sacrileghi. Quando Tughtigin cominciò a diventare sempre più debole, Buri man mano lo sostituì e cominciò a compiere i primi passi per eliminare quell'odiosa setta. Ciò allarmò i fida'in, che avevano pensato di poter controllare il nuovo atabeg come avevano fatto con suo padre. «Più l'autorità di Buri aumentava, più i fida'in temevano di perdere l'unico luogo dov'erano stati i benvenuti. Ben presto furono anch'essi maltrattati e perseguitati e, disperati, si misero in cerca di un protettore che potesse assicurare la loro sopravvivenza. In grande segreto, poiché i fida'in sono maestri di intrighi, mandarono un inviato a Edessa...» Sentendole nominare la patria di mio zio Torf in Terra Santa, il racconto di Sydoni cessò all'improvviso di sembrarmi una favola e divenne attuale e reale. «Baldovino» mormorai. «Baldovino II» mi corresse. «I fida'in si offrirono di consegnare Damasco al conte se, in cambio, avesse concesso loro il governo della città di Tiro. Quale principe avrebbe potuto resistere a un tale dono? Ma Baldovino era astuto. Mandò a dire che, se i cristiani della città volevano il suo
intervento, avrebbero dovuto trovarsi un capo per organizzare il nuovo governo.» «Una notte vennero a casa nostra» Sydoni rabbrividì al ricordo. Erano sei uomini vestiti di nero, con le scimitarre e i pugnali a forma di croce. Dissero che cercavano Giordano Ippolito e che volevano fargli una proposta. «Giuliano non c'era, altrimenti non li avrebbe lasciati entrare. Ma mio padre non voleva guai, così li ascoltò. Allora gli rivelarono che Damasco sarebbe stata consegnata a Baldovino e che, se lui li avesse lasciati andare indisturbati, gli avrebbero affidato il governo della città, quando fosse passata sotto l'autorità del conte.» «E lui acconsentì?» «Dapprincipio no» rispose Sydoni. «Rispose che avrebbe riflettuto, che si sarebbe raccolto in preghiera e che avrebbe chiesto consiglio agli anziani della comunità cristiana della città. Gli concessero quattro giorni per pensarci e dissero che sarebbero tornati per avere una risposta. «Giuliano si oppose. Non voleva avere niente a che fare con i batini. Invece molti amici di mio padre lo esortarono ad accettare l'offerta. La consideravano una possibilità di riconquistare il potere che avevano perso sotto il dominio musulmano. Ma mio padre continuava a esitare.» «Quando si decise?» chiesi. «Baldovino fece giungere la notizia che i templari erano pronti ad aiutarlo. Promise che avrebbe insediato una guarnigione indipendente a Damasco. Renaud de Bracineaux a quel tempo era di stanza a Edessa e si mormorava che sarebbe diventato il Gran Maestro di quella guarnigione. Una notte venne a parlare con mio padre e gli promise il suo appoggio: con l'aiuto dei templari, il governatorato sarebbe stato al sicuro. Così, mio padre acconsentì.» «E poi cosa accadde?» «Attese per tutta l'estate, ma Baldovino non arrivò mai» rispose. «Non so perché, ma ci abbandonò. Ho sentito dire che si mise in marcia con il suo esercito e che attendeva solo l'appoggio del conte di Antiochia; ma quando si rese conto che Boemondo non lo avrebbe aiutato, ormai erano cominciate le piogge autunnali. Baldovino non volle cominciare una campagna con il fango e il freddo, e perciò fece ritorno a Edessa. «Quando Buri, il nuovo atabeg, capì che Baldovino non avrebbe attaccato» continuò Sydoni «decise che era giunto il suo momento. Radunò alcuni soldati e, la mattina in cui la città sarebbe dovuta essere consegnata, mar-
ciò sul Padiglione delle rose, nel palazzo dove il visir era raccolto in preghiera, e ordinò che fosse immediatamente giustiziato. Lo fecero a pezzi e appesero le sue membra sulla Porta di Ferro, come ammonimento a chiunque volesse ribellarsi. «L'atabeg decise di allontanare tutti i cristiani, così da impedire il successo di ogni possibile complotto. Essi furono informati che avrebbero avuto tempo sino al tramonto per raccogliere ciò che potevano trasportare, a patto che partissero prima della chiusura delle porte della città. L'espulsione fu generale. Qualunque cristiano trovato a Damasco dopo il tramonto, sarebbe stato ucciso. «Lavorarono tutti come schiavi e mio padre ingaggiò anche amici ebrei e musulmani: organizzò un'intera carovana, caricando bauli d'oro e d'argento su asini e cavalli. Al tramonto chiese a Giuliano di cominciare a condurre i bagagli fuori dalla città, in modo che non rimanessero bloccati all'interno quando le porte fossero state chiuse. «Tutta Damasco era in preda a una confusione mai vista. Il convoglio partì, ma Giuliano non si sentiva tranquillo nel lasciarci in città e, perciò, giunto alle porte, affidò la carovana agli uomini che erano stati ingaggiati e corse di nuovo a casa per portare in salvo noi e i servitori.» Sydoni si inumidì le labbra con la lingua, preparandosi a raccontare il seguito della storia: «Quando Giuliano se ne fu andato, mio padre mutò parere e decise di abbandonare ciò che restava, pensando che non sarebbe servito a niente. Così ci affrettammo a raggiungere Giuliano, ma le strade erano piene di gente che ostacolava il passaggio. Quando arrivammo alle porte, la carovana era stata fermata, i carrettieri erano fuggiti e Giuliano era scomparso. Ci mettemmo subito alla sua ricerca, chiedendo a tutti quelli che incontravamo se lo avessero visto, ma nessuno volle dirci niente. «Finalmente, trovammo uno dei nostri servi. Ci raccontò che, quando Giuliano era tornato indietro, i soldati di guardia alle porte lo avevano fermato e gli avevano chiesto del denaro. Lui si era rifiutato di pagare ed era stato trascinato via, mentre i componenti della carovana erano stati minacciati di morte se avessero raccontato l'accaduto. L'uomo ci mostrò dove avevano portato mio fratello e ne trovammo il corpo martoriato in mezzo a una pozza di sangue. Lo avevano massacrato di botte, lasciandolo morire dissanguato dietro un mucchio di letame». Sydoni smise di parlare e restammo lì, ad ascoltare il crepitio della brace morente. «Non potevamo fare nulla» disse dopo un po'. «Giuliano era morto, e
ormai si stava facendo buio. Dovevamo fuggire o essere uccisi. Anche così fu solo con grande fatica che riuscii a convincere mio padre ad andare. Pagammo il servo perché si prendesse cura del cadavere e ci dirigemmo verso la porta. I soldati l'avevano già chiusa e si rifiutarono di aprirla finché mio padre non promise loro la metà dell'oro e dell'argento che aveva con sé. Alla fine, naturalmente, ne presero di più e ci permisero di tenere il resto solo perché erano troppo pigri per scaricarlo e portarcelo via. «Impiegammo nove giorni per arrivare a Tiro, sulla costa» mormorò con voce spezzata. «A ogni passo l'ira di mio padre contro Baldovino e gli altri principi cristiani cresceva sempre più. Bracineaux ci aiutò a raggiungere Cipro e inviò persino dei soldati a Sidone e a Tripoli per recuperare le navi di mio padre. I mercanti di quelle città avevano udito dei cristiani esiliati da Damasco e pensavano che fosse stato ucciso mio padre. Invece si trattava di mio fratello.» Si volse verso di me, con il bel volto ambrato illuminato dal bagliore delle braci e gli occhi colmi di lacrime: «Ora sapete tutto». Mi pentii della mia curiosità. Se avessi immaginato che quei ricordi le avrebbero causato tanta pena, non le avrei mai domandato nulla. «Mi dispiace, Sydoni» bisbigliai, sentendo la sua sofferenza come un peso sul cuore e desiderando di non averle fatto rivivere lo strazio di quei giorni terribili. Avrei voluto posarle un braccio sulla spalla e stringerla a me, ma non sapevo se avrebbe gradito un simile gesto di conforto. «Sono passati due anni, e non l'ho mai detto a nessuno dal giorno in cui abbiamo lasciato Damasco» mormorò, asciugandosi le lacrime con il palmo della mano. «Non ne parlerò mai più.» Non potevo certo biasimarla. Ventotto Viaggiammo per otto giorni e incontrammo soltanto contadini e pastori che andavano al mercato o ritornavano a casa, quattro monaci greci e un gruppo di mercanti che cercavano fortuna in Armenia. Questi ultimi si unirono a noi sperando di restare in nostra compagnia sino ad Anazarbus. A parte ciò, fu un viaggio terribilmente monotono: in fondo, tutte le montagne di rocce e sassi si assomigliano. Mangiavamo e dormivamo per strada, e con il passare del tempo eravamo sempre più preoccupati e nervosi. Giordano, che aveva iniziato con tanto slancio, cominciò a dare segni di stanchezza; era un uomo anziano e
le sue forze non andavano di pari passo con il suo entusiasmo. Sydoni sembrava essersi chiusa in se stessa e diventava sempre più pensierosa e malinconica. La vedevo cavalcare al riparo del suo parasole e cercavo di conversare con lei, ma era troppo inquieta per rilassarsi, e spesso si lasciava distrarre dalle proprie riflessioni. Rupen, che era già angosciato e irritabile quando avevamo lasciato Antiochia, peggiorò man mano che la sua ansia aumentava. Nessuno poteva rivolgergli la parola senza provocare una discussione, o gettarlo in uno stato di morbosa autocommiserazione. Solo Nurmal e Padraig non si lasciavano influenzare da quella monotonia opprimente: il primo perché amava i propri cavalli ed era sempre felice quando poteva stare in sella; il secondo per natura. I monaci Célé Dé trovano le difficoltà stimolanti e piacevoli, e le considerano un'occasione per migliorarsi. Sono noti per andare a caccia di guai, quando non ne hanno sotto mano. Quanto a me, cominciavo a esser stanco di tentare di sollevare il morale di tutti e spesso meditavo sconsolato su come la strada della vita prenda a volte strane direzioni: per esempio, io mi allontanavo sempre più dalla ricerca della Santa Croce. Nonostante l'urgenza e l'importanza della nostra spedizione, cominciavo a provare un certo fastidio per le interferenze e i contrattempi, grandi e piccoli, che mi distoglievano dal mio obiettivo. Ero sempre più impaziente di occuparmi solo delle mie faccende e non vedevo l'ora che arrivasse il giorno in cui non ci sarebbe stato nessuno da difendere, da proteggere o da accontentare, a parte me stesso. Fui quindi estremamente sollevato quando, dopo otto giorni di viaggio, salimmo su un'altura e vedemmo le mura di Anazarbus che brillavano nel riverbero della calura. Per via delle montagne, ci eravamo avvicinati alla città senza scorgerla e ora eccola lì, circondata dalle sue mura come una manciata di bianche uova nel nido. A sud e a est si stendeva una valle brulla e irregolare, nella quale un fiume aveva scavato una profonda gola; a nord e a ovest, immerse nella foschia, si innalzavano le pendici ripide e frastagliate delle montagne del Tauro, magnifiche e imponenti. Appena giungemmo in vista della città, Rupen, che sino a quel momento era stato imbronciato e assente, cadde preda di un'eccitazione incontenibile. Sollevò la testa, lanciò un urlo così forte da farsi sentire persino dalle strade di Anazarbus, afferrò le redini e spronò il suo magnifico cavallo. L'animale, felice di avere l'occasione di galoppare dopo essere stato tenuto al passo così a lungo, drizzò le orecchie, fece qualche passo indietro e poi si lanciò in avanti, trascinandosi dietro il povero cavallo da soma che gli
stava legato dietro. Seguendo il suo esempio, Nurmal e io lanciammo i nostri destrieri, lasciandoci alle spalle tutti gli altri. Fu come se il mio cuore avesse messo le ali: mentre correvamo a precipizio verso la città, la sfibrante monotonia del viaggio scomparve di colpo. Rupen raggiunse le porte per primo e, quando noi arrivammo, era già smontato di sella e stava discutendo con le guardie. «Sapete chi vi sta chiedendo di entrare?» sibilò, con voce tagliente d'ira, mentre la sua gioia si dileguava di fronte all'ostinato rifiuto delle guardie a obbedirgli. «Questo è il principe Rupen, figlio di re Leone» si intromise Nurmal cercando di essere d'aiuto. «Nessuno deve entrare o uscire dalla città senza autorizzazione» rispose ottusamente il guardiano. I due soldati che erano con lui annuirono, avvicinandosi. «Ma è assurdo!» gridò Rupen, cercando di aprirsi un varco fra le guardie, che sollevarono le picche con atteggiamento minaccioso. «Aspettate!» intervenni, frapponendomi in fretta fra Rupen e i soldati. «C'è qualcosa che non va» dissi al giovane. «È inutile discutere, piuttosto chiedete loro se acconsentono a portare un messaggio a vostro padre.» Rupen accolse il mio suggerimento controvoglia, pur riconoscendone la ragionevolezza. Rivolto alla guardia, ordinò furibondo: «Portate un messaggio al vostro sovrano. Ditegli che il principe Rupen attende fuori dalle mura e chiede di potersi riunire alla sua famiglia». Le sue parole causarono una certa agitazione. Il capo delle guardie interpellò il compagno che gli stava vicino: «Hai sentito?» dichiarò, spingendolo. «Corri!» Il soldato si allontanò di corsa e scomparve dentro la guardiola alle sue spalle. «Vi prego di perdonarmi, mio signore» mormorò il guardiano. «Non sapevamo chi foste.» Rupen sembrava intenzionato a litigare, ma Nurmal intervenne: «Risparmiate il fiato, amico mio. Il malinteso sarà presto risolto». Le mura di Anazarbus erano circolari, e sovrastate a intervalli regolari da torri tozze, una delle quali si ergeva sopra la porta centrale. Nonostante fosse una giornata assolutamente tranquilla, molti soldati stavano di guardia sulle torri e lungo le mura. Quando lo feci rilevare a Nurmal, lui mi rispose: «È la prima cosa che ho notato. Penso che stiano aspettando qualcuno, ma certo non noi». Rupen non sentì, perché stava facendo la spola fra noi e la guardia, sem-
pre più irritato per essere stato trattato con poco rispetto. Pensai fosse opportuno ignorare il suo malumore e mi sedetti su un masso a fianco della strada in attesa che gli altri ci raggiungessero. Nurmal prese la borraccia, bevve, e me la passò: «L'acqua purtroppo è calda, ma finché non avremo niente di meglio...». Ne presi un sorso, poi mi alzai, mi versai un po' di liquido nel cavo della mano e la offrii al mio cavallo. Era molto assetato e finì quel poco che era rimasto nella borraccia. Stavo per andare a prenderne altra quando Rupen gridò: «Guardate! I miei fratelli!». Dalla porta della città uscirono due uomini, diversi dal giovane principe come i fagioli dall'orzo. Lui era esile e delicato, quelli muscolosi e robusti; lui era fragile e minuto, quelli massicci, prestanti e vigorosi. La sola somiglianza che riuscii a trovare stava nei capelli neri, una caratteristica fisica comune a tutti gli armeni che vidi. Non appena i due scorsero il fratello, si sbracciarono per salutarlo e Rupen corse loro incontro. I soldati, consapevoli del fatto che la loro zelante obbedienza avesse creato incomodo alla famiglia reale, si trassero da parte assumendo un'espressione pentita e insieme ostinata, mentre la lieta riunione fraterna aveva luogo nonostante si fossero prodigati per impedirla. I due principi abbracciarono con foga il fratello minore sollevandolo da terra e poi cominciarono a dargli forti pacche sulle spalle sino a farlo vacillare, senza mai smettere di parlare a precipizio in una lingua per noi incomprensibile. Spingevano Rupen di qua e di là, con i modi scherzosamente prepotenti che mi fecero tornare in mente come ci trattavamo Eirik e io quando eravamo ragazzi. Nurmal e io ci avvicinammo, aspettando che si accorgessero di noi. Infatti, dopo qualche minuto, Rupen si voltò e sorridendo esclamò: «Amici, vi presento i miei fratelli!». Indicando il maggiore dei due, che chinò educatamente il capo, disse: «Questo è Thoros». Poi, indicando il secondo che pure fece un cenno rispettoso aggiunse: «E questo è Costantino». Subito dopo Rupen mi presentò, spiegando che, se non fosse stato per il mio aiuto, non si sarebbe trovato lì. «Duncan mi ha salvato la vita» affermò orgogliosamente «non una, ma due volte. È un vero amico.» Thoros si avvicinò e mi strinse la mano: «Vi siamo debitori, mio signore. Stasera daremo un banchetto in vostro onore e per festeggiare il ritorno di nostro fratello». Accettai l'invito con un semplice inchino e Thoros si rivolse a Nurmal. «Ma guarda chi si vede! Nurmal, mio caro amico, dovevo immaginare
che c'entravate anche voi in questa faccenda.» «Niente affatto, signore» rispose umilmente il mercante di cavalli. «Con la loro ostinazione sarebbero riusciti comunque a raggiungere Anazarbus. Ho solo contribuito a rendere il viaggio un po' più facile.» Rivolgendosi di nuovo a me, Thoros commentò: «Avete sentito quanta modestia? Non credetegli! Non accade niente a oriente del Tauro senza che ci metta lo zampino Nurmal di Mamistra». Rise, ma il mercante non partecipò allo scherzo. «Esagerate, Thoros» si schernì. «Ma non importa. Sono felice di poter essere d'aiuto, quando posso.» In quel momento arrivò il resto della nostra compagnia e vennero fatte le presentazioni. Padraig fu accolto con grande curiosità: non avevano mai visto un monaco che non fosse abbigliato in pesanti vesti nere, e non riuscivano a credere che fosse un vero sacerdote. Anche Giordano e Sydoni ricevettero attenzioni speciali e notai che Thoros tratteneva fra le sue la mano della giovane donna mentre salutava lei e suo padre. Poi, con garbo e sincerità, Thoros ci ringraziò per esserci presi cura del fratello e per averlo aiutato a far ritorno a casa. «Dio renderà merito alla vostra carità con i cori dei Suoi angeli» disse «e la nobile casa di Anazarbus vi riempirà le tasche d'oro!» Poi ci riunì con un ampio gesto delle braccia, come fossimo bambini: «Venite, amici! Entriamo. Al re farà piacere sapere che il suo figlio minore è finalmente ritornato». Superate le mura, fummo condotti direttamente al palazzo, che si trovava su una piazza a breve distanza dalle porte e aveva l'aspetto di una basilica, con ai lati due torri a cupola, sormontate da una croce d'oro. Attraversando la piazza, notai che era quasi deserta, e non sembrava esserci molto movimento neppure nelle strade, fatta eccezione per alcuni bambini intenti a giocare, per una vecchia con una cesta di verdura e per due o tre uomini che spingevano dei carretti. Non si trattava certo dell'attività che mi sarei aspettato in una città come Anazarbus, e non fui l'unico a notare la mancanza della gente. Nurmal, che camminava al fianco di Thoros, gli chiese: «Dove sono tutti quanti? Si sono forse nascosti?». «A dire il vero» rispose Thoros «siamo in stato d'allerta. Sulle montagne sono stati avvistati gruppi di razziatori selgiuchidi e temiamo un attacco imminente.» Poi si voltò e mi lanciò uno sguardo breve ma eloquente. «Volete dire che non ne avete visto nessuna traccia?» ci domandò sorpreso.
«No, signore. Non abbiamo avvistato un solo turbante da Mamistra a qui» gli rispose Nurmal. «Eppure sono lì, da qualche parte. Gli esploratori dicono che le montagne pullulano di infedeli. Siete stati fortunati a non finire dritti fra le braccia dell'emiro Ghazi.» «Ghazi è qui?» borbottò il mercante. «E perché mai quel vecchio demonio ficca il naso da queste parti? Avete dimenticato di pagargli il tributo?» Thoros rise di cuore: «Abbiamo avuto altre cose per la testa, ultimamente». Continuarono a discutere sull'argomento, e io mi dedicai alla conversazione che si stava svolgendo alle mie spalle fra Costantino e Rupen. «Che cos'ha?» chiese Rupen; e, benché parlasse sottovoce, colsi il suo tono preoccupato. «Non sta bene» rispose Costantino. «I medici hanno fatto ciò che potevano, ma nessuno sa di che cosa si tratti.» «Da quanto tempo è malato?» «Da quattro mesi. Forse anche un po' di più. Non ci sono più molte speranze, ma sopravvive. Il vecchio guerriero continua a lottare.» Tacque per un attimo e poi riprese: «Sarà felice di sapere che finalmente sei a casa. Cosa ne è stato dei tuoi compagni?». «Ci siamo ammalati non appena abbiamo messo piede in terra franca. Io mi sono salvato, ma la febbre si è portata via tutti gli altri.» «È un segno che anche il re ci lascerà» osservò Costantino tristemente. Fu così che riuscii a capire che cosa fosse avvenuto: Leone era gravemente ammalato e il tributo dovuto ai musulmani non era stato pagato. Di conseguenza i selgiuchidi erano adirati e, invece di proteggere gli abitanti di Anazarbus, stavano radunando sulle montagne le truppe necessarie ad attaccare. Per di più gli armeni, a cui presto sarebbe stato ricordato con la forza perché versavano quel tributo, avrebbero ricevuto anche la tremenda notizia dell'arrivo imminente dell'esercito di Boemondo II. Anche se non era sontuoso e sfarzoso come il castello di Antiochia, il palazzo dei reali armeni era imponente. Benché fosse evidente la ricerca di grandiosità comune a tutte le famiglie nobili, qui almeno si era usata una certa moderazione nella scelta degli arredi, forse perché non c'erano ricchezze spropositate di cui disporre o forse perché esse venivano impiegate in cose più importanti che nell'acquisto di lussuose suppellettili. In ogni caso trovai la semplicità che mi circondava assai gradevole. Le pareti della stanza che Padraig e io dividevamo, per esempio, erano
di un color rubino che ricordava quello del vino rosso, mentre la volta blu scuro era disseminata di piccoli dischi dorati. Nessuno si era preoccupato di nascondere le travi del soffitto, che erano tinte di verde. Sdraiato nel mio letto, quella sera, alla luce delle candele, mi sembrò di essere circondato dall'intrico dei rami di una foresta sopra cui sfavillava il cielo notturno splendente di stelle. Ma questo accadde più tardi. Eravamo appena stati accompagnati nelle nostre stanze, quando comparve un ciambellano a informarci che il principe Thoros ci stava aspettando nel suo salotto privato. Avemmo appena il tempo di lavarci il viso e di spazzolarci la polvere della strada dai capelli e dagli abiti, prima di seguirlo. «Devi informare subito Thoros dell'attacco di Boemondo» mi ricordò Padraig, «Avranno bisogno di tempo per prepararsi.» «Certo» assentii. «Immediatamente» insistette il monaco. «Ma sì, ma sì.» Attraversammo i corridoi più interni del palazzo sino a giungere in una stanza piccola e accogliente alle spalle della grande sala delle udienze. Thoros era lì, solo, e, in piedi davanti a un tavolo, stava mescolando acqua e vino in una caraffa. «Entrate, entrate!» gridò, versando il vino in due grandi coppe d'argento bordate d'oro. «Ho pensato che qualcosa da bere vi avrebbe aiutato a riprendervi dalle fatiche del viaggio» disse, prendendo le coppe e porgendocele. Pronunciò una formula di benvenuto in lingua armena e ci invitò a sedere con lui. «Grazie» risposi. «Volevo scambiare due parole con voi prima del banchetto.» In quel momento Nurmal comparve alle nostre spalle. «Sedete con noi, amico mio. Eravamo appunto in procinto di brindare» lo invitò Thoros. «Niente mi sarebbe più gradito, amico mio» replicò il mercante, con i candidi baffi frementi di piacere. «È passato molto tempo dall'ultima volta che mi sono intrattenuto con voi.» «Non tanto da farmi dimenticare che vi devo una grossa somma di denaro» ribatté Thoros. Scosse energicamente il capo: «È superfluo che vi spieghi che abbiamo avuto dei momenti difficili, in questi ultimi anni». Curvò amaramente verso il basso gli angoli della bocca e fissò sconsolato il fondo della coppa che teneva fra le grandi mani: «Cattivi raccolti... commerci scarsi...».
«Sciocchezze!» lo interruppe Nurmal allegramente. «I raccolti sono stati buoni, no, anzi, più che abbondanti! Ottimi! Da tre anni in qua. E il commercio non è mai andato meglio. I forzieri dell'Armenia sono pieni da scoppiare!» Essendo stato colto in fallo, Thoros fece un sorrisetto imbarazzato e mi sbirciò da sotto le folte sopracciglia: «Vedete? Vi avevo detto che nulla può accadere a oriente del Tauro senza che lui lo sappia». «Non sono venuto a crearvi difficoltà chiedendovi di pagarmi» continuò Nurmal. «Comunque, se dovesse servire a liberarvi la coscienza da un peso, sono pronto ad accettare qualunque somma vogliate concedermi, anche simbolica, per una compravendita che ho dimenticato da tempo.» «Ah!» gridò Thoros, battendo una mano sul tavolo. «Siete davvero in gamba, Nurmal. L'ho sempre detto. State tranquillo, non lascerete Anazarbus a mani vuote.» Decisi che Thoros era come un grande orso irsuto, feroce e bonaccione. Non c'erano né astuzia né falsità nei suoi lineamenti schietti e nei suoi grandi occhi neri: tutto il suo volto era lo specchio della sua lealtà. «Giordano Ippolito ha bussato alla mia porta con queste brave persone» spiegò Nurmal. «Mi ha confidato di avere un affare urgente ad Anazarbus e mi ha detto che gli servivano cavalli per sé e per i suoi amici. Quando ho scoperto perché li voleva, potevo fare a meno di accompagnarlo in modo che raggiungesse la sua destinazione sano e salvo?» «Avete protetto il vostro investimento» lo rintuzzò Thoros, agitando un dito con fare complice. «Vi conosco bene.» «Non lo nego» rispose Nurmal. «Ma non è stato solo per quello.» Posò la coppa sul tavolo e mi guardò: «Avanti, Duncan» mi esortò, assumendo un tono solenne. Thoros bevve un sorso di vino e osservò Padraig e me con espressione benevola: «Sì, qualunque cosa dobbiate rivelarmi, dite pure. Ho voglia di sapere cosa accade nel mondo». Non avevo bisogno che Padraig mi spingesse ancora, a parole e con lo sguardo, e riferii puntualmente il messaggio per il quale avevamo percorso tanta strada e ci eravamo impegnati tanto, anche economicamente: «Principe, le notizie che vi porto non sono buone» esordii e proseguii raccontando ciò che avevamo saputo del piano di Boemondo per riportare la contea di Antiochia ai confini del tempo di suo padre. «In questo preciso momento si sta dirigendo qui con il suo esercito» conclusi «e intende occupare la città.»
Thoros assorbì la notizia piuttosto bene: «Lo sapevo già» commentò in tono cupo, versando altro vino nelle coppe. «Me l'aveva rivelato Rupen. Poiché talvolta il mio fratellino ha una certa tendenza a... diciamo drammatizzare, sono lieto che mi abbiate confermato che stavolta non lo ha fatto.» Sorrise, come se volesse ridurre la notizia a un sentito dire privo di reale fondamento e piuttosto inattendibile. «È tutto vero» intervenne Padraig, prendendo la parola. «Lord Duncan e io l'abbiamo sentito dalle labbra di Boemondo in persona. Gli abbiamo chiesto di pentirsi davanti a Dio del suo empio disegno.» L'affermazione del monaco sembrò impressionare Thoros, che si informò sui particolari del nostro colloquio con Boemondo. Così gli raccontai del nostro incontro con Renaud de Bracineaux e di come egli avesse ospitato Rupen, Padraig e me a bordo della sua nave. «È stato lui a confidarmi i piani del principe, anche se non potevano più dirsi segreti. Boemondo sta radunando truppe sin dall'inizio dell'estate.» «E Boemondo non ha voluto ascoltarvi» suggerì Thoros scuotendo il capo con aria consapevole. «Lo fanno di rado, questi franchi.» Se le notizie che gli avevamo portato sottoponendoci alle fatiche del lungo viaggio lo preoccupavano, certo sapeva nascondere bene l'apprensione. «Non siamo riusciti a persuaderlo e abbiamo dovuto fuggire da Antiochia» affermai. «Siamo corsi ad avvisarvi il più tempestivamente possibile. Credo che Boemondo non abbia perso tempo a radunare le truppe. È assai probabile che, in questo momento, si trovi solo a qualche giorno di marcia da qui.» Nurmal annuì gravemente. Padraig aggrottò la fronte, guardando attonito il principe che non mostrava alcun segno di inquietudine, quasi si trovasse di fronte a un enigma da risolvere fissando il vuoto. «Il principe Rupen confermerà certamente ciò che vi abbiamo comunicato» aggiunse il monaco, osservando il nostro anfitrione in cerca di un'ombra di sconforto o di ansia. Thoros annuì con espressione partecipe: «Avete rischiato la vita per aiutare mio fratello e per venire ad avvertirci. Perciò sarete ricompensati. Inoltre darò istruzioni che questa sera si intonino preghiere per voi». «La vostra benevolenza ci confonde» risposi, cercando di allontanare l'improvvisa impressione di trovarmi di fronte a uno sciocco. «Ma non siamo venuti qui per ricevere una ricompensa. Anzi, saremo felici di rimetterci in viaggio il prima possibile.» «Non voglio nemmeno sentirne parlare» replicò Thoros amabilmente.
«Avete fatto tanta strada. Dovete riposarvi e mettervi a vostro agio. Permetteteci di dimostravi l'ospitalità della nobile gente armena.» Posò la coppa sul tavolo e si alzò: «Vi prego, restate qui per tutto il tempo che desiderate. Stasera sarete miei ospiti al banchetto. A proposito: mi sono ricordato che devo fare una cosa. Vi prego di scusarmi». Si accomiatò e uscì dalla stanza. «Dovreste essere fiero di voi stesso» commentò Nurmal. «Vi siete comportato benissimo. Gli armeni sono generosi e vi ricompenseranno lautamente.» «Abbiamo fatto ciò che avrebbe fatto chiunque» risposi, mentre cercavo ancora di liberarmi dalla sensazione che Thoros, per quanto ci avesse ringraziato e lodato, fosse più interessato al vino che al disastro che incombeva sulla città. Il suo popolo era in pericolo e lui si preoccupava di organizzare un banchetto. Qualche attimo prima desideravo soprattutto che Boemondo e i sovrani d'Armenia si riconciliassero e che la pace regnasse fra le loro nobili casate. Ora volevo soltanto lasciare quella città condannata, prima che, con l'arrivo dell'arrogante principe franco, fosse ridotta in macerie e ceneri fumanti. Ventinove Padraig e io tornammo nella nostra stanza. Ero stanco e volevo riposarmi prima che avessero inizio i festeggiamenti. Mi coricai e dormii sodo finché non fui svegliato da un servitore mandato da Rupen che ci portava abiti puliti per i festeggiamenti di quella sera. Il ragazzo non parlava latino, ma ci fece capire a gesti che dovevamo prendere le vesti nuove e dargli quelle vecchie perché venissero lavate e rammendate. Ci volle un po' di tempo per superare il problema della lingua, per lavarci e per rivestirci e, quando finalmente fummo pronti, Rupen ci stava già aspettando per accompagnarci nella sala del banchetto. «Immagino che presto vi rimetterete in viaggio» ci disse mentre attraversavamo il cortile interno. L'aria della sera era fresca per la vicinanza delle montagne, di cui vedevamo le cime, arrossate dal sole del tramonto, al di sopra del tetto del palazzo. Il gioco di luci nel cielo mi fece venire in mente le notti d'estate a Caithness. Prima che quel ricordo si mutasse in malinconia, lo allontanai con fermezza e mi rammentai del voto che rimandavo da troppo tempo. «Partiremo quanto prima» risposi. Ormai la sola cosa che mi interessava
era riprendere il pellegrinaggio e la ricerca che continuavo ad accantonare: «Domani stesso». «Dovete permettere alla mia famiglia di dimostrarvi la gratitudine che vi è dovuta» mi rintuzzò Rupen. «Dopo tutto, avete salvato il figliol prodigo e vi siete dimostrati preziosi alleati del regno d'Armenia. Sarebbe indelicato da parte vostra rifiutare l'omaggio della mia gente.» «Non intendevo mostrarmi sgarbato, ma ritenevo che...» «Non vi adombrate, amico» mi interruppe gentilmente il giovane principe, che non avevo mai visto così pacato e misurato. «Stavo scherzando. Naturalmente vi permetteremo di partire quando più vi aggrada. Ma avremo tutto il tempo di parlarne più tardi; stasera, per ordine di Leone, vi sarà reso onore e omaggio secondo l'antica consuetudine armena.» «Come sta vostro padre?» chiese Padraig. «L'avete incontrato?» «È gravemente malato» rispose Rupen. «Ma il mio ritorno lo ha colmato di gioia, e ha chiesto di vedermi non appena è stato informato che ero a palazzo. Benché il nostro colloquio sia stato breve, mia madre ha detto che non lo vedeva così rinvigorito da molte settimane. I medici di corte sperano che ciò sia indice di un miglioramento.» «Bene, sono felice di sentirlo.» «A Dio piacendo, mio padre potrà ringraziarvi di persona, nonostante la vostra partenza affrettata.» «Abbiamo riferito a vostro fratello Thoros che Boemondo intende attaccare Anazarbus» lo informai. «Ci è sembrato che accogliesse la notizia con sorprendente tranquillità. Non credo che riuscirei a essere così calmo di fronte all'imminente devastazione del mio paese e allo sterminio del mio popolo.» «È fatto così» commentò Rupen. «È raro che Thoros riveli a qualcuno il suo reale stato d'animo: nessuno riesce mai a capire cosa stia pensando.» Giungemmo alla porta della sala del banchetto: le porte erano aperte e fummo accolti dal maestro di cerimonie che si inchinò profondamente e annunciò ad alta voce ai convitati l'ingresso del principe Rupen e dei suoi amici. Si udì un'ovazione e passammo tra la moltitudine dei cortigiani che ci urlavano nelle orecchie il loro entusiasmo. Molti ci battevano pacche sulla schiena, tanto che a un certo punto cominciarono a dolermi le braccia e le spalle per quelle manate e quei pugni amichevoli, ed ebbi paura che avrebbero finito per spezzarmi le ossa. Padraig e io fummo condotti a un tavolo posto su una pedana al quale trovammo i nostri amici. Giordano ben pettinato, sbarbato e con indosso
abiti puliti, chiacchierava con un impacciato Costantino; mentre Sydoni, splendida nella sua leggera veste estiva di seta verde e lucente, era intenta ad ascoltare un'anziana gentildonna dagli occhi scuri e dai capelli grigi. Al nostro arrivo, quest'ultima tese le braccia a Rupen, che la baciò e l'abbracciò, annunciando: «Lord Duncan, fratel Padraig, vi presento mia madre, la regina Elena». Mi inchinai rispettosamente e baciai la mano che mi veniva porta. Dopo che Padraig ebbe fatto lo stesso, la dama disse: «Non esistono parole adeguate con cui esprimere la gratitudine di una madre per il ritorno del figlio perduto». Parlava in un latino molto formale, balbettando lievemente. «Ma forse vi degnerete di accettare un piccolo dono, che potrà adornare la chioma delle vostre amate e che vi ricorderà, ogniqualvolta lo vedrete, una persona le cui preghiere avete contribuito a realizzare.» Prese dal tavolo alle sue spalle due scatoline di legno, ne porse una a Padraig e l'altra a me e ci invitò ad aprirle. All'interno della mia c'era un fermaglio d'oro, composto da un grande rubino rosso sangue circondato da zaffiri più piccoli che risplendevano dell'algida luce delle stelle. Sul rubino era inciso uno stemma curioso: un'aquila che teneva fra gli artigli il globo terrestre, sormontato dalla lettera chi, che formava una X. Il dono di Padraig, invece, consisteva in una fascia d'oro con alle estremità due teste di uccelli, forse cigni o cicogne, che tenevano nel becco uno sfavillante smeraldo. Le gemme erano le più grandi e le più fulgide che avessi mai visto. «Questi gioielli mi furono donati da mia madre il giorno delle mie nozze. Ignoro se nel vostro paese ai monaci sia consentito prendere moglie; a quanto ho sentito dire di solito è proibito. Ma spero comunque che vorrete riservare questi doni alla donna che un giorno vi darà un figlio dolce e affettuoso come il mio Rupen.» «Niente mi sarebbe più gradito, mia signora» rispose Padraig, ringraziandola con una benedizione in lingua gaelica. «E voi, Lord Duncan» mi si rivolse la dama, toccando con l'indice la scatolina che avevo in mano. «Avete moglie?» «Ahimè no, mia signora» risposi laconicamente, poco incline a disturbare la santa memoria di tua madre, cara Cait. «Forse un giorno, se Dio vorrà.» Mentre pronunciavo quelle parole, incrociai lo sguardo di Sydoni, che era in piedi alle spalle della principessa e mi fissava con tanta ammirazione e intensità da turbarmi.
«Allora pregherò perché la sposa che sceglierete possa indossare questo fermaglio nella felicità e nell'amore» commentò Elena e, indicando l'immagine incisa nel rubino, aggiunse: «È il sigillo della casa reale armena, il nostro stemma da centinaia d'anni». «Il vostro dono mi confonde. Vi ringrazio, ma è troppo» obiettai, cercando a fatica di sfuggire allo sguardo di Sydoni. «Ho semplicemente accompagnato vostro figlio durante il viaggio.» La regina mi guardò con espressione indulgente: «Suvvia, la falsa modestia è inopportuna quanto la presunzione. Rupen mi ha raccontato che per due volte gli avete salvato la vita e che siete stato il suo angelo custode a ogni passo». Mi resi conto di non dover protestare oltre, così mi inchinai e, arrossendo, accettai il dono di buon grado. A togliermi dall'imbarazzo sopraggiunse un servitore che recava delle coppe di vino su un vassoio d'argento. Costantino le prese dalle sue mani e le passò agli ospiti, servendosi per ultimo. Poi disse: «Brindiamo al lieto fine del viaggio e a mio fratello, che ha fatto ritorno a casa sano e salvo». Levammo le coppe e bevemmo. Grazie al buon vino e alla piacevole conversazione, cominciai a sentirmi più a mio agio. Di quando in quando, qualcuno tra gli ospiti si avvicinava al tavolo reale per salutare Padraig e me. Di solito era Rupen a presentarci ma, quando non ricordava un nome o non riconosceva un viso, erano sua madre o Costantino a occuparsi dei convenevoli. Al principio cercai di imprimermi nella mente la fisionomia e i nomi dei convitati, ma erano troppi, sembravano assomigliarsi tutti, ed erano imparentati in tali e tanti modi che, dopo un po', non fui più in grado di distinguerli l'uno dall'altro. Continuavano ad arrivare sempre nuovi ospiti e, ben presto, il chiasso rese impossibile la conversazione. Sentendomi spaesato, restai in piedi accanto a Rupen e a sua madre, stringendo la mia coppa e osservando l'andirivieni degli invitati. Quando iniziavo a pensare che la grande sala non avrebbe potuto contenere neanche una persona in più, le porte vennero chiuse, e la baraonda divenne ancora più assordante. A un certo punto ci fu un certo scompiglio, e all'improvviso comparvero Thoros e Nurmal. Facendosi largo tra la folla, avanzarono diritti verso il tavolo reale, dove salutarono la regina e gli altri commensali. Mentre passavano da una persona all'altra, notai che entrambi si erano già ampiamente immedesimati nello spirito dei festeggiamenti: ridevano forte, baciavano tutti e davano pacche sulla schiena con gesti plateali ed enfatici. Si com-
portavano come giocatori che avessero appena vinto una ricca scommessa o come marinai appena sbarcati dopo un lungo viaggio. Non fui il solo a notare la loro euforia. «I nostri due crapuloni hanno finalmente mollato i boccali» commentò Costantino, avvicinandosi e urlandomi nell'orecchio. «Adesso anche noi possiamo incominciare a festeggiare.» Poteva anche essere vero. Dio sa se l'eccesso di alcol può dare alla testa e provocare un'esaltazione esagerata. Ma Padraig e io avevamo incontrato Thoros e Nurmal prima dell'inizio del banchetto e sapevamo che avevano bevuto con moderazione. Poi Nurmal, come me del resto, aveva fatto ritorno nella sua stanza e Thoros era uscito dalla sala delle udienze prima di noi. Certo era possibile che si fossero rivisti e avessero bevuto ancora, ma ne dubitavo. La cupa sensazione di terrore che sentii diffondersi dentro di me, simile a una rossa chiazza di vino che si spande nell'acqua trasparente, mi fece pensare che la spiegazione non fosse affatto così semplice. Thoros si sedette e fece segno a Padraig e a me di prendere posto di fianco a lui. Nurmal si accomodò accanto a me, e quando anche gli altri commensali alla tavola dei principi si furono sistemati, l'intera sala sprofondò nella confusione. Ciascuno dei presenti infatti si mise alla ricerca del proprio posto agli altri tavoli; ma, poiché c'erano più invitati che sedie, molti furono costretti a restare in piedi lungo le pareti della grande sala, in attesa che qualcuno si alzasse. Appena fu tornata la calma, un vecchio vestito di nero si avvicinò lentamente al tavolo reale, e con voce tonante, invitò i commensali a raccogliersi in preghiera: congiunse le mani, le sollevò davanti al viso e, parlando un greco ampolloso, invocò la benedizione dell'Altissimo sul regno d'Armenia e sul suo fedele gregge. Benché non conosca il greco bene quanto il latino, compresi quasi tutto. Pregò per le anime di tutti i convenuti e perché l'Onnipotente non ci lasciasse mai privi della sua guida e della sua protezione, e continuò a lungo, passando dal greco all'incomprensibile lingua armena. Quand'ebbe terminato, le porte della sala vennero spalancate per lasciar entrare uno stuolo di servitori con vassoi colmi di cibo. Le prime portate consistevano in grossi arrosti di manzo e di cinghiale, e non appena ne sentii l'aroma mi venne l'acquolina in bocca, tanta era la fame che non mi ero reso conto di avere. Thoros, in qualità di anfitrione, infilò per primo le mani in quella montagna di carne e ne staccò un boccone: «Mangiate!» ci invitò affabilmente. «Mangiate tutti e buon appetito!» Nessuno degli ospiti si fece pregare e ben presto il grasso della carne ci
colava dal mento e dalle mani mentre divoravamo quella succulenta leccornia. Intanto, senza che me ne rendessi conto, il mio boccale era sempre colmo di vino e accanto alla mia mano c'era sempre un pezzo di pane fresco. Così mi dedicai completamente al cibo che era davvero eccellente. Ero così concentrato, che a tutta prima non notai l'apparizione del monaco vestito di nero. Poi mi avvidi che si era chinato sulla spalla di Thoros e che gli parlava fitto fitto a un orecchio, con un'espressione grave e solenne che creava uno stridente contrasto con il viso paonazzo e gioioso del principe. Alto, scuro e minaccioso, il monaco incombeva su Thoros, trasudando mestizia a ogni parola. Sul volto del principe ogni traccia di allegria scomparve per lasciare il posto a un'espressione così disperata e dolente da spegnere il riso sulle labbra di chiunque lo stesse osservando: uno dopo l'altro i commensali si accorsero del repentino mutamento di umore del nostro anfitrione, e tacquero tutti. «Che ti succede?» chiese Costantino, la cui voce risuonò all'improvviso nel silenzio. Thoros fissò il fratello e poi gettò uno sguardo alla madre, che gli sedeva accanto. Posò i palmi delle mani sul tavolo e si alzò con uno sforzo immane, ergendosi dietro alla mensa imbandita. Con voce cupa e profonda annunciò: «Il patriarca Baramistos mi ha testé informato che il re, mio padre, è spirato». Trenta La scomparsa di Leone costrinse i membri della famiglia reale a una pletora di rituali e cerimonie lunga e tediosa. Gli ospiti stranieri vennero ben presto dimenticati, e Padraig e io ci tenemmo in disparte, in modo da non diventare un peso per i nostri anfitrioni in quella circostanza triste. Ansioso com'ero di partire, avrei lasciato volentieri la città ma, per rispetto alla sensibilità di Rupen, non volli svignarmela alla chetichella come un malfattore. Così, non avendo nulla da fare, cogliemmo l'occasione per visitare le strade di Anazarbus e renderci conto di persona di come reagisce la popolazione alla morte del suo sovrano. Scoprimmo una città sprofondata nel cordoglio: Leone era amato e stimato per la saggezza dimostrata nei lunghi anni di regno, e il popolo era sinceramente afflitto per la sua dipartita. La gente si occupava delle proprie incombenze quotidiane con l'atteggiamento mesto e il tono di voce
accorato di chi ha subito un lutto personale. Per strada la spontaneità popolare aveva eretto un gran numero di altarini, che esibivano ritratti del re su legno o su pergamena, o più semplicemente una moneta con la sua effigie, ed erano abbelliti con foglie di palma o fronde verdi e illuminati da una candela o un lumino. Chi passava accanto a uno di questi improvvisati luoghi di culto, si faceva un segno di croce sulla fronte. Molti tra i più anziani avevano il capo e le vesti cosparse di cenere e alcuni indossavano sai di ruvida iuta. Tutta la popolazione rendeva onore al defunto, e persino i ragazzi avevano un'aria dolente adatta alla circostanza. L'intera Anazarbus era in lutto. La salma del re era stata esposta su un feretro dorato nella cattedrale di rito armeno intitolata a san Giorgio e a san Nicola, una basilica in pietra rossa, grande senza essere imponente, di linee sobrie e rigorose, con ben poche concessioni allo sfarzo e alla grandiosità, proprio come le chiese dei Célé Dé. Padraig e io girovagammo per tutta la mattina, e vedemmo due lunghissime file di folla che attraversavano la piazza principale e riempivano le strade e i vicoli circostanti; si trattava di cittadini che entravano nella cattedrale per rendere l'estremo omaggio alla salma di Leone o che ne uscivano. Di quando in quando qualcuno levava con afflizione le braccia al cielo, lanciando un inconsolabile lamento; altrimenti tutti erano compunti e silenziosi. Padraig fu affascinato dalla cerimonia funebre armena, lunghissima e complessa. A me invece quel cordoglio corale e quell'ostinata devozione sembrarono eccessivi o, perlomeno, inopportuni in una città sull'orlo della guerra. Sembrava che Thoros, sprofondato nel dolore, avesse dimenticato sia i selgiuchidi in agguato fra le montagne sia il pericolo dell'incombente attacco di Boemondo e dei suoi. La morte dell'amato padre aveva messo in secondo piano ogni altra cosa. A parte i pochi soldati di rincalzo messi di guardia sui bastioni, a quanto potevo vedere non era stata organizzata nessun'altra difesa. La cosa mi stupiva e mi preoccupava: a che era valso rischiare la vita per far presente una minaccia di cui nessuno si curava? Se i re d'Armenia non si davano pensiero né della salvaguardia della città né della sopravvivenza dei suoi abitanti, perché avremmo dovuto preoccuparcene noi? Stizzito e sconcertato, lasciai il sagrato della cattedrale e mi incamminai verso il palazzo, deciso a non indugiare oltre: saremmo partiti immediata-
mente. Entrai nel cortile della reggia contemporaneamente a una nutrita delegazione selgiuchide, che venne subito fatta passare nella sala approntata per accogliere i visitatori. Le esequie di Leone avrebbero avuto inizio al tramonto, e le onoranze funebri sarebbero continuate per l'intera notte, concludendosi il mattino seguente con l'inumazione all'interno del palazzo. Rimasi nascosto nell'ombra a osservare gli inviati selgiuchidi che venivano ricevuti da una rappresentanza di dignitari armeni per essere poi condotti nel salone dove si trovavano riuniti Thoros e gli altri componenti la famiglia reale. L'atteggiamento estremamente riguardoso con cui furono gestiti quei convenevoli mi sbalordì, e probabilmente la sorpresa mi si lesse in faccia, perché Nurmal, seduto a godersi l'aria fresca e la tranquillità del cortile, si avvicinò e, osservandomi, mi chiese: «Che cosa c'è? Non avete mai visto un selgiuchide?». «In effetti no» risposi. «Ma, in fede mia, non so decidere cosa mi sembri più inverosimile: se il fatto che essi rendano onore a un avversario defunto, o che vengano accolti all'interno delle mura perché possano presentare i loro ossequi ai congiunti in lutto.» Nurmal si fece una risatina: «Non so come ci si regoli nel vostro paese, amico mio, ma qui i rancori non sono scolpiti nella pietra. Le nostre inimicizie sono più fluide, sono come i torrenti del deserto, che cambiano continuamente il loro corso. Colui che oggi chiamiamo nemico, domani potrebbe diventare un amico a cui chiedere aiuto. Non sarà male che lo teniate a mente». Mi aveva rivelato un aspetto della mentalità orientale che non avevo ancora compreso del tutto, eppure nelle sue parole colsi un presagio che mi fece raggelare il sangue, poiché riflettei che, se l'inimicizia era tenuta in così poco conto, la lealtà doveva essere altrettanto incostante. «Non più tardi di ieri la città era in allarme per il timore che i selgiuchidi potessero attaccare da un momento all'altro» osservai. «È vero» ribatté Nurmal. «Ma ieri era ieri. La situazione è mutata. Del resto in cosa si potrebbe sperare se tutto fosse immutabile?» Con quelle parole che ancora mi risuonavano nelle orecchie, andai a cercare Giordano e Sydoni, che non vedevo dalla sera precedente. Raggiunsi la saletta dove Thoros ci aveva offerto il vino prima del banchetto e vi trovai Rupen e Costantino. Erano così intenti a discutere, che pensai fosse meglio non disturbarli, ma non potei fare a meno di sentire ciò che dicevano: «... una faccenda rischiosa» stava commentando Costantino. «Anche Thoros deve renderse-
ne conto, altrimenti non è all'altezza di governare al posto di nostro padre. Ti giuro che...» In quel momento Rupen si accorse della mia presenza e, con un cenno al fratello, troncò di colpo la conversazione come se si sentisse in colpa. «Amico mio» mi chiamò «dovete perdonarci per avervi dimenticato. I doveri del regno sono particolarmente onerosi, in circostanze simili.» «Comprendo benissimo» risposi, assicurandoli che non avevano motivo di preoccuparsi per me. Sembravano titubanti, ansiosi di riprendere il loro colloquio, perciò conclusi: «Vi prego di scusarmi, sto cercando Giordano». «Non l'abbiamo visto» rispose Costantino seccamente. «Di sicuro è ancora in camera sua.» «Scendete nel salone a mezzogiorno» mi invitò Rupen con un sorriso teso «e sarete incluso nel seguito reale. Verrò a cercarvi.» Li ringraziai e mi allontanai, non senza aver notato la malcelata irritazione di Costantino: benché non fosse affar mio, non potei fare a meno di domandarmi quale fosse la causa del suo nervosismo. Allontanai quel pensiero dalla mente e mi diressi verso l'ala del palazzo dove si trovavano le stanze di Giordano e di Sydoni. Il vecchio mercante era seduto su uno scanno e osservava dalla finestra i tetti delle basse costruzioni che circondavano il palazzo. Lo salutai e gli manifestai la mia forte preoccupazione per il fatto che non fosse stata predisposta nessuna difesa per affrontare l'arrivo di Boemondo e del suo esercito. Lo avvertii che Padraig e io eravamo in procinto di lasciare Anazarbus e, considerando che la città era totalmente sguarnita contro l'imminente attacco, suggerii che lui e Sydoni venissero con noi. «Naturalmente» dissi «saremo felici di accompagnarvi fino a Mamistra.» Giordano annuì gravemente: «Quando?». «Appena avremo approntato cavalli e provviste: non più tardi di mezzogiorno.» «Andate dunque. Avvertirò Sydoni.» «Raggiungetemi alle scuderie non appena sarete pronti.» Andai a ordinare agli stallieri di preparare cinque dei cavalli di Nurmal. Pensavo che, con il suo consenso, avremmo potuto lasciarglieli a Mamistra, dove più tardi li avrebbe recuperati; oppure, se non ci avesse concesso la sua fiducia, li avrei comprati. In cambio del fermaglio donatomi dalla regina Elena, avrei potuto scegliere i migliori. Mentre mi recavo alle stalle incontrai Padraig e gli chiesi di procurarsi in fretta le provviste per il viaggio: «Fatti aiutare da Rupen. Penso che alme-
no questo ce lo debba». Poi raggiunsi le scuderie, ma non trovai nessuno che conoscesse il latino e, con il mio greco stentato, impiegai più tempo di quanto avessi sperato per ottenere ciò che volevo. Quando alla fine ci riuscii, mi affrettai a far ritorno a palazzo per prendere le mie cose e dire addio a Rupen. Nurmal era nella sua stanza, che era di fronte alla mia: lo trovai sdraiato sul letto a riposare prima della cerimonia funebre di quella sera. Gli confidai la mia intenzione di partire, chiedendogli se poteva prestarci i cavalli fino a Mamistra. «Ma certo, amico mio» rispose. «Era sottinteso che prima o poi saremmo tornati. Andate pure, e con la mia benedizione. Ma» aggiunse «se posso permettermi, perché avete tutta questa fretta? Ormai la giornata volge al termine e non arriverete molto lontano prima che scenda la notte. Perché non aspettate sino a domani? O, meglio ancora, trattenetevi qualche giorno, così viaggeremo insieme.» «Ci sarà presto uno scontro armato, anche se, forse, qualcuno qui non ci crede o non gliene importa niente.» Affermai che non volevo avere nulla a che fare con quella faccenda, e che le dispute sui confini dell'Armenia non erano affar mio. Per quanto mi riguardava, avevo fatto il mio dovere nei confronti di Rupen e del suo popolo; ora stava a loro agire come meglio credevano. Padraig e io non intendevamo attendere oltre e avremmo lasciato la città immediatamente. Nurmal mi guardò con espressione divertita: «Ma non c'è nessuna fretta, amico mio» commentò. «Possiamo andarcene quando vogliamo.» «Boemondo e il suo esercito possono arrivare da un momento all'altro» ribattei esasperato e incapace di nascondere la mia frustrazione. «Sarà qui con centinaia di uomini a cavallo e migliaia di fanti. Non ho alcuna intenzione di restare intrappolato in una città sotto assedio, e ancora meno di contribuire a difenderla.» «Calmatevi» disse Nurmal. «Boemondo non giungerà nemmeno in vista dei bastioni di Anazarbus.» Il tono delle sue parole, la sua noncuranza, mi fecero intuire che c'era sotto qualcosa. Lo fissai: «Perché? Cosa ne sapete voi?» «Se ne occuperà l'emiro Ghazi» rispose, appoggiandosi su un gomito. «Ha migliaia di guerrieri, tutti a cavallo, tutti ansiosi di morire per la gloria dell'Islam e di raggiungere il paradiso dei martiri della fede.» Lo squadrai, cercando di comprendere il senso delle sue affermazioni: «I selgiuchidi? Perché dovrebbero intervenire?». «Abbiamo un modo di dire, qui in Oriente» rispose Nurmal pacato. «Il
nemico del mio nemico è mio amico. Thoros lo sa meglio di chiunque altro. È debitore all'emiro di una grossa somma di denaro: quale modo migliore di rimborsarlo che quello di offrirgli, potremmo dire su un piatto d'argento, Boemondo e i suoi uomini?» sorrise con aria placida. «È una soluzione perfetta: Anazarbus sarà salva, il potenziale invasore sconfitto e Ghazi avrà l'irrinunciabile opportunità di riconquistare Antiochia. L'armonia e l'equilibrio sono ristabiliti.» «Ma è mostruoso!» protestai, sbalordito dalla slealtà di quell'accordo. Lo scaltro mercante scosse la testa: «No, si tratta di semplice convenienza, amico mio». «Se avessi supposto di contribuire a un simile tradimento, non avrei mai lasciato Antiochia!» dichiarai, fremente di rabbia. «È una cosa intollerabile! Impensabile! Bisogna impedirla!» Nurmal corrugò bonariamente la fronte: «Calmatevi, Duncan. O vi farete del male». Si alzò dal letto e mi posò le mani sulle spalle come se stesse offrendomi un consiglio paterno: «Anche se ammiro il vostro senso dell'onore, non capisco i vostri scrupoli. Perché siete venuto fin qui?». Non capii il senso della sua domanda: «Ne conoscete perfettamente la ragione». «Siete venuto per avvertire gli armeni delle intenzioni di Boemondo» rispose. «Non è così?» «Sì, ma...» «E cosa pensavate che sarebbe accaduto?» «Non pensavo certo...» iniziai, ma mi interruppi subito perché in quel momento compresi di essere stato usato. «Si sono serviti della mia buona fede per compiere un'azione sleale. Hanno fatto di me un traditore!» «Perché parlare di slealtà?» chiese Nurmal, che cominciava a perdere la pazienza. «Dov'è il tradimento? Dov'è l'inganno? Ascoltatemi, amico mio: non c'è nessun tradimento, soltanto il destino e le capricciose vicende della guerra. Vi hanno informato dell'attacco e siete corso qui per impedire un massacro....» «Sì! Per amor di Dio.» «Ebbene, ci siete riuscito. È stato evitato. Se ne occuperà l'emiro Ghazi, non temete.» «La carneficina ci sarà sempre» ringhiai, sconvolto dal senso di colpa «saranno semplicemente altri a perire.» Il senso di inutilità e di vergogna mi invase come un'onda in piena. Girai sui tacchi e uscii dalla stanza; Nurmal mi chiamò, ma io non gli risposi.
