CLIVE CUSSLER & CRAIG DIRGO LA PIETRA SACRA (Sacred Stone, 2004) PERSONAGGI Juan Cabrillo: presidente della Corporation ...
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CLIVE CUSSLER & CRAIG DIRGO LA PIETRA SACRA (Sacred Stone, 2004) PERSONAGGI Juan Cabrillo: presidente della Corporation Max Hanley: direttore della Corporation Richard Truitt: vicedirettore della Corporation L'EQUIPAGGIO (OPERATIVI) (in ordine alfabetico) George Adams: pilota di elicotteri Rick Barrett: aiuto cuoco Monica Crabtree: coordinatrice rifornimenti e logistica Carl Gannon: operazioni generali Chuck «Tiny» Gunderson: primo pilota ali fisse Michael Halpert: finanza e contabilità Cliff Hornsby: operazioni generali Julia Huxley: ufficiale medico Pete Jones: operazioni generali Hali Kasim: operazioni generali Larry King: tiratore scelto Franklin Lincoln: operazioni generali Bob Meadows: operazioni generali Judy Michaels: pilota Mark Murphy: operazioni generali Kevin Nixon: specialista del Magic Shop Tracy Pilston: pilota Gunther Reinholt: tecnico della propulsione Tom Reyes: operazioni generali Linda Ross: sicurezza e vigilanza Eddie Seng: direttore delle operazioni a terra Eric Stone: operatore sala di controllo ALTRI
Langston Overholt IV: funzionario della CIA che ingaggia la Corporation Halifax Hickman: miliardario magnate dell'industria Chris Hunt: ufficiale dell'esercito americano ucciso in Afghanistan Michelle Hunt: madre di Chris Eric il Rosso: leggendario esploratore vichingo Emiro del Qatar: sovrano del Qatar John Ackerman: archeologo che scopre il meteorite in Groenlandia Clay Hughes: sicario assoldato per recuperare il meteorite Pieter Vanderwald: mercante di morte sudafricano Mike Neilsen: pilota assunto per trasportare Hughes al monte Forel Woody Campbell: ex Berretto verde, ora alcolizzato, che vive in Groenlandia e affitta a Cabrillo un gatto delle nevi Aleimein al-Khalifa: terrorista che progetta un attentato a Londra Scott Thompson: capo della squadra del Free Enterprise Thomas «TD» Dwyer: scienziato della CIA che scopre la pericolosità del meteorite Miko «Mike» Nasuki: astronomo della NOAA, National Oceanographic and Atmospheric Administration, che assiste Dwyer Saud al-Sheik: funzionario saudita per gli approvvigionamenti dello hajj James Bennett: pilota che trasporta il meteorite dalle isole Faroe in Gran Bretagna Nebile Lababiti: terrorista che organizza l'operazione di Londra Milos Coustas: capitano della Larissa, la nave che effettua la consegna della bomba in Inghilterra Billy Joe Shea: proprietario di una MG TC del 1947, presa in prestito da Cabrillo per inseguire la bomba Roger Lassiter: agente espulso dalla CIA, incaricato di consegnare il meteorite a Maidenhead Elton John: popolarissimo cantante e musicista Amad: giovane yemenita incaricato di portare la bomba a destinazione Derek Goodlin: proprietario di un bordello a Londra John Fleming: capo dell'MI5 Jack Berg: medico della CIA che costringe Thompson a parlare William Skutter: capitano dell'aeronautica che guida la squadra a Medina Patrick Colgan: sottufficiale dell'esercito a capo della squadra incari-
cata di recuperare i tappeti da preghiera a Riyadh PROLOGO Cinquantamila anni fa, e a milioni di chilometri dalla Terra, un pianeta palpitava convulsamente annunciando la propria distruzione. Il corpo celeste era antichissimo, ma il suo annientamento finale era predestinato: si trattava di una sfera instabile il cui campo magnetico subiva costanti inversioni di polarità. Sul pianeta, composto di roccia e magma e dotato di un nucleo metallico, nei miliardi di anni trascorsi dalla sua creazione e dal relativo raffreddamento si era formata un'atmosfera di argon, elio e una certa quantità di idrogeno e di ossigeno. Era comparsa la vita, una forma microbica elementare e primitiva, che consumava le molecole di ossigeno per moltiplicarsi, inibendo così lo sviluppo di organismi più complessi. In seguito, la superficie rocciosa del pianeta aveva preso a trasformarsi in una poltiglia via via più calda a ogni rivoluzione attorno al proprio sole, ciascuna volta più vicino alla fornace incandescente, in un moto che non assomigliava a quello della Terra attorno al proprio asse, bensì al progressivo rotolare di un barile, fenomeno dovuto alla variazione della polarità. La massa liquida si espandeva come la lava di un vulcano, e a ogni ora, ogni minuto, ogni secondo di esposizione il corpo celeste perdeva gradualmente la pelle, come se la mano di Dio ne avesse grattato la superficie con una spazzola di ferro. La forfora celeste che venne lanciata nell'atmosfera raggiunse il limite dell'involucro gassoso e fu resa incandescente dal sole, esplodendo con la forza di mille bombe atomiche. Risucchiati indietro verso il pianeta dalla forza di gravità, i frammenti ne lacerarono ulteriormente la fragile crosta sino a che essa si polverizzò. Al pianeta condannato a morte restava solo poco tempo da vivere. Con l'involucro protettivo perduto nello spazio, la temperatura interna continuò a salire e la sfera entrò in rotazione. Si allargarono enormi crepe e si crearono fratture che rilasciarono nello spazio blocchi sempre più consistenti di roccia fusa, mentre il nucleo metallico si ingrandiva a un ritmo incredibile. Poi, improvvisamente, successe. Una massiccia lastra di roccia sul lato prossimo al sole cedette. I poli si spostarono un'ultima volta e il pianeta prese a ruotare all'impazzata.
E infine esplose. Milioni di sfere metalliche schizzarono nello spazio, e le loro molecole si ricombinarono fondendo come una lega per saldature sotto una fiamma. Qualcuna, fortunata, riuscì a superare il campo gravitazionale del sole e intraprese infine il lungo viaggio verso i più profondi recessi dello spazio. Erano trascorse decine di migliaia di anni da quando il pianeta sconosciuto era esploso, disseminando i propri resti nell'universo. Da una distanza così grande i frammenti in avvicinamento sembravano azzurri. Molte schegge erano state risucchiate verso le superfici di altri corpi nello spazio, ma un blocco in particolare, diventato una sfera dalla forma perfetta, viaggiava più lontano di tutti, e finì per piovere su un pianeta chiamato Terra. La palla, ancora integra, entrò nell'atmosfera terrestre descrivendo una bassa traiettoria da ovest a est. Nella ionosfera si spaccò generando una massa più piccola di metallo puro. La meteora madre arrivò sui trentacinque gradi di latitudine, in un punto in cui il paesaggio era arido e senza vita. La meteora figlia, più leggera, fu trascinata a nord-ovest, verso una latitudine di sessantadue gradi, dove ogni cosa era ricoperta da uno strato di ghiaccio e neve. Due ambienti differenti del medesimo pianeta comportarono due risultati diversi. La madre, la cui struttura si era fusa dopo avere espulso la figlia, si ricompattò in una sfera luminosa: arrivata sopra una fascia costiera, compiendo una traiettoria sempre più bassa, attraversò come un lampo uno sterile deserto. Scoppiando in alto sopra la sabbia, le rocce e i cactus, il proiettile di nichel-ferro di cento metri di diametro e sessantatremila tonnellate si schiantò sulla Terra, scavando un cratere di oltre un chilometro e mezzo di diametro nel suolo arido. Nuvole di polvere schizzarono verso il cielo per poi avvolgere l'atmosfera; tutto quel materiale avrebbe impiegato mesi a ricadere, poco alla volta, sulla superficie terrestre. Il secondo corpo celeste era di un puro color grigio argento. Le conseguenze dell'esplosione iniziale e del ricombinamento molecolare durante il viaggio nello spazio avevano dato vita a una palla levigata che sembrava fatta di due identiche metà di cupole geodetiche unite. Nella sua prolungata corsa nei cieli del nostro pianeta, la superficie liscia della piccola meteora incontrò scarsa resistenza opposta dall'atmosfera terrestre e scivolò attraverso lo spazio tranquillamente, senza ombra della rabbia e della furia sprigionate dalla madre. Precipitava sempre più, come una palla da golf
con effetto top spin. Librandosi sopra la costa di un'isola incappucciata dal gelo, pareva che un magnete l'attirasse verso il suolo. Continuando a scendere fino a tre metri sopra il ghiaccio e la neve, e a mano a mano che la gravità la calamitava in basso, la meteora, del diametro di soli quarantacinque centimetri e del peso di una cinquantina di chili, perse velocità. La superficie di metallo surriscaldata fece disciogliere la neve e il ghiaccio, imprimendovi una scia simile a quella di una palla fatta rotolare da un bambino per costruire un pupazzo di neve. Esaurita la propria energia e dissipato il calore, la sfera si fermò ai piedi di una montagna ricoperta di ghiaccio. «Che opera degli inferi è mai questa?» chiese l'islandese, spostando un oggetto con il bastone. L'uomo era basso ma ben piazzato, gli strati di muscoli che indicavano anni di duro e faticoso lavoro. I capelli e la barba fitta che gli cresceva sulle guance erano di un rosso brillante come le fiamme dell'Ade. Pellicce bianche e ispide gli ricoprivano il torace, e i gambali di cuoio erano di pelle di foca foderati di lana di pecora. Incline ad accessi d'ira e, a onor del vero, non troppo dissimile da un barbaro, l'uomo era stato bandito dall'Islanda per omicidio nell'anno 982 e si era messo a capo di un gruppo di coloni, guidandolo al di là del mare gelato fino alle rive dell'isola coperta di ghiacci dove ora risiedeva. Nel corso dei successivi diciotto anni aveva creato un insediamento sulla costa rocciosa, e la sua colonia era sopravvissuta grazie alla caccia e alla pesca. Con il passare del tempo quel posto gli era venuto a noia e lui, Eric il Rosso, aveva provato il desiderio di esplorare, di guidare la sua gente e di conquistare nuove terre. Nell'anno 1000 dopo Cristo era salpato per scoprire che cosa si trovava all'interno, verso nord-ovest. Undici uomini lo accompagnavano all'inizio, ma dopo cinque mesi, all'arrivo della primavera, ne restavano solo cinque. Due erano scivolati nei crepacci che spaccavano il ghiaccio, e le loro grida giungevano ancora a Eric nel sonno. Uno era caduto sbattendo la testa contro una sporgenza rocciosa; per giorni si era contorto fra i tormenti, incapace di vedere e di parlare, finché una notte, per fortuna, era morto. Un quarto era stato ghermito da un grande orso bianco, dopo essersi avventurato di sera lontano dal fuoco dell'accampamento in cerca di un ruscello di acqua dolce, che giurava di aver sentito scorrere nelle vicinanze.
