JEFFERY DEAVER LA LUNA FREDDA (The Cold Moon, 2006) Non puoi vedermi, ma ci sono sempre. Corri più veloce che puoi, tant...
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JEFFERY DEAVER LA LUNA FREDDA (The Cold Moon, 2006) Non puoi vedermi, ma ci sono sempre. Corri più veloce che puoi, tanto non mi sfuggirai. Lotta pure con tutte le tue forze, non mi batterai mai. Uccido quando mi pare, tanto non potrò mai essere condannato. Chi sono? L'OROLOGIAIO I 12:02 A.M. MARTEDÌ Il tempo è morto fintanto che è scandito da piccoli ingranaggi. Solo quando l'orologio si ferma il tempo prende vita. WILLIAM FAULKNER 1 «Quanto tempo hanno impiegato a morire?» L'uomo cui era stata posta la domanda sembrò non averla sentita. Guardò di nuovo nello specchietto retrovisore e si concentrò sulla guida. Era appena passata mezzanotte e le strade di Lower Manhattan erano ghiacciate. Un fronte di aria fredda aveva spazzato il cielo e trasformato la neve che lo aveva preceduto in una patina scivolosa sull'asfalto. I due uomini erano a bordo della Band-Aid-Mobile, come Vincent lo Sveglio aveva battezzato la SUV scura. Il veicolo aveva qualche anno e necessitava tanto di una revisione ai freni quanto di un cambio di pneumatici. Ma portare una macchina rubata in officina non sarebbe stata un'idea saggia, specie consi-
derando che due dei suoi ultimi passeggeri erano ora vittime di un omicidio. L'uomo al volante, un cinquantenne alto, dai capelli neri ben pettinati, svoltò cautamente in una strada secondaria e proseguì il suo viaggio senza accelerare, senza mai sbandare in curva. Avrebbe guidato allo stesso modo con o senza strade sdrucciolevoli, con o senza un delitto sulla coscienza. Attento, meticoloso. Quanto ci è voluto? Vincent il Grosso, Vincent con quei lunghi salsicciotti sempre umidi al posto delle dita, con la cintura marrone stretta al primo buco, rabbrividì. Era rimasto ad aspettare all'angolo dopo il suo turno di lavoro come dattilografo temporaneo. Faceva un freddo terribile, ma a Vincent non piaceva l'atrio dell'edificio. La luce era verdastra e le pareti erano piene di specchi in cui poteva vedere il suo corpo ovoidale da ogni angolazione. Perciò era uscito nell'aria dicembrina, limpida e gelida, e si era messo a passeggiare avanti e indietro, mangiando una merendina. Okay, due merendine. Mentre Vincent alzava lo sguardo alla luna piena, un disco spaventosamente bianco apparso per un istante nel canyon di edifici, l'Orologiaio rifletté ad alta voce. «Quanto hanno impiegato a morire? Interessante.» Era da poco che Vincent conosceva l'Orologiaio, il cui vero nome era Gerald Duncan, ma aveva imparato che fargli domande era rischioso. Anche un semplice dubbio dava la stura a un monologo. Accidenti, se parlava. E le sue risposte erano sempre molto complesse, come quelle di un professore universitario. Vincent sapeva che, se Duncan era rimasto in silenzio negli ultimi minuti era solo perché stava ponderando la risposta. Vincent aprì una lattina di Pepsi. Aveva freddo, ma sentiva il bisogno di qualcosa di dolce. La svuotò in poche sorsate e si mise in tasca la lattina vuota. Poi mangiò un pacchetto di cracker al burro di noccioline. Duncan si voltò per sincerarsi che Vincent indossasse i guanti. Li mettevano sempre, sulla Band-Aid-Mobile. Meticoloso... «Direi che le risposte sono tante...» cominciò Duncan, con la sua voce calma e distaccata. «Per esempio, il primo che ho ucciso aveva ventiquattro anni, quindi si potrebbe dire che gli ci sono voluti ventiquattro anni per morire.» Sì, certo... pensò Vincent lo Sveglio con un sarcasmo da teenager, anche se doveva ammettere che quella risposta, per quanto ovvia, non gli era venuta in mente.
«L'altro ne aveva trentadue, credo.» Incrociarono un'auto della polizia. Il sangue nelle tempie di Vincent cominciò a pulsare, ma Duncan non batté ciglio. I poliziotti non fecero caso all'Explorer rubato. «Un'altra possibile risposta», disse Duncan, «è il tempo trascorso tra quando ho cominciato e quando ho sentito i loro cuori smettere di battere. Forse era questo che intendevi. Vedi, la gente cerca di incasellare il tempo in schemi facilmente comprensibili. Scelta valida, finché risulta utile. È utile sapere che le contrazioni ricorrono una volta ogni venti secondi. O che l'atleta percorre un miglio in tre minuti e cinquantotto secondi e dunque vince la corsa. Ma nello specifico, quanto hanno impiegato a morire stanotte... be', non è importante. Basti dire che non è stato rapido.» Un'occhiata a Vincent. «Non che voglia criticare la tua domanda.» «No», disse Vincent. Non gli importava, se voleva criticarlo. Vincent Reynolds non aveva molti amici ed era molto tollerante con Gerald Duncan. «Ero solo curioso.» «Mi rendo conto. Solo che non ci ho prestato attenzione. Ne terrò conto per la prossima.» «La ragazza? Domani?» Il cuore di Vincent accelerò. L'altro assentì. «Più tardi quest'oggi, vorrai dire.» Con Gerald Duncan si doveva essere precisi, quando si parlava del tempo. «Giusto.» Al pensiero di Joanne, la ragazza che sarebbe stata la prossima vittima, Vincent l'Affamato aveva preso il posto di Vincent lo Sveglio. Più tardi quest'oggi... L'assassino percorse un dedalo di strade per raggiungere il loro temporaneo domicilio vicino al fiume, a sud di Midtown. Non c'era nessuno in giro. La temperatura era sottozero e il vento soffiava costante per le strette vie del Distretto di Chelsea, a Manhattan. Duncan accostò a un marciapiede, spense il motore e tirò il freno a mano. Scesero dal fuoristrada e percorsero mezzo isolato nel vento gelido. Duncan guardò la propria ombra, proiettata dalla luna sull'asfalto. «Ho pensato a un'altra risposta. A proposito di quanto tempo hanno impiegato a morire.» Vincent rabbrividì di nuovo, anche, ma non solo, per il freddo. «Dal loro punto di vista», disse l'assassino, «si può dire che sia stata un'eternità.»
2 E quello che cos'è? Seduto sulla sedia scricchiolante, l'omone sorseggiava il suo caffè, guardando in controluce verso l'estremità del molo sull'Hudson. Era uno dei supervisori di turno al mattino al capannone in cui si riparavano i rimorchiatori, a nord del Greenwich Village. Di lì a una quarantina di minuti era previsto l'arrivo di un Moran con un motore diesel poco giudizioso, ma al momento il molo era deserto e il supervisore si stava godendo il tepore dell'ufficio, con i piedi sulla scrivania e la tazza appoggiata sul petto. Ripulì il vetro dalla condensa e guardò ancora. Che cos'è? Vicino al bordo del molo, sul lato verso il Jersey, si vedeva una scatola nera. Non c'era quando avevano chiuso i battenti alle sei del giorno prima e nessuno poteva avere attraccato dopo quell'ora. Dovevano averla portata via terra. C'era una recinzione metallica che avrebbe dovuto impedire l'ingresso a passanti e pedoni, ma visto che ogni tanto sparivano attrezzi e (pensa un po') bidoni dei rifiuti, era chiaro che, se qualcuno voleva entrare, ci riusciva. Ma perché portare qualcosa? Il supervisore rimase per un po' a guardare, pensoso. Fuori fa freddo e tira vento, si sta così bene qui dentro con il caffè. Poi decise: Oh, che diavolo! Meglio controllare. Indossò il giaccone grigio, i guanti, il cappello e, dopo un sorso di caffè, uscì sfidando l'aria gelida. Si incamminò lungo il molo, fissando la scatola nera con gli occhi che lacrimavano dal vento. Che diavolo è? Era un oggetto rettangolare, alto neppure una trentina di centimetri. I raggi bassi del sole si riflettevano sulla parte anteriore. Il supervisore strinse le palpebre nella luce abbagliante del mattino. Sotto di lui, le acque dell'Hudson lambivano agitate i pali. A tre metri dalla scatola l'omone si fermò. Aveva capito di che cosa si trattava. Un orologio. Uno di quelli vecchi, con quegli strani numeri romani e le fasi lunari sul quadrante. Aveva l'aria di essere costoso. E segnava l'ora esatta, stabilì controllando il suo orologio da polso. Ma chi poteva lasciare un bell'oggetto come quello in un posto simile? Be', che importa, mi hanno fatto un re-
galo. Ma quando fece un passo per andare a raccoglierlo, sentì venir meno le gambe e per un istante spaventoso pensò che sarebbe finito nel fiume. Cadde in avanti, sulla lastra di ghiaccio che non aveva visto, ma non scivolò dal molo. Ansante, con una smorfia di dolore, si rimise in piedi e guardò a terra. E si accorse che quello non era ghiaccio normale. Era di un marroncino rossastro. «Oh, Cristo», mormorò, fissando la pozza di sangue congelato vicino all'orologio. Si protese in avanti e con orrore comprese come quel sangue fosse arrivato lì. Sulle assi di legno del molo c'erano tracce rossastre di unghie, come se qualcuno che aveva mani o polsi feriti avesse cercato di aggrapparsi al bordo per non cadere nel fiume. L'omone si sporse in fuori a guardare ma, come prevedibile, nessuno galleggiava sulla superficie mossa dell'Hudson. Se il sangue si era congelato, voleva dire che il povero disgraziato doveva essere caduto dal molo da un bel po'. A meno che non lo avessero salvato, il suo corpo doveva essere ormai a metà strada tra lì e Liberty Island. Il supervisore indietreggiò, frugandosi in tasca in cerca del cellulare. Si sfilò un guanto con i denti, lanciò un'ultima occhiata all'orologio e tornò di corsa alla baracca, componendo il numero della polizia con un dito tozzo e tremante. Prima e Dopo. La città era diversa, adesso, dopo quella mattina di settembre, dopo le esplosioni, le alte lingue di fumo, i palazzi scomparsi. Era inutile negarlo. Si poteva parlare della capacità di recupero, del coraggio, dell'intraprendenza dei newyorkesi, ed era vero. Ma ogni volta che un aereo in discesa sul LaGuardia sembrava un po' più basso del solito, la gente si fermava a guardare. Girava al largo se per strada notava un sacchetto della spesa abbandonato. E non si stupiva di vedere in giro soldati o poliziotti in uniformi scure che imbracciavano nere mitragliatrici militari. La parata del Giorno del Ringraziamento si era svolta senza incidenti e ora fervevano le feste natalizie. C'era gente dappertutto. Ma sopra il Natale, come un riflesso sulle vetrine decorate dei grandi magazzini, aleggiava persistente l'immagine delle torri che non c'erano più, della gente che ci aveva lasciato. E, naturalmente, la grande domanda: che cosa accadrà la prossima volta?
Anche Lincoln Rhyme aveva avuto un suo Prima e un suo Dopo, e il concetto gli era famigliare. C'era un tempo in cui poteva camminare e vivere normalmente, poi era venuta un'epoca in cui tutto ciò non era più possibile. Prima era una persona normale, in salute, un esperto al lavoro sulla scena di un delitto. Un minuto dopo una trave gli aveva spezzato il collo, facendo di lui un tetraplegico C4, paralizzato quasi completamente dalle spalle in giù. Prima e Dopo... Ci sono momenti che ti cambiano per sempre. Eppure, Lincoln Rhyme ne era convinto, se si trasformano certi eventi in un'icona, li si rende troppo potenti. E i cattivi ce l'hanno vinta. Quelli erano i pensieri di Rhyme in un freddo martedì mattina, mentre ascoltava un'annunciatrice della National Public Radio. La voce ferma in modulazione di frequenza parlava di una parata prevista per dopodomani, cui sarebbero seguite varie cerimonie e riunioni di funzionari di governo. Tutto questo avrebbe dovuto logicamente svolgersi nella capitale, ma il clima generale di incoraggiamento verso New York aveva prevalso. Tanto gli spettatori quanto i contestatori sarebbero stati presenti in massa, intasando le strade e complicando la vita ai poliziotti incaricati della sicurezza intorno a Wall Street. Era lo stesso per la politica come per lo sport: i playoff che avrebbero dovuto tenersi nel New Jersey adesso erano programmati al Madison Square Garden, come se per qualche motivo si trattasse di uno sfoggio di patriottismo. Rhyme si domandò cinicamente se l'anno successivo anche la Maratona di Boston si sarebbe tenuta a New York City. Prima e Dopo... Il criminalista era giunto a credere di non essere molto cambiato nel Dopo. La sua condizione fisica, la sua skyline, per cosi dire, era cambiata, ma essenzialmente era la stessa persona del Prima: un poliziotto, uno scienziato, un uomo impaziente e umorale (sì, qualche volta anche fastidioso), inesorabile e intollerante verso pigrizia e incompetenza. Non cercava di impietosire gli altri, non si lamentava e non tirava in ballo le proprie condizioni, anche se i proprietari di palazzi che non rispettavano la normativa sulle barriere architettoniche facevano bene a stare in guardia, quando Rhyme doveva fare un sopralluogo. Mentre ascoltava il notiziario, lo irritò l'autocompatimento cui certe persone si abbandonavano in città. «Voglio scrivere una lettera», comunicò a Thom. Il giovanotto magro in pantaloni neri, camicia bianca e maglione pesante
(la casa di Rhyme in Central Park West soffriva di un pessimo riscaldamento e di un isolamento antiquato) alzò lo sguardo dall'eccesso di decorazioni natalizie che stava disponendo nella stanza. Rhyme apprezzava l'ironia dell'alberello di Natale sul tavolo, ai cui piedi c'era già un regalo, benché non incartato: una confezione di pannoloni. «Una lettera?» Rhyme gli spiegò la sua teoria: era più patriottico comportarsi come al solito. «Gliela farò vedere. Ho idea che scriverò al Times.» «Perché no?» fece l'assistente (anche se per definire il proprio lavoro Thom preferiva dire «santo»). «Lo farò», annunciò Rhyme, deciso. «Buon per te. Solo una cosa...» Rhyme inarcò un sopracciglio. Il criminalista faceva un uso molto espressivo di tutte le parti del corpo che ancora funzionavano: spalle, testa e viso. «La maggior parte della gente che dice di voler scrivere una lettera poi non lo fa. Quelli che la scrivono sul serio non perdono tempo a dirlo. Lo fanno e basta. Lo hai mai notato?» «Grazie per la brillante introspezione psicologica, Thom. Ora sai che niente mi potrà fermare.» «Bene», approvò l'assistente. Usando il touchpad sul bracciolo, il criminalista guidò la sedia a rotelle verso uno dei sei schermi piatti della stanza. «Comando», disse al sistema di riconoscimento vocale, tramite un microfono collegato alla sedia. «Word processor.» Diligente, sullo schermo apparve la schermata di WordPerfect. «Comando: scrivere. 'Egregi signori'. Comando: virgola. Comando: a capo. Comando: scrivere. 'È giunta alla mia attenzione...'» Suonò il campanello della porta e Thom andò a vedere chi fosse. Rhyme chiuse gli occhi. Stava per proseguire la sua filippica quando una voce si intromise: «Ehi, Linc, buon Natale». «Uhm, appunto», borbottò il criminalista rivolto a Lon Sellitto, che entrava nella stanza con il suo solito abito sgualcito. Il grasso detective doveva muoversi con cautela: quello che un tempo era un grazioso salottino vittoriano si era trasformato in un laboratorio saturo di materiale scientifico: diversi microscopi ottici e uno elettronico, un gascromatografospettrometro di massa, provette, pipette, centrifughe, prodotti chimici, libri, riviste, computer... e cavi da tutte le parti. (Quando Rhyme aveva dato
inizio all'attività di consulente da casa, la sete di energia dei suoi apparecchi aveva fatto saltare più volte i fusibili. Il consumo di elettricità in quella casa probabilmente eguagliava da solo quello di tutti gli altri abitanti dell'isolato messi insieme.) «Comando: volume, livello tre.» L'unità di controllo ambientale abbassò obbediente il volume della National Public Radio. «Non siamo proprio nello spirito della stagione, eh?» chiese il detective. Rhyme non rispose e tornò a guardare il monitor. «Ehi, Jackson.» Sellitto si chinò ad accarezzare un cagnolino dal pelo lungo, acciambellato in una delle scatole che l'NYPD usava per conservare i reperti. Era un Havanese, una razza affine al bichon frisé, originaria di Cuba. La sua precedente proprietaria, l'anziana zia di Thom, era morta di recente a Westport, lasciando al nipote il cane assieme all'eredità. Jackson era temporaneamente ospite di Rhyme, finché il giovanotto non gli avesse trovato una nuova casa. «Abbiamo una brutta storia, Linc», disse Sellitto, rialzandosi in piedi. Fece per togliersi il cappotto, ma cambiò idea. «Cristo, che freddo. Cos'è, un record?» «Non saprei. Non seguo molto il canale del meteo.» Rhyme stava riflettendo su un incipit a effetto per la sua lettera. «Brutta storia», ripeté il detective. Rhyme lo guardò, sollevando un sopracciglio. «Due omicidi. Stesso modus operandi, più o meno.» «Ce ne sono tante di 'brutte storie' là fuori, Lon. Cos'è che la rende più brutta?» Come avveniva spesso tra un caso e l'altro, il criminalista era di cattivo umore. Di tutti gli avversari con cui si era confrontato, il peggiore era la noia. Ma dopo anni che lavorava con Rhyme, Sellitto era immune alle sue frecciate. «Mi hanno chiamato i pezzi grossi. Vogliono che ve ne occupiate tu e Amelia. Insistono.» «Oh, insistono?» «Gli ho detto che non te lo avrei riferito. A te non piace che insistano.» «Possiamo arrivare alla parte 'brutta' della storia, Lon? O è chiedere troppo?» «Dov'è Amelia?» «A Westchester, su un caso. Dovrebbe tornare presto.» Il detective alzò un dito facendogli cenno di aspettare un istante, mentre rispondeva al cellulare. Ebbe una breve conversazione, durante la quale
prese appunti e fece cenno di sì con la testa. Quando ebbe finito, tornò a guardare Rhyme. «Okay, dov'eravamo rimasti? La scorsa notte, a una cert'ora, il nostro assassino...» «Il?» puntualizzò il criminalista. «Okay, ancora non sappiamo se il genere è maschile o femminile.» «Sesso.» «Cosa?» «Il genere», precisò Rhyme, «è un concetto linguistico che si riferisce al genere maschile o femminile di una parola in una certa lingua. Il sesso è un concetto biologico che differenzia gli organismi maschili da quelli femminili.» «Grazie per la lezione di grammatica», borbottò il detective. «Mi sarà utile, se mai parteciperò a un telequiz. In ogni caso, lui ha preso un paio di poveracci. Ne ha portato uno, o una, ai cantieri sull'Hudson e, ancora non sappiamo come, l'ha costretto a restare sospeso sopra il fiume mentre gli tagliava i polsi. La vittima è rimasta aggrappata per un po'... un bel po', abbastanza da perdere un sacco di sangue, ma alla fine ha mollato la presa.» «Corpo?» «Non ancora. La Guardia Costiera e i sommozzatori lo stanno ancora cercando. «Hai detto 'un paio'.» «Okay. Qualche minuto dopo abbiamo avuto un'altra chiamata, da un vicolo sulla Cedar Street, a Broadway: c'era una seconda vittima. Un poliziotto di ronda ha trovato questo tale legato con il nastro adesivo e sdraiato sulla schiena. L'assassino gli ha appeso una sbarra di ferro di una trentina di chili sopra il collo e lo ha costretto a tenerla su a forza di braccia per non farsi schiacciare.» «Una trentina di chili? Okay, dato il peso ti posso dire che il sesso dell'assassino è probabilmente maschile.» Thom entrò nella stanza con caffè e dolcetti. Sellitto, nonostante i costanti problemi di peso, si buttò sui biscotti al burro. Durante le feste la dieta andava in letargo. A metà biscotto si pulì la bocca e riprese: «La vittima ha resistito per un po'. Poi non ce l'ha fatta più». «Chi è la vittima?» «Si chiama Theodore Adams. Viveva dalle parti di Battery Park. La scorsa notte è arrivata una chiamata al 911: una donna ha detto che doveva vedere il fratello per cena, ma che lui non si era fatto vivo. Il nome dello scomparso era Theodore Adams. Il sergente del Distretto telefona alla so-
rella in mattinata.» Lincoln Rhyme non amava le definizioni affrettate, ma per una volta era d'accordo: la parola «brutta» sembrava adatta alla situazione. Ma era anche una storia interessante. «Perché dici che l'assassino è lo stesso?» «Perché ha lasciato un biglietto da visita su entrambe le scene. Due orologi.» «Nel senso di 'tic-tac'?» «Già. Il primo era vicino alla pozza di sangue sul molo. L'altro era a un passo dalla testa di Adams. Come se volesse che le vittime li vedessero. E li sentissero.» «Descrivili. Gli orologi.» «Orologi da tavolo, tipo vecchio soprammobile. Non so altro.» «Non erano bombe?» Ormai, nell'epoca del Dopo, ogni indizio che facesse tic-tac veniva sistematicamente controllato dagli artificieri. «No, niente esplosivo. La squadra li ha mandati a Rodman's Neck per controllare che non ci siano agenti biologici o chimici. A quanto pare sono della stessa marca. Uno degli artificieri li ha definiti 'spettrali'. Il quadrante indica le fasi lunari. Oh, e in caso non ci arrivassimo da soli, l'assassino ha lasciato un biglietto sotto gli orologi, stampato al computer. Niente calligrafia.» «E c'era scritto...?» Sellitto non si fidava della propria memoria e controllò il taccuino. Era una cosa che Rhyme apprezzava in lui: non sarà stato un individuo brillante, ma era un vero bulldog che faceva tutto lentamente e alla perfezione. Il detective lesse: «'La Luna Fredda piena nel cielo brilla sulla terra morta, e dice che è ora di finire il cammino cominciato con la nascita'». Alzò lo sguardo su Rhyme. «È firmato: 'l'Orologiaio'.» «Abbiamo due vittime e un motivo lunare.» Un riferimento astronomico significava spesso che l'assassino aveva intenzione di colpire ripetutamente. «Ce ne sono altri sulla sua lista?» «Ehi, secondo te perché sono venuto qui, Linc?» Gli occhi di Rhyme caddero sull'inizio della sua lettera al Times. Chiuse il programma di videoscrittura. Le sue riflessioni su Prima e Dopo dovevano attendere. 3
Un lieve rumore fuori dalla finestra. Uno scricchiolio sulla neve. Amelia Sachs si immobilizzò. Guardò fuori: il cortiletto imbiancato sul retro era tranquillo. Nessuno in vista. Si trovava in un sobborgo residenziale mezz'ora a nord di New York, completamente sola nel silenzio di tomba di una casa in stile Tudor. Un pensiero appropriato, notò, dal momento che il proprietario non era più nel mondo dei vivi. Il rumore si ripeté. Amelia Sachs era una ragazza di città, abituata alla minacciosa e benigna cacofonia metropolitana. Quell'incursione nel silenzio extraurbano la innervosiva. Era un rumore di passi? L'alta detective dai capelli rossi, che indossava una giacca di pelle nera sopra un maglione blu marina e jeans neri, tese le orecchie e si grattò distrattamente la testa. Sentì un altro scricchiolio. Abbassò la cerniera lampo della giacca per avere facile accesso alla sua Glock. Si chinò e sbirciò rapidamente fuori dalla finestra. Non vide nulla. E ritornò all'ispezione. Si sedette sulla lussuosa poltrona di pelle dello studio e cominciò a esaminare il contenuto della grande scrivania. Era una missione frustrante: il problema era che non sapeva esattamente che cosa dovesse cercare. Capitava spesso, quando ci si trovava su una scena del crimine secondaria o terziaria o come diavolo si chiamava quando era di quarto grado rispetto a quella principale. In effetti, era arduo persino definirla una «scena del crimine»: era improbabile che qualsiasi colpevole vi fosse mai entrato o che vi fosse nascosto qualche bottino. Né vi era stato scoperto alcun cadavere. Quella era semplicemente una casa poco usata di proprietà di un certo Benjamin Creeley, che era deceduto a parecchi chilometri di distanza e non veniva a Westchester da una settimana prima della morte. Ciononostante Amelia doveva ispezionare quella casa, e con molta attenzione, perché stavolta non svolgeva il suo ruolo abituale di poliziotta della Crime Scene, ma era una detective al suo primo caso di omicidio. Un altro schiocco all'esterno. Ghiaccio, neve, un ramo, un cervo, uno scoiattolo... Lei lo ignorò e continuò il lavoro cominciato da qualche settimana, tutto grazie a una corda di cotone annodata. Era stato quel pezzo di corda legato a un corrimano a porre fine alla vita di Ben Creeley, cinquantasei anni, nella sua casa nell'Upper East Side di New York. Sul tavolo c'era un biglietto d'addio. Nulla lasciava sospettare
che non si trattasse di suicidio. Tuttavia, poco dopo la morte dell'uomo, la vedova Suzanne Creeley si era presentata al NYPD: non credeva che il marito si fosse suicidato. Era vero che Ben, agiato uomo d'affari e consulente fiscale, ultimamente era apparso di cattivo umore, ma solo perché lavorava molte ore al giorno su progetti assai complessi. I suoi occasionali sbalzi d'umore erano ben lontani dalla depressione che può spingere un uomo a farla finita. Non aveva mai avuto problemi mentali o emotivi e non faceva uso di antidepressivi. Le sue finanze erano solide. Non risultavano modifiche recenti al suo testamento o alla polizza di assicurazione. Il giorno della sua morte, il socio di Creeley, Jordan Kessler, era in visita agli uffici di un cliente in Pennsylvania. Amelia gli aveva parlato e, benché Kessler avesse confermato che di recente Creeley era effettivamente depresso, aveva anche detto che non gli sembrava che avesse mai parlato di suicidio. Amelia Sachs, pur restando assegnata a Lincoln Rhyme come assistente, voleva occuparsi di qualcosa di più dei semplici sopralluoghi sulle scene dei crimini. Era da tempo che aspettava di condurre le indagini su un omicidio o un episodio di terrorismo. Qualcuno dei pezzi grossi aveva deciso che la morte di Creeley meritasse un approfondimento e le aveva affidato il caso. Sulle prime, la detective non aveva trovato alcun indizio che confermasse l'ipotesi di un omicidio. Ma poi aveva fatto una scoperta: dal rapporto del medico legale risultava che, al momento della morte, Creeley aveva un pollice spezzato e la mano destra ingessata. Il che gli avrebbe impedito di annodare il cappio o legare la corda al corrimano. Amelia ne era certa (ci aveva provato una dozzina di volte). Era impossibile, senza usare il pollice. Non si poteva escludere che Creeley avesse preparato il nodo scorsoio prima dell'incidente in moto, risalente a una settimana prima della morte, ma era poco credibile che avesse tenuto un cappio a portata di mano in attesa del momento giusto per suicidarsi. Perciò la detective aveva deciso di dichiarare la morte «sospetta» e aveva aperto un dossier per omicidio. Tuttavia il caso si prospettava difficile. La regola, con gli omicidi, era che se non si risolvevano nell'arco di ventiquattr'ore, potevano occorrere mesi prima di arrivare a una soluzione. I pochi indizi rimasti (la bottiglia di liquore che Creeley stava bevendo, il biglietto e la corda) non portavano a nulla. Non c'erano testimoni. Il rapporto dell'NYPD era lungo solo mezza pagina. Il detective che se ne era occupato non ci aveva perso molto tem-
po, come sempre nei casi di suicidio, e non aveva saputo fornirle altre informazioni. La ricerca di sospetti in città, dove Creeley lavorava e dove la sua famiglia abitava per la maggior parte del tempo, non aveva dato frutti. Tutto quello che restava da fare a Manhattan era un interrogatorio più approfondito del socio del morto, Kessler. Era rimasta un'unica possibile fonte di indizi: la casa fuori città in cui i Creeley si recavano solo ogni tanto. Ma Amelia non stava trovando niente. Si appoggiò allo schienale e guardò una recente fotografia di Creeley che stringeva la mano a qualcuno, forse un uomo d'affari. Si trovava sulla pista di un aeroporto, di fronte al jet aziendale di qualche compagnia, e sullo sfondo si vedevano pozzi petroliferi e tubature. Non aveva l'aria depressa... ma chi può averla in un'istantanea? Fu in quel momento che si udì un altro scricchiolio, molto vicino, fuori dalla finestra alle sue spalle. E poi un altro, ancora più vicino. Quello non era uno scoiattolo. La Glock apparve dal nulla, con un lucente proiettile da nove millimetri in canna e altri tredici di scorta. Amelia uscì silenziosa dalla porta principale e girò intorno alla casa, impugnando l'arma a due mani ma tenendola vicino al fianco (mai puntare la pistola davanti a sé quando si gira un angolo, con il rischio che qualcuno ti disarmi; nei film sbagliano sempre). Un'occhiata rapida. Via libera sul lato della casa. Poi Amelia proseguì verso il retro, attenta a dove metteva gli stivali neri sul vialetto coperto da una pesante lastra di ghiaccio. Si fermò, le orecchie tese. Sì, erano decisamente passi. La persona si muoveva con esitazione, forse verso la porta sul retro. Una pausa. Un passo. Un'altra pausa. Pronta, si disse Amelia. Si avvicinò all'angolo posteriore della casa. E fu proprio in quel momento che scivolò sul ghiaccio. Si lasciò sfuggire un lieve gemito. Si sarà sentito appena, pensò. Ma all'intruso non era sfuggito. Amelia udì i passi che acceleravano nel cortile, scricchiolando sulla neve. Accidenti... Poteva anche trattarsi di un diversivo. Nel dubbio si accovacciò, guardò dietro l'angolo e solo allora puntò la Glock. Una figura maschile allampa-
nata, con indosso un giaccone pesante e un paio di jeans, stava correndo sulla neve. Maledizione... Li odio quando scappano. Il destino aveva riservato ad Amelia un corpo alto e giunture dolenti per l'artrite, una combinazione che trasformava la corsa in una vera e propria agonia. «Polizia. Fermo!» E partì verso di lui. Doveva inseguirlo da sola. Non aveva comunicato la propria presenza alla Westchester County Police e per chiedere assistenza avrebbe dovuto chiamare il 911. Non c'era tempo. «Non te lo ripeto. Fermo!» Nessuna risposta. Attraversarono il cortile e raggiunsero i boschi dietro la casa. Con il fiato grosso e un dolore tra le costole che si sommava a quello alle ginocchia, Amelia correva più veloce che poteva, eppure l'uomo la stava distanziando. Merda, mi semina. La natura le diede una mano. Un ramo che sporgeva dalla neve agganciò la scarpa dell'uomo, che stramazzò in avanti, con un lamento che Amelia sentì a una dozzina di metri di distanza. Lo raggiunse e, ansante, gli appoggiò la canna della Glock al collo. L'uomo smise di agitarsi. «Non mi faccia del male! La prego!» «Shhhh.» Amelia prese le manette. «Mani dietro la schiena.» Lui fece una smorfia. «Non ho fatto niente!» Le mani. Lui obbedì, così impacciato da rivelare che non era mai stato arrestato prima di allora. Era più giovane di quanto Amelia si aspettasse: un teenager con la faccia punteggiata dall'acne. «Non mi faccia del male, per favore!» Amelia riprese fiato e lo perquisì. Niente documenti, niente armi, niente droga. Qualche soldo e un mazzo di chiavi. «Come ti chiami?» «Greg.» «Cognome?» Un'esitazione. «Whiterspoon.» «Vivi da queste parti?» Il ragazzo risucchiò aria dalla bocca e fece un cenno alla sua destra. «La casa di fianco a quella dei Creeley.» «Quanti anni hai?» «Sedici.» «Perché scappavi?»
«Non lo so. Ho avuto paura.» «Non mi hai sentito quando ho detto: 'Polizia'?» «Sì, ma lei non sembra uno sbirro... Davvero è una poliziotta?» Amelia gli mostrò il distintivo. «Che cosa ci facevi dietro quella casa?» «Abito di fianco.» «L'hai detto. Ma che cosa ci facevi?» Lo costrinse a sedersi. Il ragazzo era terrorizzato. «Ho visto che c'era qualcuno in casa. Ho pensato che fosse la signora Creeley o magari qualcuno della famiglia. Volevo solo dirle una cosa. Poi ho guardato dentro e ho visto che lei aveva la pistola. Mi sono preso paura. Pensavo che fosse una di quelli.» «Quelli chi?» «Quelli che sono entrati in casa. Era questo che volevo dire alla signora Creeley.» «Entrati?» «Ho visto due tizi che entravano in casa. Qualche settimana fa. Era intorno al Giorno del Ringraziamento.» «Hai chiamato la polizia?» «No. Forse avrei dovuto. Ma non volevo andarci di mezzo. Avevano un'aria pericolosa.» «Dimmi che cos'è successo.» «Ero fuori, nel nostro cortile, e li ho visti alla porta sul retro che si guardavano intorno e poi forzavano la serratura per entrare in casa dei Creeley.» «Bianchi, neri?» «Bianchi, mi pare. Non ero abbastanza vicino da vederli in faccia. Erano solo... sa, due tipi in jeans e giubbotto. Uno era più grosso dell'altro.» «Colore dei capelli?» «Non lo so.» «Quanto tempo sono rimasti dentro?» «Un'ora, mi pare.» «Hai visto la loro macchina?» «No.» «Hanno preso qualcosa?» «Sì. Uno stereo, dei CD, una TV. Qualche videogioco, credo. Posso alzarmi?» Amelia lo aiutò a rimettersi in piedi e lo riportò verso la casa. Notò che, effettivamente, la porta sul retro era stata forzata. Da qualcuno che cono-
sceva il mestiere. Si guardò intorno. In salotto c'erano ancora un televisore al plasma, porcellane e argenteria preziosa. Il furto non aveva senso. Che servisse solo come copertura per qualcos'altro? Esaminò il pianterreno. La casa era pulitissima, eccezion fatta per il caminetto. Era un modello a gas, ma c'era parecchia cenere. Con il gas non serviva carta per accenderlo. Che i ladri avessero bruciato qualcosa? Senza toccare nulla, Amelia osservò l'interno con la sua torcia elettrica. «Hai visto se hanno acceso un fuoco?» «Non lo so. Può darsi.» Davanti al caminetto c'erano striature di fango. Amelia aveva nel bagagliaio dell'auto l'equipaggiamento base della Scientifica. Poteva rilevare le impronte intorno al caminetto e sulla scrivania, raccogliere campioni di cenere e fango e qualsiasi indizio potenzialmente utile. Sentì vibrare il cellulare. Guardò il display: un messaggio urgente da Lincoln Rhyme, che aveva bisogno di lei in città, il più presto possibile. Amelia rispose per conferma. Guardando il caminetto, si domandò che cosa fosse stato bruciato. «Senta», fece Greg, «adesso posso andare?» Amelia lo squadrò. «Non so se ne sei al corrente ma, dopo ogni morte violenta, la polizia effettua il giorno stesso un inventario completo di tutto il contenuto della casa.» «Sì?» Il ragazzo abbassò gli occhi. «Tra un'ora chiamo la Westchester County Police e faccio controllare tutto quello che c'è adesso in casa. Se manca qualcosa, mi chiameranno e io darò loro il tuo nome e avviserò i tuoi.» «Ma...» «Quegli uomini non hanno portato via niente, vero? Dopo che se ne sono andati, sei entrato dalla porta sul retro e ti sei preso... che cosa?» «Ho solo preso qualcosa in prestito. Dalla camera di Todd.» «Il figlio del signor Creeley?» «Sì. E uno di quei Nintendo era mio. Non me l'ha mai restituito.» «E gli uomini? Hanno portato via qualcosa?» Un'esitazione. «Mi pare di no.» Amelia aprì le manette. «Rimetti tutto a posto entro un'ora. Porta la roba in garage. Lascerò la porta aperta.» «Oh, sì, lo prometto», disse il ragazzo, concitato. «Davvero... Solo...» Si mise a piangere. «Solo che ho mangiato una torta. Era in frigorifero. Io
non... Gliene posso comprare un'altra.» «Il cibo non viene inventariato.» «No?» «Riporta tutto il resto.» «Lo prometto. Davvero.» Greg si pulì la faccia con una manica e fece per andarsene. «Una cosa», disse lei. «Quando hai sentito che il signor Creeley si era ucciso, ti sei sorpreso?» «Be', sì.» «Perché?» Il ragazzo scoppiò a ridere. «Aveva una 740. Voglio dire, quella lunga. Chi è che pensa ad ammazzarsi quando ha una BMW?» 4 Ci sono modi terribili di morire. Amelia Sachs li aveva visti tutti, o almeno così pensava. Ma queste erano due tra le morti più crudeli su cui le fosse mai capitato di indagare. Aveva chiamato Rhyme da Westchester. Il criminalista le aveva detto di precipitarsi a Lower Manhattan, per esaminare le scene di due omicidi commessi apparentemente a poche ore di distanza l'uno dall'altro. L'assassino si firmava «l'Orologiaio». La detective aveva già esaminato la scena più semplice, un molo sull'Hudson River. Non c'era voluto molto: mancava il cadavere e la maggior parte delle tracce erano state spazzate via o contaminate dal vento che soffiava sul fiume. Amelia aveva fotografato e ripreso la scena da ogni angolazione. Aveva anche preso nota della posizione dell'orologio, anche se purtroppo gli artificieri che lo avevano preso in custodia per i controlli avevano disturbato l'ambiente. Ma, con il rischio che si trattasse di un ordigno esplosivo, non avevano avuto alternativa. Amelia aveva raccolto il biglietto lasciato dall'assassino, anch'esso in parte macchiato di sangue congelato di cui aveva prelevato campioni. Aveva esaminato le tracce delle unghie sul legno, nel punto in cui la vittima si era aggrappata al molo prima di cadere nel fiume. Aveva trovato un'unghia strappata, larga, corta e sporca, che lasciava pensare che la vittima fosse un uomo. L'assassino aveva raggiunto il molo senza difficoltà, aprendosi un varco nella recinzione. Amelia aveva preso un campione del filo metallico, per
controllare i segni delle cesoie. Non aveva trovato impronte digitali, né orme, né segni di pneumatici, tanto in corrispondenza del varco quanto vicino alla pozza di sangue. Non era stato trovato alcun testimone. Il medico legale aveva stimato che se la vittima, come probabile, era caduta nel fiume, doveva essere morta di ipotermia nel giro di dieci minuti. I sommozzatori della polizia e la Guardia Costiera stavano continuando le ricerche del corpo e di eventuali indizi in acqua. Ora Amelia si trovava sulla seconda scena, il vicolo che sfociava su Cedar Street, a pochi passi da Broadway. Theodore Adams, un uomo sui trentacinque anni, era sdraiato sulla schiena, con il nastro adesivo che gli tappava la bocca e gli legava polsi e caviglie. L'assassino aveva assicurato una corda alla scaletta antincendio, tre metri sopra la vittima, legandone un capo a una pesante sbarra di metallo lunga quasi due metri, con due fori a ogni estremità, come la cruna di un ago. La sbarra era sospesa sopra la gola dell'uomo. L'altro capo della corda era nelle mani di Adams che, legato com'era, non poteva nemmeno scivolare da sotto la sbarra. La sua unica speranza era di riuscire, con tutte le forze, a tenere il peso sollevato finché non fosse arrivato qualcuno a salvarlo. Non era venuto nessuno. Adams era morto da un po' e la sbarra aveva continuato a comprimergli la gola fino a quando il gelo di dicembre non aveva trasformato il cadavere in un blocco compatto. Sotto il metallo, il collo aveva ormai uno spessore di circa tre centimetri. Lo sguardo della vittima era vitreo, ma Amelia poteva immaginare come doveva essere la sua faccia in quei - quanti? - dieci o quindici minuti in cui aveva lottato per sopravvivere, rosso in viso per lo sforzo, poi violaceo, con gli occhi che strabuzzavano. Chi al mondo poteva uccidere così, con il preciso intento di prolungare l'agonia della vittima? Indossata la tuta bianca di Tyvek, per evitare che le tracce dei propri vestiti contaminassero la scena, Amelia aveva approntato l'attrezzatura. Con lei c'erano due colleghi del quartier generale della Crime Scene Unit del Queens, Nancy Simpson e Frank Rettig. In strada era parcheggiato il veicolo di risposta rapida, un grosso furgone con l'equipaggiamento essenziale per le indagini. Amelia si mise due elastici intorno ai piedi, per distinguere le proprie impronte da quelle dell'assassino. (Un'altra delle idee di Rhyme. Una volta lei gli aveva chiesto: «Perché stare a preoccuparsene? Con indosso gli sti-
vali della tuta non rischio certo di lasciare tracce di scarpe». Lui l'aveva guardata sconsolato. «Oh, chiedo scusa. In effetti a un assassino non verrebbe mai in mente di comprarsi una tuta di Tyvek. Quanto costa, Sachs? Quarantanove dollari e novantacinque centesimi?») Il primo pensiero della detective fu che i delitti fossero opera del crimine organizzato oppure di uno psicopatico. Le esecuzioni della malavita prevedevano spesso messe in scena del genere, per mandare messaggi alle gang rivali. D'altro canto, un sociopatico poteva compiere delitti come questi, o perché in preda a psicosi, o per appagare le sue pulsioni sadiche se aveva un movente sessuale - o semplicemente per il gusto della crudeltà. Negli anni in cui aveva lavorato come poliziotta di ronda, Amelia aveva imparato che infliggere dolore procurava a certe persone una sensazione di potere e poteva persino generare dipendenza. La raggiunse Ron Pulaski, con una giacca di pelle sopra l'uniforme. Il giovane poliziotto, biondo e magro, la stava aiutando nel caso Creeley e in generale era a sua disposizione nelle indagini che Amelia svolgeva con Rhyme. Dopo un brutto incontro con un killer, Pulaski aveva trascorso un lungo periodo in ospedale e si era visto offrire un pensionamento anticipato per motivi di salute. Ne aveva parlato con la giovane moglie Jenny e con il fratello gemello, anche lui nella polizia e, alla fine, aveva deciso di sottoporsi alle cure per ritornare in servizio. Amelia e Rhyme erano stati colpiti dal suo zelo e avevano fatto in modo che, quando possibile, fosse assegnato a loro. In seguito il giovane aveva confessato (ad Amelia, non certo a Rhyme) che erano stati il rifiuto del criminalista di cedere alla tetraplegia e la dura routine di terapia cui questi si sottoponeva quotidianamente a spronarlo a riprendere il servizio attivo. Pulaski, senza tuta, si fermò davanti alla striscia gialla che delimitava la scena. «Gesù», mormorò di fronte a quello spettacolo grottesco. Il giovane agente comunicò ad Amelia che Sellitto e altri poliziotti stavano parlando con i custodi e le guardie di sicurezza degli edifici circostanti, per scoprire se vi fossero testimoni dell'aggressione e se qualcuno conoscesse Theodore Adams. «Gli artificieri», aggiunse, «stanno ancora controllando gli orologi. Quando hanno finito li portano da Rhyme. Io prendo i numeri di targa di tutte le auto parcheggiate qui intorno. Me lo ha detto il detective Sellitto.» Amelia assentì, senza voltarsi. Non gli aveva prestato molta attenzione. Quelle informazioni non le erano utili, al momento. Si stava apprestando a esaminare la scena e cercava di allontanare qualsiasi distrazione dalla men-
te. Nonostante, per definizione, quel tipo di lavoro riguardi oggetti inanimati, occorreva da parte sua un particolare coinvolgimento personale. I poliziotti della Crime Scene devono diventare gli assassini, mentalmente ed emotivamente. Devono lasciarsi avvolgere dall'orrore che li circonda e pensare come l'omicida. Devono capire dove questi si trovasse quando ha sollevato la pistola, la mazza o il coltello; come si sia preparato a colpire; se sia rimasto a contemplare la morte della vittima o se sia scappato immediatamente; che cosa in quella scena lo abbia interessato, attratto o respinto; e infine quale percorso abbia seguito per la fuga. Non si tratta di realizzarne un profilo, l'identikit psicologico dei sospetti che tanto piace ai media e che occasionalmente si rivela utile. Questa è l'arte di scovare, nel pagliaio della scena del delitto, i pochi preziosi aghi che possono condurre fino alla porta di un sospetto. Era questo che stava facendo Amelia: diventava qualcun altro, l'assassino che aveva concepito quella fine orribile per un altro essere umano. I suoi occhi scandagliavano la scena, su e giù, a destra e a sinistra: i ciottoli, i muri, il corpo, la sbarra... Io sono lui... sono lui... Che cosa ho in testa? Perché ho voluto uccidere queste vittime? Perché sul molo? Perché qui? Ma la causa della morte era così insolita e la mente dell'assassino così diversa dalla sua che Amelia non trovava risposte a quelle domande. Non ancora. Indossò la cuffia. «Rhyme, ci sei?» «E dove potrei essere?» chiese lui via radio, in tono divertito. «Sono qui che aspetto. Dove sei? Sulla seconda scena?» «Sì.» «Che cosa vedi, Sachs?» Io sono lui... «Il vicolo, Rhyme», disse Amelia nel sottile microfono della cuffia. «Un vicolo cieco per carico e scarico. La vittima è vicina alla strada.» «Quanto vicina?» «Cinque metri dalla strada e venticinque dal fondo cieco.» «Come ci è arrivato?» «Nessun segno di pneumatici, ma è stato chiaramente trascinato fino al punto in cui è morto. Ci sono tracce di sale e sporcizia sul fondo del giaccone e dei pantaloni.» «Ci sono porte vicino al cadavere?» «Sì, è quasi davanti a una porta.»
«Lavorava in quell'edificio?» «No. Ho i suoi biglietti da visita. Era un copywriter freelance. Aveva lo studio nel suo appartamento.» «Poteva avere un cliente in quell'edificio o in uno di quelli vicini.» «Lon sta controllando proprio ora.» «Bene. La porta più vicina... È possibile che l'assassino lo aspettasse lì?» «Sì», rispose lei. «Fattela aprire da un guardiano. Voglio che guardi che cosa c'è dietro.» Da fuori Lon Sellitto chiamò Amelia. «Non c'è un cazzo di testimone. Sono tutti ciechi. Oh, e pure sordi. E ci sono quaranta o cinquanta uffici diversi nei palazzi intorno al vicolo. Ci vorrà un po' per scoprire se lo conosceva qualcuno.» Amelia gli riferì la richiesta di Rhyme. «Provvedo.» Sellitto si allontanò in cerca del guardiano dell'edificio, soffiando sulle mani per scaldarle. La detective fotografò e riprese la scena. Verificò l'assenza di tracce di attività sessuale sul corpo o nelle vicinanze. Dopo di che si mise a percorrere la griglia, esaminando due volte ogni centimetro quadrato in cerca di indizi. A differenza di molti professionisti del settore, Rhyme raccomandava l'impiego di un solo esaminatore, eccezion fatta per i casi di disastri, naturalmente. Amelia percorreva sempre la griglia da sola. Ma chiunque avesse commesso il delitto era stato molto attento a non lasciare nulla di evidente, tranne l'orologio, il biglietto, la sbarra, il nastro adesivo e la corda. Amelia ne informò il criminalista. «Non è nella loro natura renderci le cose facili. Vero, Sachs?» Il buonumore di Rhyme era stridente. Non c'era lui a un passo dalla vittima di quello schifo di omicidio. Lei ignorò il commento e procedette all'esame del cadavere, prima di lasciarlo al medico legale e ai colleghi che avrebbero raccolto gli effetti personali, rilevato le impronte, preso un calco elettrostatico delle suole e prelevato le tracce dai vestiti con una spazzola adesiva. Sembrava plausibile, dato il peso della sbarra, che l'assassino fosse arrivato in macchina, eppure non c'erano tracce di pneumatici. Il centro del vicolo era cosparso di sale per sciogliere il ghiaccio e i grani impedivano un buon contatto con l'acciottolato. Poi Amelia strinse gli occhi. «Rhyme, c'è qualcosa di strano. Vedo qualcosa a terra, intorno al corpo, direi per un raggio di novanta centimetri.» «Cosa pensi che sia?»
La detective si chinò per esaminare con una lente quella che sembrava sabbia molto fine. Riferì a Rhyme la sua scoperta. «È per il ghiaccio?» «No, è solo intorno al corpo. Non ne vedo in nessun altro punto del vicolo. Per la neve e il ghiaccio usano il sale.» Amelia fece un passo indietro. «Ne è rimasto solo un residuo. È come se... Sì, Rhyme. Ha usato una scopa.» «Una scopa?» «Vedo i segni della paglia. È come se avesse cosparso la scena di sabbia e poi l'avesse spazzata via... Ma forse non è stato lui. Non c'era niente di simile nella prima scena, sul molo.» «Vedi sabbia sulla vittima o sulla sbarra?» «Non lo so... Aspetta, sì, ce n'è.» «Quindi lo ha fatto dopo averlo ucciso», considerò Rhyme. «Probabilmente è un agente oscurante.» Gli assassini diligenti a volte cospargevano il terreno di polvere o materiale granulare di vario genere: sabbia, sabbietta per gatti o persino farina. Poi spazzavano o aspiravano il tutto, asportando con esso particelle che avrebbero potuto essere utili agli investigatori. «Ma per quale motivo?» Amelia guardò il corpo, poi il vicolo. Io sono lui... Perché spazzare il terreno? Di solito gli assassini cancellano le impronte digitali e fanno sparire gli indizi più ovvi, ma è molto raro che si prendano la briga di usare un agente oscurante. La detective chiuse gli occhi e, per quanto difficile, cercò di immaginarsi di fronte alla vittima nel momento in cui questa lottava per tenere sollevata la sbarra. «Forse ha rovesciato qualcosa.» Ma Rhyme obiettò: «Non mi sembra verosimile. Non può essere stato così avventato». Amelia continuò a riflettere. Sono un assassino attento, certo. Ma perché spazzare il vicolo? Io sono lui... «Perché?» sussurrò Rhyme. «Lui...» «Non lui», la corresse il criminalista. «Sei tu lui, Sachs. Ricordatelo.» «Io sono un perfezionista. Voglio far scomparire ogni possibile traccia.» «Vero. Ma che cosa ci guadagni a spazzare la scena del crimine? È ri-
schioso restarci. Secondo me la ragione è un'altra. Amelia cercò di immedesimarsi ancora di più nell'assassino: si immaginò a sollevare la sbarra e metterla nelle mani dell'uomo, a guardare il suo volto contratto nello sforzo, gli occhi strabuzzati. Gli metto l'orologio accanto alla testa. Sento il ticchettio... Lo guardo morire. Non lascio tracce, pulisco la scena... «Pensa, Sachs. Che cosa stai facendo?» Io sono lui... «Torno indietro, Rhyme.» «Come?» «Torno indietro sulla scena. Voglio dire, lui torna indietro. Per questo deve cancellare ogni traccia: non vuole lasciare niente che ci dia una sua descrizione: niente fibre, capelli, impronte di scarpe, terriccio sotto le suole. Non ha paura che riusciamo a scoprire il suo nascondiglio: è troppo bravo per questo. No, ha paura che troviamo qualcosa che ci aiuti a riconoscerlo quando tornerà.» «Okay, è possibile. Forse è un voyeur. Gli piace guardare la gente che muore, gli piace osservare gli sbirri al lavoro. O forse vuole vedere chi gli sta dando la caccia... così lui può dargli la caccia a sua volta.» Amelia Sachs provò un brivido di paura lungo la schiena. Si guardò intorno. C'era, come di consueto, una piccola folla di curiosi dall'altro lato della strada. Che l'assassino fosse in mezzo a loro, che la stesse guardando proprio in quel momento? Poi Rhyme aggiunse: «O forse è già tornato, stamattina presto, per controllare che la vittima fosse morta. E questo significa...» «Che potrebbe avere lasciato qualche traccia altrove, fuori dalla scena. Sul marciapiede, in strada.» «Esatto.» Amelia passò sotto il nastro giallo e guardò la strada, quindi il marciapiede davanti all'edificio, dove trovò una mezza dozzina di impronte nella neve. Non aveva modo di sapere se appartenessero all'Orologiaio, ma alcune, di grossi stivali, lasciavano pensare che un uomo si fosse soffermato per diversi minuti all'imboccatura del vicolo, spostando il peso da un piede all'altro. Non c'era ragione per fermarsi in quel punto: non c'era nessun telefono pubblico, nessuna buca delle lettere, nessuna finestra. «Ci sono insolite impronte di stivali all'ingresso del vicolo, vicino al marciapiede di Cedar Street», annunciò Amelia al microfono. «Grandi.»
Esaminò un banco di neve. «E qui c'è qualcosa.» «Cioè?» «Un fermasoldi d'oro.» Con le dita intirizzite nei guanti di lattice, Amelia contò i biglietti. «Trecentoquaranta dollari in biglietti da venti, nuovi. Proprio accanto alle impronte.» «C'erano soldi sulla vittima?» «Sessanta dollari, anche quelli piuttosto nuovi.» «L'assassino potrebbe avergli rubato il fermasoldi e averlo perso mentre se ne andava.» Amelia mise il fermasoldi in una busta di plastica e continuò a perlustrare il terreno, senza trovare altro. La porta dell'edificio che dava sul vicolo si aprì e apparvero Sellitto e un guardiano, che si fecero da parte per consentire ad Amelia di esaminarla. La detective informò Rhyme che sulla porta c'era qualcosa come un milione di impronte digitali. Lui ridacchiò. Proseguì l'ispezione all'interno, ma non trovò nulla di rilevante ai fini dell'indagine. D'un tratto nell'aria fredda riecheggiò la voce di una donna in preda al panico. «Oh, mio Dio, no!» Una bruna robusta sulla quarantina corse al nastro giallo, dove un poliziotto in uniforme la fermò. La donna si coprì il viso con le mani e si mise a singhiozzare. Sellitto la raggiunse, seguito da Amelia. «Lo conosceva, signora?» chiese il corpulento detective. «Cos'è successo? Cos'è successo? No... Oh, Dio...» «Lo conosceva?» ripeté Sellitto. Scossa dai singhiozzi, la donna voltò le spalle all'orrendo spettacolo. «Mio fratello... è...? Oh, Dio, non è possibile.» Cadde in ginocchio sul ghiaccio. Doveva essere la donna che aveva denunciato la scomparsa del fratello, concluse Amelia Sachs. Quando aveva a che fare con i sospetti, Lon Sellitto aveva la personalità di un pitbull, ma con le vittime e i loro parenti rivelava una tenerezza inaspettata. A bassa voce, con il suo pesante accento di Brooklyn, le disse: «Mi dispiace. È vero. Non c'è più». La aiutò ad alzarsi in piedi e ad appoggiarsi a un muro del vicolo. «Chi è stato? Perché?» disse la donna, quasi in uno strillo, osservando il macabro scenario della morte del fratello. «Chi può aver fatto una cosa del genere? Chi?» «Non lo sappiamo, signora», disse Amelia. «Mi dispiace. Ma lo trove-
remo, glielo prometto.» Ansante, la donna si voltò. «Non fatelo vedere a mia figlia, per favore.» Amelia guardò verso una macchina parcheggiata per metà sul marciapiede, l'auto da cui la donna era scesa in preda al panico. Sul sedile del passeggero c'era una teenager che fissava curiosa la detective, con la testa inclinata da un lato. Amelia si spostò, in modo da impedirle la vista del corpo dello zio. Barbara Eckhart, sorella della vittima, aveva lasciato in macchina il cappotto e ora tremava dal freddo. In preda a un attacco isterico, chiese dove fosse un bagno. Amelia l'accompagnò nell'edificio dalla porta sul vicolo. Quando ricomparve, Barbara era ancora sotto choc e pallida in volto, ma aveva smesso di piangere. Non aveva idea del movente dell'assassino. Suo fratello era scapolo, lavorava in proprio come copywriter pubblicitario free-lance, era benvoluto da tutti e, che lei sapesse, non aveva nemici. Non era coinvolto in triangoli sentimentali, nessun marito geloso in circolazione. Non aveva mai fatto uso di droghe né aveva mai commesso nulla di illegale. Si era trasferito a New York da due anni. L'assenza di connessioni al crimine organizzato preoccupava Amelia: metteva in primo piano l'ipotesi dello psicopatico, molto più pericoloso per la gente comune di un professionista della malavita. La detective spiegò alla donna che cosa sarebbe stato del corpo: in capo a ventiquattro-quarantott'ore il medico legale lo avrebbe riconsegnato al parente più prossimo. Il viso di Barbara si fece di pietra. «Ma perché ha ucciso Teddy in quel modo? Che cosa gli è venuto in mente?» A questa domanda, Amelia non sapeva che cosa rispondere. Sellitto riaccompagnò la sorella della vittima all'auto. La detective non riusciva a togliere gli occhi dalla figlia, che continuava a fissarla. Era uno sguardo difficile da sostenere. La ragazza ormai doveva avere capito che quell'uomo era suo zio ed era morto, ma nei suoi occhi si leggeva ancora un filo di speranza. Una speranza che presto sarebbe svanita. Fame. Vincent Reynolds giaceva nel letto umido della sua casa temporanea, nientemeno che una chiesa sconsacrata, e sentì la fame della sua anima che faceva il paio con quella che gli gorgogliava nello stomaco. La vecchia chiesa cattolica, in un'area deserta di Manhattan vicino al-
l'Hudson, era la loro base operativa per gli omicidi. Gerald Duncan veniva da fuori città e l'appartamento di Vincent era nel New Jersey. Vincent aveva offerto a Duncan di ospitarlo, ma questi aveva rifiutato. Non era possibile, non potevano avere alcun contatto con le loro residenze, gli aveva detto, come se gli stesse tenendo una lezione. O, piuttosto, come un padre che spiega il mondo al figlio. «Una chiesa?» aveva chiesto Vincent. «Perché?» «Perché è sul mercato immobiliare da quattordici mesi e mezzo. Non la vuole comprare nessuno. E in questa stagione gli agenti non la fanno vedere ai clienti.» Una rapida occhiata a Vincent. «Non temere: è sconsacrata.» «Davvero?» Vincent riteneva di avere già commesso peccati sufficienti a garantirgli l'inferno per direttissima, sempre che esistesse. Violare una chiesa, consacrata o meno, sarebbe stato il suo reato meno grave. L'agenzia immobiliare aveva chiuso le porte a chiave, ma il mestiere dell'orologiaio non è dissimile da quello di un fabbro. Anzi, come aveva spiegato Duncan, i primi orologiai fabbricavano anche chiavi e serrature. L'uomo non aveva avuto difficoltà a scassinare la porta sul retro, richiudendola con un nuovo lucchetto in modo da poter entrare e uscire senza essere visti dalla strada o dal marciapiede. Poi aveva cambiato anche la serratura della porta principale, lasciandovi sopra uno strato di cera per poter controllare se qualcuno cercasse di entrare in loro assenza. La chiesa, buia e piena di spifferi, puzzava di detergenti da poco prezzo. La stanza di Duncan era la vecchia camera da letto del parroco, al piano superiore. Quella di Vincent era la ex sagrestia. L'arredamento consisteva in una branda, un tavolo, un fornello elettrico, un forno a microonde e un frigorifero. (Vincent l'Affamato, come al solito, si ritrovava in cucina.) La chiesa era ancora collegata alla rete elettrica, nel caso agli agenti immobiliari servisse la luce. Era acceso anche il riscaldamento, per evitare che i tubi scoppiassero, anche se il termostato era al minimo. Quando Vincent aveva visto la chiesa, memore dell'ossessione di Duncan nei confronti del tempo, aveva commentato: «Peccato che non ci sia la torre dell'orologio. Come il Big Ben». «Quello è il nome della campana, non dell'orologio.» «Nella Torre di Londra?» «Nella torre dell'orologio», lo aveva corretto nuovamente Duncan, «del palazzo di Westminster, dove siede il parlamento. Si chiama Big Ben in onore di Sir Benjamin Hall. Nella seconda metà dell'Ottocento era la più grande campana d'Inghilterra. Negli orologi più antichi erano le campane a
dire l'ora, non c'erano né quadranti né lancette.» «Oh.» «In latino medioevale clocca significa 'campana' e da qui viene la parola inglese clock per dire 'orologio'.» Quell'uomo sapeva tutto. Era una cosa che a Vincent piaceva. Ce n'erano un sacco di cose che gli piacevano di Gerald Duncan. Si chiedeva se, respinti com'erano entrambi dalla società, sarebbero potuti diventare veri amici. Vincent non ne aveva molti. Ogni tanto usciva a bere con gli assistenti degli studi legali e i colleghi dattilografi. Ma in quei casi Vincent lo Sveglio preferiva parlare poco, nel timore di lasciarsi sfuggire un commento sbagliato su una cameriera o su una donna a un tavolo vicino. La fame lo rendeva disattento (proprio com'era capitato con Sally Anne). Vincent e Duncan erano diversissimi l'uno dall'altro, ma avevano qualcosa in comune: gli oscuri segreti del loro cuore. Chiunque ne abbia, sa quanto influiscono sullo stile di vita. Oh, sì. Vincent era deciso a provare a diventare amico di Duncan. Mentre si lavava la faccia, ripensò a Joanne, la brunetta cui avrebbero fatto visita quel giorno, la fiorista, la loro prossima vittima. Vincent aprì il piccolo frigorifero, prese un bagel e lo tagliò con la lama affilata da venti centimetri del suo coltello da caccia. Ci spalmò sopra crema di formaggio e lo mangiò bevendo due lattine di Coca. Aveva il naso ghiacciato. Il meticoloso Gerald Duncan insisteva perché tenessero i guanti anche lì, una vera seccatura, ma con il freddo che faceva quel giorno a Vincent non importava. Tornò a sdraiarsi sul letto, immaginando come doveva essere il corpo di Joanne. Più tardi, quest'oggi... La fame cresceva, da morire. Sentiva una stretta allo stomaco. Se non avesse avuto al più presto il suo momento di intimità con Joanne, sarebbe impazzito. Bevve una lattina di Dr. Pepper, mangiò un sacchetto di patatine. Poi qualche pretzel. Fame... Da morire... Non era stato lui a paragonare a una fame il suo desiderio di violentare le donne. L'idea era stata del suo terapeuta, il dottor Jenkins. Durante la detenzione di Vincent dopo la faccenda di Sally Anne, l'unica volta che era
stato arrestato, il dottore gli aveva spiegato che doveva accettare la persistenza dello stimolo. «Non te ne puoi liberare. È come una specie di fame... Ma avere fame è naturale. Non possiamo fare a meno di averla, non sei d'accordo?» «Sissignore.» Il terapeuta aveva aggiunto che, per quanto non si possa evitare la fame, era possibile soddisfarla in modo appropriato. «Capisci cosa voglio dire? Se hai fame, non devi mangiare uno snack, ma fare un pasto sano all'ora giusta. Allo stesso modo, puoi avere una relazione sana e seria che porta al matrimonio e alla famiglia.» «Capito.» «Bene. Mi sembra che tu stia facendo progressi, non sei d'accordo?» Il ragazzo aveva fatto tesoro dei consigli, anche se li aveva tradotti in qualcosa di diverso da quello che intendeva il buon dottore. L'analogia con la fame si era rivelata un'utile guida. Pertanto Vincent mangiava, ossia aveva i suoi momenti di intimità con le ragazze, solo quando ne aveva davvero bisogno. Così non si sarebbe ridotto alla disperazione... e alla disattenzione, com'era capitato con Sally Anne. Brillante. Non sei d'accordo, dottor Jenkins? Finì l'ultimo pretzel, svuotò la lattina e scrisse un'altra lettera a sua sorella. Vincent lo Sveglio scarabocchiò qualche disegnino ai margini. A sua sorella potevano piacere, anche se come artista lui non era granché. Sentì bussare. «Avanti.» Gerald Duncan aprì la porta. Si salutarono. Vincent sbirciò nella stanza dell'altro, perfettamente in ordine. Sulla scrivania ogni oggetto era disposto con perfetta simmetria. I vestiti, ben stirati, erano appesi nell'armadio a una distanza di cinque centimetri esatti l'uno dall'altro. Questo poteva essere un ostacolo alla loro amicizia: Vincent era un disordinato cronico. «Vuoi mangiare qualcosa?» «No, grazie.» Per forza era così magro. L'Orologiaio mangiava di rado, non aveva mai appetito. Anche questo poteva essere un ostacolo. Ma Vincent decise di ignorarlo. Dopotutto anche sua sorella mangiava poco, però lui le voleva bene lo stesso. L'assassino si preparò il caffè. Mentre l'acqua si scaldava, prese il barattolo dal frigorifero e mise due cucchiai esatti di caffè in grani nel macini-
no. Girò rumorosamente la manovella una dozzina di volte, quindi versò il caffè macinato nel filtro conico di carta, battendovi sopra con un dito perché fosse perfettamente livellato. A Vincent piaceva moltissimo guardare Gerald Duncan che preparava il caffè. Meticoloso... Duncan prese il suo orologio d'oro dalla tasca e lo caricò con cura. Finì il caffè, bevendolo in fretta come se fosse una medicina, poi si rivolse a Vincent. «La nostra fiorista, Joanne. Ti va di darle un'occhiata?» Una stretta allo stomaco. Tanti saluti a Vincent lo Sveglio. «Certo.» «Io vado a controllare il vicolo su Cedar Street. Ci sarà già la polizia. Voglio vedere chi abbiamo contro.» Chi abbiamo... Duncan indossò il giaccone e si mise la borsa a tracolla. «Pronto?» Vincent fece cenno di sì con la testa. Si infilò il parka color crema, si mise il berretto e gli occhiali da sole. «Fammi sapere», stava dicendogli Duncan, «se in laboratorio c'è qualcun altro o se lavora da sola.» L'Orologiaio aveva scoperto che Joanne passava molto tempo nel suo laboratorio, a qualche isolato dal negozio. Era un luogo tranquillo e poco illuminato. Vincent l'Affamato non riusciva a togliersela dalla testa, con quei suoi capelli castani ricci e il viso allungato ma bello. Scesero di sotto e sbucarono nel vicolo dietro la chiesa. Duncan fece scattare il lucchetto. «Oh, volevo dirti una cosa. Anche quella di domani è una donna. Due a fila. Non so quanto spesso ti piace avere... come li chiami? I tuoi momenti di intimità?» «Infatti.» «Perché li chiami in questo modo?» chiese Duncan. Vincent aveva già notato che l'assassino aveva una curiosità insaziabile. Anche quella era una frase del dottor Jenkins, il suo amico del centro di detenzione, che gli diceva di andarlo a trovare nel suo studio ogni volta che voleva, per dirgli come si sentiva e avere «un bel momento di intimità». Per qualche ragione, a Vincent piacevano quelle parole. Erano meglio di «stupro». «Non lo so», rispose. «Mi viene così.» E aggiunse che due donne a fila per lui non erano un problema. Qualche volta l'appetito vien mangiando, dottor Jenkins.
Non sei d'accordo? Mentre camminavano con cautela sul ghiaccio, Vincent domandò: «Uhm, che cosa vuoi fare con Joanne?» Duncan aveva una regola nell'uccidere le proprie vittime. La loro morte non doveva essere rapida. Non era così facile come poteva sembrare, aveva spiegato con quel suo tono preciso e distaccato. Aveva un libro intitolato Tecniche estreme di interrogatorio, che insegnava come costringere i prigionieri a parlare sottoponendoli a torture che alla lunga li avrebbero condotti alla morte, se non confessavano: mettergli un peso sulla gola, tagliargli i polsi e lasciarli dissanguare e una dozzina di altri metodi. «Nel suo caso non voglio metterci troppo tempo», rispose l'Orologiaio. «La imbavaglierò e le legherò le mani dietro la schiena. Poi la metterò pancia a terra e le farò passare un cavo intorno alla gola, legandolo alle caviglie.» «Con le ginocchia piegate?» Vincent già si immaginava la scena. «Esatto. C'era nel libro. Hai visto le figure?» Vincent scosse il capo. «Non riuscirà a tenere le gambe piegate in quel mondo per molto tempo. Quando comincerà a cedere, le caviglie tireranno il cavo e alla fine si strangolerà. Ci vorranno da otto a dieci minuti, suppongo.» Duncan sorrise. «Stavolta la cronometrerò. Come mi hai suggerito. Quando ho finito ti chiamo. Sarà tutta per te.» Un bel momento di intimità. Fuori dal vicolo, furono investiti da una ventata gelida, che spalancò il parka di Vincent. Non aveva chiuso la cerniera lampo. Si fermò, allarmato. Sul marciapiede, a un paio di metri da lui, passava un ragazzo dalla barbetta rada, con un giaccone consunto e uno zaino su una spalla. Uno studente, pensò Vincent. Il ragazzo continuò a camminare con passo rapido, a testa bassa. Duncan guardò il suo socio. «Qual è il problema?» Vincent accennò al fodero del coltello da caccia appeso alla cintola. «Secondo me l'ha visto. Mi... mi spiace. Avrei dovuto tirare su la cerniera lampo, ma...» Duncan fece un'espressione severa, a labbra strette. No, no... Vincent si augurò di non averlo deluso. «Se vuoi lo sistemo. Lo...» L'assassino si voltò verso lo studente, che si stava allontanando da loro. Poi tornò a guardare Vincent. «Hai mai ucciso nessuno?» Gli occhi azzurri
dell'Orologiaio lo trapassavano da parte a parte. «No.» «Aspetta qui.» Gerald Duncan scrutò la strada. Non c'era nessuno, a parte lo studente. Mise una mano in tasca e prese il taglierino che aveva usato sui polsi dell'uomo sul molo, la notte precedente. Poi si incamminò dietro lo studente. Lo aveva quasi raggiunto quando svoltarono l'angolo in direzione est. Era terribile... Vincent non era stato meticoloso. Aveva messo in pericolo tutto quanto: l'amicizia con Duncan, i suoi momenti di intimità. Tutto per colpa della sua disattenzione. Avrebbe voluto mettersi a urlare, avrebbe voluto mettersi a piangere. Infilò la mano in tasca, trovò un KitKat e lo mangiò in un sol boccone, masticando anche un po' di carta. Dopo cinque minuti di agonia, Duncan ricomparve con in mano un foglio di giornale accartocciato. «Mi spiace», ripeté Vincent. «Va tutto bene. Tutto okay», lo rassicurò l'Orologiaio con voce calma. Nel foglio c'era il taglierino insanguinato. Duncan ripulì la lama sulla carta e la ritrasse, poi buttò via il giornale e i guanti. Ne indossò un altro paio: aveva insistito perché ne portassero sempre uno di riserva. «Il corpo è in un cassonetto. L'ho coperto con i rifiuti. Con un po' di fortuna, prima che qualcuno se ne accorga finirà in una discarica o in mare.» «Tutto bene?» chiese Vincent, notando un segno rosso sulla guancia di Duncan. «Sono stato disattento. Si è ribellato. Ho dovuto ferirlo agli occhi. Ricordatelo. Se qualcuno reagisce, feriscilo agli occhi. Gli fa passare la voglia di resistere e puoi farne quello che vuoi.» Feriscilo agli occhi... Vincent annuì, lentamente. Duncan gli chiese: «Starai più attento, adesso?» «Oh, sì. Lo prometto. Davvero.» «Allora vai a controllare la fiorista. Ci vediamo al museo alle quattro meno un quarto.» «Okay, certo.» Duncan lo fissò con i suoi occhi azzurri e gli rivolse uno dei suoi rari sorrisi. «Non preoccuparti. C'è stato un problema. È stato risolto. Nel grande schema delle cose non conta nulla.»
5 Il corpo di Teddy Adams non c'era più, e con esso i suoi parenti in lutto. Lon Sellitto era andato da Rhyme. Ron Pulaski, Nancy Simpson e Frank Rettig stavano togliendo il nastro giallo, riaprendo al pubblico la scena del crimine. Amelia Sachs aveva ancora in mente lo sguardo di vana speranza della giovane nipote di Adams. Dopo avere riesaminato la scena un'ultima volta, con più diligenza del solito, aveva controllato tutte le porte e ogni possibile via di accesso e di fuga dell'assassino. Ma non aveva scoperto niente. Non ricordava quando era stata l'ultima volta che si era trovata sulla scena di un crimine tanto complesso, eppure così privo di indizi. Raccolte tutte le sue attrezzature, tornò a pensare al caso Benjamin Creeley e chiamò la vedova per dirle che alcuni uomini erano entrati nella casa di Westchester. «Non lo sapevo. Ha idea di che cos'abbiano rubato?» Amelia l'aveva incontrata diverse volte. Suzanne Creeley era una donna magrissima (faceva jogging tutti i giorni), con un viso grazioso e i capelli corti con la permanente. «Mi sembra che non abbiano portato via niente.» La detective preferì non dirle del ragazzo dei vicini, doveva averlo spaventato abbastanza da fargli rimettere a posto ogni cosa. Chiese a Suzanne se qualcuno avesse bruciato qualcosa nel caminetto, ma la donna rispose che nessuno era stato in quella casa di recente. «Secondo lei che cosa succede?» «Non lo so. Ma ho sempre più dubbi sul suicidio. A proposito, deve far cambiare la serratura della porta di servizio.» «Chiamo subito qualcuno... grazie, detective. È molto importante per me che lei mi creda. Sul fatto che Ben non si è suicidato.» Dopo la telefonata, Amelia compilò una richiesta di analisi per la cenere, il fango e gli altri indizi raccolti a Westchester, separandoli dal materiale raccolto nel vicolo. Poi completò i moduli per la custodia dei reperti e aiutò Simpson e Rettig a caricare tutto sul furgone. Dovettero mettersi in due per avvolgere la sbarra nella plastica. Mentre chiudeva il portello del furgone, guardò dall'altro lato di Cedar Street. Il freddo aveva allontanato la maggior parte degli spettatori, ma non le passò inosservato un uomo fermo a leggere il Post davanti a un edificio in ristrutturazione vicino a Chase Plaza. Non mi convince, pensò. Nessuno si ferma a leggere un giornale su un
angolo di strada, con questo tempo. Se sei tanto curioso di sapere quanto hai perso in borsa o di quanti metri è volato giù dal viadotto il pullman della gita parrocchiale, sfogli in fretta le pagine e te ne torni a casa. Non ti fermi in una strada ventosa a leggere i pettegolezzi di pagina sei. Non riusciva a vederlo bene. L'uomo era nascosto dal giornale e da un cumulo di macerie dei lavori in corso. Ma una cosa era ben in vista: i suoi stivali. Potevano essere benissimo quelli che avevano lasciato le impronte nella neve all'imboccatura del vicolo. Amelia esitò. La maggior parte dei poliziotti se n'erano andati. La Simpson e Rettig erano armati, ma privi di addestramento tattico. Quanto al sospetto, era dall'altro lato di una transenna alta un metro, pronta per un'imminente parata. Se lei gli si fosse avvicinata da dove si trovava in quel momento, dall'altra parte della strada, avrebbe avuto tutto il tempo di scappare. Doveva intrappolarlo in modo più sottile. Raggiunse Pulaski e gli sussurrò: «Un uomo a ore sei. Voglio parlargli. Quello che legge il giornale». «Il killer?» chiese il poliziotto. «Non so. Forse. Facciamo così: io salgo sul furgone con la squadra CS. Mi faccio lasciare all'angolo est. Sai guidare una macchina con cambio manuale?» «Come no.» Amelia gli diede le chiavi della sua Camaro rossa. «Vai per una decina di metri verso ovest lungo la Cedar, direzione Broadway. Inchioda, scendi, passa di là dalla transenna e torna indietro.» «Vado a stanarlo.» «Esatto. Se è solo uno che legge il giornale, ci facciamo due chiacchiere, controlliamo i documenti e torniamo al lavoro. In caso contrario alzerà i tacchi e correrà dritto verso di me. Tu stagli dietro e coprimi.» «Ricevuto.» A beneficio del sospetto, Amelia si guardò lentamente intorno, come se volesse dare un'ultima occhiata alla scena del delitto, poi salì a bordo del grosso furgone marrone. Si protese in avanti e annunciò: «C'è un problema». I due colleghi si voltarono verso di lei. Nancy Simpson, seduta al volante, aprì la cerniera lampo e portò la mano al calcio della pistola. «No, non c'è bisogno. Ora vi spiego.» Ed espose loro la situazione. Ordinò alla Simpson: «Vai verso est. Gira a sinistra al semaforo e rallenta. Io salto giù».
Pulaski intanto era salito sulla Camaro. Avviò il motore e non seppe resistere alla tentazione di premere l'acceleratore per godersi il rombo dai due tubi della marmitta. «Non vuoi che ci fermiamo?» chiese Rettig. «No, rallentate e basta. Voglio che il sospetto sia sicuro che me ne sono andata.» «Okay», sussurrò la Simpson. «Come vuoi tu.» Il furgone partì. Nello specchietto retrovisore, Amelia vide la Camaro mettersi in moto. Piano, disse mentalmente a Pulaski. Sotto il cofano c'era un mostro di motore e la frizione faceva presa come il Velcro. Ma il poliziotto controllò i cavalli e partì lentamente nella direzione opposta a quella del furgone. All'incrocio tra Cedar e Nassau Street il veicolo della CSU svoltò. Amelia aprì il portello scorrevole. «Proseguite senza fermarvi.» «Buona fortuna», disse la Simpson, e tirò dritto. Amelia saltò dal veicolo. Caspita. Il furgone andava più veloce del previsto. La detective rischiò di cadere, ma si rimise in equilibrio e ringraziò la pubblica amministrazione per la generosità con cui aveva sparso il sale sulle strade ghiacciate. Si incamminò sul marciapiede, puntando verso l'uomo con il giornale, che non la vide arrivare. Un isolato. Un altro mezzo isolato. Aprì il giubbotto e strinse le dita intorno alla Glock, sopra la cintura. A una quindicina di metri dal sospetto, Pulaski accostò al marciapiede, scese dalla macchina e, senza che l'uomo se ne accorgesse, scavalcò con un salto la transenna. Lo avevano in trappola, adesso: da una parte c'era l'edificio in ristrutturazione, dall'altra la barriera di metallo. Un buon piano. Tranne che per un dettaglio. Sul lato opposto della strada c'erano due guardie armate, ferme davanti al palazzo dell'Urbanistica, che fino a poco prima avevano dato una mano alla polizia. Uno di loro la scorse, le fece un cenno con la mano e la chiamò. «Ha scordato qualcosa, detective?» Merda. L'uomo che leggeva il Post si girò e la vide. Lasciò cadere il giornale, oltrepassò la transenna con un salto e si mise a correre a perdifiato in mezzo alla strada, verso Broadway. Pulaski si ritrovò sul lato sbagliato della barriera di metallo. Cercò di
scavalcarla, ma inciampò e cadde a terra. Amelia si fermò per un istante e, constatato che il collega non si era fatto troppo male, inseguì il sospetto. Il poliziotto si rimise in piedi e si mise a correre a sua volta. Il fuggitivo aveva una decina di metri di vantaggio e stava accelerando. Amelia afferrò il walkie-talkie e premette il tasto TRASMISSIONE. «Detective Cinque Otto Otto Cinque», ansimò. «Inseguo a piedi un sospetto di omicidio diretto a ovest su Cedar Street... no, ora a sud su Broadway. Servono rinforzi.» «Roger, Cinque Otto Otto Cinque. Dirigiamo unità in posizione.» Diverse RMP (Radio Mobile Patrols, le autopattuglie) risposero di trovarsi nelle vicinanze ed essere pronte a tagliare la strada al sospetto. Mentre Amelia e Pulaski si avvicinavano a Battery Park, l'uomo in fuga si fermò così bruscamente che quasi rischiò di cadere. Guardava verso destra. Verso la metropolitana. No, il treno no, si disse lei. Ci sarebbe stata troppa gente intorno. Non lo fare. Un'occhiata dietro di sé e il sospetto scese di corsa le scale. Amelia si fermò. «Stagli dietro!» gridò a Pulaski. Riprese fiato. «Se spara, stai attento a chi ha dietro prima di rispondere. Se hai dubbi, lascialo e non correre rischi.» A disagio, il giovane assentì. Amelia sapeva che non si era mai trovato in uno scontro a fuoco. «E tu dove...» cominciò Pulaski. «Vai! «gridò lei. La recluta tirò un lungo respiro e ripartì. Amelia lo vide scendere le scale a tre gradini per volta. Poi la detective attraversò la strada e si affrettò a percorrere mezzo isolato verso sud. Sfoderò la pistola e si mise al riparo di un'edicola. Contò: Quattro... tre... due... Uno. Uscì dal nascondiglio e si girò verso l'uscita della metropolitana, proprio mentre il sospetto arrivava di corsa in cima alle scale. Amelia gli puntò contro la pistola. «Non muoverti.» I passanti gridarono e si gettarono a terra. La reazione del sospetto, invece, fu semplicemente di delusione, probabilmente perché il suo trucco non aveva funzionato. La detective aveva intuito che sarebbe potuto sbucare di lì. Aveva deciso che la sua sorpresa alla vista della metropolitana doveva essere una finta: il sospetto aveva puntato verso la stazione fin dal primo momento, sperando di seminarli.
L'uomo alzò le mani, letargico. «Faccia a terra.» «Andiamo. Io...» «Subito!» ordinò lei. Il sospetto guardò la pistola e obbedì. Sfiatata dalla corsa, con le giunture dolenti, Amelia gli piantò un ginocchio in mezzo alla schiena per ammanettarlo. L'uomo fece una smorfia. Ma a lei non importava. Era di pessimo umore. «Hanno preso un sospetto. Sulla scena.» Lincoln Rhyme e il latore di quelle interessanti notizie si trovavano nel laboratorio. Il tenente Dennis Baker, un quarantenne solido e di bell'aspetto, era un supervisore della Major Cases, la divisione di Sellitto, e aveva ricevuto ordini diretti dal Municipio: l'Orologiaio doveva essere fermato al più presto. Era uno di quelli che avevano «insistito» perché lui e Amelia si occupassero del caso. Rhyme inarcò un sopracciglio. Sospetto? I criminali tornavano spesso sul luogo del delitto, per una ragione o per l'altra. Che Amelia Sachs avesse davvero catturato l'assassino? Baker tornò a dialogare con il cellulare, ascoltando e annuendo. Il tenente, che assomigliava straordinariamente all'attore George Clooney, era uno di quegli stachanovisti privi di ironia che possono diventare ottimi funzionari della polizia e pessimi compagni di bevute. «È meglio averlo dalla tua», aveva consigliato Sellitto, poco prima che Baker arrivasse da One Police Plaza, la centrale della polizia di New York. «Bene. Me lo ritroverò tra i piedi?» «Sì, ma non te ne accorgerai nemmeno.» «Cioè?» «Vuole un goal e pensa che tu possa segnarlo. Ti lascerà la briglia sciolta e ti darà tutto l'aiuto che ti serve.» Il che era un bene, visto che erano a corto di manodopera. Con loro lavorava spesso un poliziotto originario del sud, Roland Bell, un tipo alla buona, molto diverso da Rhyme ma altrettanto metodico. Purtroppo Bell era in vacanza nel North Carolina, in visita ai due figli e alla sua fidanzata, che di mestiere faceva lo sceriffo. Un altro collaboratore abituale era Fred Dellray, un agente dell'FBI noto per la sua attività nell'antiterrorismo e i suoi lavori di infiltrazione. I delitti di questo genere non erano reati federali, ma Dellray dava spesso una ma-
no a Sellitto e a Rhyme e metteva a loro disposizione le risorse dell'FBI saltando i consueti passaggi burocratici. Ma, a quanto pareva, i federali erano impegnati in una serie di indagini su frodi finanziarie stile Enron, e Fred Dellray ne stava seguendo una a tempo pieno. Sicché la presenza di Baker, per non parlare della sua influenza alla centrale, era un dono del cielo. Il tenente chiuse il cellulare e riferì che in quello stesso momento Amelia Sachs stava interrogando il sospetto, che tuttavia non sembrava intenzionato a cooperare. Sellitto era seduto accanto a Mel Cooper, l'agile tecnico della Scientifica e ballerino dilettante cui Rhyme non sapeva rinunciare. La bravura di Cooper era anche la sua maledizione: il criminalista lo convocava a qualsiasi ora del giorno e della notte perché si occupasse dell'aspetto tecnico dei suoi casi. Quando Rhyme lo aveva chiamato quella mattina al laboratorio nel Queens, Cooper aveva esitato: nel weekend voleva portare sua madre e la fidanzata in Florida. La risposta di Rhyme era stata: «Un ulteriore incentivo a venire qui di corsa, non ti pare?» «Sono lì tra mezz'ora», aveva promesso Cooper. E ora sedeva al suo tavolo, in attesa di indizi da esaminare. Jackson era accovacciato ai suoi piedi e il tecnico gli dava da mangiare biscotti con la mano fasciata dal guanto di lattice. «Se poi trovi peli di cane tra gli indizi», lo rimproverò il criminalista, «non voglio sentire storie.» «È così carino», disse Cooper, cambiandosi i guanti. Rhyme borbottò sommessamente. La parola «carino» non figurava nel suo vocabolario. Il telefono di Sellitto squillò. Il detective rispose. Quando chiuse la comunicazione annunciò: «La vittima del molo... Né la Guardia Costiera né i nostri sommozzatori hanno trovato il corpo. Stiamo ancora controllando le segnalazioni di persone scomparse». In quel momento arrivò un poliziotto della Crime Scene. Thom lo aiutò a scaricare i reperti raccolti da Sachs. Era ora... Baker e Cooper trasportarono in laboratorio una pesante sbarra metallica avvolta nella plastica: l'arma del delitto nel vicolo. Il poliziotto della CSU consegnò a Cooper i moduli da firmare, poi li ritirò e si congedò. Rhyme non gli fece caso. Stava già esaminando i reperti. Quelli erano i momenti per cui viveva. L'incidente alla spina dorsale non
aveva intaccato la sua passione, quasi una tossicodipendenza, per la caccia ai criminali. Per lui era come uno sport, e gli indizi raccolti sulla scena del delitto erano il suo campo da gioco. Pregustava la sfida. E si sentiva in colpa. Perché il prezzo di quel senso di esaltazione era la sofferenza di qualcun altro: la vittima sul molo, Theodore Adams, le loro famiglie, i loro amici. Oh, certo, comprendeva il loro dolore. Ma era capace di chiudere le loro tragedie in una scatola e nasconderla da qualche parte. Qualcuno poteva definirlo freddo, insensibile, e forse era anche vero. Ma chi eccelle in qualsiasi campo lo deve alla somma di caratteristiche diverse che si riuniscono nella stessa persona. Nel suo caso, una mente acuta, l'accanimento e l'impazienza si univano al distacco emotivo di cui i migliori criminalisti non potevano fare a meno. Aveva gli occhi socchiusi, fissi sulle scatole della CS, quando arrivò Ron Pulaski. Rhyme lo aveva conosciuto un anno prima, quando il giovane era entrato da poco nella polizia. Nonostante avesse già famiglia, con una moglie e due bambini, il criminalista continuava a pensare a lui come alla «recluta». Certi soprannomi ti rimangono incollati. «So che Amelia ha in custodia un sospetto, ma se non è lui l'assassino non intendo perdere tempo», annunciò il criminalista. Si rivolse a Pulaski: «Dammi una descrizione. Prima scena: il molo». «Va bene», fece il poliziotto, a disagio. «È un molo su palafitte sull'Hudson River, più o meno all'altezza della 22nd Street. È lungo quindici metri e si trova a sei metri sopra il livello del fiume. L'omicidio...» «Allora hanno trovato il cadavere.» «Non credo.» «Quindi intendevi presunto omicidio.» «Già. Sissignore. Il presunto omicidio ha avuto luogo in fondo al molo, cioè l'estremità ovest, in un'ora compresa tra le sei del pomeriggio di ieri e le sei di questa mattina, l'orario di chiusura.» Gli indizi scarseggiavano: c'erano solo un'unghia, probabilmente maschile, e il sangue, che Mel Cooper analizzò. Risultò essere sangue umano di tipo AB positivo. Ovverosia, vi erano presenti entrambi gli antigeni, proteine, A e B, mentre erano assenti gli antigeni anti-A e anti-B. Inoltre era presente un'altra proteina, Rh. La combinazione di AB ed Rh ne faceva il terzo gruppo sanguigno tra quelli più rari, corrispondente al 3,5 per cento della popolazione. Ulteriori test confermarono che la vittima era di sesso
maschile. Inoltre doveva essere di una certa età e soffrire di problemi alle coronarie, dal momento che assumeva un anticoagulante. Nel sangue non furono riscontrate tracce di altri medicinali né di malattie. Nelle vicinanze non c'erano impronte digitali, né orme né segni di pneumatici, a parte quelle dei veicoli del personale. Cooper esaminò il campione della rete metallica che Amelia aveva prelevato dalla recinzione, scoprendo che l'intruso si era servito di un paio di cesoie molto comuni. Nel caso lo avessero trovato, avrebbero potuto confrontare i segni del taglio, ma non c'era modo di risalire al modello. Rhyme guardò le fotografie scattate sul molo, rivolgendo particolare attenzione a quelle della pozza di sangue. La vittima doveva trovarsi con il petto all'altezza del molo e le dita incuneate disperatamente nelle fessure tra le tavole. I segni delle unghie lasciavano pensare che, alla fine, avesse perso la presa. Il criminalista si domandò quanto a lungo fosse riuscito a resistere. «Parlami della seconda scena», disse alla recluta. «Va bene», riprese Pulaski. «L'omicidio è stato commesso in un vicolo cieco che dà su Cedar Street, vicino a Broadway. Larghezza cinque metri, lunghezza trenta. Pavimentato di ciottoli.» Il corpo, rammentò Rhyme, era a cinque metri da Cedar Street. «Ora della morte?» «Il medico legale ha stabilito che la morte risale ad almeno otto ore prima del ritrovamento. Il corpo era congelato, pertanto non sarà immediato determinare con precisione l'ora del decesso.» Quando parlava, Pulaski aveva l'abitudine di scivolare nel poliziese. «Amelia mi ha detto delle porte di servizio e di sicurezza che si aprono sul vicolo. Qualcuno ha chiesto se di notte sono chiuse?» «Tre dei palazzi ospitano attività commerciali. Due chiudono le porte alle otto e trenta, l'altro alle dieci. Il quarto palazzo è municipale e chiude alle sei del pomeriggio. Alle dieci passa la nettezza urbana a raccogliere i rifiuti.» «Quando è stato scoperto il corpo?» «Alle sette di questa mattina.» «Okay. La vittima nel vicolo era morta da almeno otto ore. L'ultima porta viene chiusa alle dieci, la stessa ora della raccolta dei rifiuti. Quindi possiamo dire che il delitto è avvenuto tra le dieci e un quarto e le undici di ieri notte. Situazione delle auto parcheggiate?» «Ho preso i numeri di targa di tutti i veicoli nel raggio di due isolati.» Il
taccuino di Pulaski era grosso come un baule. «E quello che cosa diavolo è?» «Ho preso appunti su tutte le auto. Potrebbe essere utile. Dove sono parcheggiate, elementi sospetti...» «Perdita di tempo. Ci servono solo le targhe, per identificare i proprietari attraverso il database della Motorizzazione. Non ci serve sapere se hanno graffi sulla carrozzeria, le gomme lisce o una pipa da crack sul sedile posteriore. Be', l'hai fatto?» «Cosa?» «Controllare le targhe.» «Non ancora.» Cooper si mise online, ma non trovò nulla di sospetto sul conto dei proprietari. Rhyme gli ordinò di verificare se risultassero multe per divieto di sosta nell'area, intorno all'ora del delitto. Nessuna. «Mel, controlla il nome della vittima. Pendenze con la giustizia? Qualcos'altro?» Non risultava nulla sul conto di Theodore Adams. Pulaski riferì che la sorella aveva escluso che avesse nemici o che nella sua vita potesse esserci qualcosa che motivasse l'omicidio. «Allora perché queste vittime?» chiese Rhyme. «Sono state scelte a caso?... Lo so che Dellray ha da fare, ma è importante. Chiamiamolo e facciamogli controllare il nome di Adams. Chissà mai che i federali abbiano qualcosa su di lui.» Fu Sellitto a telefonare a Dellray presso il Federal Building. L'uomo dell'FBI era di pessimo umore a causa del «fottuto casino» dell'indagine finanziaria che gli avevano affidato. Ma trovò il tempo per controllare i database federali e i dossier dei casi attivi. Nessun risultato su Theodore Adams. «Okay», concluse Rhyme. «Finché non troviamo qualcosa, presumiamo che si tratti di vittime scelte a caso da un pazzo.» Guardò le fotografie. «Dove diavolo sono gli orologi?» Con una chiamata agli artificieri, fu appurato che era stata accertata l'assenza di agenti tossici o biologici e che li stavano portando da Rhyme in quello stesso momento. I contanti nel fermasoldi dorato sembravano appena usciti da uno sportello automatico. Erano privi di impronte, però Cooper ne rilevò alcune sul metallo. Provò a controllarle tramite lo IAFIS, il database delle impronte dell'FBI: non trovò nessuna corrispondenza.
«E il profilato?» chiese Rhyme. «Che cosa?» «La sbarra che ha schiacciato il collo della vittima. È un profilato a cruna d'ago.» Rhyme aveva condotto uno studio sui materiali da costruzione della città, dal momento che uno dei modi più diffusi per sbarazzarsi dei cadaveri era abbandonarli nei cantieri. Cooper e Sellitto pesarono la sbarra e la deposero sul tavolo. Pesava 36,45 chilogrammi, era lunga un metro e ottanta, larga due centimetri e mezzo e alta nove. A ogni estremità c'era un foro simile alla cruna di un ago. «Le usano soprattutto per navi, attrezzature pesanti, gru, antenne e ponti.» «Dev'essere l'arma più pesante che ho mai visto», disse Cooper. «Più di una Suburban?» chiese Rhyme, per cui la precisione era tutto. Si riferiva al caso di una donna che diversi mesi prima aveva investito il marito infedele con un grosso fuoristrada nel bel mezzo della Third Avenue. «Oh, quella. Il Casanova...» canticchiò Cooper con una stridente voce tenorile. Controllò la presenza di impronte, ma rimase deluso. Raschiò la superficie della sbarra. «Probabilmente ferro. Vedo tracce di ossidazione.» Un'analisi chimica lo confermò. «Nessun segno di identificazione?» «Nessuno.» Rhyme si accigliò. «Questo è un problema. Se ne possono trovare in una cinquantina di punti nell'area metropolitana... Aspetta, Amelia ha detto che c'è un cantiere nelle vicinanze.» «Oh», fece Pulaski, «mi ha mandato a controllare. Non usano sbarre come questa. Mi sono scordato di dirlo.» «Ti sei scordato», mormorò Rhyme. «Be', so che è in corso un grosso lavoro al Queensboro Bridge. Vale la pena di fare una verifica.» Si rivolse alla recluta: «Chiama il cantiere al Queensboro e scopri che profilati usano e se gliene manca qualcuno». Pulaski annuì e prese di tasca il cellulare. Nel frattempo Cooper esaminava i risultati dell'analisi della sabbia. «Okay. Qui c'è qualcosa. Solfato di tallio.» «Cioè?» chiese Sellitto. «Veleno per topi», spiegò Rhyme. «È proibito negli Stati Uniti, ma lo si può trovare in certe comunità di immigrati o negli edifici in cui lavorano. Concentrazione?» «Elevata. E non ce n'è traccia nei campioni di terra e residui raccolti da Amelia. Vuol dire che viene da un luogo in cui è stato l'assassino.»
«Forse vuole servirsene per uccidere qualcuno», suggerì Pulaski, mentre aspettava in linea. Rhyme scosse il capo. «Improbabile. Non è facile da somministrare, e per gli esseri umani occorre una dose elevata. Comunque può essere una pista da seguire. Scopriamo se ne è stato confiscato di recente o se ci sono state lamentele presso le agenzie ambientali della città.» Cooper si occupò delle chiamate. «E adesso guardiamo il nastro adesivo», ordinò Rhyme. Il tecnico esaminò i rettangoli di nastro grigio e lucente che era stato usato per imbavagliare e legare la vittima. Era di un tipo comune, venduto in migliaia di negozi in tutto il Paese. L'esame del lato adesivo non rivelò granché, a parte qualche granello di sale antighiaccio, che corrispondeva ai campioni prelevati da Amelia, e a tracce del solfato di tallio che l'Orologiaio aveva sparso intorno alla vittima. Deluso dal poco che avevano ricavato dal nastro adesivo, Rhyme tornò a studiare le fotografie scattate da Amelia, concentrandosi su quelle del cadavere. Poi spostò la sedia a rotelle vicino al tavolo e osservò lo schermo. «Guarda i lembi del nastro.» «Interessante», disse Cooper, osservando alternativamente le fotografie digitali e il nastro adesivo. Ciò che entrambi avevano notato era che il nastro era stato tagliato con estrema precisione e applicato con cura. Di solito veniva semplicemente strappato dal rotolo. In qualche caso l'aggressore lo strappava con i denti, lasciando tracce di saliva piene di DNA, e lo piazzava brutalmente sulla bocca e intorno a polsi e caviglie della vittima. Ma le strisce usate dall'Orologiaio erano tutte uguali ed erano state recise perfettamente con uno strumento affilato. Ron Pulaski aveva finito la sua telefonata. «Nei lavori del ponte non usano profilati a cruna d'ago.» Non che Rhyme se lo aspettasse. «E la corda legata alla sbarra?» Cooper la esaminò, la confrontò con alcuni database e scosse il capo. «Generica.» Rhyme accennò ai tabelloni in un angolo del laboratorio. «Cominciamo a scrivere. Tu, Ron, hai una grafia chiara?» «Abbastanza.» «Perfetto. Scrivi.» Nelle sue indagini, Rhyme ordinava su una tabella tutti gli indizi man mano che venivano trovati. Era la sua sfera di cristallo: gli bastava guardare le parole, le foto e i diagrammi per ricostruire l'identità dell'assassino e i
suoi segreti e stabilire dove avrebbe colpito la prossima volta. Per lui era quanto di più simile a una forma di meditazione. «Useremo il suo nome come intestazione, visto che è stato così gentile da farci sapere come vuole essere chiamato.» Mentre Pulaski scriveva sotto dettatura, Cooper prese una provetta contenente un piccolo campione di terra. Lo esaminò al microscopio, cominciando da un ingrandimento 4x. La regola numero uno con i microscopi ottici è cominciare dal minimo: se si parte subito da ingrandimenti superiori si ottengono solo immagini astratte di qualche interesse artistico ma di scarsa utilità per le indagini. «Sembra la solita terra. Guardo se c'è dell'altro.» Ne preparò un campione per il gascromatografo-spettrometro di massa, un imponente apparecchio che separa e analizza i componenti delle varie sostanze. Quando ebbe pronti i risultati, lesse dallo schermo: «Okay, abbiamo oli, azoto, urea, cloruro... e una proteina. Vediamo il profilo». Un momento dopo il computer fornì l'informazione supplementare. «Proteina di pesce.» «Allora forse il colpevole lavora in un ristorante di pesce», disse Pulaski, entusiasta. «O a un banco del pesce a Chinatown. Oppure... un momento, al reparto ittico di un supermercato.» «Ron», chiese il criminalista, «hai mai sentito un pubblico oratore cominciare con: 'Prima di parlare, vorrei dire due parole'?» «Uhm, credo di sì.» «Il che è strano, dal momento che ha già cominciato a parlare. Giusto?» Pulaski inarcò un sopracciglio. «Voglio dire che quando si analizzano i reperti c'è una cosa da fare prima di cominciare.» «E sarebbe?» «Chiedersi da dove arrivano gli indizi. Dunque: dov'è che Amelia ha raccolto questo campione?» La recluta guardò l'etichetta. «Oh.» «Dov'è 'oh'?» «Nella giacca della vittima.» «E allora di chi ci parla questo indizio?» «Della vittima, non dell'assassino.» «Esatto! È utile sapere che cos'ha nella giacca? Chissà. Può darsi. Ma il punto è evitare di mandare di corsa le truppe in ogni pescheria della città. Sei d'accordo con questa teoria, Ron?» «Perfettamente.»
«Ne sono lieto. Segna la proteina di pesce sul profilo della vittima e andiamo avanti, va bene? Quando avremo il referto del medico legale?» «Ci vorrà un po'», rispose Cooper. «Siamo sotto Natale.» Sellitto cantò: «Sangue a Natal...» Pulaski lo guardò perplesso. Rhyme gli spiegò: «I periodi a più alta densità di omicidi sono l'estate e le feste. Ricorda, Ron: non è lo stress che uccide la gente. È la gente che uccide la gente. Ma è lo stress che la spinge a farlo». «Ci sono delle fibre», annunciò Cooper. «Marroni.» Guardò l'etichetta sulla busta. «Dal tacco della scarpa della vittima e dal cinturino dell'orologio.» «Che tipo di fibre?» Cooper le esaminò da vicino e le confrontò con il database delle fibre dell'FBI. «Si direbbe l'interno di un'automobile.» «Ha senso che ne abbia una. Non si può trasportare una sbarra di ferro di trentasei chili in metropolitana. Quindi il nostro orologiaio ha parcheggiato davanti al vicolo e ha trascinato la vittima sul luogo del delitto. Che cosa possiamo sapere della macchina?» Non molto, in definitiva: le fibre provenivano da un tappetino in uso a bordo di una quarantina di modelli tra auto, camion e fuoristrada. Quanto ai segni di pneumatici, la parte del vicolo in cui la macchina era stata parcheggiata era cosparsa di sale, che aveva alterato le tracce sull'acciottolato. «Nulla di fatto per quanto riguarda il veicolo», si rassegnò Rhyme. «Be', guardiamo la lettera d'amore.» Cooper sfilò il biglietto da una busta di plastica. La Luna Fredda piena nel cielo brilla sulla terra morta, e dice che è ora di finire il cammino cominciato con la nascita. L'OROLOGIAIO «È oggi?» domandò il criminalista. «Oggi cosa?» fece Pulaski, come se gli fosse sfuggito qualcosa. «La luna piena, è ovvio. Oggi.» La recluta sfogliò il New York Times. «Sì. Luna piena.» «Ma perché Luna Fredda è maiuscolo?» intervenne Dennis Baker. Cooper fece una ricerca su Internet. «Okay, è un mese del calendario lu-
nare. Noi usiamo il calendario solare di trecentossesantacinque giorni. Quello lunare si basa sui cicli della luna. I nomi dei mesi descrivono il ciclo delle nostre vite dalla nascita alla morte e si riferiscono ai punti fermi dell'anno: la Luna della Fragola è in primavera, la Luna del Raccolto e la Luna del Cacciatore sono in autunno, la Luna Fredda è in dicembre, il mese del letargo e della morte.» Come Rhyme aveva notato in precedenza, gli assassini che facevano riferimenti alla luna o a temi astrologici erano tendenzialmente seriali. C'erano testi che affermavano che la luna potesse avere influenza sulle pulsioni violente, ma il criminalista lo considerava semplice suggestione, come l'aumento di presunti rapimenti da parte di alieni dopo l'uscita di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg. «Fai una ricerca sui database con 'Orologiaio' e 'Luna Fredda' come parole chiave. E anche con gli altri mesi lunari.» Dopo dieci minuti di esplorazione nel Violent Crime Apprehension Program, nel National Crime Information Center e in altre banche dati statali, non risultò alcuna corrispondenza. Rhyme chiese a Cooper di scoprire da dove venisse la poesia dell'Orologiaio, purtroppo la ricerca in dozzine di siti Internet specializzati non diede frutti. Il tecnico telefonò anche a un docente di letteratura della New York University che li aveva già aiutati occasionalmente, ma questi dichiarò di non averla mai sentita. O la poesia era così sconosciuta da non emergere dai motori di ricerca, oppure era un parto dello stesso Orologiaio. «Quanto alla carta», disse Cooper, «è un foglio standard uscito da una stampante Hewlett-Packard Laser Jet. Niente di particolare.» Rhyme scosse il capo, frustrato dall'assenza di piste. Se l'Orologiaio era davvero un assassino ciclico, in quel momento poteva essere ovunque, a pianificare o addirittura a commettere il delitto successivo. Amelia Sachs arrivò poco dopo e si tolse il giubbotto. Le fu presentato Dennis Baker, che si dichiarò lieto che lei si occupasse delle indagini. La sua reputazione la precedeva, aggiunse con un pizzico di galanteria il tenente, che non portava alcuna fede all'anulare. Lei rispose con una stretta di mano rapida e professionale. Semplice routine, per una donna nella polizia. Rhyme la mise al corrente di tutto ciò che avevano scoperto fino a quel momento. «Non è molto», osservò Amelia. «È abile.» «Com'è la storia del sospetto?» volle sapere Baker.
Sachs accennò alla porta. «Sarà qui tra breve. Si è messo a scappare quando ci siamo avvicinati, ma non credo che sia il nostro uomo. Ho fatto un controllo. Sposato, lavora come broker per la stessa compagnia da cinque anni, nessun precedente. Non credo nemmeno che sarebbe in grado di trasportarla», aggiunse, indicando la sbarra. Qualcuno bussò alla porta. Entrarono due poliziotti che scortavano un individuo ammanettato dall'aria infelice. Ari Cobb era sui trentacinque anni, di bell'aspetto, con l'aria di un professionista come tanti. Aveva un fisico asciutto e indossava un bel cappotto, probabilmente di cachemire, con qualche macchia di fango probabilmente dovuta all'arresto. «Allora?» fece Sellitto, in tono brusco. «Come ho detto a lei», Cobb guardò Amelia di sottecchi, «ieri sera stavo andando alla metropolitana di Cedar Street quando ho perso dei soldi. Eccoli lì.» Accennò al fermasoldi sul tavolo. «Me ne sono accorto stamattina e sono tornato a cercarli. Ho visto che c'era la polizia. Non lo so, non volevo essere coinvolto. Faccio il broker, ho clienti molto sensibili alla pubblicità. Potrebbe compromettere i miei affari.» Solo in quel momento l'uomo si accorse che Rhyme era su una sedia a rotelle. Batté le palpebre, si riebbe e tornò ad assumere un'espressione indignata. Dall'esame dei suoi abiti non risultavano tracce della sabbia fine che Amelia aveva trovato nel vicolo, né di sangue né di altro che potesse collegarlo ai delitti. Al pari di Amelia, Rhyme dubitava che potesse trattarsi dell'Orologiaio, ma data la gravità del crimine non aveva intenzione di trascurare nulla. «Prendetegli le impronte», ordinò. Cooper obbedì e verificò che le impronte corrispondevano a quelle sul fermasoldi. Dal database della Motorizzazione risultò che Cobb non possedeva un'auto. Una verifica con gli istituti bancari comprovò che non aveva usato le sue carte di credito per noleggiarne una di recente. «Quando li ha persi, i soldi?» chiese Sellitto. Cobb raccontò che la sera precedente era uscito dal lavoro alle sette e trenta, era stato in un bar con alcuni amici, fino alle nove circa, poi era andato verso la metropolitana. Ricordava di avere preso di tasca l'abbonamento mentre camminava lungo Cedar Street e probabilmente era stato allora che gli era caduto il fermasoldi. Era tornato a casa, nell'Upper East Side, verso le nove e tre quarti. La moglie era in viaggio per lavoro e lui era andato a cena in un bar vicino a casa, da solo. Era tornato a casa intorno all'una.
