Wilbur Smith, La notte del leopardo. Copyright 1984 by Wilbur Smith. Scansione by roy Peliz. Trama. Non esiste niente di peggio, per uno scrittore, del ritrovarsi all'improvviso 'inaridito', senza più stimoli e fantasia. E quanto succede a Clay Mellow, protagonista de 'La notte del leopardo', un romanziere di successo che da tempo non riesce a produrre il best-seller. Sul suo yacht ormeggiato nel porto di New York, Clay pensa con nostalgia agli incontaminati paesaggi africani dove è cresciuto. Sono ricordi lontani, che lo riportano ai tempi in cui la sua famiglia era una delle più ricche del luogo. Ma le proprietà non esistono più e persino quelle sensazioni che avevano ispirato il suo primo romanzo ambientato in Africa sembrano svanite per sempre... Proprio nel momento in cui Clay si sente al massimo dell'apatia, il destino ha in serbo per lui una carta che, se ben sfruttata, può riportargli fama e felicità: gli viene affidata una pericolosa missione nello Zambesi. Gli splendidi occhi di Sally, la donna che lo accompagna nel suo viaggio, riaccendono l'amore nel cuore di Clay ora, pieno di speranze e di nuova forza. Per riuscire nell'impresa sarà necessario molto spirito d'iniziativa e molto coraggio. Ma più prezioso di ogni altro aiuto si rivelerà per Clay la presenza, al suo fianco, della splendida Sally-Anne: una donna innamorata che condividerà appassionatamente ogni momento della 'grande avventura'. L'Autore. WILBUR SMITH E nato nello Zambia nel 1933 e ha compiuto gli studi in Sud Africa alla Rodhes University. Per accontentare il padre si diede agli affari acquistando una fattoria, ma gli articoli scritti sui giornali universitari avevano acceso la sua immaginazione. Comincio con brevi racconti, sotto lo pseudonimo di Lawrence, perchè Smith gli sembrava poco romantico. Poi fu la volta dei romanzi. Entusiasta cacciatore giocatore di golf, pescatore e alpinista Smith ha una rara capacità di concentrazione che gli permette di lavorare, spesso, a più libri contemporaneamente. E i risultati eccellenti si vedono: 13 romanzi tradotti in tutto il mondo, per un totale di 13 milioni di copie, due film tratti dalle sue storie e altri in progetto. Solo Come il mare (tra i più felici Libri Mese del Club) è stato pubblicato in 15 paesi; e il destino del leone, regge meravigliosamente il confronto. Altri best-seller sono stati L'orma del califfo, La voce del tuono, Gli eredi dell'eden, Dove finisce l'arcobaleno. Ma qual è la formula del suo successo? Smith ammette che i suoi personaggi, vigorosi uomini d'azione, sono un misto di se stesso e di ciò che vorrebbe essere. Definito il più grande scrittore d'avventure di oggi, Smith vive con la terza moglie Danielle, impiega il tempo libero a studiare il comportamento degli animali.
Era un venticello che aveva già percorso più di mille miglia, perché veniva dal Kalahari, il vasto e desolato deserto che i piccoli boscimani gialli chiamano "Il Gran Secco." Adesso che aveva raggiunto la valle dello Zambesi si rompeva in vortici e mulinelli tra le colline e le scarpate accidentate. L'elefante maschio era fermo appena sotto la cresta di una di queste colline. Era troppo furbo per commettere l'errore di stagliare la sua mole contro il cielo. Invece l'aveva nascosta dietro le tenere foglie appena messe dagli alberi di msasa, confondendola col grigio delle rocce retrostanti. Salì di qualche passo e succhiò l'aria nelle ampie narici pelose, poi ritirò la proboscide e delicatamente si soffiò in bocca. I due organi olfattivi piazzati sotto il labbro superiore si aprirono come
boccioli di rosa e l'elefante saggiò la brezza. Riconobbe la polvere fine e pepata dei lontani deserti, il polline di cento piante, la tiepida puzza bovina dei bufali che pascolavano nella vallata lì sotto e il fresco odore dell'acqua a cui si abbeveravano. Queste e altre uste colse, e giudicò accuratamente la distanza della fonte di ogni odore. Tuttavia non erano questi gli odori che cercava. Cercava l'acre fortore che vince tutti gli altri: la puzza di tabacco africano mista al rancido e inconfondibile miasma del carnivoro, il sudore seccato nella lana sporca, la paraffina, il sapone, il cuoio conciato degli stivali: insomma l'usta dell'uomo. Ed ecco che all'improvviso la colse, forte e vicina, come sempre dal giorno in cui era cominciata la caccia. Ancora una volta il vecchio maschio sentì che si ridestava in lui una furia atavica. Infinite generazioni della sua razza erano state perseguitate dai portatori di quell'odore. Fin da piccolo aveva imparato a odiarlo e temerlo, e quasi tutta la sua vita era trascorsa a sfuggirlo. Solo di recente c'era stata un'interruzione in questa vicenda di caccia e fuga continua. Undici anni di tregua, un po' di tranquillità per i branchi che pascolavano lungo lo Zambesi. L'elefante non poteva saperne né capirne la ragione: tra i persecutori era scoppiata una terribile guerra civile. La guerra aveva trasformato quelle vaste distese lungo la riva meridionale dello Zambesi in una specie di terra di nessuno, dove non osavano avventurarsi né i bracconieri a caccia d'avorio né i ranger del governo che avevano l'incarico di sfoltire periodicamente il sovrappiù della popolazione elefantina. Così in quegli anni i branchi avevano prosperato, ma ora la persecuzione era ricominciata con l'implacabile ferocia di prima. Con la rabbia e lo spavento ancora nel cuore, il vecchio maschio alzò la proboscide un'altra volta e risucchiò l'usta più temuta, saggiandola poi nei penetrali del cranio ossuto. Quindi si voltò e lentamente valicò la cresta rocciosa, stagliandosi per un istante, macchia grigiastra contro l'azzurro chiaro del cielo africano. Sempre valutando ciò che aveva appena fiutato, raggiunse il branco sparso sull'altro versante della collina. Sparpagliati tra gli alberi c'erano quasi trecento elefanti. La maggior parte delle elefantesse avevano i piccoli, alcuni appena nati, delle dimensioni di grossi porcelli. Ancora lattanti, si infilavano sotto la mole della madre, arrotolavano la proboscide sopra la testa e allungavano il collo verso la tetta gonfia che pendeva tra le zampe anteriori. I piccoli già un po' cresciuti scorrazzavano intorno, giocando rumorosamente tra i piedi degli animali adulti, finché qualcuno, scocciato, non strappava con la proboscide da un albero un ramo più nodoso che frondoso sculacciando con quello i piccoli pachidermi che fuggivano con scherzosi squittii, più che barriti di terrore. Gli elefanti si nutrivano, con metodica calma. Infilavano la proboscide nel folto dei rovi per raccogliere manciate di more che poi si piaZzavano in gola a una a una, come un vecchietto che prenda l'aspirina; oppure facendo leva con la zanna d'avorio macchiato cercavano di scorticare un albero di msasa, riuscivano a staccare una striscia di corteccia magari di due metri, e se la stipavano con voluttà nel capace sacco triangolare del labbro inferiore; oppure ancora si rizzaVanO sulle zampe posteriori come un cane che mendichi e, estendendo la proboscide, strappavano dalla cima degli alberi le foglie più tenerelle; oppure infine utilizzavano il loro peso di quattro tonnellate per scrollare a testate un grosso albero, facendo piovere una doccia di bacche mature. Più a valle due giovani maschi avevano unito le forze per sradicare un albero di trenta metri, di cui era impossibile raggiungere le foglie. Proprio mentre si schiantava a terra, il capo del branco valicava la cresta della collina: immediata-
mente tutti gli elefanti si interruppero, e ai lieti rumori del pasto succedette una calma che contrastava in modo sbalorditivo con l'attività di prima. I piccoli si avvicinarono ansiosi al fianco delle madri, e gli adulti si immobilizzarono, con le orecchie aperte e solo la punta della proboscide vibrante e protesa. Il capobranco scese verso il suo popolo con andatura trotterellante, con le spesse zanne d'avorio sollevate da terra e l'allarme evidente nella positura spalancata delle orecchie. Sentiva ancora nelle narici l'usta umana: quando raggiunse il più vicino gruppetto di femmine, alzò la proboscide e soffiò anche su di loro una boccata di quell'aria contaminata. Immediatamente esse si voltarono sottovento, in maniera da continuare a coglier l'usta. Il resto del branco vide la manovra e si rimise in ordine di marcia, le femmine coi piccoli al centro, le vecchie intorno, i maschi giovani all'avanguardia e gli adulti, con gli "ascari" che li servivano, sui fianchi; e in questa formazione si avviarono col trotto divora-terreno che erano in grado di tenere per un giorno, una notte e un altro giorno senza interruzione. Avviandosi, il vecchio maschio si sentì confuso. Non gli era mai capitato di essere inseguito tanto a lungo: ormai erano otto giorni che avevano gli uomini alle calcagna, ma non si erano mai avvicinati tanto da entrare in contatto col branco. Erano sempre a sud, a portata di fiuto ma fuori vista. Sembrava che fossero in molti, più di quanti gli fosse mai occorso di incontrarne in tutti i suoi vagabondaggi: formavano come una lunghissima rete, che gli precludeva tutti i sentieri che portavano a sud. Soltanto una volta era riuscito a scorgerli, con la miope vista degli elefanti: era accaduto il quinto giorno, allorché, persa la pazienza, aveva ordinato al branco di fare dietro front per cercar di sfondare le loro file. Allora a un tratto erano comparse, sbucando dall'erba gialla, le ritte figurette a bastoncino, così apparentemente fragili e invece mortali: e a furia di battere su scatole di latta e sventolargli coperte davanti agli occhi erano riusciti a fargli rifare dietro front, spingendolo assieme al branco giù dalle colline, verso il grande fiume che scorreva nel fondovalle. Quelle pendici erano solcate dalle innumerevoli piste tracciate in diecimila anni dai branchi d'elefanti: piste che seguivano i percorsi di minima pendenza e sfruttavano tutti i valichi e i passaggi di quelle colline rocciose. Il vecchio maschio ne imboccò una: gli elefanti lo seguirono in fila indiana e, dopo le strettoie della discesa, sbucarono sulla piana. La marcia proseguì tutta la notte. Non c'era luna, ma le stelle erano luminosissime, e il branco mosse quasi senza rumore per la foresta tenebrosa. Una volta, dopo mezzanotte, il vecchio maschio si fermò, lasciando andare avanti il branco, e si mise fuori del sentiero battuto ad aspettare. Nel giro di un'ora tornò a cogliere nel vento la fatale usta dell'uomo. Era molto debole e distante ma c'era, c'era ancora, e il capobranco si rimise in marcia per raggiungere le femmine. All'alba gli elefanti raggiunsero una zona da cui mancavano da dieci anni. Era la breve striscia lungo il fiume che era stata teatro, durante la guerra, di una intensa attività dell'uomo, ragion per cui esso l'aveva accuratamente evitata fino a quel momento, quand'era stato costretto a tornarci. Il branco si muoveva ora con meno fretta: si erano lasciati gli inseguitori ben dietro le spalle, potevano rallentare per nutrirsi per via. La foresta era più verde e lussureggiante lì sul fondovalle. Gli alberi di msasa avevano ceduto il posto a quelli di mopani e ai baobab giganti che prosperavano nella più torrida calura, e il vecchio maschio, con le viscere assetate che brontolavano nella sua prodigiosa mole, già sentiva l'odore dell'acqua poco davanti a loro. Tuttavia un misterioso istinto lo avvertiva che c'era un pericolo
anche di fronte, oltre a quello che già li incalzava. Così si fermò spesso, muovendo lentamente la testa da una parte e dall'altra, le enormi orecchie aperte come radar e gli occhi miopi che scrutavano con cautela prima di avventurarsi a proseguire. E di colpo si fermò ancora una volta. Al limitare del suo campo visivo un barbaglio metallico scintillava al sole mattutino. Il pachiderma si impennò allarmato, e dietro di lui tutto il branco, contagiato dal suo timore, si arrestò. Il vecchio maschio si fermò a guardare il riflesso abbagliante, e pian piano la paura gli passò, perché niente si muoveva a parte la brezza che faceva stormire la foresta, e i rumori della vita che vi si svolgeva del tutto indifferente, canti di uccelli, frinire di insetti, denunciavano una perfetta normalità. Eppure il vecchio maschio aspettò, guardando avanti, e quando la luce mutò scorse altri oggetti metallici disposti in fila davanti a lui. Allora spostò il peso del corpo da una zampa all'altra, a disagio, emettendo un brontolio di indecisione. Ciò che allarmava l'elefante era una fila di cartelli di lamiera applicati a dei paletti piantati nel terreno tanto di quel tempo prima che l'odore dell'uomo ne era ormai svanito. Su ogni cartello c'era un laconico avvertimento dipinto a vernice rossa che il sole cocente aveva sbiadito fino al rosa pallido: teschio e tibie incrociate accompagnavano la scritta PERICOLO, CAMPO MINATO. Il campo minato era stato creato anni prima dalle forze di sicurezza dell'estinto governo rhodesiano bianco, per formare un cordon sanitaEre lungo lo Zambesi nel tentativo di impedire ai partigiani dello ZIPRA e della zANu di penetrare nel territorio dello Stato dalle loro basi situate oltre il fiume nello Zambia. Milioni di mine antiuomo, e di Claymore più grosse, formavano una striscia impenetrabile, così lunga e profonda che era impossibile bonificarla tutta: e comunqùe il costo di un simile lavoro risultava proibitivo per il nuovo governo negro del paese, che già si dibatteva in serie difficoltà economiche. Mentre il vecchio maschio ancora esitava, l'aria si riempì di un suono assordante, il suono di mille uragani. Veniva da dietro il branco, ancora da sud, e il vecchio maschio si girò a vedere di che si trattava. La nuova minaccia che si profilava sopra gli alberi della foresta poteva sembrare un grottesco uccellaccio nero appeso a un disco lucente. Riempiendo il cielo di frastuono, si abbassò sul branco serrato, si abbassò tanto che il vento del rotore piegò le fronde degli alberi come un temporale, alzando dalla terra secca una nuvola di polvere rossa. Spinto dal rombo incalzante, il vecchio maschio fece un altro dietro front gettandosi oltre i cartelli, seguito nel campo minato dall'intero branco in preda al panico. Aveva percorso una cinquantina di metri allorché la prima mina esplose sotto di lui. Come un poderoso colpo d'ascia, l'ordigno antiuomo gli fece volar via metà della zampa posteriore destra. Brandelli di carne viva e sanguinante presero a pendere, mentre in fondo alla ferita si vedeva biancheggiare il grande osso. Su tre zampe, il vecchio maschio si trascinò avanti, e la mina successiva gli scoppiò proprio sotto l'anteriore destra. Stavolta maciullò il coriaceo piede fino alla caviglia. Il maschio emise un barrito di dolore, e non potendo più appoggiarsi sul lato destro si rovesciò impotente sul fianco, mentre tutt'intorno a lui il suo branco invadeva il campo minato. Il bum-bum degli scoppi era intermittente, sul principio, al limitare del campo minato, ma ben presto accelerò come un pazzesco assolo di tamburi. Ogni tanto quattro o cinque mine esplodevano contemporaneamente, con una detonazione fortissima che rimbombava sulle colline rocciose creando echi a centinaia. Il sottofondo, come la sezione degli archi di qualche diabolica orchestra, era il rombo del rotore dell'elicottero, che si alzava e abbassava come un cane-pastore per spingere gli elefanti in fuga di nuovo sulle mine, andando a riprendere e a far tornare indietro un giovane elefante miracolosamente arrivato sulla riva del fiume, finché una
mina non esplose strappandogli una zampa e la povera bestia non si mise a girare barrendo disperatamente su se stessa. Ormai l'esplosione era continua, come un bombardamento navale, e ogni scoppio sollevava nell'aria ferma della vallata un'alta nuvola di polvere, sicché la nebbia rossastra cancellò un po' di quell'orrore. La polvere vorticava alta come la cima degli alberi, trasformando gli animali in scuri spettri tormentati che a tratti le esplosioni illuminavano. Una vecchia femmina mutilata delle quattro zampe giaceva su un fianco e, puntando la testa sulla terra, cercava invano di rialzarsi. Un'altra si trascinava sulla pancia, con gli arti posteriori maciullati, cercando di proteggere con la proboscide il piccolo che aveva vicino, finché una mina Claymore non scoppiò sotto di lei svellendole le costole come doghe di un'enorme botte, e contemporaneamente dilaniando il piccolo. Altri elefantini, separati dalle madri, si aggiravano barrendo nella nuvola di polvere, con le orecchie appiattite contro il cranio per il terrore, finché qualche bomba non li dilaniava proiettando dappertutto le loro membra. Continuò per un pezzo, e poi le esplosioni si diradarono, tornarOno intermittenti, e infine gradualmente cessarono. L'elicottero atterrò, fuori del campo minato. Si spense il motore, le pale si fermaronO. Ormai l'unico rumore era quello delle bestie mutilate e moribonde, che urlavano sdraiate sul terreno sconvolto fra gli alberi coperti di polvere rossastra. Il portello dell'elicottero si aprì e un uomo saltò agilmente a terra. Era un negro, vestito con un giubbotto di denim sbiadito, da cui erano state accuratamente scucite le maniche, e jeans aderenti. All'epoca della guerra rhodesiana, la tela jeans era praticamente l'uniforme dei partigiani indipendentisti. Questo aveva ai piedi degli scarponi borchiati, di fattura occidentale, e in testa gli occhiali Polaroid antiriflesso, da aviatore, che si era tirato su dal naso. Con la fila di biro appuntate al taschino del giubbotto, c'erano le insegne che, fra i guerriglieri, distinguevano i veterani. Sotto il braccio destro portava la mitraglietta d'assalto AK 47. Andò al limite del campo minato e rimase cinque minuti buoni a osservare, impassibile, la carneficina che aveva appena avuto luogo nella foresta. Poi si avviò di nuovo all'elicottero. Dietro la cupola di perspex il pilota lo guardava con attenzione, con la cuffia ancora in testa sopra un'elaborata pettinatura afro: ma l'ufficiale lo ignorò per concentrarsi invece sulla fusoliera del velivolo. Qui le insegne e il numero di identificazione erano stati accuratamente ricoperti con del nastro adesivo, su cui poi era stata spruzzata una bomboletta di vernice nera. In un punto il nastro adesivo si era staccato, esponendo un angolo del numero: l'ufficiale lo rimise a posto col palmo della mano, ispezionò il proprio lavoro con occhio critico, e dopo un attimo girò sui tacchi diretto all'ombra del più vicino mopani. Appoggiò il kalashnikov al tronco, stese a terra un fazzoletto per non sporcarsi i calzoni e sedette contro l'albero. Si accese una sigaretta con un bel Dunhill d'oro e inspirò profondamente, prima di emettere il fumo a rivoletti tra le grosse labbra scure. Poi finalmente sorrise, un sorriso freddo e razionale, al pensiero di quanti uomini, quanto tempo e quante munizioni sarebbero occorsi per ammazzare trecento elefanti in maniera convenzionale. "Il compagno commissario non ha perso niente della sua astuzia dai vecchi tempi della guerriglia. A chi altri poteva venire in mente un trucco così?" Scosse la testa in segno di rispetto e ammirazione. Finita la sigaretta, ridusse il mozzicone in polvere tra le dita, un'abitudine che gli era rimasta dai vecchi tempi, e chiuse gli occhi.
Ormai quei tempi erano passati da un bel po'. Le urla laceranti che provenivano dal campo minato non gli impedirono di assopirsi, ma delle lontane voci umane lo risvegliarono all'istante. Si alzò in fretta, già sul chi vive, e diede un'occhiata al sole. Era mezzogiorno passato. Andò all'elicottero a svegliare il pilota. "Arrivano." Prese il megafono nell'elicottero e tornò fuori ad aspettare, finché il primo uscì dal folto degli alberi ben presto raggiunto da altri che l'ufficiale sogguardò con un'occhiata di scherno. "Babbuini!" mormorò col disprezzo della persona istruita per il villano, o di un africano per uno di una tribù diversa. Venivano in fila indiana, lungo il sentiero battuto dagli elefanti. Erano due o trecento, coperti di pelli o indumenti occidentali di scarto, gli uomini davanti e le donne dietro. Molte di esse erano a petto nudo, e alcune erano giovani dal volto provocante e le natiche tonde che riempivano liricamente i cortissimi gonnellini a fronzoli di code di animali. Nel guardarle, l'ufficiale in jeans sentì il disprezzo trasformarsi in eccitazione: forse avrebbe trovato il tempo di farsene una più tardi, pensò, infilandosi una mano nella tasca dei calzoni. Si schierarono lungo il limitare del campo minato, ridacchiando e lanciando gridolini di gioia, dandosi di gomito e indicandosi a vicenda la montagna di grosse bestie atterrate. L'ufficiale li lasciò lustrarsi lo sguardo. Si erano guadagnati questa pausa di autocongratulazioni. Erano in pista da otto giorni, quasi senza riposo, per sospingere gli elefanti giù dalle colline e avviarli al campo minato. Mentre aspettava che si calmassero, tornò a considerare quanto carisma e quanta forza di carattere ci volevano per trasformare quella massa di contadini primitivi e analfabeti in un insieme coordinato ed efficiente. L'intera operazione era stata organizzata da un solo uomo. "Un grand'uomo" , si disse l'ufficiale, e subito dopo si riscosse da questo scivolone nel culto della personalità e portò il megafono alle labbra. "Silenzio! Fermi!" Cominciò a distribuire il lavoro. Formò le squadre di macellai tra quelli che erano armati di ascia o panga, il machete africano. Incaricò le donne di preparare le rastrelliere per affumicare la carne e costruire ceste coi rami di mopaDi, spedì altri a far legna per i fuochi. Poi tornò a occuparsi dei macellai. Nessuno di quei contadini era mai salito su un aeromobile, e l'ufficiale dovette usare i calci per indurre il primo a farlo. Dopo di che l'elicottero si alzò e in un attimo fu sopra la prima carcassa. Sporgendosi dal portello, l'ufficiale guardò il vecchio maschio. Ne apprezzò le grosse zanne ricurve, e poi vide che la bestia, nel corso delle ore d'attesa, era morta, era morta dissanguata. Segnalò al pilota di abbassarsi ancora un po'. Avvicinò la bocca alle orecchie del più anziano dei negri della tribù. "I tuoi piedi non devono mai toccar terra! Se no muori!" gli urlò. L'uomo annuì parecchie volte di scatto. "Prima le zanne e poi la carne. L'uomo annuì di nuovo. L'ufficiale gli mollò una pacca sulla spalla e l'anziano membro della tribù saltò sul ventre del bestione che stava già cominciando a gonfiarsi per i gas della putrefazione. Agilmente si rizzò e in breve fu seguito dal resto della sua squadra, con le asce in mano. Al cenno dell'ufficiale, l'elicottero si alzò e, con un salto da cavalletta, si portò sulla verticale della successiva carcassa che mostrava grosse zanne sotto il labbro. Ma non era una carcassa, il bestione era ancora vivo! A fatica si rizzò a sedere e alzò la testa cercando di afferrare con la proboscide lo sfarfallante elicottero. Dalla carlinga, sporgendosi assicurato alla cintura, l'ufficialè prese la mira col kalashnikov e gli sparò un colpo singolo appena sotto la nuca, all'altezza dell'osso del collo. La femmina crollò di
schianto accanto al corpo senza vita dell'elefantino. Con un cenno l'ufficiale mobilitò la seconda squadra di macellai. In equilibrio sulle grige teste gigantesche, attenti a non sfiorare il terreno nemmeno con la punta del piede, gli uomini con le asce scalzavano le zanne dalle loro sedi nelle ossa bianche. Era un lavoro delicato, perché un colpo d'ascia fuori posto, scheggiando la zanna, avrebbe grandemente diminuito il valore dell'avorio. E già avevano visto l'ufficiale dai jeans aderenti spaccare la mascella col calcio del kalashnikov a uno che si era limitato a non eseguire con la necessaria prontezza un suo ordine. Cosa avrebbe fatto a chi gli avesse rovinato una zanna? Così tutti lavoravano con grande attenzione. Man mano che staccavano le zanne, l'elicottero veniva a prenderli e li portava su un altro elefante. Al calar della notte la maggior parte dei bestioni erano morti o per le gravi ferite o per il colpo di grazia col kalashnikov, ma altri ancora strillavano e i loro barriti disperati si mescolavano all'abbaiare degli sciacalli e allo sghignazzare delle mute di iene accorse a rendere veramente raccapricciante la notte. I macellai con l'ascia continuarono a lavorare alla luce delle torce elettriche, sicché ai primi bagliori dell'alba tutto l'avorio era stato raccolto.Adesso potevano dedicarsi alla carne, allo scalco e alla dissezione delle carcasse. Ma il gran caldo li batteva sul tempo. La puzza della carne in putrefazione mista ai gas che uscivano dalle viscere lacerate si diffondeva per l'aria, portando al parossismo l'eccitazione dei branchi di iene e sciacalli che si aggiravano avidi tra i bestioni morti. Intanto l'elicottero continuava a fare la spola con i quarti macellati che trasportava ai margini del campo minato, dove le donne tagliavano la carne a strisce e l'affumicavano sui fuochi di legna verde. Mentre osservava il lavoro, l'ufficiale faceva i conti. Era un vero peccato non poter prelevare anche le pelli. Valevano mille dollari l'una, ma erano troppo ingombranti e non si poteva impedirne la putrefazione, che ne avrebbe azzerato il valore. Invece, una leggera putrefazione avrebbe conferito alla carne maggior pregio per i palati africani, esattamente come gli inglesi preferiscono la selvaggina un po' passata. Cinquecento tonnellate di carne: il peso sarebbe dimezzato con l'essiccazione, ma ugualmente nelle vicine miniere di rame dello Zambia, dove si concentravano decine di migliaia di lavoratori che dovevano essere nutriti, tutte quelle proteine sarebbero andate letteralmente a ruba. Il prezzo, già pattuito, era di due dollari al chilo per la carne semplicemente affumicata: in tutto faceva un milione di dollari USA. E poi, naturalmente, c'era l'avorio. L'avorio era stato accatastato dall'elicottero a un chilometro dal campo minato, in un anfratto tra le colline. Qui una scelta squadra di macellai provvedeva a rimuovere il nervo all'interno delle zanne, e a ripulirle completamente di qualunque particella di grasso o pelle che, marcendo, avrebbe potuto rivelare la natura del carico alle nari esercitate e sensibili di qualche doganiere orientale. Erano in tutto quattrocento zanne. Alcune di quelle che venivano da animali immaturi erano piccole, ma quelle del vecchio maschio, per esempio, sfioravano i cinquanta chili. La media si aggirava sui venti chili buoni. E siccome a Hong Kong il prezzo era di cento dollari al chilo, ne derivava un totale di ottocentomila dollari. Ecco che in una giornata di lavoro sulle rive dello Zambesi avevano ricavato qùasi due milioni di dollari, in un paese dove il reddito medio di un capofamiglia era inferiore a seicento dollari l'anno. Naturalmente l'operazione aveva avuto anche dei piccoli costi. Uno dei macellai era scivolato giù da una carcassa di elefante ed era atterratO sulle chiappe proprio sopra una mina antiuomo. "Figlio di un babbuino pazzo." L'ufficiale era ancora irritato per la stupidità di quell'uomo. Aveva causato l'interruzione del lavoro per quasi un'ora, il tempo di recuperare il corpo e seppellirlo. Un altro lavoratore aveva perso un piede per troppo zelo, vi-
brandoci sopra un colpo d'ascia; un'altra dozzina si erano procurati ferite più leggere coi panga. E un altro ancora era morto in seguito a un colpo di kalashnikov nella pancia allorché aveva avuto obiezioni da fare a ciò che l'ufficiale stava combinando con la più giovane delle sue mogli la notte prima, fra i cespugli, poco distante dai fuochi. Ma, a paragone dei profitti, quelle passività erano trascurabili. Il compagno commissario sarebbe stato soddisfatto, e con buona ragione. Era il mattino del terzo giorno quando la squadra dell'avorio terminò il suo lavoro con completa soddisfazione dell'ufficiale. Furono mandati ai falò ad aiutare nelle operazioni di affumicatura, lasciando deserto il magazzino a cielo aperto dell'avorio. Non dovevano esserci occhi in grado di scoprire l'identità dell'importante visitatore che stava per giungere a ispezionare il bottino. Arrivò in elicottero. L'ufficiale era sull'attenti, accanto alle lunghe file di zanne d'avorio scintillante. Il vento delle pale gli sollevò i lembi del giubbotto, e gli fece sbattere la tela dei jeans, ma egli mantenne rigidamente la posizione. La macchina volante atterrò e una imponente figura ne uscì. Un bell'uomo, dritto e forte, dai denti bianchissimi che spiccavano nel viso color mogano, dai ricci crespi tagliati a brevissima distanza dal cranio ben tornito. Indossava un vestito grigio-perla dall'aria costosa, di taglio italiano, sopra una camicia bianca e una cravatta blu. Le scarpe nere di vitello erano fatte a mano. Tese il palmo all'ufficiale. Immediatamente l'uomo più giovane abbandOnO la positura dignitosa e corse da lui come un bambino corre dal papà. "Compagno commissario!" "No! No!" corresse gentilmente l'ufficiale, sempre sorridendo. "Non più compagno commissario, ma compagno ministro ora!" Non più leader di un branco di pidocchiosi partigiani nella foresta, ma membro del governo di uno Stato sovrano." Il ministro si concesse un sorrisetto nell'ammirare le file di zanne scintillanti al sole. "E il più grande bracconiere su vasta scala che si sia mai visto nel mercato nero dell'avorio... non è così?"
Clay Mellow sbatté le palpebre quando il tassì sobbalzò sull'ennesimo tombino, sulla Quinta Avenue a New York, proprio davanti all'ingresso di Bergdorf Goodman. Come tanti altri tassì newyorchesi, anche questo aveva sospensioni più adatte forse a un carro armato Sherman. "Ho fatto un viaggio più comodo quando ho attraversato la depressione di Mbabwe in Land Rover" si disse Clay, ed ebbe un soprassalto di nostalgia ripensando a quella pista accidentata e tortuosa che traversava le terre inospitali a sud del fiume Chobe, un largo affluente del grande Zambesi dalle acque verdi. Tutto ciò però era lontano, molto lontano, e passato, irrimediabilmente passato. Mise da parte i ricordi e tornò a immergersi nel senso di diminuzione che provava all'idea di essere diretto in tassì a un pranzo di lavoro con il suo editore; un tassì, poi, che aveva dovuto chiamare personalmente. In altri tempi avrebbero mandato una limousine a prenderlo, e la destinazione sarebbe stata qualche grande ristorante come La Grenouille o il Four Seasons, e non una misera trattoria italiana del Village. Ma erano le sottili proteste che sapevano escogitare gli editori quando uno scrittore non produceva niente di niente da tre anni, e passava più tempo a dare direttive all'agente di Borsa e a spassarsela allo Studio 54 che alla macchina per scrivere. "Be', immagino di meritarmelo" si disse Clay con una smorfia, infilando la mano in tasca alla ricerca del pacchetto di sigarette prima di ricordarsi che aveva smesso di fumare. Invece si liberò la fronte dal ciuffo folto e nero e guardò in faccia i passanti sul marciapiede. C'era stato un tempo che aveva giudicato stimolante la
folla della metropoli dopo i silenzi della boscaglia africana: gli piacevano perfino le facciate fatiscenti e illuminate dalle scritte al neon sopra le vie cosparse di cartacce. Ma adesso si sentì soffocare dalla claustrofobia, e non vedeva l'ora di ammirare un cielo aperto al posto di quella striscia striminzita tra le cime dei grattacieli. Il tassì frenò di colpo, interrompendo i suoi pensieri, e il guidatore mormorò senza voltarsi: "Sedicesima." Clay tirò fuori una banconota da dieci dollari e l'infilò nella feritoia dello schermo di perspex antiproiettile che proteggeva il tassista dai suoi passeggeri. "Tenga" glidisse, e scese sul marciapiede. Vide subito il ristorante, un concentrato dei peggiori luoghi comuni (fiaschi di Chianti in vetrina e congeneri) del tipico italiano. Clay camminava bene, senza minimamente zoppicare, sicché nessuno, guardandolo, poteva sospettare la sua invalidità. Contrariamente a quello che temeva, all'interno il ristorante era fresco e pulito, e l'odore di cibo era appetitoso. Ashe Levy si alzò da un tavolino in fondo alla sala e lo salutò con grandi gesti. "Clay, baby!" Gli mise una mano intorno alla spalla e gli diede un paterno buffetto sulla guancia. "Ma che bell'aspetto che hai, vecchio segugio che non sei altro!" Ashe coltivava un suo peculiare stile eclettico. Portava i capelli a spazzola e gli occhiali con la montatura d'oro. Aveva la camicia a strisce, ma col colletto bianco, gemelli di platino coordinati alla spilla della cravatta e scarpe bucherellate. La giacca era di cachemire, col bavero stretto. I suoi occhi erano molto sbiaditi, e non guardavano mai direttamente quelli dell'interlocutore, ma un punto qualche centimetro a sinistra o a destra. Clay sapeva che, come marijuana, il suo editore fumava solo la migliore Tijuana Gold. "Bel posticino, Ashe. Come hai fatto a trovarlo?" "Mi sono scocciato del Seasons" sogghignò Ashe, astuto. Era contento che quel sintomo della sua disapprovazione fosse stato regolarmente colto. "Clay, voglio presentarti una signora di grande talento." Era seduta nell'ombra, in fondo al séparé, ma adesso si fece avanti e gli porse la mano. La lampada gliela illuminò: così, fu questa la prima impressione che Clay ebbe di lei. Era una mano sottile, dalle dita artistiche, e sebbene le unghie, tagliate corte e senza smalto, non denotassero una particolare sofisticazione, la carnagione aveva un'abbronzatura dorata su cui spiccavano turchinicce e aristocratiche le vene. L'ossatura era fine, ma alla base delle dita si riscontrava una certa qual callosità. Era una mano abituata a lavorare duro. Clay la prese e ne sentì tutta la forza, e la morbidezza della pelle asciutta del dorso, e le rugosità del palmo. Guardò in faccia la donna. Aveva delle spesse sopracciglia che descrivevano una curva ininterrotta da un angolo dell'occhio all'altro. E gli occhi, anche in quella fioca luce, erano verdi con pagliuzze d'oro ai bordi dell'iride. Il loro sguardo era candido e diretto. "Sally-Anne Jay" disse Ashe. "E questo è Clay Mellow." Il naso di lei era dritto ma leggermente grosso, e la bocca troppo larga per essere davvero bella. I folti capelli neri erano pettinati all'indietro, liberando l'ampia fronte. Il suo viso era abbronzato della stessa sfumatura al miele delle mani, e c'era qualche lentiggine graziosamente spruzzata sulle guance. "Ho letto il suo libro" disse la ragazza. La sua voce era ferma e chiara, il suo accento medio-atlantico, ma solo allorché ne udì il timbro Clay si accorse di quanto doveva essere giovane. "Penso che meriti tutto il successo che ha avuto." "E un complimento o una stroncatura?" chiese lui cercando di dirlo con leggera noncuranza: ma subito dopo si sorprese a sperare di non aver di fronte la solita fanatica che voleva dimostrare la
raffinatezza dei suoi gusti letterari denigrando il lavoro di uno scrittore popolare in faccia a lui. "No, no, è piaciuto anche a me" precisò la ragazza, e Clay se ne sentì assurdamente compiaciuto, anche se quell'affermazione sembrò chiudere l'argomento per quanto la riguardava. Per significarle il proprio piacere Clay le strinse un po' più forte la mano e la trattenne qualche attimo più del necessario, finché fu lei a ritirarla e a rimetterla in grembo. Così, non era una cacciatrice di scalpi, una sbrodolona. Era stufo delle groupies letterarie che cercavano di portarselo a letto. "Vediamo se ce la facciamo a farci pagare da bere da Ashe." suggerì, e si infilò nel séparé, di fronte a lei. Ashe fece la solita scena sulla lista dei vini, ma finì per ordinare del Frascati da dieci dollari. "Fruité" stabilì dopo averlo assaggiato con più mossette di un sommelier. "Fresco e liquido" sentenziò Clay, e Ashe sorrise ancora. Ricordavano benissimo entrambi il Corton Charlemagne del '70 che avevano bevuto l'ultima volta. "Più tardi arriverà un altro ospite" disse Ashe al cameriere. "Ordineremo quando viene." E rivolto a Clay: "Vorrei che Sally-Anne ti mostrasse qualcosa del suo lavoro." "Vediamo" invitò Clay, immediatamente sulla difensiva. Anche questa era una storia vecchia. Il mondo pullulava di gente che voleva salirgli in groppa... quelli che avevano un romanzo nel cassetto, quelli che ambivano amministrargli le succulente royalties, quelli che erano pronti a permettergli di scrivere la storia della loro vita dividendo i guadagni a metà, quelli che volevano vendergli un'assicurazione, o un paradiso nei Mari del Sud, quelli che volevano incaricarlo di scrivere copioni cinematografici in cambio di un piccolo anticipo e una percentuale ancora più piccola sui futuri incassi, tutti i tipi di sfruttatori e parassiti che si aggrappavano alla criniera del leone come iene. Sally-Anne tirò fuori una cartelletta rigida e la piazzò sul tavolo, davanti a Clay. Mentre Ashe spostava il faretto del séparé per illuminarla, Sally-Anne slegò il nastro e si accomodò di nuovo sulla sedia. Clay aprì la cartella e rimase fermissimo. Sentì la pelle d'oca formarglisi sugli avambracci, e i capelli rizzarglisi sulla nuca: era la sua reazione alla grandezza, a qualcosa di perfettamente bello. C'era, che gli faceva questo effetto, un Gauguin al Metropolitan Museum, davanti al Central Park: una Madonna polinesiana che portava il proprio Gesù Bambino sulla spalla. Gli aveva fatto venire la pelle d'oca e rizzare i capelli sulla nuca, come certi brani di poesia di T.S. Eliot e di prosa di Lawrence Durrell. Poi, le prime battute della Quinta Sinfonia di Beethoven, e quei balzi incredibili di Nureyev, i jetés; e i dritti di Nicklaus e Borg nei giorni giusti... E adesso anche quella ragazza gli faceva provare altrettanto! Era una fotografia. La carta era sabbiata, ogni dettaglio nitidissimo, i colori chiari e perfettamente veri. Era la foto di un elefante, un vecchio maschio. Guardava l'obiettivo con il caratteristico atteggiamento elefantino d'allarme: orecchie aperte come bandiere al vento. In qualche maniera, ritraeva l'intera vastità fuori del tempo di un continente, eppure era perplesso, e si sentiva che con tutta la sua grande forza era impotente, confuso da cose che superavano la sua esperienza e le tracce lasciate nel suo inconscio da generazioni e generazioni di antenati; si sentiva che stava per essere travolto dai mutamenti, proprio come l'Africa stessa. Con l'elefante, la foto mostrava l'Africa, la sua terra ricca e rossa segnata dal vento, cotta dal sole, spaccata dalla siccità. Clay ne sentiva quasi il sapore sulla lingua. E, su tutto, il cielo illimitato, con una promessa di soccorso: un cumulo di nuvole torreggiante co-
me una catena di montagne innevate, bordato di porpora e blu reale, forato da un singolo raggio di luce che dal sole celato cadeva come una benedizione sul vecchio elefante maschio. In un centesimo di secondo, quello dell'esposizione, ella aveva catturato tutto il senso e il mistero della sua terra natale: in uno scatto dell'otturatore aveva sintetizzato ciò che lui cercava invano e con pena di esprimere da mesi, mesi d'agonia, e stava ormai perdendo la speranza di riuscire a esprimere mai, e per paura di fallire non osava rimettersi alla macchina per scrivere. Bevve un sorso dell'insipido vino che gli era stato offerto per consolarsi della crisi di fiducia nella propria abilità che gli era piombata tutta d'un colpo sulle spalle: e per la prima volta si accorse che esso presentava un retrogusto tannico che precedentemente gli era sfuggito. "Di dov'è?" chiese alla ragazza senza guardarla. "Di Denver nel Colorado" rispose. "Ma mio padre è diplomatico e sono cresciuta a Londra, dove ho studiato." Ecco il perché dello strano accento. "Sono andata in Africa a diciott'anni, e me ne sono innamorata subito" aggiunse poi semplicemente per completare la storia della sua vita. A Clay occorse uno sforzo speciale per toccare la fotografia e voltarla con delicatezza a faccia in giù. La seguente raffigurava una giovane seduta su una roccia di lava nera vicino a una fonte nel deserto. Era una donna della tribù ovahimba, come mostrava l'acconciatura di cuoio a orecchie di coniglio. Allattava un bambino. La pelle della donna era lucida di grasso e dipinta con dell'ocra. I suoi occhi ricordavano l'affresco nella tomba di qualche faraone, ed era bella. "Denver, Colorado! Figuriamoci?" pensò Clay, e fu sorpreso dalla propria amarezza e dalla profondità del proprio improvviso risentimento. Come osava una dannata ragazzina straniera incapsulare così magistralmente il complesso spirito di una gente, con quel ritratto di giovane donna? Egli aveva vissuto fra gli africani tutta la vita, e non ne aveva mai visto uno con tanta chiarezza come in quel momento, in un ristorante italiano al Greenwich Village! Girò la fotografia con trattenuta violenza. Dopo c'era una foto scattata nella corolla magnifica, bruna e oro, di una kigelia africana fiorita, il fiore selvatico che Clay preferiva. Nelle lustre profondità del fiore si annidava un piccolo coleottero smeraldino, scintillante, iridescente. di un verde prezioso. Era una composizione perfetta di forme e colori, e Clay si accorse di odiare la donna, per essere riuscita a tanto. C'erano molte altre foto. Il ghigno di un soldato col kalashnikov in mano e al collo una sfilza di orecchie umane mummificate, una caricatura di selvaggia ferocia e arroganza; un'altra di uno stregone pieno di rughe, ritratto tra corni, perline, teschi e le altre spaventose insegne del suo commercio, con una paziente nuda fra le mani, sdraiata, a cui stava incidendo sulla pelle un tatuaggio che la striava tutta di rivoli di sangue simili a serpentelli. Era una donna giovanissima, la tatuava sul seno, sulla fronte e sulle guance. Aveva i denti appuntiti artificialmente come quelli di uno squalo, un rimasuglio dei tempi del cannibalismo, e gli occhi somiglianti a quelli di un animale sofferente sembravano contenere tutta la pazienza e lo stoicismo dell'Africa. C'era un'altra fotografia, contrastante, di bambini africani in una scuola di pali di legno e lamiera. Avevano un sillabario ogni tre, e tutti alzavano ansiosi la mano verso la maestra giovane e negra, con i visi accesi dalla passione di imparare. C'era tutto, una raccolta completa di speranze e disperazioni, abietta miseria e gran ricchezza, barbarie e tenerezza, elementi scatenati e fertilità infinita, dolore e gentilezza. Clay non riuscì a indursi a guardarla di nuovo, e continuò a sfogliare le foto mezzo rigide e attaccaticce assaporando ogni immagine e rimandando il momento del confronto con l'autrice. Clay si interruppe di colpo, impressionato da una composizione
particolarmente sensazionale. Si trattava di un campo di ossa spolpate. Aveva usato il bianco e nero, per aumentare l'effetto drammatico, ed ecco le ossa scintillare nel gran sole africano: ettari di ossa, grandi femori e tibie, secchi e candidi come rami, enormi costole come strutture di velieri naufragati, crani grandi come barili di birra con scure caverne per orbite. Clay pensò al leggendario cimitero degli elefanti, il mito dei vecchi cacciatori convinti che i pachidermi si ritirassero a morire in un luogo segreto. "Bracconieri" disse la ragazza. "Duecentottantasei carcasse." Clay alzò lo sguardo, stavolta, sbalordito dal numero. "In una volta sola?" domandò, e lei annuì. "Li hanno spinti su un campo minato." Involontariamente Clay rabbrividì e riguardò la foto. Sotto il tavolo, la sua mano corse lungo la coscia fino a incontrare la cinghia della gamba artificiale, e fu colto da un soprassalto di compassione per la sorte di quei grandi pachidermi. Ricordò il suo, di campo minato, e provò di nuovo l'impatto improvviso dell'esplosione sul piede, qualcosa di simile a un'immensa martellata. "Mi spiace" disse morbida la ragazza. "La sua gamba... Io so." "Si vede che ha fatto i compiti, eh?" disse Ashe. "Sta' zitto" pensò Clay furioso. "Perché non state un po' zitti tutti e due." Odiava che qualcuno parlasse della sua gamba. Se davvero la ragazza si era informata in precedenza su di lui, avrebbe dovuto saperlo... ma non era solo perché aveva nominato la gamba. Era anche per gli elefanti. Un tempo Clay aveva lavorato come ranger del ministero per la Conservazione della Fauna. Conosceva gli elefanti e aveva finito per amarli, e la prova di quel loro massacro lo faceva star male. Era orripilato. Il suo risentimento nei confronti della ragazza aumentò. Era lei che gli aveva inflitto quella visione, e adesso lui voleva vendicarsene: si trattava di un desiderio infantile di rappresaglia. Ma prima che potesse soddisfarlo arrivò l'ultimo ospite, che Ashe si diede a presentare verbosamente. "Clay, voglio farti conoscere un tipo veramente speciale." Tutte le presentazioni di Ashe contenevano una specie di fascetta pubblicitaria. "E Henry Pickering, nientemeno che vicepresidente anziano della World Bank. Se ascolti bene, vedrai che senti il rumore di tutti i miliardi di dollari che gli si agitano nella zucca. Henry, questo è Clay Mellow, il nostro ragazzo prodigio. E uno dei migliori scrittori mai prodotti dall'Africa, anche a mettere nel mazzo Karen Blixen. Ecco chi è!" "Ho letto il suo libro" annuì Henry. Era molto alto e sottile, prematuramente calvo. Indossava un vestito scuro da banchiere e una camicia candida; c'era qualche piccolo tocco di colore soltanto nella cravatta e negli occhietti azzurri ammiccanti. "Per una volta, Ashe, non hai esagerato! Baciò platonicamente le guance di Sally-Anne, si sedette, assaggiò il vino che Ashe gli aveva versato e respinse il bicchiere un po' più lontano da sé. Clay si sorprese ad ammirarne lo stile. "Cosa ne pensa?" chiese Henry Pickering a Clay, accennando con lo sguardo alla cartella di fotografie. "Gli piacciono da morire, Hénry" intervenne in fretta Ashe Levy. "Ne va proprio pazzo... dovevi vederlo quando ci ha dato la prima occhiata... da matti gli piacciono, da matti!" "Bene" disse a bassa voce Henry, osservando il volto di Clay. "Gli hai già spiegato il piano?" "Volevo servirglielo caldo caldo" scosse la testa Ashe Levy. "Ho preferito aspettare te." Si rivolse a Clay. "Si tratta di un libro" disse. "Sì, un libro: il titolo sarà L'Africa di Clay Mellow. Tu scriverai dell'Africa dei tuoi antenati, di quello che era e di quel che è diventata. Torni là e ti immergi nella realtà palpitante... parli con la gente e..." "Scusami" l'interruppe Henry. "Mi risulta che lei parla una delle due lingue principali... qual è, il sindebele, mi pare... o lo
zimbabwe?" "Fluentemente" rispose Ashe per Clay. "Come uno di loro." "Bene" annuì Henry. "E vero che ha molti amici, di cui alcuni ai vertici dell'attuale governo?" Ashe si intromise ancora. "Come no! Qualcuno dei suoi amiconi di una volta è diventato ministro dello Zimbabwe. Proprio al vertice-vertice, non si potrebbe salire più su." Clay abbassò lo sguardo sulla foto del cimitero degli elefanti. "Zimbabwe" non era ancora abituato al nuovo nome scelto dai vincitori negri. Per lui era ancora Rhodesia. Quello era il paese che i suoi antenati avevano diboscato con le asce, i picconi, e strappato alla barbarie con la mitragliatrice Maxim. La loro terra, come un tempo la sua... e, comunque si chiamasse, sempre la sua patria. "Sarà un lavoro di prima qualità, Clay, senza badare a spese, Puoi andare dove vuoi, parlare con chi vuoi, ci penserà la World Bank... pagano tutto loro.,," Ashe Levy galoppava, entusiasta, e Clay guardò Henry Pickering. "La World Bank si dà all'editoria?" domandò sardonicamente Clay. Mentre Ashe Levy stava per rispondere, Henry Pickering gli posò una mano sul braccio per zittirlo. "Parlerò un po' io, Ashe" disse. Aveva avvertito l'umore di Clay, e il suo tono era gentile e pacato. "La parte principale della nostra attività consiste in prestiti ai paesi sottosviluppati. Abbiamo investito quasi un miliardo di dollari nello Zimbabwe, e vogliamo proteggere l'investimento. Il nostro progetto è quello di trasformare questo piccolo paese africano in un esempio, da mostrare al mondo, di come possa aver successo un governo di negri. Pensiamo che il suo libro potrebbe darci una mano a raggiungere questo nostro scopo." "E queste?" Clay sfiorò la pila di fotografie. "Vorremmo che il libro avesse anche un impatto figurativo oltre che intellettuale. Pensiamo che Sally-Anne possa assicurarcelo." Clay tacque per parecchi secondi, sentendo il terrore serpeggiare nel profondo, dentro di sé, come qualche rettile ripugnante. Il terrore del fallimento. Quindi pensò che doveva competere con quelle tremende fotografie, e che non era facile produrre un testo che non scomparisse di fronte alle immagini colte dall'obiettivo di quella ragazza. C'era in gioco la sua reputazione, mentre lei non aveva niente da perdere. Le probabilità erano tutte a suo favore: non era un'alleata ma un'avversaria, e tutto il risentimento di prima gli tornò addosso, così forte da diventare quasi una specie di odio. Ella si era chinata verso di lui attraverso il tavolo: la luce dei faretti le brillava tra le ciglia lunghe incorniciando le palpebre truccate col verde. La bocca di lei tremava di impazienza, e sul labbro inferiore, come una perla piccolissima, scintillava una gocciolina di saliva. Anche nel suo stato di rabbia e timore, Clay si domandò che effetto potesse fare baciare quella bocca. "Clay" disse la donna "so fare anche meglio di così, se lei mi dà una possibilità. Ce la farei sicuramente, se lei mi desse questa possibilità. Per favore!" "Le piacciono gli elefanti?" le domandò Clay. "Le racconterò una storia di elefanti. C'era un vecchio elefante maschio che aveva una mosca nell'orecchio sinistro. Un giorno l'elefante passò su un ponticello malfermo. Quando arrivò dall'altra parte, la mosca urlò: "l'abbiamo fatto dondolare!"." Sally-Anne strinse le labbra e impallidì. Le ciglia nere presero a sbattere come ali di farfalla, e quando le lacrime traboccarono si ritirò dalla luce della lampada. Vi fu un silenzio, e durante quel silenzio Clay provò rimorso. Si sentì disgustato del suo stesso meschino sadismo. Si era aspettato che fosse una donna dura e combattiva, capace di rispondergli con qualche battuta altrettanto feroce. Non si era affatto aspettato delle lacrime. Voleva confortarla, dirle che non aveva parlato sul serio: voleva spiegarle le proprie paure e insicurezze, ma già lei stava racco-
gliendo le foto nella cartelletta. "Nel suo libro c'erano brani così commoventi, così appassionati. Come volevo lavorare con lei" disse piano la ragazza. "Ma naturalmente sono stata una sciocca a credere che lei fosse come il suo libro." Guardò Ashe. "Mi spiace, Ashe, non ho più fame." Ashe Levy si alzò in fretta. "Prenderemo un tassì insieme." disse. Poi a bassa voce a Clay: "Complimenti, bell'eroe, chiamami quando hai pronto il nuovo dattiloscritto." Seguì in fretta Sally-Anne. Mentre varcava la soglia, Clay le vide la silhouette delle gambe sotto la gonna. Erano lunghe e belle. Un attimo dopo era scomparsa. Henry Pickering giocherellava col bicchiere, studiando pensosamente il vino che conteneva. "Pipì pastorizzata di capra romana" disse Clay, accorgendosi di avere la voce malferma. Fece un cenno al sommelier e ordinò del Meursault. "Sarà meglio" commentò Henry. "Be', forse quella del libro non era una grande idea dopotutto, no?" Guardò l'orologio. "Meglio che ordiniamo." Parlarono d'altro: i debiti del Messico, l'assestamento della presidenza reaganiana, il prezzo dell'oro. Henry disse che l'argento aveva l'aria di voler salire più in fretta, e che ben presto, a suo parere, sarebbero tornati convenienti i diamanti. "Oggi come oggi comprerei azioni della De Beers, da tenere" consigliò. Una svelta biondina si avvicinò da un tavolo in mezzo alla sala mentre stavano prendendo il caffè. "Lei è Clay Mellow" lo apostrofò. "L'ho vista alla tele. Mi è piaciuto molto il suo libro. Per favore, mi fa l'autografo?" Mentre Clay firmava una copia del menù, la ragazza si chinò e schiacciò una tettina dura e calda contro la sua spalla. "Lavoro da Saks sulla Quinta, reparto cosmetici" sussurrò. "Può trovarmi là quando vuole." Se ne andò in un alone di costosi profumi sgraffignati. "Le manda via sempre?" chiese furbesco Henry. "L'uomo è fatto di carne e sangue" rise Clay, ed Henry insisté per pagare il conto. "Ho fuori la limousine" disse. "Posso accompagnarla." "Farò due passi per smaltire la pasta" replicò Clay. "Sa, Clay, credo che lei finirà per tornare in Africa. Ho visto come ha guardato quelle foto: come un affamato." "E possibile." "Il libro, il nostro interesse a farlo: c'è qualcosa di più di quantO Ashe abbia capito. Lei conosce i negri di laggiù. E questo che mi interessa. Le idee che ha espresso nel suo libro coincidono con ciò che pensiamo noi. Se decide di tornare là, mi chiami prima, potremmo scambiarci un favore lei e io." Henry salì sul sedile posteriore della Cadillac nera, e prima di chiudere la portiera disse: "Secondo me, quelle foto erano abbastanza buone, direi." Dopo di che fece cenno all'autista e l'auto partì.
Il Bawu era ormeggiato tra due yacht fatti in serie, un Camper and Nicholson di diciotto metri e un Hatteras convertibile, e ne reggeva abbastanza bene il confronto, anche se ormai aveva quasi cinque anni. Clay ne aveva fissato personalmente ogni vite. Si fermò ai cancelli della banchina a guardarlo, ma chissà perché quel giorno le sue linee non gli davano la consueta soddisfazione. Lo chiamarono dall'ufficio. "Ci sono state un paio di telefonate per lei, Clay" disse la ragazza. "Usi pure questo telefono se vuole." Guardò i bigliettini che gli erano stati porti. Uno era del suo agente di Borsa, segnato "urgente" , e l'altro di un redattore letterario di un quotidiano del Middle West. Non ce n'erano stati trop-
pi, di messaggi di questo secondo tipo, negli ultimi tempi. Prima telefonò all'agente di Borsa. Avevano venduto a cinquecento dollari i certificati aurei Mocatta che a suo tempo aveva comprato a trecentoventi all'oncia. Diede all'agente l'incarico di versare il denaro su un conto provvisorio. Poi chiamò l'altro numero. Mentre attendeva la comunicazione, la ragazza alla scrivania cominciò ad agitarsi senza plausibili motivi, frugando qua e là e piegandosi a prendere qualcosa nell'ultimo cassetto in maniera da offrire a Clay un esauriente panorama di ciò che aveva nella scollatura. Il redattore rispose. Voleva sapere quando usciva il suo nuovo libro. "Che libro?" pensò amaramente Clay, ma rispose: "Non sappiamo ancora con precisione la data, ma siamo al lavoro" " disse. "Nel frattempo, vuole un'intervista?" "Grazie, ma aspetteremo la pubblicazione, signor Mellow." "Aspetterete un pezzo, allora" , pensò Clay, e quando riappese la ragazza lo guardò con un sorriso luminoso. "Stasera la festa è sul Firevvater." Tutte le sere dell'anno c'era una festa sull'uno o l'altro yacht. "Lei ci viene?"Clay guardò la ragazza. Non doveva essere male, senza occhiali. Che diavolo! Aveva appena guadagnato un quarto di milione con l'oro e fatto una figuraccia al ristorante. "Preferisco fare una festa mia personale sul Bawu" disse. "Per due." Era stata una brava ragazza, paziente, e il suo momento era giunto. Il viso di lei si illuminò e Clay capì di averci azzeccato. Era proprio carina. "Io qui finisco alle cinque." "Lo so" disse lui. "Vieni subito." "Frustane una e fa' contenta l'altra" , pensò. Avrebbe dovuto sentirsi in pareggio, ma naturalmente così non era.
Clay giaceva sul dorso, coperto dal lenzuolo, sulla vasta cuccetta, ascoltando i rumorini della notte: lo sciabordio delle ondine, lo scricchiolio dei pneumatici schiacciati tra le barche, lo sbattere delle drizze sull'albero. Dall'altra parte del bacino d'acqua la festa sul Firevvater era ancora in pieno svolgimento: sentì un tuffo seguito da risate di ubriachi, evidentemente avevano buttato in acqua qualcuno. Al suo fianco la ragazza dormiva con soavi sospiri. Si era dimostrata esperta e calda, ma nonostante ciò Clay continuava a essere nervoso e insonne. Aveva voglia di salire sul ponte, ma in quel modo avrebbe svegliato la ragazza che, ne era certo, si sarebbe data di nuovo da fare, e lui non ne poteva più. Così restò coricato e ripensò alle immagini fotografiche di Sally-Anne, come in una lanterna magica mentale: e queste ne fecero scattare delle altre, sepolte da tempo nei più oscuri recessi della memoria, che ora però gli tornarono vivide e fresche davanti agli occhi della mente, accompagnate dagli odori, dai gusti, dai rumori dell'Africa. Invece deglj schiamazzi degli yachtsman sbronzi, riudì i tamburi indigeni sulle rive del Chobe nella notte; al posto delle acque inquinate dell'East Rìver annusò l'odore delle gocce di pioggia tropicale sulle argille cotte dal sole, e, preso da un attacco dolceamaro di nostalgia, non dormì nemmeno quella notte. La ragazza insisté per preparargli la colazione. Lo fece con abilità di gran lunga minore di quella erotica che aveva manifestato, e quando se ne fu andata gli ci volle quasi un'ora per rimettere tutto a posto. Poi salì di sopra. Tirò le tende per non essere distratto dai movimenti sulla banchina e, seduto alla scrivania, si mise a lavorare. Rilesse le ultime dieci cartelle e si accorse che era una fortuna se riusciva a salvarne due. Si mise all'opera, ma i personaggi recalcitravano e dicevano trite asinerie. Dopo un'ora si girò a prendere il dizionario dei sinonimi dallo
scaffale dietro la sua sedia. Aveva bisogno di cambiare una parola. "Buon Dio, perfino io so che nella vita nessuno dice "pusillanime" " " brontolò aprendo il volume. Ne uscì una vecchia lettera. Segretamente contento di prendersi un attimo di tregua, la aprì e con qualche soprassalto vide che si trattava della lettera d'una ragazza che si chiamava Janine, una che aveva condiviso con lui l'agonia delle ferite di guerra, che aveva intrapreso con lui il lungo e lento viaggio verso la guarigione, che era stata al suo fianco quando aveva ricominciato a camminare dopo aver perso la gamba, che era stata al timone quando, a bordo del Bawu, avevano incontrato la prima bufera atlantica. Era una ragazza che aveva amato e che era stato sul punto di sposare, ma ora faceva fatica perfino a ricordare il suo viso. Janine gli aveva scritto quella lettera da casa sua, nello Yorkshire, tre giorni prima di sposare il veterinario che lavorava quale giovane socio nell'allevamento di suo padre. Rilesse lentamente la lettera, tutte le dieci pagine di essa, e si rese conto di quanto aveva nascosto a se stesso. Janine era amara solo a tratti, ma qui e là ciò che gli scriveva lo colpiva nel vivo. "... sei stato un fallito così a lungo che l'improvviso successo ti ha dato alla testa..." Controllò l'affermazione. Cos'altro aveva fatto a parte il libro, quell'unico libro? Aveva ragione lei. "... eri così innocente e gentile, Clay, così amabile alla tua maniera da ragazzino goffo. Per questo volevo vivere con te, ma via dall'Africa ti sei inaridito dentro, hai cominciato a essere duro e cinico... "... Ti ricordi il nostro primo incontro, o quasi il primissimo, quando ti ho detto: "Sei un bambino viziato che distrugge tutto ciò che val la pena di conservare"?... Be', è vero, Clay. Hai distrutto il nostro rapporto. Non parlo delle altre, le bambole, le cacciatrici di scalpi letterari senza elastico nelle mutande; voglio dire che hai smesso di tenerci. Lasciati dare un consiglio gratis: non distruggere anche l'unica cosa che tu abbia mai fatto bene, non smettere di scrivere, Clay. Sarebbe un vero peccato..." Ricordò come aveva alzato le spalle leggendolo la prima volta. Adesso non le alzava più: aveva troppa paura. Stava capitandogli sul serio quello che lei gli aveva predetto. "Io ti ho amato davvero, Clay, non di colpo, ma a poco a poco. Hai dovuto mettercela proprio tutta per distruggere il mio sentimento. Io non ti amo più, Clay. Dubito che amerò mai un altro uomo, compreso quello che sabato sposerò: ma tu mi piaci, e mi piacerai sempre. Ti auguro ogni bene, ma attento al tuo nemico più implacabile: te stesso." Clay ripiegò la lettera. Aveva voglia di bere. Scese e si versò un Bacardi, una buona dose con poco succo di lime. Bevendolo, rilesse la lettera e stavolta una frase lo colpì: "... via dall'Africa ti sei inaridito dentro... la comprensione, la genialità si sono seccate in te...." "Sì" sussurrò. "Mi sono inaridito. Tutto mi è seccato dentro." All'improvviso la sua nostalgia divenne il dolore insopportabile di chi vuole tornare a casa. Aveva smarrito la via, la fonte che era in lui si era esaurita, e voleva tornare alla sorgente. Strappò la lettera in tanti pezzettini e li gettò nell'acqua sporca del porto, posò il bicchiere e scese per la passerella sulla banchina. Non voleva rivedere la ragazza dell'ufficio, così telefonò usando la cabina pubblica vicino ai cancelli del porto. Fu più facile di quello che si aspettava. La centralinista gli passò subito la segretaria di Henry Pickering. "Non so se il signor Pickering è libero. Chi parla, prego?" "Clay Mellow." Pickering rispose quasi immediatamente. "C'è un vecchio proverbio dei matabele che dice: "Chi ha bevuto le acque dello Zambesi dovrà tornare a berle" " esordì Clay. "Dunque ha sete" disse Pickering. "Mi pareva, infatti."
"Ha detto di chiamarla, prima di tornare laggiù." "Sì, faccia un salto da me." "Oggi?" chiese Clay. "Ehilà, che fretta, giovanotto! Mi faccia un po' guardare sull'agenda... che ne dice delle sei di stasera? E il primo buco che ho."
L'ufficio di Henry era al ventiseiesimo piano e dalle sue alte finestre si scorgevano i profondi crepacci delle avenue sbucanti sul verde rigoglioso di Central Park, in fondo. Henry versò a Clay un whisky and soda e glielo portò alla finestra. Restarono li a guardare le budella della città bevendo in silenzio, mentre la grande palla rossa del sole imporporava il tramonto iniettando inquietanti tenebre tra i grattacieli. "Credo sia tempo di parlare chiaro" disse alla fine Clay." Mi dica cosa vuole da me in realtà." "Forse ha ragione" ammise il banchiere. "Il libro non è che un pretesto. Benché personalmente mi sarebbe piaciuto vedere il suo testo accanto a quelle belle fotografie..." Clay fece un piccolo gesto d'impazienza e Henry proseguì. "Deve sapere che io sono il vicepresidente incaricato della situazione africana." "Ho letto la targhetta sulla porta" annuì Clay. "Contrariamente a ciò che pensa molta gente, noi non siamo un'istituzione di beneficenza, ma un baluardo del capitalismo. L'Africa è un continente di Stati economicamente molto fragili. Con le ovvie eccezioni del Sudafrica e dei paesi produttori di petrolio al nord, si tratta sostanzialmente di società agricole di pura sussistenza, senza un'ossatura industriale e con pochissime risorse minerarie. Clay annuì un'altra volta. "Alcuni, fra i paesi di recente indipendenza, hanno mantenuto i benefìci delle infrastrutture create in epoca coloniale dai residenti bianchi, mentre gran parte degli altri, per esempio Zambia, Tanzania e Mozambico, sono già riusciti a impantanarsi nel caos della letargìa, o delle fantasie ideologiche. Sarà difficile salvarli." Henry scosse tristemente la testa e assomigliò ancor di più a un impresario di pompe funebri. "Ma con altri paesi come lo Zimbabwe, il Kenya e il Malawi, abbiamo una grossa chance: il sistema funziona ancora. Le fattorie non sono state totalmente decimate e date in pasto a orde di contadini abusivi, le ferrovie vanno, e la bilancia commerciale può giovarsi di qualche esportazione di rame e cromo e degli introiti del turismo. Con un po' di fortuna siamo in grado di tenere questi paesi a galla." "E che ve ne importa?" chiese Clay. "Non ha appena detto che la World Bank non è un istituto di beneficenza?" "Il fatto è che se non li sfamiamo noi, presto o tardi dovremo combatterli, ecco tutto. Se cominciassero a morire di fame, non indovina in quali grosse grinfie rosse finirebbero per cadere?" "Capisco. Non mi pare insensato" disse Clay sorseggiando il suo whisky. "Tornando per un momento coi piedi per terra" proseguì Henry , "i paesi sulla nostra lista presentano un aspetto sfruttabile: niente di tangibile come l'oro, ma molto più prezioso. Esercitano infatti una potente attrattiva nei confronti dei turisti occidentali. Se vogliamo sperare di rivedere i miliardi che ci abbiamo investito, conviene assicurarci che queste attrattive turistiche restino." "E come fate?" domandò Clay. "Prendiamo il Kenya, per esempio" suggerì Henry. "C'è il sole, c'è il mare, d'accordo; ma così come in Grecia e in Sardegna, che sono molto più vicine a Parigi o a Berlino. Ciò che il Mediterraneo non ha e l'Africa invece ha è la fauna africana. E per essa che i turisti si sobbarcano tutte quelle ore di volo in più, e sono i loro dollari che ci pagano gli interessi."
"Okay, ma non ho ancora capito che c'entro io" si accigliò Clay. "Un momento e ci arrivo" disse Henry. "Ma mi lasci prima completare il quadro generale. Il fatto è che, disgraziatamente, la prima cosa che il negro africano vede appena conquistata l'indipendenza dopo la fuga dei bianchi è il valore venale dell'avorio, del corno e della carne. Un solo rinoceronte o elefante per un africano rappresenta una ricchezza che egli non può sperar di guadagnare onestamente nemmeno in dieci anni di lavoro. Per cinquant'anni la fauna è stata protetta dalle leggi coloniali, che preservavano questa meravigliosa ricchezza; ma, adesso che i bianchi sono scappati in Australia o in Sudafrica, uno sceicco arabo è pronto a sborsare venticinquemila dollari per un pugnale dall'impugnatura di vero corno di rinoceronte, e i guerriglieri vittoriosi dei paesi africani hanno ancora in mano i kalashnikov. E tutto molto logico." "Sì, ho visto" annuì Clay. "E successa la stessa cosa in Kenya. Il bracconaggio era un grossissimo affare, ed era diretto dal vertice: il vero e proprio vertice. Ci sono voluti quindici anni, e la morte di un presidente, per metter fine a quell'andazzo. Adesso il Kenya ha le leggi venatorie più restrittive dell'Africa: e, cosa ancora più importante, vengono fatte rispettare. Abbiamo dovuto usare tutta la nostra influenza. Perfino minacciare di tagliare i fondi, ma adesso il nostro investimento è ben protetto." Henry ebbe per un attimo l'aria soddisfatta, poi la naturale tristezza lo sopraffece di nuovo. "Esattamente la stessa strada dobbiamo intraprendere oggi nello Zimbabwe. Ha visto le foto del macello sul campo minato. Lo rifaranno, e ancora una volta noi sospettiamo che il responsabile sia altolocato. Bisogna fermarlo." "Ma io non ho ancora capito che c'entro." "Ho bisogno di un agente sul campo. Un uomo esperto, che magari abbia già lavorato nel ramo; uno che parli la lingua locale, e che abbia motivo di girare e far domande: magari uno scrittore che stia facendo ricerche per il suo nuovo libro e abbia contatti nelle alte sfere governative. Naturalmente, se il mio agente gode di fama internazionale, avrà più porte aperte, e se poi è un segnalato esponente del sistema capitalistico e crede sinceramente in ciò che facciamo, allora sarà più che mai efficace." "Io, James Bond?" "No, investigatore sul campo della World Bank. Lo stipendio è quarantamila dollari all'anno, più le spese e un sacco di soddisfazioni implicite nel lavoro: e se non ci sarà un bel libro alla fine di tutto ciò, le pagherò una cena alla Grenouille col vino scelto da lei." "Come ho detto all'inizio, Henry... perché non lasciamo perdere le chiacchiere e non mi dici proprio tutto?" Fu la prima volta che Clay sentì Henry ridere. Era una risata veramente contagiosa, calda, di gola. "E va bene. Diamoci del tu. Hai ragione, Clay, c'è dell'altro. Non voglio farla tanto complicata, ma prima aspetta che ci facciamo un altro goccio." Andò a ricaricare il bicchiere di whisky nel mobile-bar, ricavato in un antico mappamondo, e mentre ci metteva il ghiaccio continuò a parlare. "Per noi è vitale avere sempre il quadro completo di ciò che si muove sott'acqua in tutti i paesi dove interveniamo. In altre parole, abbiamo bisogno di un efficace servizio d'informazioni. La rete di cui disponiamo nello Zimbabwe non è affatto efficiente come desideriamo. Ultimamente abbiamo perso un uomo: incidente automobilistico, almeno in apparenza. Prima di morire ci aveva dato un'informazione: aveva udito voci di un imminente colpo di Stato appoggiato dai russi." Clay sospirò. "Noialtri africani non riponiamo più molte speranze nelle urne. Le sole cose che contano sono la forza e la lealtà tribale. Un colpo di Stato ha più senso che affidarsi ai voti." "Allora, ci stai?" chiese Henry. "Nelle spese sono compresi i biglietti d'aereo di prima classe?"
domandò Clay furbescamente. "Ogni uomo ha il suo prezzo: questo è il tuo?" replicò Henry. "Non sono così a buon mercato" scosse la testa Clay "ma non mi va che un fantoccio sovietico spadroneggi sulla terra dov'è sepolto il mio piede. Ci sto." "Lo pensavo." Henry gli porse la mano. Era fredda e sorprendentemente forte. "Ti manderò alla barca un fattorino con un dossier e un kit d'emergenza. Leggi il dossier e rimandamelo col fattorino, tieni il kit." Il kit d'emergenza di Henry Pickering conteneva un assortimento di tessere stampa, una tessera TWA dell'Ambassadors Club, che distingue i vIP, una carta di credito illimitata della World Bank, e un distintivo a forma di stella in metallo smaltato, in un astuccio di pelle, col marchio "Inviato della World Bank." Clay lo soppesò nel palmo. "Con questo si dovrebbe riuscire a spaccare la testa a un leone mangiauomini" , pensò. "Non vedo a cos'altro possa servire." Il dossier era di gran lunga più interessante. Quando finì di leggerlo, comprese che il cambiamento di nome da Rhodesia a Zimbabwe era probabilmente il minore tra quelli che avevano mutato faccia alla sua terra natale da quando l'aveva abbandonata pochianni prima.
Clay portò lentamente la Volkswagen che aveva noleggiato sopra le dolci colline coperte d'erba dorata, tenendo il piede leggero sull'acceleratore. La ragazza matabele, all'ufficio Avis dell'aeroporto di Bulavvayo, l'aveva avvertito: "Il serbatoio è pieno, signore, ma non so quando potrà riempirlo di nuovo. C'è pochissima benzina nel Matabeleland." Anche in città aveva visto coi suoi occhi le lunghissime code ai distributori, e il padrone del motel aveva messo in guardia Clay quando aveva firmato il registro delle presenze e preso la chiave del suo bungalow. "I ribelli mozambicani continuano a sabotare l'oleodotto che arriva qui dalla costa orientale. Il guaio è che, appena oltre il confine, i sudafricani guazzano nella benzina e ce la venderebbero molto volentieri, ma i nostri intelligentoni al potere non vogliono la benzina dei razzisti, così tutto il paese si ferma. Peste colga i politici e i loro sogni! Per esistere abbiamo da trattare con loro, ed è tempo che accettino questo semplice fatto." Così adesso Clay guidava con attenzione, ma gli piaceva anche molto andar piano. Gli dava modo di esaminare il paesaggio familiare, e riscontrare i cambiamenti che pochi anni erano bastati ad apportargli. Una trentina di chilometri fuori città lasciò la strada asfaltata e imboccò la pista gialla sterrata che portava a nord. Dopo un altro paio di chilometri arrivò al cancello e vide che pendeva scardinato e aperto. Era la prima volta che lo vedeva in quelle condizioni. Parcheggiò e cercò di chiuderselo dietro, ma era tutto arrugginito. Non si muoveva neanche. Desistette dall'impresa e uscì dalla pista alla ricerca del cartello abbattuto. Era stato sradicato e scagliato per terra. Giaceva, se così si può dire, a pancia in su: la scritta era ancora leggibile, benché sbiadita dal sole: ALLEVAMENTO DI TORI Di RAZZA AFRIKANDER QUI NACQUE BALLANTYNE ILLUSTRIOUS IV GRANDE CAMPIONE DEI CAMPIONI PROPRIETARIO: JONATHAN BALLANTYNE. Clay ebbe una vivida i mmagine mentale della gran bestia rossa dalla groppa bozzuta, con le pieghe del ventre oscillanti sotto la gran mole, con la rosetta del campione sulla guancia e l'anello al
naso. Suo nonno materno, Jonathan "Bawu" Ballantyne, con quello lo tirava orgoglioso per le narici lucide e stillanti. Clay tornò alla Volkswagen e la portò fra l'erba un tempo folta, dorata e dolce, ma oggi rada e spelacchiata, tra cui la nuda terra traspariva come la zucca pelata di un uomo di mezza età. Le condizioni dell'erba lo addoloravano. Mai, neppure nei quattro anni di siccità dei Cinquanta, l'erba di King's linn era stata tanto trascurata, e Clay non riuscì a capacitarsi della ragione finché non arrivò accanto a una macchia di pungicammello che ombreggiava la pista. Quando spense il motore sentì i belati fra le piante e stavolta fu davvero scandalizzato. "Capre!" disse a voce alta. "Allevano capre a King's linn!" Chissà come si contorceva lo spettro di Bawu Ballantyne. Capre sulla diletta erba della sua diletta prateria. Clay andò a vederle. Era un gregge di duecento o più. Alcuni degli agili animali multicolori si erano arrampicati sugli alberi e brucavano foglie e fiori, mentre alla base del tronco altri rasavano tutto quello che cresceva, per cui in breve l'albero sarebbe morto e il terreno sarebbe diventato sterile. Clay aveva visto la devastazione seminata da quell'animale nei territori assegnati alle tribù. Col gregge c'erano due ragazzi matabele, nudi. Rimasero deliziati quando Clay gli si rivolse nella loro lingua. Si ficcarono in bocca i canditi che Clay si era portato dietro apposta e si misero a chiacchierare senza inibizioni. Sì, adesso c'erano trenta famiglie a King's linn, e ogni famiglia aveva il proprio gregge di capre, le migliori caprette del Matabeleland, si vantarono a bocca piena. Sotto gli alberi un vecchio caprone cornuto stava montando una giovane capretta con vigorosi colpi di reni. "Guarda" gridarono i pastorelli "come gli piace moltiplicarsi! Presto avremo più capre di tutte le altre famiglie." "Cos'è successo ai bianchi che abitavano qua?" domandò Clay. "Sono andati via!" glidissero con orgoglio. "I nostri guerrieri li hanno ricacciati da dove son venuti e ora la terra appartiene ai figli della rivoluzione." Avevano sei anni, ma già sapevano a memoria il catechismo della rivoluzione. Ogni ragazzino aveva al collo una fionda fatta con vecchie camere d'aria, e attorno alla vita una sfilza di uccelli che aveva cacciato con quella: allodole e uccelli canterini dai bei colori vivaci. Clay sapeva che, a mezzogiorno, li avrebbero cotti su un letto di braci, limitandosi ad aspettare che le penne fossero tutte bruciate sfrigolando, per poi divorare con appetito le piccole carcasse annerite. I pastorelli seguirono Clay fin sulla strada, gli chiesero un altro pezzo di candito e lo salutarono come un vecchio amico. Nonostante le capre e gli uccellini, Clay provò di nuovo una ondata di travolgente affetto per quella gente. Dopotutto era la sua gente ed era bello trovarsi di nuovo a casa. Si fermò un'altra volta sulla cima della collina e guardò giù. Ecco la casa. I prati non c'erano più, perché nessuno li curava e sulle aiuole erano passate le capre. Anche a quella distanza, Clay riuscì a vedere che la casa era disabitata. Le finestre erano rotte e presentavano buchi neri come dei denti mancanti, e la maggior parte dei fogli di asbesto che costituivano il tetto erano stati rubati. Le travi erano nude e scheletriche. Le lastre di asbesto erano state adoperate per costruire capanne abitate dagli abusivi vicino alle stalle. Clay scese dalla collina e parcheggiò vicino al serbatoio dell'acqua. La cisterna era vuota e mezzo ingombra di sporcizia e terra. La superò verso l'accampamento degli occupanti abusivi. Vivevano lì una mezza dozzina di famiglie. Clay disperse i cani che gli si fecero attorno con pochi sassi ben tirati, poi salutò il vecchio seduto accanto a uno dei fuochi. "ti vedo, vecchio padre." Ancora una volta la sua padronanza della lingua fece sensazione. Sedette accanto al fuoco per
un'ora, chiacchierando col vecchio matabele, mentre le parole gli si presentavano sempre più prontamente alla lingua e l'orecchio si aggiustava al ritmo e alle sfumature del sindebele. Accanto a quel fuoco imparò più di quello che aveva saputo in quattro giorni da quando era arrivato nel Matabeleland. "Ci avevano detto che dopo la rivoluzione ogni uomo avrebbe avuto una bella macchina, e cinquecento capi del miglior bestiame dell'uomo bianco." Il vecchio sputò nel fuoco. "Gli unici che hanno la macchina sono i ministri del governo. Ci avevano detto che avremmo avuto sempre la pancia piena, ma adesso la roba da mangiare costa cinque volte più di prima. Da quando Smith e gli altri bianchi sono scappati via, tutto costa cinque volte di più, zucchero, sale, sapone, tutto." Durante il regime bianco, un rigidissimo controllo della bilancia commerciale e un ferreo calmiere avevano risparmiato al paese i peggiori effetti dell'inflazione, ma adesso stavano sperimentando tutte le gioie del rientro nella comunità internazionale. Il denaro locale si era già svalutato del venti per cento. "Non possiamo permetterci il bestiame" spiegò il vecchio. così alleviamo capre. Capre!" Sputò un'altra volta nel fuoco e guardò friggere il catarro. "Capre! Come quei mangiamerda degli shona." L'odio tribale friggeva come il suo sputo. Clay lo lasciò che borbottava incupito accanto al fuoco che fumava e andò verso la casa. Salendo i gradini che portavano sull'ampia veranda frontale, ebbe come l'impressione che presto il fantasma di suo nonno sarebbe saltato fuori ad accoglierlo con qualche sarcasmo. Con gli occhi della mente rivide il vecchio, alto e dritto con fitti capelli d'argento, pelle come cuoio ritinto e gli occhi dei Ballantyne, impossibilmente verdi, davanti a lui. << Ancora qua con la coda tra le gambe, eh, Clay?" La veranda era tutta cosparsa di terriccio e cacche d'uccelli. I piccioni selvatici si annidavano indisturbati sotto il tetto sconnesso. Andò alla porta doppia che dava nella vecchia biblioteca. Un tempo incorniciavano la soglia due grandi zanne d'elefante, il maschio che il bis-bisnonno di Clay aveva ammazzato nel 1860. Quelle zanne erano un cimelio di famiglia, e avevano sempre fatto la guardia alla porta di King's linn. Il vecchio nonno Bawu le toccava ogni volta che passava, sicché sull'avorio giallo c'era una zona molto più lucida. Adesso c'erano soltanto i buchi nei muro da cui le avevano strappate, per l'avorio. Gli unici cimeli di famiglia che ancora possedeva erano i diari, laboriosamente compilati a mano dagli antenati, dall'arrivo del bis-bisnonno in Africa oltre un secolo prima. Le zanne facevano da complemento a quei vecchi libroni. Le avrebbe cercate, simili tesori sono sempre rintracciabili. Entrò nella casa abbandonata. Armadi a muro e pavimenti di legno erano stati portati via dagli occupanti per alimentare il fuoco, i vetri avevano fatto da bersaglio alle fionde dei ragazzi. Libri, quadri, fotografie e pesantissimi mobili in teak rhodesiano erano scomparsi. Solo le mura, troppo imponenti, restavano in piedi. Col palmo della mano Clay batté un colpo sul muro costruito dal suo bis-bisnonno Zouga Ballantyne in pietra squadrata a mano e calcina che aveva avuto cent'anni per indurirsi come diamante. Il colpo schioccò. Ci voleva poca immaginazione, anche se tantissimi soldi, a trasformare quel guscio possente in una splendida casa, di nuovo. Clay uscì e salì sul kopje dietro la casa fino al cimitero di famiglia, circondato da un muretto, che si stendeva sotto gli alberi di msasa sulla cresta rocciosa. Tra le lapidi cresceva l'erba. Il cimitero era stato dimenticato ma non raso al suolo come tanti altri monumenti dell'era coloniale. Clay sedette di fianco alla tomba del nonno e disse: "Ciao, Bawu, sono tornato." Quando si sentì rispondere dal nonno, nella mente, ebbe un soprassalto. Il tono era proprio quello del vec-
chio, pieno di sfottò. "Tutte le volte che ti scotti il culo torni qua di corsa, lo so. Che ti è successo stavolta?" "Mi sono inaridito, Bawu" rispose ad alta voce. Poi tacque. Restò seduto a lungo, sentendo sedarsi il tumulto interiore. "Qui c'è stata una grande confusione, Bawu" disse di nuovo: al suono della sua voce una lucertola dalla testa blu fuoriuscì dalla lapide del nonno. "Hanno portato via le zanne dalla veranda, e allevano capre sulla tua erba migliore." Ancora una volta restò zitto, ma adesso con dei piani e dei calcoli in testa. Restò lì quasi un'ora, poi si alzò. "Bawu, che ne diresti se io mandassi via le capre dai tuoi pascoli?" domandò, e scese dalla collinetta tornando alla Volkswagen. Erano quasi le cinque quando rientrò in città. L'agenzia immobiliare e casa d'aste di fronte alla Standard Bank era ancora aperta. L'insegna era stata ridipinta in rosso, e non appena Clay entrò riconobbe il banditore, con la faccia apoplettica, calzoni corti e camiciola kaki. "Dunque non hai tagliato la corda come noialtri, Jock" lo salutò Clay. Il vecchio Jock Daniels era sempre lì. "Tagliare la corda" , l'espressione che tutti usavano al posto di "emigrare." Dei duecentocinquantamila rhodesiani bianchi, quasi centocinquantamila avevano tagliato la corda fin dall'inizio delle ostilità, e quasi tutti erano poi partiti a guerra persa, quando l'informe governo di Robert Mugabe si era insediato al potere. Jock lo guardò con occhi sgranati. "Clay!" esplose. "Clay Mellow!" Gli prese la mano tra le zampone callose. "Già, sono rimasto, ma qualche volta mi sento dannatamente solo. Ma a te è andata parecchio bene, perdio! Ho letto sul giornale che con quel libro hai guadagnato un milione di dollari. Qui non volevano crederci. Il vecchio Clay Mellow, dicevano. Figuratevi, proprio lui!" "Così dicevano?" Il sorriso di Clay si irrigidì. Ritirò la mano dalla stretta. "Non posso dire che a me il libro sia piaciuto tanto" disse Jock scuotendo la testa. "Tutti i negri ci facevano la figura degli eroi. Ma è questo che piace oltremare, eh? Negro è bello, dicono, fa vendere i libri, eh?" "Alcuni critici mi hanno chiamato razzista" mormorò Clay. "Non si può far contenti tutti in una volta." Jock non lo ascoltava. "Un'altra cosa, Clay: c'era proprio bisogno di tirar fuori che mister Rhodes era un culo?" Cecil Rhodes, il padre dei coloni bianchi, era morto da ottant'anni, ma i vecchi lo chiamavano ancora "mister Rhodes.""Ne ho spiegato i motivi nel libro" cercò di placarlo Clay. "Era un grand'uomo, Clay, ma oggi va di moda tra voialtri giovani dissacrare ogni grandezza, come cani bastardi che abbaiano contro un leone." Clay si accorse che Jock stava accalorandosi sull'argomento, e cercò di cambiare discorso. "Che ne diresti di un bicchierino, Jock?" domandò e Jock si interruppe. Non aveva così rossi il naso e le guance solo per il sole africano. "Ora sì che ci intendiamo" disse Jock leccandosi le labbra. "E stata una giornata lunga e secca. Lasciami chiudere bottega." "Se portassi una bottiglia, potremmo bercela chiacchierando qui." Le ultime tracce dell'ostilità di Jock evaporarono. "Idea fenomenale. Dal mercante è rimasta qualche bottiglia di Dimple Haig...e procurati anche un secchiello di ghiaccio, già che ci sei." Sedettero nell'ufficetto di Jock, bevendo il buon whisky in bicchieracci da dozzina. L'umore di Jock Daniels era percettibilmente migliorato. "Sai, Clay, non me ne sono andato perché non sapevo dove andare. Inghilterra? Dopo la guerra non ci sono più tornato. Sindacati, pioggia, chi me lo fa fare? Sudafrica? Andranno a finire come noi: almeno qua ci siamo già passati, storia chiusa." Si versò
un'altra dose di whisky. "Se te ne vai, ti lasciano portar via duecento dollari. Duecento dollari per ricominciare, a sessantacinque anni? No, tante grazie!" "E come si sta qui, allora, Jock?" "Sai come chiamiamo un ottimista qua?" domandò Jock. "Quello che crede che le cose non possano peggiorare più di così." Rise da solo, tirandosi una pacca sulla coscia pelosa. "No, scherzavo. Non va poi troppo male. Se ti adegui a condizioni di vita inferiori, se tieni la bocca chiusa e non ti occupi di politica, puoi ancora vivere abbastanza bene, come in qualunque altra parte del mondo, direi." "I grossi piantatori e allevatori... come se la passano?" "Sono l'élite. Il governo è sceso a più miti consigli. Hanno lasciato perdere tutte le velleità di nazionalizzare la terra perché si sono resi conto che, se volevano sfamare le masse negre, avevano bisogno dei latifondisti bianchi. Adesso ne vanno perfino fieri: quando arriva un ospite, un comunista cinese o un ministro libico, gli fanno fare il giro delle piantagioni e degli allevamenti bianchi per fargli vedere quanto sono bravi loro..." "Quanto costa la terra?" "Alla fine della guerra, quando sono prevalsi i negri che gridavano ai quattro venti di voler requisire le fattorie e distribuire la terra alle masse, non costava più niente" disse Jock ingurgitando rumorosamente un sorso di whisky. "Prendi la società della tua famiglia ad esEmpio, la Rholands Ranching Company, che possedeva le tre aziende di King's linn, Queen's linn e quella vastissima estensione su nel nord, confinante con la riserva di caccia di Chizarira: be', tuo zio Douglas ha venduto tutto quanto in blocco per duecentocinquantamila dollari. Prima della guerra poteva tranquillamente chiedere dieci milioni di dollari." "Un quarto di milione!" Clay era scandalizzato. "L'ha regalata!" "Sì, con tutte le bestie: vacche e tori da gran premio, vitelli, tutto." Jock raccontava con piacere. "Vedi, ha dovuto farlo per forza. Era stato membro del governo Smith fin dall'inizio e sapeva che, una volta preso il potere, per i negri sarebbe stato un uomo segnato. Così ha venduto a un consorzio svizzero-tedesco, ed è stato pagato a Zurigo. Il vecchio Dougie ha preso su la famiglia ed è andato in Australia. Naturalmente aveva già qualche milioncino di dollari fuori del paese, così è stato in grado di comprarsi una bella fattoria nel Queensland, dove continua ad allevare bestiame. Solo noi poveri fessi che abbiamo qui, vincolato, tutto quello che possediamo siamo stati costretti a restare." "Bevine un altro" offrì Clay, e ricondusse Jock al discorso della Rholands Ranching Co. "Che ne ha fatto quel consorzio, della Rholands?" "Quei furbi dei crucchi!" Ormai Jock aveva la lingua un po' impastata. "Hanno riunito tutto il bestiame, si sono procurati il permesso di esportazione con qualche bustarella al governo, e l'hanno venduto in Sudafrica. Ho sentito dire che hanno ricavato quasi un milione e mezzo. Ricorda che erano tutti capi premiatissimi, i campioni dei campioni. Così hanno guadagnato più di un milione, hanno comprato dell'oro e sono tornati in crucclandia con un altro paio di milioni." "Hanno spogliato gli allevamenti e li hanno abbandonati?" domandò Clay, e Jock annuì gravemente. "Stanno cercando di rivendere i ranch, naturalmente. Si sono rivolti a me... ma ci vorrà un gran capitale per ripopolare i ranch e rimetterli in funzione. E nessuno è interessato a farlo. Chi vuole investire in un paese instabile e sull'orlo della bancarotta come questo? Rispondi a questa domanda!" "Cosa chiedono per la società?" domandò con aria un po' svagata Clay. Jock Daniels si riebbe immediatamente dalla sbronza e tornò a guardare Clay con l'occhio dell'agente immobiliare che
ha fiutato l'affare. "Sarai mica interessato?" Il suo sguardo si fece ancora più penetrante. "Ti ha reso davvero un milione, il tuo libro?" "Cosa chiedono?" ripeté Clay." "Due milioni di dollari. Ecco perché non ho trovato un compratore. C'è un sacco di gente, qua, che vorrebbe allungare le zampe su quel ben di Dio, ma due milioni! Chi è che ha tanti soldi in questo paese?" "Supponi che siano pagati a Zurigo, il prezzo calerebbe?" domandò Clay. "Puzzano le ascelle di uno shona?!" "Quanto calerebbe?" "Si accontenterebbero di un milione, a Zurigo." "Un quarto di milione?" "Mai, nemmeno per sogno, nemmeno in diecimila anni" disse Jock scuotendo drammaticamente la testa. "Telefonagli. Digli che i ranch sono affollati di abusivi, e che cercare di scacciarli adesso provocherebbe un casino politico. Digli che allevano capre nella prateria, e che fra un anno diventerà un deserto. Sottolinea che ne ricaverebbero intatto l'investimento originale. Digli che il governo ha minacciato di requisire tutta la terra posseduta da proprietari assenteisti, e che potrebbero rimetterci tutto." "Tutto questo è vero" ammise Jock. "Ma un quarto di milione! Mi fai perder tempo." "Telefonagli." "Chi paga la telefonata?" "La pago io, tu non ci perdi niente, Jock." Jock sospirò con rassegnazione. "Va bene, gli telefono." "Quando?" "Oggi è venerdì, non ha senso chiamarli prima di lunedì." "Va bene, e nel frattempo non puoi procurarmi qualche tanica di benzina?" domandò Clay. "A cosa ti serve?" "Vado su a Chizarira. Sono dieci anni che manco di là. Se la ricompro, tanto vale darci un'occhiata." "Non lo farei, Clay. E zona di banditi." "Il termine corretto è dissidenti politici." "Sono banditi matabele" disse con gravità Jock "e o ti sparano nel culo facendoti più buchi di quelli che tu possa usare, o ti rapiscono per chiedere un riscatto, o magari tutt'e due." "Tu procurami la benzina, io corro il rischio. I primi giorni della settimana prossima sarò di nuovo qua a sentire cosa dicono i tuoi amici di Zurigo."
Era una terra meravigliosa, ancora selvaggia e intatta, niente recinti, niente coltivazioni, niente case, difesa dall'influsso del bestiame e dei contadini dalla cintura della mosca tse-tse che, dalla valle dello Zambesi, correva su per la foresta ai piedi dei rilievi. Da una parte era chiusa dalla riserva di Chizarira, é dall'altra dalla riserva forestale di Mzolo, aree, entrambe, pullulanti di vita selvaggia. Durante la depressione degli anni Trenta, il vecchio Bawu era venuto a scegliersi con cura la terra, pagandola sei pence all'acro. Centomila acri, per duemilacinquecento sterline. "Naturalmente non sarà mai un terreno adatto per l'allevamento" aveva detto a Clay una volta che si erano accampati sotto il fico selvatico accanto a una pozza d'acqua verde del fiume Chizarira, e guardavano le pernici atterrare, stagliandosi contro il sole al tramonto, sul sabbione bianco come lo zucchero della riva opposta. "L'erba è troppo acida, e la mosca tse-tse ammazzerebbe tutte le bestie che si cercasse di allevare qui: ma proprio per questa ragione resterà sempre una zona intatta d'Africa, come ai vecchi tempi." Il vecchio l'aveva usata come riserva di caccia e ci andava in va-
canza. Non aveva mai steso un rotolo di filo spinato laggiù, né costruito una capanna, preferendo dormire sulla nuda terra sotto i rami del fico. Bawu, qui, aveva cacciato molto selettivamente: solo l'elefante il leone, il rinoceronte e il bufalo, cacce pericolose che però aveva protetto da ogni altro fucile: perfino i suoi figli e nipoti non avevano avuto il diritto di cacciare là. "E il mio piccolo paradiso privato" aveva detto a Clay "e sono abbastanza egoista da tenermelo così." Clay dubitava che la pista fino alla pozza del Chizarira fosse più stata usata dopo la morte del vecchio, dieci anni prima. Era stata completamente cancellata dall'erba, gli elefanti l'avevano interrotta abbattendovi degli alberi di mopani di traverso come rudimentali blocchi stradali, e le piogge ne avevano cancellato ogni residua traccia. "Al diavolo il signor Avis" disse Clay, e l'imboccò con la Volkswagen. Tuttavia il veicolo a trazione anteriore era abbastanza leggero e molleggiato da fronteggiare i più ostili termitai, anche se qualche volta, nella sabbia, Clay dovette infilare frasche sotto le ruote. Una mezza dozzina di volte perse la pista, riuscendo a ritrovarla più avanti solo dopo laboriose esplorazioni a piedi. Una volta un formicaio gli fece uno scherzo proprio brutto, ma riuscì a disincagliare la macchina con l'aiuto del cric: quanto ai blocchi stradali causati dagli elefanti, trovò sempre il modo di aggirarli. Ma alla fine dovette abbandonare la Volkswagen e coprire a piedi i pochi chilometri che gli restavano. Raggiunse le pozze alle ultime luci. Si avvolse nella coperta che aveva fregato al motel e dormì saporitamente senza muoversi né sognare, per destarsi nella magia dell'alba africana. Mangiò fagioli in scatola freddi col caffè, poi, lasciando lo zaino e la coperta sotto il fico, andò al fiume. A piedi, certo, poteva coprire solo una piccolissima parte del territorio selvaggio che si estendeva su più di centomila acri, ma il fiume Chizarira ne era il cuore e l'arteria. Ciò che vi avrebbe trovato avrebbe consentito di valutare i cambiamenti intercorsi dall'ultima volta che ci era venuto. Quasi immediatamente si rese conto che c'era ancora grande abbondanza di vita, nella foresta. Tra gli alberi si aggiravano i grossi e spettrali kudu, dalle corna ritorte, e i piccoli e graziosi impala apparivano come fumo rosato tra i rami. Poi trovò tracce degli animali più rari. Orme fresche del leopardo sull'argilla della riva, dove il gattone era venuto a bere nella notte, e tracce della magnifica antilope della sabbia, tradita dalle tipiche palline fecali. Per pranzo mangiò fette di salame che tagliò col coltello da caccia, e il succo dolce dei baccelli del baobab. Andando avanti, arrivò a una fitta macchia d'ebani, e vi penetrò per un sentierino serpeggiante. Non aveva fatto che un centinaio di passi quando arrivò a una radura, o meglio uno spiazzetto libero sotto il groviglio dei rami intersecantisi, dove provò un senso di esaltazione. La radura puzzava come un porcile, anzi il puzzo era ancora più acre e selvatico. Lo riconobbe, era un merdaio, il letamaio naturale che si crea dove gli animali tornano abitualmente a defecare. Dal carattere degli escrementi, frammisti a corteccia e ramoscelli, Clay comprese che era il merdaio del rinoceronte nero, una delle specie più rare e pericolose d'Africa. A differenza di suo cugino il rinoceronte bianco, che pascola l'erbetta ed è un animale placido e letargico, il rinoceronte nero si nutre degli arbusti e delle scorze dei fitti sottoboschi che frequenta. Per natura è un animale intrattabile, diffidente, stupido, nervoso e irascibile. E solito caricare checché l'annoi, sia un uomo, un cavallo, un autocarro o perfino una locomotiva. Prima della guerra era famosa una bestia che viveva sulle pendici
della valle dello Zambesi, dove sia la strada sia la ferrovia affrontavano la discesa verso le cascate Vittoria. Aveva sfasciato ben diciotto fra autocarri e pullman, aspettandoli in una strettoia dove erano costretti a rallentare a passo d'uomo, e caricandoli frontalmente in maniera da conficcare il corno nel radiatore, fra spruzzi di vapore e rumor di ferraglia. Dopo di che, perfettamente soddisfatto, con strida di trionfo, rientrava trotterellando nel folto. Esaltato dal successo, finì per sopravvalutarsi allorché se la prese con il Victoria Express, il rapido che come un cavaliere medievale evoluiva sui tornanti della discesa. La locomotiva faceva i suoi buoni quaranta all'ora, e il rinoceronte, che pesava due tonnellate, andava altrettanto forte nella direzione opposta. Lo scontro fu monumentale. Il rapido dovette fermarsi, ma anche il rinoceronte era arrivato al termine della sua carriera di distruttore di radiatori. L'ultimo deposito di sterco risaliva alle dodici ore precedenti, stimò Clay deliziato, e le tracce indicavano un gruppo di famiglia: maschio, femmina e un piccolo. Sorridendo, Clay ricordò la leggenda matabele che spiegava l'abitudine del rinoceronte di spargere le feci, e la sua paura del porcospino, l'unico animale della boscaglia che lo faceva scappare in preda al panico. Dicono i matabele che nella notte dei tempi il rinoceronte aveva chiesto in prestito al riccio una spina per ricucirsi, usandola come un ago, uno sbrego nella pellaccia provocatogli dai terribili rovi primordiali. Il rinoceronte promise di rendergli la spina al loro incontro successivo. Dopo esserci ricucito lo sbrego con del vimine, il rinoceronte, con la spina del riccio in bocca, si girò ad ammirare il proprio lavoro, e inavvertitamente inghiottì la spina. Ancora oggi cerca nello sterco la spina del riccio, e quando lo incontra lo evita come un creditore. La popolazione mondiale del rinoceronte nero non superava probabilmente il migliaio di individui, e che qualcuno ne sopravvivesse anche lì dava una gran gioia a Clay, rinsaldandone i progetti su quella terra. Sempre sorridendo seguì le tracce più fresche fuori del letamaio, sperando di incontrare il rinoceronte, e aveva coperto solo un chilometro quando, appena oltre il fitto bosco impenetrabile che costeggiava lo stretto sentiero, si alzò un branco spaventato di quegli uccellini bruni che vivono in simbiosi coi grossi pachidermi, che liberano da zecche e parassiti col loro becco aguzzo, trovando nutrimento sulla loro pellaccia e avvisandoli, in cambio, dell'avvicinarsi dei pericoli. Subito dopo l'allarme ci fu un assordante starnutire e tossire, come di un motore a scoppio che si metta in moto: con uno scroscio secco il sottobosco si squarciò e Clay ebbe la soddisfazione di vedere quel che voleva vedere, una bestia enorme, grigiastra, che irrompeva sull'angusto sentiero trenta passi davanti a lui. Sbuffava e spernacchiava, offesissimo, scrutando coi suoi occhi miopi spartiti dal doppio corno lucido in cerca di qualcosa da caricare. Consapevole che i deboli occhi del bestione non riuscivano a distinguere un uomo immobile a più di quindici passi di distanza, e che il vento gli soffiava in faccia, Clay si immobilizzò, pronto tuttavia a gettarsi da un lato se il rinoceronte avesse caricato. Il rinoceronte nel frattempo si girava di qua e di là con imprevedibile agilità e inesausta ira, e con gli occhi della mente Clay credeva di vedere aumentare ogni momento che passava la grandezza del corno appuntito. Di soppiatto si frugò in tasca alla ricerca del coltello. La bestia avvertì il movimento e trotterellò una dozzina di passi nella sua direzione, sicché ormai Clay si trovava al limite del suo raggio visivo e per la prima volta in grave pericolo. Con un movimento secco della mano lanciò il coltello nel fitto degli ebani dietro la testa del bestione. Il coltello produsse, cadendo, un forte crepitio. Istantaneamente il rinoceronte girò su se stesso e partì alla carica
in direzione del rumore. Il bosco fitto si apriva davanti a lui come davanti a un carro armato Centurion, e il fracasso della carica continuò mentre il rinoceronte risaliva la collina di gran carriera scomparendo poi oltre la cresta, sempre cercando il suo nemico. Clay si buttò a sedere in mezzo al sentiero e scoppiò in una risata mezzo isterica, che lo fece piegare in due, senza fiato. In poche ore Clay trovò tre delle pozze di acqua putrida e stagnante che queste strane bestie preferiscono, per abbeverarsi, alle limpide acque correnti del fiume, e decise dove avrebbero dovuto essere piazzati gli appostamenti che avrebbero consentito ai turisti di vedere i rinoceronti da vicino. Naturalmente accanto alle pozze avrebbe avuto cura di spargere del sale per attirarli con certezza, sicché potessero essere tranquillamente fotografati e commentati. Seduto su un ceppo, accanto a una delle pozze, rimeditò i fattori che favorivano il suo piano. Il luogo era a meno di un'ora di volo dalle cascate Vittoria, una delle sette meraviglie del mondo, che già attiravano migliaia di turisti al mese. Da là al suo villaggio sarebbe stata una piccolissima deviazione, che avrebbe inciso ben poco sul biglietto aereo che già dovevano pagare. E aveva da mostrare un animale che pochissime altre riserve potevano vantare, oltre alle solite altre specie di animali concentrate in una zona relativamente ristretta. Quel terreno era inoltre un cuneo tra due parchi naturali che avrebbero assicurato un continuo alimento di vita animale. Quello che aveva in mente lui era un accampamento del tipo "caviale e champagne" , come quelli che costeggiavano il parco nazionale Kruger del Sudafrica. Avrebbe disposto i campi a breve distanza l'uno dall'altro, breve ma sufficiente a far sentire isolati e padroni della natura gli occupanti. Avrebbe fornito a ciascun gruppo una guida esperta e carismatica, per condurre i turisti, in Land Rover o a piedi, vicino ad animali rari e potenzialmente pericolosi, facendone un'avventura. Poi, a sera, i turisti avrebbero goduto di lussuosi com-fort: aria condizionata, cibi e vini raffinati, hostess giovani e carine per lustrarsi gli occhi, documentari sulla natura africana e conferenze di esperti per interessarli e divertirli. E per tutto ciò si sarebbe fatto pagare a carissimo prezzo, mirando al più alto livello turistico. Clay arrivò al suo campo sotto il fico selvatico, zoppicando, dopo il tramonto. Aveva il volto e le braccia rossi per il sole, la nuca piena di pruriti per le punture delle mosche tse-tse, e il moncherino della gamba dolorante e molle per l'insolito esercizio. Si tolse l'arto artificiale, tracannò un sorso di whisky dalla borraccia e si addormentò quasi subito. Durante la notte si svegliò per qualche minuto, e orinò ascoltando con sonnolento piacere i lontani ruggiti di un branco di leoni in caccia. Poi tornò alla sua coperta. Fu svegliato dai fischi dei piccioni verdi che banchettavano con i fichi selvatici sopra la sua testa, e scoprì di avere una fame bestiale e di essere felice come negli ultimi anni non era mai stato. Dopo mangiato schizzò alla riva del fiume, portandosi dietro una copia della rivista Farmer's Weekly, la bibbia dell'agricoltore africano. Quindi, seduto nell'acqua bassa, con le chiappe sulla sabbia a grana piacevolmente grossa, color dello zucchero di canna, e il moncherino che gli faceva ancora male a mollo, lesse il listino prezzi e cominciò a far calcoli mentali. I suoi piani ambiziosi furono ridimensionati in fretta quando si rese conto di quanto sarebbe costato ripopolare King's linn e Queen's linn di bestiame selezionato. Il consorzio aveva venduto i capi originali per un milione e mezzo, e da allora i prezzi erano saliti. Avrebbe dovuto cominciare con qualche buon toro, e vacche da incrocio, per costruire gradualmente le migliori linee di sangue. Comunque anche così non sarebbe certo costato poco. I ranch dovevano essere riequipaggiati, e anche la costruzione del villaggio turistico qui sul fiume Chizarira avrebbe richiesto un sacco di denaro. Poi avrebbe dovuto allontanare le famiglie di occupanti abusivi e le loro greggi: e l'unica era offrirgli un risarcimento. Come diceva sempre il
vecchio Bawu: "Calcola quanto ti costerà, poi raddoppia: in questa maniera ci andrai vicino." Clay gettò la rivista sulla riva e si coricò nell'acqua bassa. Con fuori solo le narici, si rimise a far conti. A suo credito c'era il fatto che, diversamente da tanti altri autori di improvviso successo, era vissuto molto frugalmente sul suo yacht. Il libro era stato sulla lista dei bestseller per quasi un anno, offerta principale di tre importanti club del libro, ed era stato tradotto in un gran numero di lingue straniere, compreso l'hindi, condensato da Selezione, ridotto per la TV (ne avevano tratto una serie di telefilm), e finalmente pubblicato in edizione tascabile. Certo aveva dovuto pagare un bel po' di tasse. Ma, con quel che gli era rimasto, ancora una volta era stato fortunato. Aveva speculato sull'oro e sull'argento e aveva fatto tre bei colpi in Borsa: poi, al momento giusto, aveva cambiato in franchi svizzeri la maggior parte dei profitti. Inoltre poteva vendere lo yacht. Un mese prima gli avevano offerto per il Bawu centocinquantamila dollari: ma darlo via gli spiaceva. A parte ciò, poteva cercar di farsi dare da Ashe Levy un sostanzioso anticipo per il libro ancora da scrivere, e dannarsi l'anima per riuscire a farlo. Arrivò in fondo ai suoi conti e decise che al massimo poteva riuscire a raccogliere un milione e mezzo, il che significava che doveva trovare almeno altrettanto denaro in qualche altro modo impensato. "Henry Pickering, mio banchiere preferito, ho idea che ti farò una sorpresa!" Sghignazzò fra sé al pensiero che stava infrangendo la principale regola del perfetto investitore, cioè quella di non gettare tutte le proprie risorse nello stesso mazzo. "Caro Henry, sei stato selezionato dal nostro computer per essere il fortunato che presterà un testone e mezzo a un ex scribacchino inaridito e gambadilegno." Era l'idea migliore che gli fosse venuta così, su due piedi (per modo di dire). Ma tanto era inutile preoccuparsi finché Jock Daniels non avesse ottenuto risposta da parte del consorzio. Passò dunque a occupazioni più concrete. Immerse la testa nel fiume e succhiò un sorso di limpida acqua dolce. Siccome il Chizarira è un piccolo affluente dello Zambesi, ecco che beveva di nuovo l'acqua dello Zambesi, come aveva detto a Henry Pickering che gli sarebbe toccato fare secondo la leggenda dei matabele. "Chizarira" : per pronunciarlo il turista medio si sarebbe morsicato la lingua; non parliamo poi di ricordarlo. Per vendere il suo piccolo paradiso africano avrebbe quindi dovuto trovargli un altro nome. "Zambesi Waters" disse forte: Acque dello Zambesi. Dietro di lui echeggiò un'altra voce, così vicina che quasi lo fece strozzare: "Dev'essere un matto." Era una voce di matabele, profonda e melodiosa. "Primo, viene qua solo e disarmato; secondo, si siede in mezzo ai coccodrilli e chiacchiera con gli alberi!" Clay girò rapido sulla pancia e vide i tre uomini che erano usciti silenziosamente dalla foresta e ora lo guardavano dalla riva, a dieci passi di distanza, con facce chiuse e inespressive. Erano vestiti di tela jeans ormai sbiadita, tutti e tre, la divisa dei guerriglieri, e i mitra che portavano con disinvoltura erano gli onnipresenti kalashnikov dal tipico caricatore ricurvo e dal calcio di legno laminato. Denim, AK 47, matabele: Clay non poteva più aver dubbi su chi fossero. L'esercito regolare dello Zimbabwe ormai portava delle vere divise adatte al combattimento nella giungla, era armato di mitra NATO e parlava shona. Sicché questi erano ex partigiani appartenenti al disciolto ZIPRA, (Zimbabwe People's Revolutionary Army), diventati ora ribelli politici, uomini non soggetti a nessuna legge o autorità superiore, forgiati da una lunga, spietata e sanguinosa guerriglia nella giungla fino a diventare duri e inesorabili guerrieri con la morte nelle mani e negli occhi. Benché Clay fosse stato av-
vertito che un tale incontro era possibile, lo shock lo colpì lo stesso con un attacco di nausea che gli fece venir la bocca secca. "Non stiamo a catturarlo" disse il più giovane dei guerriglieri. "Basta sparargli e seppellirlo, andrà ugualmente benissimo come ostaggio." Aveva meno di venticinque anni, notò Clay, e probabilmente aveva ucciso un uomo per ogni anno che aveva. "I sei ostaggi che abbiamo catturato sulla pista delle cascate Vittoria ci hanno dato fastidio per settimane, e alla fine abbiamo dovuto ucciderli lo stesso" si dichiarò d'accordo il secondo guerrigliero. Dopo di che questi due si misero a guardare il terzo uomo. Era un po' più anziano, non di molto, ma non c'erano dubbi che fosse il capo. Una cicatrice che partiva dalla bocca gli deturpava una guancia fino alla tempia, conferendo un ghigno storto e sardonico al suo viso. Clay ricordò il fatto di cui avevano parlato. I guerriglieri avevano fermato un pullman di turisti sulla strada per le cascate Vittoria e avevano sequestrato sei persone, australiani, americani e un inglese, conducendoli con sé nella boscaglia per usarli come ostaggi in uno scambio di prigionieri. Nonostante le intense ricerche dell'esercito regolare e della polizia, nessuno degli ostaggi era più tornato. Il capo sfregiato guardò Clay con occhi annebbiati e scuri per parecchi secondi, e poi col pollice selezionò sull'arma la posizione di sparo a raffica. "Un vero matabele non uccide un fratello di sangue della tribù." Ci volle un enorme sforzo a Clay per dire queste poche parole senza tradire il terrore che l'attanagliava. Il suo sindebele era così perfetto che fu il capo dei guerriglieri a sbatter le ciglia stupito. "Hau!" esclamò, con un'espressione di stupore. "Tu parli da uomo... ma chi sarebbe questo fratello di sangue di cui vai cianciando?" "Il compagno ministro Tungata Zebiwe" rispose Clay, e vide l'immediato cambiamento di espressione dell'uomo,e l'altrettanto immediato disagio sul viso dei suoi due compagni. Aveva toccato una corda che li aveva sbalorditi, rimandando di qualche momento la sua esecuzione, ma il mitragliatore del capo era ancora puntato contro la sua pancia, e senza sicura. Fu il più giovane che ruppe il silenzio, parlando troppo forte, come per coprire la propria incertezza. "E facile per il babbuino gridare il nome del leone nerocrinito di montagna, e invocarne la protezione, ma riconosce forse il leone il babbuino? Ammazziamolo e facciamola finita." "Eppure parla come un fratello" mormorò il capo "e il compagno Tungata è un uomo severo..." Clay si convinse che la sua vita era appesa a un filo. Un colpetto ancora si imponeva per rompere quel pericoloso equilibrio. "Ve lo posso dimostrare" disse, ancora senza il minimo tremito nella voce. "Lasciatemi andare fino alla mia roba." Il capo esitava. "Sono nudo" disse Clay. "Non ho armi, nemmeno un coltello, e voi siete in tre coi mitra." "Va'!" concesse il matabele. "Ma attento, sono parecchie lune che non ammazzo nessuno e ho una gran voglia di farlo." Clay si alzò pian piano dall'acqua e vide con quale interesse guardavano la sua gamba, tagliata sotto il ginocchio, a metà strada con la caviglia, e gli insoliti muscoli sviluppati dal suo organismo nell'altra gamba e nel resto del corpo per compensare la mutilazione. L'interesse si mutò in ammirazione appena videro con quale facilità e rapidità Clay era in grado di muoversi con una gamba sola. Raggiunse la sua roba in pochi balzi, tutto gocciolante. Si era preparato a quell'incontro, e da una tasca dello zaino tirò fuori il portafoglio e porse un'istantanea a colori al guerrigliero. Nella foto due uomini sedevano sul cofano di una vecchia Land Rover. Si tenevano la mano sulla spalla, e ridevano entrambi.
Ognuno aveva un barattolo di birra nella mano libera, e con quello salutava il fotografo. L'accordo e il cameratismo fra di loro era evidente. Il guerrigliero sfregiato la guardò a lungo e poi rimise la sicura al fucile automatico. "E il compagno Tungata" ammise, facendo vedere la foto agli altri. "Forse sì" disse il più giovane "ma un sacco di tempo fa. Penso ancora che è meglio farlo fuori." Tuttavia la sua opinione sembrava adesso più incerta. "Il compagno Tungata ti mangerebbe senza neanche masticare" disse in tono piatto il suo compagno, rimettendo il mitra in spalla. Clay raccolse la gamba artificiale e in un momento se l'infilò. Subito i tre guerriglieri sbarrarono gli occhi come a un prodigio, dimenticando le intenzioni omicide. Conoscendo perfettamente l'amore degli africani per gli scherzi, Clay fece un po' il buffone. Ballò una giga, piroettò sulla gamba, si tirò un calcio nello stinco senza batter ciglio, e infine rubò il cappello al più giovane e più cattivo dei guerriglieri, lo appallottolò e gridando "Pelé! Pelé?" lo calciò con la gamba artificiale spedendolo in cima al fico. Gli altri due si misero a ridere come matti, letteralmente fino alle lacrime, mentre il giovinastro perdeva la dignità arrampicandosi sul fico per recuperare il berretto. Ben giudicando l'umore, Clay aprì lo zaino e tirò fuori tazza e borraccia di whisky. Ne versò una dose abbondante e la porse al capo sfregiato. "Tra fratelli" disse. Il guerrigliero appoggiò il kalashnikov all'albero e accettò l'offerta. Bevve il whisky in un sorso, soffiandone estaticamente i vapori dal naso e dalla bocca. Anche gli altri due bevvero con altrettanto gusto. Quando Clay si mise i calzoni e sedette sullo zaino, piazzandosi davanti la borraccia, i tre posarono le armi e si accovacciarono a semicerchio di fronte a lui. "Mi chiamo Clay Mellow" disse. "Ti chiameremo Kufela" glidisse il capo. "Gamba-che-va-da-sola." Gli altri applaudirono in segno di soddisfazione, e Clay offrì loro un altro giro di bevute per festeggiare il battesimo. "Io sono il compagno Occhi-aperti" disse il capo. I guerriglieri in genere assumevano nomi di battaglia. "Questo è il compagno Pechino." Un tributo agli istruttori cinesi, indovinò Clay. "E questo" disse il capo indicando il più giovane "è il compagno Dollaro." Clay fece fatica a restar serio a quell'inedita giustapposizione di ideologie. "Compagno Occhi-aperti" disse Clay "i kanka ti hanno segnato." I kanka, cioè gli sciacalli, erano le forze di sicurezza, e Clay sapeva che il capo doveva essere orgoglioso delle cicatrici riportate in battaglia. Il compagno Occhi-aperti si accarezzò lo sfregio. "Una baionettata. Mi hanno lasciato sul terreno per morto, per le iene." "E la tua gamba?" domandò Dollaro a sua volta. "Anche tu hai fatto la guerra?" Rispondere di sì significava informarli che aveva combattuto contro di loro. La loro reazione era imprevedibile, ma Clay lasciò passare solo un secondo prima di annuire. "Ho calpestato una delle nostre mine." "La sua mina!" Occhi-aperti rideva come un matto. "Ha messo un piede sulla sua mina!" Anche gli altri sghignazzavano ma, notò Clay, senza alcun risentimento residuo. "Dove?" volle sapere Pechino. "Sul fiume, tra Kazungula e le cascate Vittoria. "Ah sì" annuirono fra loro. "Bruttissimo posto. Traversavamo spesso lì" ricordò Occhi-aperti. "E lì che abbiamo com-
battuto con gli Scouts." I Ballantyne Scouts erano un reparto scelto delle truppe antiguerriglia, e Clay vi era stato distaccato come armiere. "Il giorno che ho messo il piede sulla mina è stato quello in cui gli SCouts vi hanno inseguito oltre il confine. C'è stata una grande battaglia nel territorio dello Zambia, e gli Scouts sono stati spazzati via." "Hau! Hau!" esclamarono con stupore. "C'éravamo anche noi! C'eravamo, quel giorno, e combattemmo agli ordini del compagno Tungata." "Che battaglia! Che bel massacro, quando li abbiamo intrappolati!" ricordò Dollaro con gli occhi scintillanti di crudeltà. "Si sono battuti! Madre di Nkulu kulu, si sono battuti e come! Quelli erano uomini veri." Al ricordo, Clay fu colto da un soprassalto di nausea. C'era suo cugino, Roland Ballantyne, a capo degli Scouts quel giorno fatale. Era stato lui a condurli oltre il fiume. Mentre Clay giaceva mutilo e sanguinante sul campo minato, Roland e i suoi uomini avevano trovato la morte combattendo pochi chilometri più avanti. I loro corpi erano stati straziati e seviziati da questi uomini che adesso ne parlavano come di una memorabile partita a football. Clay versò loro altro whisky. Quanto li aveva odiati, costoro e i loro compagni. Terroristi li chiamavano, riversando su di loro tutto l'odio che si dedica a chi minaccia la tua stessa vita e tutto ciò che ti è caro. Ma ora anche lui alzò la tazza, quando fu il suo turno di bere, alla loro salute. Aveva sentito raccontare di certi incontri, dopo la guerra, dei piloti inglesi e tedeschi della RAF e della Luftwaffe, in cui si narravano le rispettive imprese più come commilitoni che come nemici mortali. "Dov'eri quando abbiamo attaccato coi razzi il deposito di benzina e munizioni di Harare?" gli chiesero. "Ti ricordi quando gli Scouts sono piombati dal cielo contro il vostro campo a Molingushi? Ottocento di noi ne ammazzarono quel giorno, e c'ero anch'io!" ricordò con orgoglio. "Però, me, non mi hanno preso!" E adesso Clay sentì che l'odio di un tempo era svanito. Sotto lo strato di barbara crudeltà steso su di loro dalla guerra, erano i veri matabele che aveva sempre amato, con il loro insopprimibile umorismo, lo spiccatissimo orgoglio tribale, il senso dell'onore e la lealtà al loro particolare codice morale. Mentre parlavano, Clay si sentì affettuoso nei loro confronti: ed essi l'avvertirono e ricambiarono il sentimento. "E allora che cosa ti porta quaggiù, Kufela? Un uomo intelligente come te, che entra disarmato nella tana del leopardo? Devi aver sentito parlare di noi per forza; come mai sei venuto lo stesso?" "Sì, avevo sentito parlare di voi, avevo sentito dire che siete uomini duri, come i vecchi guerrieri di Mzilikazi." Il complimento gli fece piacere. "Ma io sono venuto apposta per vedervi e parlare con voi" proseguì Clay. "Perché?" domandò Occhi-aperti. "Scriverò un libro, e in questo libro scriverò come siete veramente e perché combattete ancora." "Un libro?" Pechino si insospettì immediatamente. "Che genere di libro?" domandò Dollaro spalleggiandolo. "E chi sei tu per scrivere un libro?" chiese Occhi-aperti con palese disprezzo. "Sei troppo giovane. Quelli che scrivono i libri sono vecchi e istruiti." Come tutti gli africani appena alfabeti, nutriva nei confronti della parola stampata un superstizioso rispetto, pari a quello per le teste grige dei saggi anziani. "Uno scrittore con una gamba sola" sfotté Dollaro, e Pechino
ridacchiò, raccogliendo il fucile. Se lo mise in grembo e ridacchiò di nuovo. "Se dice bugie a proposito di questo libro, magari dice bugie anche a proposito del compagno Tungata" suggerì Dollaro con maligna soddisfazione. Ma Clay si era preparato anche a questo. Da una grossa busta tirò fuori un malloppetto di ritagli in cui si parlava di lui. Li distribuì ai tre increduli lentamente, godendosi il mutar delle loro espressioni dalla più sfottente incredulità al sorpreso interesse. Poi scelse un ritaglio e lo porse a Occhi-aperti. Parlava della serie di telefilm tratti dal suo libro, che erano stati trasmessi anche dalla televisione dello Zimbabwe due anni prima, dopo l'avvento del governo negro ma prima che questi guerriglieri tornassero alla macchia. La serie aveva avuto un grandissimo successo. "Hau!" esclamò Occhi-aperti. "E il vecchio re Mzilikazi!" La fotografia ritraeva Clay sul set televisivo, con gli attori in costume. I guerriglieri riconobbero immediatamente il divo, un negro americano, che impersonava l'antico re dei matabele. Era in costume di pelle di leopardo e penne d'airone. "E questo è lui, vicino al re!" Non erano rimasti così impressionati nemmeno dalla sua foto con Tungata. C'era un altro ritaglio, una foto presa alla libreria Doubleday sulla Quinta Avenue, dove Clay posava accanto alla grande piramide di copie del suo libro sulla quale era stata messa una sua gran fotografia. "Ma sei tu?" dissero, veramente sbalorditi. "Sei stato tu a scrivere quel libro?" "Adesso mi credete?" disse Clay, ma Occhi-aperti prima di compromettersi voleva esaminare con la massima attenzione le prove. Muovendo le labbra lesse il testo dell'articolo e alla fine, porgendo il pacco di ritagli a Clay, disse con serietà: "Kufela, nonostante la tua giovinezza sei davvero uno scrittore importante." Adesso erano quasi pateticamente ansiosi di fargli conoscere le loro lamentele, come supplici a un indaba tribale dove gli anziani della tribù ascoltavano le cause e amministravano la giustizia. Mentre parlavano, il sole si alzava in un cielo azzurro e senza macchia come un uovo d'airone; mentre ancora parlavano, culminò a mezzogiorno e declinò nel meriggio, fino al rosseggiante smorir del tramonto. Ciò di cui parlavano era la tragedia dell'Africa, le barriere che dividevano questo vasto e possente continente, inoculandogli i germi della violenza e della rovina; ciò di cui parlavano era l'unica malattia incurabile che li affliggeva tutti, il tribalismo. Qui, si trattava di matabele contro mashona. "I mangiamerda" li chiamava Occhi-aperti. "Gli uomini delle caverne, i vigliacchi che scappano dai fortini, gli sciacalli che azzannano solo alle spalle." Era il disprezzo del guerriero per il mercante, dell'uomo d'azione per l'astuto negoziatore e il politico. "Da quando il grande Mzilikazi ha attraversato per la prima volta il Limpopo, i mashona sono i nostri cani: amaholi, schiavi e figli di schiavi." La storia delle migrazioni dei popoli e della dominazione dell'uno sull'altro non si limitava allo Zimbabwe, ma nel corso dei secoli aveva interessato tutto quanto il continente. Più a nord, gli aristocratici masai avevano saccheggiato e terrorizzato i kikuyu, privi della loro cultura guerriera; i giganti watussi, che considerano un nano chiunque non sia alto almeno due metri, avevano ridotto in schiavitù i gentili hutu: e in ognuno di quei casi il popolo degli schiavi aveva compensato la propria mancanza di ferocia con l'astuzia politica, e non appena se n'era andato l'uomo bianco o aveva massacrato i suoi aguzzini di un tempo, come avevano fatto gli hutu coi watussi, o, distorcendo la dottrina degli equilibri democratici, aveva abu-
sato della superiorità numerica per costringere gli antichi padroni allsimpotenza politica, come avevano fatto i kikuyu coi masai. E qui nello Zimbabwe stava accadendo esattamente la stessa cosa. I coloni bianchi erano stati spazzati via dalla guerriglia, e con loro ogni concetto di equità e di onestà che il governo bianco e i burocrati dell'amministrazione avevano imposto in precedenza a tutte le tribù. "Ci sono cinque mangiamerda mashona per ogni matabele" disse amaramente Occhi-aperti a Clay. "Ma perché questo dovrebbe dargli il diritto di spadroneggiare su di noi? Cinque schiavi possono comandare un re? Se cinque babbuini gridano, trema forse il leone nerocrinito?" "Così si fa in Inghilterra e in America" disse Clay mitemente. "La volontà della maggioranza deve prevalere..." "Piscio con grande potenza sulla volontà della maggioranza" affermò Occhi-aperti scartando a cuor leggero la dottrina democratica. "Cose del genere possono forse funzionare in Inghilterra o in America, ma qui siamo in Africa. Non funzionano, qui. Io non mi piego alla volontà di cinque mangiamerda. No, e neanche di cento o mille. Io sono un matabele, e l'unico uomo che mi può comandare è un re dei matabele." "Sì" pensò Clay "questa è l'Africa." La vecchia Africa che si svegliava dalla trance provocata da cent'anni di colonialismo e tornava immediatamente alle vecchie usanze." Pensò alle decine di migliaia di giovani inglesi dalla faccia da bambini che, per il modesto salario del Colonial Service, erano venuti quaggiù a passar la vita a tentare di inculcare nelle riluttanti popolazioni indigene l'etica del lavoro protestante, l'ideale del fairplay e la democrazia parlamentare: giovani uomini che avevano poi fatto ritorno in Inghilterra prematuramente invecchiati e con la salute rovinata, a finirvi i propri giorni con una misera pensione e l'idea di avere dedicato la vita a una missione importante e duratura. "Quanti di loro avranno mai sospettato" si chiese Clay, "di aver tribolato invano?" I confini lasciati dal sistema coloniale erano precisi e netti. Seguivano un fiume, o la riva di un lago, lo spartiacque di una catena di montagne o, dove non esisteva nulla del genere, un geometra col teodolite tracciava una linea ideale sul territorio. "Da questa parte è Africa Orientale Tedesca, da quest'altra parte Impero Britannico." Non sapendo magari neanche il nome delle tribù che, con quel gesto, tagliavano a metà. "Molti di noi vivono oltre il fiume, in Sudafrica" lamentò Pechino. "Se fossimo uniti, le cose sarebbero diverse, saremmo molto più numerosi, ma siamo divisi." "E lo shona è furbo, furbo come i babbuini che vengono a mangiare il grano nel campo di notte. Sa che un guerriero matabele è capace di divorarsene cento dei suoi, così la prima volta che siamo insorti si è servito dei soldati bianchi di Smith che erano rimasti qui..." Clay ricordò l'amara soddisfazione dei soldati bianchi nel precisare che non erano stati sconfitti sul campo, ma traditi, quando il governo Mugabe li aveva scatenati contro la fazione dissidente dei matabele. "Arrivavano i piloti bianchi con gli aeroplani, e le truppe bianche del Rhodesian Regiment..." Dopo la battaglia, le banchine della stazione di Bulavvayo si riempivano di vagoni-frigoriferi zeppi dei corpi dei matabele caduti. "I soldati bianchi gli hanno fatto il lavoro, mentre Mugabe e i suoi scappavano ad Harare a nascondersi sotto le gonnelle delle loro donne. Poi, quando i bianchi ci hanno disarmati, eccoli tornar fuori di nuovo, spazzar via dalle uniformi la polvere della fuga e pavoneggiarsi come conquistatori." "Hanno disonorato i nostri capi..." Nkomo, il capo dei matabele, era stato accusato di proteggere i
dissidenti e accumulare riserve di armi, e, caduto in disgrazia presso un governo succube dei mashona, era stato costretto a ritirarsi dalla politica. "Hanno campi di concentramento segreti nella boscaglia, dove rinchiudono i nostri capi" continuò Pechino. "Lì fanno ai nostri certe cose che non si possono nemmeno dire." "Adesso che siamo senza armi, i loro corpi speciali fanno irruzione nei nostri villaggi. Picchiano i nostri vecchi genitori, violentano le nostre donne e portano via gli uomini, di cui poi non si sa più niente." Clay aveva visto una fotografia di uomini in blu e kaki della vecchia Polizia Sudafricana, un tempo l'uniforme dell'onore e del faEr-play, che conducevano un interrogatorio in un villaggio. Un matabele nudo era stato steso prono a terra, dove un agente lo tratteneva con gli stivali sui gomiti e le braccia torte all'indietro: sul prigioniero altri due poliziotti lavoravano di manganello, manganelli grossi come mazze da baseball. Tiravano colpi a tutta forza, alzando il manganello sopra il capo, bastonando senza pietà schiena, spalle e natiche del prigioniero. La didascalia della foto era: "Poliziotti dello Zimbabwe interrogano un sospetto a proposito del sequestro dei turisti da parte dei dissidenti matabele." Ma non c'erano foto di quello che facevano alle ragazze matabele. "Forse le truppe governative cercano gli ostaggi che avete ammesso di aver fatto fuori" osservò Clay. "Poco fa eravate pronti ad ammazzare con grande piacere anche me, o prendermi in ostaggio." "Hanno cominciato gli shona a prendere ostaggi, molto prima di noi" glirinfacciò Occhi-aperti a muso duro. "Sì, ma voi li prendete tuttora, e ostaggi innocenti" insisté Clay. "Sparate agli agricoltori bianchi..." "E che altro possiamo fare perché il mondo sappia cosa sta succedendo al nostro popolo? Quasi tutti i nostri dirigenti sono stati imprigionati o messi a tacere, e anche se fanno parte del governo non hanno il minimo potere. Non abbiamo altre armi a parte quelle che siamo riusciti a nascondere, non abbiamo amici potenti, mentre gli shona sono amici dei cinesi, degli inglesi e degli americani. Non abbiamo denaro per continuare la lotta, e loro possiedono tutte le ricchezze della terra, e aiuti per milioni di dollari dai loro alleati. Cos'altro possiamo fare perché il mondo capisca la nostra disperazione?" Clay decise prudentemente che non era quello né il luogo né il momento di tenere una lezione di moralità politica: oltretutto pensava che forse la sua concezione di moralità era un tantino antiquata. Negli affari internazionali era diventato accettabile un nuovo espe-diente politico: il diritto delle minoranze impotenti e senza voce di attirare l'attenzione sulla loro causa con la violenza. Dai palestinesi ai separatisti baschi ai dinamitardi dell'IRA che facevano saltare in aria, a brandelli, le guardie a cavallo per le strade di Londra, la nuova morale trovava seguaci dappertutto. Con questi esempi sotto gli occhi, e in seguito al successo già ottenuto una volta nel cambiare regime politico con la violenza, questi giovani erano legittimi figli della nuova mentalità. Benché Clay non potesse mai concordare in cuor suo con questi metodi, nemmeno a campare cent'anni, tuttavia si sorprese a simpatizzare, sia pure a malincuore, con questa gente e le sue aspirazioni. C'era sempre stato, del resto, un oscuro legame di simpatia tra la famiglia Clay e i matabele. Una tradizione di rispetto e comprensione per una gente che poteva costituire il miglior amico del mondo o un nemico fra i peggiori, una razza fiera, aristocratica e guerriera che meritava qualcosa di meglio del destino che attualmente le toccava. Nella mentalità di Clay c'era una piega elitaria che gli faceva odiare la vista di un Gulliver reso impotente dai lillipuziani. Aborriva la politica dell'invidia e la malignità del socialismo che, sentiva, mirava a diminuire gli eroi e ridurre gli uomini eccezionali al grigio rango del gregge, a sostituire la vera leadership con lo sciocco bron-
tolare degli zotici sindacali, a castrare ogni iniziativa con tasse punitive per poi irreggimentare gradualmente una plebe ottusa e condurla belante nel recinto di filo spinato del totalitarismo marxista. Questi uomini erano terroristi, certo. Clay sogghignò: lo era anche Robin Hood, ma almeno aveva un certo stile e un po' di classe. "Vedrai presto il compagno Tungata?" gli domandarono con ansia quasi patetica. "Sì, lo vedrò presto." "Digli che siamo qui. Digli che siamo pronti e in attesa." Clay annuì. "Glielo dirò." Tornarono con lui fino alla macchina, e il compagno Dollaro insisté per portare lo zaino di Clay. Quando raggiunsero la polverosa Volkswagen, ci entrarono, sistemandosi con le canne del kalashnikov fuori dei finestrini. "Veniamo con te fino alla strada per le cascate Vittoria, perché potresti incontrare un'altra delle nostre pattuglie che, visto che sei in macchina, forse sparerebbe prima di parlare." Raggiunsero la Great North Road molto dopo il calar della notte. Clay disfece lo zaino e diede a loro le razioni che gli rimanevano, il whisky e le sigarette. Nel portafoglio aveva duecento dollari e glieli diede pure, come aggiunta al bottino. Poi si strinsero la mano. "Di'al compagno Tungata che ci servono armi" disse Dollaro. "E che più che le armi ci serve un capo." Il compagno Occhi-aperti strinse la mano a Clay con lo speciale strofinio di palmo e pollice riservato agli amici più cari. "Va' in pace, Kufela" glidisse. "La gamba-che-va-da-sola possa condurti lontano e in fretta." "Sta' in pace, amico mio" glidisse Clay. "No, Kufela, augurami piuttosto la guerra, e sanguinosa..." Il ghigno di Occhi-aperti era terribile nella luce riflessa dei fari. Quando Clay si voltò, erano spariti nel buio, silenziosi come leopardi in caccia.