Altri due si erano ammalati, tormentati da tossi estenuanti e da febbri, al punto di convincere i superstiti che attorno a loro si aggirassero furtivamente forze maligne. La riduzione dei membri del gruppo aveva comportato un grande cambiamento nello stato d'animo dei sopravvissuti. L'esaltazione e il senso di meraviglia che all'inizio li avevano sorretti erano venuti meno, sostituiti da un senso di irrimediabilità e di fatalismo. Era come se l'impresa fosse maledetta e gli uomini ne dovessero pagare un prezzo. «Solleva la palla», ordinò Eric all'uomo più giovane della spedizione, l'unico a essere nato sull'isola. Il ragazzino, Olaf il Finnico, figlio di Olaf il Pescatore, era preoccupato. La strana sfera grigia era appoggiata a una sporgenza rocciosa come se l'avesse messa lì sopra la mano di Dio. Non aveva modo di sapere che l'oggetto era arrivato dal cielo quarantottomila anni prima. Olaf si avvicinò alla pietra con circospezione. Tutti gli uomini del gruppo avevano sperimentato le collere di Eric, anzi, tutti su quell'isola di ghiaccio conoscevano la sua leggenda. Eric non chiedeva, pretendeva, e così Olaf non provò neppure a dirgli di no o a discutere. Si limitò a inghiottire il groppo alla gola e si chinò. Le mani di Olaf toccarono l'oggetto, trovando la superficie fredda e levigata. Per il più breve degli istanti, il ragazzino sentì che il cuore saltava un battito. Tentò di sollevare la palla, ma si accorse che era troppo pesante per le sue braccia affaticate dalla spedizione. «Avrò bisogno di aiuto», disse Olaf. Eric fece cenno con il bastone a un altro uomo. «Tu.» Gro l'Assassino, un individuo alto con i capelli biondi e gli occhi azzurri, avanzò di tre passi e afferrò la sfera da un lato. Usando i muscoli della schiena, Olaf e Gro la sollevarono all'altezza dei fianchi, poi guardarono Eric. «Fate un'imbracatura con la pelle della bestia zannuta!» esclamò Eric. «La porteremo alla grotta e costruiremo un sacrario.» Senza aggiungere altro Eric si allontanò sulla neve, lasciando che i suoi uomini si occupassero della scoperta. Due ore più tardi la pietra era al sicuro all'interno della grotta. Eric iniziò immediatamente a progettare una complessa recinzione per l'oggetto che riteneva essere venuto direttamente dagli dei del cielo sopra di lui. Eric lasciò Olaf e Gro a guardia del corpo celeste e tornò all'insediamen-
to costiero per procurarsi altri uomini e materiale. Una volta giuntovi, apprese che durante la sua assenza sua moglie aveva dato alla luce un figlio. Lo chiamò Leif in onore della primavera e poi lo lasciò a lei. Con altri ottanta uomini e attrezzi per scavare nella caverna dove aveva nascosto la sfera, Eric partì diretto a nord, verso la montagna lontana. L'estate era vicina e il sole era visibile tutto il giorno. Gro l'Assassino si rigirava sul giaciglio di pelliccia sputando dei peli dalla bocca. Sfregò la mano contro la pelliccia di orso e guardò sorpreso i ciuffi che gli si appallottolavano nel palmo. Poi fissò la sfera alla luce baluginante di una torcia appesa alla parete. «Olaf», disse al giovane compagno che dormiva poco distante, «è ora di alzarsi e di affrontare la giornata.» Olaf si girò su un fianco e fissò Gro. Aveva gli occhi rossi e iniettati di sangue, la pelle era cosparsa di chiazze e si squamava. Tossì un poco, poi si tirò a sedere continuando a fissare Gro alla luce fioca. L'uomo stava perdendo i capelli e il colorito del suo viso era strano. «Gro, il naso», gli fece notare Olaf. Gro si portò al viso il dorso della mano e vide il rosso del sangue. Sempre più spesso gli capitava di trovarsi con il naso che sanguinava. Abbassò la mano e diede uno strattone a un dente che gli doleva. Gli sgusciò in mezzo alle dita. Lo gettò via e si alzò in piedi. «Vado a cucinare le bacche», esclamò. Mosse il fuoco e vi aggiunse qualche altro ramoscello della scorta sempre più ridotta, poi recuperò una bisaccia di pelle di foca che conteneva le bacche rosse dalle quali, una volta bollite, avrebbe ricavato un'amara bevanda mattutina. Uscì dalla grotta e riempì un recipiente di ferro ammaccato con l'acqua di un ruscello nato dallo scioglimento di un vicino ghiacciaio, infine osservò le tacche incise sulla parete fuori dalla grotta. Due o tre tacche ancora, ed Eric il Rosso sarebbe tornato. Quando Gro rientrò nella caverna Olaf era in piedi. Indossava i leggeri pantaloni di cuoio, mentre la camicia, anch'essa di pelle conciata, era appoggiata sopra una roccia vicino a lui. Si stava grattando la schiena con un bastone, e le squame di epidermide cadevano a terra volteggiando come la prima neve leggera di un nuovo inverno. Una volta alleviato il prurito, si infilò l'indumento. «Qualcosa non va», osservò Olaf. «Tutti e due siamo sempre più amma-
lati ogni giorno che passa.» «Forse è l'aria putrida dentro la caverna», rispose Gro, pacato, mentre metteva il recipiente sul fuoco. «Io credo sia quella cosa», ribatté Olaf, indicando la sfera. «Per me è posseduta.» «Potremmo trasferirci fuori dalla caverna», propose Gro, «e preparare una tenda per pernottare.» «Eric ha ordinato di restare nella grotta. Temo che se al ritorno ci trovasse accampati all'aperto conosceremmo la sua collera.» «Ho guardato le tacche. Sarà qui fra tre sonni, non oltre.» «Potremmo fare a turno e sorvegliare quando arriva», sussurrò Olaf, «e correre dentro prima che ci scopra.» Gro mescolava i frutti nell'acqua bollente. «Morte improvvisa o lenta malattia... Secondo me è meglio che evitiamo ciò che accadrà sicuramente, per scegliere quello che potrebbe anche non verificarsi.» «Ancora qualche giorno», concluse Olaf. «Ancora qualche giorno.» Gro immerse un mestolo di ferro nel recipiente, riempì un paio di ciotole con il distillato di bacche e ne porse una a Olaf. Dopo altre quattro tacche all'ingresso della caverna Eric il Rosso fece ritorno. «Avete una tosse estenuante», esclamò non appena si fu accorto delle condizioni dei due uomini. «Non voglio che infettiate gli altri. Tornate alla colonia, ma restate nella casa di tronchi a nord.» Entrambi partirono per il sud la mattina seguente, ma non sarebbero mai arrivati a destinazione. Olaf sarebbe stato il primo ad andarsene: il cuore indebolito avrebbe ceduto tre giorni dopo l'inizio del viaggio. Gro non avrebbe avuto sorte migliore, e quando non fosse più stato in grado di camminare si sarebbe accampato. Le bestie dalla folta pelliccia non avrebbero tardato, e ciò che non fosse stato consumato immediatamente sarebbe stato disperso dai carnivori sino a quando di Gro non fosse rimasto più nulla, come se non fosse mai esistito. Dopo avere osservato i suoi due compagni che si perdevano in lontananza Eric radunò nella caverna i minatori, gli ingegneri e i manovali che aveva portato con sé dall'insediamento. Ripulì un angolo di terreno e con un