Raccolsi in fretta le mie cose, anche se non c'era granché, dal momento che i miei abiti, portati a lavare, non erano stati ancora riconsegnati. Decisi che sarei partito con ciò che avevo indosso e avrei lasciato lì il resto. Ero anche tentato di non prendere il prezioso fermaglio che mi aveva donato la regina Elena: non volevo nulla dagli armeni. Ma poi il senso pratico ebbe la meglio: avremmo avuto bisogno di denaro, se dovevamo raggiungere Antiochia in tempo, e quel gioiello valeva molto. Così lo tolsi dalla scatola e me lo appuntai all'interno della veste, vicino al corpo, dove sarebbe stato al sicuro. Padraig mi stava aspettando insieme a Rupen nelle scuderie. Il giovane principe era visibilmente dispiaciuto di vederci partire tanto in fretta. «Vorrei che fosse andata diversamente» gli dissi. Mi chiese di ripensarci, ma rifiutai. Capendo che non c'era modo di farmi cambiare idea, si rassegnò di buon grado, mi ripeté quanto apprezzava la nostra amicizia e mi assicurò che avrebbe pregato perché concludessimo il nostro pellegrinaggio sani e salvi. In quel momento apparvero sulla porta Giordano e Sydoni, e Rupen li raggiunse per salutarli e ringraziarli del loro prezioso aiuto nell'averlo ricondotto a casa in tempo per rivedere per l'ultima volta il padre morente. Mentre si accomiatavano, Padraig e io controllammo i cavalli e le provviste; poi, assicuratici che tutto fosse in ordine, conducemmo gli animali nel cortile e dicemmo addio a Rupen. Oltrepassammo le mura e imboccammo la stessa strada da cui eravamo venuti, lasciandoci Anazarbus alle spalle. Il sole era alto, la giornata luminosa e calda e avanzavamo di buona lena grazie ai magnifici cavalli di Nurmal. Avevo scelto gli stessi con cui eravamo giunti perché erano già avvezzi a noi: quello pezzato per me, il roano per Padraig, e due cavalle baie per Sydoni e Giordano. Quando la città fu fuori vista, ci fermammo per dissetarci e poi riprendemmo il viaggio a un'andatura meno affrettata. Del resto anche la mia agitazione era diminuita non appena ero montato in sella: ormai, mi dicevo, qualunque cosa fosse accaduta, non era più affar mio; avevo fatto tutto il possibile e non avevo colpa se il mio gesto era stato distorto per un fine scellerato. Non volevo aver niente a che spartire con quell'intrigo nefando ed ero contento di non essere costretto a trascorrere un'altra notte tra le mura infide di Anazarbus. Ora che è trascorso tanto tempo, mia cara Cait, non posso che meravigliarmi per l'ingenuità delle mie riflessioni e dei miei sentimenti di allora.
Nurmal aveva sviscerato freddamente il nocciolo della questione e aveva detto la verità. Boemondo aveva già compiuto la sua scelta: ancor prima di raggiungere Anazarbus aveva consegnato il suo destino e quello dei suoi uomini all'azzardo di un folle disegno. Come avevo potuto illudermi che le mie parole e i miei atti avrebbero cambiato qualcosa? Ero davvero convinto che avrei potuto influenzare l'ago della bilancia della giustizia divina? Dopo tutto chi ero io se non un povero ignorante che metteva il naso in faccende troppo al di sopra delle sue capacità? E, nel nome di tutto ciò che vi è di più sacro, come avevo potuto sperare di impedire a un giovane principe arrogante di far maturare la messe della propria insaziabile ambizione? E perché, mio Dio, perché avevo voluto tentare comunque? Credo che la risposta ai miei interrogativi di allora stia nel fatto che la mia coscienza non ammetteva l'idea che dei cristiani muovessero guerra ai propri fratelli di fede; che dei credenti sprecassero empiamente il sacro e prezioso dono della vita per scopi tanto meschini e insensati. L'arbitrio cieco del destino mi aveva fatto conoscere particolari come le manovre tattiche e i piani di conquista dei sovrani e io mi ero convinto di avere l'obbligo morale di usare ciò che ero venuto a sapere a fin di bene. Un comportamento, ora ne sono consapevole, dettato più dall'emotività che dalla ragione. Se mi fossi soffermato anche un solo momento a riflettere, avrei visto incombere su di me l'inutilità del mio gesto. Bastava che mi ponessi una semplice domanda: che cosa volevo? Ora, dopo molti mesi di ponderata riflessione, sono giunto alla conclusione che desideravo solo che tutti si sedessero attorno a un tavolo e risolvessero le proprie questioni in modo civile e sensato. Credevo che due popoli cristiani, i franchi e gli armeni, avrebbero potuto allearsi contro il comune nemico musulmano. Insomma, volevo che vincesse la pace, e non vedevo ragioni che vi si opponessero. Pensavo che un uomo di buona volontà potesse fare la differenza e che Dio avrebbe reso merito a chi si sforzava di servire la sua causa. Nella follia che, in Oriente, viene considerata ragionevolezza, una tale idea era pura illusione. Solo ora che sono molto più infelice e disincantato lo comprendo. Comunque, quel giorno fatale fuggii da Anazarbus, ansioso di allontanarmi il più possibile dagli intrighi di quel luogo e di far sì che Padraig e io potessimo riprendere il nostro pellegrinaggio. Seguendo il sentiero imper-
vio che si dipartiva dalla città sentivo nel petto un'amarezza bruciante e desideravo non aver mai sentito nominare Ghazi, Thoros o Boemondo. Ero intento in quelle riflessioni quando, dopo un buon tratto di strada, dalla cima di un'altura scorsi sotto di noi un dirupo che terminava in una valle fitta di cespugli spinosi e infossata tra ripide pareti di roccia. Il terreno si incuneava tra le pendici dei monti a nord e la gola incassata del letto di un fiume in secca a sud. Ciò che vidi in quella valle mi fece tirare bruscamente le redini: là erano sparpagliati i resti dell'esercito di Boemondo. Trentuno «Signore, abbi pietà!» esclamò Sydoni. La voce di Padraig si levò in una preghiera in gaelico e Giordano si lasciò sfuggire una veemente imprecazione. In lontananza, sotto di noi, un manipolo di coraggiosi crociati stava ancora combattendo per la propria vita: confusi nel turbinio dei selgiuchidi urlanti, i soldati cristiani tentavano disperatamente di formare una linea di battaglia. I pochi ancora a cavallo si erano raccolti in un drappello a forma di cuneo per respingere gli assalti nemici; ma il loro era un tentativo tanto disperato, quanto cercare di fermare un'ondata con il taglio di un remo. Ogni volta che i crociati cercavano di ingaggiare un combattimento frontale, i nemici si disperdevano, per attaccare subito dopo i fianchi lasciati scoperti. Quando poi i cristiani si voltavano per proteggersi i fianchi, i selgiuchidi portavano l'assalto di fronte. Da lontano quell'incessante alternarsi di ritirate e di cariche sembrava il mare agitato, e il clamore della battaglia pareva il rombo cupo della burrasca. Sul fondovalle stretto tra la ripida gola del fiume e le montagne, giacevano i resti immobili dell'esercito di Boemondo. Dalla lunga scia di cadaveri, capii che i soldati avevano attraversato la vallata ed erano caduti nell'imboscata tesa da Ghazi. Intrappolati fra la gola e i monti, erano caduti mentre tentavano di fuggire tornando sui loro passi. I pochi superstiti non avevano via di scampo. Gli aridi pendii tutt'intorno erano pieni di cavalieri selgiuchidi, di varie tribù, riconoscibili dal colore dei turbanti - neri, bianchi, rossi, gialli o marroni - che sembravano un mare multicolore. Quando si riversarono a valle come un'onda di piena, mi sentii balzare il cuore in petto. Gli sventurati franchi gettarono le armi per poter scappare più in fretta mentre gli spietati nemici si lanciavano all'in-
seguimento per finirli. Sentii l'odore penetrante e dolciastro del sangue trasportato sino a noi dalla brezza. Una volta, quand'ero ragazzo, mentre ero in un campo d'orzo vidi passare veloci le nubi nere e basse di un improvviso temporale estivo. Prima arrivò un vento violento che piegò fino al suolo le spighe; poi, senza che gli steli dorati avessero avuto il tempo di riprendersi dal primo attacco, un susseguirsi di raffiche di pioggia e di grandine si abbatté sulle messi, schiacciandole sul terreno e devastandole. Ciò che era accaduto in quel giorno lontano era di nuovo sotto i miei occhi, e non avrei saputo immaginare mietitura più spaventosa. Pur trovandomi in cima all'altura, distante e al riparo, scorsi il luccichio delle formidabili spade che colpivano senza posa, come un'orrida grandine, schiacciando sul terreno gli uomini di Boemondo che mai più si sarebbero risollevati. Il rimorso, la rabbia e un profondo senso di impotenza lottavano dentro di me; non riuscii a essere spettatore di quel massacro fino alla fine. «Andiamo» dissi, voltando il cavallo e risalendo di nuovo il pendio. Mentre mi allontanavo, con la coda dell'occhio percepii un baluginare d'oro, mi voltai e scorsi il vessillo dorato di Boemondo che luccicava nella luce violenta di mezzogiorno. Poi si dileguò: svanì, come una debole fiammella nel mare oscuro di turbanti che le infuriava intorno. Non vidi altro che un incresparsi momentaneo della superficie, un vortice nella massa compatta dei massacratori; poi l'onda umana riprese rapidamente a scorrere. All'improvviso il vessillo ricomparve all'altro capo della vallata, ma nelle mani di un guerriero selgiuchide. Il nemico si allontanò al galoppo con il trofeo, brandendolo a braccio levato e lanciando urla degne di un demone dell'inferno. Lo sentimmo fin sulla cima del monte e, molto tempo dopo, quelle grida mi risuonavano ancora nelle orecchie. Mentre ci lasciavamo alle spalle quel luogo ferale, alzai gli occhi al cielo e pregai per le anime dei soldati, ignari, condotti ciecamente al macello dalla sconfinata ambizione del loro capriccioso signore e chiesi al Supremo Giudice di non far ricadere sulle loro spalle la cupidigia e la sventatezza del loro condottiero. «Dimostra la tua immensa misericordia, o Santo Redentore» supplicai «e concedi loro un posto in Paradiso; se non nei maestosi padiglioni celesti, almeno in una delle tende là vicino.» Di lì a poco ci fermammo per decidere il da farsi. Mi sembrava che il percorso migliore fosse quello che costeggiava il letto asciutto del fiume,
lontano dal campo di battaglia. Ci avrebbe fatto allungare il tragitto, ma almeno non avremmo corso il rischio di essere visti. Una volta oltrepassato quel luogo di morte, avremmo potuto riprendere la nostra strada e proseguire. Padraig e Giordano furono d'accordo. «Sulle montagne potremmo seguire i tratturi delle greggi» commentò Giordano. «Se ci allontaneremo dalla vallata seguendo il corso del fiume, saremo presto al sicuro.» Scelsi dunque un viottolo che girava attorno alle alture, in modo da evitare il luogo del combattimento, e mi misi alla testa del gruppo, seguito da Sydoni, Giordano e, per ultimo, da Padraig che conduceva il cavallo con il carico. Seguimmo il sentiero per un buon tratto poi, giunti a una biforcazione, ne imboccai un altro, continuando a tenermi al riparo delle montagne. A un certo punto il viottolo scendeva verso il letto asciutto del fiume curvando e passando fra due cumuli di massi crollati dalle sponde scoscese che impedivano il transito. Ci occorse non poco tempo per trovare un varco attraverso quelle rocce taglienti e, quando infine arrivammo a fondovalle, ci fermammo a bere e a riposare un po'. Smontammo da cavallo, ci riparammo all'ombra delle rocce e Padraig prese una borraccia dal cavallo da soma e la offrì a tutti. Ciascuno di noi si concesse un paio di sorsi d'acqua. Ci dispiacque lasciare quel luogo ombroso, ma il cammino da percorrere per riprendere la strada principale era ancora lungo e volevamo essere ben lontani dal campo di battaglia al sopraggiungere della notte. Così rimontammo in sella e ci rimettemmo in cammino. Il letto del fiume era piano e ampio e si trovava abbastanza in basso da permetterci di avanzare senza essere visti dalle alture circostanti. Mi consigliai con Giordano, che si dichiarò nuovamente d'accordo sulla scelta di quel percorso, dove ci sarebbe stato più agevole avanzare per un buon tratto, poiché anche se le pareti rocciose erano ripide e impervie da entrambi i lati, il letto del fiume era di sabbia fine e ci permetteva addirittura di procedere affiancati. Durante la marcia Sydoni mi raggiunse alla testa del gruppo, e ben presto ci mettemmo a conversare. Parlammo del più e del meno, senza toccare nulla di importante o di impegnativo. Ebbi l'impressione che la giovane desiderasse soltanto distogliere la mente dalle immagini del massacro e fui lieto di assecondarla. A essere sincero, gradivo molto la sua compagnia, e, nelle rare occasioni in cui me la concedeva, mi incantavo ad ascoltarla: infatti Sydoni aveva un
modo di esprimersi originale e piacevolissimo. Pensai che dovesse essere il suo sangue copto, o il fatto di essere cresciuta a Damasco, fra i musulmani, a renderla diversa da chiunque avessi mai incontrato. A ogni modo prestavo più attenzione a lei che non alla strada. «I pavoni sono i miei animali preferiti» stava dicendo «soprattutto quando fanno la ruota; hanno code così sontuose e leggiadre. A Damasco la gente se ne ciba, ma io credo che siano troppo belli. Sarebbe come mangiare un tramonto.» «Che sapore hanno?» chiesi, dando uno sguardo furtivo al suo bel volto. Mentre stava per rispondere sgranò gli occhi e le parole le morirono sulle labbra. Mi volsi verso il punto che stava fissando e vidi, a un centinaio di passi di distanza, un drappello di guerrieri selgiuchidi dietro a una svolta del sentiero. Eravamo stati scoperti. Erano in sei, e tutti indossavano un turbante rosso sangue, casacca e brache nere e un corto mantello dello stesso colore. Montavano cavalli identici e ciascuno teneva stretto in mano un piccolo scudo rotondo, ricoperto di bianco pelo di cavallo, con al centro una punta di metallo acuminata. Quello che portava una piuma bianca sul turbante, e che sembrava il comandante, ci osservò per un attimo con altezzosa severità e io trattenni il respiro. "Dio misericordioso, stendi su di noi la Tua mano possente" pregai. Subito dopo, rivolto agli uomini alla sua sinistra, il comandante impartì un breve ordine indicandoci con la mano, e il cuore mi sobbalzò nel petto. «Fuggite!» gridai, spronando il cavallo, che rispose senza un attimo di esitazione. I nostri destrieri si lanciarono in un galoppo sfrenato con una tale prontezza che levai mentalmente una lode al Signore per aver fatto sì che Nurmal commerciasse esclusivamente in purosangue. Padraig lasciò libera la bestia da soma e si allontanò per primo, seguito da Giordano; Sydoni e io eravamo gli ultimi, ma a brevissima distanza. Sferzai con le redini la groppa del mio nobile destriero e lo lasciai correre, sentendo sotto di me i muscoli che si tendevano e si rilassavano e gli zoccoli che affondavano nel fondo sabbioso sollevando nuvole di terriccio, mentre divoravano rapidi l'alveo asciutto del fiume. In men che non si dica raggiungemmo la svolta dove il sentiero era quasi interrotto dalle rocce. Mi arrischiai a guardarmi alle spalle e vidi che avevamo guadagnato terreno sui nostri inseguitori. Dovevamo sbrigarci ma, una volta superata quella strettoia, avremmo avuto la strada libera e dubitavo che i selgiuchidi ci avrebbero seguiti oltre.
Perciò, sempre pregando e con il cuore che mi martellava nel petto, feci rallentare il passo al cavallo per permettere a Sydoni di sorpassarmi. Padraig era già scomparso lungo il viottolo oltre la strettoia; fu poi la volta di Giordano, che si tenne avvinghiato alla sella come un bimbo quando il suo cavallo spiccò il balzo e ricadde sul sentiero. Il cavallo di Sydoni si impuntò. «Avanti!» gridò lei e lo colpì ai fianchi con i talloni finché la bestia non sfrecciò dietro agli altri. Era il mio turno. I selgiuchidi mi avevano quasi raggiunto. Diedi un violento strattone alle brighe per incitare il cavallo. Il magnifico stallone grigio rispose con un fremito, lanciandosi verso il sentiero pietroso. Per un attimo ebbi negli occhi l'immagine di Sydoni che avanzava lungo il viottolo sull'altro versante: «Andate! Andate!» gridai «vi seguo». Ed ella scomparve in uno scalpitio di zoccoli e io scorsi la luce oltre la strettoia, e il viottolo. Fu l'ultima cosa che vidi. All'improvviso fu come se il cielo e la terra si fossero ribaltati e caddi con la faccia contro il terreno. Fui sbalzato da cavallo e picchiai con violenza contro la parete di roccia, mentre le pietre mi cadevano addosso. Con la bocca e gli occhi pieni di terra non riuscivo più a respirare né a vedere nulla; mi sentivo la testa incassata fra le scapole; mi doleva ogni osso e ogni giuntura e il braccio destro mi formicolava in modo strano. Avevo le mani sanguinanti, gli abiti strappati e una brutta ferita al fianco destro. Non riuscivo a capire cosa fosse accaduto. Sapevo solo che un attimo prima ero sul punto di mettermi in salvo e ora, invece, avevo sopra di me un selgiuchide che mi teneva una spada puntata alla gola. Tentai di alzarmi, ma quello mi mise un piede sul torace e mi costrinse a terra. Rimasi sdraiato, strizzando gli occhi e ansimando, mentre cercavo di riprendermi. Apparve un secondo guerriero, disse qualcosa, e insieme all'altro mi rimise in piedi con violenza: mi ritrovai a fissare il volto impassibile del comandante selgiuchide. Ora so che si trattava dell'atabeg di Albistan. Allora, però, vedevo solo che, oltre alla piuma bianca, aveva il naturale carisma di un capo: bastava una parola o un gesto della mano e i suoi uomini gli obbedivano incondizionatamente. Mi guardò senza odio né curiosità, squadrandomi da capo a piedi con occhi scuri e astuti. Non dovetti impressionarlo molto perché, dopo un brevissimo esame, disse qualcosa a uno dei soldati e si diresse verso il suo
cavallo preparandosi a salire in sella. Il selgiuchide che mi stava di fianco mi strinse con più forza e il suo compagno armato di spada fece un passo di lato, come per prepararsi a colpire meglio, pensai, rassegnato a ricevere un fendente mortale. Invece quello si scostò, e potei vedere il mio cavallo che annaspava a terra, cercando di rialzarsi. Anche nello stato confusionale in cui mi trovavo, mi resi conto che la povera bestia si era rotta la spina dorsale e probabilmente anche le zampe posteriori. Impaziente di raggiungere i compagni, aveva imboccato il sentiero con troppa foga ed era inciampato sulle pietre. Il comandante impartì bruscamente un altro ordine al soldato con la spada. Egli si chinò a esaminare l'animale ferito e poi scosse lentamente il capo, confermando ciò che tutti sapevamo: non c'era alcuna speranza per la povera bestia. Il comandante sollevò perentoriamente il mento e il soldato si inchinò in segno di assenso. Si unirono a lui due commilitoni: uno afferrò le redini e l'altro estrasse una corta picca dalla sella della propria cavalcatura. Fecero sdraiare il mio cavallo su un fianco e, mentre uno stringeva le redini, l'altro gli tenne ferma a terra la testa, accarezzandogli il muso e sussurrandogli qualcosa all'orecchio. Il terzo soldato si avvicinò da dietro, brandendo la picca. Fu sufficiente un colpo rapido alla base del collo. La povera bestia scalciò, ansimò e poi rimase immobile. Soddisfatto che il cavallo non avesse sofferto, il comandante montò in sella e riprese la via da cui era venuto. Gli altri mi legarono una fune attorno alla vita e mi trascinarono lungo il letto del fiume. Dovevo correre per tenere il passo dei loro cavalli ma, grazie a Dio, il tragitto fu breve, o sarei svenuto. Comunque, avevo i polmoni pieni di polvere e la vista annebbiata quando finalmente giungemmo a destinazione, cioè a un passo attraverso cui molti fanti e alcuni cavalieri cristiani avevano cercato scampo al massacro. Erano stati passati a fil di spada, e ora i loro corpi giacevano sulle pietre e sulla ghiaia lorde di sangue. Il drappello di selgiuchidi stava appunto cercando gli ultimi fuggiaschi quando mi aveva incontrato. I musulmani frugarono i morti cercando oggetti di valore, raccolsero le armi e le armature, presero tre cavalli superstiti e poi fecero ritorno alla pianura, con me al seguito. La maggior parte dei cadaveri era ammucchiata al centro della piana, presso la strada che i cristiani stavano percorrendo quando l'emiro Ghazi aveva fatto scattare la trappola. Mentre ci avvicinavamo al punto in cui il
combattimento era stato più cruento, cominciai a vedere innumerevoli corpi accatastati l'uno sull'altro, per lo più privi di armatura, e a volte anche delle armi. Mi chiesi il perché, e conclusi che l'imboscata doveva essere stata così improvvisa che i cristiani non avevano neanche avuto il tempo di prepararsi al combattimento prima che il nemico piombasse loro addosso: così erano stati uccisi mentre tentavano di indossare elmi e usberghi. Il sangue della carneficina aveva trasformato la polvere della strada in una melma densa, che i piedi dei selgiuchidi e gli zoccoli dei loro cavalli calpestavano indifferenti come se si fosse trattato di comune fanghiglia. L'aria era satura del lezzo del sangue rappreso sotto il sole che arroventava impietoso quel luogo di morte. Il fetore dolciastro mi riempiva le narici procurandomi conati di vomito. Procedevo annaspando, tentando disperatamente di non cadere per non essere trascinato in mezzo a quella poltiglia sanguinolenta. Per una forma di rispetto cercavo di non guardare i morti e non appena potevo distoglievo gli occhi da quelle lingue penzoloni, da quelle orbite vuote, da quelle ferite aperte e sanguinanti. La loro vista mi riempiva di un rimorso immenso e opprimente. Avanzavo attraverso il campo di battaglia inciampando nei cadaveri, e la mia amarezza cresceva a ogni passo. Un intero esercito era stato massacrato per l'ambizione di un solo, sprezzante principe. Dio mi perdoni, ma non potei fare a meno di maledire Boemondo, la cui arrogante presunzione aveva commesso il sacrilegio di sprecare sconsideratamente tante vite umane. Giungemmo a breve distanza dal luogo dove si stavano radunando i vincitori. Sotto l'occhio vigile del comandante, un'intera compagnia di guerrieri spogliava i morti delle armi, delle corazze e degli abiti. Spade, scudi, elmi, lance, cotte di maglia, usberghi e quant'altro venivano gettati in un mucchio che diventava sempre più alto. Lì accanto si andava formando una seconda catasta, più piccola, con tutti gli oggetti d'oro e d'argento o comunque di qualche valore. Boemondo si era mosso a tappe forzate per raggiungere la roccaforte armena il più presto possibile, dunque i crociati non avevano avuto modo di saccheggiare molti villaggi durante la marcia e, di conseguenza, non avevano raccolto un grande bottino. Mentre osservavo quella squallida scena, udii un grido proveniente da un gruppo di selgiuchidi che, poco lontano, sembrava divertirsi molto agitando in aria le scimitarre e lanciando alte urla d'entusiasmo. Non riuscivo a comprendere quale fosse la causa di tanta fervida attenzione, ma molti soldati accorrevano.
Stavo ancora cercando di capire, quando vidi l'emiro Ghazi. Era circondato da un seguito di cinquanta guerrieri, con indosso mantelli blu scuro e turbanti rossi. La maggior parte di loro montava stalloni bianchi come quello dell'emiro che se ne stava comodamente seduto su una sella in cuoio liscio, imbottita e bordata d'argento. Piccolo di statura e con il viso rasato, l'emiro portava vesti di lucido raso blu e un enorme turbante rosso sormontato da una piuma di pavone, tenuta ferma da uno smeraldo grande come un uovo d'anatra. Seduto sull'alta sella, avvolto in un mantello di broccato bianco, risplendeva come un astro nella luce accecante del sole e osservava gli enormi mucchi di oggetti preziosi e di armi con lo sguardo imperturbabile e placido di una divinità benigna. Si fece avanti, fermandosi accanto all'atabeg e scambiando con lui qualche osservazione in tono amabile; credo sulla battaglia e sul suo esito. A un certo punto rivolse la sua attenzione su di me; l'atabeg si limitò a stringersi nelle spalle, come se la mia presenza non avesse alcuna importanza, poi i due tornarono alla loro conversazione. Erano intenti a discorrere, quando dal gruppo di prima si levò all'improvviso un nuovo grido. L'emiro si girò e, sollevandosi sulle staffe d'argento, cercò di dare un'occhiata al di sopra della testa dei soldati ammassati l'uno accanto all'altro. Poiché non vi riusciva, ordinò qualcosa ai suoi uomini. Allora alcuni si avvicinarono ai compagni e, usando l'impugnatura delle lance, cominciarono a spingerli da parte, aprendo un varco attraverso il quale l'emiro potesse rendersi conto di cosa stava accadendo. Allora anch'io potei vedere lo spettacolo atroce e raccapricciante che tanto divertiva gli infedeli: si trattava dell'esecuzione dei prigionieri. Non tutti i crociati erano caduti nella vallata, e i quasi duecento sopravvissuti che si erano arresi erano stati riuniti nella piana, dove ora venivano eliminati. L'uccisione di uomini indifesi è di per sé un'azione nefanda, ma lì era resa peggiore dal metodo impiegato. Uno sventurato fante venne trascinato fuori dal gruppo dei compagni e condotto al centro dello spiazzo dove fu lasciato libero. In quel momento due cavalieri selgiuchidi, uno con una lancia e l'altro con una scimitarra, si lanciarono al galoppo partendo dalle estremità opposte della piana. Entrambi raggiunsero l'uomo che tentava di fuggire e quello più vicino si piegò sull'arcione sollevando la spada: la lama scintillante fendette l'aria e la testa volò via dalle spalle della vittima, disegnando rosse scie di sangue. Il corpo decapitato avanzò ancora di qualche passo, incespicando, poi
cadde a terra, contorcendosi e fremendo, per restare immobile. La testa mozza piombò sul terreno arido, rotolando nella polvere come una palla. L'orrendo spettacolo fu accolto con entusiasmo e rapimento dai presenti, molti dei quali avevano scommesso sull'abilità dell'uno o dell'altro dei cavalieri. Venni afferrato da un'indignazione incontenibile, mi si appannò la vista e sentii il sangue scorrermi nelle vene come fuoco liquido. Bruciando di rabbia impotente, alzai i pugni, invocando su quegli infedeli senza cuore il giudizio inesorabile dell'Onnipotente. Ma il cielo rimase sereno e non vidi saette fiammeggianti colpire il capo dei vincitori. Quando Dio ritrae la sua mano protettrice, le forze infernali sono rapide a reclamare a sé le proprie prede. Trentadue Cait, luce dei miei occhi, non riesco a controllarmi. Per la prima volta da quando sono prigioniero ho paura, sono incerto e non so che fare. Passo la notte a camminare avanti e indietro e a pregare, tormentato da un senso di disperazione mai provato prima. Proprio stasera due delle guardie del califfo sono entrate all'improvviso nella mia stanza. Benché fosse tardi e regnasse il più profondo silenzio, sono stato condotto immediatamente nella sala del trono dove, come ricorderai, il califfo mi aveva già ricevuto. Era completamente buio, fatta eccezione per due torce accese ai lati di una porta in fondo alla camera. Dopo aver attraversato il salone in tutta la sua lunghezza, sono stato portato proprio là. I battenti erano aperti, e uno dei soldati mi ha fatto cenno di entrare. Ho obbedito, l'uscio si è chiuso alle mie spalle, e io mi sono ritrovato in un ambiente più piccolo, da solo. Alla luce di un'unica candela infilata in una piantana, ho visto uno sgabello a tre gambe con un piccolo sedile di cuoio, un grande cuscino di seta blu del tipo prediletto dal califfo, e un tavolo su cui erano posati un vassoio di datteri e fichi e una campanella di ottone. Mentre mi guardavo intorno, chiedendomi perché fossi stato condotto lì nel cuore della notte, ho sentito un curioso rumore stridente, simile a quello di una macina di mulino. Sembrava provenire dalla parte opposta della stanza e, quando mi sono voltato da quella parte, ho visto aprirsi in un angolo una fessura che subito è diventata una porticina aperta verso l'interno. Allora sono stato raggiunto da una folata d'aria fredda e ho sentito un odore stantio di terra umida. A quel punto ho capito che le numerose stanze e i
vari edifici all'interno del perimetro del palazzo dovevano essere collegati da un intricato sistema di passaggi segreti e di gallerie sotterranee. Ho sentito un rumore di passi e, un attimo dopo, ho visto apparire il califfo alHafiz in persona con una torcia in mano. Non aveva il turbante e indossava solo una veste da notte. Con i capelli bianchi dritti in testa come se se li fosse scompigliati e la barba in disordine, aveva l'aspetto di chi si sia svegliato di soprassalto da un incubo e ne sia ancora tormentato. È trasalito quando la porta si è richiusa alle sue spalle e mi ha fissato con sguardo tetro e crudele. Il sogghigno che aveva sulle labbra non lasciava presagire un esito favorevole al nostro incontro. Comunque mi sono inchinato rispettosamente e ho atteso che cominciasse a parlare. Lui invece ha sistemato la torcia in un sostegno sulla parete accanto alla porta, mi ha fatto segno di mettermi a sedere sullo sgabello e si è accomodato a gambe incrociate sul cuscino blu che mi stava di fronte. "Strano incontro" ho pensato "senza consiglieri, né dignitari di corte, né servitù, né schiavi; senza dispiego di guardie a sottolineare il suo potere; senza lussuose suppellettili d'oro, di seta e di legno di sandalo: solo noi due, da uomo a uomo." Mi ha lanciato uno sguardo duro, che ho ricambiato e, guardandolo da vicino, mi sono accorto che tremava un po', come succede agli anziani colpiti da paralisi: una lieve oscillazione della testa e un debole tremore delle mani. Poi ha cominciato ad annuire e ha intonato una litania in arabo. Dopo un po' ha sospirato e, all'improvviso, è balzato in piedi e ha cominciato a girare intorno alla stanza a grandi passi. Lo guardavo stupefatto e tuttavia impietosito per il suo evidente stato di agitazione. «Dunque!» ha gridato infine. Poi, come se si fosse spaventato dalla violenza del proprio eccesso, lo ha ripetuto di nuovo, ma a voce più bassa: «Dunque, a questo siamo giunti!». «Come, mio signore?» ho domandato. «Io sono il califfo! Sovrano e protettore della terra d'Egitto. Un mio gesto muove intere armate! Io ordino che una cosa avvenga, ed essa avviene. Sono la legge e la speranza del mio popolo, e delle mie azioni rispondo solo ad Allah!» ha esclamato fissandomi come se mi sfidasse a contraddirlo. «Certo, mio signore» ho detto. «Eppure» ha continuato, agitando l'indice a mezz'aria «a questo siamo
giunti!» È parso soddisfatto della sua affermazione e si è rimesso a camminare, battendo i piedi e muovendo rigidamente le braccia. Continuavo a non capire cosa intendesse, e il sospetto che fosse impazzito si stava rapidamente trasformando in certezza. «Desideravate vedermi, mio signore?» gli ho ricordato con garbo. «Non osate chiedere ragione dei miei ordini!» ha gridato, adirandosi all'improvviso. «Mi è sufficiente pronunciare una parola e pagherete la vostra impertinenza con la vita.» «Perdonatemi, eccellentissimo califfo. So di essere un umile servo che deve solo obbedire.» Mi è parso che le mie parole lo avessero calmato un poco. Si è seduto di nuovo. «Mi avete detto di essere padre» e la sua frase suonava come un'accusa. «Sì, mio signore.» «Dunque conoscete l'amore di un padre per i propri figli» ha dichiarato, come se esprimesse una verità basilare della mia esistenza. «Certamente, sì. E Dio sa quanto.» Il califfo ha annuito. «Allora capirete anche l'angoscia che prova un padre quando deve punire un figlio ribelle.» «È un tormento che lacera l'anima» ho risposto comprensivo. «Ya'allah! È vero!» ha gridato. Poi ha chiuso gli occhi e ha cominciato a dondolare lentamente avanti e indietro, mentre il dolore che lo tormentava gli si rifletteva sul viso. È rimasto così per un lungo momento, e io sono rimasto in silenzio. Dopo un po' ha tirato un profondo sospiro e ha aperto gli occhi: «Sono il protettore e la guida del mio popolo» ha affermato con voce calma e ferma. «La giustizia è la mia unica legge. Sta scritto: un uomo che conosce la volontà di Allah e non la mette in pratica non sfuggirà alle fiamme eterne della dannazione. E sta anche scritto: un credente che si allontana dal sentiero della rettitudine non è migliore di un infedele e troverà la sua ricompensa fra i dannati.» Mi ha lanciato uno sguardo tagliente, sfidandomi di nuovo. «Non è forse così?» ha chiesto. «Sì, mio signore.» «Sì» ha sospirato con voce rotta. «A questo siamo giunti: mio figlio è un ribelle e un miscredente. Ha commesso gravi misfatti e il sangue delle sue vittime chiede giustizia. Voi siete un padre. Amate vostra figlia. Mi comprendete.»
Sino a quel momento avevo cercato di mettermi nei suoi panni ma, mentre pronunciava le ultime prole, mi sono reso conto del terribile significato di quel colloquio. Sapevo esattamente di cosa stesse parlando. «Occhio per occhio, dente per dente, vita per vita» ha detto. «È questa la fredda essenza della legge.» Ho sentito il mio cuore raggelarsi. «Mio figlio deve rispondere ad Allah delle sue nefandezze» ha continuato. «È necessario fare giustizia e sostenere la rettitudine. Poiché sono il califfo, così dev'essere.» Il suo sguardo eloquente intendeva suggerirmi qualcosa. A questo punto mi si sono rizzati i capelli in testa: dovevo essere io lo strumento della sua giustizia. Era per quello che mi aveva convocato. «Siete un nobile e un padre» ha ripetuto. «La persona giusta per capire.» «Sì, comprendo la tragicità della situazione in cui vi trovate, mio signore» ho assentito freddamente, desiderando con tutto me stesso di aver frainteso. «Io sono il califfo!» mi ha interrotto in tono duro. «Non osate!» «Perdonatemi, mio signore. Sono indegno della vostra stima.» Si è alzato all'improvviso, ha chiamato a gran voce le guardie e la porta si è aperta immediatamente. Indicandomi, ha ordinato qualcosa in arabo e a quel punto sono stato afferrato e portato via. Mentre mi trascinavano fuori dalla stanza, al-Hafiz ha gridato: «Pregate il vostro Dio, cristiano! Pregate di poter vivere abbastanza da rivedere ancora la vostra amata figlia!». E così sono stato ricondotto in cella, dove ho cominciato a ripensare all'accaduto. Più riflettevo sulle implicazioni di quella strana udienza, più mi sembrava straordinaria. Nella sua grande disperazione, il califfo d'Egitto si era rivolto a me e mi aveva chiesto di aiutarlo con il suo disgraziato erede. In un certo senso, ero diventato il suo confessore. "Perché?" mi chiedevo "Perché aveva scelto proprio me?" Aveva ai suoi ordini interi eserciti, come mi aveva inutilmente ricordato. La parola del califfo è legge... la giustizia è la mia legge... Perché confidare quelle cose a me, un umile prigioniero? La logica di quel vecchio mi rimaneva oscura come un cielo nuvoloso di notte. Occhio per occhio, dente per dente, vita per vita. Le ragioni delle confidenze di cui mi aveva reso partecipe mi sfuggivano, ma sospettavo quale fosse il suo fine e lo temevo. Mi stava chiedendo
di essere lo strumento della sua giustizia... mi stava chiedendo di uccidere suo figlio. "Re dei Re, mio Salvatore" pregai "allontana da me questo calice." Per ordine dell'atabeg fui condotto sullo spiazzo insieme agli altri prigionieri che attendevano di essere uccisi. Troppo esausti e sconfortati per sollevare la testa, stavano seduti a terra, mesti, con gli occhi bassi, il volto esangue per la fatica e il cuore fermo per il terrore. Quelli che erano abbastanza presenti a se stessi da rendersi conto di cosa li attendeva pregavano con fervore; le loro voci erano un mormorio basso e continuo rotto soltanto dai lamenti e dalle grida dei feriti. I miei aguzzini mi slegarono e mi gettarono tra gli altri. L'uomo che mi trovai accanto sollevò la testa mentre mi sedevo vicino a lui. Lo avevano picchiato brutalmente sul viso e sulle guance, si stava coprendo di lividi blu, sulla mascella e sul collo, e sul mento aveva uno squarcio profondo sino all'osso da cui colava sangue. Mi guardò con occhi vacui e chiese con voce rauca: «Siete un prete?». «No» risposi. Non aggiunse altro, ma abbassò ancora di più la testa. In quel momento capii cosa desiderava: nessuno, sentendo sulla spalla la fredda mano della morte, vuol varcare quella soglia senza essersi confessato. «Ma se volete, pregherò con voi» mi offrii. Annuì e, giungendo le mani sotto il mento, si mise faticosamente in ginocchio e cominciò a pregare. Pronunciò parole semplici ma sentite e, alla fine, supplicò il Padre Celeste di perdonargli i suoi molti peccati e gli chiese di non dimenticare sua moglie e sua figlia, di non permettere che cadessero in miseria dopo la sua morte. Quand'ebbe terminato, formulai a voce alta questa preghiera: «Gesù Cristo, Redentore dell'umanità, porta al cospetto del Trono Celeste la supplica di... Come vi chiamate?» domandai. L'uomo aprì gli occhi e mi fissò. «Il vostro nome, fratello, qual è il vostro nome?» «Gerardo.» «... la supplica di Gerardo affinché sia esaudito il suo ultimo desiderio per la sua famiglia.» Dissi amen e lo segnai con la croce, come avevo visto fare a Emlyn e a Padraig quando confessavano i peccatori. Il soldato si asciugò gli occhi senza lacrime con le mani, mi ringraziò commosso e poi, in pace con Dio, chinò il capo per prepararsi a morire. All'improvviso si sentì un gran trambusto per tutto il campo: guardai nel punto da cui proveniva e vidi un uomo a cavallo che si dirigeva verso di
noi, seguito da un manipolo di cavalieri. I nuovi venuti si arrestarono davanti all'emiro Ghazi, ancora in sella al suo bianco destriero e discussero brevemente in tono concitato. Infine l'emiro lanciò un ordine ai suoi uomini, che in quel momento stavano trascinando un altro sventurato urlante fuori dal gruppo dei crociati. Poi uno dei nuovi arrivati, un uomo tarchiato e dalla carnagione scura con un'ispida barba bianca e il viso schiacciato e logoro come la suola di uno stivale, gridò qualcosa e, voltato il cavallo, si avvicinò a noi. Non aveva armi, fatta eccezione per un pugnale ricurvo la cui impugnatura d'oro usciva dalla fusciacca sporca. Ci osservò uno per uno con sguardo cupo e rabbioso, come se fosse furente perché noi ce ne stavamo pigramente sdraiati mentre lui faticava in sella. L'emiro gli si accostò e, sorridendo in modo accattivante, gli si rivolse in tono pacato. I due cominciarono a parlottare tra di loro, e ritenni che l'emiro stesse riferendo allo sconosciuto le disposizioni prese nei confronti dei prigionieri. «È rabbioso come un gatto a cui abbiano fatto il contropelo» commentò Gerardo. «L'emiro non sembra preoccuparsene troppo» osservai. «Ma quello non è l'emiro» mi informò Gerardo e, indicando l'ometto scuro e irato spiegò: «Eccolo lì, l'emiro Ghazi». Osservai meglio l'ometto che avevo scambiato per una semplice guida: diversamente da tutti i comandanti arabi che avevo visto fino ad allora, questo non era vestito meglio di un comune soldato. Invece di ostentare il suo alto rango, indossava semplicemente la casacca e le brache nere con gli stivali di pelle dei guerrieri selgiuchidi; la sola differenza che si poteva notare era che, mentre il turbante dei soldati era nero o marrone, il suo era color sabbia. Se Gerardo mi avesse detto che si trattava di un bottegaio, non avrei faticato a credergli. Infatti quell'uomo ordinario che ci fissava torvamente stando a cavallo sembrava più adatto a vendere stoviglie d'ottone che a comandare gli eserciti alleati delle potenti tribù turche. «Quello lì?» domandai allibito, continuando a fissare l'ometto sudato e coperto di polvere. «Sì, ed è furibondo.» «Perché?» «È fuori di sé perché i suoi comandanti hanno ammazzato troppi prigionieri. I crociati nobili valgono una fortuna di riscatto e gli altri possono essere venduti come schiavi. Ghazi sta protestando perché si sono compor-
tati in modo impulsivo e perché tutto il denaro perduto avrebbe potuto essere usato per continuare la guerra contro i franchi.» Guardai Gerardo stupefatto: «Come fate a sapere cosa dice?» chiesi. «Capisco qualche parola di arabo» rispose. Gli manifestai la mia meraviglia. «Nulla di strano» mi rassicurò scuotendo il capo. «Sono stato sei anni ad Antiochia.» «Se quello è Ghazi» domandai «allora l'altro chi è?» «È Kaisin Tanzuk, il sultano di Jezirah» rispose il mio informatore. «Si racconta che sia più ricco del califfo di Baghdad.» «Che cosa sta....» «Sst!» mi interruppe Gerardo cercando di seguire la conversazione. Dopo un istante si voltò di nuovo verso di me, e sul suo viso coperto di lividi c'era un'espressione di intenso sollievo: «Le esecuzioni sono state sospese. Verremo portati a Damasco». Quando fu sicuro che le sue disposizioni riguardo ai prigionieri fossero state comprese, l'emiro Ghazi tornò dai suoi comandanti e ordinò che l'esercito si ritirasse. Benché mi sentissi sollevato e mi fosse stata risparmiata una morte violenta e ignominiosa, la mia contentezza era attenuata dalla consapevolezza che ora liberarmi avrebbe richiesto più tempo. Mi ero aggrappato alla speranza che Padraig e gli altri scoprissero cosa mi era accaduto e che facessero ritorno ad Anazarbus per informare Rupen, così che gli armeni potessero accorrere subito in mio aiuto. Di lì a un momento, alcuni turchi si avvicinarono con delle funi e cominciarono a legarci insieme. "Sarà solo per poco" mi dissi mentre i selgiuchidi mi passavano attorno al collo una dura correggia di pelle. "Verranno a salvarmi. Quando si accorgeranno di cos'è accaduto, mi cercheranno." Mi strinsero il legaccio alla gola, me lo passarono attorno ai polsi e lo fissarono a quello di Gerardo, che era a sua volta legato a un altro uomo, e così via. Poi i nostri aguzzini diedero alla corda una stretta finale e conlinciarono a trascinarci via. Fu così che ebbe inizio il mio viaggio nell'esistenza oscura e terribile del prigioniero di guerra. Trentatré Ti risparmierò gli avvenimenti più penosi, mia diletta Caitrìona. Non potrei sopportare l'idea che le mie sventure ti addolorassero. Anche durante le
prove più difficili, la mia più grande consolazione era che tu non saresti mai venuta a sapere quanto tuo padre avesse sofferto. Così avresti sempre serbato nella tua memoria un'immagine gioiosa di me, ammesso che, con il tempo, avessi continuato a ricordarmi. Eri solo una bimba quando sono partito, tesoro mio carissimo, e di questo mi dispiace. Credimi, da allora me ne sono pentito migliaia di volte. Ahimè, da quello sciocco ignorante che sono, non mi rendevo conto che la Mano Misericordiosa di Dio si muoveva con tutta la sua potenza nel caos di quei giorni amari. Padraig avrebbe certamente avuto l'acutezza di percepire la trama raffinata del grandioso disegno dell'Onnipotente nel complicato ordito del tempo e nella marea delle azioni umane. "Guarda, Duncan" mi avrebbe detto il buon monaco "i fili di questo mantello sono di colori diversi, alcuni chiari, altri scuri e il disegno è formato dal loro intersecarsi. Chi potrà prevedere il risultato finale se non il tessitore?" Padraig mi manca moltissimo e prego sempre per lui, così come per te, tesoro mio. E ogni giorno maledico la mia incoscienza e la mia follia. Quanto sono stato arrogante e ingenuo a immaginare di poter trasferire la mia mentalità di uomo del Nord nella realtà caotica e oscura dell'Oriente. Deploro il giorno in cui permisi a me stesso di restare invischiato in faccende che non mi riguardavano e che mi conducevano sempre più lontano dal vero scopo del mio pellegrinaggio. Se avessimo atteso un giorno, o anche solo qualche ora, per partire da Anazarbus, la battaglia si sarebbe comunque conclusa e io non sarei stato catturato. Se avessimo indugiato anche di poco, ora non mi troverei qui alla mercé del califfo del Cairo, per grazia del quale respiro ancora. Comunque, come Padraig non si stancava mai di sottolineare, la Mano dell'Onnipotente guida gli avvenimenti a vantaggio di coloro che lo amano. Per quanto io possa aver fede in ciò, tuttavia non posso affermare di aver notato qualcosa di buono in quel tormentoso viaggio per Damasco. Se vi era sotteso un disegno divino, confesso di non essere riuscito a intravederlo. Ma forse la mia mancanza di perspicacia mi verrà comunque perdonata, poiché ogni mio istante era occupato nella lotta per la sopravvivenza. L'emiro Ghazi ordinò alla sua armata di muovere immediatamente verso sud. Ripensandoci ora, doveva aver compreso l'eccezionale opportunità che si trovava di fronte e, dopo aver sgommato l'esercito che difendeva Antiochia, avanzava per sfruttare al massimo il suo vantaggio.
Così, senza avere nemmeno il tempo di riprendere fiato o di festeggiare la vittoria, le truppe dell'emiro si rimisero in marcia. In preparazione del viaggio, i guerrieri selgiuchidi perquisirono i prigionieri crociati in cerca di eventuali armi e finirono chiunque fosse stato ferito in modo grave. A chi aveva lesioni lievi fu risparmiata la vita e fu concesso di proseguire finché riusciva a camminare. Tuttavia, con il trascorrere dei giorni, ci furono momenti in cui mi venne da pensare che un rapido colpo al collo sarebbe stato più misericordioso di quell'avanzata. Attraversammo la pianura dove si era svolta la battaglia, dirigendoci verso le basse colline a nord-est. Era ormai buio quando ci fermammo. Trascorsi la notte sdraiato a terra, esausto e infreddolito, insieme ad altri otto prigionieri. Eravamo legati perché non potessimo fuggire e divisi in gruppetti separati, perché non potessimo organizzare delle sommosse. Troppo scoraggiati per parlare, ci coricammo sul terreno pietroso e dormimmo il sonno della morte. Infatti la mattina successiva parecchi non si destarono, e molti tra quelli che si rimisero in marcia non giunsero a vedere la fine di quel giorno, che fu un esempio perfetto di quelli che ci attendevano. I nostri aguzzini ci svegliarono alle prime luci dell'alba, colpendoci con le lance per farci alzare. Ci fissarono le mani dietro alla schiena e ci legarono a due a due, con corte corregge attorno alle caviglie e una più lunga al collo. Ci venne dato da bere e ci incamminammo verso sud. Il grosso dell'esercito selgiuchide apriva la strada, mentre noi prigionieri seguivamo la carovana delle salmerie, che procedeva più lentamente. Ci trascinavamo avanti, guardando il cielo buio che schiariva a poco a poco e cercando di ignorare la correggia di cuoio che ci tagliava le caviglie a ogni passo. Ben presto il sole sorse da dietro le colline, e iniziammo a sentire la calura della giornata che ci attendeva. Mentre diventava sempre più alto nel cielo bianco come una conchiglia, anche l'afa aumentava, togliendoci le poche forze che avevamo ripreso dormendo. Il torrido meriggio segnò la fine dei più deboli che si lasciarono cadere a terra per non rialzarsi più. I musulmani erano sordi alle grida dei feriti e ai lamenti dei moribondi; li lasciavano indietro senza pietà, fermandosi soltanto per darci acqua sufficiente a farci sopravvivere e camminare, ma non a soddisfare le nostre gole riarse e brucianti. Affamati, assetati e doloranti avanzavamo sulle aride alture a testa bassa, con il cuore duro e freddo come la pietra. Un giorno infernale dopo l'altro.
Non ci scambiavamo parola: non c'era nulla da dire. Il sole picchiava sulle nostre teste nude come la vampa della fornace di una fucina. Il sudore ci colava negli occhi e bruciava, prosciugando le poche energie che ci rimanevano, e che diventavano sempre più esigue nell'aria arida del deserto. Ciò che restava dell'esercito cristiano si trascinava per quelle lande riarse, inciampando sotto il peso delle proprie ferite. Imprecazioni e preghiere salivano al Cielo, mentre la lenta tortura del caldo e della sete cominciava a reclamare crudelmente la sua parte di vite umane. Quando qualcuno cadeva, il soldato più vicino andava a controllare se valeva la pena rimetterlo in piedi. Se lo sventurato aveva qualche possibilità di sopravvivere, i compagni che gli stavano accanto dovevano trasportarlo, altrimenti veniva abbandonato sul posto. Spesso quelli che venivano lasciati indietro imploravano la fine, ma anche a quell'ultima supplica, come a tutte le altre, non veniva prestato ascolto. Il quarto giorno fu il peggiore di tutti. Verso mezzogiorno un soldato gravemente ferito cadde a terra proprio di fronte a me e a Gerardo, trascinando con sé il compagno a cui era legato. La guardia selgiuchide ci raggiunse e, senza nemmeno prendersi il disturbo di smontare da cavallo, ordinò a noi tre di rimettere in piedi quel poveretto. Per farlo, dovevamo avere le mani libere e così fummo sciolti, il che fu di per sé un atto di misericordia. Riuscimmo a far rialzare il ferito, ma era evidente che non sarebbe riuscito a camminare da solo. Così lo aiutammo a turno, sorreggendolo sotto le ascelle e trascinandolo, uno per parte, mentre il terzo riprendeva le forze per poi sostituire uno di noi. Nel frattempo le condizioni del nostro compagno andavano peggiorando. Dopo qualche ora non fu più in grado di muovere le gambe, e dovemmo trasportarlo caricandoci il suo peso sulle spalle. Era maledettamente faticoso e fummo presto esausti: muovere un passo o anche solo reggersi in piedi era diventato una vero e proprio supplizio. Mi buttai in quell'impresa anima e corpo e proseguii stringendo i denti per tutta quell'interminabile giornata. Dopo un po' il dolore acuto alle gambe e alle braccia cominciò ad attenuarsi, e i miei arti perdettero sensibilità. Non riuscivo più a sentire le asperità del terreno sotto i piedi e continuavo a inciampare nei sassi. Ogni scossone strappava un gemito al mio compagno svenuto, ma i suoi lamenti a poco a poco divennero sempre più deboli e rari. Il terreno era una distesa di pietre e cespugli spinosi e nelle crepe crescevano alberelli stenti, bianchi di polvere e riarsi dal sole inesorabile. In
quella landa dimenticata da Dio tutto era inaridito, avvizzito e contorto. Penosa alla vista non meno che alle piante dei piedi, l'asprezza di quella terra si imprimeva nell'animo come un marchio rovente. Intorno non c'era una sola macchia di verde, o di qualunque altro colore, che interrompesse la monotonia del paesaggio. Per trovare rifugio dal sole e dall'aria infuocata, rivolsi la mente alla mia diletta Scozia e alla mia famiglia: cercai di raffigurarmi ogni volto e pregai per l'anima di tutti coloro che ricordavo. Così riuscii a sopportare l'asprezza di quella crudele giornata. Quando finalmente il sole cominciò a scomparire dietro le colline, i selgiuchidi si accamparono per la notte. Io e i miei due compagni adagiammo a terra il ferito e crollammo esausti accanto a lui. Restammo lì, ansimanti come cani accaldati, stremati, senza poterci muovere, mentre il sudore ci colava dal corpo e bagnava la sabbia sotto di noi. Il sole era quasi tramontato quando uno dei soldati ci portò una borraccia che conteneva qualche sorso d'acqua. Dopo che ebbi bevuto, mi sollevai sui gomiti per aiutare il compagno ferito ad avere la sua parte: fu allora che mi accorsi che era morto. Non so per quanto tempo e per quanta strada avessimo trasportato il suo cadavere. L'unica cosa certa è che era spirato in silenzio, senza emettere nemmeno un sospiro. Ora giaceva a terra, con la bocca aperta e gli occhi chiusi, come se dormisse per sempre. La guardia constatò il decesso con un'alzata di spalle e se ne andò. Quella notte dormimmo legati a un cadavere e fummo liberati soltanto la mattina dopo, quando fummo slegati perché potessimo camminare. Pregai di non morire come quel poveretto, anonimo, sconosciuto, senza nessuno che mi piangesse, essendo solo un peso per chi mi stava intorno. Al risveglio ci aspettava un'altra giornata infernale. Mi sembrava di avere le gambe e le braccia di piombo, mi doleva la testa e avevo la bocca impastata. Ci fu data un'abbondante razione d'acqua, che bevemmo in fretta per paura che le guardie cambiassero idea. Ringraziai Dio per ogni sorso. Molti non se la sentirono di affrontare la giornata e si rifiutarono di alzarsi, ma i selgiuchidi ne uccisero due e allora gli altri, di fronte alla prospettiva di dover affrontare un'agonia lenta e straziante con una lancia nello stomaco, trovarono la forza di rizzarsi in piedi. Il terreno divenne accidentato e pieno di crepe e il sentiero si diramò in tratturi per capre, stretti e sconnessi, che attraversavano fiumi in secca e colline scabrose. La nostra marcia divenne così ancora più dura e difficol-
tosa; continuavamo a chiedere a gran voce acqua, cibo e riposo, ma non ci fu concesso nulla di tutto ciò. Io mi tenni in vita pregando e recitando il salmo: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla... il Signore è il mio pastore, non manco di nulla... su pascoli erbosi mi fa riposare... ad acque tranquille mi conduce... se dovessi camminare in una valle oscura... non temerei alcun male... alcun male... alcun male...». Ripetei a non finire quelle parole e il loro ritmo mi impediva di lasciarmi andare; perché fino a quando riuscivo a pronunciarle, sapevo che sarei rimasto vivo. Almeno sino alla fine del salmo. La torrida e implacabile calura e la mancanza d'acqua cominciarono a decimarci. E, mentre i miei sventurati compagni continuavano a cadermi intorno, ma mano che scorrevano le ore di quel giorno che sembrava senza fine cominciai a considerarli fortunati. Recitando a bassa voce il mio salmo, cadevo di tanto in tanto in uno stato di allucinazione. Vidi Padraig che camminava davanti a me e provai a chiamarlo, ma avevo la gola così secca che non riuscii a emettere neppure un suono. Quando guardai di nuovo, mi accorsi che si trattava solo di uno degli altri prigionieri. Scorsi mio padre, seduto su un masso al margine del sentiero e lo vidi scuotere il capo tristemente mentre passavo: avrei voluto parlargli, dirgli quanto mi dispiaceva essermene andato di casa contro il suo volere, ma la sua immagine si dissolse nell'aria prima che riuscissi a trovare la voce per articolare una sola parola. Sentii il profumo della tersa aria di mare della mia patria e quello dell'acqua salata; udii il rumore incessante delle onde che andavano a infrangersi sugli scogli e rotolavano sui ciottoli lisci della spiaggia e lo stridio acuto degli uccelli marini che volteggiavano nel cielo azzurro punteggiato di nuvole scintillanti, ben diverso da quello della Terra Santa. Quegli odori e quei suoni mi riportavano alla mente il volto dei miei cari. Mi risuonò nelle orecchie il timbro delle loro voci e cercai di distinguere quel che dicevano, ma la gioia di avermi di nuovo fra loro era così grande che parlavano tutti insieme, e io non riuscivo a capirli. Sollevai le braccia, tentai di parlare, ma potei solo emettere un suono rauco che parve incitarli: mi vennero incontro, presero a tirarmi da una parte e dall'altra e mi accorsi che mi stavano portando verso il mare. Mi irrigidii sulle gambe, cercando di resistere, ma non avevo più forza e fui trascinato in acqua. Avvertii una gradevole sensazione di bagnato e sentii che altri sguazza-
vano tra le acque alle mie spalle; quando mi voltai, vidi i volti coperti di polvere degli altri prigionieri. Com'era possibile, mi chiesi, che fossero giunti in Scozia? Mi avevano forse seguito? Ed eravamo arrivati fin lì a piedi? Poi tutta quella gente cominciò a schizzarmi, e l'acqua fredda mi fece ritornare in me. Acqua! Caddi in ginocchio e cominciai a raccoglierla con le mani a coppa, riempiendomene la bocca e inghiottendola a grandi sorsi, fin quasi a soffocarmi, per poi bere ancora e ancora. L'acqua mi fece sentire meglio. Sollevai lo sguardo e mi guardai intorno. La baia lambita dal freddo oceano era scomparsa, insieme al borgo ridente e prospero tra le colline verdeggianti: davanti a me c'era soltanto un villaggio riarso dal sole, e rallegrato solo da qualche albero rinsecchito e da qualche palma solitaria, che si stendeva sulle sponde brulle di un lago, fangoso ma assolutamente reale. E le persone che mi attorniavano non erano i miei familiari e i miei amici, ma pastori musulmani. Mi sentii stringere il cuore, mentre la mia mente abbacinata comprendeva appieno la triste realtà: sì, ero ancora vivo, ma lontanissimo da casa. In quel luogo trascorremmo la notte. Rianimati dall'acqua e, con l'approssimarsi della sera, da un momento di tregua dal caldo del giorno, avemmo modo di riflettere sulle nostre possibilità di sopravvivenza. E cominciammo a parlare. Venni così a sapere cos'era accaduto dopo che Padraig, Rupen e io eravamo fuggiti da Antiochia. Il comandante Renaud non aveva permesso ai suoi templari di prender parte alla nefasta follia di Boemondo. Sfidando il principe, si era rifiutato di far combattere i Poveri Soldati di Cristo contro altri cristiani. Tra i prigionieri si discuteva molto se quella scelta fosse stata un bene o un male. «Perdio, se i templari ci avessero aiutato» sosteneva indignato uno dei crociati «non saremmo stati sconfitti.» «Quanto sei stupido, Thomas Villery!» ribatté ringhioso quello che gli sedeva accanto. «Se ci fossero stati i templari avrebbero fatto la stessa fine.» «Sicuro» annuì un terzo. «Molto meglio che le cose siano andate così. Se non altro possiamo sperare che qualcuno venga a salvarci.» «Cosa ti fa pensare che qualcuno voglia salvarci? A chi vuoi che importi di noi» concluse un altro cupamente, reclinando la testa sul petto. «Dio ci ha abbandonati. La Sua mano si è levata contro di noi. È come se fossimo già morti, tutti quanti. Non abbiamo nessuna speranza.»