"Avrei scommesso che non saresti più tornato." Così Jock Daniels salutò Clay quando, la mattina dopo, entrò nell'agenzia. "Sei stato sul Chizarira, o il buon senso ha prevalso?" "Sono ancora vivo, no?" replicò Clay eludendo la domanda. "Bravo" disse Jock. "Meglio non immischiarsi con quegli shufta matabele. Sono tutti banditi e basta." "Notizie da Zurigo?" Jock scosse la testa. "Ho mandato un telex alle nove ora locale. Sono un'ora indietro a noi." "Posso usare il telefono? Devo fare qualche telefonata privata." "Locale? Non vorrei che cinguettassi a mie spese coi tuoi canarini di New York." "Ma naturale." "Allora va bene. Mentre telefoni bada tu alla bottega, io esco." Clay sedette alla scrivania di Jock e consultò gli appunti in codice che aveva preso dal dossier di Pickering. La prima chiamata che fece fu all'ambasciata americana di Harare, la capitale, seicento chilometri a nord-est di Bulavvayo. "Mi passi l'addetto culturale, mister Morgan Oxford" chiese alla centralinista. "Oxford" disse una voce scattante, dall'accento raffinato di Boston e della Ivy League. "Clay Mellow. Un comune amico mi ha chiesto di telefonarle e porgerle i suoi omaggi." "Sì, la stavo aspettando. Perché non viene a trovarmi?" "Molto volentieri" disse Clay e riappese. Pickering non era un fanfarone. Qualunque messaggio consegnato a Oxford sarebbe partito con la valigia diplomatica e nel giro di dodici ore sarebbe stato recapitato sulla scrivania del banchiere. La seconda telefonata fu al ministero del Turismo e dell'Infor-
mazione. Con qualche problema riuscì a giungere alla segretaria del ministro. Il suo atteggiamento divenne subito più premuroso quando egli le parlò in sindebele. "Il compagno ministro è in parlamento" glidisse, e diede a Clay il suo numero di telefono privato presso quella istituzione. Clay riuscì a collegarsi con il centralino del parlamento al quarto tentativo. Il sistema telefonico era molto peggiorato, notò: la maledizione di tutti i paesi in via di sviluppo era la mancanza di bravi tecnici e artigiani esperti. Prima dell'indipendenza, la manutenzione del sistema telefonico era affidata ai bianchi, ma ormai se n'erano andati quasi tutti. Questa segretaria era mashona e insisteva a parlare inglese per dar prova della sua raffinatezza. "Pregasi dichiarare il motivo del colloquio." Stava evidentemente leggendo un modulo stampato. "Personale. Conosco il compagno ministro." "Ah, sì. P-e-r-s-o-n-a-l-e." La segretaria sillabò laboriosamente la parola mentre la scriveva. "Consulterò gli impegni del compagno ministro. Dovrà ritelefonare." Clay consultò invece la propria lista. La prossima telefonata era al registro governativo delle società, e stavolta fu più fortunato, perché trovò un impiegato efficiente e pronto a collaborare. "Il registro azionario della società Rholands Ltd., già nota come Rhodesian Lands and Mining Ltd." Avvertì la disapprovazione nel tono dell'impiegato. "Rhodesia e rhodesiano" erano diventate parolacce, e Clay prese in cuor suo la decisione di cambiare quei nomi odiosi all'orecchio africano, ribattezzando "Zimlands" la società. "Avrà la copia dei dati da lei richiesti sulla società alle sedici" l'assicurò l'impiegato. "La tassa per questo servizio è di quindici dollari." Aveva richiesto copia dei titoli di proprietà dei tre possedimenti già della sua famiglia, amministrati per mezzo di società ora controllate dal consorzio di Zurigo. C'erano adesso altri quattordici nomi sulla sua lista, nomi di altrettanti coloni bianchi che un tempo avevano ranch nel Matabeleland; vicini e amici della sua famiglia. quelli di cui il vecchio nonno Bawu aveva stima e fiducia. Dei quattordici ne trovò quattro: gli altri avevano da un pezzo venduto e imboccato la strada per il sud. Sembrarono veramente contenti di risentirlo. "Benvenuto a casa, Clay. Abbiamo letto tutti il libro e guardato il romanzo sceneggiato alla TV." Ma quando cominciò a far domande si dimostrarono reticenti e evasivi. Uno di loro disse: "Questo dannato telefono perde come un colapasta. Vieni a cena da noi, poi resti qua a dormire. C'è sempre un letto per te, Clay. Buon Dio, sono così poche le persone amiche rimaste qui."
Jock Daniels tornò a metà del pomeriggio, con la faccia rossa e sudatissimo. "Sempre al telefono?" borbottò. "Mi chiedo se il droghiere avrà dell'altro Dimple Haig." Clay rispose alla sottile allusione attraversando la strada e andando a comprare una bottiglia. "Mi ero dimenticato che bisogna avere un fegato d'acciaio per vivere in questo paese." Svitò il tappo e versò da bere a Jock. Alle cinque meno dieci telefonò di nuovo alla segretaria del ministro in parlamento. "Il compagno ministro Tungata Zebiwe ha gentilmente acconsentito a incontrarla venerdì mattina alle dieci. Può concederle venti minuti." "La prego di porgere al ministro i miei sentiti ringraziamenti." Ciò dava a Clay tre giorni di tempo da ammazzare, e significava che avrebbe dovuto sobbarcarsi il viaggio in macchina fino ad Harare, distante seicento chilometri.
"Nessuna risposta da Zurigo?" Riempì di nuovo il bicchiere di Jock. "Ma, sai, è un'offerta così ridicola che potrebbero anche non disturbarsi a rispondere" brontolò Jock, afferrando la bottiglia dalle mani di Clay e versandosi un rabbocco generoso. Nei giorni successivi Clay accettò gli inviti e andò a trovare i vecchi amici di Bawu, dai quali fu accolto con la tradizionale ospitalità rhodesiana. "E chiaro, non ci sono più i vecchi lussi, le marmellate Crosse and Blackwell, il sapone Bronnley" glidisse una padrona di casa servendogli un'abbondante porzione di cibo "ma arrangiarsi è perfino divertente." E segnalò al cameriere in guanti di filo bianchi di riempire di nuovo di patate il piatto di portata, un vecchio piatto d'argento massiccio. Trascorse le giornate con uomini abbronzatissimi, dai cappelli a larghe tese, che giravano in Land Rover mostrandogli il loro bestiame grasso con parche parole. "Il manzo del Matabeleland è ancora il migliore" glidisse uno di loro con orgoglio. "E l'erba più dolce del mondo, la nostra. Naturalmente dobbiamo esportarlo attraverso il Sudafrica, ma i prezzi sono molto buoni. Per questo sono contento di non aver tagliato la corda. Ho parlato al telefono col vecchio Derek Sanders, che sta in Nuova Zelanda. Lavora come un bracciante nel suo allevamento di pecore; dice che è una vita troppo dura. Laggiù non ci sono i matabele a fare i lavori sporchi." Guardava i suoi pastori negri con paterno affetto. "Sono rimasti esattamente uguali a prima, a parte tutte le balle politiché. Il sale della dannata terra, ragazzo mio. E la mia gente, penso a loro come alla mia famiglia, e sono contento di non averli abbandonati." "Naturalmente qualche problema c'è" glidisse un altro dei suoi ospiti. "Le importazioni sono difficilissime. E difficile procurarsi i ricambi dei trattori, le medicine per il bestiame, eccetera: ma il governo di Mugabe si sta svegliando. Quali produttori di alimentari, abbiamo la priorità nei permessi di importazione. Naturalmente, i telefoni funzionano quando vogliono loro e così le ferrovie, sempre in ritardo. C'è l'inflazione galoppante, ma il prezzo dei bovini sta al passo. Hanno riaperto le scuole, ma noialtri mandiamo i ragazzi oltreconfine, a sud, perché abbiano un'istruzione decente..." "E la politica?" "Riguarda soltanto i negri. Matabele e mashona. L'uomo bianco, grazie a Dio, non c'entra più. Che si facciano pure a pezzettini, se così vogliono, quei bastardi! Io me ne sto alla larga e non è una brutta vita. Non è come ai vecchi tempi, è chiaro, ma poi non lo è mai, nevvero?" "Compreresti dell'altra terra?" "Non ho i soldi, vecchio mio." "E se li avessi?" Il rancher si strofinò pensosamente il naso. "Coi prezzi odierni della terra si può fare un affarone, se il paese viene su bene. Oppure si può perdere tutto, se il paese va a catafascio." "Si può dir lo stesso della Borsa, ma, nel frattempo, è una bella vita?" "E una bella vita sì. E, diavolo, io sono venuto su sullo Zambesi, Non sarei affatto contento di respirarmi lo smog di Londra o rimettermi a fare il pioniere in mezzo alle mosche dell'interno australiano."
Giovedì mattina Clay tornò al motel, prese la biancheria pulita la mise nella borsa di tela che costituiva tutto il suo bagaglio, pagò il conto e se ne andò. Telefonò all'ufficio di Jock. "Ancora niente da Zurigo?" "E arrivato un telex un'ora fa." Si precipitò all'agenzia, dove Jock gli porse il foglio. Clay lo lesse in fretta.
"Garantiamo al suo cliente un'opzione valida trenta giorni per acquistare tutte le azioni della Rholands Co. al prezzo di mezzo milione di dollari americani pagabili a Zurigo all'atto della firma. Nessuna controfferta sarà presa in considerazione." Altro non c'era. Dunque il vecchio Bawu aveva ragione: raddoppia il prezzo e ci azzeccherai. Jocklo stava studiando. "Vogliono il doppio" osservò. "Ce l'hai mezzo milione?" "Dovrò chiederlo a mio zio ricco" sfotté Clay. "Comunque ho un mese di tempo. Prima di allora sarò di ritorno." "Dove ti posso trovare?" gli chiese Jock. "Mi farò vivo io." Chiese a Jock un altro bidone di benzina della sua riserva personale e imboccò sulla Volkswagen la strada del nord-est verso il Mashonaland e Harare. Venti chilometri fuori città incappò nel primo posto di blocco. "Quasi come ai vecchi tempi" pensò, accostando al margine della strada. Due soldati negri in tuta mimetica perquisirono con esasperante lentezza la Volkswagen in cerca di armi, mentre un tenente con sul berretto il distintivo rosso della Terza Brigata, addestrata dai coreani, gli esaminava il passaporto. Ancora una volta Clay si felicitò della tradizione di famiglia per cui le donne incinte andavano a partorire in Inghilterra, sia dal lato Mellow sia dal lato Ballantyne. Quel libretto blu col leone d'oro e l'unicorno e il motto "Honni soit qui mal y pense" stampato sulla copertina destava tuttora una certa deferenza perfino presso un blocco stradale della Terza Brigata. Era tardo pomeriggio quando, superato il valico a una catena di basse colline, vide sotto di sé la manciatina di grattacieli che si alzavano incongrui nel paesaggio africano, pietre tombali sul sogno d'immortalità dell'Impero Britannico. La città che era stata un tempo intitolata a Lord Salisbury, il ministro degli Esteri che aveva negoziato il passaggio alla Corona della Compagnia del Sudafrica Britannico, era tornata al nome di Harare: quello del capo del villaggio shona, un pugno di capanne che i pionieri bianchi avevano trovato lì quel giorno di settembre 1890 quand'erano finalmente arrivati dopo il lungo viaggio da sud. Anche le vie avevano cambiato nome: da quelli che commemoravano i pionieri bianchi e l'impero vittoriano, a quelli dei figli della rivoluzione negra e ai suoi alleati. Qualunque nome andava bene, bastava che fosse diverso. Entrando in città, Clay trovò un'atmosfera da boom. I marciapiedi erano affollatissimi di negri rumorosi, e la hall del Monomatapa Hotel, situato in un edificio di sedici piani, risuonava di una ventina di lingue e accenti diversi. I turisti vi si mischiavano coi banchieri, gli uomini d'affari, i diplomatici stranieri, i funzionari statali e i consiglieri militari. Non c'era una stanza per Clay, finché non trovò un vicedirettore dell'albergo che aveva letto il suo libro e visto il romanzo sceneggiato alla televisione. A questo punto fu accompagnato nella sua stanza che dava sul parco, al quindicesimo piano. Mentre faceva il bagno, arrivò una processione di camerieri con fiori, ceste di frutta e una bottiglia di champagne sudafricano graziosamente offerti dalla direzione. Fino a mezzanotte lavorò al rapporto per Henry Pickering, e la mattina dopo arrivò all'edificio del parlamento in piazza Indipendenza alle nove e trenta. La segretaria del ministro lo fece aspettare quarantacinque minuti prima di fargli strada nell'ufficio dalle pareti di legno pregiato che si trovava oltre la sua scrivania. Il compagno ministro Tungata Zebiwe si alzò ad accoglierlo. Clay si era dimenticato quanto fosse imponente quell'uomo, o
magari era cresciuto ancora dall'ultima volta che l'aveva visto. Si ricordò che una volta Tungata era stato il suo attendente, quando Clay era ranger del ministero per la Conservazione della Fauna, e gli sembrò un fatto di una vita precedente. In quei giorni si chiamava Samson Kumalo, dei Kumalo che discendevano in linea diretta dai re matabele, e la sovranità sarebbe spettata proprio a lui. Bazo, il suo bis-bisnonno, era stato il capo della ribellione dei matabele del 1896, e per questo i bianchi l'avevano impiccato. Il suo bis-bis-bisnonno, Gandang, era fratellastro di Lobengula, l'ultimo re dei matabele che le truppe di Rhodes avevano messo ignobilmente a morte seppellendolo in qualche località sconosciuta nelle regioni inesplorate del nord dopo aver distrutto la sua capitale a GuBulavvayo. Era dunque di sangue reale, e si vedeva. Più alto di Clay; arrivava ai due metri, ed era molto muscoloso, non avendo ancora cominciato a ingrassare come capita spesso ai matabele. Il suo fisico era sottolineato alla perfezione dal taglio del suo vestito italiano di seta: spalle larghissime da vero armadio, ventre piatto da levriero. Era stato uno dei più importanti capi partigiani durante la guerra, ed era ancor oggi un guerriero, non c'era il minimo dubbio. Clay provò un notevole e del tutto inatteso piacere nel rivederlo. "Ti vedo, compagno ministro" lo salutò Clay in sindebele, evitando di ricorrere sia al vecchio "Sam" , troppo familiare ormai, sia al nome di battaglia che aveva adottato ora, Tungata Zebiwe,che significa "Colui-che-persegue-la-giustizia." "Ti ho già mandato via una volta" rispose nella stessa lingua Tungata. "Ho saldato ogni debito che c'era fra noi due e ti ho cacciato via." I suoi occhi non mostravano di ricambiare minimamente l'affetto di Clay: scuri, foschi, s'accompagnavano alla mascella irrigidita. "E te ne sono grato" disse Clay, anche lui senza sorridere, nascondendo il piacere. Era stato Tungata a firmare uno speciale permesso ministeriale per consentirgli di esportare lo yacht di costruzione propria, il Bawu, in un momento in cui non si poteva portar via dal paese nemmeno un frigorifero vecchio o la rete del letto. A quel tempo lo yacht era l'unica cosa che Clay avesse al mondo, ed egli era ancora sofferente per i postumi dell'esplosione e confinato sulla sedia a rotelle. "Non voglio gratitùdine" disse Tungata. Eppure dietro quegli occhi color del miele bruciato c'era qualcosa che Clay non riusciva a capire. "Neanche l'amicizia che ancora ti offro?" domandò con gentilezza Clay. "Tutto ciò è morto sul campo di battaglia" disse Tungata. "E stato lavato via da fiumi di sangue. Hai scelto di andartene, perché adesso sei tornato?" "Perché questa è la mia terra." "La tua terra.,," Vide il rosso alone della rabbia soffondere il bianco degli occhi di Tungata. "La tua terra! Parli come un colonialista. Come uno dei soldati assassini di Cecil Rhodes." "Non intendevo questo." "La tua gente ha conquistato questa terra coi fucili, e coi fucili ne è stata ricacciata. Non parlarmi più della tua terra." "Sai odiare bene come hai combattuto" glidisse Clay, cominciando ad avvertire egli stesso i primi morsi della rabbia "ma io non sono tornato per odiare. Sono tornato perché il mio cuore mi ha riportato qui. Sono tornato perché sentivo di poter contribuire alla ricostruzione di quanto è stato distrutto." Tungata sedette alla scrivania, coprendo con le mani il blocco degli appunti. Erano nerissime e possenti. Le guardò un attimo in silenzio, un silenzio che si prolungò per parecchi secondi. "Sei stato a King's linn" disse infine Tungata, e Clay sobbalzò. "Poi sei andato a nord sul Chizarira." "I tuoi occhi sono illuminati" annuì Clay. "Vedono tutto."
"Hai chiesto al registro azionario copie dei titoli di proprietà di quelle aziende." Ancora una volta Clay fu colpito, ma restò zitto. "Ma perfino tu non puoi ignorare che ci vuole l'approvazione del governo per comprare della terra in Zimbabwe. Devi chiarire l'uso a cui intendi destinarla e dichiarare il capitale che ci investirai." "Già, perfino io lo so" concordò Clay. "E così vieni a parlarmi d'amicizia" disse Tungata alzando gli occhi e guardandolo in faccia. "Poi, da vecchio amico, mi chiederai un altro favore, non è così?" Clay allargò le braccia con gesto di rassegnazione. "Un solo colono bianco su un'estensione di terra che basta a nutrire cinquecento famiglie matabele. Un allevatore bianco che s'ingrassa e s'arricchisce mentre i suoi servi vestono stracci e mangiano gli avanzi che lui gli getta!" tuonò Tungata. Clay alzò la voce a sua volta. "Un allevatore bianco che porta un capitale di milioni in un paese che ne ha un disperato bisogno; un allevatore bianco che dà lavoro a decine di matabele; un allevatore bianco che produce cibo bastante per diecimila matabele, e non per soli cinquecento. Un allevatore bianco che fa rendere la terra, difendendola dalle capre e dalla siccità; così che possa produrre i suoi frutti per cinquecento anni e non cinque.,," Clay aspettò che gli sbollisse la rabbia, ricambiando lo sguardo teso di Tungata, chino sulla scrivania, tutto rigido dalla gamba in su. "Sei finito, qui!" ruggì Tungata. "Il kraal è chiuso per te! Torna alla tua barca, alla tua fama e alle tue femmine in calore, e ringrazia il cielo che ti abbiamo tolto solo una gamba! Vattene via prima di rimetterci anche la testa!" Tungata guardò l'orologio da polso. "Non abbiamo più niente da dirci" aggiunse alzandosi. Tuttavia, dietro il suo sguardo inespressivo e ostile, Clay continuava ad avvertire qualcosa di indefinibile. Cercò di darvi un nome: non era paura, ne era sicuro, non era inganno. Una specie di disperazione, forse, o addirittura senso di colpa: o magari un misto di tutto ciò. "Be', prima di andarmene devo dirti un'altra cosa, invece." Clay fece un passo verso la scrivania e abbassò la voce. "Come sai, sono stato sul Chizarira. Ci ho trovato tre uomini. Si chiamano Pechino, Occhi-aperti e Dollaro, e mi hanno detto di trasmetterti un messaggio..." Clay non riuscì a proseguire, perché la rabbia di Tungata si trasformò in vera furia. La collera lo faceva tremare, gli annebbiava lo sguardo, gli annodava i muscoli all'attaccatura dell'imponente mascella. "Sta' zitto" sibilò, con la voce controllata ma sul punto di esplodere. "Non t'immischiare in cose che non capisci e che non ti riguardano. Lascia questo paese prima che ti travolgano." "Me ne andrò" disse Clay restituendogli bravamente lo sguardo "ma solo dopo che la mia richiesta del permesso di acquistare la terra sarà stata ufficialmente respinta." "Allora prestissimo" replicò Tungata. "Te lo garantisco io." Nel posteggio del parlamento la Volkswagen si era arroventata. Clay aprì gli sportelli e, mentre aspettava che l'interno si rinfrescasse un po', si accorse che tremava per effetto dell'alterco con Tungata Zebiwe. Alzò la mano davanti agli occhi e constatò che era scossa da un forte tremito. Quando lavorava nella riserva, dopo aver ammazzato qualche leone mangiatore di uomini o qualche elegante razziatore, l'adrenalina gli faceva lo stesso scherzo. Entrò in macchina e, aspettando di tornar padrone di sé, cercò di sintetizzare le impressioni ricavate dal colloquio e di elencare quanto vi aveva appreso. Chiaramente era stato sorvegliato da un servizio segreto statale fin dal suo arrivo nel Matabeleland. Forse il motivo della sorveglianza era semplicemente la sua fama letteraria: il suo era un nome
conosciuto, che in una lista balzava agli occhi. Non l'avrebbe mai saputo, fatto sta che ogni sua mossa era stata riportata a Tungata. Tuttavia non riusciva ancora a capire la violenta opposizione di Tungata ai suoi progetti. Le ragioni che aveva addotto erano meschine e pretestuose. Clay era sicurissimo di aver colto esattamente il sottofondo contraddittorio nel comportamento ostile di Tungata: vi erano ignote correnti subacquee nelle acque profonde in cui aveva fatto vela Clay. Ripensò alla collerica reazione di Tungata quando aveva nominato i tre guerriglieri che aveva incontrato sul Chizarira. Ovviamente Tungata conosceva già quei nomi, e il suo rimprovero era stato troppo violento per venire da una coscienza cristallina. C'erano molte cose che Clay avrebbe voluto sapere, e molte che Henry Pickering avrebbe giudicato interessanti. Clay avviò la vw e tornò pian piano al Monomatapa lungo viali originariamente concepiti così larghi da permettere a trentasei buoi aggiogati di eseguire una conversione a "U." Quando arrivò nella sua camera, era quasi mezzogiorno. Aprì il bar e prese la bottiglia di gin. Poi la rimise giù senza sturarla e ordinò invece del caffè. L'abitudine di bere di giorno l'aveva seguito da New York, e sapeva che aveva contribuito anch'essa a renderlo inconcludente. "Non lo farò più" si disse. Sedette alla scrivania accanto alla finestra panoramica e guardò giù. Mentre metteva ordine fra i pensieri ammirava gli alberi di jacaranda del parco: poco dopo prese la penna e aggiornò il proprio rapporto a Henry Pickering, includendovi i propri sospetti sul coinvolgimento di Tungata nella guerriglia dei ribelli matabele e la sua strana opposizione al progetto di Clay di comprare della terra. Il discorso conduceva dritto alla richiesta del prestito, e si mise a far conti, a illustrare il potenziale della Rholands, i suoi piani per King's linn e la riserva del Chizarira nel modo più favorevole possibile. Giocando sull'interesse manifestato da Henry Pickering per le risorse turistiche da sfruttare nei paesi in via di sviluppo, si dilungò a magnificare i suoi progetti sul villaggio ecologico "Zambesi Waters" come attrazione. Mise i due rapporti in due buste separate, le sigillò e andò all'ambasciata americana. Sopravvisse alla perquisizione all'ingresso, a cura di un marine, e aspettò che Morgan Oxford venisse a identificarlo. L'addetto culturale costituì una sorpresa per Clay. Aveva appena passato i trenta, come Clay, ma era massiccio come un atleta di college, aveva i capelli tagliati cortissimi e gli occhi di un azzurro penetrante. La sua stretta di mano era salda e suggeriva che aveva a disposizione molta più forza di quella che esercitava al momento. Accompagnò Clay in un ufficetto sul retro e prese le due buste prive di indirizzo che gli porse senza fare commenti. "Mi hanno incaricato di presentarla a questo e quello" disse. "C'è un ricevimento dall'ambasciatore francese stasera, un cocktail. Un buon posto per cominciare. Dalle sei alle sette, okay?" "Okay." "Sta al Mono o al Meikles?" "Monomatapa." "Vengo a prenderla alle diciassette e quarantacinque." Clay notò che non aveva detto sei meno un quarto, come farebbe chiunque, ma diciassette e quarantacinque come un ferroviere, un astronauta o un militare. "Altro che addetto culturale" pensò.
Nonostante il regime socialista di Mitterrand, i francesi misero in mostra il caratteristico élan. Il ricevimento era sul praticello della residenza dell'ambasciatore, col tricolore che garriva allegro nella brezza serotina e il profumo dei fiori di frangipani che, dopo il torrido caldo della giornata, creava un'illusione di fresco. I servitori eranO in kanza bianco fino alla caviglia, con fez e fascia cremisi in vita, e lo champagne, anche se non d'annata, era Bollinger, mentre
il foie gras sulle tartine proveniva dal Périgord. La banda della polizia, sotto gli alberi di Spathodea al limitar del prato, suonava arie d'operette italiane con esuberante ritmica africana. Solo l'eterogeneità degli ospiti distingueva questo ricevimento dall'ultimo a cui era stato invitato Clay, sei anni prima, dal governatore generale della Rhodesia. Cinesi e coreani erano i più numerosi e notevoli, data la loro posizione di particolare favore presso il governo. Erano i paesi che con maggiore costanza avevano fornito armi e aiuti alle forze shona durante la lunga guerriglia nella boscaglia, mentre i sovietici avevano commesso un insolito errore di valutazione scegliendo la fazione matabele, ragion per cui il governo di Mugabe li relegava ora nell'angolo. I gruppetti si mischiarono presto, meno i russi che se ne rimasero fra di loro. Quelli in uniforme erano ufficiali di grado inferiore a colonnello, notò Clay: i russi erano davvero costretti a remigare controcorrente. Morgan Oxford presentò Clay agli anfitrioni. L'ambasciatrice era di almeno trent'anni più giovane del marito. Indossava con chic tutto parigino uno splendido abito di Pucci. Clay disse: "Enchanté, madame" sfiorandole il dorso della mano con le labbra. Quando si rialzò, ella gli dedicò una lusinghiera occhiata d'apprezzamento prima di rivolgersi all'ospite successivo. "Me l'aveva detto Pickering che lei è una specie di Casanova" lo sfotté amabilmente Morgan. "Ma attento agli incidenti diplomatici." "E va be', m'accontenterò di un bicchiere di bollicine Bollinger." Armati di un flute a testa scrutarono il prato. Le signore delle repubbliche centroafricane indossavano i costumi nazionali, meravigliose cacofonie di colori come uno sciame di farfalle della giungla, e i loro consorti portavano bastoni da passeggio dagli intagli preziosi o scacciamosche fatti di code d'animali. Tra loro i musulmani portavano fez ricamati con la fascetta che li individuava come hadji, che avevano già fatto il pellegrinaggio alla Mecca. "Dormi bene, Bawu" augurò Clay al nonno buonanima, l'arcicolonialista. "Meglio che tu sia morto prima di assistere a tutto ciò." "Sarà il caso che cominci a fare il tuo numero con gli inglesi, dato il passaporto che hai" suggerì Morgan, e lo presentò alla moglie dell'alto commissario britannico, una donna dalla mascella d'acciaio e l'acconciatura laccata ispirata a quella di Margaret Thatcher. "Non posso dire di aver apprezzato la compiaciuta violenza del suo libro" lo apostrofò severamente costei. "Crede che fosse proprio necessaria?" Clay bandì dal proprio tono ogni traccia d'ironia. "L'Africa è una terra violenta. Chi lo nascondesse non sarebbe un narratore sincero." Non era assolutamente dell'umore giusto per trattare con dei critici dilettanti, per cui distolse lo sguardo e, in cerca di qualche distrazione, ispezionò il prato. Ciò che vide gli fece salire il cuore in gola come un animaletto in gabbia. Dall'altra parte del prato lei lo stava guardando, con i suoi occhi verdi sotto le sopracciglia folte e ininterrotte. Indossava una gonna di cotone con le tasche esterne, una maglietta semplicissima e sandali coi lacci attorno alle caviglie. I suoi capelli neri e folti, legati dietro da un laccio, erano appena lavati e luminosi. Benché non fosse truccata, la sua carnagione abbronzata dava l'idea di una perfetta salute, e le labbra erano colorate dall'abbondante circolazione sanguigna giovanile. Aveva in spalla una Nikon FM con motore, e le mani in tasca. Lo stava guardando, ma, non appena Clay aveva posato gli occhi su di lei, aveva alzato il mento con leggero disgusto e, dopo aver retto il suo sguardo per il tempo strettamente necessario, si era voltata senza fretta verso l'uomo che le stava accanto, mettendosi ad
ascoltare con attenzione ciò che egli le diceva e alla fine aveva riso, brevemente, in maniera controllata, esponendo per un attimo la bianca dentatura. L'uomo era un africano, quasi certamente un mashona, data l'impeccabile uniforme dell'esercito regolare dello Zimbabwe che indossava e il grado di generale di brigata. Era bello come Harry Belafonte da giovane. "Ad alcune piace la carne di cavallo" disse sottovoce Morgan, che continuava a sfottere. "Allora vieni che te lo presento. Prima che Clay potesse protestare, si avviò nella loro direzione e lui dovette seguirlo. "Generale Peter Fungabera, posso presentarle il signor Clay Mellow? Il signor Mellow è un celebre scrittore." "Molto lieto, signor Mellow. Mi scuso di non aver letto il suo libro, ho pochissimo tempo per i piaceri." Il suo inglese era eccellente, la scelta dei vocaboli precisa, ma aveva un forte accento. "Il generale Fungabera è ministro della Sicurezza Interna, Clay" glispiegò Morgan. "Dicastero difficile, generale." Clay gli strinse la mano e vide che in quegli occhi penetranti e crudeli come quelli di un falcone scoccò il lampo di un sorriso, ed egli se ne sentì immediatamente attratto. Un uomo duro, ma un brav'uomo, giudicò. Il generale annuì. "Ma nulla che valga la pena di fare è mai facile, nemmeno scrivere libri, vero, signor Mellow?" Era un tipo sveglio e Clay lo apprezzò ancora di più, ma era troppo sconvolto per poter dedicare più di una parte infinitesimale della sua attenzione al generale. "E questa" disse Morgan "è la signorina Sally-AnneJay." Clay si girò a guardarla. Quanto tempo era passato dal loro incontro? Forse un mese o giù di lì. Ma si ricordava alla perfezione quelle iridi dai bagliori aurei e quelle lentiggini sulle guance. "Il signor Mellow e io ci siamo già conosciuti, anche se non credo che se ne ricordi." Si rivolse a Morgan e lo prese sottobraccio in maniera confidenziale. "Mi spiace che non ci siamo più visti dopo la mostra, Morgan. Le sono così grata di avermela organizzata... Sa quante lettere ho ricevuto?" "E stata utilissima anche a noi" le disse Morgan. "Un lavoro davvero eccellente. Perché non usciamo a cena qualche sera della settimana prossima, che gliene parlo?" Si rivolse a Clay per spiegare: "Abbiamo organizzato una mostra di sue fotografie presso tutti i nostri consolati africani. Foto splendide, Clay, devi assolutamente vederle." "Le ha già viste" disse Sally-Anne con un sorriso senza calore. "Ma disgraziatamente il signor Mellow non condivide il suo entusiasmo nei riguardi dei miei umili sforzi." E, senza dare a Clay il tempo di una battuta, proseguì sempre rivolta a Morgan: "E magnifico, il generale Fungabera mi ha promesso di accompagnarmi in visita ai campi di rieducazione, e mi lascerà fare fotografie..." Con una sottile inclinazione del corpo escluse efficacemente Clay dalla conversazione, e lo lasciò senza parole e goffo ai margini. Un tocco leggero sulla spalla lo scosse dall'imbarazzo. Il generale Fungabera lo prese da parte, allontanandolo quanto bastava per assicurarsi la privacy. "Lei sembra avere la specialità di crearsi nemici, signor Mellow." "Fra noi c'è stato un equivoco a New York" disse Clay accennando con lo sguardo a Sally-Anne. "Benché abbia colto il gelo di un venticello artico fra voi due, non mi riferivo alla giovane e affascinante fotografa, ma ad altri ben più altolocati e in grado di nuocerle." Ora tutta l'attenzione di Clay si concentrò su Peter Fungabera, che così proseguì: "Il suo colloquio di stamane con un mio collega di governo è stato, diciamo così.,," fece una pausa "infruttuoso, vero?" "Infruttuoso è una parola molto appropriata" concordò
Clay. "Un gran peccato, signor Mellow. Se vogliamo diventare autosufficienti dal punto di vista alimentare e indipendenti dai nostri vicini meridionali razzisti, abbiamo bisogno di allevatori esperti che portino capitali nel paese e facciano fruttare terre attualmente utilizzate in maniera antieconomica." "Lei è ben informato, generale, e lungimirante." "Grazie, signor Mellow. Forse quando sarà pronto a chiedere il permesso governativo per acquistare la terra le converrà venire a parlare con me. Godo di una certa influenza... e il ministro dell'Agricoltura è mio cognato." Quando sorrideva, il generale Peter Fungabera era irresistibile. "E ora, signor Mellow, come ha sentito, presto accompagnerò la signorina Jay in una certa zona proibita del paese. La stampa internazionale sta facendo un gran baccano in proposito: parlano di Buchenwald e altre sciocchezze. Un uomo della sua reputazione può chiarire le idee all'opinione pubblica, se crede. Sarebbe un modo di guadagnarsi la mia gratitudine, e, poiché viaggerà assieme alla signorina Jay, avrebbe anche l'occasione di rimediare all'equivoco di New York, non le pare?"
Era ancora buio e faceva freschetto quando Clay parcheggiò la Volkswagen vicino agli hangar della base aeronautica di New Sarum. Con la borsa dei ricambi in mano si chinò per entrare nel cavernoso interno della base militare. Chiacchierando con due ufficiali d'aviazione fuori servizio, Peter Fungabera l'aspettava. Appena vide Clay, li congedò con un cenno e si avvicinò sorridendo. Indossava la tuta mimetica e il berretto rosso, col distintivo d'argento raffigurante un leopardo, della Terza Brigata. Oltre alla pistola nella fondina, aveva solo un frustino. "Buongiorno, signor Mellow. Io ammiro la puntualità." Guardò la piccola borsa da viaggio di Clay. "E la capacità di viaggiare leggeri." Uscirono all'aperto, dove due vecchi bombardieri Canberra stazionavano davanti all'hangar. Ora costituivano il vanto dell'aviazione dello Zimbabwe, ma prima avevano spietatamente bombardato i santuari dei guerriglieri oltre lo Zambesi. Dietro ai due apparecchi militari c'era uno snello Cessna 210 argento e blu, e Peter Fungabera vi si diresse, mentre sull'ala appariva Sally-Anne. Era in tuta e Clay si rese conto che sarebbe stata il loro pilota. Si era aspettato un elicottero, e un pilota militare. Aveva i capelli avvolti in un foulard di seta e, sopra la tuta, una giacca a vento tipo Patagonia. Ai piedi indossava leggeri mocassini di vitellino. Aveva l'aria quanto mai competente e professionale mentre controllava a vista il livello della benzina nel serbatoio alare. Poi saltò giù sull'asfalto della pista. "Buongiorno, generale. Gradisce accomodarsi sul sedile ante-riore destro?" "Perché non mettiamo davanti il signor Mellow? Io conosco già il panorama." "Come preferisce" annuì guardando freddamente Clay. "Signor Mellow" salutò, infilandosi al posto di pilotaggio. Quando tutti furono a bordo fece rullare l'aereo fino al punto del decollo. Qui tirò i freni e mormorò: "Troppo maiale contrasta con la buona educazione ebraica." Clay sbarrò gli occhi. Che razza di conversazione era? Ma quando vide la ragazza cominciare ad aprire e chiudere interruttori, schiacciare pulsanti e controllare indicatori, si rese conto che la strana frase doveva essere, analogamente a "Come Quando Fuori Piove" , una filastrocca per ricordare i controlli necessari prima di intraprendere il decollo. I suoi pregiudizi contro le donne pilota diminuirono un po'.
Eseguito il decollo, virò a nord-ovest e inserì il pilota automatico, aprì una grossa carta geografica sul grembo e si concentrò sulla rotta. Una buona tecnica di volo, ammise Clay, ma non un gran che quanto a pubbliche relazioni. "Bella macchina" tentò Clay. "E sua?" "Del World Wildiife Fund. Io ce l'ho in dotazione permanente" rispose la ragazza, sempre fissando il cielo di fronte a lei. "Che velocità fa?" "Ha sotto gli occhi il tachimetro, signor Mellow" ribatté senza fare una piega. Fu poi Peter Fungabera che, chinandosi dal sedile posteriore, ruppe il silenzio. "Ecco il Great Dyke" disse indicando l'accidentata formazione geologica sottostante. "Un'intrusione ricchissima di minerali: cromo, platino, oro." Oltre il rilievo finivano le fattorie, bruscamente, sostituite da una vasta estensione di colline rocciose quasi completamente coperte dalla giungla di un verde malsano che sfumava nell'orizzonte lattiginoso. "Atterreremo in un campo d'aviazione secondario, accanto alle colline di Pongola. Laggiù ci sono una missione e un piccolo villaggio. E una zona parecchio fuori mano. Verranno a prenderci lì, poi ci sono altre due ore di strada fino al campo" spiegò il generale. "Le spiace se mi abbasso un po', generale?" chiese Sally-Anne, e il generale ridacchiò. "Non c'è neanche bisogno di chiedere perché... Sally-Anne vuole istruirmi sull'importanza degli animali selvatici e della loro conservazione." Sally-Anne azionò la cloche e si abbassò. A bassa quota incontrarono le correnti ascensionali dell'aria arroventata dal suolo torrido e roccioso, e l'aeroplanino cominciò a ballare. La zona sottostante era priva di qualunque abitazione o coltivazione. "Colline dimenticate da Dio" brontolò il generale. "Niente sorgenti, erba amara e mosche. Tuttavia Sally-Anne scorse un branco di antilopi gibbute sul greto di un torrente stagionale e, quaranta chilometri più avanti, un elefante maschio solitario. Si abbassò fino a sfiorare le cime degli alberi, azionò i flap e si mise a effettuare una serie di strette virate intorno all'elefante, spingendolo fuori della foresta all'aperto e costringendolo ad affrontare la macchina volante a orecchie sventolate e proboscide alzata. "E magnifico!" gridò, mentre il vento relativo li sferzava dai finestrini aperti portandosi via le parole. "Cinquanta chili d'avorio per zanna." Lo fotografava con una mano sola dal finestrino aperto, mentre il motorino della Nikon spingeva a impressionare sempre nuova pellicola. Volavano così bassi che sembrava che l'elefante potesse prenderli per un'ala con la proboscide. Clay scorgeva chiaramente il liquido bianco secreto dalle ghiandole della bestia irritata intorno agli occhi. Si ritrovò aggrappato a due mani al sedile. "Ha i piedi gelati, signor Mellow? O meglio, il piede gelato?" "Troia" pensò Clay. "Questo è un colpo basso." Ma già stava parlando, voltata all'indietro, con Peter Fungabera. "Morto, quell'animale vale diecimila dollari e niente più. Vivo, vale dieci volte tanto, e riproducendosi moltiplicherà per centinaia di volte il suo valore." "Sally-Anne è convinta che ci sia una mafia di bracconieri all'opera in questo paese. Mi ha fatto vedere alcune notevoli fotografie... e devo dire che comincio a condividere le sue preoccupazioni." "Dobbiamo trovarli e metterli in galera, signor generale." insisté lei. "Lei li trovi, Sally-Anne, e io li stangherò, glielo prometto. Le ho già dato la mia parola, no?" Ascoltandoli conversare, Clay provò ancora la primissima impressione che aveva avuto vedendo insieme quei due. Il loro buon
accordo non poteva passare inosservato, e Fungabera era un bellissimo uomo. Adesso si girò a dargli un'occhiata, e si accorse che anche il generale lo stava osservando attentamente da vicino: atteggiamento che coprì immediatamente con un sorriso. "Che ne pensa lei di questo argomento, signor Mellow?-" chiese, e all'improvviso Clay si ritrovò a raccontargli i suoi progetti di villaggio turistico-ecologico sul Chizarira. Gli parlò del rinoceronte nero e dei parchi naturali che proteggevano la tenuta, gli disse quanto fosse accessibile dalle cascate Vittoria, e si accorse che ora Sally-Anne ascoltava con altrettanta attenzione del generale. Quando finì, restarono entrambi in silenzio per un po', dopo di che il generale disse: "Adesso sì che mi ha colpito, signor Mellow. Questo è proprio il genere di progetti di cui il paese ha un disperato bisogno, e il suo potenziale economico sarà capito anche dai più arretrati e sprovveduti fra i miei connazionali." "Perché non ci diamo del tu, generale?" "Ti ringrazio, chiamami pure Peter." Mezz'ora dopo Clay vide un tetto di lamiera ondulata brillare al sole proprio davanti a loro, e Sally-Anne disse: "La missione di Tuti" e incominciò ad abbassarsi per l'atterraggio. Virò sopra la chiesa e Clay vide formicolare un gruppo di figurette che sventolavano le mani, tra le baracche del villaggio. La pista era corta, stretta e accidentata, e il vento soffiava di traverso. Sally-Anne l'imboccò d'infilata raddrizzandosi solo un istante prima di toccar terra, poi compensò il vento trasversale sterzando. Era un ottimo pilota, pensò Clay. Sotto un grosso albero di marula li aspettava una Land Rover color sabbia dell'esercito. Tre soldati salutarono Peter Fungabera scattando sull'attenti e alzando polvere. Poi, mentre Clay aiutava Sally-Anne ad assicurare l'aereo al terreno con delle funi, i soldati scaricarono il magro bagaglio e lo misero sulla Land Rover. Mentre raggiungevano in macchina la missione poco lontana, Sally-Anne chiese al generale se vi si poteva trovare una toilette per signore. Il generale Fungabera disse all'autista di fermarsi. La veranda della missione era affollata di bambini negri dagli occhi vivacissimi. La maestra uscì ad accogliere Sally-Anne, porgendole un cortese benvenuto mentre saliva i gradini della veranda. Aveva circa la stessa età di Sally-Anne, e sotto la semplice gonna di cotone si intuivano gambe lunghe e snelle. Il suo vestito era stirato e pulitissimo, come il camice di un chirurgo, e anche le scarpe da ginnastica erano impeccabilmente bianche. La sua carnagione era luminosa e vellutata, e il suo viso era largo e un po' lunare, coi denti candidi e gli occhi di gazzella delle fanciulle nguni: ma nella sua andatura c'era una tale grazia, e aveva un'espressione cosi dolce e intelligente da poter essere considerata, nel complesso, una vera bellezza. Parlò un momento con Sally-Anne e poi la condusse dentro la missione. "Clay, sarà meglio che io e te ci spieghiamo subito" glidisse il generale quando Sally-Anne fu sparita dentro con l'altra ragazza. "Ho notato che prima ci guardavi. Sappi allora che di Sally-Anne ammiro le capacità professionali, l'intelligenza e l'iniziativa, ma, a differenza di tanti altri uomini della mia razza, l'ibridazione non presenta per me nessunissima attrattiva. Trovo le donne europee generalmente viriloidi e troppo altezzose, e la carne bianca insipida. Spero che mi perdonerai la franchezza." "Anzi, sono lietissimo di sentirtelo dire" sorrise Clay. "Invece la maestra sì che mi piace. Lei è... non mi viene la parola, aiutami tu che sei del mestiere, per piacere." "Appetitosa." "Buono." "Nubile." "Ancor meglio.,," ridacchiò Peter. "Devo assolutamente trovare il tempo di leggere il tuo libro." Tornò serio e continuò:
"Si chiama Sarah. E diplomata maestra e infermiera, è bella e modesta, rispettosa ed educata in maniera tradizionale. Hai visto come non ci guardava in faccia, noi uomini? Sarebbe stato sfrontato." Peter annuì fra sé. "Una donna moderna con virtù antiche. E pensare che suo padre è uno stregone vestito di pelli, che predice il futuro gettando gli ossicini e si laverà una volta all'anno. E l'Africa" disse. "La mia magnifica e infinitamente affascinante, mutevole e immutabile Africa." Le due giovani tornarono chiacchierando animatamente dalle baracche dietro la scuola, mentre Sally-Anne scattava fotografie a tutto spiano ritraendo i bambini e le maestre, tra cui c'era pochissima differenza di età. I due uomini le guardarono dalla Land Rover. "Ma tu, Peter, sei un uomo d'azione, e non posso credere che ti manchi il denaro per comprare una moglie" osservò Clay. "Dunque cosa aspetti?" "Lei è matabele e io mashona. Capuleti e Montecchi" spiegò brevemente Peter. "Non c'è nemmeno da pensarci. I bambini, diretti da Sarah, cantarono una canzoncina di saluto dalla veranda e poi, a richiesta di Sally-Anne, recitarono l'alfabeto e le tabelline, mentre lei fotografava i piccoli volti intenti. Quando risali sulla Land Rover, la salutarono con trilli d'addio e continuarono a sventolar le manine finché la macchina scomparve in una nuvola di polvere. La pista era piuttosto dura e la Land Rover sobbalzava sopra le ondine di fango che si creavano nella stagione delle piogge e in quella secca, attualmente in corso, si solidificavano come cemento. Tra gli spiragli della foresta si scorgevano all'orizzonte settentrionale lontane colline azzurrognole, ripide e accidentate e dall'aria niente affatto invitante. "Le colline di Pongola" disse loro Peter. "Una bruttissima zona." Mentre si avvicinavano alla destinazione, il generale Fungabera cominciò a descrivergli quello che dovevano aspettarsi di vedere. "Questi campi di rieducazione non sono campi di concentramento ma, come d'altronde suggerisce il nome, sono centri di rieducazione e reinserimento nel mondo normale." Guardò Clay. "Tu sai benissimo, come noi, cosa vuol dire uscire da una terribile guerra civile. Undici anni d'inferno, che hanno bruciato un'intera generazione di giovani. Da quando erano piccoli, questi ragazzi hanno sempre avuto un mitra in mano, e non concepiscono la vita senza. Nessuno gli ha insegnato altro che la distruzione, e hanno imparato soltanto che tutto ciò che un uomo desidera può essere ottenuto semplicemente uccidendo chi si mette di mezzo." Peter Fungabera tacque per qualche momento, e Clay si accorse che stava rivivendo i suoi stessi ricordi di quegli anni terribili. Poi sospirò. "Questi poveri ragazzi in molti casi sono stati illusi dai loro capi. Per sostenerli nelle durezze e nelle privazioni della guerriglia nella giungla gli hanno fatto promesse che nessuno mai potrebbe mantenere. Gli hanno promesso fertili fattorie, migliaia di capi di bestiame di razza, soldi e automobili e tutte le mogli che volevano." Peter fece un gesto di rabbia. "In loro sono state create grossissime aspettative, e quando le promesse si sono rivelate illusorie e vane, si sono rivoltati contro chi gliele aveva fatte. Erano tutti quanti armati, soldati addestrati che avevano già ucciso e non avrebbero esitato a uccidere ancora. Cosa potevamo fare?" proruppe Peter. Poi guardò l'orologio. "E ora di mangiare e far due passi" suggerì. Il guidatore fermò dove la pista attraversava un terrapieno, prima di un ponte di legno. Sotto scorreva un fiumicello che veniva dalle colline, di acque verdi e chiare, con le rive di sabbia e di canne. I soldati accesero un fuoco e prepararono il tè alla maniera indigena, mentre Peter passeggiava disinvolto con gli ospiti sulla riva
del fiume continuando il discorso. "Noi africani una volta avevamo una tradizione. Se uno dei nostri giovani diventava intrattabile e violava le leggi della tribù, gli anziani se lo portavano nella foresta e a forza di botte lo riducevano a miti consigli. Questi centri di riabilitazione sono una versione moderna di quell'istituzione tradizionale. Non tenterò di nascondervi niente, non stiamo andando al Club Méditerranée. Vi sono rinchiusi uomini induriti, ai quali solo un trattamento severo può fare effetto. Però non sono neanche campi di sterminio. Diciamo che equivalgono alle caserme di punizione dell'esercito britannico." Clay non poté fare a meno di restare impressionato dall'onestà di Fungabera. "Siete liberi di parlare con qualunque detenuto, ma debbo chiedervi di non spingervi da soli nella foresta: e questo si applica specialmente a te, Sally-Anne" le sorrise Peter. "Questi luoghi sono selvaggi e isolati. Intorno al campo pullulano iene e leopardi, attirati dai rifiuti, e dopo un po' non hanno più nessuna paura dell'uomo. Se volete uscire dal campo, quindi, ditemelo e vi assegnerò una scorta. Mangiarono il frugale pranzo, pannocchie abbrustolite, e ci bevvero sopra il forte tè nero e dolcissimo. "Se siete pronti, possiamo proseguire" disse poi Peter. Salirono sulla Land Rover. Dopo un'ora erano al campo di rieducazione di Tuti. Durante la guerra d'indipendenza era uno dei "villaggi fortificati" ideati dal governo Smith per difendere i contadini negri dalle intimidazioni dei guerriglieri. C'era un kopje roccioso centrale, che era stato completamente diboscato, con una pila di massi di granito sulla quale era stata piazzata una mitragliatrice al riparo di sacchetti di sabbia. Subito sotto, la collinetta era stata scavata da trincee e camminamenti per la fucileria. Il campo si stendeva sotto questo luogo dominante; file e file di capanne di malta e frasche molte delle quali con mezze pareti per consentire la circolazione dell'aria, costruite intorno a uno spiazzo libero polveroso tipo campo di parata o di football: difatti in mezzo ai due lati inferiori erano state rizzate delle rudimentali porte. Ma c'era anche, incongruamente, un grande muro imbiancato dalla parte del fortino. Un doppio recinto di filo spinato, da una parte e dall'altra di un fossato, circondava tutto il campo. Il recinto di filo spinato era alto tre metri e mezzo e fittissimo. In fondo al fossato erano piantati pali appuntiti, e agli angoli del quadrilatero del campo sorgevano le torrette delle guardie armate di mitra. Le sentinelle all'ingresso del campo, che era uno solo, salutarono la Land Rover che proseguì lentamente sulla strada in terra battuta che conduceva all'interno. Al sole, in mezzo al campo di football, centinaia di negri (due o trecento) stavano facendo esercizi ginnici vigorosamente scanditi dalle urla di istruttori negri in uniforme. Sotto le tettoie aperte, invece, altre centinaia di detenuti sedevano in file ordinate sulla nuda terra ripetendo ad alta voce, in un cantilenante unisono, la lezione scritta sulla lavagna. "Dopo faremo un giro" disse loro Peter. "Prima sistemiamo voi." Clay fu alloggiato in una trincea del fortino, dove la terra era stata spazzata e spruzzata d'acqua per far sedimentare la polvere. Gli unici mobili erano un materassino rozzo su una brandina di canne e una tenda di tela di sacco che chiudeva agli sguardi la diramazione del camminamento in cui l'avevano piazzato. Dietro quell'angolo, in un camminamento perpendicolare, era stata analogamente sistemata Sally-Anne, che non mostrava alcun disappunto per quelle condizioni un tantino primitive. Sul materassino c'erano una scatola di fiammiferi e qualche candela. Passando davanti al buco di Sally-Anne, Clay la intravide seduta sul materassino nella posizione del loto, intenta a cambiare l'obiettivo della macchina fotografica e ricaricarla. Peter Fungabera si scusò e per la trincea salì verso il comando in
cima alla collina. Pochi istanti dopo un generatore elettrico cominciò a funzionare e Clay udì Peter parlare per radio in un rapido shona che non riuscì a capire. Tornò giù una mezz'ora dopo. "Fra un'ora sarà buio. Andremo giù ad assistere al rancio serale dei detenuti." I prigionieri si allinearono in perfetto silenzio, in fretta per la fame. Non c'erano sorrisi né scherzi. Non mostrarono la più piccola curiosità né per i visitatori bianchi né per il generale. "Una cena semplice" osservò Peter. "Polenta e verdure." A ogni uomo toccava una cucchiaiata di polentina molliccia nella gavetta, poi coronata da un'altra cucchiaiata di verdura lessa. "Carne una volta alla settimana. Tabacco anche: entrambi possono essere negati per punizione." Peter diceva le cose come stavano, senza minimamente imbellettarle. I prigionieri erano pelle e ossa, con le costole che spiccavano sul torace e i bicipiti induriti dal lavoro. Su nessuno si distingueva un grammo di grasso. Si gettarono immediatamente sul cibo, con fame da lupi, pulendo la gamella con le dita. Erano magri, ma non emaciati, come dimostravano i muscoli ancora efficienti che, in caso di grave denutrizione, si sarebbero sgonfiati. Così pensò Clay prima di stringere gli occhi alla vista di qualcosa. "Quell'uomo è ferito." Sulla pelle scura spiccavano delle strisce escoriate color porpora. "Puoi parlare con lui" l'invitò Peter, e quando Clay gli rivolse una domanda in sindebele l'uomo rispose immediatamente. "Che cosa ti sei fatto sulla schiena?" "Mi hanno bastonato." "Perché?" "Per una rissa con un altro prigioniero." Peter chiamò una delle sentinelle e gli parlò tranquillamente in shona, quindi spiegò: "Ha accoltellato un altro prigioniero con uno spillone ricavato dal filo spinato. Niente carne e niente tabacco per due mesi e quindici bastonate con la canna grossa. Questo è precisamente il genere di comportamento antisociale che stiamo cercando di reprimere." Mentre, riattraversato il campo di football, camminavano lungo il muro appena imbiancato, Peter continuò: "Domani sarete voi i padroni del campo; dopodomani, di mattina presto, partiremo." Mangiarono alla mensa con gli shona che sorvegliavano il campo e videro che il rancio era lo stesso dei detenuti, salvo l'aggiunta di un pezzo di carne filamentosa di origine incerta e dubbia freschezza. Subito dopo mangiato Peter si scusò con gli ospiti e uscì con gli ufficiali lasciando soli a tavola Clay e Sally-Anne. Prima che Clay potesse pensare a qualcosa da dire, Sally-Anne si alzò e se ne andò. Clay era arrivato al limite della pazienza e di colpo si arrabbiò con lei. Saltò in piedi e la seguì. La trovò al parapetto della trincea, da dove un tempo si sparava, che guardava il campo seduta sui sacchetti di sabbia. Non girò la testa quando si avvicinò a lei, e la rabbia di Clay svaporò all'istante come era nata. "Mi sono comportato da maiale" le disse. Sally non rispose. "La prima volta che ci siamo incontrati stavo passando un brutto momento" proseguì lui con ostinazione canina. "Non l'annoierò coi dettagli, ma il libro che stavo scrivendo si era arenato e non riuscivo più a continuare. Me ne sono rifatto su di lei." Ancora ella non mostrò di aver udito. Nella foresta, oltre il filo spinato, scoppiarono improvvisi schiamazzi: risate sgangherate e intermittenti, ululati, singhiozzi, che si rispondevano da una dozzina di punti tutto intorno al recinto, smorendo infine in una serie di risatine e sogghigni e versi d'agonia. "Le iene" disse Clay, e Sally-Anne rabbrividì leggermente irrigidendosi come per alzarsi e andar via. "Per favore.,," Clay colse la nota disperata nella propria
voce. "Resti solo un momento, mi dia il tempo di scusarmi." "Non è necessario" disse lei. "Sono stata presuntuosa io ad aspettarmi che il mio lavoro le piacesse." Il suo tono non era affatto conciliante. "Immagino di essermelo meritato, e lei, dal canto suo, non me l'ha risparmiato." "Il suo lavoro... le sue foto..." la voce gli tremò "mi hanno atterrito. Ecco perché la mia reazione è stata così pùerile." Ora Sally-Anne si girò a guardarlo in faccia. La luna inargentò i tratti del suo viso. "L'hanno atterrito?" domandò. "Terrificato. Vede, io non ero più capace di lavorare. Stavo cominciando a credere che il mio libro era stato un fuoco di paglia, un caso fortunato, e che in me non rimaneva altro talento. Tornavo ogni mattina alla scrivania e non riuscivo a combinare niente..." Adesso lei lo guardava, con la bocca socchiusa e gli occhi come misteriosi laghi di tenebra. "Ed è arrivata lei con la mazzata di quelle dannate fotografie, sfidandomi a eguagliarle." Ella scuoteva la testa piano piano. "Non l'avrà certo fatto apposta, ma questo era: una sfida. Una sfida che non avevo il coraggio di accettare. Avevo paura e l'ho offesa, ma fin da allora ho cominciato a pentirmene." "Allora le piacevano le foto?" gli domandò. "Hanno dato uno scossone alla mia vita. Mi hanno mostrato di nuovo l'Africa, e mi hanno riempito di nostalgia. Quando le ho viste, ho capito che cosa mi mancava. Ero in preda alla nostalgia come un ragazzino la prima notte che dorme in collegio." Si sentì un groppo in gola, proruppe in un singhiozzo e non se ne vergognò. "Sono state le sue fotografie a farmi tornare qui." "Non avevo capito" disse lei, poi tacquero entrambi. Clay sapeva che, se avesse continuato, avrebbe piagnucolato, perché già le tenaglie dell'autocommiserazione strizzavano lacrime dai suoi occhi a bagnomaria. Giù al campo qualcuno cominciò a cantare. Era una bella voce tenorile africana, che arrivava debole ma chiara fino alla cima della collina, così che Clay poté distinguerne le parole. Era un antico canto di guerra matabele, ma era cantato come un lamento, e sembrava concentrare tutta la sofferenza e la tragedia di un continente; perfino la iena tacque, mentre la voce cantava: Le Talpe stanno sottoterra. "Sono morte?" chiedono le figlie di Mashobane. Ascoltate, belle fanciulle, non udite che qualcosa si muove nel buio? Alla fine la voce che cantava tacque, e Clay pensò alle centinaia di giovani che giacevano insonni sui materassini, incantati e rattristati da quella canzone come e più di lui. Poi Sally-Anne parlò di nuovo. "Grazie di avermelo detto" sussurrò. "So quanto dev'esserle costato." Gli sfiorò il braccio con la punta delle dita, un contatto che gli sconvolse le terminazioni nervose e gli fece battere il cuore. Dopo di che riunì le gambe e saltò con leggerezza nella trincea dal parapetto su cui era salita, e scivolò giù per il camminamento. Clay sentì scorrere la tenda di iuta all'ingresso della sua diramazione e il rumore del fiammifero che aveva acceso per far luce con la candela. Sapeva che non sarebbe riuscito a dormire, così restò su, ascoltando i rumori della notte africana e guardando la luna. Lentamente sentì sorgere in lui le parole, come acqua d'un pozzo che era stato sfruttato fino al limo. Tutta la tristezza gli passò di colpo e fu sostituita dall'eccitazione. Andò alla propria diramazione della trincea e accese una candela, l'infilò in una nicchia della parete e prese dalla borsa il taccuino e la biro. Nella sua mente le parole si accavallavano come latte bol-
lente. Applicò la punta della biro alla carta bianca rigata ed eccola sfrecciare sulla pagina come una cosa viva. Le parole gli sprizzavano fuori dalla mente come un gioioso orgasmo a lungo trattenuto, e si rovesciavano disordinatamente sulla pagina. Si interruppe solo per cambiare le candele. Al mattino aveva gli occhi rossi che gli bruciavano di stanchezza. Si sentiva debole e scosso come se avesse corso troppo forte e troppo a lungo, ma il taccuino era pieno per tre quarti ed egli si sentiva stranamente fiero. Questa fierezza lo accompagnò per buona parte della mattinata, nutrita anche dal diverso atteggiamento di Sally-Anne nei suoi confronti. Era sempre calma e riservata, ma adesso almeno l'ascoltava quando parlava e rispondeva in modo serio e meditato. Una o due volte sorrise, perfino, e nel sorriso la sua bocca troppo larga e il suo naso troppo grosso sembravano finalmente armonizzare con il resto della faccia. Clay trovò piuttosto difficile concentrarsi sull'argomento che erano venuti ad approfondire, finché non si rese conto della compassione che Sally-Anne provava per quegli uomini ascoltandola parlarne per la prima volta con franchEzza. "Sarebbe così facile liquidarli con l'etichetta di criminali" mormorò davanti ai loro occhi inespressivi e controllati "senza considerare che la loro crescita di individui è stata priva di qualunque influenza umanizzante. La maggior parte di loro sono stati arruolati a scuola appena adolescenti e portati ai campi di addestramento dei guerriglieri. Non hanno niente, non hanno mai posseduto niente di proprio tranne un mitragliatore kalashnikov. Come possiamo aspettarci che rispettino la persona e la proprietà altrui? Clay, per favore, chiedi a quello lì quanti anni ha." "Non lo sa" le tradusse Clay. "Non sa quando è nato, né dove sono i suoi genitori." "E privo perfino dei diritti anagrafici" osservò Sally-Anne, e all'improvviso a Clay venne in mente con quale sicumera era capace di mandare indietro un vino non di suo gusto, con quanta indifferenza poteva comprarsi un vestito nuovo, o accomodarsi in prima classe in un aereo: mentre questi uomini avevano solo un paio di calzoncini corti strappati, e nemmeno una coperta o un paio di scarpe. "L'abisso tra chi ha e chi non ha inghiottirà il nostro mondo" disse Sally-Anne ritraendo con la Nikon la rassegnazione animale di quegli uomini al di là di qualsiasi speranza. "Chiedi a qualcuno di loro com'è il trattamento qui" insisté lei, e quando Clay parlò l'interpellato lo fissò senza capire, come se la domanda fosse priva di senso, e pian piano la soddisfazione provata da Clay svaporò come nebbia del mattino. Nelle aule sotto le tettoie si tenevano lezioni di orientamento politico e sul ruolo di un cittadino responsabile nello Stato socialista. Sulle lavagne dei disegnini illustravano i rapporti del parlamento col potere giudiziario ed esecutivo. Erano stati ricopiati sulla lavagna da istruttori annoiati e semianalfabeti, ed erano ripetuti a pappagallo dalle file di detenuti seduti. Era chiaro che non ci capivano niente e questo finì di per deprimere Clay. Tornando al loro alloggio nelle trincee in collina, un pensiero colpì Clay, che si rivolse a Peter Fungabera. "Questi uomini sono tutti matabele, è vero?" "Proprio così. Teniamo separate le tribù nei campi per evitare incidenti." "Ma ci sono prigionieri shona?" insisté Clay. "Oh sì" l'assicurò Peter. "I loro campi sono sulle colline orientali. Sono esattamente uguali a questo." Al tramonto fu azionato il generatore che forniva corrente alla radio e venti minuti dopo Peter Fungabera scese a trovare Clay nel camminamento dove stava rileggendo e correggendo quello che ave-
va scritto la notte prima. "C'è un messaggio per te, Clay, da Morgan Oxford dell'ambasciata americana." Clay saltò in piedi impaziente. Aveva chiesto a Henry Pickering di rispondergli subito. Prese il foglio di carta dove Peter aveva trascritto il messaggio e lesse: "Per Mellow stop Mio personale entusiasmo tuo progetto non condiviso nessun altro stop Ashe Levy rifiuta anticipo e fideiussione stop Comitato prestiti esige garanzie ben più precise per aprire linee di credito stop Spiacente tanti auguri Henry." Clay lesse prima velocemente il telegramma, poi lo rilesse piano. "Non sono affari miei" disse Peter Fungabera "ma presumo che riguardi i tuoi progetti sulla località che chiami Zambesi Waters, vero?" "Proprio così, e li ammazza sul nascere, temo" rispose amaramente Clay. "Chi è questo Henry?" "Un mio amico banchiere su cui evidentemente ho fatto troppo affidamento." "Già" disse pensosamente Peter Fungabera. "Sembra proprio di sì, non è vero?"
Anche se la notte prima non aveva dormito, Clay faticò a prender sonno. Il materassino era durissimo e il coro infernale delle iene al di là del recinto incoraggiava i suoi tristi pensieri. Sulla lunga pista per l'aeroporto presso la missione di Tuti, sedette accanto all'autista e non partecipò alla conversazione di Peter e Sally-Anne sul sedile posteriore. Soltanto ora si rendeva conto di quanta passione avesse investito nel progetto di rilevare la Rholands, ed era amaramente irritato con Ashe Levy, che gli aveva negato il suo appoggio, e con Henry Pickering, che non si era impegnato a fondo con quel dannato comitato prestiti che non vedeva al di là del suo naso. Sally-Anne insistette perché si ferma'ssero un'altra volta alla missione a far due chiacchiere con Sarah, la maestra matabele. Stavolta Sarah era pronta ad accoglierli e offrì loro il tè. Di cattivo umore, Clay andò a sedersi sul muretto della veranda ben lontano dagli altri, e senza il minimo ottimismo si mise ad almanaccare sul modo di aggirare il rifiuto di Henry Pickering. Sarah gli si avvicinò premurosa con una tazza di smalto sul vassoio: il tè. Nell'offrirglielo voltò le spalle a Peter Fungabera. Poi gli parlò in sindebele: "Quando il coccodrillo mangiauomini capisce che il cacciatore lo sta cercando, si nasconde nel fango in fondo al fiume" glidisse sottovoce. "Ma quando il leopardo va in caccia, lo fa nascondendosi nel buio della notte." Sorpreso, Clay la guardò in faccia. Gli occhi della ragazza non erano più modestamente distolti dai suoi, e nelle loro oscure profondità brillava un'animosa fierezza. "I cuccioli di Fungabera avranno urlato" continuò sempre pianissimo. "Mentre eravate là non potevano nutrirsi. Chissà che fame avevano. Li hai uditi, Kufela?" gli domandò, e stavolta Clay sobbalzò. Sarah aveva usato il nome che gli aveva dato il compagno Occhi-aperti. Come faceva a conoscerlo? Cos'erano i cuccioli di Fungabera? Prima che potesse rispondere, Fungabera alzò lo sguardo e scorse il volto di Clay. Si alzò subito in piedi e, con calma, attraversò la veranda fino a loro. Immediatamente la ragazza negra riprese il suo atteggiamento abituale, e mormorando una frase cortese si ritirò con il vassoio vuoto. "Non lasciarti travolgere dalla delusione, Clay, vieni con noi" disse Peter toccandolo amichevolmente sulla spalla.
Nel breve tratto dalla missione alla pista Sally-Anne all'improvviso si chinò a mettergli una mano sulla spalla. "Ho pensato una cosa, Clay. Questo posto che chiami Zambesi Waters non può essere più distante di una mezz'ora di volo da qui. Ho visto dov'è il fiume Chizarira sulla carta geografica: potremmo fare una piccola deviazione e sorvolarlo durante il ritorno." "Non ne vale la pena" disse Clay. "Ma perché?" gli domandò, e lui le passò il messaggio di Pickering. "Oh, mi spiace." Era sincera, Clay se ne accorse, e il suo dispiacere lo confortò un poco. "A me piacerebbe dare un'occhiata alla zona" intervenne a un tratto Peter Fungabera, e quando Clay scosse la testa di nuovo, la sua voce si indurì. "Ci andremo" disse in tono conclusivo. e Clay alzò le spalle, indifferente. Clay e Sally-Anne si chinarono sulla carta. "Le pozze dovrebbero essere qui, dove questo torrente confluisce nel fiume." Inserì i dati nel computer dell'apparecchio per ottenere la rotta. "Okay, sono ventidue minuti di volo, con questo vento." Mentre volavano, e Sally-Anne studiava il terreno confrontandolo con la mappa, Clay ripensò alle parole della ragazza matabele. "I cuccioli di Fungabera." Un'espressione che aveva un suono oscuro e minaccioso: e l'uso del nome Kufela lo preoccupava ancora di più. C'era una sola spiegazione: era in contatto coi guerriglieri dissidenti, e probabilmente era anche lei della resistenza matabele al governo Mugabe. Cosa aveva voluto dire con l'allegoria del coccodrillo e del leopardo, e l'allusione ai cuccioli di Fungabera? E di qualunque cosa si trattasse, che tipo poteva essere se era una simpatizzante dei guerriglieri? Poteva fidarsene o no? "Ecco il fiume" disse Sally-Anne tirando un po' la cloche e virando dolcemente verso il brillio dell'acqua tra gli alberi della foresta. Volò bassissima sopra le cime delle piante, seguendo la riva, e, nonostante la vegetazione, scorse numerosi branchi di animali selvaggi e perfino, a un certo momento, la gran massa rocciosa di un rinoceronte nero nel folto degli ebani. Poi all'improvviso indicò davanti a sé. "Guardate là!" Accanto a un'ansa del fiume c'era una striscia di terreno senza alberi, un prato raso creato dai branchi di zebre che si vedevano fuggire spaventate dall'aereo. "Scommetto che riesco ad atterrarci" disse Sally-Anne e introdusse i flap, rallentando il volo e variando l'assetto del Cessna in modo da avere maggior visibilità anteriore. Quindi fece uscire il carrello. Eseguì una serie di passaggi sul terreno aperto, ognuno più basso del precedente, finché al quarto passaggio le ruote sorvolarono il terreno a meno di un metro d'altezza, consentendole di vedere ogni impronta delle zebre sulla terra sabbiosa. "Duro e sgombro" disse, e al passaggio successivo atterrò, frenando subito al massimo. L'aereo si fermò in pochissimi metri. "Sei bravissima" le sorrise Clay e lei ricambiò il sorriso. Scesero dall'aereo e attraversarono il terreno sgombro entrando nella foresta. Seguirono un sentiero di animali e poco dopo sbucarono su uno sperone roccioso che dominava il fiume. Era una scena perfetta da cammeo africano. Bianchi sabbioni e rocce levigate dall'acqua e scintillanti come squame di rettile, rami sporgenti sull'acqua istoriati da nidi d'uccelli, altissimi alberi dalle radici aggrovigliate nella roccia; e, appena oltre, la giungla. "Che bello" disse Sally-Anne, e si allontanò con la macchina fotografica. "Questo sarebbe proprio un bel posto per i tuoi villaggi turistico-ecologici" disse Peter Fungabera, indicando le grosse cacche di elefante che costellavano la sabbia bianca che si stendeva sotto di loro.
"Un magnifico posto di osservazione." "Ideale" concordò Peter. "Peccato..." "Costa fin troppo poco per quello che vale. Se ne potrebbero trarre profitti di milioni." "Per un bravo socialista africano, parli come uno sporco capitalista" glidisse Peter sfottente. Poi ridacchiò e aggiunse: "Si dice che il socialismo sia la miglior filosofia... finché c'è qualche capitalista che paga." Clay alzò lo sguardo e per la prima volta scorse balenare negli occhi di Peter Fungabera un lampo di buona, vecchia avidità occidentale europea. Tacquero entrambi, guardarono Sally-Anne che era scesa al fiume e ritraeva composizioni di roccia, cielo, verde e acqua. "Clay" disse Peter, avendo evidentemente preso una decisione dentro di sé. "Se riesco a fornirti le garanzie che chiede la World Bank, mi aspetto una commissione sotto forma di azioni della Rholands." "Ne avresti tutto il diritto" disse Clay sentendo rinascere in sé i germi della speranza. In quella, Sally-Anne li chiamò. "Si sta facendo tardi e ci sono due ore e mezzo di volo fino ad Harare."
All'aeroporto militare Peter Fungabera li salutò con una stretta di mano. "Spero che le foto vengano bene" disse a Sally-Anne, e a Clay: "Stai al Monomatapa? Ti cercherò lì entro tre giorni." Salì sulla jeep dell'esercito che lo stava aspettando e li salutò ancora con un cenno del frustino mentre andava via. "Hai la macchina?" chiese Clay a Sally-Anne, e, quando lei scosse la testa: "Non posso dire di guidar bene come tu piloti, ma credo tu possa fidarti." Aveva affittato un appartamento in una vecchia casa su un viale nei pressi della sede del governo. La accompagnò fino all'ingresso. "Se cenassimo insieme?" le propose. "Ho un sacco di lavoro da fare, Clay." "Ci sbrighiamo in fretta, te lo prometto. E un'offerta di pace. Ti riaccompagno a casa per le dieci." Si mise teatralmente la mano sul cuore, e lei cedette. "Va bene, vediamoci qui alle sette, allora." Rimase a guardarla mentre saliva i gradini, prima di riaccendere il motore della vw. La sua andatura era rapida e scattante, da donna che lavora, ma il didietro, nei blue jeans, era assolutamente frivolo.
Sally-Anne, quando tornò a prenderla, suggerì una rosticceria dove fu accolta come la regina di Saba dal padrone, grasso e barbuto, e dove le bistecche di vitello erano quanto di meglio Clay avesse mai assaggiato: spesse, tenere e succose. Bevvero un Cabernet del Capo di Buona Speranza e, dopo un inizio un po' stentato, la loro conversazione si avviò sui binari della confidenza. "Tutto è andato benissimo finché facevo solo l'assistente tecnica alla Kodak, ma quando hanno cominciato ad aggregarmi alle spedizioni come fotografo ufficiale e a organizzarmi delle mostre, lui semplicemente non ha potuto sopportarlo" glidisse. "Il primo uomo al mondo a essere geloso di una Nikon." "Per quanto tempo siete stati sposati?" "Due anni." "Non avete avuto bambini?" "No, grazie a Dio." Mangiava come camminava, in fretta, con regolarità ed efficienza, ma anche con un lato di sensualità. Quando ebbe finito, diede un'occhiata al suo Rolex d'oro. "Mi hai promesso di portarmi a casa alle dieci" disse, e nonostante le sue proteste volle assolutamente pagare la sua parte del conto.
Davanti alla porta di casa lo guardò in faccia un momento, con serietà, e poi chiese: "Caffè?" "Con il più gran piacere." Cominciò ad aprire la portiera, ma lei lo fermò. "Facciamo prima dei patti chiari" disse. "Il caffè è del Nescafè istantaneo... e c'è solo quello. Niente ginnastica, niente di niente d'altro, siamo d'accordo?" "D'accordo" disse Clay. "Andiamo." Il suo appartamento era arredato con un registratore portatile, qualche cuscino di pezza e una brandina da campo su cui, arrotolato con cura alla militare, stava il suo sacco a pelo. A parte i cuscini, il pavimento era nudo ma pulitissimo, e le pareti erano tappezzate di sue fotografie. Girò intorno a guardarle mentre lei faceva il caffè nella piccola cucina. "Se ti serve il bagno, è là" glidisse. "Ma sta' attento, mi raccomando." Infatti più che un bagno era una camera oscura, tutta piena degli aggeggi necessari a sviluppare. Sedettero sui cuscini bevendo il caffè, ascoltarono la Quinta di Beethoven sul mangianastri, e parlarono dell'Africa. Una o due volte lei citò en passant il suo libro, dimostrando di averlo letto con attenzione."Domattina mi devo alzar presto" disse poi con la tazza vuota in mano. "Buonanotte, Clay." "Quando ci vediamo?" "Non so, domani mattina devo partire per un giro in aereo sulle montagne. Non so quando torno." Poi, vedendo la sua espressione, si intenerì. "Quando torno ti telefono al Monomatapa, d'accordo?" "Benissimo." "Clay, cominci a starmi simpatico, puoi diventare un buon amico forse, ma niente di romantico: risento ancora dello shock del divorzio e non ho voglia di altre storie. Basta che ci capiamo" disse stringendogli la mano, sulla porta di casa. Nonostante questo, Clay si sentiva assurdamente felice tornando in auto al Monomatapa. A questo stadio non si curava ancora di analizzare troppo in profondità i suoi sentimenti per lei, né di definire le sue intenzioni. Era semplicemente un bel cambiamento non avere alle costole un'altra cacciatrice di celebrità avida di aggiungere alla lista il suo nome. L'attrazione fisica che destava in lui era stimolata dalla sua riluttanza; egli ne rispettava il talento e i successi ed era completamente in sintonia col suo amore per l'Africa e la sua compassione per le genti che l'abitano. "Basta e avanza per ora" si disse nel parcheggiare la macchina. Il vicedirettore dell'albergo lo aspettava preoccupato nella hall. L'accompagnò nel suo ufficio. "Signor Mellow, mentre lei era via è venuta la polizia, una sezione speciale: ho dovuto aprire la sua cassetta e introdurli nella sua camera." "Perdio, ma possono fare una cosa del genere?" Clay era infuriato. "Lei non si rende conto... possono fare tutto quello che vogliono qui" proseguì concitato il vicedirettore. "Ma non hanno preso niente dalla sua cassetta, glielo posso assicurare, signor Mellow." "Comunque vorrei controllare lo stesso" disse Clay, di pessimo umore. Sfogliò il libretto dei travellers' cheques e non ne mancava nessuno. Il biglietto aereo per il ritorno era intatto, come il suo passaporto. Ma avevano frugato nelle carte e nelle tessere che gli aveva fatto avere Pickering, il famoso "kit di emergenza." Il distintivo d'inviato della World Bank era stato tirato fuori dalla custodia. "Chi potrebbe ordinare una simile perquisizione?" domandò al vicedirettore, nel richiudere la cassetta. "Soltanto qualcuno molto in alto.""Tungata Zebiwe" pensò con amarezza. "Stronzo ficcanaso, come sei cambiato!"
Clay portò all'ambasciata il rapporto per Pickering sui campi di rieducazione, e Morgan Oxford gli offrì il caffè. "Potrei dovermi trattenere più a lungo del previsto qui" gli disse Clay "e non riesco a lavorare in una camera d'albergo. "E difficilissimo trovare un appartamento" replicò Morgan Oxford alzando le spalle "ma vedrò cosa posso fare." Gli telefonò il giorno dopo. "Clay, una delle nostre ragazze torna a casa in vacanza per un mese. Siccome è una tua fan, è disposta a subaffittarti l'appartamento per seicento dollari. Parte domani." L'appartamento non era che un dormitorio, ma comodo e arioso. C'era un gran tavolo che poteva fargli da scrivania. Clay ci mise in mezzo una risma di carta con sopra un mattone come fermacarte, vi piazzò accanto il suo fedele Concise Oxford Dictionary e si disse forte: "Eccoci di nuovo al lavoro." Aveva quasi dimenticato come passavano in fretta le ore, talvolta, nell'utopico Paese del Mai, e la gioia di veder accumularsi i fogli scritti in un angolo del tavolo. Nei giorni successivi Morgan Oxford gli telefonò due volte, sempre per invitarlo a ricevimenti diplomatici, ma Clay non ci andò e, dopo la seconda telefonata, staccò anzi il telefono. Il quarto giorno reinserì la spina e il telefono quasi subito squillò. "Signor Mellow!" Era una voce africana. "Finalmente l'abbiamo trovata! Stia in linea, prego, c'è il generale Fungabera che desidera parlarle." "Ciao, Clay, sono Peter" disse la nota e simpatica voce dal forte accento. "Ci possiamo vedere oggi pomeriggio? Ti mando a prendere dall'autista." La residenza privata del generale Fungabera si trovava a una trentina di chilometri dalla città, sulle colline intorno al lago Macillwane. Era una villa originariamente costruita negli anni Venti da un ricco inglese, un uomo che viveva di rendita, il rampollo pecora nera di un industriale aeronautico britannico. Era circondata da una vasta veranda dal parapetto intagliato, e da un parco di cinque ettari di alberi fioriti e prato. La scorta composta di soldati della Terza Brigata in tenuta da combattimento lo perquisì all'ingresso, come l'autista, prima di dar via libera oltre il cancello. Quando Clay salì i gradini che portavano alla veranda, Peter Fungabera lo aspettava. Era vestito con calzoni di cotone bianchi e camiciola di seta, che stava benissimo sulla sua pelle nera e vellutata. Passandogli amichevolmente il braccio intorno alle spalle, condusse Clay dove li aspettavano un gruppetto di uomini, sulla veranda. "Clay, posso presentarti il signor Musharevva, governatore della Land Bank dello Zimbabwe? E questo è il suo assistente, dottor Kapwepwe, e il signor Cohen, il mio avvocato. Signori, vi presento il famoso scrittore Clay Mellow." Si strinsero la mano. "Un drink, Clay? Noi stiamo bevendo Bloody Mary." "Va benissimo anche per me, Peter." Un servitore in un lunghissimo kanza candido, come ai tempi coloniali, portò a Clay il suo cocktail e, quando se ne fu andato, Peter Fungabera disse semplicemente: "La Land Bank dello Zimbabwe accetta di emettere una fideiussione a tuo favore per un prestito di cinque milioni di dollari presso la World Bank o la sua filiale di New York." Clay lo guardò a occhi spalancati. "I tuoi rapporti con la World Bank non sono un segreto. Conosciamo anche noi Henry Pickering, sai." Peter sorrise e proseguì con calma: "Naturalmente, ci sono ben precise condizioni alla stipulazione, ma non credo che saranno proibitive." Si rivolse al suo avvocato bianco. "Hai i documenti, Izzy? Bene, vuoi darne
una copia al signor Mellow e leggerci il contratto a voce alta, per favore?" Isadore Cohen si aggiustò gli occhiali, prese la spessa risma dicarta e cominciò la lettura. "Per prima cosa, il permesso d'acquisto" disse. "Con cui si autorizza Clay Mellow, suddito britannico e cittadino dello Zimbabwe, a comprare il pacchetto azionario di controllo della compagnia terriera privata Rholands (Pty) Ltd. L'autorizzazione è firmata dal presidente della Repubblica e controfirmata dal ministro dell'Agricoltura." Clay ripensò alla promessa di Tungata Zebiwe di negargli l'autorizzazione, poi ricordò che il ministro dell'Agricoltura era cognato di Peter Fungabera. Guardò il generale: ascoltava attento le parole del suo avvocato. Man mano che arrivava a ciascun documento della pila, Isadore Cohen lo leggeva con cura, senza omettere nemmeno il preambolo, fermandosi al termine di ogni paragrafo per domande e spiegazioni. Clay era così eccitato che aveva difficoltà a starsene seduto e composto. Il panico momentaneo che aveva provato all'improvvisa menzione della World Bank da parte di Peter Fungabera era già dimenticato, e adesso il suo umore era tale che aveva voglia di mettersi a saltare urlando di gioia sulla veranda. La Rholands era sua, King's linn era sua, Queen's linn era sua, e Zambesi Waters era sua. Ma perfino in tanta eccitazione una clausola gli suonò falsa quando Isadore Cohen la lesse. "Cosa diavolo significa "nemico dello Stato e del popolo dello Zimbabwe" ?" "E una clausola standard in tutti i contratti di questo tipo" lo tranquillizzò Cohen. "Nient'altro che un'espressione di sentimenti patriottici. Dopo tutto la Land Bank è un'istituzione governativa. Se colui che fruisce del prestito abbraccia un'attività proditoria e viene dichiarato nemico dello Stato e del popolo, la Land Bank può ripudiare tutte le sue obbligazioni e abbandonare la parte criminale al suo destino." "Ma è legale?" domandò Clay dubbioso, e alla risposta affermativa dell'avvocato continuò: "Non credo però che la World Bank accetterà una simile limitazione della garanzia." "L'hanno già accettata tante altre volte" glidisse il governatore della banca. "Come le ha già detto l'avvocato, si tratta di una clausola standard. "Dopotutto, Clay" sorrise Peter Fungabera "non credo che tu abbia intenzione di capeggiare una rivolta armata per rovesciare il governo, no?" Clay gli restituì flebilmente il sorriso. "Be', okay, se la banca americana l'accetta, suppongo che sia legittimo." La lettura prese circa un'ora, poi il governatore Musharevva firmò tutte le copie, e sia il suo assistente sia Peter Fungabera firmarono quali testimoni. Poi toccò a Clay firmare, e ancora una volta i testimoni sottoscrissero la sua copia su cui Isadore Cohen appose infine il suo sigillo notarile di Commissioner of Oaths, come aveva fatto sull'altra. "Ecco fatto, signori. Letto, firmato e sottoscritto." "Resta solo a vedersi se Henry Pickering se ne accontenterà." "Come, non te l'ho ancora detto?" ghignò Peter Fungabera. "Il vicegovernatore Kapwepwe gli ha parlato ieri pomeriggio, ovvero alle dieci del mattino ora di New York. Avrai i soldi non appena questa garanzia sarà nelle sue mani." Fece un cenno al servitore. "Puoi portare lo champagne." Brindarono a se stessi, alla Land Bank dello Zimbabwe, alla World Bank e alla Rholands Ltd., e solo alla fine della seconda bottiglia i due banchieri negri se ne andarono, con qualche riluttanza. Partita la loro limousine, Peter Fungabera prese per il braccio
Clay. "E adesso possiamo parlare della mia parte. Il mio avvocato ha già pronto il contratto. Clay lo lesse e impallidì. "Il dieci per cento" balbettò. "Il dieci per cento delle azioni Rholands!" "Quel nome dovremo proprio cambiarlo" si accigliò Peter Fungabera. "Come vedi, il signor Cohen sarà il mio procuratore. Terrà lui le azioni per mio conto, potrebbe risparmiarci qualche imbarazzo." Clay pretese di rileggere il contratto, cercando di trattenere le proteste. Il dieci per cento era una vera rapina, ma Clay non aveva altra scelta. Isadore Cohen svitò lentamente il cappuccio della stilografica e la porse a Clay. "Ritengo che troverà molto conveniente avere per socio occulto un generale comandante dell'esercito e ministro" disse, e Clay prese la penna. "Ce n'è solo una copia" disse poi, ancora esitante. "Ce ne serve soltanto una" replicò Peter sorridendo. "La mia." Clay annuì. Non sarebbe rimasta alcuna prova della transazione. Le azioni in mano a un procuratore, il contratto in mano a Peter Fungabera. In una eventuale lite, si sarebbe trattato della parola di Clay contro quella di un ministro anziano. Ma voleva la Rholands, la voleva più d'ogni altra cosa al mondo. Firmò in calce al contratto e, dall'altra parte del tavolo, i due uomini si rilassarono visibilmente. Peter Fungabera fece portare un'altra bottiglia di champagne.
Finora Clay aveva avuto bisogno solo di una penna e di una risma di carta: il tempo era a sua disposizione, poteva usarlo a piacimento per oziare o lavorare. All'improvviso si trovò sulle spalle l'immensa responsabilità del proprietario, e di tempo non ne ebbe più. C'erano tantissime cose da fare e pochissimo tempo per farle, si sentiva paralizzato dall'indecisione, atterrito dalla sua stessa audacia, e dubbioso delle proprie capacità organizzative. Voleva conforto e incoraggiamento, e pensò subito a Sally-An-ne. Andò al suo appartamento, ma le tapparelle erano chiuse, la cassetta delle lettere straripava e quando bussò non ottenne risposta. Tornò a casa propria, sedette al tavolo di lavoro e prese un foglio bianco. L'intestò "Cose da fare" e si mise a fissarlo.Ricordò quello che aveva detto di lui una volta una ragazza: "L'unica cosa che tu abbia mai fatto bene." Ma scrivere un libro era molto diverso dal rimettere in piedi una società d'allevamento di bestiame che valeva parecchi milioni. Sentì il panico diffondersi dentro di sé e lo soffocò a fatica. La sua famiglia era una famiglia di allevatori, in fondo: era venuto su con l'odore ammoniacale dello sterco di vacca nelle narici, e aveva imparato a giudicare il bestiame fin da piccolo, seguendo il nonno Bawu e facendo tesoro dei suoi insegnamenti. "Posso farcela" , si disse con orgoglio, e cominciò a far l'elenco. Scrisse: ' 1. Telefonare a Jock Daniels. Accettare offerta Rholands. 2. Volare a New York. a) Andare alla World Bank. b) Aprire un conto e depositare i fondi. c) Vendere il Bawu. 3. Volare a Zurigo. a) Firmare il contratto d'acquisto. b) Concordare il pagamento coi venditori. Il panico cominciava a diminuire. Prese il telefono e chiamò la
British Airways. Potevano prenotargli il volo di venerdì per Londra, da cui sarebbe andato a New York col Concorde. Trovò Jock Daniels in ufficio. "Dove diavolo sei stato?" Si sentiva che Jock aveva già cominciato a bere. "Congratulazioni, Jock, ti sei appena guadagnato trentacinquemila bigliettoni di percentuale" disse Clay e si godette il suo sbalordimento. La lista di Clay cominciò ad allungarsi, diventando di una dozzina di pagine. 39. Scoprire se Okky van Rensburg è ancora qua. Okky era il meccanico di Bawu. Aveva lavorato a King's linn per vent'anni. Suo nonno diceva sempre che era capace di smontare un trattore John Deere e rimontare coi suoi pezzi due Rolls Royce e una Cadillac. Clay aveva bisogno di lui. Clay posò la penna e sorrise al ricordo del vecchio. "Torniamo a casa, Bawu" disse forte. Guardò l'orologio, erano le dieci, ma non sarebbe certo riuscito a dormire. Infilò un golf leggero e uscì per fare un giretto. Un'ora dopo si ritrovò davanti alla casa di Sally-Anne. Ce l'avevano portato i piedi senza che se n'accorgesse, o così pareva. Sentì un fremito d'eccitazione: la finestra era aperta e la luce accesa. "Chi è?" "Sono Clay." Un lungo silenzio. "E quasi mezzanotte." "No, sono appena le undici, e ho una cosa da dirti." "Okay, okay. La porta è aperta, entra." Era nella camera oscura, da cui provenivano strani sciabordii. "Ho da fare per cinque minuti" glidisse. "Sei capace di preparare il caffè?" Quando uscì, indossava un camicione che le arrivava alle ginocchia e aveva i capelli sciolti che le ricadevano sulle spalle. Non glieli aveva mai visti, e fece tanto d'occhi. "O così o niente" glidisse, con le mani sui fianchi. "Ho la Rholands!" esclamò lui, e fu il suo turno di fissarlo sbalordita. "Chi o che cosa è?" "La società che possiede Zambesi Waters. E mia. Sono il proprietario. Zambesi Waters mi appartiene. Hai capito?" Si lanciò per abbracciarlo, ma al vedere i suoi movimenti, analoghi, si riprese e si fermò, obbligandolo a far lo stesso. Si fronteggiarono a due passi di distanza. "E una magnifica notizia, Clay. Sono contentissima per te. Com'è andata? Credevo non ci fosse speranza." "Peter Fungabera mi ha fatto avere una fideiussione per cinque milioni di dollari. Così la World Bank me li presterà." "Dio mio... cinque milioni! A quanto ammontano gli interessi?" Non ci voleva pensare. Ma l'espressione gli divenne subito molto meno allegra, e lei si pentì. "Mi spiace" glidisse. "Sono un'insolente. Sono contentissima per te. Dobbiamo festeggiare.,," In fretta si allontanò da lui. Nell'armadietto della cucina trovò una bottiglia di Glenlivet che ne conteneva ancora un po' e l'aggiunse al caffè fumante. "Al successo di Zambesi Waters" disse alzando la tazza. "E adesso raccontami tutto, che poi anch'io ho delle notizie per te." Fino a dopo mezzanotte le parlò dei suoi progetti: lo sviluppo dei due ranch gemelli al sud, la ricostruzione della casa, l'acquisto del bestiame di razza, ma soprattutto parlò dei suoi progetti su Zambesi Waters e la fauna che conteneva, ben sapendo che gli interessi di lei vertevano precipuamente su ciò. "Stavo pensando che avrò bisogno di un tocco femminile per progettare e sistemare i campi: e non di una donna qualunque, ma di una che, oltre a conoscere la fauna e il paesaggio africani,
abbia una creatività artistica." "Clay, se alludi a me sappi che lavoro per il WWF e debbo dedicargli tutto il mio tempo." "Non ce ne vorrà molto" protestò lui. "Solo una consulenza. Potresti farci un salto in aereo la prima volta che sei libera." Vide che stava per cedere e così proseguì: "E poi, una volta avviati i villaggi, vorrei che tenessi una serie di conferenze illustrate dalle tue diapositive sulla fauna africana per i clienti.,," Vide che aveva toccato il tasto giusto. Come tutti gli artisti, le interessava cogliere ogni occasione di mettere in mostra il suo lavoro. "Non sto facendoti nessuna promessa" glidisse con fermezza, ma entrambi sapevano che l'avrebbe fatto, e Clay senti alleggerirsi parecchio il suo carico di responsabilità almeno in quel settore. "Hai detto di avere anche tu notizie per me" le ricordò alla fine, grato per la possibilità di tirare in lungo la serata. Ma non era preparato alla sua improvvisa, mortale serietà. "Sì, ci sono delle novità" glidisse. Sembrò concentrarsi e poi proseguì: "Sono sulle tracce del capo dei bracconieri." "Buon Dio! L'uomo che ha fatto quella strage di elefanti? Ottima notizia davvero. Dove? Come?" "Sai che sono stata sulle montagne orientali negli ultimi dieci giorni. Quello che non ti avevo detto era che sto facendo uno studio per il WWF sulla vita del leopardo. Ho agenti che lavorano per me nelle zone della foresta ricche di leopardi. Li stiamo contando e rileviamo il territorio di caccia di ogni felino, cerchiamo i loro rifiuti e le tracce, le prede uccise, e tentiamo di stabilire se l'uomo e la sua presenza da quelle parti hanno qualche influsso sulla loro vita. Insomma le solite cose. Be', questo mi porta a uno dei miei uomini. E un vecchio puzzone simpatico d'un bracconiere shangane, deve avere ottant'anni: la più giovane delle sue mogli ne ha diciassette e l'altra settimana gli ha fatto due gemelli. E una canaglia fatta e finita, con un grandissimo senso dell'umorismo e una vera passione per il whisky: due sorsi di Glenlivet e si mette a parlare. Eravamo nelle montagne Vumba, noi due soli, accampati accanto al fuoco, ed ecco che al secondo sorso di whisky salta su a dirmi che gli hanno offerto duecento dollari per una pelle di leopardo. Sono pronti, a suo dire, a comprargli tutte le pelli che prenderà, e a fornirgli le trappole d'acciaio a molla. Gli ho dato ancora da bere e ho saputo che l'offerta gli era stata fatta da un giovane ed elegantissimo negro che girava su una Land Rover del governo. Il mio vecchio shangane ha detto a quell'uomo che aveva paura che l'arrestassero e lo mettessero in galera, ma lui gli ha garantito che ciò non sarebbe mai successo, perché avrebbe avuto la protezione di uno dei grandi capi di Harare, un compagno ministro che era stato un famoso guerriero nella lotta per l'indipendenza e comandava tuttora una specie di esercito privato." Sulla brandina di Sally-Anne c'era una cartelletta di cartone solido: la ragazza andò a prenderla e la porse a Clay. Clay l'aprì. Sul primo foglio c'era la lista dei ministri del governo dello Zimbabwe. Ventisei nomi, col dicastero scritto vicino. "Possiamo restringerla subito: pochissimi membri del governo hanno effettivamente combattuto" osservò Sally-Anne. "La maggior parte hanno fatto la guerra al Ritz di Londra o in qualche dacia sul mar Caspio." Sedette sui cuscini accanto a Clay, si chinò verso di lui e prese il secondo foglio. "Sei nomi" disse. "Sei comandanti della guerriglia." "Sempre troppi" mormorò Clay, e vide che il primo nome era quello di Peter Fungabera. "Possiamo fare ancora di meglio" continuò Sally-Anne. "Un esercito privato significa dissidenti, e i dissidenti sono tutti matabele. Anche chi li capeggia dev'essere di questa tribù." Prese il terzo foglio. C'era su un nome solo. "Uno dei più gloriosi capi della guerriglia. Matabele. Ministro del Turismo, a cui fa capo il sottosegretariato della Fauna. Come al solito, nessuno con-
trolla i controllori. Tutto torna." Clay lesse il nome a bassa voce. Tungata Zebiwe. Non voleva che fosse vero, scoprì con qualche stupore. "Ma se era con me nei guardacaccia!" "Come ho già detto, sono quelli che hanno più possibilità di esercitare efficacemente il bracconaggio." "Ma che se ne farebbe Sam dei soldi? Il capo dei bracconieri è uno che guadagna milioni e milioni di dollari. Sam conduce una vita molto frugale, lo sanno tutti, non ha macchine di lusso, non fa grandi regali alle donne, non possiede privatamente della terra, non ha vizi costosi." "Tranne forse il più costoso di tutti" disse Sally-Anne tranquillamente. "Il potere." Ulteriori proteste morirono nella gola di Clay. "Già, il potere. Non vedi, Clay? Per avere un esercito privato di dissidenti ci vogliono soldi, tantissimi soldi." Lentamente, tutto tornava, Clay doveva ammetterlo. Henry Pickering l'aveva avvertito della possibilità di un golpe appoggiato dai sovietici. Durante la guerra i russi avevano appoggiato la fazione matabele, lo ZIPRA, e quindi il loro candidato doveva essere per forza un matabele. Sì, era molto probabile. Eppure Clay non voleva crederci. Si attaccava ai ricordi dell'uomo che era stato suo amico, forse il miglior amico che avesse mai avuto in vita sua. Ricordò l'onestà profonda dell'uomo che aveva conosciuto allora come Samson Kumalo, il cristiano educato dai missionari ai più alti principi morali, che si era dimesso assieme a Clay dal ministero per la Conservazione della Fauna quando avevano sospettato il loro diretto superiore di essere in torta con una mafia di trafficanti d'avorio. Adesso il capo di una analoga mafia era lui? Quell'uomo compassionevole, che aveva aiutato Clay mutilato e invalido a mantenere il suo unico possesso al mondo, lo yacht con cui aveva abbandonato l'Africa? Adesso era diventato un congiurato avido di potere? "Era mio amico" disse Clay. "Lo era, ma è cambiato. L'ultima volta che l'hai visto ti ha minacciato e ti ha cacciato via" osservò Sally-Anne. "Me l'hai raccontato tu." Clay annuì, e a un tratto si ricordò della perquisizione subìta dalla sua cassetta di sicurezza e dalla sua camera all'hotel per ordini superiori. Tungata doveva aver avuto il dubbio che agisse per conto della World Bank, che fosse stato incaricato di raccogliere informazioni riservate sui retroscena politici e il bracconaggio. Questo doveva essere stato il motivo della sua violenta opposizione ai progetti di Clay. L'aborro" mormorò Clay. "L'aborro, questa idea, ma penso che potresti aver ragione tu." "Io ne sono sicura." "Cosa farai?" "Andrò da Peter Fungabera con le prove che ho raccolto." "Sarà la fine per Sam" disse Clay, e lei rispose immediatamente: "E un ladro, Clay, un predone!" "E mio amico." "Era tuo amico" lo contraddisse Sally-Anne. "Non puoi sapere cosa è diventato. Non sai cosa può essergli successo durante la guerriglia nella giungla. La guerra muta profondamente gli uomini, e il potere può mutarli ancora di più." "Oh Dio. che orrore!" "Vieni con me da Peter Fungabera. Sii con me quando accuserò Tungata Zebiwe." Sally-Anne gli prese la mano, un piccolo gesto di conforto. "Grazie." Clay non commise l'errore di ricambiare la stretta. "Mi dispiace, Clay." Gli strinse le dita. "Mi dispiace sul
serio" glidisse, e ritirò la mano.
Peter Fungabera trovò il tempo di riceverli l'indomani mattina molto presto. Si recarono insieme in auto a casa sua sul lago Macillwane. Un servo li introdusse nell'ufficio del generale, una grande stanza con pochi mobili che dominava il lago ed era stata un tempo la sala di biliardo. Una parete era coperta da un'immensa carta geografica dello Zimbabwe. Era piena di puntine colorate che segnavano dei luoghi evidentemente di interesse militare. Sotto le finestre c'era un lungo tavolo coperto di carte, rapporti, telegrammi, documenti parlamentari: e al centro della stanza, sul pavimento di pietra senza tappeti, una scrivania di teak. Peter Fungabera si alzò dalla scrivania per accoglierli. Era a piedi nudi e indossava solo una specie di perizoma. La pelle del torace e delle braccia luccicava come se fosse stata appena oliata, e sotto guizzavano i muscoli come un sacco di cobra vivi. Chiaramente Peter Fungabera si manteneva al culmine della forma da vero guerriero. "Scusate la mia tenuta" sorrise salutandoli "ma sono davvero più a mio agio quando mi vesto da africano." Davanti alla scrivania c'erano dei bassissimi sgabelli intagliati di ebano. "Farò portare due sedie" disse Peter. "Ho pochissimi visitatori qui." "No, no" replicò Sally-Anne sedendosi su uno degli sgabelli. "Sapete che vi vedo sempre molto volentieri, ma purtroppo stamattina alle dieci si riunisce il consiglio dei ministri" disse Peter Fungabera esortandoli implicitamente a sbrigarsi. "Verrò al punto senza farti perder tempo" disse Sally-Anne. "Credo di aver scoperto chi è il capo dei bracconieri." Peter stava per accomodarsi alla scrivania, ma sentendo ciò restò in piedi e le rivolse uno sguardo penetrante, con le mani appoggiate al piano della scrivania. "Avevi detto che bastava che io ti dicessi chi era, e avresti provveduto tu a stangarlo" gliricordò Sally-Anne. Peter annuì. "Dimmelo" le ordinò, ma Sally-Anne espose prima, in bell'ordine, fonti, fatti e deduzioni, come aveva fatto la sera prima con Clay. Peter Fungabera ascoltava in silenzio, accigliato, annuendo ogni tanto alle sue argomentazioni. Alla fine lei gli disse il nome, l'unico nome che rimaneva sulla sua lista. "Il compagno ministro Tungata Zebiwe!" ripeté piano Peter Fungabera. Ora si sedette e prese in mano il frustino di cuoio. Giocherellandoci col palmo della mano, guardò oltre la testa di SallyAnne la carta geografica appesa alla parete. Il silenzio si prolungò finché Sally-Anne chiese: "Allora?" Peter Fungabera abbassò di nuovo lo sguardo su di lei. "Mi hai passato la più rognosa delle patate bollenti" disse. "Sei proprio sicura che la tua accusa del compagno Zebiwe non sia stata influenzata dal suo trattamento nei confronti di Clay Mellow?" "E un sospetto indegno" glidisse calma Sally-Anne. "Già, lo credo anch'io" dichiarò Peter. Poi si rivolse a Clay. "Tu cosa ne pensi?" "Era mio amico e gli debbo molta gratitudine." " Acqua passata" sottolineò Peter. "Adesso ti si è dichiarato contro." "Tuttavia continuo a stimarlo e ammirarlo." "E allora?.,," chiese Peter, perplesso. "Penso però che Sally-Anne potrebbe avere ragione" ammise Clay, molto a disagio. Peter Fungabera si alzò e andò vicino alla carta geografica. "Il paese è in grave fermento" disse, guardando le bandierine appuntate sulla mappa. "I matabele sono sull'orlo della ribellione. Qui! Qui! Qui! I loro partigiani si riuniscono nella foresta." Diede qualche colpetto alla carta. "Siamo stati obbligati a decapitare il
complotto mettendo i loro leader più irresponsabili, fautori della rivolta armata, in condizioni di non nuocere. Nkomo è al confino e due membri matabele del governo sono stati accusati di alto tradimento. Tungata Zebiwe è l'ultimo matabele che rimane nel governo. E un uomo molto ammirato e rispettato anche al di fuori della sua tribù, mentre per i matabele è l'unico leader rimasto. Se lo tocchiamo..." "Allora vuoi lasciarlo fare?" disse senza speranza Sally-An-ne. "E così se la caverà. Ecco il vostro paradiso socialista! Una legge per il popolo e un'altra per i..." "Silenzio, donna!" ordinò Peter Fungabera, e lei obbedì. Tornò alla scrivania. "Cercavo di spiegarti le conseguenze di un'azione affrettata. Arrestare Tungata Zebiwe può far scoppiare nel paese la guerra civile più sanguinosa. Non dico che resteremo inattivi, ma è sicuro che non faremo niente senza prove schiaccianti e testimonianze inoppugnabili. La giustizia della nostra azione deve essere cristallina." Guardava ancora la carta alla parete. "Già il mondo ci accusa di organizzare il genocidio dei matabele, mentre il nostro unico scopo è far rispettare la legge e cercare una formula d'accordo con quella tribù guerriera e intrattabile. Al momento attuale Tungata Zebiwe è il più responsabile e conciliante dei dirigenti matabele, e non possiamo permetterci di liquidarlo con leggerezza." Fece una pausa e Sally-Anne ruppe il silenzio. "C'è una cosa che non abbiamo ancora menzionato, ma di cui Clay e io abbiamo già parlato fra noi. Se il bracconiere è Tungata Zebiwe, adopera i profitti per qualche scopo speciale. Non è certo un uomo che ama il lusso, ma noi sappiamo che è in contatto con i dissidenti. Ebbene, forse è l'avorio che li finanzia." L'espressione di Peter Fungabera si indurì. I suoi occhi erano terribili. "Se è colpevole, pagherà" promise più a se stesso che ai visitatori. "Ma dovrò avere delle prove inoppugnabili. In questo caso, non mi sfuggirà." "Sarà meglio che ti sbrighi" disse Sally-Anne con ostinazione.
"Ha scelto il momento migliore per venderlo" disse complimentandosi il funzionario del cantiere, sulla tolda del Bawu. Era abbronzato ai raggi ultravioletti e vestito da marinaio, anche se più che un lupo di mare era un mercante. Intorno agli occhi aveva una ragnatela di rughette che, Clay ne era certissimo, non gli erano venute a furia di guardare nel sestante, ma di scorrere listini prezzi e scrutare banconote controluce. "I tassi d'interesse sono calati, è il momento di comprare barche e la gente difatti si è rimessa a farlo." Era divertente come discutere con l'avvocato i termini del proprio divorzio, o quelli del funerale con l'impresario di pompe funebri. Il Bawu era una parte della sua vita da lungo tempo. "E in ottima forma la sua barca, molto ben tenuta e marina. Il prezzo che lei chiede, inoltre, è giusto. Porterò dei possibili acquirenti a vederla domani." "Basta che io non ci sia. Mi telefoni, prima, così sgombro il campo." "Capisco, signor Mellow." Sembrava proprio un beccamorto. Anche Ashe Levy sembrava un beccamorto quando Clay gli telefonò. Tuttavia mandò un fattorino a prendere i tre capitoli che egli aveva completato in Africa. Poi Clay andò a pranzo con Henry Pickering. "Che piacere vederti, Clay!" Lo scrittore si era dimenticato quanto aveva finito per piacergli quest'uomo che aveva brevemente incontrato due sole volte. "Ordiniamo, prima di tutto" disse Henry, e chiese una bottiglia di Grands Echézaux. "Sei un uomo coraggioso. Io non riesco a pronunciarlo senza
starnutire." Già, è quasi impronunciabile, e forse è per quello che è il meno conosciuto dei grandissimi vini. Così continua a costare relativamente poco, grazie a Dio." Annusarono il bouquet da conoscitori, dedicando al vino tutta l'attenzione che meritava. Poi Henry posò il bicchiere. "E ora dimmi qual è il tuo giudizio sul generale Fungabera" l'invitò. "E nel mio rapporto, non l'hai letto?" "Sì che l'ho letto, ma dimmelo lo stesso. Molte volte nella conversazione escono piccole cose significative che non riescono a penetrare nei rapporti." "Peter Fungabera è un uomo istruito. Il suo inglese è notevolmente buono: ottima scelta dei termini, potenza espressiva... ma ha un fortissimo accento africano. In uniforme sembra un generale dell'esercito inglese. In abiti civili sembra un divo della TV, ma quando si mette il perizoma intorno ai fianchi sembra quello che veramente è: un africano. E quello che tendiamo sempre a dimenticare di loro. Sappiamo tutto dell'imperscrutabilità dei cinesi, della flemma degli inglesi, ma consideriamo di rado che il negro africano ha pure lui delle peculiarità..." "Ecco, vedi?" annuì Pickering. "Tutto questo non c'era nel tuo rapporto. Continua, Clay." "Per i nostri ritmi frenetici, ci sembrano inattivi, e non ci rendiamo conto che non è indolenza la loro ma la profonda attenzione che riserbano a ogni argomento prima di agire. Li consideriamo semPlici e diretti, quando in realtà sono fra gli uomini più complicati e segreti che ci siano al mondo, dai legami tribali e di clan più stretti degli scozzesi. Come i siciliani, perpetrano faide sanguinose che vanno avanti più di cent'anni..." Henry Pickering ascoltava attentamente, rivolgendogli qualche domanda appropriata quando rallentava il discorso. "C'è una cosa che mi confonde un tantino, Clay... la sottile differenza dei termini matabele, ndebele e sindebele. Me la puoi spiegare?" "Un francese chiama se stesso francais, ma noi lo chiamiamo francese. Un matabele chiama se stesso ndebele, mentre noi lo chiamiamo matabele." "Ah" annuì Henry. "E la lingua che parla è il sindebele, vero?" "Proprio così. Attualmente, e dall'indipendenza, la parola matabele sembra aver assunto una sfumatura colonialistica..." La chiacchierata proseguì rilassata e libera, sicché fu con qualche sorpresa che Clay si accorse che erano rimasti soli nel ristorante e che il cameriere girava intorno al tavolo col conto. "Quello che volevo dire" concluse Clay "è che il colonialismo ha lasciato l'Africa con un sistema di valori imposti. L'Africa li rifiuterà e tornerà ai suoi propri." "E probabilmente sarà meglio per lei" concluse per Clay Henry Pickering. "Bene, Clay, devo dire che ti stai guadagnando la paga. Sono molto contento che torni là. Ritengo che nel giro di poco tempo sarai il nostro miglior agente in quel teatro. Quando torni?" "Sono venuto a New York solo per prendere un assegno." Henry Pickering fece la sua solita, deliziosa risatina di gola. "Le tue allusioni sono sottili come una zampa d'elefante. Rabbrividisco al pensiero di una tua domanda diretta." Pagò il conto e si alzò. "L'avvocato della banca ci aspetta. Prima sottoscrivi la svendita di corpo e anima e poi io ti faccio avere diritti di prelievo su un totale di cinque milioni di dollari." L'interno della limousine era silenzioso e fresco, e le sospensioni assorbivano quasi tutti i traumi prodotti dalle vie di New York. "Adesso inquadrami un po' le conclusioni di Sally-Anne circa il capo della mafia bracconiera" l'invitò Henry. "A questo stadio, non vedo altre possibilità sull'identità del
capo dei trafficanti d'avorio, che quasi certamente è anche il capo dei dissidenti." Henry tacque per un momento. Poi disse: "Come giudichi la riluttanza del generale Fungabera a prendere provvedimenti?" "E un uomo prudente, e un africano. Non ha fretta. Ci penserà bene, getterà la sua rete con astuzia, e quando passerà all'azione puoi scommettere che sarà rapido, devastante e incisivo." "Vorrei che gli prestassi tutta l'assistenza che puoi. Una cooperazione piena, per favore, Clay." "Tu sai che Tungata era amico mio." "Lealtà divise?" "Non credo proprio, se è colpevole. "Molto bene! Il nostro ufficio è soddisfattissimo del tuo operato fin qui. Sono autorizzato ad aumentarti il compenso a sessantamila dollari l'anno." "Fantastico" disse Clay con un sogghigno. "Sarà tutta manna, quando si tratterà di pagare gli interessi del prestito di cinque milioni..."
Era ancora chiaro quando il tassì depositò Clay ai cancelli del porto. Lo smog di Manhattan era trasformato dall'incidenza del sole al tramonto in una magica nube color porpora che sfumava le tristi silhouettes cementizie dei grattacieli. Quando Clay salì sulla passerella, lo yacht dondolò e l'uomo che lo aspettava si fece vedere. "Ashe!" Clay era sorpreso. "Ashe Levy, la principessina delle favole degli scrittori in crisi!" "Baby.,," Ashe gli venne incontro sul ponte, coi passi incerti della gente di terra. "Non potevo aspettare, sono dovuto venir subito da te." "Sono commosso." Il tono di Clay era sarcastico. "Arrivi sempre al galoppo, quando non ho bisogno di aiuto." Ashe Levy ignorò la battuta e mise entrambe le mani sulle spalle di Clay. "L'ho letto. L'ho riletto... e l'ho messo in cassaforte." La sua voce si fece molto, molto profonda. "E bello." Clay lo studiò, per vedere se gli distingueva in viso i segni della solita ipocrisia. Ma, dietro i suoi occhiali dalla pesante montatura di tartaruga, gli occhi di Ashe Levy subivano l'assedio di lacrime di commozione. "E la cosa migliore che tu abbia mai scritto, Clay." "Sono solo tre capitoli." "Che emozione! M'hanno preso alle viscere." "C'è da limare un sacco." "Clay, avevo dubitato di te, lo ammetto. Stavo cominciando a convincermi che non avevi in te un altro libro, ma adesso... E tutto il pomeriggio che, seduto in ufficio, mi colgo a ripensarci, e mi sono anche accorto che ne ho imparato dei brani a memoria. Clay lo studiò con attenzione. Le lacrime potevano essere un riflesso del sole sull'acqua del porto. Ashe si tolse gli occhiali e si soffiò rumorosamente il naso. Lacrime genuine, ma Clay stentava a crederci. C'era un solo modo di verificare la sincerità di Ashe. "Potresti sganciarmi un anticipo, Ashe?" Ormai non aveva bisogno di soldi, lo faceva solo per aver la prova decisiva. "Quanto ti serve, Clay? Duecentomila dollari?" "Allora ti piace davvero" fece Clay con un sospiretto, mentre gli eterni dubbi dello scrittore venivano dissipati per un breve periodo benedetto. "Beviamo qualcosa, Ashe." "Facciamo di meglio, ubriachiamoci" disse Ashe. Clay sedeva nel pozzetto, coi piedi sul pneumatico paracolpi, e guardava le goccioline di rugiada che si formavano sul bicchiere. Non ascoltava già più i commenti entusiastici di Ashe Levy sul suo
libro. Invece lasciava vagare liberamente i pensieri, dicendosi che forse era meglio non avere tutte le fortune concentrate in un breve periodo, per poterle gustare a una a una e più a lungo. Era inondato dalla gioia: se pensava a King's linn, le narici risentivano l'odore intenso della prateria del Matabeleland. Se pensava a Zambesi Waters, risentiva gli schianti provocati dal gran corpo del rinoceronte nella boscaglia. Pensò ai venti capitoli che avrebbero seguito i primi tre, e già il dito del grilletto (o della penna) gli formicolava dall'impazienza. Possibile, si domandò, che in quel momento fosse l'uomo più felice del mondo? E all'improvviso si rese conto che per apprezzare pienamente la felicità occorre condividerla con qualcun altro. E dentro di sé, nel profondo, avvertì un piccolo spazio vuoto, e provò un'ombra di malinconia nel ricordare il barbaglio di certi strani occhi, e la piega serena e ferma di certe giovani labbra. Avrebbe voluto dirglielo, e farle leggere quei tre capitoli. Di colpo desiderò con tutte le sue fibre di essere di nuovo in Africa, dov'era Sally-Anne Jay.
Clay trovò una Land Rover di seconda mano nel cortile dietro l'agenzia dove Jock Daniels faceva commercio di auto usate. Chiuse le orecchie alle chiacchiere del venditore e ascoltò invece il motore. C'erano forse da regolare le puntine, ma i pistoni pulsavano con facile regolarità. La trazione anteriore si inseriva con dolcézza e i freni funzionavano bene. Quando la lanciò su un terreno accidentato poco fuori città, si staccò la marmitta, ma tutto il resto rimase insieme. Un tempo era capace di smontare completamente una Land Rover e rimontarla nello spazio di un week-end: tanta competenza gli permise di concludere che quella macchina poteva essere salvata. Abbassò il prezzo di un migliaio di dollari e la pagò ancora eccessivamente, ma aveva molta fretta. Nella Land Rover caricò tutto quello che aveva salvato dalla vendita dello yacht: un baule di vestiti, una dozzina di libri preferiti, e una cassa di cuoio borchiata in ottone che conteneva i diari di famiglia, ed era la parte più pesante del bagaglio. Questi giornali di bordo familiari costituivano tutta la sua eredità. Era tutto quello che Bawu gli aveva lasciato. Il resto delle sue ricchezze, le proprietà, le azioni della Rholands erano andate al figlio maggiore di Bawu, Douglas, lo zio di Clay, che aveva venduto tutto e si era trasferito in Australia. Ma quei libroni rilegati scritti a mano erano il maggior tesoro: leggerli aveva dato a Clay il senso della storia e l'orgoglio dei suoi antenati, il che l'aveva armato di fiducia e conoscenza sufficienti a scrivere il suo primo libro, il quale a sua volta l'aveva condotto ai conseguimenti attuali: fama, ricchezza; e la stessa proprietà familiare della Rholands che era tornata a lui grazie a quella cassa di vecchi quaderni. Si domandò quante migliaia di volte aveva già imboccato la strada che conduceva a King's linn: ma mai come adesso, mai da padrone. Si fermò appena oltre il cancello, sì che i suoi piedi potessero toccare per la prima volta la terra che possedeva. Eretto, si guardò attorno per la prateria giallastra e i boschetti di acacie a ombrello, vide all'orizzonte le colline grigio-azzurre sotto la boccia cerulea senza macchia del cielo che tutto copriva: poi si inginocchiò come un supplice. Raccolse un po' di terra tra le mani. Era quasi altrettanto ricca e rossastra dei manzi che avrebbe nutrito. A occhio la divise in due parti, lasciandone cadere un decimo di nuovo al suolo. "E il tuo dieci per cento, Peter Fungabera" sussurrò tra sé. "Ma il resto è mio, e giuro di tenerlo per tutta la vita, di difenderlo e farlo fruttare, così Dio m'aiuti." Sentendosi solo un po' stupido per via del gesto teatrale, rimise a
posto la terra e si pulì le mani sui calzoni. Poi risalì sulla macchina. Sulla salita che portava alla casa incontrò una figura alta e segaligna che scendeva. L'uomo indossava una coperta unta e sporca sulle spalle e una pezza di tela intorno alle reni. In spalla portava l'assegai, una specie di zagaglia, e ai piedi aveva sandali tratti da vecchie gomme d'automobile. Gli orecchini erano cerchietti di plastica ricavati da qualche tanica per acidi e abbelliti da perline colorate; il loro peso gli aveva ingrandito i lobi tre o quattro volte più del normale. Davanti a sé spingeva il gregge di caprette multicolori. "Ti vedo, fratello maggiore" lo salutò Clay, e il vecchio mostrò i denti gialli e sconnessi in un sorriso cortese al riconoscere Clay. "Ti vedo, Nkosi" disse; era lo stesso vecchio che Clay aveva visto accampato nelle stalle di King's linn. "Dici che pioverà?" gli chiese Clay porgendogli un pacchetto di sigarette che si era portato dietro proprio per quello. Imboccarono una di quelle pigre conversazioni di routine che in Africa debbono precedere ogni discorso serio. "Qual è il tuo nome, vecchio?" Per i matabele non è un'accusa di senilità, ma un termine di rispetto. "Mi chiamano Shadrach." "Dimmi, Shadrach, sono in vendita le tue capre?" poté infine chiedergli Clay senza far la figura dell'ingenuo, e immediatamente un lampo d'astuzia balenò negli occhi del pastore. "Sono capre molto belle" disse. "Separarmi da loro sarebbe come separarmi dai miei bambini." Shadrach era il portavoce e il capo riconosciuto della piccola comunità di abusivi che avevano preso domicilio a King's linn. Clay scoprì che attraverso di lui avrebbe potuto trattare con tutti quanti, e ne fu sollevato, gli avrebbe risparmiato un sacco di tempo e di grane. Tuttavia, non avrebbe privato Shadrach dell'occasione di manifestare la sua abilità di negoziatore, né l'avrebbe insultato tentando di abbreviare il procedimento. Esso quindi si prolungò per le giornate successive, durante le quali Clay rimise il tetto al vecchio cottage degli ospiti utilizzando della tela pesante, sostituì la pompa a mano dell'acqua, che era rotta, con un motore diesel capace di aspirare dal pozzo e piazzò la brandina nella nuda camera da letto del cottage. Il terzo giorno si misero d'accordo sul prezzo di vendita e Clay si ritrovò padrone di quasi duemila capre. Pagò i venditori in contanti, contando Ogni banconota e ogni moneta nelle loro mani per evitare future discussioni, e quindi caricò il belante acquisto su quattro camion e spedì le caprette al macello di Bulavvayo, dove fecero crollare i prezzi del cinquanta per cento causandogli una perdita di un po' più di diecimila dollari. "Un grande inizio per i miei affari" sogghignò, mandando a chiamare Shadrach. "Dimmi, vecchio, ti intendi di manzi?" Era un po' come chiedere a un polinesiano se ne capiva di pesci, o a uno svizzero se sapeva cos'era la neve. Shadrach si rizzò indignato. "Quando ero alto così" disse rigido, indicandosi il ginocchio "ciucciavo latte caldo direttamente dalla tetta della vacca. Quando ero alto così" alzò la mano di pochi centimetri "avevo cura di duecento capi. Liberavo i vitelli incastrati nella pancia della madre con le mani, li portavo in spalla quando il guado era alto. Quand'ero alto così-a mezza coscia, ho ammazzato una leonessa con l'assegai perché voleva mangiare i miei bufali." Clay ascoltò pazientemente la storia fino all'altezza della spalla, quando Shadrach concluse: "E hai il coraggio di chiedermi se me ne intendo di bestiame!" "Ben presto su questa erba alleverò vacche così slanciate e belle che ti faranno venire le lacrime agli occhi a guardarle. Avrò tori dai mantelli lustri come l'acqua chè brilla al sole, dalle gobbe alte come montagne sulla groppa e quarti polposi che a ogni passo spaz-
zeranno la terra secca come il vento apportatore di pioggia." "Hau?" disse Shadrach, un'esclamazione di grande stupore, impressionato sia dal lirismo di Clay sia dalle intenzioni che manifestava. "Mi serve un uomo che si intenda di bestie... e di uomini" gli disse Clay. Shadrach scelse i lavoranti. Venti famiglie di gente forte e di buona volontà, non troppo giovani da esser sciocchi o volubili, non troppo vecchi da esser deboli e impotenti. "Gli altri" disse con disprezzo Shadrach "sono incroci tra babbuini e ladri di bestiame shona: gli ho ordinato di andare via dalla nostra terra." Clay sorrise di quel "nostra" , ma restò impressionato dal fatto che, quando Shadrach ordinava, la gente gli obbediva. Shadrach riunì le sue reclute davanti al cottage rozzamente restaurato, e gli impartì il tradizionale giya, il discorso mimato e quasi danzato con cui gli antichi induna matabele eccitavano i guerrieri alla vigilia della battaglia. "Voi mi conoscete!" gridò. "Sapete che la mia bis-bis-bis-bisnonna era figlia del vecchio re Lobengula, il Vento-che-conduce!" "Eh-he!" Cominciavano a entrare nello spirito dell'occasione. "Sapete che sono un principe di sangue reale, e che se il mondo andasse come dovrebbe andare sarei il legittimo induna di mille guerrieri, con penne di uccello-vedova tra i capelli e code di bufalo sullo scudo di guerra." Agitò in aria l'assegai. "Eh-he!" Guardando le loro espressioni, Clay vide che il rispetto in cui tenevano il vecchio era sincero, e si congratulò con se stesso della sua scelta. "Ora" continuò Shadrach "grazie alla saggezza e alla lungimiranza del giovane Nkosi qui presente, sono diventato davvero induna! Sono l'induna di King's linn" pronunciò Kingi Lingi. "e voi siete i miei amadoda, i miei guerrieri scelti." "Eh-he!" concordarono, battendo i piedi a terra con un rombo come di cannonate. "E adesso guardate questo uomo bianco. Vi sembrerà magari un giovane sbarbatello... ma attenzione! è nipote di Bawu e bis-bisnipote di Taka-Taka!" "Hau!" esclamarono i guerrieri di Shadrach. Erano nomi ben noti. Bawu l'avevano conosciuto di persona, mentre sir Ralph Ballantyne era una leggenda: i matabele l'avevano ribattezzato Taka-Taka dal rumore delle mitragliatrici Maxim di cui si era servito per spegnere nel sangue l'ultima resistenza dei matabele alla conquista. Guardarono Clay con occhi nuovi. "Sì" incalzò Shadrach "guardatelo! E un guerriero che ha combattuto nella boscaglia! Ha ucciso centinaia di vili stupratori mashona prima di essere ferito gravemente!" Clay sbatté le palpebre alle licenzepoetiche che Shadrach si concedeva. "Ha perfino ammazzato qualche guerriero cuor di leone matabele dello ZIPRA! E così ora sapete che è un uomo e non un ragazzo." "Eh-he!" Non mostrarono il minimo rancore alla notizia della presunta strage di loro fratelli operata da Clay. "Sappiate anche che egli è venuto a trasformarvi, da donnicciuole che pascolano caprette grattandosi al sole, di nuovo in fieri pastori di bufali! Perché" e qui Shadrach fece una pausa drammatica "presto questa erba tornerà a nutrire vacche così slanciate e belle che a guardarle..." Clay notò che Shadrach era in grado di ripetere ciò che aveva detto parola per parola, con la memoria impressionante degli analfabeti. Quando finì con un gran balzo in aria, sbattendo l'uno contro l'altro gli assegai, lo applaudirono appassionatamente, poi si rivolsero a Clay tutti speranzosi. "Un discorsetto ben difficile da eguagliare" si disse Clay, in
piedi davanti a loro. Parlò con calma, a voce bassa, nel musicale linguaggio sindebele. "Il bestiame arriverà presto, e c'è molto da fare prima. Voi conoscete il salario fissato dal governo per i braccianti agricoli. Io ve lo pagherò, e nutrirò voi e le vostre famiglie." Queste affermazioni vennero recepite senza eccessive mani-festazioni di entusiasmo. "In più" disse Clay dopo una pausa "per ogni anno di lavoro che farete vi regalerò una bella vitella che avrete il diritto di far pascolare sulla prateria di Kingi Lingi e anche di far montare dai miei grandi tori, così che vi possa procreare splendidi vitelli..." "Eh-he!" gridarono, saltando di gioia, finché Clay alzò le braccia. "Forse tra voi qualcuno potrà essere tentato di rubare quello che appartiene a me, o di sdraiarsi all'ombra del fico selvatico invece di lavorare a recintare i pascoli o seguire le bestie." Li fulminò con lo sguardo, destando mugolii. "Ora, questo saggio governo proibisce all'uomo di prendere a calci nel culo l'altro uomo: ma io" li avvertì "sono capace di prendervi a calci nel culo senza piede!" Si chinò e con un rapido movimento sganciò la gamba artificiale, e si rialzò tenendola in mano. Sbarrarono gli occhi dallo stupore. "Avete visto? Non è il mio piede!" L'espressione dei matabele divenne terrorizzata, come in presenza di una terribile stregoneria. Cominciarono ad agitarsi nervosamente e a guardarsi intorno in cerca di una via di fuga. "E così" gridò Clay "senza infrangere la legge io potrò prendere a calci chi mi pare!" Con due saltelli veloci vibrò una pedata manuale nel culo del più vicino guerriero. Ancora per un attimo durò il silenzio sbigottito, poi furono travolti dal proprio senso dell'umorismo. L'assemblea si mise a sghignazzare come un sol uomo, fino a farsi venir le lacrime agli occhi. Si appoggiavano l'uno all'altro in ridanciani gruppetti, tirandosi delle pacche sulle spalle, imitando la scenetta a cui avevano appena assistito. Circondarono la sfortunata vittima della buffonesca iniziativa del padrone e gli diedero degli altri colpi scherzosi, tra risate acutissime. Shadrach, svestita ogni dignità principesca, si rotolava per terra dal ridere. Clay li guardava con affetto. Erano già diventati la sua gente, e ne sentiva tutta la responsabilità. Certo fra loro qualcuno si sarebbe rivelato un cattivo soggetto. Avrebbe dovuto sradicarlo come un'erbaccia. E certo anche i buoni elementi a volte si sarebbero messi a sfidare deliberatamente la sua volontà, per saggiare la sua vigilanza. Era l'usanza africana, ma col tempo anche loro gli si sarebbero sentiti uniti, e la sua grande famiglia l'avrebbe amato, alla fine.
