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v) (Vita di Plotino, 24, 138); e
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basti pensare all'ordine con cui si venne a costituire il corpus aristotelico (Organon, Fisica, De coelo, De genesi et corruptione, Meteorologica, De anima, Parva naturalia, libri sugli Animali, Metafisica, Etica Nicomachea, Magna moralia, Etica Eudemea, Politica, Retorica, Poetica). Se da un lato è chiaro l'intento di volere istituire il libro della scuola peripatetica (altrettanto sintomatico è che proprio in quest'epoca venga edita, a cura di Attico e di Dercillide, sulla linea dell'edizione di Aristofane di Bisanzio, l'opera di Platone, divisa in tetralogie, da cui riprese poi Trasillo, vissuto sotto l'imperatore Tiberio, il cui Corpus platonicum sarebbe poi quello giunto fino a noi), dall'altro lato è chiaro l'intento di offrire una enciclop.edia delle scienze unificate, in un unico sistema. E ciò non significava affatto che, a cornice del quadro aristotelico, della divisione della filosofia (come cultura di fondo) in logica, fisica, etica, non potesse servire la struttura generale dell'universo, entro i termini teologico-ontici e del tutto vivente, dell'ultimo Platone, di certi stoici e dell'Aristotele di alcune parti della Metafisica, oltre quello ch'era stato il platonismo, il primo stoicismo, l'aristotelismo. Di qui, anche, l'importanza delle introduzioni alle visioni totali di un cosmo ordinato e, perciò, all'astronomia; e le relative sinopsi scolastiche. Edizioni di testi, dunque, introduzioni generali, sillogi. Certo quel che colpisce, e che rivela tutto un modo di pensare rispondente a certe precise esigenze, è ciò che si pubblica, sono i testi che circolano e si commentano: Platone, Aristotele; il complesso della visione stoica quale si era venuto conformando nel tempo; per altra via si costruiscono testi pitagorico-matematici, testi religiosi che vanno sotto l'etichetta di testi orfici, particolarmente si commenta, e non è poco indicativo, il Timeo di Platone, le Categorie di Aristotele, testi di astronomia; mentre si vanno perdendo, o si accantonano, almeno ufficialmente, le altre linee che avevano costituito altre filosofie e concezioni. Non è forse senza interes_se ricordare a tale proposito il nome di Boeto di Sidone (detto " peripatetico, " per non confonderlo con Boeto di Sidone stoico), discepolo di Andronico di Rodi, amico di Strabone, successo, sembra, alla morte di Andronico nello scolarcato del Peripato di Atene. Egli avrebbe scritto una serie di commenti, a carattere interpretativo e divulgativo, alle opere di Aristotele, con particolare riguardo alle Categorie (cfr. Ammonio, In Cat., 5). Fondamentàli testimonianze di tutto questo sono tre opere, di non alto valore scientifico, L'introduzione ai fenomeni (Eta«y(J)yYJ et<; -.a ql«tV6fUV«), composta tra il 70 e il 63 a. C., di Gemino di Rodi, la Teoria circolare dei corpi celesti (Kux).~x1J .3-e:(J)pt« (l&-r&6:ip(J)v) di Cleomede (1 a.C.), e, infine, il De mundo (Il ept x6a(lOU ), che andato sotto il nome di Aristotele e inserito nel Corpus aristotelico, venne compilato tra la se·
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conda metà del I secolo a. C. (certo dopo l'edizione di Aristotele da parte di Andronico, e dunque, dopo il 40 a. C.) e il I secolo d. C. (risulta già noto nella Dialexeis di Massimo di Tiro, la cui attività si svolse tra il 180 e il 190 d. C., ma già contro di esso avevano polemizzato Taziano, morto nel 172 e Atenagora, morto nel 177, mentre nel De mundo si rilevano chiare influenze di alcuni testi di Filone l'Ebreo, vissuto tra il 25 avanti e il 40 dopo Cristo: ma su tutto questo, e sulle varie tesi cfr. Festugière, cit., vol. Il, pp. 477 sgg.). I primi due testi sono vere e proprie introduzioni scolastiche all'astronomia, ove, in effetto, non v'è nulla di nuovo, ma dove colpisce il tentativo di inquadrare le descrizioni dei fenomeni celesti (si badi che si resta sempre sul piano descrittivo) entro una piu ampia concezione dell'universo, che è, poi, quella stoico-aristotelica, con non pochi spunti ripresi dalla tradizione che proveniva dal Timeo platonico, dall'Epinomide e, probabihnente, da alcune ricerche di Posidonio, ch'era pur sempre un tentativo di razionalizzazione dell'Universo. Il De mundo ha maggiori velleità, e si presenta come delineazione compiuta e sistematica dell'ordine del tutto, una specie di libro sapienzale, in cui se da un lato si sfruttano le conclusioni aristoteliche sul piano fisico-meteorologico (mondo superiore, immobile e ordinato, regione sublunare corruttibile e disordinata, etere quinto elemento, eternità del mondo), dall'altro lato si sfruttano certe tesi stoiche (il pneuma, la Provvidenza, Dio legge dell'universo, l'universo come l'insieme del cielo e della terra con tutti gli esseri ivi contenuti), e certe tesi platoniche (Dio principio, mezzo e fine), in funzione di una unità sistematica, mediante cui si po~eva - sul piano di un Antioco - vedere in Aristotele e nello stoi~ismo un compimento del platonismo. Sotto questo aspetto, il De mundo, che si apre con un elogio della sapienza (I), per passare quindi a descrivere la struttura dell'universo, i suoi elementi, le regioni di tali elementi, i fenomeni propri a ciascuna regione (11-IV), sostenendo l'unità ed eternità del Cosmo, il suo ordine, la sua unica ragion d'essere (V), che è la stessa divinità, trascendente (l'altissimo) e immanente a un tempo, che tutto governa e donde provengono tutti gli effetti, Dio, platonicamente principio, mezzo e fine del tutto (VI-VII), poteva assumere, davvero, la funzione di libro di scuola, ov'era, in linee chiare e facili, esposta quella cultura di fondo di cui abbia,mo parlato. Altri punti del De mundo, ha sottolineato il Festugière (cit., pp. 513-14), avranno un gran posto nella letteratura teologica dei due primi secoli dell'Impero, e particolarmente nell'ermetismo, e cioè: l'eminente dignità di Dio; l'unicità di Dio; la polionimia di Dio. Dirà Seneca: "Gli Etruschi, antenati dei romani, hanno riconosciuto lo stesso Giove, come noi, moderatore e guardiano dell'universo, 164
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anima e soffio vitale del mondo, signore e architetto di tale produzione, colui al quale ogni nome si addice. Vuoi chiamarlo Destino? Non t'ingannerai: da lui tutto dipende, egli causa delle cause. Vuoi chiamarlo Provvidenza? Sarà detto bene: per suo consiglio si è provveduto ai bisogni di questo mondo, s1 che nulla ne turba il cammino ed egli senza ostacolo svolge il corso delle proprie azioni. Vuoi chiamarlo Natura? Non è errato: da lui tutto è nato, il soffio di lui ci anima. Vuoi chiamarlo Mondo? Non avrai torto: egli è questo Tutto che vedi, che penetra ciascuna delle sue parti, che è a fondamento di sé e di tutto ciò che è in lui" (Naturales quaest., Il, 45). A ve va detto V arrone: " Bisogna tener presente che tutti gli dèi e le dèe sono il solo Giove, o che, come vogliono alcuni, tutte queste cose siano parti di Dio, o che siano potenze di Dio, secondo l'opinione di coloro che fanno di Dio l'anima del mondo... Tutta la vita universale è la vita d'uno stesso Essere vivente, che contiene tutti gli dèi che sono potenze, membri, o parti" (fr. 15 b Agahd). Il De mundo si colloca, anche cronologicamente, tra questi testi di Varrone e di Seneca, rispecchiando assai chiaramente la koinè culturale-politica quale si venne configurando tra la fine del 1 secolo a. C. e la prima metà del I secolo d. C., e l'importanza, piu che scientifica teologi~politica, assunta dagli studi di astronomia e di questioni naturali, che, per il resto, usando notizie acquisite, si delineano in manuali di volgarizzazione e in repertori scolasticamente utili, in summe di un sapere ormai istituzionalizzato. E cosi sembra di non poco interesse il termine architetto usato da Seneca per indicare la divinità, che se da un lato richiama la moralità come architettura di aristotelica memoria, dall'altro lato dà il significato esatto di questa visione misurata e normativa dell'universo, cui ha da adeguarsi l'uomo e la società e l'opera stessa dell'uomo, indipendentemente ormai, in una certa atmosfera culturale acquisita, da dimostrazioni e da prove, valida, invece, come dato di fondo su cui poi ciascuno deve svolgere il proprio mestiere, mettere a frutto le proprie particolari cognizioni. E qui, in ispecie, pensiamo alla prima scuola filosofica che si apri in Roma, proprio tra la fine del I secolo a. C. e i primi anr1i del I d. C., fondata da Quinto Sestio (nato circa nel 70 a. C.), cui successe, nella direzione, il figlio Sesto (forse Sertius Niger, indicato da Plinio quale fonte dei libri dodici, tredici, ventuno-trenta, trentadue-trentaquattro, della su.a Storia naturale) e, perciò, detta poi la "Scuola dei Sestii." Breve fu la durata della Scuola. Per quel poco che sappiamo di essa, attraverso Seneca, che, nel 18-20 d. C., fu discepolo di Sozione di Alessandria, aderente alla Scuola dei Sestii; e di Fabiano Papirio, anch'egli della Scuola, e di cui Seneca dice che non fu "filosofo catte-
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dratico, ma vero filosofo all'antica" (De brevitate vitae, X, l) e per qualche testimonianza di Stobeo, possiamo -indicare la Scuola come configurantesi entro i termini del piu generico stoicismo, che soprattutto doveva servire da fondamento all'insegnamento etico, alla formazione del cittadino, e da fondamento all'insegnamento di materie particolari: questioni naturali, politiche, retoriche, di medicina (ricordiamo di Fabiano i titoli pervenutici di alcune sue opere: Libri causarum naturalium, De animalibus, Libri t:ivilium), di cui abbiamo un esempio nell'opera di Aulo Cor~elio Celso della Scuola dei Sestii. Celso, vissuto tra Augusto e Tiberio, scrisse una grande enciclopedia, di cui non è rimasto che il volume De re medica, già esso estremamente indicativo di un metodo e di un tipo di richlesta (gli altri volumi erano dedicati all'agricoltura, all'arte militare, alla retorica, alla filosofia e al diritto). Il De re medica (in otto libri) non è affatto opera originale - si pensa anche che sia la traduzione di un'opera medica in greco, torse, secondo Max W ellmann, Celsus, in "Philol. U ntersuch.," Berlino, 1913, di un certo Cassio, andata persa - ma, a parte il suo valore come fonte per la storia della medicina e delle scuole mediche (1), è una preziosa opera divulgativa e descrittiva, che poteva servire non poco ad una preparazione specifica, soprattutto per la sua precisione nella descrizione dei sintomi delle malattie e dei mezzi di guarigione (11-IV), tanto dietetici che farmaceutici (V-VI: veri e propri trattati di farmacologia), degli interventi chirurgici (VIi: è per la prima volta descritta l'operazione della cateratta) e delle malattie delle ossa (VIII). D'altra parte non va qui scordato il medico Asclepiade (vissuto circa tra il 124 e il 45 a. C.), di Prusa, in Bitinia, che nella prima metà del I secolo a. C., fbndò in Roma la prima, privata, scuola di medicina (pubblicamente una Schola medicorum venne eretta in Roma solo nel 14 d. C.). Asclepiade, che aveva studiato ed esercitato . in molte città di Oriente e in Alessandria, che aveva risentito le influenze delle teorie di Erasistrato (cfr. I vol.), ritenne, ed è ciò che qui interessa, che la dottrina epicurea degli atomi (da Asclepiade detti 6nco1) e della formazione delle cose e loro costituzione a seconda della disposizione e organizzazione degli atomi stessi, fosse l'unica dottrina che poteva permettere al medico di operare sulla natura del corpo umano, ristabilendo, di volta in volta, certi equilibri, o determinandone, mediante un'intelligente esperienza, altri migliori, curando, appunto, "mediante la stessa natura," soprattutto per mezzo della dieta, s( da ricostituire la simmetria degli atomi mediante mezzi sicuri, rapidi, _piacevoli (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXVI, 7, 3 sgg.). Non è un caso, tuttavia, che Asclepiade, in epoca piu tarda, al tempo in cui anche in medicina prevalse la teoria 166
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pneumatica, di chiara ispirazione stoica, sia stato detto un ciarlatano (Plinio, Galeno), e accomunato al suo discepolo Temisone di Laodicea, che abbandonata ogni teoria generale, dette avvio alla cosiddetta scuola dei metodisti, assumendo come metodo (donde il nome della scuola) l'osservazione, mediante cui determinare i caratteri propri a ciascuna malattia, e fondandosi sulla "tensione" dell'organismo rivelantesi attraverso il battito del polso. Certo egli cercò soprattutto di compiacere alla sua ricca clientela, mentre i medici piu seri, da Eraclide di Taranto (principio del I a. C.) ad Apollonia di Cizio (metà del I a. C.), appartenuti ambedue alla scuola empirica, cercarono soprattutto di descrivere le acquisizioni da essi fatte mediante la pratica e la somma delle loro esperienze, sottoposte a verifica, finché proprio al principio del I secolo d. C., poco dopo la pubblicazione dell'opera di Celso, avremo che anche la medicina si ispirerà, per lo stesso fondamento teorico dell'arte, per il fondamento della fisiologia e della patologia, al sistema stoico (la scuola pneumatica, rifacentesi ad uno scritto del Corpus hippocraticum, il De flatibus, fu fondata cla Ateneo di Attalia). Ad ogni modo, se, come pare, gli altri volumi dell'enciclopedia di Celso avevano gli stessi caratteri del volume dedicato alla medicina, seml:>ra esattamente confermato quanto sopra dicevamo. E ciò tanto piu risulta vero, quando pensiamo alla stessa attività degli scienziati tra il I a. C. e il principio del I d. C., che, sempre meno teorici, o meglio usando teorie già acquisite, appaiono soprattutto come dei tecnici, dei meccanici, degli ingegneri, dei pratici, che perfezionano strumenti e operano, a cominciare dai tecnici. di Alessandria (Ctesibio, Filone di Bisanzio) a finire ai tecnici romani, costruttori di strade militari, di monumenti, di porti, di fognature, di macchine belliche (cfr. l'Architettura di Vitruvio ), rispondenti alle esigenze politiche, militari, urbanistiche di Roma (cfr. Prefazione di Vitruvio), al grande alessandrino Erone (vissuto nella seconda metà del I secolo d. C.), anche se mantenendo quella visione d'insieme, quello sfondo culturale, quella credenza in un tutto ordinato e architettonico, quale anche si rivela nel celebre De architectura (del 25-23 a. C.) del grande tecnico e architetto Vitruvio Pollione, vissuto tra il tempo di Cesare e di Augusto e a loro legato. Vitruvio era convinto che la misura delle costruzioni umane ("l'architettura è costituita: dall'ordinamento, che in greco si dice -r&~r.ç, e dalla disposizione che i greci dicono 8t&.&eatc;; e dall'euritmia, la simmetria, il decoro, la distribuzione detta in greco o[xovo!J.(ot, l'ordine"; l, 2, l), deve essere adeguata alla misura del tutto, espressione di una certa umana cultura e civiltà, di cui l'espressione è l'architettura (cfr. Prefazione e I libro cap. 1), d'onde, anche per Vitruvio, l'importanza di una cultura enciclopedica, non solo
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perché l'architetto possa realizzare tecnicamente le proprie opere (per cui l'architetto deve avere cognizioni di geometria, di prospettiva, di disegno, di meccanica, dei materiali, dei climi, delle situazioni delle città, di storia, delle acque, e cosf via), ma perché tale cultura sta a fondamento di ogni scienza, s1 come di ogni consapevole opera umana. La scienza dell'architetto si accompagna a molteplici conoscenze e a istruzioni varie ... Essa nasce dalla pratica e dal ragionamento (e.r fabrica et ratiocinatione). La pratica: è una continua e minuziosa meditazione ddl'uso, che si ottiene mediante le mani, con l'aiuto di un q1,1alche genere di materia buona per essere plasmata. Quanto al ragionamento: è ciò che può dimostrare ed esplicare, mediante la penetrazione della ragione, le cose che si eseguiscono ... Né l'ingegno senza la scienza, né la scienza senza l'ingegno può fare un compiuto artefice. L'architetto deve essere letterato, abile nel disegno, istruito in geometria; deve conoscere le leggende, deve avere con zelo ascoltato i filosofi, sapere di musica, non essere ignorante di medicina, sapere le decisioni dei giureconsulti, conoscere l'astrologia e le leggi dd cielo... Potrà, forse, sembrare curioso agli inesperti che la natura possa approfondire e contenere nella memoria si gran numero di scienze. Ma quando si saranno resi conto che tutte le scienze hanno tra loro una connessione e uno scambio di contenuti, capiranno come ciò possa facilmente avvenire. La scienza universale (encyclios disciplina), infatti come un sol corpo ~ composta di queste membra. Cosi coloro che fin dalla tenera età vengono avviati a conoscenze molteplici, riconoscono in tutte le branche delle lettere gli stessi caratteri e le mutue relazioni di tutte le scienze, donde giungono piu facilmente alla nozione di tutte le cose ... (1, l, 1-2, 9, 44-45).
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Parte seco"d"
Cultura e concezioni dal I alli secolo d. C.
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Capitolo primo
Filone fEbreo e il Neo-Pi"onismo da Enesidemo ad Agrippa
l. Filone l'Ebreo e la sua problematica
Chi prenda in esame la complessa, difficile e molteplice opera di Filone l'Ebreo/ di Alessandria~ vissuto tra il 25 circa a. C. e poco dopo il 41 d. C., formatosi nell'ambiente greco-romano degli ebrei colti di Egitto, entro la linea che aveva preso le mosse da Aristobulo, ed abbia presente tutto il contesto culturale quale si era venuto formando e cristallizzando nel corso del 1 secolo a. C., facilmente rintraccia i piu appariscenti luoghi comuni di quella koinè culturale. In lui prevalgono elementi platonici, stoici, aristotelici, della nuova Accademia, 1 Di famiglia ebraica, forse egli stesso sacerdote, Filone nacque ad Alessandria nd 25 a. C. circa. L'unico episodio particolare della vita di Filone è la sua ambasceria a Roma. Pregato dai suoi correligionari, Filone accettò di recarsi a Roma a capo di una legazione per far recedere l'imperatore Caligola dall'imposizione agli ebrei dd culto dell'imperatore. Giunto a Roma nel 39 d. C. la legazione apprese che non solo erano state introdotte statue dell'imperatore nelle sinagoghe di Egitto, ma che ciò era avvenuto anche nd tempio di Gerusalemme. Filone ed i suoi dovettero tornare ad Alessandria senza essere neppure ricevuti da Caligola (ricordo di tale avvenimento è la Legfllio ad Gaium ). Filone morl nd 41 d. C. circa. . L'influenza delle opere di Filone si fece sentire soprattutto nd mondo cristiano ed ai Cristiani si deve gran parte dd mantenimento dei suoi scritti. S. Giustino e Teofilo di Antiochia gi} conoscevano Filone e se ne servivano nelle loro interpretazioni dd Vecchio Testamento. Clemente di Alessandria piu di una vòlta tesse le lodi e si serve dei suoi seritti, cosl come fece Origene, particolarmente per l'interpretazione allegorica. Al metodo allegorico di Filone si rifecero nd IV secolo Eusebio di Cesarea e S. Ambrogio, e a Filone ricorsero anche per la spiegazione dei nomi ebraici. San Gerolamo avrebbe voluto tradurre in latino alcuni testi di Filone. In tal modo si sono conservate molte delle moltissime opere di Filone. Diamo qui l'elenco degli scritti di Filone seguendo l'ordine con cui sono stati pubblicati dal Wendland, dal Cohn e dal Reiter (Philonis Alnandri,i Opera quae supersu,t, in 6 volumi, piu 2 di Indici, Ber lino, 1896-1906): De opificio mu,di (lia:pl 'tijt; xa:TÙ. MoUGCCt XO<J!LO'R"Ol(a:t;) ; Legum Allegot'iarum libri 111 (N6jL61V la:p&!v cl>.À1jyop!a:t; or&!v (.LCTà. -ri)v 'E~«<jfJ.CPOV) ; De cherubim (licpl oréi'lv xcpoufi(jL) ; De sacrificiis Abelis et Cai,i (licpl rcvm6lt; Afk>.... ) ; Quod dnmus potiori ;,sidiari soleat (lia:pl oroii -rò xa:ipov oréj) xpc(-mm !pÙ.Civ 'E"R"L-rl&ca&CI:l) ; De posteritate Cai,i (IIepl -r&:.v oroii OX1jaLao!pOii Ka:Lv iyy6'116>v xa:l
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motivi propri dei manuali e delle dossografie, ma ripresi retrospettivamente, cioè quali si erano venuti trasformando e fondendo nella visione del tutto che si era delineata nell'ambiente della cultur~. ufficiale, anche se, molte volte, Filone calca Platone, ch'egli leggeva direttamente (in particolare il Timeo), anche se si rifà direttamente a certi testi del pensiero stoico, al Protrettico di Aristotele. Il Festugière (op. cit., Il, pp. 521 sgg.) ha con pazienza schedato alcuni di questi t6poi: t6poi derivanti dalla letteratura di genere protrettico d'origine aristotelica (vanità e incertezza delle cose umane, il tema del "viaggio" e della solitudine, della vita contemplativa); t6poi relativi alle nozioni scientifiche e alla funzione di tali nozioni in vista della coltivazione dell'animo e della formazione delle virù1, mediante un sapere enciclopedico ("grammatica, geometria, astronomia, retorica, musica e tutto ciò che concerne la ÀoyLxlj .&&(o) p(«" : De con gressu eruditionis gratia, 11, ed. W endland-Cohn; conoscenza delle varie opinioni dibattute nelle scuole, sugli elementi, sul cielo e cosi via); t6poi relativi alla divinità (Dio esistente ed eterno, buono, provvidenziale, uno); al mondo tempio di Dio (tratti soprattutto dalla letteratura stoica); all'intelletto platonicamente occhio dell'anima; t6poi mistici. "Non lo si può dire," commenta il Festugière, "né platonico, né stoico. Ancor piu di Cicerone o dell'autore del De mundo, Filone offre un perfetto ·esempio -dell'uomo colto medio come ne hanno fabbricati a dozzine le seuole ellenistiche. Egli è il bravo scolaro nutrito di luoghi comuni: ogni occasione gli serve di pretesto per ripetere con monotonia edificanti banalità" (op.cit., p. 5l9). ~vero ma solo unilateralmente. Se la vasta opera di Filone offre un prezioS< esempio di quella che dicevamo la comune e generica cultura d: immUIIlbilis ("On 4~pc7t'nlll -rò 9cL6v l ; De agricultura (IIcpl ycwpy{~) i De pianta· tione Noe (IIcpl cplmlupy!«ç N wc TÒ L\c&rcpov) i De ebrietate (!Ìcpl j.Lt.lhjc; À6yot npiilwc;) i De sobrietate (Ilcpl é1v vl)ljlatc; 6 N(I)IE Eilxe:mL xtd xatTCtpiimL); De con· fusione linguarum (Ilcpl <JII'YXOacWt; 8LCÙ.ix~wv) i De migratione .Abrahami (IIcpi cbroue!«ç) ; Quis rerum divinarum heres sit (IIcpl -rou -ric; 6 ~ii)v &iELiilv ~
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fondo propria dell'ultimo secolo a. C. e del 1 secolo d. C., estremamente scolastica e diffusissima in tutto l'ambiente ordinato da Roma, in effetto il pensiero di Filone - sistematicamente e organicamente esposto solo nei riassunti e nei manuali di scuola - offre, anche, sia nelle opere a carattere piu strettamente filosofico-teologico, sia in quelle di interpretazione e commento di testi biblici, spunti e motivi, che riallacciandosi all'esperienza vitale, afilosofica, della tradizione ebraica, vanno oltre la linea propria delle componenti greco-romane, in una riflessione consapevole e critica di quell'esperienza stessa. E se tale esperienza cessava cosi di rimanere pura esperienza religiosa di un popolo, il piu delle volte riducendosi, almeno nella forma, all'altra tradizione, la colta, che presentava ben altro materiale espressivo, veniva, anche, a dare i termini di una nuova rielaborazione di contenuti, sia pur espressi in un linguaggio cristallizzatosi e per ciò stesso, se considerato unilateralmente e distaccato da tutto un contesto, evocante una serie di topoi propri di quella certa cultura, che aveva trovato, in secoli di rielaborazione, la sua espressione in un linguaggio storicamente istituzionalizzatosi ed in certe precise espressioni, determinando un insieme di contraddizioni, di oscillazioni e di tormentati dibattiti. Non c'è dubbio che Filone si formò entro il campo dell'ambiente colto di Alessandria, ma, ebreo di nascita e di religione - San Girolamo sostiene ch'egli apparteneva a famiglia sacerdotale: De viris ili., 11 -·si venne educando sui libri dell'Antico Testamento, letti, sembra, nella traduzione dei Settanta, ché, oramai, la comunità ebraica di Egitto non intendeva quasi piu il linguaggio dei padri. Certo il pensiero di Filone sembra soprattutto impegnato - poste le Sacre Scritture, in particolare il Pentateuco, come verità rivelata da Dio, ma in immagini e corposamente - nell'interpretazione di quelle immagini e di quei simboli (donde il metodo allegorico), per cogliere di là dalle immagini e dai simboli, la stessa verità di Dio, cui si può giungere solo mediante Dio stesso, mediante la parola di Dio (Sacre Scritture). Non solo - e questo pare ancora piu importante per comprendere il pensiero di Filone e la sua portata storica: non a caso Filone sarà uno degli autori piu discussi dai primi cristiani e ancora oggi ne viene in gran parte considerata la validità e i limiti in funzione dell'interpretazione e della concezione cristiane - la ricerca di Dio, dell'assoluta verità, è condizionata dalla fede in Dio, e la stessa fede in Dio, senza di cui vàna è l'opera dell'intelligenza, c'è in quanto gratuitamente concessa da Dio. La rivelazione è gratuitamente concessa da Dio. t Dio che con
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la rivelazione si fa presente all'uomo. Senza di essa l'uomo, mediante la liberazione dal senso, mediante il ripiegamento su se stesso in quanto intelligenza pura, mediante, alla fine, l'abbandono della stessa intelligenza perché discorso, neppure potrebbe cominciate la ricerca di Dio, la chiarificazione della fede, per giungere, di là dal discorso, alla unione con Dio, attraverso Dio, ché, in effetto, non si va dall'uomo o dal mondo a Dio, ma, per Dio, da Dio a Dio. lsrael in caldeo significa ciò che in greco è colui che vede Dio; non certo Dio quale è, ... ma che Dio è. Apprende questo non da un maestro estraneo; non l'apprende dalle cose terreStri, né dalle cose celesti, né CQn il concorso di un qualsiasi elementd, mortale o immortale; ma ne è· edotto da Dio solo, che volle svelare la sua propria esistenza al suo devoto ... Per mezzo di Dio soltanto noi vediamo Dio; niente altro può aiutarci a questo... (De praemiis et poenis, 44). È impossibile all'uomo percepire da se stesso l'essere assoluto; bisogna che l'Essere assoluto si manifesti e si mostri (De Abrahamo, 80). "Il Signore disse ad Abramo: Esci dalla tua terra e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, e vai nel paese che io ti mostrerò" [Genesi, XII, 1-3]. Dio vuol purificare l'anima dell'uomo: le indica quindi, come mezzo perfetto di salvezza, di allontanarsi da tre regioni che sono: il corpo, la sensibilità e il "l6gos" ossia il pensiero parlato. La terra è il simbolo del corpo; il parentado, il simbolo della sensibilità; la casa del padre il simbolo del "l6gos" ... (De migratione Abrahami, 1-2). Esci, dunque, dal corpo ("alcune anime, riconosciuta la gran vanità del corpo, chiamano il corpo carcere e tomba e come da prigione e sepolcro ne fuggono": De somniis, I, 139)... Esci anche dalla sensazione congenita [ché, su questo piano, hanno ragione gli scettici: De migr. Abr., De ebrietate, De cherub.] ... Ma esci anche da questo discorso enunciativo ... e l'intelligenza abbandoni l'esercizio delle sue proprie energie (De migr. Abrah., 3 sgg.), [ché, insufficiente, come vogliono gli scettici, è la ragione umana a cogliere l'essenza, mentre la scienza umana è ricerca e conflitto all'infinito: Che cosa, dunque, ci dovrebbe zatare se non la necessità di sospendere il giudizio?: cfr. De ebrietate, 40 sgg.; anche De profug.; Leg. All., II; De piane. Noe; Q. rev. div. haer.]. Ma io, mentre avevo lo spirito vuoto, a un tratto, mettendomi all'opera, diventavo pieno; i pensieri mi cadevano dall'alto come semente. Per azione divina io mi trovavo in estasi, non riconoscevo piu affatto i luoghi, i presenti, me stesso, quel che dicevo e quel che scrivevo (De migrat. Abrah., 35).
Questa l'esperienza vitale di Filone, che, certo, a lui deriva non dalla tradizione greco-romana, ma dalla meditazione sui sacri libri ebraici, dai libri di Mosè:
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Quasi tutto o la maggior parte nelle Leggi ha senso allegorico (De losepho, 28). C'è chi, ritenendo che il testo della Legge sia simbolo di cose intelligibili, queste cura assai, quella trascura fadlmente. Io biasimo tale leggerezza. Di entrambe le cose bisogna preoccuparsi: della ricerca accurata del senso nascosto, e della diligente osservanza dei segni palesi... Certo, il settimo giorno, ad esempio, significa per noi la potenza dell'increato e il riposo imposto all'opera della creazione: ma questo non deve valere come pretesto per distruggere la legislazione del settimo giorno... E cosi pure è vero che ogni solennità è simbolo della gioia interiore e del rendimento di grazie dovuto al Signore; ma non rifiutiamoci di partecipare alle riunioni che a epoche fisse sono obbligatorie... La lettera è come il corpo, il senso mistico è come l'anima ... (De migr. Abr., 89 sgg.).
Senza dubbio il metodo allegorico - già presente in Aristobulo porta Filone di là dal puro racconto popolare biblico, ma attraverso questo egli si rende conto della propria personale esperienza : un atto d'intendere profondo, che è illuminazione con cui si vede Dio ("Dio, che è luce di se stesso, solo per se stesso si vede, null'altro cooperando o potendo cooperare alla pura concezione della sua esistenza" : De praemiis et p.oenis, 45-46), anche se di Dio non si coglie l'essenza ("se alcuno poté concepire Dio per se stesso... si chiama veggente di Dio : non che veda quale è Dio, che è impossibile, ma che è... Una cosa è se Dio esiste ... altra che cosa sia per sua essenza" : De praem. et poenis, 44), illuminazione dovuta a Dio stesso, da .cui per altra via può prendere poi le mosse l'interpretazione di quella visione, sia interpretando le Sacre Scritture, sia discorrendo in termini umani di quella visione stessa. Si capisce cosi come per Filone la filosofia debba prendere le mosse dalla rivelazione e sia, quindi, chiarificatrice di quella, in un solo circolo (cfr. De congressu eruditionis gratia, 79-80). Quello di Filone è un itinerario della mente a Dio, che presuppone Dio che si rivela, e perciò è anche itinerario da Dio, ed un commento alla rivelazione di Dio, manifestatasi nei libri di Mosè e nella creazione. Questo, sembra, l'aspetto originale che troviamo in Filone. Di qui, da un lato la sua interpretazione dei sacri libri ebraici e, dall'altro lato, la sua interpretazione - sempre allegorica - di quell'aspetto della cultura greca che s'era formato attraverso Platone, certo pitagorismo, Aristotele, i manuali stoici, e, per altro verso, alcuni testi pseudo orfico-pitagorici, circolanti nell'ambiente di Alessandria, che soprattutto insistevano sulla caduta dell'anima nel carcere del corpo e sul suo ritorno, mediante l'iniziazione e il rintraccio da parte del divino (si ricordi il mito di Zagreo, gran cacciatore di anime), alla patria celeste d'onde è venuta.
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Sotto questo aspetto, entro i termini di questa esperienza (non v'è pensiero che non venga da Dio, "solo di Dio è proprio agire... di ciò che è generato patire": De cherub., n), si capisce come Filone, interpretando Platone e la tradizione stoica, attraverso il cui linguaggio è possibile esprimere discorsivamente la propria esperienza extraumana, extradiscorsiva, potesse sostenere che anche Platone, Eraclito, gli Stoici, e cosi via, avevano avuto da Dio, traducendola in termini umani, quella stessa rivelazione da Dio data a Mosè, rifacendosi anche direttamente ai libri stessi di Mosè. Di qui, per Filone, la possibilità di interpretare Platone o gli Stoici attraverso la Bibbia, o la Bibbia attraverso certi passi di Platone, di Aristotele, degli Stoici, quasi che i pensatori greci, cui Filone si rivolge, avessero attinto alla Legge ("Eraclito ebbe ragione nel seguire la dottrina di Mosè": Legum Allegoriae, I, 108; "Sembra che Zenone abbia attinta la sua dottrina, qu_asi da una fonte, dalle Leggi degli ebrei" : Quod omnis probus liber sit, 57). Già, posti, dunque, i libri sacri come allegorie dell'indicibile visione di Dio e della sua opera, di essi, come del mondo (ombra di Dio: mediante cui, come attraverso l'opera l'artefice, si concepisce Dio) e come dell'intima ed extraumana rivelazione di Dio in noi, non si può parlare che allegoricamente. Mosè, scrutando l'essenza di colui che è, non poté intenderla: mi vedrai di spalle, non vedrai la mia faccia. Basta infatti al sapiente conoscere le potenze seguenti e successive a Dio; ma chi volesse guardare l'essenza principale, sarebbe accecato dallo splendore dei raggi prima che potesse v~ere (De post. Caini, 169).
Questo il metodo allegorico di Filone, che, proprio in ciò, si differenzia dal metodo allegorico con cui già i Greci ed in particolare gli Stoici tendevano a razionalizzare la mitologia greca, e che, d'altra parte non ha nulla a che fare col mito platonico, usato in funzione di ipotesi, anche se alcuni di quei miti potevano dar luogo a ipostatizzazioni allegorizzanti. In effetto, per Filone, ogni discorso su Dio ·(e il discorso non può essere che su Dio, che solo Dio è: cfr. Quod detmus potiori insidiari soleat) non può non essere che allusivo, allegorico, ma tale che serva al ritorno a Dio dello stesso Dio, alla salvazione, ad evocare e a far vivere attraverso i simboli la verità nascosta, il Dio nascosto, di là da ogni discorso. E, per ciò, appunto, potevano servire anche certi testi della tradizione greca, di là dal significato contestuale di quei testi stessi, di cui, in realtà, Filone si serve sempre in funzione della propria interpretazione, per mostrare l'unica rivelazione di Dio. Ciò, per altro verso, si vede bene, quando si prendono in conside-
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razione quelle pagine in cui Filone, riprendendo gran parte delle argomentazioni, divenute oramai tradizionali, dello scetticismo, sostiene che se la ricerca non si fonda sulla rivelazione, la ricerca stessa rimane aperta all•infinito, onde sarebbe necessario sospendere il giudizio, in una critica, alla fine, sia del processo conoscitivo d'origine platonica (dal senso, alla ragione, all'intellezione), sia di tutte quelle posizioni (in particolare il protagoreismo e l'epicureismo) che negano che a fondamento della realtà tutta vi sia una ragione, sostenendo che tutto si produce a caso, spontaneamente ( cht«U't'O!J.«'t'(~ov-rcx), che le " arti, i mestieri, le leggi, i costumi, la politica, la giustizia individuale e sociale, sono fondate fmtro) dall'intelligenza umana" (Leg. Alleg., III, 30-31). Maestri nell'arte della dimostrazione e del discorso (De post. Caini, 79-80), Filone ritiene estremamente pericolosi tutti quei filosofi che, empi, costituiscono una realtà che si dimostra frutto dell'attività della ragione umana, che ritengono razionale la realtà, in quanto proiettano nella realtà e in Dio la loro stessa razionalità (cfr. De Cherub., 57-65), si che alla fine, per essi, Dio non è causa ma strumento (cfr. De confus. ling.), spacciapdo per verità ciò ch'è dovuto all'uomo, e facendo della filosofia un fine e non uno strumento. Entro quest'accusa rientrano per Filone anche i platonici e gli stoici, se non vengano illuminati dai libri di Mosè, se non ci si riferisca - almeno per certe frasi, certi miti di Platone e per altre tesi della letteratura pitagorica sulla simbolica dei numeri che si possono interpretare allegoricamente ad una ispirazione mosaica e profetica. Di contro aii•empio dogmatismo (De Cherub., De sacr. Abr. et Cai., Quod det. pot. ins., De post. Caini, De conf. ling.) era facile per· Filone riprendere i t6poi delle argomentazioni, le aporie degli scettici, mediante cui dimostrare la nullità e l'impotenza dell'uomo, di fronte all'empio orgoglio (-rii<pot;) dei dogmatici. Filone (cfr. in particolare De ebrietate, 171-206; De Josepho, 125-143; De somniis, l, 21-24, 30-33), riassumendo le note argomentazioni sulla fallacia dei sensi contro la teoria stoica e neo-aceademica dell'assenso (cfr. De ebrietate, 165) e della fantasia catalettica, sottolineando la differenza di opinioni dei filosofi sulla origine del ~ondo e sul bene e servendosi per ciò delle dossografie (lo dimostra lo stesso andamento; relativamente alle questioni: Dio, la generazione, la Provvidenza, l'anima), tende a dimostrare l'incertezza delle conoscenze umane, ché, in conclusione, è per l'intelletto impossibile comprendere se stesso, onde anche di Dio e della verità non è possibile dire nulla (e ancora una volta Filone si rifà alle tesi opposte sul divino e sui cieli: cfr. De somniis, l, 21, 24, 30-33). Se anche Filone nel De ebrietate, nel De
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somniis e nel De fosepho non fa nomi è certo ch'egli, soprattutto per la disposizione e l'ordine degli argomenti, per i tropi usati, per la discussione nei confronti delle piu recenti tesi dei neo-accademici (Antioco di Ascalona?), ha presente il complesso di un testo scettico, abbastanza vicino nel tempo a lui, e assai diffuso, se già assunto per i suoi argomenti a documento. Probabilmente si tratta, come ha cercato di dimostrare il Bréhier (Les idées phi/osophiques et re/igieuses de Phi/. d'Alex., Parigi, 1908, pp. 210 sgg.), di Enesidemo di Cnosso. In effetto, come aveva già sostenuto Arnim (Quellenstudien zu Philon, in "Kissling u. v. Wilamowitz philol. Untersuch.," XI, pp. 101-40) i testi, se vogliamo dire cosi, scettici di Filone (nel De ebrietate) sono una redazione dei tropi di Enesidemo, piu antica di quella di Sesto Empirico, in accordo con quella di Aristocle (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 17-18, 11: 9 tropi invece che 10 come in Sesto), mentre alcuni passi del De somniis, in cui si sostiene l'incomprensibilità del cielo (il quarto degli elementi che compongono il mondo) e dell'anima (la quarta delle facoltà dell'anima), sono assai vicini all'esposizione che dello stesso argomento dà Aezio nei Placita e la cui fonte sembra essere Enesidemo (cfr. Wendland, Eine doxographisçhe Quelle. Philos., in "Sitzungsber. der K. preusse. Akad. der Wiss.," 1897: Sesto, del resto, riferisce a uno scettico la tesi che l'intelletto non può afferrare se stesso: Adv. math., VII, 313), s1 come a Enesidemo, si potrebbe riferire il modo filoniano di opporre le varie opinioni dei filosofi sullo stesso problema, per dimostrare le opposte ragioni e perciò l'incertezza e la vacuità, ché tale sembra fosse il procedimento di Enesidemo (cfr. oltre; cfr. anche Diels, Doxographi graeci, 210). Non solo, ma in un testo del De fosepho (125-143), come è stato sottolineato, l'irrealtà della "comprensione" vi è provata non con gli errori della rappresentazione stessa, ma con l'argomento eracliteo del perpetuo flusso delle cose. "Tutta la prima parte dello sviluppo dell'argomentazione, fino al paragrafo 142, è certamente tratta da fonte eraclitea, e se vi si trovano termini usati dagli stoici (per esempio xcx't'lXÀYJ\jltç'), è che la dottrina di Eraclito è utilizzata contro le concezioni degli stoici. La stretta parentela che vi è tra questa argomentazione e Io· scetticismo di Enesidemo, tanto qui, quanto nel De ebrietate, mostra che colui che ne fa uso è lo scettico Enesidemo" (Bréhier, op. cit., p. 213). In effetto, attraverso··Sesto Empirico (Pyrrh. hypot., I, 210), sappiamo che secondo Enesidemo lo scetticismo può sfociare in una posizione eraclitea. Posto questo, tanto _meglio si potrà comprendere la posizione di Filone, il senso del suo platonismo e del suo stoicismo, il significato della novità rivelazione e creazione, se ci si renderà conto della portata
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dello scetticismo, e, fuori di Alessandria, anche indipendentemente dalla particolare situazione di Filone, uomo di cultura greca ma in ambiente ebraico, della crisi che, in una piu generale crisi politica e sociale, subirà la cultura ch'era stata propria della classe dirigente, da Tiberio in poi sempre piu esautorata. E allora, parallelamente a Filone, tanto meglio si potrà comprendere - ma in Roma e in un uomo non di origine ebraica - il significato dello stoicismo di Seneca, di appena una trentina d'anni posteriore a Filone, il suo moralismo e la sua religiosità.
2. Il neo-pirronismo. Da Enesidemo ad Agrippa Di Enesidemo 2 sappiamo molto poco. Sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta (cfr. Diogene Laerzio, IX, 116) - secondo Fozio, Myriobiblon o Bibliotheca, 170a, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo periodo insegnò ad Alessandria (Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22) - il che può essere abbastanza interessante relativamente alla conoscenza che Filone di Alessandria poteva avere dell'opera di Enesidemo; - che dapprima seguace dell'Accademia se ne sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i nuovi accademici piu che accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che fa pensare che, secondo anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., l, 235, il quale sostiene che Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica dell'Accademia a un neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico prodamarsi pirroniano, per cui dette alla sua opera principale il titolo Discorsi pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equivoca posizione di Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegnamento nella cultura romana. Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedicato i Discorsi pirroniani "a un certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita, di famiglia illustre, che aveva avuto magistrature civili non volgari" (Fozio, Myr., 169 b). A parte un Tu2 Di Enesidemo sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera intitolata Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o Bibliotheca,Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo nativo d.i Egea). Fozio dice anche che Enesidemo dedicò la sua opera a un certo Tuberone, uomo noto per famiglia e per cariche. Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe vissuto Enesidemo (il 1 sec. a. C. o il 1 sec. d. C.) cfr. sopra nel testo. Altri titoli di opere perdute di Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno alla ricerca, Schizzo introduttivo al pirronismo, Elementi, Prima introduzione. Si veda nel testo anche la questione dei discepoli di Enesidemo (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea, Apelle), insieme al problema della loro cronologia ed a quella di Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia biografica.
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berone piu antico, della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tuberone, amico di Cicerone, legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia nel 61-58), culturalmente vicino all'ambiente ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone, che,' insieme con il padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che, riconciliatosì con Cesare, abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma, occupandosi di studi storici, fin verso la fine del 1 secolo. Nulla vieta di pensare che il Tuberone cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nell'ambiente ciceroniano, poteva benissimo essere considerato accademico, ma che poi, anche per influenza di Enesidemo, avrebbe potuto liberarsi dall'Accademia stessa, divenuta eccessivamente dogmatica e stoicheggiante. In effetto, dal lucido sunto che Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani appare con chiarezza che la polemica di Enesidemo è soprattutto volta contro i qeo-accademici, " stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un appello al pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo di ~osofare, volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione della realtà, ma alla comprensione critica delle capacità e delle possibilità umane, in uno studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda della sua situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che viene poi spacciata per unica e vera. E di tale atteggiamento che, attraverso la polemica nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la NuovaAccademia, in una radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del II secolo d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Accademia, talché si disse di lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica" : Pyrrh. hypot., l, 235). Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu antichi" e scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot., I, 36, 164), sostiene che spetta ai piu antichi di avere classificato dieci modi (tropi) mediante cui non si può nòn giungere alla "sospensione del giudizio" (cit., I, 36), mentre spetta ai piu recenti di averne classificati cinque (cit., l, 164). E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math., I, 345) di avere esposto nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo Enesidemo," si è di qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici piu antichi. Una testimonianza di Aristocle (n sec. d. C.) pone, invece, Enesidemo tra i pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22). Questo e la constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32, tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263, un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti
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o primo secolo d. C.?). Che Cicerone non citi Enesidemo è sembrato grave allo Zeller, il. quale sottolinea che Cicerone, molto vicino ai neoaccademici Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio Tuberone, cui Enesidemo dedica i Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre invece afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore, III, 62). Si può, d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio riducendolo al piu antico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da Enesidemo che discute la validità scientifica del "probabilismo," mediante cui Cicerone riprendeva la concezione generale dello stoicismo, riducendo Enesidemo ai piu antichi pirroniani. Non solo, ma bisognerebbe essere sicuri che il Tuberone di cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il figlio Quinto Elio (Fozio non precisa), perché in tal caso i Discorsi pirroniani potrebbero essere stati scritti dopo la morte di Cicerone. Quanto, infine, al "recente" di Aristocle e all'" antico" di Sesto (ma, in fondo, quel "piu antichi" è molto generico e sta ad indicare la conclusione di un processo di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad altre piu recenti sistemazioni, tanto è vero che Sesto non fa nessun nome, mentre cita, Pyrrh. hypot., I, 180-181, Enesidemo per dire che suoi sono gli otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti intesi a spiegare le cause, su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è giusta· mente pensato che Enesidemo "avrebbe potuto apparire recente ad Aristocle che lo raffrontava con Pirrone e antico a Sesto che lo raffrontava con filosofi a lui posteriori" (M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, 1950, p. 278). I Discorsi pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1 secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera culturale, adagiatasi, attraverso Antioco e Cicerone, in una generica concezione stoico-platonica, accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente scolastica, anche se posta da alcuni come verità "probabile," una corrente scettica (come atteggiamento critico che " a ogni ragione oppone una ragione di egual valore" : Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8, "senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma, cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze" : Sesto, cit., I, 13), che non si sarebbe mai spenta é che, secondo Diogene Laerzio (IX, 115-116), dopo Timone di Fliunte, avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene, Sarpedonte, Eraclide, dei quali in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe stato maestro di Enesidemo: ma quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto, il medico Eraclide di Eritrea?).
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Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto piu tardi, bisognerebbe allora sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi fosse stato un pensatore che ha ripreso e diffuso gli antichi argomenti di Pirrone e di Timone, in polemica contro i neoaccademici e lo stoicismo generico, contro il diffuso dogmatismo scolastico. Egli,. tuttavia, trasportando questi elementi su di un piano gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e ad Arcesilao che non a Pirrone, avrebbe criticamente ordinato i tropi (dei cosiddetti tropi di Enesidemo in Filone ne rintracciamo almeno otto), mediante cui mostrare la necessità della "sospensione del giudizio" (epochè), anche nei confronti del "probabilismo," forse praticamente e politicamente utile, ma teoreticamente e scientificamente un compromesso, al servizio dello stesso stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone l'Ebreo, sarebbero stati ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche se con un fine assai diverso. In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia attraverso il sunto che degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia attraverso ciò che di Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio), ricaviamo che sulla fine del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come da un lato si venivano compilando le "summe" del sapere stoico, platonico, aristotelico, o piu generici manuali ove si delineavano concezioni d'insieme, cosi, dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso organico gli argomenti propri alla tradizione scettica, che, appunto, di contro alle evasioni ed alle acritiche costruzioni di certo stoicismo platonizzante e aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di logica e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente filosofico di quest'età. "In origine, lo Scetticismo mirava," ha scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua dialettica assunse un significato prevalentemente metodologico... Analisi rigorosa e infaticabilmente esauriente di tutti gli aspetti di un problema; abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica ... In origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina dello spirito scientifico. Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo; l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla stregua di fatti naturali. Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla
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tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico espresse uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di applicarsi soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in vista della pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origin es de l'esprit scientifique, trad. it. Storia del pensiero greco, Milano, 1962, pp. 553, 554-55). Tale il nerbo delle argomentazioni di Enesidemo, che, di contro all'atteggiamento platonico-stoico, cui con Antioco di Ascalona si era risolta l'Accademia di Arcesilao e di Carneade, si appella al primo scetticismo pirroniano, anche se, in effetto, la sua istanza critica assume un ben diverso colorito svolgendosi sul piano dell'indagine critica delle condizioni che permettono il giudizio, in un'analisi del linguaggio filosofico e in una discussione della liceità del passaggio dal discorso umano (che può essere molteplice e di volta in volta diverso) al discorso dd tutto. Non a caso Enesidemo ripercorre criticamente le tappe su cui si fonda il "criterio" stoico. Innanzi tutto, pur ammesso che i dati del giudizio siano la presenza alla coscienza delle impressioni, proprio perché nulla giustifica l'affermazione che l'impressione, l'apparire (fenomeno) alla coscienza di qualcosa corrisponda ad una presunta cosa in sé quale è in sé, né che l'una impressione sia piu vera dell'altra - ogni animale, ogni uomo può avere impressioni diverse, anche a seconda della sua costituzione fisica, -'- nulla giustifica che il giudizio, o come affermazione o negazione di una rappresentazione - tenendo presente che ogni rappre~ sentazione presa a sé non è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera né falsa, - o come discorso fra le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto che ci rappresentiamo o allo strutturarsi della realtà in rapporti di inerenza. Di qui scaturisce la critica sia alla logica proposizionale di tipo stoico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di identità) sia all'analitica di tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ;~ un rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi, che sembrano elaborati da Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che le impressioni in quanto tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano all'oggetto rappresentato, e che, pertanto, neppure servono come dati del discorso, né in senso aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto di inerenza reale tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per sé, né in senso stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo, in tutti gli uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione b e cos1 via.
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Dagli scettici piu antichi - scrive Sesto Empirico - sono comunemente tramandati i dieci modi [tropi], per mezzo <{ei quali pare effettuarsi la sospensione del giudizio [ epochè ], che chiamano anche, con vocaboli sinonimi, regole [16goi] e figure [t6poi]. E si riferiscono: l) alla varietà che si nota negli animali; 2) alle differenze che si riscontrano negli uomini; 3) alle diverse costituzioni dei sensi; 4) alle circostanze; 5) alle posizioni, agl'intervalli, ai luoghi; 6) alle mescolanze; 7) alle quantità e composizioni degli oggetti; 8) alla relazione; 9) al verificarsi continuamente o di rado; IO) alle istituzioni, costumanze, leggi, credenze favolose e opinioni dogmatiche. Accettiamo questa serie dandole un .valore convenzionale ... Dicevamo essere la prima regola quella secondo la quale le stesse cose non producono le medesime rappresentazioni sensibili, in conseguenza della differenza degli animali. Questo lo deduciamo dal modo differente del loro generarsi e dalla differente costituzione dei loro corpi ... Se le medesime cose appaiono differenti ai differenti animali, potremo, sf, dire quale noi percepiamo l'oggetto; ma quale esso sia in realà, ci asterremo dal giudicare (Pyrrh. hypot., I, 36-78; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 170-171; Diogene Laerzio, IX, 79-80)... Il secondo modo, come dicevamo, riguarda le differenze che si riscontrano negli uomini. Infatti, anche se, per ipotesi, si ammette che gli uomini sono piu degni di fede degli anÌir'..ali, troveremo che si arriva alla sospensione del giudizio pure per quanto si riferisce alle differenze che sono tra di noi. Delle due parti di cui si dice che consta l'uomo, anima e corpo, per l'una e per l'altra· noi differiamo l'una dall'altro... Pertanto è necessario, anche in forza delle differenze che sono tra gli uomini, arrivare alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 79-89; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 175 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 80-81) ... Terzo modo è quello che dicevamo riferirsi alla diversità delle sensazioni. Che le sensazioni differiscano tra loro è manifesto... Ciascuno dei fenomeni sensibili impressiona variamente. i nostri sensi; cosi la mela ci si mostra liscia, profumata, dolce, gialla. t oscuto; pertanto, se essa possieda, effettivamente, queste sole qualità, o se possieda una qualità unica e .ci appaia differentemente in conformità della differente costituzione degli organi del senso, oppure se possiede piu qualità di quelle che app~ono, e alcune non cadano sotto i nostri sensi (Py"h. hypot., I, 9I-95; anche Diogene Laerzio, IX, 81) •.. Il quarto modo è quello che si denomina dalle circostanze (chiamiamo circostanze i diversi modi di essere). E diciamo ch'esso va considerato nel fatto di trovarci in uno stato naturale o innaturale, nell'essere svegli o addormentati, in rapporto all'età, all'essere in moto o in quiete, all'odiare o amare, al versare nell'indigenza o esser sazi, all'essere ubriachi o sobri, alle predisposizioni, all'essere coraggiosi o paurosi, addolorati o contenti ... Noi assentiamo maggiormente a ciò che ci sta davanti e c'impressiona nel presente, che a ciò che non ci sta davanti ... t impossibile dirimere questa discrepanza di rappresentazioni. E invero, chi preferisce una rappresentazione a un'altra, una circostanza a un'altra, o lo fa senza giudicare e dimostrare, o giudicando e dimostrando. Ma non lo può fare n~ con l'intervento né senza l'intervento di un giudizio o di una dimostrazione: in questo secondo
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caso non sarebbe degno di fede. Se recherà un giudizio sulle rappresentazioni, lo farà, indubbiamente, sulla base di un criterio. Ora questo criterio egli dir~ che è vero o falso; se falso, egli non meriterà fede; se, invece, dirà che è vero, o affermerà che il criterio è vero senza recare una dimostrazione, oppure lo sosterrà in base ad una dimostrazione. Se lo affermerà senza recare dimostrazione, non meriterà fede; se in base a una dimostrazione, sar~ assoll'tamente necessario che anche la dimostrazione sia vera, se no, non meriter~ feè~. Ora dirà egli la vera dimostrazione assunta per la conferma del criterio, in seguito a un giudizio o senza di questo? Se senza, non meriterà fede; se in seguito a un giudizio, è manifesto ch'egli dir~ di aver giudicato in base ad un criterio, del quale criterio cercheremo la dimostrazione e il criterio di questa, poiché sempre la dimostrazione, per essere confermata, avrà bisogno di un criterio, e il criterio avrà bisogno di una dimostrazione, per essere dimostrato vero; né la dimostrazione può essere vera, se non è preceduta da un criterio vero, né il criterio può essere vero, se la dimostrazione non è riuscita, prima, a convincere. Cosi, criterio e dimostrazione cadono nel diallele, in cui si scopre che né l'uno né l'altra meritano fede: l'uno, infatti, attendendo conferma dall'altra, e questa da quello, resta che entrambi non meritino, ugualmente, fede. Se, pertanto, né senza dimostrazione e criterio, né in base a questi può uno preferire rappresentazione a rappresentazione, non sarà possibile decidere tra le rappresentazioni sensibili, che sono differenti secondo le differenti disposizioni. Talché, anche per quanto si riferisce a questo modo, si arriva alla sospensione del giudizio sulla natura degli oggetti esteriori (Pyrrh. hypot., l, 100-117; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 178 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 82). Il quinto modo è quello che si riferisce alle posizioni, agl'intervalli e ai luoghi; e invero, secondo ciascuno di questi, le stesse cose appaiono differenti ... Ora, poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un dato luogo, a una tale distanza, in data posizione, onde deriva una grande differenza nelle rispettive rappresentazioni sensibili ... , necessariamente, anche per questo modo, riusciremo alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 118 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De ebriet., 181 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 85-86, che dà questo tropo come settimo)... Il sesto modo è quello che si riferisce alle mescolanze, per il quale si conclude che, poiché nessuno degli oggetti cade sotto i nostri sensi di per sé solo, ma insieme con qualche altra cosa, forse è possibile dire quale sia la mescolanza formata dall'oggetto esteriore e dall'altra cosa insieme a cui viene percepito, ma non potremo dire quale sia l'oggetto esteriore nella sua realtà pura ... A causa delle mescolanz_e, i sensi non percepiscono quali siano, esattamente, gli oggetti esteriori. E nemmeno l'intelletto, perché i sensi, sue guide, lo ingannano. Ma forse lo stesso intelletto effettua una sua propria mescolanza nell'intendere ciò che viene annunziato dai sensi (Pyrrh. hypot., l, 124-127; cfr. Diogene Laerzio, IX, 84-85, che dà questo tropo come sesto) ... Il settimo modo è quello che si riferisce alla quantità e costituzione degli oggetti, intendendo comunemente per costituzione, la composizione. Che anche per questo modo si sia costretti a sospendere il giudizio intorno alla natura reale delle cose, è mani-
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festo. Per esempio, la raschiatura di corno caprino, guardata cosi semplicemente, fuori del composto, appare bianca, guardata, invece, nel composto del corno appare nera ... Il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della realtà esteriore (Pyrrh. hY,pot., l, 129 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 189 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 86, che dà questo tropo come ottavo) ... L'ottavo modo è quello della relazione, e per esso inferiamo che, tutto essendo relativo, noi dovremo sospendere il giudizio sulla reale natura delle cose. Bisogna notare che anche qui, come altrove, noi adoperiamo la voce "è," in luogo di "appare," intendendo dire, appunto: "tutto appare in maniera relativa." Ora questa relatività si afferma in due modi: in un primo modo rìspetto al giudicante (poiché l'oggetto esterno e giuditato appare relativamente al giudicante), in un secondo modo rispetto a quello che si percepisce insieme con l'oggetto, come ciò che è a destra rispetto a ciò che è a sinistra. Come tutto sia relativo, abbiamo discorso anche precedentemente; cosi, rispetto al giudicante, abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi, relativamente a questo animale e a quest'uomo e a questo senso e· a quella tale circostanza. Rispetto a quello che si percepisce insieme con l'oggetto, abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi relativamente a questa mescolanza, a questo luogo, a questa composizione, a questa quantità e posizione. Ma anche con ragionamento proprio si può concludere che tutto è relativo, in questa maniera. Ciò che è assoluto differisce da ciò che è relativo, oppure no? Se non differisce è anch'esso relativo; se differisce, poiché tutto ciò che differisce è relativo (si dice, infatti, che differisce relativamente a ciò da cui differisce), anche l'assoluto è relativo... Tutto appare relativamente a qualche cosa. Ne segue che dobbiamo sospendere il giudizio intorno alla natura delle cose (Py"h. hypot., l, 135-140; Filone l'Ebreo, De ebrietate, 186 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 87-88, che dà questo tropo come decimo) ... Il nono modo è quello che concerne gli incontri continui o rari di una cosa... Le cose rare paiono preziose, quelle abituali e abbondanti nient'affatto (Pyrrh. hypot., I, 141, 144; cfr. anche Diogene Laerzio, IX, 87, che dà questo tropo come nono) ... Il decimo modo, che ha attinenza, specialmente, con i fatti morali, è quello che si riferisce agl'indirizzi, ai costumi, alle leggi, alle credenze favolose e alle opinioni dogmatiche... Opponiamo ciascuna di queste cose, ora a se stessa, ora a ciascuna delle altre. Per esempio, opponiamo costume a costume: alcuni Egiziani tatuano i bambini, noi, invece no... Opponiamo legge a legge: presso i Romani chi ha rinunciato alla sostanza paterna, non paga i debiti del padre, invèce presso i Rodiesi li deve assolutamente pagare... Opponiamo indirizzo a indirizzo (per indirizzo s'intende una scelta di vita o di altro) quando l'indirizzo di Diogene contrapponiamo a quello di Aristippo, o quello dei Laconi a quello degli ltalici. Opponiamo credenza favolosa a credenza favolosa, quando diciamo che talora è Zeus che è denominato il padre degli dèi e degli uomini, talora, invece, Oceano ... Le opinioni dogmatiche (accoglimento di qualche cosa, che sembra essere confermata da un ragionamento o da una dimostrazione) opponiamo le une alle altre, quando diciamo che, secondo alcuni,
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uno solo è l'elemento delle cose, secondo altri, invece, infiniti sono gli elementi; che per gli uni l'anima è mortale, per gli altri immortale; ché per gli uni le cose umane sono governate dalla pro-. v1denza degli dèi, per gli altri questa provvidenza non esiste. [Si opp~ngono poi costumi a leggi; leggi a condotta; costumi a credenze favolose; costumi a opinioni dogmatiche, e cosi via] ... Se tanta discordanza v'è nelle cose, non potremo affermare quale sia nella su:~ rc::altà l'oggetto, ma solo quale esso appaia in rapporto a questo indirizzo, a questa legge, a questo costume, e in rapporto a ciascuno degli altri fatti. Anche per questo è per noi necessario sospendere il giudizio ... (Pyrrh. hypot., I, 145-163; anche Filone l'Ebreo, D~ ~bri~ tate, 193 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 83-84, che dà questo tropo come quinto). Secondo Sesto Empirico i dieci tropi possono, in effetto, ridursi a tre ("ci sono tre modi che comprendono tutti questi: quello che dipende dal giudicante - i primi quattro, poiché ciò che giudica è animale o uomo o sensazione o si trova in una qualche circostanza quello che dipende dal giudicato - il settimo e il decimo, - e un terzo che dipende da entrambi- il quinto, il sesto, l'ottavo e il nono"), e, in ultima analisi, ad uno solo: "a loro volta questi tre si riducono a quello della relazione, talché questo sarebbe il piu generico: gli altri tre, invece, e i dieci, in questi compresi, specifici" (Pyrrh. hipot., I, 38-39). I tropi di Enesidemo non hanno alcuna pretesa positiva. "Abbiamo opposto ai dogmatici ragionamenti che paiono persuasivi, non per assicurare che siano veri ..., ma per condurre alla sospensione, col fare apparire l'uguale forza persuasiva di questi discorsi e di quelli dei dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 79). Attraverso essi Enesidemo constata che ogni costruzione e ogni discorso che presumono d'essere "veri" e, perciò, unici, basandosi su rappresentazioni, sempre relative e cangianti, e che, dunque, non sono giudizi, ma puri enunciati, non sono in sé né veri né falsi. Sono sempre costruzioni e discorsi, validi "storicamente," insignificanti e senza senso teoreticamente, donde l'impossibilità di un sapere assoluto. Tutta la difficoltà - insormontabile sta nel dubbio che la rappresentazione, o idea, che è tale in quanto sia "parola" significante un'affezione, corrisponda a ciò di cui è rappresentazione e parola, per cui, poi, lo stesso discorso, in quanto articolazione di rappresentazioni, è dubbio che corrisponda al discorso della realtà, tanto piu che sia il "senso," fonte delle rappresentazioni, sia la "ragione" (l6gos), intesa come attività unificatrice e giudicatrice del complesso dei "veri" (enunciati), afferrante la "verità," dovrebbero prima giustificare se stessi, trovare cioè in sé il criterio per cui si può essere certi del "vero" e della "verità." E qui va tenuto presente che la polemica si rivolge al concetto che di "vero" era stato sostenuto
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dagli stoici, cioè nei confronti del Vi!'ro inteso come munciato (incorporeo), distinto dalla verità, intesa come scienza avente in sé il complesso dei veri, e dovuta all'attività egemonica (razionale), che è corporea (cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 80-84). Resta, perciò, dubbia qualsiasi tesi sulla struttura della realtà, e, pur a.ttunessa una qualsivoglia realtà, resta in dubbio sia il vero sia la verità. L'uomo non ha altro mediante cui giudicare... se non il senso e l'intelletto... : solo che i sensi non comprendono gli oggetti esterni, ma, se mai, solo le proprie af!ezioni, e la rappresentazione dunque sarà dell'af!ezione del senso, che differisce dall'oggetto ... E poi i sensi sono impressionati in modi opposti dagli oggetti: ora, ciò che è discorde e contrastante non è criterio, ma ha bisogno esso di un giudice... (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., II, 48, 73-74; Adv. math., VII, 346). E quanto all'intelletto: donde saprà se le af!ezioni del senso siano simili agli oggetti sentiti, non imbattendosi mai con oggetti esterni né rivelandogliene i sensi la natura, ma solo le proprie af!ezioni? ... Non solo, ma se neppure vede se stesso esattamente, ma è in divergenza sulla propria essenza, il modo della generazione, il luogo in cui è, come potrebbe comprendere con esattezza alcun che d'altro? ... Essendoci tante divergenze sull'intelletto..., se osiamo giudicare con un intelletto... togliamo via l'oggetto· della ricerca: se con altro, non è piu vero che con l'intelletto s'abbiano a giudicare le cose (Pyrrh. hypot., II, 73-74, 57-60). Enesidemo, poi, propone anche le seguenti aporie. Se vi è qualcosa di vero o è sensibile (atla31yt6v) o intelligibile (vo'l)'t'6v ), o intelligibile e sensibile, oppure né sensibile né intelligibile, né l'una cosa e l'altra ad un tempo... Che non vi sia il sensibile cosi lo argomentiamo: dei, sensibili alcune cose sono generi, altre, invece, aspetti singoli (c(3Tj); i generi sono qualità comuni inerenti ai singoli oggetti, si come certe qualità deij'uomo ineriscono ai singoli uomini e certe qualità del cavallo ai singoli cavalli; gli aspetti sono proprietà dei singoli, come di Dione, di Teone, di altri. Se, dunque, il sensibile è vero, ciò sarà af!atto comune ai molti, o insito in ciò che è proprio, dei singoli; solo che non può essere né comune né inerente alla proprietà, per cui il vero non è sc;nsibile. Inoltre, come ciò che è visibile può essere compreso con la visione, e l'udibile è conosciuto con l'udito, l'odorabile con l'odorato, cosi anche il sensibile si conosce con il senso. Il vero non si conosce comunemente con il senso: il senso è infatti arazionale (~Àoyo<;), e il vero non si conosce senza la ragione, onde il vero non è sensibile. Ma neppure è intelligibile, ché nulla sarà vero dei sensibili, il che è, di nuovo, un assurdo. Infatti, o l'intelligibile potrà essere percepito comunemente da tutti o individualmente da alcuni. Ma non può accadere che il vero sia percepito intelligibilmente da tutti in forma comune, né da alcuni individualmente: non può essere in nessun modo compreso da tutti comunemente e se compreso individualmente da uno o da altri, ciò non è degno di fede ed è oggetto di contesta-
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zione. Il vero, dunque, non è intelligibile. Ma neppure è, ad un tempo, sensibile e intelligibile: il vero è o affatto sensibile e affatto intelligibile, o in parte sensibile e in parte intelligibile. Ma dire che il vero è affatto sensibile e affatto intelligibile, è cosa che non può avvenire: i sensibili sono, infatti, in contrasto con i sensibili, gl'intelligibili con gl'intelligibili, e, viceversa, i sensibili con gl'intelligibili e gl'intelligibili con i sensibili, e sarà necessario se tutte le cose sono vere, che ogni cosa sia e non sia, sia vera e sia falsa, per cui, di nuovo, bisognerà ritenere che sia un'aporia affermare che parte del sensibile sia vero e che vero sia parte dell'intelligibile. Ci si domanda, infatti, se sia non contraddittorio dire che tutte le cose vere o tutte le cose false siano sensibili: sono ugualmente sensibili e non una di piu l'altra di meno. E, cosi, ugualmente intelligibili sono gl'intelligibili, e non uno piu l'altro di meno. Non solo, ma non tutti i sensibili possono essere detti veri, né tutti falsi. Non vi è, dunque, il vero... (Sesto Empirico, Adv. math., VIII, 40, 48). In altri termini, ogni definizione (enunciato) e ogni discorso, che presumano significare l'essenza e il discorso della realtà, sono, in e.ffetto, insignificanti, senza senso, sono cioè non giudizi (di qui la "sospensione," l'epochè). Da questa serie di argomentazioni (i dieci tropi, le aporie sul "vero"), che Fozio (cit.), nel suo sunto dei Discorsi pi"oniani, dice facevano parte dei primi tre libri, si vede bene come Enesidemo passi ad altre due serie di argomentazioni : le prime volte a mostrare l'impossibilità di giungere alle cause per via indiretta, ossia mediante i segni, giungendo cioè a porre le cause attraverso i fenomeni significanti quelle cause stesse, ché non v'è criterio per cogliere la coincidenza tra significante e significato, ch'era, com'è noto (cfr. I vol.), un grosso problema a lungo discusso nella scuola stoica ("nel quarto libro Enesidemo mette in discussione i segni delle cose oscure ... ": Fozio, cit.); le seconde (che Sesto Empirico raccoglie in otto trop•) volte a sovvertire i ragionamenti intesi a spiegare le cause per via diretta ("nel quinto libro... propone argomenti per dubitare delle cause, dicendo che nessuna cosa è causa dell'altra ... ": Fozio, cit.). Nell'una e nell'altra serie di argomentazioni è evidente la critica non solo al passaggio proprio degli stoici dal logico all'antico, ma anche il passaggio dal visibile all'invisibile proprio dell'ipotesi atomistica dell'epicureismo. Già in Crisippo la dottrina dei segni si prestava a una doppia interpretazione (cfr. I vol.). Posto che l'impressione non è un puro calco che direttamente stampa nell'anima l'immagine della cosa, ma che ogni rappresentazione è una modificazione, che ci a.fferra a seconda della sua evidenza, e a cui diamo l'assenso, non tanto perché corrisponde o meno all'oggetto (che già dovremmo conoscere per sapere se corri-
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sponda o no all'impressione). ma in quanto fortemente presente, ogni rappresentazione è un segno, da un lato "rammemorante" una impressione, dall'altro lato "rammemorante," data quella rappresentazione, altra rappresentazione, che si lega alla prima (" rammemorativo è quel segno che, osservato già insieme con il significato, per esserci dato insieme con tutta evidenza ... ci conduce al ricordo della cosa osservata insieme, che ora non ci si dia con evidenza, com'è del fumo e del fuoco, vedendo una ferita si dice che c'è stata una ferita": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 97-102). Sotto questo aspetto, la dottrina del segno poteva sfociare in una chiara " logica proposizionale" e scientificamente in una ricerca fondata, appunto, sui segni rammemorativi (come avvenne per l'indirizzo medico ~mpirico e metodico, ai quali, piu tardi, si rifecero proprio gli scettici), ove la veracità o meno del discorso non presume affatto significare il discorso stesso della realtà. Non possiamo dire se già in Crisippo (cfr. I vol.), ma; certo, subito dopo di lui, nella scuola stoica la rappresentazione venne interpretata in quanto segno indicativo dell'oggetto stesso, rispecchiante l'oggetto che ha provocato l'impressione; non solo, perciò, lo stesso discorso significherebbe il discorso della realtà, ma una impressione-rappresentazione verrebbe a significare, per analogia, una verità nascosta di cui non si è avuta impressione, una cosa oscura per natura, da cui, gradatamente si giunge a porre cause e principi primi ("indicativo, invece, dicono il segno non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, ma che per la propria natura e costituzione segnala ciò di cui è segno : cos~, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 101). È chiaro che la critica degli scettici piuttosto che all'interpretazione del "segno" come rammemorante, si rivolgesse al segno interpretato come indicativo e significante da un lato la cosa per sé, dall'altro lato la causa e la causa dèlla causa. Noi ~ dirà Sesto Empirico - non parliamo contro ogni segno, ma solo contro l'indicativo, come quello che sembra essere state inventato dai dogmatici (Pyrrh. hypot., Il, 102) ... Il segno indicativo è inconcepibile, poiché dicono che è relativo al significato e -mdatore di esso ... · Se è relativo deve assolutamente esser compreso insieme con il significato, come il sinistro con il destro, il sopra con il sotto, ecc. Se invece è rivelatore del significato, deve assolutamente esser compreso prima di esso, perché, conosciuto prima, possa poi condurci alla conoscenza della cosa resa nota da lui. Ma è impossibile conoscere una cosa, che non può essere conosciuta prima di quella, per mezzo della quale dovrebbe invece essere compresa: impossibile quindi concepire un relativo, che sia anche rivelatore della
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cosa relativamente alla quale si concepisce... Impossibile dunque concepire il segno indicativo... (Pyrrh. hypot., II, 118-120).. Sembra che questa già fosse stata la critica di Enesidemo, se Sesto Empirico (cfr. Adv. math., VIII, 49 sgg.) può sostenere che Enesidemo a coloro che affermavano che la causa si coglie non attraverso i sensi immediatamente, ma per analogia attraverso i segni indicativi, rispondeva che ciò è contraddittorio, posto che la rappresentazione è dall'impressione, ché mai si può avere rappresentazione di ciò di cui non vi è impressione; poiché, d'altra parte, questa o quell'impressione non modifica tutti allo stesso modo, pur dando valore al segno rammemorativo, resta in dubbio la sua universalità, su cui si fonda la pretesa ch'esso segno indichi e significhi l'universalità oggettiva delle consecuzioni. In realtà - obbietta lo scettico - il segno è solo un fatto che ne ricorda un altro di cui è stato in passato il concomitante (passato) o ce ne fa aspettare un altro (futuro) (cfr. L. Robin, cit., p. 553), senza pretendere ad alcuna verità. Enesidemo, nel IV libro dei Discorsi pirroniani cosi dice: se le rappresentazioni delle cose [fenomeni] ugualmente appaiono a tutti coloro che sono stati ugualmente modificati e i segni indicano quelle attuali rappresentazioni, è necessario che anche i segni appaiano a tutti coloro che sono ugualmente modificati. Ma i segni non appaiono ugualmente a tutti coloro ugualmente modificati, per cui i segni non sono segni delle rappresentazioni (Sesto Empirico, Adv. math., VIII, 215 sgg.). La critica scettica si rivolge cosi all'illusione che l'argomentazione per analogia abbia validità scientifica sul piano della verità oggettiva, si rivolge cioè alla gratuita trasformazione di una constatata "consecuzione" in una concatenazione causale risalente a ipotetiche cause prime per sé, agenti e costituenti la realtà. Di qui gli otto tropi di Enesidemo mediante cui mettere in dubbio la possibilità di passare dai dati dell'esperienza alla loro causa di cui non si ha affatto esperienza, per, poi, viceversa dimostrare i dati mediante quelle cause. Come enunciamo i modi della SO)ipensione del giudizio, cosi, anche, alcuni espongono i · modi, per i quali, dubitando delle spiegazioni delle cause particolari, si arresta la superbia dei dogmatici, dovuta, particolarmente, a queste spiegazioni. Enesidemo insegna a tal proposito otto modi, per i quali, confutando qualunque dogmatica spiegazione di cause, egli crede di farla apparire difettosa. E sono, secondo lui: l) quello per il quale il genere della spiegazione della causa, aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi, non ha una conferma palese dalle cose che cadono
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sotto i sensi; 2) quello per il quale, essendo largamente consentito di spiegare in molte maniere la causa cercata, alcuni la spiegano in una maniera sola; 3) quello per il quale di fatti che accadono ~on un ordine, adducono cause che non ammettono ordine alcuno; 4) quello per il quale, percependo come accadono le cose sensibili, credono di aver percepito, anche, come accadano quelle che non cadono sotto i sensi, mentre le cose che non cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo uguale alle cose sensibili, e, forse, in modo non uguale, ma proprio e distinto; 5) quello per cui tutti, per cosf dire, spiegano le cause seguendo ce~e loro proprie ipotesi intorno agli elementi primi, piuttosto che una via comunemente ammessa e accettata; 6) quello per cui spesso accolgono quello che si spiega con le loro proprie ipotesi, tralasciando quello che è contrario ed ha la medesima forza di persuasione; 7) quello per cui spesso adducono delle cause che contrastano, non solo con i fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi; 8) quello per cui spesso, essendo ugualmente incerto e quello che sembra· apparire in un dato modo e quello che è oggetto dell'indagine, sulla base di nozioni incerte costruiscono le loro dottrine ugualmente incerte. Soggiunge, poi, che non è impossibile che alcuni, nel rendere ·ragione delle cause, falliscano secondo altri modi misti, dipendenti da quelli che abbiamo enumerali (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 180-184). Se mediante gli otto tropi, riferiti da Sesto come propri di Enesidemo, è messa in discussione la possibilità dell'inferenza dall'effetto alla causa - ed è evidente qui la polemica non solo contro gli Stoici, ma anche contro l'epicureismo e l'induzione aristotelica, - per cui si giunge alla sospensione del giudizio anche relativamente alle cause, tanto piu semplice diveniva ora la discussione che <;onduce al dubbio sulla possibilità di spiegare gli effetti, partendo da cause che pur si sono dimostrate puramente ipoteùche, di dimostrare che l'una causa possa produrre un effetto e che, alla fine, il rapporto di causa ed effetto sia proprio della stessa struttura della realtà e non dovuto ai rapporti rammemorativi tra le impressioni ricevute. Anche queste sembrano argomentazioni svolte da Enesidemo, che Sesto Empirico, il quale appunto cita Enesidemo, approfondisce (Adv. math., IX, 218-266), insieme a tutta una serie di argomentazioni contro la sillogistica aristotelica e la dialettica stoica (cfr. Pyrrh. hypot., II, 113-118, 134-166, 199-197; Adv. math., VIII, 300-315, 367. sgg., 391-395; anche Dal Pra, op. cit., pp. 308-312). Veniva di qui, infine, entro i termini della sistemazione in un sol corpo delle argomentazioni degli scettici, la problematica delineata da Enesidemo sulla possibilità di definire l'essenza del Bene e delle condizioni che permettono una vita virtuosa (secondo Fozio, cit., del bene e delle virtu Enesidemo parlava negli ultimi libri, VI, VII e VIII, dei suoi Discorsi pirroniani). Secondo Sesto Empirico (Adv. math., X, 42)
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Enesidemo avrebbe escluso l'esistenza del Bene, almeno nel senso di un bene per sé quale veniva definito dai dogmatici, sostenendo - come risulta da Diogene Laerzio, IX, 107, e da Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 19, 4 - che il bene, non avendo una sua essenzialità, consiste in uno stato d'animo dovuto alla sospensione del giudizio (Diogene Laerzio, cit.), che determina un certo piacere (Aristocle, cit.). Ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza della realtà (tanto è possibile dire che il fondo della realtà è costituito di atomi, quanto dire che, al limite, sono da porre una materia passiva e un principio attivo), ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza dd Bene, teoreticamente è da sospendere ogni giudizio sulla realtà e sul bene, cercando, piu umilmente, di non ingannare se stessi e gli altri, riconducendo l'indagine sul piano umano, entro i limiti del mondo e del linguaggio umani. Le conclusioni di Enesidemo tendono a mostrare non tanto che l'una o l'altra concezione filosofica è falsa, ché, allora, si sarebbe dovuto delineare quale fosse la " verità, • ma che tutte le concezioni si dimostrano alla fine indimostrabili, cioè non giudicabili e perciò stesso senza senso, assurde, contraddittorie, qualora pretendano d'imporsi, l'una o l'altra, come "verità," e, quindi, su questo piano, inutili. Certo, entro questo quadro, è difficile vedere come Enesidemo abbia potuto affermare che l"' indirizzo scettico è una via che conduce alla filosofia eraclitea, in quanto," commenta Sesto, "l'apparire dei fatti contrari circa lo stesso oggetto precede l'esistere di fatti contrari circa lo stesso oggetto, e gli Scettici dicono, appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso oggetto, mentre gli Eraclitei, partendo dall'appru;:ire, arrivano anche alloro esistere" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 210). Sesto, e si capisce, vede in questo una contraddizione da parte di Enesidemo ed esclude assolutamente che una posizione scettica p<)ssa sfociare in una posizione di tipo eracliteo, che, proprio perché pone a fondamento dell'essere il divenire e i contrari, è anch'essa una posizione definitoria di una realtà non fenomenica e perciò è una posizione dogmatica. Né Fozio, che riassume i Discorsi pirroniani, né Diogene Laerzio, né Aristocle accennano a una fase eraclitea del pensiero di Enesidemo. Di una posizione dogmatica di Enesidemo (l'anima separata dal corpo e in esso infusa dopo la nascita, in senso stoico) parla Tertulliano (De anima, 25). Certo un riflesso dell'eraclitismo scettico si trova in Filone l'Ebreo, che sfrutta l'argomento dell'eraclitismo in funzione scettica, ricavandolo, sembra, da Enesidemo. In realtà, di un presunto eraclitismo di Enesidemo parla solo Sesto, che, nel testo sopra citato, dice solo che secondo Enesidemo l'indirizzo scettico poteva ribaltarsi in una posizione dogmatica di tipo eracliteo, trovandovi un pro-
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prio fondamento ontico, e questo sembrerebbe avvenuto piu che in Enesidemo nei seguaci di Enesidemo ("se arrivassero all'asserzione che intorno allo stesso oggetto esistono fatti contrari, partendo da qualcuna delle espressioni scettiche, per esempio 'nessuna cosa si può comprendere,' oppure, 'niente do per certo,' potrebbe essere vera la conclusione dei seguaci di Enesidemo. Solo che... ": Sesto Emp., Py"h. hyp., l, 211). Tuttavia Sesto, in altri testi, anche se. per incidenza, dice come propria di Enesidemo una o altra tesi eraclitea (si veda, ad esempio, A.dv. math., V, 349-50: "segaendo Eraclito, Enesidemo affermava che la dianoia è fuori del corpo"; A.dv. math., X, 216-217: "seguendo Eraclito Enesidemo disse che il tempo è corpo ... Cosi nella Prima Introduzione ... "; A.dv. math., X, 233: "Enesidemo dice che per Eraclito l'essere è aria"; cfr. anche IX, 337; VIII, 8), alcune delle quali risultano però piu vicine allo stoicismo ·che all'eraclitismo, altre come piu proprie dei seguaci di Enesidemo. D'altra parte lo stesso Sesto non discute quelle tesi eraclitee come facenti parte dì un sol corpo di pensiero, ma, dicevamo, incidentalmente, come testimonianze di quello che poteva essere l'eraclitismo di Enesidemo. Non solo, ma Sesto non dice mai che quelle tesi eraclitee fossero svolte da Enesidemo nei Discorsi pi"oniani, mentre una volta accenna a un'altra opera di Enesidemo, per noi perduta, la Prima Introduzione. Tutto ciò ha dato l'avviò a una lunga discussione sull'eraclitismo eli Enesidemo e a una molteplicità di ipotesi. C'è chi ha sostenuto che lo scetticismo di Enesidemo sarebbe sfociato in una posizione dogmatica di tipo eracliteo, o ch'egli avrebbe trovato nell'eraclitismo il fondamento dello scetticismo, e c'è chi ha sostenuto che Enesidemo sia passato da una prima fase eraclitea, anch'essa rivelataglisi dogmatica a. una seconda fase accademica, per giungere infine a un accentuatC] scetticismo, alla "sospensione" definitiva, riallacciandosi alla posizione carneadiana. Certo, quest'ultima ipotesi (Sesto nelle lpotiposi pi"oniane, l, 210, non dice affatto che Enesidemo sia passato dallo scetticismo all'eraclitismo: cfr. sopra), sostenuta dal Dal Pra (op. cit., pp. 314-330, al quale rimandiamo anche per la minuta esposizione e discussione delle varie ipotesi sostenute: dal Saisset, allo Zeller, al Diels, al Pappenheim, all'Arnim, allo Hirzel, al Natorp, al Patrick, al Goedeckemeyer, al Brochard, al Capone-Braga), è, forse, la piu probante. In effetto nulla vieta di pensare che certe tesi eraclitee siano state accettate da Enesidemo non nei Discorsi pi"oniani, ma in altra opera, come appare da Sesto, la quale potrebbe essere stata composta da Enesidemo in età giovanile. A parte l'episodio dell'eraclitismo, sembra; in realtà, ch'Enesidemo, nella sua polemica nei confronti dei " dogmatici," abbia raccolto e siste-
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mato gli argomenti e i tròpi già delineatisi attraverso l'esposizione che della "sospensione del giudizio" aveva offerto Clitomaco, il discepolo di Carneade, andando sino in fondo, cioè evitando - per non cadere nel possibile dogmatismo della nuova Accademia - il "probabile" e l'" ipotesi"; o l'opzione, per rendere possibile l'azione e il discorso, di una qualche opinione, fondata sul criterio della "probabilità" (dr. s
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Lo scetticismo esplica il suo valore nd contrapporre i fenomeni c le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospensione del giudizio, quindi, all'imperturbabilità (Py"h: hypot., I, 8).
Di Zeucsis fu, a sua volta, seguace Antioco di Laodicea e di lui un certo Apelle che avrebbe composto un libro, intitolato Agrippa (" Apdle, nd suo Agrippa, e Antioco di Laodicea, pongono solo i fenomeni": Diogene Laerzio, IX, 106). Sappiamo inoltre che la fonte da cui attinge Diogene Laerzio, per ricostruire il pensiero di Timone di Fliunte, fu il grammatico Apollonide di Nicea (dr. Diogene L., IX, 109), che compose un commento ai SiUi di Timone dedicato all'imperatore Tiberio. Anche questa è una notizia interessante, che dimostra la diffusione del rinnovato scetticismo sul principio dd I secolo d. C. e che può essere indicativa dd periodo in cui vissero e operarono i seguaci di Enesidemo. Come sembra (dr. A. Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen S!(eptizismus, Lipsia, 1905, p. 137; anche Dal Pra, op. at., p. 333), Zeucsis e Antioco di Laodicea furono contemporanei di Apollonide di Nicea; infatti, da un lato, Diogene Laerzio (IX, 116) subito dopo Antioco cita Apelle autore di un'opera su Agrippa, e dice che seguace di Antioco di Laodicea fu Menodoto di Nicomedia, che, medico, rifacendosi allo scetticismo dette un fondamento scientifico e metodico alla medicina, in un atteggiamento strettamente empirico, riallacciandosi ai medici della tradizione empirica, vissuti, appunto, nel I secolo d. C., e dall'altro lato sappiamo anche che Menodoto visse tra 1'80 d.C. e il 150 circa. Cosi, evidentemente, Apelle dovrebbe avere scritto la sua opera entro queste date, per cui dovremmo, anche se approssimativamente, collocare l'attività di Agrippa (già noto e che deve avere avuto un'importanza di primo piano sul rinnovato scetticismo, se Apelle dedicò al suo pensiero un'opera) sulla metà del I secolo d. C. Sesto Empirico non cita mai il nome di Agrippa, anche se ne riferisce i cinque tropi, che sappiamo essere stati da lui formulati attraverso quanto ne dice Diogene Laerzio (IX, 88-89), che, per altro, attinge nell'esposizione dei cinque tropi, a Sesto Empirico. In realtà Agrippa - ddla cui vita, nascita, luogo di origine, insegnamento, nulla sappiamo - non avrebbe aggiunto niente di nuovo alle linee fondamentali dell'atteggiamento scettico che tra Enesidemo e Agrippa si venne ordinando e, soprattutto, si venne costituendo in un appello alla criticità della ricerca, in un netto rifiuto della filosofia intesa come concezione universale, in una programmatica indagine mediante cui la filosofia viene intesa come metodologia delle condizioni che permettono un possibile sapere. Sotto questo aspetto si capisce perché Sesto, pur esponendo
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i cinque modi di Agrippa, o meglio delineando i momenti mediante cui si sono venuti istituendo gli argomenti principali della posizione metodologica, non faccia il nome di Agrippa, e parli, invece, di scettici piu "recenti" rispetto ai "piu antichi," delineando l'arco entro il quale, da Enesidemo ad Agrippa, lo scetticismo ha assunto la sua fisionomia di empirismo critico-logico. I. cinque tropi di Agrippa prendono, in tal senso, un particolare rilievo, ché, con estrema chiarezza, riassumono e sistemano tutto il lavorio di precisazione dei modi con cui rimettere in discussione le conclusioni di una concezione, frutto di tutta una cultura e di una tradizione, con cui rimettere in discussione ogni soluzione metafisica. "Tali modi gli Scettici piu recenti espongono, non già perché respingano i dieci, ma per confutare, con maggior verità, con questi e con quelli, la temerità dei dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., 1,177). Gli Scettici piu recenti tramandano questi cinque modi della sospensione del giudizio: l) quello che dipende dalla discordanza; 2) quello che rimanda all'infinito; 3) quello che dipende dalla relazione; 4) l'ipotetico; 5) il diallele. · Il modo che dipende dalla discordanza è quello per cui troviamo che intorno a una cosa proposta esiste una discordia insolubile, nella vita e nei filosofi; onde, non essendo in grado né di preferire né di resping::re nessuna opinione, finiamo col sospendere il giudizio. Il modo per il quale si cade nell'infinito, è quello in cui ciò che si reca a prova della cosa proposta, noi diciamo che ha bisogno, a sua volta, di prova, e questo~ a sua volta, di un'altra prova, all'infinito; si che non avendo noi da dove cominciare un'argomentazione, ne consegue la sospensione del giudizio. Il modo che dipende dalla relazione ... è quello in cui diciamo che l'oggetto ci appare cosi o cosi, in rapporto al giudicante e al resto che insieme con esso oggetto viene. percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale esso sia realmente. Si ha il modo ipotetico, quando i dogrp.atici, rimandati all'infinito, cominciano da qualche cosa che essi non concludono per via di argomentazione, ma pretendono di assumere, cosi semplicemente, senza dimostrazione, per una concessione. Nasce il diallele, quando ciò che deve confermare la cosa cercata, ha bisogno, a sua volta, di essere provato dalla cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere l'altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue (Sesto J!.mpirico, Py"h. hypot., I, 164-169).
Il commento piu pertinente sui cinque tropi di Agrippa è quello di Sesto Empirico, che merita il conto di riportare, insieme ai due tropi che Sesto dice elaborazione ultima dovuta sempre agli ~cettici piu recenti. Dice, dunque, il testo relativamente ai cinque tropi:
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Che ogni ricerca si possa ricondUrre a questi tropi, lo dimostreremo brevemente cosi. La cosa proposta o è sensibile o è intelligibile: qualunque essa sia, v'è intorno ad essa discordanza. Infatti alcuni afferJBjllO che solo il sensibile è vero, altri, solo l'intelligibile, altri, in parte il "Sensibile, in parte l'intelligibile. Ora che si dice? che questa discordanza è solubile o insolubile? Se insolubile, affermiamo che bisogna sospendere il giudizio, ché intorno a ciò in cui v'è insolubile dissenso, è impossibile pronunciarsi. Se solubile, domandiamo sulla bl!se di che si risolverà. Cosi, per esempio, il sensibile... si giudicherà sulla base di un sensibile o di un intelligibile? Se sulla base di un sensibile, poiché appunto la nostra ricercà verte sui sensibili, anche questo avrà bisogno di altra cosa che lo comprovi. Se anche questa è seJ:lSibile, a sua volta, essa pure avrà bisogno di un'altra cosa che la comprovi, e cosi all'infinito. Che se il sensibile dovrà essere giudicato sulla base di un intelligibile, poiché anche sugl'intelligibili vi è discordanza, anche questo intelligibile avrà bisogno di giudiziQ e Ji prova. E sulla base di che sarà provato? Se sulla base di un intelligibile, si ricadrà, ugualmente, nell'infinito; se sulla base di un sensibile, poiché a prova di un sensibile è stato assunto un intelligibile, e a prova di Wl intelligibile è stato assunto un sensibile, si induce il diallele. Se, poi, colui che con noi disputa, per fuggire questa difficoltà, credesse di assumere, per concessione, e senza dimostrazione, qualche cosa, a dimostrazione di ciò che segue, farà capo al modo ipotetico, che non può dare risultato. E invero, se colui che suppone merita fede, noi, anche, supponendo il contrario, non saremo meno degni di fede. Se, poi, colui che suppone, suppone qualche cosa di vero, lo renderà sospetto assumendolo per ipotesi, senza accompagnarlo con una argomentazione; se qualche cosa di falso, il puntello dell'argomentazione sarà marcio. Che se il supporre giova in qualche modo per provare, supponga egli senz'altro ciò che è oggetto dell'indagine, e nòn qualche altra cosa, per mezzo della quale·· argomenti quello su cui vette il discorso. Se; invece, è assurdo supporre quello che è oggetto d'in· dagine, sarà assurdo supporre, anche, ciò che lo trascende. Che poi tutti i sensibili siano, anche, relativi, è chiaro: sono, infatti, relativi al senziente. Dunque, è manifesto che qualunque cosa sensibile ci sia proposta, è facile ricondurla ai cinque modi. Alla stessa maniera si ragiona per l'intelligibile. Se si dice che la discordanza è irrisolvibile, ci si concederà che bisogna sospendere su di essa il giudizio. Se si tenterà di risolverla, e lo si farà in base a un intelligibile, spingeremo il ragionamento all'infinito; se in base a t:n sensibile, al diallele: poiché essendo, a sua volta, il sensibile oggetto di discordanza, né potendo esso in base· a un sensibile venir giudicato (ché, per tal modo, si cadrebbe nell'infinito), avrà bisogno di un intelligibile, come l'intelligibile di un sensibile. Chi, poi, in conseguenza di ciò, assumesse qualche cosa per ipotesi, metterà, nuovamente, capo all'assurdo. Ma anche relativi sono gl'intelligibili: ché si dicono intelligibili relativamente all'intelligenza, e se fossero, in realtà, tali, quali si dicono, non ci sarebbe discordanza di opinioni. Dunque anche l'intelligibile è
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stato ricondotto ai cinque modi. Perciò è necessario che assolutamente si sospenda il giudizio intorno alla cosa proposta ... Tramandano anche due altri modi di sospensione. Perché, tutto ciò che si comprende, o pare essere compreso di per sé, o si comprende in base ad altro... Ora, che nulla si comprenda di per sé, dicono evidente dal disaccordo tra i fisici su tutte le cose sensibili e intelligibili: disaccordo indirimibile, non potendo noi valerci di criterio, né sensibile né intelligibile, per essere ciascuno, quale che pigliamo, non degno di fede, perché controverso. Perciò neppure da altro ammettono che si possa comprendere alcunché. Ché se l'altro, da cui si comprenda, abbisognerà sempre d'essere compreso da altro, si mette capo al diallele o all'infinito; se invece si volesse assumere alcunché come compreso di ·per sé, e da esso comprendere un altro, s'oppone il non poter nulla comprendersi di per sé, per le ragioni già dette (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 169-179). "Agrippa," scrive il Dal Pra, "nei confronti di Enesidemo, presta meno attenzione agli aspetti analitici della discordanza ed ha una maggiore preoccupazione sistematica; egli è mosso principalmente da un intendimento di sintesi e, si direbbe, di deduzione. Muove dalla ricerca delle maniere tipiche fondamentali in cui può tentarsi la fondazione di un sistema dogmatico, nel tentativo non soltanto di abbracciare nella sua critica il maggior numero possibile di posizioni dogmatiche storicamente definite, ma anche di includere quelle future e possibili. La sistematica della sospensione insomma obbedisce in Agrippa a criteri molto piu rigorosi e universali che non in Enesidemo. Agrippa ha anche conservato qualche cosa dei tropi di Enesidemo; ha infatti considerato la questione della discordanza esistente sia nella filosofia che nella vita (tropo primo da raffrontare col secondo di Enesidemo) come anche la questione della relatività (tropo terzo da raffrontare con l'ottavo di Enesidemo); già nella formulazione di questi tropi appare la maggiore vigoria di Agrippa, la maggiore incisività e comprensività della sua delineazione; entrambi i motivi conservati sono tali che di fronte ad essi si può essere già indotti alla sospensione; ma siamo qui soltanto ad un primo passo della considerazione sistematica della sospensione; bisogna vedere come i dogmatici, superando questo punto, si accingano alla costruzione dei loro sistemi e quali tipi di giustificazione essi siano soliti addurre di essi; bisogna vedere, anzi, in quante diverse maniere sia possibile a un dogmatico tentare la giustificazione del suo sistema. Ora queste maniere, secondo Agrippa, sono tre: o una giustificazione che risultando apparentemente autonoma, finisce per svolgersi in due direzioni: o verso un processo all'infinito o verso una ipotesi iniziale; oppure una giustificazione che, rinunciando all'autonomia, ricorre alla eteronomia, aprendosi inesorabilmente verso_ il dial-
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lde. Se pertanto il dogmatico non vorrà accogliere il rilievo degli infiniti contrasti che si verificano nella filosofia e ndla vita, e vorrà procedere oltre, si troverà nella necessità di avviarsi per una di queste tre strade: processo all'infinito, ipotesi gratuita, diallde; ed ognuna di queste tre strade conduce alla sospensione dd giudizio. In tal modo Agrippa ha abbozzato una sistemazione delle condizioni formali del dogmatismo, in termini non empirici, ma universali. La paJ;"te forse piu importante dd suo discorso è quella che mostra il dogmatico, diremo cosi, in azione, alla ricerca della strada su cui fondare il suo sistema: la pri!Da tappa è costituita dal riconoscimento eventuale che il contrasto, da cui si muove, non è dirimibile; la seconda tappa è costituita dal tentativo di fondare il sensibile sul sensibile e l'intelligibile sull'intelligibile (processo all'infinito per la sostanziale omogeneità dei termini su cui si vorrebbe costruire la prova); la terza tappa è data dal tentativo di fondare il sensibile sull'intelligibile e l'intelligibile sul sensibile (di allele ed eterogeneità dei termini su ~ui si vorrebbe giocare per la prova); la quarta tappa finalmente è data dal tentativo di uscire sia dal processo di rinvio omogeneo, sia da quello a. diallele, mediante l'assunzione, senza dimostrazione di una ipotesi; e questa quarta tappa si ricongiunge alla prima, in un circolo dal ·quale il dogmatico non ha via di uscita. Agrippa ha pertanto articolato la sua sfiducia nella costruzione dogmatica, prospettando tutte le forme fondamentali in cui essa poteva organiizarsi; tale sfiducia si è venuta cosi differenziando ed è diventata rispettivamente: affermazione del contrasto, vanità dell'allargamento su terreno omogeneo a sfere sempre piu larghe d'un'affermazione che, allargandosi, non perde la sua arbitrarietà; vanità del cosiddetto processo logico o dimostrativo, con la persuasione che esso non è mai altro che un circolo, senza alcun progresso possibile; vanìtà dell'evidenza e sua relatività. L'istanza critica espressa in questi termini da .Agrippa risulta dunque piu ampia, pi6 forte, pi6 .organica e precisa di quella espressa da Enesidemo; Agrippa è riuscito a staccarsi con maggior sicurezza dalla considerazione contingente; di questa o quella posizione dogmatica, per inv.::stire pi6 direttamente il dogmatismo nella sua generalità" (op. cit., pp.. 339-41). Di non poca importanza è poi ricordare che, entro i termini Enesidemo-Agrippa (seconda metà del I secolo a. C., prima metà del I d. C.), 1'indirizzo scettico che si viene costituendo in metodo, si incontra con l'indirizzo della medicina empirica. Certamente separati in principio (l'indirizzo medico teorico e l'indirizzo medico empirico, in contrasto tra di loro, risalgono a Ippocrate: sappiamo già il significato filosofico e metodologico che la medicina assunse proprio dai tempi di lppocrate: cfr. I vol.). Probabilmente la denominazione • medici teorici" (loghil(6t), 200
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risale a un'opera in sei libri del medico Eraclide di Taranto, del I secolo a. C., intitolata La scuola empirica. Eraclide di Taranto, che fu discepolo di T olomeo di Cirene, con il quale, sembra, si sia, di contro all'Accademia, restaurato l'originario pirronismo, avrebbe metodologicamente fondato l'indirizzo empirico della medicina, rifacendosi a Filino di Cos (metà del III sec. a. C.), Serapione di Alessandria (fine del III, inizio del n a. C.), Glaucia di Taranto e Apollonio il Vecchio (n sec. a. C.) (dr. I vol.). Serapione - scrive Celso - primo fra tutti professò che la medicina non ha nulla a che fare con la scienza razionale, ponendola soltanto nella pratica e nelle scienze sperimentali... Coloro che prendono il nome di empirici, a motivo dell'esperienza, tengono conto delle cagioni manifeste, come necessarie; e però sostengono essere ozioso disputare intorno alle cause occulte e alle funzioni •naturali, essendo la natUra incomprensibile. Non potersi poi comprendere è chiaro per le discordi opinioni di coloro che ne hanno discorso, non avendosi potuto ottenere consenso in tale questione, né tra filosofi, né tra gli stessi medici. Se si considerano le ragioni, tutte possono sembrare probabili; se si considera la cura, ciascuno vanta le sue guarigioni: non è perciò possibile negar fede alla disputa o all'autorità di alcuno (Celso, De re medica, l, proemio).