Sellitto fece qualche telefonata per controllare la storia. Una guardia all'ufficio ricordava che Cobb se n'era andato alle sette e trenta. La ricevuta di un pagamento con carta di credito confermava che verso le nove si trovava in un bar in Water Street. Il custode del suo palazzo e un vicino confermarono gli orari di Cobb. Sembrava impossibile che potesse avere catturato due vittime, averne uccisa una al porto e poi preparato la morte di Theodore Adams nel vicolo, tutto nell'arco di tempo tra le nove e l'una del mattino. «Stiamo indagando su un crimine molto grave», disse Sellitto, «che è stato commesso vicino a dove lei si trovava ieri sera. Ha visto per caso qualcosa che possa esserci utile?» «No, assolutamente niente. Giuro che vi aiuterei, se potessi.» «L'assassino potrebbe colpire ancora, sa?» «Mi spiace», disse Cobb, anche se non sembrava affatto dispiaciuto. «Ma l'unica cosa che ho fatto è stato cedere al panico. Questo non è un reato.» Sellitto si rivolse ai poliziotti. «Portatelo fuori un momento.» Quando Cobb fu uscito di scena, Baker disse: «Tempo perso». Amelia scosse la testa. «Sa qualcosa. Ho una sensazione.» Rhyme si fidava di lei per quello che definiva, con una certa condiscendenza, «il lato umano» della polizia: testimoni, psicologia e, che Dio lo perdonasse, le sensazioni. «Okay», disse, «ma che cosa ce ne facciamo della tua sensazione?» Non fu Amelia a rispondere, ma Lon Sellitto: «Ho un'idea». Aprì la giacca, scoprendo una camicia incredibilmente spiegazzata, e pescò il cellulare dalla tasca. 6 Vincent Reynolds stava percorrendo le gelide vie di SoHo, nella luce azzurrina di quella zona deserta a est di Broadway e a qualche isolato dalle boutique e dai ristoranti chic. Si teneva a una quindicina di metri dalla fiorista, Joanne, la donna che presto sarebbe stata sua. Non le toglieva gli occhi di dosso e sentiva la fame crescere, pungente ed elettrica, come la sera in cui aveva conosciuto Gerald Duncan. Era stato un momento importante nella sua vita. Dopo l'episodio di Sally Anne, quando Vincent aveva perso il controllo e si era fatto arrestare, aveva deciso che avrebbe dovuto stare più attento.
Avrebbe indossato un passamontagna, avrebbe aggredito le donne alle spalle per non essere visto e avrebbe usato un preservativo (che in ogni caso su di lui avrebbe avuto un effetto ritardante). Non avrebbe mai cacciato vicino a casa, cambiando ogni volta le tecniche e le zone delle aggressioni. Avrebbe progettato con cura gli stupri, tenendosi pronto a scappare se ci fosse stato il rischio di essere beccato. Be', quella era la sua teoria. Ma negli ultimi anni controllare la fame era diventato sempre più difficile. L'impulso aveva la meglio su di lui. Vedeva una donna sola per la strada e pensava: Devo averla assolutamente. Subito! Chi se ne frega se mi vedono. Capita, quando si ha fame. Due settimane prima stava mangiando una fetta di torta al cioccolato e bevendo una Coca in una tavola calda vicino all'ufficio. C'era una nuova cameriera, con il viso ovale, il corpo snello e riccioli dorati. Quando Vincent aveva notato i due bottoni slacciati della camicetta, aveva sentito la fame esplodergli dentro. Lei gli aveva sorriso mentre gli portava il conto e lui aveva deciso che doveva farla sua. Senza perdere tempo. L'aveva sentita dire al padrone che usciva a fumare una sigaretta nel vicolo. Vincent aveva pagato ed era uscito dalla porta di servizio. Lei era lì, con indosso un cappotto, appoggiata al muro. Guardava da un'altra parte. Era tardi, lui preferiva il turno dalle tre del pomeriggio alle undici di sera. Tuttavia, a parte i passanti sulla strada, il vicolo era deserto. L'aria era fredda e i ciottoli lo sarebbero stati ancora di più. Ma a lui non importava: il corpo della ragazza lo avrebbe scaldato. Era stato in quel momento che aveva sentito una voce sussurrargli all'orecchio: «Aspetta cinque minuti». Vincent, sobbalzando, si era voltato. A parlargli era stato un uomo magro sulla cinquantina, con la faccia tonda, che guardava verso il vicolo. «Cosa?» «Aspetta.» «Chi sei?» Vincent non era spaventato, non esattamente. Era più alto di cinque centimetri e più pesante di una ventina di chili. Però lo sguardo degli strani occhi azzurri dello sconosciuto gli faceva impressione. «Non importa chi sono. Fai finta che siamo due amici che chiacchierano.» «E che cazzo.» Con il cuore che batteva all'impazzata e le mani che tremavano, Vincent aveva fatto per andarsene.
«Aspetta», aveva ripetuto lo sconosciuto con voce suadente, quasi ipnotica. Lo stupratore aveva aspettato. Un minuto dopo aveva visto una porta aprirsi sul vicolo, di faccia a quella della tavola calda. La cameriera vi si era avvicinata per parlare con due uomini. Uno era in borghese, l'altro in uniforme da poliziotto. «Cristo», aveva mormorato Vincent. «Stanno preparando una retata», gli aveva detto lo sconosciuto. «La ragazza è della polizia. Credo che il padrone gestisca un lotto clandestino. Lo stanno per incastrare.» Vincent non aveva tardato a riprendersi. «E allora? Che mi frega?» «Se tu avessi fatto quello che avevi in mente, adesso saresti in manette. O con una pallottola in testa.» «Avevo in mente?» aveva chiesto Vincent, simulando innocenza. «Non so di cosa parli.» Lo sconosciuto si era limitato a sorridere e a spingerlo verso la strada. «Vivi da queste parti?» Dopo una pausa, Vincent aveva risposto: «New Jersey». «E lavori in città?» «Sì.» «Conosci bene Manhattan?» «Molto bene.» Lo sconosciuto aveva assentito, squadrando Vincent da capo a piedi. Si era presentato come Gerald Duncan e aveva proposto di andare da qualche parte a scambiare due parole, al caldo. Erano entrati in un bar tre isolati più in là. L'uomo aveva ordinato un caffè e Vincent un'altra fetta di torta e una bibita. Avevano parlato del tempo, del budget municipale, del centro di Manhattan a mezzanotte. Poi Duncan aveva detto: «Stavo pensando, Vincent, che se ti interessa un certo lavoretto mi potrebbe fare comodo una persona che non si preoccupa di violare la legge. E potrei permetterti di praticare il tuo... hobby». Aveva occhieggiato in direzione della strada. «Collezionare sit-com degli anni Settanta?» aveva chiesto Vincent lo Sveglio. Duncan aveva sorriso e Vincent aveva deciso che lo trovava simpatico. «Che cosa vuoi che faccia?» gli aveva domandato. «Sono stato a New York solo qualche volta. Mi serve qualcuno che conosca le strade, la metropolitana, i quartieri... che sappia come lavora la polizia. I dettagli verranno in seguito.»
Hmm. «Di che ti occupi?» aveva chiesto Vincent. «Affari. Diciamo così.» Hmm. Vincent si era detto che forse avrebbe fatto meglio ad andarsene. Ma quello che aveva detto Duncan riguardo al suo hobby lo attraeva. Era pronto a prendere in considerazione qualsiasi cosa gli permettesse di soddisfare la propria fame, per quanti rischi potesse comportare. Avevano continuato a parlare per mezz'ora, scambiandosi confessioni e segreti. Duncan gli aveva spiegato che il suo hobby era collezionare orologi antichi, che riparava lui stesso. Ne aveva persino costruito qualcuno mettendone insieme pezzi di vecchi meccanismi. Finito il quarto dessert della giornata, Vincent aveva domandato: «Da cosa hai capito che era una poliziotta?» Duncan era parso riflettere per un istante. Poi aveva detto: «Stavo tenendo d'occhio un uomo alla tavola calda. Quello in fondo al bancone, te lo ricordi? Vestito di scuro». Vincent aveva annuito. «È un mese che lo seguo. Sto per ucciderlo.» Vincent aveva sorriso. «Stai scherzando.» «Io non scherzo mai.» E Vincent aveva imparato che era vero. Non c'era un Gerald lo Sveglio o Gerald l'Affamato. Ce n'era solo uno: Gerald il Calmo e Meticoloso, che aveva espresso l'intenzione di uccidere l'uomo alla tavola calda, Walter Chissà-Chi, con la stessa tranquillità con cui aveva mantenuto la promessa, tagliando i polsi di quel disgraziato e lasciandolo aggrappato a un molo sopra le acque gelide dell'Hudson. L'Orologiaio aveva spiegato a Vincent che era venuto in città per uccidere altre persone, alcune delle quali erano donne. Se Vincent faceva attenzione e non perdeva più di venti o trenta minuti, poteva avere i loro corpi dopo che erano morte, per farne quello che voleva. In cambio, Vincent lo avrebbe aiutato, come guida per la città, le strade, i mezzi di trasporto. Gli avrebbe fatto da palo e qualche volta da autista al momento della fuga. «Allora, ti interessa?» «Credo di sì», aveva risposto Vincent, nascondendo un autentico entusiasmo. E ora Vincent lo Sveglio si dedicava con impegno al suo compito: seguire la terza vittima, Joanne Harper, la loro fiorista, come lui l'aveva sopran-
nominata. La vide tirare fuori un mazzo di chiavi e scomparire oltre la porta di servizio del laboratorio. Si fermò, prese una merendina e si appoggiò a un lampione, guardando attraverso le finestre opache. Sfiorò con la mano il rigonfiamento al fianco, dove teneva il coltello, e osservò la sagoma di Joanne che accendeva le luci, si toglieva il cappotto e si muoveva qua e là per il laboratorio. Era sola. Vincent strinse l'impugnatura del coltello. Si chiese se avesse lentiggini. Si chiese quale fosse il suo profumo. Si chiese se gemesse quando soffriva. E se... No, non doveva pensare a certe cose! Era lì solo per raccogliere informazioni. Non poteva disobbedire alle regole, non poteva deludere Gerald Duncan. Vincent inspirò l'aria, dolorosamente fredda. Doveva aspettare. Poi Joanne si avvicinò alla finestra e lui la vide bene. Oh, è così bella... Vincent sentì le mani sudate. Naturalmente avrebbe potuto prenderla subito e lasciarla legata perché Duncan potesse ammazzarla più tardi. Un amico avrebbe potuto capire. Avrebbero avuto entrambi quello che volevano. Dopotutto, certe volte proprio non si può aspettare. Capita, quando si ha fame. La prossima volta copriti. Dove avevi la testa? Sul sedile posteriore di un taxi ghiacciato, Kathryn Dance, trent'anni e qualcosa, tese le mani verso la bocchetta da cui usciva aria non calda, non tiepida, ma almeno non fredda. Strofinò le dita dalle unghie rosso scuro, quindi orientò verso il flusso d'aria le gambe fasciate dalle calze nere. Kathryn veniva da un posto in cui tutto l'anno la temperatura era più o meno sui venticinque gradi e bisognava fare parecchia strada lungo la Carmel Valley Road per trovare abbastanza neve per far divertire il figlio e la figlia. Nel fare le valigie all'ultimo minuto per venire al seminario a New York, si era dimenticata che nord-est più dicembre è uguale a Himalaya. Stava riflettendo: Non ho ancora perso i nove chili che ho messo su il mese scorso in Messico (dove non aveva fatto altro che stare seduta in una stanza fumosa a interrogare un sospetto di rapimento). Se non altro il grasso extra dovrebbe fare da isolante. Non è giusto... Si strinse ancora di più nel soprabito troppo leggero. Kathryn Dance era un'agente speciale del California Bureau of Investi-
gation, con sede a Monterey, ed era una delle maggiori esperte del Paese in fatto di interrogatori e di cinesica, la scienza che osserva e analizza il linguaggio del corpo e il comportamento verbale di testimoni e sospetti. Era a New York da tre giorni, per presentare il suo seminario di cinesica alle forze dell'ordine locali. La cinesica era una specialità poco diffusa, ma per Kathryn Dance era una scelta spontanea: non poteva fare a meno della gente. Le persone l'affascinavano, la elettrizzavano. A volte la confondevano e la sfidavano. Questi miliardi di creature bizzarre che si muovevano per il mondo, dicendo le cose più strane, più meravigliose e più terribili... Lei sentiva ciò che loro sentivano, aveva paura di ciò che le spaventava, gioiva di ciò che le rallegrava. Dopo il college aveva fatto la reporter. Il giornalismo era una professione su misura per chi aveva un'insaziabile curiosità ma non sapeva dove andare a parare. Era finita a occuparsi di cronaca nera, passando ore nei tribunali a osservare avvocati, sospetti e giurati. E qui aveva scoperto qualcosa di se stessa. Poteva guardare un testimone, ascoltare le sue parole e intuire all'istante se stesse dicendo la verità oppure no. Se osservava i giurati, capiva quando erano annoiati, o sperduti, o turbati, quando credevano a un sospetto e quando no. Sapeva distinguere gli avvocati che avrebbero fatto strada e quelli che sarebbero rimasti al palo. Ed era in grado di riconoscere i poliziotti che mettevano l'anima nel loro lavoro e quelli che tiravano a campare. Aveva notato in particolare un esponente della prima categoria, un agente dell'ufficio di San José dell'FBI: un uomo dai capelli precocemente argentati che testimoniava con humour e noncuranza a un processo per associazione a delinquere che Kathryn stava seguendo. Lei gli aveva estorto un'intervista e lui le aveva estorto un appuntamento. Otto mesi dopo Kathryn e William Swenson erano moglie e marito. Stancatasi a lungo andare della vita da reporter, Kathryn Dance aveva deciso di lanciarsi in una nuova carriera. Per un po' la sua vita di madre di due figli, moglie e studentessa era stata decisamente convulsa, ma alla fine era riuscita a laurearsi alla UC-Santa Cruz con un master in psicologia e comunicazione. Aveva avviato un'attività di consulente, suggerendo agli avvocati chi scegliere e chi rifiutare al momento della selezione dei giurati. Aveva talento ed era riuscita a mettere da parte un po' di soldi. Poi però aveva deciso di cambiare nuovamente rotta. Sei anni prima, con l'aiuto dei genitori, che vivevano a Carmel, e di un marito instancabile e sempre pronto a spalleggiarla, era tornata a scuola: l'accademia del California
Bureau of Investigation a Sacramento. Kathryn Dance era diventata una poliziotta. Il CBI non aveva una sezione di cinesica, sicché le era toccato il normale lavoro investigativo: omicidi, rapimenti, droga, terrorismo e così via. Tuttavia in certe organizzazioni il talento viene riconosciuto in fretta e le sue capacità erano state messe a frutto. In breve tempo Kathryn era diventata l'esperta locale di interrogatori, il che per lei andava benissimo, poiché le permetteva di evitare gli incarichi di infiltrazione e i lavori di indagine scientifica, per cui aveva scarso interesse. Guardò l'orologio, chiedendosi quanto tempo le avrebbe sottratto quella missione di volontariato. Il suo volo era nel pomeriggio, ma ci voleva un bel po' per arrivare al JFK: il traffico in città era spaventoso, peggio che sulla 101 Freeway intorno a San José. Si augurava di non perdere l'aereo. Non vedeva l'ora di tornare dai ragazzi. Senza contare che, in sua assenza, i dossier sulla scrivania anziché sparire si moltiplicavano. Il taxi si fermò con uno stridore di pneumatici. Kathryn guardò fuori dal finestrino. «È l'indirizzo giusto?» «È quello che mi ha dato lei.» «Non sembra una stazione di polizia.» Il tassista guardò fuori a sua volta. «Infatti. Fanno sei dollari e settantacinque.» Sì e no, pensò Kathryn Dance. Era una stazione di polizia e non lo era. Lon Sellitto l'accolse sulla porta. Il detective, che aveva seguito il suo corso di cinesica all'One Police Plaza il giorno precedente, le aveva chiesto telefonicamente se poteva dargli una mano in un caso di duplice omicidio. Lei aveva dato per scontato che l'indirizzo fosse quello di un distretto di polizia. Di fatto in quella stanza c'erano attrezzature scientifiche quasi paragonabili a quelle del quartier generale del CBI a Monterey. Ciononostante, si trattava di una casa privata. E di proprietà di Lincoln Rhyme, nientemeno. Un altro fatto che Sellitto aveva omesso di menzionare. Naturalmente Kathryn aveva sentito parlare di Rhyme. Erano molti a conoscere di fama il brillante detective tetraplegico, ma lei non era al corrente dei dettagli della sua vita, né del suo attuale ruolo presso l'NYPD. Il fatto che fosse disabile, dopo un po', passava inosservato. A meno che non studiasse intenzionalmente il linguaggio del corpo di una persona, Kathryn
tendeva a osservarne solo gli occhi. Inoltre uno dei suoi colleghi al CBI era paraplegico e non le era insolito avere a che fare con qualcuno su una sedia a rotelle. Sellitto la presentò a Rhyme e a una detective alta e imponente di nome Amelia Sachs. Kathryn riconobbe immediatamente che tra i due c'era un rapporto che andava oltre la collaborazione professionale. Non che occorresse la cinesica: quando era entrata aveva visto la donna con le dita intrecciate in quelle del criminalista, intenta a sussurrargli qualcosa all'orecchio e a sorridergli. La Sachs la salutò calorosamente, poi Sellitto presentò Kathryn alle altre persone presenti. Un lieve suono metallico le riecheggiava da dietro la spalla. Erano gli auricolari dell'iPod, che Kathryn portava sempre con sé come se ne andasse della sua stessa vita. Lei rise e lo spense. Dopo di che Sellitto e la Sachs la informarono del caso per cui occorreva loro il suo aiuto. Un caso di cui sembrava essere incaricato Rhyme, malgrado fosse un civile. Il criminalista non prese parte alla discussione, se non marginalmente. Continuavano a sbirciare un tabellone su cui erano annotati gli indizi. Mentre gli altri poliziotti le davano informazioni sul caso, Kathryn non riusciva a smettere di osservare Rhyme, che occhieggiava il tabellone, mormorava tra sé e scuoteva la testa, come se volesse autopunirsi per essersi lasciato sfuggire qualcosa. Di tanto in tanto socchiudeva gli occhi. Fece un paio di commenti sulla situazione ma per il resto si comportò come se lei non ci fosse. Kathryn era divertita. Era abituata allo scetticismo. Nella maggior parte dei casi, dipendeva dal fatto che non aveva l'aspetto tipico di una poliziotta: era una donna di un metro e sessanta, con i capelli biondo scuro raccolti in una treccia, il rossetto viola chiaro, gli auricolari dell'iPod, i gioielli d'oro e madreperla fabbricati da sua madre, per non parlare della sua passione per le scarpe stravaganti (inseguire i sospetti non rientrava nei suoi compiti abituali). Ma, a parte questo, comprendeva la mancanza di interesse da parte di Rhyme. Come tutti gli esperti della Scientifica, di sicuro non riponeva molta fiducia nella cinesica e negli interrogatori. Molto probabilmente non era neppure d'accordo sul fatto che fosse stata convocata. Kathryn, dal canto suo, riconosceva il valore delle prove, però l'argomento non la interessava minimamente. Ad avvincerla era l'aspetto umano del crimine e della sua
soluzione. Cinesica contro Scientifica. Scontro alla pari, detective Rhyme. Mentre il criminalista, un bell'uomo dall'atteggiamento sardonico e dal fare impaziente, continuava a guardare il suo tabellone, Kathryn cominciò a farsi un'idea del caso, che si presentava piuttosto singolare. I delitti dell'individuo che si era autonominato «Orologiaio» erano orribili, questo sì, ma lei aveva lavorato su casi non meno atroci. E, dopotutto, veniva dalla California, dove Charles Manson aveva fissato gli standard della malvagità. Un altro detective dell'NYPD, Dennis Baker, le espose nel dettaglio ciò che volevano da lei. Avevano trovato un testimone, forse in grado di fornire informazioni utili che tuttavia non voleva condividere con loro. «Dice di non aver visto niente», aggiunse la Sachs, «eppure io ho la sensazione che non sia vero.» Kathryn era delusa che non l'avessero chiamata a parlare con un sospetto ma con un testimone. Trovava più stimolante la sfida con i criminali, e più questi cercavano di ingannarla più si divertiva. Nondimeno, interrogare i testimoni portava via meno tempo che indurre a confessare un colpevole. Così non avrebbe rischiato di perdere l'aereo. «Vedo quello che posso fare», promise. Tuffò una mano nella borsetta e recuperò un paio di occhiali dalle lenti rotonde con la montatura rosa. La Sachs le parlò di Ari Cobb, il testimone riluttante, e le illustrò tanto la cronologia della serata dell'uomo quanto il suo comportamento sospetto di quella mattina. Kathryn ascoltò attentamente, mentre sorseggiava il caffè e mordicchiava uno dei biscotti che l'assistente di Rhyme le aveva portato. Una volta chiarito lo scenario, organizzò le idee e disse: «Okay, vi dirò che cosa ho in mente. Per prima cosa, due parole di spiegazione. Lon ha già sentito tutto ieri al seminario ma lo ripeterò a beneficio degli altri. Tradizionalmente, la cinesica consisteva nello studio del comportamento fisico, il linguaggio del corpo, per comprendere lo stato emotivo delle persone e stabilire se stessero mentendo oppure no. Oggi molti, me compresa, usano questo termine in relazione a tutte le forme di comunicazione. Non solo il linguaggio del corpo, ma anche ciò che viene detto o scritto. Per cominciare, stabilisco un profilo base del testimone. Vedo come reagisce a domande di cui conosciamo la risposta: nome, indirizzo, lavoro, cose del genere. Prendo nota dei suoi gesti, della sua postura, della scelta delle parole e del contenuto
delle sue affermazioni. Fissata la base, continuo a fargli domande e verifico a quali comincia a dare segni di stress. Questo significa che sta mentendo, oppure che c'è qualcosa negli argomenti trattati che lo mette a disagio. Fino a quel momento non ho fatto altro che 'intervistarlo'. Quando sospetto che stia mentendo, la sessione si trasforma in un 'interrogatorio'. Comincio a pungolarlo, usando tecniche diverse, finché non si arriva alla verità.» «Perfetto», approvò Baker. Rhyme poteva essere a capo delle indagini, giudicò Kathryn, ma Dennis Baker veniva dal quartier generale. Aveva l'aspetto tormentato della persona sulle cui spalle gravava la responsabilità, anche politica, del caso. «Avete una mappa dell'area di cui parliamo?» chiese Kathryn. «Vorrei conoscerne la topografia. Altrimenti non si può condurre un interrogatorio valido. Come dico sempre, devo conoscere l'habitat del soggetto.» Lon Sellitto si lasciò sfuggire una risata. Kathryn gli sorrise, incuriosita. Il detective spiegò: «È la stessa cosa che dice Lincoln a proposito dell'indagine scientifica: se non conosci la topografia lavori al buio. Vero, Linc?» «Scusa?» fece il criminalista. «Habitat. Che ne dici?» «Ah.» Il sorriso educato del criminalista ricordò a Kathryn suo figlio quando le diceva: «Sì, sì». L'esperta di cinesica esaminò una pianta di Lower Manhattan, memorizzando i dettagli della scena del delitto e i movimenti di Ari Cobb, che la Sachs e un giovane agente di nome Pulaski le indicavano. Quando ritenne di saperne abbastanza, disse: «Okay, al lavoro. Lui dov'è?» «In una stanza dall'altra parte del corridoio.» «Fatelo entrare.» 7 Poco dopo, un agente dell'NYPD condusse nel laboratorio un uomo basso e distinto, che indossava un vestito costoso. Kathryn non sapeva se lo avessero arrestato, ma il modo in cui si toccava i polsi indicava che di recente era stato ammanettato. Lei lo salutò. Cobb era nervoso e ostile. Kathryn lo invitò ad accomodarsi, poi gli si sedette di fronte. Non c'era niente tra di loro. L'esperta di
cinesica spostò la propria sedia fino a raggiungere una zona prossemica neutrale, un termine relativo alla distanza tra il soggetto e chi lo interroga. La distanza può essere regolata in modo da fare sentire il soggetto più o meno a suo agio. Kathryn era abbastanza lontana da non essere invasiva, ma non tanto da dargli un senso di sicurezza. Come diceva nelle sue conferenze: «si controlla il livello di tensione». «Signor Cobb, mi chiamo Kathryn Dance. Sono un'agente delle forze dell'ordine e vorrei parlarle di ciò che ha visto ieri sera.» «È ridicolo! Gli ho già detto tutto quello che so.» Si riferiva ai presenti, ma il suo sguardo si diresse verso Rhyme. «Be', io sono appena arrivata e mi sono persa le sue risposte precedenti.» Kathryn gli fece una serie di domande semplici, valutando e annotando le reazioni del soggetto: dove abitava, dove lavorava, lo stato civile e altre consimili, in modo da avere un'idea delle reazioni di base di Cobb. Ascoltò attentamente le sue risposte. («Guardare e ascoltare sono i due elementi più importanti in un interrogatorio. Parlare è l'ultima cosa.») Uno dei primi compiti è determinare la personalità del soggetto, se sia estroverso o introverso. A differenza di quanto pensa normalmente la gente, non si tratta di essere chiassosi o riservati. La distinzione riguarda piuttosto il modo in cui vengono prese le decisioni. L'introverso è governato dall'intuizione e dall'emozione più che dalla logica e dal ragionamento, che dettano invece legge all'estroverso. Assegnare una personalità aiuta a inserire le domande nella giusta cornice e a scegliere il tono e l'atteggiamento da adottare quando ci si rivolge ai soggetti. Un approccio aggressivo nei confronti dell'introverso lo indurrà a chiudersi nel suo guscio. Ari Cobb era un classico estroverso, e anche piuttosto arrogante. Non occorreva trattarlo con i guanti. Anzi, era necessario prenderlo a calci. «È un sacco di tempo che mi tenete qui», tagliò corto il testimone, nel bel mezzo di una domanda. «Devo andare a lavorare. Non è colpa mia quello che è successo a quell'uomo. Rispettosa ma decisa, Kathryn replicò: «Oh, non è questione di colpa. Adesso, Ari, parliamo di quello che è successo ieri sera». «Lei non mi crede. Mi dà del bugiardo. Io non ero nemmeno lì quando è successo!» «Non ho detto che stai mentendo. Ma puoi avere visto qualcosa che potrebbe esserci d'aiuto. Qualcosa che tu non giudichi importante. Vedi, una parte del mio lavoro consiste nel fare in modo che la gente ricordi le cose. Ti farò ripercorrere gli eventi di ieri sera e forse ti verrà in mente qualche
dettaglio.» «Be', io non ho visto niente. Ho solo perso dei soldi per strada. Nient'altro. Ho reagito male. E adesso è un caso federale. Quante stronzate.» «Torniamo a ieri. Un passo alla volta. Stavi lavorando in ufficio, alla Stenfeld Brothers Investment, nell'Hartsfield Building.» «Sì.» «Tutto il giorno?» «Esatto.» «A che ora sei uscito dall'ufficio?» «Le sette e trenta, o poco prima.» «E dopo che cosa hai fatto?» «Sono andato all'Hanover's per l'aperitivo.» «In Water Street», disse Kathryn. Lasciare sempre che il soggetto si chieda quanto ne sai. «Sì. Si beve e c'è il karaoke. La chiamano 'Serata Cantacantina'.» «Divertente.» «Ci troviamo in gruppo. Ci andiamo spesso. Amici. Amici intimi.» Dal suo linguaggio corporeo, Kathryn notò che stava per aggiungere qualcosa. Forse stava anticipando una sua possibile domanda successiva: i loro nomi. Essere troppo rapidi a fornire un alibi può indicare che si nasconde qualcosa. Il soggetto tende a pensare che se ci si presenta con un alibi la polizia non si prenderà la briga di controllarlo o non sarà abbastanza intelligente da pensare che un aperitivo alle otto non discolpa da un reato commesso alle sette e trenta. «Quando te ne sei andato?» «Verso le nove.» «E sei tornato a casa?» «Sì.» «Nell'Upper East Side.» Un cenno di assenso. «Hai preso un taxi?» «Sì, un taxi», fece lui, sarcastico. «No, la metropolitana.» «Da quale stazione?» «Wall Street.» «Ci sei andato a piedi?» «Sì.» «Come?» «Standoci attento.» Sogghignò. «La strada era ghiacciata.»
Kathryn sorrise. «Il percorso?» «Ho camminato per Water Street, poi ho preso Cedar Street, quindi Broadway verso sud.» «Ed è su Cedar Street che hai perso il fermasoldi. Com'è successo?» Il tono e l'atteggiamento di Kathryn erano assolutamente rassicuranti. Cobb si stava rilassando. Ora si mostrava meno aggressivo. I sorrisi e la voce bassa e calma di lei lo stavano mettendo a proprio agio. «Dev'essermi caduto quando ho tirato fuori l'abbonamento della metropolitana.» «Quanti soldi erano?» «Più di trecento.» «Ohi.» «Sì, ohi.» Kathryn accennò con la testa in direzione della busta di plastica contenente il fermasoldi e i contanti. «Si direbbe che tu fossi appena stato a uno sportello automatico. Brutto momento per perdere dei soldi. Proprio quando li hai appena incassati.» «Già.» Cobb fece un sorriso triste. «Quando sei arrivato alla metropolitana?» «Le nove e mezzo.» «Sicuro che non fosse più tardi?» «Sicurissimo. Ho guardato l'ora mentre aspettavo il treno. Erano le nove e trentacinque, per la precisione.» Lo sguardo gli cadde sul suo grosso Rolex d'oro. Come per dire, suppose lei, che un orologio così costoso non poteva che segnare l'ora esatta. «E poi?» «Sono tornato a casa e ho cenato in una tavola calda poco lontano. Mia moglie è fuori città. Fa l'avvocato, si occupa di finanza. È socia di uno studio legale.» «Torniamo a Cedar Street. C'erano luci accese? Gente negli appartamenti?» «No, lì sono tutti uffici e negozi. Non ci abita nessuno.» «Nessun ristorante?» «Qualcuno, ma sono aperti solo all'ora di pranzo.» «Cantieri?» «Stanno ristrutturando un palazzo sul lato sud.» «C'era qualcuno sui marciapiedi?» «No.»
«Auto sospette?» «No.» Kathryn avvertiva gli sguardi dei presenti su di sé e sul testimone. Di sicuro, come quasi tutti, stavano aspettando con impazienza qualche risultato, il grande Momento della Confessione. Lei li ignorò. Non esisteva nessuno a parte lei e il soggetto. Kathryn Dance era nel suo mondo, una «zona», come avrebbe detto suo figlio Wes, l'atleta di famiglia. Riguardò i propri appunti. Poi chiuse il taccuino e sostituì gli occhiali dalle grandi lenti circolari e dalla montatura pastello con un altro paio, come se dovesse smettere di leggere e guardare più lontano. In realtà la prescrizione era identica, ma questi erano più piccoli, neri, di metallo, con lenti rettangolari. Le davano un aspetto da predatore. Lei li chiamava «occhiali da Terminator». Si avvicinò al soggetto, che accavallò le gambe. Con voce più severa, domandò: «Ari, da dove vengono quei soldi, veramente?» «Soldi. Non li hai presi a uno sportello automatico.» Era stato quando parlavano del denaro che lei aveva notato un aumento della tensione nel soggetto. In quel momento Cobb l'aveva fissata più a lungo del normale, con le palpebre lievemente socchiuse e la respirazione alterata: due significative deviazioni rispetto al profilo base delle sue reazioni. «Invece sì», ribatté lui. «Di quale banca?» Una pausa. «Non può pretendere che me lo ricordi.» «Ma possiamo avere un mandato per controllare i tuoi movimenti bancari. E trattenerti finché non avremo controllato. Potrebbe richiedere un giorno o due.» «Io sono andato a quel cazzo di sportello!» «Non è questo che ti ho domandato. Ti ho chiesto da dove vengono i contanti nel tuo fermasoldi.» Cobb abbassò lo sguardo. «Non sei stato sincero con me, Ari. Il che significa che hai un problema molto serio. Allora, i soldi?» «Non lo so, verranno dall'ufficio.» «Li hai presi ieri?» «Credo di sì.» «Quanti.» «Io...»
«Possiamo avere un mandato anche per i registri della tua società.» La notizia spaventò Cobb, che si affrettò a dire: «Mille dollari». «Dov'è il resto? Ce ne sono trecentoquaranta nel fermasoldi. Gli altri dove sono?» «Ne ho spesi un po' all'Hanover's. Spese d'ufficio. Legittime. Fa parte del mio lavoro.» «Ti ho chiesto dove sono gli altri.» Una pausa. «Ne ho lasciati un po' a casa.» «A casa? Tua moglie è tornata? Ce lo può confermare?» «È ancora via.» «Allora possiamo mandare un agente a cercare i soldi. Dove sono esattamente?» «Non mi ricordo.» «Come fai a dimenticarti dove hai messo più di seicento dollari?» «Non lo so. Mi sta confondendo.» Kathryn gli si avvicinò ulteriormente, occupando una zona prossemica più minacciosa. «Che cosa stavi facendo davvero in Cedar Street?» «Andavo alla metropolitana del cazzo.» Kathryn prese la pianta di Lower Manhattan. «Qui c'è l'Hanover's.» Ogni volta che indicava un punto, batteva rumorosamente con il dito sulla carta. «Non ha senso che tu percorra la Cedar per andare da lì fino alla stazione di Wall Street. Perché sei andato da quella parte?» «Volevo fare due passi. Per mandare giù i cosmopolitan e le alette di pollo.» «Con il ghiaccio sui marciapiedi e la temperatura sottozero? Lo fai spesso?» «No, solo ieri sera.» «Se non lo fai spesso, come fai a sapere tante cose di Cedar Street? Che non ci sono appartamenti, che c'è un cantiere, a che ora chiudono i ristoranti?» «Lo so e basta. Che razza di storia è?» La fronte di Cobb era imperlata di sudore. «Quando ti sono caduti i soldi, ti eri tolto i guanti per prendere l'abbonamento oppure no?» «Non lo so.» «Diciamo di sì. Non si riesce a frugare in tasca con i guanti pesanti.» «Okay», ribatté lui, seccato. «Visto che sa tante cose, diciamo di sì.» «Con il freddo che c'era, perché lo hai fatto dieci minuti prima di arriva-
re alla stazione?» «Lei non mi può parlare in questo modo.» Kathryn proseguì con voce bassa e decisa. «E non hai guardato l'ora sulla banchina della stazione.» «Invece sì. Erano le nove e trentacinque.» «Invece no. Nessuno sfoggia un orologio da cinquemila dollari sulla banchina di una stazione di sera.» «Okay. Chiuso. Non parlo più.» Un soggetto che cerca di mentire sotto interrogatorio si trova sottoposto a uno stress intenso e reagisce in modi diversi nella speranza di sfuggire alla tensione: Kathryn le definiva «le barriere tra il soggetto e la verità». La reazione più distruttiva e difficoltosa era la rabbia, seguita dalla depressione, la negazione e alla fine il patteggiamento. È compito di chi interroga stabilire in quale stato di stress si trova il soggetto e neutralizzarlo, finché man mano non si arriva alla rassegnazione, vale a dire la confessione e la sincerità. Malgrado Cobb avesse espresso rabbia, si trovava prevalentemente in uno stato di negazione. I soggetti del genere sono molto rapidi a invocare un difetto di memoria o ad attribuire a chi li interroga la propria confusione. Il modo migliore per piegare un soggetto in fase di negazione è, come aveva appena fatto Kathryn, «attaccarlo con i fatti». Con un estroverso si controbattono a uno a uno i punti deboli e le contraddizioni della sua storia, fino a togliergli ogni difesa. «Ari, sei uscito dall'ufficio alle sette e trenta e sei andato all'Hanover's. Ci sei rimasto per un'ora e mezzo. Dopo di che hai percorso a piedi due isolati per arrivare a Cedar Street. Conosci bene questa strada perché ci vai a cercare prostitute. Ieri notte, tra le nove e le nove e trenta, una di loro ha fermato la sua macchina vicino al vicolo. Hai negoziato il prezzo e l'hai pagata. Sei salito in macchina con lei. Ne sei sceso verso le dieci e un quarto. È stato in quel momento che ti è caduto il fermasoldi. Probabilmente stavi controllando il cellulare per vedere se tua moglie ti aveva chiamato, o perché cercavi spiccioli per lasciare una mancia. Nel frattempo, l'assassino era entrato nel vicolo, te ne sei accorto e hai visto qualcosa. Che cosa?» «No...» «Sì», disse Kathryn, in tono neutro. Lo fissò senza aggiungere altro. Ormai Cobb aveva la testa bassa. Le gambe non erano più accavallate. Le labbra gli tremavano. Non stava ancora confessando, ma aveva supera-
to un'altra fase, dalla negazione al patteggiamento. A questo punto, Kathryn doveva cambiare tattica. «Senti, Ari, non vogliamo rovinarti la vita. Hai avuto paura. È comprensibile. Ma l'uomo che stiamo cercando di fermare è molto pericoloso. Ha ucciso due persone e potrebbe ucciderne altre. Se ci aiuti a trovarlo, non occorre che rendiamo pubblico quello che abbiamo scoperto oggi. Nessun mandato, nessuna telefonata a tua moglie o al tuo capo.» Kathryn si voltò verso Baker, che confermò: «Precisamente». Cobb sospirò. Con gli occhi fissi sul pavimento, mormorò: «Cazzo! Per trecento dollari di merda. Perché sono dovuto tornarci stamattina?» Perché sei avido e stupido, pensò Kathryn Dance. Ma disse gentilmente: «Facciamo tutti degli errori». Un momento di esitazione. Poi Cobb sospirò di nuovo. «Vede, è questa la cosa assurda. Non era molto... quello che ho visto, voglio dire. Probabilmente non mi crederete. Non ho praticamente visto niente. Neanche una persona.» «Se sarai sincero con noi, ti crederemo. Continua.» «Erano più o meno le dieci e mezzo. Dopo che sono sceso dalla... macchina della ragazza, mi sono incamminato verso la metropolitana. Ha ragione, mi sono fermato per tirare fuori il cellulare. L'ho acceso per controllare i messaggi. Dev'essere stato in quel momento che mi sono caduti i soldi. Ero davanti al vicolo. Ho visto che in fondo c'erano i fanali posteriori di una macchina.» «Che macchina?» domandò la Sachs. «Non ho visto la macchina, solo i fanali. Lo giuro.» Kathryn gli credeva. Fece un cenno alla Sachs. «Un momento», intervenne Rhyme. «In fondo al vicolo?» «Proprio così. In fondo. Poi si sono accese le luci della retromarcia e la macchina è venuta verso di me. Molto veloce. Ho continuato a camminare. Ho sentito che frenava e che il motore si spegneva, senza che fosse uscita dal vicolo. Io me ne sono andato per i fatti miei. Però ho sentito sbattere una portiera e un rumore come di un grosso pezzo di metallo che cadeva a terra. Tutto qui. Non ho visto nessuno. Ormai ero lontano dal vicolo. Davvero.» Rhyme lanciò un'occhiata a Kathryn, che assentì. Cobb stava dicendo la verità. «Descrivi la ragazza», disse Dennis Baker. «Vorrei parlare anche con lei.»
Cobb rispose subito: «Trent'anni. Afroamericana. Capelli corti e ricci. La macchina è una Honda, mi pare. Non ho notato la targa. Era carina», aggiunse, a mo' di giustificazione. «Nome?» Cobb sospirò. «Tiffanee. Con due e, non con la y.» Rhyme si concesse una risatina. «Chiamiamo la Buoncostume. Chiediamo se conoscono le ragazze che lavorano regolarmente sulla Cedar.» Kathryn fece qualche altra domanda, quindi annuì e si voltò verso Sellitto. «Credo che il signor Cobb ci abbia detto tutto quello che sa.» Si rivolse all'interrogato. «Grazie per la collaborazione.» L'uomo batté le palpebre, incerto su come interpretare l'ultima frase. Ma Kathryn non intendeva essere sarcastica. Non prendeva mai come un fatto personale le parole, le occhiate e talvolta anche gli sputi e il lancio di oggetti delle persone che interrogava. Un esperto di cinesica deve ricordare che il nemico non è il soggetto, bensì le barriere che questi alza tra sé e la verità, a volte persino inconsciamente. Sellitto, Baker e la Sachs discussero per qualche minuto e decisero di rilasciare Cobb senza accuse di sorta. L'uomo uscì dalla stanza scuro in volto, con uno sguardo che a Kathryn era famigliare: un misto di rabbia, disgusto e odio allo stato puro. Quando se ne fu andato, Rhyme tornò a guardare il diagramma del vicolo. «È curioso», disse. «Per qualche ragione l'assassino ha deciso che non voleva lasciare la vittima in fondo al vicolo e ha fatto marcia indietro per fermarsi a cinque metri dal marciapiede... Un fatto interessante. Ma servirà a qualcosa?» La Sachs annuì. «Può essere. Non c'era neve in fondo al vicolo. Forse non ci hanno nemmeno buttato il sale. Avremmo potuto rilevare impronte o segni di pneumatici.» Servendosi di un impressionante programma di riconoscimento vocale, Rhyme fece una telefonata e mandò alcuni agenti sulla scena del delitto. I poliziotti richiamarono poco più tardi e dissero di avere trovato in fondo al vicolo tracce recenti di pneumatici e una fibra marrone che sembrava corrispondere a quelle raccolte sulla scarpa e sull'orologio della vittima. Trasmisero fotografie digitali dell'una e delle altre. Dalle tracce furono calcolate le dimensioni delle gomme. A dispetto del suo disinteresse verso il lavoro della polizia scientifica, Kathryn fu affascinata dalla coreografia. Rhyme e la Sachs sembravano una squadra particolarmente brillante. L'esperta di cinesica rimase ancor
più impressionata quando dopo dieci minuti il tecnico, Mel Cooper, alzò lo sguardo dallo schermo del computer e disse: «Con queste gomme e le fibre marroni, dovrebbe trattarsi di un Ford Explorer, un modello di due o tre anni fa». «Secondo me tre anni», giudicò Rhyme. E questo come lo ha capito? si domando Kathryn. La Sachs, vedendo la sua espressione interrogativa, le spiegò: «Il rumore della frenata». Ah. «Complimenti, Kathryn», le disse Sellitto. «Lo hai inchiodato.» «Come ci sei riuscita?» le domandò la detective. Kathryn spiegò il procedimento. «È stato come andare a pescare. Ho ripercorso tutto quello che aveva raccontato: l'aperitivo, la metropolitana, i soldi, il vicolo, la cronologia e la topografia. Ho controllato le sue reazioni cinesiche a ogni stimolo. I soldi erano un argomento particolarmente delicato per lui. Che cosa stava facendo con i soldi, che non avrebbe dovuto fare un uomo nella sua posizione, estroverso e narcisista come lui? Ho immaginato che potesse trattarsi di sesso o di droga. Ma un broker di Wall Street non compra la droga per strada: di solito ha qualcuno che gliela procura. Quindi restavano solo le prostitute. Semplice.» «Furba. Non ti sembra, Lincoln?» chiese Cooper. Kathryn si sorprese che il criminalista potesse alzare le spalle. Poi lo sentì dire: «Ha funzionato. Abbiamo scoperto qualcosa che avrebbe richiesto più tempo». Quindi Rhyme tornò a guardare il tabellone. «Dai, Linc. Abbiamo la marca del veicolo. Non ci saremmo arrivati se non fosse stato per lei.» Sellitto si rivolse a Kathryn. «Non prenderla sul personale. A lui non piacciono i testimoni.» Rhyme si accigliò. «Non è uno scherzo, Lon. Il nostro obiettivo è la verità. E ho imparato dall'esperienza che l'attendibilità dei testimoni è inferiore a quella degli indizi. Punto e basta. Non c'è proprio niente di personale.» Kathryn assentì. «Sorprendente: è proprio quello che dico nelle mie conferenze. Il nostro compito principale come poliziotti non è mettere in galera i cattivi, ma scoprire la verità.» Alzò a sua volta le spalle. «Abbiamo avuto un caso, di recente, in California... Un detenuto del braccio della morte scagionato il giorno prima dell'esecuzione. Un mio amico, investigatore privato, ha lavorato per tre anni con l'avvocato difensore per andare a fondo della storia. Non si rassegnava all'apparenza immediata delle cose. Il
condannato era a tredici ore dall'esecuzione ed è risultato innocente... Se l'investigatore non avesse continuato a cercare la verità, adesso sarebbe morto.» «Posso immaginare che cos'è successo», disse Rhyme. «L'imputato è stato condannato sulla base di un testimone spergiuro, ma è stato scagionato dall'analisi del DNA. Giusto?» Kathryn si voltò verso di lui. «No, non c'erano testimoni all'omicidio. Il vero assassino aveva seminato prove false per incastrarlo.» «E adesso che ne dici?» fece Sellitto, scambiando un sorriso con la Sachs. Rhyme rivolse un'occhiata gelida a entrambi, poi disse a Kathryn: «Be', è stata una fortuna che le cose siano andate per il meglio... Ora devo tornare al lavoro». E rivolse nuovamente lo sguardo al tabellone. Kathryn salutò tutti i presenti e indossò il soprabito. Lon Sellitto l'accompagnò alla porta. Sul marciapiede, l'esperta di cinesica si rimise gli auricolari dell'iPod e lo accese. Quella particolare playlist comprendeva folk rock, musica irlandese e qualche canzone dei Rolling Stones per darle la carica. Una volta, a un concerto, aveva compiuto un'analisi cinesica di Mick Jagger e Keith Richards, per la gioia dei suoi amici. Mentre faceva cenno a un taxi, si rese conto di provare una sensazione strana e fastidiosa. Le ci volle qualche secondo per identificarla. Le dispiaceva che il suo breve coinvolgimento nel caso dell'Orologiaio si fosse concluso. Joanne Harper si sentiva bene. Nel suo laboratorio a pochi isolati dal negozio, la graziosa fiorista trentaduenne si sentiva tra amici: rose, orchidee, gigli, strelitzie, felci, magnolie e zenzero rosso. Il laboratorio era uno spazio al pianterreno di un ex magazzino, freddo, pieno di correnti d'aria e piuttosto buio, per proteggere i fiori. Ma a lei piacevano quella temperatura, la luce tenue, il profumo di lillà e l'odore dei fertilizzanti. Era nel bel mezzo di Manhattan, eppure le sembrava di trovarsi nella quiete di una foresta. Aggiunse un po' di schiuma al grosso vaso di ceramica davanti a sé. Si sentiva proprio bene. Per un paio di ragioni. Primo, perché stava lavorando a un progetto in cui aveva libertà assoluta e ottime prospettive di guadagno. Secondo, perché era ancora sotto l'effetto della serata precedente.
Con Kevin, che sapeva che la brugmansia richiede molte cure, che il sedum rosso dà brillanti fiori cremisi per tutto il mese di settembre e che nel 1969 Donn Clendenon, con tre colpi straordinari, aveva permesso ai Mets di battere i Baltimore (il padre di Joanne era riuscito a immortalarne due con la sua Kodak). Kevin, tanto carino. Kevin con le fossette e il suo sorriso. E senza mogli, presenti o passate. Che cosa si poteva volere di più? Un'ombra passò di fronte alla vetrata. Joanne alzò gli occhi, ma non vide nessuno. Era un tratto deserto di Spring Street e i pedoni scarseggiavano. La donna guardò i vetri. Doveva proprio dire a Ramon di dargli una pulita. Be', avrebbe aspettato quando avesse fatto un po' più caldo. Continuò a preparare il vaso e a pensare a Kevin. Chissà se tra loro avrebbe funzionato. Forse sì. Forse no. Non importava poi tanto. Okay, certo che importava, ma a trentadue anni una SUW, una Single Urban Woman, doveva sempre fingere il contrario. La cosa che contava davvero era che con lui si era divertita. Dopo un po' di anni di storie post-divorzio a Manhattan, si sentiva in diritto di divertirsi. Joanne Harper, che assomigliava un po' alla rossa di Sex and the City, era arrivata a Manhattan dieci anni prima con l'intenzione di diventare un'artista famosa, vivere in uno studio nell'East Village e vendere i suoi quadri in una galleria di Tribeca. Il mondo dell'arte però aveva altre idee. Era troppo grezzo, meschino, troppo poco artistico. Dovevi essere trasgressivo, disturbato, scopabile o ricco. Joanne aveva detto addio alle arti figurative e provato con la grafica, ma non ne era rimasta soddisfatta. Seguendo un'improvvisa ispirazione, aveva accettato un lavoro come decoratrice di interni per una ditta di Tribeca e vi si era appassionata. Aveva deciso che, se doveva fare la fame, tanto valeva che fosse per qualcosa che le piaceva. Ironia della sorte, aveva avuto successo. Tanto che qualche anno prima aveva potuto avviare un'attività in proprio, comprendente il negozio a Broadway e il laboratorio in Spring Street, che riforniva società e uffici e allestiva composizioni per congressi, cerimonie ed eventi speciali. Aggiunse al vaso altra schiuma, rametti, eucalipto e ghiaia bianca: i fiori sarebbero stati l'ultimo elemento. L'aria fredda la fece rabbrividire. Guardò
l'orologio sulla parete grigia del laboratorio. Non doveva aspettare a lungo. Come le aveva preannunciato quella mattina al telefono, Kevin doveva fare un paio di consegne in città e sarebbe passato da lei nel pomeriggio. «E se non hai niente da fare, potremmo prendere un cappuccino, o qualcosa del genere...» Un caffè il giorno dopo essere usciti insieme. Be', questo sì che... Di nuovo l'ombra sulla vetrata. Joanne alzò subito gli occhi. Non vide nessuno. Avvertì una sensazione di inquietudine. Si voltò verso la porta principale, che non usava mai. C'erano ammonticchiati davanti alcuni scatoloni. Era chiusa a chiave. O no? Joanne aguzzò la vista nel chiarore quasi abbagliante della vetrata, ma non riuscì a capirlo. Girò intorno al tavolo da lavoro per andare a controllare. Guardò il chiavistello. Sì, era chiuso. Poi alzò gli occhi e si lasciò sfuggire un grido soffocato. Sul marciapiede, oltre la porta, un uomo la stava fissando. Alto e grasso, si protendeva verso il vetro per guardare all'interno, facendosi schermo con una mano sulla fronte. Indossava vecchi occhiali da sole da aviatore con lenti a specchio, un berretto da baseball e un parka color crema. A causa del riflesso del sole sui vetri sporchi, non si rendeva conto che lei gli stava proprio davanti. Joanne rimase paralizzata. Capitava di tanto in tanto che la gente sbirciasse nel laboratorio, incuriosita, ma c'era qualcosa di preoccupante nell'insistenza dell'uomo e nel modo in cui si protendeva in avanti. Il vetro non era infrangibile. Chiunque con un martello o un mattone avrebbe potuto fracassarlo ed entrare. E con i pochi pedoni che circolavano in quella parte di SoHo, nessuno si sarebbe accorto se lei fosse stata aggredita. La donna fece un passo indietro. Forse gli occhi dell'uomo si erano abituati alla luce, o forse aveva trovato un angolo di vetro pulito, fatto sta che la scorse e, colto di sorpresa, indietreggiò di scatto. Sembrò incerto per un istante, poi le voltò le spalle e scomparve. Joanne si riavvicinò al vetro e vi premette contro il viso; non riuscì più a vederlo. Quel grassone con le mani ficcate in tasca, chino in avanti a sbirciare da dietro i suoi strani occhiali, l'aveva spaventata. Joanne spostò gli scatoloni e guardò fuori di nuovo. Non ce n'era più traccia. Ciononostante, la donna cedette alla tentazione di andarsene: sarebbe tornata in negozio, per controllare le ricevute e scambiare due chiacchiere con i commessi, in attesa che arrivasse Kevin. Indossò il cappotto, esitò, poi uscì dalla porta di
servizio. Guardò in strada: il grassone non c'era. Joanne si incamminò verso Broadway, nella stessa direzione presa dall'uomo. Sentì su di sé il tepore di un singolo raggio di sole e, abbagliata dal chiarore, si fermò. Socchiuse gli occhi. Non voleva proseguire alla cieca. E se l'uomo si era nascosto nel vicolo successivo? E se la stava aspettando al varco? Decise di andare nella direzione opposta, facendo il giro da Prince Street. C'era ancora meno gente, ma non avrebbe dovuto passare davanti a vicoli bui. Si strinse nel cappotto e affrettò il passo, proseguendo a testa bassa. Ben presto l'immagine del grassone svanì dalla sua mente, rimpiazzata da quella di Kevin. Dennis Baker era tornato alla centrale per riferire dei progressi delle indagini e il resto della squadra si era rimesso a esaminare gli indizi. Squillò il fax e Rhyme guardò speranzoso l'apparecchio, ma le pagine in arrivo erano destinate ad Amelia Sachs. Il criminalista la osservò mentre leggeva i fogli. Conosceva quello sguardo: era quello di un cane da caccia sulle tracce di una volpe. «Di che si tratta, Sachs?» Lei scosse il capo. «L'analisi dei rilievi a casa di Ben Creeley a Westchester. Lo IAFIS non dà nessuna corrispondenza per le impronte digitali, però ci sono tracce di guanti di pelle sull'attizzatoio del caminetto e sulla scrivania. Chi può aprire i cassetti di una scrivania con i guanti?» Non esisteva un database per i guanti, ma se Amelia ne avesse trovati un paio in possesso di un sospetto, avrebbe potuto verificare se corrispondevano alle tracce: sarebbe stata una prova indiziaria non meno valida di una chiara impronta digitale. La detective continuò a leggere: «Le tracce di fango che ho trovato davanti al caminetto non provengono dal terreno nel cortile di Creeley: maggiore acidità e presenza di sostanze inquinanti. Potrebbe essere fango di un'area industriale. E nel caminetto c'erano tracce di cocaina bruciata». Amelia rivolse a Rhyme un sorriso amareggiato. «Che fregatura se la mia prima vittima di omicidio non dovesse risultare troppo innocente.» Rhyme si strinse nelle spalle. «Che sia una suora o uno spacciatore, Sachs, un delitto è sempre un delitto. Che altro c'è?» «La cenere nel caminetto... Il laboratorio non ha potuto ricavarne molto, ma ha trovato questo.» Amelia gli mostrò una foto di quello che sembrava il brandello della pagina di un registro finanziario, su cui si intravedevano cifre dell'ordine di milioni di dollari. «C'è una specie di logo sul foglio. I
tecnici stanno controllando. Manderanno la foto a un esperto di contabilità, chissà mai che riesca a capirci qualcosa. C'erano anche i resti di un'agenda di Creeley. Un cambio d'olio alla macchina, un appuntamento dal barbiere... Non sembrano i programmi per la settimana di un suicida. Il giorno della sua morte, è andato alla St. James Tavern.» Batté con la punta dell'indice sul foglio, che riportava un'annotazione di Nancy Simpson: «Un bar sulla East 9th Street, un quartiere malfamato. Che cosa ci andava a fare un ricco consulente finanziario? Sembra strano». «Non necessariamente.» Amelia gli lanciò un'occhiata e lui recepì il messaggio. La raggiunse con la Storm Arrow in un angolo della stanza. Lei gli si accovacciò accanto. Rhyme si chiese se lei gli avrebbe preso la mano. Da quando gli era tornata un minimo di sensibilità alle dita della destra, tenersi per mano era diventato molto importante per loro. Ma c'era un confine sottile tra la vita privata e quella professionale, e in quel momento Amelia non intendeva oltrepassarlo. «Rhyme», sussurrò lei. «Lo so che cosa...» «Lasciami finire.» Lui emise un monosillabo indistinto. «Devo seguire la pista.» «Priorità. Il tuo caso è più freddo di quello dell'Orologiaio. Qualsiasi cosa sia accaduta a Creeley, anche se è stato assassinato, è improbabile che il colpevole faccia altre vittime. L'Orologiaio sì. È lui che dobbiamo mettere in cima alla lista. Qualsiasi indizio che riguardi Creeley sarà ancora al suo posto quando avremo inchiodato il nostro killer.» Amelia scosse il capo. «Non sono d'accordo, Rhyme. Ho smosso le acque. Ho cominciato a fare domande. Lo sai come vanno certe cose: se si sparge la voce, c'è il rischio che i colpevoli comincino a nascondere le prove.» «E c'è il rischio che l'Orologiaio abbia già cominciato a dare la caccia alla sua prossima vittima. O che la stia uccidendo in questo stesso momento. E, credimi, se dovesse esserci un altro omicidio senza che noi riusciamo a impedirlo, ce la faranno pagare. Baker mi ha detto che il nostro intervento è stato richiesto dall'alto.» Insistono... «Non ho intenzione di abbandonare il caso. Se c'è un'altra scena, la esamino. Se Bo Haumann prepara un'operazione tattica, ci vado.»
Rhyme corrugò esageratamente a fronte. «Operazione tattica? Niente dessert se non finisci la verdura.» Amelia rise. Il criminalista sentì il contatto della mano di lei. «Andiamo, Rhyme. Conosciamo il mestiere. Nessuno gestisce un caso solo alla volta. Alla Major Cases ne seguono tutti una dozzina contemporaneamente. Io posso cavarmela con due.» Rhyme esitò. Aveva un presentimento che non sapeva tradurre in parole. Disse: «Speriamo, Sachs. Speriamo». Era il massimo della benedizione che lui potesse darle. 8 Che cosa c'era venuto a fare in un posto come quello? Amelia Sachs, in piedi accanto a una pianta gialla rinsecchita che puzzava di urina, guardava attraverso i vetri sporchi del locale. Dall'indirizzo si aspettava che non fosse granché, ma non aveva immaginato che fosse uno schifo simile. La St. James Tavern, che occupava un cuneo di cemento pieno di crepe sulla East 9th Street, si trovava ad Alphabet City, una zona che doveva il suo nome alle avenue che l'attraversavano, indicate come A, B, C e D. Qualche anno prima era un quartiere spaventoso, in cui ancora sopravvivevano le vecchie gang del Lower East Side. Poi era stata fatta un po' di pulizia e ora le case dei tossici venivano ristrutturate e trasformate in costosi condomini. Nonostante tutto, fondamentalmente, Alphabet City era rimasta la stessa. Nella neve, ai piedi di Amelia, c'era una siringa ipodermica, mentre sotto la vetrata davanti a lei riposava un bossolo calibro 9. Che cosa c'era venuto a fare un uomo d'affari con due case e una BMW da quelle parti, il giorno della sua morte? In quel momento lo squallido locale era semideserto: attraverso i vetri unti si intravedevano i pochi avventori, gente della zona e di una certa età. Donne e uomini male in arnese, seduti ai tavoli o al bancone, che ricavavano la maggior parte delle calorie giornaliere dalla bottiglia. In una stanzetta sul retro c'era un gruppo di bianchi, in jeans o in tuta da lavoro. Quattro di loro parlavano e ridevano così sguaiatamente che le loro voci si sentivano da fuori. Ad Amelia ricordarono certi sfaccendati che passavano il loro tempo nei ritrovi della mafia, individui spesso di poco conto, ma egualmente pericolosi. Le bastava uno sguardo per capire che si trattava di gente da prendere con le molle. Entrò nel locale e occupò uno sgabello all'estremità del lato più corto
della L del bancone, dove sarebbe stata meno visibile. La barista era una donna sulla cinquantina con il viso e le dita arrossate e i capelli pettinati come una cantante di country western. Non è il tipo che le ha viste tutte, pensò Amelia. È il tipo che ha visto solo tutto quello che può capitare in un posto come questo. Ordinò una Diet Coke. «Ehi, Sonja», fece una voce dalla stanza sul retro. Guardando nello specchio sporco, la detective ne identificò il proprietario: un biondo fasciato da un paio di jeans molto stretti, con indosso una giacca di pelle. «Dickey ti vuole, ma è un ragazzo timido. Vieni qui. Vieni a trovare il timidone.» «Vaffanculo», gridò qualcun altro, presumibilmente Dickey. «Vieni qui, Sonja, tesoro. Siediti sulle sue ginocchia. Starai comoda. Tutto morbido, non c'è niente di duro.» Qualche risatina. Sonja si rendeva conto che stavano sfottendo anche lei, ma stette al gioco. «Dickey? È più giovane di mio figlio.» «Fa lo stesso. Lo sanno tutti che si scopa sua madre.» Grasse risate. Gli occhi di Sonja e quelli di Amelia si incrociarono per un istante. La barista distolse subito lo sguardo, come se fosse stata sorpresa a fraternizzare con il nemico. Ma uno dei vantaggi degli ubriachi è che si scordano presto di tutto, della crudeltà come dell'euforia, e un attimo dopo stavano parlando di sport e raccontandosi barzellette sporche. Amelia sorseggiò la sua bibita e chiese a Sonja: «Allora, come butta?» La donna replicò con un sorriso artificiale: «Tutto bene». Non aveva alcun interesse nella simpatia di una donna più giovane e bella, che non doveva fare la barista in un posto del genere. Okay, pensiamo al lavoro. Amelia esibì il distintivo, senza farsi vedere dagli altri avventori, poi le mostrò una fotografia di Benjamin Creeley. «Si ricorda di averlo visto qui dentro?» «Questo qui? Sì, qualche volta. Perché?» «Lo conosceva?» «Non proprio. Gli ho servito da bere. Vino, mi sembra. Gli piaceva il vino rosso. Il nostro fa schifo, ma lo beveva lo stesso. Sembrava uno a posto. Non come certa gente. È un po' che non lo vedo. Sarà un mese. L'ultima volta si è incazzato con qualcuno. Forse è per questo che è sparito.» «Cos'è successo?» «Non lo so. Ho sentito gridare e poi l'ho visto che se ne andava sbatten-
do la porta.» «Con chi stava litigando?» «Non lo so. Ho solo sentito.» «Lo ha mai visto prendere droghe?» «No.» «Lo sa che si è ammazzato?» Sonja batté le palpebre. «Oh, cazzo.» «Stiamo indagando sulla sua morte... Le sarei grata se non dicesse in giro che le ho chiesto di lui.» «Sì, okay.» «Sa dirmi altro?» «Dio, non so neanche come si chiamava. L'avrò visto tre volte in tutto. Aveva famiglia?» «Sì.» «Brutta cosa.» «Un figlio sui sedici anni.» Sonja scosse il capo. Poi aggiunse: «Forse Gerte lo conosceva. È l'altra barista. Fa più turni di me». «La trovo qui adesso?» «No, arriva dopo. Vuole che la chiami?» «Mi dia il suo numero.» La barista glielo scrisse su un foglietto. Amelia indicò la foto di Creeley e le disse: «Si ricorda se qui vedeva qualcuno?» «So solo che veniva ogni tanto. E loro ci sono sempre.» Accennò alla stanza sul retro. Che cosa c'entrava con quella gente un uomo d'affari con un giro di milioni di dollari? Che fossero stati due di loro a entrare nella casa di Westchester per arrostire castagne nel caminetto? Amelia guardò nello specchio e scrutò gli uomini seduti al tavolo, ingombro di bottiglie di birra vuote, posacenere e alette di pollo mangiucchiate. Dovevano far parte di una banda, forse controllavano qualche attività del crimine organizzato. In città c'erano parecchi franchising stile The Sopranos. Di solito erano pesci piccoli, ma potevano essere più pericolosi della mafia tradizionale, che evitava di colpire i civili e si teneva alla larga dalla malavita di bassa lega e dallo spaccio di crack e metanfetamina. Provò a immaginarsi Benjamin Creeley legato alle gang. Difficile da mandar giù. «Non l'ha visto fumare erba o farsi di coca...» Sonja scosse la testa. «Neanche una volta.»
Amelia le si avvicinò, sussurrandole all'orecchio: «In che giro sono, quelli là dietro?» «Giro?» «In quale gang? Chi è il loro boss, di chi sono agli ordini?» Sonja se ne stette zitta per un istante. Da come guardava Amelia sembrava chiedersi se parlava sul serio. Poi scoppiò a ridere. «Ma quale gang! Non lo sa? Quelli sono sbirri.» Finalmente la Bomb Squad consegnò i biglietti da visita dell'assassino, gli orologi, con la garanzia che non rappresentavano un pericolo. «Oh, volete dire che non ci avete trovato nessuna microscopica arma di distruzione di massa?» chiese Rhyme, caustico. Non gli era piaciuto affatto dover aspettare tutto quel tempo, con il rischio che gli indizi fossero contaminati. Pulaski firmò i moduli per la custodia delle prove e il poliziotto che aveva consegnato gli orologi se ne andò. «Vediamo che cosa abbiamo.» Rhyme accostò la sedia al tavolo, mentre Cooper apriva gli involucri di plastica. Gli orologi erano identici, tranne che per il sangue che incrostava la base di quello lasciato sul molo. Sembravano piuttosto antichi e non erano elettrici, bensì a carica manuale, tuttavia i componenti erano moderni. Il meccanismo era contenuto in una cassa sigillata, che gli artificieri avevano dovuto aprire. Ma entrambi gli orologi erano ancora funzionanti e segnavano l'ora esatta. Erano in legno dipinto di nero, mentre la parte anteriore era rivestita di metallo bianco anticato. Le ore erano in numeri romani e le lancette, nere, terminavano con frecce appuntite. Non c'era una lancetta dei secondi, che pure erano scanditi da un ticchettio regolare. L'aspetto più insolito era la finestrella che occupava la metà superiore della parte anteriore, con un disco che mostrava le fasi lunari. Al centro della finestrella si vedeva la luna piena, raffigurata con un viso umano piuttosto inquietante, occhi minacciosi e labbra sottili. La Luna Fredda piena nel cielo... Cooper esaminò gli orologi con la sua consueta precisione e riferì che non risultavano impronte digitali, solo minime tracce di elementi che corrispondevano a ciò che Amelia aveva rilevato sulle due scene. In sostanza, niente che provenisse dalla macchina o dalla casa dell'Orologiaio. «Chi li fabbrica?» «Arnold Products, Framingham, Massachusetts.» Cooper fece una ricer-
ca su Google e trovò il sito Internet della compagnia. «Vendono orologi, articoli in pelle, decorazioni per uffici, oggetti da regalo. Di classe e costosi. Hanno una dozzina di modelli diversi di orologi. Questo è quello vittoriano. Meccanismo originale in ottone, realizzati in legno di rovere, ispirati a un orologio britannico dell'Ottocento. Costo: dai cinquanta dollari in su all'ingrosso. Non vendono al dettaglio. Bisogna acquistarli in un negozio.» «Numeri di serie?» «Solo sul meccanismo, non sugli orologi.» «Okay», ordinò Rhyme, «chiamali.» «Io?» Pulaski batté le palpebre. «Sì, tu.» «Ma io dovrei...» «Chiama la fabbrica e dagli i numeri di serie dei meccanismi.» La recluta annuì. «E gli chiedo se ci sanno dire in quali negozi li hanno mandati.» «Precisamente», disse Rhyme. Pulaski prese il telefono dalla tasca, si fece dare il numero da Cooper e chiamò la fabbrica. Certo, era possibile che ad acquistarli non fosse stato l'assassino. Avrebbe anche potuto rubarli da un negozio. O averli comprati a una vendita all'incanto. Ma «possibile», rifletté Rhyme, è una parola che ricorre di frequente nel panorama delle indagini sulla scena di un delitto. Da qualche parte si deve pur cominciare. L'OROLOGIAIO SCENA NUMERO UNO Luogo: • Molo di riparazioni sull'Hudson River, 22»d Street Vittima: • Identità sconosciuta. • Maschio. • Probabilmente di mezza età o anziano, possibili problemi alle coronarie (presenza di anticoagulanti nel sangue). • Assenza di tracce di droga, malattie o infezioni nel sangue.
• Guardia Costiera e sommozzatori alla ricerca di corpo e indizi nel New York Harbor. • Si controllano denunce di persone scomparse. Assassino: • vedi sotto. Modus operandi: • Assassino ha costretto vittima ad aggrapparsi al molo, sopra l'acqua, tagliandole le dita o i polsi, fino a quando è caduta. • Ora del delitto: tra le 6 p.m. di lunedi e le 6 a.m. di martedì. Indizi: • Sangue tipo AB positivo. • Unghia spezzata, sporca, larga. • Recinzione tagliata con cesoie comuni, irrintracciabili. • Orologio: vedi sotto. • Poesia: vedi sotto. • Tracce di unghie sul molo. • Nessuna traccia identificabile, nessuna impronta digitale, nessuna orma, nessun segno di pneumatici. SCENA NUMERO DUE Luogo: • Vicolo su Cedar Street, vicino a Broadway, dietro tre palazzi a uffici (porte di servizio chiuse tre le 8 p.m. e le 10 p.m.) e un palazzo municipale (porta di servizio chiusa alle 6 p.m.). • Vicolo cieco, 5 m per 30, con acciottolato. Corpo a 5 m da Cedar Street. Vittima: • Theodore Adams. • Viveva a Battery Park. • Copywriter free-lance. • Nessun nemico conosciuto. • Nessun precedente statale o federale. • Si cercano collegamenti con palazzi circostanti. Nessuno trova-
to. Assassino: • L'Orologiaio. • Maschio. • Nessuna corrispondenza nei database per l'Orologiaio. Modus operandi: • Vittima trascinata nel vicolo dalla macchina e posta sotto una sbarra di ferro che alla fine ha schiacciato il collo. • In attesa di referto medico per conferma. • Nessuna traccia di attività sessuale. • Ora della morte: approssimativamente tra le 10,15 p.m. e le 11 p.m. di lunedì notte, in attesa di conferma dal medico legale. Indizi: • Orologio: * nessun esplosivo, né agente chimico o biologico * identico a quello sul molo * nessuna impronta digitale o traccia di sorta * Arnold Products, Framingham, Ma. Chiamata per identificare distributori e negozianti. • Poesia lasciata dall'assassino su entrambe le scene: * stampata al computer, carta generica, HP Laser Jet * testo: La Luna Fredda piena nel cielo brilla sulla terra morta, e dice che è ora di finire il cammino cominciato con la nascita. L'OROLOGIAIO * assente da qualsiasi database di poesia; probabilmente di sua composizione. * Luna Fredda è mese lunare, il mese della morte. • 60 $ in tasca, nessuna traccia dai numeri di serie; impronte negative. • Sabbia fine usata come agente oscurante.Tipo generico. Perché
intende ritornare sulla scena! • Sbarra di metallo: 36 kg, a cruna d'ago. Non usata in cantiere di fronte al vicolo. Origine non identificata. • Nastro adesivo, generico.Tagliato con precisione insolita. Pezzi di lunghezza identica. • Solfato di tallio (veleno per topi) trovato nella sabbia. • Terriccio contenente proteina di pesce nelle tasche della vittima. • Carenza di tracce. • Fibre marroni, probabilmente da tappetino dell'auto. Altro: • Veicolo: * probabilmente Ford Explorer di tre anni. Tappetino marrone * controllo di targhe delle auto presenti martedì mattina: niente di sospetto * nessuna multa lunedì notte. • Controllo presso Buoncostume delle prostitute, re: testimone. In ogni città c'è una rete di «cari ragazzi», legati da denaro, influenza e potere, che si estende ovunque come una ragnatela d'acciaio, verso l'alto e verso il basso, collegando politici, impiegati municipali, soci in affari, sindacalisti e lavoratori. Una rete interminabile. New York City non fa eccezione. Ma la rete di «cari ragazzi» con cui Amelia Sachs aveva a che fare in quel momento aveva una differenza: uno dei ruoli chiave era in mano a una «cara ragazza». La donna era sui cinquantacinque anni e indossava un'uniforme blu con parecchie decorazioni: medaglie, medagliette, nastrini, barrette e, naturalmente, una spilletta con la bandiera americana (come i politici, anche i pezzi grossi della polizia di New York che appaiono in pubblico devono sfoggiare stelle e strisce). I capelli sale e pepe tagliati alla paggio incorniciavano un viso lungo e malinconico. Marilyn Flaherty era una delle poche donne in Dipartimento a essere stata promossa ispettore dopo avere avuto il grado di capitano. Era una veterana della Operation Division, sezione che risponde direttamente al «capo di dipartimento», come viene indicato nel NYPD il capo della polizia. L'Op Div ha molte funzioni, tra cui quelle di collegamento con altre forze dell'ordine nel caso di eventi di particolare importanza riguardanti la metropoli, da quelli programmati, quali la visita di un dignitario straniero, a
quelli imprevisti, come un attacco terroristico. Il compito principale della Flaherty consisteva nel fare da intermediario tra la polizia e il Municipio. La Flaherty veniva dalla gavetta, come Amelia Sachs. Casualmente, entrambe erano cresciute dalle parti di Brooklyn. Dopo il servizio di pattuglia come poliziotta di ronda, la Flaherty era passata al Detective Bureau, quindi alla direzione di un Distretto. Robusta, ostinata e irritabile, era una persona formidabile sotto ogni punto di vista e aveva la forza necessaria (okay, le palle) per camminare sul campo minato che le alte sfere della polizia rappresentavano per una donna. Per capire che aveva avuto successo era sufficiente guardare le fotografie incorniciate alle pareti e prendere nota delle sue amicizie: pezzi grossi, sindacalisti, ricchi imprenditori edili. In una la si vedeva in compagnia di un uomo grosso e calvo sul portico di una casa sulla spiaggia; in un'altra al Metropolitan Opera, sottobraccio a un noto uomo d'affari, ricco quanto Donald Trump. Un altro segno del suo successo erano le dimensioni del suo ufficio all'One Police Plaza. La Flaherty era riuscita ad assicurarsene uno d'angolo, con vista sul New York Harbor. A nessuno degli ispettori che Amelia conosceva era stato concesso quel privilegio. La detective era seduta davanti a una scrivania lucida e costosa, alla presenza dell'ispettore Flaherty e di un vicesindaco di nome Robert Wallace, un ex affarista di Long Island dalla mascella prominente e dall'aria sicura, con i capelli argentei e una perfetta pettinatura da politico. «Lei è la figlia di Herman Sachs», disse la Flaherty. E, senza attendere una risposta, si voltò verso Wallace. «Poliziotto di ronda. Brav'uomo. Ero alla cerimonia in cui gli è stata conferita quella decorazione.» Suo padre ne aveva ricevute parecchie, e Amelia si chiese a quale si riferisse. Quella volta che aveva convinto un ubriaco a consegnargli il coltello che questi teneva alla gola della moglie? Quella volta che era volato attraverso una vetrata per disarmare un rapinatore in un negozio, mentre era fuori servizio? Quella volta che al Rialto Theatre, mentre sullo schermo Steve McQueen se la prendeva con i cattivi, aveva aiutato una donna latinoamericana a partorire sul pavimento ingombro di popcorn? «Di che cosa si tratta?» chiese Wallace. «So solo che alcuni agenti di polizia sono sospettati di attività criminali.» La Flaherty puntò su Amelia i suoi occhi grigio acciaio. Vai. «È possibile. Abbiamo una vicenda di droga. E una morte sospetta.» «Okay», sospirò Wallace, facendo una smorfia. Dopo essere entrato nel-
lo staff del sindaco, era diventato membro di una commissione che combatteva la corruzione nell'amministrazione pubblica. In quel compito si era rivelato di un'efficienza spietata: solo nell'anno precedente aveva portato alla luce frodi tra gli ispettori urbanistici e i funzionari del sindacato insegnanti. L'idea di attività criminali nella polizia lo preoccupava non poco. A differenza di quella di Wallace, la faccia rugosa dell'ispettore Flaherty restava imperscrutabile. Sotto quello sguardo, Amelia illustrò i suoi sospetti sul suicidio di Benjamin Creeley, la questione del pollice ingessato, la distruzione di prove nella casa di Westchester, le tracce di cocaina e i possibili collegamenti con i poliziotti che frequentavano la St. James Tavern. «Gli agenti vengono dall'Uno Uno Otto.» Ovverosia il 118° Distretto, nell'East Village. Amelia aveva scoperto che la St. James Tavern era il loro luogo di ritrovo abituale. «Ce n'erano quattro, quando sono entrata nel bar, ma non sono gli unici a frequentarlo. Non ho idea di chi incontrasse Creeley, se uno, due o mezza dozzina.» «Sa i nomi?» chiese Wallace. «No, a questo punto ho preferito non fare troppe domande. E non ho avuto neppure conferma che Creeley si vedesse con qualcuno di loro. Anche se è molto probabile.» La Flaherty accarezzò un anello con un enorme diamante sul dito medio della mano destra. Quello e un grosso braccialetto d'oro erano i suoi unici gioielli. L'ispettore non manifestava alcuna emozione, ma Amelia era certa che anche lei fosse molto preoccupata. Bastava un minimo sospetto di corruzione nella polizia per mettere in allarme il Municipio, ma un problema al 118° sarebbe stato particolarmente imbarazzante: era un Distretto con un numero di arresti e una percentuale di agenti caduti in servizio superiori alla media. E molti poliziotti che venivano promossi alla centrale provenivano da lì. «Quando ho cominciato ad avere sospetti», raccontò Amelia, «ho prelevato duecento dollari da uno sportello automatico e me li sono fatti cambiare alla St. James Tavern. Alcune banconote nella cassa provenivano dalle tasche dei poliziotti.» «Bene. E ha controllato i numeri di serie.» La Flaherty faceva rotolare distrattamente una Mont Blanc sulla scrivania. «Infatti. Risposta negativa dal Tesoro e dalla Giustizia sui numeri di serie. Ma quasi tutte le banconote sono risultate positive ai test sulla cocaina. E una a quello sull'eroina.» «Oh, Gesù», fece Wallace.
«Non saltiamo alle conclusioni», disse la Flaherty. Amelia assentì e spiegò al vicesindaco a che cosa si riferisse l'ispettore: su molti dei biglietti da venti dollari in circolazione si potevano trovare tracce di qualche droga. Ma il fatto che quasi tutte le banconote con cui i poliziotti avevano pagato le consumazioni alla St. James Tavern fossero positive ai test era sicuramente motivo di preoccupazione. «La stessa composizione della cocaina trovata nel caminetto di Creeley?» «No. E la barista ha detto di non averlo mai visto fare uso di droghe.» «Ha qualche prova effettiva», domandò Wallace, «che gli agenti siamo direttamente coinvolti nella sua morte?» «Oh, no. Non dico affatto questo. Sto pensando piuttosto che qualche poliziotto potrebbe avere scoperto un'attività illegale di Creeley, riciclaggio di denaro sporco o spaccio di droga, e avere chiuso un occhio in cambio di una bustarella. Potrebbe anche avere coperto le tracce od ostacolato un'indagine in qualche altro Distretto.» «Qualche arresto in passato?» «Creeley? No. E secondo sua moglie non ha mai assunto droghe. Ma molti riescono a farlo di nascosto. E parecchi spacciatori le vendono senza farne uso.» L'ispettore alzò le spalle. «Non dimentichiamo che la situazione potrebbe essere del tutto innocente. Non si può escludere che Creeley abbia incontrato un conoscente d'affari alla St. James Tavern. Ha detto che prima di morire aveva litigato con qualcuno?» «Così sembra.» «Quindi uno dei suoi affari è andato male. Una trattativa immobiliare o qualcosa di simile. Questa storia potrebbe non riguardare affatto l'Uno Uno Otto.» Amelia annuì, enfatica. «Assolutamente. E che quello sia un ritrovo di poliziotti potrebbe essere una pura coincidenza. Creeley potrebbe essere stato ucciso perché si è fatto prestare soldi dalla gente sbagliata o perché è stato testimone di qualcosa.» Wallace guardò fuori dalla finestra, verso il cielo freddo e limpido. «Visto che c'è di mezzo un omicidio, credo che dovremmo darci da fare. Facciamo intervenire l'IAD.» La Internal Affairs Division era la scelta più logica, quando si trattava di indagare su possibili reati commessi da poliziotti. Ma Amelia non voleva averli tra i piedi, non in quel momento. Avrebbe passato loro il caso solo
in un secondo tempo, dopo avere identificato da sola il colpevole. La Flaherty giocherellò ancora con la sua stilografica, mentre rifletteva. Gli uomini possono concedersi di agire senza pensare e parlare per frasi fatte, le donne no, specie a quel livello. Le dita ben curate e smaltate dell'ispettore deposero la penna nel primo cassetto. «No, non l'IAD.» «Perché no?» chiese Wallace. La Flaherty scosse il capo. «È troppo vicina all'Uno Uno Otto. Potrebbe girare la voce.» Wallace assentì lentamente. «Se pensi che sia meglio così...» Lo penso. Amelia era ben lieta che l'IAD non le portasse via il caso, ma la sua soddisfazione fu di breve durata. «Troverò qualcuno a cui affidare l'indagine», aggiunse l'ispettore. «Qualcuno con molta esperienza.» Amelia esitò, poi disse: «Vorrei poter continuare a seguirla io, ispettore». «Lei è nuova. Non si è mai occupata di un'indagine interna.» Sicché la Flaherty si era documentata su di lei. «Sono casi piuttosto diversi.» «Me ne rendo conto. Ma posso farcela.» E intanto Amelia pensava: Sono stata io a prendere in mano il caso. Sono stata io ad arrivare a questo punto. Ed è il mio primo omicidio. Non me lo togliere di mano. «Non si tratta solo di esaminare la scena di un delitto.» Amelia mantenne la calma. «Sono io a condurre l'indagine sull'omicidio Creeley. Non mi limito al lavoro scientifico.» «Ciononostante, credo sia meglio così. Pertanto le chiedo di consegnarmi tutti i suoi dossier, tutto quello che ha.» Amelia, seduta in punta di sedia, si conficcò l'unghia dell'indice nel pollice. Che cosa poteva fare per non perdere il caso? In quel momento il vicesindaco corrugò la fronte. «Aspetti. Non è lei che lavora con quell'ex poliziotto sulla sedia a rotelle?» «Lincoln Rhyme. Sì, lavoro con lui.» Wallace ci pensò su, quindi guardò la Flaherty. «Io le lascerei fare un tentativo, Marilyn.» «Perché?» «Perché ha una solida reputazione.» «Non ci serve la reputazione. Ci serve l'esperienza. Senza offesa.» «Senza offesa», replicò Amelia, in tono cortese. «Questa è una situazione delicata. Scottante.»
A Wallace piaceva la propria idea. «Il sindaco sarà d'accordo. La detective Sachs è associata a Rhyme, che gode di ottima stampa. E oltretutto è un civile. La gente la vedrà come un'indagine indipendente.» Per «gente» intendeva i giornalisti, intuì Amelia. «Non voglio un'indagine su vasta scala, che faccia troppo rumore», obiettò la Flaherty. «Non c'è pericolo», si affettò a dire Amelia. «Ho solo un agente che lavora con me.» «Chi?» «Ronald Pulaski, ex agente di pattuglia. È bravo. Giovane ma capace.» Dopo un momento di silenzio, l'ispettore chiese: «Come intenderebbe procedere?» «Scoprire se ci sono collegamenti tra Creeley, l'Uno Uno Otto e la St. James Tavern. Verificare se qualcuno avesse un movente per ucciderlo. Voglio parlare con il socio: potrebbe essere sorto qualche problema con uno dei suoi clienti o in qualche lavoro cui si stava dedicando. E voglio chiarire che connessione ci sia tra Creeley e la droga.» La Flaherty non era del tutto convinta, ciononostante disse: «Okay, proviamo a fare a modo suo. Ma mi tenga informata. Riferisca a me e a nessun altro». Amelia provò un grande sollievo. «Naturalmente.» «Solo per telefono o di persona. Niente e-mail o memorandum...» L'ispettore si accigliò. «Un'altra cosa: sta seguendo altri casi in questo momento?» Non si arriva a quel grado se non si ha un sesto senso. La Flaherty aveva fatto l'unica domanda cui Amelia sperava di sfuggire. «Sto collaborando al caso... dell'Orologiaio.» All'ispettore non piacque. «Oh, si sta occupando di quello? Non lo sapevo... In confronto a un serial killer, la faccenda della St. James è secondaria.» Amelia sentì l'eco delle parole di Rhyme: Il tuo caso è più freddo di quello dell'Orologiaio. Wallace rifletté per un istante. Guardò la Flaherty. «Credo che dobbiamo comportarci da adulti. Che cosa può apparire peggio per la città? Un uomo che uccide due o tre persone, oppure uno scandalo nel dipartimento di polizia che arriva alla stampa senza che possiamo controllarlo? I giornalisti stanno dietro ai poliziotti corrotti come gli squali dietro al sangue. No, dobbiamo intervenire. E con decisione.»
Amelia era sobbalzata al commento di Wallace: un uomo che uccide due o tre persone. Ma non poteva negare che il loro obiettivo fosse lo stesso: portare il caso Creeley in dirittura d'arrivo. Per la seconda volta in quella giornata si trovò a dire: «Posso occuparmi di entrambi i casi. Garantisco che non è un problema». Ma nella sua mente una voce diceva, scettica: Speriamo, Sachs. 9 Amelia passò a prendere Ron Pulaski a casa di Rhyme, un rapimento che il criminalista non gradì, malgrado al momento la recluta non avesse molto da fare. «Quant'è il massimo di velocità?» disse il poliziotto, toccando il cruscotto della Camaro SS del 1969. Poi aggiunse: «Il massimo cui sei arrivata?» «Ho passato i centottanta.» «Però!» «Ti piacciono le macchine?» «Preferisco le moto. Mio fratello e io ne avevamo due quando eravamo al liceo.» «Uguali?» «Cosa?» «Le moto.» «Oh, perché siamo gemelli, vuoi dire. No, non l'abbiamo mai fatto, vestirci uguali eccetera. La mamma avrebbe voluto, ma avevamo già abbastanza problemi senza. Adesso è lei quella che ride ultima, visto che siamo tutti e due in uniforme. Be', noi andavamo in moto e non è che ci potessimo permettere due Honda 850 identiche. Si prendeva quello che capitava, di seconda o terza mano.» Sogghignò. «Una notte, mentre Tony dormiva, sono andato in garage e ho scambiato i motori. Lui non se n'è mai accorto.» «Ci vai ancora in moto?» «Dio ti fa scegliere: i figli o le moto. La settimana dopo che Jenny è rimasta incinta, un tipo del Queens si è comprato una gran bella Moto Guzzi a un ottimo prezzo.» Sogghignò nuovamente. «Con un motore da sogno.» Amelia rise. Poi gli spiegò la loro missione. Le piste che voleva seguire erano molte. Doveva parlare con l'altra barista del St. James, Gerte, che sarebbe entrata in servizio di lì a poco, e con il socio di Creeley, Jordan Kessler, di ritorno da un viaggio di lavoro a Pittsburgh.
Prima però c'era un'altra cosa da fare. «Ti va di fare l'agente segreto?» chiese Amelia. «Direi di sì.» «Qualcuno dei poliziotti dell'Uno Uno Otto può avermi visto alla St. James Tavern. Quindi adesso tocca a te. Non dovrai portare microfoni nascosti o roba del genere. Ci interessano le prove, non le informazioni.» «Che cosa devo fare?» «Nella mia valigetta, sul sedile posteriore.» Amelia cambiò bruscamente marcia e raddrizzò la Camaro dopo una lieve sbandata. Pulaski prese la valigetta. «Eccola.» «Le carte che trovi in cima.» La recluta aprì la valigetta e trovò un documento dall'aria ufficiale con l'intestazione: INVENTARIO REPERTI PERICOLOSI Lo accompagnava un memorandum riguardante la nuova procedura per il controllo periodico di materiale pericoloso conservato come prova, dalle armi da fuoco ai prodotti chimici, per avere la certezza che nulla mancasse all'appello. «Non ne ho mai sentito parlare.» «No. L'ho inventato io.» L'obiettivo, spiegò Amelia, era disporre di un valido pretesto per scendere nei sotterranei del 118° Distretto e confrontare il registro dei reperti con le prove effettivamente presenti. «Tu digli che devi controllare il materiale pericoloso. In realtà vai a guardare i registri degli stupefacenti sequestrati nell'ultimo anno. Segnati i nomi degli arrestati, le date, la quantità di droga. Lo confronteremo con il registro del materiale effettivamente distrutto dalla procura distrettuale per ogni singolo caso.» Pulaski assentì. «Così sapremo se è sparita della droga tra il momento del sequestro e quello del processo. Okay, buona idea.» «Lo spero. Non sapremo necessariamente chi l'abbia presa, ma avremo un punto di partenza. E adesso vai a fare la spia.» La Camaro si fermò nell'East Village, davanti a un gruppo di edifici cadenti a un isolato dal 118° Distretto. «Te la senti?» «A dire il vero non ho mai fatto niente di simile. Ma sì, io ci provo.» Esitante, diede un'occhiata al modulo, poi tirò un profondo respiro e scese dall'auto.
Dopo di che Amelia Sachs telefonò ad alcuni colleghi fidati e discreti presso l'NYPD, l'FBI e la DEA, per verificare se qualche caso riguardante il crimine organizzato, omicidi o stupefacenti fosse stato abbandonato o si fosse arenato in circostanze sospette. Nessuno ne sapeva niente, ma le statistiche rivelarono che, a dispetto della brillante media di arresti, erano poche le inchieste sul crimine organizzato che partivano dal 118° Distretto. Il che insinuava il dubbio che qualche suo poliziotto stesse proteggendo le gang locali. Un agente dell'FBI le disse che qualche gruppo criminale tradizionale aveva tentato di inserirsi nuovamente nella zona, dopo le recenti ristrutturazioni. Amelia chiamò un amico che dirigeva una task force antigang a Midtown. Questi la informò che nell'East Village erano attive soprattutto due bande, una giamaicana e una anglosassone. Entrambe trattavano metanfetamina e cocaina. Era gente che non esitava a eliminare un testimone scomodo e non aveva pietà se qualcuno cercava di fregarli o era in ritardo con i pagamenti. Tuttavia non era nel loro stile simulare un suicidio: preferivano falciare la vittima a colpi di Mac-10 o di Uzi per poi andare al bar a bersi una Red Stripe o un Jameson. Pulaski ricomparve poco tempo dopo, con il suo taccuino come al solito traboccante di appunti. Il ragazzo scrive proprio tutto, pensò lei. «Allora, com'è andata?» La recluta reprimeva a stento un sorriso. «Okay, mi pare.» «Hai fatto centro, eh?» Pulaski alzò le spalle. «Be', il sergente alla reception non voleva darmi l'accesso ma io gli ho lanciato un'occhiata tipo: 'Non vorrai cercare di fermarmi? O preferisci chiamare tu la centrale e dirgli che per colpa tua non posso fare i controlli?' Ha fatto subito marcia indietro. Una sorpresa.» «Bel lavoro», approvò lei. Batté le nocche sul pugno di Pulaski, visibilmente compiaciuto del proprio successo. La Camaro ripartì, lasciandosi alle spalle l'East Village. Quando furono a distanza di sicurezza, Amelia si fermò e cominciò a confrontare le sue cifre con quelle rimediate da Pulaski. Dopo dieci minuti avevano constatato che i dati del Distretto e quelli della procura erano molto simili. In tutto un anno mancavano all'appello solo sei o sette once di marijuana e quattro di cocaina. «E nessuno dei registri sembrava alterato», disse Pulaski. «Ci sono stato attento.» Quindi uno dei possibili moventi, cioè che i poliziotti al St. James e Cre-
eley vendessero stupefacenti sottratti alla custodia del 118° Distretto, era fuori causa. Le quantità mancanti si spiegavano facilmente: potevano essere state usate per le analisi della Crime Scene o semplicemente essere frutto di qualche errore nelle trascrizioni sui registri. Ma anche se i poliziotti non si procuravano la droga al Distretto era ancora possibile che la spacciassero, ottenendola direttamente da un fornitore. O che ne nascondessero alcune quantità durante i sequestri prima che venissero quantificate e classificate come prova. Oppure, ancora, il fornitore poteva essere lo stesso Creeley. La prima missione segreta di Pulaski aveva fornito una risposta, ma ne servivano altre. «Okay, Ron, lo spettacolo continua. Adesso dimmi: preferisci una barista o un uomo d'affari?» «Non fa differenza. Tiriamo una monetina?» «Con tutta probabilità, l'Orologiaio li ha comprati all'Hallerstein's Timepieces», annunciò Mel Cooper, riagganciando il telefono. «Nel Flatiron District.» Prima che Amelia lo portasse via per seguire il caso Creeley, Pulaski aveva rintracciato il distributore della Arnold Products per il nord-est, che aveva appena richiamato. Il distributore non registrava i numeri di serie, ma se effettivamente gli orologi erano stati venduti nell'area di New York, l'unico negozio che li teneva era l'Hallerstein's, a sud di Midtown, nel quartiere che prendeva nome dal Flatiron Building, lo storico edificio triangolare a forma di ferro da stiro tra la Fifth Avenue e la 32nd Street. «Controlla il negozio», ordinò Rhyme. Cooper guardò su Internet. L'Hallerstein's non aveva un proprio sito, però figurava in parecchie pagine dedicate alla vendita di orologi antichi. Era attivo da anni e il proprietario si chiamava Victor Hallerstein. La sua fedina penale risultava pulita. Sellitto chiamò il negozio dal cellulare, nascondendo il proprio numero. Si finse un cliente, si informò sugli orari di apertura e domandò se parlava con il signor Hallerstein in persona. Infatti. Il detective lo ringraziò e tolse la comunicazione. «Andrò a parlargli e sentirò cos'ha da dire.» Indossò il cappotto. Era sempre consigliabile presentarsi ai testimoni senza preavviso. Una telefonata era già sufficiente a dargli il tempo di inventarsi una bugia, che avessero o meno qualcosa da nascondere. «Aspetta, Lon», suggerì Rhyme.
Il corpulento detective si voltò a guardarlo. «E se non gli ha venduto gli orologi?» Sellitto annuì. «Sì, ci ho pensato. E se fosse lui l'Orologiaio, o un suo complice?» «Oppure è il mandante e l'Orologiaio lavora per lui.» «Ho già pensato anche a questo, non preoccuparti.» Con una colonna sonora di arpa irlandese nelle orecchie, l'agente Kathryn Dance del California Bureau of Investigation guardava passare le strade di Lower Manhattan mentre il taxi la portava al Kennedy Airport. Decorazioni natalizie, lucine e cartelloni. E anche innamorati, sottobraccio o mano guantata nella mano guantata. Le venne da pensare a Bill e si chiese se gli sarebbe piaciuto essere lì. Era strano come si ricordavano perfettamente certe piccole cose. Anche dopo due anni e mezzo, che, date le circostanze, erano un mucchio di tempo. Signora Swenson? Sono Kathryn Dance. Swenson è il nome di mio marito. Ecco, qui è il sergente Wilkins, CHP. Perché mai la California Highway Patrol avrebbe dovuto chiamarla a casa senza rivolgersi a lei come «agente Dance»? Kathryn amava fare esperimenti in cucina. In quel momento, canticchiando sottovoce una canzone di Roberta Flack, stava cercando di capire come funzionava il nuovo frullatore multiuso per preparare la zuppa di piselli. Temo di doverle dare una notizia. Riguarda suo marito. Kathryn era rimasta paralizzata, con il telefono in una mano e il libro di ricette in un'altra. Ricordava ancora perfettamente ogni dettaglio della pagina, anche se l'aveva letta una volta sola. Ricordava persino la didascalia sotto la foto: Una zuppa appetitosa che potete preparare in un attimo. E molto nutriente. Avrebbe potuto prepararla a memoria. Non lo aveva mai fatto. Kathryn Dance sapeva che sarebbe dovuto passare ancora tempo prima che guarisse. «Guarire» era la parola che aveva usato il terapeuta che l'aveva seguita dopo la morte del marito. Però non era la parola giusta. Come Kathryn aveva constatato, non si guarisce mai. Una ferita si può rimarginare, ma resta sempre la cicatrice. Con il tempo il torpore prende il posto del
dolore. E la carne è cambiata per sempre. Kathryn sorrise tra sé, rendendosi conto che aveva incrociato le braccia e intrecciato i piedi. Qualsiasi esperto di cinesica sa bene che cosa significano quei gesti. Le strade le sembravano identiche, canyon bui tra il grigio e il marroncino, punteggiati di brillanti luci al neon: SPORTELLO AUTOMATICO, SALAD BAR, UNGHIE 9,95 $. Un forte contrasto rispetto alla Monterey Peninsula, dove qualche zona di sabbia intervallava prati, pini, querce ed eucalipti. Il taxi, una Chevrolet puzzolente, procedeva piano. La città in cui Kathryn viveva, Pacific Grove, era un villaggio vittoriano di diciottomila abitanti, centottanta chilometri a sud di San Francisco, tra l'ambiente chic di Carmel e la laboriosa Monterey resa celebre da Steinbeck in Vicolo Cannery. Nel tempo che il taxi aveva impiegato a percorrere quattro isolati, si poteva attraversare tutta Pacific Grove. Le strade le apparivano buie, congestionate, caotiche, frenetiche, sì... eppure Kathryn amava New York. Dopotutto, la gente era la sua passione, e non ne aveva mai vista tanta tutta insieme nello stesso luogo. Si domandò come si sarebbero trovati i suoi figli in un posto come quello. A Maggie sarebbe piaciuto, Kathryn non aveva dubbi. Già si immaginava la ragazzina di dieci anni in mezzo a Times Square, con la treccina che ondeggiava dietro la testa mentre i suoi occhi correvano affascinati dai cartelloni alla folla, dal traffico ai teatri di Broadway. E Wes? Be', lui era diverso. Aveva dodici anni e aveva sofferto molto per la morte del padre. Ma ultimamente il suo buonumore e la sua sicurezza sembravano essere tornati, tanto che lei si era fidata a lasciarlo dai nonni mentre andava in Messico per l'estradizione del rapitore, il suo primo viaggio all'estero dopo la morte di Bill. La madre di Kathryn le aveva detto che Wes stava bene anche in sua assenza, il che le aveva permesso di organizzare il seminario a Manhattan. Era da un anno che l'NYPD e la polizia dello Stato di New York glielo richiedevano. Ciononostante, Kathryn sapeva che non doveva perdere di vista quel ragazzino, magro, carino, con i capelli ricci e gli occhi verdi identici ai suoi. Ogni tanto lo trovava chiuso in se stesso, distaccato, rabbioso. In parte era il tipico umore adolescenziale maschile, in parte il residuo della perdita del padre a dieci anni. Comportamento normale, aveva assicurato il suo terapeuta, non c'era niente di cui preoccuparsi. Ma Kathryn sentiva che lui avrebbe impiegato più tempo ad abituarsi al caos di New York, e non era il
caso di affrettare i tempi. Una volta a casa, gli avrebbe chiesto se gli interessasse visitare la città. Kathryn non capiva certi genitori che sembravano convinti che occorressero la magia o la psicoterapia per scoprire che cosa volevano i loro figli. Bastava chiederglielo e ascoltare attentamente le loro risposte. Sì, decise Kathryn, se a lui fosse piaciuta l'idea, avrebbe portato entrambi i figli a New York l'anno successivo, prima di Natale. Nata e cresciuta a Boston, l'unica cosa che non le piaceva della California centrale era l'assenza di stagioni. Il clima era ottimo, ma sotto le feste sentiva la mancanza del freddo, della neve, della legna nel caminetto e del ghiaccio sui vetri. A strappare Kathryn dai suoi sogni a occhi aperti fu la suoneria del cellulare. La cambiava spesso, un gioco che faceva con i figli (rispettando tuttavia la regola numero uno: un poliziotto non deve mai mettere il telefono su «silenzioso»). Guardò il nome sul display. Hmm... interessante. Sì o no? Kathryn Dance cedette all'impulso e rispose. 10 Mentre guidava, il corpulento detective si muoveva di continuo, si massaggiava la pancia, si allargava il colletto della camicia. Kathryn Dance stava osservando il linguaggio del corpo di Lon Sellitto al volante della Crown Vic senza contrassegni, identica a quella che usava lei in California, che percorreva veloce le strade di New York con il lampeggiatore in funzione ma la sirena spenta. Era stato lui a chiamarla mentre era sul taxi, chiedendole nuovamente il suo aiuto nel caso. «Lo so che devi prendere un aereo, lo so che devi tornare a casa, però...» E le aveva spiegato che avevano trovato il probabile fornitore degli orologi lasciati sulle scene dei delitti e che lui avrebbe voluto che lei lo interrogasse. Per quanto esile, c'era l'eventualità che il negoziante avesse qualche legame con l'Orologiaio e volevano sentire l'opinione di Kathryn in merito. L'agente del CIB non aveva tardato a dire di sì. Dopotutto, le era dispiaciuto allontanarsi dalla casa di Lincoln Rhyme: detestava lasciare i casi a metà, anche quando non erano suoi. Sicché aveva fatto fare un'inversione a U al taxi e si era fatta riportare da Rhyme, dove aveva trovato Sellitto ad aspettarla.
«L'idea di chiamarmi è stata tua?» chiese al detective, ora che erano soli in macchina. «Come?» fece lui. «Non è stata un'idea di Lincoln. Lui non sa che farsene di me. Il secondo di pausa di Sellitto prima di rispondere chiariva molte cose. «Hai fatto un ottimo lavoro con quel testimone, Cobb.» Lei sorrise. «Lo so. Ma lui non sa che farsene di me.» Un'altra pausa. «A lui piacciono gli indizi.» «Tutti hanno le loro debolezze.» Il detective rise. Premette il pulsante della sirena e passò con il rosso. Kathryn continuò a osservargli le mani e gli occhi e ad ascoltare la sua voce. Stabilì che per lui la questione dell'Orologiaio era diventata un'ossessione. In quel momento, qualsiasi altro caso sulla sua scrivania doveva essere passato in secondo piano. Inoltre, come aveva notato il giorno precedente al seminario, Sellitto era tenace e saggio: non esitava a prendersi tutto il tempo necessario per capire qualcosa, dalla soluzione di un problema alle tecniche di interrogatorio. Se qualcuno perdeva la pazienza con lui, affari suoi. Sellitto era un individuo energico e nervoso, ma in modo diverso da Amelia Sachs, che aveva una componente di autolesionismo. Il detective borbottava per abitudine, ma era essenzialmente un uomo soddisfatto. Per Kathryn Dance fare queste analisi era una reazione automatica. Un gesto, uno sguardo, una frase casuale rappresentavano per lei un frammento di quel puzzle miracoloso che era l'essere umano. Poteva evitarlo, quando voleva: non era divertente uscire per bere un pinot grigio o una birra Anchor Steam e passare il tempo ad analizzare gli amici, per i quali era ancora meno divertente. Ma a volte le veniva naturale. Faceva parte di lei. Non poteva fare a meno della gente. «Hai famiglia?» le chiese Sellitto. «Due figli, sì.» «E che cosa fa tuo marito?» «Sono vedova.» Kathryn era allenata a riconoscere gli effetti delle sfumature nella voce. Il suo tono, assente e grave al tempo stesso, sottintendeva: Non ho voglia di parlarne. Una donna avrebbe potuto appoggiarle una mano su un braccio in un gesto di simpatia, ma Sellitto reagì come avrebbero fatto la maggior parte degli uomini, con un sincero e imbarazzato «Mi spiace». Poi si mise a parlare delle prove che avevano trovato in quel caso e delle piste che stavano seguendo, quasi tutte a fondo cieco. Era un tipo franco e diver-
tente. Ah, Bill, sai una cosa? Credo che ti sarebbe stato simpatico. A lei lo era. Sellitto le parlò del negozio da cui probabilmente venivano gli orologi. «Come dicevo, non pensiamo che sia Hallerstein l'assassino, questo però non vuol dire che non sia coinvolto. La faccenda potrebbe diventare rischiosa.» «Non sono armata», gli fece notare Kathryn. C'erano leggi severe per quanto riguardava il trasporto di un'arma da una giurisdizione all'altra, e alla maggior parte dei poliziotti era proibito uscire dal proprio Stato con la pistola di ordinanza. Non che importasse: Kathryn non aveva mai sparato un colpo dalla sua Glock al di fuori del poligono e si augurava di poter dire lo stesso il giorno in cui fosse andata in pensione. «Ti starò vicino», la rassicurò Sellitto. L'Hallerstein's Timepieces se ne stava tutto solo nel mezzo di un isolato buio, tra magazzini e rivendite all'ingrosso. Kathryn diede un'occhiata dall'esterno: la vernice della facciata era scrostata e annerita dal tempo, ma oltre la vetrina, protetta da spesse inferriate, il negozio appariva piuttosto elegante. Sulla porta Kathryn dichiarò: «Se non ti spiace, tu presenti le nostre credenziali, poi mi occupo io di tutto. Sei d'accordo?» A certi poliziotti, sul loro terreno, non sarebbe piaciuto che fosse lei a guidare la danza. Non che Sellitto avesse bisogno di dimostrare qualcosa, tuttavia Kathryn si era sentita ugualmente in dovere di chiederglielo. «Questo è il tuo gioco», le rispose il detective. «È per questo che ti ho chiamata.» «Dirò alcune cose che potranno sembrarti strane. Ma fa parte del mio piano. Se dovessi convincermi che lui è il colpevole, mi protendo in avanti e intreccio le dita.» Un gesto che l'avrebbe fatta apparire più vulnerabile e avrebbe fatto sentire più a suo agio il killer, riducendo il rischio che tirasse fuori un'arma. «Se penso che sia innocente, mi tolgo la borsetta dalla spalla e l'appoggio sul bancone.» «D'accordo.» «Pronto?» «Dopo di te.» Kathryn premette il pulsante del campanello e con un ronzio la serratura della porta scattò. Il negozio, per quanto piccolo, traboccava di orologi di ogni genere immaginabile: centinaia di modelli da parete e da tavolo, incassati in sculture, antichi o moderni, oltre a cinquanta o sessanta orologi
da polso d'epoca. Un uomo calvo e robusto sulla sessantina li squadrò cautamente dal fondo del negozio. Sul bancone davanti a lui c'erano i pezzi di un meccanismo su cui stava lavorando. «Buon pomeriggio», lo salutò Sellitto. L'uomo mosse la testa in un cenno di saluto. «Sono il detective Sellitto del Dipartimento di polizia, e la signora è l'agente Dance. Lei è Victor Hallerstein?» «Sono io.» L'uomo si tolse un paio di occhiali con una lente d'ingrandimento innestata sulla montatura e guardò il distintivo di Sellitto. Sorrise con la bocca, ma non con gli occhi, e gli strinse la mano. «È lei il proprietario?» chiese Kathryn. «Proprietario e tuttofare. Mi occupo io di tutto. Ho questo negozio da dieci anni, quasi undici. Sempre nello stesso posto.» Informazioni non necessarie, spesso indice di inganno. O più semplicemente effetto della visita inaspettata di due poliziotti. Una delle regole più importanti della cinesica è che un semplice gesto o un atteggiamento non significano molto. Non si può giudicare correttamente una reazione isolata dal contesto. Per esempio, le braccia incrociate vanno correlate allo sguardo del soggetto, ai movimenti delle mani, al tono di voce, alla sostanza del suo discorso e alla scelta delle parole. E, per essere significativo, il comportamento dev'essere congruente e ricorrente con gli stessi stimoli. L'analisi cinesica, come insegnava lei stessa, non consiste nel segnare un goal, ma nel giocare bene una partita. «In che modo posso esservi utile? Polizia, eh? Un altro furto nel quartiere?» Sellitto osservò Kathryn, che non rispose ma si guardò intorno sorridendo. «Non ho mai visto così tanti orologi tutti in una volta.» «È un bel po' che li raccolgo.» «Sono tutti in vendita?» «Mi faccia un'offerta che non posso rifiutare.» Hallerstein rise. «Scherzi a parte, ce ne sono alcuni da cui mi spiacerebbe separarmi. Ma la maggior parte sì. È un negozio, dopotutto.» Kathryn indicò un orologio. «Questo è molto bello.» Il negoziante lo guardò: era un pezzo Art Nouveau in oro con un quadrante molto semplice. «Seth Thomas, fabbricato nel 1905. Elegante e affidabile.» «Costoso?» «Trecento dollari. È solo in metallo dorato, di produzione industriale...