La prima cosa da fare erano i recinti. Erano caduti in uno stato pietoso: mancavano chilometri e chilometri di filo spinato, che era stato rubato. Quando Clay cercò di sostituirlo, comprese perché: nel Matabeleland il filo spinato non si trovava affatto. Non veniva rilasciato il permesso d'importazione per il filo spinato. "Benvenuto nell'allegra comunità degli allevatori dello Zimbabwe negro" glidisse il direttore della Cooperativa Allevatori a Bulavvayo. "Qualcuno ha rilasciato un permesso d'importazione per un milione di dollari di caramelle e cioccolatini, ma niente permessi per il filo spinato." "Per l'amor di Dio!" esclamò Clay disperato. "Ho bisogno di cintare i miei pascoli! Come posso ripopolare il ranch, se non ho i pascoli cintati? Quando riceverete la prima consegna?" "Dipende da qualche impiegatuccio del ministero del Commercio Estero di Harare" alzò le spalle il direttore, e Clay s'avviò tristemente alla Land Rover, quando all'improvviso gli venne un'idea. "Posso usare il telefono?" domandò al direttore." Chiamò il numero privato che gli aveva dato Peter Fungabera e,
quando ebbe dichiarato la propria identità, la segretaria glielo passò subito. "Peter, ho un grosso problema." "Posso aiutarti?" Clay gli raccontò la faccenda, e Peter prese nota brontolando fra sé. "Quanto te ne serve?" "Almeno milleduecento rotoli." "C'è altro?" "Per ora no... Ah sì, scusa se ti disturbo, Peter, ma non riesco a trovare Sally-Anne. Non risponde alle telefonate né ai telegrammi." "Ritelefonami tra dieci minuti" ordinò Peter Fungabera, e quando Clay lo richiamò gli disse: "Sally-Anne è fuori del paese, sembra sia volata in Kenya col suo apparecchio. Si trova in un luogo che si chiama Kitchwa Tembu sul Masai Mara." "Sai quando torna?" "No, ma appena rientra nello Zimbabwe ti avverto." Clay restò impressionato dalla lunghezza dei tentacoli di Fungabera, in grado di seguire una persona anche di là dei confini. Ovviamente anche Sally-Anne era su qualche lista di sorvegliati speciali, come lui. Naturalmente sapeva perché Sally-Anne era a Kitchwa Tembu. Due anni prima c'era andato anche Clay, per vedere il meraviglioso villaggio per safari creato dai proprietari della terra, i signori Geoff e Jorie Kent. Era la stagione in cui mandrie smisurate di bufali giravano lì nei pressi coi vitelli appena nati, e le lotte delle bufale coi predatori sempre in agguato costituivano uno dei più impressionanti e grandiosi spettacoli che si potessero vedere in Africa. Sally-Anne era evidentemente andata a fotografarlo. Sulla strada del ritorno a King's Linn, si fermò alla posta e le mandò un telegramma attraverso l'ufficio Abercrombie e Kent di Nairobi. "Fammi qualche foto anche per Zambesi Waters stop La caccia è ancora aperta Punto interrogativo Saluti Clay." Tre giorni dopo una fila di camion imboccò la salita per King's linn. Un plotone di soldati della Terza Brigata scaricò milleduecento rotoli di filo spinato nella rimessa per trattori. "C'è qualcosa da pagare?" chiese Clay al sergente che comandava il plotone. "O carte da firmare?" "Non lo so" disse l'uomo. "So solo che mi hanno ordinato di portar qui questa roba, e così ho fatto." Clay guardò andar via i camion vuoti, rombando sulla discesa, con un peso sullo stomaco. Sospettava che non ci sarebbero mai state ricevute da firmare per Peter Fungabera. Così, d'altra parte, era l'Africa, gli toccava semplicemente stare molto attento a non inimicarsi il generale. Le conseguenze, altrimenti, potevano essere terribili. Per cinque giorni rizzò il recinto coi suoi braccianti matabele, nudo fino alla cintola, con le mani protette da spessi guantoni di cuoio; si unì ai loro canti di lavoro tirando il filo con l'apposito strumento, una specie di tenaglione che si aziona appoggiandovi tutto il corpo, senza aver mai sollievo dal peso sullo stomaco che continuava a provocargli la coscienza. Poiché non gli avevano ancora messo il telefono, prese la macchina e andò a Bulavvayo. Trovò Peter in parlamento. "Mio caro Clay, ti stai preoccupando per un bel nulla. Pensa che il genio non mi ha ancora addebitato il filo spinato. Ma se ciò ti fa star meglio, mandami un assegno e sistemerò tutto immediatamente. Ah, Clay, circolare l'assegno, intesi?"
Nelle settimane successive, Clay scoprì in se stesso la capacità di dormire molto meno di quanto giudicava possibile. Era in piedi ogni mattina alle quattro e mezzo, e andava a svegliare i matabele nelle loro capanne. Uscivano insonnoliti, ancora avvolti nelle coperte e tre-
manti di freddo, scatarrando accanto ai fuochi e brontolando senza vero e proprio astio contro di lui. A mezzogiorno Clay si sdraiava con tutti gli altri sotto la prima acacia e faceva la siesta. Poi, riposato, riprendeva il lavoro al pomeriggio finché il suono del gong (un pezzo di rotaia appeso a un ramo di jacaranda vicino alla casa) non dava il segnale che l'orario di lavoro era finito. I matabele si passavano l'un l'altro l'informazione a voce, e i vari gruppi confluivano sullo stradone per tornare a casa. "Shayile! E suonato!" Qui Clay si ripuliva dalla polvere e dal sudore in un magazzino di cemento dietro l'edificio, mangiava in fretta e furia e quando cadeva l'oscurità eccolo seduto sulla veranda, a un tavolo illuminato dalla lampada a gas, a seguire l'immaginazione con la biro sul foglio bianco. Alcune notti lavorava fino quasi all'alba, ma ugualmente schizzava in piedi alle quattro e mezzo, sentendosi riposato e vigoroso. Il sole gli abbronzò la pelle e schiarì i ciuffi di capelli che gli ricadevano sugli occhi; il duro lavoro fisico tonificò i suoi muscoli e gli fece incallire il moncone, sicché non faceva più fatica, ormai, a camminare anche a lungo. C'era così poco tempo per cucinare, e ancor meno per bere (la bottiglia di whisky restava piena e sigillata nell'armadio), E poi, una sera, parcheggiò la Land Rover sotto gli alberi di jacaranda e rimase bloccato: l'aveva raggiunto un profumino delizioso: roastbeef con patatine! L'aroma costituiva una barriera quasi potente come un muro di mattoni. Sotto la lingua sprizzò un gettito di saliva e, mentre la pancia si gettava idealmente contro il muro, egli pensò bene di seguirla in fretta.Nella cucina da campo, curva sul fuoco, ecco una figuretta smilza, dai bianchi capelli lanosi. All'ingresso di Clay gli scoccò un'occhiata accusatrice. "Perché non mi hai mandato a chiamare?" domandò in sindebele. "Nessun altro cucina a Kingi Lingi se vivo io!" "Joseph!" esclamò Clay, abbracciandolo impetuosamente. Il vecchio era stato cuoco di nonno Bawu per trent'anni. Era capace di preparare un banchetto impeccabile per cinquanta persone, come di compicciare uno spuntino alla brace da cacciatori. Già, con un bidone vuoto, aveva costruito un forno di fortuna da cui usciva ora profumo di pane, mentre nell'orto da tempo trascurato aveva saputo recuperare una bella ciotola d'insalata. Joseph si liberò dall'abbraccio di Clay, un po' scandalizzato per quell'infrazione all'etichetta. "Nkosana" disse usando ancora il diminutivo per i ragazzi "i tuoi vestiti erano sporchi e non era stato rifatto il letto!" Lo redarguì: "Abbiamo lavorato tutto il giorno per rimettere ordine!" Solo allora Clay notò chi c'era in cucina. "Kapa-lala!" rise felice, e il ragazzo s'inchinò sorridendo compiaciuto. Stava aggiungendo carbonella al fuoco del ferro da stiro. I suoi abiti erano stati lavati e adesso il cameriere li stava stirando. Intorno c'erano un ordine e una pulizia fenomenali. Avevano lucidato anche i rubinetti dei lavandini, adesso quell'ottone era lustro come le stellette di un marine. "Ho fatto una lista di quello che ci serve" disse Joseph a Clay. "Per ora può bastare. Non sta bene vivere come in un porcile! Nkosi Bawu, tuo nonno, avrebbe disapprovato." Il cuoco Joseph aveva pretese di stile. "Così ho mandato a dire allo zio della mia prima moglie, che è un bravo carpentiere, di mandar qua suo figlio maggiore che fa il muratore, e suo nipote, falegname. Saranno qui domani e cominceranno a riparare i danni che hanno fatto questi cani alla casa. Quanto all'orto e al giardino, conosco la persona giusta..." disse enumerando i lavori necessari con le dita. "Così potremo invitare trenta ospiti importanti il giorno di Natale, come si usava ai vecchi tempi. Adesso, Nkosana, va' a lavarti che il pranzo è pronto fra un quarto d'ora." Coi pascoli accuratamente cintati e il restauro alle stalle e all'edi-
ficio principale in corso, Clay poté finalmente cominciare a pensare all'acquisto delle bestie. Convocò Shadrach e Joseph, e affidò alle loro congiunte cure la tenuta durante la sua assenza. Accettarono gravi la responsabilità. Quindi Clay andò all'aeroporto, lasciò la Land Rover al parcheggio e prese un biglietto per il primo volo diretto a sud. Nelle tre settimane seguenti girò per i grandi allevamenti del Transvaal del Nord, la provincia sudafricana con clima e morfologia più simili a quelli del Matabeleland. Gli acquisti di capi richiedevano tempo. Ogni compera avveniva dopo giornate di discussioni con gli allevatori e di esami del capo, durante i quali Clay godeva della tradizionale ospitalità degli afrikaner di campagna. I suoi ospiti erano i discendenti di uomini arrivati fin lì col carro tirato dai buoi dal Capo di Buona Speranza, e avevano passato tutta la vita accanto ai loro animali. Così, mentre Clay comprava le bestie, approfittava della loro esperienza per accumulare una gran quantità di conoscenze sull'allevamento dei bovini. Tutto quello che imparava lo rinsaldava nel suo desiderio di proseguire i riusciti esperimenti di Bawu circa l'incrocio della razza indigena afrikander, nota per la sua resistenza alla siccità, ai disagi e alle malattie, con la razza Santa Gertrudis di più rapido ingrasso. Comprò giovani vacche inseminate artificialmente e gravide, comprò tori dall'aristocratico pedigree, discendenti da linee di sangue imperiali, e si occupò delle complicatissime pratiche e vaccinazioni a cui ogni bestia doveva essere sottoposta prima di passare la frontiera. Contemporaneamente prese accordi con autotrasportatori specializzati per farsispedire il pregiatissimo bestiame a King's linn. Spese quasi due milioni dei dollari che gli avevano prestato, prima di far ritorno a King's linn per ultimare i preparativi per ricevere il bestiame. Le consegne erano scaglionate per il periodo di un mese, acciò che le bestie di ogni camion potessero essere adeguatamente alloggiate all'arrivo e si ambientassero prima della venuta del carico successivo. I primi a giungere furono quattro giovani tori, appena maturi per intraprendere la loro carriera di stalloni. Clay li aveva pagati quindicimila dollari l'uno. Peter Fungabera era deciso a festeggiare l'avvenimento: invitò due ministri suoi colleghi di governo alla cerimonia di benvenuto, benché né il presidente del Consiglio né il ministro del Turismo Tungata Zebiwe fossero liberi quel giorno. Clay noleggiò un tendone e incaricò Joseph di preparare uno dei suoi leggendari banchetti al fresco. Clay era ancora accapponato dall'esborso dei due milioni di dollari, così rinunciò allo champagne in cambio del più accessibile spumante della Provincia del Capo, del resto una buona imitazione. La compagnia ministeriale giunse a bordo di una flottiglia di Mercedes nere, con guardie del corpo in occhiali da aviatore e signore abbigliate, al solito, dei più selvaggi e scatenati colori. Lo champagne dolciastro e a buon mercato scorreva come l'acqua dalla vasca stappata, e ben presto tutti quanti ridacchiavano ondeggiando vispi come un branco di stornelli. La moglie più anziana del ministro dell'Educazione si sbottonò la camicetta, tirò fuori una succulenta poppa nera, e si mise ad allattare il bambino che aveva in braccio, mentre con la mano libera tracannava copiose coppe di champagne. "Rifornimento in volo" disse uno dei vicini bianchi di Clay, che aveva pilotato i bombardieri della RAF, sogghignando. Peter Fungabera fu l'ultimo ad arrivare, in alta uniforme, col suo aiutante di campo, un giovane capitano della Terza Brigata che già parecchie volte Clay aveva avuto occasione di notare al suo fianco. Stavolta Peter glielo presentò: "Il capitano Timon Nbebi." Era così smilzo da parer fragile, quasi. Gli occhi, dietro gli occhiali dalla montatura d'acciaio, erano alquanto vulnerabili per essere quelli di un soldato, e la sua stretta di mano era rapida e ner-
vosa. A Clay sarebbe piaciuto parlargli, ma ormai stava giungendo il camion coi tori su per la salita. Arrivò sollevando una nube di fine polvere rossa e si fermò davanti al recinto approntato da Clay per i tori. Lo sportello fu aperto e la passerella stava per essere abbassata quando Peter Fungabera salì sul palco e si rivolse all'assemblea. "Il signor Clay Mellow è un uomo che avrebbe potuto sceglier di vivere in qualunque paese del mondo, perché ovunque sarebbe stato accolto a braccia aperte come autore di un bestseller internazionale. Ha scelto di tornare nello Zimbabwe, e così facendo ha dichiarato al mondo intero che questa è una terra dove gli uomini di tutti i colori, di tutte le tribù, bianchi o negri, mashona o matabele, sono liberi di stabilirsi e di lavorare, senza paura di essere molestati, sicuri sotto l'egida di leggi eque." Dopo la pubblicità, Fungabera si permise uno scherzetto. "E ora, diamo il benvenuto con gratitudine a questi altri nuovi emigranti, con la certezza che diventeranno padri di una numerosa progenie d'ambo i sessi che contribuirà al benessere dello Zimbabwe." Peter Fungabera cominciò l'applauso e tutti gli si unirono mentre Clay apriva il cancello, abbassava la passerella e segnalava al nUovo immigrato, che strizzava gli occhi infastidito dal sole, di prender posto nel recinto. Era una bestia enorme, più d'una tonnellata di muscoli gonfi sotto il mantello lucido rosso-bruno. Usciva proprio adesso da un tragitto di sedici ore, chiuso in una macchina infernalmente sobbalzante e rumorosa. I tranquillanti che gli avevano propinato avevano esaurito l'effetto, lasciandolo con un gran mal di testa e un senso di disapprovazione attiva nei confronti del resto del mondo. Scendendo scalpitante dalla passerella di metallo sonoro, lanciò un'occhiata alle signore chiassosamente vestite secondo il costume nazionale, e la sua generica irritazione si concentrò su di loro. Emise un muggito belluino, che sembrava non voler finir mai, e sfuggendo alle cavezze dei vaccari si lanciò a valanga giù dalla passerella. Mentre i vaccari precipitavano giù dalla stessa lasciando le cavezze, il toro spianava la fragile palizzata disperdendo anche all'istante, così facendo, il party ministeriale. Tutti scappavano come sardine inseguite da un grosso barracuda affamato. Alti ufficiali sprintavano davanti alle mogli correndo verso il riparo degli alberi di jacaranda: bambini in groppa alle madri lanciate al galoppo urlavano come fantini. Il toro sempre alla carica passò sotto il tendone, un corno s'impigliò nella fune e il riparo si afflosciò in un vezzoso groviglio di tela e corde, sotto il quale si dibattevano atterriti gli ospiti che stavano servendosi al buffet. Anche il toro era sotto il tendone, ma ben presto ne riemerse, proprio mentre una consorte ministeriale gli balenava scarlatta davanti al muso. Furioso, le vibrò una cornata che mancò la donna ma agganciò il vestito, il quale si strappò in meno di un secondo liberando una nuda e velocissima ombra nera che, dopo due giri come di trottola, si mise a correre con perfette falcate da scattista verso la vetta della collina, con gran turbinar di lunghe gambe e ballonzolare di grosse ed elastiche tette. "Do la ragazza vincente due a uno, di una tetta" bramì estatico il pilota della RAF. Anche lui aveva fatto il pieno di spumante a buon mercato. Il coloratissimo vestito si era avvolto sulla testa del toro. Questo fatto trasformò una semplice sfuriata taurina in una frenesia da corrida capace di far scappare a gambe levate qualunque matador. Il toro continuava a scuotere la testa armata di grandi corna a punta di qua e di là, mentre il vestito fischiava come uno stendardo nel vento della battaglia, mostrando un occhio maligno del toro che si illuminava alla vista dell'onorevole ministro dell'Educazione, un pancione, con rispetto parlando, ancora attardato a metà del pendio.
La sua mole era più che adeguata alla carica. Una montagna di ciccia gli ballonzolava sopra la cintura lasca, e la sua faccia grigia come le ceneri d'un fuoco spento da tempo emetteva urla isteriche: "Sparategli! Sparate a quel diavolo scatenato!" Ma la sua guardia del corpo ignorava l'ordine. Aveva già cinquanta passi di vantaggio e il distacco aumentava sempre più. Clay, disperato, dal camion vedeva il toro guadagnare terreno sul ministro che affanava in salita sbuffando come una vaporiera. Gli zoccoli del toro alzavano nuvole di polvere, finché si mise a muggire di nuovo: l'improvviso e bestiale rumore, emesso pochi decimetri dietro il membro del governo, sembrò spingerlo fisicamente avanti come il vento d'un ciclone, inducendolo a rivelarsi di gran lunga migliore come arrampicatore che come scattista. Salì come uno scoiattolo sul più vicino tronco di jacaranda e rimase in precario equilibrio su uno dei rami più bassi, mentre il toro sbuffava appena sotto di lui. La bestia muggì di nuovo, con delusione omicida, fulminando con sguardo obliquo la figura rattrappita e tremolante, e tranciando l'aria a cornate. "Fate qualcosa!" urlò il ministro. "Fatelo andar via!" La sua guardia del corpo finalmente si voltò e, vedendo l'impasse, riprese coraggio. Armi alla mano, i soldati cominciarono ad avvicinarsi al toro e alla sua preda destinata. "No!" urlò Clay alla vista delle armi automatiche. "Non sparate!" Era sicuro che l'assicurazione non copriva la "morte per colpi volontari d'arma da fuoco" e, a parte i quindicimila verdoni che sfumavano, una sparatoria avrebbe reso pericolosa la zona dietro il toro, dove ancora si affollavano donne e bambini e dove si trovava anche lui. Uno dei soldati però prese la mira col mitra. Le recenti emozioni non contribuivano tuttavia a mantenergli la mano ferma, e la canna oscillava pericolosamente di qua e di là, descrivendo nell'aria ampi cerchi. "No!" gridò di nuovo Clay, prima di buttarsi a pancia in giù sul camion. Ed ecco che un'altra figura sottile si interpose tra la bestia e la canna del mitra. "Shadrach!" sussurrò tutto contento Clay, mentre il vecchio spostava deciso la canna del mitra e si voltava a fronteggiare il toro. "Ti" vedo, Nkunzi Kakhulu! Grande Toro!" lo salutò cortesemente. Il toro scosse la testa al suono della sua voce, e si capì che aveva visto Shadrach: sbuffò infatti e annuì, cornuto e minaccioso. Verso quelle corna aguzze e maligne Shadrach fece tranquillamente un altro passo. "Hau! Principe delle bestie! Come sei bello!" Il toro scalpitò e accennò una carica. Shadrach restò immobile e il toro si fermò. "Che testa nobile?" disse, carezzevole. "Che occhi di luna nera!" Il toro agitò ancora le corna nella sua direzione, ma con meno furia di prima, e Shadrach fece un altro passo verso di lui. Gli strilli di donne e bambini cessarono. Anche i più paurosi smisero di correre e tutti guardarono il vecchio e la rossa bestia. "Le tue corna sono taglienti come gli assegai del grande Mzili-kazi." Shadrach continuava ad avvicinarsi al toro che sbatteva le ciglia incerto, sogguardandolo con l'occhio iniettato di sangue. "Che gloriosi coglioni" mormorò sempre più carezzevole Shadrach. "Sembrano palle di granito. Diecimila vacche sentiran-no il loro peso e la loro maestà." Il toro arretrò di mezzo metro e diede un'altra cornata poco convinta all'aria. "Il tuo fiato è caldo come il vento del nord, o impareggiabile re dei tori." Shadrach avanzò lentamente la mano, mentre tutti guardavano trattenendo il respiro. "Tesoro mio" disse Shadrach toccando il muso lucido, umido e color cioccolato. Il toro scartò nervosamente, poi pian piano tornò ad annusare cauto le dita protese di Shadrach. "Mio dolce tesoro, padre di grandi tori" Shadrach fece scivolare l'indice nel-
l'anello bronzeo e pesante che l'animale aveva al naso, afferrando la testa del toro. Fece un altro passo avanti e si chinò a soffiare il proprio fiato nelle narici vibranti del bestione. Il toro rabbrividì, e Clay vide distintamente i muscoli tesi della sua groppa rilassarsi di colpo. Shadrach si raddrizzò e, sempre coll'indice nell'anello, si avviò seguito docilmente dal toro. Dall'assemblea si levarono un sospiro di sollievo e un accenno di brusio, che Shadrach fece immediatamente cessare con una sprezzante occhiata intorno. "Nkosi!" gridò a Clay. "Sbatti fuori dalla tua terra questo branco di scimmie chiacchierone dei mashona. Disturbano il mio tesoro" ordinò, e Clay sperò ardentemente che nessuno dei suoi ospiti altolocati comprendesse il sindebele. Clay si meravigliò ancora una volta del legame quasi mistico che esisteva tra i popoli nguni e il bestiame. Durava dalle età leggendarie, oscurate dalle nebbie del tempo, in cui le prime mandrie erano scese dall'Egitto coi pastori negri, una migrazione secolare che aveva inestricabilmente mescolato il destino dell'uomo negro e della bestia. Quella razza di bufali gibbuti era nata in India, il loro genere bos indicus era ben diverso dal bos taurus europeo: ma col passar del tempo era diventato africano quanto le tribù che lo allevavano condividendone la vita. Era strano, considerò Clay, che le tribù di pastori si fossero sempre dimostrate dominanti e guerriere: popoli come i masai, i bechuana e gli zulu avevano sempre prevalso sui popoli che coltivavano la terra. Forse la causa era la continua necessità di nuovi pascoli, l'esigenza di difenderli dagli altri e proteggere le mandrie dai predatori, sia uomini sia animali, che li aveva resi così bellicosi. Guardando Shadrach portar via il gran toro, non potevano sussistere dubbi su quell'arroganza signorile: bestia e padrone erano nobili, ora, nella loro alleanza. Non era tale invece il ministro dell'Educazione, ancora aggrappato come un gatto al ramo dello jacaranda. Clay andò ad aggiungere i propri servigi a quelli delle guardie del corpo, che lo stavano incoraggiando a riguadagnare il terreno. Peter Fungabera fu l'ultimo ad andarsene della compagnia ministeriale. Accompagnò Clay a fare un giro nelle stalle, assaporando il profumo dell'erba già accatastata nelle mangiatoie. "Mio nonno ha sostituito la tettoia di vimini con quella in lamiera corrugata durante la guerra" glispiegò Clay. "Per paura dei vostri razzi RPG-7." "Sì" ricordò subito Fungabera "abbiamo innescato parecchi bei falò con quei razzi." "A dirti la verità, sono molto contento di aver fatto ripristinare il tetto di vimini. Rende le stalle più fresche e anche più pittoresche. Tanto c'era da rifare tutto ugualmente..." "Debbo congratularmi per quanto sei riuscito a fare in così poco tempo. Ben presto vivrai in grande stile, come i tuoi antenati da quando si sono spartiti questa terra." Clay lo guardò con attenzione, per vedere se l'aveva detto con qualche malizia: ma il sorriso di Peter era simpatico e sereno come al solito. "Sai, questi miglioramenti aggiungono molto valore alla proprietà che in parte ti appartiene" osservò. "Certo" disse Peter appoggiandogli amichevolmente una mano sul braccio. "E hai ancora molto lavoro da fare. Quando comincerai a occuparti di Zambesi Waters?" "Sono quasi pronto: comincio quando saranno arrivate tutte le bestie e Sally-Anne potrà darmi una mano." "Ah" disse Peter. "Allora puoi partire anche subito, Sal-ly-Anne è arrivata ieri mattina all'aeroporto di Harare." Clay provò un'ondata di soddisfazione. "Stasera stessa vado in città a telefonarle." Peter Fungabera fece un gesto di stizza. "Ma come, non ti hanno ancora messo il telefono? Vedrò di fartelo installare domani.
Nel frattempo puoi servirti della mia radio." L'operaio dei telefoni arrivò il giorno successivo prima di pranzo, e un'ora dopo il Cessna di Sally-Anne si presentò ronzando sul cielo di King's linn. Clay le aveva segnalato la vecchia pista in disuso con fuochi di stracci imbevuti di morchia, approntando con un palo e un drappo anche una specie di manica a vento. Quando Sally-Anne saltò giù dalla cabina, Clay si accorse di aver dimenticato la grazia della sua andatura rapida e agile, e la forma delle sue gambe inguainate dal tessuto blu dei jeans. Il suo sorriso fu di vero piacere al rivederlo, e la sua stretta di mano salda e forte. Non portava reggiseno sotto la camicetta di cotone. Vide che gli occhi di lui si posavano giù, per rialzarsi poi con un po' di vergogna, ma non palesò alcun risentimento. "Che bel ranch, visto dal cielo" glidisse. "Lascia che te lo mostri" replicò lui caricando la sua valigia sulla Land Rover mentre Sally-Anne entrava scavalcando la portiera come un ragazzo. Era tardo pomeriggio quando fecero ritorno alla casa. "Kapa-lala ti ha preparato una stanza, e Joseph ha cucinato quanto di meglio sa fare. Finalmente abbiamo di nuovo il generatore: così c'è la luce e lo scaldabagno funziona, potrai farti un bel bagno con l'acqua calda, se vuoi. O preferisci che ti accompagni al motel in città?" "Risparmiamo benzina, va'" accettò lei con un sorriso.
Uscì sulla veranda con un asciugamano in testa a mo' di turbante, si sedette accanto a lui e mise i piedi sul parapetto. "Fantastico bagno." Odorava di sapone ed era ancora tutta rosa e piena di goccioline lucide d'acqua. "Come preferisci il whisky?" "Con un sacco di ghiaccio." Bevvero sospirando davanti al tramonto. Era uno di quei tramonti africani che arrossano tutto il cielo, di fronte ai quali ogni parola è una bestemmia e si può solo assistervi in religioso stupore. Quando venne scuro, Clay le porse una mazzetta di fogli scritti. "Che cos'è?" La ragazza era curiosa. "Pagamento parziale dei tuoi servigi come consulente e conferenziera in visita al villaggio di Zambesi Waters." Clay accese la luce nella veranda. Ella lesse lentamente ogni foglio due o tre volte, e alla fine restò con la mazzetta di fogli in grembo, protettivamente coperti dalle mani, con lo sguardo fisso nell'oscurità della notte. "Non è che un'idea da sviluppare, si tratta delle prime poche pagine. Per le foto che ho già visto; ma sono sicuro che ne hai molte altre. Avrei in mente un libro di duecentocinquanta pagine, con lo stesso numero di tue fotografie, tutte a colori ovviamente." Ella girò lentamente la testa verso di lui. "E tu avevi paura?" gli chiese. "Dannazione, Clay Mellow! Adesso sono io che ho la tremarella." Clay si accorse che Sally-Anne aveva le lacrime agli occhi. "E così.,," Cercò una parola per definire quanto aveva appena letto, non la trovò, rinunciò. "Se ci metto vicino le mie fotografie, sembreranno... non saprei... inadeguate, immagino, indegne dell'amore profondo che così eloquentemente esprimi per questa terra." Clay scosse la testa, negando. Sally-Anne abbassò nuovamente gli occhi sul manoscritto e lo rilesse ancora. "Sei sicuro, Clay, sei sicuro di voler fare questo libro assieme a me?" "Sì, sicurissimo." "Grazie" glidisse semplicemente. E in quel momento Clay senti con la massima certezza che sarebbero divenuti amanti. Non
ora, non quella notte, era ancora troppo presto: dopo quella conversaziOne, non parlarono molto; ma un giorno si sarebbero uniti. Avvertì che se ne era accorta anche lei. Le sue guance abbronzate ora parevano arrossire tutte le volte che lo guardava, ed evitavano di incrociare gli sguardi. Dopo cena Joseph servì il caffè nella veranda, e quando il servitore se ne andò Clay spense la luce e rimasero a guardare la luna che sorgeva sopra gli alberi di msasa che incoronavano le colline al di là della vallata. Quando alla fine Sally-Anne si alzò per andare a dormire, si mosse piano piano, cincischiando e perdendo tempo. Poi gli andò di fronte, con la testa che gli arrivava al mento, e ancora una volta gli disse piano: "Grazie" sollevò la testa all'indietro e in punta di piedi gli impartì un bacetto sulla guancia. Ma lui sapeva che non era ancora pronta, e non tentò di trattenerla.
Quando arrivò la seconda infornata di bestie, anche l'altro stallaggio era restaurato, e il soprastante bianco assunto da Clay si era già trasferito a King's linn con la famiglia. Era un uomo atticciato e di poche parole, un afrikaner che pure era sempre vissuto nel paese. Parlava sindebele come Clay, comprendeva e rispettava i negri e ne veniva ricambiato con altrettanto rispetto e simpatia. Ma soprattutto amava e conosceva il bestiame, da quel vero africano che era anche lui. Con Hans Groenevvald nel ranch, Clay poté concentrarsi sul progetto turistico riguardante Zambesi Waters. Scelse un giovane architetto che aveva progettato le sedi di alcuni fra i più lussuosi villaggi ecologici del Sudafrica e lo fece venire in aereo da Johannesburg. I tre (Sally-Anne, Clay e l'architetto) si accamparono per una settimana a Zambesi Waters, esplorando le due rive del Chizarira a palmo a palmo, scegliendo cinque luoghi adatti all'insediamento di villaggi per gli ospiti, e il luogo dove sarebbe sorto l'edificio centrale con tutti i servizi necessari. Per ordine di Peter Fungabera erano accompagnati da una scorta di soldati della Terza Brigata al comando del capitano Timon Nbebi. La prima impressione che Clay aveva avuto di questo ufficiale fu confermata dalla successiva conoscenza. Era un uomo serio e istruito, che passava tutto il tempo libero a studiare un corso per corrispondenza di politica economica dell'Università di Londra. Parlava inglese e sindebele oltre allo shona che era la sua lingua materna. Con Clay e Sally-Anne fecero lunghe conversazioni davanti al fuoco del campo, la sera, cercando di delineare soluzioni possibili alle inimicizie tribali che devastavano il paese. Le idee di Timon Nbebi erano sorprendentemente moderate per essere quelle di un ufficiale della più efficiente brigata dell'esercito shona, e pareva desiderare sinceramente un efficace compromesso tra le due tribù. "Signor Mellow" disse una volta "possiamo permetterci di vivere in un paese dilaniato dall'odio? Quando vedo gli effetti delle lotte in Irlanda del Nord e in Libano, temo proprio di no." "Ma tu sei uno shona, Timon" osservò gentilmente Clay." Senza dubbio la tua lealtà dimora presso la tua tribù." "Sì" ammise Timon. "Ma sono prima di tutto un patriota. Non posso pensare che la pace dei miei figli dipenda da un kalashnikov. Non posso diventare un fiero shona ammazzando tutti i matabele." Erano discussioni inconcludenti, ma giustificate dalla necessità di una scorta armata anche in questa zona remota e apparentemente pacifica. La presenza costante di uomini armati cominciò a dar sui nervi sia a Clay sia a Sally-Anne, e così una sera, verso la fine del loro soggiorno a Zambesi Waters, sfuggirono alle guardie. Ormai stavano davvero bene insieme, erano capaci di condividere un amichevole silenzio o di discorrere per un'ora intera. Avevano cominciato a toccarsi, contatti ancora brevi, apparentemente casua-
li, di cui però erano entrambi acutamente consapevoli. Poteva essere lei che magari, per sottolineare un argomento, gli copriva la mano con la propria, o lo sfiorava nel curvarsi sugli schizzi dell'architetto. E, benché fosse lei indubbiamente la più agile dei due, Clay le dava il braccio quando dovevano saltare una pozzanghera o le indicava un nido di picchio o un favo di api selvatiche su qualche pianta. Quel giorno, finalmente soli, scoprirono un formicaio d'argilla più alto degli ebani circostanti, presso un letamaio di rinoceronti. Era un ottimo posto d'osservazione, da cui fotografare eventualmente i bestioni. Mentre aspettavano una visita di quei grotteschi mostri preistorici, parlottavano a sussurri, con le teste vicinissime, ma stavolta senza toccarsi. All'improvviso Clay diede un'occhiata alla fitta boscaglia sottostante e si irrigidì. "Non muoverti" le disse in fretta. "Stai fermissima." Lentamente ella voltò la testa seguendo lo sguardo dell'uomo, e subito si udì il suo soffocato gemito di sorpresa. "Chi sono?" gli domandò, ma Clay non rispose. Se ne vedevano solo due. Soltanto gli occhi erano visibili. Erano arrivati silenziosi come leopardi, mimetizzati nella boscaglia con l'abilità di uomini che si nascondevano da sempre. "Allora, Kufela" parlò infine uno di loro. "Hai portato qua i mastini shona per farci prendere?" "Non è così, compagno Occhi-aperti" glirispose Clay con un lieve sussurro. "Me li ha assegnati come scorta il governo." "Non eravamo amici? Non ti serve la scorta quando vieni danoi." "Il governo non lo sa." Clay cercò di conferire al suo sussurro un tono persuasivo. "Nessuno sa che ci siamo visti. Nessuno sa che siete qui. Ve lo giuro sulla mia testa." "Attento a non perderla" gliricordò il compagno Occhi-aperti. "Dimmi perché sei qui, se non è per tradirci." "Ho comprato questa terra. L'altro bianco che è con noi è un costruttore di case. Vorrei fare una riserva zoologica per turisti, come quella di Wankie Park." Questo lo capivano, perché il famoso Wankie National Park era pure nel Matabeleland. Per qualche minuto i due guerriglieri parlottarono tra loro e poi tornarono a rivolgersi a Clay. "Che sarà di noi" chiese il compagno Occhi-aperti "quando avrai costruito queste tue case?" "Siamo amici" gliricordò Clay. "C'è posto anche per voi. Vi darò soldi e roba da mangiare, e in cambio voi mi proteggerete gli animali e gli edifici. In segreto veglierete sulla sicurezza dei visitatori che verranno, così che non si parli di sequestrati. E una proposta da amico o no?" "Quanto vale per te la nostra amicizia, Kufela?" "Cinquecento dollari al mese." "Facciamo mille" ribatté Occhi-aperti." "I buoni amici non discutono su questioni di puri e semplici soldi" dichiarò Clay. "Ogni mese ci incontreremo qui o laggiù." Occhi-aperti indicò i due luoghi, entrambi in cima a collinette ben distanti dalla riva del fiume, azzurrine in lontananza. "Il segnale dell'appuntamento sarà un fuocherello di foglie verdi, o tre colpi di fucile a intervalli regolari." "Intesi." "E adesso, Kufela, lascia i soldi su quel formicaio, e torna al campo con la tua donna." Sally-Anne gli restò vicinissima durante il ritorno al campo, prendendogli il braccio per rassicurarsi ogni pochi passi e guardandosi spesso dietro le spalle, spaventata. "Oh mio Dio, Clay, quelli erano veri shufta, guerriglieri fatti e finiti. Come mai ci hanno lasciati andare?" "Per le migliori ragioni del mondo, i soldi." La risatina di
Clay era un po' rauca e suonava falsa alle sue stesse orecchie, mentre l'adrenalina ancora gli rombava in circolo. "Per la miseria di mille dollari al mese mi sono assicurato i più efficienti gorilla e guardacaccia che ci siano sul mercato. Un affare d'oro." "Ti sei accordato con loro?" domandò Sally-Anne. "E non è pericoloso? Di sicuro è tradimento, o qualcosa del genere." "Evidentemente è un reato, ma basta assicurarsi che nessuno lo venga a sapere, non ti pare?"
Anche l'architetto si rivelò un ottimo affare. I suoi progetti erano fantastici: loggiati in pietra locale, tetti di vimini e legname pregiato. Gli edifici sarebbero sorti, rispettosissimi del paesaggio circostante, nei punti già individuati lungo le rive del fiume. Sally-Anne collaborò alla scelta dell'arredamento interno e introdusse qualche piccolo tocco geniale qua e là. Nei prossimi mesi, Sally-Anne doveva fare un gran lavoro per il vWWF , che l'avrebbe tenuta lontana per lunghi periodi: ma in quei viaggi poteva assumere il personale necessario alla gestione di Zambesi Waters. Per prima cosa sedusse uno chef svizzero di una grande catena di hotel. Poi cinque espertissime guide di safari, tutte nate in Africa, tutte piene d'amore per questa terra e la sua fauna unica e, quel che più conta, capaci di trasmettere questo amore agli altri grazie alla loro simpatia e comunicativa. Dopo di che Sally si occupò della grafica dei dépliant pubblicitari, con le sue foto e i testi di Clay. "Una specie di prova generale per il libro" glidisse quando gli telefonò da Johannesburg. Clay si rese conto dell'incalcolabile contributo che avrebbe dato SallyAnne all'iniziativa: era una perfezionista, ogni cosa o andava bene o non andava affatto, e per ottenerla a suo modo era capace di tutto, costringendo lui e i tipografi alle acrobazie più vertiginose. Il risultato fu un capolavoro in miniatura, in cui ogni colore era accuratamente coordinato all'altro e il testo coesisteva in perfetto equilibrio con le foto. Ne mandò copie a tutte le agenzie turistiche specializzate in viaggi in Africa, da Copenaghen a Tokyo. "Abbiamo ancora da stabilire il giorno dell'apertura" disse a Clay "e da assicurarci che i primi ospiti siano tali da far notizia sulla stampa. Temo che ci toccherà invitarli." "Non penserai mica a qualche pop star?" ghignò Clay, facendola rabbrividire. "Ho telefonato a mio papà all'ambasciata americana a Londra. Forse riesce a procurarci il principe Andrea: purtroppo non ne è sicuro. Poi, Henry Pickering conosce Jane Fonda..." "Mio Dio, non ti sospettavo tanto talento per la pubblicità..." "E già che stiamo parlando di celebrità, penso che si riuscirà a far venire anche uno scrittore di bestseller che ama ubriacarsi e fare brutti scherzi alla gente..." Quando Clay fu pronto a cominciare i lavori a Zambesi Waters, si rivolse a Peter Fungabera lamentando la difficoltà di reperire manodopera nella giungla. Peter replicò: "Non preoccuparti, me ne occuperò io" e un convoglio di camion arrivò ben presto con un carico di duecento condannati ai lavori forzati, provenienti da un campo di rieducazione. "Schiavista?" disse Sally-Anne a Clay con disappunto. Tuttavia la strada d'accesso al Chizarira fu completata in dieci giorni, e Clay poté telefonare a Sally-Anne ad Harare e darle la notizia. "Credo che possiamo tranquillamente fissare l'apertura il primo luglio." "Magnifico, Clay!" "Quando puoi tornare? E quasi un mese che non ti vedo." "Sono solo tre settimane" negò lei. "Ho scritto altre venti pagine del libro" l'adescò lui." Biso-
gna finirlo in fretta, sai." "Mandamele." "Vieni a prenderle." "Okay" cedette lei. "La settimana prossima, mercoledì. Dove sarai, a King's linn o a Zambesi Waters?" "A Zambesi Waters. L'elettricista e l'idraulico stanno finendo i lavori, devo rimanere qui per collaudare gli impianti." "Verrò in aereo."
Atterrò sullo spiazzo libero accanto al fiume dove i lavoratori di Clay avevano consolidato la pista con del ghiaietto in modo che fosse praticabile con ogni tempo. Aveva fatto installare perfino una vera manica a vento per il suo arrivo. Appena Sally-Anne saltò giù dalla cabina, Clay si accorse che era arrabbiatissima. "Cosa c'è?" "Hai perso due dei tuoi rinoceronti." Gli si avvicinò un po'. "Ho visto le carogne dall'aereo." "Dove?" le chiese Clay, di colpo altrettanto rabbioso. "Nella boscaglia fitta sotto la gola. Sono sicuramente i bracconieri. Le carcasse giacciono a pochi passi una dall'altra. Mi sono abbassata per guardarle meglio, non hanno più il corno." "Credi che siano Charlie e Lady Di?" le domandò. Dall'aria, Clay e Sally-Anne avevano contato i rinoceronti, e sul terreno della tenuta avevano individuato ventisette animali, tra cui quattro individui molto giovani e quattro coppie di animali adulti a cui avevano dato un nome. Charlie e Lady Di erano una coppia giovane, probabilmente appena costituitasi. A piedi, poi, erano riusciti ad avvicinarsi molto al loro territorio, nel folto della più fitta boscaglia. Entrambi gli animali avevano corni meravigliosi, quello del maschio molto più grosso e forte. Il primo corno, lungo quasi mezzo metro e del peso di circa dieci chili, valeva al mercato nero quasi diecimila dollari. La femmina, Lady Di, era più piccola, con un paio di corni dalla curva fine, sottili: l'ultima volta che l'avevano vista era in stato di avanzata gravidanza. "Sì, sono loro, ne sono sicura." "Il terreno è molto accidentato da questa parte della gola, non ce la facciamo ad arrivare prima di buio." "Non con la Land Rover, ma con l'aereo sì. Credo di aver visto un posto dove si può atterrare, lì vicino." Clay prese il fucile dietro il sedile dell'autista e controllò se era carico. "Bene, andiamo" disse. La preda dei bracconieri giaceva nell'angolo più lontano della tenuta, quasi sul ciglio del vallone che precipitava fino al livello, molto più in basso, del grande fiume Zambesi. Lo spiazzo visto da Sally-Anne per l'atterraggio era sul ciglio del canyon. Al primo passaggio dovette dare gas e rialzarsi, al secondo fece la barba alle chiome degli alberi e atterrò alla perfezione. Lasciarono l'apparecchio nella radura e cominciarono la discesa nella gola, Clay in testa, col fucile carico in mano e col colpo in canna. Potevano esserci ancora in giro i bracconieri. Nell'ultimo chilometro di strada li guidarono gli avvoltoi. Come grotteschi frutti neri si posavano sui rami degli alberi intorno alle carcasse e sul terreno, dove le dispute fra questi spazzini avevano lasciatò in giro qualche penna. Quando si avvicinarono alle bestie morte, una dozzina di iene si allontanarono in fretta con la loro caratteristica andatura sinuosa a spalle alte. Perfino le loro terribili fauci non erano riuscite a scuoiare i bestioni, anche se per affrettare la sparizione delle carcasse i bracconieri avevano provveduto ad aprire il ventre dei rinoceronti in modo che le iene e gli avvoltoi avessero buon gioco. Comunque già erano stati divorati occhi, orecchie e guance. Come aveva visto Sally-Anne dall'aria, i corni non c'erano più. Sull'osso
nasale esposto si vedeva che erano stati prelevati a colpi d'ascia. Guardando quello scempio per terra, Clay si sentì avvampare dalla rabbia e in bocca gli si seccò la saliva. "Se li trovo li ammazzo" disse. Vicino a lui Sally-Anne era mesta e pallida. "Che bastardi" mormorò. "Che maledetti bastardi." Andarono vicino alla carogna della femmina. Anche lei era stata sventrata, anche a lei avevano portato via i corni. Le iene le avevano tirato fuori il feto e se l'erano divorato. Sally-Anne si chinò sui suoi resti patetici. "Principino Billy" sussurrò. "Poverino!" "Non ci resta più niente da fare qui" disse Clay prendendola per il braccio e tirandola su. "Andiamocene." Tremava un po', quando la portò via.
Dalla cima della collina prescelta da Clay per l'incontro con il compagno Occhi-aperti, scrutarono all'intorno sulla terra brunastra solcata dalla verdeggiante vallata del fiume che si perdeva, serpeggiando, fino agli estremi limiti della visione. Clay aveva acceso il fuoco di foglie verdi che costituiva il segnale un po' dopo mezzogiorno, e da quel momento l'aveva regolarmente alimentato. Adesso il cielo stava diventando blu e porpora, e il silenzio e il fresco della sera stavano calando loro addosso, talché Sally-Anne rabbrividì. "Hai freddo?" le domandò Clay. "E sono triste." Sally-Anne si contrasse pur sénza ritrarsi quando Clay le mise il braccio attorno alle spalle. E poi a poco a poco si rilassò e si strinse a lui per riscaldarsi. La tenebra cancellò l'orizzonte e di soppiatto li avvolse. "Ti vedo, Kufela." La voce era così vicina da farli sobbalzare entrambi. Sally-Anne si staccò di soprassalto dalla stretta di Clay, come vergognosa. "Mi hai convocato" disse il compagno Occhi-aperti dal buio oltre il misero barlume del fuoco. "Dov'eri quando hanno ammazzato due dei miei beSane per rubargli i corni?" lo accusò rudemente Clay. "Dov'erano gli uomini che avevano promesso di sorvegliare la mia terra. Nel buio ci fu un lungo silenzio. "Dov'è successa questa cosa?" Clay glielo disse. "E lontano da qui e dal mio campo. Non ce ne siamo accor-ti." Parlava in tono di scusa, era evidente che il compagno Occhiaperti si sentiva in torto. "Ma scoveremo i responsabili, li seguiremo e li troveremo." "Quando li trovate, fatevi dire chi compra i corni di rinoceronte, è molto importante" ordinò Clay. "Ti saprò dire il nome di questa persona" promise il compagno Occhi-aperti. "Guarda ogni giorno questa collina: quando lo sapremo, ti faremo il segnale." Dodici giorni dopo, al binocolo, Clay scorse il fil di fumo che si alzava dalla lontana cima a dorso di balena. Si recò da solo all'appuntamento, perché Sally-Anne se n'era andata tre giorni prima. Avrebbe desiderato tanto rimanere, ma stava per arrivare ad Harare uno dei dirigenti del WWF e doveva essere là ad accoglierlo. "Immagino che la mia conferma per l'anno prossimo dipenda da questo" aveva spiegato in fretta a Clay mentre saliva sul Cessna "ma tu telefonami non appena sai qualcosa dai tuoi briganti addomesticati." Clay salì impaziente sulla collina, e quando fu in cima si accorse che non aveva nemmeno il fiato grosso. La gamba non gli dava nessun fastidio, si era rinforzata e abituata al moto. In quegli ultimi mesi era davvero ritornato in forma, era muscoloso e scattante, e quando arrivò vicino ai resti fumanti del fuoco di segnalazione aveva ancora dentro tutta la sua rabbia.
Passarono venti minuti prima che il compagno Occhi-aperti sbucasse dalla foresta, piegato in due e col mitra in mano. "Non sei stato seguito?" Clay scosse la testa rassicurandolo. "Dobbiamo sempre stare molto in guardia, Kufela." "Avete trovato i bracconieri?" "Hai portato i soldi?" "Sì." Clay tirò fuori dalla tasca interna della giacca il grosso malloppo. "Hai trovato gli uomini?" "Sigarette" lo sfotté il compagno Occhi-aperti. "Mi hai portato le sigarette?" Clay gliene gettò un pacchetto e il compagno Occhi-aperti ne accese una, aspirando con voluttà. "Hau!" disse. "Che buona!" "Dimmi" insisté Clay. "Erano in tre. Abbiamo seguito le loro tracce dalle carcasse, anche se erano vecchie ormai di quasi dieci giorni e loro avevano cercato di confonderle." Il compagno Occhi-aperti fece un lungo tiro dalla sigaretta, finché la punta accesa non sprigionò in giro faville. "Il loro villaggio è a mezza costa, sulla riva del fiume, a tre giorni di marcia da qui. Sono gorilla batonka." I batonka sono una delle tribù primitive di cacciatori e raccoglitori che abitano nella valle dello Zambesi. "Avevano ancora i corni. Li abbiamo portati via, nella giungla, e abbiamo fatto una lunga chiacchierata con loro." Clay si sentì accapponare la pelle al pensiero di quella lunga chiacchierata. Sentì svanire la rabbia e nascere al suo posto un certo senso di colpa: avrebbe dovuto dissuadere il compagno Oc-chi-aperti dal ricorso ai suoi soliti metodi. "E che cosa ti hanno detto?" "Mi hanno detto che c'è un tale, un uomo di città che gira in macchina e si veste come un bianco, che compra corni di rinoceronte, zanne d'elefante e pelli di leopardo, pagandole più soldi di quanti ne abbiano mai visti in vita loro." "Dove e quando lo incontrano?" "Viene ogni luna piena, in macchina, per la strada che dalla missione di Tuti porta al fiume Shangani. Lo aspettano lungo la strada, di notte." Clay si accucciò accanto al fuoco e rifletté per qualche minuto, poi rialzò lo sguardo sul compagno Occhi-aperti. "Dirai a questi uomini che aspetteremo quel tipo con loro, nascosti accanto alla strada, quando verrà la prossima luna piena..." "Impossibile" l'interruppe il compagno Occhi-aperti. "Perché?" domandò Clay. "Quei tre sono morti." Clay lo guardò, amaramente contrariato. "Tutti e tre?" "Tutti e tre" confermò il compagno Occhi-aperti. Il suo sguardo era spietato e indifferente. "Ma.,," Clay non riuscì a costringersi a far la domanda. Era stato lui a sguinzagliare i guerriglieri sulle tracce dei bracconieri. Anche se non gli aveva detto di ammazzarli, non c'era dubbio che era responsabile. Si vergognò e si pentì di averlo fatto. "Non preoccuparti, Kufela" lo consolò gentilmente il compagno Occhi-aperti. "Ti abbiamo riportato i corni dei tuoi beSane, e quanto a quei tre non erano che sporchi scimmioni batonka, no?" Con il sacco dei corni di rinoceronte in spalla, Clay discese fino alla Land Rover. Stava male, era stanco e la gamba gli doleva, e più che la corda del sacco sulla schiena lo sferzava la coscienza.
I corni di rinoceronte erano disposti ordinatamente in fila sulla scrivania di Peter Fungabera. Erano quattro. Quelli anteriori, più lunghi, e i posteriori più piccoli. "Afrodisiaci" mormorò Peter Fungabera toccandone uno con la punta
delle dita. "Tutte balle" disse Clay. "L'analisi chimica ha dimostrato che non contengono alcuna sostanza in grado di produrre effetti afrodisiaci." "Non sono che una concrezione di peli" spiegò Sally-Anne. "L'effetto che i vecchi libertini cinesi gli attribuiscono, una volta triturato in polvere e inghiottito con l'acqua di rose, non è che un'illusione omeopatica: il corno è lungo e duro, ecco tutto! "Restano comunque i petrolieri degli emirati arabi che sono pronti a pagare, per un'impugnatura di corno di rinoceronte, anche più di quanto il decrepito e astuto cinese sborserebbe per il proprio "pugnale" intimo" osservò Clay. "Qualunque sia il mercato finale, il fatto è che a Zambesi Waters ora ci sono due rinoceronti in meno di quanti ce n'erano un mese fa. E il mese prossimo quanti ne rimarranno?" Peter Fungabera si alzò e, a piedi nudi, fece il giro della scrivania. Il perizoma che indossava era lindo e perfettamente stirato. Li guardò, serio. "Ho fatto anch'io delle indagini" disse con calma "e sembra che nel complesso confermino le intuizioni di Sally-Anne. Pare certo che si tratti di una banda organizzatissima che esercita il bracconaggio in tutte le regioni del paese, inducendo le tribù primitive delle zone ricche di fauna a uccidere gli animali più preziosi. Zanne d'avorio, pelli di leopardo e corni di rinoceronte vengono raccolti da mediatori, parecchi dei quali sono giovani funzionari statali. Il bottino viene nascosto in depositi sicuri e quasi inaccessibili, finché il valore non è abbastanza alto da giustificare l'esportazione di un solo grosso carico fuori del paese." Peter Fungabera cominciò a passeggiare avanti e indietro nella stanza. "Di solito usano il normale volo di linea per Dar-es-Salam sulla costa della Tanzania. Qui non sappiamo cosa succede, probabilmente il bottino viene caricato su qualche nave sovietica o cinese." "I sovietici non hanno il minimo scrupolo circa la conservazione della fauna" intervenne Sally-Anne. "La caccia alle balene e agli animali da pelliccia gli frutta un sacco di valuta pregiata." "La compagnia aerea Air Zimbabwe da che ministero dipende?" domandò all'improvviso Clay. "Dal ministero del Turismo, diretto dall'onorevole Tungata Zebiwe" rispose tranquillo Peter, e rimasero zitti un po' prima che il generale continuasse: "Quando è prevista una consegna, il bottino viene trasportato ad Harare, tutto insieme, nel giro di un giorno o di una notte. Non viene nemmeno messo in magazzino, ma caricato direttamente sull'aereo sotto stretta vigilanza, quindi l'aereo parte subito." "E con quale frequenza accade tutto ciò?" domandò Clay, e Peter Fungabera diede un'occhiata al suo aiutante di campo che se ne stava appartato in un angolo della stanza. "La frequenza è variabile" disse il capitano Timon Nbebi. "Nella stagione delle piogge l'erba è alta e le condizioni della boscaglia sono sfavorevoli. Dunque si caccia poco; in compenso i bracconieri si scatenano nella stagione secca. Tuttavia il nostro informatore ci ha detto che tra poco ci sarà una consegna, che avrà luogo entro due settimane al massimo..." "Grazie, capitano" l'interruppe Peter Fungabera con un certo cipiglio. Evidentemente voleva dare lui stesso questa informazione. "Abbiamo saputo che spesso anche il capo dell'organizzazione prende attivamente parte alle operazioni. Per esempio nel caso del massacro di elefanti nel vecchio campo minato" Peter guardò SallyAnne "quello che tu hai fotografato in maniera tanto impressionante... bene, in tal caso abbiamo saputo che un ministro del governo, ancora non si sa con certezza chi fosse, si è recato sul posto con un elicottero dell'esercito. Sappiamo inoltre che in altre due occasioni un alto funzionario del governo, probabilmente di rango ministeriale, ha assistito al carico dell'aereo per Dar-es-Salam."
"Probabilmente teme che i suoi stessi complici lo freghino" mormorò Clay. "Dato il branco di tagliagole che lavorano per lui, chi potrebbe biasimarlo?" La voce di Sally-Anne era rauca per l'indignazione. Peter Fungabera proseguì, calmissimo: "Pensiamo che saremo avvertiti prima della prossima consegna. Come vi ho detto, abbiamo un infiltrato nella loro organizzazione. Sorveglieremo i movimenti della persona che sospettiamo man mano che la data si avvicina e, con un po' di fortuna, la coglieremo con le mani nel sacco. Se no sequestreremo il carico all'aeroporto e arresteremo tutti i presenti. Sono sicuro che riusciremo a indurre qualcuno a testimoniare contro i suoi complici." Guardando il suo viso, Clay ravvisò la stessa espressione fredda, indifferente e spietata che aveva visto al compagno Occhi-aperti quando gli aveva detto della sorte dei tre bracconieri. Non fu che un lampo dietro i suoi modi urbani, dopo di che Peter Fungabera tornò a sedersi alla scrivania. "Per le ragioni che vi ho già detto mi servono testimoni neutrali e degni di fede nel caso che ci capiti di arrestare il pezzo grosso. Voglio quindi che siate entrambi presenti là, per cui è meglio che vi teniate pronti a muovervi con pochissimo preavviso. Vi prego dunque d'informare il capitano Timon Nbebi di tutti i vostri spostamenti nel corso delle prossime due o tre settimane." Nell'alzarsi Clay domandò all'improvviso qual era il massimo della pena prevista per il bracconaggio. Peter Fungabera consultò un foglio che teneva sulla scrivania. "Con la legge attuale, il massimo è diciotto mesi di lavori forzati per ogni reato..." "Non è abbastanza!" esclamò Clay ricordando le carcasse violate e marcescenti dei suoi animali. "No" concordò Peter. "Non è abbastanza. Così due giorni fa ho presentato alla Camera un emendamento per inasprire le pene. Ha il pieno appoggio del partito, anche se l'ho presentato come indipendente, e vi assicuro che giovedì al massimo diventerà legge." "E quali saranno le nuove pene?" domandò Sally-Anne. "Quando il semplice bracconaggio è aggravato dal commercio dei trofei di animali protetti, cioè in caso di acquisto, rivendita ed esportazione dell'avorio eccetera, il massimo della pena sarà di dodici anni di lavori forzati e fino a centomila dollari di multa." Ci pensarono un momento, poi Clay annuì. "Dodici anni... sì, direi che basta."
La convocazione di Peter Fungabera giunse una mattina presto, quando Clay e Hans Groenevvald, il suo soprastante, erano appena tornati dall'ispezione mattutina dei pascoli. Clay era a metà di una delle pantagrueliche colazioni di Joseph quando squillò il telefono, e andò a rispondere con una salsiccia in bocca. "Signor Mellow, parla il capitano Nbebi. Il generale vorrebbe vederla subito a casa sua a Macillwane perché pensiamo che il nostro uomo agirà stanotte. Quanto tempo ci metterà a venire?" "Ci sono sei ore di macchina da qui a Macillwane." "La signorina Jay può venire a prenderla in aereo tra due ore, se non ha altri impegni." Cosi fu. Scesero all'aeroporto di Harare e Sally-Anne lo accompagnò in macchina alla villa tra le colline di Macillwane. Varcato il cancello, si accorsero subito dell'insolito fervore di attività: sul prato davanti alla villa c'era un elicottero Super Frelon. Il pilota e il meccanico, appoggiati alla fusoliera, fumavano scherzando fra di loro. Quando Sally-Anne e Clay si presentarono sul vialetto, alzarono speranzosamente gli occhi, per distoglierli subito non trattandosi a loro giudizio di persone importanti. Allineati dietro alla casa c'erano quattro camion dell'esercito, color sabbia, at-
torno ai quali si affollavano in tuta mimetica da combattimento gli armati della Terza Brigata. Clay avvertiva la loro eccitazione di cani sguinzagliati alla caccia. L'ufficio di Peter Fungabera era diventato un quartier generale. Due tavolini da campo erano stati piazzati sotto la grande carta geografica. Al primo sedevano tre giovani ufficiali, al secondo un operatore radiofonico e Timon Nbebi che parlava nel microfono in shona, troppo rapidamente perché Clay potesse capire quel che diceva. Il capitano si interruppe per impartire un ordine al sergente negro in piedi accanto alla carta geografica, che subito vi spostò una bandierina. Peter Fungabera, che stava parlando al telefono, li salutò con un gesto invitandoli ad accomodarsi sugli sgabelli senza smettere di parlare. Quando riappese, spiegò in fretta: "Conosciamo l'ubicazione di tre dei depositi. Il primo è in uno shamba sulle montagne Chimanimani, contiene più che altro pelli di leopardo e qualche zanna d'avorio. Il secondo è nel retrobottega di uno spaccio presso Chiredzi, nel sud: qui c'è quasi tutto avorio. Il terzo raccoglie roba proveniente dal nord e pensiamo si trovi nella missione di Tuti. Questo è il deposito più grande e pregiato, zanne d'elefante e corni di rinoceronte." S'interruppe per guardare il biglietto che il capitano Nbebi gli porgeva. Lo lesse in fretta e disse: "Bene, sposti due plotoni a nord fino a Karoi." Poi si rivolse nuovamente a Clay. "Il nome in codice dell'operazione è Bada, che significa leopardo in shona. Il pezzo grosso che sospettiamo, per tutto il corso dell'operazione, si chiamerà così." Clay annuì. "Abbiamo appena saputo che Bada ha lasciato Harare. E a bordo della sua Mercedes ufficiale, con l'autista e due guardie del corpo. Tutti matabele, naturalmente." "Che strada ha preso?" chiese Sally-Anne. "Sembra diretto a nord, ma è ancora troppo presto per dirlo." "Andrà senz'altro al deposito più grosso.,," Negli occhi di Sally-Anne brillava una luce battagliera, e anche Clay si sentì accapponare la pelle della nuca per l'eccitazione. "Crediamo di sì" annuì Peter. "E questo, in tal caso, è il nostro piano. Bada va a nord: i carichi di Chimanimani e Chiredzi raggiungono indisturbati l'aeroporto, dove li sequestriamo arrestando tutti i presenti e convincendone il più possibile a "pentirsi" e testimoniare per noi. Naturalmente i camion dei carichi saranno sorvegliati discretamente da lontano per tutto il tragitto. I responsabili dei due magazzini saranno arrestati appena il camion sarà fuori vista." Sally-Anne e Clay ascoltavano con la massima attenzione, mentre Peter proseguiva la spiegazione del piano. "Se Bada si dirigerà a est o a sud, trasferiremo il fulcro dell'operazione dove si recherà lui. Tuttavia, siccome sappiamo già che il carico più prezioso è a nord, siamo quasi sicuri che è lì che andrà, se poi ci andrà, naturalmente. Comunque, per ora sembra che abbiate avuto ragione. Appena ne avremo la certezza, ci muoveremo." "Come pensi di catturarlo?" gli chiese Sally-Anne. "Bisognerà agire in base a considerazioni di opportunità. Tuttavia la cosa principale è stabilire una connessione fisica tra lui e il bottino: sorvegliare sia il camion dell'avorio sia la sua Mercedes e, appena si incontrano, colpire." Sottolineò l'ultima parola con un improvviso colpo di frustino sul palmo della mano aperta, che risuonò come una pistolettata. Clay scoprì di essere già talmente teso da sobbalzare. Fece uno sciocco sorriso di scusa a Sally-Anne. La radio gracchiò, fischiò, e poi una voce disincarnata parlò in shona. Il capitano Nbebi rispose brevemente e guardò Peter. "E confermato, signore. Bada si sposta velocemente verso nord sulla strada per Karoi." "Bene, capitano, allora possiamo passare alla terza fase" ordinò Peter, infilandosi il cinturone con la pistola. "Notizie dalla squadra di sorveglianza della strada di Tuti?"
Il capitano Nbebi chiamò tre volte nel microfono e ottenne quasi immediatamente risposta. Una risposta breve. "Ancora niente, signor generale" disse a Peter. "E presto." Peter si aggiustò il basco rosso di sbieco sulla testa: il leopardo d'argento gli scintillò sopra l'occhio destro. "Su, andiamo in prima linea adesso." Fece strada agli ospiti per la porta che dava sulla veranda. L'equipaggio dell'elicottero lo vide, spense in fretta le sigarette e risalì sul velivolo. Peter Fungabera entrò nella fusoliera e immediatamente il motore si avviò. I rotori, sopra, cominciarono a girare. Mentre sedevano e si allacciavano le cinture di sicurezza, Clay fece impulsivamente la domanda che lo tormentava da un bel po': ma la fece a mezza voce, in modo da non essere udito dagli altri nel rombo crescente del motore: "Peter, questa è un'operazione militare su larga scala: come mai non hai affidato l'arresto alla polizia?" "Da quando hanno licenziato i funzionari bianchi, la polizia è diventata un'accolita di pasticcioni... senza contare che" e qui Peter fece un ghigno "dopotutto quei rinoceronti appartenevano anche a me!" L'elicottero si alzò con rapidità nauseante e puntò il muso a nord. Stando basso, e seguendo gli avvallamenti del terreno, si allontanò dalla villa di Fungabera mentre il rombo dell'aria che entrava dai portelli spalancati rendeva impossibile qualunque conversazione. Si tennero ben a ovest della strada principale diretta a nord, in maniera da non rischiare di essere avvistati dagli occupanti della Mercedes. Un'ora dopo, mentre l'elicottero si abbassava discendendo sulla pista del piccolo fortino militare di Karoi, Clay guardò l'orologio. Erano le quattro passate. Peter Fungabera vide il gesto e annuì. "Sembra proprio che il contatto avverrà di notte" disse. Il villaggio di Karoi era stato un tempo il centro di riunione dei proprietari terrieri bianchi della zona, ma adesso non era rimasto molto: una via di botteghe, una stazione di servizio, un ufficio postale e un piccolo posto di polizia. Il forte era a qualche distanza dal paese, ancora pesantemente fortificato dal tempo della guerriglia, circondato da sacchetti di sabbia e filo spinato. Il comandante locale, un giovane sottotenente negro, era chiaramente sconvolto dall'importanza del visitatore e non faceva che salutare platealmente ogni volta che Fungabera parlava. "Porta via quest'idiota. Non voglio più vederlo" ringhiò Peter al capitano Nbebi, prendendo il comando del forte. "E dammi l'ultimo rapporto sui movimenti di Bada." "E passato da Sinoia ventitré minuti fa" disse il capitano Nbebi consultando subito il blocco di appunti del radiotelegrafista." "Bene. C'è una descrizione accurata del veicolo?" "Una Mercedes blu-scuro tipo 280 SE, col gagliardetto ministeriale, targa PL 674. Non ci sono motociclisti né altri veicoli di scorta. Quattro passeggeri." "Assicurati che tutte le unità abbiano questa descrizione, e ripeti ancora una volta che non voglio sparatorie. Bada deve essere catturato illeso. Se gli facciamo del male, rischiamo di trovarci tra i piedi un'altra ribellione dei matabele. Nessuno deve sparare nemmeno per salvarsi la vita. Mettilo bene in chiaro, ogni uomo che disobbedirà dovrà vedersela con me personalmente." Nbebi chiamò a una a una tutte le squadre, ripeté gli ordini di Peter e aspettò conferma. Poi si misero ad attendere davanti alla radio, bevendo tè da tazze dallo smalto sbreccato. All'improvviso la radio si mise a gracchiare e Timon Nbebi corse alle manopole. "Abbiamo localizzato il camion" tradusse in tono di trionfo. "E un Ford da cinque tonnellate, dalla copertura di tela; c'è l'autista con un passeggero in cabina. E molto carico, bassissimo sulle sospensioni, in salita deve mettere la prima ridotta.
Ha attraversato il ponticello sul fiume Sanyati dieci minuti fa, proveniente dalla missione di Tuti e apparentemente diretto all'incrocio con la strada nazionale cinquanta chilometri a nord di qui." "Così Bada e il camion seguono rotte che si intersecano" disse piano Peter Fungabera, e nei suoi occhi balenò il lampo del cacciatore.
Adesso il centro della loro attenzione era la radio, ogni volta che gracchiava si precipitavano a guardarla. I rapporti arrivavano regolarmente, seguendo il procedere della Mercedes diretta verso il luogo dov'erano loro e quello del camion che scendeva da nord lungo la strada secondaria per confluire poi sulla nazionale dalla direzione opposta. Fra un rapporto e l'altro sedevano in silenzio, sorseggiando il tè forte e ultradolce e sgranocchiando sandwich di pane nero e manzo in scatola. Peter Fungabera mangiava poco. Aveva spinto indietro la sedia, appoggiando i piedi sul tavolo del comandante del forte. Sbatteva ritmicamente il frustino contro gli stivaletti da giungla dalla suola di gomma, ciò che cominciava a irritare Clay. All'improvviso Clay si scoprì freneticamente desideroso di una sigaretta, come non gli capitava da mesi, così si alzò e prese a camminare avanti e indietro per l'ufficio, senza sosta. Timon Nbebi andò a ricevere un altro rapporto e, nel riappendere il microfono, tradusse dallo shona: "La Mercedes è arrivata al villaggio. Si è fermata al distributore a far benzina." Così Tungata Zebiwe era a poche centinaia di metri di distanza da lì. Clay ne fu sconcertato. Fino adesso, la caccia era stata più mentale che reale, niente affatto una questione di vita o di morte: aveva perfino smesso di pensare a Tungata come a un uomo, era Bada, la preda che bisognava sconfiggere con astuzia e intrappolare senza remissione. Adesso a un tratto ricordò che era un uomo, un amico, un essere umano straordinario, e ancora una volta si combatterono in lui la lealtà residua per l'amico e il desiderio di vedere un criminale assicurato alla giustizia. Di colpo si sentì claustrofobicamente rinchiuso in quell'ufficio, e uscì nel cortiletto circondato dai sacchetti di sabbia. Il sole era calato e il breve tramonto africano arrossava il cielo. Si mise a guardarlo. Udì un passo leggero al suo fianco e abbassò gli occhi. "Non essere così triste" lo pregò Sally-Anne. Era commossa dalla sua sofferenza. "Non sei mica obbligato ad andare anche tu" proseguì. "Puoi anche restare qui se vuoi." Clay scosse la testa. "Voglio essere sicuro, voglio vedere coi miei occhi" le disse. "Ma non per questo la faccenda mi piace di più." "Lo so" disse lei. "E ti rispetto per questo." La guardò in viso, viso rivolto in su, e capì che voleva essere baciata. Il momento che aspettava da tanto tempo e con tanta pazienza era dunque venuto. Era pronta per lui, finalmente, il suo desiderio era altrettanto grande di quello di Sally-Anne. Gentilmente le sfiorò la guancia con le dita, ed ella sbatté le ciglia. Si avvicinò a lui, e Clay si accorse che l'amava. Questa consapevolezza per un attimo lo lasciò senza fiato. Provò uno sbigottimento quasi religioso. "Sally-Anne" sussurrò, e in quella la porta dell'ufficio si spalancò e Peter Fungabera fece irruzione in cortile. "Andiamo via" berciò, e i due si separarono. Clay vide Sal-ly-Anne riscuotersi come chi si desti dal sonno e rimetta a fuoco lo sguardo. A fianco a fianco seguirono Peter e Timon alla Land Rover che li aspettava al cancello del forte. La sera era fredda dopo la calura del dì, e il vento li intirizziva perché la Land Rover militare aveva il parabrezza abbassato. Guidava Timon Nbebi, con Peter Fungabera sul sedile accanto.
Clay, Sally-Anne e il radiotelegrafista erano pigiati dietro. Timon andava piano, con solo le luci di posizione accese, e due camion di soldati della Terza Brigata li seguivano molto dappresso. La Mercedes era meno di un chilometro avanti. Ogni tanto intravedevano le sue luci in qualche tornante o saliscendi della strada. Peter Fungabera diede un'occhiata al contachilometri. "Abbiamo già fatto trentotto chilometri, la deviazione per Tuti e Sanyati è a meno di quattro chilometri." Diede un colpetto sulla spalla di Timon con il frustino. "Ferma. Chiama la squadra all'incrocio." Clay si colse a rabbrividire, sia per l'eccitazione sia per il freddo. Col motore ancora acceso Timon chiamò la squadra appostata nei pressi dell'incrocio. "Ah! Ci siamo!" Timon non riusciva a nascondere la soddisfazione. "Bada ha lasciato la strada nazionale, signor generale. Il camion si è fermato lungo la strada secondaria, a quattro chilometri dall'incrocio. Dev'essere il luogo prestabilito per l'appuntamento." "Riparti, su" disse Peter Fungabera. "Seguili!" Adesso Timon Nbebi si mise ad andar forte, seguendo il ciglio della strada con le lucine di posizione. "Ecco la stradina!" sbottò Peter quando vide il tratturo sterrato immettersi sulla nazionale, nell'oscurità quasi completa. Timon rallentò e imboccò la deviazione. Un sergente della Terza Brigata saltò fuori dal bosco circostante e salì sul predellino, cercando di salutare in qualche modo con la mano libera. "Sono passati un minuto fa, signor generale" disse con foga. "Il camion è poco più avanti. Gli abbiamo piazzato un blocco stradale alle spalle, e appena siete passati ne piazzeremo uno anche qui. Sono imbottigliati." "Proceda, sergente" l'incoraggiò Peter, e si rivolse a Timon Nbebi. "Da qua al ponte è tutta discesa. Di'ai camion di spegnere il motore, gli piomberemo addosso in silenzio." E, dopo il rombo dei grandi motori, il silenzio apparve magico, rotto solo dal cigolio delle sospensioni della Land Rover, dal rullare dei copertoni sul ghiaietto, e dal vento che fischiava sulle orecchie. Le curve della strada sterrata balzavano fuori dalla notte con snervante velocità, e Timon Nbebi lottava con lo sterzo nello scendere il primo dislivello dell'altopiano. I due camion erano guidati dalle loro luci di posizione e dagli stop: costituivano forme mostruose, nere, incombenti dalla tenebra retrostante. A ogni curva i passeggeri della Land Rover erano sbattuti l'uno contro l'altro, e Sally-Anne porse la mano a Clay e gli si aggrappò per tutta la discesa. "Eccoli là!" sbottò a un tratto Peter Fungabera, con la voce indurita dall'eccitazione. Sotto di loro scorsero i fari della Mercedes filtrare tra gli alberi. Stavano avvicinandosi in fretta. Per qualche secondo un tornante li nascose, ma poi riecco i fari, due lunghi fasci di luce che radevano la pallida superficie sabbiosa del tratturo. Ed ecco che a quei fari ne risposero altri due dalla direzione opposta, abbaglianti: balenarono tre volte, chiaramente un segno di riconoscimento, e subito la Mercedes rallentò. "Li abbiamo in pugno" esultò Peter Fungabera, e spense anche le luci di posizione. Sotto di loro, un camion telato aveva lasciato il ciglio della strada dove stava aspettando nel buio e si era portato in mezzo alla pista. Coi fari aveva illuminato la Mercedes, che si era fermata. Due uomini erano usciti dalla Mercedes e si erano avvicinati alla cabina del camion. Uno di loro aveva in mano un kalashnikov. Si misero a parlare con l'autista dal finestrino aperto. Silenziosamente, nell'oscurità più completa, la Land Rover seguita dai due camion di soldati si tuffava verso il piatto fondovalle dove già si trovavano le prede. Sally-Anne si aggrappava a Clay
con tutta la sua forza. Nella strada di sotto, uno dei due uomini si mise a girare intorno al camion fermo, poi alzò gli occhi e guardò l'ultimo tratto di discesa, dove la Land Rover stava arrivando veloce a fari e motore spenti. Ormai era così vicina che doveva per forza sentire almeno il rombo delle gomme. Peter Fungabera accese i fari della Land Rover. Sfavillarono, abbaglianti, e nello stesso momento il generale impugnò il megafono elettronico e lo portò alla bocca. "Fermi tutti!" tuonò nella notte la sua magnifica voce. Dalle colline vicine l'intimazione riecheggiò più volte. "Non cercate di scappare!" I due uomini girarono su se stessi e si tuffarono verso la Mercedes. Timon Nbebi accese il motore della Land Rover e accelerò rombando verso i due veicoli. "Fermi dove siete! Buttate le armi!" I due uomini esitarono, poi quello col mitra lo gettò a terra ed entrambi alzarono le mani sopra la testa. Timon Nbebi fermò la Land Rover davanti alla Mercedes bloccandola. Poi saltò giù e andò a puntare il mitra in faccia agli occupanti, dal finestrino. "Fuori! Fuori tutti!" Dietro di lui si fermavano intanto i due camion di soldati, con gran stridor di freni e nuvole di polvere che si alzavano dalle ruote posteriori doppie. Ne saltarono giù frotte di soldati armati che in un batter d'occhio buttarono per terra in mezzo alla strada le due guardie del corpo. Circondarono la Mercedes, aprirono le portiere e tirarono giù gli occupanti dal sedile posteriore. La figura alta e dalle spalle ampie era inconfondibile. I fari illuminarono i suoi lineamenti squadrati e duri, esaltando la forza dei suoi muscoli e della mascella prominente. Tungata Zebiwe si liberò con uno strattone dalla presa dei suoi catturatori e si guardò intorno furibondo, costringendoli ad arretrare involontariamente di un passo. "Indietro, sciacalli abbaianti! Come osate toccarmi!" Era in pantaloni scuri e camicia bianca. La testa dai capelli tagliati cortissimi era tonda e nera come una palla di cannone. "Sapete chi sono?" domandò. "I vostri venticinque padri non vi hanno insegnato l'educazione?" La sua sicurezza arrogante li fece arretrare di un altro passo e guardare verso la Land Rover. Peter Fungabera scese dalla macchina ed entrò nel raggio di luce dei fari. Tungata Zebiwe lo riconobbe all'istante. "Tu!" ruggì. "Ma certo! Il capo dei macellai!" "Aprite il camion" ordinò Peter Fungabera, senza distogliere gli occhi dall'altro uomo. Si fissarono con un odio così terribile da far scomparire ogni altro vicino a loro. Era una lotta di elementi che sembrava incarnare tutta la ferocia del continente, due uomini potenti spogliati di ogni vestigio di civili inibizioni, in preda a un antagonismo così forte da risultare quasi insopportabile a loro per primi. Clay era saltato giù dalla Land Rover e si era fatto avanti, ma ora restò bloccato accanto alla Mercedes, guardando attonito. Non si era aspettato nemmeno lontanamente una scena simile. Quell'odio quasi tangibile non era nato adesso, questo era chiaro: sembrava che quei due fossero sul punto di gettarsi l'uno contro l'altro per cercare di strangolarsi a mani nude. Era un sentimento dalle radici profonde, una furia reciproca basata su fondamenta monumentali di antica ostilità. Dal retro del camion catturato i soldati scaricarono casse e balle. Una delle casse si ruppe toccando terra e ne uscirono zanne d'avorio brillanti come ambra alla luce dei fari. Un soldato aprì una balla e sciorinò le preziose pellicce di lince e leopardo che conteneva.
"Ecco qua! esultò Peter Fungabera con un ghigno tremendo. "Legate quel cane matabele!" "Di qualunque cosa si tratti, ti ricadrà in testa" ruggì Tungata "figlio di una prostituta shona!" "Prendetelo!" ripeté Peter ai suoi uomini, ma quelli esitarono, ancora trattenuti dall'invisibile aura di potere che emanava da quell'alta figura imperiale. Nel frattempo Sally-Anne saltò giù dalla Land Rover e si avviò verso il tesoro di avorio e pellicce che giaceva in mezzo alla strada. Per un istante nascose Tungata Zebiwe ai suoi catturatori, ed egli si mosse in un lampo, come una vipera che scatti a mordere, quasi troppo rapido perché lo sguardo potesse seguirlo. Prese Sally-Anne per un braccio, glielo torse e l'alzò da terra, facendosene scudo e contemporaneamente raccogliendo il kalashnikov prima gettato dalla sua guardia del corpo. Aveva scelto perfettamente il momento di agire: i soldati erano troppo raggruppati e nessuno poteva sparare nel timore di colpire qualche suo commilitone. Tungata aveva le spalle coperte dalla Land Rover e il petto riparato da Sally-Anne. "Non sparate!" urlò Peter Fungabera ai suoi uomini. "Lo voglio io, il bastardo matabele!" Tungata infilò la canna del kalashnikov sotto l'ascella di SallyAnne e, impugnando il mitra con una mano sola, a mo' di pistola, lo puntò contro Peter Fungabera, poi si mise a indietreggiare verso la Land Rover (il cui motore era ancora acceso) trascinandosi dietro Sally-Anne. "Non puoi scappare" ringhiò Peter Fungabera. "La strada è bloccata, ho cento uomini. Finalmente ti ho preso." Tungata selezionò col pollice la posizione di sparo a raffica e abbassò la mira contro il ventre di Peter Fungabera. Clay, situato diagonalmente dietro la sua spalla sinistra, vide la leggera deviazione impressa alla canna del mitra un istante prima della raffica, e si rese conto che Tungata aveva di proposito evitato di colpire Peter. La raffica echeggiò, assordante, e tutti i soldati si tuffarono al riparo. Il kalashnikov si alzò in mano a Tungata, investendo di pallottole i camion parcheggiati, sforacchiandoli con clamore e lasciando nella lamiera buchi dal bordo lucente di metallo a nudo. Peter Fungabera si tuffò da una parte e rotolò in un istante sotto un camion sgambettando freneticamente. Polvere e fumo velavano i fari accesi, e i soldati si sparpagliarono, coprendosi a vicenda il bersaglio. Intanto, approfittando della confusione, Tungata sbatteva come un fuscello Sally-Anne sulla Land Rover mettendosi al volante. Con un rombo il veicolo partì. "Non sparate!" gridò di nuovo Peter Fungabera, con una nota di disperata urgenza nella voce. "Lo voglio vivo!" Un soldato si parò davanti alla Land Rover, nel futile tentativo di fermarla. Si udì un rumore come di un sacco di grano rovesciato quando il cofano lo colpì in pieno petto, poi qualche forte tonfo mentre la macchina gli passava sopra lasciandolo esanime in mezzo alla strada. Senza riflettere, Clay aprì la portiera della Mercedes ministeriale abbandonata e ci salì. Accese il motore, girò il volante di centottanta gradi e schiacciò l'acceleratore a tavoletta. L'auto scodinzolò, fece un testa-coda, e si presentò allineata con la strada. Clay schiacciò di nuovo a tavoletta e la macchina schizzò via, mentre invano Peter Fungabera gli gridava: "Aspetta, Clay!" Ignorò il richiamo e imboccò la prima rampa in salita, accendendo gli abbaglianti. Il volante della Mercedes era ingannevolmente leggero, la macchina sculettava rasentando pericolosamente il ciglio della scarpata in curva. Controsterzò riuscendo a restare in strada e vide in fondo alla dirittura successiva le luci posteriori
della Land Rover, parzialmente oscurate dalla polvere che alzava. Clay imballò il motore e col contagiri inchiodato sul rosso accelerò divorando la rampa e guadagnando terreno sulla Land Rover. Essa fu poi inghiottita dalla curva successiva, che Clay prese alla stessa maniera indiavolata e quasi fatale della precedente. Ma ormai cominciava a prendere confidenza con la potenza della macchina. A quattrocento metri da lui intravide per un attimo la Land Rover. Sally-Anne cercava di buttarsi giù dall'auto, ma Tungata con una mano la allontanò dalla portiera e la schiacciò al suo posto sul sedile del passeggero. Lo scialle che aveva in testa volò via come una farfalla notturna perdendosi nelle tenebre, e i capelli si misero a turbinare intorno a lei. Quindi la polvere si infittì di nuovo e Clay non vide più niente, mentre la rabbia lo investiva nel petto con una violenza che gli fece mancare il fiato. In quel momento odiava Tungata Zebiwe come non aveva mai odiato prima nessun altro essere umano. La curva successiva la prese alla perfezione, accelerando al massimo non appena vide aprirsi il rettilineo davanti al muso dell'auto. La Land Rover aveva perso parecchio terreno. Dopo la curva successiva, fu ancora più vicina. Sally-Anne era voltata all'indietro e lo guardava. Aveva la faccia bianca come un lenzuolo e quasi spettrale alla luce dei fari, e i capelli le danzavano intorno in una ridda indiavolata, a momenti coprendole interamente il viso, a momenti liberandolo del tutto. Dopo di che un'altra curva gli nascose la macchina. Clay la seguì a tutto gas, e in fondo al rettilineo successivo scorse il blocco stradale. C'era un camion militare da tre tonnellate parcheggiato di traverso in mezzo alla strada, e i pertugi che restavano ai lati erano ingombri di arbusti tagliati e impilati. I loro rami attorcigliati formavano un impenetrabile materasso solido che avrebbe fermato anche un bulldozer. Clay vide anche luccicare il filo di ferro con cui erano stati legati l'uno all'altro. Davanti alla barriera c'erano quattro soldati, che agitavano i fucili ordinando alla Land Rover di fermarsi. Siccome non sparavano, Clay intuì che Peter Fungabera li aveva istruiti per radio, ma ugualmente il pensiero di Sally-Anne, così vulnerabile nell'auto scoperta, sforacchiata spietatamente da una raffica di mitra sul bel corpo giovane e sul viso, gli fece venire la nausea. "Per favore, non sparate" pregò, schiacciando tanto forte l'acceleratore da ricevere un contraccolpo doloroso sul moncherino. Ormai la Mercedes era a soli trenta metri di distanza dalla Land Rover e guadagnava ancora terreno. A cento metri dal blocco stradale l'auto di Tungata uscì di strada, letteralmente saltando sul declivio a monte coperto di alti sterpi di erba-degli-elefanti. Come una falciatrice, con le quattro ruote motrici che ululavano, la Land Rover affrontò il ripido pendio e dopo una quindicina di metri scollinò scomparendo alla vista. Clay sapeva che la Mercedes, molto bassa sulle ruote, mai e poi mai avrebbe potuto seguire il brutto veicolo dal muso rincagnato per quella sterpaglia scoscesa. Così andò avanti una decina di metri e si gettò fuori della macchina e su per il pendio. L'erba-degli-elefanti cresce tra gli alberi della foresta, è più alta di un uomo e ha steli grossi quanto un mignolo. Scollinando a sua volta, ansimante, Clay vide la Land Rover che procedeva a fatica nella sterpaglia, alla velocità di un uomo che corre. In un attimo si rese conto che effettivamente era possibile aggirare il blocco stradale, e anche lui si lanciò di corsa verso il punto dove il pendio si ricongiungeva alla strada. La furia e la paura per Sally-Anne sembravano guidargli i piedi, e solo una volta ruzzolò sul terreno ineguale. Tungata Zebiwe lo vide arrivare e gli puntò contro il kalashnikov appoggiandolo al bordo della macchina, ma Sally-Anne si gettò con tutto il suo peso sulla canna abbassandola e impedendogli di
mirare. Siccome con l'altra mano doveva tenere il volante, Tungata si trovava leggermente a mal partito e rinunciò a sparare. Clay vide la Land Rover, ormai oltre il blocco stradale, riguadagnare terreno su di lui, che era quasi scoppiato, coi polmoni che bruciavano, mentre Tungata e Sally-Anne si dibattevano lottando confusamente sul kalashnikov. Poco dopo il grosso uomo nero liberò il braccio e col taglio della mano diede un brutale colpo alla ragazza dietro l'orecchio. Sally-Anne si abbatté con la faccia sul cofano (il parabrezza era abbassato) e la Land Rover zigzagò consentendo a Clay di recuperare qualche prezioso metro. In quella il veicolo si affacciò sulla strada a monte del blocco e ci cadde sopra a ruote pari, con un fracasso d'inferno. Clay usò tutta la forza e la decisione che gli restavano per accelerare la corsa e si affacciò sul ciglio del pendio un istante dopo che la Land Rover era scomparsa. Tre metri sotto di lui, la Land Rover era miracolosamente atterrata sulle ruote, col muso puntato verso la salita, e Tungata Zebiwe, con la faccia insanguinata per il colpo che aveva appena preso sui denti dopo il volo della macchina, lottava col volante per controllarla. Clay non esitò e si gettò giù dal ciglione. Il salto gli levò il fiato. La Land Rover stava già accelerando, ed egli finì sul bordo posteriore, mezzo dentro e mezzo fuori. Sentì le costole cozzare sul metallo, il respiro gli si bloccò in gola con un fischio mentre l'aria usciva dai polmoni strizzati dal colpo. Gli si oscurò la vista per un attimo, ma trovò una presa solida sull'apparecchio radio e vi si aggrappò ciecamente. Sentiva la Land Rover accelerare sotto di lui, e Sally-Anne mugolare e gemere dal terrore. Questo lo fece tornare immediatamente in sé, la vista gli si snebbiò e capì dove si trovava, accavallato a poppa, se così si può dire, con i piedi mulinanti nel vuoto. Dietro di lui, il camion dell'esercito stava manovrando per uscire dal blocco, con i fari che frugavano nella notte tracciando una curva verso di lui, mentre davanti si avvicinava a gran velocità, per pendicolare, la confluenza a "T" sulla strada nazionale. Clay, aspettandosi la curva, si aggrappò più che poté, ma anche così, quando arrivò, a momenti gli svelse le braccia dal corpo, perché Tungata sterzò a sinistra su due ruote. Chiaro, si dirigeva a nord, dove il confine con lo Zambia non distava più di duecento chilometri. La strada scendeva nella grande vallata dello Zambesi, e non c'erano insediamenti umani in quella zona torrida, selvaggia e infestata dalla mosca tse-tse, prima del posto di confine al ponte di Chirundu. Con un ostaggio, era possibile che ci arrivasse. Se Clay mollava, poteva arrivarci o, nel tentativo, farsi ammazzare assieme a Sally-Anne. Un centimetro per volta Clay si tirò su nella Land Rover. Sally-Anne era raggomitolata sul sedile, con la testa che le ciondolava di qua e di là a ogni oscillazione del veicolo. Accanto a lei, Tungata era alto e massiccio come un armadio, con la camicia bianca illuminata dal riflesso dei fari. Clay lasciò la presa con una mano e cercò di ghermire il sedile per issarsi a bordo. Immediatamente la Land Rover deviò di scatto e nello stesso istante egli vide brillare nello specchietto retrovisore il lampo degli occhi di Tungata. Lo stava sorvegliando, in attesa dell'occasione di coglierlo sbilanciato e scrollarselo dalla macchina. La forza centrifuga fece rotolare Clay sul fianco del veicolo e fuori: restava aggrappato solo con la mano sinistra. Tutto il peso del corpo tendeva muscoli e tendini come corde di violino ed egli gemette mentre la trazione si propagava dolorosamente al torace, ma mantenne la presa, appeso fuori della macchina, mentre il bordo metallico gli martoriava le costole già ammaccate. Tungata sterzò di nuovo verso monte e Clay vide venirgli incontro il ciglione illuminato dai fari. Evidentemente Tungata in-
tendeva schiacciarlo contro la roccia, facendolo a pezzi tra il costone scabro e il metallo affilato. Urlando involontariamente per lo sforzo, Clay piroettò appeso al fianco della Land Rover e riuscì a infilare all'interno dell'auto il piede buono. Sentì uno stridere di metallo sulla roccia e poi un forte colpo che gli si trasmise fino all'anca. Le cinghie dell'arto artificiale si strapparono e la protesi volò via. Se fosse stata la gamba buona, era la volta che restava senza del tutto. Invece, mentre la Land Rover tornava in mezzo alla strada, Clay utilizzò lo slancio per saltar dentro completamente e afferrare Tungata Zebiwe alla gola con il braccio libero, da dietro. Era uno strangolamento, come lo chiamano i lottatori, e ci mise tutta la sua energia. Sentiva la laringe di Tungata nella piega del gomito, e le vertebre sul punto di spezzarsi come un ramo secco. Voleva ammazzarlo, voleva staccargli la testa, ma non poteva aggrapparsi a nulla abbastanza saldamente da esercitare quel piccolo ma decisivo aumento di pressione. Tungata lasciò il volante con ambo le mani e gli afferrò il polso e il gomito, con un mugolio soffocato, mentre l'auto priva di controllo cominciava a sbandare. La Land Rover andò fuori strada, nella scarpata rocciosa senza muretto né guardrail, con rumor di ferraglia sbattuta. Clay fu scaraventato via, piombò a terra, capriolò e restò lì senza fiato, con le orecchie che gli fischiavano e tutto il corpo che gli doleva. A fatica si mise in ginocchio. La Land Rover si era rovesciata. I fari erano ancora accesi e a mezza costa, proprio nel fascio di luce, giaceva Sally-Anne. Sembrava una bambina addormentata. Aveva gli occhi chiusi e la bocca rilassata, con le labbra molto rosse in confronto al pallore del viso; ma dall'attaccatura dei capelli le colava sulla fronte un nero serpente di sangue. Clay cominciò a strisciare verso di lei, quando un'altra figura si alzò dalle tenebre circostanti, una figura grande, scura, dalle spalle larghe. Tungata barcollava, girando in circolo, tenendosi la mano sulla gola offesa. Alla vista di Clay, si infuriò per la rabbia e il dolore. Si gettarono l'uno contro l'altro, abbrancandosi. Molto tempo prima, quando erano amici, avevano lottato spesso, ma Clay s'era dimenticato della titanica forza di quell'uomo. I suoi muscoli duri, elastici e neri come le gomme scolpite di un camion transcontinentale, ben presto sbilanciarono Clay. Tungata era un po' groggy, ma lui aveva un piede solo. Ben presto Clay perse l'equilibrio, tuttavia non lasciò la presa mentre, pur con tutta la sua forza, Tungata non riusciva a divincolarsi. Cadendo, Clay usò il moncherino duro e calloso per tirare al gigante un forte colpo basso. Tungata grugnì e tutta la forza l'abbandonò. Clay rotolò sotto di lui e, spalle a terra, si proiettò coi muscoli di tutto il corpo e colpì ancora col moncherino Tungata in pieno petto, proprio sopra il cuore. Si sentì un colpo come di un'ascia vibrata a due mani contro un tronco d'albero. Tungata stramazzò all'indietro e rimase immobile. Clay strisciò fino a lui e gli afferrò la gola. Awertì i possenti fasci di muscoli intorno alla bozzuta cartilagine della tiroide e ci affondò i pollici. Sentir la vita palpitante sotto le sue mani gli fece sbollire di colpo tutta la furia, e scoprì che non poteva ucciderlo. Allentò la stretta e si distaccò da lui, ansimando e tremando. Lasciò Tungata raggomitolato ed esanime a terra e strisciò fino al punto dove giaceva Sally-Anne. La sollevò fra le braccia, cullandola contro il proprio petto, afflitto dalla sua assoluta mancanza di reazioni. Con una mano le pulì il rivolo di sangue che stava per entrarle negli occhi. Ed ecco che sulla strada soprastante si fermò un camion con gran stridore di freni. Una frotta di armati scese nella scarpata berciando come una muta di cani da caccia. Tra le sue braccia, come
una bimba che si desti, Sally-Anne si mosse e gemette flebilmente. Era viva, era ancora viva. "Oh tesoro mio, tesoro mio" sussurrò Clay. "Io ti amo tanto."
Sally-Anne aveva quattro costole rotte, una distorsione alla caviglia e diverse escoriazioni sul collo a causa del colpo ricevuto. Tuttavia il taglio sul cuoio capelluto era superficiale e la radiografia aveva escluso che il cranio fosse rimasto danneggiato. Fu ugualmente trattenuta in osservazione nella camera singola che Peter Fungabera le aveva procurato con la sua influenza nel sovraffollato ospedale. Fu lì che Abel Khori, il pubblico accusatore incaricato del processo, andò a trovarla. Il signor Khori era uno shona dall'aria distinta che aveva esercitato l'avvocatura a Londra e ne conservava l'abbigliamento tipico e una propensione alle dotte, anche se irrilevanti, citazioni latine. "Sono venuto per elucidare concettualmente alcuni punti da lei già dichiarati alla polizia, nient'altro" le spiegò Khori. "Sarebbe infatti altamente disdicevole che io cercassi di influenzare in ogni e qualsivoglia modo il materiale probatorio da lei fornito. Mostrò a Clay e Sally-Anne alcune notizie di dimostrazioni spontanee dei matabele per il rilascio di Tungata, che erano state immediatamente represse dalla polizia e dalla Terza Brigata, e che l'editore shona dell'Herald aveva relegato nelle pagine interne. "Corre l'obbigo di tener sempre presente che quest'uomo è ipso jure accusato di reati comuni e non può essere lasciato diventare un martire politico della sua tribù. Vedete bene i pericoli che ciò comporterebbe. Prima sistemiamo l'intera faccenda mutatis mutandis e meglio è per tutti." Clay e Sally-Anne furono dapprima stupiti e poi messi veramente a disagio dalla rapidità con cui Tungata Zebiwe sarebbe stato processato. Benché i ruoli del tribunale fossero completi per i prossimi sette mesi, il suo caso sarebbe stato giudicato dalla Corte Suprema fra dieci giorni. "Il fatto è che non possiamo, nudis verbis, tenere sette mesi in carcere in attesa di processo un uomo della sua statura" spiegò il pubblico accusatore "offrendogli così il destro di infiammare i suoi sostenitori. Sarebbe una follia suicida." Oltre al processo, altri impegni occupavano Clay e Sally-Anne. Il suo Cessna doveva passare la revisione prevista ogni mille ore di volo per ricevere il permesso di decollo negli aeroporti civili, e siccome questo certificato non si rilasciava in Zimbabwe dovette incaricare un pilota di portarlo a Johannesburg. "Mi sento un uccello con le ali tarpate" lamentò la ragazza. "Conosco bene la sensazione" ghignò Clay, dando un colpo per terra con la stampella. "Oh, scusami, Clay." "Non c'è di che. Non mi dispiace più parlare della mia zampa perduta, almeno con te." "Quando te la ridaranno?" "Morgan Oxford l'ha mandata a Henry Pickering con la valigia diplomatica, e HeNry ha messo in moto un'intera squadra di ortopedici e tecnici all'Ospedale Hopkins. Dovrebbero aggiustarmela in tempo per il processo." Il processo. Tutto sembrava ruotare attorno al processo. Nemmeno le necessità di King's linn e Zambesi Waters riuscivano a distoglierlo dal capezzale di Sally-Anne e dall'istruttoria. Per fortuna aveva Hans Groenevvald a King's linn, e Peter Younghusband, il giovane manager e guida keniota scelto per Zambesi Waters da SallyAnne, era arrivato e poteva occuparsi dei lavori. Benché parlasse con ciascuno di loro tutti i giorni, per radio e per telefono, Clay ri-
mase ad Harare vicino a Sally-Anne. L'arto gli fu recapitato il giorno prima della dimissione di Sal-ly-Anne dall'ospedale. Clay alzò la gamba dei pantaloni per mostrarglielo. "Raddrizzata, rinforzata, lubrificata e sladinata" vantò. "E la tua testa come va?" "Come la tua gamba" rise lei. "Benché i dottori mi abbiano sconsigliato di saltarci sopra almeno per le prossime due settimane." Sally-Anne girava appoggiandosi a un bastone per via della distorsione alla caviglia, e il torace era ancora bendato quando, l'indomani mattina, caricò la sua valigia sulla Land Rover. "Ti fanno male le costole?" le domandò Clay vedendola fare una piccola smorfia mentre saliva sull'auto. "Finché non me le stringono può andare." "Niente strizzoni, cos'è, una regola?" scherzò lui. "Eh, direi di sì" rispose la ragazza prima di abbassare gli occhi e aggiungere: "Ma si sa che le regole sono per gli stupidi, e non rappresentano per il saggio più che un orientamento generale." Clay ne fu alquanto rincuorato.
L'aula seconda del Dipartimento del Mashonaland della Suprema Corte della Repubblica dello Zimbabwe conservava tutti i trucchetti della giustizia britannica. Lo scranno del giudice, sormontato dallo stemma dello Zimbabwe, era parecchio sopraelevato e dominava la sala. Davanti, le panche in quercia degli avvocati, e ai lati la gabbia degli imputati e il posto dei testimoni. Accusatore, avvocati difensori e giudici a latere erano in toga nera, mentre il giudice spiccava magnifico nella sua toga scarlatta. Era diverso solo il colore delle facce, che sembravano ancora più nere sotto i parrucconi candidi e i fazzolettoni di pizzo a sbuffo. L'aula era affollatissima e gli uscieri avevano dovuto escludere numeroso pubblico che ora ingombrava i corridoi del palazzo di giustizia. La folla, quasi tutta di matabele che avevano affrontato il lungo viaggio dal loro dipartimento nel settentrione del paese, era grave e composta. Molti avevano il distintivo della ZAPU. Quando fu introdotto l'imputato, ci fu un brusio tra il pubblico e una donna vestita coi colori della ZAPU si mise a gridare: "Bayete, Nkosi Nkulu!" salutandolo a pugno chiuso. Subito le guardie la presero e la portarono fuori. Tungata Zebiwe, alla sbarra, guardava impassibile, rimpicciolendo con la sua semplice presenza qualunque altra persona nell'aula. Perfino il giudice Domashavva, un mashona alto ed emaciato, con un insolito naso egizio e occhi piccoli e brillanti un po' da uccello, benché fosse nel suo splendido costume scarlatto, in confronto appariva quanto mai ordinario. Tuttavia aveva una reputazione formidabile e il pubblico accusatore si era detto felicissimo che la scelta fosse caduta su di lui. "E veramente persona grata. Niente paura, vedremo fatta giustizia, poiché egli è decisamente in gremio legis." Fin da quando il paese si chiamava ancora Rhodesia il sistema britannico della giuria popolare era stato abbandonato. Al suo posto era stato introdotto il tribunale, cioè una giuria di tre magistrati professionisti, il presidente e due giudici a latere. In questa occasione, erano tutti shona. Uno dei giudici a latere era un esperto di questioni relative alla protezione della fauna, e l'altro un magistrato anziano. Ma il presidente sentiva da loro un parere consultivo, il verdetto finale era soltanto suo e poteva anche andar contro le considerazioni dei colleghi. Ed ecco che, aggiustandosi la toga come lo struzzo fa con le penne quando si sistema nel nido, il magistrato si mise a fissare Tungata Zebiwe mentre il cancelliere leggeva in inglese l'accusa. Le accuse principali erano otto: commercio ed esportazione di trofei d'animali protetti, sequestro di persona, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, furto di un automezzo dell'esercito, danneggiamento doloso dello stesso automezzo, lesioni e tentato omicidio.
C'erano anche diverse imputazioni minori. "Perdio" sussurrò Clay a Sally-Anne. "Gli tirano addosso anche i mattoni del muro." "E le piastrelle del pavimento. Fanno benissimo, mi piacerebbe che l'impiccassero, quel bastardo." "Spiacente, mia cara, ma nessuna delle accuse prevede la pena di morte." Tuttavia, durante tutta la lettura dei capi d'imputazione Clay fu pervaso da un senso come di tragedia greca, in cui una figura eroica fosse circondata e sopraffatta da piccoli uomini meschini. Nonostante i suoi sentimenti, Clay si rese conto che Abel Khori stava facendo un buon lavoro, dal punto di vista puramente professionale, nell'introdurre il processo. Stava perfino attento a non snocciolare troppe citazioni in latino. Il primo di una lunga lista di testimoni d'accusa era il generale Peter Fungabera. In alta uniforme, splendido, fece il giuramento e depose impalato, marziale, con il frustino in mano. La sua testimonianza fu chiara, inequivocabile, piana e impressionante. Il giudice annuiva, prendendo appunti. Il Comitato Centrale della ZAPU aveva assunto un avvocato di Londra, ma anche il signor Joseph Petal, patrocinante nelle più alte corti inglesi, non riuscì a scuotere il generale Fungabera e ben presto si accorse che la speranza di metterlo in difficoltà era vana. Si ritirò così in buon ordine aspettando prede più malleabili. Il testimone successivo era l'autista del camion dell'avorio. Era un ex guerrigliero dello ZIPRA, recentemente uscito da un campo di riabilitazione, e la sua testimonianza fu tradotta in inglese dall'interprete giudiziario. "Ha conosciuto l'imputato prima della sera dell'arresto?" gli domandò Abel Khori dopo aver stabilito la sua identità. "Sì, ero con lui nella guerra d'indipendenza." "E l'ha poi rivisto dopo la guerra?" "Sì." "Le spiace dire alla corte quando?" "L'anno scorso nella stagiOne secca." "Prima che fosse mandato al campo di rieducazione?" "Sì, prima." "E dove l'ha incontrato?" "Nella valle, vicino al grande fiume." "Di che si è trattato? Vuol spiegare alla corte la ragione dell'incontro col ministro Tungata Zebiwe?" "Per andare a caccia di elefanti. Per l'avorio." "Come li avete cacciati?" "Abbiamo usato dei primitivi batonka come battitori, e un elicottero per spingere gli animali nel campo minato." "Mi oppongo a queste domande, vostro onore" saltò su l'avvocato difensore. "Non hanno alcun riferimento con le accuse.""Invece riguardano proprio la prima delle imputazioni. "Obiezione respinta. Il pubblico accusatore può proseguire l'interrogatorio del testimone." "Quanti elefanti avete preso?" "Molti, molti elefanti." "Non è in grado di dirci quanti?" "Saranno stati almeno duecento." "E lei sostiene che il ministro Tungata Zebiwe era là?" "E arrivato quando già gli elefanti erano stati uccisi. E venuto a contare le zanne e a portarle via con l'elicottero..." "Quale elicottero?" "Era un elicottero del governo." "Mi oppongo, vostro onore, il punto è irrilevante." "Obiezione respinta." Quando toccò a lui interrogare il testimone, l'avvocato Petal andò immediatamente all'attacco. "Io le contesto di non essere mai stato partigiano col ministro
Tungata Zebiwe. Lei ha visto il ministro per la prima volta quella notte sulla strada di Karoi." "Obiezione, vostro onore" gridò indignato Abel Khori. "La difesa sta cercando di screditare il testimone approfittando della nota circostanza che non esistono elenchi dei combattenti per l'indipendenza, sicché il teste non è in grado di provare il servizio valorosamente prestato in guerra alla causa patriottica." "Obiezione accolta. Avvocato Petal, faccia il piacere di limitare le sue domande all'argomento del processo senza intimidire né insultare il testimone." "Molto bene, vostro onore." L'avvocato era tutto rosso di rabbia e delusione. Si rivolse nuovamente al testimone. "Può dire al giudice quando è stato rilasciato dal campo di rieducazione?" "Mah, non so... non mi ricordo..." "E stato molto tempo prima del suo arresto, o poco tempo?" "Poco tempo prima dell'arresto" rispose abbassando gli occhi il teste. "E forse stato rilasciato dal campo di prigionia a condizione di guidare il camion quella notte, per poi testimoniare contro l'imputato?" "Vostro onore!" strillò Abel Khori. Ma anche il giudice stava già strillando. "Signor Petal! Le proibisco di chiamare campi di prigionia i nostri centri di rieducazione!" "Come vostro onore preferisce" continuò il difensore del ministro. "Le sono state fatte promesse in occasione del rilascio dal centro di rieducazione?" "No" disse il testimone guardandosi intorno a disagio. "Due giorni prima del rilascio, è forse venuto a trovarla il capitano Timon Nbebi della Terza Brigata?" "No." "Nessuno è venuto a trovarla al campo?" "No! No!" "Niente visitatori? E proprio sicuro?" "Il testimone ha già risposto a questa domanda" l'interruppe il giudice. L'avvocato Petal emise un sospiro teatrale e alzò le braccia. "Nessun'altra domanda, vostro onore." "Ha intenzione di chiamare altri testimoni, signor Khori?" Clay sapeva che il testimone successivo doveva essere Timon Nbebi, ma chissà perché il pubblico accusatore lo saltò e chiamò invece il soldato che era stato investito dalla Land Rover. A questo mutamento di tattica dell'accusa Clay provò uno spiacevole brivido di sospetto. Forse la pubblica accusa non gradiva che Timon Nbebi potesse essere controinterrogato dalla difesa. Volevano forse evitare l'argomento delle visite di Timon Nbebi al campo di rieducazione? Se così era, le implicazioni erano impensabili, talché Clay si costrinse a metter da parte i dubbi. La necessità di tradurre tutte le domande e le risposte rese il processo lungo e noioso, così fu solo il terzo giorno che Clay fu chiamato a rendere la sua testimonianza. Dopo aver giurato, e prima che Abel Khori iniziasse a interrogarlo, Clay diede un'occhiata all'imputato. Tungata Zebiwe lo stava guardando fisso, e quando i loro occhi si incontrarono gli fece un segnale con la mano destra. Ai vecchi tempi, quando lavoravano insieme come ranger per il ministero per la Conservazione della Fauna, Clay e Tungata avevano elaborato un sistema di segnali molto preciso. Se ad esempio dovevano fare il pericoloso lavoro di avvicinarsi a un branco di elefanti al pascolo per sparare agli individui vecchi e malati che sovrappopolavano la riserva, o quando inseguivano gruppetti di leoni pervertiti che preferivano i manzi allevati dall'uomo alle prede tradizionali, usavano quei segnali per comunicare a distanza in maniera silenziosa ed efficace.
Adesso Tungata gli fece il segnale del pugno chiuso, le dita possenti nere contro il palmo rosa della mano: un cenno che significava: "Attento! Grave pericolo." L'ultima volta che Tungata gli aveva fatto quel segnale, Clay aveva avuto solo qualche frazione di secondo per voltarsi e difendersi dalla carica della leonessa infuriata e ferita a un polmone che, sputando sangue, era uscita dalla boscaglia fitta slanciandosi contro di lui come un fulmine dorato: e, anche se la pallottola 458 magnum she fece in tempo a spararle le aveva trapassato il cuore, per l'impatto del balzo Clay era finito a terra. Adesso, il segnale di Tungata gli fece accapponar la pelle, al ricordo del pericolo passato e al pensiero di quello che lo minacciava ora. Era una minaccia o un avvertimento? si chiese Clay, fissando Tungata. Ma non era possibile dirlo, perché Tungata era impassibile e immobile. Clay gli segnalò di non capire, ma Tungata lo ignorò, e a un tratto Clay si accorse di non aver nemmeno sentito la prima domanda di Abel Khori." "Scusi, potrebbe ripetere?" In fretta il pubblico ministero ripeté la domanda. "Ha visto il guidatore del camion far segnali alla Mercedes che si avvicinava? "Sì, ha lampeggiato coi fari." "E qual è stata la risposta?" "La Mercedes si è fermata e due dei suoi occupanti sono scesi per andare a parlare col guidatore del camion." "Lei ritiene che si trattasse di un incontro prestabilito?" "Obiezione, vostro onore, il testimone non può saperlo." "Obiezione accolta. Il testimone non risponda alla domanda." "Veniamo allora al suo coraggioso intervento a difesa e salvazione di miss Jay dalle malvagie grinfie dell'imputato." "Obiezione! Macché malvagie grinfie!" "La pubblica accusa sia meno melodrammatica." "Come desidera vostro onore." Dopo quel segnale, e per tutto il resto della testimonianza di Clay, Tungata Zebiwe restò immobile come una figura scolpita nel granito del Matabeleland, col mento affondato nel petto ma lo sguardo sempre fisso negli occhi di Clay. Quando il signor Petal si alzò per controinterrogarlo, si mosse per la prima volta, chinandosi verso l'avvocato difensore per dirgli poche decise parole. Il signor Petal sembrò protestare, ma Tungata troncò ogni discussione con un gesto d'imperio. "Niente domande, vostro onore" cedette l'avvocato, e tornò a sedersi, rinunciando a torchiare Clay. Sally-Anne era l'ultima testimone dell'accusa e, dopo Peter Fungabera, forse la più importante. Zoppicava ancora per la distorsione alla caviglia, sicché Abel Khori l'aiutò ad accomodarsi alla sbarra. Sul collo si vedeva ancora benissimo il livido del colpo infertole da Tungata Zebiwe. Depose senza la minima esitazione con voce chiara e piacevole. "Quando l'imputato l'afferrò, quali sentimenti provò?" "Avevo paura di morire." "Lei sostiene che l'imputato l'ha colpita: dove?" "Sul collo. Si vede ancora il livido." "Lei dice che l'imputato ha puntato il mitra contro il signor Mellow. Qual è stata la sua reazione? Dica alla corte se ha riportato altre ferite." Abel Khori trasse il massimo partito da una così graziosa testimone, e molto saggiamente l'avvocato difensore rinunciò ancora una volta al controinterrogatorio. L'accusa esaurì le testimonianze la sera del terzo giorno, lasciando Clay turbato e depresso. Questi mangiò con Sally-Anne una bistecca al ristorante preferito, e nemmeno una buona bottiglia di vino del Capo riuscì a rallegrarlo. "Quella faccenda dell'autista del camion che non aveva mai
conosciuto Tungata e che è stato liberato in seguito alla promessa di incastrarlo in tribunale." "Non ci avrai mica creduto?" sbottò Sally-Anne. "Perfino ilgiudice ha fatto capire che si trattava di un'insinuazione gratuita." Dopo averla accompagnata a casa, Clay tornò a piedi, per le vie deserte, sentendosi solo e tradito... benché non riuscisse a trovare nessuna ragione logica per questo suo sentimento.
L'avvocato difensore iniziò la rassegna delle testimonianze da opporre all'autista di Tungata Zebiwe. Era costui un matabele massiccio, benché ancora giovane, e già tendeva a ingrassare. La sua faccia rotonda, che avrebbe dovuto essere sorridente e gioviale, era invece rannuvolata e buia. La testa era rasata di fresco. Non guardò mai Tungata Zebiwe durante la testimonianza. "La sera del suo arresto quali ordini le aveva dato il ministro Zebiwe?" "Nessuno. Non mi aveva detto niente." Il signor Petal parve genuinamente sorpreso e consultò le proprie note. "Non le ha detto dove andare? Lei non sapeva dove stava andando?" "Mi diceva soltanto: "va' dritto" , "gira di qua" , "gira di là" borbottò l'autista. "Non sapevo dove stavamo andando." Chiaramente l'avvocato non si aspettava una risposta del genere. "Il ministro Zebiwe non le aveva ordinato di recarsi alla missione di Tuti?" "Obiezione, vostro onore." "Non imbecchi il testimone, signor Petal." L'avvocato era con tutta evidenza impegnato a riflettere. Scorse le carte, lanciò un'occhiata a Tungata Zebiwe, che era rimasto come al solito impassibile, e cambiò l'argomento delle domande. "Dalla sera dell'arresto, dove ha alloggiato lei?" "In prigione." "Ha ricevuto visite?" "E venuta a trovarmi mia moglie." "Nessun altro?" "No" rispose l'autista sulla difensiva, scuotendo il capo. "Che significano quei segni sulla sua testa? E stato picchiato?" Per la prima volta Clay notò i bernoccoli che costellavano il capo rasato dell'autista. "Vostro onore, mi oppongo energicamente!" lamentò ad alta voce Abel Khori. "Avvocato Petal, dove vuol arrivare con queste domande?" chiese con aria minacciosa il giudice Domashavva. "Vostro onore, sto semplicemente cercando di capire perché la testimonianza dell'autista contrasta con le dichiarazioni da lui rilasciate alla polizia." Il signor Petal cercò di strappare altre risposte all'evasivo e ostinato testimone, poi smise con un gesto di rassegnazione. "Nessun'altra domanda, vostro onore." Abel Khori si alzò sorridente a controinterrogare. "Dunque il camion ha lampeggiato, vero?" "Sì." "E che cosa è successo poi?" "Non capisco." "Qualche passeggero della Mercedes ha detto o fatto qualcosa, alla vista del camion?" "Vostro onore.,," cominciò l'avvocato Petal. "Credo che sia una domanda perfettamente legittima. Il testimone risponda. L'autista si accigliò nello sforzo di ricordare, e poi borbottò:
"Il compagno ministro Zebiwe ha detto: "Eccolo lì. Accosta e ferma." ""Eccolo lì!" ripeté lentamente Abel Khori. ""Accosta e ferma? Questo ha detto l'imputato alla vista del camion, esatto?" "Sì. Ha detto proprio così." "Nessun'altra domanda, vostro onore."
"Chiamate Sarah Tandivve Nyoni." Il signor Petal aveva in serbo una sorpresa. Quando convocò la testimone, Abel Khori si accigliò e conferì agitato con i suoi due assistenti. Uno di loro si alzò, si inchinò al tribunale e lasciò in fretta l'aula. Sarah Tandivve Nyoni entrò e giurò in perfetto inglese. La sua voce era dolce e melodiosa, le sue maniere riservate e modeste come il giorno che Clay e Sally-Anne l'avevano conosciuta, alla missione di Tuti. Indossava un vestitino di cotone verde dal colletto bianco, e scarpe bianche senza tacchi. I capelli avevano una elaborata acconciatura tradizionale. Nell'attimo in cui smise di dire la formula del giuramento, rivolse lo sguardo dolce a Tungata Zebiwe, nella gabbia degli imputati. Egli non sorrise né cambiò espressione, ma la mano destra, appoggiata alla sbarra, si mosse silenziosa, e Clay si accorse che stava usando lo stesso codice di segnali con la ragazza. "Coraggio" diceva il segnale. "Sono con te?" E la ragazza ne trasse evidente conforto. Alzò il mento e fronteggiò decisa il signor Petal. "Per favore, ci dica il suo nome." "Sono Sarah Tandivve Nyoni" rispose la ragazza. Tandivve Nyoni, il suo nome matabele, significava "Diletto uccello" , e Clay tradusse a Sally-Anne. "Le si addice alla perfezione" glisussurrò lei. "Qual è la sua professione?" "Direttrice della scuola elementare statale di Tuti." "Può elencare alla corte i suoi diplomi?" Joseph Petal mise abilmente in chiaro che si trattava di una giovane istruita e responsabile. Quindi proseguì: "Lei conosce l'imputato, Tungata Zebiwe?" La ragazza guardò ancora Tungata prima di rispondere, con il volto che sembrava irradiare luce. "Oh, sì, lo conosco" disse piano, seria. "Alzi la voce, prego, mia cara." "Lo conosco." "Veniva a trovarla alla missione di Tuti?" "Sì" annuì la ragazza. "Quanto spesso?" "Il compagno ministro è un uomo importante e impegnatissimo, io non sono che una maestra..." Tungata le rivolse un breve cenno con la destra, segnalandole di negare. Lei lo vide e un sorrisetto si formò sulle sue labbra perfettamente scolpite. "Veniva ogni volta che poteva, ma non tanto spesso come avrei desiderato." "E lo stava aspettando anche quella sera?" "Sì che lo stavo aspettando!" "E perché?" "Quella stessa mattina ci eravamo parlati al telefono e mi aveva promesso di venire. Mi disse che sarebbe venuto in macchina arrivando a Tuti prima di mezzanotte." Il sorriso le svanì dal volto, gli occhi le si oscurarono e si rattristarono. "Ho aspettato fino all'alba, ma non è arrivato." "Che lei sappia, c'era qualche ragione particolare perché egli le facesse visita quel week-end?" "Sì." Le guance di Sarah si scurirono. Sally-Anne guardava affascinata: non aveva mai visto prima una ragazza negra arrossire. "Sì, aveva detto che voleva parlare a mio padre. Io avevo già pre-
parato il loro incontro." "Grazie, mia cara" disse cortesemente Joseph Petal. Durante l'interrogatorio del difensore, l'assistente del pubblico ministero era tornato al suo posto porgendo ad Abel Khori un foglio di appunti manoscritti. Abel Khori lo stava consultando quando si alzò per il controinterrogatorio. "Signorina Nyoni, può spiegare alla corte il significato della parola sindebele isifebi?" Tungata Zebiwe emise un ruggito soffocato e fece per alzarsi, ma gli agenti di guardia lo trattennero. "Significa prostituta" rispose tranquillamente Sarah. "Non significa anche "donna non sposata che convive con un uomo?..." "Vostro onore!" L'avvocato Petal era indignato. Il giudice Domashavva gli diede ragione. Ma ormai la frecciata dell'accusa era stata vibrata. "Signorina Nyoni" riprovò Abel Khori. "Lei ama l'accusato? Per favore parli forte, non la sentiamo." Stavolta la voce di Sarah echeggiò chiara e ferma, in tono quasi di sfida. "Sì, lo amo." "E pronta a fare qualsiasi cosa per lui?" "Sì." "Anche a mentire per salvarlo?" "Mi oppongo, vostro onore" esclamò Joseph Petal, saltando in piedi. "E io ritiro la domanda" replicò Abel Khori prevenendo l'intervento del giudice. "Mi lasci piuttosto contestarle, signorina Nyoni, di aver fornito all'imputato un magazzino presso la scuola di Tuti per nascondervi l'avorio e le pellicce illegalmente procurati mediante bracconaggio!" "No" scosse la testa Sarah. "Lui non avrebbe mai..." "E che è stata lei a dirigere le operazioni di carico del bottino sul camion!" "No! No!" gridò Sarah. "Quando vi siete parlati al telefono, non le ha forse ordinato di spedire il carico?" "No! E un brav'uomo" singhiozzò Sarah. "Un grand'uomo e un brav'uomo! Non farebbe mai niente di simile!" "Nessun'altra domanda, vostro onore." Tutto soddisfatto di se stesso, Abel Khori sedette al proprio posto chinandosi a ricevere le congratulazioni degli assistenti. "Chiamo a testimoniare l'imputato, il ministro Tungata Zebiwe." Era una mossa rischiosa da parte della difesa. Perfino Clay, che non aveva particolari conoscenze giuridiche, si era accorto che Khori era un osso duro come pubblico accusatore. Joseph Petal cominciò rammentando la posizione di Tungata nella comunità, i suoi meriti di patriota, la sua vita frugale. "Lei possiede beni immobili?" "Sì, ho una casa ad Harare." "Vuol dire alla corte quanto l'ha pagata?" "Quattordicimila dollari." "Non è un gran che per una casa, non le pare?" "Anche la casa non è un gran che." La risposta di Tungata, molto spontanea e pronta, strappò un sorrisetto anche al giudice. "Ha un'automobile?" "Dispongo dell'auto ministeriale." "Conti bancari all'estero?" "No." "Mogli?" "Nessuna.,," diede uno sguardo a Sarah Nyoni, che sedeva in ultima fila "... per ora" concluse. "Altre donne conviventi?" "Una vecchia zia che abita con me. Si occupa del ménage." "Veniamo alla sera in questione. Può dire alla corte perché si
trovava sulla strada di Karoi?" "Stavo andando alla missione di Tuti." "Per quale ragione?" "A trovare la signorina Nyoni, e parlare con suo padre di questioni personali." "La sua visita era stata preannunciata?" "Sì, in una conversazione telefonica con la signorina Nyoni." "Era andato a trovarla in precedenza, più di una volta?" "Sì, parecchie volte." "E come si sistemava in quelle occasioni?" "In un indiu dal tetto di paglia riservato a me." "Una capanna? Col materassino e il fuoco accanto?" "Sì." "E non la riteneva una sistemazione indegna della sua carica?" "Al contrario, mi fa piacere, appena posso, tornare ai modi di vita tradizionali del mio popolo." "Qualcuno divideva con lei la capanna?" "Sì, l'autista e le guardie del corpo." "La signorina Nyoni veniva a trovarla nella capanna?" "Sarebbe stato contrario alle nostre usanze e alle leggi della tribù." "Il pubblico ministero ha usato la parola isifebi... lei che ne pensa?" "Che può applicarla forse a donne di sua conoscenza; io non conosco nessuna a cui si attagli." Ancora una volta il giudice sorrise, come pure gli assistenti di Abel Khori. "E ora, signor ministro, ci dica se qualcuno conosceva la sua intenzione di far visita alla sua fidanzata alla missione di Tuti." "Non era certo un segreto. L'avevo anche scritto sull'agenda." "Ha ancora la sua agenda?" "No. Ho chiesto alla mia segretaria di farla pervenire alla difesa, ma non l'ha più trovata. E sparita dalla scrivania." "Capisco. Quando ha detto all'autista di star pronto a partire, l'ha informato della destinazione?" "Ma certo." "Lui dichiara di no." "Vuol dire che gli fa difetto la memoria. A volte capita a chi prende dei colpi in testa" commentò Tungata alzando le spalle. Il giudice picchiò col martello sullo scranno. "Quella sera, sulla strada di Karoi, avete incontrato qualche veicolo?" "Sì, un camion fermo sul ciglio della strada, nel buio, col muso puntato verso di noi." "Può dire alla corte che cosa è successo allora?" "Il camionista ha acceso i fari e poi ha lampeggiato tre volte. Nello stesso tempo si è immesso sulla strada." "In maniera da obbligare la vostra automobile a fermarsi?" "Esatto." "Cosa ha fatto allora?" "Ho detto all'autista: "Accosta ma sta' attento, potrebbe essere un' imboscata." "Non si aspettava di incontrare quel camion là, allora?" "Per niente." "Non ha detto: "Eccolo lì! Accosta e ferma" ?" "Niente affatto." "Cosa intendeva dire con le parole: "Potrebbe essere un'imboscata" ?" "Di recente molti veicoli sono stati attaccati da banditi armati, shufta, specialmente di notte su strade solitarie." "Così, quali erano le sue sensazioni?" "Mi aspettavo dei guai." "Cosa è successo poi?"
"Due delle mie guardie del corpo sono scese dalla Mercedes e sono andate a parlare con il camionista." "Dal suo posto in macchina ha potuto vedere il camionista?" "Sì, era un perfetto sconosciuto, non l'avevo mai visto prima." "Qual è stata allora la sua reazione?" "A quel punto ero molto preoccupato." "E poi che cosa è successo?" "All'improvviso si sono accesi degli altri fari sulla stradadietro di noi. Una voce al megafono ci ha ordinato di arrenderci e gettare le armi. La Mercedes è stata circondata da uomini armati e io ne sono stato estratto a forza." "Ha riconosciuto qualcuno di questi uomini?" "Sì, quando mi hanno tirato fuori dalla macchina ho riconosciuto il generale Fungabera." "E questa vista l'ha tranquillizzata?" "Al contrario, mi sono convinto di essere in pericolo di vita." "Come sarebbe a dire, signor ministro?" "Il generale Fungabera comanda una brigata ben nota per atti di violenza contro i matabele..." "Obiezione, vostro onore... la Terza Brigata è una unità dell'esercito regolare di questo paese e il generale Fungabera un alto ufficiale ben noto e rispettato, nonché ministro degli Interni" gridò Abel Khori. "L'obiezione dell'accusa è completamente giustificata" disse il giudice schiumando dalla rabbia. "Non intendo permettere all'imputato di insultare un valoroso soldato e i suoi uomini. Non posso ammettere che l'imputato semini zizzania e odio tribale davanti a questa corte di giustizia. L'avverto quindi che, se continua così, lo condannerò per oltraggio alla corte." Joseph Petal attese per una buona trentina di secondi che il testimone si riprendesse da quella tirata. "Lei dice che si sentiva in pericolo?" "Sì" rispose tranquillo Tungata. "Lei, dunque, era teso e nervoso." "Sì." "Ha visto i soldati scaricare l'avorio e le pellicce dal camion?" "Sì." "Qual è stata la sua conclusione?" "Ho pensato che si trattasse di una montatura per incriminarmi o forse uccidermi." "Obiezione, vostro onore" gridò Abel Khori. "Non avvertirò di nuovo l'imputato" disse minacciosamente il giudice. "Che cosa è successo dopo?" "La signorina Jay ha lasciato il veicolo su cui era arrivata e mi è passata vicino. I soldati erano distratti. Pensavo che fosse la mia ultima occasione. Ho afferrato la signorina per impedire che i soldati sparassero e ho tentato la fuga in Land Rover." "Grazie, signor ministro." Il difensore si rivolse al giudice. "Vostro onore, il mio cliente è stato appena sottoposto a forti tensioni. Le chiedo di aggiornare il controinterrogatorio a domat tina." Abel Khori schizzò in piedi, assetato di sangue. "E solo mezzogiorno, l'accusato è rimasto alla sbarra per meno di mezz'ora, e l'avvocato della sua stessa difesa l'ha trattato reote et suaviter. Trattandosi di un soldato indurito e addestrato, ritengo che un simile interrogatorio sia per lui una mera bagattella per se." Abel Khori, colto da agitazione, c'era ricascato. "L'udienza continua, avvocato Petal" decise il giudice, e Joseph Petal alzò le spalle. "A lei il testimone, signor pubblico accusatore." Abel Khori era nel suo elemento. Divenne lirico e poetico.
"Lei ha deposto di temere per la sua vita. E io dico: sì, lei temeva e giustamente temeva quella sera, ma temeva di pagare il fio delle sue colpe! Temeva la prospettiva di affrontare un processo esemplare davanti a questa corte che rappresenta il popolo del nostro paese, temeva la collera dell'uomo dotto e giusto, in toga scarlatta, che ora siede davanti a lei!" "No." "Fu la cattiva coscienza, nient'altro che la cattiva coscienza a spingerla a imbarcarsi in tutta una serie di azioni vili e criminose che..." "No. Non è così." "Quando lei ha afferrato la graziosa signorina Jay, non ha forse esercitato un'eccessiva forza fisica per torcerle il braccio dietro la schiena? Non ha forse imperversato vilmente su quelle membra tenere e giovani? Non l'ha forse tempestata di cazzotti bestiali?" "L'ho colpita una sola volta per impedirle di farsi molto male gettandosi giù dalla macchina." "Non ha forse puntato un'arma mortale, per la precisione un fucile-mitragliatore d'assalto kalashnikov, che sapeva carica, contro la persona del generale Peter Fungabera?" "L'ho minacciato col fucile. Questo è vero, sì." "Dopo di che gli ha sparato, mirando al ventre, non è così?" "Non ho sparato a Fungabera, l'ho mancato di proposito." "Io l'accuso di aver cercato di uccidere il generale, che si è salvato solo grazie ai suoi prontissimi riflessi!" "Se avessi cercato di ammazzarlo" disse Tungata piano, "adesso non sarebbe qui." "Quando ha rubato la Land Rover, sapeva che era di proprietà dello Stato?" "E vero che ha puntato l'AK 47 contro il signor Clay Mellow?" "E vero che solo il coraggioso intervento della signorina Jay le ha impedito di ucciderlo?" Per quasi un 'ora Abel Khori imperversò sull 'impassibile Tungata, strappandogli una quantità di ammissioni incriminanti, sicché, quando alla fine tornò a sedersi al suo posto, pavoneggiandosi come un gallo da combattimento vittorioso, Clay pensò che l'avvocato difensore aveva pagato a caro prezzo qualunque piccolo vantaggio che la chiamata dell'imputato al banco dei testimoni poteva assicurargli. Tuttavia, l'arringa finale dell'avvocato Petal fu abilmente congegnata per attirare la simpatia sul suo cliente, e per spiegare e giustificare tutte le azioni di Tungata Zebiwe quella sera senza offendere le convinzioni patriottiche, o piuttosto gli istinti tribali, dei giudici del tribunale. "Emetterò la sentenza domani" disse il giudice Domashavva, e la corte si alzò. Il pubblico prese a sfollare commentando l'interrogatorio dell'imputato. A pranzo Sally-Anne ammise che, per la prima volta dall'inizio di quella storia, si era sentita dispiaciuta per Sarah. "E una bimba così dolce." "Bimba? Credo che abbia uno o due anni più di te" ridacchiò Clay. "Così tu diventi una neonata, al suo confronto." Ignorò i suoi scherzi e continuò, seria: "Crede tanto in lui che per un attimo perfino io ho dubitato di ciò che ben sapevo... Poi, naturalmente, Abel Khori mi ha riportata coi piedi per terra."