Anche se non possiamo dire se l'Eraclide, maestro di Enesidemo, di cui parla Diogene Laerzio (IX, 116), sia Eraclide di Taranto, certo è che dopo Eraclide ed Enesidemo l'indirizzo scettico e l'indirizzo della medicina empirica s'influenzarono vicendevolmente, finché con Menodoto i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scientifica. Sappiamo che dopo Eraclide di Taranto, proseguirono sulla sua linea, durante la prima metà del 1 secolo d. C., Diodoro che compose un'opera intitolata Questioni empiriche, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonio di Cizio e un certo Zeucsis. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, Parigi, 1944, p. 188; anche Dal Pra, op. cit., pp. 354 sgg.), tenendo presente il sunto che dell'opera intitolata Dictyaca di Dionigi di Egea, vissuto sulla fine del 1 secolo d. C., offre Fozio (Myriobiblion, 211, 168b, sgg.), in cui "dialetticamente," d4:e Fozio; su di una stessa: questione di medicina si avanzano cinquanta argomenti pro e contra, e ricordando che Diogene Laerzio nell'elenco dei seguaci di Enesidemo (IX, 106, 116) pone uno Zeucsis, detto dai "piedi a squadra" (goni6pus), dicendolo autore di un'opera intitolata Duplici discorsi, in cui evidentemente si mettevano in discussione varie opinioni con il metodo dei pro e dei contra, suppone che lo Zeucsis medico sia da identificare con lo Zeucsis scettico. Non sapremmo certo dire. Certo è che la vicinanza tra medici empirici e indi-
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rizzo scettico, senza dubbio chiarissima in Menodoto, è indicativa dell'atteggiamento metodologico assunto nel I secolo d. C. dallo scetticismo, di contro alla filosofia verbosa, in una precisazione di quelli che sono i limiti e le possibilità della ricerca, che non può non svolgersi, per essere utile e scientificamente valida, sç non sul piano umano, nella determinazione di nessi e rapporti che si possono cogliere solo entro i termini dei "segni rammemorativi," ragionando sui dati dell'esperienza, donde i tre punti fondamentali del metodo empirico della medicina, del resto già presenti nel tripode empirico di Serapione di Alessandria: autopsia (osservazioni e ricerche del medico fatte in persona), historie (raccolta sistematica delle osservazioni fatte ~a altri medici), mimesi o, se vogliamo, semiotica (dall'un segno di una malattia, simile ad altro segno, determinare volta per volta il quadro clinico della malattia e il rimedio pratico da adottare), indipendentemente dallà ricerca di cause fondate sù concezioni generali e filosofiche (su cui si fondavano i medici dogmatici), per cui poteva servire la polemica e l'appello all'autonomia del discorso scientifico, mai chiuso in una dottrina definitiva, sempre aperto a nuova ricerca (sképsis), delineati dall'indirizzo del neo-scetticismo, che, pur per polemica rifacendosi al primo scetticismo di Pirrone e di Timone, assume di fronte alla cultura quale si era venuta configurando tra la fine del I secolo a. C. e il principio del I d. C~ ben altro atteggiamento piu strettamente logico-metodologico. La conclusione sull'insignificanza e l'illogicità di qualsiasi discorso, che voglia significare il discorso del reale (quale ch'esso si creda dimostrare che sia), poneva in· crisi tutta una cultura acquisita, la fiducia nei risultati di certe scienze (fisica, astronomia) e perciò stesso i fondamenti di un'educazione enciclopedica; si rivelava, inoltre, la presunzione di poter stabilire quella stessa educazione su basi precostituite, in un passaggio gratuito dal logico all'ontico, richiamando ad una consapevolezza critica che spezzasse ogni istituzionalizzazione del sapere. Certo, pur discusse criticamente le possibilità umane di cogliere (di là da ciò che si presenta nella rappresentazione dei sensi e della ragione e in ciò che mediante l'attività soggettiva si viene costruendo) l'essenza delle cose e la ragion d'essere del tutto, il discorso. della realtà, negato che sul piano ontologico si possa dire il "vero," che perciò non esistono né il vero né la verità, proprio nella negazione di un qualsiasi passaggio dal logico all'ontico, restava fissata e presupposta l'esistenza di una realtà, ignota e oscura, oltre le possibilità dell'umano discorso e dell'umana comprensione, ma senza dubbio essa, in quanto realtà, se. afferrabile, fondamento della verità e della condotta della vita. Si sarebbe potuto, sul piano scettico, andare piu in là: una cosa è giun-
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gere a negare la possibile conoscenza della realtà (il· che presuppone già una realtà : materia, anima, Dio), altra cosa, non presupponendo alcuna realtà, vedere come si pongono, discorrendo, le realtà. In altri termini, giunti alla sospensione del giudizio sulla realtà, si sarebbe potuto, rovesciando il discorso, fermi restando gli argomenti scettici nei confronti del dogmatismo, vedere come si costituisce la realtà attraverso il giudizio stesso, come, attraverso il giudizio, e la storia dd giudizio, si costituisce questa o quella fisica, questa o quella matematica, questa o quella condotta di vita: non vere se si presuppone una realtà - sia pur ignota e acatalettica, - vere se si possono vedere, nel tempo, come costruzioni, in cui si annulla la dualità soggetto-oggetto. Di fatto ciò non avvenne. Di. fatto il richiamo, fondamentale, dello scetticismo a una piu approfondita consapevolezza critica, si risolveva, nelle sue conclusioni estreme, da un lato in un'esatta dimostrazione che ogni pretesa filosofica a significare la realtà è un non-giudizio, una proposizione senza senso, dall'altro lato in una assoluta "sospensio~e dd giudizio," ché, accantonando la realtà (e perciò presupponendola) e negando verità e significanza a ogni giud,izio - proprio perché ritenuto sul piano della realtà, - portava alla negazione di qualsivoglia "fisica" o di qualsivoglia ipotesi che potesse rendere pensabile e costruibile la realtà (donde .anche la critica al cosiddetto dogmatismo dell'ipotesi epicurea), .e; per le stesse ragioni, l'accantonamento, nell'imperturbabilità, raggiunta appunto con la "sospensione del giudizio," di ogni tipo dì condotta morale, onde l'accettazione, in una rinnovatasi pigra ratio, di qualsiasi costume storicamente determinatosi ("lo scettico, senza preconcetti dogmatici si attiene all'osservanza della vita comune, e, perciò, nelle cose opinabili si mantiene impassibile, e in quelle che sono di necessità mediocremente patisce": Sesto Empirico, Py"h. hypot., III, 235). Tutto ciò non solo dimostra l'influenza del neoscetticismo, ma sembra anche spiegare in che senso, accantonata appunto la pretesa di cogliere mediante i sensi o la ragione l'essenza della realtà e la verità, ma sempre presupposta la realtà, si tentino altre vie che possano giustificare la presenza di quella realtà umanamente ignota e nascosta, che permettano, anche se su altro piano, di cogliere quella realtà, o di esserne còlti; la realtà allora, sciolta da ogni razionalità, poteva benissimo essere intesa come assoluta trascendenza, oltre i sensi e la ragione, essa stessa fonte di razionalità, o come assoluta libertà e perciò assoluta persona, e su essa e per essa conformare la propria condotta· di vita (di qui il prevalere dell'esperienza detta religiosa). D'altra parte, le possibili vie imboccate, a cominciare da quella assunta da Filone l'Ebreo, che ebbe poi grandissi1,11a influenza, non si possono vedere bene,
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se non si tenga presente anche la storia di Roma e dei paesi assoggettati a Roma, particolarmente dalla morte di Tiberio (!/ d. C.) ìn poi, soprattutto per ciò che riguarda la pOlitica individuale e assolutistica dei singoli imperatori e la situazione sociale, o, gia prima con Filone l'Ebreo, la situazione storica in cui, con l'avvento dell'Impero, s'era trovato; in Alessandria, n· "popolo ebreo. •
3. Filone l'Ebreo e la nuova concezione di Dio In Filone, abbiamo veduto, il discorso .si rovescia. Né la sensazione né l'intelletto possono spiegare se stessi. Anzi, su tale piano, dobbiamo giungere alla "sospensione del giudizio." Non si può, scettiC31Dente, né affermare né negare la realtà (si può negare la possibilità di cogliere il "vero" e la "verità"), ché la negazione implicherebbe una teoria da opporre. Nulla vieta, dunque, ammessa l'esistenza della realtà, èh'essa, ignota teoreticamente e inesprimibile discorsivamente, disancorata dalla pretesa che sia razionale, cioè corrispondente alla razionalità umana, sia, appunto perciò, assoluta, cioè sciolta da ogni limite, e, dunque, oltre ciò che appare, oltre ogni rappresentazione e discorso, trascendente: oltre la realtà. Proprio qui si opera il rovesciamento filoniano, entro i termini di uria certa interpretazione della Bibbia. Portata all'estrema conseguenza l'istanza scettica, qualora si rimanga sul piano umano, nulla vieta di sostenere che la certezza di una verità, di là dalle possibilità umane, sia dovuta alla stessa Verità. Posto, in altri termini, che l'uomo è incapace di cogliere umanamente il vèro, il suo stesso desiderio di coglierlo non sarebbe senza l'intervento dello stesso vero (Dio), cioè senza la presenza di Dio come assenza, in cui consiste la rivelazione, dalla quale e per l;a quale, in un atto di fede, che è un'esperienza tutta. singolare (" sarebbè impossibile che uno cogliesse da sé l'Essere vero,·· se questo non gli si manifèstasse e mostrasse": De Abrahamo, 180; "ama, nei rapiti da Dio (.&e;ocpop-lj-ro~c;),non solo l'anima eccitarsi e quasi entrare in furore, ma anche il corpo arrossire e infiammarsi ..., onde molti... credono ebbri gli uomini piu saggi": De ebrietate, 147), assume significato la stessa ricerca, la stessa filosofia, intesa come strumento. Non solo, ma, da un lato, ritrova un suo fondamento il discorso platonico (particolarmente il motivo dell'essere oltre l'essere, come bene e fondamento dell'ordine del tutto, cui si giunga mediante· l'occhio dell'ip.telletto, intuitivamente, e il motivo dell'ordine e della razionalità del cosmo costituito a . Ì{Ilmagine della dialettica ragion
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d'essere del tutto: Pedone, Repubblica, Timeo, Leggi, Epinomide), e, dall'altro lato, il motivo stoico, una volta passati dall'atto con cui mediante Dio si è costituito l'universo, alla struttura del tutto, dello scandirsi del tutto stesso, i cui gradi sono momenti con cui si rivela il L&gos divino (si cfr. Cleante e anche Posidonio). E ancora, già assunta per fede l'esistenza di Dio, in un atto di rivelazione da parte di Dio stesso, d'onde il tutto vien fuori, altro da Dio, in un rapporto simile a quello tra il poeta e l'opera sua, riprende significato attraverso la lettura della parola di Dio nei Sacri Libri, la lettura dell'opera di Dio in quella parola di Dio che sono i 'cieli con le loro leggi e il loro ordine, il mondo, per mezzo di cui si risale alla visione di Dio, senza il cui gratuito intervento, tuttavia, la stessa ascesa sarebbe impossibile. Vi sono a tal proposito due testi di Filone assai significativi: l'uno molto platonico - Filone, anzi, si rifà a un testo preciso del Timeo, 90 a sgg., 91 e di Platone, sul perché l'uomo abbia la testa volta verso il cielo e la mente in armonia con le eterne rivoluzioni delle stelle, di contro alle piante e agli altri animali la cui testa è volta verso la terra l'altro molto stoico nella definizione della sapienza, definizione che è un calco di un testo, che sembra di Cleante, divenuto un t&pos; ma l'uno e l'altro testo rivelano un'interpretazione del rapporto Dio e mondo, Dio e uomo, e un'interpretazione della sapienza rovesciate rispetto alle posizioni platonica e stoica, riprese· qui come strumenti utili a chiarire un contenuto nuovo. Scrive Filone nel primo testo: Non stiamo piu in dubbio, noi, i discepoli di Mosè, sul modo con cui l'uomo ha concepito l'idea di Dio invisibile, ché lo stesso Mosè, istruito da un oracolo divino, ci ha indicato la via.Egli dice che il FattOre( 7tOLW'11) non ha legato al corpo un'anima capace da se stessa di vedere il poieta, nia, come Dio, affermava essere molto giovevole alla propria opera ll'uomu J .ii concepire una qualche idea di colui che l'ha fatto - e proprio questo determina la felicità e la beatitudine, - egli ha inviato dall'alto un soffio della propria deità (&11Cù-&'11 èvmEt Tijç t3(ou &et6nJ-roç). L'invisibile divinità ha, dunque, impresso nell'anima invisibile il sigillo di se stessa, sf dìe la medesima regione terrestre non rimanesse senza un'immagine di Dio. Certo l'archetipo è a, .tal punto invisibile che anche l'immagine è invisibile: comunque, pòiché ·ha ricevuto l'impronta del modello i concetti che concepisce non sono piu mortali, ma immortali (Quod deterius poiiori insidiari soleat, 86, 7).
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Per Platone l'anima, anche Se m1t1camente caduta, ha in sé la capacità, liberandosi dalla dispersione e dalla unilateralità in cui la irre" tiscono i dati immediati. della. Sensibilità, di cogliere la ragion d'essere
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del tutto, ripercorrendo la struttura del tutto in cui si scandisce la stessa ragione che non è qualcuno (una persona), ma appunto la stessa ragione, che, in quanto tale, non essendo alcuno degli aspetti, ma la legge per cui quegli aspetti si ordinano come è bene, trascende tutti gli aspetti ed è, ad un tempo, insieme a tutti; essa perciò si .coglie intuitivamente, permettendo cosi all'uomo di ripercorrere il tutto e di ricostituirne l'unità (si ricordi particolarmente l'ultima fase del pensiero platonico). Per Filone, invece, l'anima non ha in sé la capacità di cogliere il divino e di ripercorrerne nell'universo le impronte, se Dio stesso, dall'alto, non le avesse inviato un soffio della propria divinità ("senza la grazia divina è impossibile abbandonare le cose mortali o mantenersi per sempre tra le immortali " : De ebrietate, 145). In tal senso il divino filoniano è lontanissimo dal divino platonico. Esso è realmente trascendente, è, cioè, non ragione, legge, unità dialettica, ma qualcuno, p"sona, che con un suo libero atto ha dato luogo e alla legge e alla ragione e al nioado. Perciò Filone, interpretando la Bibbia, poteva dire: "Solo Dio consiste nell'Essere: e perciò egli dice necessariamente di sé: 'lo sono colui che è' [Esodo, 3, 14]" (Quod. det. post. insid. soleat, 160). "Dio non può essere propriamente chiamato che con questo nome, l'Essere" (De somniis, I, 230). "Egli è superiore alla virtu, alla scienza, allo stesso Bene e allo stesso Bello in sé" (De opificio mundi, 8-9). Superiore al Bene, in quanto entità (non a caso Filone dice: in sé), Dio in quanto essere, in quanto di lui non si può dire se non che è colui che è, è il Bene : pienezza di perfezione, Egli stesso è il Bene (cfr. De special. leg., I, 277); "Egli non ha dètermina~ione di qualità" (Legum allegor. l, 51). "Migliore del Bene, piu originario della monade, piu semplice dell'uno: non può quindi essere contemplato da nessuno e solo da se stesso può venir compreso" (De praemiis et poenis, 40). Scrive Filone nel secondo testo cui facevamo cenno: Come lo studio delle scienze nel loro insieme . ( &am:p -rcì b{xuXÀtot) prepara alla filosofia, cosi la filosofia serve da introduzione alla sapienza (aocp(cx), poiché la filosofia è di fondamento all'acquisizione della sapienza, e la sapienza è scienza delle divine e delle umane cose e delle loro cause ( aocp(cx 8' bttv xcxt «v.&pc.>n(vc.>v xcxt -ré:lv -rou-rc.>v cxh(c.>v ). Come, dunque, la cultùra nel suo complesso (b{xuXÀto.; !J.<Watx~) è ancella (8oUÀ1J) della filosofia, cosi la filosofia è ancella della sapienza (cpr.>..oaocp(cx 8oUÀ1J aocp(cx.;). La filosofia serve a dominare la ooncupiscenza e tutto ciò che alla concupiscenza è relativo, serve a dominare la lingua. Tali cose, desiderabili per se stesse, apparirebbero ancora piu degne se avviassero a venerare e a ringraziare Dio. Ecco perché bisogna tenere conto
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della Signora ('t"'ijc; Kuplotc;), allorché stiamo per desiderare le sue ancelle (otù't"'ijc; -rcìc; .&epot7tottvL8otc;). Diamoci pure sposi di esse, ma sia presente a noi quella vera moglie, in silenzio (De congressu eruditionis gratia, 19-80).
• Se la definizione della "sapienza," data qui da Filone, richiama immediatamente la definizione che della sapienza sembra avesse data Cleante (o l (.Ùv o?.iv :E-rotxot lcpotaotv "t7Jv (.Ùv aocp(otv &tvotL .&e(c.>v -re xott civ.&pc.>7tlvc.>v È7tta-r~!J.l)V: "gli Stoici dicevano che la sapienza è scienza delle divine e delle umane cose": Aezio, Plac., I, Proem. 2), se, una volta posto il rapporto Dio-mondo, Dio-uomo, il discorso può essere effettivamente quello stesso degli Stoici o del Platone ultimo, interpretato stoicamente, ciò che piu colpisce in questo testo è un certo linguaggio' (ad esempio la filosofia ancella, la sapienza vera moglie, la passività di fronte alla sapienza), e, particolarmente, il significato diverso che assume qui il concetto di sapienza rispetto al concetto di sapienza proprio della posizione cleantea e platonico-aristotelico-stoica in generale. Se per gli Stoici, attraverso l'esercizio della ragione ("filosofia è l'esercizio dell'arte necessaria alla sapienza": Aezio, Plac., l, Proem. 2), si giunge, sia pur per analogia a porre la condizione d'onde il tutto scaturisce (principio attivo e passivo; di cui l'attivo è Dio, in quanto pneuma caldo, vitale, ragione seminale, l6gos spermatik6s donde tutte le cose assumono la loro ragione: cfr. I vol.), sapienza consiste, appunto, nel ripercorre{e l'astorico processo del divino, del L6gos. Esso come seme ;mico che dal di dentro si espande differenzia la materia nelle singole qualità, per cui ogni cosa diviene quella che è, diversa dall'altra, mai ugu.ale all'alttà, mantenendo comunque il tutto unito nella tensione dei due termini (cfr. Cleante e Crisippo), oppure in un affievolirsi della tensione, si giunge dal l6gos fino ai gradi pio bassi sempre piu privi di l6gos (cfr. Posidonio). E anche se per Platone e per· un certo Aristotele vero sapiente è Dio (la divinità), in quanto ragion d'essere del tutto, in effetto all'uomo, in quanto aspetto di quel tutto, è possibile, mediante l'amore del sapere (filosofia), ripercorrere le trame stesse su cui si scandisce e· si realizza la ragione divina, principio e fine, condizione e scopo della realtà nella sua totalità. Per Filone, invece, solo Dio è sapiente e la ~osofia può avviare alla sapienza delle umane e divine cose solo quarido un lume di sapienza gli è dato gratuitamente da Dio. Solo allora si può, mediante la visione dell'ordine delle cose, dei cieli, e cosi via, mediante le argomentazioni stoiche, platoniche, aristoteliche, avvicinarsi all'idea di Dio, a concepire ch'egli esiste (rendendosi conto di ciò che viene da lui, dopo di lui: "Tu vedrai ciò che è dietro di me, ma non vedrai llr mia faccia [Esodo, 33, 23] ; che vuoi dire: Tutto ciò che viene dopo Dio l'uomo
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buono può apprenderlo ... " : De posteritate Caini, 169), ma non, appunto, a coglierne l'essenza. Il motivo della sapienza filoniana richiama piuttosto, anche se interpretazione della sapienza stoico-platonica, il significato dato a sapienza nell'Ecclesiastico, che da circa il 130 a. C. circolava in greco, che fu composto tra il m e il n secolo a. C., e che certo (come appare da molti accostamenti che si possono fare tra questo testo e i testi filoniani) Filone aveva presente (non va, d'altra parte, scordato, per comprendere certe derivazioni filoniane nella prima formazione della cultura cristiana, che l'Ecclesiastico fu usato nelle prime Chiese cristiane - da qui il nome: prima andava sotto il titolo Sapienza di Gesu figlio di Sirach, il presu!lto autore - per l'istruzione dei catecumeni e dei neofiti). Ogni sapienza viene dal Signore Dio, e fu sempre con lui ed è prima dei secoli. La sabbia del mare, le gocce della pioggia, i giorni del secolo chi li può contare? L'altezza del cielo, l'ampiezza della terra e la profondità dell'abisso chi può misurarle? La sapienza di Dio la quale va avanti a tutte le cose, chi l'ha compresa? Prima di tutte le cose fu creata la sapienza e la prudente intelligenza è da tutti i tempi. Fonte della sapienza è il verbo di Dio nei cieli, e le sue vie sono gli eterni comandamenti. La radice della sapienza a chi fu rivelata? E chi conobbe i suoi disegni? La disciplina della sapienza a· chi fu mai rivelata e manifestata? E chi comprese la molteplicità delle su!:' vie? Solo l'Altissimo Creatore Onnipotente, il re sovrano... Egli l~ creò in Spirito Santo e la vide, e la numerò e la misurò. E la sparse sopra tutte le sue opere e sopra ogni carne, secondo la misura da lui stabilita, e la diede a quelli che lo amano (Ecclesiastico, I, l, 1-10).
Sul concetto di sapienza cosi inteso ruotano i due piani sui quali si muove il pensiero di Filone; Da un lato - entro i termini della interpretazione biblica - la fede in un Dio unico e solo, trascendente, persona, e perciò al di là di ogni qualificazione e denominazione, atto gratuito con cui viene all'uomo il soffio divino; dall'altro lato, posta la rivelazione, la capacità attraverso le scienze e lo studio delle cose, di comprendere l'esistenza di un supremo ordinatore. E se, certo, a questo, come dicevamo, possono servire le argomentazioni degli Stoici, di Platone, di Aristotele, esse, tuttavia, pur consentendo a tutti di giungere a determinare l'esis~enza del divino, non portano a coglierne l'essenza. Di qui la filoso~ ancella della sapienza, cioè della teologia e i due piani su cui si muove Filone, il piano umano che porterà a discorrere di Dio e della struttura dell'universo in un certo senso - che può essere benissimo quello stoico-platonico - e il piano della
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fede che, pur necessaria per il primo discorso, ma d'altra parte da esso illuminata, porterà, in un salto, ad un'altra visione di Dio e del mondo. Difficile è comprendere, difficile afferrare il padre e principe (~ye:j.I.WV) dell'universo ('rwv auj.1.1tMWV ), ma ciò non c'impedisca di ricercarlo. In tale ricerca di Dio, due sono le questioni principali che si presentano all'intelletto del filosofo autentico: innanzi tutto se il divino esiste - problema che si pone a causa di coloro che praticano l'ateismo, il piu grande dei vizi; - in secondo luogo in che consista il divino nella sua essenza (oòmcx). La risposta alla prima questione non implica grande sforzo, mentre difficile, per non dire impossibile, è rispondere alla seconda. Esaminiamo ambedue. Sempre, per natura, si è passati dalle opere prodotte (31J!LLOUpYY)&bncx) alla conoscenza di coloro che le hanno prodotte (37jj.I.LOupy&v ). Chi, infatti, alla vista di statue o pitture, non ha subito la nozione di uno scultore o di un pittore? O chi, vedendo vestiti, navi; case, non ha concepito l'idea di un tessitore, di un costruttore di navi, di un architetto? E se si entra in una città ove ottime sono le leggi (còvoj.l.l«), ove tutto ciò che concerne gli affari pubblici è ammirevolmente amministrato, come sfuggire all'ipotesi che tale città sia retta da buoni governanti? Cosi, dunque, chi entra in questo mondo, che è veramente la grande Città, quando abbia veduto montagne e pianure pullulare di esseri viventi e di piante, corsi di fiumi scaturiti da sorgenti o dovuti alle piogge invernali, vasti mari, climi ben temperati dall'aria, il susseguirsi delle stagioni annuali, il sole e la luna che presiedono al giorno e alla notte, le orbite e le rivoluzioni degli altri astri erranti e fissi nell'intero cielo, non è verosimile, non è necessario che si giunga alla comprensione del fattore e padre, del principe di tutte queste cose? Nessun prodotto dell'arte si genera da sé. Il mondo è l'opera in cui si vede la maggior arte, la maggiore scienza, e quindi esso è stato fatto dal piu saggio, dal migliore degli artigiani. Ecco come abbiamo acquisito la nozione dell'esistenza di Dio (De special. legibus, I, 32-36). Argomentazione vecchia, questa, ove chiaro è il ricordo di Platone (si pensi soprattutto a certe pagine del Timeo, delle Leggi, dell'Epinomide), di alcuni Stoici (si pensi all'Inno a Zcus di Cleante, al Proemio dei Fenomeni di Arato di Soli) e di tutta la religione astrale,' iniziatasi, in Grecia, con Platone, da distinguere dall'altra tradizione di studi sulle leggi che regolano le stelle e i moti stellari che si era delineata, sul piano scientifico, in funzione delle possibili misurazioni. Solo che tutto questo - e per questo Filone poteva recuperare, anche se al di fuori dei loro contesti, le argomentazioni stoiche e platoniche non significa affatto, per Filone, avere afferrato l'essenza di Dio: si pone l'esistenza di un fattore, di una ragion d'essere, ma non la conoscenza di quel che sia quel fattore e quella stessa ragione. Su
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questo piano tutte le ipotesi sono possibili, per cm e necessario, su chi sia Dio e sulle sue ragioni, sospendere teoreticamente ogni giudizio. Si può giungere ipoteticamente a porre l'esistenza di Dio, ma ignoto resta Dio, ignote le sue infinite ragioni (sapienza di Dio). A Filone, ebreo, commentatore dei sacri libri ebraici, ripugnava sia la religione astrale (donde la sua critica contro l'astrolatria caldea, ove ~ da tener presente che per "caldei" s'intendeva ormai astrologhi : cfr. De Abrah., 69-72; De migr. Abrah., 177-181; Quis rerum divinarum heres sit, 97-99; De mutatione nom~nurn, 16), in cui Dio diviene gli astri stessi e la loro stessa necessità, sia la religione del mondo per cui Dio è il mondo medesimo. Tali le conclusioni cUi si può giungere, secondo Fi-. Ione, da una pura contemplazione dell'universo, se non si ·è sorretti dal soffio della sapienza divina che proviene da Dio stesso. L'unica possibilità era l'illogicità (umanamente parlando) di Dio, cioè l'affermazione di un Dio trascendente e persona, indicibile, inafferrabile, il biblico Dio che neppure a Mosè mostra la faccia, unico essere, colui che è, presente solo in quanto rivelazione da parte di Dio stesso del bisogno e del desiderio di lui. Ecco perché la conoscenza di Dio - non la sua presenza - resta desiderio e amore, resta ricerca, per cui, appunto, se purè utile da un lato la contemplazione del tutto per intuire l'esistenza di un supremo fattore, dall'altro lato questa stessa contemplazione è vana, se non si trova Dio in noi, la sua presenza in noi come rivelazione. Alla visione reale [del mondo] succede l'analogia, la congettura, e tutto ciò che rientra nell'àmbito del verosimile e del probabile... Eppure, pur non potendosi avere alcuna visione chiara di Dio in quello che è l'essere suo, non dobbiamo rinunciare alla ricerca, perché la sola ricerca, anche se non lo si trova, è in se stessa cosa felicissima... (De special legibus, I, 38-41 ). Che tu esisti e sussisti, o Dio, questo mondo visibile ce l'ha mostrato come un maestro e una guida... Rivelati a me... Io ardo dal desiderio di sapere ciò che tu sei secondo la tua essenza, e, per questa scienza, non trovo aleuna guida in nessuna parte dell'universo. Te ne supplico, mi rivolgo al tuo augusto nome:· lascia che a te s'innalzi la preghiera di un supplice, di un tuo amico, e che altro non chieda se non di servirti. Come la luce non si lascia discernere che da se stessa ed essa sola dà i mezzi per scoprirla, cos{ anche tu, tu solo hai il potere di parlare di te stesso ... (De spec. legibus, I, 41-42). Dopo essersi aperti una via, a partire dal proprio sé, nella speranza di giungere, per questa strada, a formarsi una nozione del padre dell'universo, diJiicile a comprendere e a indovinare, si _aggiungerà forse alla ·conoscenza esatta di sé quella di Dio... (De migratione Abr., 195). Abbandona alla fine la ricerca delle cose celesti e conosci te stesso... t. un uomo di questo genere che gli Ebrei chiamano Tara, i Greci Socrate, poiché anche lui, secondo i Greci, è invecchiato nella meditazione di questa massima: "Conosci te stesso... " (De somn., I, 57-58).
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I due piani di cui parlavamo sopra si delineano anche come due vie di ricerca: la via fuori di. noi e la via dentro di noi, mediante la quale ultima, attraverso la rivelazione di Dio - donde l'interpretazione platonica del conosci te stesso socratico, e l'interpretazione dell'intuizione platonica in chiave d'illuminazione da parte di Dio, - lo stesso mondo appare come la creatura di Dio, non realtà per sé, esso stesso Dio, non essere nella sua totalità, ma opera di Dio, creatura voluta da Dio. L'impossibilità di concepire Dio, senza ridurlo allo stesso tutto, pone Dio, in una visione interiore, come trascendente e persona, libertà, essere unico, egli creatore (non conoscenza, ma fede), egli ragione della ragione e, perciò, attraverso lui ragione del tutto, ciò da cui proviene, in quanto creatore, la ragione (l6gos) del mondo, che è appunto ill6gos di Dio, il verbo (la sapienza) di Dio; Posta una simile interpretazione di certi testi biblici e in funzione di essa, interpretate nel senso che abbiamo visto le due vie platoniche (la contemplazione del mondo, insieme a quella delle leggi stellari - si cfr. Timeo, Leggi, Epinomide; ma anche molti dei motivi dello stoicismo antico-teologico -; l'abbandono del mondo dei sensi in un socratico-platonico ripiegamento su di sé), sembra chiarirsi il rapporto Dio-mondo qual è descritto da Filone, volta a volta, nei suoi commentari. In realtà, il mondo, per Filone, non è, c'è in quanto creato da Dio; verbo di Dio, dicevamo, non in tanto in quanto sia una irradiazione e realizzazione di Dio che non sarebbe se non appunto rivelando sé (mondo), ma in quanto parola (realtà) di Dio, altro da Dio, proprio in quanto parola. Sotto questo aspetto non è contraddittorio dire ad un tempo che il mondo è Dio e che il mondo non è Dio, che l'essere che è, proprio perché essere, sciolto da ogni limite, è infinite possibilità, in lui tutte in atto (in lui che è oltre l'uno e la monade, oltre il Bene e il Bello in sé) e perciò stesso onnipotente, Signore, che non ha nulla di fronte a sé, e che in quanto potenza assoluta - ricchezza di tutto - crea, ex nihilo, una ragione che diviene la ragione di quella sua creatura, donde si costituisce tutto il resto,. che ~ppunto in quanto creatura non è il suo creatore, ma ha in sé la ragione (quella r.agione) del suo creatore. Come, dunque, posto un Dio creatore e onnipotente, egli solo Essere, si può ammettere la realtà de) mondo in quanto parola di Dio che assume una sua ragione, tale in quanto fatta da Dio, cosi, ad un tempo, si può ammettere che tra il mondo limite, materia, molteplice, e Dio, Dio abbia creato delle potenze intermediarie. E come la stessa materia è entità voluta da Dio, cosi entità possono essere gl'intermediari tra Dio e la materia. Non vediamo, cosi, a meno che non si voglia da Filone ciò che è venuto dopo Filone e s'interpretino certi testi filo-
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niani al lume del rapporto uno-molti di Plotino e Dio-mondo di Agostino; in che modo si possa parlare di un'oscillazione filoniana tra una concezione strettamente creazionistica e una concezione emanatistica, tra il Verbo di Dio, inteso come attributo di Dio, principio eterno della razionalità con cui Dio crea il tutto, e il verbo inteso come entità da Dio creata, tra un dualismo che non spiegherebbe il rapporto Diomondo, e un monismo che ancora una volta ridurrebbe il divino ad essere in quanto ragion d'essere del tutto, uno col tutto, fra trascendenza e immanenza, tra Dio bene, benefattore, e il male e la punizione che non possono essere opera di Dio. In effetto alcuni testi di Filone si prestano a suggerire una problematica volta in tal senso, ma solo quando si astraggano dai contesti in cui si trovano, sempre, cioè, in funzione interpretativa di passi biblici, talvolta molto distanti tra loro, in un linguaggio ch'era il linguaggio d'una certa cultura, e qualora, ripetiamo, si cerchi di vedere in essi una serie di questioni sorte piu tardi, nella polemica plotiniana nei confronti dell'irrazionalismo della gnosi e nella discussione di certi gruppi cristiani sull'irriducibilità della visione cristiana entro i termini di un certo neoplatonismo e di certo stoicismo. Peraltro grande, senza dubbio, fu l'influenza di Filone su queste correnti, e fu proprio ,la discussione e il commento su Filone che determinò, almeno in parte, quelle stesse posizioni e interpretazioni (si rimanda per questo e per la tesi che sostiene esser stato Filone padre della filosofia religiosa subordinante la filosofia alla teologia e fondatore della filosofia scolastica, non solo occidentale, ma ebraica ed araoa, allo studio di H. A. Wolfson, Philo: foundations of. religious philosophy in Judaism, Christianity and lslam, Cambridge, Mass., 1947). Per Filone, entro i termini della sua cultura e del suo linguaggio e dell'ésegesi di alcuni libri della Bibbia, non v'è nessuna contraddizione fra il negare qualsivoglia attributo e qualificazione di Dio, appunto perché Dio è l'essere, che in quanto essere esclude da sé ogni limite, e l'affermare, riflettendo sul mondo che non può non essere se non creatura di Dio, che ha essere da Dio e perciò da lui la sua ragione, attraverso ciò che è dietro a Dio (''Tu vedrai ciò che è dietro di me, non vedrai il mio volto": "tutto quel che viene dopo Dio l'uomo dabbene · può apprendere, ma Dio stesso no": De post. Caini, 169), che Dio è perfezione e bontà, -che in quanto essere in atto, perfetto, eterno, è sempre in atto buono e perfetto, e, perciò stesso, potente, e in eterno creatore. Né tempo né spazio Dio, il tempo e lo spazio ci sono con le creature ("Dio ha generato con i corpi lo spazio e il luogo": De conf. ling., 136; "il tempo fu da Dio generato con il cosmo": Legum alleg., l, 2), onde Dio non crea in un certo momento in un qualcosa, ché il tempo e il qualcosa sca-
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turiscono dal suo stesso atto creatore, per cui si può dire che la decisione (atto della sua imperscrutabile volontà) di creare questo mondo visibile (De op. mundi, 20) ad immagine del mondo intelligibile anch'esso tale in quanto tra le infinite possibilità tutte in atto in Dio essere perfetto, la sua decisione è atemporale, essa costituente la temporalità, e perciò la distinzione e la limitazione, la numerazione ("il fattore non ha bisogno di una certa lunghezza di tempo, ché Dio fa tutto in un sol colpo": De op. mundi, 13). Appunto perché Dio è Dio, è "colui che è," egli tutto in atto e a un tempo tutte le infinite possibilità, la sua decisione (non a caso Filone dice decisione, cioè non necessità intrinseca a Dio) non ha perché, ché altrimenti Dio sarebbe limitato a quel perché stesso, mentre è egli a far diventare perché il perché, a far diventare ragione quella ragione, già in lui presente in quanto obietto del suo pensiero, costituente un certo mondo di idee, uno tra le infinite possibilità in lui in atto: Ma il mondo fatto di idee... non può avere altro luogo ehe il Pensiero (Myoç) divino ordinatore di queste cose. Poiché quale altro luogo ci può essere, capace di accogliere e contenere le potenze di lui, non dico tutte, ma semplicemente una qualsiasi? Ora è bene una potenza quella creatrice, che ha per fonte il vero bene (De opif. mundi, 20-21) ... Dio, perciò, avendo deciso di creare questo mondo visibile, modellò prima l'intelligibile per potere, valendosi del modello incorporeo e similissimo a Dio, formare questo mondo corporeo, immagine posteriore dell'altra anteriore e contenente tante specie sensibili quante sono le intelligibili in quella (~OUÀ1Jhlç TÒV Òp«TÒV x6a!J.OV TOUTOVt 31J!J.LOUp'fìia«L 7tpoe:;e:'t'ti7tOU TÒV V01JT6V, [vot J(p6>~J.EVOç «a(a)(J4T(f) xoct &eoe:t3&aTIXT(f) 7totpot3e:(y!J.otTL TÒV (J(a)!LOCTLXÒV «1tEpy~
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che è in mezzo (il Padre di tutte le cose, quegli che nella Sacra Scrittura è chiamato "colui che è"), guardato da entrambe le potenze (a destra la potenza creatrice, che ha nome Dio, terza, a sinistra, la potenza regale che ha nome Signore), appare alla mente contemplante ora come uno, ora come tre: come uno quando l'anima, purificata in sommo grado e oltrepassata non solo la molteplicità numerica, ma la stessa dualità prossima all'unità, giunge all'idea semplice e schietta e non d'altro bisognosa; come tre, quando l'anima, non ancora compiute le grandi iniziazioni... non può comprendere l'uno immediatamente e per se stesso, ma attraverso la sua opera creatrice e reggitrice" (De Abr., 124 sgg.). Sembra, comunque, opportuno ricordare che il testo citato è un'interpretazione allegorica del racconto biblico (Genesi, XVIII, l sgg.), in cui si narra che quando Abramo prega i personaggi che sembravano essere tre viaggiatori di accettare la sua ospitalità, egli parla ad essi non come a tre persone, ma come ad uno solo, e che, allorché Filone sembra ipostatizzare le potenze divine, non considerandole piu come aspetti dell'Unità divina, ma come vere e proprie entità . scaturite da Dio, che avranno contatto con le cose del mondo (anche col male e con il vizio, ripugnanti a Dio), egli commenta e interpreta altri passi delle Sacre Scritture. Ad ogni modo, posto da Filone che l'Essere che è, in quanto essere uno ed unico, è infinito ed ·onnipotente e che perciò non può trovare limiti alla sua azione creatrice in altro, in qualcosa che sia accanto a lui e da lui indipendente, tutto quel che c'è non può non essere che sua creatura, anche le sue stesse potenze, che in quanto tali sono realtà di Dio creatore. Sembra cosi chiaro in che senso Filone possa ·dire, appunto perché la potenzialità di Dio non resti mèra potenza, ma sia, che Dio (potenza creatrice), in quanto Signore e buono, è Signore e buono mediante la sua stessa creazione che si attua per mezzo del Verbo, ché la parola in quanto ·creatività di Dio è lo scaturire della realtà, del modello primo (mondo delle idee), intelli~bile, della realtà tutta, reale in quanto presente, come una potenza, al pensiero di Dio, che in quanto tale. è realtà. Non a caso Filone dice che il mondo intelligibile, che trova luogo nel verbo di Dio, non è "altra cosa che il verbo di Dio, ma di Dio già creatore" (De opificio mundi, 24). E allora si capisce come Filone possa dire che il Verbo è lo strumento mediante cui Dio è, se vogliamo, causa di sé, meglio ciò mediante cui il Padre (colui che è) crea sé come Dio (bontà) e Signore (reggitore). E non ci sia prima il "colui che è" e poi il Signore e il Dio, ché nell'Essere non v'è né il prima né il poi, ma l'atto della s.ua potenza, per cui v'è, a un tempo, l'Essere che è, uno, trascendente,
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persona, e, insieme, atto di lui, il Padre, il Dio, il Signore, e atto di lui, non lui, da lui, il pensie~o, il Verbo, l'obbiettarsi (in eterno) di Dio (mondo delle idee in Dio). A fianco del Dio (Padre) unico e realmente sussistente si trovano le prime e piu alte potenze: bontà (Dio) e potere (Signore); ... ma a queste due si aggiunge un terzo principio che serve loro da mediatore ed è il Verbo. Per mezzo del Verbo Dio è signore e buono ad un tempo (De Cherubim, 27). L'ombra di Dio è il suo Verbo, e di questo egli si serv{ come di strumento per creare il mondo; ·quest'ombra e quasi immagine derivata è modello delle altre cose. Come infatti Dio è il modello dell'immagine, ora detta ombra, cosi l'immagine sua diventa modello delle altre cose, come Mosè mostra dicendo: "Dio fece l'uomo a sua i.mlni!.gine," in quanto l'immagine è fatta a simiglianza. di Dio, e l'uomo poi a somiglianza dell'immagine, che ha assunto la potenza di modello (Legum alleg., III, 99-101; anche De somniis, I, 206). La sapienza [Prov., 8, 22] dice di se stessa cosi: Dio mi ha creata per prima delle opere sue e mi ha istituito avanti i secoli (De ebriet., 31). Il Verbo non è ingenerato come Dio, né generato come noi, ma sta in mezzo tra gli estremi e partecipa di ambedue (Quis rerum divin. her., 206). Il sigillo archetipo, che diciamo essere il mondO intelligibile, sarà esso stesso il modello archetipo, l'idea delle idee, il Verbo di Dio (De opif. mundi, 25). Il Verbo di Dio è la sua attività (De Stia'. Ab. et Caini, 65).
D10 uno e trino, dunque, essere perfetto ("egli non ammette sottrazione o aggiunta, essendo pienezza dell'essere, ugualissimo a se stesso": De sacr. Ab. et Caini, 9-10), rivela sé creando sé, in eterno, mediante la sua parola, il 16gos che si costituisce come intelletto (idea delle idee) e intelligibile (idee), ragion d'essere del tutto, dando quindi forma alla materia, all'indefinita quantità, determinando le cose nel suo qualificarle, per cui, appunto, come dice Filone, Dio uno e perfetto non ha contatto con la materia.· Intelligenza da un lato, materia come quantità indefinita dall'altro: dalla tensione (t6nos) tra i due termini si costituiscono tutte le cose, in un ritmo di gradi, onde ogni cosa assume la sua ragione (16gos) distinguendosi dall'altra, in un tutt'uno ordinato e legato dall'unico l6gos, anima del mondo. Nessun elemento materiale è abbastanza forte per sostenere il mondo, ma il L6gos eterno del Dio eterno è il fermissimo e solidissimo sostegno del mondo. Esso teso come è dal centro alle estremità e dalle estremità al centro, di;ige la corsa infallibile della natura, mantenendo e legando fortemente tra di loro tutte le parti, poiché il Padre che l'ha generato ne ha fatto il legame infrangibile dell'universo (De plantatione Noe, 8-9).
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Dato questo fondamento al L6gos e al ~onào intelligibile, frutto e creatura dell'atto creatore di Dio, in Dio ma non piu Dio, di qui in poi il discorso può essere sia quello di Platone (particolarmente quello dd Timeo, relativamente al rapporto Intelligenza Necessiù, ove ricordiamo l'immagine platonica dell'Intelligenza uguale al Padre, della materia uguale alla Madre, della realtà che ne scaturisce uguale al Figlio), sia quello dello Stoicismo da Cleante a Posidonio (particolarmente per il L6gos e per la tensione qualificazione quantità da cui si costituiscono, distinguendosi, le cose, aventi ciascuna la propria ragione seminale, in cui, proprio nel loro distinguersi, trovano il legame che le fa unità nel l6gos unico, anima mundt). Ed in realtà, entro questi termini, ritroviamo in Filone espressioni proprie sia del linguaggio platonico sia di quello stoico. Solo che qui si pone grave il problema · della materia. Nello stoicismo la materia si pone, àl limite, come quantità, opposta alla attività vitale e qualificatrice, al limite principio qualificante, logos, principio di vita, alito caldo, dalla cui tensione si costituisce il discorso della realtà, per cui, in effetto, in sé non -v'è il L6gos né la materia, ma lo stesso processo in atto, nell'unica ragion d'essere, o natura, ch'è il divino, legge e ragione del tutto (sia che la ragione pervada di sé tutto, sia che, raffreddandosi l'alito caldo, di grado in grado vi siano dei gradi alogoi, limiti, sui quali è possibile operare). Per Platone la materia è la quantità geometrica (spazio) condizione del costituirsi dell'universo in un ordine traducibile in termini geometrici e numerici. Certo il Timeo, non a caso il dialogo piu letto e tradotto proprio in questo periodo, poteva essere interpretato, come lo fu nell'Accademia sulla fine del 1 sec. a. C., soprattutto tenendo presenti certi passi delle Leggi e l'Epinomide, ill chiave stoica, entro cui, per altro verso, si interpretano· anche le quattro cause di Aristotele, come testimonia lo stesso Filone: "per la produzione di un essere qualsiasi debbono concorrere molti principi: la causa propriamente detta [causa formale], la materia [causa materiale], lo strumento [causa efficiente] e il fine [causa finale]. Se qualcuno domandasse ciò che occorre per la costruzione di una casa o· di una città, si direbbe: un operaio, delle pietre, del legno, degli strumenti... E se si passa da queste costruzioni particolari alla grande casa, alla grande città che è il mondo [tesi propriamente stoica] , si troverà che la ·causa è Dio che l'ha fatta, la materia sono i quattro elementi con cui l'ha composta, lo strumento è il l6gos divino per la quale è stata costruita; lo scopo della costruzione è la bontà del creatore" (De Cherubim,
125-127). Ad ogni modo,· sia pur non identificando il L6gos con il divino
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- come avviene invece per il 16gos stoico, o per il platonico mondo delle Idee, e l'aristotelico intelletto-intelligibile, - ma ponendolo com(' opera creata da Dio, rimaneva ugualmente opposta a Dio (unico essere) la materia, la quantità informe e ribelle, anche se posta come condizione perché sia possibile pensare la realtà, su cui ha da operare il 16gos, l'attività demiurgica del 16gos. In Filone, e d'altra parte aella stessa Bibbia, la questione è chiara. Certo, se possiamo fidarci dell'interpretazione di Eusebio, secondo Filone la materia, come quantità su cui ha da operare il 16gos, per costituire la realtà, non è qualcosa accanto a Dio e da lui indipendente, ma è anche essa creatura di Dio, voluta da Dio, appunto come quantità su cui poi il l6gos possa plasmare e ordinare le cose. Secondo Eusebio, dunque, Filone nel De providentia (perduto), avrebbe detto: Per quel che riguarda la quantità di materia, è stata essa realmente prodotta? Dio provvide, in vista della creazione del mondo, una sufliciente abbondanza di materia: non poté esservi né difetto né eccesso (in Eusebio,
Praep. ev., VII, 21, 1). A questa testimonianza di Eusebio si può contrapporre J'affermazione di Filone, secondo cui "la sostanza di tutte le cose era senza forma: Dio le diede una forma; era indeterminata: Dio la determinò; era senza qualità, egli le diede una o altra qualità; egli compf l'opera; pose sull'universo il proprio sigillo, ossia l'immagine di se stesso, l'idea, in una parola il Verbo" (De Somniis, II, 45); non va scordato, d'altronde, che tale materia non è coeterna a Dio e da lui indipendente, ma al L6gos, creatura di Dio. In altri termini, l'interpretazione filoniana è che Dio, nella sua infinita potenza, decide di creare il 16gos, la ragione delle cose (luogo dell'intelligibile), e la materia delle cose Qa quantità opportuna), prevedendo ciò che era necessario per costituire questa realtà, questo universo, dopo di Dio - anche se è un luogo logico, rispetto a Dio; cronologico dalla decisione in poi, - il rapporto 16gos-materia è un rapporto demiurgico, ove, in funzione del soffio divino (il 16gos) che tutto pervade, distinguendo ed articolando in unità il tutto, per cui l'universo è il tempio di Dio, Filone interpreta il Timeo in termini stoici, piu che platonicamente in termini geometrico-numerici. Si capisce cosf perché Filone affermi che Dio pur avendo tratto dalla materia indefinita tutte le cose, non ha voluto contatto con essa, ché non conveniva a Dio sapiente e beato toccare l'indeterminato e l'informe, valendosi delle potenze incorporee come di intermediarie perché 'ogni genere ricevesse la forma conveniente; Filone, per altro verso, sostiene che Dio non èr stato semplicemente ordi-
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natore, ma creatore (dr. De somniis, l, 76), ch'egli ha fatto sorgere dal non essere all'essere l'opera piu perfetta, l'universo, per cui "tutte le cose trasse dal nulla," -rcì: IS>..cx aua't"lja<X(L&vov ~x !J.1J !lv-rwv (Leg. alleg., III, 10) e ciò che non era chiamò all'essere. Su questi testi si è molto discusso. Vi è chi ha sostenuto che Filone, pur ammettendo che Dio, mediante il l6gos, crea l'universo e le potenze incorporee, mantiene alla materia, come quantità, una sua realtà, e c'è, invece, chi ha sostenuto che Filone ammette come creatura di Dio sia il 16gos sia la materia (sulle varie tesi cfr. Bréhier, cit., pp. 80-2; W olfson, cit., pp. 300 sgg.). In effetto bisogna tener presente che l'opera di Filone non è né un trattato, né l'esposizione di un sistema, ma un commento e un'esegesi di alcuni libri della Bibbia, ognuno dei quali si presta ad interpretazioni diverse. Un commento della Genesi, in cui senza dubbio non v'è affatto il concetto della creazione della materia, né quello della creazione dal nulla, si prestava, andando di là della povertà della lettera, ad una interpretazione in chiave platonica, o meglio in chiave di certi testi del Timeo letti attraverso l'occhio di testi stoici. Altri testi del Vecchio Testamento, invece, particolarmente - e diremmo unica· mente, - un testo del II dei Maccabei (II, 7, 28), molto tardo e ber piu evoluto, in netto e consapevole contrasto contro la cultura elle nistica, poteva esser tenuto presente da Filone, nell'interpretazion• del significato del Dio degli Ebrei (cfr. specialmente Sapienza, 13, 1-9 in contrapposizione, appunto, con la divinità, atto puro, ragion d'e! sere, l6gos, leggi stellari, propria della rielaborazione di quella cultun Non a caso il testo dei Maccabei dice: Ti prego, guarda il cielo e la terra e tutte le cose che contengono, sappi. che Dio fece dal nulla quelle cose e l'umana progenie (Il, 7, 28
e non a caso Filone sottolinea: Dio non è stato semplicemente ordinatore, ma creatore ( où 37)!J.tOupyi !J.6vov IDCÌ: xcxl x·da't"lj<; cxù-ròç l/lv) (De somniis, I, 76; cfr. anche De spt leg., I, 30). Egli tutte le cose trasse dal nulla (bt Il.~ !lv-rwv) (Leg. all., III, H
Altrove Filone distingue con esattezza il significato dato al divix da certe posizioni greche, da quello ch'egli, interpretando i Lil Sacri, dà a Dio: Mosè ha accettato la tesi della comunione e della simpatia dell'u verso, affermando che il mondo è unico e generato ..., ma si distingue net mente [dai filosofi] con la sua concezione di Dio. Egli ha chiarame1
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veduto che né il mondo, né l'anima del mondo era il Dio supremo, che gli astri e le loro rivoluzioni non erano per gli uomini le cause prime di ciò che loro avviene, ma che questo universo è mantenuto da potenze invisibili, che il Demiurgo ha teso dalle estremità della terra sino ai limiti del cielo, affinché ciò che era legato non si dis<;Olvesse: le Potenze sono legami infrangibili del mondo (De migratione Abrah., 180-181).
In conclusione, senza dubbio la materia, intesa come la madre di platonica memoria (Timeo, 50 d) e il L6gos (Intelligenza, padre: Timeo, 50 d), luogo dell'archetipo mondo intelligibile, e le potenze ("esse dànno qualità e forme a ciò che ne era privo senza mutare o perdere nulla della loro natura eterna: alcuni dei vostri le hanno chiamate idee, e giustamente, perché esse specificano gli esseri ordinandoli, definendoli, informandoli, in una parola, migliorandoli" : De specialibus legibus, I, 47-48), sono l'una condizione dell'altra perché sia pos$ibil< il figlio (Timeo, 50 d}. In tal senso, relativamente all'azione del l6go~ e delle potenze (forma) sulla materia (quantità}, Filone usa il termin< demiurghèin (8l)(J.Loupye:'i:v). L'atto, invece, con cui Dio, per sua volontà prevede il mondo, e per il mondo il l6gos e la materia, è assoluto cioè sciolto da ogni limite e da ogni preesistenza, costituendo anz: con quell'atto ciò ch'era necessario, o meglio che diviene necessarie con quell'atto stesso (creazione). Ecco. perché in tal caso Filone usa i: termine ctisis ( X't'(aLç, che nella traduzione dei Settanta sta ad indicare, di contro alla formazione, la fondazione, la creazione). Sotto questo aspetto siamo noi che, dopo le discussioni suscitat< da Filone in ambiente neoplatonico e gnostico e in ambiente cristiane (per altro verso assai vicini all'impostazione teologica di Filone), pos· siamo vedere in Filone, relativamente al rapporto Dio-L6gos e Diomateria, un'oscillazione che in Filone non c'era. C'è, anzi, a tal pro posito un testo di Plotino (Enneadi, VI, 7, l) molto significativo, eh( chiarisce il concetto filoniano del Dio persona e volontà e non neces· sità, non ragion d'essere del tutto, esplicantesi come tutto per sw necessità, ma ragione della ragione, decisione, e, in questo senso, previdente e provvidente. Sappiamo già (cfr. sopra) che il termine previdenza (Filone us;; ·il verbo rtpoÀa.(J.f;&.ve:Lv-prolambanein) è adoperato da Filone per indi care lo stesso atto con cui Dio decide di costituire il mondo intelligibile (cfr. De opif. mundi, 16), le forme o idee (invisibili e immateriali) di tutte le cose (De opif. mundi, 7, 29; 23, ·69), presenti allé mente di Dio, realizzantisi mediante il l6gos; e, secondo Eusebio (cfr sopra), per indicare la materia necessaria alla costituzione corporea delle cose. Che tale sia il significato filoniano di previdenza (e anche
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di provvidenza) implicante non un Dio necessità, ma persona, che decide, non per necessità razionale (ché non sarebbe piu decisione), ma per un atto di sua volontà, è spiegato chiaramente da Plotino ~(anche se non possiamo dire se Plotino abbia qui presente la concezione di Dio esposta da Filone): La Provvidenza dell'universo - sostiene Plotino - non deriva da un ragionamento; ché non c'è posto per il ragionamento nel mondo intelligibile: ma si adoperano i termini "ragionamento" e "previsione" per indicare che tutte le cose sono quali un uomo saggio, qui da noi, le avrebbe fatte per ragionamento o le avrebbe previste... La previsione infatti mira a far sf che accada un fatto piuttosto che un altro, e teme in certo modo che quello non abbia luogo. Ma dove non è possibile che "questo," la previsione non ha significato. Cosi pure il ragionamento presuppone i due termini di un'alternativa: ma se non ce n'è che uno, a che vale il ragionamento? Com~ ciò che è solitario e uno e semplice comporterebbe l'azione di un termine con l'esclusione di un altro? (Enneadi, VI, 7, l, 8-11).
Vedremo il significato di questa concezione di Plotino, in ciò diversissima dalla concezione del divino propria di Filone e dei cristiani, e che imposterà un'interpr~tazione del platonismo ben distinta - anche se per altri aspetti vicina - da quella del "Platone ebraico," come fu detto Filone; ma, intanto, la poleinica plotiniana sembra chiarire con esattezza la portata storica del concetto di Dio persona e volontl, interpretazione' filoniana del divino della tradizione ebraica, e che porterà piu tardi a un'elaborazione del concetto di Dio creatore, che, in realtà, nel Vecchio Testamento, nei libri piu antichi, è difficile scorgere, se non, appunto, attraverso l'interpretazione di Filone. Entro questi termini pare che si chiarisca anche l'antitesi tra il motivo filoniano di un mondo creato, che viene " dopo" Dio, anche se mediante il logos ha in sé il sigillo di Dio, e il motivo della creazione continua, senza di cui il mondo cesserebbe di esistere (dr. Leg. ali., I, 5). Sembrerebbe con ciò che dovrebbe venire a cadere la non coeternità tra mondo e Dio, per cui mondo e Dio sarebbero da sempre, e la stessa creazione si annullerebbe in quella coeternità. In realtà, anche qui si tratta di considerare la questione sotto due aspetti diversi: se Dio non è né spazio né tempo, se non crea né nella materia, né nello spazio, né nel tempo, ma materia, spazio, tempo si costituiscono come previsione di Dio col nascere stesso del mondo e della corporeità, egli, in quanto decide di creare, prevedendo ciò che a quella creazione bisogna, decide atemporalmente, e, perciò (umanamente, cioè sotto l'aspetto temporale) sempre, perennemente, anche !Je, appunto, quel sempre diviene nella creatura il tempo, il prima, l'ora, il
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futuro. E tale atto eterno costltwsce il mondo, temporale e spaziale relativamente a sé, atemporale relativamente ·all'atto creatore, punto eterno, mancando il quale verrebbe a mancare lo stesso mondo, che è per l'eterna creazione divina, onde la stessa previdenza e provvidenza divina è sempre. La provvidenza divina è tale in quanto Dio è creatore e persona, e se prospetticamente si vede l'atto creatore di Dio in un momento, perché decisione, in effetto, essendo fuori di qualsivoglia momento, è eterno. Se da un lato, in quanto atto voluto e previsto da Dio, la creatura di Dio, l'universo tutto è perfetto, tempio di Dio; dall'altro lato, in quanto tempo e spazio e in quanto non Dio, perehé creatura, la realtà, costituita da una serie di gradi fino al limite della corporeità, delle potenze prime (incorporee, intelligibili, gli archetipi, ivi compreso quello dell'uomo, il cosiddetto "uomo celeste," immagine di Dio), alle sintesi di materia e forma, d'immortale .e mortale (ivi compreso l'uomo, il cosiddetto "uomo terrestre"), alla materia, indefinita e limite, la realtà, in quanto non è Dio è imperfetta,. fino al male che è il non essere come limite e materia. Solo che anche qui si tratta di due modi diversi di atteggiarsi dinanzi alla real~à: di un lato, attraverso la rivelazione di Dio - rivelazione che si ha discendendo in se stessi, liberandosi dalla sensibilità e dalla stessa intelligenza nel cogliere sé come aspetto del l6gos divino, - si comprende che tutto, anche ciò. che appare limite e male, essendo momento del 16gos, del verbo di Dio, a lui dovuto, alla sua azione, anche se per mezzo delle potenze (dalle piu perfette, angeli, alle meno perfette), è bene, è provvidenziale; dall'altro lato, si assume come reale ciò che appare, dimenticando che tutto è dovuto a Dio, e in tale dimenticanza consiste il male, il vizio. Dio, in quanto colto come perfezione ed essere assoluto, è di U dal Bene e dal Male - intesi come essenzialità, - e, appunto perciò, è, sub specie aeternitatis, Bene. In tal senso egli non ha nulla a che fare con la materia, intesa come limite, come male, ché il possibile male, in quanto mancanza di bene, comincia da che v'è spazio e tempo, cioè dopo di Dio, è in Dio, ma non è Dio. Ecco perché Filone può dire che il male non è dovuto a Dio, ma alle potenze che vengono da lui : il male, il limite, sono delle creature, non del creatore. Sotto questo aspetto il male esiste, ma è inessenziale, e per chi è in Dio il male stesso è provvidenziale, e, direttamente, la punizione non è dovuta a Dio, ma alle sue potenze reggitrici. Sub specie aeternitatis il male non è, anche se, in quanto voluto da Dio - e se consideriamo .Dio come ragione egli stesso, o meglio non come persona ma come divinità, neutro, atto puro, l6gos, ciò sarebbe contraddittorio, assurdo, -
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esiste il volontario e l'involontario nell'economia, cioè nel bene, dell'Universo. Per tale ragione, accanto al male proprio della creatura, di ciò che è misto, esiste il male in quanto volontà di non voler comprendere Dio, di sostituire a Dio e alla sua azione l'intelligenza e la ragione della ragione. "Solo per opera del verÒ Dio io conosco! Non trovo nulla di cosi miserabile, invece, come fissarmi in questo pensiero : sono io a comprendere e a esercitare la sensibilità. Cosa? la mia intelligenza causa dell'intenderei Donde deriva ciò? Essa forse conosce se stessa? Sa dunque che essa è e come è stata formata? " (Leg. all., II, 68-69). Delle cose alcune non sono partecipi né di virtu né di v1z1o, come le piante e gli animali privi di ragione ... ; altre partecipi solo di virtU e di nessun vizio, come gli astri, che dicono animati e intelligenti ... ; altre sono di natura mista, come l'uomo che in sé accoglie i contrari ..., bene e male, virtu e vizio. A Dio, dunque, padre di tutti, era proprio far le cose buone da sé solo, perché congeneri a lui, e non era estraneo far le indifferenti, esse pure prive del vizio nemico a Dio; ma, le cose miste era in parte proprio, in parte improprio; proprio per l'idea del meglio che v'è congiunta, improprio per la contraria, del peggio. Perciò per .questa sola creazione dell'uomo è detto che Dio disse: Facciamo l'uomo; il che rivela l'assunzione di altri come cooperatori, affinché le volontà ed azioni irreprensibili dell'uomo retto siano attribuite a Dio, rettore dell'universo; le contrarie agli altri, a lui subordinati. Bisognava infatti che il padre non fosse eausa di male ai figli; e male sono il vizio e le azioni viziose (De opif. mund., 73-75) ... Come non va biasimato il medico per l'amputazione, né il pilota per il gettito del carico, anzi, al contrario, va lode a entrambi, per aver guardato e condotto all'utile piuttosto che al piacevole, cosf anche sempre si· deve ammirare la natura dell'universo e compiacersi di tutto ciò che avviene nel mondo (anche della grandine, dei fulmini, delle cavallette, dei mali, voluti dalla provvidenza), eccettuata la malvagità volontaria (De praem. et poen., 33) ... Abele tutte le cose migliori riferisce a Dio ..., Caino a se stesso e all'intelletto proprio (De sacr. Abel., 51). Entro questi termini si vede bene il significato, da una parte della trascendenza, della volontà, del Dio persona, creante e non ordinante, e, dall'altra parte, previsto e fondato (x·datç) da Dio l'universo nei suoi due aspetti, l'archetipo di tutte le cose (l'intelligibile, uno nell'intelletto, molteplice nelle idee obietto dell'intelletto) e la quantità di materia, che mediante il verbo si plasma e assume la forma dell'archetipo uno nel l6gos, a sua volta uno, come strumento e potenza creatrice di Dio, in Dio. Si vede, cosi, come Filone possa sostenere che, relativamente all'uomo, vi siano due uomini (cfr. particolarmente, De opif. mundi, 69 sgg.; e Leg. all., I, 31 sgg.); l'uno, l'uomo celeste, uno in Dio, in
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quanto archetipo, fatto a immagine di Dio (e in questo senso né maschio né femmina, o meglio maschio e femmina a un tempo: si ricordi il versetto della Genesi: " Dio li creò maschio e femmina"), ombra del lOgos, ombra. di Dio, e perciò indistinto, appunto uno, pura intelligenza in Dio; l'altro, l'uomo terrestre, cioè gli uomini, o meglio l'unità di Adamo che assume coscienza di sé (donde l'orgoglio), nel limite, nel moltiplicarsi, e dunque nell'esserci come corporeità, mescolanza di intelligenza (il l6gos, l'intelligenza, ombra dell'ombra dell'ombra del soffio divino) e di corporeità. A parte alcuni modi diversi di presentare l'uomo celeste, certo è che qui Filone inquadra nella sua piu generale concezione i due testi che si trovano al principio della Genesi, che, evidentemente dovuti a due redazioni diverse, sono, in effetto, in contraddizione tra loro: l) "E disse: facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza : ... e Dio creò l'uomo a sua immagine: lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina" (Genesi, l, 26-27); 2) "Il Signore Dio formò l'uomo di fango della terra e gli ispirò in faccia un soffio di vita, e l'uomo fu fatto anima vivente" (Genesi, II, 7). Di qui l'interpretazione di Filone: l'Adamo uno, celeste, archetipo, e l'Adamo che si spezza negli uomini, onde gli uomini per un certo rispetto sono limite, corporeità, e per altro rispetto hanno in sé il l6gos divino, donde, poi, nell'esaltazione di sé come intelligenza propria, nell'affermazione di sé, che rompe l'unità con Dio, il peccato di orgoglio, la supremazia di Caino su Abele. I discendenti ddl'originario uomo perfetto partecipando dell'idea sua, di necessità, se anche oscuramente, conservano tuttora il segno della parentela col padre. Quale? Ogni uomo per l'intelligenza è parente del Verbo divino, essendo impronta o particella e raggio della natura beata (De 'Pif. mundi, 145-46). La presenza, dunque, negli uomini, di una scintilla del l6gos divino (cfr. De somniis, l, 34), spinge gli uomini alla ricerca del divino, della verità (di qui le scienze e la filosofia: cfr. De op. mundi, 77), anche se tale ricerca alla fine resta vana, o errante, nell'illusione di aver colto nel segno (donde le varie filosofie), se non interviene, attraverso l'abbandono del sensibile, e, poi, della stessa intelligenza, l'atto gratuito di Dio con cui Dio si presenta all'uomo. Certo, anche qui, crediamo, bisogna considerare la questione da un duplice punto prospettico, che, forse, spiega il grosso problema che si rintraccia annidato in testi filoniani a prima vista opposti tra loro - ma che risultano opposti solo se consideriamo tali testi con ciò
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che avvenne dopo Filone," entro i termini dell'interpretazione cristiana.In alcuni testi Filone, posto che tutto è dovuto all'atto gratuito di Dio, afferma che tutto è già predeterminato, mediante il l6gos, in cui sono in atto gli archetipi di tutto. Non a caso Filone presenta il l6gos sotto aspetti diversi: uno in Dio, molteplice nelle idee obietto del l6gos; ove è anche da sottolineare il rapporto posto da Filone tra il l6gos e il numero sette (cfr. De opif. mundi, 89-128), ponendo il mondo intelligibile composto di sette termini : idea cielo, idea terra, aria, vuoto, acqua, soffio, luce, identificantesi col sole intelligibile, modello della luce sensibile che dà vita alla realtà, che diviene i raggi dell'essere, provenienti dall'uno come punto luminoso (cfr. De somniis, l, 73 sgg., 115). Di qui la possibilità di tradurre in termini aritmeticogeometrici lo strutturarsi del mondo, in un'interpretazione di testi pitagorico-platonici (particolarmente il Timeo). Sotto questo aspetto il Bréhier esattamente sottolinea alcuni testi di Filone. "Alcune particolarità del l6gos si spiegano come particolarità del numero 7." "Vi sono sei divisioni, il l6gos divisore e il settimo termine che divide le triadi" (Quis rer. div. h., 219); "il l6gos è anche il settimo termine che separa le sei potenze divine" (Qu. in ·Ex., Il, 68). "Da questa identità risulta anche il simbolismo del l6gos angolo retto, il primo triangolo rettangolo avente per lati dell'angolo retto tre e quattro" (cfr. De plant., 121; De opif. mundi, 97). Ill6gos è cosi intermediario tra il corporeo e l'incdrporeo: il settimo termine di una progressione geometrica è sempre cubo e quadrato, contiene. cioè "le specie della• sostanza incorporea e corporea," simbolizzata dal cubo e dal quadrato (De opif. mundi, 92). "Il numero 7 è, dunque, come principio di un mondo delle idee" (Bréhier, cit., pp. 91-92). Ma piu interessante - anche per gli esiti che la metafisica della luce avrà nel medioevo è il testo sulla luce, che, pur riprendendo vecchie e note metafore (da Platone, da certi testi ebraici, anche quelli de.lla Genesi, da altri, ove chiara è l'influenza iranica; cfr. sopra), va oltre il motivo analogico metaforico, per interpretare la luce come sostanza delle cose, irradiazione del punto luminoso, che è Dio. Posto che Dio è punto luminoso, l'occhio dell'essere per vedere non ha bisogno di altra luce; esso stesso, poiché splendore archetipo, s'irradia in un'infinità di raggi, di cui nessuno è visibile all'occhio fisico, bens{ all'occhio dell'intelletto. Ecco perché. solo il Dio intelligibile [il l&gos] se ne serve, ma non chi è legato alla sorte della generazione. Ciò che diviene è, infatti, sensibile, mentre la natura intelligibile non si afferra mediante i sensi (De cherubim, 97).
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Non solo, ma poiché nel l6gos, archetipo perfetto, vi sono oltre gli archetipi di tutte le cose, trama su cui si costituisce e si scandisce l'ordine del tutto, anche gli archetipi della virtu e del mondo umano, per cui ciascuno viene a trovarsi là dove è bene che sia, tutti gli uomini sono già predestinati. "Alcuni, Dio, anche prima della nascita foggia e predispone felicemente e predestina ad avere ottima sorte.•. Giacobbe ed Esau, l'uno decreta che sia principe, capo e padrone, Esau suddito e servo, mentre sono ancora nel ventre materno" (Leg. alleg., III, 88). Predestinati tutti, nel bene e nel male, ciascuno al suo posto, questo non significa affatto che ciascuno non possa, ritrovando in ~ Dio, rimanendo al suo posto, essere virtuoso, cioè non possa servire Dio, ché, appunto, tutti nel limite, in quanto creature, è attraverso la grazia che possiamo salvarci. Solo che in altri ·testi Filone sembra propendere per la tesi che Dio, nella sua infinita bontà, dà la grazia a tutti (cfr. Quod Deus sit imm., 104 sgg.), C', almeno, a quelli che mediante lo sforzo, il lavoro, l'esercizio, se la meritano. La questione, dicevamo, va considerata sotto questi due punti di vista: se sub specie aeternitatis, eterna è la gratuità e la predestinazione, per cui tutto è già, sempre, in atto e compiuto; sotto l'aspetto umano la grazia sta proprio nel rendersi conto, mediante lo sforzo, l'esercizio, e la scintilla divina che è in tutti, che tutto è gratuito e dono di Dio, anche l'essere in un posto piuttosto che in un altro, per cui, pur rimanendo tutto come è, tutto si trasforma in bontà. L'atto di tale comprensione è la rivelazione di Dio, la nascita della fede e della speranza in Dio. "Solo è meritevole di buona accoglienza chi ha posta la sua speranza in Dio" (De praem. et poen., 13). Entro questi termini, certo diversi dal significato dato dagli stoici all'amor fati e alla virtu come apatia, Filone poteva interpretare quelle stesse tesi stoiche, risolvendo in libertà quel fato in quanto anch'esso dono divino, mediante cui l'uomo trova sé, immagine di Dio, libero come Dio, nell'accettazione della legge e dell'ordine del tutte· E sotto questo aspetto Filone poteva, respingendo le tesi scettiche e~ fondando il discorso sulla rivelazione da parte di Dio, da un lato giustificare, entro l'ambiente culturale politico di Alessandria e di Roma, il significato del mondo ebraico, nel quale solo poteva · assumere una sua validità il discorso di Platone e quello stoico, dall'altro lato l'accettazione da parte ebraica della situazione politica della res pubblica romana (sotto l'aspetto stoico-ciceroniano) entro i termini delineatisi con Augusto. Questa sembra da un lato la politica culturale del commentatore ebreo del sacro libro, che dando al suo popolo entro l'ambiente ellenistico un fondamento riflesso, e perciò filosofico, alla propria tradì-
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zione, entro i termini della Legge, proponeva il possibile innesto di due culture in una nuova, rispondente ai nuovi problemi e alle nuove esigenze, e, dall'altro lato, sempre entro i termini della Legge, l'accettazione da parte ebraica della concezione politica delle posizioni stoiche, ch'erano servite da fondamento all'ideologia politica della prima Roma imperiale, con cui potevano andare d'accordo le tesi sulla monarchia filantropica propria di certe concezioni ellenistiche, di origine platonico-stoica e pitagorica (vedi sopra). E cos(, se Filone poteva dire: "il l6gos divino dirige quel coro circolare che la maggior parte 9egli uomini chiama destino; egli trascina nella sua corsa città, nazioni e paesi, dando agli uni il bene degli altri e a tutti il bene di tutti, mutando ogni cosa per fasi, s( che l'universo intero, come una città sola, goda del migliore dei governi, della democrazia" (Quod Deus sit immut., 176); riallacciandosi alla celebre affermazione forse di Crisippo, certo di origine stoica ("allo stesso modo che p6lis è usato in due sensi, il luogo dove si vive, e anche tutto il complesso, dello Stato e dei cittadini, cos( l'universo è, per cos( dire, una p6lis costituita di dèi e di uomini, gli dèi che hanno il potere, gli uomini che obbediscono; sono possibili i rapporti scambievoli tra ·uomini e dèi, perché gli uni e gli altri sono partecipi della ragione, e questa è legge di natura e tutte le altre cose sono state create per loro": Crisippo, Il, 528 Arnim; cfr. Cicerone, De nat. deor., Il, 154), Filone poteva sostenere: Questo Cosmos è la Grande Città e non ha che una politica e una Legge, che è il LOgos ~ella natura, la ragione che ordina che cosa si deve fare e proibisce quello che non si deve fare (De JosepAo, 29). Sotto questo aspetto si vede bene come per Filone il monarca o capo dello Stato (princeps nel .senso romano) sia rappresentante del l6gos a sua volta realizzante l'ordine voluto da_ Dio, per cui, escluso che Dio sia lo stesso l6gos, ed escluso perciò che il monarca o il principe siano essi stessi divini, tuttavia entro i termini dello Stato costituito, quello che piu si poteva avvicinare all'ideale filoniano era lo Stato romano nella realizzazione datagli da Augusto. Sembrano cos( di non poca importanza queste parole del Mos~ di Filone: Si è detto, non senza buone ragioni, che gli Stati possono progredire nel benessere solo se i re sono filosofi, o i filosofi sono re [ove chiara è l'allusione a Platone]. Ma si vedrà che Mosè dimostrò, combinate nella sua persona, non solo queste due facoltà, quella regia e quella filosofica, ma anche altre tre, una delle quali riguarda l'emanare le leggi, la seconda
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la carica di sommo sacerdote e la terza le qualità profetiche ... Mosè, ·infatti, in virtu della provvidenza (np6vor.«) di Dio, fu re e legislatore e sommo sacerdote e profeta, e in ciascuna di queste funzioni conquistò il grado piu alto. Perché poi sia opportuno che esse si trovino combinate nella stessa persona, occorre spiegarlo. t dovere del re imporre ciò che è giusto e proibire ciò che è màle; ma ordinare quello che si deve fare è prerogativa della legge: dal che si deduce direttamente che il re è una legge vivente e la legge un re giusto (De vita Mosìs, II, 2-4). T ale concezione poteva funzionare per Augusto, forse ancora per Tiberio, soprattutto quando la si veda innestata nella tradizione dell'ideologia propria delle monarchie ellenistiche. Certo non poteva piu funzionare per Caligola. O meglio, quell'innesto fra le due culture di cui parlavamo e che trovava la sua composizione nei termini dell'equilibrio statale, veduto come incarnazione della ragione cosmica, indipendentemente dalla discussione sull'origine di quell'ordine stesso, ché il fatto religioso della fede in un Dio trascendente e persona rimaneva pur sempre un fatto privato di un popolo e di una comunità, non funzionava piu per la comunità ebraica, allorché l'imperatore di }J.orna volle onori divini e pretese che statue di Jui fossero venerate per culto nelle sinagoghe. Si rompeva cosi, almeno politicamente, quel-. l'equllibrio faticosamente prospettato da Filone, e per il quale Filone' combatté fino ai suoi ultimi giorni, in nome del suo popolo, come dimostrano il Contro Fiacco e la Legazione a Caio (Caligola). La persecuzione di Fiacco nei confronti delle comunità ebraiche ebbe luogo nel 37 d. C. (l'anno della morte di Tiberio), ma piu grave . apparve, subito dopo, l'imposizione agli ebrei del' culto dell'imperatore. Probabilmente pregato dai suoi correligionari, Filone accettò di recarsi a Roma a capo di una legazione per far recedere l'imperatore Caligola da tale imposizione. Giunti a Roma, nel 39 d. C., gli ambasciatori appresero che ;non solo erano state introdotte statue dell'imperatore nelle sinagoghe di Egitto, ma ciò era avvenuto anche nel tempio di Gerusalemme. Filone e i suoi dovettero .tornare ad Alessandria senza ne"pure essere stati ricevuti da Caligola. L'insuccesso di Filone, proprio negli anni che vanno dalla morte di Tiberio (37 d. C.) alla morte di Caligola (41 d. C.), e la sua protesta, sia pur limitata alla questione ebraica, di non potere accettare l'imposizione del culto dell'imperatore,, nel nome di una legge cosmica e trascendente l'impera~ore stesso, che ha da uniformarsi a quella e non sostituirsi arbitrari:l'mente ad essa, sono estremamente indicativi di un grave disagio e della crisi in cui stava entrando proprio quella
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cultura di fondo, stoico-platonica, che pur aveva alimentato la prima concezione del principato augusteo, tanto che stoicismo - in un significato molto generico - venne, alla fine, a indicare posizione di rivolta, o meglio atteggiamento morale, in un richiamo alla razionalitl, di contro alla irresponsabilitl dei governanti e all'abbandonata vita quotidiana, in un richiamo anche, come particolarmente in Seneca, e se ne capisce la ragione, all'epicureismo, in quello ch'era stato l'appello degli epicurei a costituire una morale umana, fondata su di un sereno e razionale equilibrio da realizzare in questo mondo.
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Capitolo secondo
Lo .. stoicismo»
n~lla
prima
m~tà d~l
I
s~colo
d. C.
l. Cultura e crisi politica al principio del l secolo d. C.
Il corso dd 1 secolo d. C. presenta, evidente, una crisi morale, che, ad un tempo, risponde ad una piu profonda crisi politica e sociale. Se le strutture e la potenza dello Stato romano rimangono forti, se la sua cultura istituzionalizzatasi apparentemente risponde ai fini ddl'Impero quale si era costituito con Augusto, in effetto, da Tiberio in poi, i contrasti interni si fecero sempre piu drammatici. Alcuni imperatori giustificarono il proprio potere assoluto mediante la propria proclamazione a divinità (onde la loro simpatia per certi culti e misteri orientali, dalle religioni di Iside e &rapide, a quelle di Cibele, di Attis, di Sabazia e di Mitra) ed il loro contrasto, in particolare, con lo Stoicismo, in cui si vedeva la concezione di uno Stato universale e di .un diritto, l'opzione per una condotta di vita e per una cultura che potevano minare la politica stessa dei singoli imperatori. Sono dati precisi. Già con Tiberio fu bandito da Roma lo stoico Attalo e messo a morte, perché repubblicano, Cremuzio Cordo ("egli lodava Bruto e diceva C. Cassio l'ultimo dei romani": Tacito, Annali, IV, 34 sgg.), mentre Caligola fece uccidere Giulio Cano, e Seneca, perseguitato da Claudio, fin! poi per uccidersi sotto Nerone, mentre venivano mandati a morte Trasea Peto, anch'egli ritenuto emulo di Bruto (Tacito, Ann., XVI, 22) e Rubellio Plauto, accusato, come riferisce Tacito (XVI, 57), d'esser seguace della "arrogante setta degli Stoici, che rende turbolenti e desiderosi di disordini." Musonio Rufo e Cornuto vennero esiliati. Nel 71, sotto Vespasiano, tutti i filosofi vennero espulsi da Roma, mentre Dione Crisostomo, ancora insegnante di retorica, scriveva il Discorso contro i filosofi, "peste della città e dei governi," e, nel 93, Domiziano espulse di nuovo da Roma i cultori di filosofia preoccupato per gli effetti della retorica, qualora questa non rimanesse sul piano puramente scolastico, di esercitazione. Il potere, d'altra parte, si restrin-
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geva sempre piu nelle mani di pochi, cultura e retorica dovevano servire ai funzionari dello Stato (e appunto per essi si apriranno in Roma e nei suoi domini le scuole, che verranno poi sempre in for~pa maggiore controllate dall'imperatore), le popolazioni divennero sempre piu povere e la schiavitu strumento economico, mentre in tutto l'Impero schiavi e militari circolano, provenienti dai paesi piu diversi, recando con sé esperienze, culti e culture, religioni diverse. Cosf, entro tale atmosfera generale, entro i diversi sostrati sociali in cui ci si muove, a seconda anche dell'imperatore e della sua corte entro la quale per sorte si vive, si capisce come la filosofia potesse soprattutto esser coltivata, da un lato come guida alla vita, rifugio, consolazione, dall'altro lato come riflessione su esperienze religiose, quale indice di salvazione, di liberazione dal guaio di esser nati uomini. Di qui, sempre, entro l'ambiente greco romano, fin dal principio del 1 secolo d. C., la ripresa di certi asP-C=tti dello stoicismo, del pitagorismo, del platonismo stoicheggiante, e, in altri sostrati sociali, il recupero di suggestioni magiche, teurgiche, oracolari, di certe posizioni che si configurano nel cosiddetto gnosticismo, il costituirsi, accanto al commento dei libri del passato (Platone, Aristotele), dei testi ermetici, orfici, il riapparire dei misteri, e, infine, non ultima, la suggestione del Cristianesimo. · ;· .~ Sotto questo aspetto, la critica scettica, fin da Enesidemo, sembra abbia avuto una notevole influenza e funzione. Ad esempio, proprio rifacendosi a Enesidemo (o almeno ad argomentazioni scettiche che furono poi sostenute da Enesidemo), dando a lui ragione nei confronti dei superbi ed atei dogmatici, un Filone l'Ebreo poteva rimettere in discus-sione il problema della verità, ma inserendosi, sotto tutt'altro aspetto, in tutt'altra esperienza e tradizione, delineando il motivo della "rivelazione," mediante cui, poi, recuperare certi motivi della vecchia cultura. Per altra via, un Seneca, in una situazione politica cangiata, entro i termini di una crisi di una cultilra, poteva, proprio riallacciandosi alla polemica scettica, trovare i fondamenti della condotta della vita in uno stoicismo, che, in realtà, non ha piu nulla a che fare con lo stoicismo della scuola. In certe esperienze religiose di origine orientale si cercò, di là dalla ricerca razionale, di fronte al suo fallimento, di trovare il fonda~ mento della vita e della propria salvazione. Pur accettando l'istanza scettica, pur convinti che inafferrabile è l'essenza e la struttura della realtà, si accantonava anche la via dell'ipotesi probabile, utile a determinare di volta in volta, non solo una possibile fisica, ma una possibile condotta di vita, cui convincere (com'era stato il caso di Filone di Larissa e di Cicerone), e per cui era necessaria una retorica in senso ciceroniano. Essa avrebbe avuto bisogno però di un foro, di una piazza, di un'assemblea, Ove fosse stato possibile discutere e convincere, foro e piazza che
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non esistevano piu (non si scordi che molti filosofi, un Seneca, ad esempio, sotto Caligola, un Giunio Rustico, sotto Domiziano, furono perseguitati o condannati a morte, per certi loro discorsi pubblici). La retorica perciò si venne trasformando di nuovo in esercitazione o in tipo di insegnamento scolastico, come si vedrà bene in Quintiliano, il cui ciceronianesimo sarà estremamente istituzionale (non a caso l'autore del Dialogo degli oratori, attribuito a Tacito, ma certo contemporaneo di Quintiliano, poteva sostenere che la verace efficacia della retorica si era venuta perdendo con il prevalere del dispotismo). E cos{ si capisce ché insieme alla retorica, entro l'ambito scolastico, .si sviluppassero discussioni di grammatica e di dialettica; da qui, soprattutto, il commento dei libri logici di. Aristotele, la cui applicazione poteva, poi, essere ben lontana dai contenuti aristotelici, tanto che il commento ai libri della logica aristotelica poteva incontrarsi, formalmente, con certi aspetti della logica stoica. Per altro verso, invece, si poteva far di nuovo viva l'istanza cinica e l'ultima retorica rimasta: la presentazione· di esempi, di modelli di vita.
2. Astronomia e astrologia al principio del l secolo d. C.: loro esiti. Manilio Particolare interesse assume ora, entro questi termini, il delinearsi della interpretazione, in chiave stoico-platonica, dei molti aspetti con cui erano penetrate nel mondo occidentale - fin da Platone con certezza le concezioni astronomico-teologiche di origine orientale, ove non vanno scordati i nomi di Beroso, di Asclepiade Mirleano, l'opera dello pseudo Nechepso-Petosiride, attraverso i cui scritti sappiamo che circolarono già dal secondo secolo a. C., in ambiente alessandrino molti dei piu impressicmanti motivi magico-astrologici. Sul piano delle concezioni astronomiche, è abbastanza facile scorgere, fino a:l principio del I secolo d. C., due grandi linee, che, por, nel corso del I secolo, vennero fondendosi, dando luogo a esiti piu strettamente magici. Da un lato vediamo Ia linea, scaturita dall'interpretazione dei movimenti, dei significati e fini delle stelle, che risale ai secondi pitagorici, al Timeo e all'Epinomide (in cui chiara appare la sostituzione del vecchio culto degli dèi olimpici con il nuovo culto degli astri, manifestazione dell'ordine e delle leggi della suprema ragione divina) e che prosegue con l'interpretazione cleantea del LOgos spermatikos, che, fuoco supremo, si realizza attraverso i fuochi e le luci stellari (Inno a Zeus), con i Fenomeni di Arato e poi con i manuali di origine stoica sui segni celesti e sulle influenze delle stelle sulla terra. Dall'altro .lato vediamo la linea scaturita dallo sforzo di
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rendersi conto dei movimenti stellari in ter~ini razionali, "salvando i fenomeni," e che, se anche d'origine pitagorico-platonica, venne svolgendosi su di un altro piano, su di un piano fisico in traduzione geometricomatematica, perché fossero possibili calcoli e misure, e in ipotesi che rendessero conto degli apparenti errori, indipendentemente dal ricercare supreme ed allotrie ragioni (e pensiamo qui ad Eudosso di Cnido, Eraclide Pontico, e poi ai grandi astronomi di Alessandria, fino a .Ipparco di Nicea e, almeno parzialmente, a Posidonio, nel suo tentativo di "familiarizzare l'universo"). Si capisce bene, d'altra parte, come a quella che dicevamo la linea platonico-stoica potessero servire i calcoli e le misure deil'altra linea, che determinando, appunto mediante i calcoli, la necessità dei movimenti, le risultanti dei loro rapporti e cosi via, razionalizzava e rendeva possibile la divinazione, giustificando la necessità entro cui si scandiscono il ritmo e l'ordine divini. Anche se indirettamente ed in forma alquanto sospetta, sappiamo che Posidonio (cfr. sopra) cercò di inquadrare certi risultati fisici e matematici entro i termini dell'ipotesi fisica dello stoicismo. Secondo Simplicio (In Phys Arist., Il, 2, p. 291, 34 sgg. Diels), che riprende un testo di Gemino (Epitome dei Meteorolog•), riportato da Alessandro Filopono, Posidonio, occupandosi del sole e degli astri, ne avrebbe determinato il movimento, valendosi del metodo geometrico e matematico. Egli cioè avrebbe considerato pesi, grandezze e tempi di movimento, per formulare ipotesi che servissero a spiegare i fenomeni del cielo, ad esempio l'irregolarità del movimento del sole (cfr. Simplicio, Fisica di Arist., cit.). Sembra, anzi, che Posidonio per spiegare ed illustrare i moti degli astri abbia costruito una sfera. (cfr. Cicerone, De natura deorum, Il, 34, 88: "La sfera, che recentemente ha costruito il nostro caro amico Posidonio, riproduce in ogni sua rivoluzione gli stessi fenomeni relativi al sole, alla luna e ai cinque pianeti che avvengono ogni giorno e notte in cielo : chi dubiterà, vedendo tale sfera, ch'essa è dotata di una ragione perfetta?"). D'altra parte, se la sfera rendeva conto delle apparenze e permetteva calcoli e misure, non permetteva di rendere ragione dei movimenti stessi. Bisognava per ciò, sostiene sempre Simplicio, rifacendosi a Posidonio, "muovere dai principt generali delle qualità del movimento, dal principio della 7tOL'Jj'rLX1j 8uvcx(Lr.t;, determinando l'essenza del cielo e degli astri" (Sìmplicio, Fisic. Arist., cit.). Ora, accanto all'ipotesi stoica, probabilmente formulata da Cleante, secondo cui la ragion d'essere del tutto è un principio attivo, un fuoco vitale, ragione seminate che ovunque si diffonde, costituendo un tutto necessariaemnte ordinato, "ragione, unica di tutti, che si svolge e vive per l'eternità," "comune ragione che in tutti penetra, ugualmente toccando il grande [sole] e i minori lumi" (Inno a Zeus, 21 sgg., 16 sgg.), non vanno scordate le ipotesi aristotelica ed epi-
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curea. Se da un lato Aristotele, nella sua sistemazione cosmologica, era ricorso all'ipotesi di un primo motore immobile, dall'altro lato Epicuro, di contro al teleologismo platonico-aristotelico, aveva sostenuto l'impossibilità, sul piano sperimentale, di formulare qualsiasi ipotesi generale, sottolineando, di contro all"' unica spiegazione," il valore delle "molteplici spiegazioni." "I segni dei fenomeni celesti ce li forniscono i fenomeni che accadono presso di noi e che si vede bene come e dove accadono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 86, 8; 87, 8). Entro i termini di un meccanicismo casuale si eliminava ogni necessaria determinazione, ci si liberava dal concetto della provvidenza divina. "E non si chiami in causa la natura divina ... Se non si farà cosi, ogni indagine sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana, come è avvenuto a certuni che ignorando il metodo delle possibili spiegazioni caddero in vuote argomentazioni, perché credevano al metodo dell'unica spiegazione" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 97, 4, 12). Proprio di contro alla tesi epicurea - di cui sappiamo le preoccu•pazioni che suscitò per i suoi esiti politici, sganciando l'uomo e le cose da ordini precostituiti, da una ragion d'essere universale, per cui e cieli e mondi e uomini apparivano scaturiti a caso, onde si accusò Epicuro di sragionevolezza e di empietà - di contro a Epicuro, dunque, sembra che Posidonio abbia avanzato l'ipotesi del tutto animato e vivente, secondo la tesi della "simpatia universale." Egli si sarebbe cosi riallacciato, · relativamente agli ordini e ai movimenti stellari, a certi testi del Timeo e dell'Epinomide, interpretati mediante la concezione fisico-animistica di Cleante e di Arato, in una visione cosmologica in cui poteva rientrare anche la sistemazione aristotelica, una volta che il motore immobile, Dio, non fosse piu concepito come un concetto, una condizione logica, ma come forza attiva, l6gos spermatik6s, che non esiste se non nel suo manifestarsi, e di cui, fin dalle stelle, cominciando dal sole, tutte le cose sono aspetti e determinazioni. Si vede bene cosi come Achille Tazio, discutendo il significato dei Fenomeni di Arato, interpretasse la tesi posidoniana come l'unica ipotesi valida da potersi sostenere contro l'ipotesi degli Epicurei, secondo cui gli astri non sono affatto animati (" Posidonio polemizza con gli Epicurei, i quali negano che gli astri siano animati, perché racchiusi nei corpi. Secondo Posidonio non sono i corpi a racchi.udere le anime, ma le anime i corpi, ché le anime son come la colla che tiene unita se stessa e le cose di fuori": Achille Tazio, Isagoge in Phaen. Arati, 13, ed. Maas). Sotto questo aspetto, dando ad anima il significato di forza, di calore vitale, organizzante, sembra chiaro in che senso si potesse, sia pur analogicamente, spiegare il movimento in sé ponendo, al limite, un
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princip10 di vita, una forza attiva, non a caso .detta fuoco, inesistente in sé se non appunto nella sua stessa estrinsecazione. I movimenti de~li astri costituiscono perciò ·gli stessi moti d,ell'intelligenza divina, e gli astri sono essi stessi fuoco (secondo Stolieo Posidonio scriveva che gli "astri sono a&JL« .&ei:ov, corpo divino, fatti di etere splendente e infuocato, mai in .quiete, ma sempre in movimento circolare": Stobeo, Ecl., I, 24, 5 W.), corpi divini, come fuoco è Dro, onde tutte le cose, avendo ciascuna la propria ragione seminale, il proprio fuoco, la propria luce, la propria anima, sono, sia pur ìn gradi sempre piu affievoliti, ripercussioni e riflessioni dei fuochi, delle luci siderali. Già qui si saldano le due linee di cui sopra parlavamo, e.. se da un lato ·si ren<;leva possibile lq sfruttamento. dei risultati geometrico-matematici, dall'altro lato si potevano rendere razionali le suggestioni di certa magia astrologica, di origine sacerdotale, che si era venuta diffondendo attraverso i cosiddetti Caldei, per cui, in fine, al vecchio imperativo "vivi secondo natura," si poteva sostituire l'imperativo "vivi secondo le stelle," secondo la tua stella, ché ciascuno, ·concepito' sotto il riflesso di un certo fuoco stellare, in una certa situazione e congiunzione di stelle, assume per riflesso quel fuoco, quella figura siderale, ha il suo destino che è destino divino, comprensibile da parte di chi conosce l'ora (oroscopo) delta ct>ncezione e .Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il moto delle stelle, fare i giusti calcoli, prendere le giuste misure, ché l'istante della nascita determina quello della morte: "Nascentes morimur, finisque ab origine pendet";. "Fata regunt orbem, certa stant omnia lege" (Manilio, Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. F. Cumont, Les religions orienta/es, Parigi, 1906, pp. 196 sgg.). Da un lato, dunque, di· contro alla libertà di Epicuro che fa l'uomo responsabile del suo morido, lanciato in una infinità ·di mondi, si tende, "familiarizzando" l'universo, di ricondurre l'universo a una sola unità e a una sola legge, di cui, "microcosmo" nel "cosmo," l'uomo è parte in una cospirazione di parti in funzione del tutto ("simpatia"); dall'altro lato, entro i termini di questa concezione, si tende, recuperando calcoli e misure dell'astronomia, recuperando la simbolica dei numeri e la geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il costituirsi e il destino di tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a delineare la possibilità di uria scienza della. natura e di una teologia scientifica, che risolveva in sé l'aspetto pragmatico-magico di molte credenze astrologiche diffuse dai cosiddetti Caldei, ed ove si poteva considerare la stessa divinazione e predizione del futuro non solo rispetto all'universo, ma all'uomo, come frutto di una serie di conoscenze e' come vero e proprio possesso di un complesso di tecniche. Abbiamo di proposito lasciato nel vago l'apporto delle. credenze
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astrologiche, delle pratiche magiche, delle superstizioni religiose, di certe concezioni e misteri, provenienti dall'Oriente, proprio perché tutto questo è estremamente vago, e perché, in realtà, non possediamo documentazioni precise. Possiamo dire solo questo, che con il termine Caldei, sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal tempo di Platone) si solevano indicare quei sapienti, indipendentemente ormai dalla loro origine, che soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un lato, almeno in principio, concezioni astronomiche di origine babilonese, dall'altro lato gli esiti che tali concezioni potevano avere sul piano della divinazione e della previsione basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il, 29 sgg.). Che naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni popolari, fossero rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e indovini di cui parla Platone (cfr. Repubblica, 364b), è certo, come risulta da non poche testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro l'àmbito di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni (pensiamo qui particolarmente al mazdeismo e al mitracismo) e di certe raccolte relative alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di provenienza orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da Petosiride (sembra di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr. Catai. codd. astrologorum graec., VII, 129-151) e da Beroso, sacerdote babilonese di Bel, autore di Babilonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr (tra il 280 e il 260 a. C.), ad un tempo interprete di antiche teorie babilonesi. Ricordiamo qui, per la sua vicinanza con certe concezioni stoiche (e perché è un chiaro indice di come sia difficile distinguere provenienze e separazioni precise) la dottrina, di origine siriaca, dei grandi cicli annui che si scandiscono sulle rivoluzioni celesti dando luogo al concetto dell'eternità divina che, operando mediante le stelle e le loro influenze, è onnipotente su cose, uomini, popoli (cfr. Catai. codd. astro/. graec., V, l, p. 210). "Il primo postulato dell'astrologia caldea è che tutti i fenomeni e gli avvenimenti di questo mondo sono necessariamente determinati dalle influenze siderali. I cangiamenti della natura come le disposizioni degli uomini sono fatalmente soggetti alle energie divine che risiedono nel cielo. In altri termini, gli dèi sono onnipotenti; sono i padroni del Destino che sovranamente governa l'universo. Tale nozione della loro onnipotenza appare come lo sviluppo dell'antica autocrazia che si riconosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad immagine di un monarca asiatico, e la terminologia religiosa si compiaceva di sottolineare l'umiltà dei loro servitori rispetto ad essi. Non Si trova in Siria nulla d'analogo a ciò che esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di poter costringere i suoi dèi ad agire ed osava perfino minacciar li" (F. Cumont, Les religions orienta/es dans le paganisme romain, p. 155). Sotto questo aspetto,
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non vanno dimenticate le suggestioni di certi rituali egiziani, che mediante la precisione delle parole sacre incantano ed obbligano le potenze superiori, donde il valore dato alle parole evocatrici e a certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti ritroviamo in quei testi che poi rifluirono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll, Sphaera, p. 372; Cumont, cit., pp. 114 sgg.; Festugière, cit., vol. I), mentre per altra via si poté intravedere la possibilità d'inventare tecniche mediante cui operare su quella stessa fatalità astrologica, spezzandone la catena (donde, poi, nel n secolo d. C., la teurgia e la magia scientifica). E cosi, entro quest'àmbito della astrologia, va ora sottolineata l'importanza che vengono assumendo, non pìu in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem e dì primordiali magie amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i gemelli e cosi via) e le figure delle stelle di provenienza persiana, in un insieme di animali fantastici (la cosiddetta "sfera barbarica"), -donde, poi, l'aspetto mimetico della magia, l'imitazione della figura e della ragione del proprio astro. Tutti questi aspetti, in principio senza dubbio separati, di provenienze diverse, operanti in ambienti sacerdotali, sulla fine del I secolo a. C. vengono diffondendosi - non sembra un caso la polemica di Filone l'Ebreo nei confronti dei Caldei che riducono il divino al complesso delle stelle, s( come non è un .caso l'ironia degli scettici, già fin da Carneade, nei confronti delle pretese dell'oroscopia, - vengono laicizzandosi e, interpretati in chiave stoica, si risolvono in una vera e propria teologia razionale, scientifica, nel tentativo di una spiegazione della fatalità. Sotto questo aspetto si vede bene come l'astrologia sul principio del 1 secolo d. C. potesse penetrare e fosse accettata in Roma nell'ambiente stoicheggiante di Augusto e di Tiberio. Testimonianza precisa di questo incontro di tradizioni diverse astrologiche, interpretate e sistemate entro i termini dello stoicismo, sembra essere il poema in cinque libri (Astronomicon) di Manilio,l composto l Nulla ~ stato tramandato della vita di M. Manilio. Ch'egli sia vissuto ed abbia composto il suo poema A.stronomicon, in 5 libri, tra Augusto e Tiberio lo si oongettusa da alcuni accenni che si ritrovano nella sua stessa opera. Nel proemio vi ~ un chiaro accenno ad Augusto, si come di Augusto anoora vivo Manilio parla nel libro II, 509, affermando che il Capricorno rifulse nel giorno in cui Augusto uaoque. t ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9 d. C., come avvenimento recente. Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio come da poco succeduto ad Augusto (Augusto mori nel 14 d. C.). Nel V libro, infine, sembra si accenni all'incendio del teatro di Pompei, avvenuto nel 22 d. C. Poich~ il V libro appare chiaramente interrotto si ~supposto che Manilio sia morto, appunto, nel 22. A proposito degli interessi per un certo tipo di questioni astronomiche occorre qui fare il nome di C. Giulio Cesare Germanico, nato nel 15 a. C. da Nerone Claudio Druso ~anico e da Antonia Minore, adottato nel 4 d. C. da Tiberio contemporaneamente, a sua volta, adottato da Augusto, morto nel 19 d. C. Uomo di ampia cultusa, autore di com-
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tra il 9 e il 22 d. C., a Roma, in un riconoscimento, talvolta commosso e pieno di stupore di fronte alla fatalità del tutto, dell'architettura dell'Universo e della sua razionalità (del cui scandirsi fatale incarnazione è l'imperatore: si vedano gli accenni ad Augusto, e a Tiberio), in una netta contrapposizione allo sconcertante e libero costituirsi degli infiniti mondi epicurei, alla libera mater, feconda e libera materia da cui tutto liberamente si genera, di lucreziana memoria (non a caso alla struttura esterna del poema di Lucrezio si avvicina in antistrofe il poema di Manilio). Sorge ogni astro secondo la propria luce e osserva un ordine preciso nel suo nascere e nel suo tramontare. Nulla v'è di piu meraviglioso, in s1 gran massa, che questo razionale ordine e il fatto che ogni cosa obbedisce a leggi fisse... Chi potrebbe credere che tutto questo avvenga senza· uo nume e che il mondo sia stato creato da minime particelle [gli atomi], unite alla cieca? Non è opera del caso, questa, ma ordine che proviene da un nume possente (Manilio, I, 476-479, 492 sgg.).