Vuole qualcosa di davvero costoso?» Hallerstein indicò un orologio in ceramica con motivi floreali in rosa, azzurro e violetto, che Kathryn trovò fastidiosamente chiassoso. «Cinque volte tanto.» «Ah.» «Capisco la sua reazione. Ma nel mondo dei collezionisti di orologi, quello che per qualcuno è kitsch per altri è arte.» Il negoziante sorrise. Era ancora cauto e inquieto, ma leggermente meno sulla difensiva. Kathryn corrugò la fronte. «E a mezzogiorno che cosa fa? Mette i tappi nelle orecchie?» Hallerstein rise di nuovo. «Alla maggior parte si può togliere la suoneria. Sono i cucù che mi fanno impazzire.» Lei continuò a fargli domande sul suo lavoro, immagazzinando dati sui suoi gesti, sguardi, toni e parole: il profilo base del suo comportamento. Poi, mantenendo lo stesso tono amichevole, gli chiese: «Vorremmo sapere se di recente qualcuno ha acquistato due orologi come questo». Gli mostrò la fotografia di uno degli Arnold Products lasciati sulle scene dei delitti e lo osservò attentamente mentre la guardava. L'espressione del negoziante non tradiva alcuna particolare reazione, ma l'uomo fissò la fotografia troppo a lungo, come se fosse incerto su qualcosa. «Non posso dire di ricordarmene. Ne vendo parecchi di orologi, mi creda.» Vuoto di memoria. Nel caso che il negoziante stesse cercando di ingannarla, sarebbe stato indice dello stato di negazione, come era avvenuto prima per Ari Cobb. Gli occhi di Hallerstein tornarono alla foto e la esaminarono con interesse, per dare l'impressione che volesse collaborare. Ma la sua spalla era leggermente rivolta verso di lei, la testa china e la voce più acuta. «No, non credo proprio. Mi spiace, non posso esserle d'aiuto.» Kathryn era certa che stesse mentendo, non solo in base al linguaggio del corpo, ma anche dalla sua reazione e dal volto inespressivo, che rappresentava una deviazione dal profilo base. Molto probabilmente Hallerstein conosceva quell'orologio. Il tentativo di ingannarli era dovuto a un semplice desiderio di non essere coinvolto, alla consapevolezza di avere venduto orologi a un criminale oppure a una complicità negli omicidi? Kathryn doveva intrecciare le dita o appoggiare la borsetta sul bancone? Nella sua classificazione delle personalità, aveva messo Ari Cobb, il testimone riluttante, nella categoria degli estroversi. Hallerstein apparteneva invece alla categoria opposta, quella degli introversi, che prendono decisioni sulla base dell'intuizione e dell'emozione. A questa conclusione era
arrivata partendo dall'evidente passione del negoziante per gli orologi e dal moderato successo della sua attività: preferiva vendere oggetti che amava, piuttosto che gestire un'attività da mass-market che gli avrebbe procurato maggiori profitti. Per indurre un introverso a dire la verità, occorre stabilire un legame con lui, farlo sentire a suo agio. Un attacco come quello che lei aveva sferrato ad Ari Cobb lo avrebbe immediatamente messo sulla difensiva. Kathryn sospirò e curvò le spalle. «Lei era la nostra unica speranza.» Guardò Sellitto, che grazie al cielo diede una credibile interpretazione del poliziotto deluso. «Speranza?» le fece eco Hallerstein. «L'uomo che ha acquistato questi orologi ha commesso un crimine molto grave. Sono la nostra unica pista.» La preoccupazione sul viso di Hallerstein sembrava sincera, ma nella sua carriera Kathryn Dance aveva incontrato molti bravi attori. L'agente rimise la fotografia nella borsetta. «Questi orologi sono stati trovati accanto alle vittime dei suoi omicidi.» Gli occhi del negoziante si gelarono, evidenziando una forte tensione interna. «Omicidi?» «Esatto. Due persone sono state uccise ieri notte. L'assassino ha lasciato questi orologi come messaggi di qualche genere. Non ne siamo certi.» Kathryn fece un'espressione inquieta. «È tutto molto misterioso. Se io avessi ucciso una persona e avessi voluto lasciare un messaggio, non lo avrei nascosto a dieci metri dalla vittima. L'avrei messo molto più vicino e bene in vista. Così non ci capiamo niente.» Kathryn studiò con attenzione il comportamento del negoziante di fronte alla sua affermazione deliberatamente erronea. Hallerstein reagì come avrebbe fatto chiunque non conoscesse i dettagli della vicenda: si limitò a scuotere il capo. Se fosse stato lui l'assassino, l'espressione degli occhi avrebbe tradito che la sua conoscenza dei fatti non corrispondeva alle parole di Kathryn. Avrebbe pensato: Ma io li ho lasciati accanto ai corpi. Chi può averli spostati? E questo pensiero sarebbe stato rivelato dal suo atteggiamento e da gesti molto precisi. Un bravo bugiardo può controllare certi segni di riconoscimento in modo tale che la gente comune non li individui, ma il radar di Kathryn era in piena attività e l'aveva convinta che il negoziante avesse passato l'esame: non era stato sulla scena dei delitti e non conosceva l'Orologiaio. Appoggiò la borsetta sul bancone.
Lon Sellitto allontanò la mano dai bottoni del cappotto, dove l'aveva tenuta fino a quel momento. Il lavoro di Kathryn era appena cominciato. Aveva stabilito che il negoziante non era l'assassino, né lo conosceva, ma anche che doveva essere in possesso di qualche informazione. «Signor Hallerstein, le persone che sono state uccise ieri notte sono morte in modo orribile.» «Erano quelle sul giornale? L'uomo che è rimasto schiacciato e quello buttato nel fiume?» «Esatto.» «E... quell'orologio era lì?» Per poco non aveva detto «il mio orologio». Ma solo per poco. Giocatela con cautela, si disse Kathryn. «Pensiamo che farà ancora del male a qualcuno. E, come ho detto, lei era la nostra unica speranza. Potrebbero volerci settimane per rintracciare altri negozianti che possano avere venduto gli orologi all'assassino.» Il volto di Hallerstein si oscurò. L'apprensione è facilmente riconoscibile sul viso delle persone, ma può essere provocata da molte emozioni diverse: simpatia, dolore, delusione, dispiacere, imbarazzo. Se il soggetto non ne dà spiegazione, solo la cinesica permette di scoprirne l'origine. Kathryn Dance esaminò gli occhi del negoziante, le sue dita che accarezzavano l'orologio che aveva davanti, la sua lingua che toccava l'angolo delle labbra. D'un tratto l'agente comprese: Hallerstein stava manifestando una reazione tipica, quella dell'uomo che non sa se combattere o fuggire. Aveva paura... per la propria incolumità. Capito. «Signor Hallerstein, se riesce a ricordare qualcosa di utile per noi, possiamo garantire la sua sicurezza.» Lanciò un'occhiata a Sellitto che fece un cenno affermativo. «Ci può scommettere», disse il detective. «Se necessario, metteremo un poliziotto fuori dal negozio.» Il negoziante, infelice, giocherellava con un piccolo cacciavite. Kathryn tirò fuori nuovamente la fotografia dalla borsetta. «Le spiacerebbe dare un'altra occhiata? Se per caso può ricordare qualcosa...» Hallerstein non aveva bisogno della foto. Si incurvò leggermente e chinò il capo, piombando di colpo nella rassegnazione. «Mi dispiace. Ho mentito.»
Questo non capitava quasi mai. Kathryn gli aveva offerto la possibilità di dire che la prima volta aveva guardato la foto troppo sommariamente o che si era confuso. Ma lui non ne aveva approfittato. Era andato dritto alla confessione, senza sotterfugi. «Ho riconosciuto subito l'orologio. Il fatto è che lui ha detto che, se l'avessi raccontato a qualcuno, sarebbe tornato per vendicarsi. Avrebbe distrutto tutti i miei orologi, la mia collezione! Io non sapevo niente degli omicidi, lo giuro! Non pensavo che fosse così pazzo.» Gli tremava la mascella. Mise la mano sulla cassa dell'orologio davanti a sé, un gesto che Kathryn interpretò come un disperato bisogno di conforto. C'era dell'altro. Gli esperti di cinesica devono giudicare se le reazioni del soggetto siano consone alle domande che gli sono state rivolte o ai fatti che gli sono stati raccontati. Hallerstein era turbato dagli omicidi, sì, e nel contempo era preoccupato per se stesso e i suoi tesori, tuttavia la sua reazione appariva sproporzionata. Kathryn si apprestò ad approfondire la questione, ma fu lo stesso negoziante a spiegare le ragioni della sua angoscia. «Lascia questi orologi accanto alle vittime?» Sellitto annuì. «Be', devo dirvi...» La voce gli venne meno e Hallerstein completò la frase in un sussurro: «che non ne ha comprati solo due. Ne ha comprati dieci». 11 «Quanti?» chiese Rhyme, scuotendo la testa. «Ha in programma dieci omicidi?» «Così sembra», rispose Sellitto. Seduti nel laboratorio del criminalista, lei alla sua sinistra e lui alla sua destra, Kathryn Dance e Lon Sellitto gli stavano mostrando l'immagine dell'Orologiaio che il detective aveva elaborato al negozio, usando l'EFIT, Electronic Facial Identification Technology, una versione computerizzata dell'identikit tradizionale. Si trattava di un uomo bianco a cavallo tra i quaranta e i cinquant'anni, con un viso tondo, il doppio mento, il naso grosso e occhi azzurri insolitamente chiari. Il negoziante aveva aggiunto che l'assassino era alto circa un metro e ottanta, era magro e aveva capelli neri di media lunghezza. Non portava gioielli. Hallerstein ricordava che era vestito di scuro, ma non i dettagli dell'abbigliamento.
Kathryn riferì a Rhyme quanto aveva raccontato Hallerstein. Un mese prima un uomo aveva telefonato in negozio, chiedendo un particolare modello di orologio. Non aveva precisato la marca: aveva richiesto che fosse compatto, che indicasse le fasi lunari e avesse un ticchettio sonoro. «Questi erano i dettagli più importanti: fasi lunari e ticchettio», disse l'agente. Presumibilmente, l'assassino voleva che le vittime lo sentissero mentre morivano. Il negoziante ne aveva ordinati dieci. Quando gli orologi erano arrivati, il cliente si era presentato in negozio e li aveva pagati in contanti. Non aveva detto né il suo nome, né da dove venisse, né a che cosa gli servissero, ma era sicuramente un esperto. Avevano parlato di collezionismo, degli acquirenti di certi pezzi famosi a un'asta recente e delle mostre di orologi attualmente in corso in città. L'Orologiaio non aveva voluto che Hallerstein lo aiutasse a caricare gli orologi in macchina. Li aveva portati di persona, facendo parecchi viaggi. Gli indizi erano scarsi. Il negoziante non aveva molti clienti che pagavano in contanti, e buona parte dei novecento e passa dollari che l'Orologiaio gli aveva dato erano ancora in cassa. Tuttavia Hallerstein aveva deluso le aspettative di Sellitto: «Non ci troverete impronte digitali. Portava i guanti». Cooper esaminò ugualmente le banconote in cerca di impronte, ma vi trovò solo quelle di Hallerstein, che Sellitto aveva preso per il confronto. I numeri di serie non erano registrati da nessuna parte. Sul denaro c'erano solo tracce di polvere; nessuna caratteristica particolare. La squadra cercò di determinare con precisione quando l'Orologiaio avesse contattato Hallerstein. Esaminando i tabulati della compagnia telefonica, trovarono le chiamate più probabili, che risultarono tuttavia fatte da apparecchi pubblici nel centro di Manhattan. Non c'era altro all'Hallerstein's Timepieces che potesse essere d'aiuto. Arrivò la telefonata di un detective della Buoncostume, ma solo per dire che i suoi agenti nell'area di Wall Street non avevano trovato la prostituta di nome Tiffanee, né con la y né con la doppia e. Avrebbero continuato a cercare, anche se dopo il delitto la maggior parte delle ragazze si tenevano lontane da quella zona. Fu in quel momento che Rhyme posò gli occhi su due particolari voci del tabellone. Terriccio contenente proteina di pesce... Trascinato nel vicolo dalla macchina...
Poi guardò di nuovo le fotografie della scena del delitto. «Thom!» «Cosa c'è?» fece l'assistente, dalla cucina. «Ho bisogno di te.» Il giovanotto apparve immediatamente. «Cosa c'è che non va?» «Sdraiati sul pavimento.» «Che cosa?» «Sdraiati sul pavimento. E tu, Mel, trascinalo fino al tavolo.» «Pensavo ci fosse qualcosa che non andava.» «Infatti. Ho bisogno che ti sdrai sul pavimento. Subito!» L'assistente lo guardò stupefatto. «Stai scherzando.» «Sbrigati!» «Non su questo pavimento.» «Te l'avevo detto di mettere i jeans in orario di lavoro. Sei tu che insisti a mettere pantaloni troppo costosi. Indossa quel giubbotto, quello appeso al gancio. Forza. Sdraiati di schiena.» Con un sospiro, Thom replicò: «Questa me la paghi». Indossò il giubbotto e si sedette sul pavimento. «Aspetta, allontana il cane», ordinò Rhyme. Jackson era saltato fuori dalla sua scatola, pensando che fosse ora di giocare. Cooper lo affidò a Kathryn Dance. «Ci vogliamo sbrigare? No, chiudi la cerniera lampo. Come se fossimo in inverno.» «Ma siamo in inverno», obiettò Cooper. «Solo non qui dentro.» Thom chiuse la cerniera lampo e si sdraiò. «Mel, mettiti un po' di polvere di alluminio sulle dita e poi trascina Thom fino al tavolo.» Il tecnico non perse tempo a domandare lo scopo di quell'esercizio. Tuffò le dita nella polvere grigia per le impronte digitali e raggiunse Thom. «Come lo prendo?» «È quello che voglio capire», rispose Rhyme. Strinse le palpebre. «Qual è il modo più efficiente per trascinare un corpo?» Suggerì a Cooper di afferrare Thom per il fondo del giubbotto. Il tecnico si tolse gli occhiali e obbedì. «Scusa, Thom», mormorò. «Lo so, stai solo eseguendo gli ordini.» Il tecnico sbuffò per lo sforzo, ma non riuscì a spostare l'assistente molto più in là. Sellitto osservava la scena impassibile, mentre Kathryn Dance tratteneva a stento le risate. «Così va bene. Thom, togliti il giubbotto e fammelo vedere.»
L'assistente si mise a sedere, si sfilò il giubbotto e glielo mostrò. «Posso alzarmi, adesso?» «Sì, sì, sì.» Rhyme osservò la giacca, mentre Thom si rialzava, spazzolandosi i pantaloni con una mano. «A cosa serve?» domandò Sellitto. Rhyme fece una smorfia. «Dannazione, la recluta ci ha azzeccato senza nemmeno saperlo.» «Pulaski?» «Già. Lui ha dato per scontato che le tracce di pesce venissero dall'Orologiaio. Io ho dato per scontato che venissero dalla vittima. Ma guarda il giubbotto.» Le dita di Cooper avevano lasciato tracce di polvere di alluminio all'interno del giubbotto, nello stesso punto in cui era stato trovato il terriccio nella giacca di Theodore Adams. Era stato l'Orologiaio a lasciare le tracce sulla vittima, mentre la trascinava nel vicolo. «Che stupido», si disse Rhyme. Certe sviste lo facevano infuriare, specie quando era lui a commetterle. «Prossima mossa: voglio sapere tutto sulla proteina di pesce.» Cooper tornò al computer. In quel momento il criminalista si accorse che l'agente Dance stava guardando l'orologio. «Ha perso l'aereo?» le chiese. «Ho ancora un'ora. Ma non credo che ce la farò, con i controlli di sicurezza e la folla di Natale.» «Mi spiace», fece Sellitto. «Se sono stata d'aiuto, ne è valsa la pena.» Il detective prese il telefono appeso alla cintura. «Posso chiamare un'auto di pattuglia e farti arrivare all'aeroporto in mezz'ora, con luci e sirene.» «Sarebbe splendido. Così ce la potrei fare.» Kathryn Dance prese il cappotto e si avviò alla porta. «Aspetti. Ho una proposta da farle.» Sellitto e la Dance si voltarono verso Rhyme. «Che ne direbbe di una notte spesata nella bella New York City?» L'agente della California inarcò un sopracciglio. Il criminalista continuò: «Non potrebbe restare per un altro giorno?» Sellitto scoppiò a ridere. «Linc, non posso crederci. Ti lamenti sempre dell'inutilità dei testimoni. Hai cambiato idea?» «No, Lon», replicò Rhyme, accigliato. «Mi lamento sempre di come i testimoni vengono gestiti, in base all'intuito, a interpretazioni personali o
altre idiozie. Tutto inutile. Kathryn però sa cosa fare. Applica una metodologia basata su reazioni osservabili e ripetibili a determinati stimoli, e ne trae conclusioni verificabili. Naturalmente non ha la precisione delle impronte digitali o dei reagenti chimici, ma è...» cercò la parola adatta. «Utile.» Thom si mise a ridere. «Il più grande complimento che si può ricevere da te: utile.» «Non occorrono commenti, Thom», lo rimproverò Rhyme. Poi si rivolse alla Dance. «Ebbene? Che cosa ne dice?» La donna osservò con attenzione il tabellone. Il criminalista notò che non stava guardando le varie voci, ma le fotografie, in particolare quella di Theodore Adams, con i suoi occhi gelidi rivolti verso l'alto. «Rimango», disse lei. Vincent Reynolds salì lentamente i gradini del Metropolitan Museum sulla Fifth Avenue. Quando arrivò in cima non aveva più fiato. Era forte di mani e di braccia, il che risultava utile per i momenti di intimità, ma per quanto riguardava gli esercizi di aerobica era a zero. Joanne, la fiorista, aleggiava nei suoi pensieri. Sì, l'aveva seguita ed era stato sul punto di violentarla, ma all'ultimo momento una delle sue incarnazioni aveva preso il controllo: Vincent lo Sveglio, quella più strana di tutte. La tentazione era forte, però non poteva deludere il suo amico. E non gli sembrava saggio contrariare un uomo il cui consiglio in caso di rissa era ferire agli occhi l'avversario. Perciò si era limitato a tenerla d'occhio, si era concesso un pranzo sostanzioso e aveva preso la metropolitana. Pagò il biglietto ed entrò nel museo. Vide una famiglia davanti a sé: la moglie assomigliava a sua sorella. Vincent le aveva scritto la settimana precedente, chiedendole se voleva venire a New York per le feste, ma non aveva avuto risposta. Gli sarebbe piaciuto farle fare un giro per la città. Quello non sarebbe stato il momento adatto, ovviamente, visto che Duncan e lui avevano da fare. Vincent sperava ugualmente che lei venisse a trovarlo presto. Era convinto che una maggiore presenza della sorella nella sua vita avrebbe fatto una certa differenza. Gli avrebbe garantito una stabilità che, ne era certo, avrebbe limitato la sua fame. Non avrebbe avuto bisogno dei suoi momenti di intimità con la stessa frequenza. Qualche piccolo cambiamento mi farebbe bene, dottor Jenkins. Non sei d'accordo? Forse sua sorella sarebbe arrivata per la fine dell'anno. Sarebbero potuti
andare a Times Square a festeggiare. Vincent sapeva dove trovare Gerald Duncan al museo. Di sicuro era nell'area destinata alle esposizioni, quella che ospitava le mostre itineranti, dai tesori del Nilo ai gioielli dell'Impero Britannico. La mostra in corso al momento era Orologeria nell'antichità. L'orologeria, come aveva spiegato Duncan, andava intesa come studio degli orologi. L'assassino l'aveva già visitata varie volte: ne sembrava attratto come Vincent dai pornoshop. Quando guardava gli oggetti in esposizione, Duncan, di solito freddo e distaccato, improvvisamente si illuminava. Vincent era lieto di vedere che c'era qualcosa che gli piaceva. Lo trovò davanti ad antichi oggetti di terracotta chiamati «orologi a incenso». Vincent gli si avvicinò. «Che cos'hai scoperto?» chiese l'Orologiaio, senza voltarsi. Aveva visto il riflesso di Vincent sulla vetrina. Era sempre così: sapeva tutto quello che doveva sapere, vedeva tutto quello che voleva vedere. «Era sola in laboratorio. Non è entrato nessuno. Poi è tornata al negozio di Broadway e ha visto quel tipo che fa le consegne. Sono andati via insieme. Ho chiamato e ho chiesto di lei...» «Da dove?» «Da una cabina telefonica, chiaro.» Meticoloso. «E il commesso ha detto che è uscita a prendere un caffè e che non rientra in negozio. Vuol dire, credo, che torna al laboratorio.» «Bene», approvò Duncan. «E tu cos'hai scoperto?» «Il molo era recintato, ma non c'era nessuno. Ho visto le imbarcazioni della polizia sul fiume... ancora non hanno trovato il corpo. In Cedar Street non sono riuscito ad avvicinarmi a sufficienza. Ma i poliziotti prendono il caso molto sul serio. Ce n'erano parecchi. Ne ho visti due che sembravano a capo delle indagini. Una è piuttosto carina.» «Una ragazza? Davvero?» Vincent l'Affamato alzò la testa. Non aveva mai pensato di poter avere un momento di intimità con una poliziotta. L'idea gli piacque subito. E parecchio. «Giovane, sui trent'anni. Capelli rossi. Ti piacciono le rosse? Vincent non avrebbe mai dimenticato i capelli rossi di Sally Anne, il modo in cui ricadevano sul lenzuolo vecchio e puzzolente mentre lui stava
sopra di lei. La fame cresceva. Gli era venuta l'acquolina in bocca. Vincent si infilò la mano in una tasca e pescò una barretta di cioccolato, che mangiò in quattro e quattr'otto. Si chiese dove Duncan volesse andare a parare con i suoi commenti sui capelli rossi della poliziotta carina, ma l'assassino non disse altro. Si spostò davanti a un'altra vetrina, contenente antichi orologi a pendolo. «Lo sai a che cosa dobbiamo la precisione degli orologi?» Il professore era in cattedra, pensò Vincent lo Sveglio, che dopo il cioccolato aveva ripreso il posto di Vincent l'Affamato. «No.» «Ai treni.» «Ah, sì?» «Quando la gente passava tutta la vita in una sola città, ogni comunità poteva cominciare la giornata quando voleva. Lei sei del mattino a Londra potevano essere le sei e diciotto a Oxford. Chi ci faceva caso? Se proprio dovevi andare a Oxford, viaggiavi a cavallo e non importava se tra una città e l'altra c'era differenza di orario. Ma con le ferrovie, se un treno non lascia la stazione prima che ne arrivi un altro a gran velocità, i risultati possono essere molto spiacevoli.» «È vero.» Duncan si staccò dalla vetrina. Vincent sperò che fosse ora di uscire, andare in centro e prendere Joanne. Ma l'Orologiaio attraversò la sala e si fermò al nastro di velluto davanti a una spessa vetrata sorvegliata da una grossa guardia. Duncan osservò l'oggetto in mostra, una scatola rivestita in oro e argento e tempestata di gioielli. Era alta e larga sessanta centimetri e profonda venticinque. Nella parte anteriore, su una dozzina di quadranti, erano raffigurati pianeti, stelle e comete, assieme a numeri, strane lettere e simboli, come in astrologia. Altre immagini erano incise sulla superficie metallica della scatola. «Che cos'è?» volle sapere Vincent. «Il Meccanismo di Delfi», spiegò Duncan. «Viene dalla Grecia e ha più di millecinquecento anni. Viaggia da una mostra all'altra in giro per il mondo.» «Che cosa fa?» «Molte cose. Li vedi quei quadranti? Calcolano il movimento del sole, della luna e dei pianeti.» L'Orologiaio si voltò verso Vincent. «Di fatto
mostra la terra e i pianeti che girano intorno al sole, un'idea rivoluzionaria ed eretica a quei tempi, un migliaio di anni prima che Copernico elaborasse il modello del sistema solare. Stupefacente.» Il nome Copernico riportava alla memoria di Vincent le lezioni di scienze del liceo, anche se ciò che rammentava di più era una compagna di classe, Rita Johansson, una brunetta paffuta. La memoria più vivida era quella di un pomeriggio d'autunno, in cui la ragazza era sdraiata a pancia in giù in un campo con un sacco sulla testa e ripeteva educatamente: «No, per favore, no...» «E guarda quel quadrante», disse Duncan, interrompendo la piacevole catena di ricordi. «Quello d'argento?» «Platino. Platino puro.» «Vale più dell'oro, giusto?» Duncan non rispose alla domanda. «Mostra il calendario lunare. Uno molto particolare. Il calendario gregoriano, quello che usiamo noi, ha un anno di trecentosessantacinque giorni e mesi di durata irregolare. Il calendario lunare è più coerente: i mesi hanno tutti la stessa lunghezza. Ma non corrispondono al sole, pertanto il mese lunare che quest'anno comincia, poniamo, il cinque aprile, l'anno prossimo comincerà un altro giorno. Il Meccanismo di Delfi ha un calendario lunisolare, una combinazione di entrambi. Odio quello gregoriano e quello lunare.» La sua voce tradiva un'intensa passione. «Sono approssimativi.» Li odia? si chiese Vincent. «Il calendario lunisolare invece... è elegante, armonioso. Bello.» Duncan indicò il Meccanismo di Delfi. «Molta gente crede che sia un falso, perché gli scienziati di oggi non possono duplicarne i calcoli senza usare un computer. Non possono credere che qualcuno sia riuscito a costruire una macchina così sofisticata tanto tempo fa. Ma io sono convinto che sia autentico.» «Vale tanto?» «Non ha prezzo.» Dopo un momento, Duncan aggiunse: «Corrono tante voci sul Meccanismo. Si dice che contenga i segreti della vita e dell'universo». «Tu ci credi?» L'Orologiaio continuava a fissare i riflessi della luce sul metallo. «In un certo senso. Che faccia qualcosa di soprannaturale? Certo che no. Però fa una cosa importante: unifica il tempo. Aiuta a comprendere che è un fiume
infinito. Il Meccanismo tratta i secondi esattamente come tratta i millenni. E in qualche modo è in grado di misurare gli uni e gli altri con una precisione che sfiora il cento per cento.» Indicò la scatola. «Gli antichi consideravano il tempo come una forza indipendente, una specie di divinità a sé stante, con i propri poteri. Si può dire che il Meccanismo sia un emblema di quella visione. Faremmo tutti meglio a guardare il tempo allo stesso modo. Un solo secondo può avere la forza di un proiettile, di un coltello o di una bomba. Può influenzare gli eventi dei millenni successivi. Può cambiare completamente ogni cosa.» Il grande schema delle cose... «Però.» Il tono di Vincent doveva avere rivelato che non condivideva l'entusiasmo di Duncan. L'assassino non se la prese. Guardò l'orologio da taschino e fece una delle sue rare risate. «Ne avrai avuto abbastanza dei miei sciocchi discorsi. Andiamo a trovare la nostra fioraia.» La vita dell'agente Ron Pulaski era questa: la moglie, i figli, i genitori e il fratello gemello, la sua casa con tre stanze da letto nel Queens, i piccoli piaceri del barbecue con i colleghi e le signore (preparava di persona la salsa per la carne e il condimento per l'insalata), praticare jogging, mettere insieme qualche soldo per pagare una babysitter e andare al cinema con la moglie, fare qualche lavoretto in un cortile così piccolo che suo fratello lo definiva uno zerbino d'erba. Cose semplici. Perciò Pulaski non si sentiva a proprio agio all'idea di dover interrogare Jordan Kessler, il socio di Benjamin Creeley, che gli era toccato con il lancio della monetina nella Camaro di Amelia Sachs. Il poliziotto gli aveva telefonato e aveva preso un appuntamento con l'uomo d'affari, appena tornato da un viaggio. Il suo jet (il suo, non un jet qualsiasi) era appena atterrato e il suo autista lo stava riportando in città. Pulaski si rammaricava di non avere scelto la barista. I ricchi lo mettevano a disagio. Kessler era atteso nell'ufficio di un cliente a Lower Manhattan e avrebbe preferito posporre l'appuntamento, ma Amelia aveva raccomandato alla recluta di essere insistente. E lui lo era stato. Il socio della vittima aveva accettato di incontrarlo in uno Starbucks al pianterreno del palazzo del cliente. Pulaski entrò nell'atrio del Penn Energy Transfer, un salone impressionante di vetro e cromo, con sculture di marmo. Alle pareti erano appese
gigantografie delle condutture della compagnia, rielaborate in vari colori. Per essere decorazioni industriali, erano particolarmente artistiche. Al poliziotto piacevano quelle foto. Nello Starbucks, vedendolo entrare, Kessler socchiuse gli occhi e gli fece cenno di raggiungerlo. Pulaski ordinò un caffè (l'uomo d'affari ne aveva già preso uno) e gli strinse la mano. Kessler era un individuo solido e stempiato, con i capelli pettinati distrattamente sulla lucida calvizie. Indossava un abito blu scuro, così inamidato da sembrare di balsa. Colletto e polsini erano bianchissimi e i gemelli erano d'oro. «Grazie per avermi raggiunto qui», disse Kessler. «Non so che cosa penserebbe di me un cliente se un poliziotto mi cercasse nei suoi uffici.» «Che cosa fa per loro?» «Ah, la vita del consulente fiscale. Mai un momento di riposo.» Kessler bevve un sorso di caffè, accavallò le gambe e disse sottovoce: «Una cosa terribile, la morte di Ben. Terribile. Non potevo crederci... Come la stanno prendendo la moglie e il figlio?» Poi scosse la testa e rispose da solo alla propria domanda. «Come possono prenderla? Saranno devastati, di sicuro. Be', che cosa posso fare per lei, agente?» «Come le ho accennato, stiamo indagando sulla morte del suo socio.» «Certo. Se posso fare qualcosa...» Kessler non sembrava nervoso all'idea di parlare con un poliziotto. E non mostrava condiscendenza di fronte a un uomo che guadagnava mille volte meno di lui. «Le risulta che il signor Creeley facesse uso di sostanze?» «Sostanze? Non l'ho mai visto farlo. So che ogni tanto prendeva le pillole per il mal di schiena, ma questo è stato tempo fa. E non l'ho mai visto... come dire... fuori fase. Unica cosa: non socializzavamo molto. In questo era diverso da me. Lavoravamo insieme, ci conoscevamo da sei anni, ma ognuno aveva la sua vita privata e la teneva... be', privata. Andavamo a cena insieme forse una o due volte l'anno, a parte quando c'erano clienti.» Pulaski riportò la conversazione sui binari. «Quindi niente sostanze stupefacenti.» «Ben? No.» Il poliziotto ripensò alle domande che si era preparato. Amelia gli aveva detto di impararle a memoria: continuare a consultare un taccuino non dà un'impressione di professionalità. «Il suo socio ha mai incontrato persone che lei potrebbe descrivere come pericolose, qualcuno che può averle dato l'impressione di essere un criminale?» «Mai.»
«Lei ha detto al detective Sachs di averlo visto depresso.» «Questo sì.» «Per quale ragione era depresso?» «Non lo so. Come le ho spiegato, non parlavamo molto dei nostri fatti personali.» Kessler appoggiò il braccio sul tavolino e il gemello atterrò rumorosamente sulla superficie. Probabilmente costava più dello stipendio mensile del poliziotto. Pulaski sentì nella mente la voce di sua moglie che diceva: Rilassati, stai andando bene. Poi quella del fratello: Lui avrà i gemelli d'oro, ma tu hai una grossa, fottuta pistola. «Depressione a parte, ha notato qualcosa di strano in lui ultimamente?» «In effetti sì. Beveva più del solito. E si era messo a giocare d'azzardo. È andato a Las Vegas o ad Atlantic City un paio di volte. Non l'aveva mai fatto prima.» «Riconosce questo?» Pulaski porse a Kessler le fotografie dei brandelli di carta che Amelia aveva recuperato tra la cenere nella casa di Westchester. «Dev'essere un bilancio, o qualcosa del genere.» «Lo vedo.» Un tocco di condiscendenza, forse involontario. «Erano in possesso del signor Creeley. Significano qualcosa per lei?» «No. Non se ne capisce molto. Che cosa è successo a queste carte?» «Le abbiamo trovate così.» Amelia gli aveva suggerito di non dire che le carte erano state bruciate. Lui aveva chiesto se era perché dovevano coprirsi le chiappe. Poi si era reso conto che forse non doveva parlare in quel modo a una donna ed era arrossito. Suo fratello non si sarebbe fatto problemi. Avevano in comune tutti i geni, tranne quello della timidezza. «Sembrano essere parecchi soldi.» Kessler riguardò le fotografie. «Non tanti. Solo qualche milione.» Non tanti. «Tornando alla depressione, lei come lo ha capito, se non glielo ha detto il signor Creeley?» «Era di cattivo umore, molto irritabile, distratto. C'era qualcosa che lo tormentava.» «Ha mai parlato della St. James Tavern?» «La che?» «Un bar a Manhattan.» «No. So che ogni tanto usciva presto dal lavoro. Credo che vedesse degli amici per l'aperitivo. Ma non mi ha mai detto chi.» «Ha mai subito inchieste?»
«Per cosa?» «Qualsiasi cosa di illegale.» «No. L'avrei saputo.» «Il signor Creeley ha avuto qualche problema con i suoi clienti?» «No. Siamo sempre stati in ottimi rapporti con tutti. Di solito ricavano tre quattro volte l'S e P Cinquecento. Chi non ne sarebbe felice?» S e P... Questa Pulaski non la capì. In ogni caso lo scrisse. Poi aggiunse la parola «felice». «Potrebbe mandarmi una lista dei clienti?» Kessler esitò. «Francamente, preferirei che non li contattasse.» Abbassò lievemente il capo e fissò il poliziotto negli occhi. Pulaski sostenne lo sguardo. «Perché?» «Sarebbe imbarazzante. Darebbe una brutta immagine. Come le ho detto prima.» «Be', a pensarci bene, non c'è niente di imbarazzante quando la polizia fa domande sulla morte di qualcuno. È il nostro mestiere.» «Immagino di sì.» «E tutti i suoi clienti sanno che cosa è successo al signor Creeley, non è così?» «Qualcuno sì, qualcuno no.» «In ogni caso, lei avrà fatto qualcosa per controllare la situazione, vero? Avrà chiamato una società di PR, avrà incontrato i suoi clienti per riassicurarli... No?» Kessler esitò di nuovo. Poi si arrese. «Le faccio preparare una lista e gliela faccio spedire.» Sì! pensò Pulaski. Centro! Dovette fare uno sforzo per non sorridere. Amelia Sachs gli aveva consigliato di tenere la domanda più importante per il gran finale. «Che cosa ne è stato della quota della società del signor Creeley?» Il sottinteso era che Kessler potesse avere assassinato il socio per impadronirsi della sua metà. Ma l'uomo d'affari o non colse l'allusione o, se lo fece, non si offese. «La ricomprerò io, secondo i nostri accordi. Suzanne, sua moglie, verrà pagata secondo l'oggettivo valore di mercato. Una bella cifra.» Pulaski annotò anche questo. Indicò le gigantografie delle condutture, visibili attraverso la vetrata. «I suoi clienti sono grandi compagnie come questa?» «Lavoriamo soprattutto per individui, manager e membri di consigli di
amministrazione.» Kessler aggiunse una bustina di zucchero al caffè e lo mescolò. «Lei ha esperienza degli affari, agente?» «Io?» Pulaski sorrise. «No. Un'estate ho lavorato per uno zio. Ma è andato a gambe all'aria. Non lui, la sua tipografia.» «È emozionante dare vita a un'attività e vederla crescere.» Kessler assaggiò il caffè, lo mescolò ancora. Si protese in avanti. «Mi sembra chiaro che la sua morte non è stata un semplice suicidio.» «Dobbiamo esaminare ogni aspetto.» Pulaski non sapeva esattamente che cosa volesse dire, gli era venuta così. Ripensò alle sue domande. Il pozzo era esaurito. «Credo che sia tutto, signor Kessler. Apprezzo molto la sua collaborazione.» L'uomo d'affari finì il caffè. «Se mi viene in mente qualcosa, la chiamo. Ha un biglietto da visita?» Pulaski gliene diede uno. «Questa detective con cui ho parlato», disse Kessler. «Come si chiama?» «Detective Sachs.» «Giusto. Se non trovo lei, agente Pulaski, posso chiamare la detective Sachs? Si occupa ancora del caso?» «Sissignore.» Il poliziotto gli dettò il numero di cellulare di Amelia e il numero di casa di Rhyme. Kessler assentì. «Bene. È ora di tornare al lavoro.» Pulaski lo ringraziò ancora, finì il caffè e se ne andò. Diede un'ultima occhiata alle gigantografie. Che spettacolo! Ne avrebbe appesa volentieri una, un po' più piccola, nel suo studio. Ma dubitava che la Penn Energy avesse un negozio di souvenir come a Disney World. 12 Nel piccolo coffee shop entrò una donna robusta dai capelli corti, in cappotto scuro e jeans. Era così che si era descritta. Amelia Sachs le fece un cenno da un tavolino in fondo. Quella era Gerte, l'altra barista della St. James Tavern. Stava andando al lavoro; aveva accettato di incontrare Amelia prima che cominciasse il suo turno. Sulla parete era appeso un cartello di VIETATO FUMARE, ma la donna continuava a stringere una sigaretta accesa tra le dita arrossate. Nessuno dello staff ebbe nulla da ridire. Cortesia professionale tra colleghi, suppose Amelia.
La donna guardò il distintivo che la detective le mostrava. «Sonja mi ha detto che vuole chiedermi qualcosa. Però non mi ha detto cosa», fece Gerte, a voce bassa e catarrosa. Amelia ebbe la sensazione che la collega, invece, le avesse detto tutto. Stette comunque al gioco e la mise al corrente dei dettagli più importanti, o almeno quelli che poteva rivelarle. Poi le mostrò la fotografia di Creeley. «Si è suicidato.» Nessuna sorpresa negli occhi di Gerte. «Stiamo indagando sulla sua morte.» «L'avrò visto un paio di volte. O tre.» La donna guardò la lavagna con il menù. «Alla St. James posso mangiare gratis, ma oggi mi tocca saltare il pasto. Se sto qui. Con lei.» «Che ne dice se le offro da mangiare?» Gerte fece un cenno alla cameriera. «Lei vuole qualcosa?» domandò questa ad Amelia, dopo aver preso l'ordine della donna. «Ha infusi?» chiese la detective. «Se il Lipton è un infuso, ce l'abbiamo.» «Prendo quello.» «Qualcosa da mangiare?» «No, grazie.» Gerte fece una risata cinica, squadrando il fisico snello della detective. Poi le disse: «Così il tipo si è ammazzato. Aveva famiglia?» «Già.» «Poveracci. Come si chiamava?» Da quella domanda si capiva che Gerte non ne sapeva molto. In effetti, la barista conosceva Creeley ancor meno di Sonja. Ricordava solo di averlo visto una volta al mese nei tre mesi precedenti la morte. Anche lei aveva avuto l'impressione di averlo visto con i poliziotti sul retro, ma non ne era certa. «C'è sempre tanta gente, sa.» Dipende da che tipo di gente, pensò Amelia. «Conosce di persona qualcuno di loro?» «Quelli del Distretto? Sì, qualcuno.» Mentre la cameriera serviva loro da bere, Gerte fece qualche nome e diede alcune descrizioni. Non ricordava il cognome di nessuno. «La maggior parte sono okay. Ci sono anche gli stronzi. Ma è così dappertutto. Questo qui...» Indicò la foto di Creeley. «Mi ricordo che non rideva molto. Si guardava sempre intorno, alle spalle, fuori dalla vetrata. Sembrava ner-
voso.» La donna versò panna e dolcificante nel caffè. «Sonja dice che, l'ultima volta che l'ha visto, lui ha litigato con qualcuno. Si ricorda se è accaduto altre volte?» «No.» Sorseggiò rumorosamente il caffè. «Non mentre c'ero io.» «L'ha mai visto prendere droghe?» «No.» Inutile, pensò Amelia. Aveva tutta l'aria di un vicolo cieco. Gerte inalò una boccata di fumo, che poi soffiò verso il soffitto. Quindi guardò Amelia e con un sorriso artificioso sulle labbra di un rosso brillante le chiese: «A lei perché interessa questo tipo?» «Semplice routine.» Gerte fece l'espressione di chi la sa lunga. «Due tipi vengono alla St. James e poco dopo sono tutti e due morti. E questa sarebbe routine?» «Due?» «Non lo sapeva?» «No.» «Lo immaginavo. Se no me lo avrebbe detto subito.» «Mi racconti.» La donna si zittì e si guardò intorno. Amelia si chiese se avesse paura. Ma stava solo seguendo con lo sguardo l'hamburger con patatine che stava per planare sul loro tavolo. «Grazie, cara», disse Gerte alla cameriera, con voce catarrosa. Tornò a guardare la detective. «Sarkowsky. Frank Sarkowsky.» Los e successo? «Ucciso in una rapina, ho sentito dire.» «Quando?» «Ai primi di novembre, mi pare.» «E lui chi vedeva alla St. James Tavern?» «Boh! L'ho visto nella stanza sul retro.» «Si conoscevano?» Amelia accennò alla foto di Creeley. Gerte alzò le spalle e guardò l'hamburger. Sollevò la fetta di pane e ci mise sopra un po' di maionese. Poi cercò invano di sollevare il coperchio del ketchup. Amelia glielo aprì. «Chi era?» le chiese. «Un imprenditore. Vestito casual. Ho sentito dire che viveva a Manhattan e aveva un sacco di soldi. E i suoi jeans erano di Gucci. Non gli ho mai parlato, gli servivo solo da bere.» «Come ha saputo che era morto?»
«Li ho sentiti parlare.» «Gli agenti del Distretto?» Gerte annuì. «Non ha sentito di altri che siano morti?» «No.» «Altri reati? Estorsioni, aggressioni, tangenti?» La donna scosse la testa, intenta a versare il ketchup sull'hamburger e a farne una pozza nel piatto per intingervi le patatine. «Niente. È tutto quello che so.» «Grazie.» Amelia mise sul tavolo dieci dollari, abbastanza da pagare la cena. Gerte guardò la banconota. «I dessert non sono male. La torta, soprattutto. Se le capita di mangiare qui, deve provare le torta.» La detective mise sul tavolo altri cinque dollari. Gerte alzò lo sguardo e fece un sorrisetto astuto. «Perché glielo sto raccontando? Le piacerebbe saperlo, vero?» Amelia rispose a sua volta con un sorriso. In effetti se lo stava proprio chiedendo. «Non può capire. I ragazzi nel retro, gli sbirri... Il modo come ci guardano, Sonja e me, quello che dicono e quello che non dicono. Le battute che fanno quando pensano che non li sentiamo...» Il sorriso di Gerte si fece triste. «Sì, mi guadagno da vivere servendo da bere. Non faccio nient'altro. Ma questo non gli dà il diritto di prendermi in giro. Ce l'ho anch'io la mia dignità, no?» Joanne Harper, la donna dei sogni di Vincent, non era ancora tornata al laboratorio. I due uomini erano a bordo della Band-Aid-mobile, parcheggiata sul lato est di Spring Street, di faccia alle vetrate buie del laboratorio in cui Duncan si apprestava a uccidere la sua terza vittima e in cui Vincent avrebbe avuto il suo primo momento di intimità dopo molto, molto tempo. Il fuoristrada non era niente di speciale, però era sicuro. L'Orologiaio lo aveva rubato chissà dove, a qualcuno che a suo dire non ne avrebbe sentito la mancanza per parecchio tempo. La targa, di New York, proveniva invece da un altro Explorer dello stesso colore. Se fossero stati avvistati dalla polizia, sarebbero passati inosservati: Duncan aveva spiegato a Vincent che di solito gli sbirri controllavano le targhe, non il VIN, il numero di identificazione del veicolo.
Bella trovata, aveva ammesso Vincent, ma che cosa avrebbero fatto se qualche sbirro avesse controllato anche il VIN e scoperto che non corrispondeva alla targa? Il poliziotto avrebbe capito subito che era un veicolo rubato. «Oh, in tal caso lo uccido», aveva risposto Duncan, come se fosse ovvio. Lasciamo perdere... Duncan guardò il proprio orologio, poi lo rimise in tasca e chiuse la cerniera lampo. Aprì la borsa a tracolla, che conteneva il suo biglietto da visita e gli altri ferri del mestiere che aveva preparato con molta cura. Caricò l'Arnold Products, regolò l'ora e richiuse la borsa. Vincent sentiva il ticchettio attraverso il nylon. Innestarono l'auricolare ai loro cellulari, quindi Vincent appoggiò accanto a sé sul sedile uno scanner della polizia (idea di Duncan, naturalmente). Lo accese e sentì lo scambio di conversazioni sugli incidenti stradali, la chiusura di alcune zone della città a causa di una manifestazione prevista per giovedì, un apparente attacco di cuore a Broadway, uno scippo... La vita nella grande città... Duncan si ispezionò attentamente, assicurandosi che tutte le tasche fossero ben chiuse. Si passò addosso una spazzola adesiva per raccogliere eventuali tracce e rammentò a Vincent di fare lo stesso prima del suo momento di intimità con Joanne. Meticoloso... «Pronto?» Vincent fece cenno di sì. Duncan scese dalla Band-Aid-mobile e guardò a destra e a sinistra prima di dirigersi alla porta di servizio. Ci mise dieci secondi a scassinare la serratura. Stupefacente. Vincent sorrise, ammirando l'abilità dell'amico. Si mangiò due merendine, a rapidi morsi. Un momento dopo il suo telefono vibrò. Vincent rispose. «Sono dentro», disse l'Orologiaio. «Cosa vedi in strada?» «Qualche macchina ogni tanto. Nessuno sui marciapiedi. Via libera.» Vincent udì alcuni scatti metallici. Poi il sussurro di Duncan: «Ti chiamo quando è pronta». Dieci minuti più tardi, Vincent vide una figura in cappotto scuro che si avvicinava al laboratorio. Dalla figura e dalle movenze sembrava una donna. Sì, era la sua fiorista, Joanne. Vincent sentì la fame esplodergli dentro. Si abbassò sul sedile, per non farsi vedere, e premette il tasto di chiama-
ta del cellulare. Sentì Duncan prendere la chiamata, senza rispondere né pronto né sì. Vincent alzò leggermente la testa e vide Joanne che arrivava alla porta. «È lei», mormorò all'apparecchio. «È da sola. Sta per entrare.» Il killer non disse una parola. Vincent sentì solo che la comunicazione si era interrotta. Okay, doveva tenerselo stretto. Lei e Kevin avevano bevuto tre caffè al Kosmo's Diner, un locale di SoHo comodo, efficiente... e per il resto noioso. Tuttavia quel giorno era diventato un posto speciale. Mentre entrava nel vicolo, diretta alla porta di servizio, Joanne pensava che sarebbe stato bello trattenersi per un'altra mezz'ora. Kevin avrebbe voluto: ci sarebbero state altre storie e storielle da raccontarsi. Il lavoro la chiamava. C'era tempo fino all'indomani, ma si trattava di un cliente importante e Joanne voleva essere sicura che tutto fosse perfetto. Così, controvoglia, gli aveva detto che doveva tornare in laboratorio. Si guardò intorno, ancora nervosa al ricordo del grassone con il parka e quegli strani occhiali. Non c'era nessuno intorno. Entrò nel laboratorio e chiuse la porta a doppia mandata. Appese il cappotto e tirò un profondo respiro, come faceva sempre quando arrivava. Le piaceva inalare quella miriade di profumi: gelsomini, rose, lillà, gigli, gardenie, fertilizzante, terra grassa e pacciame. Avevano un effetto quasi ipnotico. Accese le luci e fece per tornare al vaso su cui stava lavorando quel pomeriggio. D'un tratto si fermò, lasciandosi sfuggire un grido. Il suo piede aveva urtato qualcosa che si era allontanato di corsa. Joanne aveva fatto un balzo indietro, pensando subito a un topo. Quando abbassò lo sguardo, le venne da ridere. Aveva semplicemente dato un calcio a un rotolo di filo di ferro sul pavimento. E come c'era finito lì? Li teneva tutti appesi ai ganci sulla parete. Aguzzò la vista nella semioscurità. In effetti un rotolo era caduto dal suo gancio. Strano. Dev'essere il fantasma del fiorista passato, si disse. Subito dopo si pentì della battuta. Quel luogo era già piuttosto inquietante così com'era, specie dopo l'apparizione del grassone con gli occhiali da sole. Non c'era bisogno di pensare anche ai fantasmi, per prendersi paura. Raccolse il rotolo da terra e capì perché era caduto: il gancio era uscito dal legno. Tutto lì. Poi Joanne notò un'altra cosa strana. Era uno dei rotoli nuovi, non lo aveva ancora usato. Eppure doveva averlo fatto, visto che il
filo di ferro era stato tagliato. Rise. Non c'è niente come l'amore perché una ragazza diventi distratta. Si fermò, con la testa inclinata da un lato. Stava sentendo un rumore che non le era famigliare. Che cos'era? Molto curioso. Sembrava un rubinetto che perdeva. No, era qualcosa di meccanico. Metallo... Stranissimo. Sembrava il ticchettio di un orologio. Da dove veniva? C'era un grosso orologio sulla parete, ma era elettrico e non ticchettava. Joanne si guardò intorno. Stabilì che il rumore veniva da un angolo oltre la cella frigorifera. Sarebbe andata a controllare di lì a un minuto. Prima si chinò ad aggiustare il gancio. 13 Amelia Sachs si fermò frenando davanti a Ron Pulaski. Il poliziotto saltò a bordo e la Camaro ripartì a tutta velocità verso nord. La recluta riferì i dettagli della conversazione con Jordan Kessler. «Sembra onesto», commentò. «Una brava persona. Ma ho pensato che dovevo ugualmente chiedere conferma alla signora Creeley riguardo a quanto guadagna Kessler in questa storia. È vero che lei si fida di lui, io però ho preferito essere sicuro. Così ho chiamato l'avvocato di Creeley. Spero vada bene.» «Perché non dovrebbe andare bene?» «Non lo so. Chiedevo.» «Va sempre bene quando si fa più lavoro del necessario», commentò Amelia. «I problemi nascono quando qualcuno non lavora abbastanza.» Pulaski scosse a testa. «Difficile immaginare che qualcuno che lavora per Lincoln possa essere pigro.» Lei fece una risata ambigua. «E che cos'ha detto l'avvocato?» «Più o meno le stesse cose che hanno detto Kessler e la moglie: il socio ricompra legittimamente la quota del defunto a prezzi di mercato. Tuttavia Kessler dice che ultimamente Creeley beveva più del solito e si era messo a giocare d'azzardo. La vedova lo ha confermato e ha detto che quando era successo era stata una sorpresa. Il marito non era mai stato un tipo da Atlantic City.» Amelia annuì. «Gioco d'azzardo. Potrebbe esserci di mezzo la malavita organizzata. Forse si è messo a spacciare, oppure semplicemente a consu-
mare droghe. O lo usavano per il riciclaggio. Al gioco vinceva o perdeva?» «A quanto pare, ci ha rimesso un sacco di soldi. Può darsi che si sia rivolto a uno strozzino per coprire le perdite. Ma secondo la moglie non erano cifre importanti: con tutto quello che guadagnava, duecentomila dollari non facevano differenza. Anche se a lei, ovviamente, l'idea non piaceva. Secondo Kessler, Creeley era in ottimi rapporti con tutti i suoi clienti. Gli ho chiesto di farmene una lista. Forse è meglio che ci parliamo.» «Bene», convenne Amelia. Poi aggiunse: «Intanto la storia si complica. C'è stato un altro morto. Apparentemente una rapina sfociata in omicidio». Gli raccontò dell'incontro con Gerte e dell'assassinio di Frank Sarkowsky. «Dovrai cercarmi il dossier.» «Ci puoi scommettere.» «Io...» Amelia si interruppe. Guardò nello specchietto retrovisore e provò una stretta allo stomaco. «Hmm.» «Che c'è?» Lei non rispose. Svoltò lentamente a destra, proseguì per alcuni isolati, poi girò bruscamente a sinistra. «Okay, credo che ci stiano seguendo. Me ne sono accorta qualche minuto fa. Una Merc ha girato dietro di noi. No, non guardare.» L'auto che li seguiva era una Mercedes nera con i finestrini oscurati. Amelia svoltò di nuovo, di colpo, e inchiodò la Camaro. La recluta fece «Uh», strattonato dalla cintura di sicurezza. La Mercedes proseguì senza svoltare. La detective la seguì con lo sguardo, ma non fece in tempo a leggere la targa. Notò solo che si trattava di una AMG, la versione più costosa e accessoriata dell'auto tedesca. Fece un'inversione a U e si trovò di fronte un furgone che stava parcheggiando in doppia fila. Quando riuscì ad aggirarlo, la Mercedes era sparita. «Chi pensi che sia?» Amelia cambiò bruscamente marcia. «Forse è stata una coincidenza. Capita di rado di essere seguiti. E, credimi, nessuno lo fa mai su una macchina da centoquarantamila dollari.» Toccare il corpo freddo della fiorista disteso sul cemento, il viso pallido come rose bianche sparse sul pavimento. Il corpo freddo, come la Luna Fredda, ma ancora morbido, prima che sopraggiunga il rigor mortis.
Strappare i vestiti, la camicetta, il reggiseno... Toccare... Assaporare... Queste erano le immagini che si susseguivano nei pensieri di Vincent Reynolds, seduto al volante della Band-Aid-mobile con gli occhi fissi sul laboratorio dall'altra parte della strada. Ansante, consumato dalla fame, stava pregustando ciò che avrebbe fatto a Joanne. Un rumore lo distrasse. Un crepitio seguito da voci dallo scanner. «Traffico Quarantadue, potreste... Vogliono aggiungere transenne all'angolo tra Nassau e Pine. Vicino al palco.» «Certo, ci pensiamo noi. Chiuso.» A giudicare dai loro scambi di comunicazioni, i poliziotti non rappresentavano una minaccia per lui o per Gerald Duncan; Vincent si abbandonò nuovamente alle sue fantasie. Assaporare, toccare... Vincent immaginò che forse, in quello stesso momento, l'assassino stava inchiodando Joanne a terra sul pavimento, legandola con il cavo metallico. Poi un pensiero lo turbò. E se Duncan l'avesse toccata in certi punti? Il seno, in mezzo alle gambe? Vincent era geloso. Joanne era la sua ragazza, non quella di Duncan, accidenti! Se lui voleva scopare, non se ne poteva trovare un'altra? Vincent si impose la calma. Capita, quando si ha fame: si va fuori di testa, si diventa come uno di quegli zombie nei film dell'orrore che gli piaceva guardare. Duncan è tuo amico. Se si vuole divertire anche lui, perché no? Potevano fare un po' per uno. Guardò con impazienza l'orologio. Ci stava mettendo tanto, tanto tempo. Duncan gli aveva detto che il tempo non era assoluto. Una volta certi scienziati avevano fatto un esperimento: avevano messo un orologio in alto su una torre e uno al livello del mare. Quello più in alto andava più veloce di quello a terra, per via di qualche legge della fisica. Ma anche psicologicamente, aveva aggiunto Duncan, il tempo è relativo. Se stai facendo qualcosa che ti piace, corre veloce. Se stai aspettando che succeda qualcosa, non passa mai. Come adesso. Avanti, avanti. Lo scanner gracchiò di nuovo. Altre informazioni sul traffico, pensò Vincent. Si sbagliava.
«Centrale a tutte le unità disponibili a Lower Manhattan. Dirigete verso Spring Street, a sud di Broadway. Controllate i negozi di fiorista, in relazione agli omicidi sul molo della 22nd Street e vicolo di Cedar Street. Procedere con cautela.» «Gesù Dio!» mormorò Vincent, fissando lo scanner. Premette il pulsante di chiamata sul telefono, guardando fuori dal finestrino. Ancora nessun segno della polizia. Uno squillo, due... «Rispondi!» Clic. Duncan non disse nulla, secondo i piani. Vincent doveva avvisarlo del pericolo. «Esci subito! Presto! Arrivano gli sbirri!» Vincent udì un lieve sospiro, poi la comunicazione si interruppe. «Qui RMP Tre Tre Sette. Siamo a tre minuti dalla scena.» «Roger, Tre Tre Sette... Abbiamo un rapporto, un dieci-tre-quattro, aggressione in corso al quattro-uno-otto di Spring. Tutte le unità disponibili rispondano.» «Roger.» «RMP Quattro Sei Uno. Ci dirigiamo sulla scena.» «Vieni fuori, Cristo!» mormorò Vincent, avviando il motore dell'Explorer. Poi, con un fragore assordante di vetri infranti, un grosso vaso di ceramica fracassò la vetrata del laboratorio e Duncan balzò sul marciapiede, rischiando di scivolare sulle schegge e sul ghiaccio. In un attimo raggiunse l'Explorer e saltò sul sedile del passeggero. Vincent partì a razzo. «Rallenta», ordinò l'assassino. «Svolta alla prossima.» Vincent alzò il piede dall'acceleratore. Appena in tempo: un'autopattuglia spuntò, sbandando, dall'angolo di fronte a loro. Altre due si fermarono in Spring Street. Gli agenti uscirono di corsa dai veicoli. «Fermati al semaforo», disse Duncan, calmo. «Niente panico.» Vincent sentiva brividi in tutto il corpo. Avrebbe voluto premere l'acceleratore a tavoletta, fregandosene dei rischi. L'Orologiaio lo intuì. «No. Comportati come chiunque altro. Sei curioso. Guarda le auto della polizia. È normale che tu lo faccia.» Vincent le guardò. Il semaforo passò al verde. «Piano.»
L'Explorer ripartì lentamente. Incrociarono altre auto della polizia che avevano risposto alla chiamata. Secondo lo scanner, molti altri veicoli stavano convergendo sulla zona. Un agente comunicò che il sospetto non era stato identificato. Nessuno parlò della Band-Aid-mobile. Nonostante le mani che tremavano, Vincent riuscì a tenere il fuoristrada in mezzo alla corsia, senza accelerare e senza sbandare. Solo quando furono a una certa distanza dal laboratorio riuscì a sussurrare: «Sapevano che eravamo noi». Duncan si voltò verso di lui. «Che cosa?» «La polizia. Hanno detto alle pattuglie di controllare i negozi dei fioristi e che c'entravano gli omicidi di ieri notte.» Gerald Duncan rifletté. Non sembrava né turbato né furioso. Solo inquieto. «Sapevano che eravamo qui? Curioso. Come hanno fatto?» «Dove devo andare?» chiese Vincent. Il suo amico non rispose. Continuava a guardare fuori dai finestrini. Poi disse, con voce calma: «Per ora, vai avanti. Devo pensare». «È riuscito a scappare?» La voce di Rhyme suonava indispettita attraverso l'altoparlante del Motorola. «Cos'è successo?» In piedi accanto ad Amelia Sachs, di fronte al laboratorio in Spring Street, Lon Sellitto rispose: «Tempismo. Fortuna. Che cazzo ne so?» «Fortuna?» ribatté il criminalista, furente, come se fosse una parola straniera a lui sconosciuta. Tacque un istante. «Aspetta... Usate frequenze criptate?» «La squadra tattica sì», rispose Sellitto. «Ma la centrale no, non per quanto riguarda le chiamate del 911. Deve avere sentito la chiamata iniziale. Merda. Okay, d'ora in poi solo frequenze criptate per il caso dell'Orologiaio.» Rhyme domandò: «Che cosa ti dice la scena, Sachs?» «Ci sono appena arrivata.» «Allora datti da fare!» Clic. Accidenti... Sellitto e Amelia si scambiarono un'occhiata. Appena avevano ricevuto la chiamata riguardante il 10-34 a Spring avevano lasciato Pulaski a cercare il dossier Sarkowsky e si erano precipitati sulla scena. Io posso cavarmela con due. Speriamo, Sachs...
Gettò la borsetta sul sedile posteriore della Camaro, chiuse la portiera a chiave e si diresse verso il laboratorio. Vide Kathryn Dance in arrivo dal negozio di Broadway dove aveva interrogato la proprietaria, Joanne Harper, che per poco non era diventata la terza vittima dell'Orologiaio. Un'auto senza contrassegni, con il lampeggiatore acceso sul tetto, si fermò accanto al marciapiede. Dennis Baker spense tutto, scese dalla macchina e si affrettò a raggiungere la detective. «Era lui?» volle sapere. «Sì», rispose Sellitto. «Gli agenti che hanno risposto alla chiamata hanno trovato un altro orologio all'interno. Identico.» Fuori tre, pensò Amelia. Ne mancano sette. «Un'altra lettera d'amore?» «Stavolta no. Ma ci siamo andati vicino. Credo che non abbia avuto il tempo di lasciarla.» «Ho sentito la chiamata», disse Baker. «Come avete capito che era lui?» «A un isolato da qui c'è una compagnia di derattizzazione a cui di recente è stata sequestrata una partita di solfato di tallio, un veleno per topi che da noi è proibito», rispose Amelia. «Poi Lincoln ha scoperto che l'uso principale della proteina di pesce trovata sui vestiti di Adams è come fertilizzante per le orchidee. Lon ha mandato le pattuglie a caccia di fioristi in questa zona.» «Veleno per topi.» Baker si mise a ridere. «Quel Rhyme pensa proprio a tutto, eh?» «Anche di più», fece Sellitto. Kathryn Dance li raggiunse per riferire quanto aveva appreso dalla vittima mancata. Joanne Harper era rientrata in laboratorio e aveva notato che alcuni rotoli di filo di ferro erano fuori posto. «Non se ne è preoccupata più di tanto. Poi però ha sentito il ticchettio e le è parso che ci fosse un intruso nel retro. Allora ha chiamato il 911.» Sellitto completò il racconto: «E visto che le pattuglie stavano già convergendo sull'area, siamo arrivati prima che la uccidesse. Solo un attimo prima». L'agente Dance aggiunse che la fiorista non aveva idea del motivo per cui qualcuno volesse farle del male. Era divorziata, ma da parecchio non aveva più notizie dell'ex marito. Non le veniva in mente nessuno che potesse avercela con lei. Tuttavia quel giorno aveva visto qualcuno che la spiava dalla vetrata del laboratorio, un uomo grasso con un parka color crema, un paio di vecchi occhiali da sole e un berretto da baseball. Non aveva notato altro, anche perché i vetri erano molto sporchi. Nel dubbio
che potesse esserci qualche collegamento con Adams, l'agente le aveva chiesto se lo conoscesse, la Harper però non lo aveva mai sentito nominare. «Come sta?» chiese Amelia. «Scossa. Comunque tornerà a lavorare. Non al laboratorio, però. Nel suo negozio su Broadway.» «Se non prendiamo questo tipo», disse Sellitto, «o non scopriamo il movente, farò mettere un'auto a sorvegliare il negozio.» Prese la radio e diede le disposizioni necessarie. Sopraggiunsero Nancy Simpson e Frank Rettig, i due agenti della Crime Scene Unit, che accompagnavano un ragazzo magro con un berretto di lana e un giubbotto sformato. Si vedeva che stava morendo di freddo. «Il giovanotto desidera collaborare. È venuto a bussare al furgone.» Dopo uno scambio di sguardi con Amelia, Kathryn Dance si fece avanti e gli chiese che cosa avesse visto. Ma non occorreva essere un'esperta di cinesica: il ragazzo era ben lieto di fare il bravo cittadino. Spiegò che stava camminando lungo Spring Street quando aveva visto un uomo di mezz'età, vestito di scuro, uscire di corsa dal laboratorio. Quando gli fu mostrato l'identikit elaborato nel negozio di orologi, il giovane disse: «Sì, potrebbe essere lui». L'uomo si era precipitato verso un fuoristrada marroncino, con al volante un bianco dalla faccia tonda, con gli occhiali da sole. Questo era tutto quello che il ragazzo era riuscito a vedere del guidatore. «Sono in due», sospirò Baker. «Ha un socio.» Doveva trattarsi dell'uomo che Joanne aveva visto fuori dal negozio. «Era un Explorer?» «Non so distinguere un Explorer da... un altro fuoristrada.» Sellitto gli chiese della targa. Il ragazzo non l'aveva vista. «Be', se non altro sappiamo il colore.» Il detective trasmise un EVL: il segnale di Emergency Vehicle Locator avrebbe messo tutte le pattuglie e i vigili della zona sulle tracce di un Explorer marroncino con due bianchi a bordo. «Okay, diamoci da fare», concluse. Nancy Simpson e Frank Rettig aiutarono Amelia ad assemblare l'attrezzatura. Le scene da analizzare erano molte: il laboratorio, il vicolo, il marciapiede e il punto in cui era parcheggiato l'Explorer. Kathryn Dance e Lon Sellitto tornarono da Rhyme, mentre Baker andava alla ricerca di testimoni, mostrando l'identikit dell'Orologiaio ai passanti e al personale dei magazzini e degli uffici lungo Spring Street.
Amelia raccolse tutti gli indizi che le fu possibile trovare. Dal momento che i primi due orologi non contenevano esplosivi, non occorreva chiamare gli artificieri: le fu sufficiente un test dei nitrati per confermare che non c'erano pericoli. Impacchettato l'orologio e gli altri reperti, si sfilò la tuta di Tyvek e si rimise la giacca di pelle. Poi tornò di corsa alla Camaro, avviò il motore e mise il riscaldamento al massimo. Decise di infilare i guanti e si girò per recuperare la borsetta dal sedile posteriore; quando la prese il contenuto si rovesciò sul pavimento dell'auto. Le parve strano. La teneva sempre chiusa. Non poteva permettersi di perdere il contenuto della borsetta, che comprendeva due caricatori di scorta per la Glock e uno spray lacrimogeno. Ricordava chiaramente di averla chiusa prima di lasciarla in macchina. Controllò il finestrino sul lato del passeggero. Sul vetro c'erano tracce di guanti, come se qualcuno lo avesse forzato per aprire la portiera. E in alcuni punti il bordo isolante del finestrino si era staccato. Qualcuno le aveva aperto la macchina sulla scena di un crimine. Questa non le era mai capitata. Controllò il contenuto della borsetta. Non mancava nulla: c'erano soldi e carte di credito, anche se avrebbe dovuto chiamare la banca per bloccarle, nel caso il ladro ne avesse ricopiato i numeri. Le munizioni e il gas lacrimogeno erano al loro posto. Amelia portò la mano alla Glock e si guardò in giro. Tutt'intorno si era raccolta una piccola folla, incuriosita dall'attività dei poliziotti. La detective scese dalla macchina e chiese agli spettatori se avessero notato qualcuno vicino alla Camaro. Nessuno aveva visto niente. Tornata alla macchina, prese dal bagagliaio la sua attrezzatura base ed esaminò il veicolo come faceva abitualmente sulle scene dei crimini, in cerca di impronte digitali, orme e tracce di ogni genere, dentro e fuori. Non trovò nulla. Ripose l'attrezzatura nel bagagliaio e si rimise al volante. Poi scorse, a mezzo isolato di distanza, una grossa macchina nera che spuntava da un vicolo. Ripensò alla Mercedes che aveva visto quando aveva preso a bordo Pulaski. Ma non riuscì a distinguere se si trattava della stessa auto: la macchina scomparve nel traffico prima che lei riuscisse a fare manovra. Coincidenza o no? si chiese. Il motore cominciava a scaldare l'interno della Camaro. Amelia allacciò la cintura di sicurezza e innestò la prima. Mentre partiva, pensò: Be', non è
successo niente. Era a metà dell'isolato e stava mettendo la terza quando cominciò a domandarsi che cosa stesse cercando l'intruso nella sua macchina. Se aveva lasciato intatti i soldi e le carte di credito, allora era qualcos'altro che gli interessava. E Amelia Sachs sapeva che le persone di cui non si capivano i moventi erano sempre quelle più pericolose. 14 Tornata a casa di Rhyme, Amelia consegnò i reperti a Mel Cooper. Prima di indossare i guanti di lattice, prese una manciata di biscotti per cani da una scatola e li offrì a Jackson, che li mangiò voracemente. «Hai mai pensato di prendere un cane di sostegno?» chiese Kathryn Dance al criminalista. «Lui mi è di sostegno.» «Jackson?» fece Amelia, perplessa. «Sì, è di grande aiuto. Distrae le persone, così non sono obbligato a fare conversazione.» L'agente rise. «Dicevo sul serio.» Qualche tempo dopo l'incidente un dottore aveva suggerito a Rhyme di prenderne uno: molti paraplegici e tetraplegici hanno cani di sostegno. Lui si era rifiutato. Ora invece non gli sembrava una cattiva idea. Il criminalista inarcò le sopracciglia. «Si possono addestrare a versare il whisky?» Guardò Jackson, poi Amelia. «Oh, ti hanno cercato mentre eri fuori. Un certo Jordan Kessler.» «Chi?» «Ha detto che tu sai chi è.» «Oh, sì, certo. Il socio di Creeley.» «Voleva parlarti. Gli ho detto che non c'eri e lui ha lasciato un messaggio: ha parlato con i dipendenti della società, che hanno confermato la depressione di Creeley. E sta preparando una lista dei clienti, ma ci vorranno un paio di giorni.» «Un paio di giorni?» ripeté la detective. «Così ha detto.» Rhyme seguì Amelia con lo sguardo, mentre lei disponeva i reperti sul tavolo. La storia della St. James Tavern non lo interessava. La considerava un Altro Caso, che interferiva con il Suo Caso, quello dell'Orologiaio. «E-
saminiamo gli indizi», stabilì. Amelia indossò i guanti di lattice e aprì le scatole e gli involucri di plastica. L'Arnold Products era identico ai due precedenti, caricato di recente e regolato sull'ora esatta. La luna piena si stava spostando lentamente verso il bordo della finestrella. Cooper e Sachs smontarono l'orologio, ma non trovarono tracce significative. Nel laboratorio non c'erano tracce di scarpe, né impronte di frizione, né armi né altro che l'assassino avesse abbandonato durante la fuga. Rhyme si domandò se si fosse servito di qualche attrezzo speciale per tagliare il filo di ferro e se dalle sue tecniche si potesse risalire a una carriera o a un addestramento passati. Invece no: aveva impiegato le cesoie di Joanne. E, come per il nastro adesivo, i segmenti di ferro erano tutti della stessa lunghezza: esattamente un metro e ottanta. Restava da chiarire se servissero semplicemente a legare la vittima o se fossero invece l'arma del mancato delitto. Joanne Harper aveva chiuso la porta a chiave quando era uscita dal laboratorio. Era evidente che l'assassino aveva forzato la serratura. Ma questa non era una sorpresa per Rhyme: un uomo che conosce i meccanismi degli orologi non ha difficoltà a imparare le tecniche di scasso. Una ricerca presso la Motorizzazione rivelò che nell'area c'erano quattrocentoventitré Explorer marroncini. Da un esame della lista dei proprietari, solo due risultarono avere problemi con la legge: un uomo sulla sessantina con una dozzina di multe in arretrato e un giovanotto arrestato per spaccio di cocaina. Rhyme ipotizzò che si trattasse del complice dell'assassino, ma subito dopo scoprì che era ancora in prigione. L'Orologiaio poteva essere uno dei nomi rimanenti sulla lista, comunque non c'era modo di parlare con tutti, anche se Sellitto avrebbe fatto controllare quelli che abitavano a Lower Manhattan. A seguito dell'ELV, nella zona erano stati avvistati un paio di Explorer, però nessuno degli occupanti corrispondeva alla descrizione dell'Orologiaio e del suo complice. Dall'esame dei campioni prelevati nel laboratorio, Amelia constatò che la terra e la proteina di pesce venivano effettivamente da lì, non solo dall'interno, ma anche dal vicolo, dove i sacchi vuoti di fertilizzante venivano gettati con l'immondizia. Rhyme scosse la testa. «Qual è il problema?» chiese Sellitto. «Non è la proteina. È il fatto che si trovasse sulla seconda vittima.»
«Perché?» «Significa che l'assassino era già stato al laboratorio, presumibilmente per studiare la vittima e controllare se ci fossero allarmi o videocamere di sicurezza. Ha tenuto il luogo sotto sorveglianza. Quindi c'è una ragione per cui sceglie queste vittime particolari. Quale sarà?» L'uomo ucciso nel vicolo non sembrava essere coinvolto in attività criminali e non risultava avere nemici. Lo stesso valeva per Joanne Harper, che non aveva mai sentito nominare Adams. Non c'era alcuna correlazione tra loro, a parte essere sulla lista nera dell'Orologiaio. Perché proprio loro? Una vittima sconosciuta al molo, un copywriter, una fiorista... e sette altri ancora. Che cosa avevano di così particolare queste persone da indurre l'Orologiaio a ucciderle? Qual era il collegamento? «Che cos'altro hai trovato?» «Fiocchi neri», disse Cooper, mostrando una busta trasparente che conteneva puntini scuri, come macchie di inchiostro solidificate. Amelia spiegò: «Erano ai piedi della parete cui era appeso il rotolo di filo di ferro e nel punto in cui probabilmente si era nascosto l'Orologiaio. Ne ho trovati anche fuori dalla vetrata da cui è uscito per salire sull'Explorer». «Bene, esaminiamoli al GC.» Cooper attivò il gascromatografo-spettrometro di massa e vi introdusse un campione dei fiocchi. Pochi minuti dopo i risultati apparvero sullo schermo. «Che cos'abbiamo, Mel?» Il tecnico spinse gli occhiali in cima al naso e si protese verso il monitor. «Organico... Un settantatré per cento di n-alcani, poi idrocarburi aromatici policiclici...» «Ah, catrame per i tetti», se ne uscì Rhyme. Kathryn Dance scoppiò a ridere. «Come fai a saperlo?» Rispose Sellitto: «Oh, una volta Lincoln se ne andava in giro per la città a raccogliere tutto quello che poteva servire per la sua banca dati. Doveva essere divertente uscire a cena con te, Linc. Ti portavi dietro buste di plastica e provette?» «Chiedilo alla mia ex», replicò il criminalista, ridacchiando. «Scommetto che l'Orologiaio ha sorvegliato un'altra vittima da una casa in cui stanno rifacendo il tetto.» «Oppure lo stanno rifacendo a casa sua», suggerì Cooper. «Non credo che, con questo tempo, se ne stia a bere cocktail al tramonto sul terrazzo di casa sua», obiettò Rhyme. «Dobbiamo presumere che sia la
casa di qualcun altro. Voglio sapere in quanti edifici viene rifatto il tetto in questo momento.» «Potrebbero essere centinaia o migliaia», gli fece presente Sellitto. «Non in questa stagione.» «E come facciamo a saperlo?» chiese il detective. «ASTER.» «Che cos'è?» chiese l'agente Dance. «Advanced Spaceborne Thermal Emission and Reflection Radiometer», recitò distrattamente Rhyme. «È uno degli strumenti sul satellite Terra, un'impresa realizzata in collaborazione tra la NASA e il governo giapponese. Riprende immagini termiche dallo spazio. Compie un'orbita ogni... ogni quanto, Mel?» «Circa novantotto minuti. Ma gli ci vogliono sedici giorni per coprire tutta la terra.» «Scopri quando è passato l'ultima volta su New York. Voglio sapere se può identificare zone superiori ai duecento gradi Fahrenheit. Credo sia la temperatura minima del catrame quando viene applicato. Questo dovrebbe ridurre il numero di luoghi in cui può essere andato l'Orologiaio.» «Su tutta la città?» domandò Cooper. «Il suo terreno di caccia è Manhattan, a quanto pare. Cominciamo da lì.» Cooper fece una lunga conversazione telefonica, poi annunciò: «Se ne stanno occupando. Faranno del loro meglio». Thom andò alla porta e fece entrare Dennis Baker. «Nessun testimone intorno al laboratorio della fiorista», comunicò il tenente, mentre si toglieva il cappotto. L'assistente di Rhyme gli offrì subito una tazza di caffè caldo. «Siamo stati in giro per un'ora a fare domande. Nessuno ha visto niente, oppure nessuno ha il coraggio di farsi avanti. L'Orologiaio fa paura a tutti.» «Ci serve dell'altro», disse Rhyme, guardando il diagramma della scena tracciato da Amelia. «Dov'era parcheggiato l'Explorer?» «Di fronte al negozio, dall'altro lato della strada», rispose la detective. «E tu hai controllato il punto in cui era parcheggiato.» Non era una domanda: Rhyme sapeva che Amelia doveva averlo fatto. «C'erano altre auto davanti o dietro?» «No.» «Okay. L'assassino raggiunge il fuoristrada. Il complice parte, arriva al primo incrocio e svolta, sperando di confondersi nel traffico. Vuole passare inosservato, quindi va piano e gira lentamente, restando nella propria
corsia.» Al pari delle accelerazioni e delle frenate, una curva lenta poteva lasciare tracce rilevanti, soprattutto di pneumatici. «Se la strada è ancora bloccata, voglio che una squadra della Crime Scene Unit vada subito a raccogliere qualsiasi indizio all'incrocio. Non garantisco risultati, ma dobbiamo provarci.» Si voltò verso Baker. «Hai appena lasciato la scena, giusto? Quando, dieci o quindici minuti fa?» «Più o meno.» Baker si era appena seduto, distendendo le gambe. Svuotò la sua tazza di caffè. Sembrava esausto. «La strada era ancora bloccata?» «Non ci ho fatto caso. Credo di sì.» Rhyme si rivolse a Sellitto. «Scoprilo. Se lo è, manda una squadra.» Il detective fece una telefonata, e fu informato che la strada era stata riaperta al traffico. Bastava che una o due auto facessero la stessa curva per cancellare ogni traccia dell'Explorer. «Maledizione», imprecò Rhyme, tornando a guardare il tabellone degli indizi. Era da tempo che non affrontava un caso così complesso. Thom bussò delicatamente sullo stipite e fece entrare nella stanza una donna di mezz'età con indosso un cappotto costoso. A Rhyme era familiare, ma sulle prime non la riconobbe. «Salve, Lincoln.» Finalmente il criminalista riuscì a identificarla. «Ispettore. Marilyn Flaherty era più vecchia di lui, ma avevano ottenuto il grado di capitano nello stesso periodo e avevano collaborato in alcune commissioni speciali. Rhyme la ricordava come una donna intelligente, ambiziosa e, per necessità, più dura e aggressiva dei colleghi di sesso maschile. L'ispettore chiese notizie dell'Orologiaio e fu informata dei recenti sviluppi. Poi la Flaherty prese da parte Amelia e le chiese della sua indagine, l'Altro Caso. Rhyme non poté fare a meno di ascoltare parte della conversazione. La detective ammise di non avere trovato nulla di conclusivo. Non risultavano appropriazioni di droga al 118° Distretto. Il socio e i dipendenti di Creeley dichiaravano che questi era depresso, beveva più del solito e ultimamente era stato a Las Vegas e ad Atlantic City. «Potrebbe esserci qualche legame con il crimine organizzato», puntualizzò la Flaherty. «L'ho pensato anch'io», convenne Amelia. E aggiunse che, a quanto si sapeva, nessun cliente aveva maturato rancore nei confronti di Creeley. In ogni caso, lei e Pulaski ne attendevano la lista da Jordan Kessler, per verificare di persona. Suzanne Creeley, tuttavia, restava convinta che il marito
non avesse niente a che fare con la droga o la malavita e che la sua morte non fosse dovuta a suicidio. «E poi», concluse la detective, «c'è un secondo morto.» «Un secondo?» «Un altro cliente occasionale della St. James Tavern. È possibile che si incontrasse con le stesse persone che vedeva Creeley.» Un secondo morto, rifletté Rhyme. Doveva ammettere che l'Altro Caso si stava facendo interessante. «Chi è?» chiese la Flaherty. «Un imprenditore di Manhattan, Frank Sarkowsky.» L'ispettore si guardò intorno, soffermandosi sul tabellone e le attrezzature. «Chi lo avrebbe ucciso?» domandò, accigliata. «In apparenza, è morto durante una rapina. Ma aspetto di vedere il dossier.» Rhyme lesse la frustrazione sul viso della Flaherty. Anche Amelia era piuttosto tesa, e Rhyme ne comprese il motivo quando sentì l'ispettore che diceva: «Continuo a tenere fuori l'IAD, per il momento». La detective si rilassò. Voleva dire che non stavano per portarle via il caso. Rhyme ne fu lieto per lei, anche se in cuor suo avrebbe preferito che dell'Altro Caso si occupasse la Internal Affairs Division e che Amelia potesse tornare a dedicarsi esclusivamente al Suo Caso. La Flaherty domandò: «Quel giovane agente, Ron Pulaski, se la sta cavando bene?» «Sta facendo un ottimo lavoro.» «Andrò a riferire a Wallace, detective.» L'ispettore fece un cenno di saluto a Rhyme. «Mi ha fatto piacere rivederti, Lincoln. Riguardati.» «Arrivederci, ispettore.» La Flaherty marciò fuori dalla stanza come un generale in una parata. Amelia Sachs stava per chiamare Pulaski per sapere che cos'avesse scoperto sul conto di Sarkowsky, quando sentì una voce sussurrarle all'orecchio: «Il Grande Inquisitore». La detective si voltò. Accanto a lei, Sellitto stava mettendo zucchero nel caffè. «Vieni un attimo nel mio ufficio», le disse, indicando l'atrio della casa di Rhyme. Lasciarono gli altri in laboratorio. Quando furono soli, Amelia doman-
dò: «Inquisitore? È così che chiamano la Flaherty?» «Già. Non che non sappia il fatto suo.» «Lo so, ho controllato.» «Uhm», fece il corpulento detective, masticando un biscotto. Bevve un sorso di caffè. «Senti, sono incasinatissimo con l'Orologiaio Matto e non so niente di questa storia della St. James Tavern. Ma se ci sono di mezzo poliziotti che prendono bustarelle, com'è che sei tu a occupartene e non l'Internal Affairs Division?» «La Flaherty pensa di farla entrare più avanti. Wallace è d'accordo.» «Wallace?» «Robert Wallace, vicesindaco.» «Sì, ho capito. Un tipo ambizioso. Ma chiamare l'IAD sarebbe la scelta più saggia. Perché la Flaherty non vuole?» «Preferisce che a seguire l'indagine sia qualcuno ai suoi ordini. Dice che l'Uno Uno Otto è troppo vicino alla centrale. Qualcuno potrebbe scoprire che l'IAD sta investigando e tagliare la corda.» Sellitto schioccò le labbra. «Possibile.» Abbassò ulteriormente la voce. «E tu non sei stata a discutere perché vuoi questo caso.» Lei lo guardò dritto negli occhi. «Appunto.» «L'hai chiesto e l'hai avuto.» Il detective rise. «In che senso?» «Adesso la responsabilità è tua.» «E allora?» «Renditi conto di che cosa c'è in ballo. Se qualcosa va storto, se i buoni le prendono e i cattivi se la cavano, anche se tu hai fatto tutto per bene... la colpa sarà tua. La Flaherty è protetta e l'IAD ne esce pulita. Se invece tu arresti i colpevoli, loro se ne prendono il merito e nessuno si ricorda più di te.» «Stai dicendo che mi stanno incastrando?» Amelia scosse il capo. «Ma non è stata la Flaherty ad affidarmi il caso, lei voleva qualcun altro.» «Dai, Amelia. Se dopo un appuntamento lui dice a lei: 'Ehi, è stata una bella serata ma è meglio se non ti chiedo di salire da te', che cos'è la prima cosa che dice la ragazza?» «Sali da me.» «Insomma, lei non ti ha tolto il caso, anche se avrebbe potuto farlo in... cinque secondi.» Amelia si grattò distrattamente la testa. Il pensiero di certe politiche di dipartimento a quel livello, un territorio per lei sconosciuto, le faceva veni-
re una stretta allo stomaco. «Quello che voglio dire è questo: sarebbe stato meglio se non ti fosse capitato un caso simile a questo punto della tua carriera. Ma è andata così. Quindi ricorda una cosa... tieni la testa bassa. Diventa invisibile.» «Io...» «Fammi finire. Devi essere invisibile per due ragioni. Primo, quando si dà la caccia ai poliziotti corrotti, si sparge subito la voce che il tale ha preso una mazzetta o che il tal altro ha insabbiato un'indagine. E anche se non è vero, non importa un cazzo. Le voci sono come l'influenza: quando arrivano devono fare il loro corso e quando se ne vanno si portano dietro la carriera di qualcuno.» Amelia assentì. «E la seconda ragione?» «Non pensare di essere al sicuro solo perché hai un distintivo. Uno sbirro marcio del 118° Distretto può anche decidere che è meglio lasciarti stare. Ma i civili da cui ha preso i soldi non avranno alcuno scrupolo. Rischi di finire nel bagagliaio di una macchina nel parcheggio del JFK. In bocca al lupo, figliola. Mettili dentro. Però stai attenta. Non vorrei dover portare cattive notizie a Lincoln. Non me lo perdonerebbe mai.» Ron Pulaski tornò da Rhyme. Amelia lo attendeva sulla porta di casa, con lo sguardo rivolto verso la cucina mentre meditava sulle parole di Sellitto. La detective informò la recluta delle novità riguardanti l'Orologiaio. Poi domandò: «Che cosa mi dici di Sarkowsky?» Pulaski sfogliò gli appunti. «Ho trovato sua moglie e sono andato a parlarle. Il defunto era un maschio bianco di anni cinquantasei, proprietario di una società a Manhattan. Nessun precedente penale. Ucciso in data quattro novembre, lasciava detta moglie e due figli sotto i diciott'anni. La morte era dovuta a colpo di arma da fuoco. Il...» «Ron?» fece Amelia, in un certo tono. Lui la guardò sorpreso. «Oh, scusa. Semplifico.» Amelia era fermamente decisa a fargli perdere l'abitudine di parlare in poliziese. La recluta riprese in tono più rilassato: «Abitava in un edificio nel West Side, di sua proprietà. La sua società si occupava di riparazioni e pulizie per conto di grandi compagnie della città. Attività al di sopra di ogni sospetto, secondo i federali, la polizia cittadina e la polizia di Stato. Nessun collegamento al crimine organizzato, nessuna indagine in corso. Di illegale
Sarkowsky aveva solo una multa per eccesso di velocità, lo scorso anno». «Si sospetta qualcuno per la sua morte?» «No.» «Quale Distretto si è occupato delle indagini?» «Uno Tre Uno.» «Quando è morto era nel Queens, non a Manhattan?» «Proprio così.» «Com'è andata?» «L'aggressore gli ha preso portafoglio e contanti, poi gli ha sparato tre colpi al petto.» «La moglie lo ha mai sentito parlare della St. James?» «No.» «Sarkowsky conosceva Creeley?» «Alla moglie pare di no. Le ho mostrato la foto e non l'ha riconosciuto.» Pulaski tacque per un momento, quindi aggiunse: «Una cosa. Credo di avere rivisto la Mercedes». «Sul serio?» «Quando sono sceso dalla tua macchina, ho attraversato la strada di corsa con il giallo. Non ne sono sicuro, però mi è parso di riconoscerla. Non ho fatto in tempo a vedere la targa. Ho pensato fosse meglio dirtelo.» Sachs scosse la testa. «Anch'io ho avuto una visita.» Gli disse che qualcuno le aveva aperto la Camaro e che anche a lei era sembrato di rivedere la Mercedes. «Il tipo della Merc si è dato da fare.» Guardò le mani di Pulaski. La recluta aveva con sé solo il suo taccuino. «Dov'è il dossier Sarkowsky?» «Okay, c'è un problema. Niente dossier, niente prove. Ho esaminato tutti gli scaffali dell'Uno Tre Uno. Niente.» «Questa è bella. Niente prove?» «Sparite.» «Qualcuno ha firmato per prendere il dossier?» «Dal computer non risulta. Dovrebbe, se lo hanno preso per consultarlo o per spedirlo da qualche parte. Però ho il nome del detective che ha seguito il caso. Vive nel Queens. È appena andato in pensione. Si chiama Art Snyder.» Pulaski le consegnò un foglietto con nome e indirizzo del poliziotto. «Vuoi che gli vada a parlare?» «No, ci andrò io. Tu resta qui e trascrivi tutti i nostri appunti su un tabellone. Voglio avere un quadro completo. Ma non farlo in laboratorio, c'è troppo traffico.» C'era un continuo andirivieni di agenti della polizia e del-
la Crime Scene Unit che consegnavano materiale a Rhyme. Amelia preferiva non lasciare sotto gli occhi di tutti quanto avevano scoperto su un caso che riguardava poliziotti corrotti. Indicò la stanza in cui Rhyme faceva i suoi esercizi. «Lo terremo lì dentro.» «Va bene. Non ci vorrà molto. Quando ho finito, vuoi che ti raggiunga da Snyder?» Amelia ripensò alla Mercedes. Le tornarono in mente le parole di Sellitto: Rischi di finire nel bagagliaio di una macchina nel parcheggio del JFK. «No. Quando hai finito, resta qui a dare una mano a Lincoln.» Rise. «Chissà che il suo umore non migliori.» L'OROLOGIAIO SCENA NUMERO UNO Luogo: • Molo di riparazioni sull'Hudson River, 22nd Street Vittima: • Identità sconosciuta. • Maschio. • Probabilmente di mezza età o anziano, possibili problemi alle coronarie (presenza di anticoagulanti nel sangue). • Assenza di tracce di droga, malattie o infezioni nel sangue. • Guardia Costiera e sommozzatori alla ricerca di corpo e indizi nel New York Harbor. • Si controllano denunce di persone scomparse. Assassino: • vedi sotto. Modus operandi: • Assassino ha costretto vittima ad aggrapparsi al molo, sopra l'acqua, tagliandole le dita o i polsi, fino a quando è caduta. • Ora del delitto: tra le 6 p.m. di lunedì e le 6 a.m. di martedì. Indizi:
• Sangue tipo AB positivo. • Unghia spezzata, sporca, larga. • Recinzione tagliata con cesoie comuni, irrintracciabili. • Orologio: vedi sotto. • Poesia: vedi sotto. • Tracce di unghie sul molo. • Nessuna traccia identificabile, nessuna impronta digitale, nessuna orma, nessun segno di pneumatici. SCENA NUMERO DUE Luogo: • Vicolo su Cedar Street, vicino a Broadway, dietro tre palazzi a uffici (porte di servizio chiuse tre le 8 p.m. e le 10 p.m.) e un palazzo municipale (porta di servizio chiusa alle 6 p.m.). • Vicolo cieco, 5 m per 30, con acciottolato. Corpo a 5 m da Cedar Street. Vittima: • Theodore Adams. • Viveva a Battery Park. • Copywriter free-lance. • Nessun nemico conosciuto. • Nessun precedente statale o federale. • Si cercano collegamenti con palazzi circostanti. Nessuno trovato. Assassino: • L'Orologiaio. • Maschio. • Nessuna corrispondenza nei database per l'Orologiaio. Modus operandi: • Vittima trascinata nel vicolo dalla macchina e posta sotto una sbarra di ferro che alla fine ha schiacciato il collo. • In attesa di referto medico per conferma. • Nessuna traccia di attività sessuale. • Ora della morte: approssimativamente tra le 10,15 p.m. e le 11
p.m. di lunedì notte. In attesa di conferma dal medico legale. Indizi: • Orologio: * nessun esplosivo, nessun agente chimico o biologico * identico a quello sul molo * nessuna impronta digitale o traccia di sorta * Arnold Products, Framingham, Ma. Chiamata per identificare distributori e negozianti. • Poesia lasciata dall'assassino su entrambe le scene: * stampata al computer, carta generica, HP Laser Jet * testo: La Luna Fredda piena nel cielo brilla sulla terra morta, e dice che è ora di finire il cammino cominciato con la nascita. L'OROLOGIAIO * assente da qualsiasi database di poesia; probabilmente di sua composizione. * Luna Fredda è mese lunare, il mese della morte. • 60 $ in tasca, nessuna traccia dai numeri di serie; impronte negative. • Sabbia fine usata come agente oscurante.Tipo generico. Perché intende ritornare sulla scena? • Sbarra di metallo: 36 kg, a cruna d'ago. Non usata in cantiere di fronte al vicolo. Origine non identificata. • Nastro adesivo, generico.Tagliato con precisione insolita. Pezzi di lunghezza identica. • Solfato di tallio (veleno per topi) trovato nella sabbia. • Terriccio contenente proteina di pesce nelle tasche della vittima. • Carenza di tracce. • Fibre marroni, probabilmente da tappetino dell'auto. Altro: • Veicolo: * probabilmente Ford Explorer di tre anni. Tappetino marrone
* controllo di targhe delle auto presenti martedì mattina: niente di sospetto * nessuna multa lunedì notte. • Controllo presso Buoncostume delle prostitute, re: testimone. * nessuna pista. INTERROGATORIO DI HALLERSTEIN Soggetto: • Identikit EFIT dell'Orologiaio: intorno ai 50 anni, viso tondo, doppio mento, naso grosso, occhi azzurri insolitamente chiari. Altezza oltre 1,80 m, magro, capelli neri di lunghezza media, niente gioielli, vestito di scuro. Nessun nome. • Esperto di orologi, sa quali esemplari sono stati venduti in aste recenti e quali sono attualmente in mostra a New York. • Ha minacciato il negoziante per farlo tacere. • Ha acquistato 10 orologi. Per 10 vittime! • Ha pagato in contanti. • Richiesto modello con fasi lunari e ticchettio sonoro. Indizi: • Orologi acquistati presso Hallerstein's Timepieces, Flatiron District. • Nessuna impronta digitale o traccia su banconote. Nessuna corrispondenza per numeri di serie. • Chiamava da telefoni pubblici. SCENA NUMERO TRE Luogo: • 481 Spring Street. Vittima: • Joanne Harper. • In apparenza nessun movente. • Non conosce seconda vittima, Theodore Adams. Aggressori:
• L'Orologiaio. • Assistente: * probabilmente individuo visto da vittima al suo laboratorio * bianco, grasso, occhiali da sole, parka color crema, berretto da baseball. Al volante dell'Explorer. Modus operandi: • Serratura forzata per entrare. • Arma non determinata. Forse filo di ferro della fiorista. Indizi: • Proteina di pesce viene dal laboratorio di Joanne (fertilizzante per orchidee). • Solfato di tallio nelle vicinanze. • Filo di ferro tagliato in pezzi di uguale lunghezza (per usarlo come arma?). • Orologio: * come gli altri. Assenza di nitrati * nessuna traccia. • Nessun biglietto o poesia. • Niente orme, impronte digitali, armi o attrezzi lasciati nel laboratorio. • Fiocchi neri: catrame per rivestimento di tetti. * controllare immagini termiche ASTER di New York per identificare provenienza. Altro: • Aggressore ha sorvegliato vittima prima di attaccarla. Bersaglio intenzionale. Perché? • Munito di scanner della polizia. Cambiare frequenze. • Veicolo: * SUV marroncino * targa ignota * emesso EVL * 423 proprietari di Explorer marroncini nell'area. Controllo di precedenti: trovati due (uno troppo vecchio, l'altro ancora in carcere per spaccio)
ASSASSINIO DI BENJAMIN CREELEY • Creeley, 56 anni, apparente suicidio mediante impiccagione. Corda di cotone. Pollice rotto: impossibile fare nodo. • Biglietto scritto al computer: suicidio attribuito a depressione. Ma apparentemente non depresso al punto da suicidarsi. Nessun precedente di disturbi mentali/emotivi. • Intorno al Giorno del Ringraziamento due uomini sono penetrati in casa sua a Westchester, probabilmente per distruggere prove. Bianchi, nessuna descrizione, uno più grosso dell'altro. Rimasti in casa per circa un'ora. • Indizi in casa di Westchester: * serratura forzata: lavoro da esperti * tracce di guanti di pelle su attizzatoio e scrivania di Creeley * davanti a caminetto fango con contenuto acido superiore a quello intorno alla casa e presenza di elementi inquinanti. Da sito industriale? * tracce di cocaina bruciata nel caminetto * cenere nel caminetto: - registri finanziari con voci di milioni di dollari - ricerca in atto di logo su documenti; registri analizzati da esperto - agenda: cambiare olio della macchina, appuntamento da barbiere, visita alla St. James Tavern. • St. James Tavern: * Creeley vi è andato diverse volte * apparentemente nessun uso di droghe nel locale * probabile incontro con persone non identificate,forse poliziotti del vicino 118» Distretto dell'NYPD * ultima visita: giorno della sua morte. Litigio con persone non identificate * controllate banconote di agenti alla St. James: numeri di serie puliti, tracce di cocaina ed eroina. Droghe rubate al Distretto? - droghe mancanti: piccole quantità. 6-7 oz. di marijuana, 4 di cocaina. • Al 118° Distretto numero limitato di casi aperti su crimine organizzato. Nessun indizio di insabbiamenti intenzionali da parte di poliziotti.
• Connessioni con due gang nella zona: possibili ma non probabili. • Interrogati Jordan Kessler, socio di Creeley, e vedova: * negato uso di droghe * non risultano legami con malavita * beveva più del solito * presa abitudine di giocare d'azzardo; viaggi a Las Vegas e ad Atlantic City. Perdite rilevanti ma non significative per Creeley * motivi della depressione non identificati * Kessler non riconosce carte bruciate * in attesa di lista dei clienti * Kessler non sembra trarre vantaggi dalla morte di Creeley. • Sachs e Pulaski seguiti da Mercedes AMG. ASSASSINIO DI FRANK SARKOWSKY • Sarkowsky, 57 anni, ucciso il 4 novembre di quest'anno, lascia moglie e due figli. • Proprietario di edificio e società a Manhattan: pulizia e servizi per altre compagnie. • Detective incaricato: Art Snyder. • Nessun sospetto. • Assassinio/rapina? • Affare andato male? • Ucciso nel Queens. Non si sa perché vi si trovasse. • Nessuna connessione nota con Creeley. • Nessun precedente per Sarkowsky o sua società. 15 Il bungalow si trovava a Long Island City, la porzione del Queens dall'altra parte dell'East River rispetto a Manhattan e a Roosevelt Island. Nel cortile era stata disposta con molta cura una quantità sovrabbondante di decorazioni natalizie. Il marciapiede era stato meticolosamente sgombrato dalla neve e dal ghiaccio, nonostante le recenti precipitazioni. Qualcuno stava scrostando le intelaiature delle finestre con l'intento di ridipingerle e in un angolo c'era un cumulo di mattoni destinato alla costruzione
di un patio. Era la casa di un uomo che, all'improvviso, si trovava ad avere molto tempo libero. Amelia Sachs suonò il campanello. Pochi secondi dopo venne ad aprire un individuo solido, poco al di sotto dei sessant'anni, con indosso una tuta da ginnastica di felpa verde. «Detective Snyder?» Amelia ebbe cura di rivolgerglisi con la sua vecchia carica. La cortesia, diceva sempre Herman Sachs, è più efficace di una pistola. «Sì. Entra. Sei Amelia, vero?» Lui invece la chiamava per nome. Bisogna sempre scegliere su che cosa resistere e su che cosa arrendersi. Lei sorrise, gli strinse la mano e lo seguì in casa. Dalle finestre del salotto, anonimo e poco accogliente, entrava la gelida luce dei lampioni. Amelia sentì odore di fumo stantio e di gatto. Si sfilò la giacca. Quando si sedette sul divano, i cuscini sbuffarono sotto di lei. Era chiaro che la grossa poltrona reclinabile, davanti alla quale riposavano tre telecomandi, era il trono del re. «Mia moglie è fuori», annunciò Snyder. Poi la fissò. «Sei la bambina di Herman Sachs, vero?» Bambina... «Infatti. Ha lavorato con lui?» «Qualche volta, sì. A Brooklyn e a Manhattan. Un brav'uomo. Ho sentito dire che c'è stata una grande festa quando è andato in pensione, è durata tutta la notte. Vuoi dell'acqua o una bibita? Niente alcool, spiacente.» Lo disse con un tono che, assieme al reticolo di venuzze sul naso, rivelava che Snyder aveva avuto qualche problema con la bottiglia, come molti poliziotti della sua età. Ma ormai aveva smesso. Buon per lui. «Per me niente, grazie. Devo solo farle qualche domanda. Lei si è occupato di un omicidio a scopo di rapina, poco prima di andare in pensione. La vittima si chiamava Frank Sarkowsky.» Gli occhi di Snyder sembravano esplorare la moquette. «Sì, me lo ricordo. Un imprenditore. Gli hanno sparato dopo averlo derubato, mi pare.» «Volevo vedere il dossier, ma è sparito. E anche le prove.» «Niente dossier?» Snyder si sorprese. Non troppo, però. «Gli archivi al Distretto sono sempre un bordello.» «Devo scoprire che cos'è successo.» «Santo cielo! Non è che mi ricordi molto.» L'ex poliziotto si grattò una mano robusta e macchiata da un eczema. «Sai, era uno di quei casi. Nem-
meno un indizio. Zero. Dopo una settimana finisce che te ne dimentichi. Sarà capitato anche a te.» La domanda era quasi una provocazione, un commento al fatto che Amelia non era stata promossa detective da molto tempo e probabilmente non aveva avuto molti casi del genere. O di qualsiasi genere. Lei non reagì. «Mi dica quello che ricorda.» «L'hanno trovato vicino alla sua macchina, in un'area dismessa, senza soldi, senza portafogli. La pistola era vicino al corpo.» «Che arma era?» «Una Smith calibro 38, fredda e pulitissima: neanche un'impronta digitale.» Interessante. «Fredda» voleva dire priva di numero di serie. I criminali se le procuravano quando serviva loro una pistola non rintracciabile. Da una pistola prodotta negli Stati Uniti, come richiesto dalla legge, non era possibile cancellare completamente il numero di serie. Ma alcune fabbriche europee ne realizzavano esemplari senza numero. Erano queste le armi che usavano i killer e che spesso venivano lasciate sul luogo del delitto. «Qualche dritta dagli informatori?» Molti omicidi si risolvevano perché qualcuno commetteva l'errore di vantarsi delle sue prodezze in una rapina, esagerando l'entità del bottino. Le voci arrivavano alle orecchie degli informatori, che vendevano il colpevole ai poliziotti in cambio di qualche favore. «Nessuna.» «Dov'era l'area dismessa?» «Vicino al canale. Sai dove ci sono quei grandi serbatoi?» «Quelli del gas?» «Sì.» «E che cosa ci faceva laggiù?» Snyder si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea. Forse uno dei suoi clienti aveva sede da quelle parti e lui era andato a fare un sopralluogo.» «La Crime Scene ha trovato qualcosa? Tracce? Impronte digitali? Orme?» «Niente di particolare.» Gli occhi acquosi dell'ex poliziotto continuavano a fissare Amelia. Sembrava perplesso, come se pensasse: E così questa è la nuova generazione dell'NYPD. Meno male che sono andato in pensione. «Ha avuto la sensazione che fosse proprio quello che sembrava, una rapina finita male?»
Lui esitò. «Ne sono piuttosto convinto.» «Ma non del tutto?» «Potrebbe anche essere il lavoro di un killer.» «Professionista?» Snyder allargò le braccia. «Voglio dire, non c'era nessuno intorno, solo fabbriche. Per arrivare alla prima casa bisognava fare quasi un chilometro. I ragazzini non ci vanno a giocare. Non ci va nessuno. Ho pensato che l'assassino potrebbe avere sfilato il portafogli proprio per far pensare a una rapina. E la pistola lasciata sul posto... a me puzza di professionista.» «Però non c'era nessuna connessione tra Sarkowsky e la malavita.» «Non ne ho trovate. Uno dei suoi dipendenti mi ha detto che gli era andato a monte un affare. Ci ha rimesso un sacco di soldi. Ho cercato di saperne di più, ma è stato inutile.» Dunque era possibile che Sarkowsky, così come Creeley, fosse coinvolto con il crimine organizzato. Poteva trattarsi di droga o di riciclaggio. Qualcosa era andato storto e lo avevano eliminato. Questo avrebbe spiegato la Mercedes che seguiva Amelia: qualche «capo» o qualche «soldato» teneva sotto controllo i progressi dell'inchiesta. E i poliziotti del 118° Distretto insabbiavano le indagini. «Nella sua inchiesta è emerso il nome Benjamin Creeley?» Snyder fece cenno di no con la testa. «Lo sapeva che la vittima, Sarkowsky, frequentava la St. James Tavern?» «La St. James... Non è quel bar ad Alphabet City? Vicino a...» La sua voce sfumò nel silenzio. «Esatto», disse lei. «L'Uno Uno Otto.» Snyder parve preoccupato. «Non lo sapevo. No.» «Be', Sarkowsky ci andava. Strano che uno che vive nel West Side e lavora a Midtown frequenti un bar ad Alphabet City. Ne sa niente?» «No, niente.» Si guardò intorno, evitando gli occhi indagatori di Amelia. «Se mi stai chiedendo se dall'Uno Uno Otto sono venuti a dirmi di insabbiare il caso, ti sbagli. Abbiamo fatto tutto secondo le regole, non abbiamo trovato un cazzo e siamo passati ad altri casi.» Lei lo squadrò ben bene. «Che cosa sa dell'Uno Uno Otto?» Snyder prese in mano un telecomando. Ci giocherellò per qualche secondo poi lo rimise a posto. «Ho detto qualcosa?» fece Amelia. «Come?» fece lui, tetro. La detective seguì il suo sguardo sul tavolino.
