Trama Le notti di Ethan sono tormentate da strani sogni che hanno per protagonista una misteriosa e bellissima ragazza...
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Trama Le notti di Ethan sono tormentate da strani sogni che hanno per protagonista una misteriosa e bellissima ragazza. Un giorno, nel cortile della scuola, Ethan se la ritrova davanti. È Lena Duchannes, "la ragazza nuova" appena arrivata in città, nipote di Macon Ravenwood, il vecchio eremita pazzo che vive ai confini di Gatlin. Lena è diversa da qualsiasi ragazza Ethan abbia mai incontrato, talmente diversa che a scuola viene subito emarginata. Solo lui assecondando l'inspiegabile connessione che sembra legarli, la avvicina e se ne innamora perdutamente. Ma Lena nasconde un segreto: la terribile maledizione che da generazioni perseguita la sua famiglia e che si compirà il giorno del suo sedicesimo compleanno.
KAMI GARCIA & MARGARET STOHL
LA SEDICESIMA LUNA Traduzione di Maria Cristina Leardini
MONDADORI
Per Nick e Stella Emma, May e Kate; e per tutti i teenager magici o tragici. Siamo più numerosi di quel che si crede.
L'oscurità non può scacciare l'oscurità; solo la luce può farlo. L'odio non può scacciare l'odio; solo l'amore può farlo. Martin Luther King Jr.
PRIMA In mezzo al nulla C'erano solo due categorie di persone nella nostra cittadina: gli stupidi e gli ingabbiati. Così mio padre aveva affettuosamente classificato i nostri compaesani. «Quelli che sono costretti a restare o sono troppo stupidi per andarsene. Tutti gli altri trovano una via d'uscita.» Era chiaro a quale categoria appartenesse lui, ma non avevo mai avuto il coraggio di chiedergli perché. Mio padre era uno scrittore e noi vivevamo a Gatlin, Carolina del Sud, perché gli Wate erano lì da sempre, da quando il mio bis-bis-bis-bis-bisnonno, Ellis Wate, aveva combattuto e perso la vita sull'altra riva del fiume Santee, durante la Guerra Civile. Ma la gente di qui non amava definirla Guerra Civile. Chi aveva meno di sessantanni preferiva l'espressione Guerra tra gli Stati, mentre chi ne aveva di più la chiamava Guerra d'Aggressione Nordista, come se fosse stato il Nord a spingere il Sud alla guerra per qualche balla di cotone scadente. Tutti, quindi, le davano una connotazione, tranne la mia famiglia. Noi la chiamavamo Guerra Civile. Una ragione in più per cui non vedevo l'ora di andarmene. Gatlin non era una di quelle tipiche cittadine americane che si vedono nei film, a meno che non siano film di cinquant'anni fa. Eravamo troppo lontani da Charleston per avere uno
Starbucks o un McDonald's. Avevamo solo un fast food Dar Kin, visto che quando i nuovi proprietari l'avevano acquistato, erano stati troppo spilorci per comprare anche le lettere mancanti dell'insegna Dairy King. La biblioteca aveva ancora un catalogo cartaceo, nella scuola superiore c'erano ancora le lavagne con i gessi e la nostra piscina comunale era il lago Moultrie, tiepido e melmoso al punto giusto. Potevi vedere un film al multisala più o meno nello stesso periodo in cui usciva in DVD, ma bisognava trovare un passaggio fino a Summerville, vicino all'università. I negozi erano sulla via principale, le belle case le trovavi lungo il fiume e tutte le altre stavano a sud della Route 9, dove i marciapiedi si disintegravano in zolle di cemento, terribili per i pedoni ma perfette da lanciare contro gli inferociti opossum, gli animali più aggressivi sulla faccia della Terra. Tutto questo non è roba da film. Gatlin non era un posto complicato. Gatlin era Gatlin. I vicini continuavano a tenere tutto sotto controllo dalla loro veranda, nella calura insopportabile, boccheggiando. Ma non aveva senso. A Gatlin non cambiava mai nulla. L'indomani iniziavo la scuola, il secondo anno alla Stonewall Jackson, e già sapevo con esattezza quello che sarebbe successo: dove mi sarei seduto, con chi avrei parlato, le battute, le ragazze, chi avrebbe parcheggiato e dove. Non c'erano sorprese nella contea di Gatlin. Eravamo il centro esatto del nulla. O almeno così pensavo, mentre chiudevo la mia copia sgualcita di Mattatoio n.5, spegnevo l'iPod e anche la luce sulla mia ultima notte d'estate. Come mi sbagliavo! C'era una maledizione. C'era una ragazza. E, alla fine, c'era una tomba.
E io non l'avevo vista arrivare.
02-09 Sogni Cadevo. Precipitavo nel vuoto, in caduta libera. — Ethan! Lei mi chiamava, e il suono della sua voce bastava a farmi accelerare il cuore. — Aiutami! Anche lei cadeva. Io allungavo il braccio, cercavo di prenderla. Mi tendevo al massimo, ma afferravo solo l'aria. Mi mancava la terra sotto i piedi, piantavo le unghie nel fango. Le nostre dita si sfioravano e vedevo scintille verdi nel buio. Poi lei mi scivolava tra le mani. E tutto quello che riuscivo a provare era il senso di perdita. Limoni e rosmarino. Sentivo il suo odore, anche in quel momento. Ma non riuscivo a prenderla. E non riuscivo a vivere senza di lei. * * * Balzai a sedere sul letto, cercando di riprendere fiato. — Ethan Wate! Svegliati! Non ti permetterò di fare tardi il primo giorno di scuola. — Era la voce di Amma che mi chiamava dal piano di sotto. Misi a fuoco una zona di luce tenue nel buio. Sentivo il lontano tamburellare della pioggia contro le stecche delle nostre vecchie persiane. Stava diluviando. E doveva essere già mattina. E io dovevo trovarmi nella mia stanza.
La stanza era umida e soffocante per via della pioggia. Perché la finestra era aperta? La testa mi pulsava. Mi ributtai sul letto e il sogno svanì lentamente, come faceva sempre. Ero al sicuro, nella mia camera, nella nostra casa antica, nello stesso scricchiolante letto di mogano in cui avevano probabilmente dormito sei generazioni di Wate prima di me, in un luogo dove non si cadeva in fosse scavate nel fango, dove in realtà non succedeva mai niente. Fissai lo sguardo sul soffitto intonacato, dipinto del colore del cielo per evitare che le api carpentiere nidificassero. Cosa mi stava succedendo? Erano mesi ormai che facevo quel sogno. Anche se non lo ricordavo per intero, la parte vivida era sempre la stessa. La ragazza cadeva. Io cadevo. Dovevo resistere, ma non ci riuscivo. Se avessi mollato la presa, le sarebbe successo qualcosa di terribile. Ma ecco il punto: io non potevo cedere. Non potevo perdere la ragazza. Era come se fossi innamorato di lei, anche se non la conoscevo. Una specie di amore prima della prima vista. Era assurdo, perché lei era solo un sogno. Non sapevo nemmeno che aspetto avesse. Erano mesi che la sognavo ma non l'avevo mai vista in faccia, o forse non riuscivo a ricordarmela. Sapevo solo che provavo lo stesso malessere insopportabile ogni volta che la perdevo. Lei mi scivolava via dalle dita e a me si rovesciava lo stomaco -come sulle montagne russe, quando il vagoncino precipita all'improvviso. Le farfalle nello stomaco? Che metafora idiota. Erano api assassine, piuttosto. Forse stavo perdendo la ragione, o forse avevo semplicemente bisogno di una bella doccia. Avevo gli
auricolari ancora intorno al collo e, quando lo sguardo mi cadde sull'iPod, vidi un titolo che non conoscevo. Sedici lune. Che roba era? La feci partire. La melodia era ossessiva. Non riconoscevo la voce, ma avevo la sensazione di averla già sentita prima. Sedici anni, sedici lune Sedici delle tue più profonde paure Sedici volte le mie lacrime in sogno Cadendo, cadendo attraverso il tempo... Era melanconica, inquietante, quasi ipnotica. — Ethan Lawson Wate! — Potevo sentire Amma al di sopra della musica. Spensi e mi sedetti sul letto, scalciando via le coperte. Le lenzuola sembravano piene di sabbia, ma io sapevo di cosa si trattava. Era terra. E le mie unghie erano incrostate di fango nero, come l'ultima volta che avevo fatto il sogno. Appallottolai il lenzuolo e lo infilai nella cesta della biancheria sporca, sotto la maglia sudata dell'allenamento del giorno prima. Mi infilai nella doccia e cercai di dimenticare, mentre mi sfregavo le mani e gli ultimi brandelli fangosi del sogno scomparivano nel tubo di scarico. Se non ci pensavo, non stava succedendo. Negli ultimi mesi, era stato questo il mio approccio alla maggior parte delle cose. Ma non se si trattava di lei. Non potevo farci niente. Ci pensavo di continuo. Continuavo a rivivere lo stesso sogno, pur non sapendolo spiegare. Così era questo il mio segreto, e non c'era altro da dire. Avevo sedici anni, mi stavo innamorando di una ragazza che non esisteva e stavo lentamente impazzendo.
Per quanto forte sfregassi, non potevo impedire al mio cuore di martellarmi nel petto. E più intenso del profumo del sapone e dello shampoo, sentivo ancora quell'odore. Era lieve, ma c'era. Limoni e rosmarino. Scesi al piano di sotto, verso la rassicurante monotonia delle cose. Al tavolo della colazione, Amma mi mise davanti il solito vecchio piatto di porcellana cinese - il Dragone, lo chiamava mia madre - colmo di uova fritte, pancetta, toast imburrati e farina d'avena. Amma era la nostra governante, una specie di nonna, ma più furba e più dispotica della mia nonna vera. In pratica era stata Amma a crescermi ed era convinta che fosse una sua personale missione quella di farmi allungare di altri trenta centimetri, anche se arrivavo già a un metro e ottantacinque. Quella mattina ero insolitamente affamato, come se fossi stato a digiuno per una settimana. Divorai un uovo e due fette di pancetta e iniziai a sentirmi meglio. Le sorrisi con la bocca piena. — Non tenermi a stecchetto, Amma. È il primo giorno di scuola. — Lei mi piazzò davanti un enorme bicchiere di succo d'arancia e uno ancora più grande di latte - latte intero, l'unico che si beveva da queste parti. — Niente latte al cioccolato? — Bevevo latte al cioccolato come certa gente beve Coca Cola o caffè. Anche durante il giorno, ero sempre in cerca della mia prossima dose di zuccheri. — A-C-C-L-I-M-A-T-A-R-S-I. — Amma aveva una parola di cruciverba per ogni cosa, meglio se lunga, e le piaceva usarla. Il modo in cui la tirava fuori una lettera dopo l'altra era come se ti stesse randellando sulla testa, ogni volta. —
Tradotto: meglio che ti ci abitui. E non pensare di mettere piede fuori da quella porta prima di aver finito il latte. — Sissignora. — Vedo che ti sei vestito a festa. — Non era vero. Avevo i jeans e una maglietta sbiadita, come quasi ogni giorno. Dicevano tutte cose diverse; oggi era Harley Davidson. E indossavo le solite scarpe da basket nere con cui tiravo avanti da tre anni. — Mi pareva che saresti andato a tagliarti i capelli — Lo disse come un rimprovero, ma lo riconobbi subito per quello che era veramente: l'affetto sincero di sempre. — E quando l'avrei detto? — Non lo sai che gli occhi sono le finestre dell'anima? — Forse nella mia non ci voglio nessuna finestra. Amma mi punì con un altro piatto di pancetta. Era alta a malapena un metro e mezzo ed era probabilmente ancora più vecchia del piatto cinese, ma a ogni compleanno sosteneva di compierne cinquantatré. Amma, però, era tutto fuorché una vecchia signora dai modi gentili. In casa mia rappresentava l'autorità assoluta. — Be', non pensare di uscire con i capelli bagnati. Non mi piace per niente questo temporale. È come se qualcosa di cattivo fosse finito in mezzo al vento, e non c'è modo di fermare una giornata così. Ha una volontà propria. Alzai gli occhi al cielo. Amma aveva un modo tutto suo di vedere le cose. Se era di questo umore, mia mamma diceva che andava nelle Tenebre - religione e superstizione mischiate, come può succedere solo negli Stati del Sud. E quando Amma andava nelle Tenebre, era meglio starle fuori dai piedi. Proprio come era meglio lasciare i suoi amuleti sui davanzali e le sue bamboline di pezza nei cassetti in cui le nascondeva.
Inforchettai un altro boccone di uova e finii la colazione dei campioni: uova, marmellata e pancetta, il tutto schiacciato in un sandwich di pane tostato. Mentre lo infilavo in bocca, lanciai un'occhiata nel corridoio, per abitudine. La porta dello studio di mio padre era già chiusa. Mio padre scriveva di notte e dormiva sul vecchio divano del suo studio per tutto il giorno. Faceva così da quando mia madre era morta, nell'aprile precedente. Avrebbe potuto essere un vampiro: l'aveva detto mia zia Caroline quando era rimasta un po' da noi, in primavera. Avevo probabilmente perso la mia occasione di vederlo, fino all'indomani. Non c'era modo di aprire quella porta una volta che era stata chiusa. Sentii un colpo di clacson dalla strada. Link. Afferrai il mio zaino nero sbrindellato e corsi fuori sotto la pioggia. Avrebbero potuto essere le sette di sera come le sette di mattina, ecco quant'era scuro il cielo. Il tempo era strano da un paio di giorni. La macchina di Link, il Catorcio, mi aspettava in strada, il motore sputacchiante, la musica a tutto volume. Andavo a scuola con Link tutti i giorni dai tempi dell'asilo, quando diventammo migliori amici perché sull'autobus lui mi regalò mezza merendina. Scoprii solo dopo che gli era caduta per terra. Anche se avevamo preso entrambi la patente durante l'estate, Link era quello con la macchina, se si poteva chiamare così. Se non altro, il motore del Catorcio faceva più rumore del temporale. Amma era nel portico, le braccia conserte e l'aria di disapprovazione. — Non tenere il volume così alto qui, Wesley Jefferson Lincoln. Non pensare che non potrei chiamare tua mamma e riferirle cosa combinavi in cantina tutta l'estate, quando avevi nove anni.
Link fece una smorfia. Non erano in molti a chiamarlo con il suo vero nome, a parte sua madre e Amma. — Sis-signora. — La porta a zanzariera sbatté. Link rise e ripartì sgommando sull'asfalto bagnato. Come se fossimo in fuga, che era più o meno il modo in cui guidava sempre. A parte che non si fuggiva mai. — Cosa facevi nella mia cantina quando avevi nove anni? — Cosa non facevo nella tua cantina quando avevo nove anni? — Link abbassò la musica e fu una fortuna, perché era terribile e ora mi avrebbe chiesto se mi piaceva, come ogni giorno. La tragedia della sua band, Who Shot Lincoln, era che nessuno di loro era davvero in grado di suonare uno strumento o di cantare. Ma Link non riusciva a parlare d'altro che di suonare la batteria e di andare a vivere a New York dopo il diploma e di tutti i contratti discografici che probabilmente non avrebbe mai firmato. E con "probabilmente" intendo dire che era più facile che Link facesse un canestro da tre punti, bendato e ubriaco, dal parcheggio della palestra. Link non sarebbe andato all'università, ma era comunque in vantaggio su di me. Lui almeno sapeva cosa voleva fare, anche se sparava alto. Tutto ciò che avevo io, invece, era una scatola da scarpe piena di dépliant di università che non potevo mostrare a mio padre. Non mi interessava che tipo di università fossero, finché erano ad almeno mille chilometri da Gatlin. Non volevo finire come mio padre, a vivere nella stessa casa, nello stesso paese in cui ero cresciuto, con le stesse persone che non avevano mai nemmeno sognato di andarsene da qui. * * *
Su ogni lato, vecchie case vittoriane zuppe di pioggia costeggiavano la strada, praticamente uguali al giorno in cui erano state costruite, più di cent'anni prima. La mia via si chiamava Cotton Bend perché un tempo queste vecchie abitazioni davano le spalle a chilometri e chilometri di piantagioni di cotone. Ora c'era solo la Route 9, l'unica cosa a essere cambiata da queste parti. Presi una ciambella stantia dalla scatola sul tappetino dell'auto. — Hai scaricato una canzone strana sul mio iPod, ieri sera? — Che canzone? Che ne dici di questa? — Link alzò il volume della sua ultima demo. — Dico che c'è bisogno di lavorarci su. Come tutti gli altri vostri pezzi. — Era la stessa cosa che gli dicevo ogni giorno, più o meno. — Sì, certo, anche sulla tua faccia ci sarà da lavorarci su, dopo che ti avrò dato una bella ripassata. — Era la stessa cosa che mi rispondeva ogni giorno, più o meno. Feci scorrere la playlist del mio iPod. — La canzone, mi pare che si intitolasse qualcosa come Sedici lune. — Non so di che parli. — Non c'era. La canzone era sparita. Ma io l'avevo appena ascoltata, proprio quella mattina. E sapevo di non essermela immaginata, perché ce l'avevo ancora in testa. — Se vuoi una canzone, te ne faccio sentire una nuova. — Link abbassò gli occhi per trovare la traccia. — Ehi, amico, guarda la strada. Ma lui non mi diede retta e io, con la coda dell'occhio, vidi una strana automobile venirci incontro... Per un secondo, i rumori della strada e della pioggia e di Link si dissolsero nel silenzio e fu come se tutto si muovesse al rallentatore. Non riuscivo a staccare gli occhi da quella
macchina. Era solo una sensazione, non qualcosa che potessi descrivere. Poi ci scivolò accanto, svoltando nella direzione opposta. Non la identificai. Non l'avevo mai vista prima. E questo era assolutamente impossibile, perché io conoscevo ogni singola macchina del nostro paese. Non c'erano turisti in quel periodo dell'anno. Non avrebbero mai corso il rischio di venirci, durante la stagione degli uragani. Quella macchina era lunga e nera come un carro funebre. Anzi, ero quasi sicuro che fosse proprio un carro funebre. Forse era un presagio. Forse quest'anno sarebbe stato peggiore di quanto temessi. — Eccola qui. Black Bandanna. Questo pezzo farà di me una star. Quando Link alzò gli occhi, l'auto era sparita.
02-09 La ragazza nuova Otto strade. Questa era la distanza che dovevamo percorrere dalla Cotton Bend alla Jackson High School. Si dà il caso che potessi rivivere la mia intera vita, passando su quelle otto strade, e che otto strade furono sufficienti a cancellare dai miei pensieri quello strano carro funebre nero. Forse è per questo che non ne parlai con Link. Passammo davanti allo Stop&Shop, altrimenti conosciuto come Stop&Scippa. Era l'unico supermercato del paese e la cosa più vicina a un grande magazzino. Quindi, ogni volta che ti fermavi con gli amici davanti al negozio, dovevi sperare di non beccare la mamma di qualcuno che faceva la spesa per la cena o, peggio, Amma. Vidi la ben nota Grand Prix parcheggiata là davanti. — Ohoh. Ciccio è già accampato lì fuori. — Era seduto al posto di guida e leggeva "The Stars and Stripes". — Forse non ci ha visti. — Link teneva d'occhio lo specchietto retrovisore, teso. — Forse siamo fregati. Ciccio era il vigilante anti-assenze-ingiustificate della Jackson High School, nonché fiero membro delle forze di polizia di Gatlin.
La sua ragazza, Amanda, lavorava allo Stop&Scippa e Ciccio era parcheggiato lì davanti quasi tutte le mattine, ad aspettare la consegna del fornaio. Il che era alquanto fastidioso per chi era sempre in ritardo, come Link e me. Non si poteva frequentare la Jackson senza conoscere le abitudini di Ciccio, oltre all'orario delle lezioni. Quel giorno Ciccio ci salutò con un cenno, senza nemmeno alzare gli occhi dalle pagine sportive. Ce la faceva passare liscia. — La pagina sportiva e una ciambella appiccicosa. So bene cosa significa. — Abbiamo cinque minuti. * * * Facemmo scivolare il Catorcio in folle nel parcheggio della scuola, nella speranza di passare davanti alla segreteria senza essere notati. Ma fuori stava ancora piovendo a dirotto così, quando entrammo nell'edificio, eravamo zuppi e le nostre scarpe da ginnastica scricchiolavano talmente forte che avremmo potuto farci vedere e basta. — Ethan Wate! Wesley Lincoln! Ci fermammo, gocciolanti, in attesa della nota di biasimo. — In ritardo il primo giorno di scuola. Tua mamma avrà qualcosa da dirti in proposito, Lincoln. E tu non essere troppo compiaciuto, Wate. Amma ti farà il pelo e il contropelo. La signora Hester aveva ragione. Amma avrebbe saputo del ritardo nel giro di cinque minuti, se non lo sapeva già. Era così che funzionava, da queste parti. Mia madre diceva sempre che Carlton Eaton, il direttore dell'ufficio postale, leggeva tutte le lettere che gli sembravano vagamente interessanti. E dopo averle lette non si prendeva nemmeno la briga di rincollare le
buste. Non c'erano veri scoop qui da noi. Ogni casa aveva i suoi segreti, che tutti i vicini conoscevano. Davvero a Gatlin non c'erano misteri. — Signora Hester, ho guidato piano per via della piog-già. — Link cercò di usare tutto il suo fascino. La Hester si tirò giù gli occhiali e lo squadrò, per niente affascinata. La catenella che le teneva gli occhiali al collo dondolò. — Non ho tempo da perdere in chiacchiere con voi, adesso. Sono occupata a compilare la vostra nota di biasimo, con i dettagli su dove passerete il pomeriggio — replicò, porgendo a ciascuno di noi il foglietto azzurro. Certo che era occupata. Si poteva sentire l'odore di smalto per unghie prima ancora di girare l'angolo. Bentornati a scuola. * * * A Gatlin, il primo giorno di scuola non cambiava mai. Gli insegnanti, che ti conoscevano già perché ti vedevano in chiesa, decidevano se eri stupido o intelligente prima ancora che venissi iscritto all'asilo. Io ero intelligente perché i miei genitori erano professori. Link era stupido perché spiegazzava le pagine della Bibbia quando facevamo la Caccia al Versetto e una volta aveva vomitato durante la processione di Natale. Siccome io ero intelligente, prendevo dei bei voti nelle verifiche; siccome Link era stupido, prendeva brutti voti. Ero sicuro che nessuno si prendesse la briga di leggere i nostri lavori. Ogni tanto scrivevo cose a caso in mezzo ai miei temi, giusto per vedere se i prof avrebbero detto qualcosa. Non lo fecero mai. Sfortunatamente, questo principio non valeva per i test a scelta multipla. Alla prima ora, Letteratura Inglese, scoprii che
la mia pluricentenaria insegnante che si chiamava sul serio signora English, era convinta che durante l'estate avessimo letto tutti II buio oltre la siepe, perciò cannai il primo test dell'anno. Fantastico. Avevo letto quel libro un paio di anni prima. Era uno dei preferiti di mia madre, ma era passato del tempo e i particolari erano fuori fuoco. Un dettaglio che pochi conoscevano: io leggevo di continuo. I libri erano l'unica cosa che mi facesse evadere da Gatlin, anche se solo per un po'. Avevo un planisfero appeso al muro, in camera mia, e ogni volta che leggevo di un posto dove mi sarebbe piaciuto andare, lo segnavo sulla mappa. New York era II giovane Holden. Nelle terre selvagge mi aveva portato in Alaska. Quando lessi Sulla strada, aggiunsi Chicago, Denver, L.A. e Città del Messico. Kerouac riusciva a portarti praticamente ovunque. Ogni due o tre mesi collegavo tutte le città con una linea. Una sottile linea verde che avrei seguito in un viaggio on the road, l'estate prima dell'università, se mai fossi riuscito ad andarmene da questo posto. Tenevo per me sia la carta geografica che la faccenda della lettura. Da queste parti, i libri e il basket non si sposavano. L'ora di Chimica non andò molto meglio. Hollenback mi assegnò come compagna di laboratorio Emily Anti-Ethan, ovvero Emily Asher, che mi disprezzava dal ballo dell'anno prima, quando avevo commesso l'errore di mettere le scarpe da basket con lo smoking e avevo chiesto a mio padre di accompagnarci con la vecchia Volvo arrugginita. Il finestrino rotto, che non si chiudeva mai, le aveva irrimediabilmente distrutto la perfetta acconciatura di boccoli biondi. Per quando arrivammo alla palestra, Emily ormai sembrava Maria Antonietta appena alzata dal letto. Non mi aveva parlato per il resto della serata e aveva mandato Savannah Snow a scaricarmi a tre passi dalla boccia del punch. Fine della storia.
Purtroppo però continuava a essere un'inesauribile fonte di divertimento per i ragazzi, che speravano ci rimettessimo insieme. La cosa che non sapevano era che le ragazze come Emily non mi prendevano. Era carina, tutto qua. E guardarla non compensava il dover ascoltare quello che usciva dalla sua bocca. Io volevo qualcuno di diverso, qualcuno con cui poter parlare di qualcos'altro che non fossero le feste e l'incoronazione di reginetta al Ballo d'Inverno. Una ragazza che fosse intelligente, o divertente, o quanto meno una compagna di laboratorio decente. Forse una ragazza così era davvero un sogno, ma un sogno era pur sempre meglio di un incubo. Anche se l'incubo indossava la gonnellina delle cheerleader. Sopravvissi a Chimica, ma la mia giornata andò di male in peggio. A quanto pareva, anche quest'anno dovevo frequentare Storia degli Stati Uniti, vale a dire l'unica storia che si insegnasse alla Jackson, il che ne rendeva il nome ridondante. Per il secondo anno consecutivo, avrei dovuto studiare la Guerra d'Aggressione Nordista con il professor Lee - nessuna parentela con il generale. Ma come tutti noi ben sapevamo, il nostro Lee e il famoso generale confederato Lee erano identici nello spirito. Lee era uno dei pochi insegnanti che mi odiasse. L'anno prima, per una scommessa con Link, avevo scritto un tema intitolato "La Guerra d'Aggressione Sudista" e Lee mi aveva dato un'insufficienza. Forse gli insegnanti qualche volta li leggevano, i nostri temi, dopotutto. Trovai un posto libero nell'ultima fila, accanto a Link, impegnato a copiare gli appunti della lezione precedente, durante la quale aveva evidentemente dormito. Ma smise di scrivere non appena mi sedetti. — Amico, hai sentito? — Sentito cosa?
— C'è una ragazza nuova alla Jackson. — Ce n'è una tonnellata, di ragazze nuove, cretino. Tutte quelle del primo anno. — Non sto parlando delle matricole. C'è una ragazza nuova nel nostro anno. — In qualsiasi altra scuola superiore, una ragazza nuova non avrebbe fatto notizia. Ma questa era la Jackson e noi non vedevamo una ragazza nuova dai tempi della terza elementare, quando Kelly Wix si era trasferita dai nonni dopo che suo padre era stato arrestato perché gestiva una bisca clandestina nella sua cantina, a Lake City. — E chi è? — Non lo so. Ho avuto Civica alla seconda ora, insieme agli svitati della banda, ma non sapevano niente, tranne che suona il violino o qualcosa del genere. Chissà se è sexy. — Link aveva il cervello a senso unico, come la maggior parte dei maschi. La differenza era che il senso unico di Link conduceva direttamente alla sua bocca. — Quindi è una svitata da rock band? — No. È una musicista. Forse condivide il mio amore per la musica classica. — Musica classica? — L'unica musica classica che Link avesse mai ascoltato era quella nella sala d'attesa del dentista. — Sai, i classici. Pink Floyd. Black Sabbath. Rolling Stones. — Scoppiai a ridere. — Lincoln. Wate. Mi dispiace interrompere la vostra conversazione, ma vorrei iniziare, se per voi va bene. — Il tono di Lee era sarcastico come l'anno precedente e il riporto unto e le chiazze sotto le ascelle altrettanto orribili. Distribuì una copia del programma che usava probabilmente da dieci anni. Era obbligatorio partecipare alla rievocazione storica della Guerra Civile. Naturalmente. Potevo farmi prestare un'uniforme da qualcuno dei miei parenti che nei weekend
partecipavano alle rievocazioni per divertimento. Com'ero fortunato. Quando suonò la campanella, io e Link ci fermammo un po' in corridoio vicino agli armadietti, sperando di riuscire a vedere la ragazza nuova. A sentire lui, era già la sua anima gemella, era già nella sua band ed era già in un paio di altri posti che non volevo nemmeno sentir nominare. Ma l'unica cosa che riuscimmo a vedere fu una quantità eccessiva di Charlotte Chase in una gonna di jeans due taglie troppo stretta. Questo significava che non avremmo scoperto altro fino alla pausa pranzo, perché la lezione successiva era Linguaggio dei Segni, dove era severamente proibito parlare. Nessuno di noi se la cavava così bene con il linguaggio dei segni da poter comunicare "ragazza nuova", soprattutto perché questa era l'unica lezione che avevamo in comune con il resto della squadra di basket della scuola. Facevo parte della squadra già dalla terza media, perché ero cresciuto di venti centimetri nell'arco di un'estate ed ero più alto dei miei compagni di tutta la testa. E poi, devi fare qualcosa di normale quando entrambi i tuoi genitori sono insegnanti. Uscì fuori che ero bravo a basket. Sembrava che sapessi sempre dove gli avversari avrebbero passato la palla e questo mi aveva fatto guadagnare un posto a sedere fisso nella mensa della scuola. Alla Jackson, questo valeva qualcosa. Oggi quel posto valeva ancora di più, perché Shawn Bishop, il playmaker della nostra squadra, aveva visto la ragazza nuova. Link gli fece l'unica domanda che contasse per ognuno di loro. — Dimmi, è sexy? — Abbastanza. — Tipo Savannah Snow? Come se fosse un segnale, Savannah - il metro di paragone con cui tutte le ragazze della Jackson venivano valutate - entrò
in mensa a braccetto con Emily Anti-Ethan e la guardammo tutti, perché Savannah era un metro e settanta con le gambe più perfette che si fossero mai viste. Emily e Savannah erano quasi una persona sola, anche quando non indossavano la divisa da cheerleader. Capelli biondi, finta abbronzatura, infradito e gonna di jeans così corta che poteva passare per una cintura. Savannah era Le Gambe, ma Emily era quella il cui décolleté veniva sbirciato d'estate da tutti i ragazzi, al lago. Sembrava che quelle due non portassero mai i libri: avevano solo delle minuscole borsette metallizzate infilate sotto il braccio, appena sufficienti a contenere il cellulare, nelle rare occasioni in cui Emily smetteva di messaggiare in giro. Le loro differenze si riducevano alle rispettive posizioni nella squadra delle cheerleader. Savannah era il capitano ed era una "base", cioè una delle ragazze che sostenevano altri due piani di cheerleader nella famosa piramide umana delle Wildcats. Emily invece era una "volante", la ragazza in cima alla piramide, quella che veniva lanciata in aria a un paio di metri di altezza per eseguire un salto mortale o qualche altra spericolata acrobazia da cheerleader che poteva facilmente concludersi con il collo spezzato. Ma Emily avrebbe corso qualsiasi rischio pur di stare in cima alla piramide. Savannah non ne aveva bisogno. Quando Emily veniva lanciata, la piramide funzionava benissimo anche senza di lei. Se Savannah si muoveva di un centimetro, tutta la baracca crollava. Emily Anti-Ethan notò che le guardavamo e mi lanciò un'occhiata torva. I ragazzi risero. Emory Watkins mi diede una pacca sulla schiena. — Ci sei dentro, Wate. Sai com'è Emily: chi disprezza, compra. Quel giorno non volevo pensare a Emily. Volevo pensare all'esatto contrario di Emily. Da quando Link l'aveva tirata
fuori a Storia, mi era rimasta addosso. La ragazza nuova. La possibilità di incontrare una persona diversa, che veniva da un posto diverso. Magari con una vita più interessante della nostra e, sicuro, della mia. Forse qualcuno che avevo sognato. Sapevo che era solo una fantasia, ma volevo crederci. — Allora, avete sentito tutti della ragazza nuova? — Savannah si sedette sulle ginocchia di Earl Petty. Earl era il nostro capitano e - un giorno sì e uno no - anche il ragazzo di Savannah. In quel momento erano in fase "sì". Lui strofinò le mani sulle sue gambe arancioni, abbastanza in alto da costringerci a guardare da un'altra parte. — Shawn ci stava aggiornando. Dice che è sexy. La prenderai nella squadra? — Link afferrò un paio di crocchette di patate dal mio vassoio. — Difficile. Dovreste vedere come si veste. — Prima stoccata. — E quanto è pallida. — Seconda stoccata. Non si era mai abbastanza magre o abbastanza abbronzate, a sentire Savannah. Emily si sedette accanto a Emory, protendendosi sul tavolo appena un po' troppo. — E Shawn vi ha detto chi è? — In che senso? Emily fece una pausa ad effetto. — È la nipote del Vecchio Ravenwood. Non c'era bisogno di pause. Fu come se avesse risucchiato tutta l'aria della stanza. Un paio dei ragazzi cominciarono a ridere. Pensavano che fosse uno scherzo, ma io sapevo che non lo era affatto. Terza stoccata. Era fuori dal gioco. Così fuori che non riuscivo più nemmeno a visualizzarla. La possibilità che la ragazza dei miei sogni comparisse alla Jackson si dissolse
prima ancora che riuscissi a immaginare il nostro primo appuntamento. Ero condannato ad altri tre anni di Emily Asher. Macon Melchizedek Ravenwood era l'eremita del paese. Mettiamola così: mi ricordavo abbastanza del Buio oltre la siepe da sapere che il personaggio di Boo Radley, che viveva da eremita nella sua casa oltre la siepe, a confronto con il Vecchio Ravenwood era un compagnone. Il Vecchio Ravenwood viveva in una casa vecchia e decrepita, nella piantagione più antica e più tristemente nota di Gatlin. Credo che nessuno in paese l'avesse più visto da prima che nascessi io, o forse da prima ancora. — Dici sul serio? — le chiese Link. — Assolutamente sì. L'ha detto Carlton Eaton a mia madre, quando ci ha portato la posta. Savannah annuì. — La mia ha sentito dire la stessa cosa. È venuta a vivere con il Vecchio Ravenwood un paio di giorni fa. Dalla Virginia, o dal Maryland, non ricordo. Continuarono a parlare di lei, dei suoi vestiti, dei suoi capelli, di suo zio, di quanto dovesse essere stramba. Ecco una delle cose che odiavo di più di Gatlin. Il fatto che tutti avessero sempre da commentare su qualsiasi cosa uno dicesse, facesse o - in questo caso - indossasse. Io mi limitai a fissare gli spaghetti sul vassoio, immersi in un liquido arancione e acquoso che non sembrava sugo. Due anni e otto mesi all'alba. Dovevo andarmene da qui. * * * Dopo la scuola, la palestra venne usata per le selezioni delle nuove cheerleader. Alla fine aveva smesso di piovere, per cui l'allenamento di basket si svolse nel campo esterno, tra crepe nel cemento, canestri piegati e molte pozzanghere. Bisognava
stare attenti a non inciampare nella crepa che correva lungo il centro come il Grand Canyon. A parte quello, dal campo si vedeva quasi tutto il parcheggio e durante il riscaldamento si poteva assistere a varie forme di socializzazione della Jackson High. Quel giorno avevo le mani fatate. Ero a sette canestri su sette alla linea del tiro libero, come Earl, che ricambiava colpo su colpo. Swiish. Otto. Era come se mi bastasse guardare il canestro e la palla era dentro. Certi giorni succedeva. Swiish. Nove. Earl era infastidito. Si capiva da come palleggiava con più violenza ogni volta che facevo canestro. Earl era l'altro centro della squadra. Il nostro tacito accordo era: io gli lasciavo il comando e lui non mi stressava se non mi fermavo allo Stop&Scippa con loro, tutti i giorni dopo l'allenamento. Non si poteva dire più di tanto sulle solite ragazze e non si potevano mangiare più di tanti snack alla volta. Swiish. Dieci. Non potevo mancarlo. Forse era genetica. Forse era qualcos'altro. Non l'avevo mai capito, ma da quando mia madre era morta, avevo smesso di provarci. Era già un miracolo che andassi agli allenamenti. Swiish. Undici. Earl ringhiò alle mie spalle, palleggiando ancora più violentemente. Cercai di non sorridere e lanciai un'occhiata verso il parcheggio mentre facevo un altro tiro. Vidi un groviglio di capelli lunghi e scuri dietro il volante di una lunga macchina nera. Un carro funebre. Mi bloccai. Poi lei si girò e, dal finestrino aperto, vidi una ragazza che guardava nella mia direzione. Almeno, così mi parve. La palla colpì il ferro e rimbalzò fuori verso la rete di protezione. Alle mie spalle, sentii il sibilo familiare.
Swiish. Dodici. Earl Petty ora poteva rilassarsi. Mentre la macchina si allontanava, guardai gli altri. Erano fermi in mezzo al campo, come se avessero appena visto un fantasma. — Quella era...? Billy Watts, la nostra ala, annuì, aggrappandosi alla rete con una mano. — La nipote del Vecchio Ravenwood. Shawn gli tirò la palla. — Già. Proprio come avevano detto. Guida il carro funebre del vecchio. Emory scosse la testa. — È davvero sexy. Che spreco. Tornarono all'allenamento, ma al tiro successivo di Earl si rimise a piovere. Trenta secondi dopo, eravamo immersi nell'acquazzone più insistente di tutta la giornata. Rimasi sotto la pioggia martellante. Con i capelli bagnati davanti agli occhi, non vedevo più la scuola, né il resto della squadra. Il cattivo presagio non era solo un carro funebre. Era una ragazza. Per qualche minuto, mi ero concesso di sperare. Che forse quest'anno non sarebbe stato come tutti gli altri, che forse qualcosa poteva cambiare. Che forse avrei avuto qualcuno con cui parlare, qualcuno che mi prendesse veramente. Per ora, avevo avuto solo una giornata fortunata in campo, ma quello non mi era mai bastato.
02-09 Una falla nel cielo Pollo fritto, purè di patate, fagiolini in salsa e biscotti -tutti freddi, rappresi e arcigni sui fornelli dove Amma li aveva lasciati. Di solito mi teneva la cena in caldo finché non tornavo dall'allenamento, ma non quel giorno. Ero nei guai. Amma, seduta al tavolo a mangiare caramelle alla cannella e a scribacchiare sul cruciverba del "New York Times", era furiosa. Mio padre si era abbonato di nascosto all'edizione domenicale perché i cruciverba dello "Stars and Stripes" avevano troppi errori di ortografia e quelli del "Reader's Digest" erano troppo brevi. Non so proprio come avesse potuto farla franca con Carlton Eaton, che di sicuro avrebbe informato tutto il paese che la nostra famiglia era troppo "sofisticata" per lo "Stars and Stripes", ma mio padre avrebbe fatto qualsiasi cosa per Amma. Lei spinse il piatto verso di me, guardandomi senza guardarmi. Cominciai a ingoiare pollo freddo e purè solidificato. Non c'era niente che Amma odiasse più del cibo avanzato nel piatto. Cercavo di mantenermi a distanza di sicurezza dalla punta della sua matita nera numero 2, usata esclusivamente per i cruciverba e talmente appuntita che poteva ferirti a sangue.
Ascoltavo il costante picchiettio della pioggia sul tetto. Non c'erano altri suoni nella stanza. Amma tamburellava sul tavolo con la matita. — Nove lettere. Confinare o punire per una malefatta. — Mi lanciò un'altra occhiata. Io infilai in bocca una cucchiaiata di purè. Sapevo cosa stava per arrivare. Nove orizzontale. — C-A-S-T-I-G-A-R-E. Tradotto: se non cominci ad arrivare puntuale a scuola, non uscirai mai più da questa casa. Mi chiesi chi l'avesse chiamata per informarla del ritardo, ma forse avrei dovuto chiedermi chi non l'avesse chiamata. Amma temperò la matita, anche se era già appuntita, con il suo vecchio temperamatite a manovella appoggiato sul ripiano della cucina. Continuava con tenacia a non guardarmi, il che era ancora peggio di quando mi fissava dritto negli occhi. Mi avvicinai a lei, le misi un braccio intorno alle spalle e la strinsi forte. — Dai, Amma! Non essere arrabbiata. Pioveva a dirotto, stamattina. Non vorrai farci correre sotto la pioggia, no? Amma inarcò un sopracciglio, ma la sua espressione si addolcì. — Be', da come si è messo il tempo, è facile che piova fino al giorno in cui ti taglierai i capelli. Quindi farai meglio a trovare un sistema per arrivare a scuola prima della campanella. — Sissignora. — Le diedi un ultimo abbraccio e tornai alle mie patate fredde. — Non crederai mai a quello che è successo oggi. Abbiamo una ragazza nuova, nel nostro anno. — Non so perché lo dissi. Probabilmente perché ce l'avevo ancora in testa. — Credi che non sappia di Lena Duchannes? — Mi andò di traverso il boccone. Lena Duchannes. Con la pronuncia del Sud, diventava "Duscein". E da come lo faceva rotolare Amma sulla lingua, sembrava avesse una sillaba in più. Du-scei-in.
— È così che si chiama? Lena? Amma spinse verso di me un bicchiere di latte al cioccolato. — Sì e no. Non sono affari tuoi. Non immischiarti in cose di cui non sai niente, Ethan Wate. Amma parlava sempre per enigmi e non si preoccupava mai di chiarirti le idee. Non ero più tornato a casa sua a Wader's Creek da quando ero piccolo, ma sapevo che in paese ci andavano quasi tutti. Amma era la più rispettata cartomante nel raggio di cento chilometri, come sua madre prima di lei e sua nonna prima ancora. Sei generazioni di donne che leggevano i tarocchi. Gatlin era stracolma di timorati di Dio - battisti, metodisti o pentecostali - ma nessuno di loro sapeva resistere al fascino dei tarocchi, alla possibilità di cambiare il corso del proprio destino. Perché erano convinti che una potente cartomante potesse fare anche questo. E Amma era una potenza da non sottovalutare. Qualche volta trovavo uno dei suoi amuleti artigianali nel cassetto dei calzini oppure appeso sopra la porta dello studio di mio padre. Avevo chiesto solo una volta a cosa servissero. Mio padre prendeva in giro Amma ogni volta che li trovava, ma avevo notato che non li buttava mai. — Non è vero, ma ci credo — ripeteva. E comunque, per certe cose, era meglio assecondare Amma. Lui lo sapeva bene. — Hai sentito qualcos'altro su di lei? — Bada a te. Un giorno troverai una falla nel cielo e tutto l'universo cadrà giù. E allora sì che saremo tutti nei guai! Mio padre entrò in cucina in pigiama, strascicando i piedi. Si versò una tazza di caffè e prese una scatola di cereali dalla dispensa. Aveva ancora i tappi gialli nelle orecchie. I cereali significavano che stava per iniziare la sua giornata. I tappi nelle orecchie significavano che non era ancora veramente iniziata. Mi chinai e sussurrai ad Amma: — Cos'hai sentito?
Amma mi tolse il piatto da sotto il naso e lo portò al lavello. Risciacquò delle ossa che sembravano di maiale (cosa strana, visto che avevamo mangiato pollo) e le mise su un piatto. — Nulla che ti riguardi. Quello che vorrei sapere è perché sei tanto interessato. Alzai le spalle. — Non è che mi interessi, in realtà. Sono solo curioso. — Sai cosa si dice della curiosità. — Infilzò una forchetta nella mia fetta di torta al latticello. Poi mi lanciò la sua Occhiata e se ne andò. Persino mio padre notò la porta della cucina che oscillava al suo passaggio, e si tolse un tappo da un orecchio. — Com'è andata a scuola? — Bene. — Cos'hai fatto ad Amma? — Ho tardato a scuola. Mi fissò. Io fissai lui. — La numero 2? Annuii. — Era appuntita? — Sì, e poi lei l'ha temperata. — Sospirai. Mio padre fece quasi un sorriso, cosa rara. Sentii un'ondata di sollievo, forse addirittura una sensazione di successo. — Sai quante volte sono stato seduto a questo tavolo, mentre lei mi sguainava contro la sua matita, da bambino? — mi chiese, pur non essendo una vera domanda. Il tavolo, graffiato e macchiato di colla e tempera e pennarelli di tutti gli Wate che mi avevano preceduto, era una delle cose più vecchie della casa. Sorrisi. Mio padre prese la scodella di cereali e agitò il cucchiaio verso di me. Amma aveva cresciuto anche lui, cosa
che da bambino mi veniva ricordata ogni volta che avevo anche solo il pensiero di mancarle di rispetto. — M-I-R-I-A-D-I. — Scandì la parola buttando la scodella nel lavello. — P-L-E-T-O-R-E. Tradotto: molte più volte di te, Ethan Wate. Mentre entrava nella luce della cucina, il mezzo sorriso si ridusse a un quarto, poi sparì. Aveva un aspetto peggiore del solito. Le ombre sul suo viso erano più scure e gli si vedevano le ossa sotto la pelle. La faccia era verde pallido perché non usciva mai di casa. Sembrava un cadavere vivente. Era così ormai da mesi. Si stentava a credere che fosse la stessa persona che una volta sedeva con me per ore sulla riva del lago Moultrie, a mangiare panini con l'insalata di pollo e a insegnarmi come lanciare una lenza. «Indietro e poi avanti. Le dieci e le due. Le dieci e le due. Come le lancette dell'orologio.» Gli ultimi cinque mesi erano stati duri per lui. Amava davvero mia madre, ma anch'io. Mio padre prese il suo caffè e si avviò ciabattando verso lo studio. Era tempo di affrontare la realtà. Forse Macon Ravenwood non era l'unico eremita della città. Non pensavo che Gatlin fosse grande abbastanza per due Boo Radley. Ma questa era comunque la cosa più vicina a una conversazione che avessimo avuto da mesi, e ora non volevo che papà se ne andasse. — Come sta venendo il tuo libro? — sparai. Fermati e parla con me. Volevo dirgli questo. Lui si sorprese, poi scrollò le spalle. — Viene. Ho ancora un sacco di lavoro da fare. — Non ce la faceva. Voleva dirmi questo. — La nipote di Macon Ravenwood si è appena trasferita qui. — Lo dissi mentre lui si rimetteva il tappo nell'orecchio. Fuori sincrono, come eravamo sempre. Ripensandoci,
ultimamente ero fuori sincrono con quasi tutti quelli che frequentavo. Mio padre si levò il tappo, sospirò e si levò anche l'altro. — Come? — Stava già tornando nel suo studio. Il tachimetro della nostra conversazione era agli sgoccioli. — Macon Ravenwood, cosa sai di lui? — Quello che sanno tutti, immagino. Fa una vita da recluso. Sono anni che non esce di casa, per quanto ne so. — Aprì la porta dello studio ed entrò, ma io non lo seguii. Mi fermai sulla soglia. Non mettevo mai piede là dentro. Una volta, una volta sola, quando avevo sette anni, mio padre mi aveva beccato che leggevo il suo romanzo prima che la revisione fosse finita. Il suo studio era un antro buio e spaventoso. C'era un dipinto sempre coperto da un lenzuolo, appeso sopra il consunto sofà vittoriano. Sapevo che non bisognava chiedere cosa ci fosse sotto quel drappo. Tra il sofà e la finestra c'era la scrivania di mio padre, in mogano intagliato, un altro pezzo antico tramandatoci con la casa, di generazione in generazione. E poi c'erano i libri, vecchi tomi rilegati in cuoio, così pesanti che venivano appoggiati su un enorme leggio di legno quando erano aperti. Ecco le cose che ci tenevano legati a Gatlin e alla nostra casa, Wate's Landing, così come avevano tenuto legati i miei antenati per più di cento anni. Sulla scrivania c'era il suo manoscritto. Era lì, in una scatola di cartone aperta, e io non avevo saputo resistere. Mio padre scriveva romanzi horror gotici, quindi niente di adatto a un bambino di sette anni. Ma ogni casa a Gatlin era piena di segreti, come tutto il Sud, e casa mia non faceva eccezione, nemmeno allora. Mio padre mi aveva scoperto, raggomitolato sul divano dello studio, con pagine sparse intorno come se fosse esplosa
una bomba nella scatola. Non ero furbo abbastanza da coprire le mie tracce, cosa che imparai in fretta dopo quella volta. Ricordo solo mio padre che urlava e mia madre che mi veniva a cercare e mi trovava in lacrime tra i rami della vecchia magnolia sul retro. «Certe cose sono private, Ethan. Anche per gli adulti.» Io volevo solo sapere. Era sempre stato quello il mio problema. Anche adesso. Volevo sapere perché mio padre non usciva mai dal suo studio. Volevo sapere perché non potevamo andarcene da quella vecchia casa che non valeva niente, soprattutto adesso che mia madre non c'era più, anche se ci avevano vissuto migliaia di altri Wate prima di noi. Ma non quella sera. Quella sera volevo solo ricordare i panini con l'insalata di pollo, le dieci e le due e un tempo in cui mio padre mangiava i cereali in cucina scherzando con me. Mi addormentai ricordando. * * * Prima che la campanella suonasse, la mattina dopo, Lena Duchannes era ciò di cui tutti volevano parlare, alla Jackson High. In qualche modo, tra i temporali e le linee elettriche che saltavano, Loretta Snow ed Eugenie Asher, mamme rispettivamente di Savannah e di Emily, erano riuscite a mettere in tavola la cena e a chiamare tutto il paese per informare che la "parente" del matto Macon Ravenwood se ne andava in giro per Gatlin con il carro funebre, quello che il vecchio sicuramente usava per trasportare cadaveri quando nessuno lo vedeva. E da lì in poi fu un crescendo di follia. Ci sono due cose sulle quali si può sempre contare a Gatlin. La prima: puoi essere diverso, anche pazzo, basta che tu esca di casa di tanto in tanto, in modo che la gente non ti creda un
assassino armato di ascia. La seconda: se c'è una storia da raccontare, puoi star sicuro che ci sarà qualcuno a cui raccontarla. Una ragazza nuova in paese, che viveva con l'eremita nella Casa Infestata, quella sì era una storia, forse la storia più grossa che piombava su Gatlin dopo l'incidente di mia madre. Quindi, non so perché mi sorpresi quando scoprii che a scuola tutti parlavano di lei. Tutti, tranne i maschi. Avevano cose più serie di cui discutere. — Allora cosa abbiamo, Em? — Link sbatté l'anta del suo armadietto. — Comprese le selezioni delle cheerleader, direi quattro 8, tre 7 e una manciata di 4. — Emory non perdeva tempo a contare le matricole che valutava sotto il 4. Chiusi anch'io il mio armadietto. — È questa la novità? Non sono le stesse tizie che vediamo ogni sabato al Dar Kin? Emory sorrise e mi batté sulla spalla. — Ma adesso sono entrate in gioco, Wate. — Osservò le ragazze nel corridoio. — E io sono pronto a giocare. — Emory era solo chiacchiere. L'anno precedente, quando eravamo in prima, non parlava d'altro che delle ragazze più sexy dell'ultimo anno con cui sarebbe uscito, ora che era alla Jackson. Era un povero illuso, come Link, ma non altrettanto innocuo. Emory aveva una vena di meschinità. Tutti i Watkins ce l'avevano. Shawn scosse la testa. — È come andare a raccogliere pesche nel vigneto. — Le pesche crescono sugli alberi. — Mi ero già scocciato, forse perché avevo incontrato i ragazzi davanti all'espositore dei giornali allo Stop&Scippa, prima di scuola, e avevo subito la stessa, identica conversazione mentre Earl sfogliava gli ultimi numeri dell'unica cosa che leggeva: riviste con ragazze in bikini sdraiate sul cofano di una macchina. Shawn mi guardò, perplesso. — Che stai dicendo?
Non so nemmeno perché me la prendessi. Erano chiacchiere stupide, così come era stupido che il mercoledì mattina tutta la squadra di basket si dovesse incontrare prima della scuola. Avevo cominciato a considerarlo una specie di appello. C'erano poche cose che ci si aspettava da te, se eri nella squadra di basket. Ci si sedeva insieme in mensa. Si andava alle feste di Savannah Snow, si invitava una delle cheerleader al Ballo d'Inverno, si passava la giornata al lago Moultrie l'ultimo giorno di scuola. Si poteva schivare quasi tutto il resto, se ci si presentava all'appello del mercoledì. Solo che per me stava diventando sempre più difficile andarci, e non sapevo perché. Non avevo ancora trovato la risposta, quando la vidi. Anche senza vederla, avrei saputo che era là perché tutto il corridoio, di solito affollato di gente che correva agli armadietti e cercava di arrivare in classe prima della seconda campanella, si liberò in pochi secondi. Tutti, ma proprio tutti, si fecero da parte quando entrò lei. Come se fosse una rockstar. O una lebbrosa. Io invece vidi solo una ragazza bellissima con un lungo vestito grigio, sotto una felpa bianca con la scritta Munich ricamata, e un paio di Ali Star nere e consumate che spuntavano da sotto l'orlo. Una ragazza con una lunga collana d'argento intorno al collo, piena di ciondoli - un anello di plastica dei distributori automatici, una spilla da balia e una quantità di cianfrusaglie che ero troppo lontano per distinguere. Una ragazza che non aveva l'aria di una di Gatlin. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. La nipote di Macon Ravenwood. Cosa mi stava succedendo? Si sistemò i riccioli scuri dietro l'orecchio. Lo smalto nero brillò alla luce dei neon. Sulle sue mani c'erano tracce di inchiostro nero, forse ci aveva scritto sopra. Percorse il
corridoio come se fossimo tutti invisibili. Aveva gli occhi più verdi che avessi mai visto, così verdi da sembrare proprio di un colore a parte. — Sì, è sexy — commentò Billy. Sapevo cosa stavano pensando. Per un secondo, avevano tutti valutato l'ipotesi di mollare le loro ragazze per provarci con lei. Per un secondo, la ragazza nuova fu una possibilità. Earl la squadrò da capo a piedi, poi sbatté la porta dell'armadietto. — Se si ignora il fatto che è una marziana. C'era qualcosa nel modo in cui lo disse o, più probabilmente, nel motivo per cui lo disse. Era una marziana perché non era di Gatlin, perché non si affannava per entrare nella squadra delle cheerleader, perché non l'aveva degnato di un secondo sguardo e nemmeno di un primo. In qualsiasi altro giorno, l'avrei ignorato e avrei tenuto il becco chiuso, ma oggi non mi andava. — È automaticamente una marziana, e perché? Perché non ha la divisa, cioè capelli biondi e minigonna? Era facile leggere i pensieri sulla faccia di Earl. Questa era una delle volte in cui si aspettava che gli dessi manforte, e invece io non stavo mantenendo la mia parte del nostro tacito accordo. — Perché è una Ravenwood. Il messaggio era chiaro. Sexy, sì, ma non pensarci nemmeno. Non era più una possibilità. Però questo non impediva a nessuno di guardarla e infatti la stavano guardando tutti. Chiunque fosse nel corridoio la teneva d'occhio come se fosse un cervo nel mirino. Ma lei continuò a camminare, la collana che le tintinnava intorno al collo. * * *
Qualche minuto dopo, ero sulla porta dell'aula di Letteratura Inglese. Lei era lì. Lena Duchannes. La ragazza nuova che fra cinquantanni sarebbe stata ancora la ragazza nuova o, in alternativa, la nipote del Vecchio Ravenwood. Stava consegnando un foglio rosa di trasferimento alla professoressa English, che lo lesse strizzando gli occhi. Il foglio rosa autorizzava Lena Duchannes a seguire le lezioni della English. — Hanno fatto confusione con il mio orario e non avevo una classe di Letteratura — le stava spiegando. — Avevo due ore di Storia degli Stati Uniti, ma l'ho già studiata nella mia vecchia scuola. — Sembrava esasperata. Cercai di non sorridere. Lei non aveva mai fatto Storia degli Stati Uniti, non come la insegnava Lee. — Ma certo. Siediti dove vuoi. — La English le diede una copia del Buio oltre la siepe. Il libro sembrava che non fosse mai stato aperto, il che probabilmente era vero, almeno da quando ne avevano fatto il film. La ragazza nuova alzò gli occhi e notò che la stavo osservando. Distolsi subito lo sguardo, ma era troppo tardi. Cercai di non sorridere ma l'imbarazzo mi fece sorridere ancora di più. Lei sembrò non accorgersene. — Grazie, ho portato il mio. — Tirò fuori un volume cartonato con l'illustrazione di un albero in copertina. Era vecchio e consunto, come se fosse stato letto più di una volta. — È uno dei miei libri preferiti. — Lo disse così, come se fosse normale. Adesso sì che la fissavo. Sentii uno schiacciasassi venirmi addosso ed Emily entrò in aula spintonandomi, come se non esistessi neppure, che era il suo modo di salutarmi e di aspettarsi che la seguissi in fondo all'aula, dove erano seduti i nostri amici. La ragazza nuova si sedette in un posto vuoto in prima fila, nella Terra di Nessuno, davanti alla cattedra della English.
Mossa sbagliata. Tutti sapevano che non ci si doveva sedere lì. La English aveva un occhio di vetro e il pessimo udito che ti tocca quando la tua famiglia gestisce l'unico poligono di tiro della contea. Bastava evitare di sedersi davanti alla cattedra e lei non ti avrebbe mai visto e non ti avrebbe mai interrogato. Lena oggi avrebbe dovuto rispondere per tutta la classe. Emily sembrava divertita, cambiò percorso per passare accanto a Lena e dare un calcio alla sua borsa, sparpagliando tutti i suoi libri tra le file di banchi. — Ops. — Emily si chinò e raccolse uno sgangherato blocknotes a spirale a cui mancava solo un dente per perdere la copertina. Lo sollevò come se fosse un topo morto. — Lena Duchannes. È così che ti chiami? Credevo che fossi una Ravenwood. Lena alzò gli occhi su di lei, lentamente. — Posso riavere il mio taccuino? Emily sfogliò le pagine, come se non l'avesse sentita. — È il tuo diario? Sei una scrittrice? Ma è fantastico! Lena allungò la mano. — Per favore. Emily chiuse di scatto il block-notes e lo tenne fuori dalla sua portata. — Posso prenderlo in prestito per un minuto? Mi piacerebbe tanto leggere qualcosa di tuo. — Lo rivoglio adesso. Per favore. — Lena si alzò. La situazione si faceva interessante. La nipote del Vecchio Ravenwood si stava scavando una fossa dalla quale sarebbe stato impossibile risalire. Nessuno aveva una memoria lunga come quella di Emily. — Prima dovresti imparare a leggere. — Presi il diario dalle mani di Emily e lo restituii a Lena. Poi mi sedetti al banco accanto al suo, proprio lì, nella Terra di Nessuno. Dal lato dell'occhio buono. Emily mi guardò incredula. Non so perché lo feci. Ero scioccato quanto lei. Non
mi ero mai seduto in prima fila in tutta la mia vita. Suonò la campanella prima che Emily potesse replicare, ma non importava: sapevo che l'avrei pagata dopo. Lena aprì il suo notes e ci ignorò entrambi. — Possiamo iniziare, ragazzi? — La English alzò gli occhi dalla scrivania. Emily s'infilò al suo solito posto in ultima fila: abbastanza lontano dalla cattedra da non rispondere alle domande per tutto l'anno scolastico, abbastanza lontano dalla nipote del Vecchio Ravenwood e, ora, abbastanza lontano anche da me. Il che fu una sorta di liberazione, anche se dovetti analizzare il rapporto tra Jem e Scout per cinquanta minuti senza aver letto il capitolo. Quando suonò la campanella, mi girai verso Lena. Non so cosa volessi dirle. Forse mi aspettavo che mi ringraziasse. Ma lei infilò i libri nella borsa senza pronunciare una sola parola. 161. Non era una parola, quello che si era scritta sul dorso della mano. Era un numero. * * * Lena Duchannes non mi rivolse la parola, non quel giorno, non quella settimana. Ma questo non mi impedì di pensare a lei o di vederla ovunque cercassi di non guardare. Non era solo lei che mi turbava, non proprio. Non era il suo aspetto, era molto carina anche se indossava sempre i vestiti sbagliati e quelle scarpe pietose. Non era neppure quello che diceva in classe - in genere, cose che nessuno dei miei compagni avrebbe mai pensato e, nel caso le avessero pensate, non avrebbero mai osato dire a voce alta. Non era neanche il fatto che fosse
diversa da tutte le altre ragazze della Jackson. Questo era evidente. Era che mi faceva capire quanto fossi uguale a tutti gli altri, anche se volevo fingere il contrario. Aveva piovuto per tutto il giorno. Ero nella classe di Ceramica, detta anche BVG, Bel Voto Garantito, visto che gli studenti venivano valutati in base all'impegno. Mi ero iscritto a Ceramica la precedente primavera perché dovevo frequentare una materia artistica e volevo stare lontano a tutti i costi dalla banda della scuola, che adesso stava rumorosamente provando al piano di sotto, diretta da quella scheletrica invasata della professoressa Spider. Savannah era seduta accanto a me. Ero l'unico maschio della classe e, dato che ero un maschio, non avevo idea di cosa dovessi fare. — Oggi si tratta solo di sperimentare. Non verrete valutati. Sentite la creta con le mani. Liberate la mente. E ignorate la musica che viene da giù. — La professoressa Abernathy fece una smorfia, quando la banda cominciò a massacrare Dixie, la marcia dei soldati confederati. — Scavate in profondità. Trovate la strada verso la vostra anima. Misi in moto il tornio e guardai l'argilla che girava. Sospirai. Era terribile quasi quanto la banda. Poi, mentre l'aula si faceva più silenziosa e il ronzio dei torni copriva il brusio delle file posteriori, la musica dal piano di sotto cambiò. Sentii un violino, o forse uno di quegli strumenti più grandi, una viola. Era magnifico e allo stesso tempo triste, ed era inquietante. C'era più talento nella voce cruda di quella musica di quanto la Spider avesse mai sognato di dirigere. Mi guardai intorno; nessun altro sembrava aver notato la musica. Il suono mi penetrò sotto la pelle.
Riconobbi subito la melodia e in pochi istanti risentii le parole nella mia mente, chiare e forti come se le stessi ascoltando sul mio iPod. Ma questa volta erano diverse. Sedici anni, sedici lune Nelle tue orecchie scoppi di tuoni Sedici miglia perché lei si avvicini Sedici cerca quel che sedici teme... L'argilla sul tornio diventò una macchia sfocata. Più mi concentravo, più la stanza si dissolveva intorno al tornio, finché sembrò che l'argilla facesse girare con sé la classe, il tavolo, la mia sedia. Come se fossimo tutti legati insieme in questo vortice di moto costante, ritmato dalla melodia dell'aula di musica. La stanza stava scomparendo. Lentamente, allungai una mano e scavai nell'argilla con la punta del dito. Poi un lampo e l'aula vorticante si dissolse in un'altra immagine... Stavo cadendo. Stavamo cadendo. Ero di nuovo nel sogno. Vedevo la sua mano. Vedevo la mia mano che afferrava la sua, le mie dita che affondavano nella sua pelle, nel polso, nel disperato tentativo di tenerla stretta. Ma mi stava scivolando via. Lo sentivo, sentivo le sue dita sgusciare dalle mie. — Non mollare! Volevo aiutarla, volevo trattenerla. Lo volevo più di ogni altra cosa. E poi, lei mi scivolò tra le dita... — Ethan, cosa stai facendo? — La professoressa Abernathy sembrava preoccupata.
Aprii gli occhi e cercai di concentrarmi, di tornare alla realtà. Facevo quei sogni da quando mia madre era morta, ma questa era la prima volta che mi succedeva di giorno. Mi guardai la mano grigia e infangata, incrostata di argilla quasi asciutta. L'argilla sul tornio conservava l'impronta perfetta di una mano, come se avessi schiacciato quello che stavo modellando. La osservai meglio. L'impronta non era della mia mano, era troppo piccola. Era la mano di una ragazza. La mano di lei. Mi guardai sotto le unghie e vidi l'argilla che le avevo strappato dal polso. — Ethan, potresti almeno provare a fare qualcosa. — La Abernathy mi mise una mano sulla spalla. Sobbalzai. Fuori dalla finestra, sentii il brontolio di un tuono. — Ma professoressa Abernathy, io credo che l'anima di Ethan stia cercando di comunicare con lui. — Savannah ridacchiò, protendendosi verso di noi per vedere meglio. — E credo ti stia dicendo di farti una bella manicure, Ethan. Le altre ragazze cominciarono a ridere. Spiaccicai l'impronta con il pugno, ritrasformandola in un grumo di grigio niente. Mi alzai, pulendomi le mani sui jeans, non appena suonò la campanella. Afferrai lo zaino e scappai via dall'aula, slittando sulle suole umide quando girai l'angolo e rischiando di inciampare sui lacci sciolti mentre scendevo di corsa le due rampe di scale che mi separavano dall'aula di musica. Dovevo sapere se avevo immaginato tutto. Spalancai le doppie porte con due mani. Il palco era vuoto. Gli studenti mi sfilarono accanto, uscendo. Ero l'unico che andava nella direzione sbagliata, controcorrente. Feci un respiro profondo, ma sapevo che odore avrei sentito prima ancora di sentirlo. Limoni e rosmarino.
Davanti al palco, la Spider stava raccogliendo gli spartiti sparsi sulle sedie pieghevoli che usava per la misera orchestra della Jackson. La chiamai: — Mi scusi, prof. Chi stava suonando quella... quella canzone? Lei mi sorrise. — Abbiamo un nuovo, meraviglioso elemento tra gli archi. Una viola. È una ragazza che si è appena trasferita... No. Non poteva essere. Non lei. Mi girai e corsi via prima che la Spider potesse pronunciarne il nome. * * * Quando suonò la campanella dell'ottava e ultima ora, trovai Link che mi aspettava davanti agli spogliatoi. Si passò la mano tra i capelli sparati e si lisciò la maglietta sbiadita dei Black Sabbath. — Link, mi servono le tue chiavi. — E l'allenamento? — Non posso. C'è una cosa che devo fare. — Amico, che ti salta in mente? — Mi servono le chiavi. — Dovevo uscire da lì. Avevo un sogno ricorrente, sentivo una canzone che non esisteva e il mio cervello andava in black out nel mezzo di una lezione. Non sapevo cosa mi stesse succedendo, ma sapevo che era grave. Se mia madre fosse stata ancora viva, probabilmente le avrei raccontato tutto. Lei era così, le si poteva confidare qualsiasi cosa. Ma mia madre non c'era più, mio padre era sempre rintanato nel suo studio e se l'avessi detto ad Amma, avrebbe sparso sale nella mia stanza per un mese. Ero solo. Link mi allungò le chiavi. — L'allenatore ti ucciderà.
— Lo so. — E Amma lo verrà a sapere. — Lo so. — E ti farà arrivare a calci nel didietro fino in Alabama. — La sua mano ebbe un'esitazione, mentre prendevo le chiavi. — Non fare sciocchezze. Mi voltai e corsi via. Troppo tardi.
11-09 Collisione Quando arrivai alla macchina, ero fradicio di pioggia. La tempesta si preparava da una settimana. C'erano bollettini meteorologici su tutte le stazioni radio che riuscivo a ricevere, vale a dire ben poche, dato che il Catorcio ne prendeva solo tre e in am. Le nubi erano nerissime e, siccome era la stagione degli uragani, non era una cosa da prendere alla leggera. Ma non importava. Dovevo cercare di capire cosa stava succedendo, anche se non sapevo dove fossi diretto. Dovetti accendere i fari persino per uscire dal parcheggio. Non si vedeva a più di un metro. Non era certo la giornata ideale per andarsene in giro in macchina. Un lampo tagliò il cielo scuro davanti a me. Contai, come mi aveva insegnato Amma tanti anni prima - uno, due, tre. Esplose il tuono. Significava che la tempesta non era lontana: circa un chilometro, secondo i calcoli di Amma. Mi fermai al semaforo vicino alla scuola, uno degli unici tre del paese. Non avevo idea di cosa fare. La pioggia picchiava sul Catorcio come un martello pneumatico. La radio trasmetteva solo scariche di elettricità statica, ma sentii qualcosa. Alzai il volume e una canzone si riversò nell'abitacolo dalle casse di pessima qualità. Sedici lune.
La canzone sparita dalla mia playlist. La canzone che nessun altro sembrava sentire. La canzone che Lena Duchannes aveva suonato alla viola. La canzone che mi stava facendo perdere la ragione. Il semaforo diventò verde e il Catorcio si mise in marcia con un sobbalzo. Ero per strada, ma non avevo la più pallida idea di dove stessi andando. Un lampo stracciò il cielo. Contai. Uno, due. La tempesta si stava avvicinando. Misi in funzione i tergicristalli. Inutile. Non vedevo nemmeno fino a metà dell'isolato. Un altro lampo. Contai. Uno. Il tuono rombò sopra il Catorcio e la pioggia cominciò a cadere in orizzontale. Il parabrezza tremava come se stesse per cedere e, considerato lo stato generale del Catorcio, non era affatto improbabile. Non stavo inseguendo la tempesta. Era la tempesta che inseguiva me, e mi aveva trovato. Facevo fatica a tenere le ruote sulla strada e la coda del Catorcio cominciò a sbandare, guizzando senza controllo tra le due corsie della Route 9. Non si vedeva niente. Pestai sui freni, andando in testa-coda nel buio. I fari sfarfallarono per un secondo e un paio di enormi occhi verdi mi fissarono dal centro della carreggiata. Pensai a un cervo, ma mi sbagliavo. C'era qualcuno in mezzo alla strada! Tenni il volante con due mani, usando tutte le mie forze. Andai a sbattere contro la portiera. Lei aveva una mano tesa. Chiusi gli occhi aspettando l'impatto, ma non ci fu. Il Catorcio si arrestò con un sussulto, a meno di un metro da lei. I fari formavano un pallido cerchio di luce nella pioggia battente e si riflettevano su un poncho di plastica impermeabile, di ciucili che si comprano per tre dollari al supermercato. Era una ragazza. Lentamente si abbassò il
cappuccio, lasciandosi scorrere la pioggia sul viso. Occhi verdi, capelli neri. Lena Duchannes. Non riuscivo a respirare. Sapevo che aveva gli occhi verdi: li avevo già visti. Ma ora erano diversi - diversi da qualsiasi paio d'occhi avessi mai visto. Erano enormi e di un verde innaturale, elettrico, come i lampi della tempesta. Ferma così, sotto la pioggia, non sembrava nemmeno umana. Scesi dal Catorcio sotto la pioggia, lasciando il motore acceso e la portiera spalancata. Nessuno di noi due disse una parola, immobili in mezzo alle Route 9, sferzati da una pioggia che si vedeva solo durante gli uragani o i cicloni. Le mie vene pompavano adrenalina e i muscoli erano tesi, come se il mio corpo stesse ancora aspettando l'impatto. Il vento frustava i capelli di Lena e glieli faceva volare intorno al viso, gocciolanti di pioggia. Mi avvicinai e lo sentii come uno schiaffo. Limoni bagnati. Rosmarino bagnato. D'un tratto, il sogno cominciò a tornarmi alla mente, come onde che s'infrangevano sopra di me. Solo che questa volta, quando la ragazza mi sfuggì tra le dita, riuscii a vederla in viso. Occhi verdi e capelli neri. Ora ricordavo. Era lei. Lei, la ragazza che adesso stava davanti a me. Dovevo accertarmene. Le presi il polso. C'erano: i minuscoli graffi a mezzaluna, là dove nel sogno le mie dita si erano strette intorno al suo polso. Quando la toccai, sentii una scossa elettrica in tutto il corpo. Un fulmine si schiantò su un albero a pochi passi da noi, spaccando il tronco a metà. L'albero cominciò a fumigare. — Sei matto? O sei solo un pessimo guidatore? — Lei arretrò, con gli occhi verdi che brillavano... di rabbia? O di altro. — Sei tu.
— Cosa stavi cercando di fare? Volevi ammazzarmi? — Sei vera. — Le mie parole mi suonavano strane, come se avessi la bocca piena di cotone. — Un vero cadavere, a momenti. Per merito tuo. — Non sono pazzo. Credevo di esserlo, ma non lo sono. Sei proprio tu. Qui, davanti a me. — Non per molto. — Mi voltò le spalle e s'incamminò lungo la strada. Non era così che l'avevo immaginato. La raggiunsi di corsa. — Sei stata tu a sbucare dal nulla e a fiondarti in mezzo alla strada! Lei agitò teatralmente il braccio, come a scacciare l'idea e non solo quella. Solo adesso vidi la lunga macchina nera nel buio. Il carro funebre, con il cofano aperto. — Stavo cercando aiuto, genio. La macchina di mio zio è defunta. Bastava che non ti fermassi. Non c'era bisogno di cercare di investirmi. — Sei tu la ragazza dei sogni. E la canzone. Quella strana canzone sull'iPod. Lei si girò di scatto. — Che sogni? Che canzone? Sei ubriaco o è una specie di scherzo? — Lo so che sei tu. Hai i segni sul polso. Lei girò la mano e la guardò, confusa. — Questi? Ho un cane. Fattene una ragione. Ma io sapevo che non mi sbagliavo. Ora vedevo nitidamente il viso della ragazza dei sogni. Possibile che lei non ne sapesse nulla? Lena si tirò su il cappuccio e s'incamminò verso Ravenwood sotto la pioggia scrosciante. Era un bel pezzo in là. La raggiunsi di nuovo. — Ti do un consiglio. La prossima volta, non uscire dalla macchina in mezzo alla strada durante una tempesta. Chiama il Pronto Intervento. Lei non si fermò. — Non posso chiamare la polizia. Non dovrei guidare da sola, ho solo il foglio rosa. E non mi
funziona neanche il cellulare. — Si vedeva che non era di queste parti. Qui la polizia ti fermava solo se guidavi contromano. La tempesta si stava inasprendo. Ora dovevo gridare sopra l'urlo della pioggia. — Lascia che ti dia un passaggio fino a casa. Non puoi startene qua fuori. — No, grazie. Aspetterò il prossimo ragazzo che tenterà di investirmi. — Non ci sarà nessun altro ragazzo. Potrebbero passare delle ore prima che arrivi qualcuno. Lei riprese a camminare. — Nessun problema. Vado a piedi. Non potevo lasciarla da sola sotto il diluvio. Mia madre mi aveva pur insegnato qualcosa. — Non posso permetterti di andare a casa a piedi con questo tempo. — E, come evocato dalle mie parole, un tuono scoppiò nel cielo sopra di noi. Le volò via il cappuccio. — Guiderò come mia nonna. Guiderò come tua nonna. — Non lo diresti, se conoscessi mia nonna. — Il vento si stava inferocendo. Adesso gridava anche lei. — Vieni. — Cosa? — In macchina. Sali. Con me. Lei mi guardò e per un secondo ebbi il dubbio che non avrebbe ceduto. — Be', immagino che sia più sicuro che andare a piedi, con uno come te in giro per le strade. Il Catorcio era fradicio. Link avrebbe dato di matto. La tempesta suonò diversa, una volta in macchina, sia più fragorosa che più silenziosa. La pioggia colpiva il tettuccio, ma il rumore era quasi completamente soffocato dal mio cuore e dai miei denti che battevano alla grande. Inserii la marcia. Ero molto consapevole della presenza di Lena accanto a me, a
pochi centimetri di distanza, sul sedile del passeggero. Le lanciai un'occhiata. Anche se era uno strazio, era bellissima. I suoi occhi verdi erano enormi. Non riuscivo a capire perché ora mi sembrassero così diversi. Aveva le ciglia più lunghe del mondo e la pelle era chiara, resa ancora più pallida dal contrasto con i capelli neri e ribelli. Aveva una minuscola voglia color caffellatte, a forma di spicchio di luna, sullo zigomo sinistro. Non somigliava a nessuno della Jackson. Non somigliava proprio a nessuno che avessi mai visto. Si sfilò dalla testa il poncho bagnato. La maglietta nera e i jeans le stavano incollati addosso come se fosse caduta in una piscina. Dal gilè grigio le scendeva un rivolo d'acqua fin sul sedile di finta pelle. — Mi s-stai fissando. Distolsi subito gli occhi, guardai il parabrezza, guardai ovunque, tranne che verso di lei. — Forse dovresti togliertelo. Ti farà sentire più freddo. Vidi che armeggiava con i delicati bottoni d'argento del gilè, incapace di controllare il tremito delle mani. Mi allungai e lei s'immobilizzò. Come se avessi potuto trovare il coraggio di toccarla di nuovo. — Accendo il riscaldamento. Lei tornò ai suoi bottoni. — G-grazie. Vedevo le sue mani: altro inchiostro, ora slavato dalla pioggia. Riuscivo a distinguere dei numeri, un uno o forse un sette, un cinque, un tre. 153. Che roba era? Cercai sul sedile posteriore la vecchia coperta militare che Link di solito teneva nel Catorcio. Invece trovai un sacco a pelo sbrindellato, probabilmente rimasto lì dall'ultima volta che Link era finito nei guai con sua madre e aveva dovuto dormire in macchina. Sapeva del fumo di molti falò e di muffa di cantina. Glielo passai.
— Mmm. Molto meglio. — Lena chiuse gli occhi. Sentivo che si calmava al calore del riscaldamento e mi rilassai solo a guardarla. I suoi denti smisero di battere. Viaggiavamo in silenzio. L'unico rumore era quello della tempesta e delle ruote che sollevavano schizzi d'acqua sulla strada completamente allagata. Lei disegnava con il dito sul finestrino appannato. Io cercavo di tenere gli occhi sulla strada, cercavo di ricordare il resto del sogno - un dettaglio, qualcosa che dimostrasse che lei era, non so, lei, e che io ero io. Ma più mi sforzavo, più mi sembrava che tutto svanisse nella pioggia, nella strada, negli acri e acri di campi di tabacco che ci sfilavano accanto, disseminati di antiquate attrezzature e vecchie fattorie sgangherate. Arrivammo ai margini del paese e potevo già vedere il bivio, più avanti. Svoltando a sinistra, verso casa mia, si arrivava al fiume, dove le antiche case prebelliche accuratamente restaurate costeggiavano la strada, la stessa che portava anche fuori dal paese. Quando arrivammo al bivio, feci per svoltare a sinistra, per abitudine. A destra c'era solo la piantagione dei Ravenwood e nessuno ci andava mai. — No, aspetta. Gira a destra — mi avvisò lei. — Ah, sì. Scusami. — Mi sentivo male. Salimmo la collina che portava alla grande villa padronale. Ero così avviluppato nei miei ragionamenti su chi potesse essere, da aver dimenticato chi era davvero. La ragazza che sognavo da mesi, la ragazza che era sempre nei miei pensieri, era la nipote di Macon Ravenwood. E io la stavo accompagnando a casa. La Casa Infestata, la chiamavamo tutti. Me compreso. Lei si guardava le mani. Non ero l'unico a sapere che Lena viveva nella Casa Infestata. Chissà cosa aveva sentito nei corridoi della scuola, chissà se sapeva quello che tutti dicevano di lei. Il disagio che le leggevo in faccia mi disse che sì, lo
sapeva. Non so perché, ma non sopportavo di vederla così. Cercai di pensare a qualcosa da dire per rompere il silenzio. — Come mai ti sei trasferita qui da tuo zio? In genere la gente cerca di scappare da Gatlin. Nessuno vuole venirci a vivere. Sentii il sollievo nella sua voce. — Ho vissuto in un sacco di posti. New Orleans, Savannah, l'arcipelago delle Florida Keys e anche in Virginia, per qualche mese. Ho persino vissuto alle Barbados per un po'. Notai che non aveva risposto alla mia domanda. In quel momento però pensavo solo che sarei stato pronto a uccidere pur di vivere in uno di quei posti, anche solo per un'estate. — Dove sono i tuoi genitori? — Sono morti. Sentii una stretta al petto. — Scusami. — Non c'è problema. Sono morti quando avevo due anni. Non me li ricordo nemmeno. Ho vissuto con un sacco di parenti, principalmente con mia nonna. Ora lei è in viaggio per qualche mese. Per questo sono da mio zio. — Anche mia madre è morta. Incidente d'auto. — Perché l'avevo detto? Non ne avevo idea. In genere, evitavo sempre e accuratamente di parlarne. — Mi dispiace. Non dissi «non c'è problema». Lei mi sembrava il tipo di ragazza che sapeva benissimo che non era affatto vero. Ci fermammo davanti a un cancello di ferro battuto, invecchiato dalle intemperie e arrugginito. Di fronte a noi, in cima alla collina, appena visibile nella coltre di nebbia, si ergeva ciò che restava della casa padronale più antica e più tristemente famosa di Gatlin, la dimora dei Ravenwood. Non mi ero mai avvicinato così tanto. Spensi il motore. Ora la tempesta era sfumata in una pioggerellina lieve e costante. — Sembra che i tuoni siano finiti.
— Sono sicura che ne arriveranno altri da dove sono venuti questi. — Forse. Ma non stasera. Lei mi guardò, quasi con curiosità. — No. Credo che per questa sera siamo a posto. — I suoi occhi sembravano diversi. Erano di un verde meno intenso e parevano in qualche modo più piccoli. No, non più piccoli, ma più normali. Aprii la portiera per scendere e accompagnarla fino alla porta. — No, non farlo. — Sembrava imbarazzata. — Mio zio è... un po' timido. — Era un eufemismo. La mia portiera era mezza aperta. La sua portiera era mezza aperta. Ci stavamo bagnando ancora di più, ma restavamo lì, fermi, senza dire una parola. Io sapevo cosa volevo dire, ma sapevo anche che non lo potevo fare. Non sapevo però perché mi trovassi lì, seduto in macchina a prendere la pioggia davanti alla casa dei Ravenwood. Nulla aveva più un senso, ma di una cosa ero certo. Una volta sceso da quella collina e imboccata la Route 9, tutto sarebbe tornato come prima. Tutto avrebbe ritrovato un senso. O no? Fu lei a parlare per prima. — Immagino di doverti ringraziare. — Per non averti investito? Sorrise. — Sì, per quello. E per il passaggio. La guardai mentre mi sorrideva, quasi come se fossimo amici, il che era impossibile. Cominciai a sentirmi claustrofobico, come se dovessi uscire di lì. — Non è niente. Cioè, nessun problema. Non preoccuparti. — Mi alzai il cappuccio della felpa, come faceva Emory quando una delle ragazze che aveva mollato cercava di parlargli nel corridoio. Lei mi guardò scuotendo la testa. Mi lanciò il sacco a pelo con troppo vigore. Il sorriso era sparito. — Bene. Ci vediamo
in giro. — Mi voltò le spalle, entrò dal cancello e corse verso casa, sul viottolo ripido e fangoso. Sbattei la portiera. Il sacco a pelo era sul sedile. Lo presi per buttarlo dietro. Sapeva ancora di muffa e di campeggio, ma ora aveva anche un lieve profumo di limoni e rosmarino. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, Lena era già a metà del vialetto. Abbassai il finestrino. — Ha un occhio di vetro. Lena si girò verso di me. — Cosa? Gridai, con la pioggia che gocciolava dentro. — La English. Devi sederti dall'altra parte, o ti farà parlare. Lei mi sorrise, nella pioggia che le bagnava il viso. — Forse mi piace, parlare. — Si voltò verso Ravenwood e salì di corsa i gradini del portico. Misi la retro e tornai al bivio, per svoltare dove svoltavo di solito e imboccare la strada che avevo preso per tutta la vita. Fino a oggi. Vidi brillare qualcosa sul sedile malconcio. Un bottone d'argento. Me lo infilai in tasca. Chissà cosa avrei sognato quella notte.
12-09 Vetri rotti Nulla. Fu un sonno lungo e senza sogni, il primo dopo tanto tempo. Quando mi svegliai, la finestra era chiusa. Niente fango nel letto, niente canzoni misteriose sull'iPod. Controllai due volte. Anche la doccia sapeva solo di sapone. Rimasi a letto, guardando il soffitto azzurro e pensando a occhi verdi e capelli neri. Alla nipote del Vecchio Ravenwood. Lena. Fino a che punto si poteva perdere la testa? Quando Link arrivò, lo stavo già aspettando sul ciglio della strada. Salii in auto e le scarpe sguazzarono nel tappetino bagnato, che faceva puzzare il Catorcio peggio del solito. Link scosse la testa. — Scusa, amico. Cercherò di asciugarlo dopo la scuola. — Vedi un po' tu. Fammi solo un favore e scendi dal treno dei matti, o tutti sparleranno di te invece che della nipote del Vecchio Ravenwood. Per un secondo pensai di tenermelo per me, ma dovevo pur dirlo a qualcuno. — L'ho vista. — Chi? — Lena Duchannes.
Link non ebbe alcuna reazione. — La nipote del Vecchio Ravenwood. Quando arrivammo al parcheggio, gli avevo raccontato l'intera storia. Be', forse non proprio tutta. Anche gli amici più cari hanno i loro limiti. E non so se avesse creduto a tutto, ma del resto, chi l'avrebbe fatto? Io stesso ancora lo trovavo irreale. Ma se i dettagli non gli erano ben chiari - mi disse mentre raggiungevamo i ragazzi - gli era chiarissimo un concetto. Limitare i danni. — Mica è successo niente tra voi due. L'hai solo accompagnata a casa. — Non è successo niente? Ma mi stavi a sentire? Sono mesi che la sogno e adesso viene fuori che è... Link m'interruppe. — Tu non ci hai provato con lei. Non sei entrato nella Casa Infestata. Giusto? E non hai visto... lui. — Nemmeno Link riusciva a pronunciare il suo nome. Una cosa era farsela con una bella ragazza, in qualsiasi contesto. Un'altra era farsela con il Vecchio Ravenwood. Scossi la testa. — No, ma... — Lo so, lo so. Sei fregato. Ma ti dico solo questo: tienitelo per te, amico. È tutto su chi c'è bisogno che lo sappia. In altri termini: nessuno. Mi aspettavo che potesse essere difficile. Non pensavo che sarebbe stato impossibile. Quando aprii la porta dell'aula di Letteratura Inglese, stavo ancora pensando a queste cose, a lei, al niente che era successo. Lena Duchannes. Forse era per il modo in cui portava quell'assurda collana piena di schifezze, come se ciascuna fosse per lei importantissima. Forse era per il modo in cui indossava sempre
le stesse scarpe scalcagnate, con i jeans o con un vestito, come se dovesse essere sempre pronta a scappare. Quando la guardavo, mi sentivo più lontano da Gatlin di quanto non fossi mai stato. Forse era per questo. Evidentemente, mentre pensavo avevo smesso di camminare e qualcuno alle mie spalle mi urtò. Solo che questa volta non era uno schiacciasassi. Era più uno tsunami. L'impatto fu terribile. Nell'attimo in cui ci toccammo, la luce sul soffitto saltò e una pioggia di scintille cadde sulle nostre teste. Io abbassai il capo. Lei no. — Stai cercando di ammazzarmi per la seconda volta in due giorni, Ethan? — Nell'aula calò un silenzio di tomba. — Cosa? — A malapena riuscii a spiccicar parola. — Ho detto: stai cercando di ammazzarmi di nuovo? — Non sapevo che fossi lì. — L'hai detto anche ieri sera. Ieri sera. Le due paroline che alla Jackson potevano cambiarti la vita per sempre. Tutte le altre luci dell'aula erano accese, ma sembrava che ci fosse un occhio di bue puntato su di noi e un folto pubblico in sala. Potevo sentire la mia faccia diventare rossa. — Scusa. Cioè... ciao — biascicai, come un idiota. Lei sembrò divertita ma continuò per la sua strada. Mise la borsa dei libri sul solito banco, proprio davanti alla English. Dal lato dell'occhio buono. Messaggio ricevuto. Nessuno poteva dire a Lena Duchannes dove sedersi o non sedersi. Bisognava dargliene atto, al di là di tutto quello che si poteva pensare della sua famiglia. Occupai il posto accanto al suo, come avevo fatto per tutta la settimana. Solo che questa volta lei stava parlando con me e in qualche modo questo rendeva tutto diverso. Non diverso-negativo, solo terrificante.
Lena stava quasi per sorridere, ma si riprese. Cercai di pensare a qualcosa di interessante da dirle, o almeno di non troppo stupido. Ma prima che mi venisse in mente, Emily si piazzò accanto a me, con Eden Westerly e Charlotte Chase che la affiancavano sui due lati. Sei file più vicine del solito. Nemmeno sedermi nella Terra di Nessuno mi avrebbe salvato, quel giorno. Dalla cattedra, la English ci guardò con sospetto. — Ehi, Ethan. — Eden si girò verso di me e mi sorrise, quasi fossi loro complice. — Come ti va? Non mi sorprendeva che desse man forte a Emily. Eden era una delle ragazze carine della scuola che non lo erano abbastanza da essere delle Savannah. Eden era sempre e solo una riserva, nella squadra delle cheerleader e nella vita. Non era una base nella piramide, non era in cima, qualche volta non scendeva nemmeno in campo. Eden, però, non si arrendeva e cercava sempre l'occasione buona per fare il salto di qualità. Il suo obiettivo era essere diversa, eccetto per la parte in cui avrebbe dovuto essere... insomma, sì, diversa. Nessuno era diverso, alla Jackson. — Non volevamo che te ne stessi qui tutto solo. — Charlotte ridacchiò. Se Eden era una riserva, Charlotte era una riserva delle riserve. Era ciò che nessuna vera cheerleader con del rispetto per se stessa poteva essere: paffuta. Non aveva mai perso del tutto il grasso infantile e, pur essendo a dieta perenne, non riusciva mai a liberarsi di quegli ultimi cinque chili. Non era colpa sua, lei continuava a provarci. Mangiava la torta e lasciava la crosta. Raddoppiava il pane e dimezzava il sugo. — Che noia insopportabile, questo libro... — Emily parlò senza nemmeno guardarmi. Si trattava di un conflitto territoriale. È vero che mi aveva scaricato lei, ma di sicuro non tollerava di vedermi vicino alla nipote del Vecchio Ravenwood.
— Come se m'interessasse leggere di una città piena di matti. Ce ne sono già abbastanza qui da noi. Abby Porter, che generalmente si sedeva nella Terra di Nessuno, prese posto accanto a Lena e le fece un sorriso timido. Lena ricambiò e sembrò voler dire qualcosa di amichevole, quando Emily lanciò ad Abby un'occhiataccia che rese chiaro come la famosa ospitalità del Sud non valesse per Lena. Sfidare Emily Asher era un atto di suicidio sociale. Abby quindi prese una cartellina del consiglio studentesco e vi seppellì il naso, evitando di guardare Lena. Messaggio ricevuto. Emily si voltò verso Lena e le lanciò uno sguardo esperto che riuscì a scansionarla dalla punta dei capelli senza colpi di sole, al viso senza abbronzatura, fino alle unghie senza smalto rosa. Eden e Charlotte girarono le loro sedie verso Emily, come se Lena non esistesse neppure. Il gelo sfiorava i quindici gradi sotto zero. Lena aprì il suo malconcio notes a spirale e cominciò a scrivere. Emily tirò fuori il telefonino e cominciò a messaggiare. Io abbassai gli occhi sul quaderno, infilando tra le pagine un fumetto di Silver Surfer, cosa molto più difficile da fare, in prima fila. — Bene, ragazzi, a quanto pare le altre luci resteranno accese, quindi non è il vostro giorno fortunato. Spero che ieri abbiate letto le pagine assegnate. — La English scribacchiava a tutta velocità sulla lavagna. — Prendiamoci un minuto per parlare dei conflitti sociali in un ambiente di provincia. Qualcuno avrebbe dovuto dirlo, alla English. A metà della lezione, avevamo ben più di un conflitto sociale in un ambiente di provincia. Emily stava coordinando un attacco su vasta scala.
— Tom Robinson è nero ed è stato accusato di aver stuprato una donna bianca. Chi sa dirmi perché l'avvocato Atticus Finch è disposto a difenderlo, contro la grettezza e il razzismo dei suoi concittadini? — Scommetto che Lena Ravenwood lo sa — intervenne Eden, sorridendo innocentemente alla English. Lena abbassò gli occhi tra le righe del suo quaderno, ma non disse una parola. — Smettila — sussurrai, un po' troppo forte. — Lo sai benissimo che non è quello il suo nome. — Potrebbe esserlo. Lei vive con quel matto — replicò Charlotte. — Attenta a quello che dici. Ho sentito che loro due sono, come dire, una coppia. — Emily stava tirando fuori l'artiglieria pesante. — Basta così. — La English ci puntò addosso l'occhio buono e ammutolimmo. Lena si mosse; le gambe della sedia strisciarono rumorosamente sul pavimento. Io mi spostai un po' avanti, cercando di fare muro tra lei e le tirapiedi di Emily, come se potessi fisicamente deviare le loro cattiverie. Non puoi. Cosa? Mi raddrizzai, sorpreso. Mi guardai intorno, ma nessuno stava parlando con me; nessuno stava parlando affatto. Guardai Lena. Era ancora mezzo nascosta nel suo notes. Ottimo. Non solo sognavo ragazze che esistevano veramente e sentivo canzoni immaginarie. Adesso c'erano anche le voci. Ero molto preso da questa storia di Lena. Probabilmente mi sentivo responsabile, in un certo senso. Emily e tutte le altre non l'avrebbero odiata tanto, se non fosse stato per me. Sì, invece.
Eccola di nuovo, una voce così bassa che riuscivo appena a sentirla. Era come se venisse da dietro la testa. Eden, Charlotte ed Emily continuavano a sparare colpi, ma Lena non faceva una piega, quasi potesse neutralizzarle semplicemente continuando a scrivere sul suo notes. — «Non conoscerai mai una persona finché non comincerai a considerare le cose dal suo punto di vista.» Lo ha scritto Harper Lee, l'autrice. Voi cosa ne pensate? Qualche commento? Harper Lee non ha mai vissuto a Gatlin. Mi guardai in giro, soffocando una risata. Emily mi guardò come se fossi scemo. Lena alzò la mano. — Penso intenda dire che bisogna dare una possibilità alle persone. Prima di passare automaticamente alla fase dell'odio. Non sei d'accordo, Emily? — Guardò Emily e sorrise. — Stupida marziana — sibilò Emily sottovoce. Non sai quanto. Scrutai Lena più attentamente. Aveva abbandonato il notes e si stava scrivendo qualcosa sulla mano con l'inchiostro nero. Non mi serviva guardare per sapere cosa fosse. Un altro numero. 152. Chissà cosa significava e perché non poteva scriverlo sul suo notes. Mi immersi nel mio Silver Surfer. — Parliamo di Boo Radley, il vicino che non esce mai di casa. Che cosa ci fa pensare che sia lui a lasciare dei piccoli doni per i due fratellini Finch? — È uguale al Vecchio Ravenwood. Probabilmente vuole attirare i bambini in casa sua per ucciderli — sussurrò Emily, abbastanza forte per farsi sentire da Lena, ma non dalla English. — Poi mette i cadaveri sul carro funebre e li porta in mezzo ai campi per seppellirli. Smettila.
Sentii di nuovo la voce nella testa, e qualcos'altro. Una specie di scricchiolio. Lieve. — E ha un nome assurdo come Boo Radley. Qual era? — Giusto, è quel macabro nome biblico che non usa più nessuno. Mi irrigidii. Sapevo che si riferivano a Macon Ravenwood, ma stavano anche parlando di Lena. — Emily, perché non la pianti? — replicai. I suoi occhi erano due fessure. — È un marziano anche lui. Sono tutti uguali in quella famiglia. E lo sanno tutti. Smettila, ho detto. Lo scricchiolio si stava facendo più forte e ora somigliava di più a qualcosa che si frantumava. Mi guardai intorno. Cos'era? Pareva che nessun altro lo sentisse. Come la voce. Lena aveva lo sguardo fisso, ma la mascella era contratta e lei era innaturalmente concentrata su un punto della stanza davanti a sé, come se non vedesse altro che quello. Sembrò che la stanza si stesse rimpicciolendo, richiudendosi su se stessa. Sentii la sedia di Lena strisciare di nuovo sul pavimento. Si alzò e si avvicinò alla libreria accanto alla finestra. Probabilmente stava fingendo di temperare la matita per evitare l'inevitabile, il giudice e la giuria della scuola. Il temperamatite cominciò a macinare. — Melchizedek, ecco come si chiama. Smettila. Sentivo ancora macinare. — Mia nonna dice che è un nome malvagio. Smettila smettila smettila. — Perfetto per lui. ORA BASTA. La voce risuonò così forte che mi dovetti tappare le orecchie. Cessò il rumore. Schegge di vetro volarono nell'aria
mentre la finestra andava in frantumi - la finestra vicino alla nostra fila, vicino a dove Lena stava facendo la punta alla matita. Vicino a Charlotte, Eden, Emily e me. Le ragazze strillarono e scapparono via dai banchi. Solo allora interpretai lo scricchiolio. Pressione. Minuscole crepe nel vetro si erano diramate come fili di ragnatela finché la finestra era esplosa verso l'interno come se uno di quei fili fosse stato tirato. Fu il caos. Le ragazze strillavano. Tutti si alzarono dalle loro sedie. Anch'io balzai in piedi. — Niente panico. State tutti bene? — gridò la English cercando di riprendere il controllo. Mi girai verso il temperamatite. Volevo essere sicuro che Lena stesse bene. Ma non era così. Stava immobile vicino alla finestra rotta, circondata dai vetri, nel panico. Il suo viso era ancora più pallido del solito, i suoi occhi ancora più grandi, più verdi. Come la sera prima, sotto la pioggia. Ma ora sembravano diversi. Erano colmi di paura. Non sembrava più così coraggiosa. Si guardò le mani. Una aveva un taglio e sanguinava. Le gocce rosse cadevano sul pavimento di linoleum. Non volevo farlo... Era stata lei a mandare in frantumi il vetro? O era stato il vetro a infrangersi e a tagliarla? — Lena... Lei scappò via dalla stanza, prima che potessi chiederle se stesse bene. — Avete visto? Ha rotto la finestra! L'ha colpita con qualcosa quando si è avvicinata! — Ha tirato un pugno contro il vetro. L'ho vista con i miei occhi! — E allora come mai la sua mano non era coperta di sangue?
— Ma cosa sei? Uno di "csi"? Ha cercato di ucciderci. — Io chiamo mio padre. È pazza, proprio come suo zio! Sembravano un branco di gatti randagi, gridavano tutti insieme. La English cercava di ristabilire l'ordine, ma era chiedere l'impossibile. — Calmatevi. Non c'è motivo di creare panico. Un incidente può succedere. Probabilmente non è nulla che non si possa spiegare con una vecchia finestra e un po' di vento. Ma nessuno credeva che una vecchia finestra e un po' di vento potessero essere una spiegazione accettabile. Meglio la nipote di un vecchio pazzo e una tempesta. La tempesta dagli occhi verdi che si era appena scatenata su Gatlin. L'uragano Lena. Una cosa era sicura. Il tempo era cambiato, eccome. Gatlin non aveva mai visto una tempesta come quella. E Lena probabilmente non si era nemmeno accorta che pioveva.
12-09 Greenbrier Non farlo. Sentivo la sua voce nella testa. Almeno, così mi pareva. Non ne vale la pena, Ethan. Sì, invece. Fu allora che spinsi indietro la sedia e corsi fuori dall'aula per raggiungerla. Sapevo cosa significava. Mi ero schierato. Mi ero cacciato in un guaio sconosciuto, ma non me ne importava nulla. Non riguardava solo Lena. Lei non era la prima. Li avevo già visti farlo, da tutta una vita. Con Allison Birch, quando il suo eczema era diventato così grave che nessuno si voleva sedere accanto a lei in mensa. E con il povero Scooter Richman, perché era il peggior suonatore di trombone nella storia dell'orchestra sinfonica della Jackson. Se anche non avevo mai preso un pennarello per scrivere "sfigato" sull'armadietto di qualcuno, ero comunque rimasto a guardare, un sacco di volte. Ci ero sempre stato male. Ma mai abbastanza da decidere di uscire dalla stanza. Qualcuno, però, doveva fare qualcosa. Una scuola intera non poteva distruggere una persona. Un intero paese non poteva distruggere una famiglia. E invece era così, perché l'avevano sempre fatto. Forse era per quello che Macon
Ravenwood aveva smesso di uscire di casa prima ancora che nascessi io. Sapevo cosa stavo facendo. No, non lo sai. Tu credi di saperlo, ma non lo sai. Lena era di nuovo nella mia testa, come se ci fosse sempre stata. Sapevo cosa mi aspettava il giorno dopo, ma non me ne importava niente. Volevo solo trovarla. E non avrei saputo dire se era più per lei o per me. In ogni modo, non avevo altra scelta. Mi fermai davanti al laboratorio di Chimica, senza fiato. Link mi diede un'unica occhiata e mi lanciò le chiavi scuotendo la testa, senza fare domande. Le presi al volo e continuai a correre. Avevo un'idea abbastanza precisa di dove cercarla. Se avevo ragione, Lena era scappata dove chiunque altro sarebbe corso. Compreso me. A casa. Anche se casa era Ravenwood e andarci significava rifugiarsi dal Boo Radley di Gatlin. * * * La dimora padronale dei Ravenwood incombeva davanti a me. Si ergeva sulla collina come una sfida. Non dico che avessi paura, perché non è la parola giusta. Avevo avuto paura quando la polizia aveva bussato alla nostra porta, la notte in cui mia madre era morta. Avevo avuto paura quando mio padre era scomparso nel suo studio e sentivo che non ne sarebbe mai più uscito veramente. Avevo avuto paura da bambino, quando Amma andava nelle Tenebre e avevo capito che le sue bamboline non erano giocattoli. Non avevo paura di Ravenwood, anche se era inquietante. L'inspiegabile si dava per scontato, nel Sud; ogni città aveva la
sua casa infestata e, a chiedere in giro, almeno un terzo della gente era pronto a giurare di aver visto qualche fantasma. E poi, io vivevo con Amma, una donna le cui convinzioni includevano le persiane dipinte di un certo tipo di azzurro per tenere lontani gli spiriti, e i cui amuleti erano dei sacchettini pieni di crine di cavallo e terra. Quindi ero abituato all'insolito. Ma il Vecchio Ravenwood, quello era un'altra cosa. Mi avvicinai al cancello e posai la mano incerta sul ferro corroso dalla ruggine. Il cancello si aprì cigolando. E poi... Niente. Niente fulmini, nessuna esplosione o tempesta. Non so cosa immaginassi ma, da quel poco che avevo capito di Lena, avevo imparato ad aspettarmi l'inaspettato e a procedere sempre con la massima cautela. Se qualcuno un mese prima mi avesse detto che avrei varcato quel cancello, che sarei salito su quella collina, che avrei messo piede nei terreni dei Ravenwood, avrei risposto che era matto. In un paese come Gatlin, dove si può prevedere qualsiasi evento, questo non l'avrei mai ritenuto possibile. L'ultima volta ero arrivato solo fino al cancello. Più mi avvicinavo, più era facile vedere che stava cadendo tutto a pezzi. La tenuta dei Ravenwood era lo stereotipo della piantagione del Sud, quella che i turisti del Nord si aspettavano di vedere dopo decine di film còme Via col vento. La casa dei Ravenwood era ancora imponente, almeno per le dimensioni. Circondata da palme a ventaglio e cipressi, sembrava la classica abitazione dove la gente si sedeva nel portico a bere bibite alla menta e a giocare a carte tutto il giorno. Se non fosse stata così cadente. Se non fosse stata la casa dei Ravenwood. Era in stile greco, cosa insolita per Gatlin. Il nostro paese era pieno di case padronali in stile federale, e questo faceva risaltare Ravenwood come un pugno nell'occhio. Enormi
colonne doriche bianche, scrostate da anni di incuria, sostenevano un tetto che da un lato era troppo spiovente e dava l'impressione che la casa fosse piegata in avanti come una vecchia artritica. Il legno del portico era scheggiato e cadente, e minacciava di crollare se solo ti azzardavi a metterci piede. L'edera cresceva fitta sui muri esterni, tanto che in certi punti era impossibile vedere le finestre sotto i tralci. Era come se la natura stesse fagocitando la casa, cercando di riportarla alla terra su cui era stata costruita. C'era un architrave sopra la porta, come si vedeva in certi edifici molto vecchi. E sull'architrave c'erano delle incisioni. Dei simboli. Sembravano cerchi e falci di luna, forse rappresentavano le fasi lunari. Salii cautamente su un gradino cigolante per vederli più da vicino. Me ne intendevo un po' di architravi. Mia madre era una storica della Guerra Civile e me li faceva sempre notare, nei nostri innumerevoli pellegrinaggi a ogni sito storico raggiungibile in giornata da Gatlin. Diceva che erano molto comuni nelle vecchie case e nei castelli, in posti come l'Inghilterra e la Scozia. Che era da dove venivano alcuni abitanti di qui... be', prima di diventare abitanti di qui. Comunque non avevo mai visto un architrave con dei simboli incisi, solo parole. Questi, invece, sembravano dei geroglifici intorno a un'unica parola, in una lingua che non riconoscevo. Probabilmente aveva avuto un significato per le generazioni dei Ravenwood che ci avevano vissuto, prima che la casa cadesse in rovina. Feci un bel respiro e superai a balzi gli altri gradini del portico, due alla volta. Pensai che avrei aumentato le mie possibilità di non caderci dentro del cinquanta per cento se avessi toccato solo la metà di loro. Arrivato al portone, afferrai un anello d'ottone che penzolava dalle fauci di un leone e
fungeva da batacchio, e bussai. Poi bussai di nuovo e di nuovo. Lena non era in casa. Mi ero sbagliato, dopo tutto. Ma poi la sentii, quella melodia familiare. Sedici lune. Lena era qui, da qualche parte. Spinsi la maniglia di ferro incrostata. Gemette e sentii il chiavistello rispondere dietro la porta. Mi preparai all'apparizione di Macon Ravenwood, che nessuno in paese aveva mai visto, non da quando ero al mondo io. Ma la porta non si aprì. Guardai l'architrave e qualcosa mi indusse a provarci ancora. Insomma, qual era la cosa peggiore che poteva succedere? La porta che restava chiusa? D'istinto, alzai la mano e toccai il simbolo inciso al centro dell'architrave. La falce di luna. Premetti e sentii il legno cedere sotto le mie dita. Era una specie di meccanismo a scatto. La porta si spalancò senza il minimo rumore. Feci un passo sulla soglia. Ora non c'era più via di scampo. La luce entrava a fiotti dalle finestre. Sembrava impossibile, considerando che all'esterno erano completamente ricoperte di tralci d'edera e detriti. Eppure, l'interno era luminoso, sfavillante e nuovissimo. Non c'erano mobili antichi né ritratti a olio dei Ravenwood che avevano preceduto il Vecchio Ravenwood, né cimeli prebellici. Quel posto sembrava uscito da una rivista di arredamento. Poltrone e divani imbottiti, tavolini con il ripiano in vetro con sopra pile di preziosi libri illustrati. Era tutto così cittadino, così nuovo. Mi aspettavo quasi di vedere il camion del mobilificio ancora parcheggiato fuori. — Lena?
La scala a spirale sembrava quella di un loft e pareva avvitarsi all'infinito verso l'alto, molto più su del pianerottolo. Non riuscivo a vederne la fine. — Signor Ravenwood? — Potevo sentire la mia voce echeggiare contro l'alto soffitto. Non c'era nessuno. O, quanto meno, nessuno interessato a parlare con me. Un rumore alle mie spalle mi fece sobbalzare e rischiai di cadere su una poltroncina di pelle scamosciata. Era un cane nero come la pece, o forse un lupo. Un qualche tipo di spaventoso animale domestico, perché aveva un pesante collare di cuoio al collo, con una medaglietta d'argento a forma di luna che tintinnava quando si muoveva. Mi fissava come se stesse pianificando la prossima mossa. C'era qualcosa di strano nei suoi occhi. Erano troppo rotondi, troppo umani. Il lupo-cane ringhiò e mi mostrò i denti. Il ringhio diventò alto e acuto, più simile a un grido. Feci ciò che chiunque al mio posto avrebbe fatto. Scappai. Mi precipitai giù per le scale del portico, senza nemmeno aspettare che gli occhi si riabituassero alla luce esterna. Continuai a correre lungo un viottolo di ghiaia, via dalla casa dei Ravenwood, via da quel cane spaventoso e dagli strani simboli e dalla porta inquietante, di nuovo nella rassicurante e pallida luce del pomeriggio reale. Il sentiero serpeggiava tra campi incolti e macchie d'alberi abbandonati a se stessi, invasi dai rovi e dagli arbusti. Non m'importava dove conducesse, mi bastava che fosse lontano da Ravenwood. Mi fermai e mi piegai con le mani sulle ginocchia, con il petto che scoppiava. Avevo le gambe di gomma. Quando alzai gli occhi, vidi davanti a me un cadente muro di pietra. Oltre il muro, s'intravedevano appena le cime degli alberi. Sentii un odore familiare. Limoni. Lei era qui.
Ti avevo detto di non venire. Lo so. Stavamo parlando ma in realtà no. Come in classe, sentivo la sua voce nella mia testa, come se lei fosse accanto a me e mi bisbigliasse nell'orecchio. Sentii che mi muovevo verso di lei. C'era un giardino murato, forse addirittura un giardino segreto, come nei libri che mia madre leggeva da bambina quando viveva a Savannah. Quel posto doveva essere antichissimo. Il muro di pietra era sbrecciato in certi punti e completamente crollato in altri. Quando scostai la cortina di rampicanti che nascondeva un vecchio arco di legno marcio, sentii qualcuno che piangeva. Guardai in mezzo agli alberi e ai cespugli, ma ancora non riuscivo a vederla. — Lena? — Nessuna risposta. La mia voce suonava strana, come se non mi appartenesse, echeggiando sui muri di pietra che circondavano il boschetto. Strappai un rametto da un cespuglio. Rosmarino. Naturalmente. E sull'albero più vicino, eccolo lì: un limone giallo, liscio, bizzarramente perfetto. — Sono Ethan. — Con quei singhiozzi soffocati che diventavano più nitidi, sapevo che ero vicino. — Vattene, ti ho detto. — Sembrava che Lena avesse il raffreddore. Probabilmente piangeva da quando era scappata da scuola. — Lo so. Ti ho sentito. — Era vero, e non riuscivo a spiegarlo. Girai cautamente intorno al rosmarino selvatico, inciampando sulle enormi radici. — Davvero? — Sembrò colpita, momentaneamente distratta. — Davvero. — Era come nei sogni. Sentivo la sua voce, solo che lei era qui, a piangere in un giardino incolto nel bel mezzo del niente, invece di scivolare via dalla mia presa.
Mi feci largo tra un groviglio di rami. Eccola là, raggomitolata nell'erba alta e bagnata, a guardare il cielo temporaneamente azzurro. Aveva un braccio sopra la testa e con l'altra mano stringeva un ciuffo d'erba, come se cercasse un appiglio nel timore di volare via. Il vestito grigio le si apriva intorno come una pozzanghera. Aveva le guance rigate di lacrime. — E allora perché non l'hai fatto? — Fatto cosa? — Perché non te ne sei andato? — Volevo sapere come stavi. — Mi sedetti vicino a lei. Il terreno era sorprendentemente duro. Lo toccai con la mano e scoprii di essere su una lastra di pietra piatta e liscia, nascosta dalle erbacce fangose. Nel momento in cui mi sdraiai sulla schiena, lei si rialzò a sedere. Mi misi a sedere e lei si distese giù. Goffo. Come sempre, quando c'era lei. Adesso eravamo sdraiati entrambi a guardare il cielo. Stava ridiventando grigio, il tipico colore del cielo di Gatlin nella stagione degli uragani. — Mi odiano tutti. — Non tutti. Io no. E nemmeno Link, il mio migliore amico. Silenzio. — Non mi conosci neppure. Prenditi tempo e probabilmente mi odierai anche tu. — Ti ho quasi investito, ricordi? Ora devo essere gentile con te, così non mi farai arrestare. Era una battuta scema. Ma eccolo lì, il sorriso più piccolo che avessi mai visto in vita mia. — È in cima alla mia lista. Ti denuncerò al ciccione che sta seduto tutto il giorno davanti al supermercato. — Tornò a guardare il cielo. Io guardavo lei.
— Dà loro un'altra possibilità. Non sono tutti così terribili. Cioè, sì, adesso. Ma solo perché sono invidiosi. Questo lo sai, vero? — Come no. — È vero. — La guardavo tra l'erba alta. — Io lo sono. Scosse la testa. — Allora sei pazzo. Non c'è niente di cui essere invidiosi, a meno che tu non ami mangiare da solo. — Hai vissuto dappertutto. Lei rimase impassibile. — E allora? Tu probabilmente hai potuto frequentare la stessa scuola e vivere nella stessa casa per tutta la vita. — Esatto. È questo il problema. — Fidati, non è un problema. Io me ne intendo, di problemi. — Hai viaggiato, hai visto cose. Ucciderei per farlo anch'io. — Sì, ma sempre da sola. Tu hai un migliore amico. Io ho un cane. — Ma tu non hai paura di nessuno. Fai quello che vuoi e dici quello che ti va. Invece, qui, tutti hanno paura di essere se stessi. Lena giocava con lo smalto nero dell'indice. — Qualche volta vorrei comportarmi come gli altri, ma non posso cambiare ciò che sono. Ci ho provato. Però non metto mai i vestiti giusti, non dico mai le cose giuste e c'è sempre qualcosa che va storto. Vorrei solo poter essere me stessa e avere comunque degli amici che si accorgono se manco da scuola. — Credimi, se ne accorgono. Almeno, oggi di sicuro. — Lena quasi rise. Quasi. — Voglio dire, in senso buono. — Distolsi lo sguardo. Io me ne accorgo. Di cosa! Se manchi da scuola o no.
— Allora sei proprio matto. — Ma quando pronunciò le parole, mi sembrò che sorridesse. Ora che la guardavo, non mi sembrava più così fondamentale avere un tavolo riservato in mensa. Non riuscivo a spiegarlo, ma lei - tutto questo - era molto più importante. Non potevo restarmene seduto a far finta di nulla mentre i miei compagni cercavano di distruggerla. Non lei. — Sai, è sempre così. — Stava parlando al cielo grigioazzurro sempre più scuro. Passò una nuvola. — Nuvoloso? — A scuola, per me. — Sollevò una mano verso il cielo e la mosse. Parve che la nuvola fluttuasse nella direzione che le aveva indicato. Lena si asciugò gli occhi con la manica. — Non è che m'importi di essere simpatica agli altri. Vorrei solo che non mi odiassero in automatico. — Adesso la nuvola era un cerchio. — Quelle idiote? Fra qualche mese, Emily avrà una macchina nuova e Savannah una coroncina nuova e Eden si tingerà i capelli di un altro colore e Charlotte avrà - che ne so un figlio o un tatuaggio, e questa sarà storia vecchia. — Stavo mentendo e lei lo sapeva. Agitò di nuovo la mano. Ora la nuvola somigliava a un ingranaggio, poi forse a una luna. — Lo so che sono stupide. È ovvio che sono stupide. Con quei capelli tinti di biondo e quelle ridicole borsetti-ne metallizzate. — Esattamente. Sono stupide. Chi se ne frega? — Io. Mi feriscono. Ed è per questo che sono stupida anch'io. È questo che mi rende esponenzialmente più stupida di loro. Sono una stupida elevata alla potenza dello stupido. — Agitò la mano. La luna si dissolse.