Difficile è dire, relativamente alla costruzione che dell'Universo offre Manilio, sia per l'aspetto piu propriamente geografico, sia per quello piu strettamente astronomico, quanto egli si sia servito delle opere di Posidonio - in par.ticolare, si è detto, delle Meteore, del Protreptico, dell'Oceano. - Certo, abbastanza evidentemente si rintraccia la linea che va dal Timeo, all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una interpretazione genericamente stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu : in Manilio è indubbia una traccia di motivi astrologici di origine orientale. In un codice Angelico (grec. 29, sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI, p. 188; F. Boll, Sphaera, p. 53), è esposta una dottrina di Asclepiade Mirleano (del 1 sec. a. C.: cfr. B. A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22) sulle costellazioni della sfera barbarica e sull'influsso che tali costellazioni hanno sugli uomini nati sotto di esse, dottrina che ritroviamo in Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, secondo Firmico Materno (Proemio, III libro, 4), alcuni motivi Manilio li avrebbe ripresi dagli scritti di Nechepso e Petosiride; in realtà in un frammento di Nechepso e Petosiride (Riess, 363) ritroviamo proprio gli stessi motivi trattati da Manilio (III, 190 sgg.) sulla Fortuna e l'oroscopo, risolti mediante la disposizione dei segni siderali, i dodekatemoria, le sorti dei dodici luoghi. Ma ciò che piu colpisce è la sistemamedie in greco e di epi8fammi in latino e in 8fCCO, ottimo oratore, Germanico liberamente rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo 700 versi del rifacimento dei Fenomeni, modifi· c:ati in funzione delle nuove scoperte in campo astronomico; e circa 200 versi di un'oJ)era sempre di argomento astronomico, probabilmente un rifacimento di Prognostica da includere nei Fenomeni, a loro completamento.
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zione del tutto entro i termini di un ordine razionale, di cui appunto tutto - dai cieli, alle influenze stellari, ai conflitti tra le costellazioni è rivelazione, manifestazione di una unica ratio gubernans. In tal senso, già notevole come indicazione, è una pur breve traccia della struttura e del contenuto del poema, che, per la morte dell'autore (22 circa d. C.), rimase interrotto (il V libro è incompiuto): I libro: forma e origine del mondo, i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), posizione della terra nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del mondo, stelle artiche, natura delle costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la terra, grandezza delle dodici parti dell'eclittica, circoli paralleli, meridiani, orizzonte, eclittica, via lattea. - Il libro: dodici segni zodiacali (~cf>3tot) loro natura, loro posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo, Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro dominio sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e discordia nelle costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi dei sidera cognata su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi. - III libro: le dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro combinazioni coi dodici segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno, Ariete, Leone). - IV libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle quali si determinano i costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema geometrico dei decani, in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali; sorgere dei segni, località ordinate sotto il potere dei dodici segni (geografia astrologica), conflagrazione universale, cosmo e microcosmo (l'uomo). - V libro: sistema del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione ordinata del tutto, anche nel conflitto degli astri, ché su tutto domina una piu profonda ragione, in un solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul modello dello Stato augusteo.
"Non è opera del caso, questo, ma ordine che proviene da un nume possente" (1, 492); "questo dico e questa ragione, che tutto governa, trae dalle eterne stelle gli esseri animati della terra" (Il, 82-83). E l'uomo, microcosmo nel cosmo, poiché l'anima umana emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino fuoco, principio di vita del tutto, attraverso la contemplazione dell'universo e delle sue leggi, dispiegamento del divino e della sua fatalità, l'uomo può, ripercorrendo le ragioni del tutto, accettare il proprio fato, serenamente. "Soltanto nell'uomo discende Dio e vi alita e vi ricerca se stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo? Chi potrebbe trovare Dio, se non chi è parte lui stesso, di Dio?" (II, 108 sgg.). Lo sforzo di Manilio appare consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano razionale la fatalità, a far rientrare tutto nell'ordine, sistemando in unità e ragione, in un unico impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma l'asttologia e l'oroscopia, ch'egli svuot~ del
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suo mordente magico e operativo. Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso intorno alle stelle e alla loro fatale influenza (se vogliamo astrologia) si risolva entro i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri (astronomia), manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non "nascosti," non "volontari," e sui quali perciò non v'è alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di modificarne la volontà, ché la divina ragione è tutta rivelata a chi sappia contemplarla : Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi aspetti e il corpo svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa essere ben conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo costringa ad osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama alle stelle, né soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati essi sono. Chi mai potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso di contemplare? Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo corpo: ciò che vale è immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di molti cumuli di bronzo, sf come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso dell'oro, sf come la piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo tutto, e minimo è ciò che gli occhi vedono, mentre guardano le massime cose; cosi la sede dell'animo, posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo da un angusto limite. Non chiedere la quantità della materia, ma considera le potenze che la ragione domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio omnia vincit (IV, 920-32).
Fata regunt orbem, certa stant omnia lege (IV, 14).
Divinità svelata il Tutto, il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi, diviene $Cienza, studio dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi stellari: la stessa oroscopia e divinazione divengono calcolo, studio di rapporti geometrici e matematici. Di qui il recupero di molti aspetti della sistemazione della cosmologia di origine pitagorica (con particolare riferimento al fuoco), che si vien componendo con la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione dell'universo che poteva essere benissimo quella offerta dal sistema aristotelico. In Manilio, effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia, l'esito di uno degli aspetti della fisica e della teologia stoiche, in una sistemazione, manualistica, dei momenti con cui si erano venute determinando, in linee diverse, le ricerche astronomico-astrologiche. E tale esito è la matematizzazione del fatalismo in una coraggiosa consequenzialità - che sembra essere la novità che Manilio si gloria di introdurre in Roma, - che se toglieva ogni possibilità sia alle cose che agli uomini,
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senza alcuna preoccupazione per i problemi impliciti nella soluzione di una universale casualità, cosi presenti e acuti· in Crisippo e ancora in Cicerone (cfr. De divinatione), giustificava,' per altro verso, il significato dell'impero di Augusto e di Tiberio, di quell'impero che appariva realizzazione della ragion d'essere del tutto, di quella ragione che il tutto ordina, fatalmente governando. Sotto questo aspetto di non poco momento sembrano i versi con cui si apre il poema maniliano: Mi accingo, in poesia, a derivare dal cosmo le divine arti e lç stelle consapevoli del fato che rendono diversi i casi degli uomini, secondo celeste ragione: e, primo, con nuovi carmi, commuovo l'Elicona e le selve che ondeggiano pei verdeggianti vertici, recando inconsueti sacrifici da nessuno mai prima ricordati. Ma tu, Cesare, principe e padre della patria, che reggi questo mondo obbediente ad auguste leggi e che assumi la dignità di Dio in una terra che ti si è affidata come a un padre, dammi animo, dammi forze per cantare tema sf alto (1, 1-10).
E, sempre sotto questo aspetto, altrettanto indicativi sembrano i versi, sottolineati dal Farrington (Scienza e politica nel mondo antico, cit., trad. it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del V libro, con cui s'interrompe il poema, ché, appunto, conclusasi la sistemazione dell'universo in un ordine fatale, in cui ai gradi e alle gerarchie stellari corrispondono i gradi, le gerarchie, i privilegi della società terrena, Manilio esclama : Ma se fosse stata concessa al popolo che costttutsce la maggioranza, una forza proporzionata al suo numero, tutto l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742 sgg.). Entro i termini di tale necessità, di tale ferrea causalità, l'astrologia e la teologia scientifica, potevano da un lato risolvere io ìina disperata accettazione consapevole l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione, da parte di ciascuno, al giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse sembravano, dal punto prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo nato in una felice congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel potere stesso, rompendo il quale si sarebbe rotto contro la medesima ragione divina. E non era, questo, argomento di persuasione politica da scartare, mentre era ancora da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la possibilità, presupposta una volonta nelle stdle e perciò stesso nella divinità, di operare mediante culti e simboli, rituali e tecniche su queste volontà, modificandole. Se, dunque, ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si videro di malocchio, da parte della classe al potere, certi riti e culti d'origine
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egiziana, si capisce, invece, l'importanza data all'astrologia caldea, interpretata in chiave stoico-platonica, l'importanza data alla divinazione, l'introduzione nelle corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i calcoli, poteva giustificare certe azioni, anche una cèrta politica. È stato finemente sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se un Destino irrevocabile s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il culto è inefficace e le preghiere non sono altro, per riprendere un'espressione di Seneca, che le "consolazioni di un animo ammalato, ché irrevocabilmente il fato consuma il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo particolare significato il termine diritto], né può essere smosso da alcuna preghiera" (Nat. quaest., II, 35). "E, senza dubbio, alcuni adepti dell'astrologia, come l'imperatore Tiberio, accantonano le pràtiche religiose, persuasi che la Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac religiones neglegentior, quippe addictus mathematicae plenusque persuasionis cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66) ... Si erige a dovere morale l'assoluta sottomissione alla sorte onnipotente, la gioiosa rassegnazione all'inevitabile, e ci si accontenta di venerare, senza chiederle nulla, la superiore potenza che regge l'universo... Le masse, tuttavia, non s'elevarono a quest'altezza di rinuncia" (Cumont, cit., p. 218). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui si pone un problema meno semplice. L'altro aspetto dell'astrologia, la possibilità di operare sul destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da tempo presente in certi culti d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che, recuperando suggestioni magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si muovevano sul piano dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si viene diffondendo in forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà circa del n secolo d. C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda (seconda metà del 1 secolo d. C.) si diffondono, di contro all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei culti e riti egiziani, quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la razionalità e la causalità, propagati proprio da certi imperatori (la cui politica e il cui fondamento di potere erano ben diversi da quelli di Augusto e ancora di Tiberio). E allora duplice diviene la questione, considerata storicamènte. La magia e il suo diffondersi in ambienti popolari se dapprima può essere indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla imposizione di un inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi imperatori proprio in contrasto con quella visione causale e necessaria di un tutto che limitava, e non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde certi ritorni ad un naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità in contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la stoica, come sarà per Seneca) ripropone la possi-
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bilità di una scelta entro un complesso di condizioni date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro verso, la razionalizzazione di certe forme teurgiche, mimetiche, alchimistiche, la cui linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un significato in un tentativo scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità e fatalità del tutto, in un serio accantonamento della teurgia magica e irrazionale. Infine, se teniamo presente l'aspetto piu strettamente matematico-logico dell'astrologia, in uno sforzo di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le stelle e delle stelle con la terra, donde la possibilità della divinazione e dell'oroscopia in termini scientifici, per cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia assume il carattere di un'ipotesi fisicomatematica in termini causali, ci rendiamo conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che "l'astrologia è la regina delle scienze" (Anthologiarum libri, ed. Kroll, Berlino, 1908, p. 241), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia potessero risolversi in unità con Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande sistematore dei risultati dell'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia (Tetrabiblos). A tal proposito, anzi, come indicazione del significato scientifico dato allo studio degli astri, per determinarne le leggi e la loro influenza necessaria sul mondo e sugli uomini, mediante calcoli geometrico-matematici, sembra interessante riferire le seguenti parole del Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi, i cui argomenti furono ripresi, riprodotti e sviluppati sotto mille forme dai polemisti posteriori: gli uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un naufragio sono tutti nati in uno stesso momento avendo avuto la stessa sorte? ... ] non giunsero a dimostrare la falsità dottrinale dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva provarne il vano sforzo. Senza dubbio numerosi hanno dovuto essere gli errori e provocare crudeli disillusioni. Avendo perduto un bambino di quattro anni, al quale era stato predetto un brillante destino, i ~uoi genitori "stigmatizzano nel suo epitaffio il 'matematico mentitore la cui gran fama ha preso in giro ambedue' ( Corp. iscr. lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di negare la possibilità di tali errori. Abbiamo dei testi in cui gli stessi facitori di oroscopi spiegano candidamente e dottamente come si sono ingannati, per non aver tenuto conto di un dato del problema (cfr. Palco in Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo, Vettio Valente amaramente si lamenta dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi a profeti senza una lunga preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola l'astrologia che osano invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2, p. 32, ed. Kroll). Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza (~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont, cit., pp. 203-4).
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3. Lo «stoicismo" nella prima metà del l secolo d. C. Seneca. La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo punto sembra difficile parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo, di pitagorismo, ché ognuna di queste concezioni, in effetto, serve oramai non piu che ad evocare certi principt istituzionalizzati, certe scelte e opzioni in favore di problematiche e di esigenze assai diverse, per cui veniamo ad avere, sia pur sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche se certi testi sono realmente ricalcati da testi platonici o stoici) posizioni che, se davvero vogliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare di quelle etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a questo o a quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di Aristotele o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso questa o quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono tali schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal principio del 1 secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro (morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel II secolo d. C., di Aurelio Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio, Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati, fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di Cheronea; Calvisio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio; Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3 a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d 'Egitto per sedici anni, dove soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non poco per la cagionevole salute, minacciata anche
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esistono le vecchie scuole, dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine - confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio Fabiano ~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute del figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una "vita pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse accusato di pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera oratoria ed a quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e sapienza. Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un uomo già vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla vita politica attiva, Seneca rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso confessa (Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò allora di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel 41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in ·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Seneca fu da Claudio condannato all'esilio e relegato in Corsica. Nove anni durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova imperatrice. Tornato a Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto dalla madre Agrippina, per la successione al trono, a Britannico, figlio legittimo di Claudio c di Messalina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro, prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d 'indirizzare, su di un piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane imperatore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il 55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto. Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma, tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58 Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari. Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di Burro, avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito, che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone rifiutll sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò a vita · allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto in campagna, dedito solo agli srudi e a scrivere. Dopo la morte di Burro e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne il governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a Scneca come
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I rami della grande famiglia filosofica si appassiscono per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova, non hanno piu pontefice che le continui. In chi ritrovare la· tradizione e la dottrina pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura, molti dei suoi aderenti furono condannati accusato di a morte: tra essi Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Anche Sencca segreti accordi con Pisone - fu condannato a morte. La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di Sencca sono pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece una rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche quello al Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De immtllura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus; probabilmente i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata persa, ma una citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel Medioevo andarono sotto il nome di Sencca florilegi e raceoolte di sentenze (De copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita Senecae, Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di Sencca; in reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico da N a Q, derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le Sentenze, in ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). Quintiliano divide le opere di Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a carattere dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione manoscritta, invece, ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti: De prouidentia, De constantia sapientis, De ira libri tres, Ad Marciam de consolatione, De uitll bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De brevitllle uitae, Ad Polybir<m de consolatione, Ad Helviam matrem de consollllione. Conosciuta gi~ da San Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio apocrifa ~ la corrispondenza tra Seneca e San Paolo, composta da un cristiano; come apocrife sono le Notae Senecae. ln ordine approssimativamente cronologico le opere di Seneca pervenute sono: Consolatio ad Marciam (certo posteriore ·all'avvento al trono di Caligola, sembra. sia stata composta tra il 37 e il 40; 'è scritta per consolare Marcia, figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che, accusato da Sciano di lesa maesd per avere parlato nei suoi Annali con troppa libem, per sfuggire alla condanna, si suicidò; Marcia ottenne da Caligola di pubblicare gli Annali del padre, epurati delle parti pericolose; madre di due figlie e di due figli, Marcia restò profondamente depressa per la morte dei due maschi, particolarmente del secondo, Metilio; la Consolatio è composta, appunto, per dare conforto a Marcia colpita dalla sventura della morte di Metilio); De ira (composto certo sotto Caligola, sembra che lo serino, in tre libri, mutilo dell'inizio del primo, dedicato al fratello Anneo Novato, sia stato pubblicato subito dopo la morte di Caligola, verso il 41; è un'analisi minuta e precisa delle umane passioni, di cui la piu funesta è l'ira); Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43, per consolare la madre, rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in Corsica); Consolatio ad Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il 44, in Corsica, per consolare il potente liberto di Claudio, Polibio, che avrebbe potuto farlo tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un fratello); Epigrammi (alcuni scritti durante l'esilio in Corsica); De bretJitate vitae (sembra del 49, al ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto dell'annona, forse il padre di Pomponia Paolina che sar~ la seconda moglie di Seneca;· il tema fondamentale dello serino è la "tesi che a torto gli uonini si
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ma impopolare, scuola di Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante alcuno. Quella .dei Sesti, che la rinnovava con un vigore tutto romano, seguita alla sua nascita con entusiasmo, è già morta. Di contro, quale cura, quali sforzi perché il nome di un sia pur minimo pantomimo non vada perduto! (Nat. quaest., VII, 32). Chi ci ha preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra guida. La verità è aperta a tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è rimasto ancora per i futuri (Epist., 33, 11). Che male c'è a utilizzare· i filosofi lagnano della brevità della vita, perch~ sono essi che la rendono tale sciupandola con una prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi comprese per alcuni le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi"); De elementi~~ (indirizzato a Nerone da poco imperatore, sembra sia stato scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco coovincentemente, sarebbe stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2 libri; nella prima parte si discute il valore della clemenza, particolarmente opportuna per un sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si definisce la clemenza, distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla venia, perdono); De constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto tligilum; non si sa esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il 58; vi si dimostra che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l); De beata t1ita (sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i filosofi non conformano la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una risposta alle accuse rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo dell'ultima parte; vi si disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto mocale, proprio del saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto mutilo della prima e dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità di ritirarsi dalla vita politica attiva, qualora i casi lo .rendano necessario); De wanquillitate animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o nel 63; è una precisa disamina dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra vita attiva e vita contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo ·dell'ultimo periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio, scrittore, probabilmente autore del poemetto A etna; Seneca, abbandonàta la questione che il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui tenta dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per rispondere meglio alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla Provvidenza, tanti guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto s'impernia sulla tesi che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza ostacoli); De bene/ieiis (dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è dell'ultimo periodo della vita di Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV, del 63-64 i libri V-VI e il VII, che è chiaramente un completamento; vi si discute a fondo, attrave~so l'esame di chi davvero sia beneficante e chi beneficiato, il rapporto servo-padrone); Natfll'ales ()uaestiones (ne sono rimasti 7 libri degli 8 che doveva contenere; sono dedicate a Lucilio e furQno composte tra il 62 e il 64, il libro VI certo dopo il 63 perché vi si ricorda il terremO(o di Pompei avvenuto in quell'anno; accanto a una descrizione dei fenomeni naturali non poche volte Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante riflessioni morali); Epistulae morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise ora in 20 libri, scritte all'amico Lucilio tra il 60-62 e il 65; rappresentano forse la piu alta opera di filosofia morale del pensiero romano). Notissime sono le tragedie· di Seneca: Hercules, Troades (o Hecuba), Phoenissae (o Thebais), Medea, Phaedra (o Hippolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Citiamo infine il Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apol(oloeynthosis, l'inzueeamento di Claudio, ossia la consacrazione della zucca (alla deificazione, apotheosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca, in questa sua satira· menippea, com-. posta in prosa e· in versi, rispondeva che, in effetti, era quella la deificazione di una zucca: lo scritto è del 54 circa).
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delle altre scuole nella misura in cui sono nostri? (De ira, l, 65). - Non mi lego ~ nessuno dei maestri stoici: ho anch'io diritto di giudicare (De vita beata, III, 2). - Non mi sono dato la legge di non far nulla contro il detto di Zenone o di Crisippo ..., ed eco possiamo farci dei comandi di Epicuro in mezzo al campo di Zenone (De otio, III, l; I, 4). - Possiamo discutere con Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro, vincere l'umana natura con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev. vit., XIV, 2). - Non mi sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist., 45, 4). - Non parlo con te la lingua stoica... ; permettimi di usare parole comuni (Ep., 13, 4; 59, 1). - Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria famiglia; scegli quella in cui vuoi entrare (De brev. vit., XV, 3). In realtà l'opzione di Seneca per certi aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per commosse rievocazioni di esempi di uomini, vissuti e morti da uomini, per la delineazione di certe figure di pensatori, le cui concezioni siano state coerentemente vissute (Epicuro, Demetrio cinico), assumono un senso ed un significato di validità, qualora se ne veda la genesi in certe situazioni precise entro i termini della tormentata vita di Seneca, che ha vissuto e operato in un periodo e in un ambiente estremamente tormentato e drammatico. Sembra cosi di potersi rendere contò del significato dato da Seneca alla "filosofia," intesa non come "concezione" o scienza per sé, ma come cultura, come riflessione cricica, formatrice, attraverso la stessa attività del pensiero, della persona umana - diremmo non come " filosofia teoretica" né come "filosofia della morale," ma essa stessa filosofia come moralità - educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria. "La filosofia non sta nelle parole, sta negli atti : ... forma e plasma l'anima, dispone la vita, regola le azio9i; ... senza di lei nessuno pu~ vivere intrepidamente, nessuno senz'affanni" (Ep. a Luc., 16, 3). "Pur concedendo a Posidonio d'aver portato un gran contributo alla filosofia, non posso ammettergli che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili ... La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma delle anime" (Ep. a Luc., 90, 7, 25-26). Il pensiero di Seneca e, in conclusione, il suo àppello a una vita ragionevole (non eroica - gli eroi si ammirano e si presentano come esempi, - non puramente passionale, cioè non riflessa) non è scaturito né da un'esercitazione scolastica - "anche in filosofia ci perdiamo in cose inutili ..., impariamo per la scuola anzi che per la vita ... " (Ep. a Luc., 106, 12) - né dal gusto per una costruzione non contraddittoria, o perfettamente corrispondente ad analisi logiche e linguistiche, ma da
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una continua riflessione su esperienze di vita : dalla presenza, nella vita, del dolore, della paura, da una o da altra precisa situazione umana, in un certo ambiente, in una certa ora, dalla riflessione sulla propria vigliaccheria, dall'esperienza - vivissima in Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un insieme di linee spezzate, contraddittorie. Di qui l'impossibilità di presentare la concezione di Seneca sul tutto e sulla realtà come rispondente o meno a una precostituita • filosofia>" estraendo dalle opere di lui - ognuna delle quali risponde a situazioni precise e individuabili nel tempo, onde andrebbero lette cronologicamente una specie di sentenziario morale, unico e valido sempre. Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca in una delle sue prime opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei teatri e prega nei templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi: un solo cenere eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi. Questo significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici: "Conosci te stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può rompere a qualsiasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave tempesta per distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa è l'uomo? Un corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del soccorso altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo la prima volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo avvicinando alla mèta fatale ... Niente è piu fallace della vita umana, niente è piu insidioso: nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data quando non è ancora in grado di capire ... (Cons. a Marcia, 11, 2-3; 21, 6; 22, 3). E che? Pretendo di essere un saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue prime opere, la Consolazione alla madre Elvia;- nient'affatto. Se avessi il diritto di professarmi tale direi che non sono infelice ... (5, 2). Io non sono un saggio - dirà ancora Seneca ne La vita felice, venti anni dopo circa - e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia il migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni giorno dai miei vizi e rimprover~rmi i miei errori. Non sono giunto alla perfetta sanità morale e neppure vi giungerò... : io vivo sprofondato in difetti di ogni genere (De vita beata, 17, 3-4).
La riflessione di Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni singolari e precise, da fatti di esperienza o da determinate impressioni e condizioni psicologiche: dal tentativo di consolare una madre per la perdita del suo bambino (Ctmsolatio ati Marciam, composta tra il 37 e il 41 circa) a quello di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per l'esilio cui, per avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca (Ctmsolatio ad Helviam, del 42 o 43); dal compromesso di aecattivarsi Polibio - liberto di Claudio - che può farlo rientrare dall'esilio in Cor-
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sica, consolandolo per la morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Polybium, del 43 o 44); alla riflessione sull'assurdità dell'ira (De ira, composta, contro Caligola, certo dopo la morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la disumanità dell'ira, vede in essa gran parte dei mali della storia, il velen~ che spezza i rapporti umani e scioglie la società: "finché viviamo tra gli uomini rispettiamo l'umanità!": III, 43, 5); alla riflessione sulla brevità della vita {De brevitate vitae, del 49 circa, dopo il ritorno a Roma dall'esilio) e su quella che può essere una vita compiuta (De vita beata, posteriore all'esilio, quando ancora Seneca esercitava la sua funzione di consigliere di Nerone, del 58 circa); al tentativo di delineare per Nerone lo schema di una ideale condotta di vita politica in nome della società umana (De clementia, del 55, poco dopo l'avvento di Nerone); alla riflessione sul proprio fallimento politico che lo ha costretto a ritirarsi dalla vita politica attiva {De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi, De beneficiis, De provvidentia, opere scritte tutte tra il 59 e il 61); all'ultima meditazione sulla natura e sul divino (Natura/es quaesticmes, in VII o VIII libri, composti tra il 62 e il 64); in un continuo approfondimento e colloquio di sé con sé che diviene educazione, costruzione di sé, liberazione e perciò stesso discorso con altre anime, educazione e liberazione degli altri: insieme; ogni volta ricominciando da capo, discendendo ogni volta agli inferi della propria coscienza, in un ·sempre aperto conflitto morale (di qui la stessa forma dialogica di alcune opere di Seneca - Ccmsolatio ad Marciam, Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam, De providentia, De constantia sapientis, De vita beata, De otio, De tranquillitate animae, De brevitate vitae, De ira, - che non è solo artificio retorico, e che assume il suo significato piu alto, di ragionamento insieme e di avviamento, nelle bellissime Lettere a Lucilio, composte tra il 63 e il 65, l'anno della morte di Seneca). Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera sua è l'opera di un ~orno tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca tormentata, in mezzo a gente (la corte di Caligola e di Claudio prima, di Nerone poi) estremamente complicata, di là dal bene e dal male, almeno secondo i vecchi parametri. Sotto questo aspetto Seneca rappresenta davvero la coscienza di una certa situazione storica, la crisi di un certo complesso di valori, dando voce, appunto, e senso a tutta un'epoca, anche se, di volta in volta, egli ha preso le mosse da particolari situazioni, da singolari compromessi e dubbi. Parlando in termini di retorica, diremmo che le "tesi" di Seneca sono la conclusione delle "ipotesi" ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione. Non va intanto scordato che Lucio Anneo Seneca era
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figlio di un celebre uomo di lettere, oratore, storico dell'oratoria, Anneo Seneca di Cordova. Oratore era anche un suo fratello, Marco Anneo Novato, (adottato dal senatore Giunio Gallione, ne assunse il nome), che fu console e proconsole dell'Acaia (a lui Seneca dedicò il De ira, il De vita beata, il De remediis fortuitorum, perso, citato da Tertulliano, Apol., 50). La madre di Seneca, Elvia, fu donna di cultura, particolarmente interessata alla filosofia. Ella avviò il figlio a tali studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma dalla Spagna - dov'era nato nel 34 a. C., a Cordova - insieme a una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione prefetto per sedici anni dell'Egitto, dove per un certo periodo fu anche Seneca, - se da un lato s'interessò vivamente per gl'insegnamenti prima di Sozione di Alessandrja e di Sestio il giovane e poi di Attalo, di Papirio Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro lato, spintovi soprattutto dal padre - che temeva per · la salute cagionevole del figlio, il quale preso dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva un'eccessiva morigerata "vita pitagorica," e per i pericoli che in quel tempo correvano i pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò alla carriera oratoria ed a quella politica. Nominato questore, nel 31 o 32, anche per aiuto della zia ("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le sue affettuose e materne cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per la mia elezione a questore ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava neanche l'ardire di· parlare e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua timidezza; né la sua vita ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a tanta sfrontatezza femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria, l'arrestarono: e per me essa divenne ambitiosa": Cons. ad Helv., 19, 2), Seneca entrò in Senato, ove fu ammirato per le sue capacità oratorie. "Narra Dione Cassio che nell'anno 39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani tutti del suo tempo ed altri molti superava per sapienza,' corse pericolo di morte non per alcuna sua colpa, ma perché in Senato, al cospetto di Cesare (Gaio, detto Caligola), aveva pronunziato una bella orazione. Ma il principe, pur avendone decisa la morte, lo risparmiò cedendo ai consigli di una favorita la quale assicurava che Seneca, preso da consunzione, sarebbe morto fra poco (cfr. Dione Cassio, LIX, 19, 7). L'aneddoto di Dione è oscuro: ma esso nasconde una qualche dignitosa azione del giovane senatore, che invano chiederemmo quale sia stata alla meschina e acrimoniosa testimonianza di quello storico. [La principale testimonianza sulla vita di Seneca è quella di Tacito: Tacito parla di Seneca con piu avveduto criterio, senza predilezione, con un certo studioso riguardo delle fonti piu ostili e con la sospettosità propria della sua indole. La narrazione di Dione è inquinata dalla palese avversione che egli nutre
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per Seneca e dalla meditata ed infida malignità delle fonti cui attinge. Perdute sono le Storie civili di Plinio, nemicissimo a Seneca, ed è perduta l'opera di Fabio Rustico, che Tacito ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole, Annali, XIII, 20; poche notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile credere che una condanna a morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di Gaio per una bella orazione di Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche Caligola, non può condannare a morte un senatore per un successo oratorio, quando questo non sia pure un successo politico; e Seneca dovette allora parlare molto, anzi troppo liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi cercò di restituire la perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò inesorabilmente di Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del piu miserabile e bestiale tiranno (cfr. De ira, I, 20; III, 18-20; Ad Helv., 10, 4; Ad Polyb., 17, 3; De tranq. an., XIV; De brev. tlitae, XVIII; De const. sap., XVIII; De benef., IV, 31; Nat. quaest., IV, pref., 17)" (C. Marchesi, Seneca, Messina, 1920, pp. 10-12, 3). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta, mediante l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il pericolo corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata in quella certa situazione politica la sua azione, mediante altro tipo di convinzione. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che .senso si possa dire, che, in realtà, Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni sua opera, anzi, fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'analisi minuta e concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i termini di una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si rivolgeva, fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini, sapendo, d'altra parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo uomini e cose del suo tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---' conflitto di passioni, spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. Vicinissimo a Cicerone, soprattutto nell'intenzione di operare mediante la parola su di un certo gruppo di uomini in funzione di un certo ideale politico e di un certo ideale di uomo, nel ritenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo, liberarlo dalle sue paure, dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad esempio, il topos della filosofia salvatrice, della filosofia senza di cui nessuno può vivere da uomo, senza affanni, senza il terrore della morte: Cicerone, Tusculanae disp., V, 2, 5-6; Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche il topos della consolatio), in uno sforzo e in una fatica con cui l'uomo costituisce sé razionalmente, volta a volta, in una conquista personale (donde l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro); Seneca è da Cicerone lontanissimo nel modo di intendere la funzione retorica dena filosofia,
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ché altra è venuta ad essere la situazione . politica, l'ambiente, gli uomini su cui operare, altro l'impegno. Sottilissimo studioso delle passioni umane, Seneca che, su sua confessione, aveva sentito profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di Sozione, di Fabiano Papirio, di Demetrio, che vide attraverso Caligola e Claudio far lentamente naufragio quella respublica, delineata da Cicerone, apparentemente realizzata da Augusto, per ciò che gli fu possibile, tentò di formare sé e gli altri come uomini: uomini che potessero, in un reciproco rispetto costituire una verace res-publica, in una misura ed armonia, poste come dover essere. Di qui i due motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione di Seneca : da un lato una descrizione dell'uomo - triste, infelice, combattuto, impaurito degli altri, e perciò desideroso di prevalere sugli altri, ma che anche fugge da se stesso; - dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe essere, vincitore di ~ in quanto conflitto di passioni, "con-vinzione" di passioni, in una misura che dovrebbe essere la stessa razionalità, in ciò eguale agli altri uomini, ciascuno a suo modo, in un'armonia e ordine che ci trascende dal di dentro, che si pone come dovere da realizzare, e che trova il suo fondamento in una ideale razionalità del tutto. Già in tal senso si vedano le prime due opere di Seneca, la Consolatio ad Marciam, del 39, e il De ira del 41 circa, dedicata al fratello Novato. Scrive Seneca nella Consolatio ad Marciam (XXXI, 6): "A ciascuno viene dato ciò che gli era stato promesso: i fati seguono il loro corso e non aggiungono né tolgono mai nulla a quanto una volta per tutte hanno stabilito ... Da quando vediamo per la prima volta la luce, entriamo nel cam1nino della morte ... I destini compiono la loro opera" ; e nel De ira (III, 43, l, 5): "Perché non mettere ordine in codesta tua breve vita e renderla tranquilla per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle, chi non sa porre ordine in sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè misura, è uomo rotto nelle passioni, è in realtà non uonto] ... Fin tanto che respiriamo, finché viviamo tra gli uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui, anche, due altri motivi dell'atteggiamento senechiano. l) Una qual certa contraddizione tra l'ordine del tutto stoicamente scandentesi in una necessità fatale, che fa si che ogni aspetto della realtà sia là dove è bene che sia, in un'adeguazione della ragion d'essere di ciascuna cosa alla ragione d'essere, all'egemonico del tutto, e la possibilità da parte umana di adeguarsi volontariamente a quell'ordine. Posto che tutto è fatale, che tutto è come deve essere, anche le passioni, anche l'uomo disarticolato e spezzato nella sua molteplicità, non possono essere, nell'ordine, se non come sono. Non si vede bene perciò come l'uomo possa - se già nell'ordine non è scritto - da folle, da sragio-
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nevole, da groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi conto, realizzarsi secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene; e anche come, la società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove predominano questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come riconoscimento dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a modello del presunto ordine sociale del tutto. 2) Un conflitto sempre presente in Seneca, tra quel mondo assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto, per cui è esclusa ogni possibilità d'azione - onde il "saggio" stoico resta avulso da ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è esclusa ogni possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso conflitto morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si giunge, non in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente conoscitiva, ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso conflitto morale, nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle passioni, componendo le pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma che, appunto, si troya "nuovo," attraverso la stessa riflessione. La filosofia perciò non è filosofia della morale, ma filosofia morale, che prospetta, non piu dietro le spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione, l'ordine e la raZionalità della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è piu un dato, ma una "invenzione," che permette sia la comprensiòne delle oscillazioni e dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione comune, la composizione della pluralità delle ragioni, l'avviamento, la possibilità della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un certo tipo di cultura -la koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo parlato, ancora vivissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra Augusto e Tiberio, - entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale si era determinata tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui ebbero in mano le sorti di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che fu Agrippina, in tale conflitto stanno il mordente e il significato della morale senechiana. Non solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle oscillazioni di Seneca, sia entro i limiti della sua concezione, sia, per altro verso, relativamente all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha scritto, fino, pare, a giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in funzione, certo, del tentativo di modificare se stesso e gli altri. E quando si dice altri, bisogna pensare non ad astratti altri, ma a questo o quell'amico, in questa o quella situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati il De ira, il De vita beata; a Sereno, cui sono dedicati il De constantia sapientis, il De otio, il De tranquillitate animi; a Paolino,
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cui è dedicato il De brevitate vitae; a Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati gli Epistolarum moralium libri e le Natura/es quaestiones; e, per altro verso, soprattutto quando Seneca fu maestro e consigliere di Nerone, a Nerone per il quale Seneca scrisse il De clementia, l'anno dopo l'avvento di Nerone al potere, dal quale dipendevano quegli altri. Non a caso nel Proemio del De Clementia (1,2), Seneca fa dire a Nerone: "Sono io che decido della vita e della morte delle genti; il destino e la condizione di tutti sono nelle mie mani; quel che la. Fortuna spartisce a ciascun mortale, lo fa conoscere per, bocca mia; al mio responso è subordinata la letizia delle città e dei popoli; nessuna regione è prospera se non per mia volontà, se non per mio favore ... Caduta e nascita delle città si decidono nel mio tribunale." Sapendo usare certe tecniche, conoscendo la psicologia di Nerone, si tentava di realizzare in altro modo quello Stato e quella società entro la quale e per la quale Seneca operava. Certo, ogni situazione implica dei compromessi e delle tecniche d'azione diverse, pur di realizzare, anche approssimativamente, certi fini. Di qui, nel tentativo di educare all'ideale "saggio" stoico, il trasformarsi del rigidismo della morale stoica, posta, appunto, non piu come dato, ma come "inventio," dovuta alla stessa capacità (propria dell'uomo) di costituirsi come ordine razionale, per cui ciascuno può, co· gliendo i propri limiti, le proprie condizioni, senza dubbio dati, entro questi, realizzare se stesso, conoscendo la propria natura, volta a volta scegliere le proprie mosse, anche se esseJ nelle loro possibilità, sono date. Se chi latra contro la filosofia, dirà come il solito: "Perché parli da forte piu di quanto da forte tu non viva? Perché fai la voce sommessa davanti al piu potente e stimi il denaro uno strumento necessario o ti turbi per un danno ricevuto e piangi alla notizia che ti è morta la moglie o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon nome e ti offendi delle chiacchiere malevole? Perché i tuoi fondi sono coltivati piu di quanto non richiedano le necessità naturali? Perché non ceni conforme alle regole che predichi? Perché le tue suppellettili sono cosi eleganti? Perché in casa tua si beve del vino che ha piu anni di te?... Perché hai fatto piantare alberi che daranno solo ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie il reddito di un ricco casato? Perché i tuoi giovani servi sono vestiti di abiti preziosi? Perché in casa tua è un'arte quella di servire a tavola e l'argenteria non è disposta come viene a caso, ma il servizio è cos{ accurato, e ha persino uno scalco specializzato? ..." Se vuoi rincarerò la dose dei rimproveri e mi muoverò piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora ti rispondo: "lo non sono un .saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei errori ..." "Però,"
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tu dirai, "in un modo parli e in un altro vivi." Questo rimprovero, o maligni, o nemici dei piu virtuosi, fu già mosso a Platone, a Epicuro, a Zenone: tutti quelli predicavano di vivere non come essi stessi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Parlo della virtU, non di me, e quando mi scaglio contro i vizi, comincio dai miei: quando potrò, vivrò come dovrei ... Continuerò a lodare non la vita che conduco, ma quella che so che bisognerebbe condurre; continuerò ad adorare la virtU e a seguirla, se pure arrancando a una bella distanza... (De vita beata, XVII-XVIII).
Di qui anche un'altra apparente oscillazione di Seneca: da un lato l'esigenza propria del " saggio" stoico di ritirarsi dalla., vita mondana, dall'altro lato l'esigenza, anche a costo di venir meno alla rigidezza dell'unica virtu stoica, di operare nel mondo, di modificare, attraverso la parola, l'esempio, anche il compromesso, la societa di fatto. Nella sua altezza, nella sua comprensione che tutto è come deve essere, che tutto è bene e che perciò non vi è nulla da fare, il "saggio" da tutto monasticamente si ritira, non piu uomo tra uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti, nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il "saggio" tutto' è indifferente. Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui Seneca chiaramente si rende conto. Il pericolo della "vita stoica" è ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento che tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni, in realta, alla fine, non si comprende piu che tutto, proprio perché è come deve essere, perché è natura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e, perciò, che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io stesso, siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo) una persona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le pas~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessivamente generosi, .irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci; :erto, su di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che quelli che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quell'esclusivo amore o odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né mali, neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e il male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. Non solo, ma un altro pericolo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a vivere secondo la ragione universale, venga, in conclusione, ad annullare l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento della
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propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al disprezzo per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una certa condizione e situazione che non dipendono da noi, comprendere che l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa riflessione, attraverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre condizioni, per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di realizzazione, per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso. Di qui l'esigenza senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è possibile, è utile, non controproducente, in una certa situazione umana, scegliendo di volta in volta i propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli altri, ciascuno per ciò che gli compete, a quell'armonia sociale, specchio della ragion d'essere del tutto, entro cui, una volta rovesciati i terriùni, ognuno non perde se stesso, in un ideale reciproco rispetto, in cui consiste la virtU, cioè l'eccellente realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la piu genuina tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a se stessa (recte facti fecisse merces est: Ep. a L., 81, 19; cfr. anche De clementia, I, 1). L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi dalle singole passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé razionalità, implica l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini, ché vivere la vita degli altri, della folla, significa perdere se medesimi, vivere ancora una volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo, entro i termini di un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può anche voler dire un ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto ritirarsi nel deserto: significa anzi, per quel che è possibile, per quel che le circostanze e il destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in persone, essere utili agli altri, quando gli altri ne abbiano bisogno, senza di cui, in realtà,· non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è solitudine assoluta. Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche tentare di realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché ogni uomo, pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro in quanto uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né padroni); significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il consiglio e la parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato terreno ad uniformarsi alla Città celeste (De otio, IV). Altrimenti, quando tale azione può diventare
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inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla vita politica in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello di un'autentica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama Seneca, scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita politica diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro che tu puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre insegnano, imparano. Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose? Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep. a Luc., 7, 8-9). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se tesso. Ma chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno allontanato dal mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio felici, chi come animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non vive per sé, ma, turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non vivere per nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc., 55, 4-5). E quando Seneca sperava, forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De tranquillitate animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la fortuna prevale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le spalle e non fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un luogo in cui la fortuna n~tn ·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari con maggior misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere utile alla città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve vivere da privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai cittadini con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in casa, agli spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele amico, da convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino: adempia quelli dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci siamo rinchiusi dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al contatto dell'orbe intero, e dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla virto uri can:tpo pio vasto d'azione. Ti è stato precluso il tribunale e ti si interdicono i rostri e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi spazi si allarghi dietro di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la porzione che ti precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti con la voce, con l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani tagliate trova modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu fai qualcosa di simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni della vita pubblica, tieni duro lo stesso e aiuta cvn
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la tua voce, e se qualcuno ti comprime la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai inutile l'opera di un buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo, con il cenno, con la costanza silenziosa, con l'incedere stesso egli serve... Credi poco utile anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La cosa di gran lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari, ogniqualvolta la vita attiva sia preclusa o da circostanze fortuite o dalle condizioni della città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non vi sia spazio per un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di Atene quando i Trenta Tiranni la straziavano? ... Eppure là, tra il popolo, c'era Socrate, e consolava i padri piangenti ed esortava coloro che disperavano della repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni, il lontano castigo della loro perniciosa avarizia, e offriva un grande esempio a· quanti lo volevano imitare, camminando libero tra i trenta despoti. Tuttavia Atene stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non seppe sopportare la libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera di tiranni. ·Questo perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice poiché regnano la crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non ci intorpidiremo, paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che, quando i pericoli lo minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli risuonano d'intorno, non lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la celerà: seppellirsi non è salvarsi. Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato, quando affermava che preferiva essere morto che vivere da morto: il peggio dei mali è togliersi dal numero dei vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in un momento della vita pubblica meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare piu tempo al ritiro e agli studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti dirigerai subito a un porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te ne staccherai spontaneamente. Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi, quindi i compiti cui stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e con le quali li svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi, perché quasi sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo (De tranquillitate animi, IV, 2 sgg., V, VI, 1-2). Non a caso, di qui, quando davvero fu preclusa a Seneca l'azione diretta negli affari ddlo Stato, l'avvicinamento ad Epicuro, l'appello di Epicuro all'amicizia, di contro alla falsa politica in atto, a quell'Epicuro di cui Seneca dice (Ep. a Luc., 6, 6) che piu che la dottrina fu il suo contubernium a educare gli epicurei, in una comunità di amici il "cui acooi:do tra loro era simile a quello che deve regnare in una repubblica bene ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5, 4); e va sottolineato che sempre piu spesso ritorna il nome di Epicuro nelle
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opere scritte, appunto, al tempo del suo forzato ritiro (De oiio; De brevitate vitae, Epistole a Lucilio). Ancora da. vecchio, Sen;:ca ricordava i suoi primi maestri, confes_sando l'enornit: impressione che i loro discorsi, la loro vita, il loro esempio, avevano fatto su di lui fanciullo e giovinetto. Quando udivo Attalo parlare .:ontro i vizi, contro gli errori, contro i mali della vita, spesso sentivo compassione dell'umano genere e stimavo sublime quel filosofo, piu alto di ogni altez~a umana. Egli si proclamava re, ma piu che re egli mi sembrava:! Egli che poteva chiamare i re a dar conto della loro condotta. Quando poi cominciava a raccomandare la povertà, e ·a dimostrare che, tutto quello che va oltre il nostro bisogno, è un peso inutile a portarsi, spesso avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la sobrietà, la purezza .della mente che si astiene non solo dagli illeciti, ma anche dagli inutili piaceri, veniva la voglia di mettere un limite alle esigenze della gola e del ventre. In me, caro Lucilio, qualcosa è rimasta, poiché a tutti quegli insegnamenti ero andato con grande entusiasmo; senonché, tornato alla vita cittadina, poco rimase di tanti bei propositi ... Poiché ho cominciato a dirti con quanto maggiore entusiasmo cominciai da giovane lo studio della filosofia che non lo continuai da vecchio, non mi' vergognerò di confes5àrti quale amore mi abbia ispirato Pitagora. Sozione diceva per quale ragione Pitagora si astenesse dalle carni e per quale ragione poi se ne astenne ·Sestio. I motivi di tale astensione sono diversi per l'uno e per l'altro, ma per l'uno e per !;altro degni di ammirazione. Sestio credeva che per alimentarci ne abbiamo abbastanza, anche senza ricorrere a versare sangue e che l'uccisione delle bestie volta alla soddisfazione dei nostri gusti, diventa una scuola di crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela esistente tra tutte le cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in un'altra forma. Secondo lui, nessun'anima si annienta ... Sozione, dopo aver esposto queste dottrine con ampiezza di argomenti, "non credi," soggiungeva, "che le a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella da noi chiamata morte altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi animali domestici o selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra volta appartenne a un uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e che si tratta solo di un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti si volgono per determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende, e che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno avuta uomini grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto il problema. Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede? Ti avrò tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto da questi discorsi, incominciai ad astenermi dalle carni e dopo un anno non solo non trovavo difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva di ave!e la mente piu svelta, seb-
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bene oggi non saprei dirti se tale fosse realmente. Vuoi sapere come fu ch'io smisi quest'uso? la mia gioventu cadde nei primi anni dell'impero di Tiberio, quando i culti stranieri erano oggetto di persecuzione e l'astinenza dalle carni di alcuni animali era considerata come indizio di partecipazione a quelle superstizioni ... (Ep. a Luc., 108, 13-15, 17-22).
Di Fabiano Papirio, oratore e giurista, vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre attraverso Seneca sappiamo che dalla retorica passò alla filosofia pitagorica, interpretata in chiave stoica (Ep. a Luc.; 58, 6; 100, 8 sgg.), che famoso per vita et scientia (Ep. a Luc., 40, 12), condusse una vita da vero "stoico," ritenendo che piu alta di ogni erudizione (De brevitale vitae, XIII, 9) fosse l'educazione dell'anima, cui serve da un lato l'esempio della propria vita, dall'altro una sobria eloquenza (Ep. a Luc., 100, 10-11), cht non deve trasformarsi in insegnamento di tipo professorale, ma determinarsi in una persuasione psicologica e morale. Egli non fu, esclama Seneca (De brevit. vie., X, l) "f;losofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica." Attraverso la figurazione che ne dà Seneca - non abbiamo altre fonti, - di Fabiano Papirio, di Sozione di Alessandria, di Attalo è dif. ficile dire se siano stati pitagorici o stoici. In realtà, ora, il termine "stoico" sta ad indicare piu un atteggiamento di vita che non una dottrina; atteggiamento di vita che si fonda su di una concezione generale che assume pochi principi, facili a raggiungere analogicamente, e che potevano essere desunti da certe volgarizzate posizioni, ch'erano state effettivamente ela~rate entro la scuola stoica: un principio attivo e passivo (Dio e la materia), dalla cui tensione scaturisce l'articolarsi e il costituirsi in ordine di tutta la realtà, di cui ogni aspetto è un momento dd divino IOgos (si confronti sopra la silloge di Ario Didimo). In tal senso, comunque, potevano essere interpretate anche certe pagine di Platone e di Aristotde (cfr. in tal senso Ep. a Luc., 58 e 65). Non solo, ma entro questi termini, poco importava essere platonici, o aristotelici, o stoici in senso stretto; o meglio, lo si era, per quel che il termine • stoicismo," • pitagorismo," "platonismo" evocava in funzione di un tipo di vita da contrapporre al comune modo di vivere irriflesso. Tipico esempio di tale atteggiamento fu l'amico di Seneca, Demetrio, del quale Seneca non poco senti l'influenza. Demetrio, vissuto nd 1 sec. d. C., contemporaneo di Seneca, fu detto • Cinico." ~ stato sostenuto ch'egli piu che cinico sarebbe stato stoico, per la sua fede in un ordine provvìdenziale, a cui, abbandonando le cose di questo mondo (indifferenti tutte), l'uomo ha da adeguarsi, in una lieta sopportazione del dolore e delle avversità. Per ciò che in realtà si può ricostruire del pensiero di Demetrio, attraverso le uniche fonti che abbiamo su di lui,
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cioè Seneca (De beneficiis, VII, l, 3; 8, Ì; 11; Epi.rt. a Luc., 20, 9; 67, 14; 91, 19; De providentia, 3, 3; 5, 5) ed Epitteto (Dissert., I, 25, 22), possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel senso in cui, portando alle conseguenze estreme la logica di Zenone di Ci zio, "cinico" era stato Aristone di Chio (cfr. I vol.). In altri termini, Demetrio, proprio attraverso lo studio della logica stoica, si rese conto dell'impossibilità del passaggio dal discorso umano ad un presunto discors~della realtà, per cui la realtà, presa in sé, resta sempre al di fuori di. noi, e per cui unica realtà è quella umana, o meglio quell'ordine che scaturisce dall'egemonia delle passioni e per mezzo di cui l'uomo si libera dalle passioni stesse; egli, perciò, poteva, ma. solo su di un piano indicativo, postulare, simile all'ordine che la ragione stessa costituisce, un ordine supremo é provvidenziale, presentando se stesso, di volta in volta, come esempio di saggio, di uomo libero, appunto, dalle passioni, dalle adulazioni di quella ch'era la quotidiana vita della Roma ._di Caligola, di Claudio e di Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio in questi nostri· tempi per dimostrare ch'egli non può essere corrotto da noi, mentre noi non possiamo essere educati da lui, uomo perfetto nella sua saggezza, anche s'egli per primo lo nega, assolutamente coerente nel suo modo d'agire, di un'eloquenza adeguata ai piu forti pensieri, senza ornamenti, senza faticosa ricerca d'espressione, ma che con superba fieqezza, nella foga della ispirazione, persegue l'esposizione di idee personali. Se a Demetrio la Provvidenza ha dato simile costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra generazione non mancassero -:-·· ··!! modello né rudi lezioni. Se un qualche dio offrisse a Demetrio i nostri beni in assoluta proprietà, ma a condizioni che non ne potesse far dono, egli, certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non mi lego ad un simile peso, di ;c.."ui non potrei sbarazzarmi, né l;lscio che il mio essere, da tutto s~a'nciato, affondi nel profondo pantano delle ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti? Che neppure accetterei per farne dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe ingiusto dare... Lasciami libero, lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,' le mie •vere ricchezze: il regno ch'io conQsco è il regno della sapienza, grande, sicuro; io, cosf tutto posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono avere ..." (De benefieiis, VII, 8, 2-9; 10, 6). Quando C. Cesare gli volle far dono di 200.000 sesterzi, li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio ebbe una parola· di sublime grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché vide Gaio [Caligola] abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo cambiare un'anitna come la sua. "Se era deciso a provarmi," disse, "non sarebbe stato affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta dell'impero" (De benefieiis, VII, 11). Demetrio, il migliore degli uomini, si accompagna sempre a me, ed io, trascurando la compagnia dei grandi porporati, converso pieno di ammirazione per quel semi nudo. E come non ammirarlo? Mi sono accorto che nulla gli manca. Qualcuno può disprezzare tutto; invece ad avere tutto nessuno ci riesce.
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La via piu breve per arrivare alla ricchezza è quella di disprezzarla. Quanto al nostro Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni cosa, ma come chi ne lascia ad altri il possesso (Epist. a L., 63, 3).
Non a caso, sotto questo aspetto, furono ritenuti "stoici;" e tali si proclamarono, uomini come Trasea Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato, assertori della libertas della Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto Nerone, l'altro, Elvidio Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita. L'accusa contro Trasea Peto fu ch'egli faceva parte di "quella setta che ha generato un tempo i Tuberone e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica repubblica; essi vogliono la libertà per sovvertire gli ordinamenti dell'impero ... Invano avrai tolto di mezzo Cassio, se sopporterai di vedere crescere in potenza gli emuli dei Bruti ... Egli non ha mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del principe o per la sua divina voce; da tre anni non ha piu posto piede nella Curia ... Egli non attende ormai che agli affari dei suoi clienti ... Un tale atteggiamento è già un'opposizione nel nome di un partito: secessio iam id et pars est ... " (Tacito, Annali, XVI, 22). E Tacito, narrando il momento della morte di Trasea, alla presenza di Demetrio, cosi dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si abbandonavano a pianti e a lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre il pericolo di compromettere la propria sorte con quella d'un condannato... Come il sangue sprizzò fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare il questore e "libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o giovane, guarda e fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio. Sei, per altro, nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo spirito con esempi di fermo coraggio." Dette queste parole, poiché la lentezza della morte gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio ... (Annali, XVI, 34-35). Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto, si vede bene l'arco del significato assunto dal termine "stoicismo" : esempio di vita ordinata e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l d'essere, ad un postulato ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero, opposizione politica, esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i termini estremi di quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di Seneca. Se egli, appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, e per altro verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che avrebbe dovuto essere la vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione (non teoretica) dello stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni concezione vale per quello che essa ha di successo, in certe ben precise situazioni, cercò, finché gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale, operando su amici, e, soprattutto, ripetiamo, su Nerone.
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Formatosi entro i termini di un generico "stoicismo" di sfondo, Seneca si servi di tale concezione per formulare quello che avrebbe dovuto essere l'" uomo ideale" e, per altra via, lo Stato e la società ideali, indipendentemente dai piu gravi problemi teoretici, impliciti nei vari aspetti assunti dalla posizione stoica. Se altra fosse stata la prima educazione di Seneca, egli avrebbe potuto benissimo accogliere, in funzione della sua polemica morale, anche l'ipotesi epicurea. In realtà Seneca non si preoccupa affatto di quella che sia la struttura in sé della realtà, rendendosi conto anzi - vicinissimo in questo a Demetrio - di come tale questione, dibattuta nelle scuole, sia divenuta una questione logicogrammaticale, e come proprio le analisi logiche, in gran parte condotte proprio dagli stoici e dagli scettici, abbiano portato a dimostrare l'impossibilità di ogni passaggio dalle parole alle cose. Ora, puntando sulla scolastica distinzione della filosofia in fisica, logica, etica, Seneca taglia via la fisica come scienza a sé - su questo piano egli si riduce a una pura descrizione dei fenomeni fisici e delle opinioni : cfr. N aturales quaestiones - assumendo quella "fisica" che poteva apparire meno contraddittoria quale fondamento di una certa etica, fondandosi su di una logica che rendesse conto che lo stesso ben pensare è ben vivere, per cui vita etica è ad un tempo vita logica. Seneca rifiutava cosi quella logica che tutto risolvendo in sé, in una mèra realtà di parole, si precludeva ad ogni significato e senso delle cose, sofisticamente. Di qui, sembra, la polemica di Seneca nei confronti del diffuso neo-pirronismo e dello stesso stoicismo logico, che davvero potevano finire nel silenzio e nell'inazione, anche se, su di un piano conoscitivo, egli accettava la sospensione del giudizio sui fondamenti primi (decreta) della realtà, se non quando questi potevano servire alla formazione di una vita misurata. e razionale, a determinare certi modi di vivere (praecepta). Sia pur detto fra parentesi, non sembra senza interesse che Seneca, con linguaggio giuridico, chiami decreta i principi stessi su cui legalmente si costituisce la realtà, e praecepta, appunto, le norme del vivere, i cui limiti sono determinati dai decreta (cfr. Ep. a L., 95). Cosi, ad esempio, dopo avere a lungo discusso, molto acutamente e con molta precisione, sul significato di -rò ISv, tradotto in latino con essentia e con quod est, e su come si debbono assumere i termini genere e specie, e dopo aver fatto vedere il significato di genere, specie, quod est, idea, idos, in Platone, in Aristotele, in alcuni Stoici (cfr. Ep. a Luc., 58), cosi esclama Seneca, rivolgendosi a Lucilio: Dirai: "A cosa possono giovarmi codeste sottigliezze?" Se lo chiedi a me, nulla. Ma come un cesellatore distrae e solleva gli occhi a lungo intenti e affaticati, e, come si suole dire, li ristora, cosf noi dobbiamo di quando in
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quando concedere riposo al nostro animo e dargli nuove. forze con 't!ualche .divertimento. Ma pur questi divertimenti non siano ozio: anch'essi, se saprai profittarne, potranno offrirti qualche utilid... çhe còsa meno contribuisce alla trasformazione dei costumi, .::be i problemi avanti trattati? Come mi possono rendere migliore le idee platoniche? .Che posso cavare da esse, per infrenare le mie passioni? Eppure basta anche questo,. che Platone nega la realt~ di tutto ciò che ·è soggetto ai nostri sensi, e ci infiamma e ci attira. Dunque noi abbiamo da fare con fantasmi, che solo per qualche tempo offrono una certa apearenza, ma non hanno né stabilita né solidiù ... Rivolgiamo l'animo a auello che è ~erno..; (Ep. a Lue., 58, 25 sgg.). E ancora, nella lettera 65 a Lucilio, dopo avere discusso il motivo delle cause, esponendo la tesi degli Stoici,· Seneca afferma: • Dicono gli Stoici che nella natura due sono gli elementi, da cUi nascono tutte le cose, la causa e la materia; la materia è inerte, pronta a tutto ciò che se ne '-:uol fare, immobile se nessuno la muove: la causa, invece, cioè la ragione, dà forma alla materia, la elabora a suo piacere e ne trae le opere sue; bisogna, dunque; che vi sia· il principio onde una cosa è fatta e il principio che la fa, questo è la. causà, quello la materia; ... le cose tutte sono il risultato dell'elemento. paziente e della forza ·agente; per gli Stoici l'uniça causa è la. forza agente" (Ep . .. U4C., 65, 2-4); discutendo Aristotele dichiara che quattro sono le cause per Aristotele: la materiale, l'efficiente, la formale, la finale (id., 65, 4-7); di Platone, poi, dtce che: • aDe quattro cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama idea, ed il modello che l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare; non ha importànza poi se questo modello egli l'abbia avuto sotto gli occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà immaginazione e tenuto cos{ presente: questi esemplari di tutte le cose Dio li ha in se .stesso, e di tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la misura: egli è pieno di tutte queste misure, da Platone chiamate idee, iJlUilOitali~ immutabili, instancabili; cinque sono dunque, come dice Platone, le ç.ause: quella di che, quella da che, quella in che, quella su che, queU:: "pr.r· che; fi.òalmente quella che da tutte queste deriva" (id., f5, t-.ill). Seneca, dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta la folla -delle cause ad t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima pc:l ciò ed oi>erante, Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono molte e singole caUse, ma dipendono insieme da una sola, da quella che opera" (id., 65, 12), cosi, alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua sentenza, o, co~'è piu comodo in simili. problemi, di' pure che non ci vedi chiaro e rimandaci a nuove indagini. Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a perdere il tempo in siffatli problemi, che no~
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ti liberano da nessuna passione, che non scacciano dal tuo animo nessuna cupidigia? • lo, in verità, dò la preferenza a quei problemi che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me stesso e soltanto dopo mi occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come credi, il mio tempo; poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono spezzettate, se non si disperdono in queste vane sottigliezze, innalzano e sollevano l'animo... E la filosofia conforta l'anima con la contemplazione della natura, innalzandola dalla terra alle regioni celesti... Tale contemplazione non poco contribuisce a liberare l'animo: sicuramente l'Universo consta della materia e di Dio, il quale stando in mezzo ad esso lo governa come signore e come guida.•. Quel posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo l'anima... Siamo perciò forti contro i casi della sorte... Che è la morte? O la fine o un paSsaggio. Di non esistere piu non temo, perché è lo stesso che non aver cominciato ad esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo potrò stare cos( a disagio (Ep. a Lue., 65, 15 sgg.).
Le Lettere a Ludlio sono tarde, di quando già Seneca era stato cOstretto ad abbandonare la vita politica e sempre pi6 profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la "nausea dd secolo, • ma, certo, ancora qui, l'opzione per una divinità reggitrice del tutto, l'ipotesi che tutto provenga daii'Uno (Dio), uno Che non è se non nel suo realizzarsi in atto nell'ordine dell'Universo, in una interpretazione stoica del Timeo di Platone ("Dio è la mente dell'Universo, è tutto ciò che vediamo e tutto ciò che non vediamo: egli solo è tutte le cose•: Natur. quaest., l, praef., 13), per cui Dio non è nessuna cosa, ma essendo la ragion d'essere di tutte, tutte le trascende, avendo in sé tutte le forme, unità e molteplicità ad un tempo, Uno e intelletto e anima (sotto questo aspetto si può parlare, accanto a uno stoicismo epicureo di Seneca, di un suo stoicismo neoplatonico); ancora nelle tarde Lettere a Ludlio e nelle tarde Questioni naturali, tale ipotesi resta consapevolmente tale, ipotesi: cioè. credibile in quanto utile a vivere da uomini, speranza e non conclusione scientifica, ché su tale piano, in realtà, l'analisi della logica e del linguaggio, dovrebbero anzi portare a SQSpendere ogni giudizio. Anche gli uomini piu grandi ci lasciarono opinioni, non soluzioni definitive, ma problemi da risolvere... Certo perdettero molto tempo in chiacchiere e cavilli e in sottigliezze sofistiche, inutili esercizi dell'ingegno. Noi facciamo dei nodi, intrecciamo parole a doppio significato per darne poi la soluzione. Abbiamo poi tanto tempo da impiegare? Sappiamo morire? Bisogna attendere con tutte le forze della nostra mente a guardarci dalle insidie non delle parole, ma delle cose. Che mi vai facendo distinzione tra vocaboli affini, che possono trarre in inganno soltanto in una disputa? Il nostro errore è intorno alle cose e su queste mi devi illuminare (Ep. a L., 45, 5). Non filologia è la filosofia (Ep. a Luc., 108, 24), non cavilli di parole,
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capziose dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto del giuoco, non mi ci diverto piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere felice, se guarda solo a se stesso, se tutto fa convergere al proprio vantaggio: bisogna tu viva per il tuo vicino, se vuoi vivere per te. Questo vincolo sociale, che unisce gli uomini tra di loro e che attesta esservi una legge che abbraccia tutto il genere umano, se è osservato con diligenza scrupolosa, giova moltissi~o anche a mantenere quella piu stretta società, che è l'amicizia, e della quale ti parlavo. Colui che sente di avere molte cose in comune con un altro, solo perché questi è un uomo, avrà tutto in comune con l'amico. Questo, ottimo Lucilio, vorrei che sapessero insegnarti codesti cavillatori: quali sono i miei doveri verso un amico, quali verso un uomo qualunque, anziché in quanti modi possa esprimersi il concetto di amico e quanti significati abbia la parola uomo... Invece mi si storce il senso delle parole e mi si dànno delle sillabe staccate. Ah sf, se non avrò costruiti arguti sillogismi e raccolto entro una falsa conclusione una menzogna scaturente da una premessa vera, non potrò distinguere quello che devo seguire da. quello .che devo sfuggire. Mi vergogno, a questa età, di divertirmi a scherzare in materia cosf grave! Mus (topo) è una sillaba; il topo (mus) rode il formaggio; dunque la sillaba rode il formaggio. Ammettiamo ch'io non riesca a sciogliere questo nodo: qual pericolo mi sovrasta da simile ignoranza? Senza dubbio c'è da temere che qualche volta prenda due sillabe nella trappola o che, se sarò trascurato, un libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia piu ingegnoso quest'altro sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba non mangia il formaggio: dunque il topo (mus) non mangia li formaggio... (Ep. a Luc., 48, 2~.
Si può, certo, dire per il I secolo ciò che, acutamente è stato detto per il xv secolo - senza dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche vicino al I d. C. - essere falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei suoi maestri ufficiali, ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi morali, nei trattati politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di seguito. In realtà, "la ricerca filosofica delle scuole era giunta al limite di un tecnicismo esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema arrivava si a un culmine, ma senza possibilità di sortl!. La perfezione di una logica che sostituiva i suoi calcoli e i suoi segni alla realtà dell'esperienza si esauriva in una conclusione. E quando la via è chiusa, il ritorno alle origini, ai principt, e la ricerca di altre direzioni, si impongono... Il rivolgersi a campi diversi da quello logico e fisico, ossia al mondo dell'esperienza morale e artistica; il ritorno dalle esasperazioni teologiche - di una teologia ridotta a dialettica - alla ricchezza della carità, dell'amore come diretto contatto con Dio: ecco le caratteristiche di un momento culturale ben definito" (E. Garin, Cultura filosofica toscana e veneta del secolo XV, "Rinascimento," Seconda Serie Vol. Il, Firenze, 1962, p. 65).
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Tale, mutando quel che è da mutare, l'esperienza di Seneca, assai vicino, per altra via, di fronte alle chiusure del diffuso scetticismo, nella ricerca di nuove direzioni, che premevano, alla problematica di Filone l'Ebreo, e a quella che, già dal tempo di Seneca, si delinea in una ripresa di certi motivi platonici, pitagorici e stoici, anche se diverse furono le conclusioni di Seneca. <:;ondannato, fin dalla nascita, alla morte, disperso nei suoi fantasmi, che sono, nell'immediatezza, le cose e le passioni, preso da questo o da quel fantasma, s1 come un folle che si fissa su una o altra delle infinite immagini che lo costituiscono, sempre perciò deluso, sempre nel terrore d'essere sopravanzato da altri, chiuso nelle sue stesse parole, dolore, disperato, determinato dalla nascita a una o ad altra situazione, schiavo dei propr~ fantasmi, re o servo che sia, tutti schiavi, illusione tutto, l'uomo, per chi appunto si sia reso conto ch'egli è nulla di fronte al tutto ("chiunque esso sia, o dio possente tra tutti o ragione incorporea, artefice di tante meraviglie, o divino spirito diffuso con uguale intensità per tutte le cose, le piu grandi come le piu piccole, o infine fato e immutabile concatenazione di cause tra loro connesse": Consolatio ad Helviam, VIII, 3), l'uomo desta un'infinita pietà. Ma proprio questa uguaglianza universale degli uomini, molteplici e diversi, per quanto molteplici, diverse, disarticolate sono le umane passioni e gli umani fantasmi, è il fondamento comune· per cui, attraverso l'educazione di sé (la filosofia in senso senechiano, che non è sapienza), scoprendo sé come ragione, cioè come capacità di con-vincere la passione, l'uomo si libera da sé, costruendo se stesso uomo ("difendi il posto che ti ha assegnato la natura; quale chiederai: quello di uomo": De constantia sapientis, XIX, 4), in un rapporto articolato con gli altri uomini, costituendo una societas, che rivela e postula ad un tempo l'ordine razionale del tutto, in una comune razionalità, che rende tutti - quanto piu ciascuno è se stesso, quanto piu misuratamente, cioè razionalmente, compie ciò che gli è proprio - uguali, per cui alla pietà si sostituisce il rispetto, che è rispetto dell'altro, non tanto per ciò che egli è, ma per quello che può essere. Cosa sacra è l'uomo all'uomo ... Come comportarci con gli uomini? ... Quali precetti daremo? Di non spargere il sangue umano? quanto poco è non nuocere a chi dovresti giovare! porgere la mano al naufrago, mostrare la via allo sperduto, dividere il pane con l'affamato? Per dire tutto ciò che va fatto ed evitato ... , eccoti una formula del compito dell'uomo: tutto quel che vedi, che contiene il divino e l'umano, è tutt'uno; noi siamo tutti membra di un grande corpo. La natura ci generò parenti, dandoci una stessa origine e uno stesso fine. Essa ci ingenerò un mutuo amore e ci fece socievoli ... E quel verso: "Son uomo, nulla di umano ritengo estraneo a me"
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(Terenzio, Heautantimorumenus, l, 54], ci sia nel cuore e sul labbro. Abbiamolo in comune: siamo tutti nati. La nostra società è tale quale una volta di pietre, che cadrà, se le pietre non si appoggiano a vicenda e cosf si sostengano (Ep. a L., 95, 33, 51-53}.
La riflessione su se stesso, sul proprio dolore,. sull'uomo conflitto di passioni, disperso in una molteplicità di se stessi e di fantasmi, se da un lato porta alla pietà, dall'altro lato, attravero questa, porta a comprendere che l'uomo, mediante se stesso, in quanto capacità di realizzarsi secondo ragione - cioè in una misura che è conquista e liberazione, - si libera da sé essendo davvero sé. Tra i molti magnifici detti del nostro Demetrio, questo... mi risuona e vibra tuttora nell'orecchio: niente -dice -mi pare piu infelice, che colui cui nessuna avversità mai sia capitata; poiché non ebbe modo di provare se stesso (De provitlmlia, III, 3). Hai passato la vita senza lotta: nessuno saprà mai quel che avresti potuto. Neppure tu stesso. Occorre la prova per conoscersi (De prov., IV, 3-7). Per non adirarti con i singoli individui, a tutti devi perdonare, all'intero genere umano concedere indulgenza... saggio sa che nessuno nasce saggio, ma tale diventa... Pertanto il saggio, sereno ed equo verso gli errori, non è nemico, ma correttore dei colpevoli ... Non è da uomo di senno odiare chi erra, altrimenti odierebbe se stesso... Quanto è piu vasta la norma morale che q11ella giuridica? Quante cose non esigono la pietà, l'umanità, la liberalità, la giustizia, la fede, che restano tutte fuori della legge?... Piu misurati ci farà il guardare dentro di noi, se ci chiederemo: non ho forse io stesso fatto alcun che di simile? Non ho mai peceato? Posso io condannare codeste colpe? (De ira, II, 10, 14, ~8). Solo attraverso il peceato si giunge all'innocenza (De clemmlia, l, 6).
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Chi è passato attraverso questa esperienza, chi ha coscienza che l'uomo può realizzare sé non piu in forma dispersa, ma coerentemente, sa che il suo ufficio, il suo dovere è di consolare, attraverso la meditazione sul dolore, sulle passioni, sulle sitlgole esperienze, sulle illusioni, l'uomo disperato (cfr. le Consolaziont) e di avviare sé e gli altri, prospettando quale dovrebbe essere il saggio, a tale saggezza, agendo, entro i limiti delle proprie possibilità, perché si realizzi quella societtu che libera e fa dell'uomo un uomo rispettoso ~ell'altro, della comune ragione, specchio della postulata universale ragione di essere, mediante cui si costituisce la res-puhlica cosmica, il cosmico Impero. Di qui la distinzione senechiana tra sapienza e filosofia: la sapienza è un ideale, la filosofia uno strumento, riflessione sulle proprie esperienze di vita e, ad un tempo, per ciò, liberazione dalle proprie unilateralità, convinzione e persuasione, retorica verace e consolazione, imVC-
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gno sociale, da distinguere nettamente dalle arti dette liberali, utili, ma nella loro unilateralita, non tali da formare l'uomo virtuoso (cfr. Ep. a L., 88). Sembra chiaro, ora, in che senso da un lato Seneca descriva l'uomo qual è di fatto, in questo mondo, in questa situazione politica, e, dall'altro lato, accanto alle indicazioni mediante cui l'uomo può liberarsi da questo suo attuale non essere uomo, prospetti l'uomo quale dovrebbe essere, di volta in volta disegni il ritratto del saggio, del sapiente, ddl'uomo consapevole di sé, misura, coerenza di sé con sé (constantia traduce Seneca l'homologhla zenoniana), e prospetti l'ideale rod~, l'ideale impero universale, che, a sua volta, si scopre adeguato alla postulata ragion d'essere del tutto, per cui, infine, accanto all'uomo quale dovrebbe essere, si pone la divinita qual è, in quanto termine di realizzazione, dovere e impegno. In ogni suo scritto Seneca, o per accenni o rievocando l'esempio di celebri figure o di proposito, disegna e prospetta il ritratto di quello che deve essere l'uomo, il "saggio" - anche nelle Tragedie, in cui il personaggio di Ercole assume la funzione dell'eroe stoico (cfr. R. Chevallier, Le milieu .rtoiden à Rome au r siècle après J.-Ch., in "Bulletin de l'Association Budé," Suppl. Lettres d'humanité, XIX, 1960, p. 547). Basti qui ricordare alcuni passi del De con.rtantia sapientir ed una pagina della Lettera 66 che sembra riepilogare i peculiari tratti del sapiente. Gli Stoici, che hanno scelto la via piu degna per un uomo, non si curano che essa sembri piacevole a coloro che la iniziano, ma che al piu presto li liberi e li conduca sull'alta vetta, che si innàlza al di sopra di qualsiasi tiro d'arco e domina persino la fortuna ... Libertà è sollevare l'animo al di sopra delle ingiurie, rendersi capaci di ricavare solo da noi stessi le nostre gioie, e staccarsi dalle cose esteriori, per non passare la vita nell'inquietudine come fa l'uomo che teme il riso e la lingua di tutti (De constantia sap., l, l; XIX, 3). Tale il saggio: un animo, che vede il vero, esperto nd conoscere quello che si deve fuggire e quello che si deve cercare, che delle cose fa stima non secondo l'opinione generale, ma secondo il loro valore intrinseco, che osserva tutto l'Universo e ne fa oggetto delle sue meditazioni, sentinella vigile dei propri pensieri e dei propri atti, grande e impetuoso nella giustizia, sordo ugualmente alle minacce e alle adulazioni, inconcusso nella buona come nell'avversa fortuna, superiore a tutte le contingenze e a tutti gli accidenti, ~issimo e ben regolato nella sua compostezza e nella sua forza, sano e semplice, imperturbato e intrepido, che non si piega per violenza, che non si inorgoglisce e non si abbassa per vicende di fortuna: un tale animo è la virtU in persona; questo sarebbe il suo volto, se si presentasse sotto un'unica forma e in un insieme tutta intera si mostrasse. Del
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resto essa offre molti aspetti, che si manifestano secondo i diversi casi della vita e le diverse attività. Il som,mo bene non può decrescere, né alla virtu è concesso andare indietro; ma assume qualità' diverse secondo la natura degli atti che sta per compiere (Ep. a L., 66, 6). E non dire, come dici di solito, che questo nostro sapiente non lo si trova in nessun luogo. Noi non ci foggiamo una gloria vana per l'ingegno_ umano e neanche vagheggiamo il fantasma ideale di un essere inesistente: come lo descriviamo, cosf l'abbiamo prodotto e lo produrremo, di rado forse e uno solo a lunghi "intervalli di tempo: del resto io mi domando se Marco Catone [uticense] ... non superi addirittura il nostro modello ... (De constantia sap., VII, 1). Ora, come Seneca delinea due uomini, l'uomo qual è e l'uomo quale dovrebbe essere (donde, per altro verso, si costituisce il conflitto della vita umana), cosi egli, per la prima volta chiaramente, parla di due Stati, di due res publicae, la Città degli uomini quali sono e la Città degli uomini quali dovrebbero essere, in una prospettiva dello Stato universale, specchio, appunto, dello Stato cosmico, per il quale il saggio deve lavorare, in nome del diritto naturale c che può costituire un saggio e giusto cosmo statale. Convinciamoci che esistono due res publicae: l'una grande e veramente publica, che comprende gli dèi e gli uomini, e nella quale non siamo confinati in questo o in quell'angolo, ma misuriamo con il sole i confini della nostra città; l'altra è la res publica a cui ci ha iscritto la condizione della nostra nascita (potrà essere quella di Atene o di Cartagine o di qualsiasi altra città) e non abbraccia tutti gli uomini, ma solo determinati uomini. Taluni lavorano contemporaneamente per ambedue gli Stati, il grande e il piccolo, altri solo per il piccolo, altri infine solo per il grande. Questo Stato piu grande possiamo servirlo anche vivendo ritirati, e forse anche meglio, ricercando che cosa sia la virtu; se una sola o parecchie; se siano la natura o lo studio a rendere buoni gli uomini; se questo insieme di terre, di mari e di tutto ciò che sta tra i mari e le terre, sia unico, o se la divinità ne abbia disseminati altri del genere nell'Universo; se la materia da cui nascono tutte le cose, sia una sola e compatta, oppure diffusa e con parti di vuoto mescolate alle solide; dove risieda la divinità; se contempli inerte o muova la sua opera; se l'avvolga dal di fuori o sia immanente al tutto; se il mondo sia immortale o da considerare tra le cose caduche e nate solo per un certo tempo. Chi riflette su questi problemi, quale servizio rende alla divinità? Evita che la sua opera rimanga senza testimoni. Noi siamo soliti dire che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura. La natura ci ha generati per ambedue i compiti: per contemplare e per agire,. (De otio, IV, 1-2). Senza l'azione non esiste contemplazione (De otio, V, 8). Di qui, per una via pio universale e meno legata all'esistenza di una certa classe che non quella di Cicerone, di coptro alla tirannide,
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di contro al conformismo dettato dalla paura, il richiamo di Seneca al motivo del cosmopolitismo stoico e al diritto naturale, fondamenti di una res publica umana, e, nei confronti dell'imperatore, alla concezione stoico-platonica del monarca filantropo, per cui l'essere imperatore è un dovere. Ma di qui anche il delinearsi del motivo del tirannicidio; con il conseguente richiamo a Cassio, e del suicidio politico, donde la sempre maggiore esaltazione della figura di Catone Uticense, e su di un piano di diritto naturale, se non di diritto positivo, la proclamazione dell'abolizione della schiavitu. Poche righe prima del testo del De otio sulle due Repubbliche - ricordiamo che il De otio, insieme al De constantia sapientis e al ·De tranquillitate animi, è dedicato ad Anneo Sereno, che dalle Lettère a Luci/io, composte tra il 62 e il 64, sappiamo essere morto da non moltissimo tempo, Lettera 63, per cui si pensa che le tre operette siano del 61-62 circa: degli anni in cui Seneca fu costretto ad abbandonare la sua diretta influenza su Nerone, - Seneca scriveva: Epicuro dice: "il saggio non si accosterà alla vita pubblica a meno che non intervenga una situazione particolare." Zenone dice: "egli si accosterà alla vita pubblica se non interverrà qualcosa ad impedirglielo." - Qui seguirò il parere degli stoici ... perché la questione di per se stessa vuole che io segua la loro opinione: seguire sempre il parere di uno solo è proprio della fazione, non del Senato [nel momento in cui Seneca scriveva il De otio è questa una frecciata abbastanza indicati va]. - Epicuro, dunque, vuole l'otium di proposito, Zenone, se interviene un motivo [è anche questo un richiamo assai significativo alla posizione di Seneca]. E i motivi possono essere molti: se lo Stato è troppo corrotto perché ci si possa trovare rimedio, o se è oppresso dai mali, il sapiente non si sforzerà inutilmente e non sprecherà se stesso senza poter servire a nulla. Se avrà poca autorità e poca forza e lo Stato lo respingerà, se la salute gli sarà di ostacolo, come non metterebbe in mare una nave in avaria, come non si arruolerebbe essendo infermo, cosi non intraprenderà un cammino che sa già impraticabile. Cosi anche colui che è ancora nuovo di esperienza e non si è ancora esposto alle tempeste, può rimanere al riparo e darsi subito allo studio... In realtà ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altrimenti a pochi, altrimenti ancora a se stesso. Infatti, rendendosi utile agli altri, egli agisce nell'interesse comune: come chi si rende peggiore non nuoce solo a sé, ma anche a tutti coloro che avrebbe potuto giovare essendo migliore, cosi chiunque fa del bene a se stesso giova per ciò solo anche agli altri, perché viene costruendo un essere che potrà riuscir loro di giovamento (De otio, III, 2, l, 3-5).
È questo un testo piuttosto importante, perché chiarisce ancora una volta il senso con cui Seneca assume certe posizioni stoiche, il
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significato- dato da Seneca alla filosofia come riflessione sulle proprie esperienze, attraverso cui ci modifichiamo e ci costruiamo uomini, prospettando Ja possibilità di realizzare l'uomo quale dovrebbe essere in rapporto con gli altri uomini, in funzione di una res publica hominum, cui giovano, a seconda delle istituzioni e per esse, modi diversi di azione, sia pure il ritiro dall'azione, o la presentazione di certi esempi di vita; ma anche perché in esso è molto chiaramente indicata la vita morale come problematica, come conflitto, COII}e dilacerazione della coerenza stessa, ché talvolta la coerenza sta nell'incoerenza, e perché qui, molto chiaramente, Seneca presenta il proprio caso, la sua stessa esperienza e problematica, come la problematica dell'uomo, quale che sia la situazione in cui ciascuno, sempre, viene· a trovarsi: ciascuno, sempre, in una sua certa situazione storica diversa. Già dal tempo della questura e dei suoi primi discorsi in Senato, Seneca fu tenuto in conto di pensatore e di parlatore di razza, il maggior uomo di cultura che avesse Roma in quel tempo. Dopo il pericolo corso per la sua libera orazione in Senato, salvatosi per intervento di una favorita di Caligola, Seneca dovette certo comportarsi con molta prudenza e tatto (dirà piu tardi nel De constantia sapientis: "Talvolta anche, per sdegno contro i potenti, sveliamo i nostri sentimenti con eccesso di libertà! Ma non è libertà il non tollerare nulla: questo anzi è un errore" : XIX, 3), se riusc{ a mantenere un posto di non poca importanza presso la corte, particolarmente legato di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Egli allora godette, senza dubbio, come lui stesso confessa nella Consolatio .alla madre Elvia (V, 4), di potenza, di onori, di danaro. Ma fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messalina, che, nel41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa della bellezza di Giulia, e dell'influenza che Giulia aveva sull'imperatore Claudio, riusc{ a fare sospettare di adulterio Giulia, tanto da farla cacciare da corte, e, poco dopo, da farla condannare a morte. Seneca fu coinvolto in questa losca montatura: forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Certo è .-:he Seneca, a causa di Messalina, fu condannato all'esilio e venne relegato in Corsica (•Non frutti di autunno né spighe d'estate né ulivo d'inverno; mai di primavera l'ombroso ristoro di un ramo: non pane né un sorso d'acqua né il fuoco per l'ultimo ufficio. Due cose sole son qui: l'esilio e l'esule": Epigramma, II, Haase). Fu durante l'esilio che Seneca scrisse la Consolatio alla madre Elvia, che è, ad un tempo una consolatio a se stesso, e la Consolatio a Polibio, in cui Seneca, con molta dignità, fa il tentativo di farsi richiamare. Uccisa Messalina, nel 48, assurse a potenza Agrippina, figlia di Germanico, che da un suo matrimonio con Gn. Enobarbo aveva avuto un figlio, Domizio. Agrippina,
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mediante sporche trame, riusd, morta Messalina, a farsi sposare, nel 49, dall'imperatore Claudio, suo zio. Agrippina, allora, fece revocare l'esilio di Seneca, per farlo tornare a Roma, in qualità di precettore del figlio Domizio. :t storia nota. Agrippina riusd, dopo loschi delitti, a far sposare il figlio Domizio con Ottavia figlia di Claudio e di Messalina, e, quindi, a fare adottare da Claudio Domizio, divenuto suo genero, contrapponendo, per la successione al trono, Domizio a Britannico, figlio legittimo di Claudio e di Messalina. Con il nome di Nerone, Domizio passava a far parte della gente Claudia. Nel 51, fu data a Nerone, che non aveva ancora compiuti quattordici anni, la toga virile. Agrippina aveva richiamato Seneca dall'esilio, in parte per fare cosa grata al pubblico che riteneva ingiustamente condannato da Messalina un uomo di gran valore, in parte perché sperava, legandolo a sé, di averlo consigliere delle sue trame politiche e perché educasse il figlio a seconda dei suoi intenti. Nota è la fine di Claudio, fatto, forse, avvelenare in segreto da Agrippina e note la proclamazione di Nerone a imperatore (nel 54, a 17 anni) e la fine di Britannico, nel 55, fatto uccidere da Nerone. ~ Seneca fu lontano da tali intrighi. Tacito che non si arresta, non che dinanzi alle colpe, dinanzi -i sospetti delle colpe, non ne fa menzione: ed egli attinge con preferenza alle fonti storiche piu ostili a Seneca. Seneca, che Agrippina revocò dall'esilio per averlo consigliere delle sue trame politiche e maestro di Nerone, restò maestro di Nerone; consigliere di Agrippina era un uomo in tutto degno di lei, il liberto Pallante. Quale fosse in quelle circostanze il contegno di Seneca non sappiamo. Sappiamo però che piu tardi, morto Claudio e proclamato Nerone imperatore, Agrippina, che già si credeva sovrana assoluta dell'Impero, dovette subito accorgersi che il suo ambizioso edificio era crollato: chi l'aveva abbattuto era Seneca" (Marchesi, cit., p. 30). Non pare si possa essere cosf ottimisti come il Marchesi, ma certo è che furono quelli, gli anni in cui Seneca, godendo di un certo ascendente sull'animo del giovanissimo Nerone (d'altra parte invidioso dello strapotere della madre), avendo cosf, insieme ad Anneo Burro, prefetto del pretorio, uomo misurato ed essenzialmente onesto, in mano la possibilità di dirigere in un certo senso lo Stato, si adoperò a migliorarne le condizioni, ad avviare Nerone ad essere principe nel senso stoico di moderatore, di guida, di egemonico di una res puhlica hominum. Sotto questo aspetto assumono un loro preciso significato le pagine violentissime di Seneca contro il tiranno (particolarmente Caligola, già chiaramente discusso nel De ira) e l'operetta, morto Claudio, contro il principe inetto, burattino, strumento di macchinazioni (Claudio, appunto, cosf sarcasticamente e comicamente descritto nel Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apokolocynthosis, l'inzuccamento di Clau-
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dio, cioè la consacrazione della Zucca: alla deificazione, apotheosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca rispondeva che, in effetto, era quella la deificazione di una zucca). Se le pagine, sparse in tutta l'opera di Seneca, contro Caligola e lo scritto contro lo sciocco e inetto Claudio, tendono a dimostrare quello che un imperatore non deve essere, il De clementia, scritto per Nerone, l'anno dopo la sua assunzione all'Impero, quando era consigliere politico e ministro, rappresenta da un lato il tentativo di delineare quello che l'imperatore deve essere, dall'altro lato, com'è stato detto (Marchesi, cit., p. 59), "il programma postivo di un vero uomo di Stato." Ben consapevole di precise situazioni, di non trascurabili ostacoli, di condizioni, in cui " si fanno cose che ottengono approvazione e che poi vengono punite" (De clementia, l, 4}, in cui "una persona non può andare a un pranzo con animo lieto, sapendo che persino nel brindare ha bisogno di controllare ogni parola" (De clem., l, 36}, nel De clementia Seneca opera con estrema cautela, ma sempre in funzione di realizzare, entro i limiti del possibile, uno Stato armonico, ove vada salvo il rispetto umano, la possibilità di costituire una res-publica hominum, mediante l'opera politica e riformatrice, interna ed estera, di Nerone ("Un saggio non farà l'elemosina s1 come la maggior parte di coloro che vogliono passare per compassionevoli; ma tutto ciò che darà lo darà come uomo che fa parte agli altri di beni comuni a tutti" : De clementia, II, 4, 2). Ciò che piu ha colpito del De clementia è stato in genere il suo aspetto formale, l'apparente adulazione di Seneca che presenta un Nerone potentissimo autocrate che, consapevole della sua enorme potenza, sa usarla a fin di bene, per costituire una società ordinata, e che consapevole della sua funzione di principe - in senso augusteo - in cui si assomma la nostra comune umanità, opera secondo il principio del monarca filantropo (cfr. sopra), con demenza, che Seneca chiaramerite distingue dalla misericordia (compassione) e dalla venia (perdono}, identificandola con la giustizia sociale. In realtà bisogna tener presente che il De clementia fu scritto quando Nerone aveva diciotto anni appena e che molti dei delitti, fino allora avvenuti, erano stati opera di Agrippina. Presentare Nerone sotto la veste del principe giusto e filantropo clemente (quando ancora vivissimo era il ricordo in Roma della ip.clemenza di Caligola e di Claudio, e il timore per Agrippina), dell'uomo consapevole del suo dovere di sovrano in funzione di una giustizia sociale, fu, proprio nei confronti del giovane e ambizioso Nerone, una mossa politico-retorica estremamente abile, un impegnare Nerone ad un'azione che fosse in contrasto con la pericolosissima linea seguita da Agrippina. In effetto Nerone, nei primi cinque anni del suo regno, si dimostrò clemente, moderatore degli abusi, accortissimo in politica finanziaria,
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nel tentativo di sollevare le classi meno ricche limitando gli abusi fiscali, fino a giungere alla proposta dell'abolizione di tutte le imposte dirette (proposta che fu bocciata dal Senato : una delle poche volte che il Senato seppe opporsi, rivendicando, per timore di perdere le proprie ricchezze, la sua libertà). Non solo, ma Nerone si dimostrò rispettoso delle prerogative del Senato e delle procedure giudiziarie, mentre cercò di risolvere, in favore dei libecci, il problema della schiavitu. "Intorno a quel tempo (56), si discusse in Senato"- scrive Tacito- "circa l'arroganza dei libecci e si insistette nel chiedere che fosse data ai patroni la facoltà di revocare la libertà a coloro che si erano resi colpevoli di ingratitudine. Non mancavano i fautori di questo provvedimento, ma i consoli non osarono prenderne l'iniziativa all'insaputa del principe, al quale, tuttavia, notificarono il consenso del Senato a tale disposizione. Nerone era incerto se dovesse farsi promotore di questa proposta, poiché discordi erano i pareri dei pochi intorno a lui; alcuni si indignavano perché l'irriverenza accresciuta con la libertà si era scatenata a tal punto che ormai i liberti godevano gli stessi diritti dei patroni, ne discutevano da pari a pari le opinioni... [Ci fu chi fece la proposta di revocare a tutti i liberti la libertà] ... Altri, invece, pensavano che la colpa dei pochi dovesse esser di rovina soltanto a loro e che non era il caso di menomare i diritti di tutti, poiché era evidente che la classe dei liberti era ormai diffusissima. Da essa in gran parte venivano le tribu urbane, le decurie, i dipendenti delle magistrature e dei sacerdozi, ed anche le coorti arruolate in Roma; non diversa origine avevano moltissimi cavalieri e parecchi senatori, tanto che, se si fossero posti a parte i liberti, sarebbe stata manifesta la scarsezza di uomini liberi. Ben a ragione gli antichi, pur ponendo una gerarchia di ordini sociali, avevano considerato la libertà come un bene di tutti ... Poiché prevalsero tali opinioni, Cesare rispose per scritto al Senato, ordinando di dar corso ai processi contro i liberti caso per caso ..., ma che non si prendesse alcun provvedimento generale di deroga ... " (Tacito, Annali, XIII, 26-ll). Tacito non fa il nome di chi sostenne di rispettare la libertà dei libecci, sottintendendo che per natura siamo tutti schiavi e tutti liberi. Certamente il consigliere che decise Nerone a favore dei liberti fu Seneca, ché alcune espressioni riferite da Tacito sono molto vicine a quelle senechiane, che leggiamo sia nel De beneficiis sia nella Lettera 47 a Lucilio. Ho provato molto piacere a sentire da quelli che vengono di costf che tu tratti i tuoi schiavi molto familiarmente, e ciò conviene alla tua saggezza e alla tua educazione. Sono schiavi? Uomini sono. Schiavi? Sono compagni di tetto. Schiavi? Umili amici. Schiavi? Compagni di servitu, se consideri che la Fortuna ha ubTUale potere su di essi e su di noi ... Quanti di questi
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schiavi non hanno alla loro mercé il padrone di una volta... Va ora a disprezzare un uomo di tale fortuna, quando .tu stesso potresti cadere in quello stato, nel momento stesso che lo disprezzi! Non voglio cacciarmi in un argomento troppo vasto e venire a ragionare intorno ~ modo come si debbono trattare gli schiavi, verso cui ci mostriamo tanto superbi, crudeli, arroganti, Tuttavia in poche parole ti dico: "Comportati verso gli umili come vorresti che si comportassero i grandi verso di te..." Ti sbagli, se credi che io sia per respingere alcuni perché sono a piu vile opera addetti, come per esempio quel mulattiere o quel bifolco: non li giudicherò dal loro mestiere, ma dai loro costumi. I costumi ognuno se li dà egli stesso, i mestieri li distribuisce il caso... Quel che di servile può aver loro attaccato il commercio con persone volgari, sarà corretto con la compagnia di persone piu educate. L'amico, caro Lucilìo, non cercarlo solo nel foro o nel senato ... Ma è uno schiavo! Che importa, forse è libera l'anima sua._ Mostrami chi non sia schiavo: uno lo è della libidine, l'altro dell'avarizia, l'altro dell'ambizione, tutti della paura... Nessuna schiavit6 è piu spregevole di quella che si abbraccia volontariamente... Qualcuno dirà ora che eccito gli schiavi alla rivolta e tento d'intl~bolire l'autorità dei padroni per aver detto: nutrano per i padroni piu reverenza che paura ... (Ep. a Luc., 47). In queste ultime parole sembra di rintracciare l'eco del ricordo della seduta del 56. Senza dubbio piu preciso è il ricordo di quella seduta e l'approfondimento della questione nel De benefiçiis. Nel De beneficiis, scritto nel 56 circa, l'anno, appunto, in cui Seneca nel Consiglio di Corte difese i liberti di contro agli interessi del Senato e di contro a chi sosteneva che lo schiavo essendo tale per natura non pu~ acquistare alcun diritto verso il padrone né alcun titolo di benemerenza, Seneca dice : Sostenere che uno schiavo non può in nessun caso esser benefattore del padrone, significa ignorare il diritto umano. Ciò che importa è il sentimento, non la condizione giuridica di colui che dà. A nessuno è preclusa la virtU: a tutti è accessibile, tutti ammette, tutti invita, liberi, liberti, schiavi, re, esiliati: essa non ha preferenze né per case né per censi, si contenta dell'uomo nella sua nudità... t un errore credere che la servit6 penetri in tutto l'uomo: la parte migliore ne è intatta. L'anima è interamente libera. La fortuna ha consegnato al padrone solo il corpo (De beneficii$., III, 19-20). Noi abbiamo tutti la stessa ~rigine. Nessuno è piu nobile di un altro, se non chi abbia ingegno piu retto e piu adatto alle buone arti. Coloro che espongono nel vestibolo le immagini degli antenati e gli alberi genealogici sono piuttosto noti che nobili. Per gradini, o splendidi o oscuri, ciascuno di noi risale a una sola origine... Chi oserà chiamare schiavo qualcuno quando egli stesso è schiavo della libidine o della gola, anzi servo comune di tutte le femmine adultere?... (De beneficiis, III, 28). [E nella lettera 31, 11, ancora Seneca scriverà: "Esser virtuoso è possibile tanto ad un cavaliere romano, quanto a un liberto, quanto a uno schiavo." "Ma che signi-
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fica cavaliere, liberto, schiavo? Sono parole nate o dall'ambizione o dall'ingiustizia. Da ogni angolo della terra è possibile slanciarsi verso il cielo" j.