Il giudice Domashavva lesse la sentenza con quella sua voce precisa, da vecchia zitella, che in qualche modo non si adattava alla gravità dell'argomento. Dapprima prese in esame i fatti su cui accusa e difesa concordavano, e poi il resto. "La difesa si è basata su due pilastri principali: il primo è la testimonianza della signorina Sarah Nyoni, la quale asserisce che la sera dell'arresto l'imputato era diretto a quello che, in mancanza di una parola migliore, defini-
remo un convegno d'amore, e che l'incontro con il camion fu una coincidenza o uno stratagemma ordito da ignoti non si sa come." "Ora, la signorina Nyoni ha colpito questa corte per la sua modestia e la sua ingenuità, e per la sua ammissione di essere completamente sotto l'influenza dell'imputato. La corte è quindi costretta a prendere in esame la possibilità, denunciata dall'accusa, che la signorina Nyoni possa essere stata influenzata dall'imputato al punto di divenire sua complice nel contrabbando d'avorio. La corte ha pertanto deciso di respingere la testimonianza della signorina Nyoni come inaffidabile e sospetta." "Il secondo pilastro della difesa riposa sulla premessa che la vita dell'imputato fosse minacciata, o che così egli credesse allora, dagli ufficiali che volevano arrestarlo; e che per questa credenza egli si sia spinto ad azioni irragionevoli e irresponsabili in stato di legittima difesa putativa." "Il generale Peter Fungabera è un membro del governo e un militare dalla reputazione impeccabile. La Terza Brigata è una unità scelta dell'esercito regolare: i suoi soldati, benché veterani induriti dalle battaglie, sono soldati disciplinati e addestrati." "Pertanto la corte respinge categoricamente l'idea che sia il generale Fungabera sia i suoi uomini potessero anche lontanamente costituire un'ipotetica minaccia per la sicurezza o addirittura la vita dell'imputato. La corte esclude anche la possibilità che l'imputato potesse credere davvero una cosa del genere." "Vengo dunque alla prima delle accuse, riguardante il contrabbando d'avorio e gli altri trofei di animali protetti della fauna nazionale. Dichiaro l'imputato colpevole e lo condanno al massimo della pena, dodici anni di lavori forzati." "Per quanto concerne la seconda accusa, il sequestro di persona, dichiaro l'imputato colpevole e lo condanno a dieci anni di lavori forzati." "Per aggressione a mano armata, di cui pure lo dichiaro colpevole, lo condanno a sei anni di lavori forzati." "Per aggressione semplice e tentate lesioni, sei anni di lavori forzati." "Tentato omicidio, sei anni di lavori forzati." "Ordino che tali sentenze siano eseguite di seguito e che nessuna parte della pena possa essere sospesa." Perfino Abel Khori sussultò all'udire questo. La somma delle pene arrivava a quarant'anni. Anche con la buona condotta, Tungata non sarebbe uscito prima di trent'anni, tutto il resto della sua vita, praticamente. Tra il pubblico una donna negra gridò in sindebele: "Baba! Padre! Ci stanno togliendo nostro padre!" Altri ripresero il grido: "Il padre del popolo! Il padre del popolo è morto per noi!" Un uomo cominciò a cantare con cupa voce baritonale: Perché piangete, vedove di Shangani... Perché piangete, figlioletti delle Talpe, quando vostro padre esegue gli ordini del re? Era una delle vecchie canzoni di guerra degli impi del re Lobengula, e chi la cantava era un uomo maturo, con un viso forte e intelligente e la barba a forma di ferro di lancia spruzzata di grigio. Mentre cantava, le lacrime gli inondavano le guance e la barba. In un'altra epoca poteva essere induna di qualche impi reale. La canzone fu ripresa dagli altri uomini accanto a lui, e il giudice Domashavva balzò in piedi infuriato. "Se non fate subito silenzio, farò sgombrare l'aula e condannerò i disturbatori per vilipendio" gridò sovrastando il canto, ma ci furono altri cinque minuti di confusione prima che le guardie riuscissero a riportare l'ordine. Per tutto questo tempo Tungata Zebiwe se ne rimase tranquillo
nella gabbia degli imputati, solo con l'ombra di un sorriso di derisione sulle labbra. Quando tutto fini, ma prima che le guardie lo portassero via, guardò Clay Mellow dall'altra parte dell'aula e gli fece un altro segnale. Era un segnale che finora si erano sempre scambiati per gioco, magari dopo aver fatto la lotta o qualche altra gara tra amici. Ora, però, Tungata non scherzava affatto. "Pari siamo" diceva, e Clay capì fino in fondo. Lui aveva perso la gamba e Tungata la libertà. Erano pari. Voleva dire all'uomo che era stato un tempo suo amico che era un magro affare, che non gli andava affatto a genio, ma Tungata si era già girato. Le guardie cercavano di trascinarlo via, ma Tungata resisteva, cercando con lo sguardo un'altra persona nell'aula affollata. Sarah Nyoni salì su una panca e lo salutò con le mani levate sopra le teste del pubblico. Tungata le fece un altro dei suoi segnali. Clay lo vide chiaramente: "Nasconditi!" le ordinava Tungata. "Sparisci! Sei in pericolo." Dall'espressione alterata che si stampò sul suo viso, Clay vide che la ragazza aveva capito. Poi le guardie riuscirono a trascinare Tungata Zebiwe giù dalle scale che conducevano alle celle sotterranee.
Clay Mellow si fece spazio a gomitate tra la folla di matabele che cantavano tristi per la condanna di Tungata nei corridoi del palazzo di giustizia e sul viale affollato di pedoni che andavano a pranzo. Prese per il braccio Sally-Anne e la trascinò via bruscamente sottraendola all'assedio di reporter e fotografi. Al parcheggio la fece salire sulla Land Rover e ci girò attorno per mettersi alla guida, minacciando col pugno il più insistente dei fotografi, che li aveva seguiti fin lì. Andò direttamente a casa di lei e si fermò davanti alla porta. Non spense nemmeno il motore. "E adesso?" gli chiese Sally-Anne. "Non capisco la domanda" replicò lui. "Ehi! Siamo amici, non ti ricordi di me?" "Mi spiace." Si accasciò sul volante. "Mi sento da cani. Sono a pezzi." La donna non rispose, ma i suoi occhi erano pieni di compassione per lui. "Quarant'anni" sussurrò. "Non l'avrei mai pensato. Se lo avessi saputo..." "Non potevi farci proprio niente, né allora né adesso." Tirò un pugno sul volante. "Poveraccio! Quarant'anni!" "Vieni su?" gli domandò dolcemente, ma lui scosse la testa. "Devo tornare a King's linn. E da quando è cominciata 'sta brutta storia che non ci metto piede." "Ci vai adesso?" Era sbalordita. "Sì." "Solo?" gli chiese, ed egli annuì. "Ho voglia di stare solo." "Così puoi torturare te stesso." La sua voce si indurì. "Che io sia dannata se te lo permetterò. Vengo con te. Aspetta! Metto due cose in valigia e vengo. Non fermare nemmeno il motore, faccio in un secondo." Ci mise cinque minuti, e corse giù dalle scale con una sacca e la borsa delle macchine fotografiche. Le appoggiò sul sedile posteriore della Land Rover. "Okay, andiamo." Parlarono pochissimo durante il lungo viaggio, ma ben presto Clay le fu grato per esser venuta, grato per il sorriso che gli rivolgeva quando la guardava, per il tocco della sua mano quando capiva che i pensieri che gli passavano per la testa erano troppo
tristi, grato per il suo silenzio che non gli chiedeva nulla. Arrivarono alle colline di King's linn al tramonto. Joseph li aveva visti arrivare da lontano, e li aspettava sulla veranda. "Ti vedo, Nkosazana." Dal primo incontro aveva sviluppato una gran simpatia per Sally-Anne. Già era "la padroncina" e un gran sorriso turbava la sua solita dignitosa gravità, mentre ordinava ai servi di scaricare il magro bagaglio. "Le preparo il bagno, molto caldo." "Ah, magnifico, Joseph." Dopo il bagno venne sulla veranda e Clay andò a prepararle un whisky come piaceva a lei, e un altro per sé con solo uno schizzetto di soda. "Al giudice Domashavva" disse alzando ironicamente il bicchiere "e alla quarantennale giustizia mashona." Sally-Anne rifiutò il vino a cena, nonostante le sue proteste. ""Il barone Rothschild avrebbe tutto il diritto di prendersela. Il suo vino migliore! L'ultima bottiglia, che ho contrabbandato personalmente nel paese!" Erano scherzi un po' stentati. Dopo cena, mentre Clay versava il brandy, Sally-Anne gli disse: "Clay, per piacere, non ubriacarti." Si fermò con la bottiglia in mano e la guardò in faccia. "No" continuò lei scuotendo la testa. "Non è per comandarti a bacchetta. Sono egoista: stanotte ti voglio sobrio." Clay mise giù la bottiglia, spinse indietro la sedia e fece il giro del tavolo. Ella si alzò in piedi ad accoglierlo. Si fermò davanti a lei. "Oh mia cara, è tanto che aspettavo!" "Lo so" sussurrò lei. "Anch'io." La prese cauto tra le braccia, come una cosa fragile e preziosa, e la sentì cambiare a poco a poco. Sembrò ammorbidirsi, e il suo stesso corpo parve diventare malleabile, conformandosi a quello di lui dalle ginocchia al fermo grembo giovanile, mentre il suo calore si propagava in fretta a Clay attraverso i vestiti leggeri. Egli chinò la testa mentre lei sollevava il mento, e le loro bocche si unirono. Le labbra di Sally-Anne erano fresche e asciutte, ma quasi immediatamente si scaldarono e si aprirono, umide e dolci come un fico appena colto dalla pianta al sole, che si spalanca succoso e maturo. Clay la guardò negli occhi mentre la baciava, meravigliandosi dei colori e dei disegni che formavano un nembo intorno alle pupille verdi attraversate come da punte di freccia dorate: poi le ciglia lunghe e folte della donna si chiusero su quello spettacolo, sigillandosi. Anche Clay chiuse allora i propri occhi, e la terra gli parve scuotersi e ballare sotto i piedi: egli assaporò la sensazione, tenendo la ragazza stretta a sé senza ancora cercare, però, di esplorare il suo corpo, contentandosi della meraviglia della sua bocca, e della sensazione vellutata della lingua di lei contro la sua. Joseph aprì la porta della cucina e si presentò col vassoio del caffè in mano. Restò lì un momento, poi sorrise e si ritirò, chiudendo la porta. Nessuno di loro l'aveva sentito andare o venire. Quando lei sottrasse la bocca, Clay si sentì tradito e derubato, e la cercò di nuovo. Sally-Anne gli coprì le labbra con le dita trattenendolo per il momento, e il suo sussurro fu così roco che dové schiarirsi la gola e ripetere: "Andiamo nella tua camera da letto, tesoro." Un brutto momento fu quando egli sedette nudo sul bordo del letto per togliersi la gamba artificiale. Ma in fretta lei si inginocchiò davanti a Clay, anch'ella nuda, gli spostò le mani e provvide a slacciare le cinghie. Poi chinò la testa e gli baciò il tozzo e duro moncherino all'estremità della gamba. "Grazie" le disse Clay. "Sono lieto che tu l'abbia fatto senza repulsione." "Si tratta di te" replicò Sally-Anne "di una parte di te" e di nuovo
baciò il moncherino: poi le sue labbra salirono dolcemente fino al ginocchio e oltre.
Clay si svegliò prima di lei e restò coricato a occhi chiusi, in preda a un dolce sbigottimento di cui ancora non ravvisava il motivo: all'improvviso ricordò tutto e la gioia lo inondò. Aprì gli occhi e guardò al suo fianco, terrorizzato dalla possibilità che lei non ci fosse, ma c'era. Aveva buttato il cuscino giù dal letto e spostato il lenzuolo; era raggomitolata come una bambina, con le ginocchia quasi sotto il mento. La luce dell'alba, filtrata dalle tende, le gettava lumi perlacei sulla pelle, ombreggiando le fessure e le concavità del suo corpo. I capelli sciolti le coprivano il volto e ondeggiavano a ogni suo lungo e lento respiro. Clay giacque immobile per non disturbarla e la contemplò, col vivo desiderio di toccarla, negandoselo però per rendere il desiderio ancor più pungente, in attesa che diventasse intollerabile. Ella dové avvertire la sua attenzione, perché distese le gambe, si girò sulla schiena e si inarcò stirandosi lentamente e voluttuosamente, come una gatta. Clay si chinò su di lei e le scostò i lucidi capelli scuri dal volto. Gli occhi di Sally-Anne lo inquadrarono, lo misero faticosamente a fuoco, e poi lo guardarono sbarrati in comica stupefazione. Quindi ella sogghignò a bocca storta. "Ehi, mister" glisussurrò "sei davvero qualcosa di speciale. Adesso mi dispiace di aver aspettato tanto." E gli tese le braccia abbronzate per stringerlo. Tuttavia Clay non condivideva i suoi rimpianti. Sapeva che il tempo era stato quello giusto. Anche un giorno prima, sarebbe stato troppo presto. Più tardi glielo disse, mentre giacevano abbracciati, incollati leggermente l'uno all'altra dal loro stesso sudore. "Abbiamo imparato a piacerci prima, era così che volevo che fosse." "Hai ragione" disse lei, e si tirò indietro un poco per guardarlo in faccia. In tal modo le sue mammelle produssero un piccolo risucchio deliziosamente osceno staccandosi dal torace di Clay. "Mi piaci proprio, sai?" "E io.,," cominciò lui, ma Sally-Anne gli coprì in fretta la bocca con le dita. "Non ancora, Clay caro" l'implorò. "Non voglio sentirlo... non ancora." "Quando?" le domandò lui. "Presto, credo.,," e poi con più sicurezza: "Sì" disse "presto, e sarò in grado di dirtelo anch'io."
La gran tenuta di King's linn sembrava aver atteso, come loro, che tutto ciò accadesse di nuovo. Molto tempo prima era stata strappata alla boscaglia: l'amore di un altro uomo per un'altra donna ne aveva ispirato la creazione, e nel corso dei decenni essa fu mantenuta e riscaldata dall'amore di altre coppie, che avevano seguito la prima. Esse, e le generazioni successive, giacevano ora nel cimitero cintato sul kopje dietro la casa, ma finché erano vissute King's linn era fiorita. Così come era invece deperita cadendo nelle mani di estranei indifferenti; era stata dissacrata e privata dell'ingrediente vitale dell'amore. Anche quando Clay aveva ricostruito la casa e ripopolato i pascoli, quel vitale elemento era continuato a mancare. Adesso però finalmente l'amore dimorava di nuovo a King's linn, e la loro vicendevole gioia sembrava irradiare dalle mura di casa permeando l'intera tenuta, instillando nella terra l'alito della vita e la feconda promessa di altre vite. I matabele se ne avvidero immediatamente. Quando Clay e SallyAnne, sulla scarcassata Land Rover, percorrevano le rosse piste
che costeggiavano i vasti pascoli, le donne matabele lasciavano i mortai in cui stavano pestando il mais per fare la farina e li guardavano, per salutarli con uno sguardo affettuoso e illuminato da un'intima consapevolezza d'amore. Lo stesso facevano se per caso stavano portando a casa in equilibrio sulla testa delle fascine pesanti di legna da ardere. Il vecchiò Joseph non diceva niente, ma rifaceva il letto di Clay con quattro cuscini e metteva fiori sul comodino dalla parte che aveva scelto Sally-Anne, piazzando quattro dei suoi biscotti specialissimi sul vassoio della prima colazione che gli serviva a letto all'alba. Per tre giorni Sally-Anne si trattenne, e poi una bella mattina seduta sul letto a sorbir tè disse a Clay: "Quelle tende sembrano proprio strofinacci da cucina" indicando con un biscotto mangiucchiato le pezze di cotone greggio che aveva fatto attaccare alle finestre. "Sapresti fare di meglio?" le chiese Clay con sottile astuzia, e lei cadde nella trappola a piedi pari. Non appena coinvolta nella scelta delle tende, si trovò immediatamente coinvolta in tutto il resto. Dal disegno dei mobili per il parente di Joseph, il famoso falegname, perché li costruisse, alla ristrutturazione dell'orto, dei roseti e delle aiuole dove tutti i fiori erano morti. Quindi anche Joseph entrò nella congiura, sottoponendole il progetto di menù serale. "Nkosazana, che si mangia stasera, arrosto o pollo al curry?" "A Nkosi Clay piace la trippa" disse Sally-Anne, che l'aveva scoperto parlando del più e del meno. "Non puoi fare trippa con cipolle?" Joseph raggiava. "Al vecchio governatore generale, prima della guerra, tutte le volte che veniva a Kingi Lingi gli facevo trippa con cipolle. "E mondiale, Joseph" , mi diceva sempre!" "Okay, Joseph, allora stasera trippa mondiale" rise Sally-Anne; e solo quando Joseph, serio serio, le porse le chiavi della dispensa, comprese che si era assunta una bella responsabilità. Era presente a mezzanotte, quando nacque il primo vitello a King's linn: un parto difficile, perché aveva la testa rivolta all'indietro, sicché Clay dovette insaponarsi il braccio e infilarlo nella matrice per liberare il vitellino, mentre Shadrach e Hans Groenewald tenevano ferma la testa della bufala e Sally-Anne faceva luce con la lanterna. Alla fine, quando nacque con un risucchio prodigioso, era un vitellino color crema che rimase ritto sulle lunghe incerte zampe. Ben presto si attaccò alle mammelle e poterono tutti tornarsene a dormire. "E stata una delle esperienze più belle della mia vita, tesoro. Chi è che ti ha insegnato a farlo?" "Mio nonno Bawu." L'abbracciava stretta, in camera da letto. "Non ti ha fatto schifo?" "Anzi, mi ha affascinata, come ogni nascita." "Io invece, come Enrico VIII, le nascite le preferisco in astratto" ridacchiò lui. "Cioè, preferisco concepirle." "Maschiaccio" glisussurrò. "Ma non sei troppo stanco?" "E tu?" "No" rispose lei. "Non direi la verità se dicessi di sì." In seguito fece uno o due tentativi non troppo convinti di levare le tende: "Oggi ho ricevuto un telegramma, il certificato di revisione del Cessna è pronto, dovrei andare a prenderlo a Johannesburg. "Aspetta due o tre settimane che vengo giù con te. Laggiù al sud c'è una terribile siccità e il prezzo delle bestie è precipitato. Potremmo fare il giro dei grossi allevamenti in aereo e concludere qualche affare." Così Sally-Anne rimandò, e le giornate si affastellarono l'una sull'altra, piene per entrambi d'amore e di lavoro: lavoro per il libro fotografico, per il nuovo romanzo, per il VwWF, per l'imminente apertura di Zambesi Waters, e per la gestione quotidiana di King's linn, che diventava sempre più bella.
A ogni settimana che passava, la volontà di Sally-Anne di rompere l'incantesimo che Clay e King's linn le stavano intessendo addosso si indeboliva, e le esigenze della sua vita precedente impallidivano, finché un giorno si colse a pensare a King's linn come a casa sua e questo non riuscì quasi nemmeno a stupirla. Una settimana dopo, le fu inoltrata una lettera da Harare. Era un modulo da compilare per rinnovare l'impegno annuale per il VVWF. Invece di compilarlo e rispedirlo subito, lo infilò nella borsa delle macchine fotografiche. "Lo compilo domani" promise a se stessa, ma in fondo al cuore si rendeva conto di essere arrivata a un bivio della sua vita. La prospettiva di girarsene sola per l'Africa sul suo aeroplanino, con soltanto un ricambio di biancheria e la macchina fotografica con sé, dormendo dove le capitava e lavandosi quando poteva, non era più attraente come un tempo per lei. Quella sera a cena si guardò intorno. La sala da pranzo, vasta e quasi spoglia, abbellita soltanto dalle tende nuove; il tavolo, da refettorio, di teak rhodesiano messo insieme dal parente di Joseph: vedeva già la patina che l'uso ben presto gli avrebbe conferito. Poi lanciò uno sguardo oltre il candeliere, all'uomo che sedeva di fronte a lei, e provò un brivido di paura e una strana emozione. Sapeva di avere deciso. Presero il caffè sulla veranda e ascoltarono le cicale frinire sugli alberi di jacaranda, i pipistrelli squittire volando a caccia d'insetti sotto la luna gialla. Sally-Anne si raggomitolò contro la spalla di Clay e gli disse: "Clay, caro, è ora che te lo dica, anch'io ti amo, ti amo tanto." Clay voleva precipitarsi a Bulavvayo, tirar giù dal letto il giudice di pace, ma lei lo trattenne ridendo. "Mio Dio, ma tu sei pazzo, non è come comprare un chilo di pane! Non si può semplicemente saltar su e sposarsi." "Come no! Un sacco di gente lo fa." "Io no" disse la ragazza con decisione. "Io voglio farlo con tutti i crismi." Fece alcuni conti con le dita e il calendario, dopo di che decise: "Il sedici febbraio." "Ma è fra quattro mesi!" esclamò Clay, ma le sue proteste furono spazzate via senza pietà. D'altra parte anche Joseph era pienamente d'accordo con Sally-Anne. Era necessario un matrimonio in piena regola. "Sposati a Kingi Lingi, Nkosikazi!" Era un ordine. E ormai il sindebele di Sally-Anne era abbastanza progredito da apprezzare la promozione da "padroncina" a "grande signora." "Quanti invitati?" chiese Joseph. "Duecento, trecento?" "Dubito che riusciremo a metterne insieme tanti" lamentò Sally-Anne. "Quando si sposò Nkosana Roly a Kingi Lingi vennero quattrocento invitati; anche Nkosi Smithy venne." "Ma lo sai che sei un terribile snob, vecchio Joseph?" lo sgridò lei.
E così Clay superò la depressione della pesante condanna inflitta a Tungata, assorbito pian piano dall ' eccitazione e dall 'attività a King's linn. In pochi mesi dimenticò il suo ex amico, ricordandosene solo in alcuni momenti, quando meno se l'aspettava. Per il resto del mondo, Tungata Zebiwe non era mai esistito: dopo la cronaca del processo e della condanna fatta dai giornali e dalla radio-televisione, parve calare una cortina di silenzio su di lui. Poi, di colpo, ancora una volta il nome di Tungata Zebiwe fu ripetuto da ogni teleschermo e da ogni radio e comparve in prima pagina su tutti i giornali del continente.
Clay e Sally-Anne sedevano davanti al video, sbigottiti e increduli, di fronte alle prime notizie. Quando fini il telegiornale e andarono in onda le previsioni del tempo, Clay si alzò e andò a spegnere il televisore. Poi tornò a sedersi accanto a lei, muovendosi come un uomo in stato di shock dopo un terribile incidente. Restarono entrambi seduti in silenzio nella stanza buia, finché Sally-Anne non gli prese la mano. La strinse forte, tremando incontrollabilmente in tutto il corpo. "Povere bambine! Così piccole! Immaginarsi il loro terrore!" "Conoscevo i Goodwin, erano brava gente. Hanno sempre trattato bene i loro lavoranti negri" borbottò Clay. "Questo prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, che hanno avuto ragione a rinchiuderlo come un animale pericoloso." Il suo orrore stava cominciando a tramutarsi in furia. "Non posso immaginare cosa sperino di guadagnare con simili.,," Clay ancora incredulo scuoteva la testa. "Il paese intero, il mondo intero li giudicherà per quello che sono, dei macellai assetati di sangue.,," La voce le si ruppe, diventando un gemito. "Quelle povere bambine... oh Dio dei cieli, lo odio, vorrei che fosse morto." "Hanno usato il suo nome, ma questo non vuol dire che l'abbia architettato, saputo od ordinato Tungata" cercò di convincerla Clay. "Lo odio" sussurrò lei. "Lo odio per questo massacro." "E una follia. Tutto quello che possono ottenere è una sanguinosa repressione delle truppe shona nel Matabeleland." "La piccola aveva solo cinque anni" si ripeteva Sally-Anne nel suo sbigottimento e nel suo dolore. "Nigel Goodwin era un brav'uomo. Lo conoscevo benissimo, eravamo nello stesso reparto speciale della polizia durante la guerra. Mi era simpatico." Clay andò al mobile bar e preparò due whisky. "Per favore, Dio del cielo, fa' che non ricominci tutto da capo. Per favore, risparmiaci gli orrori, le atrocità e le crudeltà...
Benché Nigel Goodwin avesse avuto quasi quarant'anni, la sua era una di quelle facce rosa da vitellino che nemmeno il sole africano riusciva a invecchiare. Sua moglie Helen era una ragazza magra e bruna, bruttina ma sempre allegra e dagli occhi vivacissimi. Le due bambine durante la settimana studiavano al collegio delle suore di Bulavvayo. A otto anni, Alice Goodwin aveva i capelli e le lentiggini color dello zenzero e, come suo padre, era grassottella e rosea. Stephanie, la piccola, aveva cinque anni ed era troppo giovane per stare in collegio: ma, in considerazione del fatto che c'era sua sorella, la Reverenda Madre Superiora nel suo caso aveva fatto un'eccezione. Era carina, piccola, bruna e chiacchierina come un uccelletto, con gli occhi luminosi di sua madre. Ogni venerdì mattina Nigel e Helen Goodwin prendevano la macchina e percorrevano i centocinquanta chilometri che separavano il loro ranch dalla città. All'una andavano a prendere le bambine in collegio, mangiavano al ristorante del Selborne Hotel davanti a una bottiglia di vino, e nel pomeriggio andavano a fare acquisti. Helen riforniva la dispensa, comprava stoffe per farne vestiti per sé e le figlie, e poi, mentre le bambine s'infilavano nel cinema locale, andava dal parrucchiere a farsi lavare, tagliare e acconciare i capelli, l'unica stravaganza della sua semplice vita. Nigel era membro dell'Unione degli Agricoltori del Matabeleland e passava in sede a fare quattro chiacchiere coi soci presenti quel venerdì. Poi usciva e si metteva a passeggiare per le vie larghe e assolate, col cappello a larghe falde tirato indietro sul capo e le mani in tasca, fumandosi un bel sigaro di tabacco nero, salutando le persone di sua conoscenza che incontrava, bianche o negre che fos-
sero, e fermandosi ogni poco a scambiare quattro parole. Quando arrivava al parcheggio davanti allo spaccio della cooperativa, trovava ad attenderlo il soprastante matabele, Josiah, con due braccianti. Caricavano filo spinato, strumenti, mangimi e medicine per le bestie e quant'altro avevano comprato sul camioncino Toyota e aspettavano il ritorno di Helen e delle bambine. "Mi scusi, signorina" diceva sempre Nigel abbordando sua moglie "ha visto per caso la signora Goodwin a passeggio in città?" Era uno scherzetto che si ripeteva tutte le settimane. Helen ridacchiava, sistemandosi la permanente. Per le bambine c'era un cartoccio di liquirizia. Sua moglie protestava, affermando che i dolci fanno male ai denti, e Nigel strizzava l'occhio alle bambine dicendo: "Cosa vuoi che sia, per una volta non le ammazzeranno mica." Stephanie, siccome era la più piccola, viaggiava in cabina tra i genitori, mentre Alice saliva sul retro con Josiah e gli altri matabele. "Copriti, cara, che vien buio prima che siamo a casa" le diceva la mamma. I primi centoventi chilometri erano su strada asfaltata: poi Josiah saltava giù ad aprire il cancello di filo spinato della strada in terra battuta che portava alla fattoria. "Eccoci a casa" diceva contento Nigel, guidando sulla sua terra. Lo diceva sempre, e Helen sorrideva e gli posava la mano sul ginocchio. "E bello tornare a casa, caro" concordava con lui. L'improvvisa notte africana cadeva su di loro e Nigel accendeva i fari. Allora ai margini della strada si illuminavano a tratti, come catarifrangenti, gli occhi del bestiame, bufali grassi e soddisfatti, mentre sui pascoli, nell'aria fresca della sera, si spargeva l'odore acuto e ammoniacale del letame. "Il tempo è un po' secco" borbottava Nigel. "Ci vorrebbe la pioggia." "Sì, caro." Helen prendeva in braccio Stephanie e la piccola si addormentava raggomitolata sul grembo della madre. "Eccoci qua" mormorava Nigel. "Il cuoco ha acceso le lampade." Erano dieci anni che si riprometteva di installare un generatoredi corrente elettrica, ma c'era sempre da comprare qualcosa di più importante, così andavano avanti ancora col gas e il cherosene. Le -luci tremolanti della casa li accoglievano baluginando tra i rami del le acacie. Anche quella sera Helen scese con in braccio Stephanie, addormentata col pollice in bocca, le gambette magre e nude che pendevano. Nigel girò attorno al camion e tirò giù Alice. "Longile, Josiah, puoi andare. Scaricheremo il camion domani mattina" disse ai braccianti. "Buonanotte!" Tenendo Alice per mano, seguì sua moglie verso la veranda, ma prima di raggiungere la casa li abbagliò la luce di una potente pila. La famiglia si raccolse compatta. "Chi è là?" chiese irritato Nigel, coprendosi gli occhi con una mano, e con l'altra tenendo stretta Alice. I suoi occhi cominciarono a distinguere chi c'era dietro la pila, e di colpo temette per la vita di sua moglie e delle bambine. Erano tre negri, in jeans e giubbotto di denim. Avevano tutti un kalashnikov in mano, e glielo puntavano contro. Nigel si guardò in fretta alle spalle. C'erano altri estranei dietro di lui, ma non riuscì a vedere quanti. Erano usciti dalle tenebre e tenevano sotto la minaccia dei mitra Josiah e i due braccianti. Nigel pensò ai fucili nell'armadio d'acciaio, nel suo studio, all'estremità della veranda. Ma subito dopo ricordò che l'armadio era vuoto: il primo provvedimento del governo negro, dopo la guerra,
era stato quello di obbligare tutti i proprietari bianchi a consegnare le armi. E comunque non importava, perché non sarebbe mai riuscito a raggiungere l'armadietto. "Chi sono, papà?" chiese Alice, con la voce incrinata dalla paura. Lo sapeva benissimo anche lei chi potevano essere. Era abbastanza grande da ricordare la guerra. "Siate coraggiose, mie care" disse Nigel a tutte loro. Helen gli si strinse, sempre con la piccola Stephanie in braccio. Gli puntarono un mitra nella schiena e gli legarono le mani con del fil di ferro. Gli penetrò nelle carni. Poi tolsero Stephanie alla madre e la misero in piedi. Vacillò, insonnolita, sbattendo gli occhi come un gufetto alla luce della pila, continuando a succhiarsi il pollice. Legarono anche a Helen le mani dietro la schiena. Gemette di dolore, quando il filo le lacerò i polsi, e si morse le labbra. Due di loro andarono poi a legare anche le bambine. "Sono piccole" disse Nigel in sindebele. "Per favore, non legatele, non fate loro del male." "Taci, sciacallo bianco" rispose uno di loro nella stessa lingua, inginocchiandosi a legare Stephanie. "Fa male, papà" cominciò a piangere la piccola. "Fallo smettere! Mi fa male!" "Devi essere coraggiosa" ripeté Nigel, stupidamente e inadeguatamente, odiandosi. "Ormai sei una ragazzina grande." L'altro uomo andò da Alice. "Io non piangerò" promise. "Sarò coraggiosa, papà." "Brava, bambina mia" disse Nigel mentre l'uomo la legava. "Camminate!" comandò l'uomo con la pila, che era chiaramente il capo del gruppo, e con il calcio del fucile spinse le bambine sui gradini della veranda della cucina. Stephanie inciampò e cadde. Con le mani legate dietro la schiena non riusciva a rialzarsi, e sgambettava impotente. "Bastardi" sussurrò Nigel. "Bastardi schifosi." Uno di loro prese la bambina per i capelli e la rialzò in piedi. La piccola raggiunse di corsa la sorella contro il muro, sulla veranda. "Non fare la bambina piccola, Stephy" le disse Alice. "E un gioco." Ma nella voce si sentiva il terrore che aveva afferrato anche lei, e le lacrime le scorrevano in viso. Allinearono Helen e Nigel vicino alle bimbe e la pila illuminò loro la faccia diverse volte, avanti e indietro, abbagliandoli in modo che non poterono vedere che cosa succedeva intanto in cortile. "Ma perché fate questo?" chiese loro Nigel. "La guerra è "finita, e non vi abbiamo fatto niente di male." Nessuna risposta. Solo il raggio della pila che passava da una faccia all'altra, e il pianto di Stephanie, un pianto straziante. Si udì poi il mormorio di altre voci nell'oscurità, voci spaventate di molte persone, donne, uomini e bambini. "Hanno portato i braccianti a vedere" disse piano Helen. "E come durante la guerra, ci fucileranno." Parlò sottovoce per non farsi sentire dalle bambine. Nigel non trovò niente da risponderle. Sapeva che aveva ragione. "Vorrei averti detto più spesso quanto ti amo" le disse. "Non preoccuparti" glisussurrò lei in risposta. "So che mi hai sempre voluto bene." Ormai distinguevano i braccianti della fattoria, tutti i matabele del villaggio vicino: una massa nera illuminata dalle torce elettriche. Echeggiò su di essa la voce del capo. Parlò così, in sindebele: "Ecco gli sciacalli bianchi che si ingrassano sulla terra dei matabele. Ecco le iene che fanno lega con gli assassini mashona, i mangiamerda di Harare, i nemici giurati dei figli di Lobengula..." L'oratore stava scaldandosi, autosuggestionandosi per raggiungere uno stato di furia omicida. E già Nigel vedeva i suoi guerriglieri, che lo sorvegliavano, oscillare a ritmo e mugolare in risposta, inoltrandosi in quella esaltazione guerriera in cui la ragione non esi-
ste più. I matabele la chiamavano "follia divina." Al tempo del vecchio re Mzilikazi, di questa divina follia erano morte più di un milione di persone. "Ecco i bianchi che leccano il culo ai mashona, i traditori che hanno consegnato Tungata Zebiwe, il padre del nostro popolo, ai campi di sterminio dei mashona" gridò il capo. "Vi abbraccio tutte, mie care" sussurrò Nigel Goodwin. Helen non gli aveva mai sentito dire nulla di così tenero, e fu questo, non la paura, a farla cominciare a piangere. Cercò di ricacciare indietro le lacrime, ma le inondarono il viso. "Che dobbiamo fare di loro?" tuonò il capo. "Uccidiamoli!" gridò uno dei braccianti, ma la massa dei la voratori matabele restò zitta, nel buio. "Cosa dobbiamo fare di loro?" Ancora la domanda, seguita stavolta da rumore di colpi inferti col calcio del fucile sulla carne nera. "Uccidiamoli!" Una risposta atterrita, e altri colpi col calcio del fucile. "Uccidiamoli!" Il grido era stato ripreso. "Uccidiamoli!" "Abantwana kamina!" Era una voce di donna che Nigel riconobbe per quella della vecchia Martha, la bambinaia. "Le mie bambine!" gridava, ma la sua voce fu ben presto sopraffatta dal coro assordante di "a morte! a morte?" man mano che la "divina follia" si propagava. Due uomini vestiti di denim si fecero avanti nel chiarore delle torce elettriche. Presero Nigel e lo girarono contro il muro, poi lo costrinsero a mettersi in ginocchio. Il capo passò la pila a un altro e prese la pistola. Facendo scorrere l'otturatore mise un colpo in canna con un rumore secco, appoggiò la canna alla nuca di Nigel e sparò un colpo solo. Nigel cadde. Il contenuto del suo cranio schizzò sul muro imbiancato e prese a colare come un torrente gelatinoso verso il pavimento. Nigel stava ancora scalciando quando fecero inginocchiare anche Helen vicino al cadavere del marito. "Mamma!" gridò Alice, quando il colpo successivo devastò la fronte della donna facendole crollare il cranio all'interno. Tutto il coraggio finora pateticamente messo in mostra da Alice svani. La povera bambina cadde tremando sul pavimento della veranda, mentre il riflesso involontario le svuotava le viscere con un gorgoglio soffocato. Il capo andò da lei. La fronte della bimba poggiava quasi a terra, i capelli rossi si erano divisi mostrando la nuca tenera. Il capo tese il braccio e appoggiò la canna della pistola su quella morbida carne da cui il rumore dello sparo fu soffocato. Il braccio sobbalzò per il rinculo. Volute di fumo azzurrino si levarono alla luce della pila. La piccola Stephanie fu l'unica a fare resistenza, scalciando, e il capo la colpì in testa col calcio della pistola. Ma ancora la bambina piccola scalciava dibattendosi a terra nel sangue della sorella. Il capo la tenne ferma col piede sulle spalle. La pallottola entrò sopra la tempia sinistra, scavando sul pavimento di cemento della veranda un buco poco più grande di un ditale. Il buco si riempì subito del sangue della bambina. Il capo si chinò e ci infilò l'indice, intingendolo nel sangue scuro, e con esso scrisse sul muro di calce della veranda, a larghe lettere irregolari: TUNGATA ZEBIWE VIVE. Poi saltò giù dalla veranda e, come un leopardo, si allontanò silenzioso nelle tenebre della notte. I suoi uomini lo seguirono a passo veloce e in fila indiana.
"Io vi prometto solennemente" diceva il primo ministro "che
questi cosiddetti dissidenti saranno annientati, completamente annientati." Dietro gli occhiali dalla montatura d'acciaio i suoi occhi erano gelidi e opachi. La cattiva qualità della trasmissione televisiva aggiungeva un alone alla sua testa, trasformandola in una spettrale silhouette che non ne cancellava la rabbia, ma sembrava diffonderla dal video fin nel salotto di King's linn. "Non l'ho mai visto in uno stato simile" disse Clay. "Di solito assomiglia a un pesce lesso" concordò Sally-Anne. "Ho ordinato alla polizia e all'esercito di fare il possibile per catturare i responsabili di questa atrocità. Li scoveremo ed essi, con i loro sostenitori, proveranno tutta la potenza della rabbia del popolo. Noi non tollereremo oltre i dissidenti!" "Meno male" annuì Sally-Anne. "Non mi è mai andato troppo a genio, ma adesso comincia a piacermi." "Tesoro, non esserne troppo contenta" l'avvertì Clay. "Ricordati che siamo in Africa, non in America o in Inghilterra. Questa terra è molto diversa, le parole vi hanno un altro significato. Scovare, annientare, "fare il possibile" sfoceranno in altrettante atrocità come questa." "Clay, lo so che i matabele ti stanno simpatici, ma stavolta sicuramente..." "E va bene" disse alzando una mano" lo ammetto: i matabele mi stanno simpatici, la mia famiglia è sempre vissuta con loro, li abbiamo picchiati e sfruttati, abbiamo combattuto contro di loro e li abbiamo massacrati, e siamo stati massacrati da loro. Tuttavia siamo anche arrivati a conoscerli, a stimarli e a onorarli. Io non conosco i mashona. Sono freddi e riservati, astuti e intelligenti. Non so la loro lingua e non mi fido di loro. Ecco perché ho scelto di vivere nel Matabeleland." , Stai dicendo che i matabele sono dei santi? Che non sono capaci di commettere atrocità del genere?" Adesso si stava arrabbiando con lui. Il suo tono era più acuto, ed egli si précipitò a calmarla. "Mio Dio, non dico affatto questo! Sono crudeli come qualunque altra tribù africana, e molto più guerrieri di quasi tutte le altre nazioni. Ai vecchi tempi, quando attaccavano un'altra tribù, usavano lanciare in aria i bambini per infilzarli sulla punta dell'assegai, gettavano le vecchie nel fuoco e si divertivano a vederle bruciare. La crudeltà ha un valore diverso in Africa; se vivi qui è la prima cosa che devi capire." Fece una pausa e sorrise. "Una volta stavo discutendo di filosofia politica con un matabele, un ex guerrigliero, e gli spiegavo i principi della democrazia. La sua risposta è stata: "Non può funzionare. Forse da voi funzionerà, ma qui da noi non può funzionare." Non vedi? Questo è il punto. L'Africa crea e rispetta regole tutte sue, e io scommetto un milione di dollari contro una merda di elefante che nelle prossime settimane assisteremo a cose che non vedremmo certo in Pennsylvania o nel Dorset. Quando Mugabe dice "annientare" , non intende "imprigionare, processare e condannare." E un africano e intende proprio "annientare." Questo accadeva un mercoledì. Il venerdi successivo era giorno di mercato per King's linn, il giorno giusto per andare a Bulavvayo a far compere e visite. Clay e Sally-Anne partirono la mattina presto. Il nuovo camion da cinque tonnellate, pieno di matabele del ranch, seguì la loro Land Rover: i braccianti approfittavano del viaggio gratuito a Bulavvayo, vestiti della festa e tutti eccitati, cantando. Clay e Sally-Anne incapparono nel posto di blocco appena prima dell'incrocio di Thabas Indunas. C'era una fila di macchine lunga duecento metri, e Clay si avvide che gran parte di esse tornavano indietro. "Sta' al volante" disse a Sally-Anne, e scese, risalendo la fila di macchine a piedi.
Non si trattava di un blocco volante. Erano state piazzate diverse mitragliatrici pesanti protette da sacchetti di sabbia da entrambi i lati della strada, e in mezzo, in analoghi nidi, mitragliatrici leggere. Queste ultime avrebbero fermato senza fallo una macchina che cercasse di superare il blocco in velocità. Il blocco vero e proprio era di bidoni pieni di cemento e lamiere a spuntoni per bucare le gomme delle auto. I soldati erano della Terza Brigata, col tipico basco rosso dal leopardo d'argento. Le tute mimetiche da combattimento gli conferivano un'aria felina da tigre della giungla. "Che succede, sergente?" chiese Clay a uno di loro. "La strada è chiusa, Mambo" glirispose costui educatamente. "Passa solo chi ha il permesso rilasciato dal comando militare." "Devo andare in città!" "Oggi no" disse l'uomo scuotendo il capo. "Non è un buon posto dove stare, oggi, Bulavvayo." Come a conferma, dalla direzione della città si udirono detona-zioni a raffica. Sembravano rametti verdi che scoppiettassero al fuoco, e a Clay si accapponò la pelle. Conosceva fin troppo bene quel rumore, che gli riportò tutta una serie di ricordi raccapriccianti del tempo di guerra. "Torna a casa, Mambo" glidisse gentilmente il sergente." Non è più il tuo indaba, questo." Di colpo Clay fu molto impaziente di riportare a King's linn, sani e salvi, i braccianti matabele che seguivano sul camion. Tornò di corsa alla Land Rover e operò una conversione a "U." "Cosa c'è, Clay?" gli chiese Sally-Anne. "Credo sia cominciato" le disse tristemente, e schiacciò l'acceleratore a tavoletta. Incontrarono il camion carico di braccianti che cantavano tutti allegri. Clay lo fermò e saltò su a parlare con Shadrach, che sedeva in cabina accanto al conducente, nel vestito grigio di flanella che Clay gli aveva regalato. "Tornate indietro a Kingi Lingi" ordinò Clay. "Ci sono guai grossi in città. Nessuno deve lasciare Kingi Lingi finché non sarà tutto finito." "I soldati mashona?" "Sì" rispose Clay. "La Terza Brigata." "Sciacalli e figli di sciacalli mangiamerda" disse Shadrach, sputando fuori del finestrino aperto.
"Parlare di migliaia di innocenti uccisi dalle forze di sicurezza statali è una sciocchezza..." Il ministro della Giustizia dello Zimbabwe, col suo vestito scuro e la camicia bianca, sembrava un agente di Borsa di successo. Sorrise un po' stentatamente con la faccia nera lucida di sudore sotto i riflettori della televisione. "La verità è che uno o due civili sono rimasti uccisi incappando nel fuoco incrociato delle truppe con i fuorilegge matabele dissidenti. Ma parlare di migliaiaah ah ah?" ridacchiò gioviale. "Se è vero, sfido chiunque a farmi vedere i corpi di queste migliaia di persone uccise, per ché non mi risulta affatto." "Bene" disse Clay spegnendo il televisore. "Questo è tutto da Harare." Guardò l'orologio. "Quasi le otto, vediamo cosa dice la BBC." Durante il regime di Smith, con la censura imperante, gli uomini pensanti dell'Africa centrale si erano procurati radioricevitori a onde corte, ed era ancora una buona idea possederne uno. Quello di Clay era uno Yaesu Musen che captava facilmente il notiziario africano della BBC SU 2171 chilocicli. "Il governo dello Zimbabwe ha espulso dal Matabeleland tutti i giornalisti stranieri. L'Alto Commissario britannico ha significato
al presidente del Consiglio dello Zimbabwe la preoccupazione del governo di Sua Maestà circa le notizie di massacri perpetrati dalle truppe dell'esercito nel..." Clay cercò Radio Sudafrica e la captò chiara e forte. "... l'arrivo di centinaia di profughi dalla frontiera con lo Zimbabwe. I rifugiati sono tutti della tribù matabele. Un portavoce di questo gruppo ha descritto i massacri di civili a cui ha assistito nei villaggi: "Stanno ammazzando tutti" , ha detto. "Donne e bambini, e perfino polli e capre". Un altro profugo ha chiesto di non rimandarli indietro: "I soldati ci ammazzerebbero"". Clay cercò la Voice of America. "Il leader del partito ZAPU, che rappresenta la componente matabele dello Zimbabwe, il signor Joshua Nkomo, è giunto nello Stato confinante del Botswana dopo essere fuggito dal suo paese. "Hanno ammazzato il mio autista", ha dichiarato al nostro corrispondente. "Mugabe mi vuole morto, questa volta non ci sono dubbi." "Con il recente imprigionamento di tutti gli altri notabili del partito ZIPRA, la partenza dallo Zimbabwe di Nkomo lascia i matabele senza più leader né dirigenti in patria. Contemporaneamente il governo di Robert Mugabe ha calato il sipario della censura su tutto quanto sta avvenendo nella parte occidentale del paese: i giornalisti stranieri sono stati tutti espulsi e perfino una richiesta della Croce Rossa di inviare osservatori nella regione è stata respinta." "Siamo alle solite" disse Clay. "Mi viene la nausea."
Lunedì era il compleanno di Sally-Anne. Dopo colazione andarono insieme a Queen's linn, perché il regalo era stato affidato da Clay alle cure della signora Groenevvald, la moglie del fattore, per mantenere il segreto e la sorpresa. "Oh, Clay, com'è bello!" "Adesso hai due cuccioli cui badare a King's linn" le disse Clay. Sally-Anne alzò il cucciolo in braccio e lo baciò sul naso umido. Il cagnolino, color del miele, la ricambiò con una leccata infaccia. "E un cane-leone rhodesiano" le disse Clay. "Ma adesso bisognerà chiamarlo zimbabweano." Aveva la pelle troppo spessa per la sua taglia, e gli pendeva creando numerose rughe sulla fronte, dandogli un cipiglio preoccupato. La groppa presentava i segni tipici della razza. "Guarda che zampe!" gridò Sally-Anne. "Diventerà un mostro. Come devo chiamarlo?" Clay decretò una giornata di festa a Kingi Lingi per il compleanno di Sally-Anne. Presero il cucciolo e andarono a fare un picnic sulla riva del lago artificiale creato dalla diga ai confini meridionali della proprietà, e qui cercarono un nome per il cagnolino. Sally-Anne mise il veto al suggerimento di Clay, che voleva chiamarlo "Cane." Gli uccelli-tessitori dal muso nero svolazzavano trillando e facendo il nido sugli alberi sopra la loro testa. Joseph aveva messo nel cestino una bottiglia di vino bianco gelato. Il cucciolo andò a caccia di cavallette finché non cadde esausto sul tappetino accanto a Sally-Anne. Finirono il vino, e quando fecero l'amore sul drappo, Sally-Anne gli sussurrò seria: "Ssstt! Non svegliamo il cagnolino!" Tornarono quindi alla casa in collina e Sally-Anne all'improvviso disse: "Non abbiamo parlato mai dei disordini in tutta la giornata." "Non farci rovinare il record!" "Lo chiamerò Buster." "Perché?" "Perché così si chiamava il primo cucciolo che mi hanno re-
galato." Diedero a Buster la zuppa nella scodella che Clay aveva comprato per lui, e gli ricavarono una cuccia in una cassa di bottiglie di vino vuota, vicino alla stufa. Erano stanchi e felici, e quella sera trascurarono il libro e le foto e se ne andarono subito a letto dopo cena.
Clay fu svegliato da una raffica di mitra. I riflessi acquisiti in guerra lo scaraventarono in piedi ancor prima che fosse sveglio. Era fuoco di armi automatiche, raffiche brevi, molto vicine. Le raffiche brevi distinguono il mitragliere esperto, ricordò. Venivano dai piedi della collina, dove sorgeva il villaggio dei negri della fattoria. Si infilò la gamba, ora completamente sveglio, e il suo primo pensiero fu per Sally-Anne. Tenendosi basso, al riparo del davanzale delle finestre, fece il giro del letto e la mise per terra vicino a sé. Era nuda e tutta insonnolita. "Cosa c'è?" "Prendi" disse Clay, dandole la gonna che aveva afferrato dalla spalliera del letto. "Vestiti, ma sta' giù." Mentre lei cercava di infilarsi la gonna, seduta per terra, Clay tentava di padroneggiare i suoi pensieri. Non c'erano armi in casa, tranne i coltelli da cucina e una piccola ascia per tagliar la legna sulla veranda posteriore. Non c'erano ripari di sacchetti di sabbia, cavalli di frisia e riflettori, radio trasmittenti; nessuna delle difese che un tempo ogni fattoria aveva provveduto a installare. Un'altra scarica di mitragliatrice, seguita da un urlo di donna, flebile e subito interrotto. "Cosa succede? Chi è che spara?" La voce di Sally-Anne era abbastanza tranquilla. Era sveglia e non aveva paura. Clay provò un empito d'orgoglio per lei. "Sono i ribelli?" "Non lo so, ma non staremo certo ad aspettarli per scoprirlo" le rispose con una smorfia amara. Diede uno sguardo al soffitto di vimini che aveva appena fatto rifare. Era infiammabilissimo. La cosa migliore era uscire dalla casa e nascondersi nella boscaglia. Ma per questo dovevano creare una diversione. "Sta' lì" le ordinò. "Mettiti le scarpe e preparati a correre, torno fra un minuto." Strisciò fino al muro e si alzò in piedi. La porta della camera da letto era aperta ed egli schizzò in corridoio. Perse dieci secondi al telefono, sapeva benissimo che avevano tagliato i fili, e difatti così era" e proseguì lasciando pendere la cornetta muta e inservibile dall'apparecchio. Corse attraverso la cucina. C'era una sola diversione che gli veniva in mente, costituita dalla luce. Andò al quadro di controllo del generatore diesel e l'accese. Dall'altra parte del cortile il motore s'avviò nella sua buca. Le lampadine si accesero. Staccando gli appositi fusibili, precipitò nel buio completo il retro della casa, illuminando a giorno il davanti e la veranda. Per il retro potevano ora cercar di scappare non visti, mentre gli assalitori armati venivano accecati dalle potenti luci della facciata. Bisognava fare molto in fretta, però. Gli attaccanti non erano ancora arrivati, ma era certo questione di pochi secondi. Corse fuori della cucina, si fermò davanti alla porta che dava in sala da pranzo e contemplò per un attimo gli effetti dell'illuminazione sul davanti. Il prato, alla luce artificiale, era di un verde lussureggiante, e gli alberi di jacaranda vi incombevano sopra come guglie di cattedrale. Il fuoco era cessato, ma giù dal villaggio dei braccianti si udiva il lamento di una donna, quel tristissimo suono che accompagna il lutto in Africa. Gli fece venire la pelle d'oca. Clay sapeva che erano già in arrivo su per la collina. Stava per correre da Sally-Anne, quando colse un movimento al limitare dellà zona illuminata e cercò di vedere di chi si trattava. Sapere chi erano
gli attaccanti poteva assicurargli qualche piccolo vantaggio, anche se stava perdendo secondi preziosi. Era un uomo che correva verso la casa. Un negro, nudo... no, indossava una specie di perizoma, e non correva, ma barcollava come ubriaco, inciampando ogni poco. Sotto le luci della veranda il suo corpo brillava come unto d'olio, ma Clay si accorse che era sangue. L'uomo era tutto dipinto di rosso dal suo stesso sangue, che gli stillava dal corpo come acqua da un cane da caccia che si sia tuffato a recuperare un'anitra. Poi vi fu un altro moto d'orrore, alla scoperta che si trattava del vecchio Shadrach. Senza riflettere, Clay corse fuori ad aiutarlo. Aprì con un calcio la porta della veranda, uscì incontro a Shadrach e lo prese tra le braccia proprio mentre stava per cadere. La sua leggerezza lo sorprese. In due salti lo portò al riparo del parapetto della veranda. Era stato colpito al braccio, appena sopra il gomito. L'osso era spezzato e l'arto pendeva attaccato solo a un brandello di carne e pelle. Shadrach se lo teneva contro il petto come un neonato. "Arrivano" disse con voce rotta a Clay. "Devi scappare subito. Hanno ammazzato la nostra gente, ammazzeranno anche voi." Era già un miracolo che il vecchio fosse ancora in grado di parlare, a parte muoversi e correre, con una simile ferita. Chino al riparo, Shadrach strappò una striscia di cotone dal perizoma e sé l'avvolse a mo' di benda intorno al braccio. Clay glielo annodò. "Devi scappare, padroncino" e prima che Clay potesse impedirglielo il vecchio scomparve nel buio dal retro della casa. "Ha rischiato la vita per venire ad avvertirmi" pensò Clay guardandolo un momento, poi si alzò e, chino dietro il parapetto, tornò in casa. Sally-Anne era dove l'aveva lasciata, accovacciata sotto il davanzale della finestra. La luce vi entrava da fuori, gialla, e Clay vide che la donna si era legata i capelli e si era infilata maglietta e calzoni corti. Stava allacciandosi le scarpe. "Brava" disse inginocchiandosi accanto a lei. "Andiamo via, adesso." "Buster" disse lei. "Il mio cucciolo!" "Ma per l'amor di Dio!" "Non possiamo lasciarlo qua!" Aveva quello sguardo ostinato che ormai le conosceva benissimo. "Guarda che ti porto via in spalla, se mi ci costringi" l'avvertì lanciando un'altra occhiata preoccupata dalla finestra. Il prato antistante la casa era ancora illuminatissimo. Ombre nere lo stavano raggiungendo da valle. Erano soldati in ordine di combattimento. Per un attimo non credette ai suoi occhi, poi sospirò di sollievo. "Oh Dio, ti ringrazio!" sussurrò. Lo shock lo lasciò debole e tremante, prese tra le braccia Sally-Anne e si mise a consolarla. "Va tutto bene, ora" le disse. "Tutto si aggiusterà, vedrai." "Cosa è successo?" "E arrivato l'esercito" le disse. Aveva riconosciuto i baschi rossi dei soldati che attraversavano il prato all'inglese. "E la Terza Brigata, siamo salvi." Uscirono sulla veranda ad accogliere i salvatori. Sally-Anne aveva il cucciolo in braccio, e Clay la stringeva a sé. "Sono molto lieto di vederla, sergente" disse Clay al sottufficiale che comandava l'avanguardia. "Entri, prego" gliordinò il sergente con un gesto imperioso del fucile, quasi minaccioso. Era un uomo alto, con membra energiche e lunghe, dall'espressione fredda e neutra. Clay sentì diminuire il proprio sollievo. C'era qualcosa che non andava. I soldati avevano circondato la casa come una rete, avanzando a due a due che si coprivano l'un l'altro. Era la classica tattica della guerriglia. In breve entrarono nella casa, fracassando porte e finestre e controllando tutte le stanze. Era una ricerca alquanto distruttiva.
"Ma che succede, sergente?" In Clay risorse l'ira, e stavolta il gesto del sergente fu inconfondibilmente ostile. Clay e Sally-Anne arretrarono davanti al suo mitra puntato e rimasero in mezzo alla sala, davanti al tavolo di teak. Clay cercava di ripararla dalla minaccia della canna del mitra. Due soldati entrarono dalla porta principale e fecero rapporto al sergente in un concitato shona che Clay non riuscì a seguire. Il sergente annuì con un cenno del capo e diede un ordine. Si avvicinarono in fretta, obbedienti, rasentando il muro. Puntavano le armi addosso a loro due. "Dov'è la luce?" chiese il sergente e, quando Clay glielo disse, andò ad accenderla. "Cosa succede, sergente?" ripeté Clay, arrabbiato e incerto e di nuovo preoccupato per Sally-Anne. Il sergente ignorò la domanda e andò alla porta. Chiamò un soldato sul prato che accorse con una radiotrasmittente da campo. Il sergente parlò piano nel microfono e poi tornò nella stanza. Adesso formavano un immobile quadro vivente. A Clay sembrò che trascorresse un'ora in quel silenzio, ma non furono che cinque minuti, finché il sergente non tese l'orecchio a un rumore. Anche Clay lo sentì, era un motore, che pulsava a un ritmo diverso dal generatore di corrente elettrica. Quando il rumore aumentò un poco, riconobbe anche il tipo di motore, che era quello di una Land Rover. Saliva per il vialetto, coi fari accesi che illuminavano le finestre. Si fermò con stridor di freni e di ghiaia davanti ai gradini della veranda. Il motore si spense, le portiere scattarono e si udirono i passidi un gruppetto di uomini. Il generale Peter Fungabera era alla testa del gruppetto quando entrò nella sala da pranzo. Aveva il basco rosso di traverso su un occhio e un foulard di seta dello stesso colore al collo. Era armato del solito frustino, oltre alla pistola riposta nella fondina. Dietro di lui, il capitano Timon Nbebi, alto e dalle spalle tonde, con lo sguardo imperscrutabile oltre le lenti cerchiate d'acciaio. Aveva in mano un astuccio di cuoio per carte geografiche, e il fucile mitragliatore in spalla. "Peter!" Nel sollievo di Clay c'era un'ombra di preoccupazione. La situazione appariva minacciosa anzichenò. "Hanno ammazzato diversi braccianti, il mio induna è scappato nella boscaglia con una brutta ferita al braccio." "Il nemico ha avuto parecchie perdite" annuì Fungabera. "Quale nemico?" Clay era perplesso. "I ribelli matabele" rispose Peter. "I dissidenti." "Dissidenti?" Clay lo guardò a occhi sbarrati. "Shadrach un dissidente? E pazzesco... è un pastore analfabeta che se ne frega della politica..." "Le cose spesso non sono come sembrano" disse Peter Fungabera, prendendo una sedia e appoggiandoci lo stivale. Timon Nbebi mise l'astuccio delle carte geografiche sul tavolo, impugnò il fucile mitragliatore e si piazzò attento vicino al generale. "Per favore, qualcuno mi vuol spiegare cosa sta succedendo qui, Peter?" Clay era esasperato e nervoso. "Qualcuno ha assalito il mio villaggio e ucciso la mia gente... chissà quanti, ancora non lo so... Perché non li inseguite?" "La sparatoria è finita" disse Peter Fungabera. "Abbiamo liquidato il nido di vipere dei traditori che nutrivi in questa tua tenuta di sapore alquanto coloniale." "Ma cosa diavolo stai dicendo?" Adesso Clay era davvero sconvolto. "Non è possibile che parli sul serio!" "Ah no?" Peter fece un bel sorriso. Si raddrizzò e rimise entrambi i piedi a terra. Si avvicinò a guardare in faccia Clay e Sally-Anne. "Ma guarda, un cucciolo?" disse sempre sorridendo. "Davvero adorabile."
Prese Buster dalle braccia di Sally-Anne prima che ella comprendesse le sue intenzioni. Lo prese in braccio grattandolo dietro le orecchie e vezzeggiandolo. Il cucciolo era ancora mezzo addormentato e uggiolava stringendosi al petto del generale, cercando istintivamente la tetta della madre. "Mi chiedi se parlo sul serio?" ripeté Peter. "Ve lo farò capire bene quanto sono serio!" Buttò per terra il cagnolino, che atterrò di schiena sul pavimento di pietra e rimase lì intontito. Il generale gli mise lo stivale sultorace e lo schiacciò sotto il suo peso. Il cucciolo fece in tempo a guaire mezzo secondo e morì. "Ecco quanto sono serio." Non rideva più. "La vostra vita vale per me quanto quella di questo animale." Sally-Anne emise un gemito soffocato e nascose la testa sul petto di Clay. Ansimava per la nausea, e Clay si accorse che lottava per non vomitare. Peter Fungabera lanciò il corpo del cucciolo nel caminetto con una pedata e si sedette. "Abbiamo perso anche troppo tempo con questa commedia" disse aprendo l'astuccio delle carte geografiche e spargendo i documenti sul tavolo, davanti a sé. "Signor Mellow, lei è un agente provocatore al soldo della CIa, la famigerata organizzazione spionistica americana..." "E una dannata menzogna!" gridò Clay, e Peter ignorò la sua sfuriata. "Il suo contatto locale è l'agente americano Morgan Oxford dell'ambasciata degli Stati Uniti, mentre il suo dirigente centrale e ufficiale pagatore è un certo signor Henry Pickering, la cui copertura di funzionario della World Bank non ci inganna affatto. Egli ha reclutato sia lei sia la signorina Jay..." "Non è vero!" "Il suo compenso era di sessantamila dollari all'anno e la sua missione era organizzare un centro di sovversione nel Matabeleland, finanziato da fondi della CIA mediante un prestito concessole da una banca sussidiaria della World Bank, in realtà strumento della CIA, per un ammontare di ben cinque milioni di dollari." "Cristo, Peter, sono tutte fesserie, e tu lo sai benissimo!" "Nel corso del presente interrogatorio lei si rivolgerà a me chiamandomi "signore" oppure "generale Fungabera" , è chiaro?" Si voltò dall'altra parte per vedere cosa succedeva fuori della porta, dove era cominciata un'improvvisa attività. Sembrava l'arrivo di una colonna di camion leggeri, da cui scendevano altri soldati in una grande confusione di ordini urlati in shona. Dalla porta doppia sulla veranda Clay vide una dozzina di soldati che portavano grosse casse verso la casa. Peter Fungabera lanciò un' occhiata interrogativa a Timon Nbebi, che annuì in segno di conferma a quella domanda inespressa. "Perfetto!" disse Peter Fungabera rivolgendosi di nuovo a Clay. "Possiamo continuare. Lei ha condotto trattative con noti traditori matabele, approfittando della sua perfetta conoscenza della lingua e del carattere di questa popolazione intrattabile..." "Nominane uno solo, se puoi!" lo sfidò Clay. Peter Fungabera fece un cenno a Timon Nbebi, che gridò un ordine. Un uomo fu introdotto nella sala, tra due soldati. Era a piedi nudi, vestito solo di un paio di calzoncini kaki. Era emaciato al punto che la sua testa sembrava grottescamente grande. Era rasato e aveva il cranio coperto di lividi e bozzi e cicatrici, e anche le costole erano pie- ne di abrasioni e lividi. Erano i tipici segni delle terribili fruste di pelle d'ippopotamo chiamate sjambok. "Conosci quest'uomo bianco?" gli chiese il generale Fungabera. L'uomo guardò Clay. I suoi occhi manifestavano una ottusa opacità, come se vi fosse stata passata sopra della polvere. "Non l'ho mai visto" cominciò Clay, interrompendosi subito. L'aveva riconosciuto. Era il compagno Dollaro, il più giovane e truculento
dei guerriglieri ribelli di Zambesi Waters. "Sì?" l'incoraggiò Peter Fungabera, sorridendo di nuovo. "Cosa stava dicendo, signor Mellow?" "Desidero mettermi in contatto con l'ambasciata britannica" dichiarò Clay. "E la signorina Jay con quella americana." "Ma certo" annuì Peter Fungabera. "Tutto a suo tempo. Ma adesso dobbiamo terminare quello che abbiamo cominciato." Si rivolse un'altra volta al compagno Dollaro. "Allora, conosci quest'uomo bianco?" Il compagno Dollaro annuì. "Ci ha dato dei soldi." "Portatelo via" ordinò Peter Fungabera. "Trattatelo bene e dategli da mangiare. Dunque, signor Mellow, lei continua a negare ogni contatto coi ribelli?" Non aspettò la risposta, ma proseguì tranquillamente: "Lei ha costituito un arsenale di armi in questa tenuta, armi che dovevano essere usate contro il governo eletto dal popolo nel tentativo di un colpo di Stato mirante a insediare al potere un dittatore-fantoccio degli americani..." "No" negò altrettanto tranquillamente Clay. "Qui non ci sono armi." Peter Fungabera sospirò. "I suoi dinieghi sono inutili e noio. si." Si rivolse al sergente alto e gli diede un ordine in shona. Il sergente li spinse senza complimenti sulla veranda, dove i soldati avevano ammucchiato le casse. "Aprite le casse" comandò ai soldati, che spaccarono i lucchetti e alzarono i coperchi. Clay riconobbe le armi nelle casse. Erano mitragliatori americani Armalite. Sei per cassa, nuovi di zecca, ancora nel grasso di fabbrica. "Non ho mai visto queste armi, non hanno niente a che fare con me" negò con veemenza Clay adesso che lo poteva fare. "Lei sta mettendo la mia pazienza a dura prova" disse Peter Fungabera. Poi, rivolgendosi al capitano Timon Nbebi: "Faccia portare qua l'altro uomo bianco. Hans Groenevvald, il soprastante di Clay, fu fatto scendere dalla cabina di uno dei camion e condotto alla veranda. Aveva le mani ammanettate dietro la schiena ed era terrorizzato. La sua faccia larga e abbronzata sembrava essersi sgonfiata dando luogo a un coacervo di fittissime rughe e brandelli di pelle flaccida come le guance di un mastino ammalato. L'abbronzatura si era sbiadita fino al beige. Aveva gli occhi iniettati di sangue e lacrimosi come quelli di un ubriacone. "Lei ha immagazzinato queste casse di armi nella rimessa dei trattori?" gli chiese il generale Fungabera. La risposta di Groenewald non si sentì. "Parla più forte, amico!" "Sì, le ho messe nella rimessa, signore." "Per ordine di chi?" Groenevvald guardò Clay con aria pietosa, e all'improvviso a Clay si gelò il cuore, e il gelo gli si diffuse per tutte le viscere. "Per ordine di chi?" ripeté paziente Fungabera. "Per ordine del signor Mellow, signore." "Portatelo via." Mentre le guardie lo riconducevano al camion, Groenevvald continuava a girare la testa, guardando fisso Clay, con l'espressione sconvolta. All'improvviso gridò: "Mi spiace, signor Mellow, ma io ho moglie e figli..." Un soldato gli tirò un colpo nello stomaco col calcio del fucile. Groenevvald gemette e si piegò in due. Sarebbe caduto, ma lo presero sotto le ascelle e lo caricarono sull'autocarro. L'autista accese il motore e il camion si avviò giù per la discesa. Peter Fungabera li riportò in sala da pranzo e si accomodò di nuovo sulla sedia a capotavola. Mentre riordinava e studiava le carte che aveva tirato fuori dalla borsa da avvocato, ignorò Clay e SallyAnne. Furono messi contro il muro opposto, con quattro soldati vicino. Il silenzio si prolungava. Anche se Clay si rendeva conto che si
trattava di una tattica ben precisa, pensò di romperlo gridando la sua innocenza, protestando per la rete di falsità e di mezze verità distorte in cui piano piano lo invischiavano. Al suo fianco Sally-Anne stava eretta, le mani giunte sul grembo per vincere il tremito e la faccia verdastra sotto un velo di sudore. Continuava a guardare nel camino dove giaceva la carcassa del cagnolino come un giocattolo rotto. Finalmente Peter Fungabera mise da parte le carte e si appoggiò alla spalliera della sedia, tamburellando sul piano del tavolo con il frustino. "Brutta faccenda" disse. "Rischiate entrambi di essere impiccati." "Lei non c'entra niente" disse Clay passando il braccio intorno alle spalle di Sally-Anne. "Gli organi interni delle donne resistono meno al colpo di frusta che imprime il cappio" osservò Peter Fungabera. "L'effetto che ne risulta è alquanto bizzarro, almeno così mi han detto." Clay ebbe un colpo di nausea e inghiottì senza poter parlare. "Fortunatamente non ci sarà bisogno di arrivare a tanto. La scelta sarà vostra." Peter giocherellò col frustino. Clay si colse a guardar fisso le mani di Peter. I palmi e l'interno delle dita lunghe e forti erano di un bel rosa delicato. "In fondo non siete che i fantocci dei vostri padroni capitalisti e imperialisti" sorrise di nuovo Peter Fungabera. "Quasi quasi vi lascio andare."Alzarono la testa di scatto tutti e due, guardandolo in faccia. "Mi sembrate piuttosto increduli, ma parlo sul serio. Avete finito per starmi simpatici, tutti e due. Farvi impiccare non mi darebbe alcun piacere. Possedete entrambi un talento artistico che sarebbe un peccato sprecare, soprattutto se si pensa che d'ora in poi non potrete più far danno." Ancora restarono zitti, cominciando a sperare, ma sempre molto impauriti, perché si accorgevano che si trattava del gioco crudele del gatto col topo. "Vi farò dunque una proposta: se vi scaricate la coscienza, rendendo piena e dettagliata confessione, vi farò accompagnare al confine con tutti i vostri documenti, le cose di valore e quanto potete ficcare rapidamente in valigia. Vi manderò liberi all'estero, dove non disturberete più con le vostre mene sovversive né me né il mio popolo." Attese sorridendo e tambureggiando sul tavolo con il frustino, come la goccia d'un rubinetto che perde. Questo distrasse Clay. Si ritrovò incapace di pensare con chiarezza. Tutto era accaduto troppo in fretta. Peter Fungabera l'aveva preso alla sprovvista, cambiando all'improvviso l'obiettivo del suo attacco. Ma aveva bisogno di tempo per riprendersi, e ricominciare a riflettere secondo logica. "Una confessione?" mormorò. "Chegenere di confessione? Una delle tue solite esibizioni in tribunale? Una pubblica umiliazione?" "Non credo ci sia bisogno di spingersi a tanto" lo rassicurò sPeter Fungabera. "Basterà una dichiarazione scritta, un resoconto dei tuoi crimini e delle mire dei tuoi padroni. La confessione, contro Ifirmata da testimoni attendibili, sarà sottoscritta da voi, dopo di che vi farò accompagnare al confine oltre il quale sarete rimessi in libertà. Tutto molto semplice, diretto e, se posso dirlo, anche umano e civile." "Preparerai tu, naturalmente, la confessione da firmare?-" chiese amaro Clay, e Peter Fungabera ridacchiò. "Che intuizione!" Prese uno dei documenti che aveva sott'occhio e lo sventolò davanti a Clay. "Eccola qua. Devi soltanto metterci la data e una firmetta." Perfino Clay ne fu stupito. "L'avevi già fatta scrivere a macchina?" Nessuno rispose e il capitano Timon Nbebi gli portò il documento. "La legga, prego, signor Mellow" l'invitò. Erano tre fogli dattiloscritti zeppi più che altro di denunce contro
i suoi "padroni imperialisti" nell'isterico gergo dell'estrema sinistra. Ma in questo guazzabuglio ideologico, come prugne nel budino, non mancavano gli aridi fatti di cui Clay era accusato. La lesse lentamente, cercando di costringere il suo cervello annebbiato a funzionare con chiarezza, ma tutto era in qualche modo oniri;co e surreale, sembrava tale da non poterlo sfiorare personalmente: finché non lesse le parole che lo riportarono bruscamente alla coscienza più lucida. Erano parole familiari, se le ricordava bene, e lo scottarono come un getto di acido solforico nel cuore. "Riconosco pienamente che con le mie azioni mi sono dimostrato un nemico dello Stato e del popolo dello Zimbabwe" Era un'espressione identica a quella di un altro documento da lui sottoscritto, e di colpo gli si chiarì tutto il piano sotteso agli eventi di quella notte. "King's linn" sussurrò, e alzò gli occhi dalla confessione dattiloscritta portagli da Peter Fungabera. "Ecco che cosa vuoi: King's linn!" Ci fu un silenzio, mentre proseguiva il tamburellamento del frustino sul tavolo di teak. Peter Fungabera non perdeva un colpo, e sorrideva sempre. "Avevi in mente tutto questo fin dall'inizio. La garanzia dellaLand Bank, con quella clausola strana..." Il torpore letargico svanì pian piano e Clay sentì l'ira montare nuovamente dentro di sé. Gettò via sdegnosamente la confessione. Il capitano Nbebi la raccolse tenendola poi, impacciato, con due mani. Clay si accorse di tremare dalla collera. Fece un passo verso la figura elegante seduta davanti a lui, levando involontariamente le mani, ma l'alto sergente shona gli sbarrò la strada con la canna del mitragliatore. "Ladro!" sibilò Clay a Peter, con uno schizzetto di saliva bianca sul labbro inferiore. "Dov'è la polizia? Invoco la protezione della legge!" "Signor Mellow" rispose con calma Peter Fungabera "nel Matabeleland sono io la legge. Ed è appunto la mia protezione che le stavo offrendo." "Non lo farò mai. Non firmerò mai quel pezzo di carta. Piuttosto vado all'inferno!" "Questo si può fare senz'altro" concesse divertito Fungabera. Poi assunse un tono ragionevole e persuasivo. "La esorto a firmare quel documento senza fare tante storie. Si pieghi all'inevitabile, firmi ed eviti guai peggiori." Parole crude si affollarono alle labbra di Clay, che con qualche sforzo fece a meno di pronunciarle, non volendo degradarsi di fronte a quella gente. "No" ripeté invece. "Non firmerò mai quel documento. Prima dovrai uccidermi." "Ti concedo l'ultima possibilità di cambiare idea." "No, mai!" Peter Fungabera dondolò sulla sedia facendo un segno al sergente alto. "Ti regalo la donna" disse. "Prima tu e poi i soldati, uno per volta, tutti, a turno. Qui, in questa stanza, su questo tavolo." "Cristo, tu non sei un uomo" sbottò Clay cercando di abbracciare Sally-Anne per proteggerla. Ma i soldati gli saltarono addosso e lo spinsero contro il muro. Uno di loro, poi, lo tenne fermo puntandogli alla gola la baionetta. L'altro torse il braccio a Sally-Anne e la spinse davanti al sergente. La donna cominciò a dibattersi selvaggiamente, ma il soldato l'alzò finché le punte delle scarpe di lei sfiorarono soltanto il terreno e il suo viso si contorse in una smorfia di dolore. Il sergente era privo di espressione, non sogghignava né faceva alcun gesto osceno. Prese il colletto della maglietta di Sally-Anne con ambo le mani e la strappò fino alla vita. Il seno oscillò, libero. Era molto bianco e aveva un aspetto tenero, con le punte rosa sensi-
bili e vulnerabili. "Ho ai miei ordini centocinquanta uomini stasera" osservò Peter Fungabera. "Ci vorrà un bel po' di tempo prima che abbiano finito." Il sergente infilò i pollici nella vita dei calzoncini di Sally-Anne e li abbassò. Caddero attorno alle caviglie della ragazza. Clay si fece avanti, ma la punta della baionetta gli bucò la pelle della gola. Qualche goccia di sangue gli colò sulla camicia. Sally-Anne cercò di coprirsi il monticello triangolare delle pudenda con la mano libera, un gesto pateticamente inefficace. "So bene quanto anche un sedicente liberale bianco come te soffra al pensiero della carne nera che penetra la sua donna" disse in tono quasi di conversazione Peter Fungabera. "Sarà interessante vedere quante volte permetterai che questo accada." Il sergente e il soldato sollevarono Sally-Anne e la distesero sul tavolo. Il sergente le tolse i calzoncini di seta dalle caviglie, lasciandole le scarpe ai piedi, e i brandelli di camicetta sotto le ascelle. Esperti, le sollevarono le ginocchia contro il torace e poi le schiacciarono giù, incastrandole sotto le ascelle. Dovevano averlo già fatto molte volte. Era indifesa, piegata in due, spalancata e completamente alla loro mercé. Tutti gli uomini presenti stavano scrutando nelle segrete profondità del suo corpo. Il sergente cominciò a slacciarsi la cintura. "Clay!" urlò Sally-Anne, e il corpo dell'uomo sobbalzò involontariamente come a una frustata. "Firmerò" disse in un sussurro. "Lasciatela andare e firmo." Peter Fungabera diede un ordine in shona e immediatamente i soldati lasciarono libera Sally-Anne. Il sergente l'aiutò a rialzarsi. Educatamente le porse i calzoncini e lei li indossò singhiozzando e saltellando su un piede solo. Poi corse da Clay, abbracciandolo forte. Non riusciva a parlare, ma singhiozzava inghiottendo le proprie lacrime. Tremava fortissimo e Clay la strinse cercando di consolarla con sillabe inarticolate. "Più presto firmi e più presto ve ne potrete andare." Clay andò al tavolo, sempre abbracciando Sally-Anne col braccio sinistro. Il capitano Nbebi gli porse una penna ed egli siglò i primi due fogli della confessione con le iniziali, firmando il terzo per esteso. Sia il capitano Nbebi sia il generale Fungabera firmarono quali testimoni e Peter disse: "Un'ultima formalità. Sarete visitati entrambi dal medico del reggimento, che stilerà un certificato per escludere ogni violenza su di voi." "Che Dio ti fulmini, non gliene hai fatte abbastanza?" "Accontentami, ti prego, caro compare." Il medico doveva essere rimasto in attesa fuori, in qualche camion. Era un piccolo shona dall'aria attiva e professionale. "Visiti la donna in camera da letto, dottore. Si accerti in particolar modo che non abbia subìto violenze carnali" lo istruì Peter Fungabera. Mentre lasciavano la sala da pranzo, si rivolse a Clay. "Nel frattempo puoi aprire la cassaforte del tuo studio e tirar fuori i passaporti e tutti gli altri documenti che ti servono per il viaggio." Due soldati accompagnarono Clay nel suo studio a un'estremità della veranda, e aspettarono mentre faceva scattare la combinazione della cassaforte. Tirò fuori il passaporto, il portafoglio con le carte di credito e il distintivo della World Bank, tre serie di travellers' cheques, e il manoscritto del nuovo romanzo. Ficcò il tutto in una borsa da viaggio e rientrò in sala. Sally-Anne e il dottore tornarono dalla camera da letto. Lei si era cambiata, indossando camicetta, jeans e un golfino di cachemire blu: si era anche un po' ripresa e singhiozzava ogni tanto, tremando molto meno con piccoli accessi convulsi. Aveva in mano la
borsa delle macchine fotografiche e l'album di foto per il libro. "Tocca a te, ora" disse Peter Fungabera invitandolo a seguire il dottore. Quando tornò, trovò Sally-Anne sul sedile posteriore di una Land Rover parcheggiata davanti alla veranda. Di fianco a lei stava il capitano Nbebi, e ancora dietro a loro due soldati armati. Il posto accanto all'autista era libero per Clay. Peter Fungabera l'aspettava sulla veranda. "Addio, Clay" gli disse, e Clay lo fissò cercando di inoculargli tutto il veleno che poteva. "Come potevi credere che ti avrei permesso di ricostituire l'impero della tua famiglia?" gli chiese Peter, senza malanimo. "Abbiamo combattuto duramente per distruggere quel mondo." Mentre la Land Rover scendeva dalla collina nella tenebra notturna, Clay si voltò a guardare indietro. Peter Fungabera era ancora sulla veranda illuminata, e in qualche modo la sua alta figura si era trasformata. Sembrava di casa, un conquistatore vittorioso, il padrone della grande tenuta. Clay continuò a guardarlo finché gli alberi non glielo nascosero, e solo allora tornò a inondarlo tutto l'odio che provava per lui. I fari della Land Rover illuminarono per un attimo il cartello: ALLEVAMENTO DI TORI DI KING'S LINN PROPRIETARIO: CLAY MELLOW Sembrava uno sfottò. Lo superarono in un attimo procedendo oltre il cancello della tenuta. Avevano abbandonato il suolo di King's linn e Clay ci aveva lasciato i propri sogni. Voltarono a occidente e imboccarono l'asfalto della strada principale. Nessuno parlava sulla Land Rover. Il capitano Nbebi aprì la borsa e tirò fuori una bottiglia della forte acquavite locale, un distillato di canna da zucchero. La porse a Clay, che l'allontanò bruscamente. Timon Nbebi insistette e allora Clay, con malagrazia, l'accettò. Svitò il tappo e bevve un sorso, esalandone i fumi con un rumoroso sospiro. Gli vennero le lacrime agli occhi. L'ardente liquore gli penetrò subito nel sangue, confortandolo un po'. Bevve un altro sorso e passò la bottiglia indietro a Sally-Anne. Ella scosse la testa. "Bevilo" le ordinò Clay, ed ella mestamente obbedì. Aveva smesso di piangere, ma i brividi continuavano. L'alcool la fece tossire e singhiozzare, ma alla fine recò conforto anche a lei. "Grazie" disse rendendo la bottiglia a Timon Nbebi, e la parola educata da parte di una donna poco prima cosi degradata e umiliata risultò imbarazzante per tutti. Raggiunsero il primo blocco ai sobborghi di Bulavvayo, e Clay guardò l'orologio. Mancavano sette minuti alle tre del mattino. Non c'erano altri veicoli in attesa sulla strada, e due soldati sbucarono dal riparo avvicinandosi alla Land Rover. Timon Nbebi aprì il finestrino e parlò con calma a uno di loro, mostrandogli il permesso di passaggio. Il soldato lo esaminò un attimo e glielo rese. Salutò e alzò la sbarra. Si avviarono oltre il blocco. Bulavvayo era silenziosa e vuota, pochissime finestre erano illuminate. Un semaforo lampeggiava e il guidatore; scrupoloso, rallentò anche se l'incrocio era completamente deserto. Il rumore del motore diminuì e lontano lontano, appena udibile, echeggiò una raffica di mitragliatrice. Clay guardava Timon Nbebi nello specchietto retrovisore e, alla raffica lontana, lo vide sbattere gli occhi. Poi superarono l'incrocio, imboccando la strada che tagliava la periferia diretta a sud. Al limite della città c'erano altri due blocchi stradali e poi la strada era libera. Corsero verso meridione nella notte nera, col rombo delle gom-me e il fischio del vento contro la cabina. Le lucine del cruscotto li illuminavano di una luce verdastra e malata. Una o due volte, di
dietro, la radio prese a gracchiare emettendo parole distorte in shona. In una di quelle trasmissioni Clay riconobbe la voce di Peter Fungabera, ma doveva chiamare un'altra unità perché Timon Nbebi non rispose e proseguirono in silenzio. Il monotono rombo del motore e delle gomme e il calduccio della cabina cullarono Clay, e per reazione, dopo tutta la rabbia e la paura, si mise a dormicchiare. Si svegliò di soprassalto alla voce di Timon Nbebi. Il rumore del motore era cambiato. Erano le prime luci dell'alba: le cime degli alberi si stagliavano nere contro il cielo pallido giallo-limone. La Land Rover rallentò e abbandonò la strada asfaltata imboccando una pista di terra battuta. La cabina fu immediatamente pervasa dall'odore come di funghi della polvere di talco. "Dove siamo?" chiese Clay. "Perché abbiamo lasciato la strada?" Timon Nbebi parlò al guidatore, che fermò sul ciglio della pista. "Scendete, prego" ordinò Timon Nbebi e, appena Clay fu sceso, Timon, che era già a terra, facendo mostra di aiutarlo, gli infilò fulmineamente le manette. Il gesto era stato così rapido ed esperto che Clay per qualche secondo rimase a guardarsi sconcertato i polsi ammanettati. Poi gridò: "Cristo, cos'è questa storia?" Già Timon Nbebi aveva ammanettato con altrettanta destrezza anche Sally-Anne e, ignorando la sfuriata di Clay, si era messo a parlare con calma con l'autista e i due soldati. Parlava troppo in fretta perché Clay potesse capire tutto, però colse le parole shona che significavano "uccidere" e "nascondere." Uno dei soldati sembrò protestare e Timon prese il microfono della radio di bordo. Chiamò tre volte ripetendo una parola d'ordine e dopo una breve attesa dalla radio uscì la voce di Peter Fungabera, perfettamente riconoscibile nonostante la distorsione. Vi fu un breve scambio di battute e, quando Timon Nbebi posò il microfono, il soldato non protestava più. Chiaramente gli ordini del capitano Nbebi erano stati confermati dal generale. "Proseguiamo" disse Timon tornando all'inglese, e Clay fu fatto risalire senza complimenti in auto. Il cambiamento nel modo di trattarli era molto preoccupante. Il guidatore condusse la Land Rover sempre più addentro nella savana cosparsa di rovi, mentre aumentava la luminosità. Fuori, il concerto mattutino degli uccelli era in pieno svolgimento. Clay riconobbe il duetto di una coppia di capitonidi su un'acacia accanto alla pista. Una lepre affascinata dai fari restò a guardarli un attimo con le lunghe orecchie rosa frementi prima di salvarsi con due balzi dall'investimento. Poi il cielo si incendiò dei meravigliosi colori dell'alba africana e il guidatore spense i fari. "Clay, tesoro, ci ammazzeranno, vero?" gli chiese tranquil-la Sally-Anne. Il suo tono era fermo e chiaro, ormai: aveva superato ogni isteria e si controllava di nuovo perfettamente. Parlava come se fossero soli. "Mi dispiace." Clay non trovò altro da dirle. "Avrei dovuto capirlo che Peter Fungabera non ci avrebbe mai lasciati andare." "Non potevi farci niente, anche se l'avessi saputo." "Ci seppelliranno in qualche posto deserto e attribuiranno la nostra scomparsa ai ribelli matabele" disse Clay, mentre Timon Nbebi sedeva impassibile, senza ammettere né negare l'accusa. La pista si biforcò. A sinistra il tratturo era quasi indistinguibilè e fu quella la parte che Timon Nbebi indicò all'autista di imboccare. Il conducente scalò una marcia rallentando ancora. Proseguirono sobbalzando per un'altra ventina di minuti. Ormai era giorno e il sole illuminava le cime delle acacie. Timon Nbebi diede un altro ordine e il guidatore abbandonò la pista entrando nel mare d'erba alta fino alla vita di un uomo, costeggiando il bordo di una collinetta di granito grigio, finché non furono fuori vista anche da quel tratturo dove non sarebbe certo passato nessuno. Un altro ordine secco e il guidatore si fermò e
spense il motore. Il silenzio piombò su di loro, aumentando il senso di abbandono e di isolamento. "Nessuno ci ritroverà mai qui" disse Sally-Anne tranquillamente, e Clay non trovò parole di conforto. "Restate qui" ordinò Timon Nbebi. "Ma non si vergogna di quello che sta per fare?" gli domandò Sally-Anne, ed egli voltò la testa verso di lei. Dietro le lenti cerchiate d'acciaio forse il suo sguardo era abbuiato da un'ombra di mestizia e rimpianto, ma la piega della bocca restava dura. Non le rispose, e dopo un momento distolse lo sguardo e si attivò dando ordini in shona, in seguito ai quali i soldati attaccarono i fucili mitragliatori all'apposita rastrelliera in fondo alla Land Rover e impugnarono picconi e badili. Timon Nbebi infilò la mano nel finestrino e prese le chiavi della Land Rover, poi guidò i soldati a qualche metro di distanza tracciando quindi con la punta dello stivale due curve nel terreno. I tre shona si tolsero il giubbotto della tuta mimetica e cominciarono a scavare le fosse. Il lavoro procedeva facilmente nella terra sabbiosa. Timon Nbebi li guardava fumando una sigaretta che spargeva nell'aria ferma e fresca del mattino volute di fumo azzurrino. "Cerco di prendere un mitragliatore" bisbigliò Clay a SalIy-Anne. Le armi erano all'estremità del veicolo. Avrebbe dovuto superare strisciando due spalliere di sedili e poi alzarsi in piena vista per arrivare alle rastrelliere sul tettuccio. Avrebbe dovuto sganciare l'arma, caricarla, togliere la sicura e inserire il selettore nella posizione di fuoco automatico: e tutto con le mani ammanettate. "Non ce la fai" sussurrò Sally-Anne. "E probabile, ma ti viene in mente qualcos'altro?" le disse tristemente. "Quando ti dico "vai" , gettati sul pavimento della macchina." Clay si contorse sul sedile, con la gamba artificiale che lo impacciava, impigliandosi con la caviglia sulla leva del cambio. Liberò la gamba e si preparò a scattare. Fece un profondo sospiro e diede un'occhiata fuori del finestrino posteriore al gruppetto dei boia e becchini. "Sta' a sentire" le disse in fretta. "Ti amo. Non ho mai amato nessun'altra come amo te." "Anch'io ti amo, tesoro mio" rispose piano Sally-Anne. "Abbi coraggio" le disse ancora." "Buona fortuna!" Si raggomitolò giù, ed egli stava per lanciarsi, ma proprio in quel momento Timon Nbebi si girò verso la Land Rover. Vide Clay voltato all'indietro e Sally-Anne raggomitolata evidentemente sotto il livello del finestrino. Tornò al veicolo a grandi passi rapidi. Davanti al finestrino si fermò e parlò sottovoce in inglese. "Non lo faccia, signor Mellow. Siamo tutti in gravissimo pericolo. La sua unica possibilità di salvezza è star calmo e non interferire in alcun modo." Prese le chiavi della macchina dalla tasca e con l'altra mano slacciò la fondina della pistola. Continuò a parlare piano: "Ho disarmato i miei soldati, come vedete, e li ho messi al lavoro. Quando entro nella Land Rover, non fate una mossa e non cercate di saltarmi addosso. Anch'io sto rischiando la pelle e dovete fidarvi di me. Capito bene?" "Sì" annuì Clay, pensando: "Come se avessi scelta." Timon aprì la portiera dalla parte del guidatore e si mise al volante. Diede un'occhiata ai tre soldati ora immersi nelle buche fino alla cintola. Poi infilò la chiave nel quadro e la ruotò. Il motore girò rumorosamente e i tre soldati alzarono gli occhi, perplessi. Il motorino d'avviamento strideva, ma l'auto non andava in moto. Uno dei soldati gridò e balzò fuori dalla fossa. Si mise a correre verso la Land Rover. Timon Nbebi pompò benzina nel motore, sempre facendo girare il motorino dell'avviamento. Aveva lo
sguardo atterrito. "Attento che l'ingolfi" glidisse Clay. "Leva il piede dall'acceleratore! Il soldato si avvicinava in fretta, gridando rabbiose domande, mentre il motorino d'avviamento continuava a girare, uìrr, uirr, uirr, con Timon impietrito al volante. Ormai il soldato aveva raggiunto la Land Rover, e anche gli altri due si erano riscossi e gridavano agitando minacciosamente le pale. "Chiudi la portiera!" gridò Clay in fretta, e Timon abbassò la maniglia in posizione di sicurezza proprio mentre il soldato si attaccava allo sportello. Si precipitò allora a quella di dietro e, prima che Sally-Anne potesse chiuderla con la sicura, l'aprì. Afferrò la ragazza per il braccio e cominciò a tirarla giù dalla macchina, mentre lei cercava di resistere. Clay, che era ancora voltato indietro, alzò entrambe le mani ammanettate e vibrò un gran colpo sulla testa rasata del soldato. L'acciaio tagliente delle manette gli aprì il cuoio capelluto fino al cranio e l'uomo cadde mezzo dentro e mezzo fuori dell'auto. Clay gli diede un altro colpo sulla fronte scorgendo per un attimo, in fondo alla ferita, l'osso bianco subito coperto da fiotti di sangue. Gli altri due soldati erano a qualche passo di distanza, urlavano come una muta di cani e mulinavano minacciosamente le pale. In quel momento il motore dell'automezzo partì scoppiettando e poi rombò. Timon Nbebi inserì la marcia e la Land Rover schizzò avanti. Clay fece una capriola sul sedile e finì in braccio a SallyAnne, mentre il soldato ferito scivolava fuori dell'auto. La Land Rover filava a zig-zag sul terreno sconnesso, con la portiera aperta che sbatteva, inseguita dai due soldati negri urlanti. Poi Timon Nbebi raddrizzò il volante e cambiò marcia. La Land Rover accelerò distanziando i soldati e sobbalzando su rocce e cespugli di spine mentre uno degli inseguitori, rabbioso, le scagliava dietro la pala che volò a infrangere il finestrino posteriore. Timon Nbebi seguì le tracce del percorso d'andata nell'erba alta, raggiungendo finalmente una velocità superiore a quella di un uomo in corsa. I due soldati rinunciarono all'inseguimento, ansimando, e ben presto nemmeno le loro urla si udirono più. Timon raggiunse la biforcazione e imboccò la pista maggiore acquistando ancora velocità. "Dammi le mani" ordinò, e, quando Clay gli porse i polsi ammanettati, Timon gli tolse le manette. "Prendi" disse, passando a Clay la chiave. "Toglile anche alla signorina Jay." La donna si massaggiò il polso. "Mio Dio, Clay, stavolta ero proprio convinta d'essere alla fine." "Ci siete andati vicinissimo" ammise Timon Nbebi, guardando la pista. "Come diceva Napoleone, se non sbaglio." E, prima che Clay potesse correggerlo: "Prendi il fucile, signor Mellow, e passami l'altro." Sally-Anne passò gli spigolosi e tozzi fucili mitragliatori ai due sul sedile davanti. La Terza Brigata era l'ultimo reparto dell'esercito regolare ancora armato di kalashnikov, un'eredità degli istruttori nordcoreani. "Sai adoperarlo, signor Mellow?" chiese Timon Nbebi. "Ero armiere nella polizia rhodesiana." "Ah già, che stupido." In fretta Clay armò il fucile dal caricatore curvo detto "banana" e inserì il colpo in canna. L'arma era nuova e ben tenuta. Il suo peso fra le mani cambiò interamente la sua personalità. Pochi minuti prima non era che un fuscello nella corrente, in preda a eventi sui quali non aveva alcun controllo, confuso, incerto e impaurito: ma adesso era armato. Adesso poteva difendersi, proteggere se stesso e la sua donna, adesso poteva dare forma agli eventi invece di esserne condizionato. Era l'istinto atavico dell'uomo primitivo, e Clay vi si crogiolò. Si girò a prendere la mano di Sally-
Anne, serrandola brevemente, ed ella ricambiò di cuore la stretta. "Adesso, almeno, abbiamo una possibilità di difesa." Il tono nuovo della sua voce non le passò inosservato. Il suo morale salì un pochino, e gli sorrise per la prima volta dopo quella terribile notte. Egli ritrasse la mano, prese la bottiglia di acquavite di canna e gliela porse. Dopo che la ragazza ebbe bevuto, passò la bottiglia a Timon Nbebi. "Bene, capitano, che sta succedendo?" Timon tossì per la potenza del liquore, e rispose con voce un po' roca: "Avevate perfettamente ragione, prima: il generale Fungabera mi aveva ordinato di portarvi nella boscaglia e fucilarvi tutti e due. E vero anche che la vostra fine sarebbe stata attribuita ai ribelli matabele." "Bene, e perché non ha obbedito agli ordini?" Prima di rispondere, Timon ripassò la bottiglia a Clay e poi guardò Sally-Anne sul sedile posteriore. "Mi spiace di avervi dovuto far passare per tutti i preparativi dell'esecuzione, ma i miei uomini parlano inglese. Dovevo fare sul serio, insomma. Mi spiaceva perché non volevo infliggervi altre sofferenze dopo quello che avete già passato." "Capitano Nbebi, ti perdono di tutto e ti amo per quello che stai facendo, ma perché, in nome di Dio, lo fai?" gli domandò Sally-Anne. "Ciò che ora vi dirò non l'ho mai detto ad anima viva. Sapete, mia madre era matabele. E morta quando ero piccolissimo, ma io me la ricordo e onoro la sua memoria." Non li guardava, ma continuava a fissare la pista. "Fui allevato da shona da mio padre, ma ho sempre avuto consapevolezza del mio sangue matabele. Sono la mia gente e non reggo più le persecuzioni a cui vengono sottoposti. Sono sicuro che il generale Fungabera cominciava a sospettare i miei veri sentimenti. Anche se non sa di mia madre, avrà capito che non gli sono più di alcuna utilità. Recentemente ne ho scorto piccoli segni, e ho vissuto troppo a lungo accanto al leopardo mangiauomini per non conoscere i suoi umori. Una volta liquidati voi, sarebbe venuto per me il turno di una bella fossa senza nome, o dei cuccioli di Fungabera." Timon usò la locuzione sindebele, amavvundhla ka Fungabera, e Clay ne fu colpito: anche Sarah Nyoni, la maestra della missione di Tuti, aveva usato esattamente la stessa espressione. "E che cosa sono i cuccioli di Fungabera? Ho già sentito questa espressione, ma non la capisco" disse Clay. "Sono le iene" spiegò Timon. "Quelli che muoiono o vengono fucilati nei campi di rieducazione sono dati in pasto alle iene, che non lasciano né un ciuffo di capelli né un ossicino nella boscaglia." "Oh mio Dio" esclamò Sally-Anne. "Noi siamo stati a Tuti, e abbiamo sentito le iene, ma non capivamo. Quanti ne sono finiti così?" "Posso solo tirare a indovinare... diciamo molte migliaia di persone." "E incredibile!" "L'odio del generale Fungabera per i matabele è una specie di follia, di ossessione. Vuole sterminarli tutti. Prima i loro capi, accusati di tradimento... falsamente accusati, come Tungata Zebiwe..." "Oh no!" esclamò con commiserazione Sally-Anne. "Non posso ammetterlo! Era innocente Zebiwe?" "Eh, sì. Mi spiace per lei, signorina Jay" confermò Timon Nbebi. "Fungabera ha dovuto stare molto attento con lui. Sapeva che, se l'avesse imprigionato per le sue attività politiche, avrebbe causato l'insurrezione di tutti i matabele. Ma lei e il signor Mellow gli avete offerto la scusa buona su un piatto d'argento: un reato comune, un reato di avidità." "Che stupida!" disse Sally-Anne. "Ma se non era Zebiwe, il capo dei bracconieri, chi era?"
"Era il generale Fungabera in persona" rispose semplicemente Timon Nbebi. "Ne sei sicuro?" Clay non riusciva a crederci. "Mi sono occupato io stesso di molte esportazioni di carichi d'avorio." "Ma quella sera sulla strada di Karoi?" "E stato facilissimo organizzare la trappola. Il generale Fungabera sapeva che presto o tardi Zebiwe sarebbe tornato alla missione di Tuti. La segretaria di Zebiwe ci ha informati del giorno e dell'ora esatti. Abbiamo mandato a incontrarlo il camion carico d'avorio, guidato da un matabele corrotto, sulla strada di Tuti. Naturalmente non avevamo previsto la reazione violenta di Tungata Zebiwe, ma essa ci ha fatto gioco." Timon andava alla massima velocità consentita dalla pista, con Sally-Anne e Clay raggomitolati sul sedile. L'eccitazione della fuga era sbollita e ora stavano soccombendo alla stanchezza. "Dove stai andando?" "Al confine col Botswana." Era lo staterello situato in un'enclave sudoccidentale che a poco a poco era diventato la Mecca dei fuggitivi dai paesi circostanti dilaniati dalle guerre civili. "Per la strada spero che avrete occasione di vedere cosa sta veramente succedendo al mio popolo. Non vi sono testimoni, il generale Fungabera ha vietato l'accesso al Matabeleland sudoccidentale. Non ci sono giornalisti, né missionari, né inviati della Croce Rossa..."Rallentò in una zona di formicai giganti, poi accelerò di nuovo. "I miei ordini, di pugno del generale, ci porteranno un po' più avanti, ma non certo fino al confine. Dovremo usare piste secondarie finché non troveremo l'occasione giusta per passare la frontiera. Ben presto il generale Fungabera verrà a sapere che ho disertato e tutta la Terza Brigata ci correrà dietro. Prima che questo avvenga, dobbiamo arrivare il più lontano possibile." Raggiunsero il bivio che dava sullo stradone e Timon Nbebi si fermò a consultare la carta geografica. "Siamo appena a sud della linea ferroviaria. E la strada che va alla missione di Empandeni. Se ci arriviamo prima che scatti l'allarme, possiamo cercar di passare il confine tra Madaba e Matsumi. La polizia del Botswana pattuglia regolarmente la frontiera." "Forza allora, andiamo." Clay era impaziente e cominciava ad avere paura. Già il fucile mitragliatore che aveva sulle ginocchia lo consolava meno. Timon piegò la carta geografica e ripartì. "Potrei farti qualche altra domanda?" chiese Sally-Anne dopo un po'." "Cercherò di rispondere" disse Timon." "La strage dei Goodwin e delle altre famiglie bianche nel Matabeleland... queste atrocità sono state ordinate da Tungata Zebiwe? E lui il responsabile di quei terribili delitti?" "No, no, signorina Jày. Zebiwe, anzi, ha sempre tentato disperatamente di tenere a bada quegli assassini. Credo che stesse andando alla missione di Tuti proprio per incontrare l'ala estremista dei matabele e cercare di farli ragionare." "Ma la scritta col sangue? "Tungata Zebiwe vive" ?" Ora Timon tacque, con la faccia deformata da una smorfia, come se stesse combattendo qualche battaglia interiore. Gli altri due aspettavano che parlasse. Alla fine, sospirò rumorosamente e parlò con voce mutata. "Signorina Jay, ti prego di cercar di capire la mia posizione prima di giudicarmi per quello che sto per dirti. Il generale Fungabera è un uomo che sa persuadere. Io sono stato ingannato dalle sue promesse di gloria e di carriera. E all'improvviso mi ero spinto troppo oltre e non potevo più tirarmi indietro. Credo che in inglese si definisca "cavalcare la tigre." Sono stato obbligato a passare da una cattiva azione all'altra." Fece una pausa e poi, tutto difilato: "Si-
gnorina Jay, ho reclutato personalmente gli assassini della famiglia Goodwin in un campo di rieducazione. Gli ho detto dove andare, cosa fare, e anche cosa scrivere suL muro. Gli ho fornito le armi e li ho fatti trasportare sul posto da un camion della Terza Brigata." Ci fu silenzio, rotto solo dai sobbalzi dell'auto, e toccò a Timon Nbebi porvi fine, come se le parole potessero dargli sollievo per la sua colpa. "Erano veterani matabele, uomini induriti dalla guerra, uomini pronti a tutto per tornare in libertà con un mitra in mano. Non hanno esitato." "E l'ha ordinato Fungabera?" chiese Clay. "Naturalmente. Aveva bisogno di un pretesto per dar avvio alle purghe dei matabele. Adesso forse capite perché ho deciso di scappare con voi. Non ne potevo più di questi delitti." "E gli altri omicidi? L'assassinio del senatore Savage e della sua famiglia?" chiese Sally-Anne. "Il generale Fungabera non ha avuto nemmeno bisogno di ordinarli, questi!" scosse la testa Timon. "Sono arrivati sull'onda e a imitazione del primo! La boscaglia è ancora piena di guerriglieri dal tempo di guerra. Molti passano la settimana in città, dove hanno magari un regolare lavoro: il sabato e la domenica tornano nella boscaglia, dissotterrano il kalashnikov e vanno in cerca di prede. Non sono ribelli o dissidenti antigovernativi, sono semplici briganti, e le famiglie dei bianchi costituiscono il più succulento obiettivo delle loro rapine. Sono ricche e indifese; private dal governo Mugabe di tutte le armi da fuoco, sono in balia dei banditi." "E questo fa gioco ai mashona. Tutti i banditi diventano dissidenti matabele, provando sempre più al mondo che si tratta di una tribù feroce e intrattabile" continuò CLAY. "Esatto, signor Mellow." "E scommetto che Fungabera ha già provveduto a far uccidere in campo di concentramento Tungata Zebiwe." Si sentiva responsabile della brutta fine del suo amico di un tempo. "No, signor Mellow. Non credo che Zebiwe sia morto. Credo che il generale Fungabera lo voglia vivo per certi suoi scopi. "Di che si tratta?" gli chiese Clay. "Non lo so di sicuro, ma credo che Fungabera sia in contatto coi sovietici." "I sovietici?" ripeté Clay incredulo. "Mi risulta che si sia incontrato con un pezzo grosso straniero, un membro dell'organizzazione spionistica russa." "Sei sicuro, Timon?" "L'ho visto coi miei occhi, quell'uomo." Clay rifletté sulla faccenda per qualche istante, poi tornò all'argomento di prima. "Okay, lasciamo perdere i russi per ora. Dov'è Tungata Zebiwe? Dove lo tiene Peter Fungabera?" "Purtroppo non lo so, mi dispiace, signor Mellow." "Se è ancora vivo, che Dio abbia pietà dell'anima sua" sussurrò Clay. Era facile immaginare le indicibili sofferenze di Tungata Zebiwe in quel momento. Clay tacque per qualche minuto, poi cambiò argomento. "Il generale Fungabera vuol la terra per sé, non per lo Stato, vero? E giusta questa mia sensazione?" "Sì, desiderava quella terra ardentemente. Ne parlava molto spesso." "Ma come farà a impossessarsene? Voglio dire, da un punto di vista legale o anche pseudolegale?" "E molto semplice" spiegò Timon. "Ti sei riconosciuto un nemico dello Stato, e la proprietà dei nemici dello Stato viene requisita. La World Bank ritirerà la garanzia del tuo prestito sulla base della clausola liberatoria da te sottoscritta. Lo Stato metterà in vendita le azioni della Rholands, e il generale Fungabera non faticherà
a risultare il migliore offerente: primo, perché nessuno si azzarderà a fargli concorrenza; secondo, perché l'amministratore dei beni nazionalizzati è suo cognato. Si può scommettere che comprerà quelle azioni a un prezzo vantaggiosissimo." "Lo credo anch'io" disse amaro Clay. "Ma perché darsi tanta pena da parte sua?" domandò Sally-Anne. "Il generale Fungabera dev'essere già miliardario, se non mi sbaglio. Non ne ha abbastanza?" "Signorina Jay... per certi uomini non esiste "abbastanza." "Non spererà di cavarsela, dopo una faccenda del genere?" "E chi glielo può impedire, signorina Jay?" Poiché ella non rispose, il capitano Nbebi proseguì: "L'Africa sta ritornando al punto in cui era prima dell'intrusione dell'uomo bianco. Qui per un uomo di governo esiste un solo metro di giudizio: la forza. Noi africani non ci fidiamo di nient'altro. Fungabera è forte, come un tempo era forte Tungata Zebiwe. Abbandonò la strada ed entrò in un campo di rovi. Uscì dal veicolo e rapidamente lo mimetizzò con dei cespugli, nascondendolo anche agli eventuali aerei o elicotteri che lo cercassero dal cielo. Poi tornò su e aprì le razioni d'emergenza conservate sotto i sedili. C'erano anche delle grosse taniche d'acqua. Clay riempì di sabbia una gavetta e l'imbevve di benzina. Ecco un bel fornellino per scaldare il tè senza far fumo. Senza parlare, mangiarono fredde le ben poco appetitose razioni di emergenza. Una volta Timon alzò la radio per sentire meglio una trasmissione, poi scosse la testa. "Niente a che fare con noi." Tornò ad accovacciarsi accanto a Clay. "Quanto dista il confine, secondo te?" gli chiese Clay con la bocca piena di manzo in scatola. "Un'ottantina di chilometri o poco più." La radio gracchiò di nuovo e Timon saltò in piedi e si mise ad ascoltare con attenzione. "C'è una unità della Terza Brigata proprio davanti a noi, a pochi chilometri di distanza" li informò. "Alla stazione della missione di Empandeni. Hanno appena finito di fare un rastrellamento di dissidenti e stanno per andarsene, forse passeranno di qui. Dobbiamo stare in guardia." "Vado a vedere se siamo visibili dalla strada" disse alzandosi Clay. "Sally-Anne, spegni il fornello. Capitano, coprimi." Prese il kalashnikov e corse alla strada. Da lì esaminò criticamente il cespuglio fittizio che nascondeva la Land Rover, dopo di che cancellò con un ramo le proprie tracce e quelle della macchina. Raddrizzò con cura sul ciglio della strada gli steli d'erba che avevano appiattito svoltando. Non era un lavoro perfetto, ma tale da superare la prova di un esame superficiale da un veicolo in moto, pensò nell'attimo in cui udiva una lieve vibrazione dell'aria. Tese l'orecchio. Si avvicinava un camion. Clay tornò di corsa alla Land Rover e sedette davanti, accanto a Timon. "Rimetti il mitra nella rastrelliera" glidisse il capitano. Siccome Clay esitava, proseguì: "Fa' come ti dico, signor Mellow. Se ci trovano, sarà inutile combattere. Dovrò piuttosto inventare qualche balla, e non sarei in grado di spiegare perché sei armato." Con riluttanza, Clay passò il mitra a Sally-Anne. Lei lo rimise nella rastrelliera, mentre Clay si sentiva nudo e vulnerabile. Strinse i pugni in grembo. Il rumore del motore (anzi, dei motori!) si avvicinava in fretta, e a un tratto si udì anche un canto. Nonostante la tensione, Clay provò i consueti brividi della bellezza peculiare di un coro africano. "E la Terza Brigata" disse Timon. "E la canzone del Vento che porta la pioggia, l'inno del reggimento." Nessuno rispose, e Timon canticchiò fra sé: aveva una voce bellissima e commovente.
Quando la nazione brucia, vento di pioggia porta sollievo. Quando le bestie si accasciano per la siccità, vento di pioggia le rimette in piedi. Quando i tuoi bambini hanno sete e piangono, vento di pioggia li disseta. Noi siamo il vento che porta la pioggia. Noi siamo il buon vento della nazione. Timon tradusse dallo shona a loro beneficio, e Clay scorse la nuvola grigia di polvere sollevata dai camion; adesso il canto era chiaro e vicino. Si notò un barbaglio di sole sul metallo e poi Clay intravide passare la colonna. Erano tre camion grigi, carichi di soldati in tuta da combattimento ed elmetto mimetico, con le armi in mano pronte all'uso. Sull'ultimo camion, accanto all'autista, sedeva un ufficiale, l'unico col basco rosso e il leopardo d'argento. Guardava in direzione di Clay, e sembrava vicinissimo: la mimetizzazione appariva di colpo rada e insufficiente. Clay si contrasse tutto sul sedile. Poi per fortuna il convoglio sfilò, la polvere si posò, il rombo dei motori e il coro svanirono. Timon Nbebi trasse un gran sospiro. "Ne passeranno altri" avvertì, e con le dita sulla chiave attese che non si sentisse più niente, poi accese il motore, scrollò dall'auto i cespugli e si diresse verso la pista. Puntò in direzione opposta a quella dell'autocolonna, con le ruote nei solchi tracciati dal gruppo di camion sulla terra battuta. Proseguirono per una ventina di minuti ed ecco che Timon si chinò sul sedile per guardare in cielo. "Fumo" disse. "Empandeni è proprio là. Prepara la macchina fotografica, signorina Jay, perché credo che la Terza Brigata ti abbia lasciato qualcosa da fotografare." Arrivarono ai campi di mais che circondavano la missione. Le piante erano seccate, e le pannocchie cominciavano a cadere a terra, pesanti, gialle, mature per il raccolto. C'erano state delle donne a lavorare nel campo: ora una di esse giaceva sul ciglio della pista. Le avevano sparato nella schiena mentre scappava, la pallottola era uscita dal solco del seno. Il bambino che portava in spalla era stato baionettato parecchie volte. Al loro passaggio si alzò dai corpi una nuvola di mosche blu che subito dopo tornarono a posarsi. Nessuno parlò. Sally-Anne frugò nella borsa delle macchine e tirò fuori la Nikon. Il suo viso era grigiastro sotto le lentiggini. Le altre donne giacevano più lontano dalla strada, semplici mucchi di stracci multicolori arrossati di sangue. Il villaggio consisteva di una cinquantina di capanne, che stavano tutte bruciando, coi tetti di paglia trasformati in torce che fiammeggiavano contro il cielo azzurro del mattino. Avevano gettato nelle capanne quasi tutti i cadaveri, di cui si vedevano ormai soltanto le pozze di sangue per terra e i segni del trascinamento. C'era una puzza terribile di carne bruciata. Clay, per non dar di stomaco, dovette chiudersi bocca e naso con le dita. "Sono ribelli, quelli?" sussurrò Sally-Anne. Aveva le labbra esangui al punto che apparivano quasi candide. Il motorino della Nikon continuava a squittire senza sosta a ogni istantanea che scattava. Avevano ammazzato anche i polli. Le penne delle galline volavano dappertutto. "Fermati!" ordinò Sally-Anne. "E pericoloso" disse Timon. "Fermati!" ripeté Sally-Anne. Scese, lasciando la portiera aperta, e andò tra le capanne. Lavorando in fretta, cambiando un caricatore dopo l'altro con dita esperte, con le labbra tremanti e gli occhi nell'obiettivo, sbarrati per l'orrore. "Adesso dobbiamo andarcene" disse Timon.
"Aspetta." Sally-Anne prosegui a piedi, in fretta, fotografando tutto da quella professionista che era. Passò dietro un gruppo di capanne. La puzza di carne bruciata li era quasi insopportabile, e il calore dell'incendio arrivava a tratti sospinto dalla brezza come l'alito di una fornace. Sally-Anne gridò e i due uomini saltarono giù dalla macchina coi mitra in mano, separandosi per coprirsi a vicenda (a Clay era tornata immediatamente l'abitudine contratta durante l'addestramento). Voltò l'angolo di una capanna. Sally-Anne si era fermata allo scoperto, incapace di scattare la fotografia. Ai suoi piedi giaceva una donna negra nuda. La parte superiore del suo corpo era quella di una ragazza piena di salute, ma sotto l'ombelico era una mostruosa scorticatura rosa. Si era trascinata fuori dalle fiamme in cui l'avevano gettata ancora viva. In qualche punto degli arti inferiori l'ustione non era profonda, e la carne era rosea e umida di linfa; in altri punti era carbonizzata al punto da mostrare le ossa. L'anca sporgeva dalla carne martoriata del bacino. Dal ventre bruciato uscivano le viscere. Chissà come faceva a essere ancora viva. Con le dita grattava meccanicamente il terriccio. Anche la bocca si apriva e si chiudeva senza emetter suono, convulsa, e aveva gli occhi sbarrati, coscienti e sofferenti. "Torna alla Land Rover, signorina Jay" le disse Timon Nbebi. "Non si può fare più niente per lei." Sally-Anne rimaneva immobile, rigida, incapace di andarsene. Clay la prese per le spalle e la condusse via. All'angolo della capanna in fiamme Clay si voltò indietro. Timon Nbebi si era avvicinato alla donna ferita impugnando il kalashnikov e la guardava con il viso impietrito in un'espressione di pietà, quasi sofferente quanto quella della povera donna. Clay girò l'angolo con Sally-Anne. Dietro di loro echeggiò un colpo singolo, confuso allo scoppiettare delle fiamme. Sally-Anne inciampò e recuperò l'equilibrio. Quando arrivarono alla Land Rover, la donna si appoggiò al cofano e si piegò in due. Vomitò nella polvere e si puli la bocca col dorso della mano. Clay prese la bottiglia di acquavite di canna nel cruscotto. Ne restavano due dita. La passò a Sally-Anne, che la tracannò come se fosse acqua. Clay riprese la bottiglia e all'improvviso, di scatto, la scagliò nel rogo della capanna. Arrivò Timon Nbebi. Senza parlare andò a mettersi al volante, mentre Clay aiutava Sally-Anne a salire di dietro. Sfilarono tra le ultime capanne del villaggio a passo d'uomo, guardando di qua e di là le varie terribili scene che si presentavano dappertutto. Superando la chiesetta di mattoni rossi, ne videro crollare il tetto. La croce alla sommità fu inghiottita con un rutto di faville, lingue di fuoco e fumo azzurro. Le fiamme sotto il sole ormai alto erano quasi incolori.
Timon Nbebi usava la radio come un marinaio in acque insidiose si serve dell'ecoscandaglio. Blocchi stradali e imboscate della Terza Brigata erano riportati dal comando via radio, con la localizzazione e tutto, e Timon prendeva nota dei punti da evitare sulla carta geografica. Due volte aggirarono blocchi stradali imboccando tratturi per il bestiame, avanzando cauti nel bosco di acacie. Passarono per altri due villaggi, semplici luoghi di sosta per le mandrie, abitati da due o tre famiglie di matabele. La Terza Brigata li aveva preceduti, e corvi e avvoltoi banchettavano sulle ceneri calde delle capanne incendiate. Proseguirono diretti a ovest ogni volta che c'era una pista libera. In cima a ogni altura, prima di scollinare, Timon si fermava e Clay andava a piedi sulla cresta a vedere che cosa li aspettava di là. In tutte le direzioni, allora, vedeva levarsi il fumo dei villaggi bruciati. Sempre a ovest si diressero di soppiatto, e sotto
le ruote della Land Rover il terreno cambiò man mano che si avvicinavano all'inizio del deserto di Kalahari. Il paesaggio si faceva sempre più piatto. La terra si livellava in una pianura grigia arroventata dal sole alto e fiammeggiante senza posa. Gli alberi si facevano radi e contorti, coi rami anchilosati come gli arti di un invalido. Era quella una terra a malapena capace di nutrire l'uomo, l'inizio del grande deserto: vi penetrarono, sempre diretti a occidente. Il sole culminò e iniziò a declinare. Dall'alba non erano riusciti a fare che una sessantina di chilometri: ce n'erano ancora una quarantina prima del confine, stimò Clay sulla carta, ed erano tutti e tre esausti per l'incessante tensione e il caldo infernale che ristagnava nella macchina coperta. A metà del pomeriggio si fermarono ancora per qualche minuto. Clay preparò il tè. Sally-Anne andò ad accucciarsi dietro un cespuglio, mentre Timon ascoltava la radio. "Non ci sono più villaggi da qui in avanti" disse Timon sintonizzando il ricevitore. "Credo che abbiamo via libera, ma non conosco la zona e non so cosa troveremo più in là." "Io ho lavorato da queste parti quando ero guardacaccia con Tungata, nel '72. Seguivamo un branco di leoni che uccidevano bestiame e sconfinammo di quasi duecento chilometri. E un brutto paese, senz'acqua, e col terreno intriso di sali che le ruote della Land Rover rischiano di sfondare insabbiandosi.,," Si interruppe perché Timon gli aveva fatto segno di star zitto. Aveva captato qualcosa con la radio. Era una voce più autoritaria e tagliente di quella del capoplotone che faceva rapporto e che aveva ascoltato fino a quel momento. Chiaramente si trattava del comando che chiedeva il silenzio radio per una comunicazione urgente. Timon Nbebi si irrigidì e imprecò sottovoce. "Che c'è?" Clay non riuscì a trattenersi. Ma Timon ripeté il gesto di star zitto, ascoltando la lunga trasmissione in staccato shona. Quando la spia rossa della ricezione si spense, l'ufficiale li guardò in faccia tutti e due. "I tre che abbiamo scaricato stamattina sono stati raccolti da una pattuglia. Era l'allarme generale, Fungabera ha dato la precedenza assoluta alla nostra cattura. Due aerei da ricognizione sono stati inviati in questa zona. Dovremmo vederceli sopra la testa prestissimo. Il generale ha calcolato la nostra presunta posizione con molta accuratezza e ha ordinato alle unità impegnate in spedizioni punitive da queste parti di abbandonare tutto e convergere qui. Ha indovinato che abbiamo intenzione di passare il confine sotto Plumtree e raggiungere la linea ferroviaria. Ha quindi ordinato a due plotoni di stanza in quel posto di frontiera di venirci incontro da Plumtree per tagliarci la strada." Fece una pausa, si tolse gli occhiali e pulì le lenti con la sciarpa di seta. Senza occhiali sembrava miope come un gufo di giorno. "Il generale Fungabera ha trasmesso a tutte le unità il codice leopardo.,," fece un'altra pausa, e quasi in tono di scusa spiegò:Codice leopardo significa sparare a vista. Bruttissime notizie, temo." Clay aprì la carta geografica e si mise a studiarla, mentre SallyAnne si chinava su di lui. "Siamo qui" disse, e Timon annuì. "Da qui in poi, questa è l'unica pista che c'è, e piega verso nord-ovest" mormorò Clay come fra sé. "La pattuglia da Plumtree ci verrà incontro sulla nostra stessa pista, e le sPedizioni punitive ci seguiranno." Timon annuì un'altra volta. "E stavolta non ci supereranno senza vederci perché staranno sul chi vive." La radio si svegliò di nuovo e Timon schizzò vicino all'apparecchio. Mentre ascoltava, la sua espressione diventava sempre più lugubre. "Quelli che ci stanno dietro hanno trovato le nostre tracce. Non sono molto lontani e si avvicinano in fretta" li informò.
"Si sono messi in contatto con la pattuglia che ci viene incontro. Ci hanno imbottigliati. Non so che cosa fare, signor Mellow. Saranno qui fra pochi minuti." Guardò Clay in attesa di un'idea. "E va bene" disse Clay prendendo con naturalezza il comando. "Lasceremo la pista e punteremo verso il confine attraverso il deserto." "Ma non hai appena detto che il terreno è troppo difficile.,," cominciò Timon. "Inserisci le quattro ruote motrici e mettiti al volante" tagliò corto Clay. "Io monto sul portapacchi e ti guido. Sally-Anne, siediti davanti." Appollaiato sul tetto della Land Rover, con il mitra in spalla, Clay fece quattro calcoli con bussola e compasso, tracciò la rotta sulla carta geografica tenendo conto a spanne della declinazione magnetica, e gridò a Timon di avviarsi. "A destra, ancora un po' a destra, eccoti! Tieni questa direzione." La rotta era allineata al bagliore di una distesa salina che splendeva, abbacinante, pochi chilometri più avanti. Il terreno sotto le ruote sembrava ancora compatto e ragionevolmente percorribile. La Land Rover accelerò tra i bassi cespugli spinosi, sobbalzando solo se ne incontrava uno un po' più grosso. A ogni deviazione Clay controllava la rotta e la ridava a Timon. Andavano a circa settanta all ' ora e l'orizzonte era completamen-te sgombro in tutte le direzioni. I camion che li inseguivano, pesanti e ingombranti com'erano, non potevano tenere la loro stessa velocità, Clay di questo era più che sicuro, e il confine era a meno di un'ora. Oltretutto stava per calare la notte. La tazza di tè l'aveva ristorato, e Clay si sentì sollevare il morale. "E va bene, bastardi, provate un po' a prenderci!" esclamò sfidando l'invisibile nemico, e rise al vento. Aveva dimenticato come canta l'adrenalina nel sangue quando il pericolo è vicino. Una volta amava il rischio proprio per questo, e notò che l'assuefazione a quella droga c'era ancora. {Si voltò a guardare indietro e la vide immediatamente. Sembrava un piccolo willy-willy, i diavoletti del deserto, i vortici di polvere che si creano nell'aria ferma del mezzodì. Ma quella nuvola si muoveva in una direzione precisa, e si trovava proprio dove si era aspettato di vederla comparire, dritto a oriente, sulla pista che avevano appena lasciato. "Pattuglia in vista" si chinò a gridare nel finestrino di Timon. "Sono dietro a meno di dieci chilometri." Poi tornò a guardare e, alla vista della nuvola di polvere che, con la trazione a quattro ruote, lasciavano anche loro, sogghignò. Li seguiva come un velo nuziale e non si posava che dopo due minuti dal loro passaggio: nella sterpaglia arida formava come una lunga scia biancastra. Era impossibile che non la vedessero. Guardava la polvere, invece di guardare davanti a sé. Il formicaio era nascosto al guidatore dall'erba arida della savana: lo urtarono a settanta all'ora, e li fermò di colpo. Clay fu proiettato giù dal tetto e cadde a terra sbattendo i gomiti, le ginocchia e la faccia. Giacque al suolo intontito e dolorante, poi si girò sputando sangue dalla bocca. Controllò i denti con la lingua, non ne mancavano. Aveva i gomiti tutti scorticati e anche le ginocchia sbucciate, che gli macchiavano di sangue i jeans. Controllò rapidamente le condizioni della gamba artificiale: era intatta e ancora allacciata. Si tirò faticosamente in piedi. La Land Rover era affondata nel buco con la ruota sinistra anteriore. Clay si recò saltellando al posto del passeggero, maledicendosi per la propria disattenzione, e apri la portiera. Il parabrezza era rotto e bozzuto dove Sally-Anne era andata a sbattere con la testa. "Oh Dio?" disse alzandole dolcemente la testa. Sopra l'occhio aveva un bernoccolo blu grosso come una ghianda ma, quando
le toccò la guancia, Sally-Anne lo guardò, mettendo a fuoco la vista. "Sei ferita gravemente?" Si rialzò. "Sei tu che sanguini" farfugliò lei come ubriaca. "Sono graffi" la rassicurò Clay, stringendole il braccio e guardando Timon. Aveva sbattuto con la bocca sul volante e sanguinava dal labbro superiore spaccato. Un incisivo gli si era rotto alla gengiva. Aveva la bocca piena di sangue, che cercava di tamponare con la sciarpa di seta. "Metti la marcia indietro" gliordinò Clay, e tirò fuori Sally-Anne per alleggerire il veicolo. La ragazza fece quattro passi barcollando e cadde col sedere per terra. Era ancora confusa e mezzo intontita per il colpo in testa. Il motore si era spento, ma ripartì subito scoppiettando, mentre Clay guardava la nuvola di polvere alle loro calcagna. Non era più tanto lontana e si avvicinava in fretta. Alla fine Timon provò a uscire dal formicaio a marcia indietro, ma lasciò la frizione troppo in fretta e le quattro ruote si misero a girare vorticosamente senza spostare l'automezzo. "Ehi, piano, vuoi rompere un semiasse?" brontolò Clay. Timon ci riprovò, più dolcemente, ma ancora le ruote slittarono alzando polvere e scavando nel terriccio una vera e propria tomba per la Land Rover. Clay si buttò per terra e guardò sotto il telaio. La ruota anteriore sinistra, nella buca, girava a mezz'aria: il peso del veicolo gravava sul semiasse. "Qua il badile" gridò Clay a Timon. "L'abbiamo lasciato ai soldati" gli ricordò l'ufficiale, e Clay si avventò all'orlo del buco grattando a mani nude. "Trova qualcosa per scavare!" disse, mentre continuava a farlo con le dita, freneticamente. Timon andò a frugare nel bagagliaio e gli portò la manovella del cric e un panga a lama larga. Clay attaccò l'orlo del buco con quello, grugnendo e ansimando, col sudore che gli faceva bruciare la ferita della guancia. La radio gracchiò. "Hanno trovato il punto dove abbiamo abbandonato la pista" tradusse Timon. "Cristo!" imprecò Clay, lavorando più in fretta che poteva. Era a soli quattro chilometri di distanza. "Posso aiutarti?" chiese Timon, che la perdita del dente aveva fatto bleso. Clay non si diede la pena di rispondere. Sotto la Land Rover poteva lavorare una sola persona. La terra si sgretolò e finalmente la ruota sospesa toccò il fondo del buco. Clay rivolse la sua attenzione al gradino formato dall'orlo del buco, che cercò di addolcire a rampa in modo che non bloccasse la ruota. "Sally-Anne, mettiti al volante" disse a scatti tra un colpo di panga e l'altro. "Io e Timon cercheremo di sollevare l'avantreno." Strisciò fuori da sotto l'auto e perse un secondo per guardare indietro. Adesso la polvere degli inseguitori si vedeva benissimo anche dal livello del suolo. "Forza, Timon." A spalla a spalla, si piazzarono davanti al radiatore piegando le ginocchia per garantirsi una buona presa sotto il muso. SAlly-Anne sedeva dietro il parabrezza incrinato e pieno di polvere. Il bernoccolo si era gonfiato ancora sulla fronte e sembrava una grossa zecca succhiasangue bluastra. La donna guardò Clay da dietro il vetro con espressione disperata. "Avanti!" berciò Clay, e fecero forza insieme con i muscoli delle gambe, della schiena e delle braccia. L'avantreno si sollevò leggermente sulle sospensioni e Clay fece un cenno a Sally-Anne. Costei lasciò andare la frizione, il motore sputacchiò, la ruota girò e si fermò contro l'orlo del buco. "Riposo" disse Clay. Si abbandonarono ansimando sul cofano.