«Ma guarda, questo pezzo di merda è diventato anche filosofo!» intervenne Thomas in tono canzonatorio. «Quando i templari sapranno che siamo prigionieri, verranno immediatamente in nostro soccorso.» «E chi li avvertirà, eh?» domandò un altro, cercando faticosamente di alzarsi. Era ferito a un braccio e la carne che si intravedeva attraverso i brandelli incrostati di sangue della manica era grigiastra e purulenta. «Idiota! Chi andrà sino ad Antiochia per avvisarli? Eh?» lanciò uno sguardo furente ai compagni che lo circondavano con espressione cupa. «Ha detto bene Gaston: è come se fossimo già morti.» «Ma no!» lo interruppe Thomas. «Quando sapranno che la Croce è caduta nelle mani degli infedeli, accorreranno subito, perdio!» «Non parlarmi di Dio, né della Croce» borbottò Gaston. «Sostenevano che non potevamo essere sconfitti se la Croce ci avesse preceduti in battaglia. "Sarà Dio stesso che si compiacerà di condurvi alla vittoria" dicevano. Dov'è finita la vittoria?» Si guardò intorno, come sfidando qualcuno a contraddirlo. «Maledetti! Maledette le loro menzogne!» «Perdonatemi, fratello» mi intromisi «state parlando della Vera Croce?» «Sì» rispose quello perplesso «perché, ce n'è forse un'altra?» «La Croce Nera» sussurrò qualcuno «è caduta nelle mani di questi dannati miscredenti». Sputò in terra. «Forse a loro sarà utile. Certo, a noi non lo è stata.» «Chiudi quella boccaccia, Matthias!» lo aggredì Thomas. «Forse è colpa dei cattivi cristiani come te se l'Onnipotente ha permesso che fossimo vinti. Ti è mai passato per la mente?» «Come osi dubitare della mia fede?» ribatté Matthias offeso. «Mi sono confessato come tutti voi prima di lasciare Antiochia. E non ti lascio andare in giro a blaterare che la colpa di quello che è successo è mia. Perciò vedi di...» «Dov'è?» chiesi, interrompendo la discussione. «La Croce? Be', ce l'hanno i turchi» rispose Matthias. «L'avranno presa con il resto del bottino. Dio solo sa cosa ne faranno.» «La bruceranno» suggerì Gerardo tristemente. «Lo faranno, perché sono i seguaci di Satana, siano maledetti!» Poi cominciarono a dissertare di cosa ci sarebbe accaduto una volta giunti a Damasco ma, poiché nessuno ne aveva la benché minima idea, potei concentrarmi su ciò che ero venuto a sapere: la Santa Croce era lì, da qualche parte. In quel preciso momento decisi che, se il Re del Cielo e della Terra mi
avesse concesso di sopravvivere, avrei ripreso la mia ricerca: a qualunque costo, avrei trovato la Croce Nera e l'avrei portata al sicuro. Lo giurai a me stesso. Trentaquattro Restammo quattro giorni a Kadiriq, un villaggio costruito con il fango sulle rive di un lago stagnante, dove recuperammo le forze per il viaggio che ci attendeva. Sospetto che i nostri aguzzini avessero scelto di lasciare Anazarbus attraverso un percorso tortuoso per liberarsi dei deboli e dei feriti. Volevano vendere buoni schiavi, e solo uomini abbastanza forti da sopravvivere a quella prova terribile valevano il prezzo che li avrebbe ripagati del disturbo di averci tenuti in vita. Trascorsi quasi interamente dormendo quel primo giorno, e il successivo lo passai all'ombra di un albero contorto in riva al lago, dove mi immersi varie volte per rinfrescarmi. La vista di uno straniero dalla pelle bianca che sguazzava nell'acqua bassa causò gran divertimento tra i fanciulli di Kadiriq, che si erano riuniti a osservare i prigionieri. Quella sera, per la prima volta dalla partenza, ci fu dato qualcosa da mangiare: gallette secche dure come il cuoio e zuppa di lenticchie. La successiva il pasto fu lo stesso, con l'aggiunta di qualche pezzetto di filacciosa carne di capra. Il terzo giorno arrivò l'emiro Ghazi. Viaggiava in caravan, cioè con un intero seguito di consiglieri e dignitari, con circa trecento guardie del corpo, tutte a cavallo, e con una lunga fila di animali da soma con le salmerie. In quell'occasione ebbi modo di vedere per la prima volta le strane, sgraziate creature del deserto chiamate dromedari, e di osservare il loro bizzarro passo ondeggiante. Con la gobba sulla groppa, il lungo collo e i piccoli musi schiacciati, sembravano torreggiare sulla confusione circostante con nobile tolleranza. I nuovi arrivati avevano portato con sé altri prigionieri. Fra i detenuti si sparse la voce che il corpo principale dell'esercito selgiuchide avesse conquistato la città di Marash, sul confine, e che ciò avesse permesso all'emiro di arricchirsi di schiavi cristiani e di bottino. Ghazi piantò l'accampamento sulla riva opposta del lago. Contai un centinaio di tende prima di smettere di interessarmene. Gli abitanti del villaggio, onorati di ospitare l'emiro, quella sera gli offrirono un banchetto. Furono abbattuti una dozzina di buoi da arrostire allo spiedo e una ventina tra
pecore e capre. L'allegria dei festeggiamenti si diffuse per tutto il villaggio e giunse anche nell'accampamento dei prigionieri, tanto che anche noi partecipammo alla cena. Quella sera, insieme a pani morbidi e lievitati insaporiti con semi di finocchio, ci fu dato anche stufato d'agnello con fichi. Era ottimo, e nessuno di noi si fece scrupolo, alla fine, di leccare il fondo della propria scodella di legno. Ci venne anche offerta una bevanda fatta con latte di capra fermentato, leggermente salata e con un fondo acidulo che non ce la rese molto gradita. La mattina seguente, riposato, rifocillato e più in forma di quanto potessi sperare di essere negli incerti giorni a venire, decisi di tentare la fortuna con l'emiro Ghazi. Il sole era alto, e il vento soffiava caldo da sud. Stavo bagnandomi nel lago, quando apparvero due delle guardie dell'emiro. Si fermarono a scambiare qualche parola con il soldato di sentinella sulla riva, e io decisi che era il momento giusto. Uscii dall'acqua, feci cenno a Gerardo di accompagnarmi e mi avvicinai ai tre. «Cos'hai intenzione di fare?» chiese il mio compagno in tono disperato. «Dì alle guardie che voglio vedere l'emiro.» Mi guardò a bocca aperta, incredulo, pronto a obiettare. «Coraggio» insistetti. Le guardie ci lanciarono uno sguardo di altero disprezzo, poi non fecero più caso a noi. «Forse non parlano l'arabo» osservò titubante Gerardo. «Andiamocene prima di cacciarci nei guai.» «Avanti. Fatti capire in qualche modo.» Sollevando gli occhi al cielo, il mio compagno intervenne nella conversazione dei tre, che si mostrarono piuttosto seccati per la nostra insistenza; infatti una guardia gridò qualcosa al nostro indirizzo e fece un gesto con le mani per mandarci via. «Dicono che dobbiamo andarcene» spiegò Gerardo in tono speranzoso. «Pretendo di vedere l'emiro» ripetei, senza arretrare di un passo. «Digli che lo pretendo, Gerardo. Traduci letteralmente. Pretendo di incontrarlo subito.» Dopo un nuovo e concitato scambio verbale, Gerardo dichiarò: «Sostengono che nessuno può vedere l'emiro». «Spiega che sono un nobile, che sono amico del principe Thoros d'Armenia e che voglio vedere immediatamente l'emiro Ghazi.» Gerardo si fece coraggio, inghiottì la paura e si azzardò a parlare ancora
una volta: con voce incerta e tremante, tradusse alle guardie le mie parole. Il nostro guardiano era già pronto a scagliarsi contro di noi, agitando la lancia e urlando, ma uno degli uomini dell'emiro lo afferrò per un braccio e lo tirò indietro, facendomi segno di avvicinarmi. Avanzai senza un attimo di esitazione. Il soldato mi osservò, studiandomi da capo a piedi con gli occhi scuri. La seconda guardia brontolò qualcosa e agitò la mano nella mia direzione, ma il primo mi prese per un braccio e mi fece voltare, indicandomi che dovevo camminar loro davanti. «Dio ti accompagni» mi gridò dietro Gerardo. Costeggiammo il lago per raggiungere la riva opposta dove l'emiro aveva disposto il proprio accampamento. Fui condotto davanti alla tenda di Ghazi, che era di colore azzurro, anziché marrone scuro come le altre. I miei due accompagnatori mi fecero capire che dovevo aspettare lì, a una ventina di passi dalla tenda, e confabularono con un uomo che era comparso all'ingresso della tenda, con il quale si allontanarono verso l'ombra di una piccola palma da datteri lì accanto, da dove potevano tenermi d'occhio. Nell'attesa di essere ammesso all'udienza, mi dedicai a osservare l'attività dell'accampamento. L'emiro Ghazi doveva avere moltissimi impegni a giudicare dal via vai di consiglieri, intendenti e servitori. Pochi di coloro che entravano nella tenda vi si trattenevano a lungo e la mia impressione fu che si recassero dall'emiro semplicemente per porgergli i loro omaggi, o per sbrigare qualche incombenza di poco conto. In effetti, ogni uomo di razza araba, dal più eccelso dei califfi al più umile dei pastori, è circondato da un vero e proprio muro di doveri e di obblighi, i cui mattoni non possono essere rimossi né cambiati di posto. Osservando quella processione continua di dignitari, notai ancora una volta quanto fossero sfarzosi i nobili selgiuchidi in sella ai loro cavalli e scortati dal loro seguito. Erano abbigliati con ampie vesti di stoffa finissima, adorni d'oro e di pietre preziose, di piume di struzzo e di pavone, e le loro armi intarsiate di gemme scintillanti rifulgevano sotto l'intensa luce del sole. Tutti recavano doni racchiusi in cofani istoriati di legno pregiato. Talvolta, secondo il rango, l'emiro accoglieva l'ospite all'entrata della tenda e gli dava il benvenuto baciandolo. Più spesso, però, era uno dei servitori che, fatto un profondo inchino, conduceva il visitatore alla presenza del potente Ghazi. Non erano solo uomini a recarsi dall'emiro: molti nobili avevano con sé
donne che, per quel poco che si poteva intuire, erano abbigliate ancora più sontuosamente dei loro accompagnatori, anche se nascondevano la ricercatezza dei loro ornamenti sotto lunghi mantelli con cappuccio o larghe tuniche che le ricoprivano da capo a piedi e portavano sul viso dei veli che lasciavano scoperti solo gli occhi. Ma che occhi! Grandi, allungati e neri come prugne, con lunghe ciglia e sopracciglia scure e sottili, delicatamente arcuate. Mi fecero venire in mente Sydoni, e per un po' mi abbandonai ai ricordi piacevoli, finché non mi rammentai della grave situazione in cui mi trovavo. Se non fossi stato un pazzo impulsivo, in quel momento sarei stato certamente con lei. Fui afferrato da una nostalgia così amara che dovetti allontanare la sua immagine. Non è bene cedere ai rimpianti: ciò che avrebbe potuto accadere è altrettanto impossibile di ciò che non potrà mai accadere. Dopo qualche tempo una delle due guardie che mi avevano condotto fin lì si assopì e così, poiché stavo in piedi sotto il sole da un bel po', mi accovacciai a terra. Ma all'altro soldato la faccenda non piacque: mi sibilò contro qualcosa, mi fece segno di rialzarmi e dovetti obbedire. Per fortuna, di lì a poco, anche lui cadde profondamente addormentato, e io mi sedetti di nuovo e mi sollevai la giubba sul capo per ripararmi dal sole. Passato mezzogiorno, il sole cominciò la sua lunga e lenta discesa verso occidente. Io rimasi seduto al mio posto, appisolandomi di quando in quando, sempre in attesa dell'emiro, mentre varie persone continuavano a entrare e a uscire per ottemperare ai propri obblighi di fedeltà e deferenza. Poi, al tramonto, mentre la mia ombra cominciava ad allungarsi verso l'entrata della tenda, udii un rumore di cavalli che si avvicinavano. Era arrivato un gruppo di capi arabi. Mi alzai e, nel tempo in cui essi smontavano, mi insinuai rapido in mezzo a loro, dirigendomi verso l'ingresso della tenda. Uno dei cavalieri mi gridò qualcosa per fermarmi, ma io non gli prestai alcuna attenzione e continuai a camminare. Però una guardia, svegliata dalle grida, aprì gli occhi e mi vide: si precipitò ad agguantarmi e mi trascinò indietro al mio posto, dove fu raggiunto dai compagni che si misero a inveire e a colpirmi con una gragnuola di pugni sulla testa. Non so se fu il trambusto che avevo provocato ad attirare l'attenzione dell'emiro ma, mentre giacevo a terra, cercando di proteggermi il capo e il collo dai colpi dei soldati, un uomo apparve improvvisamente in mezzo al parapiglia.
Diede un unico ordine in tono secco e irato, e le guardie misero fine alla loro aggressione. Sollevai lo sguardo e scorsi quello stesso atabeg che mi aveva preso prigioniero alcuni giorni prima. Mi riconobbe anche lui e mi fece segno di alzarmi, poi indicò la tenda, davanti al cui ingresso stava l'emiro in persona, circondato dai consiglieri e dignitari. Aveva un'espressione piuttosto accigliata e non sembrava per nulla soddisfatto che qualcuno avesse interrotto le sue occupazioni. Mi alzai lentamente, scuotendomi di dosso la sabbia, e mi preparai a fronteggiare gli eventi. L'emiro fece cenno al suo sottoposto di avvicinarsi. L'atabeg mi afferrò per un braccio per sottrarmi alle guardie, poi mi condusse davanti all'emiro e mi fece prosternare ai suoi piedi. Quell'atto avrebbe dovuto umiliarmi, invece non me ne importò molto: non era una vergogna riconoscere la superiorità di qualcuno e, in fondo, in quel momento io ero prigioniero, mentre l'emiro Ghazi aveva un potere che non potevo non riconoscergli. L'emiro mi lanciò uno sguardo di riprovazione. Ignorando cosa gli passasse per la mente, mi piegai con la fronte a terra come avevo visto fare ai suoi subalterni, poi, facendo uso del mio miglior greco, dissi: «Mi chiamo Duncan, di Caithness, e sono amico del principe Thoros d'Armenia». Lui mi fissò, ordinò qualcosa con tono imperioso e uno dei suoi dignitari si fece avanti. Pensai che fosse un armeno, perché nei tratti, nell'abbigliamento e negli atteggiamenti era molto simile alle persone che avevo conosciuto ad Anazarbus. Era di corporatura goffa, aveva la pelle olivastra, un grande naso a becco e le guance glabre come il grugno di un maiale e mi guardava con occhi privi di compassione: «Chi siete?» chiese in greco, con una vocetta stridula resa appena più profonda dalla diffidenza. Ripetei quel che avevo appena detto e aggiunsi: «Sono un pellegrino proveniente da un lontano paese dell'estremo Nord, e sono nobile. Ho l'onore di essere amico di Rupen, fratello del principe Thoros e figlio del defunto Leone, e di esserne stato il protettore. Stavo lasciando Anazarbus quando mi sono ritrovato per sbaglio nel mezzo del combattimento». Era evidente che non mi credeva e si mise a squadrarmi da capo a piedi come se stesse prendendo le misure per la mia bara. «Guardate come sono vestito: vi pare la divisa di un crociato?» Il suo cipiglio di incredulità divenne più profondo. «E poi, parlo il greco» aggiunsi. «Non troppo» osservò altezzoso e imperturbabile. «Ditemi il vostro nome» gli ingiunsi. L'armeno si irrigidì un poco davanti alla mia audacia, ma era evidente-
mente avvezzo a ricevere ordini e rispose: «Sono Katib Sahak di Tarawan, consigliere dell'emiro Ghazi». Lo ringraziai e continuai: «Ora vi chiedo, Katib...». «Sahak è sufficiente» mi interruppe. «Katib è una parola araba. Significa scriba.» «Vi chiedo, Sahak, se vi risulti che i franchi conoscano il greco.» A questo punto, l'armeno si mise a parlottare fitto fitto con l'emiro, il cui interesse sembrò risvegliarsi nel sentire ciò che Sahak riferiva sul mio conto. Dopo essermi raccomandato l'anima a Dio, asserii: «Non ho mai fatto parte dell'esercito di Boemondo e non ho partecipato alla battaglia. Ero ospite del principe Thoros e sono stato catturato per errore. Ero con altre tre persone quando mi hanno fatto prigioniero». E indicando l'atabeg, aggiunsi: «Chiedete a lui se non dico la verità. I miei compagni sono riusciti a fuggire. Io solo sono stato preso». Sahak tradusse la mia versione all'atabeg, che annuì; il che mi parve una tacita conferma al fatto che non stavo mentendo. «L'atabeg di Albistan attesta che le cose sono andate come sostenete» disse lo scriba. Poi l'emiro intervenne e Sahak aggiunse: «L'emiro vi chiede una prova». Guardando direttamente Ghazi, risposi: «Riferitegli che posso provare di essere stato ospite al palazzo del re». Quando le mie parole furono tradotte, aggiunsi: «Questo monile mi è stato donato dalla regina Elena per aver aiutato il principe Rupen a far ritorno a casa». Poi mi abbassai lo scollo dell'abito, lo rovesciai e mostrai il fermaglio che vi avevo appuntato il giorno in cui avevo lasciato Anazarbus. Gli occhi di Sahak si spalancarono per lo stupore. «Se guardate attentamente» insistetti, attirando l'attenzione dei presenti sull'intaglio del rubino «vedrete che reca l'emblema reale.» Mostrai la pietra prima all'uno e poi all'altro. Ghazi e l'atabeg si scambiarono qualche parola e l'emiro diede un ordine. «Datemi quel gioiello» tradusse l'interprete armeno. Rifiutai e dichiarai: «L'emiro ha promesso che i nobili potevano essere riscattati. Questo» tenni il fermaglio davanti ai loro occhi «sarà il mio riscatto. Come si dice riscatto?» chiesi. «In arabo, come si dice?» «Namus'lu keza» rispose Sahak. Picchiettando l'indice sulla spilla, ripetei. «Namus'lu keza» augurandomi che capissero cosa intendevo. L'emiro prese la sua decisione, pronunciò qualche parola in tono imperioso e mi porse la mano aperta.
«L'emiro Ghazi pretende che gli diate il gioiello.» Esitai. «Non avete scelta» mi informò Sahak. «Dovete consegnarglielo subito. Sarà mandato ad Anazarbus per informare la famiglia reale della vostra cattura.» Con riluttanza obbedii, mi tolsi il fermaglio e lo posai sul palmo teso dell'emiro rivolgendogli un ultimo appello: «Namus'lu keza». Ghazi serrò il pugno sul monile, girò sui tacchi e rientrò nella tenda. Le guardie mi afferrarono e fui portato di nuovo in riva al lago, dove ripresi il mio posto fra i prigionieri. Gerardo fu felice di vedermi far ritorno all'ovile, se così possiamo chiamarlo. «Pensavo di non incontrarti più» mi confidò. «Dicono che l'emiro abbia riunito la corte, e che presto verremo giudicati.» «È vero» risposi. Altri prigionieri ci attorniarono per ascoltare. «Credo che i suoi nobili vassalli gli stiano rinnovando il giuramento di fedeltà.» Proseguii descrivendo l'andirivieni di visitatori, uomini e donne, e i doni che avevano portato. Alla fine del resoconto Gerardo, che aveva immaginato che mi avessero condotto via per malmenarmi o torturarmi, chiese: «Cosa ti hanno fatto?». «Mi hanno lasciato ad aspettare tutto il giorno sotto il sole e poi mi hanno riportato qui.» «Hai visto l'emiro?» «Sì» risposi cupamente. «Speravo di riuscire a persuaderlo a liberarmi. Ma, evidentemente, non era dell'umore adatto.» «Non ti ha fatto uccidere» concluse Gerardo. «È già un successo.» Quella sera restai con gli altri e, incredibile a dirsi, il mattino dopo le guardie vennero a prendermi e mi ricondussero davanti alla tenda dell'emiro. Come il giorno precedente, rimasi fuori ad aspettare, mentre un numero sempre maggiore di persone entrava a rendere omaggio a Ghazi. Riflettei sul significato di tutta quell'animazione e giunsi alla conclusione che, con ogni probabilità, per i selgiuchidi la disfatta dell'esercito di Boemondo era un avvenimento più significativo di quanto avessi immaginato. Benché non conoscessi le forze in gioco per il dominio della Terra Santa, non mi era difficile immaginare che anche una sola, importante vittoria potesse produrre grandi sviluppi a vantaggio di chi l'aveva riportata. Certamente non sarebbe stata la prima né l'ultima volta che un abile condottiero usasse un successo militare per rafforzare il proprio potere personale. Era altrettanto facile supporre che il vuoto apertosi nelle difese di Antio-
chia avesse creato un'opportunità che un astuto stratega si sarebbe premurato di sfruttare. Certo non potevo leggere nella mente di Ghazi, ma tutto quel viavai nell'accampamento indicava che stava radunando i suoi sostenitori in vista di una spedizione importante. Rimasi immerso in tali ragionamenti sin dopo mezzogiorno, quando l'atabeg di Albistan, che capii essere uno dei principali consiglieri dell'emiro, uscì dalla tenda, mi si avvicinò, mi osservò con curiosità mentre mi alzavo, e fece un cenno alle guardie perché mi conducessero all'interno. Una tenda araba è un'invenzione meravigliosa: le popolazioni del deserto sanno rendere queste loro precarie abitazioni spaziose e comode come palazzi. Sovente l'interno è suddiviso in locali adibiti ai vari usi domestici come ricevere, mangiare, dormire e così via. La tenda dell'emiro era composta da una prima stanza più grande, dove intrattenere gli ospiti per poi ammetterli, se così si può dire, nell'appartamento privato. Fui introdotto in quel grande vestibolo, che conteneva gli innumerevoli doni portati come omaggio dai visitatori. Accatastati a terra c'erano moltissime spade e pugnali costellati di gemme; armi e parti di armature di ogni sorta, tra cui lance, scudi, elmi, archi e frecce; manufatti in cui eccellono gli artigiani arabi, come calici, scodelle, piatti e cofani di legno intagliati e intarsiati d'oro e di pietre preziose. Guardando nel mucchio, alcuni oggetti mi parvero familiari e mi accorsi che facevano parte del bottino sottratto ai crociati. Vidi lo stendardo dorato di Boemondo arrotolato sull'asta, uno splendido usbergo di piastre di metallo appoggiato su un baule, un paio di guanti con una testa di falco, una gorgiera d'argento e uno spadone franco. Ero intento a osservare, quando fui colto da un'ispirazione: "Qui in mezzo potrebbe esserci... sì, probabilmente la Croce Nera è stata portata qui!" pensai. Era una possibilità concreta. Il cuore cominciò ad accelerare i suoi battiti. Nessun infedele si sarebbe lasciato sfuggire un oggetto di valore. Fissai quel tesoro ammucchiato alla rinfusa e capii che la mia intuizione era fondata: lì, fra il bottino di guerra e i doni delle delegazioni in visita, era nascosta la reliquia più preziosa della cristianità. Dopo un po' vidi comparire lo scriba armeno che mi aveva fatto da interprete il giorno prima: «Sapete perché siete stato portato qui?» chiese Katib Sahak con voce astiosa e supponente. «Mi auguro che sia perché l'emiro ha accettato il gioiello come riscatto e ha deciso di lasciarmi andar via in pace.» «Solo lui può dirlo.» Dall'atteggiamento e dal tono, era evidente che Sa-
hak mi disprezzava profondamente. «L'emiro desidera porvi alcune domande. Vi esorto a essere sempre sincero. Ne va della vostra vita.» «State pur certo che dirò la verità.» Sbuffò, come a significare che considerava tale eventualità assai improbabile, e mi ordinò: «Seguitemi». Si avvicinò a un tramezzo interno, sollevò un lembo di stoffa e mi fece segno di entrare. La stanza era semplice e disadorna; non vi era alcun mobile, ma solo cuscini e molti ricchi tappeti stesi a terra che formavano un pavimento soffice e cedevole. Anche qui erano stati ammassati alcuni doni, ma in minor quantità e di maggior pregio. L'emiro stava seduto al centro della stanza, circondato da quattro selgiuchidi che, dalle vesti e dal portamento, dovevano essere dignitari d'alto rango. Uno di loro era l'atabeg di Albistan. L'emiro Ghazi aveva un'espressione truce e severa. I peli della barba gli si rizzavano sul volto schiacciato e rugoso ispidi come setole di maiale; si era tolto il turbante marrone, e aveva i lunghi capelli grigi raccolti in una coda che gli pendeva su una spalla. Mi si rivolse in arabo: «Dio è grande!». Sahak tradusse, e io risposi: «Amen!». Ghazi annuì e, con una mano, disegnò nell'aria uno svolazzo, allora l'armeno si inchinò ed esordì: «L'eccellentissimo emiro ha riflettuto sulla vostra richiesta e ne ha discusso con i suoi consiglieri. La sua opinione è che voi steste scappando dalla roccaforte armena, poiché, in caso contrario, non sareste stato catturato. Non è forse così?». «Sì, mio signore, è proprio così» risposi, fissando apertamente Ghazi. «Sua eccellenza l'emiro ritiene che un uomo possa avere molteplici ragioni per fuggire. Secondo la sua saggia opinione, le due motivazioni più comuni, e dunque più probabili, sono le seguenti: vi eravate fatto dei nemici tra i componenti della famiglia reale o avevate commesso qualche crimine nel palazzo. Verosimilmente il furto del prezioso fermaglio con cui avete cercato di comprare la vostra libertà, non è così?» «Riferite a sua eccellenza che non sono un ladro» replicai, cercando di mantenere la calma. «Non ho rubato assolutamente nulla, e nessuno mi è nemico nella famiglia reale.» Avrei potuto mostrarmi più indignato e ricordare la mia nobiltà, ma in simili frangenti non serve a nulla creare ulteriori ostacoli dandosi importanza. Come dice l'abate Emlyn, spesso i martiri sono condannati non per la loro fede, ma per la loro insopportabile superbia. Sahak tradusse le mie parole e poi la risposta dell'emiro: «Non fa alcuna
differenza» disse. «L'emiro Ghazi ha deciso che rimaniate prigioniero. Avete detto che i vostri amici sono fuggiti; se è vero, manderanno un riscatto e allora sarete liberato. Sarà la prova che non state mentendo e tutto si risolverà.» «E se non venisse nessuno a cercarmi?» Fare questa domanda mi ripugnava, ma dovevo sapere. «Sarete venduto al mercato degli schiavi di Damasco con i prigionieri che non hanno speranza di riscatto.» L'emiro non distolse gli occhi dal mio viso per vedere come accoglievo quella notizia. Giacché non mi misi né a implorare, né a protestare, Sahak chiese: «Avete compreso ciò che è stato detto?». «Perfettamente» ribattei. «E sono grato all'emiro per la sua grande magnanimità.» Gli occhi gli divennero due sottili fessure, mentre il malevolo scriba si domandava se mi stessi facendo beffe di lui. Quando parve certo che non c'era ironia nelle mie parole, le riferì a Ghazi, il quale rispose attraverso di lui: «Nella vostra condizione di prigioniero di guerra, non avreste diritto ad alcuna pietà. Tuttavia sta scritto: "Colui che vuole misericordia, usi misericordia". Perciò sarò misericordioso verso di voi, l'ultimo degli uomini». Attese che le sue parole mi venissero tradotte e proseguì: «Sostenete di essere nobile, e del resto ho notato che mantenete un contegno improntato alla dignità e alla cortesia, due virtù distintive della nobiltà. La pietà e la generosità sono altre due». Capii che Ghazi, al di là del disincantato pragmatismo, ci teneva a ritenersi una sorta di filosofo. «Perciò» continuò Sahak «grazie alla smisurata misericordia e generosità dell'eccellentissimo Ghazi, vi verranno concessi l'onore e il rango di un prigioniero nobile.» Quella conclusione, non lo nascondo, mi riempì di sgomento; tuttavia mi feci carico della delusione il più virilmente possibile. Tenni la testa alta e non pronunciai una parola, sforzandomi di conservare tutta la mia dignità e aggrappandomi al fatto che, se non altro, restando nell'accampamento, avrei avuto la Croce Nera a portata di mano. «Il riscatto dei nobili sarà pagato a Damasco» mi spiegò Sahak con soddisfatta malignità «e, semmai qualcuno si presenterà per pagare il vostro, l'emiro ha fissato un prezzo di diecimila dinar per il vostro rilascio.» «Vi prego di dire all'eccellentissimo e sommo emiro che tale e tanta generosa considerazione nei miei riguardi mi riempie di commozione.»
Sahak sogghignò: «Domani ci metteremo in viaggio per Damasco. Voi starete insieme agli altri prigionieri nobili al seguito della carovana dell'emiro. Affinché non offendiate l'illustre atabeg Buri, arrivando a mani vuote, il saggio e magnanimo Ghazi vi affida un dono adeguato al vostro rango». Quando il traduttore ebbe concluso, l'emiro batté le mani per chiamare un servitore. Quando arrivò Ghazi gli fece segno di avvicinarsi, gli sussurrò qualcosa all'orecchio e lo mandò via, poi mi rivolse un sorrisetto malizioso e io mi sentii invadere dall'ansia. Subito dopo il servo tornò recando un bauletto di legno, che posò a terra fra me e l'emiro. Si trattava di uno dei cofanetti riccamente ornati che avevo notato nell'anticamera, un oggetto prezioso, fatto di legno pregiato e intarsiato d'oro. Ritenni che il dono fosse quello. «Apritelo» mi ordinò Ghazi attraverso il suo compiaciuto portavoce. Mi inginocchiai, girai la piccola chiave, afferrai il coperchio con entrambe le mani e lo sollevai. Dentro c'era una testa umana; una breve occhiata ai lunghi capelli biondi e alla curata barba ripartita mi fu sufficiente per capire che si trattava del capo mozzato di Boemondo. Trentacinque Il povero principe, persa ogni baldanza, aveva un'espressione serena e i lineamenti distesi, il che testimonia l'abilità dell'imbalsamatore, perché, a dire il vero, benché il nostro incontro ad Antiochia fosse stato piuttosto breve, avevo avuto la sensazione che la pacatezza non fosse una caratteristica del suo carattere. Di certo non lo avevo mai visto così contento; era come se ora, morto, conclusa la sua personale guerra contro il mondo, fosse entrato in una pace che non aveva mai conosciuto da vivo. La sua pelle aveva una consistenza cerosa e risplendeva con una leggera lucentezza bronzea, dovuta alla resina usata per imbalsamare la testa, che non aveva nulla del pallore cadaverico. Avevo l'impressione che Boemondo si fosse addormentato nella quiete di un tramonto dorato, anche se si trattava di un sonno senza risveglio, e avrei pianto la sua morte come quella di un fratello di fede, se non fosse che lui stesso era stato causa del suo male. Aveva seminato vento e raccolto tempesta. Quelli che meritavano il mio cordoglio erano i soldati che erano stati costretti a seguirlo nelle stanze fredde e buie della morte.
I potenti selgiuchidi volevano che osservassi bene quel macabro trofeo per imprimermi nella mente quale destino toccava ai traditori. Oh, godevano molto della loro vittoria; e la testa del principe ne era il simbolo. Credo che, se avesse potuto scegliere, Ghazi avrebbe preferito il denaro del riscatto, poiché senza dubbio il principe avrebbe pagato un'immensa fortuna per la propria libertà. Ma non gli dispiaceva affatto aver annientato un nemico che avrebbe sempre rappresentato un pericolo e una maledizione. Mi consegnarono il bauletto e il katib armeno mi informò che avrei dovuto trasportarlo io. Era una sorta di punizione, immagino, per aver causato all'emiro il disturbo di doversi occupare di me, o forse, una vendetta dello scriba per la mia lieve impudenza del giorno prima. In ogni modo, mi occupai della testa di Boemondo per tutto il tragitto sino a Damasco. Una fatica improba, che mi fece maledire il giovane principe a ogni passo. Munito di un lungo pezzo di stoffa arrotolata che mi faceva da maniglia, mi caricai il forziere coperto di pietre preziose sulle spalle e seguii la carovana quando partimmo. Il baule era pesante e di lì a poco avvertii un dolore lacerante alle spalle e alle braccia. Ingegnandomi, scoprii che, annodando le due estremità del tessuto e sollevando il nodo sulla fronte, la pressione a cui venivano sottoposte le spalle diminuiva, perché il peso si distribuiva anche sulla testa. Era un accorgimento strano, e in quel modo ero costretto a stare chino in avanti come un vecchio, ma almeno riuscivo a percorrere lunghe distanze senza sfinirmi. Il primo giorno mi stupii del fatto che la carovana dell'emiro non facesse alcuno sforzo per tenere il passo delle truppe, ma, dopo un po', mi resi conto che stavamo seguendo un altro tragitto. La cosa mi preoccupò non poco, e sperai che, alla fine, avremmo raggiunto il resto dell'esercito, perché non mi piaceva essere separato dai miei compagni di prigionia. Quando la giornata volse al termine e ci accampammo, mi trovai accanto tre nobili prigionieri franchi, portati a Damasco per essere riscattati. Uno di loro era stato ferito gravemente, e soffriva ancora molto; gli altri due, che erano di rango inferiore, si esprimevano a fatica in latino e non conoscevano affatto il greco, così che mi riusciva difficile imbastire una conversazione. Inoltre, a causa del mio abbigliamento e delle difficoltà linguistiche, pensavano fossi un armeno degno solo di disprezzo e, qualunque cosa io dicessi, non riuscii a far loro cambiare idea. Essi non volevano aver niente a che fare con me, e così rimasi quasi sempre per conto mio. Sotto molti aspetti, per i servitori incaricati di occuparsi dell'accampamento dell'emiro viaggiare era più facile perché i bagagli venivano traspor-
tati dalle bestie da soma, ed essi dovevano solo guidarle. Inoltre le soste necessarie ad abbeverare e far riposare gli animali erano molto più frequenti di quelle concesse alla truppa che doveva marciare assai più speditamente. Così, quando i carovanieri bevevano e riposavano io e i miei compagni di prigionia facevamo lo stesso. In quei primi giorni, grazie a Dio, la marcia della carovana finiva a metà pomeriggio, altrimenti non credo che sarei sopravvissuto. Camminavamo finché il sole cocente non disegnava lunghe ombre alle nostre spalle. Allora non appena il sovrintendente del califfo trovava un luogo adatto, dava l'ordine di accamparsi. Io non prendevo parte a quell'incombenza: ogni servo aveva le sue mansioni specifiche e, poiché a me non veniva affidato nessun compito, con l'eccezione di andare saltuariamente a prendere l'acqua per i cavalli, quasi sempre potevo riposare, mentre gli altri erano indaffarati a piantare le tende, accendere il fuoco e preparare la cena. Ogni sera, mentre il cielo fiammeggiava degli ultimi bagliori del giorno, quando arrivavano l'emiro e il suo seguito l'accampamento era pronto. Di solito l'emiro consumava un pasto frugale e solitario, per poi ricevere i funzionari di corte, da soli o più spesso a gruppetti di due o tre. Quasi sempre io cercavo un posto riparato tra le rocce per dormire e stavo sdraiato ad ascoltare le voci dei selgiuchidi che risuonavano per l'accampamento immerso nell'oscurità. Chiacchieravano sino a notte fonda, e le discussioni venivano spesso interrotte da scoppi di risa sguaiate, che cessavano all'improvviso com'erano cominciate. Al mattino Ghazi usciva dalla sua tenda, impartiva gli ordini al sovrintendente, montava a cavallo e partiva, mentre noi levavamo le tende e ci rimettevamo in marcia fino alla sosta successiva. Dopo vari giorni di viaggio, la mia presenza cessò di incuriosire le vecchie guardie. Venivo trattato come una delle bestie da soma della carovana: nessuno si curava del mio benessere, ma non ero nemmeno vittima di brutalità o di maltrattamenti gratuiti. Dopotutto non si trattava di militari, ma di servitori, inesperti della custodia dei prigionieri e assolutamente ignari del fatto che era necessario tenermi legato. Probabilmente ritenevano improbabile una fuga perché, visto che tutt'intorno c'era solo il deserto, non avrei avuto nessun posto dove rifugiarmi. I successivi otto o dieci giorni furono così monotoni e privi di avvenimenti che ne persi il conto e mi limitai semplicemente ad andare avanti finché non avvistammo Damasco. Un arabo gridò qualcosa e gli altri co-
minciarono a parlottare tra loro tutti insieme animatamente. Sollevai la testa e vidi uno scintillio lontano, all'orizzonte. Era quasi sera, e il sole ormai basso faceva risplendere le alte mura di pietra bianca come candido avorio o lucido alabastro. Mi asciugai gli occhi dal sudore e guardai lo sfavillio della città con un fremito di eccitazione e di ansia. Ero finalmente in vista della meta fatidica a cui mi avvicinavo faticosamente da giorni, e non avevo idea di cosa mi attendeva. Anziché proseguire direttamente verso la città, il sovrintendente fece fermare la carovana a un pozzo lì vicino. Mentre i servi si affaccendavano a montare il campo, mi liberai del carico, mi sedetti sul bordo di mattoni di fango del pozzo e osservai i preparativi per l'arrivo dell'emiro. Notai che quella sera le varie incombenze venivano svolte con maggior cura, e pensai che forse Ghazi sì stava preparando a ricevere i dignitari della città. Inoltre, dopo che la tenda dell'emiro fu eretta sotto alcune alte palme da dattero, il tesoro, che di solito rimaneva imballato in groppa ai cavalli, fu scaricato e portato all'interno. Solo dopo aver terminato quest'incombenza i servi si affrettarono a preparare la cena e io ne approfittai per appisolarmi alla luce morente del sole. Fu il sovrintendente in persona a trovarmi addormentato con il prezioso bauletto fra i piedi, sicché fui svegliato da un violento calcio alle costole e, aperti gli occhi, vidi che mi incombeva sopra urlando in arabo. Balzai in piedi, prima che potesse colpirmi ancora. Lui afferrò lo scrigno, me lo gettò fra le braccia e, senza smettere di urlare, mi indicò la tenda dell'emiro: così finalmente capii che dovevo mettere il mio carico con il resto del tesoro. Obbedii, e poiché la tenda era aperta e dentro non c'era nessuno, dato che tutti erano troppo occupati altrove, mi ritrovai solo. Il tesoro era stato gettato in un mucchio disordinato. Frenai il mio impulso di posare il baule in cima alla catasta e di andarmene e, temendo che potesse scivolare e aprirsi lasciando cadere il suo macabro contenuto, decisi di trattenermi un momento e di trovare un punto sicuro in cui appoggiarlo. Spostai con cautela alcuni oggetti, fra cui una ciotola d'oro, una faretra da cerimonia con quattro frecce dorate, un calice di alabastro con il bordo e la base d'argento, un paio di babbucce di seta ricamate con perline. Accatastai tutto di lato e riuscii così a creare uno spazio abbastanza grande, ma, mentre mi chinavo per raccogliere il cofanetto, alcuni oggetti in cima al mucchio cominciarono a scivolare, e fui costretto a toglierne altri per impedire che mi crollassero addosso.
Un oggetto in particolare attirò la mia attenzione: scuro e pesante, sembrava un astuccio di legno cilindrico, solido e molto antico. Era più corto del mio avambraccio ed entrambe le estremità erano rivestite da spesse lamine d'oro tempestate di rubini, ciascuno dei quali era contornato da minuscole perle. Mi parve strano non riuscire a trovarvi né cerniere, né chiusura; ma anche un esame più attento mi confermò che l'oggetto non aveva nessun genere di apertura o di coperchio. Il legno presentava solchi profondi ed era consunto e levigato dal tocco di innumerevoli mani, ma era ancora compatto, pesante e duro come ferro. Mentre tenevo tra le mani quel pezzo di legno annerito dal tempo, ebbi una folgorazione e mi resi conto di aver trovato la reliquia più sacra e preziosa della storia del mondo cristiano: la Croce Nera. Il mio cuore accelerò i battiti e fui preso dall'irresistibile impulso di inginocchiarmi e stringermela al petto. Subito dopo, però, temendo di essere scoperto, mi girai e mi accostai all'ingresso della tenda per sbirciare fuori. I servitori si affaccendavano e andavano predisponendo i fuochi dei bivacchi e nei pressi della tenda non c'era nessuno. Tornai dentro, mi inginocchiai, presi la reliquia e la tenni per un attimo fra le braccia come si fa con un neonato. Così com'era accaduto a mio padre prima di me, avevo scoperto il tesoro che dava senso alla mia vita. Giaceva abbandonato in una tenda araba, considerato alla stregua di una spoglia di guerra e valutato unicamente per il valore dell'oro e delle gemme che ne ornavano la superficie. Me ne resi conto in un istante, ma quel pensiero mi abbandonò subito. Invece strinsi al petto la sacra reliquia e la venerai a occhi chiusi raccolto in preghiera. Può sembrare strano che la semplice vista di un pezzo di legno antico, senza nulla di particolare, potesse suscitare in me una tale emozione. Ma era quello il suo misterioso potere. Mentre stavo in ginocchio all'interno della tenda, nella luce del crepuscolo, sentii vicino a me una presenza viva. L'aria ferma sembrò all'improvviso fremere con una forza quasi soffocante: avevo i polmoni affaticati, come se respirassi nell'acqua e le mani tremanti. Posai la Croce davanti a me sull'impiantito coperto di tappeti per non lasciarla cadere e congiunsi le mani in preghiera per controllarne il tremito. «Mi affido al Signore» mormorai «ed Egli mi sostiene. Mi affido a Cristo ed Egli mi sostiene. Mi affido allo Spirito Santo ed Egli mi sostiene. Mi affido al Re dei Re, Signore del Cielo e della Terra ed Egli mi sostiene.»
Appoggiai le mani sulla Croce Nera e pregai: «Ascolta il tuo servo, Signore. Sono pronto a compiere la Tua volontà. Non permettere che questo sacro tesoro scompaia dal mondo a cagione dell'indifferenza e del disprezzo. Mio Signore e Salvatore, concedimi di sottrarlo agli esseri indegni che nel loro empio orgoglio e nella loro follia hanno profanato e svilito il Tuo incomparabile dono». Il pensiero che le mani impure dei miscredenti avessero potuto toccare la Santa Croce mi riempì di disgusto. Tolsi una stuoia dal pavimento e, con cura reverente, vi avvolsi la reliquia; poi legai l'involto con un cordone intrecciato che presi da un grande orcio che conteneva incenso profumato. Infine, con grande venerazione e cautela, deposi la Croce Nera tra gli altri oggetti del bottino, mi levai ih piedi e uscii furtivamente dalla tenda. Avevo trovato ciò che stavo cercando e non volevo dare ai miei carcerieri nessun motivo di sospettare di me, perciò me ne andai prima che qualcuno potesse scoprirmi e tornai a sedermi accanto al pozzo. Quella notte rimasi sveglio a fissare le stelle sopra di me, pensando alla Croce Nera e pregando di essere ritenuto degno di portarla in salvo. Mentre formulavo questa supplica, ebbi la stessa impressione provata nella tenda dell'emiro. Era la medesima sensazione che avevo avuto molto tempo prima, in un bosco del mio paese, quando mi ero sentito osservato mentre stavo bevendo a un ruscello. In quell'occasione, quando mi ero voltato lentamente, avevo scorto un grosso gatto selvatico acquattato a una dozzina di passi dietro di me. Agile, feroce, vigoroso, con i muscoli tesi, la magnifica creatura stava immobile, con la testa bassa e gli occhi accesi di crudeltà, studiando quella nuova e bizzarra preda. L'impressione che provavo ora era la stessa: qualcosa di immensamente forte, bello e astuto mi aveva inseguito furtivamente, si era avvicinato alle mie spalle e ora mi fissava con occhi fiammeggianti. Percorsi con lo sguardo l'accampamento silenzioso e terminai la rassegna con l'ombra della tenda dell'emiro scura contro il cielo stellato: non si avvertiva il minimo movimento, né il minimo rumore. All'improvviso camminavo verso la tenda. Le guardie erano addormentate e nessuno cercò di fermarmi. Mi ritrovai all'interno: una piccola lampada appesa al palo centrale di sostegno gettava una luce fioca sul cumulo di ricchezze con cui l'emiro aveva voluto impressionare gli ospiti. Ora lo sentivo respirare nella stanza vicina: certo stava dormendo sul suo giaciglio pieno di cuscini, separato da me solo da una cortina di stoffa.
Stranamente non avevo paura di essere scoperto, anche se sapevo che sarei stato subito giustiziato. Invece ero pervaso da una sensazione di estrema calma che mi spingeva a essere temerario. Spostai con cautela gli oggetti ammassati l'uno sull'altro per ritrovare la Croce Nera, ne tolsi uno, poi un altro, poi un altro ancora e infine... la Croce di Cristo era di nuovo sotto i miei occhi. «Signore, rivela la Tua gloria per mezzo del Tuo servo» sussurrai. Furono le prime parole che mi vennero alle labbra, ma, mentre le pronunciavo, la tenda cominciò miracolosamente a svanire. Era come se le pareri di pesante tessuto si fossero mutate in un materiale sottile e trasparente che mi permetteva di vedere, come attraverso un velo, tutto l'accampamento. Ma ciò che avevo di fronte non era più il campo arabo, bensì una strada piena di animazione che saliva alle mura di una grande città. Mentre cercavo di dare un senso a quell'immagine, udii un grido, guardai verso i bastioni e vidi un'enorme folla uscire dalle grandi porte. Con un urlo simile a quello dei segugi che hanno sentito l'odore del sangue, una massa umana scura e infuriata si precipitò fuori dalla città, rapida come le nubi di tempesta che si radunano nel cielo paglierino del deserto, con le estremità violacee che sembrano ribollire nell'atmosfera stagnante e, in lontananza, il cupo borbottio del tuono. Vi erano altre persone sulla strada, in attesa che la gente passasse e io le raggiunsi in fretta per capire cosa stesse succedendo. Quando la massa urlante raggiunse il punto in cui mi trovavo, mi accorsi che trascinava con sé un povero sventurato. Egli aveva le braccia legate a una trave di legno rozzamente sbozzato e, quando inciampava, la folla lo costringeva a rialzarsi con calci e pugni, e lo sospingeva avanti. Ben presto furono alla mia altezza, ma erano così impegnati nel compito che si erano assunti che non mi notarono. Mi sembrarono una congerie di canaglie. In gran parte si trattava di lerci accattoni, di fannulloni, di attaccabrighe e manigoldi da strada; ma, in mezzo a quella sudicia plebaglia, il luccichio di un anello d'oro, o di un monile d'argento, o la punta alta e affusolata di un elegante copricapo, mi facevano capire che fra loro c'erano anche persone importanti, oltre a un certo numero di soldati con l'armatura romana. Avanzando, il prigioniero inciampò e cadde. Quelli che si trovavano più vicini a lui lo rimisero in piedi con tale brutalità che egli emise un gemito di dolore. Non mi fu difficile capire la ragione: la schiena dello sventurato era un'unica, enorme piaga di carne viva. Dio misericordioso, le spalle e la
schiena erano state ridotte a brandelli dalla terribile frusta dalle punte di ferro dei romani. Il sangue gli scorreva a profusione lungo i fianchi, macchiandogli la veste strappata e gocciolando sulla strada polverosa a ogni passo. Cadde di nuovo, e la muta gli fu addosso in un attimo, continuando a prenderlo a calci e gridandogli di alzarsi. Allora due soldati si fecero largo fra la folla; uno allontanò la gente, l'altro afferrò un'estremità della trave e slegò le funi che la assicuravano alle braccia di quello sventurato. La folla lanciò un grido rabbioso, ma subito comparvero altri tre legionari che spinsero indietro la plebaglia con il manico delle lance. Uno dei soldati si voltò e afferrò un uomo, un robusto etiope dalla carnagione scura che stava andando in città e che, come me, era fermo sul ciglio della strada a guardare quell'orrenda processione. Troppo spaventato per resistere, il poveretto fu spinto nel vortice e costretto a collaborare. Libero dal peso schiacciante della trave, il prigioniero cercò di rialzarsi; sollevò il capo e guardò verso l'alto: i suoi occhi incontrarono i miei e mi sentii mancare il cuore, perché in quell'istante compresi che stavo guardando il volto tumefatto dell'amatissimo Figlio di Dio. Trentasei Il suo bel viso era pesto e sanguinante, la fronte alta e nobile era escoriata, il naso dritto e sottile era tumefatto. Portava una corona di rami di rovo intrecciati e le spine gli trafiggevano il capo. Il sangue che sgorgava dalle ferite, mescolato con la polvere e con il sudore, formava rivoli scuri che gli colavano lungo il volto. Gli occhi che mi fissavano, benché colmi di angoscia, conservavano traccia di un'acuta intelligenza e di un'ardente forza di volontà. Ci fu tra noi solo un unico, fugace sguardo, ma giuro che in quegli occhi stravolti dalla sofferenza c'erano tutto il dolore e lo sforzo della creazione. La folla, abbaiando come una muta di segugi impazziti, lo esortava ad andare avanti. I soldati lo afferrarono per un braccio e lo rimisero in piedi. Dovette riprendere il cammino, accompagnato dall'etiope che portava la pesante trave della croce. E l'orrendo corteo riprese a tallonarlo ondeggiando. Rimasi immobile, troppo stupefatto e atterrito per agire; poi, senza nemmeno rendermene conto, seguii la folla, in mezzo al gruppo di donne che si lamentavano a voce alta e di bambini eccitati e vocianti. Conti-
nuammo ad avanzare in direzione di un'altura tondeggiante, nei pressi delle mura della città. In cima alla collina, contro un ammasso roccioso, era stata eretta una sorta di impalcatura di legno; lì accanto un manipolo di legionari romani dall'aspetto annoiato sedeva in attesa. Mi feci largo tra la folla e, quando riuscii a raggiungere la prima fila, vidi Nostro Signore Gesù Cristo, in piedi, dignitoso, a testa alta, che tentava di rimanere diritto, mentre la folla gli si accalcava intorno fremente di eccitazione. I soldati non persero tempo: strapparono il braccio della croce dalle mani dell'etiope, lo trasportarono un po' più avanti e lo gettarono a terra. Poi, afferrato il condannato, lo spogliarono delle vesti, lo condussero sino alla trave, e lo fecero sdraiare supino. Il prigioniero si contorse per il dolore alla schiena martoriata, ma non emise un grido. Uno dei legionari, un omaccione corpulento e muscoloso, con un pesante grembiule di cuoio e le braccia nude e luccicanti di sudore, si alzò e si avvicinò senza esitare al condannato. Fece un cenno di comando con la testa e il braccio destro del prigioniero fu disteso sulla trave. Il carnefice lo tenne fermo con un ginocchio e appoggiò il pollice alla giuntura fra la mano e il polso. Cercò nella tasca del suo grembiule di cuoio, ne estrasse un grosso chiodo di ferro e ne appoggiò la punta al posto del proprio dito. Rapido ed efficiente, afferrò un mazzuolo corto e pesante, che teneva dietro di sé. Il suo gesto fu così veloce che non mi resi conto subito di cosa stesse accadendo. Vidi il braccio muscoloso del soldato sollevarsi con spietata determinazione e, quando si abbassò, udii un suono secco. Nello stesso istante, Cristo sollevò di scatto il capo, con gli occhi strabuzzati e la bocca contorta in un urlo silenzioso di dolore, mentre il ferro gli trapassava la carne, i tendini e le vene del polso. Mi sentii mancare il cuore, e cercai di distogliere lo sguardo, senza riuscirci. Continuai a guardare, congiungendo le mani e mormorando un'invocazione disperata. Uno zampillo di sangue rosso vivo sgorgò dalla ferita; e dalla folla si levò un boato di approvazione quando altri due colpi fecero penetrare crudelmente il chiodo nel legno. Quindi i soldati si alzarono, scavalcarono la vittima e ripeterono l'operazione sull'altro braccio: tre schianti rapidi e decisi rimbombarono come ferro sull'incudine, conficcando il chiodo fra le ossa del polso del condannato e il legno. Non si era ancora spento il rimbombo dell'ultimo colpo, quando i soldati
fecero passare alcune funi sotto la trave e legarono le braccia del suppliziato all'altezza del gomito. Poi afferrarono le corde, tre per ogni capo e trascinarono sulla collina la trave e il condannato. Il suolo era accidentato e pietroso, e il sangue che colava dalla povera schiena martoriata di Cristo lasciava una scia scura sul terreno arido. Giunti sulla cima, gettarono le corde sopra le assi più alte dell'impalcatura, ne afferrarono le estremità e, con l'aiuto di una ventina di zelanti energumeni che si trovavano tra la folla, le tirarono con forza. Le funi si tesero, e il corpo del suppliziato si staccò da terra con uno strattone. Su, sempre più su; volò verso il cielo, accompagnato dallo stridere delle corde sul legno grezzo finché il braccio della croce non raggiunse la sommità dell'impalcatura e non si fermò con un rumore sordo, lasciandolo là sospeso sulla folla, le braccia inchiodate alla grossa trave di legno, che si torceva per lo strazio di quella crudele ascesa. Il braccio della croce fu rapidamente fissato all'impalcatura e Cristo rimase là, con le mani contorte dal dolore e così deformate da sembrare artigli. Rimase appeso mentre il sangue gli colava lungo i fianchi, mescolandosi al sudore denso del supplizio. Il Figlio Unigenito di Dio fu appeso fra cielo e terra, e dovette sostenere tutto il peso del suo corpo straziato con le sole braccia. Intanto altri due sventurati, due ladroni colti con le mani nel sacco, furono crocifissi e legati accanto a lui, uno alla sua destra, uno alla sua sinistra. Quando ebbero finito anche con loro, i soldati presero una lunga trave ricavata da un unico tronco e la legarono stretta ai montanti dell'impalcatura, proprio sotto i piedi dei crocefissi. Poi il robusto carnefice procedette a inchiodarvi le caviglie delle vittime. I ladroni si misero a urlare e si agitavano per il dolore, mentre la folla applaudiva e li dileggiava. Incapace di sopportare oltre quel tormento, Gesù aprì la bocca e gridò: «Elì!». E la violenza dell'urlo gli fece gonfiare i tendini del collo. «Elì!» ripeté. Gli astanti si ritrassero, spaventati dalla potenza di quella voce, e si guardarono l'un l'altro, stupiti. «Chiama Elia» suggerì uno. «No!» intervenne un altro «Sta chiamando Dio perché venga a salvarlo!» «Ha salvato altri» commentò in tono di scherno uno scellerato. «Che salvi se stesso adesso!» «Sta zitto! Sta dicendo qualcosa!» gridò un uomo dalla prima fila. «Non riesco a sentirlo. Dategli qualcosa da bere e forse parlerà ancora.» Infilarono una spugna intrisa di vino sulla cima di un bastone e gliela
avvicinarono alla bocca, ma Gesù reclinò il capo e rimase in silenzio. In quel momento arrivò un gruppo di anziani giudei: erano pressappoco una decina, alcuni indossavano vesti da sacerdoti, altri ricche tuniche color porpora con catene d'oro al collo. Sollevando i lunghi mantelli per non farli impolverare, salirono lungo il fianco della collina e si fecero largo tra la folla. Presero posto davanti a tutti e, assumendo un'espressione compiaciuta, rimasero lì, fermi e soddisfatti, a fissare il moribondo. I romani, terminato il proprio compito, si dedicarono ad altri svaghi. Avevano portato del pane e del vino, e si sedettero un po' discosti a bere e a mangiare, in attesa che il supplizio giungesse alla sua fatidica e inevitabile conclusione. La folla continuava ad apostrofare crudelmente i tre sventurati, facendosene beffe e ridendo delle loro atroci sofferenze quando tentavano di fare forza sulle braccia per dare sollievo alle caviglie trafitte o per alleviare la straziante tensione alle braccia. Alcuni ragazzetti pensarono che sarebbe stato divertente tirare sassi contro i condannati e si misero a farlo con sfrontatezza crescente. Un giovane bruto, con un colpo fortunato, colpì in pieno viso uno dei due ladroni rompendogli uno zigomo e cavandogli un occhio. Il poveretto emise un gemito e scosse la testa, facendo ballonzolare il bulbo oculare sulla guancia fracassata, tra l'entusiastico divertimento della folla. Quel successo eccitò gli altri, che raddoppiarono i tiri, tanto che cominciai a credere che i crocifissi sarebbero morti lapidati. Ma una pietra lanciata incautamente andò a sbattere contro il legno e cadde in mezzo al gruppetto dei soldati che, dopo il pasto, si stavano giocando a dadi le vesti e i calzari dei prigionieri. Il sasso colpì la gamba di uno di loro, ed egli si alzò di scatto e si fece largo tra i ragazzotti con la spada sguainata, percuotendo con il piatto della lama un paio dei più baldanzosi. Quelli mugolarono come cuccioli feriti, e l'intero branco se la diede a gambe. Sulla cima tondeggiante dell'altura scese una strana calma, mentre anche la folla si zittiva. Il cielo si oscurò, passando dal giallo opprimente al grigio verdastro di una ferita purulenta. L'aria, già ferma, divenne stagnante. L'unico rumore che si sentiva era l'ansito sibilante degli agonizzanti che cercavano disperatamente di far arrivare aria ai polmoni: benché sembrassero allo stremo delle forze, l'ultimo filo di vita non li aveva ancora abbandonati. La folla cominciava ad annoiarsi e a diventare irrequieta. Ben presto iniziò a diradarsi, perché i meno esaltati, che ne avevano avuto abbastanza, si
allontanarono in silenzio lasciando solo i più infervorati a fissare bramosamente la scena. Allora giunse un centurione romano a cavallo; rimase fermo per un momento a guardarsi intorno e poi gridò un ordine ai soldati che se ne stavano sdraiati per terra. Non riuscii a sentire ciò che disse, perché ero sul fianco della collina e il centurione era rimasto sulla strada, ma due legionari balzarono in piedi e corsero a raccogliere gli attrezzi che avevano abbandonato da una parte. Uno prese la scala, l'altro un mazzuolo e una tavoletta. Il primo, appoggiata la scala all'impalcatura di legno, vi si arrampicò, mentre l'altro gli porse il necessario perché inchiodasse la tavoletta alla trave vicina al capo di Cristo. Per quanto riuscivo a vedere, su di essa non c'era nessuna iscrizione ma subito si rimediò alla dimenticanza: il centurione disse ancora qualcosa e il legionario rimasto a terra si chinò, raccolse un ramo, ne staccò un pezzo e lo porse al compagno che stava sulla scala. Quest'ultimo lo prese e, accostandolo al corpo del suppliziato, lo intinse nel sangue che colava. Poi scrisse a rozze lettere rossastre: JESUS NAZARENUS REX JUDEORUM. Appena vide l'iscrizione, la folla lanciò un urlo spaventoso. I sacerdoti e gli anziani che occupavano la prima fila con atteggiamento altezzoso cominciarono a lamentarsi e a strapparsi le vesti e la barba. Due di loro raggiunsero il centurione che, ancora in sella al cavallo, osservava quel trambusto con espressione compiaciuta. «Vi preghiamo di darci ascolto, signore!» gridò il più anziano. «Quell'uomo non è il re dei giudei!» «Non abbiamo altro re all'infuori di Cesare!» aggiunse l'altro. Alcuni di quelli che si trovavano sul fianco della collina trasformarono la risposta in una cantilena: «Non abbiamo altro re all'infuori di Cesare!» presero a gridare senza troppa convinzione. Un anziano vestito da sacerdote raggiunse i primi due: «Quella scritta è un'offesa al nostro popolo» ribadì. «Vi preghiamo di toglierla.» Il centurione, che si stava godendo il putiferio che aveva provocato con un semplice ordine, osservò i tre con palese divertimento e scosse lentamente la testa. «Signore» lo pregò il sacerdote «è un abominio che grida vendetta agli occhi di Dio. Vi supplico, togliete immediatamente quella targa.» Scuotendo di nuovo il capo, il centurione rispose: «Ciò che ho scritto, ho scritto».