— È la cosa più stupida che abbia mai sentito. — La guardai con la coda dell'occhio. Lei cercò di non sorridere. Rimanemmo sdraiati in silenzio per un po'. — Lo vuoi sapere cos'è stupido? Ho un sacco di libri sotto il letto. — Lo dissi così, come se fosse una cosa che confidavo a tutti. — Cosa? — Romanzi. Tolstoj. Salinger. Vonnegut. E li leggo. Sai, perché mi va. Lei rotolò su un fianco e si girò verso di me, appoggiando la testa sul gomito. — Davvero? E cosa ne pensano i tuoi amici da sospensorio? — Diciamo che è una cosa che tengo per me e mi limito a fare canestro. — In classe, invece, ho notato che ti limiti a leggere fumetti. — Cercava di dare un tono neutro alla voce. — Silver Surfer. Ti ho visto che lo leggevi. Prima che succedesse tutto il resto. L'hai notato? Forse. Non sapevo più se stavamo parlando o se stavo solo immaginando la nostra conversazione. Ma non potevo essere così pazzo, non ancora. Lei cambiò argomento, o meglio, tornò a quello precedente. — Anch'io leggo. Soprattutto poesia. Era facile immaginarla distesa sul letto a leggere una poesia. Era più difficile immaginare quel letto in casa Ravenwood. — Ah, sì? Io ho letto quel tizio, Bukowski. — Era vero, se bastavano due poesie. — Ho tutti i suoi libri.
Sapevo che non voleva parlare di quello che era successo, ma non riuscivo più a trattenermi. Dovevo sapere. — Hai intenzione di dirmelo? — Dirti cosa? — Cos'è successo a scuola? Ci fu un lungo silenzio. Lena si sedette e cominciò a strappare fili d'erba. Poi si sdraiò sulla pancia e mi guardò negli occhi. Era a pochi centimetri da me. Io rimasi immobile, cercando di concentrarmi su quello che mi stava dicendo. — Non lo so proprio. Mi capitano cose del genere, ogni tanto. Non riesco a controllarle. — Come i sogni. — Scrutai il suo viso, alla ricerca di un segno rivelatore. — Come i sogni. — Lo disse senza pensarci, poi trasalì e mi guardò, allarmata. Ci avevo visto giusto. — Tu ricordi i sogni. Lena si nascose il volto tra le mani. Mi misi a sedere. — Lo sapevo che eri tu. E tu sapevi che ero io. Hai sempre saputo di cosa stessi parlando. — Le tolsi le mani dal viso e una scarica di elettricità mi sfrigolò lungo il braccio. Sei tu la ragazza dei sogni. — Perché non hai detto niente ieri sera? Non volevo che tu sapessi. Non mi guardava. — Perché? — La domanda risuonò troppo forte nel silenzio del giardino. E quando Lena mi guardò, il viso pallido, sembrava diversa. Spaventata. Gli occhi erano come il mare prima della tempesta, sulle coste della Carolina. — Non mi aspettavo di trovarti qui, Ethan. Credevo che fossero solo sogni. Non sapevo che tu esistessi davvero.
— Ma quando hai capito che ero io, perché non hai detto niente? — La mia vita è complicata. E non volevo che tu... non voglio che nessuno ne sia coinvolto. — Non avevo idea di cosa stesse parlando. Le stavo ancora toccando la mano; ero così consapevole di quel contatto. Sentivo la pietra ruvida sotto di noi e mi afferrai al bordo, per sostenermi. Ma la mia mano si chiuse intorno a qualcosa di piccolo e rotondo, incastrato sul bordo della pietra. Un coleottero, forse, o un sassolino. Si staccò e mi rimase in mano. Poi arrivò lo shock. Sentii la mano di Lena stringersi intorno alla mia. Cosa succede, Ethan! Non lo so. Tutto cambiò intorno a me e fu come essere altrove. Ero nel giardino, eppure no. E l'odore dei limoni si trasformò in odore di fumo... Era mezzanotte, ma il cielo era di fuoco. Le fiamme erano altissime, sollevavano enormi pugni di fumo e ingoiavano tutto quello che trovavano sul loro cammino. Anche la luna. Il terreno era diventato una palude. Terra cinerina, bruciata, inzuppata dalle piogge che avevano preceduto il fuoco. Se solo avesse piovuto oggi. Genevieve tossiva nel fumo che le bruciava la gola. Le faceva male anche respirare. L'orlo delle gonne era appesantito dal fango e la faceva inciampare ogni pochi passi nelle voluminose pieghe di tessuto. Ma si costrinse ad andare avanti. Era la fine del mondo. Del suo mondo. E sentiva gli urli, in mezzo agli spari e al ruggito delle fiamme. Sentiva i soldati che lanciavano ordini di morte.
— Bruciate le case! Che i ribelli sentano il peso della loro sconfitta! Bruciate tutto! E una dopo l'altra, i soldati dell'Unione avevano dato fuoco alle grandi dimore delle piantagioni, cospargendo di cherosene le coperte e le tende. Una dopo l'altra, Genevieve aveva visto le case dei suoi vicini, dei suoi amici e parenti, cedere alle fiamme. E nei casi peggiori, molti di quegli amici e di quei parenti avevano ceduto anch'essi, divorati vivi dal fuoco nelle case dov'erano nati. Ecco perché ora Genevieve correva in mezzo al fumo, perché correva verso il fuoco, nelle fauci della bestia. Doveva arrivare a Greenbrier prima dei soldati. E non c'era più molto tempo. Loro procedevano con metodo, scendendo lungo il fiume Santee e bruciando le case una per una. Avevano già distrutto Blackwell; poi sarebbe toccato a Dove's Crossing, Greenbrier e per ultima Ravenwood. Il generale Sherman e il suo esercito avevano iniziato la loro campagna del fuoco a centinaia di chilometri da Gatlin. Avevano ridotto in cenere Columbia, poi avevano ripreso la marcia verso est, incendiando tutto quello che trovavano sul loro cammino. Quando erano arrivati ai confini di Gatlin, la bandiera dei Confederati sventolava ancora e bastò a rinfocolare la loro furia. Fu l'odore ad annunciarle che era troppo tardi. Limoni. L'odore pungente dei limoni misto all'odore di cenere. Stavano bruciando i suoi alberi di limoni. La madre di Genevieve adorava i limoni. Quando suo padre aveva visitato una piantagione in Georgia - lei era ancora bambina - le aveva portato due alberi di limoni in dono. Tutti dicevano che non sarebbero mai cresciuti, che le fredde notti invernali della Carolina del Sud li avrebbero uccisi. Ma la madre di Genevieve non li ascoltò. Piantò gli alberelli davanti
ai campi di cotone e se ne prese cura personalmente. Nelle fredde notti invernali, li copriva con coperte di lana e ammonticchiava la terra sui bordi, per tenere lontana l'umidità. E gli alberi crebbero. Crebbero così bene che negli anni il padre di Genevieve gliene portò altri ventotto. Altre signore di Gatlin chiesero ai loro mariti degli alberi di limone e alcune di loro ne ricevettero qualcuno. Ma nessuna riuscì a tenerli in vita. Gli alberi di limone sembravano prosperare solo a Greenbrier, grazie alle cure della madre di Genevieve. Nulla era mai riuscito a uccidere quegli alberi. Fino a oggi. — Cos'è successo? — Sentii Lena staccare la mano dalla mia. Aprii gli occhi e vidi che stava tremando. Distesi le dita e guardai l'oggetto che avevo inavvertitamente preso sotto la pietra. — Credo che abbia a che fare con questo. — Era un vecchio cammeo ammaccato, nero, ovale, con un viso di donna inciso nell'avorio e nella madreperla. La lavorazione della superficie era intricata e minuziosa. Sul lato notai un piccolo rilievo. — Guarda. Sembra un medaglione. Feci scattare la molla e il cammeo si aprì, rivelando una minuscola iscrizione. — C'è scritto solo GREENBRIER. E una data. Lena si raddrizzò sulla schiena. — Cos'è Greenbrier? — Dev'essere questo posto. Non siamo più a Ravenwood. È Greenbrier. La piantagione confinante. — E quella visione... gli incendi, li hai visti anche tu? Annuii. Era difficile parlarne, tanto era stato orribile. — Questa deve essere Greenbrier, o quello che ne rimane. — Fammi vedere il medaglione. — Glielo porsi con cautela. Sembrava un oggetto sopravvissuto a molte cose, forse anche all'incendio della visione. Lei lo rigirò tra le dita.
11 FEBBRAIO 1865. Lena impallidì e il medaglione le cadde di mano. — Cosa succede? Fissò il cammeo tra l'erba. — L'undici febbraio è il mio compleanno. — È una coincidenza. Un regalo anticipato. — Niente nella mia vita è una coincidenza. Raccolsi il gioiello e lo girai. Sul retro c'erano due gruppi di iniziali. — ECW &. GKD. Questo medaglione deve essere appartenuto a uno dei due. — Dopo un attimo commentai: — Che strano. Le mie iniziali sono ELW. — Il mio compleanno, le iniziali simili alle tue. Non ti pare che sia un po' più che strano? Forse aveva ragione. Eppure... — Dovremmo riprovare, per scoprirlo. — Era come un prurito che bisognava grattare. — Non lo so. Potrebbe essere pericoloso. Sembrava di essere là sul serio. Mi bruciano ancora gli occhi per il fumo. — Lena aveva ragione. Non ci eravamo allontanati dal giardino dei limoni, ma era stato come trovarsi davvero in mezzo agli incendi. Avevo i polmoni pieni di fumo, ma non importava. Dovevo sapere. Strinsi in pugno il medaglione e le porsi l'altra mano. — Dai, non eri tu quella coraggiosa? — Era una sfida. Lei alzò gli occhi al cielo, ma l'accettò. Quando mi sfiorò con le sue dita, sentii il calore della sua mano propagarsi nella mia. Pelle d'oca elettrica. Non avrei saputo come altro definirla. Chiusi gli occhi e aspettai... niente. Li aprii. — Forse ce lo siamo immaginato. O forse si sono scaricate le batterie. Lena mi guardò come se fossi Earl Petty ad Algebra. — Forse a un oggetto come questo non si può ordinare cosa fare o quando farlo. — Si alzò e si rassettò il vestito. — Devo andare.
Poi si fermò, guardandomi. — Sai, non sei come mi aspettavo. — Mi voltò le spalle e s'inoltrò tra gli alberi di limoni verso il confine del giardino. — Aspetta! — La chiamai, ma lei non si fermò. Cercai di raggiungerla, inciampando sulle radici. Si arrestò solo davanti all'ultimo albero di limoni. — Non farlo. — Non fare cosa? Non voleva guardarmi. — Lasciami stare, adesso che va ancora tutto bene. — Non capisco di che parli. Sul serio. E giuro che mi sto sforzando. — Lascia stare. — Credi di essere l'unica persona complicata del mondo? — No. Ma... è un po' la mia specialità. — Si girò per andarsene. Io esitai, ma poi le misi una mano sulla spalla per fermarla. Il sole l'aveva riscaldata. Sentii le ossa sotto il tessuto e in quel momento Lena mi sembrò molto fragile, come nei sogni. Ed era strano perché, quando mi guardava, avevo la sensazione che fosse invulnerabile. Forse era per via di quei suoi occhi. Restammo così per un momento, poi lei si arrese e si girò verso di me. Feci un altro tentativo. — Senti, sta succedendo qualcosa. I sogni, la canzone, l'odore, e adesso anche il medaglione. È come se fossimo destinati a essere amici. — Hai detto "l'odore"? — Era orripilata. — Nella stessa frase di "amici"? — Tecnicamente, credo che fosse una frase diversa. Lei mi guardò la mano e io la tolsi dalla sua spalla. Ma non potevo arrendermi. La guardai negli occhi, la guardai veramente, forse per la prima volta. L'abisso verde sembrava spingersi lontanissimo, dove non avrei mai potuto arrivare,
nemmeno a provarci per tutta la vita. Se gli occhi erano le finestre dell'anima, come diceva Anima, chissà cosa si poteva capire dagli occhi di Lena. È troppo tardi, Lena. Tu sei già mia amica. Non può essere. Ci siamo dentro insieme, in questa storia. Ti prego. Fidati di me. Non è vero. Distolse gli occhi dai miei, appoggiando la testa all'albero più vicino. Era sconfortata. — So che non sei come gli altri. Ma ci sono cose di me che non puoi capire. Non so perché siamo così connessi. Non so perché facciamo gli stessi sogni. Non so niente, come te. — Ma io voglio capire cosa sta succedendo... — Fra cinque mesi compio sedici anni. — Mi mostrò la mano, sulla quale, come sempre, c'era un numero scritto a penna. 152. — Centocinquantadue giorni. — Il suo compleanno. I numeri scritti sulla mano che cambiavano sempre, erano un conto alla rovescia. — Tu non puoi sapere cosa significa, Ethan. Tu non sai niente. Potrei non essere più qui, dopo il mio compleanno. — Ma sei qui adesso. Lei fissò un punto alle mie spalle, verso Ravenwood. Quando alla fine parlò, non mi guardava. — Ti piace quel poeta, Bulcowski? — Sì — risposi, confuso. — Non provarci. — Non capisco. — Non provarci. È scritto sulla tomba di Bukowski. — Lena sparì oltre il muro di pietra. Cinque mesi. Non avevo idea di cosa parlasse, ma riconoscevo la sensazione che provavo nelle viscere. Panico.
Quando anch'io passai dall'arco nel muro, Lena era svanita come se non fosse mai stata lì. Rimaneva solo nell'aria un profumo di limoni e rosmarino. La cosa buffa era che, più Lena mi sfuggiva, più io ero determinato a seguirla. Non provarci. Di sicuro l'epitaffio sulla mia tomba sarebbe stato diverso.
12-09 Le Sorelle Quando arrivai a casa, la tavola era ancora apparecchiata. Una fortuna, perché Amma mi avrebbe ucciso se avessi saltato la cena. Quello che non avevo considerato era la catena telefonica che era stata attivata nel momento in cui avevo abbandonato la lezione di Letteratura. Non meno di mezza città doveva aver chiamato Amma prima che rientrassi. — Ethan Wate? Sei tu? Perché se sei tu, sei in un mare di guai. Sentii un botto familiare. Era peggio di quel che pensassi. Mi chinai per passare sotto la porta della cucina. Amma era al piano da lavoro con il suo professionale grembiule portaattrezzi di jeans, che aveva quattordici tasche per i chiodi e quattro agganci per gli attrezzi elettrici. Amma brandiva la mannaia cinese da macellaio e sul ripiano c'erano montagne di carote, cavoli e altre verdure non identificabili. Gli involtini primavera richiedevano più "affettamento" di qualsiasi altra ricetta presente nella scatola di plastica azzurra di Amma. Se stava preparando gli involtini primavera, significava solo una cosa, e certo non che le piacesse la cucina cinese. Cercai di trovare una spiegazione plausibile, ma non mi venne niente.
— Ha chiamato l'allenatore, oggi pomeriggio. E poi la English e il preside Harper e la mamma di Link e metà delle signore del DAR. E tu sai bene quanto odio parlare con quelle donne. Cattive come il peccato, nessuna esclusa. Gatlin era piena di gruppi femminili di volontariato formati da parenti di veterani di guerra, ma il DAR era l'associazione regina, DAR stava per Daughters of the American Revolution, Figlie della Rivoluzione Americana e, come il nome suggeriva, bisognava dimostrare di essere discendenti anche alla lontana di uno di quei patrioti per poter richiedere l'ammissione. Far parte di quella élite pareva fornire l'autorizzazione a sindacare sul colore con cui dovevano essere dipinte le case storiche sulla riva del fiume e, più in generale, a spadroneggiare, assillare e sparare giudizi su chiunque. Su chiunque, tranne Amma. Avrei voluto vedere! — Dicono tutti la stessa cosa. Che sei scappato da scuola, nel bel mezzo di una lezione, per inseguire la ragazza Duchannes. — Un'altra carota rotolò sul tagliere. — Lo so, Amma, ma... Il cavolo si spaccò in due. — Allora io ho risposto: «No, il mio ragazzo non uscirebbe mai di scuola senza permesso e non salterebbe mai l'allenamento. Ci deve essere un errore. Deve essere un altro, questo ragazzo che manca di rispetto alla sua insegnante e infanga il nome della sua famiglia. Non può essere quello che ho cresciuto io e che vive in questa casa.» — Le cipolle verdi volavano sul ripiano. Avevo commesso il peggiore di tutti i crimini, mettendola in imbarazzo. Peggio, l'avevo messa in imbarazzo agli occhi della signora Lincoln e delle donne del DAR, sue nemiche giurate. — Cos'hai da dire in tua difesa? Cosa può averti fatto scappare via da scuola come se avessi la coda in fiamme? E non voglio sentire che è colpa di una ragazza.
Feci un respiro profondo. Cosa potevo rispondere? Che da mesi sognavo una ragazza misteriosa, la quale era arrivata in paese e guarda caso era la nipote di Macon Ravenwood? Che, oltre a sogni terrificanti su questa ragazza, avevo avuto la visione di un'altra donna che assolutamente non potevo conoscere, vissuta durante la Guerra Civile? Certo, mi avrebbe aiutato a uscire dai guai più o meno quando il sole sarebbe esploso, ponendo fine al sistema solare. — Non è come pensi. Le ragazze in classe stavano tormentando Lena, la prendevano in giro per via di suo zio, dicevano che porta in giro i cadaveri con il carro funebre, e lei era davvero sconvolta ed è scappata via dalla classe. — Sto aspettando la parte che spieghi cosa c'entra tutto questo con te. — Non sei tu quella che mi dice sempre di «seguire l'esempio di Nostro Signore»? Non credi che Lui sarebbe contento se aiutassi qualcuno che viene tormentato? — La frittata era fatta. Glielo leggevo negli occhi. — Non ti permettere di usare la Parola del Signore per giustificare un'infrazione del regolamento scolastico o giuro che vado fuori, prendo un bastone e ti raddrizzo la schiena. Non m'importa quanti anni hai. Mi hai sentito? — Amma non ini aveva mai picchiato in tutta la sua vita, anche se un paio di volte ero stato rincorso con una scopa, giusto come assaggio. Ma non era questo il momento per ricordarglielo. La situazione stava rapidamente degenerando. Mi serviva un diversivo. Il medaglione mi bruciava ancora nella tasca posteriore. E Amma amava i misteri. Mi aveva insegnato a leggere quando avevo quattro anni, usando i polizieschi e le parole crociate. Ero l'unico bambino all'asilo capace di compitare le parole lunghe, perché con Amma facevo pratica con i termini processuali o medici sui suoi gialli. E nel settore
misteri, il medaglione era un caso irresistibile. Avrei solo omesso la parte in cui, toccandolo, ero finito nella Guerra Civile. — Hai ragione, Amma. Mi dispiace. Non avrei dovuto scappare da scuola. Volevo solo assicurarmi che Lena stesse bene. Si era rotta una finestra in classe, proprio accanto a lei, e sanguinava. Sono andato a casa sua per vedere se era a posto. — Sei stato in quella casa? — Sì, ma lei era fuori. Suo zio è molto riservato, immagino. — Non c'è bisogno che tu mi dica niente di Macon Ravenwood. Come se tu potessi sapere cose che io non so. — L'Occhiata. — R-I-N-C-I-T-R-U-L-L-I-T-O. — Come? —Tradotto: non hai un briciolo di buon senso, Ethan Wate. Pescai il medaglione dalla tasca e mi avvicinai. — Eravamo fuori, dietro la casa, e abbiamo trovato questo — le dissi, aprendo la mano in modo che potesse guardare. — C'è un'iscrizione all'interno. L'espressione sulla faccia di Amma mi gelò. Era come se qualcosa le avesse completamente tolto il fiato. — Amma, tutto bene? — Mi avvicinai per prenderle il braccio e sorreggerla nel caso stesse per svenire. Ma lei si ritrasse prima che potessi toccarla, come se si fosse scottata le dita sul manico di una pentola. — Dove l'hai trovato? — La sua voce era un sussurro. — Per terra, a Ravenwood. — Quello non l'avete trovato nelle piantagioni dei Ravenwood. — Cosa stai dicendo? Tu sai a chi apparteneva? — Resta fermo qui. Non ti muovere — mi ordinò correndo via dalla cucina.
Ma io ignorai l'ordine e la seguii nella sua camera. Aveva sempre avuto l'aspetto di una farmacia, con quel lettino basso infilato sotto a file e file di mensole. Sugli scaffali c'erano pile ordinate di quotidiani (Amma non buttava mai via un cruciverba completato) e vasetti pieni degli ingredienti che usava per gli amuleti. Alcuni erano i suoi classici: sale, pietre colorate, erbe. Poi c'erano quelli più insoliti: un vaso pieno di radici e un altro con nidi vuoti. Lo scaffale più alto conteneva solo bottiglie di terra. Amma si stava comportando in modo strano persino per i suoi standard. La seguivo a pochi passi di distanza ma, quando entrai, era già affaccendata a frugare nei suoi cassetti. — Amma, cosa... — Non ti avevo detto di restare in cucina? Non portare quella cosa qui dentro! — strillò quando azzardai un passo avanti. — Perché sei così sconvolta? — Lei s'infilò nelle tasche del grembiule un paio di cose che non riuscii a vedere e uscì di corsa. La raggiunsi in cucina. — Mi dici cosa sta succedendo? — Prendi questo. — Mi diede un fazzoletto liso, facendo attenzione a non toccarmi. — Adesso, avvolgi quella cosa nel fazzoletto. Subito, in questo preciso istante. Questo era più che andare nelle Tenebre. Stava dando i numeri. — Amma... — Fa' come ti dico, Ethan. — Non mi chiamava mai per nome senza attaccarci anche il cognome. Quando il medaglione fu al sicuro nel fazzoletto, Amma si calmò un po'. Rovistò nelle tasche più basse del grembiule, estraendone un sacchettino di pelle e una fiala di polvere. Era chiaro che voleva preparare uno dei suoi amuleti. Le tremò
leggermente la mano, mentre versava un po' di quella polvere scura nel sacchetto. — L'hai avvolto ben stretto? — Ma sì! — sbottai, aspettandomi che mi riprendesse per il tono che avevo usato. — Sicuro? — Sì. — Adesso mettilo qui dentro. — Il sacchettino di pelle era caldo e liscio sulla mia mano. — Adesso. Vi lasciai cadere il gioiello incriminato. — Chiudilo con questo — mi ordinò, porgendomi un normale pezzo di spago, ma sapevo che niente di ciò che Amma usava per i suoi amuleti era normale, né era quello che sembrava. — E adesso lo riporti là dove l'hai trovato e lo seppellisci. Portalo via subito. — Amma, che sta succedendo? — Lei si avvicinò e mi prese il mento, spostandomi i capelli dagli occhi. Per la prima volta da quando avevo tirato fuori il medaglione, mi guardò negli occhi. Rimanemmo così per quello che sembrò il minuto più lungo di tutta la mia vita. La sua espressione non mi era familiare, era di incertezza. — Non sei pronto — sussurrò, lasciandomi. — Non sono pronto per cosa? — Fa' come ti dico. Portalo dove l'hai trovato e seppelliscilo. Poi torna subito a casa. Non voglio che tu abbia più niente a che fare con quella ragazza, mi hai sentito? Aveva detto tutto ciò che aveva previsto di dire, forse qualcosa di più. Di certo non avrei saputo altro perché se c'era una cosa in cui Amma era più brava che a leggere i tarocchi o a risolvere i cruciverba, era tenere un segreto. * * * — Ethan Wate, sei sveglio?
Che ore erano? Le nove e mezzo. Sabato. Avrei già dovuto essere in piedi da un pezzo, ma ero esausto. La sera prima avevo passato due ore a camminare senza meta, per far credere ad Amma di essere tornato a Greenbrier a seppellire il medaglione. Scesi dal letto e barcollai nella stanza, inciampando in una scatola di biscotti stantii. La mia stanza era sempre un disastro. Era così zeppa di roba che mio padre la definiva ad alto rischio di incendio e diceva che un giorno avrei mandato a fuoco tutta la casa. Non che fosse entrato in camera mia, di recente. A parte il planisfero, le pareti e il soffitto erano tappezzati di poster dei luoghi in cui speravo di andare, prima o poi: Atene, Barcellona, Mosca e persino l'Alaska. La stanza era bordata da pile di scatole da scarpe, che in qualche punto arrivavano a un metro di altezza. Anche se sembravano accatastate in modo casuale, ero in grado di individuare esattamente la posizione di ciascuna di esse: da quella delle Adidas bianche con la collezione di accendini della mia fase piromane in terza elementare, a quella delle New Balance verde con i bossoli e un brandello di bandiera trovati a Fort Sumter con mia mamma. La scatola che cercavo ora era quella gialla delle Nike, con il medaglione che aveva sconvolto Amma. La aprii e tirai fuori il sacchettino di pelle. Nasconderlo mi era sembrata una buona idea, la sera prima, ma ora me lo rimisi in tasca, tanto per essere sicuro. Amma mi chiamò di nuovo dalle scale. — Scendi subito o farai tardi. — Ci metto un minuto. Ogni sabato trascorrevo mezza giornata con le tre donne più anziane di Gatlin, le mie pro-prozie: Mercy, Prudence e Grace. Tutti in paese le chiamavano le Sorelle, come se fossero
un'unica entità, il che in un certo senso era vero. Avevano circa un centinaio di anni a testa e nemmeno loro riuscivano a ricordare chi fosse la più vecchia. Tutte e tre erano state sposate varie volte ma erano sopravvissute a tutti i loro mariti e alla fine si erano trasferite a casa di zia Grace. Erano più matte di quanto fossero vecchie. Verso i dodici anni, mia madre aveva iniziato a portarmi da loro il sabato perché dessi una mano e da allora l'avevo sempre fatto. La parte peggiore era portarle in chiesa. Le Sorelle erano tipiche battiste del Sud e andavano in chiesa tutti i sabati e le domeniche - e gran parte degli altri giorni. Ma oggi era diverso. Fui fuori dal letto e dentro la doccia prima che Amma potesse chiamarmi per la terza volta. Non vedevo l'ora di andare da loro. Le Sorelle conoscevano praticamente chiunque fosse vissuto a Gatlin; e non c'era da stupirsene, visto che, tutte e tre messe insieme, erano state imparentate con mezzo paese per via dei matrimoni, in un momento o nell'altro della loro vita. Dopo la visione, mi sembrava ovvio che la G di GKDstesse per Genevieve. Ma se c'era qualcuno che poteva sapere a cosa corrispondessero le altre due iniziali, erano sicuramente le tre donne più vecchie del paese. Quando aprii il primo cassetto del comò per prendere i calzini, notai una bambolina che sembrava una scimmietta di pezza e teneva in mano un minuscolo sacchettino pieno di sale e una pietra azzurra: uno degli amuleti di Amma. Li costruiva per scacciare gli spiriti maligni e la sfortuna, o anche i raffreddori. Ne aveva messo uno sulla porta dello studio di mio padre, quando aveva iniziato a lavorare anche di domenica, invece di andare in chiesa. Lui non seguiva il rito con molta attenzione nemmeno quando ci andava, ma Amma sosteneva che il Buon Dio tenesse contro anche della semplice presenza.
Un paio di mesi dopo, mio padre le aveva comprato su internet una strega di pezza portafortuna e l'aveva appesa in cucina, sopra i fornelli. Amma si era arrabbiata così tanto che gli aveva servito farina d'avena fredda e caffè bruciato per una settimana. Di solito, quindi, non badavo molto a questi regalini di Amma. Ma stavolta l'amuleto aveva a che fare con il medaglione. Con qualcosa che lei non voleva farmi scoprire. * * * C'era solo una parola per descrivere la scena, quando arrivai alla casa delle Sorelle: caos. Venne ad aprire zia Mercy, con i bigodini ancora in testa. — Grazie al cielo sei qui, Ethan. Abbiamo una emergenza in atto — esclamò, pronunciando la "e" come se fosse una parola a sé. Metà delle volte non riuscivo a capire nulla di quello che dicevano, tanto il loro accento del Sud era pesante e la loro grammatica creativa. Ma era così che andava, a Gatlin: si poteva risalire all'età di una persona dal modo in cui parlava. — Come? — Harlon James si è ferito e non sono convinta che non stia per passare a miglior vita. — Zia Mercy sussurrò le ultime parole come se Dio in persona potesse sentirla, quasi temesse di dargli qualche idea. Harlon James era lo Yorkshire di zia Prudence e portava il nome del suo ultimo marito. — Cos'è successo? — Te lo dico io, cos'è successo — intervenne zia Prudence, sbucando dal nulla con una cassetta del pronto soccorso. — Grace ha cercato di ammazzare il povero Harlon James e adesso la sua vita è appesa a un filo.
— Non ho cercato di ammazzarlo — strillò zia Grace dalla cucina. — Non raccontare fandonie, Prudence Jane. È stato un incidente! — Ethan, chiama subito Dean Wilks e digli che abbiamo una emergenza! — ordinò zia Prudence, pescando dalla cassetta una capsula di sali e due cerotti enormi. — Lo stiamo perdendo! — Harlon James era disteso sul pavimento della cucina, traumatizzato ma ben lontano dalla morte. Teneva una delle zampe posteriori ripiegata sotto il corpo e la trascinava se cercava di rialzarsi. — Grace, Dio mi è testimone, se Harlon James muore... — Non morirà, zia Prue. Credo che si sia solo rotto una zampa. Cos'è successo? — Grace ha cercato di ammazzarlo di botte con la scopa. — Non è vero. Te l'ho detto! Non avevo gli occhiali e lui sembrava proprio un ratto di porto, in giro per la cucina. — E tu come fai a sapere com'è fatto un ratto di porto? Non sei mai stata in un porto in vita tua. E così portai le Sorelle, in preda all'isteria, e Harlon James, che probabilmente avrebbe preferito essere morto, da Dean Wilks sulla loro Cadillac del 1964. Dean Wilks gestiva il negozio di mangimi per animali ma era la cosa più vicina a un veterinario che avessimo in città. Fortunatamente, Harlon James aveva solo una zampa rotta, quindi Dean Wilks fu all'altezza della situazione. Tornando a casa, cominciai a chiedermi se non fossi io il più pazzo per aver sperato di carpire informazioni dalle Sorelle. La macchina di Thelma era nel vialetto. Mio padre pagava Thelma perché tenesse d'occhio le Sorelle da quando zia Grace, dieci anni prima, aveva rischiato di bruciare la casa mettendo nel forno una torta di meringhe al limone e
lasciandocela per un pomeriggio intero, mentre loro erano in chiesa. — Dove siete state, ragazze? — chiamò Thelma dalla cucina. Le sorelle si scavalcarono a vicenda per entrare nella stanza e raccontare a Thelma la loro disavventura. Mi lasciai cadere su una delle sedie spaiate vicino a zia Grace, visibilmente depressa dal fatto di essere il personaggio cattivo della storia. Tirai fuori il medaglione dalla tasca e lo feci girare un paio di volte. — Cos'hai lì, bellezza? — chiese Thelma, pizzicando una presa di tabacco dal barattolo sul davanzale e infilandosela nel labbro inferiore. Un gesto ancor più strano da vedere che da raccontare, perché Thelma era piuttosto graziosa e assomigliava a Dolly Parton. — È un medaglione che ho trovato nella piantagione dei Ravenwood. — Dai Ravenwood? Che diavolo ci facevi là? — Ci abita una mia amica. — Vuoi dire Lena Duchannes? — domandò zia Mercy. Ovvio che lo sapeva anche lei, tutto il paese lo sapeva. Questa era Gatlin. — Sissignora. Siamo in classe insieme. — Adesso avevo tutta la loro attenzione. — Abbiamo trovato questo medaglione nel giardino dietro la casa padronale. Non sappiamo di chi sia, ma sembra molto vecchio. — Quella non è proprietà di Macon Ravenwood. Fa parte di Greenbrier — precisò zia Prue, con un tono molto sicuro. — Fammi dare un'occhiata — intervenne zia Mercy, prendendo gli occhiali dalla tasca della vestaglia. Le diedi il medaglione, tenendolo sempre nel fazzoletto. — C'è un'iscrizione.
— Non riesco a leggere. Grace, tu ci vedi? — chiese zia Mercy, passando il gioiello a zia Grace. — Io non vedo un bel niente — rispose lei, strizzando gli occhi. — Ci sono le iniziali di due persone, proprio qui — dissi, indicando le incisioni nel metallo. — ECW e GKD. E se lo giri, trovi una data. 11 febbraio 1865. — Questa data mi suona familiare — commentò zia Prudence. — Mercy, cos'è successo quel giorno? — Non era il tuo matrimonio, Grace? — 1865! Non 1965 — la corresse zia Grace. L'udito delle Sorelle non era migliore della loro vista. — 11 febbraio 1865... — Fu l'anno in cui i Federali bruciarono Gatlin — ricordò zia Grace. — Il nostro bis-bisnonno perse tutto in quell'incendio. Non ve la ricordate, quella storia, ragazze? Il generale Sherman e l'esercito dell'Unione attraversarono il Sud, bruciando quello che incontravano sul loro cammino, compresa Gatlin. Lo chiamarono il Grande Incendio. Tutte le piantagioni di Gatlin vennero distrutte, almeno in parte. Tutte, tranne Ravenwood. Mio nonno diceva sempre che Abraham Ravenwood doveva aver fatto un patto con il diavolo, quella notte. — In che senso? — Non c'era altro modo per salvare quella casa. I Federali bruciarono tutte le piantagioni lungo il fiume, una alla volta, fino a Ravenwood, che scavalcarono come se non fosse esistita affatto. — Da come la raccontava il nonno, non fu l'unica cosa strana di quella notte — aggiunse zia Prue, dando ad Harlon James una fetta di pancetta affumicata. — Abraham aveva un fratello, vivevano insieme. Ma quella notte suo fratello sparì. E nessuno lo rivide mai più.
— Non mi sembra tanto strano. Forse fu ucciso dai soldati dell'Unione, o forse rimase intrappolato in una delle case in fiamme — osservai. Zia Grace inarcò un sopracciglio. — O forse successe qualcos'altro. Il suo corpo non fu mai ritrovato. — Mi resi conto che la gente parlava dei Ravenwood da generazioni. Non era iniziato tutto con Macon. Chissà cos'altro sapevano le Sorelle. — E Macon Ravenwood? Cosa sapete di lui? — Quel ragazzo non ha mai avuto una possibilità nella vita, perché era illegittimo. — A Gatlin, essere illegittimi era come essere comunisti o atei. — Suo padre, Silas, incontrò la madre di Macon dopo che la sua prima moglie lo aveva lasciato. Lei era una ragazza carina, di New Orleans, mi pare. Comunque, non molto tempo dopo, nacquero Macon e suo fratello. Ma Silas non la sposò mai e un bel giorno anche lei prese le sue cose e se ne andò. Zia Prue l'interruppe. — Grace Ann, non sei capace di raccontare una storia! Silas Ravenwood era un eccentrico, cattivo come l'anno della fame. Succedevano strane cose in quella casa. Le luci stavano accese tutta la notte e ogni tanto si vedeva un uomo con un cappello alto e nero che si aggirava lassù. — E il lupo. Digli del lupo. — Non c'era bisogno che mi dicessero di quel cane, o qualsiasi cosa fosse. L'avevo visto con i miei occhi. Ma non poteva essere la stessa bestia. I cani, e persino i lupi, non vivono così a lungo. — C'era un lupo in quella casa. Silas lo teneva come se fosse un animale domestico — zia Mercy scosse la testa. — I ragazzi stavano un po' con Silas e un po' con la madre, ma quando erano con Silas, lui li trattava in modo orrendo. Li
picchiava di continuo e non li perdeva mai di vista. Non gli permetteva nemmeno di andare a scuola. — Forse è per questo che Macon Ravenwood non esce mai di casa — osservai. Zia Mercy liquidò il mio commento con un gesto della mano, come se fosse la cosa più stupida che avesse mai sentito. — Certo che esce di casa! L'ho visto una quantità di volte alla sede del DAR, subito dopo l'ora di cena. — Come no. Era questo il problema delle Sorelle: per metà del tempo erano padrone della realtà, ma solo per metà del tempo. Nessuno aveva mai dichiarato di aver visto Macon Ravenwood, quindi dubitavo fortemente che passasse il suo tempo al DAR a guardare campioni di colore per le ristrutturazioni e a spettegolare con la signora Lincoln. Zia Grace osservò il medaglione più da vicino, tenendolo alla luce. — Una cosa ti posso dire. Questo fazzoletto apparteneva a Sulla Treadeau. Sulla la Profetessa, la chiamavano, perché la gente diceva che sapesse vedere il futuro nelle carte. — Tarocchi? — chiesi. — Che altre carte ci sono? — Be', ci sono le carte da gioco, le carte da regalo, le carte da lettera... — cominciò a vaneggiare zia Mercy. — Come fai a sapere che il fazzoletto era suo? — Ci sono le sue iniziali ricamate qui, sul bordo, e... lo vedi quello? — mi chiese indicandomi un minuscolo uccellino ricamato sotto le iniziali. — Era il suo simbolo. — Il suo simbolo? — Molte cartomanti a quei tempi avevano un simbolo. Lo usavano per segnare i loro mazzi di carte e assicurarsi che nessuno le scambiasse. Buone le carte, buona la cartomante. Questo lo so per certo — disse Thelma, sputando il tabacco in
una piccola urna nell'angolo della stanza con la precisione di un tiratore scelto. Treadeau. Era il cognome di Amma. — Era parente di Amma? — Ma certo. Era la sua bis-bis-bisnonna. — E le iniziali sul medaglione? ECW e GKD? Ne sapete niente? — Era un vero terno al lotto. Non ricordavo l'ultima volta in cui le Sorelle avevano avuto un momento di lucidità così lungo. — Vuoi prendere in giro una donna anziana, Ethan Wate? — Nossignora. — ECW. Ethan Carter Wate. Era il tuo pro-pro-pro-prozio.... O era il tuo pro-pro-pro-pro-prozio? — Non sei mai stata una cima in aritmetica — l'interruppe zia Prudence. — Comunque, era il fratello del tuo bis-bis-bis-bisnon-no Ellis. — Il fratello di Ellis Wate si chiamava Lawson, non Ethan. È da lui che ho preso il mio secondo nome. — Ellis Wate aveva due fratelli. Ethan e Lawson. Tu porti il nome di entrambi. Ethan Lawson Wate. — Cercai di visualizzare il mio albero genealogico. L'avevo visto e rivisto abbastanza spesso. E se c'è una cosa che un cittadino del Sud conosce bene, è il proprio albero genealogico. Non c'era nessun Ethan Carter Wate in quello appeso nella sala da pranzo. Avevo sopravvalutato la lucidità di zia Grace. Dovevo avere un'espressione scettica, perché un attimo dopo zia Prue si alzò dalla sedia. — Ho l'albero genealogico dei Wate nel mio libro delle genealogie. Tengo la documentazione di tutta la stirpe per le Sorelle della Confederazione.
Le Sorelle della Confederazione, cugine minori - ma ugualmente orribili - delle Figlie della Rivoluzione Americana, erano una specie di circolo del cucito sopravvissuto alla Guerra Civile. Le persone che ne facevano parte passavano il tempo a rintracciare le proprie radici fino ai tempi della Guerra, per documentari e miniserie come II blu e il grigio. — Eccolo qui. — Zia Prue tornò in cucina ciabattando, con un enorme album rilegato in pelle da cui spuntavano fogli di carta ingiallita e vecchie fotografie. Si mise a sfogliare le pagine, sparpagliando ovunque ritagli di giornale. — Ma guardate qua, Burton Free... il mio terzo marito. Il più bello di tutti i miei consorti, non è vero? — esclamò mostrandoci la fotografia spiegazzata. — Prudence Jane, continua a cercare. Il ragazzo sta mettendo in dubbio la nostra memoria. — Zia Grace era palesemente agitata. — È proprio qui, dopo l'albero degli Statham. Osservai i nomi che conoscevo a memoria grazie all'albero genealogico appeso nella sala da pranzo di casa mia. Ed eccolo, il nome, il nome che mancava dall'albero genealogico di Wate's Landing: Ethan Carter Wate. Perché le Sorelle avevano una versione diversa? Era chiaro quale dei due fosse quello vero. Avevo la prova in mano, avvolta nel fazzoletto di una profetessa di centocinquant'anni prima. — Perché non c'è sul mio albero genealogico? — Gran parte degli alberi genealogici del Sud sono pieni di bugie. In effetti mi sorprende che Ethan sia riuscito a salvarsi anche solo su una copia di quello dei Wate — commentò zia Grace, chiudendo l'album, che sbuffò nella stanza una gran nuvola di polvere.
— È solo grazie alla mia eccellente archiviazione che è trascritto almeno su questa copia. — Zia Prue sorrise con orgoglio, mostrando entrambe le file di denti rifatti. Dovevo riportarle sull'argomento. — Perché l'hanno escluso dall'albero genealogico, zia Prue? — Perché era un disertore. Non la stavo seguendo. — In che senso, un disertore? — Buon Dio, cosa insegnano a voi giovani in quella vostra scuola stravagante? — zia Grace stava estraendo dei pretzel da una busta di salatini. — Disertori. I Confederati che abbandonarono il generale Lee durante la Guerra. — Evidentemente avevo la faccia confusa, perché zia Prue si sentì in dovere di elaborare il concetto. — C'erano due tipi di soldati confederati durante la Guerra. Quelli che sostenevano la causa della Confederazione e quelli costretti dalle famiglie ad arruolarsi. — Zia Prue si alzò e si avvicinò al ripiano della cucina, camminando avanti e indietro come una vera professoressa di Storia nel bel mezzo di una lezione. — Nel 1865 l'esercito di Lee era ormai scoraggiato, affamato e numericamente inferiore rispetto ai nemici. Alcuni dicono che i Ribelli avessero perso la fede e che per questo scappavano. Disertavano dai loro reggimenti. Ethan Carter Wate fu uno di loro. Era un disertore. — Tutte e tre chinarono il capo, come se la vergogna fosse tuttora insopportabile. — Quindi mi state dicendo che è stato cancellato dall'albero genealogico perché non voleva morire di fame, combattendo una battaglia persa, dalla parte che aveva torto? — È uno dei modi di vedere la cosa, immagino. — È la sciocchezza più grossa che abbia mai sentito.
Zia Grace balzò su dalla sedia, per quanto possa balzare una vecchia di novant'anni e passa. — Non essere impertinente, Ethan. Quell'albero genealogico è stato cambiato molto tempo prima che noi nascessimo. — Chiedo scusa. — Zia Grace si lisciò la gonna e si rimise a sedere. — Ma perché i miei genitori hanno voluto darmi il nome di un lontano parente che aveva gettato la vergogna sulla nostra famiglia? — Be', tua madre e tuo padre avevano le loro idee sull'intera storia. Sarà stato per via di tutti quei libri che leggevano sulla Guerra. Sai che sono sempre stati di vedute liberali. Chissà che diamine avevano in mente. Dovresti chiedere a tuo padre. Come se ci fosse stata qualche possibilità che lui mi rispondesse. Ma conoscendo la sensibilità dei miei genitori, probabilmente mia madre era stata orgogliosa di Ethan Carter Wate. E anch'io mi sentivo piuttosto orgoglioso di lui. Sfiorai con la mano la pagina ingiallita dell'album di zia Prue. — E le iniziali C,KD? Secondo me, la G potrebbe stare per Genevieve — suggerii, già sapendo che era così. — CKD. Tu non uscivi con un ragazzo che aveva le iniziali GD, Mercy? — Non mi viene in mente. Tu, Grace, te lo ricordi, un GD? — GD... GD? No, non potrei dirlo. — Le avevo perse. — Oh, mio Dio. Guardate un po' che ore si sono fatte, ragazze! È ora di andare in chiesa! — esclamò zia Mercy. Zia Grace mi indicò la porta del garage. — Ethan, fa' il bravo, porta fuori la Cadillac. Noi dobbiamo andare a farci belle. Le accompagnai alla funzione del pomeriggio della chiesa battista missionaria evangelica, quattro isolati più in là. Ci misi di più a spingere la sedia a rotelle di zia Mercy lungo il vialetto di ghiaia che a percorrere in macchina la distanza dalla loro
casa alla chiesa, perché a ogni passo le ruote affondavano nella ghiaia e dovevo smuovere la sedia a destra e a sinistra per disincagliarla, rischiando ogni volta di ribaltarla e di mandare mia zia a terra. Mentre il predicatore accoglieva la terza testimonianza di una vecchia signora alla quale Gesù aveva salvato le rose dagli scarafaggi giapponesi o forse la mano che usava per cucire dall'artrite, la mia mente cominciò a vagare. Rigiravo il medaglione tra le dita, nella tasca dei jeans. Perché ci aveva mostrato quella visione? Perché all'improvviso aveva smesso di funzionare? Ethan. Fermati. Non sai quello che fai. Lena era di nuovo nella mia testa. Mettilo via! La chiesa cominciò a sfumare e sentii la mano di Lena stringersi alla mia, come se fosse accanto a me... Niente avrebbe potuto preparare Genevieve alla vista di Greenbrier in fiamme. Il fuoco lambiva i fianchi della casa, divorava i tralicci dei rampicanti e la veranda. I soldati portavano fuori quadri e mobili antichi, come volgari ladri. Dov'erano finiti tutti! Si nascondevano nel bosco come aveva fatto lei! Le foglie crepitavano. Sentì qualcuno alle sue spalle ma, prima che si potesse girare, una mano infangata le tappò la bocca. Lei afferrò il polso dell'uomo a due mani, cercando di liberarsi. — Genevieve, sono io! — La mano allentò la presa. — Che ci fate qui! State bene! — Genevieve buttò le braccia al collo del soldato, che indossava quanto restava dell'uniforme - un tempo orgogliosamente grigia - dei Confederati.
— Sto bene, mia cara — rispose Ethan, ma lei sapeva che era una bugia. — Credevo che foste... Genevieve riceveva notizie da Ethan solo per lettera da quasi due anni, da quando cioè lui si era arruolato. Ma dopo la Battaglia del Wilderness non aveva ricevuto più nulla. Genevieve sapeva che molti degli uomini che avevano seguito Lee in quella battaglia non erano mai usciti dalla Virginia. Si era quindi rassegnata a morire zitella. Era stata così sicura di aver perso Ethan per sempre. Era quasi inimmaginabile che lui invece fosse vivo, accanto a lei, quella notte. — Dov'è il resto del vostro reggimento! — L'ultima volta che li ho visti, erano davanti a Summit. — L'ultima volta che li avete visti! Che intendete dire! Sono morti tutti! — Non lo so. Quando me ne sono andato, erano ancora vivi. — Non capisco. — Ho disertato, Genevieve. Non potevo combattere un giorno di più per qualcosa in cui non credevo. Non dopo ciò che ho visto. Gran parte dei ragazzi che combattevano con me non sapevano nemmeno perché lo facessero. Non sapevano che stavano versando il loro sangue per dei campi di cotone. Ethan prese le mani fredde di Genevieve tra le sue, segnate dalle cicatrici. — Se non vorrete più sposarmi, vi capirò. Non ho soldi e ora non ho più nemmeno l'onore. — Non m'importa se non avete soldi, Ethan Carter Wate. Voi avete più onore di chiunque altro abbia mai conosciuto. E non m'importa se mio padre pensa che le differenze tra di noi siano incolmabili. Si sbaglia. Ora che siete tornato a casa, noi ci sposeremo.
Genevieve si stringeva a lui, nel timore che sarebbe sparito se l'avesse lasciato andare. L'odore la riportò alla realtà: l'odore acre dei limoni che bruciavano, delle loro vite che bruciavano. — Dobbiamo andare verso il fiume. È lì che mia madre si dirigerebbe. Verso sud, verso la casa di zia Marguerite. — Ma Ethan non potè rispondere. Stava arrivando gente. I rami scricchiolavano come se qualcuno si stesse facendo largo tra gli arbusti. — Riparatevi dietro di me — ordinò Ethan, spingendo indietro Genevieve con un braccio, mentre con l'altro prendeva il fucile. Le fronde si aprirono e comparve Ivy, la cuoca di Greenbrier. Aveva ancora indosso la camicia da notte, annerita dal fumo. Strillò alla vista dell'uniforme, troppo spaventata per accorgersi che era grigia, non blu. — Ivy, stai bene! — Genevieve corse a sorreggere l'anziana donna, che già stava per accasciarsi al suolo. — Signorina Genevieve, per tutti gli angeli del cielo, cosa ci fate quii — Stavo cercando di arrivare a Greenbrier. Per avvertirvi. — È troppo tardi, bambina, non servirebbe a nulla. Quegli avvoltoi blu hanno abbattuto le porte e sono entrati in casa, come se appartenesse a loro. Hanno dato un'occhiata in giro per decidere cosa portare via e poi hanno iniziato ad appiccare il fuoco. — Era quasi impossibile capire quello che diceva. Era isterica e ogni pochi secondi era scossa da attacchi di tosse, soffocata dal fumo e dalle lacrime. — In tutta la mia vita non ho mai visto dei diavoli simili a quelli. Bruciare una casa con le donne dentro. Ciascuno di loro dovrà risponderne a Dio Onnipotente nell'aldilà. — La voce di Ivy tremò.
Ci volle un momento prima che Genevieve comprendesse il senso delle sue parole. — Bruciare una casa con le donne dentro! Cosa vuol dire! — Mi dispiace tanto, bambina. Genevieve sentì le gambe piegarsi sotto il suo peso. Cadde in ginocchio nel fango. La pioggia le correva lungo il viso, mescolandosi alle lacrime. Sua madre, sua sorella, Greenbrier... Aveva perso tutto. Genevieve alzò gli occhi verso il cielo. — Sarà Dio a dovermi rispondere di tutto questo. Ci ritrovammo fuori dalla visione con la stessa repentinità con cui vi eravamo stati risucchiati dentro. Davanti ai miei occhi vidi di nuovo il predicatore. Lena non c'era più. Sentii che scivolava via. Lena! Non rispose. Rimasi al mio posto, coperto di sudore freddo, strizzato tra zia Mercy e zia Grace che stavano frugando nel portamonete in cerca di spiccioli per l'elemosina. Bruciare una casa con le donne dentro, una casa con gli alberi di limone. La casa dove Genevieve aveva perso il medaglione, ci avrei scommesso. Un medaglione che recava inciso il giorno di nascita di Lena, ma più di un secolo prima. Per forza Lena non voleva vedere quelle visioni. Cominciavo a essere d'accordo con lei. Non c'era nessuna coincidenza.
14-09 Il vero Boo Radley Domenica sera, rileggevo II giovane Holden per stancarmi e potermi addormentare. Solo che non mi stancavo mai abbastanza. E non riuscivo nemmeno a leggere, perché non era più la stessa cosa. Non riuscivo a entrare nel personaggio di Holden Caulfield, perché non potevo perdermi nella storia, non come si dovrebbe fare per diventare un'altra persona. Non ero solo, nella mia testa. La mente era piena di medaglioni e incendi e voci. Persone che non conoscevo e visioni che non capivo. E qualcos'altro. Posai il libro e misi le mani dietro la testa. Lena! Sei qui, vero! Fissavo il soffitto azzurro. È inutile. Tanto lo so che sei lì. Qui. Quello che è. Aspettai finché non sentii la sua voce. Saliva come un ricordo minuscolo e luminoso dall'angolo più remoto e più buio della mia mente. No. Non esattamente. Sì, invece. Sei stata qui tutta la sera. Ethan, sto dormendo. O meglio, stavo dormendo. Sorrisi tra me. Non è vero. Stavi ascoltando. Non è vero.
Ammettilo. È vero. Maschi. Pensate di essere sempre al centro di tutto! Magari è solo che mi piace quel libro. Ma tu, adesso, puoi entrare quando vuoi! Ci fu un lungo silenzio. In genere no, ma stasera è successo così, diciamo. Ancora non capisco come funziona. Forse potremmo chiedere a qualcuno. Tipo, a chi! Non saprei. Immagino che dovremmo arrangiarci da soli. Come sempre, del resto. Un'altra pausa. Cercai di non chiedermi se l'uso del plurale l'avesse spaventata, nel caso potesse sentirmi. Forse era così, o forse era un'altra cosa; non voleva che io scoprissi niente, se aveva a che fare con lei. Non provarci. Sorrisi e sentii che mi si chiudevano gli occhi. Riuscivo a malapena a tenerli aperti. Ci sto provando. Spensi la luce. Buonanotte, Lena. Buonanotte, Ethan. Sperai che non riuscisse a leggere proprio tutti i miei pensieri. Il basket. Dovevo assolutamente concentrarmi sul basket. E mentre pensavo intensamente agli schemi di gioco, sentii gli occhi che si chiudevano, e io sprofondavo, perdevo il controllo... * * * Annegavo.
Stavo annegando. Agitavo le braccia nell'acqua verde, le onde mi si chiudevano sopra la testa. I piedi scalciavano verso il fondo melmoso di un fiume, forse il Santee, ma non toccavano niente. Vedevo una sorta di luce che passava sul pelo dell'acqua, ma non riuscivo a risalire in superficie. Stavo andando giù. È il mio compleanno, Ethan. Sta succedendo. Allungai il braccio. Lei si protese verso la mia mano, mi girai per afferrarla, ma la corrente la trascinò via e non riuscii più a trattenerla. Cercai di gridare mentre vedevo la sua piccola mano bianca scivolare giù verso le tenebre, ma la bocca mi si riempì d'acqua e non ne uscì alcun suono. Mi sentivo soffocare. Cominciavo a perdere i sensi. Ho cercato di metterti in guardia. Devi lasciarmi andare. Balzai a sedere sul letto. La mia maglietta era zuppa. Il cuscino era bagnato. I capelli erano bagnati. E la stanza era umida e appiccicosa. Immaginai di aver nuovamente dimenticato la finestra aperta. — Ethan Wate! Mi senti? È meglio per te se scendi ieri, o non farai colazione per il resto della settimana. Ero seduto al tavolo della cucina prima ancora che le tre uova all'occhio di bue poco cotte scivolassero sul mio piatto pieno di gallette e salsa. — Buongiorno, Amma. Lei mi voltò le spalle senza degnarmi di un'occhiata. — Adesso l'hai capito che non c'è niente di buono in questa faccenda. Non sputarmi sulla schiena per poi dirmi che sta piovendo. — Era ancora arrabbiata con me, ma non ero sicuro se fosse per la fuga da scuola o perché avevo portato a casa il medaglione. Probabilmente per entrambe le cose. Non potevo darle torto, però; in genere non ero uno che si mettesse nei guai a scuola. Era un territorio inesplorato, per lei.
— Anima, mi dispiace per venerdì. Non succederà più che me ne vada da scuola a metà lezione. Tornerà tutto come prima. Il suo viso si ammorbidì appena e lei si sedette davanti a me. — Non credere che sia così. Tutti noi facciamo delle scelte e queste scelte hanno delle conseguenze. Sono sicura che dovrai scontare la tua dose di inferno, a scuola. Forse adesso comincerai ad ascoltarmi. Sta' lontano da quella Lena Duchannes, e da quella casa. Non era da Amma schierarsi con tutto il resto del paese, considerando che quella era solitamente la parte sbagliata. Si capiva che era preoccupata perché continuava a mescolare il caffè anche se il latte era già sparito da un pezzo. Amma si preoccupava sempre per me e io l'amavo per questo ma, da quando le avevo mostrato il cammeo, c'era qualcosa di diverso. Girai intorno al tavolo e la strinsi in un abbraccio. Sapeva di grafite e di caramelle alla cannella, come sempre. Scosse la testa, borbottando: — Non voglio più sentir parlare di occhi verdi e di capelli neri. E si sta preparando una giornata nera, quindi fa' attenzione. Quel giorno Amma non stava andando nelle Tenebre. Stava entrando nell'oscurità più cupa. Io stesso, del resto, sentivo che si stava preparando una giornata nera. * * * Link accostò. Dal Catorcio usciva musica orribile sparata al massimo, come sempre. Quando m'infilai in macchina, abbassò il volume. Questo era sempre un brutto segno. — Siamo nei guai. — Lo so. — C'è aria di linciaggio, stamattina, alla Jackson. — Cos'hai sentito?
— È da venerdì sera che va avanti. Ho sentito i discorsi di mia madre e ho cercato di chiamarti. Ma dov'eri, a proposito? — A Greenbrier. Stavo fingendo di seppellire un medaglione colpito da un maleficio, altrimenti Amma non mi avrebbe lasciato rientrare in casa. Link rise. Era abituato a sentirmi parlare di fatture e amuleti e malocchio, se di mezzo c'era Amma. — Per lo meno, non ti sta costringendo a portare al collo quel sacchettino di cipolle puzzolenti. Quello sì era terribile. — Era aglio. Per il funerale di mia madre. — Era terribile. Con Link era così, eravamo amici da quel giorno sullo scuolabus e da allora non gli era mai importato molto di quello che dicevo o facevo. Già a quell'età, sapevi chi erano i tuoi veri amici. Gatlin era così. Era già successo tutto dieci anni prima. Per i nostri genitori, era già successo tutto venti o trenta anni prima. E per Gatlin, sembrava che non succedesse niente da più di cento anni. Niente di importante, almeno. Ma avevo la sensazione che tutto questo stesse per cambiare. Era ora, avrebbe detto mia madre. Se c'era una cosa che a mia madre piaceva, era il cambiamento. Al contrario della mamma di Link. La signora Lincoln era aggressiva, aveva una missione e un'ampia rete di contatti - una combinazione estremamente pericolosa. Quando eravamo in terza media, aveva strappato il box della TV via cavo dal muro perché aveva beccato Link a guardare Harry Potter, una serie contro cui lei stessa aveva condotto una vera e propria campagna per farla bandire dalla biblioteca pubblica di Gatlin, perché era convinta che incoraggiasse la stregoneria. Fortunatamente, Link riusciva a sgattaiolare a casa di Earl Petty per guardare MTV. Altrimenti,
la sua band, Who Shot Lincoln, non sarebbe mai diventata la prima - e con prima intendo unica - rock band della scuola. Non avevo mai capito la mamma di Link. Mia madre, quando era ancora viva, alzava gli occhi al cielo e diceva: — Link sarà il tuo migliore amico, ma non aspettarti che io mi iscriva al DARO che cominci a portare le gonne con la crinolina per le rievocazioni storiche! — E poi scoppiavamo a ridere, immaginando mia mamma, capace di percorrere chilometri nel fango dei campi di battaglia in cerca di bossoli e di tagliarsi i capelli da sola con le forbici da giardino, membro del DAR, a organizzare vendite di torte e a spiegare a tutti come arredare la propria casa. La signora Lincoln, invece, era facile da immaginare nel DAR. Era la Segretaria Verbalista e lo sapevo persino io. Era anche nel Consiglio Direttivo, con le mamme di Savannah Snow e di Emily Asher, mentre mia madre passava gran parte del suo tempo rintanata in biblioteca a esaminare microfiche. Quando era viva. Link stava ancora parlando e presto avevo sentito abbastanza da cominciare ad ascoltarlo seriamente. — Mia madre, la madre di Emily, la madre di Savannah... hanno arroventato le linee telefoniche durante il weekend. Ho sentito mia madre che parlava della finestra rotta in classe e che aveva sentito dire che la nipote del Vecchio Ravenwood aveva le mani insanguinate. Fece una curva sterzando di scatto, senza nemmeno prendere fiato. — E diceva anche che la tua ragazza è appena uscita da un manicomio della Virginia e che è orfana e che soffre di bi-schizo-mania o qualcosa del genere. — Non è la mia ragazza. Siamo solo amici — replicai in automatico.
— Piantala. Sei partito così al galoppo che dovrei comprarti una sella. — Lo diceva di qualsiasi ragazza con cui parlavo, o di cui parlavo, o che solo guardavo passare in corridoio. — Non è la mia ragazza. Non è successo niente. Abbiamo solo passato un po' di tempo insieme. — Dalle stronzate che dici potresti essere un gabinetto. Quella ragazza ti piace, Wate. Ammettilo. — Link non era uno che andava tanto per il sottile, e non credo che riuscisse a immaginare nessun'altra ragione, tranne la più scontata, per uscire con una ragazza, a parte forse se lei avesse suonato la chitarra. — Non sto dicendo che non mi piace. Ma siamo solo amici. — Ed era la verità, che lo volessi o no. Ma quella era un'altra storia. Comunque, forse accennai a un sorriso. Mossa sbagliata. Link finse di vomitarsi addosso e sbandò, schivando un camion per un pelo. Ma scherzava. A lui non importava chi mi piacesse, gli bastava l'occasione per prendermi in giro. — Allora? È vero? È successo così? — Successo cosa? — Lo sai. È caduta dall'albero dei matti e ha preso tutti i rami grossi mentre piombava giù? — Si è rotta una finestra. Non è successo altro. Non è un mistero. — La mamma di Emily Asher sta dicendo in giro che è stata Lena a tirare un pugno contro il vetro o a scagliare qualcosa contro la finestra. — Buffo... non mi risulta che la signora Asher frequenti le lezioni di Letteratura Inglese. — Già, be', nemmeno mia madre. Ma mi ha detto che oggi sarebbe passata a scuola. — Fantastico. Tienile un posto al nostro tavolo, in mensa.
— Forse è successa la stessa cosa in tutte le altre scuole che ha frequentato ed è per questo che è finita in un istituto psichiatrico. — Link era serio, il che significava che dopo l'incidente della finestra doveva averne sentite di tutti i colori. Mi tornò in mente come Lena avesse definito la sua vita. Complicata. Forse questa era una di quelle complicazioni, o forse era solo una delle ventiseimila cose di cui non voleva parlare. E se tutte le Emily Asher del mondo avessero avuto ragione? E se, dopo tutto, mi fossi schierato dalla parte sbagliata? — Attento, amico. Può essere che quella abbia la residenza a Mattopoli. — Se dici sul serio, sei un idiota. Entrammo nel parcheggio della scuola senza parlare. Ero infastidito, anche se sapevo che Link stava solo cercando di proteggermi. Ma non riuscivo a evitarlo. Ormai era tutto diverso. Scesi sbattendo la portiera. Link mi chiamò. — Ehi, sono in pensiero per te. Ti comporti da matto. — Cosa? Siamo diventati una coppia, adesso? Forse dovresti impiegare un po' del tuo tempo preoccupandoti del perché tu non riesca nemmeno a parlarci, con una ragazza. Matta o no. Scese anche lui e guardò verso la segreteria. — Ad ogni modo, forse farai meglio a dire alla tua "amica", qualsiasi cosa significhi, di fare attenzione, oggi. Guarda. La mamma di Link e quella di Emily Asher stavano parlando con il preside Harper sui gradini dell'ingresso. Emily era stretta a sua madre e cercava di assumere un'aria patetica. La signora Lincoln stava facendo un predicozzo ad Harper, che annuiva come se stesse mandando a memoria tutte le sue parole. Harper comandava alla Jackson, ma sapeva benissimo
chi comandava in paese. Ne aveva due esemplari davanti agli occhi. Quando la mamma di Link tacque, Emily si lanciò in una versione particolarmente animata dell'incidente della finestra rotta. La signora Lincoln le teneva una mano sulla spalla, piena di comprensione. Il preside Harper scuoteva la testa. Era una giornata nera, certo. * * * Lena era seduta nel carro funebre e scriveva sul suo notes sgangherato. Il motore era in folle. Quando bussai al finestrino, sobbalzò. Poi si girò verso la segreteria. Anche lei aveva visto le mamme. Le feci cenno di aprire la portiera, ma lei scosse la testa. Girai intorno alla macchina e mi fermai dal lato del passeggero. Le portiere erano bloccate, ma non si sarebbe liberata di me così facilmente. Mi sedetti sul cofano e mollai lo zaino sulla ghiaia. Non mi sarei mosso di lì. Che stai facendo? Aspetto. Sarà una lunga attesa. Ho tempo. Lena mi fissò dal parabrezza. Sentii le portiere aprirsi. — Nessuno ti ha mai detto che sei pazzo? — Scese e si avvicinò con le braccia conserte, come Amma quando era pronta a sgridarmi. — Mai quanto te, da quel che si dice in giro. Lena aveva i capelli raccolti in un foulard di seta nera punteggiato di fiori di ciliegio. I fiori erano di un rosa particolarmente brillante. L'immaginavo che si preparava davanti allo specchio, con la sensazione di andare al proprio
funerale, e indossava quel foulard per tirarsi un po' su. Una lunga veste, non so, un'incrocio tra una maglietta nera e un vestito, pendeva sui suoi jeans e sulle Ali Star nere. Lena guardava la segreteria, con la fronte aggrottata. In quel preciso momento, le mamme erano probabilmente sedute in presidenza con Harper. — Le senti? Lei scosse la testa. — Non posso leggere i pensieri della gente, Ethan. — I miei sì. — Non esattamente. — E ieri sera, allora? — Te l'ho detto, non so perché succede. Sembra che in qualche modo io e te... ci connettiamo. — Anche le parole sembravano uscirle a fatica, quella mattina. Evitava di guardarmi negli occhi. — Non è mai stato così con nessuno, prima d'ora. Volevo dirle che capivo come si sentiva. Volevo dirle che quando eravamo insieme con la niente, anche se i nostri corpi erano a un milione di chilometri di distanza, mi sentivo vicinissimo a lei come non mi era mai successo con nessuno. Ma non potevo dirglielo. E non potevo nemmeno pensarlo. Cominciai a concentrarmi sugli schemi di gioco, sul menu della mensa, sul corridoio verde pisello che stavo per percorrere. Qualsiasi cosa. Poi piegai la testa di lato e tentai una battuta: — Già. Le ragazze me lo dicono di continuo. — Che idiota. Più ero nervoso, più le mie battute diventavano sceme. Lei sorrise, un sorriso incerto, sghembo. — Non cercare di tirarmi su il morale. Non funzionerà. — Invece stava funzionando. Mi girai verso l'ingresso della scuola. — Se vuoi sapere quello che sta succedendo, te lo posso dire io.
Lei mi guardò, scettica. — E come fai? — Questa è Gatlin. Non esistono segreti. — Sono messa molto male? — Lena distolse lo sguardo. — Mi credono pazza? — Più o meno. — Un pericolo per la scuola? — Probabile. Non vediamo di buon occhio gli estranei, da queste parti. E nemmeno gli strani, come Macon Ravenwood. Senza offesa. — Le sorrisi. Suonò la prima campanella. Lei mi prese per una manica, ansiosa. — Ieri sera. Ho fatto un sogno. Anche tu hai... Annuii. Non c'era bisogno che lo dicesse. Sapevo già che era stata in quel sogno con me. — Stamattina avevo addirittura i capelli bagnati. — Anch'io. — Mi mostrò un braccio. C'era un segno sul polso nel punto in cui l'avevo stretta per trattenerla. Prima che sprofondasse nelle tenebre. Avevo sperato che non avesse visto anche quella parte del sogno. Ma dalla faccia che aveva, l'aveva vista eccome. — Mi dispiace, Lena. — Non è colpa tua. — Vorrei tanto sapere perché questi sogni sono così reali. — Io avevo cercato di avvisarti. Dovresti starmi lontano. — Sì. Mi considero avvisato. — Sapevo, dentro di me, che non avrei mai potuto starle lontano, mai. Anche se stavo per entrare a scuola ad affrontare un'enorme montagna di guai, non m'importava. Era bello avere qualcuno con cui poter parlare senza dover filtrare ogni parola. E con Lena si poteva. A Greenbrier, sarei rimasto a parlare con lei per giorni, seduto in mezzo alle erbacce. Anche di più. Finché lei era lì per ascoltarmi.
— Cosa c'entra il tuo compleanno? Perché hai detto che, dopo il tuo compleanno, potresti non essere più qui? Lei cambiò rapidamente argomento. — E il medaglione? Hai visto anche tu quello che ho visto io? L'incendio? L'altra visione? — Sì. Ero seduto in chiesa e per poco non sono caduto giù dal banco. Ma ho scoperto delle cose dalle Sorelle. Le iniziali ECW stanno per Ethan Carter Wate. Era il mio pro-propro-pro-prozio e le mie tre pazze prozie dicono che io porto il suo nome. — E allora perché non hai riconosciuto le iniziali sul medaglione? — È questa la cosa strana. Non avevo mai sentito parlare di Ethan Carter Wate, che è stato opportunamente cancellato dall'albero genealogico che ho a casa. — E GKD? È Genevieve, giusto? — Sembrava che non lo sapessero, ma è senz'altro così. E la ragazza delle visioni e D sta sicuramente per Duchannes. Volevo chiederlo ad Amma, ma quando le ho mostrato il medaglione, quasi le uscivano gli occhi fuori dalle orbite. Come se portasse una triplice fattura e fosse stato immerso in un secchio di vudù e poi maledetto per sicurezza. E lo studio di mio padre è offlimits, così non posso consultare tutti i vecchi libri di mia madre su Gatlin e sulla Guerra. — Andavo a ruota libera. — Potresti chiedere a tuo zio. — Mio zio non sa niente. Adesso dov'è il cammeo? — In tasca, in un sacchettino pieno di una delle polveri che Amma ha sparso ovunque quando l'ha visto. Lei è convinta che l'abbia riportato a Greenbrier e che l'abbia seppellito lì. — Deve odiarmi parecchio. — Non più di quanto odii tutte le altre mie ragazze. Cioè, le mie amiche. — Ma quanto ero stupido! Non credevo alle mie
orecchie. — Meglio che andiamo in classe, prima di finire in altri guai. — A dire la verità, stavo pensando di tornare a casa. So che prima o poi dovrò affrontarli, ma mi piacerebbe negare l'esistenza del problema almeno per un altro giorno. — Non avrai fastidi? Lei rise. — Con mio zio, il famigerato Macon Ravenwood, convinto che la scuola sia una perdita di tempo e che i buoni cittadini di Gatlin siano da evitare come la peste? Ne sarà estasiato. — E allora perché ci vieni? — Ero sicurissimo che Link non si sarebbe mai presentato spontaneamente a scuola, se sua madre non l'avesse cacciato fuori di casa tutte le mattine. Lei rigirò uno dei ciondoli sulla sua collana, una stella a sette punte. — Forse pensavo che qui potesse essere diverso. Che avrei potuto farmi qualche amico, collaborare con il giornalino della scuola, cose del genere. Non so. — Il nostro giornalino? "Il Generale Jackson"? — Avevo cercato di entrare nella redazione del giornale della mia vecchia scuola, ma mi avevano detto che erano al completo, anche se in realtà non avevano mai abbastanza giornalisti per farlo uscire in tempo. — Distolse lo sguardo, imbarazzata. — Adesso dovrei andare. Le aprii la portiera. — Secondo me dovresti parlare con tuo zio del medaglione. Potrebbe saperne più di quel che credi. — Fidati, non ne sa nulla. — Chiusi la portiera. Per quanto desiderassi che Lena restasse, una parte di me era sollevata all'idea che se ne tornasse a casa. Per me la giornata era già abbastanza complicata anche senza di lei. — Vuoi che lo consegni per te? — Le indicai il notes appoggiato sul sedile del passeggero.
— No, non sono compiti. — Aprì il portaoggetti e c'infilò dentro il notes. — Non è niente. — Niente di cui mi volesse parlare, cioè. — Meglio che vai, prima che Ciccio cominci a fare i suoi giri di ricognizione nel parcheggio. — Lena mise in moto senza che potessi dire altro e mi salutò con la mano mettendosi in marcia. Sentii abbaiare. Mi girai e vidi l'enorme cane nero di Macon Ravenwood, a due passi da me. E vidi anche a chi stava abbaiando. La signora Lincoln mi sorrise. Il cane ringhiò, con i peli ritti sulla schiena. Lei lo guardò con repulsione, come se fosse Macon Ravenwood in persona. In uno scontro diretto, non avrei saputo dire chi dei due sarebbe uscito vincitore. — I cani randagi portano la rabbia. Qualcuno dovrebbe denunciarlo alla contea. — Già, qualcuno. — Sì, signora. — Chi era la persona che ho appena visto in quella strana macchina nera? Mi sembravi molto preso dalla conversazione. — Sapeva già la risposta. Non era una domanda. Era un'accusa. — Come? — A proposito di cose strane, il preside Harper mi stava giusto dicendo che ha intenzione di offrire a quella ragazza Ravenwood un trasferimento in un'altra scuola a sua scelta, nel raggio di tre contee. Purché non sia la Jackson. Io non replicai. Non la guardai nemmeno. — È una nostra responsabilità, Ethan. Del preside Harper, mia... di tutti i genitori di Gatlin. Dobbiamo fare in modo che i giovani di questo paese restino lontani dai pericoli. E lontani dalla gente sbagliata. — Il che significava lontani da chiunque non fosse come lei.
Mi mise una mano sulla spalla, proprio come aveva fatto con Emily nemmeno dieci minuti prima. — Sono sicura che capisci cosa voglio dire. Dopo tutto, anche tu sei uno di noi. Tuo padre è nato qui e tua madre è sepolta qui. Tu appartieni a questo luogo. Non per tutti è così. La fissai. Era già sul suo furgone prima che avessi il tempo di dire una parola. Questa volta, la signora Lincoln non si sarebbe limitata a bruciare qualche libro. * * * Quando entrai in classe, la giornata divenne mostruosamente normale, stranamente normale. Non vidi altri genitori in giro, pur avendo il sospetto che stazionassero intorno alla segreteria. A pranzo mangiai tre porzioni di budino al cioccolato con i ragazzi, come al solito, anche se era chiaro di cosa e di chi si evitasse di parlare. Persino la vista di Emily che messaggiava come una forsennata per tutta l'ora di Letteratura Inglese e quella di Chimica, sembrava una specie di rassicurante verità universale. Eccetto per la sensazione di sapere quale fosse l'argomento dei suoi sms. Come dicevo, mostruosamente normale. Finché Link non mi portò a casa dopo l'allenamento di basket e decisi di fare qualcosa di completamente folle. Amma era nel portico, sicuro presagio di guai. — L'hai vista? — Avrei dovuto aspettarmelo. — Oggi non era a scuola. — Tecnicamente era vero. — Forse è stato meglio così. I guai seguono quella ragazza come il cane di Macon Ravenwood. E io non voglio che seguano anche te in questa casa.
— Vado a farmi la doccia. Si cena presto stasera? Io e Link dobbiamo lavorare a un progetto — le gridai dalle scale, cercando di sembrare normale. — Un progetto? Che tipo di progetto? — Storia. — Dove andate e quando rientrate? Chiusi la porta del bagno prima di rispondere. Avevo un piano, sì, ma mi serviva una storia. E doveva essere una buona storia. Dieci minuti dopo, seduto al tavolo della cucina, ne avevo una. Non era perfetta, ma era quanto di meglio fossi riuscito a inventare in così poco tempo. Adesso bisognava raccontarla bene. Non ero il migliore dei bugiardi e Amma non era una stupida. — Link mi viene a prendere dopo cena e lavoriamo in biblioteca finché non chiude. Credo intorno alle nove o alle dieci. — Versai una montagna di Carolina Gold sulla mia porzione di maiale arrosto. La Carolina Gold, un'appiccicosa salsa alla senape per il barbecue, era l'unica cosa non collegata alla Guerra Civile per cui la contea di Gatlin fosse famosa. — In biblioteca? Mentire ad Amma mi rendeva sempre nervoso. Per questo cercavo di non farlo spesso. Quella sera ero molto nervoso e lo sentivo soprattutto nello stomaco. L'ultima cosa che desideravo era mangiare tre piatti di carne di maiale, ma non avevo scelta. Amma sapeva esattamente quanto cibo potevo ingurgitare. Due piatti, e avrei destato dei sospetti. Un piatto, e mi avrebbe spedito in camera con un termometro e una bevanda allo zenzero. Annuii e mi misi di buona lena a svuotare il secondo piatto. — Non metti piede in biblioteca da... — Lo so. — Da quando mia madre era morta.
La biblioteca era una seconda casa per mia madre e per tutta la mia famiglia. Ci passavamo le domeniche pomeriggio da quando ero bambino, a girare tra gli scaffali, a tirare fuori ogni libro che avesse una figura di una nave pirata, un cavaliere, un soldato o un astronauta. Mia mamma ripeteva sempre: «Questa è la mia chiesa, Ethan. È così che santifichiamo le feste, a casa nostra.» La capo bibliotecaria, Marian Ashcroft, era la più vecchia amica di mia madre, la seconda grande esperta di storia della contea dopo di lei e, fino allo scorso aprile, sua collega nei progetti di ricerca. Avevano studiato insieme alla Duke University e, quando Marian aveva finito il suo dottorato di ricerca in Studi Afro-Americani, aveva seguito mia madre a Gatlin per finire il loro primo libro. Stavano lavorando al quinto, all'epoca dell'incidente. Da allora non avevo più messo piede in biblioteca e non ero ancora pronto a farlo, in realtà, ma sapevo che Amma non mi avrebbe mai impedito di andarci. Non avrebbe nemmeno chiamato Marian per verificare se fossi là. Marian Ashcroft faceva parte della famiglia. E per Amma, che aveva voluto bene a mia madre tanto quanto gliene aveva voluto Marian, nulla era più sacro della famiglia. — Be', comportati bene e non parlare a voce alta. Sai cosa diceva sempre tua mamma: «Ovunque si tenga al sicuro un Buon Libro, la c'è la Casa del Signore.» — Come dicevo, mia madre non si sarebbe mai iscritta al DAR. Link suonò il clacson. Stava andando a fare le prove con la band e mi dava un passaggio. Fuggii dalla cucina sentendomi così in colpa che dovetti resistere all'impulso di buttarmi tra le braccia di Amma e confessare, come un bambino di sei anni che ha mangiato tutta la marmellata della dispensa. Forse
Amma aveva ragione. Forse avevo beccato una falla nel cielo e l'universo stava per cadermi addosso. * * * Quando arrivai alla porta dei Ravenwood, strinsi con forza la cartellina lucida che avevo in mano, la mia scusa per presentarmi a casa di Lena senza essere stato invitato. Le avrei detto che ero venuto a portarle i compiti di Inglese che erano stati assegnati oggi. Nella mia testa, quando ero nel portico di casa mia, suonava convincente. Ma adesso che ero in quello dei Ravenwood, non ne ero più tanto sicuro. Non ero il tipo di ragazzo che prendesse un'iniziativa del genere, ma era ovvio che per nessuna ragione al mondo Lena mi avrebbe invitato da lei di sua spontanea volontà. E io avevo la netta sensazione che suo zio potesse aiutarci, che potesse sapere qualcosa. O forse la verità era un'altra. Forse volevo solo vedere Lena. Era stata una giornata lunga e inutile, alla Jackson, senza l'Uragano Lena, e mi chiedevo come avessi mai potuto sopravvivere a otto intere ore di lezione senza tutti i guai che mi combinava. Senza tutti i guai che mi faceva combinare. Vedevo la luce filtrare dalle finestre coperte di rampicanti. Sentivo della musica in sottofondo, vecchie canzoni di Savannah, di quel cantautore georgiano che mia madre adorava. Nel fresco della sera... Così diceva quella canzone. Sentii abbaiare dall'altra parte prima ancora di bussare e pochi secondi dopo la porta si spalancò. Lena era lì a piedi nudi e sembrava diversa, vestita bene, con un abito nero su cui erano ricamati degli uccellini, come se fosse pronta per andare a cena in un ristorante di lusso. Io al massimo sembravo pronto per il
Dar Kin, con i miei jeans e la maglietta Atari piena di buchi. Lena uscì sulla veranda chiudendosi la porta alle spalle. — Ethan, che ci fai qui? Le mostrai la cartellina, con l'aria poco convinta. — Ti ho portato i compiti. — Non ci posso credere che ti sia presentato qui, così. Te l'ho detto che mio zio non ama gli estranei. — Mi stava spingendo giù. — Devi andare via. Adesso. — Pensavo che avremmo potuto parlare con lui. Alle nostre spalle, sentii uno strano colpetto di tosse. Alzai gli occhi e vidi il cane di Macon Ravenwood e, dietro di lui, Macon Ravenwood in persona. Cercai di non sembrare sorpreso, ma sono quasi sicuro che mi tradii quando per poco non saltai fuori dalla mia stessa pelle per lo spavento. — Be', questa non la sento spesso. E mi dispiace deludervi, ma io non sono altro che un gentiluomo del Sud. — Parlava con un moderato accento meridionale, ma con una pronuncia perfetta. — È un piacere poterla finalmente incontrare, signor Wate. Non potevo credere di essere davvero davanti a lui. Il misterioso Macon Ravenwood. Solo che mi ero aspettato un Boo Radley, uno che si trascinava in giro per la casa in tuta, biascicando una sorta di linguaggio monosillabico da uomo di Neanderthal, magari con un filo di saliva agli angoli della bocca. Questo non era affatto Boo Radley. Questo era più un distinto Atticus Finch. Macon Ravenwood era vestito in modo impeccabile, come se fossimo, non so, nel 1942. La camicia bianca inamidata aveva, invece dei bottoni, dei gemelli d'argento vecchio stile. La giacca da sera era immacolata e perfettamente stirata. Gli occhi erano scuri e brillanti, quasi neri. Erano però offuscati,
oscurati come i vetri del carro funebre che guidava Lena. Non c'era verso di vederci dentro qualcosa, non c'era riflesso. Spiccavano sul volto pallido, bianco come la neve, bianco come il marmo, bianco come, be', quello che ci si poteva aspettare dall'eremita del paese. I capelli erano sale e pepe, grigi sulle tempie, neri come quelli di Lena sulla testa. Sembrava una stella del cinema prima del Technicolor, o forse un nobile di sangue reale, di un minuscolo stato sconosciuto. Ma Macon Ravenwood era di Gatlin. Era questa la cosa che mi confondeva. Il Vecchio Ravenwood era l'uomo nero di Gatlin, una storia che sentivo sin dall'asilo. Lui era molto più lontano dalla gente di Gatlin di quanto non mi sentissi io stesso. Macon Ravenwood chiuse di scatto il libro che teneva in mano, senza mai togliermi gli occhi di dosso. Mi guardava, ma era più come se mi stesse scandagliando dentro, in cerca di qualcosa. Forse aveva la vista a raggi X. Dopo quello che era successo nei giorni precedenti, tutto era possibile. Il cuore mi batteva così forte che ero sicuro lo sentisse anche lui. Mi aveva sconvolto e lo sapeva. Né io né lui sorridemmo. Il cane era al suo fianco, teso e pronto, come in attesa del comando di attaccare. — Ma dove sono finite le mie buone maniere? Entri, signor Wate. Stavamo giusto per metterci a tavola. Deve assolutamente cenare con noi. La cena è sempre un evento, qui a Ravenwood. Guardai Lena, sperando di ricevere da lei qualche indicazione. Digli che non vuoi restare. Credimi, non voglio.
— No, grazie, signore. Non vorrei essere invadente. Sono venuto solo per portare i compiti a Lena. — Esibii per la seconda volta la mia cartellina blu. — Sciocchezze. Lei deve restare. E dopo cena ci gustiamo un paio di cubani nel portico. O lei è piuttosto un uomo da cigarillo? A meno che, naturalmente, lei non si senta a disagio a entrare, nel qual caso avrebbe tutta la mia comprensione. — Non riuscivo a capire se stesse scherzando. Lena gli passò un braccio intorno alla vita e la faccia del Vecchio Ravenwood cambiò istantaneamente. Come se fosse filtrato un raggio di sole tra le nubi di una giornata grigia. — Zio M, non prendere in giro Ethan. È l'unico amico che ho qui. Se me lo spaventi, dovrò andare a vivere da zia Del e non avrai più nessuno da torturare. — Mi resta sempre Boo. — Il cane guardò Macon con aria interrogativa. — Lo porterò via. È me che segue dappertutto in paese, non te. Dovevo sapere. — Boo? Il vostro cane si chiama Boo Radley? Macon fece il più piccolo dei sorrisi. — Meglio a lui che a me. — Buttò indietro la testa e rise, prendendomi del tutto alla sprovvista, visto che mai avrei immaginato che i tratti del suo volto si potessero comporre anche solo in un sorriso. Spalancò la porta alle sue spalle. — Davvero, signor Wate, si fermi a cena con noi. Amo così tanto la compagnia e sono passati secoli dall'ultima volta che Ravenwood ha avuto il piacere di accogliere un ospite della nostra piccola e deliziosa contea di Gatlin. Lena fece un sorriso storto. — Non fare lo snob, zio M. Non è colpa loro se non rivolgi mai la parola a nessuno.
— E non è colpa mia se ho una predilezione per la buona educazione, una ragionevole intelligenza e una sufficiente igiene personale, non necessariamente in quest'ordine. — Ignoralo. Ha la luna storta. — Lena aveva un'espressione di scusa. — Fammi indovinare. Ha forse qualcosa a che vedere con il preside Harper? — chiesi. Lena annuì. — Ha telefonato la scuola. Mentre "si indaga" sull'incidente, sarò in libertà vigilata. — Alzò gli occhi al cielo. — Un'altra "infrazione" e mi sospenderanno. Macon chiuse l'argomento con una risata, come se stessimo parlando di qualcosa di completamente irrilevante. — In libertà vigilata. Esilarante. La libertà vigilata dovrebbe implicare una fonte di autorità. — Ci sospinse nella sala d'ingresso. — Un preside sovrappeso che a malapena ha finito il college e un branco di casalinghe arrabbiate con un pedigree che non potrebbe competere nemmeno con quello di Boo Radley, difficilmente possono aspirare a questo ruolo. Varcai la soglia e mi bloccai sui due piedi. La sala d'ingresso era altissima e sontuosa... e non era la casa da catalogo in cui ero entrato qualche giorno prima. Un dipinto a olio mostruosamente grande, il ritratto di una donna dalla bellezza eccezionale e dagli occhi dorati e ardenti, era appeso sulla scala. Anche la scala era diversa, non più contemporanea ma classica, sospesa, apparentemente sostenuta solo dall'aria. Se ora fosse scesa Rossella O'Hara vestita di crinolina, non sarebbe sembrata fuori luogo. Dal soffitto pendevano imponenti lampadari di cristallo. La sala era riccamente arredata da una quantità di mobili vittoriani d'antiquariato, piccoli salotti di poltroncine dagli intricati ricami, tavoli in marmo e felci aggraziate. Su tutte le superaci c'erano candele accese. Le porte imponenti erano spalancate; la brezza
diffondeva il profumo delle gardenie, sistemate in alti vasi d'argento disposti ad arte sui tavoli. Per un secondo, pensai di essere tornato alle visioni, ma il medaglione era al sicuro nella mia tasca, avvolto nel fazzoletto. Per sicurezza, controllai. E quel cane inquietante mi osservava dalle scale. Non aveva alcun senso. Ravenwood si era trasformata in qualcosa di completamente diverso dall'ultima volta che c'ero stato. Era impossibile, era come tornare indietro nella storia. Anche se non era reale, avrei comunque voluto che mia madre la vedesse. Si sarebbe innamorata di un posto così. Ma ora come ora sembrava molto reale e avevo la sensazione che quella casa si presentasse sempre con questo aspetto. Era un po' come Lena, come il giardino murato, come Greenbrier. Perché l'altra volta non era così! Di cosa stai parlando! Io credo che tu lo sappia. Macon camminava davanti a noi. Girammo un angolo, in quello che la settimana prima era un accogliente salot-tino. Adesso era una sontuosa sala da ballo, con un lungo tavolo dalle zampe di leone apparecchiato per tre, come se Macon mi stesse aspettando. Il piano suonava, da solo, in un angolo. Immaginai che fosse uno di quei pianoforti meccanici. La scena era spettrale, quasi che la stanza dovesse risuonare di risate e calici tintinnanti. Ravenwood dava la festa dell'anno, ma io ero l'unico invitato. Macon stava ancora parlando. Tutto quello che diceva, riverberava sulle enormi pareti affrescate e sui soffitti a volta intagliati. — Probabilmente sono uno snob. Detesto i paesi. Detesto la gente che ci vive. Hanno la mente piccola e il deretano enorme. Potremmo dire che compensano ciò di cui sono carenti in interiorità con un'abbondanza di posteriorità.
Sono come il cibo-spazzatura, grassi e ipercalorici ma, in ultima analisi, terribilmente insoddisfacenti. — Sorrise, ma non era un sorriso amichevole. — Allora perché non se ne va? — L'ondata di fastidio che provai mi riportò subito alla realtà, qualsiasi essa fosse. Una cosa era che io facessi dell'ironia su Gatlin. Tutt'al-tra cosa era l'ironia di Macon Ravenwood. Veniva da un posto diverso. — Non sia assurdo. Ravenwood è casa mia, non Gatlin. — Sputò la parola come se fosse tossica. — Quando mi libererò dalle catene di questa vita, dovrò trovare qualcuno che si prenda cura di Ravenwood, dato che non ho figli. È sempre stato il mio grande e terribile scopo: tenere viva Ravenwood. Mi piace pensarmi come il curatore di un museo vivente. — Non essere così teatrale, zio M. — Non essere così diplomatica, Lena. Perché tu voglia interagire con questi paesani così poco illuminati, non lo capirò mai. Tuo zio ha ragione. Stai dicendo che non mi vuoi nella tua scuola? No... volevo solo dire... Macon mi guardò. — Presenti esclusi, naturalmente. Più parlava, più mi incuriosivo. Chi avrebbe mai detto che il Vecchio Ravenwood fosse la terza persona più intelligente di Gatlin, dopo mia madre e Marian Ashcroft? O la quarta, nel caso in cui mio padre avesse ripreso una vita sociale. Cercai di leggere il titolo del libro che Macon teneva in mano. — Cos'è? Shakespeare? —Il ricettario di Betty Cracker, una donna affascinante. Stavo cercando di ricordare qual è il tipico pasto serale per
I nostri compaesani. Ero in vena di una ricetta regionale questa sera. E ho deciso per il maiale a pezzetti. — Ancora maiale. Mi venne la nausea al solo pensiero. Con un gesto teatrale, Macon spostò la sedia di Lena per farla accomodare. — A proposito di ospitalità, Lena: verranno i tuoi cugini per i Giorni della Raccolta. Ricordiamoci di avvisare la Casa e la Cucina che ci saranno cinque persone in più. Lena sembrava infastidita. — Avviserò il personale della cucina e le governanti della casa, se è questo che intendi, zio M. — Cosa sono i Giorni della Raccolta? — La mia famiglia è strana. La Raccolta è una vecchia festa per il raccolto, come un Giorno del Ringraziamento anticipato. Nulla di memorabile. — Non sapevo che qualcuno facesse visita a Ravenwood, familiari o altri. Non avevo mai visto una macchina svoltare in quella direzione, al bivio. Macon sembrava divertito. — Come desideri. A proposito della Cucina, sto letteralmente morendo di fame. Vado a vedere cosa hanno approntato per noi. — Mentre parlava, si sentiva un gran sbattere di pentole e padelle in un stanza lontana dalla sala da ballo. — Non esagerare, zio M. Per favore. Guardai Macon Ravenwood entrare in un salone e poi sparire. Continuai a sentire il suono delle sue scarpe eleganti sul pavimento tirato a lucido. Quella casa era assurda. A confronto, la Casa Bianca sembrava una baracca nella foresta. — Lena, cosa sta succedendo? — In che senso? — Come faceva a sapere di dover apparecchiare anche per me? — L'avrà deciso quando ci ha visti sulla veranda.
— E questo posto? Ero entrato in casa tua, il giorno in cui abbiamo trovato il medaglione. Non era per niente così. Dimmelo. Puoi fidarti di me. Lei giocherellava con l'orlo del vestito. Ostinata. —Mio zio è appassionato di antiquariato. La casa cambia di continuo. È davvero così importante? Qualsiasi cosa fosse, Lena non voleva parlarne ora. — Okay. Ti dispiace se do un'occhiata in giro? — Lei aggrottò la fronte, ma non disse niente. Mi alzai da tavola e mi diressi nella sala adiacente. Era arredata come uno studio, con dei divani, un caminetto e dei piccoli scrittoi. Boo Radley era sdraiato davanti al fuoco. Cominciò a ringhiare nel momento in cui misi piede nella stanza. — Buono, cagnolino. — Lui ringhiò più forte. Io arretrai fino alla porta. Lui smise di ringhiare e tornò ad appoggiare la testa sulla pietra del caminetto. Sullo scrittoio più vicino a me c'era un pacco avvolto in carta marrone, legato con uno spago. Lo presi in mano. Boo Radley ricominciò a ringhiare. C'era il timbro della biblioteca pubblica della contea di Gatlin. Lo conoscevo bene: mia madre riceveva centinaia di pacchi come quello. Solo Marian Ashcroft si sarebbe presa la briga di incartare così dei libri. — Le interessano le biblioteche, signor Wate? Conosce Marian Ashcroft? — Macon comparve al mio fianco, mi prese il pacco dalle mani e lo osservò con piacere. — Sissignore. Marian, la dottoressa Ashcroft, era la migliore amica di mia madre. Lavoravano insieme. Gli occhi di Macon guizzarono: un brillio fugace, poi nulla. Passò. — Ma certo. Che cosa incredibilmente ottusa da parte mia. Ethan Wate. Io conoscevo sua madre. Raggelai. Com'era possibile che Macon Ravenwood conoscesse mia madre?
Una strana espressione gli passò sul viso, come se stesse ricordando qualcosa che aveva dimenticato. — Solo dai suoi lavori, naturalmente. Ho letto tutto quello che ha scritto. Anzi, se osserva attentamente le note di Piantagioni e coltivazioni: un giardino diviso, vedrà che diverse delle fonti primarie per la sua ricerca vengono dalla mia collezione privata. Sua madre era geniale. Una grave perdita. Riuscii a trovare un sorriso. — Grazie. — Sarebbe un onore mostrarle la mia biblioteca, naturalmente. Sarebbe un grande piacere condividere la mia collezione privata con l'unico figlio di Lila Evers. Lo guardai, colpito dal suono del nome di mia madre pronunciato dalla sua voce. — Wate. Lila Evers Wate. Lui fece un sorriso più grande. — Ma certo. Prima, però, le cose importanti. Ritengo, dalla generale assenza di baccano in Cucina, che la cena sia stata servita. — Mi batté sulla spalla mentre rientravamo nella sontuosa sala da ballo. Lena ci aspettava a tavola. Stava riaccendendo una candela che la brezza della sera aveva spento. Sulla tavola faceva bella mostra di sé un elaborato banchetto, che non riuscivo a capire come fosse arrivato lì. Non avevo visto anima viva nella casa, a parte noi tre. Una casa completamente diversa, un lupo-cane e un misterioso banchetto. E io che ritenevo Macon Ravenwood la cosa più strana di tutta la serata. C'era abbastanza cibo da saziare tutto il DAR, tutte le congregazioni religiose di Gatlin e tutta la squadra di basket, sommati insieme. Ma non era il tipo di cibo di Gatlin. C'era una cosa che somigliava a un intero maiale arrosto, con tanto di mela in bocca. C'era una corona di costolette con dei decori di carta sulla punta di ognuna, accanto a un'oca coperta di castagne. C'erano ciotole di sughi, salse e creme, pagnotte di pane di vari tipi, cavoli e barbabietole e cose da spalmare che
non avrei saputo definire. E, naturalmente, i panini al maiale che, in mezzo agli altri piatti, sembravano particolarmente fuori posto. Guardai Lena, sentendomi male al solo pensiero di quanto avrei dovuto mangiare per educazione. — Zio M! È troppo! — Boo, acciambellato intorno alle gambe della sedia di Lena, batteva la coda pregustando i suoi bocconi. — Sciocchezze. Qui bisogna festeggiare. Hai trovato un amico. La Cucina si offenderebbe. Lena mi guardò con ansia, quasi temesse che mi alzassi con la scusa di andare in bagno per poi scappare a gambe levate. Scrollai le spalle e cominciai a riempirmi il piatto. Forse Amma mi avrebbe permesso di saltare la colazione, l'indomani. Quando Macon si versò il terzo bicchiere di scotch, mi sembrò un buon momento per parlare del medaglione. A ripensarci, l'avevo visto riempirsi il piatto di cibo ma non l'avevo visto mangiare un solo vero boccone. Sembrava che il cibo gli sparisse dal piatto con un paio di minuscoli assaggi. Forse Boo Radley era il cane più fortunato di Gatlin. Ripiegai il tovagliolo. — Le dispiace, signore, se le faccio una domanda? Dato che lei sembra sapere molto di storia e che, be', non posso più chiedere a mia madre. Che stai facendo! Una domanda. Lui non sa niente. Lena, dobbiamo provare. — Ma certo. — Macon bevette un sorso di scotch. Infilai la mano in tasca ed estrassi il cammeo dal sacchettino che Amma mi aveva dato, facendo attenzione a tenerlo avvolto nel suo fazzoletto. Tutte le candele si spensero. Le fiammelle dei lampadari si affievolirono e poi morirono, guizzando. Persino la musica del pianoforte si fermò.
Ethan, cosa stai facendo! Io non ho fatto niente. Sentii la voce di Macon nel buio. — Che cos'ha in mano, figliolo? — È un medaglione, signore. — Le dispiacerebbe molto rimetterlo in tasca? — Il tono era calmo ma lui no, era chiaro. Stava cercando di mantenere il controllo. L'affabile parlantina era sparita. C'era una punta di tensione nella voce, un senso di urgenza che Macon si sforzava di nascondere. Ficcai il cammeo nel suo sacchettino e lo rimisi in tasca. All'altro capo del tavolo, Macon sfiorò con le dita i candelabri. Una per una, le candele sulla tavola si riaccesero. L'intero banchetto era sparito. Alla luce delle candele, Macon aveva un aspetto sinistro. Era muto, per la prima volta da quando l'avevo incontrato. Era come se stesse soppesando le sue opzioni su una bilancia invisibile, sui cui piatti in qualche modo c'era il nostro destino. Era ora di andare. Lena aveva ragione, la mia era stata una pessima idea. Forse una ragione c'era, se Macon Ravenwood non si allontanava mai da casa sua. — Mi dispiace, signore. Non sapevo che sarebbe successo questo. La nostra governante, Amma, si è comportata come se il medaglione fosse veramente potente, quando gliel'ho mostrato. Ma quando io e Lena l'abbiamo trovato, non è successo niente di particolare. Non dirgli altro. Non parlargli delle visioni. Certo che no. Volevo solo capire se avevo ragione su Genevieve. Non doveva preoccuparsi, non volevo raccontare niente a Macon Ravenwood. Volevo solo uscire di li. Feci per alzarmi. — Credo sia ora che io vada, signore. Si sta facendo tardi.
— Le dispiacerebbe descrivermi il medaglione? — Era un ordine, più che una richiesta. Io non dissi una parola. Fu Lena, alla fine, a parlare. — È vecchio e ammaccato, con un cammeo. Lo abbiamo trovato a Greenbrier. Macon rigirò l'anello d'argento che portava al dito. Era nervoso. — Avresti dovuto dirmi che andavi a Greenbrier. Non è nei confini di Ravenwood. Lì non posso tenerti al sicuro. — Ero al sicuro. Lo sentivo. — Al sicuro da cosa? Quello era più di un semplice atteggiamento iperprotettivo. — Non eri al sicuro. È oltre i confini. È un posto che non può essere controllato, da nessuno. Ci sono molte cose che non sai. E lui... — Macon mi indicò, dall'altra parte del tavolo. — Lui non sa proprio niente. Non può proteggerti. Non avresti dovuto coinvolgerlo in tutto questo. Intervenni. Dovevo farlo. Stava parlando di me come se non esistessi nemmeno. — È una cosa che riguarda anche me, signore. Ci sono delle iniziali dietro il medaglione. ECW. Ethan Carter Wate, il mio pro-pro-pro-pro-prozio. E le altre iniziali sono GKD, e noi siamo piuttosto sicuri che D stia per Duchannes. Ethan, fermati. Non potevo. — Non c'è motivo di tenerci nascosto qualcosa, signore, perché non so cosa sia, ma sta succedendo a Lena e a me. E, che le piaccia o no, sembra che stia succedendo proprio adesso. — Un vaso di gardenie volò per la stanza e andò a fracassarsi contro il muro. Questo era il Macon Ravenwood di cui sentivamo raccontare storie sin da bambini. — Lei non ha idea di quello che dice, giovanotto. — Macon mi guardò fisso negli occhi, con una cupa intensità che mi fece rizzare i capelli sulla testa. Adesso faticava a mantenere il controllo. L'avevo spinto troppo oltre. Boo Radley si alzò e si
mise a camminare dietro a Macon come se stesse seguendo una preda, i suoi occhi stranamente rotondi e familiari. Non dire altro. Macon Ravenwood socchiuse gli occhi. Il fascino da divo del cinema era sparito, sostituito da qualcosa di molto più oscuro. Volevo scappare ma ero incollato a terra. Paralizzato. Mi sbagliavo sulla casa dei Ravenwood e su Macon stesso. Avevo paura dell'una e dell'altro. Quando finalmente parlò, fu come se riflettesse tra sé. — Cinque mesi. Sapete fin dove mi spingerò, per tenere Lena al sicuro per cinque mesi? Quanto mi costerà? Come mi prosciugherà o, forse, mi distruggerà? — Senza una parola, Lena gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. E in quel momento la tempesta nei suoi occhi passò con la stessa rapidità con cui era esplosa, e Macon riprese il controllo di sé. — Amma mi sembra una donna saggia. Se fossi in lei, giovanotto, seguirei il suo consiglio. Riporterei quell'oggetto nel luogo dove l'avete trovato. La prego di non riportarlo più in casa mia. — Macon si alzò e buttò il tovagliolo sul tavolo. — Credo che la visita alla mia biblioteca dovrà attendere, è d'accordo? Lena, puoi assicurarti che il tuo amico ritrovi la strada di casa? È stata, naturalmente, una serata straordinaria. Davvero illuminante. Torni a trovarci, la prego, signor Wate. Poi la stanza divenne buia e Macon Ravenwood sparì. Volevo andarmene, e subito. Volevo scappare dallo spaventoso zio di Lena e da quella casa da circo degli orrori. Che diavolo era successo? Lena mi accompagnò alla porta in fretta e furia, come se avesse paura di ciò che sarebbe potuto succedere se non mi avesse fatto uscire all'istante di lì. Ma nella sala d'ingresso notai qualcosa che prima mi era sfuggita.
Il medaglione. La donna del dipinto a olio, la donna dagli inquietanti occhi dorati, portava il cammeo. Presi Lena per un braccio. Lo vide anche lei e si bloccò. Prima non c'era. In che senso! Quel dipinto è appeso lì da quando ero piccola. Ci sono passata davanti mille volte. Lei non ha mai indossato un medaglione.
15-09 Un bivio nella strada Non dicemmo una parola mentre tornavamo in macchina verso casa mia. Io non sapevo cosa dire e Lena sembrava grata per il mio silenzio. Mi lasciò guidare, il che fu un bene perché avevo bisogno di qualcosa per distrarmi e far rallentare il battito cardiaco. Passammo accanto alla mia via ma non mi importava. Non ero pronto per tornare a casa. Non sapevo cosa stesse succedendo a Lena, né alla sua casa, né a suo zio, ma ora me l'avrebbe spiegato. — Hai saltato la tua strada. — Lo so. — Tu pensi che mio zio sia pazzo, come tutti. Dai, dillo. Il Vecchio Ravenwood. — Il suo tono era amaro. — Devo tornare a casa. Non risposi, girando intorno al Parco del Generale, il cerchio d'erba sbiadita che circondava l'unica cosa di Gatlin finita sulle guide turistiche: una statua del generale della Guerra Civile Jubal A. Early. Il generale era al suo posto, come sempre, solo che ora mi sembrava sbagliato. Tutto era cambiato, tutto continuava a cambiare. Io stesso ero diverso, vedevo e sentivo e facevo cose che una settimana prima mi sarebbero parse impossibili. Mi sentivo come se anche il Generale sarebbe dovuto cambiare.
Svoltai in Dove Street e fermai il carro funebre sul ciglio della strada, proprio sotto il segnale che annunciava: BENVENUTI A GATLIN, TERRA DELLE PIÙ PRESTIGIOSE CASE PADRONALI STORICHE E DELLA TORTA AL LATTICELLO MIGLIORE DEL MONDO.
Sulla torta non ero sicuro, ma il resto era vero. — Che stai facendo? Spensi il motore. — Dobbiamo parlare. — Io non mi apparto con i ragazzi. — Era una battuta, ma glielo sentivo nella voce: era pietrificata. — Inizia a parlare. — Di cosa? — Stai scherzando, vero? — Cercavo di non gridare. Lei giocherellava con la collana, torcendo la linguetta di una lattina. — Non so cosa vuoi sentirmi dire. — Che ne dici di spiegarmi cos'è successo a casa tua? Lei guardava fuori dal finestrino, nel buio. — Mio zio era arrabbiato. Qualche volta perde il controllo. — Perde il controllo? Vale a dire che scaglia le cose da un capo all'altro della stanza senza toccarle e accende le candele senza fiammiferi? — Ethan, mi dispiace. — La sua voce era un sussurro. La mia no. Più lei evitava le mie domande, più io mi arrabbiavo. — Non voglio le tue scuse. Voglio che tu mi dica cosa sta succedendo. — A che proposito? — A proposito di tuo zio e della sua casa assurda, che riesce a rinnovare nel giro di due giorni. A proposito del cibo che appare e scompare. A proposito di tutto quel gran parlare di confini e di proteggerti. Scegli l'argomento che vuoi. Lei scosse la testa. — Non posso parlare di queste cose. E comunque, tu non capiresti. — Come fai a dirlo, se non mi dai nemmeno una possibilità?
— La mia famiglia è diversa dalle altre. Credimi, non sei in grado di capire. — E questo cosa dovrebbe significare? — Guarda in faccia la realtà, Ethan. Tu dici di non essere come tutti gli altri, invece lo sei. Tu vuoi che io sia diversa, ma solo un poco. Non diversa veramente. — Sai che ti dico? Sei pazza come tuo zio. — Tu sei venuto a casa mia senza essere invitato e adesso sei arrabbiato perché non ti è piaciuto quello che hai visto. Non risposi. Non vedevo niente fuori dal finestrino e non riuscivo nemmeno a pensare con lucidità. — E sei arrabbiato perché hai paura. Voi tutti avete paura. Nel profondo, siete tutti uguali. — La voce di Lena adesso era stanca, rassegnata. — No. — La guardai. — Sei tu quella che ha paura. Lei rise, amaramente. — Sì, certo. Ma le cose di cui ho paura io, tu non le immagini nemmeno. — Hai paura di fidarti di me. Lei non replicò. — Hai paura di legarti a qualcuno quanto basta da accorgerti se viene a scuola o è assente. Lei passava il dito sulla condensa del finestrino. Disegnò una linea tremolante, a zig-zag. — Hai paura di vedere quello che succede. Lo zigzag si trasformò in una specie di fulmine. — Tu non sei di qui. Hai ragione. E non sei solo un po' diversa. Lei continuava ancora a fissare fuori dal finestrino... il nulla, perché non si vedeva niente. Ma io vedevo lei. Vedevo tutto. — Sei incredibilmente, assolutamente, estremamente diversa. — Le sfiorai il braccio con la punta delle dita e sentii immediatamente il calore dell'elettricità. — Lo so perché nel
profondo anch'io credo di essere così. Quindi, spiegami. Ti prego. Diversa come? — Non voglio dirtelo. Una lacrima le scivolò lungo la guancia. La fermai con la punta del dito. Bruciava. — Perché no? — Perché questa potrebbe essere la mia ultima occasione di essere una ragazza normale, anche se qui a Gatlin. Perché tu sei il mio unico amico. Perché se te lo dico, tu non mi crederai. O, peggio, mi crederai. — Aprì gli occhi e li fissò nei miei. — In ogni caso, non vorrai più parlare con me. Bussarono al finestrino ed entrambi sobbalzammo. Una torcia brillò dietro i vetri appannati. Abbassai la mano e aprii, imprecando sottovoce. — Bambini che hanno perso la strada di casa? — Ciccio. Sorrideva come se avesse trovato due belle ciambelle sul ciglio del marciapiede. — No, signore. Ce ne stavamo giusto andando. — Questa non è la tua macchina, Wate. — No, signore. Ciccio puntò la torcia verso Lena, soffermandosi a lungo su di lei. — Allora sbrigati e vattene a casa. Non far aspettare Anima. — Sì, signore. — Girai la chiave. Quando guardai nello specchietto retrovisore, vidi la sua ragazza, Amanda, che rideva sul sedile anteriore della macchina di pattuglia. * * * Sbattei la portiera. Ora scorgevo Lena inquadrata nel finestrino, la macchina ferma davanti a casa mia. — Ci vediamo domani. — Certo.
Ma sapevo che non ci saremmo visti il giorno dopo. Sapevo che se Lena si fosse allontanata dal vialetto di casa mia, sarebbe finita lì. Era una scelta, come il bivio sulla strada verso Ravenwood o Gatlin. Bisognava scegliere. Se Lena non sceglieva questa strada, adesso, il carro funebre avrebbe continuato a prendere l'altra direzione, al bivio, e a passarmi accanto. Come la prima mattina in cui l'avevo visto. Se non avesse scelto me. * * * Non si potevano prendere entrambe le strade. E una volta averne imboccata una, non si poteva più tornare indietro. Sentii la marcia che entrava, ma continuai a camminare verso la porta. Il carro funebre si mise in moto. Lena non aveva scelto me. Ero sdraiato sul letto, girato verso la finestra. La luce della luna entrava a fiotti attraverso le stecche delle persiane. Mi dava fastidio perché mi impediva di addormentarmi, quando tutto quello che volevo era che quella giornata finisse. Ethan. La voce era così bassa che quasi non la sentii. Guardai la finestra. Era chiusa, me ne ero assicurato. Ethan. Dai! Chiusi gli occhi. Il chiavistello della finestra vibrò. Fammi entrare. Le persiane di legno si spalancarono rumorosamente. Avrei potuto dire che era colpa del vento, ma naturalmente non c'era nemmeno un filo di brezza. Scesi dal letto e guardai fuori. C'era Lena sul prato, in pigiama. I vicini ci sarebbero andati a nozze e ad Amma sarebbe venuto un infarto. — O vieni giù tu o vengo su io.
Prima un infarto e poi un colpo apoplettico. Ci sedemmo sui gradini di casa. Io ero in jeans, perché non dormivo mai in pigiama e se Amma fosse uscita e mi avesse beccato in mutande in compagnia di una ragazza, la mattina dopo mi sarei ritrovato sepolto nell'orto. Lena si appoggiò con la schiena al gradino. Osservava la vernice bianca e scrostata del portico. — In fondo alla tua strada, stavo per tornare indietro, ma ero troppo spaventata per farlo. — Alla luce della luna, vedevo che il suo pigiama era verde e viola, tipo cinese. — E quando sono arrivata a casa, ero troppo spaventata per non farlo. — Giocava con lo smalto sulle unghie dei piedi nudi. Capii da quel gesto che aveva qualcosa da dire. — Non so bene come muovermi. Non ne ho mai dovuto parlare prima d'ora, e non so proprio come mi uscirà. Mi sfregai i capelli arruffati con una mano. — Qualunque cosa sia, puoi dirmela. So cosa significa avere una famiglia di matti. — Tu credi di sapere cosa sia la follia. Ma. non ne hai idea. Fece un respiro profondo. Qualunque cosa stesse per dire, era difficile per lei. La vedevo cercare le parole adatte. — Quelli della mia famiglia, e anch'io, abbiamo dei poteri. Possiamo fare delle cose che la gente normale non può. Siamo nati così, non possiamo farci niente. Siamo quello che siamo. Mi ci volle un secondo per capire di cosa stesse parlando o, almeno, di cosa pensavo che stesse parlando. Magia. Dov'era Amma quando avevo bisogno di lei? Avevo paura a chiedere, ma dovevo sapere. — E cosa siete, esattamente? — Sembrava una domanda così assurda, che quasi non riuscii a pronunciare le parole.
— Maghi — rispose lei a bassa voce. — Maghi? Lei annuì. — Cioè fate le magie? Lei annuì di nuovo. La fissai. Forse era davvero pazza. — Tipo le streghe? — Ethan. Non essere ridicolo. Tirai il fiato, con momentaneo sollievo. Ma certo, ero un idiota. Cosa mi veniva in mente? — È una parola così stupida, davvero. È come dire fenomeno da baraccone o mostro. È solo un patetico stereotipo. Mi si accartocciò lo stomaco. Una parte di me voleva schizzare in casa, chiudere a chiave e nascondersi sotto le coperte. Ma l'altra parte di me, quella più grande, voleva restare. Perché, quella parte di me, non l'aveva sempre saputo sin dall'inizio? Forse non mi era chiaro cosa fosse esattamente Lena, ma avevo sempre intuito che c'era qualcosa in lei, qualcosa di più grande di quella collana di cianfrusaglie e di quelle vecchie scarpe da basket. Cosa mi aspettavo da qualcuno che poteva scatenare un temporale? Che poteva parlare con me senza essere nella mia stessa stanza? Che poteva controllare i movimenti delle nuvole nel cielo? Che poteva spalancare le persiane della mia camera stando giù in cortile? — Conosci un nome migliore? — Non c'è un'unica parola che possa descrivere tutti i membri della mia famiglia. C'è una parola che possa descrivere quelli della tua? Volevo rompere la tensione, fingere che Lena fosse una ragazza come tante altre. Convincermi che potesse funzionare. — Sì. Pazzoidi.