L'appello di Seneca al sovrano, finché gli fu possibile, e la sua influenza diretta - entro i termini di un'abile convinzione, per riuscire ad un qualche successo - si mossero nel tentativo di determinare una· giustizia civile- obbedienza formale alle leggi. stabilite nel tempo dalle città terrene, - valida nella misura in cui sia capace di far proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della giustizia naturale (cfr. E. Garin, Giustizia, in "Revue internati~ naie de philosophie," 41, 1957, pp. 282-283). A parte le reali intenzioni di Nerone .e i compromessi, cui, volta a volta, possa essere addivenuto Seneca, certo è che il motivo fondamen; tale di Seneca è stato quello di rendere gli uomini consapevoli di sé, esseri razionali, ove per "ragione" si intende non un dato, ma la capacità comune a tutti, che ci fa tutti uguali, di riflettere sulle proprie esperienze umane, attraverso cui essere ciascuno se stesso in rapporto agli altri, non piu passioni unilaterali, ma articolazione e società, ché tale è l'uomo in quanto razionalità. E questo, per Seneca, deve essere l'impegno dell'uomo, di ciascuno per quanto a ciascuno compete, ciascuno consapevole dei propd limiti e perciò, entro questi, delle proprie possibilità. Se sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca interpreti l'affermazione stoica, che la virtU consiste nel "vivere secondo ragione" e • coerentemente," altrettanto chiara appare la dialettica senechiana tra la tesi che l'uomo è tale in quanto viva socialmente e la tesi che l'uomo è tale in quanto fugga la folla, donde, per altro aspetto, deriva la dialettica tra l'affermazione che siamo tutti schiavi e l'affermazione che sianlo tutti liberi; in conseguenza, se da un lato, sia pure come· estrema ratio politica, come esempio, quando non sia piu possibile vivere da uomini, né avviare - anche attraverso i pio gravi compr~ messi, sacrificando se stesso, ad essere liberi - è valido il suicidio, dall'altro lato suprema forma di viltà è il suicidio in quanto fuga dal proprio impegno umano, dal proprio essere sociale, atto unilaterale, e, ·perciò, irrazionale. Infelice, sei schiavo degli uomini, schiavo delle cose, schiavo della vita: una servitU è la vita, se manca la virtU del morire (Ep. a Luc., 77, 15). Pensare alla morte: chi dice questo, comanda di pensare alla libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire: è al di sopra di ogni potere, certo al di fuori. Quale carcere, guardia o catenaccio c'è piu per lui? ha libera la porta (Ep. a Luc., 26, 10). Chiedi quale sia la via alla libertà? Qualsiasi vena del tuo corpo (De ira, V, 15).
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Ma anche quando la ragione induca a farla finita, non si deve prendere la spinta all'impazzata e di corsa. L'uomo forte e saggio non deve fuggir... dalla vita, ma uscirne. E soprattutto eviterà quella passione troppo comune ..., l'inconsulta inclinazione a morire, che spesso prende anche uomini generosi e di fiera indole, spesso gl'ignavi e gli abbattuti; gli uni disprezzano la vita, gli altri non ne reggono il peso (Ep. a Luc., 24, 24-25). Talora, anche se vi siano cause incalzanti, bisogna, sia pur con tormento, richiamarsi alla vita per amore degli altri ... È grandezza d'animo riattaccarsi alla vita per amore degli altri, e spesso i magnanimi l'hanno fatto ... Chi non tenga conto della moglie o dell'amico, per restare ancora in vita..., non è un forte (Ep. a Luc., 104, 3-4).
Alcune delle proposte di riforma sociale, suggerite da Seneca, ebbero successo, altre no. Non sappiamo esattamente quale sia stata la partecipazione di Seneca nella drammatica lotta per il potere tra Agrippina e Nerone, culminata, com'è noto, con l'uccisione, ordinata da Nerone, di Agrippina (59). Certo è che dopo la morte di Agrippina, Nerone ascoltò sempre di meno Seneca, e dopo la morte di Burro - fatto avvelenare, sembra, da Nerone,- sostituito con l'inetto Fenio Rufo e con il terribile Tigellino, Seneca non ebbe piu alcuna voce e fu costretto a ritirarsi, anche se ufficialmente Nerone respinse le sue dimissioni e non volle che Seneca gli facesse dono delle sue ricchezze (si confronti il colloquio tra Seneca e Nerone riferito da Tacito: Annali, XIV, 53-56). "La morte di Burro rese vano ogni influsso di Seneca, perché i piu saggi consigli non avevano piu lo stesso potere, ora ch'era venuta meno, per cosi dire, l'altra guida del principe e Nerone era spinto dalla sua inclinazione verso i peggiori elementi. Costoro cominciarono subito ad attaccare con varie accuse Seneca, affermando che voleva aumentare ancora le sue ricchezze, che aveva già accumulato in modo eccessivo per un privato, e dicendo che faceva di tutto per attirare a sé le simpatie dei concittadini, osando quasi primeggiare di fronte al principe... e sostenendo che le cose buone dell'lmpero.erano dovute a lui ... " (Tacito, Annali, XIV, 52). "Seneca si allontanò dalla vita politica, facendo rare apparizioni in città, come se fosse trattenuto in casa a causa della salute cagionevole, o perché occupato negli studi di filosofia" (Tacito, Ann., XIV, 56). Furono questi gli anni del De otio, del D~ tranquillitate animi, del De prQtlidentia, del De beneficiis, delle N aturales quaestiones, e delle Epistulae mora/es ad Lucilium. In realtà Seneca, attraverso la sua opera, proponendo se .stesso come esempio di problematica morale e di dubbio (conloquor tecum, unQ scrutabimur: Ep. a L., 67, 2), proponendo la vita come conflitto e dia· lettica, sia pur per altra via proseguiva nel suo insegnamento. "Anch(
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quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi ... A seconda della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoveremo e non c'intorpidiremo, paralizzati dal timore" (De tranquillitate animi, V, 3-4); "ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini : se è possibile a molti, altrimenti a pochi, altrimenti ancora a se stesso" (De otio, III, 2, l, 4). Particolare interesse assumono ora, anche relativamente alla situazione e allo stato d'animo di Seneca in quest'epoca, le Naturales quaestiones. Chi vada ripercorrendo i vari motivi della riflessione senechiana, senza volere costruire un ben ordinato sistema di Seneca, si rende sempre meglio conto che la ricerca di lui si muove tutta entro l'àmbito del mondo degli uomini: da un lato nel riconoscimento che l'uomo è limite, dolore, disperazione, groviglio di unilaterali passioni, molteplicità; dall'altro lato nel riconoscimento che l'uomo si rivela a se stesso, attraverso la riflessione sulle passioni, sui propd fantasmi, su se medesimo, capacità di rendersi consapevole di sé, di costituire sé come ragione, cioè come possibilità di con-vinzione delle passioni, in un ordine che è misura e coerenza, di volta in volta, misura e coerenza sociali, per cui la riflessione medesima (filosofia) costituisce l'uomo come misura, istituisce un costume (mos) che è, ad un tempo, costume sociale, come rispetto e dovere, consapevolezza del proprio compito, entro i propd limiti (moralità). Sotto questo aspetto si vede bene perché, in fondo, a Seneca non interessasse chiudersi in una o altra sistemazione apparentemente scientifica, in una o altra ben definita e definitiva concezione dell'Universo e della Natura- una avrebbe potuto essere l'ipotesi epicurea,- se non perciò che l'uno o l'altro aspetto di una o di altra concezione potevano servire a rendere conto della formazione morale e sociale dell'uomo. Cosi, l'opzione di Seneca per l'aspetto piu semplice di certo stoicismo di scuola - tutta la realtà scaturisce quale deve essere dalla tensione del principio attivo e di quello passivo, costituendosi in un ordine, per cui ciascuna cosa assume un suo perché, una sua ragione entro i termini della ragion d'essere universale, la natura naturante- si determina non come dato a priori, ma come scoperta, attraverSQ la stessa scoperta (mediante la riflessione su se stessi) dell'uomo come razionalità. In tal senso la ragion d'essere del tutto si pone piu come ipotesi che come dato, come termine che si coglie attraverso noi stessi e che, perciò, ci trascende dal di dentro. E qui, in realtà, il discorso si fa diverso da quello stoico - se mai piu vicino, forse, a quello di Panezio e di Posidonio, - anche se vengono riprese certe argomentazioni, certi t6poi stoici, che, poi, non solo sono degli stoici (ad esempio, accanto alla riflessione su se stessi, la
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riflessione sul tutto che si rivela ordinato e scandito in leggi, da cui l'ipotesi di una suprema legge che provvede a tutto); e il discorso si fa quello di alcuni stoici, nel senso che quell'ordine, quella legge del tutto, quella stessa provvidenza non sono posti su di un piano antico, ma, ripetiamo, su di un piano etico, cioè si rivelano e si scoprono attraverso la stessa riflessione etica, divenendo termini di speranza, non di dimostrazione scientifica. Altro è perciò il piano della fisica, altro quello della logica. E se da un lato la riflessione etica prospetta l'uomo come razionalità, mediante cui l'uomo si libera da se stesso passioni, frantumi e fantasmi; dall'altro lato rende consapevole l'uomo dei suoi stessi limiti, della sua condizione estremamente infelice e determinata, consapevolezza senza di cui, comunque, non vi sarebbe moralità, ma ancora una volta passione e tracotanza. Compromettere la realtà ad un ordine già dato e necessario, sostenere che tutto è già fatalmente costituito, sarebbe stato negare la stessa possibilità della vita morale, la possibilità di rendersi consapevoli di sé, di educarsi e di correggersi; s( come sarebbe stato un negare la moralità, la stessa esperienza umana, sostenere la libertà, la mancanza di un qualsivoglia limite, di una qualsivoglia condizione. Non a caso su di un piano ontico e fisico, anche relativamente all'immortalità o no dell'anima, Seneca non conclude mai, sospende il giudizio, ponendo le varie tesi come ipotesi; mentre sul piano di una quotidiana esperienza chiarisce che Jòuomo è limite, è chiusura, è nulla di fronte all'immensità dell'infinito Universo; solo che, appunto, tale sentirsi nulla, tale riflessione sulla propria miseria, sulla infinita natura che circonda e schiaccia l'uomo, fa sorgere nell'uomo - e anche questa è un'esperienza- la consapevolezza di sé come capacità, entro i propri limiti, di costituirsi razionalmente, cioè moralmente. Se da un lato, dunque, poteva scrivere in una delle sue prime opere (Consolatio ad Marciam, 19, 5): '"Liberazione di ogni ambascia è la morte: piu in là non si estende l'umano dolore. Essa ci ripone in quella pace nella quale fummo prima di nascere_, La morte non è né bene né male: quello può esser bene o male che è qualche cosa; ciò che per se stesso è nulla e ogni cosa riduce in nulla non ci rimette a fortuna: non può esser misero chi è nulla"; se ancora molto dopo scriveva: '"Non v'è differenza alcuna tra il non nascere e il morire; ché uno è l'effetto: non essere" (lAt. a Luc., 54, 5); '"l'anima lascia questa vita per una vita migliore, destinata a rimanere nella calma luminosa delle cose divine; oppure esente da ogni incomodo, si ricongiungerà alla sua natura e ritornerà nel gran tutto" (lAt. a Luc., 61, 16); dall'altro lato, posto che la realtà della vita umana ha i suoi termini tra la nascita e la morte, giunto alla fine della sua vita, Seneca scrive: '"Mi compiacevo l'altro giorno di pensare, anzi di cr~d"~ all'immortalità dell'anima, e credevo volentieri
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alla opinione dei grandi uomini che di una cosa tanto consolatrice ci danno piuttosto la promessa che non la prova: e mi abbandonavo a tanta speranza, dabam me spei tantam" (Lett. a Luc., 102, 1-2). Entro questi stessi termini, l'indagine sulla natura non ~ per Seneca un'indagine mediante cui determinare principi che rendono pensabile, cioè scientificamente conoscibile, la realtà, ma è meditazione sulla natura; mediante cui liberarsi dalle umane distrazioni e dispersioni, mediante c;UÌ rendersi conto di quanto misero, nullo, piccolo, sia l'uomo quotidiano, tutto preso dalle sue passioni, dai suoi fantasmi. E, ancora una volta, tale visione della natura, infinita, ordinata nelle sue leggi, che smaga l'animo dell'uomo, avvia l'uomo a scoprire sé come ragione, a postulare che tutto sia retto da un'infinita ragione, passando analogicamente dal noto all'ignoto. Se ti vuoi persuadere che la natura ha voluto essere contemplata e non solo guardata, pensa al luogo che ci ha assegnato: ci ha posti nel suo centro, offrendoci la visione completa dell'universo; e, per rendergli agevole la contemplazione, non solo ha creato l'uomo eretto, ma perché potesse seguire gli astri dal loro sorgere al loro tramontare ·e volgere il suo viso a seconda del moto dell'universo, gli ha dato un capo rivolto verso il cielo e un collo flessibile. Poi, facendo ruotare i segni zodiacali (sei durante il giorno e sei durante la notte), ha dispiegato dinanzi all'uomo tutta se stessa, per ispirargli, attraverso la visione delle cose che gli offre, il desiderio di contemplare anche le altre. Infatti noi non scorgiamo tutte le cose né le vediamo nella loro giusta grandezza, ma il nostro sguardo si apre la via all'investigazione e· riesce a gettare le fondamenta del vero, cos{ che la ricerca può passare dal noto all'ignoto e concepire qualcosa di piu antico ancora del mondo... (De otio, V, 4-5).
E anche questa è una spertmza e un'esperienza. Una speranza in quanto l'ordine e la razionalità si pongono come un bene da realizzare; una esperienza in quanto la scoperta della presenza in sé della propria razionalità, la capacità di porre in sé misura e armonia ~ tanto lontano dall'essere un fatto umano, che si rivela come presenza di un valore super umano. Tale il Dio di Seneca: da un lato la ragion d'essere del tutto, del tutto nella sua totalità razionale e ordinata, in senso stoico; dall'altro lato, la possibilità nell'uomo di costituirsi razionalmente, lo stesso sorgere della coscienza come consapevolezza di sé, dei propri limiti ed entro questi del proprio impegno. Di qui, da una parte, U rifiuto dell'ipotel!i fisica di Epicuro, che smarrisce l'uomo nel caso, dall'altro lato l'appello epicureo ad un annullamento dell'uomo nell'eterno riposo del nulla. Certo, a tale concezione di Dio, immanente e trascendente a un
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tempo, Seneca chiaramente giunse nell'ultimo periodo della sua meditazione, anche se fin dal principio poneva come ipotesi la tesi stoica di un tutto frutto della tensione del L6go.r (Dio), principio attivo, e della materia (quantità, principio passivo). Nelle ultime opere, dal De beneficii.r alle Lettere a Lucilio alle Questioni naturali, sempre piu Seneca insiste sull'esperienza del divino in noi, inteso come la stessa coscienza, e sulla meditazione intorno ai fenomeni della natura (donde le Quae.rtione.r natura/es, che per il resto sono una descrizione di fenomeni) che, di là dalla nullità dell'uomo, rivelano la presenza di una suprema e provvidente divinità. ~ sembrato cosi che in Seneca vi sia un'oscillazione tra due concezioni di Dio: un Dio inteso come natura naturan.r, mente dell'Universo, tutto ciò che si vede e non si vede, rettore e custode dell'Universo, signore e artefice di quest'opera, al quale ogni nome conviene (cfr. Nat. quae.rt., l, praef. 13, 14; Il, 45), sempre in atto ed entro cui si svolgono in processo circolare tutte le vicende delle cose, il nascere e il perire, necessariamente; e un Dio trascendente, esigenza e speranza, posto oltre la natura. Certo è che la meditazione su Dio di Seneca non è una teologia, né una rivelazione da .parte di Dio come lo sarà nel çristianesimo. Si capisce, comunque, in che senso Seneca abbia avuto un'enorme influenza sui pensatori cristiani, tanto che di lui essi potranno dire, Seneca .raepe no.rter; mentre, per altra via, si scrisse, tra il IV e il v secolo, una serie di lettere che si finse essere un epistolario tra Seneca e San Paolo. "Tra la filosofia di Seneca e la religione di S. Paolo," ha scritto il Marchesi, "è un abisso; per Seneca l'uomo redime se stesso con l'opera della ragione, per San Paolo si lascia redimere da Dio nell'abbandono della fede; nel Cristianesimo Dio è il salvatore degli uomini, nella dottrina di Seneca l'uomo è il salvatore di se stesso... Per Seneca è la .rapientia che distrugge ogni culto positivo, vale a dire ogni superstizione, con lo spietato· esercizio della ragione. Dicono che Seneca sia tanto vicino al Cristianesimo coloro che, dimenticando del Cristianesimo l'essenza positivamente religiosa, giudicano soltanto attraverso alcune formule vaghe di moralità e di umanità... [Chi sa quale sarebbe stato] il giudizio di Seneca, se accanto al seggio di suo fratello Gallione in Corinto [che doveva giudicare Paolo] avesse sentito annunciare da San Paolo che Gesu era il Cristo morto e risuscitato per affrancare gli uomini dalla legge del peccato e della morte" (Marchesi, cit., p. 420). In realtà la problematica senechiana sul divino è un altro aspetto della meditazione di Seneca sull'esperienza morale dell'uomo. Su questa linea sembrano particolarmente interessanti e indicativi due testi di Seneca: l'uno relativo all'indagine scientifica, in cui chiaramente appare come Seneca, nettamente distingua il tipo della ricerca
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scientifica dal tipo della: ricerca filosofica (il tipo della ricerca scientifica .si fonda sull'ipotesi e sulla descrizione del fenomeno, lasciando aperta la possibilità di altre ipotesi, di altre ulteriori ricerche; la ricerca filoSofica, invece, si fonda sulla meditazione di se stessi, ed è strumento per costruire se stessi, attraverso la meditazione stessa, per cui, appunto, la filosofia non è né la fisica né la logica, né la matematica, ma è da un lato moralità e dall'altro lato consolatio, o, sotto questo aspetto, convinzione, cioè retorica e politica); l'altro testo relativo alla meditazione sulla natura come capace di liberare l'uomo dalle sue ostinate illusioni, in una rivelazione a sé del divino come esigenza e presenza di una mancanza, che è la scoperta della stessa consapevolezza e della razionalità, della possibilità umana della constantia. Nel primo testo, che si trova nelle N aturales quaestiones, discutendo sulla natura delle comete, dopo aver esposto l'ipotesi di Epigene, seguace di Aristotele, secondo il quale le comete si formano come una specie di fuoco trascinato in alto da un vortice, e l'ipotesi di Apollonio di Mindo, suo contemporaneo, secondo cui le comete sono astri separati come il sole e la luna, e dopo aver rifiutato l'ipotesi di certi stoici secondo i quali le comete son fiamme improvvise, Seneca, che in parte propende per l'ipotesi di Apollonio di Mindo, cosi conclude: Perché dovremmo sorprenderei se un fenomeno cosmico tanto raro come quello delle comete non può venire inquadrato nell'àmbito di leggi regolari, e se non ne possiamo conoscere né l'inizio né la fine, poiché esse compaiono a intervalli di tempo tanto grandi? ... Giorno verrà che le cose ancor celate a noi trarrà alla luce il tempo e la diligenza di piu lungo corso di secoli; a cosf grande ricerca non basta una sola età ... Molte cose ignote a noi sapranno le genti delle età future ... (Nat. quaest., VII, 25, 30-31). Nel secondo testo, cui àlludevamo, dice, invece, Seneca: Quando ci saremo sollevati alla vera grandezza [la grandezza della natura], quante volte vedremo marciare degli eserciti a vessilli spiegati, e la cavalleria, come fosse gran cosa, ora lanciarsi in esplorazione all'avanguardia, ora riversarsi alle ali, potremo ripetere volentieri: "Va il nero sciame pei campi" [Virgilio, Eneide, IV, 404]; evoluzioni di formiche sono le nostre: nessuna differenza è fra esse e noi, tolta l'estrema esiguità del loro corpo. Su di un solo punto noi navighiamo e combattiamo e stabiliamo i nostri imperi, minimi imperi, anche se avessero per limite i due oceani; sopra di noi sono gli spazi grandi, che l'anima solo può possedere. t tanto l'errore dei mortali che alcuni di essi guardano il mondo, questo miracolo di bellezza, di armonia e di bontà, come un prodotto fortuito, in balla del caso, e perciò tumultuoso in mezzo ai fulmini, alle nubi, alle tempeste e a tutti gli sconvolgimenti della terra e dell'atmosfera: e non è solo pazzia
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dd volgo codesta, ma di uomini che hanno professato la sapienza. Alcuni, pure ammettendo l'esistenZa di un'anima umana previdente e moderatrice, credono che questo grande tutto, del quale anche noi siamo parte, è privo di intdligenza ed è mosso dal caso o dalla natura ignara di· quello che fa [ove è evidente il rifiuto ddl'ipotesi fisica dell'epicureismo] ... Osservare queste cose [se vi sia un dio che abbia fatta la materia o se l'abbia soltanto adoperata, se l'idea preceda la materia o la materia l'idea, se Dio fa tutto ciò che vuole, oppure no, se dalle nubi del grande artefice escano opere difettose non per difetto dell'arte ma della materia ribelle all'arte e cos{ via], osservare. queste cose, studiarle, vegliare su di esse, è oltrepassare i limiti della mortalità e trasferirsi a pi6 alto destino; e se nessun altro frutto rica· veremo da codesti studi, ci basterà soltanto sapere che tutto è angusto allorché avremo misurato Dio (Natura/es quaest., I, praef., 10-17). E cos{ Seneca esclama in una Lettera a Luci/io (41, 1-2): Non c'è bisogno d'innalzare le mani al cielo, né pregare il custode dd tempio che ci lasci accostare alle orecchie del simulacro, perché meglio ci esaudisca: vicino a te è Dio, con te, dentro di te ... Un sacro spirito risiede entro di noi, osservatore e custode della nostra malvagità e bontà; e nella Lettera 73, 16: Ti meravigli che un uomo vada verso gli dèi? .Dio va verso gli uomini, anzi, pi6 propriamente, viene negli uomini: nessun'anima senza Dio è virtuosa. Semi divini sono diffusi negli umani corpi (Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines venit, immo quod est propius, in homines venit: nulla sine deo mens bona est. Semina in corporibus humanis divina dispersa sunt ...). Dopo la morte di Burro (62 d. C.) e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato e terribile divenne il governo di Nerone. Le uccisioni e i delitti si susseguirono alle uccisioni e ai delitti. Si ordf allora una congiura. Capo di essa ne fu Calpurnio Pisone. Vi aderirono "a gara senatori, cavalieri, soldati e anche donne, tanto accesi da odio contro Nerone, quanto da simpatia per C. Pisone" (Tacito, Ann., XV, 48). La delazione di un liberto e la debolezza di due congiurati che non seppero resistere allo spavento delle torture - mentre la liberta Epicari, torturata, eroicamente si uccise piuttosto che parlare - fece scoprire la congiura. Ci fu chi rivelò che capo della congiura era Pisone - si pensava anzi, se la cosa fosse andata, di proclamare Pisone imperatore - e si aggiunse anche il nome di Seneca, "forse per procurarsi il favore di Nerone che odiava Seneca e che cercava ogni mezzo per sopprimerlo" (Tacito, Ann., l.c.). Sembra, comunque, che una parte
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dei congiurati avesse realmente pensato a Seneca piuttosto che a Pisone come possibile imperatore. Non sappiamo niente di un'azione diretta di Seneca. Di fatto sappiamo che Seneca, accusato di accordi con Pisone, fu condannato a morte, come a morte furono condannati Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Era l'anno 65 d. C. Nerone comandò di andare da Seneca con l'ordine di morire... Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli si impediva di dimostrare la sua gratudine, lasciava a loro la sola cosa che possedeva e la piu bella, l'esempio della sua vita. Se avessero di questa conservato ricordo, avrebbero conseguito la gloria della virtU come compenso di amicizia fedele. Frenava, intanto, le lacrime dei presenti ora col semplice ragionamento, ora parlando con maggior energia e, richiaD'laJI.dO gli amici alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro la fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai piu, dopo avere ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro. Come ebbe rivolto a tutti queste parole ed altre dello stesso tenore, abbracciò la moglie e, un po' commosso dinanzi alla sorte che in quel momento si compiva, la pregò e la scongiurò di placare il suo dolore e di non lasciarsi per l'avvenire abbattere da esso, ma di trovare nel ricordo della sua vita virtuosa dignitoso aiuto a sopportare l'accorato rimpianto del marito perduto. La moglie dichiarò, invece, che anche a lei era stata destinata la morte, e chiese la mano del carnefice. Allora Seneca, sia che non volesse opporsi alla gloria della moglie, sia che ,fosse mosso dal timore di lasciare esposta alle offese di Nerone colei che era unicamente diletta al suo cuore: "Io ti avevo mostrato," disse, "come alleviare il dolore della tua vita, tu, invece, hai preferito l'onore della morte: non sarò io a distoglierti dall'offrire un tale esempio. Il coraggio di questa fine intrepida sarà uguale per me e per te, ma lo splendore della fama sarà maggiore nella tua morte." Dette queste parole, da un solo colpo ebbero recise le vene del braccio. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e indebolito dal poco cibo offriva una lenta uscita del sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia, e abbattuto da crudeli sofferenze, per non fiaccare il coraggio della moglie e per non essere trascinato egli stesso a cedere di fronte ai tormenti di lei, la indusse a passare in un'altra stanza. Anche negli estremi momenti non essendogli venuta meno l'eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò molte pagine, che testualmente divulgate tralascio di riferire con altre parole. Pertanto Nerone, non avendo alcun rancore personale contro Paolina, moglie di Seneca, dette l'ordine d'impedirne la morte perché non si accrescesse l'odiosità della sua ferocia. All'imposizione dei soldati, i servi e i liberti legando le braccia trattennero il sangue a lei che non sappiamo se di tutto ciò avesse o no la sensibilità ... Visse ancora pochi anni, conservando
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sacra memoria del marito, nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno palese della vitalità perduta. Seneca, frattanto, protraendosi la morte lenta, pregò Anneo Stazio da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di propinargli quel veleno [cicuta] già da tempo provveduto, col quale si facevano morire gli Ateniesi condannati i~ pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò invano perché il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai refrattario all'azione del veleno. Alla fine, entrò in una vasca piena d'acqua, spruzzandone i servi piu vicini a lui\~ dicendo di fare con quel liquido libazione a Giove liberatore. Fu portato poi in un bagno a vapore dove mori soffocato. Fu cremato senza alcuna solenne cerimonia funebre, come aveva prescritto nel suo testamento, quando ancora nel pieno della ricchezza e della potenza aveva dato disposizioni intorno alle sue ultime volontà (Tacito, Annali, XV, 61-64).
E non molto tempo prima della sua condanna, certo dopo la sua caduta in disgrazia, quando si era ritirato da quella vita politica che non era piu politica e per la quale non c'era piu nulla da fare, se non con l'esempio di una verace vita ragionevole e perciò stesso, per altro verso, di una verace vita politica, cosi scriveva Seneca a Lucilio (Lett. 26), quasi concludendo il suo discorso, la sua riflessione in cui consiste la stessa moralità: Vicino al momento della prova, vtcmo a quell'ultimo giorno che deciderà di tutti i miei anni, cosf veglio su me stesso e mi parlo. Fino a oggi, dico, non ho fatto nulla di sicuro né con gli atti né con le parole, indizi lievi e ingannevoli dell'animo. Alla morte affiderò il mio profitto. Pertanto io mi preparo coraggiosamente a quel giorno in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò di me stesso, e farò vedere se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia la mia sfida gettata alla fortuna. Non conta nulla la stima degli uomini: essa è sempre dubbiosa ed è accordata tanto al vizio quanto alla virtu; non contano gli studi di tutta la vita: la morte sola è il giudice nostro. Le dispute filosofiche, le dotte conversazioni, i precetti della sapienza non dimostrano la vera forza dell'animo: anche gli uomini piu vili hanno linguaggio da ero~. Le opere tue appariranno solo all'ultimo tuo sospiro. Accetto questa condizione: non temo il tribunale della morte (Lett., 26, 4-7).
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Capitolo terzo
Le componenti culturali tra il I e il lL secolo d. C.
l. "Platonismo," "pitagorismo" e "stoicismo" tra ili e il Il secolo Per chi non si affidi a semplicistiche e nette distinzioni manualistiche nel delineare la formazione della cultura nell'arco di tempo che va dalla seconda metà del I secolo agli inizi del m secolo d. C., sembra difficile insistere su precise posizioni, diverse le une dalle altre, chiaramente distinguibili per èaratteristiche proprie. Parlare di "neopitagorismo, " di "platonismo medio," di " stoicismo cinicheggiante," di "gnosticismo," di "ermetismo" e cosi via, come di blocchi avulsi da un comune terreno e da comuni reciproche influenze, che non si scandiscono nel tempo e non rispondono a comuni esigenze, è falsare il significato di una viva cultura, di problemi concreti, niente affatto cristallizzati, quali, invece, appaiono a noi nella noia di una tradizione scolasticizzatasi. Non solo, ma altrettanto fuorvianti sono le stesse denominazioni indicative: "platonismo," "stoicismo," "pitagorismo." Tali denominazioni non indicano nulla: se mai possono evocare uno o altro aspetto di uno o altro platonismo o stoicismo o pitagorismo determinatisi storicamente. Sappiamo che se già in Platone vi sono molti Platone, se già in Aristotele vi sono molti Aristotele, molti sono stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi e gli aristotelismi, s1 come molti, nel tempo, sono stati gli stoicismi, per non parlare dei modi diversi con cui ha giuocato la leggenda di Pitagora. Dopo Platone e dopo Aristotele, di Platone e di Aristotele si sono andati riprendendo, volta a volta, quegli aspetti che piu rispondevano a certe esigenze e problematiche, in funzione di concezioni che con Platone e Aristotele, considerati storicamente, non avevano piu nulla di comune. Abbiamo veduto quale Platone e quale Aristotele abbiano potuto tener presenti certi stoici e come quegli stessi aspetti di Platone o di Aristotele si siano potuti trasfigurare, in interpretazioni che a loro volta
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sono venute trasfigurando le originarie posizioni stoiche (si ricordi, ad esempio, la storia dell'Accademia profilata da Filone di Larissa ·e la storia dell'Accademia profilata invece da Antioco di Ascalona: cfr. sopra). Abbiamo cos1 veduto come sul piano del tentativo - d'altra parte già implicito nell'ultimo Platone - di rendere pensabile l'Essere, costitUito dal mondo delle idee, si sia sciolto l'Essere stesso in quantità misurabile e traducibile in termini numerici: di qui, pio tardi, si è potuto ricostruire tutta la realtà scandendola in numeri e figure geometriche. E se questo, per un verso, è stato detto • pitagorismo," per altro .verso quello stesSo pitagorismo, nel suo tradurre le leggi del tutto in numeri, ha potuto servire sia all'astronomia di. tipo stoico sia allo stesso stoicismo, nella sua interpretazione fisico-matematica del Timeo di Platone (si cfr., per esempio, già èicerone, Rep,ubblica, I, 15). Per altra via, la critica acuta e inesorabile delle condizioni, che rendono possibile il ragionare umano, portava a mettere in dubbio l'adeguazione dell'intelletto e della cosa - condizione prima perché sia possibile la conoscenza delle strutture ddla realtà in quello che la realtà è, e ch'era stata, sia pur in via ipotetica, la tesi prima di Platone, - in una precisa dimostrazione che ogni concezione del tutto è opinabile e controvertibile. Non si scordi, qui, la linea che va da Arcesilao a Carneade, i quali, non a caso, interpretano il platonismo nel suo aspetto problematico e aporetico, socrauco; e piu ancora la linea che va da Enesidemo ad Agrippa tra il I a. C. e il I d. C. Poiché, in fondo, gli stessi scettici presuppongono l'esistenza di una realtà per sé, oltre le possibilità umane, si vede bene di qui, in opposizione al neo-pirronismo che finiva con l'estraneare l'uomo dalla realtà, involgendolo in un puro giuoco di parole, dove tutto è giuoco di parole, la ripresa di certi motivi platonici, pitagorici, aristotelici. Cos(, rendendosi conto della validità ddla critica scettica, si accetta quella realtà presupposta, giungendovi, per analogia, in termini logici, cioè optando per quelle concezioni che appaiono meno contraddittorie e piu capaci di dare una • forma" e un senso alla vita (da Antioèo di Ascalona ad Ario Didimo a Seneca, che hanno potuto essere a un sempò stoici e platonici). Oppure, sempre entro i termini di un platonismo e di uno stoicismo di sfondo, che accetta la concezione di un tutto ordinato e scandentesi in ben fisse e precise leggi, la v~sione degli astri e dei mondi regolati da leggi e cos1 via, che è oramai un t&pos, cui poteva servire certo primo Aristotele ç> certo Aristotele fisico, interpretato in chiave stoica (si ricordi lo pseudo aristotelico De m un do, composto appunto nel I secolo d. C.), si poteva sostenere che, proprio perché l'uomo è incapace e limite, proprio perché l'umana ragione resta sul piano umano, è quella stessa verità trascendente che scende all'uomo, che all'uomo si rivela (si pensi a Filone l'Ebreo e, per altro verso, ancora a Seneca).
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Oppure, ancora - certo in ambienti piu popolari, meno intellettualmente scaltriti - abbiamo il recupero di Pitagora mago e taumaturgo, di quello che il Dodds ha detto il Pitagora sciamano, egli stesso considerato piu che anima in senso greco (forza vitale e unifiéatrice), anima divina, personale, trascendente, che si incarna di volta in volta in uomini che, esprimendo perciò il verbo di Pitagora, essi medesimi novelli Pitagora, si presentano come salvatori, facitori di miracoli, profeti. D'altra parte va sottolineato che entro questi termini, entro questa esigenza comune, non è neppure un solo aspetto dell'interpretazione di Platone né un solo aspetto dell'interpretazione del pitagorismo né di Aristotele che vengono assunti. A seconda delle difficoltà, nel tentativo di spiegarsi la realtà e il suo significato in funzione dell'umano vivere e della umana condizione, a seconda degli stessi ambienti nei quali e per i quali si cerca di operare, delle tradizioni, delle polemiche in ari ci si viene a trovare, ci si appella a uno o altro aspetto delle interpretazioni di Pitagora, o di Platone o di Aristotele. O ci si rifà all'ultimo Platone dialettico (Teeteto, Parmmide, Sofista, Filebo), puntando su di una certa interpretazione dell'Essere Uno che si costituisce in una molteplicità; o al Plat~me interpretabile come avente posto una relazione con l'Uno, con il divino in termini intuitiv~, mistici. O ci si appella al pitagorismo pi6 strettamente matematico,· capace di rendere conto in termini numerici e di misure (in ciò razionali) della stessa visione platonico-stoica di un universo uno e inolteplice a un tempo, sia esso poi dovuto all'atto proprio di un Dio trascendente e che tale resta o di un Dio che tale si costituisce e si riconosce nello stesso costituirsi della realtà tutta; oppure ci si rifà a un pitagorismo interpretabile come spiegazione della stessa "platonica" unione mistica mediante il motivo della purificazione delle anime divine, distinte e altre dai corpi, dalla materia, in un conflitto fra .i due principi del Bene e del Male, dal quale si sfugge se, ele.tti dal dio, si compiono certi esercizi (ascen), si· conduce una certa vita ("vita pitagorica "), cos1 che non poco suggestivi divengono certi misteri orientali e l'interpretazione in questa chiave dei misteri greci (dionisismo e orfismo) e di quelli egiziani, insieme agli aspetti cultuali operativi dell'astrologia. Di qui la presentazione di esempi di "vita pitagorica," di esempi di vita ascetica, oppure di uomini che sostengono di essert Pitagora reincarnato, che compiono miracoli e cos{ via. Ma anche, di qui, in ambienti a pi6 alti livelli, attraverso la ripresa del pitagorismo matematico-geometrico, del platonismo dialettico, dell'Aristotele protrettico e di certe parti piu platoniche della Fisica e della Metafisica, ma anche degli aspetti piu formali della logica (Categorie, Topici, Primi tmaliticr), che, innestandosi ad alcune parti della logica stoica, potevano servire da esercizio e introduzione, da avviamento alla visione
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platonico-stoica, insieme agli aspetti piu teologici e ontici della fisica stoica, si fa il tentativo di oltrepassare il mondo umano, per giustificare proprio quel mondo umano che le correnti critico-scettiche ed epicuree abbandonavano a se stesso: le une chiudendo l'uomo nelle sue stesse parole, negandogli ogni contatto e senso della realtà e della vita; le altre dando all'uomo una responsabilità paurosa, in una rivolta al divino ch'era, pur sempre, una rivolta alle autorità costituite, in un ambiente, in cui, di fatto, non v'era un popolo, in quanto mancava il concetto e la coscienza della sua realtà, o meglio altra n'era la coscienza. Sono, questi, motivi assai diffusi, tra il I e il 11 secolo d. C., che si intrecciano e si trovano talvolta giustapposti in uno stesso autore. Non solo, ma di essi già chiara traccia si ha, come abbiamo veduto, in Filone l'Ebreo, che certo sfruttava una tradizione interpretativa ormai cristallizzatasi; in certi testi magico-astrologici e magico-alchimistici di origine egiziana; in testi che costituiranno poi il corpus ermetico; nell'insegnamento della Scuola romana dei Sestii (tra pitagorica e stoica); nel diffuso metodo allegorico, nella diffusissima simbolica dei numeri e nelle molte pratiche magico-terapeutiche (cfr. sopra). In altra sede sarebbe ora il caso di riportare tutta una serie di testi (da Cicerone, da Ario Didimo, da Manilio,. da Filone, da Seneca, da passi astrologici e chimici certamente del I a. C.) per confrontarli con tutta un'altra serie di testi ripresi da Moderato di Gade (I d. C.), da Nicomaco di Gerasa (I d. C.), dall'autore dei Theologumma (I d. C.), dalla Tavola di Cebete (I d. C.: opera attribuita al pitagorico Cebete di Tebe, scolaro di Socrate, in cui si dà un'interpretazione allegoricosimbolica di tono pitagorico-stoico delle raffigurazioni dipmte in un quadro), da Apuleio (n d. C.), da Plutarco (n d. C.), da Numenio di Apamea (11 d.C.). Vedremmo coincidenze impressionanti, ma soprattutto ci renderemmo conto di come una certa tradizione culturale, particolarmente formatasi tra il 11 e il I secolo a. C. (vedi sopra), sfruttando e ritagliando testi pio antichi (Platone, Aristotele, il •pitagorismo" platonico-matematico, lo stoicismo di tipo Cleante - si veda in tal senso Antioco di Ascalona), giuochi ora, tra il I e il 11 secolo d. C., in funzione di una comune esigenza, ma in un approfondimento e sviluppo dell'uno e dell'altro motivo, a seconda non solo dei livelli sociali, ma anche della formazione culturale dell'uno o dell'altro autore e dell'ambiente in cui ciascuno si _è venuto a muovere. Entro questi limiti si possono, forse, riprendere i termini • pitagorismo" "stoicismo"- in senso molto lato,- qualora con l'uno e l'altro termine ci si riferisca a pio motivi, confluenti, ad ogni modo, in una comune concezione, diversificantesi relativamente ai modi di intendere lo strutturarsi della realtà. Cos( possiamo anche dire pitagori••anli e
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platonizzanti quelle posizioni che, nel tentativ(\ di rendere pensabile la intuita ragion d'essere del tutto, sulla scia della antica interpretazione di Speusippo e di Senocrate, traducono il discorso del reale in termini numerici e geometrici, donde tutta una simbolica di numeri. Solo che in tal caso, ed è molto indicativo, in realtà non ci si riferisce direttamente alla figura di Pitagora, ma al Pitagora quale avrebbe risuonato in Filolao ed Archita, da cui avrebbe, a sua volta, ripreso Platone (particolarmente il Platone del Timeo) e da Platone poi certe posizioni stoiche e lo stesso Aristotele. Non a caso già dal 1 secolo a. C., a parte la notevole diffusione ch'ebbe il Timeo, erano circolati testi sotto il nome di Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intellectu et sensu, De sapientia: cfr. framm. in Stobeo, Ecl., I, 41,2 e 5, 48,6; Il, 2, 4 W.; Giamblico, Protr., 3), di Onato di Crotone (De deo et divino: cfr. fr. in Stobeo, Bel., l, l, 39 W.), e un opuscolo Sull'anima del mondo, attribuito a Timeo di Locri, che è, senza dubbio, un'interpretazione stoica del Timeo di Platone, e molte altre opere andate sotto il nome di Pitagorici antichi, che vennero raccolte dal re Giuba II di Numidia (50 a. C.-23 d. C.) (si confronti Cicerone, Rep., l, 15 e la sintesi di Antioco di Ascalona). Si vede bene come, in questa direzione "pitagorismo," "platonismo," "stoicismo," potevano servire a rendere conto di una visione ordinata e armonica della realtà, tale, appunto, in quanto possibile d'essere misurata (razionalizzata) e per cui. i numeri divenivano i simboli stessi delle cose, la ragion d'essere della realtà, e dove assumeva un suo significato scientifico l'astrologia e la divinazione, lo studio delle rifrazioni dei lumi stellari (da cui anche gli studi di ottica e di diottrica), lo studio di tecniche, mediante cui operare su quei numeri stessi, sulle animen!Jmeri, sui dèmoni-numeri, interpretati come leggi intermedie tra la suprema ragion d'essere (la monade) e il costituirsi delle cose sensibili, in un ordinamento (di diade in diade) della informe materia (appunto perché informe, essa non numero, non ragione, non essenza). E qui si ripresentava il grosso problema dell'eternità del mondo uno nell'unità di Dio sempre in atto, ove i cangiamenti sono interni a ciascuna realtà nell'ordine del tutto -per cui in effetto nulla cangia, - o del mondo le cui qualità si scandiscono nel tempo attraverso la·tensione qualificante del principio primo, che agisce, mediante il realizzarsi dei modelli in atto in lui, sulla informe materia, da cui il processo del mondo e una degradazione del mondo fino al limite materia, l'ostacolo che resta e su cui, perciò, si può operare. Entro questi termini ci si rende conto della polemica tra coloro che sostengono l'interpretazione del tutto in chiave stoico-aristotelica (ove forse giuocava ancora una certa tesi di Panezin) e coloro che sostengono la tesi del mondo che ha una realtà
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temporale, in un conflitto tra il principio attivo e la materia informe e pura quantità dalla cui tensione si costituiscono in gradi le qualità, pensabili in quanto numerabili, numeri che divengono le stesse leggi dell'esserci fisico, geometrico delle cose, oppure in quanto costituirsi di cose, rifrazioni del principio divino, anime divine, in una graduazione fino al limite materia (stoicismo interpretato in chiave platonico-pitagorica: forse con influenze di Posidonio). Sotto questo secondo aspetto sembrano evidenti il significato e l'importanza dati alla magia operativa da un lato e, dall'altro lato, intermediario il filosofo, che in sé rivive l'anima di Pitagora, egli dèmone, l'importanza data all'insegnamento purificatorio, incantatorio, terapeutico, in funzione degli incolti, sui quali piu facile è, mediante certe tecniche, operare una purificazione, sapendo giuocare sulle forze occulte, nervose (demoniache e divine), o sulle diete e abitudini di vita, sulle incantagioni musicali, danzatorie, e cultuali. E si badi che in questo secondo caso, invece di rifarsi al pitagorismo razionale, a un modo d'interpretare il Timeo, risalendo ad Archita e a Filolao, ci si rifà direttamente a Pitagora, o meglio al Pitagora della leggenda (che sembra già risalire alla perduta Vita di Pitagora di Aristotele), alla "Vita di Pitagora," di Pitagora "sciamano," anima personale che s'incarna di volta in volta, che si allontana per certi periodi dai oorpi, che compie miracoli, di Pitagora, in realtà, medico e iatrosofista, sr come lo fu Empedocle, a cui, appunto, ora, Pitagora viene avvicinato (cfr. I vol.). Non a caso - sotto questo secondo aspetto - fino dal I secolo a. C. erano circolati un De Pythagora, un De IIÌrtute e un De pietate attribuiti a Theano (d. SudoJ, Stobeo), la leggendaria sc6lara di Pitagora/ mentre si scrivevano versi, sostenendo ch'erano dello stesso Pitagora. Basti, qui, rileggere i 71 versi dei Detti aurei (Xpua« ~). : Onora anzitutto gli dèi, come vuole la legge e rispetta il giuramento. Onora quindi gli eroi gloriosi e i geni terrestri, agendo in conformità delle leggi. Abbi rispetto per i tuoi genitori e per quanti maggiormente ti sono legati da parentela. Fatti amico di chi è migliore di te per virt6... La Potenza abita vicino alla Necessità. Sappi ciò e abituati a dominare le seguenti passioni: il ventre, il sonno, la lussuria, l'ira... Sii giusto nell'agire e nel parlare... Non ti comportare sconsideratamente. Sappi che è destino di tutti 1 Ricordiamo qui anche un De virtulibus del 1 sec. d. C.,. scritto sotto l'inftucnza di Antioco di Ascalona, attribuito a Theagcs (cfr. in Stobco, Ecl., III, l, 117, W.); un De pnulenlia et felicilllte (cfr. in Stobeo, D, 8, 24), attribuito a Critone; un De animi lrtmquillilllte attribuito a lpparco (Stobco, Ed., IV, 44, 81); un De virt~~~e, attribuito a Mctopo di Sibari (Stobeo, Ed., III, l, 115); un De re publica c un De feliCÌIIIte (Stobeo, Ecl., IV, 39, 26; IV, l, 93-95; IV, 34, 71) attribuiti a Ippodamo di Turii; un De vita (Stobeo, Ecl., IV, 39, 27) attribuito a Eurifamo.
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morire. Le riccb,ezze sappi ora acquistarle, ora perderle••• Non si deve trascurare la salute del corpo, ma bisogna essere moderati nel bere, nel mangiare, negli esercizi. Chiama misura quella che non ti nuocer~. Abituati a una vita semplice... Ottima è la moderazione... [Attraverso una vita ordinata e misurata ci si colloca] sulle orme della divina vimi: sf, per colui che alla nostra anima rivelò la tetraJc.tys, fonte dell'eterna natura... Conoscerai che in tutto c'è una uguale natura, s{ che nulla tu speri d'impossibile e nulla ti sfugga... Saprai che gli uomini soffrono per mali ch'essi stessi si procurano: infelici, che avendo vicini i beni, non li vedono e non li odono. e pochi sanno come liberarsi dai mali ... Oh padre Zeus, ceno tu potresti liberare tutti da molti mali, se a tutti mostrassi qual è il loro Dèmone [la propria condizione]. Ma tu stai di buon animo, perché divina è la stirpe degli uomini, ai quali la natura, svelando i suoi misteri, mostra ogni cosa. E se tu in pane apprenderai queste cose, conseguirai ciò che io ti prescrivo, e guarirai e libererai l'anima da questi travagli. Astienti dai cibi di cui -ti parlai; nelle purificazioni e nella liberazione dell'anima agendo con giwtizia, e considera ogni cosa ponendo in alto la ragione, ottima guida. Che se, lasciato il corpo; giungerai al libero etere, sarai ·un dio immonale e incorruttibile, non piu un mortale. Cosi, d'altra parte, apriva il suo Commmto ai D~ti aurei Ierocle di Alessandria (metà del v secolo): "La filosofia è purificazione e perfezione della vita umana; purificazione dalle affezioni della bruta materia e del corpo monale; perfezione in quanto restituisce all'uomo la beatitudine propria della vita e lo riconduce a farsi simile alla divinità (7tpbç ~v .k(«V 6tJ.o(6>atV ~ " Sembra, infine, interessante ricordare che questo secondo aspetto della ripresa pitagorica, in funzione educativa e precettistica, a cui poteva servire anche la CII vita platonica" e CII stoica" - interpretata in senso purificatorio-terapeutico, - soprattutto lo troviamo nelle aree, diremmo, culturalmente depresse, piu che nella vecchia Grecia, in quei paesi ove la cultura si manteneva ai livelli delle classi superiori.
2. Tra platonismo e pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudoOC'ello. Moderato di Gades e NiC'oma&o di Gerasa Rintracciamo, cosi, una netta linea che risale al I secolo a. C. circa, a carattere piu strettamente razionalistico-matematico, in una interpretazione di motivi platonico-stoici, in funzione di una comprensione logica del tutto, dell'unica divinità. Tale linea - a parte il fiorire dd complesso di trattatelli pseudo pitagorici cui abbiamo fatto cenno si scandisce dal pitagorico Alessandro Poliistore di Mileto, vissuto nel
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I secolo a. C., che compose un'opera sui Simboli pitagorici é una Successione dei filosofi (sfruttata da Diogene Laerzio), al trattatello Sulla natura del Tutto (mpl Tijç -rou 1tor.vròç cpoaewc;); opera senza dubbio di scuola, certo composta nel I secolo d. C., attribuita al pitagorico Ocello lucano, i cui scritti sarebbero stati conosciuti da Platone attraverso Acchita (è dimostrato che le lettere che Platone e Acchita si sarebbero scambiate e da _cui si rileva la notizia dell'interesse di Platone per Ocello, furono messe in circolazione proprio tra il 1 a. C. e il I d. C.; e che non senza significato è il voluto accostamento tra Platone e i pitagorici Archita e Ocello). L'operetta dello pseudo-Ocello si può, per altro verso, avvicinare al De mundo dello pseudo-Aristotele. In ambedue le opere troviamo lo stesso sforzo di risolvere in termini razionali l'unità e molteplicità dell'Universo in una sola unità in cui giuocano - come abbiamo già veduto per il De mundo motivi stoici, aristotelici, platonici. Opera divulgativa, il trattatello Sulla natura del Tutto riproponeva in termini drastici la questione dell'Uno tutto, tutto in atto, aristotelicamente, o l'altra questione dell'Universo tempo e gradualità. Entro questi termini si svolgerà la linea del "pitagorismo platonico" e del "pitagorismo aristotelico," in realtà tra di loro molto piu vicini, nel comune sfondo stoico, di quanto possa sembrare a prima vista, anche se talvolta di contro all'unità che tutto risolve in sé si opporrà una realtà ribelle, una materia, che spieghi di contro al razionale e al comprensibile, e per ciò stesso Bene, l'irrazionale, l'incomprensibile, cioè l'assurdo, il Male, portando ad estreme conseguenze il rapporto Intelligenza-Necessità del Timeo platonico e la morale tensione stoica tra azione e passione, in cui consiste la virtu come fatica e pena, ed ove è senza dubbio presente una certa ispirazione del dualismo iranico (cfr. poi Plutarco). Dice, dunque, Alessandro Poliistore, secondo quanto riferisce Diogene Laerzio:
Alessandro, nelle Successioni dei filosofi afferma di aver trovato anche queste cose nelle Memorie pitagoriche. Principio di tutte le cose è la monade: dalla monade nasce la diade infinita, che sottostà come materia alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i numeri; dai numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle figure piane le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quattro: fuoco, acqua, terra, aria che mutano e si svolgono per il tutto, e da questi risulta il cosmo animato, intelligente, rotondo che contiene al centro la terra anch'essa rotonda e abitata ... Nel cosmo v'è luce e tenebra in parti uguali, e caldo e freddo, e secco e umido; quando prevale il caldo v'è l'estate, quando il freddo l'inverno (quando il seeco la primavera e quando l'umido l'autunno); se il freddo e il caldo sono in equilibrio si hanno le
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parti piu belle dell'anno ... L'aria che è intorno alla terra è immobile e malsana e tutto quanto è in essa è mortale; ma l'aria altissima è in eterno moto e pura e salubre e tutto quanto è in essa è immortale e perciò divino. n sole e la luna e gli altri astri sono divinità, ché in essi prevale il caldo che è causa di vita. Vi è affinità tra uomini e dèi, per il fatto che l'uomo partecipa del caldo; ed è questa la ragione per cui la divinità è nostra provvidenza. Il fato governa il tutto e le parti ... Tutta l'aria è piena di anime, ritenute dèmoni ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i segni di malattia e di salute e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e a tutte le altre bestie. E per essi si fanno le purificaziorii e i sacrifici apotropaici e ogni specie di divinazione e vaticini e simili ... La virtu, la sanità fisica, ogni bene e la divinità sono armonia; perciò anche l'universo è costituito secondo armonia. Anche l'amicizia è uguaglianza armonica ... La purità si consegue con i riti della purificazione... (Diogene Laerzio, VIII, 24-33). Nell'opuscolo Sulla natura del Tutto dello pseudo-Ocello si pone che il tutto è sempre in atto e che il nascere e il perire delle cose è interno all'ingenerato ordine dell'Universo, in una trasmutazione degli elementi. Tutto è perciò calcolabile e riducibile a leggi che costituiscono la stessa espressione in atto della Legge suprema, in una tensione tra principio attivo e passivo, che molto chiaramente indica l'ispirazione stoica di origine paneziano-aristoi:elica, risolta in termini pitagorici : A me sembra che il tutto non sia stato prodotto e che sia ingenerato ... Chiamo complesso (6Àov) ciò che viene detto tutto ('rò 1tiv ). l'ordine nella sua totalicl (-rò x6cr(J.OV )... Esso è l'insieme compiuto e perfetto della natura e di tutte le essenze. Nulla è al di fuori di lui. Se qualcosa esiste, esiste in lui· e con lui. Comprende tutti gli esseri diversi, gli uni come parti, gli altri come produzioni accidentali. Ne segue che le cose contenute nel mondo hanno afli.nicl e accordo con lui. Il mondo, invece, non ha alcuna aflinità e alcun accordo con se stesso; tutte le altre cose sussistono, avendo una natura non perfetta in sé, avendo ancora bisogno di legame con le cose che esistono fuori di loro, come gli animali con la respirazione, la vista con la luce... t nel tutto o nell'universo che ha luogo la generazione e la causa della generazione... [Entro l'Uno tutto, monade, si distinguono le diaài, le quali si risolvono neWuno stesso, costituendo comunque le parti dell'universo e la loro opposizione J•.. Tutto ciò che è, sarà, ché la natura è sempre da un lato attiva e in moto, e, sempre, dall'altro lato, passiva e in riposo; sempre da un lato governa, sempre, dall'altro, è governata... [Entro tale universo J l'uomo, in ciò che lo riguarda, deve essere considerato come avente un rapporto diretto con la struttura dell'Universo stesso, sf ch'essendo parte di una famiglia, di una città, e soprattutto del mondo, deve supplire a ciò che sta per venire meno, se vuole adeguarsi alla società, alla politica
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e alla divinità... [Di qui, in tale adeguazione alla politèia cosmica, ove tutto è armonia e misura, la virtU intesa come rapporto sociale, misura e armonia] (Ocello, I, 2 sgg., ed. Harder).
Entro questi termini assumono un particolare inteiesse le pagine di Sesto Empirico (Adv. math., X, 260-284) sul significato del numero, ove, certo, Sesto si riferisce alla corrente platonico-pitagorica di quest'epoca, tesa a interpretare in termini numerici (razionali) i termini componenti la realtà e la ragion d'essere del tutto, per cui era necessario postulare l'identità tra quelli che sono i modi di funzionare della ragione umana (anima) e le leggi (traducibili in numeri), ragion d'essere delle cose, a loro volta risolventisi nella ragion d'essere dd tutto (l'uno o divinità), per cui l'uomo, avendo in sé il divino numero dell'anima, può ricostruire e percorrere il discorso matematico della realtà, fino a identificarsi, intuitivamente, con quell'uno tutto che è il divino, divenendo appunto simile a Dio, nel suo tendere all'uguaglianza divina (7tpÒç ~v &&tcxv 6!Lo(waLv ). Tale sembra, attraverso i frammenti che possediamo dei suoi Commenti pit;agorici (ITu&otyopLxotl axoÀot(), in undici libri (in Porfirio, Vita Pythagorae, 48-51; in Simplicio, In Phys; Arist., p. 230, 41-231, 25 Diels; in Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.), la posizione di Moderato,2 nato a Gades (Cadice), vissuto nel 1 secolo d. C., parente di Giunio Moderato Columella, il celebre autore del De rustica. Molto finemente Moderato di Gades pot~va rendere pensabile il rapporto stoico, principio attivo (spirito) e principio passivo (materia), risolvendo i due principt fisici (forze) in principi aritmetico-geometrici. Egli cosr interpretava la materia (certo aveva presente il Timeo di Platone) non come realtà per sé, ma come spazio, .cioè come indefinita estensione logica, condizione perché sia pensabile ogni possibile costruzione, la cui altra condizione è la qualificazione, la misurabilità, ci~ la numerabilità. Si vede bene cosr come per Moderato sia possibile il discorso intorno all'ineffabile Uno tutto, solo se esso viene simbolicamente indicato come un· numero, matrice di tutto il numerabile, esso di là dall'essere e dall'essenza, per cui esso è potenzialmente tutto. Tale, anche secondo Moderato di Gades che raccolse in undici libri i plaeita dei Pitagorici, il significato della dottrina dei numeri... Poiché, con li Iberico, nato a Gades (Cadice}, vissuto nel 1 secolo d. C., Moderato, parente di Giunio Modetato Columella, autore del De re rustica, visse a Roma. Scrisse iD greco un'opera in undici libri, intitolata Commenti Pitagorid (Ilu&cxyopucotl axo>.cd), di cui sono rimasti alcuni frammenti in Porfirio (Vita Pytllag.}, Simplicio (In Pllyt.}, Stobeo (Ed.).
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il discorso, è impossibile spiegare con chiarezza i principi primi, difficilissimi sia ad essere compresi sia ad essere espressi, ci si rifugiò nei numeri per rendere piu esplicita la tesi pitagorica. Si imitarono cosi gli studiosi di geometria e i grammatici. I grammatici, infatti; per esprimere gli elementi e le loro possibilità ricorrono ai segni e sostengono che questi sono i primi elementi dell'apprendere. Eppure essi dicono, poi, che quei segni non sono gli elementi, ma che mediante quei segni si possono conoscere i veri elementi. Lo stesso fanno gli studiosi di geometria: incapaci di esprimere con parole le forme incorporee, si valgono delle figure disegnate. Essi dicono, ad esempio, che questo che disegnano è un triangolo, solo che non intendono questo triangolo qui, che si vede con l'occhio fisico, ma quello espresso da questa figura, concepibile mediante essa, e mediante cui la mente può rap-. presentarsi il concetto del triangolo. I Il medesimo esempio si trova nella pagina sopra citata di Sesto Empirico, Adv. Math., X, 249, 259-260.] Lo stesso fecero i Pitagorici in relazione alle forme prime ... Non potendo esprimere in parole le forme incorporee e i principi primi, fecero appello alla dimostrazione mediante i numeri. Essi cosi chiamarono uno il concetto di unità, identità, uguaglianza, causa della cospirazione delle cose, della loro simpatia e conservazione dell'universo, che si comporta sempre nel medesimo modo, secondo ·una stessa legge. Uno è, difatti, ciò che si trova nei particolari e che esiste in quanto unità e cospirazione delle parti, partecipando della causa prima (Porfirio, Vita di Pitagora, 48 sgg.). D'altra parte, l'unità o identità o uguaglianza (simbolicamente indicate con uno), senza di cui non potremmo parlare di nulla (ciascuna cosa è tale in quanto è una), non sarebbero senza l'alterità, la differenza, la distinzione (simbolicamente indicate con due), per cui ciascuna cosa è una (non potremmo dirla una, se non la opponessimo ad altra). Chiamiamo, invece, due il dualistico concetto di diversità, disuguaglianza, divisibilità, mutabilità, cangiamento. E tale è, appunto, la natura della dualità nelle cose particolari ... Infine, poiché esiste in natura qualcosa che è fornito di principio, di mezzo e di fine, che è uno e due, a tali forme e nature attribuirono il numero tre, per cui qualsiasi cosa avesse un termine medio veniva detto triforme, tre, ovverossia perfetto (Porfirio, Vita di Pitagora, 50-51). Poiché, dunque, l'uno non è senza il due, e la dialettica dei due termini è il tre, l'Unità (Monade), proprio in quanto potenzialmente tutto, non è se non in atto, cioè se non si pone come altro da sé, di fronte a sé (diade), per cui entro l'Unità si pone - in immagine sotto l'Unità che la contiene- la monade seconda, l'Unità della molteplicità, il mondo delle forme intelligibili, delle Idee. In sé non reali né l'uno né il due, le due Monadi sono in quanto presenti all'anima, terza
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unità che logicamente segue dalla prima e dalla seconda monade, e che, perciò, partecipa della Unità prima e della unità-molteplicità (intelligibili). Termine medio l'Anima, iQ essa s'incentra l'Universo: volta da un lato verso le specie e attraverso queste verso l'Uno tutto, dall'altro lato, davvero coglie l'Unità prima, in quanto m'Scorre l'Uno mediante le forme, cioè in quanto si volge alla molteplicità che, costituendo il discorso delle forme, è la sensibilità, la figurazione, la cui condizione è lo spazio informe, l'estensione pura, la materia, essa stessa dunque essenziale in quanto nell'intelligibile, esistente non per sé, ma come riflesso (ombra) della materia che è ndl'intelligibile. Anche se filtrata attraverso Porfirio, sembra ora di notevole interesse la testimonianza di Simplicio sul motivo dell'Uno-Intelletto-AnimaMateria, secondo Moderato di Gades. Moderato, seguendo i Pitagorici, dichiara che l'Unità (1tpé;)-rov lv) è al di sopra dell'Essere (-rò c!vatt) e di ogni essenza (1t«aatV oùatatV), mentre il secondo uno (-rò 3è 3e:U-rcpov lv), in cui consiste ciò che è [che è in quanto è definito] e l'intelligibile (&tep l<JTt -rò ~V't'c.>ç ~v xatl VO'Yj't'6v ), dice essere la specie (-ra ct3YJ); il terzo uno, infine, egli sostiene consistere nel principio vitale ( -rò ljiuxtx6v), che partecipa dell'uno e della specie, mentre la natura che viene dopo questa, costituita dai sensibili non partecipa piu dell'uno e degli intelligibili, ma, per dire cos{, di essi si adorna, ombra riflessa della materia che è negli intelligibili, materia ch'essendo del primo non essere è solo quantità, per cui si trova ancora pi6 in basso
-rou
(~a xat-r' l!Lql«atv ixctv(J)v xcxoa!Llja&ott, Tljt; lv atÙ't'o'Lç GÀYJt; IL~ ~not; 7tp6>-r(J)t; lv -réj) 1toaéj) ~not; oGaY)t; axtata!L« xatl frt ~ov ~(X ~YJxutatt; xatl ci1tò -roU-rou ). Anche Porfirio, nel secondo libro de La materia,
riproponendo la tesi di Moderato, ha scritto che "volendo la ragione monadica (6 b.ltati:ot; Myot;), come dice Platone, costituire da se stessa la generazione degli esseri, stabiH la quantità di tutte le cose (-rljv 1tOa6't'YJ't'at 1tM(J)V ), come privazione di se stessa, privandola appunto della sua razionalità e intelligibilità. Moderato ha chiamato ciò quantità amorfa, indistinta, senza figura, atta a ricevere forma, distinzione, qualità, e cos{ via. Sembra, egli dice, che Platone abbia dato piu nomi a questa quantità, dicendola ricettacolo informe e invisibile e 'riluttante al massimo a partecipare dell'intelligibile,' afferrabile a stento 'con un regionamento bastardo' e cos{ di seguito. Tale quantità, dice Moderato, e tale specie (c!3ot;), intuite come privazione della ragione monadica, di ciò che abbraccia in sé tutte le ragioni degli esseri che sono, è ,esempio della materia dei corpi, che, diceva Moderato, i Pitagorici e Platone chiamavano quantità, ma che in effetto non va intesa come quantità intelligibile (-rò 6>t; c!3ot; 1toa6v ), ma come privazione, dispersione, estensione e cos( via, come deviazione dell'essere e, perciò, male, in quanto fugge dal bene ... " (Simplicio, In Phys., p. 230, 41-231, 25, Diels).
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In realtà tutto sempre in atto, logicamente l'Unità vivente è afferrabile entro i termini di una Unità-alterità in cui ripercorrere i momenti logici, che si possono scambiare in simboli numerico-geometrici : unità (uno), alterità (due), unità dell'alterità, anima (tre), numerabilità che implica l'indefinita quantità, l'idea dell'estensione non definita (irrazionale), perché sia possibile la misurazmne (materia-spazio), cioè i termini geometrici, costituenti, mediante i loro rapporti, figure piane e solide, i corpi, che possono dunque cangiare, comporsi e ricomporsi, ma le cui essenze restano sempre i numeri. \ Sembra ora opportuno sottolineare il significato di due motivi, che si ricavano da Moderato, il cui sviluppo avrà grande importanza nella storia dell'interpretazione da un lato del rapporto Essere-Uno e Intelligibili, dall'altro .Jato della materia. Posto che l'Essere, in quanto fondamento e ragione (causa) di tutto non può non essere che Uno, l'Uno in quanto tale è al di là dell'esistere e delle essenze, egli causa delle essenze e delle esistenze. L'Uno perciò ha in sé tutte le possibilità. Entro questi termini, riprendendo il concetto della monade pitagorica e il discorso delle idee-numeri di Speusippo e di Senocrate, sembrava potersi risolvere l'aporia del Parmenide di Platone. Certo, dopo il Parmenide e il Teeteto, anche Platone (Sofista, Filebo) suggerisce la possibilità di interpretare l'Essere non piu come una massiccia realtà, ma come unità dialettica, cm:Ìle pensiero uno che è tale in quanto discorso esplicantesi, per cui le stesse idee tutte potenzialmente nell'uno-pensiero, sono in quanto guise (e proprio per questo non piu idee nel senso, ad esempio, del Pedone), leggi - traducibili perciò in numeri - della esplicazione stessa del Pensiero. Una simile interpretazione del Parmenide - Teeteto - Sofista - Filebo, filtrata attraverso il motivo della monade-diade, sviluppato dai pitagorici del I secolo a. C., e il motivo del l&gos spermatik6s stoico, rendeva pensabile la ragion d'essere del tutto, il divino uno che ha potenzialmente in sé, se cosr vogliamo dire, il mondo intelligibile (mondo delle idee, perciò non piu inteso come a sé, idee qualità accanto a idee qualità, indiscorribili). Le idee, dunque, appunto perché tutte nell'Uno, nell'Uno-pensiero, nell'Uno-pensiero sono- qualora si assuma logicamente l'Uno come a sé, condizione prima - indiscernibili. Proprio perché capacità di dare forma, sono, nell'Uno, informi. Esse sono solo in quanto esplicazione dell'Uno, che non è se non in quanto esplicazione, se non in quanto alterità. Sotto questo aspetto sembra esatta la tesi del Dodds secondo cui con Moderato di Gades si avrebbe una prima interpretazione neopitagorica del Parmenide. di Platone, della quale vi sarebbero tracce in una correzione che Eudoro di Alessandria (fine del I secolo a. C.: cfr. sopra) fece di un passo di Aristotele (Metafisica, l, 988 a, 10-11)
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discutendo delle cause di Platone. Dice Aristotele: "le specie sono cause delle altre cose,. s1 come delle specie è causa l'uno" (-rcì: ycì:p d31) 't'OU -n othr.ot 't'O~ ~or.ç, 't'O~ 3'et3ea'v 't'Ò l.v ). Secondo Alessandro di Afrodisia (In Metaphis., pp. 58, 31-59, 8, ed. Hayduck), Eudoro avrebbe corretto cos1 : " delle specie e della materia cau,sa è l'Uilo" ('ro~ 3'e:t3eaLv -rò lv X«l 't'7j 6>..n). Il Dodds, concludendo, vede nell'Uno di Moderato di Gades l'origine dell'"Uno" neoplatonico (Dodds, The Parmenides of Plato and the. origin of the Neoplatonic ((One," in "Class. Quart.," 1928, pp. 129-142). Bisogna qui aggiungere che una volta risolto l'Uno platonico nell'assoluta monade che ha in sé tutte le possibilità (il mondo intelligibile), la stessa interpretazione della materia quale si trova nel Timeo, si imposta su di un piano diverso: anche la materia cioè poteva non piu essere considerata come realtà a sé informe, ma come uno degli intelligibili dell'Uno. L'essenza materia si poteva considerare come l'idea estensione, la forma dell'informe, condizione della realizzabilità delle forme, la cui esistenza diviene l'ombra riflessa dell'idea materia. Che tale interpretazione del rapporto Uno-mondo delle idee di Platone fosse interpretazione diffusa, o almeno una delle possibili interpretazioni che circolavano nel 1 secolo d. C., è testimoniato, oltre che da Filone l'Ebreo, da Seneca, che, proprio perché la riferisce con un . semplice accenno, accanto ad altre interpretazioni, la fa intendere come tesi abbastanza nota. Dice Seneca: il mondo delle idee è "il modello che ha avuto l'artefice davanti a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare. Non ha importanza poi se egli questo modello l'abbia avuto sotto gli occhi fuori di sé, oppure concepito nella sua immaginazione e tenuto cosi presente. Questi esemplari di tutte le cose Dio li ha in se stesso, e di tutte le cose che deve fare abbraccia il numero e .la misura: egli è pieno di tutte queste figure, da Platone chiamate idee, immortali, immutabili, instancabili" (Lett. a Ludlio, 65, 7). Non solo, ma sempre in Seneca troviamo anche la possibile interpretazione della materia intesa non come realtà a sé, bens1 come realtà dovuta allo stesso Dio (cfr. Natura/es quaestion~s, l, Praej., 16) motivo, d'altra parte, presente in Filone l'Ebreo, come già abbiamc veduto, anche se in Filone sia il mondo intelligiliile sia la materia sonc dovuti ad un atto di volontà di Dio persona. E allora, la testimonianu di Simplicio, che riferisce la testimonianza di Porfirio sulla materia quale è intesa da Moderato di Gades, assume una sua prospettiva storica abbastanza notevole e sembra chiaro in che senso Moderato possa dire che la materia esistente non è realtà per sé, non partecipa in quanto assunta per sé né dell'uno né degli intelligibili, ma è ombra riflessa della materia che è negli inteUigibili, e in che senso Eudoro cor-
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regga la frase aristotelica, affermando che l'uno è causa degli intelligibili e della materia. Entro questi termini si trasforma qui sia il concetto platonico di materia amorfa, di puro ricettacolo a sé, di madre che accoglie in sé tutte le cose (cfr. Timeo, 50 b-à), sia il concetto aristotelico di materia intesa come soggetto (u7toXE((Uvov) (Fisica, l, 9, 192 a, 31; Metaf., VIII, l, 1042a, Zl), o anche come potenza (dr. Platone, Timeo, 50 b; Aristotele, Metaf., VII, 7, 1032a, 20), sia il concetto stoico di materia sostanza prima (dr. Diogene Laerzio, VII, 150) intesa come quantità passiva (Diogene L., VII, 134) su cui si esplica l'azione qualificatrice del principio attivo;. o meglio, pur mantenendosi il concetto di materia soggetto, potenza, quantità, essa in quanto pensabile (non con un ragionamento bastardo), cioè in quanto avente essere, non può non essere che risolta nell'uno stesso, divenendo materia intelligibile, idea di estensione, condizione, insieme agli altri intelligibili, dell'uno, che non è tale se non nella sua stessa esplicazione e discorso (Uno--IntellettoAnima-Materia), per cui non c'è piu bisogno di prendere la materia come realtà per sé, come ente irrazionale opposto all'ente razionale. Vera e propria introduzione a una teoria dei numeri, nei termini di quelli che erano stati i risultati della matematica greca è l'Introduzione aritmetica, •ApL&(L7JTLX~ &taqwylj, dell'arabo Nicomaco di Gerasa,8 vissuto a cavallo del I-II secolo d. c. (Nicomaco nel suo Manuale di armonia cita Trasillo, scrittore di cose musicali vissuto sotto Tibcrio, mentre Cassiodoro nel De artibus ac disciplinis liberalium lilterarum, c. IV, Migne Patr. lat., vol. 70, p. 1208, afferma che Apuleio di Madaura, vissuto nel n secolo, tradusse in latino la diligente esposizione della disciplina aritmetica di Nicomaco di Gerasa). L'intento di Nicomaco di Gerasa è volto a determinare su di un piano logico le condizioni che permettono l'arte di combinare i numeri (non a caso il titolo della sua opera fondamentale, di cui possediamo due libri, è intitolata •ApL&(L7JTLX~ Elacxywylj, cioè lntrodu?:ione alfarte dei numen). Come Euclide definisce il punto, quale condizione e termine di qualsivoglia costruzione geometrica, cos1, indipendentemente da ogni raffigurazione geometrica (sensibile), Nicomaco, definito il numero, deduce tutte le ·possibili combinazioni dei numeri da quell'unica definizione di numero ("numero è molteplicità racB Di Nicomaco, v~ nella seconda metà del 1 secolo, nato a Gerasa, sappiamo molto poco. Della sua lntroduaio arithmetic11 sono rimasti due libri; intero è pervenuto il MtmUIIle di amioni11; delle sue altre opere (Theologi11 arithmetic11, lntrodUt:tio lfeometl'i~~e, lntrodUt:tio 111tronomi~~e) non sono rimasti che frammenti. Nicomaco scrisse anche una Vitti di PiiiiKor•, una Vitti di Apollonia di TilltJII e un trattatello Sui riti egisitmi.
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chiusa entro term1ru, o un ms1eme di unità, o un flusso, X,U!J.«, di quantità, costituito di unità; la prima divisione del numero è il pari e il dispari": lntr. an"tm., l, VII). Tale deduzione, o meglio ex-plicazione della molteplicità implicita nell'unità si determina in un perfetto giuoco di combinazioni e separazioni di numeri, di rapporti e proporzioni, per giungere, infine, attraverso tale costruzione, risultante dd discorso logico tradotto in simboli numerici, a ricostruire la realtà entro questi stessi termini, ove i principt, impliciti nell'unico principio (unità), divengono, appunto, gli stessi principi logici, simbolicamente assunti come numeri. L'importanza storica di Nicomaco di Gerasa consiste da un lato nella sistemazione, in un sol corpo dottrinario, dei risultati, sparsi nel tempo, del sapere aritmetico - di qui lo sfruttamento deÌle scoperte matematiche da Archita a Filolao e via di seguito, entro la linea dei cosiddetti pitagorici, per essi intendendosi, in fondo, i matematici;dall'altro lato nel non indifferente sforzo di presentare un possibile tipo di ragionamento, un tipa di logica (matematica) che poteva, in via ipotetica e simbolica spiegare - indipendentemente dal ricorrere alle figurazioni geometriche - le essenze non corporee, cioè le leggi su cui si scandisce il ritmo della realtà. Nicomaco risolveva in tal modo le aporie implicite nell'Unità posta dal Parmenide di Platone, in un discorso aritmologico che spiegava, per altro, ·1o stesso snodarsi dall'Uno del discorso del tutto in termini geometrici (sensibili), svelando cosi il mito del Timeo (1, 2, l; II, 18, 4), puntando sul significato dato al numero nell'Epinomide (1, 3, 5; dove si cita Epinomide 991 d: "ogni figura, ogni sistema numerico, ogni composizione armonica, sf come l'accordo di tutte le rivoluzioni astrali, necessariamente rivelano, a chi apprende tutto questo seguendo il vero metodo, la loro unità, e tale unità si manifesterà quando rettamente si apprenda, mai perdendo di vista l'unità medesima : a chi rifletta apparirà, infatti, che un solo naturale vincolo articola tutti i fenomeni; chi altrimenti intraprende tali studi dovrà invocare la fortuna ... "). Non solo, ma per altra via, posta la possibilità della predicazione qualora appunto si risolvano in numeri le condizioni stesse del pensare, Nicomaco poteva, come chiaramente risulta dal primo paragrafo del I libro della Introduzione aritmetica (I, l, 3, ove gli elementi immutabili si avvicinano non poco, nell'esser presentati come una lista di categorie, alle categorie di Aristotele), interpretare numericamente le categorie di Aristotele, identificandole con le stesse condizioni del discorso aritmetico dd tutto. E ciò tanto pio è chiaro quando .si tenga conto che le dieci categorie si potevano assumere come l'interpretazione logico-discorsiva della decade o tetrakt'Ys (quaternaria) pitagorica (cfr. I volume), in un giuoco
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di proporzioni, mediante cui riannodare le dieci condizioni su cm s1 svolge l'universo (cfr. II, 22 e 1-22). La tetrak.t'Ys veniva rappresentata in una figura avente 10 punti messi in forma di triangolo che ha quattro punti per lato .-:\ , la cui somma l+ 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La tetrak_t'Ys cosf, racchiudendo in sé i numeri delle tre proporzioni musicali (ottava 2 :l; quinta 3 : 2; quarta 4 : 3) e delle quattro specie di enti geometrici (punto =l; linea= 2; superficie= 3; solido= 4), veniva ad essere la condizione di tutte le cose (non si scordi che in questo periodo circolava un libro sulle categorie che si diceva scritto da Archita. Su tutto questo si veda F. E. Robbins e L. Ch. Karpinski, in Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, Nuova York, 1926, pp. 94-5). L'aspetto della traduzione in termini sensibili-formali delle essenze numeriche-incorporee dei loro rapporti e combinazioni, sembra, per quel poco che ne sappiamo, che Nicomaco l'abbia studiato nella sua Introduzione geometrica (cosf almeno appare da una citazione dello stesso Nicomaco, in Intr. aritmetica, Il, 6, 1). Se da un lato, dunque, Nicomaco di Gerasa, nell'Introduzion~ aritmetica, ha determinato le condizioni di un discorso della realtà in termini di essenze puramente intelligibili, nell'Introduzione geometrica avrebbe determinato le condizioni perché ·sia possibile il discorso della realtà sensibile. Ci rendiamo conto in tal modo di come Nicomaco di Gerasa potesse identificare {sin dalla prefazione alla Introduzione aritmetica, I, cc. 1-6) il divino - per Dio s'intende ciò senza di cui nulla è - con il numero. Se nel numero, in quanto unità (monade) sono implicite tutte le possibilità (forme), l'uno è suprema ricchezza, onnipotenza, da cui tutto si dispiega (cfr. l, 16, 8; Il, 8, 3; 9, 2), esso fondamento e causa di tutte le forme della realtà, dei loro rapporti e proporzioni. In tale senso, dunque, Dio e numero-unità coincidono, sf come coincidono l'unità del pensiero che si dispiega nel suo discorso matematico-numerico e l'unità divina che si dispiega nel discorso della realtà. D'altra parte, in un testo dei Theologumena arithmeticae - se non è di Nicomaco, sembra almeno derivare da lui, - si sostiene che Dio è come un "seme che ha in sé la possibilità di tutte le cose" (xatl 6·n "t'Òv 3e6v q>Y)aLV 6 N'XO!LatXoç .qj ~~oov<XS' !q>otp!J.O~e,v, mtep!Lat"t'U(Wç mt<XpxoV"t'at n<XVTat "t'eX h .qj q>6ae' 6V"t'at ••• : Theol. arithm., ed. Ast, p. 4), sf come la monade, l'uno o seme di tutta la possibile costruzione logica della realtà. Sembra, cos{, che se da un lato mediante il discorso aritmologico e il discorso geometrico, Nicomaco tendeva a risolvere su di un piano puramente logico l'Uno del Parmenide e il mito del Timeo, dall'altro lato poteva rientrare entro la medesima spiegazione la tesi stoica del logos spermatik_os. Il divino
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principio attivo, da cui tutto deriva, poteva benissimo assumere il significato dell'unità potenza, perdendo, certo, nella traduzione in numerounità, il suo valore di forza (spirito) fisica e spontanea (donde, poi, da parte di alcuni interpreti di Platone la polemica contro il materialismo degli stoici, con il conseguente problema della materia, principio opposto, dunque, all'immateriale Uno divino). In realtà, "platonismo" (Parmmide, Timeo, Epinomide), "pitagorismo" (aritmologia e geometria), "stoicismo" (il principio che ha in sé tutte le possibilità che portava a interpretare il mondo delle idee platoniche come forme potenzialmente tutte presenti in Dio, in quanto ragion d'essere), si venivano ad incontrare in unico sistema, nella possibilità di una teologia logico-aritmologica (Theologumma arithmeticae) cui servivano da introduzione, ma anche da dimostrazione, la teoria aritmetico-geometrica, la teoria musicale (abbiamo un Manuale di armonia di Nicomaco), lo studio dei rapporti delle leggi stellari (possediamo di Nicomaco alcuni frammenti di una Introduzione alrAstronomia). In altri termini, le vecchie discipline platoniche in funzione dell'educazione del filosofo: geometria (piana e solida), aritmetica, teoria musicale, astronomia, venivano sistemate, dando la precedenza all'aritmetica, entro cui sono implicite la teoria musicale, la geometria e l'astronomia, quale avviamento alla comprensione scientifica del divino, cui, per altro, potevano servire, sul piano pratico, dei rapporti umarii, della propaganda e convinzione, la grammatica, ·la dialettica e la retorica. Pitagora- scrive Nicomaco nella prefazione all'Introduzione aritmeticadefinisce la sapienza conoscenza e scienza della verità implicita nella realtà, concependo la scienza, sicura e immutabile comprensione di ciò che sta a fondamento (,moxe;(!U'/OV) e di ciò che nell'Universo permane sempre identico a sé e non cessa mai d'essere, neppure per poco. Tali sarebbero gli immateriali (!u>.at), quelli cioè per la cui partecipazione ciascuna cosa omonima, e perciò nominabile, è detta, assumendo per questo una sua realtà (-r63c n) (l, 1-2) ... Poich~, dunque, della quantità (7t6aov) un aspetto è veduto in se stesso, non avendo alcuna relazione ad altro, come pari, dispari, numero perfetto· e cosf via, e un altro aspetto è concepibile in funzione di altro e in relazione ad altro, come doppio, maggiore, minore, uno e mezzo, uno e un terzo e cosf via, evidentemente due dovranno essere i metodi scientifici mediante cui esaminare a fondo la quantità: il metodo aritmetico che ha per oggetto la quantità in se stessa, e la teoria musicale che ha per oggetto la quantità relativa. Ancora: quanto alla grandezza (7tYJÀ(xov ), poiché l'una è in quiete e immobile e l'altra in un movimento di translazione, di conseguenza due sono le scienze che studieranno con esattezza la grandezza: la geometria ciò che è immobile e quieto; l'astronomia (atpa.LpLx-lj, sfairiché), ciò che si muove circolarmente. Senza queste
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è impossibile trattare con esattezza le forme dell'essere o scoprire la verità nelle cose, nella cui conoscenza consiste la sapienza. Senza di queste, insomma, è impossibile filosofare rettamente. "Come il disegno contribuisce con la tecnica alla retta teoria, cosi le linee, i numeri, ·gli intervalli armonici e le rivoluzioni dei cieli, coadiuvano l'apprendimento del ragionamento scientifico (A6yov aocp6v)," come dice il pitagorico Androcide [autore di uno scritto Sui simboli, come risulta dai Theologumena arithm., ed. Ast, p. 40. Sono quindi citati Archita, Sull'Armonia, in Diels, I, 330 sgg.; e 1'Epinomide, 991 d sgg.] ... Tali studi [geometria, aritmetica. astronomia, teoria musicale] è chiaro che assomigliano a scale e a ponti che consentono alla mente umana il passaggio dai sensibili e dagli opinabili agli intelligibili e agli scibili, e da quelli che sono i primi consueti nutrimenti infantili, fisici e sensoriali, ci permettono il passaggio aWinconsueto e a ciò che è estraneo ai sensi (1, 3, 1-6).•• Orbene, quale delle quattro discipline metodologiche è necessario apprendere per prima? Quella che per natura precede le altre, evidentemente è per diritto principio e fondamento e ha, rispetto alle altre, la funzione di madre. E questa è l'arte dei numeri [aritmetica], e non solo perché... preesisteva nella mente del Dio archetipo come ordine cosmico ed esemplare, mirando al quale, come a un disegno e a un archetipo, il demiurgo dell'universo ordina le opere materiali e fa in modo ch'esse realizzino i propri fini; ma anche perché è prima per natura in quanto implica in sé le altre discipline, senza esserne implicata (I, 4, 1-2).
3. Pitagorismo, educazione e retorica. Apollonio di Tiana nella ricostruzione di Filostrato di Lemno e il trattato su "Il Sublime" Gia entro questi termini, se passiamo all'aspetto predicatorio-terapeutico, usato piu che in funzione scolastica in funzione educativa, si vede bene l'importanza data alle figure e alle leggendarie vite di Pitagora e di Platone, e alla presentazione di esempi di vita (non a caso lo stesso Nicomaco di Gerasa scrisse una Vita di Pitagora e una Vita di Apollonio di Tiana, insieme ad un trattato sui Riti egiziam). In realtà, e ce n'è buon testimonio Seneca, già con Nigidio Figulo (cfr. sopra) e poi, soprattutto, con la Scuola dei Sestii (cfr. sopra), certe suggestioni pitagoriche - almeno in Roma - erano usate in funzione educativa. Basti ricordare che Sozione di Alessandria, della Scuola dei Sestii, dopo avere cercato di mostrare, per incitare alla frugalità e a una vita misurata, che l'anima è immortale, che essa imparenta tutti, uomini e animali, per cui nulla va distrutto, che non si tratta che di cambiamento di luogo, riprendendo i vecchi t&poi pitagorici della trasmigrazione delle anime e quelli platonicostoici, per cui non solo i corpi celesti si volgono per determinate orbite,
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ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende e che le anime sono spinte per i loro cieli, concludeva : " Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede?" (Seneca, Lett. a Luc., 108). E qui viene spontaneo il richiamo ai V ersì aurei dello pseudo-Pitagora (cfr. sopra), o ai Sacri discorsi (r a. C.), o all'Inno al numero (anch'esso del I a. C.). Assunta una certa dottrina - e particolarmente suggestiva per la sua sacralità e misteriosità poteva essere l'ipotesi pitagorica della potenza del numero, chiara agli iniziati, cioè a chi vi si era introdotto mediante la geometria, l'aritmetica, ·la musica, l'astronomia, - essa serviva, mediante appunto suggestioni, sacri discorsi, tecniche terapeutiche, sapientemente usate (magiche agli occhi dei piu) ad avviare i piu ad una certa condotta di vita, cui potevano servire certi riti e certa liturgia.~ in tal senso assai indicativa la difesa che Apuleio (n sec. d. C.) fece di se stesso contro l'accusa d'essere un mago. Mago si:, egli dirà, se per mago si intende sacerdote, chi abbia studiato, chi, conoscendo le leggi e la ragion d'essere degli avvenimenti, sappia a fondo le leggi del rito, le regole dei sacrifici, le teorie del culto. Mago no, se per mago si intende "in senso volgare (more vulgan) chi abbia commercio con gli dèi immortali, e mediante l'incredibile forza dei suoi incantesimi sappia fare tutto ciò che vuole" (Apuleio, Apologia, 26). Certo, agli occhi del volgo, un uomo che, conoscendo certe tecniche, riesca, ad esempio, a far ri.tornare in sé chi sia caduto in catalessi, evidentemente viene preso per un uomo soprannaturale, per risuscitatore di morti. Entro questi termini va considerata, almeno nel I e ancora al principio del n secolo d. C., la linea di coloro che si appellano al nome e alla figura di Pitagora, come è il caso di Apollonio di Tiana. Ma in funzione educativa, nel tentativo di curare le anime, di dare una forma e un senso alla disperata vita degli uomini, tutti uguali per natura, ci si poteva anche appellare ad altre concezioni - la stoica, ad esempio, in modo assai generico, - prospettando, difronte all'impossibilità umana di oltrepassare i limiti e le costruzioni della propria ragione, la fede nell'imperscrutabile mistero di una divinità che tutto ordina per il bene. E qui, come di fatto fu, potevano incontrarsi sia pitagorici come Apollonia di Tiana, sia cinici come Demetrio (non a caso Demetrio, oltre che di Seneca, fu amico di Apollonia), sia stoici come Musonio Rufo ed Epitteto (di cui è celebre la vena cinica, ravvicinabile al cinismo stoico di un Aristone di Chio), in una comune opposizione sia nei confronti della quotidiana vita unilaterale e passionale del volgo, sia nei confronti del modo di vita delle classi superiori e degli imperatori, che concepiscono il potere in modo personale e indi~
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viduale. Il discorso si farà diverso da Nerva (imperatore dal 96 al 98) a Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180), con il quale sembrò realizzarsi l'antico ideale stoico del re filosofo. La presentazione della vita di Apollonia • vissuto nel I secolo d. C., nato a Tiana, in Cappadocia, educato a Tarso, scolaro, sembra, di Eutidemo di Fenicia e di Eusseno di Eraclea, la dobbiamo alla Vita, in otto libri, che di lui scrisse, nel m secolo d. C., Flavio Filostrato di Lemno, su invito dell'imperatrice Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, alla cui corte Filostrato, dopo avere insegnato ad Atene sulla linea neo-sofistica, venne accolto. Non va scordato che Filostrato di Lemno, su sua stessa confessione, si pone tra i neo-sofisti - si deve anzi a lui la distinzione tra sofistica antica e "nuova sofistica," che Filostrato, autore di una Vita dei Sofisti, fa cominciare nel I secolo d. C. con Dione di Prusa. - Filostrato per "sofistica" intendeva la capacità di suscitare, attraverso la conoscenza delle tecniche retoriche e del pubblico cui si doveva parlare, certi affetti e di sopirne altri, indipendentemente da qualsiasi contenuto, in una precisa coscienza del valore terapeutico della parola e della sapiente descrizione della vita di certi personaggi, che possano incantare e meravigliare, e servano da avviamento, rispondendo a esigenze proprie di certe mentalità, ambienti, situazioni. Se, come è oramai chiaro, la Vita di Apollonia rientra nel genere del romanzo biografico ellenistico, essa, d'altra parte, mutando quel che è da mutare, cioè la mentalità dei possibili lettori, le loro mutate esigenze, vuol essere un saggio di alta retorica, un encomio del tipo dell'Encamio di Elena di gorgiana memoria. Filostrato insiste con forza nel sostenere che Apollonia non fu un mago, nel senso volgare, che le sue doti taumaturgiche, i suoi miracoli, l'avere egli guarito e resuscitato, le sue previsioni e cosi via, perfino il suo essere riapparso dopo morto a un tale, in sogno, per dimostrargli che l'anima è immortale, non sono frutto di magia operativa, ma della sua "sapienza," si come di sapienza e· non di magia furono frutto le azioni miracolose compiute da Pitagora, da Anassagora, da Democrito, da Empedocle, sapienza che rivela il divino, o meglio la possibilità dell'uomo che vivendo puro fa si che la propria anima, scintilla divina, appunto perché divina, conosca le leggi e le ragioni della divinità. Apollonio - scrive Filostrato - entrò nella via battuta da Pitagora, ma nella sua ricerca della sapienza vi è un carattere ancora piu divino, ed egli si 4 La Suda attribuisce ad Apollonia di Tiana una Vita di Pitagora (dr. anche Porfirio e Giainblico: cfr. "Rhein. Mus.," 1879, p. 554; 1880, p. 23), un Inno a Mnemosine, un Testamento, lni•iazioni, Sacrifici (cfr. Eusebio, Praep. ev., IV, 12·13), Oracoli, Lettere.