bastone cominciò a disegnare i suoi progetti: erano tutti ambiziosi, ma un dono del cielo non si poteva trattare con leggerezza. Quel giorno le prime squadre iniziarono a tracciare la mappa della grotta. Con il tempo si sarebbe saputo che il cunicolo scendeva per circa un miglio all'interno della montagna e che a mano a mano che la pendenza del suolo aumentava faceva sempre più caldo. In profondità venne individuata una grande polla d'acqua dolce, con stalattiti che pendevano dalla roccia e stalagmiti che si innalzavano dal pavimento. Eric inviò gruppi di uomini sulla costa perché trovassero lunghi pali in mezzo al legno trasportato dalla corrente, con i quali costruire scale per raggiungere i corridoi, mentre altri operai scavavano gradini nella roccia. Da lastre di pietra che ruotavano su cardini vennero ricavate porte difficili da riconoscere, destinate a celare il reperto a coloro che avessero voluto carpirne il potere. Incisioni runiche e statue furono intagliate nelle pareti e si trovò il modo di riflettere la luce dalle poche aperture che consentivano all'aria fresca di entrare nella caverna. Eric sovrintendeva ai lavori dall'insediamento sulla costa. Visitava il sito solo di rado, lasciandosi guidare dalla visione che aveva nella propria mente. Gli uomini arrivavano, lavoravano, si ammalavano e morivano, rimpiazzati semplicemente da altri. Quando i lavori nella grotta furono conclusi la gente di Eric il Rosso era già stata decimata e l'insediamento non sarebbe mai più riuscito a ripopolarsi. Solo una volta Leif, il figlio di Eric, ebbe modo di vedere il glorioso monumento. Eric ordinò che l'ingresso fosse sigillato, e l'oggetto rimase là, per coloro che ancora non erano nati. PARTE PRIMA 1 Il tenente Chris Hunt non parlava quasi mai del proprio passato, ma gli uomini con cui prestava servizio si erano fatti qualche idea sulla base del suo comportamento. La prima era che Hunt non era cresciuto in qualche posticino tranquillo sperduto fra i monti e in mezzo ai boschi, e dunque aveva bisogno dell'esercito per vedere il mondo. Hunt era della California del Sud. E, se qualcuno glielo chiedeva, dichiarava di essere di Los Angeles, per non dover ammettere di aver passato la sua vita a Beverly Hills. La
seconda cosa che i soldati avevano notato era che Hunt era un leader naturale: non trattava nessuno con condiscendenza e non assumeva arie di superiorità, benché non cercasse comunque di nascondere il fatto di essere un tipo competente e in gamba. La terza cosa la scoprirono quel giorno. Un vento gelido soffiava dalle montagne nella valle dell'Afghanistan dove il plotone al comando del tenente Hunt si accingeva a levare il campo. Hunt e altri tre soldati erano alle prese con una tenda che dovevano piegare e riporre. Mentre gli uomini riunivano le estremità per il lungo, il sergente Tom Agnes decise di fare una domanda sulle voci che aveva sentito. «Signore», esordì Agnes, «in giro si dice che lei si è laureato a Yale... è vero?» Tutti i militari indossavano occhiali da sci sfumati, ma Agnes era abbastanza vicino da vedere gli occhi di Hunt. Un guizzo di sorpresa, seguito da rassegnazione, li attraversò rapidamente. Poi l'uomo sorrise. «Ah», esclamò tranquillo, «allora avete scoperto il mio terribile segreto.» Agnes annuì ripiegando la tenda a metà. «Non propriamente un terreno ideale per il reclutamento nell'esercito.» «Ci è andato anche George Bush. Ed era un pilota di marina.» «Credevo fosse nella guardia nazionale», osservò lo specialista Jesus Herrara mentre riceveva la tenda dalle mani di Agnes. «Parlo di George Bush senior», precisò Hunt. «Ma anche il nostro attuale presidente si è laureato a Yale, sì... ed è stato pilota di jet nella guardia nazionale.» «Yale», mormorò Agnes. «Se posso chiederglielo, come mai lei è finito qui?» Hunt spazzò via un po' di neve dai guanti. «Volontario, esattamente come voi.» Agnes annuì. «E adesso finiamo di smontare il campo», riprese Hunt indicando la montagna vicina, «e andiamo lassù a trovare il bastardo che ha attaccato gli Stati Uniti.» «Sì, signore», risposero gli uomini all'unisono. Dieci minuti più tardi, con zaini pesanti oltre venti chili sulla schiena, cominciavano la salita.
In una città dove le belle donne abbondano, Michelle Hunt, a quarantanove anni, sapeva ancora far girare la testa agli uomini. Alta, con i capelli castano chiaro e gli occhi verdeazzurri, aveva il dono di una figura che non richiedeva diete costanti o esercizio ininterrotto per mantenersi snella; le labbra piene e i denti regolari non colpivano tanto profondamente quanto i suoi occhi da cerbiatta e la perfezione della pelle. Be', nella California del Sud, le donne affascinanti sono comuni quanto il sole e i terremoti. Quello che attirava in Michelle era qualcosa che non può essere creato dal bisturi di un chirurgo, levigato dalla manicure o regalato dall'abito, oppure sviluppato grazie all'ambizione o alla volontà di cambiamento. Michelle possedeva ciò che spinge uomini e donne ad amare e a voler stare accanto a un'altra persona: era felice, soddisfatta, positiva. Michelle Hunt era se stessa. E la gente la circondava come le api attorno a un fiore in boccio. «Sam», stava dicendo alla persona che aveva appena finito di tinteggiare le pareti della sua galleria d'arte, «lavori proprio bene.» L'imbianchino, un uomo di trentotto anni, arrossì. «Solo il meglio per lei, signora Hunt», rispose a Michelle. Le aveva pitturato la galleria cinque anni prima, quando aveva aperto, poi la casa di Beverly Hills e l'appartamento di Lake Tahoe, e adesso lavorava a quella ristrutturazione. E ogni volta Michelle gli faceva sentire quanto fosse bravo e apprezzato. «Vorresti una bottiglia d'acqua, una coca, qualcos'altro?» «No, grazie, sono a posto.» Proprio in quel momento un assistente la raggiunse nel retro della galleria per dirle che c'era una telefonata per lei. Michelle sorrise, fece un gesto di saluto e si allontanò. «Questa sì che è una signora», sussurrò Sam. «Una vera signora.» Mentre attraversava la sala che si apriva sulla galleria, diretta alla scrivania che guardava su Rodeo Drive, Michelle notò uno degli artisti da lei rappresentati entrare dalla porta principale. Anche in quel caso il suo garbo aveva dato ottimi risultati: gli artisti sono una razza volubile e capricciosa, ma quelli di Michelle la adoravano e molto di rado cambiavano galleria. Inoltre, il fatto che avesse avviato l'attività con fondi consistenti aveva contribuito grandemente a un successo che durava da anni. «Lo sapevo che oggi sarebbe stata una buona giornata», disse rivolgendosi all'uomo barbuto. «E adesso finalmente capisco la ragione: il mio artista preferito che viene a trovarmi.»
Lui le sorrise. «Lasciami prendere questa telefonata e poi parliamo.» L'assistente di Michelle fece accomodare l'ospite in una zona laterale con divani e un mobile bar, e intanto che la donna si sedeva alla scrivania chiese all'artista se gradiva qualcosa; dopo qualche secondo iniziò a riempire di caffè macinato una macchina da espresso per preparare un cappuccino. «Pronto, Michelle Hunt.» «Sono io», rispose una voce roca che non richiedeva presentazioni. Quell'uomo le aveva fatto perdere la testa quando era una ragazzina di ventun anni, arrivata fresca fresca dal Minnesota in cerca di una nuova vita fatta di sole e di divertimento nella California del Sud all'inizio degli anni '80. Al termine di una relazione piena di rotture, causate dall'incapacità di lui di legarsi stabilmente oltre che dalle sue frequenti assenze per lavoro, all'età di ventiquattro anni lei gli aveva dato un figlio. E benché il nome dell'uomo non fosse mai comparso sul certificato di nascita del bimbo, e lui e Michelle non avessero mai veramente vissuto insieme prima o dopo di allora, la coppia era rimasta molto unita. Cioè, unita entro i limiti in cui quell'uomo si lasciava coinvolgere. «Come stai?» gli chiese Michelle. «Tutto a posto.» «Dove sei?» Era la domanda di rito con la quale rompeva il ghiaccio. Nel corso degli anni la risposta era stata Osaka, il Perii, Parigi, Tahiti. «Aspetta», rispose lui con disinvoltura. Guardò una mappa satellitare su una parete di prua vicino alla cabina di pilotaggio del suo jet. «Millecento chilometri da Honolulu direzione Vancouver, Columbia Britannica.» «Stai andando a sciare?» si informò Michelle. Lo sport era una delle loro passioni comuni. «A costruire un grattacielo.» «Hai sempre in ballo qualcosa.» «Vero. Michelle, ti ho chiamata perché ho saputo che il nostro ragazzo è stato mandato in Afghanistan», sussurrò. Michelle non ne era al corrente: l'impiego delle truppe era ancora segreto e Chris non aveva potuto rivelare la propria destinazione al momento della missione. «Oh, mio Dio...» esclamò Michelle. «Questa non è una bella cosa.» «Sapevo che avresti detto così.»