— Noi siamo Maghi. È la definizione più generica. Tutti noi abbiamo dei poteri. Abbiamo un dono. Così come certe famiglie sono intelligenti, altre sono ricche, o belle, o atletiche. Sapevo qual era la domanda successiva, ma non volevo porla. Sapevo già che Lena era in grado di rompere una finestra con il pensiero. Ma non sapevo se ero pronto a scoprire cos'altro fosse in grado di distruggere. Comunque, cominciavo ad avere la sensazione di parlare di una delle tante famiglie eccentriche del Sud, come le Sorelle. I Ravenwood vivevano a Gatlin da sempre, come tutti. Perché avrebbero dovuto essere meno pazzi degli altri? Questo, almeno, cercavo di dirmi. Lena prese il mio silenzio come un brutto segno. — Lo sapevo che non avrei dovuto raccontarti niente. Te l'avevo detto di lasciarmi in pace. Adesso probabilmente starai pensando che sono una specie di mostro. — Io penso che tu abbia un talento. — Tu pensi che la mia casa sia strana. Me l'hai già detto. — Be', avete ristrutturato parecchio. — Stavo cercando di tenere insieme i pezzi. Stavo cercando di farla sorridere. Sapevo quanto doveva esserle costato dirmi la verità. Non potevo piantarla in asso adesso. Mi girai e le indicai la finestra illuminata sopra le azalee, dietro le pesanti persiane di legno. — Guarda. La vedi quella finestra? È lo studio di mio padre. Lui lavora tutta la notte e dorme di giorno. Da quando mia madre è morta, non è più uscito di casa. Non vuole nemmeno farmi vedere cosa sta scrivendo. — Molto romantico — commentò lei sottovoce. — No. Molto folle. Ma nessuno ne parla, perché non c'è più nessuno con cui parlarne. Tranne Amma, che nasconde amuleti magici in camera mia e mi urla addosso se porto in casa un vecchio gioiello.
Sentivo che stava quasi sorridendo. — Forse sei un fenomeno da baraccone anche tu. — Lo siamo entrambi. La tua casa fa sparire le stanze, la mia casa fa sparire le persone. Tuo zio eremita è fuori di testa, mio padre eremita è matto, quindi non capisco cosa ci renda così diversi. Lena sorrise, sollevata. — Sto cercando di trovare il modo di interpretarlo come un complimento. — Lo è. — La guardai sorridere alla luce della luna. Un sorriso vero. C'era qualcosa di speciale in lei, in quel preciso momento. Immaginai di avvicinarmi e di baciarla. Mi tirai subito indietro e mi sedetti un gradino più in su. — Tutto bene? — Sì, bene. Solo stanchezza. — Ma non era vero. Rimanemmo a parlare per ore. Io sdraiato sul gradino più alto, lei su quello più basso. Guardammo il cielo buio della notte, poi il cielo buio del mattino, finché non cominciammo a sentire gli uccellini cantare. Quando il carro funebre partì, il sole stava iniziando a sorgere. Vidi Boo Radley avviarsi verso casa con balzi lunghi e lenti. Di questo passo, sarebbe arrivato a Ravenwood non prima del tramonto. Mi chiedevo perché lo facesse. Stupido cane. Chiusi la mano sul pomolo d'ottone della porta d'ingresso, ma faticai a convincermi ad aprirla. Ogni cosa era sottosopra e niente, dentro casa, avrebbe potuto cambiare questo dato. I miei pensieri erano in subbuglio, rimescolati come una grande padella di uova strapazzate. E anche lo stomaco era così, già da giorni ormai. T-I-M-O-R-O-S-O. Così Amma mi avrebbe definito. Otto orizzontale: sinonimo di codardo. Avevo paura. Avevo detto a
Lena che non era poi una cosa così grossa, se lei e la sua famiglia erano... Erano cosa? Streghe e stregoni? Maghi? E non quelli delle favole che mio padre mi leggeva quando ero piccolo. Già, niente di che. Ero un bugiardo. Scommetto che anche quello stupido cane poteva percepirlo.
24-09 Le ultime tre file. Dalle mie parti si dice: mi è caduto addosso come un quintale di mattoni. È vero. Dall'attimo in cui Lena era arrivata in macchina ed era finita sui gradini di casa mia con il suo pigiama verde e viola, era così che mi sentivo. Sapevo che doveva capitare. Solo che non immaginavo che sarebbe stato così. Da quel momento, erano solo due i posti dove avrei voluto stare: con Lena, oppure da solo, per cercare di rielaborare tutto tra me e me. Non avevo le parole giuste per ciò che eravamo. Lena non era la mia ragazza; non uscivamo insieme. Fino alla settimana prima, non voleva nemmeno ammettere che fossimo amici. Non avevo idea di ciò che provasse per me e non potevo certo mandare Savannah a indagare. Non volevo rischiare quello che avevamo, qualsiasi cosa fosse. E allora, perché pensavo a lei in ogni istante? Perché mi sentivo molto più felice nell'attimo in cui la vedevo? Sì, forse conoscevo la risposta, ma come potevo esserne sicuro? Non lo sapevo e non avevo modo di scoprirlo.
Noi maschi non parliamo di queste cose. Ci limitiamo a rimanere sepolti sotto la montagna di mattoni. * * * — Cosa stai scrivendo? Lena chiuse il suo inseparabile notes. Il mercoledì la squadra di basket non si allenava, per questo ero con lei nel giardino di Greenbrier, che cominciavo a considerare come il nostro posto speciale, anche se non l'avrei mai ammesso, nemmeno con lei. Era il posto dove avevamo trovato il medaglione. Era il posto dove potevamo stare insieme senza gente che guardava e bisbigliava. In teoria eravamo lì per studiare, ma Lena scriveva sul suo taccuino e io avevo letto lo stesso paragrafo sulla struttura interna degli atomi almeno nove volte. Le nostre spalle si toccavano, ma eravamo rivolti in due direzioni diverse. Io mi godevo gli ultimi raggi del sole; lei era all'ombra sempre più lunga di una quercia coperta di muschio. — Niente di speciale. Sto solo buttando giù qualche idea. — Va bene, non sei obbligata a dirmelo. — Cercai di nascondere il mio disappunto. — È solo... sono sciocchezze. — Allora parlamene. Per un minuto non disse niente. Scarabocchiava con la penna nera sul bordo di gomma di una scarpa. — Ogni tanto compongo delle poesie. Lo faccio da quando ero piccola. Lo so che è strano. — Non mi sembra molto strano. Mia madre era una scrittrice. Mio padre è uno scrittore. — Sentii che sorrideva, anche se non la guardavo. — Okay, non è un buon esempio, perché mio padre è proprio strano, ma di certo non se ne può dare la colpa alla scrittura.
Aspettai per capire se volesse mostrarmi il suo notes e farmi leggere una poesia. Figuriamoci. — Forse un giorno o l'altro potrei leggerne una. — Difficile. — Sentii il taccuino che si riapriva e la penna che correva sulla pagina. Fissai il mio libro di chimica, ripassando mentalmente la frase che avevo ripetuto cento volte. Eravamo soli. Il sole stava scivolando via. Lei scriveva poesie. Se volevo farlo, quello era il momento. — Allora, vuoi che noi, cioè, vuoi che usciamo insieme? — Cercai di suonare disinvolto. — Non è quello che stiamo facendo? Mordicchiai il bordo di un vecchio cucchiaio di plastica che avevo trovato nello zaino, probabilmente di un budino. — Sì. No. Cioè, ti va di, non saprei, andare da qualche parte? — Adesso? — Diede un morso a una barretta ai cereali, poi spostò le gambe e si mise accanto a me, offrendomela. Io scossi la testa. — Non adesso. Venerdì, per esempio. Potremmo andare al cinema. — Infilai il cucchiaio nel libro di chimica e lo chiusi. — Che schifo. — Fece una smorfia e girò pagina. — In che senso? — Arrossii. Stavo solo parlando di un cinema. Cretino. Mi indicò il cucchiaio sporco che avevo usato come segnalibro. — Io parlavo di quello. Sorrisi, sollevato. — Ah. Una brutta abitudine che ho preso da mia madre. — Aveva una passione per le posate? — No, per i libri. Ne leggeva almeno una ventina alla volta ed erano sparsi in giro per la casa: sul tavolo della cucina, accanto al suo letto, nel bagno, in macchina, nelle sue borse, impilati sui gradini. E usava come segnalibro qualsiasi cosa le
capitasse sottomano. Un mio calzino spaiato, un torsolo di mela, gli occhiali da lettura, un altro libro, una forchetta. — Un vecchio cucchiaio sporco? — Esattamente. — Scommetto che Amma diventava matta. — Dava i numeri. No, aspetta... era... — Cercai nel profondo. — P-E-R-T-U-R-B-A-T-A. — Dieci verticale? — Lena rise. — Probabile. — Questo era di mia madre. — Mi mostrò uno dei ciondoli della lunga catena d'argento che non sembrava togliersi mai. Era un minuscolo uccellino d'oro. — È un corvo. — Raven. Simbolo dei Ravenwood? — No. I corvi sono gli uccelli più potenti nel mondo dei Maghi. Dice la leggenda che possono raccogliere energia dentro di sé e liberarla in altre forme. Talvolta sono temuti per il loro potere. — Lasciò il piccolo corvo, che riprese il suo posto tra un disco con una strana incisione e una perla di vetro nero. — Hai un sacco di portafortuna. Lena si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e guardò la collana. — Non sono proprio dei portafortuna, ma oggetti che significano qualcosa per me. — Mi mostrò la linguetta della lattina. — Questa è della prima lattina di aranciata che ho bevuto in vita mia, seduta sulla veranda della nostra casa a Savannah. Mia nonna me l'aveva comprata un giorno in cui ero tornata da scuola in lacrime perché nessuno mi aveva lasciato un messaggio di San Valentino. — Tenero. — Se per tenero intendi tragico. — Voglio dire, è tenero che tu l'abbia conservata. — Io conservo tutto.
— E questo? — Le indicai la pietra nera. — Un regalo di mia zia Twyla. Le fanno con una pietra che si trova solo in una zona remota delle Barbados. Mi disse che mi avrebbe portato fortuna. — È una bella collana. — Capivo quanto fosse importante per lei dalla cura con cui teneva ogni singolo oggetto. — So che sembra solo un mucchio di ciarpame. Ma non ho mai vissuto a lungo nello stesso posto. Non ho mai avuto la stessa casa o la stessa stanza per più di un paio d'anni e qualche volta mi pare che i frammenti di me appesi a questa catenella siano tutto ciò che ho. Sospirai e strappai un filo d'erba. — Vorrei aver vissuto in uno di quei posti. — Ma tu hai delle radici, qui. Hai un amico del cuore da tutta la vita, una casa con una camera da letto che è sempre stata tua. Probabilmente avrai anche lo stipite di una porta con incisa la tua altezza. — Ce l'avevo. Ce l'hai, non è verol Le diedi un colpetto con la spalla. — Posso misurare anche te sul mio stipite, se vuoi. Puoi essere immortalata per tutta l'eternità a casa mia. — Lena nascose un sorriso nel suo notes e spinse la spalla contro la mia. Con la coda dell'occhio vedevo l'ultima luce del pomeriggio illuminarle un lato del viso, una pagina del taccuino, le punte arricciate dei capelli, la punta di una scarpa. Per il cinema. Venerdì va bene. Poi Lena infilò la barretta ai cereali tra le pagine del notes e lo chiuse. Le punte delle nostre scarpe nere e scalcagnate si toccarono. * * *
Più pensavo a venerdì sera, più diventavo nervoso. Non era un appuntamento, non ufficialmente, e lo sapevo bene. Ma anche questo faceva parte del problema. Io volevo che lo fosse. Cosa fai, quando ti accorgi che potresti provare dei sentimenti per una ragazza che fa fatica ad ammettere persino di essere tua amica? Una ragazza il cui zio ti ha cacciato da casa propria a calci e che non sarebbe il benvenuto nella tua? Una ragazza che quasi tutti quelli che conosci detestano? Una ragazza che condivide i tuoi sogni, ma forse non i tuoi stessi sentimenti? Non ne avevo la più pallida idea, e così non feci niente. Ma non per questo smisi di pensare a Lena, e giovedì sera ero sul punto di andare a casa sua... se non fosse stata così lontana o se avessi avuto una macchina mia. Se suo zio non fosse stato Macon Ravenwood. Furono questi i "se" che mi impedirono di fare una figura da scemo. Ogni giorno era come un giorno della vita di un altro. Non mi era mai capitato nulla e adesso mi stava succedendo di tutto, e con tutto intendevo Lena. Un'ora era diventata più veloce e più lenta nello stesso tempo. Mi sentivo come se avessi risucchiato tutta l'aria di un palloncino gigante, come se non mi arrivasse abbastanza ossigeno al cervello. Le nuvole erano più interessanti, la mensa era meno disgustosa, la musica mi sembrava più bella, le battute di sempre erano più divertenti, e la Jackson si trasformò da un grumo di prefabbricati grigioverdi in una mappa di tempi e di luoghi in cui potevo incontrare lei. Mi ritrovavo a sorridere senza ragione, mi tenevo le cuffiette e ripetevo le nostre conversazioni tra me e me, solo per il gusto di riascoltarle. Avevo già visto questo genere di cose. Solo che non le avevo mai provate. * * *
Venerdì sera. Il mio umore era stato fantastico per tutto il giorno, il che significava che ero stato il peggiore in classe e il migliore all'allenamento. Dovevo pur convogliare da qualche parte tutta quell'energia. Persino il coach se n'era accorto e alla fine dell'allenamento mi fermò per dirmi due parole. — Va' avanti così, Wate, e l'anno prossimo qualche squadra potrebbe ingaggiarti. Dopo l'allenamento, Link mi diede un passaggio fino a Summerville. Anche i ragazzi avevano deciso di vedere un film. Forse avrei dovuto immaginarlo, visto che il multi-sala aveva una sala sola. Ma ormai era troppo tardi, e comunque non mi importava. Quando parcheggiammo il Catorcio, Lena era fuori al buio, davanti al cinema vivacemente illuminato. Indossava una maglietta viola con sopra un vestitino nero e attillato che ti ricordava quanto fosse femminile, e le scarpe sghangherate che te lo facevano subito dimenticare. Dietro la porta, a parte la solita ressa di studenti dell'università di Summerville, tutta la squadra delle cheerleader era in formazione, in giro per la hall con i ragazzi del basket. Il mio buonumore iniziò a evaporare. — Ciao! — Sei in ritardo. Ho preso i biglietti. — Gli occhi di Lena erano imperscrutabili al buio. La seguii all'interno. Grande inizio. — Wate! Siamo qui! — La voce di Emory tuonò nella hall al di sopra del rumore della folla e della musica anni Ottanta. — Wate, sei venuto con una ragazza! ? — Billy cominciò a prendermi in giro. Earl non disse niente, ma solo perché Earl non parlava quasi mai.
Lena li ignorò. Si grattò la testa, camminando davanti a me, come se non volesse guardarmi. — Si chiama farsi una vita — gridai girandomi verso di loro. Ne avrei sentite delle belle, lunedì. Raggiunsi Lena. — Ehi, mi dispiace. Lei si girò di scatto e mi guardò. — Non funzionerà mai, se sei il tipo di spettatore che non vuole guardare i trailer. Mi hai fatto aspettare. Sorrisi. — I trailer e tutti i titoli di coda e i venditori di popcorn danzanti. Lei guardò alle mie spalle in direzione dei miei amici o, per meglio dire, delle persone che storicamente avevano avuto questa funzione nella mia vita. Ignorali. — Con burro o senza? — Era infastidita. Ero arrivato in ritardo e lei aveva dovuto affrontare da sola il muro sociale eretto dagli studenti della Jackson. Adesso toccava a me. — Con burro — confessai, sapendo già che era la risposta sbagliata. Lena fece una smorfia. — Ma va bene anche con doppio sale — aggiunsi. I suoi occhi si spostarono alle mie spalle, poi tornarono su di me. Sentivo la risata di Emily che si avvicinava. Ma non me ne importava niente. Basta che tu lo dica e ce ne andiamo, Lena. — Senza burro, sale, mescolati ai confetti ricoperti di cioccolato. Ti piacerà — disse lei. Rilassò impercettibilmente le spalle. Già mi piace. Le cheerleader e i ragazzi della mia squadra ci passarono accanto. Emily evitò con ostentazione di guardarmi, mentre Savannah girò intorno a Lena come se fosse infetta da qualche
virus a contagio aereo. Già immaginavo cosa avrebbero raccontato alle loro madri una volta a casa. Presi Lena per mano. Una scarica di elettricità mi attraversò il corpo, ma questa volta non fu uno shock come quella sera sotto la pioggia. Era più una confusione dei sensi. Come essere colpiti da un'onda sulla spiaggia e infilarsi sotto una coperta elettrica in una notte di pioggia, nello stesso istante. Mi lasciai travolgere. Savannah lo notò e diede di gomito a Emily. Non è necessario che tu lo faccia. Le strinsi la mano più forte. Che faccia cosa? — Ehi, gente. Avete visto i ragazzi? — Link mi batté sulla spalla, tenendo in mano un secchiello di pop-corn al burro mostruosamente grande e una bibita azzurra gigante. Davano un film giallo che ad Amma sarebbe piaciuto, considerata la sua predilezione per i misteri e i cadaveri. Link era andato a sedersi davanti con gli altri, perlustrando ogni fila a caccia di belle ragazze. Non perché non volesse sedersi con Lena, ma perché presumeva che volessimo restare da soli. Era vero... almeno, era vero per me. — Dove vuoi sistemarti? Nelle prime file? Al centro? — Lasciai che fosse lei a decidere. — Qui dietro. — La seguii lungo il corridoio fino all'ultima fila. Pomiciare era la ragione principale per cui i ragazzi di Gatlin andavano al cinema, visto che tutti i film in programmazione erano già usciti in DVD. Ed era l'unica ragione per cui ci si sedeva nelle ultime tre file. Il cinema, l'acquedotto e, d'estate, il lago. A parte questo, c'erano qualche bagno e qualche cantina, ma non molte altre alternative. Sapevo che non avremmo pomiciato, ma in quel caso non l'avrei certo
portata qui. Lena non era una da ultime tre file del cinema. Era molto di più. Tuttavia, era la sua scelta e sapevo perché. Non potevi stare più lontano da Emily Asher che nell'ultima fila. Forse avrei dovuto avvertirla. Prima ancora dei titoli di testa, le coppiette avevano già iniziato a sbaciucchiarsi. Noi tenevamo gli occhi fissi sui pop-corn perché non si poteva guardare da nessuna parte. Perché non mi hai detto niente! Non lo sapevo. Bugiardo. Sarò un perfetto gentiluomo. Giuro. Ricacciai qualsiasi pensiero in fondo alla mente, pensai a qualsiasi altra cosa, al tempo, al basket. Pescai dei pop-corn nel secchiello. Lena allungò la mano nello stesso momento e le nostre dita si toccarono per un secondo. Sentii un brivido salirmi lungo il braccio, caldo e freddo insieme. Gli schemi del basket: pick and roll, l'attacco flex, il triangolo offensivo... Non ce n'erano altri, di schemi di gioco, nella nostra squadra. Sarebbe stata più dura del previsto. Il film era terribile. Dieci minuti e avevo già capito il finale. — E stato lui — sussurrai. — Come? — Quello. E lui l'assassino. Non so chi ammazzerà, ma l'assassino è lui. — Ecco l'altro motivo per cui Link non aveva voluto sedersi con me: io capivo sempre il finale all'inizio e non riuscivo a tenermelo per me. Era la mia versione dei cruciverba di Amma. Era il motivo per cui ero bravo con i videogiochi, i giochi di società e a dama contro mio padre. Riuscivo a prevedere cosa sarebbe successo già dalla prima mossa.
— Come fai a saperlo? — Lo so e basta. E come andrà a finire? Sapevo cosa intendeva. Ma per la prima volta, non avevo una risposta. Sarà un lieto fine. Lietissimo. Bugiardo. Passami i confetti al cioccolato. Mi infilò la mano nella tasca della felpa, cercando i confetti. Ma era la tasca sbagliata e invece trovò l'ultima cosa che si aspettava. Il sacchettino che custodiva il medaglione. Lena trasalì e lo tirò fuori, tenendolo come se fosse un topo morto. — Perché ce l'hai ancora in tasca? — Sssh — protestarono i nostri vicini. Li stavamo disturbando, il che era buffo, visto che nessuno stava guardando il film. — Non posso lasciarlo a casa. Amma è convinta che l'abbia seppellito. — Forse avresti dovuto. — Non importa, questa cosa ha una volontà propria. Non funziona quasi mai. Le volte che ha funzionato, l'hai visto anche tu. — La volete smettere? — La coppia davanti a noi riemerse a prendere fiato. Lena trasalì e le cadde il cammeo. Ci chinammo entrambi per raccoglierlo. Vidi il fazzoletto aprirsi come al rallentatore. Il riquadro bianco era appena visibile nel buio della sala. Lo schermo si distorse e divenne un'irrilevante scintilla di luce. Già si sentiva l'odore del fumo... Bruciare una casa con le donne dentro. Non poteva essere vero. Mamma. Evangeline. La mente di Genevieve era in subbuglio. Forse non era troppo tardi. Si mise a correre, ignorando gli artigli aguzzi dei cespugli che le
dicevano di tornare indietro, ignorando le voci di Ethan e di Ivy che la chiamavano. I cespugli si aprirono e Genevieve vide due Federali davanti a ciò che restava della casa che suo nonno aveva costruito. Due Federali che rovesciavano un vassoio pieno di argenteria in uno zaino militare. Genevieve era una furia di stoffe nere gonfiate dal calore delle vampe. — Che diavolo... — Prendila, Emmett — gridò il primo ragazzino all'altro. Genevieve saliva i gradini due alla volta, soffocando nelle nuvole di fumo che si riversavano dal vuoto che era stato la porta d'ingresso. Era fuori di senno. La mamma. Evangeline. Aveva i polmoni in fiamme. Si sentì cadere. Era il fumo! Stava per svenire! No, era qualcos'altro. Una mano stretta intorno al polso, che la trascinava giù. — Dove credi di andare, ragazza! — Lasciami! — strillò lei, con la voce arrochita dal fumo. Batté con la schiena su tutti i gradini, mentre l'uomo, una macchia di blu e oro, la trascinava fuori. Prima la schiena, poi la testa. Il calore, poi qualcosa di bagnato che le gocciolava sul colletto del vestito. Stordimento e confusione, misti alla disperazione. Un colpo di fucile. Lo scoppio fu così forte che la riportò alla realtà, penetrando nelle tenebre. La mano che le stringeva il polso allentò la presa. Genevieve cercò di comandare agli occhi di guardare. Altri due spari. Signore, ti prego, risparmiala mamma, risparmia Evangeline. Ma alla fine era chiedere troppo, o forse era la richiesta sbagliata. Quando Genevieve sentì il tonfo del terzo corpo che cadeva, i suoi occhi riuscirono a distinguere la giubba grigia di Ethan spruzzata di sangue. Colpito a morte dai soldati contro i quali aveva rifiutato di combattere ancora.
E l'odore del sangue si mescolò alla polvere da sparo e ai limoni in fiamme. I titoli di coda scorrevano e si stavano accendendo le luci in sala. Lena, appoggiata allo schienale, aveva ancora gli occhi chiusi. I suoi capelli erano scompigliati e nessuno dei due riusciva a riprendere fiato. — Lena? Tutto bene? Aprì gli occhi e sollevò il bracciolo che ci divideva. Senza una parola, appoggiò la testa sulla mia spalla. Tremava così forte da non riuscire a parlare. Lo so. C'ero anch'io. Stavamo ancora così, quando Link e gli altri ci sfilarono accanto. Link mi strizzò d'occhio e passando mi tese un pugno come per batterlo contro il mio, come faceva sempre quando in campo centravo un canestro difficile. Ma si sbagliava. Si sbagliavano tutti. È vero, eravamo seduti nell'ultima fila, ma non avevamo passato il tempo a baciarci. Sentivo ancora l'odore del sangue e gli spari mi risuonavano nelle orecchie. Avevamo appena visto un uomo morire.
09-10 I Giorni della Raccolta Dopo la serata al multisala, non ci volle molto. Si sparse la voce che la nipote del Vecchio Ravenwood usciva con Ethan Wate. Se non fossi stato «l'Ethan Wate che ha perso sua madre la scorsa primavera», le chiacchiere si sarebbero propagate con maggiore velocità, o maggiore crudeltà. Anche i ragazzi della squadra avevano qualcosa da dire. Solo che ci misero più tempo, perché non gliene avevo dato la possibilità. Per essere uno che non sopravvive senza tre pranzi, era strano che ne avessi saltati almeno la metà, da quel venerdì al cinema. O almeno, avevo saltato quelli con la squadra. Ma c'era un limite ai giorni in cui potevo andare avanti con mezzo panino mangiato sulle tribune del campo da basket, e c'era un limite ai posti dove potevo nascondermi. Perché in realtà era impossibile nascondersi. La Jackson era una versione in miniatura di Gatlin; non si poteva andare da nessuna parte. La mia assenza non era passata inosservata, tra i ragazzi. Come ho detto, bisognava presentarsi all'appello. Se permettevi a una ragazza di intralciare questo rito e, peggio ancora, a una ragazza che non rientrava nella lista approvata -
vale a dire, approvata da Savannah ed Emily - le cose potevano diventare complicate. E se poi la ragazza era una Ravenwood, e Lena sarebbe stata per sempre una Ravenwood ai loro occhi, le cose diventavano praticamente impossibili. Dovevo comportarmi da uomo. Era ora di affrontare la mensa. Non importava se non eravamo veramente una coppia. Alla Jackson, tanto valeva parcheggiare sotto l'acquedotto se ti beccavano a pranzare insieme. A tutti piaceva presumere il peggio, o il peggio possibile. Non appena io e Lena entrammo insieme nella mensa, lei girò i tacchi per andarsene. Dovetti trattenerla per la tracolla della borsa. Non fare sciocchezze. È solo un pranzo. — Credo di aver dimenticato una cosa nell'armadietto. — Si girò di nuovo, ma non mollai la presa. Gli amici pranzano insieme. Non loro. Non noi. Cioè, non qui. Presi due vassoi di plastica arancione. — Vassoio? — Glielo piazzai davanti e ci misi sopra un bel triangolo di pizza. Oggi noi due pranziamo qui. Codarda! Credi che non ci abbia già provato! Non hai provato con me. Non volevi che le cose fossero diverse da com'erano nella tua vecchia scuola! Lena si guardò intorno con aria dubbiosa. Fece un respiro profondo e mise un piatto di sedano e carote sul mio vassoio. Mangia questo e io mi siedo ovunque vuoi. Guardai le carote, poi guardai la mensa. I ragazzi erano già seduti al nostro tavolo. Ovunque? Se fosse stato un film, ci saremmo seduti al tavolo con i ragazzi e loro avrebbero imparato una bella lezione, tipo che
non si dovrebbe giudicare dalle apparenze o che essere diversi è okay. E Lena avrebbe imparato che non tutti i giocatori di basket sono stupidi o superficiali. Nei film funziona sempre, peccato che questo non fosse un film. Questa era Gatlin, il che riduceva drasticamente le cose che potevano succedere. Link incrociò il mio sguardo mentre mi giravo verso il nostro tavolo e cominciò a scuotere la testa: non ci provare nemmeno, amico. Lena era pochi passi dietro di me, pronta a scappare. Cominciavo a farmi un'idea di come sarebbe andata, e basta dire che nessuno avrebbe imparato qualche utile lezione. Stavo per rinunciare, quando Earl mi guardò. Quell'unica occhiata diceva tutto. Diceva: se la porti qui, hai chiuso. La vide anche Lena, di sicuro, perché quando mi voltai verso di lei, era sparita. * * * Quel giorno, dopo l'allenamento, Earl venne incaricato di scambiare due parole con me. Cosa piuttosto buffa, visto che parlare non era mai stato il suo forte. Si sedette sulla panca davanti al mio armadietto, nello spogliatoio. Indovinai che fosse un piano perché era da solo, ed Earl Petty non era quasi mai da solo. Non perse tempo. — Non farlo, Wate. — Non sto facendo niente. — Non alzai neppure gli occhi dall'armadietto. — Torna in te. Questo non sei tu. — Ah, sì? E se invece fossi proprio io? — M'infilai la maglietta dei Transformers. — Ai ragazzi non piace. Vai in fondo a questa strada e non torni più indietro.
Se Lena non fosse sparita dalla mensa, Earl avrebbe già capito che non mi interessava l'opinione dei ragazzi. Non me ne importava niente già da un po', ormai. Sbattei la porta dell'armadietto e lui se ne andò prima che potessi dirgli cosa pensavo di lui e della sua strada senza uscita. Avevo la sensazione che fosse l'ultimo avvertimento. Non ce l'avevo con Earl. Per una volta, ero d'accordo con lui. I ragazzi avevano preso una strada e io ne avevo preso un'altra. Chi poteva negarlo? * * * Nonostante tutto, Link non mi abbandonò. E io continuai ad andare agli allenamenti. Se non altro, continuavano a passarmi la palla. Non avevo mai giocato così bene, nonostante tutto quello che dicevano o, più spesso, non dicevano negli spogliatoi. Quando ero con i ragazzi, cercavo di non far trasparire che il mio universo si era spaccato in due, che persino il cielo mi sembrava diverso, che non m'importava se arrivavamo alle finali nazionali. Lena era sempre nei miei pensieri, indipendentemente da dove o con chi mi trovassi. Non che ne parlassi durante l'allenamento o, quel giorno, nemmeno dopo, quando io e Link ci fermammo allo Stop&Scippa a fare il pieno prima di tornare di casa. C'erano anche i ragazzi e io cercai di comportarmi come uno della squadra, per far piacere a Link. Avevo la bocca piena di ciambelle zuccherate, che è il motivo per cui quasi soffocai quando uscii dalle porte scorrevoli. Ebbi un'apparizione. La seconda ragazza più bella che avessi mai visto. Probabilmente aveva qualche anno più di me perché, pur essendomi vagamente familiare, non era mai stata alla Jackson
da quando c'ero io. Di questo ero sicuro. Era il tipo di ragazza che un maschio ricorderebbe. Si stava sparando della musica che non avevo mai sentito ed era pigramente seduta al volante della sua Mini Cooper decappottabile bianca e nera, parcheggiata a casaccio, di traverso su due posti. Non sembrava aver notato le linee del parcheggio, o forse non gliene importava niente. Succhiava un lecca-lecca come una sigaretta, la sue piccole labbra rosse rese ancora più accese dalla macchia color ciliegia. Ci squadrò e alzò il volume. Mezzo secondo dopo, due gambe scavalcarono la portiera ed eccola in piedi davanti a noi, sempre con il suo lecca-lecca. — Frank Zappa. Drowning Witch. La strega che annega. Un po' prima di voi, ragazzi. — Si avvicinò lentamente, come per darci il tempo di osservarla, cosa che, devo ammettere, stavamo facendo. Aveva i capelli lunghi e biondi, con una spessa ciocca rosa che le scendeva di lato, accanto alla frangetta irregolare. Indossava dei giganteschi occhiali da sole neri e un gonnellino nero a pieghe, molto corto, quasi fosse una sorta di cheerleader in stile gotico. La canotta bianca era così corta e così scollata che si vedeva metà del reggiseno nero e gran parte di tutto il resto. E ce n'era da vedere. Stivali neri da motociclista, un piercing all'ombelico, un tatuaggio. Le circondava l'ombelico e sembrava un disegno tribale, nero, che da lì non riuscivo a vedere bene, dato che stavo anche cercando di non fissarla. — Ethan? Ethan Wate? Mi bloccai su due piedi. Metà della squadra mi finì addosso. — Non ci credo. — Shawn era sorpreso quanto me, quando da quelle labbra rosse uscì il mio nome. In genere era lui quello che conduceva il gioco. — Sexy. — Link la guardava come un allocco, con la bocca aperta. — Da delirio. — Da delirio. L'apprezzamento più alto
che Link potesse fare a una ragazza, ancora più alto di "sexy come Savannah Snow". — Aria di guai. — Le ragazze sexy portano sempre guai. È proprio questo il bello. Lei puntò dritta verso di me, succhiando il suo lecca-lecca. — Chi di voi fortunati è Ethan Wate? — Link mi spinse avanti. — Ethan — mi buttò le braccia al collo. Aveva le mani sorprendentemente fredde, come se avesse tenuto una borsa del ghiaccio. Rabbrividii e feci un passo indietro. — Ti conosco? — Per niente. Sono Ridley, la cugina di Lena. Ma quanto vorrei averti incontrato io per prima... Al nome di Lena, i ragazzi mi lanciarono strane occhiate e si allontanarono con riluttanza verso le loro macchine. In seguito alla mia chiacchierata con Earl, avevamo raggiunto un reciproco accordo su Lena, l'unico tipo di accordo che i maschi riescono a fare. Vale a dire che io non ne avevo più parlato e loro non ne avevano più parlato e, tra di noi, eravamo in qualche modo tutti d'accordo di andare avanti così all'infinito. Non chiedere, non dire. Ma non sarebbe durata a lungo, soprattutto se le insolite parenti di Lena cominciavano a farsi vedere in paese. — Cugina? Lena aveva mai nominato una Ridley? — Per la festa? Zia Del? La Raccolta? Che fa rima con sconvolta? Ti risulta? — Aveva ragione, Macon ne aveva parlato a cena. Sorrisi, sollevato, ma il mio stomaco rimase stretto in un nodo massiccio, perciò forse non ero poi così sollevato. — Certo. Scusami, lo avevo dimenticato. Le cugine.
— Tesoro, hai davanti a te la Cugina. Le altre sono solo delle ragazzine che mia madre ha accidentalmente avuto dopo di me. — Ridley saltò nella Mini. E quando lo dico, intendo proprio che scavalcò con un salto la portiera e atterrò al volante. Non scherzavo a proposito di quel certo nonsoché da cheerleader. La ragazza aveva due gambe potenti. Link, accanto al Catorcio, era ancora imbambolato. Ridley batté la mano sul sedile accanto al suo. — Salta su, Fidanzatino, o faremo tardi. — Io non... Cioè, noi non... — Sei proprio carino. Adesso, salta su. Non vorrai che facciamo tardi, no? — Tardi per cosa? — Cena di famiglia. La Grande Festa. La Raccolta. Perché credi che mi abbiano mandato a cercarti qui a sfi-Gatlin? — Non saprei. Lena non mi invita a casa sua. — Be', diciamo che zia Del non rinuncerebbe mai a esaminare personalmente il primo ragazzo che Lena abbia mai portato a casa. Quindi, sei stato convocato. E dato che Lena è impegnata a organizzare la cena e Macon sta ancora, diciamo, dormendo, ho pescato io la paglia più corta. — Lei non mi ha mai portato a casa. Ci sono andato io, una sera, per passarle i compiti. Ridley mi aprì la portiera dall'interno. — Salta su, Paglia Corta. — Lena mi avrebbe chiamato se avesse voluto che venissi anch'io. — In qualche modo sapevo già che sarei salito, anche mentre cercavo di prendere tempo. Esitai. — Sei sempre così? O stai flirtando con me? Perché se vuoi giocare pesante, dimmelo subito che andiamo a parcheggiare alla palude e ci diamo subito dentro. Salii a bordo. — Capito. Andiamo.
Ridley si allungò e mi spostò i capelli dagli occhi con quella sua mano gelida. — Hai dei begli occhi, Fidanzatine. Non dovresti tenerli così nascosti. Quando arrivammo a Ravenwood, mi domandai cosa fosse successo. Lei aveva lasciato quella musica che non avevo mai sentito, e io avevo cominciato a parlare e avevo continuato a farlo fino a raccontarle cose che non avevo mai confidato a nessuno, eccetto Lena. Non me lo sapevo proprio spiegare. Era come se avessi perso il controllo della bocca. Le dissi di mia madre, di come era morta, anche se non ne parlavo mai con nessuno. Le dissi di Amma, della sua fama di cartomante e, adesso che la mia non c'era più, di come fosse diventata una specie di madre per me, a parte gli amuleti e le bamboline e il suo carattere generalmente scorbutico. Le dissi di Link e di come sua madre fosse cambiata ultimamente e come passasse il suo tempo a convincere la gente che Lena fosse matta come Macon Ravenwood e rappresentasse un pericolo per gli studenti della Jackson. Le dissi di mio padre, di come si fosse rintanato nel suo studio con i suoi libri e con un dipinto segreto che non avevo mai avuto il permesso di vedere, di come sentissi di doverlo proteggere, anche se da qualcosa che era già successo. Le raccontai di Lena, di come ci eravamo incontrati sotto la pioggia, di come sembrasse che ci conoscessimo da prima ancora che ci incontrassimo, del pasticcio della finestra rotta. Avevo come l'impressione che Ridley mi stesse succhiando tutte queste informazioni, così come succhiava quell'appiccicoso lecca-lecca rosso, che continuava a leccare mentre guidava. Mi ci volle tutta la mia forza per non dirle anche del medaglione, e dei sogni. Forse il fatto che fosse la
cugina di Lena rendeva le cose un po' più facili tra di noi. O forse era qualcos'altro. Mentre cominciavo a pormi queste domande, ci fermammo davanti alla casa dei Ravenwood e Ridley spense la radio. Il sole era tramontato, il lecca-lecca era finito e io finalmente avevo chiuso la bocca. Quando era successo? Ridley si protese verso di me, molto vicino. Mi vidi riflesso nei suoi occhiali da sole. Respirai il suo odore. Un sentore dolce e un po' umido, per niente simile all'odore di Lena, ma in qualche modo familiare. — Non ti devi preoccupare, Paglia Corta. — Ah, sì? E perché? — Sei tu la novità più grossa. — Mi sorrise e i suoi occhi brillarono. Dietro le lenti, intravidi un bagliore dorato, come un guizzo di pesciolini in uno stagno ombroso. I suoi occhi erano ipnotici persino dietro le lenti scure. Forse era per quello che le portava. Poi il bagliore sparì e Ridley mi scompigliò i capelli. — Peccato. Quando avrai incontrato la famiglia, probabilmente Lena non ti rivedrà mai più. Sai, siamo tutti un po' fuori. — Scese dall'auto e io la seguii. — Più fuori di te? — Infinitamente. Fantastico. Quando arrivammo ai gradini della veranda, mi posò di nuovo la mano gelida sul braccio. — E, Fidanzatino, quando Lena ti scaricherà, cosa che accadrà tra circa cinque mesi, chiamami. Saprai come trovarmi. — Agganciò il suo braccio al mio, all'improvviso stranamente formale. — Posso? Le feci un gesto d'invito con la mano libera. — Certo. Dopo di te. — Salendo, i gradini gemettero sotto la somma del nostro peso. Guidai Ridley fino alla porta d'ingresso, chiedendomi se i gradini fossero in grado di sostenerci.
Bussai, ma non ci fu risposta. Mi allungai e cercai la luna con la mano. La porta si aprì, lentamente... Ridley sembrava incerta. Quando varcammo la soglia, ebbi la percezione quasi fisica che la casa si contraesse, come se il clima interno fosse cambiato, quasi impercettibilmente. — Ciao, mamma. Una donna rotonda, indaffarata a disporre zucche e foglie dorate sulla mensola del caminetto, sobbalzò. Le cadde di mano una piccola zucca bianca che esplose sul pavimento. La donna si aggrappò alla mensola in cerca di sostegno. Aveva uno strano aspetto e sembrava indossare un vestito di cento anni prima. — Julia! Cioè, Ridley! Cosa ci fai qui? Devo essermi confusa. Pensavo... Pensavo... Qualcosa non andava. Questo non sembrava il classico saluto tra madre e figlia. — Jules? Sei tu? — Una versione più giovane di Ridley, una bambina di forse dieci anni, entrò nella sala insieme con Boo Radley, che portava un luccicante mantello blu sulla groppa. Vestire a festa anche il lupo di casa, come se non ci fosse nulla di insolito. Tutto, nella bambina, sembrava fatto di luce: i capelli erano biondi e gli occhi azzurri e splendenti, quasi contenessero frammenti del cielo di un pomeriggio assolato. Sorrise, poi aggrottò la fronte. — Avevano detto che eri andata via. Boo cominciò a ringhiare. Ridley spalancò le braccia, aspettando che la bambina le corresse incontro, ma quella non si mosse. Allora Ridley le mostrò le mani chiuse a pugno e le aprì una alla volta. In una apparve un lecca-lecca rosso. E, per non essere da meno, nell'altra mano ecco un topolino grigio dal naso fremente, con un luccicante mantello blu abbinato a quello di Boo. Come un trucco di carnevale.
La bambina fece un passo avanti, incerta, come se sua sorella avesse il potere di attirarla a sé senza nemmeno toccarla, come la luna con le maree. Anch'io avevo avuto la stessa sensazione. Quando Ridley parlò, la sua voce era bassa e densa come miele. — Vieni, Ryan. La mamma ti stava solo prendendo in giro. Non sono andata da nessuna parte. Non proprio. Come potrebbe, la tua sorellona preferita, abbandonarti? Ryan sorrise e le corse incontro. Spiccò un balzo, quasi volesse saltarle tra le braccia spalancate. Boo abbaiò. Per un attimo, Ryan rimase a mezz'aria, come nei cartoni animati quando il personaggio cade nel burrone e per un istante resta sospeso nel vuoto, prima di precipitare giù. Poi cadde bruscamente sul pavimento, come se si fosse scontrata con un muro invisibile. D'un tratto, tutte le luci si fecero più vivide. Pareva che la casa fosse un palcoscenico e le luci si fossero accese per segnalare la fine di un atto. Nella luce intensa, i tratti del viso di Ridley proiettavano ombre feroci. La luce cambiò ogni cosa. Ridley si protesse gli occhi con la mano e, rivolta verso la casa, gridò: — Ma per favore, zio Macon. È davvero necessario? Boo fece un balzo avanti e si piazzò tra Ryan e Ridley. Cominciò ad avvicinarsi a Ridley, ringhiando, con il pelo ritto sulla groppa. Sempre più simile a un lupo. Evidentemente, le malie di Ridley non avevano alcun effetto su Boo. Lei si aggrappò a me, prendendomi di nuovo sottobraccio, e fece un verso a metà tra la risata e il ringhio. Non era un verso amichevole. Io cercavo di mantenere il controllo ma era come se avessi la gola strozzata da balle di cotone bagnate. Tenendo una mano sul mio braccio, sollevò l'altra e fece un gesto violento verso il soffitto. — E sia. Se volete essere
maleducati. — Ogni luce della casa si spense. Sembrò un cortocircuito generale. La voce calma di Macon calò dall'alto delle ombre scure. — Ridley, mia cara, che sorpresa. Non ti stavamo aspettando. Non la stavano aspettando? Cosa stava dicendo? — Non mi perderei la Raccolta per niente al mondo. E guarda, ho invitato un ospite. O immagino si potrebbe dire che sia io la sua ospite. Macon scese le scale senza staccarle gli occhi di dosso. Stavo guardando due leoni che si studiavano, e io ero in mezzo. Ridley mi aveva usato, c'ero cascato come un cretino. — Non credo che sia la migliore delle idee. Sono sicuro che ti aspettano altrove. Lei tirò fuori il lecca-lecca dalla bocca facendo schioccare le labbra. — Come dicevo, non mi perderei tutto questo per niente al mondo. E poi, non vorrete che riporti Ethan fino a casa. Di cosa potremmo mai parlare? Avrei voluto proporle di filarcela, ma non riuscivo a tirar fuori le parole. Nessuno si muoveva. Si fissavano. Ridley si appoggiò a una colonna. Macon ruppe il silenzio. — Perché non accompagni Ethan in sala da pranzo? Sono sicuro che ricordi ancora dove si trova. — Ma, Macon... — La donna, che immaginai fosse zia Del, sembrava nel panico e di nuovo confusa, come se non capisse cosa stesse succedendo. — È tutto a posto, Delphine. — Gli leggevo in faccia che stava elaborando velocemente la situazione, balzando da un passaggio al successivo, sempre un passo avanti rispetto a noi. Pur non capendo in cosa mi fossi cacciato, era confortante sapere che Macon era lì. L'ultimo posto in cui avrei voluto andare era proprio la sala da pranzo. Avrei voluto scappare, ma non ci riuscivo. Ridley
non mi mollava il braccio e, finché ero a contatto con lei, mi sembrava di avere il pilota automatico. Mi condusse nella formale sala dove poco tempo prima avevo offeso Macon. Guardai Ridley, aggrappata al mio braccio. Questa situazione era molto più grave. La stanza era illuminata da centinaia di candele votive nere e dai lampadari pendevano fili di perline di vetro nero. C'era un'enorme ghirlanda di piume nere sulla porta che conduceva alla cucina. La tavola era apparecchiata con un servizio di piatti d'argento e bianco perla che forse erano davvero fatti di perle, per quanto ne sapevo io. La porta della cucina si spalancò. Lena entrò camminando all'indietro per reggere un enorme vassoio d'argento carico di frutti esotici che decisamente non erano tipici della Carolina del Sud. Indossava una giacca aderente lunga fino ai piedi, stretta in vita da una cintura. Sembrava stranamente senza tempo, nulla che avessi mai visto in questo Stato, né in questo secolo, ma quando abbassai lo sguardo, vidi che ai piedi portava sempre le sue vecchie Ali Star. Era ancora più bella della sera della cena... Quando? Qualche settimana fa? Avevo la mente annebbiata, come se fossi mezzo addormentato. Feci un respiro profondo ma sentii solo l'odore di Ridley, un sentore muschiato mescolato a qualcosa di troppo dolce, come lo sciroppo quando sobbolle. Era intenso e soffocante. — Siamo quasi pronti. Ancora un altro paio di... — Lena si bloccò, con la porta semiaperta. Sembrava che avesse visto un fantasma, o qualcosa di peggio. Non sapevo bene se ad averla sconvolta fosse stata la vista di Ridley o la vista di Ridley a braccetto con me. — Be', ciao, cugina. È un bel po' che non ci si vede. —
Ridley avanzò di qualche passo, trascinandomi con sé. — Non mi vuoi dare un bacio? Il vassoio che Lena sorreggeva si schiantò per terra. — Cosa ci fai qui? — La sua voce era appena un sussurro. — Sono venuta a trovare la mia cugina preferita, naturalmente, e ho portato un accompagnatore. — Non sono il tuo accompagnatore — protestai debolmente, sempre incollato al suo braccio, strozzandomi per far uscire le parole. Ridley tirò fuori una sigaretta dal pacchetto infilato in uno stivale e l'accese, tutto con una mano sola. — Ridley, per favore, non fumare in casa — la ammonì Macon. La sigaretta si spense all'istante. Ridley rise e la lanciò in una ciotola di qualcosa che sembrava purè di patate e che probabilmente non lo era. — Zio Macon. Sei sempre stato fissato con le regole. — Le regole sono state stabilite molto tempo fa, Ridley. Non c'è nulla che tu né io possiamo fare per cambiarle, adesso. Si fissavano negli occhi. Macon fece un gesto e una sedia si allontanò dalla tavola. — Perché non ci mettiamo tutti a sedere? Lena, puoi avvisare la Cucina che ci saranno altre due persone a cena? Lena non si mosse. Fremeva di rabbia. — Lei non può restare. — Non c'è problema. Qui nulla può metterti in pericolo — la rassicurò Macon. Ma Lena non sembrava impaurita. Sembrava furiosa. Ridley sorrise. — Ne sei proprio sicuro? — La cena è pronta e tu sai quanto la Cucina detesti servire il cibo freddo. — Macon entrò nella sala da pranzo. Tutti gli altri lo seguirono, nonostante avesse parlato con un tono appena sufficiente per farsi sentire da noi quattro nella stanza.
Boo entrò per primo, accompagnando Ryan con il suo passo pesante. Dietro veniva zia Del, a braccetto con un uomo dai capelli grigi, dell'età di mio padre. Per i vestiti che indossava, sembrava uscito da uno dei libri nello studio di mia madre: stivali al ginocchio, una camicia con le gale e uno strano mantello. Insieme, parevano due manichini in un museo di storia locale. Poi entrò una ragazza più grande. Somigliava molto a Ridley ma aveva più vestiti addosso e non aveva l'aria così pericolosa. I suoi capelli erano biondi, lunghi e lisci, con una versione più ordinata della frangetta di Ridley. Era il tipo di ragazza che si poteva immaginare con una pila di libri tra le braccia in un'università esclusiva, su al Nord, come Yale o Harvard. La ragazza fissò Ridley come se potesse vederne gli occhi dietro gli occhiali scuri che lei non aveva mai tolto. — Ethan, ti presento mia sorella maggiore, Annabel. Oh, scusate, volevo dire Reece. — Ma chi è che sbaglia il nome della propria sorella? Reece sorrise e parlò lentamente, come se stesse scegliendo con cura le parole. — Cosa ci fai qui, Ridley? Credevo che avessi un altro impegno, stasera. — I piani cambiano. — E anche le famiglie. — Reece allungò la mano e la passò davanti alla faccia di Ridley, un movimento semplice, come quando il mago passa la mano sopra il cappello a cilindro. Mi ritrassi, non so perché, ma per un secondo pensai che Ridley potesse scomparire. O, preferibilmente, che toccasse a me. Ma Ridley non svanì e questa volta fu lei a ritrarsi e a distogliere lo sguardo, quasi le fosse fisicamente doloroso guardare Reece negli occhi. Reece la scrutava in viso, come se fosse uno specchio. — Interessante. Come mai, Rid, quando guardo nei tuoi occhi
riesco a vedere solo i suoiì Voi due siete unite a doppio filo, non è vero? — Stai di nuovo parlando a vanvera, sorellina. Reece chiuse gli occhi, concentrandosi. Ridley si agitava come una farfalla trafitta da uno spillo. Reece passò di nuovo la mano davanti al viso di Ridley e per un momento il suo volto si dissolse nell'immagine torbida di un'altra donna. Una donna dal viso in qualche modo familiare, ma non ricordavo perché. Macon assestò una manata vigorosa sulla spalla di Ridley. Fu l'unica volta in cui vidi qualcuno toccarla, a parte me. Lei trasalì ed io avvertii una scossa di dolore partire dalla sua mano e risalire lungo il mio braccio. Era chiaro che Macon Ravenwood non era un uomo da prendere alla leggera. — Che vi piaccia o no, la Festa della Raccolta è cominciata. Non permetterò a nessuno di rovinare la Grande Festa, non sotto il mio tetto. Ridley, come lei stessa così premurosamente ha chiarito, è stata invitata a unirsi a noi. Non c'è altro da dire. Prego, ciascuno prenda posto. Lena si sedette, con gli occhi incollati su noi due. Zia Del sembrava ancora più preoccupata di quando eravamo entrati in casa. L'uomo con il mantello le batté dolcemente sulla mano con fare rassicurante. Un ragazzo alto, all'incirca della mia età, con i jeans neri, una maglietta nera sbiadita e stivali da motociclista graffiati, si trascinò verso la tavola con aria annoiata. Ridley fece le presentazioni. — Hai già incontrato mia madre. Questo è mio padre, Barclay Kent, e questo è mio fratello, Larkin. — Piacere di conoscerti, Ethan. — Barclay fece un passo avanti come per stringermi la mano, ma appena notò quella di Ridley sul mio braccio, cambiò idea. Larkin invece mise un braccio intorno alle mie spalle, solo che, quando mi girai, il
braccio era diventato un serpente con la lingua che guizzava dalla bocca. — Larkin! — sibilò Barclay. Il serpente si ritrasformò all'istante in un braccio umano. — Ma dai! Stavo solo cercando di risollevare l'umore, qui dentro. Siete un branco di frignoni. — Gli occhi di Larkin si strinsero. Erano gialli, a fessura. Occhi da serpente. — Larkin, basta così. — Barclay gli diede un'occhiata di quelle che solo un padre ripetutamente deluso può riservare a un figlio. Gli occhi di Larkin tornarono verdi. Macon prese posto a capotavola. — Perché non ci sediamo? La Cucina ha preparato uno dei suoi pranzi più raffinati. Sono giorni che io e Lena sopportiamo il suo spignattare. — Tutti si sedettero all'enorme tavola rettangolare con le zampe di leone. Era di legno scuro, quasi nero, e le gambe avevano un decoro elaborato che ricordava i tralci di vite. Enormi candele nere baluginavano al centro del banchetto. — Siediti qui vicino a me, Paglia Corta. — Ridley mi indicò una sedia vuota, di fronte all'uccellino d'argento che teneva il segnaposto di Lena. Come se avessi avuto scelta. Cercai un contatto visivo con Lena, ma i suoi occhi erano fissi su Ridley. Ed erano feroci. C'era solo da sperare che fosse Ridley l'unica destinataria della sua ira. La tavola traboccava di cibo, più della cena precedente,ogni volta che guardavo, ne era comparso dell'altro. Corona di costolette arrosto, filetto legato con il rosmarino e altri piatti più strani che non avevo mai visto. Un grosso volatile farcito di pere su un letto di piume di pavone, sistemate a formare una ruota aperta. Speravo che non fosse un vero pavone ma, viste le piume della coda, le probabilità che lo fosse erano alte. E dolci di zucchero candito, credo, sagomati esattamente come dei cavallucci marini.
Ma nessuno mangiava, nessuno tranne Ridley. Lei sembrava divertirsi. — Adoro i cavallini di zucchero! — Si lanciò in bocca due minuscoli cavallucci marini dorati. Zia Del tossì un paio di volte. Si versò un bicchiere di liquido nero, della consistenza del vino, da una caraffa sulla tavola. Ridley guardò Lena, seduta di fronte a noi. — Allora, cuginetta, grandi progetti per il tuo compleanno? — Ridley affondò le dita in una salsa marrone scuro contenuta in una salsiera accanto al volatile che speravo non fosse un pavone, e se le leccò con fare molto allusivo. — Stasera non discuteremo del compleanno di Lena — l'avvisò Macon. Ridley godeva della tensione generale. Si lanciò un altro cavalluccio marino in bocca. — E perché no? Gli occhi di Lena erano selvaggi. — Non ti devi preoccupare per il mio compleanno. Non sarai invitata. — Tu, invece, dovresti. Preoccuparti, voglio dire. Dopo tutto, è un compleanno così importante! — Ridley rise. I capelli di Lena cominciarono ad arricciarsi e a ondeggiare, come se ci fosse vento nella stanza. Ma non c'era. — Ridley, basta così. — Macon stava perdendo la pazienza. Riconobbi il tono, era lo stesso di quando avevo tirato fuori il medaglione, durante la mia prima visita. — Perché prendi le sue difese, zio M? Ho trascorso con te tanto tempo quanto lei. Perché, tutto d'un tratto, lei è diventata la tua preferita? — Per un momento, sembrò sinceramente ferita. — Sai bene che non ha niente a che fare con i favoritismi. Tu sei stata Reclamata. Non dipende dalla mia volontà.
Reclamata? E da chi? Di cosa stava parlando, Macon? Il senso di annebbiamento intorno a me era sempre più soffocante. Non ero sicuro di aver sentito bene. — Ma io e te siamo uguali. — Stava insistendo come una bambina viziata. Il tavolo iniziò a tremare in modo quasi impercettibile, il liquido nero nei bicchieri ondeggiava delicatamente. Poi sentii un tamburellare ritmico sul tetto. Pioggia. Lena era aggrappata al bordo del tavolo, le nocche bianche. — Voi due non siete uguali — sibilò. Sentii il corpo di Ridley tendersi contro il mio braccio, al quale si teneva ancora avvinghiata come un serpente. — Tu credi di essere migliore di me, Lena... vero? Non conosci il tuo vero nome. Non ti rendi nemmeno conto che questa tua storiella d'amore è già condannata. Aspetta di essere Reclamata anche tu e ti accorgerai di come funzionano veramente le cose. — Rise, con una risata sinistra e in un certo modo dolorosa. — Non hai idea se siamo uguali oppure no. Tra qualche mese, potresti finire esattamente come me. Lena mi guardò, nel panico. Il tavolo si mise a tremare più forte, i piatti a sobbalzare sul legno. Fuori si sentì lo schianto di un fulmine e la pioggia iniziò a battere contro le finestre, come un pianto dirotto. — Sta' zitta! — Diglielo, Lena. Non credi che la nostra Paglia Corta meriti di sapere? Che non hai idea se sarai Luce o Tenebre? Che non hai possibilità di scelta? Lena balzò in piedi, rovesciando la sedia. — Ti ho detto di stare zitta! Ridley si rilassò, godendosi la scena. — Raccontagli di quando vivevamo insieme, nella stessa stanza, come sorelle. Di come io fossi esattamente come te, un anno fa, e invece ora...
Macon, a capotavola, si alzò, stringendo il bordo del tavolo con entrambe le mani. La faccia pallida sembrava ancora più bianca del solito. — Ridley, adesso basta! Ti Bandirò da questa casa, se dirai ancora una parola. — Tu non puoi Bandirmi, zio. Non sei abbastanza forte per farlo. — Non sopravvalutare le tue capacità. Nessun Mago delle Tenebre sulla faccia della Terra è abbastanza potente da entrare a Ravenwood da solo. Ho Vincolato io stesso questo luogo. L'abbiamo Vincolato tutti. Mago delle Tenebre? Non mi suonava per niente bene. — Ah, zio Macon. Dimentichi la famosa ospitalità del Sud. Io non sono entrata con la forza. Sono stata invitata ad entrare, al braccio del più bel cavaliere di sfi-Gatlin. — Ridley si girò verso di me e sorrise, sollevando gli occhiali scuri. Ma i suoi occhi erano sbagliati, brillavano d'oro, come se fossero in fiamme. Avevano la forma di occhi da gatto, con delle fessure nere al centro. Emanavano luce e, in quella luce, tutto cambiò. Ridley guardò verso di me con un sorriso sinistro e il suo volto si distorse in ombre e tenebre. I tratti che prima erano così femminili e seducenti adesso divennero duri e affilati, mutando davanti ai miei occhi. La pelle sembrò tendersi sulle ossa, mettendo in rilievo le vene, tanto da poter quasi distinguere il sangue che vi pulsava. Era un mostro. Io avevo portato un mostro in quella casa, nella casa di Lena. Quasi nello stesso istante, l'intera casa cominciò a tremare violentemente. I lampadari di cristallo dondolavano, le luci sfarfallavano. Le persiane si aprivano e si chiudevano con gran fracasso mentre la pioggia batteva sul tetto. Il fragore era tale da rendere quasi impossibile sentire altro, come quella notte in cui avevo rischiato di travolgere Lena in mezzo alla strada.
Ridley aumentò la stretta gelida sul mio braccio. Cercai di liberarmi ma riuscivo a malapena a muovermi. Il gelo si stava diffondendo e il braccio era già intorpidito. Lena mi guardò, inorridita. — Ethan! Zia Del batté un piede per terra. Le assi del pavimento sembrarono ondeggiare sotto i suoi piedi. Il freddo si propagò in tutto il mio corpo. Avevo la gola gelata, le gambe paralizzate. Non riuscivo a staccarmi dal braccio di Ridley e non riuscivo a dire a nessuno cosa mi stesse succedendo. Ancora qualche minuto e non sarei più stato in grado di respirare. Una voce di donna si levò nella sala. Zia Del. — Ridley. Ti avevo di stare lontana, bambina. Non c'è niente che possiamo fare per te, adesso. Mi dispiace tanto. Il tono di Macon era duro. — Ridley, un anno può fare tutta la differenza del mondo. Tu sei stata Reclamata. Hai trovato il tuo posto nell'Ordine delle Cose. Non appartieni più a questo luogo. Devi andartene. Un attimo dopo, era in piedi davanti a lei. O era così, oppure stavo perdendo il senso di quello che stava succedendo. Le voci e le facce cominciavano a confondersi. Riuscivo a malapena a tirare il fiato. Avevo così freddo che la mia mascella gelata non era in grado di muoversi nemmeno per battere i denti. — Vai! — gridò Macon. — No! — Ridley! Comportati come si deve! Devi lasciare questo posto. Ravenwood non è fatta per la Magia Nera. È Vincolata, è un luogo di Luce. Non puoi sopravvivere, qui. Non a lungo. — La voce di zia Del era ferma. Ridley rispose con un ringhio. — Io non me ne vado, mamma, e tu non puoi costringermi.
La voce di Macon interruppe i suoi capricci. — Sai che non è vero. — Adesso sono più forte, zio Macon. Non mi puoi controllare. — Vero, la tua forza sta crescendo, ma non sei pronta per affrontarmi e io farò qualsiasi cosa sarà necessaria per proteggere Lena. Anche se questo significherà farti del male, o peggio. Il peso della sua minaccia fu troppo per Ridley. — Mi faresti davvero una cosa del genere? Ravenwood è un luogo di potere delle Tenebre. Lo è sempre stato, sin dai tempi di Abraham. Lui era uno di noi. Ravenwood dovrebbe essere nostra. Perché la vuoi Vincolare alla Luce? — Ravenwood adesso è la casa di Lena. — Tu sei dei nostri, zio M. Con me. E con Lei. Ridley si alzò, tirandomi su di peso. Erano tutti e tre in piedi: Lena, Macon e Ridley, i tre vertici di uno spaventoso triangolo. — Io non ho paura di quelli della tua specie. — Forse, ma qui non hai potere. Non contro tutti noi, e una Naturale. Ridley sghignazzò. — Lena, una Naturale? È la cosa più divertente che tu abbia detto in tutta la sera. Io ho visto cosa può fare una Naturale. Lena non potrebbe mai esserlo. — Un Cataclismico e un Naturale non sono la stessa cosa. — Ah, no? Un Cataclismico è un Naturale passato alle Tenebre, le due facce della stessa medaglia. Cosa stava dicendo? Mi ero perso, non ci capivo più niente. E poi sentii che il mio corpo si bloccava e capii che stavo perdendo conoscenza... che probabilmente stavo per morire. Era come se tutta la vita mi fosse stata risucchiata via insieme al calore del sangue. Udii il rombo del tuono. Non contai
nemmeno fino a uno... poi il fulmine e lo schianto di un ramo fuori dalla finestra. La tempesta era qui. Proprio sopra di noi. — Ti sbagli, zio M. Lena non è una che valga la pena proteggere. E di certo non è una Naturale. Non saprai il suo destino fino al suo compleanno. Tu credi che, solo perché è dolce e innocente adesso, verrà Reclamata dalla Luce? Non significa un bel niente. Non ero così anch'io, un anno fa? E da quello che Paglia Corta mi ha raccontato, Lena è più vicina alle Tenebre che alla Luce. Tempeste di fulmini? Panico nella scuola superiore? Il vento crebbe d'intensità. Lena era sempre più furiosa. Vedevo la rabbia nei suoi occhi. Una finestra andò in frantumi, proprio come a scuola. Sapevo come sarebbe andata a finire. — Taci! Non sai di cosa stai parlando! — La pioggia entrò a scrosci nella sala da pranzo. Poi seguì il vento, mandando piatti e bicchieri in frantumi, lunghe strisce di liquido nero che macchiavano il pavimento. Nessuno si mosse. Ridley si rivolse a Macon: — Tu le hai sempre dato troppa importanza. Lei non è niente. Volevo liberarmi dalla stretta di Ridley, volevo prenderla e trascinarla fuori dalla casa con le mie mani, ma non potevo muovermi. Un'altra finestra finì in frantumi, poi un'altra e un'altra ancora. Vetri rotti dappertutto. Vasellame, calici, i vetri dei quadri incorniciati. I mobili sbattevano contro i muri. E il vento... era come se un tornado fosse stato risucchiato nella stanza con noi. Il frastuono era così assordante che non riuscivo a sentire più niente. La tovaglia volò via con tutte le candele, i vassoi e i piatti che erano ancora al loro posto, e tutto finì contro il muro. La stanza girava, credo. Ogni cosa veniva risucchiata nella sala d'ingresso, verso la porta. Boo Radley gridò, quel suo orribile grido umano. La stretta di Ridley sul
mio braccio sembrò allentarsi. Io sbattevo le palpebre, cercando di non svenire. E là, al centro di tutto, c'era Lena. Perfettamente immobile, i capelli frustati dal vento. Cosa stava succedendo? Mi si piegarono le ginocchia. Mentre perdevo conoscenza sentii il vento, una forza violenta che letteralmente strappò via il mio braccio dalla presa di Ridley, e anche lei venne risucchiata fuori dalla stanza, verso la porta d'ingresso. Crollai a terra e udii la voce di Lena, o così mi parve. — Sta' lontana dal mio ragazzo, strega. Il suo ragazzo. Era questo ciò che ero? Cercai di sorridere. Invece svenni.
09-10 Una crepa nell'intonaco Quando mi svegliai, non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi. Cercai di mettere a fuoco le prime cose su cui si posarono i mici occhi. Parole. Frasi scritte a mano con il pennarello, in una calligrafia accurata, sul soffitto sopra il letto. i momenti sanguinano insieme, nessuna apertura al tempo C'erano centinaia di altre parole, scritte dappertutto, frammenti di frasi, frammenti di versi, gruppi di parole a caso. Sull'anta di un armadio c'era scarabocchiato: il fato decide. Sull'altra c'era: finché i predestinati non lo sfideranno. Sulla porta, scritte in direzioni diverse, si leggevano: disperata implacabile condannata investita di poteri. Lo specchio diceva: apri gli occhi; i vetri delle finestre dicevano: e guarda. Anche il pallido paralume era scarabocchiato con illuminailbuioilluminailbuioilluminailbuio in uno schema ripetuto all'infinito. Le poesie di Lena. Finalmente potevo leggere qualcosa. Anche ignorando le scritte, quella stanza non somigliava al resto della casa. Era piccola e accogliente, rincantucciata sotto i cornicioni. Un ventilatore a pale girava lento sopra la mia testa, tagliando le frasi. C'erano pile di blocnotes con la spirale su ogni superficie possibile e una torre di
libri sul comodino. Libri di poesia. Sylvia Plath, T.S. Eliot, Charles Bukowski, Robert Frost, E.E.Cummings... Almeno i nomi li riconoscevo. Ero steso di traverso su un lettino di ferro bianco, con le gambe penzoloni. Era la stanza di Lena e io ero nel suo Ietto. Lei era acciambellata su una poltrona ai piedi del letto, con la testa appoggiata sul braccio. Mi misi a sedere, stordito. — Ehi. Cos'è successo? Ero abbastanza sicuro di essere svenuto, ma sui dettagli restavo molto confuso. L'ultima cosa che ricordavo era il freddo gelido che mi risaliva lungo il corpo, la gola che si chiudeva, la voce di Lena. Mi pareva che avesse detto qualcosa tipo che ero il suo ragazzo ma, visto che in quel momento stavo per svenire e che tra di noi non era mai successo niente, qualche dubbio l'avevo. Era un pensiero felice, però. — Ethan! — Lena saltò su dalla poltrona e si mise a sedere sul letto, accanto a me, pur facendo attenzione a non toccarmi. — Stai bene? Ridley non voleva mollarti e io non sapevo più che fare. Sembravi così sofferente, così ho reagito. — Ti riferisci al tornado in mezzo alla sala da pranzo? Lei abbassò gli occhi, triste. — Funziona così. Percepisco delle situazioni, mi arrabbio o mi spavento e poi... le cose succedono da sole. Posai la mano sulla sua e sentii il calore risalirmi lungo il braccio. — Cose come le finestre che si rompono? Lei mi guardò. Chiusi le dita intorno alla sua mano, la strinsi nella mia. Una crepa nel vecchio intonaco, nell'angolo dietro di lei, sembrò allungarsi, si fece strada sul soffitto, girò intorno al lampadario smerigliato e riprese il cammino verso il punto di partenza. Sembrava un cuore. Sull'intonaco del soffitto della stanza di Lena era appena apparso un cuore gigante, paffuto, da ragazzina.
— Lena. — Sì? — Il soffitto sta per caderci in testa? Lei si girò e guardò la crepa. Si mordicchiò il labbro e le sue guance si colorirono di rosso. — Non credo. È solo una crepa nell'intonaco. — Sei stata tu a farla? — No. — Il rossore si diffuse strisciandole sul naso e sulle guance. Abbassò gli occhi. Volevo chiederle a cosa stesse pensando, ma non mi andava di metterla in imbarazzo. Speravo solo che avesse qualcosa a che vedere con me, e con la sua mano stretta nella mia. Con quella parola che mi pareva di averle sentito dire, un attimo prima di perdere conoscenza. Guardai dubbioso la crepa. Poteva significare molte cose. — Puoi annullarle? Queste cose che... ti succedono? Lena sospirò, sollevata all'idea di parlare d'altro. — Qualche volta. Dipende. A volte sono così sconvolta che non riesco a controllare niente e non posso aggiustare le cose, nemmeno quando è passata. Non credo che avrei potuto rimettere a posto il vetro della finestra, a scuola. Non credo che avrei potuto fermare la tempesta, il giorno in cui ci siamo incontrati. — Io non credo che quella sia stata colpa tua. Non puoi assumerti la responsabilità di tutte le perturbazioni che attraversano la contea di Gatlin. La stagione degli uragani non è ancora finita. Lena si sdraiò a pancia in giù e mi guardò dritto negli occhi. Stavolta non distolse lo sguardo. E io nemmeno. Tutto il mio corpo vibrava di calore al contatto con lei. — Non hai visto cos'è successo stasera? — Forse qualche volta un uragano è solo un uragano, Lena.
— Finché sono qui, sono io la stagione degli uragani nella contea di Gatlin. — Cercò di sfilare la mano dalla mia, ma riuscì solo a farmela stringere più forte. — Che buffo. A me sembri più una ragazza. — Sì, be', non è così. Io sono un intero sistema di uragani fuori controllo. La maggior parte dei Maghi è in grado di controllare i propri talenti, quando arriva alla mia età. Io, invece, la metà delle volte ho l'impressione che siano i miei talenti a controllare me. — Indicò lo specchio sul muro. Una scritta a pennarello si formò sulla sua immagine riflessa, sotto i nostri occhi. Chi è questa ragazza! — Sto ancora cercando di capire chi sono, ma qualche volta ho l'impressione che non ci riuscirò mai. — Tutti i Maghi hanno gli stessi poteri, cioè talenti? — No. Condividiamo le capacità più semplici, come spostare gli oggetti, ma ogni Mago ha in più delle abilità specifiche legate ai propri talenti. In quel momento, desiderai che esistesse un qualche corso che potessi frequentare e che mi preparasse a seguire quelle conversazioni, Magia per gli Stupidi o qualcosa del genere, perché mi sentivo sempre un po' perso. L'unica persona di mia conoscenza che avesse abilità particolari era Amma. Leggere il futuro e tenere lontani gli spiriti maligni dovevano pur contare qualcosa, no? E per quello che ne sapevo io, forse anche Amma poteva spostare gli oggetti con il pensiero. Di certo riusciva a far muovere il mio didietro con un'unica occhiata. — Zia Del, per esempio. Cosa sa fare? — Lei è un Palinsesto. Legge il tempo. — Legge il tempo? — Ecco, io e te entriamo in una stanza e vediamo il presente. Zia Del, invece, vede diversi momenti del passato e del presente, contemporaneamente. Lei può entrare in una
stanza e vederla così com'è oggi e com'era dieci anni fa, venti anni fa, cinquant'anni fa. Nello stesso momento. Un po' come succede a noi quando tocchiamo il medaglione. È per questo che è sempre così confusa. Non sa mai esattamente dove si trova, nello spazio e nel tempo. Ripensai a come mi ero sentito dopo le visioni e immaginai come dovesse essere sentirsi così in ogni momento della giornata. — Mica da ridere. E Ridley? — Ridley è una Sirena. Il suo dono è il Potere della Persuasione. Ridley riesce a inculcare qualsiasi idea nella mente di chiunque, riesce a indurre le persone a dirle qualsiasi cosa, a fare qualsiasi cosa. Se usasse il suo potere su di te e ti dicesse di buttarti giù da una rupe... tu ubbidiresti. — Ripensai alla sensazione che avevo provato in macchina con lei, come se avessi potuto confidarle qualsiasi cosa. — Io non mi butterei. — Sì, invece. Saresti costretto a farlo. Un Mortale non può opporsi a una Sirena. — Non mi butterei. — La guardai. I capelli le ondeggiavano intorno al viso, mossi dalla brezza, ma non c'erano finestre aperte nella stanza. Cercai nei suoi occhi un segno, qualcosa che rivelasse che anche lei provava ciò che provavo io. — Non puoi buttarti giù da una rupe, quando sei già caduto da un'altezza molto più vertiginosa. Ascoltai le parole che mi uscivano di bocca e desiderai ritirarle nello stesso istante in cui le pronunciai. Nella mia testa, mi erano sembrate molto più indovinate. Lei mi guardò, cercando di capire se fossi serio. Lo ero, ma non potevo dirlo. Invece, cambiai argomento. — E qual è il superpotere di Reece? — Lei è una Sibilla, legge i volti. Può vedere ciò che tu hai visto, chi hai visto, cos'hai fatto, solo guardandoti negli occhi.
Può aprirti e leggerti come un libro, letteralmente. — Lena stava ancora cercando di leggere me. — E quell'altra, chi era? La donna in cui Ridley si è trasformata per un secondo, mentre Reece la fissava? L'hai vista? Lena annuì. — Macon non ha voluto dirmelo, ma deve essere qualcuno delle Tenebre. Qualcuno potente. Continuai a fare domande. Dovevo capire. Era come scoprire di aver appena cenato con una compagnia di extraterrestri. — E Larkin cosa sa fare? L'incantatore di serpenti? — Larkin è un Illusionista. È simile a un Mutatore. Ma zio Barclay è l'unico Mutatore della famiglia. — E qual è la differenza? — Larkin sa Creare Forme, cioè fa apparire una cosa sotto qualsiasi altra forma lui voglia, con un incantesimo: persone, luoghi, oggetti. Crea illusioni, ma non sono reali. Zio Barclay invece può Mutare le Forme, cioè può davvero trasformare un oggetto in un altro, per tutto il tempo che vuole. — Quindi, tuo cugino cambia l'apparenza delle cose e tuo zio, invece, la sostanza? — Esatto. La nonna dice sempre che i loro poteri sono troppo affini. Succede, qualche volta, tra genitori e figli. Sono troppo simili, quindi litigano in continuazione. — Intuivo cosa stava pensando: che lei, questo, non avrebbe mai potuto saperlo. Il suo viso si rannuvolò e io feci uno stupido tentativo di risollevarle il morale. — E Ryan? Qual è il suo potere? Stilista per cani? — Troppo presto per dirlo. Ha solo dieci anni. — E Macon? — Lui è solo... zio Macon. Non c'è nulla che non possa fare o che non farebbe per me. Da piccola ho passato moltissimo
tempo con lui. — Abbassò gli occhi, eludendo la domanda. Stava nascondendo qualcosa ma, conoscendola, non c'era modo di scoprire di che si trattasse. — Lui è come mio padre, o come immagino che sarebbe mio padre. — Non doveva aggiungere altro. Sapevo anch'io cosa significasse perdere una persona cara. Mi chiesi se fosse peggio non averla mai nemmeno avuta. — E tu? Qual è il tuo talento? Come se ne avesse solo uno. Come se non li avessi visti in azione sin dal primo giorno di scuola. Come se non avessi cercato di racimolare il coraggio per porle questa domanda, sin dalla notte in cui era rimasta seduta sulla mia veranda con il suo pigiama verde e viola. Lei tacque per un minuto, raccogliendo i pensieri, o forse decidendo se condividerli con me; impossibile saperlo. Poi mi guardò, con i suoi sconfinati occhi verdi. — Io sono una Naturale. Almeno, zio Macon e zia Del pensano che lo sia. Una Naturale. Ero sollevato. Non sembrava terribile come una Sirena. Non penso che avrei potuto gestirne una. — Cosa significa, esattamente? — Non lo so nemmeno io. In realtà non è una cosa definita. Insomma, sembra che un Naturale abbia molte più capacità degli altri Maghi. — Lo disse in fretta, quasi sperando che non sentissi. Inutile. Più degli altri Maghi. Di più. Non ero sicuro di come mi facesse sentire questo di più. Di meno, sì, avrei saputo affrontare un di meno. Meno sarebbe stato bello. — Ma come hai visto stasera, non so cosa sono in grado di fare. — Pizzicava la coperta, nervosa. La tirai per la mano, finché non fu sdraiata accanto a me, appoggiata al gomito. — Tutto questo non ha importanza. Mi piaci così come sei. — Ethan, non sai quasi niente di me.
Il calore rilassante fluiva attraverso il mio corpo e, a essere onesti, quello che mi stava dicendo non m'importava per niente. Era così bello starle accanto così, tenendole la mano, con solo la coperta bianca a separarci. — Non è vero. So che scrivi poesie e so del corvo della tua collana e so che ti piace l'aranciata e ti piacciono tua nonna e le praline al cioccolato insieme ai pop-corn. Per un secondo pensai che potesse sorridere. — È quasi niente. — È un inizio. Lei mi guardò intensamente, i suoi occhi verdi che frugavano nei miei azzurri. — Non conosci nemmeno il mio nome. — Il tuo nome è Lena Duchannes. — Okay, be', tanto per cominciare, non è vero. Mi tirai su a sedere e lasciai andare la sua mano. — Di che parli? — Non è il mio nome. Ridley non stava mentendo. — Qualche brandello delle precedenti conversazioni cominciò a tornarmi in mente. Ricordai Ridley dire qualcosa a proposito di Lena che non conosceva il suo vero nome. Ma non pensavo che intendesse letteralmente. — Be', allora qual è? — Non lo so. — È un'altra cosa da Maghi? — Non proprio. La maggior parte dei Maghi conosce il proprio vero nome, ma la mia famiglia è diversa. Nella mia famiglia non scopriamo il nostro nome di nascita finché non compiamo sedici anni. Fino a quel momento, ci vengono dati altri nomi. Ridley era Julia. Reece era Annabel. Io sono Lena. — E allora chi è Lena Duchannes?
— Io sono una Duchannes, almeno questo lo so. Ma Lena è solo il nome con cui mia nonna ha cominciato a chiamarmi, perché diceva che ero sottile e leggera come una pianta d'avena. Lena d'Avena. Non dissi nulla per un po'. Cercavo di digerire il tutto. — Okay, quindi tu non conosci il tuo nome ma lo saprai fra qualche mese. — Non è così semplice. Io non so proprio niente di me. È per questo che sono sempre così fuori di testa. Non so il mio nome e non so cos'è successo ai miei genitori. — Sono morti in un incidente, no? — È quello che mi è stato raccontato, ma nessuno ne parla mai. Non riesco a trovare tracce di quell'incidente e non ho mai visto la loro tomba. Come faccio a sapere se è vero? — Chi potrebbe mentire su una cosa così orribile? — Tu l'hai conosciuta la mia famiglia, no? — Sì. — Quel mostro che era con noi, quella... strega, che quasi ti ha ucciso... Che tu ci creda o no, una volta era la mia migliore amica. Io e Ridley siamo cresciute insieme a casa della nonna. Ci spostavamo così spesso che usavamo la stessa valigia. — Ecco perché parlate senza inflessioni. Nessuno crederebbe mai che abbiate vissuto al Sud. — E la tua scusa qual è? — Genitori professori e un barattolo che si riempiva di quarti di dollaro ogni volta che storpiavo le parole. — Alzai gli occhi al cielo. — Allora Ridley non viveva con zia Del? — No. Zia Del ci viene a trovare solo durante le vacanze. Nella mia famiglia, nessuno vive con i propri genitori. È troppo pericoloso. — Mi impedii di sparare altre cinquanta domande mentre Lena continuava come un fiume in piena, quasi avesse aspettato un secolo per raccontare questa storia. — Io e Ridley
eravamo come sorelle. Dormivamo nella stessa stanza e studiavamo insieme a casa. Quando ci trasferimmo in Virginia, convincemmo mia nonna a iscriverci a scuola come gli altri. Volevamo farci degli amici, essere normali. Le uniche volte in cui parlavamo con dei Mortali era quando la nonna ci portava a visitare dei musei, a vedere l'Opera o a pranzo all'Olde Pink House. — E cos'è successo quando siete andate a scuola? — Un disastro. Indossavamo i vestiti sbagliati, non avevamo la TV, consegnavamo tutti i compiti. Eravamo due sfigate senza speranza. — Però riuscivate ad avere degli amici Mortali. Lei teneva gli occhi bassi. — Non ho mai avuto un amico Mortale, finché ho incontrato te. — Davvero? — Avevo solo Ridley. Era terribile anche per lei, ma a lei non importava. Era troppo occupata ad assicurarsi che nessuno mi infastidisse. Mi era difficile immaginare Ridley che proteggeva qualcuno. La gente cambia, Ethan. Non così tanto. Nemmeno i Maghi. Soprattutto i Maghi. È proprio questo che sto cercando di dirti. Sfilò la mano dalla mia. — Ridley cominciò a comportarsi in modo strano. Poi, gli stessi ragazzi che l'avevano sempre ignorata presero a seguirla dappertutto, l'aspettavano dopo la scuola, facevano a botte per accompagnarla a casa. — Sì, be', certe ragazze fanno quest'effetto. — Ridley non è una "certa ragazza". Te l'ho detto, è una Sirena. Lei induceva le persone a fare delle cose che normalmente non avrebbero voluto fare. E quei ragazzi si
buttavano giù dalla rupe, uno dopo l'altro. — Lena rigirava la collana tra le dita, continuando a parlare. — La notte prima che Ridley compisse sedici anni, la seguii fino alla stazione. Era spaventata da morire. Sentiva che stava per finire dalla parte delle Tenebre e voleva andarsene prima di far del male alle persone che amava. Prima di far del male a me. Io sono l'unica alla quale Ridley abbia mai voluto veramente bene. Sparì quella notte e non l'ho più rivista, fino ad oggi. E dopo quello a cui hai assistito stasera, è piuttosto ovvio che sia finita nelle Tenebre. — Aspetta un momento. Cosa vuol dire? Lena fece un respiro profondo ed esitò, come se non fosse sicura di volermi dare la risposta. — Devi dirmelo, Lena. — Nella mia famiglia, quando compi sedici anni, vieni Reclamato. Il tuo destino viene scelto per te e puoi diventare Luce, come zia Del e Reece, oppure Tenebre, come Ridley. Tenebre o Luce, Nero o Bianco. Non ci sono grigi nella mia famiglia. Noi non possiamo scegliere e non possiamo tornare indietro, una volta Reclamati. — In che senso non potete scegliere? — Non possiamo decidere se vogliamo essere Luce o Tenebre, buoni o malvagi, a differenza dei Mortali e degli altri Maghi. Nella mia famiglia non esiste il libero arbitrio. È deciso per noi, nel giorno del nostro sedicesimo compleanno. Mi sforzavo di capire, ma era tutto così assurdo. Avevo vissuto con Amma abbastanza a lungo da sapere che esistevano la Magia Bianca e la Magia Nera, ma era difficile credere che Lena non avesse facoltà di scelta su quale delle due praticare. Su cosa essere. Lena stava ancora parlando. — È per questo che non possiamo vivere con i nostri genitori.
— Cosa c'entrano i genitori? — Una volta non era così. Ma quando la sorella di mia nonna, Althea, fu Reclamata dalle Tenebre, la loro madre non se la sentì di allontanarla. A quei tempi, se un Mago passava alle Tenebre, doveva lasciare la propria casa e la propria famiglia, per ovvie ragioni. La madre di Althea pensava di poterla aiutare a controllarsi, ma non ci riuscì, e cominciarono ad accadere cose terribili nella città in cui vivevano. — Che genere di cose? — Althea era una Evo. Sono incredibilmente potenti. Possono influenzare le menti, come fa Ridley, ma possono anche Evolvere, trasformarsi in altre persone, in chiunque. Quando Althea fu Reclamata, cominciarono a succedere in città incidenti inspiegabili. Molti rimasero feriti e alla fine una ragazza annegò. Allora la madre di Althea si decise a mandarla via. E io che pensavo che avessimo dei problemi, a Gatlin. Non riuscivo a immaginare una versione più potente di Ridley che girava da queste parti a tempo pieno. — Quindi adesso nessuno di voi può più vivere con i propri genitori. — Stabilirono che era troppo difficile voltare le spalle a un figlio Reclamato dalle Tenebre. Da allora, i bambini vivono con altri parenti, finché non compiono sedici anni. — E allora perché Ryan vive con i suoi genitori? — Ryan è... Ryan. È un caso speciale. — Lena scrollò le spalle. — O almeno, così risponde zio Macon ogni volta che glielo chiedo. Era così surreale, l'idea che tutti nella sua famiglia possedessero poteri soprannaturali. Sembravano simili a me, a chiunque altro a Gatlin - be', forse non proprio a chiunque altro - e invece erano completamente diversi. O no? Anche Ridley, nel parcheggio dello Stop&Scippa... nessuno dei ragazzi aveva
sospettato che fosse qualcosa di diverso da una ragazza incredibilmente sexy, in evidente stato confusionale se era venuta a cercare me. Come funzionava? Come si faceva a nascere Maghi, invece che bambini normali? — Anche i tuoi genitori avevano un talento? — Detestavo tirarli in ballo. Sapevo quanto fosse difficile parlare di genitori morti, ma a questo punto dovevo sapere. — Sì. Tutti nella mia famiglia ne hanno uno. — E il loro qual era? Era simile al tuo? — Non lo so. Mia nonna non mi ha mai raccontato niente di loro. Te l'ho detto, è come se non fossero mai esistiti. Il che mi fa un po' pensare, sai. — Pensare a cosa? — Forse erano Tenebre e anch'io farò la loro fine. — Non succederà. — E tu come fai a saperlo? — Come faccio a condividere i tuoi sogni? Come faccio a sapere, quando entro in una stanza, se sei stata lì o no? Ethan. È vero. Le toccai la guancia e aggiunsi sottovoce: — Non so come faccio a saperlo. Lo so e basta. — Ne sei convinto, ma non puoi esserne sicuro. Non so nemmeno io quello che mi succederà. — È la più grossa fesseria che abbia mai sentito. — Quella sera andava così; non intendevo dirlo, almeno non ad alta voce, ma ero contento di averlo detto. — Cosa? — Tutta quella spazzatura sul destino. Nessuno può decidere cosa ti succederà. Nessuno, tranne te. — Non se sei un Duchannes, Ethan. Altri Maghi possono scegliere, ma non noi, non la mia famiglia. Noi veniamo
Reclamati al sedicesimo compleanno, diventiamo Luce o Tenebre. Non c'è libero arbitrio. Le sollevai il mento con la mano. — Tu sei una Naturale. Che problema c'è? La guardai negli occhi e sapevo che stavo per baciarla, sapevo che non c'era niente da temere, finché restavamo insieme. E credetti, in quel preciso istante, che sarebbe stato per sempre. Smisi di pensare agli schemi di gioco e finalmente lasciai che vedesse cosa sentivo veramente, cosa avevo in testa. Cosa stavo per fare e quanto tempo mi ci era voluto per trovare il coraggio di farlo. Oh. Lena spalancò gli occhi, facendoli diventare ancora più grandi e ancora più verdi, se fosse stato possibile. Ethan... non so... Mi protesi verso di lei e la baciai sulla bocca. Sapeva di sale, come le sue lacrime. Questa volta, non calore ma elettricità pura partì dalle mie labbra fino alla punta dei piedi. Sentii un formicolio sulle dita. Era come infilare una penna in una presa elettrica, cosa che Link mi aveva sfidato a fare quando avevamo otto anni. Lei chiuse gli occhi e mi attirò a sé, e per un minuto tutto fu perfetto. Mi baciava e le sue labbra sorridevano sulle mie e io capii che mi aspettava da tempo, forse da quanto io aspettavo lei. Ma poi, all'improvviso come si era aperta a me, mi escluse. O, più precisamente, mi spinse via. Ethan, non possiamo farlo. Perché? Mi pare che i nostri sentimenti siano gli stessi. O forse no. Forse per lei non era così.
La fissavo, dalla distanza delle sue braccia tese e ancora appoggiate al mio petto. Probabilmente sentiva quanto mi battesse forte il cuore. Non si tratta di quello... Fece per voltarsi e io ebbi la certezza che stesse per scappare, come quando avevamo ritrovato il medaglione a Greenbrier, come la sera che mi aveva lasciato da solo sulla veranda di casa mia. Le misi una mano sul polso e sentii all'istante il calore. — Allora di cosa? Lei mi fissò. Cercai di ascoltare i suoi pensieri, ma non mi arrivò nulla. — Tu sei convinto che io abbia una scelta su ciò che mi accadrà, ma non è così. Quello che ha fatto Ridley stasera non era niente. Avrebbe potuto ucciderti e forse l'avrebbe fatto, se io non l'avessi fermata. — Fece un respiro profondo. Le luccicavano gli occhi. — È quello in cui potrei trasformarmi anch'io, un mostro, che tu voglia accettarlo o meno. Le feci scivolare le braccia intorno al collo, ignorandola. Ma lei continuò. — Io non voglio che tu mi veda in quello stato. — Non m'importa. — Le baciai la guancia. Lei scese dal letto, liberando il suo braccio dalla mia presa. — Tu non capisci. — Mi mostrò la mano. 125. Altri centoventicinque giorni, una macchia di inchiostro blu, come se fosse tutto ciò che avevamo. — Capisco. Hai paura. Ma troveremo una soluzione. Noi siamo fatti per stare insieme. — Non è vero. Tu sei un Mortale. Non puoi capire. E io non voglio vederti soffrire. Ma è proprio quello che succederà, se ti avvicini troppo a me. — Troppo tardi. Avevo sentito ogni singola parola che mi aveva detto, ma solo una cosa avevo capito. C'ero dentro fino al collo.
09-10 I Grandi Aveva una sua logica quando era una bella ragazza a raccontarlo. Ma ora che ero di nuovo a casa mia, da solo, nel mio letto, non ci capivo più niente. Nemmeno Link avrebbe creduto a questa storia. Immaginai la nostra conversazione: la ragazza che mi piace, di cui non so il vero nome, è una strega, scusami, una Maga, viene da una famiglia di Maghi e fra cinque mesi scoprirà sostanzialmente se sta dalla parte del Bene o del Male. Ed è capace di scatenare un uragano in una stanza e di frantumare i vetri delle finestre. E io riesco a vedere nel passato toccando un assurdo medaglione che Amma e Macon Ravenwood, che non è affatto un eremita, vogliono farmi seppellire. Un medaglione che si è materializzato al collo di una donna in un dipinto a casa dei Ravenwood che, tra parentesi, non è una casa infestata ma una casa perfettamente tenuta che cambia da cima a fondo ogni volta che ci metto piede per incontrare quella ragazza che mi manda a fuoco e mi dà la scossa e mi scuote nel profondo con un semplice tocco. E l'ho baciata. E lei ha baciato me. Era troppo incredibile, persino per i miei standard. Mi rigirai nel letto. * * *
Frustate. Il vento mi frustava il corpo. Mi aggrappavo all'albero mentre il vento mi martoriava, il suo urlo che mi squarciava i timpani. Tutt'intorno, i venti mulinavano guerreggiando tra loro, con una forza e una intensità che si moltiplicavano a ogni secondo. La grandine cadeva come se si fosse aperto il cielo. Dovevo scappare. Ma non c'era posto dove andare. Lasciami andare, Ethan. Salva te stesso! Non la vedevo. Il vento era troppo forte. Però la toccavo. Le stringevo il polso così forte che temevo di spezzarglielo. Ma non m'importava, non l'avrei lasciata andare. Il vento cambiò direzione, mi sollevò da terra. Mi aggrappai più forte all'albero, strinsi più forte il suo polso. Ma sentivo che la furia degli elementi ci stava separando. Mi stava trascinando via dall'albero, mi stava portando via da lei. Sentii il polso scivolare tra le mie dita. Non riuscivo più a mantenere la presa. Mi risvegliai tossendo. Sentivo ancora la pelle irritata dal vento. Nel caso l'esperienza di quasi-morte a Ravenwood non mi fosse bastata, adesso erano tornati i sogni. Era troppo per una notte sola, troppo anche per me. La porta della camera era spalancata ed era strano, visto che ultimamente la chiudevo sempre a chiave. Ci mancava solo che Amma mi rifilasse uno dei suoi assurdi amuleti vudù mentre dormivo. Ero sicuro di averla chiusa. Guardai il soffitto. Il mio prossimo futuro non prevedeva altro sonno. Sospirai e tastai sotto il letto. Accesi la vecchia lampada da campeggio sul comodino e levai il segnalibro da dove avevo interrotto la lettura di Snow Crash, quando sentii
un rumore. Dei passi? Veniva dalla cucina, debole ma percettibile. Forse mio padre stava facendo una pausa. Forse era un'occasione buona per parlargli. Forse. Ma quando arrivai in fondo alle scale, capii che non era lui. La porta dello studio era chiusa e dalla fessura usciva una lama di luce. Doveva essere Amma. Nel momento in cui mi chinai per passare sotto la porta della cucina, la vidi sgattaiolare rapidamente verso la sua stanza, per quanto rapidamente potesse muoversi Amma. Sentii il cigolio della porta sul retro che si chiudeva. Era arrivato qualcuno, oppure qualcuno se ne stava andando. Dopo tutto quello che era successo quella sera, era una distinzione importante. Mi affacciai a una finestra che dava sulla facciata della casa. Sul ciglio della strada c'era un vecchio pickup ammaccato, uno Studebaker degli anni Cinquanta, con il motore acceso. Amma era appoggiata al finestrino e parlava con il guidatore. Gli passò la borsa e si arrampicò a bordo. Dove stava andando, nel cuore della notte? Dovevo seguirla. E seguire la donna che poteva tranquillamente essere mia madre, mentre partiva di notte con uno sconosciuto al volante di un rottame, era un'impresa ardua senza una macchina. Non avevo scelta. Dovevo prendere la Volvo. Era l'auto che guidava mia madre il giorno dell'incidente; era questa la prima cosa che pensavo ogni volta che la vedevo. Scivolai al posto di guida. Sapeva di carta vecchia e detergente spray per i vetri, come sempre. Guidare a fari spenti era più difficile di quello che pensassi, ma si capiva che il pickup era diretto verso Wader's Creelc. Amma stava andando a casa propria. Il furgone deviò dalla Route 9 verso la campagna. Quando finalmente lo vidi
rallentare e fermarsi sul ciglio della strada, spensi il motore e accostai anch'io. Amma aprì la portiera e si accese la luce interna. Socchiusi gli occhi nel buio e riconobbi il guidatore: era Carlton Eaton, il direttore dell'ufficio postale. Perché Amma aveva chiesto un passaggio a Carlton Eaton nel cuore della notte? Non li avevo mai nemmeno visti rivolgersi la parola, prima d'ora. Amma disse qualcosa a Carlton e chiuse la portiera. Il pickup si rimise in strada senza di lei. Scesi dalla macchina e la seguii. Amma era una creatura abitudinaria. Se qualcosa l'aveva tanto sconvolta da farla sgattaiolare via nel cuore notte per addentrarsi nella palude, era sicuramente più importante di uno dei suoi soliti clienti. Sparì nella boscaglia, lungo un sentiero di ghiaia che qualcuno aveva tracciato con non poche difficoltà. Camminava nel buio e i sassolini scricchiolavano sotto i suoi passi. Io passai invece sull'erba del ciglio per evitare lo stesso scricchiolio, che mi avrebbe di sicuro tradito. Mi dicevo che lo stavo facendo per capire come mai Amma andasse a casa sua di nascosto a quell'ora assurda, ma ero terrorizzato all'idea che mi scoprisse mentre la pedinavo. Era facile capire perché Wader's Creek si chiamasse così, l'Insenatura del Guado; bisognava davvero guadare degli stagni d'acqua nera per arrivarci, almeno dalla via che Amma aveva scelto. Se non ci fosse stata la luna piena, mi sarei spezzato il collo cercando di seguirla nel labirinto di querce muscose e di sterpi. Eravamo vicini all'acqua. Si sentiva la palude nell'aria, calda e appiccicosa come una seconda pelle. Lungo il margine della palude stavano delle zattere di tronchi tenuti insieme da corde, i traghetti dei poveri. Erano allineate lungo la riva come tanti taxi in attesa di portare la
gente dall'altra parte della palude. Alla luce della luna potevo vedere Amma sapientemente in equilibrio su una delle zattere, staccarsi dalla riva spingendo su un lungo bastone che usava come una pertica per sospingere l'imbarcazione. Non andavo a casa di Amma da molti anni, ma una cosa del genere me la sarei ricordata. Forse a quei tempi arrivavamo da una strada diversa, ma al buio era impossibile stabilirlo. Invece era facile valutare quanto fossero marci i tronchi delle zattere; a guardarle, sembravano una più instabile dell'altra. Perciò ne scelsi una a caso. Manovrare la zattera era molto più difficile di come Amma lo facesse sembrare. Ogni pochi minuti si sentiva uno splash, quando un alligatore scivolava nella palude e la sua coda colpiva il pelo dell'acqua. Ero contento di non aver valutato l'ipotesi di guadarla a piedi. Spinsi un'ultima volta contro il fondo con la lunga pertica e il bordo della zattera urtò contro la riva opposta. Quando saltai sulla sabbia, vidi la casa di Amma, piccola e modesta, con un'unica luce che baluginava dal vetro. I telai delle finestre erano dipinti della stessa tonalità di azzurro-antispiriti di Wate's Landing. La casa era costruita con legno di cipresso, come se fosse parte della palude. C'era qualcos'altro, qualcosa nell'aria. Un odore forte e invasivo, come i limoni e il rosmarino. E altrettanto improbabile, per due ragioni. Il gelsomino dei Confederati non fioriva in autunno, ma solo in primavera; e non cresceva nella palude. Eppure c'era. L'odore era inconfondibile e aveva qualcosa di innaturale, come ogni altra cosa accaduta quella notte. Mi appostai vicino alla casa. Niente. Forse Amma aveva semplicemente deciso di fare un salto a casa propria. Forse mio
padre lo sapeva e io mi ritrovavo a vagare nel buio, rischiando di farmi mangiare da un alligatore, per niente. Avevo quasi deciso di tornare indietro attraverso la palude, desiderando di aver lasciato una traccia di molliche di pane all'andata, quando la porta si aprì. Amma apparve nella luce sulla soglia. Era intenta a riporre qualcosa che non potevo vedere nella sua borsa buona, quella bianca di pelle. Indossava il suo miglior vestito da messa, color lavanda, guanti bianchi e un curioso cappellino abbinato, decorato da fiori. Eccola di nuovo in azione, puntava verso la palude. Ci si stava addentrando vestita così? Per quanto non avessi apprezzato la traversata fin là, arrancare là in mezzo con i jeans era ancora peggio. Il fango era così denso che mi pareva di dover tirare fuori i piedi dal cemento fresco ogni volta che facevo un passo. Non capivo proprio come ci riuscisse Amma, agghindata in quel modo, alla sua età. E sembrava sapere esattamente dove andare. Si fermò in uno spiazzo d'erba alta e gramigne fangose. I rami dei cipressi, aggrovigliati a quelli dei salici piangenti, formavano una volta sopra le nostre teste. Un brivido mi corse lungo la schiena, nonostante ci fossero ancora una ventina di gradi. E nonostante tutto quello che avevo visto quella sera, in quel posto c'era qualcosa di inquietante. Dall'acqua saliva una nebbiolina, filtrando dai margini della palude come il vapore che sfugge dal coperchio di una pentola in ebollizione. Mi avvicinai con cautela. Amma stava tirando fuori qualcosa dalla borsa, la cui pelle bianca brillava sotto la luna. Ossa. Sembravano ossa di pollo. Sussurrò qualcosa sopra gli ossicini e li mise in un sacchettino non molto diverso da quello che mi aveva dato per domare il potere del medaglione. Frugò di nuovo nella borsa e tirò fuori una salvietta, di quelle che si possono trovare in una
toilette per signore, e la usò per togliersi il fango dalla gonna. C'erano flebili luci bianche in lontananza, come lucciole baluginanti nel buio, e c'erano musica, musica lenta e sensuale, e risate. Da qualche parte, non troppo lontano, c'era gente che beveva e ballava nella palude. Amma alzò gli occhi. Qualcosa aveva attirato la sua attenzione, ma io non avevo sentito niente. — Puoi anche farti vedere. So che sei lì. Raggelai, preso dal panico. Mi aveva visto. Ma non era a me che stava parlando. Dalla nebbia soffocante emerse Macon Ravenwood, con un sigaro in bocca. Sembrava rilassato, come uno appena sceso da una macchina con autista invece di aver guadato acque nere e limacciose. Era vestito in modo impeccabile, come al solito, con una delle sue camicie bianche e inamidate. Ed era immacolato. Io e Amma eravamo coperti di fango e di erbe palustri fino alle ginocchia, ma Macon Ravenwood non aveva nemmeno uno schizzo di terra. — Era ora. Sai che non ho tutta la notte, Melchizedek. Devo tornare indietro. E non trovo gentile essere convocata fin qui dal paese. È maleducato. Per non parlare del disagio. — Tirò su col naso. — E dell'incomodo. I-N-C-O-M-O-D-O. Otto verticale. Lo sillabai nella mia testa. — Ho avuto anch'io una serata piuttosto densa di eventi, Amarie, ma questa faccenda richiede la nostra immediata attenzione. — Macon avanzò di qualche passo. Amma si ritrasse e puntò un dito ossuto contro di lui. — Resta dove sei. Non mi piace essere qui con uno della tua specie in una notte come questa. Non mi piace per niente. Tu resta dalla tua parte e io resto dalla mia.
Lui arretrò con tranquillità, soffiando anelli di fumo nell'aria. — Come dicevo, certi sviluppi richiedono la nostra immediata attenzione. — Espirò, un fumoso sospiro. — «La luna, quando è più piena, è nel punto più lontano dal sole.» Tanto per citare i nostri buoni amici clericali. — Non riempirti tanto la bocca con me, Melchizedek. Cosa c'è di così importante da tirarmi fuori dal letto nel cuore della notte? — Tra le varie cose, il medaglione di Genevieve. Amma per poco non lanciò un urlo, tappandosi la bocca con lo scialle. Non riusciva nemmeno a sopportare di sentir pronunciare la parola "medaglione". — Cosa c'è, ancora? Ti ho detto che ho Vincolato quella cosa. E a lui ho ordinato di riportarla a Greenbrier e di seppellirla. Non può causare alcun male se è tornata sottoterra. — Sbagliata la prima. Sbagliata la seconda. Lui ce l'ha ancora. Me l'ha mostrato nella sacralità della mia stessa casa. A parte questo, non sono sicuro che ci sia qualcosa in grado di Vincolare un talismano così nero di Tenebre. — A casa tua... Quando è venuto a casa tua ? Gli ho detto espressamente di stare alla larga da Ravenwood. — Adesso era chiaramente agitata. Fantastico. Avrebbe di sicuro trovato il modo di farmela pagare, più tardi. — Be', forse potresti valutare l'idea di accorciargli il guinzaglio. Il ragazzo non è molto obbediente, è chiaro. Ti avevo avvertito che questa amicizia era pericolosa, che poteva trasformarsi in qualcosa di più. Un futuro tra loro due è una impossibilità. Amma borbottava tra sé, come faceva sempre quando credeva che non la ascoltassi. — Mi ha sempre dato retta, finché non ha incontrato tua nipote. E non dare la colpa a me.
Non saremmo in questo pasticcio, se tu non l'avessi portata qui. Me ne occuperò io. Gli dirò che non deve più rivederla. — Non essere ridicola. Sono ragazzi. Più noi cerchiamo di tenerli divisi, più loro cercheranno di stare insieme. Non sarà più un problema quando lei verrà Reclamata, se riusciamo ad arrivarci. Fino a quel giorno, però,tieni sotto controllo il ragazzo, Amarie. Sono solo pochi mesi. Le cose sono già abbastanza pericolose così, senza che lui trasformi la situazione in un pasticcio ancora più grande. — Non parlare a me di pasticci, Melchizedek Ravenwood. La mia famiglia ha ripulito i pasticci della tua per più di cento anni. Io ho custodito i tuoi segreti, così come tu hai custodito i miei. — Non sono io la Veggente che non ha previsto il ritrovamento del medaglione. E questo come lo spieghi? Come hanno fatto i tuoi amici spiriti a farsi scappare un tale evento? — Indicò con un gesto intorno a sé, scuotendo la cenere dal sigaro con fare sarcastico. Lei si girò di scatto, con gli occhi fuori dalle orbite. — Non insultare i Grandi. Non qui, non in questo luogo. Loro hanno le loro ragioni. Se non l'hanno rivelato, ci sarà sicuramente un motivo. Amma si guardò intorno. — Non ascoltatelo. Vi ho portato dei gamberetti con la farina d'avena e una torta al limone con le meringhe. — Era chiaro che non parlava più con Macon. — I vostri preferiti — aggiunse, togliendo il cibo da alcuni contenitori di plastica e disponendolo su un piatto che posò per terra. C'era una piccola lapide accanto al piatto e varie altre sparse intorno. — Questa è la nostra Grande Dimora, la Grande Dimora della mia famiglia, hai capito? La mia prozia Sissy. Il mio proprozio Abner. la mia bis-bis-bis-bisnonna Sulla. Non offendere
i Grandi nella loro Dimora. Se vuoi delle risposte, mostra un po' di rispetto. — Chiedo scusa. Lei aspettò. — Sinceramente. Lei tirò su col naso. — E attento alla cenere. Non ci sono posacenere in questa Dimora. Che brutte abitudini. Macon lanciò il sigaro nel muschio. — Adesso, procediamo. Non abbiamo molto tempo. Dobbiamo sapere dove si trova Saraf... — Shh! — sibilò Amma. — Non pronunciare il Suo nome. Non stanotte. Noi non dovremmo stare qui. La mezzaluna è per fare la Magia Bianca, la luna piena è per la Magia Nera. Siamo qui fuori nella notte sbagliata. — Non abbiamo scelta. È accaduto un fatto piuttosto sgradevole questa sera, purtroppo. Mia nipote, che è passata alle Tenebre nel Giorno della Reclamazione, si è presentata per la Raccolta. — La figlia di Del? Quel pericolo ambulante? — Ridley. Non invitata, naturalmente. Ha varcato la mia soglia con il ragazzo. Devo sapere se è stata una coincidenza. — Non va bene. Non va bene. Non va per niente bene. — Amma dondolava sui tacchi, furiosa. — Allora? — Non esistono le coincidenze. Lo sai. — Almeno su questo siamo d'accordo. Non ci capivo più niente. Macon Ravenwood non metteva mai piede fuori di casa, e invece eccolo qui, in mezzo alla palude, a discutere con Amma - che mai avrei immaginato lo conoscesse - di me e di Lena e del medaglione. Amma frugò di nuovo nella borsa. — Hai portato il whisky? Zio Abner adora il Wild Turkey.
Macon le mostrò la bottiglia. — Mettila qui — gli disse, indicando un punto del terreno — poi fatti indietro. — Vedo che, dopo tutti questi anni, hai ancora paura di toccarmi. — Io non ho paura di nulla. Stai dalla tua parte. Io non ti chiedo dei tuoi affari e non voglio saperne niente. Macon posò a terra la bottiglia a qualche passo da Amma. Lei la prese, versò il whisky in un bicchierino da liquore e lo bevve. Non avevo mai visto Amma bere qualcosa di più forte del tè zuccherato in tutta la mia vita. Poi versò del whisky sull'erba che copriva la tomba. — Zio Abner, abbiamo bisogno di una tua intercessione. Io chiamo il tuo spirito in questo luogo. Macon tossì. — Stai mettendo a dura prova la mia pazienza, Melchizedek. — Amma chiuse gli occhi e aprì le braccia verso il cielo, con la testa rovesciata indietro, come se parlasse con la luna. Poi si chinò e rovesciò il sacchettino che aveva preso dalla borsa. Il contenuto cadde sulla tomba. Minuscole ossa di pollo. Speravo che non fossero quelle del pollo fritto che avevo messo in pancia la sera prima. Ma temevo di sì. — Cosa dicono? — chiese Macon. Lei passò le dita sugli ossicini, sparpagliandoli tra l'erba. — Non mi stanno dando nessuna risposta. L'impeccabile compostezza di Macon cominciò a incrinarsi. — Non abbiamo tempo da perdere! Che razza di Veggente sei se non riesci a vedere niente? Ci restano meno di cinque mesi prima che compia sedici anni. E se passerà alle Tenebre, saremo tutti condannati, Mortali e Maghi. Abbiamo una responsabilità, una responsabilità che ci siamo assunti
volontariamente, tanto tempo fa. Tu nei confronti dei tuoi Mortali, io nei confronti dei miei Maghi. — Non c'è alcun bisogno che tu mi ricordi le mie responsabilità. E tieni bassa la voce, mi hai sentito? Non vorrei mai che qualcuno dei miei clienti venisse qui e ci vedesse insieme. Cosa potrebbero pensare? Un membro virtuoso della comunità come me? Non immischiarti nei miei affari, Melchizedek. — Se non scopriamo dov'è Saraf... dov'è Lei... e cos'ha in mente di fare, avremo problemi molto più grossi del fallimento dei tuoi affari, Amarie. — E una Maga delle Tenebre. Non si sa mai dove tira il vento, con lei. È come cercare di prevedere dove colpirà un tornado. — In ogni caso, io devo sapere se cercherà di mettersi in contatto con Lena. — Non se. Ma quando. — Amma chiuse di nuovo gli occhi, toccando l'amuleto che portava al collo e non toglieva mai. Era un disco con un'incisione simile a un cuore con una specie di croce che spuntava dall'alto. L'immagine era consunta dalle migliaia di volte che Amma l'aveva sfregata, come stava facendo in quel momento. Sussurrava una specie di litania in una lingua che non conoscevo ma che avevo già sentito da qualche parte. Macon camminava avanti e indietro, impaziente. Nascosto tra le erbacce, cambiai posizione, cercando di non far rumore. — Non riesco a leggere niente, stanotte. È torbido. Credo che zio Abner sia di cattivo umore. Sono sicura che è per qualcosa che hai detto tu. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso, perché il viso di Macon cambiò, la pelle livida e luminosa nell'ombra. Quando avanzò, gli spigoli del suo volto diventarono
spaventosi alla luce della luna. — Adesso basta con questi giochetti. Una Maga delle Tenebre è entrata in casa mia, stasera; questo è di per sé impossibile. È arrivata con il tuo ragazzo, Ethan, il che può significare solo una cosa. Lui ha del Potere e tu me l'hai sempre nascosto. — Assurdo. Quel ragazzo non può avere più Potere di quanto io abbia la coda. — Ti sbagli, Amarie. Chiedilo ai Grandi. Consulta i tuoi ossi. Non c'è altra spiegazione. Dev'essere stato Ethan. Ravenwood è protetta. Nessun Mago delle Tenebre potrebbe mai aggirare quel tipo di protezione, non senza una qualche potente forma di aiuto. — Hai perso la ragione. Lui non ha nessun tipo di Potere. L'ho allevato io, quel ragazzo. Non credi che me ne sarei accorta? — Stavolta ti sbagli. Gli sei troppo attaccata e questo offusca la tua visione. Ma adesso c'è troppo in ballo per potersi permettere di sbagliare. Noi due abbiamo entrambi i nostri talenti. Io ti avverto: in quel ragazzo c'è più di quanto pensassimo. — Chiederò ai Grandi. Se c'è qualcosa da sapere, loro faranno in modo che io lo sappia. Non dimenticare, Melchizedek, che dobbiamo affrontare sia i vivi che i morti, e non sarà compito facile. — Amma frugò di nuovo nella borsetta e tirò fuori una fila di minuscole perline infilate in un cordoncino sporco. — Ossa di tomba. Prendilo. I Grandi vogliono che lo abbia tu. Protegge gli spiriti dagli spiriti e i morti dai morti. Non serve a nulla a noi Mortali. Dallo a tua nipote, Macon. Male non le farà e potrebbe tenere a bada un Mago delle Tenebre. Macon prese il cordoncino, tenendolo tra due dita con circospezione, poi lo lasciò cadere nel suo fazzoletto, come se
dovesse mettere in tasca un verme particolarmente schifoso. — Obbligato. Amma fece un colpetto di tosse. — Per favore. Di' a loro che gli sono obbligato. Molto. — Guardò verso la luna, quasi volesse controllare l'ora. Poi si voltò e scomparve. Si dissolse nella foschia della palude come se la brezza se lo fosse portato via.
10-10 Il maglione rosso Ero riuscito a rimettermi a letto appena prima che il sole sorgesse e adesso ero stanco, stanco fin dentro le ossa, come avrebbe detto Amma. Stavo aspettando Link all'angolo. Pur essendo una giornata di sole, io avevo la mia personale nuvola nera. E morivo di fame. Non me l'ero sentita di affrontare Amma in cucina. Le sarebbe bastata un'occhiata e mi avrebbe letto in faccia tutto quello che avevo visto la notte prima e tutto quello che provavo. Non potevo correre quel rischio. Non sapevo cosa pensare. Amma, di cui mi fidavo più di ogni altro al mondo, come mi fidavo dei miei genitori, forse ancora di più... Amma mi nascondeva delle cose. Conosceva Macon ed entrambi volevano tenere separati me e Lena. Il tutto aveva a che fare con il medaglione e con il compleanno di Lena. E con un pericolo. Non riuscivo a mettere insieme i pezzi, non da solo. Dovevo parlare con Lena. Non riuscivo a pensare ad altro. Così, quando da dietro l'angolo spuntò il carro funebre invece del Catorcio, non avrei dovuto sorprendermi più di tanto. — Immagino che tu abbia sentito. — Scivolai sul sedile accanto al suo, mollando lo zaino sul tappetino.
— Sentito cosa? — Lei sorrise, quasi timidamente, spingendo verso di me un sacchetto. — Che ti piacciono le ciambelle? Si sentiva il tuo stomaco brontolare da Ravenwood. Ci guardammo, un po' a disagio. Lena abbassò gli occhi, imbarazzata, e si tolse un pelucco da un soffice maglione rosso ricamato che le Sorelle avrebbero potuto conservare da qualche parte in soffitta. Conoscendo Lena, di certo non veniva dal centro commerciale di Summerville. Rosso? Da quando in qua si vestiva di rosso? Lei non aveva una nuvola nera sopra la testa: al contrario, ne era appena uscita. Non aveva sentito nessuno dei miei pensieri. Non sapeva nulla di Amma e di Macon. Aveva solo voglia di vedermi. Forse qualcosa di quello che avevo detto la sera prima era arrivato a meta. Forse voleva darci una possibilità. Sorrisi, aprendo il sacchetto bianco. — Spero che tu abbia fame. Ho dovuto affrontare il poliziotto ciccione per procurarmele. — Rimise in strada il carro funebre. — E così, ti è venuta voglia di darmi un passaggio fino a scuola? — Era una novità per me. — No. — Lena abbassò il finestrino e la brezza del mattino le arricciò i capelli. Oggi era solo il vento. — Hai qualcosa di meglio in mente? Si illuminò tutta. — E cosa c'è di meglio che passare una giornata come questa alla Jackson? — Era felice. Quando girò il volante, notai la sua mano. Niente inchiostro. Niente numeri. Niente compleanno. Non era preoccupata di niente, non quel giorno. 124. Lo sapevo comunque, come se fosse stato scritto con l'inchiostro simpatico sulla mia mano. Centoventi-quattro giorni prima che succedesse quello che Macon e Amma temevano così tanto, qualsiasi cosa fosse.