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è sollevato ben al di sopra dei re del suo tempo [non si scordi che anche Seneca, parlando di Attalo, sottolineava - Lett. a Luc., 108, 13 sgg. ch'egli era al di sopra di qualsiasi re, e cosf, sempre parlando di cinici, dirà Epitteto - Diatribe, III, 22, 53]. Nonostante egli sia vissuto in un'epoca né troppo lontana né troppo vicina alla nostra, in realtà non si conosce ancora quale sia stata la stia filosofia ... Alcuni, avendo egli avuto rapporti con i maghi di Babilonia, i Brahamani dell'India e i Gimnosofisti dell'Egitto, pensano che sia stato un mago, e che la sua saggezza non sarebbe stata che una forma di violenza. :a. una calunnia che deriva dal fatto ch'egli è mal conosciuto. Empedocle, Pitagora stesso, Democrito, hanno frequentato i maghi, hanno detto molte cose divine, eppure non se n'è fatto ancora degli adepti della magia. Platone fece un viaggio in Egitto, riprese molto dai sacerdoti e dagli indovini di quel paese, se ne servi come un pittore che dopo aver preso un abbozzo vi mette di suo ricchi colori, é tuttavia non si è fatto di Platone un mago, sebbene nessun uomo sia stato come lui, a causa della sua sapienza, oggetto d'invidia. Anche se Apollonia ha presentito e previsto piu di un avvenimento, non lo si può accusare d'essersi dato alla magia, altrimenti bisogna rivolgere la stessa accusa a Socrate, al quale il suo dèmone ha fatto spesso prevedere l'avvenire, ad Anassagora di cui si riferiscono parecchie predizioni... Tutto ciò che ha fatto Anassagora non v'è difficoltà ad attribuirlo alla sua alta sapienza. Per Apollonia, invece, non si vuole che le sue predizioni siano effetto della sua sapienza, e si sostiene .-:be tutto quello che ha fatto, l'ha fatto per magia. Non posso sopportare tale errore, divenuto volgare. Ecco perché mi sono proposto di dare qui dettagli precisi sull'uomo, sui momenti in cui ha pronunciato certe parole o ha fatto certe azioni, infine sul genere di vita che ha valso a questo sapiente la famadi un essere al di sopra dell'umanità, di un essere divino (Vita tli Apollonio, I, 2). - "Vivrò da pitagorico," disse Apollonia, ancora giovinetto al suo maestro Eusseno. "Grande impresa," rispose Eusseno, "ma da dove comincerai? ". "Farò come i medici," disse Apollonia, "la loro prima cura è di purgare: prevengono cosf le malattie o le guariscono." A partire da quel momento non si nutri piu con carni ..., si nutrf di verdure e ·di frutta, dicendo che tutto qò che dà la terra è puro... Camminò a piedi nudi, non si vesti che con abiti di lino..., si lasciò crescere i capelli ... e divenne assiste-nte dd medico Esculapio ... (Vita tli Ap., I, 7-8). Filostrato di Lemno ha certo tenuti presenti alcuni dati reali della vita di Apollonio: la sua educazione a Tarso, il suo soggiorno a Ege presso il tempio di Esculapio, la sua vita e il suo insegnamento itineranti. Apollonio avrebbe soggiornato in Babilonia, poi in India presso i Brahamani, quindi in Ionia, in Grecia, a Roma, al tempo delle persecuzioni di Nerone contro i filosofi, poi in Spagna, ancora in Grecia, in Egitto, dove si sarebbe incontrato con l'imperatore V espasiano, in Etiopia, dove avrebbe conosciuto i gimnosofisti. Allontanato da Roma per ordine di Tigellino, perseguitato da Domiziano, sarebbe sparito
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sotto Nerva. Abilmente giuocando su questi dati, sui racconti dei miracoli operati da Apollonia, sulle sue previsioni, sulle conoscenze ch'egli avrebbe avuto dei vari tipi di religione orientali e occidentali, sui suoi presunti contatti con tutti i re dei paesi visitati - in Babilonia con il re Vardano; in India con il re Fraote; presso i Brahamani con il loro supremo sacerdote !arca; in occidente, sotto Nerone, con Tigellino e con Domiziano il tiranno da cui venne perseguitato: assai indicativo sembra che, invece, con Vespasiano e con Tito sarebbe entrato in relazione di maestro e di iniziatore, - Filostrato ha costruito la vita semplice di un saggio, di un curatore e guaritore di anime, di un uomo a contatto col divino per la sua purezza di vita. "Egli ha voluto," cosf Filostrato conclude la Vita di Apollonia, "che, conoscendo la nostra natura, lietamente si vada verso il fine che ci hanno fissato le Parche" (VIII, 31). Non va per altro scordato che la Vita è stata scritta da un retore del m secolo, preoccupato di far colpo su di un certo ambiente, su cui Filostrato sapeva quanto poteva giuocare il meraviglioso e il sublime. Entro i termini delle discussioni sulle tecniche retoriche tra la fine del I secolo a. C. e il I secolo d. C. si era avuto uno spostamento dalla retorica intesa come dimostrazione e fondata soltanto sui fatti e sulle argomentazioni credibili (n(a-rEtt;), come fu il caso della retorica oSOstenuta da Apollodoro di Pergamo (ancora con Cecilio di Calatte e il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso, si proclamava soprattutto l'importanza della disposizione e dell'armonia délle parole, della metafora, in stretta osservanza e imitazione dei classici), alla retorica affettiva, per cui si sa giuocare sulle passioni, convincendo non mediante argomentazioni razionali, ma con l'entusiasmo, la passione, l'emozione, suscitando la meraviglia, come fu il caso .della retorica proclamata dall'avversario di Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara. Entro l'àmbito culturale e sociale, entro i termini di diffuse esigenze morali e religiose, proprie del I e del n secolo, si capisce come al di fuori delle scuole e dell'insegnamento ufficiale della retorica (rappresentato in forma istituzionalizzata e sclerotizzata da Quintiliano) abbia prevalso l'insegnamento e la tesi di Teodoro di Gadara. Di un discepolo di Teodoro, Ermagora di Temno, sembra che sia il trattatello Sul sublime (nepl G~J~ouç), un tempo attribuito a Cassio Longino (retore del m secolo d. C.) e a Dionigi di Alicarnasso (in un codice vaticano si scoprf che già gli antichi non sapevano se fosse di Dionigi o di Longino: mentre prima si era letto che Il sublime era di Dionisio Longino, nel codice vaticano si legge di Dionisio o di Longino; sulla vessata questione dell'attribuzione si veda ora anche D. A. Russell, Introd. a Loginus, On the sublime, Oxford, 1964). Contro la tradizione della retorica in senso aristotelico (rappresen-
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tata ancora da Cecilia di Calatte) il Sublime insiste sul pathos, si come, di contro alla retorica intesa come avviamento all'ordine sociale e politico in senso stoico (si pensi a Diogene di Babilonia), all'utile morale, il Sublime insiste sullo straordinario, il meraviglioso, il sublime appunto. "Veramente ammirevole è .rempre, per gli uomini, lo straordinario" (35, 5). " Il fine della fantasia poetica è la sorpresa, mentre quello dell'oratoria è l'evidenza: entrambe comunque ricercano il patetico e il concitato" (15, 2), insieme alla grandezza del discorso. E l'evidenza, in campo oratorio, la si ottiene non "a capriccio, procedendo anzi con metodo" (2, . 2), usando certe tecniche da cui far scaturire il sublime (già definito da T eofrasto come uno dei possibili stili retorici). Bisogna su~citare grandi pensieri, facendo innamorare di ciò di cui si vuol persuadere. Di qui l'importanza data alla passirme e all'entusiasmo. Grandi pensieri e passioni si suscitano mediante certe appropriate figure del pensiero e dell'espressione, mediante l'altezza dell'elocuzirme e la scelta di un argomento tale da costituire una composizirme ( crov&eatt.;), che, ispirando i piu alti pensieri, vada oltre il quotidiano vivere, creando mondi di superiore grandezza (sublimi), velando cosi gli artifici retorici. Se il Sublime dello pseudo-Longino rispose all'esigenza di certi retori posti· difronte a un certo pubblico, la Vita di Apollrmio di Filostrato risponde esattamente all'esigenza di altri argomenti mediante cui, suscitando il meraviglioso e il sublime, trasportare il lettore in una vita sublime, sospesa tra la realtà e il mistero. E qui bisogna ricordare che Filostrato scrisse anche gli Eroici, un dialogo sui geni e le ombre della guerra di Troia, in cui ancora piu scoperto è il gusto per lo "straordinario," e dove, per altro verso, si presentano gli eroi del passato, si come nella Vita di Apollonia si presenta la figura di Apollonia. Non solo, ma è altrettanto interessante sottolineare che l'autore del Sublime, nel 1 secolo, d'accordo con l'autore del Dialogus de oratorihus (forse Tacito) e con Seneca, sostiene che la decadenza della oratoria.e della letteratura, il prevalere in certi ambienti della pura imitazione, l'aver ridotto l'eloquenza all'applicazione di fredde regole, è frutto della situazione politica attuale, della perdita della libertà, del conformismo generale e della mancanza di alti e nobili ideali per ·i quali battersi. "Allo stesso modo che - se è vero quel che si dice - le gabbie in cui si allevano i Pigmei, chiamati nani, non solo impediscono ai rinchiusi la crescita, ma anche contraggòno loro la lingua per la museruola posta intorno alla bocca, cosi anche la ~chiavitu, sia pur la piu legittima, potrebbe qualificarsi gabbia dell'anima e comune prigione di tutti" (44, 5). Di qui, non solo l'importanza data al "sublime" come stile, ma all'arte come capacità di chi altamente senta, di suscitare
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mediante immagini, di là da argomentazioni logico-matematiche, rappresentazioni di cose e di persone che riescano a convincere pio di ogni ragionamento. Se entro quest'àmbito si vede bene nel giro di un secolo e mezzo, in mutate condizioni d'animo, la funzione assunta dalla retorica di certi neosofisti, intesa al "sublime," .rompendo contro la vita quotidiana, mediante il "miracoloso" e il "meraviglioso," si capiscono gli intenti della esercitazione retorica e romanzesca della Vita di Apollonio scritta nel III secolo da Filostrato di Lemno. Non a caso, perciò, Filostrato di Lemno deve avere scelto la vita di Apollonio di Tiana. Anche se molte cose sono state da lui inventate, certo una qualche tradizione popolare, giuocando sui dati reali e sulle reali azioni di Apollonio, doveva avere trasmesso, idealizzata, la figura reale del Tianeo. In effetto, un'attenta lettura della Vita di Apollonio ci presenta un Apollonio non tanto filosofo di professione, quanto maestro di vìta, maestro itinerante, che, assunto a modello Pitagora, del quale sembra che abbia scritto una Vita, ed Empedocle - iatrosofisti e medici esperto di tecniche mediche e incantatorie, di certi tipi di religioni orientali, con le sue parole, con i suoi atti " sublimi," presenta se stesso in "stile sublime," dando agli altri, ai piu che vivono o entro i termini di una conformistica morale corrente o entro i termini di una religiosità fatta di superstizioni, di sacrifici, la "purga" adatta, per prevenire o curare i pio dalla loro malattia morale-religiosa. Sotto questo aspetto sembrano non poco interessanti da un ·Iato i continui rapporti che, si dice, Apollonio avrebbe avuto con re e signori dì paesi, fino allo scontro con Nerone e Domiziano, e, dall'altro lato, l'accostamento con figure come quella di un Demetrio cinico, e il' suo insist~re, come risulta anche da fonti diverse da quelle di Filostrato, contro la superstizione, contro la religiosità ridotta a sacrifici e a puri rituali, il che, d'altra parte, era stato, nella stessa epoca circa, uno dei maggiori punti d'impegno dell'insegnamento di Seneca. Secondo Eusebio, Apollonio di Tiana cosf scriveva in una sua opera tramandata sotto il titolo Sui sacrifici: lo credo che si osservi il culto conveniente alla divinità, e che solo cos{ all'uomo è concesso averla propizia e benevola in qualsiasi circostanza, se al Dio che diciamo Primo e che è Uno e separato da tutte le cose e che dobbiamo riconoscere superiore a tutti gli aii.ri, non si immolino vittime, non si accendano lampade, non si consacri alcuna delle cose sensibili. Dio non ha bisogno di alcuna .cosa... Con lui adopera solo la parola migliore, cioè quella che non esce dalle labbra, e da lui, che è il migliore degli esseri, invoca i beni mediante ciò che in noi v'è di migliore: l'intelletto, che non ha bisogno di nessun organo... (Eusebio, Praep. evan., IV, 13).
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E in una lettera, che, tra le molte apocrife, sembra proprio di Apollonia, si legge : Se gli dèi non hanno bisogno di vittime, cosa si dovrà fare per avere i loro favori? Credo si debba avere l'animo ben disposto a beneficare gli uomini, per quanto è possibile, secondo i loro meriti... (Ep., 26) ..
Su piani diversi, ma in situazioni simili, Seneca, Demetrio, Musonio Rufo, Apollonia di Tiana (il nuovo Pitagora) potevano "benissimo incontrarsi. E cosi non è un caso che piu tardi, quando la figura del Cristo si era oramai cristallizzata, nel IV secolo, !erode Sossiano di Bitinia potesse sostenere che Filostrato, nella sua Vita di Apoll~nio, aveva voluto mostrare come accanto ai Vangeli era possibile fare l'encomio della tradizione che aveva costruito la figura di Apollonio, e come accanto all'encomio di Cristo si poteva scrivere l'encomio di Apollonio (il "Cristo pagano"), l'uno e l'altro vicini nelle stesse intenzioni purificatorie popolari · (Porfirio, anzi, giunse, nella sua opera Contro i Cristiani, ad opporre la figura di Apollonio a quella di Cristo, sostenendo che Apollonio rappresentava il vero Salvatore), mentre altri, i cristiani, potevano tentare di recuperare Seneca - arrivando a costruire un epistolario tra lui e San Paolo,. - ed Epitteto, di cui non poche volte fu detto ch'era cristiano.
4. Lo Stoicismo a Roma nel l secolo d. C. Lucio Anneo Cornuto. Musonio Rufo. Epitteto Interessantissima è la narrazione, da parte di Filostrato, dell'ambiente e dell'atmosfera politica, della corruzione morale e religiosa, in Roma, al tempo di Nerone, quando, si dice, vi fu anche Apollonia (libro IV, 35-47). D~ questa narrazione viene fuori un Apollonia moderatore di costumi, che propone se stesso quale esempio di vita misurata e saggia, simile alla figura e all'atteggiamento di Demetrio, quale risulta anche da Seneca. E ne viene fuori pure una delineazione della "filosofia" intesa come riflessione morale, come avviamento a restituire l'uomo a se stesso, alla propria dignità e libertà, alla propria razionalità, cJoè al divino, in opposizione alla corruzione imperante, in gran parte dovuta all'atteggiamento dell'imperatore. Entro questi termini, anzi, lo stesso Filostrato spiega la paura che l'imperatore e i suoi accoliti sentivano nei confronti della "filosofia" : un controllo coraggioso del loro ope-
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rato, un'azione seducente sul Senato da un lato e sul popolo dall'altro lato, e quindi un'attività antipolitica, antistatale, antireligiosa. A parte Seneca, abbiamo già accennato a illustri vittime della politica imperiale, e alla preoccupazione da parte del governo romano nei confronti di certe prese di posizione, ritenute, a torto o a ragione, frutto di tesi filosofiche interpretate o come magico-demoniache e distruggitrici dei culti religiosi correnti, o, nel richiamo, particolarmente da parte stoica, all'antico concetto della res-publica romana in senso scipionico-ciceroniano, come estremamente pericolose per la istituzione imperiale, a carattere assolutistico-personale. Entro questi termini, in una ancor forte oscillazione sul concetto d'impero, al suo fondamento giuridico, e al fondamento giuridico-istituzionale del potere - se l'imperatore debba essere tale per discendenza o per elezione, se il potere sia sempre del Senato e del Popolo romano facenti capo all'Augusto, o se l'Augusto è egli lo Stato, il re divino in senso orientale - si vede bene lo scontro tra il lento e faticoso costituirsi della istituzione imperiale e, di volta in volta, anche a seconda dell'imperatore, del ·suo contrasto con il Senato, certe nette prese di posizione, rappresentate da certe concezioni, o cinico-popolari o stoico-senatoriali. E se con "filosofi" s'intese indicare maghi e indovini e cinici, con "filosofi" s'intese anche indicare coloro che per un verso o per l'altro si opposero alla politica imperiale, soprattutto con il loro atteggiamento, con l'esempio della loro condotta; e questi, lo fossero o no, vennero indicati con il nome di stoici, e furono soprattutto personalità romane, uomini politici, gente di governo. Ricordiamo qui, ancora una volta, i casi clamorosi di Trasea Peto (condannato a morte da Nerone nel 67 d. C.; cfr. sopra) e di Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto: Elvidio Prisco, questore dell'Acaia nel 51, tribuno della plebe nel 56, per il suo atteggiamento apertamente antimperiale, fu bandito da Roma nel 66; rientrato in Roma sotto Gaiba, accusò il delatore di Trasea Peto; fatto pretore nel 70, fortemente si oppose alla politica di Vespasiano, per cui venne di nuovo esiliato e, poi, condannato a morte nel 70. Ma, entro questa linea, non vanno scordati i casi di Rubellio Plauto (33 circa-62 d. C.), che, per la sua opposizione al governo di Nerone, venne condannato a morte, accusato da Tigellino "di far parte dell'arrogante setta degli stoici, che rende turbolenti e desiderosi di disordini" (Tacito, A nn., XIV, 57); di Borea Sorano (console designato nel 52, proconsole d'Asia prima del 63), che venne accusato presso Nerone perché amico di Rubellio Plauto, e che fu condannato a morte insieme alla figlia Servilia accusata di pratiche magiche; di Egnazio Celere, condannato a morte nel 69, da Vespasiano. E cosf non è poco indicativo che V es pasiano, dopo la condanna
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di Elvidio Prisco, abbia nel 71 bandito da Roma tutti i filosofi, tranne Musonio Rufo, a suo tempo cacciato da Nerone, insieme a Cornuto, fatto rientrare da Gaiba; e che nell'85 Domiziano abbia fatto uccidere Materno per le sue coraggiose parole contro i tiranni, Giunio Rustico perché aveva composto un elogio di Trasea Peto da lui ritenuto un santo (t&p6v) e di Elvidio Prisco, e lo stesso figlio di Elvidio, allontanando di nuovo da Roma tutti i filosofi, mentre nel 93 circa mandava a morte Erennio Senecione, perché aveva scritto una vita di Elvidio Prisco. Fu, anzi, dopo tali avvenimenti - ed anche questo è indicativo - che il retore Dione di l>rusa (30-117), detto Crisostomo (dall'aurea bocca), che pur aveva detto i filosofi "peste della città e dei governi, " si converti alla filosofia, con particolar propensione per la tesi stoico-platonica e cinica, mentre Plinio il giovane riconosceva il valore della opposizione da parte dei filosofi, ammirandone il coraggio (cfr. Epist., l, 10; III, 11, 3). Tale sembra, in effetto, la funzione assunta dalla "filosofia" nel 1 secolo d. C., particolarmente a Roma e nel mondo dominato da Roma, soprattutto dal tempo di Nerone a quello di Domiziano, quale che poi fosse la dottrina di 'Sfondo scelta a fondazione di una certa attività moralizzatrice: la stoica, la platonica, la pitagorica, la cinica; o meglio, nessuna delle quattro come tali, ma l'una o l'altra entro l'accezione che abbiamo visto sopra, indipendentemente da scuole e tradizioni precise. Sembra chiaro, allora, l'appello di tutti, da Seneca ad Apollonio, da Demetrio a Musonio Rufo a Epitteto, alla fraternità, alla benevolenza, l'appello all'abbandono della vita dispersa e di ciò che era divenuta la vita politica, il richiamo a conoscere se stessi, il continuo ricordo di Socrate (si veda,' ad esempio, Seneca, De tranquillilate animi, VI, 1-2). Entro questa atmosfera a'Ssumono un loro particolare significato l'insegnamento di Musonio Rufo, tutto volto - sul piano di un generico stoicismo di sfondo - a formare l'uomo virtuoso, e la robusta, coraggiosa personalità e la problematica morale di Epitteto. A tale proposito, per meglio intendere quella che fu una concezione stoica di sfondo, merita il conto ricordare Lucio Anneo Cornuto, nato a Leptis, vissuto a Roma, contemporaneo e amico di Musonio, maestro di Persio Fiacco (34-62), dopo la morte del quale si fece editore delle Satire di lui, e di M. Anneo Lucano, nipote di Seneca, nato nel 39 (fatto uccidere da Nerone nel 65), che, nella Farsalia, non poche volte rivela motivi stoici. Cornuto, insieme a Musonio, fu esiliato da Nerone nel 65. Sappiamo ch'egli fu uomo di cultura, che scrisse in greco e in latino opere letterarie, tra cui famose alcune sue interpretazioni di Virgilio, insieme a un De figuris sententiarum e
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a un De enuntiati011e vel de ortographia, e opere di retorica precettistica, tra cui una dal titolo Arti retoriche (TéxvocL pYJ-rOptxoc(). Egli scrisse anche un'opera contro le categorie di Aristotele e un Escurso di teologia greca {'E7tt8po!J.1J -rwv xoc-rclt ~v 'EJJ..'I)vtx~v 8-eoÀoylocv 7totpoc8e:8o(Lévwv ), l'unica opera di lui conservatasi. Nel suo complesso assai prolissa, monotona e, certo, di non aÌto significato, l'Epidramè ha un suo particolare valore come documento, da un lato, proprio nel suo essere un manuale divulgativo e un compendio di opere precedenti sulle divinità del pantheon greco - allegoricamente interpretate entro i termini della teologia fisica stoica, della diffusione di quella che dicevamo la generica concezione stoica di sfondo (certa terminologia cristallizzata è molto indicativa); dall'altro lato, del modo in cui venivano recuperate le antiche divinità m funzione della ratio physica stoica. Basti un esempio: Il cielo... tutto intorno avvolge la terra e il mare e tutto quel che si trova sulla terra e nel mare ... Come noi siamo governati dall'anima, cosi lo è l'Universo; anche l'Universo ha un'anima che lo avvolge, e questa viene detta Zeus, soprattutto perché egli vive nel tutto, ed è causa di vita ai viventi; per questo si dice anche che Zeus su tutto regna, sf come si potrebbe dire che pure in noi l'anima e la natura ci governano... (Epidromè, l, 1-3; 2, 1-7, ed. Lang).
Da quel poco che conosciamo di Musonio Rufo,5 ricaviamo ch'egli soprattutto si volse all'insegnamento, inteso come preparazione al ben vivere, come cura per i malati dell'anima, come formazione dell'uomo G Discendente di una famiglia equestre, ongtnaria di Volsini (Bolsena), C. Musonio Rufo nacque intorno al 30 d. C. Nel 60 circa lo troviamo in Asia Minore, dove aveva seguito Rubellio Plauto, ch'egli assisté quando Rubellio Plauto fu eostretto a togliersi la vita per ordine- dell'imperatore. Rientrato in Roma, nel 65-66, fu, in seguito alla congiura di Pisone, condannato all'esilio, insieme al suo amico Cornuto, c confinato nell'isola di Gyaros (Cicladi). Richiamato a Roma da Gaiba, visse abbastanza serenamente sotto Vespasiano. Espulso anche da Vespasiano, che pur lo aveva risparmiato da una precedente espulsione, avvenuta nel 71, Tito lo richiamò in Roma dove sembra che sia morto non piu tardi del 102. Soprattutto dedito all'insegnamento, pare che Musonio non abbia lasciato alcuno scritto. Del suo insegnamento orale restano appunti e frammenti: apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche (cfr. Plutarco, Aulo Gellio, Epitteto in Arriano, Stobeo); lezioni vere e proprie (Stobeo) (si vedano ora raccolte da Hense, M: Rufi Reliquiae). Sembra che la fonte comune da cui sono state tratte le citazioni da Musonio, sia un volume di lezioni di lui, composto da un certo Lucio, e le citazioni che di Musonio fece nel suo insegnamento orale, il discepolo di Musonio, Epitteto (Arriano raccolse l'insegnamento di Epitteto). Di un'opera intitolata Memorabili tli Musonio, composta, a quanto pare da Valerio Pollione di Alessandria, del tempo di Adriano, non resta alcuna traccia. Falsa è ritenuta una lettera di Musonio indirizzata a Pancratide.
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onesto (k.alol(agathos), la cui cultura e riflessione morale lo rende misurato e rispettoso di se stesso e degli altri : "in realtà, pratica di virtuosità è la filosofia, e non altro" (tpù.oaotp(cx xatÀox&:ycx3-~ 4CM"tv bt~'t"')3euatç xcxt oòa~ l'"pov) (M. Rufi Reliquiae, IV, 10, ed. Hense). Dedito al solo insegnamento, sembra che Musoruo non abbia scritto niente. Di lui possediamo apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche, brevi lezioni: alcuni apoftegmi sono riportati da Arriano che li avrebbe ripresi dalle parole di Epitteto; altri, insieme a vere lezioni, si trovano in Aulo Gellio, in Plutarco, in Stobeo. La fonte principale di tali citazioni - particolarmente lunghe quelle. riferite da Stobeo sembra sia uno scritto di un certo Lucio, fiorito sotto Adriano, seguace di Musonio, che ne avrebbe ripreso e sistemato le lezioni. Nessun ricordo resta di un libro intitolato Memorabili di Musonio, scritto da un certo Pollione, dell'età di Adriano. Grande fu l'influenza dell'insegnamento di Musonio Rufo sui contemporanei, particolarmente su alcuni uomini della classe superiore di Roma, cui lo stesso Rufo apparteneva, che, dall'insegnamento di Musonio, traevano il fondamento ideologico alla loro opposizione politica, come fu per Rubellio Plauto (Musonio fu presente alla sua morte nel 60), Borea Sorano, Minucio Fundano. E se per l'aspetto eticosociale molto risenti lo schiavo Epitteto dell'insegnamento di Musonio, per la concezione del sovrano ideale, da opporre al sovrano attuale, quale, ad esempio, Domiziano, molto risenti dell'insegnamento di Musonio l'oratore Dione di Prusa, mentre profonda fu l'influenza di Musonio nel tratteggiare l'ideale del saggio (uomo o donna), misurato, di buone maniere, dal tratto signorile, in un sapiente distacco, come almeno ci è presentato da Plinio il giovane, che descrive il saggio atteggiamento del suo maestro Artemidoro, genero di Musonio, e dello stoico Eufrate di Tiro (cfr. Plinio, Epist., III, ·u; l, 10). Tante sono - scrive Plinio - le qualità che primeggiano e rifulgono in Eufrate, da essere notate e ammirate anche da gente mediocremente colta. Egli discute con sottigliezza, solidità, bella forma e sovente raggiunge quell'elevatezza e pienezza di espressione che sono proprie di Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo, è· il suo parlare: si aggiunga un'alta persona, un nobile aspetto, capelli abbondanti, una candida barba fluente, le quali cose se possono essere considl."rate casuali e di poco conto, gli conciliano tuttavia grande venerazione. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nessuna durezza nel tratto, una grande serietà; trattare con lui ispira rispetto, non timore. Una grande purezza di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gli uomini, e coloro che sbagliano non li punisce, ma cerca di correggerli ... (I, 10).
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Senza dubbio ritrattino di maniera - divenuto oramai un t&pos esso sembra, comunque, riflettere abbastanza bene quale fosse l'ideale dell'uomo per bene, per una società per bene, in un mondo piuttosto per male. Musonio Rufo, cavaliere romano, discendente da una famiglia equestre di Volsini (Bolsena), nacque nel 30 circa. Nel 65-66, all'indomani della congiura di Pisone, venn!! da Nerone mandato in esilio a Gyaros (piccola e impervia isola delle Cicladi). Tacito annota: "Lo splendore del nome fu la ragione perché fossero banditi V erginio Flavo e Musonio Rufo, l'uno perché affascinava i giovani con l'eloquenza, l'altro con i precetti della filosofia" (Ann., XV, 71). La breve annotazione di Tacito è assai indicativa. Essa conferma che l'insegnamento di Musonio, per quanto dato con molta misura, in particolare ai giovani, poteva da un lato apparire, nella sua concezione di quello che ha da essere l'uomo, un rimprovero continuo all'imperatore, e dall'altro lato nella delineazione di quello che deve essere il sovrano, non tale se non è a un tempo uomo sul serio, cioè filosofo, una ripresa del vecchio ideale stoico dello Stato, da opporre allo Stato attualt;. L'estremo conservatorismo e i precetti di Musonio, ispirantisi, come dicevamo, a un originario e vago stoicismo di sfondo (uno l'universo, manifestazione della divina ragion d'essere," per cui tutto si trova là dove è bene che sia in una necessaria catena, fatalmente scandentesi), il suo continuo invito alla purezza della vita, all'amore reciproco, perfino al rispetto di norme igieniche (in tal senso vanno · presi certi suoi inviti alla frugalità, all'astensione dalle carni e cosi: via, che· hanno fatto parlare di un suo pitagorismo, o, per certa sua rigidità, di cinismo), assumono un loro mordente e una loro portata di rivolta, qualora si consideri l'ambiente e gli uomini in mezzo ai quali e per i quali Musonio ha operato. Posto che "filosofia" è cultura e consapevolezza di sé, dei propri limiti e perciò stesso delle proprie possibilità entro quei limiti, e che dunque essere filosofo significa attuare pienamente la propria nai;Ura di uomo, in forma eccellente, esser filosofo vuol dire essere virtuoso, per cui tutti, in quanto tutti siamo uomini, siamo cioè esseri che hanno la capacità di essere ragionevoli, tutti abbiamo per natura, ciascuno per ciò che gli compete, la possibilità di essere virtuosi, il seme della virtu, O"ltép!J.ot &.pe:rijt; (II, 7-8, Hense). Dovere dell'uomo è, quindi, ragionare, cioè sviluppare tale .~eme, che a tutti è ugalmente comune, onde tutti hanno il dovere d'essere "filosofi," gli uomini come le donne (III), i poveri come i ricchi, i sudditi come i sovrani (VIII). Avviare gli altri a filosofare, tale il dovere del saggio, di fronte a chi, preso dall'immediatezza sensibile, preso dall'una o dall'altra cosa, vive
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nella passione, è disperso, non è se stesso. E per questo, per avviare gli altri a pensare, a rendersi chiare le prPPrie idee, Musonio riteneva non necessari né molti discorsi né molte dottrine, ma, soprattutto, l'esempio da un lato, e, dall'altro lato, l'esercizio (VI), cioè l'insegnare e l'imparare a ragionare (logica), mediante cui ci si forma uomini (I e II). Di qui la tesi fondamentale di Musonio, che venne poi sviluppata e approfondita, in un richiamo all'antico stoicismo, tipo quello di Zenone di Cizio e di Aristone di Chio, da Epitteto. Posto che, entro i termini della tradizione stoica - in un'accettazione piu dommatica che riflessa - in natura tutto è bene, ché tutto è momento necessario del realizzarsi dell'unica ragione, il problema grosso consiste, allora, nel risolvere il rapporto necessità universale e capacità, nell'uomo, in quanto ha in sé un seme di ragione, di adeguarsi o meno, liberamente, a quell'ordine e a quella necessità. Ancora una volta si ripresentava il vecchio problema implicito in una coerente posizione stoica: il problema del fato e, quindi, di conseguenza, il problema ·se all'uomo è dato, almeno entro certi limiti, il potere di agire, se v'è una zona su cui potere operare, anche se tale possibilità, rendendosene consapevoli (e sarebbe già questa un'attività propria), consiste nell'accettare lietamente l'ordine stesso del tutto, tutto ciò che avviene. La virtu (bene) consisterebbe, dunque, nel sapere usare. la ragione, il vizio (male) nell'esser preso dalle cose, nel dare alle cose e ai sentimenti un valore unilaterale, disordinato, nello sragionare, per cui tutte le cose sono indifferenti, considerate dal punto prospettico della ragione, in relazione a ciò che nel vizio è detto bene, che nel vizio fa piacere. Ne deriverebbe perciò, entro i termini del piu antico stoicismo, che ogni azione essendo positiva, la differenza tra virtu e vizio sta non in ciò che facciamo, ma nel come agiamo, o meglio nel come accettiamo, nell'intenzione (vedi I vol. : Zenone, Cleante, Crisippo). Si ammetta che tutta la realtà si costituisce mediante la ragion d'essere del tutto secondo una necessità, e che, perciò, tutto è bene, o meglio come deve essere, in sé né bene né male e che tale è la natura; si ammetta anche, come dato di esperienza, che l'uomo da un lato è passione, cioè è di volta in volta preso da questa o da quella rappresentazione, che si accavallano in lui, trascinandolo indifferentemente, in opposte direzioni, per cui l'uomo è incoerente, e non da lui dipendono le cose, e che dall'altro lato, invece, ha la capacità di coordinare quelle passioni, di non essere piu preso da questa o da quella, ma di costituire sé in unità e coerenza, valutando le stesse rappresentazioni in un ordine per cui ciascuna nel discorso si colloca dove è bene che sia; ne segue che non incoerentemente si può concludere che la libertà umana consiste, appunto, in questa sperimentata capacità di vivere secondo ra318
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gione, o meglio in questa esperienza di una capacità di scelta tra l'essere preso da questa o quella rappresentazione, e l'agire, pur sempre entro i medesimi dati, rendendosi conto, attraverso il discorso e un retto ragionare, delle stesse passioni, che, in quanto comprese, ricollocate nel loro giusto posto, cessano di essere passioni, in un'unica vita secondo ragione. In tale direzione sembra si debba interpretare l'appello alla r~gione e al vivere filosoficamente da parte di Musonio, e, soprattutto, un frammento - va detto che è un testo ricavato da un'opera Sull'amicizia di Epitteto, andata perduta, - in cui Musonio sostiene che bisogna saper distinguere tra ciò che è in potere nostro (~q/ ~fL'i:v) e ciò che non lo è (oùx ~q:/ ~fL'ì:v) (cfr. XXXVIII, Hense). In nostro potere è il sapere usare le rappresentazioni, da cui la giusta valutazione delle cose, e perciò la liberazione dalle passioni, dalla vita dispersa, dall'amore unilaterale per questa o per quella cosa, che, in questo senso, rimanendo incomprese e, dunque, altre da noi, restano non in nostro potere. Sembra cosf chiaro perché per Musonio, onori cariche e cosf via non siano beni, perché non siano beni i piaceri immediati, tutto ciò che è dovuto alla vita dispersa, esteriorizzata, ma che l'unico bene in cui consiste l'unica libertà possibile, e perciò l'unica virtu e felicità, stia in ciò che dipende da noi, cioè nel saper pensare, nel vivere secondo ragione, nel nostro modo di atteggiarsi nei confronti della realtà, nel cui atteggiamento consiste l'esperienza della volontà come -intenzione. Se in tale interiorizzazione della realtà e degli avvenimenti, se in tale capacità di valutare rettamente cose e avvenimenti, consiste la comprensione, il vivere filosoficamente, virtuosamente, l'insegnare agli altri a sviluppare la razionalità, quel seme di virtu che è proprio a tutti per natura, è dovere del saggio, dell'uomo. In questo senso Musonio indirizzò tutta la sua vita, in questo sentire l'insegnamento come dovere, sia nei confronti dei giovani, sia degli adulti, che in quanto presi dalle passioni, in realtà sono non uomini, sono come ammalati che hanno bisogno di cure. E in un mondo quale fu quello di Roma tra Caligola, Nerone e Domiziano, si capisce che Musonio vedesse ovunque ammalati gravi, per i quali erano necessarie drastiche medicine, per avviarli ad essere razionali. Di qui il suo appello al bene comune, al rispetto per l'uomo in quanto possibilità d'essere razionale. Per ciò egli sottolinea l'importanza che gli ·schiavi siano trattati non come cose ma come uomini, che come cose e strumenti di piacere non siano considerate le donne, bensf come "uomini," e ·che quindi il matrimonio non sia solo un contratto, ma anche un valore (XIII h-XIV), da cui la condanna dell'uso di abbandonare i figli non desiderati ("meglio tanti fratelli che tanto denaro," esclama una volta). Se tali debbono essere gli uo-
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mini, se non v'è società senza reciproco rispetto, fondato sul riconoscimento di una . possibile comune razionalità, tanto piu dovrà essere virtuoso, cioè "filosofo," chi ha in mano il governo dello Stato, l"' uomo regio" (~cxaLÀLxÒç &vl)p ), sosteneva Musonio, come appare da una sua lezione andata sotto il titolo Anche i re debbono studiare filosofia (VIII). Per Musonio non si tratta tanto di delineare quale debba essere il sapere proprio dei sovrani, nel senso in cui tale questione è trattata nel Politico di Platone, quanto di mostrare che il sovrano giusto è il sovrano che sia "filosofo," cioè . virtuoso sf come tutti gli altri uomini. "Ammesso che funzione dell'uomo regale è di sapere reggere bene le nazioni o le città e d'essere degno di governare gli uomini, chi, chiediamo, piu del filosofo saprebbe reggere bene una città, o chi piu di lui sarebbe degno di governare gli uomini? Poiché, se veramente è filosofo, sarà saggio, misurato, magnanimo, capace di rendersi conto di ciò che è giusto e di ciò che conviene, di effettuare le sue decisioni e di reggere a dure fatiche" (VIII). Dopo la morte di Nerone (68 d. C.), Musonio, che anche durante l'esilio nell'isola di Gyaros aveva continuato il suo insegnamento rivolto a tutti coloro (e furono molti), che attirati dalla sua fama erano andati a trovarlo, fu richiamato a Roma dall'imperatore Gaiba. Dopo gli effimeri governi di Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d. C.), è noto che Vespasiano (70-79), nel tentativo di riportare l'impero alla pace, s'ispirò a un governo simile a quello di Augusto. Se cosf dapprima non vide di malocchio soprattutto certe posizioni stoiche, di cui sembra che particolarmente apprezzasse quella di Musonio, in un secondo momento, allorché l'opposizione di Elvidio Prisco, che pur sempre vedeva nell'Imperatore non il princeps, ma il tiranno, un governo personale, parve ispirarsi proprio a tesi stoiche e ciniche, Vespasiano, ritenendo estremamente pericolosi gl'insegnamenti stoici per l'unità dell'Impero, nel 71 bandf tutti i filosofi tranne Musonio, che, tuttavia, allontanò pi6 tardi, nel 75. Sotto Tito (79-81), che riprese la politica pacificatrice del padre, cercando di dare all'Impero anche un fondamento ideologico, Musonio venne richiamato a Roma. Altre notizie di lui non si hanno. Probabilmente morf prima del bando dei filosofi, ordinato nel 94 dal fratello e successore di Tito, Domiziano (81-96), che deCisamente si volse ad un ~ccentramento di tutto il potere nelle proprie mani. Tra i pensa tori e i maestri che nel 94 furono costretti ad abbandonare Roma, vi fu il piu intelligente e solido discepolo di Musonio, Epitteto .., il Diflicile è precisare le date della vita di Epitteto. Se nella Suda si legge che Epitteto visse lino all'avvento di Marco Aurelio (161 d. C.), la aonologia del suo editore Arriano porterebbe a spostarne la nascita in epoca un po' piu antica. Nato nel
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Egli non si spostò molto né dalla concezione né dal tipo di insegnamento di Musonio. Epitteto, come Musonio, non pretese mai di dare ).m'esposizione sistematico-scolastica di una certa dottrina. Di volta in volta, prendendo spunto da domande di discepoli o da quesiti posti da chi si recava da lui, dal saggio, per averne consigli, si intratteneva in discussioni brevi e serrate, ove ogni volta, sia pur da punti di vista diversi, si ripresentano gli stessi motivi - alcuni àei quali riprendono, portati alle estreme conseguenze, quelli prospettati da Musonio approfonditi nelle loro varie facce, in un atteggiamento rocratico, al quale non poche volte Epitteto si richiama. Specchio fedele delle conversazioni di Epitteto, di questo suo modo di insegnare attraverso la rappresentazione viva della formazione di un certo ragionamento, attraverso il dialogo e la discussione, in situazioni precise, in un concreto e vivo rapporto di uomini vivi tra uomini vivi, è il complesso degli appunti che un seguace di Epitteto, il ·generale romano Arriano di Nicomedia, ha raccolto e, poi, pubblicato (sembra che Arriano abbia, di volta in volta, stenografato le conversazioni del maestro). Dice lo stesso Arriano nella lettera prefatoria alla sua raccolta, dedicata a Lucio Gellio : Non ho redatto i discorsi (Myo') di Epitteto come si potrebbe redigere materia di tal genere e neppure li· ho pubblicati, io che dico di non averli redatti. Ma tutto quello che ho sentito dire da lui, trascrivendolo, per quanto fosse possibile con le stesse parole, ho cercato di serbarmelo per il futuro a ricordo (~o!Lvi)!L«-rct) del suo pensiero e dd suo libero parlare. Quindi, com'è naturale, tali note hanno l'andamento di quel che uno dice all'altro per bisogno spontaneo e non di quel che si potrebbe redigere per destinarlo in futuro a lettori. In tale forma, dunque, io non so come, contro la mia volontà e a mia insaputa, capitarono in pubblico. Per me, certo, non ha im50 circa, a Jerapoli, nella Frigia meridionale, schiavo, forse figlio di schiavi, giovane fu condotto a Roma, dove fu servo di Epa&odito, liberto di Nerone. Ancor prima d'essere liberato da Epa&odito, Epitteto ebbe il permesso di ascoltare le lezioni di Musonio Rufo, probabilmente dopo il secondo ritorno di Musonio dall'esilio, al tempo dell'imperatore Tito. Epitteto ricordò sempre Musonio come suo unico maestro. Sembra che dall'SO in poi Epitteto, ormai libero, abbia tenuto in Roma le sue lezioni, finché nel 94 fu espulso da Roma su decreto di Domiziano, insieme a tutti i filosofi, matematici e astrologi. Epitteto si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove prosegui il suo insegnameuto, fino alla morte, avvenuta tra il 125 e il 130. Epitteto non scrisse nulla. Le sue lezioni, dialoghi, discorsi, consigli, commenti di testi, trascritti da Arriano di Nicomedia, suo discepolo, al tempo di Nicopoli, furono poi pubblicati da Arriano subito dopo la morte di Epitteto, in un complesso di libri andati sotto il nome di Diatrib~. Arriano compose anche una specie di summa delle massime capitali di Epitteto, andata sotto il nome di Enchiridion o Manuale. Frammenti ci sono pervenuti per opera di Auto Gellio (2), di Marco Aurelio (3), di Arnobio (1), di Stobeo (23). Sulla questione delle Diatrib~ e sulle altre possibili raccolte di lezioni di Epitteto confronta sopra il testo.
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portanza se apparirò un redattore incapace; per Epitteto, poi, ancora meno, se taluno avrà a disdegno il suo linguaggio, giacché si vedeva chiaramente che, anche parlando, niente altro cercava se non di eccitare al meglio i suoi ascoltatori. Se, quindi, per lo meno a tal fine riuscissero questi discorsi (>.Oyo~ ), otterrebbero, io penso, quel che debbono ottenere i discorsi dei filosofi: altrimenti, sappiano quelli, nelle cui mani essi giungono, che, quando Epitteto li profferiva, l'uditore di necessità provava i sentimenti ch'egli voleva fargli provare. Se poi da sé non riescono a tal fine, forse ne sono io la causa, forse è destino che sia cosf. Addio. Non sappiamo quale titolo abbia dato Arriano alla sua raccolta. Egli nella lettera citata usa due termini: Discorsi (l6got) e Memorie (Hypamnimata). La tradizione ha dato all'opera il titolo di Diatribe (à~or.-rp~~or.(). Solo che molti autori antichi che parlano di Diatribe di Epitteto, parlano anche di Dissertationes (dialécseis), di Hypamnémata, di Omilie, di Apomnemoneuta, di Scholai (cfr. Aulo Gdlio, l, 2, 17, 19; Marco Aurelio, Ricordi, l, 7; Fozio, Bibl., in Comm. Enchiridion, ed. Schenkl, test. VI; Simplicio, Comm. Enchir., ed. Scenkl, test. III; Damascio, ed. Schenkl, test. IV). Fozio sostiene, inoltre, che Arriano avrebbe scritto otto libri di Diatribe di Epitteto e dodici libri di Omilie (conversazioni). Senza dubbio la raccolta di Arriano (diatribe) quale è giunta (in 4 libri) è mutila. Aulo Gellio (XIX, l, 14-15) parla di un quinto libro; l'Enchiridion o il Manuale (l'altra opera di Arriano, che è una specie di summa dei motivi fondamentali delle Diatribe) contiene molti passi e motivi che non hanno riscontro nei quattro libri che leggiamo, cos{ come un frammento di Stobeo (fr. l, in Stobeo, Ecl., Il, l, 31 W.), testo certamente estratto dalle Diatribe, non corrisponde a nessun passo dei nostri quattro libri. Posto, dunque, che l'opera originaria di Arriano fosse in piu di quattro libri (otto o dodici), ci si è chiesti se gli autori antichi indicassero con gli altri titoli (Omilie, Hypomnimata, Apomnemoneuta, ecc.) altre opere o redazioni diverse, o le stesse Diatribe. Non abbiamo una documentazione tale da poter essere certi. Si resta sempre nel campo delle ipotesi (per le varie discussioni e ipotesi, cfr. J. Souilhé, Introduzione a Epict~te, Entretiens, coli. "Belles Lettres," Parigi, 1948). L'opinione, oggi, maggiormente diffusa - già sostenuta nel 1741 da J. Upton, Epicteti quae supersunt Dissertationes, II, Londra, 1741, p. 4, - è che sotto i numerosi titoli riferiti dalla tradizione ~i indicassero non opere diverse di Arriano, ma sempre la raccolta che ha poi assunto il titolo di Diatribe. "Se si pensa alla libertà con cui gli antichi citavano le loro fonti, non ci stupiremo che una sola raccolta sia stata indicata in tanti modi, tenendo inoltre presente che molte copie erano
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già circolate prima che l'autore ne consentisse lui stesso la pubblicazione ... D'altra parte, i termini 8Lcx-tpL~-Ij, ax_oì..1j,. 8L<Xì..e!;Lt;, O(LLÀ(cx hanno significati molto prossimi e sono spesso usati come sinonimi" (Souilhé, cit., p. XVIII). Il dubbio resta, se mai, per i dodici libri delle Omilie, citati da Fozio, accanto agli otto libri delle Diatribe e all'Enchiridion. Certo i frammenti che troviamo in Stobeo dovevano far parte dei libri perduti delle Diatribe. Ad ogni modo è molto indicativo, in quanto è già un'interpretazione del significato del pensiero di Epitteto, del suo modo e del fine d'insegnare, che abbia prevalso il titolo Diatribe. Il termine diatriba, che in origine era sinonimo di dialogo o di discorso, in senso educativo (cfr. già in Platone il termine usato per indicare i discorsi di Socrate ai suoi concittadini: Apologia, 37 d; Clitofonte, 406 a), si allargò poi a significare tanto dialogo, trattato morale non dialogico, lezione, dissertazione su argomenti diversi (di retorica, di musica, . di matematica, di fisica), quanto predica e soprattutto predica di tipo popolare (in questo senso, con i cinici, il termine assume un significato tecnico). Ad ogni modo, sia che con diatriba s'intendesse la discussione e il dialogo in senso socratico, sia la dissertazione e la lezione su argomenti diversi, sia la predica popolare, la diatriba ha sempre indicato un rapporto diretto e concreto tra maestro e discepoli, indipendentemente da qualsiasi forma di insegnamento professorale, sistematico, in organizzazione scolastica. In altre parole con diatriba s'intendevano le riunioni - e quindi, poi, anche il luogo di tali riunioni, in questo senso detto schola- presso un qualche pensatore dal quale ci si recava come da maestro e consigliere, capace di dirigere il dibattito, di far pensare, di formare la personalità, in un libero rapporto, anche se, naturalmente, il maestro indirizzava a una sua certa concezione, ma non appunto esponendo in forma sistematica e dogmatica una precisa dottrina. Sotto questo aspetto, relativamente alla raccolta degli insegnamenti di Epitteto, riferiti da Arriano (anche la divisione in libri è accidentale, estrinseca, ché in ogni libro, anche se da punti di vista diversi, ritornano gli stessi motivi, facenti tutti perno su due fondamentali: quel che dipende e quel che non dipende da noi; e la problematica della libertà), il titolo che ha prevalso, Diatribe, è esatto. Esso sta già ad indicare ciò che, in effetto, Epitteto intendeva con filosofia: capacità, attraverso un retto insegnamento, di sviluppare in forma corretta la comune ragione, mediante cui l'uomo forma se stesso uomo, per cui sapiente è chi sa pensare, e poiché saper pensare significa ad un tempo saper vivere, la filosofia non è tanto descrizione della realtà, o scienza, ma moralità; la filosofia perciò non è normativa, ma formatrice nel suo determinarsi come appello, che non dà contenuti, ma si richiama al vivere secondo ragione, mediante
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certe tecniche retoriche che 5<: da un lato si rifanno ·ai dialogo socr~ tico, ·dall'altro lato si determinano in una dis'cussione che finge il dibattito giudiziario o conflitti di idee tra personaggi di un dramma (il che era proprio della diatriba popolare). Quando nel 94, costretto ad allontanarsi da Roma per decreto di Domiziano, che bandiva tutti i filosofi, matematici astrologi, giunse a Nicopoli (la città della vittoria,. in Epiro, fondata da Augusto in ricordo della vittoriosa battaglia di Azio), ove apri una nuova scuola, divenuta presto un centro di discussioni ("diatriba"), dove moltissimi si recavano per avere consigli o sciogliere dubbi morali (le Diatribe e il Manuale rispecchiano questo periodo del suo insegnamento), Epitteto aveva quarantaquattro anni circa. Già uomo nel pieno della maturità, portava con sé sia l'esperienza del mondo di Roma tra Nerone e Domiziano ("non è troppo sicura l'occupazione del filosofo, specialmente ora, a Roma" : Diatribe, Il, 12, 17), sia l'approfondimento e il ripensamento dell'insegnamento del suo maestro Musonio Rufo. Epitteto era nato intorno al 50, ad Jerapoli, la città santa, centro della religione di Cibele, nella Frigia meridionale. Schiavo - c'è chi ha sostenuto che il s~o stesso nome, epitteto, indicasse la sua condizione di schiavo, - figlio di schiavi, almeno secondo un'antica iscrizione (in Schenkl, Epict. Diss., p. VII, test. XIX), Epitteto fu condotto a Roma ancora giovanetto e comperato da Epafrodito, liberto di Nerone, che faceva parte delle guardie del corpo dell'Imperatore, e che aiutò Nerone a suicidarsi (Svetonio, Nerone, 49, 5; Domiziano, 14, 2). Rimaniamo incerti sulle diverse notizie trasmesseci intorno ai rapporti tra Epitteto ed Epafrodito. Prepotente nei confronti dei propri schiavi, Epafrodito si sarebbe divertito a tormentare anche Epitteto. Si narra (Celso, Origene, Gregorio Nazianzeno) che giunse un giorno a spezzargli una gamba. "Questa gamba si spezzerà," avrebbe commentato Epitteto, mentre Epafrodito lo tormentava: "Te l'avevo detto che si sarebbe spezzata," avrebbe concluso Epitteto, còme se non si trattasse del proprio arto, ma di urta dimostrazione sulla causa e l'effetto (cfr. Celso, in Origene, Contro Celso, VII, 53). Troppo stoico-cinico è questo aneddoto per non avere il sapore di ricostruzione a posteriori, per delineare la figura di Epitteto stoico, che si sapeva zoppo fin dalla gioventu (cfr. Simplicio, in Schenkl, cit., p. VII, test. XLVII). La Suda, invece, molto meno pittorescamente, riferisce che l'infermità di Epitteto era dovuta ai reumatismi. Certa resta, invece, l'importanza ch'ebbe per Epitteto l'esperienza del rapporto servo-padrone, in un'approfondita meditazione sul significato della libertà e su ciò che dipende o no dall'uomo. Entro questi termini va veduto il rapporto EpittetoEpafrodito. E, forse, anche l'aneddoto della gamba spezzata e della 324
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impassibilità di Epitteto tende ad interpretare tale rapporto, non su di un piano personale, ma, prendendo le mosse da un'esperienza concreta (il fatto d'essere schiavo), su di un piano etico-metafisico. In effetto, sul rapporto necessità-libertà, realtà .che è quella che è, inesorabile, da cui dipendiamo - e che per ciò ci è estranea e, qualora la si comprenda, indifferente - e riflessione sulla umana capacità, nella consapevolezza dei nostri limiti e della nostra non libertà, di poter determinare un nostro modo di vita che dipende da noi, qualora si sappia ragionare, non facendosi prendere dai fantasmi, onde tutti siamo ad un tempo servi e padroni, a seconda dell'atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose, su tale rapporto si è svolto e approfondito il pensiero di Epitteto. E, probabilmente, proprio queste prime discussioni, che Epitteto ebbe con Epafrodito (e traccia di esse è, appunto, l'aneddoto della gamba), spinsero Epafrodito a permettere ad Epitteto, ancor prima di concedergli la libertà, di frequentare Musonio Rufo. Senza dubbio, nell'insegnamento di Musonio, Epitteto trovò chiarita gran parte della sua problematica umana. "Quando Musonio parlava - dirà ancora a distanza di tempo Epitteto, noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero, ognuno per sé, che qualcuno gli avesse parlato· dei nostri difetti : cosf fortemente egli era legato alla realtà, cosf vividamente poneva davanti agli occhi di ciascuno le sue debolezze. ~ una clinica, uomini, la scuola di un filosofo: non si deve uscirne gioiosi, ma pieni di dolori... " (Diatrib~, III, 23, 29-30). E fu a Musonio ch'egli dovette l'impostazione stoica della sua meditazione, tenendo soprattutto conto da un lato di Zenone di Cizio (l'indagine sul retto pensare che è, ad un tempo, retto vivere), e, dall'altro lato, di Crisippo (il problema del rapporto fato-libertà), che lo riportavano all'altro aspetto del problema logico e del problema della libertà (essere se stesso), impostato dai cinico-socratici (Antistene, Aristone di Chio, ove. di Aristone non va dimenticata la tesi del giuoco delle parti). Basta scorrere le Diatrib~ per rendersi conto che tra gli autori pio citati sono Zenone di Cizio e Crisippo, che di Cleante si citano i versi sul Fato, che non si accenna affatto a Boeto, a Panezio, a Posidonio, che si sorvola su Archedemo e Antipatro, mentre non poche volte è citato Diogene di Sinope, Socrate, Antistene, Platone socratico, Senofonte. Sembra, anzi, che accanto alle discussioni, ai consigli, ai dialoghi con i. suoi uditori, suscitati di volta in volta da singole domande, da singole questioni poste sul tappeto (Diatrib~), Epitteto svolgesse nella sua scuola, a Nicopoli, vere e proprie "lezioni," ch'egli cioè leggesse e commentasse testi, di Zenone e particolarmente di Crisippo (dice il BonhOffer, Di~ Ethik d~s Stoikers Epicta, p. 2, che il •libro sacro," heiliger Kod~:c, di Epitteto era l'opera di Crisippo,
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mentre il Bruns, De schola Epicteti, pp. 3 sgg., finemente sottolinea contro la tesi dello Zahn, Der Stoìk_er Epik_tet u. sein V erhaltnis zum Christentum, p. 37, secondo cui Epitteto avrebbe tenuto solo conferenze e dialoghi, che i termini OCVotyLyv6laxe:LV e OCv
Né vere né false le rappresentazioni prese a sé (ogni oggetto si determina e assume realtà nella rappresentazione, e, perciò, nel suo esser detto, donde l'importanza di tener sempre conto dei nomi, s{ che l'un nome non evochi altra rappresentazione, e non derivino al discorso la contraddizione, l'equivoco e il paralogismo sofistico), rap-
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presentazioni anche le nozioni morali, il vero e il falso stanno nel discorso, cioè nel giudizio. D'accordo, sotto questo aspetto, con i cinici (Antistene) e con gli scettici, ma entro i termini della soluzione della logica di Zenone di Ci zio (che permette la predicazione : logica proposizionate), Epitteto può sostenere che la "ragione" è un "sistema di rappresentazioni diverse" (Diatr., l, 20, 5-6). "Per questo," aggiunge Epitteto, "compito del filosofo, il piu importante e il primo, è saggiare le rappresentazioni e distinguerle e nessuna accogliere che non sia stata saggiata" (Diatr., l, 20, 7). "Cominciamo con la logica allo stesso modo che, per misurare il grano, cominciamo con l'esaminare la misura. Se, infatti, non determiniamo dapprima che cosa è il moggio, se non determiniamo dapprima che cosa è la bilancia, come potremo piu misurare o pesare qualcosa? E nel nostro caso, se non conosciamo con esattezza e precisione il criterio delle altre cose, criterio grazie al quale le conosciamo, ne potremo conoscere qualcuna con esattezza e precisione? Com'è possibile? ... Compito della logica è discernere ed esaminare il resto, e, si potrebbe dire, il misurarlo e pesarlo. Chi l'afferma? Solo Crisippo, Zenone e Cleante? E Antistene non l'afferma? Chi ha scritto che l'osservazione dei termini è l'inizio dell'educazione filosofica? [cfr. Diogene L., VI, 3] E Socrate non l'afferma? Di chi scrive Senofonte [Mem., IV, 6, l] che incominciava dall'osservazione dei termini, quale fosse il significato di ognuno?" (Diatr., l, 17, 6-12). Irragionevole e folle, e, dunque, passionale, schiavo, è chi vien preso, di volta in volta, da questa o da quella r!lppresentazione, chi non sa connetterle, rendendosi conto delle proprie rappresentazioni, e obbiettivarle in un discorso vero, dominando cosf le rappresentazioni stesse. Su questa linea, perciò, si capisce come Epitteto ritenga incoerenti anche gli scettici, i quali per negare valore di obbiettività a qualsiasi ragionamento (tutti, sul piano del vero, possibili perché arbitrari, nessuno piu vero dell'altro, oò3~ (LWOV: Il, 11, 15), ricorrono ad un ragionamento che può convincere della loro tesi in quanto non viene meno alle comuni condizioni che rendono verace un ragionamento, e gli epicurei, relativamente alla loro tesi che l'uomo è felice qualora viva non socialmente, ché, anche essi, per sostenere questo si servono di ciò che vogliono togliere (la socialità, cioè il discorso stesso) (cfr. Il, 20). "Le proposizioni vere ed evidenti," sottolinea Epitteto, "le adoperano di necessità anche quelli che le contraddicono: anzi la prova piu grande dell'evidenza di un'affermazione .è, si può dire, il fatto che sia trovata necessaria e utilizzata da quello stesso che la contraddice" (Diatr., II, 20, 1). Se formalmente, dunque, vi sono delle condizioni comuni e necessarie (prenoziom) che permettono il discorso, il discorso verace sarà
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quel discorso che, trovando il suo contenuto nelle rappresental:ioni, connette l'una all'altra le rappresentazioni in un sistema, ove le une e le altre rappresentazioni si articolano in 11:on contraddizione con le condizioni stesse. Sapere pensare, dunque~ e a questo deve avviare l'educazione filosofica, consiste da un lato nel ricercare e sistemare le prenozioni, dall'altro lato nel sapere usare le proprie rappresentazioni (xpljar.<; cpcxvrcxat&v ), mediante cui ci liberiamo dalla passione e dalla unilateralità, in una obbiettivazione che ci dà la misura e il valore delle cose, indipendentemente da come esse apparivano nella prima immediata rappresentazione (opinione). La particolare struttura dell'intelletto ci mette .in grado di non ricevere le impronte delle cose, soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta di esse, di sottrarre, di aggiungere, di comporne altre da noi, di passare dalle une alle altre che in qualche modo sono affini (Diatr., I, 6, 10).
E se tutti gli animali hanno rappresentazioni, la differenza tra l'animale irrazionale e l'animale razionale (l'uomo) è che mentre l'animale irrazionale usa le rappresentazioni che lo attraggono e lo spingono ad agire (mangiare, bere, riposare, accoppiarsi, compiere ciascuno quante altre cose rientrano nell'ambito del proprio agire: Diatr., I, 6, 13-14), l'uomo non solo usa le rappresentazioni, ma ha anche la capacità di rendersene conto, di comprenderne l'uso, liberandosene e, perciò, sapendo agire razionalmente. Il che non significa, che, dunque, l'uomo non deve mangiare, bere, riposarsi, accoppiarsi e cosi via, ma che deve rendersene conto, collocando ogni rappresentazione e affezione al suo giusto posto, sapendo quello che ciascuna vale. E se l'animale irrazionale realizza pienamente sé in quanto vive secondo le sue rappresentazioni-passioni, l'uomo realizza sé, vive secondo natura, in quanto comprendendo l'uso delle rappresentazioni, costituisce sé razionalmente e, perciò, comprende sé e gli altri, ponendo sé e gli altri e le cose al loro giusto posto, nòn facendosi prendere piu dall'una che dall'altra cosa, piu dall'uno istinto che dall'altro. Questa è quella ch'Epitteto chiama contemplazione (8-Ec.>p(cx ), che consiste, appunto, nella comprensione, in una visione (&ec.>p(cx) obbiettiv.a di un sistema di rappresentazioni, che è "intelligenza (1tcxpcxxoÀoò&eau;) e tenore di vita conforme a natura: badate dunque a non morire senza aver contemplato queste realtà" (Diatr., l, 6, 21-22). ("Filosofare consiste nell'esaminare e nel considerare le norme" che permettono il pensare verace e per ciò necessario e universale, ·comune a tutti gli esseri razionali: "usare tali norme, una volta conosciute, è dovere dell'uomo dabbene" : Diatr., II, 11, 24.)
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Certo, il modo come si costituiscono le rappresentazioni, com'esse vengono sussunte dalle "prenozioni," se le prenozioni, sia pur formalmente, siano vere e proprie idee innate, quali siano i modi con cui si articolano correttamente tra di loro le rappresentazioni, tutto questo è appena accennato da Epitteto. Probabilmente, per quel che sappiamo, tali questioni egli le doveva approfondire ed esporre nelle "lezioni," e poiché, per sua stessa testimonianza, sappiamo che leggeva testi di Zenone e di Crisippo, diremmo che tecnicamente Epitteto doveva esporre la logica entro i termini di Antistene-Zenone-Crisippo. D'altra parte ciò che piu interessava Epitteto era, mediante la logica, avviare gli altri ad essere uomini, a non vivere unilateralmente e passionalmente. E questo fu soprattutto il compito delle diatribe. E cos( dalle diatribe non riusciamo a sapere quale fosse la concezione epittetiana dell'Universo, se non ch'egli analogicamente, tenendo presente il fatto che la ragione è attività unificatrice che costituisce il tutto in un unico discorso, riprendendo l'ipotesi dello stoicismo antico - ancora qui Zenone e Crisippo - sosteneva che il tutto è come un unico discorso, retto da un 'unica ragione, s( come fosse una "città sola." Questo mondo è una città sola, come pure la sostanza di cui è stato composto, e cosi una sola è la necessità di un movimento periodico e di un ritirarsi di alcune cose dinanzi alle altre: queste si disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello stesso posto, quelle si muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo luogo di dèi, poi di uomini intimamente uniti per natura tra loro: e bisogna che alcuni rimangano insieme tra loro, che altri se ne vadano, che alcuni godano di chi rimane con essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va (Diatr., III, 24, 9-11). Tutte le cose formano un'unità ... (Diatr., I, 14, 2). Uomo sono, parte del tutto, come l'ora è parte della giornata. Debbo giungere come l'ora, e, come l'ora, scomparire (Diatr., II, 5, 13). In questo senso Epitteto è molto preciso: uno l'universo nella sua totalità, una la ragion d'essere del tutto e la sua sostanza, il cangiamento, il nascere e il morire, avvengono entro la stessa unità del tutto. Mietere le spighe significa la distruzione delle spighe, non dell'Universo, si come il cader delle foglie, o il seccarsi del fico e l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi, di mutamenti da uno stato precedente in uno diverso: non distruzione ma ordinata disposizione e amministrazione. Quale è l'andar via dal proprio paese, un piccolo mutamento, tale è la morte, un mutamento piu grande, ma non da ciò che è al presente, verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è. "Non sarò piu allora?" No: ma sarai una cosa diversa da quella di cui al presente il mondo ha bisogno. Perché anche tu nascesti non quando hai voluto, ma quando il mondo ebbe bi-
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sogno (Ditur., III, 24, 91-94). "Vai!" dove? Non in luoghi terrificanti, ma là donde sei venuto, verso amici e parenti, verso gli dementi naturali. Quanto fuoco era in te, ritornerà in fuoco, quanto era terra in terra, quanto aria in aria, quanto acqua in acqua. Non c'è Ade, non Acheronte, non Cocito, non Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dèi e di potenze divine. E chi è in grado di riflettere su ciò e guardare il sole, la luna, gli astri e prendere diletto dalla terra e dal mare non è abbandonato piu di quaDJ:o sia senza aiuto... (Diatr., III, 13, 14-16).
Dalla constatazione che la ragione è attività unificatrice e sistema di rappresentazioni-oggetti, Epittéto passa a poter sostenere che, dunque, la stessa struttura su cui si titma la realtà è attività unificatrice, mediante cui tutto ha un suo posto, tutto avviene come deve avvenire, fatalmente, ma, perciò stesso, provvidenzialmente ("di ogni cosa che accade nel mondo è facile lodare la provvidenza, purché si abbiano queste due qualità, la capacità di vedere nel loro insieme i singoli avvenimenti e il sentimento della riconoscenza ... Dalla struttura dei ~ari prodotti siamo soliti riconoscere che sono indubbiamente opere di un artista, e non costruite a caso ... : e gli oggetti visibili, e la visione e la ·luce non lo rivelano( ... E la particolare struttura dell'universo che ci mette in grado di non ricevere semplicemente le impronte delle cose soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta tra esse ... Tutto questo non fa pensare ad un supremo artista?": Diatr., l, 6, 7-11). Tutto, dÙnque, nel suo esserci, nel suo nascere e perire, nella sua sostanza, è come parte di un organismo vivente, ha una sua funzione e una sua ragione. Si capisce, cosi, come Epitteto possa identificare la divinità (ancora una volta intesa come ciò senza di cui nulla è, la condizione del tutto) con la ragione, dandone la stessa definizione : "quale è la natura di Dio? ... è intelligenza, scienza, retta ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, èerca l'essenza del bene" (Diatr., II, 8, 2-3). Ora, se la ragione era stata definita "sistema di rappresentazioni diverse," e se le rappresentazioni sono impressioni che in quanto comprese si costituiscono come abbietti, non in una semplice recezione delle impronte, ma mediante l'intelletto in una scelta, sottrazione, somma, composizione di esse, Dio, in quanto ragione e intelligenza, si costituisce come "sistema di oggetti diversi," e perciò come attività unificatrice che sceglie, somma, sottrae, compone, per cui tutto deriva da lui, tutto in lui ha la sua funzione, e tanto piu l'uomo che scopre sé come ragione, come capacità non solo di usare le rappresentazioni, ma di saperle usare ("ti abbiamo dato una parte di noi," fa dire Epitteto a Zeus, "questa facoltà impulsiva e repulsiva, desiderativa e avversativa, in una parola la facoltà che sa usare le rappresentazioni ...
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Solo quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da noi, e, cioè, il retto uso delle rappresentazioni:. le altre cose non le hanno fatte dipendere da noi": Diatr., l, l, 12 e 6-8). Qui, sembra, la chiave per intendere, relativamente all'uomo, da un lato la concezione di Epitteto su ciò che non dipende e su ciò che dipende da noi (dr. particolarmente Diatribe, I, l e Manuale, 1), dall'altro lato sul fato, sul tutto, che è quello che è, e sulla libertà; sul non comprendere, sull'essere presi dai dati, dalle impressioni, asistematicamente (irrazionalmente), per cui siamo schiavi, soggetti, e, non intendendo, non sapendo usare, scegliere le rappresentazioni, applicare correttamente le prenozioni, siamo scelti; e sulla comprensione che è libertà, liberazione dall'errore, accantonamento di ciò che non dipende da noi, avvicinamento a Dio, scelta. E se pur tutto resta quello che è, se pur ciascuno resta quello che è, l'uomo, almeno, per sua natura, in quanto • ragione," pur rimanendo quello che è, può essere scelto o scegliere, può essere padrone o schiavo: "quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da· noi, e, cioè, il retto uso delle rappresentazioni" (Diatr., I, l, 6-8); e tale è il fine dell'uomo: l'uomo deve terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura, ed essa termina nella teoria e nell'intelligenza e in un tenore divita conforme alla natura" (Diatr., 1; 6, 20-21}. Bada, dunque, alle rappresentazioni, vigila su di esse. Non è poco ciò che va custodito: si tratta del rispetto, della lealtà, della tranquillità, d'una condizione d'animo scevra da passioni, da dolori, da timori, da turbamenti, in breve, della libertà... Sono libero e amico di Dio, s{ che gli obbedisco spontaneamente. Niente di tutto il resto devo acquistare, non il corpo, non gli averi, non le cariche, non la reputazione, in una parola, niente. E Dio, poi, neppure vuole che io l'acquisti. Se voleva, quei beni li avrebbe fatti per me: ora, invece, non li ha fatti ... Custodisci il bene che è tuo in ogni occasione: il bene di tutto il resto, secondo quanto t'è concesso, nei limiti voluti dalla ragione, e di questo solo contèntati. Se no, sarai infelice, disgraziato, soggetto a impedimenti e a ostacoli ... (Diatr., IV, 3, 7-12).
Epitteto prende le mosse da una constatazione: se da un lato è vero che l'uomo è un complesso di rapprc.sentazioni, dall'altro lato è altrettanto vero che l'uomo ragionando scopre sé come ràgione, che ha in se stesso, nel suo stesso svolgersi, il criterio della propria validità - "la sola facoltà raziocinante, prendendo se stessa a oggetto di studio, comprende se stessa, la natura, la potenza, il valore che ha venendo in noi": Diatr., I, l, 3-4, - e scopre sé come capacità di obbiettivare e articolare e sistemare le sue stesse rappresentazioni; finché
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è solo un insieme disordinato di rappresentazioni-impressioni, l'uomo è passivo e dominato; allorché, ragionando, ordina e sistema è egli a dominare, rendendosi conto del valore di ogni cosa, che tutto ha nel discorso un suo posto, che alcune cose sono in nostro dominio e altre no. Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro l'opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'avversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti. Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui. Ricordati che se tu reputerai per libere quelle cose eh sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t'interverrà di trovare quando un ostacolo quando un altro, essere affiitto, turbato, dolerti degli uomini e degli dèi... Per tanto, a ciascuna apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi a ogni altra cosa avvezzati a dire: questa è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli· ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti chè tu sai, e prima e massimamente vedere se appartiene alle cose che sono in nostra facoltà, ovvero a quelle che non sono... (Manuale, 1). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle opinioni ch'essi hanno delle cose ... t da uomo, non addottrinato nella filosofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli suoi e propri, da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato non darla né a se stesso né agli altri (Manuale, IV).
Evidente è, per Epitteto, che tale duplice modo d'essere dell'uomo, irrazionale e razionale, dominato e dominante, che tale situazione tragica dell'uomo - "cosa altro sono le tragedie se non la narrazione in verso epico di quel che provano uomini affascinati dagli oggetti esterni?": Diatr., I, 4, 26- è dovuta, per natura- ed è un'esperienzaalla possibilità stessa dell'uomo di voler ragionare oppure no, ad un'opzione dell'uomo, possibile certo solo allorché l'uomo si rende conto ch'egli è ragione, cioè giudizio (ma è, appunto, in tale rendersi conto, che non è una deduzione, che consiste la libertà; di qui per Epitteto l'importanza dell'insegnamento della logica e della dialettica e la· sua repugnanza contro coloro che imparano filosofia per ornamento o per professione). In altri termini, ogni uomo, in quanto scopre sé come ragione, può scegliere tra l'essere schiavo o l'essere padrone, tra vivere passionalmente (contro natura) o vivere secondo ragione, in un'armonia e giudizio delle passioni stesse (secondo natura). In tale senso Epitteto sostiene che la stessa ragione, in quanto discorso è ordine, è scelta, o, se vogliamo, volontà (7tpo1X(p&atc;, proairesis), si come, analogicamente posto Dio come ragione del tutto, Dio è volontà in
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quanto ragione, cwe m quanto giudizio, e non come persona (libertà assoluta) in senso cristiano, si come talvolta si è voluta interpretare la divinità epittetiana. È il tuo giudizio che ti determina necessariamente, e cioè la scelta (proairest) che forza la proairesi. Se Dio avesse assoggettato a impedimento o necessità, o da parte sua o da parte di altri, il frammento del suo essere che ha staccato da sé per dare a noi, non sarebbe piu Dio né piu si prenderebbe cura di noi, come deve ... Se vuoi sei libero; se vuoi, non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio (Diatr., l, 17, 26-28). Nessuno può credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla? No. E com'è che [Medea] dice: "SI, bene intendo quali mali sto per fare, ma il mio corruccio supera la mia ragione"? (Euripide, Medea, 1078-79]. Perché proprio indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene piu utile che salvare i figli. Ma si è ingannata! Mostrale chiaramente che si è ingannata e non lo farà: ma fino a quando non glielo mostri, che cosa può seguire se non le apparenze? Niente. Perché allora irritarti con lei, se si è sviata, l'infelice... (Diatr., I, 28, 6-8). L'essenza del bene ["nell'intelligenza, nella scienza, nella retta ragione... cerca l'essenza del bene": Diatr., II, 8, 2-3] consiste in una qual certa proairesi [in un certo qual modo di atteggiarsi], il male in una qual certa proairesi. Che sono, allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona morale realizzerà il proprio bene o il ·proprio male. Come realizzerà il bene? Se non dà importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti, fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva (Diatr., l, 29, 1-3).
La libertà e la scelta o volontà di Epitteto non è né arbitrio né libertà in senso assoluto, ma atto razionale che in quanto tale, in quanto giudizio e obbiettivamente, è, appunto, proairesis. D'altra parte, proprio il fatto che l'uomo può scoprire sé come ragione, che, a sua volta, tale si scopre e si giudica ragionando (cfr. Diatr., l, l, 3-4), fa si che si possa porre come in atto una ragione che ci trascende dal di dentro, sempre in atto compiuta in se stessa (Dio). Perfetto dunque Dio in quanto ragione, la ragione umana, aspetto o frammento di quella divina, non è perfetta come la divina, per cui mentre tutto è in possesso di Dio, non tutto è 'in possesso dell'uomo, se non il rendersi ragione, il comprendere ("si deve organizzare il meglio possibile quel che dipende da noi e di tutte le altre cose usare come esige la loro natura; come esige la loro natura? come Dio vuole": Diatr., l, l, 17), che, distaccando l'uomo dalle sue stesse rappresentazioni immediate e unilaterali, gli fa intendere e valutare da un lato ciò che è in suo possesso (il pensare che è ad un tempo
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scelta e volontà) e, dall'altro lato, ciò che non è in suo possesso (il nascere e il morire, avere questo o quel corpo, esser nato maschio o femmina, da questi o da quei genitori, servo o libero, storpio o diritto, in questo secolo o in altro, ricco o povero e cos( via). E allora, quelle ste~se cose che non sono in nostro possesso, a cui tendiamo finché restano rappresentazioni asistemate, in libertà (alogiéhe), onde appaiono beni, per cui le desideriamo o da esse rifuggiamo (passioni), nell'atto che le intendiamo divengono mali se desiderate, ma, in quanto comprese per ciò che sono, né beni né mali (indifferentt). Questo, sembra, il significato, riallacciandosi a Zenone, a Crisippo, ad Aristone di Chio, dell'aspetto "cinico" dello "stoicismo" di Epitteto. Va qui, d'altra parte, tenuta presente l'affermazione di Giovenale, secondo cui la diffidenza, in quest'epoca, tra cinicj e stoici, consiste in una differenza di classe sociale, in una distinzione di "tunica" piu che di modo di atteggiarsi: "Stoica dogmata ... a Cynicis tunica distantia" (Satire, XIII, 121-122); e va tenuto presente un capitolo (22) del III libro delle Diatribe, in cui si delinea quella che dev'essere la figura ideale del saggio, del cinico (dell'uomo che per nascita non ha nessuna posizione sociale o che riconosce che la sua unica posizic;>ne è appunto quella del "saggio"), ma non interpretato secondo il clichl del cinico giullare, di quelle molte figurine di filosofi popolari di cui parla efficacemente Dione Crisostomo ("dei cosiddetti Cinici v'è gran numero nella città; ... ai crocevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questi uomini radunano e traviano schiavi e marinai ed altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di arguzie volgari: in realtà essi non fanno alcun bene, ma gran male • : Dione, Oraz., 32, 10). In effetto, il "cinico" che ha presente Epitteto (forse Demetrio: dr. sopra) è lo stoico di stretta osservanza, l'uomo che, consapevole di non avere una sua qual certa. posizione sociale - come, ad esempio, fu il caso di Epitteto, - realizza veramente se stesso, ché altro egli non possiede, in quanto mostra agli altri, anche col suo modo esteriore di vivere, che è un simbolo (privo di tutti quelli che si dicono beni: casa, famiglia, affetti), cosa significa essere libero, ai ricchi e ai poveri, ai potenti e ai deboli, indicando a tutti, e in ciò consiste la sua parte - il che non significa che ~utti debbano assumere la ·sua parte,- che tutti, essendo ciascuno a suo modo, possono essere liberi in quanto accettino, comprendendola, la propria parte. Nella comprensione razionale che tutto - uomini e c~e - è quale dev'essere, ciascuno al suo posto, il cinico non propende piu per una cosa o una persona piu di un'altra, onde, sotto tale prospettiva, tutto è per il cinico indifferente, tutto e tutti vanno né condannati né esaltati, ma compresi. Sotto questa prospettiva si vede bene come Epitteto potesse dire: 334
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Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcun uso, incominciando dalle piu piccole. Se tu ami una pentola, dirai a te stesso: io amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o· quel fanciullino, tu non abbi però a turbarti (Man., III). Chiunque avverte in maniera evidente che per l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza... non si adirerà con nessuno, non si irriterà con nessuno, non ingiurierà .nessuno, non biàsimerà nessuno, non odierà né offenderà nessuno (Diatr., I, 28, 10). Chi 'vuole divenire cinico non basta si metta la "divisa" del cinico (mantello corto, bisaccia e mazza), ma deve "purificare la parte egemonica dell'anima e disporre una tale linea di condotta: ora la materia con cui ho da fare è la mia mente, come il falegname ha il legno, come il calzolaio ha il cuoio : mio compito è il retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo non ha nessun rapporto con me: le sue parti neppure. La morte? Venga quando vuole, sia di tutto il corpo, sia di una parte. L'esilio? E dove mi possono cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E dovunque andrò H c'è il sole, H la luna, H le stelle, i sogni, i presagi, i colloqui con gli dèi. Però, pur avendo raggiunto tale perfezione, il vero cinico non se ne può contentare, ma deve sapere d'essere stato inviato da Dio, in qualità di messaggero, _per mostrare agli uomini, che, in rapporto al bene e al male si ingannano e cercano l'essenza del bene e del male là dove non è, e non badano dove è ... In realtà il cinico è esploratore di cosa è amico agli uomini, di cosa nemico, e, quindi, condotta un'esplorazione accurata, deve venire ad annunciare la veri~, senza essere sbigottito dalla paura ... Perciò, all'occorrenza, egli deve potersi levare in piedi e, salito sulla scena tragica, pronunciare le parole di Socrate [Platone, Clitofonte, 407 a-h]: 'Ohimé, uomini, dove vi lasciate trascinare?'; che fate, disgraziati? V'aggirate, come ciechi, di su e di giu; v'incamminate per un'altra strada dopo avere abbandonato la vera, cercate altrove ciò che rasserena e rende felici, dove non esiste, e non prestate fede a un altro che ve lo mostra. Perché cercarlo nelle cose esterne? ... Dov'è che siamo liberi? Nel giudizio ... Coltivate allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il bene. E come è possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo, senza casa, senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, Dio vi ha mandato uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. 'Guardatemi : sono senza casa, senza città, senza beni, senza schiavi : il mio giaciglio è la terra : non ho moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il
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cielo e un solo mantelletto. Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori? non sono senza timori? Non sono libero? Quando uno di voi mi ha visto fallire nei miei desideri, quando cadere nelle mie avversioni? Quando ho biasimato Dio o uomo, quando ho rimproverato qualcuno? Forse uno di voi mi ha visto accigliato? Come tratto quelli che vi mettono paura o meraviglia? Non come schiavi? Chi, vedendomi, non ritiene di vedere il suo re e il suo padrone?' Ecco le parole degne di un cinico, eccone il carattere, eccone il proposito" (Diatr., III,
22, 19-49). Se la delineazione dell'atteggiamento del cinico è la delineazione di una figura ideale di uomo, che giuoca la sua parte, compiendo il suo dovere, ciascuno, ·ognuno rimanendo al posto che natura gli ha dato, può, entro i suoi limiti, attuare se stesso, compiere il suo dovere, non unilateralmente (nell'esclusiva, ad esempio, maniera cinica), per cui su di un piano piu largo, l'aspetto cinico di Epitteto si risolve di nuovo entro i termini della morale e della misura stoiche. Deriva di qui un altro motivo fondamentale del pensiero di Epitteto, quello della libertà, su cui, accanto al motivo del saper usare le rappresentazioni e al motivo della conseguente distinzione tra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende, Epitteto ha piu insistito (nelle Diatribe il termine "libero" e il termine " libertà" sono usati ben 130 volte : cfr. Oldfather, Epiktctus, I, p. XVII), in una precisa determinazione della libertà come libertà da e non COII)e libertà di. Mediante la logica e l'appello ad esercitarsi nello studio di come funziona la ragione ("ai piu sfugge che Io studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e ancora di quelli che procedono mediante interrogazione, e, in una parola, di tutti i ragionamenti ·di questa maniera, è in relazione al dovere": Diatr., I, 7, 1), da un lato la razionalità scopre il tutto come un ordinamento e un sistema di rappresentazioni e, dall'altro lato, la razionalità, in quanto ci trascende dal di dentro, si pone come ordine e sistema del tutto, onde tutto è come deve essere, tutto è parte in funzione di un fine che è la stessa razionalità (la divinità). Posto, dunque, che in questo tutto l'uomo, scoprendo sé come razionalità, e, perciò, come figlio di Dio, avente sempre in sé un aspetto della divinità, può scegliere tra il vivere preso dalle sue rappresentazioni e passioni, indiscriminatamente, e il vivere secondo la sua stessa natura (che è, dunque, un dovere), cioè razionalmente, ne deriva la doppia considerazione epittetiana della realtà e della condizione umana. Se uno riuscisse a compenetrarsi in modo convenìente di questo pensiero, che veniamo da Dio tutti, e tra i primi, e che Dio ~ padre degli uomini
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e degli dèi, credo che nulla di ignobile o di meschino sarà desiderato da lui... Ma poiché al momento della generazione sono mescolati insieme questi due elementi, il corpo comune con gli animali, la ragione e conoscenza comune con gli dèi, altri inclinano a quella parentela infelice e mortale, pochi a questa divina e beata... Che sono, infine? Un misero omuncolo e miserabile è il mio corpo. Ma pur essendo miserabile hai un elemento superiore al miserabile corpo. Perché, dunque, allontanando tal cosa ti attacchi a questo? (Diatr., I, 3, l, 3-6). Non sai che piccola parte sei rispetto al tutto? Questo secondo il corpo; mentre secondo la ragione non sei peggiore né migliore degli dèi: che la grandezza della ragione non si misura in lunghezza né in profondità, ma in pensieri. Non vuoi, dunque, dove sei uguale agli dèi, ivi porre il bene? (Diatr., I, 12, 26). Guarda chi sei. Innanzi tutto un uomo, cioè· un uomo che non possiede niente piu importante della proairesi, ma a lei subordina il resto, e tale volontà possiede libera da schiavitU e da soggezione. Osserva, dunque, da chi ti distingui per la ragione. ·Ti distingui dalle bestie selvagge, ti distingui dalle pecore. Non solo, ma sei cittadino del mondo e parte di questo mondo, non delle ultime ma delle prime, perché puoi comprendere il governo divino e riflettere sulle conseguenze. Quale allora è la funzione del cittadino? Di non avere nessun interesse personale, di non prendere decisioni su nessuna cosa quasi fosse isolato, bensf di agire come la mano o il piede, che se ragionassero e comprendessero l'ordine naturale, giammai altrimenti si muoverebbero o desidererebbero o si contrapporrebbero al tutto. Per ciò ben dicono i filosofi che se l'uo~o virtuoso prevedesse il futuro, coopererebbe alle malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che tutto questo gli è stato assegnato dall'ordinamento universale e che è piu importante il tutto della parte, la città del cittadino ... (Diatr., II, 10, 1-5). Di fatto l'uomo, come tutte le cose, come ogni avvenimento è quello che è, né buono né cattivo; ognuno, come ogni cosa, nell'economia dell'Universo, nel giudizio divino, riceve una sua parte, piccola o grande che sia, è passivo, è apparentemente un'isola abbandonata a se stessa, tirato di qua e di là dalle passioni, per cui tutto è vano, tutto, sotto questa prospettiva, disprezzabile (in tale rappresentazione della realtà e dell'uomo il linguaggio di Epitteto è senza dubbio quello cinico; tutto è già dato, nulla è da fare, onde cade ogni speranza, la capacità di sperare che le cose possano essere diverse da quello che sono, libere; mondo senza poesia, donde la tristitia stoica). Solo che, per altro verso, se attraverso la ragione, la cui scoperta è non una deduzione, ma un'esperienza viva che si rivela mediante lo stesso ragionare, l'uomo ha la capacità di giudicare, cioè di scegliere, ordinando e obbiettivando, cogliendo ogni rappresentazione-oggetto per quella che è, l'uomo si libera dalle passioni, dall'errore, dall'assumere una rappresentazione per quello ch'essa non è. Sotto quest'altra pro-
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spettiva, quella stessa realtà che fino a che resta estranea, incompresa, è male, disordinata, irrazionale, si trasfigura in una realtà buona, desiderabile, amata, in un amore ordinato, nell'unico amore per l'unità di Dio, rimanendo perciò indifferenti tutte quelle rappresentazioni" che condurrebbero ad una vita unilaterale, dominata da questa o da quella rappresentazione (interessi esclusivi per gli onori, per la salute, il corpo, per la vita dei nostri cari e degli altri uomini, dimenticando ch'essi sono mortali, sf come rompibile è una pentola di coccio, e cosf via), che, appunto, per ciò, seguitano a non dipendere da noi. In realtà, per Epitteto non si tratta tanto di due modi di essere, ma di due modi prospettici di considerare la stessa realtà. Nel primo caso, pur facendo e considerando le stesse cose siamo determinati, agiamo fatalmente, siamo agiti (irrazionalità); nel secondo caso, pur facendo e considerando le stesse cose, siamo, non subiamo. Nel primo caso non ci solleviamo dalla vita di cose tra cose, nel secondo caso, obbiettando e scegliendo, giudicando, ci solleviamo alla vita razionale, alla vita divina. Da un lato tutto è necessario, dall'altro lato, pur rimanendo tutto necessario abbiamo la possibilità (e in questa possibilità consiste la libertà) di valutare quella. stessa necessità, per cui non la subiamo, ma riconoscendola la vogliamo. "Tu non devi cercare che le cose procedano a modo tuo, ma volere che vadano cosf come fanno, e bene starà" (Manuale, VIII). "Se vuoi, sei libero; se vuoi non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio" (Diatr., l, 17, 29). Si capisce allora come, sotto questo aspetto, per Epitteto ragionare sia volere, libera accettazione di una realtà che è quella che è, voluta dalla stessa razionalità in cui consiste la divinità (sulla libertà in particolare si confronti la piu lunga delle diatribe, la prima del IV libro). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle .opinioni che hanno delle cose (Man., IV). - L'essere zoppo s{ è impaccio della gamba, ma non della disposizione dell'animo (Man., IX).- Quando tu vedi qualcuno che pianga o per la morte di alcun suo congiunto o per la lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso subitamente e dirai: questo è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poiché questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto ch'egli ha dell'accaduto (Man., XVI). Ricordati che colui che rampogna o percuote, non offende esso, ma l'opinione che si ha che ·questi cotali offendano. Sicché quando tu ti senti montare la collera contro uno, pensa che la tua propria immaginazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri (Man., XX). Sopporta e astienti (framm. X, in Aulo Gellio, Noct. Att., XVII, 19).
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Si chiarisce cosi la dottrina epittetiana della "apparenza" (fantasia) (cfr. Man., 1), mediante cui Epitteto sottolinea cosa significhi la distinzione tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi. In altri termini, la nostra lnancanza di libertà dipende da una comprensione inadeguata delle cose, da ricondursi ad una nostra comprensione imprecisa. Possiamo avere una cognizione delle cose che è una cognizione fantastica, apparente. Se, per esempio, si stabilisce un errato rapporto causale, la nostra stessa attività, tesa a ottenere certe risonanze, in relazione a quell'apparenza si svolgerà in maniera errata e infelice (cfr., ad esempio, Diatribe, IV, l, 43-50), per un errore che è un errore prospettico. Si vede bene, di qui, come la distinzione tra esteriorità (ciò che non dipende da noi) è interiorità (pensiero, volontà e cosi via) consiste nel non comprendere e nel comprendere. Se, come sostiene Epitteto, il vero sta nel giudizio, in una scelta per cui tutto si costituisce in un sistema di rappresentazioni, l'essere delle cose, l'essere di tutto è nel giudizio, e quindi nello stesso discorso, in noi, e, qui, estensivamente e per analogia, in Dio. L'esteriorità, ciò che non dipende da noi, sta nell'incomprensione, in qualcosa che resta per sé, sganciato, no~ giudicato (irrazionale) e che, dunque, ci domina. Non si tratta di due realtà, ma: di due nostri modi diversi di atteggiarsi nei confronti della stessa realtà. Le cose comprese, proprio in quanto comprese, divengono nostre, anche se, appunto perché comprese, ci rendiamo conto che non dipendono da noi (l'avere questo o quel corpo, l'essere bello o brutto, maschio o femmina, ecc.). E allora, comprendendo, sappiamo anche quale, nella grande commedia del tutto il cui supremo regista è Dio, è la nostra parte (grande o piccola), realizzando bene la quale, tutti, ciascuno per ciò che gli compete (ed in questo consiste la nostra libertà: cfr. Diatr., IV, 1), siamo uguali, schiavi o re, uomini o donne, grandi o piccoli uomini, socraticamente, rendendoci con ciò davvero utili agli altri e a sé. E cosi quanto piu si ama se stessi, cioè la razionalità, tanto piu si amano gli altri, si vuole sé e gli altri come fini. Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un medico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene ad un altro (Man., XVII). Se il pilota ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa (Man., VII).
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Questi i motivi fondamentali del pensiero di Epitteto (e questi sono i motivi che in breve, in forma gnomica, Arriano ha riepilogato e sistemato nel Manuale, riprendendoli dall'opera maggiore, le Diatribe). Di qui, d'altra parte, l'importanza data da Epitteto all'insegnamento, inteso come insegnamento a· saper ragionare, mediante cui liberare gli uomini dal loro vivere da schiavi, delineando, infine, un vero e proprio processo attraverso il quale, dallo studio della logica e dalla scoperta del modo di funzionare della ragione, si giunga con essa - in cui, dunque sta il bene - a quella misura e dominio delle passioni in cui consiste l'uomo verace, simile a Dio (cfr. Diatr., Il, 17, 29-34; III, 2; 12; 26, 14; IV, 10, 13; l, 12, 24 sgg.). Innanzi tutto, per Epitteto, la funzione della ragione è di calcolare i nostr.i desideri, s( da distinguere quelli che davvero lo sono, in quanto dipendono da noi, da quelli che ci attirano in quanto abbiamo calcolato male, scambiando ciò che non dipende da noi per ciò che dipende da noi (in realtà, questi ultimi, compresi, cessano di essere desideri, divenendo i loro oggetti indifferenti, ché nessuna cosa la quale non dipenda da noi, che sia, cl1tpoadpnov - aproaireton, - può essere desiderata). In secondo luogo, obbiettivati i desideri, che consistono nell'esigenza di realizzare ciò che dipende da noi, la ragione, mediante l'educazione filosofica, ordinando e scegliendo, determina quale delle nostre inclinazioni ( 6p!L-IJ), o delle nostre repulsioni '(clfOP!LiJ) è conveniente o meno; indicando di volta in volta ciò che conviene, quali sono perciò i nostri doveri (xoc.&;;xov ), onde sappiamo come agire, come realizzare bene la nostra parte, sia nei confronti degli altri che di se stessi ("da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da cittadino" : Diatr., III, 2, 4). In terzo luogo, infine, la ragione sarà capace, dominati i desideri o le avversioni, le inclinazioni o le repulsioni, indirizzando s{ che ciascuno giuochi come deve la propria parte, di vedere sé come sistema di "rappresentazioni," in una comprensione del tutto, che è visione (teoria) pacata del tutto; in una accettazione in cui consiste la piu profonda religiosità (in tale tripartizione della filosofia il maggiore storico di Epitteto, il Bonhoffer, ha veduto l'aspetto piu originale di lui, che non si trova né negli stoici antecedenti, né in Musonio, né nei cinici: Epictet u. die Stoa, p. 27; cfr. anche Souilhé cit., pp. LII sgg.). Non dovremmo, mèntre vanghiamo, o ariamo, o JÌlangiamo, cantare l'inno a Dio? "Grande è Dio, percM ci ha largito strumenti adatti a lavorare la terra: grande è Dio, perché ci ha dato le mani, la gola, il '\lentre, perché ci fa crescere senza che ce ne accorgiamo, perché ci fa respirare mentre dormiamo." Questo bisognerebbe cantare in ogni occasione e can-
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tare l'inno piu sublime e piu divino che, cioè, egli ci ha dato la facoltà di comprendere tali cose e la via retta per usarle. Ebbene? Poiché la maggior parte di voi è cieca, non era necessario che ci fosse chi tenesse questo posto e in nome di tutti cantasse l'inno a Dio? E che cos'altro posso io, vecchio storpio, se non inneggiare a Dio?· se fossi un usignolo, compirei la mia parte di usignolo, se cigno, quella di cigno. E invece sono un essere ragionevole: devo inneggiare a Dio. Ecco la mia parte: io la compio e non diserto il mio posto, per quanto mi è concesso, e anche voi esorto a cantare questo stesso canto (Diatr., I, 16, 16-21). - Mi basta poter levare le mani a Dio e dirgli: "le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo governo e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia. Guarda come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono stato scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato alle mie relazioni con gli altri? Ti ringrazio di avermi fatto nascere, ti ringrazio di quanto mi hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta. Riprendile e assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue. tu me le hai date" (Diatr., IV, 10, 14-16). Epitteto mori nel 125-130 circa, a Nicopoli, da cui non si era piu mosso dal giorno del suo arrivo, esiliato da Roma (94). A Nicopoli, ove visse_ solo, tutto dedito all'insegnamento, egli godette di gran fama, rispettato e onorato da tutti. Solamente da vecchio avrebbe preso con sé una donna, perché lo aiutasse ad all~vare un orfano che aveva adottato (Simplicio, In Epicteti Enchiridion, Schenkl, test. LII). Che il suo insegnamento sia stato un insegnamento di vita - basato, certo, su di una precisa concezione - e non un insegnamento strettamente scolastico, è dimostrato anche dal fatto che dei suoi moltissimi discepoli e ascoltatori - a parte Arriano che fu con lui per molti anni a Nicopoli, e che probabilmente pubblicò le Diatribe e il Manuale subito dopo la morte di Epitteto - nessuno fece professione di filosofo, se non un certo Jerocle stoico, autore di un'Etica e di Filosofumena (se ne vedano i frammenti in Stobeo, Ed.). Va, d'altra parte, osservato che dopo l'uccisione (96 d.C.) di Domiziano, la politica dei principi, relativa al fondamento del potere dell'Impero, venne cangiando, tanto che si delineò la possibilità di assumere a fondamento ideologico la tesi politica dello stoicismo, sia sul piano politico sia sul piano piu strettamente giuridico. Già questo vediamo con l'imperatore Cocceio Nerva (96-98), il quale cercò di riaccattivarsi il Senato e con i suoi successori Traiano (98-117) e Adriano (117-136), che con l'istituzione ufficiale del Consilium principis svuotò gran parte del potere del Senato, avviando l'Impero ad una vera e propria unità statale, non piu esclusivamente personale. Sembra perciò non un caso che anche l'imperatore Adriano si sia recato a Nicopoli a chiedere consigli al celebre "saggio" Epitteto (cfr. Spartiano, Vita Hadriani, 16, 10).