«Come l'hai saputo? Resto sempre meravigliata dalla tua abilità nell'ottenere informazioni.» «Non ho la bacchetta magica. È che ho in tasca così tanti senatori e politici che sono stato costretto a comprare dei pantaloni più grandi.» «Come vanno le cose?» «Immagino che la spedizione si stia rivelando più difficile di quanto il presidente si aspettasse. Sembra che Chris sia al comando di una squadra hunter killer con il compito di trovare i cattivi. Per adesso i contatti sono limitati, ma le mie fonti sostengono che è un lavoraccio sporco, senza scappatoie. Se non si farà sentire per un po', non stupirti.» «Ho paura per lui», disse lentamente Michelle. «Vuoi che ci metta una bustarella?» chiese l'uomo. «Lo faccio tirar fuori e rimandare a casa?» «Credevo che ti avesse obbligato a promettere che non lo avresti mai fatto.» «È vero», ammise lui. «Allora non farlo.» «Ti chiamo quando avrò altre notizie.» «Passerai presto da queste parti?» domandò Michelle. «Se sì, ti chiamerò. Adesso è meglio che vada. Comincio a sentire delle interferenze sulla linea satellitare. Saranno le macchie solari.» «Prega che nostro figlio sia al sicuro.» «Può darsi che faccia anche più di questo», rispose l'uomo concludendo la telefonata. Michelle riagganciò il ricevitore e si abbandonò sulla sedia. Il suo ex non era tipo da manifestare preoccupazione o paura. Eppure l'ansia al pensiero del figlio in Afghanistan era stata palpabile e autentica. Poteva solo sperare che tutta quell'apprensione fosse fuori luogo e che Chris sarebbe tornato a casa presto. Si alzò dalla scrivania e si avvicinò all'artista. «Dimmi che hai qualcosa di bello», gli disse disinvolta. «Fuori nel furgone. Credo che ti piacerà.» Quattro ore dopo il sorgere del sole, trecento metri più in alto sul crinale che sovrastava l'accampamento dove aveva trascorso la notte, il plotone di Hunt incontrò un nemico particolarmente determinato. Il fuoco esplose da una serie di grotte appena sopra di loro e a est. E piovve tutto all'improvviso.
Fuoco di fucile, granate con propulsione a razzo, mortai, colpi di pistola si rovesciarono dall'alto. I nemici facevano saltare la montagna per creare frane che tempestassero il terreno sottostante; avevano minato la zona dove le truppe di Hunt cercavano rifugio allo scopo di spazzare via completamente la squadra americana, e ci andarono vicino. Hunt si era rintanato dietro un blocco di massi. Le pallottole rimbalzavano sulle rocce da ogni parte, e le schegge schizzavano in aria colpendo i suoi uomini. Non c'era nessun posto dove nascondersi, nessuna possibilità di avanzare, e la ritirata era stata chiusa da una frana. «Radio!» gridò Hunt. Metà della sua squadra era venti metri più avanti, un altro quarto a destra e a sinistra. Fortunatamente l'operatore radio era rimasto vicino al tenente. L'uomo diede le spalle a Hunt per proteggere l'apparecchio, rimediando come ricompensa ai suoi sforzi una ferita alla rotula quando una pallottola gli graffiò il ginocchio. Hunt lo dovette trascinare per il resto del tragitto. «Antencio!...» gridò a un uomo poco distante. «Occupati della gamba di Lassiter.» Antencio arrivò di corsa e si mise a tagliare il calzone dell'operatore radio. Constatò che la ferita non era profonda e iniziò a fasciare il ginocchio mentre Hunt accendeva la radio e si sintonizzava sulla frequenza. «Andrà tutto bene, Lassiter», disse al tecnico. «Chiederò che ci mandino aiuti il più in fretta possibile. E poi ti faremo evacuare con l'elicottero.» La paura sulle facce dei soldati era manifesta. Per la maggior parte di loro, come per Hunt, si trattava del primo scontro a fuoco. In quanto loro comandante spettava a lui assumere il controllo e studiare un piano. «Controllo, controllo, qui Advance Tre», urlò Hunt nel microfono, «serve aiuto consistente, posizione tre-zero-uno-otto. Stiamo sotto fuoco pesante.» «Advance Tre», rispose immediatamente una voce, «riferire situazione.» «Siamo inchiodati e loro sono in alto. Situazione critica.» Hunt alzò gli occhi mentre parlava. Una dozzina di uomini barbuti, con camicioni svolazzanti, si era lanciata giù per la collina. «Date un po' di fuoco lassù, ragazzi», gridò alla metà più avanzata della sua squadra. Un secondo più tardi si sentì risuonare una raffica di colpi. «Advance Tre, abbiamo uno Spectre a due minuti da lì. Quattro elicotteri, due da trasporto e due corazzati, decolleranno fra tre minuti. Ne impiegheranno altri dieci per raggiungervi.» Hunt udiva il fischio del massiccio apparecchio corazzato mentre risali-
va il canyon parecchi chilometri sotto di loro. Si sporse sopra la roccia e vide che otto nemici continuavano a scendere lungo la collina. Si alzò e fece partire una granata con propulsione a razzo: ci furono un sibilo e poi un tonfo mentre la carica attraversava l'aria e si accendeva. A quella, Hunt fece seguire una scarica di fucile automatico. «Advance Tre, ricevuto?» «Advance Tre, affermativo!» urlò Hunt nel microfono. Degli otto guerrieri adesso ce n'erano solamente quattro, oramai a soli venti metri dalla squadra avanzata. Hunt inastò la baionetta e la bloccò. I volontari in prima linea sembravano paralizzati. Erano giovani, inesperti, e stavano per essere travolti. Un colpo di mortaio atterrò vicino ai massi ed esplose, rovesciando tutt'attorno una pioggia di polvere e di roccia sbriciolata. Dall'alto della montagna un altro contingente di nemici scendeva lungo il pendio. Hunt si alzò in piedi e aprì il fuoco. Con uno scatto superò i venti metri che lo separavano dai suoi uomini e affrontò di petto l'avanzata rivale. Tre è un numero magico, e tre furono quelli che Hunt abbatté con una raffica nel ventre. Trapassò l'ultimo con la baionetta, dal momento che il caricatore era vuoto. Estrasse la pistola dalla fondina e lo finì, e poi scivolò a terra; rimise a posto il caricatore, si alzò e ricominciò a sparare. «Indietro, ragazzi», gridò, «dietro quelle rocce.» A due a due i suoi uomini si ritirarono verso la relativa sicurezza dei massi alle loro spalle, mentre quelli che restavano tenevano aperto il fuoco. Il nemico era imbottito di oppio, di fanatismo religioso malriposto e drogato dalle foglie di khat che masticava. Il pendio era rosso del sangue dei compagni uccisi, eppure i guerrieri continuavano a correre. «Advance Tre», gracchiò la radio. Fu Antencio a rispondere. «Qui Advance Tre. Il comandante è lontano dalla radio; sono lo specialista tre-sei-sette.» «Abbiamo rintracciato un B-52 su un altro obiettivo», disse la voce. «Lo dirottiamo lì per assistervi.» «Affermativo... riferisco al tenente.» Ma Antencio non avrebbe mai avuto modo di portare quel messaggio. Quando l'AC-130 arrivò sul luogo nella postazione avanzata restavano solo Hunt e un vecchio sergente brizzolato. Un secondo più tardi un muro di piombo prese a riversarsi dai cannoni da 25, 40 e 105 millimetri che spuntavano dai fianchi del velivolo. Non era la prima volta che il sergente vedeva la potenza di fuoco di uno
Spectre e non perse tempo. «Torniamo indietro, signore», gridò a Hunt, «abbiamo qualche secondo di copertura.» «Via, via, via...» Hunt con uno strattone trascinò il sergente per spingerlo verso la salvezza. «Ti sono subito dietro.» A causa del rinculo dei cannoni, lo Spectre si era messo di traverso per compensare la deriva. Qualche secondo più tardi il pilota lo portò in quota per virare e ritornare un'altra volta nello stretto canalone. Mentre l'aereo si preparava al secondo passaggio, gli integralisti ancora in vita erano sette. Hunt, che copriva la ritirata del sergente, ne eliminò cinque grazie a una combinazione di granate con propulsione a razzo e un campo di fuoco concentrato, ma due riuscirono ad avvicinarsi alla sua posizione, e uno colpì il tenente alla spalla mentre quest'ultimo si voltava per battere la ritirata. Il secondo gli tagliò la gola con un coltellaccio ricurvo che faceva gelare il sangue solo a guardarlo. Iniziando la picchiata per il passaggio sopra l'obiettivo, il pilota dell'AC130 vide Hunt che veniva ucciso e lo comunicò a un altro velivolo. Anche le truppe del tenente assistettero alla sua morte, e a quella scena svanì ogni traccia di paura, sostituita dalla rabbia. Mentre l'AC-130 prendeva posizione per il passaggio sull'obiettivo, i volontari scattarono in piedi e caricarono un'altra ondata di guerrieri che, appena sbucati da una grotta, sciamavano lungo il pendio. Muovendosi in formazione, raggiunsero il loro comandante senza vita ed eressero un cerchio di protezione attorno al suo corpo. Aspettavano che i talebani si facessero sotto ma, come per magia, o forse intuendo la furia dei soldati americani, il nemico iniziò a voltarsi e a battere la ritirata. A ventimila piedi sopra di loro e a meno di dieci minuti dall'obiettivo, il pilota del B-52 spense il microfono e lo rimise a posto. «Avete sentito?» chiese sottovoce all'equipaggio attraverso l'interfono. L'aereo era sprofondato nel silenzio tranne che per il ronzio degli otto motori. Il pilota non aveva bisogno di una risposta: tutti avevano udito. «Ridurremo questa montagna in polvere. Quando i fanatici verranno a cercare i cadaveri, voglio che siano costretti a raccoglierli con una spugna.» Quattro minuti più tardi gli elicotteri giunsero a recuperare i soldati di Advance Tre. Il corpo di Hunt e il ferito furono caricati sul primo Bla-
ckhawk. Gli altri, a testa bassa, salirono sul secondo. Poi gli elicotteri corazzati e l'AC-130 cominciarono a spazzare il fianco della montagna con una furia di piombo e di esplosivi. Subito dopo si fece sotto anche il B-52. Il sangue bagnò il pendio, e il nemico fu annientato. Una dimostrazione di forza che tuttavia era arrivata troppo tardi per il tenente Hunt. Con il passare del tempo solo la sete di vendetta sarebbe rimasta a rammentare la sua morte. E ci sarebbero voluti anni prima che venisse spenta. 2 La Oregon riposava tranquilla lungo un molo a Reykjavík, in Islanda, saldamente legata alle bitte. Le imbarcazioni nel porto erano un'accozzaglia di natanti da lavoro e barche da diporto, navi da pesca e pescherecci a strascico d'alto mare, piccoli cabinati e, cosa insolita per l'Islanda, qualche grosso yacht. I pescherecci sono il pilastro della principale industria islandese; gli yacht si trovavano lì perché in quel momento era riunito il vertice arabo per la pace. La Oregon non avrebbe avuto alcuna speranza di vincere un concorso di bellezza. Il cargo di centosettanta metri di lunghezza sembrava tenuto insieme soprattutto dalla ruggine. I ponti di coperta erano cosparsi di ciarpame, l'opera morta e la carena colpivano l'occhio per lo scempio di pittura male assortita e l'albero di carico al centro della nave dava l'idea di essere sul punto di rotolare nell'acqua da un momento all'altro. Ma l'aspetto della Oregon era tutto un'illusione. La ruggine era uno strato di pittura radar-assorbente steso con la massima precisione per consentirle di eludere i radar come un fantasma, e il ciarpame sui ponti costituiva l'arredo di scena. Gli alberi di carico funzionavano a puntino: un paio faceva il suo lavoro, alcuni erano antenne di comunicazione e gli altri sparivano per rivelare al loro posto scomparti lanciamissili. Sottocoperta le comodità rivaleggiavano con quelle degli yacht più lussuosi. Opulente sale di rappresentanza, sistemi di comunicazione e centro comandi di ultima generazione, un elicottero, battelli per scendere a terra e un fornitissimo laboratorio di contraffazione si trovavano al suo interno. La sala da pranzo reggeva il confronto con i ristoranti più raffinati e l'infermeria somigliava piuttosto a una suite di una clinica di lusso. Azionato da una coppia di propulsori magnetoidrodinamici, il mercantile poteva correre come un ghepardo e curvare come una vettura da au-