Clay vide la polvere degli inseguitori così vicina che si aspettava di scorgere i camion sotto la nuvola da un momento all'altro. "Okay, la faremo rimbalzare" disse a Timon. "Forza! Uno! Due! Tre!" Mentre Sally-Anne teneva su di giri il motore, schiacciavano l'avantreno a brevi colpi regolari ritmici e veloci. "Uno! Due! Tre!" ansimava Clay. Il veicolo cominciò a beccheggiare pazzamente sull'orlo del buco. "Vai!" Una nuvola di polvere si alzò dalle ruote della macchina e la voce alla radio ebbe un'esclamazione di esultanza, come il capobranco dei cani da caccia al cogliere l'usta. Avevano scorto la polvere. "Tienila su!" Clay trovò riserve di energia del tutto insospettate. Arrotando i denti, ansimando roco, con la faccia tutta rossa per lo sforzo e la rabbia, gli occhi pieni di stelle luminose, continuava a far saltare con Timon l'avantreno della Land Rover. Proprio quando pensava di aver esaurito le forze, di esser sul punto di spaccarsi la schiena, le ruote davanti della Land Rover, a marcia indietro, di schianto, salirono sul gradino e fuori del buco del formicaio. Il veicolo scattò all'indietro, libero. Clay perse l'appoggio e finì in ginocchio. Pensava di non avere più la forza di rialzarsi. "Clay! Sbrigati!" gligridò Sally-Anne. "Salta su!" Con gli ultimi spiccioli d'energia si arrampicò sul tetto della Land Rover e rimase aggrappato al portapacchi senza guardare finché non gli tornò un po' di vigore nei muscoli. Allora alzò la testa e scrutò verso gli inseguitori. Era un solo camion che li inseguiva, un Toyota da cinque tonnellate del solito color sabbia. Nella distorsione del miraggio creato dalle onde di calore che si sollevavano dal suolo, appariva mostruoso, sembrava dirigersi verso di loro galleggiando a mezz'aria, disancorato da terra. La vista gli si schiarì e nella confusa soprastruttura nera che sormontava la cabina del camion riconobbe una mitragliatrice pesante con dietro la testa nera del mitragliere. Anche a quella distanza aveva l'aria di essere la Goryunov Stankovy modificata, un'arma molto antipatica. "Oh buon Gesù!" sussurrò fra sé accorgendosi solo in quel momento delle strane vibrazioni della Land Rover. Tremava, scuotendosi forte, e levando il rumore lacerante di metallo che stride su metallo dalla parte sinistra dell'avantreno, dove aveva sbattuto: e andava piano, pianissimo. Clay gridò nel finestrino del guidatore: "Accelera!" "E ammaccata davanti" glirispose Sally-Anne mettendo la testa fuori del finestrino. "Se accelero, va a pezzi." Clay guardò dietro. Il camion si avvicinava, non tanto rapidamente ma in modo inesorabile. Sul tettuccio della cabina vide il mitragliere aggiustare la mira. "Forza, provaci, Sally-Anne!" le gridò. "Magari resiste! Quelli hanno una mitragliatrice pesante e stanno arrivando a tiro." La Land Rover accelerò un po' e adesso, oltre allo stridore lacerante di lamiera su lamiera, si udì anche un rumore come di martel-late ritmiche e violente. La vibrazione induceva Clay a sbatteré i denti. Guardò ancora indietro. Guadagnavano terreno sul camion, per fortuna. Vide il veicolo inseguitore sobbalzare per il rinculo della mitragliatrice piazzata sopra la cabina di guida. Non si udiva alcun rumore e Clay osservava con interesse accademico. A un tratto vicino al loro fianco sinistro si alzarono fontanelle di polvere alte un metro e mezzo che nell'aria surriscaldata crearono una specie di sipario diafano, che sembrava etereo e inoffensivo finché non arrivò anche il rumore della raffica, sferragliante, come di fili di rame tesi percossi con una sbarra d'acciaio.
"A sinistra!" gridò Clay. Sempre girare verso i colpi. Il mitragliere è infatti intento a correggere la mira nella direzione opposta, e la polvere contribuisce a confondergli il bersaglio." La scarica successiva fini a destra, molto larga. "A destra!" gridò Clay. "Sparagli anche tu?" disse Sally-Anne sporgendo la testa dal finestrino. Stava chiaramente riprendendosi dalla zuccata e il combattimento la esaltava. "Li do io gli ordini, tu guida" le intimò. La raffica seguente era larga e una trentina di metri a sinistra. "Gira a sinistra!" Il loro zig-zag confondeva le idee al mitragliere, e la polvere che alzavano gli nascondeva la distanza, ma perdevano anche terreno. Il camion si stava di nuovo avvicinando. La distesa bianca abbagliante era ormai vicina. Si trattava del fondo di un antico lago salato, piatto e brillante, controsole. Clay strinse gli occhi e riuscì a vedere, nel crostone salino, le orme di un piccolo branco di zebre. Gli zoccoli avevano sfondato la crosta candida mostrando la fanghiglia gialla sottostante. Un veicolo che avesse tentato l'invitante passaggio si sarebbe impantanato dopo pochi metri. "Costeggia l'orlo del lago salato. A sinistra! Ancora, ancora un po'! Bene, così" gridò nel finestrino di Sally-Anne. C'era una protuberanza della distesa salina che si estendeva verso di loro, forse poteva indurre gli inseguitori a cercar di attraversarla per guadagnare terreno. Guardò indietro e imprecò sottovoce. "Merda!" Il comandante era troppo furbo per cercar di tagliare loro la strada. Li seguiva esattamente sulle loro stesse tracce. Un'altra raffica di mitragliatrice piovve tutto attorno alla Land Rover. Tre proiettili forarono la macchina creando craterini bordati di lamiera lucida dove la vernice era saltata. "State bene?" "Bene!" gridò in risposta Sally-Anne, ma il tono della sua voce non era più tanto gagliardo. "Clay, la macchina si sta fermando. Schiaccio a tavoletta, ma lei rallenta. C'è qualcosa che fa pressione." Anche Clay ora sentiva l'odore del metallo incandescente che esalava dall'avantreno danneggiato. "Timon, passami un fucile mitragliatore." Erano ancora molto fuori portata del kalashnikov, ma sparare una raffica agli inseguitori lo fece sentir meno indifeso, anche se non vide nemmeno dove erano andate a finire le pallottole. Girarono sferragliando intorno alla lingua salina, nella puzza di lamiera surriscaldata e polvere, e Clay alzò la testa dopo aver ricaricato il mitragliatore. Quanto distava il confine? Venti chilometri, forse? Ma bastava una frontiera internazionale a fermare una spedizione punitiva della Terza Brigata? Israeliani e sudafricani da un pezzo avevano creato il precedente con i loro "inseguimenti a caldo" in territorio neutrale. Sapeva che li avrebbero inseguiti fino alla morte oltre qualsiasi linea ideale. La Land Rover sobbalzava ritmicamente, ora, sulla sospensione scassata, e Clay capì che non ce l'avrebbero fatta. I morsi dell'ira lo indussero a vuotare un secondo caricatore contro gli inseguitori, e alla seconda breve raffica il camion Toyota deviò leggermente e si arrestò in una nuvola di polvere. "L'ho beccato!" urlò esultante." "Ce la squagliamo!" sghignazzò Sally-Anne. "Geronimo!" "Complimenti, signor Mellow! Sei stato bravissimo." Il massiccio camion era immobile, mentre intorno si posava la polvere. "E adesso mangiatevelo!" ululò Clay agitando il pugno.
"Ficcatevelo nel culo, il vostro camion, figli di porcospini!" E vuotò il caricatore contro il lontano bersaglio. Nei pressi della cabina di guida pullulavano i soldati come formiche nere intorno a uno scarabeo morto. La Land Rover si allontanava sferragliando dagli inseguitori. "Oh, no!" grugnì Clay." La silhouette del camion cambiò forma. Si avviava di nuovo dietro a loro, alzando la solita nuvola di polvere. "Sono ripartiti!" Magari aveva colpito l'autista. Ma, qualunque danno avesse inflitto, non era permanente. Il camion si era fermato meno di due minuti e adesso, se mai, andava più forte di prima. Come a sottolineare questo fatto, dalla mitragliatrice pesante partì un'altra raffica che investì clamorosamente la Land Rover. Qualcuno urlò. Era un urlo acuto e femminile. Clay rimase gelato, senza osare chiedere niente, aggrappato rigidamente al portapacchi. "Timon è stato colpito." La voce di Sally-Anne. Il cuore di Clay prese a battere forte per il sollievo. "Gravemente?" "Sì. Perde molto sangue." "Non possiamo fermarci, prosegui!" Clay, disperato, guardò davanti, ove un grande nulla si stendeva di fronte a loro. Ormai non c'era più neanche un albero. Il paesaggio era piatto e monotono: i riflessi delle distese saline facevano impallidire il cielo lattescente e confondevano l'orizzonte, sicché l'occhio non distingueva il confine tra cielo e terra e non poteva posarsi su niente. Clay scrutò più vicino, e gridò: "Ferma!" Per sottolineare l'ordine, picchiò un forte colpo sul tettuccio della macchina, e Sally-Anne reagì immediatamente con una frenata. La scassata Land Rover si arrestò con una breve sbandata in poco spazio.La causa dell'urlo di Clay era un piccolo e apparentemente innocuo batuffolo di pelo giallo, meno grosso di un pallone da football. Saltava davanti alla macchina, sulle lunghe zampe posteriori da canguro, totalmente sproporzionate al resto del corpo. Di colpo sparì sottoterra. "Una lepre salterina!" gridò Clay. "Ce n'è una vasta colonia proprio davanti a noi!" "Topi-canguro?" disse Sally-Anne guardando fuori del finestrino e aspettando i suoi ordini col motore acceso. Erano stati fortunati. Quei conigli erano animali notturni e vederne uno di giorno fuori della tana era un caso eccezionale. Soltanto adesso, guardando bene, Clay riusciva a misurare l'estensione della colonia. C'erano decine di migliaia di tane, dalle imboccature mascherate da granelli di terra smossa: ma Clay sapeva bene che il terreno, sotto, era tutto traforato di cunicoli intercomunicanti. L'intera zona era una trappola che nascondeva una voragine profonda da un metro a un metro e mezzo. Il suolo così bucherellato non reggeva un uomo a cavallo, figuriamoci una Land Rover. Col motore al minimo, Clay udiva quello del camion che li inseguiva, e la mitragliatrice sputò altro piombo che passò alto sopra di loro, inducendo Clay a chinarsi d'istinto. "A sinistra!" gridò. "Torniamo verso il crostone salato!" Ad angolo retto traversarono davanti al camion che sparava. I gemiti di Timon ora sovrastavano il rombo del motore. Clay si sforzò di non badarci. "Non si passa!" gridò Sally-Anne. Le tane di lepri salterine erano dappertutto. "Prosegui" le gridò Clay. Il camion aveva piegato nella loro direzione per tagliar la strada alla Land Rover, ed era ormai vicino. "Là!" urlò Clay con sollievo. Come aveva previstoj le tane
terminavano un po' prima del crostone, per evitare infiltrazioni di fanghiglia salmastra. C'era dunque un ponte per superare le tane, e Clay vi guidò Sally-Anne. Dopo cinquecento passi avevano superato la zona bucherellata e si trovavano davanti terreno solido. SallyAnne accelerò al massimo cercando di spingere la Land Rover il più lontano possibile dagli inseguitori. "No! No!" le gridò Clay. "Gira a destra! Tutto a destra!" Sally-Anne esitava. "Obbedisci, maledetta te!" E all'improvviso capì il suo piano e girò il volante, traversando in direzione opposta alla precedente, offrendo il fianco al camion che sparava. Immediatamente l'autocarro curvò per tagliar loro la strada, allontanandosi dalla distesa salina e dalla lingua di terreno solido proprio sull'orlo che portava oltre il labirinto sotterraneo di tane di lepre. Era così vicino che si contavano le teste dei soldati nel cassone scoperto. Si vedeva anche il basco rosso dell'ufficiale che comandava il plotone, sul quale lampeggiava il leopardo d'argento; si sentivano le urla eccitate degli inseguitori che agitavano trionfanti i kalashnikov. Una raffica di mitragliatrice pesante arò il terreno davanti alla Land Rover, che si tuffò nella nuvola di polvere. Clay spediva raffiche di mitra contro il camion, nella speranza di distrarre l'attenzione del conducente dal terreno che aveva davanti. (
"Grazie, signor Mellow." Timon si produsse in un incredibile sorriso. "A quanto pare non verrò con voi." Clay fu colpito dall'intensità del proprio dispiacere. Strinse con la mano la spalla di Timon, sperando che il contatto fisico potesse confortarlo un po'. "E il camion?" chiese Timon. "L'abbiamo messo fuori combattimento." "Buon per voi." In quella, l'abitacolo si riempì di un odore di olio e gomma bruciata. "Ci siamo incendiati!" gridò Sally-Anne, e Clay si voltò di scatto. L'avantreno della Land Rover bruciava. La lamiera arroventata dal contatto con gli ingranaggi rotanti aveva fatto incendiare il grasso e la gomma del pneumatico anteriore sinistro. Immediatamente la ruota finì di scassarsi e la macchina, benché il motore continuasse a girare, si arrestò con rumor di ferraglia. Era bruciata anche la frizione. Da sotto il telaio si sprigionavano nell'abitacolo rivoli di fumo. "Spegni il motore!" ordinò Clay, e aprì di scatto la portiera afferrando l'estintore agganciato al tetto. Spruzzò una nuvola di schiuma bianca sull'avantreno in fiamme, soffocandole quasi subito, dopo di che alzò il cofano scottandosi le dita. Spruzzò anche il motore di schiuma per impedire un rinfocolarsi dell'incendio e fece un passo indietro. "Bene" disse in tono conclusivo. "Questo autobus non ci porterà più in nessun posto." Il silenzio era assordante. Era rotto solo dal tintinnio del metallo che si raffreddava, come un sommesso concerto di cimbali. Clay tornò all'abitacolo e guardò dietro. Le onde di calore nascondevano il camion rovesciato. Il silenzio gli ronzava nelle orecchie e la solitudine del deserto gli piombò addosso come una cappa pesante rallen-tando sia i suoi movimenti sia i suoi pensieri. Aveva la bocca secca secca, come accade quando sbollisce il fiotto d'adrenalina nel sangue. "Acqua!" Andò a prendere la tanica di riserva sotto il sedile e ne controllò il livello. "Almeno venticinque litri." Sulla rastrelliera, accanto al fucile mitragliatore, c'era una gavetta lasciata da uno dei soldati. Clay la riempì d'acqua e la porse a Timon. Questi bevve con sollievo, ingozzandosi e tossendo nella fretta di inghiottire il liquido. Clay passò la gavetta a Sally-Anne e poi bevve lui stesso. Timon sembrava stare un po' meglio e Clay gli esaminò il bendaggio. Per il momento l'emorragia era cessata. "La prima regola per sopravvivere nel deserto" ricordò Clay: "StaI vicino alla macchina." Solo che in questo caso non si applicava affatto. Il veicolo avrebbe attirato gli inseguitori come un faro. Timon aveva parlato di aerei da ricognizione: su quella pianura arida e sgombra avrebbero localizzato la Land Rover da sessanta chilometri di distanza. Non bisognava poi dimenticare la pattuglia che veniva loro incontro da Plumtree. Sarebbero arrivati nel giro di poche ore. Non potevano fermarsi. Dovevano proseguire. Guardò Timon, e un lampo d'intesa scoccò fra di loro. "Dovrete lasciarmi qui" sussurrò Timon. Clay non riuscì né a rispondergli né a sostenere il suo sguardo. Invece, tornò sul tetto della Land Rover e scrutò indietro. Le loro tracce erano chiarissime nella terra soffice. Il sole calante riempiva d'ombra i solchi delle ruote. Li seguì con lo sguardo fino all'orizzonte immerso nella foschia e sobbalzò. Laggiù in fondo qualcosa si muoveva, agli estremi limiti della visione. Per lunghi attimi sperò di ingannarsi. Poi il movimento si ripeté. Sembrava un millepiedi che si dibatteva nel miraggio: non tar-
dò poi a rivelarsi per quello che era, un plotone di soldati che li inseguivano di corsa in fila indiana. La Terza Brigata non mollava. Proseguivano a piedi lungo le loro tracce, trotterellando sulla piana desertica. Clay aveva già avuto Modo di verificare che i soldati negri erano capaci di tenere quel passo per un giorno e una notte senza fermarsi mai. Saltò giù e trovò il binocolo di Timon nel bauletto del cruscotto. "C'è una pattuglia che ci segue a piedi" li informò. "Quanti sono?" domandò Timon. Sul tetto mise a fuoco il binocolo. "Sono otto. Si vede che hanno avuto delle perdite quando il camion si è rovesciato." Guardò il sole. Era rosso e non ardeva più come prima, basso sulla foschia. Pensò che mancavano due ore al massimo al tramonto. "Se mi sistemate in una buona posizione, vi offrirò del fuoco di copertura" disse loro Timon. E, visto che Clay esitava: "Non perder tempo a discutere, signor Mellow." "Sally-Anne, riempi di nuovo la gavetta" le ordinò Clay. "Prendi dalle razioni d'emergenza le tavolette di cioccolato e i concentrati di proteine. Prendi la carta geografica, la bussola, il compasso e il binocolo." Si guardò intorno. Accanto al veicolo fuori uso il terreno non offriva alcun riparo oltre la Land Rover stessa. Clay aprì il rubinetto sotto il serbatoio in modo da vuotarlo di tutta la benzina, che si perse nel suolo sabbioso. Non voleva che un colpo fortunato degli attaccanti potesse far bruciare il veicolo con dentro il povero Timon. In fretta costruì una barricata di fortuna, tra le ruote posteriori, con i pneumatici di scorta, le cassette degli attrezzi e tutto quanto gli capitava a tiro: gli allestì un riparo anche per i fianchi, nella facile previsione che avrebbero cercato subito di aggirarlo. Aiutò Timon a scendere dal sedile posteriore e lo sdraiò a pancia in giù dietro il riparo. Sanguinava di nuovo, impregnando gli indumenti, era grigio come la cenere e aveva delle bollicine di sudore sopra il labbro. Clay gli mise in mano un kalashnikov, costruendogli una specie di appoggio che gli facilitasse la mira. A portata di mano gli piazzò caricatori per cinquecento colpi. "Resisterò fino a sera" promise Timon con un gemito strozzato. "Ma lasciami anche una bomba a mano." Sapevano tutti e tre a che cosa gli sarebbe servita. Tìmon non voleva essere preso vivo. Alla fine avrebbe stretto la bomba al petto e l'avrebbe fatta esplodere. Clay prese le altre cinque bombe e le ficcò in uno zainetto. Ci mise sopra la borsa con i documenti e il manoscritto del libro. Dal bauletto del cruscotto prese un gomitolo di filo e un paio di forbici; dalla cassetta di munizioni sei caricatori per il kalashnikov. Divise poi il contenuto della cassetta del pronto soccorso, lasciando a Timon bende, analgesici e una siringa di morfina. Ficcò tutto il resto nello zaino. Lanciò uno sguardo all'interno della Land Rover. C'era qualcos'altro che poteva tornar buono? Un telo impermeabile di plastica a disegni mimetici, arrotolato. Lo ficcò nello zaino, che sollevò: era già tutto il peso che poteva portare. Guardò Sally-Anne. Aveva la borraccia al collo e l'altro zainetto in spalla con dentro le fotografie arrotolate. Era pallidissima e il bernoccolo sulla fronte si era gonfiato ancora di più. "Sei pronta?" le chiese. "Okay." Si accucciò vicino a Timon. "Addio, capitano" glidisse. "Addio, signor Mellow!" Clay gli prese la mano e lo guardò negli occhi. Non ci lesse paura, e ancora una volta si stupì del distacco con cui gli africani sanno accettare la morte. L'aveva notato spesso. "Grazie, Timon, grazie di tutto" glidisse.
"Hamba gashle" replicò Timon gentilmente. "Va' in pace." "Shala gashle" glifece eco Clay con altrettanta gentilezza, come voleva la tradizione. "Sta' in pace." Si alzò e Sally-Anne si chinò al posto suo. "Sei un brav'uomo, Timon, e un uomo coraggioso" glidisse. Timon si slacciò la fondina e le porse la pistola. Era una imitazione cinese della Tokarev tipo 51. Gliela porse col calcio in avanti. Ella l'accettò dopo un attimo di esitazione. "Grazie, Timon." Sapevano che, come la bomba a mano, era per la fine: la via d'uscita più facile. Sally-Anne si infilò la pistola alla cintola e d'impulso si chinò a baciare Timon. "Grazie" glidisse ancora; si rialzò e si voltò in fretta. Clay la condusse via di buon passo. Ogni pochi metri si voltava indietro, per tenere la carcassa della Land Rover tra loro e la pattuglia che li inseguiva. Se avessero sospettato che due del gruppetto avevano abbandonato il veicolo, si sarebbero divisi e quattro avrebbero aggirato Timon per seguire loro. Trentacinque minuti dopo udirono la prima raffica di mitra. Clay si fermò ad ascoltare. La Land Rover non era che un lontanissimo puntino nero, mentre l'oscurità del crepuscolo stava calando in fretta. La prima fu seguita da parecchie altre raffiche furiose. "E un buon soldato" disse Clay. "Avrà sparato a colpo sicuro. Non sono più otto, ci scommetto." Con sorpresa vide che sulle guance della ragazza ruscellavano lacrime, fangose nella polvere che le ricopriva il viso. "Non è morire che conta" le disse tranquillo Clay "ma come lo si sa fare." Lo guardò arrabbiatissima. "Tienti per te 'ste stronzate letterarie alla Hemingway, fanfarone! Non sei mica tu che stai morendo." E subito dopo, pentita: "Scusami, tesoro, mi fa male la testa e mi era molto simpatico." Il rumore del combattimento diminuì sempre più mentre proseguivano, finché non fu che un sussurro come di passi lontani nella sterpaglia alle loro spalle. "Clay!" lo chiamò Sally-Anne, ed egli si voltò. Era rimasta indietro una ventina di passi. Si trascinava stancamente. Appena vide che Clay si fermava, si lasciò cadere a terra, con la testa tra le ginocchia. "Mi riprendo in un momento, mi fa tanto male la testa." Clay aprì la scatoletta degli analgesici e gliene fece inghiottire due con una gavetta d'acqua. La grandezza del bernoccolo sulla fronte adesso lo spaventava. Le passò un braccio intorno alle spalle e la avvinse forte. "Ah, questo sì che mi fa bene" disse lei stringendoglisi grata. Nel silenzio del deserto all'imbrunire echeggiò un'esplosione lontana. Sally-Anne si irrigidì. "Checos'era?" gli chiese. "Bomba a mano" rispose Clay guardando l'orologio. "E finita, ma ci ha dato cinquantacinque minuti di vantaggio. Che Dio ti benedica e ti accolga in fretta, Timon." "Non dobbiamo sprecarli" esortò la ragazza con decisione, e si alzò. Guardò indietro. "Povero Timon" disse, avviandosi di nuovo. Avrebbero visto subito che la Land Rover era difesa da uno solo. Avrebbero trovato le loro tracce che si allontanavano e le avrebbero subito seguite. Clay si chiese quanti fosse riuscito a eliminarne Timon e quanti ne restavano. "Lo scopriremo fin troppo presto" si disse, e la notte calò su di loro con la velocità di un sipario a teatro. La luna nuova era passata da tre giorni, e c'era solo la luce delle stelle. Orione splendeva alto da una parte, e dalla parte opposta la Croce del Sud. Nell'aria secca del deserto le stelle brillavano in manie-
ra fantastica, e la Via Lattea sfavillava in cielo come una lucciola tenuta tra i polpastrelli da un bambino. Il cielo stellato era magnifico, ma, guardandosi alle spalle, Clay si rese conto che c'era abbastanza luce per seguire le loro tracce. "Riposo!" disse a Sally-Anne, che si sdraiò subito per terra. Intanto lui strappava un cespuglietto di rovi con l'aiuto della baionetta del kalashnikov, lo legava con un po' di spago e se l'assicurava a mo' di coda alla cintura. "Sta' davanti!" le disse con estrema economia di parole. Ella eseguì e SI avvIarono di nuovo, molto più lentamente di prima, mentre Clay in coda, trascinandosi dietro il cespuglio, cancellava le impronte. Controllò e restò soddisfatto, non si vedeva proprio più niente. Per un paio di chilometri il cespuglio, una vera palla al piede, richiese un pesante pedaggio di energie. Clay si chinò in avanti per vincere l'attrito. L'ora successiva, Sally-Anne chiese tre volte acqua. Gliela negò. Mai bere alla prima sete, ecco una delle regole fondamentali per la sopravvivenza nel deserto. Se si beve, la sete diventa ben presto insaziabile. Ma Sally-Anne era dolorante per la ferita alla testa, e Clay non ebbe il coraggio di negargliela anche la quarta volta. Evitò di bere anche lui. L'indomani, ammesso che ci arrivassero, avrebbero patito una sete infernale. Prese lui la borraccia per toglierle ogni tentazione. Poco prima di mezzanotte staccò il cespuglio dalla cintura. Non ce la faceva più a trascinarselo dietro e, se gli shona erano ancora sulle loro tracce, era inutile insistere. Invece prese lo zaino di Sally-Anne e se lo mise in spalla. "Posso farcela" protestò lei, anche se barcollava come un ubriaco. Non si era mai lamentata una volta, benché alla luce delle stelle la sua faccia fosse argentea come la distesa salina che ora stavano attraversando. Clay cercò di pensare a qualcosa che potesse confortarla. "Avremo passato il confine ore fa" le disse. "Ciò vuol dire che siamo salvi?" sussurrò lei, e Clay non poté costringersi a mentirle. Ella rabbrividì. Il vento della notte penetrava sotto i loro indumenti leggeri. Clay spiegò il telo mimetico e glielo mise sulle spalle, poi la prese per la vita e la spinse avanti. Dopo un altro paio di chilometri raggiunsero il limitare della distesa salina, ed egli capì che, per quella notte, non erano in grado di proseguire. La riva dell'antica palude era alta una quarantina di centimetri, e costituiva l'inizio del terreno compatto. "Ci fermiamo qua." La ragazza piombò a terra ed egli la coprì col telo impermeabile. "Posso bere un po' d'acqua?" "No. Domattina." La borraccia era leggera, vuota a metà a giudicare dallo sciacquio che fece quando Clay posò lo zaino. Tagliò un cespuglio per fare un riparo dal vento, poi le tolse le scarpe. Le massaggiò i piedi esaminandoli con i polpastrelli. "Ahi, lì mi fa male!" Aveva il calcagno sinistro escoriato. Clay lo portò alla bocca e pulì l'abrasione leccandola in modo da risparmiare acqua. Poi ci versò del mercurocromo e ci applicò un cerotto. Le cambiò le calze da un piede all'altro, poi le rimise e riallacciò le scarpe. "Come sei gentile" glimormorò Sally-Anne mentre scivolava anche lui sotto il telo da campo e la prendeva tra le braccia. "E come sei caldo." "Ti amo" le disse Clay. "E adesso dormi." Sally-Anne sospirò raggomitolandosi tra le sue braccia ed egli pensò che si fosse addormentata finché non la sentì dire sottovoce: "Clay, mi spiace tanto per King's linn." Poi si addormentò, respirando profondamente con ritmo regolare contro il suo petto. Clay scivolò fuori del telo impermeabile e la
lasciò senza disturbarla. Andò a sedersi sul ciglio della distesa salina, col mitra sulle ginocchia, aspettandosi di veder comparire gli inseguitori da un momento all'altro. Facendo la guardia, ripensava a quello che gli aveva detto SallyAnne. Pensava a King's linn, alle mandrie di grandi bestie rossastre e alla casa sulla collina. Pensava agli uomini e alle donne che vivevano laggiù crescendovi i loro figli. Pensava ai sogni che aveva intessuto sulle loro vite, e a ciò che aveva sperato di fondare con la sua donna: una famiglia, come le loro. La mia donna. Tornò da lei e si chinò ad ascoltarne il respiro, ricordandosela nuda e spalancata sul tavolo della sala da pranzo, sotto il crudele scrutinio di tanti occhi. Tornò al ciglio dell'antico lago a far la guardia e ripensò a Tungata Zebiwe, ricordando le risate e il cameratismo dei vecchi campi sotto le stelle con lui. Rivide il segnale che gli aveva fatto dal banco degli imputati con la mano prima che lo portassero via. "Siamo pari." Scosse la testa. Pensò che era stato miliardario e ora doveva miliardi. Da ricco, ricchissimo che era, in un sol colpo era stato ridotto peggio che povero. Non possedeva più nemmeno il manoscritto che portava nello zaino. Se lo sarebbero preso i creditori, anche quello. Non aveva niente, tranne quella donna e la sua ira. L'immagine del generale Peter Fungabera gli riempì la mente. Eccolo lì, bello come il peccato mortale, liscio come una tazza di cioccolata calda, malvagio e potente come Lucifero. L'ira crebbe dentro di lui, minacciando di consumarlo. Restò lì seduto, sveglio, tutta la notte a odiare con ogni sua fibra. Ogni ora andava a vedere Sally-Anne e si chinava su di lei. Una volta le sistemò il telo impermeabile sopra le spalle, un'altra le sfiorò il bernoccolo con l'indice ed ella sobbalzò nel sonno. Poi tornava a fare la guardia. A un tratto scorse sulla distesa salina lontane figure nere e gli si chiuse la bocca dello stomaco: ma il binocolo di Timon gli rivelò che si trattava di gazzelle del deserto, grandi quasi come cavalli, dal muso tipicamente screziato. Passarono silenziosamente sopravvento rispetto al posto dove si trovava e si immersero di nuovo nella notte. Orione attraversò il cielo e impallidì alle primissime luci. Era ora di proseguire il cammino, ma esitava, riluttante a condannare SallyAnne ai terrori e alle prove che il giorno avrebbe portato con sé. Le concesse quegli ultimi pochi minuti d'oblio. Poi li vide, e le viscere e le reni gli si empirono del piombo fuso della disperazione. Erano dall'altra parte della distesa salina, ancora lontani, troppo neri per essere confusi con qualche animale del deserto: una tenebra che si dirigeva rapidamente verso di lui. Era forse merito dell'idea del cespuglio se avevano tardato tanto a raggiungerli. Ma, quando l'aveva abbandonato, aveva ricominciato a lasciare tracce nettissime. Ed ecco che la sua disperazione cambiò forma. "Se deve accadere, tanto vale che accada ora" , pensò. Era un posto come un altro per tentare l'ultima difesa. Anzi, gli shona dovevano attraversare la distesa salina allo scoperto, mentre lui godeva del piccolo vantaggio di stare già sulla riva, fra i cespugli di rovi e l'erba secca alta fino al ginocchio. Ma aveva pochissimo tempo per trarne partito. Corse allo zaino, piegato in due per non stagliarsi contro il cielo che si stava schiarendo. Infilò le cinque bombe a mano nella cami-cia, prese il gomitolo di filo e le forbicine e tornò in fretta al ciglio del lago asciutto. Lanciò uno sguardo alla pattuglia che avanzava. Erano in fila indiana, trovandosi così allo scoperto; ma immaginò che, appena raggiunto il ciglio, si sarebbero sparpagliati, adottando la classica formazione a freccia che garantiva copertura sui fianchi e impediva di coglierli tutti insieme in imboscata.
Clay piazzò le bombe a mano in base a questa previsione. Sul ciglio della riva, perché anche quella piccola elevazione ne avrebbe aumentato la portata. Legò accuratamente ogni granata al tronco di un cespuglio, a distanza di venti passi l'una dall'altra, e congiunse il filo all'anello della sicura che, strappata via, dopo tre secondi le faceva esplodere. Poi, uno per volta, portò i capi del filo dove si trovava Sally-Anne, assicurandoli alla cinghia dello zaino. Adesso strisciava, perché la luce aumentava in fretta e la pattuglia si avvicinava. Dispose la quinta e ultima bomba a mano e sgattaiolò via. Si sdraiò accanto allo zaino con i fili a ventaglio davanti a sé e i cespugli che aveva tagliato la sera prima come riparo. Controllò che il mitra fosse carico disponendosi accanto, a mano destra, i caricatori di ricambio. Era tempo di svegliare Sally-Anne. La baciò piano sulla bocca, e lei storse il naso mugolando nel sonno, poi aprì gli occhi e l'amore sbocciò nel suo sguardo, subito sostituito dalla pena al ricordare la situazione in cui si trovavano. Fece per sedersi, ma lui la tenne giù con la mano sul torace. "Sono qua" l'avvertì. "Combatterò." Sally-Anne annuì. "Hai la pistola di Timon?" Ella annuì ancora, frugando nella tasca dei jeans per prenderla. "La sai adoperare?" "Sì." "Tieni un proiettile per la fine." Lo fissò. "Promettimi che non esiterai." "Te lo prometto" glisussurrò. Clay alzò lentamente la testa. La pattuglia era a duecento metri di distanza dal ciglio del lago asciutto. Come aveva immaginato, si stavano già sparpagliando. Poté così contarli. Erano cinque! Disperò. Timon non era riuscito bene quanto sperava. Ne aveva eliminati soltanto tre. Ma cinque erano troppi per Clay. Anche con il vantaggio della sorpresa, erano sempre troppo numerosi. "Tieni giù la faccia" le sussurrò. "Rifletté come uno specchio." Obbediente, Sally-Anne la nascose nell'incavo del gomito. Anche lui si tirò il colletto della camicia sulla bocca e sul naso e li guardò avanzare. "Oh Dio, sono in gamba" , pensò. "Guarda come si muovono! Hanno marciato tutta la notte e sono ancora svelti e attenti come linci." La punta della "freccia" era uno shona alto che si muoveva come una canna al vento. Portava il suo kalashnikov basso sul fianco destro, ed era un groviglio di concentrazione mortalmente intensa. A un tratto la luce dell'alba nascente si rifletté nei suoi occhi, che lampeggiarono come una cannonata lontana nella sua faccia scura. Clay lo riconobbe come il capo. I suoi uomini, due per parte, erano figure tarchiate e torve, piene di minaccia nera e nondimeno subordinate a lui che li guidava. Reagivano come marionette ai segnali che l'alto shona faceva con la mano. Avanzavano in silenzio verso la riva dell'antico lago. Clay sistemò i capi dei fili collegati alle bombe nel palmo della mano sinistra, fra le dita. A cinquanta passi dalla riva lo shona li fermò con un segnale della mano. Si immobilizzarono all'istante. La testa del capo girava di qua e di là, mentre esaminava la riva e gli sterpi oltre il ciglio a uno a uno. Fece cinque passi avanti e si fermò ancora. Girò la testa un'altra volta di qua e di là, poi si rivolse ancora verso i suoi uomini. Aveva visto qualcosa. Clay trattenne istintivamente il respiro mentre i secondi passavano. Quindi lo shona riprese ad avanzare, indicando con il dito puntato agli uomini di imitarlo. La formazione, vide Clay, cambiò: si dispo-
sero a freccia rovesciata, con la punta all'indietro. Era la formazione di battaglia tradizionale delle tribù nguni, le "corna di toro" che il re Chaka aveva usato con mirabile e terribile effetto e che ora venivano puntate contro la postazione di Clay. Clay sospirò di sollievo per la propria previdenza nel postare le bombe a tanta distanza l'una dall'altra. I due uomini alle ali estreme erano proprio all'altezza delle ultime granate. Clay prese in mano i relativi fili guardando avanzare gli uomini sulla punta delle corna, i più vicini a lui. Avrebbe preferito che si facesse avanti lo shona alto, l'uomo più pericoloso, ma costui non si muoveva ancora. Se ne stava indietro, fuori portata delle bombe a mano, a guardare e a dirigere la manovra avvolgente dei suoi. L'uomo a destra raggiunse la riva e ci salì spensieratamente sopra, mentre quello a sinistra era ancora a dieci passi dal ciglio. "Insieme" sussurrò Clay mordendosi le labbra. "Devo beccarli insieme." Il primo aveva sfiorato il cespuglio della bomba con il ginocchio, ma Clay lo lasciò avanzare aspettando il secondo. Arrivò anche lui alla riva. Aveva una benda insanguinata in testa, lavoro di Timon. La granata era al livello dell'ombelico. Clay tirò con tutta la forza i fili delle due bombe esterne, e sentì le linguette staccarsi con due secche vibrazioni metalliche: teng, teng. Tre secondi all'esplosione: gli shona reagirono da soldati addestrati. Il primo si tuffò nell'erba e scomparve, ma Clay giudicò che era troppo vicino alla bomba per sopravvivere. I tre ancora sulla distesa salata si buttarono per terra a loro volta, sparando mentre cadevano e rotolavano sul crostone salino, innaffiando di piombo il ciglione. Solo il soldato sulla sinistra, quello ferito, magari perciò coi riflessi intorpiditi, restò in piedi in quei fatali tre secondi. La bomba esplose col lampo di un flash e quello ne fu investito in pieno. Fu sollevato da terra col ventre squarciato. Anche a destra la bomba scoppiò tonante e, subito dopo l'esplosione, Clay sentì il rumore di tamburo soffocato delle schegge che si conficcavano nella carne. "Due di meno" , pensò, e cercò di far fuori lo shona alto col kalashnikov: ma gli sterpi gli confondevano un po' la mira e quello rotolava. La prima raffica di Clay risultò corta e alzò schizzi di sale davanti allo shona alto che, sempre rotolando, rispose immediatamente al fuoco. La seconda lo mancò sulla sinistra. Uno degli altri soldati schizzò in piedi e si diresse di corsa verso la riva, scartando come un rugbista in possesso della palla, e Clay sparò a lui investendolo con tutta la breve raffica. Il kalashnikov aveva il difetto di alzarsi sparando, ma Clay lo sapeva e riuscì a compensarlo. Lo shona cadde perdendo il fucile e rotolando, si rimise in ginocchio e precipitò a faccia avanti come un musulmano in preghiera. Lo shona alto era già in piedi e si faceva sotto, gridando ordini; l'altro soldato lo seguì a una ventina di passi. Clay puntò esultante il mitra al capo: ormai non poteva mancarlo. Il kalashnikov sparò un colpo solo e si bloccò. Il caricatore era esaurito e lo shona continuava ad avanzare incolume. Clay non era più veloce a ricaricare come una volta, e perse quella frazione di secondo che permise allo shona di gettarsi al riparo della riva mentre la raffica gli passava sopra. Clay bestemmiò. L'altro soldato era a tre passi dalla salvezza. Spostando in fretta la canna a sinistra, Clay lasciò partire una raffica alla cieca che per puro caso colpì l'avversario con un solo fatale proiettile in faccia. La testa fu proiettata all'indietro come per un forte pugno e il basco rosso volò alto nel cielo, mentre il soldato cadeva. Quattro su cinque nei primi dieci secondi: era più di quanto Clay avrebbe osato sperare; ma il quinto uomo, il più pericoloso, era ancora vivo e illeso al riparo della riva, e senz'altro aveva visto le fiammate della canna. Aveva dunque localizzato Clay. "Sta' sotto il telo" ordinò Clay a Sally-Anne, e tirò i fili delle altre tre granate. Le esplosioni furono quasi simultanee, un rombo
di tuono simile alla bordata di una nave da guerra; nel polverone che seguì, Clay si spostò. In avanti e sulla destra, trenta passi di corsa, piegato in due, col kalashnikov appena ricaricato in mano. Si tuffò, rotolò su se stesso e attese a pancia sotto, sorvegliando il punto della riva dove era scomparso lo shona alto, ma controllandola tutta con rapide occhiate a destra e a sinistra. La luce era migliore, l'alba spuntava in fretta, e lo shona si mosse. Saltò sulla riva, rapido come un mamba, stagliandosi per un attimo contro la bianca distesa salina ma là dove Clay non se l'aspettava. Doveva aver strisciato un bel pezzo al riparo della riva ed era piuttosto lontano, sulla sinistra di Clay. Gli puntò il kalashnikov ma non fece fuoco, era un tiro troppo difficile e non valeva la pena di tradire la sua nuova posizione. Lo shona sparì fra l'erba secca e gli sterpi a una cinquantina di passi di distanza. Clay strisciò in avanti per cercare di intercettarlo, lentamente, come un verme della terra, senza far rumore, senza alzare polvere e con gli occhi e le orecchie tesi al minimo mutamento. Lunghi secondi passarono mentre Clay avanzava centimetro per centimetro, sapendo che lo shona stava certamente strisciando verso il punto dove egli aveva lasciato Sally-Anne. Poi Sally-Anne urlò. Il rumore lacerò i nervi di Clay come un chiodo che stride su una lavagna, ed eccoli alzarsi tutti e due in mezzo all'erba: Sally-Anne che si dibatteva lottando come una gatta e lo shona che l'aveva afferrata per i capelli e la manovrava stando in ginocchio e girando assieme a lei per non farsi sparare. Clay partì alla carica. Non fu una decisione cosciente: si ritrovò in piedi a correre verso di loro mulinando l'AK 47 come un bastone. Lo shona lo vide e lasciò andare Sally-Anne, che cadde all'indietro. Il negro evitò la mazzata chinandosi e, rizzatosi di nuovo, inferse all'assalitore una spallata nelle costole. Il fucile mitragliatore sfuggì di mano a Clay, che si avvinghiò al nemico, ansimando per la botta. Lo shona capì che nel corpo a corpo il mitra era solo d'impaccio e lo lasciò cadere per lottare con le mani. Al primo contatto Clay comprese che lo shona era molto più forte di lui. Era alto, pesava di più ed era allenato, coi muscoli della durezza dell'antracite. Passò un lungo braccio attorno al collo di Clay che, invece di resistere, si tuffò nella direzione della presa, sicché entrambi finirono a terra. Nel cadere Clay sferrò un calcio con la gamba artificiale senza sapere dove; non connetteva più molto. Lo shona schivò e gli restituì il colpo. Clay parò in qualche modo e rotolarono avvinghiati uno sull'altro: ora era sopra l'uno, ora l'altro, schiacciando i rovi, ansimando rumorosamente in faccia all'avversario. Coi suoi denti bianchi e quadrati lo shona cercò di azzannare la faccia di Clay, come un lupo, di scatto. Se ci fosse riuscito, avrebbe potuto strappargli il naso o la guancia, come Clay aveva visto fare una volta in una rissa in birreria. Invece di allontanare il viso, Clay gli appioppò una testata nei denti. Lo shona perse un incisivo e la bocca gli si riempì di sangue. Clay si tirò indietro per ripetere l'operazione, ma il negro sgattaiolò via con una capriola e riuscì ad afferrare il coltello che portava alla cintola. Clay gli afferrò il polso, disperato, riuscendo appena appena a evitare la pugnalata. Rotolarono per terra e lo shona gli fu sopra, cavalcandolo, col pugnale che lampeggiava argenteo nella destra, puntato alla gola e alla faccia di Clay. Questi lo teneva lontano con le mani, una al polso e l'altra all'incavo del gomito, ma non riusciva a bloccare la destra del soldato. La punta del coltello scendeva lentamente verso di lui, mentre lo shona scalciava e infilava una gamba tra quelle di Clay, coricandolo come un amante. Il pugnale si abbassava e, dietro a quello, la faccia dello shona, contratta dallo sforzo, con l'incisivo rotto e rosso di sangue, gli oc-
chi circondati da piccole venuzze brune che sporgevano dalle orbite... E il pugnale calava. Clay impiegò tutta la sua forza. La punta del pugnale si arrestò un secondo, poi calò e Clay la sentì forare come un ago ipodermico la concavità tra il collo e la clavicola. Con un senso di orrore Clay sentì il corpo dello shona caricarsi per imprimere al pugnale la spinta finale che l'avrebbe conficcato nella laringe, e sapeva che non era in grado di evitarlo in nessun modo. Ed ecco che miracolosamente la testa dello shona cambiò aspetto, deformandosi come una maschera di gomma, crollando all'interno di se stessa, mentre il contenuto del cranio si riversava fuori della tempia come una fontana liquida. Il rumore di uno sparo echeggiò assordante nelle orecchie di Clay. Il corpo dello shona perse ogni energia e si afflosciò per terra come un pesce gatto appena pescato. Clay si mise a sedere. Sally-Anne era molto vicina, inginocchiata davanti a lui, con la Tokarev impugnata a due mani, la canna puntata al cielo dove l'aveva sospinta il rinculo. Doveva averla appoggiata alla tempia dello shona prima di sparare. "L'ho ucciso" singhiozzò con gli occhi pieni d'orrore. "Ringraziamo Dio!" ansimò Clay tamponandosi il taglietto sulla gola col colletto della camicia. "Non avevo mai ucciso prima" sussurrò Sally-Anne. "Neanche un pesce o uno scoiattolo." Lasciò cadere la pistola e cominciò a strofinarsi le mani come per lavarsele, fissando il cadavere dello shona. Clay strisciò da lei e la prese tra le braccia. Tremava come una foglia. "Portami via" lo implorò. "Per piacere, Clay, sento odor di sangue, portami via di qui." "Sì. Sì." L'aiutò a rialzarsi, e in fretta raccolse il telo impermeabile e gli zaini." Da quella parte." Carico degli zaini e del fucile mitragliatore, Clay la condusse via dal luogo della mattanza, verso occidente. Camminavano da quasi tre ore e si erano fermati per bere, quando Clay si avvide della propria terribile dimenticanza. Le borracce! Nella fretta e nel panico non aveva pensato di portar via le borracce ai morti. Guardò alle proprie spalle con rimpianto. Anche se avesse lasciato lì Sally-Anne e fosse tornato indietro da solo, andare e venire avrebbe richiesto almeno quattro ore, mentre sicuramente la Terza Brigata si avvicinava. Soppesò la borraccia nella mano. Era a un quarto: appena sufficiente per quel giorno, se ora si fermavano e aspettavano il fresco della notte; ma se proseguivano, e dovevano proseguire, non bastava. La decisione fu presa da altri. Si udì il ronzio di un monomotore che si avvicinava dal cielo settentrionale. Amaramente Clay guardò in su, sentendosi indifeso come uno scoiattolo sotto il volteggiare del falcone. "Un ricognitore" disse ascoltando il lontano ronzio. Diminuì per un istante, poi aumentò di nuovo. "Ricerca a tappeto." Nel parlare lo vide. Era più vicino di quanto pensava, e molto più basso. Obbligò Sally-Anne a buttarsi a terra con una manata sulla spalla e le stese sopra il telo mimetico impermeabile, guardandosi indietro al contempo. Veniva in fretta, era un monoplano ad ali basse. Virò leggermente puntando dritto verso di lui. Clay si sdraiò vicino a Sally-Anne e strisciò sotto il telo mimetico a propria volta. Il rombo del motore aumentò. Il pilota li aveva visti. Clay alzò un angolo del telo e guardò. "E un Piper Lance" disse piano Sally-Anne. Aveva le insegne dell'aviazione militare dello Zimbabwe, ma incongruamente il pilota era un uomo bianco. Accanto a lui era sedu-
to un negro col temuto basco rosso della Terza Brigata. Entrambi, mentre il Piper virava, guardavano in giù con visi inespressivi: l'estremità dell'ala puntava come un coltello direttamente dove si trovavano. L'ufficiale negro aveva il microfono alle labbra. L'aeroplano completò la virata e tornò là da dove era venuto. Ben presto il ronzio del motore si perse nel silenzio del deserto. Clay tirò su Sally-Anne. "Ce la fai a proseguire?" Lei annuì, spingendo indietro una ciocca di capelli madidi di sudore che le scendevano sulla fronte. Aveva le labbra tutte screpolate, e quello inferiore sanguinava, sovrastato da una goccia che sembrava un rubino. "Ormai dobbiamo trovarci parecchio dentro il Botswana, e c'è una strada parallela al confine che non può essere lontana. Se incontriamo una pattuglia..."
La strada consisteva di due solchi continui in direzione nord-sud, che curvavano solo per evitare qualche colonia di lepri o qualche lago salato asciutto. Era pattugliata regolarmente dalla polizia del Botswana in cerca di bracconieri e contrabbandieri. Clay e Sally-Anne raggiunsero la pista a mezzo pomeriggio, quando lui aveva già abbandonato da un pezzo fucile mitragliatore, caricatori e tutto ciò che non considerava indispensabile: aveva anche considerato l'idea di seppellire il manoscritto per recuperarlo in seguito, ma Sally-Anne l'aveva dissuaso con un rauco sussurro. La borraccia era vuota. Avevano bevuto l'ultimo sorso di acqua calda come sangue poco prima di mezzodì. La velocità della loro marcia si era ridotta a un paio di chilometri l'ora. Clay non sudava più. Sentiva che la lingua gli si stava gonfiando e la gola gli si chiudeva man mano che il caldo gli succhiava dall'organismo tutta l'umidità. Raggiunsero la strada. Clay fissava l'orizzonte confuso dalle onde di calore, demoralizzato, concentrato unicamente nello spasimo di mettere un piede davanti all'altro. Attraversarono la strada senza vederla, e proseguirono nel deserto. Non erano i primi a superare il luogo della speranza di soccorso e a proseguire verso la morte per sete e sfinimento. Barcollarono in avanti per altre due ore prima che Clay si fermasse. "Ormai dovremmo aver raggiunto la strada" sussurrò ricontrollando il percorso con la carta e la bussola. "La bussola dev'essersi rotta. Il nord non è mica di là." Era confuso e dubbioso. "Ci siamo spinti troppo a sud" decise, e iniziò il primo dei circoli senza meta che, a spirale, conducono verso la morte chi si perde nel deserto. Un'ora prima del tramonto Clay inciampò in una specie di vite contorta e secca, che cresceva a stento su quel suolo grigio e pietroso. Sosteneva un frutto, verde e grosso circa come un'arancia. Si chinò a coglierlo con grande reverenza, come se fosse stato il diamante Cullinan. Farfugliando qualcosa tra le labbra screpolate, tagliò accuratamente in due il frutto con la baionetta. Il sole l'aveva scaldato come carne viva. "Gemsbok melon" spiegò a Sally-Anne, che sedeva guardandolo con occhi spenti e incomprensivi. Con la punta della baionetta schiacciò la polpa bianca del melone e ne porse metà alla bocca di Sally-Anne. La gola le sussultò nel tentativo di inghiottire la poltiglia calda, ed ella chiuse gli occhi in estasi quando il gusto del frutto succoso le si sparse sulla lingua gonfia. Lavorando con estrema cura, Clay spremette un altro quarto di polpa e fece bere il succo a lei. L'odore del liquido gli causava contrazioni involontarie mentre Sally-Anne beveva. La donna sembrò ricaricarsi di forza davanti a lui, e solo quando l'ultima goccia fu passata tra le
sue labbra, ella si accorse di quello che Clay aveva fatto. "E tu?" sussurrò. Lui succhiò la scorza dura e il torsolo. "Mi dispiace." Era disperata per la propria insensibilità, ma egli scosse la testa. "Fresco presto. Notte." L'aiutò a rialzarsi e ripresero il cammino. Il tempo si contraeva nella mente di Clay. Guardava il tramonto e credeva fosse l'alba. "Rotta." Prese la bussola e la scagliò via. Non andò molto lontano. "Direzione sbagliata." Si girò su se stesso portandosi dietro Sally-Anne. Aveva la testa affollata di ombre e forme nere, alcune senza volto e terrificanti, e non faceva che urlare, senza però produrre alcun suono, per scacciarle. Talune, invece, le riconosceva. Ashe Levy, che cavalcava una iena brandendo il nuovo manoscritto di Clay, con gli occhiali cerchiati d'oro che brillavano nella luce del tramonto. "Non si vende neanche a morire" , berciava. "Nessuno lo vuole, baby, sei finito. Sei uno scrittore di un solo libro, Clay baby, ecco quello che sei." Poi Clay si accorse che non era il suo manoscritto, ma la lista dei vini del Four Seasons. "Assaggiamo questo Corton Charlemagne?" lo tentava Ashe. "O prendiamo un bel magnum della Vedova?" "Solo gli stregoni cavalcano le iene" gli gridava Clay, senza produrre alcun suono dalla strozza inaridita. "Mi sei sempre stato sui..." Ashe sghignazzò, malignazzo, spronò la iena al galoppo e lanciò in aria il manoscritto. Le pagine bianche planavano nell'aria come falchetti a caccia: quando Clay si chinò in ginocchio a raccoglierle, si trasformarono in manciate di cenere ed egli si accorse di non essere più capace di alzarsi. Sally-Anne era accanto a lui, e mentre si stringevano abbracciati calò la notte. Quando si svegliò era mattina, e non riuscì a destare Sally-Anne. Continuava a russare, raspando dal naso e dalla bocca aperta. In ginocchio scavò una buca, per creare un alambicco solare. Benché il suolo fosse molle e friabile, faticò moltissimo. Laboriosamente, sempre in ginocchio, raccolse una bracciata di vegetazione sparsa del deserto. In quella legna secca sembrava non esserci nemmeno una stilla di umidità quando la triturò finemente con la baionetta e la stese sul fondo del buco. Tagliò via la parte superiore della borraccia vuota di alluminio e piazzò la coppa così ottenuta nel centro del buco. Anche svolgere questi semplicissimi lavori gli costò un'enorme concentrazione. Distese poi il telo impermeabile sopra il buco, ancorandone i lati con della terra. Nel centro del telo piazzò una pallottola, proprio sopra la coppa, dunque. Poi strisciò fino a Sally-Anne e le sedette accanto in modo da farle ombra. "Andrà tutto bene" le disse. "Presto troveremo la strada. Dovremmo essere vicinissimi..." Non si accorse che non gli uscivano nemmeno le parole, e che lei non avrebbe potuto udirle. "Quello stronzo di Ashe dice un sacco di cazzate. Vedrai che lo finirò, il libro, e pagherò tutti i debiti. Venderò i diritti cinematografici... comprerò King's linn... andrà tutto bene. Non preoccuparti, mia cara." Attese per tutta la mattina, nel caldo terribile, vincendo l'impazienza, e quando il suo orologio segnò mezzogiorno andò ad aprire l'alambicco. Il sole battente sul telo impermeabile aveva portato la temperatura nel buco vicino a quella dell'ebollizione. Dalle piante triturate era evaporata l'acqua e si era condensata sotto il telo mimetico, scorrendo poi per il peso della pallottola fino a cadere, a
goccia a goccia, nella coppa sottostante. Ne aveva raccolta un quarto di litro circa o poco più. Prese la coppa con ambo le mani, tremando così forte che rischiò di versarla. Ne bevve un piccolo sorso e lo tenne in bocca. Era caldissima, ma aveva sapore di miele e dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per evitar d'inghiottire. !Si chinò e posò le labbra su quelle annerite e sanguinanti di SallyAnne. Dolcemente iniettò il liquido in bocca a lei. !" Bevi, mia cara, bevila tutta." Si sorprese a ridacchiare come uno stupido, mentre la guardava inghiottire dolorosamente. Poche gocce per volta, passò il prezioso liquido dalla sua bocca a quella di lei, che inghiottiva ogni sorso con maggiore facilità. Ten ne per sé l'ultimo sorso e lo lasciò ruscellare giù per la strozza. Gli andò alla testa come un liquore ed egli restò seduto a ridere come uno scemo con i labbroni neri, la faccia gonfia e color aragosta, le abrasioni sulla guancia coperte di crosta sierosa e gli occhi iniettati di sangue ingrommati di cispa cementata. Ricaricò l'alambicco e si stese accanto a Sally-Anne. La riparò dal sole tagliandosi un lembo della camicia e sussurrò: "Va tutto bene... troverò aiuto... presto. Non preoccuparti... amore mio..." Ma sapeva che era l'ultimo giorno di vita per loro due. Non sarebbe mai riuscito a tenerla in vita per altre ventiquattr'ore. L'indomani sarebbero morti. Per colpa del sole o dei soldati della Terza Brigata: ma sarebbero morti. Domani. Al tramonto la "distilleria" gli procurò un'altra mezza coppa d'acqua, e dopo che l'ebbero bevuta si addormentarono in un sopore pesante e mortale, l'una nelle braccia dell'altro. Qualcosa destò Clay, e per un attimo pensò che si trattasse del vento notturno tra gli sterpi. Con grande fatica si rizzò a sedere e tese l'orecchio, non sapendo se si trattasse d'un'altra allucinazione o se davvero stesse udendo quel fievole ronzio. Doveva esser quasi l'alba, giudicò. L'orizzonte infatti si stagliava nero contro il drappo di velluto blu del cielo. E all'improvviso il rumore aumentò ed egli lo riconobbe. Era il tipico pulsare del motore a quattro cilindri della Land Rover. La Terza Brigata non aveva rinunciato alla caccia. Venivano, inesorabili, come iene che hanno sentito l'usta del sangue. Scorse i fari, nel deserto lontano: raggi pallidi e oscillanti che frugavano nella notte mentre il veicolo copriva il duro tragitto. Cercò il kalashnikov. Non riuscì a trovarlo. Doveva averglielo fregato Ashe Levy, pensò con amarezza, se l'era portato via in groppa alla iena. "Non mi sono mai fidato di quel figlio di puttana." Clay fissò disperato i fari che si avvicinavano. Nella loro luce danzava una specie di gnomo giallo. "E Puck" , pensò. "Sono le fate. Ma io non ci ho mai creduto alle fate. Non dirlo... ogni volta che lo dici, ne muore una." La mente galoppava, visioni e fantasie si alternavano a sprazzi di lucidità. E all'improvviso si accorse che lo gnomo seminudo e giallastro era un boscimano, la razza dei pigmei abitatori del deserto. Un boscimano come guida! La Terza Brigata si serviva di un boscimano per scovarli! Solo un boscimano poteva aver seguito le loro tracce di corsa per tutta la notte, guidando fino a loro la Land Rover. I fari li illuminarono come spot teatrali, e Clay si riparò gli occhi con la mano. La luce era abbagliante e glieli faceva dolere. Dietro la schiena, con l'altra mano, impugnava la baionetta. Ne faccio fuori uno, si disse. Uno lo faccio fuori. La Land Rover si fermò a pochi passi di distanza. Il piccolo boscimano stava vicino a loro e parlava il suo strano linguaggio a fischi e schiocchi come d'uccello. Clay sentì aprirsi la portiera della Land Rover dietro la luce abbagliante, e un uomo si avvicinò. Clay lo riconobbe immediatamente. Il generale Peter Fungabera... sembrava alto come un gigante in controluce, mentre si avvicinava a Clay raggomitolato sul suolo del deserto.
Dio ti ringrazio, pregava Clay, ti ringrazio di avermelo mandato prima di morire, e stringeva forte la baionetta. Alla gola, si disse, appena si china su di me. Chiamò a raccolta tutte le residue energie. Il generale Fungabera si chinò su di lui. Ora! Clay fece lo sforzo: piantagli la punta nella gola! Ma niente accadde. Le membra non rispondevano più. Era finito. Tutto era finito. "Vi informo che siete in arresto per ingresso illegale nella repubblica del Botswana, signori" disse il generale Fungabera. Ma aveva cambiato voce. Aveva una voce umana, gentile, profonda, e parlava inglese con un altro accento. Stavolta non mi freghi, pensò Clay, dannato imbroglione. E si avvide che il generale Peter Fungabera indossava un'uniforme di sergente della polizia del Botswana. "Siete fortunati" disse inginocchiandosi. "Abbiamo visto dove avete attraversato la pista." Stava porgendo a Clay una borraccia ricoperta di panno. "Vi seguiamo dalle tre di ieri pomeriggio." Acqua fresca e dolce ruscellò in bocca a Clay e sul mento. Lasciò andare la baionetta e afferrò la borraccia con tutt'e due le mani. Voleva berla tutta in un sorso, voleva annegarci. Era così meraviglioso che i suoi occhi si riempirono di lacrime. Tra le lacrime vide sulla portiera della Land Rover l'insegna della polizia del Botswana. "Chi...?" disse, fissando Peter Fungabera: ma non aveva mai visto quella faccia. Era una faccia larga, dal naso piatto, con un'espressione preoccupata e soccorritrice come quella di un amichevole bulldog. "Chi...?" gracchiò ancora. "Non parli. Dobbiamo portarvi subito in ospedale a Francistown. Siete stati molto fortunati. Muore un sacco di gente nel deserto." "Lei non è il generale Fungabera?" riuscì a sussurrare Clay. "Chi è lei?" "Polizia del Botswana di pattuglia al confine. Sergente Simon Mafekeng, al servizio della signoria vostra..."
Da ragazzo, prima della grande guerra patriottica, il colonnello Nikolaj Bucharin andava a caccia di lupi con suo padre, dietro ai branchi che, nei lunghi e rigidi inverni, terrorizzavano il loro remoto villaggio negli Alti Urali. Quelle spedizioni nella vasta e malinconica foresta chiamata taiga avevano acceso in lui una profonda passione per la caccia. Godeva della solitudine dei luoghi selvaggi, e dell'atavica gioia di tendere tutti i propri sensi nella lotta contro qualche pericoloso animale. Vista, udito, olfatto, e quell'altro senso straordinario che permette al cacciatore nato di prevedere le mosse e i tentativi di fuga della preda: tutto ciò il colonnello possedeva ancora in sommo grado, nonostante i suoi sessantadue anni. E questo, assieme a una memoria quasi da computer per facce e vicende, gli aveva permesso di eccellere nel suo lavoro, e aveva favorito la sua promozione alla testa del suo dipartimento del settimo commissariato dove continuava a dar la caccia alla selvaggina più pericolosa di tutte... l'uomo. Quando andava a caccia di cinghiali e orsi nelle vaste tenute riservate alla ricreazione degli alti ufficiali della GPU e del KGB, preoccupava i compagni e i guardacaccia per la sua abitudine a sprezzare le postazioni fisse e avventurarsi pericolosamente da solo, a piedi, nelle più fitte foreste. Il fatto era che il brivido del rischio mortale soddisfaceva qualche suo bisogno profondo. Quando l'incarico che stava svolgendo attualmente era stato incanalato nel suo ufficio al secondo piano della sede in piazza Dzerzinskij, aveva riconosciuto immediatamente la sua importanza e se n'era occupato di persona. Per la sua attenta opera, il vago potenziale intravisto all'inizio dagli organi superiori si stava gradualmente realizzando, e quando finalmente era venuto il momento di incontrare il suo uomo a faccia a faccia sul campo d'azione il colon nello Bucharin era pronto e aveva scelto la
copertura che più gli an dava a genio. I russi, e specialmente i russi di alto rango, erano visti con sospetto e ostilità nella neonata repubblica dello Zimbabwe. Durante la chimurenga, la guerra d'indipendenza, la Russia aveva puntato sul cavallo sbagliato, appoggiando lo ZIPRA di Joshua Nkomo, l'ala rivoluzionaria dei matabele. Così, per il governo di Harare, i russi non erano altro che i nuovi nemici colonialisti, mentre i veri amici della rivoluzione erano i cinesi e i coreani del nord. Per queste ragioni il colonnello Nikolaj Bucharin era entrato in Zimbabwe con un passaporto finlandese e una falsa identità. Parlava il finlandese fluentemente, come cinque altre lingue tra cui l'inglese. Aveva bisogno di una copertura tale da permettergli di uscire liberamente dalla città di Harare, dove ogni sua mossa poteva essere sorvegliata, per recarsi nelle regioni selvagge e spopolate dove poteva incontrare il suo uomo senza tema di sguardi indiscreti. Benché molte altre repubbliche africane, per le pressioni della World Bank e del Fondo Monetario Internazionale, avessero proibito la caccia grossa, lo Zimbabwe continuava a rilasciare licenze a cacciatori di professione per l'organizzazione di principeschi safari nelle "Zone di caccia controllata" : questi safari infatti contribuivano parecchio a impinguare le riserve nazionali di valuta pregiata. Il colonnello si divertiva a recitare la parte di un ricchissimo mercante di legname di Helsinki, e a soddisfare la passione per la caccia alla maniera decadente dei safari riservati esclusivamente all'aristocrazia finanziaria del capitalismo mondiale. Naturalmente il bilancio stanziato dal suo paese per questa operazione non gli avrebbe permesso una simile stravaganza. Ma il generale Peter Fungabera, il destinatario dell'operazione, era un uomo ricco e ambizioso. Non aveva fatto difficoltà quando il colonnello Bucharin gli aveva suggerito il safari in grande stile per incontrarsi con la massima sicurezza, e il generale Fungabera si era accollato da perfetto anfitrione le spese dell'ospite, ammontanti a cinquemila dollari al giorno, quanto costava il safari. Adesso, nel centro della piccola radura, il colonnello Bucharin guardò il suo uomo. Aveva deliberatamente ferito il bufalo. Nikolaj Bucharin sparava molto bene con la pistola, il fucile e la doppietta, e la distanza del bersaglio era ridicola. Se voleva, poteva piazzargli la pallottola in un occhio, proprio al centro della pupilla nera e lustra. Invece gli aveva sparato nella pancia, a una spanna di distanza dal polmone, per non menomargli il fiato, ma non tanto indietro da danneggiargli il treno posteriore, rallentandone così la possibile ca-rica. Era un magnifico maschio, dalle grandi corna nere e ricurve. Un trofeo quasi impareggiabile, che già apparteneva a lui, avendo versato il primo sangue dell'animale: chiunque ora lo uccidesse non aveva importanza, si considerava un coup de grace. Sorrise a Peter Fungabera versando della vodka nel bicchierino della borraccia d'argento. "Na Zdorovye!" esclamò brindando a Peter, e scolò la vodka senza batter ciglio, riempì di nuovo il bicchierino d'argento e glielo offrì. Peter era in divisa da campo perfettamente lavata e stirata, con le iniziali sul petto: al collo aveva un fazzoletto kaki di seta, ma era a capo scoperto per non far scappare la selvaggina col basco rosso e i bagliori del leopardo d'argento. Accettò il bicchiere e, di sopra l'orlo, guardò il russo. Era alto come Peter, ma anche più magro, eretto come un uomo trent'anni più giovane. I suoi occhi erano di un azzurro sbiadito molto particolare e crudele. Sulla faccia portava i segni della guerra e cicatrici di altri antichi conflitti, sicché il suo volto sembrava un paesaggio lunare in miniatura. Aveva il cranio rasato, la fine peluria che lo ricopriva era d'argento e scintillava al sole come fibra di vetro. Peter Fungabera apprezzava il suo uomo. Godeva dell'aura di
potere che indossava come un manto imperiale. Godeva della sua innata crudeltà, che era quasi africana, e che Peter comprendeva perfettamente. Godeva della sua insidiosità, del suo continuo mescolare verità a menzogne e mezze verità in modo da renderle tutte indistinguibili. Era eccitato dalla sensazione di pericolo che emanava così forte da esser quasi un odore. "Siamo della stessa razza"," pensò Peter alzando il bicchierino per restituire il brindisi. Bevve in un sorso il forte liquore. Poi, respirando profondamente per non mostrare alcun segno di averne risentito, restituì il bicchierino. "Bevi da uomo" riconobbe Nikolaj Bucharin. "Vediamo se sei anche un cacciatore." Peter aveva capito che era una prova. La vodka e il bufalo ferito ne facevano parte. Alzò le spalle con la massima indifferenza e il russo fece un cenno al cacciatore di professione che se ne stava rispettosamente fuori portata d'orecchio. Era costui un bianco nato nello Zimbabwe, sui quarant'anni, abbigliato in tenuta di circostanza con un cappello a larghe falde e due grosse cartucciere che gli si incrociavano sul petto cariche di pallottole di grossissimo calibro. Aveva una barbetta nera e riccia e l'espressione estremamente afflitta di uno che si appresti a seguire un bufalo ferito nella boscaglia fitta. "Il generale Fungabera prenderà il 458" disse il colonnello Bucharin, e il cacciatore bianco annuì miserevolmente. Come aveva fatto quel vecchio coglione a mancare un tiro facilissimo come quello? Finora aveva sparato come un campione olimpionico! Cristo, che brutto quel macchione, che fitto! Il cacciatore bianco represse un brivido e schioccò le dita ordinando al secondo portatore di preparare l'altro grosso fucile. "Lei aspetterà qui con i portatori" disse con calma il russo. "Ma signore!" protestò concitato il cacciatore. "Non posso lasciarla andare da solo! Perderei la licenza. Non è assolutamente..." "Basta" disse il colonnello Bucharin. "Ma signore, lei non comprende che..." "Ho detto basta." Il russo non alzava mai la voce, ma i suoi occhi sbiaditi misero subito a tacere l'uomo più giovane. Questi scoprì a un tratto che aveva più paura di quell'uomo che di perdere la sua licenza, o del bufalo ferito acquattato nella macchia. Si chinò e si ritrasse, in fondo contento. Il russo prese il 458 dalle mani del portatore, controllò che fosse caricato con pallottole a espansione, e lo porse a Peter Fungabera. Peter lo prese ridendo sotto i baffi e lo rese al portatore. Il colonnello Bucharin alzò un sopracciglio argenteo e sorrise anche lui. Era un sorriso di derisione e disprezzo. Peter parlò brevemente al portatore in shona. "Eh eh, Mambo!" L'uomo corse a prendere un'altra arma presso un altro portatore negro. La portò poi a Peter, correndo tutto compreso dal rispetto. Peter soppesò tra le mani la nuova arma. Era una corta zagaglia, un assegai. Il manico era di legno duro con del filo di rame ritorto attorno. La lama era lunga una quarantina di centimetri e larga quattro dita. Con cura Peter ne saggiò il filo sui peli alla base del pollice. Poi si tolse deciso il giubbotto, i pantaloni e gli stivali. Nudo, a parte un paio di braghe verde-oliva e l'assegai, disse:Colonnello, in Africa si fa così." Il russo non rideva più. "Ma, naturalmente, non mi aspetto che un uomo della sua età faccia altrettanto" lo giustificò con cortesia. "Lei può riprovarci col fucile." Il russo annuì, accettando la sfottitura. "Uno a zero per il negro: ma ora" si disse "vediamo se 'sto mugik nero fa sul serio o è un fanfarone." Bucharin guardò le tracce del bufalo a terra. Le grosse impronte degli zoccoli sembravano ciotole ricavate nella creta: tutt'intorno c'erano gocce di sangue sieroso miste a schizzi di escrementi giallo-verdastri usciti dalle budella bucate. "Io batterò" disse. "Lei finirà la bestia." Avanzarono piano, con il russo cinque passi avanti, chino sulle
tracce del bufalo, e Peter Fungabera attentissimo dietro, con l'assegai basso e gli occhi neri che scrutavano la macchia antistante spazzandola ritmicamente di qua e di là, allenati a non cercare l'intero animale ma aspettandosi di scorgerne piccoli particolari, magari il riflesso delle froge umide, o la curva di un grande corno. Nel giro di venti passi la macchia si strinse intorno a loro. Era verdastra e soffocante come una serra, e la vegetazione fittissima. A ogni passo i loro piedi affondavano nell'humus alzando puzza di foglie in decomposizione, senza però provocare il minimo rumore. Il silenzio era opprimente, così che la rottura di un ramo di rovo sotto lo stivale del russo risuonò forte come il rombo del motore di un camion. Il colonnello sudava: la camicia, sulle spalle, era madida, e la nuca gli brillava di goccioline di sudore. Peter lo sentiva respirare, a fondo, roco, ma capiva per istinto che non era paura la sua, ma l'eccitazione diffusa del cacciatore. Peter Fungabera non la condivideva. Al posto della paura, c'era in lui una grande freddezza. Si era abituato a ciò durante la chimurenga. Questa scena con l'assegai era indispensabile come un'azione di guerra: doveva assolutamente far colpo sul russo, e per questo aveva bisogno di tutto il suo sangue freddo militare. Peter Fungabera si preparò. Sentì i muscoli contrarsi, e la tensione diffondersi per tutti i nervi e tendini finché fu come una freccia incoccata. Sorvegliava con gli occhi la macchia, ma non tanto il punto dove si dirigevano le tracce del bufalo ferito, quanto ai lati di esse. La bestia che stavano cacciando è la più astuta tra gli animali pericolosi d'Africa, a parte forse il leopardo. Ma essa aveva la forza bruta di cento leopardi. Il leone ruggisce prima di caricare, l'elefante arretra sotto l'urto delle grosse pallottole nel petto, ma il bufalo del Capo carica in silenzio, e solo una cosa può fermare la sua corsa: la morte. Una grossa mosca blu-metallico si posò sul labbro superiore di Peter Fungabera e gli entrò nella narice. Ma la sua concentrazione era così assoluta che non la sentì nemmeno e non fece un gesto per scacciarla. Continuava a scrutare sui fianchi, dove proiettava in una vigile sfera ideale tutta la propria essenza. Il russo si fermò a esaminare meglio le impronte del bufalo che ora cambiavano. C'era una grossa pozza di sangue e sterco. Qui il bufalo si era fermato dopo la corsa pazza seguita alla fucilata. Peter Fungabera se lo poteva immaginare benissimo: nero, gigantesco, con le froge dilatate e la testa voltata a guardare se i cacciatori lo seguivano, con il ventre in fiamme e l'infezione che dagli intestini rotti si propagava nel sangue, con le budella che scivolavano irrefrenabilmente fuori. Lì si era fermato e li aveva ascoltati, e l'odio e la rabbia erano montati in lui. Lì era iniziata la furia omicida. Aveva allora abbassato le corna e proseguito, incurvando la groppa per diminuire lo strazio nelle viscere, tenuto in piedi solo dall'ira. Il russo guardò indietro verso Peter. Non c'era bisogno di parlare. Insieme proseguirono. Il bufalo maschio agiva in base alla memoria atavica. Ogni cosa che faceva era già stata fatta innumerevoli volte dai suoi antenati. Da quel primo galoppo scatenato subito dopo essere stato ferito, la sosta per ascoltare i cacciatori e guardare indietro, l'ingobbirsi sotto la sferzata dell'ira trasmessa ai possenti muscoli, e ora il calmo trotto trasversale, per meglio coglier l'usta degli inseguitori, e la paurosa oscillazione della testa armata di corna affilatissime: tutto ciò faceva parte di un antico rituale. Il bufalo attraversò una piccola radura, infilò la testa nella muraglia di lucide foglie verdi dall'altra parte, e proseguì lordandole di sangue per un'altra cinquantina di metri. Poi svoltò bruscamente da un lato e tornò indietro descrivendo un largo giro. Adesso si muoveva con grande cautela, insinuando la sua mole tra le liane e il fogliame senza muoverlo quasi, un passo per volta, finché si trovò nuovamente alla radura. Qui si fermò, nascosto al limitare della macchia, sorvegliando le
sue stesse tracce insanguinate che penetravano nel folto da un'altra parte. Il corpo del bufalo era fermo, completamente nascosto dalla fitta giungla, e una tremenda immobilità si stendeva su di lui. Lasciava banchettare le mosche nella ferita aperta senza fare una grinza né scacciarle con la coda. Non muoveva nemmeno le orecchie, grandi e a coppa, dopo averle protese il più possibile in avanti. E nemmeno batteva ciglio mentre osservava il varco creato al limitare della radura dal suo stesso passaggio di prima, aspettando i cacciatori. Il russo sbucò tranquillamente nella radura, correndo con lo sguardo al varco dall'altra parte, dove foglie e rami erano stati spostati da una grossa massa e sporcati di sangue. Avanzò con calma, seguito da Peter Fungabera che si muoveva come un ballerino, sorvegliando i lati, col corpo tutto lucido di un velo di sudore e i muscoli del torace, della schiena e delle braccia guizzanti a ogni minima mossa. Vide l'occhio del bufalo. Rifletteva la luce come una monetina nuova, e Peter si gelò. Fece schioccare le dita della sinistra, e anche il russo si fermò con lui. Peter Fungabera fissò l'occhio del bufalo maschio, ancora incerto di ciò che vedeva, ma consapevole che si trovava nella posizione giusta: una quindicina di metri sulla sinistra. Era lì che doveva trovarsi il bufalo, se era tornato indietro. Peter sbatté le ciglia e di colpo l'immagine gli si schiarì. Non era più focalizzata solo sull'occhio e distinse infatti la curva di un corno, così fermo da sembrare un ramo. Vide le scanalature dove le corna si univano sopra l'occhio del bufalo, e tornò a guardarci dentro: sembrava di gettare uno sguardo nell'inferno stesso. Il bufalo caricò. La foresta esplose davanti a lui, i rami si spezzarono crepitando, le foglie volarono come quando arriva l'uragano e il bufalo sbucò nella radura. Uscì scartando di lato, un'ingannevole ma caratteristica finta che aveva tratto in inganno più di un cacciatore, prima dell'improvviso e decisivo attacco diretto. Come veniva in fretta! Sembrava impossibile che una bestia così enorme potesse muoversi tanto rapidamente. Era alto e grosso come una collina, con la groppa e le spalle incrostate del fango seccato dei guadi: sulla pelliccia, oscene chiazze argentee di calvizie solcate dalle vecchie cicatrici dei rovi o degli artigli leonini. Dalle fauci aperte gli colavano ruscelli di bava argentea, e lacrime gli inumidivano il pelo delle guance. Un uomo sarebbe stato a stento in grado di circondargli il collo con le braccia, o di misurare la distanza tra le punte delle corna. Nelle pieghe della gola si annidavano come uva matura grappoli di zecche blu, e nella chiusa foresta la sua puzza bovina faceva quasi svenire. Caricò, maestoso nella sua furia omicida, e Peter Fungabera gli si fece incontro. Passò davanti al colonnello Bucharin che si accingeva a sparare, impedendoglielo. Peter si mosse come uno scuro folletto della giungla, aggirando la carica obliqua del bufalo avvicinandoglisi in controtempo, sicché l'animale si comportò come il pugile che tira pugni indietreggiando: la cornata, fuori tempo e vibrata senza veder chiaro, fu schivata da Peter con la parte superiore del corpo. La punta ricurva di un corno gli sfiorò le costole a quattro dita di distanza, ed egli si sollevò contemporaneamente alla testa dell'animale, inarcando il tronco. In quel momento il bufalo era scoperto, dal muso alzato alle molli pieghe del mantello tra le gambe anteriori. Peter Fungabera colpì, caricando l'assegai di tutto il peso del corpo. Il bufalo si avventò sulla lama d'argento, che gli entrò in corpo col risucchio di un piede nel fango, fendendo la carne viva. Entrò fino alle dita della mano destra di Peter sull'impugnatura, e oltre: lo spruzzo di sangue innaffiò l'uomo fino alla spalla. Peter lasciò andare l'assegai e saltò via con una piroetta, allontanandosi, mentre il bufalo sgroppava a zampe rigide infilzato dall'acciaio nella cavità toracica. Cercò di voltarsi dalla parte di Peter, ma non riuscì a se-
guirlo e restò fermo a guardare l'uomo nudo, con le legnose zampe possenti puntate, mentre lo sguardo gli si offuscava. Peter Fungabera si mise in posa davanti a lui, con entrambe le braccia vezzosamente alzate. "Ah, terremoto!" gligridò in shona. "Ah, rombo di tuono!" Il bufalo fece due passi stentati verso di lui, e qualcosa scoppiò dentro l'animale. Dalle narici uscirono fiotti di sangue. Aprì le fauci e mugghiò, e anche dalla gola il sangue sgorgò inondandogli il petto. Il grande bufalo ruotò, cercando di mantenere l'equilibrio. "Muori, figlio degli dei neri!" lo schernì Peter. "Assaggia l'acciaio di un futuro re, e muori!" Il bufalo crollò a terra. IL suolo tremò sotto il suo peso che si abbatteva. Peter Fungabera fece due passi verso la grossa testa cornuta in cui gli occhi si appannavano sempre più. Posò un ginocchio a terra e, con le mani a coppa, raccolse una manciata di quel fiotto caldo che si riversava abbondante dalla bocca semiaperta del bufalo, portò le mani alle labbra e bevve quel sangue come fosse vino. Gli scorse giù per gli avambracci e sul mento, mentre Peter rideva, agghiacciando perfino il sangue imperturbabile del russo. "Ho bevuto il tuo sangue vivo, oh grande toro! Ora la tua forza è mia!" gridò, mentre il bufalo si inarcava nello spasmo finale della morte.
Peter Fungabera si era fatto la doccia e cambiato. Era in alta uniforme: pantaloni neri con una striscia in seta rossa, corta giacchetta sempre rossa con risvolti neri di seta. La camicia bianca aveva la pettorina inamidata e il generale indossava le decorazioni. I servitori avevano preparato la tavola sotto i rami protesi di un albero di mahoba-hoba, ai margini di una radura d'erba bassa e lussureggiante, fuori vista e fuori portata d'orecchio dall'accampamento. Sul tavolo c'erano una bottiglia di Chivas Regal e una di vodka, un secchiello di ghiaccio e due bicchieri di cristallo. Il colonnello Nikolaj Bucharin sedeva di fronte a Peter. Aveva una lunga camicia di cotone, tenuta fuori dei calzoni, alla russa, con la cintura, e i pantaloni cosacchi. I piedi erano inguainati in stivaletti morbidissimi di vitello. Si sporse sulla tavola, riempì i bicchieri e ne porse uno a Peter. Stavolta non li tracannarono d'un fiato alla sbruffona. Li centellinarono, guardando il cielo africano diventare violetto e dorato. Il silenzio avvolgeva il cameratismo di due uomini che avevano rischiato la vita insieme e avevano imparato a stimarsi a vicenda onorandosi da amici per la pelle oppure, se così doveva essere, da nemici di tutto rispetto. Alla fine il colonnello Bucharin rimise il bicchiere sul tavolo con un colpetto secco. "Allora, amico mio, dimmi che cosa vuoi" l'invitò. "Voglio questa terra" rispose semplicemente Peter Fungabera. "Tutta?" chiese il colonnello. "Tutta." "Non solo lo Zimbabwe?" "Non solo lo Zimbabwe." "E noi ti dovremmo aiutare?" "Sì." "In cambio di che cosa?" "La mia amicizia." "La tua amicizia fino alla morte" osservò seccamente il colonnello "o finché non avrai ottenuto ciò che vuoi e potrai trovare nuovi amici?" Peter sorrise. Parlavano la stessa lingua, si capivano a vicenda. "E quali segni tangibili di eterna amicizia ci darai?" insisté il russo. "Un povero paese come il mio..." disse Peter alzando le
spalle. "Un po' di minerali strategici... cromo, titanio, berillio e nichel... e qualche oncia d'oro." Il russo annuì, saggio: "Ci saranno utili." "Ma poi, una volta che sarò diventato monomatapa di Zimbabwe, mi guarderò in giro, naturalmente..." "Naturalmente." Il russo lo guardava negli occhi. Non gli piacevano i negri: questo bigottismo razzista era comune nei russi. Non gli piaceva né il loro colore né il loro odore: ma questo qua gli piaceva, eccome! "E potrei anche guardare verso sud" disse piano Peter Fungabera. Ah! Il colonnello Bucharin celò la sua soddisfazione dietro un'espressione pensosa. Questo qua sì che era tutta un'altra cosa! "Proprio la direzione in cui da tempo guardate voi" continuò Peter. Il colonnello ridacchiava. "E che cosa vedrai a sud, compagno generale?" "Vedrò un popolo ridotto in schiavitù e maturo per l'emancipazione." "E che altro?" "Vedrò l'oro delle miniere del Witwatersrand e del Free State, i diamanti di Kimberley, l'uranio, il platino, l'argento, il rame... in breve vedrò una terra che racchiude in abbondanza i tesori più preziosi del mondo." "Sì?" l'incoraggiò il russo, deliziato. Questo qua è svelto, questo qua ha cervello, questo qua ha anche il coraggio che ci vorrà. "Vedrò una base che taglia in due il mondo occidentale, che controlla sia l'Oceano Atlantico sia l'Oceano Indiano, che presidia la rotta del petrolio tra il Golfo Arabico e l'Europa, tra il Golfo Arabico e l'America." Il russo alzò una mano. "E dove ti portano questi pensieri?" "Sarà mio dovere far elevare questa terra meridionale al giusto rango nella comunità internazionale, sotto la tutela e la protezione del paese che più d'ogni altro ha a cuore la libertà dei popoli, l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche." Il russo annuì, sempre guardandolo negli occhi. Sì, questo negro aveva intravisto il disegno globale che stava dietro a tutto. Il grande premio era il Sudafrica, ma per conquistarlo bisognava stringerlo in una morsa di ferro. A est avevano già il Mozambico, a ovest l'Angola apparteneva a loro e la Namibia l'avrebbe seguita. Mancava soltanto il nord per isolare la preda, e il nord era lo Zimbabwe, il pollice dello strangolatore sulla trachea: e quell'uomo era capace di consegnarglielo. Il colonnello Bucharin si chinò verso l'interlocutore sulla sedia da campo di tela, assumendo un tono concreto e sbrigativo. "Quali sono le condizioni che ti occorrono?" "Caos economico, guerre tribali, divisioni ai vertici del governo" elencò Peter Fungabera con le dita. "Mi pare che il presente governo ti stia venendo incontro quanto a crisi economica" osservò il russo. "E tu personalmente stai facendo un ottimo lavoro per rinfocolare gli odi tribali." "Grazie, compagno." "Tuttavia i contadini dovrebbero essere un po' più affamati per manovrarli bene." "Mi batto per indurre il governo a nazionalizzare le tenute agricole dei bianchi e gli allevamenti di bestiame. Senza agricoltura e allevamento diretti dai bianchi, ti posso garantire fame quanto basta nelle campagne" sorrise Peter Fungabera. "Ho sentito dire che hai già cominciato ad agire... mi congratulo con te per la recente acquisizione di quella tenuta, come si chiama... King's linn? Si chiama così, non è vero?" "Sei ben informato, colonnello." "E quanta fatica faccio per esserlo sempre. Ma quando verrà il momento di prendere in mano le redini del paese, che uomo vedrà la gente?"
"Un uomo forte" rispose Peter senza esitare. "La cui spietatezza è ben nota." "Dimostrata prima nella chimurenga e poi, più di recente, nella terra dei matabele." "Un uomo di presenza e carisma, un uomo ben conosciuto dal popolo." "Le donne cantano le tue lodi nelle vie di Harare, non passa giorno senza che tu compaia alla televisione o in prima pagina sui giornali." "Un uomo che ha alle spalle la forza." "La Terza Brigata" annuì il russo "e la benedizione dei popoli dell'uRss. Tuttavia" fece una pausa significativa" ci sono due domande che aspettano risposta, compagno generale." "Sì?" "La prima è una mondana e sgradevole questione di soldi, davvero fuori luogo tra due uomini come noi. I miei finanziatori sono preoccupati. Le nostre spese stanno superando di molto il valore dell'avorio e delle pellicce che ci hai spedito.,," Alzò ancora una volta la mano per troncare obiezioni. Era una mano da vecchio, tutta punteggiata di segni marrone e solcata di vene sporgenti bluastre. "Lo so che dovremmo fare tutte queste cose semplicemente per amor di libertà, che il denaro è un'oscenità capitalista, ma a questo mondo niente è perfetto. In breve, compagno generale, stai raggiungendo i limiti di spesa stabiliti da Mosca." "Capisco" annuì Peter Fungabera. "E qual è la seconda domanda?" "Riguarda i matabele. Sono una tribù guerriera e pericolosa. Lo so che sei obbligato a provocarli per incoraggiare ribellione e malcontento e attirare sul governo la disapprovazione del mondo occidentale: ma che cosa succederà poi? Come farai a tenerli a bada, quando avrai preso il potere?" "Posso rispondere a entrambe le domande con un solo nome" rispose Peter Fungabera. "Quale nome?" "Tungata Zebiwe." "Ah, sì, Tungata Zebiwe, il leader matabele. L'hai messo fuori causa! Presumo che a questo punto sia già stato liquidato, vero?" "Niente affatto. Lo custodisco in gran segreto e in tutta sicurezza in uno dei miei campi di rieducazione proprio da queste parti." "Spiegati." "Per prima cosa lo faccio per i soldi." "Per quanto ne sappiamo noi, Tungata Zebiwe non è un uomo ricco" osservò il russo. "Ha la chiave di una fortuna che può tranquillamente superare i duecento milioni di dollari USA." Il russo alzò un sopracciglio argenteo in un gesto d'incredulità che Peter cominciava a conoscere bene e che già lo irritava. "Diamanti" disse. "La madrepatria è uno dei massimi produttori al mondo" disse il russo con un gesto sdegnoso. "Non parlo di spazzatura per uso industriale" precisò Fungabera. "Parlo di gemme della più bell'acqua, pietre grandi, pietre larghe, tra le più preziose mai trovate al mondo." Il russo tacque, pensieroso. "Se è vero..." "E vero! Ma non ti dico più niente. Almeno per ora." "Va bene, basta che possa farli balenare davanti agli occhi avidi dei nostri finanziatori a Mosca. Ma non mi hai ancora spiegato come farai coi matabele. Non penserai mica di sterminarli tutti, uomini, donne e bambini?" Peter Fungabera scosse la testa, tristemente. "Sarebbe la soluzione migliore, ma l'America e l'Inghilterra non lo permetterebbero mai. No, la mia risposta è ancora Tungata Zebiwe. Quando prenderò il potere, ricomparirà... sarà un ritorno miracoloso, quasi dal regno dei morti... I matabele impazziranno di gioia e di sollievo. Gli
si stringeranno intorno unanimi, lo seguiranno, e io lo nominerò vicepresidente. "Ma ti odia. L'hai annientato, sicuramente cercherà di vendicarsi." "No" disse Peter, scuotendo il capo. "Lo manderò da voi. So che avete cliniche fantastiche per curare i casi più difficili. Non è così? Istituti dove un malato di mente viene curato con farmaci potenti, e altre tecniche che lo rendono di nuovo razionale e ragionevole." Stavolta il russo si mise veramente a sghignazzare, e si versò un'altra vodka. Quando guardò ancora Peter Fungabera, per la prima volta nei suoi occhi slavati c'era del rispetto. "Bevo alla tua, monomatapa di Zimbabwe, che tu possa regnare mille anni!" Posò il bicchiere e si girò a guardare il vasto prato aperto che conduceva al lontano stagno. Un branco di zebre vi si dirigeva per bere. Erano nervose e caute, perché vicino all'acqua c'erano i leoni in agguato. Infine entrarono nella pozza tutte insieme, in fila, fino al ginocchio, e bevvero simultaneamente. La scena si rifletteva nell'acqua, moltiplicando, pareva, la bevuta di un solo animale in mille specchi. L'incantesimo si ruppe quando il capobranco annitrì, allarmato, e la fila si ruppe in un'esplosione di schizzi di schiuma e di zebre al galoppo. "Il trattamento di cui parli tu è un po' drastico" disse il colonnello Bucharin guardando le zebre disperdersi nella macchia. "Alcuni pazienti non sopravvivono. Quelli che resistono sono.,," cercò la parola... "iterati." "La loro mente è distrutta" disse Peter per lui. "In parole povere, sì" annuì il colonnello. "Ma a me serve il suo corpo e non il suo cervello. Ho bisogno di un fantoccio, mica di un essere umano." "Si può fare. Quando ce lo manderai?" "Prima i diamanti" rispose Peter." "Ma naturale, prima i diamanti. Quanto tempo ci vorrà?" Peter alzò le spalle. "Non tanto." "Quando sarai pronto, ti manderò un dottore con le medicine adatte per il viaggio. Possiamo far fare a questo Zebiwe la stessa strada dell'avorio: Air Zimbabwe fino a Dar-es-Salam e di lì a Odessa su una delle nostre navi." "D'accordo." "Hai detto che si trova da queste parti? Vorrei vederlo." "E saggio?" "Accontentami, per favore." Detto dal colonnello Bucharin era un ordine, più che una richiesta.
Tungata Zebiwe era in piedi al sole di mezzogiorno. Si trovava davanti a un muro appena intonacato che rifletteva i raggi come un grande specchio. Era lì dall'alba e ancor prima, quando la brina incrostava i ciuffi d'erba secca ai margini del campo di parata. Tungata era completamente nudo, come i due uomini che gli stavano a fianco. Erano tutti e tre così magri che gli si potevano contare le costole, e le vertebre spiccavano come grani di rosario sulla schiena. Tungata socchiudeva gli occhi in modo da escludere gran parte del riflesso accecante del muro bianco, ma non li teneva chiusi del tutto. Per vincere la vertigine che aveva già preso gli altri due prigionieri, fissava un puntino in rilievo sul muro intonacato. Chi cadeva, come era capitato ai due, veniva fatto rialzare dalle guardie a frustate. Ora ciondolavano, sempre sul punto di perdere l'equilibrio. "Coraggio, fratelli" disse Tungata in sindebele. "Non fatevi vedere battuti dai cani shona." Era deciso a non cadere per terra, e continuava a guardare il segno sul muro. Era un foro di pallottola, imbiancato a calce. Im-
biancavano dopo tutte le esecuzioni, meticolosamente. "Amanzi" gemette l'uomo alla sua destra: acqua! "Non pensarci" gliordinò Tungata. "Non parlarne, o ti farà impazzire." Il muro rifletteva il calore con un'intensità che colpiva quasi fisicamente. "Non ci vedo più" sussurrò il secondo uomo. "Sono diventato cieco. "Colpa del riflesso abbacinante del muro, capace di infliggere una sorta di cecità da neve. "Non c'è niente da vedere, se non le brutte facce delle scimmie shona" glidisse Tungata. "Sii contento della tua cecità, amico." All'improvviso, dietro le loro spalle, bruschi ordini urlati in shona e il passo di un plotone sul campo di parata. "Arrivano" sussurrò il matabele cieco, e Tungata Zebiwe provò un empito di rimpianto. Sì, stavolta arrivavano davvero, e arrivavano per lui. Giorno dopo giorno, nelle lunghe settimane della sua pena, aveva sentito il plotone d'esecuzione attraversare il campo di parata a mezzogiorno. Stavolta era per lui. Non temeva la morte, ma ne era rattristato. Era triste per non aver potuto aiutare il suo popolo in quella terribile prova, era triste di non poter rivedere la sua donna, e di non poter avere con lei quel figlio che desiderava tanto. Era triste che la sua vita che tanto prometteva dovesse finire prima di poter dare frutti, e all'improvviso gli venne in mente un giorno in cui, guardando con suo nonno un campo di mais devastato dalla tempesta, gli aveva sentito dire: "Tanto lavoro per niente, che spreco!." Tungata ripeté fra sé quelle parole, mentre mani rudi lo facevano girare e lo spingevano al palo piantato nella terra antistante al muro. Gli legarono i polsi al palo e lui aprì gli occhi per intero. Il sollievo di non veder più il riflesso del muro abbacinante fu cancellato dalla vista degli uomini armati schierati davanti a lui. Portarono gli altri due matabele ai paletti. Quello cieco cadde in ginocchio, prostrato e atterrito, e le viscere gli si svuotarono involontariamente. Le guardie risero tra esclamazioni di disgusto. "In piedi!" gliordinò brusco Tungata. "Muori in piedi, da vero figlio di Mashobane!" L'uomo si rialzò a fatica. "Va' al palo" gliordinò Tungata. "E un po' sulla tua sinistra." L'uomo andò al palo brancolando ciecamente e lo trovò. Ce lo legarono. Il plotone d'esecuzione era composto da otto soldati. Il comandante era un capitano della Terza Brigata. Passò in rivista i soldati, controllando la carica di ogni fucile. Scherzava in shona, facendo ridere i suoi uomini. Tungata non capiva niente, ma si accorgeva che le loro risate erano disinibite come quelle di chi sia sotto l'effetto dell'alcool o di qualche droga. Non era la prima volta che facevano questo lavoro, e gli piaceva. Tungata aveva visto tanti uomini trasformarsi così durante la guerra. La violenza e il sangue erano diventati la loro droga, e non erano più capaci di farne a meno. Il capitano tornò in testa al plotone e dalla tasca della camicia estrasse un foglio dattiloscritto tutto consumato dall'uso. Lo lesse in inglese, inciampando su ogni parola e pronunciandola in modo da renderla quasi incomprensibile. "Siete stati condannati come nemici dello Stato e del popolo" lesse. "Siete stati dichiarati incorreggibili. La vostra condanna a morte è stata sottoscritta dal vicepresidente della Repubblica dello Zimbabwe..." Tungata Zebiwe alzò la testa e cominciò a cantare. La sua voce, profonda e bella, coprì quella sottile del capitano shona: Le Talpe stanno sottoterra. "Sono morte?" chiedono le figlie di Mashobane.
Era l'antico canto di guerra dei matabele, e alla fine del verso ringhiò ai due condannati vicino a lui: "Cantate! Fate sentire agli sciacalli shona come ruggisce il leone matabele." E quelli cantarono con lui: Come il mamba nero da sotto una pietra mungemmo la morte con zanne di ferro... Davanti a loro, il capitano diede un ordine, e come un sol uomo il plotone di esecuzione avanzò il piede destro e imbracciò il fucile. Un altro ordine e i fucili furono puntati. Mentre i tre matabele nudi cantavano nel sole, l'occhio dei soldati li inquadrava nel mirino. E, come per incanto, si udirono altre voci lontane unirsi al canto di guerra. Venivano dalle baracche dei prigionieri intorno al campo di parata. Centinaia di matabele detenuti cantavano con loro, accompagnandoli nel momento dell'estrema prova, dando loro forza e consolazione. Il capitano shona alzò la mano destra, e negli ultimi istanti di vita la tristezza di Tungata svanì lasciando il posto a una grande fierezza. "Questi sono uomini" pensò: "con o senza di me, resisteranno al tiranno." Il capitano abbassò la mano di scatto urlando il comando: "Fuoco!" Gli spari furono simultanei. La fila dei soldati sobbalzò per il rinculo dei fucili, e il forte rumore echeggiò nelle orecchie di Tungata facendolo involontariamente trasalire. Udì il terribile rumore delle pallottole che si conficcavano nella carne viva, e con la coda dell'occhio vide i suoi due compagni sussultare come sotto l'urto di un invisibile martello pneumatico e poi accasciarsi, sostenuti dai legacci contro il palo. La canzone era stata bruscamente troncata sulle loro labbra; nondimeno continuava a sgorgare da quelle di Tungata, sempre eretto. I fucilieri abbassarono le armi, ridendo e dandosi di gomito come per chissà quale scherzo. Dalle baracche dei prigionieri il canto di guerra si era mutato in un ululato di lutto. E qui anche la voce di Tungata si tacque finalmente. Girò la testa a guardare i due compagni al suo fianco. Erano tutti sforacchiati dai colpi. Già nelle ferite banchettavano le mosche. All'improvviso le ginocchia di Tungata cominciarono a tremare, e sentì che lo sfintere stava per rilasciarsi. Combatté con tutta la sua energia contro il suo stesso corpo, odiandosi per la propria debolezza. A poco a poco riuscì a controllarsi. Il capitano shona andò da lui e gli disse in inglese stentato: "Bello scherzetto, eh?" e gli rise sgangheratamente in faccia. Poi si girò e ordinò di portare dell'acqua. Arrivò un soldato con una ciotola smaltata piena d'acqua. La prese il capitano. Tungata ne sentiva l'odore. Si dice che i boscimani fiutino l'acqua a chilometri e chilometri di distanza: non ci aveva mai creduto, finora. L'acqua emanava un odore dolce e mellifluo come un melone rorido di rugiada e appena affettato. La gola gli si contrasse più volte involontariamente nello spasimo di inghiottire. Non riusciva a distogliere gli occhi dalla ciotola. Il capitano l'alzò alle labbra e bevve un sorso, poi si sciacquò rumorosamente la bocca. Ne sputò uno schizzo e sogghignò a Tungata, porgendogli la ciotola all'altezza del viso, ma fuori portata. Lentamente, con sadismo, rovesciò la ciotola. L'acqua scorse sulle ginocchia e sui piedi del prigioniero. Ogni goccia lo pungeva come un ghiacciolo, e ogni cellula del corpo di Tungata la bramava con un'intensità prossima alla follia. Il capitano rovesciò la ciotola e la scolò, fino all'ultima goccia. "Scherzetto" ripeté stolidamente, e si voltò a gridare un altro ordine ai suoi. In fila per due abbandonarono il campo di parata, lasciando Tungata solo coi morti e con le mosche. Tornarono a prenderlo al tramonto. Quando gli tagliarono i le-
gacci, gemette involontariamente per il dolore del sangue che tornava a scorrere nelle mani gonfie, e cadde in ginocchio. Le gambe non lo reggevano più. Dovettero riportarlo alla baracca quasi di peso. La stanza era nuda, c'erano solo un bugliolo scoperto in un angolo e due ciotole in mezzo al pavimento di terracotta. Una conteneva una pinta di acqua, l'altra una piccola focaccia di mais rafferma. Era salatissima. L'indomani avrebbe scontato quel cibo con un pesante pedaggio di sete, ma doveva pur sostenersi. Bevve metà dell'acqua lasciando l'altra metà per il mattino dopo, e si distese sul pavimento. Dal tetto di lamiera ondulata emanava ancora il calore della giornata, ma sapeva che prima del mattino avrebbe sofferto il freddo. Era tutto dolorante e la testa gli ciondolava per effetto del sole e dei riflessi del muro; gli pareva che da un momento all'altro dovesse scoppiare come un frutto maturo di baobab. Fuori, nel buio, oltre il recinto di filo spinato, i branchi di iene si disputavano il banchetto a cui erano state invitate. Le loro grida e risate esprimevano una folle avidità, ed erano punteggiate dal rumore delle ossa che si spezzavano nelle loro larghe fauci. Nonostante tutto ciò, Tungata dormì, e si svegliò all'alba a uno scalpiccio e a un ordine urlato. In fretta inghiottì l'acqua risparmiata per fortificarsi, poi si accovacciò sul bugliolo. Il giorno prima quasi il suo corpo l'aveva tradito: oggi non avrebbe permesso che succedesse. La porta fu aperta. "Fuori, cane matabele! Fuori dal tuo canile puzzolente!" Lo riportarono al muro. C'erano già altri tre matabele nudi, faccia al muro. Futilmente Tungata notò che avevano dato la solita mano di bianco. Erano coscienziosissimi in proposito. Si fermò col volto a quaranta centimetri di distanza dalla superficie candida del muro e si preparò interiormente alla giornata che l'attendeva. A mezzogiorno fucilarono gli altri tre prigionieri. Stavolta Tungata non riuscì a farli cantare. Ci provò, ma la gola gli si chiuse. A metà pomeriggio la vista cominciava a perder colpi. Zone abbacinanti si mischiavano a macchie nere. Tuttavia ogni volta che gli cedevano le gambe e si accasciava, i polsi legati al palo lo sorreggevano e le braccia, torcendosi, lo svegliavano come una frustata. La sete era inenarrabile. Le macchie di oscurità nella testa divennero sempre più profonde e durature. Nemmeno il dolore riusciva più a cancellarle provvisoriamente. Da una di queste zone nere una voce parlò. "Mio caro amico" disse la voce. "In che stato mi tocca rivederti." Era la voce di Peter Fungabera, che dissipò le tenebre nella sua mente e gli diede nuove energie. Tungata si tirò su, alzò la testa e si sforzò di mettere a fuoco la vista. Guardò in faccia Peter Fungabera e il suo odio lo soccorse. Lo accolse con piacere, come una forza vitale. Peter Fungabera era in uniforme e basco. Portava il solito frustino nella destra. Al suo fianco c'era un uomo bianco che Tungata non aveva mai visto prima. Era alto, magro e vecchio. Aveva la testa rapata, la pelle disseminata di cicatrici e gli occhi di uno strano azzurro sbiadito che Tungata trovò repellente e gelido come lo sguardo del cobra. Osservava Tungata con interesse clinico, privo dipietà o altri sentimenti umani. "Mi spiace che il compagno ministro Tungata Zebiwe non sia al meglio della forma" disse Peter all'uomo bianco. "E dimagrito parecchio, ma non qui..." Con la punta del frustino, Peter Fungabera sollevò il pesante malloppo nero dei genitali nudi di Tungata. "Hai mai visto niente del genere?" domandò. Legato al palo, Tungata non poteva ritrarsi. Quell'arrogante maneggio ed esame delle sue parti intime era l'estrema degradazione. "Quanto basta a tre uomini normali" stimò Peter con simu-
lata ammirazione, mentre Tungata lo guardava senza parlare. Il russo fece un gesto d'impazienza e Peter annuì. "Hai ragione, stiamo perdendo tempo." Diede un'occhiata all'orologio e si rivolse al capitano, che aspettava nei pressi col plotone. "Fa' condurre il prigioniero al forte. Dovettero portare Tungata di peso.
L'alloggio di Peter Fungabera nel forte in cima alla collina di roccia era arredato in maniera spartana, ma il pavimento di terra era stato spazzato e innaffiato d'acqua. Lui e il russo sedevano da una parte del tavolo che fungeva da scrivania: dall'altra parte c'era una panca di legno. Le guardie portarono Tungata alla panca. Egli scostò le mani dei soldati e sedette eretto, fissando i due uomini che aveva di fronte. Peter disse qualcosa in shona al capitano, e due soldati portarono a Tungata una coperta di rozza lana grigia e gliela misero sulle spalle. Un altro ordine, e il capitano portò un vassoio con su una bottiglia di vodka e una di whisky, due bicchieri, una ciotola di ghiaccio e una brocca d'acqua. Tungata evitò di guardare l'acqua. Gli ci volle tutto il suo autocontrollo, ma tenne gli occhi fissi su Peter Fungabera. "Così è un po' più civile" disse Peter. "Il compagno ministro Zebiwe non parla shona, solo il primitivo dialetto matabele; vuol dire che useremo la lingua che sappiamo tutti e tre, l'inglese." Versò whisky e vodka. Il ghiaccio tintinnò nei bicchieri e Tungata batté ciglio, ma continuò a fissare Fungabera. "Terrò una lezione" spiegò Peter. "Il nostro ospite, qua" disse indicando il vecchio uomo bianco "è uno studioso di storia africana. Ha letto, e ricorda, tutto ciò che si è scritto a proposito del nostro paese. E tu, naturalmente, mio caro Tungata, come discendente della casata dei Kumalo, gli antichi capiladroni dei matabele che per un secolo e passa hanno razziato e terrorizzato i legittimi padroni di questa terra, i mashona, sei parte in causa. Probabilmente dirò cose che sia tu sia l'ospite sapete già; in tal caso, mi scuso anticipatamente." Bevve un sorso di whisky mentre nessuno degli altri due parlava o si muoveva. "Ci tocca tornare indietro di centocinquant'anni" continuò Peter "allorché un giovane generale del re zulu Chaka, un uomo che era tra i suoi favoriti, mancò di consegnargli il bottino di guerra. Il nome di quest'uomo era Mzilikazi, figlio di Mashobane della sottospecie zulu dei Kumalo, ed era destinato a diventare il primo matabele. Interessante notare, en passant, che costituì un bel precedente per la tribù che stava per fondare. Primo, era un maestro di rapine e razzie, un famoso assassino. Poi era un ladro. Rubò al suo stesso sovrano. Non gli consegnò la sua parte del bottino. E per finire era un vigliacco, perché quando Chaka lo mandò a chiamare per fargli pagare il fio della sua colpa, tagliò la corda. Questo era Mzilikazi, padre dei matabele, e da quel giorno a oggi le tre qualifiche si attagliano perfettamente a tutti i membri della sua tribù. Assassino! Ladro! Vigliacco!" ripeté gli insulti con soddisfazione, mentre Tungata lo fissava con gli occhi fiammeggianti. "E così questo bel campione di virtù virili, portando con sé il suo reggimento di guerrieri zulu rinnegati, scappò a nord. Piombò sulle tribù più deboli che incontrò sul suo cammino e rubò loro il bestiame e le giovani donne. Questo fu l'umfecane, il grande ammazzamento. Si dice che oltre un milione di esseri indifesi perissero sotto gli assegai dei matabele. Certo è che Mzilikazi si lasciò alle spalle una terra deserta, di villaggi bruciati e scheletri bianchi. "Proseguì il suo cammino di distruzione attraverso il continente finché incontrò, proveniente da sud-ovest, una razza ancor più assetata di sangue e più avida della sua: gli uomini bianchi, i boeri, che coi loro fucili ammazzarono i famosi guerrieri di Mzilikazi come ca-
ni rabbiosi. E così Mzilikazi, il codardo, scappò di nuovo, sempre diretto a nord." Peter agitò piano i cubetti di ghiaccio nel bicchiere, un soave tintinnio che scosse leggermente Tungata, il quale riuscì però a non guardare il bicchiere. "Il baldo Mzilikazi attraversò il fiume Limpopo e scoprì una bella terra di erbe grasse e acque chiare. Era abitata da un popolo gentile e pastorale, i discendenti di una razza che aveva costruito grandi città di pietra, un popolo aggraziato che Mzilikazi con disprezzo chiamò "i mangiamerda" e considerò bestiame. E li trattò da bestiame. Li uccideva per divertirsi, li asserviva per rifornire di schiavi i suoi pigri guerrieri. Le giovani donne mashona, se erano -carine, venivano montate per il piacere, e per produrre nuovi guerrieri per le sanguinose imprese del re... ma voi già sapete tutto questo." "I fatti a grandi linee" annuì il vecchio uomo bianco. "Ma non la tua interpretazione di essi. Il che dimostra che la storia non è che la propaganda scritta dai vincitori." Peter rise. "E una definizione che non avevo mai sentito, ma è verissima. E siccome noialtri shona siamo adesso i vincitori, abbiamo tutto il diritto di riscriverla a modo nostro." "Continua" l'invitò l'uomo bianco. "Lo trovo molto istruttivo." "Molto bene. Nell'anno 1868, secondo la misura del tempo stabilita dai bianchi, Mzilikazi, questo grande assassino obeso dalla deboscia e dalla malattia, morì. E divertente ricordare che i suoi seguaci, prima di dargli sepoltura, tennero il suo cadavere in trono per cinquantasei giorni, col caldo del Matabeleland! Così il re puzzò in morte potentemente quanto aveva puzzato in vita. Un'altra simpatica caratteristica dei matabele. "Aspettò le proteste di Tungata, le quali non vennero. Allora proseguì. "Gli succedette uno dei suoi figli, Lobengula, il-Vento-checonduce. Era un ciccione cattivo e sanguinario come il suo illustre padre. Tuttavia, proprio mentre egli ereditava la guida dei matabele, furono gettati due semi che ben presto sarebbero diventati liane soffocanti, tali da asfissiare e finalmente abbattere il grasso toro kumalo." Fece una pausa d'effetto, da narratore esperto, e poi alzò un dito. "Primo: lontano lontano, nel desolato meridione dei suoi possedimenti, un uomo bianco aveva trovato un sassolino lucente su uno sperone di roccia nuda, un kopje come quello su cui sorge questo forte. Secondo: da un'infelice isola nelle brume del settentrione era partito un altro uomo bianco, un malato di petto che cercava aria secca e pulita per i suoi polmoni malconci. Il kopje fu ben presto raso al suolo dalle formiche bianche. e diventò un buco largo due chilometri e profondo duecentocinquanta metri. Gli uomini bianchi lo chiamano Kimberley, dal nome del ministro degli Esteri inglese che ne sottoscrisse il furto alle tribù locali." "Il bianco tisico si chiamava Cecil John Rhodes, e si dimostrò ben presto ancora più malvagio, astuto e senza scrupoli di qualsivoglia re matabele. Si mangiò, semplicemente, gli altri uomini bianchi che avevano scoperto il kopje dei sassolini lucenti. Intimidì, corruppe, ingannò e adulò finché non possedette tutto quanto. Divenne così l'uomo più ricco del mondo." "Tuttavia, per estrarre i sassolini lucenti che aveva rubato occorreva il duro lavoro di decine di migliaia di uomini. E a chi guarda l'uomo bianco in Africa quando c'è da sgobbare?" Peter ridacchiò e lasciò senza risposta la domanda retorica. "Cecil Rhodes offriva poche monete, del semplice cibo e un vecchio fucile in cambio di tre anni di lavoro. Gli uomini negri, ingenui e per nulla sofisticati, accettarono l'offerta, e resero il loro padrone parecchie volte multimiliardario, se mi consentite l'azzardata espressione." "Tra gli uomini negri che aMuirono a Kimberley c'erano i gio-
vani amadoda dei matabele. Erano stati mandati da Lobengula, ve l'ho già detto che era un ladro?, con l'ordine di rubare i sassolini lucenti e riportarli a lui. Decine di migliaia di matabele fecero il lungo viaggio a sud, alla miniera, e riportarono i diamanti." "Sceglievano quelli più grossi e brillanti, che era facile vedere nel processo di lavaggio. Quanti diamanti portarono via? Un matabele scoperto dalla polizia bianca aveva inghiottito 348 carati di diamanti, per un valore di tremila sterline dell'epoca. Oggi ne varrebbero trecentomila. Un altro si era fatto un buco nella coscia e ci aveva nascosto una pietra da duecento carati." Peter alzò le spalle. "Quanto potrebbe valere oggi una pietra simile? Non meno di due milioni di sterline." Il vecchio uomo bianco, che aveva ascoltato distrattamente la prima parte della conferenza di Fungabera, ora si era voltato verso il generale e pendeva dalle sue labbra. "Ma quelli erano i pochi che la polizia beccava. Migliaia, invece, erano gli sgraffignatori matabele che la facevano franca. Ricordatevi che i primi tempi dell'escavazione non c'erano quasi controlli sui minatori negri. Andavano e venivano come volevano. Alcuni lavoravano una sola settimana, poi se la squagliavano. Altri restavano tutti e tre gli anni del contratto. Ma, quando se ne andavano, i sassolini lucenti se ne andavano con loro: nei capelli, nei tacchi degli stivali nuovi, in bocca, nella pancia, nell'ano e nella vagina delle loro donne. I diamanti scorrevano via, per migliaia e migliaia di carati." "Naturalmente non poteva durare. Rhodes introdusse il sistema del concentramento forzato. I minatori vivevano in villaggi circondati dal filo spinato, da cui non potevano uscire per tutti i tre anni del contratto. Prima che se ne andassero, poi, venivano rinchiusi in speciali baracche di quarantena per dieci giorni, nel corso dei quali venivano rapati, dalla testa alle pudende, e i loro corpi venivano ispezionati minuziosamente dai dottori bianchi perfino nell'ano e tutte le cicatrici recenti venivano tastate e, se necessario, riaperte col bisturi." "Venivano purgati drasticamente, e sotto le latrine c'erano fitte reti che setacciavano gli escrementi come fossero ricche vene diamantifere. Tuttavia i matabele erano ladri abilissimi e continuarono a trovare il modo di portar via le pietre dai villaggi recintati di Rhodes. Il fiume di diamanti si era ridotto a un rivolo, ma il rivolo continuava a scorrere verso nord per Lobengula." "Volete sapere quanti? Possiamo solo tirare a indovinare. C'era un matabele che si chiamava Bazo, ovvero Ascia, che lasciò Kimberleycon una cintura di diamanti attorno alla vita. Tu hai sentito parlare di Bazo, il figlio di Gandang, mio caro Tungata, perché era il tuo bis-bisnonno. Divenne un famoso induna matabele, e nel corso delle sue razzie uccise centinaia di indifesi mashona. La cintura di diamanti che posò ai piedi di Lobengula, così dice la leggenda, pesava l'equivalente di dieci uova di struzzo. E siccome un uovo di struzzo ha la capacità di ventiquattro uova di gallina, e ammesso pure che la leggenda esageri, arriviamo a una cifra superiore ai cinque milioni di sterline inflazionate di oggi." "Un'altra fonte ci informa che Lobengula aveva cinque boccali pieni di diamanti della più bell'acqua, equivalenti a cinque galloni di diamanti, quanto basta a far saltare il monopolio della De Beers." "E c'è un'altra leggenda che parla del khombisile rituale tenuto da Lobengula per i suoi induna, i consiglieri della tribù. Khombisile in sindebele significa mostra, esposizione" spiegò Peter all'uomo bianco, e proseguì: "Nell'intimità della sua grande capanna, il re si spogliava nudo e le mogli spalmavano il suo corpaccione di denso grasso di bue. Poi appiccicavano al grasso i diamanti, finché tutto il corpo del re era ricoperto da un mosaico di pietre preziose, una scultura vivente coperta di diamanti per cento milioni di sterline." "E questa è la risposta alla vostra domanda, signori. Lobengula possedeva probabilmente più diamanti di quanti ne siano mai stati
riuniti in un sol posto nello stesso momento, a parte i caveaux londinesi della De Beers." "Mentre accadeva tutto questo, Rhodes, l'uomo più ricco del mondo, se ne stava a Kimberley ossessionato dall'idea di impero, guardava a nord e sognava. Tale era la forza della sua ossessione che cominciò a parlare del "mio nord". Alla fine lo prese come aveva preso la miniera di diamanti di Kimberley: un po' alla volta. Mandò i suoi inviati a negoziare con Lobengula la concessione di permessi di sfruttamento delle risorse minerarie nel suo territorio, che comprendeva anche le terre dei mashona." "Dalla regina bianca d'Inghilterra, Rhodes ottenne l'autorizzazione a creare la Royal Charter Company, dopo di che spedì un esercito privato di avventurieri a occupare quelle concessioni. Lobengula non si aspettava niente del genere: qualche uomo che scavava qualche buco sì, ma non un esercito di brutali cercatori." "Dapprima Lobengula protestò, ma senza alcun risultato. Gli uomini bianchi lo pressavano sempre più dappresso, finché non commise un fatale errore di giudizio. Lobengula, sentendo minacciata la sua stessa esistenza, convocò gli impi e inscenò minacciose danze di guerra." "Era la provocazione che Rhodes e gli avventurieri al suo seguito avevano atteso e cercato di creare. Piombarono selvaggiamente su Lobengula, falciarono con le mitragliatrici i suoi famosi impi, e invasero il paese dei matabele. Poi incalzarono Lobengula fino alla sua capitale di GuBulavvayo. Ma già Lobengula, ladro e codardo, era scappato a nord, portandosi dietro le mogli, il bestiame, ciò cherimaneva dei suoi guerrieri, e i diamanti." "Una piccola pattuglia di uomini bianchi lo seguirono per un tratto di strada, finché caddero in un'imboscata dei matabele e furono sterminati fino all'ultimo uomo. Un altro gruppo di bianchi stava per essere spedito all'inseguimento di Lobengula, ma venne la stagione delle piogge, che trasformò il terreno in un pantano e ingrossò i fiumi. Così Lobengula riuscì a scappare col tesoro. Vagò nel settentrione, senza meta, finché non gli passò la voglia di prose-uire." "In un posto solitario e selvaggio chiamò Gandang, un suo fratellastro, e gli affidò la guida della nazione. Poi, codardo sino alla fine, ordinò allo stregone di preparargli una pozione velenosa e la ingerì." "Gandang seppellì la sua salma in una grotta. Attorno al corpo di Lobengula piazzò tutte le sue cose: gli assegai, le piume e le insegne guerresche, il materasso, il copricapo, i suoi fucili, i coltelli, i boccali di birra e i diamanti. Il corpo di Lobengula fu composto in posizione seduta su una pelliccia di leopardo e ai suoi piedi furono piazzati i cinque boccali da un gallone l'uno pieni di diamanti. Poi l'entrata della grotta fu accuratamente sigillata e mimetizzata, e Gandang ricondusse la popolazione matabele a GuBulavvayo a rendersi schiava di Rhodes e della sua Royal Charter Company." "Vi domandate quando successe tutto ciò? Nella stagione delle piogge del 1894. Non tanto tempo fa, appena novant'anni." "Volete sapere dove? Ebbene, qua vicino. Probabilmente in un raggio di meno di quaranta chilometri. Lobengula si diresse dritto a nord da GuBulavvayo, e aveva quasi raggiunto il fiume Zambesi quando disperò e decise di suicidarsi." "Vi domandate se qualche vivente conosce l'esatta ubicazione della caverna del tesoro? La risposta è sì!" Peter Fungabera si interruppe ed esclamò: "Oh, scusa, mio caro Tungata. Mi ero dimenticato di offrirti da bere." Chiamò per farsi portare un terzo bicchiere e, quando arrivò, lo riempì d'acqua e ghiaccio e, con le sue mani, lo porse a Tungata. Tungata lo prese e bevve con grande autocontrollo, un sorso per volta. "Dov'ero rimasto?" disse Fungabera tornando a sedersi.
"Ci stavi parlando della caverna" disse, non potendosi trattenere, l'uomo bianco dagli occhi slavati. "Ah già, certo! Be', pare che prima di morire Lobengula inca ricasse il suo fratellastro Gandang di far la guardia ai diamanti. Si suppone che gli abbia detto all'incirca così: "Verrà giorno che questi diamanti serviranno al mio popolo. Tu, tuo figlio e i suoi figli conserverete il tesoro per quel momento." "E così il segreto passò alla famiglia Kumalo, la cosiddetta famiglia reale dei matabele. Quando il rampollo prescelto raggiunge la maggiore età, viene condotto dal padre o dal nonno in pellegrinaggio..." Tungata era così prostrato da essere debolissimo e febbricitante. La sua mente vagava, e l'acqua diaccia nello stomaco vuoto sembrava drogarlo, sicché la fantasia gli si mischiò con la realtà e il ricordo del suo stesso pellegrinaggio alla tomba di Lobengula gli si presentò talmente vivido da riviverlo mentre Peter Fungabera continuava a parlare. Era successo durante il primo anno d'università. Era tornato a casa in vacanza assieme al nonno, Gideon Kumalo, vicepreside della scuola della missione di Khami, appena fuori Bulavvayo. "Ho una grande novità per te" lo aveva salutato il vecchio, sorridendo dietro le spesse lenti degli occhiali. Ci vedeva ancora un po', mentre negli anni successivi sarebbe diventato completamente cieco. "Andiamo a fare un viaggetto insieme, Vundia." Così lo chiamava affettuosamente il vecchio: Vundia, la lepre, il vispo e intelligente animale che tutti gli africani amano. Gli schiavi l'hanno portato in America, dove è diventato nelle loro leggende il mitico Brer Rabbit. Nonno e nipote avevano preso la corriera diretti a nord, cambiando una mezza dozzina di volte alle fermate più sperdute presso un incrocio di piste o uno spaccio isolato, a volte aspettando la coincidenza, se così si può dire, per quarantotto ore o più. Il ritardo comunque non li disturbava. Se la godevano, come a un picnic. Accendevano il fuoco e la sera, accanto a esso, conversavano. Che storie meravigliose raccontava nonno Gideon! Favole, leggende e vicende della tribù: ma a Tungata interessava di più la storia. Poteva ascoltare cinquanta volte senza annoiarsi la storia dell'esodo di Mzilikazi dalla terra degli zulu, quella dell'umfecane, la guerra coi boeri, e quella dell'attraversamento del fiume Limpopo. Sapeva a memoria i nomi dei più gloriosi impi e dei loro comandanti, le campagne che avevano combattuto e gli onori che si erano conquistati. In special modo imparò dal vecchio la storia delle "Talpe-cheavevano-scavato-la-montagna" , l'impi fondato e comandato dal suo bis-bisnonno Bazo, l'Ascia. Imparò le canzoni di guerra e gli inni delle Talpe, e sognava di poterle comandare lui un giorno, in un mondo perfetto. Sognava di indossare il copricapo di pelle di talpa, le pellicce e le piume del comando. E così la coppia formata dal vecchio e dal giovane aveva viaggiato per cinque pigri giorni, conversando e divertendosi, finché a richiesta del vecchio l'ultimo autobus scassato li aveva lasciati all'inizio di un piccolo sentiero che si inoltrava nella foresta. "Ricordati bene questo posto, Vundia" l'aveva istruito Gideon. "Quel ruscello, quella frana, e quel kopje sopra che pare un leone che dorme. Questo è il punto di partenza." Si erano diretti verso settentrione attraverso la foresta, seguendo una successione di segni di riconoscimento che il vecchio gli insegnò a ricordare per mezzo di una poesia rimata. Tungata se la ricordava perfettamente ed era in grado di recitarla ancora tutta senza la minima incertezza. All'inizio c'è il leone che dorme, segui il suo sguardo
fino all'incrocio del sentiero di elefanti... C' erano voluti altri tre giorni di cammino, al passo lento di Gideon, per imboccare il ripido sentiero che doveva poi condurli davanti alla tomba di Lobengula, in cima a un kopje accessibile per una via circondata da pericolosi abissi. Tungata ricordò di essersi inginocchiato davanti alla tomba, succhiando sangue dalla ferita che si era autoinflitto al polso e sputandolo poi sulle rocce che bloccavano l'entrata, ripetendo con suo nonno il terribile giuramento di mantenere il segreto e far la guardia alla tomba. Naturalmente né il vecchio né il giuramento menzionavano il tesoro di diamanti. Tungata aveva semplicemente giurato di tenere il segreto sulla tomba, svelandolo solo al figlio prescelto, fino al giorno in cui "I figli di Mashobane grideranno aiuto, e le rocce si spaccheranno per liberare lo spirito di Lobengula, che uscirà divampando come fuoco: il fuoco di Lobengula!." Dopo la cerimonia il vecchio si era steso all'ombra del fico che cresceva presso l'entrata e, esausto per il lungo viaggio, aveva dormito fino al calar della sera. Tungata era rimasto sveglio, a esaminare la tomba e la zona circostante. Da certi segni aveva tratto una conclusione che non aveva confidato al nonno, né allora né durante il viaggio di ritorno, per non allarmarlo né amareggiarlo. Gli voleva troppo bene. La voce di Peter Fungabera interruppe la sua reverie, ributtandolo nel presente. "Infatti abbiamo ora il privilegio di avere qui con noi un illustre membro del clan dei Kumalo, l'attuale guardiano della tomba del vecchio ladrone, l'onorevole compagno ministro Tungata Zebiwe." Gli occhi slavati e crudeli dell'uomo bianco lo investirono e Tungata si irrigidì sulla dura panca di legno. Tungata si schiarì la voce, e scoprì che anche quella piccola quantità d'acqua che aveva bevuto gli aveva ammorbidito la gola. La sua voce risuonò profonda e misurata. "Ti fai delle illusioni, Fungabera." Pronunciò il nome come un insulto, ma il sorriso dell'interlocutore non mutò. "Non so niente di queste sciocchezze che ti sei sognato, e anche se ne sapessi qualcosa.,," Tungata non ebbe bisogno di terminare la frase. "Troverai la mia pazienza inesauribile" glipromise Peter. "I diamanti sono rimasti lì novant'anni, possono restarci qualche altra settimana. Ho con me un medico che dirigerà il tuo trattamento: scopriremo quanto puoi resistere prima che ti abbandoni tutto il coraggio. D'altra parte dipenderà da te porre fine a ogni sofferenza in qualunque momento. Puoi scegliere di mostrarci il luogo dove è stato sepolto Lobengula, e immediatamente dopo essere messo su un aereo e andare dove vuoi." Peter fece una pausa prima di propinargli l'ultimo zuccherino. "E con te potrà venire anche la donna che tanto cavallerescamente ti ha difeso in tribunale, Sarah Nyoni." Stavolta dietro la maschera impassibile e sprezzante di Tungata passò un lampo di emozione. "Eh già" annuì Peter. "E in mano nostra." "Le tue menzogne non meritano smentita. Se l'avessi in mano, te ne saresti già servito." Tungata si costrinse a credere che Sarah gli avesse obbedito. Aveva visto e compreso il segnale che le aveva fatto in aula con la mano. "Scappa, nasconditi, sei in pericolo!" le aveva ordinato, e lei aveva annuito, aveva capito. Era in salvo, doveva crederci, era tutto quello che gli restava. "Vedremo" promise Peter Fungabera. "Non che importi molto." Tungata doveva cercare di proteggerla, adesso che era risultato chiaro che gli shona la cercavano. "Non è che una donna, fatene pure quello che volete. Per me..." Fungabera alzò la voce. "Capitano!" Il comandante delle guardie arrivò immediatamente. "Riporta il prigioniero alla sua
baracca. Il suo trattamento sarà stabilito dal dottore. Hai capito?" Quando rimasero soli, il colonnello Bucharin disse tranquillamente: "Non sarà facile. E molto forte fisicamente, ma non è solo quello. Certi uomini non si piegano mai, anche sotto la più estrema coercizione." "Ci vorrà forse un po' di tempo, ma alla fine..." "Non ne sono affatto sicuro" sospirò Bucharin. "Davvero hai questa Sarah Nyoni?" Peter esitò. "Non ancora. E scomparsa, ma anche qui è solo questione di tempo. Non può star nascosta in eterno." "Il tempo" ripeté il colonnello Bucharin. "Sì, c'è un tempo per ogni cosa, ma il tuo tempo sta passando. Questa è una cosa da fare subito o non fare affatto." "Si tratta di giorni, nemmeno settimane" disse Peter, ma con voce un po' incerta. Il colonnello Bucharin, che era un consumato aguzzino, se ne accorse subito. "Questo Zebiwe è un uomo duro e non sono sicuro che risponderà al nostro trattamento in clinica. E poi non mi piace 'sta storia dei diamanti, sembra un romanzo per ragazzi. E non mi piace che tu ti sia fatto fregare da quella donna matabele. Tutta la faccenda mi risulta leggermente deprimente." "Sei troppo pessimista. Tutto sta andando bene, ho bisogno soltanto di un po' di tempo per dimostrartelo." "Sai già che non posso trattenermi qui ancora per molto, devo tornare a Mosca. E cosa gli vado a raccontare? Che stai cercando un tesoro?" Bucharin alzò le braccia di scatto. "Diranno che sono rincoglionito." "Un mese" disse Peter Fungabera. "Ho bisogno di un altro mese." "Oggi è il dieci, entro la fine del mese ci devi consegnare quell'uomo e i soldi." "E pretender troppo" protestò Peter. "Tornerò il primo del mese prossimo. Se per quella data non sarai in grado di farci la consegna, suggerirò ai miei superiori di annullare l'intero programma."