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5. La componente cristiana. Lo • scandalo» cristiano. Il Cristianesimo tra il l e il principio del Il secolo. l • padri apostolici» Se.nza dubbio il Dio di Epitteto non ha nulla a che fare, sul piano teoretico, con il Dio uno, trascendente, persona e volontà dei primi cristiani, la diffusione della cui fede e concezione cominciò ad avere luogo dalla metà del I secolo circa. Il Dio di Epitteto, entro i termini della tradizione stoico-cinica, è la stessa razionalità del tutto, e, in quanto tale, scelta (giudizio), forza fisica e qualificante, la cui volontà è la sua stessa necessità, di cui le anime umane sono manifestazioni e frammenti, aventi la medesima unica sostanzialità. "Non ti sembra che tutte le cose formino un'unità? SL. E che le cose terrestri simpatizzino con le celesti? SL. Ma allora le piante e i nostri corpi sono cos{ legati al tutto e simpatizzano tra loro, e le anime nostre non lo saranno molto di piu? Le anime nostre sono legate e avvinte a Dio come parti e frammenti di lui ... " (Diatr., l, 14, 1-7). Certo, distaccate dal resto dei testi, si possono trovare non poche espressioni di Epitteto, riferibili a una concezione del divino inteso come persona (Dio padre, ad esempio, e l'uomo figlio: già presenti comunque in Cleante, in Crisippo, in Seneca), in un sentimento di dipendenza da una ragione suprema da cui tutto dipende, in cui consiste la religiosità di certe posizioni stoico-ciniche e platoniche. Solo che tali riferimenti, tali appelli rivolti al Dio, rientrano esattamente in tutta la tradizione retorica della diatriba. Sono personificazioni, in funzione retorica, del pensiero e di Dio. Cos{, certe altre espressioni epittetiane (ma anche senechiane) sulla libertà, sulla fraternità, sull'amore in Dio per tutti gli uomini, hanno fatto pensare, come già per Seneca, a possibili rapporti tra Epitteto e l'originaria diffusione del primo cristianesimo. D'altra parte, rovesciando i termini, è altrettanto lecito sostenere che sono i primi cristiani, che, nella rielaborazione della propria e nuova esperienza, sia pur per farsi intendere, chiarendo sé a se stessi, hanno usato un certo bagaglio culturale, un certo linguaggio comune, anche se in funzione di altro. Evidentemente i due termini non si possono sganciare, ponendo il prius e il posterius nell'uno e nell'altro. Estremamente interessanti sono, sotto questo aspett,o, gli studi cominciati dal Bonhoffer (Epictet und das Neue Testament) e proseguiti dallo Sharp (Epictetus and the New Testament), relativi a Epitteto, ma che si debbono estendere a tutta l'area culturale e al linguaggio propri della seconda metà del I secolo e del n secolo, sul linguaggio e le espressioni proprie del Nuovo Testamento ed il linguaggio proprio di Seneca, di Epitteto, di certi platonici, giuristi, cinici e cosf via. t stato cosf dimostrato, attraverso minute analisi, che gran parte
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delle formule, ad esempio, delle Diatribe e di quelle dei Vangeli (i Vangeli, almeno quelli assunti come autentici dalla Chiesa, furono composti: il V an gelo di Matteo, nella sua stesura in aramaico, tra il 50 e il 55 - la traduzione greca è piu tarda -; il Vangelo di Marco nel 62-65; il Vangelo di Luca nel 65-93; il Vangelo di Giovanni tra 1'80 e il 110) o delle Lettere di San Paolo (a parte quella agli Ebrei, della cui autenticità si dubita e che è chiaramente sotto l'influsso di Filone l'Ebreo), è dovuta al fatto che la lingua di questi gruppi di scritti è la stessa che parlava il popolo, come testimoniano i documenti, letterari o no, di quest'epoca (cfr. Bonhoffer, cit.; Sharp, cit.; Souilhé, cit.). Alcuni studi, piu recenti, hanno dimostrato, indipendentemente da Epitteto, un impressionante parallelismo tra certo linguaggio dei primi Vangeli (i sinottici: Matteo, Marco, Luca) e il linguaggio popolare della diatriba cinica e di quella stoica, tenendo d'altra parte nel debito conto la tradizionale forma popolare dei libri del Vecchio Testamento (ove ugualmente si ritrovano, anche se prese dal mondo ebraico, le stesse citazioni di personaggi, ebrei invece che greci, le stesse forme interrogative, gli stessi tipi di appello, propri della diatriba ellenistica: cfr. A. Wifstrand, Fornkyrkam och den grekiska Bildingen, Stoccolma, 1957; trad. francese, L'Eglise ancienne et la culture grecque, Parigi, 1962). E cosi vanno tenute presenti le analisi sul linguaggio di San Paolo in rapporto al linguaggio stoico, a quello cinico, al suo modo di tradurre termini ebraici che in greco vengono ad indicare concetti diversi, sull'importanza che ebbe nella formazione di San Paolo accanto all'elemento greco l'elemento dell'oramai diffusasi cultura ellenistico-giudaica, ove non va scordata anche l'allegoria, fin dal principio usata nell'esegesi dei libri sacri nel senso di Filone l'Ebreo (cfr. bibliografia su San Paolo). Sotto questo aspetto è facile trovare concordanze, talvolta perfino letterali, il che non vuole dire affatto che perciò vi siano state influenze dirette, dall'una o dall'altra parte, quanto piuttosto un linguaggio comune, formatosi nel tempo, resultante di piu d'una componente culturale, esprimenti in un modo o in un altro una comune esigenza. t ignoranza di testi sostenere, ad esempio, che il mondo cosiddetto pagano (termine equivoco e polemico, che andrebbe cancellato dal vocabolario dello storico, se non per rendere ragione di com'esso è nato e di che cosa, in un certo momento della storia, ha significato) non conosce l'amore, la fraternità, non ha coscienza dell'uguaglianza di tutti gli uomini, e cosi via (diremmo piuttosto che non conosce quelfamore, quella fraternità, quel tipo di rapporto con Dio, quel tipo di Dio). In effetto il problema è un altro. t rendersi conto non della superiorità o meno del Cristianesimo, se il Cristianesimo sia vero
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o no, non se l'una parte sia stata influenzata dall'altra, ma di cogliere, attraverso i testi, attraverso certi termini, anche nel comune linguaggio e nella comune formazione culturale, come, in una comune esigenza, si sia risposto da parte degli uni e degli altri, e come poi, i contenuti diversi, le risposte diverse, si siano modificate vicendevolmente nel loro incontrarsi e scontrarsi, entro i termini di una certa cultura, costituendo una nuova cultura. ~ stato detto, a proposito di Epitteto - ed è un esempio - che "se non vi è stata influenza diretta del Cristianesimo su Epitteto, indirettamente la religione di Gesu ha potuto agire su di lui. Alla epoca di Epitteto (morto tra il 125 e il 130), il Cristianesimo si era propagato nel mondo greco-romano, vi era penetrato e si era solidamente stabilito nella capitale; aveva scosso non solo le classi popolari, ma anche l'alta società. Nello stesso tempo, anche se con maggiore lentezza, si diffondeva, specialmente tra le classi colte, lo stoicismo rinnovato e sviluppato mediante l'opera di Seneca e quella del maestro di Epitteto, Musonio Rufo. ~ moralmente impossibile che i due movimenti, il cui fine era di moralizzare la società, si siano totalmente ignorati e non abbiano avuto contatti, almeno indiretti" (Souilhé, cit., p. LXVI). E che questo sia vero è dimostrato da una testimonianza dello stesso Epitteto, che sembra assai significativa, e che dà l'avvio a rendersi conto della comune esigenza, ma anche dell'aspetto nuovo e sconcertante del primo Cristianesimo proveniente da una cultura diversa, e in rottura, almeno in principio, da un lato con la cultura giudaica vera e propria e dall'altro lato con la cultura giudaico-ellenistica. Epitteto (Diatribe, IV, 7, 6 sgg.) sostiene che i Cristiani, ch'egli chiama Galilei, sono uomini degni di considerazione per l'esigenza che li spinge ad abbandonare i beni di questo mondo, a non aver paure, a non temere il tiranno (in senso cinico, secondo Epitteto: e perciò da indicarsi ad esempio per la loro durezza, per il loro coraggio dinanzi ai pericoli, dinanzi alla spada del tiranno). Solo che essi, dice Epitteto, sono arrivati a ciò per disperazione, giungendo al divino per follia, non rendendosi conto di ciò che davvero è il divino sapendo usare la ragione, ma per una qual certa loro abitudine (~ l&o~) •sotto la spinta della follia uno può raggiungere tale disposizione riguardo a queste cose, anche sotto la spinta dell'abitudine, come i Galilei. Ma allora, sotto la spinta della ragione e della dimostrazione nessuno può apprendere che Dio ha fatto tutte le cose del mondo e il mondo stesso, tutto quanto, libero da impedimento, col suo fine in se stesso, e le parti per servire ai bisogni del tutto?" (Diatr., IV, 7, 6). Anche se in un testo breve, almeno come lo riferisce Arriano, Epitteto ha colto molto bene i due aspetti con cui vengono a presentarsi i primi cri344
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stiani. Se da un lato essi si presentano, nel loro modo di predicare, nel loro atteggiamento coraggioso fino all'indifferenza totale per le cose del mondo, per i pericoli, per la spada del tiranno, simili ai cinici di tipo popolare, quali furon descritti da Dione di Prusa, testimoni (martiri) della propria concezione (come già di se stesso aveva detto Seneca), ed in tal senso i cristiani vengono presentati anche da Tacito (probabilmente le prime persecuzioni contro i cristiani, ritenuti non ingiustamente come una delle molte sette ebraiche, sono dovute alle stesse ragioni per cui da parte imperiale vennero perseguitati, cacciati, condannati a morte gli stoici, i cinici, i maghi); dall'altro lato, il loro atteggiamento, i loro stessi discorsi, non piu propri di singoli uomini - sia pur rispondenti ad esigenze comuni, - ma di gruppi, in una comune fede (non a caso Epitteto parla di "costumanza," di abitudine), si presentano come al di fuori di una cultura comune, non come frutto di ragionamento, né di persuasione retorico-razionale, ma come frutto di "follia," di una esperienza diversa e paradossale (e, in un altro testo, Epitteto, Diatr., II, 9, 20, ove sembra si alluda ai Cristiani, dice che veramente giudeo è chi prende lo spirito del battezzato e del seguace convinto). Aveva detto San Paolo, rivolgendosi ai Corinzi : "Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il V angelo, non con la sapienza delle parole, ma perché non diventi inutile la Croce di Cristo. ·Poiché la parola della croce è stoltezza per quei che si perdono: per quelli poi che sono salvati, cioè per noi, è la virtu di Dio. Perché sta scritto: Sperderò la saggezza dei sa vi e rigetterò la prudenza dei prudenti. Dov'è il savio? Dov'è lo scriba? Dov'è il dialettico di questo secolo? Non ha Dio resa stolta la sapienza di questo mondo? Poiché . infatti nella sapienza di Dio il mondo non conobbe Dio per mezzo della sapienza: piacque a Dio di salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione. Poiché i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza; ebbene, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili, ma per quelli chiamati, Giudei o Gentili, Cristo virtu di Dio e sapienza di Dio: perché la stoltezza di Dio è piu saggia degli uomini: e la debolezza di Dio è piu forte degli uomini... Io poi quando venni a voi, o fratelli, ad annunziarvi la testimonianza di Cristo, venni non con sublimità di ragionamento o di sapienza. Poiché non credetti di sapere altra cosa tra di voi, se non Gesu Cristo, e questo crocifisso. Ed io fui tra di voi con abbattimento e timore e molto tremore; e il mio parlare e la mia predicazione fu non nelle parole persuasive della umana sapienza, ma nella manifestazione di spirito e di virtu : affinché la vostra fede non posi sopra l'umana sapienza, ma sopra la potenza di Dio" (l Ai
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Corinzi, I, 17-25; Il, 1-5). E ai Romani: "Chi ci dividerà, dunque, dalla carità di Cristo? forse la tribolazione?. forse l'angustia? forse la fame? forse la nudità? forse il pericolo? forse la persecuzione? forse la spada? conforme sta scritto : Per te ogni df siamo messi a morte, siamo reputati come pecore al macello. Ma di tutte queste cose siamo piu che vincitori per colui che ci ha amati ... Nulla potrà dividerci dalla carità di Dio, la quale è in Cristo Gesu nostro Signore (Ai Romani, VIII, 35-39). "Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio" (Ai Romani, III, 23). E ancora ai Romani, Paolo esclama in un testo su cui s'impernia il significato dell'esperienza cristiana: "Per qual motivo infatti, mentre noi eravamo tuttora infermi, Cristo a suo tempo mod per gli empi? Ora a mala pena alcuno muore per un giusto;· ma pure forse vi è chi abbia cuore di morire per un uomo dabbene. Ma Dio dà a conoscere la sua carità verso di noi, mentre, essendo noi tuttora peccatori, nel tempo opportuno, Cristo per noi morf: molto piu dunque al presente, che siamo giustificati nel sangue di lui, saremo salvati dall'ira per mezzo di lui. Che se quando eravamo nemici fummo riconciliati con Dio mediante la· morte del suo Figliuolo; molto piu essendo riconciliati, saremo salvi per lui vivente. Né solo questo, ma ci gloriamo in Dio per Gesu Cristo Signor nostro, per mezzo di cui ora abbiamo ricevuto la riconciliazione. Per la qual cosa, come per un sol uomo [Adamo] il peccato entrò in questo mondo, e per il peccato la morte, cosf ancora a tutti gli uomini si stese la morte, nel quale uomo tutti peccarono. Poiché fino alla legge il peccato era nel mondo : ma il peccato non s'imputava, non essendovi legge. Eppure regnò la morte da Adamo fino a Mosè anche sopra coloro che non peccarono di prevaricazione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. Ma non quale il delitto, tale il dono; poiché se per il delitto di uno molti perirono: molto piu la grazia di Dio e il dono sono stati ridondanti in molti in grazia di un uomo, di Gesu Cristo. E non è tale il dono quale la prevarica · zione per uno solo; poiché il giudizio da un delitto alla condannazione: la grazia poi da molti delitti alla giustificazione. Infatti, se per il delitto di un solo, la morte regnò per un solo, molto piu quei che hanno ricevuto l'abbondanza della grazia, del dono e della giustizia, regneranno nella vita per il solo Gesu Cristo. Quindi, come per il delitto di uno solo la condanna è sopra tutti gli uomini; cosf per la giustizia di uno solo è a tutti gli uomini la giustizia vivificante. Siccome infatti per la disubbidienza di un uomo molti sono costituiti peccatori: cosf per l'ubbidienza di uno molti saranno costituiti giusti. La legge poi subentrò, perché abbondasse il peccato. Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia : onde, siccome regnò il peccato
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dando la morte, cosi regni la grazia mediante la giust1z1a, per dare la vita eterna per Gesu Cristo Signore nostro" (Ai Romani, V, 6-20). "A che dunque la legge? Essa fu aggiunta a causa delle trasgressioni per sino a tanto che venisse quel seme cui era stata fatta la promessa, e fu intimata per ministero degli Angeli in mano del mediatore. Ma il mediatore non è di uno solo: e Dio è uno solo. La legge è dunque essa contro le promesse di Dio? No certo. Se infatti fosse stata data una legge che potesse vivificare, la giustizia sarebbe veramente dalla legge. Ma la scrittura chiuse tutto sotto il peccato, affinché la promessa fosse data ai credenti mediante la fede di Gesu Cristo. Ma prima che venisse la fede eravamo custoditi sotto la legge, chiusi in aspettazione di quella fede che doveva essere rivelata. Fu dunque la legge il nostro pedagogo per condurci a Cristo, affinché fossimo giustificati per la fede. Ma, venuta la fede, non siamo già piu sotto. il pedagogo. Poiché tutti siete figliuoli di Dio, per la fede in Cristo Gesu. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non v'è Giudeo, né Greco, né servo, né libero, non v'è maschio né femmina. Voi tutti siete uno solo in Cristo Gesu" (Ai Galati, III, 19-28). Non vogliamo qui, né è il luogo, discutere la figura di Gesu Cristo (Gesu, trascrizione greca dall'ebraico Yeshua = Dio aiuta; Cristo, traduzione greca dell'aramaico Mashiah = Messia, l'" unto"), nato, sembra, nel 7 "avanti Cristo" (la data fu dovuta a un errore di calcolo del monaco Dionigi il Piccolo, che, per primo, nel secolo vr, numerò gli anni in "prima" e "dopo" Cristo), né della sua vita, né della sua esistenza e predicazione (se ne potrebbe dubitare nel senso che il Gigon dubita dell'esistenza di Socrate, sostenendo comunque l'esistenza della sua seminagione, quale si è venuta sviluppando attraverso i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere di San Paolo, fino, in epoca piu tarda, in altro ambiente e per altre esigenze, ai Vangeli apocrifi, evidentemente romanzeschi, ove soprattutto si sottolinea il meraviglio~o e il miracolo, come si vede bene nel cosiddetto Vangelo di Giacomo o nel Va1rgelo di Tommaso). Né qui vogliamo, né è il luogo, discutere sui Vangeli sinottici (qudli di Marco, che misè per scritto la predicazione che Pietro andava facendo a Roma, di Matteo, discepolo diretto del Cristo, di Luca, che sarebbe stato compagno di Paolo), né, per ora; sul significato dellOgos del Vangelo di San Giovanni (il piu tardo dei Vangeli, composto al principio del n secolo, anche a difesa dell'unita della Chiesa, gia minacciata da rotture e da interpretazioni diverse del Cristo, a seconda delle varie prime Chiese, come chiaramente dimostra la preghiera messa in bocca a Cristo, della quale non v'è alcun cenno negli altri tre Vangeli precedenti: "Padre, come tu
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hai mandato me nel mondo, cos( io li [apostoli: dal greco ap6stolos = inviato] ho inviati nel mondo... Né io prego solamente per questi, ma anche per coloro, i quali per la loro parola crederanno in me: che siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, e io in te, che siano anche essi una cosa sola in noi: onde creda il mondo che tu mi hai mandato. E la gloria che tu desti a me, io ho data ad essi : affinché siano una cosa sola, come una cosa sola siamo noi. Io in essi e tu in me: affinché siano consumati nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e hai amato loro come hai amato me" : XVII, 19-23). Né qui vogliamo, né è il luogo, discutere sulla primissima storia della formazione dottrinale del Cristianesimo e del suo costituirsi nell'organizzazione delle prime chiese (sembra che almeno nel loro primo costituirsi, le chiese cristiane nascenti, particolarmente con Paolo quella di Gerusalemme, ;tbbiano ricalcato le regole della comunità cui appartenne il Manuale di disciplina, ritrovato di recente tra i rotoli del Mar Morto: cfr. sopra), facendo l'ipotesi, oggi avanzata, che il Cristianesimo primo abbia assunto la propria origine dall'interno di una qualche comunità costituitasi entro l'àmbito delle sette ebraiche qumraniche di cui sopra abbiamo parlato. Ribelle alle altre sette che, in Palestina, dal tempo della guerra dei Maccabei o avevano accettato la nuova dominazione o avevano trasformato l'antica "legge" del "popolo" ebreo in un accomodamento con la cultura ellenistica o avevano cristallizzato l'antica legge in una ritualità puramente formale e colta, una di tali comunità, fuori da ogni cultura e ad ogni cultura, o sapienza, ostile, in una propria interpretazione del "vecchio patto" (V ecchio Testamento), avrebbe da tale sua rielaborazione delineato l'affermazione del • nuovo patto" (Nuot~o Testamento), dovuto, appunto, secondo la profezia, al Messia, all'"unto" del Signore, identificato in Gesu Cristo, aderente forse ad una delle comunità qumraniche fiorite alle foci del Giordano, sul deserto, a cui sembra che realmente abbia appartenuto Giovanni Battista (cfr. sopra); oppure in uno dei molti Maestri di Verità di quelle comunità, che sappiamo essere stati perseguitati e uccisi. "Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino, fate penitenza e credete . al lieto annuncio (Vangelo)." Quello che qui interessa non è tanto, dunque, la figura storica del Cristo o se i V angeli riproducano esattamente o meno la predicazione e il verbo di Gesu, quanto il fatto storico "cristianesimo," quale si ricava dai primi Vangeli, dagli Atti degli Apostoli, dalle Lettere di Paolo e di Pietro, in quella che n'è la "novità," l'" assurdità," la • stoltezza," lo • scandalo," in rapporto all'altra concezione, visione,
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cultura, quale si era venuta sistemando e costituendo nel corso di cinque secoli circa. In fondo, nel suo nucleo originario e neJ suo aggancio alla vecchia fede giudaica, l'atto di fede cristiana è estremamente povero e, Sl: vogliamo, banale, popolare, fuori cioè da ogni rielaborazione intellettuale-culturale : sotto questo aspetto assume un suo preciso significato storico l'afiermazione di D. H. Lawrence, nella sua polemica contro l'intellettualismo divenuto giuoco che perde il senso dell'umanità: "Alcibiade... e tutti gli altri piccoli cani di discepoli che partecipavano alla zuffa! Debbo dire che si finisce col preferire il Budda seduto tran· quillamente sotto il fico leggendario, o Gesu che racconta ai suoi discepoli storielline domenicali, pacificamente, senza motti di spirito. No, c'è qualcosa di fondamentalmente falso nella vita intellettuale. È radicata nel rancore e nell'invidia, nell'invidia e nel rancore" (L'amante di lady Chatterly, trad. it., Milano, ed. 1961, pp. 61-62). È fede, non in quanto mera credenza o opinione, ma in quanto adesione alla verità rivelata dallo stesso Dio gratuitamente e storicamente, in un Dio solo, non ragion d'essere della realtà, ma volontà, egli ragione delle ragioni; non solo 16gos, non atto puro, non forza fisica, ma, appunto in quanto volontà, "persona," signore, dal cui atto di volere (che in quanto è non ragione, cioè non necessità, è imperl!crutabile) scaturisce il tutto. Dio, dunque, è creatore, ~x nihilo (la formula "dal nulla" che nel Veççhio Testamento si trova solo in Maççabei, II, 7, 28, giA usata da Filone l'Ebreo, per la prima volta è chiaramente usata da Erma, nel Pastore, scritto tra il 140 e il 150: "Innanzi tutto credi che non esis~e che un solo Dio, che ha creato e compiuto tutte le cose e tutte le cose ha fatto venire all'essere dal nulla": Pastore, Precetti, l, l, vv. 140-145), e "gratuita" è la sua creazione, da nulla condizionata, per cui tutto, in quanto tutto è dovuto a Dio, è gratuito, tutto è suo dono. Dio uno (unità e unico), persona e volontà, onnipotente Signore (in lui sono tutte le possibilità infinite: infinite sono le vie del Signore), creatore del cielo e della terra, e creatore dell'uomo (AdamcrEva) fatto a sua immagine e somiglianza, uno in lui. L'uomo, uno e libero come Dio, volendo, con un altrettanto· atto d'imprescrutabile volontà, conoscere sé, affermandosi esiste opponendosi a Dio, e perciò cade da Dio e si spezza nella molteplicità degli uomini, onde tutti gli uomini sono peccatori nel peccato dell'Uomo (Adamo). Di qui la storia degli uomini, storia di peccato, di guerra, di prevaricazione; di qui, nella storia, il vicendevole libero patto (testamento) tra Dio e il popolo eletto (gli Ebrei), attraverso Mosè, e da Mosè in poi le varie fasi della storia del patto, e quindi la legge. Entro questi termini il discorso cristiano è identico a quello piu recentemente rielaborato del giudaismo (cfr. sopra, Filone
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l'Ebreo). Caduti tutti, col peccato di Adamo, gli uomini, anche se nella legge, non sono piu simiglianti a Dio: caduti da Dio, molteplici, esistenti in quanto affermazione di sé e peccato, essi non possono con le loro forze tornare a Dio, ché le loro stesse forze, la loro stessa ragione, dal momento che la loro natura è divenuta il peccato e il male, sono peccato e male. Solo perciò un nuovo atto gratuito da parte di Dio può far tornare l'uomo uno in Dio, salvandolo. Di qui, ora, la fede in Gesu (l'aiuto di Dio, e il suo inviato), nel Cristo (l"' unto" del Signore), nuovo Adamo, non uomo se per uomo s'intende il figlio degli uomini, e per ciò stesso peccatore, e quindi neppure profeta, ma figlio di Dio, senza peccato, che appunto perché tale può lavare il peccato, ristabilire, pagando, l'unità perduta (cfr. Paolo, Ai Romani, IV, 23-25). E come tutti gli uomini sono peccatori e molti in Adamo, cosi solo rifacendosi Cristo, attraverso il Cristo tutti gli uomini, lavandosi dal peccato in lui, crocifissi con lui, possono tornare uno in Dio, per volontà di Dio, di cui, appunto, Cristo è la grazia, trasfigurando sulla croce l'uomo vecchio nell'uomo nuovo (donde la buona novella, il "vangelo," che costituisce il nuovo patto, il nuovo testamento, che si determina non piu in legge, ma in amore). Tale la volontà di Dio, che annullando il vecchio patto annulla la distinzione tra popolo eletto e genti non elette, dando a tutti la possibilità di salvarsi attraverso la comunità (Chiesa), il corpo mistico di Cristo. Per se stesso, dunque, il Cristianesimo è la Chiesa, e la Chiesa cristiana non può non essere che cattolica (universale) e unica, ché essa è lo stesso corpo di Cristo (cfr. Paolo, l Cor., XII, 12-31), la Chiesa del nuovo patto, del Regno di Dio, attraverso cui è possibile la salvazione. Con il Cristo, infatti, si ristabilisce la possibilità da parte dell'uomo di rifarsi Cristo (salvandosi) o di restare fuori del Cristo (peccato). "Chi crede e si fa battezzare, si salverà: chi invece non crede, sarà condannato" (Marco, 16, 6). Solo che ciò è possibile qualora la rivelazione di Dio, mediante il Cristo, penetri nell'uomo, gratuitamente: "Per grazia sua voi siete stati salvati per via della fede; e questo non viene da voi: è dono di Dio" (Paolo, Efes., II, 8); "Dio mandò al mondo il suo Figlio Unigenito, affinché noi per suo mezzo avessimo vita. Qui sta l'amore: non noi abbiamo amato Dio, ma egli amò noi e mandò il suo Figliuolo in espiazione dei nostri peccati" (/ lettera di Giovanni, IV, 9-10). "L'amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato" (Paolo, Ai Rom., V, 5), "poiché egli ci ha predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo" (i b., VIII, 29). "Se noi siamo stati innestati alla raffigurazione della sua morte, lo saremo pure alla risurrezione. Sapendo noi, come il nostro uomo vecchio è stato assieme crocefisso, affinché sia distrutto
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il corpo del peccato, onde noi non serviamo piu al peccato. Poiché colui che è morto, è giustificato dal peccate. Che se siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo ancora con lui. Sapendo noi che Cristo risuscitato da morte non muore piu, la morte piu non lo dominerà. Poiché quanto all'essere lui morto, mori per il peccato una sola volta: quanto poi al vivere, egli vive per Dio. Allo stesso modo anche voi consideratevi come morti al peccato, ma vivi a Dio in Gesu Cristo, Signore nostro" (ib., VI, 5-11). Già da questi pochi e noti accenni si vede bene il carattere "scandaloso," la "stoltezza" e "follia" del Cristianesimo. Il Cristianesimo si presenta innanzi tutto, sul piano ·del piu antico giudaismo, come fede, non intesa come "credenza" o come "opinione" o come "ipotesi," ma come accettazione incondizionata di una verità sul fondamento dell'autorità altrui. Tale autorità è Dio stesso, che non per ragione necessaria, ma per un atto di sua libera volontà, gratl.litamente, si rivela, storicamente, mediante il Cristo, la "parola," il verbo di Dio, Cristo dunque, la rivelazione di Dio, l'autorità su cui poggia la fede. E mediante il Cristo, atto gratuito di Dio e, perciò, non naturale, rispetto a quella che con il peccato è divenuta la natura dell'uomo, per cui si crede non per ragione, anzi proprio perché non è razionale nel senso umano - "credo quia absurdum est," - la fede è fede in un solo Dio, persona, oltre i termini della nostra razionalità, creatore ex nihilo. Ed è fede in un Dio che, caduto l'Uomo negli uomini, gratuitamente, per un suo imperscrutabile amore, egli l';~.mante, non l'amato, attraverso il Cristo (perciò soprannaturale, divino), incarnandosi nell'uomo, dà all'uomo la possibilità di salvarsi, rifacendosi Cristo. E volendo, quindi, gli altri, mediante il nuovo patto con cui si costituisce come termine il "regno di Dio," non come singoli per ciò che sono, ma per ciò che vorremmo che fossero, come, attraverso il Cristo, rifacendosi Cristo, mondi dal peccato, mediante il battesimo, non vogliamo noi stessi quali siamo di fatto, ma quali vorremmo essere, cioè simili a Dio, nell'amore per Dio, dimenticando l'amore di sé, inteso come realizzazione della propria natura (lpc.>t;, éros), in un amore di sé, che è amore di sé in Cristo e negli altri (&y47t1), agape = carità), in ognuno dei quali è Cristo e perciò, mediante il Cristo, il fine che è Dio, come termine d'amore: "ama il prossimo tuo come te stesso" (Matteo, XXII, 34-40). "Voi tutti siete uno solo in Cristo Gesu" (Paolo, Ai Galati, IV, 19-28). "Non amate il mondo, né le cose del mondo; se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui" (l lettera di Giovanni, Il, 15). Ciò non significa, è stato detto da parte cattolica, che l'" amore donatoci in Cristo esiga la svalutazione o addirittura l'estirpazione del-
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l'amore naturale. È solo l'amore distorto che va combattuto. Tutto ciò che è vero amore viene da Dio, il quale è l'amore stesso e perciò tende a sfociare nell'amore di Dio... Il nostro amore verso il prossimo deve essere informato dall'amore di Dio. Nel règno di Dio vale solo ciò che porta il contrassegno dell'amore di Cristo. Tutte le nostre opere d'amore verso l'uomo fuori dalla signoria di Cristo, sono senza valore e rimangono pura umanità. E se dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi amore, non ne avrei alcun giovamento. L'amore è longanim.e ed è benigno; esso non cerca il proprio interesse (Paolo, I Corinti,. VIII, 3-4). E come Cristo ha amato noi, cosi l'amore cristiano è volto anche ai piu miseri, ai piu perduti peccatori. In ciò l'amore è ispirato da un'altissima stima: esso .vede nell'altro il figlio di Dio, ovvero il chiamato ad essere tale. L'amore è anzitutto disposizione d'animo, vera benevolenza. Questa si esprime nella volontà di fare il bene e, ogni qualvolta la situazione lo esiga, nel farlo effettivamente. Nell'offerta di se stessi l'amore celebra la vittoria della carità di Cristo. 'Nessuno ha piu grande amore di colui che dà la vita per i propri amici' (Vangelo di San Giovanni, XV, 13)" (in La Religione cristiana, a cura di O. Simmel e R. Stahlin, trad. it., Milano, 1962, pp. 13 sgg.). Lo stesso amore, dunque, per gli altri e per sé, è anch'esso un attodi amore da parte di Dio, attraverso il Cristo e il suo sacrificio è testimonianza, appunto, dell'amore di Dio, mediante cui l'uomo vecchio risorge Qo stesso Cristo non può non risorgere), per cui l'etica medesima è non "naturale," ma dovuta a Dio, da Dio voluta. Testimonianza dell'amore di Dio è la passione di Cristo; l'Apostolo (l'inviato) di Dio, mediante sé puro, dona all'uomo la possibilità del pentimento, facendolo risorgere uomo nuovo, testimonianza del Cristo - e perciò della Chiesa - e, dunque, gli apostoli, gli inviati di Cristo su questa terra, ogni uomo, in quanto cristiano, è testimonianza della fede in Cristo e in Dio, dell'amore, per cui il ·suo sacrificio, anche il patire la morte, la persecuzione, è, in effetto, testimonianza (martiri<:>) della fede in Cristo, del martirio di Cristo, della carità del regno del Signore, posto come termine d'amore, nel conflitto, proprio di questa terra, onde, appunto, mai sarà di questa terra il regno del Cielo. Cosi la sapienza umana, se sganciata dalla fede, che è il suo presupposto, dalla gratuita rivelazione dell'autorità di Dio, mediante il verbo di Cristo, resterà vana, resterà affermazione di sé, prevaricazione (non sembra un caso che l'albero del male sia l'albero del sapere), mentre, se si fonda sulla fede, verrà ad essere chiarimento della fede stessa (ftdes quacrens intellectum; su cui si fonda il concetto della "teologia scientifica" della Chiesa cattolica). 352
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Logicamente assurdo un Dio "persona," irriducibile alle guise della ragione, un Dio "creatore" e libertà assoluta, ancora piu assurda, proprio perché gratuita, perché dono, l'incarnazione di Dio nell'uomo, di un Dio che patisce sulla croce; ancora piu assurda, pazzesca, se considerata entro i termini delle condizioni che rendono razionali e perciò veraci i discorsi umani, si: presenta agli occhi di una certa cultura, di un certo concetto del divino e della natura, la predicazione cristiana, lo stesso amore cristiano, l'etica cristiana, e con ciò, anche l'interpretazione giovannea dd vecchio l&gos della cultura greca; ché ill6gos (verbo) è s{ la ragione di Dio, ma la ragione di Dio che nella sua gratuità - soprarazionalità - s'identifica con Cristo Gesu, figlio di Dio, che muore in Croce per gli uomini. "In prineipio era il Verbo, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio. Questo era nel principio in Dio. Per mezzo di lui furono fatte tutte le cose: e senza di lui nulla fu fatto di ciò che fu fatto. In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. E la luce splende tra le tenebre, e le tenebre non la compresero ... " (Van g. di Giovanni, l, 1-5). Se fin qui evidente è in Giovanni l'influenza del l6gos in senso stoico e, piu ancora, nel senso assunto con Filone l'Ebreo, chiaramente tale concetto si rovescia in ciò che è immediatamente aggiunto. "E il Verbo si è fatto carne e abitò tra noi: e abbiamo veduto la sua gloria, gloria come nell'Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità ... Da Mosè fu data la legge: la grazia e la verità da Gesu Cristo fu fatta. Nessuno ha mai veduto Dio: l'unigenito Figliuolo, che è nel seno del Padre, egli ce lo ha rivelato" (1, 14, 17-18). Messaggio di salvazione, in una fede e speranza, rivelazione di Dio, median,te il Cristo, testimonianza dell'amore gratuito (carità) di lui, il Cristianesimo, nato dal vecchio tronco ebraico, ma in un atteggiamento di isolamento dalla cultura e di contrasto nei confronti sia delle sette ebraiche ufficiali, sia nei confronti della cultura ellenistica, che al di fuori del Cristo, non conoscendo Cristo, appare come essenzialmente ammalata, onde la sua stessa sapienza; che si fonda sulla ragione umana, è orgoglio, prevaricazione, il Cristianesimo, appunto, si determina dapprima, nel suo messaggio universale, come apostolato, come, nell'amore per tutti, predicazione e testimo"nianza del Cristo. Solo che in questo suo slargarsi, in questo suo essere in contatto, in Palestina e fuori, verso l'Oriente come verso l'Occidente, con tutti gli strati culturali, se da un · lato ebbe a che fare con le concezioni religiose piu popolari, con le vecchie tradizioni e superstizioni, con i lasciti del politeismo - onde ancora in gran parte della prima letteratura cristiana si presenta la lotta contro il mondo pagano, come lotta contro il politeismo o l'idola,tria, - dall'altro lato l'incontro con
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la cultura piu alta, con lo stoicismo, l'epicureismo, il platonismo, l'aristotelismo, determina una problematica diversa, anche perché, in un secondo tempo, molti, che si convertirono al cristianesimo, furono uomini la cui originaria formazione era stata quella dei propri paesi d'origine. La storia del Cristianesimo, fin dal principio costituitosi come propaganda, si svolge su linee molteplici, fuori di sé e internamente à se stesso : fuori di sé, in rapporto con i vari strati di cultura, in un rendere conto di sé, o trasformandosi o trasformando motivi propd della teologia ellenistica - uno dei problemi nodali che ne scatur{ fu quello del rapporto tra ragione e fede - ove non poche volte il "nuovo" del Cristianesimo si riduce all'odore dei vecchi otri; internamente a se stesso, ché, non potendo non essere il Cristianesimo se non Chiesa, esso ha dovuto organizzarsi e istituzionalizzarsi, e in tale organizzazione e istituzionalizzazione; trattandosi di dare una sistemazione ai sacri libri e perciò stesso una interpretazione definitiva, vengono nascendo contrasti e conflitti tra le prime Chiese cristiane: di qui gli scismi e le eresie. Relativamente l'una all'altra tutte scismatiche le Chiese, finché nel prevalere, anche per ragioni politiche e, piu tardi, per appoggi politici, di una Chiesa sulle altre, si è venuta costituendo quella che è . stata detta la "verità" cristiana, la "vera" Chiesa. La storia del Cristianesimo è perciò da un lato la storia della Chiesa, con tutto quel che di politico ciò implica, ivi compreso il rapporto con l'istituzione imperiale, e, dall'altro lato, è storia dell'incontro, dello scontro, della vicendevole modificazione di culture, in un reciproco chiarimento e, almeno in principio, in una riflessione (filosofia) sulla esperienza cristiana, sia pur nella propaganda (periodo apostolico) e nella difesa di sé, anche giuridica (apologetica), per rendere conto (e per ciò potevano servire i vecchi strumenti logici) di sé a se stessi e agli altri. Fin dal principio, dunque, accanto alla testimonianza, attraverso la parola e l'esempio, anche attraverso il sacrificio di sé - donde l'importanza degli Atti dei martiri, - si tende a presentare la "novità" dell'esperienza cristiana, la rottura nei confronti ·di una concezione ritenuta, in quanto senza il Cristo, peccaminosa e frutto dell'originario orgoglio per cui l'uomo è caduto. Ma fin dal principio si tent3 pure, per altro verso, di giustificare, rendendone conto, il significato dei termini nuovi e della loro esatta accezione (e sotto questo aspetto certe posizioni cristiane furono ~enza dubbio gnostiche). E ciò si svolge su due piani: da un lato nei confronti della vecchia cultura e, dall'altro lato, nella stessa interpretazione sia della natura del Cristo, del suo
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rapporto con Dio e con l'uomo, della sua posizione nei termini della struttura dell'universo, sia del motivo della libertà e della grazia. Evidentemente se su questo secondo piano si svolge la storia della Chiesa, delle eresie e degli scismi, appunto in questi modi di interpretare giuocano anche - e non potevano non giuocare - gli aspetti diversi, a seconda delle varie culture originarie, di ben precise formazioni culturali. Di qui, poi, fin quasi dal principio, le varie chiese cristiane, i vari cristianesimi e le loro lotte, di cui, appunto, già v'è un'eco angosciosa nella preghiera messa in bocca a Gesu da San Giovanni e nell'esempio, sempre giovanneo, della vite e dei tralci ("Io sono la vite, voi i tralci: se uno rimane in me ed io in lui, questi porta molto frutto. Chi non rimane in me sarà gettato via e seccherà": Vangelo di San Giovanni, XV, 2), quando, per altro, non si tenga presente la Prima lettera ai Corinzi di San Clemente Romano, terzo successore di San Pietro, dopo Lino e Anacleto, composta nel 96-98 d. C., della. stessa epoca circa del Vangelo di Giovanni, nella quale si richiama all'unità della Chiesa (quella romana) e alla sua autorità la Chiesa di Corinto, i cui giovani membri si erano ribellati alla gerarchia di quella comunità. L'innesto tra la cultura ebraico-cristiana (Dio creatore e uno, persona e libertà assoluta) e la concezione stoico-platonica di sfondo era possibile entro i termini delineatisi con Filone l'Ebreo, relativamente al rapporto Dio-mondo, Unità-pluralità (onde facile diveniva la confutazione del politeismo e dell'idolatria, proprie ancora in realtà solo ai livelli culturali piu bassi, coi quali tuttavia, soprattutto, aveva a che fare in principio il cristiano apostolo nella sua propaganda e testimonianza del Cristo; gran parte delle dimostrazioni dell'esistenza di Dio ricalcano le tesi stoiche e platoniche, dal noto all'ignoto, interpretate nei termini di Filone l'Ebreo). Ciò si vede bene già nel celebre discorso di San Paolo sull'Areopago, quale è riferito· dagli Atti degli Apostoli. "Alcuni filosofi epicurei e stoici attaccano Paolo, e alcuni dicevano: Che vuoi egli dire questo chiacchierone? Altri poi: pare che annunzi nuovi dèi: perché annunziava loro Gesu e la risurrezione. E presolo lo condussero all'Areopago, dicendo: possiamo noi sapere quel che sia, questa nuova dottrina, di cui tu parli? Poiché tu ci suoni alle orecchie certe nuove cose: vorremmo dunque sapere che voglia essere· questo. Ora gli Ateniesi tutti, e gli ospiti forestieri, a nessun'altra cosa badavano che a dire o ascoltare qualche cosa di nuovo. E Paolo, stando in piedi in mezzo all'Aeropago, disse: 'Uomini ateniesi, io vi vedo in tutte le cose quasi piu che religiosi, poiché, passando io e considerando i vostri simulacri, ho trovato persino un'ara, sopra la quale era scritto: al Dio ignoto. Quello, adunque, che voi adorate senza cono-
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scerlo, io ve lo annunzio. Dio, che fece il mondo e le cose tutte che in esso sono, essendo egli il Signore del cielo e della terra, non abita in templi manufatti, e non è servito per le mani degli uomini, quasi abbisogni di alcuna cosa, egli che dà a tutti la vita, il respiro e tutte le cose: e ha derivato da un solo la progenie tutta degli uomini, che abitasse tutta quanta l'estensione della terra, avendo fissato i determinati tempi e i confini della loro abitazione, perché cercassero Dio, se a sorte tasteggiando lo rinvenissero, quantunque egli non sia lungi da ciascuno di noi. Poiché in lui viviamo e ci muoviamo e siamo: come anche taluni ·dei vostri poeti hanno detto: siamo veramente progenie di lui [cfr. Arato, Fen., 5; Cleante, Inno a Zeus, 4]. Essendo dunque noi progenie di Dio, non dobbiamo credere che l'essere divino sia simile all'oro o all'argento o alla pietra scolpita dall'arte e dall'invenzione dell'uomo'" (Atti degli Apostoli, 17, 18-29). Al Dio uno e perfetto, ragion d'essere del tutto, di cui tutto, le cose e gli uomini, è progenie; al Dio nascosto e ignoto in quanto non è nessuna delle cose, ma di tutte fondamento, al quale si giunge, per analogia, mediante la contemplazione delle cose, del loro ordine e sistema; alla comune divina scintilla, che è la ragione umana, che ci fa tutti fratelli nell'ordine naturale del tutto; all'unica ragione divina, cui la ragione umana, l'anima razionale, frammento della ragione divina quando è l'ora tornerà; a tale divinità, propria a una certa teologia ellenistica, il Cristiano poteva benissimo aderire e servirsene per operare su certi ambienti culturali, per dimostrare che già prima del Cristo, Dio si era rivelato a certi uomini preparando e maturàndo i tempi della venuta di Cristo. Aveva detto San Paolo: "quello che può conoscersi di Dio è manifesto negli uomini [nei Giudei e nei Greci], poiché Dio lo ha loro manifestato. Infatti le cose invisibili di lui, dopo creato il mondo, comprendendosi per le cose fatte, sono divenute visibili : anche la eterna potenza il divinò essere di lui" (Ai Romani, l, 19-20). Non a caso, piu tardi, non pochi autori cristiani riprenderanno motivi stoici e platonici, termini della logica aristotelica, per dimostrare l'unità e l'unicità di Dio, cui tutti, mediante la ragione, possono giungere. Solo che, su di un piano strettamente cristiano, la stessa ragione resta vana e malata, se non interviene la rivelazione di Dio, il dono di Dio, la fede, se non è la sapienza divina a far sapiente l'uomo, dando all'uomo la certezza che Dio non è solo la ragion d'essere del tutto, ma è persona, è unico, atto creatore, gratuità. Sotto questo aspetto, il Cristiano, nell'esegesi della Bibbia e di certi testi platonici e stoici, poteva benissimo rifarsi a Filone l'Ebreo. Se da un lato, dunque, ci si poteva servire della sapienza e della teologia antiche, riprendendo la tesi che Dio si è rivelato, mediante il l&gos, anche
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prima del Cristo (San Giovanni, San Giustino, San Basilio); dall'altro lato si tiene fermo il concetto ebraico-cristiano del Dio creatore e persona, trascendente, che per un atto di sua volontà scende agli uomini, rendendo cosi la tesi cristiana irriducibile alla filosofia e teologia ellenistiche, ma anche alla teologia filoniana giudaica, poiché, qui, ancor piu scandaloso si presenta il Cristo. E se anche il Cristo viene interpretato come il coronamento e la compiutezza della rivelazione, del l&gos di Dio, per cui la filosofia antica si completa e si risolve con l'avvento di Gesu (San Giustino), proprio il Cristo segna la frattura tra la Chiesa e il Portico o l'Accademia di Atene, come dirà Tertulliano, che sul piano della ragione naturale poteva sostenere la tesi stoica. Tutto ciò avrà il suo sviluppo in una riflessione sempre piu intensa sull'esperienza di vita cristiana (ed in ciò consiste la "filosofia" cristiana), con soluzioni non poche volte opposte tra loro in polemiche vivissime non solo tra i cristiani e i prosecutori della filosofia e cultura antiche, che vedevano nel Cristianesimo una posizione assurda e sragionevole, ma, anche, interiormente allo .stesso Cristianesimo, tra interpreti e interpreti della figura del Cristo, della sua funzione, della sua posizione nell'ordine voluto da Dio, onde dall'una e dall'altra parte si formularono accuse di eresia e nacquero i primi scismi. Evidentemente, dunque, una storia della cultura filosofica· cristiana nel suo sorgere non può prescindere dalla storia della cultura greco-romana quale si veniva configurando nel I secolo d. C., sf come; d'altra parte, una storia della cultura tra la fine del I secolo e il n secolo d. C., non può non tener conto dell'esperienza cristiana, dell'approfondirsi della sua problematica, di come uomini, passati al Cristianesimo, ma formatisi entro i termini di altra cultura, hanno o ridotto il Cristianesimo stesso all'antica cultura, o, pur usando i vecchi strumenti, risolto il Cristianesimo in contenuti nuovi. Ad ogni modo è certo che la chiave della polemica, il centro della discussione e della problematica cristiana è già presente in San Paolo, anche nel proseguimento del suo discorso ai filosofi di Atene, tenuto all'Aeropago. "Ma Dio," prosegue Paolo, "avendo chiusi gli occhi sopra i tempi di una tale ignoranza, intima adesso agli uomini che tutti in ogni luogo facciano penitenza, perché ha fissato un giorno, in cui giudicherà con giustizia il mondo per mezzo di un uomo stabilito da lui, come ne ha fatto fede ·a tutti, con il risuscitarlo da morte. Sentita nominare la risurrezione dei morti, alcuni ne fecero beffe, altri poi dissero: 'Ti ascolteremo sopra di ciò un'altra volta.' Cosf Paolo si parti da loro. Alcuni però, unitisi con lui, credettero: tra i quali è Dionigi Areopagita e una donna per nome Damaride, e altri con loro" (Atti degli Apostoli, 17, 30-34). Non solo, ma sul motivo della resurrezione dei corpi era implicito
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un altro aspetto " scandaloso" e sconcertante del Cristianesimo. Se solo attraverso il Cristo, facendosi testimoni della fede in Cristo, nell'amore per il prossimo - mediante il Cristo Uno, che è la Chiesa - l'uomo si salva tornando Uomo in Cristo e perciò in Dio, ciò significa che Cristo è venuto a salvare e a purificare non l'Anima, frammento e manifestazione dell'Unità divina, ma l'uomo nella sua interezza di anima e corpo (dove non è da far distinzione tra anima e corpo), che in Cristo, e con Cristo, risorgerà. L'esistenza degli uomini, dovuta al peccato di Adamo, implica che l'uomo in quanto esistente, cioè in quanto decaduto, è un limite accanto ad altri limiti, per cui, finché l'uomo resta uomo, su questa terra, mai sarà di lui il regno di Dio (il regno di Dio non sarà mai di questa terra). L'anima umana, perciò, sia pur nel suo aspetto razionale, non è un momento dell'unica manifestazione della razionalità divina, tale in quanto si manifesta, appunto, nel tutto. In realtà, di fatto, esistono gli uomini, non l'uomo, e, dunque, non l'anima da un lato e il corpo dall'altro, non l'anima scintilla divina che s'incarna nei corpi, tomba dell'anima (per cui l'uomo è uomo non in quanto individuo, ma in quanto platonicamente si annulla nell'unità dell'anima universale), non l'anima forma dei corpi aventi la vita in potenza in senso aristotelico (per cui reale resta sempre la specie), non il corpo puro limite e dispersione, male e bruttura; ma l'uomo, male e limite in quanto esistente nel peccato originale, non per sua natura, dunque, immortale; esistente per un atto di volontà, non per necessità razionale; ma l'uomo che integro si salva, tornando Adamo, mediante il Cristo, l'inviato gratuitamente da Dio, per cui l'immortalità non è né dell'anima né del corpo, ma è voluta da Dio. E, perciò, si salva non l'anima, non l'universale che è nell'uomo (in senso greco), ma la " persona" umana, per la quale Dio si è fatto uomo in Cristo, che per gli uomini patisce e muore sulla Croce, e, per questo risorge. Di qui anche una netta rivalutazione della corporeità, ma soprattutto una valutazione dell'uomo, che, insieme al motivo del peccato originale, è uno dei punti focali del Cristianesimo, che piu lo allontana dalla concezione greca dell'uomo e che di piu· ha dato luogo a controversie e discussioni, fin dal principio. Si vede bene cosi, come piu tardi, per un platonico quale fu Celso (n secolo), il Dio, un l6gos che soffre, che viene ucciso come un ladro, il Dio che è la divinità, l'eterno, l'essere che si incarna e soffre, sia assurdità pazzesca e come pazzesca sia una r~ligione che pretende di fondare tutta una concezione facendo centro l'uomo, facendo incarnare Dio nell'uomo, cosi come non è un caso che a Porfirio platonico sembri assurdo che il Dio eterno s'incarni proprio nell'uomo, il piu misero, il piu debole, il piu brutto degli animali terrestri.
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Se dagli Atti degli Apostoli appare chiaro questo punto di frattura tra la concezione ellenistica dell'uomo e la concezione cristiana, tanto piu chiara si rivela la concezione del "pei:sonalismo" cristiano da un'analisi di certi termini usati da San Paolo nelle sue Lettere, come i termini "carne" (a!Xp~, sarcs), "corpo" (aii)(J4, s6ma), "anima" (~uxiJ, psych!), "spirito" (7tVeU!J4, pneuma), "mente" (voiiç, nus). È stato dimostrato (cfr. J.A.T. Robinson, The Body, A Study in Pauline Theology, Londra, 1952), che tali termini, tranne mente (voiiç), sono in realtà traduzioni greche di termini ebraici, assunti non nel significato che hanno preso storicamente nel pensiero greco, ma nella loro originaria accezione ebraica. "Le due parole a~Xp; (carne) e aii)!J4 (corpo) rappresentano un comune originale ebraico basar, che non corrisponde alle categorie elleniche (né a 'corpo' né a 'carne'). Anche per Paolo, come nel Vecchio Testamento, la a«p; non è una parte dell'uomo, ma l'intero corpo, l'intero uomo, dal punto di vista della sua esterna, fisica esistenza, nella sua debolezza e mortalità, in distinzione e in contrasto con Dio: non è opposta allo 'spirito,' secondo i modi del pensiero greco, come la parte materiale dell'uomo in contrasto con la parte spirituale (cfr. _Galat., V, 19-21; Rom., VIII, 4-14). :E(I)!J4, meno frequente di a«p;, le è in parte identico, indica l'esterna presenza dell'uomo intero (Il Cor., X, 10), non qualcosa di esterno all'uomo, che l'uomo ha: è ciò che esso è; il piu vicino al nostro personalità (cfr. Efesi, V, 28-29; I Cor. VI, 13-20); non indica però, a differenza di a«p~, l'uomo in contrasto con Dio, che anzi si dice essere fatto per Dio (I Cor., VI, 13). 'l'uxiJ (anima) non indica 'anima' nel senso... ellenico; non è mai distinta dal aii)!J4. Secondo le accezioni del nephes del Vecchio Testamento sta ora per il pronome personale (Il Cor., XII, 15), ora designa l'intero uomo (Rom., XIII, 1), l'essere animato (I Cor., XV, 45), la vita (Rom., XVI, 4). Il'nti!J4 (spirito) assai raramente indica la parte intelligente dell'uomo, la sostanza pensante (l Cor., Il, 11). Il termine voiiç (mente), invece, non ha equivalenti ebraici e Paolo lo deve all'ellenismo; significa senso, sentimento, giudizio pratico, intelligenza, pensiero, giudizio, decisione" (G. Zedda, in Enciclopedia filosofica, s. v. Paolo Venezia-Roma, 1957). È sembrato interessante riferire certe conclusioni della critica moderna (Robinson, Bonsirven, Dupont: cfr. Bibliografia), riportate dallo Zedda, sul significato di certi termini usati da San Paolo, perché questi chiaramente dimostrano l'origine di molte polemiche e discussioni, soprattutto dovute al diverso modo di intendere -quei termini, che a orecchie greche e a gente, la cui formazione non era quella giudaica, suonavano in modi diversi dal significato dato loro da San Paolo. Ad· ogni modo è stato opportuno sottolineare fin da ora i motivi
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salienti e "scandalosi" del fatto "cristianesimo," quali si presentano fin dal suo primo diffondersi, perché su di essi si venne incentrando, particolarmente dal n secolo in poi, la discussione, la polemica, la giustificazione, che nel corso di quattro secoli circa dette luogo a quella che è divenuta nel tempo la "filosofia cristiana," ai suoi rapporti con certo platonismo e stoicismo (in particolare del 1 secolo, e che assunti entro certi limiti, come già in San Paolo e in Filone l'Ebreo, potevano benissimo entrare a far parte del. corpo cristiano) in una trasfigurazione di quelle stesse concezioni, o in u~a riduzione, talvolta, del Cristianesimo allo stesso platonismo, stoicismo, gnosticismo, e senza di cui è impossibile intendere la stessa storia della cultura dal II secolo in poi, relativamente anche alla rivoluzionari:J concezione politica ed etica della Chiesa, in netto contrasto con la concezione politica dello Stato romano e del cosmopolìtismo e dell'etica naturale degli stoici, quale si venne delineando nel II secolo. Il Cristianesimo non può non essere che "cattolico." Se gli uomini, tutti gli uomini, sono tali in quanto caduti con il peccato dell'uomo (Adamo), gli uomini, tutti gli uomini, non possono salvarsi se non mediante il Cristo, risorgendo uomini nuovi nell'unità del Cristo, mediante la Chiesa cristiana. Il Cristianesimo, perciò, non può essere che Chiesa, e la Chiesa non può essere che unica e cattolica, in una tensione a escludere da sé ogni altra forma di comunità, sia pur essa la forma associativa dello Stato, o ad assorbire in sé ogni tipo di societa e lo Stato stesso. Solo attraverso il Cristo gli uomini si possono salvare e, dunquè, solo attraverso la Chiesa - il corpo mistico di Cristo. E se si accetta che lo Stato, il regno di Cesare, in quanto associazione terrena, possa con le sue leggi e le sue norme, dare un certo ordine e una certa misura, nei rapporti umani, secondo quelle che sono le naturali condizioni umane - secondo la tesi cristiana, pur sempre dovute a Dio anche prima della venuta di Cristo - è intollerabile che lo Stato si serva della Chiesa o che esso proclami sé, nel suo Cesare, incarnazione della ragion d'essere del tutto, in senso stoico. t il regno di Cesare che deve servire alla Chiesa, in funzione del regno di Dio, di cui, anche se non sarà mai di questa terra, si prepara l'avvento mediante la Chiesa. E se la stessa morale naturale non è valida, se non si riscatta, col Cristo, nell'obbedienza al comando dovuto allo stesso Dio e perciò alla Chiesa, cosf le medesime guise e norme sociali non hanno senso se non si riscattano nelle norme volute da Dio e dalla Chiesa, per cui, se pur da un lato si ammette l'obbedienza allo Stato (dài a Cesare quel che è di Cesare) in quanto serva per la vita comune, terrena e naturale, si determina talvolta, per l'obbedienza a Pio e alla
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Chiesa, la disubbidienza allo Stato, alla città terrena in nome della città celeste (dài a Dio quel che è di Dio). Fecero comparire gli Apostoli dinanzi al Sinedrio, e il sommo sacerdote li interrogò dicendo: "Noi vi abbiamo formalmente proibito di insegnare in quel nome, ed ecco, voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina, o volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo." Allora Pietro e gli apostoli risposero: "Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei vostri padri ha risuscitato quel Gesu che voi avete fatto morire appendendolo alla Croce. Dio lo ha esaltato con la sua destra facendolo principe e salvatore, per dare a Israele penitenza e remissione dei peccati. Noi siamo testimoni di queste cose, noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che gli obbediscono" (Atti degli Apostoli, V, 27-32).
Se il discorso di Pietro al Sinedrio poteva suonare non assurdo alla mentalità ebraica, si come il discorso di Paolo secondo cui anche la gerarchia politica e sociale è dovuta ad un atto gratuito di Dio - il Dio degli ebrei e dei cristiani: "non v'è autorità che non venga da Dio" : Ai Rom., XIII, l, - tali discorsi non potevano certo essere accettati da part~ romana, soprattutto nel corso del u secolo, entro i termini con cui si venne concependo l'Unità statale dell'Impero. Stati nello Stato, le SOJ.:genti Chiese determinavano un conflitto di poteri, che doveva risolversi o in una riduzione dello Stato alla Chiesa o della Chiesa nello Stato. "Gli imperatori romani che assicurarono in Roma la libertà di culto a tutte le religioni d'Oriente, ma la medesima libertà e lo stesso diritto all'esistenza negarono alla religione di Cristo, mostrarono di aver capito il carattere rivoluzionario del Cristianesimo piu di quegli storici recenti, i quali, comparando proposizioni di Cicerone o di Seneca con proposizioni di T ertulliano o di Ambrogio, ne hanno dedotto che il Cristianesimo non introdusse nel mondo alcun concetto politico che già non fosse stato introdotto dal pensiero filosofico e giuridico della Grecia e di Roma" (G. Barbero, Introduzione a Il pensiero pòlitico cristiano. Dai V angeli a Pelagio, Torino, 1962, p. 10). In real.tà, anche in campo ?Olitico si ripete ciò che abbiamo veduto in campo teologico: la possibilità d'innestare il nuovo sul vecchio, servendosi del vecchio - donde il recupero, sul piano politico e sociale, di non poco Cicerone e Seneca,- senza che il nuovo si riduca all'antico. Naturalmente tale processo fu lento, contorto, sia relativamente all'uno sia relativamente all'altro aspetto con cui fin dal principio si presenta la storia della componente cristiana, l'aspetto teologico-rivelazionistico, che, data la sua natura, il suo impegno propagandistico-apostolico non poteva non risolversi nell'altro aspetto, in quello politico-sociale. D'altra
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parte, poiché il Cristianesimo si presenta sin dal principio come Chiesa, e, fin dal principio, in quanto Chiesa e in quanto apostolico, attraverso il Cristo, per comando di Dio, come impegno politico, il Cristianesimo, soprattutto in principio, non poteva esistere se non come organizzazione delle Comunità, delle Chiese in nome di Cristo. Di qui, dicevamo, i due aspetti con cui si presenta all'inizio il Cristianesimo, la faccia propagandistico-apostolica (i cui documenti, per mantenerci ai libri che poi la Chiesa divenuta ufficiale ha ritenuto ispirati, sono i quattro Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere di San Paolo, di San Pietro, di San Giacomo, di San Giovanni, di San Giuda, l'Apocalisse di San Giovanni), e la faccia organizzativa istituzionalizzatrice delle varie comunità cristiane, a cominciare da quella di Gerusalemme, che implicava, evidentemente, una determinazione e interpretazione dei libri ispirati, una precisazione, sia pur per la stessa propaganda, del significato della propria esperienza, una prima razionalizzazione e giu" stificazione della fede in un corpo dottrinario che fosse lo stesso pensiero della propria Chiesa. Di qui le prime rotture tra le Chiese, e interiormente a ciascuna Chiesa, le prime accuse reciproche di eresia, il primo spezzarsi dei tralci della vite, per riprendere l'esempio giovanneo, che testimonia, appunto, sin dal principio, lo spezzarsi dell'unità della Chiesa, il tentativo dell'una di prevalere sulle altre in un riconoscimento di sé come vera interprete della parola di Cristo, i modi diversi con cui si venne interpretando, a seconda delle mentalità e delle culture, il messaggio di Cristo e il modo di organizzare e di riconoscere la gerarchia della Chiesa e l'autorità dei suoi primi vescovi. Testimonianza di una prima organizzazione e sistemazione della comunità, di quella che nella comunità deve essere la vita del cristiano, della funzione che vi hanno i presbiteri e i diaconi, in una gerarchia stabilita da Dio (cfr. particolarmente Prima lettera ai Corinzi di San Clemente romano, 42-43), e di un primo commento interpretativo dei libri ispirati - da certi testi del Vecchio Testamento, considerati \n gran parte mediante il metodo allegorico, ai primi testi del Nuovo, in particolare le Lettere di San Paolo, - sono le opere (lettere a comunità, discorsi, commenti, istruzioni apostoliche, trattatelli) composte, tra la seconda metà del 1 e la prima metà del n secolo, dai Padri Apostolici.T T Di San Clemente romano, vescovo di Roma (dopo Pietro, Lino, Anacleto), dal 92 al 101 circa. conosciamo un solo scritto autentico, un'Epistollz Ili Corin.; (gli furono attribuite due epistole alle vergini, due a Giacomo, fratello di Gesu, alcune omelie, dette clementine, e un'epistola andata sotto il nome di Seconda Epistola per distinguerla da quella ai Corinzi). L'Epistollz Ili Corin:i (scritta poco dopo una persecuzione, prctbabilmente quella di Domiziano, e perciò nel 95-96) fu compo_sta in occasione di uno lcism~
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Furono detti "padri apostolici" da quando il Cotelier pubblicò nel 1672 opere di Barnaba, di Clemente Romano, di Ignazio di Antiochia, di Policarpo di Smirne e di Erma, sotto il titolo Patres aevi apostolici; sorto nella Chiesa di Corinto (la massa dei fedeli, su istigazione di uno o due agitatori, si era sollevata contro i presbiteri, deponendoli). Essa si divide in due parti: l. cc. 4-38: esortazione a predicare la carità, l'obbedienza, l'umiltà, entro il corpo dell'unica Chiesa, nella fede in Cristo e nella futura resurrezione: 2. cc. 39-65: lo scisma di Corinto deve cessare, perché è Dio che ha stabilito l'ordine della gerarchia ecclesiastica, attraverso Gesu, il quale ha costituito gli Apostoli, i quali, a loro volta, hanno costituito vescovi e diaconi da cui dipenderanno ancora le nuove scelte; si predica, quindi, la sottomissione e l'obbedienza ai vescovi e ai diaconi, esortando i colpevoli di Corinto ad allontanarsi per qualche tempo dalla città. Di Sant'Ignazio, detto Teoforo, vescovo di Antiochia, martirizzato in Roma sotto Traiano (98-117), nel 107-109 (gli Atti del suo martirio dànno l'anno nove di Traiano, San Gerolamo, D~ vir. ili., 16, l'anno undici), sappiamo pochissimo, se non che era vescovo di Antiochia, quando, in seguito ad una persecuzione, fu condannato a morte e condotto a Roma per subirvi il supplizio. Durante il viaggio scrisse una serie di lettere a varie comunità. Di tali lettere ci sono 'pervenute piu redazioni: una, composta di sette lettere (agli Efesini, ai Magnesii, a queJli di Tralle, ai Romani, alle chiese di Filadelfia e di Smirne, al vescovo Policarpo di Smirne); una, composta di sei lettere, aggiunte alle sette di cui sopra; una, composta di tre lettere (quella a Policarpo e le due alle comunità degli Efesini e dei Romani). Si è molto discusso sull'autenticità delle lettere di S. Ignazio: autentiche si ritengono oramai le sette sopra citate. Nato nel 69-70, San Policarpo fu, secondo Eusebio (Hist. ~ccl., V, 20, 6), discepolo di San Giovanni Evangelista. Fu vescovo di Smirne, dove s'incontrò con S. Ignazio in viaggio per Roma. Nel 154 Policarpo venne a Roma per discutere con il vescovo di Roma Aniceto sulla questione delhi Pasqua (cfr. Eusebio, id., V, 24, 16-17). Morl martire nel 155-156. Delle molte lettere di Policarpo (cfr. Sant'Ireneo, in Eusebio, Hist ~ccl., V, 20, 8) ne possediamo una ai Filippesi. Sotto il nome di Barnaba, compagno di S. Paolo, è stata trasmessa una lettera, di cui, comunque, fin dall'antichità si discuteva l'autenticità (civtV.cy6!-f.CVCXl ypa:!p«[ ). La lettera è interessante soprattutto per la sua violenta polemica contro la legge mosaica. :t ceno rivolta contro la tesi di ceni ebrei convertiti al Cristianesimo, secondo cui l'Antica Legge doveva conservare il suo valore e la sua obbligatorietà. Probabilmente fu composta da un cristiano della comunità di Alessandria, come da un lato dimostra la ma polemica contro la legge mosaica, e, !lall'altro lato, il suo eccessivo allegorismo e il fatto che soprattutto sia stata citata e ammirata particolarmente nell'ambiente della scuola di Alessandria (Clemente Alessandrino). Origene riteneva che Erma fosse l'Erma salutato da S. Paolo alla fine della lettera ai Romani; altri hanno ritenuto che fosse un contemporaneo di S. Clemente Romano. Secondo il Canon~ d~l Muratori Erma avrebbe scritto il Partor~, mentre Pio, suo fratello, era vescovo di Roma. Quel che sappiamo della vita di Erma lo ricaviamo dalla sua stessa opera: schiavo e cristiano, ac:quistato da una signora romana, Rode, fu libenlto; datosi ai commerci divenne ricco, trascurando la direzione cristiana della propria famiglia, tanto che sopraggiunta una persecuzione i suoi figli apostatarono, e lo denunciarono insieme alla moglie; egli e la moglie confessarono la propria fede; finanziariamente rovinati, tornarono ad essere cristiani ferventi. Il Pastor~ si divide in tre parti, costituite da cinque visioni (in cui appare la Chiesa sotto l'aspetto di una donna vecchia e debole prima, poi sempre piu giovane e bella), dodici Mandati e dieci Similitudini (in cui alla Chiesa si sostitusce un Pastore, l'ange:., della penitenza, al quale Erma è stato allidato). Di Papia, vescovo di Gerapoli in Frigia, vissuto nella prima metà del 11 secolo, conosciamo pochi frammenti (in S. Ireneo, Eusebio, Apollinare) di una sua opera intitolata S(li~gazion~ d~/1~ unt~nze d~l Signor~
(Aoy(6lV xupr.a:x(;)v
i~"ljrlltmç).
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furono poi aggiunte opere di Papia di Gerapoli e l'Epistola a Diogneto (1765, dal Gallandi), e,. infine, scoperta nel 1873 da F. Bryennios, fu aggiunta la Dottrina dei dodici apostoli o Didachè. Commenti ai Vangeli o ai cosiddetti libri ispirati e canonici, consigli di presbiteri o di vescovi su quale debba essere la vita del cristiano o su quale debba essere l'organzzazione di una chiesa, discussioni sull'unità della Chiesa, che non può non essere che cattolica (il termine cattolico appare per la prima volta in S. Ignazio di Antiochia), sulla natura e sulla realtà storica del Cristo, sull'unica Chiesa docente, tali commenti, discussioni, precetti, poich~ ritenuti di autori che si presume essere stati a contatto degli apostoli, ritenuti tali dalla Chiesa, o loro discepoli, appunto perciò sono stati detti dell'epoca apostolica, e apostolici sono stati chiamati gli autori di queste opere. Ad ogni modo, ciò che qui interessa non è tanto la loro apostolicità, o se riflettano o meno la "verità" cristiana, quanto il fatto che attraverso alcuni di questi scritti ci rendiamo conto di quelli che furono, fin dal principio, i grossi ,problemi impliciti nel Cristianesimo, l'esistenza, fin dal principio, di controversie gravi, interiormente alla stessa fede cristiana, sia per quel che riguarda l'organizzazione delle Chiese, di cui una deve diventare, necessariamente, la vite, di cui le altre sono i tralci, sia relativamente alla funzione politica delkt Chiesa, sia, infine, relativamente alla stessa figura e natura del Cristo. Discussioni tutte che sottintendono altri modi di interpretare la funzione della Chiesa e la natura del Cristo e che testimoniano come, fin dal principio, la problematica filosofica del Cristianesimo s'incentri sulla possibilità o meno di ridurre l'esperienza cristiana al metro del pensiero greco-romano. Sotto questo aspetto particolarmente interessanti sono : la Prima lettera di San Clemente Romano, scritta dal quarto vescovo di Roma, alla comunità di Corinto ("dalla Chiesa di Dio, .che è a Roma, alla Chiesa di Dio che è a Corinto "), nel 97-98 circa, poco dopo la persecuzione di Domiziano, in occasione di uno scisma avvenuto nella Chiesa di Corinto, in cui la massa dei fedeli eccitata dai giovani adepti, aveva deposto alcuni presbiteri; le Latere di Sant'Ignazio, detto Teoforo, successo, in qualità di vescovo di Antiochia, a San Pietro (dopo una persecuzione della Chiesa di Antiochia, Ignazio venne condannato alle fiere e inviato a Roma per subirvi il supplizio; durante il viaggio, accolto a Smirne dal vescovo Policarpo, scrisse lettere alle comunità di Efeso, di Magnesia, di Tralle/e di Roma; da Troade scrisse altre lettere alla comunità di Smirne, a quella di Filadelfia e a Policarpo; da Troade fu trasportato a Neapolis e quindi a Durazzo e a Roma, ove, sotto Traiano, tra il 107 e il 109, suhr il supplizio, da lui ardentemente desiderato, come si legge nella sua lettera ai Romani, nella quale li prega
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di non adoperarsi per evitargli il martirio); la Didachè (Dottrina dei dodici Apostolt), composta nel100 circa, divisa in quattro parti (a) una catechesi morale, cc. l-VI; b) un'istruzione liturgica, cc. VII-X; c) un'ordinanza disciplinare, cc. Xl-XV; d) una conclusione di carattere escatologico, c. XVI); Il Pastore di Erma ("quanto al Pastore," si legge nel Canone del Muratori, "f~ scritto molto di recente, ai tempi nostri, nella città di Roma, da Erma, mentre Pio, suo fratello, occupava, in qualità di vescovo, la cattedra della Chiesa della città di Roma" : Pio I fu vescovo di Roma tra il 140 e il 150). Se meno possono interessare qui certi precetti, minuti e precisi, sul battesimo, certe prescrizioni sulla vita nella comunità (sarebbe, d'altronde, non poco significativo lo studio di alcuni paralleli con certi testi dei rotoli del Mar Morto), di notevole momento è, invece, per una storia del Cristianesimo e dei suoi rapporti con la cultura tra il 1 e il n secolo, la netta affermazione di Sant'Ignazio sulla realtà del Cristo uomo e del Cristo Dio - dove è anche chiaramente sostenuto il dogma della trinità ed impostata la questione dell'eucarestia, - in una continua raccomandazione a respingere certe interpretazioni, che pur venivano da parte cristiana, secondo le quali l'umanità di Gesu non è che un'apparenza (3ox<j), dok6: apparire: di qui la cosiddetta eresia docetista), oppl,lre il netto modo con cui Sant'Ignazio respinge la tesi giudaizzante secondo cui la salvazione è possibile mantenendo le pratiche mosaiche. Interessante è ricordare che l'appello contro i docetisti è particolarmente sottolineato nella lettera alla Comunità di Smirne, mentre quello contro i giudaizzanti nelle lettere ai Magnesi e ai Filadelfi: indicazioni di aree culturali assai importanti e che rivelano come fin dal pr_incipio abbiano giuocato nella prima determinazione del Cristianesimo interpretazioni orientali a carattere gnostico. E cosi non poco interessante è l'appello, nel respingere interpretazioni sia ebraiche sia gnostiche, considerate come individuali, ad accettare solo l'interpretazione dell'unica Chiesa costituitasi nella sua gerarchia, mediante il Cristo, per volere di Dio, in una precisa affermazione che il Cristianesimo mm può non essere che Chiesa Universale, cattolica (il termine è per la prima volta usato da S. Ignazio, Allà comunità di Smirne, VIII, 2), per cui una delle Chiese è il tronco della vite e le altre i tralci (se già in San Clemente romano è affermato che la chiesa guida è quella di Roma, tale concetto viene ribadito da Sant'Ignazio) e a questa e al suo insegnamento, inségnamento di Cristo e di Dio (Chiesa docente), tutti e tutte le Chiese debbono ubbidire (sulla gerarchia della Chiesa, cfr. in particolare San Clemente, Lettera ai Corinzi, 42-44). Ed altrettanto degno di nota è l'aspetto mistico-allegorico del Pastore di Erma (un trattato sulla penitenza in forma di romanzo), in cui si
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interpreta il cristianesimo in un linguaggio che ha fatto credere a una forte influenza di testi ermetici (in particolare il Pimandro), e a cui, certo, il simbolismo, i sogni e le visioni profetiche fanno pensare, quando - forse meglio - non ci si rifaccia al diffuso genere letterario delle Apocalissi, e dove va sottolineata la netta opposizione posta da Erma tra la città terrena (l'Impero) e la città celeste (la Chiesa). Non sarà un caso, invece, che pochi anni piu tardi, il vescovo di Sardi, Melitone, in una sua Apologia diretta a Marco Aurelio, nel 172 circa, cerchi di mostrare come la Chiesa possa innestarsi sullo Stato. "Qua.nto a te, o Marco Aurelio, che hai circa i Cristiani la stessa loro opinione (dei tuoi predecessori, che hanno raddrizzato la loro ignoranza, sovente biasimando per scritto coloro che osarono apportare innovazioni nei confronti dei Cristiani: Adriano tuo avo, e tuo padre), e ancora piu benevola e saggia, siamo certi che farai tutto ciò che ti chiediamo ... Che c'è di meglio se il re libera dall'errore il popolo a lui soggetto e con quest'opera buona piace a Dio? Ché dall'errore nascono tutti i mali" (in Eusebio, Hist. ecci., IV, 26, 2 sgg.; e, testo siriaco, in Otto, Corpus apologetarum, fragm. 10). Ma qui siamo già in pieno 11 secolo e già l'Apologia di San Giustino doveva avere inciso non poco sulla nuova cultura, sulla possibilità di articolare l'una all'altra le due concezioni.
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INDICE DELLA BIBLIOGRAFIA
Pensiero, culture e concezioni religiose dal II secolo a.C. al II secolo d.C.
Parte prima
Il pensiero greco-romano dal II secolo a. C. ad Augusto l. Cultura greca e cultura romana [Pagg. 369-373]
Retorica e educazione in Roma [Pagg. 373-376] Diritto e politica [Pagg. 376-377] La 'media stoà'. Panezio. Polibio. Posidonio. Catone Uticense 377-382] 5. Scienza, astrologia e aspetti religiosi [Pagg. 382-384] 6. Il neopitagorismo e la sua diffusione a Roma. La religione a Roma [Pagg. 384-386] 7. Il motivo del re filantropo. Influenze della concezione monarchico-ellenistica sulla formazione dell'impero [Pagg. 386-387] 8. Il pensiero ebraico. Aristea, Aristobulo. Terapeuti. Esseni. I "rotoli" del Mar Morto [Pagg. 387-392] 9. L'accademia da Carneade a Filone di Larissa e Antioco di Ascalona [Pagg. 392-393] 10. Varrone e Cicerone [Pagg. 394-408] 11. L'Epicureismo tra il II e il I secolo a.C. L'Epicureismo in Roma [Pagg. 408-415] 12. Lucrezio, Virgilio e Orazio [Pagg. 415-422] 13. Cultura all'avvento di Augusto [Pagg. 422-428] 2. 3. 4. [Pagg.
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Parte seconda
Cultura e concezioni dalla fine del I a.C. al II secolo d.C. l. Filone l'Ebreo [Pagg. 428-438] 2. Il neo-pirronismo. Da Enesidemo ad Agrippa. Medicina, metodo e scetticismo [Pagg. 438-440] 3. Stoicismo, cinismo, astronomia e astrologia. Manilio, Seneca [Pagg. 440-450] 4. Tra "platonismo" e "pitagorismo" [Pagg. 450-455] 5. Lo "stoicismo" di L. Anneo Cornuto, Musonio Rufo, Epitteto [Pagg. 455-458] 6. Il Cristianesimo tra il I e il principio del II secolo. I "Padri apostolici" [Pagg. 459-468]
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Bibliografia
PENSIERO, CULTURE E CONCEZIONI RELIGIOSE DAL II SECOLO A.C. AL II SECOLO D.C.
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(d'ora in poi citato come R.E. PAULY-WrssowA), suppl. VII, coli, 1039-1138 (1940) [utile e notevole articolo sulla storia dello sviluppo della retorica nell'antichità: ottima la bibliografia fino al1939]; B. RIPOSATI, Studi sui Topica di Cicerone, Milano 1947; P. BoYANCÉ, La rhétorique dans l'humanisme latin, "Information littéraire", II, 1950; H.I. MARROU, Histoire de l'éducation dans l'Antiquité, Paris 1965 6 (trad. it., Roma 1950); B. RIPOSATI, Problemi di retorica antica, Milano 1950 [utile lavoro]; M.L. CLARKE, The thesis in the Roman rhetorical schools of the republic, "Classica! Quarterly", 1951; K. ZrEGLER, L. Plotius Gallus, in R.E. PAULY-WrssowA, s.v., coli. 598-601 (1961); M.I. CLARI}E, Rhetoric at Rome. A historical survey, London 1953; E. GrLSON, Eloquence et sagesse selon Cicéron, "Phoenix", 1953; D.L. CLARK, Rhetoric in Greco-Roman education, New York 1957; A. MrcHEL, Rhétorique et Philosophie chez Cicéron, Paris 1960; A. LESMAN, Orationis ratio. The stylistic theories and Practice of the roman orators. Historians and Philosophers, Amsterdam 1963 (trad. it., Bologna 1974); K. DocHHORN, "Memoria" in der Rhetorik, "Archiv fi.ir Begriffsgeschichte", 9, Bonn 1964; H. WEINRICH, Typen der Gediichtnismetaphorik, "Archiv fi.ir Begriffsgeschichte", 9, Bonn 1964; D. MARIN, Retorica stilistica estetica nell'età augustea, Bari 1970; F. SBORDONE, L'eloquenza in Roma durante l'età Repubblicana, N apoli 1973; A. MANZO, Elementi irrazionali nella problematica retorica del I secolo, "Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere" (cl. Lett. se. mor. stor.), 1977, pp. 9-26; Y.P. THOMAS, Le droit entre les mots et les choses. Rhétorique et jurisprudence à Rome, "Archives de Philosophie du Droit", 1978, pp. 9 3-114; La Rhétorique à Rome, "Caesarodomum", XIV bis, Calliope I, Paris 1979; L. CALBOLI MoNTEFUSCO, La dottrina degli "status" nella retorica greca e romana, Bologna 1984; C.J. CLASSEN, Recht Rhetorik Politik: Untersuchungen zu Ciceros rhetorischer Strategie, Darmstadt 1985; G .K. MAINBERGER, Rhetorica, I: Reden mit Vernunft: Aristoteles, Cicero, Augustinus, Stuttgart 1987; K.E. WILKERSON, Carneades at Rome. A problem of sceptical rhetoric, "Philosophy and Rhetoric", 1988, pp. 131-144. Ancora utile: A. TARTARA, I precursori di Cicerone, "Annali delle Università Toscane", 1888, pp. 291-525. Si veda, infine, l'edizione, con commento del Brutus di Cicerone, a cura di A.E. DouGLAS, Oxford 1966 e Oratorum Romanorum Fragmenta liberae Rei Publicae, a cura di E. MALCOVATI, Torino 1967. Per i frammenti di Ermagora di Temno si veda l'edizione a cura di D. MATTHES, Leipzig 1962. Su Ermagora cfr.: G. THIELE, Hermagoras, Strassburg 1893; H. THROM, Die Thesis. Ein Beitrag... , cit., Paderborn 1932; W. KROLL, Hermagoras, "Philologus", 1936; D. MATTHES, Hermagoras, "Lustrum", 1958; A. MrcHEL, cit.; A. PLEBE, Breve storia
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della retorica antica, Milano 1961; K. BARWICK, Hermagoras, "Philologus", 1961 e 1964. I frammenti di Diogene di Babilonia si vedano in H. VON ARNIM, cit.: in traduzione italiana, vedi Stoici antichi, a cura di M. IsNARDI PARENTE, Torino 1989, I, pp. 600-641. Su Diogene cfr.: H. VON ARNIM, Coniectanea in Philodemi rhetorica, "Hermes", 1893, pp. 150-154 (e in R.E. PAULY-WISSOWA, 1905); M. SCHAFER, Diogenes als Mittelstoicher, "Philologus", 1936, pp. 174-196; O. LuscHNAT, Zum Texte von Philodemis Schrift "De Musica", Berlin 1953; H. KoLLER, Die Mimesis in der Antike, Bern 1954; A.J. NEUBECKER, Die Bewertung der Musik bei Stoikern und Epikureern, Berlin 1956; F. SBORDONE, Filodemo e la teoria dell'eufonia, "Rendiconti dell'Accademia archeologica di Napoli", 1955, pp. 25-51; A. PLEBE, La retorica di Diogene di Babilonia, "Filosofia", 1960; D.M. ScHENKEVELD, Oi KPl'tllWi in Philodemus, "Mnemosyne", 1968, pp. 176-212; G.M. RrsPOLI, Filodemo sulla musica, "Cronache Ercolanesi", 1974, pp. 57-87; J.P. DuMONT, Diogène de Babylone et la preuve ontologique, "Revue de Philosophie", 1982, pp. 389-395; J.P. DuMONT, Diogène de Babylone et la déesse Raison. La métis des Stoi'ciens, "Bulletin de l'Association G. Budé", 1984, pp. 260-278. Vedi oltre alla voce Panezio-Posidonio e Media Stoa. Per i testi di Catone il Censore si veda l'edizione a cura di H. JoRDAN, Marci Catonis praeter librum de re rustica quae extant, Leipzig 1860; per i testi sull'agricoltura vedi l'edizione a cura di H. KEIL, Catonis de agricoltura, Varronis rerum rusticarum (I. Testo; II. Commento; III. Index verborum, a cura di R. KRUMBIEGEL), Leipzig 1894-1897 (cfr. anche l'ed. a cura di G. GoETZ, Leipzig 1922 e quella di A. MAZZARINO, Leipzig 1962); per i frammenti delle Origines si veda l'edizione a cura di H. PETER, in Historicorum romanorum reliquiae, I, Leipzig 19147 ; per le Graziani l'ed. a cura di E. MALCOVATI, in Oratorum romanorum fragmenta, I, Torino 1930; per i frammenti delle opere giuridiche, l'ed. a cura di E.P. BREMER, in Jurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, Leipzig 1896. - Su Catone il Censore, si veda: A. BESANçoN, Les adversaires de l'Hellénisme à Rome pendant la période républicaine, Lausanne 1910; E. BIGNONE, Storia della letteratura latina, II, Firenze 1945; F. DELLA CoRTE, Catone Censore. La vita e la fortuna, Torino 1949 (1969 2 ); M. GELZER, M. Porcius Cato, in R.E. PAULYWrssowA, XXII, 1953, coli. 108-145; F. KLINGER, Cato Censorius und die Krisis Roms, "Die Antike", 1934, pp. 234 sgg. (in Romische Geisteswelt, Wiesbaden 1953, p. 27-62); D. KrENAST, Cato der Zensor, seine Personlichkeit und seine Zeit, Heidelberg 1954 [con in appendice i
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frammenti delle Orazionz] (Darmstadt 1979 2); S. THURLEMANN, Ceterum Censeo Carthaginem esse delendam, "Gymnasium", 1974, pp. 465 sgg.; M. Porcius Cato, Vom Landbau-Fragmente. Alle erhaltenen Schriften, a cura di O. ScHOENBERGER, Miinchen 1980; M. Porci Catonis, Orationum reliquiae, a cura di M.T. SBLENDORIO CuGusr, Torino 1982; S. BoscHERINI, Catone, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987, I, pp. 399-410 [con bibliografia].
3. Diritto e politica M. VorGT, Die Lehre von "]us naturale", aequum et bonum und das "]us gentium" der Romer, Leipzig 1856-1875; M. HoLLERAUX, Rome, la Grèce et les monarchies hellénistiques au III• siècle av.]. C., Paris 1921; F. SENN, De la justice et du droit, suivi d'une étude sur la distinction de "]us naturale" et "]us gentium", Paris 1927; J. KAERST, Scipio Aemilianus, die Stoa und der Principat, "Neue Jahrbuch", 1929; W. HoFFMANN, Rom und die griechische Welt, "Philologus", suppl. XXVII, 1934; E. ELORDUY, DieSozialphilosophiederStoa, "Philologus", suppl. XXVIII, 3, Leipzig 1936; O. SEEL, Romische Denker und romischer Staat, Leipzig 1937; F. LANFRANCHI, Il diritto dei retori romani, Milano 1938; R. SYME, The roman revolution, Oxford 1939; L. ZANCAN, Atene e Roma, Milano 1939; S. AccAME, Il dominio romano in Grecia dalla guerra acaica ad Augusto, Roma 1946; M. VAN DEN BRUWAENE, Études sur Cicéron, Bruxelles 1946; M. VILLEY, Le droit romain, Paris 1946; K. BucHNER, Die romische Republik in romischen Staatsdenken, Freiburg i.Br. 1947; G. LOMBARDI, Sul concetto di jus gentium, Roma 1947; P. PREZZA, Jus gentium, "Revue internationale des Droits de l' Antiquité", Bruxelles, II, 1949; L. R. TAYLOR, Party politics in the age of Caesar, Berkeley 1949 [importante]; A.A. DE CASTRo-CoRRElA, O estoicismo no direito romano, Sào Paulo 1950; CH. WrRSZUBSKI, Libertas as a politica l idea at Rome during the late Republic and early Principate, Cambridge 1950 (trad. it., Bari 1957); R. WERNER, Cicero und P. Cornelius Scipio Aemilianus, Miinchen 1951; H. Coi'NG, Zum Einfluss der Philosophie des Aristoteles auf die Entwicklung des romischen Rechts, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung fiir Rechtsgeschichte, Romanistische Abteilung", 1952 [importante]; H. HILL, The equitas as a middle class in the republican period, Oxford 1952; TH. VrEHWEG, Topik und Jurisprudenz, Miinchen 1953; E. LEPORE, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda repubblica, Napoli 1954; E. BoLAFFI, La dottri-
na del buon governo presso i Romani e le origini del principato in Roma fino ad Augusto compreso, "Latomus", 1955; F.R. CowELL, Cicero and the Roman Republic, Harmondsworth 1956; M. GIGANTE, Nomos Basi-
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leus, Napoli 1956; C.H. McLLWAIN, Il pensiero politico occidentale dai GrecialtardoMedioevo, trad. it., Venezia 1959; T.A. SrNCLAIR, Ilpensiero politico classico, trad. it., Bari 1961 [con un'ottima nota bibliografica, a cura di L. FrRPo]; W. KuNSZEL, Herkunft und saziate Stellung der romischen Juristen, Graz-Wien-Koln 1967 2 ; L. GERNET, Anthropologie de la Grèce antique, Paris 1968; K. KuMANIECKI, Cicerone e la crisi della repubblica romana, trad. it., Roma 1972; V. PoscHL, Romischer Staat und griechisches Staatsdenken bei Cicero (prima ed. Berlin 1936), Darmstadt 1974; G.J.D. AALDERS, Politica! Thought in the Hellenistic Times, Amsterdam 1975; M. RASKOLNIKOFF, La recherche soviétique et l'histoire économique et sociale du monde hellénistique et romain, Strassburg 1975; G. CLEMENTE, Guida alla storia romana (cap. V: L'età della rivoluzione; cap. VI: La soluzione imperiale), Milano 1977, pp. 179-266; Y.-P. THOMAS, Actes, agent, société. Sur l'homme coupable dans la pensée juridique romaine, "Archives de Philosophie du Droit", 1977, pp. 63-83; Y.-P. THOMAS, Le droit entre les mots et les choses. Rhétorique et jurisprudence à Rome, "Archives de Philosophie du Droit", 1978, pp. 93-114; L. }ERPHAGNON, La culture philosophique des empereurs de Rome et leur action politique, in Reason, diction and experience, in onore di R. KuBANSKY, a cura di H. KoHLENBERGER, Hamburg 1979, pp. 137-151; L. }ERPHAGNON, Le philosophe et son image dans l'Empire d'Auguste, "Bulletin de l'Association G. Budé", 1981, pp. 167-182; H.TH. JoHANN, Gerechtigkeit und Nutzen. Studien zur Ciceron, u. hellenist. Naturrechts- und Staatslehre, Heidelberg 1981; M. RASKOLNIKOFF, Philosophie et démocratie à Rome à la fin de la République. Democratia et libertas, "Cahiers de Philosophie Politique et Juridique", 1982, pp. 21-31; A. GuARINO, Le ragioni del giurista. Giurisprudenza e potere imperiale nell'età del principato romano, Napoli 1983; M. Ducos, Les Romains et la loi: recherche sur !es rapports de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la fin de la République, Paris 1984; J. CLASSEN, Recht Rhetorik Politik Cicero, Darmstadt 1985; GAUDEMET, Tentatives de systémation du droit à Rome, "Archives de Philosophie du Droit", 1986, pp. 11-28; P. GRIMAL, Les éléments philosophiques dans l'idée de monarchie à Rome à la fin de la République, in Aspects de la philosophie hellénistique, Vandoeuvres-Genève 1988, pp. 233-281; S. ToNDO, Crisi della Repubblica e formazione del Principato in Roma, Milano 1988; F. DE MARTINO, Il modello della città stato, CL. NrcOLET, Il modello dell'Impero, A. ScHIAVONE, Il pensiero giuridico, in AA.VV., Storia di Roma, IV: Caratteri e morfologie, Torino 1989. 4. La 'media stoà'. Panezio. Polibio. Posidonio. Catone Uticense Sullo stoicismo nel III-I sec. a.C. rimandiamo alle opere generali sullo stoicismo già citate (cfr. Bibliografia, II vol.; anche M.E. REESOR,
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The nature of man in early Stoic philosophy, New York 1989). In particolare sulla media stoà indichiamo: A. Schmekel, Die Philosophie der mittleren Stoà, Berlin 1892; J. KARGL, Die Lehre der Stoik vom Staat, Erlangen 1913; L. MEYLAN, Panétius et la pénétration du Stoicisme à Rome, "Rev. Théol.", 1929; R. PHIUPPSON, Psychologie des Stoà, "Rheinisches Museum", 1937; J.R. MATTINGLY, Early stoicism and the problem of systematic form, "Philos. Rev.", 1939; F. VILLENEUVE, Rome et le StoiCisme, Montpellier 1947; F. DELLA CoRTE, Stoicismo in Macedonia e a Roma, in Studi di filosofia greca (in onore di R. Mondolfo), Bari 1950; M.E. REESOR, The politica! theory of the old and middle Stoà, New York 1951 (1971); M. MuHL, Der Myoç Èvòt
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Panezio a Posidonio a Cicerone, in Storia e civiltà dei Greci: La cultura ellenistica, dir. R. BIANCHI BANDINELLI, Milano 1977, V, 9, pp. 83-94. Una raccolta di frammenti di Panezio e Posidonio e di testimonianze si veda in M. PoHLENZ, Stoà und Stoiker. Die Griinder, Ziirich 1949. Per i frammenti di Panezio si veda: Panaetii et Hecatonis librorum fragmenta, a cura di N.H. FowLER, Bonn 1885; M. VAN STRAATEN, Panétius, sa vie, ses écrits et sa doctrine avec une édition des fragments, Amsterdam 1946; Panaetii Rhodii Fragmenta, a cura di M. VAN STRAATEN, Leiden 1962 (edizione a sé dei frammenti già pubblicati nell'opera sopra citata). Su Panezio e su di una possibile ricostruzione del suo pensiero, cfr. J. KAussEN, Physik und Ethik des Panaitios, Bonn 1902; L. MEYLAN, Panétius et la pénétration du Stoi"cisme à Rome au dernier siècle de la République, "Revue de Théologie et de Philosophie", 1929; B.N. TATAKIS, Panétius de Rhodes, le fondateur du Moyen Stoi"cisme, sa vie et son oeuvre, Paris 1931; L. LABOWSKY, Die Ethik des Panaitios, Leipzig 1934; L. LABOWSKY, Der Begriff des 1tpÉ1tOV in der Ethik des Panaitios, Heidelberg 1934; M. PoHLENZ, Antikes Fiihrertum. Ciceros "de officiis" und das Lebensideal des Panaitios, Leipzig 1934; M. VAN STRAATEN, Panétius, sa vie, ses écrits et sa doctrine, Amsterdam 1946; M. ScHAEFER, Panaitios bei Cicero und Gellius, "Gymnasiu,.m", 1955; E. DES PLACES, Le Platonisme de Panétius, "Mélanges de l'Ecole française de Rome", 1956; A. GRILLI, Studi Paneziani, "Studi italiani di filologia classica", 1957; M. ScHAEFER, Des Panaitios àviJp àpXtK6ç bei Cicero. Ein Interpretationsbeitrag zu Cicero Schrift "De Republica ", "Gymnasium", 1960; P~M. ScHUHL, Panaitios et la philosophie activé, "Rev. Philos. France E trang.", 1960; K. BucHNER, Panétius et Cicéron, Actes du VII• Congrès Aix-en-Provence, Ass. G. BunÉ, Paris 1964; M. PoHLENZ, L'ideale di vita attiva secondo Panezio nel "De officiis" di Cicerone (ed. ted. 1934), trad. it., Brescia 1970; M. VAN STRAATEN, Notes on Panaetius' theory of the constitution of man, in Images of man in ancient and medieval thought, in onore di G. VERimKE, a cura di F. BossiER-F. DE WACHTER-L lLSEWIJN-G. MAERTENS-W. VANHAMEL-D. VERHELST-A. WELKENSCHUYSEN, Leuven 1976, pp. 93-109; A. DYCK, On Panaetius' conception of J.l&yaÀ.O\JfUXia, "Museum Helveticum", 1981, pp. 153-161; G. VERBEKE, Panétius et Posidonius chez Diogène Laerce, "Elenchos", 1986, pp. 103-139; K. ABEL, Panaitios bei Plutarch "De tranquillitate animi", "Rheinisches Museum fiir Philologie", 1987, pp. 128-152; A. PuHLE, Persona. Zur Ethik d. Panaitios, Frankfurt-BerlinNew York 1987; T. DoRANDI, Contributo epigrafico alla cronologia di Panezio, "Zeitschrift fiir Papyrologie und Epigraphik", 1989, pp. 87-92.
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Le Storie di Polibio si vedano a cura di T. BOTTNER-WOBST, Leipzig 1882-1904 (in trad. it., a cura di C. ScHICK, Milano 1955; di G.B. CARDONA, Napoli 1948-1949). Su Polibio e l'influenza del suo pensiero sulla concezione politica di Roma cfr.: W. MARKHAUSER, Der Geschichtsschreiber Polybios, seine Weltanschauung und Staatslehre, Miinchen 1858; R. VON ScALA, Die Studien des Polybios, Stuttgart 1890; C. WuNDERER, Polybios Forschungen, Leipzig 1898-1909; R. LAQUEUR, Polybios, Leipzig 1913; E. CIACERI, Il trattato di Cicerone "De Republica" e le teorie di Polibio sulla costituzione romana, "Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei", Classe. di se. mor., serie V, XXVII, 1918; O. CuNTZ, Polybios und sein Werk, Leipzig 1920; E.G. SIHLER, Polybios of Megalopolis, "AmericanJournal of Philology", 1927; E. KoRNEMANN, Zum Staatsrecht des Polybios, "Philologus", 1931; K. GLASER, Polybios als politischen Denker, Wien 1940; F.W. WALBANK, Polybios and the Roman constitution, "Classica! Quarterly", 1943; K. VON FRITZ, The theory of
the mixed constitution in antiquity. A criticai analysis of Polybius' politica/ ideas, New York 1958; H.A. GARTNER, Polybios und Panaitios, "Wurzburger Jahrbiicher fiir die Altertumswissenschaft", 1981, pp. 97-112; B. ZuccHELU, Echi della 'Poetica' di Aristotele in Polibio? A proposito di storiografia e tragedia, in La sapienza antica, Studi in onore di D. PESCE, Milano 1985, pp. 297-309; B. MEISSNER, Ilpayj.l.a'ttKil ia-ropia. Polybius iiber den Zweck pragmatischer Geschichtsschreibung, "Saeculum", 1986, pp. 313-351; D. MusTI, Polibio, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987, III, pp. 1757-1774. Oltre l'edizione (insufficiente) dei frammenti di Posidonio, a cura di I. BAKE, Posidonii Rhodii reliquiae, Lugd. Batav. 1820, si veda: Posidonius: I. The Fragments, II. Commentary, a cura di L. EnELSTEINI.G. Kmn, Cambridge 1972 sgg. (1982 e 1989); Die Fragmente, a cura di W. THEILER, I. Texte, II. Erlduterungen (Texte und Kommentare), Berlin 1982. Si confronti inoltre: P. WENDLAND, Poseidonios Werk nepì ?Jerov, "Archiv fiir Geschichte der Philosophie", 1888; G.F. UNGER, Umfang und Anordnung der Geschichte des Poseidonios, "Philologus", 1896; F. ScHULEIN, Untersuchungen iiber des Poseidonios Schrift nepì -roù CÒKEavoù, Freising 1900; G. ALTMANN, De Posidonio Timaei Platonici commentatore, Berlin 1906; C.O. 0HLING, Quaestiones Posidonianae ex Strabone, Gottingen 1908; W. GERHAUSSER, Der Protrept. des Poseidonios, Miinchen 1912; E. BEVAN, Stoics and Sceptics, Oxford 1913; E. BRÉHIER, Posidonius, théoricien de la géométrie, "Revue cles étud.grec.", 1914; W. }AEGER, Nemesios von Emesa. Quellenforschungen zum Neuplatonismus u.s. Anfiingen bei Poseidonios, Berlin 1914; K. REINHARDT, Poseidonios, Miinchen 1921, 1926; I. HEINEMANN, Posei-
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donio's metaphysische Schriften, Breslau 1921-1928; R.M. ]oNES, Posidonius and Cicero's Tusc. disp. I. 17-81, "Classica! Philology", 1923; R.M. ]oNES, Posidonius and the flight of the mind, "Classica! Philology", 1926; K. REINHARDT, Kosmos und Sympathie; neue Untersuchungen uber Poseidonios, Miinchen 1926; F. ScHUBERT, Die Eschatologie des Poseidonios, Leipzig 1927; K. REINHARDT, Poseidonios uber Ursprung u. Entartung, Heidelberg 1928; W. KROLL, Die Kosmologie des Plinius, Breslau 1930; R.E. WrTT, Plotinus and Posidonius, "Classica! Quarterly", 1930; A. MooRZE, Zur Ethik_ und Psychologie des Poseidonios, "Philologus", 1932; P. BoYANCÉ, Etudes sur le songe de Scipion, Paris 1936; L. EDELSTEIN, The philosophical system of Posidonius, "American Journal of Philology", 1936; R.M. ]oNES, Posidonius and salar eschatology, "Classica! Philology", 1936; M. VAN BRUWAENE, La théologie de Cicéron, Leuven 1937; G. NEBEL, Zur Ethik des Poseidonios, "Hermes", 1939; M. PoHLENZ, Tierische und menschliche Intelligenz bei Poseidonios, "Hermes", 1941; A. GRILLI, La posizione di Aristotele, Epicuro e Posidonio nei confronti della soria della civiltà, "Rendiconti Istituto Lombardo di Scienze e Lettere", Milano 1953; PH. MERLAN, Posidonius and Neoplatonism, cap. II qi From Platonism to Neoplatonism, Den Haag 1953; C.J. DE VoGEL, A la recherche des étapes précises entre Platon et le Néoplatonisme, "Mnemosyne", 1954; K. REINHARDT, Poseidonios, in R.E. PAULY-WrssowA, XXII, I, coli. 558-826 (1954) [con ottima bibliografia], coli. 559-563; A.D. NocK, Posidonius, "Journal of Roman Studies", 1959; G. PFLIGERSDORFFER, Studien zu Poseidonios, "Oesterreichische Akademie der Wissenschaften", philos. hist. Klass., 1959; M. GIGANTE, I:ru.t.avnK6v Contributo alla storia dell'estetica antica (Posidonio di Apamea), "La Parola del Passato", 1961, pp. 40-53; F. SoLMSEN, Cleanthes or Posidonius? The basis of Stoic physics, "Mededelingen der Koninllijke Nederlandsche Akademie van Wetenschappen", Amsterdam 1961; F. KuNDLIEN, Poseidonios und die Artztschule der Pneumatiker, "Hermes", 1962; K. ABEL, Poseidonios und Senecas Trostschrift an Marcia, "Rheinisches Museum", 1964; M. LAFFRANQUE, Poseidonios d'Apamée philosophe hellénistique, "Actes du VII< Congrès, Aix-en-Provence", Ass. G. Budé, Paris, 1964; P. DESIDERI, Posidonio e la guerra mitridatica, "Athenaeum", 1973; P. DESIDERI, L'interpretazione dell'Impero Romano in Posidonio, "Rendiconti dell'Istituto Lombardo", 1973; CH.S. FLORATOS, Strabon iiber Literatur und Poseidonios, Atinai 1972; O. GrGON, Posidoniana, Ciceroniana, Luctantiana, in Romanitas et Christianitas, in onore diJ.H. WASZINK, a cura di W. DEN BoER-P.G. VAN DER NAT-C.M.J. SrcKING].C.M. VAN WrNDEN, Amsterdam-London 1973; K. REINHARDT, Poseidonios, II: Kosmos und Sympathie (dall'ed. 1926), Hildesheim-New York 1976; J. DrLLON, The problem of Posidonios, in The Middle Platonists. A study of Platonism 80 B.C.-A.D. 220, Gloucester-London 1977;
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Marco Porcia Catone Ut. quid antiqui scriptores aequales et posteriores censuerint, Miinster 1911; G. BorssiER, Cicéron et ses amis, Paris 1923 9 ; E. CIACERI, Cicerone e i suoi tempi, Milano 1926-1930; M. BRILL, Alcuin und Caton, Leiden 1937. Cfr. anche C. MoRESCHINI, Oratori latini minori, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987, pp. 1467-1468. 5. Scienza, astrologia e aspetti religiosi Per gli studi sulle scienze del periodo dal III sec. a.C. al I d.C. rimandiamo alle opere d'insieme già citate nel I e nel II volume. Cfr. A. LE BouEFFE, Astronomie, Astrologie. Lexique latin, Paris 1987. Qui ricordiamo gli studi più utili per una prima conoscenza di lpparco di Nicea e dell'astrologia in questo periodo. Delle opere di lpparco è rimasto solo un Commento ai Fenomeni: si veda nell'edizione (con trad. tedesca) a cura di K. MANITIUS, In Arati et Eudoxi phaenomena commentariorum libri tres, Leipzig 1894 (vedi anche H. BERGER, Die geographischen Fragmente des Hipparch, Leipzig 1869, e D.R.