toscontro. Era assolutamente diverso da ciò che il suo aspetto esteriore lasciava intendere: si trattava di una piattaforma di attività di intelligence, armata e ultratecnologica, in mano a uno staff di persone altamente qualificate. La Corporation, a cui la Oregon apparteneva e dalla quale veniva gestita, era costituita da operativi - mercenari con l'anima - un tempo alle dipendenze dell'esercito e dei servizi segreti che offrivano le proprie prestazioni a Paesi e a privati che richiedevano interventi specializzati. Spesso incaricati in segreto dal governo americano di compiere missioni al di fuori del raggio della supervisione del Congresso, i membri della Corporation operavano in un mondo in penombra, privo di protezione diplomatica e di riconoscimento governativo. La società era una potenza a nolo, ma i clienti venivano scelti con cura. Da una settimana la Oregon si trovava in Islanda per garantire la sicurezza dell'emiro del Qatar, uno dei partecipanti al vertice. L'Islanda era stata eletta sede degli incontri per tutta una serie di ragioni. Il Paese era piccolo, la popolazione di Reykjavík ammontava a sole centomila unità circa e questo facilitava le operazioni di sicurezza. La popolazione era omogenea e gli estranei vi spiccavano in tutta la loro diversità, cosa che accresceva la possibilità di individuare eventuali terroristi decisi a disturbare il processo di pace. E da ultimo l'Islanda si vantava di possedere il più antico parlamento del mondo: la democrazia era conosciuta da molti secoli. L'agenda degli incontri della settimana includeva l'occupazione dell'Iraq, la situazione in Israele e Palestina e il dilagare del terrorismo fondamentalista. E sebbene il vertice non avvenisse sotto l'egida delle Nazioni Unite né di qualsiasi altro governo mondiale, i capi di Stato presenti comprendevano che in quella sede avrebbero dato forma a una linea di condotta politica e deciso le diverse azioni in merito. Intervenivano Russia, Francia, Germania, Egitto, Giordania e una serie di altri Paesi mediorientali. Israele, Siria e Iran avevano declinato l'invito. Stati Uniti, Gran Bretagna e Polonia, in quanto alleati nella liberazione dell'Iraq, erano fra i partecipanti, oltre a nazioni di minore importanza. All'incirca ventiquattro Stati con i relativi ambasciatori, uomini della sicurezza, agenti dei servizi segreti e accompagnatori di cani poliziotto erano calati sulla capitale islandese come uno sciame di moscerini nella notte. Data l'esiguità della popolazione di Reykjavík, le molte spie e gli addetti ai controlli si distinguevano agli occhi dei cittadini come se girassero in quel freddo polare con indosso dei bikini: gli islandesi hanno la pelle chiara, i
capelli biondi e gli occhi azzurri, una combinazione difficile da imitare se si cerca di mischiarsi ai locali. Reykjavík è una città di edifici bassi e case dai colori vivaci stagliati su uno sfondo di neve come addobbi di un albero di Natale. La costruzione che li sovrasta, la chiesa di Hallgrímskirkja, non è alta che qualche piano, e i pennacchi di fumo delle sorgenti geotermiche della zona che riscaldano le case e i palazzi conferiscono al paesaggio un'atmosfera surreale. L'odore di acido solfidrico dei soffioni impregna l'aria di un vago puzzo di uova marce. Reykjavík si stringe attorno al suo porto che, sgombro dai ghiacci per tutto l'anno, ospita la flotta da pesca, la voce principale dell'economia islandese. E, in contrasto con il nome del Paese, la temperatura invernale della città è più mite di quella di New York. Gli islandesi godono di buona salute fisica e all'apparenza comunicano un senso di felicità, forse dovuto a uno stato d'animo positivo; la salute, invece, è da collegarsi all'abbondanza di piscine termali. Gli incontri del vertice arabo avevano luogo all'Hofoi, il palazzo ora adibito alle funzioni municipali che nel 1986 fu la sede di un incontro fra Michail Gorbaciov e Ronald Reagan. L'ormeggio della Oregon si trovava a poco più di un chilometro dall'Hofoi, una comodità che faceva della sicurezza un gioco da ragazzi. Il Qatar si era servito della Corporation già in passato, e i rapporti erano improntati a mutua stima. Per rispetto ai politici di religione cristiana nessun meeting era in programma il giorno di Natale, e sottocoperta, nella cucina di bordo della Oregon, un terzetto di cuochi impartiva i tocchi finali al banchetto imminente. La prima portata era in forno: dodici grossi turduckens per la gioia dell'equipaggio. Si tratta di piccoli polli disossati ripieni di farina gialla e salvia inseriti in anatre anch'esse disossate e farcite con uno strato più sottile di ripieno a base di pane speziato, a loro volta infilate in grossi tacchini, imbottiti di un composto di ostriche e castagne. E, al momento del taglio, le fette rivelano un tris di carni. I vassoi dei contorni erano già sui tavoli: carote glassate, sedano, scalogni, ravanelli e zucchine tagliate a julienne. C'erano ciotole di noci, frutta e cracker al formaggio. Piatti di chele di granchio, ostriche crude e porzioni di aragosta. Tre diverse zuppe; insalata verde, insalata in gelatina e la celebre Waldorf; una portata di pesce; una portata di formaggi; tortino ripieno
di frutta secca, torta di zucca, di mele e ai frutti di bosco; vino, porto, liquori e caffè giamaicano delle Blue Mountains. Nessun membro dell'equipaggio si sarebbe alzato da tavola ancora affamato. Nella sfarzosa sala privata, Juan Cabrillo si stava asciugando i capelli bagnati con una salvietta; poi si rasò e si spruzzò le guance con dopobarba al bay rum. I capelli biondi tagliati a spazzola non richiedevano molte cure, ma nelle settimane precedenti si era fatto crescere un pizzetto che regolò accuratamente con un paio di forbici di acciaio. Soddisfatto della propria opera, si rimirò nello specchio e sorrise. Aveva un ottimo aspetto, riposato, sano e soddisfatto. Si diresse alla cabina principale e scelse una camicia bianca inamidata, un completo grigio di lana leggera e finissima fatto confezionare a Londra, una cravatta a righe rosse e blu di canneté di seta, morbide calze di lana grigie e un paio di mocassini neri lucidi di Cole Haan di nappa. Dopo avere disposto sul letto gli indumenti iniziò a vestirsi. Mentre si annodava la cravatta si diede un'ultima occhiata di controllo, infine aprì la porta e si avviò lungo il corridoio verso l'ascensore. Qualche ora prima la sua squadra era venuta a conoscenza di una minaccia al sovrano del Qatar. E al momento era in attuazione un piano che, se avesse avuto successo, avrebbe permesso di prendere due piccioni con una fava. Se solo fossero riusciti a localizzare la bomba nucleare dispersa da qualche parte nel mondo, l'anno avrebbe potuto concludersi con una nota positiva. Cabrillo non aveva modo di sapere che nel giro di ventiquattr'ore si sarebbe ritrovato a viaggiare attraverso una distesa gelata a est, e che il destino di una città su un fiume era sospeso a un filo. 3 In contrasto con il calore e l'allegria a bordo della Oregon, l'atmosfera nel remoto accampamento nei pressi del monte Forel appena a nord del circolo polare artico, in Groenlandia, aveva toni più smorzati. Fuori dalla grotta il vento ululava e la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero senza contare il fattore vento. Era il novantunesimo giorno della spedizione e l'eccitazione e l'emozione si erano da tempo perse lungo la strada. John Ackerman era stanco, scoraggiato e completamente solo con i suoi amari pensieri di disfatta. Ackerman stava lavorando alla tesi di dottorato in antropologia all'uni-
versità del Nevada, a Las Vegas, e l'ambiente che in quel momento lo circondava era tanto lontano dal familiare deserto quanto poteva esserlo una montagna sottomarina per un pappagallo. I tre assistenti mandati dall'università erano subito tornati a casa alla fine del semestre e non sarebbero stati sostituiti per altre due settimane. A dire il vero, anche Ackerman avrebbe dovuto prendersi una pausa, ma lui era un uomo posseduto da un sogno. Fin dal primo momento in cui aveva rintracciato l'oscuro riferimento alla Grotta degli Dei mentre scriveva la tesi di dottorato su Eric il Rosso, si era sentito motivato a cercarla prima di chiunque. Forse tutta quella faccenda non era altro che un mito, si diceva, ma se invece era realtà voleva che il nome associato alla scoperta fosse il suo, non quello di un usurpatore. Mescolò i fagioli nella lattina sul fornello metallico, sistemato sotto la tenda piantata all'imboccatura della grotta. Era certo dalla descrizione che aveva tradotto che quella fosse la grotta nominata da Eric il Rosso sul proprio letto di morte, ma, nonostante mesi di fatiche, non era riuscito ad avanzare oltre la parete evidentemente impenetrabile che si trovava sei metri alle sue spalle. Lui e gli altri avevano esaminato ogni millimetro dei lati e del pavimento della caverna, ma non avevano trovato nulla. La stessa cavità sembrava costruita dall'uomo, eppure Ackerman non poteva esserne sicuro. Vedendo che i fagioli si scaldavano a dovere, sporse fuori la testa per accertarsi che l'antenna del telefono satellitare non fosse stata abbattuta dal vento. Constatato che era ben salda, tornò dentro a controllare la posta. Ackerman si era dimenticato che era il giorno di Natale, ma i messaggi di augurio di amici e familiari glielo ricordarono. A ogni e-mail alla quale rispondeva, la tristezza dentro il suo cuore cresceva progressivamente. Ecco, quella era una giornata di festa, che la maggior parte degli americani avrebbe trascorso con la famiglia e le persone care, e lui si trovava a casa del diavolo, da solo, a rincorrere un sogno nella cui esistenza oramai non credeva più. Lentamente la malinconia si trasformò in rabbia. Dimenticandosi dei fagioli, afferrò una lampada Coleman dal tavolo e si diresse all'estremità della grotta. Restò lì, immobile, fumante di collera, maledicendo sottovoce il corso degli eventi che lo aveva portato a trovarsi in una distesa desolata tanto remota e gelida la notte più santa dell'anno. Tutte le sue indagini microscopiche e l'attenta spolveratura con i pennelli non avevano sortito alcun risultato.