Guardai fuori dal finestrino mentre ci immettevamo sulla Route 9, desiderando che Lena restasse così ancora un po'. Chiusi gli occhi, ripercorrendo tutti gli schemi di gioco con la mente. Pick 'n' Roll. L'attacco flex. Il triangolo offensivo. Quando arrivammo a Summerville, sapevo già dove eravamo diretti. C'era solo un altro posto, in quella cittadina, dove i ragazzi come noi andavano, a parte le ultime tre file del cinema. Il carro funebre s'inoltrò sulla sabbia fin sotto l'acquedotto, che si ergeva ai margini di un campo. — Parcheggiamo? Stiamo davvero parcheggiando? All'acquedotto? Adesso? — Link non mi avrebbe mai creduto. Il motore si spense. I finestrini erano abbassati, tutto era tranquillo, la brezza entrava dal suo finestrino e usciva dal mio. Non è quello che si fa da queste parti! Sì, no. Non quelli come noi. Non in un giorno di scuola. Per una volta, non possiamo essere come loro! Dobbiamo sempre per forza essere noi! Mi piace essere noi. Lei si sganciò la cintura, io la mia e mi tirai Lena sulle ginocchia. La sentivo, calda e felice, che si adagiava su di me. Allora è così che si parcheggia, da queste parti! Rise, spostandomi i capelli dagli occhi. — Cos'è? — Le afferrai il braccio destro. Intorno al polso, c'era il braccialetto che Amma aveva dato a Macon la notte prima, alla palude. Mi si strinse lo stomaco in una morsa. Capii che l'umore di Lena sarebbe cambiato presto. Dovevo dirle tutto. — Me l'ha dato mio zio. — Toglitelo. — Rigirai il cordoncino, cercando il nodo.
— Come? — Il suo sorriso svanì. — Che stai dicendo? — Toglitelo. — Perché? — Ritrasse il braccio. — E successo qualcosa, la notte scorsa. — Cosa? — Quando sono tornato a casa, ho seguito Amma fino a Wader's Creek, a casa sua. È sgattaiolata via nel cuore della notte per incontrare qualcuno alla palude. — Chi? — Tuo zio. — Cosa ci facevano alla palude? — Il suo viso era diventato bianco come il gesso. Era chiaro che il "parcheggio" era finito. — Hanno parlato di te, di noi. E del medaglione. Adesso era attentissima. — Cos'hanno detto del medaglione? — È una specie di talismano delle Tenebre, qualsiasi cosa significhi, e tuo zio ha rivelato ad Amma che non l'ho mai seppellito. Erano fuori di testa per questo medaglione. — Come facevano a sapere che è un talismano? Cominciavo a infastidirmi. Sembrava che Lena non riuscisse a mettere a fuoco la cosa giusta. — Perché non chiedi come fanno a conoscersi? Avevi idea che tuo zio conoscesse Amma? — No, ma non conosco tutti quelli che frequenta lui. — Lena, stavano parlando di noi. Di come tenere il medaglione lontano da noi e di come tenerci lontani l'uno dall'altra. Ho avuto la sensazione che pensassero a me come a una specie di minaccia. Come se mi stessi intromettendo in qualcosa. Tuo zio pensa.... — Pensa cosa? — Pensa che io abbia dei poteri.
Lei scoppiò a ridere, cosa che m'infastidì ancora di più. — E perché mai dovrebbe pensare una cosa del genere? — Perché ho portato Ridley a Ravenwood. Dice che per fare una cosa del genere devo avere del potere. Lei aggrottò la fronte. — Ha ragione. — Non era quella la risposta che mi aspettavo. — Stai scherzando, vero? Se io avessi dei poteri, non credi che me ne sarei accorto? — Non lo so. Lei forse non lo sapeva, ma io sì. Mio padre era uno scrittore e mia madre aveva passato le sue giornate a leggere i diari dei generali caduti nella Guerra Civile. Ero quanto di più lontano ci fosse dalla Magia, a meno che far arrabbiare Amma non contasse come un potere. Chiaramente che c'era una falla che aveva permesso a Ridley di entrare. Uno dei cavi del loro magico sistema di sicurezza aveva bruciato un fusibile. Lena probabilmente stava pensando la stessa cosa. — Rilassati. Sono sicura che c'è una spiegazione. Quindi, zio Macon e Amma si conoscono. Adesso lo sappiamo anche noi. — Non sembri molto turbata da questa scoperta. — In che senso? — Ci stanno mentendo. Tutti e due. Si incontrano in segreto, cercando di tenerci separati. Cercano di fare in modo che ci liberiamo del medaglione. — Non gli abbiamo mai chiesto se si conoscevano. — Perché Lena si comportava così? Perché non era preoccupata o arrabbiata o qualcosa? — Perché avremmo dovuto? Non ti pare strano che tuo zio se ne stia nella palude nel cuore della notte con Amma, a parlare con gli spiriti e a leggere gli ossi di pollo? — È strano, sì, ma sono sicura che stanno solo cercando di proteggerci.
— Da cosa? Dalla verità? Stavano parlando anche di qualcos'altro. Stavano cercando di trovare qualcuno, Sara qualcosa. E dicevano che se tu passi alle Tenebre, potrai essere una condanna per tutti noi. — Che stai dicendo? — Non lo so. Perché non lo chiedi a tuo zio? Vediamo se per una volta ti dice la verità. Avevo esagerato. — Mio zio sta rischiando la vita per proteggermi. Mi è sempre stato accanto. Mi ha accolto a casa sua, pur sapendo che nell'arco di pochi mesi potrei trasformarmi in un mostro. — Da cosa, esattamente, ti sta proteggendo? Lo sai? — Da me stessa! — sbottò lei. Era fatta. Aprì la portiera con forza, scese dalle mie ginocchia e uscì nel campo. L'ombra dell'enorme acquedotto ci proteggeva da Summerville, ma la giornata non sembrava più tanto serena. Dove pochi minuti prima c'era un cielo limpido, adesso c'erano strisce di nubi grigie. La tempesta stava arrivando. Lei non voleva parlarne, ma non me ne importava. — Non ha nessuna logica. Perché Macon incontra Amma di nascosto per dirle che abbiamo ancora il medaglione? Perché non vogliono che lo teniamo? E, ancora più importante, perché non vogliono che stiamo insieme? Eravamo solo noi due, a gridare nel campo. La brezza stava montando in un vento vigoroso. I capelli di Lena cominciarono ad agitarsi intorno alla sua faccia. Lei ribatté: — Non lo so. I genitori cercano sempre di tenere divisi i figli adolescenti, è quello che fanno. Se vuoi sapere perché, forse dovresti chiedere ad Amma. È lei che mi odia. Non posso nemmeno venirti a prendere a casa perché hai paura che ci veda insieme. Il nodo che mi si stava formando alla bocca dello stomaco si strinse. Ero arrabbiato con Amma, più di quanto non lo fossi
mai stato in vita mia, ma le volevo ancora bene. Era lei che mi aveva lasciato le lettere della Fata del Dentino sotto il cuscino, che aveva fasciato ogni mio ginocchio sbucciato, che mi aveva tirato migliaia di palle quando mi allenavo per la Little League. E da quando mia madre era morta e mio padre si era defilato, Amma era l'unica che si preoccupasse per me, che si accorgesse se marinavo la scuola o se perdevo una partita. Volevo credere che avesse una valida spiegazione per tutto questo. — Tu non la capisci. Lei pensa di... — Pensa cosa? Di proteggerti? Come mio zio sta cercando di fare con me? Hai preso in considerazione l'idea che forse entrambi stanno cercando di proteggerci dalla stessa cosa? Cioè da me? — Perché arrivi sempre a questa conclusione? Lei si allontanò. Se avesse potuto, sarebbe volata via. — Dove altro vuoi che arrivi? È questo il punto. Loro hanno paura che io faccia del male a te o a qualcun altro. — Ti sbagli. Qui si tratta del medaglione. C'è qualcosa che non vogliono farci sapere. — Frugai nella tasca, cercando la sagoma familiare avvolta nel fazzoletto. Dopo la notte precedente, non l'avrei perso di vista per nessun motivo. Ero sicuro che Amma l'avrebbe cercato. Se l'avesse trovato, noi non l'avremmo mai più rivisto. Lo posai sul cofano dell'auto. — Dobbiamo scoprire cos'è successo dopo. — Adesso? — Perché no? — Non sai nemmeno se funzionerà. Cominciai ad aprire il fazzoletto. — C'è un solo modo per scoprirlo. Le presi la mano, nonostante lei cercasse di divincolarsi. Toccai la superficie liscia del medaglione....
La luce del mattino si fece sempre più intensa, fino a cancellare tutto. Sentii quella forza ormai familiare che già altre volte mi aveva portato indietro di centocinquant'an-ni. Poi uno scossone. Aprii gli occhi. Ma invece del campo fangoso e delle fiamme in lontananza, vidi solo l'ombra dell'acquedotto e il carro funebre. Il medaglione non ci aveva mostrato nulla. — Hai sentito? E iniziato, ma poi si è interrotto. Lei annuì, spingendomi via. — Credo di avere il mal d'auto, o il mal di non so cosa. — Sei tu che lo blocchi? — Che stai dicendo? Io non faccio niente. — Giuri? Non stai usando i tuoi poteri magici? O qualcos'altro? — No, sono troppo presa a respingere il tuo Potere della Stupidità. Ma temo di non essere abbastanza forte. Non aveva senso tirarci dentro la visione e poi buttarci fuori in quel modo. Cosa c'era di diverso? Lena si mise a piegare il fazzoletto intorno al medaglione. Il braccialet-tino sporco che Amma aveva dato a Macon catturò la mia attenzione. — Togliti questa roba. — Agganciai il dito al cordoncino e lo sollevai con tutto il braccio di Lena all'altezza dei suoi occhi. — Ethan, è per proteggermi. L'hai detto anche tu che Amma fa queste cose di continuo. — Non credo proprio. — Che stai dicendo? — Sto dicendo che forse è questa la ragione per cui il medaglione non ha funzionato. — Non funziona sempre, lo sai. — Ma aveva iniziato. E poi qualcosa l'ha fermato. Lei scosse la testa e i capelli selvaggi le carezzarono le spalle. — Lo credi davvero? — Dimostrami che sbaglio. Toglilo.
Lei mi guardò come se fossi pazzo, ma ci stava pensando. Lo sapevo. — Se mi sbaglio, te lo puoi rimettere. Esitò per un secondo, poi mi porse il braccio perché glielo togliessi. Sciolsi il nodo e misi l'amuleto in tasca. Presi il medaglione e Lena posò la mano sulla mia. Lo strinsi tra le dita e precipitammo insieme in un vortice verso il nulla... La pioggia cominciò quasi all'istante. Era forte, scrosciante. Come se il cielo si fosse aperto. Ivy diceva sempre che la pioggia erano le lacrime del Signore. Oggi ci credeva anche Genevieve. Ethan era a un passo da lei, ma le sembrò lontanissimo. Si inginocchiò accanto a lui e gli prese la testa tra le mani, cullandolo dolcemente. Il suo respiro era spezzato. Ma era vivo. — No, no, non anche quel ragazzo. Ti stai portando via troppo. Troppo. Non anche il ragazzo. — La voce di Ivy raggiunse un tono delirante. Si mise a pregare. — Ivy, chiama aiuto. Mi serve dell'acqua, del whisky e qualcosa per togliere la pallottola. Genevieve si strappò un lembo della gonna e l'appallottolò per chiudere il foro nel petto di Ethan. — Io vi amo. E vi avrei sposato. Non m'importava quello che pensava la vostra famiglia — sussurrò lui. — Non ditelo, Ethan Carter Wate. Non dite così, come se foste in punto di morte. Guarirete. Guarirete. — Genevieve ripeteva quelle parole, cercando di convincere anche se stessa. Poi chiuse gli occhi e si concentrò. Fiori in boccio. Il vagito di bimbi appena nati. Il sorgere del sole. Nascita, non morte.
Visualizzò le immagini nella mente, desiderando con tutte le forze che fosse così. Nella sua mente quelle immagini si rincorrevano senza sosta. Nascita, non morte. Ethan tossì, soffocando. Lei aprì gli occhi e i loro sguardi si incrociarono. Per un istante, il tempo parve fermarsi. Poi le palpebre di Ethan si chiusero e la sua testa crollò di lato. Genevieve chiuse di nuovo gli occhi, visualizzando le immagini. Doveva esserci un errore. Ethan non poteva essere morto. Lei aveva raccolto tutto il suo potere. L'aveva fatto un milione di volte, per spostare le cose nella cucina di sua madre, per fare uno scherzo a Ivy, per guarire gli uccellini caduti dal nido. Perché non ora! Ora che era importante! — Ethan, svegliatevi. Vi prego, svegliatevi. Aprii gli occhi. Eravamo in mezzo al campo, esattamente nello stesso punto di prima. Guardai Lena. Aveva gli occhi lucidi, sul punto di traboccare. — Oddio. Mi chinai e sfiorai l'erba: una chiazza rossastra macchiava le foglie e il terreno intorno a noi. — È sangue. — Il suo? — Credo di sì. — Avevi ragione tu. Era il braccialetto che ci impediva di avere la visione. Ma perché zio Macon mi ha detto che serviva a proteggermi? — Forse è vero. Solo che non è quella la sua unica funzione. — Non devi cercare di farmi sentire meglio. — C'è ovviamente qualcosa che non vogliono farci sapere. E questa cosa ha a che fare con il medaglione e con Genevieve. Ci scommetto. Dobbiamo scoprire tutto quello che possiamo su di loro, e dobbiamo farlo prima del tuo compleanno.
— Perché prima del mio compleanno? — Ieri notte, Amma e tuo zio hanno parlato anche di questo. Quello che non vogliono farci sapere, qualsiasi cosa sia, ha a che fare con il tuo compleanno. Lena fece un respiro profondo, come se si sforzasse di non perdere il controllo. — Sanno che entrerò nelle Tenebre. Ecco cos'è. — E questo cosa c'entra con il medaglione? — Non lo so, ma non importa. Niente di tutto questo importa. Tra quattro mesi non sarò più me stessa. L'hai vista, Ridley. È così che diventerò anch'io, o peggio. Se mio zio ha ragione e io sono una Naturale, Ridley al confronto sembrerà una volontaria della Croce Rossa. L'attirai a me, la strinsi tra le braccia come se potessi proteggerla da qualcosa che nessuno di noi due conosceva. — Non puoi arrenderti. Ci deve essere un modo per impedire che accada, se è questa la verità. — Tu non capisci. Succede e basta. — Il tono della sua voce si stava alzando. E il vento cominciava a montare. — Okay, forse hai ragione. Forse succede e basta. Ma noi due troveremo il modo per non farlo succedere a te. I suoi occhi si stavano rabbuiando come il cielo. — Non possiamo, invece, goderci il tempo che ci resta? — Sentii per la prima volta il peso di quelle parole. Il tempo che ci resta. Io non potevo perderla. Non l'avrei persa. Il solo pensiero di non poterla più accarezzare mi faceva impazzire. Più dell'idea di perdere tutti i miei amici. Più dell'idea di essere il ragazzo meno popolare della scuola. Più dell'idea di avere Amma perennemente arrabbiata con me. Perdere lei era la cosa peggiore che potessi immaginare. Era come precipitare nel vuoto, ma questa volta con la certezza di schiantarmi..
Ripensai a Ethan Carter Wate che cadeva al suolo, al sangue rosso nel campo. Il vento cominciò a ululare. Era ora di andare. — Non dire così. Troveremo un modo. Ma anche mentre lo dicevo, non sapevo se io stesso ci credevo.
13-10 Marian la bibliotecaria Erano passati tre giorni e ancora non riuscivo a pensare ad altro. Ethan Carter Wate era stato colpito da un colpo di fucile ed era probabilmente morto. L'avevo visto con i miei occhi. Be', tecnicamente, tutti coloro che erano vissuti ai tempi della Guerra Civile erano morti da un pezzo. Ma, da Ethan Wate a Ethan Wate, avevo qualche difficoltà ad accettare la morte di questo particolare soldato confederato. O meglio, disertore confederato. Il mio pro-pro-pro-pro-prozio. Ci pensavo durante l'ora di Algebra II, mentre Savannah arrancava sulla sua equazione davanti a tutta la classe, e il professor Bates era troppo occupato a leggere l'ultimo numero di Armi e munizioni per accorgersene. Ci pensavo durante l'assemblea dei Futuri Agronomi d'America, quando non ero riuscito a trovare Lena e avevo finito per sedermi con la banda. Link era con i ragazzi della squadra qualche fila più indietro, ma me ne accorsi solo dopo che Shawn ed Emory cominciarono a fare i versi degli animali. Dopo un po', non li sentivo più. La mia mente continuava a tornare a Ethan Carter Wate anche mentre tornavo a casa.
Non era il fatto che fosse un Confederato. Chiunque nella contea di Gatlin era imparentato con qualcuno che aveva combattuto dalla parte sbagliata nella Guerra tra gli Stati. A questo, ormai, eravamo abituati. Era come essere nati in Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale, essere giapponesi dopo Pearl Harbour, o americani dopo Hiroshima. La Storia certe volte e bastarda. Non si possono cambiare le proprie origini. Tuttavia, nessuno è costretto a restare lì dove è nato. Nessuno è costretto a restare inchiodato al passato, come le signore del DAR O della Società Storica di Gatlin, o le Sorelle. E nessuno è costretto ad accettare che le cose debbano essere così come sono, come Lena. Ethan Carter Wate non l'aveva fatto. E nemmeno io l'avrei fatto. Una cosa era certa, ora che sapevamo dell'altro Ethan Wate dovevamo scoprire di più su Genevieve. Forse c'era una ragione, se quel giorno avevamo trovato il medaglione. Forse c'era una ragione se io e Lena c'eravamo già incontrati in un sogno, anche se era più un incubo che un sogno. Normalmente, avrei chiesto consiglio a mia madre, quando le cose erano normali. Ma lei non c'era più, mio padre era troppo fuori per essere di qualche aiuto e Amma non ci avrebbe mai dato una mano, se c'entrava il medaglione. Lena era ancora di cattivo umore per via di Macon: la pioggia là fuori era un segno inequivocabile. E io dovevo fare i compiti, il che significava che mi servivano almeno due litri di latte al cioccolato e tutti i biscotti che riuscivo a portare nell'altra mano. Uscii dalla cucina con il mio carico di provviste e mi fermai davanti allo studio. Mio padre era di sopra a fare la doccia, che era praticamente l'unico motivo per cui usciva di là, così la porta doveva essere chiusa a chiave. Lo era sempre, dall'incidente del manoscritto.
Puntai lo sguardo sulla maniglia, poi sbirciai nel corridoio in entrambe le direzioni. Ammonticchiai i biscotti in equilibrio precario sul cartone del latte e allungai la mano. Prima che arrivassi a toccare la maniglia, sentii il click della serratura. La serratura si liberò da sola, come se qualcuno la stesse aprendo dall'interno per me. I biscotti caddero per terra. Solo un mese prima non ci avrei mai creduto, ma adesso era diverso. Questa era Gatlin. Non la Gatlin che credevo di conoscere ma un'altra, che evidentemente era rimasta nascosta in piena vista per tutto quel tempo. Un posto dove la ragazza che mi piaceva apparteneva a un'antica stirpe di Maghi, dove la mia governante era una Veggente che leggeva gli ossi di pollo nella palude e chiamava gli spiriti dei suoi antenati morti, dove persino mio padre si comportava come un vampiro. Per questa Gatlin, nulla sembrava troppo incredibile. È buffo come si possa vivere tutta la vita in un posto senza vederlo veramente. Spinsi la porta, lento, incerto. Vidi solo uno scorcio dello studio, un angolo della libreria a muro, colma dei libri di mia madre e dei reperti della Guerra Civile che raccoglieva ovunque andasse. Feci un gran respiro e inalai l'aria dello studio. Per forza mio padre non usciva mai di lì. Potevo quasi vederla, mia madre, che leggeva acciambellata sulla sua vecchia poltrona accanto alla finestra. O che scriveva al computer, dietro la porta. Se aprivo un altro po', chissà, forse l'avrei trovata lì. Ma non sentivo i tasti battere e sapevo che lei non c'era, che non ci sarebbe mai più stata. I libri che mi servivano erano su quegli scaffali. Se c'era qualcuno che ne sapeva più delle Sorelle sulla storia di Gatlin, era mia madre. Feci un passo avanti, spingendo la porta di qualche centimetro.
— Per le Schiere del Cielo e della Terra, Ethan Wate! Se hai in mente di mettere piede in quella stanza, tuo padre ti spedisce dritto nella settimana prossima con un manrovescio. Per poco non feci cadere anche il latte. Anima. — Non ho fatto niente. La porta si è aperta. — Vergognati. Nessun fantasma di Gatlin oserebbe mai mettere piede nello studio dei tuoi genitori. Tranne tua madre. — Mi guardò con aria di sfida. C'era qualcosa nei suoi occhi che mi fece chiedere se non stesse cercando di dirmi qualcosa, forse persino la verità. Forse era stata davvero mia madre ad aprire quella porta. Perché una cosa era chiara. Qualcuno - o qualcosa - voleva che io entrassi in quello studio, tanto quanto qualcun altro voleva che ne restassi fuori. Amma sbatté la porta, pescò una chiave dalla tasca e la infilò nella toppa. Sentii lo scatto della serratura e capii che la mia finestra di opportunità si era definitivamente chiusa, con la stessa rapidità con cui si era aperta. Amma incrociò le braccia. — Domani c'è scuola. Non hai niente da studiare? La guardai, infastidito. — Devi tornare in biblioteca? Tu e Link avete finito quella ricerca? Fu allora che mi venne l'idea. — Giusto. La biblioteca. A dire la verità, era proprio lì che stavo andando. — La baciai sulla guancia e corsi via. — Saluta Marian da parte mia e non fare tardi per la cena. Buona vecchia Amma. Aveva sempre tutte le risposte, che lo sapesse o no, che volesse darmele o meno. * * *
Lena mi stava aspettando nel parcheggio della biblioteca pubblica di Gatlin. Il cemento spaccato era ancora bagnato e lucido di pioggia. Anche se la biblioteca restava aperta per altre due ore, il carro funebre era l'unica macchina nel parcheggio, a parte un vecchio furgone turchese che conoscevo bene. Diciamo che il nostro non era un paese di grandi lettori. Non c'era molto che c'interessasse sapere su altre città che non fossero la nostra e, se un nonno o un bisnonno non era in grado di darti l'informazione che cercavi, era più che probabile che non fosse importante. Lena era accovacciata con la schiena contro il fianco dell'edificio, immersa nella scrittura. Indossava un paio di jeans stracciati, enormi stivali da pioggia e una maglietta nera morbida. Minuscole treccine le incorniciavano il viso, perse tra i riccioli. Sembrava quasi una ragazza normale. Non ero sicuro che mi piacesse l'idea che fosse una ragazza normale. Invece, ero sicuro di volerla baciare ancora, ma avrei dovuto aspettare. Se Marian aveva le risposte che cercavamo, avrei avuto molte più possibilità di baciarla. Cominciai a ripassare gli schemi di gioco. — Credi davvero che ci sia qualcosa qui che può esserci utile? — Lena alzò gli occhi dal suo notes per guardarmi. L'aiutai ad alzarsi. — Non qualcosa. Qualcuno. La biblioteca era bellissima. Ci avevo trascorso così tanto tempo, da bambino, che avevo ereditato da mia madre l'idea che una biblioteca fosse una sorta di tempio. Questa in particolare era uno dei pochi edifici sopravvissuti alla Marcia di Sherman e al Grande Incendio. La biblioteca e la Società Storica erano i due edifici più vecchi di Gatlin, a parte Ravenwood. Era un venerando palazzo vittoriano a due piani, vecchio e segnato dalle intemperie, con il colore scrostato e i
rampicanti addormentati da decenni intorno alle porte e alle finestre. Sapeva di legno antico e creosoto, di sovraccoperte di plastica e di carta vecchia. Carta vecchia, che mia mamma credeva fosse l'odore del tempo. — Non capisco. Perché la biblioteca? — Non è tanto la biblioteca. È Marian Ashcroft. — La bibliotecaria? L'amica di zio Macon? — Marian era la migliore amica di mia madre e la sua partner nelle ricerche. È l'unica persona che ne sa della contea quanto ne sapesse mia madre. E adesso è lei la persona più intelligente di tutta Gatlin. Lena mi guardò, scettica. — Più intelligente di zio Macon? — Okay. È la Mortale più intelligente di tutta Gatlin. Non avevo mai capito cosa ci facesse una come Marian in un paesino come Gatlin. «Solo perché vivi in mezzo al niente» mi diceva sempre, davanti a un panino al tonno, quando c'era ancora mia madre «non significa che tu non debba sapere dove vivi.» Non avevo idea di cosa volesse dire. Non avevo idea di cosa stesse parlando almeno la metà delle volte. È probabilmente per questo che Marian andava così d'accordo con mia madre; l'altra metà delle volte non capivo quello che diceva lei. Marian era la mente più vivace del paese, o forse era solo una questione di personalità. Quando entrammo nella biblioteca vuota, la trovammo che si aggirava tra gli scaffali senza scarpe, gemendo tra sé come una pazza di una tragedia greca, ruolo che tendeva spesso a impersonare. Essendo la biblioteca una sorta di città fantasma, a parte la sporadica visita di qualche signora del DARche veniva a verificare una genealogia dubbia, Marian aveva campo libero. «Lo sai?» Seguii la voce nel labirinto degli scaffali. «Lo udisti?»
Girai un angolo ed entrai nel reparto Fiction. Ed eccola, ondeggiante, con una pila di libri tra le braccia e lo sguardo perso che sembrava non vedermi. «O ignori tu...» Lena mi si avvicinò. «... che offese...» Marian spostò lo sguardo su Lena, al di sopra degli occhiali da lettura dalla montatura rossa e squadrata. «... come ai nemici sugli amici incombono?» Marian era presente, ma lontanissima. Conoscevo bene quello sguardo e sapevo che, anche se aveva una citazione per ogni occasione, non le sceglieva mai alla leggera. Quali offese incombevano su di me o sui miei amici, oltre che sui miei nemici? Se per amici s'intendeva Lena, non ero sicuro di volerlo sapere. Leggevo molto, sì, ma non le tragedie greche. — Edipo? Abbracciai Marian, compresa la pila di libri. Lei mi strinse forte e una voluminosa biografia del generale Sherman piantata nelle costole mi mozzò il fiato. — Antigone — suggerì Lena alle mie spalle. Non tirartela. — Bravissima. — Marian le sorrise. Io le feci una smorfia e lei alzò le spalle. — Insegnanti privati. — Fa sempre una certa impressione incontrare qualcuno della vostra età che conosce Antigone. — Mi ricordo solo che voleva seppellire i suoi morti. Marian sorrise a entrambi. Piazzò metà della sua pila di libri tra le mie braccia e l'altra metà tra quelle di Lena. Quando sorrideva, sembrava uscita dalla copertina di una rivista. Aveva i denti bianchissimi e la pelle nera e vellutata; pareva più una modella che una bibliotecaria. La sua bellezza
esotica era frutto di una lunga serie di incroci fra razze diverse. Era come guardare la Storia del Sud: uomini venuti dalle Indie Occidentali, dalle Sugar Islands, dall'Inghilterra, dalla Scozia, persino dall'America, incrociati così fittamente tra loro che ci sarebbe voluta una foresta di alberi genealogici per rintracciarne le origini. Anche se eravamo a sud di Qualche Parte e a nord di Nessuna Parte, come avrebbe detto Amma, Marian Ashcroft era vestita come una professoressa universitaria. Tutti i suoi abiti, e i suoi gioielli, e i suoi sgargianti foulard firmati sembravano venire da lontano e davano risalto al suo taglio di capelli corto e involontariamente trendy. Marian era lontana quanto Lena dallo standard femminile della contea di Gatlin e tuttavia viveva qui da anni, come mia madre. Ora più di lei. — Mi sei mancato tanto, Ethan! E tu... tu devi essere la nipote di Macon, Lena. La famigerata ragazza nuova. La ragazza della finestra. Ah, sì! Ho sentito parlare di te. Le signore parlano. Seguimmo Marian al bancone dell'ingresso e scaricammo i libri sul carrello dei volumi da riporre. — Non creda a tutto quello che sente, dottoressa Ashcroft. — Chiamami pure Marian. — Per poco non mi cadde un lihro. Esclusa la mia famiglia, Marian era "la dottoressa Ashcroft" per chiunque altro, qui. E ora stava offrendo a Lena accesso immediato alla sua cerchia più ristretta, e non capivo perché. — Marian. — Lena le sorrise. A parte me e Link, questo era per Lena il primo assaggio della famosa ospitalità del Sud e veniva da un'altra forestiera. — Voglio solo sapere questo: quando hai rotto quella finestra con il manico della tua scopa, hai buttato fuori tutta la
generazione futura del DAR? — Marian cominciò ad abbassare le persiane, facendoci cenno di darle una mano. — Certo che no. Se l'avessi fatto, come avrei ottenuto così tanta pubblicità gratuita? Marian rise, rovesciando indietro la testa, e mise un braccio sulle spalle di Lena. — Bel senso dell'umorismo, Lena. È proprio quello che ti ci vuole per sopravvivere in questo paese. Lena sospirò. — Ho sentito un sacco di battute. Quasi tutte su di me. — Ah, ma... «I monumenti all'intelligenza sopravvivono ai monumenti del potere.» — Shakespeare? — Mi sentivo un po' trascurato. — Quasi. Sir Francis Bacon. Però, se sei uno di coloro che sostengono che sia stato lui a scrivere le opere di Shakespeare, allora immagino che tu abbia ragione. — Mi arrendo. Marian mi arruffò i capelli. — Sei cresciuto di mezzo metro dall'ultima volta che ti ho visto, EW. Cosa ti dà da mangiare, Amma? Torta a colazione, a pranzo e a cena? Mi sembra di non vederti da cent'anni. La guardai. — Lo so. Mi dispiace. È solo che non ero molto in vena di... leggere. Marian sapeva che stavo mentendo, ma capiva cosa volessi dire in realtà. Andò alla porta e girò il cartello da APERTO a CHIUSO. Chiuse a chiave con un rumore secco. Mi ricordò dello studio. — Credevo che la biblioteca fosse aperta fino alle nove... — Se non era così, avrei perso una scusa preziosa per starmene con Lena. — Non oggi. La capo bibliotecaria ha appena deliberato che è la Vacanza della Biblioteca di Gatlin. Lo decide in modo
alquanto spontaneo... — ci fece l'occhiolino — per essere una bibliotecaria. — Grazie, zia Marian. — So che non saresti qui se non avessi una buona ragione. E ho il sospetto che la nipote di Macon Ravenwood, se non altro, lo sia. Allora, perché non ce ne andiamo nella stanza sul retro, ci prepariamo una tazza di tè e cerchiamo di ragionare? — Marian amava giocare con le parole. — Più che una ragione, è una domanda. — Con la mano nella tasca, strinsi il medaglione avvolto nel fazzoletto di Sulla la Profetessa. — «Interrogati su ogni cosa. Impara qualcosa. Nulla rispondi.» — Omero? — Euripide. Sarà meglio che inizi a tirare fuori qualche risposta giusta, EW, O sarò costretta a partecipare a una di quelle riunioni dell'amministrazione scolastica. — Ma se hai appena detto di non rispondere nulla! Marian aprì una porta su cui c'era scritto: ARCHIVIO PRIVATO. — Ho detto questo? Come Amma, Marian sembrava avere sempre la risposta pronta. Come ogni brava bibliotecaria. Come mia madre. * * * Non ero mai stato nell'archivio privato di Marian, la stanza sul retro. Ora che ci penso, non conoscevo nessuno che ci avesse mai messo piede, tranne mia madre. Era lo spazio che condividevano, il luogo in cui scrivevano e facevano le loro ricerche e chissà che altro. Nemmeno a mio padre era permesso entrare lì dentro. Una volta ricordo che Marian lo bloccò sulla
soglia, mentre mia madre era dentro, impegnata a esaminare un documento storico. — Privato vuol dire privato. — È una biblioteca, Marian. Le biblioteche sono state create per democratizzare la conoscenza e renderla pubblica. — Da queste parti, le biblioteche sono state create perché gli Alcolisti Anonimi avessero un posto dove incontrarsi, dopo che i battisti li avevano cacciati. — Marian, non essere ridicola. È solo un archivio. — Prova a non vedermi come una bibliotecaria. Immaginami come una scienziata pazza. E questo è il mio laboratorio segreto. — Tu sei pazza. State solo studiando delle vecchie carte che si sbriciolano a guardarle. — «Se riveli al vento i tuoi segreti, non devi poi rimproverare al vento di rivelarli agli alberi.» — Khalil Gibran — replicò mio padre a colpo sicuro. — «Tre sanno mantenere un segreto, se due di loro son morti.» — Benjamin Franklin. Alla fine anche mio padre si era arreso e non aveva più insistito per entrare nel loro archivio. Eravamo tornati a casa a mangiarci un gelato al cioccolato. Da quella volta avevo sempre pensato a mia madre e a Marian come a un'inarrestabile forza della natura. Due scienziate pazze, come aveva detto Marian, incatenate l'una all'altra nel loro laboratorio. Avevano macinato un libro dopo l'altro e una volta erano persino state selezionate per il premio Voce del Sud, l'equivalente di un premio Pulitzer per gli Stati del Sud. Mio padre era tremendamente fiero di mia madre, anzi di entrambe, anche se ci tenevano in disparte. "Una mente vivace." Così mio padre descriveva mia madre, soprattutto quando era immersa in uno dei suoi progetti. Erano i periodi in cui lei era più assente con
la mente e tuttavia erano quelli in cui lui sembrava amarla di più. E adesso eccomi qui, nell'archivio privato, senza mia madre e senza mio padre, senza nemmeno una coppetta di gelato al cioccolato in vista. Le cose cambiavano piuttosto in fretta, qui, per un paese che non cambiava mai. La stanza era scura e con le pareti rivestite di legno, la stanza più appartata, senza finestre e senz'aria del terzo edificio più vecchio di Gatlin. Quattro lunghi tavoli di quercia erano allineati in file parallele al centro dell'archivio. Ogni centimetro di ogni parete era stipato di libri. Artiglieria e munizioni della Guerra Civile. Re Cotone: l'oro bianco del Sud. Gli armadietti di metallo custodivano i manoscritti, mentre degli schedari che scoppiavano di carte erano allineati in una stanzetta sul retro. Marian armeggiò con la teiera e il fornello. Lena si avvicinò a una parete su cui erano appese delle antiche mappe della contea di Gatlin, incartapecorite dietro il vetro, vecchie almeno quanto le Sorelle. — Guarda! Ravenwood — Lena spostava il dito sul vetro. — E qui c'è Greenbrier. La linea di confine si vede molto meglio su questa mappa. Raggiunsi l'angolo più lontano della stanza, dove c'era un tavolo isolato, coperto da un sottile strato di polvere e da qualche ragnatela. Un vecchio atto istitutivo della Società Storica se ne stava aperto, con dei nomi cerchiati e una matita infilata nel dorso. Una mappa disegnata su carta da ricalco, sovrapposta a una mappa moderna di Gatlin, dava l'impressione che qualcuno cercasse di far riemergere idealmente l'antico villaggio dai contorni di quello nuovo. E in cima a tutto questo c'era una foto del dipinto nell'ingresso di Macon Ravenwood. La donna con il medaglione.
Genevieve. Quella dev'essere Genevieve. Dobbiamo dirlo a Marian, Lena. Dobbiamo chiedere. Non possiamo. Non possiamo fidarci di nessuno. Non sappiamo nemmeno perché abbiamo le visioni. Lena. Fidati di me. — Cos'è tutta questa roba, zia Marian? Lei mi guardò e il suo viso si rannuvolò per un istante. — È il nostro ultimo progetto di ricerca. Mio e di tua madre. Perché mia madre aveva una foto del dipinto di casa Ravenwood! Non lo so. Lena si avvicinò al tavolo e prese la foto. — Marian, cosa ci facevate con questo dipinto? Lei ci porse una tazza di tè con il suo piattino. Ecco un'altra cosa tipica di Gatlin. Si usava sempre un piattino, in qualsiasi situazione, a prescindere. — Tu dovresti conoscere quel dipinto, Lena. Appartiene a tuo zio Macon. Anzi, è stato proprio lui a mandarmi quella foto. — Ma chi è questa donna? — Genevieve Duchannes, ma immagino che tu lo sappia già. — In realtà non lo sapevo. — Tuo zio non ti ha insegnato niente del tuo albero genealogico? — Non parliamo molto dei miei parenti defunti. Nessuno vuole mai nominare i miei genitori. Marian si avvicinò a uno dei cassetti dell'archivio e si mise a cercare qualcosa. — Genevieve Duchannes era la tua bis-bisbis-bisnonna. Era un personaggio davvero interessante. Io e Lila stavamo ricostruendo tutto l'albero genealogico dei Duchannes, per un progetto in cui ci stava aiutando anche tuo
zio Macon, fino al... — Abbassò lo sguardo. — A qualche mese fa. Mia madre conosceva Macon Ravenwood? Mi pareva che lui avesse detto di conoscerla solo attraverso le sue opere. — Sarebbe importante per te conoscere la tua genealogia. — Marian sfogliò alcune antiche pagine ingiallite. Ed ecco l'albero genealogico di Lena e quello di Macon. — Che strano — le dissi. — Tutte le donne della tua famiglia hanno il cognome Duchannes, anche quelle sposate. — È una caratteristica della mia famiglia. Le donne mantengono il proprio cognome anche da sposate. È sempre stato così. Marian voltò la pagina e guardò Lena. — Succede spesso, per le stirpi in cui le donne sono considerate particolarmente potenti. Volevo cambiare argomento. Non intendevo scavare troppo in profondità, con Marian, tra le donne potenti della famiglia di Lena, soprattutto per il fatto che Lena era sicuramente una di loro. — Perché tu e la mamma stavate ricostruendo l'albero dei Duchannes? Cosa cercavate? Marian mescolò il suo tè. — Zucchero? Distolse lo sguardo mentre mi versavo lo zucchero nella tazza. — In realtà eravamo interessate principalmente a questo medaglione. — Ci indicò un'altra foto di Genevieve, nella quale aveva il cammeo al collo. — Una storia particolare. Una storia semplice, in realtà. Una storia d'amore. — Sorrise con tristezza. — Tua madre era una grande romantica, Ethan. Fissai Lena. Sapevamo entrambi cosa stava per dire Marian.
— C'è un dettaglio piuttosto interessante per voi due. Questa storia d'amore riguarda un Wate e una Duchannes. Un soldato confederato e una bella fanciulla di Greenbrier. Le visioni del medaglione. L'incendio di Greenbrier. L'ultimo libro di mia madre riguardava proprio quello che io e Lena avevamo visto succedere a Genevieve e a Ethan, la bisbis-bis-bisnonna di Lena e mio pro-pro-pro-pro-prozio. Mia madre stava lavorando a quel libro quando era morta. Mi girava la testa. Gatlin era così. Nulla succedeva mai una volta sola. Lena era pallida. Si chinò verso di me e mi sfiorò la mano, appoggiata al tavolo polveroso. Sentii all'istante il pizzicore familiare dell'elettricità. — Ecco. Questa è la lettera che ci ha fatto iniziare le nostre ricerche. — Marian appoggiò due fogli ingialliti sul tavolo vicino. Segretamente, fui contento che non toccasse il tavolo dove mia madre aveva lavorato. Mi pareva un segno commemorativo più degno di lei dei garofani che tutti avevano deposto sulla sua bara. Anche le donne del dar erano al funerale e deponevano i loro garofani come delle invasate. Mia madre non l'avrebbe sopportato. Tutto il paese al completo, i battisti, i metodisti, anche i pentecostali, tutti si raccoglievano per una morte, una nascita o un matrimonio. — Potete leggerla, ma non toccatela. È una delle cose più antiche di Gatlin. Lena si chinò sulla lettera, tenendosi indietro i capelli per evitare che cadessero sui fogli. — Sono disperatamente innamorati, ma sono troppo diversi. — Lesse attentamente la lettera. — Di un'altra specie, dice lui. La famiglia di lei sta cercando di tenerli divisi e lui è andato ad arruolarsi, pur non credendo nella guerra, nella speranza che combattere per il Sud potesse conquistargli l'approvazione della famiglia di lei.
Marian chiuse gli occhi, recitando a memoria: — Potrei anche essere una scimmia, per quel che valgo a Greenbrier. Pur essendo un semplice Mortale, il mio cuore si spezza di pena al pensiero di passare il resto della mia vita senza di voi, Genevieve. Era come una poesia, come qualcosa che poteva uscire dalla penna di Lena. Marian riaprì gli occhi. — Era come Atlante che porta il peso del mondo sulle spalle. — È tutto così triste — commentò Lena, guardandomi. — Erano innamorati. C'era una guerra. Mi dispiace dirve-lo ma finisce male, o così sembra. — Marian finì il suo tè. — E il medaglione? — Le indicai la foto, quasi timoroso di chiedere. — Sembra che fosse un dono di Ethan a Genevieve, come pegno d'amore per un fidanzamento segreto. Non sapremo mai che cosa ne è stato. Nessuno l'ha più visto, dopo la morte di Ethan. Il padre di Genevieve la costrinse a sposare un altro ma, dice la leggenda, lei tenne sempre con sé il medaglione, che venne sepolto con lei. Si diceva che fosse un talismano potente, la promessa infranta di un cuore infranto. Rabbrividii. Il potente talismano non era sepolto con Genevieve,- era nella mia tasca e, secondo Macon e Amma, era un talismano delle Tenebre. Lo sentivo pulsare, come se fosse stato a cuocere tra i carboni ardenti. Ethan, non farlo. Dobbiamo. Lei ci può aiutare. Mia madre ci avrebbe aiutati. Ficcai una mano in tasca, scostai il fazzoletto per toccare il vecchio cammeo e presi Marian per mano, sperando che questa volta il medaglione funzionasse. La sua tazza finì in frantumi per terra. La stanza cominciò a girare. — Ethan! — gridò Marian.
Lena le prese l'altra mano. La luce della stanza si stava dissolvendo nella notte. — Non abbia paura. Saremo sempre con lei. — La voce di Lena era lontanissima. Udii lo scoppio di spari lontani. In pochi momenti la biblioteca si riempì di pioggia... La pioggia scrosciava su di loro. I venti si gonfiavano e le fiamme cominciavano a spegnersi, anche se ormai era troppo tardi. Genevieve fissava ciò che era rimasto della grande casa. Aveva perso tutto, quel giorno. La mamma. Evangeline. Non poteva perdere anche Ethan. Ivy corse da lei nel fango, portando nella gonna le cose che Genevieve aveva chiesto. — Sono arrivata tardi, Signore del Cielo, sono arrivata tardi! — gridò Ivy. Si guardò intorno nervosamente. — Venite, signorina Genevieve, non c'è altro che possiamo fare qui. Ma Ivy si sbagliava. Una cosa c'era. — Non è troppo tardi. Non è troppo tardi. — Genevieve continuava a ripetere queste parole. — Dite cose senza senso, bambina. Lei guardò Ivy, disperata. — Mi serve il Libro. Ivy arretrò, scuotendo la testa. — No. Voi non potete usare il Libro. Non sapete quello che state facendo. Genevieve prese la vecchia per le spalle. — Ivy, è l'unico modo. Tu devi darmelo. — Voi non sapete cosa mi state chiedendo. Non sapete niente di quel Libro... — Dammelo, o lo troverò da sola. Spire di fumo nero si levavano alle loro spalle, il fuoco ancora sfrigolava, divorando ciò che restava della casa.
Ivy cedette, si raccolse le gonne sbrindellate e guidò Genevieve oltre quello che era stato il giardino dei limoni di sua madre. La ragazza non aveva mai oltrepassato quel punto. Non c'era niente là fuori, tranne i campi di cotone. Così le avevano sempre detto. E lei non aveva mai avuto alcun motivo per addentrarsi in quei campi, tranne le rare volte in cui lei ed Evangeline giocavano a nascondino. Ma il passo di Ivy era determinato. Sapeva esattamente dove andare. In lontananza, Genevieve sentiva ancora gli spari e le grida strazianti dei suoi vicini che guardavano bruciare le loro case. Ivy si fermò vicino a un groviglio di viti selvatiche, rosmarino e gelsomino che si arrampicavano su un vecchio muro di pietra. C'era un piccolo arco nascosto tra il fogliame. La donna si chinò e passò sotto l'arco. Genevieve la seguì. Capì che l'arco si apriva in un muro, perché di là c'era una stanza chiusa. Un cerchio perfetto, le pareti nascoste da anni di viti selvatiche. — Che posto è questo! — Un posto che vostra madre non voleva che voi scopriste, né che sapeste cosa fosse. Più lontano, Genevieve vedeva piccole pietre ergersi tra l'erba alta. Ma certo. Il cimitero di famiglia. Genevieve ricordava di esserci stata una volta, quando era ancora molto piccola, per la morte di sua nonna. Ricordava che il funerale era stato di notte e che sua madre era in piedi nell'erba alta, sotto la luna, e sussurrava parole in una lingua che Genevieve e sua sorella non conoscevano. — Cosa ci facciamo qui! — Avete detto che volete il Libro. Non è così! — È qui!
Ivy si fermò e guardò Genevieve, confusa. — Dove altro dovrebbe essere! Più in là c'era un'altra struttura strangolata dalle viti selvatiche. Una cappella. Ivy si fermò davanti alla porta. — Siete sicura che volete... — Non c'è tempo per questo! — Genevieve allungò la mano per aprire, ma non c'era alcuna maniglia. — Come si fa! La vecchia si alzò in punta di piedi e allungò la mano. Sopra la porta di pietra, illuminata dalla luce lontana degli incendi, Genevieve vide una piccola pietra liscia con incisa una falce di luna. Ivy posò la mano sulla luna e premette. La porta si aprì con lo stridore della pietra che striscia contro la pietra. Ivy cercò qualcosa all'interno della soglia. Una candela. La luce della fiammella illuminò la piccola stanza. Non era molto più larga di un metro. Ma su tutti i lati c'erano vecchi scaffali di legno, su cui si accatastavano bottiglie e fialette riempite di germogli, polveri e liquidi densi. Al centro della stanza c'era un tavolo di pietra sul quale era posata una vecchia cassetta di legno. Una cassetta umile e modesta, il cui unico ornamento era una minuscola falce di luna intagliata sul coperchio. La stessa che era incisa sulla pietra sopra la porta. — Io non lo tocco — disse Ivy sottovoce, come se temesse che la scatola potesse sentirla. — Ivy, è solo un libro. — Niente affatto. Non certo nella vostra famiglia. Genevieve sollevò delicatamente il coperchio. La copertina del Libro era di cuoio nero e screpolato, ormai più grigio che nero. Non c'era alcun titolo, solo una falce di luna incisa a sbalzo sul cuoio. Genevieve sollevò il Libro con un po' di incertezza. Sapeva che Ivy era superstiziosa e lei la prendeva sempre in giro per questo. Ma sapeva anche che Ivy era
saggia. Sapeva leggere i tarocchi e le foglie di tè. La madre di Genevieve consultava Ivy e le sue foglie di tè per qualsiasi cosa: il giorno migliore per seminare le verdure evitando le gelate, le erbe giuste per guarire un raffreddore. Il Libro era caldo. Come se fosse vivo, come se respirasse. — Perché non ha un titolo! — chiese Genevieve. — Solo perché un libro non ha un titolo, non significa che non abbia un nome. Quello che avete tra le mani è il Libro delle Lune. Non c'era altro tempo da perdere. Genevieve ritornò verso le fiamme nella notte. Verso ciò che restava di Greenbrier, verso Ethan. Sfogliò rapidamente le pagine. C'erano centinaia di Incantesimi. Come avrebbe fatto a trovare quello giusto! Poi lo vide. Era in latino, una lingua che lei conosceva bene: sua madre aveva fatto venire un precettore dal Nord perché lei ed Evangeline la imparassero. La più importante delle lingue, per quel che riguardava la sua famiglia. L'Incantesimo Vincolante. Per Vincolare la Morte alla Vita. Genevieve appoggiò il Libro per terra, accanto ad Ethan. Posò il dito sotto il primo verso dell'Incantesimo. Ivy le afferrò il polso e lo tenne stretto. — Questa non è la notte giusta. La mezzaluna è per operare la Magia Bianca, la luna piena è per operare la Magia Nera. Se non c'è luna è ancora diverso. Genevieve si liberò con forza dalla presa della vecchia. — Non ho scelta. Questa è l'unica notte che abbiamo. — Signorina Genevieve, voi dovete capire. Quelle parole sono più che un Incantesimo. Sono un baratto. Voi non potete usare il Libro delle Lune senza dare qualcosa in cambio. — Non m'importa del prezzo. Qui stiamo parlando della vita di Ethan. Ho perso tutti gli altri.
— Quel ragazzo non ha più vita dentro di sé. Gli è stata tolta da un colpo di fucile. Quello che state cercando di fare va contro natura. E non ci può essere nulla di buono in questo. Genevieve sapeva che Ivy aveva ragione. Sua madre aveva sempre raccomandato a lei e a Evangeline di rispettare le Leggi Naturali. Ora Genevieve stava superando un confine che nessuno dei Maghi della sua famiglia aveva mai osato valicare. Ma ormai non rimaneva più nessuno. Era rimasta sola. E doveva provare. * * * — No! — Lena lasciò le nostre mani, rompendo la catena. — È passata alle Tenebre, non capite? Genevieve! Stava usando la magia delle Tenebre. Le afferrai le mani ma lei cercò di divincolarsi. Di solito da Lena sentivo emanare una sorta di calore solare, ma questa volta sembrava più un tornado. — Lena, lei non è te. E lui non è me. Tutto questo è successo più di cento anni fa. Lena era vicina all'isteria. — Lei è me. È per questo che il medaglione vuole che io veda tutto questo. Mi sta dicendo di stare lontana da te. Per non farti del male quando passerò alle Tenebre. Marian aprì gli occhi, che erano più grandi del solito. I capelli corti, normalmente ordinati e perfettamente composti, erano spettinati e sparati. Era esausta, ma anche elettrizzata. Conoscevo quell'espressione. Era come vedere mia madre, specialmente gli occhi. — Non sei ancora stata Reclamata, Lena. Non sei né Bene né Male. È così che ci si sente a quindici anni e mezzo nella famiglia Duchan-nes. Ho
conosciuto molti Maghi ai miei tempi e un sacco di Duchannes, sia della Luce che delle Tenebre. Lena guardò Marian, allibita. Marian cercò di riprendere fiato. — Tu non passerai alle Tenebre. Sei melodrammatica come Macon. Adesso calmati. Come faceva a sapere del compleanno di Lena? Come faceva a sapere dei Maghi? — Voi due avete il medaglione di Genevieve. Perché non me l'avete detto? — Non sappiamo cosa fare. Tutti ci dicono qualcosa di diverso. — Mostratemelo. Infilai la mano in tasca. Lena mi posò la sua sul braccio e io esitai. Marian era la migliore amica di mia madre e per me era parte della famiglia. Sapevo che non dovevo fare domande sui suoi motivi, del resto avevo seguito Amma fino all'incontro con Macon nella palude, e mai avrei potuto immaginare una cosa del genere. — Come facciamo a sapere che ci possiamo fidare di te? — le chiesi, con uno sforzo incredibile. — «Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è fidarsi.» — Elton John? — Quasi. Ernest Hemingway. A modo suo, la rockstar del suo tempo. Sorrisi, ma Lena non era disposta a farsi incantare così facilmente. — Perché dovremmo fidarci di lei, quando tutti gli altri non fanno che nasconderci la verità? Marian si fece seria. — Proprio perché non sono Amma e non sono tuo zio Macon. Non sono tua nonna né tua zia Delphine. Io sono una Mortale. Sono neutrale. Tra la Magia Nera e la Magia Bianca, tra la Luce e le Tenebre ci deve essere
qualcosa, qualcosa che resiste all'attrazione. E quel qualcosa sono io. Lena arretrò. Era inconcepibile, per lei e per me. Come faceva Marian a sapere così tante cose della famiglia di Lena? — Che cos'è, lei? — Nella famiglia di Lena, era una domanda carica di significato. — Io sono la capo bibliotecaria della contea di Gatlin, lo sono da quando mi sono trasferita qui, lo sarò per sempre. Ma non sono una Maga. Tengo solo i registri, custodisco la memoria. — Marian si lisciò i capelli. — Io sono Il Custode, l'ultima di una lunga discendenza di Mortali ai quali furono affidati la storia e i segreti di un mondo di cui non potremo mai completamente fare parte. Ci deve essere sempre un Custode. E ora il Custode sono io. — Zia Marian... Di cosa stai parlando? — Non capivo più niente. — Diciamo che ci sono biblioteche e biblioteche. Io servo tutti i bravi cittadini di Gatlin, siano essi Maghi o Mortali. Quanto all'altro ramo del mio lavoro è, in effetti, alternativo a questo. — Vuoi dire... — La Biblioteca Magica della contea di Gatlin. E io, naturalmente, sono la bibliotecaria. La capo bibliotecaria. Fissavo Marian come se la vedessi per la prima volta. Lei ricambiò il mio sguardo con gli occhi castani di sempre, il sorriso furbo di sempre. Era la stessa, ma in qualche modo era completamente diversa. Mi ero sempre chiesto perché Marian fosse rimasta a Gatlin per tutti quegli anni. Credevo che fosse per via di mia madre. Ma adesso mi rendevo conto che c'era anche un'altra ragione. Non sapevo cosa pensare, il che non si poteva dire di Lena. — Allora lei ci può aiutare! Dobbiamo scoprire cos'è successo
a Ethan e a Genevieve e che collegamento c'è con Ethan e con me. E dobbiamo scoprirlo prima del mio compleanno. — Lena la guardò speranzosa. — La Biblioteca Magica avrà degli schedari. Forse il Libro delle Lune è lì dentro. Lei pensa che potremmo trovare delle risposte? Marian abbassò lo sguardo. — Forse, o forse no. Temo di non potervi aiutare. Mi dispiace tanto. — Che stai dicendo? — Non aveva senso. Non avevo mai visto Marian rifiutarsi di aiutare qualcuno, figuriamoci se si trattava di me. — Non posso essere coinvolta, nemmeno se volessi. È previsto dal mio mansionario. Non li scrivo io i libri, né le regole; io li custodisco e basta. Non posso interferire. — E ci tieni più al lavoro che ad aiutare noi? — Mi misi davanti a lei, per costringerla a guardarmi negli occhi. — Ci tieni più che a me? — Non è così semplice, Ethan. C'è un equilibrio tra il mondo dei Mortali e il mondo dei Maghi, tra la Luce e le Tenebre. Il Custode fa parte di questo equilibrio, fa parte dell'Ordine delle Cose. Se sfido le leggi dalle quali sono Vincolata, questo equilibrio verrà messo in pericolo. — Mi guardò, le tremava la voce. — Non posso interferire, a costo di morirne. A costo di ferire le persone che amo. Non capivo cosa stesse dicendo ma sapevo che Marian mi voleva bene, come aveva voluto bene a mia madre. Se non ci poteva aiutare, doveva esserci una ragione. — Bene. Tu non ci puoi aiutare. Allora accompagnami a questa Biblioteca Magica e mi arrangerò da solo. — Tu non sei un Mago, Ethan. Non è una decisione che spetta a te. Lena si avvicinò a me e mi prese la mano. — Deve essere una mia decisione. E io voglio andare.
Marian annuì. — Va bene, la prossima volta che la Biblioteca sarà aperta vi accompagnerò. Non ha gli stessi orari della biblioteca pubblica di Gatlin. È un po' più irregolare. Ma davvero?
31-10 Halloween Gli unici giorni dell'anno in cui la biblioteca pubblica di Gatlin era chiusa, erano festività come il Giorno del Ringraziamento, Natale, Capodanno e Pasqua e pochi altri casi. Di conseguenza, erano quelli gli unici giorni in cui la Biblioteca Magica di Gatlin era aperta, cosa su cui Marian non aveva il controllo. — Prendetevela con la contea. Come vi ho detto, non le faccio io le regole. — Mi chiesi di che contea stesse parlando, se quella in cui avevo vissuto per tutta la vita o quella che mi era stata nascosta per altrettanto tempo. Eppure Lena sembrava quasi speranzosa. Per la prima volta, era come se credesse possibile trovare un modo per impedire ciò che considerava inevitabile. Marian non poteva darci alcuna risposta, ma era diventata la nostra ancora di salvezza, in assenza delle due persone sulle quali io e Lena avevamo sempre contato di più, che non erano andate da nessuna parte, eppure sembravano ugualmente lontanissime. Non lo avevo confidato a Lena ma, senza Amma, mi sentivo perduto. E senza Macon, sapevo che lei doveva essere ancora più persa di me. Marian ci diede qualcosa: le lettere di Ethan e Genevieve, così antiche e fragili da essere quasi trasparenti, e tutto quello
che lei e mia madre avevano raccolto su di loro. Un mucchio di carte in una polverosa scatola di cartone marrone stampato con un motivo di venature di legno. Anche se Lena si appassionava nella lettura dei loro scritti - «i giorni senza di te scorrono in un unico rivolo di sangue finché il tempo diviene null'altro che l'ennesimo ostacolo da superare» - tutto quello che avevamo sembrava una bella storia d'amore con un finale molto tragico e molto Nero. Ma niente più di questo. Adesso dovevamo solo capire cosa stavamo cercando. L'ago nel pagliaio o, in questo caso, nella scatola di cartone. Quindi facemmo l'unica cosa utile. Cominciammo a cercare. * * * Due settimane dopo, avevo trascorso più tempo con Lena a studiare le carte di quanto avrei mai potuto ritenere possibile. Più leggevamo, più ci sembrava di leggere di noi due. Di notte, restavamo alzati fino a tardi tentando di risolvere il mistero di Ethan e Genevieve, un Mortale e una Maga alla disperata ricerca di un modo per stare insieme contro insormontabili difficoltà. A scuola, affrontavamo anche noi le nostre belle difficoltà per sopravvivere a otto ore alla Jackson, ed era sempre più difficile. Ogni giorno spuntava un nuovo piano per allontanare Lena o per separarla da me. Soprattutto se quel giorno era Halloween. Halloween era in genere una festa molto attesa, alla Jackson. Per un ragazzo, qualsiasi cosa prevedesse un travestimento era in pratica un'istigazione a delinquere. E poi c'era lo stress dell'attesa, per sapere se si era nella lista degli invitati alla festa di Savannah Snow. Ma Halloween si caricava di ulteriore stress se la ragazza per cui avevi perso la testa era una Maga.
Non sapevo proprio cosa aspettarmi quando Lena passò a prendermi per andare a scuola, a un paio di isolati da casa, al sicuro dagli occhi che Amma aveva dietro la testa. — Non sei in costume — esclamai, sorpreso. — In che senso? — Credevo che ti saresti travestita. — Cominciai a sen-lirmi un idiota nel momento stesso in cui le parole mi uscirono di bocca. — Oh, pensi che ad Halloween noi Maghi ci vestiamo a festa e svolazziamo in giro sulle nostre scope. — Rise. — Non intendevo... — Mi dispiace deluderti. Ci agghindiamo solo per la cena, come faremmo per qualsiasi altra celebrazione. — Allora la considerate una festa anche voi. — È la notte più sacra dell'anno, e la più pericolosa. La più importante delle quattro Grandi Feste. È la nostra versione del Capodanno, la fine del vecchio anno e l'inizio del nuovo. — In che senso, pericolosa? — Mia nonna dice che in questa notte il velo tra questo mondo e l'Aldilà, il mondo degli spiriti, è più sottile. È una notte di potere ed è una notte di memoria. — L'Aldilà? Tipo il paradiso e l'inferno? — Tipo. È il regno degli spiriti. — Allora Halloween è davvero la festa degli spiriti e dei fantasmi. Lena alzò gli occhi al cielo. — In questa notte ricordiamo i Maghi che sono stati perseguitati per la loro diversità. Uomini e donne che sono stati messi al rogo per aver usato i loro talenti. — Stai parlando dei processi alle streghe di Salem? — Anche, ma è un piuttosto riduttivo. Ci furono processi alle streghe lungo tutta la costa orientale degli Stati Uniti, non
solo a Salem. E in tutto il resto del mondo. Quelli di Salem sono semplicemente i più citati dai vostri libri di scuola. — Pronunciò "vostri" come se fosse una parola sporca e, oggi più che mai, forse lo era davvero. Passammo davanti allo Stop&Scippa. Boo era seduto all'angolo, accanto al segnale di stop. In attesa. Vide il cai ro funebre e si mise a seguire la macchina. — Dovresti dare un passaggio a quel cane. Sarà stanco a furia di rincorrerti dappertutto, giorno e notte. Lena lanciò un'occhiata nello specchietto retrovisore. — Non salirebbe mai. Sapevo che aveva ragione. E quando mi girai per guardarlo, avrei giurato di averlo visto annuire. Avvistai Link nel parcheggio. Indossava una parrucca bionda e una maglia blu con il simbolo delle Wildcats cucito sopra. Aveva addirittura i pompom d'ordinanza. Era orribile e assomigliava a sua madre, in effetti. La squadra di basket quest'anno aveva deciso di travestirsi da cheerleader. Con tutto quello che stava succedendo, mi era sfuggito di mente... o almeno, cercai di convincermi che fosse così. Me l'avrebbero fatta pagare, ed Earl stava solo aspettando una scusa per darmi una bella ripassata. Da quando avevo iniziato a frequentare Lena, sul campo avevo la mano fatata. Adesso giocavo al centro, al posto di Earl, e lui non era affatto contento della cosa. Lena giurava che la magia non c'entrava, almeno quella dei Maghi. Era venuta a vedere un'unica partita e non avevo sbagliato un colpo. L'unico inconveniente era che Lena aveva invaso la mia testa per tutto il tempo, facendomi un milione di domande sui falli, sugli assist e sulla regola dei tre secondi. Saltò fuori che non aveva mai visto una partita di basket. Fu
peggio che accompagnare le Sorelle alla fiera della contea. Da quella volta aveva evitato le partite. Però sapevo che era in ascolto, quando giocavo. Sentivo che era presente. D'altro canto, forse era lei la ragione per cui la squadra delle cheerleader stava passando un'annata più difficile del solito. Emily aveva problemi a rimanere in cima alla piramide umana. Ma a Lena non chiesi mai niente di questo. Quel giorno era difficile riconoscere i miei compagni di squadra, finché non ti avvicinavi abbastanza da vedere i peli sulle gambe e sulla faccia. Link ci raggiunse. Da vicino era ancora peggio. Aveva cercato di truccarsi, sbavando il rossetto rosa e il resto. Si sollevò la gonna, tirando i collant troppo stretti che portava sotto. — Bastardo — mi apostrofò, indicandomi da dietro una fila di macchine parcheggiate. — Dov'è il tuo costume? — Scusa, amico. Me ne sono dimenticato. — Balle. È che non volevi metterti questo schifo addosso. Ti conosco, Wate. Te la sei fatta sotto. — Giuro, l'ho solo dimenticato. Lena sorrise a Link. — Stai benissimo. — Non so proprio come fate voi ragazze a mettervi tutta questa melma in faccia. Mi prude da morire. Lena fece una smorfia. Lei non si truccava quasi mai. Non ne aveva bisogno. — Sai, non è che firmiamo un contratto con la profumeria quando compiamo tredici anni. Link si sistemò la parrucca e si infilò un altro calzino nel maglione. — Prova a dirlo a Savannah. Salimmo i gradini dell'ingresso. Boo era seduto sul prato, accanto all'asta portabandiera. Stavo quasi per chiedere come avesse fatto ad arrivare a scuola prima di noi, ma ormai avevo imparato a non pormi più certe domande.
Tutti i corridoi erano affollati. Sembrava che mezza scuola avesse deciso di saltare la prima ora di lezione. Gli altri ragazzi della squadra aspettavano davanti all'armadietto di Link, anche loro vestiti da donne, ed erano un bel colpo d'occhio. Anche senza di me. — Dove sono i tuoi pompom, Wate? — Emory me ne scrollò uno davanti al naso. — Qual è il problema? Le tue zampette di gallina non fanno bella figura? Shawn si sistemò la maglia. — Scommetto che nessuna delle ragazze gli ha voluto prestare una gonna. — Qualcuno rise. Emory mi mise un braccio sulle spalle e mi avvicinò. — È così, Wate? O è come se fosse Halloween tutti i giorni, quando si esce con una che vive nella Casa Infestata? Lo afferrai per la maglia, sulla schiena. Uno dei calzini che gli riempivano il reggiseno cadde per terra. — Vuoi farlo adesso, Em? Lui scrollò le spalle. — Come ti pare. Deve succedere, prima o poi. Link si mise in mezzo per dividerci. — Signore! Signore! Siamo qui per divertirci. E tu non vuoi rovinare quel bel faccino, Em. Earl scosse la testa, trascinando via Emory lungo il corridoio. Come al solito non disse una parola, ma riconobbi la sua espressione. Vai in fondo a questa strada, Wate, e non torni più indietro. La squadra di basket era sulla bocca di tutta la scuola, finché non vedemmo la vera squadra delle cheerleader. I miei compagni non erano gli unici ad aver pensato a un travestimento di gruppo. Io e Lena stavamo andando a Letteratura Inglese quando le vedemmo.
— Cacchio! — Link mi tirò una sberla sul braccio. — Che c'è? Marciavano nel corridoio in fila indiana: Emily, Savannah, Eden e Charlotte, seguite dalla squadra delle Wildcats al completo. Erano vestite tutte uguali, con un abito nero ridicolmente corto, stivali neri a punta e cappelli da strega alti, con la punta piegata. Ma non era quella la parte peggiore. Portavano una parrucca nera di ricci selvaggi. E con la matita nera, proprio sotto l'occhio destro, avevano disegnato con cura un'enorme mezzaluna. L'inconfondibile voglia di Lena. Per completare l'effetto, tenevano in mano una scopa e fingevano di spazzare freneticamente intorno ai piedi della gente mentre avanzavano nel corridoio, in processione. Streghe! Ad Halloween{ Che creatività. Le strinsi la mano. La sua espressione non cambiò, ma sentivo che la mano tremava. Mi dispiace, Lena. Se solo sapessero. Aspettai che l'edificio cominciasse a tremare, le finestre a esplodere, o qualche altra catastrofe. Ma non successe niente. Lena rimase immobile, fremendo di rabbia. La futura generazione del dar puntò verso di noi. Decisi di giocare d'anticipo. — Dov'è il tuo costume, Emily? Hai dimenticato che è Halloween? Emily sembrò perplessa. Poi mi sorrise, il tipico sorriso melenso di chi è un po' troppo pieno di sé. — Ma che dici, Ethan? Per te non è Halloween tutti i giorni? — Stiamo solo cercando di far sentire a casa la tua fidanzata — aggiunse Savannah, ruminando una gomma. Lena mi lanciò un'occhiata. Ethan, smettila. Non farai che peggiorare le cose per te stesso.
Non m'importa. Me la cavo da sola. Quello che succede a te, succede a me. Link ci raggiunse, tirandosi i collant. — Ehi, ragazze, ma oggi non dovevamo travestirci tutte quante da sgualdrine? Oh, che sbadato! Quello lo facciamo tutti giorni. A Lena scappò un sorriso. — Tu chiudi il becco, Wesley Lincoln. O glielo dico io, a tua madre, che frequenti quella marziana. Non ti farà più uscire di casa fino a Natale. — Tu sai cos'è quel segno che ha sulla faccia, vero? — ghignò Emily, indicando la voglia di Lena e poi la mezzaluna che si era disegnata sulla propria guancia. — Si chiama "il segno della strega". — L'hai cercato su internet ieri sera? Sei ancora più idiota di quel che pensassi. — Risi. — Sei tu l'idiota. Tu che esci con lei. — Stavo arrossendo ed era l'ultima cosa al mondo che volevo. Non era una conversazione che mi andava di affrontare davanti a tutta la scuola, anche perché non ero sicuro che io e Lena stessimo insieme. Ci eravamo baciati una volta. E ci frequentavamo di continuo, in un modo o nell'altro. Ma non era la mia ragazza, o almeno non pensavo che lo fosse, anche se mi pareva di averglielo sentito dire durante la Festa della Raccolta. Ma cosa potevo fare, chiederglielo? Se devi chiederle, certe cose, è probabile che la risposta sia un no. C'era una parte di lei che sembrava tenersi a distanza di sicurezza da me, una parte di lei che non riuscivo a raggiungere. Emily mi puntò il manico della sua scopa sullo stomaco. Si capiva che l'idea del paletto nel cuore, ora come ora, l'allettava parecchio.
— Emily, ma perché non saltate tutte quante giù dalla finestra? Vediamo se sapete volare. O no. I suoi occhi si strinsero. — Spero che vi divertirete stasera a starvene insieme a casa, da soli, mentre il resto della scuola è alla festa di Savannah. In ogni caso, sarà l'ultima festa che quella lì passerà alla Jackson. — Emily girò sui tacchi e marciò verso il proprio armadietto, seguita da Savannah e dalle altre tirapiedi. Link stava scherzando con Lena, cercando di tirarla su. Cosa non difficile, considerando quanto fosse ridicolo. Come ho detto, su Link ci potevo sempre contare. — Mi odiano davvero. Non passerà mai, vero? — sospirò Lena. Link cominciò a fare la cheerleader, saltellando di qua e di là e agitando i suoi pompom. — Odiano te, ye-ye. Odiano me, ye-ye. — Sarei più preoccupato se ti trovassero simpatica. — Mi avvicinai per metterle un braccio sulle spalle, goffamente. Ma lei sgusciò via e riuscii a malapena a sfiorarla. Fantastico. Non qui. Perché! Ti stai complicando la vita inutilmente. Sono goloso di punizioni. — Basta con le smancerie. — Link mi diede una gomitata nelle costole. — O mi sentirò uno straccio, adesso che mi sono condannato a un altro anno senza ragazza. Dai! Stiamo facendo tardi a lezione. E io devo anche togliermi queste calze maledette prima di entrare in classe. Mi stanno rovinando. — Mi fermo un attimo al mio armadietto per prendere il libro — annunciò Lena. I suoi capelli cominciarono ad arricciarsi intorno alle spalle. La guardai con sospetto, ma non dissi niente.
Anche Emily, Savannah, Charlotte ed Eden erano agli armadietti, si stavano sistemando davanti allo specchio appeso all'interno dell'anta. L'armadietto di Lena era poco più in là. — Ignorale — le suggerii. Emily si stava pulendo la guancia con un fazzoletto di carta. Lo spicchio di luna, però, diventava sempre più largo e più nero e non veniva via. — Charlotte, hai del latte detergente? — Certo. Emily si strofinò ancora la guancia. — Non riesco a cancellarlo. Savannah, non avevi detto che questa roba si toglieva con acqua e sapone? — Infatti. — E allora perché non viene via? — Emily sbatté la porta dell'armadietto, infastidita. La scena attirò l'attenzione di Link. — Cosa stanno combinando, quelle quattro? — Sembra che abbiano qualche problemino — rispose Lena appoggiandosi al suo armadietto. Anche Savannah cercò di detergersi la luna nera dalla guancia. — Nemmeno la mia viene via! — Il nero le impiastricciava metà della faccia. Cominciò a frugare nella borsetta. — Ho la matita proprio qui. Emily prese la borsetta dall'armadietto. — Lascia stare. Ce l'ho qui anch'io. — Che diavolo... — Savannah tirò fuori qualcosa dalla borsa. — Hai usato un pennarello indelebile!? — Emily scoppiò a ridere. Savannah guardò il pennarello. — Certo che no. Non ho idea di come sia finito qui.
— Che stupida. Non riuscirai mai a toglierlo prima della festa. — Non posso avere questa roba sulla faccia tutta la sera. Mi travesto da dea greca, da Afrodite! Mi rovinerà completamente il costume! — Dovevi stare più attenta. — Emily continuava a frugare nella sua borsettina d'argento. La svuotò per terra, le bottigliette del lucidalabbra e dello smalto che rotolavano sul pavimento. — Dev'essere qui. — Cosa cerchi? — le chiese Charlotte. — La matita che ho usato stamattina. Non c'è più. — Emily cominciava ad attrarre del pubblico; molti si fermavano a vedere cosa stesse succedendo. Un pennarello indelebile rotolò fuori dalla borsetta e finì in mezzo al corridoio. — Hai usato un pennarello anche tu? — Ovvio che no! — strillò Emily, sfregandosi la faccia freneticamente. Ma la luna nera si allargò e divenne ancora più scura. — Che diavolo sta succedendo? — Io la mia matita ce l'ho — annunciò Charlotte, infilando la chiavetta nella serratura. Aprì l'anta e rimase immobile per qualche secondo, fissando l'interno. — Che c'è? — chiese Savannah. Charlotte tirò fuori dall'armadietto un altro pennarello indelebile. Link agitò i suoi pompom. — Urrà per le cheerleader. Guardai Lena. Un pennarello indelebile! Un sorriso malizioso si aprì sul suo viso. Pensavo che non potessi controllare i tuoi poteri. Fortuna del principiante. Alla fine delle lezioni, alla Jackson non si parlava d'altro che delle cheerleader. Sembrava che le ragazze della squadra che si
erano travestite da Lena avessero misteriosamente usato un pennarello indelebile invece dell'eyeliner per disegnarsi sulla guancia l'innocua mezzaluna. Le battute si sprecavano. Avrebbero dovuto andare a scuola e girare per il paese, cantare nel coro della chiesa ed esibirsi alle partite con la faccia scarabocchiata, finché il nero non si fosse scolorito. Alla signora Asher e alla signora Snow sarebbe venuto un colpo. Mi sarebbe piaciuto assistere alla scena. * * * Dopo la scuola, accompagnai Lena alla macchina, che era solo una scusa per poterla tenere per mano ancora un po'. Le sensazioni fisiche così intense che provavo quando la toccavo non erano un deterrente, come si potrebbe pensare. Qualsiasi fosse la sensazione, che mi sentissi bruciare, o che le lampadine esplodessero, o che fossi colpito da un fulmine, io dovevo starle vicino. Era come mangiare, o respirare. Non avevo scelta. Mi faceva molta più paura di un mese intero di Halloween, e mi stava uccidendo. — Che fai stasera? — Me lo chiese passandosi distrattamente la mano tra i capelli. Era seduta sul cofano del carro funebre e io ero in piedi davanti a lei. — Pensavo che forse potresti venire da me, ce ne stiamo a casa e apriamo ai bambini che vengono per "dolcetto o scherzetto". Potresti darmi una mano a tenere d'occhio il prato, per assicurarci che nessuno dia fuoco a una croce. — Cercai di non pensare troppo chiaramente alla seconda parte del mio piano, che prevedeva Lena, il divano, dei vecchi film e Amma fuori casa per tutta la notte. — Non posso. È una Grande Festa. Ho parenti in arrivo. Zio M non mi lascerà uscire nemmeno per cinque minuti, per non
parlare del pericolo. Non aprirei mai la porta a degli sconosciuti in una notte così intrisa del potere delle Tenebre. — Non l'avevo mai vista in questo modo. — Finora. Quando arrivai a casa, Amma si stava preparando per uscire. Stava lessando un pollo sui fornelli e mescolando l'impasto dei biscotti con le mani, "l'unico modo di fare i biscotti per una donna che si rispetti". Guardai la pentola con sospetto, chiedendomi se quel cibo fosse destinato alla nostra tavola o a quella del Grandi. Rubai un pizzico di impasto e Amma mi bloccò la mano. — T-R-A-F-U-G-A-R-E. — Sorrisi. — Tradotto: tieni le tue mani da ladruncolo lontano dai miei biscotti, Ethan Wate. Ho degli affamati da nutrire. — Evidentemente quella sera non avrei mangiato né pollo né biscotti. Amma tornava sempre a casa sua, per Halloween. Diceva che era una notte speciale in chiesa, ma mia madre sosteneva che era solo una notte buona per gli affari. Quale occasione migliore di Halloween per farsi leggere le carte? Non ci sarebbe stata tanta gente nemmeno a Pasqua o nel giorno di San Valentino. Ma alla luce degli eventi recenti, mi chiesi se non ci fosse un'altra ragione. Forse era una serata perfetta anche per leggere le ossa di pollo nel cimitero. Non potevo certo chiederglielo e non ero sicuro di volerlo sapere. Amma mi mancava, mi mancava parlare con lei, mi mancava potermi fidare di lei. Se aveva sentito la differenza, non lo dava a vedere. Forse pensava che stessi semplicemente crescendo e forse era vero. — Vai alla festa dagli Snow? — No, quest'anno resto a casa.
Lei inarcò un sopracciglio ma non chiese niente. Sapeva già perché non andavo alla festa. — Se ti prepari il letto, devi essere pronto a dormirci dentro. Non replicai. Tanto non si aspettava nessuna risposta. — Vado tra pochi minuti. Apri tu ai bambini, quando vengono. Tuo padre sta lavorando. — Come se fosse stato plausibile che mio padre uscisse dal suo volontario esilio per aprire la porta ai bambini di Halloween. — Certo. I sacchetti con le caramelle erano nell'ingresso. Li aprii e versai il contenuto in una grossa ciotola di vetro. Non riuscivo a togliermi dalla testa le parole di Lena. Una notte così intrisa del potere delle Tenebre. Ripensai a Ridley davanti allo Stop&Scippa, tutta gambe e sorrisi sexy. Era ovvio che identificare le forze delle Tenebre non era uno dei miei talenti, né decidere a chi aprire la porta o meno. Come ho detto, quando la ragazza a cui non riesci a non pensare è una Maga, Halloween assume un significato completamente nuovo. Guardai la ciotola di caramelle che tenevo in mano. Aprii la porta, la misi sulla veranda e tornai dentro. Mentre mi organizzavo per guardare Shining, mi ritrovai a sentire la mancanza di Lena. Lasciai che la mia mente vagasse, perché in genere trovava sempre il modo di raggiungerla ovunque fosse, ma stavolta non c'era. Mi addormentai sul divano aspettando che mi sognasse o chissà che altro. Mi svegliai di soprassalto, sentendo bussare alla porta. Guardai l'orologio. Erano quasi le dieci, troppo tardi per "dolcetto o scherzetto". — Amma? Nessuna risposta. Sentii bussare di nuovo. — Sci tu?
Il salotto era buio e solo la luce della TV lo rischiarava. C'era la scena di Shining in cui il padre abbatte la porta della stanza d'albergo a colpi d'ascia, per massacrare la sua famiglia. Non proprio un bel momento per andare ad aprire, specialmente nella notte di Halloween. Bussarono di nuovo. — Link? — Spensi la TV e mi guardai intorno in cerca di un'arma. Niente. Presi una vecchia playstation che stava sul pavimento in cima a una pila di videogiochi. Non era certo una mazza da baseball, ma era un aggeggio giapponese della vecchia scuola. Doveva pesare almeno tre chili. Lo sollevai sopra la testa e mi avvicinai di un passo al muro che separava il salotto dal corridoio. Un altro passo e sollevai la tendina di pizzo che copriva la porta a vetri, appena di un millimetro. Nel buio della veranda non illuminata, non distinsi la sua faccia. Ma avrei riconosciuto dappertutto quel vecchio furgone beige, fermo in strada davanti a casa mia con il motore ancora acceso. "Sabbia del deserto", lei lo definiva. Era la mamma di Link, con un piatto di biscotti al cioccolato in mano. E io brandivo ancora la mia playstation. Se Link mi avesse visto, non mi avrebbe dato tregua per il resto dei miei giorni. — Un attimo solo, signora Lincoln. — Accesi la luce nel portico e girai la chiave. Ma quando cercai di aprire, la porta si bloccò. Controllai la serratura e vidi che era di nuovo chiusa, nonostante l'avessi appena aperta. — Ethan? Girai la chiave. Si richiuse con un suono secco prima ancora che sollevassi la mano. — Signora Lincoln, mi dispiace, ma la serratura sembra bloccata. — Scossi la porta con tutte le mie forze, impacciato dalla playstation. Qualcosa cadde per terra e mi chinai a raccoglierla. Aglio, avvolto in uno dei fazzoletti di Amma. A occhio e croce, doveva essercene uno su ogni porta e
su ogni davanzale. Una piccola tradizione di Amma per Halloween. Eppure, qualcosa stava impedendo alla porta d'ingresso di aprirsi, proprio come pochi giorni prima qualcosa mi aveva aperto la porta dello studio. Quante serrature in questa casa avrebbero continuato ad aprirsi e chiudersi da sole? Cosa stava succedendo? Girai la chiave un'altra volta e diedi alla porta una bella spallata. Si spalancò, sbattendo contro il muro. La mamma di Link, illuminata da dietro, era una sagoma scura in una pozza di pallida luce. Inquietante. Guardò la playstation che avevo in mano. — I videogiochi ti faranno marcire il cervello, Ethan. — Sì, signora. — Ti ho portato dei biscotti al cioccolato. Un'offerta di pace. — Me li mostrò, in attesa. Avrei dovuto invitarla a entrare. C'era una regola per tutto. Immagino che si potesse definire buona educazione, ospitalità del Sud. Ma avevo già fatto un tentativo con Ridley e non aveva funzionato molto bene. Esitai. — Cosa ci fa in giro stanotte, signora? Link non è qui. — Certo che non è qui. È dagli Snow, cioè dove ogni onesto e rispettabile studente della Jackson dovrebbe avere la fortuna di essere. Ho dovuto fare non poche telefonate per procurargli un invito, alla luce del suo recente comportamento. Continuavo a non capire. Conoscevo la signora Lincoln da una vita. Era sempre stata un po' fanatica. Sempre impegnata a far sparire libri dagli scaffali della biblioteca, a far licenziare un insegnante, a rovinare una reputazione in un solo pomeriggio. Ultimamente, però, era diversa. Tutta la crociata contro Lena era diversa. La mamma di Link aveva sempre avuto le sue convinzioni, ma questa sembrava una questione personale.
— Come? La signora Lincon sembrava agitata. — Ti ho fatto i biscotti al cioccolato. Pensavo di poter entrare per parlare un po'. La mia battaglia non è contro di te, Ethan. Non è colpa tua se quella ragazza sta usando le sue diavolerie per manipolarti. Tu dovresti essere alla festa, con i tuoi amici. Con i ragazzi che appartengono a questo posto. — Mi porgeva i biscotti, quelli con doppie chips di cioccolato che erano sempre i primi a sparire durante la vendita di beneficenza della chiesa battista. Ero cresciuto, con quei biscotti. — Ethan? — Signora. — Posso entrare? Non mossi un muscolo. Strinsi la presa intorno alla playstation. Guardavo i biscotti, ma non provavo il minimo appetito. Nemmeno il piatto, nemmeno una briciola di quella donna erano i benvenuti nella mia casa. La mia casa, come Ravenwood, cominciava ad avere una volontà propria, e né io né lei avremmo fatto entrare quella donna. — No, signora. — Come hai detto, Ethan? — No, signora. I suoi occhi si strinsero. Spinse il piatto verso di me, come se avesse deciso di entrare comunque, ma quello rimbalzò indietro quasi avesse colpito un muro invisibile tra lei e me. Lo vidi rovesciarsi, cadere lentamente a terra e spaccarsi in un milione di briciole di ceramica e cioccolato sul nostro zerbino che diceva FELICE HALLOWEEN. Ad Amma sarebbe venuto un colpo. La signora Lincoln arretrò sui gradini del portico con circospezione e sparì nel buio del vecchio Sabbia del Deserto. * * *
Ethan! La voce di Lena mi strappò al sonno. Dovevo essermi assopito. La maratona di film horror era finita e lo schermo trasmetteva solo puntini grigi che sfrigolavano. Zio Macon! Ethan! Aiuto! Lena urlava. Da qualche parte. Sentivo il terrore nella sua voce. La testa mi pulsava così dolorosamente che per un secondo dimenticai dove fossi. Qualcuno mi aiuti! Vi piego! La porta d'ingresso era spalancata, dondolava e sbatteva nel vento. I colpi rimbalzavano sui muri come spari. Credevo di essere al sicuro, qui! Ravenwood. Presi le chiavi della vecchia Volvo e cominciai a correre. Non ricordo come arrivai a Ravenwood, ma so che rischiai di finire fuori strada un paio di volte. Non riuscivo nemmeno a mettere a fuoco la carreggiata. Il dolore di Lena era così intenso, la nostra connessione così forte, che quasi svenni solo sentendo la sua sofferenza. E le urla. Le urla erano state incessanti, dal momento in cui mi ero svegliato fino a quello in cui avevo premuto la mezzaluna ed ero entrato nella villa dei Ravenwood. Quando la porta d'ingresso si spalancò, vidi che la casa si era trasformata di nuovo. Stanotte era una specie di antico castello. I candelabri gettavano strane ombre sulla folla degli ospiti avvolti in giacche nere, vesti nere, toghe nere, molto più numerosi degli invitati alla Festa della Raccolta. Ethan! Fai presto! Non resisto... — Lena! — urlai. — Macon! Dov'è?
Nessuno si voltò verso di me. Non individuai persone che conoscessi, sebbene il salone d'ingresso fosse pieno di ospiti che si spostavano da una sala all'altra come fantasmi a una festa fantasma. Non erano di queste parti, almeno da centinaia di anni. Vidi uomini in kilt dai colori scuri e ruvidi costumi gaelici, donne con abiti col corsetto. Ogni cosa era nera, avvolta nell'ombra. Mi feci largo tra la folla ed entrai in quella che sembrava una grande sala da ballo. Non vedevo nessuno di loro: zia Del, Reece, nemmeno la piccola Ryan. Negli angoli le candele si consumavano in tremule fiammelle, e un gruppo di strani strumenti musicali traslucidi, che si sfocavano a tratti, si suonava da solo mentre coppie d'ombre volteggiavano e scivolavano sul pavimento, che ora era di pietra. I danzatori non sembravano nemmeno consapevoli della mia presenza. La musica era chiaramente magica e produceva una sorta di incantesimo proprio. Erano archi, soprattutto. Sentivo il violino, la viola, il violoncello. Potevo quasi vedere la rete che s'avvolgeva intorno ai ballerini, il modo in cui vi entravano e vi uscivano, come a creare deliberatamente un disegno. Erano tutti parte di quel disegno. Tranne me. Ethan... Dovevo trovarla. Un'improvvisa fitta di dolore. La sua voce era più flebile, adesso. Barcollai e mi aggrappai alla spalla dell'uomo togato accanto a me. Mi bastò toccarlo e il dolore, il dolore di Lena, passò a lui attraverso me. Anch'egli barcollò e urtò la coppia che danzava accanto a lui. — Macon! — strillai a pieni polmoni. Vidi Boo Radley in cima alle scale, come se mi stesse aspettando. I suoi occhi rotondi e umani erano pieni di terrore.
— Boo! Dov'è Lena? — Boo mi guardò e io vidi gli occhi offuscati e grigio acciaio di Macon Ravenwood. Avrei giurato di averli visti. Poi Boo si girò e si mise a correre. Lo inseguii, o pensavo di inseguirlo, su per una scala a chiocciola in pietra in quello che adesso era il castello di Ravenwood. Sul pianerottolo aspettò che lo raggiungessi, poi corse verso una stanza scura in fondo al corridoio. Fatto da Boo, era praticamente un invito. Abbaiò e i due imponenti battenti di legno si aprirono da soli. Eravamo così lontani dalla festa che non sentivo più né la musica né il chiacchiericcio degli ospiti. Era come se fossimo entrati in un luogo e in un tempo diversi. Anche il castello stava cambiando sotto i miei piedi, la pietra si sbriciolava, le mura si facevano fredde e muschiose. Le luci erano diventate torce, appese ai muri di pietra. Me ne intendevo di antichità. Gatlin era antica. Io ero cresciuto in mezzo alle anticaglie. Ma questo era qualcosa di completamente diverso. Come Lena aveva detto, un Anno Nuovo. Una notte fuori dal tempo. Quando entrai nella sala, rimasi colpito dal cielo. La stanza si apriva verso la volta celeste come una serra. Il cielo era nero, il più nero che avessi mai visto. Come se fossimo al centro di una terribile tempesta. Eppure la stanza era silenziosa. Lena era riversa su un massiccio tavolo di pietra, rannicchiata in posizione fetale. Era fradicia del suo stesso sudore e si contorceva dal dolore. Erano tutti intorno a lei: Macon, zia Del, Barclay, Reece, Larkin, persino Ryan, e una donna che non riconobbi. Si tenevano per mano e formavano un cerchio intorno a Lena. Avevano gli occhi aperti ma non vedevano nulla. Non si erano nemmeno accorti della mia presenza. Vedevo le loro labbra muoversi, mormorare qualcosa. Quando mi avvicinai a
Macon, capii che non parlavano in inglese. Non ne ero sicuro, ma avevo passato abbastanza tempo con Marian da ritenere che fosse latino. Sanguis sanguinis mei, tutela tua est. Sanguis sanguinis mei, tutela tua est. Sanguis sanguinis mei, tutela tua est. Sanguis sanguinis mei, tutela tua est. Sentivo solo quel basso mormorio, la litania. Lena non la sentivo più. Avevo la testa vuota. Se n'era andata. Lena! Rispondimi! Niente. Rannicchiata sul tavolo, gemeva sottovoce, si torceva piano come se cercasse di uscire dalla sua stessa pelle. Sudava, le gocce di sudore mescolate alle lacrime. Del ruppe il silenzio, isterica. — Macon! Fa' qualcosa! Non funziona! — Ci sto provando, Delphine. — C'era qualcosa nella sua voce che non avevo mai udito prima. Paura. — Non capisco. Abbiamo Vincolato questo posto in sieme. Questa casa era l'unico luogo in cui Lena dovcu se essere al sicuro. — Zia Del guardò Macon, in cerca di risposte. — Ci sbagliavamo. Nessun posto è sicuro per lei. — Era stata una donna bellissima a parlare, una donna dell'età ili mia nonna, il viso circondato da spire di capelli neri. Avevn molti fili di perline al collo, sovrapposti l'uno sull'altro, ed elaborati anelli d'argento ai pollici. Aveva la stessa aria eso tica di Marian, come se venisse da un luogo lontanissimo. — Non puoi esserne sicura, zia Arelia — replicò Del. Poi si rivolse a Reece. — Reece, cosa sta succedendo? Vedi qualcosa?
Gli occhi di Reece erano chiusi e le lacrime le scorrevano sulle guance. — Non vedo niente, mamma. Il corpo di Lena ebbe un sussulto. Lena gridò. O meglio, spalancò la bocca e sembrò gridare, ma nemmeno un suono uscì dalle sue labbra. Era uno spettacolo insopportabile. — Fate qualcosa! Aiutatela! — gridai. — E tu cosa ci fai qui? Vattene. Non è sicuro! —esclamò Larkin. La famiglia si era accorta di me solo adesso. — Concentratevi! — Macon era disperato. La sua voce si alzò sopra le altre, sempre più forte, fino a diventare un grido... Sanguis sanguinis mei, tutela tua est! Sanguis sanguinis mei, tutela tua est! Sanguis sanguinis mei, tutela tua est! Sangue del mio sangue, tua è la protezione! I componenti del cerchio tesero le braccia come a dargli più forza. Ma non funzionava. Lena gridava ancora, mute urla di terrore. Questo era molto peggio dei sogni. Questo era reale. Se non lo fermavano loro, l'avrei fatto io. Corsi verso di lei, passando sotto le braccia di Reece e Larkin. — Ethan, NO! Quando entrai nel cerchio, lo sentii. Un ululato. Sinistro, assillante, come la voce del vento. O era una voce? Non lo sapevo. Ero a un passo dal tavolo dove giaceva Lena, ma era come se fossi a un milione di chilometri. Qualcosa cercava di spingermi indietro, più potente di qualsiasi altra forza avessi mai conosciuto. Più potente ancora di Ridley che mi congelava la vita nelle vene. Spinsi anch'io, con tutte le forze che trovai dentro di me. Arrivo, Lena! Resisti!
Scagliai avanti il mio corpo, protesi le mani, come facevo nei sogni. L'abisso nero del cielo cominciò a vorticare. Chiusi gli occhi e spinsi avanti. Le nostre dita si sfiorarono. Sentii la sua voce. Ethan. Io... L'aria all'interno del cerchio si mise a turbinare con violenza, come un vortice. Saliva verso il cielo, se si poteva chiamare cielo. Verso il nero. Ci fu una sorta d'impennata, di esplosione. Zio Macon, zia Del, tutti vennero scaraventati indietro, contro i muri. Nello stesso momento, l'aria vorticante all'interno del cerchio spezzato venne risucchiata nel nero sopra di noi. E tutto finì. Il castello si dissolse in una normale soffitta, con una normale finestra che si apriva sotto le grondaie. Lena era riversa a terra, in un groviglio di capelli e braccia e gambe e incoscienza. Ma respirava. Macon si rialzò a fatica, fissandomi sbalordito. Poi si avvicinò alla finestra e la chiuse. Zia Del mi guardava con le lacrime che le rigavano il viso. — Se non l'avessi visto con questi occhi... Mi inginocchiai accanto a Lena. Non riusciva a muoversi, non riusciva a parlare, ma era viva. Lo sentivo, sentivo un lievissimo pulsare nella sua mano. Appoggiai la testa accanto alla sua. Era l'unica cosa che ero in grado di fare senza collassare. La famiglia di Lena si raccolse intorno a noi, un cerchio scuro che parlottava sopra la mia testa. — Ve l'avevo detto. Il ragazzo ha dei poteri. — Non è possibile. È un Mortale. Non è uno di noi. — Come avrebbe potuto, un Mortale, rompere un Cei chio Sanguinisi Come avrebbe potuto, un Mortale, allori tanare
un Mentem Interficere così potente da sciogliere tutti i Vincoli che proteggevano Ravenwood? — Non lo so, ma ci dev'essere una spiegazione. — Del sollevò la mano sopra la testa. — Evinco, contineo, colligo, includo. — Aprì gli occhi. — La casa è ancora Vincolata, Macon. Lo sento. Ma lei è arrivata ugualmente fino a Lena. — Certo. Non possiamo impedirle di venire a prendere la bambina. — I poteri di Sarafine crescono giorno per giorno. Reece adesso può vederla, quando guarda negli occhi di Lena. — La voce di Del era tremante. — Colpirci, qui, stanotte. Voleva dimostrare qualcosa. — E cosa, Macon? — Che può farlo. Sentii una mano sulla tempia. Mi carezzava la fronte. Io cercavo di ascoltare, ma quella mano mi dava sonnolenza. Volevo solo infilarmi nel mio letto, a casa mia. — Invece non può farlo. — Alzai gli occhi. Era Arelia che mi carezzava le tempie, come se fossi un passerotto ferito. Sentivo che stava cercando qualcosa, quello che c'era dentro di me. Mi frugava nella mente come per trovare un bottone perduto o un vecchio calzino. — È stata una sciocca. Ha commesso un errore cruciale. Abbiamo capito l'unica cosa che ci servisse sapere — dichiarò Arelia. — Allora sei d'accordo con Macon? Il ragazzo ha davvero dei poteri? — La voce di Del era ancora più sconvolta. — Avevi ragione, Delphine. Ci dev'essere un'altra spiegazione. Il ragazzo è un Mortale e noi sappiamo che i Mortali non possono avere alcun potere — replicò Macon con determinazione, come cercando di convincere se stesso oltre che gli altri. Ma io cominciavo a chiedermi se fosse davvero così.
Macon aveva detto la stessa cosa ad Amma, alla palude, che avevo qualche sorta di potere. Solo che non aveva senso, nemmeno per me. Io non ero uno di loro, di questo ero certo. Io non ero un Mago. Arelia guardò Macon. — Puoi Vincolare la casa fin che vuoi, Macon. Ma io sono tua madre e ti dico questo: puoi portare qui tutte le Duchannes e tutti i Ravenwood, costituire un Cerchio grande come questa contea dimenticata da Dio. Puoi lanciare tutti i Vincula che conosci. Non è la casa a proteggere Lena. È il ragazzo. Non ho mai visto niente del genere. Nessun Mago può frapporsi tra loro. — Così sembrerebbe. — Macon sembrava arrabbiato, ma non osò contraddire sua madre. Io ero troppo stanco per badarci. Non riuscivo nemmeno a sollevare la testa. Sentii Arelia sussurrare al mio orecchio. Sembrava di nuovo latino, ma le parole erano diverse. — Cruor pectoris mei, tutela tua est! Sangue del mio cuore, tua è la protezione!
01-11 La scritta sul muro La mattina dopo, non avevo idea di dove mi trovassi. Poi vidi le parole che coprivano i muri, il vecchio letto di ferro, le finestre e gli specchi, tutte tracciate a pennarello con la calligrafia di Lena. Allora ricordai. Sollevai la testa e mi pulii la guancia dalla saliva. Lena era ancora immersa nel sonno, vedevo solo la punta di un piede che spuntava dal letto. Mi tirai su, con la schiena indolenzita per aver dormito sul pavimento. Chissà chi ci aveva portato dalla soffitta fino in camera sua, o come. Il mio cellulare suonò; era la sveglia inserita perennemente, così Amma doveva urlare solo tre volte per farmi alzare. Ma oggi non suonava Bohemian Rhapsody. Suonava la canzone. Lena si mise a sedere, stupita e insonnolita. — Che cos... — Shh. Ascolta. La canzone era cambiata. Sedici anni, sedici lune Sedici volte hai sognato le mie paure Sedici proverà a Vincolare le sfere Sedici grida e solo tu le puoi udire...
— Spegnilo! — Lena prese il mio cellulare e lo spense, ma la musica continuò a suonare. — Parla di te, credo. Cosa vuol dire "Vincolare le sfere"? — Ho rischiato di morire, stanotte. Sono stanca che tutto riguardi sempre me. Sono stanca delle cose strane che mi succedono. Forse questa stupida canzone parla di te, tanto per cambiare. In effetti sei tu l'unico ad avere sedici anni, qui. — Frustrata, Lena sollevò di scatto la mano, l'aprì, la chiuse a pugno e la picchiò sul pavimento, come per uccidere un ragno. La musica cessò. Meglio non provocarla, oggi. Non potevo darle torto, a essere onesto. Era verdastra e malferma, peggio di Link dopo che Savannah l'aveva sfidato a bere una vecchia bottiglia di liquore alla menta trovata in dispensa, l'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale. A tre anni di distanza, Link si rifiutava ancora di mangiare una caramella alla menta. I capelli di Lena le stavano ritti in testa in circa quindici direzioni diverse e lei aveva gli occhi piccoli e gonfi di pianto. Dunque erano così le ragazze, al mattino. Non le avevo mai viste, non così da vicino. Cercai di non pensare ad Amma e all'inferno che mi attendeva al rientro. Mi arrampicai sul letto e mi tirai la testa di Lena sulle ginocchia, accarezzandole con le mani i capelli impazziti. — Tutto bene? Lei chiuse gli occhi e nascose la faccia nella mia felpa. Sapevo che dovevo puzzare come un opossum selvatico. — Credo di sì. — Ti ho sentita gridare. Per tutta la strada, da casa mia a casa tua. — Chi l'avrebbe detto che il Metapensiero mi avrebbe salvato la vita.
Come al solito, mi sfuggiva qualcosa. — Cos'è il Metapensiero? — Si chiama così la nostra capacità di comunicare tra di noi, indipendentemente da dove siamo. Certi Maghi hanno il dono del Metapensiero, altri invece no. Io e Ridley ci parlavamo sempre così a scuola, ma... — Non avevi detto che non ti era mai successo? — Non mi è mai successo con un Mortale. Zio Macon dice che è molto raro. Mi piace che lo sia. Lena mi diede una spintarella scherzosa. — Deriva dal lato celtico della nostra famiglia. È così che i Maghi si mandavano messaggi duranti i processi. Negli Stati Uniti lo chiamavano il Sussurro. — Ma io non sono un Mago. — Lo so, è davvero strano. Infatti, non dovrebbe funzionare con i Mortali. — Ovviamente. — Non ti pare un pochino più che strano? Che noi due possiamo metapensare, che Ridley sia riuscita a entrare a Ravenwood grazie a me. Persino tuo zio ha detto che in qualche modo io posso proteggerti. Com'è possibile? Insomma, io non sono un Mago. I miei genitori sono particolari, ma noncosì particolari. Lena si appoggiò alla mia spalla. — Forse non è necessario essere Maghi per avere dei poteri. Le sistemai i capelli dietro l'orecchio. — Forse basta solo essere innamorati. Lo dissi così. Niente battute sceme, nessun tentativo di cambiare argomento. Per una volta non ero imbarazzato, perché era la verità. Ci ero caduto in pieno. Da sempre, probabilmente. Ed era meglio che lei lo sapesse subito, se
ancora non lo sapeva, perché non c'era modo di tornare indietro, ormai. Non per me. Lei mi guardò e tutto il mondo scomparve. Come se ci fossimo solo noi, solo noi per sempre, e non ci fosse bisogno di alcuna magia. Ero felice ed ero triste, nello stesso momento. Non riuscivo a starle vicino senza provare delle sensazioni, tutte le sensazioni. Cosa stai pensando! Lena sorrise. Dovresti saperlo. Oppure, puoi leggere la scritta sul muro. E mentre lo diceva, la scritta sul muro apparve. Lentamente, una parola alla volta. Non sei l'unico a caderci. Le parole si scrissero da sole, nella stessa calligrafia arricciata che copriva il resto della stanza. Lena arrossì un po' e si coprì la faccia con le mani. — Sarà molto imbarazzante se ogni cosa che mi passa per la testa comincia a scriversi sui muri. — Non volevi farlo? — No. Non essere in imbarazzo, L. Le staccai le mani dal viso. Perché io provo la stessa cosa per te. I suoi occhi erano chiusi e mi protesi verso di lei per baciarla. Un bacio minuscolo, un niente di bacio. Ma mandò lo stesso il mio cuore alle stelle. Lena aprì gli occhi e sorrise. — Voglio sentire il resto. Su come mi hai salvato la vita.
— Non mi ricordo nemmeno come ho fatto ad arrivare fin qui. E poi non riuscivo a trovarti e la casa era piena di gente spaventosa che sembrava a una festa in maschera. — Non erano in maschera. — Lo sospettavo. — E poi mi hai trovata? — Teneva la testa sulle mie ginocchia e guardava in su verso di me con un sorriso. — Sei entrato nella stanza in groppa a un cavallo bianco e mi hai salvata da morte certa per mano di una Maga delle Tenebre? — Non scherzare. È stato spaventoso. E non c'era nessun cavallo bianco. Somigliava di più a un cane. — L'ultima cosa che ricordo è zio Macon che parlava del Vincolo. — Lena si rigirava una ciocca di capelli tra le dita, assorta. — Cos'era il Cerchio? — Il Cerchio Sanguinis. Il Cerchio di Sangue. Cercai di non sembrare spaventato. Avevo già seri problemi a digerire l'idea di Amma e dei suoi ossicini di pollo. Forse non ero in grado di sopportare del sangue di pollo. Sperando che fosse di pollo. — Io non ho visto sangue. — Non sangue vero, scemo. Sangue nel senso di legami di sangue, di famiglia. Tutta la mia famiglia è qui per la festa, ricordi? — Giusto. Scusami. — Te l'avevo detto. Halloween è una notte potente per la Magia. — Quindi stavate facendo una Magia, è così? Nel Cerchio? — Zio Macon voleva Vincolare Ravenwood. La casa è sempre Vincolata ma ogni anno, ad Halloween, lui la Vincola di nuovo per il nuovo anno. — Ma qualcosa è andato storto.
— Immagino di sì, perché eravamo nel Cerchio e poi ho sentito zio Macon che parlava a zia Del e poi tutti che gridavano. E parlavano di una donna. Sara qualcosa. — Sarafine. L'ho sentito anch'io. — Sarafine. Era quello il nome? Non l'ho mai sentita nominare. — Deve essere una Maga delle Tenebre. Sembravano terrorizzati. Non ho mai sentito tuo zio parlare con quel tono. Hai idea di cosa stesse succedendo? Questa Sarafine stava davvero cercando di ucciderti? — Ma non ero sicuro di voler sentire la risposta. — Non lo so. Non ricordo molto, tranne una voce, come di qualcuno che mi parlava da molto, molto lontano. Non ricordo cosa dicesse. — Lena si raggomitolò, appoggiandomi goffamente la testa sul petto. Mi pareva quasi di sentire il suo cuore battere sopra il mio, come un uccellino svolazzante in una gabbia. Non ci guardavamo, ma più vicini di così non avremmo potuto essere. Ed era proprio di questo che, quella mattina, entrambi avevamo bisogno. — Ethan. Stiamo finendo il tempo. Non c'è verso. Qualunque cosa sia questa Sarafine, non pensi che fosse qui per me, perché tra quattro mesi passerò alle Tenebre? — No. — No? Tutto qui? Non hai altro da dire sulla notte più brutta di tutta la mia vita, in cui ho rischiato di morire? — Lena si ritrasse. — Pensaci. Questa Sarafine, chiunque sia, verrebbe a cercarti se tu fossi dalla parte dei cattivi? No. Sarebbero i buoni a venirti a cercare. Guarda Ridley. Nessuno della tua famiglia le ha steso il tappeto rosso. — Tranne te. Somaro. — Mi tirò un pugno finto nelle costole.
— Esattamente. Perché io non sono un Mago. Sono solo un ridicolo Mortale. E come hai detto tu stessa, se Ridley mi chiedesse di buttarmi da una rupe, io lo farei. Lena scrollò i capelli. — Tua mamma te l'ha mai chiesto, Ethan Wate? Se i tuoi amici volessero buttarsi da una rupe, ti butteresti anche tu? La strinsi tra le braccia. Mi sentivo più felice di quanto avrei dovuto, considerando quello che era successo quella notte. O forse era Lena che si sentiva meglio e io lo percepivo. In quei giorni, la corrente che scorreva tra noi era così forte da rendere difficile distinguere ciò che ero io da ciò che era lei. Sapevo solo una cosa, che volevo baciarla. Tu entrerai nella Luce. E la baciai. Senza dubbio, Luce. La baciai di nuovo, stringendola tra le braccia. Baciarla era come respirare. Era una cosa che dovevo fare. Non riuscivo a farne a meno. Strinsi il mio corpo al suo. Sentivo il suo respiro, il suo cuore che batteva contro il mio petto. Tutto il mio sistema nervoso andò in cortocircuito. Mi si rizzarono i capelli. I suoi riccioli neri mi si attorcigliaro no tra le mani e il suo corpo si rilassò sul mio. Ogni volt;i che i suoi capelli mi sfioravano, era una piccola scossa d i elettricità. Aspettavo questo momento da quando l'avevo incontrata, da quando l'avevo sognata per la prima volta. Era come un fulmine che si schianta. Eravamo una cosa sola. Ethan. Anche nel pensiero, percepii l'urgenza nella sua voce. La sentivo anch'io, come se non riuscissi a esserle abbastanza vicino. La sua pelle era soffice e calda. Le scosse di elettricità si intensificarono. Le nostre labbra erano incandescenti. Non
avremmo potuto baciarci con più intensità. Il letto cominciò a tremare e poi si sollevò. Lo sentivo oscillare sotto di noi. Poi, fu come se i miei polmoni cedessero. La pelle diventò gelida. Le luci lampeggiavano, la stanza girava, o forse stava diventando buia. Non capivo. Non sapevo se ero io o se era la luce. Ethan! Il letto crollò a terra. Sentii rumore di vetri rotti, in lontananza, come di una finestra infranta. Sentii Lena che piangeva. Poi la voce di una bambina. — Cosa succede, Lena d'Avena? Perché sei così triste? Sentii una manina calda sul petto. Il calore si irradiò dalla mano in tutto il corpo e la stanza smise di girare e io ripresi a respirare e aprii gli occhi. Ryan. Mi misi a sedere. La testa mi martellava. Lena era accanto a me, con il capo premuto contro il mio petto, come un'ora prima. Solo che questa volta le finestre erano in frantumi, il letto era a pezzi e c'era una bambina bionda in piedi davanti a me, con la mano sul mio petto. Lena, tirando su col naso, cercò di allontanare da me un pezzo di specchio rotto, e quel che restava del suo letto. — Credo che abbiamo capito cos'è Ryan. Lena sorrise, asciugandosi le lacrime. Avvicinò a sé la bambina. — Una Taumaturga. Non ne avevamo mai avuto una nella nostra famiglia. — Immagino che sia un fantasioso nome magico per "guaritrice" — commentai, massaggiandomi le tempie. Lena annuì e baciò Ryan sulla guancia. — Qualcosa del genere.
27-11 Tipiche feste americane Il dopo-Halloween fu come la quiete dopo la tempesta. Ritornammo alla solita routine, pur sapendo che l'orologio continuava a girare. Uscivo la mattina e andavo fino all'angolo perché Amma non mi vedesse; Lena mi passava a prendere con il carro funebre, Boo Radley ci raggiungeva all'altezza dello Stop&Scippa e ci seguiva fino a scuola. Con qualche sporadica eccezione - Zinnie Reid, l'unico membro del gruppo di discussione della Jackson (cosa che rendeva difficile una vera discussione), e Robert Lester Tate, che aveva vinto la gara statale di spelling per due anni di seguito - l'unica persona che si sedeva con noi alla mensa era Link. Quando non eravamo a scuola, a mangiare sulle tribune del campo da basket o tenuti d'occhio dal preside Harper, eravamo rintanati nella biblioteca a rileggere il carteggio tra Genevieve e Ethan, con la speranza che Marian si avvicinasse di soppiatto per rivelarci qualche cosa. Nessuna traccia di cugine Sirene e provocanti armate di lecca-lecca e abbracci mortali, nessuna inspiegabile tempesta, nessuna infausta nuvola nera nel cielo, nemmeno un pranzo inquietante con Macon. Nulla fuori dall'ordinario. Tranne una cosa. La cosa più importante. Io ero pazzo
per una ragazza che sentiva esattamente la stessa cosa per me. Quando mai succedeva? Era quasi più facile convincersi che fosse una Maga che convincersi che fosse vera. Io avevo Lena. Lena era potente ed era bellissima. Ogni giorno era terrificante e ogni giorno era perfetto. Finché, all'improvviso, l'impensabile accadde. Amma la invitò alla cena del Ringraziamento. * * * — Comunque non capisco perché vuoi venire da noi per il Ringraziamento. È una cosa noiosa. — Ero nervoso. Era chiaro che Amma aveva in mente qualcosa. Ma Lena sorrise e io mi rilassai. Non c'era niente di più bello di quando mi sorrideva. Ogni volta mi faceva volare. — A me non pare tanto noioso. — È perché non sei mai stata alla Festa del Ringraziamento a casa mia. — Non sono mai stata alla Festa del Ringraziamento a casa di nessuno. I Maghi non celebrano il Giorno del Ringraziamento. È una festa dei Mortali. — Stai scherzando? Niente tacchino? Niente torta alla zucca? — No. — Oggi non hai mangiato molto, vero? — Direi di no. — Allora sei a posto. Avevo preparato Lena in anticipo, perché non si sorprendesse troppo per quello che avrebbe visto: le Sorelle che avvolgevano gallette nei tovaglioli e le nascondevano nella borsetta o zia Caroline e Marian che discutevano per metà della serata su dove si trovasse la prima biblioteca pubblica degli
Stati Uniti (Charleston) o sulle esatte proporzioni del verde Charleston (due parti di nero Yankee e una parte di giallo Ribelle). Zia Caroline era curatrice di un museo a Savannah e s'intendeva di architettura dell'Ottocento e di mobili d'epoca tanto quanto mia madre era esperta di munizioni e strategie belliche della Guerra Civile. Questo era ciò a cui Lena doveva prepararsi: Amma, le mie zie pazze, Marian e, per non farci mancare niente, anche Harlon James. Tralasciai l'unico dettaglio veramente importante. Visto l'andazzo generale, il Ringraziamento avrebbe probabilmente contemplato anche la presenza di mio padre in pigiama. Ma era una cosa che proprio non riuscivo a spiegarle. Amma prendeva molto sul serio la Festa del Ringraziamento, il che significava due cose. Mio padre sarebbe finalmente uscito dal suo studio, anche se tecnicamente non era una grande eccezione, dato che all'ora di cena era già buio, e avrebbe cenato a tavola con noi. Niente cereali. Era il minimo assoluto sotto il quale Amma non era disposta a scendere. Quindi, per onorare il pellegrinaggio di mio padre nel mondo che tutti noi abitavamo ogni giorno, Amma avrebbe cucinato un pranzo luculliano. Tacchino, purè di patate con salsa, fagioli al burro e granturco alla panna, patate dolci emarshmallows, prosciutto al miele e biscotti, zucca e torta di meringhe al limone che, dopo la serata alla palude, mi ero convinto Amma preparasse più per zio Abner che per noi. Mi fermai un secondo nel portico, ricordando la sensazione che avevo provato io sulla veranda dei Ravenwood, la prima volta che c'ero stato. Adesso toccava a Lena. Quella sera si era raccolta i capelli. Le toccai il punto in cui un ricciolo le era sfuggito, arrotolandosi intorno al mento. Pronta! Si lisciò il vestito nero. Era nervosa.
No. Dovresti. Le sorrisi e aprii la porta. — E anche se non sei pronta... — Il profumo era quello della mia infanzia. Profumo di pure di patate e duro lavoro. — Ethan Wate, sei tu? — gridò Amma dalla cucina. — Sissignora. — Hai con te la ragazza? Portala qui, così possiamo darle un'occhiata. La cucina era in fermento. Amma era ai fornelli, con il grembiule e un cucchiaio di legno in ciascuna mano. Zia Prue trafficava in giro, ficcando le dita in tutte le terrine. Zia Mercy e zia Grace giocavano a Scarabeo sul tavolo della cucina; nessuna di loro sembrava notare che non stavano componendo nessuna parola di senso compiuto. — Be', non restare lì impalato. Falla entrare. Ogni muscolo del mio corpo entrò in tensione. Non c'era modo di prevedere cosa avrebbero detto Amma e le Sorelle. E ancora non avevo idea del motivo per cui Amma avesse voluto invitare Lena. Lena fece un passo avanti. — E un piacere incontrarla, finalmente. Amma la squadrò da capo a piedi, asciugandosi le mani sul grembiule. — Dunque sei tu quella che tiene tanto impegnato il mio ragazzo. Il postino aveva ragione. Bella come il sole. — Chissà se Carlton Eaton glielo aveva detto mentre l'accompagnava a Wader's Creek. Lena arrossì. — Grazie. — Ho sentito che hai dato una bella scossa alla scuola. — Zia Grace sorrise. — Una buona cosa, direi. Non so proprio cosa insegnino a voi ragazzi, là dentro.