«Se non è possibile levarla» suggerì un altro in tono conciliante «allora forse potrebbe essere corretta scrivendo che ha detto di essere il re dei giudei.» In quel momento una delle canaglie tra la folla si staccò dagli altri e, prima che qualcuno potesse fermarlo, corse verso la scala e vi si arrampicò cercando di afferrare la tavoletta e di strapparla via facendo quasi precipitare di sotto il legionario. Il centurione spronò il cavallo, si avvicinò al furfante, lo afferrò per una gamba e lo tirò giù dalla scala. L'uomo ruzzolò a terra, inviperito, mentre i sacerdoti e gli anziani si affollarono ai piedi della croce e urlavano ai soldati di togliere l'iscrizione e di ristabilire l'ordine. Ma il centurione romano, che cominciava a essere stanco dei loro ipocriti piagnistei, rifiutò di lasciarsi coinvolgere nella baruffa e ordinò semplicemente ai soldati di portare via l'uomo che aveva cercato di rimuovere la tavoletta. Mentre lo trascinavano via, si sentì in cielo un rombo cupo e spaventoso. Una violenta raffica di vento sollevò un mulinello di polvere su tutta la collina. Il centurione alzò lo sguardo al cielo e, mentre le prime gocce di pioggia cadevano sul terreno, decise che era giunto il momento di disperdere la folla prima che la situazione precipitasse. Rivolto ai suoi uomini, impartì l'ordine conclusivo: «Facciamola finita». Il soldato con il grembiule di cuoio afferrò di nuovo il mazzuolo, si appressò al crocefisso più vicino e, con tutta la forza del braccio gli assestò un colpo sulla gamba, tra il ginocchio e la caviglia. La tibia si fracassò con un orrendo scricchiolio, un suono tanto raccapricciante da far rabbrividire persino la plebaglia assetata di sangue. Lo sventurato lanciò un urlo di dolore e svenne. Il legionario gli spezzò anche l'altra gamba, e a quel punto il corpo dell'uomo, privo di sensi, scivolò violentemente verso il basso, disarticolandogli le braccia e piegandogli gli arti inferiori. L'uomo emise un gemito strozzato e, strangolandosi con la sua stessa lingua, spirò. Il carnefice passò al ladrone successivo, che era ancora abbastanza in sé per rendersi conto di ciò che stava per accadere e che cominciò a supplicarlo di venire risparmiato. Ma il soldato non si curò delle sue grida e gli spezzò le gambe con due colpi di mazzuolo. La seconda vittima non fu fortunata come la prima: anziché svenire, incominciò a urlare e a contorcersi per il dolore, tentando di sollevarsi sulle gambe fracassate per riuscire a respirare. Si dibatteva e annaspava pietosamente; i due spezzoni della tibia gli spuntavano dalla carne maciullata, e ogni movimento lo torturava, frantumando le estremità dell'osso spezzato in schegge taglienti.
Avvicinatosi alla terza vittima, il romano sollevò il mazzuolo, ma all'ultimo istante trattenne il colpo. Sollevò lo sguardo al volto del crocifisso e annunciò: «È già morto». I sacerdoti che stavano a guardare, udite le sue parole, si misero subito a protestare a gran voce: «Com'è possibile?» domandavano. «Non è ancora sera!» «Non è morto!» gridò qualcuno. «È solo svenuto.» Uno degli anziani, che indossava vesti purpuree e portava una pesante catena d'oro al collo, si fece avanti: «Centurione, questa gente ha ragione» disse in latino. «È solo svenuto. Fatelo riprendere e vedrete.» Ma il carnefice lo affrontò indignato: «Stai dandomi del bugiardo?». «Assolutamente no!» si affrettò a precisare il giudeo tendendo le braccia come per ripararsi da una percossa. «Ma questo nazareno è un mago. Forse sta usando i suoi poteri per farsi credere morto. Non lasciatevi ingannare e fate il vostro dovere.» «So benissimo qual è il mio dovere» gridò l'omaccione prendendolo di petto «e so anche riconoscere un morto, quando ne vedo uno.» E afferrato il mazzuolo, aggiunse: «Vuoi raggiungerlo nell'Ade... o nel posto dove va la tua gente?». L'anziano emise un gemito e si allontanò in tutta fretta. Il carnefice fece per inseguirlo tra la gente, ma il centurione lo richiamò indietro: «Longino! Lascia perdere! Gli proveremo che è morto» urlò, guardando il cielo che si era oscurato per il temporale imminente. «Così forse riusciremo a tornare in città prima di inzupparci tutti fino alle ossa.» Longino abbandonò immediatamente la caccia e tornò ai piedi della croce. Brandì una lancia, ne avvicinò la punta al petto di Cristo e lo trafisse con forza appena sotto il costato. Dalla ferita, come un chiaro zampillo di fontana, sgorgarono sangue e acqua. La vittima rimase muta e inerte, e compresi che stavo guardando un cadavere. In quell'istante si udì il rombo di un tuono e una furiosa tempesta si riversò sulla terra facendola tremare. Intorno a noi turbinava un vento impetuoso, che gemeva come un animale ferito e sollevava in aria enormi nuvole di polvere e terriccio. Poiché con la morte dei condannati lo spettacolo era finito, gli astanti, tirandosi i mantelli sul capo per ripararsi dalla pioggia, sì affrettarono a far ritorno in città. I romani raccolsero in fretta le loro armi e gli attrezzi per incamminarsi con gli altri, lasciando solo due soldati di guardia. La pioggia cadeva a scrosci, colpendo il terreno con violenza. Mi guar-
dai intorno, aspettandomi di essere rimasto solo sulla collina, ma ebbi la sorpresa di scorgere un miserevole gruppetto di persone, in maggioranza donne, un po' in disparte. Piangevano, stringendosi l'una all'altra, senza far caso al temporale. Il vento ululava. Il cielo era percorso da lampi, e il rombo assordante del tuono scuoteva la terra come se volesse abbattere le mura di Gerusalemme. La pioggia cadeva impetuosa, quasi che il cielo plumbeo si fosse lacerato e stesse versando tutte le sue acque. L'arido fianco del monte si trasformò ben presto in una palude. Nonostante la violenza della tempesta, mi fermai per vedere cosa sarebbe accaduto e, di lì a non molto, il temporale, cominciato all'improvviso, altrettanto rapidamente cessò. Smise di tuonare e il vento si calmò. L'aria, rinfrescata dalla pioggia, odorava soavemente di spezie e di fiori del deserto. I corpi dei condannati, lavati dalla pioggia, erano appesi alle croci, puliti dal sangue e pronti per la sepoltura. Al di sopra del pianto delle donne, udii un richiamo dalla strada sottostante e, quando mi voltai, vidi un giovane dalla barba scura, coperto da un bel mantello giallo, che si affrettava a risalire la collina dando una voce al gruppetto in cordoglio. Lo seguiva a breve distanza un uomo con un asino e un carretto. Ignoravo se avessero assistito all'esecuzione, ma il giovane raggiunse in fretta la cima, si unì alle donne, discusse brevemente, e poi si accostò alla croce centrale. I due soldati, che si erano messi al riparo tra le rocce, si fecero avanti domandandogli cosa volesse, e lui parlando latino rispose di essere lì per prendere la salma di Gesù. «Si sta facendo tardi» spiegò. «Al tramonto comincerà il sabato. Dobbiamo rimuovere il corpo prima che cali il sole, perché è contro la nostra legge seppellire un uomo di sabato. Ma è anche un abominio non dare sepoltura ai morti.» Il soldato aggrottò la fronte: «Non ci hanno dato istruzioni in merito. Dovete avere il permesso del governatore». «Vi prego» insistette l'uomo «non c'è molto tempo.» E indicando l'involto che aveva sotto il braccio, aggiunse: «Ho portato il sudario e sarò lieto di assumermi l'onere della sepoltura». Si infilò una mano sotto la cintura e ne estrasse varie monete d'argento che porse ai soldati. «Per il vostro disturbo. Avrò bisogno di aiuto per deporlo dalla croce.» Uno dei due soldati guardò il denaro e diede di gomito al commilitone: «D'accordo» assentì. «Per quel che mi riguarda, potete prenderveli tutti e
tre.» Il nuovo arrivato gridò qualcosa ai compagni in attesa che, ancora stretti l'uno all'altro, piangevano sommessamente, e subito due uomini lo raggiunsero. I romani sollevarono la scala e uno vi salì con la spada sguainata, pronto a recidere le mani del morto. «No! No, vi prego!» gridò il giovane. «Non dovete mutilare il corpo.» Il legionario sogghignò: «Credevo avessi fretta, amico» e, sollevando la spada, aggiunse: «Un taglio netto. È la cosa migliore». «Non sentirà niente» commentò zelante l'altro soldato. «È morto stecchito.» Il giovane, indicando il gruppetto di donne che si era raccolto ai piedi della croce, insistette: «Vi prego, per pietà di sua madre, cerchiamo di non infierire su quei poveri resti martoriati!». Il soldato si strinse nelle spalle e tagliò la corda che teneva legato il braccio della croce all'impalcatura. Il corpo scivolò di fianco. Poi il romano scavalcò il cadavere, tagliò anche la seconda fune e il corpo, ancora inchiodato alla trave, cadde in avanti. Quelli che stavano sotto la croce sostennero tra le loro braccia il Santo Corpo di Cristo, mentre il secondo legionario, servendosi di un paio di grosse tenaglie di ferro, tranciava la testa dei chiodi che trafiggevano le caviglie del morto. Fu un'operazione difficoltosa, e il giovane non smise un attimo di raccomandare ai soldati di usare la massima cautela. A un certo punto fu necessario che parenti e compagni del morto ne sorreggessero il cadavere in modo che le caviglie non si spezzassero. Alla fine il legionario riuscì a estrarre i chiodi, e il corpo di Nostro Signore fu adagiato delicatamente sulla terra umida. Era giunto il momento di liberare i polsi. Servendosi delle grandi tenaglie, il soldato tranciò la testa dei chiodi, mentre il giovane continuava a esortarlo a fare presto, perché la sera incombeva. Il legionario si arrabbiò: «Volete che faccia in fretta o volete un lavoro pulito?» chiese. «O l'uno, o l'altro.» «Giuseppe» intervenne dolcemente una delle donne. Era più giovane delle altre, e aveva lunghi capelli neri che le uscivano da sotto il cappuccio del mantello. «Non far innervosire questo brav'uomo. Sta solo cercando di aiutarci.» La sua voce era un balsamo sull'orrore di quella giornata dolorosa e crudele. «Miriam, dobbiamo...» cominciò a obiettare il giovane, ma lei lo fece tacere con un sorriso di tale struggente tristezza che mi si strinse il cuore.
«Ti prego, Giuseppe. Andrà tutto bene. Non c'è più alcuna fretta.» «Va bene» rispose lui in tono più calmo e, rivolto al legionario, aggiunse: «C'è tempo». Il soldato, lanciando alla donna uno sguardo che esprimeva ben più che gratitudine, riprese la sua opera, riuscì a estrarre i chiodi e se andò. Le donne, allora, distesero con cura per terra il sudario di lino e vi adagiarono il corpo del Figlio di Dio. Gli uomini rimasero a guardare, mentre esse componevano amorevolmente quelle povere membra martoriate e lisciavano i bei capelli scomposti, intonando i salmi dei defunti. Poi chiusero il sudario, e avvolsero strettamente larghe bende fermandolo al collo, al torace e ai piedi. Dopo aver ringraziato i legionari, gli uomini sollevarono la salma e la trasportarono giù dalla collina, sino al carretto che stava in attesa sulla strada; vi caricarono le spoglie del nostro Salvatore e cominciarono lentamente a percorrere il lungo tragitto verso la città. I soldati si spartirono il denaro e, dopo un ultimo sguardo ai cadaveri dei due ladroni, si misero le lance in spalla e se ne andarono. «Chi pensi che fosse?» domandò uno mentre scendevano dalla collina. «Che importanza ha?» rispose l'altro. «Uno vale l'altro. Sono tutti uguali questi giudei: zeloti, pazzi e assassini.» Mi ritrovai solo sul fianco della collina a fissare il braccio della croce che era stato abbandonato sul terreno, i chiodi senza testa che avevano trafitto le carni del Nostro Redentore e la macchia del suo sangue che era rimasta sul legno grezzo della trave. Mi inginocchiai, toccai con reverenza la croce e ne avvertii contro il palmo la durezza e la scabrosità. Udii delle voci dietro di me e, pensando che i legionari fossero tornati, mi girai di scatto e mi vidi dormire accanto a un pozzo. Improvvisamente mi ritrovai nell'accampamento dell'emiro Ghazi. La luna era bassa all'orizzonte, le stelle stavano scomparendo alle prime, deboli luci dell'alba e io ero di nuovo al mio posto. Mi alzai. L'accampamento era immerso nel silenzio. Ero entrato davvero nella tenda dell'emiro? O mi ero addormentato e avevo soltanto sognato? Non aveva importanza. Ero certo di aver avuto una visione di rara e singolare potenza. Le mani e il viso mi formicolavano e il terreno sotto i miei piedi sembrava fatto d'acqua. Cominciai a tremare, non per la paura, ma per un'estasi irrefrenabile. Avevo voglia di correre, di saltare, di gridare al cielo stellato la mia preghiera di ringraziamento per il Dio misericordioso che mi aveva concesso
quella visione. Dovetti trattenermi dal mettermi a ridere forte, con il rischio di svegliare tutto l'accampamento, e rimasi sdraiato accanto al pozzo, in estasi, mentre la gioia mi scorreva nelle vene come fuoco liquido, e una sensazione di completo appagamento mi sgorgava dentro, zampillando come una sorgente, non d'acqua, ma di vino dolce e inebriante. Mentre l'alba gloriosa si accendeva, mi inginocchiai, volsi il viso verso il sole e, spalancando le braccia, giurai solennemente che avrei fatto tutto il possibile per comportarmi con la stessa umiltà, la stessa forza e lo stesso coraggio di cui ero stato testimone durante la morte di Gesù, per essere degno del suo sacrificio. LIBRO III
17 novembre 1901. Pafos, Cipro Il professor Manos Rossides viveva al piano terra di una villetta. Il piano superiore era occupato da un maestro di musica e, mentre me ne stavo davanti all'austero portoncino scuro sul pianerottolo semibuio in attesa che il mio futuro insegnante mi aprisse, avevo sentito giungere dalle scale le note di un duetto per violino e violoncello. Suonai di nuovo, rimasi ad aspettare ancora un po' e, quando già stavo per arrendermi e far ritorno a casa, udii un rumore di passi strascicati. Subito dopo una chiave fece scattare la serratura, la porta si aprì e vidi un ometto dalla pelle scura, con grosse sopracciglia arruffate e una zazzera di capelli scuri, folti e disordinati che andavano in ogni direzione. Quella chioma bizzarra mi fece venire in mente un mare in tempesta, così che mi affrettai a distogliere lo sguardo: «Professor Rossides? Sono Gordon Murray. Credo che mi steste aspettando». Sentendo il mio nome, l'ometto abbandonò la sua aria mezzo addormentata e riprese vivacità: «Ma certo, signore! Come siete puntuale!» esclamò. Mentre sorrideva gli occhi scuri gli si illuminarono e i lineamenti quasi infantili diventarono attraenti. «Prego, accomodatevi, Signor Murray.» Mi
tolse il cappotto e mi indicò una sedia accanto a un tavolo dalle gambe affusolate, coperto da pile di libri e scartoffie, su cui pendeva una lampada di ottone e vetro verde che, con la sua luce, dava loro l'aspetto di un paesaggio collinare sotto il sole estivo. «Il tempo è denaro» asserì il mio ospite. «Inizieremo subito.» E immediatamente cominciò a recitare l'alfabeto greco, passeggiando dietro di me per la stanza e picchiando con il pugno sul palmo della mano per sottolineare ogni lettera. Dopo averlo snocciolato altre due volte, lo fece ripetere a me. Lavorammo senza interruzione per un'ora e mezza e, proprio quando cominciavo a pronunciare correttamente quei suoni, la lezione finì. «Eccellente! Davvero eccellente!» gridò esultante, squadrandomi quasi fossi un toro da competizione. «Avete un talento naturale, signor Murray. Voi e io insieme faremo l'impossibile.» «Mi accontenterei del possibile» ribattei. Rise, scuotendo la testa: «Mio Dio, no. Non è abbastanza. Siete troppo bravo e intelligente per accontentarvi del secondo posto. No, amico mio, quando avremo finito potrete sedervi alla taverna di Afrodite, nel porto di Rodi, e parlare d'amore con le cameriere». «Oh!» esclamai, alzandomi per recuperare il cappotto. «Tutto qui? Speravo di potermi dedicare alla lettura del Simposio di Platone.» «Suvvia» mi redarguì il professore «ho detto che avremmo fatto l'impossibile, non un miracolo!» Così cominciò il mio breve, ma intenso, apprendistato con la lingua greca. Quella sera il maestro mi congedò consegnandomi due libri, uno in greco e l'altro in latino, che dovevo leggere per la lezione della settimana successiva. Non so come riuscisse a concentrare tante nozioni in un numero di lezioni così piccolo ma, con il passare delle settimane, la mia padronanza della lingua faceva passi da gigante: le irritanti difficoltà e le banali carenze che mi avevano tormentato ai tempi dell'università scomparvero davanti all'ardore intellettuale del mio insegnante. L'estate giunse e se ne andò, lasciando il posto all'autunno, e io cominciai a riflettere su ciò che avrei dovuto fare alla fine di settembre. I miei interrogativi si risolsero durante l'ultima visita allo studio del professor Rossides. Appresi che quella sarebbe stata l'ultima lezione solo quando il mio tenace mentore allungò la mano attraverso il tavolo per chiudere il libro che stavo leggendo: «Perfetto» dichiarò. «Il nostro lavoro insieme è concluso.» «Com'è possibile? Mi sembra di avere appena cominciato.»
«Oh, certo. E mi congratulo con voi per questo fausto inizio. Ma il mio compito consisteva nell'insegnarvi a parlare e a scrivere in modo comprensibile e voi siete andato anche oltre. Lo riferirò ai vostri colleghi. Complimenti, signor Murray.» Mi congedai e ne me andai, un po' immalinconito alla prospettiva di non poter più godere di lezioni tanto stimolanti. Ma quella sensazione durò soltanto sino a metà della settimana seguente, quando ricevetti di nuovo una visita di Pemberton e Zaccaria. Si presentarono poco prima della chiusura dell'ufficio e dichiararono che avevo svolto il compito assegnatomi in modo soddisfacente sotto ogni aspetto. «Eravamo certi che vi sareste appassionato ai vostri studi» mi confidò Zaccaria. «Devo dire che è stata un'esperienza molto gratificante. Mi è piaciuta moltissimo.» «In ogni modo» intervenne Pemberton, estraendo una lunga busta bianca dalla tasca interna della giacca «credo che mettere a frutto le vostre nuove conoscenze vi piacerà ancora di più.» Mi porse la busta e mi fece cenno di aprirla. Dentro c'erano due biglietti, uno per mia moglie e uno per me, per il piroscafo diretto a Pafos, sull'isola di Cipro. «Come vedete, la nave salpa fra due settimane» affermò. «Penso che ci sia tempo sufficiente perché sistemiate le vostre faccende.» «Sei settimane a Cipro» osservai, leggendo la data del biglietto di ritorno. «Sì, penso che Caitlin e io ci troveremo benissimo, grazie.» «Non credo che sorgeranno difficoltà qui in ufficio, mentre sarete via.» Dal tono in cui lo disse non capii se si trattava di una domanda, o dell'enunciazione di un dato di fatto. «Assolutamente no» risposi. «Anzi, solitamente in questo periodo dell'anno tutto è molto tranquillo. Posso chiedere a uno dei miei assistenti di tenere le cose sotto controllo, mentre sarò assente.» «Magnifico.» Dunque era tutto organizzato. Non mi restava che fare i bagagli, attività che riempì ogni attimo disponibile, e arrivare in orario alla partenza del piroscafo insieme alla mia adorata Caitlin, che continuò a riempire bauli e valigie sino all'ultimo minuto. Fu solo nel momento in cui la nave si allontanò dalla banchina, per iniziare la traversata verso Cipro, che mi resi conto che nessuno mi aveva spiegato cosa avrei dovuto fare una volta giunto a destinazione. Quando sbarcammo nel porto di Pafos trovammo ad attenderci un nuovo
enigma, che prese le forme del signor Melos, ritto sul molo con un bell'abito blu e un cartello con il mio nome. Aveva i capelli neri impomatati e pettinati all'indietro e le guance coperte da una barba di tre giorni. Quando ci vide, sorrise e ci salutò con ampi gesti, poi si precipitò a stringerci la mano. «Chi è costui?» chiese Caitlin, colpita dal suo desiderio di compiacerci. «Non mi avevi detto che avremmo avuto una guida, tesoro.» «È tutta un'avventura, dall'inizio alla fine» risposi. Il nostro accompagnatore si presentò, e mi fu improvvisamente chiaro perché avessi penato e sudato tanto per imparare il greco: il signor Melos non capiva una parola d'inglese. Comunque, mi garantì subito di essere una guida esperta e affidabile. Era un archeologo e aveva passato moltissimo tempo a eseguire scavi sull'isola: non c'era niente di Cipro e della sua storia che non conoscesse. Dirigeva anche un piccolo museo privato, attiguo a una pensione, e aveva riempito entrambi dei ricordi dei suoi numerosi scavi. «Gli esemplari più belli vengono inviati ai musei di tutto il mondo» mi informò quando ne visitammo le sale. «Per me tengo solo i pezzi di minor pregio e i doppioni.» Trascorremmo i primi giorni affidati alle sue cure, unici ospiti della pensione. Caitlin si innamorò subito dell'isola: disse che finalmente l'avevo portata in un bel posto e aggiunse che non se ne sarebbe più andata. Il primo giorno facemmo un pasto leggero e restammo in camera ad attendere il bagaglio, che arrivò solo verso sera su un carretto trainato da un asino. Eravamo subito sprofondati in quello che Caitlin definì "ritmo cipriota", in cui ogni cosa accadeva o non accadeva in base ai capricci e alla disponibilità degli abitanti dell'isola. Continuavo a ignorare lo scopo del mio viaggio e cominciavo a pensare che forse avrei dovuto chiedere chiarimenti, quando un giorno, mentre stavamo facendo colazione, comparve il signor Melos. Mi consegnò una lettera che sospettai fosse arrivata già da qualche tempo: era di Zaccaria e spiegava la ragione della mia visita in quel luogo. Appena ci fossimo ripresi dal viaggio, dovevamo recarci a visitare un monastero sulle montagne. «Vi accompagnerò io» si offrì Melos quando gli chiesi dove fosse. «Lo conosco perfettamente. Lasciate fare a me: è tutto organizzato.» Più tardi, raccolte le nostre cose, raggiungemmo in carrozza il villaggio di Panayie, alle pendici dei monti Troodos, dove era stata presa in affitto per noi una villetta. Arrivammo al tramonto, Melos ci fece strada all'interno dell'abitazione e ci presentò sua sorella Elena, una donna bassa e gras-
sottella piuttosto avanti negli anni, che ciarlava come un merlo indiano anche quando non aveva ascoltatori, e che ci avrebbe fatto da governante. Quella sera ci fece trovare la cena pronta, ci spiegò dove cercare ciò di cui avremmo avuto bisogno e ci lasciò a mangiare e riposare in pace. Trascorremmo una magnifica prima notte nella nostra nuova dimora, cenando a lume di candela con le finestre spalancate sul giardino dove le rose tardive erano ancora in fiore. Il mattino seguente la nostra preziosissima guida ci venne a prendere e ci accompagnò al monastero. «Aghios Moni è un luogo antichissimo» ci spiegò. «I monaci hanno una biblioteca dove è conservato un gran numero di inestimabili manoscritti.» Naturalmente dovevo consultare proprio quei manoscritti o, meglio, uno di essi. Appena giunti, fummo presentati all'abate che ci fece visitare il monastero piccolo e curato, che ospitava una trentina di monaci. Alla fine del giro, l'abate mi disse: «Immagino vogliate cominciare». «A dire la verità» risposi, ringraziando in cuor mio Rossides per la mia padronanza della lingua «non aspetto altro. Purtroppo non so con precisione perché sono qui.» L'abate Naxos rispose ridendo: «Siete qui per studiare il manoscritto di Caithness». «Caithness» osservò Caitlin quando le ebbi tradotto le parole dell'abate. «Intendi Caithness in Scozia?» «Non ne ho la minima idea.» L'abate ci condusse nella biblioteca dove alcuni monaci erano intenti a lavorare, chini e silenziosi su antichi fogli di pergamena e di pelle. Comunicò qualcosa al confratello a cui era affidata la collezione dei manoscritti e il monaco con la tonaca nera scomparve tra gli scaffali, tornando qualche attimo dopo con un pesante volume avvolto in teli di lino grezzo. «Guardate» ci disse Naxos «ecco uno dei pezzi più preziosi del nostro ordine.» Indicò al confratello di appoggiare il suo carico su un tavolino sotto la finestra e di aprirlo lì. «L'inchiostro è un po' scolorito, ed è rimasta qualche macchia d'acqua, conseguenza di una terribile tempesta che, nel XV secolo, danneggiò il tetto del monastero. Ma, se si tiene conto del fatto che il manoscritto risale al 1132, possiamo affermare che è in condizioni eccellenti.» Tradussi le parole dell'ecclesiastico a Caitlin, che rimase stupefatta nell'apprendere l'antichità del volume. L'abate accarezzò amorevolmente la sovraccoperta di pergamena, e sfio-
rò il cordoncino di seta che la teneva legata. «Questa sarà l'ultima volta che il manoscritto viene esaminato nel luogo dove fu scritto. Ritengo che sia molto bello che siate voi a leggerlo.» Mi rivolse uno sguardo d'intesa, ma il significato delle sue parole mi era del tutto oscuro: «Non capisco» risposi. «La prossima settimana verrà trasferito ad Atene in una stanza blindata del ministero delle Antichità» mi spiegò cortesemente e, prima che riuscissi a obiettare che la ragione della mia perplessità era un'altra, aggiunse: «I nostri superiori a Khyrsorroiyatissa ritengono che il nostro ordine non possa più proteggerlo adeguatamente». «Sciocchezze!» intervenne Melos indispettito. «Lo avremo con noi ancora per poco» Naxos sorrise mestamente, e scostò una sedia dal tavolo. «Sedete, vi prego. Sarà per noi un onore ospitarvi per tutto il tempo che desiderate.» Mi resi nuovamente conto che mi stava accordando un privilegio straordinario, ma continuavo a non capire cosa si volesse da me. Riferii a Caitlin le sue parole e le chiesi se le sarebbe spiaciuto molto fare a meno della mia compagnia per qualche tempo. «Stai tranquillo» rispose «e non essere sciocco. Non mi dispiace affatto. Saprò badare a me stessa per qualche giorno.» Così, con la benedizione congiunta dell'abate e di mia moglie, mi accomodai sulla sedia che avrei occupato a lungo. Quando rimasi solo, slegai il cordoncino di seta e aprii la sovraccoperta vecchia e rovinata. La scrittura era chiara e ordinata. Il nitido inchiostro nero usato originariamente era diventato di un pallido color seppia, ma il tratto era ancora ben distinguibile. Lessi le prime parole e seppi perché mi era stato affidato quel compito. Il cuore prese a battermi così rapidamente che pensai sarebbe stato meglio abbandonare l'impresa prima ancora di cominciare: davanti a me, sul tavolo, c'era uno scritto di Duncan, figlio di Murdo, che raccontava il proprio pellegrinaggio in Terra Santa. Trentasette L'arrivo a Damasco dell'emiro Ghazi fu salutato come il trionfo di un eroico conquistatore. Egli riunì il proprio esercito sull'ampia spianata antistante le mura e poi guidò le truppe vittoriose e gli sventurati prigionieri all'interno della città. Non si risparmiò alcun espediente per rendere il suo ingresso il più spettacolare possibile: una compagnia di suonatori di tam-
buro, il cui cupo rimbombo era simile al tuono, precedeva lui e la sua guardia personale; i bimbi correvano accanto al suo cavallo bianco, sparpagliandosi qua e là come petali di fiori; i trombettieri davano fiato ai loro strumenti perché la folla gli facesse ala e ammirasse quello spettacolo. Marciammo lungo le strade sino alla rocca dove l'atabeg Buri, i dignitari e i notabili della città accolsero il grandioso corteo nel cortile del Padiglione delle rose. L'emiro esibì con grande pompa i suoi preziosi prigionieri, che vennero fatti sfilare a uno a uno davanti ai nobili arabi, seduti su sgabelli muniti di cuscini, altri addirittura su troni, e costretti a inchinarsi servilmente in segno di sottomissione. Io, che portavo la testa di Boemondo, dovetti mostrare loro quel dono raccapricciante. Fui chiamato dalla prima fila di prigionieri e obbligato a passare davanti ai selgiuchidi e ai saraceni tronfi per la fastosità dei festeggiamenti, che godevano della sconfitta dell'odiato nemico. Due soldati mi condussero fino alla breve scalinata che portava al padiglione olezzante di fiori e, su indicazione di Ghazi, mi fu ordinato di aprire il forziere. I nobili arabi si abbandonarono a risa di scherno quando videro Boemondo, il potente nemico del loro popolo, umiliato nella morte. Uno, però, che portava ricche vesti scintillanti del colore verde-azzurro delle piume di pavone e un enorme turbante blu, osservò lo scempio compiuto sul principe cristiano con un'espressione assorta e meditabonda. Quando l'ilarità di chi lo circondava raggiunse il culmine, fece segno all'atabeg Buri di avvicinarsi e gli parlò a quattr'occhi per qualche momento. Nel frattempo, io continuavo a mostrare lo scrigno agli alti dignitari, detestando quella spregevole esibizione e il ruolo che vi giocavo. Poi, Buri invitò Ghazi a unirsi al suo compagno. L'emiro si fece avanti, fu presentato allo sconosciuto con il turbante blu, e subito cadde in ginocchio, prese la mano che l'altro gli tendeva e se la portò alla fronte. Il nobile arabo accolse il deferente omaggio con fredda compostezza e poi, con mia grande sorpresa, mi indicò con un dito. Ghazi balzò in piedi e, con un affettato svolazzo del braccio, mi fece segno di avvicinarmi. Scortato dalle guardie, fui condotto sui gradini del padiglione e costretto a inginocchiarmi tenendo fra le mani il forziere, mentre l'emiro, tutto impettito, esibiva all'elegante sconosciuto la testa di Boemondo. Non capisco come qualcuno potesse desiderare quell'orrendo trofeo, ma quella richiesta riempì il vecchio Ghazi di compiacimento. Con il viso ispido e grinzoso illuminato da un sorriso di esaltazione, preso da un attac-
co di prodigalità, offrì a quel nobile, evidentemente di rango a lui superiore, l'intero bottino: l'oro, l'argento, le selle, le armi, le armature, i cavalli e tutto ciò che aveva accumulato, inclusi i prigionieri, e me. Avevo già intuito cosa stava accadendo, ma soltanto in seguito venni a sapere chi era l'autorevole personaggio che sarebbe divenuto il mio padrone. Fu Sahak, lo scriba e consigliere armeno, a informarmene, gongolando di soddisfazione: «Ora siete proprietà del califfo di Baghdad» mi annunciò, incapace di reprimere un sogghigno malvagio al mio indirizzo, per quella che pensava sarebbe stata una brutta notizia. «Non è possibile!» gridai. La mia reazione lo riempì di gioia e le guance glabre gli tremolarono per il piacere. In realtà non ero affatto scontento. Come ho detto, avevo già immaginato cosa mi sarebbe accaduto e avevo concluso che non aveva molta importanza chi fosse a "tenermi alla catena" finché avessi avuto la possibilità di rimanere il più vicino possibile alla Croce Nera. Tuttavia ebbi abbastanza prontezza di spirito da assumere un atteggiamento spaventato, così da scoprire tutto ciò che potevo sul mio nuovo padrone. Infatti, se Sahak avesse pensato che le sue informazioni avrebbero potuto essermi di qualche utilità, senza dubbio non me le avrebbe svelate per pura malvagità. Così, fingendomi costernato e in preda all'ansia, lo afferrai per una manica: «Che mi accadrà?». «Chi può dirlo?» sospirò lui, poi, godendosi il potere che sentiva di avere su di me, aggiunse: «Dal momento che chiedete il mio parere, penso che verrete giustiziato». «No!» esclamai. «Non ho fatto niente. I miei amici» aggiunsi stringendogli il braccio ancora più forte «pagheranno il riscatto.» «Questo lo credete voi» si liberò con uno strattone. «Non mi pare che qualcuno sia venuto a cercarvi, o sbaglio? Se fossi in voi, non ci spererei più. I vostri amici vi hanno abbandonato.» «Non lo farebbero mai!» gridai, mentre la mia agitazione aumentava il suo divertimento. «Hanno deciso di lasciarvi al vostro destino» affermò «altrimenti sarebbero già corsi a cercarvi. Se avessero voluto pagare, l'avrebbero già fatto.» «Verranno» insistetti. «Il califfo di Baghdad, avete detto? Non posso andare con lui. Dovete parlare con l'emiro Ghazi. Dovete supplicarlo di lasciarmi restare a Damasco, dove i miei amici possano trovarmi. Dovete dirglielo, Sahak, siete la mia unica speranza.» «State pur certo che farò tutto ciò che posso» dichiarò, mentre gli occhi
gli si illuminavano della luce della menzogna. «Grazie, Sahak. Grazie» dissi, sapendo bene che sarei rimasto con il califfo di Baghdad e non lontano dalla Croce Nera. L'infido scriba se ne andò e io lo guardai allontanarsi: era una persona detestabile sotto ogni punto di vista, ma mi era stato utile. Tornai nell'angolo della mia cella e riflettei che persino i malvagi erano strumenti del Signore Misericordioso, che poteva servirsi di ogni creatura per portare a buon fine i suoi disegni. Dopo l'ingresso trionfale e l'improvviso gesto di generosità dell'emiro Ghazi, i miei compagni e io fummo rinchiusi nella prigione maleodorante e infestata di topi dell'emiro Buri, il raffinato signore di Damasco, ad attendere le disposizioni del nostro nuovo padrone, il califfo. Tutto sommato, non era una situazione troppo negativa, e ora che ero sicuro di poter restare accanto alla Croce Nera, ero contento. Il lezzo era tollerabile e, dopo tanti giorni trascorsi sotto il sole cocente, il buio fresco e umido delle segrete era un gradito sollievo. I ratti, invece, erano una vera e propria calamità, perché di notte piombavano su chi era addormentato per mordere ogni pezzo di carne lasciata scoperta. Molti prigionieri ci rimisero le falangi delle dita di mani e piedi prima di imparare a dormire solo di giorno, quando quegli animali nefasti erano meno attivi. Nella prigione, oltre a me e ai tre nobili, c'erano altri cristiani, perché i crociati sopravvissuti alla battaglia e al viaggio da Anazarbus erano stati inclusi nel corteo per accrescere la fama e la gloria di Ghazi. Anche Gerardo era tra loro, ma non potevo parlargli perché ero stato diviso dagli altri e rinchiuso da solo in una cella. Come venni a sapere in seguito, ciò era dovuto al fatto che gli altri prigionieri mi ritenevano responsabile della sconfitta di Boemondo. Non so come si fosse sparsa la voce che io ero la spia che li aveva consegnati nelle mani dei selgiuchidi, ma mi attribuivano la morte dei loro compagni e la loro cattura e riduzione in schiavitù e avevano giurato di uccidermi non appena se ne fosse presentata l'occasione. Il mio amico Gerardo avrebbe potuto difendermi ma, ammesso che volesse farlo, non sarebbe stato comunque creduto. La verità è che quei poveretti avevano bisogno di qualcuno da accusare delle loro sofferenze, e poiché Boemondo, i vertici del suo esercito e i suoi più stretti collaboratori erano morti, mi consideravano responsabile di tutti i loro guai. Probabilmente avevo una parte di colpa, anche se, tra tutti coloro che avevano partecipato a quella sfortunata impresa, ero l'unico ad aver agito
per evitare una carneficina. Ma a che cosa erano servite le mie buone intenzioni? Se non mi fossi lasciato coinvolgere, il massacro non sarebbe avvenuto, e Boemondo avrebbe conquistato Anazarbus chiudendo la questione. Probabilmente molti armeni sarebbero periti ma, com'ero continuamente costretto a ricordare, la vita umana in Oriente aveva pochissimo valore. Il destino di intere nazioni veniva comprato e venduto per un fugace attimo di gloria, per pochi pezzi d'argento, o per le ingiuste ambizioni di un principe. Finalmente, ora che era troppo tardi, capivo i sentimenti di mio padre nei confronti della Terra Santa e la loro motivazione. Nei giorni seguenti mi dedicai a scoprire che tipo d'uomo fosse il califfo di Baghdad. Usando come pretesto il nostro accordo di farmi restare a Damasco, il viscido Sahak andava e veniva in continuazione dalla mia cella, godendo del suo presunto inganno e fornendomi nel frattempo preziosi frammenti di informazioni. Venni a sapere che, oltre a essere il regnante più potente della regione, il califfo di Baghdad era considerato un sovrano accorto e munifico, che dava grande valore alla sapienza e studiava l'ambigua scienza della filosofia in una scuola da lui stesso fondata. Era un uomo molto pio, un musulmano osservante che impartiva lezioni sul libro sacro degli arabi, il Corano, ed era un'autorità nell'applicazione dei complessi principi della legge islamica. Quando riuscivo a far parlare Sahak, ero certo di venire a sapere qualcosa che avrebbe potuto tornarmi utile; quindi, tutto sommato, sopportare la sua vanità e il suo sarcasmo fu un piccolo prezzo da pagare. Ben presto conobbi abbastanza il carattere del califfo, e me ne servii vantaggiosamente qualche giorno più tardi, quando fui convocato alla sua presenza. Il califfo voleva stimare il valore del dono ricevuto da Ghazi, e perciò decise di incontrare i prigionieri. Poiché nessuno di noi capiva l'arabo, il compito di fare da interprete venne affidato a Sahak. Non fui avvertito in anticipo della convocazione: due giorni dopo l'ingresso trionfale in città, tre guardie selgiuchidi si pararono all'improvviso davanti alla porta della mia cella e mi condussero nella loro stanza, sopra le segrete, dove mi diedero dell'acqua con cui lavarmi e un pettine per rassettarmi i capelli e la barba. Dopo essermi messo in ordine alla bell'e meglio, mi fecero compiere un percorso lungo e tortuoso attraverso i meandri del palazzo e della cittadella e mi scortarono al luogo dove si riuniva la corte. Qui un funzionario reale
mi istruì su come avrei dovuto rivolgermi al califfo e sul comportamento da tenere alla sua augusta presenza. Dopo che si fu accertato che avessi compreso le regole che avrei dovuto rispettare fui spintonato dentro la sala. Era presente anche Sahak, pronto a fare da interprete. Dopo essermi prostrato come d'uso, mi fu concesso di alzarmi e di parlare. Il califfo era un uomo di età matura ma dall'aspetto giovanile, che non indossava le sontuose vesti da cerimonia, né gli sfavillanti emblemi del suo rango, né il turbante tanto amato dagli arabi. Portava una lunga veste nera, sobria come una tunica, e aveva al collo una mezzaluna d'argento appesa a una catena. Mi squadrò senza parlare per un momento, tamburellando con le dita sui braccioli del suo scanno. «Mi hanno informato che siete di nobile lignaggio» esordì, e alla mia risposta affermativa domandò: «Qual è il vostro paese d'origine?». «Sono nato a Caithness, eccellentissimo califfo.» Capii che non ne aveva mai sentito parlare, perciò aggiunsi: «È una regione situata nella parte settentrionale dell'isola della Britannia». Comprese di quale zona geografica stessi parlando e gli si illuminarono gli occhi: «Credo sia un luogo assai lontano. Perché siete venuto sin qui? Forse per fare fortuna depredando la terra degli arabi, un'impresa che sembra appassionare molto i franchi?». «Niente affatto, mio signore. Sono in pellegrinaggio» risposi, e mi assicurai che Sahak traducesse prima di continuare «e sono stato catturato per errore.» «Un fatto piuttosto sgradevole» commentò, senza emozione apparente. «In guerra accadono molte cose, e dovete ammettere che tutte sono sgradevoli per qualcuno. L'emiro ha fissato il prezzo della vostra libertà a diecimila dinar. È una somma molto alta.» Assentii. «Avete qualche speranza che qualcuno paghi il vostro riscatto?» «Certamente, eccellentissimo califfo» dichiarai con sicurezza, ignorando il sogghigno ironico di Sahak. «I miei amici sono già in viaggio per Damasco per comprare la mia libertà.» Poiché sembrava propenso ad ascoltarmi, proseguii spiegandogli che mi trovato ad Anazarbus quando era cominciata la battaglia ed esponendogli le circostanze della mia cattura. Sentì tutto ciò che avevo da dire e poi rispose: «I vostri compagni vi accusano di essere una spia e un traditore». Mi osservò attentamente per vedere come avrei reagito. «Sono a conoscenza dei loro sentimenti» risposi senza esitare né emozionarmi, con totale padronanza di giudizio. «Non hanno torto a essere amareggiati per l'ac-
caduto, ma io non ne ho alcuna colpa.» «Capisco. Ma tale spiacevole circostanza persiste.» «Come voi stesso avete detto, eccellenza, in guerra accadono molte cose sgradevoli.» A quelle parole il califfo al-Mutarshid sorrise, congiunse le mani davanti al volto e mi guardò al di sopra delle dita intrecciate: «Ditemi, dunque, di chi sarebbe la colpa, secondo voi? Dell'emiro Ghazi? O del principe Thoros, forse?». «No, eccellentissimo. Essi hanno agito perché costretti dalle circostanze. Se i prigionieri cercano qualcuno da incolpare, mi orienterei verso il conte d'Antiochia, che li ha condotti alla rovina senza essere stato provocato e senza aver riflettuto abbastanza.» «Il conte è morto, non è così? Se non vado errato ho ricevuto la sua testa in un forziere, come ricordo della battaglia in cui è caduto. Se ne deduce che non è più possibile addebitargli una qualche responsabilità.» «È vero.» «Né egli è più in grado di sostenere o di negare le accuse che vi vengono mosse.» «Forse no» ammisi «ma, eccellentissimo califfo, e vi prego di perdonare il mio sillogismo, se vengo accusato dai miei correligionari di essere una spia, ne consegue che devo aver compiuto un'azione utile alla causa selgiuchide. Se ci credete, perché sono ancora prigioniero?» Il califfo serrò le labbra e strinse leggermente gli occhi: «Non credo siate innocente come sostenete» osservò all'improvviso. Poi fece segno alle guardie di portarmi via e aggiunse: «Rifletterò sulla questione e ne riparleremo». Fui ricondotto in cella. Più tardi Sahak venne a trovarmi e non seppe trattenersi dal rigirare il coltello in quella che credeva essere la mia piaga: «Non è stato saggio suscitare l'ira del califfo» mi rimproverò, agitandomi un dito sotto il naso. «È un maestro di logica. Non vi giova a nulla dimostrarvi migliore di lui nel suo campo.» «Non era mia intenzione sfidarlo» risposi. «Speravo soltanto che si avvedesse della ragionevolezza di ciò che dicevo e che ne tenesse conto nel considerare la mia posizione.» Sahak rise e se andò scuotendo la testa. Così seppi di aver sbagliato e decisi che non avrei rifatto lo stesso errore. Il giorno seguente le guardie mi condussero di nuovo davanti ad al-Mutarshid. Questa volta era intento a esibire i propri astuti sofismi di fronte a dignitari e funzionari del suo se-
guito, beandosi della loro servile ammirazione per la sua rinomata sottigliezza intellettuale, e certo voleva solo mostrarsi austero. «Ho riflettuto su quanto mi avete detto» mi annunciò quando gli fui dinanzi «e ho concluso che siete una spia, e del genere più pernicioso, sleale verso chiunque tranne se stesso. Perciò ho deciso che rimarrete mio prigioniero.» «Si è trattato di uno sbaglio» asserii. «Non avrei mai dovuto essere portato qui.» «Eppure così è stato» replicò. «Qismah! Tutto accade per volere di Allah! Gli errori non esistono. Se siete prigioniero è perché Allah lo ha voluto. Chi può considerarsi tanto saggio da suggerire a Dio cosa deve fare?» si guardò intorno, raccogliendo le occhiate ammirate del suo seguito, poi ripeté: «Resterete mio prigioniero». Sahak, il mio infido interprete, fu così lieto di quella decisione che riuscì a stento a nascondere la propria gioia. Tuttavia la dichiarazione successiva colse anche lui di sorpresa. Guardandomi con freddezza, il califfo aggiunse: «Ma non è tutto: se nessuno si presenterà a pagare il vostro riscatto, in capo a tre giorni sarete giustiziato. Ciò è quanto ho stabilito in nome di Allah». Non ero preparato a una tale sentenza e di colpo la mia mente fuggì lontano: pensai a te, mia diletta Cait, e a tutti i miei amici; a Padraig, che sarebbe arrivato troppo tardi e avrebbe trovato il mio corpo senza vita appeso fuori dalle mura della città; a Sydoni, che avrebbe pianto sulla mia tomba... erano così tanti i pensieri che mi si affollavano nella mente, che mi ci volle un momento per ritrovare l'autocontrollo. «Eccellentissimo califfo» dissi infine, cercando di reagire con calma a quella decisione illogica e ingiusta. «Non so perché i miei amici non siano ancora venuti a cercarmi, ma posso assicurarvi che il riscatto sarà pagato. Tre giorni, però, non sono sufficienti: la strada da Anazarbus a Damasco è lunga.» «Sarebbero potuti giungere in ogni momento dopo la vostra cattura, ma così non è stato» fece notare il califfo. «Sospetto che non abbiano alcuna intenzione di arrivare, che siano solo un'astuta invenzione per prolungare la vostra vile esistenza, e ritengo invece non abbia alcun senso mantenervi oltre in vita. Tre giorni» dichiarò «non uno di più.» Gli astanti emisero un mormorio di assenso davanti alla fermezza di giudizio del califfo. In tono risoluto, per dimostrare il mio sangue freddo, ribattei: «Allora, come nobile, vi chiedo di concedermi l'onore di porgervi
un'ultima preghiera». Al-Mutarshid si mostrò incuriosito. Infatti, ritengo che non avesse previsto la mia domanda. «Entro limiti ragionevoli, naturalmente» rispose. «Qual è il vostro ultimo desiderio?» «Vorrei lasciare un messaggio per la mia famiglia in Scozia, in modo che sappiano qual è stata la mia sorte.» Si trattava di una richiesta piuttosto normale, ma dimostrava una nobiltà d'animo che sarebbe piaciuta al califfo. «Benissimo» acconsentì «potete scrivere il vostro messaggio.» Mi guardò con pensoso interesse: «Ma, in nome del Profeta, che la pace sia con lui, come vi aspettate che raggiunga la vostra famiglia?». «Eccellentissimo califfo» ribattei «non va certo al di là dei vostri poteri ordinare che ciò avvenga. Molti pellegrini tornano in Occidente, dopo aver portato a termine il proprio viaggio. Certamente uno di loro acconsentirà a portare la mia missiva.» «Sarà fatto» disse il califfo, e mise fine alla nostra udienza. Meravigliato che avesse accondisceso tanto facilmente, lo ringraziai per la sua comprensione e la sua generosità e feci ritorno in cella. Poiché ormai conoscevo un po' il modo di ragionare degli arabi, sapevo che si sarebbe considerato vincolato alla sua parola e che non avrebbe potuto rimangiarsela senza sembrare un sovrano debole e ingiusto. Oltretutto, essendosi impegnato ad apparire un esempio di saggezza e di sapienza per il suo popolo, non poteva permettersi di sembrare meno nobile dell'insignificante sventurato che aveva appena condannato a morte. Così mi fu concesso ciò che chiedevo. Se avessi saputo che sarebbe stato così semplice, Cait, avrei domandato qualcosa di più importante. Ma ero comunque soddisfatto. Trascorsi il resto della giornata e della notte nella mia cella, dove pregai di poter vivere abbastanza a lungo per mantenere il mio giuramento di recuperare la Croce Nera. Il mattino seguente Sahak si presentò con un piccolo rotolo di pergamena, una boccetta d'inchiostro e alcune penne d'oca, e mi informò che si trattava di un dono del califfo. Fui felice di ricevere quegli oggetti e lo incaricai di ringraziare alMutarshid per avermeli mandati. «Vi farà uccidere comunque, come ha stabilito» mi disse con espressione mesta lo scriba. «Non si trattava di una vuota minaccia.» Gli risposi che non avevo mai pensato che il califfo avesse l'abitudine di proferire vuote minacce solo per far colpo sui prigionieri con una esibizio-
ne di potere. «Mi spiacerà vedervi morire» aggiunse Sahak. «Perché? Non vi sono mai piaciuto. Ci sono state molte occasioni in cui avreste potuto dire una parola in mio favore, ma non lo avete mai fatto; e io sono l'uomo che ha aiutato il vostro popolo a salvarsi dall'aggressione di Boemondo.» Gli gettai addosso tutta la mia ira e la mia esasperazione: «Avreste almeno potuto farlo per carità cristiana». Il miserabile scriba chinò la testa: «È vero» annuì con un sorriso sciocco. «E ci sono altre cose che non sapete.» «Quali sarebbero?» Esitò, asciugandosi gli occhi umidi con la manica: «Il fermaglio...». Lo fissai, sentendomi invadere da un profondo senso di malessere: «Sì...?». Incapace di sostenere il mio sguardo, abbassò ancora di più il capo e sussurrò: «Non l'ho mandato ad Anazarbus». Poi, sopraffatto dall'enormità della sua colpa, si voltò e se andò, prima che potessi appellarmi all'ira divina perché si abbattesse sulla sua ignobile persona. Mi sedetti e rimuginai su ciò che mi aveva confessato. Quando mi fui calmato, cominciai a considerare la mia situazione più obiettivamente. Alla fine decisi che non faceva grande differenza che Sahak avesse tenuto per sé il fermaglio: sapendo che la Croce Nera faceva parte del bottino di Ghazi, avrei voluto restarle vicino. E, come prigioniero dell'emiro, avevo potuto farlo senza sollevare il minimo sospetto. La condanna a morte del califfo di Baghdad era un'altra faccenda, ma esulava completamente dalla mia sfera d'azione. Poiché per il momento non potevo fare nulla per migliorare il mio stato, lo affidai alle cure dell'Onnipotente. Trascorsero due giorni, ma nessuno venne a cercarmi, nemmeno Sahak. Completai la mia lettera, prendendomi tutto il tempo necessario per riflettere su ogni parola prima di scriverla, in modo da non doverla cancellare. Se, secondo gli imperscrutabili piani divini, ero destinato a concludere la mia vita sotto la spada del carnefice, volevo che il mio ultimo messaggio fosse perfetto. Il resto del tempo lo passai a passeggiare avanti e indietro nella mia piccola cella, pregando che Padraig, per miracolo, comparisse e percorresse il lungo corridoio della prigione con una borsa piena delle monete d'argento del mio riscatto. "Spero che non ti sia preoccupato" avrebbe detto probabilmente. "Anche se con un pochino di ritardo, grazie a Dio, sono arrivato in tempo. Sarai fuori di qui in men che non si dica."