Si vedevano i cerchi lasciati dalle bottiglie sulla superficie di legno. «La mia memoria fa acqua», disse Amelia. «Memoria?» «Ricordo a malapena come mi chiamo.» Snyder era confuso. «Una ragazza come te?» «Oh, mi creda», rise lei. «Come esco dalla porta mi dimentico persino di essere stata qui. Mi scordo il suo nome, la sua faccia, tutto quanto. Strano, non le pare?» L'ex poliziotto recepì il messaggio. Però scosse ugualmente la testa. «Perché lo fai?» chiese in un sussurro. «Sei giovane. Non hai ancora imparato che è meglio non svegliare il can che dorme.» «E se non dorme?» chiese lei, protendendosi in avanti sul divano. «Ci sono già due vedove e degli orfani.» «Due?» «Creeley, il nome che le ho detto prima. Frequentava lo stesso bar. Sembra che tutti e due conoscessero gente dell'Uno Uno Otto. E tutti e due sono morti.» Snyder guardò l'impressionante schermo piatto del suo televisore. «Allora», incalzò lei. «Che cos'ha sentito?» L'ex poliziotto tornò a studiare le chiazze sul pavimento. Forse stava pensando di aggiungere la sostituzione della moquette alla lista dei suoi lavori di casa. E finalmente ammise: «Voci. Nient'altro. Sarò sincero con te. I nomi non li so. Non so niente di preciso». Amelia assentì, rassicurante. «Mi bastano le voci.» «Giravano mazzette. Tutto qui.» «Quanti soldi?» «Potevano essere cifre grosse, oppure spiccioli. Tutto è possibile.» «Vada avanti.» «I dettagli non li conosco. È come quando sei in strada che fai il tuo lavoro e qualcuno dice qualcosa a quello che ti sta accanto. Non capisci di cosa parlano, ma te ne fai un'idea.» «Non ricorda i nomi?» «No, no. È stato un bel po' di tempo fa. Giravano dei soldi, non so quanti, come o per chi. So solo che c'era di mezzo qualcuno del Maryland. È lì che va a finire il denaro.» «Un posto in particolare? Baltimora? La costa?» «Non so.» Amelia considerò lo scenario. Era possibile che Sarkowsky o Creeley
avessero una casa nel Maryland, per esempio sulla costa, a Ocean City o a Rehobeth? O ce l'aveva qualcuno del 118° Distretto? Oppure c'era di mezzo il sindacato di Baltimora? Questo avrebbe spiegato perché non si trovassero collegamenti con le gang a Manhattan, a Brooklyn o nel Jersey. «Voglio vedere il dossier Sarkowsky. Può darmi qualche indicazione?» Snyder esitò. «Posso fare qualche telefonata.» «Grazie.» Amelia si alzò in piedi. «Aspetta», la fermò l'ex poliziotto. «Fammi dire una cosa. Ti ho chiamata 'bambina'. Okay, non avrei dovuto. Hai le palle, sei una che non molla, sei sveglia. Lo si vede benissimo. Ma non è da molto che fai questo lavoro. Devi capire una cosa su quelli dell'Uno Uno Otto. Non è che vanno in giro ad ammazzare la gente. E se succede qualcosa, non è tutto in bianco e nero. Pensaci un attimo. Che cazzo di differenza fanno un po' di dollari qua e là? Un giorno uno sbirro cattivo salva un bambino. E un giorno uno sbirro buono si mette in tasca qualcosa che non doveva. È così che vanno le cose, là fuori.» La guardò inquieto e perplesso. «Insomma, Cristo, come fai a non capirlo proprio tu?» «Io?» «Eh, sì.» Snyder la squadrò da capo a piedi. «Il Club della Sixteenth Avenue.» «Non so cosa sia.» «Oh, io credo di sì.» E glielo spiegò. «Ho sentito che è un'ottima tiratrice», stava dicendo Dennis Baker a Rhyme. Nel laboratorio c'erano solo uomini. Kathryn Dance era rientrata in albergo per pagare il conto per la seconda volta, mentre Amelia era fuori, a seguire l'Altro Caso. Da Rhyme erano rimasti solo Pulaski, Cooper e Sellitto, assieme al cane Jackson. Il criminalista stava parlando dei successi di Amelia nel tiro al bersaglio. Con orgoglio, aveva detto a Baker che presto sarebbe diventata la campionessa della polizia: la detective puntava al primo posto in una gara imminente. Baker annuì. «Sembra in ottima forma, come la maggior parte delle reclute che escono dall'accademia.» Si batté una mano sulla pancia. «Dovrei fare più esercizio.» Ironia della sorte, da quando era su una sedia a rotelle Lincoln Rhyme faceva molto più esercizio di prima. Ogni giorno si allenava su una bici-
cletta collegata a un computer, un ergometro, e varie volte alla settimana si sottoponeva all'idroterapia. Gli obiettivi erano due. Il criminalista voleva mantenere solida la sua massa muscolare, in vista del giorno in cui, ne era convinto, sarebbe tornato a camminare. Inoltre gli esercizi miglioravano le funzioni nervose nelle parti danneggiate del corpo. Nel corso degli ultimi anni aveva recuperato funzioni che, secondo i medici, dovevano essere perse per sempre. Ma Rhyme intuiva che a Baker non interessavano le flessioni che Amelia faceva ogni giorno. Una deduzione confermata dalla frase successiva del tenente. «Ho saputo che... uscite insieme.» Amelia Sachs era una lanterna che attirava molte falene e il criminalista non si sorprendeva che anche Baker volesse sincerarsi se la fiamma era accessibile. Anche se la scelta del termine «uscire insieme» era piuttosto divertente. «Sì», replicò. «Si può dire così.» «Dev'essere difficile.» Baker batté le palpebre. «Aspetta, non intendevo quello che pensi.» Rhyme aveva capito benissimo. Baker non si riferiva a una relazione tra un uomo disabile e una donna che non lo era: il tenente non faceva quasi caso alla sua condizione. No, si riferiva a un potenziale conflitto di altra natura. «Vuoi dire perché siamo due poliziotti.» L'Altro Caso contro il Suo Caso. Baker annuì. «Una volta uscivo con una dell'FBI. Avevamo problemi di giurisdizione.» Rhyme si mise a ridere. «Simpatico eufemismo. Ti dirò, la mia ex non era nella polizia ma le cose non andavano bene lo stesso. Blaine era una gran lanciatrice. Ci ho rimesso qualche bella lampada. E un microscopio Bausch & Lomb. Probabilmente non avrei dovuto portarlo a casa. Be', soprattutto non avrei dovuto tenerlo sul comodino.» «Evito di fare battute su cosa ci si fa con un microscopio sul comodino», disse Sellitto, dall'altra parte della stanza. «A me sembra che tu ne abbia appena fatta una», lo rimbeccò il criminalista. Sfuggendo alle chiacchiere di Baker, si avvicinò a Pulaski e Cooper, che stavano facendo del loro meglio per rilevare impronte dal rotolo della fiorista, nella speranza che l'Orologiaio non fosse riuscito a tagliare il grosso filo di ferro verde con indosso i guanti. Ma a quanto pareva non era stato
così. La porta si aprì e Amelia entrò in laboratorio. Si tolse la giacca di pelle, che gettò distrattamente su una sedia. Senza sorridere, indirizzò un generico cenno di saluto alla squadra e domandò: «Novità?» «Ancora no. Né l'EVL né l'ASTER stanno dando frutti.» Amelia si voltò verso il tabellone, ma Rhyme ebbe l'impressione che stesse pensando ad altro. La detective si rivolse alla recluta. «Ron, l'investigatore del caso Sarkowsky mi ha detto che ha sentito voci di corruzione all'Uno Uno Otto. Crede che ci siano legami con il Maryland. Se scoprissimo quali, potremmo trovare i soldi e probabilmente anche i nomi delle persone coinvolte. Credo che ci sia di mezzo il CO di Baltimora.» «Crimine organizzato?» «Se siamo stati alla stessa accademia, è questo che vuol dire CO.» «Scusa.» «Fai qualche telefonata. Scopri se qualche gang di Baltimora è attiva a New York. E scopri se Creeley, Sarkowsky o qualcuno dell'Uno Uno Otto ha una casa o degli affari nel Maryland.» «Farò un salto al Distretto e...» «No, chiama e basta. Resta anonimo.» «Non è meglio se ci vado di persona? Potrei...» «È meglio se fai quello che ti dico», fece Amelia, severa. «Vedo che il tuo buonumore sta contagiando le truppe, Linc», commentò Sellitto. La bocca di Amelia si irrigidì. Poi si rilassò. «È più sicuro così, Ron.» Erano scuse in stile Lincoln Rhyme, ovverosia non erano affatto scuse, ma Pulaski le accettò lo stesso. «D'accordo.» La detective si allontanò dal tabellone. «Ti devo parlare, Rhyme. A quattr'occhi.» Si voltò verso Baker. «Le spiace?» Il tenente scosse la testa. «Per niente. Ho qualche altro caso da seguire.» Prese il cappotto. «Se avete bisogno di me, sono alla centrale.» «Allora?» chiese Rhyme, sottovoce. «Di sopra. Da soli.» Il criminalista assentì. «Va bene.» Che cosa stava succedendo?» Presero il piccolo ascensore che portava al piano di sopra. Rhyme precedette Amelia in camera da letto. Lei si sedette davanti al terminale del computer e cominciò a battere furiosamente sulla tastiera. «Che succede?» chiese lui.
«Dammi un minuto.» La detective stava passando in esame alcuni documenti. Rhyme notò due cose. La prima era che Amelia si stava grattando la testa e che sul pollice c'erano tracce di sangue: la sua abitudine di ferirselo con l'unghia dell'indice. E la seconda era che sembrava avere pianto, cosa che era accaduta solo due o tre volte da quando si erano conosciuti. Lei continuava a battere sulla tastiera e a fare scorrere documenti sullo schermo, così velocemente da non avere nemmeno il tempo di leggerli. Rhyme era impaziente. E preoccupato. Dovette chiederle con decisione: «Dimmi, Sachs». Amelia aveva gli occhi fissi sullo schermo e scuoteva la testa. Poi si voltò verso di lui. «Mio padre... era corrotto.» La voce le si strozzò in gola. Il criminalista le si avvicinò. Lei si era rimessa a guardare lo schermo. Articoli di giornale, notò Rhyme. «Prendeva mazzette», mormorò la detective, muovendo nervosamente le gambe. «Impossibile.» Rhyme aveva conosciuto Herman Sachs, morto di cancro prima che lui incontrasse Amelia. Era un «portatile», un poliziotto di ronda, da cui il soprannome che era stato affibbiato alla ragazza quando faceva il servizio di pattuglia: «la Figlia del Portatile». Nelle vene di Herman Sachs scorreva sangue di poliziotto: suo padre, Heinrich, era immigrato dalla Germania nel 1937 assieme al padre della sua fidanzata, un poliziotto di Berlino. Dopo avere ottenuto la cittadinanza, Heinrich Sachs era entrato nell'NYPD. La sola idea che un membro di quella famiglia potesse essere corrotto era inconcepibile per Rhyme. «Ho appena parlato con un detective a proposito del caso St. James. Aveva lavorato con papà. Alla fine degli anni Settanta c'è stato uno scandalo: estorsioni, mazzette, persino aggressioni. Una dozzina di agenti e di detective sono stati arrestati. Li avevano chiamati il Club della Sixteenth Avenue.» «Certo, ne ho sentito parlare.» «Ero ancora piccola.» La voce di Amelia vibrò. «Non ne ho mai saputo niente. Mamma e papà non me lo hanno mai detto. Ma lui ne faceva parte.» «Sachs, mi rifiuto di crederci. Hai chiesto a tua madre?» Lei annuì. «Mi ha detto che non era niente. Qualcuno degli agenti finiti in galera ha fatto dei nomi sperando di avere in cambio qualche concessione.»
«Nelle indagini dell'IAD succede di continuo. Sono tutti pronti a denunciare qualcuno, anche gli innocenti. Poi alla fine si chiarisce tutto. Non devi preoccuparti.» «No, Rhyme. Devo preoccuparmi. Sono passata agli archivi della Internal Affairs e ho trovato il dossier. Papà era davvero colpevole. Due dei poliziotti coinvolti hanno rilasciato dichiarazioni giurate secondo cui ha estorto soldi a negozianti, ha protetto il racket del lotto clandestino e ha persino fatto sparire prove e dossier contro le gang di Brooklyn.» «Sentito dire.» «Prove», lo contraddisse Amelia. «C'erano le prove. Le sue impronte digitali sui soldi delle mazzette. E su alcune pistole che teneva nascoste in garage.» La sua voce era un sussurro. «La balistica ne ha identificata una come l'arma usata in un'esecuzione mafiosa un anno prima. Mio padre nascondeva un'arma che scottava, Rhyme. C'è tutto, nel dossier. Ho visto il rapporto sulle impronte digitali. Ho visto le impronte.» Rhyme tacque. Poi domandò: «E allora come ha fatto a uscirne pulito?» Lei fece una risata amara. «Questa è l'ironia, Rhyme. La Crime Scene ha fatto casino al momento della perquisizione. I moduli della custodia delle prove non erano stati compilati a dovere e il suo avvocato è riuscito a far escludere le prove. I moduli della custodia hanno come scopo principale quello di impedire che le prove vengano alterate, intenzionalmente o accidentalmente, a danno del sospetto. Ma ciò non poteva essere avvenuto nel caso di Herman Sachs. È virtualmente impossibile che le impronte digitali compaiano su un reperto, a meno che il sospetto stesso non lo abbia toccato. Tuttavia le regole vanno rispettate alla lettera e, se i moduli non sono compilati correttamente, è inevitabile che le prove vengano escluse. «E poi... c'erano sue foto insieme a Tony Gallante.» Era il nome di un famigerato «capo» del crimine organizzato di Bay Ridge. «Tuo padre e Gallante?» «Erano a cena insieme, Rhyme. Ho telefonato a un poliziotto con cui lavorava papà, Joe Knox. Anche lui era nel Club. Gli ho chiesto a bruciapelo di papà. Dapprima non voleva parlarne. La mia telefonata lo ha scosso. Alla fine ha ammesso che era vero. Papà, Knox e un paio di altri hanno preso mazzette per più di un anno. Hanno nascosto prove, hanno persino minacciato di picchiare quelli che si lamentavano. Pensavano tutti che mio padre sarebbe finito in galera, ma con il casino delle prove lui se l'è cavata. Lo chiamavano 'il pesce sfuggito alla rete'...»
Amelia si accasciò sulla sedia, con le dita nei capelli che grattavano nervosamente la cute. Se ne accorse e depose le mani in grembo. C'era sangue fresco sulle unghie. «Quando c'è stata la storia di Nick...» Inspirò a fondo e riprese: «Mi sono detta che non c'era niente di peggio di un poliziotto corrotto. Niente... E adesso viene fuori che mio padre lo era». «Sachs...» Rhyme si sentiva dolorosamente impotente per non essere in grado di allungare un braccio e prenderla per mano, nel tentativo di alleviare i suoi tormenti. La frustrazione divenne rabbia. «Hanno preso soldi per nascondere prove. Lo sai cosa significa, Rhyme. Quanti colpevoli l'hanno fatta franca grazie a loro?» Amelia si voltò di nuovo verso il computer. «Quanti killer sono stati rilasciati? Quanti innocenti sono morti per colpa di mio padre? Quanti?» 16 La fame di Vincent stava tornando, con la forza e l'intensità di una mareggiata. Non riusciva a smettere di guardare le donne per strada. I suoi stupri mentali non facevano che stimolargli l'appetito. Vide una bionda dai capelli corti con un sacchetto della spesa. Si immaginò le proprie mani che le afferravano la testa mentre era sopra di lei. E c'era una brunetta con i capelli lunghi come quelli di Sally Anne che spuntavano da sotto il berretto. Poteva quasi sentirne i muscoli del fondoschiena che gli guizzavano sotto le mani. E un'altra bionda, con tailleur e valigetta. Era il tipo che si metteva a piangere o a strillare? Probabilmente a strillare. Ora c'era Gerald Duncan al volante della Band-Aid-mobile. Uscirono da un vicolo per poi imboccare una strada verso nord. «Non ci sono più trasmissioni», disse l'assassino, indicando lo scanner della polizia, da cui arrivavano solo comunicazioni di routine e informazioni sul traffico. «Hanno cambiato frequenza.» «Devo trovare quella nuova?» «Sarà sicuramente criptata. Mi stupisce che non lo abbiano fatto fin dal principio.» Vincent avvistò un'altra brunetta (Oh, che bella...) che usciva da uno Starbucks. Aveva gli stivali. A Vincent piacevano gli stivali. Quanto ancora avrebbe potuto resistere? Non molto. Forse fino a sera, forse fino all'indomani. Quando lo aveva
incontrato, Duncan gli aveva raccomandato di rinunciare ai suoi momenti di intimità finché non avessero cominciato il loro «progetto». Vincent era stato d'accordo. Perché no? L'Orologiaio gli aveva annunciato che tra le vittime ci sarebbero state cinque donne. Due erano meno giovani, di mezz'età, ma se gli interessavano poteva avere anche quelle. Be', sarà un sacrificio, ma ogni tanto ci vuole, si era detto Vincent lo Sveglio. Perciò si era imposto l'astinenza. Duncan scosse il capo. «Sto ancora cercando di capire come sono giunti alla conclusione che si trattava di noi.» A volte l'Orologiaio parlava strano. «Hai qualche idea?» «No», rispose Vincent. Eppure Duncan non sembrava arrabbiato, il che era sorprendente. Quando perdeva la pazienza, il patrigno di Vincent urlava a squarciagola, come quella volta dopo Sally Anne. Lo stesso Vincent si infuriava, quando qualcuna delle sue ragazze si ribellava e gli faceva male. Duncan no. Diceva che la rabbia era inutile. Bisognava guardare il vasto schema delle cose. Avevano un grande progetto, e certi piccoli contrattempi erano insignificanti. Era inutile sprecare le proprie energie. «È come con il tempo. Quello che contano sono i secoli e i millenni. La stessa regola vale per gli esseri umani: una singola vita non conta niente, l'importante è la generazione.» Vincent suppose di essere d'accordo anche se, per quanto lo riguardava, ogni singolo momento di intimità era importante. Non voleva perdere nemmeno un'occasione. Perciò chiese: «Ci riproveremo? Con Joanne?» «Non subito. Potrebbero tenerla sotto sorveglianza. E anche se fossimo in grado di avvicinarci di nuovo, la polizia capirebbe che c'è una ragione per cui la voglio morta. È importante che pensino che le vittime sono scelte a caso. Adesso dovremo...» Si interruppe, guardando nello specchietto retrovisore. «Che c'è?» «Sbirri. Una macchina della polizia è sbucata da una strada secondaria. Stava per svoltare nell'altra direzione, ma poi si è messa a seguirci.» Vincent si girò. L'automobile bianca con i lampeggianti sul tetto era a un isolato da loro, e ora stava accelerando. «Sì, secondo me ci sta dietro.» Duncan svoltò in una stradina e accelerò a sua volta. All'incrocio girò a sud. «Che cosa vedi?» «Non... Aspetta. Eccola. Ci segue proprio.» «La strada in fondo a questo isolato, sulla destra. La conosci? Arriva fi-
no alla West End Highway?» «Sì, prendila.» Vincent sentì i palmi delle mani umidi di sudore. Duncan imboccò la strada a senso unico e accelerò, quindi svoltò a sinistra sulla Highway, in direzione sud. «Davanti a noi... Cos'è? Lampeggianti?» «Sì.» Vincent li vedeva chiaramente. Stavano venendo verso di loro. La voce gli si fece acuta. «Che facciamo?» «Quello che dobbiamo fare», disse Duncan, girando il volante con precisione e facendo sembrare facile una manovra impossibile. Lincoln Rhyme si sforzava di ignorare il ronzio delle voci di Sellitto che parlava al suo cellulare e di Pulaski che telefonava per avere notizie delle gang di Baltimora. Il criminalista cercava di fare silenzio nella propria mente, per lasciare spazio ad altri pensieri. Non sapeva esattamente quali, però c'era un ricordo confuso che lo tormentava. Il nome di una persona, di un luogo, un evento... non sapeva bene di che cosa si trattasse. Però era certo che fosse qualcosa di importanza vitale. Che cosa? Chiuse gli occhi e cercò di inseguire quel ricordo. Che gli sfuggì. Effimero, come i soffioni che cercava da bambino nel Midwest, fuori Chicago, quando correva nei campi, correva, correva... A Lincoln Rhyme piaceva correre, cogliere i soffioni e prendere al volo i semi che scendevano a spirale dagli alberi, come elicotteri. Gli piaceva inseguire le libellule, le falene, le api. Per studiarle, scoprirle. Lincoln Rhyme era nato con una curiosità insaziabile. Era già allora uno scienziato in erba. Correva... fino a quando aveva fiato. E ora che era paralizzato correva ancora, cercando di catturare semi altrettanto sfuggenti, anche se diversi. Benché l'inseguimento avvenisse solo nella sua mente, non era meno estenuante di quando correva da bambino. Eccolo... eccolo... C'era quasi... No, non ancora. Maledizione! Non pensare, non sforzarti. Lascia che arrivi da solo. La sua mente correva tra i ricordi, quelli interi e quelli frammentari, co-
me un tempo facevano i suoi piedi sull'erba fragrante e sulla terra calda, tra i campi di grano e le canne fruscianti, mentre in alto nel cielo azzurro si gonfiavano le nubi bianche dei temporali. Migliaia di immagini di omicidi, furti e rapimenti, fotografie di scene dei crimini, memorandum e rapporti del Dipartimento, inventari di prove, opere d'arte catturate sui vetrini di un microscopio, picchi e vallate di panorami sullo schermo di un gascromatografo. Come tanti soffioni e cavallette e locuste e piume di pettirosso. Okay, ci siamo, ci siamo... Riaprì gli occhi. «Luponte», mormorò. La soddisfazione riempì il suo corpo privo di sensazioni. Rhyme non ne era certo, però sentiva che quel nome significava qualcosa. «Mi serve un dossier.» Il criminalista guardò Sellitto, che si era seduto di fronte a un monitor. «Un dossier!» Il corpulento detective si voltò verso di lui. «Stai parlando con me?» «Sì, sto parlando con te.» Sellitto si mise a ridere. «Un dossier? E io ce l'ho?» «No. Ma lo devi trovare.» «Quale dossier? Di un caso?» «Credo di sì. Non so di quando. So solo che c'entra il nome Luponte.» Glielo scandì lettera per lettera. «Un caso di qualche tempo fa.» «Era il colpevole?» «Forse. Oppure un testimone. O l'agente che ha effettuato l'arresto o un supervisore. O anche un pezzo grosso. Non lo so.» Luponte... «Sembri un gatto che ha appena avuto il latte», disse Sellitto. Rhyme lo guardò perplesso. «È un modo di dire?» «Non so. Mi piace il suono. Okay, il dossier Luponte. Farò un paio di telefonate. È importante?» «Lon, con un killer psicotico a piede libero credi che ti farei perdere tempo a cercare qualcosa di non importante?» Arrivò un fax. «Le nostre immagini ASTER?» chiese ansioso il criminalista. «No, è per Amelia», rispose Cooper. «Dov'è?» «Di sopra.» Rhyme stava per chiamarla quando la detective entrò in laboratorio. Non
aveva più il viso arrossato e umido di lacrime. Non usava quasi mai trucco, ma forse stavolta lo aveva fatto, per nascondere i segni del pianto. «Per te», disse Cooper, consegnandole il fax. «Le nuove analisi della cenere a casa di quel tale.» «Creeley.» «Il laboratorio ha identificato il logo sul foglio», le comunicò il tecnico. «Niente di insolito: è quello del software della contabilità. Lo usano migliaia di commercialisti in tutto il Paese.» Amelia si strinse nelle spalle, prese il foglio e lo lesse. «E l'esperto di contabilità della CSU ha esaminato le cifre. Sono pagamenti e rimborsi spese per i manager di qualche compagnia. Niente di particolare neanche qui.» Scosse il capo. «Non sembra granché. Ho idea che gli intrusi abbiano bruciato tutto quello che gli è capitato tra le mani, per essere sicuri di distruggere qualsiasi indizio che potesse collegarli a Creeley.» Rhyme le lesse il tormento nello sguardo. «È anche pratica diffusa quella di bruciare materiale che non c'entra niente», suggerì, «solo per depistare le indagini.» «Già, è vero», concordò lei. «Hai ragione, Rhyme. Grazie.» Le squillò il telefono. Amelia rispose. «Dove?» chiese, corrugando la fronte. «Okay.» Prese qualche appunto. «Arrivo subito.» Si rivolse a Pulaski. «Forse siamo riusciti a trovare il dossier Sarkowsky. Vado a controllare.» A disagio, la recluta domandò: «Vuoi che venga con te?» Amelia sorrise. Sembrava più calma, ma Rhyme si rese conto che stava simulando. «No, Ron. Rimani qui, grazie.» La detective prese la giacca e, senza aggiungere altro, guadagnò la porta. Mentre lei usciva di casa, suonò il cellulare di Sellitto, che rispose e si irrigidì all'istante. Quindi annunciò ai presenti: «Sentite questa: è stato localizzato un Explorer marroncino con due maschi bianchi a bordo. Ha cercato di sfuggire a un'autopattuglia. Lo stanno inseguendo.» Tornò ad ascoltare all'apparecchio. «Capito.» Tolse la comunicazione. «È entrato in quel grosso garage sul fiume, tra la Houston e la West Side Highway. Le uscite sono sbarrate. Potrebbe essere la volta buona.» Rhyme ordinò che la sua radio fosse sintonizzata sulle frequenze criptate. Tutti nel laboratorio fissarono i piccoli altoparlanti di plastica nera. Due agenti di pattuglia comunicarono che l'Explorer era stato avvistato al piano superiore, abbandonato. Non c'era traccia dei due uomini a bordo. «Conosco quel garage», disse Sellitto. «È un colabrodo. Potrebbero es-
sere usciti da qualsiasi parte.» Bo Haumann e un tenente riferirono che le loro squadre stavano setacciando le strade intorno al garage, ma non avevano ancora trovato né l'Orologiaio né il suo complice. Sellitto scosse la testa, in preda alla frustrazione. «Se non altro abbiamo la loro macchina. Ci dirà parecchie cose. Dovremmo mandare Amelia a esaminarla.» Rhyme era in dubbio. Aveva previsto la possibilità di un conflitto tra le due indagini, anche se non aveva immaginato che potesse presentarsi così presto. Certo, avrebbero dovuto richiamarla. Decise di no. La conosceva quasi meglio di quanto conosceva se stesso e si rendeva conto che Amelia doveva seguire l'Altro Caso. Non c'è niente di peggio di un poliziotto corrotto... Doveva concederle il suo spazio. «No, lasciamola stare.» «Linc...» «Troveremo qualcun altro.» Il silenzio carico di tensione che seguì sembrò protrarsi all'infinito. A interromperlo fu una voce che disse: «Lo faccio io, signore». Rhyme guardò alla propria destra. «Tu, Ron?» «Sissignore. Posso farlo io.» «Non credo proprio.» La recluta lo guardò negli occhi e recitò: «'È fondamentale osservare che il punto in cui si trova effettivamente il corpo della vittima è spesso la meno importante delle scene di un delitto. È qui che gli omicidi più attenti si concentrano per cancellare le tracce o seminarne di false allo scopo di depistare gli investigatori. La scena più importante è...'» «Questo è...» «Il suo libro di testo, signore. L'ho letto. Un paio di volte, per essere sincero.» «L'hai imparato a memoria?» «Solo i passaggi importanti.» «E quali sono quelli non importanti?» «Voglio dire che ho memorizzato le regole specifiche.» Rhyme era incerto. Pulaski era giovane e inesperto. Ma quantomeno sapeva chi era in gioco ed era attento ai dettagli. «Va bene, Ron. Non fare un passo sulla scena se prima non siamo in collegamento radio.»
«Va benissimo, signore.» «Oh, va benissimo?» fece il criminalista, sarcastico. «Grazie per la tua approvazione, recluta. E adesso muoviti.» La corsa li aveva lasciati senza fiato. Duncan e Vincent, ognuno con una grossa sacca di tela contenente tutto ciò che si trovava a bordo della Band-Aid-mobile, rallentarono il passo nei pressi di un parcheggio vicino all'Hudson River. Erano a due isolati dal garage in cui avevano abbandonato il fuoristrada per scappare dalla polizia. Alla fine i guanti, che all'inizio Vincent pensava fossero una paranoia del suo amico, si erano rivelati una benedizione. «Non ci seguono», disse Vincent, guardandosi indietro. «Non ci hanno visti.» Duncan si appoggiò a un alberello, scatarrò e sputò nell'erba. Vincent si portò una mano al petto, che gli doleva dalla corsa. A entrambi usciva vapore dalla bocca e dal naso. L'assassino non aveva perso la calma, ma sembrava ancora più curioso di prima. «Anche l'Explorer», disse. «Sapevano della macchina. Non capisco. Come lo hanno scoperto? E chi ci sta dando la caccia? La poliziotta dai capelli rossi che ho visto in Cedar Street... forse è lei.» Lei... L'Orologiaio guardò la sua sacca e si accigliò. Era aperta. «Oh, no», sussurrò. «Che c'è?» Duncan si mise in ginocchio e cominciò a rovistare nella sacca. «Manca qualcosa. Il libro e le munizioni sono rimaste in macchina.» «Non c'è niente che abbia sopra i nostri nomi. O le impronte. Vero?» «No, non ci possono identificare.» L'assassino guardò Vincent. «Tutti i tuoi snack nel cellophane e le tue lattine... Hai sempre tenuto i guanti, vero?» Vincent viveva nel terrore di deludere il suo amico e faceva sempre attenzione. Annuì. Duncan guardò verso il garage. «Eppure... ogni indizio che raccolgono, per loro è come l'ingranaggio di un orologio. Se ne hai abbastanza e sei intelligente, puoi capire come funziona. Puoi persino scoprire chi lo ha fabbricato.» Si tolse la giacca e la passò a Vincent. Sotto indossava una felpa grigia. Si mise in testa un berretto da baseball. «Ci vediamo dietro la chiesa. Vai direttamente lì. Non fermarti da nessuna parte.»
«E tu cosa fai?» mormorò Vincent. «Il garage è grande e buio. Non hanno abbastanza agenti per sorvegliarlo tutto. E la porta di servizio da cui siamo usciti è quasi invisibile dall'esterno. Probabilmente non la tiene d'occhio nessuno. Se abbiamo fortuna, potrebbero non avere ancora trovato l'Explorer. Recupero le cose che abbiamo lasciato e me ne vado.» «E se l'hanno trovato?» chiese Vincent. «Il fuoristrada?» Con voce calma, Duncan rispose: «Dipende. Cercherò di recuperarle lo stesso». 17 Ron Pulaski non credeva che si sarebbe mai trovato così in tensione, in piedi in quel garage gelido, davanti all'Explorer marroncino illuminato dai riflettori. Era solo. Lon Sellitto e Bo Haumann, due leggende dell'NYPD, erano alla postazione di comando, al piano di sotto. Due tecnici della CSU avevano allestito le luci, gli avevano consegnato le valigie con l'attrezzatura e se n'erano andati, dopo avergli augurato buona fortuna in un tono alquanto minaccioso. La recluta si era tolta la giacca e aveva indossato la tuta di Tyvek. Ora stava tremando dal freddo. Forza, Jenny, disse silenziosamente a sua moglie, come faceva spesso nei momenti di stress. Sii ottimista, aggiunse, parlando a se stesso. Non fare cazzate. Questo era ciò che gli avrebbe detto suo fratello. Aveva messo in testa la cuffia che, gli era stato detto, lo avrebbe messo in contatto diretto con Lincoln Rhyme. Fino a quel momento, però, non aveva sentito altro che disturbi elettrostatici. All'improvviso, la voce di Rhyme risuonò dagli auricolari: «Allora, che cosa vedi?» Pulaski sobbalzò. Abbassò il volume e rispose: «Be', signore, sono davanti al fuoristrada. A circa sei metri da me, parcheggiato in una zona alquanto deserta del...» «Alquanto deserta? È come essere 'abbastanza unico' o 'leggermente incinta'. Ci sono altri veicoli vicino oppure no?» «Sì.» «Quanti?» «Sei, signore. A una distanza dai tre ai sei metri dal veicolo del sogget-
to.» «Lascia perdere il 'signore'. Risparmia il fiato per le cose importanti.» «Certo.» «Le auto sono vuote? O c'è qualcuno nascosto all'interno?» «Le ha già controllare l'ESU.» «I cofani sono caldi?» «Uhm, non saprei. Verifico.» Avrei dovuto pensarci prima. Li toccò, con il dorso della mano, nel caso in un secondo tempo dovesse rilevarne le impronte. «No, sono tutti freddi. Sono qui da un po'.» «Okay, nessun testimone. Segni di pneumatici recenti in direzione dell'uscita?» «Niente di fresco, no. Solo quelli dell'Explorer.» «Allora non avevano una macchina di riserva», concluse Rhyme. «Se ne sono andati a piedi. Meglio per noi. Ron, dammi un totale della scena.» «Capitolo tre.» «L'ho scritto io quel cazzo di libro. Non ho bisogno che me lo reciti di nuovo.» «Okay, il totale: la macchina è parcheggiata senza troppa cura, a cavallo tra due linee.» «Avevano fretta, ovviamente», disse il criminalista. «Sapevano di essere seguiti. Orme evidenti?» «No, il pavimento è asciutto.» «Dov'è la porta più vicina?» «Un'uscita sulle scale, a sette metri circa.» «Già controllata dall'ESU?» «Esatto.» «Che altro mi puoi dire?» Pulaski si guardò intorno, a trecentosessanta gradi. È un garage. Nient'altro... Aguzzò la vista, sperando di notare qualcosa di utile. Ma non trovò niente. Riluttante, disse: «Non so». «Non sappiamo mai, in questo mestiere», ribatté Rhyme, assumendo momentaneamente il tono di un professore gentile. «Dipende tutto dalla sorte. Che cosa ti colpisce? Impressioni. Dammene qualcuna.» Per un momento, Pulaski non riuscì a pensare a niente. Poi gli venne un'idea. «Perché hanno parcheggiato qui?» «Come?» «Mi ha chiesto che cosa mi colpiva. Ecco, è strano che abbiano parcheggiato proprio qui, così lontano dall'uscita. Perché non avvicinarsi con la
macchina? E perché non hanno cercato di nasconderla meglio?» «Giusto, Ron. Avrei dovuto chiedertelo io stesso. Che cosa pensi? Perché hannno dovuto parcheggiare lì?» «Forse erano in preda al panico.» «Possibile. Tanto meglio per noi: la paura fa commettere errori. Riflettiamoci. Okay, adesso percorri la griglia verso l'uscita, poi torna indietro e gira intorno alla macchina. Guarda per terra e verso il soffitto. Conosci la griglia?» «Sì...» Pulaski si rimangiò in tempo il «signore». Per i venti minuti successivi la recluta camminò avanti e indietro, osservando il pavimento e il soffitto. Non gli sfuggì un millimetro quadrato. Annusò l'aria, satura di olio, disinfettanti e gas di scarico, ma non ne trasse alcuna conclusione utile. Inquieto, dovette nuovamente comunicare a Rhyme che non aveva trovato nulla. Il criminalista non ebbe da ridire e gli ordinò di esaminare l'Explorer. I numeri di targa e di identificazione del fuoristrada erano stati controllati. Il veicolo apparteneva effettivamente al giovane detenuto a Rikers Island per spaccio di cocaina. L'Explorer era stato confiscato dopo che vi era stata trovata la droga. Dunque l'Orologiaio lo aveva rubato dal parcheggio dello sceriffo, in cui il fuoristrada era stato lasciato in attesa dell'asta. Idea brillante, considerò il criminalista, dal momento che occorrevano settimane perché i veicoli sotto sequestro fossero catalogati dalla Motorizzazione. Quanto alle targhe, provenivano da un veicolo identico, parcheggiato all'aeroporto di Newark. A bassa voce e in un tono curioso, Rhyme disse: «Adoro le macchine, Ron. Ci dicono un sacco di cose. Sono come i libri». Pulaski rammentava le pagine del testo del criminalista in cui aveva letto osservazioni analoghe. Non le citò a memoria, ma rispose: «Certo: il VIN, la targa, gli adesivi, il bollino del rivenditore, le revisioni...» Una risata. «Solo se il proprietario è il colpevole. Ma la nostra è una macchina rubata. Quindi non ci interessa dove è stato fatto l'ultimo cambio dell'olio o se il proprietario era il primo della classe alla John Adams Middle School, giusto?» «Credo di no.» «Credi di no», gli fece eco Rhyme. «Allora, quali informazioni ci può dare un'auto rubata?» «Be', le impronte digitali.» «Molto bene. Ci sono tante cose da toccare in una macchina: il volante,
il cambio, il riscaldamento, la radio, le maniglie... Centinaia di cose. E sono tutte superfici lucide. Grazie, Detroit... o Tokyo o Amburgo, quello che è. Un'altra cosa: la maggior parte della gente considera la macchina come il proprio bagaglio o come uno sgabuzzino... sai, dove butti dentro tutto quello che ti capita. Effluvi di effetti personali. È come un diario in cui nessuno pensa a mentire. È questo che devi cercare innanzitutto. Gli IF.» Indizi Fisici, ricordò Pulaski. Mentre si avvicinava al veicolo, udì un rumore metallico alle proprie spalle. Si voltò e si guardò intorno. Il garage era buio. Memore della regola di Rhyme secondo cui bisognava essere soli a esaminare la scena, Pulaski aveva allontanato tutti i colleghi. Poteva essere stato un topo. O un pezzo di ghiaccio semisciolto che cadeva. Poi sentì uno scatto. Qualcosa di simile al ticchettio di un orologio. Avanti, si disse. Poteva trattarsi dei riflettori che si stavano scaldando. Non fare il fifone. L'hai chiesto tu di venire qui, no? Esaminò i sedili anteriori. «Ci sono briciole. Un sacco di briciole.» «Briciole?» «Spuntini, direi. Sembrano briciole di biscotti, patatine, cioccolato. Macchie appiccicose. Forse di bibite. Oh, un momento. Qui c'è qualcosa sotto il sedile. Bene: una scatola di proiettili.» «Che marca?» «Remington. Calibro trentadue.» «Che cosa c'è nella scatola?» «Uhm, proiettili?» «Sei sicuro?» «Devo aprirla?» Il silenzio gli rispose di sì. «Sì, proiettili. Calibro trentadue. Ne mancano un po'.» «Quanti?» «Sette.» «Ah, questo è utile.» «Perché?» «Dopo.» «E guarda questo...» «Guarda cosa?» fece Rhyme, seccato. «Scusi. Un'altra cosa. Un libro sugli interrogatori. Ma si direbbe piuttosto sulla tortura.» «Tortura?»
«Esatto.» «Comprato? Biblioteca?» «Non c'è nessun adesivo. Nessuna ricevuta, nessun timbro di biblioteca. Di chiunque sia, è stato letto molto.» «Ben detto, Ron: non hai dato per scontato che lo abbiano fatto i sospetti. Sempre la mente aperta. Avere sempre la mente aperta.» Pulaski raccolse le tracce dal pavimento del veicolo e passò l'aspirapolvere nello spazio sotto e in mezzo ai sedili. «Credo di avere preso tutto.» «Cruscotto?» «Controllato. È vuoto.» «Pedali?» «Raschiati. Non c'erano molte tracce.» «Poggiatesta?» chiese Rhyme. «Oh, quelli non ancora.» «Potrebbe esserci stato un trasferimento di capelli o di lozione.» «E se avevano dei cappelli?» fece presente Pulaski. Rhyme non gliela lasciò passare. «Nella remota possibilità che l'Orologiaio non sia un sikh, una suora, un astronauta, un pescatore di spugne o qualsiasi altro con la testa completamente coperta, assecondami e controlla i poggiatesta.» «Provvedo.» Poco dopo, Pulaski dovette ammettere di avere trovato un capello tra il grigio e il nero. Il criminalista gli risparmiò un te lo avevo detto. «Bene», approvò. «Sigillalo nella plastica. E ora le impronte digitali. Muoio dalla voglia di scoprire chi sia in realtà l'Orologiaio.» Dopo essersi dato da fare per dieci minuti con Magna Brush, polveri, spray, luci alternative e occhiali, Pulaski cominciò a sudare, a dispetto del freddo. Rhyme gli chiese, impaziente: «Come va?» La recluta rispose: «Nessuna impronta». «Impossibile.» Dal libro di testo di Rhyme, Pulaski ricordava che ce n'erano tre tipi: impronte plastiche, impressioni tridimensionali come quelle che si lasciano nel fango o nell'argilla; impronte visibili, che possono essere notate a occhio nudo; impronte latenti, che possono essere viste solo con l'attrezzatura speciale. Capita di rado di trovare impronte plastiche o visibili, ma quelle
latenti sono molto comuni. Tranne che sull'Explorer dell'Orologiaio. «Sbavature?» chiese il criminalista. «No.» «È assurdo. Non possono essere riusciti a ripulire tutta una macchina in cinque minuti. Guarda fuori, ovunque. Specie sulle portiere e sul tappo della benzina.» Con mani incerte, Pulaski proseguì la ricerca. Che non avesse usato bene la Magna Brush? Che avesse sbagliato a spruzzare i prodotti chimici? o avesse messo gli occhiali sbagliati? Il terribile colpo alla testa che aveva subito non molto tempo prima gli aveva lasciato effetti permanenti, dallo stress post-traumatico agli attacchi di panico. Ma gli era rimasto anche quello che aveva spiegato a sua moglie Jenny come «un complicato termine tecnico usato dai medici: confusione mentale». Lo tormentava il timore di non essere più lo stesso, dopo quell'incidente; di essere una specie di merce avariata; di non avere più lo stesso quoziente di intelligenza del fratello. In particolare, temeva che la sua mente non fosse all'altezza di quella dei sospetti cui dava la caccia quando lavorava per Lincoln Rhyme. Però poi si disse: Time-out. Stai pensando che sia colpa tuo. Accidenti, eri uno dei primi cinque all'accademia. Sai quello che stai facendo. Ti dai da fare il doppio della maggior parte degli altri poliziotti. E dichiarò: «Sono sicuro, detective. In qualche modo sono riusciti a non lasciare impronte... Un momento, aspetti». «Non vado da nessuna parte, Ron.» Pulaski si mise gli occhiali. «Okay. C'è qualcosa. Vedo fibre di cotone. Beige. Più o meno color carne.» «Più o meno?» lo rimproverò Rhyme. «Color carne. Fibre di guanti, ci scommetto.» «Dunque l'Orologiaio e il suo assistente non sono solo astuti ma anche previdenti.» Nella voce di Rhyme si avvertiva un disagio che preoccupò Pulaski. Non gli piaceva sentirlo così. Gli tornarono in mente quel rumore metallico, quello scatto. Tic-tac... «Qualcosa sul battistrada e sul radiatore? Sugli specchietti retrovisori?» Pulaski controllò. «Fango e terriccio.» «Prendine campioni.» Pulaski obbedì, poi disse: «Finito».
«Fotografie e video. Sai come si fa?» La recluta lo sapeva. Aveva fatto lui le fotografie al matrimonio del fratello. «Esamina le probabili vie di fuga.» Pulaski si guardò intorno. Aveva udito un altro rumore: un passo, forse? C'era un gocciolio d'acqua. Anche quello ricordava il ticchettio di un orologio, cosa che lo rese ancora più nervoso. Ripercorse la griglia, avanti e indietro, verso l'uscita. Guardò in alto e in basso, come Rhyme aveva scritto nel suo libro. La scena di un crimine è tridimensionale... «Finora niente.» Rhyme bofonchiò qualcosa. A Pulaski parve di sentire un passo. La mano corse al fianco, verso la Glock. E fu in quel momento che si rese conto che la pistola era sotto la tuta di Tyvek, irraggiungibile. Stupido. Si chiese se avrebbe dovuto abbassare la cerniera lampo e allacciare la fondina fuori dalla tuta. Ma così facendo avrebbe rischiato di contaminare la scena. Decise di lasciare la pistola dov'era. È solo un vecchio garage, per forza si sentono dei rumori. Rilassati. I volti imperscrutabili delle lune piene sui biglietti da visita dell'Orologiaio fissavano Lincoln Rhyme. I loro occhi inquietanti non tradivano alcun segreto. Si sentiva solo il ticchettio. Dalla radio non si udiva nulla. Poi qualche suono strano: uno strofinio, un rumore metallico. O erano solo scariche elettrostatiche? «Ron, mi ricevi?» Solo il tic... tic... tic... «Ron?» Poi un rumore forte. Metallico. La testa di Rhyme scattò verso l'alto. «Ron? Che cosa succede?» Nessuna risposta. Il criminalista stava per ordinare all'unità di cambiare la frequenza, per dire a Haumann di intervenire, quando la radio riprese finalmente vita. Si udì la voce di Ron Pulaski in preda al panico. «... serve aiuto! 10-13! 10... Io...» Un 10-13 era il codice radio più urgente: la chiamata di emergenza di un
agente. Rhyme gridò: «Rispondimi, Ron! Ci sei?» «Non posso...» Un gemito. La radio tacque definitivamente. Gesù. «Mel, chiamami Haumann!» Il tecnico premette alcuni pulsanti. «Sei in linea», gridò, indicando la cuffia di Rhyme. «Bo, qui Rhyme. Pulaski è nei guai. Ha chiamato un 10-13 sulla mia linea. Hai sentito?» «Negativo. Ma andiamo subito.» «Stava per esaminare la scala vicino all'Explorer.» «Roger.» Ora che era sulla frequenza principale, il criminalista poteva ascoltare tutte le trasmissioni. Haumann stava dando istruzioni alle squadre tattiche e chiamando un'unità medica. I suoi uomini avevano ordine di distribuirsi in tutto il garage e coprire le uscite. Rhyme, furioso, premette la testa sullo schienale della sedia a rotelle. Ce l'aveva con Sachs perché aveva abbandonato il Suo Caso per seguire l'Altro Caso, costringendolo ad affidare il compito a Pulaski. E ce l'aveva con se stesso per avere lasciato che una recluta inesperta andasse da solo su una scena potenzialmente calda. «Linc, ci stiamo andando. Non lo vediamo.» Era la voce di Sellitto. «Non stare a dirmi quello che non trovate.» Altre voci. «Niente a questo piano.» «C'è il veicolo.» «Lui dov'è?» «C'è qualcuno, a ore nove.» «Negativo. È dei nostri.» «Più luce. Ci vuole più luce.» Che cosa stava succedendo? Maledizione, qualcuno me lo dica! Quella domanda silenziosa non ebbe risposta. Rhyme si fece ridare la frequenza di Pulaski. «Ron?» Udì solo una serie di suoni inintelligibili. Come se qualcuno con la gola tagliata stesse cercando di dire qualcosa, anche se non aveva più voce.
18 Ehi, Amie, dobbiamo parlare. Certo. Amelia Sachs era in macchina, diretta a Hell's Kitchen. La sua odissea alla ricerca del dossier Sarkowsky la stava portando a Midtown. Ma non era a questo che stava pensando in quel momento, bensì agli orologi sulle scene dei crimini. Al tempo che passava e al tempo che si fermava. Ai periodi in cui vorremmo che il tempo accelerasse per essere risparmiati dal dolore. Però non accade mai. In quei momenti il tempo rallenta e a volte si ferma, come il cuore di un condannato a morte nel momento dell'esecuzione. Dobbiamo parlare. Amelia ripensava a una conversazione di qualche anno prima. Nick dice: «È una cosa seria». I due amanti sono nell'appartamento di lei, a Brooklyn. Amelia è una recluta in uniforme, con le scarpe nere lucide come specchi. (Il consiglio di suo padre: Le scarpe lucide ti fanno guadagnare più rispetto di un'uniforme stirata, tesoro. Non te lo scordare. E lei non se lo era scordato.) Bruno, bello, muscoloso, anche Nick potrebbe fare il modello, invece fa il poliziotto. Ha qualche anno più di lei. Ed è più cowboy di quanto diventerà lei in seguito. Lei è seduta al tavolino da caffè, bello, di tek, comprato l'anno prima con gli ultimi risparmi dei suoi guadagni come indossatrice. Stasera Nick è tornato da un lavoro in borghese. Indossa una T-shirt senza maniche e un paio di jeans. Appesa al fianco ha una piccola pistola, un revolver. Dovrebbe farsi la barba, ma a lei piace quando non è rasato. I progetti di Nick per la serata: tornare a casa e cenare tardi. Lei ha preso vino, candele, insalata e salmone. Tutto è pronto in tavola, tutto sa di casa. D'altro canto, sono alcune sere che Nick non torna da lei. La cena potrebbe essere rinviata ancora a più tardi. Oppure saltata a piè pari. Ma c'è qualcosa che non va, adesso. Una cosa seria. Be', Nick è lì di fronte a lei, non è morto né ferito, nessuno gli ha sparato mentre era in borghese. Gli incarichi di infiltrazione sono quelli più pericolosi per un poliziotto. Sta dando la caccia a una banda che ruba camion. Girano soldi e quindi girano anche armi. Quella sera Nick è stato assieme a tre colleghi. Con un tuffo al cuore Amelia si domanda se uno di loro sia
rimasto ucciso. Lei li conosce tutti. Oppure c'è qualcos'altro? Vuole lasciarmi? Niente di buono... ma sempre meglio che saperlo ferito in una sparatoria con una gang di East New York. «Dimmi», lo invita lei. «Senti, Amie...» Quello è il nomignolo che usa suo padre. Ci sono solo due uomini al mondo cui permette di usarlo. «Il fatto è...» «Dimmelo e basta.» Ad Amelia Sachs piace parlare chiaro. E si aspetta che anche gli altri lo facciano con lei. «Presto ti arriverà alle orecchie... Volevo essere io il primo a dirtelo. Sono nei guai.» Amelia crede di capire. Nick è un cowboy, sempre pronto a sfoderare la sua mitraglietta MP5 e a scambiare piombo con i criminali. Lei è una tiratrice migliore, almeno con la pistola, ma ci pensa due volte prima di premere il grilletto. (Anche questo diceva suo padre: Non puoi richiamare indietro i proiettili.) Forse c'è stato uno scontro a fuoco e Nick ha ucciso qualcuno... Un innocente? Okay. Sarà sospeso finché la ricostruzione balistica della commissione non stabilirà se ha fatto bene o male a sparare. Il cuore di Amelia è tutto per lui. Sta per dirgli che, qualunque cosa accada, lei sarà al suo fianco, che insieme ce la faranno. E lui le dice: «Mi hanno fregato». «Ti...» «A me, a Sammy... anche a Frank R. I furti, quelli dei camion. Ci hanno inchiodati. Di brutto.» La voce gli trema. Amelia non lo ha mai visto piangere, ma si direbbe che Nick stia per farlo proprio adesso. «Non ce l'avevi quasi fatta?» chiede lei, esitante. Gli occhi di Nick sono fissi sul tappeto. Poi un sussurro: «Sì...» Ora che la confessione è cominciata, non si trattiene più. «Ma è peggio.» Peggio? Come potrebbe essere peggio? «Siamo stati noi. I colpi li abbiamo fatti noi.» «Vuoi dire che stasera tu...» La voce di Amelia viene meno. «Oh, Amie, non solo stasera. Da un anno. Da tutto un anno. Avevamo gente nei magazzini che ci dava le dritte sulle consegne. Noi rubavamo i camion e... Be', hai capito. Non c'è bisogno che ti dica i dettagli.» Si passa una mano sul viso tormentato. «Lo abbiamo appena saputo. Hanno spiccato i mandati contro di noi. Qualcuno ha fatto la spia. Siamo fregati. Cazzo se ci hanno fregati.»
Amelia ripensa alle notti in cui lui era fuori, a caccia di ladri. Almeno una volta alla settimana. «Mi hanno tirato dentro. Non ho avuto scelta.» Lei non ha bisogno di replicare. Non ha bisogno di dire sì, sì, sì, abbiamo sempre scelta. Amelia non inventa mai scuse e non le piace quando lo fanno gli altri. Lui lo sa benissimo. Fa parte del loro amore. Faceva parte del loro amore. Lui smette di provarci. «Ho fatto una cazzata, Amie. Una grossa cazzata. Sono venuto a dirtelo.» «Ti costituisci?» «Credo di sì. Non so che cosa fare. Cazzo.» Amelia non riesce a sentire niente, non riesce a pensare niente. Le tornano in mente i momenti passati insieme, le ore passate al poligono a consumare chili e chili di munizioni, nei bar di Broadway a bere daiquiri frozen, o nel suo appartamento a Brooklyn sdraiati davanti al vecchio caminetto. «Metteranno la mia vita sotto un microscopio, Amie. Io gli dirò che sei pulita. Cercherò di tenerti fuori. Mi faranno un sacco di domande.» Lei vuole chiedergli perché lo ha fatto. Che ragione poteva avere? Nick è cresciuto per le strade di Brooklyn, era il tipico bel ragazzo che sa stare al mondo e per un po' ha frequentato cattive compagnie. Ma poi suo padre è riuscito a metterlo sulla strada giusta e lui l'ha piantata. Perché ci è ricaduto? Per l'avventura? Per i soldi? (E quella è un'altra cosa che le ha nascosto: che cosa ne ha fatto dei soldi?) Perché? Ora è lei che non ha scelta. «Adesso devo andare. Mi farò vivo. Ti amo.» Lui le dà un bacio sulla fronte. Lei, immobile, lo guarda uscire. Amelia ripensava a quei momenti interminabili, a quella notte interminabile, in cui il tempo si era fermato e lei era rimasta a guardare le candele che si scioglievano formando una pozza marrone sul tavolo. Mi farò vivo. Non l'aveva più chiamata. Il doppio choc, i suoi crimini e la fine della loro relazione, l'aveva portata a una difficile decisione: lasciare il servizio di pattuglia e fare domanda per un lavoro di ufficio. Era stato solo l'incontro casuale con Lincoln Rhyme a impedirle di rinunciare all'uniforme. Ma da allora le era rimasta una repulsione assoluta nei confronti dei poliziotti corrotti. Per lei erano qualcosa di inaccettabile, più dei politici bugiardi, dei mariti infedeli o de-
gli assassini senza scrupoli. Era per questo che niente poteva impedirle di scoprire se davvero c'era un gruppo di sbirri disonesti al 118° Distretto. E, se così era, di dare la caccia a loro e ai malavitosi che spalleggiavano. La Camaro accostò slittando a un marciapiede. Amelia Sachs gettò il distintivo sul cruscotto e scese dall'auto sbattendo la portiera, come se in quel modo potesse chiudere il buco che si era aperto tra il suo presente e il suo difficile passato. «Accidenti. Che schifo.» Al piano superiore del garage in cui era stato trovato il fuoristrada dell'Orologiaio, l'agente che aveva fatto questa osservazione stava guardando la figura sdraiata a pancia in giù sul pavimento. «L'hai detto, amico», disse uno dei suoi colleghi. «Gesù!» Un altro agente, in modo poco professionale, fece: «Puah». Sellitto e Bo Haumann accorsero sulla scena. «Stai bene? Stai bene?» volle sapere il detective. Si rivolgeva a Ron Pulaski, che torreggiava sopra l'uomo steso a terra, in mezzo a un fetido cumulo di immondizia. La recluta, anche lui decorato di rifiuti, stava ansimando. «Mi ha fatto prendere una paura maledetta. Ma sto bene. È bello forte, per essere un barbone.» Un infermiere li raggiunse e girò l'aggressore sulla schiena. Pulaski lo ammanettò. I bracciali tintinnarono intorno ai polsi del barbone, che roteava gli occhi come un folle. I suoi vestiti erano laceri e sporchi e l'odore era insostenibile. Si era appena urinato addosso, da cui «Che schifo» e «Puah». «Che cos'è successo?» chiese Haumann. «Stavo esaminando la scena.» Pulaski indicò le scale. «Apparentemente i sospetti hanno abbandonato detta scena servendosi della porta antistante il pianerottolo che dà...» Piantala, ingiunse a se stesso. «I sospetti sono scappati dalle scale», si corresse. «Ne sono quasi certo. Stavo cercando le loro tracce quando ho sentito un rumore. Mi sono voltato e l'ho visto arrivare con quello in mano.» Indicò il tubo che il barbone aveva con sé. «Non mi era possibile raggiungere in tempo la mia arma, così gli ho gettato addosso il bidone dei rifiuti. Ci siamo azzuffati per un paio di minuti e alla fine l'ho preso per il collo e l'ho steso.» «Non è nei nostri metodi», gli fece presente Haumann. «Intendo dire che sono riuscito con successo a renderlo inoffensivo me-
diante tecniche di difesa personale.» Il capo della squadra tattica assentì. «Giusto.» Pulaski localizzò la cuffia e tornò a indossarla. Fece una smorfia quando sentì una voce assordante nelle orecchie. «Cristo Santo, sei vivo o morto? Che cosa succede?» «Mi scusi, detective Rhyme.» Pulaski gli espose l'accaduto. «Tutto bene?» «Sì, sto bene.» «Ottimo», disse il criminalista. «Adesso spiegami perché cazzo tenevi l'arma sotto la tuta.» «Una svista, signore. Non si ripeterà più, signore.» «Oh, sarà meglio di no. Qual è la regola numero uno su una scena calda?» «Una scena...» «... calda. In cui potrebbe ancora trovarsi il sospetto. La regola è: cerca attentamente, ma guardati le spalle. Chiaro?» «Sissignore.» «Quindi la via di fuga è contaminata», protestò Rhyme. «Be', è solo piena di rifiuti.» «Rifiuti», fece Rhyme, esasperato. «Allora sarà bene che tu ti metta a pulire. Voglio tutti i reperti da me entro venti minuti. Anche l'indizio più trascurabile. Pensi di farcela?» «Sissignore. Io...» Rhyme chiuse bruscamente il collegamento. Due agenti dell'ESU indossarono guanti di lattice e portarono via il barbone. Pulaski si chinò a raccogliere i rifiuti cercando di capire perché il tono di Rhyme non gli era nuovo. Dopo un po' gli venne in mente: era lo stesso tono, un misto di rabbia e di sollievo, che aveva usato suo padre quando aveva sorpreso i gemelli a fare una gara di corsa sui binari del treno vicino a casa. Come una spia. In piedi su un angolo di Hell's Kitchen, il detective in pensione Art Snyder, con indosso un trench e un vecchio cappello tirolese con la piuma, sembrava un vecchio agente straniero in un romanzo di John Le Carré. Amelia Sachs lo raggiunse. A mo' di saluto, Snyder le rivolse solo una fugace occhiata. Poi, dopo essersi guardato intorno, si incamminò verso ovest, allontanandosi dalla
folla di Times Square. «Grazie della chiamata», disse Amelia. Snyder si strinse nelle spalle. «Dove andiamo?» chiese lei. «Devo vedere un mio vecchio collega. Ci vediamo qui una volta alla settimana per giocare a biliardo. Non volevo parlargliene al telefono.» Spie... Un individuo emaciato dai capelli gialli unticci pettinati all'indietro (non biondi, gialli) si avvicinò loro chiedendo spiccioli. Snyder lo guardò e gli diede un dollaro. L'uomo si allontanò con aria risentita. Forse se ne aspettava cinque. Mentre percorrevano una zona buia della strada, Amelia sentì qualcosa sfiorarle una coscia, due volte. Stava quasi pensando che Snyder le stesse facendo un'avance, quando si accorse che lui stava solo passandole di nascosto un foglio di carta. Lo prese e, sotto il primo lampione, lo sbirciò. Era la fotocopia della pagina di un fascicolo. Snyder le si avvicinò per sussurrarle: «Quella è una pagina dei registri dell'Uno Tre Uno». Amelia la guardò. Al centro del foglio si leggeva: Dossier numero 3453496, Sarkowsky, Frank Oggetto: omicidio Inviato a: Distretto 158 Richiesto da: Inviato in data: 28 novembre Restituito in data: «L'agente che lavora con me», disse Amelia, «ha detto che dai registri non risultava che il dossier era stato trasferito.» «Avrà guardato solo nel computer. Ci ho guardato anch'io. Probabilmente la voce è stata cancellata. Questo è il registro cartaceo.» «Perché è stato richiesto dall'Uno Cinque Otto?» «Non lo so. Non ne vedo il motivo.» «Dove l'ha preso?» «Me l'ha trovato un amico, un ex collega. Un tipo fidato. Ha già scordato che gliel'ho chiesto.» «Dove può essere finito all'Uno Cinque Otto? Negli archivi?»
Snyder allargò le braccia. «Non ne ho idea.» «Controllerò.» Il detective in pensione si fregò le mani. «Fa un freddo fottuto.» Si guardò indietro. Amelia lo imitò. Le parve di scorgere un'automobile nera ferma all'incrocio. Snyder si fermò e ammiccò in direzione di un'insegna scolorita: FLANNAGAN'S POOL AND BILLIARDS EST. 1954 «È lì che vado.» «Grazie ancora», disse Amelia. Snyder guardò nel locale, poi controllò l'orologio. «Non ce ne sono più molti di questi posti, a Times Square... Una volta ero di pattuglia al Deuce. Lo conosci?» «42nd Street. È stata anche la mia zona.» Amelia tornò a guardare verso la Eighth Avenue. La macchina nera era sparita. Il detective in pensione guardava la sala da biliardo, parlando sottovoce. «Mi ricordo le estati, soprattutto. Certe giornate di agosto. Faceva così caldo che anche i delinquenti se ne stavano a casa. Mi ricordo i ristoranti, i bar, i cinema. Alcuni avevano quei vecchi cartelli, credo degli anni Cinquanta o Sessanta, che dicevano che c'era l'aria condizionata. Strano, un locale che per far entrare la gente diceva di avere l'aria condizionata. Oggi è diverso, eh? I tempi cambiano.» Snyder spinse la porta ed entrò nella sala fumosa. «Cambiano proprio.» 19 La loro nuova macchina era una Buick LeSabre. «Dove l'hai trovata?» chiese Vincent, occupando il sedile del passeggero. L'automobile era ferma con il motore acceso davanti alla chiesa. Duncan si voltò. «Nel Lower East Side.» «Ti ha visto nessuno?» «Il proprietario. Ma non lo dirà ad anima viva.» L'Orologiaio batté la mano sulla tasca in cui teneva la pistola, poi guardò verso l'angolo oltre il quale aveva ucciso lo studente il giorno prima. «Hai visto in giro la polizia?» «No. Nessuno.»
«Bene. Probabilmente hanno svuotato il cassonetto e il corpo adesso galleggia in mare.» Ferire agli occhi... «Com'è andata al garage?» chiese Vincent. Duncan fece un'espressione contrariata. «Non sono riuscito ad avvicinarmi all'Explorer. Non che ci fossero molti poliziotti, ma c'era un barbone che faceva troppo rumore. Poi ho sentito gridare ed è arrivata una squadra. Me ne sono dovuto andare.» L'Orologiaio ripartì. Vincent non aveva idea di dove stessero andando. La Buick era vecchia e puzzava di fumo. Come battezzarla? Era blu scuro, ma Blue-mobile non gli sembrava divertente. Vincent lo Sveglio non si sentiva molto spiritoso in quel momento. Dopo qualche minuto di silenzio, domandò: «Qual è il tuo cibo preferito?» «Il mio...?» «Cibo. Che cosa ti piace mangiare?» Duncan socchiuse gli occhi. Lo faceva spesso. Rifletteva a lungo sulle domande e poi recitava le risposte che si era preparato. Ma questa lo aveva colto di sorpresa. Fece una risatina. «Sai, non è che io mangi molto.» «Ci sarà un piatto che preferisci.» «Non ci ho mai pensato. Perché me lo chiedi?» «Oh, pensavo solo che potrei cucinare, ogni tanto. So fare un mucchio di cose diverse. Ti piacciono gli spaghetti? Li faccio con le polpette. O con la panna. Li chiamano 'all'Alfredo'. O al pomodoro.» «Be', al pomodoro, direi. È come li ordino al ristorante.» «Ti farò gli spaghetti. Se mia sorella viene in città, potremmo fare una cena. Noi tre insieme.» «Be'...» Duncan scosse la testa. Sembrava commosso. «Nessuno mi prepara una cena da... Da parecchio tempo.» «Magari il mese prossimo.» «Il mese prossimo va bene. Tornerò a New York e ceneremo insieme. Però non ti potrò aiutare. Non so cucinare.» «Oh, cucino io. Mi piace. Guardo sempre Food Channel.» «Posso portare un dessert. Uno già pronto. Lo so che ti piacciono i dolci.» «Fantastico», disse Vincent, emozionato. Guardò fuori dal finestrino. La strada era buia. «Dove stiamo andando?» Duncan non rispose subito. Rallentò al semaforo, fermandosi esattamente in corrispondenza della striscia bianca di arresto sporca. «Voglio raccon-
tarti una storia.» Vincent si voltò verso l'amico. «Nel 1714 il parlamento inglese mise in palio ventimila sterline per chiunque fosse riuscito a inventare un orologio portatile sufficientemente preciso da essere usato in mare.» «Erano un sacco di soldi, a quei tempi, vero?» «Moltissimi. Alla Marina inglese serviva un orologio, perché ogni anno migliaia di marinai morivano per errori di navigazione. Vedi, per tracciare una rotta occorrono latitudine e longitudine. La latitudine può essere stimata con le stelle. Ma per la longitudine ci vuole un orologio preciso. Un orologiaio di nome John Harrison decise di concorrere. Si mise al lavoro sul progetto nel 1735. Alla fine riuscì a fabbricare un piccolo orologio che poteva essere usato a bordo di una nave e che restava indietro solo di pochi secondi nel corso di un intero viaggio transatlantico. Sai quando finì? Nel 1761.» «Ci ha messo così tanto?» «Doveva affrontare le difficoltà politiche, la concorrenza, la connivenza di affaristi e parlamentari e, naturalmente, i problemi meccanici, quasi insormontabili. Ma non si arrese mai. Ventisei anni.» Il semaforo passò al verde e Duncan ripartì lentamente. «In risposta alla tua domanda, stiamo andando a trovare la prossima della lista. Abbiamo avuto solo un contrattempo, niente ci fermerà. Non è poi così importante...» «... nel grande schema delle cose.» Sul volto dell'assassino comparve un accenno di sorriso. «Per cominciare, ci sono videocamere di sicurezza nel garage?» chiese Rhyme. La risata di Sellitto voleva dire: Figurati! Il detective, Pulaski e Baker erano tornati dal criminalista per esaminare i nuovi reperti. Il barbone che aveva aggredito la recluta era attualmente ricoverato al Bellevue, dove gli era stata diagnosticata una schizofrenia paranoide. Non aveva niente a che fare con gli omicidi. «Nel posto sbagliato al momento sbagliato», commentò Pulaski. «Tu o lui?» fece Rhyme. «Videocamere di sicurezza nel parcheggio in cui è stato rubato l'Explorer?» Un'altra risata. Rhyme sospirò. «Vediamo che cos'ha trovato Ron. Prima di tutto, i
proiettili.» Cooper gli mostrò la scatola e l'aprì. Il proiettile ACP calibro 32 per pistole semiautomatiche non è molto comune. Ha una portata maggiore rispetto al più piccolo calibro 22, ma potenza inferiore al calibro 38 o al 9 millimetri. Le pistole calibro 32 sono considerate tradizionalmente armi da signora, anche se hanno una certa diffusione. Una pistola di quel calibro in possesso di un sospetto sarebbe stata una valida prova indiziaria, ma Cooper non poteva telefonare a tutti i rivenditori di armi per farsi dare una lista degli acquirenti di proiettili 32. Dal momento che ne mancavano sette dalla scatola, Rhyme supponeva che la pistola fosse un'Autauga MkII, il cui caricatore tiene sette proiettili. Ma anche la Beretta Tomcat, la North American Guardian e la LWS-32 usano le stesse munizioni. L'assassino poteva servirsi di una di quelle pistole, posto che fosse effettivamente armato: come aveva sottolineato Rhyme, i proiettili suggeriscono ma non garantiscono che il sospetto abbia con sé o possieda una pistola. Il criminalista notò che il proiettile era da settantuno grani, abbastanza grosso da fare seri danni se sparato a distanza ravvicinata. «Alla lavagna, recluta», ordinò Rhyme. Pulaski scrisse ciò che il criminalista gli dettava. Il libro trovato a bordo dell'Explorer si intitolava Tecniche estreme di interrogatorio ed era pubblicato da un piccolo editore dello Utah. Carta e qualità della stampa, per non parlare dell'impaginazione, erano di infima categoria. Scritto da un autore anonimo che dichiarava di essere un soldato delle Special Forces, il volume descriveva l'uso di torture che potevano portare alla confessione o alla morte del soggetto: annegamento, strangolamento, soffocamento, congelamento in acqua fredda e altro. Una tecnica prevedeva l'uso di un carico sospeso sopra la gola della vittima. Un altro il lento dissanguamento mediante tagli ai polsi. «Cristo!» esclamò Dennis Baker, disgustato. «È da qui che prende le idee. Ha intenzione di uccidere dieci persone in questo modo? Quell'uomo è un pazzo.» «Tracce?» chiese Rhyme, preoccupato più degli indizi presenti sul libro che del profilo psicologico di chi lo aveva acquistato. Cooper appoggiò il volume su un foglio di giornale pulito e lo sfogliò pagina per pagina, spazzolandolo delicatamente per rimuovere qualsiasi traccia presente. Non trovò nulla. Tantomeno impronte digitali.
Il tecnico appurò che il volume non era in vendita nelle librerie o nei principali siti Internet. Tutti si rifiutavano di tenerlo. Ma era disponibile nelle aste online e presso un certo numero di organizzazioni di estrema destra e paramilitari, che mettevano a disposizione degli utenti tutto ciò che poteva servire a proteggersi dalle minoranze, dagli stranieri e dallo stesso governo degli Stati Uniti. (Negli ultimi anni Rhyme aveva condotto varie indagini antiterrorismo, alcune che riguardavano al-Qaeda e altri gruppi di fondamentalisti islamici, ma altrettante che implicavano organizzazioni americane, una minaccia che il criminalista giudicava ampiamente sottovalutata dalle autorità.) Una telefonata all'editore non portò alcun risultato, il che non fu una sorpresa per Rhyme. Gli venne risposto che non vendevano il libro direttamente ai lettori e che, se voleva sapere quali rivenditori ne avessero acquistato copie, doveva procurarsi un ordine del tribunale. Ci sarebbero volute settimane. «Si rende conto», intervenne Dennis Baker, «che qualcuno sta usando quel libro come manuale per torturare e uccidere la gente?» «Be', è a questo che serve, sa?» Il direttore della casa editrice riagganciò. «Maledizione.» Continuarono a esaminare gli indizi. La sporcizia, le foglie e la fuliggine che Pulaski aveva recuperato dal radiatore, dagli pneumatici e dagli specchietti retrovisori non avevano niente di particolare. Nel bagagliaio c'erano tracce della stessa sabbia che l'Orologiaio aveva usato come agente oscurante nel vicolo di Cedar Street. Le briciole venivano da patatine di mais e comuni, pretzel, barrette di cioccolato e cracker al burro di noccioline. C'erano anche macchie di bibite, zuccherate, non dietetiche. Niente di tutto questo portava a identificare il sospetto, ma poteva essere utile a ricollegarlo all'Explorer, qualora lo avessero trovato. Le fibre di cotone color carne erano, come Pulaski aveva anticipato, analoghe a quelle usate in una marca generica di guanti da lavoro venduti in migliaia di negozi. A quanto pareva l'Orologiaio e il suo complice, dopo avere rubato il fuoristrada, lo avevano ripulito accuratamente e non vi erano mai saliti senza guanti. Non si era mai visto prima. Una testimonianza del letale perfezionismo dell'Orologiaio. Il capello trovato sul poggiatesta era lungo una ventina di centimetri, nero con qualche traccia di grigio. I capelli sono un indizio frequente, dal momento che ne cadono di continuo e che in caso di colluttazione se ne
possono perdere parecchi. In generale, se ne ricavano prove indiziarie a carico di un sospetto con lo stesso colore, tipologia, lunghezza ed eventualmente tintura o altri prodotti chimici. Ma, a meno che un capello non sia strappato al follicolo, permettendo così un'analisi del DNA, non è possibile risalire al sospetto in modo conclusivo. E il capello trovato dalla recluta era sprovvisto di follicolo. Rhyme sapeva che era troppo lungo per appartenere all'Orologiaio: in base alla testimonianza di Hallerstein, l'assassino aveva capelli di media lunghezza. Poteva provenire da una parrucca, nell'eventualità che l'Orologiaio usasse un travestimento, tuttavia Cooper non aveva trovato tracce di adesivo alle estremità. Il complice indossava un berretto: il capello poteva essere suo. Ma Rhyme stabilì che doveva essere stato lasciato da qualcuno che aveva viaggiato sul fuoristrada prima del furto. Un capello di quella lunghezza poteva appartenere tanto a un uomo quanto a una donna, e il criminalista propendeva per la seconda ipotesi. Il grigio lasciava pensare a un individuo di mezza età e venti centimetri erano una lunghezza insolita per un uomo di quella fascia: sarebbe stato più probabile che li avesse lunghi fino alle spalle oppure decisamente più corti. «L'Orologiaio e il suo assistente possono avere una ragazza o una complice, anche se non mi sembra probabile... Be', in ogni caso scrivi anche questo sul tabellone.» «Perché», precisò Pulaski, «non si può mai dire, giusto?» Rhyme inarcò un sopracciglio. Poi chiese: «Scarpe?» L'unica orma che la recluta aveva trovato era di una scarpa dalla suola liscia, numero 45. Chi la portava aveva messo il piede in una pozzanghera, lasciando una breve serie di impronte sempre più sfumate. Pulaski sospettava che si trattasse dell'Orologiaio o del suo assistente, dal momento che quello era il tragitto più logico dall'Explorer all'uscita più vicina. C'era una certa distanza tra un passo e l'altro e il calcagno si vedeva appena. «Forse stava correndo», disse il giovane poliziotto. «Non c'era nel suo libro, ma mi pare sensato.» Il ragazzo non era antipatico, considerò Rhyme. Tuttavia l'impronta della scarpa non era di grande aiuto. La suola non aveva lasciato tracce particolari e non era possibile risalire alla marca. Né le scarpe mostravano un consumo insolito in zone determinate, che avrebbe potuto indicare precise caratteristiche ortopediche. «Almeno adesso sappiamo che ha i piedi grossi», notò la recluta. «Non mi risulta», osservò Rhyme, «che un individuo con scarpe del nu-
mero quarantuno non possa indossare un paio di taglia quarantacinque.» «Oops», ammise Pulaski. Vivi e impara, pensò il criminalista. Riguardò gli indizi. «Tutto qui?» Pulaski annuì. «Ho fatto del mio meglio.» «Hai fatto bene», borbottò Rhyme, in tono non molto entusiasta. Forse i risultati sarebbero stati diversi se a percorrere la griglia fosse stata Amelia Sachs. Non poteva fare a meno di crederlo. Si rivolse a Sellitto. «Che cosa mi dici del dossier Luponte?» «Ancora niente. Se ne sapessi di più, sarebbe più facile da trovare.» «Se ne sapessi di più, l'avrei trovato da solo.» La recluta stava osservando il tabellone. «Tutti questi dati... e non sappiamo praticamente niente di lui.» Non esattamente, pensò Rhyme. Sappiamo che è un assassino dannatamente furbo. L'OROLOGIAIO SCENA NUMERO UNO Luogo: • Molo di riparazioni sull'Hudson River, 22nd Street Vittima: • Identità sconosciuta. • Maschio. • Probabilmente di mezza età o anziano, possibili problemi alle coronarie (presenza di anticoagulanti nel sangue). • Assenza di tracce di droga, malattie o infezioni nel sangue. • Guardia Costiera e sommozzatori alla ricerca di corpo e indizi nel New York Harbor. • Si controllano denunce di persone scomparse. Assassino: • vedi sotto. Modus operandi: • Assassino ha costretto vittima ad aggrapparsi al molo, sopra l'acqua, tagliandole le dita o i polsi, fino a quando è caduta.
• Ora del delitto: tra le 6 p.m. di lunedì e le 6 a.m. di martedì. Indizi: • Sangue tipo AB positivo. • Unghia spezzata, sporca, larga. • Recinzione tagliata con cesoie comuni, irrintracciabili. • Orologio: vedi sotto. • Poesia: vedi sotto. • Tracce di unghie sul molo. • Nessuna traccia identificabile, nessuna impronta digitale, nessuna orma, nessun segno di pneumatici. SCENA NUMERO DUE Luogo: • Vicolo su Cedar Street, vicino a Broadway, dietro tre palazzi a uffici (porte di servizio chiuse tre le 8 p.m. e le 10 p.m.) e un palazzo municipale (porta di servizio chiusa alle 6 p.m.). • Vicolo cieco, 5 m per 30, con acciottolato. Corpo a 5 m da Cedar Street. Vittima: • Theodore Adams. • Viveva a Battery Park. • Copywriter free-lance. • Nessun nemico conosciuto. • Nessun precedente statale o federale. • Si cercano collegamenti con palazzi circostanti. Nessuno trovato. Assassino: • L'Orologiaio. • Maschio. • Nessuna corrispondenza nei database per l'Orologiaio. Modus operandi: • Vittima trascinata nel vicolo dalla macchina e posta sotto una sbarra di ferro che alla fine ha schiacciato il collo.
• In attesa di referto medico per conferma. • Nessuna traccia di attività sessuale. • Ora della morte: approssimativamente tra le 10,15 p.m. e le 11 p.m. di lunedì notte. In attesa di conferma dal medico legale. Indizi: • Orologio: * nessun esplosivo, nessun agente chimico o biologico * identico a quello sul molo * nessuna impronta digitale o traccia di sorta * Arnold Products, Framingham, Ma. Chiamata per identificare distributori e negozianti. • Poesia lasciata dall'assassino su entrambe le scene: * stampata al computer, carta generica, HP Laser Jet * testo: La Luna Fredda piena nel cielo brilla sulla terra morta, e dice che è ora di finire il cammino cominciato con la nascita. L'OROLOGIAIO * assente da qualsiasi database di poesia; probabilmente di sua composizione. * Luna Fredda è mese lunare, il mese della morte. • 60 $ in tasca, nessuna traccia dai numeri di serie; impronte negative. • Sabbia fine usata come agente oscurante. Tipo generico. Perché intende ritornare sulla scena? • Sbarra di metallo: 36 kg, a cruna d'ago. Non usata in cantiere di fronte al vicolo. Origine non identificata. • Nastro adesivo.generico.Tagiiato con precisione insolita. Pezzi di lunghezza identica. • Solfato di tallio (veleno per topi) trovato nella sabbia. • Terriccio contenente proteina di pesce nelle tasche della vittima. • Carenza di tracce. • Fibre marroni, probabilmente da tappetino dell'auto.
Altro: • Veicolo: * probabilmente Ford Explorer di tre anni. Tappetino marrone * controllo di targhe delle auto presenti martedì mattina: niente di sospetto * nessuna multa lunedì notte. • Controllo presso Buoncostume delle prostitute, re: testimone. * nessuna pista. INTERROGATORIO DI HALLERSTEIN Soggetto: • Identikit EFIT dell'Orologiaio: intorno ai 50 anni, viso tondo, doppio mento, naso grosso, occhi azzurri insolitamente chiari. Altezza oltre 1,80 m, magro, capelli neri di lunghezza media, niente gioielli, vestito di scuro. Nessun nome. • Esperto di orologi, sa quali esemplari sono stati venduti in aste recenti e quali sono attualmente in mostra a New York. • Ha minacciato il negoziante per farlo tacere. • Ha acquistato 10 orologi. Per 10 vittime? • Ha pagato in contanti. • Richiesto modello con fasi lunari e ticchettio sonoro. Indizi: • Orologi acquistati presso Hallerstein's Timepieces, Flatiron District. • Nessuna impronta digitale o traccia su banconote. Nessuna corrispondenza per numeri di serie. • Chiamava da telefoni pubblici. SCENA NUMERO TRE Luogo: • 481 Spring Street. Vittima: • Joanne Harper. • In apparenza nessun movente.
• Non conosce seconda vittima, Theodore Adams. Aggressori: • L'Orologiaio. • Assistente: * probabilmente individuo visto da vittima al suo laboratorio * bianco, grasso, occhiali da sole, parka color crema, berretto da baseball. Al volante dell'Explorer. Modus operandi: • Serratura forzata per entrare. • Arma non determinata. Forse filo di ferro della fiorista. Indizi: • Proteina di pesce viene dal laboratorio di Joanne (fertilizzante per orchidee). • Solfato di tallio nelle vicinanze. • Filo di ferro tagliato in pezzi di uguale lunghezza (per usarlo come arma?). • Orologio: * come gli altri. Assenza di nitrati * nessuna traccia. • Nessun biglietto o poesia. • Niente orme, impronte digitali, armi o attrezzi lasciati nel laboratorio. • Fiocchi neri: catrame per rivestimento di tetti. • controllare immagini termiche ASTER di New York per identificare provenienza. Altro: • Aggressore ha sorvegliato vittima prima di attaccarla. Bersaglio intenzionale. Perché? • Munito di scanner della polizia. Cambiare frequenze. • Veicolo: * SUV marroncino * targa ignota * emesso EVL * 423 proprietari di Explorer marroncini nell'area. Controllo di
precedenti: trovati due (uno troppo vecchio, l'altro ancora in carcere per spaccio) * di proprietà dell'uomo in carcere. EXPLORER DELL'OROLOGIAIO Luogo: • garage Hudson River e Houston Road. Indizi: • Explorer di proprietà dell'uomo in carcere, confiscato e in attesa di asta, rubato dal parcheggio. • Parcheggiato in vista, lontano da uscita più vicina. • Briciole di patatine di mais, patatine comuni, pretzel, barrette di cioccolato, cracker al burro di noccioline. Macchie di bibite zuccherate, non dietetiche. • Scatola di munizioni Remington per pistola automatica calibro 32. Sette proiettili mancanti: forse Autauga MkII? • Capello nero-grigio, forse femminile. • Nessuna impronta in tutto il veicolo. • Fibre di cotone beige da guanti. • Sabbia coincidente con quella trovata in vicolo. • Impronte di suole lisce n. 45 20 «Mi serve un dossier.» «Seh.» La donna stava masticando un chewing-gum. Rumorosamente. Snap. Amelia Sachs si trovava agli archivi del 158° Distretto. Diede alla poliziotta del turno di notte il numero del dossier Sarkowsky. La donna lo batté ritmicamente sulla tastiera del computer, poi, guardando lo schermo, sentenziò: «Non ce l'abbiamo». «Sicura?» «Non ce l'abbiamo.» «Hmm.» Amelia rise. «Dove pensi che sia finito?» «Finito?» «È arrivato qui il ventotto o il ventinove novembre dall'Uno Tre Uno.
Sembra che sia stato richiesto da qualcuno in questo Distretto.» Snap. «Be', qui non è segnato. Sei sicura che l'abbiano mandato qui?» «Non al mille per cento. Ma...» «Mille?» chiese la donna, masticando. Accanto a lei riposava un pacchetto di sigarette, pronto per la fine del turno o una pausa. «C'è qualche procedura per cui il dossier potrebbe non essere stato registrato?» «In che senso 'procedura'?» «I dossier vengono sempre registrati?» «Se è stato richiesto da un detective, va nel suo ufficio e lo registra lui. Bisogna farlo. È la regola.» «E se non c'è il nome del richiedente sul modulo?» «Allora arriva qui.» La donna indicò un vassoio con un cartellino: DA RITIRARE «E chiunque lo vuole deve venire qui a prenderlo e a registrarlo. Lo deve registrare.» La donna indicò un altro cartellino: REGISTRATELO! Amelia si mise a frugare nel vassoio. «Guarda che non puoi.» «Capisci il mio problema?» La poliziotta batté le palpebre. Snap. «Il dossier è stato mandato qui. Tu non riesci a trovarlo. Io come faccio?» «Fai richiesta e qualcuno te lo cerca.» «Sul serio? Io non ne sono sicura.» Amelia guardò verso l'archivio. «Do solo un'occhiata, se non ti spiace.» «Ma non puoi.» «Solo qualche minuto.» «Non puoi...» Amelia andò dritta agli scaffali. La poliziotta disse qualcosa che lei non sentì. Tutti i dossier erano numerati e un codice-colore distingueva i casi aper-
ti, quelli chiusi e quelli in attesa di giudizio. I dossier della Major Cases avevano un colore speciale, il rosso. Amelia trovò quelli più recenti e, tornando indietro numero per numero, constatò che il dossier Sarkowsky non c'era. Guardò gli scaffali, con le mani appoggiate sulle anche. «Salve», disse una voce maschile. Amelia si voltò. Si trovò di fronte a un uomo alto e sorridente, dal portamento marziale. Aveva i capelli grigi e indossava una camicia bianca e pantaloni blu marina. «Lei è?» «Detective Sachs.» «Viceispettore Jefferies.» Di solito era un viceispettore a mandare avanti un Distretto. Ad Amelia il nome diceva qualcosa, tuttavia non lo conosceva di persona. Sapeva solo che doveva essere un gran lavoratore, se era ancora in ufficio a tarda ora. «Posso aiutarla, detective?» disse l'uomo. «Un dossier è stato mandato qui dall'Uno Tre Uno. Circa due settimane fa. Mi serve per un'indagine.» Il viceispettore lanciò uno sguardo alla poliziotta di turno, che aveva fatto la spia. La donna era in piedi in fondo al corridoio. «Non ce l'abbiamo, signore. Gliel'ho detto.» Jefferies si rivolse alla detective. «È sicura che sia stato mandato qui?» «Così risulta dai registri del Distretto da cui è stato trasferito il dossier», rispose Amelia. «È stato registrato?» chiese Jefferies alla poliziotta. «No.» «Allora sarà sul vassoio 'da ritirare'.» «No.» «Venga nel mio ufficio, detective. Vedrò cosa posso fare.» Amelia non degnò la poliziotta di uno sguardo. Non voleva darle quella soddisfazione. Seguì Jefferies lungo una serie di corridoi anonimi, svoltando da una parte e dall'altra. Non si scambiarono una parola. Le gambe artritiche di Amelia stentavano a tenere il passo energico del viceispettore, che aprì la porta di un ufficio d'angolo su cui una grande placca di ottone annunciava: HALSTON P. JEFFERIES
Il viceispettore si chiuse la porta alle spalle e indicò la sedia di fronte alla sua scrivania. Amelia Sachs si accomodò. Jefferies si chinò su di lei, il viso a pochi centimetri dal suo, e batté un pugno sulla scrivania. «Che cazzo stai combinando?» Sachs indietreggiò sulla sedia. Sentiva su di sé l'alito all'aglio del viceispettore. «Io... che cosa intende dire?» Per poco non le sfuggì un «signore» in coda alla frase. «Da dove sei sbucata?» «Dove?» «Recluta del cazzo, qual è il tuo Distretto?» Per un istante, Amelia non seppe cosa dire. La furia del viceispettore l'aveva colta di sorpresa. «Tecnicamente, lavoro per la Major Cases.» «Cosa diavolo vuol dire 'tecnicamente'? Per chi lavori?» «Sto conducendo un'inchiesta. Il mio supervisore è Lon Sellitto della MC. Io...» «Non è da molto che sei...» «Io...» «Non interrompere mai un superiore! Mai. Mi hai capito?» Ad Amelia si rizzarono i capelli sulla testa. Non disse nulla. «Mi hai capito?» urlò il viceispettore. «Perfettamente.» «Non è da molto che sei una detective, vero?» «No.» «Si vede. Perché una vera detective avrebbe seguito la procedura. Si sarebbe presentata dal viceispettore e avrebbe chiesto se poteva visionare un dossier. Quello che hai fatto... Stavi per interrompermi di nuovo?» Lei stava per farlo. Ma rispose: «No». «Quello che hai fatto è stato un'offesa personale nei miei confronti.» La saliva dell'ispettore descrisse una parabola in aria, come un colpo di mortaio. Jefferies tacque. Quell'interruzione significava forse che lei poteva parlare? A lei non importava. «Non avevo intenzione di offenderla. Sto solo conducendo un'indagine. Mi occorre un dossier che risulta mancante.» «Risulta mancante. Ma che cosa vuol dire? O risulta o è mancante. Se sei trascurata nella tua indagine come lo sei nel linguaggio, non mi sorprendo se il dossier lo hai perso tu e adesso cerchi di coprirti il culo dando la colpa a noi.»
«Il dossier è stato richiesto all'Uno Tre Uno ed è stato inviato qui.» «Da chi?» chiese lui, in tono brusco. «Questo è il problema. Nel registro non era indicato.» «Sono stati richiesti altri dossier da questo Distretto?» Sachs lo guardò interrogativa. Jefferies proseguì. «Dossier provenienti da qualsiasi altra parte?» «Non capisco che cosa intende dire.» «Lo sai che cosa faccio qui?» «Prego?» «Qual è il mio compito all'Uno Cinque Otto?» «Be', suppongo che lei diriga il Distretto.» «Suppone», fece lui, beffardo. «Conosco agenti che sono crepati per la strada, perché supponevano. Ammazzati da un proiettile.» La faccenda cominciava a farsi noiosa. Amelia lo fissò negli occhi con uno sguardo gelido che non ebbe difficoltà a mantenere. Jefferies nemmeno se ne accorse. «A parte dirigere il Distretto, come da tua brillante deduzione, sono responsabile del comitato per la gestione delle risorse umane per l'intero dipartimento. Esamino migliaia di dossier ogni anno, vedo quali sono le tendenze e decido i turni del personale per rispondere al carico di lavoro. Lavoro fianco a fianco con la polizia della città e dello Stato, per garantire ogni servizio necessario. Penserai che sia una perdita di tempo, vero?» «Io non...» «Be', non lo è, signorina. Io esamino i dossier e li restituisco... Ora, qual è il particolare dossier che ti interessa tanto?» D'un tratto, Amelia si rese conto che non voleva che lui lo sapesse. C'era qualcosa di strano in quella scenata. Logicamente, se Jefferies aveva qualcosa da nascondere, era improbabile che facesse lo stronzo. Ma d'altro canto poteva essere una tattica per allontanare i sospetti. La detective ripensò a quanto aveva detto alla poliziotta dell'archivio: le aveva dato solo il numero del dossier, senza menzionare Sarkowsky. Era improbabile che, tra un chewing-gum e l'altro, la donna riuscisse a ricordare il numero. Con calma, Amelia replicò: «Preferisco non dirglielo». Jefferies batté le palpebre. «Che cosa?» «Non glielo dico.» Il viceispettore fece un cenno d'assenso e mantenne la calma. Poi batté un altro pugno sulla scrivania. «Me lo devi dire, cazzo! Voglio il nome del dossier e lo voglio subito!»
«No.» «Ti faccio sospendere per insubordinazione.» «Faccia quello che le pare.» «Dimmi il nome del dossier. Subito.» «Non ci penso nemmeno.» «Chiamo il tuo supervisore.» La voce del viceispettore era venata di isteria. Amelia si domandò se stesse per diventare violento. «Non ne sa niente.» «Siete tutti uguali», disse Jefferies, tagliente. «Pensate di avere un distintivo d'oro, di sapere tutto quello che serve per fare il poliziotto. Tu sei una ragazzina, solo una ragazzina che si crede furba. Vieni nel mio Distretto, mi accusi di avere rubato un dossier...» «Io non ho...» «Insubordinazione. Mi insulti. Mi interrompi. Non hai idea di come si fa il poliziotto.» Amelia lo guardò impassibile. Si era chiusa in un altro luogo, il suo personale rifugio contro i cicloni. Sapeva che da quel confronto potevano scaturire conseguenze disastrose, ma in quel momento non le importava. «Me ne vado.» «Sei nella merda, signorina. Mi ricordo il tuo distintivo: Cinque Otto Otto Cinque. Credevi di no? Ti farò sbattere a una scrivania. Ti ritroverai a smistare carte dalla mattina alla sera. Non si viene nel mio Distretto a offendermi!» Amelia si alzò, aprì la porta e si incamminò di buon passo in corridoio. Le mani cominciavano a tremarle, la sua respirazione era accelerata. La voce di Jefferies era uno strillo che la inseguiva per i corridoi. «Me lo ricordo, il tuo distintivo. Farò delle telefonate. Se ti ripresenterai al mio Distretto, te ne pentirai. Mi senti, signorina?» Il sergente Lucy Richter dell'esercito degli Stati Uniti chiuse a chiave la porta del suo vecchio appartamento al Greenwich Village e si diresse verso la camera da letto, dove si tolse l'uniforme verde scuro luccicante di barrette e nastrini delle campagne cui aveva partecipato, tutti perfettamente allineati. Avrebbe avuto voglia di gettare tutto sul letto, ma non poté fare a meno di appendere ordinatamente ogni indumento sulle grucce nell'armadio, compresa la camicia. Mise il distintivo e i tesserini nel taschino, come sua abitudine. Quindi pulì e lucidò le scarpe prima di appenderle alla porta dell'armadio.
Una rapida doccia, poi, con indosso una vecchia vestaglia rosa, si inginocchiò sul vecchio tappeto della camera da letto e guardò gli edifici di Barrow Street, fuori dalla finestra. Le luci tremavano, oscurate dagli alberi scossi dal vento, e la luna brillava bianca nel cielo nero di Lower Manhattan. Era un panorama conosciuto e rassicurante, per lei. Quando era ragazzina era solita accovacciarsi allo stesso modo davanti alla finestra. Lucy era stata lontana dal Paese per un po' di tempo ed era tornata per un periodo di licenza. Si era appena ripresa dal jet lag e da un lungo sonno ristoratore. Ora, con il marito ancora al lavoro, era ben felice di sedere davanti alla finestra a ripensare al passato e al presente. E anche al futuro, naturalmente. Le ore che devono trascorrere sono un'ossessione più forte di quelle già passate, pensava Lucy. Era cresciuta lì, nel quartiere di Manhattan che trovava più congeniale. Il Village le piaceva. E quando i suoi avevano traslocato, avevano lasciato quell'appartamento alla figlia ventiduenne. Tre anni dopo, quando il suo fidanzato le aveva chiesto di sposarla, lei aveva risposto di sì, ma a una condizione. Dovevano vivere lì. Lui, naturalmente, non aveva trovato nulla da obiettare. Le piaceva la vita nel quartiere, uscire con gli amici, svolgere lavori occasionali in tavole calde e in uffici (anche se aveva lasciato il college, si dava parecchio da fare). Le piacevano la cultura e lo spirito della città. A Lucy bastava sedersi davanti alla finestra, rivolta verso sud, a guardare l'imponente panorama di New York City, per pensare a quello che voleva fare del suo futuro. O per non pensare a niente. Poi era arrivato quel giorno di settembre. Lucy aveva visto tutto: le fiamme, il fumo, quell'orribile assenza. Aveva continuato con la sua routine, più o meno soddisfatta, aspettando che la rabbia e il dolore svanissero, che il vuoto si colmasse. Ma non era successo. Così la ragazzetta magra che votava per i democratici, guardava Seinfeld in televisione e si cuoceva da sola il pane in casa con la farina biologica era uscita di casa, aveva preso la metropolitana di Broadway, era scesa a Times Square ed era andata ad arruolarsi nell'esercito. Doveva fare qualcosa, come aveva spiegato a suo marito Bob. Lui l'aveva baciata sulla fronte, l'aveva stretta forte in un abbraccio e non aveva cercato di farle cambiare idea. Per due ragioni: primo, essendo un ex Navy SEAL, Bob era convinto che l'esperienza militare fosse salutare per chiunque e, secondo, perché era convinto che Lucy sapesse sempre fare la cosa giusta.
L'addestramento di base aveva avuto luogo tra la polvere del Texas. Poi Lucy aveva fatto i bagagli ed era andata oltremare, seguita per un po' da Bob, grazie al patriottismo del suo datore di lavoro all'agenzia di recapito. Nel frattempo, l'appartamento al Greenwich Village era stato dato in affitto per un anno. Lucy aveva imparato il tedesco, a guidare ogni possibile tipo di camion e anche qualcosa sul proprio conto: aveva una dote innata come organizzatrice. Le era stato affidato il compito di gestire i fuelers, gli uomini e le donne che facevano arrivare benzina e altri prodotti vitali ovunque fosse necessario. Sono la benzina e il gasolio a vincere le guerre e i serbatoi vuoti a perderle. Questa era la regola, da più o meno un secolo. Poi, un giorno, il suo tenente era venuto da lei e le aveva spiegato un paio di cose. Primo: Lucy era promossa da caporale a sergente. Secondo: doveva andare a scuola di arabo. Bob era tornato negli Stati Uniti e Lucy aveva caricato il bagaglio su un C130, diretta verso la terra della nebbia amara. Attenta a quello che chiedi... Lucy Richter aveva lasciato l'America, una terra in cui il panorama era cambiato, per andare in un luogo senza panorama. La sua vita era ormai a base di deserti, di calore torrido sotto un sole accecante, di sabbia di una dozzina di tipi differenti, alcuni dei quali così abrasivi da strapparti la pelle di dosso, altri così fini da penetrare in ogni millimetro quadro della tua esistenza. Il suo lavoro aveva assunto una nuova prospettiva: se un camion esaurisce la benzina tra Berlino e Colonia, puoi mandare un'autobotte. Se la stessa cosa succede in una zona di guerra, la gente muore. Era compito di Lucy fare in modo che non accadesse mai. Ore e ore dedicate a indirizzare benzina e munizioni nella giusta direzione, con qualche singolare intermezzo occasionale, come improvvisarsi cowgirl per far salire sui camion un gregge di pecore, in una missione volontaria per inviare cibo a un villaggio privo di provviste da settimane. Pecore. Che casino! E adesso Lucy era tornata nella terra in cui si vedeva il panorama, in cui non c'era bestiame per le strade, non c'erano sabbia né sole abbagliante. E non c'era la nebbia amara. Molto diverso dalla sua vita in Medio Oriente. Ma Lucy Richter non era affatto una donna in pace con se stessa. Ed era questa la ragione per cui guardava verso sud, in cerca di risposte dal Grande Vuoto del panorama che era cambiato per sempre.
Sì o no? Squillò il telefono, facendola sobbalzare. Le capitava spesso, ultimamente, a ogni rumore improvviso. Un telefono, una porta che sbatteva, lo scappamento di un'auto. Una sensazione di gelo. Sollevò il ricevitore. «Pronto?» «Ciao, ragazza.» Era una sua cara amica del quartiere. «Claire.» «Come va?» «Fa freddo.» «Ehi, in che parte del mondo ti trovi?» «Sa Dio.» «Bob è a casa?» «No. Lavora fino a tardi.» «Be', ci vediamo per un tortino al formaggio?» «Tutto qui?» la provocò Lucy. «Un paio di white russian?» «Ci sto.» Si diedero appuntamento in un ristorante aperto fino a tarda serata. Con un'ultima occhiata al vuoto del cielo verso sud, Lucy si mise in piedi, indossò i pantaloni, una felpa, una giacca a vento e un berretto e uscì di casa, scendendo i gradini delle scale buie. Si fermò al pianterreno, sorpresa da una figura di fronte a lei. «Ehi, Lucy.» Il custode, già vecchio quando lei era bambina, puzzava di canfora e sigarette. Stava trasportando in strada un mucchio di giornali. Lucy, che lo superava di una decina di centimetri e di una quindicina di chili, gli prese due pacchi di giornali. «No», protestò lui. «Signor Giradello, devo tenermi in forma.» «Ah, in forma? Sei più forte di mio figlio.» Fuori il freddo la colpì al naso e alla bocca. Era una sensazione piacevole. «Ti ho vista in uniforme, stasera. Ti hanno dato quel premio?» «Giovedì. Oggi c'erano solo le prove. E non è un premio, è solo un encomio.» «Che differenza c'è?» «Bella domanda. Non lo so. Credo che un premio lo si vince. Un encomio è quello che danno al posto di un aumento.» Lucy depositò i giornali
vecchi sul marciapiede. «I tuoi genitori sono orgogliosi di te.» Non era una domanda, era un'affermazione. «Sì, lo sono.» «Salutameli.» «Certo. Fa proprio freddo, signor Giradello. Devo andare. Si riguardi.» «Buonasera.» Lucy si incamminò lungo il marciapiede. Notò una Buick blu scuro parcheggiata sul lato opposto della strada, con due uomini a bordo. Quello sul sedile del passeggero la seguì per qualche secondo con lo sguardo, poi si portò alla bocca una lattina, che bevve di gusto. Chi poteva avere voglia di una bibita fresca, con quel clima? Per quanto la riguardava, Lucy Richter avrebbe voluto un Irish coffee con dose doppia di Bushmill. E panna montata, naturalmente. Abbassò lo sguardo sul marciapiede, si fermò e cambiò direzione. Le venne da pensare che le lastre di ghiaccio erano l'unico pericolo a cui non era stata esposta negli ultimi diciotto mesi. 21 Kathryn Dance era sola con Rhyme nel laboratorio di questi. Be', c'era anche Jackson, il cane, che l'agente del CBI teneva in braccio. «Ottima cena», aveva detto a Thom, dopo il pasto a base di manzo bourguignon, riso, insalata e Caymus Cabernet. «Ti chiederei la ricetta, ma non potrei mai renderle giustizia.» «Ah, finalmente qualcuno che mi sa apprezzare», aveva risposto l'assistente, con un'occhiata all'indirizzo di Rhyme. «Anch'io ti apprezzo. Ma senza esagerare.» Thom aveva indicato il vassoio della portata principale. «Per lui è stufato. Non assaggia nemmeno le patatine. Dille che cosa pensi del cibo, Lincoln.» Il criminalista aveva alzato le spalle. «Non impazzisco per quello che mangio. Tutto qui.» «Lo chiama carburante», aveva commentato l'assistente, portando i piatti sporchi in cucina. «Hai cani a casa?» domandò Rhyme, vedendo Kathryn che accarezzava Jackson. «Due. Molto più grossi di questo qui. I ragazzi e io li portiamo in spiag-
gia due volte la settimana. Loro corrono dietro ai gabbiani e noi corriamo dietro a loro. Se ti sembra troppo salutare, non preoccuparti: dopo andiamo a fare merenda al First Watch di Monterey e riprendiamo tutte le calorie che abbiamo perso.» Rhyme sbirciò verso la cucina, dove Thom stava lavando piatti e padelle. Abbassò lo sguardo e chiese la complicità di Kathryn. Lei si incupì. «Non mi dispiacerebbe che un sorso di quello», il criminalista ammiccò verso una bottiglia di Glenmorangie stagionato, «finisse qui dentro» I suoi occhi indicarono il suo bicchiere. «Senza farlo sapere in giro, però.» «E Thom?» «Ogni tanto rinverdisce il Proibizionismo. È piuttosto irritante.» Kathryn conosceva il significato dell'indulgenza. (Okay, aveva messo su qualche chilo a Tijuana, quella era stata una settimana lunghissima.) Mise a terra il cane e versò al criminalista una dose generosa. Collocò il bicchiere nell'apposito spazio sulla sedia a rotelle e accostò la cannuccia alla bocca di Rhyme. «Grazie.» Lui bevve una lunga sorsata. «Non so che cosa fai pagare al Municipio, ma autorizzerò il doppio del compenso. Versatene un po': con te Thom non se la prende.» «Meglio della caffeina.» Kathryn si riempì una tazza e si concesse uno dei biscotti all'avena che Thom aveva messo in tavola. Li aveva preparati lui stesso. L'esperta di cinesica guardò l'orologio. In California erano tre ore indietro. «Scusami un momento. Devo chiamare a casa.» «Accomodati.» Kathryn chiamò dal cellulare. Le rispose Maggie. «Ciao, bella.» «Mamma.» Alla ragazzina piaceva chiacchierare e Kathryn subì un resoconto di dieci minuti sulla spedizione di shopping natalizio con la babysitter. Maggie concluse con: «E poi siamo tornate a casa e ho letto Harry Potter». «L'ultimo?» «Ah-hah.» «Quante volte lo hai letto?» «Sei.» «Non ti piacerebbe leggere qualcos'altro? Espandere i tuoi orizzonti?» «Dai, mamma», rispose Maggie. «E tu quante volte hai sentito, tipo,
quell'album di Bob Dylan, Blonde on blonde? O gli U2?» Logica ineccepibile. «Colta sul fatto, bella. Solo non dire 'tipo'.» «Mamma, quand'è che torni a casa?» «Domani, probabilmente. Ti voglio bene. Mi passi tuo fratello?» Wes prese il ricevitore e Kathryn si mise a parlare con lui: una conversazione più seria e impegnativa. Era un po' che il ragazzo lasciava intendere che voleva seguire un corso di karate e colse quell'occasione per chiederle a bruciapelo se poteva iscriversi. Kathryn avrebbe preferito qualcosa di meno combattivo, se proprio Wes voleva cimentarsi in uno sport diverso dal calcio o dal baseball. Il suo fisico muscoloso sarebbe stato perfetto per il tennis o la ginnastica, anche se a lui non interessavano particolarmente. Come esperta di interrogatori, Kathryn Dance si intendeva moltissimo di rabbia. La vedeva manifestarsi tanto nei sospetti quanto nelle vittime. Il recente interesse di Wes per le arti marziali, ne era convinta, derivava dalla rabbia che aleggiava su di lui come una nube dopo la morte del padre. La competizione andava bene, ma Kathryn non pensava che sarebbe stato salutare per suo figlio impegnarsi in uno sport di combattimento in quel momento della sua vita. La furia autorizzata può essere molto pericolosa, specie per un ragazzo. Ne discusse per un po' con Wes. La collaborazione con Rhyme e la Sachs nel caso dell'Orologiaio aveva reso Kathryn molto sensibile allo scorrere del tempo. Si era resa conto di quanto ne dedicasse al lavoro e quanto ai suoi figli. Il tempo dissolve la rabbia (difficilmente uno scatto d'ira si protrae per più di tre minuti) e indebolisce la resistenza, spesso più di un acceso litigio. Kathryn non sapeva niente di karate, ma riuscì a convincere il figlio a prendere lezioni di tennis. (Una volta lo aveva sentito dire a un amico: «Che rottura avere una madre poliziotta!» Ne aveva riso a lungo tra sé.) Poi Wes cambiò di umore e si mise a parlare allegramente di un film che aveva visto su HBO. Quando il suo cellulare segnalò un messaggio da un amico, si congedò dicendo che doveva andare. «Ciao, mamma, ti voglio bene. A presto.» Clic. Quel millisecondo di spontaneo ti voglio bene valeva tutta la contrattazione precedente. Kathryn chiuse la comunicazione e guardò Rhyme. «Figli?» «Io? No. Non credo che sarebbero il mio forte.» «Non sono il forte di nessuno, finché non ne hai.» Il criminalista stava guardando gli immancabili auricolari dell'iPod, che
Kathryn portava appesi al collo come lo stetoscopio di un medico. «Ti piace la musica, mi sembra di capire. Deduzione brillante, non ti pare?» «È il mio hobby.» «Davvero? Suoni qualcosa?» «Cantavo. Musica folk. Adesso quando ho un po' di tempo libero, carico figli e cani su un camper e vado a cercare canzoni.» Rhyme la guardò, curioso. «Ne ho sentito parlare. Si chiama...» «Song catching è la definizione corrente.» «Sì, giusto.» Per Kathryn era una passione. Portava avanti una lunga tradizione di appassionati di folclore che viaggiavano in luoghi sperduti per registrare brani dimenticati. Il cercatore più famoso era probabilmente Alan Lomax, che faceva l'autostop tra l'Europa e gli Stati Uniti per scoprire vecchie canzoni. Di tanto in tanto Kathryn andava sulla East Coast, ma la musica di quell'area era già ben documentata. Sicché negli ultimi tempi si era spostata verso le aree dell'interno, la Nova Scotia, il Canada occidentale, il Bayou e le zone con una vasta popolazione latino-americana, come il centro e il sud della California, dove registrava e catalogava le canzoni. Lo raccontò a Rhyme e gli disse anche del sito Internet su cui lei e un amico inserivano informazioni sui musicisti e sulle canzoni e persino brani musicali. Inoltre, aiutavano gli autori a depositare il copyright delle loro composizioni originali e passavano loro gli introiti dagli utenti che scaricavano la musica. Parecchi artisti erano stati contattati da case discografiche, che avevano usato i loro pezzi per le colonne sonore di film indipendenti. Kathryn non gli raccontò, tuttavia, che il suo rapporto con la musica era molto più complesso. A volte si sentiva sopraffatta. Per svolgere bene il suo lavoro, doveva entrare nella mente dei testimoni e dei criminali che interrogava. Stare seduta a un metro da un assassino psicotico, dialogare con lui per ore o giorni o settimane poteva essere esaltante quanto debilitante. L'empatia che Kathryn provava per i soggetti la costringeva a sentire le loro stesse emozioni per parecchio tempo dopo la fine delle sessioni. Le loro voci continuavano a riecheggiarle nella mente. Sì, okay, señora, sì. Le ho tagliato la gola... E anche quella di suo figlio. Era lì. Mi ha visto. Dovevo ucciderlo. Era un testimone. Ma quella se l'è cercata: mi guardava in quel modo... Non è stata colpa mia. Adesso me la dà quella sigaretta?