Zia Mercy collocò le sue lettere sul tabellone, una per una. V-O-L-L-I-A. Zia Grace si protese, strizzando gli occhi. — Mercy Lynne, stai imbrogliando di nuovo. Che razza di parola è questa? Usala in una frase. — Ho tanta vollia di assaggiare quella torta bianca. — Non è così che si scrive. — Almeno una di loro si ricordava l'ortografia. Zia Grace tolse una lettera. — Ci vuole una L sola. — O forse no. Non stavi esagerando. Te l'avevo detto. — È di Ethan questa voce? — Zia Caroline entrò in cucina giusto in tempo, con le braccia spalancate. — Vieni qui e dà un abbraccione a tua zia. — Ogni volta mi lasciava per un secondo a bocca aperta, per quanto somigliava a mia madre. Gli stessi lunghi capelli castani, sempre raccolti, gli stessi occhi marrone scuro. Ma mamma preferiva jeans e piedi nudi, mentre zia Caroline era più una bellezza del Sud, in prendisole e golfino. Credo che le piacesse vedere l'espressione sulla faccia della gente, quando scoprivano che era la curatrice del Museo di Storia di Savannah e non una debuttante attempata. — Come vanno le cose, su al Nord? — Zia Caroline diceva sempre "su al Nord" parlando di Gatlin, dato che si trovava a nord di Savannah. — Tutto bene. Mi hai portato le praline? — Non è quello che faccio sempre? Presi Lena per mano e la feci avvicinare. — Lena, questa è mia zia Caroline. E queste sono le mie prozie: Prudence, Mercy e Grace. — È un piacere incontrarvi. — Lena tese la mano, ma zia Caroline la avvolse in un grande abbraccio. La porta d'ingresso sbatté.
— Felice Ringraziamento a tutti! — Marian entrò portando una casseruola di pasticcio di carne e una tortiera, in equilibrio l'una sull'altra. — Cosa mi sono persa? — Scoiattoli. — Zia Prue si avvicinò ciabattando e si agganciò al braccio di Marian. — Cosa ne sai degli scoiattoli? — Okay, tutti fuori dalla mia cucina. Mi serve un po' di spazio per fare le mie magie e... Mercy Statham! Ti stai mangiando tutte le mie caramelle alla cannella! — Zia Mercy smise per un secondo di sgranocchiare. Lena mi lanciò un'occhiata, cercando di non sorridere. Potrei chiamare la nostra Cucina. Fidati. Amma non ha bisogno dell'aiuto di nessuno, quando c'è da cucinare. Ha una magia tutta sua. Ci riversammo tutti nel salotto. Zia Caroline e zia Prue discutevano su come coltivare il kaki in veranda. Zia Grace e zia Mercy stavano ancora bisticciando su come si scrivesse "voglia", con Marian che faceva da arbitro. Ce n'era abbastanza da far impazzire chiunque, ma quando guardai Lena incastrata tra le Sorelle, la vidi felice, addirittura gongolante. È bello. Stai scherzando! Era questa la sua idea di una festa in famiglia? Pasticcio di carne e Scarabeo e vecchie zie che bisticciavano tra loro? Non ne ero sicuro, ma sapevo che era quanto di più lontano ci potesse essere dalla Festa della Raccolta. Se non altro, nessuno sta cercando di ammazzare nessun altro. Dagli altri quindici minuti, L. Intercettai lo sguardo di Amma dalla porta della cucina. Ma non era me che stava guardando: era Lena. Amma stava decisamente architettando qualcosa.
La cena del Ringraziamento si svolse come tutti gli altri anni. Ma niente era più come prima. Mio padre era in pigiama, la sedia di mia madre era vuota e io sotto il tavolo tenevo la mano di una bellissima Maga. Per un secondo fu una sensazione travolgente, di felicità e di tristezza allo stesso tempo, come se le due cose fossero in qualche modo intrecciate. Ma ebbi solo un istante per rifletterci. Facemmo appena in tempo a dire "amen" che le Sorelle cominciarono a imboscare gallette, Amma a spalare montagne di purè e laghi di salsa nei piatti e zia Caroline a spettegolare. Sapevo cosa stava succedendo. Se c'era abbastanza da lavorare, abbastanza da dire, abbastanza torta da mangiare, forse nessuno avrebbe notato la sedia vuota. Ma non sarebbero bastate tutte le torte del mondo, nemmeno nella cucina di Amma. Comunque, zia Caroline era determinata a farmi parlare. — Ethan, ti serve qualcosa per la rievocazione storica? In soffitta ho delle giubbe che sembrano decisamente autentiche. — Non me lo ricordare. — Mi ero quasi dimenticato che, per passare l'esame di storia, quell'anno avrei dovuto vestirmi da soldato confederato e partecipare alla rievocazione della battaglia di Honey Hill. Si faceva tutti gli anni, a febbraio, ed era l'unica ragione per cui i turisti si spingevano fino a Gatlin. Lena prese un biscotto. — Io proprio non capisco perché questa rievocazione sia così importante. Mi sembra una faticaccia ricreare una battaglia di oltre cent'anni fa di cui possiamo leggere tranquillamente sui libri di storia. Oh-oh. Zia Prue trasalì; questa era blasfemia, per quel che la riguardava. — Dovrebbero bruciarla, quella vostra scuola, raderla al suolo! Non vi insegnano niente di Storia. Non si può capire la Guerra per l'Indipendenza del Sud da nessun libro di
testo. Dovete vederla con i vostri occhi, tutti voi ragazzi dovreste, perché la stessa nazione che combatté unita nella Rivoluzione Americana per l'Indipendenza, si rivoltò contro se stessa durante la Guerra. Ethan, di' qualcosa. Cambia argomento. Troppo tardi. Ora aspettati l'inno nazionale americano. Marian spezzò una galletta e la imbottì di prosciutto. — Zia Prue ha ragione. La Guerra Civile ha messo gli uni contro gli altri i cittadini di questa nazione, spesso fratello contro fratello. È stato un capitolo tragico della Storia americana. Più di mezzo milione di persone morirono, e più per malattia che in battaglia. — Un capitolo tragico, proprio così — zia Prue annuì. — Su, non agitarti così, Prudence fané. — Zia Grace le diede un buffetto sul braccio. Lei le allontanò la mano. — Non dirmi che sono agitata. Sto solo cercando di insegnargli a distinguere la testa di un porco dalla sua coda. Sono l'unica che gli insegna qualcosa, a questi ragazzi. La loro scuola dovrebbe pagarmi! Avrei dovuto avvisarti di non provocarle. Me lo dici adesso! Lena, a disagio, si sistemò sulla sedia. — Chiedo scusa. Non volevo mancarvi di rispetto. Non avevo mai conosciuto nessuno che fosse così esperto della Guerra. Bella mossa. Se per esperto intendi ossessionato. — Su, non dispiacerti, tesoro. Prudence Jane ogni tanto perde le staffe. — Zia Grace tirò una gomitata a zia Prue. È per questo che le correggiamo il tè con il whisky. — È colpa di tutto quel croccante alle arachidi che ci ha portato Carlton. — Zia Prue guardò Lena tutta contrita. — Troppi zuccheri mi creano qualche difficoltà. Difficoltà a starne lontana.
Mio padre tossì mentre rigirava il suo purè nel piatto con aria assente. Lena vide un'opportunità di cambiare argomento. — Ethan mi ha detto che lei è uno scrittore, signor Wate. Che tipo di libri scrive? Mio padre alzò gli occhi e la guardò, ma non rispose. Probabilmente non si era nemmeno reso conto che Lena stesse parlando con lui. — Mitchell sta lavorando a un nuovo libro. Una cosa grossa. Forse il più importante che abbia mai scritto. E ne ha scritti un sacco, di libri. Quanti sono, adesso, Mitchell? — gli chiese Amma, con il tono che si usa con i bambini. Sapeva benissimo quanti libri aveva pubblicato mio padre. — Tredici — borbottò lui. Lena, a differenza del sottoscritto, non si lasciò scoraggiare dalle spaventose abilità sociali di mio padre. Lo guardai, capelli spettinati, occhi cerchiati di nero. Da quando era messo così male? Lena incalzò. — Di cosa parla il suo libro? Mio padre si rianimò, per la prima volta in tutta la sera. — È una storia d'amore. È stato un lungo viaggio, questo libro. Il grande romanzo americano. Si potrebbe definire il coronamento della mia carriera, come L'urlo e il furore per Faulkner. Ma non vorrei parlare della trama. No, non a questo punto. Non quando sono così vicino... a... — Stav;i vaneggiando. Poi smise di colpo di parlare, come se qualcuno gli avesse premuto un bottone sulla schiena. Fissò lo sguai do sulla sedia vuota di mia madre e tornò alla sua deriva. Amma era in ansia. Zia Caroline cercò di distrarci da quella che stava rapidamente diventando la serata più imbarazzante di tutta la mia vita. — Lena, da dove hai detto che vieni? Ma non riuscii a sentire la risposta. Non riuscivo a sentire più niente. Intorno a me, tutto cominciò a muoversi al
rallentatore. A sfumare, a espandersi e contrarsi, come le vampe d'afa. Poi... La stanza si congelò, in un certo senso. Io congelai. E mio padre. I suoi occhi erano socchiusi, le labbra arrotondate per produrre un suono che non aveva avuto l'opportunità di uscire. Aveva ancora gli occhi fissi sul piatto colmo di purè che non aveva nemmeno assaggiato. Le Sorelle, zia Caroline e Marian erano come delle statue. Anche l'aria era perfettamente immobile. Il pendolo dell'orologio si era fermato a metà dell'oscillazione. Ethan! Stai bene! Cercai di risponderle, ma non ci riuscii. Quando Ridley mi aveva tenuto nella sua stretta mortale, ero sicuro che sarei morto per congelamento. Anche adesso ero congelato, ma non sentivo freddo e non ero morto. — Sono stata io? — chiese Lena ad alta voce. Solo Amma potè rispondere. — A fare un Vincolo Temporale? Tu? Probabile come se dall'uovo di questo tacchino nascesse un alligatore. — Rise sbuffando dal naso. — No, non sei stata tu, bambina. Questa è una cosa più grande di te. I Grandi pensano sia ora che noi due ci facciamo una chiacchierata, da donna a donna. Nessuno ci può sentire. Tranne me. Io vi sento. Ma le parole non mi uscirono. Sentivo Amma e Lena parlare, ma non riuscivo a produrre alcun suono. Amma guardò verso il soffitto. — Grazie, zia Delilah. Apprezzo l'aiuto. — Si avvicinò al carrello portavivande e tagliò una fetta di torta alla zucca. La mise su un elegante piatto di porcellana che posò al centro del tavolo. — Lascio questa fetta per te e per i Grandi. Ricordati che l'ho fatto. — Che sta succedendo? Cos'ha fatto agli altri?
— Niente. Mi sono solo ritagliata un po' di tempo per noi. — Lei è una Maga? — No, sono solo una Veggente. Vedo ciò che deve essere visto, ciò che nessun altro può o vuole vedere. — Lei ha fermato il tempo? — I Maghi potevano farlo, potevano fermare il tempo. Me l'aveva detto Lena. Ma solo quelli molto potenti. — Io non ho fatto proprio niente. Ho solo chiesto ai Grandi un po' di aiuto e zia Delilah mi ha esaudito. Lena sembrava confusa, o forse spaventata. — Chi sono i Grandi? — I Grandi sono la mia famiglia nell'Aldilà. Mi danno una mano, ogni tanto, e non sono i soli. Molti altri sono con loro. — Amma si protese sulla tavola, fissando Lena negli occhi. — Perché non hai il braccialetto? — Come? — Melchizedek se n'è dimenticato? Gli avevo raccomandato di fartelo portare sempre. — Me l'ha dato, ma io me lo sono tolto. — E perché mai hai deciso di fare una cosa del genere? — Abbiamo capito che bloccava le visioni. — Qualcosa bloccava, sì. Finché non hai smesso di portarlo. — Cosa bloccava? Amma allungò la mano e prese quella di Lena, girandola a palmo in su. — Non volevo essere io a dirtelo, bambina. Ma né Melchizedek né la tua famiglia te lo diranno mai. Nessuno di loro. E tu devi sapere. Devi essere preparata. — Preparata per cosa? Amma guardò di nuovo verso il soffitto, mormorando sottovoce. — Lei sta per arrivare, bambina. Verrà a prenderti. Ed è una forza da non sottovalutare. Nera come la notte. — Lei chi? Chi verrà a prendermi?
— Vorrei tanto che te l'avessero detto loro. Non avrei mai voluto che toccasse a me. Ma i Grandi... loro dicono che qualcuno te lo deve dire, prima che sia troppo tardi. — Dirmi cosa? Chi sta arrivando? Amma tirò fuori dalla scollatura della camicetta un sacchettino appeso a un cordoncino di cuoio e lo strinse tra le dita. Abbassò la voce, come se temesse che qualcuno potesse sentirla. — Sarafine. La Maga delle Tenebre più nere. — Chi è Sarafine? Amma esitò, stringendo più forte il sacchettino. — Tua madre. — Non capisco. I miei genitori sono morti quando ero piccola e mia madre si chiamava Sara. L'ho letto sull'albero genealogico. — Tuo padre è morto, questo sì. Ma tua madre è viva, come è vero che io sono qui. E sai come sono gli alberi genealogici, qui nel Sud, mai così precisi come pretendono di essere. Lena sbiancò. Tentai con tutte le mie forze di avvicinarmi, di prenderle la mano, ma riuscii solo a spostare un dito. Non avevo alcun controllo sul mio corpo. Non potevo fare niente se non guardare Lena che precipitava nel buio, da sola. Proprio come nei sogni. — E lei è nelle Tenebre? — È la Maga delle Tenebre più nera che esista attualmente. — Perche mio zio non mi ha raccontato niente? O mia nonna? Mi hanno sempre detto che era morta. Perché avrebbero dovuto mentirmi? — C'è la verità e poi c'è la verità. Spesso non sono la stessa cosa. Immagino che volessero proteggerti. Pensano ancora di poterlo fare. Ma i Grandi non ne sono tanto sicuri. Non volevo essere io a dirtelo, ma Melchizedek è testardo. — E lei perché sta cercando di aiutarmi? Io credevo... credevo di non esserle simpatica.
— Non ha niente a che fare con la simpatia, questo. Lei sta venendo a prenderti e tu non devi avere nessuna distrazione. — Amma inarcò un sopracciglio. — E non voglio che succeda niente al mio ragazzo. Questa cosa è più grande di te, più grande di entrambi. — Che cosa è più grande di noi? — Tutto. Tu ed Ethan non eravate fatti per questo. Lena era confusa. Amma stava di nuovo parlando per enigmi. — Cosa vuol dire? Amma si girò di scatto, quasi che qualcuno le avesse battuto sulla spalla. — Come dici, zia Delilah? — Amma tornò a rivolgersi a Lena. — Non ci resta molto tempo. Il pendolo dell'orologio prese a spostarsi quasi impercettibilmente. La stanza cominciò a rianimarsi. Le palpebre di mio padre si abbassarono lentamente, tanto che ci vollero diversi secondi prima che le ciglia gli sfiorassero le guance. — Rimettiti il braccialetto. Ti serve tutto l'aiuto possibile. Il tempo riprese di scatto il proprio corso... Battei le palpebre un paio di volte, guardandomi intorno. Mio padre stava ancora fissando il suo purè. Zia Mercy stava ancora avvolgendo una galletta nel tovagliolo. Mi portai una mano davanti agli occhi e agitai le dita. — Che diavolo è stato? — Ethan Wate! — esclamò zia Grace. Amma stava rompendo le sue gallette per riempirle di prosciutto. Alzò gli occhi e mi guardò, colta alla sprovvista. Era evidente che non aveva avuto intenzione di farmi ascoltare la loro chiacchierata tra donne. Mi lanciò l'Occhiata. Tradotto: tieni la bocca chiusa, Ethan Wate. — Non usare questo linguaggio alla mia tavola. Non sei troppo cresciuto e ti posso ancora lavare la bocca con il sapone.
Cosa ti pare che sia? Prosciutto e gallette. Tacchino e ripieno. È tutto il giorno che cucino e adesso mi aspetto che tu mangi tutto. Guardai Lena. Il suo sorriso era sparito. Aveva gli occhi fissi sul piatto. Lena d'Avena. Torna da me. Non permetterò che ti succeda niente. Andrà tutto bene. Ma era troppo, troppo lontana. Lena rimase muta fino a Ravenwood. Quando arrivammo, spalancò la portiera, la sbatté dietro di sé e si avviò verso casa senza dire una parola. Stavo per andarmene senza accompagnarla dentro. Mi girava la testa. Non riuscivo a immaginare cosa provasse. Era già di per sé una cosa terribile perdere la mamma, ma che effetto poteva fare scoprire che ti voleva morto? Io avevo perso la mia, ma non mi ero perduto. Prima di andarsene, mi aveva ancorato: ad Amma, a mio padre, a Link, a Gatlin. La sentivo nelle strade, in casa mia, nella biblioteca, persino nella dispensa. Lena, invece, non aveva mai avuto niente di tutto questo. Era senza ancore e, come avrebbe detto Amma, "senza alcun ormeggio, andava alla deriva", come una di quelle zattere nella palude. Volevo essere io la sua ancora. Ma in quel momento nessuno poteva riuscirci. Lena passò come una furia davanti a Boo, già seduto sulla veranda senza nemmeno il fiatone, nonostante avesse doverosamente seguito la macchina per tutta la strada. Era rimasto nel mio cortile fino alla fine della cena. Aveva gradito le patate dolci e i marshmallows che gli avevo lanciato dalla porta, mentre Amma era in cucina a prendere dell'altra salsa.
La sentii sbraitare, dentro casa. Sospirai, scesi dalla macchina e mi sedetti sui gradini, accanto al cane. Avevo un mal di testa feroce, un calo di zuccheri. — Zio Macon! Zio Macon! Svegliati! Il sole è tramontato! Lo so che non stai dormendo. La sentivo urlare anche dentro la testa. Il sole è tramontato, lo so che non stai dormendo! Aspettavo sempre il giorno in cui Lena mi avrebbe rivelato la verità su Macon, come mi aveva rivelato quella su di sé. Qualunque cosa fosse, Macon non sembrava un Mago normale, supponendo che esistesse un Mago definibile in questo modo. Considerando la sua abitudine di dormire tutto il giorno, a sparire e comparire a suo piacimento, non ci voleva un genio per capire dove si andasse a parare. Ma non ero sicuro di volerlo scoprire proprio in quel momento. Boo mi fissava. Allungai la mano per accarezzarlo ma lui spostò la testa come a dire: "a posto così". Non toccarmi, ragazzo. Quando cominciammo a sentire dall'interno il fracasso di oggetti infranti, ci alzammo e seguimmo il rumore. Lena stava picchiando contro una delle porte del piano di sopra. La casa era tornata a quello che sospettavo fosse l'aspetto preferito da Macon: una decaduta eleganza prebellica. Segretamente, mi sentii sollevato di non ritrovarmi in un castello. Avrei voluto fermare il tempo e tornare indietro di tre ore. A dire la verità, se la casa di Lena si fosse trasformata in una misera roulotte, con tutti noi seduti da-vanti a una ciotola di avanzi, come il resto di Gatlin, sarei stato perfettamente felice. — Mia madre? Mia madre? La porta si spalancò. Il Macon che si presentò sulla soglia era impresentabile. Aveva un pigiama spiegazzato, anzi, odio dirlo ma quella che aveva addosso era più una camicia da notte.
Gli occhi erano più rossi del solito e la pelle più bianca. I capelli arruffati. Sembrava che fosse stato investito da un camion. A modo suo, non era molto diverso da mio padre. Un relitto con i fiocchi. Forse con più fiocchi. Tranne che per la camicia da notte: mio padre, nemmeno morto si sarebbe mostrato vestito da donna. — Mia madre è Sarafine? Quell'essere che ha cercato di uccidermi la notte di Halloween? Come hai potuto tenermelo nascosto? Macon scosse la testa e si passò una mano tra i capelli, infastidito. — Amarie. — Avrei pagato qualunque cifra per vedere Macon e Amma affrontarsi in uno scontro diretto. Avrei scommesso tutto su di lei. Macon uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Intravidi l'interno per un attimo. Sembrava uscito dal Fantasma dell'opera, con candelabri in ferro battuto più alti di me, un letto a baldacchino nero, drappeggiato di velluti grigi e neri. Anche le finestre erano schermate dallo stesso tessuto che pendeva tetro sopra le persiane, anch'esse nere. Persino le pareti erano rivestite da una logora carta da parati nera e grigia, vecchia forse di cent'anni. La stanza era buia, nera come la pece, nera come la notte. L'effetto era agghiacciante. Buio, buio assoluto, qualcosa più di un'assenza di luce. Non appena Macon oltrepassò la soglia ed emerse nel corridoio, era vestito di tutto punto, senza un capello fuori posto, senza una piega nei pantaloni o nella camicia bianca inamidata. Anche le scarpe di pelle non avevano nemmeno un graffietto. Era completamente diverso dall'attimo precedente. E tutto quello che aveva fatto era stato uscire dalla porta della propria camera.
Guardai Lena. Lei non l'aveva nemmeno notato e io rabbrividii, pensando per un momento a quanto fosse diversa la sua vita dalla mia. — Mia madre è viva? — Temo che sia un po' più complicato di così. — Ti riferisci alla parte in cui vuole uccidermi? Quando pensavi di dirmelo, zio Macon? Dopo la Reclamazione? — Per favore, non ricominciare. Tu non entrerai nelle Tenebre. — Macon sospirò. — Non riesco a immaginare come tu possa pensare il contrario. Dato che sono la figlia - testuali parole - della Maga delle Tenebre più nera che esista attualmente. — Capisco che tu sia sconvolta. È una cosa molto grossa da accettare e avrei dovuto dirtela io stesso. Ma devi credermi, stavo solo cercando di proteggerti. Lena era più che arrabbiata. — Proteggermi! Mi hai fatto credere che Halloween fosse solo un attacco generico e invece si trattava di mia madre! Che è viva e stava cercando di uccidermi, eppure tu non hai pensato che forse avrei dovuto esserne informata? — Non sappiamo se sta cercando di ucciderti. Le cornici dei quadri cominciarono a sbattere contro le pareti. Le lampadine delle applique saltarono una dopo l'altra, per tutta la lunghezza del corridoio. La pioggia cominciò a battere contro le persiane. — Non abbiamo già avuto abbastanza cattivo tempo nelle ultime settimane? — Su cos'altro mi hai mentito? Cosa scoprirò la prossima volta? Che anche mio padre è vivo? — Temo di no. — Macon lo disse come se fosse una tragedia, qualcosa di troppo triste per parlarne. Era lo stesso tono che usava la gente parlando della morte di mia madre. — Tu mi devi aiutare! — La voce le si spezzava in gola.
— Farò tutto quanto è in mio potere per aiutarti, Lena. Come ho sempre fatto. — Non è vero! — attaccò lei. — Tu non mi hai detto dei miei poteri. Non mi hai insegnato come proteggermi. — Non conosco l'entità dei tuoi poteri. Sei una Naturale. Quando avrai bisogno di fare qualcosa, la farai. A modo tuo, con i tuoi tempi. — Mia madre vuole uccidermi. Io non ho tempo. — Come ho già detto, non sappiamo se sta davvero cercando di ucciderti. — E allora come spieghi Halloween? — Ci sono altre possibilità. Io e Del stiamo cercando di capire. — Macon le voltò le spalle, come se volesse rientrare in camera. — Ti devi calmare. Possiamo riparlarne più tardi. Lena guardò un vaso su una credenza in fondo al corridoio. Come se fosse stato tirato da una corda, seguì la direzione dello sguardo di Lena dalla credenza alla parete accanto alla porta di Macon, volò lungo il corridoio e si schiantò contro il muro. Abbastanza lontano da lui per non ferirlo, ma abbastanza vicino per mandare un messaggio chiaro. Non era stato un incidente. Non era una di quelle volte in cui Lena perdeva il controllo e le cose succedevano. L'aveva fatto di proposito. Aveva la piena padronanza della situazione. Macon si voltò così rapidamente che non percepii nemmeno il movimento. Ora era faccia a faccia con Lena. Era sconvolto quanto me ed era arrivato alla mia stessa conclusione: non era stato un incidente. E l'espressione sul volto di Lena rivelava che anche lei era altrettanto sorpresa. Macon sembrava addolorato, pur nei limiti della sua capacità di manifestare emozioni. — Come dicevo, quando avrai bisogno di fare qualcosa, la farai.
Poi Macon si rivolse a me. — Sarà ancora più pericoloso, temo, nelle prossime settimane. Le cose sono cambiate. Non lasciarla da sola. Quando è qui posso proteggerla, ma mia madre aveva ragione. A quanto pare, anche tu puoi farlo, forse meglio di me. — Pronto? Ti sento anch'io! — Lena si era ripresa dalla sua prova di forza e dalla reazione di Macon. Sapevo che poi si sarebbe pentita della sfuriata, ma adesso era troppo arrabbiata per capirlo. — Non parlare di me come se non fossi presente. Una lampadina esplose alle spalle di Macon, ma lui non batté ciglio. — Ma senti quello che dici? Io devo sapere! Sono io quella in pericolo! Sono io quella che lei vuole, e non so nemmeno perché. Si fissavano, un Ravenwood e una Duchannes, due rami dello stesso contorto albero di Maghi. Forse era il momento di defilarmi. Macon mi guardò. La sua faccia mi disse di sì. Lena mi guardò. La sua faccia mi disse di no. Lei mi prese per mano e sentii il calore. Bruciante. Era in fiamme, furente come mai l'avevo vista. Mi sembrava impossibile che non fossero esplose tutte le finestre della casa. — Tu sai perché lei mi perseguita, vero? — È... — Fammi indovinare. È complicato? — Zio e nipote si fissavano. I capelli di Lena si arricciavano. Macon rigirava l'anello d'argento. Boo arretrava strisciando sulla pancia. Furbo, lui. Desiderai poter strisciare anch'io fuori di lì. L'ultima delle lampadine esplose e rimanemmo al buio. — Mi devi dire tutto quello che sai sui miei poteri. — Queste erano le condizioni di Lena.
Macon sospirò e il buio cominciò a dissiparsi. — Lena, non è che io non voglia dirtelo. Dopo questa tua piccola dimostrazione, è chiaro che non so nemmeno io di cosa sei capace. Nessuno lo sa. E sospetto che non lo sappia nemmeno tu. — Lena non era molto convinta, ma lo stava a sentire. — È questo che significa essere una Naturale. Fa parte del talento. Lei cominciò a rilassarsi. La battaglia era finita e aveva vinto, per ora. — E allora cosa posso fare? Macon somigliava in modo sconcertante a mio padre quando, all'epoca in cui frequentavo la quinta elementare, era venuto nella mia stanza per parlarmi degli uccelli e delle api. — Prendere consapevolezza dei propri poteri può essere molto disorientante, certe volte. Forse c'è un libro che parla di questo. Se vuoi, possiamo andare a trovare Marian. Sì, certo. Scelte e cambiamenti: guida alla Magia per la ragazza moderna. Oppure Mia madre vuole uccidermi: un libro di auto-aiuto per adolescenti. Sarebbero state delle settimane molto lunghe.
28-11 Domus Lunae Libri — Oggi? Ma oggi non è festa. — Quando avevo aperto la porta, Marian era l'ultima persona che mi aspettassi di vedere, stretta nel suo cappotto. Adesso ero seduto con Lena sul freddo sedile del suo vecchio furgone turchese, diretti alla Biblioteca Magica. — Una promessa è una promessa. È il giorno dopo la Festa del Ringraziamento. Il Venerdì Nero. Può non sembrare un giorno di festa ma è ponte festivo, e tanto ci basta. — Marian aveva ragione. Amma probabilmente era in fila al centro commerciale con una manciata di buoni sconto da prima dell'alba; fuori era buio e non era ancora tornata. — La biblioteca di Gatlin è chiusa, ragion per cui la Biblioteca Magica è aperta. — Stessi orari? — le chiesi, mentre s'immetteva sulla via principale. Annuì. — Dalle nove alle sei. — Poi, strizzandoci l'occhio, precisò: — Dalle nove di sera alle sei di mattina. Non tutta la mia clientela si può avventurare fuori alla luce del giorno. — Non è giusto — si lamentò Lena. — I Mortali hanno un sacco di tempo in più e da queste parti non legge nessuno. Marian scrollò le spalle. — Come ho detto, io vengo pagata dalla contea di Gatlin. Prenditela con loro. Però, pensa a quanto
tempo in più avrai prima che scada il prestito dei tuoi Lunae Libri. La guardai senza capire. — Lunae libri. I Libri della Luna. Gli antichi testi dei Maghi, se vuoi chiamarli così. Non mi interessava come si chiamassero. Volevo solo capire cosa ci potessero rivelare i libri della Biblioteca Magica, o un libro in particolare. Perché eravamo a corto di due cose: di risposte e di tempo. Quando scendemmo dal furgone, non riuscivo a credere a dove ci trovavamo. Marian aveva parcheggiato sul ciglio della strada a due passi dalla Società Storica di Gatlin o, come mia madre e Marian amavano dire, la Società Isterica di Gatlin. La Società Storica era anche la sede del dar. Marian aveva fermato il furgone in modo da evitare la pozza di luce creata dal lampione sul marciapiede. Boo Radley era lì ad aspettarci, come se già sapesse. — Qui? I Lunae-non-so-cosa sono nella sede del dar? — Domus Lunae Libri. La Casa del Libro delle Lune. La Domus, per brevità. E no, nel dar c'è soltanto l'ingresso di Gatlin. — Io scoppiai a ridere. — Hai lo stesso gusto di tua madre per l'ironia — commentò Marian. Ci avvicinammo all'edificio deserto. Non avremmo potuto scegliere una serata migliore. — Ma non è uno scherzo. La Società Storica è il più vecchio edificio della contea, insieme a Ravenwood. Nient'altro è sopravvissuto al Grande Incendio — aggiunse Marian. — Il dar insieme ai Maghi? Come possono avere qualcosa in comune? — Lena era allibita. — Scoprirai che hanno in comune più di quanto tu possa immaginare. — Marian si affrettò verso il vecchio edificio di pietra, tirando fuori il mazzo di chiavi che conoscevo bene. —
Io, per esempio, sono membro di entrambe le società. — La guardai con incredulità. — Sono neutrale. Credevo di essermi spiegata. Non sono come te. Tu sei come Lila, ti fai coinvolgere troppo e... — Potevo finire io la frase: e guarda che fine ha fatto. Marian si bloccò, ma le parole erano sospese nell'aria. Non c'era niente che potesse dire o fare per rimangiarsele. Fu una mazzata, ma non commentai. Lena mi prese la mano, per tirarmi fuori da me stesso. Ethan. Tutto bene? Marian guardò di nuovo l'orologio. — Le nove meno cinque. Tecnicamente, non dovrei ancora farvi entrare. Ma io devo essere di sotto per le nove, in caso stanotte ci fossero altri visitatori. Seguitemi. Entrammo nel buio cortile dietro l'edificio. Lei armeggiò con le chiavi e scelse quello che avevo sempre creduto un ciondolo, perché non aveva affatto l'aspetto di una chiave. Era un anello di ferro con una cerniera di lato. Con mano esperta, Marian fece ruotare la cerniera finché non si ripiegò su se stessa con uno scatto, trasformando il cerchio in una falce di luna. La luna dei Maghi. Inserì la chiave alla base di quella che sembrava una grata di ferro, sul retro dell'edificio. Girò e la grata si aprì. Dietro c'era una buia scala di pietra che scendeva verso un buio ancora più fitto, negli scantinati sotto gli scantinati del dar. Marian fece fare un altro giro alla chiave, verso sinistra, e una fila di torce si accese lungo i muri. Ora la scala era completamente illuminata dalla luce guizzante del fuoco e s'intravedeva persino l'insegna,DOMUS LUNAE LIBRI, incisa nell'arco di pietra dell'ingresso in fondo alle scale. Marian fece scattare un'altra volta la chiave e le scale sparirono, rimpiazzate di nuovo dalla grata di ferro.
— Tutto qui? Non entriamo? — La voce di Lena era infastidita. Marian fece passare la mano attraverso la grata. Era un'illusione ottica. — Io non sono una Maga, come sapete, ma qualcosa bisognava pur fare. I vagabondi continuavano a entrare di notte. Macon ha chiesto aiuto a Larkin e lui ha mascherato l'accesso, e ogni tanto passa per la manutenzione. Marian ci guardò, improvvisamente seria. — Bene, ci siamo. Se siete sicuri di farlo, io non vi posso fermare. Né vi potrò guidare in alcun modo, quando sarete laggiù. Non potrò impedirvi di prendere alcun libro, né potrò richiedervene la restituzione prima della prossima apertura della Domus. Mi mise la mano sulla spalla. — Hai capito bene, Ethan? Questo non è un gioco. Ci sono libri molto potenti, qui sotto: libri di Vincoli, antichi testi di magia, talismani della Luce e delle Tenebre, oggetti di potere. Cose che nessun Mortale ha mai visto, tranne me e i miei predecessori. Molti dei libri sono protetti da un incantesimo, altri sono colpiti da una maledizione. Quindi devi stare molto attento. Non toccare niente. Lascia che sia Lena a maneggiarli. I capelli di Lena ondeggiavano. Percepiva già la magia del luogo. Annuii, in tensione. Quello che sentivo io era un po' meno magico, avevo lo stomaco rovesciato come Link quando si era ubriacato di grappa alla menta. Chissà quante volte la signora Lincoln e le altre megere avevano camminato sul pavimento sopra le nostre teste, senza sospettare nulla di quello che si nascondeva nei sotterranei. — Indipendentemente da quello che troverete, ricordatevi che dobbiamo essere fuori di qui prima dell'alba. Dalle nove alle sei. La porta si apre solo in questa fascia oraria. Il sole sorgerà alle sei precise, come sempre nei giorni d'apertura. Se non sarete in cima a queste scale entro l'alba, resterete
intrappolati nella Biblioteca fino alla prossima apertura. E non ho modo di sapere come un Mortale possa sopravvivere a una simile esperienza. Mi sono spiegata bene? Lena annuì e mi prese per mano. — Adesso possiamo entrare? Non vedo l'ora. — Non posso credere che lo sto facendo davvero. Tuo zio Macon e Amma mi ammazzerebbero, se lo venissero a sapere. — Marian controllò l'orologio. — Dopo di voi. — Marian? Hai mai... mia madre, ha mai visto tutto questo? — Non potevo lasciar perdere. Non riuscivo a pensare ad altro. Lei mi guardò e i suoi occhi erano stranamente sfavillanti. — Tua madre è stata colei che mi ha trasmesso questo incarico. E con questo, sparì davanti a noi attraverso la grata illusoria e scese nella Domus. Boo Radley abbaiò, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. * * * I gradini erano freddi e muschiosi, l'aria umida. Esseri umidicci, esseri zampettanti, esseri che scavavano... non era difficile immaginarseli a proprio agio laggiù. Cercavo di non pensare alle ultime parole di Marian. Non riuscivo a immaginare mia madre che scendeva queste stesse scale. Non riuscivo a pensare che sapesse qualcosa di questo mondo nel quale io ero inciampato per caso, o meglio, di questo mondo che era inciampato addosso a me. Invece era proprio così e continuavo a chiedermi come fosse possibile. Ci era inciampata anche lei? O qualcuno l'aveva invitata? In qualche modo rendeva tutto più reale, il fatto che io e mia madre fossimo legati da questo segreto, anche se lei non era più qui a condividerlo con me.
C'ero io, adesso, su quei gradini di pietra, segnati e lisci come il pavimento di un'antica chiesa. Lungo i due lati delle scale si vedevano grossi blocchi di pietra grezza, le fondamenta di un antico edificio, esistito molto tempo prima che il dar venisse costruito. Guardai in fondo alle scale ma vidi solo dei contorni imprecisi, delle sagome nel buio. Non sembrava affatto una biblioteca. Somigliava di più a quello che probabilmente era, che era sempre stata: una cripta. In fondo alle scale, tra le ombre della cripta, innumerevoli minuscole volte s'inarcavano sopra di noi nel punto in cui le colonne, quaranta o cinquanta, si congiungevano al soffitto a cupole. Man mano che gli occhi si adattavano al buio, notai che le colonne erano diverse tra loro e che alcune erano come antiche querce contorte. Le loro ombre creavano l'effetto di una sorta di muta foresta scura nella sala rotonda. Era un luogo terrificante. Non c'era modo di capire per quanto si estendesse, poiché ogni lato si perdeva nelle tenebre. Marian infilò la chiave nella prima colonna, contrassegnata da una luna. Le torce lungo le pareti si accesero, illuminando la sala di luce guizzante. — Sono bellissime — sussurrò Lena. I suoi capelli continuavano ad arricciarsi. Mi chiesi quali sensazioni potesse suscitare in lei questo luogo, sensazioni che io non avrei mai conosciuto. È vivo. È potente. Come la verità. La verità, ogni verità, è qui, da qualche parte. — Raccolte in ogni parte del mondo, molto prima di me. Istanbul. — Marian ci indicava le cime delle colonne, le decorazioni, i capitelli. — Babilonia. — Ne indicò un'altra, con quattro teste di falco che spuntavano ai quattro lati. — Egitto, l'Occhio di Dio. — Ne toccò un'altra, con una spettacolare testa di leone. — Assiria.
Tastai il muro con la mano. Anche le pietre delle pareti avevano delle incisioni. Alcune rappresentavano delle teste teste di uomini, di altre creature, di uccelli - e ci fissavano tra le colonne come animali da preda. Altre pietre erano incise con simboli a me ignoti, geroglifici di Maghi e culture che non avrei mai conosciuto. Ci addentrammo nella cripta, che sembrava fungere da atrio, e di nuovo le torce si accesero, una dopo l'altra, come se ci seguissero. Le colonne giravano intorno a un tavolo di pietra posto al centro della sala. Gli scaffali, o quelli che immaginai potessero essere scaffali, si irradiavano dal cerchio centrale come i raggi di una ruota e sembravano arrivare fino al soffitto, creando uno spaventoso labirinto in cui immaginai che un Mortale potesse perdersi per sempre. Nella sala non c'era altro che le colonne e il tavolo rotondo di pietra. Marian prese una torcia da una staffa di ferro e me la passò. Ne diede un'altra a Lena e ne prese una per sé. — Date un'occhiata in giro. Io devo controllare la posta. Potrebbe esserci una richiesta di prestito interbibliotecario. — Per la Domus? — Non avevo considerato che ci potessero essere altre Biblioteche Magiche. — Ma certo. — Marian si voltò verso le scale. — Un momento. Come arriva la posta, qui? — Come arriva da te. Ce la consegna Carlton Eaton, con la pioggia o col sole. — Carlton Eaton sapeva tutto. Ma certo. Questo probabilmente spiegava perché fosse passato a prendere Amma nel cuore della notte. Chissà se apriva anche la posta dei Maghi. Chissà quante altre cose non sapevo di Gatlin e della gente che ci viveva. Non fu necessario chiedere. — Non siamo moltissimi, ma più di quelli che potresti pensare. Tieni a mente che Ravenwood esiste da prima di
questo vecchio edificio. Questa era una contea di Maghi, prima di essere una contea di Mortali. — Forse è il motivo per cui siete tutti così strani, da queste parti. — Lena mi tirò una gomitata. Io ero ancora fermo su Carlton Eaton. Chi altri sapeva cosa stava veramente succedendo a Gatlin, nell'altra Gatlin, quella con le Biblioteche Magiche sotterranee, quella dove le ragazze potevano far scoppiare un temporale o farti saltare giù da una rupe? Chi altri c'era nel giro dei Maghi, oltre a Marian e a Carlton Eaton? Oltre a mia madre? Ciccio? La professoressa English? Il professor Lee? Lee sicuramente no. — Non preoccuparti. Quando ne avrai bisogno, saranno loro a trovare te. Funziona così, da sempre. — Un momento. — Afferrai il braccio di Marian. — Mio padre lo sa? — No. — Almeno c'era una persona in casa mia che non vivesse una doppia vita, pur essendo fuori di testa. Marian ci elargì un ultimo consiglio. — Bene, meglio che vi mettiate al lavoro. La Domus è migliaia di volte più grande di qualsiasi biblioteca abbiate mai visto. Se vi perdete, tornate immediatamente sui vostri passi. È per questo che gli scaffali sono disposti a raggiera a partire da quest'unica sala. Se andate solo avanti o indietro, avrete meno probabilità di smarrirvi. — Come si fa a perdersi, se si può andare solo in linea retta? — Prova. Te ne accorgerai da solo. Lena ci interruppe. — Cosa c'è alla fine degli scaffali? Voglio dire, alla fine dei corridoi? Marian la guardò in modo strano. — Nessuno lo sa. Nessuno è mai arrivato così lontano da scoprirlo. Alcuni dei corridoi si trasformano in tunnel. Alcune parti della Domus non
sono mai state mappate. Ci sono molte cose qui sotto che nemmeno io ho mai visto. Un giorno, forse. — Cosa stai dicendo? Tutto finisce da qualche parte. Non ci possono essere file e file di libri che si diramano sotto l'intera città. Come sarebbe? Risali a prendere il tè a casa della signora Lincoln? Giri a sinistra e lasci un libro a zia Del, nel paese vicino? Prendi il tunnel a destra per fare due chiacchiere con Amma? — Ero un po' scettico. Marian mi sorrise, divertita. — Come pensi che Macon si procuri i suoi libri? Come pensi sia possibile che il dar non veda mai nessuno entrare e uscire? Gatlin è Gatlin. Alla gente piace così com'è, così come crede che sia. I Mortali vedono solo quello che vogliono vedere. Esiste una fiorente comunità di Maghi in questa contea e nei dintorni, da prima della Guerra Civile. Da centinaia di anni, Ethan, e tutto questo non cambierà all'improvviso. Non certo perché tu sei venuto a saperlo. — Non posso credere che zio Macon non mi abbia mai raccontato di questo posto. Pensate a quanti Maghi sono passati di qui. — Lena sollevò la torcia e prese un volume da uno scaffale. Il libro era pesante e riccamente rilegato e diffuse una nuvola di polvere grigia che si sparse intorno a noi. Cominciai a tossire. — La Magia. Una historia breve. — Ne prese un altro. — Siamo alla M, immagino. — Era una scatola di cuoio. Si apriva dall'alto e conteneva un rotolo. Lena lo sfilò. Anche la polvere sembrava più vecchia, e più grigia. — Magie acciocché si crei et si confonda. Questo è proprio vecchio. — Fa' attenzione. Ha più di qualche centinaio d'anni. Gutenberg inventò la stampa solo nel 1455. — Marian le tolse il rotolo dalle mani con grande cautela, come se fosse un bambino appena nato.
Lena prese un altro libro, rilegato in cuoio grigio. Magie e Confederati. I Maghi parteciparono alla Guerra? Marian annuì. — Schierati da entrambe le parti, con il Blu e con il Grigio. Fu una delle più grandi divisioni all'interno della comunità dei Maghi, purtroppo. Come per noi Mortali, del resto. Lena guardò Marian, rimettendo a posto il libro polveroso. — Nella mia famiglia siamo ancora in guerra, non è vero? Marian la guardò con tristezza. — Una casa divisa. È così che il presidente Lincoln definì l'America. E sì, Lena, temo proprio che sia così. — Le sfiorò la guancia. — Proprio per questo voi due siete qui, se ricordate. Per trovare ciò che vi serve, per capire il senso di una cosa senza senso. Sarà meglio che vi mettiate al lavoro. — Ci sono così tanti libri, Marian. Non puoi almeno indicarci la direzione giusta? — Non guardate me. Come vi ho detto, io non ho le risposte, ho solo i libri. Mettetevi in moto. Siamo con l'ora lunare qui sotto e potreste perdere il senso del tempo. Le cose non sono esattamente come sembrano, quando si è quaggiù. Spostavo lo sguardo da Lena a Marian. Avevo paura di perderle di vista entrambe. La Domus incuteva più timore di quanto pensassi. Meno biblioteca e più... be', catacomba. E il Libro delle Lune poteva essere ovunque. Io e Lena guardavamo gli infiniti scaffali, ma nessuno dei due avanzò di un passo. — Come faremo a trovarlo? Ci saranno milioni di libri, qui dentro. — Non ne ho idea. Forse... — Sapevo cosa stava pensando. — Vuoi che proviamo con il medaglione? — Ce l'hai? — Annuii e tirai fuori il fagottino caldo dalla tasca dei jeans. Passai la torcia a Lena.
— Dobbiamo scoprire cosa succede dopo. Ci deve essere qualcos'altro. — Aprii il fazzoletto che avvolgeva il cammeo e lo misi sulla pietra del tavolo di pietra al centro della sala. Notai un brillio familiare negli occhi di Marian, l'espressione che lei e mia madre avevano quando scoprivano qualcosa di particolarmente interessante. — Vuoi vedere anche tu? — Più di quanto immagini. — Marian prese lentamente la mia mano e io strinsi quella di Lena. Con le dita intrecciate alle sue, toccai il medaglione. Un lampo di luce accecante mi fece chiudere gli occhi. Poi vidi il fumo e sentii l'odore del fuoco, e non eravamo più lì... Genevieve sollevò il Libro per leggere le parole nella pioggia. Sapeva che pronunciandole avrebbe sfidato le Leggi della Natura. Quasi poteva sentire la voce di sua madre che le diceva di fermarsi... di pensare alla scelta che stava compiendo. Ma Genevieve non poteva fermarsi. Non poteva perdere Ethan. Cominciò l'incantesimo. CRUOR PECTORIS MEI, TUTELA TUA EST. VITA VITAE MEAE, CORRIPIENS TUAM, CORRIPIENS MEAM. CORPUS CORPORIS MEI, MEDULLA MENSQUE, ANIMA ANIMAE MEAE, ANIMAM NOSTRAM CONECTE. CRUOR PECTORIS MEI, LUNA MEA, AESTUS MEUS. CRUOR PECTORIS MEI. FATUM MEUM, MEA SALUS. — Fermatevi, bambina, prima che sia troppo tardi! — La voce di Ivy era disperata.
La pioggia era battente e un fulmine squarciò il fumo. Genevieve rimase con il fiato sospeso e aspettò. Nulla. Forse aveva sbagliato qualcosa. Socchiuse gli occhi per leggere meglio le parole nel buio. Le urlò nelle tenebre, nella lingua che meglio conosceva. SANGUE DEL MIO SANGUE, TUA È LA PROTEZIONE. VITA DELLA MIA VITA, LA TUA PRENDI, LA MIA PRENDI. CORPO DEL MIO CORPO, MIDOLLO E MENTE, ANIMA DELLA MIA ANIMA, ALLA NOSTRA ANIMA VINCOLATI. SANGUE DEL MIO CUORE, MIA LUNA, MIE MAREE. SANGUE DEL MIO CUORE. MIA SALVEZZA, MIO DESTINO. Pensò che gli occhi la ingannassero, quando vide le palpebre di Ethan fremere per aprirsi. — Ethan! — Per una frazione di secondo, i loro sguardi s'incontrarono. Ethan cercava il fiato per dire qualcosa. Genevieve accostò l'orecchio alle sue labbra e sentì sulla guancia il calore del suo alito. — Non ho mai creduto a vostro padre, quando diceva che era impossibile per una Maga e un Mortale stare insieme. Noi due avremmo trovato un modo. Io vi amo, Genevieve. — Ethan le mise qualcosa in mano. Un medaglione. Poi, improvvisi come si erano aperti, i suoi occhi si chiusero e il petto cessò di sollevarsi al ritmo del respiro. Prima che Genevieve potesse reagire, una potente scarica di elettricità le trapassò il corpo. Sentì il sangue pulsare nelle vene. Pensò che un fulmine l'avesse colpita. Ondate di dolore s'infransero su di lei. Genevieve cercò di resistere. Ma poi tutto si perse nel buio.
— Buon Dio del cielo, non prendetevi anche lei. Genevieve riconobbe la voce di Ivy. Dov'era! L'odore la riportò alla realtà. Limoni bruciati. Cercò di parlare, ma la gola sembrava piena di sabbia. Le palpebre fremettero. — Oh, Signore, vi ringrazio! — Ivy, inginocchiata accanto a lei nel fango, la guardava. Genevieve tossì, si aggrappò alla vecchia cercando di farla avvicinare. — Ethan è...! — sussurrò. — Mi dispiace, bambina. Se n'è andato. Genevieve aprì gli occhi. Ivy fece un balzo indietro, come se avesse visto il diavolo in persona. — Che il Signore abbia misericordia! — Cosa! Cosa succede, Ivy! La vecchia si sforzò di trovare un senso a ciò che vedeva. — I vostri occhi, bambina. Sono... sono cambiati. — Cosa stai dicendo! — Non sono più verdi. Sono gialli, gialli come il sole. A Genevieve non importava di che colore fossero i suoi occhi. Non le importava più di niente, ora che aveva perso Ethan. Cominciò a singhiozzare. La pioggia aumentò, trasformando in fango il terreno. — Vi dovete alzare, signorina Genevieve. Dobbiamo metterci in comunicazione con Coloro che sono nell'Aldilà. — Ivy cercò di rimetterla in piedi. — Ivy, non ha senso. — 1 vostri occhi... Vi avevo avvertito. Vi avevo detto della luna, che non c'è. Dobbiamo scoprire cosa significa. Dobbiamo consultare gli Spiriti. — Se c'è qualcosa di strano nei miei occhi, di sicuro è perché sono stata colpita da un fulmine. — Cosa avete visto! — Ivy sembrava nel panico.
— Ivy, cosa succede! Perché ti comporti in modo così strano! — Voi non siete stata colpita da un fulmine. È stato qualcos'altro. Ivy corse via verso i campi di cotone in fiamme. Genevieve la chiamò, cercò di rialzarsi, ma era ancora stordita. Abbandonò la testa nel fango. La pioggia le batteva insistente sul viso. Le gocce si mescolavano alle lacrime della sconfitta. Genevieve scivolava fuori e dentro la realtà presente, fuori e dentro lo stato di coscienza. Sentì la voce di Ivy, debole, lontana, che chiamava il suo nome. Quando riuscì di nuovo a mettere a fuoco lo sguardo, vide la vecchia accanto a sé, con la gonna raccolta tra le mani. Ivy teneva delle cose nelle pieghe della gonna e le rovesciò sul terreno zuppo accanto a Genevieve. Minuscole fiale di polvere e ampolle di sostanze simili alla sabbia o alla terra caddero cozzando tra loro. — Cosa stai facendo! — Sto facendo un'offerta. Agli Spiriti. Sono gli unici che possono dirci cosa significa tutto questo. — Ivy, calmati. Stai farneticando. La vecchia prese qualcosa da una tasca. Era un frammento di specchio. Lo mise davanti a Genevieve. C'era buio, ma non c'era possibilità di errore. Gli occhi di Genevieve ardevano. Da verde scuro erano diventati d'oro fiammeggiante e c'era inoltre un 'altra inequivocabile differenza: al centro, invece della pupilla rotonda e nera, c'erano due fessure a forma di mandorla, come le pupille di un gatto. Genevieve gettò lo specchio e guardò Ivy. Ma la vecchia non le badava. Stava mescolando le polveri e la terra, le faceva filtrare tra le dita, da una mano all'altra, sussurrando nell'antica lingua Gullah dei suoi antenati.
— Ivy, cosa stai... ! — Shh — sussurrò la vecchia. — Sto ascoltando gli Spiriti. Loro sanno cosa avete fatto. Ora ci diranno cosa significa tutto questo. Dalla terra delle sue ossa e dal sangue del mio sangue. — Ivy si punse il dito con il frammento di specchio e lasciò cadere le piccole gocce di sangue nella terra che filtrava tra le dita. — Fatemi sentire ciò che voi sentite. Vedere ciò che voi vedete. Sapere ciò che voi sapete. Poi si alzò in piedi, con le braccia aperte verso il cielo. La pioggia cadeva su di lei, la terra correva in rivoli scuri sulla sua veste. Iniziò a parlare di nuovo nella sua strana lingua e poi... — Non può essere. Lei non sapeva — gemette Ivy rivolta al cielo scuro sopra di lei. — Ivy, cosa c'è! Ivy tremava, si stringeva tra le braccia e gemeva. — Non può essere. Non può essere. Genevieve l'afferrò per le spalle. — Cosa! Cosa non può essere! Cosa mi è successo! — Ve l'avevo detto di non toccare quel libro. Ve l'avevo detto che era la notte sbagliata per la Magia, ma adesso è troppo tardi, bambina. Non c'è modo di tornare indietro. — Di che parli! — Ora siete maledetta, signorina Genevieve. Voi siete stata Reclamata. Siete passata alle Tenebre e non c'è niente che possiamo fare per impedirlo. Un baratto. Non potete prendere nulla dal Libro delle Lune senza dare qualcosa in cambio. — Cosa! Cos'ho dato! — Il vostro destino, bambina. Il vostro destino e il destino di ogni altro Duchannes che nascerà dopo di voi. Genevieve non capiva. Capiva però che ciò che aveva fatto non poteva essere disfatto. — Cosa significa!
— Alla Sedicesima Luna, nel Sedicesimo Anno, il Libro prenderà ciò che è stato promesso. Ciò che voi avete barattato. Il sangue di un figlio di una Duchannes. E quel figlio entrerà nelle Tenebre. — Tutti i figli di una Duchannes? Ivy chinò il capo. Genevieve non era l'unica a essere stata sconfitta, quella notte. — Non tutti. Genevieve sembrò tornare a sperare. — E quali! Come faremo a sapere quali? — Sarà il Libro a scegliere. Alla Sedicesima Luna, nel giorno del sedicesimo compleanno del figlio. — Non è servito a niente. — La voce di Lena sembrava soffocata, lontanissima. Vedevo solo fumo. Sentivo solo la voce di Lena. Non eravamo nella biblioteca e non eravamo nella visione. Eravamo da qualche parte, nel mezzo, ed era orribile. — Lena! Poi, per un momento, vidi il suo viso in mezzo al fumo. I suoi occhi erano enormi, scurissimi, tanto che il verde sembrava quasi nero. La sua voce era poco più di un sussurro. — Due secondi. È tornato in vita per due secondi e poi lei l'ha perso per sempre. Lena chiuse gli occhi e scomparve. — L! dove sei? — Ethan. Il medaglione. — Sentii la voce di Marian, come da una grandissima distanza. Avvertii il peso del cammeo nella mano. Capii. Lo lasciai cadere. Aprii gli occhi, tossendo per il fumo che avevo ancora nei polmoni. La sala girava, sfocata.
— Che diavolo ci fate voi due qui dentro? Mi concentrai sul medaglione finché tutto non tornò a fuoco. Era per terra, sul pavimento di pietra, e sembrava piccolo e innocuo. Marian mi lasciò la mano. Macon Ravenwood stava al centro della cripta, avvolto in un mantello ondeggiante. Amma era accanto a lui, con il cappotto buono abbottonato storto e la borsetta stretta tra le mani. Non so chi dei due fosse più arrabbiato. — Mi dispiace, Macon. Conosci le regole. I ragazzi mi hanno chiesto aiuto e io sono Vincolata a darglielo. — Marian sembrava molto provata. Amma si scagliò contro Marian, come se avesse inzuppato casa nostra di benzina. — Da come la vedo io, tu sei Vincolata a prenderti cura del figlio di Lila e della nipote di Macon. E non capisco come ciò che state facendo qui possa servire allo scopo. Aspettai che arrivasse una strigliata anche da Macon. Ma lui non disse una parola. Poi capii perché. Stava scrollando Lena, riversa sul tavolo al centro della sala, a braccia aperte, la faccia rivolta contro la pietra ruvida. Sembrava priva di conoscenza. — Lena! — La presi tra le braccia, ignorando Macon che era già accanto a lei. I suoi occhi erano ancora neri, fissi su di me. — Non è morta. Sta andando alla deriva. Penso di poterla raggiungere. — Macon agiva in silenzio, rigirava l'anello e i suoi occhi erano stranamente accesi. — Lena! Torna indietro! — Presi tra le braccia il suo corpo esanime e la strinsi al petto. Macon mormorava tra sé. Non distinguevo la parole, ma vedevo i capelli di Lena cominciare a muoversi in quel vento sovrannaturale che ormai conoscevo bene e che definivo tra me brezza magica.
— Non qui, Macon. La tua Magia non funzionerà, qui. — Marian stava freneticamente cercando qualcosa tra le pagine di un libro polveroso. La sua voce era tremante. — Non sta operando una Magia, Marian. Macon sta Viaggiando. Un Mago non potrebbe riuscirci. Nel luogo dov'è Lena adesso, solo quelli come lui possono raggiungerla. Giù nel profondo. — Amma cercava di essere rassicurante, ma non era molto convincente. Sentii il freddo impossessarsi lentamente del corpo vuoto di Lena e capii che Amma aveva ragione. Ovunque fosse, non era tra le mie braccia. Era molto lontana. Lo sentivo io stesso, che ero solo un Mortale. — Te l'ho detto, Macon. Questo è un luogo neutrale. Non c'è Vincolo che tu possa operare in una stanza di terra. — Marian camminava avanti e indietro e stringeva il libro come se la facesse sentire utile in qualche modo. Ma nel libro non c'erano risposte. L'aveva detto lei stessa. Qui la Magia non ci poteva aiutare. Ricordai i sogni, quando cercavo di tirare fuori Lena dal fango. Mi chiesi se fosse quello il luogo in cui dovevo perderla. Macon parlò. I suoi occhi erano aperti, ma non vedevano. Era come se fossero rivolti verso l'interno, verso il luogo dove si trovava Lena. — Lena. Ascoltami. Lei non ti può tenere con sé. Lei. Fissai Lena negli occhi vacui. Sarafine. — Tu se forte, Lena. Liberati. Lei sa che io non ti posso aiutare, in questo luogo. E ti sta aspettando nell'ombra. Devi cavartela da sola. Marian apparve con un bicchiere d'acqua. Macon gliela versò sul viso, nella bocca. Ma Lena non si mosse. Non potevo più sopportarlo.
La presi e la baciai sulle labbra, intensamente. L'acqua sgocciolò fuori. Era come se stessi facendo una respirazione bocca a bocca a un'affogata. Svegliati. L. Non puoi abbandonarmi adesso. Non così. Io ho bisogno di te più di lei. Le sue palpebre fremettero. Ethan. Sono stanca. Ritornò alla vita tossendo, rigurgitando acqua. Sorrisi, nonostante tutto, e lei ricambiò il mio sorriso. Se era di questo che parlavano i sogni, noi avevamo cambiato il finale. Ero riuscito a trattenerla. Ma in fondo al mio cuore, sapevo che non era questo il momento in cui lei mi scivolava via. Era solo l'inizio. In ogni caso, anche questa volta l'avevo salvata. Volevo abbracciarla. Volevo sentire la corrente tra di noi. Ma prima di poterla stringere a me, Lena balzò in piedi e sgusciò via dalle mie braccia. — Zio Macon! Macon era appoggiato al muro della cripta, quasi incapace di sostenere il proprio peso. Appoggiava la testa contro la pietra. Sudava, aveva il respiro greve, il volto era bianco come il gesso. Lena corse da lui e gli si aggrappò, una figlia in pena per il proprio padre. — Non avresti dovuto farlo. Lei avrebbe potuto ucciderti. — Viaggiare, qualunque cosa significasse, gli era costato un grande sforzo. Dunque, questa era Sarafine. Questo essere, chiunque fosse, era la madre di Lena. Se una semplice visita alla Biblioteca Magica era finita così, dubitavo di essere pronto a ciò che poteva accadere nei prossimi mesi. O, più precisamente, settantaquattro giorni.
* * * Lena, ancora bagnata, si sedette avvolta in una coperta. Sembrava una bambina di cinque anni. Guardai l'antica porta di quercia alle sue spalle, chiedendomi se sarei stato capace di trovare la via d'uscita da solo. Difficile. Ci eravamo addentrati in uno dei corridoi della Biblioteca Magica per una trentina di passi, poi giù per una scala e avanti ancora, passando attraverso una serie di porticine fino a un accogliente studiolo, una sorta di sala di lettura. Il corridoio ci era parso infinito, con una porta ogni pochi metri, come una specie di hotel sotterraneo. Nel momento in cui Macon si sedette, al centro del tavolo apparve un servizio da tè in argento, con esattamente cinque tazze e un piatto di biscotti. Forse anche la Cucina era scesa nella Biblioteca Magica. Mi guardai intorno. Non avevo idea di dove fossi, e di una cosa ero certo. Mi trovavo da qualche parte a Gatlin, eppure più lontano da Gatlin di quanto non mi fossi mai spinto. Comunque fosse, di sicuro non giocavo in casa. Cercai di trovare una posizione comoda su una sedia imbottita che sembrava appartenuta a Enrico VIII. E in effetti, non c'era modo di sapere che non fosse così. Anche l'arazzo sulla parete poteva provenire da un antico castello, o da Ravenwood. Rappresentava una costellazione, blu notte e argento. Ogni volta che lo guardavo, la luna appariva in una fase diversa. Macon, Marian e Amma erano seduti dall'altra parte del tavolo. Dire che io e Lena eravamo nei guai era voler essere ottimisti. Macon era così furioso da far tremare la sua tazza di tè. Amma era oltre. — Cosa ti fa pensare di poter decidere se il mio ragazzo è pronto per il Mondo Sotterraneo? Lila ti spellerebbe viva, se fosse qui. Hai del fegato, Marian Ashcroft.
Anche le mani di Marian tremavano mentre lei si portava alle labbra la tazza di tè. — Il tuo ragazzo? E mia nipote, allora? Mi pare che sia stata lei a subire l'attacco. — Dopo aver sbranato noi, Macon e Amma si stavano accanendo tra di loro. Non osavo guardare Lena. — Sei sempre stato una fonte di guai dal giorno in cui sei nato, Macon. — Amma spostò lo sguardo su Lena. — Ma non avrei mai creduto che tu avresti trascinato il mio ragazzo in questa storia, Lena Duchannes. Lena perse la pazienza. — Certo che l'ho trascinato in questa storia. Io faccio cose cattive. Quando vi deciderete a capirlo? E sarà sempre peggio! Il servizio da tè si sollevò dal tavolo e si immobilizzò a mezz'aria. Macon lo guardò senza nemmeno battere ciglio. Era una sfida. L'intero servizio si stabilizzò e atterrò delicatamente sul tavolo. Lena guardò suo zio come se ci fosse solo lui nella stanza. — Io entrerò nelle Tenebre. E non c'è niente che tu possa fare per impedirlo. — Non è vero. — Ah, no? Io farò la stessa fine di mia... — Non riuscì a dirlo. La coperta le scivolò dalle spalle. Mi prese la mano. — Ethan, tu ti devi allontanare da me. Prima che sia troppo tardi. Macon la guardò, irritato. — Tu non entrerai nelle Tenebre. Non essere così credulona. È Lei che vuole fartelo credere. — Il modo in cui pronunciò "Lei" mi ricordò il tono con cui diceva "Gatlin". Marian posò la tazza sul tavolo. — Adolescenti. Sempre così apocalittici.
Amma scosse la testa. — Alcune cose sono destinate ad accadere e altre si compiono col tempo. Questa non è ancora compiuta. Sentivo la mano di Lena che tremava nella mia. — Hanno ragione, L. Andrà tutto bene. Lei ritrasse la mano con rabbia. — Andrà tutto bene? Mia madre, una Cataclismica, sta cercando di uccidermi. La visione di un fatto accaduto tanti anni fa mi ha appena chiarito che tutta la mia famiglia è maledetta dai tempi della Guerra Civile. Io compirò sedici anni tra due mesi, e tu non sai dire niente di meglio di questo? Le presi di nuovo la mano, delicatamente, perché me lo lasciò fare. — Ho avuto anch'io la tua stessa visione. È il Libro a scegliere chi prendere. Forse non prenderà te. — Mi stavo aggrappando a qualsiasi cosa. E non c'era molto. Amma guardò Marian, sbattendo il piattino sul tavolo. La tazza tremò. — Il Libro? — Gli occhi di Macon scavarono nei miei. Cercai di reggere il suo sguardo, ma non ci riuscii. — Il Libro della visione. Non dire altro, Ethan. Dovremmo dirglielo, invece. Non possiamo farcela da soli. — Non è niente, zio M. Non sappiamo nemmeno cosa significhino, queste visioni. — Lena non voleva cedere ma, dopo quello che era appena successo, io sentivo che dovevo farlo. Dovevamo farlo. Gli eventi stavano precipitando e noi non avevamo nessun controllo. Mi sembrava di affogare e di non riuscire a salvare nemmeno me stesso. Figuriamoci Lena. — Forse le visioni significano che non tutti quelli della tua famiglia entrano nelle Tenebre quando vengono Reclamati. Che mi dici di zia Del? Di Reece? E credi che la piccola e
dolce Ryan entrerà nelle Tenebre, considerando che può guarire la gente? — dissi, avvicinandomi a lei. Lena si raggomitolò sulla sedia. — Tu non sai niente della mia famiglia. — Ma non ha torto, Lena. — Macon la guardò, esasperato. — Tu non sei Ridley. E non sei tua madre — rincarai, cercando di essere convincente. — E come lo sai? Non l'hai mai incontrata, mia madre. E io nemmeno, a parte nelle aggressioni psichiche che nessuno qui sembra in grado di prevenire. Macon cercò di essere rassicurante. — Eravamo impreparati a questi attacchi. Io non sapevo che Lei potesse Viaggiare. Non sapevo che avesse alcuni dei miei poteri. Viaggiare non è uno dei talenti solitamente concessi ai Maghi. — Sembra che nessuno sappia niente di mia madre, né di me. — È per questo che ci serve il Libro. — Questa volta, lo dissi guardando Macon dritto negli occhi. — Si può sapere qual è questo libro di cui continuate a parlare? — Macon stava perdendo la pazienza. Non dirglielo, Ethan. Dobbiamo. — Il Libro che ha maledetto Genevieve. — Macon e Amma si scambiarono un'occhiata. Sapevano già cosa stavo per dire. — Il Libro delle Lune. Se è così che è cominciata la maledizione, qualcosa nel libro potrebbe dirci come annullarla. Giusto? — Silenzio. Marian guardò Macon. — Macon... — Marian. Stanne fuori. Hai già interferito abbastanza e il sole sorgerà tra pochi minuti. — Marian sapeva. Sapeva dove trovare il Libro delle Lune e Macon voleva che tenesse la bocca chiusa.
— Zia Marian, dov'è il Libro? — La guardai negli occhi. — Tu ci devi aiutare. Mia madre ci avrebbe aiutati e tu non dovresti schierarti, giusto? — Stavo giocando sporco, ma era vero. Amma sollevò le mani e le lasciò cadere in grembo. Un raro segno di resa. — Ciò che è fatto è fatto. Hanno già iniziato a tirare il filo, Melchizedek. La vecchia maglia è destinata a disfarsi, in un modo o nell'altro. — Macon, ci sono dei protocolli. Se loro chiedono, io sono Vincolata a rispondere — aggiunse Marian. Poi mi guardò. — Il Libro delle Lune non è nella Domus. — E tu come lo sai? Macon si alzò per andarsene, voltandosi verso di noi. Aveva le mascelle serrate, gli occhi cupi e furenti. Quando finalmente parlò, la sua voce riecheggiò nella stanza. — Perché è il libro che ha dato il nome a questo archivio. È il libro più potente da qui all'Aldilà. È anche il libro che ha maledetto la nostra famiglia, per l'eternità. Ed è scomparso da più un secolo.
01-12 Caccia alle streghe Il lunedì mattina, io e Link imboccammo la Route 9 e ci fermammo al bivio per far salire Lena. A Link lei piaceva, ma non c'era verso di farlo salire fino a Ravenwood. Per lui era ancora la Casa Infestata. Se avesse saputo. Il ponte del Ringraziamento era stato solo un weekend lungo, ma a me era parso infinitamente più lungo, considerando la Zona d'Ombra della cena del Ringraziamento, i vasi che volavano tra Macon e Lena, il viaggio al centro della Terra senza uscire dai confini di Gatlin. Link, invece, aveva trascorso il tempo a guardare il football in televisione, a pestare i suoi cugini e a cercare di capire se ci fossero le cipolle nella palla di formaggio che sua madre aveva preparato per il Ringraziamento. Ma a sentire lui, c'erano nell'aria guai di altro genere e quel lunedì mattina poteva essere altrettanto pericoloso. Sua madre aveva arroventato le linee telefoniche nelle ultime ventiquattro ore, bisbigliando nel ricevitore dietro la porta chiusa della cucina. La mamma di Savannah e la mamma di Emily erano arrivate dopo cena e le tre erano scomparse in cucina... il loro quartier generale. Quando Link era entrato, con la scusa di prendersi qualcosa da
bere dal frigo, non era riuscito a sentire molto. Ma gli era bastato per capire quale fosse l'obiettivo di sua madre. — La cacceremo dalla nostra scuola, in un modo o nell'altro Lei e il suo cagnolino. Non era molto ma, conoscendo la mamma di Link, sapevo che c'era di che preoccuparsi. Mai sottovalutare fino a che punto le donne come la signora Lincoln possono arrivare, pur di proteggere i propri figli e il proprio paese da ciò che odiano di più: chiunque sia diverso da loro. E io lo sapevo bene. Mia mamma mi aveva raccontato dei suoi primi anni a Gatlin. Era una tale criminale che anche le più timorate di Dio tra le donne del paese si erano stancate a furia di diffondere maldicenze sul suo conto: lavorava di domenica, frequentava qualsiasi chiesa le piacesse o nessuna, era una femminista (che la signora Asher talvolta confondeva con comunista), era di sinistra e votava per il Partito Democratico (che, come osservava la signora Lincoln, già nel nome aveva il demonio) e, peggio ancora, era vegetariana (cosa che escludeva qualsiasi invito a cena da parte della signora Snow). E oltre a questo, oltre a non frequentare la chiesa giusta o il dar o l'Associazione dei Possessori di Armi, c'era il fatto che mia mamma era una forestiera. Ma mio padre era cresciuto qui ed era considerato uno dei figli di Gatlin. Così, quando mia madre era morta, le stesse donne che l'avevano condannata quando era viva erano venute a lasciare sulla nostra porta pasticci di carne di ogni tipo, stufati e spaghetti con ragù piccante e vendetta. Come se finalmente potessero avere l'ultima parola. Mia madre non l'avrebbe sopportato, e loro lo sapevano bene. Era stata quella la prima volta che mio padre si era chiuso a chiave nel suo studio per giorni. Io e Amma avevamo lasciato le teglie ad ammonticchiarsi sulla veranda, finché le signore del paese non
se le erano riportate via e avevano ripreso a parlare male di noi, come al solito. Ce l'avevano sempre loro, l'ultima parola. Io e Link lo sapevamo, ma Lena ancora no. Lena era schiacciata tra me e Link sul sedile del Catorcio. Si stava scrivendo qualcosa sulla mano. Riuscii a leggere solo: a pezzi come ogni altra cosa. Scriveva di continuo, come altri masticano la gomma o giocano con i capelli. Probabilmente non se ne rendeva nemmeno conto. Chissà se un giorno mi avrebbe permesso di leggere una delle sue poesie, e se per caso qualcuna era su di me? Link le lanciò un'occhiata. — Quando mi scrivi una canzone? — Non appena finisco quella che sto scrivendo per Bob Dylan. — Porca miseria — Link inchiodò davanti al cancello. Non potevo dargli torto. La vista di sua madre nel parcheggio, prima delle otto del mattino era terrificante. Eccola là. Il parcheggio era pieno di gente, molta più del solito. E di genitori. A eccezione del giorno dopo l'incidente della finestra, non si vedeva un genitore nel parcheggio della scuola da quando la mamma di Jocelyn Walker era venuta a trascinarla via dall'aula di Scienze durante il documentario sulla procreazione. C'era in ballo qualcosa di grosso. La mamma di Link passò una scatola a Emily che sguinzagliò, a lasciare su ogni auto un volantino dai colori fluorescenti. Alcuni svolazzavano al vento e riuscii a leggere qualcosa dalla relativa sicurezza del Catorcio. Sembrava una campagna di propaganda politica, ma senza candidato. DICIAMO NO ALLA VIOLENZA ALLA JACKSON! TOLLERANZA ZERO!
Link diventò rosso come un semaforo. — Mi dispiace, ragazzi. Dovete scendere. — Si abbassò sul sedile, scivolando così in basso da dare l'impressione che al volante non ci fosse più nessuno. — Non voglio che mia madre mi pesti a sangue davanti a tutta la squadra delle cheerleader. Strisciai giù e aprii la portiera per Lena. — Ci vediamo dentro, amico. Presi la mano di Lena e la strinsi. Pronta? Per quel che posso. Sgattaiolammo tra le macchine ai margini del parcheggio. Non potevamo vedere Emily, ma riuscivamo a sentire la sua voce da dietro il pickup di Emory. Tenete gli occhi aperti! — Emily si stava avvicinando al finestrino di Carrie Jensen. — Stiamo formando un nuovo club a scuola, i Jackson Angels. Cogliamo contribuire a tenere sicura la nostra scuola, denunciando atti di violenza o altri comportamenti insoliti che notiamo da queste parti. Personalmente, credo che sia una responsabilità di ogni studente della Jackson contribuire alla sicurezza della scuola. Se volete partecipare, ci incontriamo in mensa alla fine delle lezioni. — Mentre la voce di Emily svaniva in lontananza, la mano di Lena si strinse alla mia. Cosa significa? Non ne ho idea. Quelle sono completamente fuori di testa. Vieni. Cercai di farla alzare, ma lei mi tirò giù. Si rannicchiò dietro la ruota. — Mi serve un minuto. — Tutto okay? Guardale. Mi credono un mostro. Hanno formato un club contro di me.
— Il fatto è che qui non li sopportano i forestieri, e tu sei la ragazza nuova. In più, si è rotta una finestra. A qualcuno devono pur dare la colpa. Questa è... — Una caccia alle streghe. Non è questo che volevo dire. Ma lo stavi pensando. Le strinsi la mano e l'elettricità mi fece rizzare tutti i peli. Non lo fare. Sì, invece. Ho permesso a gente come loro di cacciarmi via dalla mia ultima scuola. Non permetterò che succeda di nuovo. Sbucammo dall'ultima fila di macchine e ce le ritrovammo davanti. Emily e sua madre stavano ammonticchiando sul retro del loro minivan le scatole di volantini avanzate. Eden e Savannah distribuivano i volantini alle cheerleader e a tutti i maschi interessati ad ammirare da vicino le gambe di Savannah o la sua scollatura. Poco lontano, la signora Lincoln parlava con le altre mamme, molto probabilmente promettendo di inserire le loro case nel Percorso Storico, in cambio di un paio di telefonate al preside Harper. Passò alla mamma di Earl Petty una cartellina con la clip e una penna. Mi ci volle un secondo per capire cosa fosse. Non c'era scampo. Sembrava una petizione. La signora Lincoln ci vide e ci fissò come se dovesse prendere la mira. Le altre madri seguirono il suo sguardo. Per un secondo non dissero niente. Pensai che forse erano dispiaciute per me e che forse avrebbero deposto i loro volantini, avrebbero caricato i minivan e le station wagon e sarebbero tornate a casa. La signora Lincoln, a casa della quale avevo dormito metà delle mie notti. La signora Snow, che tecnicamente era mia cugina di non so che grado. La signora Asher, che mi aveva fasciato la mano quando me l'ero ferita con un amo da pesca, a dieci anni. La signora Ellery, che mi
aveva fatto il mio primo, vero taglio di capelli. Quelle donne mi conoscevano. Mi conoscevano da quando ero bambino. Era impossibile che ora mi facessero una cosa del genere. Non a me. Sicuramente si sarebbero ricredute. Se lo ripetevo tante volte, forse sarebbe successo davvero. Andrà tutto bene. Quando mi resi conto che mi stavo sbagliando, era già troppo tardi. Le mamme si ripresero in fretta dallo shock momentaneo provocato dall'apparizione mia e di Lena. Fu la signora Lincoln a parlare, guardandoci torva. — Il preside Harper... — Spostò lo sguardo da Lena a me e scosse la testa. Diciamo che per il prossimo futuro non avrei ricevuto inviti a cena a casa di Link. Alzò il tono della voce. — Il preside Harper ha promesso il suo pieno appoggio. Noi non tollereremo alla Jackson la violenza che sta appestando le scuole pubbliche di questo Paese. Voi giovani state facendo la cosa giusta, cercando di proteggere la vostra scuola. E noi, da genitori preoccupati — guardò verso di noi — faremo qualsiasi cosa per aiutarvi. Ancora tenendoci per mano, passammo davanti a loro. Emily ci sbarrò la strada e mi mise in mano un volantino, ignorando la presenza di Lena. — Ethan, vieni all'incontro, oggi pomeriggio. Saresti di grande aiuto per i Jackson Angels. Era la prima volta che mi rivolgeva la parola da settimane. Il messaggio era chiaro. Sei uno di noi e questa è l'ultima possibilità. Allontanai la sua mano. — Proprio quello che serve alla Jackson. Un altro po' del vostro comportamento angelico. Perché non andate a torturare i bambini? O a strappare le ali alle farfalle? O a buttare giù i pulcini dal nido? — Mi allontanai tirando Lena con me.
— Cosa direbbe la tua povera mamma, Ethan Wate? Cosa penserebbe delle compagnie che frequenti? — Mi girai di scatto. La signora Lincoln era proprio dietro di me. Vestita come si vestiva sempre, come una specie di feroce bibliotecaria uscita da un film, con occhiali da supermercato e capelli arrabbiati, indecisi tra il castano e il grigio. C'era da chiederselo, da dove era saltato fuori un figlio come Link? — Te lo dico io cosa direbbe tua madre. Piangerebbe. Si rivolterebbe nella tomba. Aveva passato il segno. Lei non sapeva niente di mia madre. Non sapeva che era stata lei a mandare alla Sovrintendenza Scolastica una copia di tutte le leggi contro la censura dei libri negli Stati Uniti. Non sapeva che rabbrividiva ogni volta che veniva invitata a una riunione del dar o di qualche gruppo femminile di volontariato. Non perché mia madre odiasse i gruppi di volontariato o le riunioni del dar, ma perché odiava quello che la signora Lincoln rappresentava. Il tipo di superiorità ottusa e meschina per cui le donne di Gatlin, donne come la Lincoln e la Asher, erano famose. Mia madre diceva sempre: «La cosa giusta e la cosa facile non sono mai la stessa.» In quel preciso momento, io sapevo qual era la cosa giusta da fare, anche se non sarebbe stata facile. O meglio, le conseguenze non lo sarebbero state. Mi girai verso di lei e la guardai negli occhi. — Buon per te, Ethan. Questo direbbe mia madre. Signora. Mi voltai verso la porta della scuola e continuai a camminare, tirandomi dietro Lena. Mancavano pochi passi. Lena tremava, ma non sembrava spaventata. Io continuavo a stringerle la mano, cercando di rassicurarla. Sulle punte dei lunghi capelli neri i ricci si formavano e si scioglievano. Sembrava sul punto di esplodere. O forse ero io. Non avrei mai
pensato di poter provare tanta gioia nel mettere piede nei corridoi della Jackson. Ma poi vidi il preside Harper sulla soglia. Ci guardava con odio, come se desiderasse non essere preside per potersi mettere a distribuire volantini anche lui. I capelli di Lena le ondeggiavano sulle spalle. Gli passammo accanto, ma lui nemmeno ci guardò. Era troppo occupato a guardare alle nostre spalle. — Che diavolo... Mi girai giusto in tempo per vedere centinaia di volantini verdi fluorescenti sgusciare via dai tergicristalli, dalle pile ordinate, dalle scatole, dai furgoni, dalle mani. Li vidi volare via in un'improvvisa folata di vento, come stormi di uccelli librati in alto tra le nuvole. In fuga, liberi e belli. Come nel film di Hitchcock, Gli uccelli, solo al contrario. Sentimmo gli strilli finché le pesanti porte di metallo non si chiusero alle nostre spalle. Lena si lisciò i capelli. — Tempo bizzarro, da queste parti.
06-12 Oggetti smarriti Ero quasi sollevato che fosse sabato. C'era qualcosa di confortante nell'idea di trascorrere la giornata con tre donne i cui unici poteri magici consistevano nella capacità di dimenticare il proprio nome. Quando arrivai dalle Sorelle, la gatta siamese di zia Mercy, Lucilie Ball, stava "facendo ginnastica" nel cortile. Le Sorelle avevano un filo per stendere il bucato che correva per tutta la lunghezza del cortile e ogni mattina zia Mercy metteva un guinzaglio a Lucilie Ball e lo agganciava al filo del bucato, in modo che la gatta potesse fare un po' di movimento. Avevo cercato di spiegare che si potevano far uscire i gatti perché sarebbero tornati ogni volta che ne avessero avuto voglia, ma zia Mercy mi aveva guardato come se le avessi suggerito di andare a vivere con un uomo sposato. — Non posso assolutamente far andare in giro Lucilie Ball da sola. Sono sicura che la rapirebbero. — Non si erano registrati molti rapimenti di gatti in paese, ma era una battaglia che non sarei mai riuscito a vincere. Aprii la porta, aspettandomi la solita baraonda, ma la casa era stranamente silenziosa. Brutto segno. — Zia Prue? Mi arrivò una voce familiare dal retro della casa. — Siamo nella veranda coperta, Ethan.
Mi chinai per passare sotto la porta e vidi le Sorelle che scorrazzavano per la veranda portando in braccio quelli che sembravano dei piccoli ratti pelati. — Che cavolo sono quelle cose? — esclamai senza nemmeno pensarci. — Ethan Wate, bada a come parli, o ti lavo la bocca con il sapone. Puoi benissimo evitare di dire sconcezze — mi rimproverò zia Grace. Tra le sconcezze c'erano, secondo lei, parole come mutande, nudo e vescica. — Chiedo scusa. Ma cos'è che avete in mano? Zia Mercy corse da me e mi mostrò la mano dove dormivano due piccoli roditori. — Sono cuccioli di scoiattolo. Li ha trovati Ruby Wilcox in soffitta, la settimana scorsa. — Scoiattoli selvatici? — Sono sei. Non sono gli animaletti più belli che si siano mai visti? Io vedevo solo un incidente in attesa di accadere. L'idea delle mie anziane zie che maneggiavano animali selvatici, per quanto fossero piccoli, era spaventosa. — Dove li avete trovati? — Be', Ruby non poteva prendersi cura di loro... — iniziò zia Mercy. — Per via di quell'odioso marito che si ritrova. Non le permette nemmeno di andare allo Stop&Shop senza che lui lo sappia. — E così li ha dati a noi, per via del fatto che avevamo già una gabbia. Le Sorelle avevano salvato un procione ferito dopo un uragano e l'avevano accudito finché non era guarito. Poi il procione si era mangiato la coppia di pappagallini di zia Prudence, Sonny e Cher, così Thelma l'aveva cacciato di casa e nessuno ne aveva più parlato. Ma la gabbia era rimasta.
— Voi sapete che gli scoiattoli possono portare la rabbia. Non potete tenere queste bestiole. E se vi mordessero? Zia Prue aggrottò la fronte. — Ethan, questi sono i nostri bambini e sono tenerissimi. Non ci morderebbero mai. Noi siamo le loro mammine. — Sono addomesticati, non è vero, piccoli cari? — disse zia Grace strofinando il naso su uno di loro. Già immaginavo uno di quei topastri che si aggrappava al collo di una delle Sorelle e il sottoscritto che la portava al pronto soccorso per le venti punture nella pancia che si devono fare se si viene morsi da un animale con la rabbia. Punture che alla loro età avrebbero potuto ucciderle. Cercai di ragionare con loro. Tempo perso. — Non si sa mai. Sono animali selvatici. — Ethan Wate, è chiaro che tu non sei un amante degli animali. Questi bambini non ci farebbero mai del male. — Zia Grace mi guardò con disapprovazione. — E secondo te, cosa dovremmo fare? La loro mamma non c'è più. Moriranno, se noi non ci prendiamo cura di loro. — Potrei portarli all'Ente Protezione Animali. Zia Mercy si strinse gli scoiattoli al petto, come per proteggerli. — Quelli! Sono degli assassini! Li uccideranno di sicuro! — Non parlarne nemmeno, Ethan. E passami quel contagocce. — A cosa ti serve? — Dobbiamo farli mangiare ogni quattro ore con questo piccolo contagocce — spiegò zia Grace. Lo scoiattolino sulla mano di Zia Prue succhiava ferocemente dal contagocce. — E una volta al giorno dobbiamo pulire le loro parti intime con un bastoncino per le orecchie, così impareranno a pulirsi da soli. — Era un'immagine di cui non avevo affatto bisogno.
— E voi come fate a sapere tutte queste cose? — Le abbiamo trovate sull'internet. — Zia Mercy sorrise con orgoglio. Era del tutto inverosimile che le mie zie sapessero usare internet. Non avevano nemmeno il tostapane. — E come ci siete andate, su internet? — Thelma ci ha portate in biblioteca e Marian ci ha aiutate. Hanno dei computer, in biblioteca. Lo sapevi? — E puoi trovarci qualsiasi cosa, anche le foto sporche. E ogni tanto, le foto più sporcaccione che si siano mai viste ti saltano sullo schermo. Figurati! — Per "sporcaccione", zia Grace probabilmente intendeva nude, cosa che le avrebbe tenute lontane da internet per sempre. — Voglio che sia messo agli atti: io ve l'ho detto che secondo me è una pessima idea. Non potrete tenerli per sempre. Diventeranno più grandi e più aggressivi. — Be', ovvio che non vogliamo prenderci cura di loro per sempre. — Zia Prue scuoteva la testa, come se fosse un'idea ridicola. — Li lasceremo liberi nel cortile sul retro non appena saranno in grado di badare a se stessi. — Ma non sapranno come trovare il cibo da soli. È per questo che è una brutta idea adottare degli animali selvatici. Quando poi li lasciamo andare, muoiono di fame. — Mi sembrava un'argomentazione che potesse far presa sulle Sorelle e tenermi alla larga dal pronto soccorso. — È qui che ti sbagli. C'è scritto tutto sull'internet — replicò zia Grace. Ma dov'era questo sito che spiegava come allevare scoiattoli selvatici e pulire le loro parti intime con i bastoncini per le orecchie? — Bisogna insegnargli a raccogliere le nocciole. Si seppelliscono le nocciole in cortile e poi gli scoiattoli possono esercitarsi a trovarle.
Intuii come sarebbe andata a finire. Aveva a che fare con la parte della giornata in cui mi ritrovai nel cortile posteriore a seppellire frutta secca per gli scoiattoli. Mi chiesi quanti buchini avrei dovuto scavare prima che le Sorelle si ritenessero soddisfatte. Dopo mezz'ora che scavavo, cominciai a trovare delle cose. Un ditale, un cucchiaio d'argento, un anello con un'ametista. L'anello non sembrava di grande valore, ma mi offrì una buona scusa per smettere di seppellire arachidi in giardino. Quando rientrai in casa, zia Prue aveva inforcato gli occhiali da lettura, spessi come fondi di bottiglia, e stava studiando una pila di carte ingiallite. — Cosa stai leggendo, zia Prue? — Sto cercando delle informazioni per la mamma del tuo amico Link. Il dar ha bisogno di alcune note sulla storia di Gatlin per il Percorso Storico. — Scartabellò una pila di fogli. — Ma è difficile trovare cose sulla storia di Gatlin che non includano i Ravenwood. — L'ultimo dei nomi che il dar volesse sentire. — In che senso? — Be', senza i Ravenwood, forse Gatlin non esisterebbe nemmeno. Per questo è difficile scrivere la storia della città lasciandoli fuori. — Davvero sono stati loro i primi? — L'avevo sentito dire a Marian, ma era difficile da credere. Zia Mercy pescò uno dei fogli dalla pila e se lo piazzò davanti al naso, così vicino che doveva vederci doppio. Zia Prue glielo strappò di mano. — Dallo a me. Ci sto lavorando io. — Be', se non vuoi nessun aiuto... — zia Mercy tornò a me. — I Ravenwood furono i primi a stabilirsi da queste parti, è proprio così. Ottennero la concessione di un terreno demaniale dal re di Scozia intorno al 1800.
— 1781. Ho le carte proprio qui. — Zia Prue sventolò un foglio ingiallito. — Erano agricoltori. Si scoprì che la contea di Gatlin aveva la terra più fertile di tutta la Carolina del Sud. Cotone, tabacco, riso, indigofera, qui cresceva di tutto ed era stranissimo, perché queste piante in genere non crescono negli stessi posti. Quando la gente capì che qui si poteva coltivare praticamente ogni cosa, i Ravenwood si ritrovarono con un paese intorno. — Che gli piacesse o meno — aggiunse zia Grace, alzando gli occhi dal suo lavoro a punto croce. Era l'ironia della sorte: senza i Ravenwood, forse Gatlin non sarebbe mai nata. La gente che evitava Macon Ravenwood e la sua famiglia avrebbe invece dovuto ringraziarli per l'esistenza stessa della loro città. Chissà cosa avrebbe detto la signora Lincoln. Ci avrei scommesso che probabilmente lo sapesse già, e che questo avesse qualcosa a che fare con il motivo per cui tutti odiavano Macon Ravenwood così tanto. Mi guardai le mani, sporche di quel terreno inspiegabilmente fertile. Avevo ancora in mano l'anello che avevo disseppellito nel cortile. — Zia Prue, questo appartiene a una di voi? — Risciacquai il mio cimelio nel lavello della cucina e glielo mostrai. — Ma come! Quello è l'anello che il mio secondo marito Wallace Pritchard mi regalò per il nostro primo e unico anniversario di matrimonio. — Abbassò la voce in un sussurro. — Era tanto, tanto spilorcio. Dove mai l'hai trovato? — Era sepolto nel cortile. Ho trovato anche un cucchiaio e un ditale. — Mercy, guarda cos'ha trovato Ethan, il cucchiaio del Tennessee della tua collezione. Te l'avevo detto, che non l'avevo preso io! — urlò zia Prue.
— Fammi vedere. — Mercy si infilò gli occhiali per esaminare il cucchiaio. — Be', che mi venga un accidente. Finalmente ho tutti gli undici Stati. — Ci sono più di undici Stati in America, zia Mercy. — Io colleziono solo quelli della Confederazione. Zia Grace e zia Prue annuirono vigorosamente. — A proposito di seppellire cose, ci credete che Eunice Honeycutt si è fatta seppellire con il suo libro di ricette? Non voleva che nessuno della sua chiesa mettesse le mani sulla ricetta della sua torta di frutta. — Zia Mercy scosse la testa. — Era una donna dispettosa, proprio come sua sorella. — Zia Grace stava scalzando con il cucchiaio della sua collezione il coperchio di una scatola di latta per caramelle. — E comunque quella ricetta non era niente di che — commentò zia Mercy. Zia Grace rovesciò il coperchio per leggere i nomi delle caramelle. — Mercy, qual è quella con la crema? — Quando muoio, io voglio essere seppellita con la mia stola di pelliccia e la mia Bibbia — annunciò zia Prue. — Nostro Signore non ti darà dei punti in più per questo, Prudence Jane. — Non sto affatto cercando di avere dei punti in più. Voglio solo avere qualcosa da leggere durante l'attesa. Ma se per caso venissero dati dei punti, Grace Ann, io ne avrei più di te. Seppellita con il libro di ricette... E se il Libro delle Lune fosse stato sepolto da qualche parte? E se qualcuno l'avesse nascosto perché nessuno lo trovasse? Forse era stata la persona che meglio di chiunque altro ne conosceva il potere. Genevieve. Lena, credo di sapere dov'è il Libro. Per un secondo ci fu solo silenzio. Poi i pensieri di Lena raggiunsero i miei.
Che stai dicendo? Il Libro delle Lune. Io credo che sia con Genevieve. Genevieve è morta. Lo so. Che stai dicendo, Ethan? Io credo che tu sappia cosa sto dicendo. Harlon James zoppicò fino alla tavola con aria malconcia. Aveva ancora la zampa avvolta nelle bende. Zia Mercy cominciò a dargli i cioccolatini della scatola. — Mercy, non dare cioccolata al cane! Lo ammazzerai. L'ho visto in TV. La cioccolata. O era la crema di cipolla? — Ethan, ti tengo da parte le caramelle morbide? — chiese zia Mercy. — Ethan? Non ascoltavo più. Stavo pensando a come disseppellire una bara.
07-12 Fra le tombe Era stata un'idea di Lena. Quel giorno era il compleanno di zia Del e all'ultimo minuto Lena aveva deciso di organizzare una festicciola in famiglia, a Ravenwood. Aveva invitato Amma, sapendo benissimo che nemmeno un intervento divino avrebbe potuto convincerla a varcare la soglia della casa dei Ravenwood. Qualunque fosse il motivo, la reazione di Amma alla presenza di Macon era molto simile a quella che aveva davanti al medaglione: preferiva mantenerlo il più possibile lontano da lei. Boo Radley si era presentato nel pomeriggio con una pergamena arrotolata in bocca, scritta con una calligrafia accurata. Era solo un invito, ma Amma non lo volle nemmeno toccare e ci mancò poco che impedisse anche a me di andare. Per fortuna non mi vide salire sul carro funebre con la vecchia pala da giardino di mia madre. Questo dettaglio avrebbe suscitato in lei qualche vago sospetto. Ero felice di uscire di casa, qualunque fosse la ragione, anche per scavare tra le tombe. Dopo il Giorno del Ringraziamento mio padre si era rinchiuso nello studio e, da quando ci avevano scoperti nella Domus, tutto quello che ricevevo da Amma erano occhiatacce.
Io e Lena avevamo il divieto assoluto di tornare alla Domus. Almeno per i prossimi sessantasei giorni. Era chiaro che Macon e Amma non volessero farci scoprire informazioni diverse da quelle che loro avevano deciso di fornirci. — Dopo l'undici febbraio potrai fare quello che vorrai — aveva dichiarato Amma schiarendosi la voce. — Ma fino ad allora, limitati a occuparti di cose da ragazzi. Ascolta musica. Guarda la TV. Ma tieni il naso lontano da quei libri. Mia mamma avrebbe riso all'idea che mi venisse proibito di leggere un libro. Le cose avevano preso una gran brutta piega. E qui è ancora peggio, Ethan. Boo adesso dorme ai piedi del mio letto. Non mi sembra tanto grave. E mi aspetta fuori dalla porta del bagno. È solo Macon che si comporta da Macon. È come essere agli arresti domiciliari. Era vero, e lo sapevamo entrambi. Dovevamo trovare il Libro delle Lune. Il Libro doveva essere con Genevieve. E Genevieve, con ogni probabilità, era sepolta a Greenbrier. C'erano delle vecchie lapidi abbandonate appena fuori dal giardino dei limoni. Si vedevano dalla lastra dove di solito ci sedevamo, che avevamo scoperto essere la pietra di un focolare. Il nostro rifugio, così lo consideravo, anche se non l'avevo mai detto ad alta voce. Genevieve doveva essere sepolta a Greenbrier, a meno che non si fosse trasferita altrove dopo la Guerra. Ma nessuno se ne andava mai da Gatlin. Avevo sempre pensato che sarei stato io il primo. Ma ora che ero riuscito a svignarmela da casa, come avrei fatto a trovare un libro di Magia perduto da anni, che forse fo forse no) poteva salvare la vita a Lena, che forse (o forse no)
era sepolto nella tomba di una sua antenata, Maga anch'essa e colpita da una maledizione, che forse (o forse no) era proprio accanto alla casa di Macon Ravenwood? E senza che lo zio di Lena mi vedesse, mi fermasse, o mi uccidesse? Tutto il resto dipendeva da Lena. * * * — Una ricerca di storia in un cimitero di notte? — commentò zia Del, inciampando su un tralcio di rampicanti. — Oh, cielo! — Mamma, fa' attenzione. — Reece la prese sottobraccio per aiutarla ad affrontare le sterpaglie. Zia Del aveva già abbastanza difficoltà a camminare senza sbattere contro qualcosa alla luce del giorno, ma di notte era pretendere troppo. — Dobbiamo fare una copia a ricalco della lapide di uno dei nostri antenati. Stiamo studiando le genealogie. — Be', in un certo senso era vero. — E perché proprio Genevieve? — chiese Reece con aria sospettosa. Guardò Lena, che però distolse prontamente lo sguardo. Mi aveva raccomandato di evitare in ogni modo che Reece mi guardasse in faccia. Bastava uno sguardo perché una Sibilla potesse capire se stavi mentendo. Mentire a una Sibilla era ancora più difficile che mentire ad Amma. — Genevieve è la donna del dipinto nella sala d'ingresso. Ho pensato che fosse carino scegliere lei. Non è che abbiamo un grande cimitero di famiglia in cui scegliere, a differenza della gente di qui. L'ipnotica musica magica della festa cominciava a svanire in lontananza, gradualmente sostituita dallo scricchiolio delle foglie secche sotto i nostri piedi. Eravamo entrati nei terreni di
Greenbrier. Ci stavamo avvicinando. Era buio, ma la luna piena era così luminosa che non ci servivano nemmeno le torce. Ricordai ciò che Amma aveva detto a Macon nel cimitero nella palude. La mezzaluna è per la Magia Bianca, la luna piena è per la Magia Nera. Noi non avevamo intenzione di operare alcun tipo di magia, almeno speravo, ma questo non serviva a rendere la situazione meno sinistra. — Non so se Macon approverebbe questa gita notturna. Gli hai detto dove stavamo andando? — Zia Del era in apprensione. Si tirò il colletto della camicetta di pizzo. — L'ho avvisato che uscivamo per una passeggiata. E lui si è solo raccomandato di starti vicino. — Non so se sono abbastanza in forma per questo. Devo ammettere che mi sento un po' senza fiato. — Zia Del aveva il fiatone e il viso incorniciato dai capelli sfuggiti dallo chignon sempre un po' decentrato rispetto alla testa. Proprio allora annusai il profumo che ben conoscevo. — Ci siamo. — Grazie al cielo. Ci avvicinammo al cadente muro di pietra del giardino dei limoni, dove avevo trovato Lena che piangeva, il giorno della finestra rotta. Mi chinai per passare sotto l'arco coperto di rampicanti ed entrai nel giardino. Di notte era molto diverso, meno un rifugio per guardare le nuvole e più il posto ideale in cui potesse essere seppellita una Maga maledetta. Il posto è questo, Ethan. Lei è qui. Lo sento. Anch'io. Secondo te dove sarà la tomba! Quando raggiungemmo la pietra del focolare dove avevo trovato il medaglione, notai un'altra pietra nella radura che si apriva a pochi passi da lì. Una lapide. E sopra la lapide era seduta una figura dai contorni sfumati.
Sentii Lena sussultare ma fui l'unico ad accorgersene. Ethan, la vedi anche tu? Sì. Genevieve. Era solo parzialmente materializzata, a metà tra un alone nebbioso e una luce che diventava più flebile quando il vento attraversava le sue forme eteree, ma non c'era dubbio. Era lei, la donna del ritratto. Aveva gli stessi occhi dorati e una lunga chioma rossa e ondulata. I capelli si muovevano dolcemente nel vento, come se fosse una persona su una panchina alla fermata dell'autobus, invece che un'apparizione seduta su una lapide in un cimitero. Era bellissima, anche nel suo stato attuale, e terrificante allo stesso tempo. Mi si rizzarono i capelli sulla testa. Forse stavamo commettendo un errore. Zia Del si fermò di botto. Anche lei aveva visto Genevieve, ma era chiaro che pensava di essere l'unica. Probabilmente credeva che l'apparizione fosse solo l'effetto di troppe epoche sovrapposte, le immagini torbide di questo luogo in venti decenni a ritroso nel tempo. — Credo che dovremmo tornarcene a casa Non mi sento molto bene. — Zia Del, chiaramente, non voleva disturbare un fantasma di centocinquant'anni in un cimitero di Maghi. Lena inciampò in un ramo e perse l'equilibrio. Le afferrai il braccio per sostenerla, ma non fui abbastanza rapido. — Tutto okay? Lei si tirò su e mi guardò, alzando gli occhi per una frazione di secondo, ma quel poco bastò a Reece. Puntò lo sguardo in quello di Lena e le lesse il viso, l'espressione, i pensieri. — Mamma, stanno mentendo! La ricerca di storia non c'entra affatto. Stanno cercando qualcosa. — Reece si portò la mano alla tempia, come se stesse sintonizzando un apparecchio elettrico. — Un libro.
Zia Del sembrava ancora più confusa del suo solito. — Che tipo di libro potete cercare in un cimitero? Lena si liberò dallo sguardo di Reece e dal suo controllo. — È un libro che apparteneva a Genevieve. Aprii il borsone che portavo in spalla e tirai fuori la pala. Mi avvicinai lentamente alla tomba cercando di ignorare che il fantasma mi seguiva con lo sguardo. Forse ora mi avrebbe fulminato, o chissà che altro. Non mi sarei sorpreso. Ma ormai eravamo arrivati fin qui. Piantai la pala nel terreno e sollevai un mucchio di terra. — Oh, Grande Madre! Ethan, cosa stai facendo? — Evidentemente, questo aveva riportato zia Del al presente. — Sto cercando il libro. — Lì dentro? — Zia Del sembra vicina allo svenimento. — Che libro ci può essere, in una tomba? — È un libro di Magia, molto vecchio. Non siamo sicuri che sia qua sotto. È solo un'intuizione — spiegò Lena, guardando Genevieve appollaiata sulla lapide proprio accanto a noi. Io invece cercavo di non guardarla. Mi inquietava il modo in cui il suo corpo si dissolveva e si riaddensava. E poi, ci fissava con quei terribili occhi dorati da gatto, vuoti e senza vita, come di vetro. Il terreno non era molto duro, considerando che eravamo in dicembre. In pochi minuti raggiunsi trenta centimetri di profondità. Zia Del camminava avanti e indietro, in tensione. Ogni tanto si accertava che nessuno di noi la stesse osservando, poi si voltava verso Genevieve. Se non altro, non ero l'unico a essere spaventato a morte dal fantasma. — Dovremmo tornare indietro. Tutto questo è disgustoso — sbottò Reece, cercando di incrociare il mio sguardo.
— Non fare tanto la perfettina — replicò Lena, inginocchiandosi davanti alla fossa. Reece la vede? Non credo. Ricordati solo di non guardarla negli occhi. E se Reece legge la faccia di zia Dell Non può. Nessuno può. Zia Del vede troppe cose contemporaneamente. Solo un Palinsesto può elaborare tutte quelle informazioni e trovarne il senso. — Mamma, davvero gli permetterai di dissotterrare una bara? — Per tutte le stelle, è ridicolo. Finiamola subito con queste sciocchezze e torniamo alla festa. — Non possiamo. Dobbiamo sapere se il libro è là dentro. — Lena si girò verso zia Del. — Tu potresti mostrarcelo. Che stai dicendo! Lei può mostrarci cosa c'è laggiù. Può proiettare le immagini che vede. — Non saprei. Macon non approverebbe. — Zia Del, a disagio, si mordicchiava un labbro. — Secondo te preferirebbe che dissotterrassimo una bara? — replicò Lena. — E va bene. Va bene. Esci da quel buco, Ethan. Saltai fuori, spolverandomi la terra dai pantaloni. Guardai verso Genevieve. Aveva un'espressione particolare sul viso, come se fosse interessata a vedere cosa stava per succedere. O forse stava solo per vaporizzarci. — Sedetevi. Potrebbe darvi un po' di vertigine. Se vi sentite disorientati, mettete la testa tra le ginocchia — ordinò zia Del, come una specie di assistente di volo soprannaturale. — La prima volta è sempre la peggiore. — Zia Del ci allungò le mani e formammo un cerchio.
— Non riesco a credere che tu abbia accettato di fare una cosa del genere, mamma. Zia Del si tolse il fermaglio dallo chignon e lasciò ricadere i capelli sulle spalle. — Non fare tanto la perfetti-na, Reece. Reece alzò gli occhi al cielo e prese la mia mano. Lanciai un'occhiata a Genevieve. Lei guardò dritto verso di me, dentro di me, poi si portò un dito alle labbra, come per dire "shh". L'aria intorno a noi si dissolse. Cominciammo a vorticare, come su quelle giostre del luna park dove ti agganciano alla parete e tutto comincia a girare velocissimo e tu sai per certo che vomiterai. Poi, una serie di immagini rapide come lampi... Una dopo l'altra, come porte che si aprono e si chiudono. Un secondo dopo l'altro. Due bambine vestite di bianco, con le gonne ampie di un tempo, corrono sull'erba tenendosi per mano. Ridono. Nastri gialli tra i capelli. Un'altra porta si aprì. Una giovane donna dalla pelle color caramello stende il bucato su un filo e canticchia a bocca chiusa. La brezza gonfia le lenzuola. La donna si gira verso una grande casa bianca in stile federale e chiama: — Genevieve! Evangeline! Un'altra porta. Una ragazza attraversa la radura al crepuscolo. Si gira per vedere se qualcuno la segue, i capelli rossi ondeggiano sulle sue spalle. Genevieve. Si getta tra le braccia di un giovane alto e allampanato, un ragazzo che avrei potuto essere io. Lui si china e la bacia. — Io vi amo, Genevieve. E un giorno vi sposerò. Non m'importa cosa pensa la vostra famiglia. Non può essere impossibile. Lei gli sfiora le labbra, con dolcezza. — Shh. Non abbiamo molto tempo. La porta si chiuse e un'altra si aprì.
Pioggia, fumo, il crepitare del fuoco che divora, che respira. Genevieve è in piedi nel buio. Il fumo e le lacrime le rigano il viso. Ha un libro rilegato in cuoio nero in mano. È senza titolo, c'è solo una falce di luna incisa a sbalzo sulla copertina. Genevieve guarda la donna, la stessa donna che stendeva il bucato. Ivy. — Perché non ha un nome! Gli occhi della vecchia sono pieni di paura. — Solo perché un libro non ha un titolo, non significa che non abbia un nome. Quello è il Libro delle Lune. La porta si chiuse di colpo. Ivy, più vecchia e più triste, in piedi davanti a una tomba non ancora ricoperta. C'è una bara di pino deposta sul fondo. — Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male. — Ha qualcosa tra le mani. Il Libro: il cuoio nero, una falce di luna. — Portate questo con voi, signorina Genevieve. Che non possa causare ad altri altro male. — E getta il Libro nella fossa, sopra la bara. Un'altra porta. Noi quattro seduti intorno alla fossa scavata a metà. Sotto la terra, più sotto, dove non potremmo vedere senza l'aiuto di Del, la bara di pino. E sopra di essa, il Libro. Ancora più sotto, nella bara, il corpo di Genevieve disteso nel buio. Gli occhi chiusi, la pelle pallida come porcellana, quasi ancora respirasse, perfettamente preservata, come nessun cadavere potrebbe. I lunghi capelli infuocati le ricadono intorno alle spalle. L'immagine risale a spirale, verso la superficie. È su noi quattro, seduti intorno alla fossa scavata a metà, che ci teniamo per mano. E ancora sale verso la figura incerta di Genevieve che ci osserva. All'urlo di Reece, l'ultima porta si chiuse di scatto.
Cercai di aprire gli occhi, ma mi girava la testa. Del aveva ragione, mi veniva da vomitare. Cercai di riprendere il controllo, ma non riuscivo a mettere a fuoco niente. Sentii che Reece lasciava la mia mano, si allontanava da me, cercava di stare il più lontano possibile da Genevieve e dal suo terribile sguardo dorato. Tatto bene! Credo di sì. Lena teneva la testa tra le ginocchia. — State bene? — chiese zia Del, con la voce pacata e senza un fremito. Non sembrava più così goffa o confusa. Se anch'io avessi dovuto vedere questo ogni volta che posavo lo sguardo su qualcosa, sarei morto. O sarei impazzito. — È incredibile quello che vede — mormorai guardando Del. Finalmente i miei occhi ricominciavano a mettere a fuoco. — Il talento del Palinsesto è un grande onore e un onere ancora più grande. — Il Libro. È là dentro — dissi. — E vero, ma sembra che appartenga a questa donna — replicò Del, indicando l'apparizione di Genevieve. — E voi due non sembrate particolarmente sorpresi della sua presenza. — L'abbiamo già incontrata altre volte — ammise Lena. — Be', allora è stata lei a scegliere di rivelarsi a voi. Vedere i defunti non è un talento da Mago, nemmeno da Naturale. E di certo non rientra tra i talenti dei Mortali. Si possono vedere i morti solo se sono loro a volersi mostrare. Io ero terrorizzato. Non come la prima volta sulla soglia di Ravenwood, non come quando Ridley mi aveva congelato, risucchiandomi la vita. Era diverso. Era più vicino al terrore che sentivo quando mi svegliavo dai miei sogni, al pensiero di perdere Lena. Era un terrore paralizzante. Quello che provi quando ti rendi conto che il potente fantasma di una Maga delle
Tenebre colpita da una maledizione sta fissando proprio te, nel cuore della notte, mentre violi la sua tomba per rubare un libro deposto sopra la bara. Ma che stavo pensando? Che idea era stata, quella di andare fin lì a profanare una tomba, sotto la luna piena? Stavi cercando di raddrizzare un torto. C'era una voce nella mia testa, ma non era di Lena. Mi girai verso di lei. Era pallida. Reece e zia Del fissavano ciò che restava di Genevieve. Anche loro l'avevano sentita. Guardai gli occhi dorati e rilucenti. Lei continuava a dissolversi e a riaddensarsi. Sembrava percepire il motivo per cui eravamo lì. Prendetelo. La guardai, insicuro. Lei chiuse gli occhi e fece un lievissimo cenno di assenso con il capo. — Vuole che prendiamo il Libro — annunciò Lena. Se lo diceva anche lei, forse non stavo perdendo la ragione. — Come facciamo a sapere che possiamo fidarci di lei? — Dopo tutto, era una Maga delle Tenebre. Con gli stessi occhi dorati di Ridley. Lena mi guardò, con un accenno di eccitazione nella voce. — Non lo sappiamo. Restava un'unica cosa da fare. Scavare. Il Libro era esattamente come ci era apparso nella visione. Cuoio nero venato di screpolature, con una minuscola falce di luna incisa a sbalzo. Sapeva di disperazione ed era pesante, non solo in senso fisico, ma anche psichico. Era un libro delle Tenebre; lo percepii nel momento stesso in cui lo toccai, prima ancora che mi bruciasse le dita. Era come se il Libro mi rubasse un po' di fiato ogni volta che inspiravo.
Allungai il braccio verso l'alto, tenendolo fuori dalla fossa. Lena me lo prese di mano e mi arrampicai fuori. Volevo andarmene di lì, e al più presto. Non avevo affatto dimenticato di essere sulla bara di Genevieve. Zia Del trasalì. — Grande Madre! Non avrei mai pensato di vederlo con i miei occhi. Il Libro delle Lune. Fate molta attenzione. È vecchio come il tempo, forse di più. Macon non crederà ai suoi occhi... — Macon non lo saprà mai. — Lena spazzolò via la terra dalla copertina, con delicatezza. — Okay, adesso hai proprio passato ogni limite. Se hai pensato anche solo per un istante che non lo diremo a zio Macon... — Reece incrociò le braccia, come una babysitter stizzita. Lena piazzò il libro davanti alla sua faccia. — Non gli diremo cosa? — Lena fissava sua cugina nello stesso modo in cui Reece aveva fissato negli occhi Ridley alla Festa della Raccolta. Con intenzione, con determinazione. L'espressione di Reece cambiò, sembrò confusa, quasi disorientata. Fissava il Libro ma era come se non lo vedesse affatto. — Cosa c'è da dire allo zio, Reece? Lei strinse gli occhi, come se cercasse di scrollarsi di dosso un brutto sogno. Aprì la bocca per parlare, poi la chiuse di colpo. L'accenno di un sorriso increspò le labbra di Lena, mentre si girava piano verso sua zia. — Zia Del? La zia sembrava confusa quanto Reece, come succedeva la maggior parte del tempo, ma questa volta c'era qualcosa di diverso. Nemmeno lei seppe rispondere. Lena si girò appena e lasciò cadere il Libro sopra la mia sacca. Colsi nei suoi occhi delle scintille verdi e alla luce della luna vidi i suoi capelli arricciarsi alla brezza magica. Era come se la magia si accumulasse intorno a lei nell'oscurità. Non
capivo cosa stesse succedendo, ma Lena, Reece e zia Del sembravano immerse in una conversazione muta e tenebrosa che io non potevo né sentire né comprendere. Poi tutto finì. La luce della luna tornò a essere luce lunare e la notte sbiadì nella notte. Alle spalle di Reece, guardai la lapide di Genevieve. Lei era sparita. Reece spostò il peso da una gamba all'altra e riprese la sua solita espressione da santarellina. — Se hai pensato anche solo per un istante che non dirò a zio Macon che ci hai trascinati nel cimitero senza nessuna ragione, per una stupida ricerca scolastica che non hai nemmeno concluso... — Che diavolo stava dicendo? Era tremendamente seria. Non ricordava niente di quello che era appena successo, più di quanto non lo capissi io. Cos'hai fatto! Io e zio Macon ci stiamo allenando. Lena chiuse la zip della mia sacca, con il Libro dentro. — Lo so. Scusami. Questo posto fa davvero paura, di notte. Andiamocene di qui. Reece si voltò verso Ravenwood, trascinando zia Del con sé. — Sei proprio una mocciosa. Lena mi strizzò d'occhio. Vi state allenando? A controllare la mente? Piccole cose. Teletirare Sassolini. Illusioni Interiori. Vincoli Temporali, anche se sono difficili. Questo invece è stato facile? Ho Trasferito il Libro fuori dalle loro menti. Immagino si possa dire che l'ho cancellato. Non lo ricorderanno perché, nella loro realtà, non è mai accaduto. Sapevo che avevamo bisogno del Libro, quindi capivo perché Lena avesse usato un espediente del genere. Ma in qualche modo mi sembrava che avessimo superato un limite e
adesso non sapevo più dov'eravamo, né se lei l'avrebbe riattraversato per tornare dov'ero io. Dov'era stata finora anche lei. Reece e zia Del erano già nel giardino dei limoni. Non c'era bisogno di essere una Sibilla per capire che Reece non vedeva l'ora di andarsene da lì. Lena fece per seguirle, ma qualcosa mi fermò. L, aspetta. Tornai alla fossa. M'infilai la mano in tasca, aprii il fazzoletto con le iniziali che ormai conoscevo bene e tirai fuori il medaglione. Nulla. Nessuna visione. Qualcosa mi diceva che non ce ne sarebbero state altre. Il cammeo ci aveva condotti fin lì, ci aveva mostrato ciò che dovevamo vedere. Lo tenni sospeso sulla tomba. Sembrava la cosa giusta da fare, uno scambio equo. Stavo per lasciarlo cadere, quando sentii di nuovo la voce di Genevieve, questa volta più dolce. No. Non appartiene a me. Guardai verso la lapide. Genevieve era lì. Ciò che ne rimaneva si sfaldava nel nulla ogni volta che il vento soffiava attraverso di lei. Non sembrava più così terrificante. Sembrava una donna distrutta. Come chi ha perso per sempre l'unica persona amata. Capii.