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DICKS, Fragmenta geographica, London 1960). Su Ipparco cfr.: E. MAASS, Aratea, Philologische Untersuchungen, Berlin 1892; A. REHM, Zu Hipparch und Eratosthenes, "Hermes", 1898; G. THIELE, Antike Himmelsbilder, Berlin 1898; F.X. KuGLER, Die babylonische Mondrechnung, Freiburg i.Br. 1900 [importante studio sulla influenza avuta dai Caldei su Ipparco]; F. BoLL, Die Sternkataloge des Hipparch und des Ptolemaios, "Bibliotheca Mathematica", II, 1901; K. MANITIUS, Hipparch Theorie der Sonne nach Ptolemà"us, "Das W el t all", 1906; K. MANITIUS, Hipparchs Theorie des Mondes, "Das W eltall", 1907; J.K. FoTHERINGHAM, The secular Acceleration of the Sun as determined from
Hipparchus's Equinox Observations, with a Note on Ptolomey's False Equinox, "Monthly Notices, R. Astronomica! Society", 78, 1918. Si veda anche l'articolo di A. REHM, in R.E. PAULY-WISSOWA, XVI,
1913. Tra gli studi più recenti, cfr.: N. SwERDLOW, Hipparchus on the Distance of the Sun, "Centaurus", 1969, pp. 287-305; G. AUJAC, Hipparque et les levers simultanés d'après le Commentaire aux Phénomènes d'Eudoxe et d'Aratos, in "L'Astronomie dans l'antiquité classique", Paris 1979, pp. 107-122; F. FRANCO REPELLINI, Ipparco e la tradizione astronomica, in La scienza ellenistica, Atti delle tre giornate di studio tenutesi a Pavia (14-16 aprile 1982), a cura di G. GIANNANTONI-M. VEGETTI, Napoli 1984, pp. 187-223; C. SANTINI, Astronomici (scrittori), in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987, I, pp. 233-243. Per le fonti relative all'astrologia si veda: Catalogus codicum astrologorum graecorum, edito sotto la direzione di F. CuMONT, Bruxelles 1898 sgg. (anche V. NABOD, Enarratio elementorum astrologiae, Koln 1560, un manuale che è, in realtà, un commento ad Alcabizio: Albategni Opus astronomicum, ed. NALLINO, Milano 1899-1907). Sull'astrologia in generale cfr. A. BoucHÉ-LECLERCQ, L'astrologie grecque, Paris 1899; F. BOLL, Sphaera, Leipzig 1903; R. EISLER, Weltenmantel und Himmelszeit, Miinchen 1910; C. WILDE, Chaldean Astrology, London 1912; F. CuMONT, Astrology and Religion among the Greeks and Romans, New York 1912; F. CuMONT, Le religioni orientali nel paganesimo romano, trad. it., Bari 1913; H. GRESSMANN, Die hellenistiche Gestirn-Religion, Leipzig 1925; C. BEZOLD-F. BoLL, Sternglaube und Sterndeutung, a cura di W. GuNDEL, Leipzig-Berlin 1926 (trad. it., Bari 1979); L. THORNDIKE, A History of Magie and Experimental Science, New York 1929-1941; F. CuMONT, L'Égypte des astrologues, Bruxelles 1937; A.J. FESTUGIÈRE, La révélation d'Hermès Trismégiste, I: L'astrologie et !es sciences occultes, Paris 19502 ; P. BoYANCÉ, La religion astrale de Platon à Cicéron, "Revue des Études grecques", 1952. Cfr. inoltre:
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W. GuNDEL-H.G. GuNDEL, Astrologumena, Wiesbaden 1966;}. LrNnSAY, Origins of Astrology, New York 1979; L. AuRIGEMMA, Il segno zodiacale dello scorpione, Torino 1976; W. HUBNER, Die Eigenschaften der Tierkreiszeichen in der Antike, Wiesbaden 1982; F. BoLL-C. BEzow-W. GuNDEL, Storia dell'astrologia, Bari-Roma 1985. Sui rapporti tra astrologia, magia e scienza, e sui rapporti con le religioni e i magi orientali cfr.: J. BmEz-F. CuMONT, Les Mages hellénisés, Paris 1938 (si veda anche M.P. NILSSON, Greek Piety, trad. ingl., Oxford 1948) e, ancora, A.J. FESTUGIÈRE, cit. Per Bolo Democrito, oltre J. BmEz-F. CuMONT-A.J. FESTUGIÈRE, cit., cfr.: M. WELLMANN, Die Georgika des Demokritos, "Philol-hist. Abh.", 1921; M. WELLMANN, Die Cl»t>atKci des Bolos, "Abh. Ber!. Akad.", Phil.-hist. Kl., 1928; W. KROLL, Bolos und Demokritos, "Hermes", 1934. Alcuni frammenti dell'opera andata sotto il titolo Rivelazioni di Nechepso e Petosiride, si vedano raccolti a cura del RIEss, in "Philologus", suppl. 6, 1892. Su tutta la questione si veda anche E.R. Donns, I greci e l'irrazionale, trad. it., Firenze 1959. Si confrontino inoltre gli articoli dello HoPFNER, Nekromantie, Mageia, Theurgie, in R.E. PAULY-WrssowA, e il Catalogue des manuscrits alchimiques grecs (sull'alchimia cfr.: M. BERTHELOT, Les origines de l'Alchimie, Paris 1885; E.O. voN LIPPMANN, Entstehung und Ausbreitung der Alchimie, Berlin 1919-1931). Cfr. anche Papyrii graecae magicae, a cura di K. PRErsENDANZ, 2 voli., Leipzig-Berlin 1928-1931 (anast. Stuttgart 1974). Utili per una prima ricostruzione degli ambienti religiosi tra il I sec. a.C. e i primi secoli d.C. sono le opere: N. TURCHI, Le religioni misteriosofiche del mondo antico, Roma 1923; J. GEFFCKEN, Der Ausgang des griechisch-riimischen Altertum, Heidelberg 1920; R. REITZENSTEIN, Die hellenistiche Mysterienreligionen, Leipzig-Berlin 19273; F. CuMONT, Les religions orienta/es et le paganisme romain, Paris 19293; W. KROLL, Die Religiositiit in der Zeit Ciceros, "NeueJahrb. fiir das klass. Altertum", 1928; O. KERN, Die Retigian der Griechen, III, Berlin 1938; M.P. NILSSON, The Dionysiac mysteries of the Hellenistic and Roman age, Lund 1957. Sulla questione del rapporto astrologia e politica in Roma, cfr. F.H. CRAMER, Astrology in Roman Law and Politics, Philadelphia 1954. Sulle varie questioni religiose si vedano anche: M.P. NILSSON, Geschichte der griech. Religion, in Handbuch der Altertumswissenschaft, Miinchen, I, 1941 (1955 2), II, 1950 (1974 3); G. MURRAY, Five stages of Greek Religion, Garden City 1955 (si veda sopra Bibliografie in I e II vol.)
6. Il neopitagorismo e la sua diffusione a Roma. La religione a Roma Sulla corrente pitagorica in Roma nel I sec. a.C. e al principio del I
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d.C., oltre le opere sulla cultura in generale sopra citate, si confronti: A.]. FESTUGIÈRE, Sur U1Je nouvelle édition du "De vita Pythagorica" de Jamblique, "Revue cles Etudes grecques", 1937; L. PERRERO, Storia del
pitagorismo nel mondo romano dalle origini alla fine della Repubblica, Torino 1955. Si veda anche J. CARCOPINO, La basilique pythagoricienne de la Porte Majeure, Paris 1927. Sul cosiddetto "neopitagorismo", cfr.: T. GARTNER, Neopythagoreorum de vita beata et virtute doctrina eiusque fontes, Leipzig 1877; M. JijGL, Studien zur neupyth. Philosophie, Baden i.O. 1891; A. DELATTE, Etudes sur la littérature pythagoricienne, Paris 1915; E. FRANK, Plato und sogenann. Pythagoreer, Leipzig 1923; F. BoMER, Der lateinische Neuplatonismus und Neupythagorismus, Leipzig 1936. Per i testi si veda: H. THESLEFF, The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, Àbo 1965; The Pythagorean writings. Hellenistic text
from 1st cent. B.C.-Yd cent. A.D. on /ife, morality, knowledge, and the world, comprising a selection of the Neo-Pythagorean fragments, texts, and testimonia of the Hellenistic period including those of Philolaus and Archytas, trad. dal greco e dal latino da K. GuTHRIE-T. TAYLOR, ed. ted. con un'introduzione agli scritti pitagorici di R. NAVON (intr. di L.G. WESTERINK), New Gardens 1986. Cfr. Pseudopythagorica Ethica. I trattati morali di Archita, Metapo, Teage, Eurifano, a cura di B. CENTRONE, Napoli 1990. Cfr. anche A. SQUILLONI, Il concetto di "Regno" nel pensiero dello pseudo Ecfanto. Le fonti e i trattati "Peri Basilèias", Firenze 1991. Sulla religione a Roma in generale, cfr.: G. WissowA, Religion und Kultur der Romer. Handbuch der Altertumswissenschaft, Miinchen 19122 ; FR. ALTHEIM, Romische Religionsgeschichte, I, Baden-Baden 1951; J. BAYET, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, Paris 1957. Si veda anche: J. CARCOPINO, Aspects my~tiques de la Rome pai'enne, Paris 1941; e De Pythagore aux Apotres. Etudes sur la conversion du monde romain, Paris 1956; M.P. NILSSON, The Dionysiac mysteries of the Hellenistic imd Roman age, Lund 1957; M.P. NILSSON, Geschichte der griechische Religion, II, Miinchen 1961; J. KROYMAN, Cicero und die romische Religion, "Ciceroniana", 1975, pp. 116-128; B.L. VAN DER WAERDEN, Die Pythagoreer. Religiose Bruderschaft und Schule der Wissenschaft, Ziirich-Miinchen 1979 (anche R. TuRVAN, Mi-
thras Platonicus. Recherches sur l'hellénisation philosophique de Mithra, Leiden 1975); J. ScHEID, Religione e società, in Storia di Roma, cit., vol. IV, Torino 1989. I frammenti di Nigidio Figulo si vedano raccolti a cura di A. SwoBODA, Publii Nigidi Figuli operum reliquia, Praha-Wien 1889 (rist. Amsterdam 1964). Su Nigidio Figulo cfr.: M. HERTZ, De Publii Nigidi Figuli studio at-
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que operibus, Berlin 1945; L. LEGRAND, Publius. Philosophe néopythagoricien orphique, Paris 1931; L. PERRERO, Storia del pitagorismo nel mondo romano, Torino 1955; A. DELLA CAsA, Nigidio Figulo, Roma 1962. 7. Il motivo del re filantropo. Influenze della concezione monarchico-el-
lenistica sulla formazione dell'impero Sulla formazione delle idee monarchiche in Roma cfr.: W.S. FERGUSON, Legalized absolutismus "en route" from Greece to Rome, "American Historical Review", 1912; E.R. GooDENOUGH, The politicalphilosophy of Hellenistic Kingship, "Yaie Classica! Studies", 1928; P. ZANCAN, Il monarcato ellenistico, Padova 1934; M.P. CHARLESWORTH, The virtutes of a Roman emperor, "Proceedings of the British Academy", 1937; A. WrFSTRAND, .::\payJJ.a, Lund-Leipzig 1939; M.P. NrLssoN, Greek piety, trad. ingl., Oxford 1948; TH.A. SrNCLAIR, Il pensiero politico classico, trad. it., Bari 1961. Sui possibili rapporti tra la concezione del re filantropo e il bl.!ddhismo cfr. G. PuGLIESE-CARRATELU, Introduzione a Gli editti di Asoka, Firenze 1960 (vedi anche "La Parola del Passato", VIII, 1953 e G. DE LORENZO, Asoka, Napoli 1926; A.J. FESTUGIÈRE, Les inscriptions d'Asoka et l'idéal du rpi hellénistique, "Recherches de sciences religieuses", 1951; F. KERN, Asoka, Kaiser und Missionar, Bern 1956). Per la traduzione italiana de Gli editti di Asoka, vedi la citata trad. di G. PuGLIESE-CARRATELLI. Sulla importanza avuta nella formazione della concezione imperiale e della monarchia ellenistica dalle correnti stoiche del III-I secolo a.C., cfr. sopra. Per i Fenomeni di Arato si veda l'edizione a cura diJ. MARTIN, Arati Phaenomena, Firenze 1956. La lettera introduttiva alla Retorica ad Alessandro, attribuita ad Anassimene di Lampsaco (cfr. P. WENDLAND, Die Schriftstellerei des Anaximenes, "Hermes", 1904), si veda nell'edizione a cura di L. SPENGEL, Rhetores Graeci, I, Leipzig 1885. I testi degli pseudopitagorici Ecfanto, Diotogene, Stenida, relativi alla funzione del monarca, si vedano in STOBEO, Ecl., IV, 7, 61-64, raccolti in The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, a cura di H. THESLEFF, Abo 1965. Cfr.: L. DELATTE, Les traités de la royauté d'Ecphante, Diotogène et Sthenidas, Paris-Liège 1942; R. MERKELBACH, Kri-
tische Beitriige zur Antike Autoren mit den Fragmente aus Ekphantos, "Beitrage zur klass. Philologie", XLVII, 1979; A. SQUILLONI, Il concetto di "regno" nel pensiero dello ps. Ecfanto ... , cit., Firenze 1991. Si veda
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anche TH.A. SrNCLAIR, cit., e A. LA PENNA, Orazio e l'ideologia del principato, Torino 1963. Si veda inoltre: C. PRÉAUX, L'image du roi de l'époque hellénistique, in Images of ma n in ancient and medieval thought, in onore di G. VERBEKE, a cura di F. BossrER-F. DE WACHTER-J. lJSEWIJN-G. MAERTENS-W. VANHAMEL-D.VERHELST-A. WELKENHUYSEN, pres. C. LAGA, Leuven 1976, pp. 53-75; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur !es rapports de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la fin de la république, Paris 1984; B. MAIER, Philosophie und romisches Kaisertum. Studien zu ihren Wechselseiting Beziehung in d. Zeit von Caesar bis Mare Aure!, Wien 1985; P. GRIMAL, Les éléments philosophiques dans l'idée de monarchie à Rome à la fin de la République, in Aspects de la philosophie hellénistique (Entretiens sur l' Antiquité classique, 32), Vandoeuvres-Genève agosto 1985, a cura di H. FLASHAR-0. GrGON, Vandoeuvres-Genève 1986. 8. Il pensiero ebraico. Aristea, Aristobulo. Terapeuti. Esseni. I "rotoli"
del Mar Morto Per una bibliografia sulla cultura ebraica e sulle sue origini rimandiamo alle seguenti Enciclopedie: The Jewish Encyclopaedia, 12 voli., New York-London 1901-1906; ]iidische Lexicon, 5 voll., Berlin 1927-1930; Encyclopaedia Judaica, Berlin 1928 (in corso); The Universal ]ewish Encyclopaedia, 10 voli., New York 1943 sgg.; cfr. anche Bibliografia su Filone l'Ebreo e R. RADICE, Filone d'Alessandria, Napoli 1983. Si veda inoltre: F. BROWN-S.R. DRIVER-C.A. BRIGGS, A Hebrew and English Lexicon of the Old Testament, New York-Oxford 1951; Encyclopaedia ]udaica, Jerusalem 1971 sgg.; E. }ENNI-C. WESTERMANN, Dizionario teologico dell'Antico Testamento, Roma 1978-1982; L. KoEHLER-W. BAUMGARTNER, Hebraisches und aramaisches Lexikon zum alten Testament, 3 voll., Leiden 1967-1983; L. KoEHLER-W. BAUMGARTNER, Lexicon in Veteris Testamenti Libros, Leiden 1985. Sulla formazione del pensiero ebraico e sui suoi rapporti con la cultura ellenistica, si vedano le seguenti opere di prima consultazione: A. GFROEFER, Kritische Geschichte des Urchristentums, Stuttgart 1831; A.F. DAEHNE, Geschichtliche _Darstellung der jiidisch-alexandrinischen ReJigions-Philosophie, Halle 1834; E. VACHEROT 1. Histoire critique de l'Beole d'Alexandrie, Paris 1846; Z. FRANCKEL, Uber den Einfluss der palestinensische Exegese iiber die alexandrinische Hermeneutik, Leipzig 1851; J. RÉVILLE, Le Logos d'après Philon d'Alexandrie, Paris 1877; P. MENZEL, Der griechische Einfluss auf Prediger und Weisheit Salomons,
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Halle 1889; H. Bms, Essai sur les origines de la philosophie judéo-alexandrine, Toulouse 1890; P. WENDLAND, Philo und die kynisch-stoische Diatribe, Berlin 1895; E. FROMENTIN, Essai sur la Sapience. La pensée juive, la pensée grecque et leurs rapports avec la pensée chrétienne, Nimes 1898; E. ScHi.iRER, Geschichte des jiidischen Volkes im Zeitalter Jesu Christi, Leipzig 1901, 1911 4 ; W. BoussET, Die Religion des Judentums, Berlin 1903; M. FRIEDLANDER, Griechische Philosophie im alten Testament, Berlin 1904; E. SACHSE, Die Logoslehre bei Philo und bei Johannes, "Neue Kirchliche Zeitschrift.", Leipzig 1904; H. PALTER, Beitriige zur Geschichte der Idee bei Philon und Plotin, "Philosophische Arbeiten", 1906; P. WENDLAND, Die hellenistischromische Kultur in ihren Beziehungen zu Judentum und Christentum, Tiibingen 1907, 1912 3 ; P. HEINISCH, Die griechische Philosophie im Buch der Weisheit, Miinster 1908; A. LmsY, La religion d'Israel, Paris 1908; D. NEUMARK, Geschichte des jiidaische Philosophie, Berlin 1910; FR. FocKE, Die Entstehung der Weisheit Salomons, ein Beitrag zur Geschichte des jiidischen Hellenismus, Gottingen 1913; M. WrNDISCH, Der Hebriierbrief, Tiibingen 1913; K. GRONAU, Poseidonios und die jiidisch-christliche Genesisexegese, Leipzig 1914; J. JusTER, Les Juifs dans l'Empire romain, Paris 1914; W. BoussET, Jiidisch-christlicher Schult-betrieb in Alexandria und Rom, Gottingen 1915; M.J. LAGRANGE, Le Logos de Philon, "Revue Biblique", 1923; M.J. LAGRANGE, Le Judaisme avant fésus-Christ, Paris 1931; J. GuTTMANN, Die Philosophie des Judentums, Miinchen 1933; E.R. GoonENOUGH, By Light, Light, New Haven 1935; E. BrcKERMANN, Der Gott der Makkabiier, Berlin 1937; M. DuESBERG, Les Seribes inspirés, Paris 1938; M. Mi.iHL, Zu Poseidonios und Philon, "Wiener Studien", 1942; E. BERTOLA, La filosofia ebraica, Milano 1947; M. SIMON, Versus Israel, Paris 1948 [sull'antisemitismo romano]"; S. LmBERMAN, Hellenism in Jewish Palestine, New York 1950; V. TcHERIKOVER, Corpus Papyrorum ]udaicorum, I, Prolegomena, Cambridge (Mass.) 1957 [testimonianze e documenti]; A. MuRTONEN, "The Living Soul" - A study of the Meaning of the Word nefes in the Old Hebrew Language, Helsinki 1958; J. HESSEN, Griechische oder biblische Theologie? Das Problem d. Hellenisierung d. Christentum in neuer Beleuchtung, Miinchen 19622 ; C. H. Donn, The Bible and the Greeks, London 1964 3 (1935 1); W. GuNDEL-H.G. GuNDEL, Astrologumena, Wiesbaden 1966; H.F. WEiss, Untersuchungen zur Kosmologie der hellenistischen und palàstinischen ]udentums (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der Altchristlichen Literatur), Berlin 19662 ; W. ErcHRODT, Theology of the Old Testament, London 1967; E. BrCKERMANN, Four Strange Books of the Bible, New York 1968; G. VON RAn, Teologia dell'Antico Testamento, Brescia 1972; H.W. WoLFF, Antropologia dell'Antico Testamento, Brescia 1975; U. FrscHER, Studien zur Eschatologie des hellenistischen
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Diaspora;udentums, Liineburg 1976; ].C.M. LELLAND, God the Anonymos. A Study in Alexandrian Philosophical Theolo?;J, Cambridge 1976; P. SACCHI, Storia del mondo giudaico, Torino 1976; N. RoTH, The "theft of philosophy" by the Greeks from the ]ews, "Classica! Polia", 1978; J.A. SoGGIN, Introduzione all;Antico Testamento, Brescia 19793, 19874 ; Hommage à Georges Va;da. Etudes d'histoire et de pensée iuives, a cura di G. NAHON-C. TouATI, Leuven 1980; D.S. RussELL, The Method and Message of ]ewish Apocalyptic, London 1980; Apocrifi dell'Antico Testamento, a cura di P. SACCHI, 2 voll., Torino 1981-1989; A. RoFÈ, The Problematic Stories. The Narratives about the Prophets in the Hebrew Bible, Jerusalem 1982 (in ebraico); J.H. CHARLESWORTH, The Old Testament Pseudoepigrapha, 2 voll., Garden City 1983-1985; E. ScHURER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, 2 voll., (ed. ingl., Edinburgh 1973, 1985), trad. it., Brescia 1985 sgg.; L.O. BoMBELU, I frammenti degli storici giudaico ellenistici, Genova 1986; G. GARBINI, Storia e ideologia nell'Israele antico, Brescia 1986; L.A. MoNTES PERAL, Akataleptos Theos. Der unfassbare Gott, Leiden 1987; L'ebraismo, a cura di H.CH. PUECH, Bari-Roma 1988; Studies in ]ewish
philosophy: collected essays of the Academy for ]ewish philosophy, 1980-1985, a cura di M.M. SAMUELSON, Lunham 1988; L. VILLORESI,
La Natura dell'uomo nel pensiero ebraico e greco antico relativo alla concezione della morte, "Annali del Dipartimento di Filosofia dell'Università di Firenze", Firenze 1989, pp. 3-43. Vedi sotto, Bibliografia sul Nuovo Testamento e Primo Cristianesimo. Per La lettera di Aristea si veda l'edizione a cura di P. WENDLAND, Leipzig 1910 (del WENDLAND cfr. anche il citato Die hell.-romisch. Kultur, 1907), e il testo critico, traduzione, introduzione e note a cura di R. TRAMONTANO, Napoli 1931; di A. PELLETIER, Paris 1962 (Coll. "Sources Chrétiennes"); di C. KRAUS REGGIANI, Roma 1979. Su Aristea cfr.: B. MoTzo, Aristea, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", 1914-1915; F. CuMOJiiT, L'É?;Jpte des astrologues, Bruxelles 1937; C. PRÉAux, Les Grecs en E?;Jpte d'après les archives de Zenon, Bruxelles 194 7. Si veda anche: TH.A. SINCLAIR, Il pensiero politico classico, trad. it., Bari 1961; L. HERMANN, La lettre d'Aristée à Philocrate et l'empereur Tite, "Latomus", 1966, pp. 58-77; F. PARENTE, La
"Lettera di Aristea" come fonte per la storia del giudaismo alessandrino durante la prima metà del I sec. a.C., "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", 1972, pp. 177-237, 517-567.
I frammenti dell'opera di Aristobulo (in Clemente Alessandrino,
Strom; Eusebio, Hist. ecc!. e Praep. ev.) si vedano raccolti a cura di A. ELTER in De gnomologiae graecae Historia atque origine, Bonn 1894; I frammenti di Aristobulo, esegeta biblico (testi, trad. comm.), "Bollettino
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dei Classici dell'Accademia Nazionale dei Lincei", s. 3, fase, 3, 1982, pp. 87-134. Su Aristobulo, oltre l'articolo di A. GERCKE in R.E. PAULY-WrssowA, II, particolarmente si veda: H. GRAETZ, Derangebliche judiiische Peripat. Arist. und seine Schriften, "Monatschrift fur Geschichte und Wissenschaft des Judentums", 1878; M. ]oh, Blicke in d. Religionsgeschichte zum Anfang des 2. christl. ]ahrb., Breslau 1880 (cfr. N. W ALTER, Der Thoraausleger Aristobulos, Berlin 1964). Cfr. anche: N. W ALTER, Anfiinge alexandrinisch-judischer Bibelauslegung bei Aristobulos, "Helikon", 3, 1963, pp. 353-372; C. KRAUS REGGIANI,
Aristobulo e l'esegesi allegorica dell'Antico Testamento nell'ambito del Giudaismo ellenistico, "Rivista di Filologia e d'Istruzione Classica", 1973, pp. 162-185; Aristobulos, "Jiidische Schriften aus hellenistischromischer Zeit", Gutersloh 1975, III, 2 (intr. e trad. tedesca); C. KRAUS REGGIANI, L'esegesi allegorica della Bibbia come fondamento di speculazione filosofica nel giudaismo ellenistico. Aristobulo e Filone l'ebreo, "Enrahonar", 1986,pp. 31-42. Sui "Terapeuti" e sugli "Esseni" si vedano le opere generali sull'ebraismo nel II secolo a.C. Si veda, inoltre, per i Terapeuti l'opera di W. CLEMENS (Die Therapeuten, Konigsberg 1869; anche P. WENDLAND, Die Therapeuten u. die philon. Schrift vom beschaul. Leben, "Jahrb. fur klassische Philologie", suppl. 2), per gli Esseni i saggi di E. BENAMOZEGH (Storia degli Esseni, Firenze 1865), W. CLEMENS (De Essenorum moribus institutis, Konigsberg 1867), P. Lucrus (Der Essenismus in S. Verh. zum ]udentum, Strasburg 1881), E. BuGGE (Zum Essiiemproblem, "Zeitschrift fiir die neutest. Wiss. u. Kunde des Urchristentums", 1913). Dopo il ritrovamento dei Rotoli del Mar Morto si discute se gli Esseni siano da identificare o meno con la comunità della Nuova Alleanza di cui si tratta nel Manuale di Disciplina e nel Commento ad Habacuc. Sulla questione degli Esseni rimandiamo perciò alla bibliografia relativa ai Rotoli del Mar Morto. Per la bibliografia e le fonti sugli Esseni cfr. F. SPADAFORA, in "Enciclopedia Cattolica", V, coll. 618-619; si veda anche H. KosMALA, Hebriier-Essener-Christen, Leiden 1959. Sui Terapeuti si veda ora: H.G. ScHONFELD, Zum Begriff "Therapeutai" bei Philon von Alexandrien, "Revue de Qumram", 1961; cfr. inoltre: R. RADICE, cit., e Bibliografia su Filone Ebreo; G. ScARPAT, Cultura ebreo-ellenistica e Seneca, "Rivista Biblica", 1965, pp. 3-30; F. S. PERICOLI-RIDOLFINI, Alle origini del monachesimo. Le convergenze esseniche, Roma 1966; L.M. GoNGDON, The false Teachers at Colossae: Affinities with Essene and Philonic Thought, Drew 1968; G.W. BucHANAN, The consequences of the Covenant, Leiden 1970; A. STEINER, W arum lebten die Essener asketisch?, "Biblische Zeitschrift", 1971. Tra i testi più importanti ritrovati presso il Mar Morto indichiamo:
Il manoscritto di Isaia, Commentario di Habacuc, Manuale di Disciplina,
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Rotolo di Lamech, La Guerra dei Figli della Luce contro i Figli delle Tenebre, Salmi di ringraziamento. L'edizione dei testi dei manoscritti del Mar Morto si veda a cura di H. HABERMANN, Jerusalem 1959; Die Texte aus Qumram hebrai"sch und deutsch, Miinchen 1964. In trad. it., a cura di N.L. MoRALDI, Torino 1971, 19872 . Della già amplissima letteratura sui rotoli del Mar Morto, citiamo qui i saggi più significativi che mettono in luce la complessità della ancora fluida e dibattuta questione, tra cui, fondamentale, il problema della datazione e quelli della identificazione o meno con gli Esseni e dei rapporti con il primissimo cristianesimo. Di particolare importanza sono i lavori di A. DuPONT-SOMMER (Aperçus préliminaires sur les mss. de la Mer Morte, Paris 1950; Nouveaux aperçus sur les mss. de la Mer Morte, Paris 1953; Les écrits esséniens découverts près de la Mer Morte, Paris 1959); di G. VERMÈS, Les manuscrits du désert de ]uda, Tournai 1953, Paris 19542); di A. VrNANT (Les manuscrits hébreux du désert de ]uda, Paris 1955); di M. BuRRows (The Dead Sea Scrolls, New York 1956; trad. it. con il titolo Prima di Cristo: la scoperta dei Rotoli del Mar Morto, Milano 1961, con ampia Bibliografia); di C. RABIN (Qumram Studies, Oxford 1957); di H. BARDTKE (Die Handschriftenfunde am Totem Meer, Berlin 1952, 19582 ; Qumram-Probleme im Licht einiger neueren Veroffentlichungen, "Theologische Literaturzeitung", 1962); di H.H. RowLEY (The Dead Sea Scrolls Qumran, Southampton 1958; Les manuscrits de Qumran, "Publications de la Faculté de Lettres de Strasbourg", 39, 1960-1961); diJ.L. TEICHER (The Dead Sea Scrolls. Documents of the ]ewish-Christian Sect of Ebionites, "Journal of Jewish Studies", 1951; The Teaching of Pre-Pauline Church in the Dead Sea Scrolls, "Journal of Jewish Studies", 1952; ]esus' Savings in the Dead Sea Scrolls, "Journal of Jewish Studies", 1954; Are the Bar Kokba Documents Genuine?, "Journal of Jewish Studies", 1954; The Christian Interpretation of the Sign X in the Isaiah Scroll, "Vetus Testamentum", 1955). Per la notizia di Plinio sul convento essenico e sulla località del ritrovamento di alcuni rotoli, oltre il BuRROWS, cit., e il DuPONT-SoMMER, Les écrits esséniens (cit.), cfr. anche P. Audet, Qumran et la notice de Pline sur les Esséniens, "Revue Biblique", 1961 (di contro a AunET che nega ogni rapporto tra la località dei ritrovamenti e l'indicazione di Plinio, cfr.: E.M. LAPERRONSAZ, "Infra hos Engadda". Notes à propos d'un article récente, "Revue Biblique", 1962; C. BuRCHARD, Pline et les Esséniens, "Revue Biblique", 1962; P. SACCHI, Ancora su Plinio e gli Esseni, "La Parola del Passato", 1963). Si veda anche R. DE VAux, L 'archéologie et les manuscrits de la Mer Morte, London 1961. Per il loro interesse documentario si confrontino infine: J.T. MrLK, Ten Years of Discovery in the Wilderness of ]udea, London 1959; F. CRoss, The An-
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cient Library of Qumran and Modern Biblica! Studies, New York 19602 ; HEMPEL, Die Texte von Qumran in der Neutigen Forschung, Gottingen 1962; N. WIEDER, The Judean Scrolls and Caraism, London 1962; The Dead Sea Scrolls, a cura di M. MANSOOR, Leiden 1964; M.M. BRAYER, Psychomatics, Hermetic Medicine, and Dream Interpretation in the Qumran Literature, "The jewish Quarterly Review", 1969, pp. 112-127, 213-230; AA.VV., Qumran: sa piété, sa théologie et san milieu, a cura di M. DELCOR, Paris-Leuven 1978; J.A. SoGGIN, I manoscritti del Mar Morto, Roma 1978; L. MoRALDI, Introduzione a I Manoscritti di Qumran, Torino 1987; Rotolo del tempio, a cura di A. VrviAN, Brescia 1990.
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9. L 'Accademia da Carneade a Filone di Larissa e Antioco di Ascalona Sull'Accademia tra il II e il I secolo a.C. (dalla morte di Carneade a Filone di Larissa e Antioco di Ascalona) rimandiamo alle opere generali sullo scetticismo già citate nella Bibliografia del II volume, e alle già citate opere (cfr. II vol.) sullo scetticismo degli accademici. Su Carneade si veda ancora K.E. WILKERSON, Carneades at Rome. A problem of Sceptical Rhetoric, "Philosophy and Rhetoric", 1988, pp. 131-144. In particolare per i successori di Carneade indichiamo le opere di L. CREDARO (Lo scetticismo degli Accademici, Roma 1889-1893), di A. GoEDECKE-MEYER (Die Geschichte des griechischen Skeptizismus, Leipzig 1905), di E. BEVAN (Stoics and Sceptics, Oxford 1913), di V. BROCHARD (Les sceptiques grecs, Paris 19272), di L. RoBIN (Pyrrhon et !es sceptiques grecs, Paris 1944); di O. GrGoN (Zur Geschichte der sogenannten Neuen Akademie, "Museum Helveticum", 1944: interessante articolo sul ritorno dello scetticismo accademico alla contemplazione platonica), di M. DAL PRA (Lo scetticismo greco, Milano 1950), di O. GrGoN (Die Erneuerung der Philosophie in der Zeit Ciceros, in Recherches sur la tradition platonicienne, Fondation Hardt III, Vandoeuvres-Genève 1955). Si veda infine: A. WEISCHE, Cicero und die Neue Akademie. Untersuchungen zur Entstehung und Geschichte des antiken Skeptizismus, ("Orbis antiquus", 18), Miinster 1961, 1975 2 ; H. KRAMER, Platonismus und hellenistische Philosophie, Berlin-New York 1971; J.M. DILLON, Platonism at Alexandria: Eudoro and Philo, in The Middle Platonists. A Study of Platonism 80 B.C.-A.D. 220, Gloucester-London 1977, pp. 114-183; J.M. DILLON, The Middle Platonists, London 1977; J.M. DILLON, The Academy in the middle P/atonie period, "Dionysius", 1979, pp. 63-77; P.L. DoNINI, Le fonti medioplatoniche di Antioco, la conoscenza e le idee, in P.L. DoNINI-G.F. GIANCOTII, Modelli filosofici e letterari. Lucrezio, Orazio, Seneca (App. A), Bologna 1979; P.L. DoNINI,
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Le scuole, l'anima, l'Impero. La filosofia greca da Antioco a Platino, Torino 1981; P. ComssrN, TheStoicism of the New Academy, in The skeptical tradition, a cura di M. BuRNYEAT, Berkeley (Ca.) 1983, pp. 31-63; H. TARRANT, Scepticism or Platonism. The Philosophy of the fourth Academy, Cambridge 1985; M. lsNARDI PARENTE, Accademici, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987, I, pp. 9-15. Si veda anche: R. BETT, Cameades distinction between assent and approva!, "The Monist", 1990, pp. 3-20. Per gli scettici (gli accademici tra Filone di Larissa e Antioco) si vedano anche gli Academici (Varro e Lucullo) di Cicerone, in trad. italiana gli Academica di Cicerone, a cura DI A. Russo, in Scettici antichi, Torino 1978. Per Antioco di Ascalona si veda: G. LucK, Der Akademiker Antiochos (testi, comm.), Bern-Stuttgart 1953, Bern 1963; anche suppl. a cura di H.J. NETTE, "Lustrum", 28-29, 1986-1987; B. WrsNrEWSKI, Philo of Larissa. Testimonia und Kommentar, "Lodzkie Towarzystowo Naukowe", 1982. Su Filone di Larissa e su Antioco di Ascalona, oltre le opere citate, cfr.: C.J. GRYSAR, Die Akademiker Philon und Antiochos, Koln 1849; C.F. HERMANN, Disputatio de Philone larissaeo, Gottingen 1851 (Disputatio altera, 1855); H. TARRANT, Agreement and the self-evident in Philo of Larissa, "Dionysius", 1981, pp. 66-97; B. WrsNrEWSKr, cit., 1982, pp. 1-46; H.J. METTE, Philon von Larissa und Antiochos von Ascalon, "Lustrum", 1986-1987, pp. 9-63. Su Antioco di Ascalona cfr. in particolare: C. CHAPPUrs, De Antiochi Ascalonensis vita et scriptis, Paris 1854; M. DoEDGE, Quae ratio interceda! inter Panaetium et Antiochum Ascalonitam in morali philosophia, Halle 1896; H. STRACHE, Der Eklektizismus des Antiochos von Askalon, "Philol. Untersuchungen", Berlin 1921; W. THErLER, Die Vorbereitung des Neuplatonismus, Berlin 1930; A.M. LUDER, Die philosophische Personlichkeit des Antiochos von Askalon, Gottingen 1940; A. ARDIZZONr, Il saggio felice tra i tormenti, "Rivista di filologia e istruzione classica", 1942; J.M. DrLLON, Antiochus of Ascalon: The tum to dogmatism, in The Middle Platonists. A Study of Platonism 80 B. C.-A.D. 220, ci t., Gloucester-London 1977;]. GLUCKER, Antiochus and the late Academy (Hypomnemata, 56), Gottingen 1978; E. Dr STEFANO, Antioco di Ascalona e la crisi dello scetticismo nel I sec. a.C., in Lo scetticismo antico, Atti del Convegno sullo scetticismo antico (C.N.R.), Napoli 1982, l, pp. 195-209; E. Dr STEFANO, Antioco di Ascalona tra platonismo scettico e medioplatonismo, in Momenti e problemi di storia del platonismo, Catania 1984; M. lsNARDI PARENTI, Introduzione a Platino, Roma-Bari 1984; J. BARNES, Antiochus of Ascalon, in Philosophia Tagata, a cura diJ. BARNEs-M. GRIFFrN, Oxford 1989, pp. 51-96.
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10. Varrone e Cicerone Per gli scritti (in frammenti) di V arrone, oltre l'edizione di A. PoPNIA, M. T. Varronis operum quae extant, Lugduni Batavorum 1601 (riedita in M. T. V. de lingua latina quae supersunt cum fragmentis eiusdem, Biponti 1788), si veda: Quae extant, a cura di F. SEMO, Padova 1966; Opere, a cura di A. TRAGLIA, Torino 1974. Per singole opere cfr.: De re rustica libri tres, a cura di H. KEIL-G. GoETZ, Leipzig 1929; De re rustica, testo, trad. frane. e commento a cura di]. HEURGON, Paris 1978; De Lingua latina quae supersunt, a cura di G. GoETZ-FR. ScHOELL, Leipzig 1910 (rist. Amsterdam 1964); De lingua latina, l. V, testo, trad. frane. e note, a cura diJ. CoLLART, Paris 1954; De Lingua Latina, l. X, intr., testo, trad., commento, a cura di A. TRAGLIA, Bari 1956; De lingua latina, l. VI, testo crit., trad. e commento, a cura di E. RIGANTI, Bologna 1978; Antiquitatum Rerum divinarum libri I XIV XV XVI. Premissae sunt quaestiones varronianae, a cura di R. AGAHD, Leipzig 1898 (anast. New York 1975); Antiquitates rerum divinarum. Librorum I-II fragmenta, a cura di A. GERMANA CoNDEMI, Bologna 1965; Antiquitates Rerum Divinarum. I. Fragmente; II. Kommentar, a cura di B. CARDAUNS, Wiesbaden 1976; De gente populi Romani libri IV, a cura di P. FRACCARO, Padova 1907 (rist. Roma 1966); De vita populi Romani, Fonti, esegesi, ed. critica dei frammenti, a cura di B. RIPOSATI, Milano 1939 (rist. corretta 1972); Grammaticae Romanae Fragmenta, a cura di H. FuNAIOLI, Leipzig 1907 (anast. 1969); Menippearum Fragmenta, in Petronii Saturae et liber Priapeorum. Adiectae sunt Varronis et Senecae Saturae similesque reliquiae, a cura di F. BucHELER-G. HERAEUS, Berlin 19226 (rist. 1958); Varrone Menippeo (Menippearum Fragmenta), a cura di E. BousANI, Padova 1936; Menippearum Fragmenta, intr., testo, comm., a cura di F. DELLA CoRTE, Torino 1953; Satires Ménippées, ed., trad. e comm., 1-V, a cura di J.P. CEBE, Roma 1972-1980; Saturae: Menippearum Fragmenta, a cura di R. AsTBURY, Leipzig 1985; Logistoricorum Fragmenta, a cura di E. BousANI, Padova 1937. Per orientamenti biliografici, cfr.: B. CARDAUNS, Bibliographie Varronienne, ouvrages parus depuis 1950, in AA.VV., Varron (Fondation Hardt, 11), Vandoeuvres-Genève 1963, pp. 209-212; Varron grammai-
rien et l'enseignement grammatica! dans l'antiquité romaine (1934-1963), a cura di]. CoLLART, "Lustrum", IX, 1964, pp. 213-241, 335-336; H. DAHLMANN, Varroniana, in Aufstieg und Niedergang der romischen Welt, l, 3, Berlin 1973, pp. 3-25; B. RIPOSATI-A. MARASTONI, Bibliografia Varroniana, Milano 1974; A. TRAGLIA, La produzione scientifica varroniana sul biennio postcongressuale, in Cerimonia celebrativa per la presentazione degli Atti del Congresso di Studi Varroniani, Rieti 1976; G. GA-
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LIBERTI BIFFINO, Rassegna di studi varroniani dal 1974 al 1980, Rieti 1981; B. CARDAUNS, Stand und Aufgaben der V. Forschung (mit einer Bibliographie der ]ahre 1935-1980), Wiesbaden 1982; E. ZAFFAGNO, Varrone, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milapo 1987, III. Su Varrone, oltre l'articolo di H. Dahlmann in R. E. PAULY-WissoWA Suppl. VI (1935), cfr.: G. BmssiER, Étude sur la vie et !es ouvrages de Varron, "Revue des études anciennes", 1855; E. WENDLING, Zu Poseidonios und Varra, "Hermes", 1893; H. PETER, Uber Varros Verhiiltnis zum Pythagoreismus, "Rheinisches Museum", 1902; B. RIPOSATI, Varrone e Cicerone, maestri di umanità, "Aevum", 1949; F. DELLA CoRTE, Il terzo gran lume romano, Genova 1954, 1970; P. BoYANCÉ, Sur la théologie de Varron, "Revue des études anciennes", 1955; ]. PÉPIN, La Théologie tripartite de Varron. Essai de reconstitution et recherche des sources, "Revue des études augustiniennes", 1956; B. CARDAUNS, Varros Logistoricus iiber die Gotterverehrung, Wiirzburg 1960; J. MARTEN, Ein unbeachtetes Zeugnis von Varros Gotteslehre, "Archiv Gesch. Philos. ", 1961; Varra, in AA.VV., Entretiens sur l' antiquité classique, IX, Fondation Hardt, Vandoeuvres-Genève 1963; Congresso internazionale di studi varroniani, Rieti 22-26 sett. 1974 (vedi Atti); P. BoYANcÉ, Étymologie et théologie chez Varron, "Revue des Études latines", 1975, pp. 99-115; Commemorazione bimillenaria di Marco Terenzio Varrone, "Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere", 1975, pp. 84-105; B. RIPOSATI, M. Terenzio Varrone, l'uomo e lo scrittore, "Studi romani", 1975, pp. 13-32; Atti del Congresso internazionale di studi varroniani, I-II, Rieti 1976; F. DELLA CoRTE, L'idea della preistoria in Varrone, in Atti, cit., 1976, I, pp. 111-136; A. GARZETTI, Varrone nel suo tempo, in Atti, cit., 1976, pp. 91-110; A. LA PENNA, Alcuni concetti base di Varrone sulla storia romana, in Atti, cit., 1976, II, pp. 397-407; E. PARATORE, L'aspetto poetico della personalità di Varrone e il suo gusto letterario, in Atti, cit., 1976, I, pp. 243-267; B. RIPOSATI, Varrone e la sua terra Sabina, in Rieti e il suo territorio, Milano 1976; I. TozZI, L'eredità varroniana in Sant'Agostino in ordine alle "disciplinae libera/es", "Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere" (Cl.lett. se. mor. stor.), 1976, pp. 281-291; AA.VV., Varron, grammaire antique et stylistique latine, in onore diJ. Collart, Paris 1978; F. DELLA CoRTE, Enciclopedisti latini: V, in Opuscola VI, Genova 1978, pp. 41-50, 213-230; A. SALVATORE, Scienza e poesia in Roma. Varrone e Virgilio, Napoli 1978; AA.VV., Studi su Varrone, sulla retorica, storiagrafia e poesia latina, scritti in onore di B. Riposati, 2 voli., Rieti 1979; L. DESCHAMP, L'harmonie des sphères dans les "Satires Ménippées" de Varron, "Latomus", 1979, pp. 9-27; H.B. GoTTSCHALK, Varro and Ariston of Chios, "Mnemosyne", 1980, pp. 359-362; M. SALANITRO, Var-
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rane menippeo e ilpitagorismo, "Cultura e Scuola", 1980, pp. 59-71; E. ZAFFAGNo, Varrone, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987, III. Per gli scritti di Cicerone si veda: Scripta quae manserant omnia, "Bibl. Script. Graec. et Rom. Teubneriana", Leipzig 1878 sgg., 19082 sgg., ancora in corso (si veda il catalogo delle edizioni Teubner per Cicerone, in Acta sessionis ciceronianae, Warszawa, dicembre 1957; per le edizioni più recenti, voce Cicerone, a cura di AA.VV., in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, I, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987); "Collection Guillaume Budé", a cura di AA.VV., Éditions Belles Lettres (testo e trad. francese a fronte), Paris (in corso); Opere, a cura di AA.VV., nella collezione della "Loeb Library" (testo e trad. inglese a fronte), London; M. Tulli Ciceronis. Opera omnia quae exstant critico
apparatu instructa, consilio et auctoritate collegi Ciceronianis studis provehendis, a cura di AA.VV., Centro di studi Ciceroniani (Roma), Milano (in corso); M. T. Ciceronis Fragmenta ex libris philosophicis, ex aliis libris deperdetis, ex scriptis incertis, a cura di G. GARBARINO, Torino 1984. Si confronti nella collezione fondata da A. Rostagni, dir. I. Lana, Utet, Torino, in traduzione italiana: Opere politiche e filosofiche, vol. I: Lo stato, le leggi, i doveri, a cura di L. PERRERO-N. ZoRZETTI, 1985 2 ; vol. II: I termini estremi del bene e del male, Discussioni Tusculane, a cura di N. MARINONE, 19802 ; e Opera (in corso) del Corpus scriptorum Latinorum Paravianum, a cura di AA.VV., Torino. Si veda inoltre, con introduzioni, note, traduzioni e testo latino a fronte, a cura di AA.VV., la collezione de I Classici della Bur, Milano. Per le edizioni delle singole opere rinviamo alla Bibliografia di A. MrcHEL, in Rhétorique et philosophie chez Cicéron, Paris 1960; id., Ci-
céron et les grands courants de la philosophie antique: problèmes généraux (1960-1970), "Lustrum", 1974; R. VALENTI PAGNINI, La retorica di Cicerone nella moderna problematica culturale, "Bollettino di Studi latini", 1977, pp. 327-342; R.J. RowLAND, A survey of selected Ciceronian bibliography, "Classica! Weekly", 1978, pp. 289-327. Importanti anche per lo studio delle fonti filosofiche i commenti al De amicitia di: R. COMBES (testo, studio e traduzione, Paris 1971); P. FEDELI (Sul testo del "De amicitia" di Cicerone, "Rheinisches Museum fiir Philologie", 1972, pp. 156-173); K.A. NEUHAUSEN (M. Tullius Cicero, Laelius. Einlaitung und Kommentar, Heidelberg 1981); C. SAGGIO (De amicitia, trad. e biografia, Alpignano 1986); al Brutus di O. }AHN (5a ed. riveduta da W. KROLL, Berlin 1913); al De divinatione di A. ST. PEASE (Urbana 1920-1923, rist. Darmstadt 1963); S. TIMPANARO (introduz. testo, trad., bibliografia al De divinatione, Milano 1988); al De Legibus di S. BENARDETE (Cicero's "De Legibus" I: its plan and intention,
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me di Index Hercolanensis, a cura di S. MEKLER, Academicorum philosophorum index Herc., Berlin 1902, 1958 (anche Catalogo dei Papiri Ercolanesi, dir. M. GIGANTE, Napoli 1979), e T. DoRANDI, Testimonia Herculanensia, in Corpus dei Papiri filosofici greci e latini. Testi e lessico nei papiri di cultura greca e latina, I, l* (Accademia Toscana di Scienze e Lettere "La Colombaria"), Firenze 1989. I testi di Filodemo si vedano: - De adulatione: T. GARGIULO, PHerc. 222: Filodemo "Sull'adulazione", "Cronache Ercolanesi", 1978, pp. 103-128; M. GIGANTE-G. lNDELLI, PHerc. 223: De ad., "Cronache Ercolanesi", 1978, pp. 126-131; D. BASSI, PHerc. 1457: De ad., V-H 3, l, 1-18, Milano 1914; V. DE FALco, Appunti sul "De adulatione" di Filodemo, Pap. Herc. 1675, "Rivista Indo-Greca-Italica di filologia, lingua, antichità", 1926, pp. 15-26;- De bono rege secundum Homerum, a cura di A. OuviERI, Leipzig 1909; Il buon re secondo Omero, ed., trad. e commento a cura di T. DoRANDI ("La Scuola di Epicuro", 3, dir. M. GIGANTE), Napoli 1982; -Difetti: sui difetti e le virtù opposte, a cura di D. BASSI, Milano 1914; - De diis, a cura di H. DIELS, "Abh. Berl, Akad.", 1915-1916 (con trad. ted.), anast. AmsterdaiiJ: 1970 (cfr. anche: K. KLEVE, Zu einer Neuausgabe von Philodemus. Uber des Gotter, Buch l, PHerc. 26, "Cronache Ercolanesi", 1973, pp. 89-91; G. ARRIGHETTI, Filodemo, "Gli dei", III, fr. 75, "Cronache Ercolanesi", 1983, pp. 29-31); -De divitiis: A. TEPEDINO GuERRA, Il primo libro "Sulla ricchezza" di Filodemo, "Cronache Ercolanesi", 1978, pp. 52-95; - De Epicuro, a cura di D. BASSI, "Miscellanea Ceriani", Milano 1910; Epigrammi: M. GIGANTE, Filodemo. Epigrammi scelti, Napoli 1970, nuova ed. 1988; -De insania: D. BASSI, Notizie di papiri ercolanesi inediti, "Rivista di filologia e d'istruzione classica", 1917, pp. 457 -466; De invidia: A. TEPEDINO GuERRA, Il PHerc. 1678. Filodemo sull'invidia?, "Cronache Ercolanesi", 1985, pp. 113-125;- De ira, a cura di C. WILKE, Leipzig 1914; L'ira, ed., trad. e comm. a cura di G. INDELLI (''La Scuola di Epicuro", 5, dir. M. GIGANTE), Napoli 1988 (cfr. anche G. lNDELLI, Il lessico filomedeo dell'opera "sull'Ira", "Cronache Ercolanesi", 1982, pp. 85-89); J. ANNAS, Epicurean Emotions (sul De ira di Filodemo), "Greek, Roman and Byzantine Studies", 1989, pp. 145-164; -De libertate dicendi: A. OuviERI, Philodemi "De libertate dicendi" libellus, Leipzig 1914; -De morte: PHerc. 807, in "Vol. Herc. coli. seconda", Milano 1875; De morte: PH., "Vol. Herc. coli. tertia", Milano 1914; De morte IV, a cura di T. KurPER, Philodemus Over den Dood, Amsterdam 1925 (cfr. anche in M. GIGANTE, Ricerche filodemee, Napoli 1983); -De musica, a cura di I. KEMKE, Leipzig 1884; di A. VAN KREVELEN, Hilversum 1939; di G.M. RrsPOLI, Il I libro,)n Ricerche sui papiri ercolanesi a cura di F. SBORDONE, Napoli 1969; Uber die Musik IV Buch, testo, trad. e commento a cura di A.J. NEUBECKER, ("La Scuola di Epicuro", dir. M. GIGANTE), Napoli 1986; D. DELATTRE,
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ZANI, Il problema del testo e della composizione del "De rerum natura" di Lucrezio, Roma 1959; L. GoMPF, Die Frage der Entstehung von Lukrezens Lehrgedicht, Koln 1960. Indichiamo, infine, l'Index Lucretianus, a cura diJ. PAULSON, 19262 . Per la vasta letteratura su Lucrezio rimandiamo a C.A. GoRDON, A bibliography of Lucretius (Soho Bibl. 12), London 1962, e alla bibliografia su Lucrezio (opere d'insieme, articoli e parti di libri, biografia, edizione di Cicerone, Lucrezio e l'epicureismo, Lucrezio ed Empedocle, poetica, struttura del poema e sua composizione, i preludi, i singoli canti, stile, immagini e sensibilità, lingua, grammatica, metrica, fortuna postuma di Lucrezio) pubblicata da P. BoYANCÉ in appendice a Lucrèce et l'épicurisme, Paris 1963; cfr. anche: A. DALZELL, A bibliography of works on Lucretius, 1945-1972, ristampato in The classica! world bibliography of philosophy, religion and rhetoric, a cura di W. DoNLAN, New York 1978, pp. 139-226; R. RoMAN ALCALA, Boletin bibliografico sobre el "De rerum natura" de Lucrecio (1936-1982), "Dokos. Anuario de Historia de la Filosofia", 1983, pp. 153-180. Indichiamo qui le opere su Lucrezio che hanno avuto maggior significato: C. MARTHA, Le poème de Lucrèce, Paris 1867; F. BocKEMULLER, Studien zu Lukrez und Epikur, Stade 1877; J. MAssoN, Lucretius, Epicurean and Poet, 2 voli., London 1907-1909; M. UNTERSTEINER, Il sistema di Lucrezio. Passi scelti e tradotti dai libri I-IV. Precede un'introduzione storica e teorica della dottrina, Torino 1925; J. MEWALDT, Lukrez, in R.E. PAULY-WrssowA, XIII, 1927; V.E. ALFIERI, Lucrezio, Roma 1929; O. REGENBOGEN, Lukrez, sein Gesta/t in seinem Gedicht, in Neue Wege zur Antike, II, I, Leipzig 1932; G.D. HAnzsrTs, Lucretius and his influence, New York 1935; O. TESCARI, Lucretiana, Torino 1935; A.P. SrNKER, Introduction to Lucretius, Cambridge 1937; O. TESCARI, Lucrezio, Roma 1939; C. BAILEY, The mind of Lucretius, "The American Journal of Philology", 1940; M. RozELAAR, Lukrez. Versuch einer Deutung, Amsterdam 1943; E. BrGNONE, Storia della letteratura latina, II, cc. VI-VIII, Firenze 1945;J.B. LoGRE, L'anxiété de Lucrèce, Paris 1946; A. ERNOUT, Lucrèce, Bruxelles 1947; B. FARRINGTON, Science and politics in the Ancient World, London 1947 (trad. it., Scienza e politica nel mondo antico, Milano 1960); A. TRAGLIA, De Jucretiano sermone ad philosophiam pertinente, Roma 194 7; J. BAYET, Etudes lucrétiennes, Paris 1948; P.M. DE LACY, Lucretius and the History of Epicureanism, "Transactions of the American Philological Association", 1948; L. PERRERO, Poetica nuova in Lucrezio, Firenze 1949; J. BAYET, Lucrèce devant la pensée grecque, "Museum Helveticum", 1954; J. }ACQUES, Lucrèce et l'histoire de l'atomisme chimique, "La Pensée", n.s., 62, 1955; F. KuNGNER, Lukrez, in Romische Geisteswelt, Miinchen 1956; G. MuLLER, Die Darstellung der Kinetik bei
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quinto libro di Lucrezio, "Quaderni di Storia", 1989, pp. 119-131; D. SEDLEY, The Proems of Empedocles and Lucretius, "Greek, Roman and Byzantine Studies", 1989, pp. 269-296; C. SEGAL, Poetic immortality and the fear of death: the second proem of the "De Rerum Natura", "Harvard Studies", 1989, pp. 193-212; N. GuLLEY, Lucretius on free will, "Symbolae Osloenses", 1990, pp. 37-52; Lucrezio. L'atomo e la parola (Colloquio lucreziano, Bologna 26.11.1989), Bologna 1990 (scritti di: A. TRAINA, F. ADORNO, E. VINEIS, A. GRILU, E. RAIMONDI, I. DIONIGI); J. SALEM, La mort n'est rien pour nous. Lucrèce et l'éthique, Paris 1990. Sui rapporti tra Lucrezio e Cicerone cfr. sopra (voce Cicerone). Su Virgilio si veda: E. NoRDEN, P. Vergilius Mara. Aeneis Buch VI, Leipzig 1916 3 ; H. LEHR, Religion und Kult in Vergils Aeneis, Grissen 1934; C. BAILEY, Religion in Vergil, Oxford 1935; P.A. BERTRAND, Le stoi'cisme et l'épicurisme dans l'Enéide, Paris 1936; K. BucHNER, s. v. in R.E. PAULY-WissowA, 1955; W. KuHN, Gotterszenen bei Vergil, Freiburg i.Br. 1959; L. ALFONSI, La Grecia in Virgilio, Atinai 1962; P. BoYANCÉ, La religion de Virgile, Paris 1963; B. Ons, Virgil. A Study in civilized Poetry, Oxford 1963; R. LAMACCHIA, Ciceros Somnium Scipionis und das sechste Buch der Aeneis, "Rheinisches Museum", 1964; G. BINDER, Aeneas und Augustus, Me'isenheim 1971; Cicero and Virgil, Studi in onore di H. H un t, a cura di J.R.C. MARTYN, Amsterdam 1972; W.C. WATERHOUSE, Extreme and mean ratio in Vergil?, "Phoenix", 1972, pp. 369-376; G. LIEBERG, L'harmonie des sphères chez Virgile?, "Bulletin de l'Association G. Budé", 1978, pp. 343-358; A. NovARA,
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Su Orazio, oltre O.E. NYHAKKEN, An analytical Study of Horace's Ideas, si veda anche, per la ricostruzione di tutto l'ambiente, l'ampio studio di A. LA PENNA, Orazio e l'ideologia del Principato, Torino 1963. Cfr. inoltre: L. WrNNICZUCK, Horation "humanitas", 1971, pp. 49-58; F. CAIRNS, The philosophical content of Horace, Odes I, 29, "Liverpool Class. Monthly", 1976, pp. 71-77; C. W. MACLEOD, Ethics and poetry in Horace's "Odes", "Greece Rome", 1979, pp. 21-31; M. ERLER, Horaz iiber den Wandel der ]ahreszeiten. Epikureische und stoische Motive in carm. I 4 und IV 7, "Rheinisches Museum fiir Philologie", 1980, pp. 333-336; A. LA PENNA, L'intellettuale emarginato da Orazio a Petronio, in Il comportamento dell'intellettuale nella società antica, Genova 1980 pp. 67-91; V. CREMONA, La poesia civile di Orazio, Milano 1982; C. DoMINICI, Epicureismo e stoicismo nella Roma antica. Lucrezio, Virgilio, Orazio, Seneca, Abano Terme 1985; R. Mi.i"LLER, Prinzipatsideologie und Philosophie bei Horaz, "Klio", 1985, pp. 158-16 7; S.J. HARRISON, Philosophicaltmagery in Horace, "Odes" 3.5, "Classical Quarterly", 1986, pp. 502-507; R. MAYER, Horace's "Epistles" I and philosophy, "The AmericanJournal of Philology", 1986, pp. 55-73; D. Bo, Orazio, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, II, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987 [con ampia bibliografia]. 13. Cultura all'avvento di Augusto Sulla concezione dell'Impero e sul fondamento del potere dell'Imperatore, rimandiamo agli studi storici particolari (una buona bibliografia sull'argomento si veda a cura di L. FrRPO in appendice alla trad. it. di Th.A. SrNCLAIR, Il pensiero politico classico, Bari 1961, e in appendice alla trad. it. di R.W.-A.J. CARLYLE, Il pensiero politico medievale, Bari 1956, al quale rimandiamo anche per la bibliografia relativa all'Impero, alla decadenza e rovina dell'Impero d'Occidente, alla storia economica, al diritto e cosl via). Cfr. anche Bibliografia ai capitoli V (L'età della rivoluzione) e VI (La soluzione imperiale) in G. CLEMENTE, Guida alla storia romana, Milano 1977, pp. 416-421. Le Res Gestae divi Augusti, o Monumentum Ancyranum, si vedano a cura di C. BARINI, con ampia bibliografia, Roma 1937 (con commento e traduzione italiana a cura di E. MALCOVATI, Roma 1936). Quanto al principato augusteo ricodiamo qui: W. FERGUSON, Legalized absolutism en route from Greece to Rome, "American Historical Review"; G. BETTI, Il carattere giuridico del principato di Augusto, Città di Castello 1915; A.J. DoMASZEWISKI, Die philosophische Grundlagen des augusteischen Principats, in Festgabe E. Gothein, Miinchen 1923; M. GELZER, Ciisar und Augustus, Stuttgart 1923 (del Gelzer si veda an-
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che Die Anfange des romischen Weltreiches, in Festgabe Haller, Stuttgart 1940); R. HEINZE, Die augustische Kultur, Leipzig 1933; F. MARTINO, Lo Stato di Augusto, Napoli 1936; W. WEBER, Princeps, Stuttgart 1936; Augustus. Studi in occasione del bimillenario di Augusto, Roma 1938 (scritti di: V. ARANGIO Rurz, P. DE FRANCrscr, C. CARDINALI, A. FERRABINO, N. FESTA, A. MoMIGLIANO, ecc.); P. DE FRANcrscr, Genesi e struttura del principato augusteo, Roma 1940; G. PuGLIESE-CARRATELLI, Auctoritas Augusti, "La Parola del Passato", 1949; G.E. CHILVER, Augustus and the Roman principale, "Historia", 1950; A.J. JoNES, The "Imperium" of Augustus, "Journal of Roman Studies", 1951; J. BÉRANGER, Recherches sur l'aspect idéologique du Principat, Baie 1953; E. BoLAFFI, La dottrina del buon governo presso i Romani e le origini del principato in Roma fino ad Augusto compreso, "Latomus", 1955; P. PREZZA, Per una qualificazione istituzionale del potere di Augusto, "Atti e Memorie dell'Accademia toscana di Scienze e Lettere 'la Colombaria'", XXI, 1956, Firenze 1957; F. TAEGER, Charisma. Studien zur Geschichte der antiken Herrscherkults, 2 voli., Stuttgart 1957 -1960; J. DEININGER, Die Provinziallandtage der romischen Kaiserzeit von Augustus, Miinchen 1965; L. PoLVERINI, L'aspetto sociale del passaggio dalla Repubblica al Principato, "Aevum", 1965; F. CuPAIUOLO, Tra poesia e poetica. Su alcuni aspetti culturali della poesia latina nell'età augustea, Napoli 1966 (rist. 1980) (ampia bibliografia); Romisches Geschichtsdenkens in Spiit-republikanischer und Augusteinischer Zeit, a cura di K.W. WELWEI, Miinchen 1967 (anche Augustei poeti, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987); R. KLEIN, Principat und Freiheit, Darmstadt 1969; T. AnAM, Clementia Principis. Der Ein-
fluss hellenistischen Fiirstenspiegel auf den Versuch einer rechtlichen Fundierung des Prinzipats durch Seneca, Stuttgart 1970; A. ALFOLDI, Die monarchische Repriisentation in romischen Kaiserreiche, Darmstadt 1970; A.H.M. ]ONES, Augustus, London 1970 (trad. it., Bari-Roma 1974); J. BÉRANGER, Principatus, Genève 1973; A. ALFOLDI, Oktavians Aufstieg zur Macht, Bonn 1976; C. PARAIN, Augusto. La nascita di un potere personale (Paris 1978), trad. it., Roma 1979; L. }ERPHAGNON, La philosophie et son image dans l'empire d'Auguste à la tétrarchie, "Bulletin de l'Association G. Budé", 1981, pp. 167-182; S. FoLLET, Le devoir et le plaisir chez quelques philosophes et sophistes de l'époque impériale, "Actes du VII< Congrès des Fédérations internationales des études classiques", II, Budapest 1984; B. MAIER, Philosophie und romisches Kaisertum, Wien 1985; S. ToNDO, Crisi della Repubblica e formazione del Principato in Roma, Milano 1988; R. SYME, The Augustanian Aristocracy, Oxford 1989. Cfr. anche Storia di Roma, IV, Caratteri e morfologie, a cura di AA.VV., dir. A. ScHIAVONE, Torino 1989. I frammenti rimasti di Andronico di Rodi si vedano in F. LITTIG,
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Andr. von R., Miinchen-Erlangen 1890-1895 (su Andronico cfr.: A. GERCKE, in R.E. PAULY-WissowA, I; G. PFLIGERSDORFER, And. von R. und die Postpriidikamente bei Boethius, "Vigiliae Christianea", 1953). Per il pochissimo che è rimasto di Boeto di Sidone peripatetico, discepolo di Andronico, cfr. AMMONIO, In Cat., 5, e STRABONE, XIV, 670 e XVI, 757. Cfr. anche Pseudo-Andronicus de Rhodes, "llepì 1ta~&v", ed. critica del testo greco e trad. lat. medievale di GILBERTTHIRRY, Leiden 1977. Per l'aristotelismo tra il I secolo a.C. e il III secolo d.C. cfr.: P. MoRAUX, Der Aristotelismus bei den Griechen, l, Berlin 1973, II, Berlin-New York 1984; P.L. DoNINI, L'aristotelismo nel primo secolo. La ricostruzione di P. Moraux, "Rivista di Filologia e d'Istruzione Classica", 1977, pp. 237-251; P.L. DoNINI, Le scuole, l'anima, l'impero. La filosofia antica da Antioco a Platino, Torino 1982; P.L. DoNINI, Peripatetici, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, II, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987; H.B. GorrscHALK, Aristotelian philosophy in the Ro-
man world from the time of Cicero to the end of the second century A.D., in Aufstieg und Niedergang der romischen Welt (ANR W), II, 36.2, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1987, pp. 1079-1174; AA.VV., Aristotle Transformed. The Ancient Commentators and their Influence, a cura di R. SoRABJI, London 1990. Sul platonico Eudoro, autore di una Introduzione alla filosofia (cfr. STOBEO, Ecl., II, 42, 7), di un Commento al Timeo (cfr. PLUTARCO, De animae procreat., 1013b, 1019e) e di un Commento alle Categorie (SIMPLICIO), cfr.: H. DIELS, Doxographi Graeci, pp. 81 sgg. (si veda A. MARTINI, in R.E. PAULY-WissowA, VI, 1907); C. MAZZARELLI, Rac-
colta e interpretazione delle testimonianze e dei frammenti del medioplatonico Eudoro di Alessandria, parte prima, testo e trad. delle testimonianze e dei frammenti sicuri, "Rivista di Filosofia neoscolastica", 1985, pp. 197-209; parte seconda, pp. 535-555. - Su Eudoro, oltre le opere citate sul medio e il neoplatonismo, cfr.: J.M. DILLON, Eudorus of Alexandria, in The Middle Platonism. A Study of Platonism 80 B.C. to A.D. 220, London 1977, pp. 115-134; J.M. DILLON, Eudoros und die Anfiinge des Mittelplatonismus, in Der Mittelplatonismus, a cura di C. ZINTZEN, Darmstadt 1981; L.M. NAPOLITANO, Il platonismo di Eudoro: tradizione protoaccademica e medioplatonismo alessandrino, "Museum Patavinum", 1985, pp. 27-49, 289-313; S. GERSH, Middle Platonism and Neoplatonism. The Latin Tradition, 2 voli., Notre-Dame 1986. Si vedano in Miiller, Fragm. Hist. Graec., III, pp. 501 sgg., i frammenti di Trasillo, cui si deve il raggruppamento in nove tetralogie delle
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opere di Platone (1. Eutifrone, Apologia, Critone, Pedone; 2. Crati/o, Teeteto, Sofista, Politico; 3. Parmenide, Filebo, Convito, Crati/o; 4. Alci-
biade I, Alcibiade II, Ipparco, Amanti; 5. Teagete, Carmide, Lachete, Liside; 6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Meno ne; 7. Ippia maggiore, Ippia minore, Jone, Menesseno; 8. Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia; 9. Minosse, Leggi, Epinomide, Epistole). Su Trasillo cfr.: K.F. HERMANN, De Thrasillo grammatico et mathematico, Gottingen 1852; H. UsENER, Unser Platontext, "Gotting. Nachr.", 1892; S. PAWLICKY, De Thr. operum Plat. editore, "Analecta graeco-latina", Krakw 1893; C. CICHORNIS, Rom. Studien, Leipzig 1922. Sul significato della letteratura e sull'uso delle dossografie (per la raccolta dei dossografi, indichiamo H. DIELS, Doxographi Graeci, Berlin 1879), cfr. A.]. FESTUGIÈRE, La révélation d'Hermès Trimegiste, II. Le Dieu cosmique, Paris 1949; cfr. anche M. GIUSTA, I dossografi di etica, Padova 1961. I frammenti di Ario Didimo si vedano in H. Diels, Doxographi Graeci, pp. 455 sgg. (su Ario Didimo cfr.: E. HowALD, Das Compendium des Areios Didymos, "Hermes", 1920; H. voN ARNIM, Arius Didymus. Abriss der peripatetischen Ethik, "Sitz. ber. Wien", 1926; vedi inoltre H. VON ARNIM, in R.E. PAULY-WISSOWA). Anche P. MoRAUX, Aristotelismus, cit., 1973. La KUKÀ.tKlÌ t?&ropia IJ.E'tEéòprov (Teoria circolare dei corpi celesti) di Cleomede si veda nell'ed. a cura di H. ZIEGLER (con trad.lat.: la prima edizione latina pubblicata a Venezia nel 1488), Leipzig 1891. Su Cleomene si veda: H. ZIEGLER, De vita et scriptis Cleomedis, Meissen 1878; M. ARNOLD, Quaestiones Posidonianae, Leipzig 1903; A. BoERICKE, Quaestiones Cleomedae, Praha 1915; cfr. anche: P. REHM, in R.E. PAULY-WissowA; C. SANTINI, Astronomici, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, cit., 1987. La Eìaayro'Yit eìç -r6: q>atVOIJ.EVa (Introduzione ai fenomeni) di Gemino di Rodi (una compilazione medievale di estratti di Gemino era andata sotto il nome di Proclo, La sfera di Proclo: si veda nell'ed. degli Astronomi veteres pubblicata a Venezia da Aldo Manuzio nel 1499), è stata scientificamente edita, con ampi comwenti, da K. MANITIUS, Leipzig 1898. Su Gemino cfr.: H. BRANDES, Uberdas Zeitalterdes Geographen Eudoxus und des Astronomen Geminus, "Jahresbericht des Vereins von Freunden der Erdkunde", Leipzig 1866; F. BLASS, De Gemino et Posidonio, Kiel1883; P. TANNERY, Proclus et Geminus, "Bulletin des sciences mathématiques", XX, Paris 1885; M. STEINSCH~EIDER,
Geminus in arabischer, hebriiischer und zweifacher lateinischer Ubersetzung, "Bibliotheca Mathematica", Paris 1887 e 1890; K. MANITIUS, De Geminos Isagoge, Leipzig 1890; P. TANNERY, Le philosophe Aganis est il identique à Geminus?, "Bibliotheca Mathematica", II, Leipzig 1902; K. MANITIUS, in R.E. PAULY-WissowA, XIII, 1910. Cfr. inoltre:
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G. AUJAC, Une source de la pensée scientifique de Proclus: Géminos de Rhodes, "Diotima", 1976, pp. 47-52; C. SANTINI, Astronomici, cit.,
1987. La migliore edizione del De mundo (Ilepì KOOJ.l.OU) dello pseudoAristotele è quella a cura di W.L. LORIMER, Paris 1933 (sul testo cfr. W.L. LoRIMER, The text tradition of Ps. Aristotle De Mundo, St. Andrews University Publications 1924 e 1925). Sul De Mundo, oltre: W. CAPELLE, Die Schrift von der Welt, "Neue Jahrb.", 1905; E. ZELLER, Phil. d. Griech., III, l; G. RunBERG, Forschungen zu Poseidonios, Uppsala 1918; si veda particolarmente: A.J. FESTUGIÈRE, La révélation d'Hermès Trismegiste, II. Le Dieu cosmique, Paris 1949; Introduzione alla lettura del Trattato sul Cosmo di G. REALE, che ritiene che l'opera sia di Aristotele, Aristotele. Trattato sul cosmo per Alessandro, trad. con testo greco a fronte, a cura di G. REALE, Napoli 1974. I frammenti dei Commentari storici (in 47 libri, prosecuzione della Storia di Polibio) di Strabone si vedano in F. }ACOBI, Die Fragm. der griech. Historiker, IlA e IIC, Berlin 1926. La Geografia, in 17 libri (la prima trad. lat. fu curata da Guarino di Verona, Roma 1470; la prima edizione del testo greco è l'aldina, Venezia 1516: si veda nelle edizioni di G. KRAMER, Berlin 1884-1852, e di A. MEINEKE, 1852-1853, più volte riedita. Si veda anche l'ed. di H.L. }ONEs-J.R. STERRETT, testo greco e trad. inglese, London 1917 sgg. (Loeb Classica! Library), e le traduzioni francesi di LAPORTE nu THEIL-A. CoRAY-}.A. LETRONNE, con note di P.F. GossELIN, Paris 1805-1819, e tedesca di C.G. GRoSKURD, Berlin 1831-1834, utili per le note e i commenti. Si veda anche G. CozzA-LuZI, Della geografia di Strabone, frammenti scoperti in membrane palinseste, Roma 1884-1898. Un'ampia bibliografia su Strabone si veda nella Introduzione all'edizione della Geografia di H.L. }ONES (cit., 1917) e in G. SARTON, Introduction to the History of Science, I, Baltimore 1927, 1953 4 • Cfr. inoltre: F. SBORDONE, Strabonisgeografica, Roma 1963 sgg.; F. LASSERIE-G. AUJAC-R. BALADIÉ, Strabon, Géographie. Texte établi et traduit, Paris 1966 sgg. Si veda inoltre: E. PAIS, Straboniana, "Rivista di filologia", 1886; H.F. TozER, A history of Ancient Geography, Cambridge 1935; J. O. THOMPSON, History of Ancient Geography, Cambridge 1948; J. BEAUJEU, Astronomie et géographie mathématique, in Histoire générale des sciences, ·I. La science Antique et Médiévale, Paris 1957; CH.S. FLORATOS, Strabon iiber Literatur und Poseidonios, Atfnai 1972. Sulla scuola dei Sestii in Roma, di cui, oltre il fondatore Quinto Sestio, fecero parte Sozione, Cornelio Celso, Lucio Crassinico, Fabiano Papirio, e nella quale ebbe la sua prima formazione Seneca - da cui si traggono le notizie sulla Scuola - cfr.: ZELLER, III, l; UEBERWEG-
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PRAECHTER, Grundriss, I; P. RABBOW, Ant. Schrift iiber Seelenheilung und Seelenheitung, I, Leipzig-Berlin 1914 (cfr. bibliografia su Seneca). Cfr. inoltre: M. PoHLENZ, La Stoà, II, trad. it., Firenze 1967-1978; E. CxzEK, L'époque de Néron et ses controverses idéologiques, Leiden 1972. Sui Sestii, in particolare, cfr.: K. DEICHGRABER, Sextius Niger, in R.E. PAULY-WissowA, suppl. V, 1931; I. LANA, Sextiorum nova et Romani; roboris secta, "Rivista di Filologia e d'Istruzione classica", 1953, pp. 1-26, 209-234 (ora in Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973); G. MAZZOLI, Moralisti, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, cit., II, 1987.
Dell'Enciclopedia di Aulo Cornelio Celso, composta di un trattato Sull'agricoltura, di uno Sull'arte militare, di uno Sulla retorica, di uno Sul diritto, di uno Sulla filosofia e di uno, in otto libri, Sulla medicina, non resta che il trattato De re medica. Si veda nelle edizioni a cura di CH. DAREMBERG, Leipzig 1859, e a cura di FR. MARX, Opera quae supersunt, "Corpus medicorum latinorum", I, Leipzig 1915. Utile, particolarmente per le annotazioni e gli indici, la trad. francese di A. VÉDRÈNES, con prefazione di P. BRacA, Paris 1876. Si veda la trad. it. di A. DEL LuNGo, Firenze 1904. Oltre le più note Storie della medicina si veda la bibliografia del SARTON, cit., e il capitolo sulla medicina nell'età ellenistico-romana del BEAUJEU, in Hist. génér. des Sciences, cit., I. Si veda inoltre: J. ILBERG, Celsus und Medizin in Rom, "Neue Jahrb. f. d. Klass. Alt.", XIX, 1907; M. WELLMANN, Celsus, "Philol. Untersuchungen", Berlin 1913, e Die Aufidius-Hypothese des neusten Celsus Herausgebers, "Mitt. zur Gesch. d. Med. u. Naturw.", XVI, 1917. Cfr. infine: I. MAZZIN!, Medici, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, cit., II, 1987, pp. 1323-1324; PH. NunRY, Le Scepticisme des médecins empiriques dans le traité de la médicine de Celse [... ], Lausanne 1990. Per i testi del medico Asclepiade di Prusa, in Bitinia, cfr.: G. GuMPERT, Asclepiadis Bithyni fragmenta, Vinaria 1794; Gesundheitvorschriften des Asklepiades (Ùyi.Etvà 1tapayyÉÀ.IlO'ta), a cura di R. RITTER VON WELZ, Wiirzburg 1841 (cfr. bibliografia in SARTON, cit.; vedi anche BEAUJEU, cit.); I. MAZZIN!, cit.; E. RAWSON, The !ife and death of Asclepiades of Bithynia, "Classica! Quarterly", 1982, pp. 358-370 (anche M. VEGETTI-P. MANULI, in Storia di Roma, cit., IV, Torino 1989). Il De Architectura di Vitruvio si veda nelle edizioni di: F. KROHN, Leipzig 1912; H. GRANGER, London 1931. Cfr. anche l'edizione a cura di A. CHOISY, con trad. francese, commento, illustrazioni, Paris 1909 [importanti le analisi sulle idee di Vitruvio espresse da Choisy nel I vol. dell'opera citata], e le edizioni, con traduzioni, a cura di: G. FwRIAN, Pisa 1978; L. CABELLAT-P. FLEURY, Paris 1986; L. NIGOTTO, Pordenone 1990. Su Vitruvio cfr. inoltre: L. SoNTHEIMER, Vitruvius und sein Zeit, Tiibingen 1908; F. PELLATI, Vitruvio, Roma 1938; S. FERRI, Vitruvio, Roma 1960. Si veda anche in Storia e civiltà dei Greci.
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La Cultura Ellenistica, voll. 9 e 10, dir. R. BIANCHI BANDINELLI, Milano 1977; F. FRANCO REPELLINI, Tecnologia e macchine, in Storia di Roma, IV, cit., 1989; A. LA PENNA, La legittimazione del lusso privato da Ennio a Vitruvio. Momenti. Problemi. Personaggi, "Maia", 1989, pp. 3-34.
II
Cultura e concezioni dalla fine del I secolo a. C. al II secolo d. C. l. Filone l'Ebreo Sulla concezione ebraica nel suo complesso, e sulla formazione della filosofia ebraica cfr. sopra Bibliografia (l, §8). Per le opere complete di Filone l'Ebreo, accanto alla vecchia edizione di TH. MANGEY, in due volumi, con trad. latina, London 1742, citiamo la moderna edizione critica a cura di L. CoHN-P. WENDLAND-S. REITER, in sei volumi, Berlin 1896-1915 (Philonis opera quae supersunt), cui va aggiunto il prezioso Indice, in due parti, a cura di J. LEISEGANG, Berlin 1926-1930, costituente il VII volume delle Opere di Filone (edizione fotomeccanica, Berlin 1962; cfr. G. MAYER, Index philoneus, Berlin-New York 1974). Di tale edizione è stata pubblicata un'editio minor, in 6 volumi, Berlin 1896-1915 (senza apparato critico). Ricordiamo qui anche l'edizione a cura di C.E. RicHTER, in otto volumi, Leipzig 1828-1830, perché comprende, a differenza dell'edizione Cohn-Wendland-Reiter, la traduzione latina delle opere di Filone giunte solo in traduzione armena, tra cui, importanti, le Quaestiones in Genesim (per l'edizione della traduzione latina delle opere filoniane giunte in armeno, confronta l'edizione AucHER, Venezia 1822 e 1826). Ottime sono la traduzione inglese di tutte le opere di Filone a cura di F.H. CoLSON-G.H. WHITAKER, in nove volumi, Cambridge 1929-1941, la traduzione tedesca a cura di L. CoHN-l. HEINEMANN, Breslau 1909-1929 (ora ed. fotomeccanica), e la traduzione francese con testo greco a fronte, in corso (Les oeuvres de Ph~lon d'Alexandrie, publiées sous le patronage de l'Université de Lyon, Editions du Cerf, Paris 1961 sgg.), a cura di AA.VV. (R. ARNALDEZ-C. MoNDÉSERT-A. MosÈs-J. PoiLLOux-J. GoREZ-P. LAVINEL-A. BECKAERT), che, completa, sarà costituita di trentacinque volumi. La Legatio ad Gaium si veda nell'edizione, con introduzione, traduzione e commento, a cura di E.M. SMALLWOOD, Leiden 1961. In traduzione italiana si veda: La creazione del mondo (a cura di G. CALVETTI); Le allegorie delle leggi (a cura di R. BIGATTI), vol. a cura di G. REALE, Milano 1978; De opificio mundi, De Abrahamo, De Josepho,
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analisi critiche, testi tradotti e commentati, a cura di C. KRAus REGGIANI, Roma 1979; L'erede delle cose divine, pref., trad., note di R. RADICE, intr. di G. REALE, Milano 1981; Le origini del male, trad. di C. MAZZARELLO, intr., pref., note, apparati di R. RADICE, Milano 1984; L'uomo e Dio, intr., trad., pref., note, apparati a cura di C. KRAus REGGIANI, pres. G. REALE, Milano 1986; La filosofia mosaica, la creazione del mondo secondo Mosè, trad. di C. KRAUS REGGIANI, Le allegorie delle leggi, trad. di R. RADICE, monografia introd. di G. REALE-R. RADICE, Milano 1987; La migrazione verso l'eterno. L 'agricoltura. La pian-
tagione di Noè. L'ebrietà. La sobrietà. La confusione delle lingue. La migrazione di Abramo, a cura di R. RADICE, Milano 1988. Molto si è discusso sulla formazione, sulla concezione, sul giudaismo o l'ellenismo, sull'influenza di Filone. Per la vastissima bibliografia filoniana si confronti: H.L. GoonHART- E.R. GoonENOUGH, in E.R. GooDENOUGH, The Politics of Philo ]udaeus, New Haven 1938; una buona discussione critica delle varie interpretazioni è quella di R. ARNALDEZ nell'Introduzione generale a Les oeuvres de Philon d'Alexandrie, vol. I, Paris 1961. Cfr. inoltre: E. HILGERT, A bibliography of Philo Studies 1963-1970, "Studia Philonica", pp. 57-71 (1972); 1971, pp. 51-54 (1973); 1972-1973, pp. 117-125 (1974-1975); 1974-1975, pp. 79-85 (1976-1977); 1976-1977, pp. 113-120 (1978); R. RADICE, Filone di Alessandria. Bibliografia generale 1937-1982, "Elenchos", 8, Napoli 1983; E. HILGERT, Bibliographia Philoniana 1935-1981, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 21.1, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, BerlinNew York 1984, pp. 47-97; R. RADICE-D. T. RuNIA, Philo of Alexandria. An annotated bibliography, 1937-1986, in collaborazione con R.A. BITTER- N.G. CoHEN- M. MAcH- A.P. RuNIA- D. SATRAN- D.R. ScHWARTZ, Leiden 1988. Si veda anche la rivista dedicata a studi su Filone, edita a Chicago: "Studia Philonica", 1972 sgg. Alle prime opere d'insieme sul pensiero di Filone, quelle di: E.H. STAHL, Versuch eines systematischen Entwurfs des Lehrbegriffs Philons von Alexandrien, Leipzig 1783; A.F. DAEHNE, Geschichtliche Darstellung der jiidisch-alexandrinischen Religions-Philosophie, I, 1834; A. GFRORER, Kritische Geschichte des Urchristentums. I. Philon und die alexandrinische Theosophie, Stuttgart 1831; segue il capitolo su Filone di H. RrTTER nella sua Geschichte der Philosophie, IV, 1834, in cui Ritter presenta il pensiero di Filone, da un lato come fortemente influenzato dal pensiero orientale, dall'altro da quello ellenistico. Se sulla linea dell'idealismo tedesco di Schleiermacher e di Hegel si muovono le interpretazioni di M. WoLFF, Die philonische Philosophie in ihren Hauptmomenten dargestellt, Gothenburg 1858, e di E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen, III, 2, 1903, pp. 385-467, l'interpretazione del Ritter fu
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proseguita da: J. DRUMMOND, Philo Judaeus, or the Jewish-Alexandrian Philosophy in its development and complexion, London 1888 (Amsterdam 1969 2 ); E. HERRIOT, Philon le Juif. Essai sur l'école juive d'Alexandrie, Paris 1898; J. MARTIN, Philon, Paris 1907; E. BRÉHIER, Les idées philosophiques et religieuses de Philon d'Alexandrie, Paris 1907, 19242 , 19503 , una delle maggiori opere su Filone. Dopo l'opera del BRÉHIER, le più importanti opere d'insieme su Filone sono: N. BENTWICH, Philo ]udaeus of Alex., Philadelphia 1910; M. AnLER, Studien zu Philon von Alex., Breslau 1929; W. KNUT, Der Begriff der Siinde bei Philon von Alex., Wiirzburg 1934; M. PEISKER,
Der Glaubensbegriff bei Philon, hauptsiichlich dargestellt an Moses und Abraham, Breslau 1935; H. NEUMARK, Die Verwendung griechischer und jiidischer Motive in der Gedanken Philons iiber die Stellung Gottes zu seinen Freuden, Wiirzburg 1937; W. VoLKER, Fortschrift und Vollendung bei Philon von Alex., eine Studie zur Geschichte der Frommigkeit, Leipzig 1938; E.R. GoonENOUGH, An Introduction to Philo ]udaeus, New Haven 1940, 1962 2 ; H. LEISEGANG, Philon, in R.E., PAULY-Wissow A, XX, 1941; H .A. W OLFSON, Philo. Foundations of religious philosophy in ]udaism, Christianity and Islam, Cambridge (Mass.) 1948 [opera di notevole importanza]; S. SANDMEL, Philo's Piace in Judaism, a Study of conceptions of Abraham in ]ewish Literature, Cincinnati 1956; J. DANIÉ!-OU, Philon d'Alexandrie, Paris 15>58. Si veda anche: P. BoYANCÉ, Etudes philoniennes, "Revue des Etudes grecques", 1963; S. SANDMEL, Philo Judaeus. An Introduction to the man, his writings, and his significance, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 21.1, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1984, pp. 1-46. Hanno sostenuto la tesi che Filone sia stato essenzialmente uno stoico, sia pure in un'interpretazione della tradizione ebraica, il cui spirito in Filone sarebbe tuttavia perduto, in parte: il BRÉHIER, cit.; E. TuROWSKI, Die Widerspiegelung des stoischen Systems bei Philon von Alexandreia, Leipzig 1927; H. LEWI, Sobria ebrietas, Giessen 1929; I. HEINEMANN, Philons griechische und jiidische Bildung, Breslau 1932 (ed. fotomeccanica G. Olms, 1962); in forma netta e decisa H. LEISEGANG, in R.E. PAULY-WissowA, 1941. Ha sostenuto, invece, la tesi di una forte prevalenza del pensiero platonico in Filone TH.H. BILUNGS, The Platonism of Philo Judaeus, Chicago 1919. La tesi di Filone eclettico è stata sostenuta da: RITTER, cit.; ZELLER, cit.; M. HEINZE, Die Lehre von Logos in der griechischen Philosophie, Oldenburg 1872; BRÉHIER, cit.; H. STRACHE, Der Eklektizismus des Antiochos von Askalon, Berlin 1921; W. THEILER, Die Vorbereitung des Neuplatonismus, Berlin 1930; A.J. FESTUGIÈRE, La révélation d'Hermès Trismégiste, II e IV, Paris 1949 e 1954. La tesi di Filone fondatore della filosofia scolastica è stata sostenu-
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ta con grande autorità da H.A. WoLFSON, Philo, Cambridge (Mass.) 1948 (di contro a Wolfson vedi ora I. HEINEMANN, Philon als Vater der mittelalterlichen Philosophie?, "Theologische Zeitschr.", 1950; E.R. GooDENOUGH, Wolfson's Philo, "Journal of Bibl. Lit.", 1948; H. CHADWICK, in "Classica! Review", 1949; J. DANIÉLOU, in "Revue de l'histoire des religions", 1950; segue invece Wolfson, R. MARCUS, Wolfson's revaluation of Philo, "The Review of Religio)?.", 1949). Sulle fonti ebraiche di Filone cfr.: Z. FRANKEL, Uber den Einfluss der paliistinensischen Exegese auf die alexandrinische Hermeneutik, Leipzig 1851; J. FREUDENTHAL, Hellenistische Studien, Breslau 1875; C. SIEGFRIED, Philon von Alexandria als Ausleger des alten Testaments, Jena 1875. Lo studio unilaterale delle fonti ebraiche è stato messo in discussione da E. STEIN, Philon und der Midrasch, Giessen 1931. Sull'aspetto mistico e sul metodo allegorico di Filone cfr.: P. WINDISCH, Die Frommigkeit Philons, Mi.inster 1909; H. LEWI, Sobria Ebrietas. Untersuchungen zur Geschichte der antiken Mystik, Giessen 1920; E. STEIN, Die allegorische Exegese des Phil. aus Alex., Giessen 1929; I. HEINEMANN, Philons griechische und jiidische Bildung, Breslau 1932, 1973 3 ; E.R. GooDENOUGH, By Light, Light. The mystic gospel of hellenistic Judaism, New Haven 1935; H. LEISEGANG, Philon, in R.E. PAULYWISSOWA, XX, 1941; F.N. KLEIN, Die Lichtterminologie bei Philon
von Alexandrien und in den Hermetischen Schriften. Untersuchungen zur Struktur der religiosen Sprache der hellenistischen Mystik, Leiden 1962. Cfr. anche: G. VERBEKE, L'évolution de la doctrine du pneuma du stoicisme à saint Augustin, Paris-Louvain 1945; H.A. WoLFSON, The philonic God of revelation and bis letter-day deniers, "Harvard theological Review", 1960; M: MuHL, Der Logos bei Philon und in der jiidisch-gnostischen Literatur, in M. MuHL, Der ì..Oyoç èvcSuit1E'toç und 1tpoq>optK6ç, "Archiv fiir Begriffsgeschichte", 7, 1962. Sul pensiero politico, sociale e giuridico di Filone cfr., in particolare, E.R. GooDENOUGH, The Politics of Philo Judaeus, New Haven 1938; si confronti anche: I. PANTALUPO, Die Lehre vom natiirlichen und positiven Rechte bei Philon Judaeus, Mi.inchen 1893; J. JusTER, Les Juifs dans l'Empire romain, Paris 1914; E.R. GooDENOUGH, Philo and Public Life, "Journal of Egypt. Arch.", 1926, e The Jurisprudence of the Jewish
Court in Egypt. Lega! Administration by the Jews under the early Roman Empire as described by Philo Judaeus, New Haven 1929; G. GEIGER, Philon von Alex. als sozialer Denker, Stuttgart 1932; A. TRACY, Philo Judaeus and the Roman Principate, Williamsport 1933; E. LANGSTADT, Zur Phil. Begriff der Demokratie, "Gaster Anniversary Volume", London 1936; S. BAKKER, Philo and the ora! Law, Cambridge 1942; H.A. WoLFSON, Philo, Cambridge 1948 (il cap. XII); R. BARRACLOUGH, Philo's politics. Roman rule and Hellenistic Judaism, in Aufstieg und Nieder-
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gang ... , cit., II, 21.1, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1984, pp. 417-553; C. KRAus REGGIANI, l rapporti tra l'impero romano e il mondo ebraico al tempo di Caligola secondo la "Legatio ad Gaium" di Filone Alessandrino, in Aufstieg und Nierdergang ... , cit., II, 21.1, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1984, pp. 554-586. Mentre per l'ordinamen_to dell'opera di Filone e per la sua famiglia indichiamo A. MAsSEBIEu-E. BRÉHIER, Essai sur la chronologie de la vie et des oeuvres de Philon, "Revue de l'histoire cles religions", 1906, e J. SCHWARTZ, Note sur la famille de Philon d'Alex., in "Mélange Isidore Lévy", Bruxelles 1955, per la restante letteratura sull'ambiente alessandrino in relazione alla formazione di Filone, rimandiamo all'Introduction générale di R. ARNALDEZ aLes oeuvres de Philon d'Alexandrie, I vol., De opificio mundi, Paris 1961 (sui rapporti di Filone con i terapeuti cfr. anche H.G. ScHONFELD, Zur Begriff "Therapeutai" bei Philon von Alexandrien, "Revue de Qumran", 1961). Sui rinnovati studi cfr.: A. WEISCHE, Cicero und die Neue Akade-
mie. Untersuchungen zur Entstehung und Geschichte des antiken Skeptizismus, Miinster 1961, 1975 2 , pp. 88-101; F.N. KLEIN, Die Lichtterminologie bei Philon von Alexandrien und in den hermetischen Schriften. Untersuchungen zur Struktur der religiosen Sprache der hellenistischen Mystik, Leiden 1962; S. LILLA, Middle Platonism, Neoplatonism and Jewish Alexandrine Philosophy in the terminology of Clement of Alexandria's Ethics, "Archivio italiano per la storia della pietà", 1962, pp. 3-36; L. WA.cHTER, Der Einfluss platonischen Denkens auf rabbinische SchOpfungsspekulationen, "Zeitschrift fiir Religions- und Geistesgeschichte", 1962, pp. 36-56; J.B. BuRKE, Philo and Alexandrian Judaism, tesi, Syracuse 1963; J. PÉPIN, Théologie cosmique et théologie chrétienne, Paris 1964, pp. 251-274, 527-532; P. BoYANCÉ, Sur l'exégèse hellénistique du Phèdre, in AA.VV., Miscellanea di studi Alessandrini in memoria di A. Rostagni, Torino 1963; A. }UBERT, La notion d'Alliance dans le Judaisme aux abords de l'ère chrétienne, Paris 1963; H.J. KRAMER, Der Ursprung der Geistmetaphysik. Untersuchungen zur Geschichte des Platonismus zwischen Platon und Plotin, Amsterdam 1964, 19672 , pp. 266-284; A.C. SuNDBERG, The old Testament in the Early Church, Cambridge-London 1964 (New York 1969); G. ScARPAT, Cultura ebreo-ellenistica e Seneca, "Rivista biblica", 1965, pp. 3-30; G. SEGALLA, Il problema della volontà libera in Filone Alessandrino, "Studia Patavina", 1965; S.G. SowERS, The Hermeneutics of Philo and Hebrews, Richmond-Ziirich 1965; H. voN STEIN, Geschichte des Platonismus. Untersuchungen iiber das System des Plato und sein Verhà"ltnis zur spà"teren Theologie und Philosophie, terza e ultima parte: Das Verhà"ltniss des Platonismus zur Philosophie der christlichen Zeiten enthalten (1875),
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ticismo Le testimonianze per una ricostruzione della posizione "neo-pirroniana", da Enesidemo ad Agrippa e a Menodoto, si ricavano in particolar modo da Aristocle (in Eusebio, Praep. ev.), da Diogene Laerzio, da Sesto Empirico, da Fozio; per Enesidemo, forse, anche da Filone l'Ebreo (cfr. sopra, testo). Si confronti anche Galeno. Sullo scetticismo da Enesidemo ad Agrippa e a Menodoto, oltre le già citate opere d'insieme su tutto il movimento (cfr. II vol.) e sulla media e nuova Accademia in generale (cfr. II vol.), ricordiamo qui: M. DAL PRA, Lo scetticismo greco, Milano 1950, Bari 1975; J.P. DuMONT,
Le scepticisme et le phénomène, essai sur la signification et !es origines du pyrrhonisme, Paris 1972; A. Russo, Introduzione a Scettici antichi, intr., trad. it., a cura di A. Russo, Torino 1978, pp. 37-39; Lo scetticismo antico, Atti del Convegno organizzato dal Centro di Studio del Pensiero Antico del CNR, Roma 5-8 nov. 1980, a cura di G. GIANNANTONI, Napoli 1982; The skeptical tradition, a cura di M. BuRNYEAT, Berkeley 1983; H. TARRANT, Scepticism or Platonism? The philosophy
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Die griechische Empirikerschule: eine Sammlung der Fragmente und Darstellung der Lehre, Berlin 1930. Cfr. Scetticismo e medicina, in Scettici antichi, cit., a cura di A. Russo, 1978, e la trad. it. dei testi relativi in A. Russo, cit.; anche G. HARIG, Die philosophischen Grundlagen des medizinischen Systems des Asklepiades von Bithynien, "Philologus", 1983, pp. 43-60. Sulla medicina cfr. anche: M. VEGETTI-P. MANULI, cit., in Storia di Roma, cit., IV, Torino 1989; PH. NunRY, Le Scepticisme des médecins empiriques dans le traité de la médicine de Celse: modèles et modalités, in Le scepticisme antique, Lausanne 1990. 3. Stoicismo, cinismo, astronomia e astrologia. Mani !io, Seneca Sullo stoicismo romano nel suo complesso, oltre agli studi sullo stoicismo in genere e sulla Media Stoa (cfr. sopra), si veda: K. PRAECHTER, Die griech.-rom. Popularphilosophie und die Erziehung, Bruchsal 1884; C. MARTHA, Les moralistes sous l'Empire romain, Paris 1894; G. GENTILE, Studi sullo Stoicismo romano, Trani 1904; F. ORLANDO, Lo stoicismo a Roma, Roma 1904; G. NATALI, Catone Uticense e lo stoicismo romano, Pisa 1910; E. ARNOLD, Roman Stoicism with spec. ref. to its develop. within the Rom. Emp., Cambridge 1911; G. BmssiER, L'opposition sous les Césars, Paris 1913; A. LEVI, Storia della filosofia romana, Firenze 1949; V. D'AGOSTINO, Studi sul neostoicismo; Seneca, Plinio il Giovane, Epitteto, Marco Aurelio, Torino 1950; M.L. CLARKE,
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tur astronomicis; inest de imperatoribus romanis in siderum numerarum relatis, Marburg 1890; E. MuLLER, Zur Charakteristik des Manilius, "Philologus", 1903; A. CRAEMER, Ort und Zeit der Abfassung der Astronomica, Frankfurt a.M. 1904; TH. BREITER, Die Planeten bei Manilius, "Philologus", 1905; H. RoscH, Manilius und Lukrez, Kiel 1911; P. DUHEM, Système du monde, Il, Paris 1914; H. ScHWEMMLER, De Lucano Manilii imitatore, Giessen 1916; J. VAN WAGENINGEN, Commentarius in M. Manilii Astronomica, Amsterdam 1921 (del WAGENINGEN si
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CLARK, Time in Seneca: past, present, future, "Emerita", 1987, pp. 31-41; P.R. CHAUMARTIN, Sénèque lecteur de Posidonius, "Revue cles Études latines", 1988, pp. 21-28; P. MAsTANDREA, Lettori cristiani di Seneca filosofo, Brescia 1988; A. SETAIOLI, Seneca e i Greci. Citazioni e traduzioni nelle opere filosofiche, Bologna 1988;]. THOMAS, Sénèque et le problème de la légitimité de l'action, "Euphrosyne", 1988, pp. 97-129; J.-M. ANDRÉ, Sénèque: "De brevitate vitae", "De constantia sapientis", "De tranquillitate animi", "De otio", in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36-3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1989, pp. 1724-1778; P.R. CHAUMARTIN, Les désillusions de Sénèque devant l'évolution de la politique néronienne et l'aspiration à la retraite: le "De vita beata" et le "De beneficiis", in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36-3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1989, pp. 1686-1723; C. ConoNER, La physique de Sénèque. Ordonnance et structure des "Naturales quaestiones", in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36-3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, BerlinNew York 1989, pp. 1779-1822; J. PrLLION-LAHILLE, La production lit-
téraire de Sénèque sous les règnes de Caligula et de Claude, sens philosophique et portée politique: les "Consolations" et le "De ira", in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36-3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1989, pp. 1545-1605; H. PREISE, Die Bedeutung der Epikur-Zitate in den Schriften Senecas, "Gymnasium", 1989, pp. 532-556; P. GRIMAL, Sénèque et le Stoièisme romain, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36-3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, BerlinNew Y~rk 1989, pp. 1962-1992; M. LAUSBERG, Senecae operum fragmenta. Uberblick und Forschungsbericht, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36-3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1989,-pp. 1878-1961; B. MoRTUREUX, Les idéaux stoi'ciens et les premières responsabilités politiques: le "De Clementia", in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36-3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, BerlinNew York 1989, pp. 1639-1685; G. MAzzou, Le "Epistulae morales ad Lucilium" di Seneca. Valore letterario e filosofico, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36-3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, BerlinNew York 1989, pp. 1823-1877; J.M. RrsT, Seneca and Stoic orthodoxy, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36-3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1989, pp. 1993-2012; S, TIMPANARO, Per la storia della filologia virgiliana antica, Roma 1989; R.A. UttMANN, A ética de Lucius Annaeus Séneca, "Veritas", 1989, pp. 47-66; G. SALANITRO, Scienza e morale nelle "Naturales Quaestiones" di Seneca, "Sileno", XVI, 1-2, 1990, pp. 307-312. Sul cinico Demetrio, il cui atteggiamento si può ricostruire attraverso Seneca ed Epitteto (cfr. sopra, testo), si veda H. VON ARNIM, s. v. in R.E. PAULY-WrssowA, IV, e D.R. DuntEY, A history of Cynism,
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London 1937, Hildesheim 1967. Sui maestri di Seneca, Attalo, Sozione, Sestio, Fabiano, Papirio, cfr. le relativi voci in R.E. PAULY-WrssoWA (sopra, Bibliografia: Sestii). 4. Tra "platonismo" e "pitagorismo" Per il "neopitagorismo" nel suo complesso confronta sopra. Sugli scritti degli pseudopitagorici si veda: W. BuRKERT, Hellenistische Pseudopythagorica, "Philologus", 1961; H. THESLEFF, An introduction to the Pythagorean Writings of the Hellenistic period, (Acta Academiae Aboensis, Humaniora, XXIV, 3), Àbo 1961; W. BuRKERT, Weisheit und Wissenschaft, Niirnberg 1962 (trad. ingl., Harvard 1972); B. CENTRONE, Pseudopythagorica ethica, Napoli 1990; A. SQUILLONI, Il concetto di Regno nel pensiero dello pseudo Ecfanto, Firenze 1991. Sul passaggio al "neoplatonismo" vedi sopra; cfr. inoltre: H.J. KRAMER, Der Ursprung der Geistmetaphysik. Untersuchungen zur Geschichte des Platonismus zwischen Platon und Plotin, Amsterdam 1964, 19672 ; J.M. RrsT, Eros and Psyche. Studies in Plato, Plotinus and Origen, Toronto 1964; R. TuRCAN, Mithras Platonicus. Recherches sur l'hellénisation philosophique de Mithra, Leiden 1975; G. CALVETTI, Eudoro di Alessandria: medioplatonismo e neopitagorismo nel I sec. a.C., "Rivista di Filosofia neoscolastica", 1977, pp. 3-19; J. DrLLON, The Neopythagoreans (Alessandro Poliistore; Moderato di Gades; Nicomaco di Gerasa; Numenio di Apamea), in J. DILLON, The Middle Platonists 80 B.C. toA.D. 220, London 1977, pp. 341-378; DerMittelplatonismus, a cura di C. ZINTZEN, Darmstadt 1981; H. DoRRIE, La manifestation du "Logos" dans la création. Quelques remarques à propos d'une contribution du platonicien Thrasillos à la théorie des idées, "Les Cahiers de Fontenay", 1981; Platonismus und Christentum, in onore di H. Dorrie, a cura di H.D. BLUME-F. MANN, Miinster 1983; L.N. NAPOLITANO, Il
platonismo di Eudoro: tradizione protoaccademica e medio platonismo alessandrino, "Museum Patavinum", 1985, pp. 27-49 (vedi anche, Eudoro di Alessandria: monismo, realismo, assiologia dei principi nella tradizione platonica, ivi, pp. 289-312); S. GERSH, Middle Platonism and Neoplatonism. The Latin tradition, 2 voli., Notre-Dame 1986; L. DEITZ, Bibliographie du platonisme impérial antérieur à Plotin: 1926-1986, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36.1, a cura di W. HAASE~H. TEMPORINI, Berlin-New York 1987, pp. 124-182; J. WHITTAKER, Platonic philosophy in the early centuries of the Empire, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36.1, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1987, pp. 81-123.