La musica era una cura miracolosa. Se Kathryn Dance ascoltava Sonny Terry o Brownie McGhee o gli U2 o Bob Dylan o David Byrne, cancellava dalla sua testa il ricordo di Carlos Allende che si lamentava perché l'anello della vittima gli aveva ferito il palmo della mano mentre lui le tagliava la gola. Mi ha fatto male, le dico. Male. Quella troia... Lincoln Rhyme le domandò: «Ti sei mai esibita a livello professionale?» Lo aveva fatto, per un po'. Ma quegli anni a Boston, poi a Berkeley e a North Beach, a San Francisco, l'avevano lasciata vuota. Esibirsi davanti a un pubblico sembrava un fatto personale, ma Kathryn aveva scoperto che era una cosa che riguardava lei e la musica, non lei e gli spettatori. Era più curiosa di sentire che cosa la gente avesse da dire (e da cantare) su di sé, sulla vita e sull'amore. Con la musica, così come con il suo lavoro, si era accorta che preferiva essere lei il pubblico. Rispose: «Ci ho provato. Però alla fine ho capito che preferivo tenermi la musica come amica». «E così sei diventata una poliziotta. Una svolta a centottanta gradi.» «Pensa un po'.» «Com'è successo?» Kathryn era incerta se parlargliene o meno. Di solito era riluttante ad aprirsi con gli altri (prima ascolta, poi parla), tuttavia Rhyme le ispirava fiducia. Erano rivali, in un certo senso: Scientifica contro cinesica. Eppure avevano uno scopo comune. E poi la tenacia e l'ostinazione del criminalista le ricordavano se stessa. Il suo identico amore per la caccia. Così disse: «Jonny Ray Hanson... Jonny senza l'h». «Un indiziato?» Lei annuì e gli raccontò la storia. Sei anni prima era stata chiamata dalla pubblica accusa come consulente nella scelta dei giurati nel caso «Stato della California contro Hanson». Agente assicurativo trentacinquenne, Hanson viveva nella Contra Costa County, a nord di Oakland: a mezz'ora di macchina dall'ex moglie, che gli aveva imposto un ordine di restrizione. Una notte qualcuno è penetrato in casa della donna, mentre lei non c'era. Un vicesceriffo di contea, abitualmente di pattuglia nella zona, ha visto l'intruso e lo ha inseguito, senza riuscire a raggiungerlo. «Non sembrava una cosa seria. Tuttavia la storia non è finita. Al dipartimento dello sceriffo erano preoccupati perché un paio di volte Hanson aveva dato seguito alle sue minacce e l'aveva aggredita. Perciò lo hanno prelevato e gli hanno fatto un discorsetto. Lui ha negato tutto e loro lo han-
no lasciato andare. Finché non hanno deciso che potevano farne un caso e lo hanno arrestato.» A causa delle aggressioni precedenti, un'accusa di violazione di domicilio lo avrebbe mandato al fresco per almeno cinque anni, dando un po' di respiro alla moglie e alla figlia in età da college. «Ho passato un po' di tempo con loro nell'ufficio del procuratore. Mi dispiaceva per quelle due. Vivevano nel terrore assoluto. Hanson gli spediva lettere vuote, lasciava strani messaggi in segreteria. Si fermava a osservarle esattamente a un isolato di distanza, secondo i limiti imposti dalla restrizione. Gli faceva consegnare cibo a domicilio. Niente di illegale, ma il messaggio era chiaro: le teneva sempre d'occhio.» Per andare a fare la spesa, madre e figlia dovevano sgattaiolare fuori casa travestite e percorrere quindici o venti chilometri per fare provviste. Kathryn aveva scelto una giuria che le sembrava adatta: donne single e professionisti (liberal ma non troppo) che potessero simpatizzare con le vittime. Era la procedura che seguiva sempre. Aveva presenziato al processo come consulente della pubblica accusa, anche per criticarne le scelte, se necessario. «In tribunale ho osservato attentamente Hanson e mi sono convinta che fosse colpevole.» «Però qualcosa non è andato per il verso giusto...» Kathryn annuì. «Non si sono trovati molti testimoni e quei pochi sono stati ritenuti inattendibili. Le prove fisiche sono scomparse o sono risultate contaminate. Ogni punto dell'accusa è stato controbattuto dalla difesa. Era come se avessero dei microfoni nell'ufficio del procuratore. Hanson è stato assolto.» «Spiacevole.» Rhyme la guardò. «Ma la storia non finisce qui, immagino.» «Purtroppo no. Dieci giorni dopo il processo, Hanson ha seguito moglie e figlia nel parcheggio di un centro commerciale e le ha pugnalate a morte. Insieme a loro c'era il ragazzo della figlia. Hanson ha ucciso anche lui ed è scappato. Ci è voluto un anno per prenderlo.» Kathryn sorseggiò il suo caffè. «Dopo i delitti, la pubblica accusa ha cercato di capire che cosa fosse andato storto al processo. Mi ha chiesto di esaminare le trascrizioni dei primi interrogatori nell'ufficio dello sceriffo.» Fece una risata amara. «Sono rimasta di sasso. Hanson era stato abilissimo e il vicesceriffo che lo aveva interrogato era o totalmente incompetente o troppo pigro. Hanson lo aveva preso allegramente per i fondelli. Aveva sa-
puto quanto gli bastava del caso per minarlo alle fondamenta: quali testimoni intimidire, quali prove far sparire, che alibi fabbricare.» Rhyme scosse la testa. «Raccogliendo qualche informazione qua e là.» «Appunto. Il vice gli aveva chiesto se fosse mai stato a Mill Valley. Poi gli aveva domandato se frequentava i centri commerciali a Marin County. Così Hanson ne sapeva abbastanza da scoprire dove l'ex moglie e la figlia facessero la spesa. Si era praticamente accampato fuori dal centro di Mill Valley: è stato lì che le ha uccise, dove non avevano alcuna protezione da parte della polizia perché erano fuori dalla contea. Quella sera sono tornata a casa lungo la Route One, la Pacific Coast Highway, invece di prendere la più rapida Freeway 101. Stavo riflettendo. Mi davano centocinquanta dollari all'ora per fare la consulente nella scelta delle giurie. Non che ci fosse niente di immorale, è così che funziona il sistema. Ma non potevo fare a meno di pensare che, se quell'interrogatorio l'avessi condotto io, Hanson sarebbe finito in prigione e tre persone non sarebbero morte. Due giorni dopo, mi sono iscritta all'accademia. E il resto, come si suol dire, è storia. E a te com'è andata?» «Come ho deciso di diventare un poliziotto?» Rhyme alzò le spalle. «Niente di così drammatico. Piuttosto noioso, a dire il vero. Ci sono finito in mezzo.» «Davvero?» Il criminalista rise. Kathryn lo guardò dubbiosa. «Non mi credi?» «Scusa, forse ti stavo studiando. Cerco di non farlo. Mia figlia dice che ogni tanto la guardo come se fosse una cavia da laboratorio.» Rhyme bevve un altro sorso di scotch e le rivolse un sorriso di sfida. «Allora?» Lei inarcò un sopracciglio. «Allora cosa?» «Devo essere un soggetto difficile per un'esperta di cinesica. Non puoi leggermi dentro. Oppure sì?» Stavolta fu Kathryn a ridere. «Ti leggo benissimo. Il linguaggio del corpo trova sempre la sua strada. Nel tuo caso, negli occhi, nel viso e nella testa.» «Sul serio?» «È così che funziona. In effetti è più facile: i messaggi sono più concentrati.» «Sono un libro aperto, eh?»
«Nessuno è un libro aperto. Però certi libri sono più facili da leggere di altri.» «Hai parlato di fasi di reazione durante gli interrogatori: rabbia, depressione, negazione, rassegnazione... Dopo il mio incidente sono stato a lungo in terapia. Ne avrei fatto a meno, ma quando sei immobile, sdraiato sulla schiena, non puoi ribellarti. Gli strizzacervelli mi parlavano di fasi di elaborazione del lutto. Mi sembra che siano molto simili.» Kathryn Dance conosceva fin troppo bene l'argomento. Ma in quel momento non le sembrava il caso di parlarne. «È affascinante come la mente reagisce alle avversità, che si tratti di un trauma fisico o di uno stress emotivo.» Rhyme distolse lo sguardo. «Io, più che altro, devo lottare con la rabbia.» I profondi occhi verdi dell'agente del CBI rimasero fissi su di lui. «Oh, non sei affatto così arrabbiato come vuoi sembrare», commentò scuotendo la testa. «Sono uno storpio», disse lui, acido. «Certo che sono arrabbiato.» «E io sono una poliziotta. Abbiamo entrambi il diritto di incazzarci, di deprimerci e di negare le cose. Ma la rabbia? No, tu no. Sei passato oltre. Sei passato alla fase della rassegnazione.» «Quando non sto dando la caccia agli assassini», Rhyme accennò alla lavagna, «mi sottopongo a fisioterapia. Molto più del necessario, mi dice Thom. Ad nauseam. Non mi sembra che si possa definire rassegnazione.» «Non è questo che intendo per rassegnazione. Intendo dire che accetti la tua condizione e reagisci di conseguenza. Non te ne stai seduto tutto il giorno... Oh, scusa, in effetti sì.» Lo «scusa» era più una battuta che una richiesta di perdono. Rhyme scoppiò a ridere e Kathryn capì di avere segnato un punto. Il criminalista non aveva rispetto per la delicatezza né per la correttezza politica. «Ti rassegni alla realtà. Cerchi di cambiarla senza mentire a te stesso. È una sfida, è difficile, però non ti fa arrabbiare.» «Secondo me ti sbagli.» «Hai battuto le palpebre due volte. Reazione cinesica da stress. Non credi a quello che dici.» «È arduo discutere con te.» Rhyme svuotò il bicchiere. «Ah, Lincoln, ho già il tuo profilo base. Non mi puoi ingannare. Non preoccuparti: il tuo segreto è al sicuro.» La porta si aprì e Amelia Sachs entrò nella stanza. Si tolse la giacca e sa-
lutò l'agente del CBI, che dalla postura e dallo sguardo avvertì che la detective avesse qualche tormento interiore. La vide andare alla finestra, guardare fuori e abbassare la tapparella. «Qual è il problema?» domandò Rhyme. «Mi ha telefonato una vicina. Ha detto che oggi qualcuno mi ha cercata a casa mia. Ha detto di chiamarsi Joey Treffano, un poliziotto che era di pattuglia con me. Voleva sapere che cosa facevo, ha fatto un sacco di domande, ha ispezionato l'edificio. Alla mia vicina è sembrato strano e mi ha chiamata.» «Pensi che non fosse lui? Che fosse qualcuno che fingeva di essere Joey?» «Non ho dubbi. Joey ha lasciato la polizia lo scorso anno e si è trasferito nel Montana...» «Forse era in città ed è passato a salutarti.» «In tal caso era un fantasma. È morto la scorsa primavera in un incidente, in moto. Oltretutto, Ron e io siamo seguiti. E oggi qualcuno ha messo le mani nella mia borsetta. L'avevo lasciata nella macchina, chiusa a chiave. Hanno forzato la portiera.» «Dove?» «Sulla scena in Spring Street, vicino al laboratorio della fiorista.» Fu in quel momento che a Kathryn Dance tornò alla mente qualcosa che stava cercando di ricordare. «Pensavo una cosa... Potrebbe non essere importante, ma vale la pena di dirvela.» Nonostante l'ora tarda, Rhyme aveva convocato tutti: Sellitto, Cooper, Pulaski e Baker. «Abbiamo un problema di cui vi devo informare», annunciò Amelia. «Stanno seguendo me e Ron. E Kathryn ci ha appena detto che anche a lei è parso di vedere che qualcuno la sta pedinando.» L'esperta di cinesica assentì. Amelia si rivolse a Pulaski. «Mi hai detto che ti è sembrato di vedere la Mercedes. L'hai vista di nuovo?» «No. Non da questo pomeriggio.» «E tu, Mel? Hai notato niente di strano?» «Non credo.» Cooper spinse gli occhiali in cima al naso. «Ma non ci ho fatto caso. Ai tecnici di laboratorio non capita mai di essere seguiti.» Sellitto disse che aveva la sensazione di avere notato qualcosa, ma non ne era certo.
Amelia si rivolse a Baker. «Dennis, oggi, quando eri a Brooklyn, hai avuto la sensazione che qualcuno ti sorvegliasse?» Lui esitò. «Io? Io non sono stato a Brooklyn.» La detective lo guardò stupita. «Non ci sei andato?» Baker scosse il capo. «No.» Amelia si rivolse a Kathryn Dance, che aveva osservato Baker. L'agente del CBI fece un cenno di assenso. La detective portò la mano alla Glock e si voltò verso Baker. «Dennis, tieni le mani dove possiamo vederle.» Il tenente spalancò gli occhi. «Che cosa?» «Dobbiamo fare due chiacchiere.» Nessuno dei presenti reagì. Erano stati tutti preavvertiti. Pulaski portò la mano alla sua pistola, mentre Sellitto si mise alle spalle di Baker. «Ehi, ehi, ehi», disse il tenente preoccupato, guardando con la coda dell'occhio il corpulento detective. «Che storia è questa?» «Vogliamo farti qualche domanda, Dennis», gli spiegò Rhyme. Quello che Kathryn Dance aveva detto al criminalista e alla detective non era affatto che qualcuno l'aveva seguita: Amelia lo aveva raccontato solo per far sentire Baker a suo agio. L'osservazione dell'agente del CBI era stata molto più sottile. Kathryn aveva notato che Baker, mentre parlava di quando si trovava fuori dal laboratorio della fiorista, aveva accavallato le gambe. Inoltre aveva evitato di guardare chiunque negli occhi e assunto sulla sedia una posizione che, solitamente, suggeriva la possibilità di inganno. In quel preciso istante stava dicendo di aver lasciato da poco la scena e di non ricordare se la strada fosse stata riaperta al pubblico oppure no. Dal momento che non c'era alcuna ragione apparente perché Baker mentisse, Kathryn non si era insospettita. Ma quando Amelia aveva detto che qualcuno le era entrato in macchina Kathryn si era ricordata dell'atteggiamento sospetto del tenente. La detective aveva chiamato Nancy Simpson, anche lei presente sulla scena, e le aveva chiesto a che ora se ne fosse andato Baker. «Appena dopo di te», aveva risposto Nancy. Tuttavia Baker aveva affermato di esservi rimasto quasi un'ora. Nancy Simpson aveva aggiunto che le sembrava che il tenente si fosse diretto a Brooklyn. Per questo Amelia aveva fatto la domanda trabocchetto, in modo che Kathryn potesse valutare la reazione di Baker. «Hai forzato la mia macchina e hai guardato nella mia borsetta», disse la
detective, in tono severo. «E sei andato a chiedere notizie di me a casa mia, facendoti passare per un mio collega.» Lo avrebbe negato? Se Kathryn e Amelia si sbagliavano, l'avrebbero pagata cara. Ma il tenente abbassò lo sguardo sul pavimento. «Senti, è tutto un equivoco.» «Hai parlato con la mia vicina?» chiese Amelia, con rabbia. «Sì», ammise Baker. La detective gli si avvicinò. Erano pressappoco della stessa altezza, ma Amelia era così furente che sembrava torreggiare su di lui. «Guidi una Mercedes nera?» Lui la guardò, sorpreso. «Con uno stipendio da poliziotto?» La risposta sembrava sincera. Rhyme lanciò un'occhiata a Cooper, che controllò sul database della motorizzazione. Il tecnico scosse la testa. «Non è sua.» Be', su questo si erano sbagliati. Però Baker aveva decisamente le mani in pasta da qualche parte. «Allora, di che si tratta?» lo incalzò Rhyme. Baker guardò la detective. «Amelia, sul serio, ti volevo su questo caso. Tu e Lincoln siete una squadra di prima categoria. E piacete alla stampa. Volevo che il mio nome fosse associato al vostro. Ma dopo che ho convinto i piani alti ad affidarvi il caso è sorto un problema.» «Cioè?» chiese Amelia, decisa. «C'è un foglio nella mia valigetta.» Fece un cenno a Pulaski. «Un foglio ripiegato, nella tasca destra.» La recluta aprì la consunta valigetta del tenente e lo trovò. «È un'e-mail», precisò Baker. Amelia prese il foglio dalle mani della recluta. Lo lesse, con la fronte corrugata. Per un istante rimase immobile. Poi si avvicinò a Rhyme e depose il foglio sul largo bracciolo della sedia a rotelle. Il criminalista lesse il messaggio, una breve nota confidenziale da un ispettore ad alto livello dell'One Police Plaza: si comunicava che alcuni anni prima Amelia Sachs aveva avuto una relazione con un detective dell'NYPD, Nicholas Carelli, che era stato arrestato sotto varie accuse, tra cui furto, aggressione e concussione. La Sachs non era risultata implicata, tuttavia Carelli era stato rilasciato di recente e i pezzi grossi temevano che potesse averla contattata. Non ritenevano che avesse fatto nulla di illegale, però se la detective fosse stata vista con lui in quel momento sarebbe stato, diceva l'e-mail, «imba-
razzante». Amelia si schiarì la voce, ma non disse niente. Rhyme sapeva tutto di Nick, di come avessero progettato di sposarsi, di quanto erano stati intimi, di quanto le attività criminali di lui avessero sconvolto Amelia. Baker scosse la testa. «Mi dispiace. Non sapevo come uscirne. Mi è stato ordinato di fare un rapporto completo: ogni dettaglio che osservavo, ogni cosa che scoprivo su di te, sul lavoro e fuori. Qualsiasi contatto con questo Carelli o i suoi amici.» «Era per questo che cercavi di cavarmi informazioni sul suo conto», disse Rhyme, adirato. «Che stronzate.» «Con tutto il rispetto, Lincoln, sono io che mi metto in gioco. Pensavano di toglierla dall'indagine, non la volevano su un caso di alto profilo come questo. Non con il suo passato. Ma io ho detto di no.» «Sono anni che non vedo Nick. Non sapevo nemmeno che fosse uscito.» «È ciò che ho detto ai pezzi grossi.» Indicò la valigetta. «Ci sono dentro i miei appunti.» Pulaski prese altri fogli e li diede ad Amelia, che li lesse e li mise sotto gli occhi del criminalista. Baker aveva riportato le sue osservazioni e le domande che aveva fatto, le annotazioni di Amelia sulla sua agenda e sulla sua rubrica telefonica, quello che gli altri dicevano di lei. «Hai scassinato la sua macchina», disse Sellitto. «Lo ammetto. Ho esagerato. Mi dispiace.» «Perché cazzo non sei venuto a dirmelo?» sbottò Rhyme. «O a chiunque di noi», aggiunse Sellitto. «Ordini dall'alto. Mi hanno detto che dovevo tenere la cosa sotto silenzio.» Baker si rivolse ad Amelia. «Ti sei arrabbiata e me ne dispiace. Ma volevo a tutti i costi che fossi tu a occuparti del caso. Non ho trovato altro modo. Ho già comunicato le mie conclusioni. Questa storia è chiusa. Per favore, non potremmo lasciarcela alle spalle e tornare al lavoro? Rhyme guardò Amelia. Ciò che più lo feriva era la reazione di lei all'incidente: non era più arrabbiata, sembrava piuttosto in imbarazzo per essere stata causa di una controversia e un problema per i suoi colleghi, distraendoli dal loro compito. Era insolito, e quindi più triste, vederla così addolorata e vulnerabile. Amelia restituì l'e-mail a Baker. Senza dire una parola a nessuno, prese la giacca e andò verso la porta, tirando fuori le chiavi della macchina dalla tasca.
22 Vincent Reynolds stava studiando la brunetta al ristorante: snella, sui trent'anni, con indosso una felpa. I capelli, corti, erano tirati indietro e tenuti con mollette di metallo. L'avevano seguita dal suo vecchio appartamento al Greenwich Village, prima in un bar, poi in una coffee house qualche isolato più in là. Lei e la sua amica, una bionda sui trentacinque anni, chiacchieravano e ridevano ininterrottamente. Si stavano divertendo un mondo. Lucy Richter si stava godendo i suoi ultimi momenti di vita. Duncan stava ascoltando musica classica sullo stereo della Buick. Come sempre era calmo e pensoso. Certe volte non si capiva proprio che cosa gli passasse per la testa. Vincent, dal canto suo, sentiva crescere la fame. Mangiò una merendina, poi un'altra. Vaffanculo al grande schema delle cose. A me serve una ragazza... Duncan guardò il suo orologio da taschino e lo caricò delicatamente. Vincent lo aveva già visto parecchie volte, ma continuava a trovarlo impressionante. Duncan gli aveva spiegato che era stato fabbricato da Breguet, un orologiaio francese vissuto molto tempo prima («A mio avviso, il migliore che ci sia mai stato»). In apparenza l'orologio era semplice. Aveva un quadrante bianco con numeri romani e una finestrella in cui si vedevano le fasi lunari. Fungeva anche da calendario perpetuo. Duncan aveva spiegato inoltre che era munito di «paracadute», un sistema antiurto inventato dallo stesso Breguet. «Quanti anni ha questo orologio?» chiese Vincent. «È stato fabbricato nell'anno 12.» «Anno 12? Ai tempi degli antichi romani?» Duncan sorrise. «No, scusami. Quella è la data sulla bolla di vendita originale, quindi ritengo che sia anche l'anno di fabbricazione. Mi riferisco all'anno 12 del calendario della Rivoluzione Francese. Dopo la caduta della monarchia, la repubblica inaugurò un nuovo calendario, a cominciare dall'anno 1792. Era un concetto curioso: le settimane erano di dieci giorni e ogni mese ne aveva trenta. Ogni sei anni ce n'era uno bisestile, interamente dedicato agli sport. Per qualche ragione, il governo riteneva che il nuovo calendario desse più garanzie di uguaglianza di quello vecchio. Però era troppo strano. Durò solo quattordici anni. Come molte idee rivoluzionarie,
sembrava bello sulla carta, ma era troppo poco pratico nella realtà.» Guardò l'orologio con affetto. «Mi piacciono gli orologi di quel periodo. A quei tempi l'orologio era un simbolo di potere. Erano in pochi a poterselo permettere. Chi ne aveva uno poteva controllare il tempo. Se andavi a fargli visita, dovevi restare ad aspettare l'ora che lui aveva fissato per l'incontro. Catene e taschini furono creati apposta per far vedere che un uomo aveva un orologio anche quando lo teneva in tasca. Gli orologiai erano divinità, in quell'epoca.» Fece una pausa. «In senso figurato, intendo, ma tutto sommato era vero.» Vincent inarcò un sopracciglio. «Nel Settecento si diffuse un movimento filosofico che usava l'orologio come metafora: Dio aveva creato il meccanismo dell'universo, poi lo aveva caricato e messo in movimento. Una specie di orologio perpetuo. Dio era definito il Grande Orologiaio. Che tu ci creda o no, quella filosofia aveva moltissimi seguaci. E gli orologiai erano visti quasi come sacerdoti.» Diede un'altra occhiata al Breguet e lo rimise in tasca. «Dobbiamo andare», disse, indicando la donna. «Usciranno presto.» Avviò il motore, mise la freccia e si staccò dal marciapiede. Si lasciarono alle spalle la loro vittima, che presto avrebbe perso la propria vita per mano di un uomo e la propria dignità per mano di un altro. Ma non potevano prenderla quella sera. Duncan aveva scoperto che Lucy Richter aveva un marito che lavorava a ore strane e poteva rientrare a casa in qualsiasi momento. Vincent ansimava, cercando di tenere la fame sotto controllo. Mangiò un pacchetto di patatine. Poi domandò: «Quando lo vuoi fare? Voglio dire, ucciderla?» Duncan rimase in silenzio per qualche secondo. «Prima mi hai chiesto quanto tempo ci hanno messo le due vittime a morire.» Vincent annuì. «Be', Lucy ce ne metterà tantissimo.» Nonostante avesse perso il suo libro sulla tortura, l'Orologiaio sembrava averne memorizzato buona parte. Descrisse nel dettaglio la tecnica che avrebbe usato sulla donna, che consisteva nel tenere la vittima sdraiata di schiena, con i piedi in alto e la bocca chiusa, versandole acqua nel naso. La chiamavano «la tortura dell'acqua». Se alla vittima si dava aria di tanto in tanto, il tormento poteva prolungarsi a piacere. «Cercherò di farla durare trenta minuti. O quaranta, se ci riesco.» «Se lo merita, eh?» domandò Vincent.
Duncan non rispose subito. «Mi stai chiedendo, in realtà, perché uccido proprio queste persone.» «Ecco...» Era vero. «Non te l'ho mai detto.» «No.» La fiducia è preziosa quasi quanto il tempo... L'Orologiaio si voltò per un istante verso di lui, quindi riprese a guardare la strada. «Sai, stiamo sulla terra per un tempo limitato. Giorni, mesi... Noi speriamo che siano parecchi anni.» «Giusto.» «È come se Dio, o qualsiasi altra entità in cui credi, avesse una grande lista di tutte le persone che esistono al mondo. Quando le lancette del Suo orologio raggiungono una data ora, è finita. Quelle persone non ci sono più. Be', io ho la mia lista.» «Dieci persone.» «Dieci persone. La differenza è che Dio non ha una buona ragione per ucciderle. Io sì.» Vincent rimase zitto. Per un momento non era né lo Sveglio né l'Affamato. Era solo Vincent il Normale e ascoltava un amico che gli spiegava cose importanti. «Ora ritengo di poterti dire qual è questa ragione.» E gliela disse. La luna era una striscia di luce bianca sul cofano della Camaro, un riflesso negli occhi di Amelia Sachs. Stava guidando lungo l'East River, con il lampeggiatore di sbieco sul cruscotto. Dopo quanto era avvenuto ultimamente, si sentiva schiacciata da un peso. La possibilità che poliziotti corrotti avessero a che fare con gli assassini di Ben Creeley e Frank Sarkowsky. Il rischio che l'ispettore Flaherty le togliesse il caso in qualsiasi momento. Lo spionaggio di Baker e la mancanza di fiducia presso le alte sfere, a causa di Nick. La scenata del viceispettore Jefferies. E, più di ogni altra cosa, la terribile rivelazione su suo padre. A che cosa serve fare il tuo lavoro e farlo bene, non avere mai un momento di pace e rischiare la vita, se il solo fatto di essere un poliziotto ti fa perdere tutto quello che hai di buono? Innestò la quarta e accelerò fino a centoquaranta. Il motore ululò come un lupo a mezzanotte.
Non c'era poliziotto migliore di suo padre, più solido, più coscienzioso. Ed ecco invece che cosa gli era capitato. Ma poi Amelia si rese conto che non doveva pensarla in quel modo. A suo padre non era capitato niente. La decisione di passare dall'altra parte della barricata era stata tutta sua. Ricordava Herman Sachs come un uomo tranquillo e spiritoso, a cui piaceva passare i pomeriggi con gli amici, guardare le corse automobilistiche e girare con la figlia tra gli sfasciacarrozze di Nassau County in cerca di tesori sfuggenti: vecchi carburatori, guarnizioni o marmitte. Però ora lei sapeva che quella era solo una facciata dietro cui si nascondeva una persona che non aveva mai realmente conosciuto. Amelia Sachs era spinta da una forza che la induceva a dubitare, a fare domande e a correre rischi, per quanto grandi. Ne soffriva. La sua ricompensa era il senso di esaltazione che provava quando salvava una vita innocente o catturava un colpevole. Quella forza la spingeva in una precisa direzione. Suo padre, invece, si era lasciato spingere nella direzione opposta. La Camaro sbandò, ma Amelia ne riprese presto il controllo. Una dozzina di svolte, da una parte, dall'altra, poi verso sud. Finché non trovò il molo che cercava e frenò, lasciando sul terreno tracce di pneumatici lunghe tre metri. Scese dall'auto e sbatté con forza la portiera. Attraversò un giardinetto, scavalcò una barriera di cemento. Ignorando i divieti di accesso, si incamminò sul molo, sferzata da un vento intenso e sibilante. Dio, che freddo. Raggiunse il parapetto di legno e lo strinse con le mani guantate. I ricordi la assalirono. Quando aveva dieci anni, in una calda sera d'estate, suo padre l'aveva fatta salire sul pilone a metà del molo. Il pilone era ancora lì. Lui la teneva stretta e lei non aveva paura, perché Herman Sachs le aveva insegnato a nuotare alla piscina pubblica. Quando una ventata li aveva fatti cadere entrambi nell'East River, non avevano fatto altro che nuotare fino alla scaletta, ridendo e facendo a gara a chi arrivava primo. E, una volta risaliti sul molo, si erano rituffati, tenendosi per mano, nelle acque calde e torbide tre metri sotto di loro. Quando aveva quattordici anni, lui con un caffè e lei con una bibita, erano tornati su quel molo. Avevano guardato l'acqua e lui le aveva parlato di Rose. «Tua madre ha i suoi sbalzi di umore, ma questo non vuol dire che non ti voglia bene. Ricordatelo. È solo che è fatta così. È orgogliosa di te.
Lo sai che cosa mi ha detto, proprio l'altro giorno?» E quando lei era diventata una poliziotta si erano ritrovati proprio lì, accanto alla stessa Camaro da cui lei era appena scesa (anche se all'epoca era dipinta di giallo, un bel colore per un'auto da corsa). Lei era in uniforme, lui indossava jeans e giacca di tweed. «Ho un problema, Amie.» «Un problema?» «Di salute.» Lei aveva atteso che il padre proseguisse, sentendo l'unghia conficcarsi nel pollice. «È un po' di cancro. Niente di serio. Devo farmi curare.» Herman Sachs le aveva spiegato i dettagli: era sempre molto franco con la figlia. Poi si era incupito, come non gli capitava mai, e aveva scosso il capo. «Il vero problema è... che ho appena pagato cinque dollari per un taglio di capelli e adesso li perderò tutti.» Si era passato una mano sulla testa. «Se lo sapevo, risparmiavo i soldi.» Le lacrime le scesero lungo le guance. «Maledizione», mormorò tra sé. «Smettila.» Ma non ci riuscì. Le lacrime continuarono a scorrerle gelide sul viso. Tornò alla macchina, avviò il motore e tornò da Rhyme. Quando entrò in casa lui era già di sopra, a letto. Amelia si fermò nella saletta degli esercizi, dove Pulaski aveva preparato il tabellone sui casi Creeley e Sarkowsky. Le venne da sorridere. La recluta non solo lo aveva tenuto lontano dagli occhi di tutti, ma lo aveva diligentemente coperto con un lenzuolo. La detective lo tolse, lesse gli appunti che Pulaski aveva scritto in bella grafia e ne aggiunse qualcuno di propria mano. ASSASSINIO DI BENJAMIN CREELEY • Creeley, 56 anni, apparente suicidio mediante impiccagione. Corda di cotone. Pollice rotto: impossibile fare nodo. • Biglietto scritto al computer: suicidio attribuito a depressione. Ma apparentemente non depresso al punto da suicidarsi. Nessun precedente di disturbi mentali/emotivi. Intorno al Giorno del Ringraziamento due uomini sono penetrati in casa sua a Westchester, probabilmente per distruggere prove. Bianchi, nessuna descrizione, Uno più grosso dell'altro. Rimasti in casa per
circa un'ora. Indizi in casa di Westchester: * serratura forzata: lavoro da esperti * tracce di guanti di pelle su attizzatoio e scrivania di Creeley * davanti a caminetto fango con contenuto acido superiore a quello intorno alla casa e presenza di elementi inquinanti. Da sito industriale? * tracce di cocaina bruciata nel caminetto * cenere nel caminetto: - registri finanziari con voci di milioni di dollari - ricerca in atto di logo su documenti; registri analizzati da esperto - agenda: cambiare olio della macchina, appuntamento da barbiere, visita alla St. James Tavern - analisi della cenere del laboratorio CSU Queens: ► logo di software di contabilità ► secondo esperto di contabilità, normali cifre rimborso spese di manager ► bruciate per distruggere prove o per depistiggio? • St James Tavern: * Creeley vi è andato diverse volte * apparentemente nessun uso di droghe nel locale * probabile incontro con persone non identificate, forse poliziotti del vicino 118° Distretto dell'NYPD * ultima visita: giorno della sua morte. Litigio con persone non identificate * controllate banconote di agenti alla St. James: numeri di serie puliti, tracce di cocaina ed eroina. Droghe rubate al Distretto? - droghe mancanti: piccole quantità. 6-7 oz. di marijuana, 4 di cocaina. • Al 118° Distretto numero limitato di casi aperti su crimine organizzato. Nessun indizio di insabbiamenti intenzionali da parte di poliziotti. • Connessioni con due gang nella zona: possibili ma non probabili. • Interrogati Jordan Kessler, socio di Creeley, e vedova: * negato uso di droghe * non risultano legami con malavita * beveva più del solito
* presa abitudine di giocare d'azzardo; viaggi a Las Vegas e ad Atlantic City. Perdite rilevanti ma non significative per Creeley * motivi della depressione non identificati * Kessler non riconosce carte bruciate * in attesa di lista dei clienti * Kessler non sembra trarre vantaggi dalla morte di Creeley. • Sachs e Pulaski seguiti da Mercedes AMG. ASSASSINIO DI FRANK SARKOWSKY • Sarkowsky, 57 anni, ucciso il 4 novembre di quest'anno, lascia moglie e due figli. • Proprietario di edificio e società a Manhattan: pulizia e servizi per altre compagnie. • Detective incaricato: Art Snyder. • Nessun sospetto. • Assassinio/rapina? * ucciso a colpi di arma da fuoco, apparentemente a scopo di rapina. Arma ritrovata sulla scena: Smith &Wesson .38 Special, senza impronte, arma fredda. Snyder sospetta lavoro di killer professionista. • Affare andato male? • Ucciso nel Queens. Non si sa perché vi si trovasse. * zona deserta, vicino ai gasometri. • Dossier e prove sparite: * dossier trasferito a 158° Distretto intorno al 28 novembre. Mai restituito. Nessuna indicazione di chi ne ha fatto richiesta * nessuna indicazione di dove sia finito al 158° * viceispettore Jefferies rifiuta di cooperare. • Nessuna connessione nota con Creeley. • Nessun precedente per Sarkowsky o sua società. • Voci: poliziotti del 118° intascavano mazzette. Collegamenti con località o persona nel Maryland. Coinvolta la malavita di Baltimora? * nessuna pista. Amelia lesse e rilesse il tabellone per mezz'ora, finché non sentì la testa
pesante. Salì al piano di sopra, si spogliò e si mise sotto la doccia, lasciandosi sferzare a lungo dall'acqua calda. Si asciugò, indossò una T-shirt e un paio di boxer di seta e andò in camera da letto. Si infilò sotto le coperte accanto a Rhyme e gli appoggiò la testa sul petto. «Tutto bene?» le chiese lui, assonnato. Lei non disse nulla, ma alzò la testa e gli diede un bacio su una guancia. Poi si abbandonò sul cuscino e fissò le cifre sul quadrante digitale della sveglia sul comodino. I minuti passarono lenti, lentissimi, ognuno sembrava durare un giorno. Finalmente, verso le tre del mattino, Amelia si addormentò. II 9:02 A.M. MERCOLEDÌ Il tempo è il fuoco che ci arde. DELMORE SCHWARTZ 23 Lincoln Rhyme era sveglio da oltre un'ora. Un giovanotto della Guardia Costiera aveva consegnato una giacca da uomo, taglia 44, che era stata trovata a galleggiare nel New York Harbor e che probabilmente apparteneva alla vittima: le maniche erano insanguinate e presentavano tagli all'altezza dei polsi. La giacca portava il marchio dei grandi magazzini Macy's. Non c'erano altre tracce che potessero ricondurre al proprietario. Rhyme era in camera da letto con Thom, che aveva appena finito di occuparsi della routine mattutina del padrone di casa: i suoi esercizi di fisioterapia e quello che l'assistente chiamava «doveri igienici» (Rhyme li definiva invece «servizio piscio e merda», ma solo quando c'erano visitatori impressionabili). Amelia Sachs salì le scale e li raggiunse. Appoggiò la giacca su una sedia e andò ad aprire le tende. Guardò fuori, verso Central Park. Il giovane assistente intuì subito che qualcosa bolliva in pentola. «Vado a preparare il caffè. O dei toast. O qualcos'altro.» Uscì chiudendosi la porta dietro le spalle. Rhyme, sconsolato, si chiese che cosa ci fosse sotto. Ultimamente aveva affrontato troppe questioni personali per i suoi gusti. Amelia continuava a guardare verso la luce abbagliante del parco. «Allora, che cos'avevi da fare
di così importante?» domandò lui. «Sono passata dalla Argyle Security.» Il criminalista batté le palpebre e la guardò in faccia. «Quelli che ti hanno chiamata dopo l'articolo su di te sul Times, quando abbiamo chiuso il caso dell'Illusionista?» «Proprio quelli.» La Argyle era una compagnia internazionale specializzata in guardie del corpo per manager e in negoziati per il rilascio di dipendenti di società presi in ostaggio, cosa che in certi Paesi stranieri capitava di frequente. La compagnia aveva offerto ad Amelia Sachs un posto di lavoro al doppio del suo stipendio da poliziotta, con la promessa di inviarla in luoghi esotici e pericolosi. Le avrebbe garantito anche il permesso di portare un'arma nella maggior parte delle giurisdizioni, cosa insolita per una ditta privata. Una proposta che lei aveva trovato interessante, ma che aveva rifiutato senza indugio. «Che cosa intendi dire?» «Che lascio, Rhyme.» «Lasci la polizia? Dici sul serio?» Amelia fece un cenno affermativo. «Ho preso una decisione. Voglio cambiare vita. Posso fare qualcosa di buono anche lì. Proteggere famiglie e bambini. Fanno anche parecchio lavoro di antiterrorismo.» Ora anche il criminalista guardava fuori dalla finestra, verso gli alberi rigidi e spogli di Central Park. Ripensò alla sua conversazione del giorno prima con Kathryn Dance, a proposito dei primi tempi della sua terapia. Un giovane e brillante dottore dell'NYPD, Terry Dobyns, gli aveva detto: «Niente dura per sempre». Si riferiva alla depressione di Rhyme dopo l'incidente. Ora quelle parole assumevano un significato diverso e non gli uscivano dalla testa. Niente dura per sempre. «Ah.» «Credo di doverlo fare, Rhyme. Devo.» «A causa di tuo padre?» Amelia assentì, grattandosi la testa con un'unghia. Fece una smorfia, per il dolore o qualcos'altro. «È una pazzia, Sachs.» «Non credo di farcela più, nella polizia.» «Non ti pare una decisione affrettata?» «Ci ho riflettuto tutta la notte. Non ho mai pensato tanto a una cosa in
tutta la mia vita.» «Be', continua a riflettere. Non puoi prendere una decisione del genere dopo avere ricevuto cattive notizie.» «Cattive notizie? Tutto quello che sapevo di mio padre era falso!» «Non tutto», la contraddisse Rhyme. «Solo una parte.» «Quella più importante. Prima di tutto era un poliziotto.» «È stato molto tempo fa. Il Club della Sixteenth Avenue ha chiuso i battenti quando eri ancora una bambina.» «E questo rende mio padre meno corrotto?» Il criminalista non disse nulla. «Vuoi che te lo spieghi, Rhyme? Come se fosse un indizio? Aggiungi qualche goccia di reagente, poi guardi il risultato? Non posso. So solo che sento un sapore amaro in bocca. E non riesco più a vedere il mio lavoro allo stesso modo.» Lui disse, in tono gentile: «Lo so che è difficile. Ma quello che gli è successo non ti deve toccare. Ciò che conta è che sei una brava poliziotta e senza di te si chiuderanno molti meno casi». «Li posso chiudere solo se ci metto l'anima. E non è più così. Ho perso qualcosa.» Aggiunse: «Pulaski sta facendo grandi progressi. È molto migliorato rispetto a quando ha cominciato a lavorare con te». «È migliorato perché ci sei tu che lo addestri.» «Non lo fare.» «Che cosa?» «Addolcirmi la pillola con l'adulazione. Ci provava anche mia madre, con mio padre. Non vuoi che me ne vada, lo capisco, però non giocare questa carta.» Rhyme non poteva fare a meno di giocare quella carta e qualsiasi altra. Dopo l'incidente era stato più volte tentato dal suicidio. Ci era andato vicino, ma aveva sempre rifiutato quella prospettiva. Ora Amelia Sachs si stava apprestando a un suicidio psicologico. Se avesse lasciato la polizia, avrebbe ucciso la propria anima. «L'Argyle non è roba per te», disapprovò Rhyme. «Nessuno prende sul serio le compagnie private di sicurezza. Nemmeno i loro clienti.» «No, i loro incarichi sono buoni. Ti rimandano a scuola. Si imparano nuove lingue. Hanno persino una sezione di inda gine scientifica. E la paga è ottima.» Lui rise. «Da quando ti importa dei soldi? Pensaci su, Sachs. Che fretta c'è?»
Amelia scosse il capo. «Voglio chiudere il caso St. James. E fare tutto il necessario per inchiodare l'Orologiaio. Dopo di che...» «Sai una cosa? Per andartene dalla polizia, bisognerà smuovere parecchia gente. E se poi tu volessi ritornare, non potrai farlo per molto tempo.» Rhyme distolse lo sguardo. Sentiva pulsare le tempie. «Rhyme.» Amelia spinse una sedia vicino a lui e gli si mise accanto, prendendogli la mano destra, quella che aveva recuperato un minimo di sensibilità e di movimento. «Qualsiasi mia scelta non toccherà noi due, la nostra vita.» Gli strinse la mano e sorrise. Tu e io, Rhyme... Tu e io, Sachs... Lincoln Rhyme abbassò gli occhi. Era uno scienziato, un uomo di cervello, non di cuore. Lui e Amelia si erano conosciuti durante un caso difficile, una serie di rapimenti compiuti da un assassino ossessionato dalle ossa. Nessuno poteva fermarlo, eccezion fatta per due disadattati come loro: Rhyme, il tetraplegico in pensione, e Sachs, la recluta disillusa, tradita dal suo amante poliziotto. Eppure, in un modo o nell'altro, erano diventati tutt'uno, arrivando a colmare le lacune dentro di loro e a fermare l'assassino. Per quanto Rhyme lo volesse negare, quelle parole, tu e io, erano diventate la sua bussola nel mondo precario che insieme avevano creato. E non credeva affatto che la scelta di Amelia non avrebbe avuto conseguenze sulla loro vita. Togliere il loro scopo comune li avrebbe cambiati. Stava forse assistendo a una transizione tra Prima e Dopo? «Ti sei già dimessa?» le chiese. «No.» Amelia tirò fuori una busta bianca dalla tasca della giacca. «Ho scritto la lettera, ma prima di consegnarla volevo dirtelo.» «Aspetta un paio di giorni, prima di decidere. Non ti obbligo a farlo. Ti chiedo solo un paio di giorni.» Lei fissò a lungo la busta bianca. Infine disse: «Okay». Stiamo dando la caccia a un uomo ossessionato dal tempo e dagli orologi, pensò Rhyme, e adesso la cosa più importante per me diventa guadagnare tempo con lei. «Grazie. E adesso, al lavoro.» «Vorrei che tu capissi...» «Non c'è niente da capire», sentenziò lui, ostentando un distacco che gli parve quasi miracoloso. «Dobbiamo prendere un assassino. È l'unica cosa cui dobbiamo pensare.» Rhyme la lasciò sola nella stanza da letto e prese il piccolo ascensore che lo portò al laboratorio.
Mel Cooper era già al lavoro. «Il sangue sulla giacca è AB positivo. Coincide con quello trovato sul molo.» Il criminalista fece un cenno di approvazione. Poi gli ordinò di chiamare la NASA per sollecitare le informazioni dall'ASTER, le immagini termiche necessarie per identificare la provenienza del catrame. Anche se in California era ancora presto, il tecnico riuscì a rintracciare qualcuno e a mettergli fretta perché trovasse e trasmettesse le immagini, che arrivarono poco dopo. Erano molto suggestive, ma non di particolare aiuto. Come Sellitto aveva previsto, c'erano centinaia se non migliaia di edifici a temperatura elevata ed era impossibile distinguere quelli appena ricoperti di catrame da quelli in costruzione, quelli riscaldati a vapore dalla Consolidated Edison da quelli che semplicemente avevano camini particolarmente caldi. L'unica idea che venne a Rhyme fu chiedere alla centrale di notificargli all'istante qualsiasi aggressione o violazione di domicilio all'interno o nei pressi di edifici in cui il tetto fosse in riparazione. Perplessa, la poliziotta che rispose alla chiamata promise che avrebbe messo un avviso sul computer principale. Il suo tono lasciava intendere che, secondo lei, Rhyme stava cercando un ago nel pagliaio. Era quello che pensava anche lui. Lucy Richter chiuse la porta dell'appartamento e fece scattare i chiavistelli. Appese il cappotto e la felpa con il cappuccio, che davanti portava la dicitura: QUARTA DIVISIONE FANTERIA FORT HOOD e dietro il motto del reggimento: RISOLUTI E LEALI La soldatessa sentiva i muscoli doloranti. In palestra aveva percorso l'equivalente di sei chilometri, di buon passo e con una pendenza del nove per cento, dopo di che aveva fatto mezz'ora di flessioni e addominali. Era un'altra cosa che aveva imparato dal servizio militare: apprezzare i muscoli. Si può dire che l'esercizio fisico sia divertente o anche una forma di vanità o una perdita di tempo, ma una cosa è certa: fa sentire più forti.
Preparò l'acqua per il tè e prese dal frigorifero una ciambella zuccherata, pensando alla giornata che aveva davanti. C'erano un sacco di cose da fare: rispondere ai messaggi in segreteria e alle e-mail, mettere in forno i biscotti e cucinare il suo famoso tortino al formaggio per il ricevimento di giovedì. Oppure, semplicemente, andare a fare shopping con le amiche e comprare un dessert in pasticceria. Oppure ancora andare a pranzo con sua madre. O starsene a letto a guardare le soap-opera. Coccolarsi. Era alle porte del paradiso: due settimane lontano dalla terra della nebbia amara. Non intendeva sprecarne neppure un minuto. Nebbia amara... Aveva sentito quell'espressione da un poliziotto fuori Baghdad, a proposito della nube di fumo che si era sollevata dopo la detonazione di un OEI, un «ordigno esplosivo improvvisato». Nei film le esplosioni erano grandi fiammate di benzina, e poi più niente, a parte le reazioni sulle facce degli attori. Nella realtà, un OEI si lasciava intorno una fitta nebbia azzurrina che puzzava, bruciava gli occhi e consumava i polmoni: in parte polvere, in parte fumo chimico, in parte pelle e capelli vaporizzati. Aleggiava sul cratere per ore. La nebbia amara era un simbolo dell'orrore di questo nuovo tipo di guerra. Non esistevano alleati fidati, eccetto i propri compagni d'armi. Non c'erano né fronti né veri campi di battaglia e non si sapeva chi fosse il nemico. Poteva essere l'interprete, il cuoco, un passante, un imprenditore locale, un teenager o un vecchio. O qualcuno che al momento dell'esplosione era lontano cinque chilometri. E le armi? Niente obici o carri armati, solo le fini particelle che componevano la nebbia amara, i pacchetti di TNT, C4 o C3, o le bombe rubate dai depositi americani, nascoste nei luoghi più impensati. Non si vedevano finché non... in effetti, non si vedevano mai. Lucy cercò il tè nell'armadietto. Nebbia amara... Si fermò. Cos'era quel rumore? Lucy chinò la testa da un lato e tese le orecchie. Che cos'era? Un ticchettio. Provò una stretta allo stomaco. Lei e Bob non avevano orologi che ticchettassero. Ma il rumore era quello. Cosa diavolo è? Entrò nella stanzetta che usavano come guardaroba. La luce era spenta. Lucy l'accese.
No, il rumore non veniva da lì. Aveva le mani sudate, il respiro accelerato e il cuore che batteva all'impazzata. Me lo sto immaginando... Sto impazzendo. Gli OEI non fanno tic-tac. Anche le bombe a orologeria hanno detonatori elettronici. Stava davvero pensando che qualcuno avesse messo una bomba nel suo appartamento a New York City? Ragazza mia, devi farti curare sul serio. Lucy raggiunse la porta della camera da letto. L'armadio aperto le toglieva la visuale del cassettone. Forse era... Fece un passo avanti, ma si fermò. Non era nemmeno da lì che proveniva il ticchettio. Andò a guardare in sala da pranzo. Niente. Poi andò in bagno. Le venne da ridere. Sul tavolino accanto al lavabo c'era un orologio. Sembrava antico. Da una finestrella sul quadrante occhieggiava una luna piena. Da dove era spuntato? Sua zia era scesa a fare pulizie in cantina? O l'aveva comprato Bob mentre lei era in palestra? E perché in bagno? La luna la fissava con la sua strana faccia, quasi malevola. Le ricordava i volti dei bambini sul ciglio della strada, le bocche curve in un'espressione che non era esattamente un sorriso. Nessuno poteva dire che cosa pensassero. Chi vedevano, quando guardavano i soldati? I loro salvatori? Il nemico? Creature di un altro pianeta? Lucy decise di telefonare a Bob o a sua madre, per chiedere notizie dell'orologio. Andò in cucina, preparò il tè e portò la tazza e il telefono in bagno. Aprì l'acqua nella vasca. Si chiese se il suo primo bagno schiuma dopo mesi sarebbe riuscito a lavar via la nebbia amara. In strada, di fronte alla casa di Lucy Richter, Vincent Reynolds seguiva con lo sguardo due studentesse di passaggio. Le osservava, senza sentire alcun effetto sulla fame che lo stava tormentando. Erano liceali, troppo giovani per lui. (Anche Sally Anne era una teenager, vero, e all'epoca anche lui lo era, quindi era tutto okay.) Dal cellulare, Duncan gli sussurrò: «Sono nella sua camera da letto. Lei è nel bagno. Sta riempiendo la vasca. Potrebbe essere utile». La tortura dell'acqua... Dal momento che nel palazzo c'erano parecchi inquilini e che se avesse
forzato la serratura dell'appartamento non sarebbe passato inosservato, Duncan era salito in cima a un edificio qualche portone più in là ed era passato dai tetti, per poi scendere la scala antincendio e raggiungere la camera da letto di Lucy. L'Orologiaio era davvero atletico (un'altra differenza tra i due amici). «Okay, lo faccio subito.» Grazie... Ma poi Duncan mormorò: «Aspetta». «Cosa c'è?» domandò Vincent. «Qualche problema?» «È al telefono. Devo aspettare.» Vincent l'Affamato si spostò in avanti sul sedile. Aspettare era una cosa che non gli piaceva affatto. Passò un minuto. Due. Cinque. «Che succede?» sussurrò Vincent. «È sempre al telefono.» Vincent si stava infuriando. Maledetta... Avrebbe voluto essere là con Duncan per dargli una mano a ucciderla. Si mise a mangiare nervosamente. Finalmente l'Orologiaio disse: «Cerco di farle mettere giù il telefono. Torno sul tetto e raggiungo il corridoio. La costringerò ad aprire la porta». Per una volta, Vincent colse una rara sfumatura di emozione quando Duncan aggiunse: «Non posso più aspettare». Non immagini nemmeno che cosa si prova, pensò Vincent lo Sveglio, risalendo per un attimo in superficie prima di essere sopraffatto dalla metà affamata. Mentre si spogliava per entrare nella vasca, Lucy sentì un altro rumore. Non era il ticchettio dell'orologio con la luna. Veniva da vicino. In casa? In corridoio? Nel vicolo? Un clic. Metallico. Cos'era? La vita di un soldato è il suono del metallo sul metallo. Inserire i lunghi proiettili profumati d'olio nel caricatore di un fucile, caricare e mettere la sicura alle Colt, aprire le portiere dei veicoli, e poi le attrezzature dei fuelers, le fibbie dell'equipaggiamento. Il tintinnio di un proiettile di AK-47 sulla carrozzeria di un Bradley o di un Humvee. Ancora quel rumore: clic, clic. Poi silenzio.
Lucy sentì una corrente d'aria fredda, come se qualcuno avesse aperto una finestra. Dove? In camera da letto, decise. Seminuda, raggiunse la stanza e guardò dentro. Sì, la finestra era aperta. Non era chiusa quando c'era entrata prima, in cerca della fonte del ticchettio? Avrebbe detto di sì. Non essere così paranoica, soldato, ordinò a se stessa. Cominci a essere noiosa. Non c'è nessun OEI, nessun terrorista kamikaze, nessuna nebbia amara. Riprendi il controllo. Si coprì il seno con un braccio (c'erano altri appartamenti, sull'altro lato del vicolo) e chiuse la finestra. Guardò fuori, ma non vide niente. In quel momento qualcuno si mise a battere alla porta di casa. Lucy si voltò di scatto. Indossò l'accappatoio e raggiunse l'ingresso, poco illuminato. «Chi è?» Un attimo di silenzio. Poi una voce maschile disse: «Polizia. Sta bene?» «Che succede?» «È un'emergenza. Apra la porta per favore. Lei sta bene?» In allarme, Lucy strinse la cintura dell'accappatoio e aprì i chiavistelli, ripensando alla finestra aperta: che qualcuno avesse cercato di entrarle in casa? Lucy girò la maniglia, accorgendosi solo in quel momento che avrebbe dovuto chiedere che le fosse mostrato un distintivo prima di aprire la porta. Era stata per tanto tempo in un mondo così diverso che si era dimenticata che c'era parecchia brutta gente anche in patria. Amelia Sachs e Lon Sellitto arrivarono al vecchio edificio nella stravagante Barrow Street, al Greenwich Village. «Questo è tutto?» «Ah-hah», fece Sellitto. Aveva le dita blu e le orecchie rosse. «Come si chiama?» chiese lei. «Richter. Di nome Lucy, mi pare.» «Qual è la sua finestra?» «Secondo piano.» Amelia guardò la scala antincendio. Davanti all'ingresso dell'edificio si era radunata una piccola folla di curiosi. La detective ne studiò le facce, ancora convinta che l'Orologiaio avesse cancellato le tracce sulla seconda scena perché intendeva tornarci. In
questo caso, poteva essere rimasto sul posto. Ma non vide nessuno che corrispondesse all'identikit. «Siamo sicuri che fosse l'Orologiaio?» chiese a Frank Rettig e a Nancy Simpson, che stazionavano infreddoliti accanto al veicolo di risposta rapida della CSU, parcheggiato di sbieco in mezzo a Barrow Street. «Sì, ha lasciato uno di quegli orologi», disse Rettig. «Con le fasi lunari.» Amelia e Sellitto salirono i gradini davanti al portone. «Una cosa», disse Nancy Simpson. I due detective si voltarono verso di lei. La poliziotta indicò l'edificio, con un'espressione inquieta sul viso. «Non sarà piacevole.» 24 Amelia Sachs e Lon Sellitto salirono lentamente le buie scale dell'edificio. L'aria sapeva di detergente al pino ed era calda come una fornace. «Come ha fatto a entrare?» chiese Amelia, guardando verso l'alto. «Quel tipo è un fantasma. Va dove cazzo gli pare.» Si fermarono davanti a una porta con la targhetta RICHTER-DOBBS. Non sarà piacevole. «Andiamo.» Amelia aprì la porta ed entrò nell'appartamento di Lucy Richter. Ad aspettarli trovarono una donna muscolosa con indosso una felpa e i capelli tirati indietro con una molletta, che smise di parlare con un agente in uniforme e si voltò verso di loro. Quando notò i distintivi dorati che i due detective portavano appesi al collo, il suo volto si oscurò. «Siete voi che vi occupate del caso?» tuonò Lucy Richter, mettendosi davanti a Sellitto. «Sono uno dei detective che lo seguono.» Sellitto si identificò e Amelia fece altrettanto. La donna appoggiò le mani sui fianchi. «Ma siete ammattiti?» abbaiò. «Sapete che c'è un pazzo che lascia in giro questi orologi quando uccide la gente e non lo dite a nessuno? Non sono sopravvissuta per tutti quei mesi di guerra nel deserto per tornare a casa e farmi ammazzare dal primo stronzo perché voi tenete nascoste le informazioni al pubblico!» Ci volle un po' per farla calmare. «Signora», spiegò Amelia, «non è nel modus operandi dell'assassino consegnare questi orologi in anticipo, per avvisare le vittime che sta arri-
vando. Quell'uomo è stato qui, nel suo appartamento. Ha avuto fortuna.» Lucy Richter era stata davvero fortunata. Circa mezz'ora prima un passante aveva visto, per puro caso, un uomo che saliva sulla scala antincendio, verso il tetto dell'edificio, e aveva chiamato il 911. L'Orologiaio, vistosi scoperto, era fuggito. Una ricerca nella zona non diede risultati. Nessun testimone aveva visto qualcuno che assomigliasse all'identikit dell'assassino. Sachs lanciò un'occhiata a Sellitto, che disse: «Siamo molto spiacenti per l'accaduto». «Scusatemi», insistette la Richter, «ma dovete rendere pubblica l'informazione.» I detective si scambiarono un'altra occhiata. «D'accordo. Faremo dare un annuncio sui notiziari locali», convenne Sellitto. «Vorrei esaminare il suo appartamento in cerca di indizi», disse Amelia. «E farle qualche domanda su quanto è successo.» «Tra un minuto. Devo fare qualche telefonata. I miei famigliari ne sentiranno parlare ai notiziari. Non voglio che si preoccupino.» «È molto importante», sottolineò il detective. La soldatessa prese il cellulare e con voce ferma ribadì: «Come le ho detto, tra un minuto». «Rhyme, ci sei?» «Procedi, Sachs.» Il criminalista era nel suo laboratorio, in collegamento radio. Avevano in programma, di lì a un mese, di munirsi di una videocamera ad alta definizione da montare sulla testa o sulle spalle di Amelia, per permettere a Rhyme di vedere da casa tutto quello che vedeva lei. Ci avevano scherzato su, definendolo un giocattolo alla James Bond. Lo addolorava pensare che non sarebbe stata Amelia a inaugurarlo. Cercò di ignorare il dispiacere. Ripeté a se stesso ciò che di solito raccomandava a coloro che lavoravano per lui: là fuori c'è un assassino e l'unica cosa importante è scovarlo; ma non potete riuscirci se non vi concentrate al cento per cento. «Abbiamo mostrato a Lucy l'identikit dell'Orologiaio, però lei non lo ha riconosciuto.» «Com'è entrato?» «Non ne siamo sicuri. Se si è attenuto al suo modus operandi, può avere forzato la serratura del portone. Credo che poi sia salito sul tetto e sia sceso sino alla finestra di Lucy. È entrato, ha lasciato l'orologio e l'ha attesa.
Tuttavia, per qualche ragione, è uscito nuovamente dalla finestra: è stato in quel momento che il testimone lo ha visto sulla scala antincendio e l'Orologiaio ha tagliato la corda.» «È stato nell'appartamento?» «Ha lasciato l'orologio in bagno. Ed è stato nella camera da letto, dal momento che la finestra da cui è entrato è lì.» Amelia tacque per un istante. Quindi aggiunse: «Hanno cercato testimoni, ma nessuno ha visto né lui né la sua macchina. Può darsi che lui e il complice siano a piedi, visto che abbiamo noi il loro fuoristrada». Il Greenwich Village era percorso da parecchie linee della metropolitana ed era possibile che i due se ne fossero serviti. «Non credo.» Rhyme spiegò che, secondo lui, l'Orologiaio e il suo complice preferivano muoversi in macchina. La scelta di usare o no un veicolo è un fattore ricorrente nel modus operandi di un criminale. È raro che cambi tecnica. Amelia esaminò la camera da letto, la scala antincendio, la stanza da bagno e i possibili percorsi da un punto all'altro. Controllò anche il tetto che, riferì, non era stato ricoperto di recente. «Niente da fare, Rhyme. È come se indossasse anche lui una tuta di Tyvek. Non lascia mai una traccia.» Edmond Locard, il famoso criminalista francese, aveva elaborato ciò che aveva definito «il principio dello scambio», in base al quale c'è sempre uno scambio di elementi tra il criminale e la scena del crimine. Qualcosa di lui rimane sul posto e qualcosa del posto rimane su di lui. Il principio, tuttavia, è ingannevolmente ottimistico, perché a volte le tracce sono così microscopiche da sfuggire allo sguardo e altre volte sono visibili ma non forniscono alcuna pista utile agli investigatori. Ciò non toglie che, secondo il Principio di Locard, uno scambio ci deve sempre essere. Rhyme si chiedeva spesso se potesse esistere un raro tipo di criminale, astuto quanto o più di lui, in grado di conoscere le procedure della polizia scientifica quanto bastava per commettere un delitto facendosi beffe del Principio di Locard, senza lasciare né raccogliere tracce. Che l'Orologiaio fosse un criminale di quel tipo? «Rifletti, Sachs... Dev'esserci qualcos'altro. Qualcosa che ci sfugge. Che cosa dice la vittima?» «È piuttosto scossa. Non riesce a concentrarsi.» Dopo un attimo, Rhyme disse: «Ti mando la nostra arma segreta».
Kathryn Dance era seduta di fronte a Lucy Richter nel salotto del suo appartamento. La soldatessa stava sotto un poster di Jimi Hendrix e una foto del giorno delle nozze. Il marito era un uomo dalla faccia tonda e sorridente che indossava un'uniforme militare. La donna appariva piuttosto calma, considerate le circostanze, anche se, come aveva notato Amelia Sachs in precedenza, c'era qualcosa che la turbava. Kathryn aveva la sensazione che ciò non avesse nulla a che vedere con l'intruso nella sua casa. Il soggetto non esibiva i sintomi di stress posttraumatico tipici di uno scampato pericolo, ma piuttosto quelli di un tormento più profondo. «Le spiacerebbe ripetermi i dettagli?» «Qualsiasi cosa, se può aiutarvi a prendere quel figlio di puttana.» Lucy raccontò che quella mattina era andata in palestra ad allenarsi e al suo ritorno aveva trovato l'orologio. «Ero sconvolta. Quel ticchettio...» Il suo viso rivelò una sottile reazione di paura. Come se fosse in dubbio se combattere o fuggire. Kathryn la portò a parlare delle bombe in Iraq. «Ho pensato che l'orologio potesse essere una specie di regalo, però mi sono spaventata. Poi ho sentito una corrente d'aria e sono andata a guardare. Ho trovato aperta la finestra in camera da letto. E in quel momento è arrivata la polizia.» «Nient'altro di insolito?» «Non che mi ricordi.» Kathryn Dance le fece diverse altre domande, Lucy Richter non conosceva né Theodore Adams né Joanne Harper. Non le veniva in mente nessuno che volesse farle del male. Cercava di ricordare qualcos'altro che potesse essere utile alla polizia, senza riuscirci. Sembrava molto coraggiosa («quel figlio di puttana»), eppure l'agente del CBI avvertiva che nella mente di Lucy, a livello del subcosciente, un ostacolo le impediva di mettere a fuoco quanto le era appena accaduto. Lo rivelava la classica posizione difensiva, con braccia e gambe incrociate, che in questo caso non era segno di inganno bensì di difesa contro ciò che la stava minacciando. Occorreva un approccio differente. Kathryn depose il suo taccuino. «Che cosa fa qui in città?» le domandò, in tono di amichevole conversazione. Lucy le disse che era tornata per una licenza dal servizio in Medio Oriente. Di solito incontrava il marito in Germania, dove avevano amici; questa volta era tornata a New York per ricevere un encomio. «Nel corso della parata?» «Subito dopo.»
«Congratulazioni.» Lucy fece un sorriso incerto, che non sfuggì a Kathryn. Rispose anche lei con un sorriso sofferto. Quattro giorni prima di morire, suo marito aveva ricevuto dal Bureau un encomio per il suo coraggio nel corso di un'indagine molto rischiosa. Ma quel pensiero fu solo una breve interferenza, che Kathryn cancellò quasi subito. «È appena tornata negli Stati Uniti e le tocca avere a che fare con quell'individuo. Che sfiga. Specie dopo essere stata in Medio Oriente.» «Non è così brutto, laggiù. In televisione lo fanno sembrare peggio di com'è.» «Sarà... Comunque mi pare che lei se la cavi egregiamente.» Il corpo di Lucy sembrava dire l'esatto contrario. «Oh, sì. Si fa quello che si deve fare. Non è poi granché.» La soldatessa intrecciò le dita. «Qual è il suo compito, laggiù?» «Gestisco le forniture di carburante. In sostanza, mando in giro le autobotti.» «Un lavoro importante.» Lucy si strinse nelle spalle. «Credo di sì.» «Sarà bello essere in licenza, immagino.» «È mai stata nell'esercito?» «No», rispose Kathryn. «Be', nell'esercito si deve ricordare la regola numero uno: mai perdersi una licenza. Anche se si tratta solo di bere punch con qualche pezzo grosso e ritirare una targa da appendere al muro.» Kathryn continuava a studiarla. «Quanti soldati parteciperanno alla cerimonia?» «Diciotto.» Lucy non si sentiva affatto a suo agio. Kathryn si domandò se fosse inquieta perché avrebbe dovuto dire qualche parola di fronte alla folla. Nella graduatoria della paura, parlare in pubblico è più in alto del paracadutismo. «E quanta gente sarà presente?» «Non so. Cento persone. O duecento.» «Ci verrà anche la sua famiglia?» «Oh, sì, tutti quanti. Dopo ci sarà un ricevimento.» «Come dice sempre mia figlia, le feste sono uno sballo. Che cosa c'è nel menù?» «Che te lo dico a fare?» scherzò Lucy, imitando Al Pacino. «Siamo al
Village: ci saranno ziti, scampi, salsiccia, tutto all'italiana. Cucinano mia madre e mia zia. Io preparo il dessert. «Il mio debole», confessò Kathryn. «Dolci... comincio ad avere fame.» E a bassa voce aggiunse: «Mi scusi, mi sono distratta». Lasciando chiuso il taccuino, guardò la soldatessa negli occhi. «Torniamo al suo visitatore. Stava dicendo che ha preparato il tè, ha aperto l'acqua nella vasca, poi ha sentito una corrente d'aria, è andata in camera da letto e ha trovato la finestra aperta. Che cosa volevo chiederle? Ah, sì. Ha notato qualcos'altro fuori dall'ordinario?» «Non proprio», rispose Lucy, un po' troppo frettolosamente. Poi socchiuse gli occhi. «Un momento... Sa, c'era una cosa...» «Ah, sì?» Kathryn aveva usato una tecnica detta «inondazione». Aveva deciso che a preoccupare Lucy non fosse solo l'Orologiaio, ma qualcosa legato al suo servizio in Medio Oriente e all'imminente cerimonia. Perciò l'aveva bombardata di domande, nella speranza di far riaffiorare gli altri ricordi. Lucy si alzò e andò in camera da letto. Kathryn le andò dietro senza aprire bocca. Amelia Sachs le seguì. La soldatessa si guardò intorno. Attenta, si disse l'agente del CBI. Lucy ha in mente qualcosa. Ma rimase in silenzio. Troppi interrogatori vanno a monte perché ci si mostra insistenti. La regola, quando i ricordi sono confusi, è che bisogna aspettare che tornino a galla, senza cercare a tutti i costi di ripescarli. Guardare e ascoltare sono le due cose più importanti di un interrogatorio. Parlare è l'ultima. «C'era qualcos'altro che avevo notato, oltre alla finestra aperta... Ah, ora ricordo. Prima, quando ero entrata in camera da letto cercando l'orologio, c'era qualcosa di diverso. Non riuscivo a vedere il cassettone.» «E perché era insolito?» «Perché quando sono andata in palestra ho guardato se c'erano gli occhiali da sole. Li ho presi e sono uscita. Quando sono tornata in camera da letto perché sentivo il ticchettio, non riuscivo più a vedere il cassettone dalla porta... perché l'armadio era aperto.» «Allora», considerò Kathryn, «dopo avere lasciato l'orologio in bagno, l'intruso si è nascosto dietro la porta dell'armadio, o dentro l'armadio.» «Ha senso», commentò Lucy. Kathryn si voltò verso la Sachs, che sorrise e fece un cenno di assenso. «Bene. Mi metto al lavoro.» E, con indosso i guanti di lattice, aprì la porta
dell'armadio. Avevano fallito per la seconda volta. Duncan stava guidando più attento e meticoloso del solito. Era silenzioso e calmissimo. Il che a Vincent dava ancora più fastidio. Si sarebbe sentito meglio se l'Orologiaio avesse urlato e battuto i pugni, come era solito fare il suo patrigno. («Hai fatto cosa?» aveva gridato, quando aveva saputo dello stupro di Sally Anne. «Grassone pervertito!») Vincent cominciava a temere che Duncan ne avesse abbastanza e pensasse di abbandonare l'intero progetto. Non voleva che il suo amico se ne andasse. Duncan si limitava a guidare piano, restando sulla sua corsia, senza accelerare, senza cercare di passare con il giallo. E senza dire una parola per lungo tempo. Poi si decise a spiegare a Vincent che cosa era andato storto. Mentre si apprestava a salire sul tetto per entrare nell'edificio e andare a bussare alla porta di Lucy, per indurla a interrompere la sua telefonata, aveva guardato in basso. Nel vicolo c'era un uomo che lo stava guardando. L'Orologiaio lo aveva sentito gridare di fermarsi e lo aveva visto prendere di tasca il cellulare. Non aveva potuto fare altro che salire rapidamente sul tetto, passare da un edificio all'altro, scendere in un vicolo e raggiungere di corsa la Buick. Duncan guidava meticoloso, sì, ma senza alcuna meta evidente. Inizialmente Vincent aveva pensato che fosse per seminare la polizia, finché si era accorto che nessuno li stava inseguendo. Aveva concluso che l'Orologiaio stava guidando con il pilota automatico, girando intorno alla stessa zona. Girando come le lancette di un orologio. Anche questa volta lo choc dello scampato pericolo cominciava a recedere. Vincent sentì di nuovo crescergli dentro la fame. Sentiva male alla mascella, alla testa, al ventre. Se non si mangia, si muore. Avrebbe voluto essere di nuovo a casa, nel Michigan, andare a spasso con sua sorella, mangiare con lei, guardare la TV. Ma sua sorella non c'era, stava a chilometri e chilometri di distanza. Forse in quel momento stava pensando a lui... Questo non gli era di conforto. La fame era troppo intensa. Non c'era niente che andasse bene! Sentiva il bisogno di gridare. Avrebbe avuto più fortuna se si fosse appostato fuori da un centro commer-
ciale nel New Jersey. O in un parco, ad aspettare al varco un'universitaria o una receptionist che faceva jogging. A che serviva... Sottovoce, Duncan disse: «Mi spiace». «Ti...?» «Mi spiace.» Vincent si sentì disarmato. La sua rabbia sfumò. Non sapeva più che cosa dire. «Mi hai aiutato, ti sei dato da fare. E guarda cos'è successo: ti ho deluso.» A Vincent tornò in mente sua madre, che quando lui aveva dieci anni aveva ammesso di averlo deluso mettendosi con Gus. Poi con il secondo marito, poi con Bart, poi con Rachel l'esperimento, poi con il terzo marito. E ogni volta il giovane Vincent aveva dato la stessa risposta che diede in quel momento: «È okay». «No, non lo è... Io parlo del grande schema delle cose, ma questo non minimizza le nostre delusioni. Sono in debito con te. E farò in modo di ripagarti.» Questo sua madre non l'aveva mai detto. Né tantomeno lo aveva fatto. Così Vincent aveva dovuto trovare consolazione nel cibo, nella TV, nello spiare le ragazze e nei suoi momenti di intimità. No, era chiaro che il suo amico, Duncan, diceva sul serio. Si sentiva davvero in colpa perché lui non aveva potuto avere Lucy. Vincent aveva ancora voglia di urlare, ma per una ragione diversa. Non per la fame, bensì per la frustrazione. Provava una sensazione strana. La gente non gli diceva mai cose carine come questa. La gente non si preoccupava mai di lui. «Senti», riprese Duncan, «la prossima... non credo che ti piacerà.» «È brutta?» «Non proprio. È solo il modo in cui morirà. La devo bruciare viva.» «Oh.» «C'era nel libro. Ricordi la tortura dell'alcool?» Nel libro c'erano le figure, però erano tutte di uomini che venivano torturati. A Vincent non interessavano. «Si versa alcool sulla metà inferiore del corpo e le si dà fuoco. Se la persona confessa, il fuoco dell'alcool può essere spento con rapidità. Naturalmente, io non ho intenzione di spegnerlo.» Era vero, concordò Vincent. Dopo un trattamento del genere non l'avrebbe voluta.
«Ma ho un'altra idea.» Duncan gli spiegò ciò che aveva in mente. L'ottimismo di Vincent aumentava a ogni parola. «Non credi che andrà bene per tutti?» chiese l'Orologiaio. Be', non proprio per... tutti, pensò Vincent, che ora, tutto sommato, era tornato di buon umore. Seduto di fronte al tabellone, Rhyme sentì Sachs riprendere il collegamento. «Okay, Rhyme. Abbiamo scoperto che si è nascosto nell'armadio.» «Quale?» «Quello in camera da letto.» Rhyme chiuse gli occhi. «Descrivimelo.» Amelia gli illustrò la scena: il corridoio che portava alla camera da letto, la disposizione e il tipo dei mobili, i quadri appesi alle pareti, la finestra da cui era entrato l'Orologiaio, la via di fuga e ogni altro elemento, tutto nel dettaglio. Il suo talento e la sua esperienza erano evidenti quanto la sua lucente chioma di capelli rossi. Se Amelia avesse lasciato la polizia, c'era da chiedersi quanto ci sarebbe voluto per trovare un altro agente in grado di percorrere la griglia così bene. Un'eternità, si disse lui, cinicamente. Per un attimo fu accecato da un lampo di rabbia. Ma soffocò ogni emozione e si concentrò su quanto lei gli stava dicendo. Amelia stava descrivendo l'armadio: «Largo un metro e novanta, pieno di vestiti. Da uomo sulla sinistra, da donna sulla destra. Metà e metà. In basso le scarpe. Quattordici paia. Quattro da uomo, dieci da donna». Proporzioni tipiche per una coppia sposata, considerò Rhyme, ripensando al suo armadio di alcuni anni prima. «Quando si è nascosto, si è sdraiato in basso?» «No, troppe scatole.» Sentì Amelia che faceva una domanda a qualcuno, poi, alla radio: «I vestiti ora sono in ordine, ma quando si è nascosto deve averli spostati. Le scatole in basso sono state mosse e vedo tracce dello stesso catrame che abbiamo già trovato». «Quali erano i vestiti in mezzo a cui si è nascosto?» «Un abito. E l'uniforme di Lucy.» «Bene.» Certi indumenti, come le uniformi, raccolgono gli indizi più facilmente, a causa di spalline, bottoni e decorazioni. «Si è appoggiato alla parte anteriore o a quella posteriore?»
«Anteriore.» «Perfetto. Controlla ogni bottone e ogni medaglia.» «Okay. Dammi cinque minuti.» Silenzio. L'impazienza e la rabbia tornarono. Rhyme fissò il tabellone. Dopo un po' Amelia disse: «Ho trovato due capelli e qualche fibra». Lui stava per suggerirle di confrontare i capelli con qualche campione preso dall'appartamento. Ma naturalmente non ce n'era bisogno. «Ho confrontato i capelli con quelli di Lucy. Non corrispondono. Ho guardato anche quelli sulla spazzola del marito. Sono quasi certa che siano suoi.» Brava, Sachs, brava. «Però le fibre... non corrispondono a nessuno dei vestiti nell'armadio.» Una breve pausa. «Si direbbe lana, di colore chiaro. Forse un maglione. Si trovavano sul bottone di una tasca che dovrebbe essere all'altezza della spalla dell'Orologiaio. Potrebbe essere un colletto di shearling.» Deduzione ragionevole. In ogni caso, avrebbero dovuto esaminare più attentamente le fibre in laboratorio. Dopo qualche minuto, Amelia aggiunse: «Questo è più o meno tutto, Rhyme. Non è molto, ma è già qualcosa». «Okay, porta qui tutto così lo esaminiamo.» Rhyme chiuse il collegamento. Thom trascrisse sul tabellone le informazioni fornite da Amelia. Quando l'assistente uscì dalla stanza, Lincoln Rhyme rilesse le annotazioni. Si domandò se quello che stava guardando non riguardasse solo gli indizi di un caso di omicidio, ma anche di un altro tipo di delitto. Il cadavere dell'ultima scena che lui e Amelia avevano esaminato insieme. Lon Sellitto se n'era andato e Amelia Sachs stava riponendo gli indizi raccolti nell'appartamento di Lucy Richter. Si rivolse a Kathryn Dance e la ringraziò. «Spero che sia servito a qualcosa.» «È così che si lavora nella CSU. Sono solo un paio di fibre, però potrebbero essere sufficienti per condannare il colpevole. Si vedrà. Io torno da Rhyme. Senti, non so se ne hai voglia, ma ti spiacerebbe girare per il quartiere in cerca di testimoni? Te la cavi magnificamente, con loro.» «Certo.» La detective le consegnò alcune copie dell'identikit dell'Orologiaio e se
ne andò a sua volta. Kathryn fece un cenno a Lucy Richter. «Si sente bene?» «Sì», rispose la soldatessa, con un sorriso stoico. Andò in cucina e mise il bollitore sul fuoco. «Vuole un tè? Un caffè?» «No, grazie. Devo andare a cercare testimoni.» Lucy stava fissando il pavimento della cucina, un chiaro segnale per un'esperta di cinesica. Kathryn non disse nulla. «Ha detto che viene dalla California», ricordò la soldatessa. «Ci torna presto?» «Domani, probabilmente.» «Mi domandavo se non avrà tempo per passare a bere un caffè o qualcosa del genere.» Lucy giocherellò con una tazza su cui c'era scritto: QUARTA DIVISIONE FANTERIA. RISOLUTI E LEALI. «Sicuro.» Kathryn prese un biglietto da visita dalla borsetta e vi scrisse sopra il nome del suo albergo, tracciando poi un cerchio intorno al numero di cellulare. Lucy prese il biglietto. «Mi chiami», disse Kathryn. «Lo farò.» «Tutto okay?» «Oh, sì. Tutto a posto.» Kathryn le strinse la mano e uscì dall'appartamento, rammentando a se stessa una regola importante della cinesica: a volte non si deve scoprire la verità su tutto quello che ti viene nascosto. 25 Amelia Sachs tornò da Rhyme con la sua modesta messe di indizi. «Che cosa abbiamo?» chiese lui. La detective gli mostrò i reperti e li annotò sul tabellone. Secondo la banca dati delle fibre dell'NYPD, quelle che Amelia aveva trovato sull'uniforme di Lucy provenivano effettivamente da un colletto di shearling, come quelli delle giacche dei piloti. Già nell'appartamento la detective aveva sottoposto l'orologio al test dei nitrati, appurando che nemmeno in questo c'erano tracce di esplosivi. Era identico agli altri tre e privo di tracce, eccezion fatta per una macchia recente di alcool, del tipo usato per disinfettare e pulire. Come con la fiorista, per scelta o mancanza di tempo, l'Orologiaio non aveva lasciato poesie.
Rhyme fu d'accordo nell'annunciare pubblicamente l'esistenza di un assassino che firmava i suoi delitti con gli orologi, anche se prevedeva quale sarebbe stata l'unica conseguenza: d'ora in poi l'Orologiaio li avrebbe tenuti ben nascosti, fino a essere sicuro che la vittima non fosse in grado di chiamare aiuto. Le tracce rinvenute lungo la presunta via di fuga del killer non furono di alcuna utilità. «Non c'era nient'altro», si giustificò lei. «Niente?» chiese Rhyme, e scosse la testa. Il principio di Locard... Arrivò Ron Pulaski, che si tolse la giacca e l'appese. Rhyme notò nello sguardo di Amelia l'ansia di avere notizie. Sull'Altro Caso. «Hai avuto fortuna per quanto riguarda il Maryland?» «Sono in corso tre indagini federali per casi di corruzione al porto di Baltimora», rispose la recluta. «In uno ci sono collegamenti con l'area di New York, ma solo limitatamente ai dock nel Jersey. E la droga non c'entra: è una faccenda di bustarelle e di bolle di carico falsificate. Sono in attesa di notizie da Baltimora per quanto riguarda le indagini della polizia di Stato. Né Creeley né Sarkowsky avevano proprietà nel Maryland o ci sono andati per affari, almeno da quanto ho potuto scoprire. Il massimo che ha fatto Creeley è stato partecipare a riunioni con qualche cliente in Pennsylvania. Sarkowsky invece non viaggiava mai. Oh, non è ancora arrivata nessuna lista di clienti da Jordan Kessler. Gli ho lasciato un altro messaggio, ma non ha richiamato.» Proseguì. «Ho trovato due agenti in servizio all'Uno Uno Otto che sono nati nel Maryland, ma adesso non hanno più nessuno laggiù. Ho anche controllato i nomi di tutti gli agenti del Distretto su una banca dati del fisco, per vedere se risultassero proprietà nel Maryland...» «Aspetta», disse Sachs. «L'hai fatto sul serio?» «Ho sbagliato?» «Uhm, no. Hai fatto bene. Ottima idea.» Sachs scambiò un'occhiata con Rhyme, che sollevò un sopracciglio, favorevolmente impressionato. «Forse. Però non è venuto fuori niente.» «Be', continua a scavare.» «Certo.» Amelia si rivolse a Sellitto e gli chiese: «Ho una domanda. Conosci Halston Jefferies?»
«Il viceispettore dell'Uno Cinque Otto?» «Sì. Che cos'ha? Mi sembra molto nervoso.» Sellitto scoppiò a ridere. «Sì, sì, incazzarsi per lui è come una droga.» «Quindi non sono l'unica con cui se l'è presa.» «Macché. Perde le staffe per niente. Com'è che l'hai conosciuto?» Il detective guardò Rhyme. «Io non c'entro», rispose allegro il criminalista. «Riguarda il suo caso, non il mio.» L'occhiataccia di Amelia non lo turbò. Certe piccole cose lo divertivano. «Mi serviva un dossier e sono andata al Distretto. Lui era convinto che dovessi chiedergli il permesso.» «Ma tu non potevi dirgli quello che sta succedendo all'Uno Uno Otto.» «Esatto.» «È fatto così. Ha avuto qualche problema, in passato. Sua moglie era molto mondana...» «Che bella parola», lo interruppe Pulaski. «Mondana. Un po' come montana. Solo che sono l'opposto. In un certo senso.» Sellitto lo zittì con uno sguardo. Poi riprese: «Ho sentito che hanno perso un sacco di soldi, Jefferies e sua moglie. Cifre grosse, di cui noi non sapremmo nemmeno dove si mette la virgola dei decimali. Un affare di cui si occupava la moglie. Lui puntava a una carica... nello Stato di New York, mi pare. Ma lì non ci si arriva senza avere un sacco di soldi. E dopo il tracollo lei lo ha mollato. Anche se, con il carattere di Jefferies, mi stupisce che non lo abbia fatto prima». Amelia stava ascoltando con attenzione, quando il suo cellulare la interruppe. «Sì, sono io», rispose. «Oh, no... Dove? Sono lì tra dieci minuti.» Pallida in viso, corse alla porta. «C'è un problema. Torno tra mezz'ora.» «Sachs...» cominciò Rhyme. Ma sentì soltanto la porta di casa che sbatteva. La Camaro accostò al marciapiede della West 44th Street, non lontano dalla West Side Highway. Un giovane alto e robusto, con indosso un cappotto e in testa un berretto di pelo, la guardò scendere dall'auto. Non si conoscevano, ma l'auto parcheggiata in una zona di servizio e la targhetta dell'NYPD sul cruscotto gli chiarirono che era lei che stava aspettando. Il giovane aveva il naso e le orecchie rosse. Sbuffava vapore dal naso mentre batteva i piedi per favorire la circolazione. «Accidenti che freddo.
Sono già stufo dell'inverno. È lei la detective Sachs?» «Sì. Lei è Coyle?» Si diedero la mano. Coyle aveva una stretta forte. «Mi dica.» «Venga. Le faccio vedere.» «Dove?» «È in un parcheggio, da questa parte.» Si incamminarono di buon passo. «Da quale Distretto viene?» chiese Sachs. Al telefono, Coyle si era presentato come un poliziotto. Il traffico era assordante. L'uomo non l'aveva sentita e lei dovette ripetere la domanda. «Da quale Distretto viene? Midtown South?» Lui batté le palpebre. «Sì», rispose, poi si soffiò il naso. «Ci sono stata, per un po'.» «Hmm.» Coyle non disse altro. La accompagnò nel vasto parcheggio e si fermò in fondo, vicino a una Ford Windstar Van con i vetri oscurati e il motore acceso. Si guardò intorno. Aprì la portiera. Mentre passava al setaccio gli appartamenti e i negozi intorno alla casa di Lucy Richter, Kathryn Dance rifletteva sul rapporto simbiotico tra la cinesica e il lavoro della Scientifica. A un praticante di cinesica occorre l'essere umano, testimone o sospetto che sia, così come a un esperto di scene del delitto servono gli indizi. Eppure questo caso era caratterizzato da una sorprendente assenza tanto di persone quanto di prove fisiche. Era frustrante. Kathryn non aveva mai affrontato un'indagine del genere. Mi scusi, signore, signora, giovanotto... Oggi qui vicino c'era la polizia, lo ha saputo? Ah, bene. Mi domandavo se non le è capitato di vedere qualcuno che si allontanava rapidamente. O se ha notato qualcosa di sospetto o fuori dall'ordinario... Guardi per favore questa immagine... Niente. Kathryn non riconobbe nemmeno i soliti sintomi di testimonite cronica, che si manifestano quando è chiaro che il soggetto sa qualcosa ma afferma il contrario, perché teme per sé o per la propria famiglia. No, dopo quaranta minuti in strada al gelo, non c'era possibilità di equivoco: nessuno aveva visto un accidente. Mi scusi, signore... Si, è un distintivo della California, ma sto lavorando con il dipartimento di polizia di New York. Può chiamare questo numero
per verificare. Ecco, non ha visto per caso... Zero. Rimase impietrita, quasi sconvolta, quando si avvicinò a un uomo che stava uscendo da un appartamento. Per un attimo fu incapace di pensare. L'uomo era identico a suo marito. Kathryn riprese il controllo e ricominciò con la sua litania. Lui notò che qualcosa non andava e le domandò se si sentisse bene. Sono stata poco professionale, si disse Kathryn, arrabbiandosi con se stessa. Rispose: «Bene», ostentando un falso sorriso. Come i suoi vicini, nemmeno lui aveva visto niente, e dopo poco se ne andò. Kathryn non si arrese. Cercava una pista. Voleva dare una mano a catturare l'assassino. Come qualsiasi poliziotto, il suo primo pensiero era togliere dalla strada un individuo malato e pericoloso. Ma, dopo l'arresto, avrebbe desiderato anche interrogarlo. L'Orologiaio era completamente diverso da qualsiasi assassino le fosse capitato di affrontare in precedenza. Kathryn voleva scoprire a tutti i costi che cosa gli desse la carica. Rise tra sé per l'involontaria scelta delle parole. Continuò a fermare passanti per un altro isolato, senza trovare nessuno che potesse esserle d'aiuto. Fino a quando non trovò l'uomo che tornava dalla spesa. Sul marciapiede, a un isolato dalla casa di Lucy Richter, Kathryn fermò un uomo che spingeva un trolley carico di alimentari. Gli mostrò l'identikit dell'Orologiaio. L'uomo rispose d'impulso. «Sì, credo di avere visto uno che gli somigliava...» Poi esitò. «Ma non ci ho fatto molto caso.» E fece per andarsene. Ma l'agente del CBI aveva capito subito che ne sapeva di più. Testimonite. «È molto importante.» «Ho visto solo uno che correva in strada. Tutto lì.» «Senta, ho un'idea. C'è qualcosa di deperibile, lì dentro?» Indicò il trolley. Lui esitò, cercando di anticipare la sua mossa. «Credo di no.» «Che ne dice se ci prendiamo un caffè, così le posso fare qualche altra domanda. Le spiace?» Si vedeva benissimo che gli spiaceva, ma furono entrambi investiti da una folata di vento gelido e all'uomo non dispiacque l'idea di andare in un
posto caldo. «No. Però davvero non le so dire altro.» Questo è da vedere. Con l'aiuto di Coyle, Amelia Sachs cercava di sistemare Art Snyder sul sedile posteriore della Windstar. Il detective in pensione era in stato di semincoscienza e borbottava sottovoce qualcosa di incomprensibile. Quando Coyle aveva aperto la portiera, Snyder era disteso con le braccia aperte e la testa rovesciata all'indietro, privo di sensi. Amelia aveva pensato con orrore che si fosse ucciso; ben presto aveva capito che era ubriaco. Ubriaco fradicio. Lei lo aveva scosso gentilmente. «Art?» Lui aveva aperto gli occhi, confuso e disorientato. La detective e il poliziotto erano riusciti a metterlo a sedere. «No, voglio solo dormire. Lasciatemi stare. Voglio dormire.» «È sua la macchina?» chiese Amelia a Coyle. «Sì», rispose questi. «Cos'è successo? Com'è arrivato qui?» «Era qui vicino, all'Harry's. Si rifiutavano di servirlo: era già sbronzo. Lui è uscito fuori barcollando. Io sono passato a comprare le sigarette e il barista, che sa che sono un poliziotto, mi ha avvisato. Aveva paura che Snyder si mettesse in macchina e ammazzasse se stesso o qualcun altro. Io l'ho trovato qui, mezzo dentro e mezzo fuori. Aveva in tasca il suo biglietto da visita.» Art Snyder, in stato confusionale, cambiò posizione sul sedile. «Lasciatemi stare.» Chiuse gli occhi. Amelia guardò Coyle. «Me ne occupo io.» «Sicura?» «Sì. Solo una cosa: può fermare un taxi e mandarlo qui?» «Certo.» Il poliziotto scese dalla Windstar e se ne andò. Amelia si chinò su Snyder e gli appoggiò una mano sul braccio. «Art?» Lui dischiuse gli occhi e la riconobbe: «Tu...» «Art, adesso si torna a casa.» «Lasciami stare, che cazzo, lasciami stare.» Snyder doveva essere caduto: aveva un taglio sulla fronte e uno strappo sulla manica. E aveva vomitato di recente. «Non ne hai già fatte abbastanza, cazzo? Non me ne hai già fatte abbastanza?» Strabuzzò gli occhi. «Vattene via. Voglio stare solo. Lasciami stare.» Cercò di mettersi in ginocchio sul sedile posteriore per trascinarsi fino al volante. «Vattene... via!»
Amelia lo rimise a sedere. Non era un uomo esile, ma l'alcool lo aveva indebolito, e quando cercò di rialzarsi, ricadde sul sedile. «Si è dato da fare», disse Amelia, indicando una bottiglia vuota sul tappetino. «Che cazzo vuoi? Che cazzo vuoi?» «Che è successo?» insistette Amelia. «Non hai capito? Tu sei successa. Tu.» «Io?» «Perché pensavo che era meglio stare zitti? Al dipartimento non c'è un cazzo che rimanga segreto. Io ho fatto delle domande per te, dov'era quel dossier di merda, che fine aveva fatto... E poi? Il mio amico con cui giocavo a biliardo non si fa più vedere. Non risponde nemmeno alle mie chiamate...» Snyder si ripulì la bocca con la manica. «Poi mi arriva una telefonata: uno che era stato mio compagno per tre anni. Lui, io e le nostre mogli dovevamo andare in crociera insieme. Indovina un po'? Adesso non può più. E tutto perché ho fatto quelle domande del cazzo. Uno sbirro in pensione che fa domande... Avrei dovuto mandarti a farti fottere appena sei arrivata alla mia porta.» «Art, io...» «Oh, non si preoccupi, signorina. Non ho fatto il tuo nome. Non ho detto niente.» Tese la mano verso la bottiglia, vide che era vuota e la gettò di nuovo sul tappetino. «Senta, conosco un buon consulente. Potrebbe...» «Consulente? E che cosa mi può dire? Che ho mandato affanculo la mia vita?» Amelia guardò la bottiglia. «Una ricaduta. Capita a tutti.» «Non parlo di questo. È perché ho mandato affanculo tutto quanto.» «Che cosa vuoi dire, Art?» «Perché ero uno sbirro. Ho buttato nel cesso tutto. Tutta la mia vita.» Amelia rabbrividì. Le parole di Snyder riecheggiavano quello che provava lei stessa. Era la medesima ragione per cui lei voleva lasciare la polizia. «Art, che ne dici se torniamo a casa?» «Potevo fare mille altre cose. Mio fratello è idraulico. Mia sorella si è diplomata e adesso lavora in un'agenzia pubblicitaria. Ha fatto lei la pubblicità con le farfalle per quella cosa femminile. È famosa. Potevo combinare qualcosa nella mia vita/' «È solo che ti senti...» «No», tagliò corto lui. «Non mi conosci abbastanza da parlarmi così.
Non ne hai il diritto.» Amelia tacque. Era vero. Non ne aveva il diritto. «Tutto il casino è venuto fuori perché ti sei messa a ficcare il naso in quella storia. Io sono fottuto. In un modo o nell'altro, sono fottuto.» Ad Amelia si gelò il cuore nel vedere la rabbia e il dolore di Snyder. Gli passò un braccio intorno alla vita. «Art, ascolta...» «Toglimi le mani di dosso.» Snyder appoggiò la testa al finestrino. Coyle ricomparve di lì a poco, seguito da un taxi. Il poliziotto e la detective aiutarono Snyder a salirvi. Amelia diede al tassista l'indirizzo di casa dell'ex detective e tutti i soldi che aveva in tasca, quasi cinquanta dollari. «Chiamo sua moglie. L'avviso che sta arrivando.» La macchina della Yellow Cab ripartì e si immise nel traffico di Midtown. Amelia si rivolse a Coyle. «Grazie.» Il poliziotto fece un cenno di assenso e tornò al lavoro. Lei gli fu grata per non aver fatto domande. Rimasta sola, Amelia prese dalla tasca la pistola di Snyder, che gli aveva estratto dalla fondina quando gli aveva passato il braccio intorno alla vita. Sperò che non ne avesse un'altra in casa. Ma almeno non avrebbe usato quell'arma per togliersi la vita. La scaricò, si tenne i proiettili e nascose l'arma sotto il sedile del guidatore. Chiuse la Windstar a chiave e tornò alla Camaro. Si ficcò l'unghia dell'indice nel pollice. Sentì prudere la pelle. La sua rabbia cresceva: si rendeva conto che suo padre e tutti i poliziotti corrotti erano responsabili di un crimine ancora più grave. Amelia aveva semplicemente cercato di arrivare alla verità, e ora la sua indagine era diventata un pericolo anche per le persone innocenti. Il futuro da pensionato di Snyder, la vita che aveva aspettato per anni, si stava dissolvendo. E tutto per colpa di quanto era accaduto al 118° Distretto. Allo stesso modo, anche la vita delle famiglie dei poliziotti del Club della Sixteenth Avenue erano cambiate per sempre, a causa di ciò che suo padre e i suoi colleghi avevano fatto. Le mogli avevano perso le loro case, portate via dalle banche, e i figli avevano dovuto abbandonare gli studi per cercarsi un lavoro. Avevano subito l'ostracismo, macchiati per sempre dallo scandalo. Amelia era ancora in tempo per uscirne. Poteva lasciare la polizia, andare a lavorare all'Argyle, scappare dalle stronzate e dalla politica. Farsi una nuova vita. Per lei non era troppo tardi. Ma per Art Snyder sì. Perché, papà? Perché l'hai fatto? Amelia Sachs non l'avrebbe mai saputo. Il tempo le aveva tolto ogni
possibilità di avere una risposta. Solo ipotesi. Una ferita nell'anima che, lo sentiva, non si sarebbe mai rimarginata. Avrebbe dovuto riportare indietro le lancette dell'orologio. E questo, naturalmente, era impossibile. Tony Parsons sedeva di fronte a Kathryn Dance nel coffee shop, con il carrello carico di alimentari accanto al tavolino. «Ho cercato di ricordare, ma non mi viene in mente altro.» Sorrise. «Mi spiace, ha sprecato i suoi soldi.» E bevve un sorso di caffè. «Be', facciamo un tentativo.» Kathryn era certa che lui ne sapesse di più. Parsons aveva parlato senza pensarci (gli esperti di interrogatori adoravano i soggetti impulsivi), ma in seguito doveva essersi reso conto che l'individuo che aveva visto per la strada poteva essere un assassino. Forse addirittura lo stesso che il giorno prima aveva ucciso in quel modo orribile l'uomo al porto e l'altro nel vicolo. L'agente del CBI sapeva che le stesse persone che non esiterebbero a fare la spia su un vicino adultero o un adolescente che rubacchia in un negozio diventano molto reticenti quando si tratta di delitti seri. Parsons poteva essere un osso duro, rifletté Kathryn, però a lei non importava. Amava le sfide. L'unica delusione che provava al momento di una confessione era che ciò segnava la fine di un'esaltante battaglia verbale. Parsons si versò un po' di latte nella tazza e mescolò il caffè. «Sa, magari, se ne parliamo un po', riesco a ricordare qualcosa.» «Ottima idea.» Lui fece cenno di sì con la testa. «Sarà il nostro momento di intimità.» E le rivolse un ampio sorriso. 26 Era il suo premio di consolazione. Era il regalo di Gerald Duncan. Era così che l'assassino voleva scusarsi per averlo deluso. Lo aveva fatto sul serio, non come la madre di Vincent. Ed era anche il modo migliore per rallentare la polizia: violentare e uccidere una di loro. In un primo momento Duncan aveva pensato alla poliziotta dai capelli rossi che aveva condotto le indagini sul secondo delitto. Oh, sì, per favore... capelli rossi, come Sally Anne. Ma, tenendo d'occhio la polizia al lavoro nell'appartamento di Lucy Ri-
chter al Greenwich Village, seduti nella Buick, Duncan e Vincent avevano compreso che sarebbe stato difficile arrivare a lei: non era mai sola. Poi l'altra donna, una detective in borghese o qualcosa di simile, era scesa in strada, apparentemente alla ricerca di testimoni. L'Orologiaio e il suo complice erano entrati in un discount e avevano comprato il carrello, una giacca a vento nuova e cinquanta dollari di sapone, patatine e bibite. Nessuno sospetta di uno che torna dalla spesa, aveva detto Duncan, che pensava sempre a tutto. Il piano prevedeva che Vincent percorresse le strade del Village fino a quando non avesse trovato la poliziotta, o lei non avesse trovato lui. A quel punto il complice dell'Orologiaio avrebbe dovuto condurla in un edificio abbandonato a un isolato dalla casa di Lucy Richter. L'avrebbe portata in cantina e avrebbe potuto disporne per tutto il tempo che voleva, mentre Duncan andava a occuparsi della vittima successiva. L'Orologiaio aveva squadrato Vincent. «È un problema per te uccidere una poliziotta?» Timoroso di deludere l'amico, che gli stava facendo quel grande favore, Vincent aveva risposto: «No». Ma ovviamente Duncan sapeva che non era vero. «Fai così: lasciala in cantina. Legala. Quando ho finito a Midtown, torno qui e me ne occupo io.» Vincent si era sentito più tranquillo. La fame lo stava consumando, ora che aveva di fronte a sé Kathryn Dance. La sua treccia, la sua gola liscia, le sue lunghe dita. Non era grassa, ma aveva una bella figura piena, non come tutte quelle ragazze ossute tipo modella che si vedevano in giro per la città. Chi le voleva, quelle? Quel corpo gli faceva venire fame. Quegli occhi verdi gli facevano venire fame. Persino il suo nome, Kathryn, gli faceva venire fame. Per qualche ragione, gli sembrava che appartenesse alla stessa categoria di Sally Anne. Chissà perché. Forse perché era antiquato. E gli piaceva come guardava con appetito i dolci. È proprio come me! Vincent non vedeva l'ora di metterla a faccia in giù nella cantina. Bevve un sorso di caffè. «E così viene dalla California», fece Vincent... o meglio, Tony il Disponibile. «Infatti.» «Dev'essere un bel posto.» «Sì. Anche se non tutta la California. Ma ora ripensi per favore a quello
che ha visto. Mi parli di quell'uomo che correva.» Vincent sapeva che non si doveva distrarre. Non prima che arrivassero in quell'edificio abbandonato. Stai attento, gli aveva raccomandato l'assassino. Fai il timido. Fingi di sapere qualcosa di me, ma che non glielo vuoi dire. Sii esitante. Come un vero testimone. E lui, timido ed esitante, le disse qualcos'altro sull'uomo che correva per la strada e aggiunse una vaga descrizione di Gerald Duncan, non molto diversa dall'identikit di cui la polizia già disponeva. Avrebbe dovuto avvisare l'amico di questo. Kathryn prendeva appunti. «Qualche caratteristica insolita?» «Hmm. Non mi ricordo. Le ho detto che non mi è passato vicino.» «Qualche arma?» «Non credo. Che cos'ha fatto, quello lì?» «Tentata aggressione.» «Oh, no. Ha fatto del male a qualcuno?» «Fortunatamente no.» Sfortunatamente, pensò invece Vincent/Tony lo Sveglio. «Aveva in mano qualcosa?» chiese Kathryn. Non strafare, si disse lui. Non cadere nei suoi trabocchetti. Corrugò la fronte, pensoso. Esitò. Poi disse: «Boh, chissà. Cioè, poteva avere qualcosa. Una borsa, mi pare. Non l'ho visto bene. Stava correndo». Si interruppe. Kathryn piegò il capo di lato. «Stava per aggiungere qualcos'altro?» «Mi spiace di non poterla aiutare di più. Capisco che è importante.» «Non si preoccupi», disse lei, rassicurante. Per un attimo Vincent provò una punta di rimorso per quello che stava per farle. Ma la fame gli impose di non sentirsi in colpa. Era normale avvertire quel bisogno. Se non si mangia, si muore. Non sei d'accordo, agente Dance? Bevvero entrambi un sorso di caffè. Vincent le diede qualche altro piccolo dettaglio sul sospetto. Lei chiacchierava, come se fossero amici. Quando Vincent decise che fosse il momento buono, confessò: «Senta... c'è una cosa che non le ho detto. Prima avevo paura. Sa, io passo di qui tutti i giorni. E se quello ritorna? E se scopre che ho parlato con la polizia?» «Lei resterà anonimo. E noi la proteggeremo, glielo prometto.» Vincent lo Sveglio si mostrò titubante. «Davvero?» «Certo. La faremo sorvegliare da un agente.»
Quella sì che era un'idea interessante. Posso avere la rossa? «Okay», disse lui. «Ho visto dov'è andato. È entrato in una vecchia casa, dalla porta di servizio.» «La porta era aperta o lui aveva una chiave?» «Credo che fosse aperta. Gliela faccio vedere, se vuole.» «Mi sarebbe molto utile. Ha finito?» Kathryn indicò la tazza. Lui bevve l'ultimo sorso. «Adesso sì.» Kathryn chiuse il taccuino. Vincent si disse che doveva ricordarsi di prenderglielo, una volta finito. «Grazie, agente Dance.» «Prego.» Vincent portò fuori la spesa, mentre la poliziotta pagava il conto. Poi lei lo raggiunse e insieme si incamminarono sul marciapiede. «Fa sempre così freddo a New York in dicembre?» «Di solito sì.» «Sto gelando.» Davvero? A me sembri caldissima. «Dove stiamo andando?» chiese Kathryn, rallentando il passo e guardando i nomi delle vie. Il sole era abbagliante. Lei si fermò e prese un appunto sul taccuino. «Il sospetto si è diretto verso Sherman Street, nel Greenwich Village», recitò, mentre scriveva. «Ha percorso il vicolo tra la Barrow e la Sherman...» Chiese a Vincent: «Su che lato è il vicolo? Nord o sud? Devo essere precisa». Ah, anche lei è meticolosa. Lui ci pensò su un momento, disorientato, più per effetto della fame che del freddo pungente. «Sud-est.» Lei guardò il taccuino e rise: «Tremo così tanto che non riesco a scrivere. Fa troppo freddo. Non vedo l'ora di tornare in California». Non ci tornerai molto presto, bella... Si rimisero in cammino. «Lei ha famiglia?» domandò lei. «Sì. Moglie e due bambini.» «Anch'io ho due figli. Un maschio e una femmina.» Vincent annuì, chiedendosi quanti anni avesse la femmina. «E questo è il vicolo?» chiese Kathryn. «Sì. È qui che è scappato.» Tirandosi dietro il carrello, Vincent imboccò il vicolo che li avrebbe portati al loro nido d'amore. Aveva un'erezione dolorosa.
Infilò una mano in tasca e strinse l'impugnatura del coltello. No, non avrebbe potuto ucciderla. Però, se lei avesse reagito, lui avrebbe dovuto proteggersi. Ferire gli occhi... Sarebbe stato brutto, ma un po' di sangue sulla faccia per lui non era un problema. Gli piaceva prenderle da dietro. Si stavano inoltrando nel vicolo. Erano ormai a dieci-quindici metri dalla porta. Kathryn si fermò di nuovo e aprì il taccuino. «Il vicolo», recitò mentre scriveva, «si trova sul retro di sei... no, sette edifici residenziali. Ci sono quattro cassonetti. È asfaltato. Il sospetto si è diretto verso sud.» Poi infilò nei guanti le lunghe dita intirizzite, con le unghie smaltate di rosso. Vincent non riusciva più a resistere alla fame. Si sentiva prosciugare. Ansante, strinse il coltello nella tasca con la mano tremante. Lei si fermò di nuovo. Adesso! Prendila. Lentamente, cominciò a estrarre il coltello dalla tasca. Ma dal fondo del vicolo il suono di una sirena fendette l'aria. Lui, sotto choc, guardò l'auto della polizia. E in quel momento sentì la canna di una pistola appoggiata alla nuca. Kathryn stava gridando: «Mani in alto. Subito!» La mano di lei gli strinse la spalla. Cosa... «Subito.» La donna gli premette con forza la canna sulla nuca. No, no, no! Lasciò il coltello dov'era e alzò le mani. Che cosa succede? L'auto della polizia frenò davanti a loro. Dietro ce n'era un'altra. Ne scesero quattro robusti agenti. «Faccia a terra», intimò uno di loro. «Sbrigati!» Vincent era paralizzato dallo choc. Kathryn fece un passo indietro, mentre i quattro agenti lo circondavano e lo costringevano a mettersi in ginocchio. «Non ho fatto niente! Niente!» «Tu!» gridò un poliziotto. «Pancia a terra, subito!» «Ma è freddo! È sporco! E io non ho fatto niente!» Lo spinsero a terra. Vincent si lasciò sfuggire un grugnito, sentendosi comprimere lo stomaco. Era come quella volta con Sally Anne. Di nuovo. Tu, grassone di merda, non ti muovere. Pervertito! No, no, no!
Si sentiva addosso le loro mani che lo frugavano. Provò un dolore alle braccia mentre gliele tiravano indietro per mettergli le manette. Gli rivoltarono le tasche. «Un documento e un coltello.» Oggi come tredici anni fa. Vincent non distingueva la differenza. «L'abbiamo sentita forte e chiaro», disse a Kathryn Dance uno degli agenti. «Non c'era bisogno che entrasse nel vicolo con lui.» «Avevo paura che scappasse. Volevo restargli vicino il più a lungo possibile.» Ma che succede? si chiese Vincent. Che cosa sta dicendo? La poliziotta si rivolse a uno degli agenti e indicò Vincent. «Se la stava cavando bene, finché non siamo andati a prendere il caffè. Quando ci siamo seduti al tavolino, ho capito che stava fingendo.» «No, è pazza. Io...» «Il tuo accento e le tue espressioni erano in contraddizione», gli spiegò lei. «Dal linguaggio del tuo corpo ho capito che non stavi affatto parlando con me. Avevi in mente qualcos'altro e stavi cercando di manipolarmi per qualche ragione... ossia portarmi da sola nel vicolo.» Mentre pagava il conto, disse Kathryn Dance, aveva tirato fuori di tasca il cellulare e aveva chiamato un detective dell'NYPD con cui aveva lavorato. Gli aveva comunicato le sue conclusioni e gli aveva fatto mandare due pattuglie in zona. Per tutto il tempo aveva lasciato il telefono in funzione, nascosto sotto il taccuino. Era per questo che recitava i nomi delle vie ad alta voce: stava dando indicazioni alla polizia. Vincent le guardò le mani. Lei seguì il suo sguardo. E gli mostrò la penna con cui scriveva sul taccuino. «Sì. È questa la mia pistola.» Vincent guardò gli altri poliziotti. «Non so che cosa sta succedendo. Sono tutte stronzate.» «Senti, perché non risparmi il fiato?» fece uno degli uomini. «Poco prima che l'agente Dance ci chiamasse, ci è arrivata la segnalazione che l'individuo al volante della macchina su cui è fuggito l'aggressore era tornato al Greenwich Village con un carrello della spesa. Un bianco, un grassone.» Si chiama Sally Anne, grassone. È scappata, ha chiamato la polizia e ci ha detto tutto di te. «Non sono io! Non ho fatto niente. Vi sbagliate. È un terribile errore di persona.» «Sì», fece uno degli agenti. «Dicono tutti così. Andiamo.»