Ma, naturalmente, Padraig non arrivò. La mattina del terzo giorno fui svegliato da un rumore pesante di passi e da un cozzare di armi provenienti dagli alloggiamenti delle guardie. Dapprima pensai che si trattasse di un attacco, di un'incursione contro la città per vendicare il massacro dell'esercito di Boemondo. Ma poi tornò la calma e io, insieme agli altri prigionieri, rimasi in attesa di una parola o di un cenno su ciò che era accaduto oltre le mura della prigione. Verso sera, le guardie tornarono alle loro stanze e il nostro carceriere ci portò la razione giornaliera di cibo e di acqua. Non ci capiva, né noi capivamo lui, così fu solo quando venne Sahak, il giorno dopo, che seppi dell'arrivo di un inviato del califfo del Cairo. In quel momento non lo considerai un avvenimento di grande importanza. Ma è così che vanno le cose in Oriente: le alleanze si spostano come sabbia al vento; la lealtà si muove come le maree; il vento soffia senza posa sugli antichi regni; e i vecchi equilibri vengono spazzati via in un batter d'occhio. L'arrivo di un inviato dall'Egitto mutò il futuro della Terra Santa. Anche la mia situazione si alterò; benché in quel momento non intuissi, né tanto meno capissi come, il cambiamento non fu per questo meno importante. Passarono molte settimane prima che mi rendessi conto di quanto fosse diventata eccezionale la mia situazione e di quanto fosse esile il filo a cui era attaccata la mia vita. Trentotto Come mi aspettavo, vennero a prendermi la mattina successiva. Non pensavo che avrebbero mandato Sahak, ma vidi la sua faccia quando, dopo aver sentito scorrere il chiavistello e alzarsi la barra di ferro, la porta si aprì. «Inginocchiatevi e lodate Dio, amico mio» mi annunciò, rallegrandosi per la buona notizia. «È un vero miracolo: la vostra esecuzione è stata rimandata.» Prima che potessi chiedergli cosa fosse accaduto, aggiunse: «Sbrigatevi. Dovete venire con me immediatamente. Vogliono vedervi». «Perché?» domandai oltrepassando la soglia. C'erano due guardie con lui, ma nessuna sembrava interessarsi a me. «Sono successe molte cose negli ultimi due giorni. Avranno luogo grandi festeggiamenti.» Ci avviammo lungo il corridoio ed eravamo a circa metà della scalinata
che conduceva all'alloggiamento delle guardie quando ricordai: «La mia lettera!». «Lasciate stare» mi esortò Sahak. «Non c'è tempo. Stanno aspettando.» «Che aspettino.» «Che Allah ci protegga!» sospirò l'armeno. Ritornai di corsa nella cella, presi la pergamena, me la infilai nello scollo della veste e raggiunsi lo scriba che mi aspettava ai piedi della scalinata. «Ora ditemi, Sahak, chi è che mi sta aspettando? Sono i miei amici? Padraig è venuto a pagare il riscatto?» «No» ammise, quell'idea non lo aveva nemmeno sfiorato. «Il califfo del Cairo ha inviato il suo legato personale a Damasco» mi spiegò in tono concitato. «È appena giunto, è qui, a palazzo.» «Il legato... è lui che vuole vedermi?» «In un certo senso. Andrete al Cairo, amico mio. Non vi sembra una magnifica notizia? Tutto si è sistemato, grazie a Dio.» La felicità che avevo provato sentendo che la mia esecuzione era stata rimandata si trasformò in disperazione: «Al Cairo! Non avrò nessuna speranza che i miei amici mi aiutino». «Qui vi troverebbero nella tomba di un traditore» ribatté. «È questo che volete?» In verità non pensavo all'arrivo di Padraig, bensì al fatto che mi sarei allontanato dalla Croce Nera. Comunque non potevo farci nulla; e l'esecuzione mi avrebbe separato dalla santa reliquia tanto quanto il trasferimento al Cairo ma in modo assai più definitivo, perciò, anziché prendermela con Sahak, decisi di essergli grato. Percorremmo la scalinata di pietra, attraversammo il corpo di guardia deserto e raggiungemmo il cortile interno del palazzo. Forse era l'agitazione di Sahak a eccitare la mia immaginazione, ma sentivo nell'aria una sorta di fermento, simile a quello che segna i cambiamenti di stagione; anche se il sole che sorgeva dietro alle cupole bianche e tondeggianti del palazzo era lo stesso, come pure l'aria calda e secca. «Sono stato io a provvedere» dichiarò Sahak con orgoglio. «Mi angustiava l'idea che doveste morire per aver aiutato il mio popolo e ho pregato affinché Dio mi indicasse un modo per salvarvi. E poi è giunto il legato» sorrise, come se tutto fosse perfettamente ovvio. Lo ringraziai per il suo provvidenziale intervento in mio favore e dissi: «Però continuo a non capire perché l'inviato del califfo del Cairo dovrebbe volermi aiutare».
«Propriamente parlando, non lo sa. Pensa solo di ricevere un dono per il suo padrone. Ma il Signore agisce in modi misteriosi, non è così?» «Sì, certo, e anche voi, Sahak.» Quando raggiungemmo il Padiglione delle rose dove l'atabeg Buri stava offrendo la colazione ai suoi due ospiti dopo la preghiera del mattino, ero riuscito a farmi raccontare a grandi linee ciò che era successo e sapevo perché ero stato convocato. Per apprendere i particolari ci volle più tempo ma, grazie alla mia perseveranza, pian piano districai la complicatissima storia dei burrascosi rapporti tra i due califfati più potenti di tutto l'Oriente. Ora dovrei fare una pausa per descrivere nei dettagli l'udienza con l'atabeg e i suoi illustri ospiti, ma in realtà non accadde nulla di speciale: volevano semplicemente accertarsi che stessi abbastanza bene per affrontare il viaggio verso il Cairo, insieme al resto del bottino che sarebbe stato regalato al califfo. Vedi, Cait, gli arabi si scambiano doni di continuo e per le ragioni più varie: i ricchi lo fanno per umiliare i rivali, per rafforzare i legami con le famiglie nobili o per ottenere la fedeltà dei sottoposti; i poveri per ottenere il favore dei potenti, per assicurarsi un miglioramento degli affari, per dimostrare lealtà e obbedienza. Poiché ai loro occhi ero solo una parte del bottino di guerra di Ghazi passato a Buri, dovetti inchinarmi e prostrarmi davanti ai signori musulmani prima di essere affidato a un servitore del legato che mi portò via. Non rividi più né Sahak, né Ghazi, né al-Mutarshid né i miei compagni di prigionia e non mi venne neppure detto il nome del mio nuovo padrone. Diventai un'altra volta una merce di scambio, un oggetto di valore da barattare per ottenere il favore di qualcuno; in questo caso del califfo del Cairo. Nei giorni successivi, acquisendo ulteriori informazioni, mi resi conto della portata degli avvenimenti messi in moto dalla decisione di Boemondo di attaccare gli armeni. Osservai attentamente il comportamento dei miei nuovi padroni e raggiunsi una buona conoscenza delle complicate relazioni tra le varie tribù arabe che mi sarebbe stata utilissima nei giorni a venire. Tenendo gli occhi ben aperti, mettendo insieme ogni frammento di informazione e meditandoci sopra lungamente, venni a sapere parecchie cose. La sconfitta dell'esercito di Boemondo da parte di Ghazi aveva risollevato l'orgoglio musulmano. Con una sola battaglia, l'emiro aveva indebolito molto le forze cristiane della regione e aveva fatto rinascere le speranze arabe di scacciare una volta per tutte gli odiati franchi. Ora sarebbe stato
facile assediare e conquistare Antiochia. I templari non potevano proteggerla da soli: se non fossero arrivate presto nuove truppe di rinforzo, la città sarebbe caduta. E una volta riportata Antiochia sotto la sovranità selgiuchide, l'obiettivo successivo sarebbe stato Gerusalemme. Visto che era un ottimo stratega, Ghazi era ben consapevole dell'enorme potenziale della sua vittoria. Il giorno in cui aveva fermato le esecuzioni sul campo di battaglia stava già calcolando il costo di una nuova campagna: quella per Antiochia. Sapendo di dover colpire con rapidità e decisione, Ghazi si era precipitato a Damasco per incontrare il califfo di Baghdad. Durante il viaggio, era riuscito a ottenere appoggi e sostegno economico per reclutare e rifornire le truppe necessarie al suo piano. Un assedio è un'impresa lunga e costosa, e Ghazi aveva bisogno dell'aiuto di personaggi potenti per radunare e approvvigionare un esercito in grado di far cadere la città. Aveva anche bisogno del consenso dei suoi superiori, sia per il progetto militare sia per conseguire obiettivi più ampi. Lo scaltro emiro aveva mostrato ancora una volta la sua avvedutezza, perché, conscio di non avere la necessaria autorità, aveva cercato di raggiungere un accordo che gli permettesse di governare la città dopo averla conquistata. A tale scopo, aveva coperto di doni i superiori e sottoposti, dimostrando di avere l'abilità e la prontezza di spirito per amministrare bene e con saggezza. Come stavo imparando, fra gli arabi un regalo comporta un meticoloso equilibrio di poteri, instabile e preciso, poiché è legato a un obbligo che vincola il ricevente in vari modi. Ghazi aveva fatto doni ai signori di cui era vassallo per ottenere il loro permesso di procedere con i suoi piani di conquista, e al califfo al-Mutarshid, che deteneva il potere maggiore, aveva riservato la cosa più preziosa. Il casuale arrivo del legato egiziano aveva aggiunto un altro elemento al complicato mosaico di vincoli che i sovrani orientali amano tanto. Probabilmente i festeggiamenti cui aveva fatto cenno Sahak avevano celebrato la proposta di un trattato di pace tra Baghdad e il Cairo. Solo molto più tardi venni a sapere che, tra i due califfati, c'era da molti anni un odio profondo, legato soprattutto a interpretazioni differenti delle osservanze religiose. La caduta di Gerusalemme però aveva messo in luce il pericolo dovuto a tale divisione e ora il califfo del Cairo, un sovrano assai più lungimirante degli altri, aveva messo la sua flotta a disposizione di un esercito composto da varie tribù arabe e unite contro il nemico comune. Insieme, Baghdad e il Cairo potevano scacciare l'invasore straniero.
Sulle prime l'offerta delle navi era stata sdegnosamente respinta dal califfato di Baghdad, orgoglioso e arrogante, che si riteneva enormemente superiore a quello del Cairo ma, con il passare degli anni, mentre i crociati diventavano una minaccia costante e una spina nel fianco degli arabi, Baghdad aveva cominciato a cedere all'idea di unificare le forze musulmane. Così, con l'imminente caduta di Antiochia e la prospettiva di riconquistare Gerusalemme, il giovane califfo al-Mutarshid aveva deciso che era giunta l'ora di rappacificarsi con il Cairo e perciò aveva convocato il legato egiziano, che era in visita di cortesia a Damasco, e lo aveva ricoperto di doni come offerta di pace. Gli arabi si dilettano da sempre in un gioco terribilmente complicato, in cui due contendenti si sfidano muovendo delle piccole pigne intagliate su una tavoletta di legno. Una volta li ho osservati e, sebbene sia riuscito ad afferrare solo le regole base del gioco, mi è sembrato proprio che esso riassuma in sé l'essenza delle circonvoluzioni della mente orientale. Sulla tavola disegnata a quadretti rossi e neri, infatti, ogni pezzo viene mosso a discrezione del giocatore, ma con limiti peculiari alla sua forma. E per ogni mossa c'è una contromossa, sicché ogni forza in campo è bilanciata da una forza uguale e contraria. Le variazioni di gioco sono infinite, ma le regole sono fisse quanto le montagne e immutabili come il sorgere del sole. Mi sentivo come un pezzo minore di quello strano gioco. Due giorni dopo il suo arrivo, il legato lasciò Damasco, e io dovetti seguirlo insieme al resto del bottino razziato da Ghazi, che sarebbe stato offerto al califfo egiziano come segno di riconciliazione tra Baghdad e il Cairo. Poi, dopo una marcia di cinque giorni da Damasco al porto di Sidone, fui caricato a bordo di una delle robuste navi della flotta egiziana e salpai per il Cairo, arrivando cinque giorni più tardi a Damietta, sull'ampio e ramificato delta del Nilo. Lasciammo la nave nel porto, un buco angusto e puzzolente, e seguimmo l'ampio corso fangoso del fiume con una chiatta a vela. Trascorsi il viaggio affacciato al basso parapetto a osservare le feluche slanciate che alzavano una sola vela a forma di pinna di pesce, e avevano lunghi timoni che fendevano lentamente le acque scure. Oltrepassammo minuscoli villaggi, alle cui spalle si estendevano le ampie e verdi distese dei campi di cereali. Gli insediamenti si susseguivano senza interruzione, tanto che dopo un po' sembrarono unirsi in un'unica fila ininterrotta sino al Cairo. In piedi sul ponte della chiatta, osservavo la vita lungo il fiume, simile a
un enorme arazzo spiegato davanti a me per rivelarmi immagini senza tempo: tre ragazzi in sella a un asino carico di rami di palma; una giovinetta con un ramo di salice che guidava un branco di oche lungo la via; due donne che lavavano vesti nel fiume; uomini che gettavano le reti dalle barche dondolanti; un giovane che portava sulla spalla un bastone a cui era appeso del pesce essiccato; un gruppetto di fanciulle ridenti con delle brocche sul capo e le tuniche rimboccate sui fianchi snelli; un contadino che raccoglieva giunchi con un falcetto ricurvo e un altro che conduceva un carro carico di meloni tirato da una coppia di buoi; bambini nudi dalla pelle scura che sguazzavano nell'acqua bassa e fresca delle secche. Dal momento in cui avevamo imboccato il fiume, tutto ciò che mi era successo era svanito nell'aria calda e pesante della valle. Le opprimenti tribolazioni degli ultimi giorni erano diventate sciocchezze insignificanti davanti a tanta tranquillità. Nessun evento umano avrebbe potuto disturbare la pace meravigliosa di quella terra; le grandi tempeste della guerra e i rovinosi eventi che causano tante sciagure agli esseri umani non erano che controversie momentanee, inghiottite da una pace antica quanto il mondo. In piedi sul ponte della chiatta mi sentivo trasportare nelle profondità senza limiti di una calma che non avevo mai provato; era come se il cielo senza tempo, con la sua pioggia dorata di stelle eternamente in movimento proclamasse: anche questo passerà. I miei carcerieri mi trattavano bene. Forse non conoscevano le circostanze della mia cattura. Ma si deve anche considerare che, come mi disse il mio piccolo guardiano, Wazim Kadi, quando fui condotto al palazzo del califfo, "i selgiuchidi sono barbari. Lo sanno tutti. Sono solo rozzi manigoldi arrivati dall'Est dove vivevano come bestie selvatiche". I saraceni si considerano la più civile e raffinata fra tutte le tribù litigiose dell'Oriente, e credono che sia loro dovere trasmettere le proprie qualità e virtù ai meno illuminati. Forse, quando vennero a sapere che ero stato prigioniero dei selgiuchidi, si impegnarono a dimostrami la loro cortesia. In ogni caso ero abbastanza preoccupato quando sbarcai sulla banchina di legno di quel luogo fantastico che è al-Qahirah, come la chiamano gli arabi, cioè "la Vittoriosa", perché soggioga coloro che vorrebbero conquistarla e vince tutto con la sua inesauribile ricchezza di incanti. Osservai quell'abbagliante confusione, masse di corpi lustri di sudore nell'afa di mezzogiorno che sembravano alzarsi e abbassarsi come una marea variegata, e me ne sentii turbato. La "sospensione", come l'aveva definita Sahak, della mia condanna a morte mi aveva condotto a cambiare
una prigionia con un'altra. E io non sapevo che tipo di accoglienza aspettarmi dai saraceni, né se sarei stato liberato o giustiziato prima di sera. Avevo portato con me la Croce Nera, ancora avvolta nella stuoia in cui l'avevo nascosta, e mi sentivo soddisfatto: la santa reliquia era la mia forza e la mia consolazione. Ci allontanavamo dal fiume con un seguito di facchini e di servi, ingaggiati per trasportare il tesoro destinato al califfo. Attraversammo una teoria di poverissimi agglomerati di case e procedemmo lentamente verso gli enormi portali di ferro a guardia della città interna. I poveri e i diseredati di tutto l'Oriente hanno sentito raccontare che le strade del Cairo sono lastricate d'oro, ma la città non può contenere tutti coloro che vi accorrono; perciò i nuovi arrivati costruiscono i propri tuguri tra le rive del Nilo e le mura della città, e ogni primavera la piena del fiume li spazza via. Molti muoiono annegati e vengono poi divorati dai coccodrilli, famelici mostri simili a draghi che infestano gli acquitrini del fiume. I mucchi maleodoranti di immondizie fuori dalle mura sono infestati da un altro genere di creature feroci e disgustose, che si affollano davanti alle porte del Cairo: i mendicanti. Dapprincipio mi sentii invadere da un profondo senso di pietà e carità cristiana davanti a quello spettacolo spaventoso. Dio mio, che moltitudine di muti, sordi, ciechi, zoppi, storpi, lebbrosi, mutilati, affamati, nudi, ammalati. Il mio cuore si riempì di sgomento davanti alla loro miseria. Ma l'atteggiamento ostile e litigioso di quei disgraziati fece ben presto scomparire la mia compassione: si aggiravano tra la folla come sciacalli in cerca di vittime, zoppicando in modo patetico, trascinando i corpi scheletrici e deformi e lanciando gemiti falsi e strazianti. Benché fossi solo un prigioniero, mi si avventarono addosso, tirandomi per gli abiti con le mani adunche, piagnucolando e lamentandosi in modo pietoso. Che Dio mi perdoni, imparai ben presto a ignorarli e, imitando le guardie, passai in fretta attraverso quella turba cenciosa, spingendo di lato quelli che erano tanto insistenti da intralciarmi il cammino, facendo orecchie da mercante alle loro grida e procedendo spedito. Il sentimento di ansietà per il mio ignoto destino non durò a lungo quand'ebbi attraversato la porta d'ingresso: la città era non solo più grande, più rumorosa e più affollata di qualunque altra avessi mai visto, ma era anche splendida sotto ogni profilo. I miei sensi intorpiditi dal caldo furono di colpo sopraffatti dall'assalto di immagini, suoni e odori, perché i liquami e i rifiuti dei mendicanti vengono lasciati imputridire al sole e riempiono l'aria di esalazioni pestilenziali. Mentre il tanfo toglie il respiro, i rumori echeggiano e rimbombano: i
mendicanti con le loro grida insistenti, i venditori ambulanti con le loro profferte, l'abbaiare dei cani, le grida dei bambini, le mille voci di gente che parla, inveisce, chiama. Il chiasso che ne deriva fa venire il capogiro e diventare sordi. E la vista! Mia cara Cait, varcate le porte del Cairo, si colgono più meraviglie con un'occhiata di quante la gente di solito non veda in un'intera vita. Ovunque cada lo sguardo, si profila un particolare stupefacente: uomini e donne abbigliati da capo a piedi con indumenti ricchissimi, dai colori cangianti in tutte le sfumature dell'arcobaleno; moschee dalle cupole di rame, ricoperte di lucenti maioliche persiane blu pavone, che sembrano fatte di vetro. E la gente, Cait, è la più strana che abbia mai camminato sotto la volta celeste. Il colore degli incarnati varia dal nero del cielo di mezzanotte, sino al latteo pallore della pergamena, passando attraverso tutte le sfumature del marrone, dai ricchi toni del nocciola a quelli della terra bruciata. E non sono meno diversi per taglia e statura. Ho veduto uomini imponenti, neri e slanciati come colonne d'ebano, e altri piccoli come bambini cresciuti a metà. I più attraenti sono gli egiziani, con i loro lineamenti fini, la fronte alta e nobile, i denti bianchi e regolari, i capelli neri e lucenti che brillano al sole; camminano con le spalle dritte e si muovono con morbida grazia guardandosi intorno con gli scuri occhi e allungati colmi di serena ironia. Sostengono di discendere dagli antichi dèi e basta guardarli per crederci. Non si può immaginare un popolo più bello. Passeggiare per il Cairo significa imbattersi in meraviglie a ogni angolo. Per le strade si trovano più colori e suoni che in qualunque altro luogo della Terra. Appese alle finestre ci sono gabbie dorate con uccelli grandi come corvi, ma dai colori più vivaci di quelli delle vesti di un re, con lunghe code e becchi ricurvi, con il piumaggio azzurro, scarlatto, bianco, giallo e verde come giada. Non ho idea di che cosa siano, né quale terra li abbia originati, ma strillavano da far scoppiare i timpani. Vi erano poi cani che non avevo mai visto e che ho trovato solo lì, asciutti e longilinei, con il muso appuntito, i fianchi incavati e il dorso muscoloso, grandi quasi come lupi, ma magri e con lunghe zampe adatte a correre nella sabbia. Vidi anche i gatti, benché non. subito. Quando cominciai a notare la loro presenza rimasi stupito del loro numero: erano tantissimi, dappertutto; a ogni angolo si vedeva il giallo bagliore di due occhi che ti fissavano; non c'era albero, banco di mercato, soglia, finestra, davanzale, muro, tetto o terrazza dove non fosse seduto, passeggiasse o si stirasse un felino.
I vicoli tortuosi erano stracolmi di ogni genere di venditori e mercanti: alcuni lavoravano dietro a un bancone, altri trasportavano la loro mercanzia sulla testa o appesa alle braccia; e ognuno gridava forte per farsi sentire in tutto quel chiasso. Qui un fabbricante di cera passava con centinaia di candele legate a una trave; là un macellaio chiamava a gran voce i clienti con un nastro di salsicce avvolto intorno alle braccia spalancate; accanto un falegname reggeva in equilibrio sulla schiena quattro sedie; più lontano un fabbro faceva tintinnare gli anelli delle catene che sapeva forgiare; e c'erano orafi, mercanti di pietre preziose e di schiavi, venditori di qualunque cibo si possa immaginare. Ogni breve tratto di strada si trasformava in un vero e proprio mercato per commercianti a caccia di buoni affari. Vidi carri pieni di noci di cocco pelose, altri colmi di mucchi di datteri scuri e dolci, altri ancora carichi di cachi, di pere, di limoni, di mandorle o di aspre mele verdi. La gente affollava quegli strani mercati, o bazar, come li chiamano qui, contrattando tenacemente con i venditori e trasformando quella confusione in un caos meraviglioso. In mezzo alla calca scorrazzavano esili bimbi dalla pelle scura, che sfrecciavano tra le gambe dei genitori e davano il loro contributo al baccano con i loro strilli. Giovani scalzi e cenciosi si spostavano agili e rapidi da una parte all'altra, e più di una volta li vidi sotto i miei stessi occhi alleggerire i passanti del peso di una borsa o di qualche oggetto incustodito. Il nostro corteo passò tra la folla, attraversando un quartiere dopo l'altro. Uno, fatto tutto di casette, mi parve l'angolo più tranquillo dell'intera città; e ne scoprii ben presto la ragione. Il tanfo che emanava da quel luogo mi fece capire che una grave calamità doveva averne colpito gli abitanti. L'odore penetrante della morte ristagnava sulle strade come una cappa invisibile. Eppure, fatta eccezione per alcuni uomini vestiti di nero che si aggiravano oziosamente intorno, non c'era nessuno. «È la città dei morti» mi spiegò Wazim quando gli chiesi informazioni. «Molti egiziani seguono ancora gli antichi costumi e credono di dover alloggiare e nutrire i defunti nell'aldilà.» Gli uomini del califfo non facevano caso alla confusione che li circondava, e procedevano a testa alta, senza guardare né a destra né a sinistra, come se quel tumultuoso trambusto fosse tanto al di sotto di loro da risultare invisibile. A causa della gran quantità di folla e delle strade strette, impiegammo quasi l'intera giornata a raggiungere la nostra destinazione, un palazzo di pietra che sembrava essere stato scolpito in un sol pezzo nel
nucleo roccioso di una montagna. Nel calore accecante del sole pomeridiano, la pallida pietra color ocra luceva come oro scolorito. Mentre percorrevamo la lunga rampa che portava ai portoni di ferro dorato, vidi sventolare bandiere rosse e blu. A guardia dell'ingresso c'erano quattro uomini, alti e dalla pelle scura, con la lancia stretta in pugno e una pelle di leone sulle spalle. All'approssimarsi del legato, i guardiani aprirono i battenti dorati senza dire una parola; la carovana dei bagagli entrò nel recinto del palazzo, e io feci il mio ingresso nella mia nuova e sfarzosa prigione. Trentanove Ero ancora stordito per l'esultante tragitto lungo le vie del Cairo, quando la nostra carovana attraversò un dedalo di porte, corridoi, mura e viali e giunse infine a un cortile interno. Qui ci fermammo in attesa sotto il sole, mentre il legato scompariva dietro a una delle porte che si affacciavano sulla corte. Essa non era altro che un delizioso prato punteggiato di alberelli di diverse varietà, tutti meticolosamente potati e collocati in modo da farne risaltare la bellezza. Sotto i rami più bassi i pavoni si lisciavano le magnifiche piume, e le colombe bianche svolazzavano intorno a una piccola fontana. I molti cespugli fioriti, spesso sistemati in enormi vasi di terracotta, riempivano l'aria di un profumo soave, attirando il pigro ronzare delle api. Quel luogo paradisiaco era circondato su tre lari dalle residenze reali, e chiuso sul quarto da un muraglione ricoperto di piante di vite. Ciascun edificio disponeva di una terrazza, cioè di una piattaforma coperta, aperta su tre lati, raggiungibile dall'ultimo piano e circondata da una balaustra di legno. Queste terrazze sono comuni nel torrido Oriente, perché permettono di riparasi dalla calura e di godersi le brezze fugaci. Ne ho viste molte al Cairo, e alcune erano chiuse da paraventi di legno intagliato. Ma quelle che si affacciavano sul cortile del palazzo erano aperte per godere della quiete e della bellezza del giardino sottostante. Mentre aspettavamo sotto il sole, vidi affacciarsi alla ringhiera della terrazza più vicina un uomo molto grasso, con una veste dorata e un turbante, che si fermò per un attimo a guardarci e poi scomparve di nuovo. Poco dopo fummo condotti dalla parte opposta del cortile, in una piccola sala rivestita da pannelli di legno, dove quello stesso grassone ci attendeva per ricevere i doni a nome del califfo.
Sistemò la sua corpulenta persona su uno sgabello posto dietro a un tavolino su cui era spiegato un foglio di sottile carta egiziana, e si dispose a controllare gli oggetti che i facchini trasportavano a uno a uno. Rimasi a guardare mentre il forziere bordato d'oro con la testa imbalsamata di Boemondo e la Croce Nera venivano debitamente inventariati e portati via con tutto il resto del tesoro. Dove, non saprei dirlo. Poi fu il mio turno. L'uomo controllò la lista, quindi sollevò lo sguardo su di me e sorrise: «Ah» disse, alzandosi. Parlando prima in greco e poi in latino, mi chiese quale delle due lingue preferissi. «Il latino, se non vi spiace, mio signore.» «Ma certamente» rispose. «Sono l'emiro Abu Rafidi» si presentò, spiegandomi che era il katib ufficiale del califfo, e che, nella prestigiosa posizione di intendente degli appartamenti privati e di capo della servitù, degli scribi di palazzo, dei funzionari e del personale di corte, aveva avuto l'incarico di ricevere i doni inviati dal califfo di Baghdad. Poiché anch'io ne facevo parte, era obbligato a catalogare anche me, e sperava che quella piccola formalità non mi dispiacesse. «Mi hanno informato che siete un nobile straniero le cui possibilità di venire riscattato sono quasi inesistenti» osservò. «Al contrario» risposi «non ho perso affatto la speranza che i miei amici vengano a cercarmi. Sospetto tuttavia che i miei continui spostamenti da un luogo all'altro abbiano reso l'impresa assai difficile.» «Capisco» commentò l'emiro. «Mi hanno anche detto che siete una spia e che siete stato condannato a morte dal califfo di Baghdad. È vero?» «Non del tutto» ribattei. «Il califfo ha ordinato di giustiziarmi, ma non sono una spia.» L'emiro rise alle mie parole, facendo tremolare le guance carnose. Evidentemente era un uomo dal carattere allegro, e intuii che era alieno da qualunque malizia: «È ben raro che un uomo sia pronto ad ammettere di aver commesso una tale bassezza». Concordai con lui, ma insistetti che, nel mio caso, si trattava di una calunnia. L'emiro tornò al tavolo e guardò la pergamena che aveva davanti, incerto su cosa dovesse scrivere. Si mise lentamente a sedere sullo sgabello, appoggiò le braccia al tavolo e il mento alle mani, e si tamburellò le dita sulle guance. Poi si rialzò e si mise a passeggiare su e giù per la stanza, con le braccia dietro la schiena; mi guardò e affermò: «Siete un nobile». «Sì, infatti.»
«Vedete, questo rende le cose più difficili.» «Mi dispiace.» «Non ve ne date pensiero» si affrettò a rassicurarmi. «Tutti noi dobbiamo cogliere il buono e il cattivo da ogni situazione.» Tornò al suo posto, prese la penna, la intinse nell'inchiostro, e poi esitò con la mano sospesa sulla carta. Mi gettò uno sguardo pensieroso: «Ecco!» esclamò, come se solo allora avesse scoperto la soluzione di un problema che lo assillava da tempo. Cominciò a scrivere, terminando con un complicato svolazzo, posò la penna e sollevò la carta: quello strano foglio era così sottile che lasciava filtrare la luce proveniente dalla porta aperta e intravedere i caratteri vergati sul retro. Tenendosi lo scritto davanti al viso, l'emiro strinse gli occhi e borbottò in tono soddisfatto. Poi si avvicinò alla porta, gridò qualcosa e tornò allo sgabello. Poco dopo vidi comparire sulla soglia un omino dalla pelle scura, con indosso una tunica bianca lunga e fluttuante. Aveva bei lineamenti e la carnagione simile a una lustra castagna; sulla testa rasata portava uno zucchetto bianco. Entrando nella stanza, si inchinò e si affrettò a raggiungerci al tavolo, dove rimase a fissarmi con curiosità. «Il califfo al-Hafiz rimarrà assente dal Cairo per un lungo periodo» mi informò Abu Rafidi. Intinse di nuovo la penna e tracciò alcune correzioni a ciò che aveva scritto. «Soltanto lui può decidere del vostro destino» aggiunse, soffiando sull'inchiostro fresco per asciugarlo. «Perciò vi verrà concessa una stanza a palazzo sino al suo ritorno.» Posò la penna e, accennando all'ometto vestito di bianco, mi disse: «Questo è Wazim Kadi. Sarà il vostro...» si interruppe cercando la parola giusta «... il vostro, per così dire, carceriere. Si occuperà delle vostre necessità durante la vostra permanenza qui». «Sarò un prigioniero?» domandai. «Sarete...» esitò «... un ospite. Almeno finché il califfo non sarà di ritorno.» «Perdonate la mia domanda, emiro» dissi «ma quando è previsto che ritorni?» «Lo sa soltanto Allah» rispose lo scriba «e Allah è molto riservato» sorrise. «O almeno non si confida con Rafadi. Coraggio, ora Wazim vi accompagnerà nella vostra stanza dove potrete mettervi a vostro agio.» Così ebbe inizio la mia amicizia con Wazim, l'impareggiabile carceriere saraceno che mi ha reso importanti servigi in molte occasioni, svolgendo
per me incarichi grandi e piccoli. È stato lui a fornirmi la quantità infinita di penne e di inchiostro con cui scrivere e che mi ha fatto conoscere lo strano materiale chiamato papiro che gli egiziani usavano al posto della pergamena. Essi lo fabbricano con le canne dall'alto pennacchio che crescono spontanee sulle rive del Nilo Sottile ma resistente, e con la caratteristica di poter essere arrotolato, il papiro è superiore alla pergamena, tranne che per un aspetto non trascurabile: non vi si possono cancellare gli errori. Diversamente dalla pergamena, dove un'eventuale macchia o una lettera sbagliata possono essere grattate via con cautela, lasciando un nuovo strato pulito al di sotto, qualunque sbaglio compiuto scrivendo sul papiro è eterno. Nonostante le differenze di razza e di fede, non avrei potuto desiderare un servitore migliore di Wazim Kadi: sempre gentile e premuroso, si è preso cura di me come un vero angelo; come Padraig, anche se a modo suo, e mi manca molto. Ora, mia diletta Caitrìona, cuore del mio cuore, devo concludere il mio resoconto troppo lungo, temo, e troppo soggettivo. Ciò che era cominciato come una semplice lettera d'addio è diventato un componimento. Rileggendo ciò che ho scritto, lo trovo quasi del tutto soddisfacente. Se non fosse stato per le assicurazioni del califfo, il quale promette che un giorno le mie pagine ti giungeranno, sarei da tempo piombato nella disperazione più cupa. Ma ci si può fidare dei saraceni, quando danno la loro parola d'onore, sarebbero disposti a morire, o peggio, per mantenerla. La fine, qualunque essa sia, è vicina. Poco fa ho cominciato a udire grida di allarme nei corridoi e nei cortili del palazzo. Adesso si sono intensificate, e ho appena sentito un leggero odore di fumo entrare dalla finestra aperta. Wazim, che ha promesso di informarmi su ciò che sta accadendo, non è ancora ritornato e temo che non sia un buon segno. Se questa storia avrà una fine, temo che sarà un altro a doverla scrivere. Io sono soddisfatto. Chiuderò con una preghiera per te e per tutti coloro che verranno dopo di te: che nella virtù tu possa trovare saggezza... e nella saggezza, pace... nella pace, soddisfazione... nella soddisfazione, gioia... nella gioia, amore... nell'amore, Cristo... e in Cristo, Dio e la vita eterna. Amen. Cait, anima mia, ti dico addio fino a quando non ci incontreremo di nuovo in Paradiso. Quaranta
Visto che non potevo forzare la porta, rimasi alla finestra a guardare il bagliore rossastro che colorava il cielo. C'erano incendi in città e udivo lo spaventoso lamento simile all'ululato di un vento impetuoso di mille voci che urlavano e piangevano. Ora l'odore del fumo mi arrivava più forte, e immaginai che le fiamme si sarebbero propagate velocemente nei quartieri sovraffollati, passando da una strada all'altra finché l'intera città non ne fosse stata avvolta. Stavo cominciando a pensare a cosa avrei fatto se il fuoco avesse raggiunto il palazzo, quando sentii il rumore della chiave nella serratura: mi voltai mentre la porta si apriva e vidi Wazim Kadi con il viso sporco di polvere e di fuliggine e il lungo caftano macchiato e intriso di sudore. Aveva una ferita sanguinante sul capo e ansimava. «Wazim!» esclamai, correndogli incontro. «Cos'è suc...» Si guardò alle spalle e mi accennò di tacere, poi con un gesticolare frenetico mi fece capire che dovevo seguirlo: «Dobbiamo sbrigarci, Da'ounk!» sussurrò in fretta con voce rauca. Afferrai il mio rotolo di papiri, lo avvolsi in un pezzo di stoffa, lo legai con una cinghia che mi misi a tracolla e raggiunsi il mio compagno sulla porta: «Fammi strada» ordinai, e uscii dalla stanza senza indugio. Mi guidò lungo il corridoio, poi giù per una rampa di scalini e in un altro corridoio che percorremmo sino al cortiletto interno su cui si affacciava la mia finestra. A questo punto si mise a correre, ma io lo afferrai per un braccio e gli chiesi: «Wazim, aspetta! Dimmi cosa sta succedendo. Dove stiamo andando?». «La situazione è grave» rispose scuotendo la testa. «Non c'è tempo. Dobbiamo sbrigarci.» «Avanti, dimmelo!» Si voltò: aveva un'espressione cupa e i suoi occhi brillavano nella luce livida del cielo. «È scoppiata una rivolta» mormorò con voce tremante. «Molti sono stati uccisi. Hanno dato fuoco al gran bazar, e il califfo è fuggito nella cittadella. Dobbiamo fare in fretta se vogliamo metterci in salvo.» «I soldati, Wazim: dove sono?» «Alcuni stanno proteggendo il califfo» rispose. «Ma la maggior parte è stata mandata a sedare la rivolta.» «E il palazzo? Ce ne sono?» «Qualcuno, ma non molti» cercò di liberarsi il braccio. «Venite da questa parte. Dobbiamo sbrigarci a raggiungere il fiume: i vostri amici vi
stanno aspettando.» «I miei amici? Vuoi dire Padraig?». Dopo tanto tempo, riuscivo a malapena a credere alle sue parole. Poteva essere vero? «Padraig è qui, al Cairo?» «Sì, lui e gli altri. C'è anche Giordano Ippolito. Hanno una nave. Venite, vi stanno aspettando.» Cercò di liberarsi, ma io lo tenni stretto. «Prima devo fare una cosa.» «No, vi prego Da'ounk. Non c'è tempo. I soldati possono tornare da un momento all'altro. Dobbiamo lasciare il palazzo prima che scoprano che vi ho liberato. Ho promesso ai vostri amici che vi avrei condotto da loro. Aspettano al molo, dobbiamo affrettarci.» «Non posso andarmene» insistetti. «Mi serve il tuo aiuto, Wazim. Adesso ascolta attentamente.» Lo afferrai per le spalle e lo guardai dritto in viso: «Il giorno in cui sono stato portato qui, hanno consegnato anche molti doni per il califfo». «Doni?» ripeté, cominciando a spaventarsi. «Non pensate a queste cose. Dobbiamo andar via subito.» «Sai perfettamente di cosa sto parlando» ribattei, cercando di mantenere un tono pacato e ragionevole. «I doni del califfo di Baghdad. Che fine hanno fatto?» «Probabilmente sono stati portati nella tesoreria di palazzo» ammise «ma...» «Portamici!» gli ordinai. «Portamici subito.» «Ma è impossibile! Non possiamo andarci. La porta della tesoreria è chiusa da un enorme lucchetto e solo il califfo ha le chiavi. Non possiamo aprirla.» «Se non mi aiuterai, dovrò trovarla da solo» lo interruppi facendogli credere che sarei andato per conto mio. «Giordano mi ha pagato perché vi conducessi alla nave sano e salvo. Come potrò farlo se non verrete con me?» Mi afferrò la manica: «Vi prego, Da'ounk, è molto pericoloso restare qui». Il tono supplichevole della sua voce mi allarmò: «Perché?». «Ho sentito dire che i fida'in sono in città» confessò. «Potrebbero arrivare nella reggia proprio adesso. Se ci trovano ci uccideranno. Dobbiamo andarcene finché possiamo.» «Sì, ma prima dobbiamo entrare nella tesoreria.» Alzò gli occhi al cielo e tirò un sospiro profondo, rendendosi conto che era inutile insistere. Borbottando oscuri improperi, mi condusse fuori dal
cortile e mi portò in un'altra ala del palazzo. Percorremmo un lungo corridoio e uscimmo nel grande parco che avevo veduto al mio arrivo. In fretta e senza dire una parola seguimmo un vialetto sprofondato nell'oscurità, passammo accanto a vari edifici e infine raggiungemmo furtivamente un'alta costruzione, separata dall'ala principale e circondata da un prato fiorito. Ci fermammo sul limitare del giardino nascondendoci sotto un albero basso. Moltissimi fiori si aprivano di notte, e l'aria era impregnata di un profumo dolce e inebriante, così intenso da farmi pizzicare il naso. Starnutii tre volte e decisi che era tempo di muoversi. Non c'era nessuno lì fuori e neanche negli edifici circostanti. «È qui che viene custodito il tesoro?» chiesi perplesso. Infatti, benché al piano terra non ci fossero finestre, i piani superiori presentavano terrazze ampie e profonde, in gran parte chiuse da graticci, ma in parte completamente aperte. Queste ultime sembravano permettere l'accesso a chiunque fosse riuscito ad arrampicarvisi. «Siamo nell'harem» mi informò Wazim. «È il luogo più protetto del palazzo; ci sono soldati di guardia giorno e notte.» La ragione, mi spiegò, era che lì vivevano le componenti di sesso femminile della famiglia del califfo: mogli, concubine e figlie. «Non vedo nessuna guardia» osservai. «Hanno preso le donne e sono fuggiti nella fortezza.» «E allora, dove sono le stanze del tesoro?» «Sotto l'harem» rispose Wazim. «Sotto terra, capite?» Mentre lo diceva, mi ritornò in mente il mio incontro notturno con il califfo e il suo ingresso inaspettato attraverso il passaggio segreto. Con grande accortezza, le stanze del tesoro erano state costruite sotto l'harem, così che i soldati potessero fare la guardia a entrambi. Non si vedevano luci alle finestre e l'enorme edificio era completamente silenzioso. «Da questa parte» dissi, dirigendomi verso l'ingresso. Le guardie non c'erano, ma la porta era sprangata e i catenacci fissati con enormi lucchetti di ferro chiusi a chiave. «Vedete» mi sussurrò Wazim, avvicinandosi circospetto. «È tutto chiuso. Non possiamo far nulla. Andiamocene.» «Deve esserci un altro modo per entrare.» «Non c'è» affermò Wazim. «Questo è l'harem, c'è un solo ingresso.» «Proprio perché è l'harem» ribattei «deve esserci un altro modo per entrare.» Anche se non mi intendevo molto di simili faccende, mi sembrava improbabile che il califfo rendesse note all'intero palazzo le sue visite al-
l'una o all'altra delle molte mogli. Ritenevo più probabile che, come per la stanza dietro alla sala del trono, ci fosse un accesso più riservato. Guardai gli altri edifici che circondavano il giardino: sulla sinistra e alle spalle dell'harem si allungavano due file di magazzini, sul terzo lato si ergeva un'ala del palazzo e sul quarto una costruzione tozza, con quattro aperture a forma di imbuto sul tetto. «Quello cos'è?» chiesi. «Le cucine dell'harem.» Mi diressi da quella parte. «Non troverete niente lì» disse Wazim, venendomi dietro. A prima vista mi sembrò che avesse ragione. La lunga stanza dal soffitto basso era deserta, il grande focolare quadrato vuoto e i forni freddi. Sul tavolo accanto all'entrata c'erano alcune pagnotte e un cesto di pere, ma non riuscii a distinguere nient'altro. Mi feci più addentro e sfiorai con la mano il bordo in rilievo del camino. «Cosa state facendo?» sussurrò Wazim. «Ci troveranno. Allontaniamoci da qui, amico mio.» Ma io avevo trovato quello che stavo cercando: un mucchietto di paglia che doveva servire per accendere il fuoco. Ne presi una manciata, la strinsi nel pugno, mi chinai, allungai il braccio fino al centro del camino, scostai lo strato superficiale di cenere sotto cui covavano le braci ancora accese, vi accostai la paglia, soffiai delicatamente e in breve fui ricompensato dal nascere di una pallida fiammella. Non appena la paglia prese fuoco, cercai frettolosamente una candela. Ne trovai addirittura tre: una la accesi, un'altra la infilai nella cintura, la terza la porsi a Wazim dicendogli di rimanere di guardia accanto alla porta. «Avvisami se qualcuno entra in giardino» gli raccomandai. Alla luce della candela feci un'accurata ricerca nella cucina, fermandomi soltanto per sbocconcellare una pagnotta. Era rafferma ma mangiabile e proseguii nella mia ricognizione masticando. Mi spinsi fino ai forni e, dietro di essi, scoprii una porticina attraverso cui veniva trasporta la legna usata in cucina. La oltrepassai, e mi ritrovai in un cortiletto pieno di cataste di legna, di fascine e di balle di paglia. Allora, riparando la fiamma con la mano, mi insinuai dietro alla fila di forni e, in mezzo a due di essi, trovai una botola di legno. La sollevai, avvicinai la candela all'apertura e vidi una breve rampa di scale che conduceva sottoterra. Spostai silenziosamente il coperchio della botola e lo appoggiai da una parte, poi andai a chiamare Wazim. Dando un'occhiata alla mia scoperta, lui commentò: «È solo il condotto di scarico della cenere, serve a pulire i forni. Non c'è niente lì dentro».
Lo ignorai, scesi le scale e scoprii che aveva ragione: una struttura muraria di mattoni lungo le pareti di pietra formava una specie di cassone per raccogliere la cenere che cadeva dalle griglie dei forni sovrastanti. Un camminamento permetteva agli addetti alle pulizie di raccogliere la cenere; a un'estremità c'era una presa d'aria per alimentare i fuochi dal basso e, dall'altra parte, una porticina. Ordinai a Wazim di seguirmi e la raggiunsi. Sollevai il chiavistello, aprii ed entrai in un antro buio e umido. Si sentiva gocciolare dell'acqua in lontananza. «È la cisterna dell'harem» mi informò Wazim. La sua voce rimbombava su pareti invisibili. «Andiamo, non c'è niente qui.» «Sì che c'è» ribattei. Sollevai la candela, l'avvicinai al muro, e illuminai una torcia infilata in un sostegno di ferro accanto alla porta. La presi, l'accesi con la fiammella e la luce più forte rivelò un parapetto che creava un angusto passaggio attorno alla vasca della cisterna. Al termine c'era un'altra porta. «Da questa parte» dissi. La porta conduceva a una piccola stanza su cui si apparivano due corridoi, uno a destra e l'altro a sinistra. Visto che eravamo nei sotterranei dell'harem, ne dedussi che uno dei due doveva necessariamente arrivare alla tesoreria. Mentre cercavo di decidere quale imboccare, udii una serie di colpi dal corridoio di destra: prima tre, poi un breve silenzio, poi altri tre. Li sentì anche Wazim e mi tirò per la manica: «C'è qualcuno, laggiù» sussurrò spaventato. «Se restiamo qui ci troveranno.» «Stammi vicino» mormorai, incamminandomi lungo il cunicolo stretto e basso in pietra e mattoni. Tenendo la torcia davanti a me, procedetti con cautela, continuando a porgere l'orecchio al rumore, che diventava sempre più forte. Nella parte alta delle pareti della galleria si apriva una fila di strette fessure, non più grandi di una mano, da cui sentivo entrare l'aria. Il corridoio finiva una ventina di passi più avanti e si univa a un altro passaggio più largo in discesa. In quel punto il rumore dei colpi era più forte e vi si univa un altro suono, forse di voci, troppo attutite e indistinte per essere comprensibili. Sempre più incuriosito, scesi lungo il budello seguito da Wazim che, tremante, mi tirava il braccio esortandomi a ogni passo a tornare indietro. Raggiungemmo un'altra biforcazione, che intravidi al debole tremore della fiamma a qualche decina di passi davanti a noi. Il battito era diventato un martellare continuo, intervallato da mormorii e sussurri. «Resta qui» ordinai a Wazim, poi gli passai la torcia, mi sfilai dalle spal-
le l'involto di papiri che tenevo a tracolla e gli diedi anche quello. «Vado a vedere cos'è.» Tentò di protestare, ma gli feci segno di tacere, gli indicai il punto in cui doveva fermarsi e proseguii da solo. Avvicinandomi alla fine della galleria, mi accorsi che era chiusa da una grossa grata di ferro. Allora mi sdraiai ventre a terra e percorsi gli ultimi metri strisciando. Sbirciai tra le sbarre, e scorsi un altro cunicolo che formava un angolo con quello dove mi trovavo. Illuminati da una mezza dozzina di torce sparse tutte intorno, c'erano due uomini con in mano delle piccole accette che stavano cercando di abbattere una pesante porta di legno, rinforzata da fascioni di ferro, che resisteva ai loro assalti. Erano due arabi, ma portavano vesti nere e turbanti marrone scuro che non avevo mai visto tra i soldati o le guardie del califfo. La loro espressione determinata e il loro accanimento mi convinsero di aver finalmente trovato la sala del tesoro. Mi allontanai dalla grata, pensando che fosse meglio soprassedere finché non avessi escogitato un piano per sbarazzarmi di quegli indesiderati compagni di rapina, quando udii una voce. I due smisero per un momento di menar colpi e la galleria sprofondò nel silenzio. Incuriosito, mi accostai nuovamente alle sbarre: gli arabi avevano abbassato le accette e stavano parlando con qualcuno. Il nuovo venuto era nascosto alla mia vista dall'angolo del cunicolo, ma qualcosa nel timbro della sua voce mi colpì, spingendomi a indugiare. Dal modo in cui i due ladri indicavano l'uscio con le accette, brontolando, mi sembrava che si stessero lagnando dei loro inutili sforzi con un superiore spazientito che non dimostrava troppa comprensione per le loro difficoltà. Infatti, sotto i miei occhi, uno dei due gli porse l'accetta, facendogli segno di provare lui stesso. L'arnese rimase sospeso a mezz'aria tra i due, e per un attimo pensai che quell'altro non l'avrebbe preso. Poi stese il braccio e l'afferrò, facendosi avanti e colpendo la porta. La lama picchiò contro il legno una, due, tre volte, infine l'uomo si diede per vinto e restituì l'accetta. Poi si voltò, e a me si fermò il respiro in gola non appena ne vidi il volto alla luce tremolante delle torce: era quello del comandante templare, Renaud de Bracineaux. Quarantuno
Dopo che Bracineaux ebbe restituito l'accetta all'arabo, si mise a discutere con lui. Il mio primo impulso fu di chiamarlo, di fargli sapere che ero lì, ma vederlo mentre dava istruzioni in arabo mi parve strano e inquietante. Così esitai e mi limitai a osservare in silenzio. Stavo ancora cercando di decidere cosa fare quando sentii Wazim infilarsi di soppiatto accanto a me; così gli feci segno di restare zitto appoggiandomi l'indice sulle labbra e poi gli permisi di guardare la scena. Non appena accostò il viso alla grata, ebbe una reazione singolare: annusò l'aria un paio di volte, si immobilizzò con gli occhi pieni di terrore, e si affrettò a indietreggiare, rintanandosi nel buio del cunicolo alle nostre spalle. Io lo seguii, fermandomi a raccogliere la torcia che si era lasciato cadere di mano. Quando lo raggiunsi alla biforcazione, i colpi erano ricominciati. Lo afferrai per un gomito mentre si infilava nell'altra galleria e lo trattenni: «Chi sono?» chiesi. «Li hai già visti prima? Sai chi sono?» «Fida'in!» esclamò lui ansimando. «Ne sei certo?» Annuì, con gli occhi ancora spalancati per il terrore. «L'odore» disse. «Avete sentito quello strano odore?» Ora che me lo faceva notare, ammisi di aver sentito una fragranza penetrante. «Pensavo che fosse il fumo delle torce.» «È hashish. Dobbiamo andarcene da qui. Se i fida'in ci trovano, ci uccidono.» I templari insieme ai fida'in? Non era la setta di fanatici che aveva causato la morte del figlio di Giordano e lo aveva costretto ad abbandonare Damasco? In qualunque altro momento avrei dubitato di un'alleanza tanto imprevedibile ma, per quanto sembrasse assurdo, sapevo che Wazim diceva la verità. Cosa cercavano nella sala del tesoro del califfo? Non l'oro e l'argento, pensai; o meglio, non solo. La presenza di Renaud de Bracineaux mi suggeriva che volevano impadronirsi della Croce Nera. Il bottino raccolto da Ghazi dopo il massacro dei crociati non era enorme, ma il templare sapeva bene che la perdita della Santa Croce era una sciagura più grave della morte di Boemondo e della distruzione del suo esercito. Più ci riflettevo, più mi convincevo che la mia ricerca e quella di Bracineaux avevano il medesimo obiettivo. Se il templare avesse trovato la Croce per primo, io l'avrei persa per sempre. «Vi prego, Da'ounk, andiamo via. Tutti i tesori del mondo non vi serviranno a niente, se sarete morto.»
«Non m'importa nulla dell'oro del califfo» risposi, decidendo che era giunto il momento di fidarmi di Wazim e di dirgli la verità: «Ascolta, amico mio, c'è una cosa che devi sapere». E gli raccontai del legno della Croce di Cristo che era custodito nella cripta del tesoro. «Signore onnipotente...» sussurrò Wazim, cadendo poi in un attonito silenzio. La sua reazione mi sorprese. Non mi sarei mai aspettato che un saraceno dimostrasse tanta venerazione per una reliquia cristiana. Ma non c'era tempo per fare domande. «È per questo che i templari sono qui. Sanno che è stata strappata a Boemondo e vogliono riprendersela.» «Allora ci riusciranno di certo» concluse Wazim tristemente. «Non possiamo combattere contro templari e fida'in, e tantomeno sconfiggerli.» «Non intendo combatterli» replicai «e neppure restare in disparte a guardarli portare via la Croce.» Mi misi a tracolla l'involto dei papiri e mi incamminai lungo il cunicolo nella direzione da cui eravamo venuti, con un peso sul cuore. Consideravo Bracineaux un amico; in qualunque altra circostanza lo avrei chiamato e abbracciato come un fratello. Ma il destino crudele, aiutato dalla follia di Boemondo, ci aveva messi uno contro l'altro per il possesso della Croce Nera. Se fossi riuscito a impadronirmene, non l'avrei ceduta né ai templari né a nessun altro. Avevo fatto un giuramento, e non avevo intenzione di tradirlo. «Vi prego, possiamo andarcene ora?» chiese Wazim, che continuava a seguirmi docilmente. «Non finché non avremo trovato un altro modo per entrare nella cripta.» «Ma non ce ne sono. Volete mettervi in testa che vi si custodisce il tesoro? Non esiste nessun altro accesso.» «Lo avevi detto anche per l'harem.» Ci affrettammo a raggiungere il primo bivio, dove la galleria si biforcava: poiché a sinistra si ritornava alla cisterna, mi incamminai verso destra. Quasi subito incontrammo un vano nella parete, con alcuni gradini che probabilmente portavano all'harem. Di fianco alla scala, infilata in un sostegno, c'era una torcia spenta. La presi, la diedi a Wazim e proseguii. Qualche passo più avanti il cunicolo si stringeva, scendendo; due passaggi si aprivano su entrambi i lati: quello a sinistra era alto la metà di un uomo, quello a destra poco di più. Quando passai davanti a quest'ultimo, una lieve corrente d'aria tiepida e profumata di fiori fece tremare la fiamma della torcia. Illuminai il vano, ma riuscii a vedere ben poco, a parte due condotti d'areazione, uno rivolto
verso il basso e l'altro, verticale, diretto verso l'alto. Mi infilai nel secondo, guardai in su verso lo sfiatatoio e, oltre il foro quadrato, scorsi il cielo trapunto di stelle. Ma non era il momento di perdere tempo, perciò mi affrettai a proseguire lungo la galleria, la cui pendenza andava man mano aumentando. Di lì a poco cominciarono a comparire dei gradini in discesa; prima uno, poi due, poi tre uno dopo l'altro: non si vedevano più né biforcazioni né aperture laterali e il cunicolo sembrava spingersi sotto terra all'infinito. Dopo un po' mi persi d'animo e cominciai a pensare che Wazim avesse ragione. Quando raggiunsi una lunga rampa di scalini di cui, alla fievole luce della torcia, non riuscivo a vedere la fine, mi arrestai. «Perché vi siete fermato?» chiese Wazim ansimando un poco. «Ascolta.» In fondo al cunicolo, a una certa distanza a giudicare dal rumore, si udiva scorrere dell'acqua; probabilmente si trattava dell'acquedotto che riforniva il palazzo. «Si direbbe un fiume» suggerì il mio compagno. «Dobbiamo esserci lasciati la reggia alle spalle: potrebbe essere il Nilo.» «Forse» ammisi, e ripresi ad avanzare. Le scale conducevano sempre più giù e, poco dopo, sentii aumentare l'umidità. Gli ultimi gradini scomparivano sotto la superficie dell'acqua, tanto che mi ritrovai con i piedi a mollo senza accorgermene. Nello scalino su cui mi ero fermato era murato un anello di ferro a cui era legata una corda: mi chinai per tirarla verso di me, ma doveva essere attaccata a qualcosa di pesante che rimaneva fuori dal piccolo cerchio di luce. Porsi la torcia a Wazim, afferrai la corda con entrambe le mani e la strattonai più forte: ci fu un cigolio e comparve una barca. Wazim la osservò e disse: «Siamo nel canale del califfo al-Hakim. Conduce al fiume». «Lo conosci?» Si strinse nelle spalle: «Ne ho sentito parlare. È stato scavato più di cent'anni fa. Al-Hakim non era benvoluto dal popolo. Fece costruire molte cose: la reggia, l'harem, la fortezza, sì, molte cose... ma faceva pagare tasse enormi per tutti questi lavori e a quel tempo scoppiarono molte sommosse. Si racconta che abbia fatto aprire questo canale segreto per mettersi in salvo qualora i rivoltosi avessero attaccato il palazzo». Indicando l'acqua, aggiunse: «Ci sono tante leggende, ma sinora le avevo considerate prive di fondamento».