La vipera era lunga due metri e sembrava grossa come una scrofa incinta. Era raggomitolata su se stessa in un angolo della gabbia di rete metallica. I disegni sulle spire avevano il color dell'oro, della porpora, del bruno e del violaceo, insomma tutti i colori dell'autunno inscritti in diamanti perfetti contornati da una riga nera di lutto. Tuttavia i colori e i disegni del serpente non erano abbastanza spettacolari da distrarre l'attenzione dalla testa. Era terribile. Delle dimensioni di una zucca velenosa, ma a forma di asso di picche, piatta verso le narici che si aprivano come perline, e la lingua biforcuta andava avanti e indietro, leggera come una piuma, tra le labbra ghignanti."Non è un'idea mia" si schermì Fungabera. "Ma del bravo dottore. E lui il responsabile di questo divertente intermezzo." Sorrise a Tungata. "Sono passati parecchi giorni dall'ultima volta che ci siamo parlati, e francamente il tuo tempo è scaduto. Anche il mio. Devi accettare oggi, altrimenti non serve più. Da domani in poi sei liquidabile, compagno Zebiwe." Tungata era legato a una rozza e solida sedia di teak rhodesiano. La gabbia di rete metallica era sul tavolo davanti a lui. "Una volta facevi il guardacaccia, mi risulta" proseguì Peter Fungabera. "Quindi conoscerai questo serpente. E una vipera del Gabon, Bitis Gabonica. E uno dei più velenosi serpenti africani. Solo il mamba è più tossico. Tuttavia il suo morso è molto più doloroso di quello del mamba e del cobra. Si dice che il dolore faccia impazzire un uomo prima della morte." Toccò la gabbia con la punta del frustino e la vipera scattò. Le spire propulsero la testa mostruosa attraverso la gabbia in un lampo quasi liquido di movimento, con metà del grosso corpo a mezz'aria
per la potenza del colpo; le mascelle si spalancarono, mostrando la gola color giallo-burro, e i lunghi denti ricurvi che brillavano candidi come la porcellana, prima di abbattersi sulla parete della gabbia con una forza che scosse il tavolo. Perfino Peter Fungabera saltò involontariamente indietro, e poi ridacchiò scusandosi: "Non posso soffrire i serpenti" spiegò. "Mi fanno accapponare la pelle. E tu, compagno ministro?" "Qualunque cosa tu abbia in mente è un bluff" rispose Tungata. La sua voce era più debole, ora. Dal loro ultimo incontro, aveva passato molti giorni al muro, sotto il sole. Il suo corpo sembrava essersi ristretto fino a diventare troppo piccolo per la testa. La sua pelle aveva assunto un colore grigiastro, e sembrava secca e polverosa. "Non puoi permetterti di farmi mordere da 'sta roba. Penso che tu gli abbia tolto le sacche velenifere." "Dottore, prego." Peter Fungabera si rivolse al medico del reggimento che sedeva all'altro capo del tavolo. Costui si alzò immediatamente e uscì dalla stanza. "Siamo stati fortunati a trovare un esemplare di questa specie di serpenti. Sono piuttosto rari, come sai." Il medico ritornò. Indossava spessi guantoni che gli arrivavano ai gomiti e portava un ratto campagnolo striato, grosso come un gattino. Il ratto gli si divincolava in mano, squittiva, addentava i guantoni. Sbrigativo, il dottore aprì lo sportellino alla sommità della gabbia, ci buttò dentro il topo e richiuse immediatamente. Il piccolo animale peloso si mise ad annusare le pareti della gabbia, in cerca di una via di fuga, finché a un tratto vide la vipera nell'angolo. Fece un alto balzo e si irrigidì sulle zampe posteriori, poi si ritirò nell'angolo opposto e qui si fermò, raggomitolato, guardando dall'altra parte della gabbia. La vipera cominciò a svolgersi. I disegni del dorso brillavano con una grazia ultraterrena mentre scivolava sul fondo cosparso di sabbia della gabbia verso il topo nell'angolo. Un irrigidimento innaturale sopraffece l'animaletto. Il naso e i baffi non gli vibravano più. Se ne stava ventre a terra, con il pelame arruffato, e guardava quasi mesmericamente affascinato la repellente morte che strisciava inesorabile verso di lui. A quaranta centimetri dal topo la vipera si fermò, arcuò il collo formando una "S" compatta e poi, così rapida che l'occhio non riuscì a seguirla, colpì. Il topo fu sospinto contro la parete della gabbia, e immediatamente la vipera si ritrasse, le spire arrotolandosi mollemente su se stesse. Ora sulla pelliccia arruffata del topo si vedevano goccioline di sangue. Il suo corpo cominciò a pulsare rapidamente. Gli arti presero ad agitarsi, scoordinati, e poi di colpo il ratto emise uno squittio intollerabile di agonia, cadde sulla schiena e morì tra le convulsioni. Il dottore estrasse il topo morto dalla gabbia con una pinza di legno e lo portò via. "Naturalmente" osservò Peter Fungabera "tu pesi molto ;più del topo e con te ci vorrà più tempo."Il medico rientrò nella stanza con il capitano delle guardie e due soldati. "Come ti ho detto, è stato il dottore a escogitare tutto l'apparato. Ritengo che abbia fatto un ottimo lavoro, considerate la scarsità del materiale disponibile e la fretta." Sollevarono la sedia di Tungata e l'avvicinarono alla gabbia. Uno dei soldati aveva in mano un'altra gabbia di rete metallica più piccola. Era a forma di maschera da schermitore, ma più grossa. L'infilò in testa a Tungata e gliela assicurò saldamente intorno al collo. Sul davanti sporgeva un tubo di rete che assomigliava alla proboscide, più grossa e più corta, di un elefante deforme. I due soldati spinsero avanti Tungata finché il tubo di rete della gabbia che aveva intorno alla testa si allineò alla porta della gabbia del serpente. Con destrezza il dottore shona assicurò la proboscide
alla gabbia per mezzo di due ganci. "Quando alzeremo la porta della gabbia, tu e la vipera del Gabon condividerete lo stesso spazio vitale" disse Fungabera. Tungata vedeva, in fondo al nasone di rete metallica, la porta della gabbia. "Ma naturalmente tutto ciò finirà all'istante, se tu dirai una certa parola." "Tuo padre era una iena shona mangiamerda" glidisse piano Tungata. "Indurremo il serpente a lasciare la sua gabbia e strisciare nella tua riscaldando la parete opposta. Ti consiglio vivamente di non fare lo scemo. Portaci alla tomba di Lobengula." "La tomba del re è sacra.,," si tradì Tungata. Era più debole di quanto credeva. Gli era sfuggita un'ammissione: fino ad allora, aveva sempre ostinatamente negato l'esistenza stessa della tomba. "Bravo?" disse tutto allegro Peter. "Almeno adesso siamo d'accordo che la tomba c'è. Ora promettici di portarci là e tutto questo finirà subito, volerai all'estero con la tua donna." "Ti sputo in faccia, Fungabera, e sputo sulla puttana impestata di tua madre." "Aprite la gabbia" ordinò Fungabera. Lo sportello scorse cigolando sulle guide e Tungata fissò in fondo al tubo come nella canna di un fucile. La vipera era raggomitolata nell'angolo lontano della gabbia e lo guardava coi suoi occhietti neri e lustri. "Sei ancora in tempo, compagno." Tungata non si fidò più della propria voce. Si irrigidì e fissò negli occhi il serpente nel tentativo di dominarlo. "Procedete" disse Peter, e un soldato posò un piccolo braciere sul tavolo. Anche Tungata sentì il calore dei carboni accesi da dove si trovava. Lentamente, il soldato avvicinò il braciere alla parete della gabbia. Il serpente si irritò e si mise a sibilare, svolgendosi. Per sfuggire al calore cominciò a strisciare verso il tubo di rete. "Forza, compagno" lo incoraggiò Peter. "Di'che lo farai. Hai pochi secondi di vita, ma si può ancora chiudere la gabbia." Tungata sudava, e sentiva le gocce scorrergli gelide sulla fronte e sul dorso nudo. Voleva maledire Peter Fungabera, augurargli un destino orrido come il suo, ma era assordato dal rumore della sua stessa circolazione sanguigna nelle orecchie. Il serpente esitò all'ingresso del tubo, riluttante a entrarci. "Sei ancora in tempo" sussurrò Peter. "Non meriti una morte così brutta. Di'che ce lo dirai... dillo! dillo!" Tungata non si era reso conto di quant'era lungo il serpente. I suoi occhi erano a una quarantina di centimetri di distanza da lui, e sibilava come una gomma d'autocarro che si sgonfi. Sembrava un tornado, e l'assordava. Il soldato appoggiò il braciere alla gabbia, e il serpente infilò la testa nel tubo. Le scaglie del ventre rasparono udibilmente contro la rete metallica. "Non è ancora troppo tardi" disse Peter Fungabera estraendo la pistola dalla fondina e puntandola alla testa del serpente. "Di'una sola parola e l'ammazzo." "Va' all'inferno dei mangiamerda shona" sussurrò Tungata. Adesso sentiva anche l'odore della vipera, non era un odore forte ma dolciastro, debole, di marciume topino. Lo nauseò. Il vomito gli salì alla gola. Lo ricacciò giù e cominciò ad agitarsi nel tentativo di spezzare i legami. La gabbia si scosse per i suoi sforzi, ma i due soldati lo tenevano per le spalle, e il grosso serpente, allarmato dai suoi movimenti, sibilò di nuovo e caricò il collo a "S" per mordere. Tungata si immobilizzò e si costrinse a non muoversi più. Sentiva il sudore sprizzargli dai pori e colargli gelido sui fianchi formando una pozzanghera sulla sedia. Pian piano la vipera disfece la molla fatale e strisciò lentamente verso la sua faccia. A dieci centimetri dai suoi occhi, Tungata sedeva immobile come una statua nel proprio sudore, orrore e terrore. Era così vicina, la testa del serpente, che egli non riusciva più nem-
meno a metterla a fuoco. Non era che una macchia indistinta che riempiva tutto il suo campo visivo. Ed ecco che la vipera tirò fuori la lingua biforcuta e nera e cominciò a esplorargli la faccia a colpetti leggeri come una piuma. Tutti i nervi di Tungata erano tesi al punto di rottura, e il suo corpo indebolito era percorso da torrenti di adrenalina al punto che pensava di star per soffocare. Dovette aggrapparsi alla coscienza con tutta la forza che gli restava per non scivolare oltre l'orlo, nel nero abisso dell'oblio. Il serpente continuava lentamente a muoversi. Tungata sentì il freddo e viscido tocco delle spire sulla guancia, dietro l'orecchio, sulla nuca, e infine, in un estremo spasimo d'orrore, si rese conto che il grosso rettile gli si stava attorcigliando intorno alla testa, spira dopo spira, avviluppandolo, coprendogli il naso e la bocca. Non osò muoversi né urlare, e passarono diversi secondi. "Gli piaci" disse Peter Fungabera con la voce roca per l'eccitazione e l'impazienza. "Si è sistemato con te." Tungata girò gli occhi e intravide Peter, annebbiato dalla rete della gabbia, alla periferia del suo campo visivo. "Un concubinaggio intollerabile" dichiarò Peter, e Tungata lo vide allungare la mano verso il braciere. Si accorse che ci avevano appoggiato una specie di lungo spillone. Peter lo prese per il manico e Tungata vide che aveva la punta incandescente. "E la tua ultimissima possibilità di accettare" disse. "Perché, quando toccherò la creatura con questo, temo che si arrabbierà." Tacque in attesa di una risposta. "Ah già, non puoi parlare, naturalmente. Be', se ci stai sbatti gli occhi in fretta." Tungata lo fissava attraverso la rete metallica della gabbia, cercando di concentrare su di lui tutto l'odio che nutriva. "E va be', ci abbiamo provato" disse Peter Fungabera. "Adesso puoi biasimare soltanto te stesso." Inserì la punta dello spillone incandescente nella rete della gabbia e toccò il serpente velenoso. Si udì un forte sfrigolio di carne bruciata; una nuvoletta di fumo fetido si sprigionò dal rettile, che si infuriò terribilmente. Tungata sentì le spire attorno alla sua faccia sciogliersi in maniera turbinosa mentre il grosso corpo del serpente si dibatteva, frustando la gabbia, contorcendosi senza coordinazione. Per quelle convulsioni anche la gabbia sussultava, sbatteva e cigolava tutta, e Tungata non si controllò più e si mise a urlare sopraffatto dal terrore. Poi il campo visivo di Tungata fu riempito dalla testa del serpente. L'animale apri di scatto le fauci, e la gola gialla si spalancò davanti a lui un attimo prima del morso. La violenza del colpo lo stordì. Lo addentò sulla guancia, sotto l'occhio, con la forza di un pugno da Kappaò, che gli fece sbattere i denti fino a morsicarsi la lingua. La bocca gli si riempì di sangue, mentre sentiva i lunghi denti della vipera entrargli nella carne come uncini e agitarsi, straziandolo, sprizzandogli nell'organismo getti di tossine mortali. E poi, misericordiosamente, su di lui calò il buio, e Tungata si aMosciò esanime sulle corde che lo vincolavano. "L'hai ammazzato, brutto imbecille!" La voce di Peter Fungabera era acuta e petulante per il panico."No, no." Il medico lavorava in fretta. Con l'aiuto dei soldati tolse la gabbia dalla testa di Tungata. Una guardia prese per la coda la vipera malconcia e la scagliò contro la parete, poi le schiacciò la testa col calcio del fucile mitragliatore. "Ma no, è solo svenuto, ecco tutto. Era molto indebolito dal muro. In due presero Tungata di peso e lo sdraiarono sulla brandina contro una parete della stanza. Con esagerata delicatezza il dottore gli sentì il polso. "Sta benissimo." Il medico riempì una siringa del contenuto di una
fiala e l'iniettò nel bicipite di Tungata, tutto lucido di sudore. "Gli do uno stimolante... ecco qua!" Il sollievo del dottore era evidente. "Ecco qua! Si sta già svegliando." Il medico strofinò con del cotone imbevuto di disinfettante i due grossi buchi praticati dai denti della vipera nella guancia, da cui fuoriuscivano stille di siero. "Dopo morsi del genere c'è sempre il pericolo di qualche infezione" spiegò il dottore. "Gli farò un'iniezione di antibiotici.Tungata mugolò, farfugliò e accennò a divincolarsi. Ma i soldati lo tenevano giù. Riprese pienamente conoscenza e fu rizzato a sedere sulla branda. Il suo sguardo si mise faticosamente a fuoco su Pe ter Fungabera. Era completamente sbalordito. "Bentornato fra i vivi, compagno." La voce di Peter era di nuovo morbida e ben modulata. "Adesso sei uno dei pochi fortunati che hanno dato un'occhiata all'aldilà." Il dottore era sempre affaccendato su di lui, ma lo sguardo di Tungata non abbandonava Peter Fungabera. "Non capisci" disse Peter "e nessuno può biasimarti per questo. Vedi, il buon dottore aveva davvero asportato le sacche ve"lenifere del serpente, come del resto avevi pensato anche tu." Tungata scosse la testa, ancora incapace di parlare. "Il topo?" parlò per lui Peter Fungabera. "Sì, certo, il topo. Quella è stata proprio una bella idea. Sai, fuori della stanza il dottore gli ha fatto una piccola iniezione. Aveva provato il dosaggio su altri roditori per calcolare il tempo giusto. Avevi ragione, mio caro Tungata, non siamo ancora pronti a mandarti all'altro mondo. La prossima volta forse, o l'altra ancora. Non lo saprai mai con certezza. E poi, naturalmente, potremmo anche sbagliarci. Per esempio potrebbe rimanere qualche goccia di veleno nei denti del serpente." Peter alzò le spalle. "Sono cose un po' delicate. Questa volta, la prossima volta: chi lo sa? Quanto tempo puoi resistere, compagno, prima di dare i numeri?" "Sicuramente più di te" sibilò Tungata. "Te lo giuro." "Andiamo, andiamo! Piano con le promesse che non sai se potrai mantenere!" lo rimbrottò con indulgenza Peter Fungabera. "Magari la prossima commediola che escogiteremo per te coinvolgerà i miei amati cuccioli. Ne hai sentito parlare anche tu dei cuccioli di Fungabera, vero? Li hai anche sentiti con le tue orecchie, tutte le notti. Sai, potresti facilmente perderci un braccio o una gamba. Con quelle fauci fanno in fretta a staccartelo di netto.-" Peter giocherellava col frustino, girandoselo tra le dita. "La scelta è tua, ormai lo sai che basta una tua parola per far finire tutto questo in un momento. Non c'è bisogno di rispondermi adesso. Ti concederemo qualche giorno per riprenderti, davanti al muro, e poi..."
Tungata aveva perduto ogni cognizione del tempo. Non ricordava da quanti giorni stava al muro, né quanti uomini aveva visto fucilare, né quante notti aveva trascorso a sentir urlare e sghignazzare le iene. Non riusciva a pensare a nient'altro che alla prossima ciotola d'acqua. Il dottore aveva calcolato con estrema precisione la quantità strettamente necessaria a sopravvivere. La sete era un tormento che non cessava mai, nemmeno quando dormiva, perché adesso i suoi incubi erano pieni di scene acquatiche: laghi e ruscelli che non riusciva a raggiungere mai, pioggia che cadeva tutt'intorno a lui senza toccarlo, e la sete, la sete più tremenda. Oltre la sete, Peter Fungabera gli aveva seminato nella mente il terrore di essere dato vivo in pasto alle iene, sorte che, ogni giorno chela scampava, gli si ingigantiva ancor più nella mente. L'acqua e le iene stavano cominciando a spingerlo oltre i confini della sanità mentale. Sapeva che non poteva resistere molto di più, e si domandava confusamente perché mai avesse atteso tanto a lungo. Doveva continuare a ricordare a se stesso che la tomba di Lobengula era la ragione per
cui era ancora vivo. Finché teneva il segreto, non l'avrebbero ucciso. Non credeva affatto alla promessa di Fungabera di lasciarlo espatriare dopo averli condotti alla tomba. Doveva sopravvivere: questo era il suo dovere. Finché viveva, c'era una speranza, sia pur lievissima, di libertà. Sapeva che con la sua morte la sua gente sarebbe sprofondata ancor più nelle spire dell'oppressore. Egli costituiva la loro speranza di salvezza. Era suo dovere nei loro confronti di sopravvivere, anche se la morte ora sarebbe stata una benedizione. Non poteva morire. Doveva continuare a vivere. Attese, nella gelida oscurità che precede l'alba, col corpo troppo rigido e indebolito per alzarsi. Anche quel giorno l'avrebbero trascinato al muro, o in qualunque altro posto volessero portarlo secondo i loro piani. Odiava quella prospettiva. Odiava mostrare tanta debolezza davanti a loro. Sentì che il campo cominciava a vivere. La marcia delle guardie, gli ordini urlati con inutile violenza, il rumore delle botte e le grida di un prigioniero della cella vicina alla sua, che veniva condotto al muro per essere fucilato. Adesso sarebbero venuti da lui. Tese la mano alla ciotola d'acqua ed ebbe un moto di disappunto ricordando che la sera prima non aveva saputo trattenersi e l'aveva bevuta tutta. La portò ugualmente alla bocca e leccò lo smalto come un cane, nel caso vi fosse rimasta sopra qualche goccia. Ma era secchissima. Il catenaccio fu aperto e la porta spalancata. La giornata era cominciata. Tungata cercò di alzarsi. Riuscì soltanto a mettersi in ginocchio. La guardia entrò e appoggiò un grosso oggetto scuro sulla soglia. Poi se ne andò subito. La porta della cella fu richiusa e Tungata venne lasciato solo. Non era mai capitato prima. Tungata era sbalordito e non capiva. Si raggomitolò nell'oscurità e aspettò che succedesse qualche altra cosa, ma non accadde nulla. Sentì gli altri prigionieri condotti via, e poi di nuovo il silenzio oltre la porta della sua cella. La luce cominciò ad aumentare e con cautela egli esaminò l'oggetto lasciato dalla guardia. Era un secchiello di plastica, e nella semioscurità dell'alba il suo contenuto brillava. Acqua. Un intero gallone d'acqua, più di quattro litri. Strisciò al secchiello e l'esaminò da vicino, non osando ancora sperare. Una volta, in precedenza, l'avevano ingannato: avevano inquinato l'acqua, ed egli ne aveva bevuto un sorso prima di accorgersene. Era molto salata e amara. Un'altra idea del dottore: per tutta la giornata non aveva fatto che torcersi dalla sete, in un delirio simile a quello provocato dalla malaria. Speranzoso, infilò l'indice nel liquido contenuto nel secchiello e ne assaggiò una goccia. Acqua fresca. Mugolò e prese il secchiello, riempì la ciotola vuota, arrovesciò la testa e si versò tutta l'acqua in gola. Bevve con una terribile disperazione, aspettandosi che da un momento all'altro la porta si spalancasse e una guardia irrompesse a rovesciare il secchiello con un calcio. Bevve finché la pancia vuota gli si riempì d'acqua e si scosse per gli spasmi della colica. Poi attese qualche minuto, sentendo il fluido scorrere nei suoi tessuti disseccati, sentendoli ricaricarsi di energia; e poi ribevve, riposò e ribevve. Dopo tre ore orinò abbondantemente nel bugliolo, per la prima volta da quando nemmeno si ricordava. Quando infine vennero a prenderlo verso mezzogiorno, era in grado di stare in piedi da solo e insultarli con grande creatività. Lo condussero verso il muro delle esecuzioni, e si sentì quasi allegro. Con la pancia piena d'acqua che sciabordava, era sicuro di poter resistere a tutto. Non gli faceva più paura il muro delle esecuzioni, ci era rimasto legato davanti troppo a lungo e troppo spesso. Ormai era diventata tutta routine per lui, dava a essa il benvenuto, gli era cosa nota. Aveva raggiunto il punto in cui si teme solo l'incertezza. In mezzo al campo di parata si accorse che c'era qualcosa di di-
verso. Avevano costruito una nuova struttura davanti al muro. Era una tettoia parasole: al riparo di essa, una tavola apparecchiata e due sedie. Seduto a tavola, ecco Peter Fungabera, la figura temuta e familiare. Tungata non lo vedeva da parecchi giorni, e il suo novello coraggio svanì. La debolezza gli ricadde sul gobbo. Sentì le ginocchia diventargli di gomma e inciampò. Cosa avevano in mente di fargli quel giorno? Se solo l'avesse saputo, avrebbe potuto prepararsi e resistere. L'incertezza, invece, era la peggiore delle torture. Peter Fungabera stava pranzando e non lo guardò nemmeno. Mangiava con le dita, alla maniera africana, prendendo pezzi di focaccia di mais della grandezza di un boccone, modellandoli a cucchiaio e caricandoli di stufato di verdura e pesce salato kapenta proveniente dal lago Kariba. L'odore del cibo gli fece venire l'acquolina in bocca, ma Tungata proseguì verso il muro e i pali delle esecuzioni. Quel giorno c'era una sola vittima al palo, notò, stringendo gli occhi al riflesso abbagliante del sole sul muro. Subito dopo, di soprassalto, Tungata si rese conto che era una donna. Era nuda. Una donna giovane. Al sole, la sua pelle appariva vellutata, come ambra lucida. Il suo corpo era grazioso, le mammelle simmetriche e sode, dall'areola color delle more mature, i capezzoli eretti in fuori e all'insù. Le gambe erano lunghe e flessibili, i piedi nudi piccoli e ben fatti. Legata com'era, non poteva coprirsi. Tungata avvertì la sua vergogna per il sesso scoperto, annidato scuro e crespo alla giuntura tra le cosce come un animaletto dotato di vita propria. Distolse gli occhi, la guardò in faccia e disperò. Tutto era perduto. Le guardie lo lasciarono andare, ed egli barcollò verso la donna legata al palo. Benché avesse gli occhi sbarrati per il terrore e la vergogna, le sue prime parole furono per lui. Gli sussurrò piano in sindebele: "Mio signore, cosa ti hanno fatto?" "Sarah." Voleva accarezzarle il viso, cosi grazioso e a lui caro, ma non lo fece sotto gli sguardi lubrichi delle guardie. "Come ti hanno scovata?" Si sentiva vecchissimo e fragile. Era tutto finito. "Ho fatto come mi hai detto" disse lei in tono di scusa. "Sono scappata in montagna, ma poi mi è arrivato un messaggio: uno dei bambini della scuola stava morendo per un attacco di dissenteria e non c'erano medici. Non potevo ignorare la chiamata." "E naturalmente era una bugia" indovinò lui, senza espressione. Era una bugia" confermò, afflitta. "I soldati shona mi stavano aspettando. Perdonami, mio signore." "Ormai non ha più nessuna importanza." "Non per me, mio signore" lo implorò. "Non fare assolutamente niente per me. Sono una figlia di Mashobane e resisterò a tutto quello che mi faranno queste bestie shona." Tungata scosse tristemente la testa, e finalmente tese la mano a sfiorarle le labbra con le dita. La mano gli tremava come quella di un ubriaco. Gli baciò le dita. Lui lasciò cadere la mano e, voltatosi, si avviò lentamente verso il riparo. I soldati non cercarono di impedirglielo. Peter Fungabera alzò lo sguardo e l'invitò a sedersi sull'altra sedia. Tungata sedette, tutto rigido. "Primo: la donna dev'essere slegata e rivestita." Peter diede l'ordine. La coprirono e la condussero verso una delle [baracche. "Mio signore..." disse, cercando di divincolarsi, voltata verso di lui, con un'espressione di pietà in volto. "Non deve essere maltrattata in alcun modo." "Non lo è stata" disse Peter. "E non lo sarà, se non ci obbligherai." Spinse la focaccia verso Tungata. Questi la ignorò. "Dev'essere fatta espatriare e consegnata a un rappresentante della Croce Rossa Internazionale a Francistown."
"C'è un aereo in attesa all'aeroporto di Tuti. Mangia, compagno, ti vogliamo forte e in buona salute." "Quando sarà in salvo, parlerà con me per radio o per telefono e mi dirà una parola d'ordine concordata fra noi prima che se ne vada. "D'accordo." Versò del tè caldo per Tungata. "Saremo lasciati soli per concordare la parola d'ordine." "Potrai parlare con lei, naturalmente" annui Peter. "Ma qui, in mezzo allo spiazzo. I miei uomini non si avvicineranno mai a meno di trenta metri, ma ci sarà sempre una mitragliatrice pesante puntata contro di voi. Ti concederò cinque minuti esatti di colloquio con la ragazza."
"Ho mancato" disse Sarah, e Tungata aveva dimenticato }quant'era bella. Tutto il suo essere la bramava. "No" disse lui "era inevitabile. Non hai nessuna colpa. Era tuo dovere tornare per quel bambino." "Mio signore, cosa posso fare ora?" "Ascoltami bene" le disse, e le parlò in fretta e chiaramente. "Alcuni miei uomini fedeli sono sfuggiti ai rastrellamenti della Terza Brigata di Fungabera, devi trovarli. Credo si trovino nel Botswana." Le disse i loro nomi e lei li imparò rapidamente a memoria e li ripeté esattamente. Con la coda dell'occhio Tungata vedeva le guardie in attesa ai bordi del campo di parata avviarsi per venirlo a prendere. I loro cinque minuti di colloquio erano già finiti. "Quando sarai in salvo, ti faranno parlare con me per radio. Se tutto andrà bene, mi dirai: "Il tuo bell'uccello è volato via alto e rapido." Ripetilo." "Oh mio signore" singhiozzò lei. "Ripetilo!" Ella obbedì e strinse forte Tungata. Si abbracciarono con disperato amore. "Ti rivedrò mai?" "No" le disse lui. "Devi dimenticarmi." "Mai!" gridò la ragazza. "Nemmeno se campassi cent'anni! Mai ti dimenticherò, mio signore." Le guardie li separarono. Una Land Rover venne in mezzo alf piazzale e ci caricarono Sarah. Tungata scorse il suo amato viso voltarsi a guardarlo dal finestrino posteriore. Poi non vide più nulla di lei.
Il terzo giorno vennero a prendere Tungata in cella e lo portarono da Fungabera, che lo aspettava nel fortino sul kopje centrale. "La donna è pronta a parlare con te. Parlerete solo in inglese, e la vostra conversazione sarà registrata." Peter indicò il registratore a transistor vicino alla radio. "Se parli in sindebele sarà tradotto in seguito." "La parola d'ordine che abbiamo concordato è in sindebele" gli disse Tungata. "Dovrà ripetermela." "Molto bene. Questo è accettabile, ma nient'altro." Guardò Tungata criticamente. "Sono molto lieto di vederti di nuovo in forma, compagno. Un po' di buon cibo e di riposo fanno miracoli. Tungata indossava calzoncini e maglietta sbiaditi, ma puliti e stirati. Era sempre magro e provato, ma la pelle aveva perduto l'aspetto grigiastro e polveroso, e gli occhi erano chiari e lucenti. Il gonfiore sulla guancia morsicata dal serpente era rientrato e le cicatrici dei denti stavano guarendo benissimo. Peter Fungabera fece un cenno al capitano delle guardie e costui passò a Tungata il microfono della radio, premendo contemporaneamente il pulsante "record" del registratore. "Parla Tungata Zebiwe."
"Mio signore, sono Sarah." La sua voce era roca e distorta dalle scariche elettrostatiche, ma non c'era il minimo dubbio che fosse lei. Un empito di desiderio inondò il petto di Tungata. "Sei in salvo?" "Sono a Francistown. La Croce Rossa si sta prendendo cura di me." "Hai un messaggio da darmi?" Rispose in sindebele. "Il tuo bell'uccello è volato via alto e rapido." Poi aggiunse in fretta: "Qui ho incontrato qualcuno. Non disperare." "Bene. Voglio che tu..." Peter Fungabera gli prese il microfono dalle mani. "Scusa, compagno, ma sono io che pago la telefonata." Portò alle labbra il microfono e disse: "Passo e chiudo." Poi lo porse al capitano delle guardie. "Fa' tradurre il nastro dal più rieducato dei matabele e portamene immediatamente la traduzione." Poi tornò a rivolgersi a Tungata. "La vacanza è finita, compagno, adesso io e te abbiamo da fare. Andiamo."
Tungata si chiese per quanto tempo sarebbe riuscito a tirare in lungo la ricerca della tomba di Lobengula. Ogni ora che riusciva a guadagnare era un'ora in più di vita e di speranza. "Sono passati quasi vent'anni da quando mio nonno mi ha mostrato il posto. Non ricordo più tanto bene..." "La tua memoria è chiara come il sole che brilla lassù" gli disse Peter Fungabera. "Tu sei famoso per la capacità di ricordare posti, facce e nomi. Compagno, non dimenticare che ti ho sentito parlare alla Camera, senza appunti. Inoltre avrai a disposizione un bell'elicottero per arrivarci in men che non si dica." "Non funziona. La prima volta ci sono andato a piedi, e devo tornarci nello stesso modo, i segni di riferimento non si riconoscono dall'aria." E così ripercorsero le piste polverose che Tungata e il vecchio Gideon avevano seguito un giorno di tanti anni prima, e Tungata non riusciva davvero a trovare il luogo di partenza: la frana accanto al letto del fiume asciutto e il kopje a forma di testa di leone. Passarono tre giorni a cercarlo, mentre Peter Fungabera diventava sempre più irritato e incredulo, prima che si fermassero al piccolo villaggio cresciuto intorno allo spaccio che era l'ultimo punto di riferimento che Tungata ricordava. "Ah, la strada vecchia! Sì, il ponte è stato spazzato via dalla piena tanti anni fa. Non l'hanno più ricostruito. Adesso la strada gira da..." Alla fine trovarono la pista, tutta coperta di liane e vegetazione, e quattro ore dopo raggiunsero l'antico letto del fiume. Il ponte di cemento, adesso, era una rovina su cui crescevano i rampicanti. Mala frana, verso monte, era esattamente come Tungata se la ricordava, e provò un empito di nostalgia. All'improvviso il vecchio Gideon gli sembrò vicinissimo, così vicino che fece un segno con la mano destra e si guardò intorno per quietare gli spiriti ancestrali, sussurrando: "Perdonami, Baba, perché sto per rompere il giuramento." Stranamente la presenza che avvertiva intorno era benigna e affettuosamente indulgente, come era sempre stato il vecchio Gideon. "Per di qua." Lasciarono lì la Land Rover e proseguirono a piedi. Davanti Tungata, con due soldati armati alle costole. Andava piano, facendo imbestialire in silenzio Peter Fungabera, che seguiva dietro le guardie. Mentre andavano, Tungata lasciò vagare la fantasia. Immaginò di far parte del seguito di Gandang nell'esodo dei matabele di cent'anni prima, anzi di esserne la vera e propria reincarnazione. Era lui Gandang, il suo bis-bisnonno, fedele e leale sino alla fine. Provò di nuovo la disperazione degli sconfitti e il terrore dell'inseguimento dei bianchi, che potevano apparire in ogni momento dalla foresta alle loro spalle, con le mitragliatrici a treppiede che,
mietendo morte, sembravano chiacchierare. Gli parve di sentire il lamento delle donne e dei bambini piccoli, i muggiti delle bestie che cadevano per terra in quel territorio duro e amaro. Quando gli ultimi buoi erano morti di sete, Gandang aveva ordinato ai suoi guerrieri del famoso reggimento Inyati di tirare il carro con su la portantina del re. Tungata immaginava il re, obeso, malato e predestinato, seduto nella portantina oscillante a guardare verso nord, la direzione proibita dell'impossibile salvezza: un uomo schiacciato dalle grandi mole del destino e della storia. "E ora l'ultimo tradimento" , pensò amaramente Tungata. "Sto guidando queste bestie shona a disturbare un'altra volta il suo riposo." Tre volte sbagliò strada apposta, portando Peter Fungabera agli estremi limiti della pazienza. La terza volta il generale lo fece spogliare e legare e lo frustò come un cane, personalmente, fino a farlo sanguinare nel terriccio grigiastro, con il terribile kiboko di pelle d'ippopotamo, introdotto in Africa dai mercanti di schiavi arabi. Furono la vergogna e l'umiliazione più che il dolore della fustigazione a indurre Tungata a tornare indietro e riprendere la via segnata dai riferimenti che aveva imparato a memoria. Alla fine, quando raggiunsero la collina, essa apparve all'improvviso, con la stessa magica prontezza che ricordava vividamente dalla prima visita. Erano penetrati in una stretta gola di roccia nera, levigata da millenni di piene del torrente sottostante. Laggiù, nelle pozze verdi dove l'acqua ristagnava tra una stagione delle piogge e l'altra, giganteschi pesci gatto agitavano la superficie torbida salendo a nutrirsi di insetti, mentre l'aria caldissima era percorsa dai voli di meravigliose libellule e farfalle iridescenti rosse e blu. Girarono un gomito della gola, salendo e scendendo sopra massi immani della grandezza e del colore degli elefanti; ed ecco che di colpo le rocce circostanti si aprirono e la foresta si ritirò. Davanti a loro, come un monumento tanto grande da far scomparire le piramidi dei faraoni, si stagliava contro il cielo la collina di Lobengula. Le pendici erano ripide e coperte di licheni di venti tonalità diverse di giallo, ocra e malachite. In alto in alto c'era una popolazione stanziale di avvoltoi. Gli animali adulti si lanciavano veleggiando nell'aria surriscaldata della gola, che salendo li sorreggeva facilitandone tutte le evoluzioni. "Eccoci arrivati" disse Tungata. "Thabas Nkosi, la collina del re." Il sentiero naturale che conduceva in vetta seguiva una faglia dove la roccia era coperta di ciottoli. Qua e là era ripido e pericoloso, e i soldati, carichi di armi e zaini, davano occhiate nervose all'abisso tenendosi rasente alla parete rocciosa. Ma Peter Fungabera e Tungata salivano agili e sicuri anche nei passaggi più difficili, lasciandosi parecchio indietro i soldati. "Potrei buttarlo giù dalla montagna" , pensò Tungata, "se riuscissi a coglierlo alla sprovvista." Guardò indietro e vide Peter, dieci passi sotto di lui. Aveva in mano la pistola Tokarev e sorrideva come un mamba. "No" si limitò a dirgli, e si capirono senza altre parole. Per il momento Tungata mise da parte il pensiero della vendetta e continuò a salire. Svoltarono un angolo roccioso e sbucarono sulla cresta della collina, trecento metri sopra il fondo della gola oscura. A una certa distanza l'uno dall'altro, sudando leggermente nel caldo sole, guardarono giù nella vasta e profonda vallata dello Zambesi. Ai limiti della veduta, sopra la foschia, le onde di calore e il fumo dei primi incendi della stagione secca nati per autocombustione, brillavano le acque del vasto lago artificiale della diga di Kariba. I soldati sbucarono sulla spianata della vetta con evidente sollievo, e Peter Fungabera guardò Tungata con aria interrogativa. "Noi siamo pronti, compagno." "Siamo arrivati" replicò Tungata. Sulla cima piatta della collina, le formazioni rocciose, sottoposte
all'erosione, si erano rotte formando crepacci e vaste distese di rocce sparse. Gli alberi si annidavano nelle fenditure e tra le rocce, contorcendosi come serpenti in amore, sviluppando potenti radici per sopravvivere alle condizioni di gran secco e caldo torrido del clima. Tungata li condusse tra le rocce sparse e la foresta contorta all'imbocco di una voragine cieca in fondo alla quale cresceva un vecchio ficus Natalensis, il cosiddetto fico strangolatore, dai rami maculati di giallo carichi di frutti amari. Quando si avvicinarono, volarono via diversi pappagalli bruni dalle ali verdi che stavano banchettando coi frutti dell'albero. Alla base del ficus la roccia era segmentata e le radici dell'albero avevano allargato ancor più i crepacci. Tungata si fermò davanti alla parete di roccia e Peter Fungabera, soffocando un'imprecazione d'impazienza, lo guardò e si accorse che le sue labbra si muovevano in silenzio, come se stesse recitando una preghiera o una formula magica. Peter Fungabera osservò meglio la parete che sbarrava loro la strada e si accorse che i crepacci che la solcavano erano troppo regolari per essere naturali. "Qua!" gridò ai soldati, e quelli corsero. Seguendo le indicazioni del generale, si misero a scavare intorno a uno dei massi squadrati, e in breve la parete rocciosa in quel punto si rivelò un muro di pietra accuratamente mimetizzato. Tolto di mezzo il primo muro di pietre grandi ne apparve un altro molto più regolare. "Portate qui il prigioniero" ordinò Peter. "Lavorerà in prima fila." Ormai, però, era troppo tardi per continuare l'operazione. Non ci si vedeva più. Avevano creato un'apertura sufficiente per due uomini che lavoravano a spalla a spalla nel primo muro, e avevano cominciato ad attaccare quello interno. Sull'esterno Tungata aveva potuto verificare l'impressione che aveva avuto durante la prima visita alla tomba, tantissimi anni prima: i segni che aveva notato e di cui non aveva parlato al vecchio nonno Gideon erano ancor più evidenti sul muro interno. Essi gli salvavano la coscienza, togliendogli gran parte dei rimorsi per aver rotto il giuramento. Con riluttanza Peter Fungabera ordinò di interrompere lo scavo per la notte. Le mani di Tungata, che era stato costretto a scavare senza attrezzi, gli facevano male ed erano tutte spellate ed escoriate. Aveva lasciato un'unghia fra due pietre del muro, ed era stato ammanettato per la notte a un soldato della Terza Brigata, ma nemmeno questo gli impedì di piombare in un sonno profondo e senza sogni. Peter Fungabera, la mattina dopo, dovette svegliare sia lui sia il soldato a calcioni. Era ancora buio e mangiarono in silenzio le magre razioni di tè e rafferme focacce di mais. Avevano appena finito di inghiottirle che Peter Fungabera ordinò loro di rimettersi al lavoro al muro di pietra. Le mani escoriate di Tungata erano irrigidite e goffe. Peter Fungabera stava in piedi sull'apertura e col kiboko lo frustava sulle costole, sulla pelle delicata e sensibile delle ascelle, ogni volta che si fermava. Ruggendo come un leone ferito, Tungata tolse dal muro un blocco di pietra da settanta chili. Il sole spuntò e i suoi raggi dorati illuminarono la parete. Con l'aiuto di un ramo trasformato in palo, Tungata e un soldato shona fecero leva sotto uno dei massi alla base e, con un gran rombo, il muro interno crollò. Si scostarono con un balzo, tossendo per la polvere, e si affacciarono all'apertura che avevano creato. Dentro la caverna l'aria puzzava come l'alito di un ubriaco, acida e stagnante, e l'oscurità era fitta e minacciosa. "Va' dentro prima tu" ordinò Peter Fungabera, e Tungata esitò, in preda a uno sbigottimento superstizioso. Era un uomo istruito e intelligente, ma restava un africano. Gli spiriti dei suoi antenati e della sua tribù facevano la guardia a quel luogo. Guardò Peter Fungabera e si accorse che anch'egli era in preda allo stesso timore soprannaturale, anche se si era armato di una pila, che aveva
conservato ben carica proprio per quel momento. "Forza!" gliordinò Fungabera. Il tono secco tradiva però l'intima inquietudine e Tungata, per umiliarlo, varcò la soglia. Si fermò un momento per lasciare che gli occhi si adattassero all'oscurità e distinguessero i contorni della caverna. Il suolo sotto i suoi piedi era levigato, ma scendeva ripido nelle viscere della montagna. Ovviamente la caverna era stata per millenni abitata da animali, e forse anche dagli uomini primitivi, prima di diventare la tomba di un re. Peter Fungabera, dietro Tungata, dirigeva la pila sulle pareti e il soffitto dell'antro. Il soffitto appariva nero di antico fumo, e le pareti lisce erano istoriate dalle pitture dei piccoli boscimani gialli che avevano abitato lì. Raffiguravano gli animali che essi avevano cacciato e osservato minuziosamente: mandrie di bufali neri, altissime giraffe, rinoceronti e antilopi cornute, dipinti a brillanti colori e messi deliziosamente in caricatura. Assieme a loro l'artista pigmeo aveva ritratto il suo stesso popolo, figurette a bastoncino con chiappone a gobba di cammello ed erezioni imperiali a magnificare la loro virilità. Armati di archi e frecce, correvano dietro alle mandrie sulla parete di pietra. Peter Fungabera illuminò la splendida galleria con la pila e poi diresse il raggio in avanti, verso gli intimi recessi della grotta, dove la gola si chiudeva e la volta rocciosa girava su se stessa verso il buio e le misteriose ombre sottostanti. "Avanti!" ordinò, e Tungata mosse con cautela giù per il pavimento inclinato della caverna. Raggiunsero la gola della grotta e furono obbligati a piegarsi in due per seguire la curva del soffitto. Tungata svoltò l'angolo delcorridoio roccioso e proseguì per una cinquantina di passi prima di arrestarsi di colpo. Era arrivato sulla soglia di una capace grotta dal tetto a cupola, alta una quindicina di metri. Il pavimento era livellato ma costellato di detriti caduti dall'alto. Peter Fungabera la esplorò con la pila. Contro il muro opposto c'era un altare sul quale la luce della torcia illuminò parecchi oggetti. Per un attimo Tungata restò perplesso, poi riconobbe la portantina del re sistemata sopra uno dei suoi carri. Era un carro antico, dalle ruote più alte dei bovi che dovevano tirarlo. "Il carro di Lobengula" sussurrò. "La sua proprietà più cara, che è stato trainato dai guerrieri quando i buoi sono stramazzati..." Peter Fungabera lo spinse avanti con la canna della pistola, e proseguirono nel vasto antro cosparso di detriti. Sull'altare, accatastati come pannocchie, c'erano dei fucili: i vecchi Lee-Enfield che facevano parte del pagamento della concessione di Rhodes. Fucili e cento sovrane d'oro al mese, il prezzo di una nazione e di un popolo venduto schiavo, pensò amaramente Tungata. Sull'altare di pietra c'erano anche altre cose, sacchetti in cuoio per il sale, coltelli, utensili, collane di perline, trombe di guerra e assegai dalla lama larga.Peter Fungabera imprecò d'avidità e impazienza. "Forza, dobbiamo trovare il cadavere, i diamanti saranno vicino." Ossa! Eccole biancheggiare alla luce della torcia elettrica. Un cumulo, sotto l'altare. Un teschio! Ghignava in faccia a loro, con il cranio ancora ricoperto dal copricapo di lana a zucchetto. "E lui!" gridò giubilante Peter. "E il vecchio demonio!" Cadde in ginocchio nei pressi dello scheletro. Tungata restò in piedi, calmo. Dopo il primo istante di allarme, si era reso conto che si trattava dello scheletro di un uomo vecchio e basso, piccolo quasi come un bambino, con dei denti mancanti sulla mascella superiore. Invece Lobengula era un omone con tutti i denti
sanissimi. Tutti coloro che l'avevano avvicinato in vita concordava-vno nel decantare il suo sorriso. Questo scheletro era ancora avvolto {in tutte le cianfrusaglie che contraddistinguono gli stregoni: perline, conchiglie, ossicini, corni scavati con dentro le polveri magiche, crani di serpente alla cintura. Perfino Peter non tardò ad accorgersi dell'errore e saltò di nuovo in piedi. "Non è lui!" gridò, in ansia. "Devono aver sacrificato lo stregone perché gli facesse la guardia." Stava esplorando la grotta con la torcia elettrica, frenetico. "Dov'è?" chiese a Tungata. Tu dovresti saperlo. Di sicuro te l'han detto." Tungata rimase zitto. Sopra lo scheletro dello stregone l'altare prominente e carico degli oggetti del re costituiva chiaramente il centro ideale della grotta. Il sacrificio umano sotto, gli oggetti sopra, intorno a uno spazio vuoto in mezzo all'altare. Era quello il posto più logico per sistemare il corpo del re. Come mai non c'era? Peter Fungabera pensò le stesse cose, e illuminò lo spazio vuoto sull'altare con la torcia. "Non c'è più" sussurrò Peter con la voce carica di delusione. "Il cadavere di Lobengula se n'è andato!" I segni che Tungata aveva notato fuori, dove il muro era stato aperto e rabberciato alla meglio, l'avevano condotto alla corretta conclusione. La tomba del re era stata profanata molti anni prima. La salma era stata traslata e i diamanti rubati. Poi avevano cercato di mascherare la sacrilega profanazione. Peter Fungabera salì sull'altare di roccia e, ginocchioni, si mise a frugare freneticamente sul ripiano. Impassibile, due passi indietro, Tungata stupì che l'avidità potesse rendere ridicolo anche un uomo importante e pericoloso come Fungabera. Farfugliava incoerentemente tra sé nel perlustrare, setacciandoli con le dita, i polverosi detriti sul piano dell'altare. "Guarda qua! guarda qua!" Raccolse un piccolo oggetto scuro, e Tungata si avvicinò di un passo. Alla luce della pila distinse un coccio di terracotta. C'era una traccia di decorazione tradizionale che gli permise immediatamente di identificarlo per un pezzo di boccale usato dai matabele per la birra. "Un boccale da birra" disse Peter rigirandolo tra le dita. "Uno dei boccali con dentro i diamanti... rotto!" Buttò via il coccio e frugò tra i detriti, alzando una nuvola di polvere che fumigò al chiarore della pila. "Qua!" Aveva trovato un'altra cosa, molto più piccola. La sollevò tra il pollice e l'indice. Era grossa come una mandorla. La illuminò col raggio della pila e immediatamente la luce si scompose nei colori dello spettro e dell'arcobaleno, che si riflessero sulla faccia di Peter Fungabera. "Un diamante!" sospirò con religioso timore, rigirandoselo lampeggiante tra le dita. Non era certo una pietra tagliata, ma il cristallo, vide Tungata "si era formato con tale simmetria che ogni piano era così perfetto da riflettere perfino il debole raggio della torcia elettrica. "Che bello!" mormorò Peter, avvicinandolo agli occhi. Quel diamante era un ottaedro naturale e il suo colore, perfino alla luce artificiale, era chiaro come neve che si scioglie in un torrente di montagna. "Bello" ripeté Fungabera, mentre il suo viso perdeva pian piano l'espressione sognante. "Uno solo" sussurrò. "Una singola pietra caduta per caso a terra, mentre dovrebbero esserci cinque boccali colmi di diamanti." Il suo sguardo si posò su Tungata. La pila, dal basso, gli illuminava il volto di una luce demoniaca. "Tu lo sapevi" l'accusò Peter. "Ho sempre avuto la netta sensazione che mi nascondessi qualcosa. Sapevi che i diamanti erano stati portati via, e sai anche dove." Tungata scosse la testa per negare, ma già Fungabera si stava in-
furiando. Coi lineamenti contorti, ripeteva sempre la stessa cosa, mentre agli angoli della bocca gli si formava della bava biancastra. "Tu lo sai!" Saltò giù dall'altare con la furia di un leopardo ferito. "Me lo dirai!" squittì. "Vedrai che alla fine me lo dirai!" Diede un colpo in faccia a Tungata con la canna della pistola. "Dimmelo!" gridò. "Dimmi dove sono i diamanti!" L'acciaio cozzò ripetutamente contro gli zigomi di Tungata, spaccando la carne, ed egli cadde in ginocchio. Peter Fungabera si allontanò da lui ansimando, appoggiandosi all'altare di roccia, trattenendo a fatica una furia che altrimenti in breve avrebbe ucciso il prezioso informatore. "No" si disse. "Troppo comodo! Devi patire le..." Si infilò le mani sotto le ascelle e strinse per impedirsi di picchiarlo ancora. "Vedrai che alla fine me lo dirai. Mi implorerai di potermi accompagnare ai diamanti. Mi implorerai di ucciderti..."
"Eccoli qua! Due bambini innocenti a Sodoma e Gomorra!-" disse Morgan Oxford. "Ecco che cosa siete! E, perdio, ci avete immerso nello stesso brago fino alle sopracciglia! Morgan Oxford era venuto in aereo da Harare appena aveva saputo che una pattuglia di confine del Botswana aveva raccolto Clay e Sally-Anne nel deserto. "Sia l'ambasciatore americano sia quello britannico hanno ricevuto una protesta ufficiale di Mugabe. Anche gli inglesi stanno saltando su e giù con la bava alla bocca. Non sanno più niente di te, Clay, e tu sei un suddito britannico. Se ti mettono le mani addosso, io dico che ti chiudono nella Torre di Londra e ti tagliano la testa." Morgan era in piedi in capo al letto di Sally-Anne, all'ospedale. Aveva rifiutato la sedia offertagli da Clay. "E quanto a te, signorinella, l'ambasciatore mi ha incaricato di dirti che è meglio che fili in USA col primo aeroplano." "Non può darmi ordini" interloquì Sally-Anne fermando il fiume delle recriminazioni. "Non siamo mica in Russia. Io sono una libera cittadina." "Per ora. Se Mugabe ottiene l'estradizione, vai subito sulla forca per insurrezione armata, omicidio e chi più ne ha..." "E tutto un complotto!" "Tu e il tuo boy-friend vi siete lasciati dietro una scia di cadaveri caldi come lattine di birra al picnic. Mugabe ha già fatto richiesta di estradizione presso il governo del Botswana..." "Siamo rifugiati politici" fiammeggiò Sally-Anne. "Siete Bonny and Clyde, dolcezza, secondo le autorità dello Zimbabwe." "Sally-Anne!" intervenne con calma Clay. "Non dovresti agitarti così..." "Non dovrei agitarmi?" gridò Sally-Anne. "Siamo stati rapinati e picchiati, minacciati di stupro e fucilazione... e adesso il rappresentante ufficiale degli Stati Uniti d'America, il paese di cui mi capita di esser cittadina, viene qua a dirmi che sono una criminale!" "Non dico affatto questo" negò seccamente Morgan Oxford. "Sto solo suggerendoti di alzar le chiappe tumide dall'Africa e fare ritorno dalla mammina.""Prima mi dà della criminale e poi si mette a fare il porco sciovinista..." "Dacci un taglio, Sally-Anne" disse Morgan Oxford alzando una mano. "Ricominciamo tutto da capo: siete nei guai, anzi siamo nei guai, guai grossi. Dobbiamo trovare il modo di uscirne." "Ti vuoi sedere, adesso?" gli disse Clay, allungandogli la sedia. Morgan ci si buttò e accese una Chesterfield.
"Come state, comunque?" "Credevo che non ce lo domandassi nemmeno!" osservò secca secca Sally-Anne. "Lei era molto disidratata. Per tre giorni l'hanno nutrita a flebo e col contagocce. Per fortuna il blocco renale non c'è stato e da quella parte è a posto. Erano preoccupati anche per la capocciata, ma le radiografie non segnalano nulla di particolare, grazie a Dio. Non era che una contusione un po' fortina. Hanno detto che la dimettono domani." "Dunque è in grado di viaggiare?" "Mi pareva che il tuo interessamento fosse un po' strano..." "Ascoltami bene, Sally-Anne: siamo in Africa e, se le autorità dello Zimbabwe ti mettono le mani addosso, non possiamo fare più niente per te. E per il tuo bene. Devi andare via. L'ambasciatore..." "Che vada in culo, l'ambasciatore" disse Sally-Anne con intensità e sentimento "e in culo anche tu, Morgan Oxford!" "Non ho l'autorità di parlare per Sua Eccellenza" ghignò Morgan per la prima volta "ma quanto a noi due, quando possiamo cominciare?" E anche Sally-Anne si mise a ridere. Clay approfittò del momento di buon umore. "Morgan, guarda che a questo genere di cose ci penso io." Immediatamente Sally-Anne partì lancia in resta contro il nuovo affronto maschilista, ma Clay la zittì con uno sguardo accigliato e un cenno del capo, ed ella obbedì con qualche riluttanza. Morgan si rivolse poi a Clay. "Quanto a te, Clay, come diavolo hanno fatto a scoprire che lavori per l'Agenzia?" gli domandò. "Lavoro per l'Agenzia?" Clay aveva l'aria sbalordita. "Nessuno me l'aveva detto." "E chi credi che sia Henry Pickering? Babbo Natale?" "Henry? Non è un vicepresidente della World Bank?" "Bambini!" gemette Morgan. "Dei bambini ingenui nel bosco degli orchi e delle streghe!" Si rilassò. "Be', comunque è acqua passata. Il tuo contratto è terminato in data... quando è stato il tuo ultimo rapporto?" "L'ho mandato a Henry proprio tre giorni fa." "Sì. Buono quello!" deplorò Morgan rassegnato. "Sostenevi che Peter Fungabera è il candidato di Mosca! Uno shona! I russi gli stanno alla larga. Tanto perché tu lo sappia, il generale Fungabera odia l'Unione Sovietica da quel dì e intrattiene ottimi, ma dico proprio ottimi, rapporti con noialtri. E basta così." "Per l'amor di Dio, Morgan! Allora fa il doppio gioco! Me l'ha rivelato il suo aiutante di campo Timon Nbebi in persona." "Il quale è morto molto a proposito" gliricordò Morgan. "Se proprio vuoi, inseriremo la tua informazione nel computer, con un quoziente di credibilità prossimo allo zero. Henry Pickering ti ringrazia caramente." Sally-Anne intervenne. "Morgan, tu hai visto le mie foto dei villaggi bruciati, coi bambini morti, le devastazioni della Terza Brigata...." "Bisogna rompere le uova per fare la frittata, come si dice" l'interruppe Morgan. "Certo che le ho viste, e naturalmente noi non amiamo la violenza, ma dobbiamo considerare che Fungabera è antisovietico. E nostro interesse appoggiare i regimi anticomunisti, anche se non ci piacciono tutti i loro metodi. Ci sono donne e bambini che muoiono anche nel Salvador. Dovremmo per questo smettere di aiutare quel paese? Dobbiamo forse ritirarci da tutte le situazioni in cui non si applica la Convenzione di Ginevra? Cresci, Sally-Anne, e guarda com'è il mondo." Ci fu un silenzio nella stanzetta d'ospedale, rotto solo dai tintinnii della lamiera ondulata del tetto che si dilatava sotto il sole di mezzogiorno. Fuori della finestra, nel giardino costellato di panchine, i pazienti in grado di camminare passeggiavano con addosso i pigiama
rosa dell'ospedale, stampigliati con le iniziali del ministero della Sanità del Botswana. "E tutto quello che volevi dirci?" chiese alla fine Sally-Anne. "Perché, non è abbastanza?" disse Morgan spegnendo la sigaretta e alzandosi in piedi. "C'è un'altra cosa, Clay. Henry Pickering mi ha detto di informarti che la Land Bank dello Zimbabwe ha ritirato la garanzia del tuo prestito, in base alla clausola riguardante i nemici del popolo e dello Stato. Sei stato dichiarato ufficialmente tale e non c'è da stupirsi, direi. Henry Pickering mi ha incaricato di avvertirti che ora la World Bank si rifarà su di te per il pagamento del capitale e degli interessi del prestito. La faccenda ti quadra?" "Disgraziatamente sì" annuì con mestizia Clay. "Dice che quando arriverai a New York cercherà di sistemare la questione in qualche modo, ma nel frattempo sono stati costretti a se-questrarti tutti i conti bancari e a spedire un'intimazione all'editore perché trattenga a loro disposizione tutti i diritti che incasserà il tuo libro." Magnifico." Mi dispiace, Clay. E una bella batosta. "Morgan gli porse la mano. "Sai, mi è piaciuto il tuo libro, mi è piaciuto tanto. Ti avevo mentito, l'altra volta. Mi spiace davvero che sia andata a finire così." Clay andò con lui alla macchina targata Corpo Diplomatico al parcheggio dell'ospedale. "Potresti farmi un ultimo favore?" "Se posso." Morgan Oxford aveva l'aria diffidente. "Puoi inoltrare un pacchetto al mio editore di New York?" E," siccome i sospetti di Morgan Oxford non cessavano: "Si tratta solo delle ultime pagine del mio nuovo manoscritto, ti do la mia parola. "Okay, allora" disse dubbioso Morgan Oxford. "Glielo farò avere." Clay andò dall'altra parte del parcheggio a prendere la borsa da viaggio sulla Land Rover che aveva noleggiato e l'implorò: "Fa' attenzione, mi raccomando. E il sangue del mio sangue e la mia unicasperanza di salvezza." Restò a guardare la Ford verde che se ne andava, poi tornò nell'edificio dell'ospedale. "Cos'era quella storia di banche e prestiti?" gli chiese SallyAnne appena Clay entrò da lei. "Vuol dire che quando ti ho chiesto di sposarmi ero miliardario" le rispose Clay sedendosi sul suo letto "mentre adesso sono in bolletta come uno che oltre a non possedere niente ha due milioni e rotti di dollari di debiti." "Ma c'è il nuovo libro. Ashe Levy dice che sarà un bestseller." "Mia cara, se scrivessi un bestseller all'anno per il resto della mia vita, potrei al massimo pagare gli interessi dei debiti che ho con Henry Pickering e le sue banche." Lei lo fissò con gli occhi sbarrati. "Quello che sto cercando di dirti è quanto segue: puoi riconsiderare la mia proposta di matrimonio... non sei obbligata a sposarmi solo perché mi hai già detto di sì." "Clay" disse lei "chiudi la porta e le persiane." "Vorrai scherzare! Non ora, e non qui! Probabilmente si tratta di un grave reato in questo paese, coabitazione illecita o roba del genere." "Mio caro, quando una è ricercata per omicidio e insurrezione armata, un'illecita scopatina di straforo col futuro marito, anche ove trattisi di persona indigente, pesa pochissimo sulla coscienza."
Clay andò a prendere Sally-Anne all'ospedale la mattina seguente. Indossava gli stessi indumenti di quando era stata ricoverata. "La suora li ha fatti lavare e rammendare.,," Vedendo la Land Rover si interruppe. "Cos'è questa? Non eravamo in bolletta?"
"Il computer non ha ancora ricevuto la bella notizia, e la carta di credito continua a funzionare." "Ma è lecito?" "Quando hai cinque milioni di dollari di debiti, signora, un altro paio di bigliettoni pesa pochissimo sulla coscienza." Sogghignò, accendendo il motore. "Mi sembra che tu la stia prendendo molto bene, Clay." Si accoccolò sul sedile vicino a lui. "Siamo ancora vivi tutti e due" le disse Clay stringendola a sé "e questo basta e avanza per far festa coi fuochi artificiali. Quanto ai soldi... be', non credo d'essere tagliato per fare il miliardario. Quando ho del denaro, non faccio che temere continuamente di perderlo. E una cosa che prosciuga le energie. Adesso che l'ho perso davvero, mi sento libero in una maniera davvero impagabile." "Sei contento di aver perduto tutto quello che avevi?" chiese lei girandosi a guardarlo in faccia. "Mi sembra una follia eccessiva anche per te." "No, non è che sono contento" negò lui. "Ma ciò che mi dispiace davvero è la perdita di King's linn e Zambesi Waters. Avremmo potuto farne qualcosa di veramente stupendo, io e te. Questo mi dispiace tantissimo, e un'altra cosa che mi riempie di rimorsi è la sote di Tungata Zebiwe." "Già. L'abbiamo rovinato." Entrambi si rattristarono molto. "Se solo potessimo rimediare in qualche modo!" "Non possiamo farci proprio niente ormai." Clay scosse la testa. "Nonostante le assicurazioni di Timon, non sappiamo neppure se è ancora vivo, e, anche se lo fosse, non abbiamo la minima idea di dove sia né di come trovarlo." Attraversarono sobbalzando il passaggio a livello e si trovarono nel centro di Francistown. "Il gioiello del nord" disse Clay. "Popolazione: duemila persone; attività principale: consumazione di bevande alcoliche;ragion d'essere: sconosciuta." Parcheggiarono fuori dell'unico albergo che c'era. "Come vedi, sono tutti al bar." Tuttavia il giovane portiere dell'albergo, un beciuano, era simpatico ed efficiente. "Signor Mellow, c'è una signora che la sta aspettando" gli disse al loro arrivo nella hall. Clay non riconobbe la visitatrice finché Sally-Anne non si gettò ad abbracciarla. "Sarah!" gridò. "Come fai a esser qui? Come ci hai trovati?" La camera di Clay aveva due letti singoli con un tavolino in mez-zo, una sola sedia e un tappeto che voleva assomigliare a quelli persiani sopra il pavimento di cemento grezzo verniciato di rosso-mattone. Le due ragazze sedettero sul letto, con le gambe ripiegate sotto in positura eminentemente femminile. "Alla Croce Rossa mi hanno detto che siete stati raccolti nel deserto dalla polizia, signorina Jay." "Chiamami pure Sally-Anne, Sarah." Sarah accolse l'invito con un sorriso. "Dopo il processo non ero sicura che mi voleste vedere, ma poi i miei amici mi hanno raccontato come vi hanno trattato i soldati di Fungabera. Allora ho pensato che magari vi siete convinti che avevo ragione io, che Tungata Zebiwe non era un criminale e che adesso ha un gran bisogno di amici." Si rivolse a Clay. "Era suo amico, signor Mellow. Mi ha parlato di lei, con rispetto e con affetto. Temeva per lei, quando ha saputo che era tornato nello Zimbabwe. Ha sentito che voleva ricomprare la terra di famiglia nel Matabeleland, e sapeva benissimo che questo le avrebbe provocato un sacco di grane e di veri e propri pericoli. Diceva che lei era troppo tenero per i tempi duri che stavano venendo. La chiamava Paffo, il sognatore, il gentile sognatore, ma diceva che sapeva anche essere cocciuto, ostinato. Voleva evitarle nuove ferite. Diceva: "L'ultima volta ha perso una gamba, stavolta
potrebbe lasciarci la pelle." Così, per giovarle, le si è mostrato nemico, per farla andar via dallo Zimbabwe." Clay sedeva rigido sulla sedia, intento a ricordare il tempestoso incontro con Tungata quando era andato a chiedergli assistenza nel suo progetto di ricomprare King's linn. Allora recitava? Ancora adesso lo trovava quasi incredibile. La sua passione sembrava così reale, la sua furia così convincente. "Mi spiace, signor Mellow. Queste che le dico sono cose un po' rudi, lo ammetto, ma è quello che pensa Tungata. Egli era suo amico, e lo è tuttora." "Quello che pensavamo prima non importa più" mormorò Clay. "Il povero Sam a quest'ora sarà morto." "No!" Per la prima volta Sarah alzò la voce, parlando con veemenza, quasi arrabbiata. "No, non lo dica, non lo dica mai più! E vivo. L'ho visto e gli ho parlato. Non potranno mai uccidere un simile uomo." La sedia cigolò sotto lo scatto di Clay. "L'ha visto? E quando?" "Due settimane fa." "Dove? Dov'era?" "A Tuti, al campo di concentramento." "Sam è vivo!" Clay cambiò mentre lo diceva. Le spalle curve gli si raddrizzarono, alzò la testa e i suoi occhi divennero più decisi e brillanti. Non vedeva Sarah, guardava la parete, cercando di dominare il torrente di idee ed emozioni che lo assalivano, così da non accorgersi che Sarah piangeva. Fu Sally-Anne a cingerla tra le braccia, mentre Sarah singhiozzava. "Oh, Tungata, mio signore! Cosa ti hanno fatto! L'hanno picchiato e tenuto senza mangiare né bere. E tutto pelle e ossa, come il cane del villaggio, pieno di cicatrici. Si muove come un vecchio: solo gli occhi sono quelli di prima." Sally-Anne la consolava senza parole. Clay saltò su dalla sedia e cominciò a camminare avanti e indietro. Ma la stanza era troppo piccola, ogni tre passi doveva girarsi. Sally-Anne si frugò in tasca e porse un fazzoletto stazzonato a Sarah. "Quando sarà pronto il Cessna?" le chiese Clay, senza smettere di camminare. La gamba artificiale faceva un piccolo clic ogni volta che la spingeva avanti. "E pronto fin dalla settimana scorsa, non te l'avevo già detto?" rispose Sally-Anne distrattamente, abbracciata a Sarah. "Qual è il massimo carico che può portare?" "Il Cessna? Una volta ho trasportato sei persone adulte, ma si stava davvero un po' stretti. La licenza ne consente..." Sally-Anne si interruppe. Piano piano la sua testa si girò verso di lui, con l'espressione della più completa incredulità stampata in viso. "Per tutto quel che c'è di più sacro, Clay, cosa ti salta in mente? Sei matto?" "Autonomia a pieno carico?" proseguì Clay ignorandola. "Duecento miglia marine. Ma non parli sul serio." "Okay." Clay pensava a voce alta. "Posso caricare sulla Land Rover un paio di bidoni di benzina. Si può atterrare e decollare: da un lago asciutto che conosco, proprio vicino al confine, a Panda Matenga, a cinquecento chilometri da qui, su al nord. E il punto più favorevole per rientrare." "Clay, ma lo sai cosa ci fanno se ci beccano?" La sua voce era roca per lo shock. "Armi" proseguì Clay. "Ne avremo bisogno. Morgan Oxford? No, dannazione, ci ha cancellato!" "Fucili mitragliatori?" chiese la voce di Sarah, attutita dal fazzoletto e dalle lacrime. "Sì, mitra e bombe a mano" disse Clay. "Esplosivi, tutto quello che riusciamo a procurarci." "Io posso procurare i mitra. Alcuni dei nostri si sono rifugiati
nel Botswana e conosco i depositi di armi e munizioni sepolti nella giungla al tempo della guerra d'indipendenza." "Di che armi si tratta?" domandò Clay. "Mitra-banana e bombe a mano." "Kalashnikov" disse Clay. "Sarah, sei una stella." "Noi due soli?" Sally-Anne era impallidita, comprendendo che faceva sul serio. "Noi due soli contro la Terza Brigata? E a questo che stai pensando?" "No, verrò anch'io, così saremo in tre" disse Sarah posando il fazzoletto. "In tre! Fantastico?" disse Sally-Anne. "Fenomenale!" Clay tornò indietro e si piazzò di fronte a loro. "Primo: dobbiamo disegnare una piantina del campo di Tuti. Dobbiamo metterci tutti i particolari che ricordiamo." Ricominciò ad andare avanti e indietro, incapace di star fermo. "Secondo: vediamo gli amici di Sarah, che magari ci daranno una mano. Terzo: Sally-Anne prende l'aereo per Johannesburg e porta qua il Cessna... quanto tempo ci vorrà?" "Tre giorni." Il colore stava tornando sulle guance di SallyAnne. "Voglio dire, se ci sto!" "Okay! Molto bene!" Clay si fregò le mani. "Adesso possiamo cominciare a disegnare la pianta." Ordinò la cena e una bottiglia di vino in camera e lavorarono fino alle due, quando Sarah li lasciò con la promessa di ritornare l'indomani mattina all'ora di colazione. Clay ripiegò la mappa con cura e poi lui e Sally-Anne si infilarono nel letto abbracciati, ma erano troppo tesi per addormentarsi. "Sam cercava di proteggermi!" si meravigliò Clay. "Aveva capito come sarebbe andata a finire fin dal primo momento." "Parlami di lui" glisussurrò Sally-Anne, raggomitolandosi tra le sue braccia. Ascoltò così la storia della loro amicizia. Quando infine Clay tacque, lei gli disse piano: "Allora fai sul serio, per quella cosa?" "Mortalmente sul serio. Vuoi farla anche tu assieme a me?" "E una pazzia. O forse più una scemenza. Ma facciamola, allora."
Il grasso fumo nero si alzava dai fuochi di stracci unti di morchia, che Clay aveva ammonticchiato in due cumuli, nel chiaro cielo del deserto. Clay e Sarah stavano insieme sul cofano della Land Rover, in piedi, scrutando il cielo meridionale. Si trovavano nella regione selvaggia del nord-est del Botswana. Il confine dello Zimbabwe era a una trentina di chilometri verso oriente: la pianura piatta punteggiata di pungicammelli e del bianco lebbroso delle croste salate si stendeva monotona e uguale di qua e di là dalla linea ideale. Il tremolio dell'aria ingannava l'occhio, sicché gli alberi contorti dall'altra parte della pianura bianca che era stata il fondo di ùn lago cambiavano forma come un'ameba al microscopio. Un "diavolo del deserto" , un turbine di polvere, si alzò vorticando e oscillando come una danzatrice del ventre, alzandosi in cielo per un centinaio di metri prima di svanire improvvisamente com'era nato. Il rumore del Cessna andava e veniva nell'atmosfera surriscaldata. "Là!" Sarah indicò un puntino, una zanzara lontana, bassa sull'orizzonte. Clay diede un'ultima occhiata alla pista d'emergenza che aveva approntato. Aveva acceso i falò di stracci, da una parte all'altra della pista, appena avevano udito il ronzio dell'apparecchio. Poi l'aveva percorsa più volte avanti e indietro con la Land Rover, perché le tracce della macchina segnalassero a Sally-Anne il terreno compatto ai margini della crosta salina. Cinquanta metri più in là, il fondo era insidioso e inadatto all'atterraggio. Tornò a guardare l'apparecchio che si avvicinava. Sally-Anne stava
sfiorando le cime dei baobab, già allineata con la pista che le avevano segnalato. Non si fidò ad atterrare subito, ma la sorvolò a tre metri d'altezza, esaminandola col capo fuori del finestrino, quindi virò e atterrò con agilità, rullando poi fino alla Land Rover. "Sei stata via un secolo" disse Clay abbracciandola appena saltò giù dall'abitacolo. "Tre giorni" protestò lei sgambettando, sollevata da terra. "Per me è un secolo" le disse baciandola. Salirono abbracciati sulla macchina. Dopo i saluti a Sarah, Clay la presentò ai due matabele seduti all'ombra dell'auto. Si alzarono cortesemente a riceverla. "Questo è Jonas e questo Aaron. Ci porteranno al deposito di armi e ci aiuteranno quanto possono." Erano due giovani seri e riservati: i loro occhi da vecchi avevano visto cose inenarrabili, ma erano svegli e pieni di buona volontà. Pomparono la benzina avio dai bidoni da quarantaquattro galloni direttamente nei serbatoi del Cessna, posti sotto le ali, mentre Clay smontava i sedili di dietro per alleggerire l'aereo e ricavare spazio per il carico. Poi cominciarono a caricare. Sally-Anne pesò ogni collo con una stadera a uncino che aveva portato apposta e annotò il peso di tutti gli oggetti confrontandoli con le proprie tabelle. Le munizioni erano le cose più pesanti. Avevano ottomila pallottole per i kalashnikov. Clay le aveva tolte dalle scatole originali e, dopo averle vagliate a una a una (per la lunga permanenza sottoterra molte si erano corrose al punto da diventare inutilizzabili), le aveva infilate in sacchi neri di plastica per la spazzatura. Tuttavia, di quelle che restavano, Clay aveva sparato alcuni caricatori di prova nel deserto e non avevano mai fatto cilecca. Anche i fucili erano in condizioni deplorevoli, e Clay aveva lavorato tutta una notte alla luce della lampada per smontarli, pulirli e riassemblarli, finché non aveva ottenuto venticinque mitra in buono stato. C'erano anche cinque pistole Tokarev e due cassette di bombe a mano a frammentazione, che sembravano in condizioni un po' migliori dei fucili. Clay ne aveva tirata fuori una per cassetta provandole contro un formicaio, che era saltato regolarmente in aria in una nuvola di sabbia. Delle cinquanta originali, ne erano dunque rimaste quarantotto. Clay le ficcò in due borse di tela greggia che aveva acquistato al supermercato di Francistown. Anche tutto il resto dell'equipaggiamento l'aveva comprato nello stesso posto. Pinze tagliafili, tronchesi, funi di nailon, panga che Jonas e Aaron avevano poi affilato come rasoi, torce elettriche e pile di ricambio, gamelle, borracce e un'altra dozzina di utensili che potevano tornare utili. Sarah era stata nominata responsabile della Sanità e aveva preparato una cassetta di pronto soccorso con dentro roba acquistata nella farmacia di Francistown. Le razioni di cibo erano spartane. Farina di mais in sacchetti di plastica da cinque chili, il miglior nutrimento possibile in rapporto al peso, e qualche pacco di sale grosso. "Va bene, ci siamo" disse a un certo punto Sally-Anne, tron-cando le operazioni. "Ancora un chilo e non riusciamo a decollare. Tutto il resto verrà col secondo viaggio." Quando cadde la notte, sedettero attorno al fuoco a banchettare con le bistecche e la frutta fresca che Sally-Anne aveva portato da Johannesburg. "Mangiate, mangiate, bambini" li incoraggiava. "Chissà quando potremo rifare un pasto così." Poi Clay e Sally-Anne portarono le coperte in disparte, fuori portata d'orecchio, e giacquero nudi nell'aria tiepida del deserto a fare l'amore sotto la luna, entrambi ben consapevoli che poteva essere l'ultima volta. Fecero colazione che era ancora buio, poco dopo il tramonto della luna. Lasciarono Jonas e Aaron a guardia della Land Rover,
perché aiutassero a caricare il secondo viaggio, e poi Sally-Anne alle primissime luci tentò il decollo assieme a Clay e Sarah. Le tracce della Land Rover si vedevano a stento, e l'aereo sembrava non volersi alzare mai, tanto era carico, ma alla fine prese il vento e virò puntando verso il sole nascente. "Il confine dello Zimbabwe" mormorò Sally-Anne. "Non riesco ancora a credere che lo stiamo facendo per davvero." Clay era seduto accanto a lei, su una borsa di munizioni, mentre Sarah era raggomitolata dietro su un altro cumulo di armi. Sally-Anne si abbassò leggermente per rilevare i riferimenti del terreno che aveva determinato sulla carta geografica posata sul grembo. Aveva scelto una rotta che li portava ad attraversare la linea ferroviaria una trentina di chilometri a sud della città mineraria di Wankie (carbone) e la strada nazionale pressappoco alla stessa altezza, in un punto assolutamente disabitato. Il terreno sotto di lorocambiò di colpo: dal deserto alla foresta disseminata di vaste radure erbose. A nord c'era qualche formazione nuvolosa, cumuli bianchi indice di bel tempo, da tutte le altre parti il cielo era completamente sgombro. Clay scrutò il territorio, stringendo gli occhi contro l'abbaglio del sole nascente. "Ecco la ferrovia." Sally-Anne scese in picchiata. Venti metri sopra la cima degli alberi riprese e attraversò rombando la ferrovia e la strada nazionale, deserte entrambe a parte un camion lontano, a cui del resto, visibili per pochissimi secondi, erano passati dietro. Sally-Anne fece però una smorfia scontenta. "Speriamo che non ci abbiano visto" disse. "Comunque da queste parti girano parecchi aerei da turismo." Guardò l'orologio e informò i passeggeri che l'arrivo era previsto entro quaranta minuti. "Va bene" disse Clay. "Ripassiamo tutto un'altra volta. Lasci a terra Sarah e me, poi torni a decollare il più presto possibile. Torni al crostone di partenza. Ricarichi e rifai il pieno. Tra due giorni ripassi: se vedi un segnale di fumo, atterri; se no, torni nel Botswana. Altri due giorni e torni un'altra volta: se non c'è il segnale di fumo neanche allora, fili via e non torni più." Sally-Anne gli prese la mano. "Clay, non dirlo neanche per scherzo. Per favore, tesoro, torna da me!" Si tennero per mano per il resto del viaggio, a parte i pochi momenti in cui a Sally-Anne servivano entrambe per pilotare. "Eccoci!" Il fiume Chizarira era uno scuro pitone verde nella terra bruna.In mezzo agli alberi della riva si intravedeva il brillio dell'acqua. Zambesi Waters. Proprio laggiù. Stavano ben lontani dalle costruzioni dei villaggi turistici che avevano edificato con tanta amorosa competenza, ma non potevano fare a meno di guardare verso la fila di colline bluastre che movimentavano l'orizzonte in lontananza. Sally-Anne si abbassò sempre più, fino a far la barba agli alberi, poi eseguì una larga virata, tenendo le colline tra l'aereo e i villaggi turistici. "Guarda là?" disse Clay. Dal finestrino dell'aereo inclinato per la virata, inondato dalla terra, si videro per un attimo biancheggiare dei grandi scheletri. "Sono ancora lì." Erano gli scheletri dei rinoceronti ammazzati dai bracconieri, ripuliti da iene e avvoltoi. Sally-Anne eseguì i controlli pre-atterraggio e si allineò alla stretta striscia di erba sul ciglio della gola, dove aveva già provato ad atterrare una volta. "Prega che non ci siano buche di cinghiali e formichieri scavate nel frattempo" mormorò lei mentre il Cessna sovraccarico ondeggiava paurosamente, stando in aria come appeso a un filo, mentre tutte le spie dello stallo lampeggiavano furiosamente. Sally-Anne discese quasi in picchiata oltre le cime degli alberi e
toccò terra con un botto un po' eccessivo. Il Cessna rimbalzò diverse volte sul terreno ineguale, ma per fortuna i freni tirati al massimo e l'erba alta che frustava il carrello e perfino la pancia della fusoliera riuscirono a fermarlo in tempo. "Signore, ti ringrazio." Scaricarono con la massima fretta, ammonticchiando tutto per terra e stendendovi poi sopra una rete di nailon verde che Clay aveva comprato a Francistown e che originariamente era stata concepita non certo per mimetizzare un carico d'armi ma per dar ombra alle piantine dell'orto. Poi, Sally-Anne e Clay si guardarono tristemente. "Oh mio Dio, quanto detesto dovermene andar via!" "Spiace anche a me, ma va' via subito, dannazione." Si baciarono, poi Sally-Anne schizzò all'apparecchio. Rullò fino a un'estremità della pista, schiacciando l'erba, e poi tornò indietro nei solchi che aveva appena lasciato a tutta velocità. L'aeroplanino alleggerito balzò in aria e l'ultima cosa che Clay vide della sua donna fu il volto pallido che lo guardava dal finestrino dopo la virata, finché l'aereo scomparve dietro gli alberi. Clay attese fino a quando non si udì più nemmeno il ronzio del motore, e il silenzio della boscaglia calò su di loro. Allora prese il mitra e lo zaino e se li mise in spalla. Guardò Sarah: indossava jeans e scarpe di tela blu. Portava la borsa del cibo e le borracce, e aveva alla cintola la pistola Tokarev. "Pronta?" Annuì e si avviò dietro a lui, tenendo agevolmente il suo passo spedito. Raggiunsero il kopje alle prime ore del pomeriggio, e dalla cima Clay contemplò il villaggio turistico di Zambesi Waters sul fiume. Adesso veniva la parte più pericolosa. Comunque, accese il fuoco di segnalazione e, con Sarah, andò ad acquattarsi in posizione adatta per un'imboscata nei pressi del sentiero, nel caso che il fuoco avesse attirato visitatori sgraditi. Si infilarono nel folto e non parlarono né si mossero per quattro ore. Spostavano solo gli occhi, spazzando il pendio sottostante e la boscaglia intorno. Nonostante ciò, furono presi alla sprovvista da un bisbiglio roco in sindebele, vicino, molto vicino. "Ah! Kufela ha portato i soldi." Era il compagno Occhi-aperti. Li fissava, con la faccia sfregiata e sogghignante. Era arrivato a dieci passi di distanza da loro senza farsi vedere né sentire. "Credevo che ti fossi dimenticato di noialtri." "Non ci sono soldi per voi, ma un duro e pericoloso lavoro" gli disse Clay. Si accorse adesso che vicino al compagno Occhi-aperti c'erano tre uomini, agili, forti e silenziosi come lupi al par di lui. Spensero subito il fuoco di segnalazione e si avviarono per la boscaglia in formazione da esploratori, cioè sparsa, ma con gli uomini che si controllavano a vista l'uno con l'altro. "E meglio andare via" spiegò il compagno Occhi-aperti. "Qui hanno cominciato a farsi vedere i kanka shona. Rastrellano la boscaglia come cani da caccia, e dall'ultima volta che ci siamo visti hanno ucciso e catturato molti dei nostri. Anche il compagno Dollaro hanno preso." "Lo so." Clay se lo ricordava, pesto e ammanettato, che testimoniava contro di lui quella terribile notte a King's linn. Camminarono fino a buio inoltrato, diretti a settentrione, sul terreno accidentato in riva al grande fiume. Facevano loro strada, controllando che non vi fossero agguati nemici, gli esploratori, sempre invisibili nella foresta. Si sentivano però, e li guidavano, i loro richiami da uccelli. Alla fine arrivarono al campo dei guerriglieri. Accanto ai piccoli fuochi per cucinare, che non facevano fumo, c'erano le donne, e una di loro corse incontro a Sarah e la abbracciò.
"E la figlia minore di mia zia" spiegò Sarah. Adesso lei e Clay parlavano soltanto sindebele. Il campo era un luogo scomodo e per niente accogliente, dove non si vedeva l'ombra di un sorriso; consisteva in una fila di caverne sulla riva di un fiume asciutto, nascoste dagli alberi. Aveva un'aria quanto mai provvisoria. Non c'erano lussi e nessun oggetto che non potesse essere ficcato nello zaino in fretta e furia. Nemmeno le donne dei guerriglieri sorridevano mai. "Non ci fermiamo mai troppo in un posto" glispiegò il compagno Occhi-aperti. "I kanka se ne accorgono dall'aereo, se no. Anche così non facciamo mai la stessa strada, nemmeno per andare alle latrine, altrimenti in breve si formerebbero i sentieri: sono proprio ciò che quei cani cercano. Presto dovremo andar via anche di qui." Le donne portarono loro del cibo e Clay si accorse all'improvviso di quanto fosse stanco e affamato. Ma prima di mangiare aprì lo zaino e distribuì in giro le stecche di sigarette che aveva portato apposta. E per la prima volta vide sorridere quegli uomini amareggiati, mentre si passavano la cicca a vicenda. "Quanti uomini siete?" "Ventisei" glidisse il compagno Occhi-aperti sbuffando fumo e passando la sigaretta al vicino. "Ma da queste parti c'è anche un altro gruppo." Ventisei potevano bastare, si consolò Clay. Se riuscivano a sfruttare l'elemento sorpresa, potevano bastare. Mangiarono con le mani dal tegame collettivo e poi il compagno Occhi-aperti concesse a tutti un'altra sigaretta. "E ora, Kufela, dicci di quel lavoro che avresti per noi." "Il compagno ministro Tungata Zebiwe e prigioniero degli shona." "E una cosa terribile, è una pugnalata nel cuore del popolo ;matabele, ma anche qui nella boscaglia lo sapevamo già da un pezzo. Sei forse venuto a dirci qualcosa che tutto il mondo sa?" "E ancora vivo, e lo tengono al campo di Tuti." "Tuti? Hau!" esclamò il compagno Occhi-aperti, e tutti si misero a parlare insieme. "Come fai a saperlo?" "Abbiamo sentito dire che l'hanno ammazzato." "Sciocchezze da donnicciole..." Clay si rivolse alle donne, che sedevano in disparte. "Sarah! Venne da loro. "Conoscete questa donna?" domandò Clay. "Come no, è la cugina di mia moglie." "E la maestra della missione." "E una di noi." "Racconta tutto" le disse Clay. Ascoltarono in silenzio perfetto e con grande attenzione il racconto dell'ultimo incontro di Sarah con Tungata, con gli occhi che riflettevano il chiarore del fuoco, e, quando la ragazza ebbe finito, restarono zitti. Sarah si alzò tranquillamente e tornò fra le donne. Il compagno Occhi-aperti si rivolse a uno dei suoi uomini. "Parla!" l'invitò. L'uomo scelto per esprimere per primo la propria opinione era il più giovane. Gli altri avrebbero parlato in ordine di autorevolezza, ovvero anzianità. Era l'antica usanza delle assemblee e richiedeva un sacco di tempo. Clay si preparò a esercitare la pazienza, erano le regole dell'Africa. Dopo mezzanotte il compagno Occhi-aperti tirò le somme. "Conosciamo la donna. E degna di fede e noi le crediamo. Il compagno Tungata è nostro padre. Il suo sangue è il sangue dei nostri re, e si trova nelle mani dei puzzoni shona. Su questo siamo tutti d'accordo." Fece una pausa. "Ma qua c'è chi tenterà almeno di
strapparlo agli stupratori di bambini shona; c'è chi invece dice che siamo troppo pochi, che abbiamo solo un mitra ogni due uomini, e solo cinque pallottole per ogni fucile. Così, non siamo d'accordo tra noi." Guardò Clay. "Cosa hai da dire tu, Kufela?" "Io dico che vi ho portato ottomila colpi, venticinque kalashnikov e cinquanta bombe a mano" rispose Clay. "Io dico che il compagno Tungata è mio amico e mio fratello. Io dico che se qua ci sono solo donne e vigliacchi e neanche un guerriero che venga con me, allora andrò da solo con questa donna, Sarah, che ha il cuore di un guerriero, e cercherò degli uomini da qualche altra parte." La faccia del compagno Occhi-aperti si accigliò per l'indignazione, torcendo lo sfregio, e il suo tono fu colmo di rimprovero. "Che non si parli più di donne e di vigliacchi, Kufela! Che non si parli più affatto! Andiamo piuttosto a Tuti, a fare quello che dobbiamo fare. Questo è quello che dico io." Accesero il segnale di fumo non appena udirono il ronzio del Cessna, e lo spensero immediatamente dopo che Sally-Anne, lampeggiando con le luci di segnalazione, fece capire di averlo visto. Gli uomini del compagno Occhi-aperti avevano tagliato l'erba della radura coi panga e avevano spianato un po' il terreno, così l'atterraggio di Sally-Anne fu più facile dell'ultima volta. I guerriglieri scaricarono il resto delle armi e munizioni in silenzio, molto disciplinati, ma non nascondevano il sorriso di contentezza, passandosi i proiettili, i mitra e le bombe a mano. Erano i ferri del loro mestiere. Il carico scomparve in fretta nella foresta. Nel giro di un quarto d'ora, Clay e Sally-Anne restarono soli sotto le ali del Cessna scarico. "Sai che cosa pregavo? Pregavo che non li trovassi, o che trovandoli rifiutassero di seguirti, e tu fossi obbligato a rinunciare e tornassi via da questo paese con me." "Non devi essere una campionessa in questo ramo, allora." "Non saprei, ma temo che nei prossimi giorni farò un sacco d'esercizio." "Nei prossimi cinque giorni" precisò Clay. "Tornerai martedì mattina." "Bene" annuì lei. "Decollerò di notte e sarò sopra il campo d'aviazione di Tuti al levar del sole, cioè alle 5 e 22." "Ma non atterrerai finché non ti avrò segnalato che la pista è sicura. E, per l'amor del cielo, ti raccomando di non restare senza benZzina in aria per esser stata su troppo ad aspettarci. Se non ci facciamo vedere, non sperare nel miracolo e taglia la corda." "Avrò tre ore a disposizione per incrociare sopra il campo di [ Tuti prima di dover tornare alla base. Ciò vuol dire che posso aspet[tarvi fino alle 8 e 30." "Se a quell'ora non ci saremo, sarà inutile aspettarci ancora. Adesso va', amore mio. E ora che tu parta." "Lo so" disse Sally-Anne, ma non si mosse. "Devo andare" le disse Clay. "Non so come farò nei prossimi cinque giorni, là in mezzo al deserto, senza notizie, senza niente, nutrendomi del mio terrore e della mia immaginazione." Egli la prese tra le braccia e si accorse che tremava. "Ho tantissima paura per te" glisussurrò contro il collo. "Ci vediamo martedì mattina" ripeté lui. "Senza fallo." "Senza fallo!" confermò lei, e poi la voce le tremò. "Torna da me, Clay. Non voglio vivere senza di te. Promettimi che tornerai." "Prometto." La baciò. "Ah, adesso sì che mi sento meglio." Gli ammannì il sogghigno sfrontato che sapeva fare solo lei, ma non le riuscì tanto bene stavolta. Saltò in cabina di pilotaggio e accese il motore. "Ti amo?" le lesse Clay sulle labbra, dato che già il rombo del Cessna copriva le parole. L'aereo decollò e lei se ne andò senza voltarsi indietro.
Sulla carta geografica la distanza era solo di centoventi chilometri, e dall'aereo non sembrava neanche un terreno difficile. Ma farli a piedi risultò ben diverso. Se il bacino dello Zambesi era un pettine di cui le vallate collinari rappresentavano i denti, il loro itinerario li attraversava tutti, così che non camminavano mai su terreno pianeggiante ma sempre in salita o in discesa, attraversando ogni volta i corsi d'acqua del fondovalle che scorrevano da sinistra a destra rispetto a loro. I guerriglieri avevano lasciato le donne in un posto sicuro, e avevano acconsentito alla venuta di Sarah con riluttanza. Lei però portava un carico completo, al pari degli altri guerriglieri, e teneva agevolmente il passo spedito che il compagno Occhi-aperti aveva imposto alla banda. Le colline di granito riflettevano il sole contro di loro, rendendo le salite alquanto penose. Le discese, tuttavia, non erano da meno, giacché il pesante carico che ognuno portava esigeva un notevole tributo dalle schiene indolenzite e dai tendini d'Achille. Il vecchio sentiero di elefanti che stavano seguendo era cosparso di ghiaia che rotolava sotto i piedi come un tappeto di biglie, rendendo ogni passo pericoloso. Uno dei guerriglieri cadde e la caviglia gli si gonfiò tanto che non riusciva più a rimettersi lo stivale. Gli altri si divisero il suo carico e lo lasciarono lì, affinché tornasse, presumibilmente saltellando su una gamba sola, verso il luogo dove avevano mandato le donne. Le piccole api che si annidano sui mopani li perseguitavano di giorno, entrandogli nelle narici e negli occhi nella loro continua ricerca di nettare; e di notte il loro posto era preso dalle zanzare che salivano a vampirizzarli dalle pozze d'acqua stagnante e dai torrenti del fondovalle. A un certo punto, durante il viaggio, attraversarono la linea della mosca tse-tse, che si aggiunse ai loro tormenti: silenziosa, leggera, si posava così piano che la vittima non se ne accorgeva finché il suo bruciante pungiglione non colpiva nella carne morbida dietro l'orecchio o sotto l'ascella. E c'era sempre il pericolo di attacchi. Ogni pochi chilometri gli esploratori all'avanguardia o quelli di retroguardia lanciavano segnali d'allarme, e la colonna di guerriglieri doveva lasciare il sentiero e nascondersi nel folto, col dito sul grilletto, finché non arrivava il cessato allarme. Era un viaggio lento e snervante: due giorni interi di marcia dal mattino gelido al meriggio torrido e di nuovo all'oscurità, verso il villaggio del padre di Sarah. Il suo nome era Vusamanzi ed era un anziano stregone, guaritore e mago della pioggia della tribù matabele. Come tutti i suoi pari viveva isolato, solo con le sue mogli e i pa}renti più stretti. Per quanto grande fosse il rispetto di cui godevano gli stregoni, i comuni mortali preferivano evitarli in quanto praticavano le scienze occulte: andavano da loro solo per farsi curare e farsi leggere il futuro, pagavano la capra o la gallina dell'onorario, e se la battevano in fretta e con tanti ringraziamenti. Il villaggio di Vusamanzi era qualche chilometro a nord della missione di Tuti. Era una prospera comunità sulla sommità di una collina, con tante donne, capre, galline e diversi campi di mais nel fondovalle. I guerriglieri si acquattarono nella foresta, sotto il kopje, e mandarono Sarah a vedere se tutto era a posto nel villaggio e ad avvertire i paesani della loro presenza. Sarah tornò nel giro di un'ora, e Clay con il compagno Occhi-aperti la accompagnò su di nuovo. Vusamanzi, il suo nome, che significa Colui-che-alza-le-acque, se l'era guadagnato per l'abilità dimostrata nel controllare il flusso dello Zambesi e dei suoi affluenti. Da giovane, aveva mandato una piena a spazzar via il villaggio di un capo di secondaria importanza [che non l'aveva pagato; e anche altre persone che in qualche modo
l'avevano offeso erano misteriosamente affogate in pozze d'acqua dove si stavano bagnando. Si diceva che bastava una parola di Vusamanzi perché la superficie calma di un laghetto saltasse su sibilando e turbinando all'avvicinarsi di un suo nemico, che andava a bere o a nuotare, inghiottendolo. Nessun vivente aveva mai visto coi suoi occhi un simile fenomeno accadere: ciò non toglieva però che Vusamanzi non aveva problemi a riscuotere i crediti. Vusamanzi aveva i capelli candidi e la barbetta, pure candida, a punta di picca, come usano gli zulu. Sarah era nata che lui era già vecchio, ma ne aveva ereditata la bellezza: era infatti un uomo ancora dritto e imponente. Non era addobbato, indossava un semplice perizoma: accolse Clay cortesemente, con poche parole dette con voce ferma e profonda. Chiaramente Sarah lo riveriva: prese della birra da una delle sue mogli più giovani e gliela porse, in ginocchio, lei stessa. A sua volta Sarah era amata in maniera particolare dal vecchio, che le sorrideva con affetto e, quando si fu seduta ai suoi piedi, la accarezzò sulla testa mentre ascoltava attentamente quello che Clay aveva da dirgli. Poi la mandò dalle sue mogli a preparare cibo e birra da portare ai guerriglieri nascosti nella vallata, prima di rivolgersi nuovamente a Clay. "L'uomo che chiamano Tungata Zebiwe, Colui-che-perseguela-giustizia, nacque Samson Kumalo, un discendente in linea diretta di Mzilikazi, il primo re e padre del nostro popolo. E colui che le profezie degli antichi hanno descritto. La notte che è stato catturato dai soldati shona avevo mandato a informarlo della sua responsabilità nei confronti dei matabele e dei segreti dei nostri re. Se è ancora vivo, come dice mia figlia, è dovere di ogni matabele far tutto il possibile per liberarlo. Il futuro della nostra tribù è nelle sue mani. Come posso aiutarvi? Dovete soltanto domandare." "Ci hai già dato da mangiare" lo ringraziò Clay. "Adesso ci servono delle informazioni." "Domanda, Kufela. Ti dirò tutto quello che vorrai." "La strada tra la missione di Tuti e il campo dei soldati passa qui vicino, è vero?" "Dietro quelle colline" indicò il vecchio. "Sarah mi ha detto che ogni settimana passano i camion diretti al campo, sempre nello stesso giorno, carichi di provviste e nuovi prigionieri." "E così. Passano lunedì nel tardo pomeriggio, carichi di sacchi di mais e altre cose. Il martedì mattino tornano indietro." "Quanti camion sono?" "Due o raramente tre." "Quanti soldati ci sono di scorta?" "Due davanti, di fianco all'autista, altri tre o quattro sul cassone. Uno sul tetto col grande fucile che spara veloce." Una mitragliatrice pesante, tradusse Clay. "I soldati stanno molto attenti e i camion vanno forte." "Lunedì scorso sono passati come al solito?" domandò Clay. "Come al solito!" Vusamanzi annuì chinando il bel capo candido, luminoso come lana. Clay pensò dunque che la routine non avrebbe avuto mutamenti e puntò tutto su questa eventualità. "Quanto dista la missione da qui?" domandò. "Da lì a lì." Lo stregone coprì con la mano aperta un tratto di cielo che il sole percorre in circa quattro ore: cioè, al passo di un guerriero a piedi, una trentina di chilometri. "E da qui al campo dei soldati?" proseguì Clay. Vusamanzi alzò le spalle. "E la stessa distanza." "Bene." Clay spiegò la carta geografica. Questa equidistanza gli permetteva di calcolare con una certa precisione tempi e percorsi, che annotò ai margini della mappa. "Abbiamo un giorno di attesa" disse Clay alzando di nuovo gli occhi. "Così gli uomini possono riposare e prepararsi."
"Le mie donne li nutriranno" concordò Vusamanzi. "Poi, lunedì, avrò bisogno dell'aiuto di qualcuno di voi." "Ma qui ci sono solo donne" osservò il vecchio; "E donne mi servono" glidisse Clay. "Donne giovani e carine." La mattina dopo, prima dell'alba, Clay e il compagno Occhiaperti, con un messaggero al seguito, andarono a vedere il tratto di strada al di là delle colline. Era, come ricordava Clay, una pista di terra battuta dove i camion pesanti avevano tracciato profondi solchi: ma la Terza Brigata aveva provveduto a sfoltire la vegetazione ai margini per ridurre il rischio di imboscate. Poco prima di mezzogiorno raggiunsero il posto dove Peter Fungabera aveva fatto sosta per il pranzo la volta che erano andati al campo di rieducazione: là dove la pista imboccava il ponte di tronchi che attraversava il fiume verde, nel luogo in cui avevano mangiato le pannocchie abbrustolite. Clay notò che ricordava benissimo il posto. La pista scendeva ripida dalla collina e curvava per imboccare la stretta rampa di terra battuta che portava al ponte: in quel tratto sicuramente i camion dovevano andare molto piano. Era un punto ideale per un'imboscata, e Clay spedì il messaggero di corsa al villaggio di Vusamanzi a chiamare gli altri guerriglieri. Mentre li aspettavano, Clay e il compagno Occhi-aperti adattarono il piano al terreno reale. L'attacco principale doveva svolgersi sul ponte, ma, se falliva, occorreva avere un piano di riserva per impedire comunque ai camion di passare. Appena tutti i guerriglieri arrivarono, Clay mandò Occhi-aperti con cinque uomini a vedere la strada oltre il ponte. Dopo la prima curva, invisibile dal ponte, c'era un grosso albero di mhoba-hoba che abbatterono in mezzo alla strada creando un efficacissimo blocco. Il compagno Occhi-aperti avrebbe comandato il distaccamento che aveva il compito di attaccare in quel punto, mentre Clay gli uomini dell'imboscata al ponte. "Chi sono quelli che parlano shona?" chiese Clay. "Questo qui parla come uno shona, quest'altro un po' meno bene." "Non devono combattere, non possiamo rischiare di perderli perché ci serviranno al campo." "Li terrò alla larga io" promise il compagno Occhi-aperti. "E adesso le ragazze." Sarah aveva scelto tre sue sorellastre al villaggio, dai sedici ai diciotto anni. Erano le più belle delle infinite figlie del vecchio stregone, e quando Clay spiegò loro il compito che dovevano svolgere, si misero a ridacchiare coprendosi il volto con le mani e facendo tutte le altre mossette del pudore e della modestia virginale. Ma era anche troppo chiaro che l'idea le solleticava. Nella loro giovane vita non era mai successo nulla di così eccitante e titillante. "Hanno capito?" chiese Clay a Sarah. "Guarda che sarà una cosa pericolosa: devono fare esattamente come abbiamo detto." "Sarò con loro anch'io" lo rassicurò Sarah. "Anche stanotte... specialmente stanotte." Non le erano sfuggiti gli sguardi d'intesa che si erano scambiate coi giovani guerriglieri. Le portò via come un branco di oche, sempre ridacchiando, fino alla capanna che si erano costruite con rami spinosi poco lontano, e si mise davanti alla porta. "Queste spine terrebbero lontano un leone mangiauomini, Kufela" disse a Clay "ma non so se funzioneranno con un ragazzo pieno di pruriti e una ragazza pronta a grattarlo... Credo che stanotte dormirò poco." Alla fine anche Clay dormì pochissimo. Gli tornarono gli incubi. Gli stessi che l'avevano fatto quasi diventare pazzo durante la lunga e lenta convalescenza dopo la perdita della gamba sul campo minato. Era intrappolato nei brutti sogni, incapace di salvarsi svegliandosi: fu Sarah a scuoterlo, e tornò in sé che tremava così forte che gli battevano i denti, e aveva la camicia tutta madida di sudore.
Sarah capì. Compassionevolmente, si sedette accanto a lui e gli tenne la mano finché non gli passò il tremito, e poi si misero a chiacchierare, sussurrando per non disturbare gli altri. Parlarono di Tungata e di Sally-Anne, e di ciò che volevano dalla vita e delle loro possibilità di ottenerlo. "Quando avrò sposato il compagno ministro, potrò parlare per tutte le donne matabele. Troppo a lungo sono state trattate dai loro uomini come cose. Nonostante sia diplomata maestra e infermiera, ancor oggi io devo mangiare al fuoco delle donne. Dopo questa, quindi, ci sarà un'altra campagna da combattere per ottenere per le donne della mia tribù i diritti e il rispetto che meritano. Clay provò grande simpatia e considerazione per Sarah. Eraproprio la moglie adatta per un uomo come Tungata Zebiwe. Mentre chiacchieravano, riuscì a dominare la paura per l'indomani, e la notte passò così in fretta che quando guardò l'orologio ne fu sorpreso. "Le quattro, è ora di muoversi" sussurrò. "Grazie, Sarah." Io non sono un uomo coraggioso, e avevo proprio bisogno del tuo aiuto." La ragazza si alzò agilmente in piedi e rimase per un attimo ferma a guardarlo. "Non ti fai giustizia: io credo che tu sia invece un uomo molto coraggioso" disse dolcemente. Poi andò a svegliare le sorelle.
Il sole era alto, e Clay stava accoccolato tra due grossi massi tondi, neri e levigati dall'acqua, sull'altra riva del fiume. Il kalashnikov era su un sasso, davanti a lui, già puntato verso la rampa del ponte di tronchi e i sabbioni sulla riva opposta. Aveva contato i passi di distanza, una sessantina di metri: non c'era possibilità di sbagliare il bersaglio. "Fa' che non sia necessario" pregò, e controllò un'altra volta le posizioni di tutti. C'era un gruppo di quattro guerriglieri sotto il ponte, seminudi. Benché avessero i fucili appoggiati ai piloni, a por{tata di mano, erano armati di archi e frecce come per la caccia agli elefanti: archi di due metri della cui efficienza si era permesso di du-bitare finché non gli avevano fatto una dimostrazione pratica. Erano di legno duro ed elastico, avvolto da strisce di pelle non conciata di kudu ripetutamente bagnate e seccate intorno all'arco in maniera da restringersi e diventare dure come l'acciaio. La corda dell'arco era di nerbo intrecciato, dura quasi come una fune di nailon da alpinista. Anche mettendocela tutta, Clay non era stato capace di tenderla al massimo. La forza da applicare superava forse i cinquanta chilogrammi: tirare quella corda richiedeva allenamento e muscoli appositamente sviluppati delle braccia e del torace. La punta delle frecce era di ferro dolce, acuminata come un ago per facilitare la penetrazione. Uno degli arcieri tirò a un baobab da una trentina di passi: la punta della freccia entrò tutta nel legno fibroso e carnoso dell'albero e non si poté toglierla che spezzandola. Quella stessa freccia avrebbe attraversato da parte a parte un uomo adulto senza la minima difficoltà, come del resto attraversava la cassa toracica di un elefante, se non incontrava la costola. Così, adesso c'erano quattro arcieri sotto il ponte, e altri dieci guerriglieri nascosti fra le canne della riva. Si vedevano solo le teste, e dalla strada risultavano coperti dal ciglione del fiume. Il rombo del motore dei camion che si avvicinavano cambiò. Stavano arrivando in cima alla collina, tra un attimo avrebbero affrontato la ripida discesa che portava al ponte e al luogo dell'imboscata. Clay stesso aveva percorso a piedi quella strada in cerca di segni che avrebbero potuto mettere in allarme i soldati sul camion. Gli venne buono il vecchio addestramento nella polizia rhodesiana: cercava rifiuti, impronte o erba schiacciata sulla terra battuta della pista, sul ciglio della strada e sulle rive sabbiose del fiume visibili
dalla pista. Non scoprì alcunché in grado di rivelare la loro presenza. "Dobbiamo andare dentro, adesso" disse Sarah. Con le sorelle era acquattata dietro i massi vicino a Clay. Aveva ragione: era troppo tardi per cambiare qualunque parte del piano o accordarsi diversamente; il ballo era già cominciato e bisognava ballare. "Andate" le disse Clay. Sarah si alzò in piedi e si levò la camicetta di tela jeans, buttandola sulla sabbia. In fretta, le sorelle minori la imitarono spogliandosi dei loro perizoma. Erano nude tutte e quattro, a parte i piccoli gonnellini ornati di perline che, appesi alla vita da una collanina, pendevano sul monte di Venere sobbalzando e mettendo in mostra il sesso a ogni passomentre correvano all'acqua. Le natiche polpose e giovani erano scoperte e vibravano golosamente sotto la cintura di perline. "Ridete!" gligridò dietro Clay. "Scherzate con l'acqua!" Erano completamente a loro agio, così nude. Nelle zone rurali, queigonnellini striminziti erano il vestito di tutti i giorni delle ragazze nubili e non sofisticate della tribù matabele. Anche Sarah l'aveva indossato finché non era andata in città a studiare. Si misero a spruzzarsi. L'acqua scintillava sulla loro carne scura e luminosa, e le loro risate erano eccitanti e divertite. Qualunque uomo ne sarebbe stato attratto. Tuttavia Clay notò che i guerriglieri non ci badavano. Non si erano nemmeno girati a guardarle. Erano professionisti al lavoro, con tutta l'attenzione rivolta al difficile e pericoloso compito che li aspettava. Il primo camion scollinò: era un Toyota da cinque tonnellate, identico a quello che li aveva inseguiti oltre il confine del Botswana. Era dipinto dello stesso color sabbia e dietro al primo ne apparve un secondo. In cima alla cabina era montata una mitragliatrice servita da un soldato. Erano sovraccarichi. "Basta!" pregò Clay all'apparire del secondo camion. "Per piacere, due soltanto!" e imbracciò il kalashnikov. La canna era addobbata di festoni vegetali per mimetizzarla, ed egli si era spalmato la faccia e le mani di creta nera trovata in riva al fiume. I camion erano solo due. Imboccarono la rampa e rallentarono alla vista di Sarah e le sorelle nell'acqua fino al ginocchio. Le ragazze si misero ad ancheggiare ridacchiando provocanti e facendo sobbalzare le mammelline piccole e lucenti. Nella cabina del camion di testa c'erano due uomini. Uno era un graduato, Clay distinse oltre il parabrezza impolverato lo scintillio dei galloni. Sogghignava e i denti scintillavano quasi come le mostrine. Parlò all'autista e un cigolio di freni denunciò la fermata del camion all'imbocco del ponte. Anche il secondo camion fu obbligato a fermarsi. Un giovane ufficiale aprì la portiera e scese sul predellino. I soldati sul cassone e il servente della mitragliatrice si misero a fissare le ragazze sghignazzando e lasciandosi andare a commenti ribaldi. Le ragazze, sull'esempio di Sarah, si calarono in acqua nascondendo il sesso e risposero agli scherzi salaci simulando una ritrosia tutta campagnola. A quel punto anche i soldati del secondo camion saltàrono giù per unirsi allo spasso generale. Una delle ragazze più grandi fece un gesto un po' osceno con pollice e indice provocando un ruggito di risate maschili e un altro gesto ancora più esplicito da parte dell'ufficiale. Ormai tutti i soldati erano scesi a divertirsi: solo i due serventi delle mitragliatrici erano rimasti al loro posto sopra le cabine di guida. Clay diede un'occhiata sotto il ponte. Gli arcieri stavano strisciando sulla riva, alle spalle dei soldati schiamazzanti. Nel fiume, Sarah si alzò. Si era tolta il gonnellino a fronzoli e ora lo teneva in mano, dondolandolo in maniera adescatoria. Si avviò verso i soldati sulla riva, provocando sensuali vortici d'acqua intorno alle cosce, che fecero tacere all'istante tutte le risate. Camminava piano, e la corrente del fiume esaltava il dondolio avvolgente del bacino. Era snella e seducente come un'otaria bagnata, il sole
sulla pelle stillante verniciava il suo corpo meravigliosamente attribuendogli barbagli celestiali, e, anche dal punto in cui si trovava, Clay sentì che l'umore scherzevole dei soldati shona si stava ispessendo di sensualità e cominciava a emettere vapori di furiosa foia. Sarah si fermò poco lontano da loro, mise le mani a coppa sotto le mammelle, e le sollevò, puntando i capezzoli verso i soldati. Adesso erano tutti concentrati a fissarla, anche i mitraglieri in cima ai camion la guardavano rapiti e incantati. Dietro di loro i quattro arcieri erano arrivati sotto la rampa di terra battuta. Non distavano più di dieci passi dai soldati quando si misero in ginocchio tutti insieme e tesero l'arco. L'arma si piegò, la mano destra giunse presso le labbra, i muscoli della schiena si tesero guizzando mentre prendevano la mira e poi, uno dopo l'altro, scoccarono le frecce. Non si udì alcun rumore, nemmeno il più piccolo sibilo. Uno dei mitraglieri si afflosciò a capofitto in avanti, restando impigliato coi piedi sotto il sedile e testa e braccia abbandonate all'ingiù. L'altro si arcuò all'indietro, con la bocca spalancata ma senza emettere alcun suono, e cercò di voltarsi, rigido, schidionato da una freccia tra le scapole. Un'altra freccia lo raggiunse subito, una spanna sotto, ed egli si contorse negli spasimi dell'agonia e si abbatté sul castelletto della mitraglia. Gli arcieri cambiarono bersaglio e le frecce silenziose volarono nel gruppo di soldati in riva al fiume. Un uomo urlò. Nello stesso momento i guerriglieri nascosti tra le canne schizzarono fuori dal l'acqua e si gettarono sui soldati proprio mentre costoro si giravano per affrontare gli arcieri. I guerriglieri nudi li colpirono dal basso mulinando i panga a lama lunga come tennisti impegnati in una serie di volée di dritto. Un panga calò sul cranio del graduato spiccandoglielo fino al mento. Sarah si voltò e corse verso l'altra riva, raccogliendo le sorelle minori, una delle quali urlava dal raccapriccio. Si sentì uno sparo solo, dopo di che tutti i soldati shona erano a terra, mentre i guerriglieri li finivano a colpi di lama. "Sarah" le gridò Clay quando raggiunse la riva assieme alle ragazze. "Scappate nella boscaglia." Così fecero, dopo aver raccolto gli indumenti sulla sabbia. Col mitra imbracciato Clay attraversò il fiume sul ponte. I guerriglieri stavano già spogliando i morti. Lavoravano con destrezza e pratica evidente, prima gli orologi da polso e poi il contenuto delle tasche e degli zainetti. "Qualcuno è stato colpito?" chiese Clay, preoccupato dallo sparo. No, non c'erano perdite né feriti. Clay diede loro due minuti per finire coi cadaveri, poi spedì una pattuglia a sorvegliare la strada dalla cima della collina a scanso di brutte sorprese. Tornò a occuparsi dei morti shona, ordinando di seppellirli nella fossa comune preparata all'uopo il giorno prima. I guerriglieri ci gettarono i cadaveri nudi. Sulla fiancata di uno dei camion c'era del sangue, dove era rimasto appeso il mitragliere. "Lavatelo via." Uno dei guerriglieri ci versò sopra un secchio d'acqua del fiume. "E lavate queste uniformi." In meno di un'ora sarebbero asciugate. Sarah tornò prima che l'opera di sepoltura finisse; si era completamente rivestita. "Ho rimandato le ragazze al villaggio, conoscono bene la zona e ci arriveranno tranquillamente da sole. "Hai fatto bene" disse Clay, salendo sul camion. Le chiavi erano nel quadro. Dalla boscaglia tornarono i guerriglieri e Clay chiamò i suoi aiutanti scelti. Quello designato a guidare il secondo autocarro accese il motore, e assieme attraversarono il fiume e imboccarono la salita della collina dall'altra parte. L'intera operazione aveva richiesto meno di mezz'ora. Raggiunsero l'albero abbattuto di mhoba-hoba e
il compagno Occhi-aperti saltò in mezzo alla pista indicandogli una deviazione. Ci portarono i camion, al riparo della macchia fitta, e subito i guerriglieri coprirono i due veicoli di rami e cominciarono a scaricare. C'erano quintali di farina di mais, carne in scatola, coperte, medicine, sigarette, munizioni, sapone, sale e zucchero: tutta roba di incalcolabile valore per i guerriglieri matabele. Tutto fu portato via e nascosto da qualche parte nella foresta, Clay lo sapeva bene, per essere recuperato all'occorrenza. C'erano poi una dozzina di zaini contenenti gli effetti personali dei soldati, un vero tesoro di divise e altri indumenti militari della Terza Brigata, compresi due dei famosi baschi rossi col leopardo d'argento. Mentre i guerriglieri si infilavano le uniformi, Clay guardò l'orologio. Erano appena passate le cinque. Clay aveva osservato che al campo di Tuti il radiotelegrafista azionava il generatore di corrente alle sette di sera, tutti i giorni. Diede un'occhiata alla radio del camion e notò che aveva una potenza di quindici ampère, più che sufficiente per raggiungere il campo di Tuti ma non tale da poter chiamare Harare, dove stavano i quartier generali. Questo era un gran vantaggio. Chiamò il compagno Occhi-aperti e Sarah in cabina di guida e ripassarono il piano. Sally-Anne sarebbe arrivata sopra la pista alla missione di Tuti l'indomani mattina alle cinque e venti, e avrebbe cominciato a incrociarvi sopra per un periodo che poteva protrarsi al massimo fino alle otto e mezzo. Clay calcolò tre ore per raggiungere la pista dal campo di concentramento, un tempo più che abbondante per coprire la sessantina di chilometri, e che prevedeva la possibilità di qualche fermata o piccolo inconveniente. In teoria avrebbero dovuto lasciare il campo di concentramento alle due e mezzo della notte: al più tardi, alle cinque del mattino. Ciò significava che l'ora d'arrivo al campo doveva aggirarsi intorno alla mezzanotte. Due ore e mezzo per conquistarlo, rifornire i camion di gasolio, liberare i prigionieri, trovare Tungata e battersela. "Va bene" disse Clay. "Ripassiamo i nostri obiettivi gruppo per gruppo. Comincia tu, Sarah." "Prendo i miei due coi tronchesi e andiamo subito alla baracca numero uno.,," Clay le aveva assegnato due uomini. Non era affatto certo che Tungata fosse in grado di camminare da solo. La baracca numero uno era un po' scostata dalle altre, circondata da un recinto speciale di filo spinato, ed era usata con tutta evidenza come braccio di sicurezza. Sarah aveva notato che Tungata veniva da lì, accompagnato dai soldati, la prima volta che si erano visti al campo. "Quando lo troviamo, lo portiamo indietro al punto d'incontro principale al cancello d'ingresso. Se è in grado di camminare senza aiuto, i miei due uomini andranno ad aprire le altre celle per liberare i prigionieri." "Bene." Aveva imparato tutto perfettamente. "Adesso il secondo gruppo." "Cinque uomini si occuperanno delle sentinelle sulle torrette agli angoli del campo.,," Occhi-aperti ripeté il piano d'attacco. "Ci siamo, allora" disse Clay alzandosi. "Ma tutto dipende da una cosa sola, l'abbiamo già ripetuto cinquanta volte, ripetiamolo un'altra ancora: dobbiamo arrivare alla radio prima che diano l'allarme. Abbiamo circa cinque minuti per farlo dopo il primo sparo: due minuti perché l'operatore capisca di che si tratta, due minuti per avviare il generatore di corrente e aspettare che vada al massimo, un altro minuto per mettersi in contatto con Harare e dar l'allarme. Se il radiotelegrafista ci riesce, siamo tutti morti." Controllò l'orologio. "Le sette e cinque, possiamo chiamare. Dov'è quello che parla shona?" Con cura Clay concordò con il guerrigliero ciò che doveva dire, e gli fece piacere constatare che si trattava di una persona intelli-
gente. "Digli che il convoglio ha dovuto fermarsi per strada. Si è guastato uno dei camion; lo stanno riparando, però arriveranno di notte, molto più tardi del solito" ripeté. "Bene." "Se cominciano a far domande, gli dici che non ricevi chiaro, ripeti che tarderemo ad arrivare, passi e chiudi." Clay ascoltò ansiosamente la trasmissione per lui incomprensibile in shona: non riuscì a cogliere nel tono del marconista al campo nessuna traccia di inquietudine o sospetto. Il falso operatore-radio porse il microfono a Clay e l'informò che al campo avevano preso per buona la storia e li aspettavano a tarda sera. "Bene" disse Clay. "Adesso possiamo mangiare e riposare." Tuttavia Clay non riuscì a mangiare. Aveva lo stomaco chiuso per la tensione del combattimento della notte, e l'orrore di quello svoltosi sul ponte. Quei panga mulinanti con odio e micidiale abilità avevano infitto ai nemici terribili mutilazioni. Durante la guerra d'indipendenza aveva assistito a parecchie morti nelle maniere più sgradevoli, ma non ci si era mai abituato, e lo facevano ancora star male.
"C'è troppa luna" , pensò Clay spiando fuori del telone del primo camion. Mancavano solo quattro giorni alla luna piena, ed era così alta e luminosa da gettare ombre nette sulla terra. Il camion sobbalzava sulla pista ineguale e la polvere che alzava gli entrava in gola. Non aveva osato sistemarsi in cabina di guida, nemmeno con la faccia annerita. Un occhio esercitato avrebbe riconosciuto subito il bianco mascherato. Accanto all'autista sedeva il compagno Occhiaperti, che indossava la divisa di ricambio del graduato caduto, con tanto di basco rosso e leopardo d'argento. Accanto a lui, con l'altro basco rosso, il guerrigliero che parlava shona. Le mitragliatrici pesanti erano cariche e puntate, ognuna servita da un soldato scelto, e gli altri otto con le divise shona erano in bella vista sul cassone, mentre i rimanenti stavano accucciati sotto il telone assieme a Clay. "Finora tutto sta andando bene" mormorò Sarah. "Finora sì, ma io preferisco un brutto inizio a una brutta fine..." osservò Clay. Risuonarono tre colpetti sulla lamiera della cabina, sopra la testa di Clay. Era il segnale del compagno Occhi-aperti: il campo di concentramento era in vista. "Bene, ci siamo, vada come deve andare" , pensò Clay voltandosi a spiare dalla fessura che aveva praticato apposta nel telone. Vide il recinto del campo, con le torrette delle sentinelle che spiccavano come pozzi di petrolio contro il cielo rischiarato dalla luna: cielo che di colpo si accese a opera dei riflettori montati sulle torrette stesse. L'intero complesso del campo era in piena luce come a mezzogiorno. "Il generatore" gemé Clay. "Oh Cristo, hanno azionato il generatore." Era il primo errore di Clay. Aveva previsto che tutto si svolgesse col favore delle tenebre, con le guardie del campo, anzi, abbagliate dai fari del camion: solo adesso riconobbe quant'era logico e ovvio che i soldati accendessero il generatore di corrente per accogliere il convoglio dei rifornimenti e facilitare lo scarico dei camion. Ormai però erano in ballo. Potevano solo andare avanti, nella luce dei riflettori, e Clay era inchiodato sotto il telone dai fortissimi fasci di luce che illuminavano i camion a giorno. Non poteva nemmeno comunicare col compagno Occhi-aperti in cabina. Disprezzandosi per non aver saputo prevedere una situazione del genere, si tenne con l'occhio attaccato allo spioncino.
Le guardie non stavano aprendo il cancello, anzi la mitragliatrice annidata in un riparo di sacchetti di sabbia all'esterno della casamatta delle sentinelle li seguiva con la canna man mano che procedevano. Quattro sentinelle guidate da un sergente uscirono dalla casamatta e cominciarono ad avvicinarsi. Il sergente si piazzò davanti al cancello chiuso e alzò la mano facendo segno all'automezzo di fermarsi. Il camion s'arrestò e il sottufficiale si avvicinò alla cabina di guida e fece una domanda in shona. Il guerrigliero che lo parlava gli rispose con naturalezza, ma evidentemente si trattava della parola d'ordine, perché il sergente cominciò a gridare, allarmato. Era fuori del limitato raggio visivo di Clay, ma egli vide reagire le altre sentinelle. Cominciarono a imbracciare i mitragliatori circondando i camion: il bluff era finito prima ancora di cominciare. Clay diede un colpo sul ginocchio del guerrigliero in uniforme sopra di lui: era il segnale di gettare la bomba a mano che aveva già impugnato con il dito nella linguetta. La bomba partì con parabola perfetta e cadde nel bel mezzo del ridotto della mitragliatrice. Nello stesso istante Clay disse con calma agli uomini ai suoi fianchi: "Ammazzateli." Infilarono le canne dei kalashnikov negli appositi buchi praticati nel telone e uccisero le sentinelle prima ancora che riuscissero a puntare le armi. Il sergente scattò di corsa verso la porta della casamatta, ma il compagno Occhi-aperti si sporse dal finestrino e gli sparò due colpi di pistola nella schiena. Mentre il sergente cadeva fulminato, esplodeva la bomba nel ridotto della mitragliatrice, dietro i sacchetti di sabbia. La canna della temibile arma si puntò al cielo mentre il servente si accasciava ucciso dalle schegge. "Va'!" gridò Clay al conducente, sporgendosi dal telone e urlandogli nel finestrino: "Buttiamo giù il cancello." Il potente motore del Toyota ruggì e il camion schizzò in avanti. Si udì un cozzo fragoroso, l'autocarro vibrò, sussultò, e finalmente abbatté il cancello illuminato a giorno dai riflettori, tirandosi dietro un groviglio di pali metallici e filo spinato. Clay si inerpicò in cima alla cabina di guida, accanto al mitragliere. "A sinistra" glidisse, dirigendo il suo fuoco contro la baracca di malta e paglia appena oltre il cancello. Il mitragliere sparò una lunga raffica sui soldati seminudi che stavano riversandosi fuori della porta. "Le guardie sulla torretta di destra." Ce n'erano due, che stavano mitragliandoli: le pallottole li sfioravano schioccando come frustate intorno alle loro teste. Il mitragliere brandeggiò la canna e il nastro delle pallottole cominciò a scorrere sgranando il suo rosario di morte, mentre i bossoli volavano dappertutto e dalla canna usciva una fiammata ininterrotta. Schegge di legno e vetro schizzarono dalle torrette e le due sentinelle, investite in pieno dalla solida fiumana di piombo rovente, furono sollevate di peso e scagliate contro il parapetto opposto, morte sul colpo. "Baracca numero uno proprio di fronte" gridò Clay a Sarah. Era appiattita sul cassone coi suoi due uomini, e, appena il Toyota rallentò, saltò giù coi due guerriglieri. Il terzetto toccò terra già correndo, impugnando le cesoie nella sinistra mentre con la destra facevano fuoco col kalashnikov stretto all'anca. Clay si lasciò scivolare sul predellino del camion attaccandosi alla cabina di guida. "Al kopje!" urlò all'autista. "Dobbiamo prendere la radio!" Il kopje fortificato era proprio davanti a loro, ma dovevano attraversare il campo di parata che era vasto e scoperto, fino al muro delle esecuzioni bianco ai piedi della collinetta rocciosa. Clay guardò indietro. Sarah e i suoi due avevano raggiunto il baraccamento e stavano trinciando il filo spinato coi tronchesi. Pro-
prio mentre guardava, ci riuscirono ed entrarono di corsa nel recinto interno, sparendo subito nella baracca. Osservò quel che faceva il secondo camion. Stava rombando attorno al perimetro del campo, all'interno del recinto, spazzando con la mitragliatrice le torrette delle guardie, e tacitandole facilmente una dopo l'altra con quelle gragnuole di piombo di grosso calibro. Gli mancavano due sole torrette da neutralizzare, perché ne avevano già sistemate quattro. Lo scoppio di alcune bombe a mano attrasse la sua attenzione verso la caserma delle guardie, che alcuni guerriglieri scaricati dal secondo camion stavano attaccando. Clay li vedeva, chini sotto le finestre, buttar dentro le bombe e poi, dopo lo scoppio, scattare avanti come fulmini, verso le baracche dei prigionieri. Nei primi pochi minuti avevano preso il controllo dell'intero campo. Avevano messo fuori combattimento le torrette, devastato la casamatta delle sentinelle ed entrambe le caserme dei soldati. Provò un'emozione di trionfo, ma poi gli capitò sott'occhio di nuovo il kopje, e quello non l'avevano ancora preso. Mentre ci pensava, una fila di traccianti originò dalle mitragliatrici piazzate nei ripari di sacchetti di sabbia in cima alla collinetta rocciosa. Sembravano uno spruzzo di metallo incandescente: all'inizio andavano piano, ma, una volta che si erano avvicinati, fortissimo, finché cominciò a piovergli addosso una tempesta di pallottole che sollevavano vulcanetti di polvere e schiantavano la lamiera del camion lanciato. Il veicolo si mise a zigzagare, e Clay, aggrappato selvaggiamente all'incastellatura del retrovisore, urlò all'autista di andare avanti. "Dobbiamo prendere la radio!" L'autista lottava con lo sterzo impazzito, e il camion riprese a dirigere sul kopje proprio mentre gli pioveva addosso un'altra raffica della mitragliatrice pesante. Il parabrezza esplose in un mare di schegge adamantine e il guidatore si accasciò contro la portiera, col torace sfondato da una raffica di palle. Clay afferrò la maniglia e aprì la portiera. Il cadavere del guidatore scivolò fuori, a terra. Clay prese il suo posto e schiacciò l'acceleratore a tavoletta. Il camion scattò avanti. Vicino a Clay, il compagno Occhi-aperti stava sparando col kalashnikov dal buco del parabrezza esploso, mentre sopra la testa la mitragliatrice pesante continuava a tempestarli dal kopje con petulanza assordante. Le scie dei proiettili traccianti sembravano scontrarsi e mescolarsi in aria, sopra il campo nudo di parata, e poi Clay vide qualcos'altro. Da una feritoia tra i sacchetti di sabbia ai piedi della collina, una macchia nera delle dimensioni di un ananas volò verso di loro con un codino di fiamme. Clay capì subito di che si trattava, ma non ebbe nemmeno il tempo di mettere sull'avviso Occhi-aperti che già il razzo RPG-7 li colpiva. Urtò basso sul muso del camion, e solo per questo si salvarono. L'esplosione fu assorbita dal blocco motore, tuttavia strappò il muso all'automezzo e lo arrestò di colpo come un urto frontale contro una montagna. Il Toyota franò sopra il proprio muso scassato e Clay fu proiettato fuori della portiera aperta. Strisciò sulle ginocchia, rizzandosi a fatica, e vide il fascio di traccianti dirigersi verso di lui. Uno spruzzo di terriccio e di argilla seccata lo frustò in faccia e dovette gettarsi subito di nuovo a terra. Intorno al camion fermo giacevano sparsi dei guerriglieri feriti o contusi. Un uomo era rimasto intrappolato sotto il camion col bacino e gridava come un coniglio finito nella tagliola. "Avanti" gridò Clay in sindebele. "Al muro, al muro! Correte al muro!" Saltò su e si mise a correre. Il muro imbiancato delle esecuzioni era a una trentina di metri, sulla destra, e un pugno di uomini udì Clay e lo seguì.
La mitragliatrice tornò verso di loro sputando piombo. Una sibilante gragnuola di frustate prossime alla testa fece barcollare Clay come un ubriaco: ma si riprese, mentre l'uomo davanti a lui cadeva falciato a entrambe le gambe. Mentre Clay lo superava, egli rotolò sulla schiena e gli lanciò il kalashnikov. "Prendi, Kufela, io sono morto." Clay afferrò il mitra al volo senza perdere un passo. "Sei un uomo" disse al guerrigliero abbattuto, e scattò avanti. Già il compagno Occhi-aperti era arrivato al riparo del muro, ma il mitragliere in cima al kopje ce l'aveva con Clay e lo cercò con un'altra raffica, sollevando una pioggia di terra nei pressi dell'uomo bianco. Clay si gettò al riparo dell'angolo del muro a piedi avanti, come fanno i giocatori di baseball, mentre intorno grandinavano i colpi. Continuò a rotolare finché non urtò contro il muro, e lì si accovacciò per tirare il fiato, ansimando a più non posso. Solo il compagno Occhi-aperti e altri due ce l'avevano fatta a raggiungere il muro: tutti gli altri guerriglieri matabele erano morti nel camion o giacevano senza vita o feriti sullo spiazzo davanti al kopje e al muro. "Dobbiamo prendere quella mitragliatrice" ansimò Clay, e il compagno Occhi-aperti gli rise in faccia. "Vacci tu, Kufela, ti guarderemo con grande interesse." Un altro razzo anticarro colpì il muro assordandoli e coprendoli di calcinacci. Clay rotolò su un fianco e controllò la carica del kalashnikov. Il caricatore era pieno. Il compagno Occhi-aperti gliene diede un altro: in più Clay aveva una pistola Tokarev alla cintola e due bombe a mano nelle tasche della camicia. Lanciò un'altra occhiata veloce dietro l'angolo del muro e istantaneamente una raffica di mitragliatrice pesante sgretolò i mattoni vicino al punto in cui era apparsa la sua testa. Tornò al riparo e rifletté. La collina iniziava a una cinquantina di metri, ma era come se fossero cinquanta chilometri, non c'era verso di arrivarci interi. Erano incastrati, senza speranza, la mitragliatrice in cima al kopje dominava tutto il campo. Nessuno poteva muoversi sotto i riflettori senza attirarsi immediatamente una raffica o un razzo dal bazooka. Clay guardò nervosamente in giro, in cerca del secondo camion, ma il sensibile autista l'aveva parcheggiato subito dietro qualche baracca non appena aveva visto volare il primo razzo anticarro. Non c'erano tracce di altri guerriglieri, erano tutti al riparo, perché avevano già sopportato più perdite di quante potessero permettersi. "Non può finire così..." Clay era divorato dalla propria impotenza. "Dobbiamo prendere quella mitragliatrice!" In cima alla collina, priva di bersagli, la mitragliatrice taceva, ormai; e all'improvviso, nel silenzio, Clay udì cominciare il canto, all'inizio sommesso, di poche voci, poi sempre più forte, a ondate: Perché piangete, vedove di Shangani, quando i fucili a tre gambe ridono così forte? E poi, nel silenzio, echeggiò forte il canto di guerra, ripreso da centinaia di bocche. Perché piangete, figlioletti delle Talpe, quando vostro padre esegue gli ordini del re? E dalle baracche dei prigionieri, a fiumi, si riversò un esercito di figure nude, alcune ciondolanti di debolezza, altre in grado di correre forte, con pietre e mattoni in mano, e pali strappati ai tetti delle baracche dei prigionieri. Pochi, molto pochi, avevano raccolto le armi delle guardie morte, ma tutti quanti cantavano in tono di selvaggia sfida, mentre attaccavano la collina e la mitragliatrice a mani nude. "Oh Cristo!" sussurrò Clay. "Sarà un massacro." In prima fila, brandendo un AK 47, c'era una figura allampanata che sembrava una caricatura della morte stessa, e l'armata di affamati e galeotti la seguiva. Anche conciato com'era, Clay avrebbe riconosciuto Tungata Zebiwe ovunque, da questa parte dell'inferno. "Sam, torna indietro!" gridò, usando il nome con cui aveva
conosciuto il suo amico, ma Tungata proseguì ciecamente all'attacco. Accanto a Clay, il compagno Occhi-aperti osservò con una certa flemma: "Attireranno il fuoco, e sarà la nostra occasione." "Già, prepariamoci" rispose Clay. Il compagno Occhi-aperti aveva ragione: non bisognava lasciarli morire per niente. Proprio mentre così parlava, la mitragliatrice aprì il fuoco. "Aspettate!" Clay prese per il braccio il compagno Occhiaperti. "Presto dovrà cambiare il nastro." E, mentre aspettava che la mitragliatrice esaurisse il primo nastro di colpi, guardò i terribili vuoti che stava creando nelle file dei prigionieri liberati. La corrente dei proiettili traccianti si riversava su di loro come il getto d'acqua di una pompa antincendio. Ma, se la prima fila cadeva, altri ne prendevano il posto, sempre alle calcagna di Zebiwe miracolosamente incolume, un bel tratto avanti agli altri, che sparava correndo col kalashnikov all'anca. A un certo punto il mitragliere lo puntò, una fontana di terra sorse intorno a lui, ma ancora una volta sfuggì ai proiettili. Ed ecco che di colpo la mitragliatrice s'azzittì. "E scarica!" gridò Clay. "Fuori! Fuori! Fuori!" Si lanciarono come centometristi dai blocchi di partenza. Il terreno scoperto, davanti a Clay, sembrava stirarsi fino agli estremi limiti della terra. Un altro razzo anticarro sfrecciò sulle loro teste, e Clay si piegò in due: ma era alto, tirato in preda al panico. Volò sopra il campo di parata e colpì il serbatoio della benzina vicino alla casamatta delle guardie. Il carburante esplose con un rombo di tuono e le fiamme si levarono alte cinquanta metri. L'onda d'urto dell'esplosioné investì Clay, caldissima, però egli continuò a correre e a sparare. Ma, naturalmente, era rimasto indietro rispetto al compagno Occhi-aperti e agli altri guerriglieri. La gamba artificiale non gli permetteva di correre forte verso la collina: ma, mentre correva, contava mentalmente. Un buon soldato può metterci dieci secondi a tirare fuori un nastro nuovo dalla cassetta delle munizioni e infilarlo nel pezzo: da quando avevano abbandonato il riparo, erano passati sette secondi, otto, nove, dieci, adesso ricominciava a sparare! E c'erano ancora venti passi prima del successivo riparo. Il compagno Occhi-aperti aveva raggiunto la prima trincea di sacchetti di sabbia. Ed ecco che una forte martellata colpì Clay, che cadde per terra rotolando, mentre tutt'intorno grandinavano le palle. Si rialzò e continuò a correre: il mitragliere pensava di averlo fatto fuori e già spazzava la moltitudine dei prigionieri liberati. Colpito ma illeso, Clay riprese a correre forte come prima, e capì che l'avevano beccato alla gamba, alla gamba artificiale. Gli venne da ridere. Era ridicolo, ma aveva troppa paura. "Potete farmelo una volta sola" si ripeteva, ed eccolo ai piedi della collina! Si afferrò con una mano alla cima della trincea di sacchetti di sabbia e si issò con un agile volteggio. Si trovò nella trincea deserta. "La radio" si disse, con la volontà concentrata su quell'obiettivo, "dobbiamo prendere la radio." Corse per il camminamento che attraversava il declivio della collina e dietro un angolo vide il compagno Occhi-aperti che si rialzava dal cadavere del soldato col bazooka. "Va' a far tacere la mitragliatrice" gliordinò Clay "che io vado a far tacere la radio." Clay proseguì per i camminamenti protetti dai sacchetti di sabbia dove era stato alloggiato la prima volta che era venuto al campo di rieducazione. "Adesso la prima a sinistra..." Si tuffò nell'apertura, scostando i fili di perline della porta, e sentì gridare freneticamente il radiotelegrafista dal suo alloggiamento in fondo al corridoio. Clay si acquattò nello stretto passaggio e, prima di varcare la soglia, pensò che era
troppo tardi. Troppo tardi! Lo stomaco gli si contorse dalla disperazione. Il marconista, in maglietta e mutande, era aggrappato all'apparecchio radio in un cantuccio dello stanzino. Teneva il microfono con due mani gridandoci dentro l'allarme in inglese, ripetendolo per la terza volta, e, mentre Clay esitava, udì un tonante: "Ricevuto!" sempre in inglese, dal quartier generale di Harare. "Resistete! Vi manderemo subito rinforzi!..." Clay esplose una lunga raffica col kalashnikov, che fece la radio a pezzettini. L'operatore, disarmato, lasciò andare il microfono e si accucciò contro i sacchetti di sabbia, fissando Clay a occhi sbarrati e tremando di terrore. Clay gli puntò il mitra, ma non riuscì a premere il grilletto. Invece, la raffica venne dal corridoio dietro a Clay, facendolo sobbalzare, mentre il radiofonista veniva inchiodato dai proiettili contro la parete di sacchetti di sabbia per poi accasciarsi in una pozza di sangue al suolo. "Sei sempre stato troppo tenero, Paffo" disse una voce profonda accanto a lui. Clay girò la testa e vide la figura allampanata e nuda che torreggiava su di lui, dal volto emaciato e pieno di cicatrici, dagli occhi scuri e fieri di rapace. "Sam!" disse flebilmente Clay. "Mio Dio, come sono contento di rivederti!"