Lo presero per le ascelle e lo spinsero senza troppi complimenti su una delle auto. Vincent sentì nella mente la voce di Gerald Duncan: Mi spiace. Ti ho deluso. E farò in modo di ripagarti. Qualcosa si indurì nell'animo di Vincent Reynolds. Decise che, qualsiasi cosa gli stessero per fare, non avrebbe mai tradito il suo amico. Il grassone dalla testa a pera, ammanettato dietro la schiena, era seduto vicino alla finestra nel laboratorio di Lincoln Rhyme. Confrontando la sua patente con i registri della Motorizzazione, era risultato che Tony Parsons si chiamava in realtà Vincent Reynolds, ventotto anni, domiciliato nel New Jersey, dattilografo reclutato da alcune agenzie di lavoro temporaneo che di lui sapevano ben poco: solo quello che risultava dal suo curriculum. Era un lavoratore modello, ma passava del tutto inosservato. Con un misto di rabbia e disagio, Vincent Reynolds guardava ora l'uno ora l'altro dei presenti: Rhyme, Amelia, Kathryn, Baker e Sellitto. Non risultava nessuna indagine in corso su di lui e da una perquisizione del suo appartamento non era emerso alcun collegamento evidente con l'Orologiaio. Né alcuna traccia di amanti, amici intimi o genitori. Gli agenti avevano trovato solo una lettera che Vincent stava scrivendo a una sorella, a Detroit. Sellitto si era fatto dare il numero dalla polizia di Stato del Michigan e le aveva lasciato un messaggio in segreteria, chiedendole di richiamarlo. La sera di lunedì, all'ora dei delitti sul molo e in Cedar Street, il sospetto era al lavoro. Ma da quel momento in poi si era preso dei giorni di ferie. Mel Cooper aveva inviato una sua foto digitale a Joanne Harper. La fiorista aveva detto che non le sembrava l'individuo che aveva visto fuori dal negozio, anche se non poteva esserne certa: c'era il riflesso del sole sui vetri sporchi e l'uomo portava gli occhiali da sole. Benché lo si sospettasse di essere il complice dell'Orologiaio, gli indizi erano scarsi. Le orme nel garage in cui era stato abbandonato il fuoristrada corrispondevano alla sua misura di scarpe, il quarantacinque, ma le tracce non avevano niente di caratteristico e non era possibile determinare con certezza se si trattasse dello stesso paio. Tra la spesa, che Rhyme supponeva fosse stata fatta come copertura, c'erano patatine, biscotti e merendine. I pacchetti però erano ancora chiusi e sui vestiti non c'erano briciole che coincidessero con quelle a bordo dell'Explorer.
Lo stavano trattenendo per possesso illegale di arma da taglio e per interferenza con un'indagine di polizia, l'accusa di prammatica quando si faceva avanti un falso testimone. Ciononostante, al Municipio e all'One Police Plaza, molti invocavano le leggi speciali per sottoporre Vincent a un duro interrogatorio o minacciarlo finché non avesse cantato. Era anche la proposta di Dennis Baker, sotto pressione dall'ufficio del sindaco. Ma Kathryn Dance non era d'accordo: «Non funzionerebbe. Quelli come lui si chiudono nel loro guscio e si mettono a raccontare palle». Poi aveva aggiunto: «Per la cronaca, la tortura è un metodo inefficace per raccogliere informazioni attendibili». Perciò Rhyme e Baker le avevano affidato l'interrogatorio di Vincent Reynolds. Dovevano trovare al più presto l'Orologiaio e, se non potevano prenderlo a manganellate, l'unica alternativa era servirsi di un esperto. L'agente speciale venuta dalla California tirò le tende e si sedette davanti a Vincent, senza alcun ostacolo tra loro due. Spostò in avanti la sedia, fino a trovarsi a un metro da lui. Rhyme immaginò che fosse per entrare nello spazio del soggetto e piegare la sua resistenza. Tuttavia, se Vincent avesse fatto un balzo in avanti, avrebbe potuto farle del male, con la testa o con i denti. Di sicuro anche lei era cosciente del pericolo, anche se non lo diede a vedere. Con un accenno di sorriso, disse, calma: «Ciao, Vincent. So che sei stato informato dei tuoi diritti e hai acconsentito a parlare con noi. Lo apprezziamo». «Assolutamente. Tutto quello che posso fare. Questo è un grosso...» si strinse nelle spalle «... equivoco, sa?» «Allora chiariremo ogni cosa. Prima mi servono alcune informazioni di base.» Kathryn gli chiese il nome completo, l'indirizzo, l'età, dove lavorasse e se fosse stato arrestato in precedenza. Lui si incupì. «Ho già detto tutto a lui.» Guardò Sellitto. «Mi spiace. La mano sinistra non sa quello che fa la mano destra, sai com'è. Se non ti spiace, ripetimi parola per parola.» «Oh, va bene.» Rhyme intuì che, dal momento che ora il soggetto le stava comunicando fatti assodati, Kathryn stesse elaborando il profilo base. Da quando l'esperta di cinesica gli aveva fatto cambiare opinione sugli interrogatori, il procedimento affascinava il criminalista. Lei annuiva, mentre prendeva appunti. Di tanto in tanto ringraziava Vin-
cent per la collaborazione. La cortesia di Kathryn era sorprendente. Al posto suo, Rhyme sarebbe stato molto più duro. «Senta», fece Vincent, preoccupato. «Io posso parlare con lei tutto il tempo che vuole. Ma vi consiglio di mandare qualcuno a cercare l'uomo che ho visto scappare. Io cerco di aiutarvi e guardate che cosa mi succede. La storia della mia vita.» Ma quello che aveva raccontato sul conto del sospetto non serviva a nulla. Nell'edificio in cui sosteneva che si fosse rifugiato l'assassino sembrava che nessuno fosse entrato da tempo. «Potresti riesaminare i fatti ancora una volta? Dimmi che cosa è successo. Solo, se non ti spiace, questa volta raccontali a ritroso.» «Eh?» «In ordine cronologico a ritroso. È un buon metodo per stimolare la memoria. Comincia dalla fine e torna indietro. Il sospetto entra dalla porta del vecchio edificio nel vicolo. Cominciamo con qualche dettaglio. Il colore della porta.» Vincent cambiò posizione sulla sedia. Raccontò di avere visto l'uomo che spingeva la porta, di cui non ricordava il colore. Riferì quanto era successo prima: l'uomo che correva nel vicolo. Prima ci era entrato. E prima ancora stava correndo per strada. Infine Vincent raccontò di avere visto un uomo che camminava per Barrow Street guardandosi intorno nervosamente, per poi mettersi a correre. «Okay», disse Kathryn prendendo appunti. «Grazie, Vincent.» Corrugò lievemente la fronte. «Perché mi hai detto di chiamarti Tony Parsons?» «Perché avevo paura. Ho fatto una buona azione, vi ho detto quello che ho visto... avevo paura che l'assassino mi uccidesse se avesse scoperto come mi chiamavo.» Gli tremava la mascella. «Vorrei non avervi detto niente. L'ho fatto e ho avuto paura. Gliel'ho detto che avevo paura.» Rhyme trovava irritanti i suoi lamenti. Torchialo, suggerì mentalmente a Kathryn Dance. Invece lei chiese con molta cortesia: «Dimmi del coltello». «Okay, non dovrei portarmelo in giro. Ma qualche anno fa mi hanno rapinato. È stata una brutta esperienza. Sono stato stupido, avrei dovuto lasciarlo a casa. Di solito non lo faccio. Non ci ho pensato. E mi sono messo nei guai.» Kathryn si sfilò la giacca e l'appoggiò sulla sedia accanto alla sua. Vincent proseguì: «Tutti gli altri sono più svegli e non si fanno coinvolgere. Io dico una cosa e guarda che casino». Abbassò lo sguardo a terra,
contraendo gli angoli della bocca. Kathryn gli chiese di spiegare come avesse saputo dell'Orologiaio e dove si trovasse alle ore dei delitti. La domanda a Rhyme parve strana. Superficiale. Kathryn non stava andando a fondo come avrebbe dovuto, non gli stava chiedendo di fornire un alibi, non stava smantellando la sua storia. Lasciava cadere tutti i possibili agganci. Non gli aveva neppure chiesto se avesse qualche altra ragione per portarla in quel vicolo, mentre tutti loro sospettavano che fosse per ucciderla, se non addirittura per torturarla e scoprire che cosa la polizia sapesse sul conto dell'Orologiaio. L'agente del CBI non mostrò alcuna reazione alle risposte del soggetto e si limitò a prendere appunti. Poi alzò lo sguardo verso Amelia: «Mi fai un favore?» «Certo.» «Puoi mostrare a Vincent le impronte di scarpe che abbiamo trovato?» Amelia mostrò al soggetto l'immagine elettrostatica di un'orma rilevata nel garage. «Che cos'è?» chiese Vincent. «Una scarpa del tuo numero. Non ti sembra?» «Più o meno.» Kathryn continuava a fissarlo, senza dire nulla. Rhyme sospettò che gli stesse tendendo una trappola. Seguì con attenzione la scena. L'agente del CBI disse: «Grazie, Amelia». La detective tornò a sedersi. Kathryn si sporse in avanti, invadendo ancora di più lo spazio del soggetto. «Vincent, sono curiosa. Dove hai fatto la spesa?» Una breve esitazione. «Be', al Food Emporium.» Rhyme capì dove voleva arrivare. Voleva chiedergli perché avesse fatto la spesa a Manhattan dal momento che viveva nel New Jersey, visto e considerato che tutti i prodotti da lui acquistati si potevano trovare anche vicino a casa sua e probabilmente a un prezzo inferiore. Kathryn si sporse ancora di più in avanti e si tolse gli occhiali. La trappola stava per scattare, pensò il criminalista. Lei sorrise e disse: «Grazie, Vincent. Credo sia tutto. Ehi, hai sete? Vuoi una bibita?» Vincent annuì. «Sì, grazie.» L'agente si rivolse a Rhyme. «Abbiamo qualcosa da offrirgli?» Il criminalista batté le palpebre e rivolse un'occhiata ad Amelia, non meno stupita di lui. Che cosa aveva in testa Kathryn Dance? Non aveva cava-
to dal sospetto nemmeno un brandello di informazione. Una perdita di tempo. Tutto lì quello che voleva chiedergli? E adesso faceva la padrona di casa? Riluttante, Rhyme chiamò Thom e fece portare a Vincent una CocaCola. Kathryn infilò una cannuccia nel bicchiere e lo accostò alla bocca del sospetto, ancora ammanettato, che lo svuotò in pochi secondi. «Vincent, ti spiace lasciarci soli per qualche minuto? Così mettiamo in chiaro le cose?» «Okay, certo.» Gli agenti di pattuglia lo condussero fuori e Kathryn chiuse la porta. Dennis Baker scosse la testa, fissandola con aria infelice. Sellitto commentò: «Non serve a niente». «No, no, stiamo andando bene», li smentì l'agente del CBI. «Davvero?» chiese Rhyme. «Come previsto. Le cose stanno così: ho stabilito il suo profilo base, poi gli ho chiesto di raccontare gli eventi a ritroso. È un modo efficace per cogliere in fallo i bugiardi che stanno improvvisando. Un soggetto è capace di descrivere a rovescio una serie di eventi che sono avvenuti realmente. Ma quando inventa una storia, la crea in una sola direzione: dal principio alla fine. E se tenta di raccontarla a ritroso, gli vengono a mancare i passaggi logici tra un fatto e l'altro e cade in contraddizione. Così ho avuto la conferma che Vincent è il complice dell'Orologiaio.» «Ah, sì?» fece Sellitto, mettendosi a ridere. «Oh, è ovvio. Le sue reazioni sono fuori scala. E non teme affatto per la sua incolumità personale. No: conosce l'Orologiaio e, in un modo che ancora non mi è chiaro, ha a che fare con i suoi crimini. Non è soltanto quello che guida la macchina al momento della fuga.» «Ma non gli hai chiesto niente in proposito», le fece notare Baker. «Non dovremmo interrogarlo su dove si trovava al momento delle intrusioni dalla fiorista e al Greenwich Village?» Era quello che voleva chiedere anche Rhyme. «Oh, no, sarebbe la cosa peggiore da fare. Se sollevassi questi argomenti non aprirebbe più bocca. È un individuo complesso, pieno di conflitti. Ho la sensazione che sia in piena fase di depressione, che significa rabbia rivolta verso se stesso. È una barriera molto difficile da superare. Data la sua personalità, devo creare un legame di simpatia tra di noi. Con un interrogatorio tradizionale ci vorrebbero giorni per arrivare alla verità. E noi non abbiamo tutto questo tempo. La nostra unica possibilità è provare qualcosa
di radicale.» «Vale a dire?» Kathryn indicò la cannuccia usata da Vincent. «Puoi richiedere un test del DNA?» chiese a Rhyme. «Sì, ma ci vorrà un po'.» «Non importa. Mi basta poter dire che è stato richiesto.» Sorrise. «Meglio non raccontare mai bugie. Inoltre, non occorre svelare tutto al sospetto.» Rhyme si spostò dall'altra parte del laboratorio, dove Cooper e Pulaski stavano ancora lavorando sugli indizi. Spiegò loro che cosa gli serviva. Il tecnico mise la cannuccia in un involucro di plastica e compilò una richiesta per l'esame del DNA. Il criminalista rise. «Ecco, tecnicamente l'analisi è stata ordinata. Solo che il laboratorio ancora non lo sa.» Kathryn spiegò: «Vincent mi sta nascondendo qualcosa di grosso. E questo lo rende molto nervoso. La sua risposta alla mia domanda su arresti precedenti era una bugia, ma ben collaudata. Credo che sia stato arrestato molto tempo fa. Le sue impronte non sono schedate, però potrebbero essere filtrate in una crepa del sistema, forse perché il reato è stato commesso quando era minorenne. Comunque sono certa che abbia già avuto a che fare con la legge. E comincio a farmi un'idea del motivo. Per questo mi sono sfilata la giacca e gli ho fatto passare davanti Amelia. Ci sta mangiando con gli occhi. Cerca di nasconderlo, e non ci riesce. Sospetto che nel suo passato possa esserci una violenza carnale. Voglio bluffare. Il problema è che lui potrebbe vedere le mie carte. Perderemmo potere contrattuale e ci vorrebbe molto più tempo per cavargli qualcosa di utile». «So cosa vuol dire», disse Sellitto a Rhyme. Accidenti, sì, pensò Rhyme. «Corri il rischio.» Sellitto chiese: «Tu che ne pensi, Dennis?» «Dovrei chiamare la centrale. Ma se ci dicono di no, ci freghiamo con le nostre mani. Proviamoci.» «Un'altra cosa inevitabile», proseguì l'agente del CB1, «è che devo tirarmi fuori dall'equazione. Qualsiasi cosa avesse in mente di farmi nel vicolo, dobbiamo ignorarla. Se sollevassi la questione, altererei l'equilibrio dei nostri rapporti e lui smetterebbe di parlare con me. Dovremmo ricominciare daccapo.» «Ma tu sai che cosa aveva in mente di farti?» domandò Amelia. «Oh, lo so esattamente. Però non dobbiamo perdere di vista il nostro o-
biettivo: trovare l'Orologiaio. Anche a costo di lasciar perdere il resto.» Sellitto guardò Baker e fece un cenno affermativo. Kathryn andò al computer più vicino e digitò alcuni comandi, poi inserì un nome utente e un codice di accesso. Sullo schermo apparve una pagina Internet. Lei batté altri comandi. Ora sul monitor si vedeva una pagina con il DNA di un sospetto. L'agente del CBI aprì la borsetta e sostituì gli occhiali da agnello con quelli da lupo. «E adesso è il momento di divertirsi.» Andò alla porta e l'aprì, chiedendo ai poliziotti di riportare dentro Vincent. Il grassone, con due vistose chiazze di sudore sotto le ascelle, entrò nella stanza e si rimise sulla sedia, che cigolò sotto il suo peso. Era molto cauto, adesso. Kathryn ruppe il silenzio. «Temo che ci sia un problema, Vincent.» Lui strinse gli occhi. Lei gli mostrò l'involucro contenente la sua cannuccia. «Sai che cos'è il DNA, vero?» «In che senso?» Funzionerà? si stava chiedendo Rhyme. Ci cascherà? Oppure Vincent si sarebbe chiuso in se stesso, insistendo per avere un avvocato? Ne aveva ogni diritto. Il bluff sarebbe fallito e non avrebbero ottenuto alcuna informazione fino al successivo delitto dell'Orologiaio. Kathryn, calma, domandò: «Hai mai visto la tua analisi del DNA, Vincent?» Girò il monitor del computer verso di lui. «Non so se sei al corrente del Combined DNA Index System dell'FBI. Noi lo chiamiamo CODIS. Quando viene catturato un colpevole di stupro, gli vengono prelevati campioni di fluidi, capelli e pelle. Anche con un preservativo, di solito sulla vittima o nelle vicinanze rimangono sempre tracce contenenti il DNA dell'aggressore. Il profilo viene immagazzinato nel database e quando la polizia arresta un sospetto gli indizi sono confrontati con il suo DNA. Guarda.» Sul monitor, sotto la dicitura CODIS, si vedevano dozzine di numeri, lettere, griglie e strane barrette, virtualmente incomprensibili per chiunque non avesse familiarità con il sistema. Vincent era immobile, ma il suo respiro era accelerato. Guardò Rhyme con un atteggiamento quasi di sfida. «Sono stronzate.» «Lo sai, Vincent, che un caso solidamente basato sul DNA si conclude sempre con una condanna? A volte ci si arriva anche molti anni dopo lo stupro.»
Lui guardò la cannuccia nell'involucro di plastica. «Non potete... Non vi ho dato il permesso di farlo.» «Vincent», gli disse Kathryn, in tono garbato. «Sei nei guai.» Tecnicamente vero, pensò Rhyme. Era in possesso di un'arma mortale. Meglio non raccontare mai bugie... «Tu però hai qualcosa che noi vogliamo.» Una pausa, quindi: «Non conosco le procedure di New York, ma in California i nostri procuratori distrettuali possono fare molte concessioni ai sospetti disposti a collaborare». Sellitto raccolse al volo un suo cenno. «Sì, Vincent. Da noi è lo stesso. Il procuratore ascolterà la nostra raccomandazione.» Con lo sguardo perso sul monitor e i denti stretti, Vincent non disse una parola. Intervenne Baker: «Questa è l'offerta. Se tu ci aiuti a catturare l'Orologiaio e confessi i tuoi stupri precedenti, ti possiamo garantire l'immunità sulle accuse di aggressione e omicidio relative alle due vittime dell'altra sera. Faremo in modo di mandarti in un centro terapeutico. E sarai isolato dalla popolazione carceraria». «Però ci devi aiutare», dichiarò Kathryn, in tono deciso. «Subito, Vincent. Che cosa ne dici?» L'uomo continuò a guardare lo schermo con l'analisi del DNA di qualcuno che non aveva niente a che fare con lui. Faceva ballare leggermente una gamba, segno dei dubbi che lo tormentavano. Poi guardò Kathryn Dance. Sì o no? Quale sarebbe stata la risposta? Passò un intero minuto, scandito dal ticchettio degli orologi dell'assassino. Vincent assunse un'espressione cupa e i suoi occhi si fecero di ghiaccio. «È un uomo d'affari del Midwest. Si chiama Gerald Duncan. Sta in una chiesa a Manhattan. Posso avere un'altra Coca-Cola?» 27 «Dove si trova adesso?» chiese Dennis Baker. «È andato da qualcun altro per...» La voce di Vincent sfumò. «Ucciderlo?» Il sospetto annuì. «Dove?» «Non lo so esattamente. Ha detto Midtown, mi pare. Non so dove. Dav-
vero.» Gli occhi dei presenti si rivolsero a Kathryn, che annuì. Vincent stava dicendo la verità. «Non so se adesso sia laggiù o alla chiesa.» Ne diede l'indirizzo. «La conosco», disse Amelia. «È chiusa da tempo.» Sellitto chiamò la ESU e chiese ad Haumann di raccogliere qualche squadra tattica. «Dovevamo vederci al Village dopo un'ora, più o meno. In quell'edificio nel vicolo.» Dove, rifletté Rhyme, Vincent intendeva stuprare e uccidere Kathryn Dance. Sellitto ordinò che una pattuglia in borghese sorvegliasse l'edificio. «Chi è la prossima vittima?» chiese Baker. «Non lo so. Proprio non lo so. Non mi ha detto niente di lei perché...» «Perché?» lo incalzò Kathryn. «Perché io non avevo niente da fare con quella donna.» Da fare con quella donna... Rhyme capì il sottinteso. «Quindi tu lo aiutavi e in cambio lui ti lasciava le vittime.» «Solo le donne», si affettò a precisare Vincent. Scosse la testa disgustato. «Gli uomini no. Non sono anormale o roba del genere. E solo dopo che erano morte, così non era neanche un vero stupro. Non lo è per niente. Me lo ha detto Gerald. Lui pensa a tutto.» Dance e Sellitto non batterono ciglio, al contrario di Baker. Amelia si sforzava di mantenere la calma. «E perché non avevi niente da fare con la prossima?» domandò Baker. «Perché... la vuole bruciare viva.» «Gesù», fece il tenente. «È armato?» si informò Rhyme. Vincent assentì. «Ha una pistola.» «Una trentadue?» «Non lo so.» «Che macchina guida?» chiese Sellitto. «Una Buick blu scuro. È rubata. Avrà un paio d'anni.» «Targa?» «Non lo so. Davvero. L'ha appena rubata.» «Chiediamo un EVL», ordinò Rhyme. Sellitto se ne occupò. Si fece avanti Kathryn. «Che altro?» Doveva avere intuito qualcosa.
«Eh?» «C'è qualcos'altro che ti disturba di quell'auto.» Vincent abbassò gli occhi. «Credo che abbia ucciso il proprietario. Non sapevo che lo avrebbe fatto. Non lo sapevo.» «Dove?» «Non me l'ha detto.» Cooper inviò una richiesta per i rapporti più recenti su qualsiasi furto d'auto, omicidio o denuncia di persone scomparse. «E poi...» Vincent deglutì. Ricominciò a far ballare la gamba. «Che cosa?» lo incoraggiò Baker. «Ha ucciso anche qualcun altro. Uno studente, credo, un ragazzo. In un vicolo dietro l'angolo della chiesa, vicino alla 10thAvenue.» «Perché?» «Ci ha visti che uscivamo dalla chiesa. Duncan lo ha accoltellato con un taglierino e ha gettato il corpo in un cassonetto.» Cooper telefonò al Distretto locale per una verifica. «Facciamogli chiamare Duncan», suggerì Sellitto. «Possiamo rintracciare il suo cellulare.» Ma Vincent li avvisò: «Il suo telefono non funziona. Toglie la batteria e la SIM quando non stiamo... lavorando». Lavorando... «Dice che così non lo si può rintracciare.» «Il telefono è a suo nome?» «No, è uno di quelli prepagati. Ogni due o tre giorni ne compra uno nuovo e butta via quello vecchio.» «Dacci il numero», ordinò Rhyme. «Controlliamo.» Mel Cooper chiamò le principali compagnie di telefonia cellulare dell'area. Dopo un rapido giro di telefonate, riferì: «East Coast Communications. Prepagato, come ha detto lui. In contanti. Se ha tolto la batteria, non c'è modo di rintracciarlo». «Accidenti», mormorò il criminalista. Squillò il telefono di Sellitto. Le squadre dell'Emergency Service Unit di Bo Haumann erano per strada. Sarebbero arrivate alla chiesa entro pochi minuti. «A quanto pare è la nostra unica speranza», commentò Baker, e assieme ad Amelia e Pulaski lasciò di corsa il laboratorio per raggiungere il luogo dell'operazione. Kathryn e Sellitto rimasero con Rhyme, per cercare di scoprire da Vin-
cent qualcos'altro sul conto di Gerald Duncan, mentre Cooper controllava le banche dati nel caso venisse fuori il suo nome. «Parlaci del suo interesse per gli orologi, il tempo e i calendari lunari», disse Rhyme. «Fa collezione di vecchi orologi. È davvero un orologiaio, per hobby. Non è che ha un negozio o simili.» «Ma in qualche momento della sua vita potrebbe averci lavorato», considerò Rhyme. «Troviamo tutte le organizzazioni di orologiai professionisti. E anche quelle dei collezionisti.» Cooper digitò sulla tastiera. «Solo in America?» Kathryn chiese a Vincent: «Di che nazionalità è?» «Americana, credo. Non è che ha un accento.» Dopo avere esaminato numerosi siti Internet, Cooper scosse la testa. «È un'attività molto popolare. I gruppi più grossi sono l'Associazione di Ginevra degli Orologiai e Gioiellieri, l'Associazione Interprofessionale di Alta Orologeria in Svizzera, l'Istituto Orologiai Americani, l'Associazione Svizzera dei Venditori di Orologi e Gioielli, l'Associazione Britannica dei Collezionisti di Orologi, l'Istituto Orologiai Britannici, l'Associazione Dipendenti dell'Industria Orologiaia Svizzera e la Federazione delle Industrie Orologiaie Svizzere... e ce ne sono dozzine di altre.» «Manda a tutti un'e-mail», consigliò Sellitto. «Chiedi di Duncan, come orologiaio o collezionista.» «E anche all'Interpol», disse Rhyme. Quindi si rivolse a Vincent: «Come vi siete conosciuti?» L'uomo diede un farneticante resoconto riguardo a un incontro casuale e innocente. Kathryn lo ascoltò e con voce calma annunciò che stava mentendo. «L'accordo vale solo se ci racconti la verità», gli rammentò lei, protendendosi in avanti. Il suo sguardo era gelido, dietro gli occhiali da predatore. «Okay. Cercavo solo di fare un riassunto, ecco.» «Non vogliamo riassunti», ringhiò Rhyme. «Vogliamo sapere come cazzo vi siete conosciuti.» Lo stupratore ammise che si trattava effettivamente di una coincidenza, anche se l'incontro era stato tutt'altro che innocente. Riferì del loro contatto iniziale al ristorante vicino a dove Vincent lavorava. Duncan stava controllando uno degli uomini che poi avrebbe ucciso, mentre lui aveva messo gli occhi sulla cameriera. Bella coppia, questi due, si disse il criminalista.
Mel Cooper alzò gli occhi dallo schermo del computer. «Comincio a trovare qualcosa. Ci sono sessantotto Gerald Duncan in quindici Stati del Midwest. Sto facendo un controllo incrociato di indagini in corso, VICAP, età e professioni. Non si riesce a restringere a qualche zona particolare?» «Non so cosa dire. Non parlava mai di sé.» Kathryn annuì. Vincent diceva la verità. Lon Sellitto anticipò la domanda successiva di Rhyme. «Sappiamo che sceglie le vittime in base a uno schema preciso e le controlla prima di colpire. Perché? Che cosa sta combinando?» «Per via di sua moglie», rispose Vincent. «È sposato?» «Era.» «Racconta.» «Lui e sua moglie sono venuti in vacanza a New York, un paio di anni fa. Lui era a una cena d'affari da qualche parte e sua moglie era andata da sola a un concerto. Mentre tornava a piedi in albergo, è stata investita da una macchina o un camion. Il guidatore è scappato. Lei ha urlato, ma nessuno è venuto ad aiutarla. Nessuno ha chiamato nemmeno la polizia o i pompieri. Il dottore ha detto che probabilmente è rimasta viva per dieci o quindici minuti, dopo che è stata investita. E che anche uno che non era un medico poteva fermare la perdita di sangue. Bastava fare pressione da qualche parte. Ma nessuno ha fatto niente.» «Controlla tutti i pazienti ammessi negli ospedali sotto il nome Duncan tra diciotto e trentasei mesi fa», ordinò Rhyme. Ma Vincent lo scoraggiò. «Lasciate perdere. L'anno scorso è entrato di nascosto in ospedale e ha fatto sparire la sua cartella medica. E anche il rapporto della polizia. Credo abbia dato dei soldi a un impiegato o qualcosa di simile. È da allora che progetta tutto quanto.» «Perché sceglie proprio queste vittime?» «Quando la polizia ha indagato, ha trovato i nomi di dieci persone che stavano vicino a dove è morta. Forse potevano salvarla, forse no, non lo so. Gerald è convinto di sì. Ha passato tutto lo scorso anno a scoprire dove vivevano e cosa facevano. Voleva trovarle da sole e farle morire lentamente. Questa è la cosa importante per lui. Farle morire lentamente, come sua moglie.» «L'uomo sul molo l'altra notte... è morto?» «Penso di sì. Duncan lo ha fatto aggrappare al molo, poi gli ha tagliato i polsi ed è rimasto a guardare finché non è caduto nel fiume. Ha detto che
quello ha anche provato a nuotare, poi però non si è più mosso e la corrente lo ha portato via.» «Come si chiamava?» «Non mi ricordo. Walter qualcosa. Non l'ho aiutato con i primi due. Davvero.» Guardò Kathryn, spaventato. «Che cosa sai ancora su Duncan?» gli chiese lei. «Nient'altro. L'unica cosa di cui gli piaceva parlare era il tempo.» «Che cosa diceva del tempo?» «Qualsiasi cosa. La storia degli orologi, come funzionano, i calendari, come le persone sentono il tempo in modi diversi. Mi diceva per esempio che per far andare più veloce le pendole si alza il peso e per rallentarle si abbassa. Raccontato da qualcun altro poteva diventare noioso, ma come ne parla lui... ecco, lo stai a sentire.» Cooper annunciò: «Un paio di risposte dalle associazioni degli orologiai. Non risulta nessun Gerald Duncan. Un momento, c'è l'Interpol... Neanche loro ne sanno niente. E non l'ho trovato nel VICAP». A Sellitto suonò il cellulare. La conversazione durò qualche minuto. Mentre parlava, guardava torvo lo stupratore. Quando ebbe finito, gli disse: «Era il marito di tua sorella». Vincent fece un'espressione preoccupata. «Chi?» «Il marito di tua sorella.» «No, avete parlato con la persona sbagliata. Mia sorella non è sposata.» «Invece sì.» Vincent spalancò gli occhi. «Sally Anne si è sposata?» Con una smorfia di disgusto sul viso, Sellitto si rivolse a Rhyme e a Kathryn. «La sorella era troppo sconvolta per chiamare di persona. L'ha fatto suo marito. Tredici anni fa, mentre la madre e il patrigno erano in luna di miele, Vincent ha chiuso sua sorella in cantina per una settimana. Sua sorella! L'ha legata e ha abusato di lei ripetutamente. Lui aveva quindici anni, lei tredici. Lo hanno mandato al riformatorio e rilasciato dopo trattamento psichiatrico. Il suo dossier è stato sigillato. Per questo non risultava dallo LAPIS.» «Sposata», sussurrò Vincent, con il volto color cenere. «Da allora sua sorella è stata in cura per depressione e disordini alimentari. Lo hanno sorpreso a seguirla parecchie volte, per cui è stato emesso un ordine di restrizione. Il solo contatto tra loro negli ultimi tre anni sono state le lettere che lui le ha spedito.» «La minacciava?» chiese Kathryn.
«No», rispose Sellitto. «Erano lettere d'amore. Voleva che lei si trasferisse a New York.» «Mio Dio», mormorò il solitamente imperturbabile Mel Cooper. «Ogni tanto scrive delle ricette ai margini. Qualche altra volta fa dei disegnini porno. Il marito dice che è pronto a fare qualsiasi cosa purché Vincent sia messo in galera per tutta la vita.» Sellitto guardò i due poliziotti in piedi alle spalle di Vincent. «Portatelo via di qui.» Gli agenti lo aiutarono a mettersi in piedi e andarono alla porta. Vincent Reynolds stentava a camminare, tanto era sconvolto. «Come ha potuto sposarsi, Sally Anne? Come ha potuto farmi questo? Dovevamo stare insieme per sempre... Come ha potuto?» 28 Era come dare l'assalto a un castello medioevale. Amelia Sachs, Dennis Baker e Ron Pulaski raggiunsero Bo Haumann dietro l'angolo della chiesa, in un'anonima zona di Chelsea. Le squadre dell'ESU avevano già preso silenziosamente posto nelle strade circostanti, cercando di non farsi notare. La chiesa aveva un numero di porte appena sufficienti per soddisfare la normativa antincendio e quasi tutte le finestre erano sbarrate. Per Gerald Duncan non sarebbe stato facile uscire di lì. Ma, nel contempo, c'erano meno possibilità di accesso per le squadre tattiche e aumentava il rischio che l'assassino avesse collocato trappole davanti alle porte, o li aspettasse con le armi in pugno. Le mura di pietra spesse sessanta centimetri vanificavano il lavoro della squadra di Ricerca e Sorveglianza: le loro apparecchiature termiche e acustiche non erano in grado di determinare se all'interno ci fosse qualcuno. «Qual è il piano?» chiese Amelia, in piedi accanto a Bo Haumann nel vicolo dietro la chiesa. Di fianco a lei Dennis Baker, con la mano vicina alla pistola, scandagliava con lo sguardo strade e marciapiedi. Da questo Amelia intuiva che da parecchio tempo non prendeva parte a un'irruzione, se mai vi aveva partecipato. Le bruciava ancora il fatto che lui l'avesse spiata e non fece nulla per alleviare la sua tensione. Anche Ron Pulaski aveva la mano pronta sulla Glock e spostava continuamente il peso da un piede all'altro mentre fissava la struttura imponente e fuligginosa dell'edificio. Haumann li informò che le squadre avrebbero eseguito una semplice ir-
ruzione dinamica attraverso le porte, dopo averle abbattute con cariche esplosive. Non c'era altra scelta: le porte erano troppo pesanti per poterle aprire a colpi di ariete. Tuttavia le esplosioni avrebbero annunciato la loro presenza, dando probabilmente a Duncan il tempo di organizzare la propria difesa all'interno dell'edificio. Che cosa avrebbe fatto quando avesse sentito gli scoppi e i passi dei poliziotti che correvano dentro? Si sarebbe arreso? Molti lo facevano. Ma altri no. Cedevano al panico o si mettevano in testa l'idea folle di potere farsi largo sparando tra una dozzina di agenti armati. Rhyme aveva avvisato Amelia della missione di vendetta di Duncan. Un uomo ossessionato come lui difficilmente si sarebbe arreso. La detective prese posizione con la squadra appostata fuori dalla porta laterale, mentre Baker e Sellitto restavano con Haumann alla postazione di comando. Attraverso la cuffia, Amelia sentì il comandante dell'ESU che diceva: «Cariche posizionate. Squadre a rapporto, K». Le squadre A, B e C confermarono di essere pronte. Con la sua voce stridente, Haumann disse: «Al mio segnale: cinque, quattro, tre, due, uno!» Tre secche detonazioni risuonarono simultaneamente, spalancando le porte, scuotendo le finestre della zona e scatenando le sirene degli antifurti delle auto. Gli agenti fecero irruzione. I loro timori di trappole esplosive e postazioni fortificate risultarono infondati. La cattiva notizia fu che, dopo una perquisizione completa della chiesa, era evidente che l'avversario era l'uomo più fortunato del mondo, oppure una volta di più aveva anticipato la loro mossa. L'Orologiaio non c'era. «Guarda qui, Ron.» Amelia Sachs era sulla soglia di uno sgabuzzino al piano superiore della chiesa. «Pazzesco», commentò il giovane poliziotto. Aveva ragione. Avevano trovato gli orologi di Duncan addossati alla parete dello sgabuzzino. Da ciascun quadrante la luna piena li guardava con la sua espressione enigmatica, né un sorriso né un sogghigno, come qualcuno che sa e-
sattamente quanto tempo ti resta da vivere e conta i secondi alla rovescia. Tutti gli orologi ticchettavano, un suono che Amelia trovava insopportabile. Ne contò cinque. Il che significava che Duncan ne aveva uno con sé. Bruciata viva... Pulaski stava indossando la tuta di Tyvek. Prima di alzare la cerniera lampo, prese la fondina della Glock e l'allacciò all'esterno. Amelia stabilì che lei avrebbe percorso la griglia al piano superiore, dove alloggiavano Vincent e Duncan, la recluta quella al piano inferiore. Pulaski annuì, guardando inquieto i corridoi bui. Il colpo alla testa che aveva ricevuto l'anno precedente era stato molto violento e un supervisore aveva ormai deciso di metterlo dietro una scrivania. Ma lui aveva fatto di tutto per riprendersi: non era disposto a farsi togliere dalla strada perché lo decideva un pezzo grosso. Amelia sapeva che in certi momenti il giovane aveva paura. Gli leggeva negli occhi che era costantemente in dubbio se affrontare oppure no i compiti che gli si presentavano. E anche se ogni volta decideva di sì, Amelia sapeva che certi poliziotti non avrebbero voluto lavorare con uno come lui. Quanto a lei, preferiva avere al proprio fianco un collega che ogni volta doveva affrontare i propri fantasmi. Ci voleva fegato per farlo. Non avrebbe mai esitato a prenderlo come partner. Poi si rese conto di ciò che stava pensando e aggiunse: Se restassi nella polizia. Pulaski si asciugò le mani visibilmente sudate a dispetto del freddo, e indossò i guanti di lattice. Mentre si dividevano l'attrezzatura, Amelia gli disse: «Ehi, ho sentito che qualcuno ti è saltato addosso in quel garage, mentre esaminavi l'Explorer». «Già.» «Brutta sorpresa.» Lui rise. Voleva dire che aveva capito il messaggio: è normale essere nervosi. Si diresse alla porta. «Ehi, Ron.» La recluta si fermò. «A proposito, Rhyme ha detto che hai fatto un ottimo lavoro.» «Davvero?» Non in modo tanto esplicito, ma Rhyme era fatto così. «Certo. Adesso vai a pescare tutti gli indizi. Voglio inchiodare quel bastardo.»
Lui sorrise. «Ci puoi scommettere.» «Non è un regalo di Natale. È un lavoro», disse lei. E gli fece un cenno di saluto, mentre Pulaski scendeva le scale. Non trovò niente che potesse suggerire l'identità della prossima vittima, ma se non altro nella chiesa c'era una quantità significativa di indizi. Nella stanza di Vincent Reynolds, Amelia aveva recuperato campioni di dodici tipi diversi di spuntini e bibite, così come le prove dei suoi appetiti più oscuri: preservativi, nastro adesivo e stracci, probabilmente da usare per imbavagliare le vittime. La camera era sottosopra e puzzava di panni sporchi. In quella di Duncan c'erano riviste che trattavano di orologi e cronometri (prive però di etichette con l'indirizzo dell'abbonato), strumenti da orologiaio e attrezzi vari, compreso un paio di cesoie che dovevano essere servite a tagliare la recinzione sulla prima scena. A differenza di quella di Vincent, nella stanza di Duncan tutto era pulito e ordinato. Il letto era rifatto con cura tale che anche un istruttore militare non avrebbe trovato niente da eccepire. I vestiti erano appesi alla perfezione nell'armadio, a distanza regolare l'uno dall'altro. Amelia constatò che Duncan aveva rimosso tutte le etichette. Gli oggetti sulla scrivania erano tutti ben allineati. L'Orologiaio era stato attento a non lasciare in giro niente di personale. In un cestino dei rifiuti c'erano i dépliant di due musei, uno a Boston e l'altro a Tampa. Ma, a parte suggerire che Duncan fosse stato in quelle due città, non davano altre indicazioni. In ogni caso, né l'una né l'altra erano nel Midwest, area da cui secondo Vincent proveniva l'assassino. C'era persino una spazzola adesiva. È come se indossasse anche lui una tuta di Tyvek... Amelia trovò anche indizi relativi alle scene precedenti. C'era un rotolo di nastro adesivo che doveva corrispondere a quello usato nel vicolo in Cedar Street e, probabilmente, era stato usato anche per imbavagliare la vittima sul molo. C'era anche una vecchia scopa con tracce di terra, sabbia fine e granelli di sale, che doveva essere stata impiegata per spazzare la scena dell'assassinio di Theodore Adams. C'erano anche indizi che, sperava Amelia, avrebbero potuto fornire indicazioni su dove l'Orologiaio si trovasse in quel momento, o sulle sue prossime vittime. In un piccolo barattolo di plastica trasparente c'erano alcune monete, tre penne Bic, gli scontrini di un garage del centro e di un drugstore dell'Upper East Side e una bustina di fiammiferi della stessa zona. Ne
mancavano tre. Su nessuno degli oggetti c'erano impronte digitali. La detective trovò anche una caraffa che aveva contenuto alcool e un paio di scarpe con tracce di vernice di un verde squillante sulle suole. C'erano molte fibre di cotone, dello stesso colore di quelle trovate nell'Explorer, e un sacchetto di plastica contenente diverse paia di guanti, senza scontrini né etichette. Nemmeno sul sacchetto si trovavano impronte. Nella sua ricerca al piano di sotto, Ron Pulaski non trovò quasi niente, ma fece una curiosa scoperta: un sottile strato di polvere bianca in uno dei bagni. Le analisi l'avrebbero chiarito in un secondo tempo; la recluta riteneva che provenisse da un estintore, dal momento che in un sacchetto dei rifiuti vicino alla porta aveva scovato una scatola di cartone vuota che ne aveva contenuto uno. Non c'era alcuna indicazione del negozio in cui era stato acquistato. Perché l'estintore fosse stato svuotato non era chiaro. Non sembrava che qualcosa fosse andato a fuoco nel bagno. Amelia chiamò il centro di detenzione e si fece passare Vincent, che le disse che recentemente Duncan aveva comprato un estintore, però ignorava perché lo avesse scaricato. Compilati i moduli per la custodia, Amelia e Pulaski raggiunsero Baker, Haumann e gli altri sulla porta della chiesa. La detective chiamò il criminalista via radio e aggiornò lui e Sellitto sulle loro scoperte. Sentì Rhyme che riferiva i dati a Thom perché li trascrivesse sul tabellone. «Boston e Tampa?» chiese il criminalista, quando seppe dei dépliant dei musei. «Vincent potrebbe sbagliarsi. Resta in linea.» Amelia lo sentì mentre ordinava a Cooper di controllare presso l'Anagrafe e la Motorizzazione delle due città se risultasse qualche Gerald Duncan. In effetti ce n'erano, ma nessuno di età corrispondente a quella dell'Orologiaio. Rhyme rimase in silenzio per qualche secondo. Poi disse: «L'estintore... Scommetto che se n'è servito per preparare un ordigno incendiario, usando l'alcool come accelerante. Ce n'erano tracce sull'orologio in casa di Lucy Richter. Dev'essere così che intende bruciare viva la sua prossima vittima. E sai che cos'hanno di particolare gli estintori?» «Mi arrendo», disse Amelia. «Sono invisibili. Puoi averne uno accanto e non farci nemmeno caso.» Intervenne Baker: «Consiglio di prendere gli indizi e dividerceli, sperando che almeno uno ci porti alla prossima vittima. Abbiamo le ricevute, i fiammiferi, le scarpe...» La voce di Rhyme risuonò metallica dalla radio. «Qualsiasi cosa fate,
sbrigatevi. Secondo Vincent, se non è alla chiesa, sta andando dalla sua prossima vittima. Potrebbe essere da lei già adesso.» L'OROLOGIAIO SCENA NUMERO UNO Luogo: • Molo di riparazioni sull'Hudson River, 22nd Street. Vittima: • Identità sconosciuta. • Maschio. • Probabilmente di mezza età o anziano, possibili problemi alle coronarie (presenza di anticoagulanti nel sangue). • Assenza di tracce di droga, malattie o infezioni nel sangue. • Guardia Costiera e sommozzatori alla ricerca di corpo e indizi nel New York Harbor. • Si controllano denunce di persone scomparse. • Trovata giacca in New York Harbor. Maniche insanguinate, comprata da Macy's, taglia 44. Nessun altro indizio. • Nessun segno del cadavere. Assassino: • vedi sotto. Modus operandi: • Assassino ha costretto vittima ad aggrapparsi al molo, sopra l'acqua, tagliandole le dita o i polsi, fino a quando è caduta. • Ora del delitto: tra le 6 p.m. di lunedì e le 6 a.m. di martedì. Indizi: • Sangue tipo AB positivo. • Unghia spezzata, sporca, larga. • Recinzione tagliata con cesoie comuni, irrintracciabili. • Orologio: vedi sotto. • Poesia: vedi sotto. • Tracce di unghie sul molo.
• Nessuna traccia identificabile, nessuna impronta digitale, nessuna orma, nessun segno di pneumatici. SCENA NUMERO DUE Luogo: • Vicolo su Cedar Street, vicino a Broadway, dietro tre palazzi a uffici (porte di servizio chiuse tre le 8 p.m. e le 10 p.m.) e un palazzo municipale (porta di servizio chiusa alle 6 p.m.). • Vicolo cieco, 5 m per 30, con acciottolato. Corpo a 5 m da Cedar Street. Vittima: • Theodore Adams. • Viveva a Battery Park. • Copywriter free-lance. • Nessun nemico conosciuto. • Nessun precedente statale o federale. • Si cercano collegamenti con palazzi circostanti. Nessuno trovato. Assassino: • L'Orologiaio. • Maschio. • Nessuna corrispondenza nei database per l'Orologiaio. Modus operandi: • Vittima trascinata nel vicolo dalla macchina e posta sotto una sbarra di ferro che alla fine ha schiacciato il collo. • In attesa di referto medico per conferma. • Nessuna traccia di attività sessuale. • Ora della morte: approssimativamente tra le 10,15 p.m. e le 11 p.m. di lunedì notte. In attesa di conferma dal medico legale. Indizi: • Orologio: * nessun esplosivo, nessun agente chimico o biologico * identico a quello sul molo
* nessuna impronta digitale o traccia di sorta * Arnold Products, Framingham, Ma. Chiamata per identificare distributori e negozianti • Poesia lasciata dall'assassino su entrambe le scene: * stampata al computer, carta generica, HP Laser Jet * testo: La Luna Fredda piena nel cielo brilla sulla terra morta, e dice che è ora di finire il cammino cominciato con la nascita. L'OROLOGIAIO * assente da qualsiasi database di poesia; probabilmente di sua composizione. • Luna Fredda è mese lunare, il mese della morte. • 60 $ in tasca, nessuna traccia dai numeri di serie; impronte negative. • Sabbia fine usata come agente oscurante. Tipo generico. Perché intende ritornare sulla scena? • Sbarra di metallo: 36 kg, a cruna d'ago. Non usata in cantiere di fronte al vicolo. Origine non identificata. • Nastro adesivo, generico.Tagliato con precisione insolita. Pezzi di lunghezza identica. • Solfato di tallio (veleno per topi) trovato nella sabbia. • Terriccio contenente proteina di pesce nelle tasche della vittima. • Carenza di tracce. • Fibre marroni, probabilmente da tappetino dell'auto. Altro: • Veicolo: * probabilmente Ford Explorer di tre anni. Tappetino marrone * controllo di targhe delle auto presenti martedì mattina: niente di sospetto * nessuna multa lunedì notte. • Controllo presso Buoncostume delle prostitute, re: testimone. * nessuna pista.
INTERROGATORIO DI HALLERSTEIN Soggetto: • Identikit EFIT dell'Orologiaio: intorno ai 50 anni, viso tondo, doppio mento, naso grosso, occhi azzurri insolitamente chiari. Altezza oltre 1,80 m, magro, capelli neri di lunghezza media, niente gioielli, vestito di scuro. Nessun nome. • Esperto di orologi, sa quali esemplari sono stati venduti in aste recenti e quali sono attualmente in mostra a New York. • Ha minacciato il negoziante per farlo tacere. • Ha acquistato 10 orologi. Per 10 vittime? • Ha pagato in contanti. • Richiesto modello con fasi lunari e ticchettio sonoro. Indizi: • Orologi acquistati presso Hallerstein's Timepieces, Flatiron District. • Nessuna impronta digitale o traccia su banconote. Nessuna corrispondenza per numeri di serie. • Chiamava da telefoni pubblici. SCENA NUMERO TRE Luogo: • 481 Spring Street. Vittima: • Joanne Harper. • In apparenza nessun movente. • Non conosce seconda vittima, Theodore Adams. Aggressori: • L'Orologiaio. • Assistente: * probabilmente individuo visto da vittima al suo laboratorio * bianco, grasso, occhiali da sole, parka color crema, berretto da baseball. Al volante dell'Explorer.
Modus operandi: • Serratura forzata per entrare. • Arma non determinata. Forse filo di ferro della fiorista. Indizi: • Proteina di pesce viene dal laboratorio di Joanne (fertilizzante per orchidee). • Solfato di tallio nelle vicinanze. • Filo di ferro tagliato in pezzi di uguale lunghezza (per usarlo come arma?). • Orologio: * come gli altri. Assenza di nitrati * nessuna traccia. • Nessun biglietto o poesia. • Niente orme, impronte digitali, armi o attrezzi lasciati nel laboratorio. • Fiocchi neri: catrame per rivestimento di tetti. * controllare immagini termiche ASTER di New York per identificare provenienza * risultati non conclusivi. Altro: • Aggressore ha sorvegliato vittima prima di attaccarla. Bersaglio intenzionale. Perché? • Munito di scanner della polizia. Cambiare frequenze. • Veicolo: * SUV marroncino * targa ignota * emesso EVL * 423 proprietari di Explorer marroncini nell'area. Controllo di precedenti: trovati due (uno troppo vecchio, l'altro ancora in carcere per spaccio) * di proprietà dell'uomo in carcere. EXPLORER DELL'OROLOGIAIO Luogo: • garage Hudson River e Houston Road.
Indizi: • Explorer di proprietà dell'uomo in carcere, confiscato e in attesa di asta, rubato dal parcheggio. • Parcheggiato in vista, lontano da uscita più vicina. • Briciole di patatine di mais, patatine comuni, pretzel, barrette di cioccolato, cracker al burro di noccioline. Macchie di bibite zuccherate, non dietetiche. • Scatola di munizioni Remington per pistola automatica calibro 32. Sette proiettili mancanti: forse Autauga MkII? • Capello nero-grigio, forse femminile. • Nessuna impronta in tutto il veicolo. • Fibre di cotone beige da guanti. • Sabbia coincidente con quella trovata in vicolo. • Impronte di suole lisce numero 45. SCENA NUMERO QUATTRO Luogo: • Barrow Street, GreenwichVillage. Vittima: • Lucy Richter. Aggressori: • Orologiaio. • Complice. Modus operandi: • Tecnica ignota. • Percorsi di accesso/fuga indeterminati. Indizi: • Orologio: * identico agli altri * lasciato nel bagno * nessun esplosivo * macchie d'alcool; nessun'altra traccia.
• Nessun biglietto o poesia. • Tetto non incatramato di recente. • Niente impronte digitali né orme. • Nessuna traccia caratteristica. • Fibre di lana da colletto di shearling di giacca o cappotto. INTERROGATORIO DI VINCENT REYNOLDS E PERQUISIZIONE CHIESA Luogo: • 10thAvenue e 24th Street. Sospetti: • Orologiaio: * nome Gerald Duncan * uomo d'affari del Midwest, mancano dettagli * moglie morta a NY; uccide per vendetta * armato di pistola e taglierino * cellulare irrintracciabile * colleziona orologi * ricerca in corso tra organizzazioni orologiai e collezionisti * nessun risultato immediato * nessuna informazione da Interpol o altri database criminali • Complice: * Vincent Reynolds * lavoratore temporaneo * vive nel New Jersey * precedenti per stupro. Indizi: • Altri cinque orologi, identici agli altri. Uno mancante. • Nella stanza di Vincent: * spuntini, bibite * preservativi * nastro adesivo * stracci (per imbavagliare)? • Nella stanza di Duncan: * riviste di orologi
* attrezzi * vestiti * dépliant di musei d'arte di Boston e Tampa * altro nastro adesivo * vecchia scopa con terra, sabbia e sale * tre penne Bic * monete * scontrino di parcheggio in garage in centro * scontrino di drugstore, Upper West Side * bustina di fiammiferi di ristorante, Upper West Side * scarpe con vernice verde chiaro * caraffa vuota da un gallone di alcool * spazzola adesiva * guanti beige. • Nessuna impronta digitale. • Residui di estintore. • Scatola vuota che conteneva estintore. • Estintore e alcool usati per ordigno incendiario? Altro: • Studente ucciso vicino alla chiesa perché testimone: * in corso controllo presso Distretto locale. • Veicolo, Buick blu scuro, rubata: * guidatore ucciso * in corso esame di rapporti per furto d'auto omicidio e persone scomparse * emesso EVL Ancora nessun risultato Sarah Stanton stava rientrando in ufficio, camminando di buon passo sul marciapiede ghiacciato. In una mano reggeva saldamente un caffellatte nel bicchiere di plastica di Starbucks e nell'altra un biscotto con gocce di cioccolato... uno strappo alla regola, ma una meritata gratificazione per una giornata lunga e impegnativa. Non che le occorresse un incentivo dolciario per tornare alla sua scrivania: il lavoro le piaceva. Dopo un difficile divorzio, Sarah si era dovuta cercare un posto per mantenere il figlio di otto anni ed era entrata come receptionist in uno studio di design di interni. In breve tempo aveva bruciato le tappe e ora aveva in mano la contabilità.
Il lavoro era tutto calcoli, però le piacevano l'ambiente e i colleghi (be', quasi tutti). Inoltre godeva di un orario flessibile, dal momento che passava molto tempo fuori, con i clienti, e questo per lei era importante: tutte le mattine doveva preparare il figlio per la scuola e accompagnarlo fino alla 95th Street entro le nove, prima di correre in ufficio a Midtown, dove arrivava a ore variabili, secondo i capricci della metropolitana. Quel giorno le toccava lavorare più di dieci ore. E l'indomani si sarebbe presa un'intera giornata di ferie per fare gli acquisti di Natale con il suo bambino. Sarah passò il tesserino magnetico sul lettore, entrò dal retro del palazzo e si dedicò al suo allenamento pomeridiano: salire una rampa di scale anziché prendere l'ascensore. Lo studio occupava tutto il secondo piano; la sua scrivania era in un ufficio più piccolo, al primo. Era occupato solo da quattro persone ed era molto tranquillo. Sarah lo preferiva. I capi vi scendevano di rado e lei poteva lavorare in pace e senza interruzioni. Si fermò sul pianerottolo, chiedendosi per l'ennesima volta perché nelle porte sulle scale non ci fosse neanche una serratura. Sarebbe stato facile per chiunque... Udì un lieve suono metallico e si voltò di scatto. Non vide nessuno. E quello cos'era? Sembrava un respiro... C'era qualcuno che stava male? Forse sarebbe dovuta andare a vedere. O avrebbe dovuto chiamare la sicurezza. «C'è qualcuno? Ehi?» Nient'altro che silenzio. Non è niente, si disse. Andò alla porta dell'ufficio, chiusa a chiave. L'aprì, percorse un corridoio lungo e stretto e arrivò alla sua scrivania. Vi depose caffellatte e biscotto, si tolse il cappotto e si sedette davanti al computer. Strano. Sullo schermo era aperta la finestra PROPRIETÀ DATA E ORA. Era la funzione del sistema operativo Windows XP che si usava per regolare la data, l'ora e il fuso orario del computer: a sinistra un calendario con indicata la data del giorno e, sulla destra, un orologio a lancette e uno digitale, con i secondi che scorrevano. Quella finestra non c'era sullo schermo, quando era uscita per andare da Starbucks. Che si fosse aperta da sola? Perché? Oppure qualcuno aveva usato il computer in sua assenza? Tuttavia Sarah non aveva idea di chi potesse essere stato e perché. Non importava. Chiuse la finestra e riaprì l'ultimo documento.
Abbassò lo sguardo. E questo? C'era un estintore sotto la sua scrivana. Prima non c'era. La società faceva spesso cose strane e apparentemente immotivate, tipo installare un nuovo impianto di illuminazione, cambiare i piani di evacuazione o spostare i mobili. Adesso anche gli estintori. Forse anche di questo bisognava ringraziare i terroristi. Sarah occhieggiò la foto del figlio, sentendosi rassicurata dal suo sorriso. Mise la borsetta sotto la scrivania, accanto all'estintore, e aprì l'involucro del biscotto con gocce di cioccolato. Dennis Baker stava attraversando lentamente una deserta area industriale del West Side, a sud di Hell's Kitchen. In base al suo suggerimento, i vari indizi trovati nella chiesa erano stati suddivisi tra i poliziotti, per accelerare i tempi nella caccia all'Orologiaio. Alla Sachs e a Sellitto il tenente aveva detto di avere visto un magazzino che veniva ridipinto di verde squillante, la stessa tonalità della vernice trovata sulle scarpe dell'assassino. Mentre gli altri membri della squadra seguivano le altre piste, lui sarebbe andato a controllare nel West Side. Il massiccio edificio torreggiava sulla strada, buia e desolata persino nella brillante luce del giorno. Fino a due metri di altezza, i muri anneriti erano ricoperti da graffiti. Metà delle finestre avevano i vetri rotti, qualcuno anche a colpi di proiettile. Sul tetto c'era un'insegna sbiadita, scritta a caratteri antiquati: PRESTON TRASLOCHI E DEPOSITO Il portone, dipinto in quella particolare tonalità verde chiaro, era chiuso con un lucchetto e una pesante catena, ma Baker localizzò un'encrata di servizio, seminascosta da un cassonetto. La porta era aperta. Il tenente guardò a destra e a sinistra, poi entrò nel magazzino, illuminato dai fasci di luce che filtravano dalle finestre. C'era odore di cartone marcio e di muffa. Baker impugnò la pistola, una sensazione strana per lui, che non aveva mai sparato un colpo in servizio. Camminando silenzioso lungo i corridoi, raggiunse il magazzino principale, il cui pavimento era ricoperto da cumuli di rifiuti e pozze di acqua oleosa e stagnante. Con disgusto Baker notò anche che c'erano parecchi preservativi. Quello era il luogo meno romantico che si potesse immaginare,
per un rapporto sessuale. Mentre i suoi occhi si abituavano alla semioscurità, da uno degli uffici Baker vide balenare una luce. Si avvicinò alla porta. All'interno era accesa una lampada da tavolo. E accanto c'era un altro oggetto. Uno degli orologi neri dal quadrante con le fasi lunari. I biglietti da visita dell'Orologiaio. Baker avanzò. La pozza di grasso sul pavimento era invisibile nel buio. Il tenente scivolò e batté il fianco sul pavimento. La pistola scivolò sul cemento sporco. Ansante, fece una smorfia di dolore. In quel momento un uomo arrivò di corsa alle sue spalle da uno dei corridoi laterali. Il tenente si trovò faccia a faccia con Gerald Duncan, l'Orologiaio. Il killer si chinò su di lui. E gli tese la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi. «Stai bene?» «Sono solo senza fiato. Non ho guardato dove mettevo i piedi. Grazie, Gerry.» Duncan fece un passo indietro, raccolse la pistola di Baker e gliela restituì. «Non c'era bisogno che ti presentassi con un'arma in pugno.» Rise. Il tenente rimise l'arma nella fondina. «Non si sa mai chi si può incontrare, in un postaccio come questo.» L'Orologiaio indicò l'ufficio. «Accomodati. Ti dirò esattamente che cosa le accadrà.» Accadere significava in che modo una vittima sarebbe morta. E la vittima a cui Duncan si riferiva era la detective dell'NYPD Amelia Sachs. 29 Seduto su una sedia nell'ufficio del magazzino, Dennis Baker si spazzolò i pantaloni, macchiatisi nella caduta. Italiani. Costosi. Merda. «Abbiamo in custodia Vincent Reynolds e abbiamo preso la chiesa», annunciò. Duncan lo sapeva già, naturalmente. Era stato lui a fare alla polizia la chiamata anonima con la descrizione dell'uomo che spingeva il trolley con la spesa al Greenwich Village. Baker era rimasto sorpreso e impressionato dal fatto che Kathryn Dance fosse riuscita a trovare Reynolds prima ancora che l'Orologiaio tradisse il suo presunto amico. E Duncan, dal canto suo,
era certo che il suo complice, messo alle strette, avrebbe rivelato dove si trovava la chiesa. «Ci è voluto un po' più del previsto, ma alla fine ha ceduto.» «Certo», commentò Duncan. «È un verme.» Duncan aveva progettato fin dal principio di far cadere quel povero stronzo nelle mani della polizia. Il ruolo dell'inconsapevole Vincent consisteva nel dare agli investigatori una serie di informazioni fuorvianti e convincerli che avessero a che fare con uno psicopatico in cerca di vendetta e non con un assassino professionista. Solo così l'Orologiaio avrebbe potuto completare il suo piano, elaborato ed elegante come il più raffinato degli orologi, il cui fine era fermare l'indagine di Amelia Sachs prima che la detective portasse allo scoperto il racket che Baker gestiva dal 118° Distretto. Il tenente veniva da una famiglia di poliziotti: suo padre era stato un agente della Transit Authority in servizio nella metropolitana, fino al prepensionamento dovuto a una brutta caduta dalla scala di una stazione; il fratello maggiore di Baker era una guardia carceraria; lo zio faceva il poliziotto nella cittadina della Suffolk County di cui la famiglia era originaria. Inizialmente Baker non era stato attratto da quella professione: bello e in ottima forma fisica, il giovane Dennis puntava a fare soldi. Però, dopo avere perso fino all'ultimo penny in un affare sbagliato, aveva deciso di entrare anche lui nelle forze dell'ordine. Si era trasferito da Long Island a New York City, e aveva cercato di reinventarsi come tutore della legge. Come se non bastassero le difficoltà dovute al suo tardivo ingresso nella polizia, il suo stile arrogante da sbirro della TV si era rivelato controproducente, alienandogli la simpatia di superiori e colleghi. Nemmeno i trascorsi famigliari gli erano serviti: tutti i suoi parenti occupavano posizioni troppo basse nella gerarchia. Baker nella polizia poteva solo tirare a campare: non sarebbe mai arrivato a un ufficio d'angolo all'One Police Plaza. Perciò aveva deciso di tornare a puntare ai soldi, ma non più con gli affari. Si sarebbe servito del suo distintivo. Quando aveva cominciato con le estorsioni, si era chiesto se provasse un minimo senso di colpa. Uh-uh. Nemmeno un po'. L'unico suo problema era mantenere uno stile di vita che prevedeva vini scelti, cibi raffinati e belle donne. Non gli bastavano i mille dollari a settimana che poteva estorcere ai grossisti coreani e ai grassi proprietari di pizzerie del Queens. Perciò Baker, un suo ex compagno di ronda e qualche altro sbirro del 118° Distretto avevano deciso di espandere il loro racket. La
prima mossa consisteva nel sottrarre minime quantità di droga dai cassetti del Distretto o dagli spacciatori per le strade. La seconda era fermare i figli dei ricchi uomini d'affari quando uscivano dai locali di Manhattan e mettergli addosso la droga. Dopo di che Baker andava a parlare con i genitori e diceva loro che, dietro un compenso a sei cifre, i rapporti dell'arresto sarebbero scomparsi. O loro pagavano, oppure il ragazzo sarebbe finito in galera. Di tanto in tanto, anziché con i figli, facevano lo stesso giochetto direttamente con gli uomini d'affari. Anziché farsi pagare una mazzetta, il tenente e i suoi complici facevano in modo che il denaro della vittima andasse perduto in qualche affare strampalato, come nel caso di Frank Sarkowsky, oppure in partite di poker truccate a Las Vegas o ad Atlantic City, come avevano fatto per Benjamin Creeley. In questo modo i loro bersagli avevano un pretesto per giustificare come, tutto a un tratto, si fossero trovati alleggeriti di due o trecentomila dollari. Però Dennis Baker aveva commesso un errore. Si era impigrito. Non era facile trovare sempre nuovi bersagli per i suoi giochetti, perciò aveva deciso di tornare a mungere quelli già colpiti. Qualcuno si era rassegnato e aveva pagato una seconda volta. Tuttavia due di loro, Sarkowsky e Creeley, da bravi uomini d'affari, si erano rivelati ossi troppo duri. Potevano essere disposti a pagarlo una volta, pur di levarselo di torno, ma non avevano intenzione di subire una seconda richiesta di denaro. Uno dei due aveva minacciato di rivolgersi alla polizia, l'altro alla stampa. In novembre, un poliziotto del 118° Distretto aveva rapito Sarkowsky, lo aveva portato nel Queens, dove uno dei suoi clienti aveva una fabbrica, e gli aveva sparato, inscenando una rapina. Qualche settimana dopo, Baker e lo stesso poliziotto erano entrati nell'appartamento di Creeley, gli avevano messo una corda al collo e lo avevano buttato giù dalla balaustra. Avevano rubato o distrutto i dossier personali, i registri e le agende delle due vittime: qualsiasi cosa potesse permettere di risalire a Baker e ai suoi complici. Nel rapporto di polizia sulla morte di Creeley non c'era niente che potesse incriminarli, ma in quello sull'assassinio di Sarkowsky c'erano alcuni dettagli da cui un investigatore attento avrebbe potuto trarre conclusioni imbarazzanti. Per questo uno degli agenti coinvolti aveva fatto sparire il dossier. Baker si aspettava che nessuno facesse caso alle due morti e aveva continuato con le estorsioni. Finché non era entrata in scena una giovane poliziotta: la detective di terzo grado Amelia Sachs, convinta che la morte di
Creeley non fosse dovuta a suicidio e decisa a fare luce sul caso. Non c'era modo di fermarla. L'unica via d'uscita era toglierla di mezzo. Una volta che la Sachs fosse stata neutralizzata, difficilmente altri poliziotti si sarebbero messi sulla pista con lo stesso fervore. Il problema era che, se lei fosse stata uccisa, Lincoln Rhyme avrebbe immediatamente dedotto che la sua morte fosse legata all'indagine sul caso Creeley. E a quel punto nemmeno loro avrebbero potuto impedire a lui e a Sellitto di dare la caccia agli assassini. Pertanto, Amelia Sachs doveva morire per ragioni del tutto diverse dai reati commessi al 118° Distretto. Baker si era informato negli ambienti del crimine organizzato e aveva scoperto l'esistenza di Gerald Duncan, un killer professionista abile nel manipolare le scene dei delitti e a fabbricare falsi moventi, tanto da depistare completamente le indagini e allontanare i sospetti dai veri mandanti. Il movente è la prima ragione per cui si può risalire al mandante, gli aveva detto l'assassino. Elimina il movente e hai eliminato anche i sospetti. Si erano accordati su un prezzo (Duncan era tutt'altro che a buon mercato, dannazione) e il killer si era messo al lavoro. Per cominciare, aveva rintracciato un fallito da dare in pasto alla polizia con un bagaglio di false informazioni sul conto dell'Orologiaio. Vincent Reynolds si era dimostrato l'uomo di paglia ideale, pronto a bersi tutte le storie che Duncan gli raccontava, compreso il fatto che uccideva cittadini inermi solo per vendicare la morte della moglie. Il giorno prima, Duncan aveva messo in atto il piano. L'Orologiaio aveva ucciso le prime due vittime, scelte assolutamente a caso: un tale rapito sulla West Street, al Village, e ammazzato al molo; e un altro nel vicolo, qualche ora più tardi. Baker aveva fatto in modo che il caso fosse affidato alla Sachs. Dopo di che c'erano stati altri due tentati omicidi. Il fatto che non fossero stati condotti a termine era irrilevante: l'Orologiaio era ancora in azione e doveva essere fermato al più presto. A quel punto Duncan aveva fatto la sua mossa successiva, mettendo Vincent alle calcagna di Kathryn Dance, lasciando intendere alla polizia che l'Orologiaio non si sarebbe trattenuto dall'uccidere un agente. Nel contempo, aveva fatto in modo che Vincent fosse arrestato, perché raccontasse agli investigatori tutto quello che credeva di sapere. Era venuto il momento del passo finale. L'Orologiaio avrebbe colpito un'altra volta e di nuovo avrebbe scelto una poliziotta: Amelia Sachs, la cui morte sarebbe stata attribuita a un assassino psicopatico. Così nessuno l'a-
vrebbe mai ricollegata alla sua indagine sul 118° Distretto. «Ha scoperto che la spiavi?» chiese Duncan. «Avevi indovinato», rispose Baker. «È furba, quella troia. Ma ho fatto come mi avevi suggerito.» Duncan aveva previsto che la detective avrebbe diffidato di chiunque non conoscesse di persona: Quando qualcuno dubita di te, aveva spiegato, bisogna dargli un'altra ragione, innocua, per il tuo comportamento. È sufficiente confessare una colpa minore e mostrarsi contriti per farli contenti ed essere cancellati dalla lista dei sospetti. Perciò, su consiglio del killer, Baker aveva raccolto informazioni sulla Sachs e, scoperta la sua vecchia relazione con un poliziotto corrotto, aveva fabbricato una falsa e-mail per giustificare il fatto di averla spiata. Non si poteva dire che lei fosse contenta, comunque di sicuro non lo sospettava d'altro. «Ecco il piano», cominciò Duncan, mostrandogli lo schema di un ufficio di Midtown. «L'ultima vittima lavora qui. Si chiama Sarah Stanton. Ha una scrivania al primo piano. Ho scelto il posto in base alla pianta dell'edificio. Sarà perfetto. Non ho potuto usare l'orologio perché la polizia ha dato pubblicamente l'annuncio, però ho aperto la finestra dell'ora e della data sul suo computer.» «Un tocco di finezza» Duncan sorrise. «Difatti.» Il killer parlava sottovoce, con una precisa scelta delle parole, ma il suo tono era quello di un artigiano moderatamente compiaciuto che illustra all'acquirente il mobile o lo strumento musicale che ha appena fabbricato. O un orologio, rifletté Dennis Baker. L'assassino raccontò che, travestito da operaio, aveva atteso che Sarah uscisse dall'ufficio per metterle sotto la scrivania un estintore pieno di alcool infiammabile. Di lì a pochi minuti, Baker avrebbe dovuto telefonare a Rhyme o a Sellitto e annunciare che aveva trovato un indizio sul bersaglio della bomba incendiaria. L'ESU e la Bomb Squad si sarebbero precipitati nell'ufficio. E, assieme a loro, Amelia Sachs. «Ho trasformato l'estintore in un ordigno incendiario. Se Sarah Stanton lo maneggerà in un certo modo, si ritroverà cosparsa di alcool e in fiamme. L'alcool brucia molto in fretta. La ucciderà o la lascerà gravemente ustionata, ma non incendierà l'ufficio.» La polizia sarebbe potuta arrivare in tempo per salvarla e persino neutralizzare l'ordigno incendiario. Ciò era tuttavia irrilevante per Duncan: l'importante ai fini del piano era che Amelia Sachs entrasse nell'ufficio per esaminare la scena. La scrivania di Sarah era in fondo a uno stretto corridoio, e la detective,
come al solito, avrebbe esaminato la scena da sola. A quel punto, Baker le sarebbe arrivato alle spalle e le avrebbe sparato, usando la calibro 32 di Duncan, con i proiettili provenienti dalla scatola che l'Orologiaio aveva deliberatamente lasciato nel fuoristrada perché li trovasse la polizia. Dopo avere ucciso la Sachs, Baker avrebbe rotto un vetro che dava su un vicolo, cinque metri più in basso, e avrebbe gettato fuori l'arma. La polizia avrebbe pensato che l'Orologiaio fosse uscito dalla finestra, perdendo la pistola durante la fuga. L'insolita arma del delitto, assieme ai proiettili trovati nell'Explorer, non avrebbe lasciato dubbi sull'identità dell'assassino. E, con la morte della Sachs, l'inchiesta sul 118° Distretto si sarebbe arenata. «Lascia che siano gli agenti a trovare il corpo», suggerì Duncan. «Sarebbe elegante se tu ti facessi largo tra loro per cercare di rianimarla.» «Pensi a tutto quanto, vero?» gli chiese Baker. «Quello che c'è di straordinario negli orologi», sospirò il killer, guardando il quadrante con le fasi lunari, «è che non c'è un pezzo in più o in meno. Solo quelli che il fabbricante ritiene necessari. Non manca nulla e non c'è niente di superfluo.» A bassa voce, aggiunse: «È la pura perfezione, non trovi?» Mentre percorreva al fianco di Ron Pulaski le strade gelide di Lower Manhattan, Amelia Sachs rifletteva che a volte chi ostacola veramente le indagini non sono i colpevoli, ma i testimoni e le vittime. Stavano seguendo la pista di uno degli scontrini trovati nella chiesa: era di un garage non lontano dal molo in cui era morta la prima vittima. Ma il custode non era stato di alcun aiuto. No, signora, lui no visto. No ricordo nessuno come lui. Ahmed, forse lui visto... Oh, ma lui no qui oggi. No, io no so suo telefono. Niente da fare. In preda alla frustrazione Amelia indicò un ristorante adiacente al garage. «Può darsi che ci sia entrato. Facciamo un tentativo.» In quel momento la sua radio crepitò. La detective riconobbe la voce di Sellitto. «Amelia, mi ricevi?» Lei prese Pulaski per un braccio, mentre con la mano libera alzava il volume perché potesse sentire anche lui. «Dimmi. K.» «Dove sei?» «Al garage. Nessuna scoperta. Stiamo per controllare in un paio di ristoranti.»
«Lascia perdere. Vieni subito all'angolo tra 32nd Street e Seventh Avenue. Baker ha trovato una traccia: la prossima vittima è in un ufficio a quell'indirizzo.» «Chi è?» «Non lo sappiamo. Probabilmente dovremo setacciare il palazzo. Ho chiamato gli artificieri e gli esperti in incendi dolosi: la prossima è quella che deve bruciare viva. Speriamo di arrivare in tempo. Tu vieni qui subito.» «Siamo lì tra un quarto d'ora.» Il Fire Department aveva fatto entrare nell'edificio due dozzine tra uomini e donne, mentre Bo Haumann stava preparando due squadre di irruzione dell'ESU, con sei elementi in luogo dei soliti quattro, per esplorare ogni piano. Con il traffico prenatalizio, ad Amelia era occorsa quasi mezz'ora per arrivare sul posto. Non era un grande ritardo, ma i dodici minuti in più rispetto al previsto le avevano impedito di far parte delle squadre di irruzione. Malgrado fosse una detective specializzata nell'esame della scena del crimine, il suo cuore era con le squadre tattiche, quelle che andavano a stanare i sospetti sul loro terreno. Se avessero trovato l'Orologiaio nel palazzo, quella sarebbe stata la sua ultima possibilità di partecipare a un'irruzione. Difficilmente il suo nuovo lavoro all'Argyle le avrebbe procurato emozioni paragonabili a quelle di una squadra tattica della polizia. Amelia e Pulaski scesero di corsa dall'auto e raggiunsero la postazione di comando sul retro del palazzo. «Qualche traccia dell'Orologiaio?» chiese la detective. Haumann scosse la testa brizzolata. «Ancora no. Una videocamera nell'atrio ha filmato un individuo che assomigliava all'identikit, con una borsa in mano. Però non sappiamo se sia uscito o sia rimasto dentro. Ci sono quattro uscite, di fianco e sul retro, tutte prive di allarmi e videocamere.» «State evacuando l'edificio?» chiese una voce maschile. Amelia si voltò. Era il tenente Dennis Baker. «Abbiamo appena cominciato», lo informò Haumann. «Come lo hai scoperto?» chiese la detective. «Il magazzino con la vernice verde. L'Orologiaio lo usava per i suoi preparativi. Ho trovato alcuni appunti e una pianta di questo edificio.» Amelia non lo aveva ancora perdonato per averla spiata, ma un solido lavoro di indagine meritava sempre un apprezzamento. «Ottimo lavoro», approvò.
«Nessun colpo di genio», si schermì Baker con un sorriso. «Molta pazienza e un pizzico di fortuna.» Alzò lo sguardo verso il palazzo e si infilò i guanti. 30 Seduta alla scrivania in fondo al corridoio, Sarah Stanton sentì gracchiare di nuovo l'altoparlante. Una battuta ricorrente tra i colleghi era che la compagnia doveva avere installato un filtro speciale per rendeva incomprensibili tutte le trasmissioni. Sarah tornò a guardare il computer chiedendo ad alta voce: «Che cosa stanno dicendo? Non si capisce niente». «Qualche annuncio», rispose uno dei colleghi. Già. «Un'altra volta. Che rottura. Cos'è, di nuovo una prova di evacuazione?» «Chi lo sa?» Poco dopo scattò l'allarme antincendio. Evidentemente... Dopo quell'undici settembre, lo facevano ogni mese. Le prime due o tre volte Sarah era stata al gioco, correndo sulle scale insieme a tutti gli altri. Ma, con il freddo che faceva quel giorno e tutto il lavoro che aveva da fare, questa volta non ne aveva alcuna intenzione. E poi, se davvero ci fosse stato un incendio, avrebbe potuto saltare giù dalla finestra: il suo ufficio era al primo piano. Tornò a guardare lo schermo. Poi Sarah sentì alcune voci in fondo al corridoio che portava alla sua scrivania. Voci concitate. E anche qualcos'altro: il tintinnio del metallo. Che fossero le attrezzature dei pompieri? Forse stava davvero succedendo qualcosa. Udì passi pesanti in avvicinamento. Sarah si voltò e vide un agente armato, con indosso un'uniforme scura, che veniva verso di lei. Polizia? Oddio, un attacco terroristico? La prima preoccupazione fu di correre a prendere suo figlio a scuola. «Stiamo evacuando l'edificio», annunciò il poliziotto. «I terroristi?» chiese lei «C'è stato un altro attacco?» «No.» L'agente non diede altre spiegazioni. «Uscite tutti ordinatamente. Prendete i cappotti e lasciate tutto il resto.» Sarah si rilassò. Non doveva preoccuparsi per il figlio.
«Stiamo cercando un estintore», aggiunse un altro poliziotto. «Se ce ne sono in quest'area, non li toccate. Diteci solo dove sono. Ripeto: non li toccate!» Allora c'è davvero un incendio, pensò lei, indossando il cappotto. Le parve subito strano che, dovendo spegnere un incendio, i pompieri pensassero di usare gli estintori. Non avevano idranti? E perché non volevano che loro li prendessero? Non ci voleva certo un addestramento speciale. Ripeto: non li toccate! Il poliziotto si avvicinò alla sua scrivania. «Agente, le serve un estintore?» chiese lei. «Ne ho uno qui.» E sollevò il pesante cilindro rosso dal pavimento. «No!» gridò il poliziotto, tuffandosi su di lei. Amelia Sachs sobbalzò quando udì la comunicazione gracchiante all'auricolare. «Squadra antincendio! Primo piano, ufficio d'angolo nord-est. K. Studio Lanam. Subito! Sbrigatevi!» Una dozzina tra pompieri e artificieri si mise in spalla l'equipaggiamento e si precipitò verso la porta sul retro del palazzo. «Stato?» urlò Haumann nel microfono. Non si udì altro che una cacofonia di voci con l'allarme antincendio sullo sfondo. «Avete avuto una detonazione?» insistette il capo dell'ESU. «Non vedo fumo», notò Pulaski. Dennis Baker alzò lo sguardo verso il primo piano e scosse la testa. «Se si tratta di alcool», disse uno dei capi dei pompieri, «non c'è fumo finché non prende fuoco uno dei materiali secondari.» Poi aggiunse, imperturbabile: «O i capelli e la pelle della vittima». Amelia continuò a guardare le finestre, a una a una, stringendo i pugni. Possibile che la donna stesse morendo proprio in quel momento, circondata da poliziotti e pompieri? «Avanti...» mormorò Baker. Dalla radio uscì una voce metallica. «Abbiamo l'ordigno... Abbiamo... Sì, è sotto controllo. Non è detonato.» Amelia chiuse gli occhi. «Grazie a Dio», mormorò Baker. La gente stava uscendo dall'edificio, sotto gli occhi dell'ESU e degli agenti di pattuglia, che controllavano che l'Orologiaio non si fosse confuso
tra gli impiegati. Sellitto arrivò proprio mentre un poliziotto accompagnava una donna alla postazione di comando. La vittima designata, Sarah Stanton, raccontò di avere trovato un estintore sotto la scrivania dopo la pausa pranzo. Non aveva visto chi lo avesse portato. Un collega ricordava tuttavia di avere visto un uomo in tuta da operaio, anche se non sapeva darne una descrizione né era in grado di riconoscere l'identikit di Gerald Duncan. Nessuno aveva visto dove l'uomo fosse andato. «Stato dell'ordigno?» chiese Haumann. Rispose un agente, via radio. «Non vedo un timer, ma non c'è nessuna indicazione sulla valvola della pressione. Potrebbe essere questo il detonatore. Sento odore di alcool. Gli artificieri stanno preparando un serbatoio di contenimento. Lo porteranno a Rodman's Neck. Stiamo ancora cercando il sospetto.» «Qualche traccia?» «Negativo. Ci sono due scale antincendio e gli ascensori. Potrebbe essere uscito di lì. E ci sono altri quattro o cinque uffici allo stesso piano, in cui potrebbe essersi nascosto. Tra un paio di minuti facciamo un'ispezione, appena abbiamo via libera.» Dieci minuti più tardi giunse la comunicazione che non risultavano altri ordigni esplosivi nel palazzo. Amelia interrogò Sarah Stanton, poi chiamò Rhyme via radio, per riferirgli la sua dichiarazione. La donna non aveva mai sentito nominare né le altre vittime né Gerald Duncan. L'aveva sconvolta la notizia che la moglie di quell'uomo fosse morta vicino a casa sua, anche se non ricordava affatto che ci fossero stati incidenti mortali nel suo quartiere. Dopo di che Haumann comunicò che l'ispezione era conclusa. L'Orologiaio era riuscito a fuggire. «Maledizione», mormorò Baker. «Ci eravamo andati così vicino!» Via radio, il criminalista disse: «Be', Amelia, percorri la griglia e dimmi che cosa trovi». Le squadre si apprestarono a rientrare. Haumann ne spedì due al magazzino, nell'eventualità che l'assassino vi facesse ritorno. Amelia indossò la tuta bianca di Tyvek e prese la valigia metallica con l'attrezzatura. «Ti do una mano», si offrì Pulaski, indossando a sua volta la tuta. Amelia gli passò la valigia e ne prese un'altra per sé. La detective salì al primo piano e controllò il corridoio. Dopo avere scat-
tato qualche fotografia, entrò negli uffici dello Studio Lanam e si diresse alla scrivania di Sarah Stanton. Amelia e Pulaski deposero a terra le valigie e ne estrassero l'equipaggiamento base per la raccolta di indizi: buste di plastica, provette, tamponi, spazzole adesive, fogli elettrostatici per il rilievo di orme, l'attrezzatura e i prodotti chimici per le impronte latenti. «Che cosa posso fare?» chiese Pulaski. «Vuoi che esamini le scale?» Amelia rifletté. Le scale dovevano essere controllate, prima o poi: erano la più probabile via di fuga dell'assassino. Ma sarebbe stato meglio che se ne occupasse lei stessa: non voleva correre il rischio che qualche indizio fondamentale sfuggisse agli occhi della recluta. Diede un'occhiata in fondo all'ufficio e notò che accanto a quella di Sarah, di là da una parete mobile, c'era un'altra scrivania. Era possibile che l'Orologiaio si fosse nascosto lì, in attesa del momento opportuno per collocare l'ordigno incendiario. «Esamina quella scrivania», disse alla recluta. «Agli ordini.» Pulaski sfoderò la torcia elettrica e si mise al lavoro, seguendo le regole alla lettera: annusava persino l'aria, come raccomandava sempre Lincoln Rhyme. Il ragazzo farà strada, si disse Amelia. La detective si apprestava a esaminare la scrivania sotto la quale era stato trovato l'estintore, quando sentì un rumore alle proprie spalle e si voltò. Era solo Dennis Baker, che era entrato nel corridoio e si era fermato a sette metri dalle scrivanie, la distanza di sicurezza per non contaminare la scena. Amelia non sapeva che cosa fosse venuto a fare, ma dal momento che ancora non avevano trovato l'Orologiaio gli era grata per la sua presenza. Cerca attentamente, ma guardati le spalle... Era quella la differenza. Il tenente Dennis Baker aveva assassinato Benjamin Creeley e Frank Sarkowsky assieme a un poliziotto del 118° Distretto. Era stato difficile, però lo avevano fatto senza esitazioni. Così come non avrebbero esitato a eliminare qualsiasi altro civile avesse ostacolato il loro giro di estorsioni. Nessun problema. Cinque milioni di dollari in contanti, il loro bottino fino a quel momento, cancellavano molti rimorsi. Tuttavia Baker non aveva mai ucciso un collega. Osservò inquieto Amelia Sachs e il ragazzo, Pulaski, entrambi facili bersagli. Una grossa differenza. Uccidere altri poliziotti era come ammazzare i propri famigliari.
La triste verità era che la Sachs, e Pulaski con lei, potevano rovinargli completamente la vita. E questo era un grave problema. Baker studiava la scena. Sì, Duncan aveva previsto tutto nel dettaglio, compresa la finestra. Il tenente guardò fuori. Il vicolo, cinque metri sotto di lui, era deserto. C'era la sedia grigia di metallo di cui gli aveva parlato il killer, quella con cui Baker avrebbe dovuto rompere il vetro dopo avere ucciso i due poliziotti. E c'era il condotto dell'aria condizionata, di cui avrebbe dovuto rimuovere la grata per far credere che l'Orologiaio vi si fosse nascosto. Un respiro profondo. Okay, è il momento. Doveva fare in fretta, prima che qualcun altro arrivasse sulla scena. Amelia Sachs aveva mandato tutti gli agenti nell'atrio, comunque c'era sempre la possibilità che qualcuno tornasse indietro in qualsiasi momento. Baker prese la calibro 32 e, silenzioso, tirò indietro il carrello per sincerarsi che ci fosse un proiettile in canna. Si avvicinò ai due bersagli, tenendo l'arma dietro la schiena. Amelia Sachs si muoveva sulla scena come una ballerina: precisa, fluida, concentrata. Era un bello spettacolo. Baker si riscosse dai suoi sogni a occhi aperti. Secondo la logica, il primo bersaglio doveva essere Pulaski, il più vicino. Lincoln Rhyme, tuttavia, aveva parlato al tenente dell'abilità di Amelia come tiratrice: la detective avrebbe potuto estrarre l'arma e sparare nel giro di pochi secondi. Il ragazzo, dal canto suo, probabilmente non aveva mai partecipato a uno scontro a fuoco. Avrebbe potuto portare la mano alla pistola dopo lo sparo, ma sarebbe morto prima di estrarla. Un altro respiro profondo. Amelia Sachs stava collaborando, a sua insaputa. Si alzò in piedi dall'angolo in cui era accovacciata, presentando un bersaglio perfetto. Baker mirò alla spina dorsale e premette il grilletto. 31 Per la maggior parte delle persone sarebbe stato un semplice clic metallico, confuso tra dozzine di rumori ambientali in un grande edificio. Per Amelia Sachs, invece, era chiaramente quello del percussore di un'arma automatica che colpiva l'innesco centrale di un proiettile difettoso, o di una pistola che scattava a vuoto.
Il clic fu seguito da un altro rumore riconoscibile: quello del carrello tirato indietro per espellere il proiettile e mettere in canna il successivo. In molti casi, come in quel momento, era una manovra frenetica, nel tentativo di caricare l'arma nel più breve tempo possibile. Per lei poteva significare la differenza tra la vita e la morte. Amelia capì tutto questo in una frazione di secondo. Lasciò cadere la spazzola adesiva che stava usando per raccogliere le tracce e portò la mano al fianco. Un attimo dopo stava ruotando su se stessa, chinandosi in posizione di tiro con la Glock in pugno, puntata nella direzione da cui era venuto il rumore. Con la coda dell'occhio vide, alla propria destra, Ron Pulaski che la guardava stupefatto e allarmato. A sei metri da Amelia c'era Dennis Baker, con gli occhi spalancati. Nella mano guantata stringeva una piccola pistola, una calibro 32, puntata su di lei: era un'Autauga MkII, il tipo di pistola che Rhyme aveva supposto fosse quella dell'Orologiaio. Baker smise di manovrare il carrello e batté le palpebre. Per un attimo rimase senza parole. Poi si affrettò a dire: «Ho sentito un rumore. Ho pensato che stesse tornando. L'Orologiaio». «Hai premuto il grilletto.» «No, stavo solo mettendo un colpo in canna.» Amelia guardò il proiettile sul pavimento. C'era solo una possibile spiegazione: Baker aveva cercato di sparare e lo aveva espulso perché difettoso. Il tenente spostò la piccola pistola nella mano sinistra e abbassò la destra. «Dobbiamo stare in guardia. Ho la sensazione che sia tornato.» Amelia mirò al petto di Baker. «Non lo fare, Dennis», gli disse, guardando il suo fianco destro, dove aveva la fondina dell'arma di ordinanza. «Sono pronta a sparare. Presumo tu abbia un giubbotto antiproiettile. Il mio primo colpo ti centrerà al petto, il secondo e il terzo arriveranno più in alto. Non sarà piacevole.» «Io... Tu non capisci.» Baker era visibilmente in preda al panico. «Mi devi credere.» Secondo Kathryn Dance, quella era una delle frasi predilette da chi mentiva. «Che succede?» chiese Pulaski. «Resta dove sei, Ron», ordinò Amelia. «Non ascoltare quello che dice. Estrai la tua arma.» «Pulaski», disse Baker, «è impazzita. C'è qualcosa che non va.»
Ma la recluta estrasse la sua pistola e la puntò su Baker. «Dennis, metti la calibro 32 sul tavolo. Poi, con la sinistra, estrai la tua pistola di ordinanza. Solo con pollice e indice sul calcio. Metti giù anche quella. Vai indietro di cinque passi. Mettiti faccia a terra. È chiaro?» «Non capisci.» «Non mi serve capire», ribatté lei, calma. «Mi serve che tu faccia come ho detto.» «Dai...» «E che lo faccia subito.» «Sei pazza!» sbottò Baker. «Ce l'hai con me da quando hai scoperto che stavo controllando te e il tuo fidanzato. Stai cercando di screditarmi... Pulaski, mi vuole uccidere. È uscita di testa. Non giocarti la carriera per darle retta.» «Il detective Sachs le ha detto che cosa deve fare», replicò la recluta. «Se necessario, tenente, provvederò a disarmarla. Che cosa decide, signore?» Trascorsero molti secondi. Sembrarono ore. Nessuno si mosse. «Cazzo», sibilò Baker. Mise le pistole sul tavolo come richiesto, quindi si distese a terra. «Siete tutti e due nella merda.» «Ammanettalo», Amelia ordinò a Pulaski. Tenne Baker sotto tiro mentre la recluta gli tirava indietro le braccia e faceva scattare i bracciali. «Perquisiscilo.» Sachs prese il cellulare. «Detective Cinque Otto Otto Cinque ad Haumann. Rispondi, K.» «Ti ricevo, K.» «Abbiamo un nuovo sviluppo, qui. Ho un uomo in manette da scortare di sotto.» «Che succede?» chiese il capo dell'ESU. «È il colpevole?» «Bella domanda», rispose Amelia, rimettendo la pistola nella fondina. Dopo il nuovo colpo di scena, un'altra persona stava raggiungendo il palazzo di Midtown in cui il tenente Dennis Baker aveva appena cercato di uccidere Amelia Sachs e Ron Pulaski. Servendosi del touchpad, Lincoln Rhyme guidò la sedia a rotelle Storm Arrow rossa sul marciapiede, fino all'ingresso dell'edificio. Baker, sul sedile posteriore di un'auto di pattuglia, era ammanettato e incatenato. Pallido come un cadavere, fissava dritto davanti a sé. All'inizio il tenente aveva affermato che Amelia se la stava prendendo
con lui per la questione di Nick Carelli. Poi Rhyme aveva deciso di controllare con la centrale. Aveva interpellato il pezzo grosso dell'NYPD indicato come mittente dell'e-mail. L'alto funzionario lo aveva informato che era stato lo stesso Baker a dirsi preoccupato dei rapporti tra la detective e un poliziotto corrotto e che lui non aveva inviato nessuna e-mail in proposito. L'aveva scritta il tenente stesso, per coprirsi le spalle nel caso Amelia avesse scoperto che lui la stava spiando. Rhyme si avvicinò alla postazione di comando, dove Sellitto gli spiegò la situazione. «Non capisco, proprio non capisco», concluse il detective, sfregandosi le mani nude. Alzò lo sguardo verso il cielo terso e ventoso, come se si rendesse conto solo in quel momento del freddo record di quel dicembre. Quando seguiva un caso, non si accorgeva nemmeno della temperatura. «Gli avete trovato addosso qualcosa?» chiese il criminalista. «Solo la calibro 32 e i guanti di lattice», rispose Pulaski. «E alcuni effetti personali.» Amelia li raggiunse poco dopo, reggendo una scatola di cartone con gli indizi raccolti nell'auto di Baker. «Di bene in meglio, Rhyme. Guarda qui.» Mostrò a una a una le buste con i reperti: cocaina, cinquantamila dollari in contanti, vestiti vecchi, scontrini di club e bar di Manhattan tra cui la St. James Tavern. Per ultimo, sollevò un involucro che sembrava vuoto. C'erano dentro alcune fibre sottili. «Tappetino?» chiese il criminalista. «Sì. Marrone.» «Scommetto che è quello dell'Explorer.» «Proprio quello che pensavo.» Un altro collegamento con l'Orologiaio. Rhyme annuì, guardando la busta di plastica che oscillava al vento gelido. Era il momento esaltante in cui i pezzi del mosaico cominciavano ad andare a posto. Si voltò verso l'auto in cui era seduto Baker. «Quando sei stato assegnato all'Uno Uno Otto?» gli chiese ad alta voce. Il tenente lo guardò dal finestrino semiaperto. «Vaffanculo. Credi che voglia parlare con voi stronzi? Sono tutte cazzate. È tutta roba che mi ha messo in macchina qualcuno.» Rhyme si rivolse a Sellitto. «Chiama l'Ufficio Personale. Voglio sapere dove è stato assegnato in precedenza.» Il detective obbedì e dopo una breve conversazione telefonica comunicò: «Bingo. È stato all'Uno Uno Otto per due anni. Narcotici e Omicidi.
L'hanno promosso alla centrale tre anni fa». Rhyme si voltò nuovamente verso Baker. «Come hai conosciuto Duncan?» Baker si chinò in avanti sul sedile e tornò a guardare fisso davanti a sé. «Be', a quanto pare questa è la confluenza dei nostri casi», osservò Rhyme di buon umore. «La cosa?» abbaiò Sellitto. «Confluenza, Lon. Quando due flussi si incontrano. Non fai mai le parole crociate?» «Quali casi?» borbottò il detective. «È chiaro: quello di Sachs sull'Uno Uno Otto e quello dell'Orologiaio. Non erano due casi separati. Si potrebbe dire che fossero le due facce della stessa lama.» Rhyme si compiacque della similitudine. Il Suo Caso e l'Altro Caso. «Ti spiace essere più chiaro?» Era davvero necessario? Fu Amelia Sachs a intervenire: «Baker è uno dei poliziotti corrotti dell'Uno Uno Otto. E ha assunto l'Orologiaio, Duncan, per eliminarmi prima che mi avvicinassi alla verità». «Il che dimostra che c'è decisamente del marcio in Danimarca», commentò Rhyme. Stavolta fu Pulaski a non capire. «Danimarca? Quella in Europa?» «Quella in Shakespeare, Ron», replicò il criminalista, spazientito. Il giovane poliziotto lo guardò con un sorriso ebete. Rhyme lasciò perdere. Intervenne di nuovo Amelia. «Intende dire che c'è un gravissimo caso di corruzione all'Uno Uno Otto. Evidentemente hanno fatto di peggio che insabbiare un'indagine su una gang di Baltimora o di Bay Ridge.» Rhyme fissava l'edificio con sguardo assente, ignorando il vento e il freddo. Pensava alle domande che restavano tuttora senza risposta, per esempio se Vincent Reynolds fosse davvero un complice o se non fosse stato semplicemente incastrato. Poi c'era la questione di dove finisse il denaro delle estorsioni. «Chi è quello del Maryland?» domandò il criminalista. «Con chi lavori? Il crimine organizzato o qualcos'altro?» «Sei sordo?» ribatté Baker. «Non ti dico un cazzo.» «Portatelo alla centrale», ordinò Sellitto ai poliziotti sull'attenti accanto alla macchina. «Per ora con l'accusa di tentato omicidio. Penseremo dopo
ad aggiungere qualche altro ornamento.» Mentre l'auto di pattuglia se ne andava, il detective scosse il capo e mormorò: «Gesù, siamo stati fortunati». «Fortunati?» bofonchiò Rhyme, memore di un proprio recente commento in proposito. «Sì, che Duncan non abbia seminato altre vittime. E anche che quella pistola abbia fatto cilecca proprio quando Amelia era un facile bersaglio.» La voce di Sellitto sfumò al pensiero del pericolo scampato per un soffio. Ma Lincoln Rhyme credeva alla buona sorte così come credeva ai fantasmi e ai dischi volanti. Mentre stava per domandare che cosa diavolo c'entrasse la fortuna, le parole gli morirono sulle labbra. Fortuna... All'improvviso una dozzina di pensieri gli ronzarono intorno, come api in fuga da un alveare scosso bruscamente. Corrugò la fronte. «Strano...» cominciò, senza aggiungere altro. Poi mormorò: «Duncan». «Qualche problema, Linc? Stai bene?» chiese Sellitto. «Rhyme?» fece Amelia. «Shhhh.» Controllando la sedia a rotelle con il touchpad, il criminalista descrisse lentamente una circonferenza, guardando verso un vicolo vicino, per poi fermarsi di fronte alle scatole contenenti gli indizi raccolti da Amelia. «Voglio la pistola di Baker.» «La sua arma di ordinanza?» chiese Pulaski. «Certo che no! Quell'altra. La calibro 32. Dov'è? Forza, sbrighiamoci.» Pulaski trovò l'arma in un involucro trasparente. «Smontala», ordinò Rhyme. «Io?» chiese la recluta. «Lei.» Rhyme fece un cenno con la testa, rivolto ad Amelia. La detective distese un foglio di plastica sul marciapiede e si tolse i guanti di pelle per indossare nuovamente quelli di lattice. In pochi secondi smantellò la pistola, disponendone i pezzi sul foglio. «Controlla i componenti uno per uno.» Amelia obbedì. I loro sguardi si incrociarono. «Interessante», disse. «Okay. Recluta?» «Sissignore!» «Devo parlare con il medico legale. Rintracciamelo.» «Sì, certo. Lo devo chiamare?» Il sospiro di Rhyme divenne uno sbuffo spazientito. «Puoi provare con
un telegramma. O fare toc toc alla sua porta. Però scommetto che l'approccio più efficace sia... chiamarlo... al telefono. Non farti dire di no. Mi serve.» Il giovane poliziotto prese il cellulare e compose un numero. «Linc», chiese Sellitto. «Che cosa...?» «E ho bisogno che anche tu faccia una cosa, Lon.» «Sì. Dimmi.» «Dall'altra parte della strada c'è un uomo che ci sta guardando. Sull'angolo del vicolo.» Sellitto si voltò. «Visto.» Era un uomo alto, con indosso un cappello, un paio di jeans e una giacca di pelle. Portava un paio di occhiali da sole, nonostante stesse facendo buio. «Ha un che di familiare», disse il detective. «Invitalo qui. Vorrei fargli un paio di domande.» Sellitto rise. «Kathryn Dance ti ha fatto effetto. Credevo che non ti fidassi dei testimoni.» «Oh, penso che in questo caso sarà meglio fare un'eccezione.» Il corpulento detective si strinse nelle spalle. «Perché? Chi è?» «Potrei essere in errore», rispose Rhyme, con il tono di un uomo che sapeva di sbagliare raramente, «ma ho la sensazione che sia l'Orologiaio.» 32 Gerald Duncan era seduto sul marciapiede tra Amelia Sachs e Sellitto. Gli erano stati tolti il cappello, gli occhiali da sole, diverse paia di guanti beige, il portafogli e un taglierino macchiato di sangue. A differenza di Dennis Baker, sembrava disposto a collaborare, malgrado fosse stato appena messo a terra, perquisito e ammanettato da tre poliziotti, tra cui Amelia, abitualmente non molto delicata negli arresti. La patente di Gerald Duncan confermava la sua identità e riportava un indirizzo di St. Louis, Missouri. «Cristo», aveva detto Sellitto, «come diavolo hai fatto a riconoscerlo?» Non era stata affatto una deduzione miracolosa. Rhyme sospettava che l'Orologiaio non si fosse allontanato dalla scena prima ancora di notare l'uomo sull'angolo. Si fece avanti Pulaski. «L'ho trovato. Il medico legale.» Rhyme si protese verso il cellulare che la recluta gli accostava all'orec-
chio e parlò brevemente con il dottore. Lo ringraziò, quindi fece un cenno del capo a Pulaski, che chiuse la comunicazione. Il criminalista manovrò la Storm Arrow per avvicinarsi a Duncan. «Lei è Lincoln Rhyme», disse il prigioniero, come se fosse onorato di conoscerlo. «Esatto. E lei è il cosiddetto Orologiaio.» Duncan fece una risata, con l'aria di chi la sa lunga. Rhyme lo squadrò. Il sospetto aveva un'aria stanca, ma soddisfatta, quasi fosse in pace con se stesso. Con uno dei suoi rari sorrisi, il criminalista gli chiese: «Allora, chi era la vittima in realtà? Possiamo cercare all'anagrafe il nome Theodore Adams, ma sarebbe una perdita di tempo, vero?» Duncan si batté un dito sulla fronte. «Ha capito anche questo?» «Che ci può dire di Adams?» chiese Sellitto, comprendendo che la questione era più complessa. «Che cosa sta succedendo qui, Linc?» «Sto chiedendo al nostro sospetto notizie dell'uomo trovato ieri nel vicolo con il collo schiacciato. Voglio sapere chi era e come è morto.» «L'ha ammazzato questo bastardo», disse Sellitto. «No, non è stato lui. Ho appena parlato con il medico legale. Non ha ancora concluso l'autopsia, ma mi ha letto il rapporto preliminare. La vittima è deceduta verso le cinque o le sei di lunedì, non alle undici. La morte, istantanea, è stata causata da gravi lesioni interne, dovute a una caduta o a un incidente d'auto. La gola schiacciata non c'entra niente. Il corpo era congelato quando lo abbiamo trovato la mattina seguente e il medico di turno non ha potuto stabilire con precisione l'ora della morte.» Rhyme inarcò un sopracciglio. «Allora, signor Duncan, come e quando?» L'Orologiaio spiegò: «Non è altro che un poveraccio morto in un incidente d'auto a Westchester. Si chiamava James Pickering». «Vada avanti. Sono molte le cose che vogliamo sapere.» «Ho saputo dell'incidente intercettando le comunicazioni della polizia con lo scanner. L'ambulanza ha portato il corpo all'obitorio dell'ospedale di contea a Yonkers. È da lì che l'ho rubato.» «Chiama l'ospedale», disse il criminalista ad Amelia. Lei obbedì. Poco dopo riferì: «Un maschio bianco di trentun anni è rimasto ucciso in un incidente sulla Bronx River Parkway alle cinque di lunedì sera. Ha perso il controllo su una lastra di ghiaccio. È morto all'istante, per le lesioni interne. Si chiamava James Pickering. Il corpo è stato portato all'obitorio, dove se ne sono perse le tracce. Il personale ha pensato che fosse stato trasferito per errore a un altro ospedale. I parenti non l'han-
no presa molto bene, come si può immaginare». «Sono spiacente», disse Duncan, in tono sincero. «Però non avevo scelta. Sono tuttora in possesso dei suoi effetti personali e sono pronto a restituirli. Sono disposto a coprire le spese del funerale.» «E i documenti che abbiamo trovato sul cadavere?» domandò Amelia. «Falsi», ammise Duncan. «Non passerebbero un esame accurato; mi bastava che vi traessero in inganno per qualche giorno.» «Ha rubato il corpo, lo ha portato nel vicolo e ha preparato la messinscena della sbarra di ferro, per far credere che fosse morto lentamente.» L'Orologiaio annuì. «Ma il molo della 22nd Street?» chiese Sellino. «Chi è l'uomo che ha buttato nel fiume?» Rhyme guardò Duncan. «Il suo sangue è AB positivo?» Il sospetto rise. «Lei è molto bravo.» «Non c'è mai stata una vittima sul molo, Lon. Il sangue era suo.» Rhyme tornò a guardare Duncan. «Ha sistemato il biglietto e l'orologio, poi ha lasciato tracce del suo stesso sangue sul molo e sulla giacca, che infine ha buttato nel fiume. È stato lei stesso a lasciare i segni delle unghie. Dove ha preso il sangue? Si è fatto un prelievo da solo?» «No. Me lo sono fatto prelevare in un ospedale del New Jersey. Ho detto che me ne serviva una scorta in vista di un'operazione.» «Questo spiega gli anticoagulanti», concluse Rhyme (venivano usati abitualmente per conservare le scorte di sangue). Duncan assentì: «Mi ero chiesto se lo avreste notato». «E l'unghia?» L'Orologiaio mostrò l'anulare: l'unghia era spezzata. Se l'era rotta lui stesso. «Sono sicuro che Vincent vi ha raccontato che avrei ucciso un ragazzo vicino alla chiesa. In realtà non l'ho toccato. Il sangue sul taglierino è mio. E anche quello sui fogli di giornale che ho gettato in un cestino dei rifiuti, se sono ancora lì.» «Com'è andata?» «È stato un momento imbarazzante. Vincent era convinto che il ragazzo gli avesse visto il coltello. Ho dovuto fingere di ucciderlo, altrimenti Vincent si sarebbe insospettito. L'ho seguito dietro l'angolo, mi sono infilato in un vicolo e mi sono fatto un taglio per macchiare il taglierino.» Mostrò una recente ferita all'avambraccio. «Potete fare un test del DNA.» «Non si preoccupi, lo faremo.» Rhyme rifletté per un istante. «E il furto dell'auto? Non ha ucciso nessuno per rubare la Buick, vero?» In effetti,
non risultavano né studenti scomparsi a Chelsea, né automobilisti uccisi a scopo di furto in tutta la città. Lon Sellitto non poté fare a meno di intervenire: «Che cosa diavolo sta succedendo?» «Duncan non è un serial killer», disse Rhyme. «Non è un assassino. È stata tutta una complicata messinscena.» «Nessuna moglie morta in un incidente?» fece Sellitto. «Non sono mai stato sposato.» «Come lo ha capito?» domandò Pulaski a Rhyme. «Un paio di cose che hai detto tu, Lon, mi hanno insospettito.» «Io?» chiese il detective. «Per cominciare, lo hai chiamato per nome: Duncan.» «E allora? Lo conoscevamo.» «Esatto. Perché ce lo ha detto Vincent Reynolds. Ma il signor Duncan indossava i guanti ventiquattr'ore su ventiquattro, per non lasciare impronte. Era troppo prudente per rivelare il proprio nome a un individuo come Vincent. A meno che non volesse che scoprissimo la sua vera identità. Poi, Lon, hai detto che eravamo stati fortunati che l'Orologiaio non avesse ucciso le ultime vittime e che Amelia si fosse salvata. Sulle prime l'osservazione mi ha irritato. Però non ho smesso di pensarci. Avevi ragione. Noi non abbiamo visto nessuna vittima. La fiorista, Joanne? Sapevamo che era un bersaglio, certo, ma ha fatto in tempo a chiamare il 911 dopo avere sentito un rumore nel suo negozio. Un rumore che Duncan deve avere fatto intenzionalmente.» «Infatti», confermò il sospetto. «E ho lasciato un rotolo di filo di ferro sul pavimento, perché capisse che c'era un intruso.» Amelia disse: «Lucy, la soldatessa al Greenwich Village... Abbiamo ricevuto una chiamata anonima da un testimone. Non era affatto un testimone, giusto? È stato lei a chiamare». «A Vincent ho raccontato che qualcuno mi aveva visto dalla strada e aveva chiamato il 911 dal cellulare. Invece no. Sono stato io a fare quella telefonata, da un apparecchio pubblico.» Rhyme accennò all'edificio alle loro spalle. «E anche l'estintore faceva parte della messinscena, suppongo.» «È innocuo. L'ho bagnato con un po' di alcool all'esterno... dentro è pieno d'acqua.» Sellitto chiamò il 6° Distretto, dove aveva sede la Bomb Squad. Un attimo dopo diede la conferma: «Acqua del rubinetto».