08-12 Fino al collo C'è un limite ai guai in cui ci si può cacciare prima che la minaccia di altri guai non sia più nemmeno una minaccia. A un certo punto, ti ci trovi dentro fino al collo e non ti resta altra scelta che buttartici in mezzo, se vuoi avere una minima possibilità di uscirne dall'altra parte. Era la classica logica di Link, ma cominciavo a coglierne la genialità. Forse non puoi apprezzarla fino in fondo finché non ci finisci dentro fino al collo. E il giorno dopo, io e Lena finimmo proprio così. Dentro fino al collo. La giornata cominciò con la falsificazione di una giustificazione con una delle matite numero 2 di Amma; proseguì saltando le lezioni, per leggere un libro rubato che non avremmo mai dovuto nemmeno toccare; finì con una raffica di bugie su un progetto al quale io e Lena dovevamo lavorare insieme per ottenere dei punti di credito. Ero sicurissimo che Amma mi avrebbe smascherato due secondi dopo le parole "punti di credito", ma era al telefono con mia zia Caroline per discutere della "situazione" di mio padre. Mi sentivo in colpa per tutte quelle bugie, per non parlare del furto, della falsificazione della firma, dei ricordi cancellati dalla mente altrui. Ma non avevamo tempo per la scuola; c'erano cose più importanti da studiare.
Perché adesso avevamo il Libro delle Lune. Era reale. Lo potevo toccare... — Ahi! — Mi bruciò la mano, come se avessi toccato un fornello bollente. Il Libro cadde sul pavimento della stanza di Lena. Boo Radley abbaiò, da qualche parte nella casa. Sentii le sue zampe ticchettare sulle scale, verso di noi. — Porta. — Lena pronunciò la parola senza nemmeno alzare gli occhi dal vecchio dizionario di latino che stava consultando. La porta si chiuse sbattendo nell'attimo in cui Boo arrivò sul pianerottolo. Il cane protestò, abbaiando con risentimento. — Resta fuori dalla mia stanza, Boo. Non facciamo niente. Sto per iniziare a esercitarmi. Fissai la porta, sorpreso. Un'altra lezione di Macon, immaginai. Lena non si scompose, quasi l'avesse già fatto mille volte. Era come il trucchetto della notte prima con Reece e zia Del. Cominciavo a pensare che, più ci avvicinavamo al suo compleanno, più emergeva la Maga dalla ragazza che conoscevo. Cercavo di non farci caso. Ma più ci provavo, meno ci riuscivo. Lei mi guardò. Mi stavo sfregando le mani sui jeans. Mi facevano ancora male. — Quale parte del concetto non puoi toccarlo se non sei un Mago non ti è chiara? — Brava. Proprio quella parte. Aprì una custodia nera tutta ammaccata e tirò fuori la sua viola. — Sono quasi le cinque. Devo iniziare a fare esercizio o zio Macon lo scoprirà subito non appena si sveglia. Lo scopre sempre. — Cosa? Adesso? — Lena sorrise e si sedette su una sedia in un angolo della stanza. Sistemò lo strumento, prese un lungo archetto e lo appoggiò alle corde. Per un momento non si mosse, chiuse gli occhi come se fossimo alla filarmonica e non
nella sua camera. Poi iniziò a suonare. La musica saliva dalle sue mani e si librava nella stanza come un altro dei suoi poteri non ancora scoperti. Le semplici tende bianche alle finestre cominciarono a ondeggiare e sentii la canzone... Sedici anni, sedici lune, La Luna Reclama, l'ora s'avvicina In queste pagine le Tenebre son lume I Poteri Vincolano ciò che il fuoco consuma... Mentre guardavo, Lena si alzò e appoggiò con cura la viola sulla sedia. Lei non suonava più ma la musica continuava a sgorgare dallo strumento. Appoggiò l'archetto e tornò a sedersi per terra, accanto a me. Shh. Quello sarebbe fare esercizio? — Zio M sembra non accorgersi della differenza. E poi guarda... — Mi indicò la porta, nella fessura in basso si vedeva un'ombra e si sentiva il tonfo ritmico della coda di Boo. — A lui piace e a me piace averlo davanti alla porta. Vedilo come un sistema d'allarme antiadulti. — Aveva senso. Lena si inginocchiò per terra e prese in mano il Libro senza difficoltà. Quando aprì di nuovo le pagine, ricomparve ciò con cui combattevamo da tutto il giorno. Centinaia di formule e Incantesimi, liste accurate scritte in inglese, in latino, in gaelico e in altre lingue che non riconoscevo, una delle quali era costituita da strane lettere arricciate che non avevo mai visto prima. Le sottili pagine scure erano fragili, quasi trasparenti. La carta era coperta di inchiostro marrone scuro, in una calligrafia antica, delicata. Almeno, speravo che fosse inchiostro. Lena tamburellò un dito sulla strana calligrafia e mi passò il dizionario di latino. — Non è latino. Controlla anche tu.
— Secondo me è gaelico. Hai mai visto niente di simile, prima d'ora? — Le indicai i caratteri arricciati. — No. Forse è una qualche antica lingua dei Maghi. — Peccato non avere un dizionario di magichese. — Ce l'abbiamo. Cioè, mio zio dovrebbe. Possiede centinaia di libri di Magia, nella sua biblioteca. Non è come la Domus, ma probabilmente contiene ciò che stiamo cercando. — Quanto tempo ci rimane, prima che tuo zio si svegli? — Non abbastanza. Tirai la manica della felpa sulla mano e la usai per maneggiare il Libro, come se fosse un guanto da forno di Amma. Sfogliai le pagine sottili; si piegavano crepitando sotto il mio tocco, quasi fossero state fatte di foglie secche e non di carta. — Vedi qualcosa che abbia un senso per te? Lena scosse la testa. — Nella mia famiglia, prima della Reclamazione, in realtà non ci permettono di sapere nulla. — Finse di concentrarsi sulle pagine. — Casomai entrassimo nelle Tenebre, immagino. — Ne sapevo abbastanza per lasciar cadere il discorso. Pagina dopo pagina, nulla di ciò che vedevamo era nemmeno lontanamente comprensibile. C'erano immagini, alcune spaventose, altre meravigliose. Creature, simboli, animali... Anche i volti umani in qualche modo riuscivano a sembrare tutt'altro che umani, nel Libro delle Lune. Per quel che mi riguardava, era come un'enciclopedia di un altro pianeta. Lena si mise il Libro sulle ginocchia. — Ci sono così tante cose che non so... ed è tutto così... — Allucinante? Mi appoggiai al letto a guardare il soffitto. Parole dappertutto, parole nuove, numeri. I numeri del conto alla
rovescia, scritti sui muri della stanza come nella cella di una prigione. 100, 78, 50... Per quanto tempo ancora avremmo potuto starcene così, come quel giorno? Il compleanno di Lena era sempre più vicino e i suoi poteri stavano già crescendo. E se avesse avuto ragione lei? E se si fosse trasformata in qualcosa di irriconoscibile? Qualcosa così pieno di Tenebre da non avere più il minimo interesse o la minima attenzione per me? Fissai la viola nell'angolo finché non volli più guardarla. Chiusi gli occhi e ascoltai la melodia magica. Poi, sentii la voce di Lena. — ... FINCHÉ LA TENEBRA NON PORTI LO TEMPO DE LA RECLAMAZIONE, A LA DECIMO-SESTA LUNA, QUANDO LA PERSONA DI POTERE AVRÀ LIBERTÀ DI VOLONTÀ ET D'AZIONE PER COMPIERE LA SCELTA ETERNA, A LA FINE DE LO GIORNO, O NELLO ULTIMO INSTANTE DE LA ULTIMA HORA, SOTTO LA LUNA RECLAMANTE... Ci scambiammo un'occhiata. — Come hai fatto a... — Guardai il libro da dietro le sue spalle. Lei girò la pagina. — È in inglese. Queste pagine sono scritte in un antiquato inglese. Qualcuno aveva iniziato a tradurle, qui sul retro. Vedi che l'inchiostro ha un colore diverso? — Aveva ragione. Anche le pagine in inglese dovevano avere centinaia di anni. Le parole erano scritte con caratteri eleganti ma diversi, e non era la stessa calligrafia, e nemmeno lo stesso inchiostro marrone, se di inchiostro si trattava. — Gira pagina. Lena, con il Libro tra le mani, continuò a leggere. — ... LA RECLAMAZIONE, UNA VOLTA VINCOLATA, NON PUOTE ESSER LIBERATA DALLO VINCOLO. LA SCELTA, UNA VOLTA COMPIUTA, NON PUOTE
ESSERE MUTATA.
UNA PERSONA DI POTERE CADE NE LA GRANDE TENEBRA O NE LA GRANDE LUCE, PER L'ETERNO TEMPO. SE LO TEMPO PASSA ET LA ULTIMA HORA DE LA DECIMO-SESTA LUNA SCORRE SANZA VINCOLO ALCUNO, LO ORDINE DE LE COSE VERRÀ SOVVERTITO. CIÒ NON DEVE ESSERE. IL LIBRO VINCOLERÀ CIÒ CHE NON È VINCOLATO, PER L'ETERNO TEMPO. — Quindi non c'è modo di evitare la Reclamazione? — È quello che ho sempre cercato di dirti. Fissai quelle parole che non mi avvicinavano di un passo alla comprensione. — Ma cosa succede, esattamente, durante la Reclamazione? La Luna Reclamante spara un raggio magico? Una cosa così? Lena perlustrò la pagina. — Non lo dice. Io so solo che avviene sotto la luna, a mezzanotte... NEL CUORE DE LA GRANDE TENEBRA ET SOTTO LA GRANDE LUCE, DA LA QUALE TUTTI NOI SIAMO VENUTI. Ma può succedere in qualsiasi luogo. Non è qualcosa che si veda realmente. Succede. Niente raggi magici. — Ma cosa succede, esattamente? — Volevo sapere i particolari, e avevo ancora la sensazione che Lena cercasse di ometterli. Continuava a tenere gli occhi sulla pagina. — Per la maggior parte dei Maghi è una cosa consapevole, proprio come c'è scritto qui. La Persona di Potere, il Mago, compie la Scelta Eterna. Sceglie se vuole farsi Reclamare dalla Luce o dalle Tenebre. È a questo che si riferisce la "libertà di volere e d'agire". Come i Mortali, che possono scegliere se essere buoni o cattivi. Solo che i Maghi fanno la Scelta per sempre. Scelgono la vita che vogliono vivere, il modo in cui vogliono interagire con l'universo magico e tra di loro. È un patto che stringono con il mondo naturale, l'Ordine delle Cose. So che sembra pura follia. — A sedici anni? Come si può pensare che uno a sedici anni sappia chi è e cosa vuole essere per il resto della sua vita?
— Già. Be', questi sono i fortunati. Io non ho nemmeno la scelta. Quasi non riuscii a pronunciare la domanda successiva. — E allora cosa ti succederà? — Secondo Reece, semplicemente si cambia. In un secondo, di colpo. Senti un'energia, un potere che ti si muove dentro. E quasi come nascere per la prima volta. — Aveva un'aria malinconica. — Almeno, così ha detto lei. — Non sembra così male. — Reece l'ha descritto come un calore travolgente. Dice che è stato come se il sole brillasse solo su di lei e su nessun altro. E in quel momento ha saputo quale strada fosse stata scelta per lei. — Sembrava troppo facile, troppo indolore. Era come se Lena mi stesse sviando. Per esempio da quello che riguardava l'entrata nelle Tenebre. Ma non volevo tirare fuori questo argomento, pur sapendo che ci stavamo pensando entrambi. Tutto qui! Tutto qui. Non fa male, se è di questo che ti preoccupi. Era una delle cose che mi preoccupavano, ma non certo l'unica. Non sono preoccupato. Nemmeno io. E questa volta, ciascuno di noi si impegnò a restare fuori dai pensieri dell'altro, e anche dai propri. Il sole avanzava sul tappeto e la luce arancione trasformava i colori dei fili intrecciati in centinaia di diverse sfumature d'oro. Per un momento il volto di Lena, gli occhi, i capelli, tutto ciò che la luce sfiorava diventò d'oro. Era bellissima, cento anni e cento miglia lontana da me e, come i volti del Libro, in qualche modo non del tutto umana. — Il tramonto. Zio Macon si sveglierà da un momento all'altro. Dobbiamo nascondere il Libro. — Lo chiuse e lo
rimise nel mio zaino. — Prendilo tu. Se lo trova, cercherà di tenermelo lontano, come il resto. — Non riesco proprio a capire cosa ci stiano nascondendo, lui e Amma. Se tutto questo succederà comunque e non c'è niente che nessuno di noi possa fare per impedirlo, perché non dirci tutto? Lena non mi voleva guardare. La presi tra le braccia e lei mi appoggiò la testa sul petto. Non disse nulla ma, sotto il doppio strato di maglie e maglioni, sentivo il suo cuore battere contro il mio. Guardò la viola finché la musica non si spense, sfumando come il sole nella finestra. * * * Il giorno dopo, a scuola, fu chiaro che eravamo le uniche due persone che pensassero a qualcosa che avesse a che fare con un qualsiasi tipo di libro. Non una mano che si alzasse, se non per chiedere il permesso di andare in bagno. Non una penna che sfiorasse il foglio, se non per scrivere il nome di chi era stato invitato, di chi non aveva uno straccio di speranza di essere invitato, di chi era già stato scaricato. Dicembre significava solo una cosa, alla Jackson: il Ballo d'Inverno. Eravamo in mensa, quando Lena tirò fuori l'argomento per la prima volta. — Link, hai invitato qualcuna al ballo? — Lena non conosceva la strategia non troppo segreta di Link, che andava sempre al ballo da solo per flirtare con la professoressa Cross, l'allenatrice delle ragazze. Link era innamorato di Maggie Cross, che si era diplomata cinque anni prima ed era tornata dopo il college per fare l'allenatrice, dalla quinta elementare.
— No, mi piace fare il solista. — Link sorrise, con la bocca piena di patatine. — La Cross fa sorveglianza alla festa e Link va sempre da solo, così può ronzarle intorno tutta la sera — spiegai. — Non voglio deludere le signore. Faranno a botte per me, non appena si comincerà a versare il punch. — Non sono mai stata a un ballo della scuola. — Lena abbassò lo sguardo sul vassoio e staccò una briciola dal sandwich. Sembrava quasi delusa. Non l'avevo invitata al ballo. Non mi era neppure passato per la testa che volesse andarci. Ci stavano succedendo così tante cose, ognuna infinitamente più importante di un ballo scolastico. Link mi lanciò un'occhiataccia. Mi aveva avvertito che sarebbe successo. — Tutte le ragazze vogliono essere invitate al ballo, amico. Non ho idea del perché, ma persino io lo so. — Chi immaginava che potesse avere ragione, visto che il suo piano per la conquista di Maggie Cross non aveva mai funzionato? Link si scolò la sua Coca Cola. — Una ragazza carina come te? Potresti diventare la Regina della Neve. Lena cercò di sorridere, ma non ci andò nemmeno vicino. — Cos'è? Non avete una Reginetta della Scuola come nel resto del mondo? — No. È il Ballo d'Inverno, quindi dovremmo avere la Regina dei Ghiacci. Ma la cugina di Savannah, Suzanne Snow, ha vinto finché non si è diplomata, e l'anno scorso ha cominciato a vincere Savannah Snow, così la Regina dei Ghiacci è diventata la Regina della Neve, Snow Queen. — Link si allungò e mi rubò un pezzo di pizza dal piatto. Era evidente che Lena volesse essere invitata al ballo. Ecco un'altra cosa misteriosa delle ragazze: vogliono essere invitate,
anche se non hanno nessun interesse a partecipare. Però avevo la sensazione che per Lena non fosse così. Era quasi come se lei avesse una lista delle cose che fanno le ragazze normali, e che fosse determinata a provarle tutte. Roba da matti. Il ballo era l'ultimo posto dove avrei voluto andare. Non eravamo certo i due studenti più amati della Jackson, ultimamente. Non m'importava che ci guardassero tutti, quando passavamo nei corridoi, anche se non ci tenevamo per mano. Non m'importava che in quel preciso istante stessero probabilmente sparlando di noi, mentre ce ne stavamo seduti da soli all'unico tavolo libero della mensa affollata. O che una banda di Angeli pattugliasse i corridoi aspettando solo che facessimo un passo falso. Ma il fatto era che, prima di Lena, mi sarebbe importato. Mi stavo chiedendo, cioè, se per caso non fossi sotto qualche influsso magico. Io non c'entro. Non ho detto niente. Sì, invece. Non ho detto che mi hai fatto un incantesimo. Ho detto solo che forse sono sotto l'effetto di qualche incantesimo. Mi credi come Ridley! Credo che... Ah, lascia perdere. Lena mi scrutò in viso ancor più attentamente, quasi volesse leggermi dentro. Chissà, forse adesso riusciva anche in questo. Cosa! La cosa che hai detto la mattina dopo Halloween, nella tua stanza. Ci credevi davvero, L? Quale cosa! La scritta sul muro. Quale muro! Il muro della tua stanza. Non fingere di non ricordare. Dicevi che sentivi le stesse cose che provavo io.
Cominciò a giocherellare con la collana. Non so di che parli. Di caderci... Caderci! Caderci... hai capito. Cosa! Lascia stare. Dillo, Ethan. L'ho appena detto. Guardami. Ti sto guardando. Guardai nel mio latte al cioccolato. — Capito? Savannah Snow? Regina della Neve? — Link rovesciò del gelato alla vaniglia sulle patatine fritte. Lena incrociò il mio sguardo e arrossì. Allungò la mano sotto il tavolo. La strinsi nella mia e presi una scossa tale che per poco non la scaraventai via. Era davvero come infilare le dita in una presa elettrica. Dal modo in cui mi guardava, anche se non avessi sentito i suoi pensieri, avrei comunque capito. Se hai qualcosa da dire, Ethan, ti ascolto. Sì. Quello. Dillo. Ma non ce n'era bisogno. Eravamo io e lei soltanto, nel mezzo della mensa affollata, nel mezzo di una conversazione con Link. Io e lei. E non avevamo idea di cosa stesse dicendo Link. — Capito? E il buffo è che è tutto vero. Savannah Snow è la Snow Queen. Lena mi lasciò la mano e gli tirò una carota addosso. Non riusciva a smettere di sorridere. Link pensava che sorridesse a lui. — Okay. L'ho capito. È stupido. — Piantò la forchetta nell'impiastro che aveva nel piatto. — Non ha senso. Non nevica nemmeno, da queste parti.
Link mi sorrise sopra le sue patatine al gelato. — È invidiosa. Faresti meglio a tenere gli occhi aperti. Lena vuole essere eletta per ballare con me quando mi incoroneranno Re dei Ghiacci. Lei non riuscì a trattenere una risata. — Tu? Credevo che ti stessi conservando per l'allenatrice. — È vero. E quest'anno finalmente cadrà ai miei piedi. — Link passa tutta la serata a cercare qualcosa di intelligente da dirle quando lei gli passa accanto. — Mi trova molto simpatico. — Buffo, magari. — Questo è il mio anno. Lo sento. Diventerò re e Maggie Cross finalmente mi vedrà sul palco con Savannah. — Non riesco a immaginare il seguito. — Lena cominciò a sbucciare un'arancia rossa. — Oh, sai, lei sarà molto colpita dalla mia bellezza e dal mio fascino e dal mio talento musicale, soprattutto se tu mi scriverai una canzone. E poi capitolerà e ballerà con me tutta la notte e mi seguirà a New York dopo il diploma, per essere la mia groupie. — Vai a una scuola speciale? — La buccia si staccò in un'unica spirale. — La tua ragazza pensa che sono speciale, amico — esclamò Link sputacchiando patatine. Lena mi guardò. La tua ragazza. L'avevamo sentito entrambi. È questo che sono? È questo che vuoi essere! Mi stai chiedendo qualcosa! Non era la prima volta che ci pensavo. Sentivo Lena come la mia ragazza già da un bel po'. Considerando tutto quello che avevamo passato insieme, era quasi scontato che lo fosse.
Quindi non so perché non l'avessi mai detto e non so perché fosse così difficile dirlo adesso. Ma c'era qualcosa nel pronunciare quelle parole che rendeva più reale l'idea. Immagino di sì. Non ne sembri molto sicuro. Le strinsi la mano sotto il tavolo e incontrai i suoi occhi verdi. Ne sono sicuro, L. Allora immagino che sono sul serio la tua ragazza. Link stava ancora parlando. — Vedrai, Maggie Cross non riuscirà a togliermi le mani di dosso. — Si alzò e prese il vassoio. — Ma non credere che la mia ragazza ti concederà un ballo. Gli occhi di Lena si illuminarono. Avevo ragione. Non solo voleva essere invitata al ballo, ci voleva proprio andare. In quel momento decisi che, qualunque cosa ci fosse sulla lista di Lena delle cose da ragazze normali, avrei fatto in modo che riuscisse a depennarle tutte. — Voi ci andate? La guardai con aria interrogativa e lei mi strinse la mano. — Sì, immagino di sì. Questa volta sorrise per davvero. — E, Link, che ne dici di due balli con me? Al mio ragazzo non dispiacerà. Non mi direbbe mai con chi posso o non posso ballare. — Alzai gli occhi al cielo. Link sollevò il pugno e io battei le nocche contro le sue. — Ci scommetto. Suonò la campanella. Il pranzo era finito. Di punto in bianco, non solo avevo qualcuno da portare al ballo, ma mi ritrovavo con una ragazza. Fidanzato. E non era una ragazza qualsiasi, ma una con cui avevo quasi pronunciato la parola che inizia con A. In mensa, davanti a Link.
Un pranzo proprio movimentato.
13-12 Neve sciolta — Non capisco perché non possa venire a prenderti qui. Speravo proprio di vedere la nipote di Melchizedek tutta in ghingheri nel suo abito da sera. — Ero in piedi davanti ad Amma in modo che potesse farmi il nodo al papillon. Era così bassa che aveva dovuto salire sul terzo gradino per arrivare fino al mio colletto. Quando ero piccolo, la domenica mi pettinava i capelli e mi annodava la cravatta prima di andare in chiesa. Aveva sempre un'aria così fiera di me, la stessa con cui mi stava guardando adesso. — Scusa. Non c'è tempo per le foto. La vado a prendere a casa sua. È il ragazzo che va dalla ragazza, ricordi? — Era una cosa un po' forzata, considerando che l'andavo a prendere con il Catorcio. Link si era fatto dare un passaggio da Shawn. I ragazzi della squadra gli tenevano ancora un posto al loro tavolo, nonostante si sedesse abitualmente con me e Lena. Amma mi strinse il nodo e sbottò in una risata. Non so cosa ci trovasse di così divertente, ma mi rese nervoso. — È troppo stretto. Mi sta strangolando. — Cercai di infilare un dito tra il collo e il colletto del completo da sera preso a nolo, ma non ci riuscii. — Non è la cravatta, sono i nervi. Andrà tutto bene. —
Mi ispezionò con aria di approvazione, come avrebbe fatto mia madre se fosse stata lì. — Ora fammi vedere i fiori. Presi una scatoletta che conteneva una rosa rossa circondata da piccoli fiorellini bianchi. A me sembrava orribile, ma non si poteva trovare niente di meglio ai Giardini dell'Eden, l'unico fioraio di Gatlin. — I fiori più tristi che abbia mai visto. — Le bastò un'occhiata, poi li prese e li buttò nel cestino in fondo alle scale. Girò sui tacchi e sparì in cucina. — Perché l'hai fatto? Aprì il frigorifero e tirò fuori un braccialetto di fiori, piccolo e delicato. Bianchi gelsomini dei Confederati e rosmarino selvatico, legati da un pallido nastro d'argento. Argento e bianco, i colori del Ballo d'Inverno. Era perfetto. Per quanto Amma non andasse matta per la mia storia con Lena, si era comunque data da fare. Per me. Era una cosa che mia madre avrebbe fatto. E solo da quando lei era morta mi ero reso conto di quanto contassi su Amma, di quanto avessi sempre contato su di lei. Amma era l'unico motivo per cui ero rimasto a galla. Senza di lei, probabilmente sarei affogato, come mio padre. — Tutto ha un senso. Non cercare di trasformare qualcosa di selvatico in qualcosa di domestico. Avvicinai il braccialetto di fiori alla lampada della cucina. Feci scorrere le dita su tutta la lunghezza del nastro, toccandolo con attenzione. Ben nascosto tra i fiori, trovai un ossicino. — Amma! Lei scrollò le spalle. — Be', non vorrai farmi delle storie per un minuscolo ossicino di cimitero come quello? Dopo tutti gli anni che hai vissuto in questa casa, dopo aver visto le cose che hai visto, dov'è il tuo buon senso? Un po' di protezione non ha mai fatto male a nessuno. Nemmeno a te, Ethan Wate.
Sospirai e misi il braccialetto di fiori nella sua scatola. — Anch'io ti voglio bene, Amma. Lei mi abbracciò stretto, poi corsi giù per i gradini e via nella notte. — Stai bene attento, hai capito? Non perdere la testa. Non avevo idea di cosa volesse dire, ma le sorrisi lo stesso. — Sissignora. Mentre partivo, vidi che la luce nello studio di mio padre era accesa. Chissà se sapeva che quella sera c'era il Ballo d'Inverno. Quando Lena aprì la porta, quasi mi si fermò il cuore, il che era tutto dire, visto che non mi aveva nemmeno sfiorato. Sapevo che sarebbe stata diversa dalle altre ragazze che avrebbero partecipato al ballo. Nella contea di Gatlin c'erano solo due tipi di vestiti da sera e venivano da due posti: il Little Miss, il negozio di Gatlin specializzato in abiti da cerimonia, e il Southern Belle, due paesi più in là, che vendeva vestiti da sposa. Le ragazze che andavano al Little Miss esibivano volgari vestiti da sirena, tutti spacchi, scollature profondissime e lustrini. Erano le ragazze con cui Amma non mi avrebbe mai permesso di farmi vedere nemmeno ai picnic parrocchiali, figuriamoci al Ballo d'Inverno. Erano le ragazze che a volte partecipavano ai concorsi di bellezza locali, o erano le figlie di ex ragazze che avevano partecipato ai concorsi di bellezza locali, come Eden, la cui madre era stata selezionata per Miss Carolina del Sud, o più spesso erano le figlie di mamme che avrebbero voluto partecipare ai concorsi di bellezza. Erano le stesse ragazze che probabilmente avremmo visto tra un paio di anni alla cerimonia della consegna dei diplomi con i loro neonati in braccio.
I vestiti del Southern Belle erano invece alla Rossella O'Hara di Via col vento, a forma di campanacci giganti. Le ragazze Southern Belle erano le figlie del dar e delle signore dei gruppi di volontariato - le Emily Asher e le Savannah Snow - e potevi presentarti con loro ovunque, se avevi lo stomaco per farlo, lo stomaco per sopportarle, lo stomaco per ballare con una che sembrava una sposa al suo matrimonio. In entrambi i casi, ogni capo luccicava, era coloratissimo e includeva un sovrannumero di pizzi argentati, oltre a una preponderante tonalità di arancione che la gente chiamava "pesca di Gatlin", un colore che nel resto degli Stati Uniti era riservato ai vestiti da damigella più pacchiani. Per i ragazzi la pressione era meno palese, ma non era facile nemmeno per noi. Dovevamo indossare colori abbinati al vestito della ragazza che avevamo invitato, compreso il temuto "pesca di Gatlin". Quest'anno la squadra di basket sarebbe andata al ballo con il papillon e la fascia color argento, risparmiandosi l'umiliazione di un papillon rosa o viola o color pesca. Lena di sicuro non aveva mai indossato il color pesca in tutta la sua vita. Quando la guardai, mi si piegarono le ginocchia, una sensazione che cominciava a diventarmi familiare. Era così bella da far male. Wow. Ti piace! Ruotò su se stessa. I capelli le si arricciavano sulle spalle, trattenuti da piccoli fermagli luccicanti con quel magico sistema che conoscono le ragazze per cui sembra che siano raccolti e al contempo sciolti. Avrei voluto passarci le dita in mezzo ma non osavo toccarle nemmeno un singolo capello. Il vestito ricadeva, aderendo nei punti giusti ma senza farla
sembrare volgare, in veli grigio argento, delicati come ragnatele d'argento tessute da ragni d'argento. È così? L'hanno tessuto dei ragni d'argento? Chissà. Potrebbe essere. È un regalo di zio Macon. Rise e mi tirò dentro casa. Ravenwood sembrava riflettere il tema invernale del ballo. Quella sera l'ingresso era in stile vecchia Hollywood: pavimento a scacchiera e, intorno a noi, scintillanti fiocchi di neve color argento che fluttuavano leggeri nell'aria. Un antico tavolo laccato nero stava davanti a tende d'argento iridescenti e, dietro di esse, vedevo qualcosa che luccicava come l'oceano, sebbene sapessi che era impossibile. Diverse candele brillavano dai mobili, disegnando piccoli cerchi di luce lunare ovunque guardassi. — Davvero? Dai ragni? La luce delle candele si rifletteva sulle labbra lucide di Lena. Cercai di non pensarci. Cercai di non desiderare di baciare il piccolo spicchio di luna sul suo zigomo. Una lievissima polvere d'argento le incipriava le spalle, il viso, i capelli. Persino la voglia sembrava d'argento, quella sera. — Stavo scherzando. Probabilmente mio zio l'ha trovato in qualche boutique di Parigi o di Roma o di New York. Gli piacciono le cose belle. — Lena toccò il ciondolo a forma di mezzaluna che aveva al collo, appena sopra la sua collana di ricordi. Un altro regalo dello zio Macon, pensai. Una voce ormai familiare arrivò dal corridoio in ombra, accompagnata da un candeliere d'argento. — Budapest, non Parigi. Per il resto, mi dichiaro colpevole. — Macon si presentò in smoking, con i pantaloni neri e una camicia bianca da sera. I gemelli d'argento sui polsini riflettevano il bagliore delle fiammelle. — Ethan, apprezzerei molto se tu potessi prendere ogni precauzione, con mia nipote. Come sai, di sera preferisco
saperla a casa. — Mi porse un braccialetto di fiori per Lena, una piccola ghirlanda di gelsomini dei Confederati. — Tutte le precauzioni possibili. — Zio M! — La voce di Lena era irritata. Osservai da vicino il braccialetto. Un anello d'argento pendeva dalla spilla che tratteneva i fiori. Recava un'iscrizione in una lingua che non conoscevo, ma che avevo già visto nel Libro delle Lune. Non c'era bisogno di un grande spirito di osservazione per capire che era l'anello di Macon, quello che portava giorno e notte. Tirai fuori il braccialetto di Amma, quasi identico. Sommando il centinaio di Maghi che probabilmente erano Vincolati all'anello a tutta la schiera dei Grandi di Amma, nessuno spirito di Gatlin avrebbe osato importunarci, quella sera. Almeno speravo. — Credo, signore, che con l'aiuto suo e di Amma, Lena riuscirà a sopravvivere al Ballo d'Inverno senza problemi. — Sorrisi. Macon invece no. — Non è il ballo che mi preoccupa, ma sono comunque grato ad Amarie. Lena aggrottò la fronte, guardando lui e poi me. Forse non avevamo l'aria delle persone più felici del paese. — Ora tocca a te. — Lena prese una boutonnière dal tavolo, una semplice rosa bianca con un minuscolo rametto di gelsomino, e me la fissò all'occhiello del bavero. — Vorrei tanto che la smetteste di preoccuparvi. Almeno per un minuto. Sta diventando imbarazzante. So badare a me stessa. Macon non sembrava convinto. — In ogni caso, non vorrei mai che qualcuno si facesse del male. Non sapevo se si riferisse alle streghe della Jackson o alla potente Maga delle Tenebre, Sarafine. In ogni caso, ne avevo visto abbastanza negli ultimi mesi per prendere sul serio i suoi avvertimenti.
— E riportala a casa entro mezzanotte. — È un'ora di maggiore potenza per i Maghi? — No. È il coprifuoco. Soffocai un sorriso. Lungo la strada, Lena sembrava ansiosa. Stava seduta rigidamente sul sedile, armeggiando con la radio, il vestito, la cintura. — Rilassati. — E una follia andare al ballo? — Mi mi guardò con ansia. — In che senso? — Nel senso che mi odiano tutti. — Abbassò gli occhi sulle mani. — Vuoi dire che ci odiano tutti. — Okay, ci odiano tutti. — Non dobbiamo andarci per forza. — No. Voglio andare. Il fatto è che... — Fece girare i braccialetti di fiori intorno al polso. — L'anno scorso, io e Ridley avevamo progettato di parteciparvi insieme. Ma poi la situazione precipitò prima del ballo... Ridley compì sedici anni. Lei se ne andò e io dovetti abbandonare la scuola. — Be', quest'anno è diverso. È solo un ballo. E non è successo niente di male. Lei aggrottò la fronte. Non ancora. Quando entrammo nella palestra della scuola, mi accorsi che gli organizzatori si erano dati molto da fare. Si erano sbizzarriti sull'idea del Sogno di una notte di mezzo inverno, per così dire. Centinaia di minuscoli fiocchi di neve di carta - alcuni bianchi, altri di stagnola, glitter, lustrini e qualsiasi altra cosa potesse luccicare - scendevano dal soffitto della palestra appesi a fili da
lenza. Mulinelli di "neve" di scaglie di sapone si formavano negli angoli e file di lucette bianche e baluginanti scendevano lungo le gradinate. — Ciao, Ethan! Lena, sei deliziosa — Maggie Cross ci offrì un bicchiere di punch alla pesca di Gatlin. Indossava un abito nero che lasciava le gambe un po' troppo scoperte, per la gioia di Link. Guardai Lena, pensando ai fiocchi di neve che si libravano nell'aria a Ravenwood, senza lenze di nylon o carta stagnola. Eppure, i suoi occhi brillavano e si teneva stretta alla mia mano come una bambina alla sua prima festa di compleanno. Non avevo mai creduto a Link, quando diceva che i balli della scuola hanno un inspiegabile effetto sulle ragazze. Ma era chiaro che fosse così per tutte le ragazze, comprese le Maghe. — È meraviglioso. — Sinceramente, non lo era. In realtà si trattava solo di un banale ballo della Jackson, ma immagino che per Lena fosse davvero qualcosa di meraviglioso. Forse la Magia non era poi così magica, a crescerci in mezzo. Fu allora che sentii una voce familiare. Impossibile. — Dai! Facciamo decollare la festa! Ethan, guarda... Mi girai e quasi mi strozzai con il punch. Link mi fece un sorrisone. Indossava una specie di abito da sera di pelle di squalo argentata. Sotto la giacca aveva una di quelle magliette nere con la camicia disegnata sopra e, ai piedi, le scarpe da basket nere. Sembrava un artista di strada. — Ehi, Paglia Corta! Ehi, cuginetta! — Sentii l'inconfondibile voce sopra il brusio della folla, sopra la voce del DJ, sopra il pulsare dei bassi e le coppie in pista. Miele, zucchero, melassa e lecca-lecca alla ciliegia, tutto insieme. Era la prima volta in vita mia che qualcosa mi sembrava troppo dolce.
La mano di Lena si strinse alla mia. Incredibilmente, al braccio di Link, nel ritaglio di lustrini più piccolo mai indossato a un ballo della Jackson e forse a un qualsiasi ballo scolastico del pianeta, c'era Ridley. Non sapevo nemmeno dove guardare: era tutta gambe e curve e capelli biondi che cadevano dappertutto. Sentii salire la temperatura nella stanza solo guardandola. Dal numero di maschi che avevano smesso di ballare con le rispettive ragazze-torta-nuziale - ora fumanti di rabbia - era ovvio che non fossi l'unico. In un mondo dove tutti i vestiti da ballo venivano da due negozi, Ridley aveva superato anche il più provocante capo del Little Miss. Al confronto, Maggie Cross sembrava la madre superiora di un convento. In altre parole, Link era spacciato. Lena spostò lo sguardo da me a sua cugina, spiazzata. — Ridley, che ci fai qui? — Cuginetta. Finalmente siamo riuscite a venire al ballo. Non sei in estasi? Non è tutto fantastico? I capelli di Lena cominciarono ad arricciarsi in un vento inesistente. Batté le palpebre e una buona metà delle file ili lucette bianche si spense. Dovevo agire in fretta. Presi Link e lo trascinai verso la boccia del punch. — Che ci fai con lei? — Amico, ci crederesti? È la pollastra più da sballo di tutta Gatlin, senza offesa. Da delirio. Venendo qui, mi sono fermato allo Stop&Scippa a comprare i salamini piccanti e ho trovato lei che bighellonava nel negozio. Già vestita così. — E non ti è parso un pochino strano? — E tu credi che me ne importi? — E se fosse una specie di psicopatica? — C'è il rischio che mi leghi? Roba del genere? — Link sorrise, già prefigurandosi la scena. — Non sto scherzando.
— Tu stai sempre scherzando. Che ti succede? Oh, adesso capisco. Sei geloso. Perché, se non ricordo male, eri tu quello che era salito in macchina con lei senza pensarci due volte. Non dirmi che ci hai provato e... — Figurati. È la cugina di Lena. — Comunque. Io so solo che sono qui al ballo con la ragazza più sexy di tre contee. Della serie, quante sono le probabilità che un meteorite cada su Gatlin? Non mi succederà mai più. Datti una calmata, okay? Non rovinarmi la festa. — Era già sotto l'effetto della magia di Ridley. Non che servisse molta magia, con Link. Non contava cosa gli dicessi. Feci un ultimo, debole tentativo. — Quella porta guai, Link. Pasticcia con il tuo cervello. Vedrai, ti risucchierà e, quando avrà finito, ti sputerà fuori. Mi afferrò per le spalle con entrambe le mani. — Sparisci. Link prese Ridley per la vita e l'accompagnò in pista. Non degnò la povera Maggie Cross nemmeno di uno sguardo, quando le passò davanti. Tirai Lena nella direzione opposta, verso l'angolo dove il fotografo immortalava le coppie tra una nevicata finta e un finto pupazzo di neve, mentre alcuni degli organizzatori, a turno, facevano cadere la neve dall'alto. Andai a sbattere dritto contro Emily. Lei squadrò Lena. — Lena. Sei... luccicante. Lena la degnò di un'unica occhiata. — Emily. Sembri... un bignè. Era vero. Emily Anti-Ethan, con il suo vestito da Southern Belle, sembrava un bignè color argento e pesca di Gatlin, tutta arricciata e agghindata e incartata nel taffettà. I capelli, acconciati in spaventosi riccioli da porcellino, parevano fatti di nastro giallo. E dalla faccia si intuiva che la parrucchiera glieli
avesse tirati troppo, fermandoli sulla testa con un eccesso di forcine. Cosa ci avevo visto in quella ragazza? — Non sapevo che quelle come te ballassero. — Eccome. — Lena la guardava fisso. — Intorno a un falò? — La faccia di Emily si distorse in un ghigno cattivo. I capelli di Lena ricominciarono ad arricciarsi. — Perché? Te ne serve uno per bruciare il tuo vestito? — L'altra metà delle lucette saltò. Vidi gli organizzatori precipitarsi a controllare i cavi. Non dargliela vinta. È lei l'unica strega, qui. Non è l'unica, Ethan. Savannah si materializzò accanto a Emily, trascinandosi dietro Earl. Era esattamente come Emily, solo che il suo vestito era argento e rosa, anziché argento e pesca. La gonna era altrettanto voluminosa. A ben guardare, si potevano già immaginare i loro rispettivi matrimoni. Era orripilante. Earl guardava a terra, cercando di evitare di incrociare il mio sguardo. — Vieni, Em, stanno per annunciare la Corte Reale. — Savannah guardò Emily con intenzione. — Non vi voglio trattenere, ragazzi. — Savannah ci indicò la fila in attesa di farsi immortalare. — Ma Lena, tu resti impressa sulle foto? — E si allontanò con sussiego, con tutto l'ingombrante vestito da bignè. — I prossimi! I capelli di Lena si stavano ancora arricciando. Sono delle idiote. Lascia stare. Non contano niente. Sentii di nuovo la voce del fotografo. — I prossimi!
Presi Lena per mano e la trascinai nella neve finta. Lei mi guardò, con gli occhi rabbuiati. Ma poi la nube passò e lei era di nuovo con me. Sentivo che la tempesta si allontanava. — Neve! — udii in sottofondo. Hai ragione. Non contano niente. Mi chinai per baciarla. Tu invece conti. E mentre ci baciavamo, scattò il flash della macchina fotografica. Per un secondo, un secondo perfetto, sembrò che non ci fosse nessun altro al mondo e che null'altro contasse. La luce accecante del flash e poi... una broda bianca, densa e collosa che cadeva su di noi. Cosa... ? Lena annaspò. Cercai di pulirmi gli occhi, ma ne avevo dappertutto. E quando vidi Lena fu ancora peggio: i capelli, la faccia, il suo bellissimo vestito... Il suo primo ballo. Rovinato. Quella roba schiumava come l'impasto per le crèpe e gocciolava giù da un secchio sospeso sopra le nostre teste, il secchio dal quale sarebbero dovuti cadere i finti fiocchi di neve, in modo che aleggiassero leggiadramente nella foto. Alzai gli occhi e mi presi un'altra colata di broda in faccia. Il secchio cadde per terra. — Chi ha messo l'acqua nella neve? — Il fotografo era furioso. Nessuno rispose. C'era da scommettere che i Jackson Angels non avessero visto niente. — La strega si sta sciogliendo! — gridò qualcuno. Eravamo in una pozzanghera di sapone bianco o colla, o chissà cosa, con il desiderio di rimpicciolirci fino a scomparire. Almeno, questa era l'impressione che dovevamo dare ai ragazzi che si erano radunati intorno a noi ridendo. Savannah ed Emily erano di lato e si godevano ogni minuto di
quello che era forse il momento più umiliante della vita di Lena. Sopra il rumore, un ragazzo gridò. — Era meglio se stavi a casa! Avrei riconosciuto quella stupida voce ovunque. L'avevo sentita sin troppe volte in campo, praticamente l'unico posto in cui la tirasse fuori. Earl stava sussurrando qualcosa all'orecchio di Savannah, con un braccio intorno alle sue spalle. Scattai. Gli fui addosso così in fretta che non mi vide nemmeno arrivare. Gli tirai un pungo insaponato sulla faccia. Earl cadde a terra e trascinò giù anche Savannah, che finì sul suo bel sedere avvolto nella gonna a cerchi. — Che diavolo fai? Ti sei fumato il cervello, Wate? — Earl fece per rialzarsi, ma io lo spinsi giù di nuovo con il piede. — È meglio che resti lì. Earl si mise a sedere e si raddrizzò il colletto della giacca, come se potesse ancora darsi un tono, seduto sul pavimento della palestra. — Spero che tu ti renda conto di quello che stai facendo. — Ma non si rialzò. Poteva dire quello che voleva, ma sapevamo entrambi che, se si fosse rialzato, sarebbe stato lui a finire di nuovo a terra. — Lo so benissimo. — Trascinai via Lena dalla pozza sempre più grande di nevicata sciolta. — Andiamo, Earl. Stanno per annunciare la Corte Reale — esclamò Savannah, irritata. Earl si rialzò e si spolverò il vestito. Mi asciugai gli occhi, mi scrollai i capelli bagnati. Lena era immobile, tremante. Colava neve sciolta, come vernice. Pur nella folla, c'era un cerchio vuoto intorno a lei. Nessuno osava avvicinarsi, tranne me. Cercai di ripulirle la faccia con la manica, ma lei si ritrasse. E sempre così. — Lena.
Avrei dovuto immaginarlo. Ridley comparve al suo fianco, seguita da Link. Era chiaramente furiosa. — Non capisco, cuginetta. Non capisco perché insisti a stare con quelli della loro razza. — Sputava le parole con cattiveria, con lo stesso tono di Emily. — Nessuno ci può trattare così, Luce o Tenebre. Nessuno di loro. Dov'è il rispetto che hai di te stessa, Lena d'Avena? — Non ne vale la pena. Non stasera. Voglio solo andare a casa. — Lena era troppo imbarazzata per essere furiosa come Ridley. Era una questione di lottare o dileguarsi e Lena stava scegliendo la seconda. — Portami a casa, Ethan. Link si tolse la giacca argentata e gliela mise sulle spalle. — Hanno rovinato tutto. Ridley non riusciva a calmarsi, o non voleva. — Quelli portano solo guai, cuginetta, tranne il nostro Paglia Corta. E il mio nuovo ragazzo, Rinko Mink. — Link. Te l'ho già detto. Link. — Smettila, Ridley. Ne ha già avuto abbastanza. — L'effetto Sirena non aveva più alcun influsso su di me. Ridley guardò alle mie spalle e sorrise. Un sorriso di Tenebre. — Ora che ci penso, anch'io ne ho avuto abbastanza. Seguii il suo sguardo. Le Regina e la sua Corte erano sul palco, sorridenti per il loro privilegio. Ancora una volta, era Savannah la Regina della Neve. Nulla cambiava mai. Savannah sorrideva raggiante a Emily, che ancora una volta era la sua Principessa dei Ghiacci, come l'anno precedente. Ridley sollevò appena gli occhiali da sole da diva. I suoi occhi cominciarono a brillare. Quasi si avvertiva il calore che emanavano. Un lecca-lecca le comparve in mano e ne sentii nell'aria l'odore dolciastro, denso e nauseante. Non farlo, Ridley.
Tu non c'entri niente, cuginetta. E una cosa più grande. Le cose stanno per cambiare in questo paese di trogloditi. Sentivo la voce di Ridley nella mente, chiara come quella di Lena. Scossi la testa. Lascia perdere, Ridley. Non farai che peggiorare le cose. Apri gli occhi: non possono essere peggio di così. O forse sì... Diede un buffetto a Lena, sulla spalla. Guarda e impara. Ridley fissava la Corte Reale, succhiando il suo lecca-lecca alla ciliegia. Sperai che fosse troppo buio perché si notassero i suoi spaventosi occhi da gatto. No! Accuseranno me, Ridley. Non farlo. Sfi-Gatlin ha bisogno di una bella lezione. E sarò io a dargliela. Ridley avanzò verso il palco, con i tacchi luccicanti che ticchettavano sul pavimento. — Ehi, baby, dove vai? — Link le fu subito alle calcagna. Charlotte stava salendo le scale, avvolta in chilometri di luccicante taffettà color lavanda, in un vestito di due taglie troppo piccolo, verso la sua brillante corona di plastica argentata e il suo solito posto in quarta posizione nella Corte Reale, dietro a Eden: la Servetta dei Ghiacci, probabilmente. Ma mentre affrontava l'ultimo gradino, la gigantesca creazione color lavanda s'impigliò su uno spigolo e, quando Charlotte fece il passo successivo, il vestito si strappò sul sedere, aprendosi lungo le cuciture poco salde. Le ci vollero un paio di secondi per capire cosa fosse successo, ma a quel punto metà della scuola stava rimirando le sue mutande rosa, grandi come lo Stato del Texas. Charlotte cacciò un urlo da far gelare il sangue, un urlo che tradotto significava: adesso tutti sanno quanto sono grassa veramente.
Ridley ghignò. Oops! Ridley, fermati! Ho appena cominciato. Charlotte strillava, mentre Emily, Eden e Savannah cercavano di nasconderla agli sguardi curiosi con i loro vestiti da spose adolescenti. Il rumore di un disco messo sul piatto gracchiò dalle casse e la musica venne bruscamente sostituita dai Rolling Stones: Sympathy for the Devil. Una perfetta colonna sonora. Ridley si stava presentando in grande stile. La gente sulla pista pensò che fosse solo un altro dei pasticci di Dickey Wix, lanciato verso il successo come il più famoso DJ trentacinquenne nel circuito dei balli scolastici. Ma non sapevano che cosa li aspettava. Altro che file di lucette che saltavano,- in pochi secondi, tutte le lampadine sopra il palco e quelle che bordavano la pista iniziarono a esplodere, una dopo l'altra, come tessere di un domino. Ridley portò Link sulla pista e si misero a ballare, mentre tutti gli studenti della Jackson gridavano e si spintonavano per uscire dalla pista sotto una pioggia di scintille. Sicuramente pensavano a un disastro elettrico di cui Red Sweet, l'unico elettricista di Gatlin, sarebbe stato incolpato. Ridley rideva buttando indietro la testa e strusciandosi addosso a Link con quel suo vestito-perizoma. Ethan! Dobbiamo fare qualcosa! E cosa! Era troppo tardi. Lena si girò e corse via. La seguii. Prima che riuscissimo a raggiungere le porte della palestra, scattò il sistema antincendio e dal soffitto cominciò a piovere acqua. Il sistema audio andò in corto, sprizzando scintille dall'aspetto minaccioso. I fiocchi di neve bagnati caddero come tanti
schizzi di pastella per le crèpe e i fiocchi di neve al sapone si trasformarono in una melma schiumosa. La gente gridava. Le ragazze correvano verso la porta, trascinando le gonne di taffettà fradice, colando mascara e lacca. Nella confusione, non si distinguevano più le Little Miss dalle Southern Belle. Sembravano tanti ratti annegati color pastello. Quando arrivai alla porta, sentii un fragore. Mi girai verso il palco e vidi il gigantesco fondale di fiocchi di neve luccicanti che si rovesciava. Emily cadde dal podio, perdendo l'equilibrio sul palco viscido. Fendendo la folla, cercò di riprendere il controllo ma i piedi scivolarono e lei collassò sul pavimento della palestra. Una montagna di taffettà color argento e pesca. Maggie Cross la raggiunse di corsa. Non ero dispiaciuto per lei, ma per tutti coloro che sarebbero stati ritenuti responsabili di questo incubo: gli organizzatori per il fondale pericolosamente instabile, Dickey Wix per aver approfittato della sfortuna di una grassa cheerleader in mutande e Red Sweet per l'impianto elettrico scarsamente professionale e potenzialmente letale. Ci vediamo, cuginetta. È stato molto meglio di un ballo scolastico. Spinsi fuori Lena. — Vai! Lena era così fredda che a malapena riuscivo a toccarla. Quando arrivammo alla macchina, ci raggiunse Boo Radley. Macon non avrebbe dovuto preoccuparsi del coprifuoco. Non erano nemmeno le nove e mezzo. * * * Macon era furibondo, o forse solo preoccupato. Non capivo quale delle due, perché ogni volta che mi guardava, io
distoglievo lo sguardo. Nemmeno Boo, che batteva la coda sul pavimento, disteso ai piedi di Lena, osava guardarlo. La casa non riproponeva più l'atmosfera di un ballo. Scommetto che Macon non avrebbe mai più permesso a un solo fiocco di neve argentato di varcare le porte di Ravenwood. Adesso era tutto nero. Tutto: i pavimenti, i mobili, le tende, il soffitto. Solo il fuoco nel caminetto dello studio ardeva sicuro, gettando luce nella stanza. Forse la casa rifletteva gli sbalzi d'umore di Macon, e questa volta il suo umore era nero. — Cucina! — Una tazza nera colma di cioccolato fumante apparve nella mano di Macon. La passò a Lena, seduta davanti al fuoco in una ruvida coperta di lana. Prese la tazza con due mani, i capelli bagnati raccolti dietro le orecchie, aggrappandosi al suo calore. Macon camminava avanti e indietro davanti a lei. — Dovevi andartene nel momento stesso in cui l'hai vista, Lena. — Ero piuttosto occupata a farmi imbrattare di sapone mentre tutta la scuola mi rideva in faccia. — Be', non sarai più occupata. Sei in castigo fino al tuo compleanno, per il tuo stesso bene. — Il punto, adesso, non è affatto il mio bene. — Lena tremava ancora, ma non credo per il freddo. Non più. Macon mi fissò, con gli occhi gelidi e scuri. Era furioso, adesso ne ero sicuro. — Tu avresti dovuto portarla via. — Non sapevo cosa fare, signore. Non sapevo che Ridley avrebbe distrutto la palestra. E Lena non era mai stata a un hallo. — Suonava stupido alle mie stesse orecchie. Macon si limitò a fissarmi, rigirando lo scotch nel suo bicchiere. — Peccato allora che non abbiate nemmeno danzato. Nemmeno un ballo. — E tu come fai a saperlo? — Lena depose la tazza.
Macon continuava a camminare. — Questo non è importante. — Invece è importante per me. Macon scrollò le spalle. — È Boo. In mancanza di un termine migliore, possiamo dire che Boo è i miei occhi. — Cosa? — Lui vede quello che vedo io. Io vedo quello che vede lui. È un cane magico. — Zio Macon! Tu mi hai spiata per tutto questo tempo! — Non te in particolare. Come pensi che riesca a vivere da eremita? Non andrei lontano, senza il miglior amico dell'uomo. Boo vede tutto. Quindi anch'io vedo tutto. Guardai Boo. I suoi occhi, umani. Avrei dovuto capirlo, e forse l'avevo sempre saputo. Boo aveva gli occhi di Macon. E in più, aveva anche qualcosa tra i denti: qualcosa che stava masticando. Mi chinai e glielo sfilai dalla bocca. Era una Polaroid zuppa e accartocciata. L'aveva portata fin lì dalla palestra. Era la nostra foto. Io e Lena in mezzo alla finta nevicata. Savannah si sbagliava. Quelli come Lena comparivano nelle foto, solo che era un'immagine vibrante, traslucida, come se dalla vita in giù avesse già iniziato a dissolversi in una sorta di apparizione ectoplasmatica. Come se si stesse sciogliendo prima ancora che le cadesse addosso la neve sciolta. Carezzai la testa di Boo e intascai la foto. Era meglio che Lena non la vedesse, non ora. Due mesi ancora al suo compleanno. Non mi serviva la foto per sapere che stavamo esaurendo il nostro tempo.
16-12 Arriva la Cavalleria Lena era seduta sulla veranda, quando arrivai. Insistetti per guidare perché Link voleva accompagnarci ma non poteva rischiare di farsi vedere nel carro funebre. E io non volevo che Lena andasse da sola. Veramente non avrei voluto che ci andasse per niente, ma non c'era stato verso di convincerla. Sembrava in tenuta da battaglia. Indossava un maglioncino nero con il collo alto, jeans neri e un gilè nero con il cappuccio bordato di pelliccia. Stava per affrontare un plotone di esecuzione e lo sapeva. Erano passati solo tre giorni dal ballo e il DAR non aveva perso tempo. L'assemblea del comitato disciplinare della Jackson di quel pomeriggio non si profilava molto diversa da un processo per stregoneria. Emily zoppicava con una gamba ingessata, il disastro del ballo era sulla bocca di tutto il paese e la signora Lincoln aveva trovato il supporto che le serviva. Si erano fatti avanti dei testimoni. Distorcendo abbastanza quello che sostenevano di aver visto, sentito o ricordato, era facile socchiudere gli occhi, piegare la testa con l'angolazione giusta e cercare di cogliere la logica generale: l'unica responsabile era Lena Duchannes. Andava tutto bene, prima che lei arrivasse in paese.
Link saltò giù per aprire la portiera a Lena. Era così roso dal senso di colpa che sembrava sul punto di vomitare. — Ciao, Lena. Come ti va? — Bene, grazie. Bugiarda. Non voglio che si senta male per questo. Non è colpa sua. Link si schiarì la voce. — Mi dispiace tanto, davvero. Ho combattuto con mia madre per tutto il fine settimana. E sempra stata un po' fanatica, ma stavolta è diverso. — Non è colpa tua, ma apprezzo che tu abbia cercato di parlare con lei. — Forse a qualcosa sarebbe servito, se tutte quelle befane del DAR non le avessero riempito l'altro orecchio di parole. La mamma di Savannah e la mamma di Emily avranno chiamato cento volte, negli ultimi due giorni. Passammo davanti allo Stop&Scippa. Non c'era nemmeno Ciccio. Le strade erano deserte, come se stessimo guidando attraverso una città fantasma. L'assemblea del comitato disciplinare era stata fissata per le cinque in punto e noi eravamo puntuali. Si teneva in palestra, l'unico posto della Jackson abbastanza grande da accogliere tutte le persone che si prevedeva sarebbero venute. Ecco un'altra cosa tipica di Gatlin: tutto quello che succedeva riguardava tutti. Nulla avveniva a porte chiuse, a Gatlin. E da come apparivano le strade, tutto il paese aveva chiuso bottega, quindi alla riunione non sarebbe mancato nessuno. — Non riesco a capire come abbia fatto tua madre a organizzare questo così in fretta. È un record anche per lei. — Da quello che ho sentito, è stato coinvolto il dottor Asher. Va a caccia con il preside Harper e altri pezzi grossi dell'amministrazione scolastica. — Era il padre di Emily e l'unico vero dottore del paese.
— Fantastico. — Voi sapete che probabilmente mi cacceranno da scuola, vero? Scommetto che è già stato deciso. La riunione è solo per salvare le apparenze. Link era confuso. — Non possono cacciarti da scuola senza aver sentito la tua versione della storia. Non hai fatto niente! — Non conta. Queste cose vengono decise a porte chiuse. Niente di quello che dirò servirà a qualcosa. Aveva ragione e lo sapevamo. Perciò non dissi niente. Invece avvicinai la sua mano alle labbra e la baciai, desiderando per la centesima volta che toccasse a me affrontare il comitato disciplinare, e non a lei. Ma a me non sarebbe mai toccato. Non importava cosa facessi, non importava quello che dicessi, sarei rimasto sempre uno di loro. Lena non lo sarebbe stata mai. E credo che fosse proprio questo a farmi arrabbiare di più, a mettermi in imbarazzo. Li odiavo perché, in fondo, mi reclamavano ancora come uno di loro, nonostante uscissi con la nipote del Vecchio Ravenwood e avessi trattato male la signora Lincoln e non venissi più invitato alle feste di Savannah Snow. Restavo comunque uno di loro. Appartenevo al loro mondo e non c'era nulla che potessi fare per cambiare questo dato di fatto. E se era vero anche il contrario, se anche loro per certi versi appartenevano al mio mondo, allora Lena non doveva affrontare solo loro, ma anche me. Quella verità mi stava uccidendo. Lena sarebbe stata Reclamata il giorno del suo sedicesimo compleanno, ma io ero stato reclamato sin dalla nascita. Non avevo controllo sul mio destino più di quanto ne avesse lei. Forse nessuno di noi ne aveva.
Entrai nel parcheggio. Era pieno. C'era una lunga fila davanti all'ingresso principale, in attesa di entrare. Non vedevo così tanta gente nello stesso posto dal giorno della prima di Dei e generali, il film sulla Guerra Civile più lungo e noioso della storia del cinema, in cui metà dei miei parenti avevano recitato come comparse, in quanto possessori di un'uniforme. Link si rannicchiò nel sedile posteriore. — Io me la filo qui. Ci vediamo dentro. — Aprì la portiera e scese, camminando piegato tra le macchine. — Buona fortuna — aggiunse. Lena teneva le mani in grembo. Tremavano. Mi feriva vederla così nervosa. — Non devi entrare per forza. Possiamo girare la macchina e tornare dritti a casa tua. — No. Voglio entrare. — Perché vuoi sottoporti a tutto questo? L'hai detto tu stessa che probabilmente è solo per salvare le apparenze. — Non voglio che pensino che abbia paura di affrontarli. Ho lasciato l'altra scuola, ma questa volta non ho intenzione di fuggire. — Fece un respiro profondo. — Non si tratta di fuggire. — Per me, sì. — Almeno, verrà anche tuo zio? — Non può. — Perché diavolo non può venire? — Era completamente da sola, se si escludeva il sottoscritto. — E troppo presto. Non gliel'ho nemmeno detto. — Troppo presto? Ma cos'è questa storia? È chiuso nella sua cripta? O cosa? — Diciamo, o cosa. Non era il caso di affrontare quel discorso. Entro pochi minuti lei avrebbe avuto ben altro da affrontare. Scendemmo e ci avvicinammo alla scuola. Si mise a piovere e guardai Lena.
Credimi, Ethan, ci sto provando. Se mi lasciassi andare, si scatenerebbe un tornado. La gente ci fissava, addirittura ci indicava. Non che la cosa mi sorprendesse. La decenza della gente arrivava fin lì. Mi guardai intorno, quasi aspettandomi di vedere Boo Radley accanto alla porta, ma non c'era traccia di lui. Entrammo in palestra dall'ingresso laterale, quello degli ospiti. L'idea era stata di Link e si rivelò buona perché, una volta dentro, ci rendemmo conto che la gente fuori dalla palestra non era in attesa di entrare ma stava solo sperando di sentire qualcosa da lì. C'era il tutto esaurito. Sembrava una patetica imitazione dei tribunali da film per la TV. C'era un grande tavolo in plastica pieghevole al quale sedevano alcuni insegnanti: il professor Lee, naturalmente, che sfoggiava un papillon rosso e il suo classico pregiudizio retrogrado; il preside Harper,- un paio di persone che probabilmente facevano parte del comitato scolastico. Sembravano tutti vecchi e infastiditi, come se avessero preferito essere a casa a guardare le televendite o qualche programma religioso. Le tribune erano invase dalla crème di Gatlin. La signora Lincoln e le signore del DAR, pronte al linciaggio, occupavano le prime tre file, mentre le Sorelle della Confederazione, il coro metodista e la Società Storica sedevano subito dietro. Alle loro spalle c'erano i Jackson Angels, conosciuti anche come le ragazze che volevano essere Emily e Savannah e i ragazzi che volevano arrivare alle mutande di Emily e Savannah, che esibivano le loro magliette da guardiani stampate di fresco. Davanti c'era l'immagine di un angelo che somigliava in modo sospetto a Emily Asher, con enormi ali bianche spalancate e la maglietta delle Wildcats. Sulla schiena
c'erano un paio di ali bianche disegnate come se spuntassero dalle scapole e il grido di battaglia degli Angels: Ti TENIAMO D'OCCHIO. Emily era seduta accanto a sua madre, con la gamba nell'enorme gesso appoggiata a una delle sedie arancioni della mensa. La mamma di Link ci guardò con ferocia quando ci vide entrare e la signora Asher strinse a sé Emily con fare protettivo. Forse temeva che io o Lena volessimo prenderla a bastonate come un indifeso cucciolo di foca. Emily estrasse il cellulare dalla minuscola borsetta argentata, pronta a sparare messaggi. Entro un attimo, le sue dita avrebbero cominciato a volare sul tastierino. La nostra palestra quella sera era probabilmente l'epicentro del gossip di quattro contee. Amma era seduta qualche fila più indietro e giocherellava con l'amuleto che portava al collo. Magari avrebbe fatto crescere alla signora Lincoln le corna diaboliche che da anni teneva magistralmente nascoste. Mio padre ovviamente non c'era, ma le Sorelle sì, sedute accanto a Thelma, in fondo alla fila di Amma. Era ancora peggio di quel che pensassi. Le Sorelle non uscivano di sera dal 1980, quando zia Grace, per aver mangiato troppo riso e fagioli, aveva temuto di avere un attacco di cuore. Zia Mercy incrociò il mio sguardo e agitò il fazzoletto. Accompagnai Lena alla sedia al centro della stanza, che era stata chiaramente riservata a lei. Andrà tutto bene. Me lo garantisci! Sentivo la pioggia battere sul tetto. Ti garantisco che non è una cosa grave. Ti garantisco che questi sono tutti idioti. Ti garantisco che nulla di ciò che diranno potrà cambiare ciò che sento per te. Lo considero un no.
La pioggia batté più forte sul tetto: non era un buon segno. Le presi la mano e le misi un oggetto nel palmo. Il piccolo bottone d'argento del suo gilè, quello che avevo trovato sul sedile del Catorcio, la notte in cui ci eravamo incontrati sotto la pioggia. Sembrava una cosa senza valore, ma da allora l'avevo sempre tenuto in tasca. Tieni. E una specie di amuleto portafortuna. A me, almeno, ha portato qualcosa di buono. Vedevo che ce la stava mettendo tutta per non crollare. Senza una parola, si tolse la collana e aggiunse il bottone alla sua collezione di preziose cianfrusaglie. Grazie. Se avesse potuto sorridere, l'avrebbe fatto. Mi avvicinai alla fila dov'erano sedute le Sorelle e Amma. Zia Grace si alzò, appoggiandosi al bastone. — Ethan, qui! Ti abbiamo tenuto un posto, tesoro. — Perché non ti siedi, Grace Statham? — sibilò una vecchia dai capelli azzurri seduta nella fila dietro. Zia Prue si voltò. — E perché tu non ti fai gli affari tuoi, Sadie Honeycutt? O me li devo fare io? Zia Grace si girò e le fece un sorriso. — Da bravo, Ethan, vieni qui. Mi infilai a fatica tra zia Mercy e zia Grace. — Come te la passi, Bocconcino? — Thelma mi sorrise e mi pizzicò il braccio. Fuori esplose un rombo di tuono e le luci tremarono. Qualche vecchia trasalì. Un tizio visibilmente teso, seduto al centro del grande tavolo pieghevole, si schiarì la voce. — Solo un piccolo sbalzo di corrente. Vi chiedo cortesemente di prendere posto, così possiamo iniziare. Io sono Bertrand Hollingsworth e sono il presidente del comitato scolastico. Quest'assemblea è stata convocata per rispondere alla petizione in cui si chiede
l'espulsione di una studentessa della Jackson, tale Lena Duchannes. È corretto? Il preside Harper si rivolse a Hollingsworth dalla sua postazione: la pubblica accusa o, più precisamente, il boia della signora Lincoln. — Sì, signore. La petizione è stata portata alla mia attenzione da diversi genitori preoccupati ed è stata firmata da più di duecento rispettabili cittadini di Gatlin e da numerosi studenti della Jackson. — Ma certo. — Quali sono i motivi per l'espulsione? Harper sfogliò alcune pagine della sua cartellina gialla, come se stesse leggendo l'elenco dei crimini di Lena. — Aggressione. Distruzione di proprietà scolastiche. In più, Lena Duchannes è attualmente sospesa. Aggressione? Io non ho aggredito nessuno. È solo un'accusa. Non possono provare niente. Ero in piedi prima ancora che Harper chiudesse la bocca. — Non è vero niente! Un altro tizio dall'aria agitata, seduto in fondo al tavolo, alzò la voce per farsi sentire al di sopra del rumore della pioggia e delle venti o trenta vecchie che commentavano, bisbigliando sulle mie cattive maniere. — Giovanotto, resti seduto. Questo non è un mercato. Anche Hollingsworth alzò la voce sopra il frastuono. — Abbiamo dei testimoni per sostanziare le accuse? —Adesso c'erano molte più persone che bisbigliavano tra loro chiedendosi a vicenda se qualcuno conoscesse il significato della parola "sostanziare". Harper si schiarì la voce, in imbarazzo. — Sì. E recentemente ho ricevuto informazioni secondo le quali Lena Duchannes ha avuto problemi simili nella scuola che frequentava prima.
Di cosa sta parlando! Come fanno a sapere della mia vecchia scuola! Non ne ho idea. Cos'è successo là! Niente. Una donna del comitato scolastico sfogliò delle carte che teneva davanti a sé. — Ritengo che prima di tutto dovremmo sentire la presidentessa dell'associazione dei genitori della scuola, la signora Lincoln. La mamma di Link si alzò platealmente e si avvicinò al Gran Giurì passando per il corridoio centrale. Anche lei aveva visto un certo numero di processi in TV. — Buonasera, signore e signori. — Signora Lincoln, può dirci cosa sa di questa situazione, dato che lei è una delle promotrici della petizione? — Ma certo. La signorina Ravenwood, cioè, Duchannes, si è trasferita qui diversi mesi fa e da allora alla Jackson ci sono stati problemi di tutti i tipi. Per prima cosa, ha rotto una finestra durante una lezione di Letteratura Inglese... — E per poco i vetri non hanno fatto a brandelli la mia bambina — gridò la mamma di Savannah. — Ha rischiato di ferire gravemente diversi ragazzi e molti di loro si sono tagliati con i vetri rotti. — Nessuno, tranne Lena, si è ferito! Quello è stato un incidente! — gridò Link dal fondo della palestra. — Wesley Jefferson Lincoln, farai meglio a filare subito a casa, se non vuoi finire nei guai — sibilò sua madre. Poi si ricompose subito, si lisciò la gonna e si rivolse al comitato disciplinare. — Le malie della signorina Duchannes sembrano funzionare piuttosto bene con il sesso maschile — commentò con un sorriso. — Come stavo dicendo, la signorina Duchannes ha rotto una finestra nell'aula di Letteratura Inglese. Questo fatto ha così spaventato gli studenti che un gruppo di
ragazze con un alto senso civico si è incaricato di costituire i Jackson Angels, con l'unico scopo di proteggere i compagni di scuola. Come le ronde di quartiere. Gli Angels annuirono in sincronia dai loro posti sulle tribune, come se qualcuno avesse tirato dei fili invisibili attaccati alle loro teste. Cosa che, per certi versi, era vera. Hollingsworth scribacchiava in una cartellina gialla. — Questo è stato l'unico incidente che ha visto coinvolta la signorina Duchannes? La mamma di Link cercò di assumere un'espressione sconvolta. — Cielo, no! Al Ballo d'Inverno ha fatto scattare l'allarme antincendio, rovinando la festa e distruggendo quattromila dollari di impianto audio. E come se non bastasse, ha spinto giù dal palco Emily Asher, che per questo si è rotta una gamba. E fonti autorevoli mi hanno riferito che ci vorranno mesi perché guarisca. Lena teneva gli occhi fissi in avanti, rifiutandosi di guardare in faccia chiunque. — Grazie, signora Lincoln. — La mamma di Link si girò verso Lena e le sorrise. Non un sorriso spontaneo e nemmeno un sorriso sarcastico, ma uno che diceva: "Io ti rovinerò la vita e godrò nel farlo." La Lincoln si avviò verso il suo posto, ma poi si fermò e guardò Lena negli occhi. — Oh, quasi dimenticavo. C'è un'ultima cosa. — Tirò fuori dalla borsa dei fogli sparsi. — Ho dei documenti della scuola che frequentava la signorina Duchannes in Virginia, prima di venire qui. Anche se sarebbe più corretto definirla istituto. Non era un istituto. Era una scuola privata. — Come ha detto il preside Harper, non è la prima volta che la signorina Duchannes si rende protagonista di episodi violenti.
La voce di Lena nella mia testa era vicina all'isteria. Cercai di rassicurarla. Non preoccuparti. Io, invece, ero preoccupato. La mamma di Link non avrebbe affermato una cosa del genere, se non avesse potuto in qualche modo dimostrarla. — La signorina Duchannes è una ragazza molto disturbata. Soffre di una malattia mentale. Vediamo... — la Lincoln scorse la pagina con il dito come se cercasse qualcosa. Aspettai la diagnosi della malattia mentale che si attribuiva a Lena: l'attestazione di diversità. — Ah, sì, eccolo. A quanto pare, la signorina Duchannes soffre di disordine bipolare. Come vi potrà dire il dottor Asher, è una malattia mentale molto grave. Le persone che ne soffrono sono inclini alla violenza e a un comportamento imprevedibile. Sono tratti ereditari; anche sua madre ne era affetta. Non può essere. La pioggia martellava sul tetto. Si alzò il vento e sferzò la porta della palestra. — In effetti, sua madre ha assassinato suo padre quattordici anni fa. — Tutta la sala sussultò. Punto. Set. Match. Si sollevò un vocio generale. — Signore! Signori! Per favore. — Harper cercava di calmare i presenti, ma l'effetto era stato quello di un fiammifero acceso vicino agli sterpi secchi. Una volta divampato il fuoco, non c'era più modo di fermarlo. Ci vollero dieci minuti perché la palestra tornasse all'ordine. Lena invece non riusciva a calmarsi. Il cuore le batteva all'impazzata, lo sentivo come se fosse il mio, e sentivo anche il nodo che aveva in gola nel tentativo di ricacciare indietro le
lacrime. A giudicare dal temporale fuori, non ci stava riuscendo molto bene. Mi sorprendeva che non fosse già scappata: o era troppo coraggiosa per farlo, o troppo sconvolta. Sapevo che la mamma di Link stava mentendo. Non credevo che Lena fosse stata in un istituto psichiatrico più di quanto credessi che gli Angels volessero proteggere gli studenti della Jackson. Mi domandavo però se stesse mentendo anche sul resto, sul fatto che la madre di Lena avesse ammazzato suo padre. Un'altra cosa che sapevo, era che avrei voluto uccidere la signora Lincoln. La conoscevo da una vita, ma ultimamente non riuscivo più a pensarla come la mamma di Link. Non sembrava più la donna che aveva divelto dal muro il box della TV via cavo o che ci aveva fatto la predica per ore sulle virtù dell'astinenza. Questa non era una delle sue solite battaglie, fastidiose ma in definitiva innocenti. Sembrava qualcosa di più personale, una vendetta. Non riuscivo proprio a capire perché odiasse Lena così tanto. Il signor Hollingsworth cercò di riportare l'ordine. — Bene, signori, calmiamoci. Signora Lincoln, grazie per averci concesso il suo tempo, questa sera. Vorrei esaminare i documenti, se non le dispiace. Io mi alzai di nuovo. — Tutta questa storia è ridicola. Perché non le date fuoco direttamente, per vedere se brucia? Hollingsworth cercava di mantenere la calma in quell'assemblea che somigliava sempre più a una zuffa televisiva. — Wate, siediti o verrai allontanato. Non saranno tollerate altre interferenze in questa assemblea. Ho esaminato i resoconti scritti dai testimoni e mi sembra che la questione sia molto chiara e che ci sia solo una cosa ragionevole da fare.
Si udì un rumore fragoroso e le grandi porte di metallo in fondo alla palestra si spalancarono. Entrò una folata di vento, accompagnata da scrosci di pioggia. E da qualcos'altro. Macon Ravenwood avanzò con disinvoltura nella palestra, vestito con un cappotto di cachemire nero e un gessato a righe sottili. Aveva al braccio Marian Ashcroft. Marian portava un ombrellino a quadri appena sufficiente per proteggerla dal temporale. Macon non aveva ombrello, ma era perfettamente asciutto. Boo entrò dietro di loro con il suo passo pesante, la pelliccia bagnata e ritta sulla schiena che metteva in risalto la sua natura lupesca. Lena si girò sulla seggiola di plastica arancione e per un secondo mostrò tutta la vulnerabilità che finora aveva nascosto. Lessi il sollievo nei suoi occhi, percepii con quanta forza di volontà stesse cercando di restare seduta al suo posto senza buttarsi tra le braccia dello zio, singhiozzando. Gli occhi di Macon guizzarono nella sua direzione e Lena si sistemò sulla sedia. Lui percorse tutto il corridoio avvicinandosi al tavolo del comitato scolastico. — Chiedo scusa per il ritardo. Il tempo è così traditore, stasera. Ma non voglio interrompervi. Stavate per fare qualcosa di ragionevole, se ho sentito bene. Il signor Hollingsworth era confuso. A dire il vero, gran parte della gente radunata nella palestra lo era. Nessuno aveva mai visto Macon Ravenwood in carne ed ossa. — Mi scusi, signore. Non so chi creda di essere, ma qui siamo nel bel mezzo di una procedura disciplinare. E non può portare quel... quel cane qui dentro. Solo i cani per non vedenti possono accedere alla proprietà scolastica.
— Capisco benissimo. Accade tuttavia che Boo Radley sia il mio Occhio Vedente. — Non potei trattenere un sorriso. Immagino che, tecnicamente, ciò corrispondesse alla verità. Boo scrollò l'enorme corpo facendo la doccia a tutti quelli seduti vicino al corridoio. — Be', signor...? — Ravenwood. Macon Ravenwood. Salì un altro chiarissimo sussulto dalle gradinate, seguito dal ronzio dei mormorii che serpeggiavano tra le file. Tutto il paese aspettava questo giorno da prima ancora che io nascessi. Si percepiva l'energia montare in tutta la palestra, alla sola vista di un tale spettacolo. Non c'era niente, niente, che Gatlin amasse più di un bello spettacolo. — Signore e signori di Gatlin. È un grande piacere potervi finalmente incontrare. Immagino che tutti voi conosciate la mia carissima amica, l'affascinante dottoressa Ashcroft. Che è stata così gentile da accompagnarmi questa sera, dato che non so muovermi agevolmente nella nostra bella cittadina. Marian salutò con la mano. — Vi porgo nuovamente le mie scuse per il ritardo e vi prego di continuare. Sono sicuro che stavate giusto per spiegare che le accuse contro mia nipote sono completamente infondate e per invitare questi ragazzi a tornare a casa a farsi una bella dormita, considerato che domani devono andare a scuola. Per un attimo, il signor Hollingsworth sembrò quasi convinto di fare esattamente quello che gli era stato suggerito e mi chiesi se anche Macon non avesse il Potere di Persuasione di Ridley. Poi una donna con un'acconciatura anni Sessanta sussurrò qualcosa all'orecchio di Hollingsworth, che sembrò ricordare il filo del suo discorso. — No, signore, non era questo che stavo per fare. Niente affatto. Anzi, le accuse contro sua nipote sono molto serie. Sembra che ci siano stati diversi
testimoni agli avvenimenti resi noti. Sulla base delle testimonianze scritte e delle informazioni presentate in questa assemblea, temo di non avere altra scelta se non l'espulsione. Macon indicò con un cenno della mano Emily, Savannah, Charlotte ed Eden. — Sono loro le vostre testimoni? Una fantasiosa banda di ragazzine affette da un serio problema di invidia livorosa. La mamma di Savannah balzò in piedi. — Sta forse insinuando che mia figlia sta mentendo? Macon sfoderò il suo sorriso hollywoodiano. — Niente affatto, mia cara. Io sto affermando che sua figlia sta mentendo. Sono sicuro che lei saprà apprezzare la differenza. — Come osa! — La madre di Link l'assalì come un gatto selvatico. — Lei non ha alcun diritto di venire qui a imporre la sua opinione in questa procedura disciplinare. Marian sorrise e fece un passo avanti. — Come disse il Grande Uomo: «L'ingiustizia, in qualsiasi luogo, è una minaccia alla Giustizia, ovunque. » — E lei non venga a usare i suoi paroloni da Harvard qui da noi. Marian richiuse l'ombrello con uno scatto. — Non mi risulta che Martin Luther King abbia frequentato l'Università di Harvard. Il signor Hollingsworth intervenne con tutta la sua autorità. — Resta il fatto che, secondo i testimoni, la signorina Duchannes ha fatto scattare l'allarme antincendio, causando migliaia di dollari di danni alle proprietà della Scuola Superiore Jackson; in più ha spinto la signorina Asher giù dal palco, causandole gravi lesioni. Sulla base di questi soli eventi, abbiamo buoni motivi per espellere la signorina Duchannes. Marian fece un sonoro sospiro. — «È difficile liberare gli stolti dalle catene che onorano.» — Guardò la signora Lincoln
con intenzione. — Voltaire, un altro che non è andato ad Harvard. Macon manteneva la calma, cosa che sembrava indisporre ulteriormente gli animi di tutti. — Signor...? — Hollingsworth. — Signor Hollingsworth, per lei sarebbe una vergogna continuare su questa linea. Vede, è illegale impedire a un minore di frequentare la scuola, nel grande stato della Carolina del Sud. L'istruzione è obbligatoria, il che significa che è un dovere, oltre che un diritto. Lei non può allontanare da scuola una ragazza innocente senza validi motivi. Quei giorni sono finiti, anche nel Sud. — Come le dicevo, signor Ravenwood, i motivi li abbiamo ed espellere sua nipote è nel nostro pieno potere. La mamma di Link balzò in piedi. — Lei non può presentarsi all'improvviso per interferire con gli affari del nostro paese. Lei non esce di casa da anni! Cosa le dà il diritto di dire la sua su ciò che succede qui, o su ciò che riguarda i nostri figli? — Si riferisce forse alla sua collezione di marionette vestite da... cosa sono? Unicorni? Deve scusare la mia vista così manchevole. — Macon indicò gli Angels. — Sono angeli, signor Ravenwood, non unicorni. Non che mi aspetti che lei riconosca i messaggeri di Nostro Signore, dato che non ho ricordi di averla mai vista in chiesa. — Chi è senza peccato scagli la prima pietra, signora Lincoln. — Macon fece una pausa, come per dare tempo alla donna di elaborare il concetto. — Per quanto riguarda la sua prima affermazione, lei ha assolutamente ragione. Io trascorro molto tempo nella mia casa, cosa che non mi disturba affatto. È un luogo incantevole, in verità. Ma forse dovrei passare più tempo in paese, dovrei passare un po' più di tempo con tutti
voi. Dare, per così dire, una scrollata generale alla vita di Gatlin. La signora Lincoln inorridì al pensiero e le signore del DAR si agitarono sulle sedie, scambiandosi occhiate nervose. — In effetti, se Lena non ritornerà alla Jackson, dovrà ricevere lezioni private a casa. Forse dovrei invitare qualcuna delle sue cugine a stare da noi. Non vorrei che Lena si perdesse l'aspetto sociale della sua formazione. Alcune delle sue cugine sono particolarmente affascinanti. Anzi, credo che una l'abbiate già incontrata al vostro ballo in maschera di mezzo inverno. — Non era un ballo in maschera... — Le mie scuse. Avevo dedotto che quei vestiti fossero costumi, basandomi sulla natura sgargiante del piumaggio. La signora Lincoln diventò rossa. Non era più la donnicciola che cercava di bandire libri dalla biblioteca. Non era affatto da sottovalutare. Ero preoccupato per Macon. Ero preoccupato per tutti noi. — Siamo onesti, signor Ravenwood. Lei non ha alcun posto in questo paese. Lei non ne fa parte e, chiaramente, nemmeno sua nipote. Non ritengo che lei sia nella posizione di avanzare delle richieste. L'espressione di Macon cambiò lievemente. Si rigirò l'anello intorno al dito. — Signora Lincoln, apprezzo la sua schiettezza e cercherò di essere altrettanto franco con lei. Sarebbe in realtà un grave errore da parte sua, da parte di tutti i nostri concittadini, insistere ancora su questa faccenda. Vede, io ho molti mezzi. Sono un po' uno spendaccione, volendo dire così. Se lei cercherà di impedire a mia nipote di ritornare a scuola, io sarò costretto a utilizzare parte dei miei mezzi. Chissà, potrei portare a Gatlin una catena di supermercati... — Ci fu un altro udibile sussulto dalle gradinate. — È una minaccia?
— Niente affatto. Per puro caso, io sono il proprietario del terreno sul quale sorge l'Hotel Southern Comfort. La sua chiusura costituirebbe per lei un grave disagio, signora Snow, in quanto costringerebbe suo marito a percorrere molta più strada per incontrarsi con le sue amichette, cosa che sono sicuro lo farebbe rincasare regolarmente in ritardo per la cena. Ora, noi non potremmo mai accettare una cosa del genere, vero? Il signor Snow diventò rosso come una barbabietola e cercò di nascondersi dietro un paio di ragazzi della squadra di football. Ma Macon aveva appena incominciato. — E lei, Hollingsworth, mi è molto familiare. Come pure quel meraviglioso fiore confederato seduto alla sua sinistra. — Macon indicò la signora accanto a lui. — Non vi ho forse incontrati da qualche parte, voi due? Giurerei... Hollingsworth vacillò. — Assolutamente no, signor Ravenwood. Io sono un uomo sposato! Macon rivolse l'attenzione all'uomo dalla calvizie incipiente, seduto all'estremità opposta del tavolo. — E, signor Ebitt, se io decidessi di non affittare più i locali al pub del Cane Ringhioso, lei dove andrebbe a ubriacarsi mentre sua moglie pensa che stia studiando la Bibbia nel gruppo di Sacre Letture? — Wilson! Come hai potuto! Usare Nostro Signore Onnipotente come alibi! Brucerai nelle fiamme dell'inferno, com'è vero che io sono qui adesso! — La signora Ebitt prese la borsetta e cominciò a farsi largo a spintoni verso il corridoio centrale. — Non è vero, Rosalie! — Non è vero? — Macon sorrise. — Non oso nemmeno immaginare le cose che potrebbe raccontarmi il mio Boo, se avesse il dono della parola. Sapete, lui entra ed esce da ogni
cortile e da ogni parcheggio del vostro bel paesino e scommetto che ne ha viste, di cosette interessanti. Io repressi una risata. Boo drizzò le orecchie sentendo il proprio nome e più di qualcuno cominciò ad agitarsi sulla sedia, come se il cane avesse davvero potuto aprire la bocca e cominciare a parlare. Dopo la notte di Halloween, non mi avrebbe sorpreso affatto e, considerando la fama di Macon Ravenwood, nemmeno gli abitanti di Gatlin se ne sarebbero sorpresi più di tanto. — Come vedete, più di qualcuno in questo paese è meno che integerrimo. Quindi capirete la mia preoccupazione, quando ho saputo che le uniche testimoni per le feroci accuse mosse contro la mia famiglia erano quattro ragazzine. Non sarebbe nell'interesse di tutti lasciar cadere la cosa? Non sarebbe una cosa da gentiluomini, signor Hollingsworth? Hollingsworth sembrava sul punto di vomitare. La donna seduta accanto a lui dava l'impressione di sperare che la terra si aprisse e la risucchiasse. Il signor Ebitt, di cui nessuno aveva mai fatto il nome prima che Macon lo menzionasse, se n'era già andato, inseguendo sua moglie. Tutti gli altri membri del tribunale sembravano spaventati a morte, come se da un minuto all'altro Macon Ravenwood 0 il suo cane potessero iniziare a raccontare a tutto il paese 1 loro piccoli, sporchi segreti. — Forse lei ha ragione, signor Ravenwood. Forse dobbiamo investigare di più su queste accuse, prima di procedere. In effetti, ci potrebbero essere delle incongruità. — Saggia decisione, signor Hollingsworth. Molto saggia. — Macon si avvicinò a Lena e le offrì il braccio. — Vieni, Lena, è tardi. Domani hai scuola. — Lena si alzò, ben dritta sulla schiena. Lo scroscio della pioggia sul tetto scemò in un lieve picchiettio. Marian le mise in testa un foulard e i tre si
allontanarono lungo il corridoio, con Boo che chiudeva la fila. Non guardarono in faccia nessuno. La signora Lincoln era ancora in piedi. — Sua madre è un'assassina! — strillò, puntando il dito contro Lena. Macon si girò di scatto e i loro sguardi si incrociarono. Negli occhi di lui c'era la stessa espressione di quando gli avevo mostrato il medaglione di Genevieve. Boo ringhiò minacciosamente. — Sta' attenta, Martha. Non sai mai quando ci incontreremo di nuovo. — Oh, invece sì, Macon. — Gli sorrise, senza sorridere. Chissà cosa passò tra di loro in quel momento, ma non sembrava più una semplice prova di forza tra Macon e la Lincoln. Marian aprì l'ombrello, anche se non erano ancora fuori. Fece un diplomatico sorriso ai presenti. — Bene. Spero di vedervi tutti in biblioteca. Non dimenticate, siamo aperti fino alle sei durante la settimana. — Fece un cenno di saluto con il capo. — «Senza biblioteche cosa abbiamo? Non abbiamo passato né futuro.» Chiedete a Ray Bradbury. Oppure andate a Charlotte e leggetelo con i vostri occhi sul muro della biblioteca pubblica. — Macon prese Marian sottobraccio, ma lei non aveva ancora finito. — E nemmeno lui è andato ad Harvard, signora Lincoln. Non ha fatto nemmeno il college. E con queste parole, si dileguarono.
19-12 Bianco Natale Dopo l'assemblea del comitato disciplinare, non credo che qualcuno si aspettasse di vedere Lena a scuola il giorno dopo. Invece lei si presentò, proprio come mi aspettavo io. Nessun altro sapeva che lei aveva già rinunciato una volta al diritto di andare a scuola. Non avrebbe permesso a nessuno di negarglielo di nuovo. Per noi, la scuola era una prigione. Per Lena, era la libertà. Ma non fece nessuna differenza: quel giorno alla Jackson lei diventò un fantasma. Nessuno la guardava, nessuno le parlava, nessuno si sedeva accanto a lei in classe, sulle gradinate, alla mensa. Tempo due giorni, e metà dei ragazzi della scuola indossavano le magliette dei Jackson Angels, con le ali bianche sulla schiena. E da come guardavano Lena, probabilmente anche una buona metà degli insegnanti ne avrebbe voluto una. Il venerdì restituii la mia divisa da basket. Non mi sentivo più come se fossimo nella stessa squadra. L'allenatore s'infuriò. Quando smise di abbaiare, scosse la testa. — Sei pazzo, Wate. Guarda che stagione stai facendo! E stai buttando via tutto per una ragazza come quella. — Glielo sentivo nella voce. Una ragazza come quella. La nipote del Vecchio Ravenwood. Eppure, nessuno ci rivolse una sola parola sgradevole, almeno non in faccia. Se la signora Lincoln aveva instillato
nella gente di Gatlin il timor di Dio, Macon Ravenwood aveva dato loro ragione di temere qualcosa di ancora peggiore. La verità. Man mano che i numeri sul muro e sulla mano di Lena scalavano, l'eventualità si faceva più reale. E se non fossimo riusciti a impedire che accadesse? E se Lena avesse sempre avuto ragione? E se dopo il compleanno la ragazza che conoscevo fosse destinata a scomparire, come se mai fosse esistita? Avevamo solo il Libro delle Lune. E, sempre più forte, c'era un pensiero che cercavo di tenere lontano dalla testa di Lena e dalla mia. Non ero sicuro che il Libro fosse abbastanza. * * * — INTRA LE PERSONE DI POTERE, VI SON FORZE GEMELLE DA LE QUALI ORIGINA OGNI MAGIA, LA TENEBRA ET LA LUCE. — Mi pare che la faccenda delle Tenebre e della Luce sia abbastanza chiara. Che ne dici di passare alla parte più interessante? Scappatoie e Vie di Fuga per il Giorno della Reclamazione? Come Annientare un Malvagio Cataclismico? Come Invertire lo Scorrere del Tempo? — Ero frustrato e Lena non diceva nulla. Dalla nostra posizione, sulle tribune fredde del campo da gioco, la scuola sembrava deserta. Avremmo dovuto essere alla Giornata delle Scienze, a guardare Alice Milkhouse che ammollava un uovo nell'aceto, ad ascoltare Jackson Freeman che negava l'esistenza del riscaldamento globale e Annie Honeycutt che controbatteva con le sue proposte su come rendere la Jackson una scuola verde. Forse potevano iniziare gli Angels, riciclando la carta dei loro volantini.
Fissai il libro di Algebra II, accanto allo zaino. Mi sembrava che non ci fosse più nulla che valesse la pena di imparare, in un posto come quello. Avevo imparato abbastanza negli ultimi mesi. Lena era a un milione di chilometri di distanza, sepolta tra le pagine del Libro. Avevo iniziato a portarmelo sempre dietro, nello zaino, temendo che Amma 10 trovasse mentre ero fuori casa. — Qui dice altro sui Cataclismici. LI PIÙ GRANDI DE LA TENEBRA SON LI POTERI PIÙ VICINI A LO MONDO E A LO SOTTERRANEO MONDO, LI CATACLISMICI. LI PIÙ GRANDI DE LA LUCE SON LI POTERI PIÙ VICINI A LO MONDO E A LO SOTTERRANEO MONDO, I NATURALI. DOVE NON V'È L'UNO NON PUOVVI ESSER L'ALTRO, POICHÉ SANZA LA TENEBRA NON PUOVVI ESSER LA LUCE. — Vedi? Tu non entrerai nelle Tenebre. Tu sei Luce, perché sei una Naturale. Lena scosse la testa e mi indicò il paragrafo seguente. — Non è detto. Anche mio zio la pensa così, ma ascolta... NELLO TEMPO DE LA RECLAMAZIONE, LA VERITÀ SARÀ RESA MANIFESTA. Ciò CHE APPARE TENEBRA ESSER PUOTE LA PIÙ GRANDE LUCE, CIÒ CHE APPARE LUCE ESSER PUOTE LA TENEBRA PIÙ GRANDE. Aveva ragione, non c'era modo di esserne sicuri. — Poi si fa ancora più complicato. Non sono nemmeno sicura di capire le parole. POICHÉ LA MATERIA DE LA TENEBRA CREÒ LO FUOCO DE LA TENEBRA, ET LO FUOCO DE LA TENEBRA CREÒ LI POTERI DI TUTTI I LILUM NE LO MONDO DE LI DEMONI E DE LI MAGHI DE LA TENEBRA ET DE LA LUCE. SANZA TUTTO IL POTERE NON PUOVVI ESSER ALCUN POTERE. IL FUOCO DE LA TENEBRA CREÒ LA GRANDE TENEBRA ET LA GRANDE LUCE. TUTTO IL POTERE È POTERE DE LA TENEBRA, POICHÉ POTERE DE LA TENEBRA È PERSINO LA LUCE. — Materia delle Tenebre? Fuoco delle Tenebre? Ma cos'è? Il Big Bang dei Maghi?
— E i Lilum? Non ne ho mai sentito parlare. È vero, però, che nessuno mi dice mai niente. Non sapevo nemmeno che mia madre fosse viva. — Cercò di suonare sarcastica, ma si percepiva chiaramente il dolore nella sua voce. — Forse Lilum è un'antica parola per Mago, o qualcosa di simile. — Più scopro, meno capisco. E meno tempo ci resta. Non dirlo. La campanella suonò e io mi alzai. — Vieni? Lena scosse la testa. — Voglio restare qui ancora un po'. — Da sola, al freddo. Succedeva sempre più spesso. Non mi guardava più in faccia dall'assemblea del comitato disciplinare, quasi come se fossi anch'io uno di loro. Non potevo certo darle torto, visto che tutta la scuola e mezzo paese avevano sostanzialmente decretato che Lena era la figlia, bipolare e fuggita da un istituto, di un'assassina. — È meglio se ti fai vedere in classe, ogni tanto. Non dare altre munizioni ad Harper. Lei si voltò a guardare la scuola. — Non vedo come possa essere di qualsiasi rilevanza. Per il resto del pomeriggio, Lena sparì dalla circolazione. O meglio, se era ancora in giro, non era in ascolto. Non si presentò alla lezione di Chimica per il test sulla tavola periodica. Tu non sei delle Tenebre, L. Io lo capirei. Non si presentò alla lezione di Storia, mentre mettevamo in scena il Dibattito tra Lincoln e Douglas e Lee cercava di farmi sostenere le teorie in difesa della schiavitù, probabilmente come punizione preventiva per qualche futura relazione "dalle vedute liberali" che prima o poi gli avrei consegnato.
Non permettere a questa gente di farti del male. Non sono niente. Non si presentò alla lezione di Linguaggio dei Segni, mentre io, davanti a tutta la classe, dovetti descrivere con le mani Stella, stellina, la notte s'avvicina con i miei ex compagni della squadra di basket lì, a sghignazzare. Io non me ne vado, L. Non mi puoi escludere così. Fu allora che mi resi conto che invece poteva. All'ora di pranzo non ce la facevo più. L'aspettai alla fine dell'ora di Trigonometria e la tirai da parte, nel corridoio. Mollai per terra lo zaino, le presi la faccia tra le mani e l'attirai a me. Ethan, cosa stai facendo? Questo. Avvicinai il suo viso al mio con entrambe le mani. Quando le nostre labbra si sfiorarono, sentii il calore del mio corpo defluire nel gelo del suo. Sentii il suo corpo sciogliersi nel mio, quell'attrazione inspiegabile che ci aveva legati fin dall'inizio e che ora ci riportava di nuovo insieme. Lena lasciò cadere i libri e mi strinse le braccia intorno al collo, rispondendo al mio abbraccio. Cominciò a girarmi la testa. Suonò la campanella. Lei mi spinse via, senza fiato. Mi chinai a raccogliere il suo volume consunto di poesie di Charles Bukowski e il suo notes sgangherato. Ormai cadeva a pezzi. Del resto, aveva avuto molto da scrivere, ultimamente. Non avresti dovuto farlo. Perché noi Sei la mia ragazza e mi manchi. Cinquantaquattro giorni, Ethan. È tutto quello che ho. È ora di finirla di fingere che noi due possiamo cambiare le cose. Sarà più facile, se lo accettiamo entrambi.
Lo disse come se stesse parlando non solo del suo compleanno, ma anche di altre cose che noi non potevamo cambiare. Fece per voltarmi le spalle ma la presi per un braccio e la bloccai. Se stava dicendo ciò che pensavo, doveva farlo guardandomi in faccia. — Cosa stai cercando di dirmi, L? — Quasi non riuscii a formulare la domanda. Lei distolse lo sguardo. — Ethan, so che secondo te questa storia potrebbe avere un lieto fine, e forse per un po' ci ho creduto anch'io. Ma noi due non viviamo nello stesso mondo. E nel mio, desiderare intensamente qualcosa non serve a farla succedere. — Non voleva guardarmi. — Siamo troppo diversi. — Adesso siamo troppo diversi? Dopo tutto quello che abbiamo passato? — Cominciavo ad alzare la voce. Un paio di persone si girarono e mi fissarono. Ignorando completamente Lena. Noi siamo diversi. Tu sei un Mortale e io sono una Maga. I nostri mondi potrebbero anche intersecarsi, ma non coincideranno mai. E noi non siamo fatti per vivere in entrambi. Quello che stava dicendo era che lei non era fatta per vivere in entrambi i mondi. Emily e Savannah, la squadra di basket, la mamma di Link, Harper, i Jackson Angels, alla fine stavano ottenendo ciò che volevano. E per via dell'assemblea disciplinare, vero? Non permettere. .. Non è solo per via dell'assemblea. È tutto. Io non appartengo a questo posto, Ethan. E tu invece sì. Allora adesso sono uno di loro. È questo che stai dicendo? Lena chiuse gli occhi e quasi riuscivo a vedere i suoi pensieri, aggrovigliati nella sua mente.
Non sto dicendo che sei come loro, ma sei uno di loro. Hai vissuto qui tutta la vita. E quando tutto sarà finito, dopo la Reclamazione, sarai ancora qui. Continuerai a percorrere questi corridoi e queste strade. Io probabilmente non ci sarò più. Ma tu invece sì e chissà per quanto tempo. L'hai detto tu stesso: la gente di Gatlin non dimentica mai nulla. Due anni. Cosai È quanto ancora resterò qui. Due anni è un sacco di tempo per essere invisibili. Credimi, io lo so. Per un minuto, nessuno di noi due parlò. Lei era lì davanti a me e strappava i fili di carta dalla spirale del notes. — Sono stanca di combattere. Sono stanca di cercare di fingere di essere normale. — Non puoi arrenderti. Non ora, non dopo tutto questo. Non puoi lasciarli vincere. — Hanno già vinto. Hanno vinto il giorno in cui ho rotto la finestra. Qualcosa nella sua voce mi diceva che si stava arrendendo non solo sul versante scolastico. — Mi stai lasciando? — Trattenni il fiato. — Ti prego, non rendere le cose più difficili. Nemmeno io lo vorrei. Allora non farlo. Non riuscivo a respirare. Non riuscivo a pensare. Era come se il tempo si fosse fermato di nuovo, come alla cena del Ringraziamento. Solo che questa volta non era Magia. Era l'esatto contrario. — Sarà solo più semplice. Non cambia nulla di ciò che provo per te. — Lena mi guardò, con gli occhi verdi luccicanti
di lacrime. Poi si voltò e scappò via, in un corridoio così silenzioso che si sarebbe sentita cadere una matita. Buon Natale, Lena. Ma non c'era più niente da sentire. Se n'era andata, e non ero pronto a una cosa del genere, non lo sarei stato fra cinquantaquattro giorni, né fra cinquantaquattro anni, né fra cinquantaquattro secoli. * * * Cinquantaquattro minuti dopo, ero seduto da solo, con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, il che era molto significativo, considerando quanto fosse affollata la mensa. Gatlin era grigia e il cielo era invaso dalle nuvole. Non c'era aria di neve, perché a Gatlin non nevicava da anni. Quando eravamo fortunati, capitava al massimo una spolverata, non più di un paio di volte all'anno. Ma non c'era più stata una vera nevicata da quando ero in seconda media. Avrei voluto poter riavvolgere il nastro e tornare nel corridoio con Lena. Avrei voluto dirle che non m'importava se tutti in paese mi odiavano, perché non era rilevante. Ero perso, prima di trovare lei nei miei sogni e prima che lei avesse trovato me quel giorno, sotto la pioggia. Nei sogni ero io quello che cercava di salvarla, ma era stata lei a salvare me, era questa la verità. E non ero pronto perché adesso si allontanasse. — Ehi, amico — Link scivolò sulla panca di fronte a me, al tavolo vuoto. — Dov'è Lena? Volevo ringraziarla. — Per cosa? Link tirò fuori dalla tasca un foglio di notes ripiegato. — Mi ha scritto una canzone. Forte, eh? — Non riuscii nemmeno a guardarlo. Lena continuava a parlare con Link, ma non voleva più parlare con me.
Link mi prese dal vassoio un pezzo della mia pizza. Non l'avevo ancora toccata. — Senti, ti devo chiedere un favore. — Certo. Cosa ti serve? — Io e Ridley ce ne andiamo a New York durante le vacanze. Se qualcuno dovesse chiedere, per quel che ne sai io sono al campeggio parrocchiale di Savannah. — Non c'è nessun campeggio parrocchiale a Savannah. — Sì, ma mia madre non lo sa. Le ho detto che mi sono iscritto perché hanno una specie di rock band battista. — E lei ci ha creduto? — È un po' strana, ultimamente, ma chi se ne importa. Mi ha dato il permesso di andare. — Tua madre può dire quello che vuole, ma tu non puoi farlo. Ci sono aspetti di Ridley che non conosci. È... è pericolosa. Potrebbero succederti delle cose. Gli brillarono gli occhi. Non avevo mai visto Link così. Del resto, ultimamente non lo vedevo più molto. Passavo tutto il tempo con Lena oppure a pensare a Lena, al Libro, al compleanno: le uniche cose intorno alle quali ora gravitasse il mio mondo. O intorno alle quali aveva gravitato fino a un'ora prima. — È quello che spero! Sono davvero partito per quella ragazza. È proprio vero che mi fa qualcosa di strano, sai? — Prese l'ultima fetta di pizza dal mio vassoio. Per un secondo valutai se raccontargli ogni cosa, come ai vecchi tempi: di Lena e della sua famiglia, di Ridley, di Genevieve ed Ethan Carter Wate. All'inizio gli avevo detto tutto, ma non sapevo se avrebbe creduto al resto, o se potesse crederci. Forse era pretendere troppo, persino dal proprio migliore amico. Non potevo rischiare di perdere anche Link proprio adesso, ma qualcosa dovevo fare. Non potevo permettergli di andare a New York, né da qualsiasi altra parte,
con Ridley. — Senti, Link, ti devi fidare di me. Lasciala perdere. Ti sta solo usando. Ti farà del male. Link schiacciò una lattina di Coca Cola. — Oh, capisco. Se la ragazza più sexy del mondo sta con me, è perché mi vuole usare. Evidentemente credi di essere l'unico capace di attirare una ragazza da sballo. Da quando sei diventato così presuntuoso? — Non intendevo questo. Link si alzò. — Credo che sappiamo bene entrambi cosa intendevi. Fa' conto che non ti abbia chiesto niente. Troppo tardi. Ridley lo teneva già in pugno. Niente di ciò che potevo dire gli avrebbe fatto cambiare idea. E io non potevo perdere la mia ragazza e il mio migliore amico nello stesso giorno. — Senti, lascia perdere. Non dirò nulla. Anche se è improbabile che tua madre mi rivolga la parola. — A posto. Deve essere dura avere un migliore amico bello e intelligente come me. — Link prese il dolce dal mio vassoio e lo spezzò in due. Come la merendina sporca raccolta dal pavimento del bus. Era passata. Ci voleva molto più di una ragazza, anche se era una Sirena, per dividerci. Emily lo stava osservando. — È meglio che tu vada. Se Emily spiffera tutto a tua madre, puoi scordarti qualsiasi campeggio parrocchiale, vero o immaginario. — Non mi fa paura. — Invece sì. Link non voleva restare a casa con sua madre per tutte le vacanze di Natale. E non voleva nemmeno essere tagliato fuori dalla squadra, o dagli studenti della Jackson, ma era troppo stupido o troppo leale con me per rendersene conto. * * *
Il lunedì aiutai Amma a portare giù dalla soffitta le scatole con gli addobbi di Natale. La polvere mi faceva lacrimare gli occhi, o almeno così mi dicevo. Trovai il villaggio in miniatura, illuminato da lucette bianche, che mia madre allestiva tutti gli anni sotto l'albero, su un pezzo di cotone che fingevamo fosse neve. Le casette erano appartenute a sua nonna e lei le amava così tanto che anch'io avevo finito per affezionarmici, anche se erano fatte di cartoncino leggero, colla e glitter, e continuavano a cadere ogni volta che le rimettevo in piedi. «Le cose vecchie sono migliori di quelle nuove, perché contengono delle storie, Ethan.» Mi mostrava una vecchia automobilina di latta e diceva: «Immagina la mia bisnonna che giocava con questa stessa macchinina, che costruiva lo stesso villaggio sotto il suo albero, proprio come stiamo facendo noi adesso.» Non vedevo il villaggio in miniatura da... da quando? Da quando non vedevo mia madre, almeno. Pareva più piccolo di prima e il cartoncino più storto e malconcio. Non riuscii a trovare le statuine in nessuna delle scatole, e nemmeno gli animali. Il villaggio sembrava solitario, e mi rattristò. In qualche modo la magia era sparita, senza mia madre. Mi ritrovai a cercare Lena, nonostante tutto. Ogni cosa è fuori posto. Le scatole sono qui, ma è tutto sbagliato. Lei non è più qui. Non è più nemmeno un villaggio. E lei non ti potrà mai conoscere. Ma non ci fu risposta. Lena era svanita, oppure mi aveva bandito. Non sapevo cosa fosse peggio. Ero così solo, e la cosa peggiore dell'essere soli è quando gli altri si accorgono di quanto tu lo sia. Fu per questo che decisi di andare nell'unico posto di Gatlin dove sapevo che non avrei incontrato nessuno. La biblioteca pubblica.
* * * — Zia Marian? La biblioteca era gelata e completamente deserta, come al solito. Dopo l'assemblea del comitato disciplinare, immaginavo che Marian non ricevesse molti visitatori. — Sono qui dietro. — Era seduta sul pavimento con il cappotto addosso, sommersa fino alla vita da una montagna di libri aperti, come se fossero appena caduti dagli scaffali. Ne teneva uno in mano e leggeva a voce alta, in una delle sue solite trance di lettura. — «Lo vediamo venire, come nostro Lo riconosciamo, / Lui che, col Suo sole, con la Sua pioggia, / Tutta la paziente terra in fiore volge. / Il Diletto del mondo è giunto...» — Chiuse il libro. — Robert Herrick, poeta inglese del Seicento. È un canto di Natale, presentato al re a Whitehall. — Sembrava lontana come Lena negli ultimi tempi, quanto mi sentivo io adesso. — Mi dispiace, non lo conosco. Faceva così freddo che, quando Marian parlava, le si condensava il fiato. — Chi ti ricorda? Chi è che volge la terra in fiore? Chi è il diletto del mondo, per te? — Vuoi dire Lena? Scommetto che la mamma di Link avrebbe qualcosa da dire al riguardo. — Mi sedetti accanto a lei, spostando un po' di libri sparpagliati. — La signora Lincoln. Che creatura patetica. — Marian scosse la testa e prese un altro volume. — Dickens pensa che il Natale sia «il solo giorno del calendario in cui uomini e donne per mutuo accordo pare che aprano il cuore e pensino alla povera gente come a compagni di viaggio verso la tomba e non già come a un'altra razza di creature avviata per altri sentieri». — Si è rotto il riscaldamento? Vuoi che chiami il tecnico?
— Non l'ho nemmeno acceso. Mi sono distratta, immagino. — Ributtò il libro nel mucchio che la circondava. — Peccato che Dickens non sia mai venuto a Gatlin. Ne abbiamo di cuori da aprire, da queste parti. Presi uno dei volumi. Richard Wilbur. Lo aprii e vi affondai il viso per annusare le pagine. Diedi uno sguardo al testo. — «Qual è il contrario di due? Un me solitario, un solitario te.» — Che strano, era esattamente quello che sentivo in quel momento. Chiusi il libro di scatto e guardai Marian. — Grazie per essere venuta all'assemblea, zia Marian. Spero che non ti metterai nei guai per questo. Ho la sensazione che sia stata tutta colpa mia. — Non è vero. — Però lo sento. — Lasciai cadere il libro. — Ah, sì? Sei forse diventato il creatore di tutta l'ignoranza? Hai insegnato tu alla Lincoln a odiare e a Hollingsworth ad avere paura? Restammo lì seduti, circondati dalla montagna di carta stampata. Lei si allungò e mi strinse una mano. — Questa battaglia non è iniziata con te, Ethan. E nemmeno finirà con te, temo. Né con me, per quel che importa. —Divenne seria. — Quando sono entrata, stamattina, questi libri erano per terra. Non so come, né perché. Ieri sera ho chiuso a chiave tutte le porte prima di andarmene e stamattina erano ancora chiuse. So solo che mi sono seduta a sfogliarli e che ognuno di essi, ognuno, aveva una sorta di messaggio per me, su questo periodo, in questo paese, in questo momento. Su Lena, su di te, persino su di me. Scossi la testa. — È una coincidenza. Succede, con i libri. Lei ne prese uno a caso dal mucchio e me lo passò. — Prova anche tu. Aprilo. Presi il libro. — Cos'è?