Il primo camion aveva il muso distrutto dal razzo anticarro, il secondo le ruote posteriori rovinate da una raffica di mitragliatrice pesante. I serbatoi dei due automezzi erano vuoti. In breve Clay spiegò a Tungata il piano per uscire dal paese. "Il limite sono le otto: se non siamo al campo d'aviazione di Tuti per quell'ora, dovremo farcela a piedi fino al Botswana. "Da qua alla pista sono sessanta chilometri" osservò Tungata. "E non c'è nessun altro veicolo al campo, due giorni fa Fungabera è andato via con la Land Rover." "Si possono sostituire le ruote del secondo camion con quelle del primo, ma come si fa col gasolio? Sam, abbiamo bisogno del gasolio!" Ma il serbatoio del carburante stava ancora bruciando. Fiamme altissime si levavano nelle tenebre, e dense nuvole di fumo nero sobbollivano sul campo di parata. Alla luce delle fiamme, i cadaveri dei prigionieri falciati dalla mitragliatrice giacevano a mucchi, ma erano morti anche tutti i soldati. Erano stati fatti a pezzi e ridotti in poltiglia dai prigionieri. "Quanti morti" si disse Clay. "Chissà quanti saranno." Non osò darsi una risposta, perché ognuno di quegli uomini era morto per causa sua. Tungata lo stava osservando. Adesso era vestito con indumenti rimediati qua e là negli armadietti delle camerate, tutti troppo stretti e corti per lui: la puzza di galera gli ristagnava ancora addosso come una cappa nera. "Sei sempre stato così" glidisse piano Tungata. "Dopo un lavoro sgradevole... mi ricordo quando sparavamo agli elefanti malati. Poi non mangiavi per dei giorni." "Recuperiamo quel poco gasolio che resta e travasiamolo in un solo serbatoio" disse in fretta Clay. Aveva dimenticato quanto fosse accorto Tungata. Aveva subito intuito il rimorso di Clay. "Intanto farò cambiar le ruote. Ma tu devi far saltar fuori del gasolio, Sam, se no siamo fregati." Clay si voltò e si avviò zoppicando verso il più vicino camion, contento di sfuggire allo scrutinio di Tungata. Il compagno Occhi-aperti lo stava aspettando. "Abbiamo perso quattordici uomini, Kufela" glidisse. "Mi dispiace." Oh mio Dio! che futilità! "Dovevano pur andarsene un giorno o l'altro" replicò il
guerrigliero, alzando le spalle. "Cosa facciamo adesso?" C'erano chiavi a stella tra gli attrezzi dei camion, e gli uomini necessari per sollevare il retrotreno e appoggiarlo su dei ceppi mentre cambiavano le ruote. Clay esercitò la propria supervisione a questo lavoro, mentre si tirava su la gamba dei calzoni e supervisionava anche l'arto posticcio. C'era un bel buco sullo stinco d'alluminio, che dietro, sul polpaccio, in corrispondenza del foro d'uscita del proiettile di grosso calibro, si allargava a stella con spuntoni di lamiera. Si slacciò l'arto metallico e con un martello trovato nel camion ribatté le sbavature, notando con sollievo che l'articolazione della caviglia meccanica non era stata rovinata. "Adesso fa' la brava e resta insieme un altro po', eh?" disse alla gamba nel rimettersela, prodigandole una pacca affettuosa. Poi sostituì il compagno Occhi-aperti che, con la chiave a stella, aveva già svitato due bulloni di una ruota posteriore. Dopo un'ora Tungata arrivò trafelato dove Clay e i suoi stavano finendo di lavorare sugli automezzi scassati per farne uno marciante. Clay era immerso nella morchia fino agli occhi. Sarah correva dietro a Tungata, faticando a tenerne il passo: accanto a lui, anche se aveva il mitra in mano, sembrava una ragazzina. "Niente gasolio" disse Tungata. "Abbiamo perlustrato tutto il campo." "Calcolo che ne abbiamo circa quindici litri" disse Clay alzandosi e pulendosi la faccia con la manica (in realtà spalmandosi di morchia). "Basta a fare sì e no quaranta chilometri, se siamo fortunati." Guardò l'orologio. "Sono le tre, ma dove s'è cacciato il tempo? Sally-Anne arriva là tra due ore, non ce la faremo." "Clay, Sarah mi ha detto quello che hai fatto, tutti i rischi, i piani, tutto..." "Non c'è tempo adesso, Sam." "No. Devo parlare alla mia gente, poi ce ne andremo." I prigionieri sopravvissuti al macello, sul campo di parata, si raccolsero intorno al camion su cui era montato Tungata, in piedi sul cofano. Tutti i visi erano rivolti verso di lui, illuminati dai riflettori del campo. "Devo lasciarvi" disse loro Tungata, ed essi mugugnarono. "ma il mio spirito rimane con voi, e starà con voi fino al giorno del mio ritorno. Vi giuro sulla barba di mio padre e sul latte di mia madre che tornerò da voi." "Baba!" gridarono. "Sei nostro padre." "I kanka shona saranno qui ben presto. Dovete nascondervi nella macchiacon questi uomini, portandovi dietro tutte le armi e tutto il cibo che trovate." Indicò il compagno Occhi-aperti e lo sparuto gruppo di guerriglieri attorno a lui. "Essi vi condurranno in un posto sicuro, dove aspetterete in forze che io ritorni per restituirvi quanto vi appartiene a buon diritto." Tungata protese le braccia con gesto benedicente. "Andate in pace, amici miei!" Si fecero sotto per toccarlo, alcuni in lacrime come bambini. Poi, a gruppetti, cominciarono ad avviarsi verso il cancello del campo di concentramento e le tenebre di fuori. Il compagno Occhi-aperti fu l'ultimo ad andarsene. Si avvicinò a Clay e gli sorrise, con quel suo sorriso gelido da lupo. "Anche se sei sempre stato davanti a tutti, non hai ammazzato neanche uno shona... né qui né al ponte" disse. "Come mai, Kufela?" "Lascio gli ammazzamenti a te" glirispose Clay "che sei molto più bravo di me." "Sei un uomo strano, scrittore di libri... ma noi ti siamo grati. Se ci arrivo, racconterò ai miei nipotini quello che abbiamo fatto insieme in questo giorno." "Addio, amico mio" glidisse Clay porgendogli la mano. Se la strinsero a presa doppia di polso e palmo, un saluto che aveva un profondo significato. Poi il compagno Occhi-aperti si girò e se ne andò col mitra in spalla, presto inghiottito dalla notte. Restarono in tre, Tungata, Sarah e Clay, vicino al camion, e si sentirono molto soli.
Clay ruppe il silenzio. "Sam, hai sentito anche tu il marconista parlare col quartier generale. Sai che Fungabera avrà già mandato dei rinforzi. Ci sono guarnigioni tra qui e Harare?" "Non credo" disse Tungata scuotendo la testa. "Ci sarà qualche soldato a Karoi, ma non tanti da respingere un attacco come questo." "E va bene, diciamo che gli ci vorrà un'ora per mobilitare e inviare una forza sufficiente. Altre cinque ore per arrivare a Tuti..." Guardò Tungata in attesa di conferma, ed egli annuì. "Vuol dire che arriveranno alla missione verso le sei, e Sally-Anne sarà là sopra dalle cinque in poi. Potremmo incontrarli, soprattutto se dovremo fare gli ultimi chilometri a piedi. Forza, andiamo via." Mentre salivano sul camion, Clay diede un'altra occhiata al campo di concentramento devastato. Le fiamme si erano spente, ma dalle baracche bruciate si levava ancora il fumo. Le cellule fotoelettriche continuavano a illuminare la scena a giorno. "Le luci..." disse ad alta voce Clay. C'era qualcosa che gli dava da pensare. Il generatore? Sì, qualcosa riguardo il generatore. "Ma certo!" esclamò, saltando sul camion. "Sam, il generatore..." Mise in moto e fece fare una curva stretta al camion. Il generatore era dietro la collina, nel complesso centrale fortificato col sistema di trincee protette dai sacchetti di sabbia. Clay fermò il camion davanti alla scaletta che portava al generatore, e si precipitò nello stanzino. Era un Lister da venticinque kilovvatt, un grosso motore verdastro con sopra un enorme serbatoio fissato alla roccia. Clay gli diede un colpetto col palmo. "Pieno!" esclamò. "Saranno almeno trecento litri di gasolio!"
La pista si contorceva come un pitone morente e il camion, col serbatoio pieno, era instabile e rigido in curva. Clay doveva lottare col volante per tenerlo in strada. Le salite erano ripide e si facevano a passo d'uomo: in compenso le discese erano fin troppo veloci, e il pesante automezzo sobbalzava lanciato e difficile da guidare. Al ponte, Clay mancò quasi la rampa e l'imboccò sollevato da un lato. I tronchi rombarono sotto il camion con un brontolio di tuono. "Che ore sono?" chiese Clay. Sarah guardò l'orologio alla luce del cruscotto. "Quattro e cinquantatré." Clay guardò sopra il fascio di luce dei fari e per la prima volta vide le cime degli alberi in cresta alla collina stagliarsi debolmente contro il cielo scuro. Alla sommità dell'altura aprì la radio e cercò lentamente le stazioni militari, senza ricevere altro che scariche elettrostatiche. "Se sono già qua attorno, tengono il silenzio radio." Spense l'apparecchio e ripartì, meravigliandosi per l'ennesima volta della rapidità delle albe africane. Sotto di loro, nel fondovalle, il paesaggio si stava rivelando mentre fuggiva la notte: una pianura grande, scura, boscosa, che dai piedi di quella collina arrivava fino alla missione di Tuti e alla pista d'atterraggio. "Venti chilometri" disse Tungata. "Un'altra mezz'ora" replicò Clay lanciandosi a tutta velocità nella discesa. Prima ancora di arrivare al piano, c'era abbastanza luce per spegnere i fari. ""Non ci conviene attirare l'attenzione." All'improvviso si rizzò, tendendo l'orecchio allarmato dal cambiamento del rombo del motore del camion: era aumentato d'intensità, e più acuto. "Oh Dio, no, non adesso" sussurrò, e poi si rese conto che non era il rombo del Toyota, ma di un altro motore. Mise la testa fuori del finestrino e guardò nel vento. Il Cessna di Sally-Anne li sorvolò da dietro, a venti metri d'altezza sopra la strada, brillante di sole. Clay emise un ruggito di gioia e si mise a sventolare la mano. Il Cessna virò agilmente e gli tornò incontro. Il volto amato di
Sally-Anne li guardava dal finestrino. Aveva in testa un foulard rosa, e si vedevano benissimo le nere sopracciglia che le incorniciavano gli occhi. Rideva perché aveva riconosciuto Clay, agitava la mano, ed egli lesse sulle sue labbra: "Alla pista!." L'aeroplano sfrecciò via verso il campo d'aviazione ondeggiando sulle ali in segno di saluto. Sbucarono fuori della foresta sfrecciando tra i campi di mais che circondavano la missione e il piccolo villaggio attorno. Il tetto di lamiera della chiesa e della scuola scintillava già ai primi raggi del sole. Dalle capanne ai lati della strada, sbadigliando e stirandosi, uscivano i paesani destati dal rombo dei motori. Clay rallentò e Sarah si sporse a gridare dal finestrino: "Arrivano i soldati! Via tutti! Andate nella foresta! Nascondetevi!" Clay non ci aveva pensato. La rappresaglia della Terza Brigata si annunciava terribile sulla popolazione locale. Accelerò attraverso il villaggio e filò verso il campo d'aviazione, che era a un chilometro: si intravedeva in lontananza la sbrindellata manica a vento a un capo della pista. Il Cessna, molto basso, stava virando già col carrello fuori per atterrare. "Guardate!" gridò Tungata. Da sinistra arrivava un altro apparecchio, basso e veloce, molto grosso, un bimotore. Clay lo riconobbe all'istante. Era un vecchio Dakota, un aereo da trasporto, veterano della guerra nel deserto del Nordafrica e della guerra d'indipendenza contro il governo bianco della ex Rhodesia. Era dipinto di grigio opaco antimissile e aveva le insegne dell'aviazione militare dello Zimbabwe. Il portello principale sotto l'ala era aperto, e vi si affacciavano degli uomini. Erano in tuta mimetica ed elmetto. Dietro i primi due se ne affollavano altri. "Paracadutisti!" gridò Clay mentre il Dakota virava verso di loro sorvolandoli così basso che il campo di granoturco ondeggiò per il vento delle eliche. In un lampo Clay riconobbe uno degli uomini affacciati sul vuoto. "E Fungabera!" esclamò nello stesso istante Tungata. "E lui!" Schizzò fuori e dal predellino si arrampicò alla mitragliatrice pesante montata sul tetto del camion. Nonostante la statura e la debolezza, fece così in fretta che poté spedire una lunga raffica al Dakota che si allontanava. I proiettili traccianti passarono accanto alla fusoliera, preoccupando il pilota che eseguì un'altra stretta virata, cabrando. "Si alza per lanciare i parà!" gridò Clay. Di sicuro Fungabera aveva visto e riconosciuto il Cessna blu e argento. Di sicuro aveva capito il piano di fuga e intuito che il camion si dirigeva al campo d'aviazione. Si faceva più in fretta a lanciare i paracadutisti che ad atterrare col Dakota. I parà sulla pista avrebbero sparato al Cessna impedendogli di decollare. Trecento metri era già una quota possibile per il lancio, ma i parà non erano abbastanza esperti e il Dakota si alzò ancora un po'. Poi si diresse verso il campo d'aviazione, con le ali allineate al terreno. Nel frattempo il Cessna atterrava rimbalzando all'altro capo della pista. Sally-Anne diresse rullando verso il Toyota che si avvicinava veloce. Sopra la pista, dal Dakota incombente, si lanciò una figuretta umana. Subito il fiore verde del paracadute si aprì sopra la sua testa. In rapida successione fu seguito da una collana di altri paracadutisti, e il cielo fiorì di sinistri funghi velenosi verdi che scendevano oscillando nella brezza del mattino verso la pista bruna di terra battuta. Il Cessna raggiunse l'estremità della pista e girò di centottanta gradi secchi. Allora Clay si accorse che Sally-Anne aveva perfettamente compreso la gravità della situazione e l'urgenza di filarsela, perché era atterrata col vento in coda, accettando il rischio di un impatto più violento e di una rullata più lunga per potersi girare su-
bito contro vento per il decollo che doveva essere effettuato a pieno carico e sotto il fuoco, probabilmente, dei parà. Sul tetto del camion, Tungata continuava a sparare contro il cielo, a raffiche brevi e spaziate, più con la speranza di spaventare che di colpire i paracadutisti, che costituivano un tiro molto difficile, oscillando come oscillavano appesi a quei fili. Sally-Anne gridava e si sbracciava dall'abitacolo del Cessna, già col motore al massimo sull'apparecchio bloccato dai freni. Sbucarono sulla pista più compatta e Clay frenò sbandando, lasciando il camion in posizione tale da ripararli mentre si trasferivano sull'aereo. "Fuori!" gridò a Sarah, che si gettò giù di corsa verso il velivolo. Sally-Anne prese la ragazza per un braccio e l'aiutò a sistemarsi dietro il posto di pilotaggio. Dal camion Tungata sparò un'ultima raffica con la mitragliatrice pesante. Già i primi tre paracadutisti erano atterrati, coi paracadute verdi gonfiati dalla brezza, e Tungata sollevò un po' di polvere tra loro, colpendone uno che si accasciò senza vita attaccato alle corde. Clay afferrò il kalashnikov e la borsa di munizioni e gridò: "Andiamo via, Sam, sganciamoci!" Corsero al Cessna e Tungata, molto debole, non riusciva a issarsi in cabina. Clay dovette spingerlo su. Sally-Anne lasciò andare i freni prima ancora che Tungata fosse ben dentro, e Clay dovette mettersi a correre accanto all'aereo. Quando Tungata scomparve nella cabina, saltò su anche lui, al volo, e si mise accanto a Sally-Anne. "Chiudi la porta!" gligridò Sally-Anne senza guardarlo, con gli occhi puntati alla pista che si stendeva davanti. La cintura di sicurezza si era incastrata nella portiera e Clay cincischiò per liberarla mentre l'aereo raggiungeva piano piano la velocità di decollo. Clay finalmente ci riuscì, chiuse la portiera di scatto e, quando alzò gli occhi, vide dei paracadutisti che correvano verso la pista per tagliare la strada al velivolo. Non ebbe bisogno di veder scintillare il leopardo d'argento sul basco per individuare Peter Fungabera. Le spalle larghe, l'andatura, la grazia felina della sua corsa lo distinguevano di più. I suoi uomini lo seguivano ed erano proprio davanti al Cessna, a quattro o cinquecento passi di distanza. Sally-Anne tirò la cloche e il Cessna alzò il muso sobbalzando e prese il vento. Era decollato: Peter Fungabera e i suoi parà scomparvero sotto il muso del velivolo mentre l'aereo si alzava, preparandosi a sorvolarli a poche decine di metri d'altezza. "Oh mamma mia!" esclamò Sally-Anne quasi in tono di conversazione. "Stavolta ci siamo!" Mentre così diceva, il cruscotto dell'aereo esplose davanti a Clay, investendolo di schegge di vetro e metallo. Del fluido oleoso gli inondò la camicia. Dal pavimento della carlinga entrava fuoco di fucileria automatica mentre dai fori fischiava l'aria con effetto sirena. Di dietro, Sarah urlò mentre l'aereo veniva investito dalla gragnuola di proiettili di kalashnikov. Clay sentì scuotere il sedile sotto di sé mentre le pallottole cozzavano contro l'intelaiatura metallica. Come per magia l'attaccatura dell'ala apparve di colpo sforacchiata. Sally-Anne spostò la cloche in avanti e il Cessna picchiò di nuovo verso la pista a mo' di ottovolante, scansando le raffiche e concedendo loro un attimo di respiro. La terra bruna gli correva incontro, e Sally-Anne interruppe la picchiata suicida in tempo, ma le ruote rimbalzarono sulla pista e l'aereo si impennò riguadagnando quota come un cavallo selvaggio. Clay vide due paracadutisti buttarsi a terra mentre l'aereo piombava su di loro. Quella pazza picchiata aveva aumentato molto la loro velocità sicché ora Sally-Anne poté virare immediatamente, con l'ala che
sfiorava il terreno. Il suo volto era contorto e i muscoli dell'avambraccio guizzavano in rilievo nel suo sforzo di tenere sollevato il naso del Cessna per evitare che si schiantasse al suolo. Davanti a loro, a una cinquantina di metri sul lato sinistro del campo d'aviazione, c'era un albero isolato, dai rami foltissimi. Era un marula alto una trentina di metri. Sally-Anne raddrizzò l'apparecchio e diresse verso il marula, lo schivò di un palmo e immediatamente virò dall'altra parte, piazzandolo tra l'apparecchio e i parà. Proseguì bassissima sui campi di grano, col carrello che frustava le barbe, guardando nello specchietto retrovisivo sopra la testa per tenere sempre l'albero di marula dritto in coda, nascondendosi così ai paracadutisti. "Dov'è il Dakota?" domandò Clay gridando per vincere il fischio del vento in cabina. "Sta atterrando adesso" urlò Tungata e, girandosi all'indietro, Clay vide per un attimo la grossa macchina grigia far la barba agli alberi all'estremità della pista e atterrare. "Il carrello non viene più su" disse Sally-Anne pestando la leva della ribalta: ma dal cruscotto le tre spie verdi del carrello continuavano a lampeggiarle in faccia. "Siamo stati danneggiati lì, il carrello è bloccato. In fondo ai campi di grano la foresta gli veniva incontro in fretta. Appena Sally-Anne tirò la cloche per sollevarsi sopra gli alberi, qualcosa si ruppe nel vano motore sforacchiato dalle pallottole e un getto scuro e viscoso d'olio si diffuse sul parabrezza. "Non vedo più niente!" gridò Sally-Anne, e aprì il finestrino laterale, volando in riferimento all'orizzonte sotto la punta dell'ala. "Non abbiamo più strumenti" disse Clay controllando il pannello del cruscotto esploso dalla sua parte. "Tachimetro, altimetro, orizzonte artificiale e girobussola si sono scassati tutti." Sally-Anne lo interruppe. "Tanto, con il carrello fuori, in Botswana non ci arriviamo più, c'è troppo attrito." Stava sempre alzandosi, ma pian piano si rimetteva in rotta, usando la bussola nella boccia a bagno d'olio che aveva sopra la testa In quella, il motore sputacchiò, tossì, e subito riprese a pieno regime. In fretta Sally-Anne toccò due o tre pulsanti. "Sembrava un intoppo all'alimentazione" sussurrò. "Devono aver colpito un condotto della benzina." Inserì entrambi i serbatoi alari, poi guardò Clay e sorrise. "Ehi, ciao! Ho sentito un sacco la tua mancanza." "Anch'io." Le strizzò una coscia con la mano. "Controllo orario" disse, di nuovo in tono da comandante. "Cinque e diciassette" rispose Clay, guardando fuori del finestrino. Il serpente bruno della strada di Tuti piegava a nord: stavano attraversando la prima serie di colline, oltre le quali sorgeva il villaggio di Vusamanzi. Il motore perse altri colpi e l'espressione di Sally-Anne s'incupì. "Che ora è?" "Cinque e ventisette" rispose Clay. "Ormai siamo fuori vista dal campo. Non ci sentono nemmeno più." "Fungabera non saprà dove siamo, dove ci dirigiamo." "Ci sono degli elicotteri alle cascate Vittoria" disse Tungata. "Se capiscono che andiamo verso il Botswana, possono mandarli a intercettarci." "Un elicottero lo lasciamo indietro" indovinò Clay. "Non con il carrello fuori" lo contraddisse Sally-Anne. In quella, il motore si spense. Di colpo calò su di loro il silenzio, rotto solo dal fischio inquietante del vento nei fori delle pallottole nella fusoliera. L'elica girava per forza d'inerzia: poco dopo si fermò di soprassalto, con una pala puntata verso il cielo come la lama di un boia.
"Bene" disse sottovoce Sally-Anne. "Adesso è indifferente. Il motore è partito, si va giù." E subito cominciò a fare svelti preparativi per l'atterraggio di fortuna, mentre il Cessna cominciava a perder quota verso le accidentate colline boscose sottostanti. Sally-Anne tirò fuori i flap, completamente, per ridurre la velocità. "Mettete tutti le cinture di sicurezza, anche le tracolle" disse. Disinserì i serbatoi e tolse la chiave dal quadro nella speranza di evitare l'incendio della benzina. "Vedete qualche radura?" domandò a Clay, guardando disperatamente il parabrezza invaso dall'olio nero. "Niente." La foresta si stendeva sotto di loro come un grande materasso verde scuro. "Allora cercherò due alberi grossi e ci tufferemo in mezzo per far saltar via le ali. Ciò dovrebbe ridurre la velocità, ma sarà lo stesso un brutto colpo" disse Sally-Anne, cercando invano di aprire il finestrino laterale. "Posso farlo saltar via io" le disse Tungata. "Bene" accettò Sally-Anne. Tungata si sporse in avanti e con tre colpi del pugno avvolto nel giubbotto spaccò il finestrino di perspex. Sally-Anne si sporse dal buco, stringendo gli occhi per vincere il vento relativo. La terra balzava loro incontro sempre più velocemente, le colline si ingrossavano cominciando a torreggiare intorno a loro mentre Sally-Anne virava dolcemente per allinearsi a una stretta valle. Non aveva più tachimetro e si regolava a occhio o, come dicono i piloti, a culo e sedile, tenendo su il muso per ridurre la velocità, coi flap tutti fuori per aumentare la portanza. Nel parabrezza offuscato Clay cominciò a distinguere gli alberi a uno a uno. "Portiere socchiuse!" ordinò Sally-Anne. "Tenete le cinture allacciate finché la fusoliera non si è arrestata, poi uscite più presto che potete e allontanatevi di corsa!" !Sollevò ulteriormente il naso dell'apparecchio: il Cessna andò in !stallo e ancora una volta il naso piombò giù, ma tutto era stato calcolato al centesimo di secondo, perché quando la fusoliera fu perfettamente orizzontale cozzò contro due alberi che strapparono via le ali. Il Cessna li sballottò violentemente, le cinture di sicurezza morsero le carni ai passeggeri; e, anche se l'impatto aveva assorbito quasi tutta la velocità, la carcassa smembrata del velivolo proseguì in mezzo al fogliame sbattendo tra i rami e i tronchi degli alberi della foresta. Pur assicurati ai sedili, vennero sbattuti di qua e di là, e la fusoliera si inclinò da una parte e andò a contorcersi attorno a un tronco prima di arrestarsi, alla fine, contro la base dell'albero. "Fuori!" gridò Sally-Anne. "C'è odor di benzina! Fuori tutti e correte!" Le portiere socchiuse erano state strappate dai cardini. Tutti si slacciarono le cinture, si gettarono sul terreno roccioso e corsero via. Clay raggiunse Sally-Anne. Il foulard le era scivolato dalla testa, e i boccoli mori le ruscellavano sulle spalle. Gliele circondò con un braccio e la condusse verso un valloncello. Ci saltarono dentro e, appiattiti contro il fondo sabbioso, restarono abbracciati e ansimanti in attesa, al riparo. "Pensi che brucerà?" anfanò Sally-Anne. "Boh? Aspettiamo un momento." Tesi, aspettarono la detonazione della benzina che colava sul motore e l'esplosione dei serbatoi. Ma non accadeva nulla. Il silenzio della foresta calò su di loro, che parlarono sottovoce, sbigottiti. "Voli come un angelo, Sally-Anne." "Un angelo con le ali spezzate." Aspettarono ancora un minuto. "Diamo un'occhiata" disse Sally-Anne, reprimendo la ridarella irrefrenabile che la stava cogliendo. L'avevano scampata bella. Oltre il ciglio del valloncello, ecco il Cessna accartocciato come un foglio d'alluminio: ma non si vedevano fiamme. Uscirono dal buco.
"Sam!" chiamò Clay. "Sarah!" I due sbucarono dal loro rifugio dietro un masso ai margini della valletta. "Siete a posto?" Be', erano tutti un po' contusi. A Sarah usciva il sangue dal naso e aveva anche una guancia escoriata: ma nessuno era ferito seriamente. "E adesso che diavolo facciamo?" domandò Clay, é si guardarono disperati.
Svuotarono di ogni cosa utile la carcassa del Cessna: la scatola degli attrezzi, la cassetta del pronto soccorso, una borraccia di alluminio con dentro cinque litri d'acqua, termocoperte e tavolette al malto, la pistola, il kalashnikov e le munizioni; Clay svitò anche la bussola applicata alla capote. Poi lavorarono per un'ora per nascondere tutte le tracce del sinistro a un'eventuale ricognizione aerea. Tungata e Clay portarono le ali troncate nel valloncello e le coprirono di vegetazione. La fusoliera e il naso col motore erano troppo pesanti da spostare, ma li ricoprirono ulteriormente di foglie. Due volte, mentre lavoravano, udirono l'inconfondibile coro dei motori gemelli del Dakota in distanza. "Il Dakota" disse Sally-Anne. "Ci cercano." "Non possono sapere che siamo caduti" protestò Sally-Anne. "Non possono esserne sicuri, ma sanno che abbiamo incassato un sacco di proiettili" precisò Clay. "Quindi si rendono conto che molto probabilmente siamo a terra. Manderanno sicuramente delle pattuglie di esploratori a battere la zona e interrogare gli abitanti dei villaggi." "Prima ce ne andiamo, meglio è." "Sì, ma da che parte?" "Posso suggerire una cosa?" si intromise con deferenza Sarah. "Abbiamo bisogno di cibo e di una guida. Io credo di saper arrivare da qui al villaggio di mio padre. Lui ci nasconderà finché non avremo deciso dove andare e non saremo pronti a farlo. " Clay guardò Tungata. "Mi sembra sensato... ci sono obiezioni, Sam? Okay, facciamo così." Prima di abbandonare il luogo del disastro, Clay prese da parte Sally-Anne. "Ti dispiace? Era un bell'aeroplano." "Ah, non divento sentimentale con le macchine" scosse la testa lei. "Una volta era un bell'aquilone, ma adesso è un catorcio inservibile. Riservo i sentimenti per ben altre cose" disse accarezzandogli il dorso della mano. "E ora di andare, tesoro." Clay prese il fucile e andò all'avanguardia, tenendosi un chilo>metro circa avanti a loro e segnando il sentiero. Tungata, che era molto debole, restò di retroguardia, e le due ragazze al centro. Quella sera scavarono, cercando acqua, il letto di un fiume asciut to, e succhiarono una tavoletta di malto prima di stendersi avvolti nelle termocoperte. Le ragazze scelsero i primi due turni di guardia, mentre Tungata e Clay fecero a testa e croce per gli altri due, i più duri. La mattina dopo, molto presto, aprendo la strada agli altri, Clay incrociò un sentiero piuttosto battuto. Quando Sarah ci arrivò, lo riconobbe immediatamente. Due ore dopo si trovarono nella valletta coltivata sotto il villaggio di Vusamanzi e, mentre il resto della compagnia si nascondeva nel grano alto, Sarah saliva in cima al colle in cerca di suo padre. Quando tornò, un'ora dopo, il vecchio stregone era con lei. Andò subito da Tungata e, pur essendo artritico, si inginocchiò, ]prese uno dei piedi di Tungata e se lo pose sulla testa candida.
"Figlio dei re, ti vedo" lo salutò. "Rampollo del grande Mzilikazi, progenie dei possenti Kumalo, sono tuo servo." "Alzati, vecchio" disse Tungata sollevandolo e usando il termine kehla, anziano, un appellativo onorifico. "Perdonami se non ti offro rinfreschi" si scusò Vusamanzi. "ma il paese non è sicuro. I soldati shona sono dappertutto. Vi condurrò in un posto riparato, dove potrete riposare e ristorarvi. Seguitemi." Quelle vecchie gambe presero a mulinare un passo notevole, e dovettero allungare il loro per non perderlo di vista. Camminarono per due ore, secondo l'orologio da polso di Clay, la seconda in un [terreno roccioso cosparso di rovi. Qui non c'era un sentiero ben definito, e il silenzio surriscaldato del roveto, oltre alle colline rocciose "che si schiudevano intorno, era snervante e opprimente. "Non mi piace questo posto" disse sottovoce Tungata a Clay. "Non ci sono uccelli né animali, e c'è un senso di sventura... no, non di sventura, ma un senso di mistero e di minaccia. Clay si guardò intorno. Le rocce sembravano appena uscite dall'antro di Vulcano, e gli alberi erano contorti e deformi, neri come carbone contro il sole e di un biancore lebbroso quando la luce li illuminava. Tutti i rami erano coperti di licheni verdastri e pendenti, del malsano colore del cloro. E Tungata aveva ragione, non si sentivano cantare uccelli, non si sentivano scappare animaletti terricoli al loro passaggio per il sottobosco. All'improvviso Clay ebbe freddo e rabbrividì in pieno sole. "Lo senti anche tu, eh?" disse Tungata, e mentre così parlava il vecchio scomparve di colpo alla vista, come inghiottito dalla roccia nera e accidentata. Clay accelerò il passo, reprimendo un brivido di timore superstizioso. Raggiunse il posto dove era sparito Vusamanzi e si guardò attorno, ma non c'erano tracce del vecchio. "Da questa parte." La voce di Vusamanzi aveva un'eco sepolcrale. "Dietro questa roccia." Il pendio della collina era ripiegato su se stesso e nella fenditura passava a malapena un uomo. Clay vi si infilò, fermandosi un attimo per abituare gli occhi al buio. Vusamanzi aveva preso una lanterna su una nicchia scavata nella roccia e stava riempiendone la base di cherosene, che aveva portato con sé in una bottiglia. Accese un fiammifero e con esso la lucerna. "Venitemi dietro" disse avviandosi per un cunicolo. "Queste colline sono tutte bucherellate" spiegò Sarah. "Sono formazioni calcaree." Dopo una cinquantina di metri il passaggio si allargava formando una vasta caverna. Dall'alto filtrava la morbida luce del giorno. VusaManzi spense la lanterna e la appoggiò su un gradone scavato nella roccia. Questo gradone era cavo all'interno e nero di cenere perché evidentemente dentro ci si accendeva il fuoco. Infatti accanto c'era una bella pila di legna tagliata su misura. "Questo è un luogo sacro" disse loro Vusamanzi. "E qui che abitano gli apprendisti stregoni durante il tirocinio occulto. Qui, da giovane, fui istruito da mio padre e imparai le antiche profezie e le arti magiche." Fece cenno ai quattro di sedere, e tutti si abbatterono grati sul pavimento roccioso. "Sarete al sicuro, qui. I soldati non vi troveranno. Tra una settimana o un mese, quando si stancheranno di cercarvi, potrete uscire: e allora vi troverò anche una guida." "E un posto spettrale" sussurrò Sally-Anne, quando Clay le tradusse le parole dello sciamano. "Le mie donne stanno arrivando con del cibo. Verranno ogni due giorni con la roba da mangiare e le ultime notizie." Infatti, prima del calar del sole arrivarono due sorellastre di Sarah con in testa dei grandi involti, e si misero subito a preparar la cena. Le loro chiacchiere allegre, il guizzare delle fiamme sul foco-
lare, l'odore della legna e del cibo dispersero un po' l'atmosfera inquietante della caverna. "Dovrai mangiare con le donne" spiegò Clay a Sally-Anne. "E l'usanza. Il vecchio potrebbe irritarsi..." "E pensare che sembra così una brava persona... invece salta fuori che è l'ennesimo porco sciovinista.,," protestò lei. I tre uomini si passarono il boccale della birra e mangiarono dalla ciotola comune al centro del circolo. Il vecchio, fra un boccone e l'altro, parlava con Tungata. "Gli spiriti hanno mandato a monte il nostro primo incontro, Nkosi. Ti abbiamo aspettato quella notte, ma gli shona ti avevano catturato. Era un momento di dolore per noi, ma adesso gli spiriti hanno cambiato atteggiamento, ti hanno liberato dalla prigionia presso gli shona e ci hanno finalmente riuniti." Vusamanzi guardò Clay. "Ci sono cose di grande e portentosa importanza che dobbiamo discutere tu e io... faccende della tribù..." "Dici che sono stati gli spiriti a liberarmi dagli shona" replicò Tungata. "Sarà anche vero: ma se è così, questo uomo bianco è inviato da loro. Lui e la sua donna hanno rischiato la vita per liberarmi." "Resta sempre un uomo bianco" disse cortesemente il vecchio. "La sua famiglia ha vissuto su questa terra per un secolo. E poi è mio fratello" disse semplicemente Tungata. "Garantisci per lui, Nkosi?" insisté lo stregone. "Parla, vecchio" l'invitò Tungata. "Qui siamo tutti amici." Lo sciamano sospirò, si schiarì la voce, e dopo prese un altro boccone di cibo. "Come desideri, mio signore." E poi di colpo: "Tu sei il guardiano della tomba del vecchio re, vero?" Gli occhi neri di Tungata brillarono alle fiamme del focolare. "E che ne sai tu di queste cose, vecchio?" replicò. "Io so che i figli del casato dei Kumalo, quando raggiungono la maggiore età, sono condotti alla tomba del re e giurano di vigilare su di essa." Tungata annuì con riluttanza. "Potrebbe essere." "Conosci la profezia?" gli domandò il vecchio. }Tungata annuì e disse: "Quando la tribù sarà in grave pericolo, lo spirito del vecchio re uscirà dalla tomba a soccorrerla." "Lo spirito di Lobengula uscirà come fuoco" lo corresse il vecchio. "Sì" concordò Tungata. "Il fuoco di Lobengula." "C'è di più, molto di più. Conosci il resto della profezia, figlio di Kumalo?" "Dimmelo tu, vecchio padre." "La profezia continua così: il cucciolo del leopardo dapprima violerà un giuramento, poi romperà le catene. Il cucciolo del leopardo prima volerà come un'aquila poi nuoterà come un pesce. Quando questi fatti saranno accaduti, il fuoco di Lobengula uscirà dalle latebre buie e verrà a salvare il suo popolo." Restarono tutti zitti, pensando a quella sciarada. "La pelle di leopardo è l'insegna dei Kumalo" ricordò loro Vusamanzi. "E quindi il cucciolo del leopardo di cui parla la profezia sarà un discendente di questa casata." Tungata borbottò distrattamente. "Io non so se tu hai violato un giuramento, ma so che hai spezzato le catene della prigionia degli shona." "Eh-he!" annuì Tungata, col volto impenetrabile. "Sei scappato da Tuti volando su un indeki, proprio come un'aquila" sottolineò il vecchio, e ancora Tungata annuì, soggiungendo però in inglese, a Clay: "Il bello di queste antiche profezie è che sono studiate per adattarsi a qualunque circostanza. Ogni volta che si ripetono, prendono qualcosa e qualcosa perdono, a seconda degli umori del momento." Poi tornò disinvolto al sindebele. "Tu sei saggio, vecchio, ed esper-
to di magia, ma spiegami un po' la storia di quel "nuotare come un pesce." Sappi che io non so nuotare, e che l'unica cosa che temo davvero è la morte per annegamento. Ti toccherà cercare un altro pesce." Vusamanzi si pulì la bocca con l'avambraccio, impassibile. "E c'è qualcos'altro che ti debbo dire" proseguì Tungata. "Io ci sono già entrato, nella tomba di Lobengula, ed era vuota. Il corpo di Lobengula non c'è più. La profezia è stata quindi vanificata da tempo." Il vecchio stregone non mostrò il minimo stupore alle parole di Tungata. Invece sedette sui talloni e tolse il tappo a uno dei suoi corni di polverine misteriose, che portava appesi al collo. "Se sei entrato nella tomba del re, significa che hai violato il giuramento di mantenerla intatta" sottolineò con un lampo malizioso negli occhi. "E non potrebbe essere proprio la violazione di cui parla la profezia?" Non attese la risposta, ma si versò un pizzico di polvere rossa sulla mano e la fiutò con entrambe le nari. Cominciò a starnutire estaticamente, col viso rugoso percorso dalle lacrime. "Se hai rotto il giuramento, Nkosi, significa che non era in tuo potere mantenerlo. Gli spiriti degli antenati ti hanno guidato a cio e sei senza colpa. Ma adesso lascia che ti spieghi perché la tomba era vuota." Fece una pausa e poi parve partire per la tangente. "Qualcuno di voi ha mai udito parlare di un uomo vissuto tanti anni fa che si chiamava Taka-Taka?" Entrambi annuirono. "Dal lato materno, Taka-Taka era il bis-bisnonno del qui presente Paffo." Tungata accennò a Clay. "Taka-Taka era un famoso soldato bianco dei tempi di Lobengula. Ha combattuto contro gli impi del re. Taka-Taka era il rumore della mitragliatrice, quando i matabele l'attaccavano." "Il vecchio Sir Ralph Ballantyne" disse Clay. "Uno dei più importanti aiutanti di Rhodes, il primo primo ministro della Rhodesia." Tornò al sindebele. "Taka-Taka è sepolto sulle colline di Matopo, vicino a Lodzi stesso." Lodzi era il nome di Rhodes in sindebele. "Già, proprio quello." Vusamanzi si pulì il labbro superiore dai rimasugli dello strano sniff, e le lacrime dalle guance col pollice. "Taka-Taka, il soldato, il ladrone dei luoghi sacri della tribù. E stato lui a rubare gli uccelli di pietra dalle rovine della città diGran Zimbabwe. Sempre lui venne tra queste stesse colline a cercare la tomba di Lobengula per saccheggiarla e rubare le pietre di fuoco fche contengono lo spirito del re." Adesso sia Tungata sia Clay si protesero attentissimi verso Vusamanzi. "Ho letto il libro di memorie scritto da Taka-Taka." I diari manoscritti del vecchio Sir Ralph costituivano parte del tesoro di famiglia di Clay, che aveva dovuto lasciare a King's linn quando Peter Fungabera l'aveva cacciato via. "Ho letto parole scritte di pugno di Taka-Taka, e non dice di aver raggiunto la tomba di Lobengula. E che cosa sono queste pietre di fuoco di cui parli?" Il vecchio alzò la mano per interromperlo. "Vai troppo in fretta, Paffo" disse, ammonendo Clay. "Lascia che il figlio di Kumalo ci spieghi questi misteri. Hai mai sentito parlare delle pietre di fuoco, Tungata Zebiwe, ovvero Samson Kumalo?" "Vagamente" ammise cauto Tungata. "Ho sentito dire che c' era un grande tesoro di diamanti, diamanti raccolti dagli amadoda di Lobengula nella miniera dell'uomo bianco Lodzi a sud" Clay voleva interloquire, ma Tungata lo zittì. "Ti spiegherò dopo" glipromise, e tornò a rivolgersi al vecchio stregone. "Ciò che hai sentito dire è la verità" garantì Vusamanzi. "Ci sono cinque boccali da birra pieni di pietre di fuoco." "E sono stati rubati da Sir Ralph, da Taka-Taka?" anticipò Clay. Vusamanzi lo guardò severamente. "Dovresti andare al fuoco delle donne, Paffo, perché chiacchieri come loro." Clay smise di sorridere e sedette un po' piccato mentre Vusa-
manzi, prima di proseguire, si rassettava un po' la veste. "Quando Lobengula fu messo nella terra e la sua tomba sigillata dal suo fratellastro e fedele induna Gandang..." "Che era il mio bis-bis-bisnonno" mormorò Tungata. "Che era il tuo bis-bis-bisnonno" confermò il vecchio "...Gandang mise tutti i tesori del re nella tomba con lui, e ricondusse indietro i matabele vinti. Tornò a trattare con Lodzi e questo Taka-Taka, e la tribù fu asservita dall'uomo bianco. Ma un uomo rimase tra queste colline, era un famoso stregone chiamato Insutsha, la Freccia. Rimase a guardia della tomba del re, ci costruì vicino un villaggio, prese mogli ed ebbe figli. Insutsha, la Freccia, era mio nonno.,," Clay e Tungata fecero piccoli gesti di sorpresa, e Vusamanzi assunse un'aria molto compiaciuta. "Sì, vedete come lavorano gli spiriti? E tutto già scritto e predestinato... noi tre siamo legati dalla nostra storia e dalla nostra ascendenza, Gandang, TakaTaka e Insutsha. Gli spiriti hanno riunito i loro tre discendenti in questa maniera meravigliosa." "Sally-Anne aveva ragione... è proprio un posto spettrale" disse Clay, e Vusamanzi si accigliò all'uso inopinato di una lingua straniera. "Questo Taka-Taka, come ho già avuto modo di illustrare, era una grandissima canaglia, con un naso da iena e l'avidità di un avvoltoio" disse Vusamanzi con convinzione, scoccando un'occhiata significativa a Clay. "Capito" sorrise dentro di sé Clay, mantenendo un'espressione esteriore quanto mai solenne. "Sentì parlare della leggenda dei cinque boccali di diamanti e andò a cercare i superstiti guerrieri dell'impi di Gandang, gli uomini che erano stati presenti alla morte del re, e parlò paroline dolci e gentili, e offrì doni di bestiame e monete d'oro... e trovò un traditore, un cane di un cane che non meritava di chiamarsi matabele. Non farò il nome di questo sterco in forma d'uomo, ma sputo sulla sua tomba ignota e disonorata." Sputò nel fuoco con disgusto. "Questo cane accettò di condurre Taka-Taka alla tomba del re. Ma, prima che potesse farlo, scoppiò una grande guerra tra gli uomini bianchi, e Taka-Taka andò a nord a combattere contro l'induna tedesco chiamato Hamba-Hamba, Colui-che-marcia-qua-e-là-e-nonsi-fa-mai-prendere." "Von Lettow-Vorbeck" tradusse Clay. "Il comandante dell'Africa Orientale Tedesca durante la guerra del '1918." Tungata annuì. "Quando la guerra finì, Taka-Taka tornò e chiamò il traditore matabele. Vennero tra queste colline, guidati dal cane d'un cane, quattrO uomini bianchi capeggiati da Taka-Taka, e si misero a cercare la tomba. Cercarono per ventotto giorni, perché il traditore non ricordava più l'esatta posizione e la tomba era stata ben nascosta. Tuttavia, con il suo naso da iena, Taka-Taka alla fine la fiutò, l'aprì, e trovò il carro del re e i fucili, ma il corpo del re e i cinque boccali di diamanti che bramava erano spariti!" "E quanto ho già visto coi miei occhi, come ti ho detto" riconfermò Tungata. Si trattava di una conclusione deludente, e Tungata aprì le mani in gesto di rassegnazione. Clay alzò le spalle, ma Vusamanzi non aveva mica finito... anzi. "Dicono che la furia di Taka-Taka fu come i primi temporali della stagione delle piogge. Dicono che ruggì come un leone mangiauomini, con la faccia tutta rossa, poi purpurea, quindi addirittura nera." Vusamanzi ridacchiava, tutto contento. "Dicono che buttò il cappello per terra e lo calpestò, poi afferrò il fucile e minacciò di sparare alla guida matabele, ma i suoi compagni bianchi lo trattennero. Così legò il cane a un albero e lo frustò col kiboko fino a far apparire le costole in mezzo alla carne; gli ritolse le monete d'oro e il bestiame che già gli aveva dato, lo frustò di nuovo e alla fine, ancora barrendo come un elefante in amore, Taka-Taka se ne andò
da queste colline per non tornarci più." "Bellissima storia" ammise Tungata. "La racconterò ai !miei bambini." Si stirò e sbadigliò. "S'è fatto tardi." "La storia non è ancora finita" disse Vusamanzi allegramente, piazzando una mano sulla spalla di Tungata per impedirgli di andare a dormire. "C'è dell'altro?" "Come no! Ma dobbiamo fare un passo indietro, a quando Taka-Taka, i suoi compagni e il traditore arrivarono tra queste colline per cominciare la loro ricerca sacrilega. Mio nonno Insutsha divenne immediatamente diffidente. Tutti conoscevano Taka-Taka e sapevano che ogni sua azione aveva uno scopo. Così Insutsha mandò tre delle sue mogli più giovani e carine all'accampamento diTaka-Taka, con piccoli doni di latte e uova, e Taka-Taka rispose alle domande delle ragazze e disse che era venuto tra queste colline a caccia di rinoceronti." Vusamanzi fece una pausa, scoccò un'occhiata a Clay, e poi proseguì: "Perché questo Taka-Taka, non so se ve l'ho già detto, era anche un grandissimo mentitore. Comunque, la più bella delle mogli aspettò il cane traditore matabele nel fiume, alla pozza dove si bagnava. Sott'acqua gli toccò quella cosa di cui si dice che, più dura diventa, più molle diventa il cervello dell'uomo a cui appartiene; e più si sbatte, più si anima anche la lingua. Con la mano della ragazza sul membro virile, il traditore matabele cominciò a vantarsi e a far promesse di bestiame e monete d'oro. Dopo di che la moglie di mio nonno corse al villaggio di Insutsha." Vusamanzi aveva riconquistato tutta la loro attenzione, e ci sguazzava felice. "Mio nonno cadde nella più terribile costernazione. Taka-Taka era venuto a dissacrare e saccheggiare la tomba del re. Insutsha digiunò e non dormì, poi gettò gli ossi e guardò nel bacile delle profezie, e finalmente chiamò i suoi quattro apprendisti stregoni. Uno di essi era mio padre. Con la luna piena andarono ad aprire la tomba del re e fecero sacrifici per placarne lo spirito, e poi, con reverenza, lo portarono via, risuggellando la tomba vuota. Portarono la salma del re in un posto sicuro e ve la lasciarono, assieme ai boccali di pietre brillanti: benché mio padre mi abbia raccontato che, nella fretta, uno dei boccali da birra cadde per terra e si ruppe, sicché dovettero raccogliere le pietre e metterle in una borsa di pelle di zebra lasciando nella tomba i cocci di terracotta." "Si vede che un diamante è sfuggito sia agli apprendisti stregoni sia a Taka-Taka" disse piano Tungata. "I cocci e questo diamante li abbiamo trovati noi là dov'erano caduti." "Adesso, se siete stanchi, potete andare a dormire" concesse Vusamanzi con un barlume d'ironia nello sguardo cisposo. "Come? Volete saperne di più? Ma non c'è altro da dire... la storia è finita." "Dove hanno portato la salma del re?" chiese Tungata. "Conosci il luogo, oh mio saggio e venerabile vecchio babbo?" Vusamanzi sogghignò. "E davvero un grande e inaspettato piacere trovare nei giovani d'oggi rispetto e onore per la vecchiaia. Ma per tornare alla tua domanda, figlio di Kumalo, io so dove si trova la salma del re. Il segreto mi fu rivelato da mio padre." "Puoi condurmici?" "Non ti ho già detto che il posto dove ci troviamo è sacro? E sacro a ragion veduta." "Oh mio Dio!" "Qui!" proruppero contemporaneamente Clay e Tungata. Vusamanzi ridacchiava tutto contento, fregandosi le mani, compiaciuto della loro reazione. "Domattina vi porto a vedere il luogo dove è sepolto il re" promise. "Ma adesso ho parlato anche troppo e ho la gola secca. Prego, passatemi la birra."
Quando Clay si svegliò, la luce dell'alba si diffondeva dall'alto nella caverna, lattiginosa e azzurrina per il fumo della colazione che le donne stavano preparando sul fuoco. Mentre mangiavano, dietro l'autorizzazione concessa con un po' di riluttanza da Vusamanzi, Clay raccontò in inglese alle due ragazze la storia della seconda sepoltura di Lobengula. Entrambe si entusiasmarono e cominciarono a insistere per essere anche loro della partita. "E un posto difficile da raggiungere" protestò il vecchio stregone ""e non è per gli occhi di semplici donne." Ma Sarah tanto gli sorrise e l'accarezzò che il vecchio, dopo qualche altro show da brontolone, acconsentì che venissero anche loro. Sotto la direzione di Vusamanzi gli uomini fecero dei piccoli preparativi per la spedizione. In uno dei rami secondari della caverna, sotto una pietra piatta, c'era una nicchia in cui si trovavano un'altra lucerna, due asce indigene e tre rotoli di fune di nailon di buona qualità, che il vecchio apprezzava moltissimo. "Abbiamo conquistato questa bella fune dall'armata di Smith durante la guerra d'indipendenza" vantò. "Un gran passo avanti verso la libertà" mormorò Clay, subito zittito con un'occhiataccia da Sally-Anne. Si avviarono giù per uno dei cunicoli che si diramavano dalla caverna: davanti Vusamanzi con una delle lucerne, seguito da Tungata con una delle funi arrotolate, in mezzo le ragazze e Clay, con una seconda fune e l'altra lanterna, di retroguardia. Vusamanzi proseguì nel cunicolo che si stringeva e si abbassava. Quando si biforcava, non esitava a scegliere una direzione. Clay, con il coltello, segnava la direzione sulla parete, poi si affrettava a raggiungere gli altri. Il sistema di grotte e cunicoli costituiva un labirinto tridimensionale. Acqua infiltrata e gocciolii avevano bucherellato la roccia calcarea come gruviera. In un'occasione, scesero lungo una pietraia interna, scivolando sui calcagni; in un'altra, salirono una scalinata naturale di roccia. Clay segnò tutte le curve del cammino. L'aria era fredda, umida e muschiosa, e odorava di guano. Ogni tanto si levava a volo, squittendo, qualche pipistrello disturbato. Dopo venti minuti arrivarono a una colata quasi verticale di calcare liscio e vetroso, di cui la lanterna non riusciva a illuminare il fondo. Sotto la direzione di Vusamanzi, assicurarono un capo della fune a una stalagmite molto grossa, e così uno per volta si calarono giù, ritoccando terreno piano una ventina di metri più sotto. Si trattava di una faglia verticale nella formazione rocciosa, dove due corpi geologici erano slittati l'uno sull'altro formando una spaccatura vuota nelle viscere della terra. Era così stretta che, allargando le braccia, si toccavano entrambe le pareti: alla luce della lampada Clay scorse gli occhi brillanti dei pipistrelli appesi a testa in giù nel soffitto della caverna. Srotolando man mano la fune, Vusamanzi si calò con cautela giù per l'infida faglia. La crepa, verso il basso, si allargava sempre più, e sopra le loro teste il tetto roccioso svaniva in alto nell'oscurità. A Clay fece venire in mente la grande galleria nel cuore della piramide di Cheope, una formidabile spaccatura nella roccia viva. Era così ripida che dovevano servirsi continuamente delle funi. Erano quasi arrivati al termine della corda quando Vusamanzi diede l'alt da un lastrone inclinato. Fermo sulla pietra levigata, alto, con la lanterna in mano, Vusamanzi pareva un Mosè nero appena sceso dalla montagna. "Che c'è?" gridò Clay. "Vieni giù!" ordinò Tungata, e Clay scese l'ultimo pendio e si trovò accanto agli altri. Il lastrone costituiva la riva rocciosa di un immoto lago sotterraneo. "E adesso?" chiese Sally-Anne, in sordina, sbigottita di trovarsi
in un luogo cosi profondo e segreto. Il lago riempiva tutta la faglia tra le pareti calcaree. Dall'altra parte, a cinquanta metri circa, il tetto della faglia si tuffava nel lago con lo stesso angolo della loro riva. Clay usò la pila che aveva recuperato tra i rottami del Cessna. Era la prima volta che la adoperava, la teneva cara. Illuminò la superficie dell'acqua ferma da epoche immemorabili e quindi limpidissima come un torrente da trote. Videro che il lastrone di roccia si immergeva sotto lo specchio d'acqua con la stessa inclinazione di superficie. In breve si perdeva nelle profondità. Clay spense la pila per conservarla carica. "Bene, Sam" disse Clay mettendogli una mano sulla spalla. "E qui che ti toccherà nuotare come un pesce, credo." La risatina di Tungata fu breve e un po' falsa. Entrambi si misero a guardare Vusamanzi. "E adesso dove andiamo, venerabile babbo?" "Quando Taka-Taka venne tra queste colline e mio nonno e mio padre sottrassero la salma del re al sacrilegio, ci furono sette anni di terribile siccità. Il livello dell'acqua in questo serbatoio era molto più basso di ora. Laggiù" Vusamanzi indicò le profondità del lago "c'è un'altra diramazione della caverna. In quel luogo hanno deposto il corpo di Lobengula. Nei molti e molti anni che sono poi trascorsi, buone e abbondanti piogge hanno benedetto la terra, e ogni anno il livello del lago è aumentato. La prima volta che mio padre mi ha portato qui, le acque arrivavano sotto quella roccia appuntita... Brevemente Clay riaccese la torcia elettrica e lo spuntone subacqueo riapparve, una decina di metri sotto la superficie del lago. "Ma anche allora la tomba del re era molto al di sotto del lago." "Ciò vuol dire che non hai mai visto la tomba coi tuoi oc-chi?" domandò Clay. "Mai" ammise Vusamanzi. "Ma mio padre me l'ha descritta." Clay si inginocchiò sulla riva del lago e vi immerse le dita. Era così freddo che rabbrividì e tirò subito fuori la mano dall'acqua. Se l'asciugò nella camicia e, quando alzò gli occhi, vide che Tungata lo stava osservando con aria perplessa. "Eh no, caro il mio fratello matabele" disse Clay con qualche veemenza. "Dimentica quello che stai pensando. Dimenticalo pure." "Mio caro amico Paffo, sai che non so nuotare." "Dimenticalo" gliconsigliò Clay. "Ti legheremo a una fune e non correrai alcun pericolo." "Sai dove puoi ficcarti le tue funi." "La pila è subacquea, funzionerà anche in immersione" disse, oggettivo, Tungata. "Cristo!" proruppe amaro Clay. "Prima regola africana: quando tutto il resto fallisce, guardati in giro se c'è una faccia bianca." "Non ti ricordi quella volta che hai attraversato il Limpopo a nuoto per una ridicola scommessa, una cassa di birra?" "Quella volta ero ubriaco, adesso no." Clay guardò Sally-Anne per ottenerne incoraggiamento, ma fu deluso. "Adesso ti ci metti anche tu!" "Nel Limpopo ci sono i coccodrilli, qua no" rilevò Sally-Anne. Pian piano Clay cominciò a slacciarsi i bottoni della camicia. Tungata sorrise e dette mano alla corda. Tutti guardarono con interesse allorché Clay si tolse la gamba artificiale e la posò con cura da parte. In mutande, ritto su una gamba sola, aspettò che Tungata lo assicurasse alla fune. "Paffo" disse con calma Tungata. "Dopo avrai bisogno di abiti asciutti. Perché vuoi bagnare le mutande?" "C'è Sarah" spiegò Clay con compunzione.
"E una donna matabele. La nudità non ci offende." "Lasciamogli i suoi segreti" sorrise Sarah "anche se io per lui non ne ho più." Clay difatti se la ricordava benissimo nuda sotto il ponte. Sedette sulla riva rocciosa, si sfilò le mutande e le gettò sopra gli altri vestiti. Nessuna delle ragazze distolse lo sguardo da lui, che si lasciò andare nell'acqua, anfanando dal freddo. Con poche bracciate si portò in mezzo alla pozza. "Datemi il tempo" gridò loro. "Ogni sessanta secondi avvertitemi con uno strappo alla fune, un doppio strattone. Dopo tre minuti tiratemi su senz'altro, capito bene?" "Okay." Tungata aveva l'altro capo della fune tra i piedi, pronto a dargli corda. A galla, Clay si iperventilò i polmoni per purgarli dall'ossido di carbonio. E un trucco pericoloso, perché un sommozzatore inesperto con questo sistema può svenire per mancanza d'ossigeno senza nemmeno accorgersene, in quanto non funziona più l'allarme dell'accumulo di anidride carbonica nell'organismo, che ci spinge a respirare di nuovo. Dopo un'ultima profonda inalazione d'aria, si tuffò sotto la gelida e limpida acqua del lago sotterraneo. Senza maschera non ci vedeva molto, ma tenne la pila puntata contro lo sperone di roccia a dieci metri di profondità e andò giù in fretta, con le orecchie dolenti per l'aumento di pressione. Raggiunse lo sperone e, attaccandovisi per un attimo, si spinse ancora più giù. Adesso che la pressione gli comprimeva l'aria nei polmoni, scendeva con più facilità. La ripida parete di roccia gli scorreva veloce davanti agli occhi, ed egli si girò a destra e a sinistraper vedere se trovava un'apertura. Sentì il doppio strappo, il primo minuto se n'era già andato. Ed ecco che scorse sotto di lui l'ingresso della tomba. Era una apertura quasi circolare, sulla parete sinistra della galleria principale, che ricordò a Clay l'orbita vuota di un cranio umano. La raggiunse e, spostandosi con l'aiuto di una mano puntata sul soffitto, entrò. L'apertura era alta come un uomo piegato. Passò la mano sulle pareti, erano levigate dall'acqua e coperte di melma. Clay pensò che era uno dei condotti in cui s'infiltrava l'acqua proveniente dalla superficie della collina, scavato nel corso di infinite ere geologiche. Di colpo ebbe paura. In quell'apertura scura c'era qualcosa di minaccioso e proibitivo. Tornò a guardare verso la superficie del lago sotterraneo: un lontanissimo bagliore, una dozzina di metri sopra la sua testa, la lanterna di Vusamanzi. L'acqua gelida gli toglieva molta vitalità e coraggio. Voleva ripartire subito verso la riva: aveva già provato la prima contrazione involontaria dei polmoni. Sentì tirare alla vita e per un momento fu vinto dal panico, poi ricordò che si trattava del segnale: due minuti. Era quasi al suo limite. Andò ancora avanti. Il cunicolo si alzava gradualmente, come un sifone. Clay avanzò per una mezza dozzina di metri con la pila puntata in avanti, ma l'acqua si era intorbidita per la fanghiglia che aveva sollevato con la mano. Di colpo il cunicolo fini e la sua mano protesa incontrò la dura roccia. I polmoni cominciavano a contrarsi di continuo, e aveva nelle orecchie un canto celestiale. I suoi occhi erano offuscati dalla melma e cominciava a trovarsi in stato di ebbrezza da penuria d'ossigeno, ma si costrinse a restare per esplorare tutto il cunicolo e il suo fondo cieco di roccia con la mano. Si accorse subito che stava tastando un muro di pietra calcarea, artificialmente rizzato blocco su blocco per ostruire il cunicolo. La delusione lo sopraffece. I vecchi stregoni avevano davvero sigillato la tomba di Lobengula questa volta. Nei pochissimi secondi che gli restavano si rese contto che avevano fatto un lavoro davvero scrupoloso. Le sue dita incontrarono alla base del muro un piccolo oggetto
metallico. Lo prese e, cominciando già a esser vinto dal panico della }risalita, ripercorse il cunicolo all'indietro. Sempre con l'oggetto metallico in mano raggiunse la pozza principale del lago sotterraneo. Alto su di lui, il fioco bagliore della lanterna lo guidò mentre saliva a grandi bracciate, coi sensi che cominciavano a vacillare come la fiammella di una candela al vento. Tenebre e stelle gli baluginarono davanti agli occhi: il cervello carente d'ossigeno si offuscava trasformando gli arti mulinanti in greve piombo. Con un soprassalto la fune si tese e si sentì sollevare in fretta. Tre minuti: Tungata lo tirava fuori. La luce della lanterna folleggiava sopra di lui che mulinava le braccia all'altro capo della fùne: non riuscì a impedirsi di cercar di respirare e una boccata d'acqua gelata gli entrò in gola e nei polmoni, tagliente come un rasoio. Esplose riemergendo in superficie, e Tungata, in acqua fino alle cosce, lo stava recuperando più in fretta che poteva. Appena lo vide, lo afferrò con le braccia muscolose e lo depositò sulla riva. Le due ragazze lo afferrarono sotto le ascelle e lo sollevarono. Clay ricadde su un fianco, piegato in due come un feto, tossendo e sputando acqua dai bronchi, tremando dal freddo a brividi violenti. Sally-Anne lo rovesciò sulla pancia e gli premette sulla schiena con due mani. Acqua e vomito gli schizzarono su per la gola, ma il respiro gli divenne gradualmente più facile e alla fine riuscì a sedersi, pulendosi la bocca. Sally-Anne si era tolta la camicia e lo frizionava vigorosamente con essa. Alla luce della lanterna il suo corpo era tutto chiazzato di blu, e stava ancora rabbrividendo incontrollabilmente dal freddo. "Come stai?" gli chiese Sarah. "In gran forma" ansimò. "Non c'è nulla come un buon ba-gnetto diaccio." "Sta bene" li rassicurò Tungata. "Quando comincia a berciare è perché sta bene." Clay pose le mani a coppa sul vetro della lanterna per scaldarsi e a poco a poco smise di tremare. Sarah si chinò all'orecchio di Tungata e, con un sorriso malizioso, ammiccando alla parte inferiore del corpo di Clay, gli sussurrò qualcosa. "Hai visto?" ridacchiò Tungata, imitando l'accento dei negri americani. "E oltre tutto non hanno il minimo senso del ritmo. Clay afferrò prontamente le mutande, e Sally-Anne corse lealmente al suo soccorso. "Per forza, dopo un bagno in acqua gelida! Non è mica al meglio." Le mani di Clay macchiarono le mutande di ruggine. Allora ricordò l'oggetto metallico che aveva trovato e raccolto alla base del muro. Lo vide sulla riva rocciosa. "Un anello di catena" disse afferrandolo. "Da un carro di buoi." Vusamanzi se ne era rimasto seduto accanto alla lanterna. Ora parlò. "E proprio la catena del carro reale. Mio nonno l'adoperò per calare il corpo del re giù dalla grotta." "Così hai trovato la tomba del re?" domandò Tungata. Quel banale pezzetto di ferro era per tutti loro la prova che mutava la fantasia in realtà di fatto. "Credo proprio di sì" disse Clay cominciando ad allacciarsi la gamba "ma di sicuro non lo sapremo mai." Tutti aspettarono in silenzio, guardandolo. Clay ebbe un altro terribile accesso di tosse, poi il respiro gli si aggiustò ed egli proseguì: "C'è un passaggio, proprio come ha detto Vusamanzi. E qualche metro sotto allo sperone che si vede giù sulla sinistra: un'apertura tonda, con un cunicolo che sale. A circa cinque metri dall'ingresso, il cunicolo è bloccato da un muro di grossi massi squadrati di calcare, perfettamente combacianti. Non c'è modo di sapere quanto è spesso, ma una cosa è sicura: che ci vuole un sacco di lavoro per buttarlo giù. Ormai mi erano rimasti solo venti secondi, insufficienti anche per cercare di togliere un solo masso. Senza respiratore, è un'impresa impossibile superare quel muro." {Sally-Anne stava rabbrividendo nella camicia bagnata sopra il
reggiseno bianco, ma smise di frizionarsi e lo guardò con aria di sfida: "Non possiamo rinunciare, caro. Non possiamo girare sui tacchi e andarcene senza sapere quello che c'è dietro quel muro. Mi mangerei le mani... un mistero simile! Non potrei mai più essere felice, mai per tutta la vita." "Sono aperto a tutti i suggerimenti" concordò sarcasticamente Clay. "Qualcuno di voi ha un respiratore in tasca? O una capra da dare a Vusamanzi perché faccia spartire le acque come Mosè il Mar Rosso?" "Non fare il balordo" disse Sally-Anne. "Andiamo, andiamo, siate intelligenti e inventivi. Come? Nessuno ha un'idea? Allora torniamo su dove ci sono un bel fuoco e un po' di luce del giorno." Clay rigettò l'anello arrugginito nel lago sotterraneo. "Dormi bene, Lobengula, Vento-che-conduce: tienti accanto le tue pietre di fuoco, e shala gashle, sta' in pace!"
La risalita nel dedalo di cunicoli e caverne intercomunicanti avvenne in silenziosa e malinconica processione. Tuttavia Clay controllò e ricontrollò tutti i suoi segni a ogni bivio, sottolineandoli ancora. Quando raggiunsero nuovamente la caverna principale, in pochi minuti fecero ardere le braci sul focolare e misero a scaldar dell'acqua. Il tè bollente e dolcissimo fece passare gli ultimi brividi a Clay, e rincuorò tutti. "Debbo far ritorno al villaggio" disse loro Vusamanzi. "Se i soldati shona vengono e non mi trovano, diventeranno diffidenti e tortureranno le donne per sapere dove sono andato. Devo essere là per proteggerle, perché anche gli shona temono la mia magia." Raccolse tutte le sue cose e raccomandò: "Voi dovete restare sempre qua dentro. Se uscite, rischiate di essere scoperti dai soldati. Avete roba da mangiare e acqua, coperte e cherosene per le lucerne, non avete alcun bisogno di andar fuori. Le mie donne verranno dopodomani con provviste e notizie sui movimenti degli shona." Si genuflesse davanti a Tungata. "Sta' in pace, grande principe Kumalo. Il cuore mi dice che sei tu il cucciolo del leopardo di cui parla la profezia, e che troverai il modo di liberare il fuoco di Lobengula." "Forse tornerò qui un giorno con le speciali apparecchiature necessarie per raggiungere la tomba del re." "Forse" concordò Vusamanzi. "Sacrificherò agli spiriti e li interrogherò. Magari accondiscendono a dirmi la maniera di riuscirci." All'ingresso della caverna si fermò e si congedò da loro. "Quando tutto sarà tranquillo, tornerò. State in pace, figlioli." E se ne andò. "Qualcosa mi dice che sarà una faccenda lunga e penosa" disse Clay "e che dovremo restarci un pezzo in questo postaccio." Erano tutte persone attive e intelligenti, e il confino cominciò immediatamente a pesargli. Con tatto si divisero la caverna: una zona comune, attorno al focolare, e una zona privata per ciascuna coppia su lati opposti. Lo scolo d'acqua dall'alto lungo la roccia, se raccolto in grandi brocche di terracotta, era ampiamente sufficiente ai loro bisogni, compreso quello di lavarsi, e in uno dei cunicoli laterali c'era uno stretto pertugio che costituiva una perfetta latrina naturale. Ma non c'era niente da leggere, una cosa che spiaceva molto a Clay, e niente per scrivere. Per alleviare la noia, Sarah prese a insegnare il sindebele a Sally-Anne: e il suo progresso fu così rapido che in breve riuscì a capire la conversazione ordinaria e a rispondere a tono. In quei giorni di inattività forzata Tungata si riprese in fretta. Ingrassò, le cicatrici sulla faccia e sul corpo guarirono bene, e riac quistò la vitalità. Spesso era lui che conduceva la conversazione,
nelle lunghe e oziose discussioni accanto al focolare, e pian piano gli tornava fuori quell'insopprimibile senso dell'umorismo che Clay ricordava benissimo dai tempi della loro comune militanza nei guardacaccia, e che ultimamente però la situazione aveva alquanto compromesso. Quando Sally-Anne fece un commento critico nei confronti della politica segregazionista del vicino Sudafrica, Tungata la contraddisse con finta severità. "No, no, Pendula.,," Tungata le aveva affibbiato questo soprannome che in matabele significa Quella-che" risponde-sempre. "No, Pendula, piuttosto che condannarli, noialtri africani dovremmo ringraziarli ogni volta che diciamo le preghiere! Sono loro che riescono in un attimo a riunire in un sol empito cento tribù diverse. Basta che uno di noi si alzi a dire: "Abbasso i boeri razzisti! Abbasso l'apartheid?" che tutti smettono di tirarsi cazzotti e diventiamo fratelli." Sally-Anne batté le mani. "Quanto mi piacerebbe sentirti fare questo discorso al prossimo incontro dell'Organizzazione per l'Unità Africana!" Tungata ridacchiò. Stavano diventando buoni amici. "E c'è un'altra cosa di cui li dovremmo ringraziare.,," proseguì. "Ah sì? E quale, dimmi!" "Le tribù di laggiù comprendono i negri più attaccabrighe dell'Africa" rispose Tungata. "Zulu, xhosa, tswana. Abbiamo già un bel da fare con gli shona, immaginatevi se dovessimo fare i conti anche con loro. No, no, d'ora in poi il mio motto sarà: "Bacia un boero al giorno." "Non incoraggiarlo!" disse Sarah a Sally-Anne. "Un giorno o l'altro è capace di dire 'ste cose davanti a chi non capirà che scherza." Ma certe volte Tungata ricadeva nella depressione, nella disperazione. "E come l'Irlanda del Nord o la Palestina: solo che qui la situazione è cento volte più complicata e più grossa. Il conflitto tra noi e gli shona è il microcosmo di tutti i problemi dell'Africa." "Vedi qualche soluzione?" gli domandò Sally-Anne. "Ce n'è solo una a mio parere, radicale quanto difficile" le rispose. "Sai, nel secolo scorso gli europei che si sono disputati l'Africa l'hanno spartita fra di loro senza riguardo alle zone delle varie tribù. Questi confini, è un principio fondamentale dell'Organizzazione per l'Unità Africana, debbono restare inviolabili. Una delle soluzioni possibili è appunto cambiare questo articolo del patto e creare nuovi Stati secondo i veri confini delle nazioni, ma dopo la terribile esperienza della divisione tra India e Pakistan nessuna persona ragionevole può appoggiare questa opinione. L'unica altra soluzione secondo me sta in una forma di governo federalé, vagamente simile a quella americana, coi paesi suddivisi in province omogenee dal punto di vista tribale e il più possibile autonome dal governo centrale." Le discussioni si protraevano interminabili nel tempo, e a diletto e istruzione delle due ragazze Clay e Tungata raccontarono la storia di quella terra tra il fiume Limpopo e il fiume Zambesi, ognuno dal punto di vista della sua tribù e della sua famiglia; della scoperta, dell'occupazione e della guerra d'indipendenza che avevano combattuto su opposti fronti. Due volte, nelle giornate successive, i loro discorsi furono interrotti da rumori provenienti dal mondo esterno: un elicottero che sorvolava la collina, evidentemente proprio in cerca di loro. Tacquero finché il rombo e il sibilo del rotore non svanirono in lontananza, e quando ricominciarono a parlare il loro argomento fu la possibilità che avevano di sfuggire alla caccia delle truppe che tanto li pressavano. Ogni due giorni arrivavano le donne dal villaggio di Vusamanzi, viaggiando di notte per sfuggire alla ricognizione aerea. Portavano
cibo e notizie. I soldati della Terza Brigata erano stati al villaggio, prima circondandolo e poi irrompendovi e perquisendo tutte le capanne. Avevano ammanettato una ragazza, gridando minacce e malmenando il vecchio, ma Vusamanzi li aveva fronteggiati con dignità e alla fine la sua formidabile reputazione di mago l'aveva salvato, assieme alle sue donne. I soldati se n'erano andati senza rubare niente di gran valore, a parte qualche pollo. Non avevano bruciato alcuna capanna, ma avevano promesso di ritornare. Comunque, in tutta la zona si svolgeva una caccia all'uomo a tappeto. A piedi e con gli elicotteri gli shona battevano la foresta e le colline durante il giorno: così centinaia di evasi dal campo erano stati ripresi. Le ragazze li avevano visti, nudi e incatenati, sùi camion. A quanto ne sapeva Vusamanzi, gli shona non avevano ancora trovato la carcassa dell'aereo, ma la situazione era ancora pericolosissima e Vusamanzi aveva raccomandato alle donne di insistere che non abbandonassero la caverna per nessun motivo. Sarebbe venuto lui personalmente a prenderli quando non vi fosse stato più pericolo. Tali notizie li depressero molto, e ci volle tutta la buffoneria di Clay per risollevare un tantino gli umori dei fuggiaschi nella caverna. Attirò l'attenzione di nuovo sul loro argomento preferito, la tomba di Lobengula, e la grande fortuna in diamanti che amavano credere che contenesse. Avevano già discusso dettagliatamente dell'equipaggiamento che sarebbe stato necessario per permettere a una squadra di sommozzatori di dissuggellare la tomba e raggiungere la salma del re, e adesso Sally-Anne chiese a Tungata: "Dicci un po', Sam: se ci fosse davvero il tesoro, e tu lo recuperassi, e fosse davvero ingente come ce lo immaginiamo, che ne faresti?" "Credo che sarebbe il caso di considerarlo appartenente al popolo matabele. Bisognerà depositarlo da qualche parte e impiegarlo a suo beneficio. In primo luogo per assicurare ai matabele migliori condizioni politiche: parliamoci chiaro, un negoziatore con alle spalle una simile fortuna sarebbe in grado di ottenere più facilmente udienza presso il Foreign Office britannico e il segretario di Stato americano. Potrebbe esercitare convincenti pressioni perché ci appoggino. E anche il governo di Harare dovrebbe prendere sul serio i matabele: numerose possibilità attualmente precluse ci si aprirebbero." "Oltre a ciò, si potrebbero finanziare ogni sorta di programmi sociali: pubblica istruzione, sanità, progresso della condizione femminile..." disse Sarah, mettendo da parte per un momento la timidezza. "Si potrebbe acquistare altra terra da aggiungere al demanio tribale già esistente" interloquì Clay. "Assistere i contadini, gli allevatori; comprare trattori, macchine, bestiame selezionato." "Clay" disse Sally-Anne appoggiandogli la mano sulla gamba buona "ma non c'è proprio modo di raggiungere la camera ardente? Non potresti riprovarci?" "Mia cara ragazza, per la centesima volta ti spiegherò che potrei forse spostare un masso del muro a ogni tuffo, ma venti immersioni basterebbero a uccidermi." "Oh mio Dio, è così frustrante!" esclamò Sally-Anne, saltando su e cominciando a camminare per la caverna a grandi passi. "Mi sento così impotente! Se non facciamo qualcosa, divento matta. Mi sento soffocare... ho bisogno di una buona boccata d' ossigeno. Non si può uscire un momento?" E immediatamente si rispose da sola: "Non si può, lo so benissimo. Scusatemi, sto facendo la sciocca." Guardò l'orologio. "Mio Dio, ho perso ogni cognizione del tempo, ma lo sapete che è già mezzanotte passata? Clay e Sally-Anne andarono a sdraiarsi sul loro giaciglio di foglie avvolte in pelli di vacca, stretti stretti, parlandosi piano nell'orecchio per non disturbare l'altra coppia. "Mi vergogno di averlo fatto mettere in prigione. E un uomo
meraviglioso, caro, a volte quando lo ascolto parlare mi sento veramente piccola e meschina al suo confronto." "Può diventare un grand'uomo, è vero" disse Clay. "Venire a liberarlo potrà magari essere la cosa più importante che avremo fatto in vita nostra." "Se non ci ribeccano" precisò Clay. "Dev'esserci un po' di giustizia in questo mondo balordo." "E un bel pensierino." "Dammi il bacio della buonanotte, Clay." Clay amava moltissimo sentirla dormire: il delicato respiro, la totale rilassatezza del suo corpo accanto al proprio, le mani che ogni tanto l'accarezzavano nel sonno. Ma quella notte non riuscì adaddormentarsi subito dopo di lei. C'era qualcosa conficcato nel suo inconscio come un sassolinonella calza, e più restava sdraiato e più gli dava fastidio: si trattava di qualcosa che qualcuno aveva detto quella sera stessa, questo era quanto era riuscito ad accertare, ma ogni volta che cercava di far affiorare la nozione alla coscienza, il contenuto psichico gli sfuggiva e ripiombava nell'inconscio. Alla fine ricorse al vecchio trucco di svuotare la mente, immaginando un cestino della carta straccia in cui gettava, dopo averli strappati in due e appallottolati, i pensieri che non c'entravano nulla e che gli si affacciavano uno dopo l'altro. "Cristo!" esclamò ad alta voce a un tratto, schizzando a sedere sul giaciglio. Sally-Anne si sveglio di soprassalto, farfugliando e scostandosi i capelli dagli occhi. "Cosa c'è?" gridò Tungata dall'altra parte della caverna. "L'ossigeno!" gridò Clay. "Sally-Anne aveva detto: sto soffocando, ho bisogno di una boccata d'ossigeno." "E allora?" farfugliò Sally-Anne ancora mezzo addormentata. "Non capisco proprio." "Tesoro, sveglia, sveglia!" la scosse Clay. "Ossigeno! Il Cessna era equipaggiato per il volo ad alta quota, no?" "Santo cielo! Come mai non ci abbiamo pensato prima?" "Giubbotti di salvataggio... ne avevi a bordo?" "Sì, quando ho contato i cormorani sul lago Tanganika sono stata obbligata a procurarmeli. Li hanno sistemati sotto i sedili." "E il sistema a ossigeno è a rigenerazione?" "Sì." "Paffo?" disse Tungata, accorrendo con la lanterna e trascinando Sarah come una bambola, nuda e mezzo addormentata. "Paffo, dicci cosa succede!" "Sam, bello mio" rispose Clay prendendo i calzoni. "Io e te dobbiamo andare a fare una passeggiata." "Adesso?" "Sì, adesso che è buio."
C'era abbastanza luna da farli arrivare tranquillamente fino al villaggio di Vusamanzi. Aggirarono la collina, per non allarmare il vecchio. Un cane del villaggio abbaiò contro di loro, ma trovarono il sentiero e se ne andarono in fretta. L'alba li sorprese in cammino. Due volte furono obbligati a nascondersi. La prima andarono quasi a sbattere il naso contro una pattuglia di esploratori shona in tuta mimetica. Tungata, che era davanti, avvertì Clay col segno manuale di grave pericolo che gli aveva già prodigato in tribunale. Si sdraiarono nel folto dell'erba-degli-elefanti accanto al sentiero e li guardarono sfilare silenziosamente. Dopo, Clay si accorse che gli batteva il cuore e gli tremavano le mani. "Comincio a diventare troppo vecchio per queste cose" sussurrò. "A chi lo dici" concordò Tungata. La seconda volta furono avvertiti dal rumore dell'elicottero. Si rituffarono nel folto. La macchina volante passò pianissimo sopra
la cresta della vallata, col mitragliere al pezzo e una squadra d'assalto pronta a scendere nel vano della carlinga, dove gli elmetti verdi si affollavano minacciosi. L'elicottero si allontanò senza tornare indietro. Superarono il punto dove avevano imboccato il sentiero la prima volta, e dovettero tornare sui propri passi per un paio di chilometri: così era tardo pomeriggio quando arrivarono al luogo dove era precipitato l'aeroplano. Si avvicinarono con grandissima cautela, prima girando intorno alla zona in cerca di un accesso, cercando tracce di una eventuale scoperta della carcassa da parte degli shona, di qualche trappola. Ma alla fine, rassicurati, raggiunsero senza indugio la carcassa, che era esattamente nelle condizioni in cui l'avevano lasciata. Tungata si mise di guardia all'imbocco del valloncello, con il kalashnikov, mentre Clay cominciò a smontare l'equipaggiamento che era venuto a prendere. I quattro giubbotti gonfiabili erano sotto i sedili, come aveva detto Sally-Anne. Erano di eccellente fattura, in nailon resinato: ognuno aveva una cartuccia di anidride carbonica per la carica, e un beccuccio a valvola per rigonfiarlo eventualmente con la bocca. Assicurati al bavero del giubbotto c'erano un fischietto di segnalazione e, benedizioni al fabbricante, una pila elettrica a lunga durata per emettere lampi di luce. Sotto il sedile del pilota c'era anche, altre mille benedizioni, una dotazione di colla epossidica, forbici e carta vetrata per riparare, con le apposite pezze, eventuali buchi nei giubbotti di salvataggio. Le bombole d'ossigeno erano d'acciaio, in una rastrelliera dietro il sedile posteriore del passeggero. Ce n'erano tre, da due litri l'una. Dalle bombole si dipartivano tubi di plastica che andavano ad alimentare le maschere poste di fianco a ogni sedile. Queste maschere avevano due valvole. L'utilizzatore inalava ossigeno puro ed esalava una mistura di ossigeno inutilizzato e anidride carbonica, più del vapore acqueo. Tutto ciò passava dalla valvola d'uscita e raggiungeva i filtri posti in scatole di metallo sotto i sedili; erano due: il primo conteneva gelatina di silicio che assorbiva il vapore acqueo, il secondo carbonato di calcio che assorbiva l'anidride carbonica. L'ossigeno residuo veniva riciclato nella maschera facciale. Quando la pressione dell'ossigeno nel sistema cadeva al livello di quella atmosferica, era automaticamente alimentato dalle bombole d'acciaio. Il sistema di tubi era giuntato con spinotti d'alluminio di ottima qualità, dall'innesto a baionetta. C'erano giunti a "T" , a gomito, di tutti i tipi. Lavorando con cura, compatibilmente con la fretta, Clay smontò l'apparecchiatura dalla carlinga, poi staccò i teloni dall'ossatura metallica dei sedili e ne fece delle borse. Vi infilò l'equipaggiamento recuperato nelle due grosse sacche così ricavate. Era scuro, quando avvertì Tungata con un fischio prolungato. Ognuno si caricò di una sacca e si avviarono. Quando incrociarono il sentiero, persero una buona mezz'ora per cancellare le tracce, eliminando ogni segno nella vegetazione che potesse far capire agli shona che qualcuno aveva abbandonato il sentiero in quel punto. "Credi che reggerà, alla luce del giorno?" chiese dubbioso Clay. "Non dobbiamo assolutamente far scoprire la carcassa del l'aereo o concentreranno le ricerche qui attorno. "E quanto di meglio possiamo fare." Imboccarono il sentiero e si avviarono di buon passo, nonostante il peso del carico: riuscirono a battere il loro record di un'ora, arrivando alla grotta poco dopo l'alba. Sally-Anne non disse nulla quando Clay rientrò nella caverna. Si alzò dal focolare, gli andò incontro e premette il viso sul suo petto. Sarah accolse Tungata con le tradizionali cortesie della sua gente, gli porse il boccale della birra lasciandolo rinfrescarsi prima di scocciarlo coi saluti. Solo dopo che ebbe bevuto si inginocchiò da-
vanti a lui, batté piano le mani e sussurrò in sindebele: "Ti vedo, mio signore, ma non tanto bene, perché ho gli occhi pieni di lacrime di gioia."
Il sergente shona era di pattuglia da trentatré ore e non aveva ancora dormito. La mattina precedente avevano avuto un breve e non risolutivo contatto con la banda di fuggiaschi che stavano inseguendo, uno scambio di fucilate durato meno di tre minuti, poi i [guerriglieri matabele si erano sganciati e divisi in piccoli gruppi. Il sergente ne aveva inseguito uno con cinque soldati; li aveva inseguiti fino a buio e poi li aveva perduti, sulla cresta rocciosa della valle dello Zambesi. Adesso stava riportando la pattuglia alla base per rifornimenti e nuovi ordini. Nonostante il lungo pattugliamento, e il trauma della scaramuccia e dell'inseguimento, il sergente era ancora vigile e all'erta. Nel suo passo c'era una elasticità inesausta, e la testa gli girava ritmicamente di qua e di là nel seguire il sentiero. Il bianco degli occhi sotto la visiera del berretto da giungla brillava acuto e chiaro. :All'improvviso diede il segnale d'allarme con la mano: gli uomini che lo seguivano si gettarono a terra, e anche lui, spostando il kalashnikov a coprire il fianco sinistro. Giacquero distesi nell'erba-degli-elefanti accanto al sentiero, scrutando nel folto, mentre il sergente osservava il particolare che l'aveva colpito. Si trattava di un ciuffo d'erba ai margini del tratturo: gli steli erano stati rotti e poi raddrizzati attentamente nel tentativo di mascherare la rottura, ma a poco a poco eran tornati a reclinarsi. Era proprio il genere di traccia che si può incontrare su un sentiero nel punto prescelto dal nemico per un'imboscata. Il sergente restò sdraiato a terra per due minuti, e siccome non fu aperto alcun fuoco ostile, corse avanti dieci passi e si gettò di nuovo a terra, rotolandosi un paio di volte per ingannare l'eventuale nemico che lo stesse puntando col fucile. Attese altri due minuti nella nuova posizione. Ancora niente fuoco nemico. Allora si alzò con cautela e andò a esaminare da vicino il ciuffo d'erba calpestata. Era senza dubbio una traccia d'uomo. Un gruppetto aveva abbandonato il sentiero in quel punto, cercando poi di cancellare le tracce. Chiunque si fosse dato una simile pena temeva certo d'essere inseguito. Il sergente chiamò col fischietto il battitore della squadra e gli mostrò la traccia. L'uomo partì lungo il sentiero con gli occhi fissi a terra e nel giro di pochi minuti tornò col suo rapporto. "Due uomini con gli stivali, uno zoppica dalla gamba sinistra. Discendono la valle." Toccò una delle impronte in un punto un po' sabbioso: presso la punta, una formica-leone aveva costruito la propria trappola, il che permetteva di decifrare perfettamente i tempi. "Sono passati da sei a otto ore fa, di notte" disse il battitore. "Hanno proseguito lungo il sentiero, ma non possiamo seguirli perché le loro tracce si confondono con molte altre. "Se non possiamo scoprire dove vanno, vedremo da dove vengono" disse il sergente. "Risali per la macchia. Tre ore dopo il sergente era davanti alla carcassa dell'aeroplano.
Clay dormì qualche ora e poi, alla luce della lanterna, cominciò a modificare l'impianto a ossigeno per l'uso subacqueo. Il centro del suo dispositivo alquanto primitivo era lo zaino: a questo scopo usò uno dei giubbotti di salvataggio, caricandolo d'ossigeno da una delle bombole per mezzo della valvola di non ritorno e di un tubetto di plastica. Mentre lavorava, Clay spiegava agli altri: "Alla profondità di dieci metri, la pressione supererà le due atmosfere... ricordate la fi-
sica delle medie: dieci metri di profondità equivalgono a circa un'atmosfera, più la pressione che grava in superficie, fa circa due, no?" Il suo interessato pubblico composto di tre persone fece mugolii affermativi. "Giusto! E allora, per poter respirare liberamente, l'ossigeno mi deve essere propinato nei polmoni alla stessa pressione dell'acqua circostante. Nel giubbotto di gomma, l'ossigeno è sottoposto alla stessa pressione ambientale del mio organismo e, voilà, il gioco è fatto." "Come diceva sempre mio papà, è il cervello che conta!-" l'applaudì Sally-Anne. "Le sostanze chimiche contenute in questi due scatolini rimuovono il vapore acqueo e l'anidride carbonica dell'aria che espiro: l'ossigeno residuo purificato rientra nella sacca floscia attraverso questo tubo, e io posso respirarlo ancora." Sigillò le nuove connessioni con la colla epossidica della scatoletta degli attrezzi. "Mentre consumo l'ossigeno contenuto nel giubbotto, lo rabbocco in continuazione con quello della bombola, che mi porterò dietro legata sulla schiena. Farò così.,," Schiacciò il cappuccio della bombola e un sibilo viperino uscì dal becco dell'ossigeno. "Naturalmente ci sono anche dei piccoli problemi da risolvere.,," Clay cominciò a modificare la maschera per adattarla all'uso subacqueo. Bisognava che gli si applicasse strettamente al ViSO. "Quali problemi?" "Il galleggiamento" rispose Clay. "Man mano che userò l'ossigeno del giubbotto di salvataggio, diverrò più pesante, e la bombola d'acciaio mi tirerà giù come una pietra. Poi, quando ricaricherò la sacca floscia del giubbotto, schizzerò verso l'alto come una boa di sughero." "E come farai a evitarlo?" "Mi appesantirò con delle pietre per arrivare all'ingresso della tomba, e una volta là mi ancorerò per lavorare." Clay stava confezionando uno zaino per i due scatolini dei filtri e la bombola d'ossigeno. La applicò con la massima cura, in modo che il rubinetto fosse facilmente raggiungibile da sopra le spalle. "Comunque, non è quello il problema più grosso" disse. "Ah, ce ne sono altri?" domandò Sally-Anne. "Quanti ne vuoi" sogghignò Clay. "Lo sai che l'ossigeno puro, respirato per un lungo periodo a una pressione di più di due atmosfere, cioè a qualsiasi profondità superiore ai dieci metri, diventa un gas venefico come l'ossido di carbonio contenuto negli scarichi dei motori a scoppio?" "E che ci puoi fare?" "Non molto" rispose Clay. "Tranne che limitare la durata delle immersioni, e star molto attento alle mie reazioni fisiologiche mentre lavoro al muro della tomba." "Non puoi calcolare quanto tempo hai con sicurezza per lavorare prima che l'ossigeno diventi velenoso?" Clay fece un gesto di diniego. "No. La formula è alquanto complicata e dipende da troppe variabili che non sono in grado di calcolare con precisione, dal mio peso corporeo all'esatta profondità dell'acqua. Inoltre, l'avvelenamento sarà progressivo: ogni immersione sarà più pericolosa della precedente." "Oh mio Dio! Tesoro.,," Sally-Anne lo fissava sbigottita. "Faremo sì che le immersioni siano molto brevi, e concorderemo tutta una serie di segnali" la rassicurò Clay. "Ogni minuto, mi avvertirete con uno strappo alla fune, e, se non rispondo, o se la risposta non è immediata e decisa, mi tirerete su. L'avvelenamento è insidioso ma molto graduale, e altererà le mie reazioni prima di farmi perdere conoscenza. Ci sarà quindi il tempo di intervenire." Mise da parte l'equipaggiamento di fortuna che aveva compicciato,
accanto al fuoco, così che l'indurimento della colla epossidica fosse più rapido. "Appena le giunture sono sigillate, collauderò l'impianto, poi scenderemo al lago." "Quanto ci vorrà?" "Sul tubetto della colla c'è scritto ventiquattro ore." "Così tanto?" "Il riposo aumenterà la mia resistenza all'avvelenamento."
La foresta era troppo fitta per permettere all'elicottero di atterrare. Così si fermò al di sopra delle cime degli alberi, mentre il generale Peter Fungabera si calava a terra con una scaletta di corda. Il vento del rotore gli faceva sbattere la tuta mimetica sul dorso. A due metri da terra lasciò andare la scaletta e saltò giù, atterrando con l'agilità di un felino. Ricambiò il saluto del sergente shona che lo stava aspettando e si levò in fretta da sotto la scala, con cui si stava calando un'altra persona. Anche il colonnello Bucharin era in tuta mimetica ed elmetto. La sua faccia pallida e sfregiata sembrava impenetrabile anche al sole tropicale, esangue e quasi altrettanto pallida degli scialbi occhi artici. Si scrollò di dosso le mani del sergente shona che voleva aiutarlo e si avviò per la valletta. Peter Fungabera gli si accostò e camminarono senza parlare fino alla fusoliera ammaccata del Cessna. "Non c'è nessun dubbio?, chiese Bucharin. "Il numero di identificazione è proprio quello. Non dimenticare che ci ho volato, su quell'aereo." Si inginocchiò a esaminare la pancia della fusoliera. "Se c'è bisogno di ulteriori prove... ecco i buchi dei proiettili di mitra dal di sotto." "Niente cadaveri?" "No." Fungabera si alzò, affacciandosi all'interno. "Niente sangue, nessun indizio che qualche passeggero sia rimasto ferito. La carlinga è stata spogliata di ogni oggetto utile." "Potrebbero essere stati gli indigeni." "Forse" disse Peter. "Ma non credo. Le tracce sono state esaminate da esperti, e questa è la loro ricostruzione. Dopo l'impatto, dodici giorni fa, quattro persone hanno abbandonato l'aereo, di cui due donne e un uomo un po' claudicante. Poi, nelle ultime trentasei ore, due uomini sono tornati al rottame: gli stessi due passeggeri, è provato dall'impronta degli stivali. Tungata e il bianco zoppo." Bucharin annuì. "Nel corso della seconda visita, sono stati smontati l'impianto a ossigeno e i coprisedili di tela. I due hanno abbandonato la zona carichi come muli, e hanno preso il sentiero che passa allo sbocco della valletta, a una dozzina di chilometri da qui. Là le loro tracce si confondono con numerose altre." "Capisco." Bucharin lo stava fissando. "Adesso dimmi le tue conclusioni." "Erano due bianchi e due negri, li ho visti coi miei occhi alla pista di Tuti. Uno dei negri è indubbiamente il ministro Tungata Zebiwe, l'ho riconosciuto." "Non è un pio desiderio? Egli è la tua ultima speranza di portare a termine il nostro affare." "Riconoscerei quell'uomo dovunque." "Anche da un aereo?" "Ma certo." "Continua" l'invitò Bucharin. "L'altro negro non l'ho riconosciuto. Nemmeno i bianchi ho visto bene, ma è quasi certo che il pilota sia un'americana che si chiama Jay. L'aereo è del WWF e lei l'ha in uso. L'altro bianco è quasi sicuramente il suo amante, uno scrittore inglese di romanzi popolari che ha una gamba artificiale, il che spiega l'asimmetria
delle tracce. Questi tre sono persone senza importanza e si possono liquidare senza problemi. L'unico che ha importanza è Zebiwe, e adesso sappiamo che è vivo." "Sappiamo anche che te l'ha fatta sotto il naso, mio caro ge-nerale" precisò Bucharin. "Non credo che possa continuare a sfuggirmi ancora a lungo" disse Peter. Poi si rivolse al sergente che aspettava sull'attenti dietro di lui. "Ti sei comportato bene, molto bene finora. " "Mambo!" "Credo che il cane matabele e i suoi amici bianchi siano nascosti da queste parti e nutriti dalla popolazione locale." "Mambo!" "Dunque, interrogheremo gli abitanti della zona." "Mambo!" "Cominceremo dal villaggio più vicino. Qual è? "Quello di Vusamanzi. E dietro quelle due file di colline." "Lo circonderai. Nessuno dovrà uscirne, né una capra né un bambino." "Mambo!" "Quando avrai circondato il villaggio, verrò a dirigere gli interrogatori."
Clay e Tungata fecero tre viaggi giù fino al lago sotterraneo, portando l'equipaggiamento, le bombole d'ossigeno di riserva e le lampade subacquee che Clay aveva preparato staccando dai giubbotti di salvataggio le luci di segnalazione; poi della legna da bruciare per riscaldare Clay dopo ogni immersione, e provviste per evitare di dover tornare su nella caverna per mangiare. Dopo lunghe discussioni si decise di lasciare una ragazza a turno nella caverna superiore, a ricevere le visite dal villaggio di Vusamanzi e a dar l'allarme a quelli giù nel caso che una pattuglia di shona fosse incappata fortuitamente nell'ingresso della caverna. Prima di collaudare l'impianto di respirazione, Clay e Tungata esaminarono la via che portava da basso, scegliendo le migliori postazioni difensive nel caso di un attacco degli shona. Benché nessuno dei due vi accennasse, entrambi sapevano bene che la caverna era una trappola, e che ogni difesa doveva necessariamente terminare sulla riva del lago sotterraneo. Tungata mostrò chiaramente di saperlo quando, sotto gli occhi degli altri tre, tirò fuori quattro proiettili 7,62 della Tokarev, li avvolse in un brandello di pergamena, e li infilò in una fessura della roccia accanto alla pozza. Le due ragazze guardarono con morboso interesse: e, benché Clay facesse mostra di continuare a controllare il respiratore, in realtà aveva visto benissimo. Tutti capivano. Era l'estrema assicurazione contro la tortura e le lente mutilazioni che avrebbero loro inflitto gli shona se li avessero presi vivi: una pallottola per uno. "Okay!" La voce di Clay rimbombò nel silenzio della cavena. "Ora vedrò con quale efficienza questo dispositivo sarà in grado di affogarmi." Tungata sollevò l'impianto, Clay si inginocchiò e infilò la testa nel collare del giubbotto di salvataggio. Sally-Anne e Sarah gli legarono la bombola e gli scatolini dei filtri alla schiena, nella posizione indicata da Clay. Questi controllò i nodi. Se l'impianto si guastava, doveva poterlo abbandonare sul fondo in un attimo. Alla fine saltò dentro la pozza, rabbrividì dal freddo aggiustandosi la maschera sulla bocca e sul naso, allacciò la cintura dietro la nuca e riempì a metà il giubbotto di ossigeno. Fece un segnale a pollice alzato ai tre rimasti sulla riva e si immerse. Come aveva immaginato, il problema principale era il galleggiamento. La spinta del giubbotto sul torace lo faceva girare su se stesso e lo tirava su: con una gamba sola, non riusciva a rivoltarsi a
faccia in giù, restava a galla a pancia all'aria come un pesce morto. Tornò a riva e, facendosi passare dei sassi di varie grandezze, sperimentò l'assetto giusto per immergersi. Un lavoro noioso, oltre che penoso, che gli consentì alla fine di trarre l'elementare quanto sgradevole conclusione che poteva immergersi soltanto afferrando una pietra grossissima e tuffandosi a testa in giù. Tuttavia, appena la sciava andare la pietra, risaliva alla superficie come un tappo di champagne. "Be', almeno le giunture sono impermeabili" si consolò tornando in superficie. "E l'ossigeno arriva. Entra un sacco d'acqua dai bordi della maschera, ma posso cacciarla fuori nel solito modo." Mostrò il trucco di tenere la maschera schiacciata contro la fronte, espellendo da sotto l'acqua infiltrata con una specie di starnuto. "Quand'è che vai giù al muro?" "Più pronto di così non sarò mai" ammise Clay con riluttanza.
"Devi capire che io sono come un padre per voialtri" disse con un sorriso cortese Peter Fungabera. "Vi proteggo come se foste i miei figli." "Capisco queste chiacchiere in shona come l'abbaiare dei babbuini in cima alla collina nelle notti di luna" replicò con altrettanta cortesia Vusamanzi. Peter Fungabera fece un gesto d'impazienza rivolgendosi al sergente. "Ma dov'è 'sto interprete del cavolo?" "Sarà qui prestissimo, Mambo." Dandosi colpetti sulla coscia col frustino, Peter Fungabera passò svogliato in rassegna gli abitanti del villaggio, laceri e sparuti, che i suoi uomini avevano riunito nello spiazzo prelevandoli dai campi di mais e dalle capanne. A parte il vecchio, erano tutte donne e bambi-ni. Alcune delle donne erano anziane come lo stregone, coi capelli bianchi; altre portavano in spalla i bambini, o li tenevano nudi per mano: guardavano cupi il generale Fungabera, col moccio secco sotto il naso. C'erano anche donne più giovani, dal seno pieno e la pelle lucida, bambine impuberi e ragazzi non ancora circoncisi. Peter Fungabera sorrideva gentilmente a tutti, ma gli stavano lontano, con l'espressione assente. "Cuccioli matabele, vi sentiremo abbaiare un po' prima di sera" " promise sottovoce, e si voltò verso il fondo della fila. Tornò lentamente dove aspettava il russo, all'ombra di una delle capanne. "Il vecchio non ti dirà niente" presagì Bucharin allontanando dalle labbra il bocchino di ebano e dando due colpetti di tosse con la mano davanti alla bocca. "E inaridito, al di là del dolore, al di là della sofferenza. Guardagli gli occhi. E un fanatico." "Sono d'accordo, questi sangoma conoscono l'autoipnosi, sarà refrattario al dolore." Fungabera guardò di scatto l'orologio. "Ma dov'è l'interprete?" Ci volle un'altra ora perché il collaborazionista matabele, liberato dal campo di concentramento, fosse accompagnato al villaggio in cima alla collina. Cadde in ginocchio davanti a Peter Fungabera, balbettando, con le mani ammanettate. "Alzati!" E poi, al sergente: "Togligli le manette. E conduci qui il vecchio." Vusamanzi fu portato nel centro della piazza del villaggio. "Digli che sono suo padre" ordinò Fungabera. "Mambo, ha risposto che suo padre era un uomo e non una iena." "Digli che, benché io sia clemente con lui e la sua gente, il suo comportamento mi spiace." "Mambo, ha risposto che, se ha reso infelice vostra signoria, è ben contento." "Digli che ha mentito ai miei uomini."
"Mambo, dice che spera di mentirgli ancora spesso." "Digli che so che nasconde e nutre quattro nemici dello Stato." "Mambo, dice che sei pazzo. Non ci sono nemici dello Stato nascosti qui attorno." "Molto bene. Adesso rivolgiti alla gente. Ripeti che voglio sapere dove sono nascosti i traditori. Che se ci conducono da loro non faremo del male a nessuno." L'interprete, in piedi davanti alla fila silenziosa di donne e bambini, fece un'arringa lunga e appassionata, ma quando finì continuarono a guardarlo con la stessa espressione assente. Uno dei bambini incominciò a piangere forte: la madre lo prese in braccio e gli porse il seno colmo di latte. Tornò il silenzio. "Sergente!" Peter Fungabera diede secchi ordini, e le mani di Vusamanzi furono legate ai polsi e dietro la schiena. Uno dei soldati fece un cappio all'altra estremità della corda e la passò attorno al ramo di un grosso albero. Poi mise il cappio al collo di Vusamanzi. "Adesso di'a questa gente che, se accettano di portarci dai traditori, questa punizione finirà immediatamente." L'interprete alzò la voce, ma non aveva ancora finito di parlare che Vusamanzi si mise a gridare molto più forte di lui: "Maledirò chiunque parli con questo porco shona. Vi ordino di star zitti qualunque cosa mi facciano: chi disobbedirà sarà da me visitato dopo la morte. Io, Vusamanzi, padrone delle acque, questo comando e posso!" "Forza!" ordinò Fungabera, e il sergente tirò la corda. Il cappio si strinse intorno al collo del vecchio, che a poco a poco fu costretto ad alzarsi in punta di piedi. "Così!" disse Fungabera. Il sergente annodò la corda al ramo. "Adesso, che si facciano avanti a parlare." L'interprete passò da una donna all'altra, ripetendo gli ordini di Fungabera e ben presto implorandole di parlare: ma Vusamanzi guardava fieramente le sue donne, incapace di proferire parola ma pur sempre comandandole con la forza di volontà. "Rompetegli un piede" disse Fungabera. Il sergente si piazzò davanti al vecchio e lo picchiò una dozzina di volte sul piede col calcio del fucile. Quando le donne udirono le vecchie ossa del piede sinistro di Vusamanzi spezzarsi come bastoncini, cominciarono a gemere e ululare. "Parlate!" ordinò Fungabera. Vusamanzi si reggeva su una gamba sola, con il collo torto dal cappio. Il piede ferito cominciava già a gonfiarsi e in breve raggiunse la grandezza di tre volte quella originale: la pelle si tirava, nera e lustra come un frutto più che maturo, sul punto di spaccarsi. "Parlate!" ripeté Peter Fungabera. I gemiti delle donne coprirono l'ordine. "Rompigli l'altro piede!" disse al sergente. Appena il calcio del fucile del graduato spezzò le piccole ossa del piede destro di Vusamanzi, il vecchio si accasciò e il sergente fece un passo indietro, ridendo alla vista del vecchio che cercava freneticamente di sfuggire all'impiccagione contorcendosi nel tentativo di appoggiarsi sui piedi maciullati. Adesso tutte le donne gridavano, e anche i bambini. Una delle più vecchie, la moglie più anziana, uscì dalla fila e andò di corsa, a braccia aperte, dal marito. "Lasciatela?" disse Peter Fungabera alle guardie che volevano fermarla. Si fecero da parte. La fragile vecchia raggiunse il marito e cercò di tenerlo sollevato, piangendo d'amore e di compassione, ma non aveva abbastanza forza nemmeno per sollevare quel corpo magro ed emaciato. Riuscì solo a diminuire la pressione sulla laringe, appena prolungando l'agonia dello strangolamento. Il vecchio aveva la bocca aperta, annaspava in cerca d'aria, e le labbra erano coperte di bava bianca. Re-
spirava con una specie di lamentoso ululato, che si accompagnava ai gemiti disperati della prima moglie. "Ascoltate il vecchio gallo matabele con la sua vecchia gallina!" rise Peter Fungabera, e i suoi soldati si misero a sghignazzare. Ci volle un po' di tempo, ma alla fine Vusamanzi giacque immobile e silenzioso, con la faccia arrovesciata verso il cielo. Sua moglie, a terra, ai suoi piedi, cominciò a dondolarsi intonando il lamento funebre. Peter Fungabera tornò accanto al russo. Bucharin accese un'altra sigaretta e commentò: "Crudo... e inefficace." "Tanto non c'era nessuna possibilità di far parlare il vecchio scemo. Dovevamo toglierlo di mezzo e far capire subito bene le nostre intenzioni." Peter accennò alle astanti col frustino. "E stato efficace, colonnello. Guardi un po' la faccia delle donne." Tornò davanti a loro. "Chiedi dove sono nascosti i nemici dello Stato." Ma, come l'interprete cominciò a parlare, la vecchia saltò su e corse dalle donne. "Avete visto il vostro signore morire senza parlare" strillò. "Avete udito il suo comando. Sapete che tornerà!" Peter Fungabera cambiò la presa del frustino e, senza sforzo apparente, col manico di legno tirò un colpo sotto le costole della vecchia. Ella gridò e si accasciò. La milza, gonfia e indebolita dalla malaria endemica, le era scoppiata per il colpo. "Portatela via" ordinò Peter. Uno dei soldati la prese per le caviglie e la trascinò dietro le capanne. "Chiedi dove sono nascosti i nemici dello Stato." Peter andò lentamente su e giù per la fila di donne e bambini, valutando il grado di terrore che scorgeva in ogni paio di neri occhi matabele. Indugiò prima della scelta, tornando poi davanti alla più giovane delle madri, poco più che una bambina lei stessa, col figlio sulla schiena avvolto in un drappo di tessuto azzurro. Si fermò davanti a lei e cominciò a fissarla, poi, quando pensò che fosse giunto il momento, la afferrò per il polso. La condusse piano al centro della piazza, dove ardevano le braci del fuoco collettivo. A calci, Fungabera accatastò i tizzoni ardenti e, sempre tenendo per mano la ragazza, aspettò che le fiamme tornassero a levarsi. Poi le torse il braccio, obbligandola a inginocchiarsi. Il silenzio cadde sulle donne che guardavano con mortale sbigottimento. Peter Fungabera slacciò il drappo blu e prese il bambino. Era un maschietto grassottello, dalla pelle color del miele grezzo, con la pancina paffuta piena del latte materno, e braccialetti di grasso attorno ai polsi e alle gambe. Peter lo mise a terra e, appena cadde, lo prese per una caviglia. Il bimbo strillò sbigottito, appeso a testa in giù alla mano di Fungabera. "Dove sono nascosti i nemici dello Stato?" La faccia del bimbo si stava gonfiando e scurendo per l'afflusso di sangue. "Dice che non lo sa." Peter Fungabera mise il bambino proprio sopra le fiamme, in alto. "Dove sono i nemici del popolo?" Ogni volta che ripeteva la domanda, abbassava il bambino di qualche centimetro. "Dice che non lo sa." Di colpo, Peter abbassò il corpicino che si dibatteva proprio in mezzo alle fiamme, e il piccolo strillò in modo del tutto nuovo. Dopo un attimo Peter Fungabera lo sollevò di nuovo e lo mostrò alla madre. Il fuoco gli aveva bruciato le sopracciglia e il tenero ciuffo di capelli. "Dille che arrostirò questo porcellino a fuoco lento e poi la costringerò a mangiarlo."
La ragazza cercò di ghermire il bambino, ma il generale lo teneva appena fuori della sua portata. Allora la ragazza cominciò a gridare una sola frase, ripetendola in continuazione, mentre le altre donne sospiravano coprendosi il volto con le mani. "Dice che ti accompagnerà da loro." Peter Fungabera le restituì sdegnosamente il bambino e tornò accanto al russo. Il colonnello Bucharin, ammirato suo malgrado, inclinò lievemente la testa sul collo.
A quindici metri di profondità Clay lavorava, ancorato, davanti al muro della tomba. Si era legato a uno spuntone calcareo, e alla luce della torcia elettrica stava esaminando attentamente il muro in cerca di una fessura più grossa delle altre per cominciare ad attaccarlo. Tastandolo con le mani, per rimediare alla vista offuscata e distorta, scoprì che non c'erano rotture, ma che la base del muro era fatta di massi squadrati molto più grandi che in alto. Probabilmente i massi grossi a portata di mano si erano esauriti subito, e i vecchi stregoni e apprendisti avevano dovuto accontentarsi di massi più piccoli che potevano portare da più lontano. Comunque, il più piccolo era più grande d'una testa d'uomo. Clay ne afferrò uno e cercò di spostarlo. Le mani rammollite dall'acqua si escoriarono e una nuvoletta di sangue arrossò l'acqua vicino al bordo tagliente del masso, ma egli non sentì dolore perché anestetizzato dal freddo. Quasi subito l'acqua si intorbidi anche della melma sollevata dai suoi tentativi di svellere il masso. Nel giro di pochi secondi Clay non vide più niente e spense la pila per risparmiare le batterie. Piccole particelle di sabbia, smosse per la prima volta dopo chissà quanto tempo, gli entrarono negli occhi facendoglieli bruciare. Li chiuse forte, continuando a lavorare a tastoni. Vi sono varie gradazioni d'oscurità, ma quella era totale. Era una tenebra che pareva avere un peso fisico ben preciso, e gravava su di lui, accentuando quello delle tonnellate di roccia e d'acqua che pure incombevano sopra. L'ossigeno che respirava aveva un piatto sapore chimico, e ogni poche boccate un po' d'acqua trovava la strada per infilarsi nella maschera di fortuna e gli capitava di respirare anche quella, faticando per non tossire, perché un accesso di tosse avrebbe spostato del tutto la maschera. Il freddo era come una malattia all'ultimo stadio, lo stava distruggendo con grande efficacia, ottundendogli giudizio e reazioni, rendendogli sempre più difficile guardarsi dai primi sintomi di avvelenamento da ossigeno: ogni segnale trasmessogli dalla corda sembrava arrivare un'eternità dopo il precedente. Ma continuò a lavorare al muro con ostinazione cieca, cominciando a odiare gli antenati di Vusamanzi che, come costruttori, si erano rivelati così amanti della solidità. Alla fine del turno di mezz'ora, aveva estratto dal muro una bella pila di massi, aprendo un buco appena sufficiente per penetrarvi con il respiratore di fortuna, profondo circa mezzo metro ma non tale da dargli un'idea dello spessore residuo del muro. Tolse di mezzo i massi che aveva estratto dando un calcio alla pila e facendoli scivolare rotoloni giù per la china del corridoio d'accesso e poi nella pozza principale. Quindi, con sollievo, slegò il dispositivo d'ancoraggio e cominciò la lunga risalita verso la superficie del lago sotterraneo. Tungata l'aiutò a salire sulla riva rocciosa, perché era debole come un bimbo e, fuori dell'acqua, troppo appesantito. Tungata gli sfilò l'aggeggio dal dorso mentre Sarah gli zuccherava una tazza di tè caldo. "E Sally-Anne?" domandò Clay. "E di guardia di sopra" rispose Tungata. Clay prese la tazza con due mani, per scaldarsi, e si chinò sul
focherello tremando dal freddo. "Ho cominciato a creare un piccolo varco sulla parte alta del muro, e sono andato avanti un mezzo metro, ma non è ancora possibile dire quanto sia spesso il muro e quante immersioni ci vogliano per abbatterlo a sufficienza." Sorbì un po di tè. "Ma abbiamo trascurato un particolare: avrò bisogno di qualcosa per trasportare su i diamanti, se mai li raggiungo" disse Clay incrociando le dita, mentre Sarah faceva un proprio gesto atto ad allontanare la iella. "I boccali da birra saranno molto fragili, già ne ha rotto uno il vecchio Insutsha, e sarà un po' difficile portarli su. Dovremo usare le borse che ho fatto con la tela dei sedili. Quando Sarah andrà su a dare il cambio a Pendula, dovrà dirle di portarmele qua." Mentre il gelo veniva dissipato dal fuoco e dal tè caldo, cominciò a fargli male la testa. Clay sapeva che era l'effetto dell'inalazione di ossigeno ad alta pressione, il primo sintomo dell'avvelenamento. Era come un'emicrania della massima intensità, che gli fracassava il cervello inducendolo a gemere forte. Prese tre analgesici nella cassettina del pronto soccorso e li trangugiò col tè caldo. Poi sedette ad aspettare che gli facessero effetto. Aveva così paura di tornare giù al muro che gli veniva la nausea e la volontà vacillava. Scoprì che stava cercando scuse per rimandare la prossima immersione: qualunque cosa, pur di evitare il freddo terribile e l'essere inghiottito dalle acque nere incassate nella roccia. Tungata lo guardava in silenzio dall'altro lato del fuoco, e Clay si tolse la pelliccia che gli aveva dato Sarah e le rese la tazza vuota. Si alzò in piedi. Il mal di testa era regredito fino a diventare una pulsazione un po' dolorosa dietro gli occhi. "Andiamo" disse, e Tungata gli appoggiò la mano sul braccio e strinse prima di chinarsi a infilargli il respiratore. Clay s'accapponava al pensiero di rientrare nell'acqua gelida, ma si costrinse a farlo, e la pietra che teneva in mano lo condusse giù a capofitto nel profondo. Nell'immaginazione, l'ingresso della tomba non gli sembrava più un'orbita vuota, ma piuttosto le fauci sdentate di qualche orrenda creatura della mitologia africana, che si aprivano per inghiottirlo. Ci entrò e nuotò su per il cunicolo subacqueo, ancorandosi di nuovo davanti al muro. Esaminò il buco irregolare che vi aveva praticato. Il pulviscolo si era depositato, e alla luce della pila le forme e le ombre delle rocce circostanti incombevano su di lui, spaventose. Dovette vincere un attacco di claustrofobia, presagendo le nuvole di melma che tra breve l'avrebbero accecato. Avanzò la mano, e la roccia scabra e tagliente gli morse i polpastrelli escoriati. Tolse un lastrone di pietra e una nube di melma gli turbinò attorno al capo. Spense la pila e ricominciò il lavoro nella gelida tenebrae Gli strattoni alla corda erano il suo unico contatto con la realtà e il tempo: e in qualche maniera l'aiutavano a vincere il terrore crescente del buio e del freddo. Venti minuti dopo, il mal di testa cominciò a forare la cappa chimica che prima l'ottundeva. Era come se gli stessero piantando un chiodo a martellate nella tempia, e dietro gli occhi una punta d'acciaio gli bucasse il cervello. "Non ce la faccio a resistere altri dieci minuti" pensò. "Adesso torno su." Girò le spalle al muro e con uno sforzo sovrumano, all'ultimo momento, si trattenne, imponendosi di proseguire il lavoro per altri cinque minuti. Si spinse nel pertugio col torso, e la sommità della bombola d'acciaio cozzò contro una roccia risuonando come una campana. Afferrò con le dita gli orli di una roccia triangolare che nel corso degli ultimi pochi minuti aveva resistito a tutti i suoi sforzi. Ancora una volta desiderò ciò che non aveva, un piede di porco da inserire fra i massi squadrati per far leva e sgretolare il muro. Usò invece le dita spellate, infilandole sotto il lastrone, poi si scagliò contro i lati e fece forza, spostando impercettibilmente il masso avanti e indietro, di qua e di là, esercitando un po' più forza a ogni colpo, finché sul dorso gli
si annodarono i muscoli e gli vennero i crampi al ventre. Qualcosa si mosse e sentì stridere roccia su roccia. Tirò ancora e la fessura gli si chiuse sulle dita. Urlò di dolore nella maschera. Ma il male delle dita schiacciate liberò in lui insospettate riserve di energia intatta. L'impiegò tutta contro quel lastrone che rotolò via, liberandogli le dita, mentre numerosi massi franavano rombando sotto l'acqua e cozzando. Nel pertugio si strinse le dita ferite al petto, mugolando di dolore dentro la maschera, mezzo affogato per l'acqua che ci si era riversata dentro. "Adesso torno su" decise. "Questo è il limite. Ne ho abbastan-za." Cominciò a strisciare all'indietro per rinculare fuori del pertugio, ma la mano che avanzò per darsi la spinta contro la roccia non trovò nulla di solido e il braccio si tese senza incontrare resistenza. Si fermò, con l'acqua nella maschera, cercando di decidersi. Oscuramente sapeva che, se riemergeva ora, non avrebbe più saputo costringersi a rientrare in acqua. Così tornò a tastare davanti, e, visto che non trovava resistenza, avanzò ancora. L'ancoraggio cominciava a trattenerlo e sciolse il nodo, avanzò ancora un po' e la bombola si incastrò contro il soffitto del cunicolo. Si girò sul fianco per liberarla dall'ostacolo e ci riuscì subito. Ancora niente, davanti. Aveva varcato il muro. All'improvviso un terrore superstizioso si impadronì di lui. Arretrò e la bombola urtò ancora contro il tetto roccioso, e stavolta si incastrò. Era bloccato, e immediatamente cominciò a dibattersi per liberarsi. Prese ad ansimare, respirando rapidamente, più in fretta di quanto potesse alimentarlo la valvola della maschera, sicché cominciò ad asfissiare e il cuore prese a battergli follemente in petto, mentre il rombo della circolazione sanguigna nelle orecchie l'assordava. Non poteva più tornare indietro, così scalciò con la sua unica gamba, mentre col moncherino trovava un solido appoggio nella roccia liscia. Poté in tal modo spingersi avanti con forza e, a un tratto, come accade al momento della nascita, scivolò oltre lo stretto pertugio e si trovò dall'altra parte del muro. Si dibatté freneticamente e incontrò con una mano la parete liscia del cunicolo da una parte; ma, adesso che non era più ancorato, il giubbotto salvagente gonfio di ossigeno lo faceva galleggiare e andò in alto. Si riparò la testa con le mani per evitare di sbatterla contro la roccia e cercare un appiglio: ma sotto i polpastrelli escoriati la roccia scivolava via come vetro insaponato, e man mano che affiorava l'ossigeno contenuto nel giubbotto si espandeva, sicché saliva sempre più velocemente, frenato un pochino solo dalla fune alla vita. Mentre si dibatteva per cercare di raggiungere un assetto stabile, l'ossigeno in espansione cominciò a uscirgli dai lati della maschera, finché, del tutto in preda al panico, smise di agitarsi, proiettato in alto nell'oscurità più totale come un tappo di sughero. All'improvviso raggiunse la superficie, sulla schiena, e cominciò a girare come un galleggiante da pesca. Si tolse la maschera e inspirò una boccata d'aria. Era aria pura, a parte un odorino di guano di pipistrello. Se la godette, grato, facendo il morto a galla. La fune alla vita si tese, cercando di tirarlo sotto. Sette strattoni. Era la domanda: "Tutto bene?." La risalita a razzo doveva avere srotolato un sacco di fune a Tungata, ed evidentemente era molto preoccupato. Clay gli rispose col segnale convenuto che tutto andava bene e brancicò per accendere la pila. Il fioco raggio di luce l'abbagliava, dopo tutta l'oscurità di prima: e gli occhi gli bruciavano anche per tutto il pulviscolo di melma che ci era entrato. Sbatté le palpebre guardandosi un po' intorno. Dal muro di blocchi squadrati, il cunicolo si alzava con una curva rapida, che verso la superficie diventava addirittura verticale. Gli antichi stregoni, per risalire questa parete, erano stati costretti a scavarci delle nicche, piantarci dei pioli e attaccarli dall'altra parte a
un solido e lunghissimo palo a cui i pioli erano legati con corregge dal lato opposto alla roccia. Questa rudimentale scala saliva su per una specie di pozzo, sopra la testa di Clay sempre in acqua, ma il raggio della pila non era abbastanza potente per vedere dove finivano i pioli. Clay raggiunse la scala con due bracciate e si attaccò a un piolo, raccogliendo i pensieri. Cercava di ricostruire la forma della caverna. Si rendeva conto che, essendo tornato in superficie, per la legge dei vasi comunicanti si trovava allo stesso livello dei suoi compagni oltre la parete di roccia: la caverna aveva dunque forma di "U" , e così fatto era il suo itinerario subacqueo: il primo ramo nella grande galleria, il fondo nel cunicolo del muro, e l'altro ramo col tratto più ripido del cunicolo che l'aveva portato a riemergere dove ora si trovava. Tastò il piolo di legno. Benché scricchiolasse, era in grado di reggere il suo peso. Doveva gonfiare il giubbotto e abbandonare l'attrezzatura nel pozzo, a galla, mentre saliva la scala a pioli: ma prima gli conveniva riposare un po' per riprendere il pieno controllo di se stesso. Si portò le mani alle tempie: il dolore era quasi intollerabile. In quella, la fune alla vita si tese: tre strattoni, ripetuti due volte. Era una chiamata urgentissima: pericolo di vita. Tungata l'avvertiva e gli chiedeva aiuto! Clay si rimise la maschera e segnalò: "Tirami su!." La fune si tese e fu trascinato in fretta giù per il pozzo.
Alla giovane madre matabele fu permesso di portare il bambino sulla schiena, ma venne ammanettata al sergente della Terza Brigata. Peter Fungabera era stato tentato di usare l'elicottero per accelerare la caccia all'uomo, ma poi decise di andare a piedi: era più silenzioso. Conosceva le qualità degli uomini che inseguiva. Il rumore dell'elicottero li avrebbe senz'altro messi sull'avviso, offrendogli la possibilità di scappare un'altra volta nella boscaglia. Per la stessa ragione aveva disposto all'avanguardia un gruppo di venti uomini scelti uno per uno, a cui aveva parlato personalmente: "Dobbiamo prendere vivo questo matabele: anche a costo della vostra stessa vita; lo voglio vivo!" L'elicottero sarebbe stato chiamato per radio non appena ce ne fosse bisogno. Era in grado di trasportare in breve tempo trecento uomini che circondassero la zona. La squadra avanzava in fretta. La ragazza era trascinata dal grosso sergente shona; piangente e vergognosa del proprio tradimento, indicava la strada nelle frequenti biforcazioni e nei meandri del sentiero, appena distinguibile. "Li hanno nutriti e riforniti" disse Peter sottovoce al russo. "Questo sentiero è stato usato regolarmente. "Brutto posto per un'imboscata" disse Bucharin lanciando uno sguardo alle pareti incassate della valle sovrastante il sentiero. "Con loro possono esserci dei guerriglieri scappati dal campo." "Un'imboscata significherebbe un contatto: è quello che spero ardentemente" glidisse con calma Peter. Ancora una volta il russo provò soddisfazione per la scelta dell'uomo. Aveva il coraggio necessario al compito che l'aspettava. Adesso c'era bisogno solo diqualche piccolo mutamento nelle sorti della guerra, e i suoi padroni di Mosca avrebbero avuto un piede in Africa centrale. Una volta che ciò fosse avvenuto, naturalmente, questo Fungabera andava attentamente sorvegliato. Non era un semplice gorilla che si potesse manipolare come una marionetta. Aveva profondità non ancora scandagliate, e sarebbe stato compito di Bucharin intraprendere tale esplorazione. Avrebbe richiesto sottigliezza e intuito. Pregustò il lavoro: se lo sarebbe goduto come stava godendosi la caccia attuale.
Manteneva con facilità il passo di Peter Fungabera, senza doversi sforzare, e aveva le viscere serrate dalla deliziosa eccitazione della caccia all'uomo, che gli tendeva tutti quanti i sensi. Solo lui sapeva che la caccia non sarebbe terminata con la conquista dei matabele. Dopo di loro ci sarebbero state altre prede, altrettanto difficili e preziose: si mise a studiare il dorso dell'uomo che lo precedeva, ammirato della grazia felina dei suoi movimenti, dei lunghi passi elastici, della posizione della testa sopra il collo nerboruto, dell'odore stesso che emanava dal sudore che impregnava la tuta mimetica. Sì, anche l'odore, l'odore ferino dell'Africa. Bucharin sorrise. Quali trofei avrebbero coronato la sua lunga e gloriosa carriera! I matabele, gli shona, e tutta la loro terra. Queste elucubrazioni mentali però non distraevano minimamente Bucharin, che aveva i sensi all'erta. Era pienamente consapevole che la valle si stava restringendo davanti a loro, che le sue pendici diventavano sempre più scoscese, che la vegetazione intorno si componeva di alberi sempre più stenti e contorti. Si sporse e toccò Peter sulla spalla, per attirare la sua attenzione sul cambiamento delle formazioni geologiche circostanti, ora composte di rocce calcaree intere: quand'ecco che, in dialetto matabele, la ragazza cominciò a strillare. La sua voce echeggiò acutissima tra le rocce, volò sopra la foresta scuotendo il silenzio afoso di quella valle stregata. Le sue grida erano incomprensibili per loro, ma erano indubitabilmente grida d'allarme. Peter Fungabera la raggiunse con due salti, le passò il braccio attorno alla gola, le piazzò il pugno sotto il mento, e con un colpo solo, con l'altra mano, le spezzò l'osso del collo. L'urlo della ragazza Si spense contemporaneamente al secco rumore dell'osso che si spezzava. Mentre il suo corpo senza vita cadeva a terra, Peter girò sui tacchi e in fretta fece un segno ai soldati. Reagirono subito, lasciando il sentiero e cominciando una manovra avvolgente. Quando furono in posizione, Peter guardò il russo e annuì. Bucharin si mosse in silenzio al suo fianco, e proseguirono insieme con le armi in mano, rapidi e attenti. Il sentierino portava alla base della collina e spariva in una fenditura della roccia. Peter e Bucharin scattarono in avanti e si appiattirono contro la roccia ai due lati dell'apertura. "La tana della volpe matabele" esultò tranquillamente Peter. "L'ho in pugno!"