Stavamo solo perdendo tempo; ogni istante che passava dava a Renaud l'agio di proseguire indisturbato nella sua ricerca e, parallelamente, ritardava la mia. Così ci affrettammo a tornare indietro, facendo gli scalini a due a due così che arrivammo in cima al cunicolo senza fiato. Arrivammo nel punto in cui si aprivano i due bassi passaggi e decisi di provare a infilarmi in quello più angusto, sulla mia destra. Affidai ancora una volta a Wazim il rotolo di papiri, gli raccomandai di aspettarmi ed entrai carponi nel varco; era asciutto, pieno di polvere e terminava dopo qualche metro. Poiché era impossibile girarsi, fui costretto a procedere all'indietro. «È chiuso con mattoni» dissi quando ebbi di nuovo raggiunto Wazim. «Proviamo nell'altro.» Mi insinuai nel secondo passaggio: qui il soffitto era più alto, ma non riuscivo comunque a stare in piedi; dopo qualche passo fui costretto a procedere di fianco e, continuando, dovetti strisciare con la schiena contro il muro, cosa assai disagevole, visto che dovevo anche chinarmi. Lo percorsi interamente, con lentezza, finché non raggiunsi una svolta a gomito, oltre la quale il buio era impenetrabile. Se non avessi sentito un filo d'aria sul viso, sarei tornato indietro, invece gridai a Wazim di raggiungermi e, dopo aver fatto un profondo respiro, mi infilai a fatica nel varco e attesi il mio compagno dietro la curva. Lo spiffero, leggero ma costante, faceva tremare la fiamma della torcia, ormai quasi completamente consumata. «Presto si spegnerà» osservò Wazim. «Dalla a me» gli dissi «e tieni pronta l'altra.» Per fortuna, dopo la svolta, la galleria tornava ad allargarsi. Avanzando, giungemmo a una camera triangolare. Essa si apriva su una ripida scala di pietra che scendeva a spirale fino a una stanzetta da cui partiva uno stretto cunicolo che si addentrava in una nuova direzione. Ci fermammo il tempo necessario ad accendere la seconda torcia, io mi rimisi a tracolla il prezioso rotolo di papiri e proseguimmo. Questa nuova galleria sboccava sul ciglio di una rampa di scale in discesa, in fondo alla quale ci trovammo di fronte a ciò che rimaneva di una porta. Era ancora sbarrata, ma il legno vecchio e marcito era stato sfondato in basso, forse a calci, e i frammenti ingombravano la soglia. Tenendo la torcia davanti a me, mi chinai per passare attraverso il varco e, scavalcati i pezzi di legno, entrai in una stanzetta con il soffitto a volta dov'erano affastellati rotoli su rotoli di papiri consunti e legati da cordicelle. Senza indugiare, superai un arco e penetrai in un camerone stipato di
bardature e finimenti per cavalli e cammelli e, in particolare, di selle da parata intarsiate d'oro e d'argento, dagli alti schienali di cuoio pregiato, sostenute su cavalletti o semplicemente ammucchiate a terra, le une sulle altre. C'erano anche decine di lance, allineate alla parete, la maggior parte con vessilli e stendardi legati alla punta smussata. In un angolo vidi quattro carri appoggiati sugli assali, le cui ruote dipinte erano state addossate contro una colonna. «Wazim» mormorai «a quanto pare siamo nella sala del tesoro. Adesso non ci resta che trovare la Croce Nera.» Mi ero aspettato che la cripta fosse un'unica, enorme stanza stracolma di ricchezze, di mucchi di oggetti preziosi, di forzieri pieni di monete, di casse di stoviglie d'oro e d'argento, di scrigni colmi di gioielli e di gemme e di un'infinità di cose simili. Invece, si trattava di un vero e proprio appartamento: una stanza era collegata all'altra tramite corridoi, e vi erano gallerie contigue, camere e saloni, vestiboli e disimpegni. Ci inoltrammo oltre i primi due stanzoni e giungemmo a una lunga galleria a doppia volta, divisa da una fila centrale di colonne, con due porte basse su entrambi i lati. Eravamo appena entrati quando riecheggiò il rumore di colpi che per un po' non avevamo più sentito. Ora sembravano più forti, più precisi, più misurati e pensai che per abbattere la porta si stessero impiegando uomini più riposati, o attrezzi più adatti, oppure entrambe le cose. Non sapevo per quanto tempo il legno rinforzato con il ferro avrebbe potuto resistere, ma supposi che non ci restava molto tempo per trovare ciò che cercavamo e metterci in salvo. C'erano innumerevoli stanze da esplorare e avevamo una sola torcia che, oltretutto, non sarebbe durata a lungo. Così, senza un attimo di esitazione, ci mettemmo all'opera, cominciando dalle sale più vicine. Le prime due contenevano caraffe, brocche e vasi di vario tipo: poiché non vidi impronte di passi recenti sul pavimento coperto di polvere, non ne oltrepassai neppure la soglia. La terza era piena di tappeti arrotolati o piegati; la quarta di bauli e cassoni. Pensai che avrei potuto trovarvi parte delle ricchezze giunte al Cairo insieme a me, ma anche qui nessun piede aveva calpestato la polvere da molto tempo, perciò passammo alla camera successiva. Nel frattempo i colpi contro la porta diventavano più costanti, più forti e più frequenti, come se coloro che si trovavano al di là di essa fossero più determinati. Avevamo perlustrato soltanto quattro stanze, e ne restavano ancora almeno il doppio. Alla velocità con cui procedevamo, la torcia si sarebbe esaurita senza che avessimo terminato; sempre che i templari non
fossero riusciti prima ad abbattere la porta. «Deve esserci un modo più facile» borbottai, dirigendomi in fretta verso la soglia della sala successiva. E allora mi venne in mente: la polvere sul pavimento, ma certo! Abbandonai l'esplorazione delle due stanze in fondo alla galleria e mi diressi verso quelle più vicine all'ingresso. Tenendo la torcia inclinata verso il basso, non faticai a capire che la camera sulla destra non era stata usata di recente. Ammonii Wazim di restare in silenzio, e mi trasferii in fretta sul lato opposto della galleria, passando accanto alla porta di accesso che stava cedendo. La sentii squarciarsi sotto i fendenti delle scuri e udii le voci concitate degli uomini che erano riusciti a incrinare il legno massiccio. Giunto alla soglia dell'ultima stanza, mi fermai e accostai la torcia al pavimento, trattenendo il respiro. E finalmente vidi una scia di orme lasciate dal passaggio di molti uomini. «Da questa parte» sussurrai. Entrai e mi sentii mancare il cuore. Non si trattava di una stanza, ma di un'altra galleria, più grande di quella che avevamo appena esplorato. La fiamma della torcia stava tremando, il combustibile era quasi finito e dal rumore era evidente che la porta era sul punto di cedere e che gli uomini di Bracineaux sarebbero presto riusciti a fare irruzione. Non c'era nient'altro da fare che andare avanti e sperare per il meglio. Tenendo bassa la torcia, mi mossi più in fretta che potevo, seguendo le orme nella polvere. Ma dentro la galleria la pista scomparve di colpo, perché le impronte erano disseminate sull'intero pavimento. Mi sembrava che la maggior parte di esse fossero dirette verso le stanze a sinistra, perciò cominciammo da lì. Nella prima stanza era ammassata una quantità di cofanetti e di scatole di legno, alcuni scolpiti, altri intarsiati di madreperla. Una rapida ispezione ci rivelò che contenevano boccali, ciotole e campanelli. «Tieni» ordinai a Wazim porgendogli la torcia, poi presi un cofanetto, lo svuotai, lo portai nella galleria e lo fracassai contro una colonna. Il legno, vecchio e secco, finì in pezzi. Dissi a Wazim di ridurlo in frammenti ancora più piccoli e andai di corsa a prenderne un altro. Feci la stessa operazione con altre tre scatole, poi accatastai i pezzi di legno alla base della colonna e, usando un lembo della fodera di uno degli scrigni, diedi fuoco alla piccola catasta con la torcia. «Resta qui e alimenta il fuoco» raccomandai a Wazim, quindi raccolsi di nuovo la torcia e mi allontanai.
La seconda stanza conteneva giare di terracotta colme di oli profumati; la terza, rotoli e pezze di stoffa intessute con fili d'oro e d'argento, e ricchi damaschi multicolori. Guardai in altre tre sale, stracolme di oggetti, ma non c'era niente che facesse parte del bottino dell'emiro Ghazi. Mentre passavo in fretta alle stanze successive, sentii un forte schianto provenire dall'entrata. Il rumore sembrò riempire l'intera cripta, rimbombando attraverso le gallerie sotterranee, e fu seguito da un lungo silenzio; poi il battere delle accette riprese forsennato. Completai rapidamente l'esplorazione delle ultime tre camere: una era poco più che uno stretto bugigattolo e vi erano conservati soltanto alcuni vasi di maiolica. In alto, sulla parete di fondo, c'era una grande presa d'aria, di forma quadrata, schermata da una grata di ferro semiaperta. Le altre due stanze erano entrambe piene di armi da parata: cataste di scudi rotondi di legno dipinto, mucchi di alabarde con nappe di seta, cumuli di scimitarre adagiate nelle loro custodie, file di elmi agganciati alle pareti o posati sul pavimento. Dopo aver cercato inutilmente, decisi di dedicarmi all'altro versante della galleria. Intanto, sentendomi prendere dallo sconforto, cominciai a pregare: «Re dei Re, se Ti sta a cuore la dignità del Tuo Santo nome, aiutami a ripristinarla». In realtà, non so cosa significasse quella frase che mi venne spontaneamente alle labbra, ma la risposta alla mia supplica fu immediata, anche se giunse da una fonte inattesa. «Da'ounk!» sentii Wazim gridare alle mie spalle. Mi voltai e vidi il piccolo saraceno in piedi accanto alla colonna, nel punto dove il fuoco ardeva luminoso nel buio della galleria. Stava indicando un camera dall'altra parte dell'ingresso: «Guardate!». Mi girai di scatto e scorsi il bagliore di una torcia sparire all'interno. «Hai visto chi era?» chiesi, correndo verso la porta. «Un monaco» rispose. O, almeno, così mi parve di capire; era una risposta priva di senso, ma non era il momento di fare domande. Mi affrettai a raggiungere la stanza dov'era entrato il monaco e vi guardai dentro: era una grande sala con molte colonne, che formavano corridoi nei quali erano stati accatastati mucchi di oggetti, ma non c'era traccia del monaco con la torcia. Che si fosse trattato solo di un gioco d'ombre creato dalle fiamme? O di un parto dell'immaginazione? Allora vidi il forziere bordato d'oro che conteneva la testa di Boemondo, e tutti i miei dubbi svanirono. Avendolo trasportato per tutto il
tragitto da Kadiriq a Damasco, ne avrei riconosciuto il lucido intaglio e le guarnizioni di metallo prezioso anche a occhi bendati. Mentre lo raggiungevo, udii un altro schianto fragoroso proveniente dalla galleria, accompagnato da un lento scricchiolio e da colpi rinnovati. Supposi che la porta avesse parzialmente ceduto e che i templari e i fida'in sarebbero presto riusciti a entrare. Posai la torcia sul pavimento e mi gettai tra gli oggetti che formavano il bottino di Ghazi spostandoli dal mucchio a uno a uno e gettandoli qua e là. Ne riconoscevo molti, il che mi infondeva coraggio. Tuttavia, a mano a mano che la catasta davanti a me diminuiva, cominciavo a perdere le speranze. Si sentì un altro schianto secco, seguito da un lungo, lamentoso scricchiolio, mentre una nuova sezione del portoncino rinforzato di ferro cedeva. Un attimo dopo la torcia, con un ultimo sibilo, si spense. Corsi verso l'ingresso e chiesi a Wazim di portarmi un pezzo di legno acceso. «Ormai sono molto vicini» mi disse, porgendomi la fiaccola improvvisata. «Anche noi» risposi. «La Croce Nera è qui, da qualche parte.» Udii un altro spaventoso scricchiolio, seguito dal rumore del legno spaccato; intere assi venivano divelte. «Cosa volete che faccia, Da'ounk?» «Prega, Wazim.» Con mia grande sorpresa, il piccolo carceriere giunse le mani, chiuse gli occhi e cominciò a cantilenare. Lo lasciai alle sue litanie, presi il legno acceso e, inginocchiandomi accanto al forziere che conteneva la testa imbalsamata di Boemondo, sganciai la chiusura e lo aprii. La luce ondeggiante che giocava sui lineamenti irrigiditi del principe creava l'illusione che stesse cercando di risvegliarsi dal sonno sereno. «Mio Dio, perdonami per ciò che sto per fare» mormorai e avvicinai il pezzo di legno ai capelli del principe. Le fiamme divamparono assai più vivaci e più alte di quanto mi aspettassi: a causa della resina contenuta nella mistura per l'imbalsamazione, la pelle bruciava in fretta. Rimasi per un attimo a guardare, mentre il fuoco lambiva i contorni del volto, cancellando ciglia e sopracciglia, e l'espressione serena dello sventurato principe si liquefaceva tra le fiamme. Poi, con quella macabra lanterna tra le mani, mi trasferii davanti a un'altra fetta di bottino. Là, alla luce della testa fiammeggiante di Boemondo, cominciai a frugare tra gli oggetti accatastati, accompagnato dalle preghiere sussurra-
te a fior di labbra da Wazim, che s'interrompeva solo per esortarmi a fare più in fretta. Altri due schianti fragorosi fecero tremare le mura della cripta, prima che raggiungessi la base del mucchio, ahimè, ancora una volta a mani vuote. La mia frustrazione fu mitigata dal pensiero che rimaneva soltanto un'ultima catasta, e che la Croce doveva essere necessariamente lì. Adesso anche il forziere che conteneva la testa stava bruciando, ed era impossibile maneggiarlo, perciò lo spinsi verso l'ultimo mucchio con un piede, e cominciai a gettare oggetti a destra e a manca. Crack! Un'altra asse cedette con un gemito. «Sbrigatevi!» gridò Wazim dalla soglia della stanza. «Hanno aperto uno squarcio nella porta. Riesco già a vederli.» «Vieni qui!» lo chiamai. «Dev'essere in questo mucchio, da qualche parte. Aiutami.» Si affrettò a raggiungermi e ci mettemmo a rovistare insieme. Incurante, sparpagliai oggetti preziosi dappertutto: gettai via pugnali con il manico tempestato di pietre preziose; scartai con indifferenza uno splendido arco e una faretra d'oro; feci ruzzolare a terra coppe e scodelle d'argento. E, finalmente, vidi la stuoia in cui avevo avvolto la sacra reliquia. Mi ci buttai sopra e la trassi verso di me. Ma, mentre la afferravo, capii che le mie speranze sarebbero state deluse: l'involto era vuoto. La Croce Nera era sparita. Dentro la stuoia trovai una delle fasce d'oro con le gemme incastonate che ricoprivano le estremità della reliquia; l'altra era lì accanto, schiacciata e distorta dai piedi maldestri dei facchini. Con il cuore straziato, mi chinai e la raccolsi. Così, nella luce morente emanata dalla testa in fiamme di Boemondo, annichilito sotto il peso del mio fallimento, sentii che gli occhi mi si riempivano di lacrime. Ripensai ai lunghi giorni di prigionia, in cui avevo vissuto solo della tenue speranza di poter recuperare la reliquia. Invece la Croce Nera era scomparsa. «Da'ounk» chiese Wazim. «Cosa c'è che non va?» «Non c'è più» risposi, lasciando cadere la fascia d'oro. «È tutto finito.» Dal corridoio principale giunse un fragore simile a un tuono: lo schianto del portale divelto che si abbatteva sul pavimento. I soldati dall'altra parte gridarono di gioia. Anche le ultime fiamme si spensero: il forziere, bruciato, si spezzò e il teschio rotolò sul pavimento, con le orbite vuote che mi fissavano e la bocca senza labbra che mi scherniva con un orrido ghigno.
Le ossa ardenti emanarono per un attimo un bagliore rossastro, subito inghiottito dal buio. Wazim mi chiamò di nuovo, ma io non risposi. Non c'era più niente da fare. I soldati ci sarebbero stati addosso da un momento all'altro, e sarebbe finito tutto. Sentii Wazim muoversi nell'oscurità e toccarmi un braccio. Pensai che volesse farmi segno di andar via. «Mi spiace, Wazim. La nostra fatica non è servita a niente.» Intanto, nel corridoio esterno, ciò che rimaneva dei battenti cedette e, con grida di trionfo, i templari si riversarono nella cripta. Quarantadue Rimasi lì, al buio, ad ascoltare le grida esultanti dei templari e dei fida'in che rimbombavano sotto la volta della galleria principale, nelle stanze e nei corridoi, mentre la luce delle loro torce ondeggiava cupa sulle pareti. Sembravano un esercito di spettri usciti dall'oltretomba per saccheggiare il tesoro del califfo. E ci sarebbero riusciti: non c'era nessuno a fermarli. "Templari e fida'in insieme" riflettei. "In quale infausto giorno è stata conclusa quest'inquietante alleanza?" Udii il rumore dei loro passi frettolosi mentre si gettavano sul bottino... una gara che avevo sperato di vincere. Invece avevo fallito. Era una verità resa ancora più brutale dal fatto che avevo osato credere che Dio fosse con me, che guidasse i miei passi, che le mie sofferenze avessero uno scopo, che la mia impresa avesse un senso. Ma era stata tutta una menzogna. Ora me ne rendevo conto, e tale consapevolezza mi faceva torcere il cuore come una serpe tra la cenere rovente. Avrei potuto piangere per la futilità del mio agire, se non fosse stato per il rodimento rabbioso che mi serrava lo stomaco come un nodo. Wazim sussurrò di nuovo il mio nome, scuotendomi con garbo dalla triste fantasticheria in cui ero assorto. «Guardate!» bisbigliò, con voce stupita e insieme deferente. «Il padre santo è qui!» Mi voltai verso di lui e scorsi un debole bagliore dorato, riflesso su una colonna di marmo alle nostre spalle, che svanì prima che potessi individuarne la fonte. Seguii comunque quella debole luce e mi accorsi che la colonna si trovava di fronte allo stanzino delle giare di terracotta, dove ero entrato non molto tempo prima. La luminosità, infatti, sembrava provenire
da quell'andito simile a un sacello. Mi affrettai a varcare la soglia e vidi un uomo vestito di bianco che reggeva una torcia nella mano sinistra. Indossava il saio di un ecclesiastico, tanto che pensai che si trattasse di un monaco di un ordine orientale, e aveva un atteggiamento nobile e modesto, come quello di un venerabile patriarca. Capii subito perché Wazim lo avesse chiamato padre santo, benché avesse il viso e il portamento di un uomo nel fiore degli anni, i capelli e la barba neri e uno sguardo penetrante. Mi fece segno di avvicinarmi, ma io ero talmente sbalordito che non riuscii a muovermi, anche perché il monaco non era illuminato dalla torcia che stringeva in pugno, ed emanava luce propria. Sollevando una mano più perentoriamente, mi esortò lui stesso a raggiungerlo, dicendo: «Vieni, Duncan, sbrigati. Non c'è molto tempo». A quel richiamo, avanzai di qualche passo: «Chi siete, signore, per sapere il mio nome?». «Credi forse, Duncan» rispose, con un tono di lieve rimprovero «che il padrone non conosca i suoi servi? Come potrei dimenticare chi mi ha servito così bene?» «Il Monaco Bianco» mormorai. Wazim cadde in ginocchio, chinò il capo e chiuse gli occhi. «Puoi chiamarmi frate Andrea» ribatté con dolcezza. «Come feci un tempo con tuo padre, ti chiedo: cosa vuoi?» Mi parve un interrogativo singolare: con gli uomini di Bracineaux, avidi di bottino, che avanzavano rumorosamente nella galleria alle nostre spalle, quale differenza poteva fare cosa volessi io? Ma era altrettanto strano che quella domanda avesse di colpo evocato in me l'aria frizzante e tersa delle coste settentrionali della Scozia; le onde scure che diventavano bianche di spuma infrangendosi sulla spiaggia di ciottoli della baia di Caithness e due figure, in piedi sul ripido promontorio, con lo sguardo rivolto al mare, una alta e scarna, l'altra piccolina, un angelo con i lunghi capelli biondi scompigliati dal vento. Erano Murdo, mio padre, e la piccola Caitrìona, che scrutavano l'ampia distesa del mare agitato. In quel momento, non c'era nulla che volessi tanto quanto ritornare in Scozia e stringere i miei amici tra le braccia. «Voglio andare a casa» mormorai, sentendo gli occhi umidi di pianto. «Come tuo padre» commentò il Monaco Bianco «ma lui era troppo orgoglioso per ammetterlo.» «Forse aveva una fibra più resistente di quella del suo sfortunato figlio.»
«Perché sfortunato?» chiese il monaco. «La Santa Luce guida i tuoi passi sul Vero Sentiero. Murdo ha pagato un prezzo molto alto per imparare ciò che tu già sai.» Giunse un urlo dalla sala alle nostre spalle. Wazim, inginocchiato accanto a me con le mani giunte e assorto in preghiera, balzò in piedi e corse sulla soglia dello stanzino. «Io non so nulla» risposi, avvertendo di nuovo tutto il peso del mio fallimento. «E se non sarò aiutato, non vivrò abbastanza a lungo su questa terra da veder nascere un nuovo giorno.» «Oh, uomo di poca fede. Ti ripeterò la stessa cosa che ho detto a tuo padre la prima volta che l'ho incontrato.» «Cioè?» «Abbi fiducia: sei più vicino alla meta di quanto non creda.» In quel momento, Wazim sussurrò con tono allarmato: «Da'ounk! Stanno venendo da questa parte!». Mi girai verso di lui e, intanto, la luce nell'andito cominciò progressivamente a calare. «E se...» cominciai, rivolgendomi di nuovo al monaco. Ma se n'era andato, al suo posto non restava altro che un chiarore che si andava affievolendo. E fu nel guardare quella luce che, nel mio intimo, sentii che aveva detto il vero. «Cosa facciamo?» chiese Wazim, con voce arrochita dall'angoscia. «Tra poco saranno qui!» «Calmati, Wazim» sussurrai. «Vieni via da lì.» Lo afferrai per un braccio e lo tirai nella stanzetta. «Frate Andrea ci ha condotti al tesoro.» Gettò uno sguardo intorno, poi fissò su di me gli occhi spaventati: «Dov'è?» chiese. «Laggiù» risposi, indicando il condotto di areazione, la cui grata era tenuta aperta da una trave vecchia e annerita. «E ci ha anche indicato la via di fuga.» Mentre lo stanzino sprofondava nell'oscurità, con una mano mi afferrai al bordo del condotto e, con un salto, mi issai al livello dell'apertura. Wazim mi sostenne per le gambe, sollevandomi in modo che riuscii a infilarmi nel cunicolo. Da dentro mi sporsi e tirai su il mio compagno. Poi, con rispettosa cautela, presi il pezzo di legno e, con l'aiuto di Wazim, sospinsi delicatamente la pesante grata di ferro, che si richiuse con un tonfo sordo. Proprio in quel momento entrarono due templari. Perquisirono la stanza, cercando anche negli angoli alla luce delle torce e, non avendo trovato nulla, uscirono in fretta. Emisi un profondo sospiro
di sollievo e rimasi un momento lì seduto, per riprendere fiato e riordinare le idee. «Adesso possiamo andarcene» sussurrai a Wazim. «E la Croce Nera?» mi chiese. «La ricerca è finita» risposi. «Ecco, dammi la mano.» Nel buio, gli appoggiai la mano sul pezzo di trave scheggiata che reggevo tra le braccia: come un cieco, egli fece scorrere le dita sui solchi profondi e sulle protuberanze dell'antico legno. In quel momento fummo vinti entrambi dalla commozione mentre, ciascuno a suo modo, veneravamo quella santa reliquia. Mi riscossero le voci dei templari e dei fida'in nella stanza sotto di noi, e mi concentrai sul piano di fuga. Tra le varie possibilità, mi pareva che il condotto di areazione fosse la migliore per evitare di essere scoperti e catturati. Avremmo dovuto arrampicarci, è vero, ma potevamo farcela. Sperimentai in breve che la maniera migliore era proseguire a carponi, sospingendo la Croce. Di lì a poco eravamo riusciti a salire fino al passaggio segreto del piano superiore. Anche se era buio pesto, sentii nell'aria il profumo dei fiori notturni, e capii immediatamente dove ci trovavamo. Allo sbocco del condotto, il cunicolo si divideva in due direzioni opposte: proseguendo sulla destra si arrivava alla cisterna e alle griglie per la cenere situate sotto le cucine, sulla sinistra si raggiungeva il canale sotterraneo. Quest'ultimo ci avrebbe condotti sino al fiume, permettendoci di evitare non solo il palazzo e gli eventuali templari o fida'in appostati nelle vicinanze, ma anche le strade piene di insorti. Decisi che avremmo seguito quel percorso. Mi misi in spalla la Croce e avanzai a tentoni; Wazim mi precedeva con il rotolo di papiri a tracolla, io lo seguivo tenendo la mano sinistra sulla sua spalla, più per sentirmi sicuro che per necessità, poiché il cunicolo andava in una sola direzione, senza diramazioni, biforcazioni o svolte, e non c'era davvero il pericolo di perdersi. Così e benché di tanto in tanto incespicassimo, giungemmo al canale del califfo al-Hakim abbastanza in fretta. La croce era pesante e voluminosa, ma, dopo aver trasportato per giorni il forziere con la testa di Boemondo, avevo imparato come reggere i carichi senza stancarmi troppo. Dopo un po' scoprii anche che l'oscurità non mi dava troppa noia, forse anche perché, pur procedendo alla cieca, avevo la certezza che al canale avrei trovato la barca per raggiungere il Nilo e riunirmi così a Padraig e agli altri. Di lì a poco la pendenza del suolo aumentò, e giungemmo alla serie di
gradini che ricordavo - prima tre, poi due e così via - finché non cominciammo a udire lo sciabordio dell'acqua. Rallentammo, avanzando con maggiore cautela e, infine, fummo in riva al canale. Passai la Croce a Wazim, mi inginocchiai sull'ultimo scalino e tastai il muro alla ricerca dell'anello di ferro al quale era legata la barca. Dopo non pochi tentativi lo trovai e cercai di liberare la fune. Era legata molto stretta e non c'era modo di scioglierla. Per fortuna la corda era logora e, sfregandola contro le pietre scabre del muro, riuscii a consumarla finché, usando tutta la mia forza, riuscii a spezzarla. Me ne avvolsi un'estremità alla mano, tirai la piccola imbarcazione fino ai gradini e chiesi a Wazim di posare la Croce per terra, davanti a me, e di salire a bordo. «Terrò ferma la barca» spiegai. «Quando sarai a bordo, ti passerò la Croce.» Lentamente, con prudenza esagerata, Wazim entrò nella barca e io gli porsi la Croce, raccomandandogli di tenerla stretta tra le ginocchia e di reggerla sempre con una mano. Poi, fu il mio turno: riuscii a salire a bordo senza far capovolgere la barchetta, lasciai che la corrente facesse voltare la prua, mollai la presa dell'anello di ferro, ed esercitai una spinta contro il muro perché ci allontanassimo dalla riva. La corrente del canale era debole e l'imbarcazione avanzava a fatica. Era strano navigare nel buio totale. Se non fosse stato per l'aria che ci sfiorava il viso, avremmo potuto pensare di essere completamente immobili. In effetti, di quando in quando, immergevo la mano nell'acqua per controllare se davvero la corrente ci stesse trascinando. A un certo punto andammo a sbattere contro la parete del canale, il che ci fece sobbalzare entrambi e fece gridare di paura Wazim. Riuscii a rimettere dritta la barca senza incidenti e, da quel momento, tenemmo entrambi un braccio teso di lato per evitare altre collisioni. Purtroppo però, il danno era fatto: il legno della barca era vecchio e marcio, e l'impatto, anche se leggero, aveva rotto lo scafo e aperto una falla, così che entrava acqua. Me ne accorsi quando mi sentii i piedi bagnati; tastai il fondo con la mano e mi resi conto che era allagato. «Non muoverti» misi in guardia Wazim. «La falla è piccola e possiamo ancora raggiungere la nostra destinazione prima che la barca si riempia d'acqua.» Ma non era destino che andasse così: di lì a poco l'acqua ci arrivava alle caviglie. Era impossibile eliminarla; tuttavia per un po' ci provai, usando le mani unite a coppa, ma non riuscivo a eguagliare la velocità dell'acqua che
saliva. «Wazim, sai nuotare?» «No, mio signore» rispose, con un'ombra di preoccupazione nella voce. Gli assicurai che io sapevo farlo per tutti e due e che non aveva nulla da temere. Ancor prima che finissi di incoraggiarlo, la barca andò di nuovo a sbattere contro l'argine del canale e la falla si allargò. Mi accorsi che l'acqua stava salendo e dissi: «Ascoltami attentamente, Wazim: uscirò dalla barca ed entrerò in acqua. Resta dove sei e non muoverti. Starò accanto alla barca e tutto andrà bene». Ma fu una previsione troppo ottimistica; il buio complicava tutto e anche i movimenti più semplici diventarono manovre irte di difficoltà. Finalmente riuscii a tuffarmi senza rovesciare la nostra fragile imbarcazione. L'acqua non era eccessivamente fredda e pensai che senza il peso del mio corpo avremmo potuto raggiungere il fiume prima che la barca affondasse. Poi urtammo ancora contro la parete, due volte di seguito, e la seconda botta fece ruotare l'imbarcazione su se stessa. Stando in acqua riuscii a non farla capovolgere e forse saremmo riusciti a raggiungere la meta sani e salvi se la corrente, proprio in quel punto, non fosse diventata più forte. Non capii come mai, ma ipotizzai che il canale fosse diventato più stretto. Poi, in lontananza, sentii il rumore impetuoso dell'acqua che precipitava. Non volendo allarmare Wazim, suggerii: «Penso sarebbe una buona idea se tu mi raggiungessi». «Preferisco restare qui sopra, Da'ounk» rispose con voce tremante. «Non credo che tu abbia scelta, Wazim. Passami prima la Croce, poi scendi in acqua. Possiamo reggerci alla barca, continuerà a mantenersi a galla ancora per un buon tratto, anche se è piena d'acqua.» Sentivo la corrente che mi mulinava intorno e diventava sempre più veloce. Il rumore scrosciante adesso era fragoroso. Al buio sarebbe stato impossibile giudicare la portata della cascata o almeno capire a che distanza sì trovava. Comunque, non rivelai i miei timori a Wazim, per non spaventarlo ulteriormente. «Coraggio» insistetti battendo sullo scafo «passami la croce, poi ti aiuterò io.» Borbottando in una lingua incomprensibile, mi passò la Santa Reliquia e si preparò a scavalcare il parapetto. Si afferrò al bordo e cercò di alzarsi ma, proprio in quel momento, sentii la prua virare con violenza: la barca andò a sbattere contro la sponda del canale e il povero Wazim perse l'equilibrio. Lanciò un grido di terrore e mi lasciò la mano, cadendo di schiena sul fondo della barca. Udii lo schianto sordo del legno marcio che si squarciava; e la barca an-
dò a pezzi con un tonfo. Cercai di farmi spazio tra le assi chiamando Wazim e, quando finalmente lo sentii tossire e annaspare, mi precipitai in quella direzione. All'improvviso l'acqua divenne agitata e il fondo si alzò violentemente, così che fui costretto a cercare di restare in equilibrio. Le pietre dell'argine mi graffiavano le ginocchia e le gambe mentre venivo sospinto in avanti dalla forza della corrente. Riuscii ancora a gridare al mio compagno di tenere la testa alta, prima di essere sommerso dai flutti tumultuosi come quelli del mare aperto, e di venire trascinato nella cascata. Tenendo stretta la Croce, finii sott'acqua e andai a sbattere contro un blocco di pietra; fui catapultato sul fondo e investito dai pezzi della barca affondata. La Reliquia mi scivolò di mano, mentre venivo sballottato dalla violenza della cascata. Intorno a me c'erano solo tenebre e acqua ribollente. Non sapevo dov'ero, né come risalire in superficie. Continuavo a restare sott'acqua, sbatacchiato da una parte e dall'altra, cercando disperatamente di tornare a galla; ma le rapide sembravano non finire mai. Mi sentivo i polmoni in fiamme, mi doleva il petto: dovevo respirare o sarei scoppiato. Poi mi scontrai con un oggetto solido e robusto, trasportato come me dentro l'acqua. Lo afferrai e lasciai che mi portasse verso l'alto. Anche quando fui tornato in superficie, mi tenni avvinghiato alla Croce Nera, ansimando, inghiottendo aria e ringraziando Iddio per il suo tempestivo intervento. Avvertii qualcosa che si muoveva nell'acqua, passandomi accanto: allungai un braccio e agguantai un lembo della veste di Wazim. Quando lo spinsi a galla sputava, tossiva e agitava braccia e gambe. «Calmati, Wazim!» gridai. «Ti tengo stretto. Stai calmo. Non ti lascio annegare.» Dovetti ripeterlo più volte prima che smettesse di dibattersi, ma infine si acquietò e permise che lo sostenessi. Avendo un braccio appoggiato alla Croce, l'altro impegnato con Wazim e, contemporaneamente, cercando di tenere la testa fuori dall'acqua, potevo solo lasciarmi trasportare dalla corrente. Dopo un po' le acque divennero più tranquille e noi continuammo a procedere galleggiando per un buon tratto, finché non andai a sbattere con un piede contro l'argine del canale. Lasciai per un attimo il mio compagno e cercai a tentoni, nel buio, un appiglio sulla scabra parete di pietra. «Ecco, Wazim» dissi, trascinandolo da quella parte. «Siamo salvi. Reggiti al muro.»
Sì, eravamo in salvo. Spingendo la Santa Reliquia davanti a me, avanzai costeggiando il muro, cercando con le mani le sporgenze per afferrarmi, senza mai smettere di tranquillizzare Wazim con parole incoraggianti. È strano, ma nell'oscurità più completa, senza nessun segno che ne indichi il progredire, il tempo sembra fermarsi: fluttuavamo in un'eternità senza prima né dopo, in un unico presente, illimitato e... inzuppato. Non so quanto a lungo sia durato il nostro faticoso avanzare ma, a un certo punto, sentii sotto le mani, anziché la ruvidezza della pietra, una superficie molle e umida, forse muschio, e i miei piedi incontrarono una sostanza limacciosa e scivolarono. Finii con la testa sott'acqua; agitai le gambe per raddrizzarmi e sprofondai più volte in qualcosa di molle, che dopo qualche secondo riconobbi come fango. Infatti il letto del canale era ricoperto di un limo fino e viscido. Mi accorsi che riuscivo a toccare il fondo e a tenere la testa fuori dall'acqua. «Guarda, Wazim!» esclamai, esortandolo «l'acqua sta diventando meno profonda. Abbassa le gambe e mettiti in piedi.» Avanzammo ancora di qualche metro e il livello dell'acqua scese di pari passo con l'ampliarsi del canale, tanto che, in breve, ci arrivò alla vita. Continuavo a spingere la Croce che galleggiava al mio fianco e, infine, mi parve che l'aria tutto intorno a noi assumesse una luminescenza perlacea. Dopo aver trascorso tanto tempo immerso nel nero inchiostro del buio più assoluto, pensai che i miei occhi mi ingannassero. Invece, la debole luce continuò a baluginare, diventò più intensa, e dopo un po' non potei più dubitare che fosse reale. Anche Wazim la notò: «Sia lode a Cristo!» esclamò, facendosi il segno della croce all'uso orientale «un po' di luce!». «Mi sorprendi, Wazim.» «Perché? Credevate di essere l'unico cristiano di tutto l'Egitto?» mi fece un sorrisetto furbo. «Noi copti forse non testimoniamo la nostra fede con veemenza, ma compensiamo con la riservatezza ciò che ci difetta in esuberanza.» «Pur sapendo che ero cristiano come te, in tutto questo tempo non ti sei mai scoperto. Perché? Perché non me lo hai detto? Perché non me lo hai fatto capire?» «Un cristiano alla corte del califfo deve essere molto prudente, se ci tiene a conservare la testa attaccata al collo.» Il livello dell'acqua continuava a calare, mentre gli argini si distanziavano sempre di più, e la volta non era più di pietra viva, ma di mattoni. Di lì a poco ci ritrovammo a camminare nell'acqua che ci arrivava alle ginoc-
chia: sollevai la Croce e me la misi in spalla. Continuammo ad avanzare mentre la luce diventava sempre più intensa. Sospettai che fosse perché fuori stava sorgendo il sole: mentre noi ci affannavamo sotto terra, nel mondo esterno la notte era trascorsa ed era giunta l'alba; la gente si stava alzando per dare inizio a un'altra giornata di lavoro e io... io ero libero, potevo tornare a casa con la Santa Croce. Ma la soddisfazione che provavo per quel successo diminuì drasticamente qualche attimo dopo, quando mi resi conto che i papiri erano perduti. «Wazim, il rotolo che ti avevo affidato... dov'è?» Si fermò e si toccò il petto e la schiena: «Non lo so, amico mio» rispose. Poi si voltò e guardò nella buia cavità della galleria alle nostre spalle. «Immagino che la cinghia si sia sciolta quando sono caduto nella barca.» Mi rivolse uno sguardo abbattuto: «Mi dispiace, Da'ounk». «Non importa» risposi senza troppa convinzione, addolorato per l'entità della perdita. Ripensai al tempo e alla fatica che avevo dedicato a quel lavoro: entrambi sprecati. Ma non era giusto amareggiarsi per una ragione così futile: in fondo, la lettera era una magra consolazione alla prigionia e alla lontananza da casa, e non c'era dubbio che era meglio portare in salvo la pelle, piuttosto che i papiri. Ma, per quanto sciocco fosse, mi rammaricava aver perso qualcosa che aveva tenuto occupati i miei pensieri e la mia attenzione per tanti mesi. Mi sentii come se una parte della mia vita fosse stata, per disattenzione, gettata via. «Guardate, Da'ounk» esclamò Wazim, distogliendomi dai miei pensieri. Alzai lo sguardo e vidi la luce del sole riflessa su una grigia parete di pietra, a qualche decina di metri di distanza: svoltammo a un'ansa del canale e raggiungemmo la nostra meta. L'enorme rete di ferro bloccava l'imbocco del canale, ma era talmente vecchia, arrugginita e piena di falle, che non ci volle nulla per aprire uno squarcio attraverso cui passare. Seguimmo il canale aggirando una frana di pietre cadute dalla scogliera sovrastante e ci ritrovammo su una spiaggetta circondata da un canneto, a scrutare con gli occhi socchiusi l'alba dorata che scintillava sul Nilo. Quarantatré Il nostro viaggio sotterraneo lungo il fiume ci aveva condotti proprio sotto le mura della città, che si innalzavano bianche e imponenti dal pendio
color ocra davanti a noi. Il sole stava sorgendo in un'esplosione fiammeggiante e l'aria era già calda e pesante. Una leggera brezza faceva piegare le canne e le erbe della riva, e le mosche ci ronzavano intorno mentre, fermi su una secca, lasciavamo che i raggi del sole giocassero sui nostri visi. Sulla sponda del fiume le basse casette di fango dei contadini e degli artigiani brillavano dorate nella luce del primo mattino. Un uomo e un ragazzo che conducevano un bue lungo la riva spaventarono uno stormo di candidi aironi, che spiccarono il volo. Una tipica imbarcazione egiziana dal fondo piatto stava alzando la vela per iniziare il suo viaggio verso nord. Era tutto così tranquillo, luminoso e quieto che le tribolazioni della notte precedente sembrarono piccole, insignificanti e molto lontane. Mentre scrutavo le sponde del fiume, coperte a perdita d'occhio dai verdi ciuffi dei canneti, qualcosa mi urtò la gamba. Guardai in basso e vidi un pezzo del fasciame della barca naufragata trasportato dalla corrente con il mio rotolo di papiri appeso per la cinghia. «Buone notizie, amico mio» esclamò Wazim tutto allegro. «Dio vi ha restituito il vostro scritto!» «Vorrei che se ne fosse curato di più» commentai, raccogliendo l'involto fradicio. Dagli angoli della sacca gocciolavano acqua e inchiostro: all'interno le pagine dovevano essersi ridotte a una poltiglia macchiata di nero. Non ebbi il coraggio né di aprire il rotolo, né di gettarlo via; così annodai la cinghia, me la posi di nuovo in spalla e ci rimettemmo in cammino. Secondo Wazim, dovevamo procedere verso nord, perciò ci incamminammo lungo la riva e, poco dopo, incontrammo un sentiero per il bestiame, che si inerpicava sull'argine. Le mura della città piegavano verso oriente, allontanandosi dal fiume che lambiva un grande ammasso roccioso color del miele. Gli abiti bagnati cominciavano ad asciugarsi al sole e, sebbene fossi esausto, il mio buon umore cresceva: a ogni passo mi avvicinavo a Padraig, a Sydoni, a Giordano e, un poco, anche a casa. La Croce Nera mi pesava sulle spalle, ma non m'importava. Pensando a ciò che il Nostro Signore e Salvatore aveva sopportato per noi, l'avrei trasportata ai confini del mondo e ritorno. Di lì a poco giungemmo a un gruppo di casupole circondate da campi di fagioli, meloni, cipolle e aglio. Sul sentiero aleggiava il fumo dei focolari accesi per cucinare il pasto mattutino, e il profumo di carne e di pane mi fece borbottare lo stomaco, ricordandomi che non mangiavo da un pezzo. Mi fermai per guardarmi intorno, e Wazim mi domandò il perché di quella
sosta. «Pensi che potremmo chiedere un po' di cibo?» mi informai. «Sì» rispose guardandosi intorno «ma non qui.» E si rimise in cammino. «Come mai?» insistetti. «È perché sono musulmani?» «Peggio» mormorò. «Sono pagani, adoratori di idoli. Gente molto cattiva.» «Come fai a saperlo?» a me sembrava un villaggio normalissimo, uguale a tutti gli altri. Wazim non volle dire altro, e così continuammo a camminare, attraversando un villaggio dopo l'altro, finché il mio compagno non decise di fermarsi: «Qui ci sono dei copti» spiegò. «Come lo sai?» «Un vero copto non abita mai lontano da una chiesa.» E, tendendo una mano, aggiunse: «Vedete?». Guardai nel punto indicato e scorsi una piccola costruzione bianca, con una cupola a campana sormontata da una croce di ferro battuto. Se non fosse stato per quel particolare, l'edificio sarebbe stato del tutto anonimo. «Avremo presto qualcosa da mangiare.» Ci dirigemmo verso la chiesetta, e Wazim bussò alla porta, che sembrava fabbricata alla bell'e meglio con legno raccolto dal fiume. Venne ad aprirci un vecchio con una lunga barba bianca e una lunga veste nera, che lo copriva dalla testa ai piedi. Era privo di un occhio, e l'altro era acquoso e velato, ma ci accolse con un sorriso sdentato, giungendo le mani e inchinandosi. Wazim restituì il saluto e i due iniziarono a confabulare vivacemente, gesticolando. Poi l'anziano sacerdote alzò la testa, urlò qualcosa, sputò a terra, mi afferrò per un braccio, e ci condusse sino a una casupola, dove batté alla porta con il palmo della mano. L'uscio si aprì appena e, attraverso lo spiraglio, vedemmo il naso e l'occhio di una donna che ci scrutava. Il prete pronunciò qualche parola, la porta si richiuse e si riaprì un attimo dopo, lasciando uscire una mano che porgeva due uova. Il vecchio copto prese le uova, benedisse la donna, e proseguì il cammino. Il rituale fu ripetuto alla casa successiva, dove ci vennero offerte tre pagnotte e due cipolle verdi. Alla quinta casa avevamo raccolto un altro uovo, un po' di sale, quattro fichi secchi, una fetta di melone e una manciata di datteri ricoperti di miele, così decisi che era abbastanza e chiesi a Wazim di esprimere la nostra gratitudine al prete. Si scambiarono qualche parola, che Wazim mi tradusse: «Non vuole essere ringraziato per aver concesso alla sua gente la benedizione di dare
soccorso a due stranieri bisognosi. Oggi si sono guadagnati una grande ricompensa in paradiso». «Allora porgigli la mia benedizione» risposi. «Digli che non ho né oro né argento, ma che divido con gioia ciò che possiedo: che la Santa Trinità benedica, protegga e conceda pace, a lui e alla sua gente, oggi e per sempre.» La formula piacque molto al vecchio prete, che se la fece ripetere due volte per non dimenticarla. Ci accomiatammo e trovammo un posto tranquillo sull'argine di fronte al fiume. Strappai qualche ciuffo d'erba e feci una specie di giaciglio per la Croce, così che non toccasse il terreno. Poi mi sedetti lì accanto, stanco morto, e cominciai a mangiare. Le uova erano sode, perciò le sbucciammo e le intingemmo nel sale, insieme alle cipolle. Dopo il lungo digiuno, quel cibo semplice e genuino era migliore di qualunque banchetto. Mi rilassai, godendomi il calore del sole sulla schiena, guardai il fiume e pensai ai miei amici e al viaggio che mi aspettava. Il giorno dopo, a quell'ora, saremmo stati sulla via del ritorno. Dopo aver mangiato, ci rimettemmo subito in cammino, anche se mi sarebbe piaciuto riposare ancora un po', perché volevo assolutamente vedere Padraig e gli altri. Così mi pulii dalle briciole, mi alzai di malavoglia, presi il rotolo di papiri rovinati, mi issai in spalla la Croce e annunciai al mio fedele compagno che, se volevamo essere alla nave entro mezzogiorno, dovevamo sbrigarci. Camminammo per un breve tratto e raggiungemmo la sommità dell'argine: da lì scorgemmo di nuovo le mura e, oltre l'ansa del fiume, la banchina del porto e il largo viale che conduceva alla città. Laggiù, da qualche parte, tra la massa scura di navi e di barche allineate lungo il molo, la Persefone mi aspettava per portarmi via dall'Egitto. Due scure colonne di fumo si innalzavano dal centro della città, svettando sulle mura. «Una» mi informò Wazim «viene dal bazar.» «E l'altra?» sembrava alzarsi dalla rupe che dominava il quartiere settentrionale. «Ah, quella viene dalla cittadella.» Pensando che potesse trattarsi del palazzo reale in fiamme, mi resi conto del rischio corso da Wazim. «Grazie, Wazim Radi» gli dissi. «Ieri notte hai compiuto un'azione di grande coraggio. Ti sarò per sempre debitore.» Lui si inchinò e rispose: «Ho fatto ciò che ogni cristiano farebbe per un confratello». «No» lo corressi, pensando a tutti i tradimenti, alla slealtà e agli inganni
di cui ero stato testimone «hai fatto molto di più, credimi. Hai rischiato la vita per me, e te ne sono grato. Non lo dimenticherò.» Tutt'intorno entrambi gli argini del Nilo erano attraversati da piste per il bestiame e da viottoli che collegavano un villaggio all'altro. Attraversammo molti di quei minuscoli agglomerati di case, e Wazim non mancò mai di rivolgere il saluto a tutti coloro che incontrammo: un'anziana donna piegata in due sotto un fagotto di paglia più grande di lei; due ragazzini nudi che reggevano un palo con appesi dei pesci; un uomo che stringeva in una mano una caraffa di latte e conduceva una mucca con l'altra, portando sulle spalle il figlioletto; alcune donne che andavano al mercato portando alcune anatre legate per una zampa a una corda. Wazim li salutò tutti, e io riflettei sull'isolamento della mia lunga prigionia. Mezzogiorno si avvicinava e così anche il porto: i sentieri diventarono strade e si fecero sempre più affollati a mano a mano che ci accostavamo alle porte della città. Cercavo la nave di Giordano sin da quando avevamo avvistato il porto. Non appena lo raggiungemmo, all'estremità della banchina finalmente scorsi il familiare albero di maestra rosso che si innalzava in mezzo alla confusa foresta di imbarcazioni. Allora affrettai il passo, facendomi largo tra la folla e trascinandomi dietro Wazim, e mi misi quasi a correre quando vidi lo scafo verde brillante e la chiglia gialla della Persefone. Sudato e ansante, mi fermai per riprendere fiato prima di chiamare i miei amici. «Andate, Da'ounk» mi esortò Wazim, contagiato dalla mia eccitazione «vi stanno aspettando.» «Non correvo così da molto tempo» risposi, appoggiando la Croce sul molo. «Lascia almeno che mi asciughi il sudore dalla fronte.» In quel momento sentii una voce familiare gridare il mio nome: «Duncan!». Sollevai lo sguardo e vidi Padraig, affacciato al parapetto, che mi salutava agitando una mano e chiamava qualcuno sul ponte. Sentii il cuore balzarmi in petto e gli andai incontro sul molo, ma all'improvviso oltre il parapetto apparve un altro viso, quello di Gislebert, il luogotenente di Renaud. Contemporaneamente scorsi altri due templari sul molo, accanto alla prua della nave. Subito mi voltai verso Wazim e gli dissi: «Presto, tieni la Croce, rimani qui e custodiscila a costo della vita. Ti spiegherò dopo. Qualunque cosa succeda, non consegnarla a nessuno, ci siamo capiti?». «Perfettamente, amico mio» rispose, prese il pezzo di trave che gli por-
gevo e si fermò sulla banchina. Io mi girai, feci qualche passo e mi ritrovai tra le forti braccia di Padraig. «Alleluia!» gridò, stringendomi e sollevandomi da terra. «Sei sano e salvo, Duncan. Sia lode a Dio Onnipotente per averti protetto!» La mia gioia nel rivedere Padraig fu smorzata dalla consapevolezza della vigile presenza di Gislebert. Comunque, presi il mio amico sottobraccio e, ringraziando Dio con tutta la forza della mia anima, andai subito verso la nave, lasciando il povero Wazim a osservarci con aria perplessa. Era inevitabile: per quanto meritasse di condividere il festoso benvenuto dei miei amici, non potevo mettere in pericolo la Reliquia lasciando che i templari vi posassero sopra lo sguardo; non finché non mi fossi reso conto di persona di qual era la situazione a bordo. «Ero certo che saresti venuto a cercarmi» dissi a Padraig, cercando di parlare tra i suoi energici abbracci e le vigorose pacche sulla schiena. «Non ne ho mai dubitato.» «Oh, Duncan, Duncan» rispose, afferrandomi il viso tra le mani. «Lasciati guardare. Che il cielo e la terra mi siano testimoni, è come se ti fossi allontanato solo per un istante, sei forte e combattivo come sempre. Stai bene, fratello mio?» Senza lasciarmi il tempo di replicare, aggiunse: «Ho tante di quelle cose da raccontarti. Quanto ho pregato per vedere questo giorno!» rise forte, scuotendo la testa, con allegra incredulità. «Sia lodato Iddio! Oh schiere celesti, lodatelo! Il figlio che era perduto è stato ritrovato! Lodatelo, angeli dagli occhi fiammeggianti, e voi, santi del cielo, cantate...» «Ascolta, Padraig» lo interruppi, addolorato di dover frenare la sua esplosione di gioia. «Anch'io sono felice di rivederti, ma c'è una cosa importante che devo dirti prima che la nave salpi.» Mi guardò e mi strizzò l'occhio contento: «Parla pure, fratello. Sentirei il suono della tua voce per un giorno intero». «Non sto scherzando, Padraig. Ascoltami.» Il monaco divenne serio: «Parla pure, ti ascolto». Eravamo quasi arrivati alla nave. «Non c'è tempo per spiegare. Dobbiamo lasciare subito il Cairo. Ed è indispensabile che ci liberiamo di Gislebert e dei templari... allontanali e salpiamo immediatamente.» «Così presto?» «Prima è, meglio è.» Il monaco mi obbedì senza discutere: «D'accordo». «Duncan!» una voce attirò la mia attenzione: era Giordano, che agitava
le braccia e mi chiamava per darmi il suo gioioso benvenuto con accanto la bella figlia dai capelli corvini. Il sorriso di Sydoni era enigmatico: non riuscii a capire se fosse contenta di vedermi o semplicemente divertita per il mio aspetto trasandato. «Duncan! Figlio mio, figlio mio!» Non appena salii sul ponte della Persefone, Giordano mi afferrò e mi strinse al petto. «Grazie a Dio siete salvo, e siete qui, finalmente...» gli occhi dell'anziano mercante cominciarono a riempirsi di lacrime. «Siete di nuovo tra noi» mi abbracciò di nuovo. «Sia lode a Dio e a tutti i santi» mi batté le mani sulle spalle e sulle braccia, come per assicurarsi che fossi proprio io, in carne e ossa. «Ben arrivato, Duncan» mormorò Sydoni sorridendo e offrendomi pudicamente la guancia. «Mi fa piacere rivedervi in buona salute.» A paragone dell'affettuosa accoglienza del padre, il suo saluto mancava di calore e sembrava persino evasivo, e non certo a motivo della timidezza, perché lo sguardo dei suoi occhi neri era audace come sempre. Sfidando la sua freddezza, le strinsi la mano e le diedi un bacio sulla guancia: «È una gioia rivedervi, Sydoni». Gislebert, che era rimasto a osservarci un po' in disparte, si avvicinò, mi porse la mano e disse: «Dio sia lodato, caro amico. Abbiamo fatto tutto il possibile per ritrovarvi, in questi lunghi mesi». Gli strinsi la mano e lo ringraziai. «Siamo molto felici di vedervi libero.» «Certo, certo. Non vi abbiamo dimenticato nemmeno per un attimo, ve lo assicuro. Benvenuto, Duncan» intervenne Giordano prendendomi la mano. Il vecchio mercante era raggiante di felicità e saltellava da un piede all'altro, incapace di trattenersi. «Benvenuto, ragazzo mio. Sia lode a Cristo, il nostro Santo Redentore.» «Non avete altro con voi?» domandò Gislebert, indicando il rotolo inzaccherato di papiri. «No» risposi. «Ho tenuto un diario durante la mia prigionia e speravo di portarlo in salvo con me. Ma, ahimè, si è completamente rovinato.» «Lascia che gli dia un'occhiata» mi interruppe Padraig, prendendo l'involto umido. «Chi era l'uomo che ho visto insieme a voi sul molo?» chiese Gislebert, guardando verso la banchina affollata. Per essere semplicemente contento del mio arrivo, il templare mi sembrava piuttosto inopportuno con le sue domande sui particolari della mia fuga. «Si chiama Wazim» risposi, dicendo la verità «mi ha aiutato a trovare la nave.»
«Come facevate a sapere che vi stavamo aspettando con la nave?» continuò Gislebert, con malcelata diffidenza. Anche Giordano e Padraig notarono il suo tono e lo fissarono con disappunto. Sydoni, invece, sembrava soprattutto interessata a sentire la mia risposta: appoggiata al parapetto, con una veste azzurra e le braccia conserte, sollevò un sopracciglio, con l'espressione di un giudice scettico che mi invitasse a fornire una spiegazione convincente. «E in che altro modo avremmo potuto venire a cercarlo?» si intromise Giordano in tono di rimprovero; poi mi si accostò e mi abbracciò di nuovo. «Venite, andiamo a festeggiare il ritorno del nostro amico! Padraig, riempiamo le coppe e brindiamo!» «Perdonatemi» si scusò Gislebert con sussiego. «Intendevo solo sapere se avevate visto il comandante Bracineaux.» «E come avrei potuto?» chiesi sorridendo. «Mi stava forse cercando?» «Quando sono cominciati i disordini, si è recato a palazzo per cercare di farvi rilasciare» rispose il templare. «Supponevo che fosse grazie a lui se ora siete libero.» «Voglia Iddio che non gli sia accaduto niente di spiacevole» intervenne Padraig. L'astuto monaco aveva visto una possibilità e l'aveva colta al volo: «Forse dovreste andare a sincerarvene di persona». Gislebert aggrottò la fronte, perplesso. Non gli piaceva la piega che stavano prendendo gli avvenimenti, ma non fu abbastanza svelto da capire come superare il problema. «Ritengo che Padraig abbia ragione» intervenne Giordano, del tutto in buona fede. «Sì, dovete andare subito, Gislebert. Renaud potrebbe aver bisogno di voi.» «Ho avuto ordine di aspettare sulla nave» rispose l'altro senza scomporsi. «Ed è ciò che avete fatto» se ne uscì all'improvviso Sydoni. Fece un passo avanti, lo prese per un braccio e lo condusse al parapetto: «Va tutto bene, grazie a voi e alla sollecitudine del vostro ottimo comandante. Siamo in grado di badare a noi stessi, ora; non fatevi scrupolo di lasciarci soli, almeno per il tempo che vi occorrerà per accertarvi di non essere necessario altrove». Il cipiglio di Gislebert aumentò mentre si allontanava con Sydoni. Incapace di contraddirla, disse: «Benissimo, se pensate che...». «Non preoccupatevi per noi» lo interruppe la giovane. «Ora dovete pensare ai doveri che vi legano al vostro comandante.»