In quel luogo non c'era nulla, stava solo perdendo tempo. L'indomani avrebbe cominciato a smantellare l'accampamento, a riporre la tenda e i rifornimenti dietro la motoslitta e poi, non appena il clima fosse un po' migliorato, avrebbe percorso la distanza che lo separava dalla cittadina più vicina, Angmagssalik, a centocinquanta chilometri circa da lì. La Grotta degli Dei sarebbe rimasta un mito. In preda a una collera sempre più intensa lanciò un'imprecazione, facendo descrivere un arco alla lampada piena di combustibile, e quando quella fu puntata al soffitto lasciò la maniglia. La Coleman volò in aria e si andò a schiantare contro il tetto di roccia della grotta. Il bulbo di vetro finì in frantumi e il gas liquido in fiamme sprizzò fuori prima sul soffitto e poi a terra. Ma d'un tratto, come per magia, le fiamme ritornarono verso l'alto risucchiate nelle crepe della volta. Quello che restava del combustibile infuocato sparì dentro quattro fessure che formavano un quadrato. Il tetto della grotta, pensò Ackerman. Non abbiamo mai cercato nel tetto. Tornò di corsa nella parte anteriore della cavità, aprì una cassa di legno e tolse i sottili tubi di alluminio che erano serviti a costruire una griglia da disporre al suolo per un'indagine archeologica più dettagliata. Adesso che erano smontati erano lunghi centoventi centimetri ciascuno. Frugò in una busta di nylon, trovò del nastro adesivo e lo avvolse attorno ai tubi fino a costruire una bacchetta lunga poco più di tre metri e mezzo: l'afferrò come se fosse un giavellotto e tornò svelto sul fondo roccioso. La lampada rotta era a terra, il corpo metallico ammaccato e privo del globo di vetro, ma bruciava ancora e gettava luce. Ackerman guardò in su, verso il soffitto, e vide che il fumo del combustibile adesso esaurito aveva lasciato una sagoma quadrata quasi impercettibile. Alzò la bacchetta lungo un lato e, lentamente, esercitò una leggera pressione. La sottile copertura di pietra che formava la botola scivolò sugli antichi perni di legno, aprendosi come un'imposta oliata su una finestra di squisita fattura. E, quando fu spalancata, dall'apertura scese una scala fatta di pelle di tricheco intrecciata. Ackerman restò impietrito dalla meraviglia. Spense la Coleman che bruciava ancora, tornò nella tenda e si accorse che i fagioli traboccavano dalla lattina. Li tolse dal fornello, poi cercò una torcia, rifornimenti di sopravvivenza nel caso fosse rimasto bloccato, una corda e una macchina fotografica digitale. Ritornò alla scala e salì incontro al proprio destino. Oltrepassata la botola, fu come se Ackerman fosse salito in una soffitta.
Eccola, la vera grotta! Quella che lui e gli studenti avevano esaminato con tanta attenzione era soltanto un artificio abilmente costruito. Puntando la torcia, proseguì nella direzione in cui nella caverna sottostante si apriva l'entrata, all'altezza della quale trovò un cumulo di pietre che doveva creare l'impressione di una frana naturale. Più tardi avrebbe potuto sgombrarle e sporgersi a guardare la distesa ghiacciata, ma per il momento, e da molti secoli, il mucchio roccioso proteggeva dei segreti. La falsa grotta lo aveva tratto in inganno, esattamente come era nelle intenzioni di chi l'aveva progettata. Allontanatosi dalla frana, Ackerman superò con cautela la botola nel pavimento, poi si fermò e lasciò cadere per terra un'estremità della corda. Rilasciandola pian piano, si avviò per il corridoio reggendo la torcia alta sopra la testa. Le pareti erano adorne di pittogrammi di cacciatori, bestie uccise e navi in viaggio verso isole lontane. Gli parve chiaro che molti uomini avevano dovuto affaccendarsi nella grotta per anni e anni. L'ambiente si allargava e la luce faceva risaltare aperture dove, ben conservate dal freddo, pelli e pellicce stavano distese su giacigli posti l'uno sull'altro a diverse altezze, scavati nella roccia e nella terra come antichi letti a castello per minatori. Parallelo si apriva un corridoio lungo la zona notte che presentava numerose brevi diramazioni dalla caverna principale verso un ambiente annerito dai fuochi. Lunghi, rozzi tavoli, trasportati nella grotta a pezzi e montati sul posto, riempivano una sala da pranzo con alti soffitti. Spaziando con la luce, Ackerman scorse serbatoi di olio di balena con stoppini per l'illuminazione conficcati nelle pareti. In quel luogo si poteva tranquillamente accomodare un centinaio di uomini. Ackerman fiutò l'aria e non sentì odore di chiuso. Anzi, vi era una brezza leggerissima. Cominciò a congetturare che gli uomini di Eric il Rosso avessero escogitato un sistema di ventilazione mediante aperture per eliminare i cattivi odori e l'aria viziata dalla grotta. Oltre la sala da pranzo si trovava una piccola zona con trogoli di roccia squadrati addossati alla parete. I trogoli erano colmi di acqua fumante. Ackerman sapeva che si trattava di latrine, ma pensando che erano trascorsi oltre mille anni provò a infilarvi le dita: l'acqua era bollente. Con tutta probabilità gli uomini di Eric il Rosso avevano individuato un corso di acqua geotermica e lo avevano deviato. Qualche metro più in là, oltre le latrine, vi era una grande vasca sopraelevata che si riversava nei trogoli. I bagni.