«Lo stesso vale per la pistola che lei ha dato a Baker, quella che lui intendeva usare per uccidere la detective Sachs.» Rhyme guardò i pezzi della calibro 32 sul foglio di plastica. «Abbiamo controllato: il percussore è stato rotto.» Duncan si rivolse ad Amelia. «Ho anche bloccato la canna. Può controllare. Sapevo che Baker non poteva usare l'arma di ordinanza, altrimenti sarebbe stato chiaro che era lui il colpevole.» «Okay», abbaiò Sellitto. «Adesso basta. Qualcuno mi dia una spiegazione.» Rhyme si strinse nelle spalle. «Io posso solo farci arrivare alla stazione, Lon. Ma spetta al signor Duncan far partire il treno. Sospetto che abbia sempre avuto intenzione di darci lui stesso ogni spiegazione. Per questo si stava godendo lo spettacolo da un posto in prima fila.» Duncan assentì. «Ha fatto centro, detective Rhyme.» «Non sono più in servizio», precisò il criminalista. «Il mio obiettivo era ottenere i risultati che avete appena visto. E, sì, mi sono davvero goduto lo spettacolo di quel figlio di puttana di Dennis Baker che veniva arrestato e portato in galera.» «Continui.» Duncan si fece serio. «Un anno fa sono venuto a New York per affari. La mia società si occupa di finanziamenti per l'acquisto di attrezzature industriali. Lavoravo con un amico... il mio migliore amico: l'uomo che mi aveva salvato la vita vent'anni fa, sotto le armi. Abbiamo lavorato tutto il giorno sui documenti, poi io sono tornato in albergo. Lui doveva raggiungermi per cena, però non si è mai presentato. In seguito ho scoperto che era stato ucciso. Durante una rapina, secondo la polizia. Però c'era qualcosa che non mi convinceva. Da quando un rapinatore spara alla propria vittima alla fronte, a bruciapelo... due volte?» «Oh, gli omicidi a colpi di arma da fuoco nel corso di rapine sono estremamente rari, in base alle recenti...» Pulaski si zittì, sotto lo sguardo gelido di Rhyme. «Quel giorno», riprese Duncan, «il mio amico mi aveva raccontato una strana storia. La sera prima, uscendo da un locale in centro, era stato fermato da due poliziotti che gli avevano detto che aveva appena comprato droga. Era falso: non usava droghe, lo sapevo con certezza. Sicuro che lo stessero incastrando, il mio amico aveva chiesto un colloquio con un supervisore: voleva parlare con qualcuno alla centrale e fare una protesta ufficiale. In quel momento era uscita altra gente dal locale e i poliziotti lo
avevano lasciato andare. Ma il giorno dopo qualcuno gli ha sparato. Troppe coincidenze. Sono andato in quel locale a fare domande. Mi è costato cinquemila dollari, e alla fine ho trovato qualcuno disposto a parlare. Ho scoperto che Dennis Baker e altri suoi amici poliziotti avevano un giro di estorsioni.» Il loro metodo, raccontò, consisteva nel mettere droga addosso a uomini d'affari o ai loro figli, per poi far cadere le accuse in cambio di denaro. «La droga che mancava all'Uno Uno Otto», disse Pulaski. Amelia annuì. «Troppo poca da vendere, ma sufficiente per incastrare un innocente.» «La loro base», riprese Duncan, «è un bar nella Lower Manhattan.» «La St. James Tavern?» «Proprio quella. È dove i poliziotti si incontrano quando sono fuori servizio.» «E il suo amico», chiese Rhyme, «come si chiamava?» Duncan gli diede il nome e Sellitto chiamò la Omicidi. Era vero: l'uomo era stato ucciso a colpi di arma da fuoco, apparentemente a scopo di rapina. Nessun sospetto era mai stato arrestato. «Grazie al mio contatto nel locale, dandogli un sacco di soldi, mi sono fatto presentare certe persone che conoscevano Baker. Ho finto di essere un killer professionista e gli ho offerto i miei servigi. Non ho più avuto sue notizie per qualche tempo. Era frustrante. Ma poi lui mi ha chiamato e ci siamo visti. A quanto pareva, aveva fatto dei controlli per verificare che fossi affidabile ed era rimasto soddisfatto. Non voleva darmi troppi dettagli, mi ha detto solo che un suo giro di affari era a rischio. Lui e un altro poliziotto avevano già dovuto risolvere un paio di 'problemi'.» «Ha mai nominato Creeley o Sarkowsky?» domandò Amelia. «Non ha mai fatto nomi. Si capiva solo che aveva ucciso qualcuno.» Lo sguardo di Amelia si oscurò. «Già mi spaventava l'idea che qualche poliziotto del 118° Distretto prendesse mazzette dalla malavita. E adesso si scopre che erano loro gli assassini. Rhyme la guardò. Sapeva che in quel momento lei stava pensando a Nick Carelli. E a suo padre. «Baker mi ha detto che c'era un nuovo problema», riprese Duncan. «Doveva eliminare una detective. Ma non potevano occuparsene direttamente loro: se lei fosse morta durante l'indagine, qualcuno avrebbe fatto due più due e sarebbe andato fino in fondo. Così mi è venuta l'idea di fingermi un serial killer. E ho inventato un personaggio: l'Orologiaio.»
«Per questo non si trovava il nome Gerald Duncan in nessuna associazione di orologiai», osservò Sellitto. «Infatti. L'Orologiaio era solo una creazione di fantasia. Avevo bisogno anche di qualcuno che vi passasse informazioni e vi convincesse che ero sul serio un assassino psicopatico. Così ho trovato Vincent Reynolds. A quel punto ho cominciato con i finti omicidi. Vincent non c'era, durante i primi due, e non ho avuto problemi a simularli. Quanto agli altri, quelli che prevedevano la sua presenza, li ho fatti andare a monte. Volevo che trovaste la scatola di proiettili che vi avrebbe permesso di collegare l'Orologiaio a Baker. Pensavo di lasciarla da qualche parte, ma», Duncan rise, «non ce n'è stato bisogno. Avete trovato il fuoristrada e per poco non ci avete presi.» «Allora è per questo che ha lasciato i proiettili in macchina.» «I proiettili e il libro.» A Rhyme tornò in mente un altro dettaglio. «L'agente che ha esaminato il garage ha notato che era strano che l'Explorer fosse parcheggiato bene in vista e lontano da un'uscita. Voleva essere sicuro che lo trovassimo.» «Esatto. Tutti i finti delitti puntavano a questo, in modo che prendeste Baker mentre cercava di uccidere la detective. Ho pensato che questo vi avrebbe fornito una causa probabile per perquisirgli l'auto e la casa, trovando indizi sufficienti a mandarlo in prigione.» «E la poesia sulla 'Luna Fredda'?» Duncan sorrise. «L'ho scritta io. Sono più bravo negli affari che in poesia, ma mi è sembrato che facesse abbastanza paura da essere convincente.» «Perché ha scelto quelle vittime particolari?» «Non ho scelto le vittime, ho scelto i posti, in modo che ci permettessero di allontanarci facilmente. Quanto alla detective, serviva a intrappolare Baker.» «Tutto per vendicare il suo amico?» gli chiese Amelia. «Molta gente si sarebbe accontentata di farlo uccidere.» «Non ho mai fatto male a nessuno», disse Duncan, con convinzione. «Posso avere violato un po' la legge. Ammetto di avere commesso qualche reato. Però non ci sono state vittime. Non ho nemmeno rubato le macchine: me le procurava Baker, da un parcheggio della polizia.» «E la donna che si è presentata come sorella della seconda vittima?» chiese Amelia. «Chi è?» «Un'amica a cui ho chiesto aiuto. Qualche anno fa le ho prestato una
grossa somma di denaro, che lei non è in grado di restituirmi, e così in cambio ha accettato di aiutarmi.» «E la ragazza che era in macchina con lei?» insistette Amelia. «È davvero sua figlia.» «Come si chiama la donna?» Un sorriso contrito. «Preferisco tacere. Le ho promesso che non avrei fatto il suo nome. Come anche quello del mio contatto al locale, l'uomo che ha fatto da tramite con Baker. Era parte del nostro accordo e voglio rispettarlo.» «Chi altri al 118° Distretto fa parte del giro di estorsioni di Baker?» Duncan scosse tristemente il capo. «Mi piacerebbe potervelo dire. Vorrei che finissero tutti come lui. Ho cercato di scoprirlo, ma lui non ne parlava mai. Ho avuto solo l'impressione che ci fosse di mezzo qualcun altro fuori dal Distretto.» «Qualcun altro?» «Proprio così. Una persona molto in alto.» «Qualcuno che viene dal Maryland o ha una casa laggiù?» volle sapere Amelia. «Non ne ho mai sentito parlare. Baker si fidava di me... solo fino a un certo punto. Non credo pensasse che lo avrei denunciato, semmai aveva paura che diventassi avido e cercassi di mettere le mani sui suoi soldi. Pare che girassero cifre grosse.» Un'auto scura si fermò vicino al nastro giallo della polizia. Ne scese un uomo alto e stempiato con indosso un soprabito, che venne verso di loro. Era un viceprocuratore distrettuale che Rhyme conosceva bene: aveva testimoniato a parecchi processi istruiti da lui. Il criminalista gli fece un cenno di saluto e Sellitto lo aggiornò sugli ultimi sviluppi. Il viceprocuratore ascoltò la bizzarra piega che aveva preso il caso. La maggior parte dei colpevoli venivano presi o perché erano stupidi emuli di Tony Soprano o perché erano semplici balordi. Però era divertente scoprire un brillante criminale i cui reati non erano in realtà così gravi come era sembrato. E per la carriera di un viceprocuratore era molto più importante perseguire un gruppo di poliziotti corrotti e assassini che un serial killer, per quanto inafferrabile. «Se n'è occupata l'IAD?» si informò il viceprocuratore. «No», rispose Amelia. «Ho seguito io il caso.» «Chi le ha dato via libera?» «L'ispettore Flaherty.»
«Dell'Op Div?» «Proprio lei.» Il viceprocuratore cominciò a fare domande e a prendere appunti con la sua grafia precisa. Dopo cinque minuti si interruppe. «Allora, abbiamo violazioni di domicilio. Ma non a scopo di furto, rapina od omicidio. Furto di resti umani...» «Prestito», rettificò Duncan. «Non avevo intenzione di tenermi il cadavere.» «Questo è di competenza di Westchester. Saranno loro a decidere. Abbiamo anche ostruzione della giustizia, turbativa di indagini della polizia...» «Però, dal momento che non c'è stato alcun omicidio», precisò Duncan, «le indagini non erano necessarie, quindi non si può parlare di turbativa.» Rhyme ridacchiò. Il viceprocuratore ignorò il commento. «Possesso di arma da fuoco...» «Percussore e canna erano inutilizzabili», ribatté Duncan. «L'arma non era funzionante.» «E i veicoli rubati? Da dove venivano?» Duncan spiegò che Baker li aveva sottratti entrambi dal parcheggio della polizia nel Queens. Indicò i suoi effetti personali, che comprendevano le chiavi di un autoveicolo. «La Buick è parcheggiata nella 31st Street.» «Come si è impossessato dei veicoli? È coinvolto qualcun altro?» «Baker e io siamo andati a ritirarli insieme. Li abbiamo trovati nel parcheggio di un ristorante. Baker ci conosceva qualcuno, mi ha detto.» «Ha fatto nomi?» «No.» «Che ristorante era?» «Una tavola calda greca. Non ricordo il nome. Ci siamo arrivati percorrendo la 495. Siamo stati sulla Freeway per una decina di minuti, passato il Midtown Tunnel, poi abbiamo preso un'uscita sulla sinistra.» «Nord», stabilì Sellitto. «Chiederò a qualcuno di controllare. Può darsi che, tra le varie cose, Baker affittasse anche veicoli confiscati.» Il viceprocuratore scosse la testa. «Spero che lei si renda conto delle conseguenze di ciò che ha fatto, signor Duncan. Non solo penali. Dovrà pagare multe per aver impegnato veicoli di emergenza e funzionari municipali. Parlo di decine o centinaia di migliaia di dollari.» «Non è un problema. Prima di cominciare ho esaminato le leggi e le sentenze in materia. E ho deciso che valeva la pena di rischiare la detenzione
pur di portare allo scoperto Baker. Non lo avrei mai fatto se ci fosse stato il rischio di fare del male a un innocente.» «Ha ugualmente messo a repentaglio vite umane», gli fece notare Sellitto. «L'agente Pulaski è stato aggredito nel garage. Poteva restare ucciso.» Duncan rise. «No, no, sono stato io a salvarlo. Mentre scappavamo, ho notato il barbone che si aggirava nel garage e non mi è piaciuto affatto. Aveva in mano un tubo o un crick. Sono tornato indietro da solo, per assicurarmi che non facesse male a nessuno. Quando ho visto che stava venendo verso di lei», l'uomo si stava rivolgendo a Pulaski, «ho preso un cerchione da un bidone dei rifiuti e l'ho battuto contro un muro, per farla voltare.» La recluta annuì. «È vero. Pensavo che il barbone fosse inciampato in qualcosa. In ogni caso, mi sono girato e l'ho visto in tempo. E c'era davvero un cerchione per terra, lì vicino.» «Quanto a Vincent», riprese Duncan, «ho fatto in modo che non si avvicinasse mai a nessuna donna. E poi sono stato io a telefonare al 911 per farvelo arrestare. Posso dimostrarlo.» Diede i dettagli di dove e quando lo stupratore era stato catturato, confermando che era stato lui ad avvisare la polizia. Il viceprocuratore aveva bisogno di una pausa. Guardò i suoi appunti, poi Duncan. Si grattò la pelata. Aveva le orecchie arrossate dal freddo. «Devo parlarne al procuratore generale.» Si rivolse a due detective dell'One Police Plaza che lo avevano raggiunto. «Portatelo alla centrale e sorvegliatelo. Non dimenticate che è testimone in un caso di corruzione nella polizia. Qualcuno potrebbe volerlo eliminare.» Aiutarono Duncan a rialzarsi. «Perché non è venuto semplicemente a dirci che cos'era successo?» domandò Amelia. «O non ha registrato Baker che ammetteva le sue colpe? Avrebbe potuto risparmiarsi tutta questa fatica.» Duncan fece una risata amara. «Di chi mi sarei potuto fidare? A chi avrei potuto mandare una registrazione? Come facevo a sapere chi era onesto e chi lavorava con Baker? Sa, è un male inevitabile...» «Che cosa?» «La corruzione nella polizia.» Rhyme notò che Amelia non reagiva a quella affermazione. Due agenti in uniforme fecero salire il colpevole, o quello che era, a bordo di un'auto di pattuglia.
Almeno per il momento, erano tornati a essere una squadra. Tu e io, Sachs... Il caso di Lincoln Rhyme era diventato quello di Amelia Sachs. E anche se l'Orologiaio si era rivelato innocuo, c'era ancora molto lavoro da fare. Lo scandalo della corruzione al 118° Distretto era «partito a razzo», come aveva detto Sellitto, che aveva prevenuto il commento di Rhyme: «Un'espressione che non si sente tutti i giorni». L'assassino o gli assassini di Benjamin Creeley e Frank Sarkowsky dovevano ancora essere identificati tra i poliziotti sospettati di complicità. C'era ancora da istruire il processo a carico di Dennis Baker, scoprire quali fossero i legami con il Maryland e recuperare il denaro delle estorsioni. Kathryn Dance si era offerta volontaria per interrogare Baker, che tuttavia si rifiutava di dire una parola. La squadra doveva basarsi esclusivamente sugli indizi e sul lavoro investigativo tradizionale. Dietro istruzione di Rhyme, Pulaski stava esaminando i tabulati delle telefonate di Baker e le annotazioni sul suo computer palmare, cercando di capire chi frequentasse all'Uno Uno Otto e non solo. Ma per il momento non aveva ancora trovato niente di concreto. Mel Cooper e Amelia erano al lavoro sugli indizi trovati nell'auto del tenente, nella sua casa di Long Island e nel suo ufficio all'One Police Plaza, oltre agli appartamenti delle numerose ragazze con cui era uscito ultimamente, nessuna delle quali era al corrente delle altre. Amelia aveva condotto le ricerche con la consueta diligenza ed era tornata da Rhyme con scatole piene di vestiti, attrezzi, agende, documenti, fotografie, armi e rilievi di pneumatici. Dopo un'ora passata a esaminare tutto quel materiale, Cooper annunciò: «Ah, c'è qualcosa». «Cosa?» domandò Rhyme. Fu Amelia a rispondere. «Ci sono tracce di cenere sui vestiti che Baker teneva nel bagagliaio della macchina.» «Ebbene?» chiese Sellitto. «La cenere è identica a quella trovata nel caminetto di Creeley. Questo lo colloca sulla scena.» Nel garage di Baker era stata trovata una fibra corrispondente alla corda che era stata usata per il «suicidio» di Benjamin Creeley. «Voglio ricollegare Baker anche alla morte di Sarkowsky», disse Rhyme. «Mandiamo Nancy Simpson e Frank Rettig nel Queens, dove è stato trovato il corpo. Che prendano campioni di terreno. Forse possiamo collocare Baker e qualche suo amico anche su quella scena.»
«Il fango che ho trovato a casa di Creeley, davanti al caminetto», gli ricordò Amelia, «conteneva prodotti chimici, come se venisse da un'area industriale. Potrebbe corrispondere.» «Bene.» Sellitto chiamò la Crime Scene nel Queens e diede le disposizioni necessarie. Tra i campioni prelevati dall'auto di Baker e nei pressi del garage di casa sua, Amelia aveva inoltre trovato sabbia, tracce di sale e alghe. «Potrebbero venire da una casa al mare», considerò Rhyme. «Forse nel Maryland. Può darsi che Baker ne abbia una... o che ci abiti una sua ragazza.» Ma il controllo di una banca dati immobiliare li costrinse a escludere l'ipotesi. Amelia trasferì i tabelloni dei casi Creeley e Sarkowsky dalla palestra privata di Rhyme al laboratorio e vi aggiunse le ultime scoperte. Visibilmente frustrata, fece un passo indietro ed esaminò gli appunti. «Questa... Maryland Connection», disse. «Dobbiamo scoprire di che si tratta. Se hanno ucciso due persone e per poco non hanno eliminato anche Ron e me, potrebbero fare altre vittime. Sanno che ci stiamo avvicinando e vorranno togliere di mezzo tutti i testimoni. Di sicuro staranno distruggendo le prove in questo stesso momento.» Amelia tacque, pensosa e preoccupata. Non è facile quando la partner di una relazione è anche una partner professionale. Ma Lincoln Rhyme non poteva trattenersi, neppure (o specialmente) con Amelia Sachs. Sottovoce, la incalzò: «Questo è il tuo caso. Lo hai vissuto in prima persona. Dove punta tutto quanto?» «Non lo so.» La detective si tormentò le dita. Con la mascella rigida, scosse la testa e fissò il tabellone, esaminando i punti in sospeso. «Non ci sono indizi sufficienti.» «Non ce ne sono mai», le rammentò lui. «Però questa non è una scusa. È per questo che siamo qui: siamo noi quelli che da pochi mattoni sporchi devono ricostruire il castello.» «Non lo so.» «Non posso aiutarti, Sachs. Devi arrivarci da sola. Pensa a quello che sai. La Maryland Connection. La Mercedes che ti segue. Sabbia e alghe. Contanti, una montagna di contanti. Sbirri corrotti.» «Non lo so», ripeté lei, esasperata. Lui non le dava requie. «Questo è un lusso che non ci possiamo conce-
dere. Devi saperlo.» Lei lo guardò e lesse il messaggio dietro le parole di Rhyme: Domani puoi uscire da quella porta e gettare al vento la tua carriera, se proprio lo vuoi. Ma oggi sei ancora una poliziotta e hai un lavoro da fare. Amelia si grattò la testa. «C'è qualcos'altro, qualcosa che ti sfugge», mormorò il criminalista, fissando a sua volta il tabellone. «Sta dicendo che dobbiamo pensare come se fossimo fuori dalla scatola?» intervenne Pulaski. «Ah, i soliti cliché», fece Rhyme, seccato. «Be', okay, se sei in una scatola, forse ci sei dentro per qualche ragione. Non dico di pensare come se ne fossi fuori. Dico di guardare cosa c'è nella scatola con te... Allora, Sachs, che cosa vedi?» Lei continuò a fissare il tabellone. Poi sorrise e mormorò: «Maryland». ASSASSINIO DI BENJAMIN CREELEY • Creeley, 56 anni, apparente suicidio mediante impiccagione. Corda di cotone. Pollice rotto: impossibile fare nodo. • Biglietto scritto al computer: suicidio attribuito a depressione. Ma apparentemente non depresso al punto da suicidarsi. Nessun precedente di disturbi mentali/emotivi. • Intorno al Giorno del Ringraziamento due uomini sono penetrati in casa sua a Westchester, probabilmente per distruggere prove. Bianchi, nessuna descrizione, Uno più grosso dell'altro. Rimasti in casa per circa un'ora. • Indizi in casa di Westchester: * serratura forzata: lavoro da esperti * tracce di guanti di pelle su attizzatoio e scrivania di Creeley * davanti a caminetto fango con contenuto acido superiore a quello intorno alla casa e presenza di elementi inquinanti. Da sito industriale? * tracce di cocaina bruciata nel caminetto * cenere nel caminetto: - registri finanziari con voci di milioni di dollari - ricerca in atto di logo su documenti; registri analizzati da esperto
- agenda: cambiare olio della macchina, appuntamento da barbiere, visita alla St James Tavern - analisi della cenere del laboratorio CSU Queens: - logo di software di contabilità - secondo esperto di contabilità, normali cifre rimborso spese di manager - bruciate per distruggere prove o per depistiggio? • St James Tavern: * Creeley vi è andato diverse volte * apparentemente nessun uso di droghe nel locale * probabile incontro con persone non identificate, forse poliziotti del vicino 118° Distretto dell'NYPD * ultima visita: giorno della sua morte. Litigio con persone non identificate * controllate banconote di agenti alla St James: numeri di serie puliti, tracce di cocaina ed eroina. Droghe rubate al Distretto? - droghe mancanti: piccole quantità. 6-7 oz. di marijuana, 4 di cocaina. • Al 118° Distretto numero limitato di casi aperti su crimine organizzato. Nessun indizio di insabbiamenti intenzionali da parte di poliziotti. • Connessioni con due gang nella zona: possibili ma non probabili. • Interrogati Jordan Kessler, socio di Creeley, e vedova: * negato uso di droghe * non risultano legami con malavita * beveva più del solito * presa abitudine di giocare d'azzardo; viaggi a Las Vegas e ad Atlantic City. Perdite rilevanti ma non significative per Creeley * motivi della depressione non identificati * Kessler non riconosce carte bruciate * in attesa di lista dei clienti * Kessler non sembra trarre vantaggi dalla morte di Creeley. • Sachs e Pulaski seguiti da Mercedes AMG. ASSASSINIO DI FRANK SARKOWSKY
• Sarkowsky, 57 anni, ucciso il 4 novembre di quest'anno, lascia moglie e due figli. • Proprietario di edificio e società a Manhattan: pulizia e servizi per altre compagnie. • Detective incaricato: Art Snyder. • Nessun sospetto. • Assassinio/rapina? * ucciso a colpi di arma da fuoco, apparentemente a scopo di rapina. Arma ritrovata sulla scena: Smith & Wesson .38 Special, senza impronte, arma fredda. Snyder sospetta lavoro di killer professionista. • Affare andato male? • Ucciso nel Queens. Non si sa perché vi si trovasse. * zona deserta, vicino ai gasometri • Dossier e prove sparite: * dossier trasferito a 158° Distretto intorno al 28 novembre. Mai restituito. Nessuna indicazione di chi ne ha fatto richiesta * nessuna indicazione di dove sia finito al 158°. • Viceispettore Jefferies rifiuta di cooperare. • Nessuna connessione nota con Creeley. • Nessun precedente per Sarkowsky o sua società. • Voci: poliziotti del 118° intascavano mazzette. Collegamenti con località o persona nel Maryland. Coinvolta la malavita di Baltimora! • Nessuna pista. L'OROLOGIAIO SCENA DEL CRIMINE CINQUE Luogo: • Edificio all'angolo tra 32nd Street e Seventh Avenue. Vittime: • Amelia Sachs/Ron Pulaski Colpevole: • Dennis Baker, NYPD
Modus operandi: • Arma da fuoco (non funzionante) Indizi: • Pistola Autauga MkII calibro 32. • Guanti di lattice. • In macchina, casa e ufficio di Baker: * cocaina * 50.000 $ in contanti * vestiti * scontrini di locali e bar, compresa St. James Tavern * fibre di tappetino dell'Explorer * fibre coincidenti con la corda di Benjamin Creeley * cenere identica a quella del camino di Creeley * si raccolgono campioni dalla scena dell'omicidio di Sarkowsky * sabbia, sale e alghe: Maryland? Altro: • Gerald Duncan ha preparato il piano per implicare Dennis Baker e altri responsabili della morte di un amico. Coinvolti 8-10 poliziotti del 118°, non identificati. Anche qualcun altro fuori dal 118°. Duncan non è più sospettato di omicidio. 33 Amelia Sachs entrò in un negozietto deserto di Little Italy, una vecchia drogheria a sud del Greenwich Village. Le finestre erano state verniciate e all'interno era accesa un'unica lampadina nuda. La porta sul retro era socchiusa e lasciava intravedere un cumulo di rifiuti, vecchi scaffali e lattine polverose di salsa di pomodoro. Il locale aveva l'aria di un vecchio circolo di malavitosi e in effetti lo era stato, fino alla retata di un anno prima. Attualmente il negozio era di proprietà della città di New York, che sarebbe stata ben lieta di liberarsene. Ma, per il momento, nessuno aveva intenzione di acquistarlo. Sellitto aveva deciso che sarebbe stato il luogo ideale per un incontro molto delicato. Seduti a un tavolo traballante c'erano il vicesindaco Robert Wallace e un
giovane ed elegante poliziotto dell'IAD, Toby Henson, che strinse saldamente la mano di Amelia Sachs. Il suo sguardo suggeriva che, se lei avesse accettato di uscire con lui, Henson le avrebbe fatto vivere una nottata memorabile. Lei si limitò ad annuire, scura in volto, concentrata unicamente sul duro compito che li attendeva. Aveva riconsiderato i fatti, guardando, come suggerito da Rhyme, dentro la scatola. E quello che aveva visto non le era piaciuto per niente. «Ha detto che la situazione è critica», le disse Wallace. «E che non voleva parlarne al telefono.» Amelia aggiornò i presenti su Gerald Duncan e Dennis Baker. Wallace ne aveva già saputo qualcosa, ma per Henson era un'assoluta novità. «Questo Duncan era un semplice cittadino?» domandò, divertito. «E voleva portare allo scoperto un poliziotto corrotto? È per questo che lo ha fatto?» «Sì.» «Abbiamo dei nomi?» «Solo Baker. Ce ne sono altri otto o dieci dell'Uno Uno Otto, ma c'è anche qualcun altro, una figura chiave.» «Qualcun altro?» le fece eco Wallace. «Già. Per tutto il tempo abbiamo cercato una fantomatica Maryland Connection. Avevamo capito male.» «Maryland?» intervenne l'uomo dell'IAD. Amelia fece un sogghigno. «Avete presente il gioco del telegrafo senza fili?» «Come alle feste da ragazzi?» chiese Wallace. «Si deve dire sottovoce una parola a quello che sta accanto, ma quando arriva in fondo alla fila è tutta diversa?» «Sì. La mia fonte aveva sentito 'Maryland'. Ma io penso che fosse 'Marilyn'.» «Il nome di una persona?» Amelia annuì. Wallace strinse gli occhi. «Be', non vorrà certo dire...» «L'ispettore Marilyn Flaherty.» «Impossibile.» Il detective Henson scosse la testa. «Neanche per idea.» «Vorrei sbagliarmi. Ma ci sono fatti inconfutabili. Abbiamo trovato sabbia, sale e alghe nell'auto di Baker. E la Flaherty ha una casa sulla spiaggia, nel Connecticut. Inoltre sono stata seguita da una Mercedes AMG: al-
l'inizio ho pensato che fosse di una gang del Jersey o di Baltimora, ma poi ho scoperto che la Flaherty possiede una Mercedes AMG.» «Una poliziotta che guida un'AMG?» chiese Henson, incredulo. «Sì, se la Flaherty è una poliziotta che incassa illegalmente duecentomila dollari l'anno», replicò Amelia, in tono duro. «E sull'Explorer che Baker ha rubato dal parcheggio della polizia abbiamo trovato un capello nero e grigio della stessa lunghezza di quelli della Flaherty. E non dimenticate che l'ispettore non voleva assolutamente che il caso fosse affidato allÌAD.» «Be', in effetti era strano», convenne Wallace. «Perché voleva insabbiare il caso, dandolo in mano a qualcuno dei suoi.» «Mio Dio», mormorò il giovanotto di belle speranze. «Un ispettore.» «È sotto custodia?» volle sapere Wallace. Amelia scosse la testa. «Il problema è che non troviamo il denaro. Senza i soldi non abbiamo una causa probabile per ispezionare i suoi conti bancari o perquisirle la casa. Per questo ho bisogno di lei.» «Che cosa posso fare?» chiese il vicesindaco. «Ho chiesto alla Flaherty di raggiungerci qui. È mia intenzione informarla di quanto accaduto... una versione annacquata. Voglio che lei le dica che abbiamo scoperto che Baker aveva un socio e che il sindaco ha nominato una commissione speciale per rintracciare tutti i responsabili. Le dica anche che è tutto in mano all'Internal Affairs Division.» «Lei pensa che cederà al panico, correrà a prendere i soldi e la potremo inchiodare.» «Lo spero. Mentre parleremo con la Flaherty, il mio collega le metterà un segnalatore in macchina. Quando lei se ne andrà, la seguiremo. Ha qualche problema a mentirle?» «Sì», ammise Wallace, guardando il tavolo pieno di graffiti. «Ma lo farò lo stesso.» Il detective Toby Henson aveva perso ogni interesse per una serata romantica con Amelia Sachs. Sospirò e disse: «Non sarà facile». La detective era d'accordo con lui. Allora, che cosa abbiamo imparato? Era la domanda che si faceva Ron Pulaski, abituato a pensare in termini di «noi» per via del fratello gemello. Il senso era: Che cosa ho imparato lavorando su questo caso con Rhyme e la Sachs? Era deciso a diventare il più bravo possibile come poliziotto e passava
molto tempo a valutare che cosa avesse fatto di giusto e che cosa di sbagliato sul lavoro. Mentre camminava verso il negozio in cui era in corso l'incontro tra Amelia Sachs e il vicesindaco, non riusciva a trovare niente di sbagliato in ciò che aveva fatto. Certo, avrebbe potuto condurre l'esame dell'Explorer con maggior professionalità. E d'ora in poi si sarebbe ricordato di tenere la pistola fuori dalla tuta di Tyvek. E a non prendere un avversario per il collo, a meno che la situazione non lo richiedesse. Però, tutto sommato, se l'era cavata piuttosto bene. Tuttavia non era soddisfatto. Doveva essere perché lavorava con la detective Sachs, che imponeva uno standard molto alto: c'era sempre qualcos'altro da controllare, qualche nuovo indizio da cercare, un'ora in più da trascorrere sulla scena del delitto. Poteva farti impazzire. Poteva anche insegnarti a diventare un gran bravo poliziotto. La recluta doveva proprio farsi avanti, ora che la Sachs era in procinto di andarsene. La voce gli era giunta all'orecchio e non gli aveva fatto piacere. Ma bisognava fare ciò che era necessario. Anche se non era certo di avere la forza e la decisione della detective. In quel momento, mentre si affrettava lungo la strada gelida, gli veniva da pensare alla famiglia. Aveva voglia di tornare a casa, di chiedere a Jenny della sua giornata (ma non di parlare della propria, no, no), di giocare con i bambini. Era così divertente starsene anche solo a guardare gli occhi del figlio, che cambiavano continuamente espressione: quando scopriva qualcosa che non aveva mai visto prima, quando capiva qualcosa di nuovo, quando rideva. Pulaski e Jenny se ne stavano seduti sul pavimento, con Brad a quattro zampe in mezzo a loro, che prendeva il pollice del padre con le sue piccole dita. E la loro bambina neonata? Era tonda e grinzosa come un pompelmo e si accontentava di starsene tranquilla nella sua culla con sopra disegnato Sponge Bob. Purtroppo il piacere di starsene in famiglia era rimandato. E, con quello che stava per accadere, la notte sarebbe stata lunga. Pulaski controllò i numeri civici. Era a due isolati dal negozio e stava chiedendosi: Che cos'altro ho imparato? Una cosa: è meglio starsene alla larga dai vicoli. Un anno prima per poco non si era fatto ammazzare, per avere camminato rasente a un muro. Un criminale in agguato dietro l'angolo lo aveva colpito alla testa con un manganello. Era stato stupido e avventato, allora.
Questa volta, giunto in prossimità di un vicolo, Pulaski si spostò a sinistra e proseguì lungo il bordo del marciapiede, nell'improbabile eventualità che un rapinatore o un tossico fosse nascosto nel buio. La recluta si voltò a guardare. Non c'era nessuno sull'acciottolato del vicolo. Ma almeno non era stato imprudente. Essere poliziotto voleva dire anche questo: imparare certe piccole lezioni e integrarle nella... La mano lo afferrò da dietro. «Gesù», fece lui, mentre veniva trascinato in un furgone parcheggiato accanto al marciapiede. Il portello era aperto ma lui, voltato verso il vicolo, non se n'era accorto. Cercò di chiamare aiuto, ma il suo aggressore, il viceispettore Halston Jefferies, con uno sguardo gelido come la luna sospesa nel cielo, gli tappò la bocca. Le mani di qualcun altro gli strapparono la pistola e nel giro di due secondi Pulaski era scomparso dentro al veicolo. Il portello si chiuse di scatto. Marilyn Flaherty entrò nella vecchia drogheria, richiuse la porta e tirò il chiavistello. Si guardò intorno con un'espressione seria, e fece un cenno di saluto ai presenti. Amelia notò che appariva più tesa del solito. Il vicesindaco manteneva la calma. La presentò al detective dell'IAD, cui l'ispettore strinse la mano prima di sedersi al tavolo, accanto ad Amelia. «Top secret, eh?» «La polizia sta diventando un nido di vespe», disse Amelia. Studiò attentamente le reazioni dell'ispettore mentre le esponeva i fatti. Il volto di pietra della Flaherty restava imperturbabile. La detective si chiese che cosa avrebbe letto Kathryn Dance nella sua postura rigida, con la schiena dritta, le labbra contratte e gli occhi freddi, l'unica parte del suo corpo che sembrasse dotata di movimento. Amelia raccontò del socio di Baker. Poi aggiunse: «So che cosa pensa dell'Internal Affairs Division, ma, con tutto il rispetto, ho deciso di metterli al corrente». «Io...» «Mi dispiace, ispettore.» Amelia si rivolse a Wallace. Il vicesindaco non disse una parola. Si limitò a scuotere la testa e a sospirare. Quindi fece un cenno all'uomo dell'lAD. Il quale tirò fuori la pistola. Amelia batté le palpebre. «Cosa... Che cosa state facendo?» Henson puntò l'arma nello spazio tra la detective e la Flaherty. «Che cosa succede?» chiese a sua volta l'ispettore, con un filo di voce.
«Un casino», rispose Wallace, in tono dispiaciuto. «Un vero casino. Voi due, mettete le mani sul tavolo.» Il vicesindaco prese la pistola di Henson e tenne le due donne sotto tiro. Il poliziotto non era affatto un uomo dell'lAD, bensì un detective del 118° Distretto coinvolto nel racket di Dennis Baker. Era stato lui a uccidere Sarkowsky e Creeley. L'uomo indossò un paio di guanti di pelle e sfilò la Glock dalla fondina di Amelia Sachs. Poi la perquisì, in cerca di un'arma di riserva. Non ce n'erano. Infine prese dalla borsetta della Flaherty il piccolo revolver di ordinanza dell'ispettore. Wallace si rivolse alla Sachs, che lo fissava a bocca aperta. «Ha detto giusto, detective: la situazione è critica.» Prese di tasca il cellulare e chiamò un altro poliziotto del gruppo. «Tutto a posto?» «Sì.» Il vicesindaco chiuse la comunicazione. «Lei?» chiese la detective. «Era lei? Ma...» Si voltò verso la Flaherty. «Che storia è questa?» chiese l'ispettore. Wallace guardò la Flaherty, poi la Sachs. «Hai preso un granchio», disse alla detective. «Lei non c'entra niente. Ero io il socio di Dennis Baker. Socio in affari. A Long Island. È là che siamo cresciuti. Lui aveva una piccola società che è fallita, poi è andato all'accademia ed è diventato poliziotto. Io mi sono occupato d'altro e sono entrato in politica. Ma siamo rimasti sempre in contatto. Grazie al mio incarico al Municipio e ai miei rapporti con la polizia, mi sono fatto un'idea di quali imbrogli potessero funzionare e quali no. Così Dennis e io abbiamo messo in piedi la nostra attività.» «Robert!» protestò la Flaherty. «No, no...» «Ah, Marilyn...» fu tutto quello che riuscì a risponderle l'uomo dai capelli d'argento. Amelia Sachs, curva come se avesse un peso sulle spalle, domandò: «Allora, che cosa avete in mente? L'ispettore mi uccide e poi si suicida? Volete nasconderle dei soldi in casa e... «E intanto Dennis Baker muore in carcere. Si mette contro il detenuto sbagliato, cade dalle scale... chi lo sa? Peccato. Avrebbe dovuto stare più attento. Spariti i testimoni, il caso è chiuso.» «Pensa che qualcuno ci crederà? Prima o poi uno dei poliziotti dell'Uno Uno Otto parlerà. La prenderanno.» «Be', scusami tanto, detective, ma dobbiamo spegnere gli incendi uno alla volta, non credi? E il peggiore che abbiamo al momento sei tu.»
«Senti, Robert», disse la Flaherty, con voce tesa. «Sei nei guai, ma non è ancora troppo tardi.» Wallace indossò i guanti. «Controlla di nuovo la strada», ordinò a Henson. «Digli di tenere pronta la macchina.» E prese la Glock di Amelia Sachs. L'altro andò alla porta. Gli occhi del vicesindaco si fecero di ghiaccio, mentre guardava la detective impugnando la pistola. Lei non abbassò lo sguardo. «Aspetti.» Wallace corrugò la fronte. La Sachs lo fissava con una calma che, date le circostanze, aveva dell'incredibile. Poi disse: «ESU 1, entra». Il vicesindaco batté le palpebre. «Come?» Rimase impietrito quando, dal buio del retrobottega, udì una voce maschile gridare: «Nessuno si muova o sparo». Com'era possibile? Ansante, Wallace si voltò verso il retro del negozio. Un agente dell'ESU spostava la canna della sua mitraglietta Heckler & Koch, minacciando ora il politico, ora Henson, in piedi davanti alla porta d'ingresso. La Sachs mise una mano sotto il tavolo e recuperò un'altra Glock, che doveva avere preparato in precedenza. Si girò verso la porta e minacciò Henson. «Getta la pistola. Mettiti a terra!» L'agente dell'ESU ora puntava l'arma sul vicesindaco. Wallace, in preda al panico, pensava: Oh, Cristo, era una trappola. Mi hanno fregato. «Subito!» urlò la Sachs. Henson mormorò: «Merda». Ed eseguì l'ordine. Wallace continuava a impugnare la Glock della detective. Abbassò lo sguardo sull'arma. La Sachs si voltò lentamente verso di lui, senza togliere gli occhi da Henson. «La pistola che ha in mano è scarica. Non si faccia ammazzare per niente.» A malincuore, Wallace depose l'arma sul tavolo e alzò le mani. Ancora confusa, la Flaherty spinse indietro la sedia e si mise in piedi. La detective parlò rivolta al colletto della giacca. «Squadre di irruzione, via.» La porta si spalancò, lasciando entrare una mezza dozzina di uomini dell'ESU, seguiti dal viceispettore Halston Jefferies, dal capo dell'IAD, il capitano Ron Scott, e da un giovane agente di pattuglia dai capelli biondi.
Wallace si ritrovò disteso a faccia in giù sul pavimento. Sentì dolore ai fianchi e alle giunture. Vide che Henson veniva ammanettato a sua volta. E che, fuori dalla porta, gli altri agenti dell'Uno Uno Otto che aveva messo di guardia sulla strada erano stesi sul marciapiede ghiacciato, anche loro con le manette ai polsi. «Non è stato il modo più delicato per scoprirlo», disse tra sé Amelia Sachs, inserendo il caricatore nella sua Glock e infilandola nella fondina. «Ma è la risposta alla nostra domanda.» La domanda non era se Robert Wallace facesse parte del racket: avevano già scoperto che era stato in società con Baker. Il dubbio era se anche Marilyn Flaherty vi fosse coinvolta. La trappola era servita a scoprirlo. Lon Sellitto, Ron Scott e Halston Jefferies avevano allestito una postazione di comando a bordo di un furgone poco più indietro e avevano nascosto un tiratore scelto dell'ESU nel retrobottega, per essere sicuri che Wallace e il poliziotto che lo accompagnava non si mettessero a sparare prima che Amelia Sachs riuscisse a registrare tutta la conversazione. Pulaski sarebbe dovuto entrare con la prima squadra dall'ingresso principale del negozio, mentre la seconda squadra sarebbe entrata dalla porta posteriore. All'ultimo momento, però, avevano scoperto che Wallace aveva portato con sé altri agenti dell'Uno Uno Otto, complici o meno che fossero, e avevano dovuto modificare i loro piani. Per poco Pulaski non era finito dritto in mano ai due agenti, che Wallace aveva messo di guardia fuori dal negozio, rischiando di rovinare l'operazione. «Il viceispettore Jefferies», raccontò la recluta, «mi ha trascinato dentro il furgone un attimo prima che quei due mi vedessero.» «Camminava per strada come un coglione di boy scout in gita», lo redarguì Jefferies. «Se vuoi restare vivo, ragazzo, tieni gli occhi aperti.» La sua rabbia sembrava contenuta, rispetto al giorno prima. Se non altro, questa volta non sputava. «Sissignore. Starò più attento in futuro, signore.» «Gesù Cristo, oggigiorno in accademia fanno entrare proprio tutti.» Amelia cercò di reprimere un sorriso. Si rivolse alla Flaherty. «Mi scusi, ispettore. Dovevamo assicurarci che lei non fosse coinvolta.» E le illustrò i propri sospetti e gli indizi che l'avevano portata a temere che anche lei fosse nel giro di Baker. «La Mercedes?» chiese la Flaherty. «Certo che è mia. E certo che vi ho fatti seguire. Vi ho fatti tenere d'occhio da un agente dell'Op Div. Siete en-
trambi giovani e inesperti e stavate giocando su un terreno nuovo per voi. Gli ho fatto usare la mia auto perché pensavo che avreste riconosciuto subito le macchine di servizio.» Quell'auto così costosa in realtà aveva depistato Amelia Sachs, spingendola a guardare in un'altra direzione: se non c'era di mezzo la malavita organizzata, era possibile che Pulaski avesse sbagliato nel giudicare il socio di Creeley, Jordan Kessler, e che questi avesse preso parte all'omicidio. Esisteva anche la possibilità che Creeley e Sarkowsky avessero avuto a che fare con una delle bancarotte stile Enron di cui si stava occupando in quel momento l'FBI e che fossero stati uccisi per avere scoperto qualcosa su una delle compagnie per cui lavoravano. Tra tutte le persone coinvolte, l'unico che potesse permettersi una Mercedes AMG era Kessler. Ma ora la detective sapeva che il caso riguardava unicamente un gruppo di poliziotti corrotti e che le carte bruciate nel caminetto di Creeley erano state distrutte non perché fossero registri artefatti, ma semplicemente perché potevano conservare tracce delle estorsioni. L'ispettore Flaherty voleva sapere di Wallace. «Come lo avete scoperto?» domandò ad Amelia. «Spiegalo tu, Ron», disse la detective. La recluta cominciò: «La qui presente detective Sachs appurava che...» Si interruppe e riprese: «La detective Sachs ha trovato nell'auto e a casa di Baker alcune tracce che ci hanno fatto pensare... o meglio, hanno fatto pensare ai detective Sachs e Rhyme che l'altra persona coinvolta avesse una casa vicino a una spiaggia». Amelia proseguì il racconto: «Non sospettavo del viceispettore Jefferies perché, se avesse voluto fare sparire un dossier, non se lo sarebbe mai fatto mandare al suo Distretto. Qualcun altro doveva averlo indirizzato all'Uno Cinque Otto, intercettandolo prima che fosse registrato. Sono tornata dal viceispettore e gli ho chiesto se qualcuno legato al caso fosse stato in archivio di recente. Sì: Wallace. Poi mi sono posta la domanda successiva: il vicesindaco aveva qualche collegamento con il Maryland? Certo. Anche se non immediatamente evidente». Che cosa c'è dentro la scatola... «Oh, Gesù Cristo», mormorò Wallace. «Baker me lo aveva detto del Maryland, ma non pensavo che ci sareste mai arrivati.» Ron Scott disse alla Flaherty: «Wallace ha una barca vicino alla sua casa sulla South Shore di Long Island. Registrata a New York ma costruita ad Annapolis. Si chiama The Maryland Monroe». Il capo dell'IAD scoppiò a
ridere. «Certo che voi proprietari di barche avete una bella fantasia.» «La sabbia, le alghe e le tracce di acqua salata nell'auto e a casa di Baker coincidevano con quelle di South Shore. Ci siamo procurati un mandato e abbiamo perquisito la barca. Abbiamo trovato le prove che cercavamo: numeri di telefono, documenti, indizi, oltre quattro milioni in contanti... e anche un bel po' di droga. E persino liquori, probabilmente di contrabbando, ma credo che quelli siano il minore dei suoi problemi.» Ron Scott fece un cenno agli agenti dell'ESU. «Portatelo alla centrale.» Mentre lo conducevano fuori, il vicesindaco dichiarò: «Io non dico una parola. Se pensate che mi metta a fare nomi, ve lo potete scordare. Io non confesso niente». Per la prima volta Amelia vide la Flaherty scoppiare a ridere. «Stai scherzando, Robert? Hanno già abbastanza prove per metterti in galera per l'eternità. Non serve che tu apra bocca. Anzi, per quanto mi riguarda puoi tenerla chiusa per sempre.» III 8:32 A.M. GIOVEDÌ Il tempo è un grande maestro, ma sfortunatamente uccide tutti i suoi allievi. LOUIS-HECTOR BERLIOZ 34 Rimasti soli, Lincoln Rhyme e Amelia Sachs riesaminarono gli indizi raccolti tanto nel caso della St. James Tavern quanto in quello dell'Orologiaio. Amelia sembrava concentrata, ma il criminalista sapeva che stava pensando ad altro. Erano rimasti a lungo a discutere dell'accaduto. La corruzione nella polizia era molto grave di per sé, tuttavia il fatto che alcuni poliziotti fossero pronti a uccidere i loro stessi colleghi era ancora più sconvolgente. Amelia si diceva tuttora incerta se lasciare la polizia oppure no, ma a Rhyme bastava guardarla negli occhi per capire che se ne sarebbe andata. Sapeva anche che aveva fatto un paio di telefonate alla Argyle Security. Non c'era dubbio. Il criminalista vedeva la busta con la lettera di dimissioni nella valigetta di lei, aperta sul tavolo del laboratorio: un rettangolo di carta di un bianco abbagliante, come la luna piena in un cielo buio. Non si poteva guardarla e
al tempo stesso non se ne poteva distogliere lo sguardo. Rhyme si impose di non pensarci e di dedicarsi agli indizi. Gerald Duncan, che Thom, in vena di spirito, aveva soprannominato «Killer Light», era in attesa di giudizio per i reati da lui commessi, nessuno dei quali di particolare gravità. L'esame del DNA aveva confermato che il sangue sul taglierino, sulla giacca e sul molo era suo. Quanto all'unghia strappata, veniva proprio dal suo dito. Il caso del 118° Distretto procedeva con lentezza. C'erano prove sufficienti per incriminare Baker e Wallace, così come Toby Henson. Il terreno sulla scena del delitto Sarkowsky e il fango in casa di Creeley a Westchester trovavano riscontro con tracce rinvenute da Baker e da Henson. C'era poi la fibra di corda che implicava Baker nell'assassinio di Creeley, identica ad altre trovate sulla barca di Wallace. Henson aveva un paio di guanti il cui tessuto corrispondeva alle tracce rilevate a Westchester. Ma il terzetto non stava cooperando. Rifiutavano tutti qualsiasi trattativa. E non c'erano prove a carico di nessun altro, neppure dei due poliziotti sorpresi fuori dal negozio dell'East Village, che si proclamavano innocenti. Rhyme aveva tentato di scatenargli contro Kathryn Dance, eppure quelli si ostinavano a tacere. Il criminalista era sicuro che, presto o tardi, sarebbe riuscito a identificare tutti i poliziotti del 118° coinvolti nella vicenda e a farli incriminare. Ma per lui «presto o tardi» non era sufficiente, lui voleva «subito». Come aveva sottolineato Amelia, i complici ancora a piede libero avrebbero potuto uccidere altri testimoni o tentare di colpire nuovamente lei e Pulaski. Non si poteva escludere che il silenzio di Baker, Henson e Wallace dipendesse anche dal rischio di vendette trasversali a danno delle loro famiglie. Oltretutto, Rhyme era richiesto su altri casi. Aveva ricevuto una chiamata da Fred Dellray dell'FBI, temporaneamente dispensato dalle indagini sui reati finanziari: qualcuno si era introdotto al National Institute of Standards and Technology a Brooklyn, dove era scoppiato un incendio doloso. I danni erano minimi, ma l'intruso aveva violato un sistema di sicurezza assai sofisticato e, con l'allarme antiterrorismo ormai persistente, qualsiasi episodio sospetto riguardante istituzioni di importanza nazionale esigeva la massima attenzione. I federali volevano che Rhyme li aiutasse e il criminalista avrebbe dato volentieri il proprio contributo, ma prima voleva chiudere il caso Baker-Wallace. Un poliziotto venne a consegnare il dossier sulla morte dell'amico di
Duncan eliminato da Baker perché si era rifiutato di cedere al ricatto. Il caso era ancora aperto, ma le ultime note risalivano a un anno prima. Rhyme sperava di trovare qualche pista che potesse aiutarlo a identificare altri colpevoli al 118° Distretto. Per prima cosa, entrò nell'archivio online del New York Times e lesse il trafiletto sulla morte della vittima, Andrew Culbert: si diceva solo che era un uomo d'affari di Duluth e che era stato ucciso a Midtown, apparentemente a scopo di rapina. Non erano stati identificati sospetti. La storia non aveva avuto sviluppi successivi. Rhyme chiese a Thom di installargli il dossier sulla morte di Culbert sul leggio che voltava automaticamente le pagine e lesse l'incartamento completo. Come capitava di norma nei casi freddi, le annotazioni erano state lasciate da grafie differenti, man mano che l'indagine passava di mano e perdeva di energia. Secondo il rapporto, ben pochi indizi erano stati rilevati sulla scena del delitto: nessuna impronta digitale, nessuna traccia di scarpe, nessun bossolo. I proiettili usati erano comunissime munizioni calibro 38. I test balistici sulle armi di Baker e di altri poliziotti del 118° Distretto non avevano dato alcun risultato. «Hai tu l'inventario degli effetti personali?» chiese Rhyme. «Vediamo. Eccolo qui», disse Amelia, sollevando il foglio. «Te lo leggo.» Il criminalista chiuse gli occhi, per visualizzare meglio gli oggetti. «Portafogli», lesse la detective. «Chiavi di camera d'albergo e minibar al St. Regis. Una penna Cross. Un palmare. Un pacchetto di gomme da masticare. Un piccolo taccuino con gli appunti 'Bagno degli uomini' sulla prima pagina e 'Chardonnay' sulla seconda. Questo è tutto. Il detective che ha seguito il caso alla Omicidi era John Repetti.» La mente di Rhyme si era concentrata altrove. Guardò Amelia e disse: «Come?» «Stavo dicendo che il caso lo ha seguito Repetti di Midtown North. Vuoi che lo chiami?» Un attimo dopo Lincoln Rhyme rispose: «No. Ho bisogno che tu faccia un'altra cosa». È posseduta. Mentre ascoltava sull'iPod una polverosa incisione di Blind Lemon Jefferson che cantava See That My Grave Is Kept Clean, Kathryn Dance fissava la valigia rigonfia, che rifiutava di chiudersi.
Ho comprato solo un paio di scarpe e qualche regalo di Natale... Okay, tre paia di scarpe, ma un paio sono ballerine, non contano. Oh, il maglione. Era quello il problema. Lo tirò fuori e riprovò. Le fibbie arrivarono a pochi centimetri le une dalle altre, ma non si chiusero. Posseduta... Kathryn trovò il sacchetto di plastica della lavanderia dell'albergo e vi trasferì i jeans, un vestito, l'arricciacapelli e l'ingombrante e problematico maglione. Riprovò. Clic. Non occorreva l'esorcista. Il telefono della stanza squillò. Dalla reception l'avvisarono che aveva una visita. Giusto in tempo. «La faccia salire», disse. Cinque minuti dopo, Lucy Richter era seduta sul divanetto in camera di Kathryn. «Vuole qualcosa da bere?» «No, grazie, non mi trattengo.» Kathryn guardò verso il piccolo frigorifero. «Chiunque abbia inventato i minibar è malvagio. Merendine e patatine. Il mio debole. Be', un sacco di cose sono il mio debole. E, come se non bastasse, la salsa messicana costa dieci dollari.» Lucy, che aveva l'aria di non avere mai dovuto contare le calorie in vita sua, si mise a ridere. Poi disse: «Ho sentito che l'hanno preso. Me l'ha detto il poliziotto che fa la guardia davanti a casa mia. Ma non sapeva altro». L'agente del CBI le spiegò il piano di Gerald Duncan e il caso di corruzione in un Distretto dell'NYPD. Lucy ne fu sorpresa. Si guardò intorno e fece qualche commento irrilevante sulle stampe alle pareti della piccola camera e sul panorama fuori dalla finestra, che in quel momento non era altro che neve e fuliggine scosse dal vento. «Sono venuta solo a dirle grazie.» No, non è vero, pensò Kathryn. Tuttavia disse: «Non occorre. È il nostro lavoro». Osservò che in quel momento la soldatessa non teneva le braccia conserte. Era seduta comoda ma non scomposta, con le spalle rilassate vicino allo schienale. Una confessione, o qualcosa di simile, stava per arrivare. Kathryn lasciò che il silenzio si rompesse da solo. «Lei è una terapeuta?» domandò Lucy.
«No, solo una poliziotta.» Tuttavia non era insolito che i sospetti, dopo la confessione, si lanciassero in lunghi monologhi in cui svelavano dilemmi etici, odio verso i genitori, gelosia verso i fratelli, adulteri, rabbia, gioia, speranze. Come se lei fosse una terapeuta cui chiedere consiglio. No, lei non lo era e non dava consigli a nessuno. Però era una poliziotta, una madre e un'esperta di cinesica, tutte attività che richiedevano una certa esperienza nell'arte dimenticata di ascoltare. «Ecco... Ci si sente davvero a proprio agio a parlare con lei. Mi sono detta, be', forse posso chiederle un'opinione su una certa cosa.» «Prego», la incoraggiò Kathryn. «Non so che cosa fare», disse la soldatessa. «Oggi devo ricevere questo encomio, quello di cui le parlavo. Ma c'è un problema...» Le raccontò dei suoi compiti in Medio Oriente e dei rifornimenti di carburante. Kathryn aprì il minibar, ne prese due bottigliette di acqua Perrier da sei dollari l'una e rivolse alla donna uno sguardo interrogativo. Lucy esitò. Poi disse: «Oh, certo». L'agente del CBI le aprì entrambe e ne porse una all'ospite. Tenere le mani occupate aiuta la mente a pensare e la voce a esprimersi. «Okay. C'era questo caporale nella mia squadra, Pete. Un riservista del South Dakota. Un ragazzo divertente, molto divertente. A casa allenava una squadra di calcio e lavorava in un'impresa di costruzioni. Quando sono arrivata mi ha aiutata moltissimo. Un giorno, circa un mese fa, dovevamo fare un inventario dei veicoli danneggiati: alcuni da mandare a Fort Hood per le riparazioni, altri da aggiustare noi, altri ancora ormai inservibili. Io ero in ufficio e lui alla mensa. Dovevo passare a prenderlo alle tredici zero zero per andare al parcheggio. Sono salita su un Humvee e sono andata alla mensa. Ho visto Petey davanti a me che mi aspettava. In quel momento è esploso un OEI. È una bomba.» Kathryn non replicò; naturalmente lo sapeva. «Sarò stata a quindici, venti metri quando è esplosa. È come battere le palpebre: quando gli occhi si riaprono, il panorama è diverso.» Lucy guardò fuori dalla finestra. «La facciata della mensa non c'era più. Le palme erano svanite. I soldati e un paio di civili lì davanti... dissolti in un secondo.» La sua voce era di una calma irreale. Kathryn riconobbe il tono: l'aveva sentito in molti testimoni che avevano perduto i loro cari. Erano gli interrogatori più difficili, peggio di quelli in cui ci si trovava di fronte il più amorale degli assassini.
«Il corpo di Petey era a pezzi. È l'unico modo per descriverlo.» La voce di Lucy cedette. «Era tutto rosso, nero, smembrato... Ne ho visti parecchi, laggiù. Ma questo era terribile.» Bevve un sorso d'acqua e si aggrappò alla bottiglia come una bambina alla sua bambola. Kathryn non cercò di dirle parole di conforto. Sarebbero state inutili. Le fece cenno di continuare. Un respiro profondo. Le dita di Lucy si intrecciarono. Nel suo lavoro, l'esperta di cinesica definiva quel gesto molto diffuso come un tentativo di strangolare la tensione insostenibile che derivava dal senso di colpa, dal dolore o dalla vergogna. «Il fatto è che... ero in ritardo. Mi ero attardata in ufficio. Avevo guardato l'orologio: erano quasi le dodici e venticinque, ma mi restava ancora mezzo bicchiere di aranciata da finire. Avevo anche pensato di buttarlo via e andare: ci avrei messo cinque minuti ad arrivare alla mensa. Però volevo finire la mia aranciata. Così sono arrivata in ritardo. Se fossi stata puntuale, lui non sarebbe morto. Lo avrei preso su e saremmo stati a mezzo chilometro quando è esplosa la bomba.» «È rimasta ferita anche lei?» «Leggermente.» Lucy si tirò su la manica e mostrò una lunga cicatrice sull'avambraccio. «Niente di serio.» Fissò la linea color cuoio sulla sua pelle, quindi bevve un altro sorso d'acqua. Gli occhi della soldatessa erano vacui. «Se fossi arrivata in ritardo di solo un minuto, se non altro lui sarebbe stato a bordo del veicolo. Probabilmente sarebbe sopravvissuto. Sessanta secondi. Per lui è stata la differenza tra la vita e la morte. E tutto per una bibita. Perché volevo finire una dannata aranciata!» Le sfuggì una risatina triste. «E poi torno a casa e che cosa succede? Uno che si fa chiamare l'Orologiaio mi entra in casa e mi lascia in bagno un grosso orologio del cazzo. Sono mesi che continuo a pensare come un singolo minuto, in un modo o nell'altro, possa fare la differenza tra la vita e la morte. Arriva questo pazzoide e mi sbatte in faccia un orologio.» «Che altro c'è?» chiese Kathryn. «Perché c'è qualcos'altro, vero?» Un'altra risatina. «Sì. Ecco il problema. Vede, il mio turno doveva concludersi il mese prossimo. Ma mi sentivo così in colpa per Pete che ho detto al comandante che avrei rinnovato la ferma.» Kathryn assentì. «È per questo che c'è la cerimonia. Non è perché sono stata ferita. Capita tutti i giorni. È perché mi sono riarruolata. L'esercito ha seri problemi a trovare nuove reclute. Ci usano come testimonial, per dire che ci piace così
tanto che ci vogliamo tornare. Più o meno.» «E lei ci sta ripensando?» Lucy fece cenno di sì con la testa. «Mi sta facendo impazzire. Non riesco a dormire, a fare l'amore con mio marito, a fare niente... Mi sento sola, spaventata. Mi manca la mia famiglia, ma so anche che stiamo facendo qualcosa di importante laggiù, qualcosa di buono per tanta gente. Non riesco a decidere. Semplicemente non ci riesco.» «Che cosa accadrebbe se gli dicesse che ha cambiato idea?» «Non lo so. Si incazzerebbero, immagino, comunque non mi metterebbero sotto corte marziale. È più un mio problema personale. In tutta la mia vita non mi sono mai tirata indietro. Sarebbe come rompere una promessa.» Kathryn rifletté un momento, sorseggiando l'acqua minerale. «Non posso essere io a suggerirle come comportarsi. Però una cosa gliela posso dire. Il mio mestiere è scoprire la verità. Nella maggior parte dei casi ho a che fare con criminali che sanno la verità e mentono per salvarsi. In qualche caso però incontro persone che mentono a loro stesse. E a volte nemmeno lo sanno. Ma quando si mente, ai poliziotti, alla madre, al marito, agli amici o a noi stessi, i sintomi sono sempre uguali. Si è stressati, arrabbiati, depressi. Le bugie imbruttiscono le persone, la verità fa l'esatto contrario. Anche se spesso sembra che la verità sia l'ultima cosa che vogliamo sentire, non so quante volte, al momento della confessione, ho visto negli occhi del sospetto una sensazione di puro sollievo. La cosa più strana è che ogni tanto mi dicono persino grazie.» «Vuole dirmi che io so la verità?» «Oh, sì. Certo. La verità c'è, ben nascosta. E potrebbe non piacerle, quando la trova. Ma c'è.» «E come la trovo? Mi metto sotto interrogatorio?» «Perché no? È una buona definizione. Non deve fare altro che cercare in se stessa quello che cerco io: rabbia, depressione, negazione, pretesti, razionalizzazione. Quando si sente in quel modo e perché? Che cosa c'è dietro questo o quel sentimento? Non si lasci sfuggire niente, non si perdoni niente. Tenga duro. E alla fine troverà quello che cerca.» Lucy Richter andò ad abbracciarla. Questo non succedeva quasi mai. Poi la soldatessa sorrise. «Ehi, ho un'idea. Scriviamo un manuale di autorealizzazione: Guida all'autointerrogatorio per le ragazze. Sarà un bestseller.» «Con tutto il tempo libero che abbiamo!» Kathryn rise.
Brindarono con le loro bottigliette. Quindici minuti dopo erano a metà dei muffin al mirtillo e dei caffè ordinati al servizio in camera, quando il cellulare dell'agente trillò. Kathryn guardò il numero sul display. Scosse la testa e rise. Il campanello della casa di Rhyme suonò. Poco dopo Thom accompagnò Kathryn Dance nel laboratorio. L'agente aveva i capelli sciolti, non più raccolti a treccia; gli auricolari dell'i-Pod le pendevano come sempre intorno al collo. Si tolse il soprabito e salutò Amelia Sachs e Mel Cooper, anche lui appena arrivato. Poi si chinò ad accarezzare Jackson. «Che ne dici di un regalino d'addio?» propose Thom, indicando il cane. Lei rise. «È adorabile. Ma a casa ho già raggiunto la quantità limite di bestiame, a due e a quattro zampe.» A chiamarla era stato Rhyme, che le aveva chiesto se, per favore, poteva dargli una mano per l'ultima volta. «È l'ultima, te lo prometto», le disse lui, quando Kathryn gli si sedette accanto. «Cosa c'è di nuovo?» domandò lei. «C'è qualcosa che non torna. E mi occorre il tuo aiuto.» «Che cosa posso fare?» «Mi sono ricordato quello che mi hai raccontato del caso Hanson in California e di come, guardando le trascrizioni dell'interrogatorio, ti eri resa conto di quello che lui aveva in mente.» Kathryn assentì. «Vorrei che tu facessi lo stesso per noi.» Rhyme le raccontò dell'assassinio di Andrew Culbert, per vendicare il quale Gerald Duncan aveva deciso di far incriminare Baker. «Nel dossier abbiamo trovato qualcosa di strano. Culbert aveva un computer palmare, ma non un cellulare. Strano: ormai qualsiasi uomo d'affari ha un cellulare. E poi aveva un taccuino con due appunti. Uno era 'Chardonnay': forse lo aveva scritto per ricordarsi di comprare del vino. Ma l'altro era 'Bagno degli uomini'. Che cosa significava? Ci ho pensato su e mi è venuto in mente che quello è il tipo di cosa che può scrivere una persona che ha problemi di linguaggio o di udito, per ordinare vino al ristorante e chiedere dov'è il bagno. Non aveva neppure il cellulare. Ho pensato che potesse essere sordomuto.» «Allora», considerò Kathryn, «l'amico di Duncan potrebbe essere stato ucciso perché il rapinatore ha perso la pazienza vedendo che la vittima non capiva o non era abbastanza rapida a consegnargli il portafogli. Duncan si
è convinto che Baker lo avesse fatto uccidere, anche se in realtà era solo una coincidenza.» Intervenne Amelia. «La faccenda è più complicata.» «Ho rintracciato la vedova di Culbert a Duluth», spiegò Rhyme. «Mi ha detto che il marito era sordomuto dalla nascita.» «Duncan però», aggiunse Amelia, «ci ha raccontato che Culbert gli ha salvato la vita quando erano sotto le armi. Se era sordomuto, non poteva essere stato nell'esercito.» «Credo che Duncan», concluse il criminalista, «abbia letto del caso e si sia inventato la storia dell'amicizia allo scopo di dare credibilità al suo piano per incriminare Baker.» Alzò le spalle. «Potrebbe non essere un problema. Dopotutto, ci ha permesso di arrestare un poliziotto corrotto. Ma rimane qualche questione in sospeso. Ti spiacerebbe dare un'occhiata alla registrazione dell'interrogatorio di Duncan e dirci che cosa ne pensi?» «Per niente.» Cooper digitò sulla tastiera del computer. Un attimo dopo sullo schermo apparve un'immagine grandangolare di Gerald Duncan, comodamente seduto in una saletta alla centrale. La voce fuori campo di Lon Sellitto recitava nome, cognome, data e numero del caso. Poi ebbe inizio la dichiarazione di Duncan, che riferì i fatti esattamente come li aveva raccontati a Rhyme sul marciapiede di fronte all'ultima «scena del delitto» dell'Orologiaio. Kathryn osservò attentamente la registrazione, annuendo di tanto in tanto, mentre Duncan snocciolava i dettagli del suo piano. Alla fine Cooper premette il pulsante di pausa, congelando il volto di Duncan nel fermo immagine. Kathryn si rivolse a Rhyme: «Tutto qui?» «Sì.» Il criminalista notò l'espressione seria dell'agente. «Che cosa ne pensi?» Dopo una breve esitazione, lei rispose: «Devo dirti che... il problema non è solo la storia del suo amico ucciso. Credo che virtualmente tutto quello che ha dichiarato sia falso». In casa di Rhyme era calato il silenzio. Silenzio assoluto. Dopo un po' il criminalista alzò lo sguardo dal fermo immagine e disse: «Continua». «Ho preparato il profilo base mentre Duncan esponeva i dettagli del suo
piano per far arrestare Baker. Sappiamo che certi aspetti sono veri. Quindi, quando i suoi livelli di stress si alterano, devo presumere che stia mentendo. Ho notato le deviazioni maggiori quando ha parlato del suo presunto amico. E non credo che il suo vero nome sia Duncan. O che viva nel Midwest. Di Dennis Baker non gli può importare di meno: non ha alcun coinvolgimento emotivo per quanto riguarda il suo arresto. E c'è un'altra cosa.» Kathryn sbirciò lo schermo. «Si può tornare a metà interrogatorio? C'è un momento in cui si tocca la guancia.» Cooper tornò indietro. «Ecco... fermati qui.» «Non ho mai fatto male a nessuno. Non potrei. Posso avere violato un po' la legge...» Kathryn scosse la testa, con aria preoccupata. «Che cosa c'è?» indagò Amelia. «I suoi occhi», sussurrò l'agente. «Questo è grave.» «Perché?» «Credo che sia pericoloso. Molto pericoloso. Ho passato mesi a studiare le registrazioni degli interrogatori di Ted Bundy. Non era un qualsiasi serial killer, era un sociopatico puro, nel senso che poteva mentire senza dare praticamente alcun segnale. L'unica cosa che ho potuto notare in lui era una lieve reazione nello sguardo quando affermava di non avere mai ucciso nessuno. Non è una reazione tipica in caso di menzogna: stava negando qualcosa di centrale nel proprio essere.» Kathryn indicò lo schermo. «Esattamente come ha fatto Duncan.» «Ne sei sicura?» chiese Amelia. «Non al cento per cento, no. Però credo che dovremmo fargli qualche altra domanda.» Dal momento che era stato arrestato solo per reati minori e non violenti, Gerald Duncan doveva essere stato portato nel centro di detenzione a basso livello di sicurezza in Centre Street, da cui era difficile ma non impossibile fuggire. Rhyme ordinò al suo telefono di chiamare il supervisore del centro. Si identificò e diede istruzioni perché Duncan fosse trasferito in una cella più sicura. Il supervisore non disse nulla. Rhyme suppose che non gli andasse di prendere ordini da un civile. Le solite noie della politica... Fece una smorfia e guardò Sachs, chiedendole implicitamente di auto-
rizzare lei il trasferimento. Fu in quel momento che divenne chiara la ragione del silenzio del supervisore. «Ecco, detective Rhyme...» disse l'uomo, a disagio. «È rimasto qui solo per qualche minuto. Non lo abbiamo nemmeno registrato.» «Cosa?» «Il viceprocuratore... ha preso qualche accordo con lui. Ha rilasciato Duncan ieri sera. Pensavo che lo sapesse.» 35 Lon Sellitto, tornato da Rhyme, passeggiava nervosamente avanti e indietro per il laboratorio. A quanto sembrava, l'avvocato di Duncan aveva incontrato il viceprocuratore distrettuale e si era accordato con lui. In cambio di un affidavit in cui il detenuto ammetteva le sue colpe, del pagamento di una multa di centomila dollari per le molestie procurate alla polizia e di una promessa scritta che si sarebbe presentato a testimoniare contro Baker, tutte le accuse a suo carico erano state sospese fino al processo, per essere definitivamente ritirate solo quando avesse testimoniato. Di fatto, a Duncan non erano state prese le impronte. Non era stato nemmeno schedato. Il corpulento detective, con le mani sui fianchi, fissava rabbioso il vivavoce come se fosse il diretto responsabile del rilascio di un potenziale assassino. Il tono difensivo del viceprocuratore era evidente. «Era l'unico modo per indurlo a cooperare. Lo rappresenta un avvocato dello studio Reed-Prince. Tutto è stato fatto nel pieno rispetto della legge. Gli è stato ritirato il passaporto. Ha acconsentito a non lasciare la giurisdizione fino al processo a Baker. L'ho fatto alloggiare in un albergo in città, con un agente di guardia. Non andrà da nessuna parte. Che problema c'è? L'ho fatto centinaia di volte.» «E cosa mi dice del cadavere rubato?» chiese Rhyme. «Le autorità di Westchester si sono trovate d'accordo nel ritirare le accuse. Ho promesso che le avremmo aiutate in alcuni casi in cui occorre la nostra collaborazione.» Per il viceprocuratore quello era un trionfo personale: il processo a una gang di poliziotti corrotti lo avrebbe fatto diventare una star. Rhyme era livido di rabbia. L'incompetenza, l'egoismo e l'ambizione lo facevano infuriare. Il suo lavoro era già abbastanza difficile senza bisogno
delle interferenze dei politici. Perché diavolo non lo avevano avvisato, prima di rilasciare Duncan? Anche senza l'analisi di Kathryn Dance c'erano troppe domande senza risposta per lasciarlo andare. «Dov'è adesso?» abbaiò Sellitto. «Mi scusi, ma che prove...?» «Dove cazzo è?» tuonò il detective. Il viceprocuratore esitò, prima di dargli il nome di un albergo di Midtown e il numero di cellulare dell'agente di guardia. «Lo chiamo», disse Cooper, componendo il numero. «E chi è il suo avvocato?» continuò Sellitto. Il viceprocuratore diede il nome del legale. Poi, nervoso, aggiunse: «Ma non vedo la ragione di...» Sellitto riagganciò e si rivolse a Kathryn. «Sto per sollevare un grosso casino. Capisci cosa voglio dire?» Lei annuì. «Anche in California ci si incazza per certe cose. Però sono sicura della mia opinione. Fai tutto il possibile per ritrovarlo. Intendo proprio tutto. Sono pronta a ribadire la mia valutazione di fronte a chi vuoi: il capo del Dipartimento, il sindaco, il governatore.» Rhyme guardò Amelia. «Scopri che cosa sa di lui il suo avvocato.» La detective prese il cellulare. Il criminalista conosceva il rispettabile studio legale Reed-Prince, sulla Lower Broadway: i suoi avvocati seguivano esclusivamente casi ad alto profilo e avevano solo clienti importanti. Con voce tetra, Cooper annunciò: «C'è un problema. L'agente di guardia ha appena controllato la camera d'albergo di Duncan. È sparito, Lincoln». «Che cosa?» «L'agente dice che Duncan è andato a letto presto, ieri sera: ha detto che non si sentiva bene e che voleva dormire tutto il giorno. A quanto pare ha scassinato la porta di comunicazione con la stanza adiacente. Non si sa quando, forse anche la scorsa notte.» Amelia chiuse il suo cellulare. «Allo studio Reed-Prince non esiste nessun avvocato con quel nome. Duncan non è mai stato loro cliente.» «Oh, maledizione», imprecò Rhyme. «Okay», disse Sellitto. «Chiamiamo la cavalleria.» Telefonò a Bo Haumann e gli disse che dovevano arrestare di nuovo il loro sospetto. «Solo che adesso non sappiamo più dov'è.» E gli riferì i pochi dettagli di cui disponevano. Rhyme non sentì la reazione di Haumann, ma poté immaginarla dall'e-
spressione di Sellitto. «Non venirlo a dire a me, Bo!» fece il detective. Poi chiamò il procuratore generale e gli lasciò un messaggio. Infine contattò la centrale per informare i pezzi grossi dell'accaduto. «Voglio saperne di più su di lui», disse Rhyme a Cooper. «Siamo stati troppo compiacenti con quel bastardo. Non gli abbiamo fatto abbastanza domande.» Si rivolse all'esperta di cinesica. «Kathryn, detesto dovertelo chiedere...» Lei aveva appena finito una telefonata dal suo cellulare. «Ho già cancellato il mio volo.» «Scusami. Lo so che questo non è un tuo caso.» «Lo è diventato nel momento in cui ho interrogato Cobb martedì», rispose lei, con uno sguardo determinato negli occhi verdi. Cooper stava riesaminando le informazioni che avevano acquisito su Gerald Duncan. Aveva preparato una lista di numeri di telefono, che cominciò a chiamare. Dopo varie conversazioni, comunicò: «Sentite questa... Duncan non è chi dice di essere. La polizia di Stato del Missouri ha mandato una macchina a controllare l'indirizzo sulla patente. È quello di Gerald Duncan, sì, ma non del nostro Gerald Duncan. Quello che abita lì si è trasferito ad Anchorage per ragioni di lavoro. Casa sua è stata messa in affitto per sei mesi. Qui c'è la sua foto». L'immagine sul monitor era la fotografia di una patente. Raffigurava un volto completamente diverso da quello dell'uomo che avevano arrestato il giorno prima. Rhyme assentì. «Brillante. Ha controllato le case in affitto, ne ha trovata una sul mercato e ha immaginato che nessuno l'avrebbe presa proprio adesso, sotto Natale. Proprio come la chiesa. E la patente che ci ha mostrato era falsa, come il passaporto. Abbiamo sottovalutato quest'uomo fin dall'inizio.» Cooper, guardando il monitor, aggiunse: «Il vero Duncan ha avuto qualche problema con la sua carta di credito. Gliel'hanno clonata». Lincoln Rhyme provò un brivido dentro di sé, in zone del corpo in cui, in teoria, non avrebbe dovuto sentire niente. Aveva il presentimento di un disastro imminente. Kathryn guardava il fermo immagine di Duncan con la stessa attenzione con cui il criminalista fissava il tabellone. «Che cosa ha davvero in mente?» mormorò. Una domanda cui non sapevano dare alcuna risposta.
In metropolitana, Charles Vespasian Hale, l'uomo che si era presentato come Gerald Duncan, guardò l'orologio da polso. Il suo Breguet da taschino, cui era molto affezionato, non si adattava al ruolo che stava per interpretare. Tutto seguiva la tabella di marcia prevista. Mentre si dirigeva a Brooklyn, dove si trovava la sua casa sicura primaria, si sentiva ansioso, quasi nervoso, ma al tempo stesso era in pace con se stesso come raramente gli era capitato nella vita. Naturalmente, ben poco di quanto aveva raccontato del suo passato a Vincent Reynolds corrispondeva a verità. Non sarebbe stato possibile. Hale sapeva fin dal principio che il grasso stupratore avrebbe spifferato tutto alla polizia, alla prima intimidazione. E la verità avrebbe posto fine a quella che lui sperava fosse una lunga carriera. Hale era nato a Chicago da un professore liceale di latino (da cui il suo secondo nome, in onore di un imperatore romano) e da una direttrice del reparto abbigliamento femminile di un grande magazzino Sears. I genitori parlavano poco tra loro e non condividevano nulla. Ogni sera, dopo una cena in silenzio, suo padre gravitava intorno ai libri e sua madre si piazzava alla macchina per cucire. Oppure si mettevano davanti al piccolo televisore, su due sedie separate, a guardare sit-com mediocri e polizieschi prevedibili. Quei rari momenti di unità famigliare fornivano loro un singolare mezzo di comunicazione: commentando i programmi, potevano esprimersi reciprocamente i desideri e i risentimenti di cui non avevano il coraggio di parlare esplicitamente. Il silenzio... Il giovane Hale era stato un solitario per buona parte della vita. Era un ragazzo prodigio e i suoi apatici genitori lo trattavano in modo formale e con incertezza, come se fosse una specie di pianta che non sapevano ogni quanto andasse innaffiata e concimata. Noia e solitudine erano diventate un peso insostenibile e Charles aveva sentito il bisogno disperato di occupare il suo tempo, nel timore che l'atmosfera stagnante di casa lo soffocasse. Passava ore e ore all'aperto, camminando e arrampicandosi sugli alberi. Per qualche ragione, stare da solo fuori casa era molto meglio: c'era sempre qualcosa che lo distraeva, qualche nuova scoperta da fare sulla collina accanto, su un altro ramo dell'albero di acero. A scuola, alle lezioni di biologia in aula preferiva quelle in mezzo alla natura. In gita con gli scout era
sempre il primo a passare sul ponte di corde, a tuffarsi dalle rocce e ad arrampicarsi sulle pareti delle montagne. E, quando era costretto a stare al chiuso, Charles aveva preso l'abitudine di passare il tempo a mettere in ordine le cose: trascorreva le ore più tristi a sistemare giocattoli, libri, penne e quaderni. Non si sentiva solo in quei momenti, non aveva paura del silenzio. Lo sapevi, Vincent, che la parola meticoloso deriva dal latino meticulosus, che significa «pauroso»? Quando le cose non erano perfettamente ordinate e allineate diventava isterico, anche se si trattava di una sciocchezza, come un binario storto del trenino o un raggio della bicicletta piegato. Per lui qualsiasi dettaglio fuori posto era fastidioso quanto per altri lo stridore di un gessetto sulla lavagna. Come il matrimonio dei suoi, per esempio. Dopo il divorzio, non aveva più rivolto la parola né all'uno né all'altra. La vita doveva essere perfetta e ordinata. Quando non lo era, pensava, si doveva essere liberi di eliminare coloro che ci davano fastidio. Charles non pregava: non c'era alcuna dimostrazione empirica che si potesse mettere in ordine la propria vita o raggiungere qualsiasi obiettivo tramite una comunicazione divina. Ma, se lo avesse fatto, avrebbe pregato per la loro morte. Hale aveva fatto due anni di servizio militare, di cui aveva apprezzato l'ordine e il rigore. Come allievo ufficiale, aveva attirato l'attenzione dei professori, tanto che in seguito gli era stato chiesto di insegnare storia militare e strategia, materie in cui eccelleva. Lasciato l'esercito, aveva trascorso un anno a viaggiare per l'Europa, scalando montagne. Poi era tornato in America e si era messo in affari, lavorando in una banca d'investimento e ottenendo prestiti per finanziare nuove attività. Di notte studiava legge. Per qualche tempo aveva fatto pratica come avvocato, scoprendo un particolare talento nello strutturare trattative di affari. Guadagnava bene, ma nella sua vita c'era una solitudine di fondo. Evitava le relazioni perché richiedevano improvvisazione ed erano basate su un comportamento illogico. Sempre di più la passione per l'ordine e la pianificazione aveva preso il posto di un'amante. E, come chiunque sostituisca un'ossessione a una vera relazione, Hale aveva bisogno di soddisfazioni sempre più intense. Sei anni prima aveva trovato la soluzione ideale. Aveva commesso il primo omicidio. Un suo socio in affari a San Diego era rimasto gravemente ferito in un incidente. Un ragazzo ubriaco al volante gli aveva speronato la macchina, fracassandogli il bacino e spezzandogli entrambe le gambe, una delle quali
aveva dovuto essere amputata. Il giovane delinquente non solo non aveva espresso alcun rimorso per l'accaduto, ma aveva continuato a negare di aver fatto qualcosa di male, attribuendo ogni responsabilità alla vittima. Era stato arrestato, ma essendo al suo primo reato se l'era cavata, prevedibilmente, con una lieve condanna. Quindi aveva cominciato a perseguitare il socio di Hale chiedendogli denaro. Quando è troppo è troppo. Hale aveva elaborato un piano complesso per terrorizzare il giovane e convincerlo a smettere. Ma, riflettendo sulla sua strategia, si era reso conto che c'era qualcosa che lo infastidiva. Il piano non era perfetto quanto lui avrebbe voluto. E alla fine aveva capito qual era il difetto di base: la sua strategia era tesa unicamente a spaventare la vittima, non a eliminarla. Se il giovane fosse morto, tutto si sarebbe risolto e nessuno avrebbe potuto risalire a Hale o al suo socio. Come poteva lui uccidere un altro essere umano? L'idea gli sembrava un'esagerazione. Sì o no? In una piovosa sera di ottobre, aveva preso la sua decisione. Era stato un delitto perfetto e la polizia non aveva mai sospettato che la vittima non avesse semplicemente preso una scossa. Un banale incidente domestico. Hale si era preparato a provare rimorso. Invece non era stato così. Al contrario, aveva scoperto l'estasi. Il suo piano era stato eseguito in modo tanto brillante che il fatto di avere ucciso qualcuno diventava trascurabile. Da quel momento, il drogato voleva dosi sempre più forti. Poco tempo dopo, Hale aveva partecipato a un progetto immobiliare per lo sviluppo di haciendas a Città del Messico. Ma un politico corrotto aveva messo i bastoni fra le ruote, tanto da minacciare il fallimento dell'operazione. La controparte messicana di Hale aveva detto che non era la prima volta. «È un peccato che non si possa togliere di mezzo», aveva commentato Hale, in tono casuale. «Oh, è impossibile», aveva detto il messicano. «È praticamente invulnerabile.» La frase aveva destato la curiosità di Hale. «Perché?» Il messicano gli aveva spiegato che il politicante del Distrito Federal era ossessionato dalla sicurezza. Guidava un grosso fuoristrada Cadillac blindato, fabbricato appositamente per lui, ed era sempre sotto scorta armata. Seguiva ogni volta percorsi diversi per andare a casa, in ufficio o alle riu-
nioni. Spostava la sua famiglia da una residenza all'altra, senza uno schema preciso, e a volte non stava nemmeno in casa propria, ma in quelle di amici o in affitto. Viaggiava spesso con suo figlio e si diceva che lo usasse come scudo. Inoltre godeva della protezione di un veterano della politica, ex ministro degli Interni. «Si può dire che è invulnerabile», aveva ribadito il messicano, riempiendo due bicchieri di costosa tequila Patrón. «Invulnerabile», aveva ripetuto Hale, sottovoce, facendo un cenno di assenso. Poco tempo dopo quell'incontro, nell'edizione del ventitré ottobre di El Heraldo de Mexico erano apparsi cinque articoli relativi a fatti apparentemente scollegati tra loro: - un incendio negli uffici della Mexicana Seguridad Privada, una compagnia di servizi di sicurezza, che aveva comportato l'evacuazione di tutti i dipendenti, qualche danno ma nessun ferito; - l'intrusione di un hacker nel computer di una compagnia telefonica, che aveva provocato l'isolamento dei cellulari in una porzione di Città del Messico e alcuni sobborghi per circa due ore; - un camion che aveva preso fuoco in mezzo all'Autopista 160, a sud di Città del Messico, vicino a Calco, bloccando completamente il traffico in direzione nord; - la morte di Henri Porfirio, capo della commissione per le licenze immobiliari del Distrito Federal, a seguito del crollo di un ponte: il suo fuoristrada era precipitato dall'altezza di sei metri, cadendo su un camion di propano che era esploso all'impatto. L'incidente si era verificato mentre il traffico veniva deviato su una strada laterale per evitare un ingorgo. Altri veicoli erano passati sullo stesso ponte senza difficoltà, ma il fuoristrada blindato era risultato troppo pesante per la vecchia struttura, malgrado non superasse il limite indicato dal cartello all'imbocco del ponte. Il capo della sicurezza di Porfirio, al corrente dell'ingorgo, aveva cercato di contattare l'uomo politico per consigliargli un percorso più sicuro, purtroppo il cellulare di questi non funzionava. Il veicolo di Porfirio era l'unico coinvolto nell'incidente. Il figlio del politico, contrariamente al solito, non era a bordo: era rimasto a casa con la madre perché vittima, il giorno prima, di una lieve intossicazione da cibo. - Erasmo Saleno, veterano della politica del Distrito Federal, era stato arrestato nella sua residenza fuori città in seguito a una telefonata anonima alla polizia. Nella casa era stato scoperto un deposito di armi e di
cocaina. Curiosamente, anche i giornalisti erano stati messi sull'avviso, compreso un fotografo che lavorava per il Los Angeles Times. Tutto in un giorno solo. Un mese dopo il progetto immobiliare era andato in porto e gli investitori messicani avevano premiato Hale con un bonus di cinquecentomila dollari in contanti. Il denaro gli aveva fatto piacere. Ma ancora di più lo avevano gratificato i contatti procuratigli dall'imprenditore messicano. Di lì a poco, qualcuno con problemi analoghi negli Stati Uniti si era rivolto a lui. Ora, diverse volte all'anno, tra un affare e l'altro, Hale accettava qualche incarico del genere. Solitamente si trattava di omicidi, anche se all'occorrenza si occupava di scandali finanziari, frodi assicurative e complicati furti su commissione. Hale lavorava per chiunque, indipendentemente dai moventi, che per lui erano irrilevanti. Non gli interessava per quale motivo gli fosse richiesto di commettere un crimine. In due occasioni aveva eliminato mariti violenti. Aveva ucciso un molestatore di bambini una settimana prima di assassinare una donna d'affari che era tra i principali finanziatori della United Way. Le definizioni di bene e male erano molto diverse, per Charles Vespasian Hale. Il bene era lo stimolo mentale, il male era la noia. Il bene era un piano concepito ed eseguito con eleganza, il male un piano approssimativo o condotto in modo imperfetto. Ma il progetto a cui stava lavorando, di sicuro il più complesso e ambizioso di tutta la sua carriera, stava procedendo alla perfezione. Dio crea il complicato meccanismo dell'universo, poi lo carica e lo mette in movimento... Hale scese dal treno e uscì dalla stazione della metropolitana. In strada sentì il freddo gelargli il naso. Gli occhi gli si inumidirono. Si incamminò lungo il marciapiede. Stava per premere il pulsante che avrebbe messo in moto le lancette del suo cronometro. Il telefono di Lon Sellitto suonò. Dopo una breve conversazione il detective concluse, accigliato: «Ci darò un'occhiata». Rhyme lo guardò, in attesa di notizie. «Era Haumann. Ha appena parlato con il direttore di un servizio recapiti allo stesso piano del palazzo di Midtown in cui l'Orologiaio è penetrato ieri. Un cliente ha chiamato perché non ha ricevuto un pacco che sarebbe dovuto partire ieri. A quanto pare, qualcuno lo ha fatto sparire dall'ufficio
più o meno alla stessa ora in cui stavamo dando la caccia a Duncan. Il direttore chiedeva se ne sapevamo qualcosa.» Gli occhi di Rhyme corsero alle immagini scattate da Amelia nel palazzo. Efficiente come sempre, la detective aveva fotografato tutto il corridoio. Sotto il marchio del servizio recapiti si leggeva: ELEVATA SICUREZZA. CONSEGNA GARANTITA DI OGGETTI DI VALORE Le conversazioni intorno a Rhyme persero di significato. Il criminalista studiò le fotografie e gli altri indizi. «Accesso», sussurrò. «Che cosa?» chiese Sellitto. «Eravamo così concentrati prima sui falsi delitti dell'Orologiaio e poi sul suo piano per incastrare Baker che non abbiamo fatto caso a quello che stava combinando veramente.» «E cioè?» domandò Amelia. «I reati che ha commesso davvero. È entrato abusivamente negli uffici. Che al momento dell'evacuazione erano vuoti e non sorvegliati. Le porte sono rimaste aperte?» «Be', sì, immagino», disse il corpulento detective. «Allora, mentre noi ci preoccupavamo dell'estintore», disse Amelia, «lui può avere indossato un'uniforme o anche solo essersi appeso al collo un falso distintivo per entrare negli uffici del servizio recapiti e impossessarsi del pacco.» Accesso... «Chiamali. Scopri che cosa c'era nel pacco, chi lo ha spedito e a chi era destinato. Subito.» 36 Un taxi si fermò di fronte al Metropolitan Museum of Art sulla Fifth Avenue. Il grande edificio era addobbato per Natale con le eleganti decorazioni vittoriane che ci si aspettava di trovare nell'Upper East Side: festose ma sobrie. Dal taxi scese Charles Vespasian Hale, che si guardò intorno attentamente, nella remota eventualità che la polizia lo stesse seguendo. Era assai poco probabile. Ciononostante, l'uomo controllò con scrupolo la strada, nel
caso qualcuno mostrasse anche una minima attenzione nei suoi confronti. Non notò niente di sospetto. Si chinò verso il finestrino e pagò la corsa senza togliersi i guanti. Si mise in spalla una borsa di tela e salì le scale che conducevano all'atrio, grande come quello di una cattedrale e riecheggiante delle voci di scolaresche. Dappertutto c'erano sempreverdi, oro, decorazioni e tulle. Le note registrate da un clavicembalo di Bach risuonavano nell'ingresso. Questa è la stagione... Hale lasciò la borsa al guardaroba, ma non si tolse cappotto e cappello. Il custode controllò il contenuto, vide i quattro libri d'arte, richiuse la cerniera lampo e gli augurò una buona giornata. Hale ritirò lo scontrino, pagò il biglietto, fece un cenno di saluto alle guardie ed entrò nel museo. «Il Meccanismo di Delfi?» Rhyme stava parlando con il direttore del Metropolitan Museum of Art attraverso il viva-voce. «È ancora in mostra?» «Sì, detective», rispose il direttore, esitante. «Ce l'abbiamo da due settimane, nel quadro di un tour di città in città...» «Va bene, va bene, va bene. È sorvegliato?» «Sì, certamente. Io...» «C'è il rischio che un ladro cerchi di rubarlo.» «Rubarlo? Ne è sicuro? È un oggetto unico. Chiunque lo acquistasse non potrebbe mai mostrarlo in pubblico.» «Il ladro non vuole venderlo», disse Rhyme. «Credo che lo voglia per sé.» E spiegò: il pacco rubato negli uffici del servizio recapiti sulla 32nd Street apparteneva a un ricco mecenate ed era destinato al Metropolitan. Conteneva un grande catalogo di antichità offerte alla collezione di mobili del museo. Il Metropolitan Museum? si era domandato il criminalista. Poi si era ricordato dei dépliant di musei trovati nella chiesa. Aveva chiesto a Vincent Reynolds e a Victor Hallerstein, il venditore di orologi, se Duncan avesse mai parlato del Metropolitan. In effetti, l'Orologiaio vi aveva passato molto tempo e aveva mostrato un particolare interesse per il Meccanismo di Delfi. «Pensiamo che abbia rubato il pacco per contrabbandare qualcosa nel museo», disse Rhyme al direttore. «Forse attrezzi, forse un software per disabilitare gli allarmi. Non lo sappiamo. Al momento non possiamo stabilirlo. Credo comunque che dovremmo essere cauti.»
«Mio Dio... Naturalmente. Che cosa dobbiamo fare?» Rhyme fece un cenno a Cooper, che digitò alcuni comandi sul suo computer, poi fece il segnale di okay con il pollice sollevato. «Le abbiamo mandato la sua fotografia via e-mail», disse il criminalista al microfono. «Potrebbe stamparla e darne una copia a tutti i dipendenti, alla biglietteria, al guardaroba e alla sicurezza? Così potranno riconoscerlo.» «Provvedo subito. Può restare in linea per qualche minuto?» «Certo.» Poco dopo il direttore tornò al telefono. «Detective Rhyme?» Stava ansimando. «È qui! Ha depositato una borsa al guardaroba circa dieci minuti fa. Il custode lo ha riconosciuto.» «La borsa è ancora lì?» «Sì, non è uscito.» Rhyme fece un cenno a Sellitto, che chiamò immediatamente Bo Haumann per aggiornarlo. Le squadre dell'ESU stavano già dirigendosi al museo. «La guardia al Meccanismo è armata?» volle sapere il criminalista. «No. Pensa che il ladro lo sia? Non abbiamo metal detector all'ingresso. Potrebbe essere entrato con una pistola.» «Possibile.» Rhyme guardò Sellitto con un sopracciglio inarcato. «Facciamo entrare una squadra in borghese?» propose il detective. «Ha depositato una borsa... e conosce gli orologi.» Rhyme chiese al direttore: «Qualcuno ha guardato nella borsa?» «Controllo. Resti in linea.» Poco dopo il direttore tornò all'apparecchio. «Contiene libri d'arte. Il custode non li ha esaminati.» «Una bomba come diversivo?» ipotizzò Sellitto. «Può darsi. Potrebbe essere solo un fumogeno, ma scatenerebbe ugualmente il panico. Potrebbero esserci vittime. Haumann chiamò via radio. «Okay», fece la voce ruvida del capo dell'ESU. «Ho squadre a tutte le entrate, del pubblico e di servizio.» Rhyme si rivolse a Kathryn Dance. «Sei sicura che non esiterebbe a uccidere?» «Sì.» Il criminalista stava valutando la straordinaria capacità strategica del suo avversario. Che avesse in mente qualche piano mortale, nel caso si fosse reso conto che rischiava l'arresto? «Evacuate», stabilì Rhyme. «Tutto il museo?» fece Sellitto.
«Credo sia necessario. La priorità è salvare vite umane. Cominciate dall'atrio, a seguire tutto il resto. Gli uomini di Haumann dovranno controllare tutti quelli che escono. Assicuriamoci che abbiano le foto.» «È proprio necessario?» chiese il direttore del museo che aveva sentito gli ordini «Sì. Immediatamente.» «Okay, ma non vedo come qualcuno potrebbe rubarlo. Il Meccanismo è protetto da un vetro antiproiettile spesso parecchi centimetri. E la vetrina non si può aprire sino alla fine della mostra, martedì prossimo.» «Come sarebbe a dire?» chiese Rhyme. «È una delle nostre vetrine speciali.» «Perché non si può aprire fino a martedì?» «Perché c'è una chiusura a tempo, collegata via satellite a un orologio del governo. Mi dicono che nessuno può forzarla. Ci teniamo i nostri oggetti più preziosi.» Il direttore continuava a parlare, ma il criminalista stava pensando ad altro. Qualcosa lo tormentava. Finalmente ricordò. «Quell'incendio doloso su cui Fred Dellray ci ha chiesto di indagare... Dov'è stato?» Amelia aggrottò le sopracciglia. «Un ufficio del governo: il National Institute of Standards and Technology, mi pare. Perché?» «Dai un'occhiata, Mel.» Il tecnico si mise online. Dal sito Internet lesse: «Il NIST è il nuovo nome del National Bureau of Standards...» «Bureau of Standards?» lo interruppe Rhyme. «È l'ufficio che controlla l'orologio atomico nazionale. Allora è questo che sta combinando? La chiusura a tempo del Metropolitan è collegata al NIST. In qualche modo, lui cambierà l'ora e farà credere alla serratura che sia già martedì. La vetrina si aprirà automaticamente.» «Può fare una cosa del genere?» chiese Kathryn. «Non lo so. Ma se è possibile, lui troverà il modo. L'incendio al NIST serviva a nascondere la sua intrusione, ci scommetto...» D'un tratto Rhyme si zittì: aveva compreso tutte le implicazioni del piano dell'Orologiaio. «Oh, no...» «Che cosa c'è?» Il criminalista stava ripensando all'osservazione di Kathryn: per l'Orologiaio, la vita umana non aveva importanza. «Dall'orologio atomico degli Stati Uniti dipende l'ora di qualsiasi cosa nel Paese: aerei, treni, difesa, centrali energetiche, computer... tutto quanto. Avete idea di che cosa può
capitare se lui lo altera?» In un modesto hotel di Midtown, un uomo e una donna sedevano davanti al televisore, su un divano che puzzava di muffa e cibo vecchio. Charlotte Allerton era la bruna robusta che si era finta sorella di Theodore Adams, la «vittima» trovata nel vicolo martedì. L'uomo al suo fianco, Bud Allerton, suo marito, era colui che si era presentato al viceprocuratore come l'avvocato di Gerald Duncan, assicurando il rilascio del proprio cliente con la promessa che la sua testimonianza al processo contro i poliziotti corrotti sarebbe stata spettacolare. Bud era davvero un avvocato, anche se non praticava da molti anni. Aveva ripreso in mano la vecchia professione solo per assecondare il piano di Duncan, che prevedeva la sua apparizione nel ruolo di un legale del grande e prestigioso studio Reed-Prince. Il viceprocuratore ci era cascato in pieno. Non si era nemmeno preoccupato di chiamare lo studio per verificare l'identità dell'avvocato. Gerald Duncan aveva previsto, giustamente, che il pubblico ministero sarebbe stato così ansioso di farsi un nome con quel caso di corruzione da credere a tutto ciò cui voleva credere. E poi, quando mai si chiedono i documenti a un legale? L'attenzione degli Allerton era catalizzata dallo schermo televisivo, sintonizzato su un notiziario locale. Stavano parlando della sicurezza degli alberi di Natale. Yadda, yadda, yadda... Charlotte guardò per un istante in camera da letto, dove la sua snella e graziosa figlioletta era seduta a leggere un libro. La ragazzina guardò a sua volta la madre e il patrigno con l'espressione stanca e cupa che aveva sempre da qualche mese a quella parte. Quella ragazza... Charlotte, inquieta, tornò a guardare il televisore. «Non ci sanno mettendo troppo tempo?» Bud non disse nulla. Proteso in avanti, curvo, con i gomiti sulle ginocchia, teneva le grosse dita intrecciate. Charlotte si chiese se stesse pregando. Un attimo dopo il reporter, la cui missione era salvare le famiglie dalla minaccia degli alberi di Natale a rischio di incendio, scomparve dallo schermo, lasciando il posto alle parole: NOTIZIARIO SPECIALE 37
Nel documentarsi sul mondo degli orologi, per rendere credibile il suo ruolo di assassino vendicatore, Charles Hale era venuto a conoscenza del concetto di «complicazione». Si definisce in questo modo la funzione supplementare di un orologio, come i piccoli quadranti sui cronografi più costosi che indicano il giorno della settimana, la data, il fuso orario; o una funzione ripetuta, come un campanello che suona a intervalli regolari. Gli orologiai si sono sempre appassionati alla sfida di inserire nei loro prodotti il maggior numero possibile di complicazioni. Un esempio tipico è il Patek Philippe Star Calibre 2000, realizzato con oltre mille componenti, che indica l'ora dell'alba e del tramonto, giorno, data e mese, stagione, fasi lunari, orbita lunare, con in più un calendario perpetuo e la carica del movimento e delle varie sveglie incorporate. Il problema delle complicazioni, tuttavia, è quello che lascia intendere il loro nome: distraggono dall'obiettivo principale di un orologio, ossia dire l'ora. La Breitling realizza splendidi cronografi, ma alcuni modelli delle serie Professional e Navitimer contengono così tanti quadranti, lancette e funzioni secondarie, dal cronometro al regolo logaritmico, che diventa difficile distinguere le lancette delle ore e dei minuti. Ed era proprio di complicazioni che Charles Hale aveva bisogno per portare a compimento il suo piano a New York City e distrarre la polizia dal vero obiettivo. Dal momento che c'erano ottime probabilità che Lincoln Rhyme e la sua squadra scoprissero che non era più sotto custodia e che non si chiamava davvero Gerald Duncan, era anche possibile che capissero che il vero obiettivo non era pareggiare i conti con uno sbirro corrotto. Per questo gli serviva una complicazione supplementare, allo scopo di distrarre la polizia. Il cellulare cominciò a vibrare. Charlotte Allerton gli aveva inviato un SMS: NOTIZIE IN TV. MUSEO CHIUSO. POLIZIA TI CERCA LÌ Hale rimise in tasca il cellulare. E provò una soddisfazione profonda, quasi sessuale. Il messaggio gli diceva che Rhyme aveva capito che lui non era Duncan e che la polizia, ignara, si stava concentrando sulla complicazione del Metropolitan Museum: avevano creduto che avesse un piano per rubare il ce-
lebre Meccanismo di Delfi. E questo perché Hale aveva fatto trovare loro i dépliant delle mostre di orologi a Boston e a Tampa, aveva decantato il Meccanismo davanti a Vincent Reynolds e aveva raccontato al titolare del negozio della sua ossessione per gli orologi antichi, menzionando esplicitamente quello in mostra al Metropolitan Museum. Il piccolo incendio che aveva appiccato al National Institute of Standards and Technology a Brooklyn li aveva indotti a credere che intendesse resettare l'orologio al cesio su cui si basava l'ora in tutti gli Stati Uniti, al fine di aprire la serratura a tempo e rubare il Meccanismo. Era una deduzione acuta e sottile, che poteva essere scambiata per il suo vero movente. Gli agenti avrebbero trascorso ore a dargli la caccia al museo e nel vicino Central Park. Avrebbero esaminato attentamente la borsa che aveva lasciato al guardaroba, che conteneva quattro libri, vuoti all'interno, in cui Hale aveva inserito due pacchetti di soda caustica, un piccolo scanner e, naturalmente, un orologio, anche se si trattava di una sveglia digitale di scarso valore. Nessuno di quegli oggetti aveva una particolare utilità, se non quella di tenere impegnati i poliziotti. Le complicazioni del piano erano pari in eleganza, se non in numero, a quelle dell'orologio da polso ritenuto il più complicato al mondo, fabbricato da Gerald Genta. In quel momento Hale non era più al museo né nelle sue vicinanze Se n'era andato da mezz'ora. Poco dopo avere lasciato la borsa al guardaroba, si era chiuso in bagno e si era tolto il cappotto. Sotto indossava un'uniforme dell'esercito, con i gradi da maggiore. Si era messo un paio di occhiali e un berretto militare che teneva nascosto in una tasca segreta del cappotto. Dopo di che si era affrettato a lasciare il Metropolitan. In quel momento si trovava nel centro di Manhattan e si stava facendo lentamente strada fra le transenne, diretto agli uffici di New York del dipartimento di Urbanistica. Di lì a poco, in quello stesso edificio, un certo numero di soldati e le loro famiglie avrebbero partecipato a una cerimonia in loro onore, organizzata dalla città e dai dipartimenti di Stato e della Difesa. Ai soldati, appena tornati in patria, sarebbero stati consegnati attestati di encomio per avere combattuto in conflitti in varie parti del mondo e per avere deciso di rinnovare la ferma. Terminata la cerimonia, le foto di prammatica e le trite dichiarazioni alla stampa, gli ospiti se ne sarebbero andati, mentre funzionari e generali si sarebbero riuniti a discutere i loro sforzi futuri per diffondere la democrazia in altre parti del mondo. Erano quei funzionari, così come i soldati, le loro famiglie e i giornalisti
che avrebbero presenziato alla cerimonia, la vera ragione per cui Charles Hale era venuto a New York. Era stato assoldato per ucciderne il maggior numero possibile. Bob, rassicurante e sorridente come sempre, era al volante. Lucy Richter sedeva in macchina accanto a lui, mentre oltrepassavano il palco allestito fuori dall'edificio del dipartimento di Urbanistica. La parata stava ormai volgendo al termine. Lucy, con una mano appoggiata sulla coscia muscolosa del marito, non diceva una parola. La Honda si faceva strada nel traffico convulso. Bob cercava di fare conversazione, parlando della festa di quella sera. Lucy rispondeva a mezze parole, ancora tormentata dal Grande Conflitto che aveva confessato a Kathryn Dance. Doveva rinnovare la ferma oppure no? Autointerrogatorio... Quando aveva detto di sì, un mese prima, era sincera oppure stava solo cercando di ingannarsi? Ripensò a ciò che le aveva detto l'agente Dance: rabbia, depressione... Sto forse mentendo a me stessa? Cercò di allontanare i dubbi dalla mente. Vicino al palazzo dell'Urbanistica, sul lato opposto della strada, era in atto una dimostrazione contro i vari conflitti in cui l'America era coinvolta. I suoi amici e compagni d'armi d'oltremare non sopportavano i contestatori, ma Lucy non la vedeva a quel modo. Pensava che il solo fatto che la gente fosse libera di fare dimostrazioni senza essere messa in prigione convalidasse ciò che stava facendo. L'auto si avvicinò al posto di blocco allestito in corrispondenza dell'incrocio. Due soldati controllarono i documenti e guardarono nel bagagliaio. Lucy si irrigidì. «Cos'hai?» le chiese il marito. «Guarda», disse lei. Lui abbassò lo sguardo. La mano di lei era sul fianco, dove quando era in servizio teneva l'arma. «La pistola più veloce del West?» scherzò lui. «Istinto. Ai posti di blocco.» Lucy fece una risata spenta. Nebbia amara... Bob indicò i soldati e le sorrise. «Direi che siamo al sicuro. Non come a Baghdad e a Kabul.»