«Certamente gli farà piacere avere la notizia del ritorno di Duncan» suggerì Padraig. «Farete bene a informarlo il prima possibile, così che non debba preoccuparsi inutilmente.» Gislebert scavalcò il parapetto di malavoglia: «Gli riferirò che Duncan è tornato» concluse e, lanciandomi un ultimo sguardo dubbioso, saltò sulla banchina, ordinò ai due templari che erano a terra di accompagnarlo e si allontanò con loro. Li osservammo scomparire tra la folla. «Giordano» dissi «quanto ci vuole per partire?» Preso alla sprovvista, il mercante esitò: «Volete che ce ne andiamo? Ma, il comandante...». «Quanto tempo?» insistetti. «Be', non appena ci saremo procurati le provviste» rispose pensieroso. «Capisco che siate ansioso di...» «Potremo procurarci le provviste durante il viaggio» intervenne Sydoni e, rivolta a me, aggiunse: «Possiamo salpare immediatamente, se è ciò che desiderate». «Non possiamo lasciare qui Renaud, senza nemmeno...» cominciò Giordano. «Padre, penso che Duncan stia cercando di evitare i templari» lo interruppe Sydoni, guardandomi fisso per avere conferma. «È vero» confessai. «So che avete già fatto molto per me, ma temo che dovrò chiedervi di aiutarmi ancora per un po'. È stato ordito un intrigo, e temo che non possiamo più fidarci di de Bracineaux. Dobbiamo partire immediatamente.» «Il timoniere sta dormendo» annunciò Sydoni. «Andrò a svegliarlo. Voi e Padraig preparatevi a salpare.» Ero stupito dal cambiamento repentino del suo atteggiamento, ma in quel frangente non c'era tempo di indagarne le ragioni. «Vado a prendere Wazim» dissi a Padraig scavalcando il parapetto. «Comincia a sciogliere gli ormeggi». Trovai Wazim seduto sul molo, a gambe incrociate e a occhi chiusi: della Santa Reliquia non c'era traccia. «Dov'è la Croce?» chiesi con una certa asprezza. «Che ne hai fatto?» «Calmatevi, amico mio» sorrise e sì alzò, e allora mi accorsi che ci si era seduto sopra. «Dio mi perdoni» mormorò ridacchiando e chinandosi per raccogliere il Santo Legno «ma ciò che i ladri non vedono, non possono rubare.» Mi tolsi la giubba e vi avvolsi la Croce Nera, poi ci affrettammo a salire
a bordo. Il timoniere e i due marinai erano svegli e, anche se di malavoglia, si stavano preparando a salpare. Naturalmente Giordano e gli altri conoscevano già Wazim; gli diedero il benvenuto e gli chiesero cosa avesse causato il nostro ritardo. «Vi aspettavamo ieri sera» commentò Giordano. Lasciai a Wazim il compito di dare spiegazioni, e andai subito sotto coperta per mettere al sicuro la Croce. Incuriosito, Padraig cercò di seguirmi, ma io gli chiesi di restare dov'era e di impedire a chiunque di venirmi dietro. «Ti spiegherò tutto più tardi» gli promisi «non appena ci saremo lasciati il Cairo alle spalle.» Scesi la breve scaletta di legno, mentre Sydoni mi osservava. Nascosi la Croce nella cambusa, tra le ceste di provviste, e raggiunsi gli altri sul ponte. Mi avvicinai al parapetto e guardai nervosamente il molo per controllare che non ci fossero templari: di Renaud e dei suoi uomini non c'era traccia. Poco dopo la Persefone si allontanò dalla banchina e lasciammo il Cairo per sempre. Quarantaquattro Il Nilo dalle verdi rive, sinuoso, lento e placido, si apriva davanti a noi portando l'agile Persefone verso il mare e verso Alessandria. Rimasi a poppa a osservare i minuscoli villaggi e le due colonne gemelle di fumo che si allontanavano. Ben presto furono l'ultima immagine visibile del Cairo e, poco dopo, anch'esse scomparvero, fondendosi con l'azzurro lattiginoso della densa foschia estiva. Lasciato il ponte scesi nella stiva, presi la Reliquia e raggiunsi gli altri che, riuniti attorno all'albero maestro, ascoltavano da Wazim il racconto della nostra fuga dal palazzo. Giordano e Sydoni, seduti su alcuni cuscini, e Padraig, sdraiato su un tappeto e appoggiato sul gomito, seguivano attenti le parole del piccolo carceriere che trasformava le nostre banali traversie nell'oro zecchino di una grande avventura. «E quella» annunciò Wazim con orgoglio, facendo un ampio gesto, mentre posavo l'involto sul tappeto dinanzi al suo uditorio «è la Santa Croce di Cristo, recuperata dal tesoro del califfo al-Hafiz.» Subito Padraig si mise in ginocchio e Giordano e Sydoni si sporsero in avanti pieni di interesse. Svolsi lentamente la giubba che la ricopriva e mostrai a tutti il sacro legno annerito e corroso. Padraig rimase senza fiato, tese una mano, esitò e si arrestò. «Avanti toccala» lo invitai. Il monaco completò il gesto e, con dita tre-
manti, accarezzò la reliquia consunta dal tempo. La luce del sole mise in evidenza un particolare che non avevo mai notato: un piccolo foro, netto e profondo, molto simile al segno di un chiodo conficcato nel legno. Anche le dita di Padraig lo trovarono e il monaco ansimò: «Su questo rozzo pezzo di trave il nostro Santo Salvatore, figlio unigenito di Dio, ha versato il Suo preziosissimo sangue per la nostra redenzione» mormorò con voce rotta, mentre le lacrime cominciavano a rigargli le guance. «Guardate» continuò «davanti a noi c'è la prova che le nostre speranze di salvezza non sono vane.» Premendo il dito sul forellino e singhiozzando, proseguì: «Qui fu conficcato il chiodo crudele che penetrò nella vena, squarciò l'osso e il tendine e portò alla morte Cristo. Ma la saggezza del Padre concepisce disegni che l'animo umano non può neppure immaginare. In Lui, tutto ciò che è separato si ricongiunge, le esistenze spezzate ridiventano intere. Il corpo di Cristo, martoriato dai chiodi, ha ricucito lo strappo tra tempo ed eternità. Dalla sua morte ha avuto origine la vita eterna. Poiché Iddio Onnipotente non lo ha abbandonato nel sepolcro, ma lo ha fatto risorgere. Parimenti, coloro che confidano in questa Croce Nera saranno risuscitati nell'ultimo giorno». Restammo qualche minuto in silenzio a fissare la Santa Reliquia colmando i nostri occhi della sua vista e i nostri cuori della certezza che la potenza di Dio può ricondurre tutto alla sua volontà. «Ad Antiochia abbiamo sentito che la Croce era andata perduta» disse Giordano, dopo un lungo silenzio. «Non mi sarei mai aspettato di vederla con i miei occhi.» Anche lui allungò una mano e sfiorò il legno con reverenza, come immagino abbiano fatto tutti dal giorno in cui le pie donne abbandonarono il sepolcro vuoto e corsero ad annunciare ai dodici che il corpo del Maestro era scomparso. Per i fedeli è un gesto spontaneo, come quello di due amanti che intrecciano le mani per dimostrarsi amore reciproco. «Vi sono grato, Duncan» mormorò poi, con gli occhi bagnati di pianto. «So che non resterò a lungo su questa terra.» «Ma che dici, padre mio» lo rimproverò teneramente Sydoni. «Guardami» le rispose lui. «È la verità: sono un vecchio. Ma ora, per merito di Duncan, potrò affrontare il giudizio con maggior coraggio.» «Sono io che vi devo riconoscenza, Giordano» intervenni. «Se non fosse stato per voi, sarei ancora prigioniero e la Croce sarebbe perduta per sempre.»
«Niente affatto» ribatté Giordano, respingendo il complimento con un gesto della mano. «Il nostro amico Renaud ha lavorato senza posa per voi sin dall'inizio.» Le sue parole non corrispondevano affatto con ciò che avevo visto fare a de Bracineaux nella cripta del califfo. Ma non lo contraddissi e rimasi in silenzio. «Ora capisco perché avete voluto lasciare il Cairo in fretta e furia» continuò Giordano. «Ma vorrei che mi spiegaste la ragione della vostra ansia di allontanarvi dai templari.» Vedendomi titubante aggiunse: «Forse temevate che vi portassero via la Reliquia?». «Se avessero saputo che ce l'avevo, senza dubbio avrebbero tentato di sottrarmela.» «Ma appartiene a loro di diritto» commentò Giordano. «O, almeno, appartiene ad Antiochia.» Dissentivo totalmente, ma non avevo alcuna intenzione di discutere con lui, perciò cambiai argomento: «Ditemi piuttosto come sapevate di dovermi cercare al Cairo». «Ah, anche questa è una storia interessante» commentò Padraig mettendosi comodo. «Ma se dobbiamo raccontarla dall'inizio» intervenne Sydoni alzandosi «andrò a prendere qualcosa da bere.» Wazim si affrettò a seguirla per esserle d'aiuto e fu di ritorno qualche minuto dopo, reggendo due grandi pagnotte tra le braccia e due caraffe di vino. Da parte sua Sydoni portava un vassoio di legno su cui aveva posato i boccali e alcune ciotole, una vuota, una piena d'olio d'oliva e di aglio tritato e un'altra di sale e pepe nero. Appoggiò il vassoio per terra e distribuì i boccali. «Al principio non sapevamo che vi avessero catturato» confessò Giordano, versandosi il vino e passandomi la caraffa. «Pensavamo che foste dietro di noi, mentre cercavamo di sfuggire ai selgiuchidi; quando però Padraig si guardò alle spalle, ci accorgemmo che non c'eravate più.» «Se solo mi fossi voltato prima» sospirò il monaco, passando la caraffa a Wazim. Intanto Sydoni aveva cominciato a spezzettare il pane dentro la terza ciotola, che ci mise davanti. «Quando tornammo a cercarvi» disse «i selgiuchidi vi avevano già preso.» «Trovammo solo il vostro cavallo» continuò Giordano. «Così non potemmo far altro che ritornare ad Anazarbus per chiedere aiuto.» Scosse tristemente il capo: «Che cosa terribile».
«Perché?» domandai. «È esattamente ciò che avrei fatto io se mi fossi trovato al vostro posto.» «Ai selgiuchidi non bastava aver distrutto l'esercito di Boemondo» rispose Giordano cupamente. «Decisero di punire gli armeni per il mancato pagamento del tributo e attaccarono la città. Dev'essere accaduto subito dopo la nostra partenza. Alcuni soldati selgiuchidi si trovavano già dentro le mura e, mentre la famiglia reale e l'intera nobiltà partecipavano alle esequie del re Leone, sbarrarono i portali della cattedrale e occuparono la città.» «Quelli che opposero resistenza furono massacrati» aggiunse Sydoni con amarezza. Giordano prese un pezzetto di pane, lo intinse nell'olio e nel sale, masticò meditabondo e commentò: «A dire il vero, la resistenza fu assai scarsa». «Cosa è accaduto a Rupen e alla sua famiglia?» domandai, cominciando a sentirmi a disagio. «Molti riuscirono ad abbandonare la città» rispose Padraig «e li incontrammo poi lungo la strada. Alcuni ci riferirono che la famiglia reale era stata giustiziata, ma non è una notizia certa.» «Nessuno sapeva niente di sicuro, eccetto che i selgiuchidi avevano assunto il controllo di Anazarbus» intervenne Sydoni, porgendomi la ciotola del pane «Avevano sprangato le porte della città e non si poteva uscire né entrare.» «Così fummo costretti a tornare indietro e a dirigerci a Mamistra» continuò Padraig. «Come sai, è un viaggio di otto giorni, ma lo compimmo in sei, dolendoci di ogni ritardo che ci impediva di cercarti. Se solo avessimo avuto un'altra possibilità, ma cos'altro ci restava da fare? L'unica speranza era raggiungere Antiochia il prima possibile. Arrivati a Mamistra, ci imbarcammo per San Simeone e poi proseguimmo per Antiochia, dove avvertimmo la guarnigione templare dell'accaduto.» «La sconfitta di Boemondo lasciò Antiochia quasi senza difesa» osservò Giordano. «Quell'incosciente aveva portato con sé l'intero esercito, tranne i templari. Era stata un follia. Credete a me, dovrà risponderne davanti al Trono del Giudizio.» Annuii, intinsi il pane e cominciai a masticare mestamente. «Non appena l'emiro Ghazi si rese conto della grande opportunità che gli era capitata» commentai «marciò subito su Damasco per trovare aiuti per attaccare Antiochia.» «Già» interloquì prontamente Giordano. «Eravamo lì quando arrivò!»
«Per difendere la città il comandante de Bracineaux chiese rinforzi a Gerusalemme. Trascorremmo molti giorni a domandarci chi sarebbe giunto prima ad Antiochia, se i templari o i selgiuchidi» spiegò Padraig «e alla fine, furono i templari, ma l'emiro Ghazi li seguiva da presso. La città ebbe soltanto due giorni per prepararsi alla difesa; poi i selgiuchidi la assediarono. All'inizio era sopportabile ma, con il passare delle settimane, scoppiò un'epidemia di dissenteria e iniziò a scarseggiare l'acqua.» «Se non fossero arrivati altri rinforzi da Gerusalemme» aggiunse Sydoni, versandomi il vino «non so come avremmo fatto.» Mangiammo e bevemmo e, sebbene per me, dopo l'isolamento del lungo periodo di prigionia, ancora fosse una novità, mi accorsi di ritrovare il piacere dei rapporti umani. Mi sembrò strano anche sentir raccontare avvenimenti che mi riguardavano da vicino, ma che conoscevo solo in parte. Osservai i miei compagni a uno a uno, ringraziandoli nel mio intimo per la fedeltà e la perseveranza che avevano dimostrato verso di me. Giordano, acuto come un giovane, ancora snello, che non dimostrava la sua veneranda età... Sydoni, dai capelli corvini e dagli occhi espressivi e insieme distaccati: un mistero tutto da scoprire... Wazim, sorridente, con il capo tentennante, che attraversava un mondo imprevedibile con un coraggio tranquillo e tanta buona volontà... Padraig, l'amico prediletto, la mia saggia guida, il mio compagno fedele nel pellegrinaggio e nella vita... ero fortunato oltre misura e, mentre il sole mi riscaldava la schiena e il buon vino lo stomaco, sapevo di trovarmi stretto tra le solide braccia di un affetto sincero e disinteressato. «E allora, cosa accadde?» domandai, provando all'improvviso il desiderio che quella giornata non avesse mai fine, per poter restare seduto insieme ai miei amici per sempre. «Dopo che i templari ebbero lasciato Gerusalemme» spiegò Giordano «Baldovino chiese a Giaffa e ad Acri di inviare nuove truppe per la difesa della Città Santa. Ma dovevano passare mesi prima che la sua preghiera venisse esaudita, perché di questi tempi c'è necessità di soldati e le roccaforti cristiane sono poco propense a cedere difensori.» Scosse la testa vigorosamente: «Eh sì. La Terra Santa pagherà per molti anni il prezzo della stupidità di Boemondo». «Alla fine Baldovino riuscì a raccogliere un piccolo esercito per liberare Antiochia» riprese Padraig. «Intanto l'assedio si protraeva più di quanto Ghazi si fosse aspettato e, all'arrivo di Baldovino, la maggior parte degli alleati selgiuchidi se n'era andata. Quelli che erano rimasti si diedero alla
fuga non appena videro le truppe del sovrano di Gerusalemme, sebbene fossero solo settecento cavalieri.» «I selgiuchidi diventano vigliacchi quando si tratta di affrontare il nemico in campo aperto» intervenne Wazim. «Se li si attacca, voltano le spalle e si danno alla fuga. Sono cani codardi.» «Per quanto è vero Iddio!» assentì Giordano. «Nessuno fu più. felice di noi nel vedere l'ingresso in città di Baldovino e dei suoi soldati vittoriosi. Festeggiammo anche la notizia che alcuni nobili al seguito di Boemondo erano sopravvissuti al massacro ed erano stati condotti a Damasco per essere riscattati, anche se i selgiuchidi avevano fissato per ciascuno di loro un prezzo altissimo, diecimila monete d'argento. Posso ancora contare su parecchi amici a Damasco, e così ci andammo immediatamente, anche se là, purtroppo, incontrammo molte difficoltà per ottenere informazioni attendibili dai funzionari dell'atabeg. Dapprima ci riferirono che eravate lì e che vi avrebbero liberato se avessimo pagato il riscatto, ma quando portammo il denaro, dissero che ve ne eravate andato.» Si interruppe e scosse il capo: «Temevamo che vi avessero giustiziato». «I prigionieri che non possono pagare vengono spesso uccisi per puro divertimento dai loro carcerieri» osservò Wazim. «Poi arrivò Renaud» intervenne Padraig. «A Damasco?» non riuscii a nascondere una punta di sospetto. La mia diffidenza non sfuggì a Sydoni, che mi lanciò un'occhiata eloquente, ma nessun altro se ne avvide. «Per quale ragione?» domandai. «Per pagare il riscatto dei prigionieri» rispose Giordano. «Fu una fortuna che fosse lì, perché riuscì a scoprire cosa vi era accaduto.» "Sì" pensai "certamente gliel'hanno riferito i fida'in" Ma a Giordano dissi soltanto: «Così veniste a sapere che ero stato portato al Cairo». «E ci andammo non appena ci fu possibile.» «Quando siete arrivati?» «Una settimana fa» rispose Padraig. Cercai di risalire al giorno esatto, ma non riuscii a districarmi nel computo dei giorni e delle notti. «Allora eravate già qui prima che iniziassero i disordini. «Il visir Hasan ha fatto uccidere gli emiri solo due giorni fa» commentò Wazim. «Sì» intervenne Giordano. «Ed è stato allora che sono cominciati i tumulti.» «Capisco.» Dentro di me ero certo di avere ragione riguardo a Renaud,
ma non volevo dirne male davanti a Giordano, che era suo amico. «Sono stanco» aggiunsi. «Non parlavo tanto da molto tempo. Avevo dimenticato quanto può essere faticoso.» «Sì, ora dovreste riposare» suggerì Sydoni. «Ci sono delle cabine sotto coperta dove non sarete disturbato.» Si alzò. «Venite con me, vi accompagno.» «Sì, andate con lei. Torneremo a discorrere stasera» commentò l'anziano mercante. «Sydoni, assicurati che sia sistemato comodamente.» Mi inginocchiai, presi la Croce Nera e la affidai a Padraig, chiedendogli di custodirla: «Credi di poterle trovare una collocazione sicura?». «Sarà per me una gioia e un onore» rispose, prendendo tra le mani la preziosa reliquia con un inchino pieno di rispetto. Raccolsi da terra la giubba con cui l'avevo avvolta e seguii Sydoni sino al boccaporto e alla scaletta di legno che portava a una fila di piccole cabine, separate dalla stiva. Entrammo in quella della giovane e di suo padre, che era buia e silenziosa, rischiarata soltanto da una piccola grata che si apriva sul ponte sovrastante. Conteneva come unico arredo due pagliericci, sistemati in due cuccette di legno ricavate nel vano ricurvo della carena, e provvisti di fresche lenzuola di lino e di cuscini che li rendevano soffici e accoglienti. Ringraziai Sydoni e mi sedetti sul bordo della cuccetta per togliermi gli stivali. Lei restò ferma a guardarmi, senza mostrare la minima intenzione di andarsene. «Ho verso vostro padre e verso di voi un enorme debito di gratitudine» le dissi. «Intendo ripagarvi... o, almeno, intendo provarci.» La giovane sorrise: «Non ce n'è alcun bisogno». La ringraziai di nuovo ma lei, invece di lasciarmi solo a riposare, si sedette accanto a me. Sentii provenire dai suoi abiti e dai suoi capelli un sentore di profumo di sandalo. «De Bracineaux vi preoccupa» esordì inarcando un sopracciglio, quasi sfidandomi a contraddirla. «È così evidente?» «Non per mio padre, forse, che tende a vedere solo ciò che vuole.» «E voi, Sydoni, cosa vedete?» «Vedo un uomo che freme ogni volta che sente pronunciare il nome dei templari.» «Non fremo.» «Come una vecchia con il mal di denti.» «Una vecchia...» non mi offesi per quel paragone. Sydoni scoppiò a ridere, e quel suono, per quanto umiliante, mi affasci-
nò. «C'entra con la Croce Nera, non è vero?» «Sì» ammisi. Annuì, attendendo che proseguissi, ma poiché rimasi in silenzio, sospirò: «Ebbene, se vi ci vuole tanto per pensarci, significa che non avete altro da dirmi». «Voglio parlarvene. Solo che non è facile.» «Ciò accade» commentò stizzosamente «quando si deve decidere quanta parte di verità tacere.» Avevo dimenticato la mutevolezza del suo umore: come il cielo, Sydoni poteva essere mite e serena un momento e tempestosa l'attimo dopo. «Se ho pensato di tacervi qualcosa» risposi, perdendo la pazienza «è stato solo per non ferire i vostri sentimenti.» «I miei sentimenti?» piegò il capo di lato e mi guardò come se fossi pazzo. «Non provo nulla per de Bracineaux.» «O, se preferite, i sentimenti di vostro padre. So che sono amici.» «Bah!» replicò «ci chiedete di lasciare il Cairo in tutta fretta per eludere i templari e ora vi preoccupate di non turbare i sentimenti di mio padre?» Ero stanco e, in ogni caso, era inutile discutere con lei. «Sospetto che i templari si siano alleati con i fida'in» sbottai. «Lo sapevo!» gridò, afferrandomi il braccio in preda all'eccitazione. «Sapevo che stava mentendo. Il caro de Bracineaux è un bugiardo!» La sua reazione, per quanto gratificante nella sua incontrollata veemenza, mi colse di sorpresa. «Continuava ad assicurarci che stava facendo il possibile per liberarvi» raccontò convulsa. «Quando mio padre iniziò a spazientirsi, ci chiese di aspettare, pregare e lasciar fare a lui, perché le trattative erano a un punto critico e una parola o un gesto fuori posto avrebbero potuto compromettere ogni cosa. Menzogne, erano tutte spregevoli menzogne!» «E allora Giordano si è rivolto ai copti» dedussi. «Certo. In realtà era la soluzione a cui aveva pensato all'inizio» rispose Sydoni. «Voleva mettersi in contatto con loro al nostro arrivo, ma aveva promesso a de Bracineaux di lasciarlo provare. Dopo aver atteso per tre giorni, ha deciso che non avrebbe nuociuto a nessuno se i nostri amici si fossero informati sulla faccenda. I copti del Cairo» aggiunse orgogliosamente «convivono con i saraceni da molto tempo; e hanno rapporti con persone influenti in tutta la città.» «Se non fosse stato per i vostri amici» spiegai «certamente sarei ancora prigioniero del califfo. A de Bracineux non importava nulla di me; o, al-
meno, non ero certo in cima ai suoi pensieri.» «Voleva la Croce Nera» dichiarò Sydoni. «Eravate solo un pretesto per cercarla più agevolmente. Vi ha usato, proprio come ha usato mio padre.» Mi guardò interdetta: «Ma come avete scoperto la sua alleanza con i fida'in?». «Li ho visti insieme» sbadigliai, sopraffatto dalla stanchezza. «Stavano cercando di introdursi nella sala del tesoro del palazzo.» «Per prendere la Croce.» «Sì... presumo che la cercassero.» All'improvviso si alzò: «Ora dormite. Vi sveglierò per cena». «Sydoni» la chiamai, rendendomi conto solo in quel momento che mi piaceva pronunciare il suo nome «vi prego, non riferite i miei sospetti a vostro padre.» «Dobbiamo dirglielo. Non possiamo tenerglielo nascosto.» «Lo so. Ma aspettiamo fino a stasera. Voglio che lo sappia anche Padraig.» «Benissimo» acconsentì. «A stasera, dunque.» Chiuse la porta. La sentii salire gli scalini di legno e poi attraversare con passo leggero il ponte. Poi mi sdraiai sul morbido pagliericcio e posai la testa sul cuscino, dove doveva averla appoggiata lei la notte precedente. Quando mi addormentai, cullato dal lento rollio della nave, il profumo di sandalo pervase i miei sogni. Quarantacinque Fui destato da una carezza fresca sulla fronte e da un sussurro all'orecchio. Avevo dormito a lungo e profondamente e facevo fatica a svegliarmi. Quando finalmente aprii gli occhi, Sydoni non c'era più e mi chiesi se non l'avessi sognata. Mi infilai gli stivali e ritornai sul ponte superiore dove fui accolto da un cielo rosso e oro, con sfumature color zaffiro a oriente, dove cominciavano a brillare le prime stelle. Vidi passare lentamente le dolci e verdi colline egiziane e udii il suono dei campanacci delle capre che i pastori riconducevano all'ovile per la notte. Sydoni era inginocchiata accanto a un braciere dove cuoceva del pesce: l'olio che vi versava sopra cadeva sfrigolando sulla brace da cui si sollevavano lingue di fuoco e nuvole di fumo argenteo dall'aroma delizioso. Quando le fiamme si furono smorzate, spruzzò il pesce con succo di limone e, accortasi della mia presenza, mi accolse con un sorriso: «Buonasera». «Che buon profumo!»
Mi porse una scodella piena di semi gialli lunghi e piatti: «Assaggiate questi» mi invitò. Ne misi qualcuno in bocca e masticai: erano salati. «Buoni» commentai. «Sono semi di zucca essiccati. Li preparano i contadini. E fanno anche questa» aggiunse, prendendo una grande brocca di terracotta e versandone il liquido color ambra in un boccale di rame. Sulla superficie si formò una schiuma bianca e, quando portai il boccale alle labbra, sentii la fragranza fruttata della birra fresca. «Si chiama Lacrime di Coccodrillo.» «Nella mia lingua è öl» risposi, assaporando il gusto amarognolo, simile a quello delle noci, della birra che mi scendeva in gola. Quand'era l'ultima volta che ne avevo bevuta? «Gli egiziani affermano di averla inventata loro» mi informò Sydoni scrollando leggermente le spalle. «Ma lo dicono di qualunque cosa.» «Padraig sostiene che sono stati i celti i primi a produrla, ma... lo dice di qualunque cosa.» Sorseggiai con piacere la bevanda amarognola e ne respirai a fondo l'aroma fragrante. «A proposito, dov'è Padraig?» «È andato sotto coperta» rispose. Poi voltò il pesce e vi spremette sopra altro succo di limone. «Ha detto che avrebbe pregato davanti alla Croce Nera.» «Il dormiglione si è svegliato!» esclamò Giordano. Mi voltai e lo vidi avvicinarsi da poppa dove si era trattenuto a parlare con il timoniere. Padraig e Wazim non erano con lui. «Mi sento tanto riposato che affronterei mille turchi!» dissi. «Spero che abbiate lo stesso appetito» rispose Sydoni. «Mio padre ha deciso di organizzare un banchetto per festeggiare il vostro ritorno. Ci siamo fermati in un villaggio e abbiamo comprato tutto ciò che c'era al mercato.» «L'occasione lo merita!» esclamò Giordano «Dio vi benedica, Duncan, sono così felice di rivedervi. Mi dispiace, ma non posso evitare di ripeterlo. Non intendo mettervi in imbarazzo, ma sono davvero felice di rivedervi.» «Anch'io sono felice di essere qui, Giordano» risposi. «Vi prego, le vostre manifestazioni di affetto non mi imbarazzano per nulla. Ci sono stati momenti nei quali ho temuto seriamente che non avrei più rivisto né voi, né nessuna delle persone a me care.» Parlammo della mia prigionia nel palazzo del califfo e commentai che il tempo si era già messo al lavoro, smussando gli angoli di quella dura esperienza e sfumandola in tinte meno fosche.
«È per questo che avete tenuto un diario?» chiese Sydoni. Notai con quanta naturalezza mi si fosse seduta accanto e ricordai quanto mi fosse mancata la sua grazia spontanea e seducente. «Già» risposi rammaricato, poiché mi era tornato in mente il malaugurato incidente del canale. «Temo però che si sia completamente rovinato. Bisognerà che ne faccia a meno e mi affidi soltanto alla mia memoria.» «Forse no» intervenne Padraig che intanto ci aveva raggiunti e teneva in mano uno dei miei rotoli. «Il papiro è un materiale eccellente sotto molti aspetti. Guardate qui» continuò, srotolandone una parte che era ancora umida «la scrittura si è scolorita, ma sono rimaste delle tracce.» Osservai sconsolato le macchie di inchiostro annacquato: «Ma non è possibile leggerlo così». «No» concordò Padraig «ma è possibile copiarlo.» «I monaci di Aghios Moni sono famosi per questo tipo di lavoro. Sono esperti nel riprodurre tomi e pergamene antichi. Possiamo portare il vostro diario a loro» suggerì Giordano infervorato. «Vi state lasciando andare alle congetture, padre» intervenne Sydoni. «Forse Duncan non vuole tornare a Cipro con noi.» «No?» Sul volto dell'anziano mercante si dipinse per un attimo un'espressione di rammarico: «Ma certo, mi sono lasciato trasportare dall'entusiasmo. Dovete solo decidere dove volete andare, amici miei: la mia nave vi ci condurrà». Il suo sguardo passava da me a Padraig, in attesa di una risposta: «Dunque?». «Penso che fareste bene a confidare a mio padre quel che avete rivelato a me» intervenne Sydoni, sfiorandomi il braccio con la punta delle dita. Annuii e tirai un sospiro riluttante: «Credo che nessuno di noi dovrebbe far ritorno a Cipro, per ora» esordii. «Sono dell'idea che de Bracineaux e i suoi uomini abbiano stretto un patto con i fida'in.» «Ma è impossibile!» esclamò Giordano. «Sono certo che vi sbagliate. A Renaud non passerebbe neppure per l'anticamera del cervello una simile ipotesi.» «Se c'è un'altra spiegazione sarò felice di ascoltarla e ammetterò di essermi sbagliato. Ma so ciò che ho visto.» La notizia sconvolse talmente il vecchio Giordano che Sydoni suggerì che ci sedessimo e discutessimo davanti a un boccale di birra: «Ci vorrà ancora un po' prima che la cena sia pronta. Risolviamo questa spiacevole questione prima di metterci a tavola». Wazim si svegliò dal suo sonnellino mentre riempivamo i boccali, ma ri-
fiutò di unirsi a noi, e così Sydoni lo incaricò di occuparsi della cena. Ripetei ciò che mi aveva riferito la giovane a proposito dell'insistenza di de Bracineaux nel voler negoziare di persona la mia liberazione: «Se davvero ha chiesto udienza al califfo, io non ne ho saputo nulla» spiegai. «Ho saputo che era al Cairo solo quando l'ho veduto nel sotterraneo, mentre aiutava i fida'in a introdursi nella sala del tesoro.» «Siete certo che fossero fida'in?» chiese Giordano. «Non li conosco» risposi e raccontai che Wazim mi aveva detto chi erano dopo che glieli avevo descritti. «Potrebbe essersi sbagliato» osservò Giordano. «È possibile, no?» «Sì, certo» ammisi. Chiamai Wazim e gli domandai se avesse qualche dubbio sull'identità degli uomini che erano entrati nella cripta. «No, mio signore» rispose. «Erano hashishin.» «Ma voi non li avete visti, Wazim, non è così?» insistette Giordano. «Non li avete visti con i vostri occhi.» «No» ammise Wazim «ma ho sentito il loro odore: puzzavano di hashish.» «Ieri sera gran parte della città era in fiamme» fece notare accortamente l'anziano mercante «come potete essere sicuro che fosse hashish?» Aveva piantato il seme del dubbio, ma io rimasi fermo nella mia convinzione. Chiesi a Wazim se qualcuno si fosse presentato alla corte del califfo per negoziare il mio riscatto. «No, mio signore» rispose di nuovo. «Nessuno.» «Non potrebbe essere venuto qualcuno senza che voi lo sapeste?» domandò Giordano. Benché parlasse gentilmente e con tatto, capii benissimo quali fossero le sue intenzioni e mi sentii a disagio. Che fossi stato troppo frettoloso nel giudicare i templari? Forse era stata l'amarezza della prigionia a minare la mia stima verso di loro. «Sono un carceriere coscienzioso» rispose lui. «Era mio compito interessarmi della sorte dei miei prigionieri e, se qualcuno fosse venuto a offrire un riscatto, l'avrei saputo. A palazzo non si è mai presentato nessuno.» «Chi si è rivolto a voi chiedendo di me, Wazim?» domandai. «È stato padre Shenoute che mi ha mandato a chiamare.» «È il patriarca della cattedrale del Cairo» spiegò Padraig. «Poiché sembrava che de Bracineaux avesse difficoltà a ottenere udienza dal califfo, Giordano e io ci siamo rivolti al patriarca. Lui ha fatto qualche ricerca e ha scoperto che Wazim era disposto a collaborare.» Il mite carceriere annuì: «Il patriarca mi disse che avrei fatto la volontà
di Dio se avessi aiutato Da'ounk a riacquistare la libertà. L'inizio dei tumulti di piazza mi è sembrata una buona occasione e l'ho colta al volo». «Ecco, vedete?» intervenne Giordano. «Potrebbe essere tutto un errore. Il fatto che siano riusciti dove i templari hanno fallito, non significa in alcun modo che volessero tradirvi.» «Può essere» ammisi «ma una cosa ancora non mi è chiara: se il loro scopo era quello di aiutarmi, perché si sono tanto affannati a entrare nella sala del tesoro? Dal momento che ne avevano la possibilità, perché non hanno cercato di liberarmi?» «Immagino che sperassero di recuperare la Croce Nera» rispose Giordano. «Esatto, lo volevano più di ogni altra cosa» conclusi cercando di mantenermi calmo. «Potete forse biasimarli?» chiese il mercante. «La Reliquia appartiene alla chiesa di Antiochia. Quel folle di Boemondo l'ha perduta, e loro avevano il sacro dovere di ritrovarla.» «Hanno preferito recuperare la Croce piuttosto che salvarmi la vita» ribattei. «Ma non vi avevano detto nulla di questa parte del loro piano. Perché ve l'hanno tenuta nascosta?» Giordano spalancò le braccia: «Dovremo chiederlo a Renaud la prossima volta che lo vedremo». «Voi cosa proponete?» domandò Padraig. Intuivo dalla sua espressione e dal tono della sua voce che l'idea di permettere ai templari di impossessarsi della Santa Reliquia disturbava lui quanto me. «Amici miei, credo che si tratti soltanto di un increscioso equivoco. Andiamo a Cipro. Là, con vostra licenza, chiederò a Renaud di venire a Famagosta per discutere la questione. Dopo tutto» osservò Giordano «il buon comandante ci è stato di grandissimo aiuto quando eravamo a Damasco. Prima di condannarlo, penso che dovremmo ascoltare le sue ragioni.» In quel momento Sydoni venne ad avvisarci che la cena era pronta e quella sera non toccammo più l'argomento. Non ero convinto dell'idea di Giordano ma non permisi che le mie perplessità rovinassero l'atmosfera festosa che aveva voluto per la serata. Dopo qualche boccale di birra e dopo aver gustato l'ottimo cibo preparato da Sydoni, riuscii a mettere da parte i miei dubbi su Renaud e sui templari e a divertirmi, nonostante sentissi incombere la nube di un oscuro presagio. La cena fu un trionfo di pietanze squisite preparate con semplicità, in modo da valorizzare il sapore di ogni ingrediente. C'erano pesce, peperoni
arrostiti con aglio, olive, pane arabo alle erbe fatto dalle donne del villaggio e il mio piatto preferito: pezzetti d'agnello marinati in olio d'oliva con erbe aromatiche, infilati in sottili spiedini di legno e cotti sulla brace. Restammo seduti sul ponte a chiacchierare e a mangiare mentre la notte avanzava. Sulle sponde del fiume brillavano i fuochi tremolanti delle case e dei villaggi e il cielo era rischiarato dalla luce delle stelle. La luna si levò tardi e, specchiandosi nelle placide acque del Nilo, le trasformò in argento liquido. Dopo un po' Giordano ci augurò la buona notte e si ritirò, seguito da Padraig e da Wazim, e io rimasi solo con Sydoni. Parlammo sino a tardi, godendoci la mite frescura notturna e lo sciabordio delle onde che sfiorava la chiglia. Il timoniere teneva la nave al centro del fiume. Poi un marinaio andò a dargli il cambio perché potesse coricarsi nel suo giaciglio a poppa e dormire per un po' prima di rimettersi al lavoro. Era una bella notte per navigare, ed ero felice di trovarmi sul fiume. Sollevando lo sguardo verso la sconfinata volta celeste trapunta da un'infinità di stelle, cominciai a rendermi conto di essere davvero libero. Qualche tempo dopo anche Sydoni mi augurò la buona notte e scese sotto coperta, e io rimasi solo sul ponte a osservare gli astri e ad ascoltare il rumore dell'acqua cupa, mentre la nave solcava il fiume che lentamente si allargava verso il mare. Mi appisolai un po' verso l'alba, ma mi risvegliai subito e andai a poppa. A oriente il cielo, di un rosa intenso, sfumava in un grigio azzurrino sgombro di nuvole. Il fiume era diventato ancora più ampio durante la notte, e ora le rive erano distanti. Non c'erano navi dietro alla nostra ma, davanti a noi, due piccole imbarcazioni ci precedevano a velocità costante. Chiesi al timoniere da quanto tempo si trovassero lì, e lui rispose che ci avevano incrociato all'alba: «Sono barche da pesca» spiegò in un latino stentato. «Non preoccupatevi. Non ci segue nessuno.» Lo ringraziai, ma rimasi vigile e continuai a tenere d'occhio il fiume anche nei giorni seguenti. Solo dopo che ci fummo lasciati alle spalle la torrida Alessandria per solcare le cupe acque del Mediterraneo mi permisi di credere che fossimo riusciti a seminare gli ipotetici inseguitori. Quando la nave si gettò in mare aperto a vele spiegate, cominciai a rallegrarmi con me stesso, convinto di essere ormai sulla via di casa nonostante gli sforzi comuni di selgiuchidi e saraceni. La traversata fu veloce e tranquilla; il tempo si mantenne ottimo per la navigazione, benché facesse molto caldo e, grazie ai venti favorevoli e alle notti serene, raggiungemmo Cipro in soli tre giorni. Mentre l'isola era an-
cora una macchia azzurra e marrone sull'orizzonte in mezzo alla foschia, convinsi Giordano a non attraccare a Famagosta, ma in un altro porto. «Ma perché?» chiese, sinceramente perplesso davanti alla mia diffidenza e ai miei timori. Sebbene pensassi che ci fossero ragioni validissime per evitare del tutto Cipro, mi limitai a rispondere: «Mi sentirei più tranquillo se non si sapesse subito del nostro ritorno». «Ma che pericolo può esserci?» ribatté ingenuamente il vecchio mercante. «Sono certo che il califfo deve pensare a questioni ben più importanti che non alla fuga di un prigioniero. Comunque, se serve a farvi stare più tranquillo, parlerò con il governatore che terrà all'erta la guarnigione.» «Padre» lo rimproverò Sydoni «sapete benissimo che il governatore è un chiacchierone buono a nulla. E la guarnigione consiste in un branco di vecchi cani da guardia che abbaiano più di quanto non mordano.» Poi, rivolta a me, aggiunse: «Abbiamo una piccola casa a Pafos, sull'altro versante dell'isola. Potremo stare lì per tutto il tempo che riterrete opportuno». Giordano alzò gli occhi al cielo ed emise un profondo sospiro, ma cedette alla figlia senza altri commenti. Parlai con il timoniere, che fece in modo di non attraccare prima del tramonto: volevo che il nostro arrivo fosse notato il meno possibile. Una volta a terra, attraversammo in fretta la città bassa e, superata la collina, ci dirigemmo verso una zona più tranquilla, chiamata Nea Paphos. Là, tra gli olivi contorti e i cespugli spinosi, si vedevano ancora le rovine di un'antica fortezza e, in mezzo alle tenute dei ricchi agricoltori e dei mercanti, le vestigia dei palazzi di sovrani da lungo tempo defunti. La casa di Giordano era molto più piccola dell'enorme villa di Famagosta, ma era più che adeguata per le nostre modeste esigenze. Era circondata da un alto muro di ciottoli e vi si accedeva attraverso una porticina di legno. Una volta entrati, ci si trovava in un cortiletto tenuto sempre lindo da una piccola governante di nome Anna. Al centro del cortile allargava i suoi rami un grosso albero di fico, con intorno alcune panche di legno; in un angolo un pozzo forniva l'acqua per le necessità domestiche. Anna ci accolse lagnandosi di non essere stata avvertita in tempo, e si mise a preparare la cena. Intanto, io provvidi a sprangare la porta d'ingresso. Giordano mi guardò con aria divertita e mi chiese se ero soddisfatto. «È abbastanza solida» risposi, facendo scorrere il chiavistello di ferro. «All'occorrenza, terrà.» «Ottimo. Allora possiamo andare a raggiungere gli altri per brindare a
questo fortunato ritorno.» Poiché la stanza principale della casa fungeva anche da cucina, Anna non ci permise di avvicinarci finché la cena non fu pronta e ci mandò in cortile, dove Padraig trovò una panca e qualche sgabello che disponemmo in cerchio. Sydoni portò una caraffa di vino e alcuni boccali di legno d'olivo. Versò il vino e brindammo a una vita prospera, piena di salute, lunga, felice e ricca di avvenimenti lieti. «Che cosa faremo adesso, padrone?» mi chiese Wazim. Mi colpì l'appellativo con cui mi si era rivolto; era la seconda volta che mi chiamava così, la prima era stata nella galleria. «Ci riposeremo per un paio di giorni» risposi con finta noncuranza «e poi Padraig e io cominceremo a cercare una nave che ci riporti a Caithness, in Scozia.» Guardai il piccolo copto che era stato il mio solo amico nel palazzo del califfo: «E tu, Wazim? Cosa farai?». Rifletté per un momento: «Se Giordano non ha bisogno di me» mormorò infine, in tono rassegnato «andrò ad Alessandria». «Non al Cairo?» chiesi scioccamente. «Oh, non potrei mai tornare al Cairo, Da'ounk» rispose. «Il califfo mi farebbe prima scorticare vivo e poi arrostire allo spiedo sui carboni ardenti.» Il piccolo carceriere aveva rischiato la vita e abbandonato il suo lavoro per me, e io lo gettavo via come uno straccio in cui mi fossi appena soffiato il naso. «Mi dispiace, Wazim. Perdonami, non avevo riflettuto.» «Non c'è nulla da perdonare. Dovete tornare al vostro paese, lo comprendo benissimo.» «Mi hai servito in modo encomiabile, da vero cristiano, ti sei prodigato per me senza chiedere nulla e hai sopportato immensi sacrifici. Certo non sarei qui se non fosse stato per te. Non permetterò che la tua generosità rimanga senza ricompensa.» Sorrise nel sentire le mie lodi: «Non voglio niente da voi, Da'ounk. Dio ha preparato la mia ricompensa in cielo». «Non c'è dubbio Wazim, mio caro amico. Ma ci vorrà ancora un po' di tempo prima che tu possa riscuoterla; mi farebbe piacere vederti sistemato e al sicuro mentre la aspetti.» Guardai Padraig, che stava seguendo la conversazione e vidi che mi faceva un cenno d'approvazione con il capo, come per informarmi che avevo vinto un'altra battaglia contro l'orgoglio. Anna ci chiamò per la cena e ci sedemmo a gustare uova e peperoni, con pesce secco, olive e vino. Poi restammo a tavola sino a notte inoltrata, a
discutere con Giordano e Sydoni su come trovare una nave che ci riconducesse in patria. Mentre parlavamo, mi resi conto che Giordano non era affatto contento della nostra partenza. Era ansioso di vedere me e de Bracineaux riconciliati, le nostre divergenze appianate e la Croce Nera al suo posto. Confesso che ero contrario all'idea, ma mi sentivo profondamente in debito con il mercante e volevo evitare con tutto il cuore di rattristarlo comunicandogli le mie opinioni. Quella notte andammo a letto senza risolvere la questione, ma gli promisi che ci avrei riflettuto attentamente nei giorni successivi. Così Giordano non accennò più alla faccenda, lasciandomi ai miei pensieri. Il mattino seguente Padraig e io, con l'aiuto di Sydoni, avvolgemmo la Croce Nera in un telo di seta rossa e la mettemmo al sicuro in un robusto baule di legno che Anna usava per riporre i sandali e gli abiti della festa. Nascondemmo la Santa Reliquia sul fondo del baule e la ricoprimmo con alcuni vestiti e scialli e un paio di mantelli. Il baule non aveva lucchetto, ma Sydoni disse che forse era meglio: «Chi vuol trovare una cosa di valore, la cerca prima in un baule chiuso a chiave» osservò. Infilammo il baule sotto il letto di Padraig e, soddisfatti di aver messo al sicuro il nostro inestimabile tesoro, scendemmo nella città bassa e chiedemmo a tutti di informarsi sulla prima nave per l'Occidente in partenza dal porto di Pafos. Pensai che probabilmente saremmo stati costretti a recarci fino a un porto più grande per trovare un passaggio, e temetti che ciò avrebbe aumentato il rischio di essere scoperti. Del resto, correvamo lo stesso pericolo restando sull'isola, perché non ero affatto convinto che i templari avrebbero desistito tanto facilmente dal cercare la Santa Reliquia, così come non avrebbero permesso che qualcosa o qualcuno contestasse il loro diritto di reclamarne il possesso. La mia improvvisa e inattesa comparsa sulla banchina del porto del Cairo aveva stupito il luogotenente Gislebert, ed ero certo che Bracineaux avrebbe concentrato su di me le sue ricerche, non fosse altro che per scoprire che avevo io la Croce. Se era così, il suggerimento di Giordano di proporgli di raggiungerci per discutere la questione lo avrebbe colto di sorpresa ma, a parte questo, non riuscivo a trovare altri motivi per un abboccamento con i templari. Non lo dissi a Giordano, limitandomi a chiedergli di poterci pensare ancora un po'. «Prendetevi tutto il tempo che volete» rispose magnanimamente l'anziano mercante. «Mentre riflettete, perché non vi recate al monastero per
chiedere ai monaci di copiare i vostri papiri danneggiati? Non è lontano: vi assentereste solo qualche giorno, e nel tragitto potreste visitare Cipro.» Padraig disse che si trattava di un'ottima idea e così partimmo. Quarantasei Per viaggiare i ciprioti usano gli asini che, pur essendo animali estremamente umili e piccoli, sono anche robusti, docili e pazienti. Mangiano poco, bevono meno dei cavalli o dei buoi e sopportano il caldo, il freddo, e le fatiche meglio degli altri animali da soma. Ne prendemmo a nolo tre a Pafos, uno per Padraig, uno per me e uno per trasportare il foraggio e le provviste. Come aveva detto Giordano, il monastero non era molto lontano, ma gli abitanti delle colline sono molto poveri e le possibilità di trovare cibo e ricovero lungo il tragitto sarebbero state alquanto scarse. «Penso che sia meglio viaggiare con poco bagaglio e pesare il meno possibile sui contadini» ci consigliò diplomaticamente l'anziano mercante. Così, il mattino seguente, infilammo poche cose in un sacco di tela, avvolgemmo i rotoli di papiro rovinati in una pelle d'agnello umida che, secondo Padraig, sarebbe stata la protezione migliore, e caricammo il tutto sul nostro asinello. Salutammo Giordano, Sydoni e Wazim e ci mettemmo in viaggio per il monastero di Aghios Moni, un eremo dedicato alla preghiera e allo studio sulle colline alle pendici dei monti Troodos. Grazie alla strada ben segnata dall'uso frequente e al bel tempo, il viaggio fu piacevole. Giunti sul primo crinale mi voltai a guardare Pafos che brillava come una pietra preziosa al centro della baia sotto il sole mattutino. Ero contento di essere di nuovo con Padraig e mi venne in mente che eravamo soli per la prima volta dall'inizio del pellegrinaggio; mentre cavalcavamo fianco a fianco, gli raccontai della mia prigionia nell'accampamento dell'emiro Ghazi. Man mano che ci inoltravamo tra le pinete in cima alle colline, l'aria si faceva più fresca e più gradevole e la brezza odorosa di pino mi ricordò i boschi della Scozia. Sentii una fitta di nostalgia, lenita solo dalla certezza che presto avremmo fatto ritorno a casa. Trascorremmo l'intera giornata in sella, fermandoci di tanto in tanto per abbeverare gli animali al ruscello che scorreva a margine della strada. Oltrepassammo villaggi minuscoli che, come ci aveva detto Giordano, erano luoghi miserrimi, poco più che agglomerati di casupole diroccate e sporche di fuliggine, circondate da cortili di terra battuta dove vedemmo cani scheletrici e bimbi sudici che ci fissavano con sguardo affamato senza dire una
parola. Passando accanto a una di quelle baracche, Padraig si commosse talmente per l'aspetto di un ragazzino e della sua sorellina che diede loro metà del nostro pane, un po' di carne secca e tutto il formaggio che avevamo portato con noi. Più tardi, mentre il sole cominciava a calare oltre la vallata verdeggiante, trovammo una radura nel bosco, a breve distanza dalla strada, e ci accampammo per la notte. Accendemmo un fuoco con rami di pino profumati, preparammo un modesto purè di piselli e dormimmo su un giaciglio di aghi di pino, sotto le stelle che facevano capolino tra i rami agitati da una brezza leggera. Ci rimettemmo in viaggio all'alba e giungemmo a destinazione solo quando le campane del monastero battevano i vespri. Varcammo il portone ancora aperto e ci presentammo al portinaio. La comunità era composta in maggioranza da monaci greci, ma non avemmo difficoltà a farci capire. Padraig spiegò di essere un sacerdote e, quando informò il frate portinaio che eravamo pellegrini di ritorno dalla Terra Santa quello, tutto eccitato, corse a cercare l'abate. L'abate Demetriano era un uomo garbato e gentile, umile d'aspetto e di modi, con i capelli scuri e ondulati e una barba con due striature grigie ai lati della bocca. Come i monaci affidati alle sue cure, indossava una semplice tonaca nera lunga sino ai piedi con un cappuccio nero e una piccola croce bianca cucita sul petto. Al collo portava una croce di legno appesa a un laccio di pelle intrecciata e stringeva in mano un bastone di legno. Demetriano ci accolse con grande cortesia, ricevendoci come se fossimo parenti attesi da tempo e di cui avesse sentito la mancanza. Diede istruzioni al portinaio di preparare l'alloggio per gli ospiti e annunciò: «Siamo onorati di ricevere dei pellegrini di ritorno dalla Terra Santa. Se non siete troppo stanchi, forse stasera a cena potrete raccontarci qualcosa del vostro viaggio». «Saremo lieti di parlarvene» gli rispose Padraig. «Devo confessare, però, che a causa di una grave disavventura non siamo riusciti a raggiungere Gerusalemme. Se speravate di avere notizie sulla Città Santa, temo che dovremo deludervi.» «Non ha alcuna importanza» replicò l'abate. «Molti di noi non sono mai arrivati neppure a Leucosia o a Salamina, e alcuni non sono mai andati al di là della vallata. Sono certo che accoglieranno con considerazione e gratitudine tutto ciò che ci direte del mondo.» Il buon abate ci informò che il monastero di Aghios Moni era molto an-
tico e che i primi monaci vi erano giunti da Bisanzio più di settecento anni addietro: «Prima del loro arrivo» ci rivelò «in questo luogo sacro sorgeva un tempio dedicato alla dea Era, sulle cui fondamenta è stata costruita la nostra cappella». Quando Padraig si mostrò interessato ad avere altre informazioni sul monastero, l'abate si trasformò in una guida, ci fece visitare tutti gli edifici e ci mostrò i tesori affidati al suo ordine, tra cui una piccola icona scolorita e assai ingenua della Vergine Maria, che si diceva fosse stata dipinta da san Luca l'evangelista. Al vedere quel pezzo mirabile ebbi la sensazione di trovarmi dinanzi a qualcosa di antichissimo e di grande valore. Benché, lo confesso, non sia un conoscitore di opere d'arte, ciò che più mi colpì non fu l'immagine malinconica di quella giovane donna dai grandi occhi scuri e tristi, ma la rispettosa reverenza con cui i monaci conservavano il ritratto. Davanti a tale devozione, profonda e sincera, era naturale vergognarsi per l'incuria e il disinteresse dei crociati verso la Croce Nera. Le profanazioni di cui era stata fatta oggetto da coloro che avrebbero dovuto proteggerla erano un vile e mostruoso sacrilegio, e l'umile rispetto dei monaci rinsaldò il mio proposito di tenerla il più possibile lontana dalle mani dei templari. I monaci di Aghios Moni vivevano semplicemente, dedicandosi alla preghiera e al lavoro, coltivando grano e verdura, e allevando polli e pecore da donare ai poveri che ogni giorno si presentavano al loro portone per chiedere cibo e indumenti. Erano giustamente famosi per la loro perizia nell'arte medica, e distribuivano pozioni e medicamenti in tutta l'isola, in base alle necessità di ciascuno. Inoltre coltivavano alcuni vigneti che producevano un vino eccellente, amabile e forte, che si diceva avesse poteri curativi poiché cresceva su un terreno consacrato. La regola dell'ordine vietava di parlare durante i pasti ma, come segno di rispetto nei nostri confronti, quella sera essa fu applicata con minor rigore per permetterci di narrare il nostro soggiorno in Terra Santa. In effetti fu Padraig a raccontare, perché la sua padronanza del greco andava ben al di là della mia rudimentale conoscenza della lingua e anche perché sapeva esattamente ciò che i suoi confratelli desideravano sentire. Perciò, mentre lui prendeva posto sul pulpito solitamente occupato dal monaco incaricato della lettura serale, io rimasi comodamente seduto a tavola accanto all'abate a sorseggiare vino e a gustare un delizioso stufato di agnello e d'orzo. Padraig è un abile oratore, e impreziosì il suo racconto con mirabili descrizioni delle persone che avevamo conosciuto e dei luoghi che avevamo vi-
sitato. Raccontò della mia prigionia tra i selgiuchidi e i saraceni e della mia fuga, che fece apparire assai più ardimentosa di quanto non fosse in realtà, provocando un mormorio di apprezzamento da parte degli ascoltatori. Quand'ebbe terminato, l'intera comunità, una quarantina di monaci in tutto, si alzò per rendergli omaggio, mentre l'abate lo ringraziava con una benedizione particolare. Dopo cena, Demetriano ci invitò a bere qualcosa di speciale prima delle orazioni per la notte. Mentre attraversavamo il cortile del monastero, immerso nella luce rasserenante del tramonto, mi sentii stringere nell'abbraccio soave della pace assoluta di quel luogo. L'alloggio dell'abate non era altro che una cella disadorna con un focolare, un materasso imbottito di lana, alcune sedie e un tavolo su cui era appoggiato qualche semplice boccale di legno d'olivo e una brocca di terracotta. L'abate ci fece accomodare, riempì i boccali di un liquido chiaro e un po' torbido e ce li porse. Appoggiò il palmo della mano sul suo, pronunciò una benedizione e infine bevve il dolce fuoco dei monaci di Aghios Moni, una squisita bevanda dolcificata con il miele che calmava e corroborava nel medesimo tempo, ingannando chi lo assaggiava per la prima volta con un gradevole gusto di fumo, per poi procurare uno strano stordimento lucido e assai piacevole. Mi fu sufficiente qualche sorso perché mi sentissi socievole ed euforico, amico dell'intera umanità. Dovetti posare il boccale, con riluttanza, quando la conversazione volse al motivo della nostra visita, perché temetti che, se avessi bevuto ancora un po' di quel delizioso elisir, avrei perso la facoltà della favella. «Siamo stati informati da una fonte autorevole» cominciai, mentre il buon abate mi guardava con espressione sognante «che i vostri monaci sono eccellenti amanuensi.» «Sì, siamo esperti nell'arte di trascrivere e copiare manoscritti» rispose Demetriano. «Sono lieto che parte della nostra fama sia giunta al di là di queste mura, poiché ciò significa che Dio ce ne renderà maggior merito.» «Come avete udito» intervenne Padraig «siamo appena giunti a Cipro dall'Egitto, dove Duncan ha trascorso molto tempo in prigionia.» «Sì» annuì l'abate con espressione di benevola comprensione «avete dimostrato grande forza di sopportazione in quel triste frangente. Certo Nostro Signore vi è stato vicino.» «Durante la sua cattività nel palazzo del califfo» continuò Padraig «Duncan ha scritto un diario...» «Pensavo che sarei morto senza poter rivedere la mia figlioletta» spiegai
«e volevo che sapesse cos'era accaduto a suo padre.» «Un pensiero che vi fa onore» commentò l'abate in tono nobile. «Una vera e propria prova d'amore.» «Purtroppo» continuai «il diario si è rovinato.» E gli illustrai ciò che era accaduto durante la fuga dal palazzo del califfo, evitando però di accennare all'incursione nella cripta e al ritrovamento della Croce Nera. Demetriano inarcò le sopracciglia e fece schioccare la lingua: «Un gran peccato davvero» commentò, prendendo la caraffa. «Ancora un po' di alashi?» Io rifiutai, Padraig invece si lasciò tentare. «Comunque» riprese riempiendosi il boccale «ringraziamo il Padre Celeste per avervi salvato la vita, un bene certamente più prezioso per la vostra cara bambina.» E, detto ciò, bevve un lungo sorso di elisir. «Tuttavia» riprese Padraig «Duncan ha scritto le sue memorie sul papiro, un pregevole materiale che gli egiziani usano al posto della pergamena.» «Anche noi lo conosciamo, naturalmente» ribatté l'altro compiaciuto. «Lo chiamiamo papuros. Pregevole, certo, ma molto delicato e assai meno durevole della pergamena. Immagino però che, nel caso non si disponga di una pecora...» emise un profondo sospiro, come se si trovasse di fronte a uno dei problemi più gravi della sua vita «... non si possa fare altro.» «È per questo che ci siamo rivolti a voi» continuò Padraig. «Abbiamo portato qui i papiri nella speranza che gli abili amanuensi di Aghios Moni possano restaurare ciò che si è danneggiato.» «Capisco.» L'abate scivolò un po' sulla sedia e ci guardò strizzando leggermente gli occhi. «Per quanto mi addolori dirvelo, amici miei, so per esperienza non si può far nulla. Il papiro è molto delicato e una volta rovinato non v'è modo di recuperarlo. Siete sicuri di non volere ancora un po' di alashi?» Rifiutai di nuovo garbatamente e rimasi sorpreso nel vedere Padraig che vuotava nel suo boccale tutto il contenuto della caraffa. «Non intendo assolutamente mettere in dubbio le vostre parole» ribatté il mio assetato compagno. «Ma credo che il diario possa essere copiato.» Proprio in quel momento le campane cominciarono a battere l'ora della preghiera e Padraig si alzò: «Se volete scusarmi, è mio grande desiderio prendere parte alla funzione serale. Forse, con il vostro permesso, potremmo continuare la discussione domani. Penso che, quando avrete visto il documento, capirete ciò che intendo dire». Poi, rivolto a me, aggiunse: «Vieni Duncan, dobbiamo sbrigarci a raggiungere la cappella. Vi ringrazio
per la vostra cortesia, abate, e prego Dio di concedervi una notte serena». Demetriano ci benedisse e noi lo lasciammo al suo riposo. Mentre chiudevo la porta, notai che Padraig teneva ancora stretto in mano il suo boccale. «Un uomo meno forte si sarebbe tirato indietro molto tempo fa» commentai. «Ne conosco uno» rispose, versando a terra il contenuto del boccale e lasciandolo poi accanto alla porta. Ci affrettammo a raggiungere la cappella dove prendemmo posto dietro alla piccola congregazione. Ai lati del portale d'ingresso c'erano due panche, su una delle quali sedeva un anziano monaco che, con le mani giunte abbandonate in grembo, russava sommessamente; gli altri, tenendo le mani sollevate all'altezza delle spalle con le palme rivolte verso l'alto, intonarono le orazioni con un mormorio sommesso e profondo. Padraig si unì a loro ma io, che non comprendevo bene la lingua, trovai difficile seguire la preghiera. Di tanto in tanto un monaco pronunciava una frase a voce alta e, proprio quando cominciavo a capire le parole, la litania cambiava," prendendo una direzione del tutto diversa. Dopo un po' mi arresi e sedetti sulla panca accanto al monaco addormentato finché la funzione non giunse al termine. Mentre mi accomodavo, il mio vicino si svegliò, mi gettò uno sguardo confuso, sorrise e si rimise a dormire. Gli augurai sogni d'oro. L'alloggio per gli ospiti era piccolo ma comodo e, dopo un sonno ristoratore, il mattino seguente eravamo pronti a recitare le preghiere e a fare colazione nel refettorio con pane, miele, olive e formaggio di capra fresco. I monaci ci chiesero qualche altro racconto sulle nostre vicende in Terra Santa, mostrandosi interessati soprattutto ad Antiochia dove Paolo, l'apostolo delle genti, e il suo compagno Barnaba avevano predicato e lavorato. «Vennero anche a Cipro, sapete?» ci informò uno dei monaci più anziani. «Pafos fu. la prima città di tutto l'impero romano a convertirsi al cristianesimo.» «È vero» aggiunse un altro «ed è ancora possibile visitare il luogo in cui Paolo venne fustigato per aver messo in dubbio la supremazia dell'imperatore, e vedere la colonna alla quale fu legato.» Padraig e io esaurimmo ben presto la nostra piccola riserva di ricordi. Avrei voluto poter raccontare di più, ma avevo trascorso solo un giorno ad Antiochia, e non avevo avuto il tempo di visitarla. Tuttavia potei descrivere almeno la valle dell'Oronte, le famose mura che si innalzavano sull'argine roccioso del fiume, la strada principale e parte della cittadella e del pa-
lazzo. Mentre eravamo ancora a tavola, fummo raggiunti da Demetriano che si sedette accanto a noi e, servendosi del pane e del formaggio, si unì al coro di domande dei confratelli. Mi piacevano le sue maniere semplici e lo scarso interesse che mostrava per le formalità. Quell'atteggiamento mi ricordò Emlyn, e provai il desiderio di essere già in viaggio verso casa. Dopo colazione l'abate ci condusse nello scriptorium dove facemmo la conoscenza dei due anziani monaci che avevano in cura i manoscritti. «Vi presento fratel Ambrogio» disse, indicando il piccolo monaco dalle spalle rotonde e dai radi capelli bianchi con cui avevo condiviso la panca durante le preghiere della sera precedente «... e fratel Tommaso, i nostri amanuensi più capaci ed esperti. Se si può fare qualcosa per i vostri papiri, nessuno meglio di loro può saperlo.» I due si inchinarono entrambi con umile deferenza e ci invitarono a entrare. La stanza era piccola, ma ariosa e piena di sole, e la luce, entrando dalle ampie finestre della parete a meridione, rischiarava i tavoli da lavoro dei monaci. La maggior parte di loro si trovava nel refettorio, perciò, per il momento, lo scriptorium era a nostra completa disposizione. «Miei cari fratelli» cominciò Padraig «abbiamo bisogno del vostro aiuto per risolvere un problema. Vi ho raccontato della prigionia di Lord Duncan fra i musulmani.» I due monaci annuirono con aria ammirata. «Egli ha dedicato il tempo trascorso in cattività a scrivere il diario delle sue vicende. Purtroppo, il documento ha subito gravi danni.» Padraig spiegò come i papiri si fossero rovinati durante la mia fuga attraverso il canale. Quando il racconto fu terminato, l'abate concluse: «Ho già avvertito i nostri amici che, probabilmente, non c'è nulla da fare. Comunque lascerò che siate voi a decidere». «Vorremmo vedere il documento, se non vi spiace» commentò fratel Ambrogio. «Sarà più facile prendere una decisione quando l'avremo esaminato» ribadì fratel Tommaso. «Ma certo» rispose Padraig. Io presi i rotoli, li appoggiai sul tavolo più vicino e cominciai a srotolare la pelle di pecora ancora umida. Fratel Ambrogio mi trattenne: «Se permettete» disse bloccandomi la mano. «Vorrei vedere io stesso». Si chinò sull'involto e rimosse la pelle con grande cautela. Fratel Tommaso lo raggiunse dalla parte opposta del tavolo e lo aiutò a disfare il rotolo ben stretto, liberando i papiri. Osservarono la massa bagnata che ormai cominciava a marcire con aria
triste, come se fosse il cadavere di un cane molto amato, e fecero schioccare la lingua. Il bordo dei rotoli era coperto di macchie verdastre e i papiri odoravano di muffa. I due monaci si guardarono l'un l'altro e scossero il capo. «Temo che l'abate abbia ragione» concluse mestamente Ambrogio. «Non si può fare nulla. È quasi impossibile restaurare il papiro. Mi dispiace.» Anche se ero preparato a quell'eventualità, mi sentii ugualmente deluso. «Non dubito che ciò che dite sia vero» si affrettò a intervenire Padraig «e ce l'aspettavamo. Ma forse potreste dirmi se queste pagine possano essere copiate.» La sua richiesta portò a una seconda, più attenta ispezione e a una lunga discussione tra i due amanuensi. Con estrema accortezza, presero alcuni papiri e li portarono davanti alla finestra per studiarli alla luce. «Potremmo riuscirci» ammise Tommaso cauto. «Sarà necessario far asciugare ogni foglio molto lentamente, stendendolo con cura perché non si rompa.» «Forse così riusciremo a leggere ciò che vi era scritto» continuò Ambrogio. «Sebbene in latino» la sua voce assunse un tono rammaricato «la calligrafia è chiara ed elegante e sarà possibile decifrare i tratti, per quanto scoloriti, e copiarli.» «È un lavoro che richiederà molto tempo» ci avvertì Tommaso «ma si potrebbe fare.» «È una splendida notizia» commentò l'abate. «Ma temo che non saremo in grado di aiutarvi. La nostra comunità è piccola, e la mole di lavoro è tale che per molto tempo non ci sarà possibile accettare altri incarichi, per quanto meritevoli di considerazione.» «Sono pronto a pagarvi» offrii. «Mi rendo conto che copiare il documento richiede abilità e impegno, e dunque sono disposto a darvi qualunque somma riteniate opportuna.» «Vi prego» intervenne Demetriano, sollevando le braccia in atto di protesta «mi avete frainteso. Non intendevo chiedere alcun pagamento. Non è il vostro denaro che cerco, credetemi, mio caro amico. Sarei lieto di potervi aiutare, ma...» «Perdonatemi, abate» intervenne Ambrogio. «Mi è appena venuta in mente una cosa. Potrei scambiare due parole con voi?» I due parlottarono a voce bassa per un momento. Sentii Demetriano che diceva: «Benissimo» poi si voltò verso di me e, sorridendo, mi annunciò: «Il mio confratello ha appena portato alla mia attenzione un particolare che non avevo considerato. Egli sostiene che c'è un modo per aiutarvi... sempre
che siate d'accordo». «Mi troverete d'accordo su qualunque cosa, purché sia nei limiti della ragione e delle mie possibilità finanziarie.» «Il nostro lavoro non va soltanto a beneficio nostro, ma di tutto il mondo: serve a istruire e a elevare le generazioni future. È per questo che lo svolgiamo con tanta cura, perché quelli che verranno dopo di noi possano trarne il massimo vantaggio.» Indicò il monaco più anziano, che lo guardò con aria fiduciosa, e aggiunse: «Fratel Ambrogio mi ha fatto notare che il resoconto del vostro soggiorno in Terra Santa potrebbe contenere riflessioni uniche, e dunque inestimabili, sulle imprese cristiane, e mi suggerisce di acconsentire alla vostra richiesta». «Benissimo!» esclamai, lieto della piega che stavano prendendo gli avvenimenti. «Sono felice di sentirvelo dire.» «C'è solo una condizione» continuò Demetriano, sollevando una mano come a moderare la mia euforia. «Che ci permettiate di fare due copie.» «Una sarà per voi, naturalmente» intervenne Ambrogio, anch'egli euforico «e una per noi.» A dire il vero non mi era mai venuto in mente che le mie traversie potessero interessare a qualcuno, a parte me e i miei familiari. Benché i papiri non contenessero nulla di riprovevole, non ero sicuro di volere che un estraneo leggesse ciò che avevo pensato e provato in fondo al cuore. Ma mentre cercavo di giungere a una decisione, Padraig accettò con entusiasmo dicendo: «Mi pare una soluzione eccellente. Ma certo! Niente ci renderebbe più lieti che sapere che lo scritto di Lord Duncan sarà utile a qualcuno». «C'è un'altra condizione» intervenne l'abate in tono vagamente imbarazzato. «Mi è stato ricordato che lo scriptorium necessita di un nuovo tetto.» «Capisco benissimo» risposi. «Sarò felice di sostenerne le spese.» Fratel Ambrogio e fratel Tommaso giunsero le mani con espressione felice e lodarono il Creatore per la sua immensa munificenza. Noi ringraziammo i monaci per la loro bontà e ci mettemmo d'accordo sulla data in cui ritirare la copia ultimata. Poi, prima che il sole avesse raggiunto lo zenit, ci rimettemmo in sella per far ritorno a Pafos. Arrivammo la sera del giorno successivo e fummo accolti dalla notizia che Giordano era partito. Quarantasette
«Dov'è andato?» chiesi, con una voce che l'incredulità rendeva stridula. Mi sentii invadere da una rabbia cocente come il sole che mi picchiava sulla testa, ma cercai di calmarmi. Sydoni si morse il labbro. Capiva quanto fossi irritato e detestava l'idea di nascondermi la verità; anche se parlare avrebbe significato tradire la volontà paterna. «A Famagosta» rispose impacciata. «Ha portato Wazim con sé. So che avevate detto...» «Quando?» domandai. «Da quanto tempo è via?» «È partito il giorno in cui vi siete recati al monastero. Penso che abbiate ragione ad adirarvi, ma sta solo cercando di essere d'aiuto.» «Sarà un bell'aiuto se i templari verranno a cercarci qui.» «Ha promesso di non fare nulla senza il vostro consenso» affermò lei, poco convinta. «Allora non avrebbe dovuto allontanarsi!» gridai. «È andato a occuparsi di questioni sue... niente di più.» Cominciava a mettersi sulla difensiva. «Non temete, mio padre non tradirebbe mai il vostro segreto.» «È stata una decisione idiota!» «Calmatevi!» esclamò Padraig entrando nel cortile. «Tutta l'isola saprà gli affari nostri, se non la smettete.» Ci esortò a porre fine al litigio e andò a controllare se la Croce fosse ancora al sicuro, nel baule sotto il suo letto. Per quanto potessi desiderare il contrario, Giordano era partito e io non potevo cambiare le cose. Continuai a brontolare e a recriminare finché Padraig non mi consigliò di fare una passeggiata per calmarmi. Così, mi misi a camminare a grandi passi sotto il sole rovente. Non feci molta strada prima di cominciare a grondare sudore e a sentirmi esausto e, benché il mio umore non fosse cambiato, non avevo più la voglia né la forza di arrabbiarmi. Mi fermai, mi guardai intorno e scoprii di essere giunto nei pressi dei ruderi di uno dei numerosi insediamenti antichi che si trovano nella parte collinare dell'isola. Si trattava ormai soltanto di un'altura coperta di erbacce, di alberi d'olivo selvatico e di cespugli di rovi; dell'antico splendore erano rimaste solo alcune colonne sbiancate dal sole, un arco e una porzione di muro, che si ergevano come i resti dell'enorme scheletro di una creatura mostruosa. La mia rabbia cominciava a diminuire, e mi sedetti per riposare su un capitello scolpito, all'ombra di una palma quasi secca. Da quel punto scorgevo tutta la baia e così mi misi a osservare le barche che rientravano dalla pesca, notando che non c'erano navi all'orizzonte.