Dopo averli superati, Ackerman scese per uno stretto cunicolo dalle pareti levigate e decorate a disegni geometrici incisi nella roccia e dipinti di rosso, di giallo e di verde. Davanti vide un'apertura contornata da pietre ornamentali scelte con estrema cura. L'attraversò e si trovò in una vasta camera. Da quel che riusciva a scorgere, le pareti erano arrotondate e lisce. Il pavimento era composto di pietre piatte a formare un piano quasi perfetto. Ackerman si chinò per regolare la torcia. Poi si rialzò, sollevò la luce sopra la testa e rimase senza fiato per lo sgomento. Una piattaforma saliva dal centro della stanza: sopra vi era collocata una sfera grigia. I geodi e i cristalli che pendevano dal soffitto come lampadari diffondevano il chiarore della torcia in migliaia di arcobaleni, che si riflettevano per l'ambiente come le luci stroboscopiche in una discoteca. Ackerman respirò e il suono venne amplificato. Salì sulla piattaforma che gli arrivava all'altezza del petto e osservò la sfera. «Un meteorite!» esclamò. Levò di tasca la macchina fotografica digitale e iniziò a documentare la scena. Ackerman ridiscese la scala e recuperò un contatore Geiger e un libro sull'analisi dei metalli per cercare di determinare la composizione della sfera. Ben presto riuscì a scoprirla. Un'ora più tardi, di nuovo al piano inferiore dopo avere lasciato la grotta gemella, mise assieme le immagini digitali e le analisi del contatore Geiger e le allegò a una e-mail. Trascorse un'altra ora a scrivere un inebriato comunicato stampa su se stesso e, unito anche quello al messaggio di posta, inviò il tutto al proprio finanziatore per l'approvazione. Poi si rilassò, a crogiolarsi nella propria gloria e ad attendere una risposta. La stazione di monitoraggio Echelon nei dintorni di Londra, presso Chatham, registrava gran parte delle comunicazioni internazionali. Con la sua gestione congiunta anglo-americana, Echelon era stata oggetto di non poche indagini da parte della stampa al di qua e al di là dell'Atlantico. In sintesi, la stazione non era altro che un gigantesco apparato di spionaggio che intercettava le trasmissioni di tutto il mondo e le passava in un compu-
ter per esaminarle. Alcune parole venivano evidenziate, e ciò comportava che il messaggio sospetto fosse estratto, analizzato da un operatore umano e inoltrato lungo una catena di controlli fino al servizio segreto competente, oppure ignorato perché non importante. La posta di Ackerman dalla Groenlandia arrivò a un satellite prima di essere spedita negli Stati Uniti. Durante il tragitto di ritorno sulla Terra, Echelon la intercettò e la salvò nel proprio computer. C'era una parola nel testo che diede il via a un'indagine. In seguito la e-mail sarebbe passata, attraverso una serie di intercettazioni, su una linea protetta che andava dall'Inghilterra al di là dell'oceano fino alla National Security Agency, nel Maryland, e poi a Langley, in Virginia, alla CIA. Ma all'interno di Echelon c'era un traditore, e l'esito dell'indagine ebbe più di una destinazione. Nella grotta sul monte Forel, John Ackerman viveva nella mente le scene di un'esistenza da favola. Prima si era immaginato sulle copertine delle più prestigiose riviste di archeologia; adesso stava formulando il discorso con il quale accettava quello che, almeno nel suo cervello, era simile a un Oscar per l'archeologia. Quella scoperta era enorme, come l'apertura in tempi moderni di una piramide, come il ritrovamento dei resti intatti e perfettamente conservati di un naufragio. Articoli di riviste, libri, spettacoli televisivi si profilavano all'orizzonte. Se giocava bene le proprie carte, avrebbe potuto trasformare il ritrovamento nel cavallo di battaglia di una carriera duratura. Sarebbe potuto diventare il Gran Maestro riconosciuto dell'archeologia, l'uomo che i media consultano immancabilmente per un commento. Poteva diventare una celebrità, e al giorno d'oggi quella era già di per sé una carriera. Qualche piccola manipolazione, e il nome John Ackerman sarebbe stato sinonimo di «grande evento storico». E poi il computer trillò per segnalare un messaggio ricevuto. Il messaggio era succinto. Non dirlo a nessuno, per ora. Ci servono altre prove prima dell'annuncio ufficiale. Ti mando un uomo per controllare. Arriverà fra un giorno o due. Tu continua a documentare il rinvenimento. Lavoro eccezionale, John. Ma acqua in bocca. A prima vista Ackerman fu irritato dal messaggio. Alla fine ci pensò su,
riuscendo a convincersi che il suo finanziatore probabilmente voleva organizzare una grande campagna sui media per pubblicizzare il fatto. Forse progettava di concedere un'esclusiva a una delle reti principali e gli serviva tempo per preparare l'intervista. Magari aveva in mente un'azione simultanea di riviste, giornali e televisione. Ben presto si lasciò sopraffare da quei pensieri e il suo ego iniziò a scatenarsi. Tanto più intensa era la pioggia di pubblicità, tanto più grandiosa sarebbe stata la sua fama futura. Per John Ackerman quell'ego permeato di delirio di onnipotenza si sarebbe rivelato una combinazione letale. 4 Certe volte è meglio essere fortunati che intelligenti. All'ultimo piano di un hotel in una città ben nota agli amanti del rischio, un uomo di mezza età di nome Halifax Hickman osservava le immagini digitali sul computer e sorrideva. Lesse una relazione a parte che aveva stampato qualche ora prima, eseguì qualche calcolo su un taccuino e poi tornò a fissare il monitor. Incredibile. Ecco la soluzione al suo problema, ed era arrivata con una detrazione fiscale per una donazione. Era come se, infilando un quarto di dollaro in una slot-machine, avesse realizzato un jackpot da un milione. Hickman cominciò a ridere, ma non era una manifestazione di felicità. La risata era cattiva e veniva da un luogo senza gioia. Ammantata di vendetta e sfumata di odio, saliva da un abisso dell'anima. Quando la ghignata si spense, prese il telefono e compose il numero. Clay Hughes viveva fra le montagne a nord di Missoula, nel Montana, in una casa di legno che si era costruito con le proprie mani, su un appezzamento di terreno di sessantaquattro ettari di cui era il padrone assoluto. Una sorgente termale sulla proprietà gli forniva il riscaldamento per la casa oltre che per le diverse serre che producevano quasi tutto il suo cibo. L'elettricità gli veniva dall'energia solare ed eolica e, grazie alle comunicazioni via telefono satellitare e cellulare, gli era possibile parlare con il resto del mondo. Hughes era titolare di un conto in banca a sei cifre a Missoula, aveva un indirizzo presso un corriere che gli spediva e riceveva la posta, e compari-
va con nomi e indirizzi diversi su tre passaporti, quattro tessere della previdenza sociale e altrettante patenti di guida. Hughes amava la propria privacy, una cosa piuttosto comune fra i killer che desiderano tenere un basso profilo. «Ho lavoro per te», disse Hickman. «Quanto?» chiese Hughes venendo subito al sodo. «Forse cinque giorni, per cinquantamila dollari. E il trasporto ce lo metto io.» «Se ho capito bene, qualcuno se la vedrà brutta», commentò Hughes. «C'è altro?» «Avrò bisogno di far recapitare una cosa da qualche parte quando hai finito», aggiunse Hickman. «Serve alla causa?» «Sì.» «Allora la consegna sarà gratuita», rispose Hughes magnanimo. «Il mio jet sarà lì fra un'ora. Vestiti pesante.» «Voglio oro», disse Hughes. «E oro sia.» Hickman chiuse la conversazione. Un'ora più tardi un Raytheon Hawker 800XP atterrava all'aeroporto di Missoula. Hughes spense il motore della sua International Scout del 1972 rimessa a nuovo. Uscì e si piegò nel retro dell'auto per tirare la cerniera della sacca e controllare un'ultima volta le armi da fuoco. Contento di vedere ogni cosa in ordine, richiuse la cerniera e, sollevata la sacca, l'appoggiò per terra. Poi chiuse il portello posteriore, si chinò e innescò il congegno esplosivo che usava come antifurto. Se qualcuno si sognava di mettere le mani sulla sua auto mentre lui era via, la Scout sarebbe esplosa, cancellando ogni traccia del proprietario oltre che dei documenti personali. Hughes non era altro che un paranoico. Si mise il bagaglio in spalla e si avviò verso il jet. Quarantasette minuti più tardi il velivolo attraversava il confine con il Canada su una rotta nord-nordest. 5 Seduto nel suo ufficio al quartier generale della CIA, in Virginia, Langston Overholt IV fissava una fotografia del meteorite. Era passato un
giorno dall'intercettazione della e-mail dalla Groenlandia. Diede un'occhiata a un resoconto sull'iridio, poi esaminò l'elenco dei suoi agenti. Come al solito era a corto di personale. Tuffò la mano in una ciotola che aveva sulla scrivania, ne tolse una pallina da tennis e cominciò a farla rimbalzare metodicamente contro la parete, afferrandola al volo quando ritornava. La ripetizione lo rilassava. Per una cosa simile valeva la pena di dirottare agenti da un altro incarico? Sempre rischio contro ricompensa. Overholt era in attesa di un rapporto dagli scienziati della CIA che potesse fare maggior luce sulla possibile minaccia, ma in quel preciso momento le cose erano molto chiare. Qualcuno doveva andare in Groenlandia e impossessarsi del meteorite. Una volta fatto ciò, il rischio si riduceva al minimo. E dal momento che i suoi agenti erano impegnati, decise di fare una telefonata a un vecchio amico. «Due-cinque-due-quattro.» «Overholt. Com'è l'Islanda?» «Se mangio un altro pezzetto di aringa, quasi quasi vado in Irlanda a nuoto», rispose la voce di Cabrillo. «Gira voce che stai lavorando per i comunisti.» «Sono sicuro che ne sei informato», continuò Cabrillo. «Violazione della sicurezza in Ucraina.» «In effetti», ammise Overholt, «ci stiamo lavorando anche noi.» Cabrillo e Overholt erano soci da anni. Un brutto affare in Nicaragua era costato a Cabrillo il posto alla CIA, però lui aveva tenuto Overholt fuori dal casino. L'uomo non aveva mai dimenticato il favore, e nel corso degli anni aveva incanalato verso Cabrillo e la Corporation tutto il lavoro che passava dalla sua supervisione. «Questo terrorismo è una manna dal cielo per gli affari», osservò Cabrillo. «Trovi il tempo per un lavoretto secondario?» «Quanta gente richiederà?» si informò l'altro, pensando agli incarichi per i quali erano già impegnati. «Una sola persona.» «Parcella intera?» «Come al solito», rispose Overholt. «Il mio capo non è un pitocco.» «Pitocco no, solo un po' troppo svelto a sbatterti fuori.» Cabrillo, a ragione, non aveva mai dimenticato quando lo avevano lasciato nei guai. Il Congresso lo aveva messo sulla graticola e il suo superiore di allora non aveva fatto niente per gettare acqua sul fuoco. Per poli-
tici e burocrati il presidente della Corporation provava più o meno lo stesso sentimento nutrito per il trapano del dentista. «Mi serve solo una persona che faccia un salto in Groenlandia a prendere una cosa», gli spiegò Overholt. «Ci vorranno uno o due giorni.» «Hai scelto il momento migliore», rispose Cabrillo. «C'è un freddo che ti paralizza ed è buio ventiquattr'ore su ventiquattro in questo periodo dell'anno.» «Mi dicono che l'aurora boreale è bella», cercò di addolcirlo Overholt. «Perché non lasci che se ne occupi uno dei tuoi squallidoni della CIA?» «Come sempre non ne ho di disponibili. Preferirei davvero pagare il tuo equipaggio e sistemare il tutto con il minimo fastidio.» «Abbiamo ancora qualche giorno di lavoro qui, prima di liberarci.» «Juan», insistette Overholt disinvolto, «sono sicuro al cento per cento che questo è un lavoro per una sola persona. Se solo potessi mandare uno dei tuoi laggiù, sarebbe di ritorno prima della conclusione del vertice.» Cabrillo ci rifletté un istante. Il resto della squadra si occupava della sicurezza dell'emiro. In quegli ultimi giorni lui era rimasto a bordo della Oregon a occuparsi degli affari della compagnia. Era annoiato e si sentiva come un purosangue nel suo box. «Lo faccio io il lavoro. I miei ragazzi hanno quest'altra faccenda sotto controllo.» «Per me va benissimo», commentò Overholt. «Davvero devo solo andare in Groenlandia a prendere qualcosa? È così?» «Esattamente.» «Di che cosa si tratta?» «Di un meteorite», ribatté lentamente Overholt. «Perché diavolo la CIA dovrebbe volere un meteorite?» «Perché riteniamo possa essere composto di iridio, e l'iridio può essere impiegato per costruire una bomba sporca.» «Che altro c'è da sapere?» chiese Cabrillo, facendosi adesso prudente. «Devi rubarlo all'archeologo che lo ha scoperto», continuò Overholt. «Preferibilmente senza che lui lo sappia.» Cabrillo tacque per un momento. «Hai guardato dentro il covo di recente?» «Che covo?» rispose Overholt abboccando all'amo. «Il covo di vipere dove vivi.» «Accetti l'incarico, allora, Juan?»