— Shakespeare. Giulio Cesare. Lo aprii e iniziai a leggere. — «A un'ora della storia, spetta agli uomini / farsi padroni dei loro destini: / non è colpa degli astri, caro Bruto, / ma di noi stessi, se restiamo schiavi.» E questo cosa c'entra con me? Marian mi osservò da sopra gli occhiali. — Io sono solo la bibliotecaria. Posso darti solo i libri. Non posso darti le risposte. — Ma sorrise, comunque. — La questione del destino è proprio questa: sei tu il padrone del tuo destino, o sono le stelle? — Stai parlando di Lena o di Giulio Cesare? Perché odio deluderti, ma non ho mai letto questa tragedia. — Dimmelo tu. Passammo un'ora a sfogliare i libri, leggendo a turno a voce alta. Alla fine capii perché ero venuto. — Zia Marian, credo di aver bisogno di tornare nell'archivio. — Oggi? Non ci sono altre cose che dovresti fare? Lo shopping di Natale, per esempio? — Io non faccio shopping. — Sagge parole. Quanto a me: «Nel complesso il Natale mi piace. Nella sua maniera grossolana, s'avvicina alla Pace e alla Buona Volontà. Ma oh, è ogni anno più grossolano!» — Sempre Dickens? — E.M. Forster. Sospirai. — Non te lo so spiegare. Ho bisogno di stare con mia madre, credo. — Lo so. Manca tanto anche a me. — Non avevo pensato a cosa dire a Marian su come mi sentissi. Riguardo al paese, a come tutto fosse profondamente sbagliato. Adesso le parole mi sembravano impigliate in gola, come se qualcun altro ci stesse inciampando in mezzo. — Pensavo che, a stare in mezzo ai
suoi libri, forse potrei sentire di nuovo com'era prima. Forse potrei parlarle. Ho provato ad andare al cimitero, una volta, ma non avevo la sensazione che lei fosse là, sottoterra. — Avevo gli occhi fissi su una macchiolina della moquette. — Lo so. — Ancora non riesco a pensarla là sotto. Non ha senso. Perché uno dovrebbe mettere qualcuno che ama in un buco solitario nella terra? Al freddo, nello sporco, in mezzo ai vermi? Non può essere che finisca tutto così, dopo tutto... tutto quello che è stata. — Cercai di non pensarci, al suo corpo che là sotto diventava ossa e fango e polvere. Non sopportavo l'idea che dovesse affrontare da sola quella prova, allo stesso modo in cui ora anch'io dovevo affrontare tutto da solo. — Come vorresti che finisse? — Marian mi posò una mano sulla spalla. — Non lo so. Dovrei... qualcuno dovrebbe costruirle un monumento. — Come al generale? Tua madre si farebbe una bella risata. — Marian mi passò il braccio intorno alle spalle. — So bene cosa vuoi dire. Lei non è là sotto, è qui. Mi tese la mano e l'aiutai ad alzarsi. Ci tenemmo per mano fino all'archivio, come quando ero ancora un bambino e lei mi faceva da babysitter, mentre mia madre lavorava nello stanzino. Tirò fuori il grosso anello con le chiavi e aprì la porta. Non mi seguì all'interno. Nell'archivio, mi lasciai cadere sulla sedia davanti alla scrivania di mia madre. La sua sedia. Era di legno e recava le insegne della Duke University. Credo che l'avesse ricevuta per la laurea con lode o qualcosa del genere. Non era confortevole ma era confortante, e familiare. Annusai l'odore della vernice vecchia, la stessa che probabilmente avevo masticato da bambino, e subito mi sentii meglio di quanto fossi stato da
mesi. Respiravo l'odore dei libri avvolti nella plastica screpolata, gli antichi fogli consunti, la polvere, gli schedari da poco prezzo. Respiravo l'aria particolare dell'atmosfera particolare del pianeta molto particolare in cui era vissuta mia madre. Per me, era come avere sette anni, seduto sul suo grembo, con la faccia affondata sulla sua spalla. Volevo andare a casa. Senza Lena, non avevo altro posto in cui rifugiarmi. Presi dalla scrivania una piccola foto incorniciata, quasi nascosta tra i libri. C'era lei, con mio padre, nello studio di casa nostra. Era una foto in bianco e nero di tanto tempo prima. Scattata probabilmente per la quarta di copertina di un libro, uno dei loro primi progetti, quando mio padre era ancora uno storico e loro due lavoravano insieme. Quando avevano quei capelli buffi e quei pantaloni orribili e si leggeva la felicità sul loro volto. Era doloroso guardare quella foto, ma ancor più doloroso doverla riporre. La rimisi sulla scrivania, accanto alle pile impolverate di libri, e un volume attirò la mia attenzione. Lo sfilai da sotto un'enciclopedia sulle armi della Guerra Civile e un catalogo delle piante originarie della Carolina del Sud. Non sapevo di cosa parlasse, ma aveva un segnalibro, un lungo rametto di rosmarino. Sorrisi. Almeno non era un calzino o un cucchiaino sporco di torta. Era un libro di cucina locale, Pollo fritto e salse varie. Si aprì, da solo, a una pagina precisa: Pomodori fritti al latticello, alla maniera di Betty Burton. I preferiti di mia madre. Il profumo di rosmarino aleggiò dalle pagine. Osservai meglio il rametto. Era fresco, sembrava appena colto dall'orto. Non poteva essere stata mia madre a metterlo lì, ma nessun altro avrebbe usato del rosmarino come segnalibro. La ricetta preferita da mia madre era segnalata dal profumo che associavo
a Lena. Forse i libri stavano davvero cercando di dirmi qualcosa. — Zia Marian? Stavi cercando la ricetta per friggere i pomodori? Lei infilò la testa nel vano della porta. — Non toccherei mai un pomodoro, figuriamoci cucinarlo. Fissai il rosmarino che tenevo in mano. — È quello che pensavo. — Era l'unica cosa su cui io e tua madre non andavamo d'accordo. — Posso prendere in prestito questo libro? Solo per qualche giorno? — Ethan, non devi nemmeno chiederlo. Quegli oggetti appartengono a tua madre. Non c'è una sola cosa in questa stanza che non ti avrebbe dato. Avrei voluto chiedere a Marian del rosmarino nel libro, ma non ci riuscii. Non mi andava di mostrarlo a nessuno, né di condividerlo. Anche se non avevo mai, e probabilmente non avrei mai, fritto un pomodoro in tutta la mia vita. Infilai il libro sotto il braccio, seguendo Marian verso la porta. — Se hai bisogno di me, io ci sono. Per te e per Lena. Lo sai. Non c'è niente che non farei per voi. — Mi scostò i capelli dagli occhi e mi fece un sorriso. Non era il sorriso di mia madre, ma era uno dei sorrisi che mia madre preferiva. Marian mi abbracciò, poi arricciò il naso. — Sai di rosmarino? Alzai le spalle e uscii nella giornata grigia. Forse Giulio Cesare aveva ragione. Forse era ora di affrontare il mio destino, e il destino di Lena. Che dipendesse da noi o dalle stelle, non potevo starmene seduto ad aspettare di scoprirlo. * * *
Quando uscii dalla biblioteca, stava nevicando. Non credevo ai miei occhi. Guardai il cielo e lasciai che la neve cadesse sulla mia faccia gelata. I fiocchi grossi e asciutti scendevano piano, senza una meta precisa. Non era una tempesta, per niente. Era un dono, forse addirittura un miracolo: un bianco Natale, proprio come nella canzone. Quando arrivai a casa, eccola, Lena, seduta sui gradini del portico con il cappuccio sulle spalle. E nel momento in cui la vidi, capii cos'era veramente quella nevicata. Un'offerta di pace. Lena mi sorrise. In quell'istante, tutti i frammenti della mia vita sgretolata tornarono al loro posto. Ogni cosa storta si raddrizzò. Forse non del tutto, ma bastava. Mi sedetti accanto a lei sul gradino. — Grazie, L. BIANCO NATALE Lei si appoggiò a me. — Volevo solo farti sentire meglio. Sono così confusa, Ethan. Non voglio che tu ti faccia del male. Non so cosa farei se ti succedesse qualcosa. Le passai le dita tra i capelli umidi. — Non tenermi lontano, ti prego. Non posso sopportare l'idea di perdere un'altra persona a cui tengo così tanto. — Le aprii la zip del par-ka, le passai un braccio intorno alla vita, dentro la giacca, e l'attirai verso di me. Lei mi si strinse addosso e io la baciai finché non ebbi paura che avremmo sciolto tutto il cortile se non avessimo smesso. — Cos'era? — chiese Lena, riprendendo fiato. La baciai di nuovo, fino a non poterne più. Poi mi staccai da lei. — Credo che si chiami destino. Sto aspettando questo momento dalla sera del ballo e non ho intenzione di aspettare ancora. — No?
— No. — Be', dovrai. Sono ancora in punizione. Zio M mi crede in biblioteca. — Non m'importa se sei in punizione. Io non lo sono. Mi trasferirò a casa tua, se sarà necessario. E dormirò con Boo nella sua cuccia. — Boo ha la sua camera e dorme in un letto a baldacchino. — Tanto meglio. Lei sorrise e si aggrappò forte alla mia mano. I fiocchi di neve si scioglievano posandosi sulla nostra pelle calda. — Mi sei mancato, Ethan Wate. — Mi baciò. La neve si fece più intensa e si scioglieva su di noi. Eravamo praticamente roventi. — Forse avevi ragione. Dovremmo passare insieme più tempo possibile prima che... — S'interruppe, ma sapevo cosa stava pensando. — Ci inventeremo qualcosa, L. Te lo prometto. Lei annuì, poco convinta, e si rannicchiò tra le mie braccia. Sentivo la calma irradiarsi tra di noi. — Non voglio pensarci, oggi. — Mi spinse via giocosamente: mi spinse di nuovo nel mondo dei vivi. — Ah, sì? E a cosa vuoi pensare, allora? — Agli angeli di neve. Non ne ho mai fatto uno. — Davvero? Voi non fate gli angeli? — Non perché sono angeli. Siamo stati in Virginia solo per pochi mesi, così non ho mai vissuto in un posto dove nevicasse. Un'ora dopo, eravamo seduti al tavolo della cucina, bagnati fradici. Amma era andata allo Stop&Scippa e io e Lena stavamo bevendo la misera cioccolata calda che avevo cercato di fare da solo.
— Non sono sicura che la cioccolata calda si faccia così — mi prese in giro Lena, mentre grattavo da una ciotola scaglie di cioccolato passate al microonde e le facevo cadere nel latte caldo. Ne risultò una cosa bianca e marrone e piena di grumi. A me sembrava magnifica. — Ah, sì? E tu come fai a saperlo? «Cucina! Una cioccolata calda, per favore.» — Scimmiottai la sua voce sottile con il mio vocione basso e il risultato fu uno strano falsetto stridulo. Lei sorrise. Mi era mancato, quel sorriso, anche se era stato solo per pochi giorni; in realtà, mi era mancato anche quando era stato solo per pochi minuti. — A proposito della Cucina, devo andare. Ho detto a mio zio che sarei stata in biblioteca e questa è l'ora di chiusura. La feci sedere sulle mie ginocchia. Non riuscivo a smettere di toccarla, adesso che potevo farlo di nuovo. Cercavo ogni scusa per farle il solletico, qualsiasi cosa pur di toccarle i capelli, le mani, le ginocchia. L'attrazione tra di noi era come una calamita. Lei mi si appoggiò al petto e restammo così, seduti al tavolo della cucina, finché non sentimmo ciabattare al piano superiore. Lena balzò in piedi come un gatto spaventato. — Niente paura. È mio padre che va a farsi la doccia. È l'unico motivo per cui esce dal suo studio. — Sta peggiorando, vero? — Mi prese la mano. Sapevamo che non era una vera domanda. — Mio padre non era così, prima che mia madre morisse. È andato fuori di testa dopo. — Non era necessario aggiungere il resto: Lena l'aveva sentito un sacco di volte nei miei pensieri. Mia mamma era morta e noi avevamo smesso di cucinare i pomodori fritti e avevamo perso i pezzi del villaggio di Natale e mi ero trovato da solo ad affrontare la mamma di Link e nulla era più come prima. — Mi dispiace.
— Lo so. — È per questo che oggi sei andato in biblioteca? Per cercare tua madre? Guardai Lena, scostandole i capelli dal viso. Annuii, presi il rosmarino dalla tasca e lo appoggiai con delicatezza sul bancone della cucina. — Vieni. Voglio mostrarti una cosa. — La feci alzare dalla sedia e la presi per mano. Scivolammo sul vecchio pavimento di legno con i calzini bagnati e ci fermammo davanti alla porta dello studio. Guardai su dalle scale verso la camera da letto di mio padre. L'acqua della doccia non si sentiva ancora scorrere: avevamo un sacco di tempo. Provai ad aprire la porta dello studio. — È chiusa. — Lena aggrottò la fronte. — Hai la chiave? — Aspetta. Guarda cosa succede. — Rimanemmo a fissare la porta. Io mi sentivo un po' stupido e forse anche lei, visto che cominciò a ridacchiare. Stavo per mettermi a ridere anch'io, quando la serratura scattò da sola. Lena smise subito di ridere. Questa non è Magia. Lo sentirei. Secondo me è un invito a entrare. Feci un passo indietro. La serratura si chiuse di nuovo. Lena alzò una mano come per aprire la porta usando i suoi poteri. Le feci abbassare il braccio, dolcemente. — L, credo di doverlo fare da solo. Toccai di nuovo la maniglia. La serratura scattò e la porta si spalancò. Entrai nello studio. Era la prima volta, dopo anni. Era ancora un luogo scuro e spaventoso. Il dipinto celato dal lenzuolo stava sempre appeso sopra il divano sbiadito. Sotto la finestra, il tavolo di mio padre, di mogano intagliato, era coperto dalle pagine del suo ultimo romanzo. C'erano fogli ammonticchiati sul computer, sulla sedia, meticolosamente allineati sul tappeto persiano.
— Non toccare niente o se ne accorgerà. Lena si accovacciò per osservare il mucchio di pagine più vicino, ne raccolse una e accese la lampada da tavolo in ottone. — Ethan. — Non accendere la luce. Non voglio che scenda e che cominci a dare i numeri. Mi ammazzerebbe, se sapesse che siamo qui. Gli importa solo del suo libro. Lena mi passò il foglio, senza parlare. Lo presi. Era coperto di scarabocchi. Non parole scarabocchiate in fretta: scarabocchi e basta. Presi una manciata di fogli dalla pila più vicina. Erano coperti di disegni geometrici e ghirigori e altri scarabocchi. Ne raccolsi uno da terra: solo minuscole file di cerchietti. Buttai all'aria le pile di carta che ingombravano la scrivania e il pavimento. Scarabocchi. Disegni geometrici. Pagine e pagine di scarabocchi. Non una sola parola. Fu allora che capii. Non esisteva nessun libro. Mio padre non era uno scrittore. Non era nemmeno un vampiro. Era solo un pazzo. Mi piegai, con le mani sulle ginocchia. Mi veniva da vomitare. Avrei dovuto prevederlo. Lena mi carezzò la schiena. Va tutto bene. Sta solo passando un periodo difficile. Tornerà da te. Non tornerà. Se n'è andato per sempre. Lei non c'è più e adesso sto perdendo anche lui. Cosa aveva fatto, mio padre, in tutto questo tempo, evitandomi? Che senso aveva dormire di giorno e lavorare di notte, se non stava lavorando affatto al grande romanzo americano? Se non faceva che disegnare righe e righe di cerchietti? Voleva solo fuggire dal suo unico figlio? Amma lo sapeva? Lo sapevano tutti tranne me? Non è colpa tua. Non farti questo.
Questa volta fui io a perdere il controllo. La rabbia salì dentro di me. Buttai giù il computer, mandai per aria tutte le carte. Rovesciai la lampada di ottone e, senza nemmeno pensarci, strappai il lenzuolo che copriva il dipinto sopra il divano. Il quadro cadde, travolgendo uno scaffale basso. Una pila di libri precipitò per terra, sparpagliandosi a semicerchio sul tappeto. — Guarda il dipinto. — Lena lo raddrizzò in mezzo ai libri. Ero io. Io, nelle vesti di un soldato confederato, nel 1865. Ma ero proprio io. Non ci fu bisogno di leggere l'etichetta scritta a matita sul retro per capire chi fosse. Aveva persino i capelli castani scompigliati davanti agli occhi. — Era ora che ci incontrassimo, Ethan Carter Wate — dissi. In quel momento sentii mio padre che scendeva le scale. — Ethan Wate! Lena guardò verso la porta, nel panico. — Porta! — La porta sbatté e la serratura scattò. Inarcai un sopracciglio: non mi sarei mai abituato a questa cosa. Sentimmo bussare. — Ethan, stai bene? Cosa sta succedendo lì dentro? — Lo ignorai. Non sapevo che altro fare, ma non potevo sopportare di guardarlo in faccia adesso. Poi, notai i libri. — Guarda. — Mi inginocchiai per terra davanti al più vicino. Era aperto a pagina tre. Voltai pagina, ma il libro tornò alla pagina tre. Proprio come la serratura della porta. — Sei stata tu? — Di cosa parli? Non possiamo restare qui tutta la notte. — Sono rimasto in biblioteca con Marian a lungo, oggi. Per quanto possa sembrare assurdo, lei era convinta che i libri ci stessero dando dei messaggi.
— Che genere di messaggi? — Non so. Roba sul destino, sulla mamma di Link, su di te. — Su di me? — Ethan! Apri questa porta! — Mio padre picchiava con forza. Ma mi aveva tenuto fuori abbastanza. Adesso toccava a me. — Nell'archivio ho trovato una foto di mia madre in questo studio e poi un libro di cucina, aperto sulla pagina della sua ricetta preferita, con un rametto di rosmarino per segnalibro. Rosmarino fresco. Non capisci? Ha qualcosa a che fare con te, in qualche modo, e con mia madre. E adesso siamo qui, come se qualcosa avesse voluto farmi entrare. O qualcuno. — Forse l'hai pensato solo perché hai visto la sua foto. — Forse, ma guarda qua. — Girai di nuovo pagina sul libro che avevo davanti, una Storia della Costituzione. Da pagina tre a pagina quattro. E, di nuovo, la pagina tornò subito a tre. — Che strano. — Lena prese un altro libro. Carolina del Sud: dalla culla alla tomba. Era aperto a pagina dodici. Lei girò a pagina undici. Il libro tornò alla dodici. Mi spostai i capelli dagli occhi. — Ma non significa niente, qui c'è solo un grafico. I libri di Marian erano aperti su una pagina precisa perché cercavano di dirci qualcosa, come un messaggio. I libri di mia madre non dicono niente. — Forse è una specie di codice. — Mia madre era terribile in matematica. Era una scrittrice — specificai, come se questo spiegasse tutto. Ma non spiegava granché. E mia madre lo sapeva bene. Lena osservò un altro libro. — Pagina uno. È solo la pagina del frontespizio. Quindi, non può essere il contenuto. — E perché mi lascerebbe un codice? — Stavo pensando ad alta voce, ma Lena aveva una risposta.
— Perché tu sei quello che sa sempre la fine del film. Perché sei cresciuto con Amma e i suoi romanzi gialli e i suoi cruciverba. Forse tua madre ha pensato che potessi capire ciò che nessun altro potrebbe. Mio padre continuava a bussare con meno foga. Guardai il libro accanto. Pagina nove, poi pagina tredici... Nessuno dei numeri superava il ventisei. Eppure i libri avevano ben più di ventisei pagine... — Ci sono ventisei lettere nell'alfabeto, giusto? — Giusto. — Allora ho capito. Quando ero piccolo e non stavo fermo in chiesa con le Sorelle, mia madre si inventava dei giochi per me e li scriveva sul retro del foglietto della messa. Il gioco dell'impiccato, gli anagrammi e questo: l'alfabeto cifrato. — Aspetta, cerco una penna. — Lena ne prese una dalla scrivania. — Se A è 1 e B è 2... ora lo scrivo. — Attenta. Qualche volta facevamo al contrario, con la Z uguale a 1. Io e Lena ci sedemmo al centro dell'arco di libri, passando da uno all'altro, mentre mio padre bussava alla porta. Continuai a ignorarlo, come lui aveva ignorato me. Non volevo aprirgli, né dargli alcuna spiegazione. Che provasse anche lui come si stava, tanto per cambiare. — 18, 5, 3, 12, 1, 13, 1... — Ethan! Cosa ci fai lì dentro? Cos'è stato tutto quel rumore? — 20, 5, 19, 20, 5, 19, 19, 1. Guardai Lena e le mostrai il foglio. Ero già un passo avanti. — Credo... Credo che sia per te. Era chiaro come se mia madre fosse nello studio, come se ce lo stesse dicendo lei, con la sua voce. RECLAMA TE STESSA.
Era un messaggio per Lena. Mia madre era lì, in una qualche forma, in un qualche senso, in un qualche universo. Mia madre era ancora mia madre, anche se viveva solo nei libri e nelle serrature delle porte e nel profumo di pomodori fritti e vecchie carte. Viveva ancora. Quando finalmente aprii la porta, mio padre era lì nel suo accappatoio. Guardò lo studio alle mie spalle, dove le pagine del suo romanzo immaginario erano sparse dappertutto e il dipinto di Ethan Carter Water era appoggiato al divano, senza il lenzuolo. — Ethan, io... — Io cosa? Volevi dirmi che sei rimasto chiuso nel tuo studio per mesi a fare questo? — Gli mostrai una pagina spiegazzata. Abbassò gli occhi. Poteva essere pazzo, ma era ancora abbastanza sano di mente da capire che ora sapevo la verità. Lena si sedette sul divano, a disagio. — Perché? Voglio sapere solo questo. C'è mai stato un libro da scrivere o stavi solo cercando di evitarmi? Mio padre sollevò lentamente la testa, gli occhi stanchi e iniettati di sangue. Sembrava molto vecchio, come se la vita lo avesse consumato una delusione dopo l'altra. — Volevo solo starle vicino. Quando sono qui dentro, con i suoi libri e le sue cose, mi sembra che non se ne sia andata davvero. Sento ancora l'odore. Pomodori fritti... — La sua voce si spense, come se si fosse di nuovo smarrito dentro la propria mente e il raro momento di lucidità se ne fosse andato. Entrò nello studio e si chinò a raccogliere le pagine coperte di cerchietti. Gli tremavano le mani. — Io ci ho provato. — Guardò verso la sedia di mia madre. — Ma non so più cosa scrivere.
Io non c'entravo. Non c'ero mai entrato. C'entrava solo mia madre. Qualche ora prima, in biblioteca, avevo provato anch'io la stessa sensazione, seduto tra le sue cose, cercando di sentire la sua presenza. Ma adesso che sapevo che non se n'era andata, era tutto diverso. Mio padre invece non lo sapeva. Lei non gli apriva le porte, non gli lasciava messaggi. Lui non aveva nemmeno quello. * * * La settimana dopo, la vigilia di Natale, il villaggio di cartoncino, storto e consunto dal tempo, non mi sembrava più così piccolo. La torre campanaria sbilenca restava in equilibrio sulla chiesa e anche la fattoria stava in piedi, se si metteva nel modo giusto. Il glitter bianco luccicava e il solito vecchio pezzo di neve di ovatta teneva insieme tutto il villaggio, costante come il tempo. Mi sdraiai sul pavimento a pancia in giù, con la testa infilata sotto i rami più bassi del grosso abete bianco, come avevo sempre fatto. Gli aghi azzurrati mi graffiavano il collo, mentre infilavo una fila di lucette bianche, una per una, nei forellini alla base del villaggio fatiscente. Mi misi a sedere per ammirare il lavoro: le lucette prendevano vita dietro le finestrelle di carta colorata del villaggio. Non avevamo più ritrovato le statuine e mancavano ancora all'appello le automobiline di latta e gli animali. Il villaggio era vuoto, ma per la prima volta non sembrava abbandonato. E io non mi sentivo così solo. Mentre ascoltavo la matita di Anima che grattava sul foglio e il vecchio disco di mio padre che grattava sul giradischi, qualcosa attirò la mia attenzione. Era qualcosa di piccolo e scuro, nascosto tra gli strati di neve cotonosa. Una stellina,
grande come un penny, dipinta d'argento e oro e circondata da un'aureola che sembrava fatta con un fermaglio di metallo aperto. Era la stella dell'albero di Natale dello spazzacamino del villaggio, che non trovavamo da anni. L'aveva costruita mia madre a scuola, da bambina, a Savannah. La infilai in tasca. L'avrei regalata a Lena al nostro prossimo incontro, per la sua collana di pendagli portafortuna, perché fosse al sicuro. Perché non si perdesse di nuovo. Perché io non mi perdessi di nuovo. Mia madre sarebbe stata contenta. Anche di Lena sarebbe stata contenta. O, forse, era contenta. Reclama te stessa. La risposta era sempre stata davanti ai nostri occhi, per tutto il tempo. Ma era rimasta chiusa con i libri nello studio di mio padre, chiusa tra le pagine del libro di cucina di mia madre. Impigliata nella neve polverosa.
12-01 La promessa C'era qualcosa nell'aria. Di solito, quando si sente dire così, non c'è proprio un bel niente nell'aria. Ma più ci avvicinavamo al compleanno di Lena, più ci pensavo. Al rientro dalle vacanze di Natale, trovammo i corridoi imbrattati di vernice spray, sugli armadietti e sulle pareti. Non erano i soliti graffiti; le parole non sembravano nemmeno in inglese. Si poteva pensare che non fossero nemmeno parole, se non si conosceva il Libro delle Lune. Una settimana dopo, le finestre dell'aula di Letteratura Inglese erano in frantumi. Di nuovo, avrebbe potuto essere colpa del vento. Peccato che non ce ne fosse nemmeno un filo. E poi, come avrebbe potuto accanirsi contro una singola aula? Adesso che non giocavo più a basket, dovevo frequentare Educazione Fisica per il resto dell'anno, le lezioni peggiori della Jackson. Dopo un'ora di gare di velocità cronometrate e di mani spellate dalle arrampicate sulla fune annodata, tornai al mio armadietto ma trovai l'anta spalancata e tutte le mie carte sparse in giro per il corridoio. Lo zaino era sparito. Link lo ritrovò qualche ora dopo in un bidone fuori dalla palestra. Avevo imparato la lezione: la Jackson non era il posto giusto per il Libro delle Lune.
Da quel giorno, tenemmo il Libro nell'armadio in camera mia. Mi aspettavo che Amma lo scoprisse da un momento all'altro, che dicesse qualcosa, che spargesse sale in tutta la stanza, ma non lo fece. Erano cinque settimane che studiavo il Libro, con o senza Lena, usando lo sgangherato dizionario di latino di mia madre. I guantoni da cucina di Amma mi aiutavano a limitare le scottature. C'erano centinaia di Incantesimi, dei quali pochissimi in inglese. Man mano che prendevamo familiarità con il Libro, Lena diventava sempre più inquieta. — Reclama te stessa. Non significa niente. — Invece sì. — Nessuno dei capitoli del Libro ne parla. Non è in nessuna delle descrizioni della Reclamazione. — Dobbiamo continuare a cercare. Non è come trovare qualcosa su Wikipedia. — Il Libro delle Lune doveva contenere la risposta. Bastava trovarla. Non riuscivamo a pensare ad altro, tranne al fatto che tra un mese avremmo potuto perdere tutto. La notte restavamo svegli fino a tardi a parlare, ciascuno nel proprio letto, perché ogni notte sembrava più vicina a quella che poteva diventare l'ultima. Cosa pensi, L? Vuoi saperlo davvero! Voglio sempre saperlo. Era vero? Fissavo la mappa spiegazzata appesa al muro, la sottile linea verde che collegava tutti i luoghi di cui avevo letto nei libri, tutte le città del mio futuro immaginario, legate insieme da un nastro adesivo, un pennarello, delle puntine. In pochi mesi, quante cose erano cambiate. Non c'era più una linea verde che mi collegava al mio futuro. C'era solo una ragazza.
Ma ormai, la sua voce era flebile e dovevo sforzarmi per sentirla. Una parte di me vorrebbe che non ci fossimo mai incontrati. Stai scherzando, vero? Lena non rispose. Non subito. Rende tutto ancora più difficile. Pensavo di avere molto da perdere già prima, ma adesso ho te. So cosa vuoi dire. Staccai il paralume dalla lampada sul comodino e mi misi a fissare la lampadina. Se la guardavo fisso, la luce intensa mi avrebbe ferito gli occhi e mi avrebbe impedito di piangere. Ora potrei perdere te. Non succederà, L. Lei rimase in silenzio. I miei occhi erano temporaneamente accecati da vortici e lampi di luce. Non vedevo più nemmeno il soffitto azzurro, anche se lo stavo fissando. Me lo giuri? Te lo giuro. Era una promessa che forse non avrei potuto mantenere, e Lena lo sapeva. Ma promisi comunque, perché avrei trovato il modo per onorarla. Mi scottai la mano cercando di spegnere la lampada.
04-02 L'uomo nero Al compleanno di Lena mancava una settimana. Sette giorni. Centosessantotto ore. Diecimilaottanta minuti. Reclama te stessa. Eravamo esausti, ma anche quel giorno marinammo la scuola per studiare il Libro delle Lune. Io ero diventato esperto a falsificare la firma di Amma e la signora Hester non osava chiedere a Lena una giustificazione firmata da Macon Ravenwood. Era un giorno freddo e sereno. Eravamo nel gelido giardino dei limoni di Greenbrier, stretti l'uno all'altra e raggomitolati sotto il vecchio sacco a pelo preso dal Catorcio. Per la millesima volta, cercavamo tra le pagine del Libro qualsiasi cosa potesse esserci utile. Era evidente che Lena stesse cominciando ad arrendersi. Il soffitto della sua camera era completamente coperto di scritte, inondato dalle parole che non riusciva a pronunciare e dai pensieri che aveva troppa paura a formulare. Tenebrafuoco, lucetenebra / tenebra attende, tendo alle tenebre! La grande tenebra divora la grande luce / e divorano la mia vita /maga-ragazza sovrannaturale / a prima
vista e prima ancora /sette giorni sette giorni sette giorni 7777777777777777777. Non potevo darle torto. La situazione era piuttosto disperata, ma io non ero ancora disposto ad arrendermi. Non mi sarei mai arreso. Lena si accasciò contro il muro di pietre antiche, che si sgretolavano come le speranze che ci restavano. — È impossibile. Ci sono troppi Incantesimi. Non sappiamo nemmeno cosa stiamo cercando. C'erano Incantesimi per qualsiasi scopo immaginabile: Accecare gli Increduli, Far Avanzare l'Acqua dal Mare, Vincolare le Rune. Ma niente che s'intitolasse: Incantesimo per Annullare il Tentativo di Riportare in Vita l'Eroe di Guerra della Bis-BisBis-Bisnonna Genevieve. Oppure:Incantesimo per Evitare di Entrare nelle Tenebre nel Giorno della Reclamazione. Oppure quello che cercavo davvero: Incantesimo per Salvare la Fidanzata (Ora Che Finalmente Ne Hai Una) Prima Che Sia Troppo Tardi. Tornai alla pagina dell'indice: OBSECRATIONES, INCANTA-MINA, NECTENTES, MALEDICENTES, MALEFICIA. — Non preoccuparti, L. Ci arriveremo. — Ma ero il primo a dubitarne. * * * Con il Libro sullo scaffale più alto del mio armadio, avevo sempre più l'impressione che la mia stanza fosse infestata. Succedeva anche a Lena, ogni notte: i sogni, che erano più incubi, stavano peggiorando. Erano giorni, ormai, che non riuscivo a dormire per più di un paio d'ore. Ogni volta che chiudevo gli occhi, ogni volta che mi addormentavo, arrivavano. Mi aspettavano. Peggio, era sempre lo stesso
incubo, ripetuto all'infinito, in un ciclo continuo. Ogni notte perdevo Lena mille volte e questa cosa mi uccideva. L'unica strategia era restare sveglio. Mi facevo di zucchero e caffeina, giocavo con i videogiochi per ore. Leggevo qualsiasi cosa, da Cuore di tenebra al mio numero preferito di Silver Surfer, quello dove Galactus divora l'universo. Ma come sa bene chiunque non abbia chiuso occhio per giorni, la terza o quarta notte ero così stanco che avrei potuto dormire in piedi. Nemmeno Galactus aveva speranza. * * * Fiamme. Il fuoco era ovunque. E il fumo. Soffocavo nel fumo e nella cenere. C'era buio pesto, non si vedeva niente. E il calore era come carta vetrata che mi graffiava la pelle. Non sentivo nulla, tranne il ruggito del fuoco. Non riuscivo nemmeno a sentire Lena. La udivo solo nella testa. Lasciami andare! Devi salvarti! Le ossa del mio polso si spezzavano, una dopo l'altra, come minuscole corde di una chitarra. Lena lo lasciò, forse per anticipare il momento in cui avrei mollato la presa. Ma io non l'avrei mai fatto. Non farlo, L! Non lasciarti andare! Lasciami! Ti prego... salva te stesso! Non l'avrei mai fatto. Sentivo che lei mi scivolava via tra le dita. Cercai di stringere di più, ma Lena scivolava via...
Balzai a sedere sul letto, tossendo. Era stato così reale da sentire ancora in bocca il sapore del fumo. Eppure la mia stanza non era calda, anzi, era fredda. La finestra era di nuovo spalancata. La luce della luna consentì ai miei occhi di abituarsi al buio più in fretta del solito. Notai qualcosa con la coda dell'occhio. Qualcosa che si muoveva nell'ombra. C'era qualcuno nella stanza. — Porca miseria! L'uomo aveva cercato di allontanarsi prima che lo notassi, ma non era stato abbastanza rapido. Sapeva che l'avevo visto. Così fece l'unica cosa possibile. Si voltò per affrontarmi. — Pur esecrando questo tipo di linguaggio, chi sono io per rimproverarti dopo un'uscita così sgraziata?. — Macon fece il suo sorriso da Cary Grant e si avvicinò ai piedi del letto. Indossava una lunga cappa nera e un paio di pantaloni neri. Sembrava vestito come un nobile a una festa ottocentesca, non come un moderno topo d'appartamento. — Ciao, Ethan. — Che diavolo ci fa lei nella mia stanza? Sembrava in difficoltà, il che significava che non aveva una risposta convincente pronta sulla punta della lingua. — È complicato. — Be', veda di semplificarlo. È entrato in camera mia dalla finestra nel cuore della notte, quindi lei è o un vampiro o un pervertito, o entrambe le cose. Dunque? — Mortali! È sempre tutto in bianco e nero, per voi. Non sono un Cacciatore né un Nocumento. Non confondermi con mio fratello Hunting. Il sangue a me non interessa. — Rabbrividì al pensiero. — Né il sangue, né la carne. — Si accese un sigaro, rotolandolo tra le dita. Ad Anima sarebbe
venuto un colpo, l'indomani, sentendo odore di fumo in camera mia. — In verità, mi fanno un po' impressione. Stavo perdendo la pazienza. Non dormivo da giorni ed ero stanco che tutti evitassero di rispondere alle mie domande. Volevo delle risposte, e le volevo subito. — Ne ho abbastanza dei suoi enigmi. Risponda alla mia domanda. Cosa ci fa in camera mia? Macon si avvicinò alla dozzinale sedia girevole davanti alla mia scrivania e si sedette con un movimento fluido. — Diciamo che stavo origliando. Raccolsi la vecchia maglietta da basket appallottolata sul pavimento e me la infilai. — Origliando cosa, esattamente? Non c'è nessuno qui. E io stavo dormendo. — No. In realtà, stavi sognando. — E lei come fa a saperlo? È uno dei suoi poteri magici? — Temo di no. Io non sono un Mago, non tecnicamente. Mi si fermò il respiro in gola. Macon Ravenwood non usciva mai di casa durante il giorno; poteva comparire dal nulla, spiare la gente attraverso gli occhi del suo lupo travestito da cane, respingere una Maga delle Tenebre senza battere ciglio. Se non era un Mago, non restava che una spiegazione. — Allora lei è un vampiro. — Certo che no. — Sembrava infastidito. — È un luogo comune, un cliché, un'espressione davvero poco lusinghiera. I vampiri non esistono. Immagino che tu creda anche ai lupi mannari e agli alieni. Tutta colpa della televisione. — Assaporò il suo sigaro. — Detesto deluderti, ma io sono un Incubus. Prima o poi Amma te l'avrebbe detto, ne sono certo, visto che sembra così ansiosa di rivelare tutti i miei segreti. Un Incubus? Non sapevo nemmeno se dovessi essere spaventato. Probabilmente la confusione mi si leggeva in faccia, perché Macon si sentì in dovere di elaborare il concetto.
— Per loro natura, i gentiluomini come me hanno certi Poteri, ma questi Poteri sono commisurati alla nostra forza, che dobbiamo alimentare regolarmente. — C'era qualcosa di inquietante nel modo in cui disse "alimentare". — In che senso? — Per mancanza di un termine migliore, diciamo che ci nutriamo dei Mortali, per accrescere la nostra forza. La stanza cominciò a girare. O forse era Macon che girava. — Ethan, siediti. Sei pallido come un morto. — Macon si avvicinò e mi guidò verso il letto. — Come dicevo, uso il verbo "nutrirsi" perché non esiste un termine più adatto. Solo un Incubus di Sangue si nutre del sangue dei Mortali, ma io non sono un Incubus di quel tipo. Pur essendo entrambi Lilum coloro che vivono nelle Tenebre Assolute - io sono indubbiamente più evoluto. Mi prendo qualcosa che voi Mortali avete in abbondanza, qualcosa che non vi serve affatto. — E cosa? — I sogni. Frammenti e briciole. Idee, desideri, paure, memorie. Nulla di cui sentirete la mancanza. — Le parole rotolavano tra le sue labbra come se stesse pronunciando una formula magica. Mi dovetti sforzare per metabolizzarle, per cercare di capire cosa stesse dicendo. Mi pareva di avere il cervello avvolto nella lana. Poi ci arrivai. Tutti i pezzi cominciarono a incastrarsi insieme nella mia mente, come un puzzle. — I sogni... Lei entra nei miei sogni? Me li succhia via dalla testa? È per questo che non riesco mai a ricordarne la fine? Macon sorrise e spense il sigaro contro una lattina vuota sulla scrivania. — Mi dichiaro colpevole. Tranne che per il "succhiare". Non è una terminologia molto elegante.
— Se è lei che mi succhia... che mi ruba i sogni, sa anche come vanno a finire. Sa Cosa succede alla fine. Ce lo dica, così possiamo tentare di impedire che accada. — Temo di no. Ho selezionato i frammenti che ho preso in modo piuttosto intenzionale. — Perché non vuole che sappiamo cosa succederà? Se noi conoscessimo il resto del sogno, forse potremmo impedire che si realizzi. — Mi sembra che sappiate già troppo. Nemmeno io, del resto, lo capisco del tutto. — La smetta di parlare per enigmi. Lei continua a ripetere che io posso proteggere Lena, che ho del Potere. Perché non mi dice che diavolo sta succedendo veramente, signor Ravenwood? Perché, sa, sono proprio stanco. E sono stufo di farmi prendere in giro. — Non posso rivelarti quello che non so, figliolo. Tu sei un mistero. — Io non sono suo figlio. — Melchizedek Ravenwood! — La voce di Amma risuonò come una campana. Macon cominciò a perdere la sua compostezza. — Come osi entrare in questa casa senza il mio permesso? — Amma era in accappatoio, con una lunga fila di perline in mano. Poteva sembrare una collana, ma io sapevo che era ben altro. Amma scosse l'amuleto di perle con rabbia. — Noi abbiamo un accordo. Questa casa è inaccessibile per te. Trovati un altro posto dove fare i tuoi sporchi comodi. — Non è così semplice, Amarie. Il ragazzo vede certe cose nei sogni, cose che sono pericolose per entrambi. Gli occhi di Amma erano spiritati. — Ti stai nutrendo del mio ragazzo? È questo che mi stai dicendo? E dovrebbe farmi sentire meglio?
— Calmati. Non prendermi così alla lettera. Sto solo facendo ciò che è necessario per proteggere i nostri ragazzi. — So bene cosa fai e cosa sei, Melchizedek. E ne risponderai al Diavolo a suo tempo. Ma non portare il male nella mia casa. — Ho fatto una scelta molto tempo fa, Amarie. Ho lottato contro ciò che ero destinato a essere. Lotto ogni notte della mia vita. Ma io non sono nelle Tenebre, non finché ci sarà la ragazza da proteggere. — Questo non cambia ciò che sei. Non è una scelta che puoi compiere. Gli occhi di Macon diventarono due fessure. Era chiaro che l'accordo tra di loro era delicato e che lui l'aveva messo a rischio venendo qui. Quante volte? Non l'avrei mai saputo. — Perché non mi dice cosa succede alla fine del sogno? Ho il diritto di saperlo. Il sogno è mio. — È un sogno potente, un sogno sinistro. Ed è meglio che Lena non lo veda. Non è pronta e voi due siete inspiegabilmente connessi. Lei vede quello che vedi tu. Ora capisci perché ho dovuto portartelo via. La rabbia crebbe dentro di me. Ero furente. Più di quando la mamma di Link si era alzata e aveva mentito su Lena all'assemblea del comitato disciplinare. Più arrabbiato di quando avevo trovato pagine e pagine di scarabocchi nello studio di mio padre. — No. Non capisco. Se lei sa qualcosa che può aiutare Lena, perché non ce lo vuole dire? Oppure, perché almeno non smette di usare i suoi trucchi su di me e i miei sogni, così potrò capire da solo? — Sto semplicemente cercando di proteggerla. Io voglio bene a Lena e non farei mai...
— Lo so, l'ho già sentita. Lei non farebbe mai niente che possa farle del male. Quello che dimentica di dire è che non farà niente nemmeno per farle del bene. Macon serrò la mascella. Adesso era lui a essere arrabbiato. Sapevo comprenderlo, ormai. Ma non si scompose. — Io sto cercando di proteggerla, Ethan. E sto cercando di proteggere anche te. So che ci tieni a lei ed è vero che le puoi assicurare una certa protezione, ma ci sono cose che ora non potete vedere, cose che sono al di là del nostro controllo. Un giorno capirai. Tu e Lena siete troppo diversi. Di un'altra specie. Come l'altro Ethan aveva scritto a Genevieve. Capivo benissimo. In più di cent'anni, non era cambiato proprio niente. Gli occhi di Macon si addolcirono. Pensai che avesse pietà di me, ma era altro. — Alla fine, sarai tu a portare il peso di tutto questo. È sempre il Mortale a pagare. Fidati, lo so. — Io non mi fido di lei e si sbaglia. Noi non siamo così diversi. — Mortali. Vi invidio. Credete di poter cambiare le cose. Di fermare l'universo, di disfare ciò che è stato fatto molto prima di voi. Siete delle creature meravigliose. — Parlava con me, ma sembrava che non stesse più parlando di me. — Chiedo perdono per l'intrusione. Ti lascio dormire. — Stia lontano dalla mia stanza, signor Ravenwood. E lontano dalla mia testa. Macon si girò verso la porta, cosa che mi sorprese: mi aspettavo che uscisse da dove era entrato. — Un'ultima cosa. Lena sa cos'è lei? Macon sorrise. — Ma certo. Non ci sono segreti tra di noi. Non ricambiai il sorriso. Forse questo non era un segreto, ma tra loro ce n'erano molti, di segreti, e lo sapevamo entrambi.
Macon mi voltò le spalle con uno svolazzo del mantello e sparì. Così.
05-02 La Battaglia di Honey Hill La mattina seguente mi svegliai con un mal di testa martellante. Non pensai, come spesso succede nei romanzi, che non fosse successo niente. Non pensai che l'apparizione di Macon Ravenwood nella mia stanza e la sua sparizione fossero state un sogno. Ogni mattina per mesi, dopo l'incidente di mia madre, mi ero svegliato credendo che fosse stato un brutto sogno. Non avrei commesso di nuovo lo stesso errore. Questa volta sapevo che se tutto sembrava diverso, era diverso davvero. Se sembrava che le cose fossero sempre più strane, lo erano. Se sembrava che io e Lena stessimo esaurendo il nostro tempo, era assolutamente vero. Sei giorni. Le cose non si stavano mettendo bene per noi. Non c'era altro da dire. Quindi, non dicevamo niente. A scuola ci comportavamo come sempre. Ci tenevamo per mano nel corridoio. Ci baciavamo dietro gli armadietti finché non ci bruciavano le labbra e a me sembrava di essere vicino all'elettroshock. Restavamo nella nostra bolla, fingevamo di avere una vita normale e cercavamo di godercela, almeno quel poco che ancora ne restava. E parlavamo, tutto il giorno, ogni minuto di ogni lezione, anche quelle che non avevamo in comune.
Lena mi raccontò delle Barbados, dove il mare e il cielo s'incontravano in una linea azzurra così sottile che non si potevano distinguere l'uno dall'altro, mentre io ero a lezione di Ceramica e tentavo di dare a un cordoncino di argilla la forma di una ciotola. Lena mi raccontò di sua nonna, che le lasciava bere le bibite usando un bastoncino di liquirizia rossa come cannuccia, mentre in classe scrivevamo un tema sul Dottor Jekyll e Mister Hyde e Savannah masticava la gomma. Lena mi raccontò di Macon che, nonostante tutto, era stato presente a ogni suo compleanno, ovunque fosse, da quando aveva memoria. Quella notte, dopo una veglia di ore in compagnia del Libro delle Lune, guardammo insieme il sorgere del sole. Insieme, anche se lei era a Ravenwood e io a casa mia. Ethan? Sono qui. Ho paura. Lo so. Dovresti cercare di dormire un po', L. Non voglio sprecare tempo a dormire. Nemmeno io. Ma sapevamo entrambi che non era così. È che non volevamo sognare. * * * — LA NOCTE DE LA RECLAMAZIONE EST LA NOCTE DE LA FRAGILITÀ PIÙ GRANDE, QUANDO LA TENEBRA DI DENTRO S'UNISCE A LA TENEBRA DI FUORI ET LA PERSONA DI POTERE S'APRE A LA GRANDE TENEBRA, PRIVA D'ONNE PROTEZIONE, VINCOLO ET INCANTESIMO DI DIFESA ET IMMUNITÀ. LA MORTE, NELLA HORA DE LA RECLAMAZIONE, EST LA PIÙ DEFINITIVA ET ETERNA...
Lena chiuse il Libro. — Non ne posso più di questa roba. — Ci credo. Per forza tuo zio è sempre così preoccupato. — Non basta che mi possa trasformare in qualche specie di demone malvagio. Potrei anche subire la morte eterna. Aggiungiamo anche questo alla lista delle disgrazie che mi stanno per capitare. — D'accordo. Demone. Morte. Destino infausto. Eravamo di nuovo nel giardino dei limoni di Greenbrier. Lena mi passò il Libro e si sdraiò sulla schiena, a guardare il cielo. Speravo che giocasse con le nuvole, invece di pensare a quanto poco eravamo riusciti a capire nei nostri pomeriggi passati a studiare il Libro. Ma non le chiesi di aiutarmi, mentre sfogliavo le pagine con i vecchi guanti da giardino di Amma, decisamente troppo piccoli per me. C'erano migliaia di pagine nel Libro delle Lune e alcune contenevano più di un Incantesimo. Non c'era nessuna logica nel modo in cui era strutturato o, quanto meno, alcuna logica per me comprensibile. L'indice, avevamo scoperto, era una specie di burla che corrispondeva solo vagamente a una parte di quello che era veramente contenuto nel testo. Sfogliavo le pagine sperando di incappare in qualcosa di utile, ma la maggior parte di quello che vedevo era senza senso. Fissavo le parole, senza riuscire a comprenderle. I DDARGANFOD YR HYN SYDD AR GOLL DATODWCH Y CWLWM, TROELLWCH A THROWCH EF UWRIWCH Y RHWYMYM HWN FEL Y CAF GANFOD YR HYN RWY'N DYHEU AMDANO YR HYN RWY'N EI GEISIO.
Poi qualcosa mi balzò agli occhi: una parola che riconobbi perché era in una citazione appesa al muro nello studio dei miei genitori. PETE ET INVENIES. Cerca, e troverai. INVENIES. Trova. UT INVENIAS QUOD ABEST EXPEDI NODUM, TORQUE ET CONVOLVE ELICE HOC VTNCULUM UT INVENIAM QUOD DESIDERO QUOD PETO.
Mi buttai sul dizionario di latino di mia madre, scrivendo velocemente le parole sul retro man mano che traducevo. E questo fu il risultato finale: Per trovare ciò che manca sciogli il nodo, torci e volgi lancia questo vincolo affinché io possa trovare ciò che desidero ciò che cerco. — Ho trovato qualcosa! Lena si mise a sedere, sbirciando da dietro la mia spalla. — Cosa? — Non era molto convinta. Le mostrai i miei appunti, scritti con la mia grafia da gallina. — Ho tradotto questo. Sembra che si usi per trovare ciò che si cerca. Lena si avvicinò controllando la traduzione. Sgranò gli occhi. — È un Incantesimo di Localizzazione. — Forse possiamo usarlo per trovare una risposta, per capire come cancellare la maledizione.
Lena prese il Libro sulle ginocchia, osservando la pagina. Mi indicò l'Incantesimo che precedeva quello che avevo appena tradotto. — Qui dice la stessa cosa. In gallese, credo. — Ma ci può aiutare? — Non lo so. Noi non sappiamo veramente cosa stiamo cercando. — Lena aggrottò la fronte, già meno entusiasta. — E poi, gli Incantesimi Verbali non sono facili come sembra e io non li ho mai provati. Potrebbe finire male. Stava scherzando? — Potrebbe finire male? Peggio di ritrovarti trasformata in una Maga delle Tenebre? — Le presi il Libro dalle mani, bruciando le margherite sulle punte dei guanti. — Allora perché abbiamo dissotterrato una bara per trovare questo? E perché abbiamo perso settimane intere a cercare di capire quello che c'è scritto, se non vogliamo nemmeno provare? — Le tenni il Libro sotto il naso finché uno dei guanti non cominciò a fumare. Lena scosse la testa. — Dallo a me. — Fece un respiro profondo. — Okay, ci provo, ma non ho idea di cosa succederà. Di solito non faccio così. — Cioè? — Come uso i miei poteri... Il fatto che io sia una Naturale. Insomma, il punto è proprio questo, no? Dovrebbe essere una cosa naturale. Metà delle volte non so nemmeno cosa sto facendo. — Okay, questa volta invece lo sai. E io ti aiuterò. Cosa devo fare? Disegnare un cerchio per terra? Accendere candele? Lena alzò gli occhi al cielo. — Che ne dici di sederti più in là? — Mi indicò un punto lontano. — Non si sa mai. Mi aspettavo dei preparativi in più, ma ero solo un Mortale. Cosa ne sapevo? Ignorai l'ordine di mettere della distanza tra me e il suo primo Incantesimo Verbale, però feci qualche passo
indietro. Lena teneva il Libro con una mano sola, il che era già una bella impresa, perché era incredibilmente pesante. Fece un respiro profondo. Mentre leggeva, i suoi occhi scorrevano lentamente la pagina. — Sciogli il nodo, torci e volgi / lancia questo vincolo / affinché io possa trovare / ciò che desidero... Alzò gli occhi e pronunciò l'ultima riga con voce forte e chiara. — Ciò che cerco. Per un secondo, non successe niente. Le nuvole restarono pigramente appese nel cielo, l'aria restò fredda. Non aveva funzionato. Lena alzò le spalle. Sapevo che stava pensando anche lei la stessa cosa. Ma poi sentimmo un rumore, come una folata d'aria che risuona dentro un tunnel. L'albero alle mie spalle prese fuoco. S'incendiò di colpo, dal basso. Le fiamme avvolsero il tronco ruggendo e si propagarono a tutti i rami. Non avevo mai visto nulla ardere con tanta rapidità. Il legno cominciò subito a fumare. Allontanai Lena, tossendo. — Stai bene? — Anche lei tossiva. Le scostai dal viso i riccioli neri. — Be', mi sembra evidente che non ha funzionato. O ciò che desideravi era un bel falò? Lena sorrise debolmente. — Te l'avevo detto che poteva finire male. — Poteva andare peggio. Rimanemmo a fissare il cipresso in fiamme. Mancavano solo cinque giorni. * * * Meno quattro giorni. Nubi di tempesta si accumularono nel cielo e Lena non venne a scuola. Il fiume Santee straripò e
invase le strade a nord del paese. I notiziari locali lo attribuirono al riscaldamento globale, ma io sapevo che non era così. Durante l'ora di Algebra II, nel bel mezzo di un test a sorpresa, mi misi a discutere con Lena del Libro. Non avrebbe certo contribuito al buon esito del compito. Lascia perdere il Libro, Ethan. Io non ne posso più. Non ci sta dando nessun aiuto. Non possiamo lasciar perdere. È la nostra unica possibilità. L'hai sentito anche tu, tuo zio. È il Libro più potente del mondo dei Maghi. È anche il Libro che ha lanciato una maledizione su tutta la mia famiglia. Non arrenderti. La risposta deve essere lì, da qualche parte. La stavo perdendo: Lena non mi voleva più ascoltare. E io non riuscivo a rispondere a nessuna delle domande del test, per la terza volta consecutiva. Fantastico. Senti, sei capace di semplificare 7x-2 (4x - 6)!Sapevo che era capace: lei seguiva già il corso di Trigonometria. E questo cosa c'entra! Niente. Ma rischio di consegnare in bianco. Sospirò. Avere una Maga per fidanzata ha i suoi vantaggi. * * * Meno tre giorni. Cominciarono le frane di fango e il Campetto superiore scivolò dentro la palestra. Le cheerleader non si sarebbero esibite per un po' e il comitato disciplinare avrebbe dovuto trovare un'altra sede per i processi alle streghe. Lena non era tornata a scuola ma stava sempre nella mia testa. La sua voce si faceva sempre più flebile. Era difficile sentirla nel chiasso di un normale giorno di scuola alla Jackson.
Mi sedetti da solo in mensa. Non riuscivo a mangiare niente. Per la prima volta da quando avevo incontrato Lena, mi guardavo intorno, osservavo gli altri studenti e sentivo una fitta di... non so... Cos'era? Invidia? La loro vita era così semplice, così facile. I loro problemi erano a misura di Mortale, minuscoli. Come i miei, una volta. Incrociai lo sguardo di Emily, che mi fissava. Savannah le raggiunse e con Savannah arrivò il solito ghigno. No, non era invidia. Non avrei mai scambiato Lena per nulla di tutto questo. Tornare a una vita così minuscola non era più nemmeno immaginabile. * * * Meno due giorni. Lena non voleva più parlare con me. Mezzo tetto della sede del DAR volò via quando si scatenarono i venti. I registri dei membri del DAR che la signora Lincoln e la signora Asher avevano impiegato anni a compilare, con gli alberi genealogici che risalivano al Mayflower e alla Rivoluzione, andarono distrutti. I patrioti della contea di Gatlin avrebbero dovuto ricominciare daccapo a dimostrare che il loro sangue era migliore del nostro. Passai da Ravenwood andando a scuola e bussai al portone più forte che potei. Lena non voleva uscire di casa. Quando finalmente la costrinsi ad aprire la porta, capii perché. Ravenwood era cambiata di nuovo. All'interno sembrava una prigione di massima sicurezza. Le finestre avevano le sbarre e le pareti erano di cemento liscio, tranne che nella sala d'ingresso, dove erano arancioni e imbottite. Lena indossava una tuta arancione con il numero 1102, la data del suo compleanno. Aveva le mani coperte di parole. Era bella, in verità, con i capelli neri e disordinati che le ricadevano sulla
spalle. Riusciva a far sembrare bella anche una divisa da carcerato. — Che succede, L? Lena seguì il mio sguardo verso l'interno della casa. — Ah, questo. Niente. È uno scherzo. — Non credevo che Macon avesse il senso dell'umorismo. Lena strinse il cordoncino di una manica. — Infatti. Lo scherzo è mio. — Da quando sei in grado di controllare Ravenwood? Lei scrollò le spalle. — Ieri mattina mi sono alzata e l'ho trovata così. Probabilmente ce l'avevo in testa. E probabilmente la casa ha ascoltato i miei pensieri. — Usciamo di qui. La prigione non fa che deprimerti di più. — Fra due giorni potrei essere Ridley. È piuttosto deprimente. — Scosse la testa con tristezza e si sedette sul gradino della veranda. Mi sedetti accanto a lei. Non mi guardava: teneva gli occhi fissi sulle scarpe di tela bianca da carcerata. Chissà come faceva a sapere com'erano fatte le scarpe dei carcerati. — I lacci. Quelli li hai sbagliati. — Come? Glieli indicai. — Nelle prigioni vere li tolgono, i lacci delle scarpe. — Mi devi lasciar perdere, Ethan. È finita. Non posso impedire al mio compleanno di arrivare, né alla maledizione. Non posso più fingere di essere una ragazza normale. Non sono come Savannah Snow o Emily Asher. Io sono una Maga. Raccolsi una manciata di sassolini dal gradino basso della veranda e ne scagliai uno più lontano che potei. Non ti dirò mai addio, L. Non posso.
Mi prese un sassolino dalla mano e lo lanciò. Le sue dita sfiorarono le mie e sentii il lieve pulsare del calore. Cercai di memorizzarlo. Non hai scelta. Io non ci sarò più e non ricorderò nemmeno che ti volevo bene. Ero testardo. Non potevo sentirla parlare così. Questa volta, il sassolino colpì un albero. — Niente potrà cambiare ciò che sentiamo l'uno per l'altra. Questa è l'unica cosa che so per certo. — Ethan, potrei non essere più capace di provare nessun sentimento. — Non ci credo. — Buttai tutti gli altri sassolini nel cortile pieno di erbacce. Non so dove atterrarono, non sentii alcun rumore. Ma fissai in quella direzione, intensamente, ricacciando il nodo che avevo in gola. Lena fece per avvicinarsi, ma poi esitò e ritirò la mano senza nemmeno sfiorarmi. — Non avercela con me. Non sono stata io a volere tutto questo. Fu allora che scattai. — Forse no. Ma se domani fosse davvero il nostro ultimo giorno? E se potessimo passarlo insieme? E invece tu sei qui, a deprimerti come se fossi già stata Reclamata. Lei si alzò. — Tu non capisci. — Sentii sbattere la porta alle mie spalle. Lena era rientrata in casa, nel suo blocco carcerario, o quello che era. Non avevo mai avuto una ragazza, prima d'ora, per cui non ero preparato ad affrontare una situazione del genere. Non sapevo nemmeno come definirlo. Soprattutto se la ragazza era una Maga. Non sapendo che altro fare, mi alzai, gettai la spugna e andai a scuola. In ritardo, come al solito. * * *
Ventiquattro ore. Un sistema di bassa pressione si fermò su Gatlin. Non si capiva se stava per nevicare o per grandinare, ma il cielo non era normale. Quel giorno sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa. Guardavo fuori durante l'ora di Storia. Vidi una specie di corteo funebre, ma era per un funerale non ancora celebrato. In testa c'era il carro di Macon Ravenwood, seguito da sette berline nere di lusso. Sfilarono davanti alla scuola, diretti a Ravenwood. Nessuno ascoltava Lee che blaterava sull'imminente rievocazione della Battaglia di Honey Hill, non la più celebre delle battaglie della Guerra Civile ma quella di cui gli abitanti della contea di Gatlin andavano più fieri. — Nel 1864 il generale Sherman ordinò al maggiore generale John Hatch e alle sue truppe di bloccare la ferrovia di Charleston e di Savannah per impedire ai Confederati di interferire con la sua marcia verso il mare. Ma, a causa di svariati errori nel calcolo della rotta, le forze dell'Unione subirono considerevoli ritardi. Sorrise con orgoglio, scrivendo alla lavagna ERRORI NEL CALCOLO DELLA ROTTA con il gesso. Okay, quelli dell'Unione erano stupidi. Capito. Era questo il punto della Battaglia di Honey Hill, il punto della Guerra tra gli Stati, così come ci era stata insegnata fin dall'asilo. Trascurando, naturalmente, il fatto che gli Stati dell'Unione avessero poi vinto la guerra. A Gatlin ne parlavano tutti come di una sorta di nobile concessione da parte del nobile Sud. Il Sud, storicamente, aveva agito con grande nobiltà d'animo, almeno secondo Lee. Ma quel giorno nessuno era interessato alla lavagna. Guardavano tutti fuori dalle finestre. Le berline nere seguivano in fila il carro funebre sulla strada che passava dietro il campo di atletica. Ora che, per così dire, era uscito allo scoperto, Macon sembrava divertirsi a mettersi in mostra. Per uno che
usciva solo di notte, bisognava ammettere che sapeva come attirare l'attenzione. Mi arrivò un calcio nello stinco. Link era piegato sul banco in modo che Lee non potesse vedergli la faccia. — Amico. Secondo te chi c'è in tutte quelle macchine? — Lincoln, vuoi dirci tu cosa accadde poi? Visto che sarà tuo padre a comandare la Cavalleria, domani? — Lee ci squadrava con le braccia conserte. Link s'inventò un attacco di tosse. Suo padre, una timorosa parvenza d'uomo, aveva l'onore di comandare la Cavalleria nella rievocazione storica da quando Earl Eaton era morto, l'anno precedente. Era questo l'unico modo per avanzare di grado, per le comparse della rievocazione storica. Qualcuno doveva lasciarci la pelle. Se fosse capitato nella famiglia di Savannah Snow, sarebbe stato un grande evento. Link, invece, non era troppo preso da tutta questa solfa della Storia Viva. — Vediamo, professor Lee. Un momento, ci sono. Noi, ehm, abbiamo vinto la battaglia e perso la guerra. O era il contrario? Perché da queste parti certe volte è difficile capire la differenza. Lee ignorò la battuta di Link. Probabilmente il professore esponeva la bandiera dei Confederati per tutto l'anno davanti a casa, cioè davanti al suo prefabbricato. — Lincoln, quando Hatch e i Federali raggiunsero Honey Hill, il colonnello Colcock... — La classe sghignazzò, perché cock è uno dei tanti soprannomi del povero organo genitale maschile. — Sì, si chiamava così. Il colonnello Colcock con i suoi soldati e i corpi armati formò un'invalicabile barriera di sette cannoni, sulla strada. — Quante volte dovevamo sentire la storia dei sette cannoni? Nemmeno fosse il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Link si girò verso di me, indicandomi la strada con il mento. — Allora? — Sarà la famiglia di Lena. Dovevano venire per il suo compleanno. — Già. Ridley me ne aveva accennato. — Uscite ancora insieme? — Avevo quasi paura a chiedere. — Sì, amico. Sai mantenere un segreto? — Non li ho sempre mantenuti? Link si tirò su la manica della maglietta dei Ramones e mi mostrò un tatuaggio. Era la versione di Ridley stile fumetto giapponese, con tanto di minigonna e calzettoni da alunna di scuola cattolica. Avevo sperato che l'infatuazione di Link avesse perso un po' d'intensità, ma in fondo al cuore sapevo la verità. Bisognava aspettare che Ridley si stancasse di lui. Solo allora gli sarebbe passata. A meno che, nel frattempo, lei non l'avesse indotto a buttarsi da una rupe. E forse nemmeno sarebbe bastato. — Me lo sono fatto durante le vacanze di Natale. Forte, eh? L'ha disegnato Ridley. È una vera artista. Brava da morire. — Sul "da morire" non avevo dubbi. Cosa potevo dirgli? Quella che ti sei tatuata sul braccio, oltre a essere la tua ragazza, è la versione a fumetti di una Maga delle Tenebre, che tra l'altro ti tiene in una specie di incantesimo d'amore? — Tua madre darà i numeri quando lo vedrà. — Non lo vedrà mai. Lo tengo nascosto sotto la manica. E a casa mia c'è una nuova regola per la tutela della privacy nella mia camera. Deve bussare. — Prima di entrare come un bulldozer e fare quello che le pare? — Sì, be', almeno bussa. — Lo spero. Per il tuo bene.
— Comunque, io e Ridley abbiamo una sorpresa per Lena. Non dire a Rid che te l'ho detto o mi ammazza. Vogliamo organizzare una festa per lei, domani. A Ravenwood, in giardino. — È uno scherzo, vero? — Sorpresa! — Link era entusiasta. Ma questa festa non era assolutamente possibile, Lena non avrebbe mai partecipato, Macon non l'avrebbe mai lasciata andare. — Cosa vi è saltato in mente? Per Lena sarebbe una cosa orribile. Lei e Ridley non si parlano nemmeno. — È un problema di Lena, amico. Dovrebbe superarlo; fanno parte della stessa famiglia. — Sapevo che Link era sotto l'influenza di Ridley, come una specie di zombie ridleyzzato, ma mi fece comunque saltare i nervi. — Non sai quello che dici. Resta fuori da questa storia, Link. Fidati di me. Lui prese un salammo, lo aprì e ne staccò un boccone. — Sarà. Noi volevamo solo fare qualcosa di carino per Lena. Non è che ci sia una marea di persone ansiose di organizzarle una festa a sorpresa. — Una ragione in più per non farlo. Non verrebbe nessuno. Lui sorrise e si ficcò in bocca il resto del salammo. — Verranno tutti. Hanno già accettato. Almeno, così mi dice Rid. Ridley. Ma certo. Con un solo lecca-lecca avrebbe convinto tutto il paese a seguirla ovunque, come il Pifferaio Magico. Ma Link non la vedeva così. — La mia band, gli Holy Rollers, suonerà dal vivo per la prima volta in assoluto. — I cosa? — La mia nuova band. L'ho formata al... campeggio parrocchiale. — Non volevo sapere altro su quello che era successo durante le vacanze di Natale. Mi bastava che Link fosse tornato tutto intero.
Il professor Lee batté sulla lavagna per ribadire il concetto, disegnando con il gesso un grande otto. — Alla fine, Hatch non riuscì a smuovere i Confederati e ritirò i suoi uomini. Ottantanove morti e seicentoventinove feriti. I Confederati vinsero la battaglia perdendo solo otto uomini. E questo — Lee batté orgogliosamente sul numero otto — è il motivo per cui tutti voi sarete con me domani alla rievocazione storica della Battaglia di Honey Hill. La Storia Viva. Così la gente come Lee chiamava le rievocazioni storiche della Guerra Civile. E non scherzavano. Ogni aspetto veniva curato nei minimi dettagli, dalle uniformi, alle munizioni, alla posizione dei soldati sul campo di battaglia. Link mi sorrise, con la bocca piena di salammo piccante. — Non dirle niente. Vogliamo che sia una sorpresa. È il nostro regalo di compleanno, mio e di Rid. Io lo guardavo con gli occhi sbarrati. Pensavo a Lena e al suo umore nero e alla sua divisa arancione, da carcerata. Poi pensai alla band di Link, indubbiamente terribile, alla festa stile Jackson, a Emily Asher e Savannah Snow, agli Angeli, a Ridley, a Ravenwood, per non parlare di Honey Hill che saltava in aria in lontananza. Il tutto sotto lo sguardo carico di disapprovazione di Macon, degli altri parenti matti di Lena, di sua madre che stava cercando di ucciderla. E del cane grazie al quale Macon poteva spiare ogni nostra mossa. Suonò la campanella. "Sorpresa" non rendeva nemmeno vagamente l'idea della reazione di Lena. E io ero quello che ora glielo doveva dire. — Non dimenticatevi di firmare quando arrivate alla rievocazione. Chi non firma non avrà nemmeno un punto di credito. E ricordatevi di restare nei limiti della Zona di Sicurezza. Non avrete un voto più alto se vi prenderete una fucilata — gridò Lee mentre uscivamo dalla sua aula.
In quel preciso momento, prendermi una fucilata non mi sembrava la cosa peggiore che potesse succedermi. * * * Le rievocazioni storiche della Guerra Civile sono proprio degli strani fenomeni e quella della Battaglia di Honey Hill non faceva eccezione. Chi poteva avere interesse a infilarsi in sudatissimi costumi di lana che sembravano cuciti per Halloween? Chi aveva voglia di correre in giro con dei fucili così vecchi e instabili che rischiavano di staccarti un braccio ogni volta che sparavi un colpo? Era così, tra parentesi, che Earl Eaton era morto. A chi importava ricreare delle battaglie di una guerra accaduta centocinquant'anni prima e che il Sud non aveva nemmeno vinto? Chi voleva farlo? A Gatlin, come in gran parte del Sud, la risposta era: il tuo medico, il tuo avvocato, il tuo predicatore, quello che ti aggiustava la macchina e quello che ti portava la posta e, con ogni probabilità, tuo padre, tutti i tuoi zii e i tuoi cugini, il tuo professore di Storia - soprattutto se la sorte ti aveva assegnato uno come Lee - e sicuramente quello che gestiva l'armeria del paese. La seconda settimana di febbraio, con la pioggia o con il sole, tutta Gatlin aveva un unico pensiero, un unico argomento, un'unica preoccupazione: la rievocazione storica della Battaglia di Honey Hill. Honey Hill era la Nostra Battaglia. Non so con che criterio fosse stato deciso, ma sono quasi sicuro che avesse a che fare con i sette cannoni. La gente del paese impiegava settimane intere nei preparativi per Honey Hill. Quando si arrivava agli sgoccioli, in tutta la contea si stiravano le uniformi da Confederati e l'aria si impregnava dell'odore della lana calda. Si pulivano i fucili Whitworth e si lucidavano le spade. Metà
degli uomini del paese avevano passato il weekend a casa di Buford Radford a preparare munizioni artigianali, perché a sua moglie non dava fastidio la puzza. Le vedove erano indaffarate a lavare lenzuola e a congelare torte ripiene per le centinaia di turisti che sarebbero arrivati in paese per assistere alla Storia Viva. Le signore del DAR avevano passato mesi a preparare il Percorso Storico tra le case più antiche di Gatlin, mentre le loro figlie avevano impiegato due sabati a cuocere torte da servire ai turisti alla fine del suddetto percorso. Questa parte era particolarmente buffa, perché le signore del DAR, compresa la mamma di Link, accompagnavano i visitatori indossando costumi d'epoca. Si strizzavano nei bustini e soffocavano sotto strati multipli di gonne, sembravano tante salsicce sul punto di scoppiare nella loro pelle. E non erano le sole: le loro figlie, comprese Savannah ed Emily, la futura generazione del DAR, dovevano fare da comparse nelle case padronali, vestite come i personaggi della Casa nella prateria. Il percorso partiva sempre dalla sede del DAR, perché era la seconda casa più antica di Gatlin. Chissà se sarebbero riusciti a sistemare il tetto in tempo. Immaginavo quelle donne che si aggiravano per le stanze della Società Storica, mostrando trapunte ricamate a motivi stellati, mentre nei sotterranei centinaia di rotoli di pergamena e documenti della Biblioteca Magica aspettavano la prossima chiusura della biblioteca pubblica. Ma le signore del DAR non erano le uniche a essere coinvolte. La Guerra tra gli Stati era spesso definita "la prima guerra moderna" ma, se si faceva un giro a Gatlin la settimana prima della rievocazione, di moderno non c'era proprio niente. Ogni cimelio della Guerra Civile era in bella mostra, dai carri tirati dai cavalli agli Howitzer che, come avrebbe saputo spiegare qualsiasi bambino dell'asilo, erano dei cannoni fissati a una
coppia di ruote da carro. Le Sorelle avevano tirato fuori la loro bandiera dei Confederati originale e l'avevano attaccata alla porta d'ingresso, dopo che mi ero rifiutato di appenderla sulla veranda. Anche se era una messa in scena, c'era un limite a tutto. Il giorno prima della rievocazione ci fu una grande sfilata in paese, che diede modo alle comparse di marciare per le vie in pompa magna, davanti ai turisti, perché il giorno dopo sarebbero stati così sporchi di fumo e di terra che nessuno avrebbe notato i bottoni di ottone luccicante sulle loro divise autentiche. Dopo la sfilata ci fu una grande festa in piazza, con il maiale arrosto, la bancarella delle torte e quella dei baci. Amma cucinò per giorni interi. Dopo la fiera annuale, era questa la sua grande occasione per esibire le sue torte e umiliare le sue nemiche con una vittoria schiacciante. Le sue torte erano sempre le prime a essere vendute. La signora Lincoln e la signora Snow fumavano di rabbia e questo bastava a ripagare ampiamente Amma di tutte le sue fatiche. Non c'era niente che amasse di più del mettere in imbarazzo le signore del DAR e fargli piantare il naso nelle loro torte di seconda scelta. E così, anno dopo anno, quando si avvicinava la seconda settimana di febbraio, la vita come la conoscevamo cessava di esistere e ci ritrovavamo tutti ai tempi della Battaglia di Honey Hill, nel 1864. Quest'anno non faceva eccezione. C'era però qualcosa in più: mentre i furgoni entravano in paese trainando cannoni a doppia canna e rimorchi per il trasporto dei cavalli ogni figurante della Cavalleria che si rispettasse possedeva un proprio cavallo - altri preparativi erano in corso, per una battaglia molto diversa.
Avrebbe avuto inizio non dalla seconda casa più vecchia di Gatlin, ma dalla più antica in assoluto. C'erano Howitzer e Howitzer. Questa battaglia non si sarebbe combattuta con fucili e cavalli, ma non per questo sarebbe stata meno terribile. A essere onesti, era l'unica vera battaglia che si sarebbe scatenata a Gatlin. Per quel che riguarda gli otto caduti di Honey Hill, non ero in grado di fare paragoni. Temevo per una persona soltanto. Perché se avessi perso lei, sarei stato perduto anch'io. Quindi, al diavolo la Battaglia di Honey Hill. Per me, quello era più simile al D-Day.
11-02 Sedici anni Lasciatemi in pace! Ve l'ho già detto! Non c'è niente che possiate fare! La voce di Lena mi svegliò da poche ore di sonno inquieto. Mi infilai i jeans e una maglietta grigia senza nemmeno rifletterci e scesi di sotto. Non pensavo ad altro che a questo: Giorno Zero. Potevamo smettere di aspettare la fine. La fine era qui. non già con uno schianto ma con un lamento non già con uno schianto ma con un lamento non già con uno schianto ma con un lamento Lena stava perdendo il controllo. Ed era appena l'alba. Il Libro. Cavolo, lo avevo dimenticato. Tornai di corsa in camera, facendo i gradini due alla volta. Mi allungai fino al ripiano più alto dell'armadio, dove lo tenevo nascosto, pronto alla bruciatura che accompagnava ogni contatto con esso. Solo che stavolta non fu così. Perché il Libro era sparito. Il Libro delle Lune, il nostro Libro, era scomparso. E noi avevamo bisogno di quel Libro, quel giorno più che mai. La voce di Lena mi martellava nella testa. è questo il modo in cui finisce il mondo non già con uno schianto ma con un lamento
Lena che recitava T.S. Eliot non era un buon segno. Presi le chiavi della Volvo e corsi. Il sole stava sorgendo su Dove Street. Cominciava ad animarsi di vita anche Greenbrier, l'unico campo di Gatlin che tutti ritenessero abbandonato, la location ideale per la Battaglia di Honey Hill. Che buffo: non sentivo nemmeno i colpi di artiglieria che esplodevano fuori, a causa del fragore dell'artiglieria che avevo dentro la testa. Quando salii i gradini di Ravenwood, trovai Boo ad aspettarmi. Abbaiava. C'era anche Larkin nel portico, appoggiato a uno dei pilastri. Indossava il suo giubbotto di pelle e giocherellava con un serpente che gli si arrotolava intorno al braccio. Anzi, prima era il braccio, poi era un serpente. Larkin Mutava Forme pigramente, con l'abilità di un giocatore esperto che mescola le carte. Mi colsero per un momento alla sprovvista, lui e il suo serpente, e anche il modo in cui faceva abbaiare Boo. Ora che ci penso, non si capiva se Boo abbaiasse a me o a Larkin. Apparteneva a Macon e io e lui non ci eravamo lasciati proprio da buoni amici. — Ciao, Larkin. — Lui mi fece un cenno con il capo, senza interesse. Faceva freddo e uno sbuffo di fiato gli uscì dalla bocca, come il fumo di una sigaretta immaginaria. Lo sbuffo divenne un anello, che a sua volta divenne un serpentello bianco, che poi si morse la coda e si divorò fino a scomparire. — Io non entrerei, se fossi in te. La tua ragazza è un po'... come dire? Velenosa? — Il serpente gli si arrotolò intorno al collo e si trasformò nel colletto del giubbotto. Zia Del spalancò la porta. — Finalmente! Ti stavamo aspettando! Lena è in camera sua e non vuole far entrare nessuno di noi.
Osservai zia Del, più confusa del solito, con un foulard penzolante da una spalla, gli occhiali sghembi sul naso e persino il nodo dello chignon decentrato, mezzo disfatto. Mi piegai e l'abbracciai. Odorava come gli armadi antichi delle Sorelle, pieni di sacchetti di lavanda e di vecchie lenzuola passate di generazione in generazione. Alle sue spalle c'erano Reece e Ryan. Erano come una famiglia afflitta, nel tetro atrio di un ospedale, in attesa di cattive notizie. Ancora una volta, Ravenwood sembrava sintonizzata più su Lena e sul suo umore che su quello di Macon, o forse questo era l'umore che condividevano adesso. Macon non si vedeva da nessuna parte, quindi non potevo giudicare. Se si potesse immaginare il colore della rabbia, era stato buttato a secchiate su tutte le pareti. La rabbia, o qualcosa di altrettanto denso e fremente, pendeva dai lampadari, il risentimento era intessuto nei tappeti spessi che coprivano il pavimento, il rancore baluginava sotto i paralume. Il pavimento era invaso da ombre striscianti, una particolare forma di tenebra che risaliva sulle pareti e proprio in quel momento mi stava avvolgendo le scarpe, tanto che quasi non riuscivo più a vederle. Una tenebra assoluta. Non posso descrivere la sala. Ero troppo distratto dalla sensazione che comunicava, una sensazione greve e opprimente. Salii con cautela il primo gradino dell'imponente scalinata che conduceva alla stanza di Lena. Ero salito per quelle scale decine di volte, non era che non sapessi dove conducessero. Eppure, in qualche modo, quel giorno erano diverse. Reece e Ryan mi seguivano con lo sguardo, sotto gli occhi vigili di zia Del, come se mi stessi avventurando in uno sconosciuto territorio di guerra. Quando salii sul secondo gradino, la casa tremò. Le mille candele dell'antico lampadario che ondeggiava sopra la mia
testa fremettero e gocciolarono cera sulla mia faccia. Mi ritrassi di scatto. Senza preavviso, la scala si inarcò sotto i miei piedi e mi scrollò via, mandandomi a gambe all'aria. In scivolata sul sedere, finii al centro della sala d'ingresso. Reece e zia Del riuscirono a scansarsi, ma travolsi la povera Ryan come una palla da bowling contro un birillo. Mi alzai in piedi e gridai verso il piano superiore: — Lena Duchannes. Se provi un'altra volta ad aizzare le scale contro di me, giuro che ti denuncio personalmente al comitato disciplinare. Misi un piede sul primo gradino. Poi sul secondo. Non successe niente. — Chiamerò Hollingsworth e testimonierò che sei pazza e pericolosa. — Saltai due gradini alla volta fino al pianerottolo. — Perché se provi un'altra volta a farmi una cosa del genere, ti sistemo io, hai capito? — Poi sentii la sua voce insinuarsi nella mia mente. Tu non capisci. So che hai paura, L, ma non risolverai niente escludendoci. Vattene via. No. Dico sul serio, Ethan. Vattene. Non voglio che ti succeda niente. Non posso. Ero davanti alla sua porta, con la guancia appoggiata al legno freddo. Volevo stare con lei, più vicino che potevo senza che mi venisse un altro attacco di cuore. E se era questo il massimo della vicinanza che Lena mi concedeva, me lo sarei fatto bastare, per ora. Sei lì, Ethan? Sono qui. Ho paura. Lo so, L.
Non voglio che ti succeda qualcosa di brutto. Non mi succederà niente. Ethan, non voglio lasciarti. Non mi lascerai. E se succedesse? Io ti aspetterò. Anche se sarò nelle Tenebre! Anche se sarai nelle Tenebre più nere. Lena aprì la porta e mi tirò dentro. Aveva la musica a tutto volume. Conoscevo quella canzone. Era una versione arrabbiata, quasi metal, ma la riconobbi comunque. Sedici anni, sedici lune Sedici delle tue più profonde paure Sedici volte le mie lacrime in sogno cadendo, cadendo attraverso il tempo... Sembrava che Lena avesse pianto tutta la notte. E probabilmente era così. Quando le toccai il viso, vidi che era ancora rigato di lacrime. La tenni tra le braccia, dondolando con lei mentre la canzone suonava. Sedici anni, sedici lune Nelle tue orecchie scoppi di tuoni Sedici miglia perché lei si avvicini Sedici cerca quel che sedici teme... Dietro di lei, la stanza era un disastro. L'intonaco sui muri era pieno di crepe e cadeva a pezzi. La cassettiera era rovesciata. Sembrava fossero passati dei vandali. Le finestre infrante. Senza i vetri, i riquadri di metallo ricordavano le sbarre di una prigione di un antico castello. La prigioniera era aggrappata a me. La musica ci avvolgeva, senza fermarsi.
Sedici anni, sedici lune Sedici volte hai sognato le mie paure Sedici proverà a Vincolare le sfere Sedici grida e solo tu le puoi udire... L'ultima volta che ero stato qui, il soffitto era quasi interamente coperto di parole che rivelavano i più segreti pensieri di Lena. Ma ora, ogni superficie della stanza era sfregiata dalla sua calligrafia in inchiostro nero. Sul perimetro del soffitto si leggeva così: La solitudine abbraccia colui che ami / Quando sai che potresti non abbracciarlo mai più. Sui muri: Anche se perso nelle Tenebre / Il mio cuore ti troverà. Sugli stipiti della porta: L'anima muore per mano di colui che la porta con sé. Sugli specchi: Se un luogo potessi trovare / dove fuggire / dove restare / In quel luogo oggi sarei, al sicuro. Anche la cassettiera era imbrattata di frasi:La luce del giorno più cupo qui mi ritrova, coloro che attendono sempre vigili sono. E poi c'era una frase che sembrava riassumere tutto: Come si può fuggire da se stessi! Leggevo la sua storia in quelle parole, la sentivo in quella musica. Sedici anni, sedici lune, La Luna Reclama, l'ora s'avvicina In queste pagine le Tenebre son lume I Poteri Vincolano ciò che il fuoco consuma... Poi la chitarra elettrica rallentò e sentii una nuova strofa, la fine della canzone. Finalmente qualcosa che si concludeva. Ascoltandola, cercai di cancellare dalla mente i sogni di terra e fuoco e acqua e vento. Sedici anni, Sedici lune
Ora è giunto il giorno che temi Reclama o sii Reclamata Versa sangue, versa lacrime Luna o Sole - distruggi, onora. Le note di chitarra si spensero. Restammo abbracciati, nel silenzio. — Cosa pensi... Lena mi chiuse la bocca con la mano. Non riusciva a parlarne. Era vulnerabile e indifesa come mai l'avevo vista. Una brezza fredda le soffiava intorno, l'avvolgeva e scorreva via dalla porta aperta alle mie spalle. Non sapevo se le sue guance fossero rosse per il freddo o per le lacrime, non glielo chiesi. Cademmo sul letto e ci raggomitolammo insieme, così stretti da non poter più distinguere a chi appartenessero le braccia e le gambe. Non ci baciavamo, ma era come se lo stessimo facendo. Mai avrei pensato che due persone potessero essere così vicine. Indovinai che si provasse questo ad amare qualcuno e a sentire di stare per perderlo. Anche mentre lo stringevi ancora tra le braccia. Lena tremava. Percepivo le sue costole, le ossa del suo corpo, i suoi movimenti che sembravano involontari. Sciolsi l'abbraccio e mi allungai a prendere il piumino ai piedi del letto, per coprirci. Lena si strinse al mio petto e io tirai più su la coperta, fin sopra la testa. Eravamo in una piccola grotta buia, insieme, noi due. La grotta si riscaldò con il nostro fiato. Le baciai le labbra gelide e lei ricambiò. La corrente tra di noi si intensificò e lei mi si insinuò nell'incavo del collo. Credi che potremmo restare così per sempre, Ethan! Possiamo fare tutto ciò che vuoi. È il tuo compleanno.
La sentii irrigidirsi tra le mie braccia. Non ricordarmelo. Ma io ti ho portato un regalo. Lena sollevò la coperta per far entrare un filo di luce. — Davvero? Ti avevo detto di non farlo. — Da quando in qua ascolto quello che mi dici? E poi, Link è sicuro che se una ragazza ti raccomanda di non portarle un regalo per il suo compleanno, in realtà vuole dire: portami un regalo e fa' in modo che sia un gioiello. — Non vale per tutte le ragazze. — Okay. Allora lasciamo stare. Lena lasciò ricadere il piumino e si rannicchiò di nuovo tra le mie braccia. Lo è? Cosa? Un gioiello. Mi pareva che tu non lo volessi, il regalo. Pura curiosità. Sorrisi tra me e scostai il piumino. L'aria fredda ci colpì all'istante. In tutta fretta, tirai fuori una scatoletta dai jeans e mi rituffai sotto le coperte. Sollevai il piumino quel tanto che bastava perché Lena la vedesse. — Abbassalo. Fa troppo freddo. Lasciai cadere il piumino e fummo di nuovo circondati dall'oscurità. Poi la scatoletta cominciò a brillare di luce verde e vidi le esili dita di Lena che toglievano il nastrino d'argento. Il bagliore crebbe, caldo e vivido, finché non le illuminò il viso. — Questa è nuova. — Le sorrisi nella luce verde. — Lo so. È così da quando mi sono svegliata, stamattina. Qualsiasi cosa mi passa per la mente, in qualche modo succede. — Niente male.
Lena osservava la scatoletta con uno sguardo nostalgico, come se volesse aspettare il più possibile prima di aprirla. Mi venne in mente che forse sarebbe stato l'unico regalo che Lena avrebbe ricevuto, oggi. A parte la festa a sorpresa, di cui le avrei parlato solo all'ultimo minuto. Una festa a sorpresa! Ops. È uno scherzo, vero? Dillo a Ridley e a Link. Ah, sì! La sorpresa è che non ci sarà nessuna festa. Dai, apri il regalo. Lei mi lanciò un'occhiata torva e aprì la scatoletta. Altra luce si sprigionò, anche se non dipendeva dal regalo. Il suo viso si addolcì. Capii che avevo scampato la storia della festa. Che strana, questa cosa delle ragazze e dei gioielli. Chi l'avrebbe mai detto? Alla fine, aveva ragione Link. Lena sollevò una catenina, delicata e luminosa, dalla quale pendeva un anello. Era un cerchietto d'oro formato da tre fili uno rosato, uno giallo e uno bianco - intrecciati insieme a formare una ghirlanda. Ethan! È bellissimo. Mi baciò più o meno cento volte e io cominciai a parlare anche mentre mi baciava. Perché sentivo che glielo dovevo dire, prima che lo indossasse, prima che succedesse qualcosa. — Era di mia madre. L'ho preso dal suo portagioie. — Sei sicuro di volerlo regalare? — mi chiese Lena. Annuii. Non potevo fingere che non fosse importante. Lena sapeva bene ciò che provavo per mia madre. Era una cosa molto importante ed ero sollevato che entrambi potessimo ammetterlo. — Non è raro, non è un diamante, ma per me è prezioso. Credo che lei sarebbe contenta se lo dessi a te, perché lo sai.
Cosa? Ah. — Vuoi farmelo dire? — La mia voce suonò strana, tremante. — Sì. — Lena sapeva che ero in terribile imbarazzo, ma non avrebbe rinunciato a sentirlo. Io preferivo il nostro sistema di comunicazione silenzioso. Rendeva più facile dire le cose, le cose importanti, molto più facile per uno come me. Le sollevai i capelli dalla nuca e le agganciai la catenina. Ora l'aveva al collo, appena sopra quella che non si toglieva mai. Brillava nella luce verde. — Perché sei davvero speciale per me. Quanto speciale? La risposta ce l'hai al collo, direi. Ho un sacco di cose, al collo. Toccai la sua collana di pendagli. Sembravano cianfrusaglie e molte lo erano davvero - le cianfrusaglie più preziose del mondo. E adesso lo erano anche per me. Un penny schiacciato con un foro al centro, proveniente da uno dei distributori automatici di fronte al cinema dove eravamo stati al nostro primo appuntamento. Un pezzo di filo del maglione rosso che indossava quando eravamo andati a "parcheggiare" all'acquedotto, che era diventata una nostra battuta privata. Il bottone argentato che le avevo dato come portafortuna all'assemblea del comitato disciplinare. La piccola stella di mia madre. Allora dovresti già sapere la risposta. Lei si protese e mi baciò di nuovo. Un bacio vero. Uno di quelli che non si possono definire solo baci, che coinvolgono le braccia e le gambe e il collo e i capelli, e il piumino alla fine scivola a terra e le finestre si riaggiustano, la cassettiera si raddrizza, i vestiti ritornano sui loro appendini e la stanza gelida e fredda diventa finalmente calda.
Un bel fuoco divampò nel piccolo caminetto spento, ma non era nulla a confronto con il calore che mi correva dentro. Sentivo l'elettricità, più forte di quella cui mi ero abituato, e il mio battito cardiaco accelerò. Mi staccai da lei, senza fiato. — Dov'è Ryan quando c'è bisogno di lei? Dobbiamo trovare una soluzione a questo problema. — Non ti preoccupare, è di sotto. — Lena mi tirò giù di nuovo e il fuoco nel caminetto scoppiettò più forte, minacciando di ingolfare il camino di fumo e di fiamme. I gioielli, ve lo dico io, funzionano. E l'amore. E forse il pericolo. * * * — Arrivo, zio Macon! — Lena mi guardò e sospirò. — A quanto pare non possiamo più temporeggiare. Dobbiamo scendere a incontrare la mia famiglia. — Fissò la porta e la serratura si aprì. Le carezzai la schiena, facendo una smorfia. Era finita. Quando finalmente uscimmo dalla sua stanza, il giorno si era già volto all'imbrunire. Intorno all'ora di pranzo, avevo pensato che saremmo sgattaiolati giù a far visita alla Cucina, ma Lena aveva semplicemente chiuso gli occhi e un carrello portavivande era entrato dalla porta e si era fermato al centro della stanza. Immagino che anche la Cucina fosse triste per lei, quel giorno. Quello, oppure nemmeno la Cucina era in grado di resistere ai suoi nuovi poteri. Come me, del resto. Mangiai il mio peso in crèpe con scaglie di cioccolato annegate in sciroppo al cioccolato e annaffiate di latte al cioccolato. Lena mangiò un tramezzino e una mela. Poi tutto tornò a dissolversi nei baci.
Entrambi sapevamo che quello poteva essere l'ultimo giorno. Non potevamo fare altro. La situazione era quello che era e se quel giorno era tutto ciò che avevamo, allora ce lo saremmo goduto fino in fondo. In realtà, il terrore che sentivo era pari all'euforia. Non era ancora l'ora di cena, e quel giorno era già il più bello e il più brutto della mia vita. Presi Lena per mano quando toccammo il primo gradino. La sua mano era ancora calda, si capiva che il suo umore era migliorato. Al collo le brillavano le sue collane. Nell'aria si libravano candele d'oro e d'argento e ci passavamo in mezzo scendendo le scale. Non ero abituato a vedere Ravenwood così festosa e piena di luce e per un attimo pensai che fosse come un vero compleanno, in cui le persone che festeggiano sono allegre e spensierate. Per un attimo. Poi vidi Macon e zia Del. Entrambi avevano una candela in mano. Alle loro spalle, Ravenwood era avvolta nelle tenebre. C'erano altre figure scure che si muovevano sullo sfondo e tutte reggevano una candela. Peggio ancora, Macon e Del indossavano una lunga veste scura, come adepti di qualche strana setta o druidi celebranti. Più che un compleanno, sembrava un'agghiacciante funerale. Buon compleanno. Ora capisco perché non volevi uscire dalla tua stanza. Finalmente ti rendi conto. Quando Lena raggiunse l'ultimo gradino, si fermò e si girò verso di me. Sembrava così fuori posto, con i suoi vecchi jeans e la mia felpa con lo stemma della scuola, troppo grande per lei. Probabilmente non si era mai vestita così in tutta la sua vita. Forse voleva solo tenere con sé una parte di me, finché poteva. Non farti spaventare. È solo la cerimonia del Vincolo.
Per proteggermi fino al Sorgere della Luna. La Reclamazione non può avvenire finché la luna non sarà alta. Non sono spaventato, L. Lo so. Stavo parlando a me stessa. Mi lasciò la mano e scese l'ultimo gradino. Quando il suo piede toccò il lucido pavimento nero, Lena si trasformò. La veste nera e fluente della cerimonia del Vincolo avvolse le curve del suo corpo, il nero dei capelli e il nero dell'indumento si fusero in un'ombra che la oscurò da capo a piedi, a eccezione del viso, che era pallido e luminescente come la luna stessa. Lena si portò una mano alla gola, dove pendeva l'anello d'oro di mia madre. Speravo che l'aiutasse a ricordare che ero con lei. Così come speravo che chi ci aveva aiutato finora fosse proprio mia madre. Cosa ti faranno? Non sarà uno di quei riti pagani a sfondo sessuale, vero? Lena scoppiò a ridere. Zia Del la guardò con disapprovazione. Reece si lisciò la veste con sussiego e con aria di superiorità. Invece a Ryan scappò da ridere a sua volta. — Ricomponiti — le sibilò Macon. Larkin, che in qualche modo riusciva a essere bello sia con quel vestito che con il giubbotto di pelle, sghignazzò. Lena soffocò la risata nelle pieghe della veste. Si avvicinarono e vidi i loro volti alla luce delle candele: Macon, Del, Lena, Larkin, Reece, Ryan e Barclay. C'erano anche delle facce che mi erano meno familiari. Arelia, la madre di Macon, e un viso ancora più vecchio, rugoso e abbronzato. Anche da dove mi trovavo, o dove cercavo di stare senza scappare, quel viso era così simile a quello di Lena che lo riconobbi all'istante. Lena la individuò nello stesso momento. — Nonna!
— Buon compleanno, tesoro! — Il cerchio si ruppe per un breve momento e Lena corse a gettare le braccia al collo dell'anziana donna dai capelli bianchi. — Non credevo che saresti venuta! — Certo che sì. Volevo farti una sorpresa. Dalle Barbados è un viaggio facile. Sono arrivata in un batter d'occhio. Dice sul serio, vero? Cos'è! Una Viaggiante? Un Incubus come Macon? Una normale passeggera, Ethan. Sulle linee aeree internazionali. Percepivo l'emozione di Lena, un attimo di momentaneo sollievo, anche se io invece mi sentivo sempre più un estraneo. Okay, mio padre era pronto per il manicomio e mia madre era morta, più o meno, e la donna che mi aveva cresciuto se ne intendeva un po' di vudù. La stranezza non era un problema, per me. Ma lì a Ravenwood, circondato da Maghi veri, muniti di tarocchi, candele e lunghe vesti, sentivo di aver bisogno di una preparazione più approfondita di quella che avevo ricavato vivendo con Amma. Prima che attaccassero con il latino e gli Incantesimi. Macon fece un passo avanti ed entrò nel cerchio. Troppo tardi. Sollevò la candela. — Cur Luna hac Vinctum convenimus? Zia Del gli si avvicinò. Quando alzò la candela, la fiammella tremolò. Tradusse: — Perché in questa Luna ci riuniamo per il Vincolo? Il cerchio rispose cantilenando, tenendo alte le candele. — Sextusdecima Luna, Sextusdecimo Anno, Illa Capietur. Lena rispose in inglese. La fiamma della sua candela sfavillò alta, come se volesse bruciarle la faccia. — Alla Sedicesima Luna, il Sedicesimo Anno, Ella sarà Reclamata.
— Era al centro del cerchio, a testa alta, il viso illuminato dalle fiammelle che la circondavano. La fiammella della sua candela prese una strana sfumatura di verde. Che sta succedendo, L? Non preoccuparti. Non è nulla. Fa parte della cerimonia del Vincolo. Se quella era solo la cerimonia del Vincolo, di sicuro non ero pronto per la Reclamazione. Macon cominciò la litania che ricordavo da Halloween. Come l'avevano chiamata? Sanguis sanguinis mei, tutela tua est. Sanguis sanguinis mei, tutela tua est. Sanguis sanguinis mei, tutela tua est. Sangue del mio sangue, tua è la protezione. Lena impallidì. Sollevò la candela sopra la testa, chiudendo gli occhi. La fiammella verde esplose in una potente fiamma rossastra che si propagò a tutte le altre candele del cerchio. — Lena! — gridai sopra il fragore dell'esplosione. Ma lei non rispose. La fiamma si apriva verso l'alto, nel buio, così in alto che capii che quella notte a Ravenwood non c'era ne un tetto né un soffitto. Mi protessi gli occhi con il braccio quando il fuoco si fece incandescente e accecante. Riuscivo solo a pensare ad Halloween. Stava succedendo di nuovo? Cercai di ricordare cosa avessero fatto quella notte per respingere Sarafine. Cosa avevano recitato? Come l'aveva chiamato, la madre di Macon? Il Sanguinis. Ma non ricordavo le parole e non sapevo il latino. Per la prima volta nella vita desiderai far parte del Club dei Classici.
In quel momento bussarono alla porta e, in un istante, tutte le fiamme sparirono. Le vesti, il fuoco, le candele, le tenebre e la luce: spariti. Svaniti nel nulla. Senza un attimo di incertezza, i Ravenwood si trasformarono in una famiglia normale, intorno a una normale torta di compleanno. A cantare. Che diavolo... ? — ... tanti auguri a te! — Le ultime note della canzone si spensero mentre fuori continuavano a bussare. Un'enorme torta di compleanno, tre piani di rosa, bianco e argento, circondata da un elegante servizio da tè, faceva bella mostra di sé su un tavolino basso al centro della sala, sopra una tovaglia bianca. Lena spense le candeline e dissipò il fumo agitando la mano, dove solo pochi secondi prima si erano alzate fiamme impetuose. Tutta la famiglia applaudì allegramente. Lena, di nuovo con la mia felpa della Jackson e i jeans, sembrava una qualsiasi ragazza di sedici anni. — E brava la nostra bambina. - La nonna posò il lavoro a maglia e cominciò a tagliare la torta, mentre zia Del si affrettava a versare il tè. Reece e Ryan portarono una montagna di regali. Macon, seduto nella sua avvolgente poltrona vittoriana, versava dello scotch per sé e per Barclay. Che sta succedendo, L?Cos'è successo? C'è qualcuno alla porta. Misure precauzionali. Non riesco a tenervi dietro. Prendi una fetta di torta. Questa dovrebbe essere una festa di compleanno, ricordi? Intanto continuavano a bussare. Larkin alzò gli occhi dal grosso triangolo di dolce, la classica torta del Sud chiamata "velluto rosso", la preferita da Lena. — Nessuno va ad aprire? Macon si levò una briciola dalla giacca di cachemire e lo guardò con calma. — Assolutamente sì. Va' a vedere chi è, Larkin.
Macon fissò Lena e scosse la testa. Oggi lei non avrebbe aperto a nessuno. Lena annuì e si avvicinò a sua nonna. Sorrideva da dietro la torta, da vera nipote preferita. Poi batté la mano sul cuscino accanto al suo. Fantastico. Era venuto il momento delle presentazioni. Poi sentii una voce familiare e seppi che avrei preferito affrontare la nonna di chiunque, piuttosto che le persone dietro la porta. C'erano Ridley e Link, Savannah, Emily, Eden e Charlotte, con il resto del loro fan club e la squadra di basket della Jackson. Nessuno indossava l'abituale maglietta dei Jackson Angels. Il perché mi venne in mente non appena notai uno sbaffo di terra sulla faccia di Emily. La rievocazione storica. Io e Lena ce l'eravamo persa quasi tutta, e adesso saremmo stati bocciati in Storia. Ormai era quasi tutto finito, tranne la battaglia notturna e i fuochi d'artificio. Strano come un'insufficienza in Storia in qualsiasi altro giorno mi sarebbe sembrata una tragedia. — SORPRESA! "Sorpresa" non rendeva nemmeno vagamente l'idea. Ancora una volta, ero stato io a permettere al caos e al pericolo di entrare a Ravenwood. I ragazzi si affollarono nell'ingresso. La nonna li salutò dal divano. Macon sorseggiava compostamente il suo scotch, come sempre. Solo chi lo conosceva bene avrebbe capito che stava per perdere il controllo. E a pensarci bene, perché Larkin li aveva fatti entrare? Non può essere vero. La festa a sorpresa... Me n'ero dimenticato. Emily si fece largo tra i ragazzi. — Dov'è la festeggiata? — Teneva le braccia protese, come se volesse abbracciarla. Lena si ritrasse ma Emily non era una che si lasciasse scoraggiare facilmente.
Prese Lena sottobraccio, come se fossero amiche da sempre. — È tutta la settimana che organizziamo questa festa. C'è musica dal vivo e Charlotte ha noleggiato delle luci da esterni, così ci si vede. Insomma, è così buio intorno a questa casa! — Emily abbassò la voce, come se stesse vendendo merce di contrabbando al mercato nero. — E abbiamo anche della grappa alla pesca. — Devi assolutamente vedere — intervenne Charlotte. Boccheggiava tra una parola e l'altra, incapace di respirare, tanto erano stretti i suoi jeans. — C'è anche il laser. Un rave party a Ravenwood... Forte, eh? Proprio come una di quelle feste che fanno al college di Summerville. Un rave party? Ridley aveva dato fondo a tutte le sue risorse per arrivare a tanto. Emily e Savannah che organizzavano una festa per Lena e la coccolavano come se fosse la loro Regina della Neve? Sarebbe stato più facile farle saltare da una rupe. — Dai, andiamo in camera tua! Ti aiutiamo a prepararti! — Charlotte si comportava più da cheerleader del solito, sempre eccessiva. Lena era verde. In camera sua? Metà delle scritte sui muri probabilmente riguardavano loro. — Ma che dici, Charlotte? Lei è già fantastica così. Non ti pare, Savannah? — Emily strinse Lena e guardò Charlotte con disapprovazione, come a dirle che sarebbe stato meglio che avesse messo giù la torta e si fosse sforzata di essere fantastica come lei. — Stai scherzando? Non so cosa darei per avere dei capelli così — dichiarò quella, girandosi intorno al dito un ricciolo di Lena. — Sono così straordinariamente... neri. — Anch'io avevo i capelli neri, l'anno scorso. Almeno le radici — protestò Eden. L'anno prima si era tinta di nero le radici dei capelli, lasciando bionde le punte, in uno dei suoi
maldestri tentativi di distinguersi. Savannah ed Emily l'avevano presa in giro senza pietà, tanto che Eden si era rifatta il colore il giorno dopo. — Sembravi una puzzola. — Savannah sorrise a Lena con approvazione. — Lei invece sembra un'italiana. — Dai, andiamo! Ti stanno aspettando tutti — esclamò Emily, prendendo Lena per un braccio. Ma lei si divincolò. Ci deve essere sotto qualcosa. Certo che c'è sotto qualcosa, ma non quello che immagini tu. Probabilmente ha più a che fare con una Sirena e un leccalecca. Ridley. Avrei dovuto immaginarlo. Lena guardò zia Del e zio Macon. Erano terrorizzati, come se tutto il latino del mondo non li avesse preparati a un evento del genere. La nonna sorrideva, sorpresa da quella particolare schiera di angeli. — Cos'è questa fretta? Bambine, volete restare per un tè? — Ciao, nonna! — gridò Ridley dalla porta. Si era fermata sulla veranda e succhiava il suo lecca-lecca con tale foga che, se solo si fosse interrotta un secondo, probabilmente tutto sarebbe crollato come un castello di carte. Questa volta non poteva usarmi per entrare. Era a un centimetro di distanza da Larkin, che aveva un'espressione divertita ma le sbarrava la strada. Ridley debordava da un gilè di pizzo che sembrava un incrocio tra un capo di biancheria intima e qualcosa di adatto alla ragazza copertina di "Donne e motori", e indossava una minigonna di jeans. Si appoggiò allo stipite. — Sorpresa! La nonna posò la sua tazza e riprese il lavoro a maglia. — Ridley. Che piacere vederti, mia cara. Il tuo nuovo look ti dona molto, tesoro. Sono sicura che avrai molti pretendenti. — La
nonna le lanciò un sorriso innocente, ma i suoi occhi non sorridevano affatto. Ridley fece il broncio, ma continuò a succhiare il suo leccalecca. Mi avvicinai a lei. — Quante leccate ti è costato, Rid? — Cosa, Paglia Corta? — Convincere Savannah Snow ed Emily Asher a organizzare una festa per Lena. — Più di quante tu possa immaginare, Fidanzatino. — E mi mostrò la lingua, che era macchiata di rosso e di viola. La vista mi diede il capogiro. Larkin sospirò e guardò fuori. — Ci saranno un centinaio di ragazzi. C'è un palco con l'impianto audio, e auto posteggiate lungo tutta la strada. — Davvero? — Lena guardò fuori dalla finestra. — Un palco in mezzo alle magnolie. — Le mie magnolie? — Macon balzò in piedi. Sapevo che era una farsa, che era Ridley a dar vita alla festa con ogni seducente leccata. Anche Lena lo sapeva. Ma c'era una parte di lei che desiderava andare a quella festa: glielo si leggeva negli occhi. Una festa a sorpresa, a cui partecipavano tutti i ragazzi della scuola. Sicuramente c'era anche questo sulla sua lista delle cose che fanno le ragazze normali. Poteva accettare l'idea di essere una Maga. Ma era stanca di essere emarginata. Larkin guardò Macon. — Non riuscirai mai a cacciarli. Finiamola con questa storia. Resterò io con lei tutto il tempo. Io, o Ethan. Link si fece largo tra i ragazzi. — Amico, andiamo! C'è la mia band, gli Holy Rollers. È il nostro debutto. Sarà incredibile. — Non avevo mai visto Link così felice. Guardai Ridley con sospetto. Lei fece spallucce, succhiando il suo lecca-lecca.
— Noi non andiamo da nessuna parte. Non stasera. — Mi sembrava impossibile che Link fosse qui. A sua madre sarebbe venuto un colpo, se l'avesse scoperto. Larkin guardò Macon, che era visibilmente irritato, poi guardò zia Del, che era nel panico. Era la notte in cui né l'uno né l'altra avrebbero voluto perdere di vista Lena un solo istante. — No. — Macon non prese nemmeno in considerazione l'idea. Larkin ci riprovò. — Cinque minuti. — Assolutamente no. — Quando succederà di nuovo che i suoi compagni di scuola organizzino una festa per lei? Macon non batté ciglio. — Mai, spero. La faccia di Lena si intristì. Avevo ragione. Voleva parteciparvi, anche se non era reale. Era come il ballo o la partita di basket. Era la ragione per cui insisteva a frequentare la scuola, per quanto la trattassero in modo orribile. Era per questo che si presentava ogni giorno, anche se mangiava sulle tribune e si sedeva sul lato dell'occhio buono. Aveva sedici anni, Maga o no. E per una sera, Lena non voleva pensare a nient'altro. C'era solo un'altra persona testarda quanto Macon Ravenwood. Se conoscevo Lena, suo zio non l'avrebbe spuntata, non quella sera. Si avvicinò a Macon e lo prese sottobraccio. — Lo so che sembra una follia, zio M, ma potrei andare alla festa, solo un pochino? Solo per sentire la band di Link? — Aspettai che i suoi capelli si arricciassero nella rivelatrice brezza magica, ma non si mossero. Non era la Magia dei Maghi che stava utilizzando, non sarebbe mai riuscita a eludere la vigilanza di Macon con quella. Stava ricorrendo a una magia più antica, più forte, quella che sin dal suo arrivo a Ravenwood era stata la più efficace sullo zio. Il classico vecchio affetto.
— Perché vuoi andare tra questa gente, dopo quello che ti hanno fatto passare? — Lo sentivo ammorbidirsi mentre parlava. — Non è cambiato niente. Non voglio avere niente in comune con quelle ragazze. Però mi piacerebbe andare alla festa. — Non ha senso. — Macon era frustrato. — Lo so. E so anche che è stupido, ma voglio solo sapere cosa si prova a essere normali. Voglio andare a un ballo senza distruggerlo, voglio andare a una festa alla quale io sia stata invitata. Lo so che è tutta opera di Ridley, ma è così sbagliato se non m'importa? — Lo guardò negli occhi, mordicchiandosi un labbro. — Non lo posso permettere. Nemmeno se volessi. È troppo pericoloso. Si fissarono negli occhi. — L'ultima volta io ed Ethan non siamo nemmeno riusciti a fare un ballo, zio M. L'hai detto tu stesso. Per un secondo sembrò che Macon stesse per cedere. Ma solo per un secondo. — Ecco cosa non ho detto. Ti ci devi abituare. Io non ho mai frequentato un solo giorno di scuola, non ho mai fatto una passeggiata in centro di domenica pomeriggio. Tutti abbiamo delle delusioni. Lena giocò l'ultima carta. — Ma è il mio compleanno. Potrebbe succedere qualsiasi cosa. E questa potrebbe essere la mia ultima occasione... — Il resto della frase rimase sospeso nell'aria. Di ballare con il mio ragazzo. Di essere me stessa. Di essere felice. Non c'era bisogno di specificarlo. Lo sapevamo tutti. — Lena, io capisco come ti senti, ma è una mia responsabilità tenerti al sicuro. Soprattutto stanotte, devi restare
qui con me. I Mortali ti metteranno in pericolo o ti faranno soffrire. Tu non potrai mai essere normale. Non sei nata per esserlo. — Macon non si era mai rivolto a Lena in questo modo. Non sapevo se stesse parlando della festa o di me. Gli occhi di Lena erano lucidi, ma non pianse. — Perché no? Cosa c'è di male a desiderare quello che hanno loro? Ti sei mai fermato a pensare che potrebbero avere ragione? — E anche se ce l'avessero? Cosa importa? Tu sei una Naturale. Un giorno andrai dove Ethan non ti potrà mai seguire. E ogni minuto che passate insieme adesso sarà solo un peso più grande che dovrai sopportare per il resto della tua vita. — Lui non è un peso. — Oh, sì, invece. Ti rende più debole, per questo costituisce un pericolo. — Lui mi rende più forte. E questo è pericoloso solo per te. Mi intromisi. — Signor Ravenwood, per favore. Non stasera. Ma Macon l'aveva già fatto. Lena era furiosa. — E poi, tu cosa ne sai? Non hai mai avuto il peso di una relazione in tutta la tua vita, non hai mai avuto nemmeno un amico. Tu non sai niente. E come potresti? Dormi tutto il giorno nella tua stanza e gironzoli nella tua biblioteca tutta la notte. Odi tutti e pensi di essere migliore di loro. Se non hai mai amato nessuno veramente, come fai a sapere come mi sento? Lena gli voltò le spalle, voltò le spalle a tutti noi e corse su per le scale, seguita da Boo. La porta della sua camera sbatté e il colpo riecheggiò nella sala. Boo si accucciò davanti alla porta chiusa. Macon restò a guardare verso le scale, anche se Lena era già sparita. Lentamente, si girò verso di me. — Non potevo permetterlo. Sono sicuro che tu puoi capire.
Sapevo che questa era forse la notte più pericolosa di tutta la vita di Lena, ma sapevo anche che poteva essere la sua ultima occasione di essere la ragazza che amavamo. Quindi, sì, capivo. Solo che non avrei voluto essere nella stessa stanza con lui, in quel preciso momento. Link si fece avanti tra i ragazzi che ancora affollavano l'ingresso. — Allora questa festa si fa o no? Larkin lo prese per la giacca. — Si sta già facendo. Usciamo di qui. Festeggeremo per Lena. Emily avanzò fino a raggiungere Larkin. Tutti gli altri li seguirono. Ridley era ancora fuori, sulla soglia. Mi guardò e scrollò le spalle. — Io ci ho provato. Link mi aspettava sulla porta. — Wate, vieni anche tu, dai. Andiamo. Guardai verso le scale. Lena? — Resto qui. La nonna posò il lavoro a maglia. — Non so se scenderà presto, Ethan. Perché non esci con i tuoi amici e torni tra qualche minuto? — Ma io non volevo andarmene. Poteva essere l'ultima notte che passavamo insieme. Anche se chiuso in una stanza, io volevo stare con lei. — Almeno vieni fuori a sentire il pezzo nuovo, amico. Poi puoi tornare ad aspettare che Lena scenda. — Link aveva già le bacchette in mano. — Mi sembra un'ottima idea. — Macon si versò un altro scotch. — Puoi tornare fra un po'. Nel frattempo, noi abbiamo delle cose di cui discutere. — La decisione era presa. Macon mi stava buttando fuori. — Un pezzo solo. Poi aspetterò qui fuori. — Guardai Macon. — Per un po'.
Il campo dietro Ravenwood brulicava di gente. C'era un palco improvvisato, illuminato da fari come quelli usati per la Battaglia di Honey Hill in notturna. La musica usciva dalle casse a tutto volume, ma era difficile sentirla con le cannonate della vicina battaglia. Seguii Link fino al palco, dove gli Holy Rollers si stavano preparando. Erano in tre e sembravano avere una trentina d'anni a testa. Quello che stava sistemando l'amplificatore della sua chitarra aveva le braccia coperte da tatuaggi e una specie di catena da bicicletta intorno al collo. Il bassista portava i capelli sparati, neri come il trucco degli occhi. Il terzo aveva così tanti piercing che faceva male solo a guardarlo. Ridley saltò sul palco, si sedette sul bordo e salutò Link. — Aspetta di sentirci. Siamo da sballo. Vorrei solo che Lena fosse qui. — Be', non vorrei deludervi. — Lena si avvicinò e mi agganciò la vita in un abbraccio. Aveva gli occhi rossi e pieni di lacrime, ma al buio era uguale agli altri. — Cos'è successo? Tuo zio ha cambiato idea? — Non esattamente. Ma occhio non vede e cuore non duole. E anche se lo vedesse, non me ne importerebbe niente. Zio Macon è stato orribile con me, stasera. — Io non replicai. Non avrei mai capito il legame tra Lena e Macon, come del resto lei non capiva quello tra Amma e me. Ma sapevo che, una volta finito tutto questo, avrebbe sofferto molto. Lena non tollerava che qualcuno parlasse male di suo zio, nemmeno se quel qualcuno ero io. E adesso era lei a parlarne male, e questo era molto peggio. — Sei scappata? — Sì. Mi ha aiutato Larkin. Larkin si avvicinò con un bicchiere di plastica in mano. — Si compie sedici anni una volta sola, giusto?
Non è una buona idea, L. Voglio solo fare un ballo. Poi rientriamo. Link si diresse verso la sua postazione. — Ho scritto una canzone per il tuo compleanno, Lena. Ti piacerà. — Come si intitola? — chiesi con sospetto. — Sedici lune. Ricordi? Quella strana canzone che non riuscivi a trovare sul tuo iPod? Mi è saltata in mente la settimana scorsa, tutta in un botto. Be', con un piccolo aiuto di Rid. — Sorrise. — Immagino si possa dire che Rid è la mia musa. Ero senza parole. Ma Lena mi prese per mano e Link afferrò il microfono e non ci fu verso di fermarlo. Sistemò il supporto in modo da averlo proprio davanti alla bocca. Be', a dire la verità, più che davanti era dentro la bocca. E faceva anche un po' schifo. Link aveva guardato troppa MTV a casa di Earl. Ma bisognava concederglielo, perché fra pochi minuti l'avrebbero buttato giù dal palco. Era un ragazzo coraggioso, tutto sommato. Link, seduto alla batteria, con le bacchette in aria, chiuse gli occhi. — One, two, three. Il tipo con la chitarra, quello con la catena da bicicletta al collo, staccò una nota dalle corde. Una nota terribile. Gli amplificatori ai lati del palco cominciarono a fischiare. Rabbrividii. Non sarebbe stato un bello spettacolo. Poi ne fece un'altra, e un'altra ancora. — Signore e signori, se ce ne fossero in giro. — Link inarcò un sopracciglio e un'onda di risate salì dal pubblico. — Vorrei augurare buon compleanno a Lena. E adesso, un applauso per la prima mondiale della mia nuova band, gli Holy Rollers. Lena osservò Link, pensierosa. — Non ne sarei così sicura. Ridley, seduta sul bordo del palco, sorrideva e agitava le braccia come una fan accanita. I suoi capelli ondeggiavano
nella brezza e le ciocche rosa e bionde si arricciavano sulle spalle. Poi sentii la ben nota melodia e dagli amplificatori uscì Sedici lune. Solo che questa volta non era uno dei pezzi delle demo di Link. Erano bravi, davvero. La gente impazzì. Finalmente gli studenti della Jackson avevano il loro ballo, dopo tutto. Anche se era su un prato, in mezzo alla proprietà dei Ravenwood, la più famigerata e temuta della contea di Gatlin. L'energia era stupefacente, montava come un'onda. Ballavano tutti e molti cantavano, il che era assurdo, perché nessuno aveva mai sentito quella canzone. Persino Lena dovette sorridere. Anche noi iniziammo a ondeggiare con gli altri, perché proprio non si poteva farne a meno. — Suonano la nostra canzone. — Lena trovò la mia mano. — Lo stavo pensando anch'io. — Lo so. — Intrecciò le dita alle mie e sentii brividi in tutto il corpo. — E sono piuttosto bravi — aggiunse, gridando sopra il rumore. — Piuttosto bravi? Sono fantastici! Della serie: il giorno più fantastico della vita di Link. — Sì, era assurdo. Gli Holy Rollers, Link, la festa. Ridley che dondolava sul bordo del palco, succhiando il suo lecca-lecca magico. Non era la cosa più assurda che avessi visto a quel giorno, ma quasi. Ballavo con Lena. Passarono cinque minuti, poi venticinque, poi cinquantacinque, senza che nessuno dei due se ne accorgesse o ci badasse. Avevamo fermato il tempo, così almeno ci pareva. Ci eravamo promessi un solo ballo, ma l'avremmo fatto durare il più a lungo possibile, nel caso fosse l'ultima cosa che ci restasse. Anche Larkin non aveva fretta. Era avvinghiato a Emily, si stavano baciando vicino a uno dei falò che qualcuno aveva acceso in vecchi bidoni di ferro. Emily aveva addosso il
giubbotto di Larkin e ogni tanto lui le scopriva una spalla e le leccava il collo o faceva qualche altra cosa disgustosa. Era proprio un serpente. — Larkin! Ha solo sedici anni! — gli gridò Lena dall'angolino dove stavamo ballando. Lui tirò fuori la lingua molto, molto più lunga di quella di un qualsiasi Mortale. Emily sembrò non accorgersene. Si staccò da Larkin e chiamò Savannah, che stava ballando con Charlotte ed Eden poco lontano. — Dai, ragazze. Portiamo il regalo a Lena. Savannah sfilò dalla sua borsettina argentata un pacchettino argentato legato con un nastrino argentato. — È solo un pensierino — annunciò, porgendolo a Lena. — Tutte le ragazze dovrebbero averne una — farfugliò Emily. — L'argentato sta bene con tutto. — Eden riusciva a malapena a trattenersi dalla voglia di strappare la carta con le proprie mani. — Grande quel che basta per il cellulare e il lucidalabbra. — Charlotte spinse il pacchetto verso Lena. — Dai! Aprilo! Lena prese il regalo e sorrise alle ragazze. — Savannah, Emily, Eden, Charlotte. Non avete la minima idea di cosa significhi questo per me. — La sfumatura ironica non venne colta. Io sapevo esattamente cosa fosse e sapevo esattamente cosa significasse per Lena. Stupide, elevate alla potenza dello stupido. Lei evitava di guardarmi negli occhi, o saremmo scoppiati a ridere entrambi. Mentre tornavamo tra i ragazzi che ballavano, buttò il pacchettino argentato nel fuoco. Le fiamme gialle e arancioni divorarono la carta e, poco dopo, della minuscola borsetta argentata non restavano che cenere e fumo.