Padraig e io eravamo giunti a Pafos a mezzogiorno e, in vista della baia, avevo cominciato a provare un'oscura inquietudine. Quando eravamo scesi dalla collina e avevamo raggiunto il porticciolo, avevo capito il motivo della mia preoccupazione: la Persefone non c'era. Subito dopo ci eravamo affrettati a raggiungere la villa, dove eravamo stati accolti da Sydoni che, avvedutasi subito della mia espressione allarmata e intuita la causa del mio malumore, ci aveva messi al corrente che, nonostante lei gli avesse consigliato di non allontanarsi, suo padre aveva sostenuto di sapere quel che stava facendo e aveva promesso che sarebbe stato di nuovo a casa prima di noi. Tornò solo due giorni dopo. Lo attesi, passeggiando in collina e brontolando tra me e me in mezzo ai ruderi. Ero seduto all'ombra, nel mio posto abituale, quando, poco prima del tramonto, vidi in lontananza una nave che doppiava il promontorio ed entrava nella baia. Rimasi a osservare con ansia crescente finché non fui certo che si trattava della Persefone; allora, mi diressi in fretta alla villa per avvertire Sydoni e gli altri che Giordano era tornato. Mentre Sydoni e Anna si davano da fare per preparare cibi e bevande, l'anziano mercante si trattenne nel cortile e ci raccontò che il suo viaggio era stato un completo successo e che le mie preoccupazioni erano del tutto infondate. Wazim lo aveva accompagnato, ed entrambi si premurarono di assicurarmi che non era accaduto niente di anomalo, accampando scuse assai poco convincenti per tentare di giustificare il loro viaggio. «Sapevo che sareste stato contrario» ammise Giordano «e mi è costato molto disubbidirvi, dovete credermi. Ma, prima o poi» proseguì allargando le braccia con aria rassegnata «avremmo dovuto far avere nostre notizie al comandante de Bracineaux ad Antiochia. Così ho dato istruzioni a Gregorio di fare i preparativi necessari a salpare. Inoltre» aggiunse orgogliosamente, come per rivendicare la correttezza del proprio comportamento «avevo bisogno di rimpinguare la mia borsa. Il denaro non si riproduce da solo, sapete, e viaggiare costa.» Non aveva senso rimproverarlo. «La questione è chiusa» commentai il più garbatamente possibile. «Non parliamone più.» «Una decisione molto saggia» assentì Giordano. Proprio in quel momento Anna entrò nel cortile, portando un vassoio con alcune scodelle di cibo e un cesto di pane, mentre Sydoni la seguiva reggendo i boccali e una brocca di vino. Appoggiarono i vassoi su una delle panche sotto l'albero di fico e ci sedemmo tutti a mangiare.
«Sono ansioso di sapere della vostra visita al monastero» disse Giordano. «I monaci sono stati in grado di aiutarvi?» «Certamente» rispose Padraig. Descrisse l'incontro con i monaci e l'accordo che avevamo stipulato per far ricopiare i papiri. «Sono stati felici di incaricarsene, quando Duncan ha permesso loro di realizzarne una copia per sé.» «Certo, e di costruirsi un nuovo tetto per lo scriptorium» aggiunsi. Le mie parole suonarono assai più caustiche del voluto e Padraig e Giordano mi fissarono stupiti. «Allora sembravi d'accordo, fratello mio.» Capitava di rado che Padraig mi rimbeccasse, quindi dovevo averlo davvero contrariato. «Evidentemente, hai simulato bene il tuo scontento.» «Scusatemi» mormorai. «Ho superato i limiti. Fate conto che non abbia parlato.» Di lì a poco Sydoni ci raggiunse e cominciò a descrivere a Padraig la parte settentrionale dell'isola e i molti monasteri che vi si trovavano. Intanto Giordano narrava a Wazim una storia lunga e banale su alcuni poveri contadini di Paleapafos che avevano scoperto un tesoro nascosto nel loro campo. Si trattava di vari bracciali d'oro e di un calice d'alabastro, che avevano creduto romano, ma che l'occhio esperto del vescovo di Pafos aveva identificato come greco. Probabilmente si trattava di oggetti appartenuti a un antico e agiato abitante di uno dei palazzi di cui rimanevano i resti diroccati. «Immagino che quei poveretti verranno obbligati a consegnare ciò che hanno trovato» osservai con aria falsamente ingenua. «C'è sempre qualcuno che sostiene di avere più diritti su un tesoro del suo scopritore.» Ancora una volta, il tono della mia voce era pesantemente allusivo. Gli altri mi guardarono un po' infastiditi. «Che avete? Non posso nemmeno più esprimere un'opinione?» chiesi. Dopo aver tentato inutilmente per un paio di volte di prender parte alla conversazione, mi diedi per vinto e, immusonito e nervoso, sprofondai nel mutismo. Mentre la serata si trascinava a fatica, mi riusciva sempre più difficile ascoltare l'ozioso cicaleccio degli altri. Così, rimasi a bere vino e a sgranocchiare olive, abbandonandomi sempre più al mio stato di livorosa misantropia. Quando infine quelle chiacchiere mi divennero insopportabili, mi alzai con tale furia che rovesciai il mio boccale; borbottai qualche parola di scusa e, adducendo come pretesto un mal di testa, dichiarai che me ne andavo a dormire.
Stavo ancora rigirandomi nel letto, tormentato dall'insonnia, quando Padraig mi raggiunse. Rimase in piedi accanto a me per un paio di minuti e, anche se al buio non riuscivo a vederlo in faccia, dal suo modo di muoversi capii che era adirato. Feci del mio meglio per ignorarlo. «So che non stai dormendo» disse infine, con una voce inasprita dal biasimo. «Cosa c'è di strano? Se hai intenzione di startene qui in piedi per tutta la notte, certo non dormirò, e neanche tu.» «Non sono io a tenerti sveglio, ma il rimorso.» A quell'accusa ingiusta mi drizzai a sedere sul letto: «Rimorso? E perché mai dovrei sentirmi in colpa?». «Lo sai perfettamente» rispose. «È la tua coscienza a condannarti.» «Non ho nulla da rimproverarmi... a meno che tu non voglia rinfacciarmi la mia cortesia.» «Se ti rimprovero» continuò Padraig indignato «è perché te lo meriti. Ogni volta che Giordano apriva bocca, gli saltavi alla gola. Come ti è venuto in mente? Quell'uomo ci ha fatto solo del bene, ci ha aiutato in mille modi e in cambio vuole solo la tua amicizia. Ma tu lo tratti come fosse uno straccio.» «A Giordano non garba il mio comportamento?» ribattei in modo indisponente. «Non sono io quello che ha brigato dietro alle sue spalle e disobbedito agli ordini. E, comunque, non l'ho forse perdonato? Perché continua a insistere con questa faccenda?» «Ma ti senti quando parli? "Ha disobbedito agli ordini." Chi ti credi di essere per dare ordini agli altri? Il grande e potente Duncan fa una scoreggia e tutto il mondo deve seguire la sua musica. È così?» «Stai travisando le mie parole, stupido prete!» ringhiai. «Credi?» sibilò. «Sul serio?» «Proprio così!» «Forse non erano chiare sin dall'inizio.» «E con ciò cosa vorresti dire?» «Rifletti. Guarda nel profondo della tua anima e pentiti del peccato di presunzione. È indegno di te, amico mio.» Se ne andò, lasciandomi macerare nella mia bile. Il suo rimprovero mi bruciava, soprattutto perché sapevo che aveva ragione. Benché detestassi ammetterlo, Padraig mi aveva letto nell'anima. Orgoglioso com'ero, ero risentito contro Giordano perché, prodigandosi per me, mi faceva sentire in debito, e temevo che la sua ingerenza mi avrebbe costretto a cedere la Cro-
ce Nera ai templari. E non era tutto: mi seccava l'idea di dipendere da qualcuno, in special modo da un uomo che consideravo meno affidabile di me. Durante la mia lunga prigionia, mi ero abituato a non fidarmi di nessuno e a contare soltanto su me stesso; tanto che ormai mi infastidiva qualunque intromissione, per quanto ben intenzionata, e vedevo gli errori altrui come una sfida alla mia autorità. Quelle cupe riflessioni mi impedirono di addormentarmi. Rimasi sveglio sino a notte fonda, con gli occhi spalancati nel buio, irrequieto, irritato e insonne. Mancava poco all'alba quando decisi di rassegnarmi: mi alzai dal letto, sperando di trovare un po' di sollievo nel cortile fresco e silenzioso. Per non disturbare chi stava dormendo, cercai di fare il meno rumore possibile: sollevai il chiavistello, scivolai fuori dalla porticina semi aperta e me la richiusi alle spalle silenziosamente. Poi mi fermai un attimo e guardai il cielo: la luna era calata e le stelle cominciavano a scomparire con l'approssimarsi del giorno e l'aria era calma e chiara; da un angolo nascosto sentii un grillo cantare... e un altro rumore, una specie di gemito protratto, seguito da una sorta di strofinio sul terreno. Quel suono mi ricordò quello provocato da un topo che si infila nella tana, ma doveva essere un topo grosso come un somaro. Rimasi immobile ad ascoltare, e quando capii che si trattata del rumore del ferro contro il legno, mi diressi furtivamente fino all'angolo della casa e sbirciai verso il portoncino esterno. Lì c'era una figura vestita di nero, niente più che una sagoma scura nella profonda ombra del muro, con in mano una sbarra di ferro. Mi diressi verso la porta, muovendomi il più rapidamente e silenziosamente possibile, desiderando di avere un po' della circospezione per la quale mio padre andava giustamente famoso. Passai accanto all'albero di fico e chinandomi per evitare i rami più bassi, avvertii una traccia dell'odore che avevo sentito per la prima volta nella galleria sotterranea del Cairo: l'aroma dell'hashish. Mi sentii gelare. I fida'in! Non c'era dubbio. Quel profumo acre e dolciastro, con un fondo muscoso e metallico, era inconfondibile. Afferrai una delle panche che stavano sotto l'albero e mi lanciai in avanti. L'intruso sentì che mi avvicinavo e si allontanò dalla porta, brandendo la sbarra. Scagliai la panca in avanti, intercettai la stanga che stava per colpirmi e
la rigettai addosso all'assalitore. Mi gettai su di lui e lo colpii con violenza al mento con il taglio della panca. Le mascelle del fida'in si serrarono con uno scricchiolio di denti che andavano in frantumi e l'uomo andò a sbattere con la testa contro la porta, proprio mentre il suo compagno, da fuori, cercava di entrare. L'uscio si richiuse con un tonfo e l'arabo cercò di svincolarsi; allora sollevai la panca e lo colpii al torace restò senza fiato e cadde a terra con il dorso contro la porta. Lasciai andare la panca, afferrai la sbarra e mi misi a gridare: «Padraig! Corri, Padraig! Aiuto!». Al di là del muro, intanto, un secondo fida'in, spingendo contro la porta, era riuscito a infilarvi un braccio. Stringeva in mano un pugnale, e me lo agitava contro mentre tentavo di rinfilare la sbarra nei suoi anelli. Poiché quel braccio mi impediva di chiudere la porta, feci un passo indietro per poi slanciarmi con violenza addosso all'uscio: udii un rumore simile a quello del legno non stagionato quando si spezza, mentre l'arto veniva schiacciato tra il muro e il battente. «Padraig!» gridai di nuovo. Il fida'in, urlando, tirò indietro il braccio rotto e io chiusi la porta con tutta la forza di cui ero capace. Chiamai ancora Padraig e, in quello stesso istante, sentii un tonfo fragoroso, come se qualcuno si fosse gettato contro il portone per cercare di abbatterlo. Udii un fruscio dietro di me e mi voltai di scatto: intravidi il luccichio di una lama che mi si avvicinava al collo, mi protessi il viso con le mani e cercai di scansarla. Per fortuna il fendente era debole e maldestro e mi prese a una spalla: sentii la lama che mi penetrava nella carne come un ferro rovente. Agitando i pugni, barcollai all'indietro, inciampai sul corpo del fida'in svenuto e, cadendo, trascinai con me il pugnale che mi era rimasto nella ferita. Il mio assalitore mi balzò addosso cercando di recuperarlo ma, mentre si chinava su di me, gli sferrai una serie di calci nel basso ventre. Lanciò un lamento, barcollò e cadde in ginocchio premendosi le mani sull'inguine. Sentii accanto a me dei passi rapidi. Afferrai il manico del pugnale per estrarre la lama dalla carne e, brandendolo in aria, gli impressi un movimento ampio e circolare, per far perdere l'equilibrio al nuovo assalitore. «Duncan! Sono io!» gridò quello. Poi Padraig mi afferrò e mi sollevò. Ansante e spaventato, con gli occhi pieni di lacrime, mi aiutò a rimettermi in piedi sulle gambe malferme. «Che Dio mi perdoni» mormorò e diresse un calcio potente contro i ge-
nitali del mio aggressore mezzo paralizzato. Quello urlò e cadde in avanti, contorcendosi per il dolore, poi fu colto da conati, vomitò e infine, gemendo, perse i sensi. «C'è solo questo qui?» chiese Padraig, ruotando su se stesso e scrutando nell'oscurità. «O ce ne sono altri?» «Sono in tre» risposi. E, stringendomi il braccio ferito, guardai i due fida'in riversi a terra, svenuti. «L'altro è ancora fuori. Gli ho rotto un braccio.» «Sei ferito gravemente? Fammi vedere...» Mentre il monaco tendeva la mano verso la mia spalla sanguinante, dalla casa giunse un grido. Riconoscemmo la voce di Sydoni. Quarantotto Corsi verso la villa, preceduto di qualche passo da Padraig che, lanciandosi all'interno, attraversò la stanza buia e si precipitò verso il punto da cui provenivano le grida soffocate di Sydoni. Lo seguii e urtai contro una figura completamente nera, china su una sagoma sdraiata sul pavimento. L'intruso piombò a terra; io inciampai nel suo corpo e caddi, sbattendo sulla spalla ferita e finendo in una pozza vischiosa. Mi sentii invadere da un dolore lancinante, che si irradiava dalla ferita alla spalla. Mi girai sulla schiena e mi ritrovai disteso accanto al corpo di Giordano immerso nel proprio sangue. Il suo assassino si avvicinò: gli vidi le mani, pallide nel buio, che tastavano convulsamente il corpo inerte dell'anziano mercante, e compresi che stava cercando il pugnale che aveva conficcato nella gola di Giordano. Scorgemmo l'impugnatura dell'arma contemporaneamente e cercammo di prenderla; ma io fui più veloce e la afferrai. L'arabo vestito di nero si gettò su di me, scavalcando il povero Giordano; cercai di rotolare di fianco, ma quello mi afferrò per la gola e strinse forte; allora gli infersi un violento colpo di pugnale. La lama gli si conficcò nella testa; lo sentii irrigidirsi e inarcare la schiena. Emise un grido di doloroso stupore, tremò, digrignò i denti e infine cadde a terra, tremante, accanto alla sua vittima. Gli spasmi si fecero meno violenti e dopo un momento non si mosse più. Mi avvicinai al corpo di Giordano strisciando sulle ginocchia e riuscii a scorgere il mio vecchio amico: aveva gli occhi rivolti verso l'alto e la boc-
ca leggermente aperta, come se stesse per parlare, ma il petto era immobile. Era morto. Sentii delle voci dalla parte più interna della casa. Mi alzai, mi diressi in fretta in quella direzione e scoprii che provenivano dalla stanza dove dormivano Sydoni e Anna. La porta era chiusa, ma da dentro mi giunsero la voce pacata e rassicurante di Padraig e quella concitata e dolente di Sydoni. Posai la mano sul chiavistello e, facendo meno rumore possibile, sollevai il paletto di legno ed entrai. Alla luce di un'unica candela, scorsi Sydoni in fondo alla stanza, china sul corpo di Anna riverso a terra. Padraig era in piedi davanti a lei con le braccia spalancate nell'atto di proteggerla. Il fida'in dava la schiena alla porta, ma forse avvertì un movimento, perché si gettò uno sguardo dietro le spalle, mi vide, disse qualcosa in arabo e si girò per affrontarmi. Quando si volse, la lama ricurva del suo pugnale scintillò nella luce fioca della candela; non gli diedi il tempo di accorgersi che ero ferito. «Adesso, Padraig!» gridai, gettandomi a testa bassa contro l'intruso. Quello alzò il braccio per colpirmi, ma non appena gli fui addosso, Padraig, da dietro, afferrò il suo pugnale con entrambe le mani. L'arabo vacillò e cercò di liberarsi dalla stretta del monaco, e io mi lanciai contro di lui e gli infilai la mia arma tra le costole. Il fida'in mi colpì alla mascella con un gomito, facendomi perdere l'equilibrio. Indietreggiai barcollando, lui si liberò di Padraig, e mi balzò addosso. Scivolai a terra e, mentre cadevo, mi ferì al viso con una pugnalata. Vidi la lama ricurva sollevarsi ancora e conficcai il pugnale nella gola del mio aggressore, attraversandogli il mento e facendo uscire la punta dalla bocca. Quello emise un grido strozzato e cercò disperatamente di colpirmi, ma Padraig gli afferrò il braccio. L'arabo tentò di liberarsi dal mio pugnale, ma io lo tenni stretto, bagnandomi le mani del sangue che gli scorreva lungo il mento. Poi cadde all'indietro, soffocato dalla sua stessa lingua, e mi graffiò le mani, ma io non mollai la presa. «Basta!» gridò Padraig. «Basta, Duncan!» Continuai a stringere il pugnale finché non smise di lottare. Solo quando lo sentii completamente inerte estrassi la lama. «Adesso sì che basta» dissi crollando a terra. Sydoni, atterrita e trepidante, corse verso di me: «Siete ferito!» urlò, sfiorandomi la guancia con dita tremanti. «Il vostro viso... la vostra spal-
la...» «Non è niente di grave» risposi. Tesi la mano a Padraig perché mi aiutasse a rialzarmi. «Ne ho contati cinque» dissi al monaco che mi sosteneva. «Dobbiamo cercare in tutta la casa, potrebbero essercene altri.» Guardai il corpo contorto di Anna: non avevo bisogno di chiedere se fosse ancora viva. Ma ci sarebbe stato tempo per piangere i morti; ora erano i vivi che avevano bisogno di me. «Dov'è Wazim?» Né Sydoni, né Padraig l'avevano visto. «Restate qui e tenete la porta sbarrata» ordinai alla donna. Lei guardò il fida'in morto e scosse il capo. Non c'era tempo per discutere, perciò cedetti: «Allora accompagnateci, ma stateci dietro». Facemmo un giro della casa ma non trovammo altri fida'in. Quando raggiungemmo la cucina, Sydoni vide il padre riverso sul pavimento, lanciò un grido angosciato, si precipitò accanto al corpo e lo serrò tra le braccia. In quel momento avrei voluto confortarla, ma dovevo accertarmi che non ci fossero in giro altri intrusi. Padraig e io uscimmo in cortile, e lì trovammo il buon Wazim che, brandendo una lancia, teneva a bada l'arabo che avevo preso a calci e lasciato svenuto. L'assalitore si era ripreso e se ne stava appoggiato alla porta, fissando il piccolo egiziano e cercando di parare i suoi colpi. «Ben fatto, Wazim!» gridai affrettandomi a raggiungerlo. Quando ci vide, il fida'in si irrigidì. Wazim, lieto che giungesse qualcuno a sollevarlo da quella pericolosa incombenza, si voltò a guardarci, distogliendo per un attimo gli occhi dall'arabo. La punta della lancia ondeggiò e si abbassò. Fu una distrazione fatale: il fida'in si scagliò in avanti e, prima che potessi lanciare un grido di avvertimento, estrasse un sottile stiletto. Wazim, intuendo l'aggressione, sollevò la lancia e gliela infilzò nel petto. Con orrore vidi che il fida'in morente, con un ampio gesto del braccio, conficcava il pugnale nella gola di Wazim: i due caddero a terra insieme, uno sull'altro. Padraig scostò il corpo dell'arabo e si inginocchiò accanto a Wazim Kadi. Io gli presi una mano ed egli mi guardò sorridendo e mosse le labbra, ma non riuscì a parlare. «Mi dispiace, amico mio» mormorai. «Vai con Dio.» Wazim esalò l'ultimo respiro. Padraig e io restammo per un po' in ginoc-
chio accanto a lui. Poi Padraig gli posò una mano sulla fronte e una sul cuore, recitò una runa per i defunti e pronunciò una preghiera Célé Dé: Che tu possa dormire il sonno delle sette gioie, amico caro, per risvegliarti nella pace del Paradiso per risvegliarti con gioia nell'eterna pace del Paradiso. Poi fummo costretti a riprendere la nostra ricerca, controllando ogni angolo della casa, del cortile e dei magazzini, finché non fummo certi che non c'erano altri intrusi. Padraig mi posò una mano sulla spalla: «È finita» disse. «No» risposi. «Ce n'è ancora uno.» Raccolsi la lancia di Wazim che Padraig aveva estratto dal cadavere dell'arabo, attraversai il cortile e aprii il portoncino esterno; lì, accoccolato contro il muro, trovai l'ultimo fida'in che si dondolava lentamente avanti e indietro, stringendosi al corpo il braccio rotto. Aveva gli occhi semi chiusi e, quando cercò di alzarsi, vidi che si muoveva a fatica. Padraig, tendendogli la mano disarmata, avanzò lentamente verso di lui: «Pace» disse. «Salam.» L'arabo si frugò nella cintura con la mano sana, tirò fuori un coltello, ce lo puntò contro e ringhiò un avvertimento con voce incerta. «Dev'essere l'effetto dell'hashish» commentai, raggiungendo Padraig. «Non ci saranno altri morti» annunciò il monaco, tendendo di nuovo la mano. «Dammi la tua arma.» In quel momento un gallo cantò dal cortile di una casa lungo la via. L'arabo agitò goffamente il pugnale per tenerci indietro, poi si appoggiò contro il muro con il viso rivolto al sole nascente. «Dammi il pugnale» ripeté Padraig, a mano tesa. Il fida'in ci guardò con gli occhi pieni di odio implacabile, tirò un respiro profondo e gettò indietro la testa. «La ilaha illa Allah!» gridò, poi girò il pugnale contro se stesso e si trafisse il cuore. Cadde a terra, rotolando su un fianco, si inarcò per un attimo ed emise un gemito che finì in un rantolo. E tutto fu finito. Subito mi curvai su di lui ed estrassi il pugnale: «Preghiamo Iddio che sia l'ultimo» sussurrò Padraig. «Amen.» «Come hanno fatto a trovarci?» «E te lo domandi?» replicai. Ora era tutto talmente chiaro che mi mera-
vigliai di essere stato così cieco sino a quel momento: «Probabilmente tenevano d'occhio la casa di Giordano a Famagosta. Quando è tornato a Pafos l'hanno seguito fin qui». «Ma chi può averli mandati a Fama...» cominciò il monaco, poi si interruppe. «... de Bracineaux» concluse, voltandosi a guardarmi con il viso illuminato dalla prima luce del giorno. «Tu lo sapevi.» «No» risposi, scuotendo la testa tristemente. «Ma lo temevo.» «Adesso che ci hanno trovati» continuò Padraig «niente li fermerà dal mandare altri fida'in. I templari non si daranno per vinti finché non avranno raggiunto il loro scopo.» «Non possiamo restare qui» dissi. Improvvisamente esausto, mi passai una mano sul viso. Il braccio mi pulsava e la testa e il fianco mi dolevano. Il gallo cantò di nuovo e poi tutto si fece stranamente tranquillo. Barcollai e la vista mi si appannò. Guardai Padraig e vidi che stava muovendo le labbra, ma non riuscivo più a sentirlo. Ricordo poco di ciò che accadde dopo, solo l'oscurità e un senso di dolce ondeggiare... poi, più nulla. Quarantanove Mia diletta Caitrìona, mia luce, mia vita, mia speranza, se non fosse stato per la lama avvelenata dei malvagi hashishin sarei già a casa da molto tempo. Ma sono stato costretto a subire un'altra prigionia, questa volta tra le mura spoglie di una piccola cella del monastero di Aghios Moni. L'abate Demetriano mi perdonerà se dico che, sebbene la mia cella disadorna sia molto meno sfarzosa della stanza che avevo a disposizione nel palazzo del califfo, la nuova segregazione è superiore alla prima sotto ogni punto di vista. Da quando sono giunto qui, molti mesi or sono, mi sono state prestate le migliori cure. E, anzi, non esito ad affermare che, se non fosse stato per la perizia medica dei monaci, non sarei neppure vivo, e di certo non riuscirei a sollevare la penna per scriverti, mio tesoro. Anche se sono ancora una volta prigioniero, sopporto la mia condizione con cuore lieto e speranzoso, e ho ripreso il lavoro che mi ha tenuto occupato durante il mio lungo soggiorno in Terra Santa. Il buon fratel Tommaso viene a trovarmi tutti i giorni e mi porta la lista delle difficoltà che i suoi diligenti scrivani hanno incontrato nel copiare su una bella pergamena nuova ciò che resta dei miei papiri. Talvolta si tratta di una parola che non
riescono a leggere perché le pagine si sono deteriorate, ma spesso le incomprensioni sono dovute alla mia pessima grafia. Così sediamo insieme, il buon monaco e io: lui mi chiede di chiarire il significato di ciò che non hanno compreso, e io abbellisco la narrazione con nuovi particolari. Quando cerco di migliorare il testo delle mie memorie, il mio indulgente emendatore protesta e insiste che deve essere ricopiato così come lo scrissi. Sostiene che è il solo modo per assicurarne la completa autenticità, cosa che i meticolosi monaci, a quanto pare, sembrano assai desiderosi di preservare. Ma io non sono uno studioso e non riesco a trattenermi: i ricordi mi tornano alla mente numerosi, chiari e vividi, e più racconto, più ricordo. I pazienti scrivani prendono nota di tutto senza lamentarsi e, come abili tessitori, da vari fili creano un unico tessuto. Così la mia storia si allunga, ampliandosi grazie alla mano diligente dei buoni monaci. Anche l'abate Demetriano viene a farmi visita ogni giorno. Mi ha detto che nelle prime settimane non ero "in questo mondo". Non che fossi nell'altro, lo confesso, poiché ricordo solo momenti di luce e di buio, forse giorni interi che si alternavano come i raggi di una ruota che girava in fretta; e poi c'era il mormorio lontano e sommesso di voci che mi confortavano, spesso accompagnate da un aroma fragrante di fumo. Mi hanno detto che giacevo in bilico tra la vita e la morte e che, nei momenti in cui sentivo quel profumo, mi trovavo più vicino all'altare celeste dove brucia l'incenso del paradiso. Non so se grazie a ciò sono diventato più saggio, e non rammento nulla della gloria che forse ho intravisto attraverso il velo. Ora il sudario che tutto ricopre è tornato al suo posto, impenetrabile al mio sguardo invadente, e dunque i segreti dell'Aldilà sono al sicuro per un'altra stagione. Quando mi sono risvegliato dal mio lungo sonno la prima cosa che ho visto, non appena la luce del giorno ha cessato di farmi lacrimare gli occhi, è stato il dolce volto di Sydoni, che mi posava sulla fronte un panno umido. Anche lei è stata una compagna assidua e mi ha lasciato solo per godere di brevi momenti di meritato riposo. Di solito i monaci greci non permettono alle donne di rimanere entro le mura del monastero dopo il tramonto, ma il saggio abate ha concesso a Sydoni un permesso speciale. Comunque, tenendo conto delle circostanze, si è trattato di una benedizione, oltre che di una necessità, anche se immagino che, per mandarla via, sarebbe stata necessaria una vera e propria lotta. Sydoni è stata una fonte costante di forza e di conforto, e avevo biso-
gno di entrambi, soprattutto quando mi ero appena risvegliato, ed ero troppo debole per alzare il capo dal letto, tanto che era necessario che qualcuno mi nutrisse e mi accudisse. Credo che sia riuscita ad allontanarmi dalla soglia oscura e silenziosa che conduce alla morte per pura forza di volontà. Anche Padraig è stato un modello di perfezione, un eroe che i grandi celti del passato non avrebbero esitato ad accogliere nella loro illustre compagnia. È stato per me un'ancora di salvezza, il vero amico della mia anima, la mia anam cara, nelle parole e nei fatti. Se mi trovo ancora tra i vivi è solo grazie al suo acuto intelletto. Egli infatti, vedendomi perdere i sensi, capì immediatamente che la gravità delle mie ferite non poteva essere la sola causa del mio improvviso malessere. Così chiese informazioni a Sydoni, la quale gli confermò che spesso i fida'in avvelenano la lama dei propri pugnali così che, qualora il colpo non uccida la vittima, il minimo graffio sia comunque fatale. A questo punto, senza perdere un istante, mi avvolse in un mantello, mi caricò su un carro preso in prestito insieme al forziere con la Santa Croce e mi portò ad Aghios Moni. È vero che sono stati i rimedi dei monaci a guarirmi, ma senza l'intervento di Padraig non sarebbe stato possibile. La povera Sydoni si è trovata di fronte al doloroso dilemma, se accompagnarmi al monastero o rimanere a organizzare il funerale del padre. Una scelta su cui, comunque, non ha avuto molto tempo per riflettere: Padraig aveva bisogno d'aiuto e, in ogni caso, non le avrebbe mai permesso di restare alla villa da sola, perché era convinto che il mandante dell'aggressione avrebbe certamente organizzato una seconda sortita non appena si fosse reso conto che la prima era fallita. Ma lo zelo del mio buon amico non si è limitato a questo: infatti subito dopo avermi affidato alle cure degli esperti monaci, si è affrettato a far ritorno a Pafos per mettere al sicuro la nave; ha raggiunto Famagosta e, con l'aiuto del timoniere, dell'equipaggio, di Omero e di Gregorio, ha caricato sulla Persefone tutti i beni di Giordano che è riuscito a trasportare senza sollevare i sospetti della popolazione. Poi ha nascosto la nave in una piccola baia sulla riva nordoccidentale dell'isola, di fronte al minuscolo villaggio di pescatori chiamato Laci che sorge accanto all'antica città romana di Polis, mettendo così al sicuro il solo mezzo di cui disponiamo per poter ritornare a casa quando giungerà il momento. Infine è ritornato al monastero per dare il cambio a Sydoni, che mi aveva lungamente vegliato con grande abnegazione. Si sono presi cura di me a turno, pregando e massaggiandomi il corpo inerte con olio santo e balsami
medicamentosi. Con il passare del tempo, e grazie all'aiuto dei monaci di Aghios Moni, sono riusciti a compiere il miracolo della mia guarigione. Sono rimasto in bilico tra la vita e la morte per due anni, e mi sono risvegliato nella mia cella inondata di luce in una bella giornata di primavera. Uso il termine "risvegliarsi" perché non ne conosco altri, ma la sensazione che provai non assomigliò a un risveglio. Aprii gli occhi, mi guardai intorno e mi sentii come un neonato che veniva al mondo, perché non avevo né ricordi né consapevolezza di ciò che mi era accaduto. Sollevai una mano per proteggermi gli occhi, sentii un'esclamazione e mi voltai dalla parte da cui giungeva il suono. Fissai il volto della donna che mi stringeva la mano: non sapevo il suo nome né altro di lei, ma capii che si trattava di una persona a me molto cara. L'amavo per il suo dolce volto e per le lacrime di gioia che le riempivano gli occhi. Poi mi riaddormentai. Caddi in un sonno vero, profondo e ristoratore. Quando aprii gli occhi il mattino seguente, Sydoni era accanto a me e pregava per la mia guarigione. Non appena la vidi chinata con le mani giunte e le braccia appoggiate al bordo del letto, seppi che sarei vissuto. Miglioravo di giorno in giorno: riuscii a bere il mio brodo da solo, mangiai il primo cibo solido, mi sollevai a sedere e così via. Fu necessario molto tempo perché riuscissi a camminare senza aiuto, ma quel giorno segnò l'inizio della mia guarigione. Anche se Padraig e Sydoni trascorrevano con me la maggior parte della giornata, avevo molto tempo per pensare. Quando finalmente riacquistai le forze, riflettei su ciò che era accaduto. Dapprincipio i ricordi erano vaghi, sfumati e irreali, come se li vedessi attraverso un vetro affumicato, ma, quando riuscii di nuovo a concentrarmi, cominciarono a farsi più chiari e, alla fine, riuscii a rammentare tutto ciò che era accaduto durante quella notte terribile. Ahimè, sarebbe stato meglio lasciare che la memoria continuasse a dormire indisturbata: temo che l'orrore di quella notte fatale mi perseguiterà a lungo. Ho perso dei cari amici e non posso fare a meno di pensare che sia tutta colpa della mia caparbietà. Padraig dice che sono tutte sciocchezze, che non sono stato io a mandare i fida'in a uccidere i nostri compagni e a recuperare la reliquia, che è stata una decisione di Renaud de Bracineaux; e io sono assolutamente convinto che abbia ragione. Eppure, pur avendoci riflettuto a lungo, se mi trovassi davanti al Trono del Giudizio non potrei giurare che le cose siano andate come immagino. Per quanto sia convinto che il solo responsabile sia il cavaliere templare,
non ho nessuna prova contro di lui, ma solo un fondato sospetto. Ammetto che de Bracineaux era l'unico a sapere dove fossimo, ma è possibile che desiderasse tanto la Croce Nera da arrivare all'assassinio? Non bisogna dimenticare che fu proprio Renaud a mandarmi da Giordano. Dunque mi chiedo se sia possibile che il suo tradimento si sia spinto tanto avanti da causare la morte dei suoi amici. Forse non voleva che fossero uccisi tutti. Ma, se così fosse, perché mandare i fida'in? Perché non venire di persona a chiedere la restituzione della Reliquia? E poi, chissà, forse non è stato lui a inviarli da noi. Potrebbero averci attaccato di loro iniziativa, sperando di recuperare la Croce e di ottenere il favore dei templari per ragioni note solo a loro. Forse... Ma, come ho detto, non lo so, e credo che nessuno lo saprà mai. Sebbene sia convinto che Renaud de Bracineaux sia stato il mandante e l'autore del massacro, resta il fatto che non posso fornire alcuna prova decisiva, né in un senso né nell'altro. So solo che la colpa di ciò che è accaduto è in gran parte mia. Se fossi uscito dal palazzo del califfo a mani vuote, Giordano, Wazim e Anna oggi sarebbero ancora vivi. Li piango e lamento la loro morte crudele. Prima di lasciare quest'isola, mi inginocchierò davanti alle loro tombe e invocherò il loro perdono, come ho già fatto migliaia di volte nel mio cuore. Padraig afferma che le esperienze della vita insegnano molto a chi davvero vuole imparare. Dunque mi domando: cosa ho ricavato da questo pellegrinaggio? Per quanto cerchi di estrarre qualche frammento d'oro dalla massa di scarti che è stata la mia assurda impresa, mi è difficile non risentire l'eco delle parole di Nurmal: "Colui che oggi chiamiamo nemico, domani potrebbe diventare un amico a cui chiedere aiuto". Ogni volta che ci penso, ricordo Emlyn che raccontava di come i crociati che presero parte al Grande Pellegrinaggio, accecati dalla sete di sangue e dall'avidità, temendo che qualche infedele potesse fuggire, massacrarono senza alcuna distinzione greci, ebrei, armeni, copti e arabi. Eppure, durante il mio soggiorno in Terra Santa gli unici a dimostrarmi amicizia sono stati proprio le vittime di quei primi crociati, mentre quelli che credevo compagni di cui potermi fidare si sono comportati peggio di nemici dichiarati. È stata una dura lezione. Ora comprendo ciò che prova mio padre, e perché. Comprendo perché si è dichiarato così apertamente contrario alle crociate e alla mia partenza, e prego che possa ancora perdonare la mia testarda disobbedienza.
Padraig, che è un saggio, sostiene che non è necessario chiedere ciò che è già stato concesso migliaia di volte. I Célé Dé insegnano che ciascun uomo deve seguire la sua luce e che coloro che percorrono il Vero Sentiero, se seguiranno la Santa Luce, non potranno mai smarrirsi. Io spero di averlo fatto. Dio solo sa se ho tentato. E ora, mia diletta Cait, ogni mio pensiero e preghiera è rivolto al ritorno. Non vedo l'ora di poterti rivedere, di stringerti tra le braccia, di prenderti in grembo, di dirti quanto ti voglio bene e quanto mi sono mancati i tuoi occhi luminosi e il tuo dolce sorriso. Molto presto, anche se mai abbastanza, tesoro mio, quando il mare burrascoso dell'inverno si sarà calmato e il vento ci sarà favorevole, Padraig e io faremo vela verso casa. Non temere, la nave che ci attende è veloce e, una volta che saremo salpati, nulla ci potrà fermare, nessun'altra avventura potrà ritardare il nostro arrivo sulle sponde di Caithness. Con il cuore sono già partito, faccio vela verso casa. Sento sul viso il vento freddo del Nord e il battere melodioso del sartiame mentre la Persefone, fendendo le onde, oltrepassa il nostro promontorio ed entra nella baia di Banvard. Cosa porterò con me? Un gran numero di ricordi straordinari, qualche ferita, un poco di saggezza in più. Le pergamene che i buoni monaci hanno copiato con tanta attenzione e pazienza. La Croce Nera, naturalmente, che già da sola basterebbe. Ma anche un altro tesoro: Sydoni, che sarà mia sposa e ti farà da madre. Sono certo, mia carissima Cait, che la amerai quanto me. Prego che Iddio Onnipotente affretti il nostro viaggio, perché vorrei tanto vedere te e Sydoni insieme, sotto lo stesso tetto. E davanti alla mia famiglia riunita, mi impegnerò a non lasciare mai più le colline selvagge e rosseggianti d'erica della Scozia. È una promessa che manterrò con gioia. Epilogo 30 novembre 1901. Pafos, Cipro Pafos scintilla nella calda luce autunnale e, mentre percorro con lo sguardo la superficie argentea del mare, vi vedo riflesse le bianche casupole dei pescatori. L'aria del tardo pomeriggio è dolce e profumata di fiori di limone, e mi rendo conto di aver indugiato nel mio lavoro assai più di
quanto non volessi. In questo antico villaggio di pescatori, inondato di sole e accarezzato dall'aria mite del Mediterraneo, la vita di tutti i giorni nella piovosa Scozia sembra lontanissima. Mentre Caitlin e io passeggiamo per stradine tortuose e tranquille, è difficile immaginare le gelide raffiche di vento che giungono dal mare del Nord e spazzano Edimburgo quando l'inverno mette a dura prova la pazienza dell'animo scozzese, prima di far largo, a malincuore, a una primavera cupa e uggiosa. Non esagero affatto quando dico di aver trascorso la vacanza più piacevole e lussuosa di tutta la mia vita. Anche se siamo stati qui solo poche settimane, mi sembra di conoscere il ritmo senza tempo del villaggio come se vi fossi nato. Per farla breve, quest'isoletta modesta e antica mi ha completamente conquistato con il suo fascino. Potrebbe trattarsi di sciocco romanticismo, la malattia che colpisce gli scozzesi quando sono all'estero, ma credo che la gente del luogo ci abbia preso a benvolere; o, almeno, poiché siamo rimasti qui abbastanza a lungo, i ciprioti hanno cominciato a considerarci come qualcosa di più che una semplice novità. Le donne, per la maggior parte mogli o vedove di pescatori, vestite di nero da capo a piedi e con grandi scialli ricamati sulle spalle, ormai ci salutano con entusiasmo quando ci incontrano durante le nostre visite mattutine al mercato, mentre bottegai e ambulanti sono entusiasti di Caitlin. Tutti vogliono toccarla, stringerle la mano, accarezzarle i capelli, e la trattano quasi fosse una dea discesa in mezzo a loro: una novella Afrodite sotto le spoglie di una presbiteriana con il sorriso di un angelo e un forte accento scozzese. Cipro ci ha incantato a tal punto che ci è venuto un grande desiderio di acquistare una villetta a Kato Pafos, dove potremo ritirarci quando saremo vecchi. Sono trascorse solo poche settimane dal nostro arrivo, ma mi sento rinato. Probabilmente tutti gli anni che ho dedicato alle tediose minuzie della legge cominciano a farsi sentire. Senza neppure rendermene conto, sono sprofondato nell'asfissiante routine dell'impiegatuccio meticoloso che non vede più in là del proprio naso. La monotonia che ormai caratterizza la mia vita, comoda ma mediocre, è fatale per l'anima quanto il peccato stesso. Ora so perché sono stato mandato in questo paradiso, e perché era necessario che Caitlin mi accompagnasse: le scorse settimane sono state una ricerca, un pellegrinaggio, se volete, che mi ha completamente trasformato. Ora so chi sono e, soprattutto, so chi sono i miei antenati. So che la mia
elezione nei Sette non è avvenuta per caso, poiché sono di antico e nobile lignaggio. In queste settimane benedette, le ultime di calore e di luce prima che il freddo e le tenebre della battaglia finale discendano sul mondo, mi è stato fatto un dono inestimabile con cui sarò in grado di affrontare i tristi tempi che verranno. Nei giorni scorsi ho recuperato quell'inebriante sensazione di incoscienza che avevo provato quando, accecato dal bagliore incandescente di una fulgida visione, presi in mano carta e penna. Allora pensai di essere impazzito; ero certo che, se avessi smesso di scrivere anche per un solo momento, il filo sottile della ragione mi sarebbe scivolato dalle mani madide di sudore e sarei piombato a capofitto nella voragine senza ritorno della follia, dove avrei trascorso i miei ultimi giorni a cercare ciò che avevo perduto senza riuscire a ricordare cosa fosse, o perché fosse così importante, tanto impetuosa era la frenesia che mi guidava. Naturalmente ho riletto quelle pagine macchiate d'inchiostro non una ma mille volte e sono convinto nel profondo del mio animo di essere riuscito a esporre in modo plausibile le verità che mi furono svelate quella notte nella cripta. Ne parlo ora perché, se mai ho creduto che il mio pellegrinaggio si fosse concluso, tale convinzione si è dissolta per sempre ad Aghios Moni. Mentre studiavo con attenzione l'antico manoscritto, un giorno dopo l'altro, cercando di comprenderne il significato, ho sentito il fuoco riaccendersi; la trasformazione che aveva avuto inizio quando ho toccato per la prima volta quel fascio di pergamene consunte si è completata solo dopo aver chiuso l'ultima pagina. Adesso mi rendo conto che faccio parte di una stirpe antica e che la ricerca iniziata tanti secoli orsono continua ancora oggi. Non so quando giungerà al termine, ma so di essere in buona compagnia. Come Duncan, anch'io sto imparando che, per quanto il cammino possa essere buio e incerto, non lo percorriamo mai da soli ma abbiamo al nostro fianco un angelo sempre pronto ad aiutarci. Per molti aspetti il coraggioso Duncan mi sembra più che un fratello. Ci separa quasi un millennio, eppure sento che la sua voce mi giunge attraverso i secoli come se si trovasse alle mie spalle. Per quanto possa sbagliarmi, mi sembra di conoscerlo intimamente. Inoltre sono sempre più convinto che il passato e il presente sono intessuti con il medesimo filo, e che il passato non è morto né distante, ma continua a influenzare il presente e il futuro, tutto ciò che è e che sarà.
Negli ultimi giorni ho cominciato a credere che nessuno di noi è tanto distaccato dalle sue origini da non sentirne più l'antico ritmo nel sangue che ci scorre nelle vene. La vita delle generazioni passate è segnata nelle linee della nostra mano e nelle meditazioni del nostro animo: perché non siamo solo noi stessi, ma anche tutto ciò che è stato. FINE