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Per i testi attribuiti ad antichi pitagorici (Theano, Archita, Onato di Crotone, Timeo di Locri, Teage, Critone, Ipparco, Metopo di Sibari, Ippodamo di Turi, Eurifano) cfr. sopra (H. THESLEFF, 1965; R. NAVON, 1986). Si veda: Pseudopythagorica ethica (i trattati morali di Archita, Metopo, Teage, Eurifano), a cura di B. CENTRONE, Napoli 1990. Per i frammenti della letteratura pitagorica apocrifa si veda T. GALE, Opuscola mythologica, Amsterdam 1688 (con trad.latina).
Il De anima mundi et natura, attribuito a Timeo di Locri, si veda edito dal BEKKER (in Opera di Platone, III, 1818) e dallo HERMANN (Opera di Platone, IV, 1852); cfr. B. CENTRONE, La cosmologia di Pseudo Timeo di Locri ed il "Timeo" di Platone, "Elenchos", 1982, pp. 293-324. I frammenti delle opere attribuite ad Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intellectu et sensu, De sapientia) si vedano nell'edizione a cura di I. NoLLE, Ps. Architae fragmenta, Tiibingen 1941. I Xpt>aà E1tTJ (Versi o Detti aurei) attribuiti a Pitagora stesso, editi da A. MANUZIO a Venezia nel1494, si vedano nell'edizione del NAUCK della]amblichi Vita Pythagorae, 1884 (trad. it. a cura di: A.M. SALVINI, Venezia 1884; G. PESENTI, Lanciano s.a.; C. SBARBARO, Milano 1960). Si veda inoltre la raccolta di testi a cura di H. THESLEFF, The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, Abo 1965, e The Pythagorean writings: Hellenistic texts from the 1st cent. B.C.-J'd A.D., Kew Garden 1986. Per la Tavola (llivaç), su indicazione di Diogene Laerzio (II, 125) attribuita a Cebete di Tebe, scolaro di Socrate, ma certo di un autore del I sec. d.C., s1 veda l'edizione critica a cura di K. PRAECHTER, Leipzig 1893, e quella a cura diJ.T. FITZGERALn-L.M. WHITE, Chico 1983. Cfr. testo e trad. it., a cura di D. PESCE, Brescia 1982.- Sulla Tavola si veda: K.K. MuLLER, De arte critica Cebetis Tabulae adhibenda, Wiirzburg 1877; K. PRAECHTER, Cebetis tabula quanam aetate conscripta esse videatur, Marburg 1885 (anche H. VON ARNIM, in R.E. PAULYWISSOWA, XI); D. PESCE, Introduzione e commento a La Tavola di Cebete, Brescia 1982; M. ADINOLFI, La "metanoia" della Tavola di Cebete, "Antonianum", 1985, pp. 579-601. Per la scarsa letteratura sui singoli autori e sulle particolari questioni, oltre le opere di insieme cfr. alle singole voci in R.E. PAULY-Wisso-
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WA (cfr. anche G. FAGGIN, in Grande Antologia filosofica, I, Il Pensiero Classico, Milano 1954). I frammenti delle opere storiche di Alessandro Poliistore si vedano in: F.H.G. Mi.JLLER, Fragmenta historicorum graecorum, Paris 1841-1870, III, p. 206; F. ]ACOBY, Die Fragmente der griechischen Historiker, Berlin 1923 sgg. - Per le testimonianze sul pensiero di Alessandro Poliistore cfr. Diogene Laerzio (VIII, 24 sgg.), Sesto Empirico (Adv. mathem., X, 281 sgg.), Fozio (Myriob., 249). Su Alessandro Poliistore, oltre l'articolo di E. ScHWARTZ, in R.E. PAULY-WrssowA, cfr.: M. WELLMANN, Eine Pythagoreische Urkunde des IV Jahrhunderts v. Chr., "Hermes", 1919; W. WIERSMA, Das Referat des Al. Pol. iiber die pyth. Philos., "Mnemosyne", 1941; A.J. FESTUGI~RE, Le "Mémoires pythagoriques" cité par Alex. Poliist., "Revue des Etudes grecques", 1945; M. DETIENNE, La notion de Daimon dans le Pythagorisme ancien, Paris 1963 (si veda in appendice la raccolta dei frammenti dei pitagorici sui dèmoni). Cfr. anche J.M. DrLLON, The Middle Platonists, cit., 1977, pp. 342-344.
Il trattatello Sulla natura del Tutto, attribuito a Ocello Lucano, si veda nell'edizione a cura di R. HARDER (Ocellus Lucanus, testo e commento di R. HARDER, "Neue Philologische Untersuchungen"), Berlin 1926. Si veda la traduzione latina di L. NoGAROLA nell'ed. a cura di T. GALE, in Opuscola mythologica, Amsterdam 1688; in inglese si veda la trad. di T. TAYLOR, Londra 1831. Sullo pseudo Ocello cfr.: S. DE HEYDEN-ZIELEwrcs, Prolegomena in Pseudocelli de Universi natura libellum, Breslau 1901; E. FRANK, Plato und die sogennante Pythagoreer, Halle 1923, Tiibingen 1962; G. BRONZINI, La questione di Ocello Lucano, "Nuova Antologia", 1929;R. BEUTLER,inR.E. PAULY-WISSOWA, 1937. I frammenti dell'opera di Moderato di Gades, nut?ayoptKOOV (Commenti pitagorici) in 10 o 11 libri (cfr. H. BucHELER, in "Rheinisches Museum", 1882), ricavati da Porfirio (Vita Pythagorae: cfr. Opuscola selecta, a cura di A. NAUCK, Leipzig 1886), da Simplicio (In Phys. Arist.: cfr. a cura di DIELS), da Strobeo (Ecl.: cfr. a cura di WACHSMUTH), si vedano raccolti in MULLACH, Fragm. philos. Graec., II, Paris 1881. Su Moderato cfr. S. MoTERO DfAz, Moderato de G. en la crisis del pensamiento antigua, in De Caliclès a Trajano, Madrid 1948. Sulla Vita di Pitagora di Moderato, fonte della Vita di Pitagora di Giamblico, cfr. E. RHODE, Die Quellen d. Jambl. in seiner Biogr. d. Pyth., "Rheinisches Museum", 1871-1872 (in Kl. Schrift., II, 102 sgg.). Sul platonismo di Moderato cfr.: E. DoDDS, The Parmenides of Plato and the origin of the Neoplatonic "One", "Classica! Quarterly", 1928. Cfr. anche: F. ADORNO, Sull'origine di una "logica" del "numero", in Studi sul pensiero greco, Firenze 1966, pp. 191-198; J.M. DrLLON, Moderatus of Gades, in The Middle Platonists, cit., 1977, pp. 344-351. oKoÀ.rov
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La Introductio arithmetica, in due libri, di Nicomaco di Gerasa, si veda nell'edizione a cura di R. HocHE, Leipzig 1866 (cfr. anche la trad. inglese, Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, di M.L. D'OoGE, con Studies in Greek Arithmetic di F.E. RoBBINs-L.C. KARPINSKI, London 1926). Con introduzione, traduzione, note, indici si veda a cura diJ. BERTIN, Paris 1978. I Theologumena aritmeticae, attribuiti a Nicomaco di Gerasa, sono stati curati da FR. AsT (Nicomachi Gerasini Institutio arihmetica, Leipzig 1817) e da V. DE FALCO, Leipzig 1922. Per il Manuale harmonicum di Nicomaco, si veda K. voN ]AN, Musici Scriptores Graeci, Leipzig 1895. Per le testimonianze sulle opere perdute di Nicomaco (Intro-
duzione alla geometria, Vita di Pitagora, Per una conoscenza delle tesi platoniche, I riti egiziani, Vita di Apollonia di Tiana, Introduzione alla astronomia), per le traduzioni latine di Apuleio e di Boezio, cfr. l'Introduzione del ROBBINS e del KARPINSKI alla trad. inglese del D'OoGE dell'Introduzione aritmetica, London 1916. L'Introduzione del RoBBINS e del KARPINSKI è tra le migliori monografie su Nicomaco di Gerasa e sullo stato delle matematiche al suo tempo. Sugli antichi commenti all'opera di Nicomaco (cfr. Giovanni Filopono, ed. a cura di R. HocHE, Berlin 1867), si veda P. TANNERY, Les commentaires sur Nicomaque, "Archives et missions scientifiques", 1888. Su Nicomaco si cfr. anche: F. HuLTSCH, Zur Literatur des Nichomakos von G., "Jahrb. fiir klassische Philologie", 1868; P. TANNERY, Miscellanées, "Revue de Philologie", 1889; F. BucHELER, Prosopographica, "Rheinisches Museum", 1908; M. SIMON, Die ersten sechs Kapitel der Intr. Arithm. des Nichom., "Archiv fiir Geschichte der Naturwiss.", 1909; G. JoHNSON, The Arithmetical Philosophy of Nicomachus of Gerasa, Lancaster 1916; V. DE FALCO, Sui trattati aritmologici di Nicomaco e di Anatolia, "Rivista in4_o-greco-italiana", 1922; W. KuTscK, Tdbsit ibn qurra's arabische Ubersetzung der 'Aptt?IJ.TI'ttKTJ eiaaycorfl des Nichomakos, Beyrut 1959; F. ADORNO, cit., 1966, pp. 191-198; J.M. DrLLON, cit., 1977, pp. 352-361;}. BERTIN, Introduzione a Nicomaco, Intr., Paris 1978. Giovandosi dei ricordi di un discepolo (un certo Damis) di Apollonia di Tiana, vissuto nel I sec. d.C., Filostrato di Lemno (vissuto nel III sec. d.C.) scrisse la Vita di Apollonia, su richiesta dell'imperatrice Giulia Domna (morta nel217), seconda moglie di Settimio Severo. Per il testo della Vita di Apollonia si vedano l'edizione a cura di: C.L. KArSER, Leipzig 1870-1871 (anche di O. BENDORF-C. ScHENKL, Leipzig 1893); F.C. CoNYBEARE, London 1912; D. DEL CoRNO, Milano 1978. Le Vitae sophistarum di Filostrato, insieme alle Vitae sophistarum di Eunapio, si vedano edite, con trad. inglese, da W. CAVE WRIGHT, London 1922 (anche Vitae soph., a cura di C.L. KAISER, 1838, Hildesheim-New York 1971); il Trattato sulla ginnastica si veda a cura di CH.
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DAREMBERG (con trad. francese), Paris 1858. Per le Lettere cfr.: The letters of Apollonion, testo, intr. e comm. a cura di W.R. RoBERTs (1935), New York 1979; Apollonia, Epistole e frammenti, trad. it. con intr. e note di F. Lo CASCIO, testo greco a fronte diJ. PENELLA, Palermo 1984. Per le opere si veda Apollonia. Opera quae supersunt, trad. it., intr. e note a cura di F. Lo CASCIO, testo greco a fronte a cura di]. PENELLA, Palermo 1984 (anche Vite dei Sofisti, a cura di G.F. BRusSICH, Palermo 1987). Su Filostrato cfr.: M. CROISET, Littérature grecque, V, Paris 1899; l: FERTIG, De Philostratis sophistis, Bamberg 1894 (vedi inoltre, in UBERWEG-PRAECHTER, Grundriss der Geschichte der Philos., I, ed. del 1953). Cfr.: G. ANDERSON, Philostratus. Biography and "belles lettres" in the third century A.D., Beckenham 1986; A. BRANCACCI, Seconde sophistique, historiographie et philosophie (Philostrate, Eunape, Synésios), in Leplaisirdeparler, Paris 1986, pp. 87-110. Su Apollonia di Tiana cfr.: M. DE CtAIRÉE, Histoire d'Apoll. de Tiane, Paris 1705; F.C. BAUR, Apoll. von Tiana, Tiibingen 1832; J. ]ESSEN, Apoll. v. Tiana und sein Biograph Philostr., Hamburg 1855; A. RÉVILLE, Le Christ pai"en, "Revue cles deux mondes", 1865; R.G.S. MEAD, Apoll. of Tiana, London 1901 (trad. it., Torino 1926); T. WHITTAKER, Apoll. of Tiana, London 1905; M. WuNDT, Apoll. von Tiana, "Zeitschrift fiir Wiss. Theol.", 1906; F.W.G. CAMPBELL, Ap. of Tiana, a study on his !ife and times, London 1908; O. BELLIARD, Un saint pai"en, Apoll. de Tiène, "Les Annales", 19 36; M. MEUNIER, Apoll. de Tiène ou le séjour d'un dieu parmi les hommes, Paris 1936, anast. 1978; A. L. CoNSTANT, Il dogma e il rituale dell'alta magia, Roma 1949; ]. BowMAN, A lost work of Ap. of Tyana, "Transactions Glasgow Univ. Orient. Soc.", 1950-1952; F. GRosso, La "Vita" di Ap. di Tiana come fonte storica, "Acme", 1954, pp. 333-532; F. Lo CASCIO, La forma letteraria della Vita di Apollonia di Tiana, Palermo 1974; W.R. RoBERTS, Introduzione e commento a The Letters of Apollonius of Tyana, 1935, New York 1979 (sull'autenticità delle Lettere cfr. Philostr. Opera, a cura di G. OtEARius, Leipzig 1709); L. BELLONI, Aspetti dell'antica aoq>ia in Apollonia di Tiana, "Aevum", 1980, pp. 140-149; F. Lo CASCIO, Introduzione a Apollonia, Opera, Palermo 1984; D.H. RAYMOR, Moeragenes and Philostratus: two views of Apollonius of Tyana, "Classica! Quarterly", 1984; M. DZIELSKA, Apollonius of Tyana in legend and in history, in Problemi e ricerche di storia antica, Roma 1986. Il trattatello Sul sublime (Il&pì uwouç) dello pseudo-Longino, composto nel I sec. d.C., che va compreso entro i termini della polemica sulla retorica del I secolo (cfr. la letteratura al riguardo), si veda, oltre che nella Editio princeps a cura di F. RoBORTELLO, Basel1554, nell'edizione a cura di W.R. RoBERTS, con trad. ingl., Cambridge 1899 [utili l'introduzione e gli indici], nell'edizione a cura di]ALIN-VAHLEN, Leip-
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zig 1910 4 , 1967 (per il testo critico), e nell'edizione, con introduzione e un buon commento, a cura di D.A. RussELL, Oxford 1964, 1974 (si tratta di Longino Cassio). Si veda anche l'edizione a cura di: A. RosTAGNI, Milano 1947; trad. it., a cura di G. MARTANO, Bari 1965; G. LoMBARDO, postfaz. di H. BwoM, Palermo 1987. Sull'Anonimo Del Sublime cfr.: H.F. Mi.i'LLER, Analyse der Schrift llepì uwouç, Blakenburg 1911-1912; H. MuTSCHMANN, Tendenz, Aufbau und Quellen der Schrift von Erhabenen,_, Berlin 1913; Q. CATAUDELLA, Intorno al llepì owouç, "Revue des Etudes grecques", 1930; A. RosTAGNI, Il sublime nella storia dell'estetica antica, "Annali della R. Scuola Normale di Pisa", II, 1933 (vedi in Scritti minori, I, Aesthetica, Torino 1955); E. OLsoN, The Argument of Longinus' on the Sublime, "Modern Philol.", 1942; D. MARIN, La paternità del "Saggio sul Sublime", "Studi Urbinati", 1955. Si veda anche l'articolo di AuLITZKY, in R.E. PAULY-WissoWA (Longino Cassio), il capitolo di A. PLEBE su Il Sublime, la Seconda Sofistica e il tramonto della retorica antica, in Breve storia della retorica antica, Milano 1961; Introduzione e Commento di D.A. RussELL a Longinus, On the Sublime, a cura di D.A. RussELL, Oxford 1964; l'Introduzione [ampia e con bibliografia] di G. MARTANO, 1965. Cfr. inoltre: D. MARIN, Retorica stilistica estetica nell'età augustea, Bari 1970; J. BAUSE, llepì ÙllfOUç Kapitel44, "Rheinisches Museum fiir Philologie", 1980, pp. 258-266; P. BooT, The place of Longinus "De sublimitate" c. 44, "Mnemosyne", 1980, pp. 299-306; V. FoRTUNATI, La retorica del sublime in Pseudo Longino e in Edmund Burke, "Aesthetica", 1986, pp. 77-86; Da Longino a Longino: i luoghi del sublime, a cura di L. Russo, Palermo 1987; J.S. SMITH, Longins "On the Sublime" and the role of the creative imagination, "Analecta Husserliana", 1990. pp. 225-231.
5. Lo "stoicismo" di L. Anneo Cornuto, Musonio Rufo, Epitteto Di Lucio Anneo Cornuto è rimasto un Escurso di teologia greca ('E1t'tlOpOJ.I.TJ'té.òV Ka'tà 't'JÌV 'EÀÀTJV1K'JÌV t1EOÀoyiav 1tapaOEOOJ.I.ÉVrov): si veda a cura di K. LANG, Theologiae graecae compendium, Leipzig 1881 (cfr. sotto l'ed. di CHRIST-SCHMIDT-STAHLIN, 1912). Su Cornuto, oltre le opere d'insieme sullo stoicismo nel I secolo d.C., cfr.: R. REPPE, De Lucio Anneo Cornuto, Leipzig 1906; K. REINHARDT, De Graec. theol. cap. duo, Berlin 1910; C. MARCHESI, Gli scoliasti di Persia, "Riv. di filologia classica", 1911; CHRIST-SCHMIDT, De Cornuti Theol. Graecae compen!fio capita duo, tesi, Halle 1912 (cfr. P. KRAFFT, Die handschriftliche Uberlieferung von Cornutus "Theologia Graeca, Heidelberg 1975). Sui perduti libri di retorica di Cornuto cfr. J. GRAEVEN, Cornuti artis rhetoricae epitome, Berlin 1891. Si veda anche
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l'articolo di H. VON ARNIM, in R.E. PAULY-WrssowA; V. CIOFFI, Intorno all'autore dell' "Octavia ", "Rivista di Filologia e d'Istruzione classica", 1937, pp. 246-256; S.W. MosT, Cornutus and Stoic allegoresis. A preliminary report, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36.3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1989, pp. 2014-2065. Per Musonio Rufo cfr.: R. LAURENTI, C. Musonio Rufo: Diatribe e frammenti minori, Roma 196 7; R. LAURENTI, Musonio, maestro di Epitteto, in Aufstieg und Niedergang ... , cit., II, 36.3, a cura di W. HAASE-H. TEMPORINI, Berlin-New York 1989, pp. 2105-2146. Si confronti inoltre la letteratura su Persio e su Lucano (in particolare V. PALADINI, Il maestro di Persia, in Scritti Minori, Roma 1973, pp. 251-281). Da Epitteto, da Plutarco, da Aulo Gellio, da Stobeo sono stati ricavati i frammenti, le trattazioni, le lezioni di Musonio Rufo, originariamente raccolti, a quanto sembra, da un discepolo di Musonio, un certo Lucio: ora in M. RuFI Reliquiae, a cura di O. HENSE, Leipzig 1905, e in C.E. LuTz, The Roman Socrates, "Yale Classica} Studies", 1947 (introduzione ai testi di Musonio, testi e traduzione inglese). Traduzioni italiane dei testi di Musonio si vedano, a cura di N. FESTA, in calce a Epitteto, Il Manuale, trad. di G. LEOPARDI, a cura di N. FESTA, Milano 1913, e a cura di R. LAURENTI, C. Musonio Rufo, Diatribe e frammenti minori, Roma 1967. Per altre traduzioni con commento e introduzioni cfr.: W. CAPELLE, Epiktet, Teles, Musonius, Wege zu gliickseligem Leben, Ziirich 1948, 1987; S. GurnoTTI, Gaio Rufo Musonio e lo stoicismo romano, in appendice Dissertazioni e frammenti minori di Musonio, trad. di R. LAURENTI, Bolsena 1976; Deux prédicateurs dans l'antiquité. Télès et Musonius, trad. dal greco e dal latino di A.J. FESTUGIÈRE, Paris 1978; A. ]AGU, C. Musonius Rufus. Entretiens et fragments, Hildesheim 1979. Su Musonio cfr.: R. HIRZEL, Der Dialog, II, Leipzig 1895; P. WENDLAND, Quaestiones Musonianae, Berlin 1886; I. PFLIEGER, Musonius bei Stobaeus, Freiburg 1897; J.E.B. MAYOR, Musonius and Simplicius, "Classica} Review", 1903; G. GENTILE, Studi sullo stoicismo romano del I sec. d.C., Trani 1904; C. FAVEZ, Un féministe romain: Musonius Rufus, "Bulletin de la Société des Études des Lettres", XX, 1933; M.P. CHARLESWORTH, Five men, Cambridge (Mass.) 1936; C.E. LuTz, The Roman Socrates, "Yale Classica} Stud.", X, 1947; W. VON CAPELLE, Epiktet, Teles und Musonius. Wege zu gliickseligem Leben, Ziirick 1948; A. VAN GEYTENBEEK, Musonios Rufus en de Griekse diatribe, Utrecht-Amsterdam-Paris 1949; I. KoRVER, Néron et Musonius, "Mnemosyne", 1950; T.A. SrNCLAIR, History of greek politica! thought, London 1952 (trad. it. a cura di L. FIRPO, Bari 1961). Si con-
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fronti anche: l'articolo di K. VON FRITZ, in R.E. PAULY-WrssowA; A. VAN GEYTENBEECK, Musonius Rufus and Greek Diatribe, Assen 1963 [importante]; R. LAURENTI, Musonio e Epitteto, "Sophia", 1966, pp. 317-355; R. LAURENTI, La concezione della virtù in Musonio, "Sophia", 1976, pp. 301-317; G. SANTE, Musonio Rufo e lo Stoicismo romano, Bolsena 1976 (vedi anche Artemidore. La clef des songes, Paris 1975); G. BALDASSARRE, Musonio Rufo e !"'Economico" di Brisone, in Studi in onore di Anthos Ardizzoni, I, Roma 1978, pp. 37-48; K. DoRING, Exemplum Socratis, Wiesbaden 1979 ("Hermes", 42, numero unico); G. MAzzou, Moralisti, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, II, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987. Accanto alle prime edizioni delle opere di Epitteto a cura diJ. UPTON (London 1739-1741) e di}. SCHWEIGHAUSER (Epictetae philosophiae monumenta, 1799-1800, fotost. in 3 voll., Hildesheim 1977), restano fondamentali le edizioni di H. SCHENKL (coll. Teubner, Leipzig 1894, 19162) e di W.A. 0LDFATHER (con trad. inglese, coll. Loeb, London 1928). Per le Dissertazioni o Diatribe si veda anche l'edizione a cura di J. SouiLHÉ, testo greco e trad. francese, Paris 1948-1949, 1975 2 (edizioni "Belles Lettres"). Per le fonti e le testimonianze cfr.la citata edizione dello ScHENKL. Delle traduzioni italiane del Manuale o Enchiridion indichiamo quelle di ERISTICO PILENEIO (Parma 1793), del LEOPARDI (a cura di G. CALOGERO, Firenze 1936), del GHIGNONI (Roma 1909) e del FESTA (Milano 1914). Le Dissertazioni sono state tradotte in italiano da R. LAURENTI (Epitteto, Le Diatribe e i frammenti, a cura di R. LAURENTI, Bari 1960, 19892 ). Cfr. inoltre Handbiichlein der Ethik, a cura di E. NIETZKE, Stuttgart 1974; L'Enchiridion, a cura di P.L. AuREA, Palermo 1979; Diatribe. Il manuale. I frammenti, intr. di G. REALE, a cura di C. CASSAMAGNAGO, Milano 1982. Sul rapporto tra Arriano e Epitteto cfr. PH.A. STADTER, Arrian of Nicomedia, Chapel Hill1980. Una bibliografia epittetiana è stata curata da W.A. 0LDFATHER, Contributions toward a Bibliography of Epictetus, "University of Illinois Bulletin", XXV, 12, Urbana 1927, e Contributions toward a Bibl. of Epict. A Supplement (a cura di M. HARMANN, con un elenco dei manoscritti a cura di W.H. FRIEDERICH-C.U. FAYE), Urbana 1952. Si veda anche la citata ed. ScHENKL. Tra le opere d'insieme su Epitteto restano fondamentali le due monografie di A. BoNHOFFER, Epictet und die Stoa. Untersuchungen zur stoischen Philosophie, Stuttgart 1890, 1968 2 , e Die Ethik des Stoikers Epictet, Stuttgart 1894, 19682 • Si veda anche}. BoNFORTE, The Philosophy of Epictetus, New York 1955. Una buona discussione sui vari as}?etti del pensiero di Epitteto è condotta daJ. SoUILHÉ, Introduction à Epictète, Entretiens, I, Paris 1948. Cfr. ancora: C. MARTHA, Les mora-
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listes sous l'Empire romain, Paris 18y5, 19078; I. BRUNS, De schola Epicteti, Kiel 1897; T_. CorARDEAU, Etude sur Epictète, Paris 1903; L. WEBER, La moraled'Epictète, "Rev. de Métaph. et de Mor.", 1905; P. MALUCA, Lo stoicismo d~ Epitteto, "Atti Accademia Pontaniana", XXXV, 1905; A. }AGU, Epictète et Platon. Essais sur !es relations du Stoi'cisme et du Platonisme à propos de la morale des Entretiens, Paris 1946; V. D'AGOSTINO, Studi sul neostoicismo, Torino 1950; P. }oRDAN DE URRIES Y AzARA, Introducci6n a Epicteto Pldticas por Arriano, I, Barcelona 1957; M. SPANNEUT, Epiktet, in Reallexikon fiir Antike und Christentum, 1961; R. LAURENTI, Il filosofo ideale secondo Epitteto, "Giornale di Metafisica", 1962; E. RroNDATo, Epitteto. Esperienza e ragione, Padova 1965; I. XENACHIS, Epictetus: Philosopher-Therapist, Den Haagen 1969; J. BoNFORTE, Epictetus. A dialogue in common sense, New York 1974; P.A. BRUNT, From Epictetus to Arrian, "Atheneum", 1977, pp. 19-48; C. CAssAMAGNAGO, Il problema della "prohairesis" in Epitteto, '\Rivista di Filosofia neoscolastica", 1977, pp. 232-246; E. CIZEK, Epictète et l'héritage stoi'cien, "Studii Clasice" (Bucarest), 1977, pp. 71-87; F. DECLEVA CArzzr, La tradizioneantistenicocinica in Epitteto, in Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, a cura di G. GrANNANTONI, Bologna 1977, pp. 93-113; Epiktet. Vom Kynismus, a cura di M. BrLLERBECK, Leiden 1978; M. DRAGONA-MONACHOU, Prohairesis in Aristotle and Epictetus. A comparison with the concept of intention in the philosophy of action, "
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zig 1799-1800, fotost. in 3 voll. Hildesheim-New York 1977 (contiene note, frammenti, indici, il Commento di Simplicio al Manuale, la cosiddetta "Parafrasi Cristiana", il Manuale di N ilo).
6. Il Cristianesimo tra il I e il principio del II secolo. I "Padri apostolici" Per la bibliografia relativa alla formazione della prima filosofia cristiana, ai rapporti tra cultura ellenistica e concezione cristiana, allo strutturarsi della Chiesa, e per ciò che riguarda testi cristiani e collezioni di testi, nel quadro della cosiddetta "patristica", si veda Bibliografia IV vol. Qui, per il capitolo sul Cristianesimo nel I secolo, per ciò che riguarda la figura di Gesù e i Vangeli sinottici, rimandiamo alle più importanti opere d'introduzione (cfr. anche la voce Evangelisti, inDizionario degli scrittori Greci e Latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 198 7). Sulla vita e la figura di Gesù si vedano i saggi critici e storicamente importanti di A. Lorsy aésus et la tradition évangelique, Paris 1910), di A. 0MODEO (Gesù e le origini del Cristianesimo, Messina 1913; dell'OMODEO si veda anche Prolegomeni alla storia dell'età apostolica, Messina 1921) e, particolarmente interessante, di CH. GuiGNEBERT aésus le Christ, Paris 1933, 1948). Su di una linea più ortodossa, fondamentali sono gli studi di: L. de GRANDMAISON (]ésus-Christ, sa personne, san message, ses preuves, Paris 19286); E. PINARD DE LA BouLLAYE (Gesù Cristo e la storia, trad. it., Torino-Roma 1931-1937); M. GoGUEL aésus et les origines du Chrisfianisme, I: La vie de ]ésus, II: La naissance du Christianisme, III: L'Eglise primitive, Paris 1932-1947); L. ToNDELLI (Gesù Cristo. Studi, Torino 1936); G. RICCIOTTI (Vita di Gesù Cristo, Roma 1949 12); J. LEBRETON aésus, Paris 1947); R. GuARDINI (La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, trad. it., Brescia 1950; Il Signore, trad. it., Milano 1950); J. BoNSIRVEN (L'enseignement de ]ésus, Paris 1950); F. PRAT (Gesù Cristo, trad. it., Firenze 1951); D. GRAsso (Gesù Cristo e la sua opera, Roma 1956). Utile è confrontare anche il Gesù Cristo e il Cristianesimo di P. MARTINETTI, Milano 1934. Per ciò che riguarda la questione dell'incarnazione si veda L. BILLOT, De Verbo incarnato, Roma 19499 ; per la dottrina sociale del Cristo si veda I. GIORDANI, Il messaggio sociale di Gesù, Milano 19382 ; sui rapporti tra la concezione di Gesù e le filosofie cfr. A.D. SERTILLANGES, Il Cristianesimo e le Filosofie, trad. it., Brescia 194 7, 1949-1954 2 • Si veda inoltre la nota bibliografia sulla vita, la dottrina di Gesù e sul significato politico dei Vangeli in G. BARBERO, Il pensiero politico cristiano, Torino 1962. Cfr. inoltre: R. BATEY, The JllU a api; Union of Christ and the Church, "New Testament Studies", 1966-1967, pp. 270-281; G. RossÉ, in AA.VV.,
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Gesù Cristo, Roma 1981; G. KIENLE, Die ungeschriebene Philosophie ]esu, Stuttgart 1983; P. SINISCALCO, Il cammino di Cristo nell'Impero Romano, Bari-Roma 1983; J. PELIKAN, Gesù nella storia, Bari 1985; E. ScHURER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, 2 voli., (ed. inglese, Edinburgh 1973), trad. it., Brescia 1985; J.H. CHARLESWORTH, ]esus within ]udaism, New York 1988; P. JoHNSON, A history of the Jews, New York 1988. Sulle questioni relative al Nuovo Testamento, oltre gli annuali aggiornamenti bibliografici della Internationale Zeitschriftenschau fiir Bibelwissenschaft und Grenzegebiete (Diisseldorf) e in Biblica (Roma), si veda: Einfiihrung in das Neue Testament, a cura di R. KNOPF-H. LIETZMANN-H. WEINEL, Berlin 1949; W. MICHAELIS, Einleitung in das Neue Testament, Bern 19542 ; A. WICKENHAUSER, Einleitung in das Neue Testament, Freiburg i.Br. 19562 , trad. it., Brescia 19712 ; A. RoBERT-A. FEUILLET, Introduction à la Bible, II. Nouveau Test., Tournai 1959, 19802 ; Introduzione alla Bibbia, IV. I Vangeli, a cura di AA.VV., Torino s.d. [1959] (cfr. F. BoLGIANI, Nota bibl. a Nuovo Testamento, in La filosofia medievale, antologia di testi a cura di N. ABBAGNANO, Bari 1963). Si veda anche la nota bibliografica di G. BARBERO, cit., Torino 1962. Per il testo del Nuovo Testamento indichiamo, accanto alle edizioni di C. TISCHENDORF, Novum Testamentum graece, ed, maior, Leipzig 18698 , e di H. VON SoDEN, Die Schriften des Neuen Test., Gottingen 1913, quelle a cura di: E. NESTLE, Novum Test. graece et latine, Stuttgart 1898, 1936 16 , 197926 ; A. MERK, Novum Test. graece et latine, Roma 1933, 1964. Cf~ .. anche: A. JOucHER, Itala. Das Neue Testament in Altlateinischen Uberlieferung, Berlin 1938 sgg.; JM. BovER, Novi Testamenti Biblia graece et latine, Madrid 1943; Novum Testamentum, graece et latine, a cura di A. MERK-C. MARTIN!, Roma 1964, 1977. Per la Vulgata cfr. Novum Testamentum [. .. ]latine secundum editionem Sancti Hieronymi, a cura di I. WoRDSWORTH-H.I. WHITE-H.F.D. SPARKS, Oxford 18981954 (anche a cura della Pontificia Abbazia dei monaci di S. Girolamo in Roma, Roma 1926 sgg.). Sui V angeli apocrifi cfr.: C. TISCHENDORF, Evangelia apocrypha, Leipzig 1876; E. HENNECKE, Neutestamentliche Apocryphen, Tiibingen 1904 (nuova ed. a cura di W. SCHNEEMELCHER, Tiibingen 1959); E. PREUSCHEN, Antilegomena, Giessen 1905; C. MICHEL-P.PEETERS, Évangiles Apocryphes, Paris 1911-1914; M.R. }AMES, The apocryphal New Testament, Oxford 1924; G. BoNACCORSI, Vangeli Apocrifi, Firenze 1948; J. DoRESSE, L'Évangile selon Thomas ou les paroles secrètes de ]ésus, Paris 1955; Das Evangelium nach Philippos, a cura di W.C. TILL, Berlin 1963; J. BoNSIRVEN, Vangeli apocrifi, 2 voli., Milano 1962-1964; M. CRAVERI, I Vangeli apocrifi, Torino 1969; L. MoRALm,
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Apocrifi del Nuovo Testamento, Torino 1971; M. ERBETTA, Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, I. Vangeli, Testi giudeo-cristiani e gnostici; 1.2. Vangeli. Infanzia e passione di Cristo. Assunzione di Maria, Torino 1975 sgg.; AA.VV., Les Actes apochryphes des Ap6tres, Genève 1981; AA.VV., Gli Apocrifi cristiani e cristianizzati, Roma 1983 (anche Acta Johannis, apocrifi, a cura di]UNOD KAESTLI, 1983). Sul Vangelo di ~an Giovanni cfr.: J. RÉVILLE, La notion du Logos dans le Quatrième Evangile et dans !es Oeuvres de Philon, Paris 1881;]. WELLHAUS~N, Das Evangelium Johannis, Berlin 1908; A. LmsY, Le quatrième Evangile, Paris 1921 2 ; M.J. LAGRANGI_;:, Vers le logos de St. Jean, "Rev. Biblique", 1923; M.J. LAGRANGE, Evangile selon S. Jean, Paris 19273 ; A. 0MODEO, La mistica giovannea, Bari 1930; E.B. ALLO, L'évangile spirituel de St. Jean, Paris 1944; M.E. BOISl'vJARD, Le prologue de S. Jean, Paris 1955; L. BouYER, Le quatrième Evangile, Tournai 1955;]. BoNSIRVEN, Le témoin du V erbe, Toulouse 1956. Si vedano anche, di parte non cattolica: C .F. BouRNEY, The, aramaic origin of the fourth Gospel, Oxford 1922; P.H. MENOUD, L'Evangile de Jean, Neuchatel 1947; C.H. Donn, The interpretation of the Fourth Gospel, Cambridge 1953. Si confronti, infine: W. BAUER, in Handbuch zum Neuen Testament, Tiibingen 193Y; R. BuLTMANN, in Kritisch-exegetischer Kommentar iiber das Neue Testament, Gottingen 1953 (suppl., 1957); R. ScHNACKENBURG, in "Biblische Zeitschrift",
N.F. I, 1957. Utile per intendere il significato storico e dottrinale dei termini del Vangelo (cfr. Grazia, Logos, Legge) è il Theologisches Worterbuch zum Neuen Testament, a cura di G. KITTEL, Stuttgart 1932 (trad. it.: Grande Lessico del N. T., Brescia 1964). Si vedano infine i seguenti lessici: W. GRIMM-H. THAYER, A greek-english Lexicon of the New Test., London 1901; F. ZoRELL, Novi Testamenti Lexikon Graecum, Paris 1931; Bibel Lexikon, a cura di H. HAAG, Ziirich-Koln 1956; A greek-english lexicon of the New Test. and other early christian literature, a cura di W.F. ARNDT-F.W. GINGRICH, Chicago 1957. Si confronti anche Encyclopedic dictionary of the Bible, a cura di B. WooDENBOEK, New York-Toronto 1963 3 • Cfr. inoltre: Dictionnaire de la Bible, 5 voli., a cura di F. VIGOUROUX, Paris 1905-1912 (anche Supplément, a cura di L. PIROT-A. RoBERT-H. CAZELLES, Paris 1926 sgg.); J.J. VON ALLMEN, Vocabulaire Biblique, Neuchatel-Paris 1954 (trad. it., Roma 1969); J.B. BAUER, Bibel theologisches Worterbuch, Graz-Wien-Koln 1958, 19672 (trad. it., Brescia 1968); X. LÉoN-DUFOUR, Vocabulaire de théologie Biblique, Paris 1962 (trad. it., Torino 1965); Dizionario biblico, a cura di F. SPADAFORA, Roma 1963 3 ; Dizionario biblico, a cura di G. MIEGGE-B. CoRSANI-J.A. SoGGIN-G. TouRN, Milano 19682 ; Enciclopedia de la Biblia, Barcelona
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1969 (trad. it., Torino 1969-1970); Concordance de la Bible. Nouveau Testament, Paris 1970; Reallexikon fiir Antike und Christentum, Stutt-
gart 1988. Sui Vangeli in generale cfr. anche: A. ScHWEITZER, Geschichte der Leben-]esu Forschung, Tiibingen 1913, 1951 6 ; H. STRAACK-P. BILLERBECK, Kommentar zum N. Testament aus Talmud und Midrasch, 4 voli., Miinchen 1922-1929 (importante per il pensiero e il linguaggio ebraico che è al fondo del N. T.); F.M. BRAUN, Ou en est le problème de ]ésus?, Bruxelles-Paris 1932; A. WrKENHAUSER-0. Kuss, Das Neue Testamente iibersetzt und kurz erkldrt, Regensburg 1938 sgg.; G. RrNALDI, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 1961, 1971 2 ; C.F.D. MouLE, The Birth of the New Testament, London 1962 (trad. it., Brescia 1971); W. MARXSEN, Einleitung in das Neue Testament, Giitersloh 1963; K.H. ScHELKLE, Das Neue Testament. Seine literarische und theologische Geschichte, Kevelaer 1963, 19702 (trad. it., Brescia 1967); S. NEILL, The interpretation of the New Testament (1861-1964), London 1964; A.C. SUNDBERG, The Old Testament of the Early Church, Cambridge-London 1964, New York 1969; L. MoRALm-S. LYONNET-T. BALLARINI, Introduzione alla Bibbia, tomi 4 e 5, Torino 1960-1966; O. CULLMANN, Le Nouveau Testament; Paris 1966 (trad. it., Bologna 1968); M. RO!-!CAGLIA, Histoire de l'Eglise Copte, I. Les origines du Christianisme en Egypte: du ]udéo-Christianisme au Christianisme hellénistique, Dar Al-Kalima 1966; S. SAUDMEL, The first Christian century in ]udaism and Christianity: certains and uncertainties, New York 1969; W.K. KuMMEL, Das Neue Testament (1958), Freiburg-Miinchen 19702 ; AA.VV., Das Neue Testament im 20. Jahrhundert. Ein Forschungsbericht, Stuttgart 1970; P. FEINE-J. BEHM-W.K. KuMMEL, Einleitung in das Neue Testament, Heidelberg 1973 7 ; C. ScHAUBLIN, Untersuchungen zur Methode und Herkunft der antiochischen Exegese, Bonn 1974; P. VEILHAUER, Geschichte der urchristlichen Literatur, Berlin 1975; Introduction critique au ~ou veau Testament, I. Au seui! de l'ère chrétienne; II. L'Annonce de l'Evangile; III. Les ,lettres apostoliques; IV. La tradition johannique; V. L 'achèvement des Ecritures, a cura di A. GEORGE-P. GRELOT, Paris 1976-1977 (trad. it., Roma 1977-1978); V. CAsAs GARdA, El hombre en los Evangelios, in El hombre. Procedencia y proyecto, a cura di A. MERINO, Madrid 1979, pp. 203-223; E. PAGELS, I vangeli gnostici (1979), Milano 1981; AA.VV., L'antico Testamento nella Chiesa prenicena, "Augustinianum", Roma 1982; D.S. W ALLACE-HADRILL, Christian Antioch. A Study of Early Christian Thought in the East, Cambridge 1982; J. NEUSNER, ]udaism in the Beginning of Christianity, Philadelphia 1984 (trad. it., Brescia 1989); J.H. CHARLESWORTH, The Old Testament Pseudepygrapha and the New Testament, Cambridge 1985 (trad. it., Brescia
1990).
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Sui Vangeli e sugli evangelisti, con buona bibliografia, cfr. P. SrNIscALCO, Evangelisti, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, II, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987. Per il testo delle Epistole di San Paolo si vedano le edizioni del Nuovo Testamento sopra citate (in trad. italiana cfr. Le lettere di S. Paolo di Tarso tradotte dal testo greco e annotate, a cura di A. BoATTI, Milano 1932-1933; Le quattordici lettere di San Paolo, versione e note a cura di A. CorAZZI, Roma 1936; Le lettere di San Paolo tradotte e commentate, a cura di G. RE, Torino 1940). Ancora suggestive e storiograficamente interessanti sono le celebri opere di E. RENAN, St. Pau!, Paris 1869, e di E. BuoNAIUTI, San Paolo, Roma 1925. Fondamentale sul pensiero di San Paolo nel suo complesso è lo studio di F. Prat, Théologie de St. Pau!, 2 voli., Paris (I. 1927 14 ; II. 1925 12). Sul pensiero di Paolo nel suo insieme sono da consultare anche: A. 0MODEO, Paolo di Tarso, Messina 1922; L. ToNDELLI, Il pensiero di San Paolo, Milano 1928; A. TRicoT, St. Pau!, Apotre des gentils, Paris 1928; K. PrEPER, Paulus, seine missionarische Personlichkeit und Wirksamkeit, Mi.inster 1929; F. AMIOT, L'enseignementdeSt. Pau!, Paris 1944; J.M. BovER, Theologia de S. Pablo, Madriq 1946; G. RrcCIOTTI, Paolo apostolo, Roma 1946; J. BoNSIRVEN, L'Evangile de Pau!, Aubier, Paris 1948 (trad. it., Roma 1951); S. ZEDDA, S. Paolo, in Enciclopedia filosofica, III, Venezia-Roma 1957; N. CASERTA, Il dottore delle genti. Paolo, punto d'incontro tra il giudaismo e il mondo romano-ellenistico, Roma 1958; H.J. ScHOEPS, Paulus. Die Theologie des Apostles im Lichte der jiidischen Religionsgeschichte, Ti.ibingen 1959; E. BRANDERBURGER, Fleisch und Geist. Paulus und die Dualistische Weisheit, Neukirchen 1968; M. SIMON, Paolo di Tarso, in I protagonisti della storia universale, Milano 1969; S. BRETON, Saint Pau!, Paris 1988. Sui rapporti tra la concezione paolina e la cultura filosofica del suo tempo cfr.: A. BoNHOFFER, Epictet und das Neue Testament, Giessen 1911 (anast. 1964); K. DEISNER, Paulus und Seneca, Gi.itersloh 1917; W.L. KNox, Some Hellenistic Elements in Primitive Christianity, London 1944; P. BENOIT, Sénèque et St. Pau!, "Rev. Biblique", 1946; M. POHLENZ, Paulus und die Stoa, "Zeitschrift fi.ir Neutest. Wissensch.", 1949 (cfr. del PoHLENZ, anche, Die Stoa, Gottingen 1948-1949); S. LIEBERMANN, Hellenism in Jewish Palestine, New York 1950; A. WrKENHAUSER, Einleitung in das Neue Testament, Freiburg i.Br. 1953; R. DE LANGHE, Judaisme ou Hellénisme, in L 'Attente du Messie, Paris 1954; N.W. DE WrTT, St. Pau! and Epicurus, Minneapolis 1954; P. RossANO, L'ideale dell'assimilazione a Dio nello stoicismo e nel Nuovo Testamento, "Scrin. theol.", 1954; V. JoANNIDIS, 'O ~1tòaioì..oç IlauÀ.oç Kaì oi. I:'trotKoì cptMaocpot, Atfnai 1957; N. HuGEDÉ, Saint
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Pau! et la culture grecque, Genève 1966. Sul motivo della sapienza in senso greco e in senso ebraico-cristiano, oltre alle opere di insieme cfr. J. DE FrNANCE, La LO
re politico nel pensiero di San Paolo e nel dibattito delle dottrine politiche medievali, Roma 1938; M. DANIÉLOU, L'enseignementsocia!deSt. P,aul, "Culture", III, 1938; F.J. LEENHARDT, Le chrétien doit-il servir !'Etat? Essai sur la théologie po!itique du Nouveau Testament, Genève 1940; P. BLASER, Das Gesetz bei Paulus, Miinster 1941; H. AsMUSSEN, Der Brief des Paulus an die Epheser. Eine Herausforderung an die Macht, Breklum 1949; R. ScROGGS, The Last Adam. A Study in Pau!ine Anthropology, Oxford-Philadelphia 1966; A. SALAS, El hombre en San Pablo, in El hombre. Procedencia y proyecto, a cura di A. MERINO, Madrid
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1979; S. CIPRIANI, San Paolo e la "politica", in Lo Stato e i cittadini, a cura di A. G. MANNO, Napoli 1982. Sulla lettera ai Romani cfr.: T. ZAHN, Der Brief des Paulus an die Romer, Leipzig 1910; M.J. LAGRANGE, Épttre aux Romains, Paris 1931; C.H. Dono, The epistle to the Romans, London 1932; J. HAST!NGS, The Epistle to the Romans, Edinburgh 1937; J. HUBY, St. Pau!. Epttre aux Romains, Paris 1940 [ricordiamo anche, per la sua portata teorica nel quadro della Kierkegaard-Renaissance, la celebre opera di K. BARTH, Der Romerbrief, Bern 1919, Ziirich 1947 9, trad. it., L'Epistola ai Romani, Milano 1962, 1974]. Sulle Lettere ai Corinzi cfr. A. BISPING, Erkliirung des ersten Briefes an die Korinther, Miinster 1883; F.S. GU'IJAHR, Vie zwei Briefe an die Korinther erklà'rt, Graz-Wien 1916-1922; E.B. ALLO, St. Pau!. Première Épttre aux Corintiens, Paris 1934. Sull'Epistola ai Colossesi cfr. CH. MAsSON, Épttre aux Colossiens, Neuchàtel-Paris 1950. Sulla presunta falsità dell'epistola agli Ebrei e sui rapporti di questa con il pensiero di Filone l'Ebreo, cfr. C. SPICK, L'Epztre aux Hébreux, I, Paris 1952. Sull'Epistolario paolino cfr. ancora: A. HARNACK, Die Briefsamm-
lung des Apostel Paulus und die anderen vorkonstantinischen Christlichen Briefsammlungen, Leipzig 1926; O. RoLLER, Das Formular der paulinischen Briefe, Stuttgart 193 3; K. THRADE, Grundziige griechischromischer Brieftopik, "Zetemata", 48, Miinchen 1970; A. SISTI, in A. WicKENHAUSER-0. Kuss, Introduzione al Nuovo Testamento, ed. it., Brescia 1971 2 • Per il carteggio apocrifo Paolo-Seneca, cfr. l'ed. di C. W. BARLOW,
American Academy, Roma 1938, e lo studio di L. BocCIOLINI PALAGI, Il carteggio apocrifo di Seneca e San Paolo, "Studi dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere'la Colombaria"', Firenze 1978. Per il testo delle lettere di San Pietro indichiamo le citate edizioni del Nuovo Testamento. Su San Pietro cfr.: C. FouARD, St. Pierre et les premières années du Christianisme, Paris 1908 10 (trad. it., Torino 1920); G. THILS, L'enseignement de St. Pierre, Paris 1943 3 ; P. DE AMBROGGI, San Pietro Apostolo, Milano 1944; A. PENNA, San Pietro, Brescia 1954; O. CULLMANN, Il Primato di Pietro (1952), Bologna 1965; R.E. BROWN, Pietro nel Nuovo Testamento, Roma 19882 . Per gli Atti degli Apostoli rimandiamo ai Commenti di Th. BEELEN (Louvain 1864) e di J. KNABENBAUER (Paris 1899), insieme agli studi di: A. HARNACK (Beitriige zur Einleitung in das N. T., Leipzig 1906-1908), A. LmsY (Paris 1920), E. }ACQUIER (Paris 1926), A. STEINMANN (Bonn 1934), l. STRAUBINGER (Montevideo 1945).
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Sull'Apocalisse di San Giovanni si veda G. BoNSIRVEN, L'Apocalisse di San Giovanni, Roma 1958. Insufficiente l'edizione a cura del MIGNE (Patrologia graeca, I, II, V) dei testi dei padri Apostolici; per essi indichiamo l'edizione a cura di F.X. FuNK-F. DIEKAMP, Patres apostolici, 3 voll., Tiibingen 1901-1913 e Les Pères Apostoliques, 4 voli., testo greco, trad. frane., intr. indici, a cura di H. HEMMER- G. 0GER- A. LAURENT- A. LELONG, Paris 1907-1912 (collana "Testes et Documents") (si veda anche: The Apostolic Fathers, a cura di J.B. LIGHTFOOT, London 1885 sgg.; Patres Apostolici, 5 voli., a cura di J. VIZZINI, Roma 1901-1904; The Apost. Fathers, 2 voll., a cura di K. LAKE, London 1917-1919; Patrum Apostolicorum opera, a cura di S. CoLOMBO, Torino 1934; I Padri Apostolici, 2 voll., testo e trad. it., a cura di B. BosiO, Torino 1940). Per l'insieme delle Epistole cfr. a cura di K. BIHLMEYER, Tiibingen 1956. Oltre le opere generali sulla Patristica, per le quali cfr. sotto, sui Padri Apostolici vedi: A. CASAMASSA, I Padri Apostolici, Roma 1938; G. BARDY, La théologie de l'Église de Saint Clément de Rome à Saint Irénée, Paris 194 5 (si vedano le singole voci in Dictionnaire de théologie catholique e in Enciclopedia Cattolica). Vedi inoltre: W.L. GREIG, The Social Ethics of the Apostolic Fathers, "Diss. Abstracts", 1965-1966; R.N. LoNGENECKER, Biblica! Exegesis in the Apostolic Period, Grand Rapids 1975. La Prima lettera ai Corinzi di San Clemente Romano si veda in particolare nell'edizione a cura diJ.B. LIGHTFOOT, Clement of Rome, London 18902 , ed in quella di H. HEMMER, Les Pères apostoliques, II (collana "Textes et Documents"), Paris 1909. Cfr. l'ed. di S. Clemente a cura di A. }AUBERT, Paris 1971, e KL. WENGST, Didache Barnabasbrief, Zweiter Klemensbrief, Schrift an Diognet, intr. e comm., Darmstadt 1984. Su S. Clemente Romano, oltre le opere d'insieme sulla formazione del primo cristianesimo (vedi sotto), cfr.: M.F. GERKE, Die Stellung des
ersten Klemensbriefe innerhalb der Entwicklung der altchristlichen Gemeindeverfassung und des Kirchenrechts, Leipzig 1931; M. GIRAUDO, L'ecclesiologia di S. Clemente Romano, Bologna 1943; L. SANDERS, L'hellénisme de St. Clément de Rome et le paulinisme, Louvain 1943; C. EGGENBERGER, Die Quellen der politischen Ethik der ersten Klemensbriefes, Ziirich 1951. Sugli apocrifi clementini cfr.: F. NAu, Clémentins (Apocryfes), in Dict. de Théol. Cathol. Anche M. SIMONETTI, Padri della Chiesa, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, II, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987, pp. 1553-1556.
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Le opere di Sant'Ignazio di Antiochia si vedano nell'edizione a cura di A. LELONG, Les Pères Apostoliques, III (collana "Textes et Documents"), Paris 1910, ed in quella a cura di TH. CAMELOT, Lettres de St. Ignace (collana "Sources chrétiennes"), Paris 1944, 19582 • Su Sant'Ignazio, oltre le opere d'insieme sull'or~ine del Cristianesimo, cfr.: J. CHAPMAN, St. Ignace d'Antioche et l'Eglise romaine, "Rev. bénéd.", 1896; H. DE GENOUILLAC, L'Église chrétienne au temps de St. Ignace, Paris 1907; M. RACKL, Die Christologie des h. Ignatius v. A., Freiburg 1914; O. PERLES, Ignatius von Antiochien und die romische Christengemeinde, "Divus Thomas", 1944. Cfr. anche l'introduzione di TH. CAMELOT alle Lettres de St. Ignace, cit. Sulla Scuola di Antiochia cfr.: C. ScHAUBUN, Untersuchungen zur Methode und Herkunft der antiochenischen Exegese, Bonn 1974; D.S. W ALLACE-HADRILL, Christian Antioch. A Study of Early Christian Thought in the East, Cambridge 1982. Le opere di San Policarpo si vedano nell'ed. a cura di A. LELONG, Les Pères Apostoliques, III, Paris 1910, e su di lui si veda in particolare l'introduzione di A. LELONG all'edizione citata. L'edizione dei testi dello Pseudo-Barnaba si veda in Les Pères Apostoliques, I, cit.; quella di Papia in Patres apost., cit., a cura del FUNK. Il Pastore di Erma si veda nell'ed. a cura di A. LELONG, in Les Pères Apostoliques, cit., IV. Le Pasteur d'Hermas, Paris 1912 (trad. it. a cura di R. MAZZINI, Siena 1928). - Su Erma cfr.: A. BAUMEISTER, Die Ethik des Pastor Hermae, Freiburg i.Br. 1912; A. DrBELIUS, Der Hirt des Hermas, )n Handbuch zum N. T., Tiibingen 1923 (cfr. anche A. D'ALÈS, L'Edit de Calliste, Paris 1914); R. }oLY, Introduction à Hermas, Le Pasteur, intr., testo critico, trad. e note, Paris 1958 (collana "Sources chrétiennes"); M. WHITTAKER, Der Hirt des Hermas, inDie Apostolischen Viiter, I, Berlin 1956, 19672 • Sui principali problemi e per una bibliografia aggiornata cfr.: A. HILHORST, Hermas, in "Reallexikon fiir Antike und Christentum", fase. 108-109, Stuttgart 1988, coll. 682-701; A. CARLINI (con la collaborazione di L. GIAccoNE), Papyrus Bodmer XXXVIII. Erma: Il Pastore (la e Ila visione), ColognyGenève 1991. L'Epistola Ad Diognetum si veda nell'ed. a cura di H.I. MARROU, A Diognète, introduzione, ed. critica, trad. e comm., Paris 1951, e a cura diJ.J. THIERRY (con introd. e glossario), Leiden 1-964 (coli. "Textus minores"). Sull'A Diogneto cfr. l'ottima introduzione del Marrou all'ed. citata (si vedano anche le opere sugli apologisti in genere); anche KL. WENGST, [... ] Schrift an Diognet, Darmstadt 1984; C. TIBILETTI, Azione cosmica dei Cristiani in "A Diogneto" 6, 7, "Orpheus", 1983,
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pp. 32-41; M. PERRINI, A Diogneto. Alle sorgenti dell'esistenza cristiana.
Una risposta del secondo secolo sulla domanda "In quale Dio i Cristiani ripongono la loro fede?", Brescia 1984, 19862 • Si veda A Diogneto, intr., trad., note, a cura di S. ZINCONE, Roma 1987. Per la Didachè, o Dottrina dei dodici Apostoli, cfr. l'edizione a cura di A. HEMMER-A. LAURENT, in Les Pères Apostoliques, I (Textes et Doc.), Paris 1907. Sulla Didachè cfr.: A. CHIAPPELU, Studi di antica letteratura cristiana, Torino 1887; J.M. MINASI, La dottrina del Signore dei dodici Apostoli bandita alle genti, detta "Dottrina dei dodici Apostoli", traduzione, note e commento, Roma 1891; P. SAvi, La "Dottrina dei dodici Apostoli", "Studi e Documenti di Storia e Diritto", 1892-1893; F. RAIMONDI, Dottrina del Signore insegnata dai dodici Apostoli alle genti, Firenze 1958. Si veda ancora KL. WENGST, Didachè: Apostellehre; Barnabasbrief; Zweiter Klemensbrief, Schrift an Diognet, Darmstadt 1984, e il commento scientifico di K. NIEDERWIMMER, Die Didache, erkliirt, "Kommentar zu den Apostolischen Và'tern", I, Gottingen 1989.
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Indice dei nomi
Abramo,214 Achille Tazio, 53,233 Adriano, Imperatore, 243, 316, 341, 366 Aezio, 178, 207 AgatarchidediCnido, 161 Agostino (Sant'), 103, 114, 124,212, 245 Agrippa, 171,179,196-200,288 Agrippina, 244, 245, 253, 272, 273, 274,278 Albucio, vedi Tito Albucio Alceo, epicureo, 132, 134 Alcibiade, 349 Alcimo,84 AlessandrodiAfrodisia, 162,300 Alessandro Baia, 84 Alessandro II di E piro, 72 Alessandro Filopono, 232 Alessandro Magno, 41, 67, 70, 71, 72 Alessandro Poliistore, 53, 66, 293, 294 Alexino, 102 Alfonsi, L., 157 Amafinio, 132, 135, 136, 153 Ambrogio (Sant'), 171,361 Ammonio di Alessandria, 24 3 Ammonio di Ermia, 163 Anacleto, 355,362 Anania, 90 Anassagora, 102, 144,307,308 AnassimenediLampsaco, 75 AncoMarcio, 155
Androcide, pitagorico, 305 Andronico (Livio), vedi Livio Andronico AndronicodiRodi, 9, 162, 163, 164 Aniceto, vescovo di Roma, 363 Anneo Cornuto (Lucio), vedi Cornuto Anneo Lucano, vedi Lucano (Marco Anneo) Anneo Mela, 24 3 Anneo Novato, 243, 245, 250, 252, 253,282 Anneo Seneca, vedi Seneca il Vecchio Anneo Seneca (Lucio), vedi Seneca Anneo Sereno, 246,253,271 Anneo Stazio, vedi Stazio (Anneo), medico Antigono, 71 AntigonoGonata, 70, 72,74 Antioco di Ascalona, 9, 14, 19, 26, 28,94,95,96, 101,103,104-110, 111,112,114,115,116,117,118, 123,162,164,178,179,180,181, 183,288,290,291,292 Antioco Epifane Seleucida, 84, 132, 135, 141 AnticodiLaodicea, 179,195,196 Antioco II di Siria, 72 Antiocoi Sotèr, 71,235 Antipatro di Tarso, 26, 31, 33, 49, 50,105,111,325 Antipatrodi Tiro, 162,243 Antonia Minore, 236
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Antonio, vedi Marco Antonio (oratore) Antonio Triumviro, vedi Marco Antonio (Triumviro) Antonino Pio, Imperatore, 24 3 Apelle, scettico, l 79, 196 Apellico, 162 Apollinare di Laodicea, 363 ApollodorodiAtene, 162 Apollodoro di Pergamo, 309 Apollodoro di Seleucia, 111 Apollodoro Tiranno del Giardino, 131, 138 Apollonide di Nicea, 196 Apollonide, stoico, 50 ApolloniodiCizio, 167,168 Apollonia di Mindo, 283 Apollonia di Tiana, 301, 305, 306, 307-312,314 Apollonia il Vecchio, 20 l Appio Claudio Cieco, 11 Appio Claudio Pulcro, 69 Appuleio Saturnino (Lucio), 23 Apuleio, 290,301,306 Arato di Soli, 34, 74, 75, 76, 114, 117,130,209,231,233,237,356 Arcesilao, 13, 82, 96, 97, 102, 106, 107,108,118,182,183,195,288 Archedemo, 325 Archibio, 201 Archimede, 55, 56,57 Archita, 76,291,292,294, 302,303, 305 Arie Didimo, 53, 160, 161, 162,260, 288,290 Aristarco, 55 Aristea, 70, 78-79 Aristobulo, 70,80-82,94, 171, 175 Aristocle, 178, 179, 180, 181, 193 Aristofane, 19 AristofanediBisanzio, 163 Aristone di Ascalona, 162 Aristone di Chio, 261, 306, 318, 325,334 Aristosseno, 69,70 Aristotele, 13, 17, 19, 20, 23, 25, 29,32, 35, 39, 40, 41, 44, 55, 57, 58, 75, 76, 79,80,81,94,99, 108, 109,110,111,114,118,128,148,
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162,163,164,165,172,175,176, 207,208,216,217,230,231,233, 243,260,263,264,266,283,287, 288,289,290,291,292,299,300, 301,302 Arnim, (von), H., 178, 194 Arnobio, 34, 152,321 Arriano, 71, 315, 316, 320, 321, 322,323,340,341,344 Artapano, 66 Artemidoro, 316 Asclepiade Mirleano, 231, 23 7 Asclepiade di Prusa, 166, 16 7 Asoka, 71-7 3 Atenagora, 163 Ateneo di Attalia, 16 7 AteneodiNaucrati, 30, 51,132,134 Ateneo, stoico, 243 Atenodoro Cordilione, 50 Attalo, 229,244,250,259,260,262, 308 Atti degli Apostoli, 89 Attico, vedi Pomponio Attico (Tito) Attico, accademico, 243 Attico, epicureo, 48 Audet, LP., 88 Augusto, 67, 95, 113, 119, 121, 126, 155,156,157-160,166,167,225, 226,227,229,236,237,240,241, 252,253,260,320,324 Aule Cornelio Celso, vedi Celso (Aule Cornelio) Aule Gellio, 121, 315, 316, 321, 322,338 Aurelio, vedi Marco Aurelio Aurelio Cotta, 13, 22, 125 Aurelio Eraclide Euripide, 243 Aurigemma, S., 69 Avieno, 75 Balbo (L. Lucilio), 49 Balbo (Q. Lucilio), 49 Bannus, 85 Barbero, G., 361 Barnaba, 363 Basilide,epicureo, 131,138 Basilio, vedi Porfirio
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Basilio (San), 357 BerosodiBabilonia, 63,231,235 Bevan,E.,51,54, 135 Bidez,J., 62 Bindusara, 71 Blossio di Cuma, 49 Boeto di Sidone, stoico, 9, 26, 34, 108,325 Boeto di Sidone, il Peripatetico, 163 Boli, F., 236 BolodiMende, 62, 63, 65, 68,241 Bonhoffer, A., 325,340,342,343 Bonsirven,J., 359 Borea Sorano, 313, 316 Boyancé,P.,142,143,154 Bréhier, E., 178,218,224 Britannico, 244,273 Brochard, V., 194 Brucker,J.J., 9 Brunet, P., 56,57 Bruns, l., 326 Bruto (Marco Giunio), 119, 154, 162,229,262 Bryennios, F., 364 Buddha, 72, 349 Burro (Anneo), 244,273,278,284 Burrows, M., 88, 89, 90,94 Caio Lucio, poeta, 96 Caligola, Imperatore, 67, 171, 172, 227,231,244,245,249,250,251, 252,253,261,262,272,273,274, 319 Callide, 96, 98 Calliete, 243 Calpurnio Pisone, 244, 245, 284, 285,315,317 Calpurnio Pisone, epicureo, 132, 141,142,143,150,154 Calvisio Tauro, 243 Capone-Braga, G., 194 Carcopino,J., 69 Carmada, 19, 28, 95, 96,98-99, 100, 106 Carneade, 9-10, 12, 13, 17, 26, 27, 28,30,31,34,45,47,82,95,96, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 104, 106,128,135,182,183,195,236, 242,247,288
Carneade di Polemarco, 95 Cassio, 133,137,154,229,262,271 Cassio Longino, vedi Longino Cassio Cassio Medico, 166 Cassiodoro, 301 Catilina, 113 Catone il Censore, 11, 15,17-18,27, 32,67, 70,115 Catone Uticense, 50, 119, 121, 154, 270,271 Catullo, 143, 144 Cazio, 132, 135, 153 Cebete (pseudo), 290 CecilioCalatte, 309,310 Cecilie Firmiano, vedi Lattanzio Celso, 324, 358 Celso(AuloCornelio), 116,167,201 Cepione,23 Cesare, 12, 21, 47, 50, 69, 113, 115, 119,120,121,125,126,128,133, 141,154,157,167,180 Chevallier, R., 269 Ciandragupta, 71 Cicerone (M. Tullio), 9, 10, 12, 13, 14, 15, 19,20,21,22,23,24,25, 26,28,29,30,31,32,33,34,35, 36,37,38,39,40,41,42,45,46, 47,48,49,50,51,53,60,61,67, 68,69, 70, 75, 77, 78,94,95,96, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104,105,106,107,108,110,111, 112-130,131,132,135,136,137, 138,139,140,141,144,148,151, 152,153,154,160,162,172,180, 181,226,230,232,240,251,252, 270,288,290,291,361 Cicerone (Quinto Tullio), 112, 114, 115,137,144,152,180 Claudio, Imperatore, 229, 244, 245,246,248,249,252,253,261, 262,273,274 Cleante, 26, 29, 30, 31, 47-51, 73, 74, 75, 101, 105, 106, 107, 108, 161,205,207,209,216,231,232, 233,290,318,325,327,342,356 Clemente Alessandrino, 36, 80, 82, 171,363
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Clemente Romano, 355, 362, 363, 364,365 Cleomede, 55, 163 Clitomaco Asdrubale, 9, 26, 28, 95,96, 97-98, 99, 10Ò, 103, 104, 106, 111, 195 Cohn, L., 171 Colote, 132 Columella (Lucio Giunio Moderato), 296 Commento di Abacuc, 85 Comparetti, D., 141 Coponio Massimo, 24 3 Cornelio Nepote, 18, 152 Cornificio Longo, 50 Cornuto (Lucio Anneo), 229, 312, 314-315 Cotelier, A., 363 Cotta, vedi Aurelio Cotta Couissin, P., 180 Crantore, 108 Crasso (Lucio Licinio), 13, 22, 112, 114 Crasso (M. Licinio), 113, 120, 121, 154 CratetediMallo, 111,161 Cratete di T arso, 95 Cratete di Tebe, 19 Cremuzio Corde, 229, 245 Crisippo, 19, 23, 25, 29, 30) 31, 34, 47, 51, 52, 58, 105, 106, 128, 161, 189, 190, 207, 226, 240, 247, 318, 325, 326, 327, 329, 334,342 Crisogono, 112 Critolao, 162 Critone (pseudo), 292 Ctesibio, 167 Ctesifonte, 114 Cumont, F., 62, 69, 234, 235, 236, 237,241,242 Curio Dentato, 258 Daimachos di Platea, 71 Dal Pra, M., 99, 181, 192, 194, 196,199,200,201 Damaride, 357 Damascio, 322 Damene, pitagorico, 69
Dardano, stoico, 104 Delatte, A., 68 Della Corte, F., 19 Demetrio, cinico, 243, 244, 247, 250,252,260-262,263,268,306, 308,311,312,314,334 DemetriodiLaconia, 131,138 Demetrio Poliorcete, 71 Demetrio Siro, 112 Democrito, 61, 62, 63, 65, 66, 101, 102,136,140,144,150,307,308 Democrito (Pseudo), 64 Demostene, 114, 125, 141 De mundo, 163, 164, 165, 172, 288, 294 Dentato, vedi Curio Dentato Dercillide, 163 Detti aurei, 292,293,306 De Witt, N.W., 143 Dicearco, 20, 26 Didachè, 364,365 Didimo, vedi Ario Didimo Diels,H., 178,194 Diodoro Crono, 99,102,106,128 Diodoro, empirico, 20 l Diodoro di Scepsi, l 00 Diodoro Siculo, 66, 71,235 Diodoro di Tiro, 162 Diodoto, stoico, 112, 125 Diogene di Babilonia, 12, 17, 30, 31-32, 33, 34, 69, 108, 111, 115, 135, 143,310 Diogene di Enoanda, 140 Diogene Laerzio, 9, 33, 34, 35, 36, 51,52,53,54,66,95,96,98, 142, 162,179,181,182,184,185,186, 187,193,195,196,201,294,295, 301,327 DiogenediSinope, 325 Diogneto, vedi Epistola a Diogneto Dione Cassio, 246, 250, 273 Dione di Prusa (Crisostomo), 229, 307,314,316,334,345 Dione, stoico, 30 Dionigi di Alicarnasso, 309 Dionigi Areopagita, 357 Dionigi di Egea, 20 l Dionigi il Piccolo, 34 7
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Dionisio, ambasciatore, 71 Dionisio, stoico, 162 Diotogene, 76,77 Dobson,J.F., 34 Dodds, E.R., 68,289,300 Domiziano, Imperatore, 229, 231, 308,309,311,314,316,318,320, 321,324,341,362,364 Domizio, vedi Nerone Donato(Elio), 144,153 Dottrina dei dodici apostoli, vedi Di-
dachè Dupont,J., 359 Dupont-Sommer, A., 85, 88,89 Ebuzio Liberale, 246, 254 EcatonediRodi, 33, 112 Ecclesiastico, 82,208 Ecfanto, 76, 77 Edelstein, L., 52 Egnazio, epicureo, 152, 154 Egnazio Celere, 313 Eliano, 132, 134 Elio Stilone, 49 Elvia, 243,245,248,250 ElvidioPrisco, 262,313,314,320 EmilioPaolo(Lucio), 11,19 Empedocle, 69, 102, 144,292, 307, 308,311 Enesidemo, 9, 171, 178, 179-195, 196,197,199,200,201,230,288 Ennio, 16, 133 Enobarbo, vedi Gneo Enobarbo Epafrodito, 321,324,325 Epicari, 244,284 Epicuro, 47, 58, 128, 131, 132, 133,136,138,140,141,142,143, 144,148,149,150,154,155,157, 177,233,234,247,251,255,258, 271,281 Epifanio, 34 Epigene, 283 Epistola a Diogneto, 364 Epitteto, 261, 306, 308, 312, 314, 315,316,318,319,320-341,342, 343,344,345 Eraclide di Eritrea, 181 Eraclide Pontico, 232
EraclidediTaranto, 167,181,201 Eraclito, 176,178,193,194,195 Eraclito di Tiro, 103,140 Erasistrato, 166 Eratostene, 55,57, 161 Erimneo, 162 Erma,349,363,365,366 Ermagora di Temno, 17, 19-20, 22, 23,25 Ermagoradi Temno, il giovane, 309 Ermarco, 131, 138, 141 Ermete Trismegisto, 66, 68 Ermippo di Smirne, 66 Erode di Palestina, 85 Erodoto, 55 Erone,167 Eschine, 114 EschinediNapoli, 98 Esiodo, 80 Esseni,83,84,85,86,87,88,89,93 Euclide, 301,305 Eudoro di Alessandria, 162, 299, 300 EudossodiCnido, 74,75,232 Eufrate di Tiro, 316 Eurifamo, 292 Euripide, 333 Eusebio di Cesarea, 80, 81, 82, 143, 160,171,178,179,180,193,217, 219,258,307,311,363,366 Eusseno di Eraclea, 307, 308 Eutidemo di Fenicia, 307 Fabiano Papirio, 165-166, 244,250, 252, 260, 262 Fabio Rustico, 251 Fania, 34 Fannio (Caio), 49 Farrington, B., 130,135,153,240 Favonio, vedi Marco Favonio Fedro, epicureo, 9, 112, 132, 133, 138, 139, 140 FenioRufo278 Festugière, A.J., 63, 64, 66, 68, 111, 142,164,172,236 Filino di Cos, 201 Filisco, 132, 134 Filocrate, 78
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Filodemodi Gadara, 9, 69, 130, 132, 138,139-143,153,156 Filolao, 291,292,302 Filometore, 80 Filone di Bisanzio, 167 Filone l'Ebreo, 34, 51, 77, 80, 83, 85, 86, 87, 88, 94, 108, 164, 171-179,182,184, 185, 186,187, 203,204-228, 230,236, 267, 288, 290,300,343,349,350,353,355, 356,360 Filone di Larissa, 9, 14, 19, 26, 28, 94, 95, 96, 100-104, 105, 106, 111,112,114,116,117,118,125, 139,181,230,288 Filone, megarico, 99 FilonidediLaodicea, 132, 135~ 145 Filopono, vedi Alessandro Filopono Filostrato di Lemno, 305, 307, 308, 309,310,311,312 Firmico Materno, 65, 23 7 Fiacco, 172,227 Fozio, 179, 180, 181, 182, 189, 192, 193,201,322,323 Fraote, 309 Prezza, P., 158, 159 Fufio Caleno, 121 Gaio, vedi Caligola Gaio Antonio, 113 Gaio Gracco, 29, 49 Gaiba, Imperatore, 313, 314, 315, 320 Galeno, 51, 54, 167 Garin, E., 266,277 Gellio, vedi Aulo Gellio GeminodiRodi, 163,232 Germanico, 75,236,237,244,272 Gerolamo (San), 16, 121, 144, 152, 171,173,245,363 Giacomo (San), 362 Giacomo, Vangelo di, 347 Giamblico, 291,307 Gigon, 0., 347 Giovanni Battista, 92, 93 Giovanni Evangelista, 91, 94, 343, 347,350,351,353,355,357,362, 363 GiovanniStobeo,vediStobeo
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Giovenale, 334 Giuba II di Numidia, 291 Giuda (San), 362 Giulia Domna, 307 Giulia Livilla, 244, 272 Giulio Cano, 229 Giulio Cesare Germanico, vedi Germanico Giulio Zosimiano, 243 Giunio Bruto, 13 GiunioGallone, 243,250 Giunio Rustico (Ammiratore di Trasea Peto), 231,314 Giuseppe, Ebreo, 85, 86, 87, 88,89 Giustino (San), 171,357,366 Glauciadi Taranto, 201 Gneo Enobarbo, 244, 272 Goedeckmeyer, A., 194 Gorgia, 32, 307 Gracchi, 11, 12, 13, 19, 22, 23, 24, 49 Gracchi, vedi Gaio Gracco e Tiberio Gracco Gregorio di Nazianzo, 324 Gregorio di N issa, 31 Guerradeifiglidella luce, 84, 85,91 Hagnonedi T arso, 98 Hirzel, R., 194 Hopfner, T., 64 !arca, 309 !erode di Alessandria, 293 I erode Sossiano di Bitinia, 312 !erode, stoico, 341 Ignazio di Antiochia, 363,364,365 Inni della Grazia, 84-85 IpparcodiNicea, 50, 55,56-5 8, 232 Ipparco, pitagorico, 292 Ippocrate, 200 lppodamo di Turi, 292 Ireneo (Sant'), 363 Isocrate, 70 Jensen, Ch., 141 JonataMaccabeo, 84 Karpinski, L. CH., 303 La Penna, A., 119
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Laterano, vedi Plauzio Laterano Lattanzio, 114, 152 Lawrence, D.H., 349 Lelio,11,22,49,114,115,135 Lepido, 113,126 Lettera di Aristea, 78-79 Libone, 122 Libro della Sapienza, 82, 134 Licodi Napoli, 201 Licorta, 42,43 Lino, 80,81 Lino, vescovo di Roma, 355,362 Livio, 18 Livio Andronico, 16 Longino (Cassio), 309 Longino (Pseudo), 309,310 Luca, Evangelista, 343,347 Lucano(MarcoAnneo),243, 314 Lucilio (corrispondente di Seneca), 246,254,257 Lucilio, poeta, 97 Lucilio Balbo, vedi Balbo Q. Lucilio e L. Lucilio Lucio, seguace di Musonio, 316 Lucio Bruto, 11 Lucio Censorino, 28, 96, 97 Lucio Elio, 122 Lucio Gellio, 321 Lucio Saufeio, 154 Lucrezio, 9, 95, 130, 13 7, 138, 140, 141,144-156,181,237 Lucullo,28,96,103,104,118 Maccabei, 83, 84, 85,87, 92,348 McLiwain, C.H., 46 Magas di Cirene, 72 Mai, A., 114 Maleo, vedi Porfirio Manilo (Marco), 97 Manilio, 231, 234, 236-240,290 Manlio Torquato (Lucio), 154 Manuale di Disciplina, 84, 85, 87, 88, 89,90,91,92,93,348 Marchesi, C., 251,273,274,282 Marcia, 245,248 Marco Annio Catilio Severo, vedi Marco Aurelio Marco Antonio (oratore) 13, 22, 23, 24,114
Marco Antonio (triumviro), 113, 121, 125, 126, 154 Marco Aurelio, 243, 307, 320, 321, 322,366 Marco Aurelio Vero, vedi Marco Aurelio Marco Evangelista, 343,347,350 Marco Favonio, 49 Mario(Caio), 12, 19,22,23,29,120 Marrou, H.I., 16, 22,23 Martino di Brancara, 24 5 Massimo di Tiro, 164 Materno, 314 Matteo, Evangelista, 343,347,351 Mecenate, 156 Megastene, 71 Melanzio di Rodi, 98 Melitone di Sardi, 366 Memmio, 131, 138, 139, 144, 148, 153 Menippo, 122 Menodoto di Nicomedia, 196, 201, 202 Messalina, 244,245,272,273 Metilio, 245 Metopo di Sibari, 292 Merodoro, epicureo, 136, 142 Metrodoro di Chio, 102 Metrodoro di Cizico, 100 MetrodorodiPitane, 100 Metrodoro di Scepsi, 100 Metrodoro di Stratonica, 28, 95, 96, 98,99,100,106 Miche!, A., 23, 24 Minuncio Fundano, 316 Misonio, 24 3 Mnesarco, 9, 33, 104, 162 Moderato di Gades, 290, 293, 296-301 MolonediRodi, 112, 113, 125 Mosè,66,80,81,92, 174,176,205, 210,215,218,226,346,349,353 Miiller, B.A., 237 Mummio Spurio, 49 Murena, 113 Musonio Rufo (Caio), 229. 306,312, 314,315-320,321,324,325,326, 340,344
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Natorp,P., 194 Nechepso, 63, 65,231,237 Neleo, 162, 244 Nerone, Imperatore, 229, 244, 245, 246,249,254,261,262,271,272, 273,274,275,277,278,284,285, 308,309,311,312,313,314,317, 319,320,321,324 Nerone Claudio Druso, 236 Nerva, Imperatore, 307,309,341 Nicomaco di Gerasa, 290, 293, 301-305 Nigidio Figulo, 62, 68-69, 305 Numa Pompilio, 11 Numenio di Apamea, 31, 80, 103, 143,258,290 Ocello (Pseudo), 293,294,295,296 Oldfather, W.A., 336 Omero, 16, 80 Onato di Crotone, 291 Orazio, 143, 156, 157 Orfeo, 66, 80,81 Origene, 171, 324, 363 Ortensio, 13, 114 Ostane, 62, 64, 65, 68,235 Otone, Imperatore, 320 Ottavia, 244,273 Ottavio, vedi Augusto Ovidio, 152 Fallante, 273 Panezio,9,11,14,19,25,26,28,30, 31,33-42,45,47, 49, 50,52,55, 104,111,112,115,116,130,162, 279,291,325 P ansa, vedi Vibio P ansa Paolino (pref. dell'annona), 245,253 Paolo (San), 89, 90, 91, 93, 94, 245, 282,312,343,345,346,347,348, 350,351,352,355,356,357,359, 360,361,362,363 P apia di Gerapoli, 363, 364 Papirio, vedi Fabiano Papirio Papirio Carbone (Caio), 29 Papirio Peto, 154 Pappenheim, E., 194 Patrick, M., 194
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Patrone,epicureo, 9, 132,138,144 Perseo, 19, 70,74 Persio Fiacco, 314 Petosiride, 63, 65,231,235,237 Philippson, R., 141 Pietro (San), 89, 91, 347, 348, 355, 361,362,364 Pio, vescovo di Roma, 363,365 Pirrone, 9, 99,182,183,195,202 Pisone, vedi Calpurnio Pisone Pitagora, 11, 12, 66, 68, 80,81, 243, 246,259,287,289,291,292,301, 304,305,306,307,308,311,312 Platone, 13, 19, 20, 21, 26, 29, 32, 35,40,41,44,50,52,54,57,58, 66,68,69, 70, 71, 73, 75, 76, 79, 80,81,94,96,102, 105,107,108, 110,111,115,116,122,125,130, 133,136,148,157,161,162,163, 164,172,175,176,177,205,206, 207,208,209,211,216,217,219, 224,225,226,230,231,233,235, 243,255,260,263,264,265,287, 288,289,290,291,294,296,298, 299,300,301,302,303,304,305, 308,316,320,323,325,335 Plauzio La t erano, 24 5, 285 Plebe,A.,20, 31,69 Plinio, 18, 55, 62, 66, 67, 85, 87, 88, 100,142,166,167,251 Plinio il giovane, 314,316 Plotino, 162,212,219,220,242 Plozio Gallo, 22 Plutarco di Cheronea, 18, 19, 50, 162,243,290,294,315,316 Polemone, 96, 108 Polibio, 17, 26,27, 28, 33,42-45,49, 50,55, 111,130 Polibio, liberto di Claudio, 24 5, 248 Policarpo di Smirne, 363, 364 Poliistore, vedi Alessandro Poliistore Polistrato,epicureo, 131,138 Pollione, vedi Valerio Pollione Pollione, vedi Vitrasio Pollione Pompeo, 12, 19,29,50,55,68, 113, 119,120,121,125,126,154 Pompeo Strabone, 112 Pomponia Paolina, 24 5, 285
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Pomponio Attico (Tito), 114, 137, 138,153,154,163 Porcia, 121 Porfirio, 162, 296, 297, 298, 300, 307,312,358 Posidonio, 9, 14, 19, 26, 33, 34, 50-61,62,63,112,113,123,133, 162,164,205,207,216,232,233, 234,237,247,279,292,325 Postumio (Lucio), 134 Potamone di Alessandria, 9 Préchac, F., 246 Proclo, 35,242 Protagora, 144, 177 Publio Clodio, 113 Publio Quinzio, 112 Publio Siro, 24 5 Publio Sulpicio, 23 Pugliese-Carratelli, G., 71, 72,73 Quintiliano, 98,231,245,309 Rabirio, 132, 135, 136, 153 Reinhardt, K., 52 Reiter, S., 171 Retorica ad Alessandro, 75 Retorica ad Erennio, 22-24 Robbins, F.E., 303 Robin, L., 182, 183, 191,201 Robinson,J.A.T., 359 Rode, 363 Rogo, vediTetrilio Rogo Roscio, vedi Sesto Roscio Rubellio Plauto, 229,313,315,316 Rucio Servilio Rullo, 113 Rufo, vedi Musonio Rufo Russell, D.A., 309 Rustico, vedi Giunio Rustico RutilioRufo, 22, 30, 49, 154 Sadok,84 Saffira, 90 Saisset, A., 194 Sallustio Crispo, 69 Salomone, 82 Sapienza, vedi Ecclesiastico Sarpedonte, 181
Saturnino, vedi Appuleio Saturnino (Lucio) Scevola Quinto Mucio (l'Augure), 13,49,125 Scevola Quinto Mucio (il Pontefice), 22,49 Schmekel, A., 52 ScipioneAfricano, 18,28,155 Scipione Emiliano, 11, 19, 21, 22, 23,25,28,29,31,33,37,42,43, 44, 45, 46, 48, 49, 78, 114, 115, 116,119,120,125,126,129,135, 160 Scritto di Damasco, 84, 85, 89,90 Seiano,245 Seleuco di Babilonia, 71 Seleuco di Seleucia, 55 SelioCaio, 104 SelioPublio, 104 Seneca,31,51,59,61,62, 143,155, 164,165,166,179,228,229,230, 231,241,243-286,288,290,300, 305,306,308,310,311,312,313, 314,342,345,361 Seneca (Anneo) il Vecchio, 243,250 Senocrate, 108,291,299 Senofonte,19,144,325,327 Serapione di Alessandria, 20 l, 202 Serse, 155 Sertorio, 121 Servilia, 313 Sestii, 165-166,246,290,305 Sestio (Quinto), 165 Sestio (Sesto), 165, 244, 250, 252, 259 Sesto Empirico, 96, 97, 98, 100, 178, 179,180,181,182,184,185,186, 187,188,189,190,191,192,193, 194,195,196,197,199,203,296, 297 Sesto Roscio, 112 Settimio Severo, 307 Sharp, D., 342,343 Silla, 12, 19, 22, 23, 29, 67, 104, 112, 120 Simmel, 0., 352 Simplicio, 51, 162, 232, 296, 298, 300,322,341
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Sinclair, T.A., 27,76 Sirone, 132, 138, 153, 156 Socrate, 19, 32, 80, 102, 108, 122, 135,210,247,258,290,308,314, 323,325,327,335,347 Sorano, vedi Borea Sorano Sorano, vediValerio Sorano Souilhé,J., 322, 323,340,343, 344 Sozione di Alessandria, 162 Sozione di Alessandria della scuola dei Sestii, 165, 244, 250, 252, 259,260,262,305 Spartiano, 341 Speusippo, 108,291,299 Stahlin, R., 352 Statilio, 154 Stazio, 152 Stazio (Anneo), medico, 286 Stenida, 76, 77 Stilpone, 102 Stobeo, 34, 51, 76, 77, 102, 103, 162,166,234,291,292,296,315, 316,321,322,323 Strabone, M., 51, 54, 71, 132, 141, 161,163 Il Sublime, 305,309-310 Suillio, 244, 246 Sulpicio, 13, 22, 125 Svetonio, 16, 121, 144, 152, 153, 241,251,324 Tacito, 229,231,250,251,262,273, 275,278,284,286,310,313,317, 345 Talete, 155 T ara, 210 Tavola di Cebete, 290 Taziano, 62, 164 TemisonediLaodicea, 167 Teodoro di Gadara, 309 Teofilo di Antiochia, 171 Teoforo, vedi Ignazio di Antiochia Teofrasto, 17, 30, 32, 75, 99, 112, 162,310 TeomnestodiNaucrati, 162,243 Terapeuti, 83, 84 Terenzia, 113 Terenzio, 268
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Tertulliano, 193,245,250,357,361 Tetrilio Rogo, 104 Theages, 292 Theano,292 Tiberio, Imperatore, 67, 155, 163, 166,179,196,204,227,229,236, 237,240,241,253,260,301 Tiberio Gracco, 23, 29,45 Tigellino, 278,308,309,313 Timeo di Locri, 291 Timone di Fliunte, 9, 181, 182, 196, 202 Tirannione, 162 Tirone, 115 TitoAlbucio, 153 Tito, Imperatore, 309,315,320,321 Tito Livio, vedi Livio Tolomeo, 56,242 . TolomeodiCirene, 181,195,201 Tolomeo II Filadelfo, 71, 72, 78, 79, 80,81 Tommaso, Vangelo di, 34 7 Torquato, vedi Manlio Torquato (Lucio) T orquato (C. Lucio Manlio), 114 T raiano, Imperatore, 341,363 Trasea Peto, 229,262,313,314 Trasillo, 163,301 Tuberone (Lucio Elio), 179-180, 181 Tuberone(Quinto), 11, 33, 49, 179 Tuberone (Quinto Elio), 180, 181 Tullia, 114 Upton,J., 322 Valente, vedi Vettio Valente Valerio Pollione, 315, 316 Valerio Sorano(Quinto), 50 Varo,236 VarroneAtacino, 75 Varrone Reatino, 49, 108, 118, 121-125,130,148,153,165 Vardano di Babilonia, 309 Vatinio,69 Velleio, 154 VerginioFlavo, 317 Verre, 113 Vespasiano, Imperatore, 158, 229, 262,308,309,313,315,320 VetustaPlacita, 112
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Vettio, Valente,242 Vibio Pansa, 154 Vincent, A., 84, 85, 89 Virgilio, 132, 144, 153, 156-157, 283,314 Viotellio, Imperatore, 320 Vitrasio Pollione, 243,250 Viutruvio, 152,267-268 Wellmann, M., 166 Wendland, P., 78, 171, 178 Wifstrand, A., 343 Wilamowitz, U., 74 Wilson, E., 89 Wolfson, H.A.,212,218 Zahn, T., 326
Zedda, G., 359 Zeller, E., 181, 194 Zenodoro di Tiro, 98 Zenone di Cizio, 19, 24, 31, 34, 58, 73, 74, 102, 105, 107, 108, 110, 118,131,176,247,255,261,269, 271,318,325,326,327,329,334 Zenone di Sidone, 9, 112, 125, 131, 132,138,139,140,141 Zenone di T arso, 31, 108 Zeucsippo di Poli, 179, 195 Zeucsis, 179,195,196,201 Zeucsis, medico, 201 Zopyro di Alessandria, 20 l Zoroastro, 62, 65, 67, 68,235 Zosimiano, vedi Giulio Zosimiano
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Indice
Pagina
7 Parte prima
Le componenti del pensiero dal II secolo a.C. ad Augusto 9
Capitolo primo
Il compimento del pensiero greco a Roma l. Cultura e tradizioni greche a Roma
9 15 33
2. Filosofia, retorica,politicaediritto. DaCatoneaCicerone J. La "media Stoà". Panezio. Polibio. Il diritto naturale. La rico-
50
struzione di Cicerone 4. Posidonio. Le scienze. Ipparco di Nicea
62
Capitolo secondo
Influenze dell'Oriente l. Magia e astrologia. La prima formazione della tradizione ermetica. Alessandria. Pitagorismo. Il Pitagorismo a Roma. Nigidio Figulo 70 2. Il motivo del re filàntropo. Stoicismo e politica. Gli Ebrei di Alessandria: da Aristea ad Aristobulo 83 3. Terapeuti. Esseni. Gli Ebrei di Palestina e la cultura ellenistica. Verso il Cristianesimo 62
95
Capitolo terzo
Cultura e politica nell'ultima fase della Repubblica. Cicerone. Lucrezio. L 'Avvento di Augusto l. La nuova Accademia: da Clitomaco, Carmada e Metrodoro di Stra tonica a Filone di Larissa e Antioco di Ascalona. Cicerone 111 2. Varrone. Ciceroneelafunzionedellacultura 95
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481
3. L'Epicureismo a Roma. Epicurei romani. Filodemo di Gadara. Lucrezio 157 4. Politica eculturaall'avventodiAugusto. 130
169
Parte seconda
Cultura e concezioni dal I al II secolo d.C. 171
Capitolo primo
Filone l'Ebreo e il Neo-Pirronismo da Enesidemo ad Agrippa 1. Filone l'Ebreo e la sua problematica
171 179 204
3. Filone l'Ebreo e la nuova concezione di Dio
229
Capitolo secondo
2. Il neo-Pirronismo. Da Enesidemo ad Agrippa
Lo "stoicismo" nella prima metà del I secolo d. C. l. Cultura e crisi politica al principio deli secolo d. C. 2. Astronomia e astrologia al principio del I secolo d.C.: loro esiti. Man ilio 243 3. Lo "stoicismo" nella prima metà del I secolo d.C. Seneca. La figura di Demetrio "cinico" 229 231
287
Capitolo terzo
Le componenti culturali tra il I e il II secolo d. C. 287
l. "Platonismo", "pitagorismo" e "stoicismo" tra ili e il II secolo
293
2. Tra platonismo e pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudo-Ocello. Moderato di Gades e Nicomaco di Gerasa
3. Pitagorismo, educazione e retorica. Apollonia di Tiana nella ricostruzione di Filostrato di Lemno e il trattato su "Il Sublime" 312 4. Lo Stoicismo a Roma nel I secolo d.C. Lucio Anneo Cornuto. Musonio Rufo. Epitteto 342 5. La componente cristiana. Lo "scandalo" cristiano. Il Cristianesimo tra ili e il principio del II secolo. I "padri apostolici" 305
482
367
Bibliografia
469
Indice dei nomi
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Stampa Grafica Sipiel Milano, marzo 1992
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