Quando gli Holy Rollers si presero una pausa, Link venne da noi per bearsi nella gloria del suo debutto musicale. — Ve l'avevo detto che eravamo bravi. A un passo dal primo contratto. — Link mi tirò una gomitata nelle costole, come ai vecchi tempi. — Avevi ragione, Link. Siete davvero fantastici. — Questo bisognava concederglielo, pur considerando il supporto del lecca-lecca. Savannah Snow si avvicinò con passo felpato, probabilmente pronta a far scoppiare la bolla in cui si librava Link. — Ciao, Link. — Batté le ciglia con fare allusivo. — Ciao, Savannah. — Pensi di potermi concedere un ballo? — Era incredibile. Lo guardava come se fosse una vera rockstar. — Non so proprio cosa farò se non me lo concederai. — Gli regalò un altro dei suoi sorrisi da Regina della Neve. Mi pareva di essere intrappolato in uno dei sogni di Link, o di Ridley. E parlando del diavolo... — Giù le mani, Reginetta del Ballo. Questo stallone è mio. — E, per ribadire il concetto, Ridley si abbarbicò intorno a Link con le braccia e altre parti non trascurabili del suo corpo. — Mi dispiace, Savannah. Magari un'altra volta. — Link s'infilò le bacchette nella tasca posteriore e si avviò verso la pista con Ridley e i suoi balli vietati ai minori. Era sicuramente il momento più bello di tutta la sua vita. Sembrava lui, il festeggiato. Quando finì il pezzo, risalì sul palco. — Abbiamo un'ultima canzone, scritta da una mia cara amica per certe persone molto speciali della Jackson. Voi sapete chi siete. — Il palco si oscurò. Link aprì la zip della felpa e le luci si alzarono con una nota vibrante della chitarra. Indossava la maglietta dei Jackson
Angels con le maniche strappate. Era ridicolo, come nelle sue intenzioni. Se solo sua madre avesse potuto vederlo. Si avvicinò al microfono e iniziò a operare una sua piccola, personale magia. Angeli Caduti, tutti intorno a me L'infelicità genera infelicità Le vostre frecce spezzate mi uccidono. Perché non riuscite a vedere! Ciò che voi odiate diviene la vostra sorte Il vostro destino, Angeli Caduti. Era la canzone che Lena aveva scritto per Link. Mentre la musica saliva, gli Angeli della Jackson ondeggiavano al ritmo dell'inno a loro dedicato. Forse era tutta opera di Ridley, o forse no. Fatto sta che, quando la canzone finì e Link buttò nel fuoco la maglietta con le ali, qualcos'altro sembrò finire tra le fiamme insieme a essa. Tutto ciò che per mesi era sembrato difficile e insormontabile, in quel momento finì in fumo, in qualche modo. Gli Holy Rollers avevano smesso di suonare già da un po' e Ridley e Link erano spariti dalla circolazione, ma Savannah ed Emily continuavano a essere gentili con Lena e la squadra di basket aveva ripreso a parlare con me. Cercai un segno, un lecca-lecca, da qualche parte. Quell'unico filo che avrebbe disfatto l'intero maglione. Ma non c'era niente. Solo la luna, le stelle, la musica, la gente. Io e Lena non ballavamo più, ma restammo abbracciati. Ondeggiavamo piano, mentre nelle mie vene scorreva pulsando una corrente di calore e gelo ed elettricità e paura. Finché c'era la musica, noi due eravamo nella nostra piccola bolla. Non eravamo più noi due soli nella grotta privata sotto il piumino, ma era comunque tutto perfetto.
Lena si ritrasse delicatamente, come faceva sempre quando aveva qualcosa in mente, e mi guardò. Quasi mi vedesse per la prima volta. — Qualcosa non va? — Niente. Solo che... — Si mordicchiò nervosamente il labbro e fece un respiro profondo. — C'è qualcosa che vorrei dirti. Cercai di leggere i suoi pensieri, la sua espressione, qualsiasi segno. Perché avevo la sensazione di non essere più a Ravenwood in un campo, ma di essere tornato in un corridoio della Jackson prima delle vacanze di Natale. Avevo ancora le braccia intorno alla vita di Lena e dovetti resistere alla tentazione di stringerla più forte perché non mi scappasse di nuovo. — Di che si tratta? Puoi dirmi tutto. Lei mi appoggiò le mani al petto. — Nel caso succedesse qualcosa stanotte, voglio che tu sappia... Mi guardò negli occhi. Lo sentii, forte e chiaro, come se me lo avesse sussurrato all'orecchio. Ma significava molto più di quanto avrebbe potuto se lo avesse detto ad alta voce. Lena pronunciò quelle parole nell'unico modo che aveva sempre contato, tra me e lei. Nel modo in cui ci eravamo trovati sin dall'inizio. Nel modo in cui ci eravamo sempre ritrovati. Io ti amo, Ethan. Per un secondo non seppi cosa rispondere perché "ti amo" non mi sembrava abbastanza. Non esprimeva quello che avrei voluto dire - che lei mi aveva salvato da questo paese, dalla mia vita, da mio padre. Da me stesso. Come potevano due parole esprimere tutto? Non potevano, ma le pronunciai comunque, perché erano vere. Anch'io ti amo, L. Credo di averti sempre amata.
Lei si appoggiò di nuovo a me, con la testa sulla mia spalla. Sentii i suoi capelli caldi contro il mento. E sentii qualcos'altro. Quella parte di lei che pensavo di non poter mai raggiungere, quella parte che lei teneva al riparo da tutto il mondo. Sentii che si apriva, quel tanto che bastava per lasciarmi entrare. Mi stava donando una parte di sé, quell'unica parte che era solo sua. Volevo ricordare quell'emozione, quel momento, come un'istantanea da riguardare tutte le volte che avrei voluto. Volevo che fosse così per sempre. Ma "per sempre" durò esattamente altri cinque minuti.
11-02 La ragazza del lecca-lecca Io e Lena stavamo ancora ballando al ritmo della musica, quando arrivò di corsa Link, facendosi largo a spintoni tra la folla. — Ehi, amico, ti ho cercato dappertutto. — Si piegò, con le mani sulle ginocchia, per riprendere fiato. — Dov'è l'incendio? Link era visibilmente preoccupato, cosa del tutto insolita per uno che passava gran parte del suo tempo a pensare a come rimorchiare le ragazze e a non farsi scoprire da sua madre. — È tuo padre. È sul balcone dei Soldati Caduti, in pigiama. Secondo la Guida Turistica della Carolina del Sud, l'edificio intitolato ai Soldati Caduti era un museo della Guerra Civile. In realtà era solo la vecchia casa di Gaylon Evans, piena di cimeli della Guerra. Gaylon aveva lasciato la casa e la collezione alla figlia Vera che, essendo disposta a tutto pur di entrare nel DAR, aveva permesso alla signora Lincoln e alle sue tirapiedi di restaurarla per trasformarla nell'unico museo di Gatlin. — Fantastico. — Mettermi in imbarazzo a casa mia non bastava più. Adesso mio padre aveva deciso di avventurarsi fuori. Link era confuso. Probabilmente si aspettava che fossi sorpreso che mio padre andasse in giro per il paese in pigiama. Non sapeva che se ne stava così tutti i giorni. Mi resi conto in quel momento di quanto poco Link conoscesse della
mia vita, considerando che era il mio migliore amico. Il mio unico amico. — Ethan, è sul balcone, come se volesse saltare. Non riuscivo a muovermi. Sentivo le sue parole ma non riuscivo a reagire. Mi vergognavo di mio padre, ultimamente, ma per quanto fosse pazzo, gli volevo ancora bene. Non potevo perderlo. Era l'unico genitore che mi restava. Ethan, tutto okay! Guardai Lena, i suoi grandi occhi verdi pieni di preoccupazione. In quella stessa notte avrei potuto perdere anche lei. Avrei potuto perdere entrambi. — Ethan, mi senti? Ethan, devi andare. Andrà tutto bene. — Vieni, dai! — Link mi tirava. La rockstar era sparita. Restava il mio migliore amico che cercava di salvarmi da me stesso. Ma io non potevo abbandonare Lena. Non ti posso lasciare qui. Non da sola. Con la coda dell'occhio, notai Larkin venire verso di noi. Si era sganciato da Emily per un minuto. — Larkin! — Eccomi. Che succede? — Sembrava avere intuito che stesse succedendo qualcosa e sembrava addirittura preoccupato, cosa strana per uno come lui, la cui espressione abituale era di assoluto disinteresse. — Devi prendere Lena e riportarla in casa. — Perché? — Tu giurami che la riporterai in casa. — Ethan, io sono a posto. Vai, adesso! — Lena mi stava spingendo verso Link. Era spaventata quanto me. Ma io non mi mossi. — Va bene, amico. La riporto a casa immediatamente.
Link mi diede un ultimo strattone e ci tuffammo nella folla. Perché entrambi sapevamo che nel giro di pochi minuti avrei potuto diventare il ragazzo con i due genitori morti. Corremmo per i campi incolti di Ravenwood verso la strada e i Soldati Caduti. L'aria era già satura del fumo dei mortai, omaggio della Battaglia di Honey Hill, e ogni pochi secondi si sentiva una raffica di colpi di fucile. La battaglia notturna era in pieno svolgimento. Arrivammo ai margini della piantagione dei Ravenwood, dove iniziava Greenbrier. I nastri gialli che delimitavano la zona di sicurezza rilucevano nel buio. E se fosse già stato troppo tardi? L'edificio dei Soldati Caduti era immerso nel buio. Facemmo i gradini due alla volta, cercando di salire le quattro rampe di scale il più velocemente possibile. Quando arrivammo al terzo pianerottolo, d'istinto mi fermai. Link lo intuì, così come intuiva quando stavo per passargli la palla per arrivare al fischio finale, e si bloccò accanto a me. — È quassù. Non riuscivo a muovermi. Link me lo lesse in faccia. Sapeva cosa mi spaventava. Era stato accanto a me al funerale di mia madre, a distribuire garofani bianchi alla gente che li gettava sulla sua bara, mentre io e mio padre fissavamo la tomba come se fossimo morti anche noi. — E se... E se fosse già saltato? — Impossibile. Ho lasciato Rid con lui. Non glielo permetterebbe mai. — Mi mancò la terra sotto i piedi. Se usasse i suoi poteri su di te e ti dicesse di buttarti da una rupe... ti butteresti. Spinsi da parte Link, salii l'ultima rampa e radiografai il corridoio. Tutte le porte erano chiuse, tranne una. La luce della luna si specchiava sul pavimento di pino perfettamente verniciato.
— È lì dentro — mi disse Link. Ma l'avevo già capito. Quando entrai nella stanza, fu come tornare indietro nel tempo. Il DAR aveva fatto un gran bel lavoro. C'era un enorme camino di pietra, con una lunga mensola di legno su cui erano allineate delle candele affusolate, che bruciavano colando cera. Gli occhi dei Confederati caduti mi fissavano dai ritratti color seppia appesi al muro. Di fronte al caminetto, un antico letto a baldacchino. Ma qualcosa era fuori luogo e rovinava l'atmosfera di autenticità. Un odore muschiato e dolciastro. Troppo dolce. Un misto di pericolo e innocenza, anche se Ridley era tutt'altro che innocente. Le porte che davano sul balcone erano spalancate. Ridley era lì, con i capelli biondi mossi dal vento. I tendaggi pesanti e polverosi si gonfiavano verso l'interno, come spinti da una folata d'aria. Come se lui fosse già saltato. — L'ho trovato — annunciò Link, riprendendo fiato un'altra volta. — Lo vedo. Come ti butta, Paglia Corta? — Ridley mi fece un sorriso smaccatamente dolce. Mi fece venir voglia di sorridere e di vomitare nello stesso tempo. Mi avvicinai alle porte, lentamente, timoroso che mio padre non fosse più lì. Invece c'era. In piedi sul bordo stretto, dalla parte sbagliata della ringhiera, con il pigiama di flanella e i piedi nudi. — Papà! Non muoverti! Anatre. C'erano file di germani reali sul suo pigiama, il che sembrava un po' incongruo, considerando che da un momento all'altro avrebbe potuto volare giù. — Non ti avvicinare, Ethan. O salto. — Sembrava lucido e determinato, più presente di quanto non fosse da mesi. Sembrava quasi il mio papà di un tempo. Per questo capii che non era lui a parlare così, non lui da solo. Era opera di Ridley, il Potere di Persuasione in piena attività.
— Papà, tu non vuoi fare una cosa del genere. Lascia che ti aiuti. — Mi avvicinai di qualche passo. — Fermati dove sei! — gridò lui, protendendo una mano nel vuoto per ribadire il concetto. — Lei non vuole l'aiuto di Ethan, vero, Mitchell? Lei desidera solo un po' di pace. Vuole solo rivedere Lila. — Ridley era appoggiata al muro, il lecca-lecca in pugno. — Non pronunciare il nome di mia madre, strega! — Rid, che stai facendo? — Link era fermo sulla porta. — Resta fuori da questa storia, Rinko Mink. Non è roba per te. Mi piazzai di fronte a Ridley, mi frapposi tra lei e mio padre, come se il mio corpo potesse in qualche modo deviare il suo potere. — Ridley, perché lo fai? Lui non c'entra niente con Lena o con me. Se vuoi farmi del male, fallo. Ma lascia fuori mio padre. Lei rovesciò indietro la testa e rise, una risata sensuale e cattiva. — Che m'importa di farti del male, Paglia Corta? Io sto solo facendo il mio lavoro. Niente di personale. Mi si gelò il sangue. Il suo lavoro. — Stai facendo questo per Sarafine. — E dai, Paglia Corta! Cosa ti aspettavi? L'hai visto anche tu, come mi tratta mio zio. Tutta la famiglia, non mi dà certo alternative in questo momento. — Rid, cosa state dicendo? Chi è Sarafine? — Link si avvicinò a lei. Ridley lo guardò. Per un secondo mi parve di vedere qualcosa passare sul suo viso, solo un fremito, ma reale. Qualcosa che somigliava a un'emozione sincera. Ridley la scrollò via e, rapida com'era venuta, quell'espressione svanì. — Tu vuoi tornare alla festa, non è vero, Rinko Mink? La tua band si sta riscaldando per il
secondo tempo. Ricordati: registriamo la nuova demo. Andrò io stessa a portarla a qualche casa discografica di New York — sussurrò con una voce da gatta, fissandolo con intensità. Link sembrava incerto, come se non fosse proprio così sicuro di voler tornare alla festa. — Papà, ascoltami. Tu non vuoi farlo. È lei che ti controlla. Lei può influenzare le persone, è questo che fa. Mamma non vorrebbe mai che tu facessi una cosa del genere. — Lo guardai in cerca di un segno che le mie parole fossero state registrate, che lui mi stesse ascoltando. Ma niente. Mio padre continuava a fissare il buio. Si sentiva in lontananza il cozzare delle baionette e il grido di battaglia di uomini di mezza età. — Mitchell, lei non ha più nessun motivo per vivere. Ha perso sua moglie, non sa più scrivere, ed Ethan andrà al college fra un paio di anni. Perché non gli chiede della scatola da scarpe che tiene sotto il letto, piena di dépliant di università lontane? Mitchell, lei resterà completamente solo. — Sta' zitta! Ridley si girò verso di me, scartando un nuovo lecca-lecca alla ciliegia. — Mi dispiace, Paglia Corta. Mi dispiace davvero. Ma tutti hanno una parte da recitare, e questa è la mia. Tuo padre stanotte avrà un piccolo incidente. Proprio come tua madre. — Cos'hai detto? — Sapevo che Link stava parlando, ma non sentivo la sua voce. Non sentivo niente, tranne le ultime parole di Ridley, che si ripetevano all'infinito nella mia testa. Proprio come tua madre. — Tu hai ucciso mia madre? — Cominciai ad avanzare. Non m'importava dei suoi poteri. Se aveva ucciso mia madre... — Tranquillo, ragazzone. Non sono stata io. E successo un po' prima del mio tempo.
— Ethan, che diavolo sta succedendo? — Link era al mio fianco. — Lei non è quello che sembra. Lei è... — Non sapevo come fare a spiegarlo in modo che potesse capire. — E una Sirena. È una specie di strega. E ha controllato te proprio come adesso sta controllando mio padre. Link cominciò a ridere. — Una strega. Stai andando fuori di testa, amico. Io non le toglievo gli occhi di dosso. Lei sorrise e passò le dita tra i capelli di Link. — Dai, baby, lo sai che sei innamorato di una cattiva ragazza. Non avevo idea di cosa fosse capace, ma dopo la sua piccola prova di forza a Ravenwood, sapevo che avrebbe potuto ucciderci. Non avrei mai dovuto trattarla come se fosse un'innocua ragazza da feste. C'ero dentro fino al collo. Cominciavo a rendermene conto solo adesso. Link spostava lo sguardo da lei a me. Non sapeva cosa credere. — Non sto scherzando, Link. Avrei dovuto dirtelo prima, ma giuro che è la verità. Per quale altro motivo dovrebbe cercare di uccidere mio padre? Lui cominciò a camminare avanti e indietro. Non mi credeva. Probabilmente pensava che fossi diventato pazzo. Anche a me sembrava una follia, mentre lo dicevo. — Ridley, è vero? Hai usato qualche sorta di potere su di me per tutto questo tempo? — Se vogliamo essere pignoli. Mio padre staccò una mano dalla ringhiera. Distese il braccio, come se volesse bilanciarsi su una corda da equilibrista. — Papà, non farlo!
— Rid, non farlo. — Link si stava avvicinando a lei, lentamente. Sentivo la catenella del portafogli che tintinnava. — Non hai sentito cos'ha detto ii tuo amico? Sono una strega. Una strega cattiva. — Ridley si tolse gli occhiali scuri e rivelò gli occhi dorati da gatto. Link restò senza fiato, come se la vedesse ora per la prima volta. Ma fu solo un secondo. — Forse sarai una strega, ma non sei cattiva. Io lo so. Noi due abbiamo passato tanto tempo insieme. Abbiamo condiviso delle cose. — Faceva parte del piano, stallone. Mi serviva un aggancio per restare vicino a Lena. Link restò di sale. Qualsiasi cosa gli avesse fatto Ridley, qualsiasi fosse stata la sua Magia, i sentimenti per lei erano più grandi. — Vuoi dirmi che era tutto finto? Non ci credo. — Puoi credere quello che vuoi, è la verità. O meglio, è quanto più vicino alla verità io possa spingermi. Vidi mio padre spostare il peso sull'altro piede, il brac-ciò libero ancora teso di lato, dondolante. Sembrava che stesse provando le ali, per vedere se poteva decollare. Poco lontano, una palla di cannone colpì il terreno sollevando una pioggia di polvere. — E tutto quello che mi hai raccontato? Di te e di Lena, di come siete cresciute insieme? Come due sorelle? Perché adesso vorresti farle del male? Qualcosa passò sul viso di Ridley. Non ne ero sicuro, ma sembrava quasi rimpianto. Era possibile? — Non dipende da me. Non sono io quella che decide. Come ho detto, questo è il mio lavoro. Tieni Ethan lontano da Lena. Non ho niente contro questo vecchio, ma la sua mente è debole. Sai, gli manca qualche rotella. — Ridley leccò il suo lecca-lecca. — Una preda facile. Tieni Ethan lontano da Lena.
Tutta questa faccenda era un diversivo per separarci! Sentii la voce di Arelia nitidissima, come se fosse ancora inginocchiata accanto a me. Non è la casa a proteggere Lena. Nessun Mago può frapporsi a loro. Come avevo potuto essere così stupido? Era irrilevante che io avessi dei poteri o meno. Non ero io a fare la differenza. Eravamo noi. Il Potere era tra noi due, c'era sempre stato. Incontrarsi sulla Route 9 sotto la pioggia. Svoltare dalla stessa parte al bivio della strada. Non serviva un Incantesimo Vincolante per tenerci insieme. Ora che erano riusciti a separarci, io non avevo alcun Potere. E Lena era da sola, la notte in cui più aveva bisogno di me. Non riuscivo a pensare con lucidità. Non c'era più tempo e non volevo perdere un'altra persona che amavo. Corsi verso mio padre e, anche se erano solo pochi passi, mi parve di guadare le sabbie mobili. Vidi Ridley avanzare, i capelli arricciati dal vento, come la testa di serpenti di Medusa. Vidi Link farsi avanti e prenderla per le spalle. — Rid, non farlo. Per una frazione di secondo, non seppi cosa sarebbe successo. Vedevo tutto al rallentatore. Mio padre si girò per guardarmi. Vidi che cominciava a staccare l'altra mano dalla ringhiera. Vidi le ciocche bionde e rosa di Ridley che si arricciavano. E vidi Link davanti a lei, che la fissava negli occhi dorati sussurrandole qualcosa che non riuscii a sentire. Lei lo guardò e, senza una parola, lanciò il lecca-lecca oltre la ringhiera. Lo vidi disegnare un arco nel vuoto e cadere per terra, esplodendo come una granata. Era finita.
Con la stessa rapidità con cui si era allontanato dalla ringhiera, mio padre vi si aggrappò. Lo presi per le spalle e lo tirai dentro, sul balcone. Si accasciò a terra e rimase a guardarmi come un bambino spaventato. — Grazie, Ridley. Qualsiasi cosa fosse. Grazie. — Non voglio la tua riconoscenza — mi derise lei, staccandosi da Link e aggiustandosi la spallina del top. — Non ho fatto un favore a nessuno di voi due. È solo che non mi andava di ucciderlo. Oggi. Cercò di essere minacciosa, ma finì per sembrare solo infantile. Rigirò tra le dita una ciocca rosa. — Anche se qualcuno non ne sarà contento. — Non aveva bisogno di specificare chi, ma potei leggere la paura nei suoi occhi. Per un secondo, capii quanto di lei fosse solo una messinscena. Fumo e specchi. Nonostante tutto, anche mentre cercavo di rimettere in piedi mio padre, mi dispiaceva per lei. Ridley poteva avere tutti gli uomini del pianeta e tuttavia riuscivo a vedere quanto fosse sola. Non aveva nemmeno un decimo della forza di Lena, della sua forza interiore. Lena. Lena, tutto okay! Io sto bene. Qualcosa non va? Guardai mio padre. Non riusciva a tenere gli occhi aperti e si reggeva con difficoltà. No. Sei con Larkin? Sì. Stiamo tornando verso Ravenwood. Tuo padre sta bene? Sta bene. Ti spiego tutto quando arrivo lì. Passai un braccio sotto l'ascella di mio padre, mentre Link lo prendeva dall'altra parte. Resta con Larkin e torna in casa con la tua famiglia. Da sola non sei al sicuro.
Prima che muovessimo un passo, Ridley ci passò accanto con calma e rientrò nella stanza valicando la soglia con i suoi dieci chilometri di gambe. — Scusate, ragazzi. Devo filare. Forse tornerò a New York per un po', terrò un profilo basso. Non sarà male. — Scrollò le spalle. Anche se era un mostro, Link la seguì con lo sguardo mentre si allontanava. — Ehi, Rid? Lei si fermò e si girò per guardarlo, quasi con malinconia. Come se non ci potesse fare niente: lei era così, come uno squalo era uno squalo. Ma se solo avesse potuto... — Sì, Rinko Mink? — Tu non sei tutta cattiva. Lei lo guardò fisso e quasi sorrise. — Sai come si dice. Forse sono loro che mi disegnano così.
11-02 Riunione di famiglia Consegnato mio padre alle cure dei paramedici della rievocazione storica, tornai alla festa come una furia. Mi feci largo a spintoni tra le ragazze della Jackson, che si erano liberate delle giacche e avevano un'aria volgare in top e micromagliette, mentre ancheggiavano al ritmo della musica degli Holy Rollers. Avevano ripreso a suonare senza Link che, onore al merito, non mi mollava. C'era molto rumore: quello di una rock band dal vivo, più quello di una battaglia dal vivo. Tanto rumore che quasi non sentii Larkin che mi chiamava. — Ethan, di qua! — Era in mezzo agli alberi, oltre il nastro giallo catarifrangente che separava la zona di sicurezza dalla zona del puoi-beccarti-una-pallottola-nel-didietro-se-oltrepassiquesta-linea. Che ci faceva nel bosco, fuori dalla zona di sicurezza? Perché non era in casa? Lo salutai con la mano e Larkin mi fece cenno di raggiungerlo, poi sparì dietro l'altura. In altre circostanze, scavalcare il nastro giallo sarebbe stata una scelta difficile, ma non quella sera. Non avevo scelta, dovevo seguire Larkin. Link era con me, inciampava ma mi stava dietro, come ai vecchi tempi. — Ehi, Ethan. — Sì? — A proposito di Rid... Avrei dovuto darti retta.
— Nessun problema, amico. Non potevi farne a meno. E io avrei dovuto dirti tutto. — Fatica sprecata. Non ti avrei mai creduto. L'eco degli spari risuonò sopra le nostre teste. D'istinto, ci abbassammo entrambi. — Speriamo che sparino a salve — commentò Link nervosamente. — Sarebbe ridicolo se fosse proprio mio padre a spararmi in mezzo al campo, no? — Be', con la mia fortuna, non mi sorprenderebbe se sparasse anche a me. Arrivati in cima all'altura, apparvero davanti a noi macchie di arbusti, querce e il fumo del campo di battaglia. — Siamo qui! — ci chiamò Larkin, dall'altra parte della macchia di arbusti. Potevo solo pensare che parlasse di sé e di Lena, così corsi ancora più veloce. Come se la vita di Lena dipendesse da questo. E per quel che ne sapevo, non era escluso. Mi resi conto solo allora di dove ci trovassimo. Vidi l'arco che si apriva sul giardino di Greenbrier. Larkin e Lena erano nella radura vicina agli alberi di limoni, nello stesso luogo dove poche settimane prima avevamo dissotterrato la bara di Genevieve. Alle loro spalle si profilò una figura, che emerse dall'ombra ed entrò nella luce lunare. Era buio, ma la luna era piena ed era proprio sopra di noi. Sbattei le palpebre. Era... era... — Mamma, che cavolo ci fai qui? — Link era confuso. Perché era proprio sua madre quella che avevamo davanti: la signora Lincoln, il mio incubo peggiore, o almeno uno dei miei dieci incubi peggiori. Che strano. Sembrava allo stesso tempo del tutto fuori posto e perfettamente a proprio agio, dipendeva del punto di vista. Indossava una quantità ridicola di
gonne e quello stupido vestito di cotonina che le strizzava la vita in modo esagerato. Si trovava esattamente sopra la tomba di Genevieve. — Giovanotto, sai bene come la penso sulle parolacce. Link si sfregò la testa. Non aveva alcun senso. Non per lui, non per me. Lena, che sta succedendo? Lena? Nessuna risposta. Qualcosa non quadrava. — Signora Lincoln, sta bene? — Una meraviglia, Ethan. Non è una battaglia meravigliosa? Ed è anche il compleanno di Lena, mi si dice. Vi stavamo aspettando. Uno di voi due, almeno. Link si avvicinò. — Be', adesso sono qui, mamma. Ti porto a casa. Non dovresti stare fuori dalla zona di sicurezza. Rischi di farti staccare la testa da una palla di cannone. Sai che papà è un pessimo tiratore. Presi Link per un braccio e lo tirai indietro. C'era qualcosa che non quadrava, qualcosa nel modo in cui sua madre ci sorrideva, qualcosa nell'espressione di panico sul viso di Lena. Cosa sta succedendo? Lena! Perché non mi rispondeva? La vidi tirare fuori da sotto la felpa l'anello di mia madre e stringere la catenina. Vidi le sue labbra muoversi nel buio. La sentii a malapena, solo un sussurro, in un angolo nella mente. Ethan, scappa! Va' a chiamare zio Macon! Corri! Ma non riuscivo a muovermi. Non potevo lasciarla. — Link, angelo mio, sei un ragazzo così premuroso. Link? Non poteva essere la signora Lincoln, la donna che ci stava davanti. Era impossibile. Non avrebbe chiamato "Link" suo figlio Wesley Jefferson Lincoln più di quanto avrebbe potuto correre nuda per le strade
di Gatlin. «Perché tu debba usare quel ridicolo soprannome, quando hai un nome dignitoso, proprio non lo capisco» ripeteva sempre se uno di noi telefonava a casa loro e chiedeva di Link. Lui sentì la mia mano sul braccio e si fermò. Cominciava a dubitare anche lui. Glielo leggevo in faccia. — Mamma? — Ethan, vattene di qui! Larkin, Link, qualcuno vada a chiamare zio Macon! — Lena strillava. Non riusciva a calmarsi. Non l'avevo mai vista così spaventata. Corsi da lei. Sentii il boato di una cannonata. Poi un'improvvisa raffica di fucile. Sbattei con la schiena contro qualcosa di duro. Sbattei anche la testa e per un attimo il mondo si sfocò. — Ethan! — Sentivo la voce di Lena ma non riuscivo a muovermi. Mi avevano sparato. Ne ero sicuro. Mi sforzai di restare cosciente. Qualche secondo dopo, i miei occhi tornarono a mettere a fuoco la scena. Ero a terra, con la schiena contro una quercia imponente. Evidentemente, il colpo di fucile mi aveva scaraventato indietro, addosso all'albero. Mi tastai il corpo in cerca della ferita, ma non trovai traccia di sangue. Non trovai il punto in cui il proiettile era entrato. Link era a pochi passi di distanza, anche lui addosso a un albero. Sembrava stordito quanto me. Mi rimisi in piedi e mi avvicinai a Lena barcollando, ma la mia faccia sbatté contro qualcosa e ripiombai a terra. Era la stessa sensazione di quando, a casa delle Sorelle, ero finito contro il vetro di una porta scorrevole. Non mi avevano sparato. Era qualcosa di diverso. Ero stato colpito da un'arma di altra natura. — Ethan! — Lena strillava. Mi alzai di nuovo e avanzai lentamente. C'era davvero una sorta di barriera di vetro, simile a un muro invisibile che
circondava l'albero e me. Picchiai contro quel muro con il pugno, ma l'impatto non produsse alcun suono. Battei a ripetizione con il palmo delle mani. Che altro potevo fare? In quel momento vidi che anche Link picchiava i pugni contro la sua gabbia invisibile. La signora Lincoln mi sorrise, un sorriso mille volte più malvagio di quello che avrebbe potuto fare Ridley in una delle sue giornate migliori. — Liberali! Liberali! — gridava Lena. Di punto in bianco, il cielo si aprì e la pioggia si rovesciò letteralmente dalle nuvole, come gettata giù da un secchio. Lena. I suoi capelli ondeggiavano selvaggiamente. La pioggia si trasformò in aghi gelati e cadde di traverso, attaccando la Lincoln da ogni lato. In pochi secondi ci ritrovammo fradici fino alle ossa. Tutti tranne lei. La signora Lincoln, o chiunque fosse quella donna, sorrideva. C'era qualcosa in quel sorriso che sembrava quasi orgoglio. — Non è mia intenzione far del male ai ragazzi. Voglio solo avere un po' di tempo per parlare con te. — Il tuono rombò nel cielo sopra di lei. — Ero ansiosa di vedere qualcuno dei tuoi talenti. Quanto mi è dispiaciuto non poter essere presente per aiutarti a coltivarli. — Taci, strega. — Lena era torva. Teneva gli occhi fissi su di lei. Non li avevo mai visti così, sembravano d'acciaio. Duri come la pietra. Risoluti. Colmi di odio e di rabbia. Sembrava pronta a staccarle la testa, e aveva tutta l'aria di poterlo fare. Finalmente capii cosa avesse angosciato Lena per tutto l'anno. Lena aveva il potere di distruggere. Io avevo visto solo il suo potere di amare. Scoprendo di possedere entrambi, chi poteva capire che uso farne? La signora Lincoln continuò. — Aspetta di capire cosa sei in grado di fare veramente. Come puoi manipolare gli elementi. È
quello il vero talento di ogni Naturale, una cosa che abbiamo in comune. Una cosa che avevano in comune. La Lincoln guardò il cielo. La pioggia le cadeva intorno, come se fosse riparata da un ombrello aperto. — Adesso riesci a creare degli acquazzoni, ma presto sarai in grado di controllare anche il fuoco. Lascia che ti insegni. Sapessi quanto mi piace giocare con il fuoco. Acquazzoni? Stava scherzando? Eravamo in mezzo a un monsone. La signora Lincoln alzò la mano aperta e un fulmine squarciò le nubi, rendendo elettrico il cielo. Sollevò tre dita. I fulmini si scatenarono, ubbidendo a ciascuna delle sue unghie laccate. Uno. Il primo fulmine si scaricò a terra, sollevando la polvere a mezzo metro da dove Link era intrappolato. Due. Il secondo fulmine schiantò la quercia alle mie spalle, spezzando in due il tronco. Tre. Il terzo si diresse verso Lena, che reagì semplicemente alzando una mano aperta. La scarica elettrica rimbalzò contro il suo palmo ed esplose ai piedi della Lincoln. L'erba intorno a lei cominciò a fumare e a bruciare. La Lincoln rise, agitò la mano e il fuoco tra l'erba si spense. Guardò Lena con un lampo di orgoglio. — Niente male. Mi fa piacere vedere che la mela non cade mai troppo lontana dall'albero. Non poteva essere vero. Lena la guardò con odio e alzò entrambi i palmi delle mani, in un gesto di protezione. — Ah, sì? E cosa si dice della mela marcia? — Niente. Nessuno è mai vissuto abbastanza da dire niente. — Poi la signora Lincoln, con il suo vestito di cotonina, i chilometri di sottogonne e i capelli intrecciati sulla nuca, si girò verso Link e me. Ci guardò con occhi dorati e fiammeggianti.
— Mi dispiace tanto, Ethan. Speravo che il nostro primo incontro sarebbe accaduto in circostanze diverse. Non succede tutti i giorni di incontrare il primo fidanzato della propria figlia. E, rivolta a Lena, aggiunse: — O di incontrare la propria figlia, d'altronde. Avevo ragione. Avevo capito con chi avevamo a che fare. Sarafine. Un attimo dopo, la faccia della Lincoln, il suo vestito e tutto il suo corpo cominciarono letteralmente ad aprirsi al centro. La pelle cadde ai due lati come il sacchetto accartocciato di una merendina. Il suo corpo si aprì a metà e si afflosciò a terra, come un cappotto fatto scivolare giù dalle spalle. Sotto, c'era qualcun altro. — Io non ho una madre — gridò Lena. Sarafine fece una smorfia, un tentativo di assumere un'espressione ferita, perché lei era davvero la madre di Lena. Era un'innegabile verità genetica. Sarafine aveva gli stessi capelli neri, lunghi e ricci. Ma se Lena era spaventosamente bella, Sarafine era semplicemente spaventosa. Come Lena, i tratti del suo viso erano eleganti, ma invece dei begli occhi verdi della figlia, aveva gli stessi occhi gialli e fiammeggianti di Ridley e di Genevieve. E gli occhi facevano la differenza. Sarafine indossava un vestito di velluto verde scuro con il bustino stretto, un incrocio tra il moderno e il gotico di fine Ottocento, con alti stivali da motociclista. Uscì letteralmente dal corpo della Lincoln, che in pochi secondi si ricompose come se qualcuno avesse ricucito lo strappo, e la vera signora Lincoln rimase accasciata sull'erba, con la gonna rovesciata e tenuta sollevata dai cerchi, e le sottogonne e la pancera in bella vista. Link era sotto shock.
Sarafine si raddrizzò, scrollandosi di dosso quel peso e rabbrividendo. — Mortali. Quel corpo era davvero intollerabile, così goffo, così scomodo. Sempre a riempirsi la bocca ogni cinque minuti. Che creature disgustose! — Mamma! Mamma, svegliati! — Link picchiava i pugni contro quello che era chiaramente una sorta di campo magnetico. Non importava che fosse un drago, la signora Lincoln era pur sempre il drago di Link e doveva essere terribile vederla buttata via come un sacchetto d'immondizia umana senza alcuna rilevanza. Sarafine fece un gesto con la mano. La bocca di Link continuò a muoversi, ma non ne uscì più alcun suono. — Molto meglio. Sei fortunato che non abbia dovuto passare tutto il mio tempo nel corpo di tua madre, in questi ultimi mesi. Altrimenti saresti già morto. Non ti dico quante volte sono stata sul punto di ammazzarti, a cena, per la noia di sentirti blaterare all'infinito della tua stupida band. Ora capivo tutto. La crociata contro Lena, l'assemblea del comitato disciplinare, le bugie sul fascicolo scolastico di Lena, anche gli strani biscotti al cioccolato di Halloween. Per quanto tempo Sarafine si era nascosta nella signora Lincon? Solo ora comprendevo veramente con chi avessimo a che fare. La Maga delle Tenebre più nera che esista attualmente. Ridley al confronto sembrava innocua. Per forza Lena aveva temuto tanto questo momento. Sarafine tornò a guardarla. — Puoi anche pensare di non avere una madre, Lena. Ma se è vero, è solo perché tua nonna e tuo zio ti hanno portata via da me. Io ti ho sempre voluto bene. — Era sconcertante il modo in cui Sarafine si muoveva tra emozioni così diverse, dalla sincerità e dal rimpianto al disgusto e al disprezzo, ogni emozione vuota come la precedente.
Gli occhi di Lena erano pieni di amarezza. — È il motivo per cui stai cercando di uccidermi, mamma?. Sarafine cercò di mostrarsi preoccupata, o forse sorpresa. Era difficile capirlo, perché la sua espressione era così innaturale, così forzata. — È questo che ti hanno raccontato? Io stavo solo cercando di stabilire un contatto con te... di parlarti. Se non fosse stato per tutti i loro Vincoli, i miei tentativi non ti avrebbero mai messa in pericolo. E loro lo sapevano. Naturalmente posso capire la loro preoccupazione. Io sono una Maga delle Tenebre, una Cataclismica. Ma, Lena, sai benissimo anche tu che non ho avuto scelta. E stato deciso per me. E questo non cambia ciò che provo per te, la mia unica figlia. — Bugiarda! — sibilò Lena. Ma sembrava incerta, anche mentre lo diceva, come se non fosse sicura a cosa credere. Controllai l'ora sul cellulare. Le 9:59. Due ore a mezzanotte. Link si accasciò contro il tronco dell'albero, con la testa tra le mani. I miei occhi continuavano a tornare su sua madre, esanime sull'erba. Anche Lena la stava guardando. — La signora Lincoln non è... Non lo è, vero? — Dovevo sapere, per il bene di Link. Sarafine tentò un'espressione di compassione. Ma si vedeva che stava perdendo interesse per me e per Link, e non era un buon segno. — Tornerà presto alle sue precedenti e sgradevoli condizioni. Donna nauseante. Non ho nessun interesse né per lei né per il ragazzo. Stavo solo cercando di mostrare a mia figlia la vera natura dei Mortali. Con che facilità siano influenzabili e quanto siano vendicativi. — Si rivolse a Lena. — Sono bastate poche parole della Lincoln e tutto il paese si è schierato contro di te. Tu non appartieni al loro mondo. Tu appartieni a me.
Sarafine si voltò verso Larkin. — A proposito di condizioni sgradevoli. Larkin, perché non ci mostri i tuoi begli occhi gialli? Larkin sorrise e strizzò gli occhi, allungando le braccia dietro la testa come se si stesse stiracchiando dopo una lunga dormita. Ma quando riaprì le palpebre, qualcosa era diverso. Batteva le ciglia in fretta e a ogni battito gli occhi mutavano. Quasi si vedevano le molecole ridisporsi. Larkin si trasformò e al suo posto comparve un groviglio di serpenti che cominciarono ad avvolgersi a spirale, a strisciare l'uno sull'altro, finché Larkin non riemerse di nuovo dal groviglio fremente. Protese le sue braccia a serpente a sonagli che si ritrassero sibilando nelle maniche del giubbotto di pelle e diventarono mani. Poi riaprì gli occhi. Ma invece delle iridi verdi che ero abituato a vedere, Larkin ci fissò con gli stessi occhi dorati di Sarafine e Ridley. — Il verde non è mai stato il mio colore. Uno dei vantaggi di essere un Illusionista. — Larkin? — Il mio cuore sprofondò. Era uno di loro, un Mago delle Tenebre. Le cose erano messe peggio di quel che pensassi. — Larkin, cosa sei diventato? — La confusione di Lena durò solo per un secondo. — Perché? Ma la risposta ci stava guardando con occhi dorati. — Perché no? — Perché no? Mah, non saprei, che ne dici di un po' di lealtà verso la famiglia? Larkin girò la testa, mentre la grossa catena d'oro che portava al collo si trasformava in un serpente dalla lingua guizzante sulla sua guancia. — La lealtà non fa proprio per me. — Tu hai tradito tutti, compresa tua madre. Come riesci a vivere con te stesso?
Lui tirò fuori la lingua. Il serpente gli strisciò dentro la bocca e scomparve. Larkin lo mandò giù. — È molto più divertente essere Tenebre che Luce, cugina. Te ne accorgerai. Noi siamo ciò che siamo. Io ero destinato a essere questo. Non c'è alcuna ragione per opporsi. — La sua lingua guizzò, ora biforcuta come quella del rettile che aveva ingoiato. — Non capisco perché sei tanto agitata. Guarda Ridley. Lei si sta divertendo un sacco. — Sei un traditore! — Lena stava perdendo il controllo. Il tuono rombò sulla sua testa e la pioggia tornò a scrosciare con forza. — Non è l'unico traditore, Lena. — Sarafine si avvicinò a lei di qualche passo. — Di chi parli? — Del tuo amato zio Macon. — La sua voce era amara. Si capiva che Sarafine non aveva perdonato a Macon di averle rubato la figlia. — Tu menti. — È lui che ti ha mentito per tutti questi anni. Ti ha lasciato credere che il tuo destino fosse predeterminato... che tu non avessi scelta. Che stanotte, nel giorno del tuo sedicesimo compleanno, saresti stata Reclamata dalla Luce o dalle Tenebre. Lena scosse la testa con ostinazione. Alzò le mani. Il tuono rombò e la pioggia si riversò sulla terra in scrosci intensi e torrentizi. Dovette gridare per farsi sentire. — È questo che succede. È successo a Ridley, a Reece, a Larkin. — Hai ragione, ma tu sei diversa. Stanotte tu non verrai Reclamata. Sarai tu a Reclamare te stessa. Le parole rimasero sospese nell'aria. Reclamare te stessa. Come se in sé avessero il potere di fermare il tempo.
Il viso di Lena era color cenere. Per un secondo pensai che sarebbe svenuta. — Cos'hai detto? — sussurrò. — Tu hai una scelta. E sono sicura che tuo zio non te l'abbia mai detto. — È impossibile. — La voce di Lena era quasi incomprensibile, nell'urlo del vento. — Una scelta che ti è concessa perché sei mia figlia, la seconda Naturale dei Duchannes. Ora sono una Cataclismica, ma sono stata la prima Naturale nata nella nostra famiglia. Sarafine tacque per un attimo, poi recitò: — La Prima sarà Nera / Ma la Seconda potrà scegliere se mutare il suo destino. — Non capisco — sussurrò Lena. Le cedettero le gambe e cadde in ginocchio nel fango e nell'erba alta, con i lunghi capelli neri gocciolanti intorno al viso. — Tu hai sempre avuto una scelta. E tuo zio lo ha sempre saputo. — Io non ti credo! — Lena gettò in alto le braccia. Zolle di terra si strapparono dal terreno che le separava, mulinando nella tempesta. Mi protessi gli occhi con le mani dalla terra e dai sassi che ci volavano addosso da ogni direzione. Cercai di gridare più forte del fragore della tempesta, ma Lena riusciva appena a sentirmi. — Lena! Non ascoltarla! Lei è Tenebre. Non le importa di nessuno. Me lo hai detto tu stessa. — E perché zio Macon avrebbe dovuto nascondermi la verità? — Lena mi guardò dritto in faccia, come se fossi l'unico a sapere la risposta. Ma io non la sapevo. Non c'era niente che potessi dire. Lei picchiò per terra con un piede e il suolo cominciò a tremare e a muoversi come un'onda sotto i miei piedi. Per la prima volta nella storia, Gatlin veniva colpita da un terremoto. Sarafine sorrise. Sapeva che Lena stava perdendo il controllo,
sapeva di essere vicina alla vittoria. Una tempesta di fulmini si scatenò nel cielo. — Ora basta, Sarafine! — La voce di Macon echeggiò nel campo. Era apparso dal nulla. — Lascia stare mia nipote. Quella notte, alla luce della luna, Macon Ravenwood era diverso. Meno uomo e più ciò che era veramente. Qualcosa di differente. Il suo volto era più giovane, più magro. Pronto alla battaglia. — Stai parlando di mia figlia? Della figlia che mi hai rubato? — Sarafine si raddrizzò e cominciò a piegare le dita, simile a un soldato che controlla il proprio arsenale prima della battaglia. — Come se Lena significasse qualcosa, per te — commentò Macon con calma. Si lisciò la giacca, impeccabile come sempre. Boo saltò fuori dai cespugli alle sue spalle, quasi avesse dovuto correre per raggiungerlo. Quella notte, anche il cane si mostrava per ciò che era veramente: un enorme lupo. — Macon. Sono onorata. Mi dicono però che mi sono persa la festa. Il sedicesimo compleanno di mia figlia. Ma va bene lo stesso. C'è sempre la Reclamazione, stanotte. Abbiamo ancora un paio d'ore e non me le perderei per niente al mondo. — Allora suppongo che sarai molto delusa, visto che tu non sei invitata. — Peccato. Perché ho invitato qualcuno a mia volta, e muore dalla voglia di vederti. — Sarafine sorrise e mosse le dita. Con la stessa rapidità con cui Macon si era materializzato, apparve un altro uomo, appoggiato al tronco di un salice piangente dove un momento prima non c'era nessuno. — Hunting? Ma dove ti ha pescato? L'uomo somigliava a Macon, ma era più alto e un po' più giovane, con i capelli lustri e nerissimi e la stessa carnagione pallida. Se Macon ricordava un gentiluomo del Sud di un'epoca
passata, quest'uomo era aggressivamente alla moda. Vestito di nero, in lupetto, jeans, bomber di pelle, somigliava a un attore sulla copertina di un tabloid, non al Cary Grant di Macon. Ma una cosa era evidente. Anche lui era un Incubus e non della specie buona, sempre che esistesse. Qualunque cosa fosse Macon, Hunting era diverso da lui. Hunting fece una smorfia che doveva essere un sorriso e cominciò a girare intorno a Macon. — Fratello. È passato tanto tempo. Macon non ricambiò il sorriso. — Non abbastanza. Non mi sorprende che te la intendi con una come quella. Hunting rise, una risata oscena e sguaiata. — Con chi ti aspettavi che me la intendessi? Con un branco di Maghi della Luce, come hai fatto tu? È ridicolo. Come è ridicola la tua idea di allontanarti da ciò che sei. Dall'eredità della nostra famiglia. — Io ho fatto una scelta, Hunting. — Una scelta? È così che la chiami? — Hunting rise di nuovo, stringendo il cerchio intorno a Macon. — È piuttosto una fantasia. Tu non puoi scegliere quello che sei, fratello. Tu sei un Incubus. E che tu scelga di nutrirti di sangue o meno, resterai sempre una Creatura delle Tenebre. — Zio Macon, è vero quello che ha detto Sarafine? — Lena non aveva nessun interesse per la piccola riunione familiare tra Macon e Hunting. Sarafine rise, stridula. — Per una volta nella vita, Macon, di' la verità alla ragazza. Macon la fissò, ostinato. — Lena, non è così semplice. — Ma è vero? Posso scegliere? — I suoi capelli gocciolavano, ingarbugliati in riccioli bagnati. Ovviamente, Macon e Hunting erano perfettamente asciutti. Hunting sorrise e si accese una sigaretta. Si stava godendo la scena. — Zio Macon. È vero? — ripetè Lena con voce implorante.
Macon la guardò, esasperato, poi distolse lo sguardo. — Sì, hai una scelta, Lena. Una scelta complicata. Una scelta che reca con sé gravi conseguenze. Di colpo la pioggia cessò. L'aria si fece perfettamente immobile. Se era un uragano, noi eravamo nell'occhio. Lena era scossa da emozioni contrastanti. Sapevo cosa provava, pur senza sentire la sua voce nella mia testa. Felicità, perché finalmente aveva ottenuto l'unica cosa che aveva sempre desiderato, la possibilità di scegliere il proprio destino. E rabbia, perché aveva perso l'unica persona di cui si era sempre fidata. Lena guardava Macon con occhi nuovi. Vedevo le Tenebre salire sul suo viso. — Perché non me l'hai detto? Ho passato tutta la vita nel terrore di entrare nelle Tenebre. — Ci fu un altro rombo di tuono e la pioggia ricominciò a cadere, sommessa come le lacrime. Ma Lena non piangeva, era furente. — Tu hai una scelta, Lena. Ma ci sono delle conseguenze. Conseguenze che da bambina non potevi comprendere. Nemmeno adesso sei in grado di capirle fino in fondo. Eppure ho passato ogni giorno della mia vita a pensarci, da prima ancora che tu nascessi. E, come sa bene la tua cara madie, le condizioni di questo patto furono stabilite molto tempo fa. — Che tipo di conseguenze? — Lena guardò Sarafine con scetticismo. Con cautela. Come se la sua mente si stesse aprendo a nuove possibilità. Immaginai cosa stesse pensando. Se non poteva fidarsi di Macon - se Macon si era tenuto questi segreti per tutto questo tempo - forse allora sua madre stava dicendo la verità. Dovevo fare in modo che mi sentisse. Non ascoltarla! Lena! Non puoi fidarti di lei...
Ma non c'era niente. Il nostro contatto era interrotto, in presenza di Sarafine. Era come se avesse tagliato la linea telefonica che ci connetteva. — Lena, tu non puoi capire la scelta che ti verrà imposta. Cosa c'è in gioco. La pioggia si tramutò da un pianto sommesso a uno scroscio urlante. — Come se tu potessi ancora fidarti di lui. Dopo mille bugie. — Sarafine lanciò un'occhiata feroce a Macon e si rivolse a Lena. — Vorrei che avessimo più tempo per parlare, Lena. Ma tu devi fare la Scelta e io sono Vincolata a spiegare qual è la posta in gioco. Ci sono davvero delle conseguenze: tuo zio non ti ha mentito, su questo. — Dopo un breve silenzio, spiegò. — Se scegli di entrare nelle Tenebre, tutti i Maghi della Luce della nostra famiglia moriranno. Lena impallidì. — E perché mai dovrei farlo? — Perché, se scegli di entrare nella Luce, tutti i Maghi delle Tenebre e tutti i Lilum della nostra famiglia moriranno. — Sarafine guardò Macon. — E intendo dire tutti. Tuo zio, l'uomo che è stato come un padre per te, cesserà di esistere. E sarai tu a distruggerlo. Macon scomparve e in un lampo si materializzò di nuovo davanti a Lena. — Ascoltami. Io sono pronto al sacrificio. È per questo che non te l'ho mai detto. Non volevo che ti sentissi in colpa. Ho sempre saputo cosa avresti scelto. Compi la tua Scelta. Lasciami andare. Lena aveva le vertigini. Poteva davvero distruggere Macon? Era vero ciò che Sarafine le aveva detto? Ma se era vero, quale altra scelta aveva? Macon era una sola persona, nonostante lo amasse. — C'è qualcos'altro che posso offrirti — aggiunse Sarafine.
— Cosa puoi avere in serbo, che possa convincermi a uccidere la nonna, zia Del, Reece e Ryan? Sarafine si avvicinò cautamente a Lena di qualche passo. — Ethan. Noi possiamo fare in modo che voi due possiate stare insieme. — Cosa stai dicendo? Noi due siamo già insieme. Sarafine piegò la testa di lato e socchiuse gli occhi. Qualcosa passò nel suo sguardo dorato. Intuizione. — Tu non lo sai. È così? — Sarafine si voltò verso Macon e rise. — Non gliel'hai detto. Be', Macon, non è leale. — Non so cosa? — intervenne Lena. — Che tu ed Ethan non potrete mai stare insieme, non fisicamente. I Maghi e i Lilum non possono unirsi ai Mortali. — Sarafine sorrise, assaporando il momento. — Non senza ucciderli.
11-02 La Reclamazione I Maghi non possono unirsi ai Mortali. Non senza ucciderli. Adesso tutto aveva un senso. La connessione mentale profonda tra di noi. L'elettricità, il fiato corto ogni volta che ci baciavamo, l'attacco di cuore che quasi mi aveva ucciso... Noi due non potevamo stare insieme fisicamente. Era vero. Ricordai le parole di Macon alla palude e nella mia stanza. Un futuro tra loro due è una impossibilità. Ci sono cose che ora non potete vedere, cose che sono al di là del nostro controllo. Lena tremava. Anche lei sapeva che era vero. — Cos'hai detto? — sussurrò. — Che tu ed Ethan non potrete mai stare veramente insieme. Non potrete mai sposarvi, o avere figli. Non potrete mai avere un futuro, non un vero futuro. Mi sembra impossibile che non ve l'abbiano spiegato. Tu e Ridley siete state proprio ben protette. Lena si rivolse a Macon. — Perché non me l'hai mai detto? Tu lo sai che io lo amo. — Non avevi mai avuto un ragazzo, men che meno un Mortale. Nessuno di noi si era mai sognato che fosse una cosa
seria. Non ci siamo resi conto di quanto fosse forte il tuo legame con Ethan finché non è stato troppo tardi. Sentivo le loro voci, ma non li ascoltavo più. Io e Lena non potevamo stare insieme. Non avrei mai potuto esserle davvero intimo. Il vento prese forza, sferzava la pioggia come schegge di vetro. I fulmini spaccavano il cielo. Il tuono rombò così forte che la terra tremò. Non eravamo più nell'occhio del ciclone. Lena non sarebbe riuscita a controllarsi ancora per molto. — E quando volevi dirmelo? — gridò Lena sopra il fischio del vento. — Dopo la Reclamazione. Sarafine vide una buona occasione e la colse al volo. — Ma non capisci, Lena? Un modo c'è. Un modo per cui tu ed Ethan potrete passare il resto della vita insieme, sposarvi, avere dei figli. Quello che vorrete. — Lei non ve lo permetterà mai, Lena — sibilò Macon. — Se anche questo modo esistesse, i Maghi delle Tenebre disprezzano i Mortali. Non permetterebbero mai che il loro sangue si dilavasse con sangue mortale. È ima delle nostre più grandi divisioni. — Vero, ma in questo caso noi saremmo disposti a fare un'eccezione, considerando le alternative. E abbiamo trovato un modo per renderlo possibile. — Scrollò le spalle. — Sempre meglio che morire. Macon guardò Lena e replicò: — Tu uccideresti tutta la tua famiglia solo per stare con Ethan? Zia Del? Reece? Ryan? Tua nonna? Sarafine aprì sensualmente le mani, raccogliendo il Potere. — Quando passerai alle Tenebre, non t'importerà più nulla di quella gente. E avrai me - tua madre - tuo zio ed Ethan. Non è lui la persona più importante della tua vita?
Gli occhi di Lena si rabbuiarono. La pioggia e la nebbia turbinavano intorno a lei. Il rumore era così forte che quasi copriva le esplosioni della Battaglia di Honey Hill. Avevo dimenticato che potevamo finire ammazzati, nell'una o nell'altra delle battaglie che si stavano scatenando quella notte. Macon prese Lena per le braccia. — Sarafine ha ragione. Se accetti, non proverai rimorso perché non sarai più tu. La persona che sei adesso morirà. Quello che lei non ti sta dicendo è che non ricorderai più i tuoi sentimenti per Ethan. Fra pochi mesi, il tuo cuore sarà così colmo di Tenebre che Ethan non significherà più niente per te. La Reclamazione ha un effetto incredibilmente forte su un Naturale. Potresti persino ucciderlo con le tue stesse mani... Saresti capace addirittura di una simile malvagità. Non è forse vero, Sarafine? Di' a Lena cos'è successo a suo padre, visto che sei una così accanita sostenitrice della verità. — Tuo padre ti ha portato via da me, Lena. Quello che è successo è stato una disgrazia, un incidente. Lena era sconvolta. Una cosa era sentire che sua madre aveva ucciso suo padre da quella pazza della Lincoln all'assemblea del comitato disciplinare. Tutt'altra cosa era scoprire che era vero. Macon cercò di volgere la situazione a proprio vantaggio. — Diglielo, Sarafine. Spiegale che suo padre è morto carbonizzato nella sua casa, in un incendio che tu hai appiccato. Sappiamo tutti quanto ti piaccia giocare con il fuoco. Gli occhi di Sarafine erano feroci. — Macon, hai interferito per sedici anni. Da adesso in poi mi pare che dovresti restarne fuori. Hunting si materializzò dal nulla, a pochi centimetri da Macon. Ora era meno simile a un uomo e più rispondente alla sua vera natura di Demone. I lustri capelli neri si erano rizzati
come il pelo sulla groppa di un lupo pronto all'attacco, le orecchie si erano appuntite e, quando aprì la bocca, aveva fauci di animale. Subito dopo sparì, si smaterializzò. Hunting riapparve in un lampo addosso a Macon, così rapidamente che forse lui non se ne rese nemmeno conto. Macon lo afferrò per il giubbotto e lo scaraventò contro un albero. Non mi ero mai reso conto di quanto fosse forte. Hunting volò ma, anziché sbattere contro l'albero, ci passò attraverso, rotolando per terra dall'altra parte. Nello stesso momento, Macon sparì e ricomparve addosso a lui. Lo schiacciò a terra con una forza tale da aprire le zolle sotto il loro peso. Hunting rimase immobile, sconfitto. Macon si girò verso Lena ma Hunting si rialzò alle sue spalle con un sorriso cattivo. Io urlai, cercando di avvertire Macon, però nessuno poteva sentirmi nell'uragano che si stava scatenando intorno a noi. Hunting, ringhiando con ferocia, affondò i denti nella nuca del fratello, come un cane in una zuffa. Macon lanciò un grido, un suono profondo e gutturale, e scomparve. Nel nulla. Hunting dovette restargli aggrappato, perché sparì con lui. E quando ricomparvero ai margini della radura, gli era ancora avvinghiato al collo. Cosa stava facendo? Si stava nutrendo di lui? Non ne sapevo abbastanza per capire se e come fosse possibile. Ma qualunque cosa Hunting gli stesse succhiando via, sembrava prosciugare Macon. Lena gridava, grida straziate che facevano gelare il sangue. Hunting si staccò dal corpo di Macon e lui si accasciò nel fango, sotto la pioggia battente. Risuonò un'altra raffica di artiglieria. Mi accucciai, spaventato dalla prossimità della battaglia. La rievocazione storica si stava spostando verso di noi, a Greenbrier. I Confederati stavano facendo la loro mossa finale.
Il rumore della battaglia copriva un altro suono, completamente diverso eppure familiare, un ringhio. Boo Radley. Boo ululò e con un balzo si scagliò contro Hunting per difendere il proprio padrone. Ma mentre saltava, il corpo di Larkin cominciò a contorcersi, a trasformarsi in un groviglio di vipere davanti al lupo. Le serpi sibilavano strisciando le une sulle altre. Boo non si rese conto che erano solo un'illusione, che avrebbe potuto passarci in mezzo. Arretrò abbaiando, concentrando tutta l'attenzione sui serpenti. Era l'occasione che Hunting cercava. Si smaterializzò, riapparve alle spalle di Boo e lo soffocò con una forza sovrannaturale. Il corpo del lupo guizzò, cercando di resistere, di combattere. Invano. Hunting era troppo forte. Scagliò il corpo esanime di Boo accanto a quello del suo padrone. E Boo rimase immobile. Cane e padrone, fianco a fianco nel fango. Immobili. — Zio Macon! — gridò Lena. Hunting si passò le mani tra i capelli lucidi e scrollò la testa, rinvigorito. Larkin si ricompose nella sua forma umana e nel giubbotto di pelle. Insieme, sembravano due drogati che si erano appena fatti. Larkin guardò la luna, poi l'orologio. — È la mezza. Mezzanotte si avvicina. Sarafine tese le braccia come ad abbracciare il cielo. — La Sedicesima Luna, il Sedicesimo Anno. Hunting fece un gran sorriso a Lena, con la faccia sporca di sangue e di fango. — Benvenuta in famiglia. Lena non aveva nessuna intenzione di entrare in quella famiglia. Lo vedevo bene, adesso. Si rialzò in piedi, fradicia fino alle ossa, coperta del fango creato dalle sue stesse piogge torrenziali. I capelli neri le ondeggiavano furiosamente intorno
al viso. Riusciva a malapena a ergersi nel vento e dovette piegarsi per contrastare la sua forza. Sembrava che da un momento all'altro i suoi piedi si potessero staccare da terra e che lei potesse scomparire nel cielo nero. Forse sarebbe successo. A quel punto, nulla mi avrebbe sorpreso. Larkin e Hunting si mossero silenziosi nell'ombra e si portarono al fianco di Sarafine, schierati contro Lena. Sarafine le si avvicinò. Lena alzò una mano a palmo aperto. — Fermati. Adesso. Sarafine non si fermò. Lena chiuse la mano. Una barriera di fuoco si levò improvvisa tra l'erba alta. Le fiamme ruggenti separarono la madre dalla figlia. Sarafine si bloccò. Al di là di quello che ai suoi occhi erano solo un po' di vento e di pioggia, non si aspettava certo che Lena fosse capace di molto altro. L'aveva colta di sorpresa. — Io non ti nasconderò mai niente, a differenza di tutti gli altri nella nostra famiglia. Io ti ho spiegato le tue opzioni e ti ho raccontato la verità. Puoi anche odiarmi, ma resto sempre tua madre. E solo io posso offrirti l'unica cosa che loro non potranno mai darti: un futuro con il tuo Mortale. Le fiamme si levarono più in alto. Il fuoco si estendeva, come animato da una volontà propria, e in breve le fiamme circondarono Sarafine, Larkin e Hunting. Lena rise. Una risata di Tenebre, come quella di sua madre. Anche da così lontano, mi fece rabbrividire. — Non devi fingere di preoccuparti per me. Sappiamo tutti che carogna sei, mamma. È l'unica cosa su cui credo che tutti possiamo trovarci d'accordo. Sarafine arricciò le labbra e soffiò, come per mandare un bacio. Ma al suo soffio, il fuoco cambiò direzione e corse tra le erbacce a circondare Lena. — Dillo come se ci credessi davvero, tesoro. Mettici un po' di cattiveria. Lena sorrise. — Bruciare una strega? Che banalità.
— Se avessi voluto bruciarti, saresti già morta. Ricordati, non sei l'unica Naturale. Lentamente, Lena allungò il braccio e immerse una mano nelle fiamme. Non batté ciglio, priva di espressione. Poi affondò anche l'altra mano tra le vampe. Le sollevò entrambe sopra la testa, tenendo il fuoco come una palla. Scagliò le fiamme con tutta la forza che aveva. Contro di me. La palla di fuoco colpì la quercia alle mie spalle e la chioma divampò in un attimo, quasi fosse fatta di sterpi secchi. Le fiamme corsero giù a divorare anche il tronco. Io mi allontanai barcollando, nel tentativo di scansarmi. Arretrai fino al muro della mia prigione invisibile. Solo che stavolta non c'era. Trascinai le gambe nel fango profondo attraverso la radura. Mi girai e vidi Link che mi raggiungeva. Anche la sua quercia ardeva con intensità ancora maggiore. Le fiamme guizzavano alte verso il cielo e cominciarono a diffondersi nel campo. Corsi verso Lena. Non riuscivo a pensare ad altro. Link raggiunse sua madre. Solo Lena e la linea di fuoco ci separavano da Sarafine. Per un momento ci sembrò che potesse bastare. Toccai la sua spalla. Al buio, si sarebbe potuta spaventare, ma sapeva che ero io e non si girò nemmeno a guardarmi. Ti amo, L. Non dire niente, Ethan. Lei sente tutto. Non ne sono sicura, ma credo che abbia sempre sentito tutto. Guardai nel campo, ma non riuscii a vedere Sarafine, Hunting e Larkin dietro la cortina di fiamme. Sapevo che erano lì e sapevo che probabilmente avrebbero cercato di ucciderci tutti. Ma ero con Lena e per un secondo null'al-tro mi sembrò importante. — Ethan! Corri a prendere Ryan. Zio Macon ha bisogno di aiuto. Non posso trattenerla ancora a lungo. — Mi misi a
correre prima che potesse aggiungere altro. Qualunque cosa avesse fatto Sarafine per interrompere il contatto tra Lena e me, non aveva più effetto. Ora lei era di nuovo nel mio cuore e nella mia testa. Mentre sfrecciavo per i campi incolti, non pensavo ad altro. Tranne al fatto che era quasi mezzanotte. Corsi più forte. Anch'io ti amo. Fa' presto... * * * Guardai il cellulare. 23:25. Bussai ancora alla porta dei Ravenwood, premendo freneticamente la falce di luna sull'architrave. Non successe niente. Larkin aveva sicuramente fatto qualche sua diavoleria per bloccare la porta. — Ryan! Zia Del! Nonna! — Dovevo trovare Ryan. Macon era ferito. E fra poco sarebbe toccato a Lena. Non potevo prevedere come avrebbe reagito Sarafine al suo rifiuto. Link mi raggiunse sui gradini, inciampando. — Ryan non c'è. — Ryan è un medico? Dobbiamo aiutare mia madre. — No. È... Te lo spiego dopo. Link camminava avanti e indietro sulla veranda. — Quella roba era reale? Pensare. Dovevo pensare. Ero da solo. Ravenwood era una vera fortezza, quella notte. Nessuno poteva entrare, di sicuro non un Mortale. Ma non potevo abbandonare Lena. Telefonai all'unica persona che sospettavo non avrebbe avuto problemi a litigare con due Maghi delle Tenebre e un Incubus di Sangue nel bel mezzo di un uragano sovrannaturale. Una persona che era lei stessa una sorta di uragano sovrannaturale. Amma.
Ascoltai gli squilli dall'altro capo. — Non risponde. Forse è ancora con mio padre. 23:30. C'era solo un'altra persona che avrebbe potuto aiutarmi. Ed era proprio l'ultima spiaggia. Feci il numero della biblioteca di Gatlin. — Non c'è nemmeno Marian. Lei avrebbe saputo cosa fare. Ma che diavolo! Non lascia mai la biblioteca, nemmeno dopo l'orario di chiusura. Link, stravolto, non stava fermo un attimo. — Non c'è niente di aperto. È vacanza. C'è la Battaglia di Honey Hill, ricordi? Forse dovremmo andare verso la zona di sicurezza e cercare i paramedici. Lo fissai come se dalla sua bocca fosse appena uscita una saetta e mi avesse colpito in testa. — È vacanza. Non c'è niente di aperto — ripetei. — Appunto. L'ho appena detto io. Quindi che si fa? — Era disperato. — Link, sei un genio. Un maledetto genio. — Lo so, amico, ma cosa c'entra adesso? — Hai il Catorcio? — Link annuì. — Dobbiamo andarcene da qui. Link mise in moto. Il motore sputacchiò ma partì, come sempre. Gli Holy Rollers urlavano dalle casse dell'auto e, per la cronaca, adesso facevano proprio schifo. Il suo numero da Sirena, Ridley l'aveva messo in piedi alla grande. Link schizzò sul vialetto di ghiaia, poi mi lanciò un'occhiata. — Dov'è che andiamo? — In biblioteca. — Hai detto che era chiusa, o sbaglio? — L'altra biblioteca. Link annuì come se avesse capito, ma non poteva. Però stette al gioco, come ai vecchi tempi. Il Catorcio, lanciato a
tutta velocità, schizzava ghiaia come se fosse lunedì mattina e noi fossimo in ritardo per la prima ora. Ma non era così. Erano le 23:40. Quando ci fermammo sgommando davanti alla Società Storica, Link non volle nemmeno tentare di capire. Ero fuori dalla macchina prima che mettesse a tacere gli Holy Rollers. Mi raggiunse mentre giravo l'angolo e sparivo nel buio dietro il secondo edificio più antico di Gatlin. — Questa non è la biblioteca. — Esatto. — È il DAR. — Esatto. — Che tu detesti. — Esatto. — Mia mamma ci viene qualcosa tipo tutti i giorni. — Esatto. — Amico, che ci facciamo qui? Mi avvicinai alla grata e allungai la mano, che attraversò il metallo, o meglio quello che sembrava metallo, creando l'effetto di un braccio amputato all'altezza del polso. Link mi afferrò. — Amico, Ridley mi deve aver messo qualcosa nella birra. Perché ti giuro che il tuo braccio, ho visto il tuo braccio che... Ah, lascia perdere. Ho le allucinazioni. Ritirai il braccio e agitai le dita davanti al suo naso. — Sul serio, Link. Dopo tutto quello che hai visto stasera, adesso ti pare di avere le allucinazioni? Adesso? Controllai l'ora sul cellulare. 23:45. — Non ho tempo per spiegare, ma sappi che da qui in avanti sarà sempre più strano. Ora noi scendiamo in Biblioteca, ma non è una biblioteca normale. E tu avrai una fifa tremenda per
tutto il tempo. Quindi, se vuoi aspettare in macchina, per me va bene. Stava cercando di assorbire quello che gli dicevo con la stessa rapidità con cui glielo dicevo, il che era duro. — Sei con me o no? Link guardò la grata. Senza dire una parola, ci passò la mano attraverso. La mano scomparve. Era con me. * * * Mi chinai per passare sotto la porta e cominciai a scendere gli antichi gradini di pietra. Link mi seguì, con gli occhi sgranati. Le torce si accesero mentre ci addentravamo nel buio. Ne presi una dalla sua staffa a forma di falce di luna e la lanciai a Link. Ne afferrai un'altra per me e saltai gli ultimi gradini. Eravamo nella cripta. Una per una, le torce appese al muro si accesero mentre ci avvicinavamo al centro della sala. Alla luce tremolante delle fiamme, apparvero le colonne e le loro ombre e la scritta DOMUS LUNAE LIBRI all'ingresso, come la volta precedente. — Zia Mariani Ci sei? — Lei, alle mie spalle, mi sfiorò il braccio. Feci un salto che per poco non ci restai secco e caddi addosso a Link. Lui strillò e lasciò cadere la torcia. Spensi le fiamme con i piedi. — Gesù, dottoressa Ashcroft. Per poco non me la faceva fare addosso. — Scusa, Wesley. Ethan, hai perso il lume della ragione? Hai presente chi è la madre di questo povero ragazzo? — La signora Lincoln è svenuta. Lena è in pericolo. Macon è stato ferito. Io devo entrare a Ravenwood, non riesco a trovare Anima, non riesco a entrare da solo. Devo
arrivarci dai tunnel. — Ero di nuovo un bambino e parlavo come un fiume in piena. Parlare con Marian era come parlare con mia madre. O almeno, era come parlare con una persona che sapeva come fosse parlare con mia madre. — Io non posso aiutarvi. In un modo o nell'altro, la Reclamazione sarà a mezzanotte. Non posso fermare l'orologio. Non posso salvare Macon, né la madre di Wesley, né nessun altro. Non posso essere coinvolta. — Marian guardò Link. — E mi dispiace davvero per tua madre, Wesley. Non volevo mancarle di rispetto. — Sissignora. — Link aveva l'aria afflitta. Io scossi la testa e passai a Marian la torcia più vicina. — Tu non capisci. Non ti sto chiedendo niente. Devi fare solo ciò che fa la bibliotecaria della Biblioteca Magica. — E cioè? La guardai con intenzione. — Devo consegnare un libro a Ravenwood. — Mi chinai e presi un volume a caso dallo scaffale più vicino, bruciandomi le punte delle dita. — Erba e Verba velenose. Una guida completa. Marian mi guardò con scetticismo. — Stanotte? — Sì, stanotte. Immediatamente. Macon mi ha chiesto di portarglielo personalmente. Prima di mezzanotte. — La bibliotecaria della Biblioteca Magica è l'unica Mortale a conoscere gli accessi ai tunnel della Domus. — Marian mi lanciò un'occhiata furba e mi prese il libro dalle mani. — E la bibliotecaria sono io. * * * Io e Link seguimmo Marian nei tunnel tortuosi della Domus. Cominciai a contare le porte di legno che attraversavamo, ma alla sedicesima lasciai perdere. 1 tunnel
formavano un labirinto e ciascuno era diverso dall'altro. C'erano dei cunicoli dai soffitti bassi, dove io e Link dovevamo piegarci per passare, e passaggi alti dove al contrario sembrava non esserci alcun soffitto sopra le nostre teste. Era letteralmente un altro mondo. Alcuni passaggi erano grezzi, nude opere in muratura, mentre altri parevano i corridoi di un castello o di un museo, con arazzi, mappe antiche incorniciate e dipinti a olio appesi ai muri. In circostanze diverse mi sarei fermato a leggere le piccole targhe in ottone sotto i quadri. Forse erano ritratti di Maghi famosi, chissà. L'unica cosa che i tunnel avevano in comune era l'odore di terra e di secoli, e le infinite serrature che Marian apriva con la chiave lunae, il cerchio di metallo che portava alla cintura. Dopo quella che mi parve un'eternità, arrivammo alla porta. Le nostre torce erano quasi del tutto consumate. Dovetti sollevare la mia per leggere le parole incise sulle assi disposte in verticale: DIMORA DEI RAYVENWOODE. Marian girò la chiave lunae nell'ultima serratura e la porta di spalancò. Dei gradini intagliati nella pietra salivano nella casa. S'intuiva, dal riquadro di soffitto che s'intravedeva, che eravamo al pianterreno. Guardai Marian. — Grazie, zia Marian. — Allungai la mano per farmi consegnare il libro. — Lo darò a Macon. — Non così in fretta. Devo ancora vedere una tessera bibliotecaria emessa a tuo nome, Ethan. — Mi strizzò l'occhio. — Consegnerò il libro personalmente. Guardai il cellulare. Erano ancora le 23:45. Impossibile. — È la stessa ora di quando siamo arrivati alla Domus. Com'è possibile? — Tempo lunare. Voi giovani non ascoltate mai. Non sempre le cose sono come sembrano, nel Mondo Sotterraneo.
Link e Marian mi seguirono sulle scale fino alla sala d'ingresso. Ravenwood era esattamente come l'avevamo lasciata, con tanto di torta nei piatti, servizio da tè e regali mai aperti. — Zia Del! Reece! Nonna! C'è qualcuno? Dove siete? — Quando le chiamai, le donne della famiglia uscirono dall'ombra. Del era in agguato vicino alle scale. Teneva una lampada sopra la testa, pronta a usarla, magari per spaccare la testa a Marian. La nonna era appoggiata allo stipite della porta e proteggeva Ryan con le braccia. Ree-ce si nascondeva sotto le scale, armata di un coltello da dolci. Cominciarono a parlare tutte insieme. — Marian! Ethan! Eravamo così preoccupate! Lena è scomparsa e quando abbiamo sentito la campanella del tunnel, abbiamo pensato che fosse... — Avete visto anche Lei? È la fuori? — Avete visto Lena? Macon non torna, siamo preoccupate. — E Larkin? Lei non ha fatto del male a Larkin, vero? Le guardai, incredulo. Presi la lampada dalle mani di zia Del e la passai a Link. — Una lampada. Pensava davvero che una lampada l'avrebbe salvata? Zia Del alzò le spalle. — Barclay è salito in soffitta per Mutare Forma a dei pali da tenda e a vecchi addobbi per il Solstizio e trasformarli in armi. Non ho trovato altro. Mi inginocchiai davanti a Ryan. Non rimaneva molto tempo. Quattordici minuti circa, per essere esatti. — Ryan. Ti ricordi quando stavo male e tu mi hai aiutato? Ora dovresti venire subito con me a Greenbrier. Zio Macon è caduto e lui e Boo si sono feriti. Ryan stava per scoppiare a piangere. — Anche Boo?
Link, in fondo alla stanza, si schiarì la voce. — E anche mia madre. Sì, lo so che è una rompiscatole, eccetera. Ma la bambina potrebbe... potrebbe aiutare anche lei? — E la mamma di Link. La nonna spinse Ryan dietro di sé, con un buffetto sulla guancia. Si sistemò la maglia e si lisciò la gonna. — Andiamo, allora. Veniamo io e Del. Reece, tu resta qui con tua sorella. Di' a tuo padre dove siamo andate. — Signora, è di Ryan che ho bisogno. — Per questa notte, io sono Ryan, Ethan. — Prese la borsetta. — Io non me ne vado di qui senza Ryan. — Piantai i piedi. C'era troppo in ballo. — Non possiamo portare là fuori una bambina non Reclamata, non nella notte della Sedicesima Luna. Potrebbe morire. — Reece mi guardò come se fossi un idiota. Ero sempre quello che non capiva, quello che non sapeva, quello fuori dal giro dei Maghi. Zia Del mi prese per un braccio, con fare rassicurante. — Mia madre è un'Empatica. È estremamente sensibile ai poteri altrui e può prenderli temporaneamente in prestito. Ora ha preso quelli di Ryan. Non durerà molto, ma per ora è capace di fare qualsiasi cosa Ryan possa fare. E la nonna è stata Reclamata, ovviamente un bel po' di tempo fa. Quindi, veniamo noi due con te. Guardai il cellulare. 23:49. — E se non facciamo in tempo? Marian sorrise e ci mostrò il libro. — Non ho mai fatto una consegna a Greenbrier. Del, lei pensa di riuscire a trovare la strada? Zia Del annuì, infilandosi gli occhiali. — I Palinsesti riescono sempre a trovare le vecchie porte dimenticate. Sono
quelle nuove a darci qualche problema. — E con queste parole sparì nel tunnel, seguita da Marian e dalla nonna. Io e Link ci affrettammo a raggiungerle. — Per essere delle vecchie signore — ansimò Link — sanno davvero come muoversi. Questa volta, il passaggio era stretto e franoso, e macchie di muschio verdi e nere si allargavano sulle pareti e sul soffitto. Probabilmente anche sul pavimento, ma nel buio non si riusciva a vedere. Eravamo cinque torce ondeggianti in un'oscurità altrimenti assoluta. Dato che io e Link stavamo in coda, il fumo ci arrivava negli occhi, facendoli bruciare e lacrimare. Capii che eravamo vicini a Greenbrier dal fumo che iniziò a filtrare nei tunnel, non più dalle nostre torce ma da sfiati nascosti che risalivano verso il mondo esterno. — Eccola. — Zia Del tossì, tastando alla cieca un profilo rettangolare scavato nella parete di pietra. Marian grattò via il muschio e comparve la porta. La chiave lunae entrò perfettamente nella serratura, come se fosse stata aperta qualche giorno prima e non centinaia di migliaia di giorni prima. La porta non era di legno ma di pietra. Mi sembrò impossibile che zia Del avesse avuto la forza di aprirla. Lei si fermò ai piedi della scala e mi fece cenno di passare per primo. Sapeva che il tempo stava per scadere. Chinai la testa e salii i gradini di pietra. Ero fuori dal tunnel ma, quando arrivai in cima alle scale, mi bloccai. Davanti a me c'era la lastra di pietra della cappella dove il Libro delle Lune era rimasto per chissà quanto tempo prima che Genevieve lo prendesse. E sapevo che era la stessa lastra di pietra perché il Libro era lì.
Lo stesso Libro che era sparito dal mio armadio quella mattina. Non avevo idea di come ci fosse arrivato, ma non c'era tempo per porsi domande. Sentii il crepitare del fuoco prima ancora di vederlo. Il fuoco è fragoroso, pieno di rabbia, di caos, di distruzione. Ed era intorno a me. Il fumo nell'aria era così denso da soffocare. Il calore mi strinava i peli delle braccia. Era come una delle visioni del medaglione. O peggio, come uno dei miei ultimi incubi, quello in cui Lena veniva consumata dal fuoco. La sensazione di perderla. Stava succedendo davvero. Lena, dove sei! Aiuta zio Macon. La sua voce era fievole. Spazzai via il fumo con le mani per vedere l'ora sul cellulare. 23:53. Sette minuti a mezzanotte. Non c'era più tempo. La nonna mi prese per mano. — Non stare lì impalato. Ci serve Macon. Io e la nonna corremmo, mano nella mano, in mezzo al fuoco. Il lungo filare di salici intorno al passaggio ad arco che portava al cimitero e ai giardini era in fiamme. La sterpaglia, le querce nane, le palme a ventaglio, il rosmarino, gli alberi di limoni... tutto in fiamme. Sentivo le ultime esplosioni in lontananza. La Battaglia di Honey Hill si stava concludendo. Sapevo che presto i figuranti avrebbero dato inizio allo spettacolo pirotecnico, come se i fuochi d'artificio nella zona di sicurezza fossero in qualche modo equiparabili ai fuochi d'artificio che vedevamo qui. Il giardino dei limoni e la radura intorno alla cappella stavano bruciando. Io e la nonna corremmo alla cieca nel fumo fino alle querce in fiamme, e trovammo Macon dove lo avevamo lasciato. La nonna si chinò su di lui e gli sfiorò la guancia con la mano. —
È debole, ma ce la farà. — Nello stesso momento, Boo Radley si rimise in piedi sulle quattro zampe. Si avvicinò cautamente e si sdraiò sulla pancia accanto al suo padrone. Macon girò a fatica la testa verso la nonna. La sua voce era appena un sussurro. — Dov'è Lena? — La cerca Ethan. Tu riposa. Io vado ad aiutare la signora Lincoln. Link era accanto a sua madre. La nonna si affrettò a raggiungerli. Io mi alzai, cercando Lena tra la fiamme. Non vedevo nessuno, da nessuna parte. Né Hunting, né Larkin, né Sarafine... nessuno. Sono qui. Sulla cappella. Credo di essere bloccata. Resisti, L. Arrivo. Passai in mezzo al fuoco, cercando di restare sui sentieri che ricordavo dalle mie visite a Greenbrier con Lena. Più mi avvicinavo alla cappella, più il calore era intenso. La pelle sembrava sul punto di staccarsi, ma sapevo che in realtà stava bruciando. Mi arrampicai su una lapide senza nome, trovai un appoggio per il piede tra le pietre del muro cadente e mi issai più in alto che potei. In cima c'era una statua, una specie di angelo che aveva perso un pezzo del busto. Mi aggrappai alla sua... non so forse alla sua caviglia, e mi tirai su. Fa' presto, Ethan! Ho bisogno di te. Fu allora che mi ritrovai faccia a faccia con Sarafine. E lei mi piantò un coltello nello stomaco. Un coltello vero, nel mio stomaco vero. La fine del sogno che non eravamo mai riusciti a vedere. Solo che questo non era un sogno. Lo sapevo perché lo stomaco era il mio e sentivo entrare ogni centimetro della lama. Sorpreso, Ethan! Credi che Lena sia l'unica Maga della zona!
La voce di Sarafine cominciò a svanire. Prova a farla restare nella Luce, adesso. Mentre perdevo conoscenza, l'unico mio pensiero fu che, se mi avessero infilato in un'uniforme da Confederato, sarei stato proprio come Ethan Carter Wate. Con tanto di ferita nello stomaco e di medaglione nella tasca. Con tanto di diserzione, anche se la mia era dalla squadra di basket e non dall'esercito di Lee. E con il sogno nella mente di una giovane Maga che avrei sempre amato. Proprio come l'altro Ethan. Ethan! No! * * * No! No! No! L'attimo prima gridavo. L'attimo dopo, il grido mi s'impigliò nella gola. Ricordo Ethan che cade. Ricordo mia madre che sorride. Il bagliore della lama, il sangue. Il sangue di Ethan. Non poteva essere vero. Non si muoveva niente, niente. Ogni cosa era perfettamente immobile, come in un museo delle cere. Le spire di fumo rimanevano gonfie e grigie, ma immobili, senza spostarsi verso l'alto o verso il basso. Sospese nell'aria come se fossero state fatte di cartoncino, tipo il fondale di un palcoscenico. Le lingue di fuoco erano ancora trasparenti, incandescenti, ma non consumavano più nulla, non crepitavano. Nemmeno l'aria si muoveva. Tutto era esattamente come nell'attimo precedente. La nonna era china sulla mamma di Link, con la mano sospesa nell'aria, pronta a toccarle la guancia. Link teneva la
mano di sua madre, inginocchiato nel fango come un bambino spaventato. Zia Del e Marian erano accucciate sui gradini inferiori del cunicolo che portava alla cappella e si riparavano il viso dal fumo. Zio Macon era disteso per terra, con Boo accovacciato al suo fianco. Hunting era appoggiato a un albero poco lontano e rimirava il suo operato. Il giubbotto di pelle di Larkin aveva preso fuoco. Lui era rivolto nella direzione sbagliata, sul sentiero che riportava a Ravenwood. Com'era prevedibile, stava fuggendo dall'azione, invece di tuffarcisi. E Sarafine. Mia madre brandiva, alto sopra la testa, un pugnale dalla lama incisa, un antico oggetto delle Tenebre. Il suo viso era distorto dalla furia, dal fuoco, dall'odio. La lama gocciolava sangue sul corpo esanime di Ethan. Ma anche le gocce erano immobili, sospese nell'aria. Il braccio di Ethan penzolava dal tetto della cappella, verso il cimitero. Era come nel sogno, ma al contrario. Non ero io a scivolargli via dalle braccia. Era lui che era stato strappato dalle mie. Ai piedi della cappella, tra le fiamme e il fumo, alzai un braccio finché le mie dita non si intrecciarono con quelle di Ethan. Ero in punta di piedi, ma riuscivo appena a sfiorarlo. Ethan, ti amo. Non lasciarmi. Non ce la faccio senza di te. Se ci fosse stata la luna, avrei potuto vedere il suo viso. Ma non c'era, non adesso, e l'unica fonte di luce veniva dal fuoco, ancora immobile, che mi circondava da ogni lato. Il cielo era vuoto, di un nero assoluto. Non c'era niente. In questa notte avevo perso tutto. Piansi finché ebbi fiato. Le mie dita scivolarono tra le sue. Sapevo che non avrei più sentito le sue mani tra i capelli.
Ethan. Volevo urlare il suo nome, anche se nessuno mi avrebbe sentito, ma non restava più voce dentro di me. Non restava niente, tranne quelle parole. Ricordai le parole delle visioni. Ogni singola parola. Sangue del mio cuore. Vita della mia vita. Corpo del mio corpo. Anima della mia anima. — Non farlo, Lena Duchannes. Non pasticciare con il Libro delle Lune. Non ricominciare un'altra volta con tutte queste Tenebre. Aprii gli occhi. C'era Amma accanto a me, nel fuoco. Il mondo intorno a noi era ancora immobile. La guardai. — Sono stati i Grandi a fare questo? — No, bambina. È opera tua. I Grandi mi hanno solo aiutata a venire fin qui. — Com'è possibile? Amma si sedette accanto a me, per terra. — Tu non sai ancora di cosa sei capace, vero! Melchizedek aveva ragione almeno in questo. — Amma, cosa sta dicendo? — Ho sempre detto a Ethan che un giorno avrebbe trovato una falla nel cielo. Ma a quanto pare sei stata tu a trovarla. Cercai di asciugarmi le lacrime dal viso, ma continuavano a sgorgare. Quando arrivavano alle labbra, sentivo il sapore della fuliggine. — Sono... sono nelle Tenebre? — Non ancora, non ora. — Sono nella Luce? — No. Non si può dire nemmeno questo. Guardai verso l'alto. Il fumo copriva tutto: gli alberi, il cielo, e dove avrebbero dovuto esserci le stelle e la luna, c'era
solo una fitta coltre nera di nulla. Cenere e fuoco e fumo e nulla. — Amma. — SÌ? — Dov'è la luna? — Be', se non lo sai tu, bambina, io di certo non lo so. Un attimo fa stavo guardando la tua Sedicesima Luna. E tu eri sotto di lei, a fissare le stelle, come se solo Nostro Signore nell'Alto dei Cieli ti potesse aiutare, e avevi i palmi alzati, come se stessi sostenendo tutta la volta celeste. E poi... più niente. Solo questo. — E la Reclamazione? Amma si fermò a riflettere. — Be', non so cosa succeda, quando non c'è luna nel giorno del compleanno, il sedicesimo anno, a mezzanotte. Non è mai successo prima d'ora, per quel che ne so. Secondo me, non può esserci alcuna Reclamazione, senza la Sedicesima Luna. Avrei dovuto provare sollievo, gioia, confusione. Invece sentivo solo dolore. — Allora è finita? — Non lo so. — Mi allungò la mano e mi fece alzare. La sua mano era calda e forte e io sentii la mente limpida. Come se entrambe sapessimo già cosa stavo per fare. Come forse anche Ivy aveva saputo cosa avrebbe fatto Genevieve, in quello stesso luogo, centocinquant'anni pima. Quando aprimmo la copertina screpolata del Libro, seppi immediatamente quale pagina cercare, come se l'avessi sempre saputo. — Sai che non è una cosa naturale. Sai che ci saranno delle conseguenze. — Lo so.
— E sai che non ci sono garanzie che possa funzionare. L'ultima volta non andò molto bene. Ma posso dirti questo: la mia antenata, Ivy, è laggiù con i Grandi e loro ci aiuteranno, se potranno. — Amma. Per favore. Io non ho scelta. Lei mi guardò negli occhi. Alla fine, annuì. — So che non c'è niente che io possa dire per impedirti di farlo. Perché tu ami il mio ragazzo. E poiché anch'io amo il mio ragazzo, ti voglio aiutare. La guardai e capii. — Ed è per questo che ha portato qui il Libro delle Lune stasera. Amma annuì, lentamente. Avvicinò la mano e prese da sotto la felpa di Ethan, che ancora indossavo, la catenina con l'anello. — Questo anello era di Lila. Ethan doveva amarti alla follia per darlo a te. Ethan, ti amo. — L'amore è una cosa potente, Lena Duchannes. L'amore di una madre non è cosa da prendere alla leggera. Mi pare che Lila abbia cercato di aiutarvi come meglio ha potuto. Amma mi strappò la catenina dal collo. Dove si spezzò, la sentii tagliare la pelle e lasciare il segno. Amma m'infilò l'anello al dito medio. — A Lila saresti piaciuta. Tu hai l'unica cosa che Genevieve non aveva quando usò il Libro: l'amore di due famiglie. Chiusi gli occhi, sentendo il metallo freddo contro la pelle. — Spero che lei abbia ragione. — Aspetta. — Amma prese dalla tasca di Ethan il medaglione di Genevieve, ancora avvolto nel fazzoletto con le iniziali. — Per ricordare a tutti che tu hai già subito la maledizione. — Sospirò, inquieta. — Non voglio essere processata due volte per lo stesso crimine.
Poi posò il medaglione sul Libro. — Questa volta lo faremo come si deve. Prese l'amuleto consunto che portava al collo e depose anche quello sul Libro, accanto al cammeo. Il dischetto d'oro sembrava quasi una moneta, l'incisione sbiadita dal tempo e dall'usura. — Per ricordare a tutti che, se se la prendono col mio ragazzo, se la prendono con me. Amma chiuse gli occhi. Anch'io chiusi i miei. Toccai le pagine con le dita e iniziai a recitare, prima piano, poi sempre più forte. — CRUOR PECTORIS MEI, TUTELA TUA EST. / VITA VITAE MEAE, CORRIPIENS TUAM, CORRIPIENS MEAM. Pronunciai le parole con sicurezza. La sicurezza di chi è del tutto indifferente alla vita o alla morte. — CORPUS CORPORIS MEI, MEDULLA MENSQUE, / ANIMA ANIMAE MEAE, ANIMAM NOSTRAM CONECTE. Gridai le parole al paesaggio immobile, anche se non c'era nessuno a sentirle, tranne Amma. — CRUOR PECTORIS MEI, LUNA MEA, AESTUS MEUS. / CRUOR PECTORIS MEI. FATUM MEUM, MEA SALUS. Amma prese tra le sue mani forti le mie mani tremanti e ripetemmo di nuovo l'Incantesimo, insieme. Questa volta lo recitammo nella lingua di Ethan e di sua madre Lila, di zio Macon e zia Del, di Amma e Link e della piccola Ryan e di tutti quelli che amavano Ethan e che amavano noi. Questa volta, le nostre parole si mutarono in canto. Un canto d'amore: per Ethan Lawson Wate, dalle due persone che lo amavano di più. E che più avrebbero sofferto per la sua assenza, se avessero fallito. SANGUE DEL MIO SANGUE, TUA È PROTEZIONE.
VITA DELLA MIA VITA, LA TUA PRENDI, LA MIA PRENDI. CORPO DEL MIO CORPO, MIDOLLO E MENTE, ANIMA DELLA MIA ANIMA, ALLA NOSTRA ANIMA VINCOLATI. SANGUE DEL MIO CUORE, MIA LUNA, MIE MAREE. SANGUE DEL MIO CUORE. MIA SALVEZZA, MIO DESTINO. Un fulmine colpì me e il Libro, la cappella, Amma. Almeno, così mi parve. Poi ricordai le visioni: anche Genevieve aveva avuto questa impressione. Amma venne scaraventata contro il muro della cappella e batté la testa contro la pietra. Sentii l'elettricità attraversare il mio corpo e mi abbandonai a essa senza timore. Se fossi morta, almeno sarei stata con Ethan. Lo sentivo presente, vicino, sentivo quanto lo amassi. Sentivo l'anello che mi bruciava sul dito, sentivo quanto lui mi amasse. Mi bruciavano gli occhi. Ovunque guardassi, vedevo un alone di luce dorata, come se in qualche modo fossi io a emanarla. Sentii Amma sussurrare: — Il mio ragazzo... Mi voltai verso Ethan. Era lambito da quella luce dorata, come il resto. Era ancora immobile. Guardai Amma, nel panico. — Non ha funzionato. Lei si appoggiò all'altare di pietra, chiudendo gli occhi. Gridai: — Non ha funzionato! Mi allontanai barcollando dal Libro, caddi nel fango. Alzai gli occhi al cielo. La luna era di nuovo al suo posto. Tesi le braccia verso di lei. Il calore mi bruciava nelle vene, dove avrebbe dovuto esserci il sangue. La rabbia montò dentro di me, senza possibilità di sfogo. La sentivo divorarmi da dentro. Sapevo che se non avessi trovato il modo di liberarla, mi avrebbe distrutto. Hunting. Larkin. Sarafine.
Il predatore, il codardo e mia madre, l'assassina che viveva allo scopo di distruggere la sua stessa figlia: i rami malati nell'albero della mia famiglia di Maghi. Come potevo Reclamare me stessa, se loro mi avevano già preso l'unica cosa che contasse per me! Il calore uscì dalle mie mani, come mosso da una volontà propria. Il fulmine attraversò il cielo. Sapevo dove sarebbe caduto, prima ancora che cadesse. Tre punti di una bussola, senza un nord che mi facesse da guida. Il fulmine esplose in una fiammata e colpì simultaneamente tre bersagli: le tre persone che quella notte mi avevano portato via tutto. Forse avrei dovuto distogliere lo sguardo, ma non lo feci. La statua che un attimo prima era mia madre era stranamente bella, avvolta dalle fiamme, alla luce della luna. Abbassai le braccia, mi pulii gli occhi dalla terra, dalla cenere, dal dolore. E quando li rialzai, lei era sparita. Erano spariti tutti e tre. La pioggia cominciò a cadere. La vista, finora offuscata, divenne nitida e acuta. Vedevo gli scrosci di pioggia che colpivano le querce fumanti, i campi, i cespugli. Per la prima volta da molto tempo, forse per la prima volta in assoluto, ci vedevo con chiarezza. Tornai alla cappella, da Ethan. Ma lui era sparito. Dove poco prima c'era il suo corpo, ora ce n'era un altro: zio Macon. Non capivo. Mi girai verso Amma, in cerca di risposte. I suoi occhi erano enormi, pieni di paura. —Amma, dov'è Ethan? Cos'è successo? Ma lei non mi rispose. Per la prima volta, era senza parole. Fissava allibita il corpo di zio Macon. — Non avrei mai
pensato che finisse così, Melchizedek. Dopo tutti questi anni, a reggere sulle nostre spalle il peso del mondo, insieme. — Gli parlava come se lui potesse sentirla, anche se aveva solo un filo di voce. — Come farò, adesso, a sostenerlo da sola? L'afferrai per le spalle, sentii nei palmi le sue ossa appuntite. — Amma, cosa sta succedendo? Lei alzò gli occhi per guardare nei miei, la voce appena un sussurro. — Non puoi prendere niente dal Libro senza dare qualcosa in cambio. — Una lacrima rotolò sulla sua guancia grinzosa. Non poteva essere vero. Mi inginocchiai accanto a zio Macon, lentamente gli sfiorai il volto perfettamente rasato. Mi aspettavo di trovarvi l'ingannevole calore associato agli esseri umani, alimentato dall'energia delle speranze e dei sogni dei Mortali. Non oggi. Oggi, la sua pelle era fredda come il ghiaccio. Come la pelle di Ridley. Come quella dei morti. Senza dare qualcosa in cambio. — No... per favore, no. — Avevo ucciso zio Macon. E non avevo nemmeno Reclamato me stessa. Non avevo nemmeno scelto di entrare nella Luce. Eppure l'avevo ucciso. La rabbia tornò a salire dentro di me, il vento si alzò, violento, mulinante, tempestoso come le mie emozioni. Cominciava a essere una sensazione familiare, come un'amicizia di vecchia data. Il Libro aveva fatto uno scambio orribile, uno scambio che io non avevo chiesto. Poi capii. Uno scambio. Se zio Macon era qui, dove prima giaceva Ethan senza vita, poteva forse significare che Ethan fosse là, al suo posto, vivo? Ero già in piedi, già in corsa verso gli alberi. Il paesaggio immobile era avvolto in quella strana luce dorata. Vidi Ethan, disteso sull'erba accanto a Boo, dove pochi attimi prima c'era
zio Macon. Corsi da lui. Gli presi la mano, ma era gelida! Ethan era ancora morto. E ora anche zio Macon lo era. Cos'avevo fatto? Li avevo persi entrambi. Inginocchiata nel fango, nascosi la testa sul petto di Ethan e piansi. Mi tenni la sua mano sulla guancia. Pensai a tutte le volte che aveva rifiutato di accettare il mio destino, che aveva rifiutato di arrendersi, di dirmi addio. Adesso toccava a me. — Io non ti dirò addio. Non te lo dirò. — Eravamo arrivati a questo, un sussurro in un campo di erbacce fumanti. Poi sentii. Le dita di Ethan cominciarono ad aprirsi, a chiudersi, cercando le mie. L? Lo sentivo appena. Sorrisi tra le lacrime e gli baciai il palmo della mano. Ci sei, Lena d'Avena? Intrecciai le mie dita alle sue e giurai che non le avrei mai lasciate. Sollevai il viso, lasciai che la pioggia lo bagnasse, che lavasse via la fuliggine. Sono qui. Non andare. Non vado da nessuna parte. E nemmeno tu.
12-02 Il lato positivo Guardai il cellulare. Era rotto. Segnava ancora le 23:59. Ma sapevo che mezzanotte era passata da un pezzo, perché lo spettacolo pirotecnico era iniziato, nonostante la pioggia. La Battaglia di Honey Hill era finita per un altro anno. Ero disteso nel fango, in mezzo al campo, e lasciavo che la pioggia mi bagnasse. Guardavo quei fuochi d'artificio da nulla che tentavano di esplodere nel cielo notturno ancora intriso di pioggia, e tutto era come annebbiato. La mia mente non riusciva a concentrarsi. Ero caduto, avevo battuto la testa e non solo. Lo stomaco, il fianco e tutto il lato sinistro mi dolevano. Se mi fossi presentato a casa conciato così, Amma mi avrebbe ucciso. Ricordavo solo una cosa: ero aggrappato a quello stupido angelo di pietra e l'attimo dopo ero lì, disteso in mezzo al fango. Forse si era staccato un pezzo della statua mentre cercavo di arrampicarmi sulla cappella, ma non ne ero molto sicuro. Forse era stato Link a trascinarmi qui, dopo che ero caduto come un idiota. A parte quello, era come se la mia memoria si fosse svuotata. Probabilmente fu per quello che non capii perché vicino alla cappella ci fossero Marian, Arelia e zia Del, abbracciate
insieme, in lacrime. E nulla avrebbe potuto prepararmi a ciò che vidi quando finalmente mi avvicinai barcollando. Macon Ravenwood. Morto. Forse era morto da sempre, questo non lo sapevo, ma adesso non c'era più. Lo capivo. Lena si gettò sul corpo dello zio, sotto la pioggia che li bagnava entrambi. Per la prima volta, la pioggia bagnava Macon. * * * La mattina seguente cominciai a ricostruire in parte gli avvenimenti della sera del compleanno di Lena. Macon era stato l'unica perdita. Mi avevano detto che suo fratello Hunting lo aveva sopraffatto, dopo che io avevo perso coscienza. La nonna di Lena mi aveva spiegato che nutrirsi di sogni era molto meno sostanzioso che nutrirsi di sangue. Probabilmente Macon non aveva mai avuto una possibilità contro Hunting. Eppure, questo non gli aveva impedito di provarci. Macon aveva sempre detto che per Lena avrebbe fatto qualsiasi cosa. Alla fine, si era dimostrato un uomo di parola. Tutti gli altri sembravano stare bene, almeno fisicamente. Zia Del, la nonna e Marian si erano trascinate fino a Ravenwood, seguite da Boo che uggiolava come un cucciolo smarrito. Zia Del non riusciva a capire cosa fosse successo a Larkin. Nessuno sapeva come darle la notizia che, nella sua famiglia, di mele marce non ce n'era una sola, ma due. Così nessuno disse niente. La mamma di Link non si ricordava niente e lui ebbe il suo bel daffare a spiegarle cosa ci facesse nel bel mezzo del campo di battaglia con le sue mille gonne e la pancera. Trovarsi in compagnia della famiglia di Macon Ravenwood la fece inorridire, ma si comportò in modo civile mentre
Link l'aiutava a salire sul Catorcio. Link aveva un sacco di domande da farmi, ma poteva aspettare fino ad Algebra II. Sarebbe stato un bel passatempo, quando le cose fossero tornate alla normalità. Se lo avrebbero mai fatto. E Sarafine. Sarafine, Hunting e Larkin erano spariti. Lo sapevo perché quando avevo ripreso i sensi loro non c'erano più e invece c'era Lena, ed eravamo tornati insieme verso Ravenwood. Sui dettagli ero molto confuso, come su ogni altra cosa, del resto, ma sembrava che Lena, Macon e tutti noi avessimo sottostimato i poteri di Lena come Naturale. In qualche modo era riuscita a togliere la luna dal cielo e a salvarsi dalla Reclamazione. Senza la Reclamazione sembrava che Sarafine, Hunting e Larkin fossero fuggiti, almeno per il momento. Lena ancora non ne voleva parlare. Non voleva parlare di niente. Mi ero addormentato sul pavimento della sua camera, accanto a lei, le nostre mani ancora allacciate. Quando mi svegliai, Lena non c'era più e io ero solo. Le pareti della sua stanza, le stesse che il giorno prima erano così fitte di scrittura da non lasciare un solo centimetro bianco, adesso erano completamente pulite. Tranne una, quella di fronte alle finestre: era coperta di parole dal pavimento fino ai soffitto. Ma la calligrafia non sembrava più quella di Lena. La sua scrittura un po' adolescenziale era sparita. Toccai la parete, come se potessi sentire al tatto le parole. Sapevo che era stata sveglia tutta la notte a scrivere. macon ethan gli appoggiai la testa al petto e piansi perché aveva vissuto perché era morto oceano asciutto, deserto d'emozione
lietotriste tenebraluce doloregioia passarono su di me, sotto di me sentivo il suono ma non capivo le parole poi capii che il suono ero io, io che mi spezzavo in un momento sentii ogni cosa ma non sentivo niente ero in frantumi, ero salvata, avevo perso tutto, avevo ricevuto tutto il resto qualcosa in me morì, qualcosa in me nacque, sapevo solo che la ragazza era sparita qualsiasi cosa fossi adesso, non sarei mai più stata lei è questo il modo in cui finisce il mondo non già con uno schianto ma con un lamento reclama te stessa reclama te stessa reclama te stessa reclama gratitudine furia amore disperazione speranza odio il primo verde è oro ma nulla verde può restare non provarci nulla verde può restare T.S. Eliot. Robert Frost. Bukowski. Riconobbi alcuni dei poeti dei suoi scaffali e delle sue pareti. Ma Frost, Lena l'aveva scritto al contrario, e non era da lei. «Nulla oro può restare» così diceva il poeta. Non "verde". Forse adesso era tutto uguale, per lei. Mi trascinai in cucina, dove zia Del e la nonna parlottavano tra loro. Ripensai ai toni bassi e ai parlottii di quando mia madre era morta. A quanto li avessi odiati. Ricordavo quanto fosse stato doloroso vedere la vita che andava avanti, le zie e le
nonne che facevano programmi, chiamavano i parenti, spazzavano via i pezzi mentre invece io volevo solo strisciare nella bara con lei. O forse piantare un albero di limoni, friggere qualche pomodoro, costruirle un monumento a mani nude. — Dov'è Lena? — Il mio tono non era basso e spaventai zia Del. Ma nulla poteva spaventare la nonna. — Non è nella sua stanza? — zia Del era già in agitazione. Arelia si versò con calma un'altra tazza di tè. — Io scommetto che tu sai dov'è, Ethan. Era vero. * * * Lena era distesa sulla cappella, dove avevamo trovato Macon. Fissava il cielo grigio del mattino, umida e infangata, con i vestiti della notte prima. Non sapevo dove avessero portato il corpo di Macon, ma comprendevo il suo desiderio di stare lì. Di essere con lui, anche se lui non c'era. Non mi guardò, ma sapeva che c'ero. — Quelle cose odiose che ho detto, non potrò mai ritirarle. Non ha mai saputo quanto bene gli volevo. Mi sdraiai nel fango accanto a lei, tra i dolori del mio corpo malconcio. La guardai, guardai i capelli che si arricciavano, le guance sporche e umide. Le lacrime scorrevano sul suo viso, ma lei non cercava di asciugarle. Io nemmeno. — È morto per colpa mia. — Lena fissava il cielo grigio con gli occhi sbarrati. Avrei voluto che ci fosse qualcosa da poterle dire, per farla sentire meglio, ma sapevo meglio di chiunque altro che non esistevano parole del genere. Così non dissi niente. Invece, le baciai tutte le dita della mano. Mi fermai quando le mie labbra assaggiarono il sapore del metallo. E lo vidi: Lena indossava l'anello di mia madre sulla mano destra.
Le sollevai la mano per vederlo. — Non volevo perderlo. La catenina si è rotta, ieri sera. Le nuvole scure si accumulavano e si scioglievano. Non avevamo ancora visto la coda della tempesta, questo lo sapevo. Strinsi la sua mano nella mia. — Non ti ho mai amato tanto come adesso, in questo preciso momento. E non ti amerò mai meno di adesso, in questo preciso momento. La distesa grigia del cielo era un momento di calma senza sole, tra la tempesta che aveva cambiato le nostre vite per sempre e la tempesta ancora a venire. — È una promessa? Le strinsi più forte la mano. Non lasciarmi. Mai. Le nostre dita si intrecciarono. Lei girò la testa e quando guardai nei suoi occhi, notai per la prima volta che uno era verde e l'altro nocciola. Anzi, dorato. * * * Era quasi mezzogiorno quando iniziai la lunga camminata fino a casa. Il cielo azzurro era striato di grigio scuro e d'oro. La pressione stava crescendo, ma forse ci voleva ancora qualche ora prima che esplodesse. Lena probabilmente era ancora sotto shock. Invece io ero pronto per la tempesta. E quando sarebbe arrivata, la stagione degli uragani di Gatlin sarebbe sembrata un acquazzone di primavera. Zia Del si era offerta di accompagnarmi a casa in macchina, ma io avevo preferito andare a piedi. Mi facevano male tutte le ossa, però avevo bisogno di schiarirmi la mente. Infilai le mani nelle tasche dei jeans e sentii il grumo familiare. Il medaglione. Io e Lena avremmo dovuto cercare il modo di restituirlo
all'altro Ethan Wate, quello nella tomba, secondo il desiderio di Genevieve. Forse avrebbe dato un po' di pace a Ethan Carter Wate. Glielo dovevamo. Scesi lungo la strada che conduceva a Ravenwood e mi ritrovai ancora una volta al bivio, quello che mi era parso così spaventoso prima di conoscere Lena. Prima di sapere dove stessi andando. Prima di sapere cosa fosse la paura vera. E il vero amore. Oltre i campi, imboccai la Route 9, ripensando a quel primo viaggio in macchina, a quella prima notte nella tempesta. Ripensai a tutto quanto, al rischio che avevo corso di perdere mio padre e anche Lena. A quando avevo riaperto gli occhi e avevo visto lei che mi guardava e avevo pensato solo a quanto fossi fortunato. Prima di capire che avevamo perso Macon. Ripensai a Macon, ai suoi libri avvolti nella carta e legati con lo spago, alle sue camicie perfettamente stirate, alla sua compostezza ancor più perfetta. Pensai a quanto sarebbe stata dura per Lena, a quanto avrebbe sentito la sua mancanza, a quante volte avrebbe desiderato sentire la sua voce ancora una volta. Ma ci sarei stato io accanto a lei, perché anch'io avrei voluto che ci fosse qualcuno accanto a me quando avevo perso mia madre. E dopo quegli ultimi mesi, dopo che mia madre ci aveva mandato quel messaggio, non ero convinto che Macon fosse veramente scomparso per sempre. Forse c'era ancora, da qualche parte, a vegliare su di noi. Aveva sacrificato se stesso per Lena, di questo ero sicuro. La cosa giusta e la cosa più facile non sono mai la stessa cosa. Nessuno lo sapeva meglio di Macon. Guardai il cielo. Vortici di grigio s'insinuavano nell'azzurro compatto, azzurro come il soffitto della mia camera. Chissà se davvero quella tonalità di azzurro induceva le api carpentiere a
non nidificare. Chissà se quelle api scambiavano davvero l'azzurro per il cielo. È assurdo quello che si può vedere, quando non si guarda con attenzione. Tirai fuori l'iPod dalla tasca e lo accesi. C'era una nuova canzone sulla playlist. La fissai a lungo. Diciassette Lune. L'ascoltai. * * * Diciassette anni, diciassette lune Occhi in cui Luce o Tenebra appaiono Oro per il sì, verde per il no Diciassette, allora saprò.
Ringraziamenti Ci sono voluti solo tre mesi per scrivere la prima bozza del libro Abbiamo scoperto che scrivere era la parte più facile. Scrivere bene è stato molto più difficile e ha richiesto l'aiuto di molte più persone. Ecco l'albero genealogico di questo romanzo: Raphael Simon & Hilary Reyl, che l'hanno visto prima che ci fosse qualcosa da vedere. Sarah Burnes della Gernert Company, agente straordinaria che l'ha letto e ha capito tutto dall'inizio. Courtney Gatewood della Gernert Company, agente 007 che l'ha portato oltre il guado, e più in là. Jennifer Hunt & Julie Scheina, geniale e implacabile team editoriale della Little, Brown and Company, che ci hanno fatto piangere e sudare fino a trovare la versione ideale. Dave Caplan, nostro talentuoso designer psichico che ha creato la strada per Ravenwood proprio come l'avevamo immaginata. Matthew Chupak, che ha tradotto il nostro latinorum in latino vero. Alex Hoerner, fotografo delle stelle (e di noi), che ci ha fatto apparire belle senza nessuna Magia. I nostri parenti della Carolina del Nord, in particolare Haywood Ainsley Early, genealogista che ci ha aiutato a piantare i nostri alberi genealogici & Anna Gatlin Harmon, la nostra preferita tra le Figlie della Confederazione, che ci ha prestato il suo cognome da ragazza e ci ha fatto parlare come si deve.
E i nostri lettori: Hannah, Alex C, Tori, Yvette, Samantha, Martine, Joyce, Oscar, David, Ash, Virginia, Jean x 2, Kerri, Dave, Madeli-ne, Phillip, Derek, Erin, Ruby;Amanda & Marcos che, volendo sapere gli sviluppi della storia, hanno cambiato gli sviluppi e la storia; Ashly, detta anche la Regina dei Vampiri Adolescenti; Susan & John, Robert & Celeste, Burton & Mare, che ci hanno ascoltato e incoraggiato, come fanno da tutta la vita; May & Emma, che sono rimaste a casa da scuola per due volte a eliminare le sdolcinature e che hanno scoperto il frammento che mancava alla fine, come solo una tredicenne e una quindicenne avrebbero saputo fare; Kate P e Nick & Stella G, che si sono addormentati ogni sera al ticchettio di una tastiera. E naturalmente Alex & Lewis che hanno trovato tutte le falle e impedito all'universo di caderci dentro, e che hanno sopportato tutto questo e anche di più.