"Gli shona sono qua! Ci sono gli shona!" Gli strilli venivano dall'entrata della caverna, attutiti dalla piega della roccia e dalla scarsa vegetazione. "Sono venuti a prendervi! Scappate! Gli shona.,," Era una voce di donna che si interruppe di colpo. Sarah saltò su dal focolare, rovesciando la cena che cuoceva sul treppiede, e corse giù per la caverna, spegnendo immediatamente la lampada e imboccando il labirinto di cunicoli. Dalla cima del canalone che portava giù al lago sotterraneo urlò: "Gli shona sono qui, mio signore! Ci hanno scoperto!" Gli echi amplificarono il terrore e l'urgenza della sua voce. "Vengo da te!" Tungata salì di corsa su dal canalone finale e ben presto arrivò a Sarah. L'abbracciò. "Dove sono?" "All'ingresso. Ho sentito una voce, era una delle nostre donne che ci avvisava. Ci ho sentito la paura, in quella voce che poi si è interrotta. Certo l'hanno ammazzata. "Va' giù alla pozza, aiuta Pendula a tirar su Paffo." "Mio signore, non ci sono vie di fuga, vero?" "Combatteremo. E combattendo potremo forse trovarne una. Adesso va' giù, Paffo ti dirà che cosa fare." Con il kalashnikov in spalla, Tungata scomparve nei cunicoli
che conducevano alla caverna principale. Sarah si gettò giù dal canalone, cadendo, rotolando e sbucciandosi le ginocchia. "Pendula!" gridò, disperata, bisognosa di sfogarsi con qualcuno. "Sono qua, Sarah. Aiutami." Quando raggiunse la riva rocciosa del lago, Sally-Anne era china sull'acqua nera e cercava di tirare su la fune. "Aiutami, si è incastrato sul fondo!" Sarah saltò in acqua a darle una mano. "Gli shona ci hanno scoperto." "Lo so, ti abbiamo sentito." "Cosa facciamo, Pendula?" "Per prima cosa tiriamo Clay fuori dall'acqua, lui saprà escogitare qualcosa." All'improvviso la fune cedette: quindici metri sotto, Clay era riuscito ad attraversare il pertugio che aveva creato nel muro. Le due ragazze si diedero forsennatamente a tirarlo su. Sulla superficie della pozza cominciarono a bulicare bollicine d'ossigeno, e le ragazze videro Clay venir su nell'acqua chiara come gin: la maschera lo trasformava in una specie di mostro marino quanto mai grottesco. Raggiunse la superficie e si strappò la maschera dalla faccia, starnutendo e tossendo al contatto dell'aria pulita. "Cosa c'è?" balbettò issandosi a fatica sulla riva di pietra liscia. "Sono arrivati gli shona." Risposero insieme, in inglese e sindebele. "Oh Dio!" Clay si accasciò sul lastrone di pietra. "Che cosa facciamo, Clay?" Lo guardavano disperate, mentre il freddo e il mal di testa sembravano paralizzarlo,. All'improvviso l'aria intorno a loro vibrò e rimbombò come se si trovassero dentro un tamburo rullato. "Colpi di mitra!" sussurrò Clay, tappandosi le orecchie per proteggersi i timpani. "Sam è entrato in contatto con loro. "Quanto tempo riuscirà a trattenerli?" "Bisogna vedere se useranno le bombe a mano o il gas.,," Si interruppe e si alzò in piedi tremando tutto. Le guardò. Avvertirono la sua disperazione, e distolsero lo sguardo. "Dov'è la pistola?" domandò Sarah, impaurita, dando un'occhiata all'involto di pergamena contenente i colpi nella fessura della parete rocciosa. "No!" sbottò Clay. "Non farlo!" Le fermò la mano. Si ricompose, scacciando la disperazione assieme all'acqua nei capelli. "Hai mai usato un respiratore subacqueo?" domandò a SallyAnne. Ella scosse la testa. "Be', ti toccherà imparare adesso..." "Non posso buttarmi lì dentro!" Sally-Anne guardò con terrore la pozza d'acqua nera. "Puoi fare qualunque cosa tu debba fare!" ritorse infuriato Clay. "Ascolta, ho trovato un altro ramo della caverna che sbocca in superficie. Non ci vorranno che tre o quattro minuti..." "No!" Sally-Anne si allontanò da lui. "Prima accompagno te, poi torno a prendere Sarah." "Preferirei morire qui, Paffo" sussurrò la ragazza negra. "Niente di più facile!" Clay stava già cambiando la bombola d'ossigeno e applicandone una nuova; tornò a rivolgersi a Sally-Anne. "Mi metti le braccia attorno al torso, e respiri lentamente: tieni il respiro più che puoi, poi espiri piano piano. Il buco nel muro è piccolo, ma tu sei più magra di me, ce la farai facilmente." Le infilò il respiratore. "Io passerò prima, tirandoti dietro. Una volta superato il muro, si torna subito su. Mentre riemergiamo, ricordati di espirare man mano che l'ossigeno si espande, altrimenti scoppi come un sacchetto di carta. Vieni con me." "Clay, ho paura!"
"Mai avrei pensato di sentirtelo dire." Semimmerso nell'acqua, le mise a posto la maschera sul viso. "Non fare resistenza" le disse. "Tieni gli occhi chiusi e rilassati, faccio tutto io. Ma, per l'amor di Dio, non dibatterti." Ella annuì, nella maschera, e di nuovo la galleria risuonò di raffiche. "Sono più vicine" balbettò Clay. "Sam si sta ritirando." Poi chiamò Sarah, sulla riva. "Dammi la mia gamba!" Sarah gliela porse. Se l'allacciò alla cintola. "Mentre sono via, metti tutta la roba da mangiare che puoi nei sacchi di tela. Anche le torce e le batterie di riserva. Torno a prenderti nel giro di dieci minuti." Cominciò l'iperventilazione, stringendo al petto il masso che li avrebbe fatti sprofondare giù. Fece un gesto a Sally-Anne che si avvicinò e, da dietro, gli si attaccò al petto. "Fa' un bel respiro profondo e lasciati andare" le ordinò, riempiendosi i polmoni per l'ultima volta. Si tuffò con Sally-Anne attaccata sulla schiena, e insieme si immersero verso il cunicolo d'ingresso alla tomba. A mezza discesa, Clay avvertì lo scatto delle valvole délla sua maschera, e sentì il torace di Sally-Anne che respirava. Si irrigidì, attendendosi un accesso di tosse. Ma per fortuna non ci fu. Raggiunsero l'apertura ed egli lasciò andare il masso, tirandosi dietro Sally-Anne fino al buco nel muro. Dolcemente si divincolò dalle sue mani, cercando di trasmetterle calma e padronanza della situazione. Entrò nel buco a ritroso, tenendola per le mani e tirandosela dietro. Senza l'ingombro della bombola d'ossigeno, penetrò facilmente. Si accorse che Sally-Anne respirava ancora. "Brava ragazza!" applaudì mentalmente. "Brava e coraggiosa!" Per un istante, l'apparecchiatura le si incastrò nel buco, ma egli la liberò in fretta, poi la tirò a sé. Era passata anche lei, per fortuna! Dio ti ringrazio, pensò. E ora, riemergere! Acceleravano. La pressione gli faceva cigolare le orecchie. Sentì Sally-Anne che emetteva una gran quantità di bollicine, espirando mentre l'ossigeno le si espandeva nei polmoni. Sei in gamba! Le strinse la mano, e lei gli restituì la stretta. La risalita fu così lunga che pensò di aver imboccato un ramo sbagliato del cunicolo: ma ecco che all'improvviso riemersero e poté respirare anche lui. Le accese la pila applicata al giubbotto. "Non sei brava" ansimò. "Sei semplicemente fenomenale!" L'accompagnò alla scala a pioli. "Esci dall'acqua, va' su. Prendi, legami la gamba al piolo. Torno più presto che posso." Non perse tempo a mettersi il respiratore, che era un lavoro macchinoso da fare in acqua. Lo prese sottobraccio, vuotò il giubbotto dell'ossigeno che conteneva poiché non aveva pietre a disposizione per immergersi e, col respiratore tornato più pesante dell'acqua, affrontò la discesa in apnea, dopo essersi iperventilato attaccato alla scala. Al buco nel muro penetrò a ritroso, tirandosi dietro la bombola e il giubbotto sgonfio. Nel cunicolo, sboccando nella pozza, aprì la bombola e l'ossigeno, espandendosi dall'acciaio e gonfiando il salvagente, lo tirò su in fretta fino alla superficie. Sarah lo aspettava sulla riva, con le borse di tela già riempite. "Vieni!" ansimò Clay. "Paffo, non posso! Non ce la faccio!" "Alza le chiappe nere ed entra in acqua!" le ordinò. "Toh, prendi le borse, io resto qui." Clay l'afferrò per una caviglia e la fece cadere in acqua. La ragazza si aggrappò a lui. "Sai cosa ti fanno gli shona, se ti prendono?" Rudemente le infilò il respiratore e la maschera. Dall'alto si udivano frequenti raffiche di mitra, e il sibilare delle pallottole che rimbalzavano sulla roccia. Clay le premette la maschera sul viso.
"Respira!" le ordinò. Ella aspirò una boccata d'ossigeno. "Hai visto come è facile?" La ragazza annuì. "Tieni la maschera premuta contro la faccia con le mani. Respira lentamente e senza fretta. Ti porterò io: sta' ferma immobile! Immobile!" Sarah annuì un'altra volta. Clay legò le borse di tela alla vita e prese un masso adatto per immergersi. Poi cominciò l'iperventilazione. Da sopra, un soldato lanciò una bomba a mano nel canalone. La sentirono sbattere contro le pareti di roccia, poi esplodere illuminando la caverna con un flash azzurro. ,Con il masso sottobraccio e Sarah sotto l'altro, Clay si tuffò. A "metà discesa sentì Sarah cercar di respirare e immediatamente comprese che erano nei guai. Aveva aspirato dell'acqua: cominciò a tos!sire dentro la maschera. Il suo corpo cominciò a contorcersi contro !quello di lui. Faceva fatica a tenerla stretta, era sorprendentemente forte, il suo corpo sodo e sottile si dibatteva fra le sue braccia. Raggiunsero l'apertura nella parete e Clay lasciò andare il peso. Il loro assetto mutò di colpo. Sarah si trovò sopra di lui, e gli tirò una gomitata in faccia. Il colpo lo stordì e per un attimo la lasciò andare. Sarah ricominciò a salire in fretta, scalciando e mulinando le mani. Fece appena in tempo a prenderla per la caviglia. Attaccandosi all'apertura, la tirò giù ancora e si accorse che si era tolta la maschera. Le ballava all'altezza della fronte, legata al tubicino di plastica. La trasse dentro il cunicolo e verso il muro, mentre lei cercava di dargli dei calci al basso ventre, che Clay riuscì a proteggere con le ginocchia. Spingendola da dietro, la cacciò nel buco, mentre lei si dibatteva con furia omicida, in preda al panico più terribile. A metà strada, il tubo dell'ossigeno si impigliò in una fessura, bloccandoli. Mentre Clay cercava di sfilare il tubicino dalla fessura, Sarah cominciava a indebolirsi, i suoi movimenti diventavano spasmodici e scoordinati. Stava affogando. Clay prese il tubo con due mani e con uno strattone, aiutandosi col piede sulla roccia, lo strappò dal salvagente gonfio d'ossigeno. Il gas uscì dallo strappo con un rombo di bollicine d'argento: Sarah era libera. La tirò fuori dal buco e cominciò la risalita, faticando, con una gamba sola, a vincere il peso di Sarah, della bombola d'acciaio e delle borse di tela. La lotta che aveva dovuto sostenere con la ragazza gli era costata gran parte delle sue riserve, aveva i polmoni in fiamme e il torace gli faceva male da morire. Continuò a mulinare la gamba. Sarah, tra le sue braccia, era ormai immobile: egli sentì che, nonostante tutti i suoi sforzi, non si muovevano più, erano sepolti in quelle nere tenebre liquide e stavano pian piano affogando. Gradatamente l'urgenza di respirare passava, e non valeva più la pena di fare altri sforzi. Era molto più facile lasciarsi andare. Tanto, ormai... In quella mortale indifferenza, sentì uno strano dolore. Si chiese senza troppo interesse cosa potesse essere, ma fu solo quando a un tratto riemerse che capì che Sally-Anne l'aveva afferrato per i capelli. La donna aveva visto la lampada della pila ferma sott'acqua, aveva compreso che erano in difficoltà, si era immersa e l'aveva afferrato per i capelli, tirandoli su tutti e due. Mentre ansimava, sputacchiando, Clay si rese conto di avere ancora Sarah stretta sottobraccio. La guardò, galleggiava con la faccia nell'acqua. "Aiutami!" gridò. "Tirala fuori!" In due le tolsero il respiratore rotto e a fatica l'appoggiarono svenuta sul primo piolo della scala. Poi Sally-Anne la prese sulle ginocchia, reggendola a faccia in giù come un gattino nero. In acqua, sotto di lei, Clay le infilò due dita in gola. Il riflesso
della nausea scattò e la ragazza sputò un miscuglio di acqua e vomitaticcio, cominciando a fare piccoli movimenti scoordinati. Clay le pulì la bocca con un po' d'acqua e applicò le labbra alle sue. Le insufflò aria nei polmoni, mentre Sally-Anne cercava di sorreggere come poteva il corpo esanime dell'amica, su quello scomodissimo trespolo. "Ha ripreso a respirare." Clay smise di farle la respirazione a bocca a bocca. Si sentiva ancora debole e fuori di testa, perché era andato vicinissimo ad annegare anche lui. "Il respiratore si è rotto" sussurrò. "Il tubo si è strappato." Tastò alla sua ricerca, ma era andato a picco. "Sam" sussurrò. "Devo tornare a prendere Sam." "Caro, non ce la farai. Hai fatto abbastanza. Ci lascerai la pelle." "Sam" ripeté lui. "Devo andare a prenderlo." Goffamente cominciò a slacciarsi le borse di tela dalla vita, attaccato alla scala a pioli con una mano. Respirava il più profondamente possibile, compatibilmente con lo stato dei polmoni. Sarah tossiva e sputacchiava, ma si era ripresa e cercava di mettersi a sedere. Sally-Anne se la prese in braccio come una bambina. "Clay, amore, cerca di tornare sano e salvo!" l'implorò. "Troppo giusto" concordò lui, concedendosi un'altra mezza dozzina di ventilazioni, prima di darsi la spinta giù dal piolo della scala e tornare sott'acqua. Quando sbucò nella pozza dall'altra parte del muro, vi si rifletteva la luce delle granate, lampi azzurri continui come elettroni del l'arco voltaico. Riemergendo, si trovò in mezzo al fumo più acre. "Gas lacrimogeno!" si rese conto. Gli shona stavano gassando la caverna. Clay vide che Tungata era in acqua, immerso fino alla vita, sotto la riva della roccia. Si era strappato un lembo della camicia e cercava di difendersi con quella pezza bagnata dagli effetti del gas. "Tutta la caverna brulica di soldati" disse a Clay, con la voce attutita dalla pezza, interrompendosi appena si udì una stentorea voce disincarnata, amplificata e distorta da un megafono a pila. "Se vi arrenderete immediatamente, non vi sarà fatto alcun male." Come a sottolineare l'affermazione, si udì il botto di un lanciagranate e arrivò un'altra bomba lacrimogena, rimbalzando sul lastrone pietroso come una palla e sprigionando acri nuvolette di fumo. "Sono già alla scalinata, non si può più fermarli." Tungata si alzò sopra la riva rocciosa e sparò una raffica di kalashnikov su per il canalone. Il caricatore finì. "Era l'ultimo" berciò, scagliando il fucile mitragliatore in acqua. Cercò la pistola alla cintola. "Vieni, Sam" ansimò Clay. "C'è una via d'uscita, sotto l'acqua." "Non so nuotare." Tungata stava caricando la pistola. Mise il colpo in canna. "Ho già fatto passare di là Sarah" glidisse Clay respirando a stento nell'atmosfera inquinata "farò passare anche te." Tungata lo guardò negli occhi. "Fidati di me, Sam." "Sarah è salva?" "Te lo assicuro. E di là." Esitò, cercando di vincere la paura dell'acqua. "Non puoi lasciarti prendere" glidisse Clay. "Lo devi a Sarah e al tuo popolo." Forse Clay aveva trovato l'unica cosa che potesse mai farlo decidere. Tungata si rimise la pistola alla cintola. "Dimmi cosa devo fare."
Era impossibile l'iperventilazione in quell'aria venefica. "Respira più che puoi e tieni il fiato. Tieni il fiato, costringiti a non respirare" gemette tossicchiando Clay. Il gas lacrimogeno gli stava lacerando i polmoni, e sentiva il gelido diffondersi della sonnolenza come piombo liquido nelle vene. Era ancora lunga la strada della salvezza, e molto dura. "Qui!" glidisse Tungata. "Aria fresca!" C'era un buco sotto la riva rocciosa, un buco dove l'aria non era ancora inquinata dal gas. Clay la respirò avidamente. Prese le mani di Tungata e se le piazzò alla cintura, una striscia di tela, dicendogli di tenerla stretta. Poi fece un ultimo profondo respiro e si tuffò, assieme a Tungata. Scesero in fretta sott'acqua. Al muro non c'erano più bombole d'ossigeno a dar fastidio, così passarono più facilmente: Clay tirò Tungata dall'altra parte con le ultime energie che gli restavano. Erano al di là del muro, ma Clay non aveva più forze. Si muoveva impacciato e goffo, e di nuovo aveva perso il riflesso del respiro: era un sintomo dell'asfissia, come l'euforia che gli si stava diffondendo nel cervello. Si accorgeva di mulinare la gamba lentamente, ridacchiando, mentre dalle labbra gli sfuggiva aria preziosa. La luce della pila diventò di un incredibile colore smeraldino e poi si spaccò nelle componenti dell'arcobaleno. Era bellissima, e la contemplò come ubriaco, cominciando a rovesciarsi sulla schiena. Ah, che pace, che bellezza: era come sprofondare nell'oblio dopo un'iniezione di pentotal. L'aria gli sfuggiva a rivoletti dalla bocca: le bollicine erano brillanti come pietre preziose. Le guardò salire verso la superficie. "Su! Su?" pensò con la mente intorpidita. "Devo tornare su!" E diede un'altra debole scalciata all'acqua. Immediatamente sentì un potente strappo alla cintura e vide le gambe di Tungata mulinare come bielle di una locomotiva: lentamente svanirono nel nero. Il suo ultimo pensiero fu: "Se questa è la morte, è meglio di quanto si pensa" , e si lasciò andare con fatalismo, spossato. Si risvegliò per il dolore, cercando invano di tornare al buio grembo accogliente di prima, quello della morte: ma c'erano mani che lo schiaffeggiavano e lo massaggiavano senza complimenti, mentre i pioli della scala gli penetravano nella carne. Poi avvertì i polmoni, un male bestiale, e gli occhi, come gli bruciavano! Era come trovarsi immersi in un bagno d'acido concentrato. Le terminazioni nervose gli dolevano. Sentiva l'urlo di tutti i muscoli indolenziti e il bruciore di tutte le escoriazioni della pelle. Poi udì la voce. Cercò di scacciarla fuori della coscienza. "Clay! Clay, amore, svegliati!" E una sberla in faccia da una mano bagnata. Cercò di spostare la testa per schivarne delle altre. "Si è riavuto!"
Erano topi in procinto di affogare in fondo a un pozzo, aggrappati alla scala a pioli, dilaniati dal freddo. Le due ragazze erano appollaiate sul secondo piolo, Clay e Tungata in acqua attaccati al primo: Tungata reggeva la testa ciondolante di Clay. Con uno sforzo, Clay guardò i loro volti preoccupati, mettendoli a fuoco a fatica, poi sogghignò debolmente a Tungata. "Sam, avevi detto che non sapevi nuotare. A momenti ci credevo!" "Non possiamo restare qui" disse Sally-Anne battendo rumorosamente i denti. "C'è solo una via d'uscita.,," Tutti guardarono il buio cunicolo verticale che incombeva su di loro. La testa di Clay era ancora ciondolante, ma si costrinse a reggersi allontanando la mano di Tungata, per poi esaminare le condizioni della scala a pioli.
Era stata costruita sessant'anni prima. Le corde che gli stregoni avevano adoperato per legare i pioli ai pali erano fatte di liane e corteccia: si stavano sciogliendo, qua e là fuoriuscivano specie di trucioli. L'intera struttura pendeva da una parte: aveva ceduto, evidentemente, a meno che il costruttore non fosse stato in grado di distinguere la verticale. "Credi che ci reggerà tutti quanti?" chiese Sarah, dando fiato alla domanda di tutti. Clay non riusciva a connettere. Vedeva ogni cosa attraverso un reticolo di nausea e indolenzimento d'ossa. "Uno alla volta" mormorò. "Prima i più leggeri. Tu, Sally-Anne, poi Sarah." Slegò la gamba artificiale dal piolo. "Portate su la fune: quando arrivate in cima, calatela e tirate su le borse delle provviste. Obbediente, Sally-Anne si infilò attorno al braccio il rotolo di fune, e cominciò ad andare su per la scala. Saliva agilmente, leggera, ma i pioli scricchiolavano e oscillavano sotto il suo peso. Mentre procedeva, la pila proiettava la sua ombra in alto. Salì, scomparendo alla vista: solo il lumicino della pila restava visibile: a un tratto, anche quello scomparve. "Sally-Anne!" , Va tutto bene!" La sua voce giunse rimbombando in fondo al pozzo. "Qui c'è una piattaforma." "Quant'è grossa?" "Abbastanza. Mando giù la corda." Arrivò sobbalzando e serpeggiando. Tungata ci legò le sacche. "Tira su!" Il carico salì nel buio. "Bene, mandate su Sarah." Sarah si arrampicò sulla scala e scomparve. Poi udirono confabulare le ragazze sulla piattaforma. Quindi un grido: "Avanti il prossimo!" "Va', Sam." "Sei tu il più leggero dei due." "Oh Cristo, va' su!" Tungata salì. La scala si scuoteva sotto il suo peso. Uno dei pioli si staccò di netto e cadde giù. "Attenzione!" Clay si immerse riparandosi con la mano. Per fortuna il piolo non lo colpì. Tungata sparì alla vista. La sua voce raggiunse Clay: "Attento, Paffo! La scala sta andando a pezzi!" Clay si tirò fuori dall'acqua. Seduto sull'ultimo piolo, si infilò la gamba artificiale. "Molto bene!" disse allacciandosela con quattro colpetti affettuosi. Tirò due calcetti di prova. "Arrivo!" gridò a quelli di sopra. Non era arrivato nemmeno a metà che sentì la struttura oscillare sotto di sé e si spinse in su con troppa violenza. Uno dei pioli si spezzò con un rumore secco che parve una fucilata. Clay si attaccò al palo laterale, mentre tre o quattro pioli gli cedevano sotto i piedi, finendo in acqua con tonfi sonori. Era appeso, sgambettante nel vuoto: ogni volta che cercava un appiglio per puntare i piedi, la struttura oscillava pericolosamente. "Paffo!" "Sono bloccato. Non posso muovermi, se no crolla tutto." "Aspetta!" Pochi secondi di silenzio, poi di nuovo la voce di Tungata. "Ti passiamo la corda. C'è un cappio in fondo." Cadde a due metri da lui. Il cappio oscillò avvicinandosi. "Ancora un po' più in qua! E più giù!" "Tienti forte!" Clay infilò il braccio nel cappio.
"Attenzione!" Lasciò andare il palo e si appese alla corda. Era però troppo debole per arrampicarsi da solo. "Tirami su!" [Lentamente fu sollevato, e, perfino in quella posizione pericolosa,, Clay apprezzò la forza mostrata da Tungata nel tirar su un uomo adulto in quel modo. Senza di lui, non ce l'avrebbe fatta. Vide il chiarore della pila riflettersi sulle pareti del pozzo. Si avvicinava: poi scorse Sally-Anne affacciata sulla voragine. "Ci sei quasi! Resisti!" Affiorò sul ciglio e vide Tungata contro la parete opposta della piattaforma, con la fune avvolta intorno alle spalle e alla schiena, e tutti i muscoli tesi nello sforzo di sollevarlo. Appoggiò il gomito sul ciglio e, allo sforzo successivo di Tungata, strisciando sul ventre, riuscì a piazzarci anche un ginocchio. Dopo di che gli ci vollero parecchi minuti per ricominciare a interessarsi di ciò che li circondava. Erano pigiati su quella esigua piattaforma di roccia calcarea levigata dall'acqua e tremavano dal freddo senza potersi muovere. Sopra di loro, il pozzo continuava a salire, scomparendo nelle tenebre, con le pareti lisce e impossibili a scalarsi. La scala a pioli degli antichi stregoni arrivava solo fino a quella piattaforma. Nel silenzio, Clay sentì gocciolare dell'acqua da qualche parte nel buio, e squittire pipistrelli disturbati dalle loro voci e dai loro movimenti. Sally-Anne alzò la pila, ma non riuscì a illuminare il tetto della caverna. Clay si guardò intorno. La piattaforma era larga poco più di un balcone. Da una parte uno strettissimo buco orizzontale forava la parete di roccia. "Quel buco sembra l'unica via di uscita" sussurrò Sally-An-ne. "Gli stregoni devono essere passati di lì." Nessuno le rispose. Tutti morivano di freddo ed erano troppo stanchi per parlare. "Dobbiamo andare avanti!" insisté Sally-Anne. Clay si riscosse a fatica. "Lasciamo qui le borse e la corda. Se ci servono, torniamo a prenderle." Clay parlava con voce spenta e roca: risentiva ancora del gas lacrimogeno, e quelle poche parole gli costarono un accesso di tosse. Non si fidava ad alzarsi in piedi. Si sentiva debolissimo e a pochi centimetri da lui si spalancava una voragine nera. Procedendo carponi, si avvicinò al pertugio e vi si affacciò. "Passami la lampada" disse a Sally-Anne, che gliela porse. Strisciando, si infilò dentro il buco. Il cunicolo proseguiva per un bel pezzo, in leggera discesa. Dopo quindici metri si allargò un po' consentendogli di procedere piegato in due. Gli altri lo seguirono. Venti metri ancora e, dopo un passaggio a imbuto in cui dovette nuovamente strisciare, poté alzarsi in piedi. Si guardò attorno, sbigottito dalla meraviglia. Gli altri, sbucando dal passaggio, si accalcarono alle sue spalle, ma lui non se ne accorse nemmeno. Era affascinato dalla vista che gli si presentava. Si strinsero, come per darsi conforto e coraggio a vicenda, con gli occhi sbarrati, guardando da una parte e dall'altra e in su. "Mio Dio, com'è bello" sussurrò Sally-Anne. Prese la pila da Clay e diresse il fascio luminoso in alto. Erano entrati in una grotta di luce, una caverna di cristallo. Nel corso delle ere geologiche l'acqua d'infiltrazione aveva depositato il calcare su tutto l'alto soffitto e le pareti. Era gocciolata poi sul pavimento e anche lì il calcare si era solidificato. Aveva creato meravigliose sculture iridescenti alla luce. Sulle pareti c'erano come dei merletti antichi veneziani, così delicati che la luce della pila vi penetrava come in preziosa porcellana. C'erano cornici e pilastri di intatto splendore che collegavano l'eccelsa volta
al pavimento, e formazioni sospese che meravigliosamente richiamavano ali d'angeli in volo. Grosse stalattiti puntute pendevano minacciose come spade di Damocle o denti di un enorme squalo mangiauomini. Altre sembravano giganteschi candelieri, o le canne di un organo celestiale, mentre dal pavimento si alzavano in folla le stalagmiti ammantate di madreperla, dalle mille forme suggestive: lupi, gobbi, eroi dalle scintillanti armature, ballerine e folletti, graziosi e grotteschi: il tutto illuminato da migliaia di minuscoli barbagli cristallini che risplendevano al raggio della pila. Sempre in gruppo, esitanti, un passo per volta, avanzarono nella caverna, mettendo i piedi tra le stalagmiti della galleria di statue, calpestando le centinaia di punte cadute dalle concrezioni del soffitto, che si ammassavano sul pavimento come frecce di un'arcaica battaglia. Clay si fermò di nuovo, e gli altri si strinsero a lui. Il centro della caverna era sgombro. Il pavimento era stato spazzato dai detriti, e nello spazio libero mani umane avevano costruito in lucido calcare una piattaforma quadrata, un palcoscenico, o un altare pagano. Su questo altare, con le gambe ripiegate contro il petto, avvolto in una pelliccia di leopardo tutta oro e macchie nere, c'era la salma di un uomo. "Lobengula" disse Tungata inginocchiandosi. "Il Vento-che-conduce." Le mani di Lobengula erano strette attorno alle ginocchia, mummificate, nere e rattrappite. Le unghie avevano continuato a crescere dopo la morte. Erano lunghe e ricurve come gli artigli di un felino da preda. Una volta, Lobengula doveva avere avuto in testa un elaborato copricapo di pelliccia e piume, ma gli era caduto e ora giaceva accanto a lui, sull'altare. Le piume di airone erano sempre lucide e azzurre, vive, come se le avessero staccate quel giorno dall'uccello. Forse di proposito, ma più probabilmente per caso, il corpo accoccolato era piazzato proprio sotto uno sgocciolamento del soffitto. Anche in quel momento una goccia cadde dall'alto e si infranse con un lieve rumore sulla fronte del vecchio re, per poi colargli come una lacrima sulle guance. Milioni e milioni di gocce dovevano essergli cadute addosso in quel modo, e ognuna di esse aveva depositato sulla testa mummificata una piccola quantità di scintillanti sali di calcio. Lobengula si stava trasformando in pietra: già il cranio era ricoperto di un elmo traslucido, come cera sciolta alla base di una candela. Il deposito madreperlaceo gli aveva riempito le orbite, coperto le labbra, sottolineato la mascella. La bianca dentatura perfetta di Lobengula li accoglieva sogghignando in quella maschera di pietra. L'effetto era ultraterreno e terrificante. Sarah si contrasse tutta dal terrore superstizioso e si aggrappò a Sally-Anne, anche troppo felice di ricambiare la stretta. Clay puntò il raggio della pila sulla terribile testa, poi lentamente l'abbassò. Cinque oggetti scuri erano stati posti sull'altare di roccia ai piedi del re. Quattro erano boccali da birra, modellati a mano nella creta, con la grossa apertura sottolineata da un disegno a losanghe e chiusa con pergamena, o meglio una vescica di capra. Il quinto oggetto era una borsa di pelle di feto di zebra cucita con del nervo. "Sam, tu.,," cominciò Clay, e la voce gli si spezzò. "Tu sei suo discendente. Sei l'unico che ha il diritto di toccare qualcosa, qui." Tungata era sempre genuflesso e non rispose. Stava fissando la testa deformata del re, e muoveva le labbra come in una silente preghiera. Si rivolgeva al Dio dei cristiani, si domandò Clay, o agli spiriti degli antenati? Sally-Anne batteva spasmodicamente i denti, producendo l'unico rumore percepibile nella caverna, e Clay abbracciò entrambe le ragazze che gli si strinsero grate, tremando di freddo e di sbigottimento.
Piano piano Tungata si alzò e fece un passo verso l'altare di pietra. "Ti vedo, o grande Lobengula" disse ad alta voce. "Io, Samson Kumalo, del tuo sangue e del tuo totem, ti saluto al di là del tempo!" Usava di nuovo il suo nome tribale, rivendicando la propria discendenza nel proseguire a voce bassa ma ferma. "Io sono il cucciolo di leopardo della profezia, e chiedo la tua benedizione, o grande re. Ma se non fossi quel cucciolo, colpisci la mia mano dissacratrice e inceneriscila, quando toccherà i tesori della casa di Mashobane." Avanzò lentamente la mano destra e la posò su uno dei neri boccali da birra. Clay si accorse che stava trattenendo il respiro, in attesa di chissà che: forse una voce dalla strozza stramorta del re, o la caduta di una stalattite in testa a loro, o un fulmine che li incenerisse. Il silenzio si prolungò per un bel po'. Poi Tungata prese il boccale anche con l'altra mano e lentamente lo levò in alto come a salutare il re. Si udì una secca rottura. Il boccale di terracotta sottile si era spezzato: il fondo era saltato via. Una cascata di luci che facevano impallidire quelle delle stalagmiti si riversò a terra scrosciando. I }diamanti rimbalzavano sull'altare di pietra, accumulandosi a piramide e finalmente fermandosi in un monticello abbagliante, come carboni accesi. "Non riesco a credere che siano diamanti" sussurrò SallyAnne. "Sembrano sassolini, bei sassolini lucenti, ma sassolini." Avevano versato il contenuto dei cinque recipienti in una delle sacche di tela e, lasciando i vuoti ai piedi di Lobengula, si ritirarono all'ingresso del passaggio da cui erano venuti. "Bene. Per prima cosa" osservò Clay "la leggenda era sbagliata.Quei boccali da un gallone, cinque litri, sono piuttosto boccali da una pinta, mezzo litro." "Be', sai, cinque pinte di diamanti sono sempre meglio di una cornata di rinoceronte in un occhio" ribatté Tungata. Con alcuni degli ultimi pioli della scala avevano fatto un bel fuoco sul pavimento della caverna. Accucciati in cerchio attorno al focherello, asciugandosi gli indumenti bagnati, esaminavano il cumulo di pietre nella borsa. "Se poi sono diamanti." Sally-Anne era scettica. "Sono diamanti" dichiarò piatto piatto Clay. "Tutti dal primo all'ultimo. Guardate un po' questo!" Scelse una delle pietre, un cristallo che su una delle facce era affilato come un rasoio. Lo passò sul vetro della pila. Si creò un suono stridente che gli fece accavallare i nervi nel cervelletto, ma il vetro risultò profondamente segnato di una riga bianca. "Ecco la prova. Sono diamanti." "Così grossi?" Sarah prese il più piccolo che le riuscì di trovare. Era più grosso dell'ultima falange del suo mignolo. "I vecchi minatori matabele fregavano quelli visibili dopo il primo rozzo lavaggio" spiegò Clay. "E ricordatevi che taglio e lucidatura si porteranno via il sessanta per cento del peso. Quello lì, alla fine, sarà grosso come un pisellino verde." "Che colori" disse Tungata. "Quanti colori diversi!" Alcuni erano trasparenti, gialli come limoni, altri color ambra o cognac, scuri scuri, con tutte le sfumature intermedie: poi c'erano quelli incolori, come acqua di un ruscello montano di neve sciolta, dalle faccette di ghiaccio che riflettevano i barbagli del focherello fumoso. "Guardate un po' questo." Quello tirato fuori da Sally-Anne aveva il colore azzurro-violaceo della corrente del Mozambico quando il sole tropicale, a mezzogiorno, ne fruga le profondità. "E questo." Era un'altra qualità, rosso come il sangue arterioso. "E questo." Verde limpido, di una bellezza inverosimile, cangiante
a ogni vacillar di fiamma. Sally-Anne stese una fila di pietre colorate sul pavimento della grotta, davanti a sé. "Che bellini" disse. Li aveva disposti in gradazione, i gialli dorati e ambra su una fila, i rossi e rosa sull'altra. "I diamanti possono assumere tutti i colori primari. Sembrano divertirsi a imitare i colori tipici di altre gemme. Lo scrisse John Mandeville, un viaggiatore del quattordicesimo secolo." Clay aprì le mani davanti al fuoco. "E possono cristallizzarsi in qualunque forma, dal cubo perfetto all'ottaedro o al dodecaedro. "Signor professore" sfotté Sally-Anne "che roba è l'ottaedro?" "Due piramidi triangolari con la base in comune." "Uoh! E il dodecaedro?" lo sfidò. "Un poliedro con dodici facce." "Come fai a sapere tutte 'ste cose?" "Sai, ho scritto un libro... ricordi?" le sorrise Clay. "Metà del libro trattava di Rhodes, della miniera di Kimberley e dei diamanti." "Pietà, mi arrendo" capitolò Sally-Anne. "Ma potrei continuare finché volete" imperversò Clay. "Il diamante è il miglior materiale riflettente che ci sia. Solo il cromato di piombo rifrange di più, e solo il crisolito diffonde di più: ma i poteri di riflessione, rifrazione e diffusione combinati nel diamante sono impareggiabili." "Basta, basta!" implorò Sally-Anne: ma si vedeva l'espressione interessata. Così Clay proseguì. "Il suo splendore è perpetuo, anche se gli antichi non conoscevano i segreti del taglio. Per questa ragione i Romani preferivano le perle e anche i primi artigiani indù si limitarono a levigare le faccette naturali del famoso Koh-i Noor. Si sarebbero messi le mani nei capelli, se avessero saputo che in seguito i tagliatori moderni avrebbero ridotto il peso di quella pietra da più di settecento carati a centosei." "Quant'è grosso, settecento carati?" volle sapere Sarah. Clay scelse una pietra della fila che Sally-Anne aveva disposto a terra. Era grossa come una pallina da golf." "Questa sarà sui trecento carati. Può andare, come paragone." E un diamante della più bell'acqua: tagliato verrà più di cento carati: gli uomini gli daranno un nome, come per esempio Gran Mogol, Orloff, o Scià, e intorno a esso nasceranno leggende." "Fuoco di Lobengula" azzardò Sarah. "Bellissimo nome" disse Clay. "Fuoco di Lobengula!" "Quanto varranno?" volle sapere Tungata. "Quanto varrà 'sto mucchietto di sassolini?" "Sa Dio" rispose Clay alzando le spalle. "Alcuni saranno di scarto.,," Ne prese uno grosso e amorfo, di un grigio opaco, pieno di imperfezioni evidenti come macchie nere e frastagliato all'interno di fratture che sembravano foglie d'argento. "Questo è di qualità industriale, si può usare solo per punte di trapani e trivelle petrolifere. Ma certi altri... l'unica risposta vera alla tua domanda è che valgono quanto un uomo ricco è disposto a pagare. Sarebbe impossibile venderli tutti assieme, il mercato non potrebbe assorbirli. Ogni pietra dovrà trovare un acquirente specifico e richiederà un ' importante transazione finanziaria." "Quanto, quanto, Paffo?" insisté Tungata. "Al minimo e al massimo, parla!" "Davvero non lo so, non potrei nemmeno sparare una cifra." Clay prese in mano un'altra grossa pietra, dalle facce imperfette che celavano però un interno compatto e della più bell'ac-qua. "Degli artigiani specializzatissimi ci lavoreranno per settimane o mesi, levigandone la grana, scoprendone i riflessi. Lucideranno una finestra su una delle facce ed esamineranno l'interno al microscopio. Poi, quando avranno deciso come "fare" la pietra, un mastro tagliatore dai nervi d'acciaio gli darà un colpo, con uno strumento simile a una mannaia da macellaio, sulla linea di frattura.
Un colpo sbagliato e la pietra si disintegrerebbe in minutissimi frammenti senza valore. Si dice che il tagliatore del diamante Cullinan sia svenuto dal sollievo quando, dopo un colpo perfetto, il diamante si spaccò nettamente." Clay esaminò pensoso il grosso brillante. "Se questa pietra "si farà" alla perfezione, e il colore dell'acqua sarà giudicato di grado D, potrebbe valere, diciamo, un milione di dollari." "Un milione di dollari! Per una sola pietra!" esclamò Sarah. "Forse più" annuì Clay. "Forse molto di più." "Se una sola pietra vale tanto" disse Sally-Anne sollevandone una manciata e lasciandoli scorrere piano fra le dita "quanto varrà tutto il mucchio?" "Dai cento ai cinquecento milioni di dollari" tirò a indovinare tranquillamente Clay. L'impossibile somma sembrò deprimerli tutti, invece di farli delirare di gioia. Sally-Anne rigettò nella sacca le gemme, come se scottassero le dita, e si infilò le mani sotto le ascelle, rabbrividendo. I capelli bagnati le ricadevano a nastri sopra la faccia e il fuoco metteva in risalto le sue fonde occhiate. Erano tutti esausti e bramavano dormire. "Allora, noialtri qui seduti" disse Tungata "siamo probabilmente gli uomini più ricchi del mondo. Ma io darei via tutto in cambio di un raggio di sole e una boccata di libertà." "Paffo, parlaci" implorò Sarah. "Raccontaci una storia!" "Va bene" disse Clay. E mentre Tungata alimentava il fuoco con nuove schegge di legno, pensò un momento. "Sapevate che Koh-i Noor significa "Montagna di luce" e che Baber il conquistatore lo valutò metà di quanto si spendeva in un giorno in tutto il mondo allora conosciuto? Si penserebbe che non ci sia un'altra gemma come quella, ma un tempo non era che una pietra delle tante ammassate nel tesoro di Delhi. Una città che possedeva ricchezze tali da oscurare quelle stesse di Roma o i tesori della vanagloriosa Babilonia. E anche gli altri grossi gioielli di Delhi avevano nomi meravigliosi. Sentite un po': Mare di luce, Corona lunare, Gran Mogol.,," Clay frugò nella memoria alla ricerca di storie da raccontare per far loro dimenticare la situazione disperata in cui si trovavano. Infatti aveva capito che con tutta probabilità erano ormai sepolti vivi sottoterra, e non ne sarebbero più usciti né vivi né morti. Raccontò loro del servitore fedelissimo incaricato un giorno da de Sancy di portare in dono al re Enrico di Navarra il diamante Sancy, per aggiungerlo al tesoro della Corona di Francia. I ladroni vennero a sapere del suo viaggio e l'aspettarono nella foresta. Lo pugnalarono e gli cercarono la pietra dappertutto. Non riuscendo a trovare il diamante, scapparono dopo averlo seppellito in fretta nella foresta. Anni dopo, Monsieur de Sancy ritrovò la tomba e ordinò la riesumazione del servitore. Il cadavere si era ormai decomposto: il diamante si trovava nello stomaco." "Orribile" rabbrividì Sally-Anne. "Può anche darsi" concordò Clay. "Ma tutti i grandi diamanti hanno storie quanto mai sanguinose. Imperatori, sultani e ragià hanno sempre intrigato e combattuto per impossessarsene: altri hanno torturato, fatto morir di fame, gettato nell'olio bollente, accecato con ferri roventi; donne si sono prostituite, hanno avvelenato mariti e amanti; palazzi sono stati saccheggiati e templi profanati. Ogni pietra sembra lasciarsi dietro una scia di sangue e crudeltà, come una coda di cometa. E mai queste tragiche vicende valsero a scoraggiare l'avidità di chi le bramava. E difatti, quando Shah Shugia comparve davanti a Ranjit Singh, il "Leone del Panjaò" , che l'aveva fatto quasi morire di fame, che l'aveva fatto torturare e mutilare, che gli aveva assassinato fra i più atroci tormenti mogli e figli costringendolo alla fine a consegnargli il Gran Mogol, ebbene, quando quest'uomo che era stato il suo più caro amico si presentò davanti a lui con l'enorme diamante in pugno e Ranjit Singh gli chiese: "Dimmi, Shah Shugia, quale
valore mai gli attribuivi?" perfino in quelle condizioni di miserabile larva, mutilato e sconfitto, sull'orlo di una morte ignobile, Shah Shugia ebbe il coraggio di rispondergli così: "Il Gran Mogol porta fortuna Sai, è sempre stato il talismano dei conquistatori." Tungata borbottò, alla fine del racconto, infilando l'indice nel mucchietto di diamanti e rimestando: "Bah. Speriamo che qua in !mezzo ce ne sia qualcuno che la porta davvero." Clay non aveva più storie da raccontare. Gli si era chiusa la gola, per il freddo, le chiacchiere e il gas lacrimogeno. A nessun altro venivano in mente discorsi minimamente allegri. Trangugiarono una schifosa focaccia di mais bagnata e si sdraiarono più vicino che potevano al fuoco. Clay sentì gli altri che si addormentavano, ma, nonostante la grande stanchezza, la mente continuava a galoppare e gli impediva di prender sonno. L'unica via d'uscita dalla caverna era sotto il cunicolo subacqueo e su per la grande galleria, ma c'erano gli shona, e chissà fino a quando ci sarebbero rimasti. Quanto potevano resistere lì? C'era cibo per un giorno o due, l'acqua da bere non mancava perché colava da tutte le stalattiti, ma già le pile si stavano scaricando, la luce che facevano era giallastra e torbida. Quando al fuoco, i pioli della scala sarebbero durati ancora qualche giorno: poi, il buio e il freddo. Quanto tempo ci voleva a impazzire, in quelle condizioni? Quanto tempo per risolversi a tornare indietro, nelle mani degli shona in attesa di là? I pensieri neri di Clay furono ben presto interrotti. Il terreno su cui era sdraiato si scosse, balzando in su. Clay si mise in ginocchio di scatto. Nell'ombra del tetto della caverna, una delle grandi stalattiti, una ventina di tonnellate di calcare polito, si spezzò come un frutto maturo si stacca di netto dall'albero, e cadde a terra a una decina di passi da loro. La caverna si riempì di polvere e detriti. Sarah si svegliò urlando dal terrore, e Tungata tirando cazzotti nel sonno, prima di balzare in piedi, di botto sveglio. Il terremoto durò pochi secondi, poi tutto si fermò di nuovo e il profondo silenzio sotterraneo tornò a calare su di loro come una cappa di morte. Si guardarono in faccia, terrorizzati, alla luce delle braci del fuoco. "Cosa diavolo è stato?" chiese Sally-Anne. Clay non aveva voglia di risponderle, proprio nessuna voglia. Guardò Tungata. "Gli shona hanno minato la galleria principale. Ci hanno imprigionati qua dentro." "Oh mio Dio!" Sally-Anne si coprì lentamente la bocca con le mani. "Siamo sepolti vivi" disse Sarah.
Il pozzo che avevano risalito era profondo una buona cinquantina di metri. Tungata lo misurò con la fune di nailon, prima che Clay cominciasse a calarvisi. Era abbastanza profondo da causare la morte di chi precipitasse giù. Assicurarono la fune a un piolo incastrato nel buco del cunicolo che portava alla tomba di Lobengula e Clay discese fino all'acqua. Si immerse ancora una volta e andò a vedere cos'era successo. Ma non poté nemmeno arrivare alla grande caverna. Il muro subacqueo era diventato irraggiungibile: le esplosioni avevano fatto crollare il soffitto del cunicolo. Da quella parte non si poteva più passare. Le loro peggiori paure erano confermate in pieno. Anzi, tastando il cumulo di massi che bloccavano la via subacquea, Clay ne aveva fatti crollare una decina: per pura fortuna non vi era rimasto sotto. In superficie, aggrappato agli ultimi pioli della scala, ansimò in preda al panico retrospettivo: ancora una volta aveva evitato la morte per un pelo. "Paffo, va tutto bene?" urlò Tungata da su.
"Okay! Ma da questa parte non si passa più. Avevi ragione, hanno minato il passaggio." Tornando verso la piattaforma, aveva la morte nel cuore: e anche gli altri lo accolsero con la faccia lunga lunga, appena rischiarata da un focherello stento. "Che cosa facciamo?" domandò Sally-Anne. "La prima cosa da fare è esplorare perfettamente la caverna" disse Clay ancora ansimante per la risalita. "Dobbiamo ispezionare ogni angolo, ogni pertugio, ogni ramo secondario. Lavoreremo a coppie. Sam e Sarah, cominciate da sinistra. Cercate di risparmiare il più possibile le pile." Tre ore dopo, secondo il Rolex di Clay, si ritrovarono accanto al fuoco. Ormai le pile emettevano solo un fievole raggio di luce. "Abbiamo individuato una galleria che parte da dietro l'altare" disse Clay. "Sembrava promettente, all'inizio, ma si è rivelata un cul di sacco. E voi? Trovato qualcosa?" Clay stava pulendo una sbucciatura al ginocchio che si era fatta Sally-Anne scivolando sul terreno viscido e roccioso. "Niente" disse Tungata. Clay bendò il ginocchio di Sally-Anne con un lembo strappato dalla camicia. "Anche noi abbiamo trovato un paio di cunicoli, ma non portano da nessuna parte." "Cosa facciamo allora?" "Mangiamo un po' e riposiamo un momento. Dobbiamo cercar di dormire. Abbiamo bisogno di tutte le nostre energie." Mentre così diceva, Clay si rendeva perfettamente conto dell'inutilità di tutto ciò: ma, sorprendentemente, dormì davvero. Quando si svegliò, Sally-Anne era raggomitolata sul suo petto, e tossiva nel sonno. Era una tosse catarrosa e roca. Il freddo e l'umidità stavano insidiandoli tutti, ma la dormita aveva ristorato Clay ricaricandolo d'energia. Benché petto e gola gli facessero ancora un po' male per il gas, sembrava che migliorassero un tantino, e si sentì un po' più ottimista. Si appoggiò alla roccia, attento a non disturbare Sally-Anne. Dall'altra parte del fuoco, Tungata russava. A un certo punto però si girò e smise. L'unico rumore nella caverna, adesso, era il gocciolio continuo dell'acqua dal soffitto: ce n'era però anche un altro, molto debole, una specie di sussurro, talmente sommesso che si poteva facilmente scambiarlo per il ronzio del silenzio nelle orecchie. Clay, immobile, si concentrò su quel lontano suono. Non riusciva a spiegarselo. "Ma certo!" proruppe dopo un po'. "Sono i pipistrelli! Ricordò d'averli già sentiti, più forte, sbucando per la prima volta sulla piattaforma. Ci pensò un po', poi dolcemente spostò dal grembo la testa di Sally-Anne e si alzò. La ragazza fece un sommesso gorgoglio di gola e continuò a dormire, voltandosi sull'altro fianco. Clay prese una delle pile e tornò nel tunnel che conduceva alla piattaforma sul pozzo. Accese la pila solo una o due volte, cercando di conservare la poca potenza rimasta nelle batterie, e nel buio si fermò sulla piattaforma con le spalle addossate alla parete rocciosa, ascoltando con tutta l'attenzione di cui era capace. C'erano lunghi momenti di silenzio assoluto, a parte il gocciolio dell'acqua sulla roccia: poi, all'improvviso, un coro di squittii di pipistrello; poi di nuovo silenzio. Clay accese la pila. Erano le cinque. Chissà se era sera o mattina: ma, se i pipistrelli erano rintanati, fuori doveva essere giorno. Si accovacciò e aspettò un'ora, controllando a tratti il lento passare del tempo. Ed ecco un'altra esplosione sommessa di squittii: non più casuale e breve, ma lunga, prodotta da molte migliaia di quei piccoli mammiferi volanti che uscivano alla caccia notturna. In seguito tornò il silenzio. Clay riguardò l'orologio. Le sei e trentacinque. Si figurava perfettamente l'orda volante che, da qualche parte, usciva dalle viscere della collina nell'imbrunire del cielo al tramonto, come una fumata dal camino.
Con la massima attenzione si affacciò sulla voragine, attaccandosi alla parete con una mano. Guardò in su, con la pila nel braccio proteso all'estremo. Il lumicino giallo non faceva che enfatizzare l'oscurità sovrastante. Considerò la struttura del pozzo su cui si apriva la piattaforma. Era di pianta semicircolare: la parete opposta saliva verticalmente a tre metri di distanza dall'orlo della balconata. La esaminò con cura, impiegando con prodigalità la pila quasi scarica. Era liscia come vetro, levigata dall'acqua che l'aveva scavata. Niente appigli, niente fessure, a parte... si sporse di un altro centimetro sulla voragine. C'era un segno scuro, proprio di fronte a lui, ai limiti del campo visivo, un bel po' sopra il livello della sua testa. Cos'era, una striatura di colore o una fenditura della roccia? Non poteva esserne sicuro. La pila era ormai al lumicino. Poteva anche essere uno scherzo di luce, un'ombra. "Paffo.,," La voce di Tungata alle sue spalle. "Checosa c'è?" "Credo sia l'unica strada per sbucare in superficie" disse Clay accennando alla cavità che scompariva in alto e subito dopo spegnendo la pila per conservarla. "Su per quel camino?" Tungata era incredulo. "Ma nessuno è in grado di passarci." "Ci sono i pipistrelli annidati lassù, da qualche parte." "I pipistrelli volano" gliricordò Tungata. Poi, dopo un po': "Quanto è alto qui il tetto della caverna?" "Non si vede. Ma credo che sulla parete di fronte ci sia una crepa, una scanalatura. Accendi la tua pila, che è un po' più carica." Entrambi si affacciarono a guardare. "Che ne pensi?" "Indubbiamente c'è qualcosa." "Se potessi arrivarci?" disse Clay spegnendo di nuovo la pila. "E come?" "Non lo so. Fammi pensare." Sedettero spalla a spalla contro la parete della piattaforma. Dopo un po', Tungata mormorò: "Clay, se mai uscissimo di qua... i diamanti... hai diritto a una parte..." "Sta' zitto, Sam, sto pensando." Poi, dopo diversi minuti: Sam, i pali della scala a pioli... magari il più lungo di quelli laterali può arrivare dall'altra parte del pozzo..." Fecero un altro fuoco sulla piattaforma, che illuminò di un chiarore baluginante il pozzo. Ancora una volta Clay si calò con la fune a esaminare i resti della scala a pioli. La maggior parte dei pali verticali era troppo corta. Era naturale che i costruttori li avessero segati e giuntati per rendere più comodo il trasporto nelle giravolte della grotta. Però ce n'era un tratto piuttosto lungo. Non era più grosso del polso di Clay, come spessore, ma aveva il particolare colore chiaro che aveva originato il nome che gli davano gli africani: legno-zanna d'elefante. Comunemente viene chiamato legno-ferro. E uno dei legni più duri e resistenti del mondo. Misurandolo a occhio per mezzo del braccio esteso, Clay giudicò che quel palo doveva essere lungo almeno quattro metri e mezzo. Lo legò a un capo della fune, spiegando a Tungata cosa stava facendo, poi cominciò a tagliare col coltello recuperato sul Cessna le liane di cui si erano serviti gli stregoni di un tempo per legarlo agli altri pezzi della scala a pioli. Terribile fu il momento in cui, librato e oscillante, appeso solo alla fune, il palo si staccò dalla struttura della scala che, priva del puntello principale, crollò tutta, rovinosamente, nell'acqua sottostante.Clay si arrampicò lungo la fune sulla piattaforma, col cuore in gola, sperando che reggesse il suo peso e quello, fenomenale, del palo. Ansimando, raggiunta la provvisoria salvezza, si girò a constatare che il palo penzolasse ancora in fondo alla corda, come difatti ancora penzolava. "Era la parte più facile" avvertì mestamente i compagni.
Lui e Tungata ci misero la forza, le ragazze la destrezza e la guida della fune: un centimetro per volta sollevarono il palo finché un capo non apparve a livello della piattaforma. Ancorarono la fune col solito sistema a incastro dei pioli nel cunicolo e Clay si sporse sull'abisso, pancia a terra, cercando di infilare nel cappio ricavato all'altro capo di corda l'altra estremità del palo. Una volta che vi riuscì il palo era ormai saldamente imbragato e non correvano più il rischio di perderlo. Potevano cominciare a traversarlo e sollevarlo. Dopo un'ora di sudate, tira molla e issa, grugniti da sforzo, il palo era appoggiato da una parte alla parete opposta e dall'altra era incastrato nel cunicolo che conduceva alla caverna dei diamanti. "Adesso bisogna sollevare l'altra estremità del palo" disse Clay mentre si riposava un po' "e cercare di infilarlo nella fenditura che ho visto di là. Se poi è davvero una fenditura." Era molto più facile dirlo, naturalmente. Due volte il palo gli sfuggì di mano e piombò nella voragine: per fortuna la corda resistette, e anche i pioli incastrati, scelti fra i meno marci. Dovettero ricominciare da capo. Era mezzanotte quando riuscirono ad appoggiare il pesantissimo palo all'altezza del segno scuro sulla parete di fronte, ai limiti del raggio della pila. "Un tantino più a destra" borbottò Clay, anfanando per lo sforzo. Lo spostarono piano piano, se lo sentirono sfuggire di mano per la terza volta, ed ecco che con un piccolo rumore secco la punta del palo si appoggiò in quella che, per fortuna, era davvero una crepa. Clay e Tungata si abbracciarono, esausti, in ginocchio. Sarah alimentò il fuoco con altra legna e, alla sua luce, riesaminarono il loro lavoro. Avevano creato un ponte sulla voragine del pozzo che si innalzava ripido dalla base della piattaforma su cui si trovavano, saldamente incastrato tra il pavimento e la parete alle loro spalle e la fenditura su quella opposta. "Sì, ma adesso chi è che ci va su?" chiese Sally-Anne con voce tremante. "E una volta di là, che si fa?" domandò Sarah. "Quando ci saremo, vedremo" disse tranquillo Clay. "Ci vado io" si offrì Tungata, con altrettanta calma. "Hai mai fatto dell'alpinismo?" Tungata scosse la testa. "Bene, allora non si discute" disse Clay con fermezza. "Ci vado io. Ma adesso dormiamo un paio d'ore." Tuttavia nessuno riuscì a dormire, e Clay li fece alzare prima [che le due ore fossero passate. Spiegò a Tungata come si fa ad assi!curare uno scalatore con la fune, piazzandosi coi piedi puntati e la corda girata attorno alla vita, alle spalle e alla schiena. "Non darmi troppa corda, ma non tenermi nemmeno in trazione" glispiegò Clay. "Se cado, grido: allora afferra la corda così e tieni con tutta la forza. Capito bene?" Si legò alle spalle una pila con una striscia di tela e poi, mentre le due ragazze, sedute sull'estremità del palo, cercavano di tenerlo !ancora più saldamente bloccato, Clay ci si mise a cavalcioni e prese a procedere coi piedi penzolanti nel vuoto. Man mano, Tungata gli dava corda. Ben presto Clay si accorse che il palo saliva un po' troppo ripido e dovette stendersi, abbrancandolo con le caviglie per aiutarsi anche con le gambe. Uscì dalla luce del fuoco: il nero vuoto sotto stante aveva una qualità ipnotica che lo stregava. Non guardava giù, però, si sforzava di non farlo. A ogni movimento il palo oscillava sotto il suo peso e si sentiva l'altro capo grattare contro la roccia opposta, che infine le sue dita riuscirono a toccare. Era fredda e liscia, il solito calcare. Tastò ansioso la fenditura, e si sentì un po' consolato ricostruendone la forma al tatto. Correva verticalmente su per la parete, profonda all'inizio meno di dieci centimetri, appena quanto bastava ad alloggiare il palo, ma più su più profonda e stretta.
"E proprio una fenditura!" gridò Clay. "Vado a dare un' occhiata." "Sta' attento, Clay!" "Cristo?" pensò. "Che stupidata da dire in un momento simile!" Protese il braccio sinistro dopo essere avanzato più che poteva sul palo e infilò la mano chiusa a pugno nella fessura, senza però tendere i muscoli. Quando fu più dentro che poteva, li contrasse, ed ecco che il pugno gli si conficcò saldamente nella spaccatura della roccia, tanto da poter reggere anche tutto il suo peso. Si mise a sedere sul palo, portò un ginocchio al torace e con la mano libera bloccò la caviglia della gamba artificiale. Adesso il piede era rigido e perpendicolare. Tirò un respiro profondo e si disse sottovoce: "Okay, proviamo." Alzò la mano libera, la infilò nella fenditura e operò un altro appiglio a pressione interna col pugno destro. Con la forza di entrambe le braccia si sollevò e si inginocchiò sul palo, in equilibrio. Rilassò il pugno sinistro, che uscì agevolmente dal buco. Tirò su la mano quanto poteva e l'infilò più in alto. Si sollevò ulteriormente ed eccolo in piedi sul palo, attaccato alla parete. Avanzò il piede artificiale, conficcandone la punta nella fessura, di traverso. Poi raddrizzò la gamba, e l'alluce si incastrò fisso come un cuneo. "Buon vecchio alluce di latta-borbottò. Il piede e la gamba buona, in quel caso, non sarebbero assolutamente riusciti a sorreggerlo, a meno che non avesse indossato speciali scarponi da rocciatore, che non aveva, in grado di proteggere la carne dal morso della roccia. Si issò sul piede artificiale e operò due appigli a espansione con le mani. Appena il peso sgravò la gamba artificiale, traversò l'alluce d'alluminio e lo piazzò una trentina di centimetri più in alto. Così, facendo leva su tre punti, continuò l'arrampicata, mentre la corda si srotolava dalla sua vita alle mani salde di Tungata Zebiwe. In fretta uscì dalla zona rischiarata dal fuoco. Aveva solo il senso del tatto a guidarlo, e la voragine nera di sotto sembrava volerlo inghiottire da un momento all'altro. Contava i passi che faceva: considerando che ognuno era di trenta centimetri circa, calcolò diessere salito di una buona dozzina di metri, quando ecco che la fessura cominciò ad allargarsi. Ogni volta doveva affondarci di più il pugno per la presa a espansione: in conseguenza di ciò i passi diventarono più ravvicinati e gli richiesero uno sforzo maggiore di gambe e braccia. Il contatto forzato con la scabra roccia nella crepa gli aveva escoriato tutta la pelle delle mani e le nocche, sicché ogni successivo appiglio diventava più penoso. L'insolito esercizio, poi, gli aveva fatto indolenzire molto i muscoli dell'interno della coscia e dell'inguine, che ora gli bruciavano come nodi infuocati. Non poteva andar lontano, se non riposava un po'. Si ritrovò appiccicato alla roccia, con la fronte appoggiata a essa come in preghiera. "Abbandonarsi contro la parete equivale a morire" pensò: è la prima regola del rocciatore. E un atteggiamento di disperazione e sconfitta: Clay lo sapeva bene, eppure non poteva farci niente. Si mise a piangere. Estrasse un pugno dalla fessura e, flettendo le dita rilassate, costrinse il sangue a circolarvi di nuovo. Poi si leccò le escoriazioni sanguinanti. Cambiò mano, mugolando dal dolore. "Paffo, perché ti sei fermato?" La corda non scorreva più. Erano in ansia, giù da basso. "Clay, non rinunciare, amore. Non rassegnarti. "Sally-Anne aveva intuito la sua disperazione. C'era qualcosa, nella sua voce, che gli infuse nuova energia. Gradualmente si staccò dalla parete, recuperando l'equilìbrio, col peso sulla gamba artificiale, e proseguì, una mano per volta, sinistra e destra, su la gamba, un passo... e ancora, e poi ancora, era un inferno, una tortura, altri tre metri, altri sei metri, nell'oscurità più completa. Contava i passi, nel buio, proseguendo la disperata ascensione.
Avanzò la mano destra e... nulla. Spazio vuoto. Freneticamente tastò in cerca della fenditura. Niente. Poi la mano trovò roccia da una parte. La fessura si era allargata di parecchio. Adesso costituiva una nicchia a "V" abbastanza grande perché un uomo potesse infilarcisi tutto. "Grazie, Signore, grazie, grazie..." Clay vi si installò, incastrandovi spalle e anche, stringendo al petto le mani ferite. "Clay!" Il grido di Tungata risuonò nel camino. "Va tutto bene. Ho trovato una nicchia, mi riposo un po'" urlò Clay in risposta. ;Sapeva che non poteva riposar molto, perché altrimenti le mani gli si sarebbero irrigidite diventando inservibili. Mentre riposava, continuava a riflettere. "Okay!" gridò di sotto. "Riparto!" Si spinse in su, stavolta facendo presa con le palme delle mani: gli occhi al vuoto, nero come il carbone. In fretta la fenditura si allargò ancor più. Divenne un vasto camino, più largo delle braccia aperte. Doveva girarsi sul fianco, puntare le spalle contro una parete e i piedi sull'altra, e arrampicarsi muovendo le spalle e aiutandosi con le mani sulla roccia, un centimetro per volta. Salì con buona efficienza per un tratto e poi dovette ferfmarsi perché il camino si restringeva di nuovo fino a diventare una fessura in cui non penetrava un dito. Tastò la parete esterna, sopra la volta del camino richiusosi sopra la sua testa. Fin dove poteva arrivare non c'erano appigli e la roccia era liscia e levigata. "Capolinea!" sussurrò, disperato, e tutti insieme i muscoli del corpo cominciarono a dolergli follemente. Si sentiva schiacciato sotto un carico intollerabile. Non aveva la forza di tornare giù per quella discesa lunga e pericolosissima, e nemmeno per stare a lungo incastrato in quella cengia. Ed ecco che un pipistrello squittì forte sopra la sua testa. Era così vicino che quasi, per lo spavento, Clay precipitò di sotto. Si riprese in tempo, e, benché le gambe non l'aiutassero quasi più, si puntò in modo da potersi sporgere ulteriormente fuori del camino, sull'ultimo centimetro di roccia disponibile. Il pipistrello strillò ancora, e mille e mille altri gli risposero. Era l'alba evidentemente, e tornavano ai loro nidi, poco più in alto di lì. Clay si sistemò in modo da poter sporgere un braccio dal camino e prese la pila che aveva in spalla, legata con la striscia di tela. L'impugnò stretta e la puntò verso l'alto. Poi, piazzando la spalla proprio sull'orlo della rientranza, proteso quasi nel vuoto anche coi piedi e l'altra mano, si sporse in fuori con la testa girata in su e accese la pila. I pipistrelli impazzirono e si misero a strillare svolazzando dappertutto. Novanta centimetri sopra la testa di Clay, irraggiungibile, nella parete di roccia si apriva una finestra in cui il rumore rimbombava come all'interno di una campana. Cercò di aggrapparcisi con la mano, ma le dita arrivavano a circa trenta centimetri dall'orlo. Mentre si tendeva tutto nello sforzo, il lume della pila si spense. Il filamento si fece rosso, e dopo pochi secondi svanì. Di nuovo il buio inghiottì Clay, che si ritrasse nel camino. Impotente, scagliò nel vuoto la pila, e la sentì rimbalzare più volte contro la roccia, sempre più debolmente, fino a cadere nell'acqua con un lontanissimo tonfo. "Clay!" "Tutto bene, mi è caduta la pila." Avvertì la disperazione nella sua stessa voce; tuttavia, al buio, tentò un'altra volta di raggiungere l'apertura sulla parete sopra la volta del camino. Le dita graffiarono invano il levigato calcare. Rinunciò e tornò giù per il camino. Fino alla nicchia dove si era fermato a riposare prima, il punto più comodo dell'arrampicata. "Che succede, Clay?"
"Niente da fare" rispose. "Non si esce. Siamo fregati, a meno che.,," Si interruppe di colpo. "A meno che cosa?" "A meno che una delle ragazze non venga su ad aiutarmi." Silenzio nel buio sottostante. "Vengo io?" disse Tungata, rompendolo. "Non serve, sei troppo pesante. Non potrei reggerti." Ancora silenzio, poi Sally-Anne parlò. "Dimmi cosa devo fare." "Assicurati al capo della corda. Fa' un nodo di sicurezza, lo sai fare?" "Sì, d'accordo." "Bene, adesso attraversa il palo. Non aver paura, se cadi ti tengo." Guardando in basso, Clay vide l'ombra di Sally-Anne stagliarsi contro il fuoco, mentre attraversava. Puntato nella nicchia, egli era pronto a resistere in caso di caduta. "Ho attraversato!" "Hai visto la crepa?" "Sì, eccola qua." "Ti tiro su io. Tu aiutami mettendo i piedi nella fessura." "D'accordo." "Forza!" Sentì tutto il peso di lei trasmetterglisi per la corda, che gli morse la spalla. "Spingiti su coi piedi!" le gridò, e sentì sgravarsi un po' di peso. Guadagnò un tratto di fune. "Su!" Altri venti centimetri." "Su!" Andò avanti un pezzo, finché all'improvviso lei gridò e la corda si strinse intorno alla spalla di Clay come una morsa d'acciaio. Mancò poco che venisse strappato alla nicchia. Si oppose allo strattone con tutta l'energia che aveva, mentre la corda gli ustionava le mani, inarcando la schiena e puntando i piedi. Riuscì a fermarla: Sally-Anne continuava a gridare, oscillando di qua e di là, appesa alla fune. "Zitta!" le urlò. "Trova un appiglio e frenati!" Sally-Anne smise di gridare e a poco a poco le oscillazioni cessarono. "Ho perso l'appiglio col piede." Era quasi un singhiozzo."Hai ritrovato la fessura?" "Sì." "Va bene, dimmi tu quando sei pronta." "Pronta!" "Su, allora!" Pensò che non dovesse finir mai, ma venne il momento che si sentì toccare la gamba. "Ce l'hai fatta!" le sussurrò. "Femmina fenomenale!" Le fece spazio, salendo un po' nel camino, e l'aiutò a rannicchiarvisi. Le mostrò come assicurarsi e poi le strinse la spalla. "Non sono in grado di proseguire oltre" glidisse Sally-Anne. Le prime parole dopo l'approdo. "Quello era il pezzo peggiore, il resto è facile." Della finestra le avrebbe parlato in seguito. "Senti i pipistrelli" l'incoraggiò. "L'uscita dev 'essere vicina. Pensa al primo raggio di sole, alla prima boccata d'aria. "Sono pronta a proseguire" dichiarò alla fine. Egli la guidò su per il camino. Appena questo si allargò a sufficienza, la fece passare davanti e, con le mani, le mise i piedi sugli appigli giusti e la spinse su lui stesso, quando la larghezza si fece eccessiva, perché ella potesse far forza da sola. "Clay. Clay! Si chiude! E un budello cieco!" Era sull'orlo del panico, reprimeva a fatica i singhiozzi e la di-
sperazione. "Finiscila!" sbottò Clay. "Ancora un solo piccolo sforzo, uno solo, te lo assicuro." Aspettò che si calmasse e poi continuò: "Proprio sopra la tua testa, sulla parete c'è una finestra, appena fuori del camino. Sarà a mezzo metro..." "Non riuscirò ad arrivarci." "Sì che ci riuscirai! Ti farò da ponte col mio corpo. Metterai un piede sulla mia pancia e ci arriverai agevolmente. Mi senti? SallyAnne, rispondimi!" "No." Fievolissimo. "Non ce la faccio." "Allora creperemo tutti qui dentro. Non c'è altra via d'uscita. O ce la fai o marciremo qua, mi senti?" Si piazzò appena sotto di lei, con le sue natiche schiacciate sul proprio ventre. Poi si puntò con tutta la forza coi piedi da una parte del camino e le spalle dall'altra, formando un ponte sotto di lei. "Lasciati andare a poco a poco" le sussurrò. "Siediti sulla mia pancia." "Clay, sono troppo pesante!" "Fallo, porca malora, fallo!" Il peso di Sally-Anne gravò su di lui, cagionandogli un terribile dolore, quasi insopportabile. Gli sembrava che muscoli e tendini stessero per strapparglisi: aveva gli occhi attraversati da lampi di luce. "Ora sollevati" le disse con voce strozzata." Sally-Anne puntò le ginocchia sulla pancia di Clay e si issò sopra di lui. Le rotule della ragazza lo trafiggevano come i chiodi della crocifissione. "In piedi!" le grugnì. "Sbrigati!" Barcollando sulla malferma piattaforma del suo corpo Sally-An-ne si alzò in piedi. "Sollevati al massimo!" "Clay, c'è un buco qua sopra!" "Ce la fai a entrarci?" Nessuna risposta. Cambiò posizione, ed egli gridò per lo sforzo di reggerla. Uno strappo, e si sentì sgravare. Udì i suoi piedi sgambettare contro la parete e il rumore della corda che scorreva, assicurata alla vita di lei. "Clay, c'è una grotta!" "Trova un appiglio che regga il mio peso e legaci la corda." Un minuto, un altro... non ce la faceva più, tutti i muscoli gli dolevano, rigidi, le spalle... "L'ho legata! E sicura!" Clay tirò la corda. Resisteva perfettamente. Se la passò attorno alla vita e lasciò andare i piedi. Si ritrovò appeso fuori del camino, nel vuoto. Si arrampicò sulla corda, una mano dopo l'altra, e poi rotolò nella finestra di pietra. Sally-Anne lo strinse al seno come un bimbo. Non riusciva più nemmeno a parlare. "Che sta succedendo lassù?" Tungata non riusciva a vincere la propria impazienza. "Abbiamo trovato una galleria che deve sbucare all'aperto, è piena di pipistrelli" gridò Clay in risposta. "Che dobbiamo fare?" "Vi calo la corda, con una gassa in fondo. Prima Sarah: dovrà attraversare il palo e infilarsi nel cappio. Poi noi due la tireremo su." Era un messaggio un po' lungo da urlare. "Hai capito?" "Sì. Glielo farò fare." Clay preparò la gassa all'estremità della corda e poi, nell'oscurità più completa, strisciò fino al punto dove Sally-Anne l'aveva legata all'appiglio. Si trattava di un pinnacolo di roccia a tre metri dalla finestra che dava sul pozzo. Il nodo era buono. Tornò alla finestra e calò la fune col cappio. Steso pancia a terra si affacciò dal buco.
Giù in fondo il fuoco brillava lontanissimo e rosso come la bocca di una fornace. Si sentivano i sussurri delle loro voci. "Cosa aspettano?" si domandò. Poi vide l'ombra nera, appena visibile alla luce del fuoco, che attraversava il ponte. Era troppo grossa per essere una persona sola. Si rese conto che Tungata e Sarah erano saliti insieme sul palo. Tungata, a cavalcioni del ponte di fortuna, se la tirava dietro in groppa. Presto sparirono sotto la rientranza del camino. "Paffo, spingi la fune un po' più a sinistra." Clay obbedì e avvertì la presa dell'amico di sotto. "Sarah è dentro la fune! Tutto bene!" gridò Tungata. "Spiegale che, mentre la tiriamo su, deve puntare i piedi sulla parete di roccia e camminare! Sally-Anne stava dietro a Clay, impugnando la corda che girava attorno alla sua schiena. Clay era puntato coi piedi contro la parete rocciosa. "Issa!" ordinò. Clay e Sally-Anne presero subito il ritmo. Sarah non era pesante, però il tratto era lungo e a Clay dolevano le mani spellate. Ci vollero cinque minuti di durissimo lavoro per tirarla su fino al punto in cui si trovavano loro. Si riposarono un po'. "Bene, Sam, siamo pronti a tirar su te!" gligridò, calando la corda con la gassa in fondo. Adesso erano in tre a tirare, seduti uno dietro all'altro, ma Tungata era un gigante. Clay sentiva le ragazze gemere per lo sforzo dietro di lui. "Sam, non potresti incastrarti un momento nel camino?" gli urlò Clay. "Così riposiamo un po'." Sentì il peso sgravarsi dalla corda. Tirarono un po' il fiato. "Va bene, adesso continuiamo." Tungata sembrava sempre più pesante. Ma finalmente anche lui si affacciò al buco e ci rotolò dentro. Nessuno riuscì a parlare per qualche minuto. Clay fu il primo a ritrovare la voce. "Oh, merda, abbiamo dimenticato i diamanti! Abbiamo lasciato giù i diamanti!" Si udì uno scatto e la pila di Tungata si accese. Si guardarono in faccia delusi, meno Tungata che ridacchiava. "Perché credete che fossi così pesante?" Aveva in grembo la borsa dei diamanti, assicurata alla vita. Quando la picchiettò, risuonò come un sacco di grano, o uno scoiattolo che sgranocchi le sue noci. "Eroe!" lo apostrofò Clay con sollievo. "Ma spegni la pila, è meglio risparmiarla." La usarono a brevi flash: il primo mostrò loro che la finestra si apriva su una bassa grotta vastissima, talché non si vedeva dove finisse: appesi a testa in giù dal soffitto, migliaia e migliaia di pipistrelli li guardavano con le faccette nude e gli occhi che brillavano come piccoli catarifrangenti. Il pavimento era tutto ricoperto dei loro escrementi. Il guano aveva riempito tutte le irregolarità formando un tappeto della consistenza soffice della moquette, anche se più puzzolente. Su questo materiale avanzarono in perfetto silenzio, tenendosi per mano per non perdersi al buio. Li guidava Tungata, accendendo la pila ogni pochi minuti per orientarsi e controllare il pavimento. Clay stava di retroguardia con la fune avvolta ad armacollo. Piano piano il pavimento cominciò a salire, e il soffitto ad abbassarsi. "Aspettate" disse Sally-Anne. "Non accendere la pila, Sam. "Cosa c'è? "Guarda là davanti. In cima alla salita. E una mia impressione o..." Clay guardò nel buio davanti a sé, e gli parve di distinguere un lievissimo chiarore. "Lassù c'è luce, mi pare" sussurrò. Si misero a correre, urtandosi per la fretta, ridendo e spingendosi,
mentre la luce aumentava ed essi cominciavano a distinguere le proprie forme. La risata collettiva aveva accenti isterici. La luce davanti si trasformò in un glorioso barbaglio dorato, e salirono di corsa per il declivio alzando polvere di guano. Gradualmente il tetto della grotta si abbassò sopra le loro teste, costringendoli a continuare in ginocchio: la luce era una lama orizzontale che li abbagliava con la sua potenza. Carponi, vi si diressero, sguazzando nel guano che gli schizzava in faccia facendoli soffocare, ridendo sempre istericamente ed emettendo urla di gioia. Clay vide che Sarah piangeva senza vergogna calde lacrime, che le brillavano sulla faccia. Tungata sghignazzava a più non posso, e Clay si tuffò a fermarlo afferrandolo per le caviglie proprio mentre raggiungeva la bassa e lunga apertura della grotta. "Aspetta, Sam. Attenzione." Tungata sgambettò cercando di liberarsi, ma Clay lo trattenne. "Gli shona! Ci sono gli shona lì fuori." Quel nome li fermò e li azzittì all'istante. Giacquero sulla soglia della caverna, immobili: tutta l'euforia di poco prima svaporata in un momento. "Io e Clay andremo avanti a esplorare i dintorni." Tungata frugò nel guano e passò una grossa pietra a Clay. "E l'arma migliore che ci sia qua intorno. Voialtre ragazze statevene qui finché non vengo a chiamarvi, chiaro?" Clay prese una doppia manciata di guano e si annerì la faccia e gli arti. Poi mise giù il rotolo di corda e seguì Tungata strisciando. Era contento di lasciargli il comando, ora. Nella caverna Clay era stato il capo, ma fuori il mondo era di Tungata: nella foresta lui era un leopardo. Salirono gli ultimi pochi decimetri e si affacciarono all'uscita. Era una bassa fessura nella roccia, alta meno di trenta centimetri e schermata dall'erba-degli-elefanti che cresceva appena fuori. Era orientata a est, e difatti avevano il sole in faccia. Restarono fermi un momento, mentre gli occhi si riabituavano alla luce dopo tutti quei giorni di buio. Poi Tungata scivolò fuori come un mamba nero, avanzando senza quasi muovere l'erba. Clay contò fino a cinquanta e poi lo seguì. Si ritrovò sulla pendice della collina: la roccia affiorava qua e là, tra la vegetazione di sterpaglia secca e di erba-degli-elefanti. Erano sbucati appena sotto la cima: giù dalle ripide balze, nel fondovalle, la giungla fitta. Il sole del mattino scottava già. Clay vi si crogiolò felice. Tungata era sdraiato a pochi passi da lui. Fece a Clay con la mano il segnale che voleva dire: "Coprimi il fianco sinistro." Clay strisciò lentamente in posizione col passo del leopardo. Poi, per dieci minuti, scrutò con la massima attenzione il terreno sottostante, soprastante e dai lati, si può dire centimetro per centimetro. "Tutto libero" segnalò a Tungata, che cominciò a muoversi sul contorno della collina. Clay si mantenne sopra e dietro di lui, coprendolo. Un uccello svolazzò verso di loro, un uccello bianco e nero con un becco sproporzionatamente grande, giallo, curvo e semitico che gli era valso il soprannome di "canarino yiddish." Il suo volo caratteristicamente erratico e capriccioso lo condusse a una macchia di cespugli appena sotto Tungata: ma subito emise un verso roco di allarme e si levò di nuovo in volo, picchiando giù dalla collina. "Pericolo!" segnalò Tungata. Si irrigidirono nella più perfetta immobilità. Clay osservò il cespuglio e i massi da cui era scappato l'uccello, cercando di scoprire che cosa l'avesse spaventato. Qualcosa si mosse, si sentì uno sfregamento vicinissimo, un fiammifero si accese. Dal cespuglio si alzò una nuvoletta di fumo di sigaretta. Allora soltanto, Clay distinse un elmetto coperto di rete
mimetica alla base del cespuglio e dietro i massi. Subito dopo scomparve. Piano piano, spostandosi senza fare il minimo rumore, Clay riuscì a cogliere tutta la scena. In tuta mimetica, l'uomo era dietro una mitragliatrice a treppiede. La canna dell'arma era confusa con delle foglie. "Quanti sono?" chiese Tungata con un gesto della mano. Clay vide il secondo uomo. Era seduto con la schiena appoggiata al tronco del cespuglio di rovi. L'ombra dei rami si mescolava perfettamente alle macchie della tuta mimetica. Era un uomo grosso, a testa nuda, coi gradi di sergente: vicino a lui c'era un fucile automatico Uzi. Clay stava per segnalare: "Due" , quando il soldato tirò fuori dalla tasca della tuta un pacchetto di sigarette e lo porse a qualcuno: un terzo uomo, sdraiato all'ombra, ora si alzò e accettò le sigarette. Dopo di che gettò il pacchetto a un quarto soldato, che si smascherò afferrandolo al volo, perché Clay non l'aveva ancora visto. "Quattro?" segnalò Clay. Era un nido di mitragliatrice, perfettamente postato sulla cresta della collina per spazzare il pendio sottostante. Peter Fungabera evidentemente aveva previsto l'esistenza di vie di fuga dalla caverna principale. La collina doveva essere tutta guardata da nidi di mitragliatrice. Era pura fortuna che fossero sbucati al di sopra di quella postazione. La mitragliatrice era puntata verso valle e i serventi erano scocciati e annoiati da due giorni di inutile guardia. "In posizione d'attacco" ordinò Tungata. "Interrogativo?" segnalò Clay col pollice. "Sono in quattro! !Interrogativo!" "Va' sulla destra" indicò Tungata; poi rafforzò l'ordine col segnale: "imperativo" , a pugno chiuso. Clay sentì l'organismo secernere litri di adrenalina. Il suo calore si sparse per tutte le membra, la bocca gli si seccò ed egli strinse la pietra che aveva in mano con tutta la forza. Erano così vicini ai soldati che poteva distinguere la punta della sigaretta bagnata di saliva quando il mitragliere la staccava dalle labbra. Il nido era pieno di cartacce e rifiuti: scatolette vuote, mozziconi. Le armi erano state messe da parte e dimenticate. L'uomo sdraiato sulla schiena si era coperto gli occhi con l'incavo del gomito e fumava così, con la sigaretta infilata in bocca come una candela. Il sergente contro l'albero si stava divertendo a intagliare un pezzetto di legno col coltello. Il terzo si era sbottonato la tuta e stava cercando i pidocchi sui peli del torace. Solo l'uomo alla mitragliatrice sembrava sul chi vive. Tungata scivolò accanto a Clay. "Pronto?" segnalò alzando la mano e guardandolo negli occhi. Clay annuì. La mano di Tungata si abbassò. Clay rotolò nel nido di mitragliatrice e colpì col sasso l'uomo col coltello in mano. Lo prese alla tempia e comprese subito di averlo ammazzato sentendo il rumore del cranio che si spezzava. Aveva colpito troppo forte. Il sergente si accasciò in avanti senza rumore, e nello stesso istante Clay sentì un grugnito soffocato dietro di sé. Tungata si stava occupando del mitragliere. Clay non si guardò nemmeno attorno, ma afferrò il fucile Uzi e lo puntò. Il cercatore di pidocchi alzò la testa e rimase a bocca aperta quando Clay gli premette la canna contro la guancia intimandogli il silenzio con lo sguardo. Frattanto, Tungata aveva preso il coltello del sergente e si era gettato sul soldato coricato. Col ginocchio gli diede un colpo nel plesso solare che gli fece mancare il fiato, poi gli appoggiò la lama sulla carne molle sotto l'orecchio. Sempre sdraiato sulla schiena, la faccia dell'uomo si gonfiò e si contrasse mentre cercava di respirare.
"Se qualcuno grida, gli taglio le balle e gliele ficco in bocca" sussurrò Tungata. Tutto si era svolto in meno di cinque secondi. Tungata si inginocchiò accanto al sergente colpito con la pietra da Clay e gli sentì il polso: niente, era morto. Cominciò a spogliarlo della tuta mimetica e poi se la infilò. Era troppo stretta per lui e dovette lasciare slacciato il giubbotto. "Mettiti l'uniforme del mitragliere" disse a Clay, prendendogli l'Uzi e sorvegliando i due prigionieri. Il mitragliere aveva l'osso del collo spezzato. Tungata gli aveva tirato indietro l'elmetto e la cinghia l'aveva stretto alla gola. La tuta del morto puzzava di sudore rancido e tabacco, ma andava abbastanza bene a Clay. L'elmetto era troppo grande, gli scendeva sugli occhi, ma questo serviva a nascondergli i capelli lunghi e lisci. Tungata avvicinò la faccia a quella dei prigionieri. "Trascinatevi dietro i corpi dei cani shona che abbiamo ammazzato." Clay e Tungata li sorvegliarono mentre, per i piedi, i superstiti tiravano i due morti nudi fino all'entrata della caverna e li facevano rotolare dentro. Nel buio le due ragazze rimasero sbigottite. "Spogliatevi!" ordinò Tungata ai prigionieri. Quando rimasero in mutande dell'esercito, Tungata ordinò a Clay di legarli. Clay segnalò loro di stendersi pancia a terra e gli legò i polsi dietro la schiena, collegandoli poi alle caviglie che gli aveva fatto flettere all'indietro. Rimasero perfettamente immobilizzati. Poi gli tolse le calze, le appallottolò e gliele ficcò in bocca. :Nel frattempo Tungata faceva indossare alle ragazze le tute mimetiche. Erano troppo grosse di parecchie taglie, ma loro si arrotolarono le maniche e l'estremità dei calzoni, stringendoli bene alla vita con la cintura. "Annerisciti la faccia, Pendula" ordinò Tungata a Sally-Anne, e lei esegui spalmandosi di guano. "Anche le mani. E adesso copriti i capelli." Tirò fuori dalla tasca della tuta del sergente una bustina e gliela fece indossare. "Venite via." Tungata prese la borsa di tela dei diamanti e si avviò verso il nido di mitragliatrice conquistato. Infilò la borsa in uno zaino di cui vuotò il contenuto a terra, lo chiuse e se lo mise in spalla. Intanto Clay ispezionava il resto dell'equipaggiamento. Passò due bombe a mano a Tungata e due le tenne per sé. Una pistola Tokarev per Sarah e un fucile Uzi a Sally-Anne. Per lui c'era un kalashnikov con cinque caricatori pieni. Tungata si tenne il secondo ]Uzi. Clay aggiunse al proprio carico una borraccia piena d'acqua. Apri una razione d'emergenza e si divisero la grossa tavoletta di cioccolato che conteneva, trangugiandola prima di avviarsi. Era cosi buono che a Clay venne da piangere. "Io starò in testa" disse Tungata a bocca piena. "Tenendo-ci al riparo, cercheremo di raggiungere il fondovalle." Scesero dalla collina per la via più ripida, confidando che lungo il pendio sorvegliato dal nido di mitragliatrice appena conquistato da loro non vi fossero altre postazioni di soldati shona. Erano appena più su dell'inizio degli alberi, quando udirono l'elicottero. Stava risalendo la vallata. Era ancora dietro l'angolo della collina, ma si avvicinava in fretta. "A terra!" gridò Clay, spingendo giù Sally-Anne con una manata tra le scapole. Il sibilo del rotore mutò: l'elicottero era fermo, proprio dietro il fianco della collina. "Sta atterrando" disse Sally-Anne. In quella il rumore cessò. "Toh, avete visto?" Nel silenzio, lontano, si udirono urlare degli ordini. "Paffo, vieni quassù" gliordinò Tungata. "Voialtre due restate dove siete." Clay e Tungata salirono verso il crinale della collina e con
la massima cautela si affacciarono di là. Sotto di loro, a circa cinquecento metri, si apriva una piccola radura pianeggiante in mezzo agli alberi della foresta. L'erba era tutta pestata, e da una parte gli shona avevano piazzato un tendone per riparare alcune sedie e un tavolo dal sole. Nel mezzo della radura era atterrato l'elicottero, da cui proprio ora stava scendendo il pilota. Tra gli alberi vicino al tendone si affollavano i soldati della Terza Brigata: seduti al tavolo all'ombra distinsero tre o quattro altre persone in uniforme. "Il comando operativo" disse pianissimo Clay. "E la vallata da cui siamo arrivati. La caverna degli stregoni è lì, non ti ricordi?" "Hai ragione." Dapprima Clay non aveva riconosciuto il posto, dall'alto. "Sembra che stiano per andarsene" disse Tungata indicando-gli un punto tra gli alberi. Un plotone di soldati in tuta mimetica stava scendendo a valle in fila indiana. "Probabilmente, dopo aver minato la galleria, hanno aspettato quarantotto ore circa, e adesso ci danno per morti e sepolti. "Quanti sono?" chiese Tungata. "Io ne vedo almeno una ventina, senza contare quelli sotto il tendone" disse Clay aguzzando lo sguardo. Tungata si ritirò dalla cresta e fece segno a Sally-Anne di raggiungerli. Poi le indicò l'elicottero. "Che roba è?" le domandò. "Un Super Frelon" rispose lei senza esitare. "Sapresti pilotarlo?" "So pilotare tutto, io." "Cribbio, non far la sbruffona, Sally-Anne" ringhiò irritato Clay. "Hai mai volato su un aggeggio simile?" "Mai sul Super Frelon, però ho cinquecento ore di volo in elicottero." "Quanto tempo ti ci vorrà per avviarlo e decollare, una volta davanti alla cloche?" Adesso esitò. "Due o tre minuti." "Troppo tempo" disse Clay scuotendo la testa. "E se attiriamo i soldati lontano dalla radura, mentre Pendula decolla?" chiese Tungata. "Allora potremmo farcela" rispose Clay. "Dunque, faremo così" decise Tungata in fretta. "Io andrò all'imbocco della valle, tu e le ragazze scenderete alla radura, chiaro?" Clay annuì. "Tra quarantacinque minuti esatti" disse Tungata controllando l'orologio "cioè alle nove e trenta precise, comincerò a tirare bombe e sparare raffiche di mitra. Questo dovrebbe allontanare gran parte degli shona dalla radura. Appena comincia il baccano, voi andate all'elicottero. Quando lo sentirò partire, mi getterò giù per la discesa, là" indicò un prato sotto uno sperone di roccia "dove dovrei arrivare molto prima degli shona. Là voi mi isserete a bordo." "Facciamo così" convenne Clay. Passò a Tungata l'AK 47 coi cinque caricatori. "Io terrò l'Uzi e una bomba a mano." Prese il fucile automatico da Tungata e gli diede il mitra. "Prendi tu anche i diamanti" disse Tungata passandogli lo zainetto. Clay se lo mise in spalla. "Ci vediamo" lo salutò Clay, dandogli una pacca sulla spalla, e Tungata si avviò verso la discesa. Clay guidò le due ragazze giù per il dorso della collina, al riparo degli arbusti spinosi e delle rocce sparse. Fu un sollievo raggiungere la quota degli alberi e scoprire una forra che lambiva il ciglio della radura da una parte. Vi si nascosero e si avvicinarono strisciando allo spiazzo. Ogni venti metri Clay si sporgeva con la massima cautela dal bordo della forra e guardava quanto si erano avvicinati.
"Questo è il punto più vicino possibile all'elicottero" sussurò, e le ragazze si sdraiarono a riposare sotto l'orlo della forra. Clay si tolse il pesante zaino e sollevò il capo per dare un'altra occhiata alla radura. L'elicottero era fermo allo scoperto, a centocinquanta passi di distanza. Il pilota era seduto all'ombra della fusoliera, accanto ai pattini. Il Super Frelon era una macchina enorme, dal muso rincagnato, verniciata di verde marcio. Clay tornò a sdraiarsi vicino a Sally-Anne. "Che autonomia può avere?" le chiese in un sussurro. "Non lo so di preciso" glirispose Sally-Anne altrettanto piano. "Ma col pieno direi un migliaio di chilometri." "Speriamo che abbia i serbatoi pieni, allora." Clay diede un'occhiata al Rolex. "Dieci minuti ancora." Prese di tasca il cioccolato e ne distribuì un'altra razione alle ragazze. Per il sudore, Sally-Anne aveva perso quasi tutto il nero che si era spalmata sulla faccia. Clay provvide a rinfrescarle il make-up con un po' d'acqua della borraccia mista a terriccio. Lo stesso fece Sally-Anne con lui. "Due minuti" disse Clay ricontrollando l'ora e affacciandosi dalla trincea naturale. Il pilota si alzò, si stirò, e risalì sull'elicottero. "Succede qualcosa" mormorò Clay. L'elicottero gli nascondeva in parte la vista del tendone dall'altra parte della radura, ma si accorse che anche là regnava una certa attività. Un gruppetto di persone lasciò il tendone. Le guardie scattarono nei saluti con grande efficienza e stile militare, e a un tratto il rotore dell'elicottero girò e il motorino d'avviamento ronzò rumorosamente. Del fumo azzurrino uscì dal tubo di scappamento e, con un rombo, il motore del Super Frelon si mise in moto. Un paio di ufficiali si staccarono dal gruppetto davanti al tendone e si avviarono attraverso la radura diretti all'elicottero. "Siamo nei guai" brontolò amaro Clay. "Se ne vanno." Poi sobbalzò. "Ma è Peter Fungabera!" Aveva il basco rosso della Terza Brigata, col leopardo d'argento, le decorazioni sul petto e il solito frustino sottobraccio: al collo della tuta mimetica un elegante foulard. Mentre camminava, era intento a un'animata discussione con un uomo alto e piuttosto anziano che Clay non aveva mai visto. L'uomo bianco indossava una semplice sahariana kaki. Era a capo scoperto, pelato, con la crapa di un bianco particolarmente rivoltante. Portava una borsa di pelle, rigida, attaccata al polso da una catenella. Piegava la testa dalla parte di Fungabera per seguirne l'animato discorso, mentre andavano verso l'elicottero in attesa. A metà strada tra il tendone e l'elicottero, i due si fermarono e si misero a discutere gesticolando. Soprattutto l'uomo bianco faceva recisi cenni con la mano libera. Era abbastanza vicino perché Clay potesse notare l'azzurro pallidissimo degli occhi, che gli conferivano l'espressione cieca di un busto di marmo. La pelle era butterata di antiche cicatrici, e tuttavia, dei due, era con tutta evidenza la personalità dominante. Le sue maniere erano brusche, quasi sprezzanti, come se ora giudicasse Peter Fungabera un essere superfluo e indegno di ulteriori attenzioni. Peter Fungabera, dal canto suo, aveva l'aria sbattuta del sopravvissuto a una catastrofe aerea. Appariva confuso. Alzava la voce, e Clay ne colse la nota implorante, se non le parole. Non era più l'uomo che aveva conosciuto un tempo. L'uomo bianco fece un ultimo gesto di fastidio e, lasciando Peter Fungabera dove si trovava, tornò ad avviarsi verso l'elicottero. In quel momento vi fu la rumorosa esplosione di una granata e i due uomini si girarono contemporaneamente in direzione del rumore. Si sentì poi una raffica di AK 47, proveniente dalla stessa vallet-
ta soprastante, e un coro di ordini urlati animò all'improvviso la radura. I soldati si riunirono su un lato dello spiazzo e si avviarono in fila per due verso la valletta da cui erano provenuti i colpi. Un'altra raffica di fucile mitragliatore. L'attenzione di tutti era puntata in quella direzione. In fretta, Clay si infilò sulle spalle lo zaino dei diamanti. "Venite con me!" ordinò seccamente alle ragazze. "Sapete quello che dobbiamo fare." I tre uscirono dalla forra e si avviarono per la radura. "Niente fretta" le mise in guardia Clay. Si mantennero in gruppo compatto, dirigendosi rapidamente ma con ordine allo scoperto, verso Fungabera e il suo compare. Clay prese la bomba a mano che aveva in tasca e coi denti staccò la linguetta. La passò nella mano sinistra. Con la destra teneva il fucile automatico Uzi col selettore già sulla posizione di fuoco rapido. Erano a cinque passi di distanza, quando Peter Fungabera si guardò attorno e, a bocca aperta, riconobbe Clay anche sotto la maschera di fango. "A questa distanza sono capace di tagliarti in due" l'avvertì Clay puntandogli il fucile nella pancia. "Questa bomba è innescata, se la butto si va all'inferno." Doveva gridare per farsi sentire vicino all'elicottero col motore acceso. L'uomo bianco si girò a guardarlo in faccia. I suoi scialbi occhi artici erano furiosi. "Pensate al pilota" ordinò Clay alle ragazze che corsero al portello della fusoliera. "Voi camminate verso l'elicottero" ordinò ai due uomini. "Non correte, non gridate." Clay li seguiva a tre passi di distanza. Prima che raggiungessero l'elicottero, il pilota comparve nel portello, con le mani dietro la nuca, seguito da Sarah con la Tokarev puntata. "Fuori!" ordinò Clay, e, con evidente sollievo, il pilota saltò a terra. "Di'agli altri che abbiamo in mano il generale Fungabera-" ordinò Clay. "Qualsiasi iniziativa lo metterà in pericolo di morte. Hai capito bene?" "Sì" rispose il pilota. "Adesso va' verso il tendone. Cammina piano. Non correre e non gridare." Il pilota si avviò tutto contento, ma, appena giudicò di essersi allontanato abbastanza, si mise a trottare. "Salite sull'elicottero!" Clay indicò il portello con l'Uzi, ma Peter Fungabera lo guardò affondando minacciosamente la testa tra le spalle larghe. "Non farlo" consigliò Clay arretrando di un passo. Fungabera appariva disperato e capace di tutto. "Muoviti!" ordinò Clay. "Sali sulla scaletta!" Peter Fungabera caricò. Era come se cercasse la morte deliberatamente: corse dritto verso la canna del fucile. Tuttavia Clay era pronto a riceverlo. Alzò l'arma e l'abbatté col calcio contro la guancia di Fungabera, con tale forza che scagliò il generale per terra, in ginocchio. Mentre Fungabera cadeva, Clay aveva già puntato il fucile contro l'altro uomo, il bianco, anticipando qualunque possibile mossa da parte sua. "Aiutalo a salire sull'elicottero" gliordinò. Benché fosse impacciato dalla borsa legata al polso, la minaccia dell'Uzi lo convinse, ed egli si chinò su Peter Fungabera, rialzandolo in piedi. Ancora stordito dal colpo, Peter vacillava aggrappato all'uomo bianco, farfugliando. "Ormai non ha più importanza, è tutto finito." "Sta' zitto, stupido!" glisibilò in faccia l'uomo bianco. "Fallo salire sull'elicottero" disse Clay piantandogli la canna del fucile nelle reni. La strana coppia si avviò abbracciata, un po' svogliatamente, sulla scaletta.
"Tienli sotto tiro con la pistola, Sarah" gridò Clay guardandosi alle spalle. Il pilota aveva quasi attraversato la radura. "Sbrigatevi!" sibilò Clay ai due. Il bianco spinse a bordo Fungabera e salì subito dopo di lui, con la borsa nera che gli oscillava appesa al polso. Clay salì a bordo a propria volta. "Mettetevi laggiù!" ordinò ai due prigionieri indicandogli la panca della truppa. "Allacciatevi le cinture!" Poi a Sarah: "Di'a Sally-Anne di decollare subito." L'elicottero si alzò rapido dalla radura, e Clay lanciò dal portello la bomba a mano. Esplose molto più sotto, nella foresta. Sperò che aumentasse la confusione. Clay si avvicinò a Fungabera con l'Uzi puntato sotto il suo mento, e con l'altra mano lo disarmò della pistola Tokarev nella fondina. Se la mise in tasca, poi fece due passi indietro e, accanto al portello, si imbragò nelle cinghie di sicurezza e si sporse a guardare giù. Quasi subito scorse Tungata. Era già fuori degli alberi, sotto lo sperone roccioso, che sventolava le braccia sopra la testa brandendo il kalashnikov. "Attenzione! Comincio a scendere!" si udì la voce di Sally-Anne dall'interfòno a due sensi, dalla cabina di pilotaggio alla fusoliera e viceversa. Il grande elicottero calò rapido verso il luogo dove aspettava Tungata, e Sally-Anne lo arrestò librato sopra la sua testa. Tutt'attorno a Tungata l'erba era piegata dal vento del rotore, e la tela della tuta mimetica gli sbatteva addosso da tutte le parti. Gettò via il mitra e guardò in su verso Clay. L'elicottero si abbassò ancora un po' e Clay si sporse dal portello, assicurato alle cinghie, porgendogli il braccio. Tungata saltò, le braccia si serrarono nell'incavo dei gomiti e Clay trasse l'amico a bordo. "Fatto!" gridò nell'interfono. "Battiamocela!" L'elicottero prese quota così in fretta che a Clay tremarono le ginocchia. A trecento metri circa di quota Sally-Anne virò e puntò decisamente a ovest. Poi raddrizzò il velivolo e proseguì su quella rotta. Tungata si voltò verso i due individui sulla panca della truppa e sobbalzò. Guardò ferocemente Peter Fungabera, accasciato e come spento sul sedile; sorretto, pareva, solo dalla cintura di sicurezza. "Dove l'hai trovato, Paffo?" gli chiese tutto contento Tungata. "E un regalino per te, Sam." Clay gli passò il fucile automatico Uzi. "E carico e col colpo in canna. Posso affidarti queste due bellezze?" "Col più gran piacere" disse Tungata puntando il fucile sui due uomini seduti a fianco a fianco, agganciati alla cintura, sul sedile lungo la fiancata. "Vado a vedere come se la cava Pendula" disse Clay accennando a girarsi, ma qualcosa nell'atteggiamento dell'uomo bianco lo mise in sospetto e tornò subito a guardare da quella parte. Nella confusione, il bianco aveva slacciato la catenella e proprio in quell'attimo lanciava la borsa in direzione del portello aperto sul vuoto. Istintivamente, di riflesso, Clay si tuffò come un portiere e deviò la borsa con la mano. Rimbalzò contro la parete opposta della fusoliera e cadde sul pavimento dell'elicottero. Clay fu prontissimo ad afferrarla. "Chissà che cose interessanti ci saranno dentro" osservò tranquillamente, rialzandosi. "Sorveglialo bene, Sam, questo mi sembra piuttosto scaltro" consigliò. Con la borsa stretta al petto Clay si avviò verso la cabina di pilotaggio, che era sopraelevata. Si sedette al posto del secondo pilota, vicino a Sally-Anne, sfilandosi lo zaino dei diamanti e assicurandolo strettamente al sedile. "Allora sei davvero capace di far volare quest'aggeggio, uccellino mio!" Gli sorrise, coi denti candidi in mezzo alla faccia nera nera. "Sto andando dove abbiamo lasciato la Land Rover." "Buona idea. Basterà la benzina?"
"Un serbatoio è pieno e l'altro quasi. Direi che ci si arriva comodi." Clay si piazzò la borsa sulle ginocchia ed esaminò le chiusure. Erano del tipo a combinazione. "Quanto dista il confine? "A centosettanta nodi, meno di due ore. Meglio che farla a piedi, ti pare? "Be', sì, parola mia!" ridacchiò Clay strizzandole l'occhio. Col coltello fece saltare le chiusure e aprì la borsa. Sopra c'erano due camicie di ricambio e un po' di calze appallottolate, una mezza bottiglia di vodka russa e un portadocumenti spiegazzato con dentro quattro passaporti, uno svedese, uno finlandese, uno della RDT e uno dell'uRss, e dei biglietti aerei dell'Aeroflot. "Ecco un gentleman che viaggia ben fornito" disse Clay stappando la vodka e bevendone un sorso. "Brr!" esclamò. "Questa sì che è originale!" Passò la bottiglia a Sally-Anne e alzò il divisorio. Sotto c'erano tre cartellette verdi con l'intestazione in cirillico e stampigliature di falce e martello in nero. "Ritengo che quell'uomo sia un bolscevico" si sbilanciò Clay. Aprì una delle cartelline e cominciò a leggere con gli occhi sbarrati. "E in inglese!" esclamò. Lesse la prima pagina immergendosi gradualmente nel contenuto. Non rispose nemmeno a Sally-Anne, quando gli domandò di che si trattava. Lesse tutte e tre le pratiche. Venticinque minuti dopo alzò gli occhi con espressione divertita, e lo sguardo perduto all'orizzonte. "E incredibile! disse scuotendo la testa. "Erano così sicuri di se stessi che l'hanno anche scritto in inglese per comodità di Peter Fungabera! Nessun tentativo di confondere le idee! Non si sono nemmeno presi la briga di usare pseudonimi! "Cos'è?" chiese Sally-Anne dandogli un'occhiata di traverso. "E una cosa pazzesca!" Bevve un altro sorso di vodka. "Sam deve leggere subito 'sta roba!" Si alzò e, barcollando per gli scossoni dell'elicottero, ridiscese nella carlinga e si avvicinò a Tungata. Tungata e Sarah sedevano di fronte ai due prigionieri. Tungata si era servito delle altre cinture di sicurezza per legargli i polsi e le caviglie. Peter Fungabera sembrava un po' meno cane bastonato di prima. Lui e Tungata si fissavano insultandosi come i mortali nemici che erano. "Calma?" disse Clay sedendosi sulla panca vicino a Tungata. "Leggi un po' cosa c'è scritto qui!" Mise la borsa del russo sul grembo di Tungata. "Dammi il fucile" aggiunse, prendendoglielo. Lo puntò nella pancia di Bucharin. "Piacere di conoscerla, colonnello?" disse in tono mondano. "Non sente la mancanza dell'inverno moscovita? No, eh?" "Nella mia qualità di membro anziano della diplomazia sovietica..." "Sì, sì, colonnello, ho letto il suo biglietto da visita" l'interruppe Clay accennando al dossier. "Invece io sono un desperado capacissimo di farle tanto male, se non se ne sta zitto e buono." Poi si rivolse a Peter Fungabera. "Spero che avrai tenuto bene King's linn, ricordandoti sempre di pulirti i piedi e tutto..." "Mi sei scappato una volta, Mellow" disse Peter Fungabera. "Ma io non ripeto gli errori." E, nonostante avesse il fucile in mano e l'altro fosse legato come una capra condotta al sacrificio, Clay si sentì scorrere un brivido lungo la spina dorsale, e non riuscì a sostenere lo sguardo carico d'odio che Peter Fungabera gli stava rivolgendo. Guardò Tungata, al suo fianco. Stava scorrendo in fretta i dossier nelle cartelline verdi, con l'espressione che variava dall'incredulità all'ira. "Sai cos'è tutto ciò, Paffo?" "Certo, il piano di una sanguinosa rivoluzione" annuì Clay. "scritto in buon inglese a beneficio di Peter Fungabera." "Hanno scritto tutto... hanno pensato a tutto. Guarda qua:
c'è la lista di quelli che dovranno essere fucilati, nomi e cognomi, e di quelli che probabilmente collaboreranno. Hanno già preparato perfino l'annuncio del colpo di Stato da dare per radio e televisione!" "Guarda un po' a pagina venticinque" glisuggerì Clay. Tungata ci arrivò. "Ah, io..." continuò a leggere. "In clinica in Europa. Lavaggio del cervello. Ridurre i matabele in schiavitù perpetua..." "Sì, Sam, era il perno attorno a cui ruotava l'intera operazione. Quando Fungabera ti ha perduto, nella caverna, e ha fatto saltare la galleria, ha ammesso la propria sconfitta. Guardalo adesso!" Ma già Tungata non lo ascoltava più. Aveva sbattuto da parte la borsa dei documenti e si era messo di fronte a Fungabera, con la faccia a pochi centimetri dalla sua. Col mento prominente e gli occhi fiammeggianti lo guardava infuriato e tremante di collera. "Volevi vendere questa terra e tutti i popoli che nutre allo straniero, una potenza imperialista che in breve avrebbe ridicolizzato nel ricordo le atrocità del regime di Smith! Volevi condannare anche la tua tribù, la mia, e tutte le altre... Follia.,," Nella sua ira, Tungata stava diventando incoerente. "Un cane rabbioso, un pazzo assatanato dal votere..." All'improvviso, involontariamente, ruggì dando sfogo alla sua rabbia compressa. Afferrò Fungabera, legato come un salame, con una mano, e con l'altra gli slacciò la cintura di sicurezza. Lo sollevò come un fuscello, anche se non era certo un ometto, e, con la forza di un bufalo, lo sventolò fuori del portello, tenendolo per i legacci. "Un cane rabbioso!" digrignò. Prima che Clay potesse intervenire, lo stava scrollando nel vuoto, mentre le rocciose colline d'Africa sfilavano trecento metri più in basso, con le cime aguzze come denti di uno squalo mangiauomini. Fungabera, arrovesciato all'indietro, penzolante, lo guardava terrorizzato. "Aspetta, Sam!" gligridò Clay. "Muori, assassino e traditore!" ruggì Tungata in faccia a Fungabera. Clay non aveva mai visto un terrore come quello che lampeggiava negli occhi neri di Fungabera. Aveva la bocca aperta, e il vento gli portava via la bava dalle labbra in rivoli d'argento. Ma nessun suono gli usciva dalla strozza. "Aspetta, Sam" urlava Clay. "Non ammazzarlo. E l'unico che ti può scagionare, che può scagionare tutti. Se lo uccidi, non potrai più tornare nello Zimbabwe..." Tungata si voltò di lato e guardò Clay. "E la nostra unica possibilità di giustificarci!" Il rosso sangue dell'ira cominciò a svanire dagli occhi di Tungata, mentre i muscoli tesi nello sforzo di trattenere il corpo di Fungabera contro il vento relativo gli gonfiavano le maniche della tuta. "Aiutami!" glidisse, e subito Clay si assicurò all'imbracatura e, steso a pancia in giù sul pavimento dell'elicottero, afferrò per i legami delle caviglie Fungabera. In due lo tirarono dentro. Era così terrorizzato che non riusciva a reggersi in piedi. Tungata lo scagliò in fondo alla carlinga, dove andò a sbatter la testa accasciandosi rannicchiato in posizione fetale, piangiucchiando. Clay salì stancamente in cabina di pilotaggio e sedette accanto a "Sally-Anne. "Cosa diavolo succede?" gli domandò. "Niente di grave. Per un pelo sono riuscito a convincere Sam a non ammazzare Peter Fungabera." "E perché?" gli chiese Sally-Anne. "Piacerebbe anche a me tirargli un colpo in testa." "Tesoro, ce la fai a metterti in contatto radio con l'ambasciata americana ad Harare?" Ci pensò un momento. "Non da questo velivolo." "Da' il numero del Cessna. Scommetto quello che vuoi che Fungabera non ha denunciato il sinistro."
"Dovrò passare attraverso Johannesburg, è l'unica stazione dotata di sufficiente potenza." "Non mi interessa come fai, cerca di far venire al microfono Morgan Oxford." La torre di controllo di Johannesburg rispose subito alla chiamata di Sally-Anne e accettò senza sospetti il numero di identificazione. "Diteci la vostra posizione, Kilo Yankee Alpha." "Botswana settentrionale.,," Sally-Anne anticipò la rotta di un' ora "in volo da Francistown a Maun." "Con che numero di Harare volete collegarvi?" "Con la linea diretta dell'addetto culturale americano Morgan Oxford. Mi spiace, ma ignoro il numero dell'ambasciata." "Resti in linea." In meno di un minuto, Morgan Oxford parlo alla radio. "Qui Oxford, chi parla?" Sally-Anne passò il microfono a Clay, che lo portò alle labbra schiacciando il bottone della trasmissione. "Morgan, sono Clay, Clay Mellow." "Porca merda!" berciò Morgan, stridulo. "Dove diavolo sei? Qui è scoppiato un casino dell'altro mondo. Dove si trova Sally-Anne?" "Morgan, apri le orecchie, è una cosa molto seria. Ti piacerebbe interrogare un colonnello del servizio segreto russo, con tanto di piani d'aggressione sovietica alla metà meridionale del continente africano?" Non si udì nient'altro che scariche elettrostatiche per qualche secondo, poi Morgan disse: "Aspetta dieci secondi." L'attesa parve parecchio più lunga. Quindi Morgan tornò in linea. "Non dire neanche una parola di più. Solo una località per incontrarci." "Ecco le coordinate..." Sally-Anne gliele scrisse in fretta su un pezzo di carta. "C'è una pista d'atterraggio d'emergenza. Accenderemo un fuoco di segnalazione. Quanto vi ci vuole per arrivarci?" "Aspetta dieci secondi." Stavolta si dimostrarono più brevi. "Domattina all'alba." "Bene" disse Clay. "Vi aspettiamo." "Passo e chiudo." Ripassò il microfono a Sally-Anne. "Tra quarantatré minuti attraversiamo il confine" l'informO la ragazza. "Mi piaci di più con la faccia infangata. Comincio a pensare che ti doni." "E tu, bellezza, sembri la prossima copertina di Vogue!" Sally-Anne si soffiò via i capelli dal naso e gli mostrò la lingua.
Attraversarono il confine tra lo Zimbabwe e il Botswana settentrionale e diciassette minuti dopo videro la Land Rover noleggiata ferma sull'orlo della vasta distesa salina bianca. "Mio Dio, gli amici di Sarah sono ancora lì! Questa sì che è costanza!" " Anche Clay scorse le due figurine nere in piedi accanto al veicolo. "Meglio avvertirli, se no quando vedono le insegne dell'elicottero cominciano a sparare." L'elicottero era fornito di un dispositivo per parlare dal cielo: all'altoparlante si mise Sarah, che in breve tranquillizzò i suoi compagni. Clay li vide abbassare i mitra, mentre il Super Frelon calava. Distinse i volti felici dei due giovani matabele che guardavano in su. Quella mattina, Jonas aveva ammazzato un grosso volatile, cosìa sera ci fu un banchetto festoso. Poi a turno fecero la guardia ai prigionieri. Alle primissime luci dell'alba sentirono ronzare un aereo. Clay andò ad accendere i fuochi di segnalazione. Si presentò da sud un enorme aereo da carico Lockheed con le insegne dell'aviazione mili-
tare americana. Sally-Anne lo riconobbe subito: "E l'aereo della NASA che sta a Johannesburg per controllare il programma dei voli spaziali" disse. "Per la miseria, ci prendono proprio sul serio" mormorò Clay mentre l'aereo si abbassava. "Decolla e atterra nello spazio di due metri" esagerò Sally-Anne. "Guardate un po'." Infatti il gigantesco aeroplano si fermò nello stesso tratto che occorreva al Cessna. Il naso si aprì come il becco d'un pellicano e cinque uomini scesero dalla rampa dietro a Morgan Oxford. "Come sardine dalla scatola" osservò Clay, mentre gli andavano incontro. I visitatori indossavano abiti adatti al clima tropicale, ma con camicia e cravatta, e si muovevano tutti con l'equilibrio e la coordinazione di atleti. "Sally-Anne, Clay" li salutò sbrigativo Morgan Oxford. Poi si rivolse a Tungata. "Naturalmente io la conosco già, signor ministro, Ecco qua i miei colleghi." Non li presentò, ma proseguì senza indugio. "Si tratta di costoro?" I due giovani matabele spinsero avanti i prigionieri con la canna del fucile. "Per mille bombe!" esclamò Morgan Oxford. "Ma questo è il generale Fungabera! Clay, sei diventato matto?" "Leggi un po' qua" invitò Clay porgendogli la borsa diplomatica. "E poi dimmi." "Aspettate qui, per favore" disse Morgan prendendola in mano. Jonas e Aaron spinsero i prigionieri verso l'aereo, dove sarebbero stati presi in consegna dagli americani. Peter Fungabera era ancora legato con le cinghie di nailon in dotazione all'elicottero. Sembrava che fosse rimpicciolito: non era più una figura imponente come prima. Il peso della sconfitta l'aveva schiacciato. Aveva la pelle grigiastra e non alzò gli occhi quando passò davanti a Tungata Zebiwe. Fu lui a sollevargli il mento per guardarlo negli occhi. Per diversi secondi lo fisso, poi con disprezzo lo spinse via, sicché Peter barcollò e sarebbe caduto per terra se un americano non l'avesse sorretto. "In ogni prepotente e in ogni tiranno si nasconde un codardo" tuonò Tungata con voce profonda. "Hai fatto bene a impedirmi di ucciderlo, Paffo, un volo giù dal cielo è troppa grazia per gente simile. Ora va a una sorte più giusta. Toglietemelo dai piedi, che mi fa schifo." Peter Fungabera e il russo furono condotti nell'aeroplano, mentre Clay e la sua compagnia si mettevano ad aspettare. Fu un'attesa lunga. Seduti all'ombra della Land Rover, chiacchierarono oziosamente, interrompendosi a tratti quando sentivano scaracchiare la radio dell'aereo americano. "Parlano con Washington via satellite" indovinò Clay. Dopo le dieci, Morgan scese di nuovo dall'aereo accompagnato da uno dei suoi colleghi. "Vi presento il colonnello Smith" disse, e dal tono tutti capirono che non bisognava prenderlo sul serio. Chissà come si chiamava quell'agente della cIA. "Abbiamo valutato la merce che ci avete consegnato e almeno per ora pensiamo si tratti di roba genuina." "Ma come siete buoni!" ringraziò Clay. "Ministro Tungata Zebiwe, le saremmo molto grati se potesse farci risparmiare un sacco di tempo prezioso. Ci sono a Washington persone molto ansiose di parlarle. Tali colloqui saranno di reciproca utilità, glielo garantisco." "Gradirei che questa signorina venisse con me" disse Tungata indicando Sarah. "Ma certo." Morgan si rivolse a Clay e Sally-Anne. "Nel vostro caso non è un invito, ma un ordine. Venite con noi." "E l'elicottero? E la Land Rover?" domandò Clay. "Non ti preoccupare, penseremo noi a restituirli ai legittimi
proprietari."
Tre settimane dopo, al palazzo dell'oNu, un dossier fu consegnato al capodelegazione dello Zimbabwe. Conteneva gli estratti degli accordi e dei piani racchiusi nelle cartelline verdi, e la trascrizione della confessione resa dal generale Fungabera a persone non identificate. I documenti furono inoltrati ad Harare e subito il governo dello Zimbabwe chiese l'estradizione di Peter Fungabera. Due ispettori anziani della polizia segreta dello Zimbabwe andarono a prenderlo all'aeroporto di New York. Quando il volo Pan Am atterrò ad Harare, il generale Fungabera scese dalla scaletta della prima classe del Boeing ammanettato a uno degli ispettori. In fondo alla pista l'aspettava un cellulare. I giornali non diedero notizia del suo arrivo. Fu condotto direttamente alla prigione di Harare, dove sedici giorni dopo morì in cella di sicurezza durante un interrogatorio. Quando il suo corpo fu condotto fuori della prigione dall'uscita di servizio, aveva la faccia irriconoscibile. La stessa sera, poco dopo mezzanotte, una Mercedes nera ministeriale uscì di strada su una via solitaria appena fuori città e bruciò. A bordo c'era un solo passeggero. Lo identificò il dentista: era il generale Peter Fungabera. Cinque giorni dopo fu sepolto con tutti gli onori militari nel cimitero degli eroi della chimurenga, la guerra d'indipendenza, sulle colline che sovrastano Harare. Il giorno di Natale, alle dieci del mattino, il colonnello Bucharin fu rilasciato dalla polizia militare americana a Berlino, al fa-moso Checkpoint Charlie. In fretta si avviò verso i sovietici che l'aspettavano dall'altra parte della terra di nessuno. Sulla sahariana Bucharin indossava un cappotto militare americano e un mefisto di lana sulla zucca pelata. A metà strada incrociò un tipo di mezza età che proveniva dalla direzione opposta. Anche lui malvestito e col viso pallido di chi è stato parecchio in galera. I due si guardarono senza curiosità. "Una vita per una vita" pensò Bucharin, e all'improvviso si sentì molto stanco. Ormai vicino al settore orientale, camminava col passo di un vecchio sull'asfalto gelato. Dietro la casermetta del posto di frontiera l'aspettava una berlina scura. Sul sedile posteriore c'erano due uomini, uno dei quali scese incontro a Bucharin. Indossava un lungo impermeabile civile e un cappello a larga tesa, di quelli prediletti dal KGB. "Bucharin?" domandò. Il tono era indifferente, ma gli occhi erano gelidi e spietati. Quando Bucharin annuì, gli fece un secco cenno del capo. Bucharin salì in macchina e l'uomo lo seguì sbattendo la portiera. L'interno era surriscaldato e puzzava d'aglio e vodka trasudata da pori non lavati. La berlina partì e Bucharin si appoggiò allo schienale chiudendo gli occhi. "Sarà dura" pensò. Forse anche più di quanto prevedeva.
Henry Pickering invitò a cena tutta la compagnia nella sala da pranzo riservata della World Bank che dava su Central Park. Sarah e Sally-Anne non si vedevano da cinque mesi, e si abbracciarono come sorelle. Poi andarono in un angolo del salone, scambiandosi notizie e ignorando tutti gli altri. Tungata e Clay furono meno espansivi. "Mi sento così colpevole, Paffo... cinque mesi! Troppo tempo!" "Ma io so che non è colpa tua" lo scusò Clay. "Anch'io del resto ho avuto un sacco da fare. L'ultima volta ci siamo visti a Washington,
mi pare..." "Quasi un mese di colloqui con il dipartimento di Stato americano" annuì Tungata. "E poi colloqui a New York, con il nostro ambasciatore e la World Bank. Ho tantissime cose da dirti, ma non so da che parte cominciare." "Perché non comincia dall'amnistia che ha strappato al governo dello Zimbabwe?" interloquì Henry Pickering. "Buona idea" ammise Tungata. "Sono stato scagionato dall'accusa di bracconaggio e riabilitato." "Ma Sam! Era il minimo!" "Be', sì, ma c'è dell'altro" sorrise Tungata stringendogli il braccio. "La confessione che hai firmato a Fungabera è stata dichiarata nulla perché resa in stato di costrizione. Il provvedimento che ti dichiarava nemico dello Stato e del popolo dello Zimbabwe è stato ritirato e la vendita delle azioni della Rholands a Peter Fungabera annullata. King's linn e Zambesi Waters tornano interamente di tua proprietà." Clay lo guardò a bocca aperta. "Il primo ministro in persona ha riconosciuto che, in occasione di tutti gli atti di violenza da noi commessi, abbiamo agito in stato di legittima difesa. Tutto amnistiato, dall'uccisione dei tuoi inseguitori della Terza Brigata, quando fuggisti in Botswana, al furto dell'elicottero Super Frelon. Amnistia totale." Clay scuoteva la testa incredulo. "Inoltre la Terza Brigata è stata ritirata dal Matabeleland. Dopo lo scioglimento, i soldati sono stati aggregati ad altre unità dell'esercito regolare. Il pogrom contro la mia gente è stato disdetto e osservatori neutrali sono stati lasciati affluire nelle aree tribali matabele per garantire il rispetto della pace." "Questa è la notizia migliore, Sam. "C'è ben altro. Ben altro" l'assicurò Tungata. "Mi hanno restituito la cittadinanza dello Zimbabwe e il passaporto. Mi consentono di tornare a casa! Con l'assicurazione che non ci saranno più controlli sulla mia attività politica. Il governo sta prendendo in "considerazione un referendum per garantire ai matabele qualche forma di autonomia federale: in cambio, io dovrò usare tutta la mia influenza per convincere i dissidenti alla macchia a consegnare le armi e tornare a casa con l'amnistia generale." "E quello che volevi fin dall'inizio. Congratulazioni, Sam. Te !le faccio di cuore." "Senza il tuo aiuto non ci sarei mai riuscito." Tungata si rivolse a Henry Pickering. "E adesso possiamo parlargli del Fuoco .di Lobengula?" "Aspetti un momento" disse Pickering prendendoli sotto braccio e conducendoli nell'altra sala dove li aspettava la tavola apparecchiata. "Prima cominciamo a mangiare." La sala da pranzo era rivestita di rovere chiaro, uno sfondo perfetto ai cinque grandi quadri di Remington che illustravano scene del vecchio West. La quarta parete era costituita da un'enorme finestra panoramica che si apriva sulla città e su Central Park. Le tende erano aperte. Da capotavola, Henry sorrise a Clay. "Bando all'avarizia" disse, passandogli la lista dei vini. "Wow! Il '61, nientemeno!" "Be', non capita tutti i giorni di avere a pranzo l'autore in testa alla lista dei bestseller." "E vero! Non è magnifico?" interloquì Sally-Anne. "Clay è balzato in cima alla classifica del New York Times fin dalla prima settimana di pubblicazione." "Hai già firmato il contratto per la riduzione televisiva?" gli chiese Tungata. "Non ancora" si schermì Clay. "Ma, secondo le mie informazioni, firmerà presto" disse Henry
riempiendo i bicchieri. "Signore e signori, vi propongo un brindisi: a Clay Mellow e al suo ultimo libro, che resti a lungo in testa alle classifiche!" Bevvero, ridendo contenti, e Clay protestò davanti al bicchiere intatto. "Andiamo! Andiamo! Fa' un brindisi che possa far bere anche me!" "Ecco qua!" alzò di nuovo il bicchiere Henry Pickering. "Brindo al Fuoco di Lobengula! Glielo dica pure, adesso!" "Se queste due donne la smettessero di ciarlare per dieci secondi..." "Non è vero!" protestò Sally-Anne. "Noi non ciarliamo mai, bensì discutiamo cose di grande attualità." Tungata le sorrise e proseguì: "Come sapete, Henry ha provveduto a far mettere in cassaforte e valutare i diamanti di Lobengula. Gli esperti di Harry Winston li hanno vagliati uno per uno e sono giunti a una stima approssimativa..." "Diccelo!" gridò Sally-Anne. "Dicci quanto valgono!" "Come sapete, attualmente il mercato dei diamanti è in grave ribasso. Pietre che due anni fa si vendevano a settantamila dollari oggi ne valgono solo ventimila..." "Dài, dài, Sam, non cincischiare!" "Non prenderci in giro!" "E va bene: Winston ha valutato i diamanti seicento milioni di dollari." Tutti si misero a parlare insieme e ci volle un bel po' prima che Tungata potesse proseguire. "Come abbiamo deciso fin dall'inizio, i diamanti saranno depositati in un fondo comune di cui propongo che Clay sia nominato curatore." "Accetto" dichiarò subito Clay. "Tuttavia sono già state vendute quattordici pietre. Ho autorizzato io la vendita e il ricavo è stato di cinque milioni di dollari. L'intero ammontare è stato versato alla World Bank estinguendo completamente il debito di Clay." Tungata estrasse dalla tasca della giacca una busta. "Ecco la ricevuta, Paffo, non hai più debiti. King's linn e Zambesi Waters ti appartengono." Clay stringeva la busta tra le dita, guardando Tungata senza saper che dire, mentre il sorriso dell'africano svaniva ed egli gli parlava seriamente: "In cambio, c'è una cosa che voglio chiederti, Paffo." , Chiedimela. Qualunque cosa!" "La promessa di tornare in Africa. Abbiamo bisogno di uomini come te per dissipare il nuovo Medioevo che incombe sulla terra che entrambi amiamo tanto." Clay sporse il braccio sulla tavola e prese la mano di Sally-Anne. "Diglielo tu." "Sì, Sam, torniamo a casa con te" glidisse piano. "E una promessa."
Sally-Anne e Clay affrontarono in Land Rover la salita che portava a King's linn. Era il tardo pomeriggio e l'erba era tutta d'oro. Gli alberi sulla cresta delle colline tessevano un delicato merletto sullo sfondo del cielo africano, alto e sereno nell'azzurro dell'estate. Sul prato sotto gli alberi di jacaranda li aspettavano tutti i servitori e i braccianti di King's linn. Quando Clay abbracciò Shaldrach, la manica vuota del vecchio gli sbatté contro il torace magro. "Non preoccuparti, Nkosi, lavorerò meglio io con un braccio vsolo che tutti questi poppanti con due." "Facciamo un cambio" suggerì Clay a voce alta, perché tutti sentissero. "Io ti presto un braccio se tu mi presti una gamba." "Shadrach rise fino alle lacrime, macchiandosi la camicia, e l'ultima moglie, giovanissima, dovette portarlo via. Joseph aspettava sulla grande veranda, appartato dagli altri che
considerava un branco di inferiori. Era abbigliato con un candido kanza nuovissimo e indossava il berretto da cuoco. "Ti vedo, Nkosikazi" disse salutando con gravità Sally-Anne, che saliva i gradini della veranda: ma il lampo di gioia nei suoi occhi era impossibile da celare. "Anch'io ti vedo, Joseph. E ho deciso che al nostro matrimonio ci saranno duecento invitati" glidisse in fluido sindebele. Joseph si coprì la bocca con le mani, sbalordito. Era la prima volta che Clay lo vedeva in imbarazzo. "Hau!" esclamò rusticamente. Poi si rivolse allo stuolo dei domestici. "Adesso a Kingi Lingi c'è una vera gran signora, che capirà tutte le vostre chiacchiere scimmiesche!" li ammonì severo. "Perciò guai a chi ruberà, mentirà o batterà la fiacca!" Clay e Sally-Anne si fermarono in cima ai gradini, tenendosi per mano, mentre la gente di King's linn cantava il tradizionale benvenuto al viaggiatore che torna a casa dopo un lungo e pericoloso viaggio. Quando la canzone finì, Clay guardò Sally-Anne. "Benvenuta a casa, amore mio!" E, mentre le donne ululavano e danzavano facendo sobbalzare come pupazzi le testoline nere dei bambini che portavano in spalla, e gli uomini manifestavano con gioia tutta la loro approvazione, Clay la baciò sulla bocca. Fine.