Lucy appoggiò la mano sinistra sulla destra del marito e gliela strinse, mentre si avvicinavano al parcheggio riservato agli ospiti d'onore. Charles Hale non era del tutto apolitico. Aveva qualche opinione generale sulla democrazia in opposizione alla teocrazia in opposizione al comunismo in opposizione al fascismo. Ma sapeva che le sue vedute non andavano oltre le opinioni della gente comune. Niente di particolarmente elaborato o radicale. Quando in ottobre gli Allerton lo avevano assunto per «inviare un messaggio» sul governo centralizzato e sugli errori degli interventi statunitensi in Paesi stranieri «pagani», tra sé e sé Hale aveva sbadigliato. Però la sfida lo incuriosiva. «Abbiamo parlato con sei persone e nessuno accetta l'incarico», gli aveva detto Bud Allerton. «È praticamente impossibile.» A Charles Vespasian Hale piaceva quella parola. Non c'era da annoiarsi, quando si affrontava l'impossibile. Era un po' come «invulnerabile». Charlotte e Bud, il suo secondo marito, facevano parte di un'organizzazione di estrema destra che da anni bersagliava funzionari e installazioni del governo federale statunitense. Da qualche tempo vivevano nella clandestinità ed erano inattivi. Di recente, offesi dai numerosi interventi all'estero degli Stati Uniti, Charlotte e altri membri di quell'organizzazione senza nome avevano deciso che fosse il momento di compiere un atto spettacolare: un attacco che non servisse solo a trasmettere il loro profondo messaggio, ma anche a infliggere gravi danni al nemico, uccidendo generali e funzionari che avevano tradito i principi su cui si fondava l'America e mandato ragazzi e (Dio ci aiuti) ragazze a morire per il bene di popoli arretrati, crudeli e non cristiani. Hale si era tenuto quanto possibile alla larga dalla retorica dei suoi nuovi clienti e si era messo al lavoro. Ad Halloween era venuto a New York e aveva allestito la casa sicura a Brooklyn. Per tutto novembre e fino a metà dicembre si era dedicato alla preparazione del suo meccanismo, acquistando attrezzature, cercando ignari complici che lo aiutassero (Dennis Baker e Vincent Reynolds), indagando sulle sue presunte vittime e sorvegliando il palazzo dell'Urbanistica. Verso il quale si stava dirigendo nella pungente aria del mattino. Il palazzo era stato scelto come sede della cerimonia non perché avesse qualcosa a che fare con l'esercito, ma perché era quello che garantiva i maggiori standard di sicurezza tra tutti gli edifici federali di Lower Manhattan. I muri erano di spessa pietra calcarea e, se un terrorista fosse riusci-
to a sfondare le barricate con un'autobomba, l'esplosione non avrebbe provocato i danni che avrebbe potuto infliggere invece a una moderna struttura vetrata. Inoltre il palazzo era più basso degli edifici circostanti, cosa che lo rendeva un bersaglio più difficile per un missile o un aereo kamikaze. Aveva un numero limitato di entrate e uscite, permettendo maggiori controlli. E la sala in cui si sarebbero tenute la cerimonia e la riunione strategica guardava sul muro senza finestre del palazzo sull'altro lato del vicolo, dove nessun cecchino si sarebbe potuto appostare per sparare sui convenuti. Sorvegliato da soldati e poliziotti equipaggiati con armi automatiche, schierati per le strade e appostati sugli edifici adiacenti, il palazzo era virtualmente inespugnabile. Dall'esterno. Nessuno si era reso conto che la minaccia poteva venire dall'interno. Charles Hale esibì i documenti militari e i due lasciapassare: i pass, preparati appositamente per quell'evento, erano stati consegnati ai partecipanti solo due giorni prima. Attraversò il metal detector e si lasciò perquisire. Poi un caporale verificò nuovamente i suoi documenti e gli rivolse un saluto militare. Hale ricambiò il saluto ed entrò nel palazzo. Era un labirinto, ma lui conosceva perfettamente la pianta dell'edificio. La quinta presunta vittima dell'Orologiaio, Sarah Stanton, lavorava per lo studio che aveva curato gli interni e fornito moquette e linoleum all'intero palazzo. Nell'armadietto di Sarah, Hale aveva trovato disegni dettagliati di tutte le stanze e i corridoi dell'edificio. Oltretutto vicino all'ufficio di Sarah c'era un'agenzia di recapiti, alla quale Hale aveva telefonato quella mattina, lamentando la mancata consegna di un pacco al Metropolitan Museum, in modo da accreditare il suo apparente piano per rubare il Meccanismo di Delfi. In effetti, tutti i «delitti» dell'Orologiaio, con l'unica eccezione di quello al molo, destinato unicamente ad attirare l'attenzione, erano stati tappe fondamentali del piano: l'ufficio di Sarah Stanton, l'appartamento di Lucy Richter, il vicolo vicino a Cedar Street e il laboratorio della fiorista. Hale si era introdotto a casa di Lucy per fotografare e, successivamente, falsificare i pass. Aveva scoperto il nome della soldatessa da un articolo di giornale che parlava dell'evento. Inoltre a casa di Lucy aveva fotografato, per poi memorizzarlo, un memorandum segreto del dipartimento della Difesa con le procedure di sicurezza che sarebbero state messe in atto quel giorno. Anche il falso omicidio dell'immaginario Theodore Adams aveva un o-
biettivo preciso: Hale aveva collocato il cadavere nel vicolo accanto al palazzo. Quando era arrivata Charlotte, nel ruolo dell'isterica sorella della vittima, le guardie l'avevano fatta entrare nell'edificio, permettendole di usarne il bagno al pianterreno senza perquisirla. Ciò le aveva consentito di nascondere sotto il fondo di un cestino dei rifiuti appeso alla parete una calibro 22 con silenziatore e due dischi di metallo, perché Hale potesse recuperarli a tempo debito. Non c'era altro modo di portare armi all'interno del palazzo, oltrepassando i metal detector e le perquisizioni. Il killer nascose gli oggetti nelle tasche dell'uniforme e si diresse alla sala riunioni del quinto piano. Una volta nella sala, Hale vide al loro posto gli elementi chiave del suo piano: le due grandi composizioni floreali preparate da Joanne Harper per la cerimonia, una vicino al palco e l'altra in fondo alla sala. Dall'ufficio commerciale della Government Service Administration, Hale aveva appreso che l'appalto delle decorazioni floreali era stato dato a Joanne. Per questo si era introdotto nel suo laboratorio di Spring Street, allo scopo di nascondere qualcosa nei vasi. Qualcosa che sarebbe passato indenne attraverso i controlli di sicurezza, che non sarebbero stati molto approfonditi dal momento che Joanne era da anni una fornitrice accreditata. Quando Hale le aveva fatto visita, non si era limitato a portare con sé l'orologio, ma anche due bottiglie di un esplosivo chiamato Astrolite. Più potente del TNT e della nitroglicerina, l'Astrolite è un liquido chiaro che mantiene il potere detonante anche quando è assorbito da un'altra sostanza. Il killer aveva identificato le composizioni floreali destinate alla cerimonia e aveva versato l'Astrolite in fondo ai vasi. Naturalmente avrebbe potuto anche effettuare le stesse quattro azioni senza inventarsi la storia dell'Orologiaio, ma se qualcuno si fosse accorto della presenza di un intruso o avesse notato qualche elemento fuori posto, si sarebbe potuto insospettire e domandarsi che cosa stesse accadendo. Per questo Hale aveva creato diversi strati di moventi per le sue intrusioni. Il piano originale prevedeva di fingersi un serial killer per avere accesso ai quattro luoghi, sacrificando poi il suo sfortunato complice, Vincent Reynolds, per convincere la polizia che l'Orologiaio fosse chi sembrava essere. Ma poi, a metà novembre, un suo contatto nel crimine organizzato dell'area gli aveva comunicato che uno sbirro di New York voleva far eliminare una detective del NYPD. La malavita non voleva avere a che fare con l'assassinio di una poliziotta, ma se per caso Hale fosse stato interessato... Lui non lo era, però aveva intuito che Baker poteva essere utilizzato come
una complicazione supplementare nel suo piano. Avrebbe potuto farsi passare per un cittadino che si vendicava di un poliziotto corrotto. Infine, Hale aveva aggiunto l'ultimo elemento decorativo: l'apparente tentativo di rubare il Meccanismo di Delfi. È il movente che può farti scoprire. Elimina il movente e avrai eliminato i sospetti... Hale si avvicinò alla composizione floreale vicino al palco e la sistemò, come avrebbe fatto un soldato diligente, orgoglioso di partecipare a un'occasione così importante. Non visto, vi infilò uno dei dischi che aveva recuperato al pianterreno, un detonatore computerizzato. Premette il pulsante per armarlo e lo nascose sotto il muschio. Ripeté l'operazione con il vaso in fondo alla sala: il secondo detonatore sarebbe stato attivato da un impulso radio trasmesso dal primo. Le due deliziose composizioni floreali erano ora due bombe letali, contenenti esplosivo sufficiente a distruggere l'intera sala. L'aria era elettrica nel laboratorio di Rhyme. Mancava solo Pulaski, inviato in missione dal criminalista. Gli occhi di tutti erano puntati su di lui, che a sua volta stava passando in rassegna i tabelloni che lo circondavano come truppe in attesa di ordini. «Ci sono ancora troppi punti oscuri», disse Sellitto. «Lo sai che cosa succederà se chiediamo una cosa come questa?» Rhyme guardò Amelia: «Tu che cosa ne pensi?» «Non credo che abbiamo scelta», rispose lei, tesa. «Io dico di sì.» «Oh, santo cielo», mormorò il detective. «Fai quella telefonata», gli disse il criminalista. Lon Sellitto compose un numero poco conosciuto, che lo mise immediatamente in comunicazione con la linea protetta del sindaco di New York City. Nella sala riunioni che si andava riempiendo di soldati e ospiti, Charles Hale sentì vibrare il proprio telefono. Era un altro messaggio di Charlotte Allerton. AEREI E TRENI BLOCCATI. SQUADRA SPECIALE CONTROLLA OROLOGIO NIST. VIA LIBERA, GRAZIE A DIO Perfetto, pensò Hale. La polizia aveva creduto alla complicazione del
Meccanismo di Delfi e al suo apparente piano di sabotare l'orologio al cesio. Si guardò intorno, con un'espressione soddisfatta. Uscì dalla sala e scese in ascensore al pianterreno. Uscì dal palazzo e si confuse tra la folla che, dietro le transenne, applaudiva e sventolava bandierine mentre arrivavano le limousine, sotto uno stretto controllo di sicurezza. C'erano anche i contestatori: giovinastri, hippy stagionati, professori politicamente impegnati con le loro signore. Agitavano cartelli e recitavano slogan che Hale non riuscì a sentire ma che, presumibilmente, non erano favorevoli alla politica estera americana. Aspettate e vedrete, disse silenziosamente loro. A volte si ottiene proprio ciò che si chiede. 38 Il sergente dell'esercito degli Stati Uniti Lucy Richter fece il suo ingresso assieme ad altri diciassette soldati di vari corpi. Accennò un sorriso in direzione del marito e della sua famiglia, i genitori e la zia, seduti in sala: un saluto affrettato e non molto caloroso, ma in quel momento Lucy non era la moglie di Bob, o una figlia, o una nipote. Era un soldato decorato, in presenza dei suoi compagni d'armi e dei suoi superiori. Il gruppo si era radunato nell'atrio del palazzo, mentre famigliari e amici prendevano posto in sala. In attesa del loro ingresso, Lucy aveva chiacchierato con un giovanotto del Texas, rientrato in patria per cure mediche: una di quelle fottute granate a reazione gli era rimbalzata addosso prima di esplodere a parecchi metri di distanza. «Non vedo l'ora di tornare a casa», aveva detto il soldato, con orgoglio. «A casa?» gli aveva chiesto lei. «Non rinnovi la ferma?» Lui aveva battuto le palpebre. «Infatti. La mia unità. È quella la mia casa.» In piedi sull'attenti davanti alla sua sedia, Lucy guardava inquieta i reporter che fissavano i soldati come cecchini in cerca di un bersaglio, ansiosi di conoscere le loro storie. Cercò di ignorarli e rivolse lo sguardo alle immagini patriottiche che decoravano la sala in occasione della cerimonia, tra cui una commovente fotografia delle torri gemelle. A una parete erano appesi la bandiera americana e vari emblemi militari. E poi c'erano gli ufficiali, con le loro decorazioni e le barrette sul petto, che indicavano dove e per quanto tempo avessero prestato servizio.
E intanto, dentro di lei, infuriavano i dubbi. Ripensando alle parole di Kathryn Dance, Lucy si domandava: Qual è la verità, per me? Tornare nella terra della nebbia amara? Restare qui? Sì o no? Le porte laterali si aprirono. Preceduto da due uomini del Secret Service, che si guardarono intorno cauti e attenti, nella sala entrò un gruppo di uomini e donne, alcuni in uniforme, altri in borghese. Molti avevano medaglie e nastrini appuntati al petto. Lucy riconobbe alcuni pezzi grossi di Washington e New York, oltre ad alcuni alti funzionari del Pentagono: personaggi del mondo che era diventato parte della sua vita. I dubbi continuavano a tormentarla. Sì o no? La verità... Qual è la verità? Quando le autorità si furono accomodate, un generale del New Jersey fece una breve introduzione e presentò al pubblico un bel signore in uniforme blu scuro. Il generale Roger Poulin, capo dello Stato Maggiore, si alzò e, facendo un cenno di saluto all'uomo che aveva aperto la cerimonia, raggiunse il microfono. Con voce profonda, cominciò: «Generali, illustri funzionari dei dipartimento della Difesa e di Stato e della città di New York, soldati e gentili ospiti... Sono lieto di darvi il benvenuto a questa cerimonia in onore di diciotto persone coraggiose che hanno rischiato le loro vite e dimostrato di essere pronte al sacrificio per preservare la libertà del nostro Paese e portare la democrazia nel mondo». Il pubblico applaudì. Quando il clamore si affievolì, il generale Poulin cominciò il discorso. Lucy Richter cercò di seguirlo, ma si distrasse ben presto. Stava guardando i civili presenti in sala: famigliari, coniugi, bambini e amici dei soldati. Gente come i suoi genitori, sua zia, suo marito. Al termine della cerimonia, tutti costoro sarebbero tornati alle loro case o al loro lavoro, alla loro esistenza vissuta un giorno alla volta, un'ora alla volta, un minuto alla volta. La solennità del momento non le permetteva di sorridere, eppure Lucy sentì i muscoli del viso rilassarsi e la tensione svanire come la nebbia amara al vento caldo. D'un tratto rabbia, depressione e negazione, tutti i sintomi che Kathryn Dance le aveva detto di cercare, erano svaniti. Lucy chiuse gli occhi per un istante, tornando ad ascoltare le parole del suo superiore più alto in grado, secondo solo, nella gerarchia militare, al presidente degli Stati Uniti. Ora comprendeva chiaramente che, qualsiasi fosse stato il suo destino, la decisione era presa. E a lei andava bene così.
In un cubicolo lercio nel bagno degli uomini di un bar poco lontano, Charles Hale estrasse un sacchetto nero dei rifiuti da sotto la camicia. Si tolse l'uniforme e indossò un paio di jeans, un maglione, guanti e un giubbotto che aveva appena acquistato. Infilò nel sacchetto l'uniforme e il cappotto, quindi vi aggiunse batteria e SIM estratti dal cellulare. Tenne con sé solo la pistola. Attese che nel bagno non ci fosse nessuno e gettò il sacchetto nel bidone dei rifiuti. Uscito dal caffè, andò a comprare in contanti un cellulare prepagato, e proseguì lungo il marciapiede fino a trovarsi a tre isolati dal palazzo. Da quel punto aveva sott'occhio uno scorcio del retro dell'edificio e del vicolo in cui era stata trovata la «vittima» dell'Orologiaio. Intravedeva parte della vetrata della sala conferenze al quinto piano, in cui si stava tenendo la cerimonia. Il giubbotto era leggero e Hale avrebbe dovuto avere freddo, ma nell'emozione del momento non vi faceva caso. Guardò il suo orologio digitale, sincronizzato con i timer dei detonatori. 12:14:19. La cerimonia aveva avuto inizio a mezzogiorno. Documentandosi sulle tecniche di attentato, aveva appreso che con le bombe era sempre bene aspettare un po' di tempo, per permettere ai ritardatari di prendere posto e alle guardie di distrarsi. 12:14:29. Un aspetto interessante di quelle bombe particolari, rifletté, era puramente accidentale: Joanne la fiorista aveva decorato i vasi con ghiaia artificiale. Chiunque non fosse rimasto ucciso o ferito direttamente dall'esplosione, sarebbe stato colpito da quei proiettili di vetro bianco. 12:14:44. Hale si teneva in equilibrio sulla punta dei piedi, proteso in avanti. C'era sempre la possibilità di un imprevisto. La sicurezza avrebbe potuto decidere di fare un controllo anti-esplosivi all'ultimo minuto. Oppure qualche addetto alle videocamere di sicurezza poteva essersi insospettito vedendolo entrare e uscire nel volgere di pochi minuti. 12:14:52. Tuttavia era il rischio del fallimento che rendeva più dolce il gusto della vittoria. Hale si concentrò sul vicolo dietro il palazzo. 12:14.55. 12:14:56. 12:14:57.
12:14:58. 12:14:59. 12:15:00... Dapprima, silenziosa, una lingua di fuoco e di detriti uscì dalla vetrata della sala conferenze. Mezzo secondo più tardi arrivò il boato assordante dell'esplosione. Vicino a Hale qualcuno disse: «Oh, mio Dio, che cosa...» Urla. «Guardate? Cos'è?» «Dio, no!» «Qualcuno chiami il 911!» I pedoni si raccoglievano sul marciapiede, fissando il palazzo. «Una bomba? Un aereo?» Hale scosse il capo, assumendo un'espressione preoccupata. Stava assaporando il successo. L'esplosione gli era parsa più forte del previsto. Ci sarebbero state più vittime di quante Charlotte e Bud Allerton avevano sperato. Era improbabile che qualcuno sarebbe sopravvissuto. Il killer si voltò e riprese il cammino verso la stazione della metropolitana. Salì su un treno e scese alla stazione successiva, poco lontano dall'albergo in cui lo aspettavano gli Allerton, per il saldo finale del suo pagamento. Era soddisfatto. Aveva combattuto la noia e aveva guadagnato una bella cifra. Ma, cosa più importante, aveva compiuto un'azione di straordinaria eleganza. Aveva elaborato un piano complesso e lo aveva eseguito alla perfezione. A orologeria, pensò, con un sorriso. 39 «Oh, grazie», mormorò Charlotte, seduta davanti al televisore, rivolgendosi contemporaneamente a Gesù e all'uomo che aveva fatto di quella missione un successo. Il notiziario speciale che annunciava l'evacuazione del Metropolitan Museum era stato interrotto da un'altra notizia: l'esplosione al palazzo del dipartimento di Urbanistica. Charlotte strinse il braccio del marito, che si protese a baciarla, sorridendo come un ragazzino. La speaker aveva un'espressione tetra, nonostante provasse un visibile piacere a essere lei a dare quella clamorosa notizia. Una bomba, informò
gli ascoltatori, era esplosa nel palazzo in Lower Manhattan, nel corso di una cerimonia cui partecipavano funzionari del governo e alte cariche dell'esercito. Tra i presenti c'erano anche un sottosegretario e il capo di Stato Maggiore. Sullo schermo si vedeva il fumo che usciva dalle finestre del palazzo. Mancava ancora il dettaglio più importante, il bilancio delle vittime, ma si sapeva che, al momento dell'esplosione, nella sala si trovavano almeno cinquanta persone. Apparve un opinionista del tutto disinformato, che non esitò ad attribuire l'attentato al terrorismo fondamentalista islamico. Presto sarebbe stato smentito. «Tesoro, ce l'abbiamo fatta!» annunciò Charlotte a sua figlia, rimasta in camera a leggere. (Quel satanico Harry Potter. Charlotte gliene aveva già buttato via due copie. Come aveva fatto la ragazza a trovarne un'altra?) La figlia sbuffò esasperata e tornò a immergersi nella lettura. Charlotte perse la pazienza per un istante. Avrebbe voluto darle un violento schiaffone. Invece di celebrare il loro trionfo, Pam non mostrava il minimo rispetto nei confronti della madre e del patrigno. Bud si era offerto varie volte di darle una bella dose di bastonate, Charlotte però lo aveva trattenuto. Ora cominciava a pensare che non sarebbe stata una cattiva idea. Ma, ripensando alla vittoria che avevano appena messo a segno, la sua rabbia svanì. Si alzò dal divano e disse: «È meglio andarcene». Spense il televisore e finì di preparare la valigia. Bud andò in camera per chiudere la sua. Sarebbero partiti in macchina per Philadelphia, da dove avrebbero preso un aereo per tornare a St. Louis. Duncan aveva consigliato loro di evitare gli aeroporti di New York, dopo l'attentato. Una volta nel Missouri, sarebbero tornati nella clandestinità, in attesa di una nuova occasione di agire. Gerald Duncan stava per arrivare a incassare il resto dei soldi. Poi anche lui avrebbe lasciato la città. Charlotte si domandò se sarebbe stato possibile convertirlo alla causa. Glielo aveva già ventilato, ma il killer non era parso interessato, anche se si era dichiarato disponibile a lavorare di nuovo per loro, a patto che il bersaglio fosse difficile e il pagamento soddisfacente. Qualcuno bussò. Duncan era puntualissimo. Charlotte andò alla porta, sorridente, e l'aprì. «Ce l'hai fatta! Io...» Le parole le morirono sulle labbra quando vide irrompere nella stanza un
poliziotto in tenuta da combattimento. Con lui c'era Amelia Sachs, con una grossa pistola nera in pugno e un'espressione furiosa. Gli occhi della detective esplorarono la camera d'albergo. «Polizia! Che nessuno si muova!» gridò uno dei sei poliziotti che entrarono dopo di lei. «No!» gemette Charlotte. Si girò, ma riuscì solo a fare un passo prima che qualcuno la atterrasse. In camera da letto, Bud Allerton sentì il grido della moglie, le voci che intimavano gli ordini e i passi pesanti dei poliziotti. Sbatté la porta e prese dalla valigia una pistola automatica. Tirò indietro il carrello per inserire un colpo in canna. «No!» urlò la ragazzina, lasciando cadere il libro a terra e correndo alla porta. «Zitta», sussurrò lui, con odio. L'afferrò per un braccio. La ragazzina strillò, mentre Bud la gettava sul letto. Lei batté la testa contro la parete e perse i sensi. Non gli era mai stata simpatica. Non gli piacevano il suo atteggiamento, il suo sarcasmo e il suo spirito ribelle. I figli, specie le femmine, dovevano obbedire, o pagarne le conseguenze. Fuori dalla porta sembrava che ci fosse una dozzina di poliziotti. Non c'era molto tempo per pregare, ma lui sapeva che Dio, che spesso gli parlava, lo avrebbe ascoltato in quel momento. Mio Signore e saggio Gesù Cristo, grazie per la gloria che ci hai concesso. Ti prego di darmi la forza di porre fine alla mia vita e affrettare il mio cammino verso di te. E concedimi di mandare all'inferno il maggior numero di questi peccatori. Aveva quindici colpi nella pistola. Poteva uccidere molti poliziotti, se la sua volontà restava salda e Dio gli dava la forza di ignorare le ferite che gli avrebbero inferto. Ma la loro potenza di fuoco era certamente superiore. Gli occorreva un minimo di vantaggio. Si avvicinò alla ragazzina, che ora singhiozzava tenendosi la testa sanguinante tra le mani. Bud aggiunse una coda alla preghiera, con una gentilezza che, date le circostanze, gli parve molto generosa. E quando ricevi questa ragazza in paradiso, perdonala per i suoi peccati, perché non sapeva quello che faceva. Si avvicinò alla figliastra e la prese per i capelli. «Allerton è lì dentro?» gridò Amelia Sachs, indicando la porta chiusa
della camera da letto. Charlotte non aprì bocca. «E la ragazza?» Il portiere dell'albergo non solo aveva indicato in quale camera alloggiavano gli Allerton e la figlia, ma aveva tracciato anche uno schema della disposizione delle stanze. Si era detto sicuro che fossero tutti di sopra e aveva riconosciuto l'identikit dell'Orologiaio, dicendo di averlo visto diverse volte, ma non quel giorno. «Dov'è Allerton?» insisté la detective, resistendo alla tentazione di prendere la donna per le spalle e scuoterla. Charlotte rimase in silenzio, fissando Amelia. «Nessuno in bagno», segnalò un agente dell'ESU. «Nessuno nell'altra camera da letto.» «Nessuno nell'armadio», comunicò Ron Pulaski, che, magro com'era, con indosso il tozzo giubbotto antiproiettile e il casco aveva un che di comico. Restava solo la camera da letto con la porta chiusa. Amelia vi si avvicinò, facendo cenno agli agenti di tenersi lontani dalla linea del fuoco. «Tu, lì dentro! Polizia. Apri la porta!» Nessuna risposta. La detective girò la maniglia: la porta non era chiusa a chiave. Inspirò a fondo e sollevò la pistola. Spalancò la porta e si mise in posizione di tiro. La ragazza che aveva visto sull'auto di Charlotte aveva le mani legate e una striscia di nastro adesivo che le chiudeva il naso e la bocca. Distesa sul letto, cianotica, si agitava nel disperato tentativo di respirare. Sarebbe soffocata entro pochi secondi. «La finestra è aperta!» gridò Pulaski. «Sta scappando.» E fece per entrare nella camera. Amelia lo prese per il giubbotto antiproiettile. «Perché?» chiese la recluta. «Non hai ancora via libera», lo redarguì lei. Indicò il soggiorno. «Controlla da qui la scala antincendio. Vedi se è fuori. E stai attento: potrebbe tenere la finestra sotto tiro.» Pulaski andò alla finestra del soggiorno e guardò fuori. «No. Forse è già scappato.» Chiese via radio a una squadra dell'ESU di controllare il vicolo dietro l'albergo. Amelia era indecisa. Non poteva aspettare: doveva salvare la ragazza. Fece un passo avanti.
Ma si fermò immediatamente. Nonostante stesse soffocando, la figlia di Charlotte stava cercando di dirle qualcosa. Scuoteva la testa facendole cenno di no, come per avvisarla di un'imboscata. Guardava alla destra di Amelia, indicando dove Allerton, o chi per lui, era nascosto e forse pronto a sparare. Amelia appoggiò un ginocchio sul pavimento. «Getta le armi e mettiti faccia a terra. Subito!» Silenzio. La ragazzina strabuzzava gli occhi, disperata. «Getta le armi!» Niente. Gli uomini dell'ESU si erano radunati alle spalle di Amelia. Uno di loro aveva in mano una granata flashbang, il cui effetto consisteva nell'abbagliare e assordare gli avversari. Anche in quelle condizioni un uomo armato poteva mettersi a sparare all'impazzata, con il rischio di colpire la ragazzina. Amelia fece cenno di no e puntò la pistola verso l'interno della stanza. Doveva risolvere la situazione immediatamente. Alla ragazzina non restava molto tempo. Ma la figlia di Charlotte Allerton continuava a scuotere la testa. Cercava a ogni costo di controllare le convulsioni e di indicarle dove sparare: guardava alla destra di Amelia, poi in basso. Era in punto di morte, eppure la stava aiutando. Amelia aggiustò il tiro, molto più a destra di quanto avesse supposto. Se avesse sparato dove le suggeriva l'istinto, l'avversario avrebbe scoperto la sua posizione e l'avrebbe colpita, rispondendo al fuoco. La ragazzina assentì. La detective esitava ancora. Davvero la ragazzina le stava segnalando qualcosa? In tal caso, stava dimostrando un'autodisciplina che pochi adulti avrebbero potuto raggiungere. Se Amelia l'avesse fraintesa, il rischio che un'innocente ci andasse di mezzo sarebbe stato troppo elevato. Poi rammentò lo sguardo della ragazzina quando l'aveva vista sulla macchina in Cedar Street. Quella volta le aveva letto negli occhi la speranza. Ora vi leggeva il coraggio. Strinse la pistola con entrambe le mani e sparò sei colpi a cerchio nella direzione indicata dalla ragazzina. Senza aspettare di vederne il risultato, si tuffò verso di lei, subito seguita dagli uomini dell'ESU. «Prendetela!» gridò Amelia, esplorando la zona alla sua destra, l'armadio e il bagno, con la Glock puntata. Un agente dell'ESU coprì la stanza
con l'MP5, mentre i suoi colleghi portavano in salvo la figlia di Charlotte. Le strapparono il nastro adesivo dalla faccia. Amelia la sentì rantolare, in cerca di ossigeno. La detective aprì la porta dell'armadio e si scostò mentre il corpo di Bud Allerton, colpito quattro volte, stramazzava a terra. Lei diede un calcio alla sua pistola e controllò l'armadio e il bagno. Per non correre rischi, guardò dietro la tenda della doccia, sotto il letto e sulla scala antincendio. Nel giro di un minuto l'intera stanza degli Allerton era sotto controllo. Charlotte, rossa in viso, singhiozzava ammanettata sul divano. Sua figlia era in corridoio. Il personale medico, che le somministrava ossigeno, dichiarò che non aveva subito gravi conseguenze. Charlotte non intendeva dire una parola riguardo all'Orologiaio. Una perquisizione preliminare non diede risultati, se non una busta contenente duecentocinquantamila dollari in contanti, che lasciava pensare che Duncan dovesse venire a ritirare l'ultima rata del suo compenso. Amelia chiamò Sellitto via radio, perché allontanasse dalla strada i veicoli di emergenza e nascondesse le squadre tattiche. Rhyme era in arrivo a bordo del suo furgone. Amelia gli consigliò di entrare dalla porta di servizio. Poi uscì in corridoio, per verificare le condizioni della ragazzina. «Come stai?» «Bene, mi pare. Mi fa male la faccia.» «Ti hanno strappato il nastro adesivo un po' in fretta, immagino.» «Eh, sì.» «Grazie per quello che hai fatto. Hai salvato delle vite. Hai salvato la mia vita.» La ragazzina le rivolse uno sguardo strano, poi abbassò gli occhi. La detective le restituì il libro di Harry Potter che aveva trovato sul pavimento della camera da letto e le chiese se sapesse qualcosa dell'uomo che si faceva chiamare Gerald Duncan. «Fa paura. È strano. Ti guarda come se tu fossi un sasso, o una macchina, o un tavolo. Non una persona.» «Hai idea di dove possa essere?» Lei scosse la testa. «So solo che la mamma ha parlato di una casa in affitto da qualche parte a Brooklyn. Non so dove. Lui non lo ha detto. Ma dovrebbe venire qui a prendere i soldi.» Amelia prese da parte Pulaski e gli chiese di controllare le telefonate fatte e ricevute dai cellulari degli Allerton e dal telefono della loro camera.
«E anche il telefono nell'atrio», suggerì la recluta. «Quello pubblico. E le cabine in strada.» Amelia inarcò un sopracciglio. «Buona idea.» Mentre la recluta andava a svolgere il suo compito, la detective si procurò una bibita e la portò alla ragazzina, che aprì la lattina e ne bevve subito metà. Continuava a guardare Amelia in modo strano. Poi scoppiò a ridere. «Cosa c'è?» chiese la detective. «Non si ricorda proprio di me? Ci siamo già viste.» «Martedì vicino al vicolo, certo.» «No, no. Molto tempo fa.» Amelia la fissò. In effetti, il suo viso le era parso familiare, quando l'aveva vista in macchina quel giorno. E ora quella sensazione era ancora più forte. Eppure non riusciva a ricordare quando l'avesse conosciuta. «Mi ha salvato la vita, quando ero piccola.» «Molto tempo fa...» Amelia guardò la ragazzina, poi di nuovo sua madre, più attentamente. «Oh, santo cielo!» 40 Quando ebbe raggiunto Amelia nella squallida camera d'albergo, Lincoln Rhyme rimase stupito della rivelazione. Avevano già conosciuto Charlotte alcuni anni prima, quando era arrivata a New York sotto il nome di Carol Ganz. Lei e sua figlia, il cui nome era Pammy, erano state coinvolte loro malgrado nel primo caso in cui il criminalista e la poliziotta avevano lavorato assieme, quello dell'omicida ossessionato dalle ossa umane. Un assassino abile e spietato quanto l'Orologiaio. Per dargli la caccia, Rhyme aveva reclutato Amelia Sachs perché fosse i suoi occhi e le sue orecchie sulle scene dei delitti. Insieme erano riusciti a portare in salvo madre e figlia, solo per scoprire che Carol Ganz altri non era che Charlotte Willoughby, membro di un'organizzazione di estrema destra che aborriva il governo federale e il suo coinvolgimento negli affari del mondo. Dopo essere stata salvata, la donna era riuscita a mettere una bomba nella sede delle Nazioni Unite, uccidendo sei persone. Rhyme e la Sachs avevano preso in mano il caso, ma Charlotte e la figlia erano scomparse tra le maglie dell'organizzazione, probabilmente in qualche area del Midwest o del West. Con il tempo, la pista si era raffreddata. Di quando in quando il criminalista e la detective controllavano i rapporti di FBI, VICAP e polizie locali riguardanti le organizzazioni estremiste di
destra, ma non erano mai riusciti a ritrovare le tracce di Charlotte. Non per questo Amelia aveva smesso di preoccuparsi per Pammy. A volte, la notte, nel letto di Rhyme, ne parlava con lui, domandandosi come stesse la ragazzina e se non fosse troppo tardi per salvarla. Amelia, che aveva sempre desiderato avere dei figli, pensava con orrore alla vita che Pammy doveva essere obbligata a fare: nascondersi, non avere amici della sua età, non andare mai a scuola regolarmente, tutto in nome di una causa assurda. E ora Charlotte, con il suo nuovo marito, Bud Allerton, era tornata a New York per compiere un nuovo atto di terrorismo, e ancora una volta le vite della madre e della figlia si erano intrecciate con quelle di Rhyme e di Amelia. Charlotte guardò il criminalista con un misto di lacrime e odio. «Avete assassinato Bud! Maledetti! Lo avete ucciso.» Fece una risata gelida. «Ma abbiamo vinto noi! Quanti ne abbiamo ammazzati oggi? Cinquanta? Settantacinque? E quanti del Pentagono?» Amelia si chinò su di lei: «Lo sapevate che c'erano anche dei bambini, in quella sala? Mogli e mariti dei soldati, genitori, nonni? Lo sapevate?» «Certo che lo sapevamo», rispose Charlotte. «E anche loro dovevano essere sacrificati, giusto?» «Per il bene superiore.» Doveva essere lo slogan che i membri dell'organizzazione recitavano ai loro raduni. Rhyme scambiò un'occhiata con Amelia. «Forse dovremmo mostrarle le immagini del massacro», suggerì. La detective accese la televisione. Sullo schermo apparve una speaker. «... rimasto lievemente ferito: un artificiere che controllava un robot telecomandato nel tentativo di disinnescare le bombe, colpito da alcune schegge, è stato dimesso dall'ospedale. Sono stati stimati danni per cinquecentomila dollari. Nonostante le voci iniziali, né al-Qaeda né altri gruppi terroristici islamici sono implicati nell'esplosione. Secondo una portavoce del New York Police Department, l'attentato è opera di un'organizzazione terroristica nazionale. Per coloro che si fossero sintonizzati in questo momento, due bombe sono esplose oggi dopo mezzogiorno nel palazzo del dipartimento di Urbanistica a Lower Manhattan, senza fare vittime. Un artificiere è rimasto lievemente ferito. Tra le persone presenti al momento dell'attentato c'erano un sottosegretario e il capo dello Stato Maggiore dell'esercito...» Amelia tolse l'audio al televisore e guardò Charlotte. «No», gemeva la donna. «Oh, no. Com'è...»
Le rispose Rhyme: «Come puoi immaginare, lo abbiamo capito prima dell'esplosione e abbiamo fatto evacuare la sala». Charlotte era sconvolta. «Impossibile. No... Gli aerei e i treni erano bloccati...» «Oh, quello», fece Rhyme, con noncuranza. «Dovevamo guadagnare tempo. In un primo momento ho creduto anch'io che Duncan volesse rubare il Meccanismo di Delfi, poi ho capito che era una finta. Questo non escludeva che avesse fatto qualcosa all'orologio del NIST. Perciò, mentre cercavamo di capire che cosa avesse in mente, abbiamo chiamato il sindaco e gli abbiamo chiesto di ordinare la sospensione dei voli e del trasporto pubblico nell'area di New York.» Lo sai che cosa succederà se chiediamo una cosa come questa. Charlotte si voltò verso la camera da letto in cui il marito aveva trovato una fine insensata. Poi la fanatica dentro di lei tornò alla carica e, con voce impersonale, recitò: «Non ci potete sconfiggere. Potete vincere una o due battaglie, ma ci riprenderemo il nostro Paese. Noi...» «Lascia perdere la retorica, okay?» L'uomo che aveva parlato era un nero alto e magro che stava entrando in quel momento nella camera: l'agente speciale Fred Dellray. Appena saputo dell'attentato, aveva abbandonato il caso di bancarotta fraudolenta («Tanto era una noia pazzesca») per fare da collegamento tra l'FBI e l'NYPD riguardo al caso. Dellray indossava un completo azzurro polvere e una squillante camicia verde, sotto un cappotto marrone a lisca di pesce che poteva risalire al 1975. I suoi gusti in fatto di abbigliamento erano chiassosi quanto i suoi modi. L'agente squadrò Charlotte Allerton. «Bene, bene, guarda un po' chi abbiamo preso.» La donna lo fissò con aria di sfida. Dellray scoppiò a ridere. «Che peccato! Non solo stai per andare al fresco per... be', per tutta la vita, ma non sei nemmeno riuscita a portare a termine la tua gloriosa missione. Come ci si sente a essere una vera perdente?» Il suo approccio nei confronti dei sospetti era molto diverso da quello di Kathryn Dance. Rhyme aveva idea che l'agente del CBI non lo avrebbe approvato. Charlotte era stata arrestata con l'accusa di reati contro lo Stato, e ora era il turno di Dellray di arrestarla per reati federali: l'attentato di quel giorno, quello alle Nazioni Unite, una sparatoria in un tribunale federale a San Francisco e altri atti di terrorismo. La donna dichiarò di avere compreso i propri diritti e cominciò con un'altra litania di propaganda. Dellray puntò l'indice su di lei. «Dammi un minuto, dolcezza.» Si rivolse
a Rhyme. «Adesso spiegami come ci sei arrivato, Lincoln. Abbiamo sentito una storia su un pazzoide che lasciava in giro orologi e un'altra di ragazzi in blu che prendevano mazzette. Poi a sorpresa chiudono stazioni e aeroporti e c'è una situazione di emergenza a Lower Manhattan. Non mi hai lasciato sonnecchiare in pace.» Il criminalista gli espose il frenetico lavoro di indagini, cinesiche e scientifiche, che aveva permesso di scoprire il vero piano dell'Orologiaio. Kathryn Dance era convinta che l'uomo avesse mentito a proposito delle ragioni che lo avevano portato a New York. Perciò avevano riesaminato tutti gli indizi, alcuni dei quali indicavano la possibilità che intendesse rubare il Meccanismo di Delfi al Metropolitan Museum. Ma più Rhyme ci pensava, meno quell'idea lo convinceva. Era giunto alla conclusione che la storia del pacco mai consegnato fosse un'altra invenzione di Duncan, per concentrare l'attenzione della polizia sul museo. L'Orologiaio era troppo attento per lasciare tracce così evidenti. Aveva fatto arrestare Vincent, sicuro che lo stupratore avrebbe parlato della chiesa, nella quale l'assassino aveva lasciato i dépliant dei musei in cui era stato precedentemente esposto il Meccanismo di Delfi. Ne aveva parlato sia ad Hallerstein sia a Vincent. No: l'Orologiaio aveva in mente qualcos'altro. Ma cosa? Kathryn Dance aveva riguardato la registrazione dell'interrogatorio, parecchie volte. E aveva stabilito che Duncan mentiva quando diceva di avere scelto le vittime solo perché i luoghi delle azioni gli avrebbero consentito una rapida fuga. «Questo significava», spiegò Rhyme, «che le aveva scelte per un'altra ragione. E allora che cosa avevano in comune?» Si era ricordato di un dettaglio emerso durante l'interrogatorio di Ari Cobb: il fuoristrada prima era parcheggiato in fondo al vicolo, poi era tornato indietro. «Perché? Perché Duncan doveva lasciare il corpo in un punto preciso: davanti alla porta di servizio del palazzo del dipartimento di Urbanistica.» Dalla lista dei clienti della società per cui lavorava Sarah Stanton, il criminalista aveva scoperto che lo studio aveva avuto in appalto la posa della moquette nello stesso palazzo. «Ho spedito la nostra recluta a fare un controllo in Cedar Street. In un edificio dall'altra parte della strada il tetto è stato rifatto una settimana fa, prima dell'ondata di gelo. Il catrame corrispondeva alle tracce lasciate dalle scarpe del sospetto. Quell'edificio era il posto ideale per controllare il palazzo in cui si teneva la cerimonia.» Era questo il motivo per cui l'Orologiaio aveva sparso sabbia sulla scena del crimine e poi l'aveva spazzata via: voleva essere certo di non essere identificato quando fosse tornato per innescare le bombe.
Rhyme aveva scoperto che anche le altre vittime avevano a che fare con la cerimonia. Lucy Richter doveva parteciparvi e per questo disponeva dei pass per accedere al palazzo e di un memorandum sulle procedure di sicurezza e di evacuazione. Quanto a Joanne Harper, aveva il compito di preparare le composizioni floreali per la cerimonia, un ottimo modo per far entrare qualcosa di nascosto. «Ho immaginato che si trattasse di una bomba. Abbiamo chiamato il sindaco, che ha ordinato ai reporter di non dare subito la notizia dell'evacuazione della sala, perché i sospetti non avessero il tempo di mettersi in allarme e fuggire. Purtroppo i due ordigni sono esplosi prima che gli artificieri riuscissero a disinnescarli.» Rhyme scosse il capo. «Detesto quando tutti gli indizi vanno perduti in un'esplosione. Hai idea di quanto sia difficile rilevare le impronte digitali da un pezzo di metallo volato in aria a un chilometro al secondo?» «E come sei arrivato a catturare Miss Dolcezza?» chiese Dellray, guardando Charlotte. Rhyme si strinse nelle spalle. «È stato facile. Ha fatto qualche errore. Se la storia di Duncan era falsa, anche la donna che lo aveva aiutato nel vicolo doveva esserlo. La nostra recluta aveva diligentemente annotato le targhe di tutte le auto parcheggiate in Cedar Street durante l'esame della scena. La macchina della sedicente sorella di Adams era stata noleggiata all'Avis, sotto il nome di Charlotte Allerton. Abbiamo setacciato gli alberghi della città fino a trovarla.» «E che mi dici dell'assassino. Il signor Orologista?» «Orologiaio», lo corresse Rhyme. Pam, la figlia di Charlotte, aveva detto che aveva un appartamento a Brooklyn, ma che non sapeva dove si trovasse. «Non abbiamo altre piste.» Dellray si rivolse a Charlotte. «Dove, a Brooklyn? Voglio saperlo subito.» La donna rispose, provocatoria: «Siete patetici! Tutti quanti! Non siete altro che lacchè della burocrazia di Washington. Avete svenduto lo spirito del nostro Paese e...» Dellray si chinò verso Charlotte, la faccia a pochi centimetri dalla sua, e fece schioccare la lingua. «Ah-ah. Niente politica, niente filosofia. Vogliamo solo risposte alle domande. Mi segui fin qui?» «Vaffanculo», fu la replica della donna. Dellray gonfiò le guance come un suonatore di tromba e sbuffò. «Non sono all'altezza del suo intelletto.» Rhyme avrebbe voluto avere a portata di mano Kathryn Dance, anche se
sospettava che ci sarebbe voluto troppo tempo per strappare qualche informazione a Charlotte Allerton. A bassa voce, perché Pam non potesse sentirlo, disse: «Se collabori, faremo in modo che di tanto in tanto ti lascino vedere tua figlia. Altrimenti ti assicuro che non la vedrai mai più in vita tua». Charlotte si girò verso il corridoio. Pam, seduta su una sedia, teneva stretto il suo libro di Harry Potter. Era una ragazzina graziosa, fragile, magrissima, con i capelli scuri, che continuava a tormentarsi le unghie. Aveva bisogno di molto aiuto. La madre si voltò verso il criminalista. «Allora», disse calma, «non la vedrò mai più.» Dellray la fissò. La sua faccia, solitamente imperscrutabile, mostrava un evidente disprezzo. Fu in quel momento che Ron Pulaski si precipitò nella camera, ansimante. «Cosa c'è?» chiese Rhyme. La recluta dovette riprendere fiato prima di parlare. «I telefoni... l'Orologiaio.» «Avanti, Ron,» «Scusate.» Inspirò a fondo. «Non siamo riusciti a rintracciare il suo cellulare, ma un portiere ha visto Charlotte che faceva delle telefonate, ogni notte alle dodici, negli ultimi quattro o cinque giorni. Ho chiamato la compagnia telefonica e mi sono fatto dare il numero. Lo abbiamo rintracciato: è una cabina a Brooklyn, a questo incrocio.» Consegnò un foglietto a Sellitto, che comunicò immediatamente l'indirizzo a Bo Haumann. «Ottimo lavoro», approvò il detective. Poi chiamò anche il viceispettore del Distretto in cui si trovava la cabina telefonica. Gli agenti avrebbero cominciato a setacciare la zona appena avessero ricevuto via e-mail l'identikit da Mel Cooper. Rhyme sospettava che l'Orologiaio non abitasse vicino alla cabina telefonica. Non se ne sarebbe sorpreso. Ma mezz'ora più tardi un agente comunicò che l'identificazione era positiva: alcuni vicini avevano riconosciuto l'individuo dall'identikit. Sellitto avvisò immediatamente Bo Haumann. «Vado sulla scena», annunciò Amelia. «Aspetta», la trattenne Rhyme. «Perché non resti qui e non lasci fare a Bo?» «Cosa?» «Ha le sue squadre tattiche.» Rhyme stava pensando a una superstizione
molto diffusa nell'ambiente della polizia: gli agenti che stanno per lasciare il servizio hanno maggiori probabilità di restare feriti o uccisi in azione. Il criminalista non credeva alle superstizioni, ma non gli importava. Non voleva che Amelia ci andasse. Forse anche lei stava pensando alla stessa cosa. Sembrava dubbiosa. Poi si voltò verso il corridoio e guardò Pam Willoughby. Scambiò un'occhiata di intesa con Rhyme, che le sorrise. Amelia prese la giacca e andò alla porta. Una dozzina di uomini dell'ESU si muovevano silenziosi sui marciapiedi di un tranquillo quartiere di Brooklyn. Altri sei si stavano appostando dietro una vecchia casa isolata. Era un quartiere modesto con casette monofamigliari dai cortili ingombri di decorazioni natalizie: lo spazio esiguo non aveva impedito agli abitanti di affollarlo di Babbi Natale e renne. Amelia Sachs si dirigeva verso il capo della squadra tattica, parlando via radio con Rhyme. «Ci siamo», disse sottovoce. «Racconta.» «Le case adiacenti sono sotto controllo. Tutto tranquillo.» Dall'altro lato della strada c'era un orticello di quartiere, con in mezzo uno spaventapasseri, i cui abiti malconci erano stati decorati da graffiti. «Bel posto per un'operazione tattica. Siamo... Aspetta, Rhyme.» Una luce si era accesa a una delle finestre della facciata. Gli agenti si fermarono e si accovacciarono a terra. «È ancora qui», mormorò Amelia. «Chiudo.» «Vallo a prendere, Sachs.» Nella voce di Rhyme c'era una determinazione insolita. Lo tormentava il fatto che il sospetto fosse riuscito a sfuggirgli. Non gli bastava che avessero salvato i partecipanti alla cerimonia e avessero arrestato Charlotte: il criminalista non avrebbe avuto pace finché tutti i colpevoli non fossero stati in manette. Ma anche lei era molto determinata. Voleva consegnare l'Orologiaio a Rhyme, un regalo per l'ultimo caso in cui avevano lavorato insieme. Cambiò frequenza e disse nel microfono: «Detective Cinque Otto Otto Cinque a ESU Uno». Bo Haumann, un isolato più in là, le rispose: «Ti ricevo. K». «È qui. C'è una luce accesa a una finestra, sul davanti.» «Roger. Squadra B, mi ricevete?» Erano gli agenti appostati dietro la casa. «Leader Squadra B a ESU Uno.
Roger. Siamo... un momento. Okay, è di sopra, adesso. Ho visto accendersi una luce. Sembra una camera da letto sul retro.» «Non date per scontato che sia solo», consigliò Amelia. «Con lui potrebbe esserci qualcun altro dell'organizzazione. O un altro complice.» «Roger, detective», disse Haumann con la sua voce ruvida. «R e S, cosa ci dite?» Le squadre di Ricerca e Sorveglianza stavano prendendo posizione sul tetto di un condominio adiacente e in un giardino antistante la casa sicura dell'Orologiaio, sulla quale puntarono i loro strumenti. «R e S a ESU Uno. Visuale zero. Calore al piano di sopra, niente al piano terra. Un secondo fa abbiamo sentito uno o due scatti metallici. K.» «Armi?» «Forse. O tubi della caldaia. K.» Il caposquadra dell'ESU fece cenno ai suoi uomini. Assieme ad Amelia e ad altri due agenti si appostò davanti alla porta d'ingresso. Dietro di loro si piazzò un'altra squadra di quattro elementi. Uno di loro reggeva l'ariete, gli altri tre coprivano le finestre. «Squadra B a ESU Uno. Siamo in posizione. Scala pronta vicino alla stanza illuminata sul retro. K.» «Squadra A in posizione.» «Nessun preavviso», raccomandò Bo Haumann. «Al mio tre, flashbang nelle stanze illuminate. Tiratele con forza: che sfondino le finestre. All'uno, irruzione dinamica simultanea dalle porte davanti e dietro. Squadra B, dividetevi e coprite piano terra e cantina. Squadra A, salite le scale. Ricordate: il soggetto è un esperto di OEI. Occhio alle bombe.» «Squadra B, ricevuto.» «Squadra A, ricevuto.» Nonostante l'aria gelida, Amelia sentiva le mani sudate nei guanti Nomex. Si sfilò quello destro e soffiò sul palmo. Poi ripete l'operazione con il sinistro, si frugò sotto il giubbotto antiproiettile e preparò il caricatore di riserva. Gli agenti dell'ESU usavano le mitragliette, ma lei preferiva pochi colpi ben piazzati a una scarica di piombo. La voce secca di Haumann scandì: «Sei... cinque... quattro... tre...» Il suono di vetri infranti precedette le detonazioni delle flashbang. Lampi bianchi illuminarono la casa. Il robusto agente con l'ariete abbatté la porta e in pochi secondi furono all'interno dell'alloggio, arredato in modo spartano. Con la torcia elettrica in una mano e la pistola nell'altra, Amelia salì le
scale assieme alla sua squadra. Entrambe le stanze al piano di sopra erano vuote. Via radio arrivavano le voci degli agenti che stavano ispezionando pianterreno e cantina. Non c'era nessuno. «Dove diavolo è?» mormorò Amelia. «Sempre un'avventura», mormorò un poliziotto. «Stronzo invisibile», disse un altro. Poi all'auricolare Amelia sentì: «R e S Uno. Spenta luce nell'attico. È lassù». Nel soffitto della stanza più piccola al piano di sopra videro una botola da cui pendeva una corda: doveva esserci una scaletta retrattile. Un agente spense la luce, per evitare che gli elementi della squadra diventassero facili bersagli. Puntarono le armi sulla botola, mentre Amelia tirava con forza la corda. La scaletta si aprì, cigolando, e scese fino a terra. Il caposquadra gridò: «Tu, nell'attico. Vieni giù immediatamente. Mi senti? È la tua ultima possibilità». Niente. «Flashbang», ordinò il caposquadra. Un agente prese una granata che portava appesa alla cintura e fece un cenno di assenso. Il caposquadra appoggiò una mano sulla scaletta, ma Amelia lo fermò. «Vado io.» Sicura? Lei annuì. «Prestatemi un casco.» Se ne fece dare uno e lo indossò. «Ci siamo, detective.» «Andiamo.» Amelia salì i gradini, prese la flashbang e tolse la sicura. Chiuse gli occhi, per non essere abbagliata dal lampo e per abituarsi all'oscurità dell'attico. Quindi lanciò la granata e abbassò la testa. Tre secondi dopo, sentì la detonazione. Riaprì gli occhi e salì gli ultimi gradini. Nell'attico aleggiavano una nube di fumo e l'odore dell'esplosivo. Si allontanò dalla botola, accendendo la torcia ed esplorando lo spazio con un movimento circolare. Si avvicinò all'unico pilastro dell'attico. Niente a destra, niente al centro, niente... D'un tratto si sentì precipitare. Il pavimento non era di legno, come aveva creduto, ma cartone sopra uno strato di isolante. La sua gamba destra sfondò lo stucco del soffitto della camera da letto, intrappolandola. Le sfuggì un gemito di dolore. «Detective!» gridò qualcuno.
Amelia orientò la torcia e la pistola nell'unica direzione possibile: davanti a sé. Il killer non c'era. Dunque, poteva essere solo dietro di lei. Fu in quel momento che la luce nell'attico si accese, proprio sopra di lei, trasformandola in un bersaglio facilissimo. Amelia cercò di girarsi, aspettandosi da un istante all'altro di sentire la detonazione di una pistola e l'impatto di un proiettile nel collo o nella schiena. Pensò a suo padre. Pensò a Lincoln Rhyme. Tu e io, Sachs... E decise che non si sarebbe lasciata ammazzare senza portare con sé il proprio avversario. Tenne la pistola tra i denti e usò entrambe le mani per girarsi e cercare un bersaglio. Sentì gli stivali sui gradini: gli altri membri della squadra stavano accorrendo in suo aiuto. Ma certo: era per questo che l'Orologiaio non aveva ancora aperto il fuoco: contava di uccidere anche gli altri. La stava usando come esca per attirare in trappola gli altri poliziotti, nella speranza di approfittare del caos per fuggire. «Attenti!» gridò Amelia. «Lui è...» «Dov'è?» chiese il capo della Squadra A, accovacciato in cima alle scale. Non l'aveva sentita, o non l'aveva ascoltata. Altri due agenti lo raggiunsero, con le torce puntate nell'area invisibile dietro di lei. Il cuore le batteva furiosamente, mentre cercava di guardarsi alle spalle. «Non lo vedete? Deve essere qui.» «Nessuno.» Con l'aiuto di un poliziotto, il caposquadra afferrò Amelia per il giubbotto antiproiettile e la liberò dal buco nel pavimento. Lei si girò immediatamente, assumendo la posizione di tiro. Nell'attico non c'era nessun altro. «Come ha fatto a uscire?» si chiese il caposquadra. «Non ci sono né porte né finestre.» Amelia scoppiò in una risata amara. «Non è salito qui nell'attico. Non è da nessuna parte. Probabilmente se n'è andato ore fa.» «Ma le luci? Qualcuno deve averle pure accese e spente.» «No. Guardate lì.» La detective indicò un apparecchio grigio collegato alla scatola dei fusibili. «Voleva farci credere di essere ancora qui, in modo da coprirsi la fuga.»
«Che cos'è?» «Un timer. Che altro?» 41 Amelia Sachs concluse l'esame della casa di Brooklyn e mandò a Rhyme i pochi indizi che era riuscita a trovare. Si sfilò la tuta di Tyvek, indossò la giacca e corse nel freddo pungente fino all'auto di Sellitto. Sul sedile posteriore c'era Pam Willoughby, che in una mano stringeva il suo libro di Harry Potter e nell'altra la tazza di cioccolata calda che il corpulento detective le aveva procurato. Sellitto era ancora nella casa, a finire di compilare scartoffie. Amelia salì in macchina e si sedette accanto alla ragazzina. Su consiglio di Kathryn Dance, l'avevano portata fino a lì nell'eventualità che, vedendo la casa e gli oggetti, personali dell'Orologiaio, le tornasse qualcosa alla memoria. Ma il ricercato non si era lasciato dietro molti oggetti e nulla di quello che Pam aveva visto le aveva ricordato qualcosa. La detective sorrise e guardò la ragazzina. Si rammentò della sua strana espressione speranzosa, quel giorno sulla macchina a noleggio parcheggiata in Cedar Street. «Ho pensato parecchio a te, in questi anni», disse Amelia. «Anch'io a lei», rispose Pam, fissando la tazza. «Dove siete andate, dopo New York?» «Siamo tornate nel Missouri e ci siamo nascoste nei boschi. La mamma mi lasciava spesso con altra gente. Quasi tutto il tempo me ne stavo da sola a leggere. Non andavo molto d'accordo con quelle persone. Erano così pallose. Specie se non la pensavi come loro, cioè in modo incasinato. Non mandavano neanche i figli a scuola, li istruivano a casa. Io ci volevo andare e ho continuato a protestare, finché mia madre non ha detto di sì. Ma mi ha ricordato che se dicevo a qualcuno chi era e che cosa aveva fatto sarei finita anch'io in prigione come assistente... cioè, come complice. E in prigione gli uomini mi avrebbero fatto delle cose. Sa che cosa voglio dire.» «Oh, tesoro.» Amelia le prese una mano. Voleva dei figli e sapeva che, in un modo o nell'altro, prima o poi ne avrebbe avuti. La turbava l'idea che una madre avesse potuto trattare la figlia in quel modo. «Qualche volta, nei momenti più brutti, pensavo a lei e facevo finta che fosse mia madre. Non sapevo il suo nome. Forse l'avevo sentito quella volta, ma non me lo ricordavo. Allora gliene ho dato un altro: Artemis. L'ho
trovato in un libro di mitologia. Era la dea della caccia. Perché ha ucciso quel cane, quello che mi stava assalendo.» Abbassò gli occhi. «È un nome stupido.» «No, no, è un nome bellissimo. Mi piace molto... Tu mi hai riconosciuta in quel vicolo, martedì, vero? Quando eri in macchina.» «Sì. Ho pensato che forse non era un caso se c'era proprio lei. Forse mi sarebbe venuta a salvare di nuovo. Non pensa che certe cose possano succedere?» No, Amelia non lo pensava. Però disse: «A volte capitano cose strane, nella vita». Un'auto si fermò vicino a loro. Ne scese un'assistente sociale che Amelia conosceva, una graziosa afroamericana che si stava occupando di dove Pam sarebbe andata a vivere. «Che freddo!» fece la donna, raggiungendole sull'auto di Sellitto. Si stava strofinando le mani davanti alla bocchetta del riscaldamento. «E pensare che non è ancora ufficialmente inverno.» Poi l'assistente sociale le aggiornò sulla situazione: «Abbiamo trovato un paio di simpatiche famiglie adottive. Ce n'è una a Riverdale che conosco da anni. Potrai stare da loro nei prossimi giorni, mentre noi cerchiamo i tuoi parenti». Pammy non ne sembrava molto felice. «Posso avere un nuovo nome?» «Un nuovo...» «Non voglio più essere me. E non voglio più sentire mia madre. E non voglio che quelli con cui stava mi trovino.» Amelia anticipò la risposta dell'assistente sociale. «Faremo in modo che non ti accada nulla. Te lo prometto.» Pammy l'abbracciò. «Ti potrò rivedere?» chiese la detective. Cercando di contenere l'emozione, la ragazzina rispose: «Credo di sì. Se vuole». «Che ne dici di fare un po' di shopping, domani?» «Okay, certo.» «Bene. Allora siamo d'accordo.» Ad Amelia venne un'idea. «Ehi, ti piacciono i cani?» «Sì. Una famiglia con cui stavo nel Missouri ne aveva uno. Era meglio lui di loro.» Amelia telefonò a Thom, a casa di Rhyme. «Una domanda.» «Dimmi.» «Qualcuno lo vuole, Jackson?»
«No. È ancora in attesa di adozione.» «Toglilo dal mercato.» Amelia chiuse il cellulare e guardò Pam. «Ho un regalo di Natale anticipato per te.» A volte persino gli orologi progettati meglio, alla fine, non funzionano. Sono apparecchi molto fragili, a pensarci bene. Cinquecento, mille minuscole parti mobili, piccole viti, molle e rubini, pressoché microscopici, assemblati con precisione, dozzine di movimenti separati che lavorano all'unisono... Possono sorgere problemi a centinaia. Talvolta è lo stesso orologiaio a sbagliare i suoi calcoli, talvolta un piccolo pezzo di metallo risulta difettoso, talvolta il proprietario carica troppo l'orologio. O lo fa cadere. O l'umidità filtra nel quadrante. Altre volte ancora, un meccanismo funziona perfettamente in un ambiente ma non in un altro. Anche il celebre Rolex Oyster Perpetual, il rivoluzionario orologio subacqueo di lusso, resiste a una pressione limitata sott'acqua. In quel momento Charles Vespasian Hale si domandava che cosa fosse andato storto nel suo piano. Era vicino a Central Park, seduto sulla macchina che aveva guidato fino a New York da San Diego (nessun rischio di lasciare tracce, se si pagava in contanti la benzina e si evitavano le strade a pagamento). Doveva essere stata colpa della polizia, più esattamente di Lincoln Rhyme. Hale aveva fatto di tutto per prevenire le sue mosse. Ma l'ex poliziotto era riuscito a batterlo sul tempo, anche se con un margine ristretto. Rhyme aveva fatto proprio ciò che temeva il killer: aveva osservato qualche ingranaggio e qualche levetta ed era riuscito a estrapolare la natura del cronografo dell'Orologiaio. Hale avrebbe avuto molto tempo per meditare sui propri errori, in modo da evitare di ripeterli in futuro. Aveva un lungo viaggio davanti a sé: stava per ripartire alla volta della California, immediatamente. Guardò il proprio riflesso nello specchietto retrovisore. Si era tinto i capelli del suo colore naturale e si era tolto le lenti a contatto azzurro chiaro. Ma il collagene che gli procurava le guance gonfie e il doppio mento gli aderiva ancora alla pelle. Ci sarebbero voluti mesi per riguadagnare i venti chili che aveva perso trasformandosi nell'Orologiaio e ridiventare se stesso. Dopo quei giorni trascorsi in città, Hale si vedeva pallido e affaticato e sentiva il bisogno di tornare all'aperto, sulle montagne. Sì, aveva fallito. Ma, come aveva detto a Vincent Reynolds, questo non
significava molto nel grande schema delle cose. L'arresto di Charlotte Allerton non lo toccava. La terrorista e il marito ignoravano il suo vero nome: avevano sempre creduto che si chiamasse davvero Duncan. I loro contatti iniziali erano avvenuti attraverso individui molto discreti. E poi c'era un aspetto positivo, in questo fallimento: Hale aveva imparato qualcosa che aveva cambiato la sua vita. Aveva creato il personaggio dell'Orologiaio soltanto perché gli sembrava adeguatamente inquietante, un criminale che sembrava fatto apposta per la TV, perfetto per attirare l'attenzione della polizia. Ma, quanto più entrava nella parte, tanto più Hale scopriva con sorpresa che si trattava di un'incarnazione della sua personalità. Era rimasto sempre più affascinato dagli orologi e dal tempo e aveva sviluppato un sorprendente interesse nei confronti del Meccanismo di Delfi, tanto che non escludeva la possibilità di rubarlo sul serio, in un futuro non troppo lontano. L'Orologiaio... Charles Hale vedeva se stesso come un cronografo vivente. Si può usare un orologio per misurare un evento gioioso, come le contrazioni alla nascita di un bambino. O un evento terribile, come coordinare un raid per massacrare donne e bambini. Il tempo trascende la moralità. Hale guardò l'oggetto che riposava sul sedile del passeggero, l'orologio d'oro di Breguet. Lo prese tra le mani guantate, lo caricò lentamente, come sempre meglio poco che troppo, e con cura lo fece scivolare tra le bolle dell'imbottitura di cellophane di una grande busta bianca. La chiuse con il lembo adesivo e avviò il motore. Non c'era una pista degna di questo nome. Rhyme, Sellitto, Cooper e Pulaski erano seduti nel laboratorio della casa di Central Park West, a esaminare i pochi indizi rinvenuti nel rifugio dell'Orologiaio a Brooklyn. Amelia non c'era e non aveva detto dove stava andando. Ma non ce n'era bisogno. Aveva fatto sapere a Thom che, in caso di necessità, sarebbe stata nelle vicinanze: aveva un appuntamento all'angolo tra la 57th Street e la Sixth Avenue. Rhyme aveva sbirciato la guida telefonica: quello era l'indirizzo della Argyle Security. Il criminalista cercava di non pensarci e si concentrava sulla caccia all'Orologiaio. Aveva ricostruito approssimativamente la cronologia degli eventi. L'an-
nuncio della cerimonia era stato dato il quindici ottobre, dunque Charlotte e Bud dovevano avere contattato l'Orologiaio nei giorni successivi. La casa di Brooklyn era stata affittata a partire dal primo novembre, pertanto era in quella data che Duncan era giunto a New York. Qualche settimana più tardi, Amelia aveva cominciato a occuparsi del caso Creeley e poco dopo Baker e Wallace avevano deciso di ucciderla. «Poi si sono messi in contatto con l'Orologiaio. Che cosa ci ha detto, quando ci si è presentato come Duncan, a proposito del loro incontro?» «Solo che qualcuno al locale li aveva fatti conoscere», rispose Sellitto. «Il locale dove Baker avrebbe messo la droga addosso al suo amico.» «Ma stava mentendo. Quel locale non esiste...» Rhyme scosse la testa. «Li ha messi in contatto qualcuno che conosce l'Orologiaio. Probabilmente uno di New York. Se lo trovassimo, potremmo avere una pista. Baker dice qualcosa?» «No, non apre bocca. Né lui né gli altri.» «Sarà dura», osservò Pulaski, sconsolato. «Voglio dire: quante gang del CO ci sono a New York City? Ci vorrà un'eternità per trovare quella giusta. Non possiamo certo aspettarci che un criminale venga volontariamente a raccontarcelo.» Rhyme si accigliò. «Cosa stai dicendo? Cosa c'entra il CO in questa storia?» «Be', pensavo che a metterli insieme potesse essere stato qualcuno legato al CO.» «Perché?» «Baker vuole fare ammazzare una poliziotta, giusto? Non può farlo di persona, perciò deve assumere qualcuno che la uccida al posto suo. Allora si rivolge a qualche amico della malavita. Solo che nessuno nel giro ha intenzione di fare fuori uno sbirro, quindi Baker viene messo in contatto con qualcuno che non si fa certi problemi: l'Orologiaio.» Nessuno fece commenti. La recluta arrossì e abbassò lo sguardo. «Non so, era un'idea.» «Un'ottima idea, cazzo», approvò Sellitto. «Davvero?» Rhyme assentì. «Non pessima. Chiamiamo la centrale e vediamo se qualche informatore può dirci qualcosa. Chiamiamo anche Dellray. E ora, torniamo agli indizi.» Nella casa di Brooklyn era stata trovata qualche impronta di frizione, ma nessuna che avesse corrispondenza né con l'archivio federale dello IAFIS
né con altre scene esaminate in precedenza. La casa era stata affittata sotto un altro nome, presumibilmente falso, con un indirizzo precedente altrettanto immaginario e un pagamento in contanti. Una ricerca sull'attività Internet nella zona aveva permesso di appurare che il ricercato si era connesso varie volte alle reti wireless, ma non per scaricare posta elettronica, solo per navigare. Il sito visitato con maggiore frequenza era una libreria virtuale specializzata in testi medici. «Merda», fece Sellitto. «Forse l'ha già contattato qualcun altro.» Ci puoi scommettere, pensò Rhyme. «Ha in programma qualche altra vittima. Probabilmente sta già elaborando un piano. Pensa a quanti danni potrebbe fare se fingesse di essere un medico.» E io l'ho lasciato andare. Un esame delle tracce raccolte da Amelia rivelò solo qualche altra fibra di shearling e materiale vegetale verde contenente acqua di mare evaporata, che tuttavia non coincideva con i campioni di alghe e acqua prelevati vicino alla barca di Robert Wallace a Long Island. Il viceispettore del Distretto di Brooklyn comunicò che i controlli intorno alla casa non avevano dato frutti. Cinque o sei testimoni ricordavano di avere visto l'Orologiaio, però nessuno sapeva nulla di lui. Gli investigatori si stavano occupando anche di Charlotte e del suo defunto marito, Bud Allerton. La coppia non era stata prudente quanto l'Orologiaio, e Amelia aveva trovato molti indizi sui gruppi estremisti cui erano collegati, da una grande milizia nel Missouri alla famigerata Patriot Assembly che aveva base a nord di New York e con cui il criminalista e la detective avevano avuto a che fare in passato. Telefonate, impronte digitali ed e-mail avrebbero fornito molte piste da seguire all'FBI e alle polizie locali. Suonò il campanello e Thom andò ad aprire. Riapparve poco dopo, accompagnando una soldatessa in uniforme. Doveva essere Lucy Richter, la quarta «vittima» dell'Orologiaio. Rhyme notò che la donna era più sorpresa di trovare nella casa le attrezzature del laboratorio che un investigatore sulla sedia a rotelle. Ma, dopotutto, Lucy era abituata a combattimenti in cui le armi principali erano le bombe: di sicuro aveva visto ogni sorta di arti mozzati, paraplegici e tetraplegici. Le condizioni del criminalista non la stupivano. La soldatessa disse di avere sentito da poco Kathryn Dance e di averle detto che voleva ringraziare gli investigatori. L'agente del CBI le aveva
suggerito di andare a far visita a Rhyme. Thom chiese a Lucy se volesse un tè o un caffè. Solitamente Rhyme non gradiva i visitatori ed era riluttante a dar loro incentivi a trattenersi. Ma in questo caso era pronto a fare un'eccezione. «Forse ha fame, Thom», suggerì all'assistente. «Oppure vuole qualcosa di più forte, per esempio uno scotch.» «Sei imprevedìbile», disse Thom. «Non sapevo che Lincoln Rhyme fosse così ospitale con le forze armate.» «Grazie», declinò Lucy, «purtroppo non posso trattenermi a lungo. Volevo solo ringraziarvi per avermi salvato la vita... due volte.» «In realtà», precisò Sellitto, «la prima volta non era realmente in pericolo. Il killer non aveva intenzione di fare del male a lei o alle altre vittime. La seconda volta... be', sì, dato che voleva far saltare in aria tutta la sala.» «C'era anche la mia famiglia», disse la soldatessa. «Non so come ringraziarvi.» Rhyme, al solito, si sentiva a disagio quando gli veniva espressa gratitudine. Ritenne che un semplice cenno di assenso fosse una risposta appropriata. «Sono qui anche per un'altra ragione. Ho scoperto una cosa che potrebbe esservi utile. Ho parlato con i miei vicini. Un signore che abita tre edifici più in là mi ha detto che ieri, nel vicolo dietro casa sua, ha notato una corda che pendeva dal tetto. Da lì si può arrivare facilmente sul mio tetto. Forse è scappato da quella parte.» «Interessante», disse Rhyme. «E un'altra cosa. Mio marito ci ha dato un'occhiata. Bob era nei Navy Seals.» «In marina? E lei è nell'esercito?» Lucy sorrise. «Ogni tanto facciamo... interessanti discussioni, specie durante la stagione del football. Ecco, Bob ha dato un'occhiata alla corda e ha detto che chi ha fatto il nodo è un esperto. È un nodo che si usa in montagna, per calarsi nei crepacci. Lo chiamano 'nodo del morto'. Non si usa molto da noi, ma è diffuso in Europa. Quell'uomo deve essersi fatto una certa esperienza come rocciatore, laggiù.» «Oh, una preziosa informazione.» Rhyme occhieggiò Pulaski. «È un peccato che sia stata la vittima a trovare l'indizio, non ti pare? Avremmo dovuto farlo noi.» Si rivolse nuovamente a Lucy. «La corda è ancora là?» «Sì.» «Bene. Resta ancora in città? Se lo prendiamo, potremmo avere bisogno
della sua testimonianza in tribunale.» «Sono in partenza. Ma penso che non avrò problemi a tornare per il processo.» «Starà via molto?» «Ho rinnovato la ferma per due anni.» «Davvero?» «Ero in dubbio. La vita non è facile, da quelle parti. Però ho deciso di tornare.» «Per via della bomba alla cerimonia?» «No, l'avevo deciso già prima. Stavo guardando le famiglie e gli altri soldati nella sala e pensavo che a volte finiamo in posti in cui non ci si sarebbe mai aspettati di trovarci. Ma ci siamo, facciamo qualcosa di buono e di importante e sentiamo che è la cosa giusta. Perciò...» Lucy indossò la giacca. «Se avrete bisogno di me, prenderò una licenza.» Si salutarono e Thom la accompagnò alla porta. Quando l'assistente tornò in laboratorio, Rhyme gli disse: «Aggiungi questo elemento al suo profilo: scalatore o rocciatore, probabilmente addestrato in Europa». Poi, a Pulaski: «E tu manda qualcuno della CSU a recuperare quella corda di cui non ti sei neanche accorto». «Non sono stato io a fare...» «E trovami un esperto di roccia. Voglio sapere dove potrebbe avere imparato ad arrampicarsi. Poi controlla la corda: dove l'ha comprata? Quando?» «Sissignore.» Un quarto d'ora più tardi il campanello suonò di nuovo. Thom tornò in compagnia di Kathryn Dance, con gli auricolari dell'iPod che le pendevano sulle spalle e una grossa busta bianca imbottita in mano. L'agente del CBI salutò tutti i presenti. «Salve», disse Pulaski. Rhyme la accolse sollevando le sopracciglia. «Sto andando all'aeroporto e sono passata a dirvi ciao. Oh, c'era questo davanti alla porta.» Kathryn consegnò la busta all'assistente del criminalista. «Non c'è il mittente», rilevò Thom, perplesso. «Stiamoci attenti», consigliò Rhyme. «Il cestino.» Sellitto prese la busta, la infilò in un cestino fatto di strisce di metallo intrecciate e chiuse il coperchio. Qualsiasi pacchetto non identificato finiva nel cestino delle bombe, progettato per contenere l'esplosione di un ordi-
gno improvvisato di dimensioni medio-piccole e munito di sensori in grado di rilevare tracce di nitrati e altri esplosivi comuni. Il computer annusò i vapori emanati dalla busta e concluse che non si trattava di una bomba. Cooper indossò un paio di guanti di lattice e recuperò il contenuto del cestino. Sulla busta c'era un'etichetta scritta al computer su cui si leggeva soltanto: LINCOLN RHYME «Autoadesivo», commentò il tecnico, deluso. I criminalisti prediligevano le vecchie buste di cui bisognava leccare i lembi, lasciando tracce rilevabili di DNA. La marca, osservò Cooper, era ben nota: era venduta in tutte le cartolerie e rintracciarne la provenienza era impossibile. Rhyme avvicinò la sedia a rotelle e, assieme a Kathryn, osservò il tecnico che apriva la busta e ne tirava fuori un orologio da taschino e un biglietto, anch'esso scritto al computer. «Viene da lui», disse Cooper. La busta non doveva essere stata lasciata da più di un quarto d'ora, tra l'uscita di Lucy Richter e l'arrivo di Kathryn. Sellitto chiamò la centrale per chiedere alle pattuglie del 20° Distretto di controllare la zona, mentre Cooper trasmetteva via e-mail l'identikit dell'Orologiaio. L'orologio segnava l'ora esatta e stava ticchettando. Era d'oro e aveva diversi quadranti. «Pesa», notò Cooper. Lo esaminò da vicino con gli occhiali da ingrandimento. «Sembra antico. Ci sono segni di usura... Nessuna incisione personalizzata.» Prese una spazzola in pelo di cammello e la passò sull'orologio sopra un foglio di giornale. Ripeté l'operazione con la busta. Non ne ricavò alcuna traccia. «Questo è il biglietto, Lincoln», disse il tecnico, collocando il foglio sul proiettore. Egregio signor Rhyme, quando riceverà questa busta io sarò lontano. Ho appreso, ovviamente, che nessuno dei presenti alla cerimonia è rimasto ferito e sono giunto alla conclusione che lei abbia anticipato i miei piani. Io, a mia volta, ho anticipato i suoi e ho ritardato la mia visita all'albergo di Charlotte. Cosa che mi ha dato il tempo di avvistare gli agenti. Presumo che lei abbia salvato sua figlia. Me ne com-
piaccio: merita qualcosa di meglio di quei due. Congratulazioni, dunque: pensavo che il piano fosse perfetto. Ma, apparentemente, ero in errore. L'orologio da taschino è un Breguet. È il mio preferito tra i numerosi cronografi che mi sono passati tra le mani. È stato fabbricato al principio dell'Ottocento e contiene una ruota di scappamento a cilindro, un calendario perpetuo e un sistema antiurto paracadute. Spero che, alla luce delle nostre recenti avventure, apprezzerà il quadrante con le fasi lunari. Esistono ben pochi esemplari al mondo di questo orologio. Glielo regalo in segno di rispetto. Nessuno mi ha mai impedito di portare a termine un lavoro, prima d'ora. Lei è stato bravo; potrei quasi dire quanto me, ma dopotutto non mi ha catturato. Carichi il Breguet con regolarità e delicatezza: conterà i secondi fino al nostro prossimo incontro. Un consiglio: se fossi in lei, darei valore a ognuno di quei secondi. L'Orologiaio Sellitto fece una smorfia. «Cos'hai?» gli chiese Rhyme. «Ricevi minacce più di classe di quelle che arrivano a me. Di solito i miei assassini dicono soltanto: 'Ti ammazzerò'. E quelli cosa sono? Un punto e virgola? Ti minaccia e usa il punto e virgola? È fuori di testa.» Rhyme non ci trovava niente da ridere. La fuga del ricercato gli bruciava ancora, specie considerando che l'Orologiaio non aveva la minima intenzione di ritirarsi. «Quando ti stanchi di fare battute stupide, Lon, puoi anche notare che usa in modo perfetto grammatica e sintassi. Questo ci dice qualcos'altro di lui. Una buona istruzione. Scuola privata? Educazione classica? Borsa di studio? Laurea? Metti tutto sul tabellone, Thom.» Sellitto insistette: «Punto e virgola del cazzo». «Ho qualcosa», disse Cooper, alzando lo sguardo dal computer. «Il vegetale trovato nella casa di Brooklyn. Sono sicuro che sia Caulerpa taxifolia, un'alga velenosa.» «Che sia cosa?» «Un'alga che si diffonde in modo incontrollato e causa un'infinità di problemi. Si cerca di tenerla lontana dalle nostre coste.» «E presumibilmente, se si diffonde, sarà ovunque», commentò acido il criminalista. «Un indizio inutile.»
«In realtà no», lo smentì Cooper. «Finora è stata trovata solo sulle coste nordamericane del Pacifico.» «Dal Messico al Canada?» «Più o meno.» «Praticamente un indirizzo», commentò Rhyme, sarcastico. «Mandiamo una squadra SWAT.» Kathryn Dance intervenne: «La West Coast?» Rifletté per un istante. «Dov'è il suo interrogatorio?» Mel Cooper trovò il file. Per l'ennesima volta, dallo schermo, l'Orologiaio guardò verso la macchina da presa e si fece beffe di tutti loro. Kathryn lo osservò attentamente. Al criminalista ricordava se stesso quando esaminava gli indizi. Rhyme aveva visto e rivisto quella registrazione così tante volte che ormai non faceva più caso alle parole. Non riusciva più a ricavarne niente di utile. Kathryn si mise a ridere. «Pensavo una cosa.» «Cioè?» «Be', non posso darvi un indirizzo, ma uno Stato sì. Direi che viene dalla California. O che ci abbia vissuto per qualche tempo.» «Che cosa te lo fa pensare?» L'agente del CBI fece ripassare un brano della registrazione: il momento in cui Duncan parlava del recupero del fuoristrada a Long Island. Kathryn mise in pausa il video. «Ho studiato le espressioni regionali. La gente in California, quando parla delle autostrade, mette l'articolo 'la': 'la 405 a Los Angeles', per esempio. Nell'interrogatorio ha menzionato 'la 495' qui a New York. E ha parlato di 'Freeway', come si usa dire in California, mentre qui sulla East Coast dicono 'Expressway' o 'Interstate'.» Può servire a qualcosa, considerò Rhyme. Un altro mattone nel muro degli indizi. «Sul tabellone», ordinò. «Quando torno a casa, faccio aprire un'inchiesta presso il mio ufficio», decise Kathryn. «Trasmetterò le informazioni in tutto lo Stato. Vedremo cosa succederà. Okay, è meglio che vada... Spero di vedervi presto in California.» Thom guardò il criminalista. «Avrebbe bisogno di viaggiare di più. Finge che non gli piaccia, ma quando va da qualche parte è contento. Finché trova un po' di scotch e qualche delitto interessante.» «Nella California settentrionale», disse Kathryn, «c'è soprattutto vino. Ma non preoccuparti: i delitti non mancano.»
«Vedremo», rispose Rhyme, senza impegnarsi. «Una cosa: me lo faresti un favore?» «Certo.» «Spegni il cellulare, prima che mi venga la tentazione di chiamarti se viene fuori qualcosa di nuovo.» «Se non dovessi tornare dai miei figli, ci potrei anche stare.» Sellitto la ringraziò ancora e Thom l'accompagnò alla porta. «Ron», disse Rhyme, «renditi utile.» La recluta guardò il tavolo su cui erano disposti gli indizi. «Ho già chiamato per la corda, se è questo che intende.» «No, non è questo che intendo», borbottò il criminalista. «Ho detto utile.» E guardò verso la bottiglia di scotch sullo scaffale dall'altro lato della stanza. «Oh, certo.» «Fanne due. E sii generoso.» Pulaski riempì due bicchieri e ne offrì uno a Cooper, che rifiutò cortesemente. «Non trattenerti», disse Rhyme. «Ma sono in servizio», fece la recluta. Sellitto soffocò una risata, «Be', solo un po'.» E assaggiò il liquore forte e oltremodo costoso. «Mi piace», disse, anche se l'espressione degli occhi diceva il contrario. «Non è che ci si può mettere un po' di Sprite o di ginger ale?» 42 Prima e Dopo. La gente va avanti. Per una ragione o per l'altra, va avanti, e il Prima diventa Dopo. Lincoln Rhyme sentiva quelle parole riecheggiargli nella mente, senza interruzione, come un disco rotto. La gente va avanti. Aveva usato anche lui la stessa frase, quando poco dopo l'incidente aveva detto a sua moglie che voleva il divorzio. Il loro rapporto era in crisi da tempo e lui aveva deciso che, indipendentemente dal fatto che fosse sopravvissuto o meno, non voleva tenerla incatenata alla vita con un disabile. Ma a quell'epoca «andare avanti» significava qualcosa di completamente diverso da ciò che Rhyme stava affrontando ora. La vita che si era costrui-
to negli ultimi anni, una vita precaria, stava per cambiare in modo radicale. Il problema era che Amelia, passando all'Argyle Security, non andava affatto avanti. Andava indietro. Sellitto e Cooper avevano lasciato il laboratorio. Rhyme e Pulaski erano rimasti soli davanti al tavolo, a riordinare gli indizi relativi al caso del 118° Distretto. Di fronte a prove schiaccianti, e coinvolti loro malgrado in un caso di terrorismo, Baker, Wallace e Henson avevano accettato di collaborare e stavano rivelando i nomi di tutti i poliziotti corrotti. Anche se, comprensibilmente, nessuno indicava chi avesse messo in contatto Baker con l'Orologiaio. Nessuno fa il nome di qualche boss del crimine organizzato per poi rischiare di ritrovarselo nello stesso carcere. In vista della partenza di Amelia, Rhyme aveva concluso che Ron Pulaski avrebbe potuto esserne un degno sostituto. Era ingegnoso e intelligente e aveva lo stesso accanimento di Sellitto. Rhyme avrebbe potuto limarne le asperità nel giro di otto o dodici mesi. Insieme avrebbero potuto esaminare le scene, analizzare gli indizi e trovare i colpevoli, che sarebbero andati in prigione o sarebbero morti nel tentativo di sfuggirgli. Il sistema avrebbe continuato a funzionare. Era qualcosa di superiore agli individui, uomini o donne che fossero. Doveva essere così. Sì, il sistema avrebbe continuato a funzionare... ma era difficile immaginarlo senza Amelia Sachs. Be', vaffanculo ai sentimenti, si disse Rhyme. Torna al lavoro. Guardò il tabellone. L'Orologiaio è lì, da qualche parte. E io lo troverò. «Non... riuscirà... a cavarsela.» «Cosa?» chiese Pulaski. «Non ho detto niente», ribatté secco il criminalista. «Sì. Ha appena...» La recluta si zittì di fronte all'occhiata di Rhyme. Tornò al suo compito e domandò: «Gli appunti che ho trovato nell'ufficio di Baker sono su carta comune. Devo usare la ninidrina per rilevare le latenti?» Il criminalista stava per rispondere. «No», disse una voce femminile. «Prima i vapori di iodio. Poi la ninidrina. E poi il nitrato d'argento. In quest'ordine.» Amelia era sulla soglia. Rhyme le rivolse uno sguardo affettuoso. Bravo, fai buon viso, si autoelogiò. Dimostrati generoso. Dimostrati maturo. «Altrimenti», continuò lei, «i prodotti chimici reagiscono tra loro e rischi di rovinare le impronte.»
Il silenzio tra Rhyme e Amelia ululava come il vento di dicembre fuori casa. Be', questo è imbarazzante, pensò lui, rabbioso, tornando a guardare il tabellone. «Mi spiace», mormorò la detective. Era insolito sentire quelle parole in bocca a lei. Amelia chiedeva scusa con la stessa frequenza di Rhyme. Cioè quasi mai. Lui non replicò e tenne gli occhi fissi sul tabellone. «Mi spiace, davvero.» Irritato da quei sentimenti zuccherosi, Rhyme la guardò di sottecchi, reprimendo a stento la rabbia. Ma si accorse che non era a lui che Amelia si stava rivolgendo. La detective stava guardando Pulaski. «Cercherò di farmi perdonare in qualche modo. Puoi occuparti tu della prossima scena. Ti farò da copilota. O le prossime due.» «Come sarebbe?» chiese la recluta. «So che hai sentito che me ne andavo.» Pulaski annuì. «Ma ho cambiato idea.» «Non te ne vai?» chiese la recluta. «No.» «Ehi, nessun problema. Non mi dispiace se collaboriamo ancora.» Pulaski era evidentemente sollevato al pensiero di non doversi trovare da solo sotto la lente d'ingrandimento di Rhyme e questo lo compensava del fatto di dover tornare a fare il semplice assistente. Amelia prese una sedia e si mise di fronte al criminalista. «Pensavo fossi andata all'Argyle», brontolò lui. «Ci sono andata. Per dirgli che non se ne faceva più nulla.» «Posso sapere perché?» «Mi è arrivata una telefonata. Da Suzanne Creeley. Voleva ringraziarmi per averle creduto e avere scoperto l'assassino di suo marito. Mi ha detto che non poteva sopportare il pensiero che si fosse ucciso. L'omicidio è terribile, ma un suicidio avrebbe minato ciò che loro due avevano costruito in tutti questi anni.» Scosse il capo. «Un nodo a una corda e un pollice rotto... Ho capito che è questo il senso del nostro lavoro, Rhyme. Non le stronzate in cui mi sono trovata in mezzo: la politica, mio padre, Baker e Wallace... La realtà non è così complicata. Essere un poliziotto vuol dire cercare la verità dietro un nodo e un pollice rotto. Nient'altro.» Tu e io, Sachs...
«Allora», fece lei, in tono professionale, indicando il tabellone. «Qualche novità sul nostro ricercato?» «Rocciatore o scalatore», riassunse Rhyme. «Probabilmente è stato in Europa. Ha passato qualche tempo sulla costa della California. E ci è stato di recente. Forse è lì che vive. Istruito. Usa in modo appropriato grammatica, sintassi e punteggiatura.» Le raccontò del Breguet. «Voglio esaminarne ogni ingranaggio. Lui sarebbe un orologiaio, giusto? Questo significa che probabilmente lo ha smontato per guardarci dentro. Se c'è anche solo una molecola di traccia, la voglio trovare.» Rhyme accennò alla lettera che accompagnava l'orologio. «Dice che stava tenendo d'occhio l'albergo di Charlotte quando l'abbiamo arrestata. Voglio che qualsiasi punto di osservazione in cui può essersi messo a spiarci venga esaminato. Tocca a te, Ron.» «Capito.» «Non dimenticarti quello che sappiamo di lui. Forse se n'è andato e forse no. Assicurati di avere sempre la tua arma a portata di mano. Fuori dalla tuta di Tyvek. Ricorda...» «'Cerca attentamente, ma guardati le spalle'», lo anticipò Pulaski. «Hai buona memoria», commentò il criminalista. «E ora all'opera.» IV 12:48 P.M. LUNEDÌ Che cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, io so cos'è. Se cerco di spiegarlo a chi lo chiede, non lo so. SANT'AGOSTINO 43 Quel giorno di dicembre non era particolarmente freddo, ma la caldaia della casa di Rhyme faceva i capricci. Tutti in laboratorio si tenevano addosso giacche e cappotti, sbuffavano nubi di vapore dalla bocca e avevano le dita arrossate dal gelo. Amelia indossava due maglioni, mentre dal giaccone imbottito di Pulaski i biglietti dello skilift di Killington pendevano come medaglie dall'uniforme di un veterano. Uno sbirro sciatore, pensò Rhyme. Gli sembrava strano, anche se non sapeva dire perché. Forse perché doveva essere pericoloso scendere lungo una montagna con una pistola calibro 9 sotto la tuta da sci.
«Dov'è quello che deve riparare la caldaia?» chiese irritato Rhyme al suo assistente. «Ha detto che veniva tra l'una e le cinque.» Thom aveva indosso una giacca di tweed che il criminalista gli aveva regalato il Natale precedente e una sciarpa viola di cachemire di cui invece gli aveva fatto dono Amelia. «Ah, tra la una e le cinque. La una e le cinque. Te lo dico io che cosa fare: richiamalo e...» «Lui ha detto così.» «No, ascolta. Chiamalo e digli che nel suo quartiere c'è un killer psicopatico in libertà e che tra l'una e le cinque andremo laggiù a prenderlo. Vediamo se capisce l'antifona.» «Lincoln», fece Thom, paziente. «Io non...» «Ma lo sa che cosa facciamo? Lo sa che siamo qui per servire e proteggere la cittadinanza? Chiamalo e diglielo.» Pulaski notò che Thom non stava andando al telefono. «Uhm... vuole che lo chiami io?» Ah, l'ingenuità della gioventù... «Non fargli caso», rispose Thom. «È come un cane che ti abbaia contro: se lo ignori smette.» «Un cane?» fece Rhyme. «Un cane io? Non è ironico, Thom? Visto che sei tu che mordi la mano che ti nutre.» Compiaciuto della replica, aggiunse: «A quello della caldaia puoi dire che soffro di ipotermia. Il che è vero, tra parentesi». «Allora riesce a sentire...» cominciò la recluta, senza completare la domanda. «Sì. Riesco a sentirmi molto a disagio, Pulaski.» «Mi scusi, non stavo pensando.» «Ehi», disse Thom, ridendo. «Congratulazioni!» «Perché?» chiese la recluta. «Sei stato promosso al cognome. Vuol dire che comincia ad avere considerazione di te. Io per esempio sono solo Thom. Per sempre Thom.» Amelia ammonì la recluta. «Ma scusati ancora con lui e sarai degradato.» Un attimo dopo suonò il campanello e «per sempre Thom» andò ad aprire. Rhyme guardò l'ora: era l'una e due minuti. Che l'uomo della caldaia fosse puntuale? Era Lon Sellitto, che entrò, fece per togliere il cappotto ma cambiò subi-
to idea quando vide l'alito che gli usciva dalla bocca. «Gesù, Lincoln, con quello che guadagni dalla città di New York, potresti anche pagare la bolletta del riscaldamento. Quello è caffè? È caldo?» Thom gliene riempì una tazza. Sellitto la prese con una mano mentre con l'altra apriva la sua valigetta. «Alla fine l'ho trovato», annunciò, estraendone una vecchia cartelletta con scritte a inchiostro sbiadito e annotazioni a matita. Molte delle intestazioni erano state cancellate, segno che qualche frugale funzionario municipale l'aveva utilizzata più volte. «Il dossier Luponte?» domandò Rhyme. «Esatto.» «Lo volevo la settimana scorsa», protestò il criminalista. Sentiva il naso ghiacciato. Cominciava a pensare che avrebbe detto al tecnico della caldaia che lo avrebbe pagato tra uno o cinque mesi. Guardò la cartelletta. «Avevo quasi perso le speranze. Tu che ami i cliché, Lon, hai mai sentito l'espressione 'Un giorno di troppo, un dollaro di meno'?» «Nah», replicò il detective, paziente. «A me viene in mente l'espressione 'Se fai un favore a qualcuno e questo si lamenta, mandalo affanculo'.» «Questa è buona», concesse Lincoln Rhyme. «Il fatto è che non mi avevi detto quanto era segreto. Ho dovuto scoprirmelo da solo e poi chiedere a Ron Scott di rintracciarmelo.» Il detective aprì la cartelletta e sfogliò il dossier. Rhyme si sentiva a disagio. Si chiedeva che cosa ci avrebbero trovato. Potevano essere notizie buone, o devastanti. «Dovrebbe esserci un rapporto ufficiale. Trovalo.» Sellitto frugò nella cartelletta e recuperò il documento. L'intestazione, scritta a macchina, diceva: ARTHUR J. LUPONTE VICECAPO Il fascicolo era sigillato da un nastro rosso stinto, su cui si leggeva: RISERVATO «Lo devo aprire?» Rhyme alzò gli occhi al cielo. «Linc, quando sei di buon umore avvisami, okay?» «Mettimelo sul leggio, per favore, grazie.»
Sellitto lacerò il nastro e affidò il fascicolo a Thom, che lo montò sul leggio, equipaggiato con un apparecchio che voltava automaticamente le pagine a un comando del touchpad. Rhyme si mise a leggere il documento, cercando di placare la tensione. «Luponte?» chiese Amelia, alzando lo sguardo dal tavolo. Il criminalista voltò un'altra pagina. «Esatto», rispose. Continuò a leggere i fitti paragrafi in linguaggio burocratico. Avanti, pensò, sempre più irritato, arriviamo al punto. Sarebbero state notizie buone o cattive? «Qualcosa che riguarda l'Orologiaio?» chiese Amelia. Non avevano trovato nuove piste sul suo conto, né a New York né in California, dove Kathryn Dance aveva avviato una propria indagine. «Non ha niente a che vedere con lui», rispose Rhyme. Amelia scosse la testa. «Non era per questo che lo volevi?» «No. Sei tu che lo hai pensato.» «Riguarda uno degli altri casi, allora?» chiese lei, ammiccando in direzione del tabellone, su cui erano annotati i progressi su vari casi freddi a cui stavano lavorando. «Non quelli.» «Allora quale?» «Potrei dirtelo prima, se mi lasciassi finire.» Amelia sospirò. Finalmente Rhyme arrivò alla sezione che cercava. Alzò per un istante lo sguardo verso gli alberi spogli di Central Park, fuori dalla finestra. Dentro di sé sentiva che il dossier gli avrebbe detto ciò che voleva sentire, ma era innanzitutto uno scienziato e non si fidava delle sensazioni. La verità è l'unico obiettivo... Quali verità gli avrebbe rivelato quel fascicolo? Riprese a leggere la pagina. Poi la rilesse. Dopo un minuto disse ad Amelia: «Voglio leggerti una cosa». «Okay. Ti ascolto.» Rhyme mosse un dito sul touchpad e riportò indietro le pagine. «Questo è l'inizio del rapporto. Mi ascolti?» «Ho detto di sì.» «Bene. 'Questo procedimento è e dovrà restare segreto. Tra il diciotto e il ventinove giugno 1964, una dozzina di poliziotti di New York City sono stati incriminati dal gran giurì per avere estorto somme di denaro a negozianti e imprenditori di Manhattan e Brooklyn ed essersi lasciati corrompe-
re per abbandonare indagini che stavano seguendo. Inoltre, quattro agenti sono stati incriminati per aggressione, nell'ambito di dette estorsioni. Tali dodici agenti erano membri di quello che veniva chiamato Club della Sixteenth Avenue, un nome divenuto tristemente sinonimo di corruzione nella polizia.'» Rhyme sentì Amelia inspirare a fondo. Alzò lo sguardo e la vide fissare il dossier come se fosse un serpente a sonagli. Lui continuò la lettura: «'Non vi è fiducia più grande di quella tra i cittadini di questi Stati Uniti e le forze dell'ordine che hanno il compito di proteggerli. Gli agenti del Club della Sixteenth Avenue hanno imperdonabilmente violato questa sacra fiducia, non solo perpetrando loro stessi i crimini che avrebbero dovuto combattere, ma anche portando il disonore tra i loro colleghi e colleghe, coraggiosi e pronti al sacrificio. Pertanto io, sindaco della città di New York, conferisco ai seguenti poliziotti la Medaglia al Valore per gli sforzi che hanno compiuto al fine di assicurare questi criminali alla giustizia: agente Vincent Pazzini, agente Herman Sachs e detective di terzo grado Lawrence Koespel'». «Cosa?» mormorò Amelia. Rhyme proseguì. «'Ciascuno di questi poliziotti ha rischiato la propria vita, lavorando in segreto per raccogliere informazioni strumentali all'identificazione dei responsabili e prove da usare nei processi. A causa della natura pericolosa dell'incarico, tali onorificenze saranno consegnate in segreto e questo fascicolo sarà sigillato, in nome della sicurezza di questi tre coraggiosi poliziotti e delle loro famiglie. Ma desidero sappiano che, nonostante le lodi per i loro sforzi non possano essere cantate pubblicamente, la gratitudine della città nei loro confronti non sarà inferiore.'» Amelia guardò Rhyme. «Lui...?» Rhyme accennò al dossier. «Tuo padre era uno dei buoni, Sachs. Ed era effettivamente uno dei tre che sono sfuggiti alla rete. Perché non erano colpevoli. Stavano lavorando per la Internal Affairs Division. Tuo padre ha fatto al Club della Sixteenth Avenue quello che tu hai fatto al 118° Distretto. Solo che tu non agivi in segreto.» «Come facevi a saperlo?» «Non lo sapevo. Ricordavo qualcosa sul rapporto Luponte e sui processi per la corruzione nella polizia, ma non sapevo che tuo padre vi fosse coinvolto. Per questo volevo vedere il dossier.» «Guarda ancora, Lon. C'è qualcos'altro.» Il detective tornò a frugare nella cartelletta. Trovò un certificato e una
Medaglia al Valore dell'NYPD, una delle più alte onorificenze del dipartimento. Sellitto la consegnò ad Amelia. Lei, a bocca aperta, lesse la pergamena che portava il nome di suo padre. La decorazione le pendeva dalle dita. «Ehi, è carino», disse Pulaski, sbirciando il certificato. «Guarda tutte quelle scritte dipinte.» «È tutto qui dentro, Sachs», disse Rhyme, accennando al dossier sul leggio. «Il suo superiore all'Internal Affairs doveva fare in modo che gli altri poliziotti gli credessero. Ha passato a tuo padre duemila dollari al mese da spendere in giro, per far credere che anche lui fosse corrotto. Doveva essere convincente: se qualcuno avesse capito che era un infiltrato, lo avrebbe ucciso. Specialmente con Tony Gallante di mezzo. L'IAD ha avviato persino una falsa inchiesta su di lui, per far apparire la storia più veritiera. È quello il caso chiuso per insufficienza di prove: si sono messi d'accordo con la Crime Scene perché andassero perduti i moduli di custodia.» Amelia abbassò la testa. «Papà era sempre modesto. È proprio da lui: la medaglia più importante che gli hanno dato è rimasta segreta. Non ha mai detto niente.» «Puoi leggere tutta la storia. Tuo padre si è offerto di farsi nascondere addosso un microfono e di raccogliere tutte le informazioni necessarie su Tony Gallante e gli altri boss coinvolti, ma ha detto che non avrebbe mai testimoniato in tribunale: non voleva che tu e tua madre correste dei rischi.» La detective guardava la medaglia, facendola oscillare tra le dita. Come il pendolo di un orologio, venne da pensare a Rhyme. Lon Sellitto si fregò le mani. «Sentite, sono lieto delle buone notizie, però che ne dite se usciamo di qui e andiamo da Manny's? Mangerei qualcosa. E scommetto che lì la pagano, la bolletta del riscaldamento.» «Vorrei tanto», disse Rhyme con aria sincera, nascondendo accuratamente la sua scarsa voglia di girare con la sedia a rotelle per le strade ghiacciate. «Ma sto scrivendo una lettera al Times.» Accennò al computer. «E poi devo aspettare il tecnico della caldaia. Tra l'una e le cinque.» Thom stava per aprire bocca, ma fu Amelia a dire: «Spiacente. Altri impegni». «Se riguardano ghiaccio e neve», replicò Rhyme, «non sono interessato.» Sospettava che lei e Pammy Willoughby avessero in programma un'altra passeggiata con il cane Jackson, da poco adottato dalla ragazzina. Ma Amelia, a quanto pareva, aveva un altro programma. «Sì. Riguarda
ghiaccio e neve, voglio dire.» Rise e gli diede un bacio sulla bocca. «Ma non riguarda necessariamente te.» «Grazie a Dio.» Lincoln Rhyme sbuffò una nuvoletta di vapore verso il soffitto e tornò al computer. «Tu.» «Salve, detective. Come va?» chiese Amelia Sachs. Art Snyder la fissava con gli occhi arrossati, in piedi sulla soglia di casa. Aveva un aspetto molto migliore dell'ultima volta che lei lo aveva visto, disteso sul sedile della sua macchina. Ma non le sembrava meno arrabbiato. D'altra parte, quando nel proprio lavoro uno dei rischi ricorrenti è farsi sparare, un'occhiataccia non fa paura. «Sono passata a ringraziarla.» «Sì? Di cosa?» Snyder teneva in mano una tazza da caffè che non conteneva caffè. Amelia vide che sulla credenza erano ricomparse alcune bottiglie e che i progetti di ristrutturazione domestica non avevano fatto progressi. «Abbiamo chiuso il caso della St. James Tavern.» «Sì, ho sentito.» «Fa freddino, qui fuori, detective.» «Tesoro?» lo chiamò dalla porta della cucina una donna robusta con corti capelli castani e una faccia allegra. «C'è una detective della centrale.» «Be', falla entrare. Le preparo un caffè.» «Ha molto da fare», ribatté Snyder, aspro. «Non credo che si possa trattenere.» «Sto gelando, qui fuori», ribadì Amelia. «Art! Falla entrare.» Snyder sospirò e tornò dentro, lasciando che lei lo seguisse e chiudesse da sola la porta. Amelia si tolse la giacca e l'appoggiò su una sedia. La moglie di Snyder li raggiunse e le strinse la mano. «Dalle la poltrona comoda, Art», disse. Amelia occupò la Barcalounger, mentre Snyder si metteva sul divano, che cigolò sotto il suo peso. Aveva lasciato alto il volume della TV, sintonizzata su una frenetica partita di pallacanestro ad alta definizione. La moglie tornò con due tazze di caffè. «Per me niente», fece Snyder, guardando la sua tazza. «Te l'ho già versato. Non vorrai che lo butti via? Sprecare del buon caffè.» Gli lasciò la tazza sul tavolino e tornò in cucina, dove stava friggendo
dell'aglio. La detective sorseggiò il caffè in silenzio. Snyder guardava il televisore. Quando un giocatore fece canestro, strinse i pugni. Arrivò la pubblicità e lui cambiò canale. Amelia ricordava che Kathryn aveva parlato del potere del silenzio, quando si vuole indurre qualcuno a parlare. Seccato, Snyder disse: «La faccenda della St. James?» «Ah-ah.» «Ho letto che c'era dietro Dennis Baker. E anche il vicesindaco.» «Già.» «L'ho incontrato qualche volta, Baker. Sembrava una brava persona. Mi sono sorpreso quando è venuto fuori che prendeva mazzette.» Fece un'espressione preoccupata. «E ha anche commesso due omicidi. Sarkowsky e quell'altro.» Amelia annuì. «E un tentato omicidio.» Non precisò che la vittima designata era lei. Snyder scosse la testa. «Un conto è prendere soldi. Ma ammazzare la gente... è tutta un'altra cosa.» Amen. «Hai poi trovato quello che ti dicevo?» chiese l'ex poliziotto. «Quello del Maryland?» La detective decise che Snyder meritava di sapere qualcosa. «Era Wallace. Ma Maryland non era un posto. Era una cosa.» E gli raccontò della barca. Lui fece una risatina amara. «Sul serio? The Maryland Monroe? Che cazzata.» «Non avrei mai risolto il caso, se non fosse stato per te.» Snyder ebbe un millisecondo di soddisfazione. Poi si ricordò che era arrabbiato con lei. Si alzò con un sospiro, si verso altro whisky e tornò a sedersi. Aveva lasciato il suo caffè intatto. Cambiò di nuovo canale. «Posso chiederti una cosa?» «Te lo posso impedire?» borbottò lui. «Non c'è più in giro molta gente che conosceva mio padre. Volevo sapere una cosa di lui.» «Il Club della Sixteenth Avenue?» «No, non voglio sapere di quello.» «Ha avuto fortuna a cavarsela.» «Ogni tanto si riesce a schivare un proiettile.»
«Almeno poi si è ripulito. Dopo quella storia ho sentito che non si è più messo nei guai.» «Hai detto che hai lavorato con lui. Mio padre non parlava molto di quello che faceva. Mi sono sempre chiesta come fosse a quei tempi. Volevo mettere giù qualche ricordo.» «Per i suoi nipoti?» «Qualcosa del genere.» «Non siamo mai stati insieme di pattuglia.» «Però lo conoscevi.» Un momento di esitazione. «Sì.» «Raccontami quella storia del comandante... quello pazzo. Ho sempre desiderato sapere com'era andata.» «Quello pazzo quale? Ce n'erano un sacco.» «Quello che ha mandato la squadra tattica nell'appartamento sbagliato.» «Oh, Caruthers?» «Credo fosse lui. Papà era uno dei portatili che tenevano a bada l'uomo che aveva preso gli ostaggi, in attesa che l'ESU arrivasse nel posto giusto.» «Già, già. C'ero anch'io. Che testa di cazzo, Caruthers. Che coglione... Grazie al cielo non si è fatto male nessuno. Oh, e quello stesso giorno si è dimenticato di mettere le pile nel suo megafono. E un'altra cosa: si faceva lucidare gli stivali. Dalle reclute. Poi gli dava una mancia, una monetina. Voglio dire, è già strano dare la mancia a un poliziotto. Ma cinque centesimi?» Il volume della TV scese di qualche punto. Snyder rideva. «E vuoi sentirne un'altra?» «Sicuro.» «Ecco: tuo padre, io e qualcun altro, fuori servizio, andavamo al Garden a vedere una partita o un match. Arriva questo ragazzo con una zip gun. Lo sai cos'è?» Amelia lo sapeva. Ma disse di no. «Una specie di pistola fatta in casa, con un unico colpo calibro 22. E questo povero coglione cerca di rapinarci. Credimi. Ci ferma nel bel mezzo della 34th Street. Noi gli diamo i portafogli. Poi tuo padre fa cadere, apposta, il suo. Il ragazzo si china a raccoglierlo e quando alza gli occhi se la fa sotto dalla paura: si trova davanti le nostre quattro Smitty pronte a sparare. Avessi visto che faccia... E dice: 'Non dev'essere la mia giornata'. Non è straordinario? 'Non dev'essere la mia giornata.' Abbiamo riso tutta la sera...» Snyder sorrise al ricordo. «E poi, un'altra volta...» Amelia lo incoraggiava a parlare. In realtà conosceva già molte di quelle
storie. Herman Sachs non era affatto riluttante a raccontare alla figlia del suo lavoro. Ma ora lei aveva ricevuto una silenziosa richiesta di aiuto da un poliziotto, un 10-13 del cuore. E aveva deciso di non abbandonare l'ex detective Art Snyder al suo destino. Se i suoi presunti amici non volevano più vederlo perché aveva dato una mano a inchiodare la gang del 118° Distretto, lei era pronta a presentargliene altri che sarebbero stati ben felici di avere rapporti con lui: lei stessa, Sellitto, Rhyme, Pulaski, Dellray, e anche Roland Bell, Nancy Simpson, Frank Rettig e dozzine di altri. Gli fece qualche altra domanda. Snyder rispondeva, a volte volentieri, a volte irritato, a volte distratto, ma sempre dandole qualcosa. In un paio di occasioni l'ex detective si alzò per riempire di nuovo la tazza di liquore e ogni tanto guardava lei e l'orologio, sottintendendo: Non hai proprio nient'altro da fare? Ma lei, comodissima sulla poltrona Barcalounger, continuava a fargli domande e persino a raccontargli qualcuna delle vicende che le erano capitate. Amelia Sachs non aveva nient'altro da fare. Aveva tutto il tempo che voleva. NOTA DELL'AUTORE La bravura di un autore dipende solo dagli amici e dai professionisti che lavorano con lui. Io ho la grande fortuna di essere circondato da una squadra davvero meravigliosa: Will e Tina Anderson, Alex Bonham, Louise Burke, Robby Burroughs, Britt Carlson, Jane Davis, Julie Reece Deaver, Jamie Hodder-Williams, Kate Howard, John Gilstrap, Cathy Gleason, Emma Longhurst, Diana Mackay, Carolyn Mays, Tara Parsons, Seba Pezzani, Carolyn Reidy, Ornella Robbiati, David Rosenthal, Marysue Rucci, Deborah Schneider, Vivienne Schuster, Brigitte Smith, Kevin Smith e Alexis Taines. Un ringraziamento speciale, come sempre, a Madelyn Warcholik. Chi fosse interessato alla fabbricazione e al collezionismo degli orologi apprezzerà il conciso e lirico Marking Time di Michael Korda. FINE