«Fammi avere i particolari. Partirò fra qualche ora.» «Non preoccuparti. Per la Corporation questi dovrebbero essere i soldi più facili da guadagnare di tutto l'anno. Come un regalo di Natale da un vecchio amico.» «Guardati dagli amici che vengono con i regali», rispose Cabrillo prima di chiudere la conversazione. Un'ora più tardi Juan Cabrillo stava terminando i preparativi dell'ultimo minuto. Kevin Nixon si pulì le mani in uno straccio e poi lo gettò su una panca del Magic Shop, la divisione a bordo della Oregon che si occupava delle contraffazioni richieste dalle missioni, di attrezzature, di elettronica specializzata, di travestimenti e di costumi. Nixon ne era il responsabile, oltre che l'inventore creativo. «Senza le misure precise, questo è il meglio che possa fare», gli fece notare Nixon. «È stupendo, Kevin», disse Cabrillo mentre prendeva l'oggetto e lo sistemava in un contenitore che sigillò con del nastro adesivo. «Prenda questi. E questi», continuò Nixon consegnandogli alcuni pacchetti. Cabrillo li infilò nello zaino. «Okay. Ha gli indumenti per il freddo, il kit per le comunicazioni, scorte alimentari e tutto quello che mi è sembrato potesse essere necessario. Buona fortuna.» «Grazie», rispose Cabrillo. «Adesso devo salire a parlare con Hanley.» Meno di un'ora più tardi, dopo essersi assicurato che Max Hanley, il suo vice, facesse procedere a regola d'arte le operazioni a Reykjavík, Cabrillo si fece portare all'aeroporto dove lo aspettava il volo per la Groenlandia. Quella che sembrava una faccenda semplice si sarebbe complicata sempre di più. E prima che tutto finisse una nazione avrebbe vissuto sotto minaccia e numerose persone sarebbero morte. 6 Pieter Vanderwald era un mercante di morte. Quando, all'epoca dell'apartheid, aveva presieduto il programma di sperimentazione sudafricano sulle armi (l'EWP, Experimental Weapons Program), Vanderwald era
stato il supervisore di esperimenti spaventosi quali la sterilizzazione umana attraverso additivi alimentari, la diffusione di malattie infettive per via aerea e di armi biologiche in zone abitate, nonché la somministrazione di sostanze chimiche tossiche in forma liquida alla popolazione. Nucleare, chimica, biologica, acustica, elettrica: se la si poteva impiegare per uccidere, Vanderwald e il suo team costruivano l'arma, l'acquistavano o la progettavano personalmente. I loro esperimenti secretati mostravano che una combinazione di agenti, applicati a dovere, poteva essere usata per infettare o uccidere migliaia di sudafricani neri nel giro di trentasei ore. Altri studi documentavano in dettaglio come, nel giro di una settimana, il novantanove per cento della popolazione non protetta dal tropico del Capricorno in giù, o metà dell'intera punta dell'Africa, alla fine sarebbe morta. Per il suo operato Vanderwald aveva ricevuto un premio e un bonus in contanti di due mesi di stipendio. Privi di sistemi missilistici a lunga gittata come gli SCUD o gli ICBM, e con risorse aeree limitate, Vanderwald e il suo team avevano perfezionato metodi per introdurre gli agenti di morte in un'area e farli poi diffondere dalle stesse vittime. L'elemento chiave era spargere i germi negli approvvigionamenti idrici, far sì che il vento diffondesse la pestilenza oppure propagarla usando autobotti o proiettili d'artiglieria. All'EWP erano maestri in quel gioco, ma con la fine dell'apartheid la squadra era stata sciolta in precipitosa segretezza, e Vanderwald e gli altri colleghi scienziati erano rimasti a cavarsela da soli. Molti di loro avevano preso la liquidazione e si erano messi in pensione, ma c'era chi, come Vanderwald, aveva offerto sul mercato le proprie abilità e conoscenze specialistiche, nel momento in cui un mondo sempre più violento provava interesse per il loro singolare talento. Paesi del Medio Oriente, dell'Asia e del Sudamerica avevano cercato la sua consulenza e la sua competenza. Lui seguiva soltanto una regola: non lavorare gratis. «Bel colpo!» esclamò allegramente Vanderwald. Una brezza leggera soffiava dalla piazzola in direzione della buca. La temperatura era di ventisei gradi, costante. L'aria era asciutta come un sacchetto di farina e trasparente come una lastra di vetro. «Il venticello mi ha dato una mano», ribatté Halifax Hickman tornando al cart. Infilò la mazza nella sacca poi salì al posto di guida. Non c'erano caddie sul campo, e neppure altri giocatori, solo una squa-
dra di addetti alla sicurezza che andava e veniva in mezzo agli alberi e ai cespugli, una coppia di anatre nel laghetto e una volpe rossa scheletrica e impolverata che era sgattaiolata in mezzo al fairway poco prima. Era tutto stranamente tranquillo, e l'aria sembrava trattenere i ricordi dell'anno quasi terminato. «Deve proprio odiarla, quella gente», osservò Vanderwald. Hickman pigiò sull'acceleratore e il cart fece un balzo in avanti lungo il fairway, avviandosi verso le palle lontane. «La pago per quello che sa, non per psicanalizzarmi.» Vanderwald annuì e tornò a esaminare la fotografia. «Se è davvero quello che crede», sussurrò, «ha un gioiellino. La radioattività è altissima, ed è estremamente pericolosa tanto in forma solida quanto in polvere. Ha parecchie opzioni.» Hickman frenò perché il cart era vicino alla palla di Vanderwald. Quando fu fermo il sudafricano scese e prese una mazza dalla sacca. Poi si avvicinò alla palla e si preparò per il lancio. Dopo un paio di swing di prova restò immobile, concentrandosi, e infine le impresse una nitida traiettoria arcuata. La palla volò via con forza dalla testa della mazza guadagnando quota a mano a mano che viaggiava. A poco più di cento metri di distanza ricadde sull'erba vicino al green, mancando di un pelo il bunker. «E così in polvere, insieme all'aria, funzionerebbe?» gli chiese Hickman mentre risaliva sul cart. «A patto che lei riesca a far arrivare un aereo in qualche punto vicino al bersaglio.» «Non ha un'idea migliore?» continuò Hickman accelerando verso la propria palla. «Sì, colpire i suoi nemici direttamente al cuore. Ma la cosa le costerà.» «Crede che il denaro sia un problema?» concluse Hickman. 7 Talvolta la temperatura è uno stato d'animo, oltre che una condizione. A vedere ondate di calore che si levano dall'asfalto, con ogni probabilità si proverà più caldo di quando la medesima strada ci appare coperta di neve. Juan Cabrillo non si faceva illusioni su quello che vedeva in quell'istante. Il panorama dal finestrino del turboelica, che attraverso lo stretto di Danimarca si allontanava dall'Islanda diretto in Groenlandia, era tale da gelare il cuore e far giungere le mani in segno di compassione. La sponda orienta-
le della Groenlandia era costeggiata di montagne, e lo spettacolo offerto era di desolazione assoluta. In tutte quelle migliaia e migliaia di chilometri quadrati viveva una popolazione che contava meno di cinquemila abitanti. Il cielo era azzurro cupo e percorso da nuvole gonfie di neve. Non c'era bisogno di toccare le acque coperte di bianco che si vedevano sotto, in lontananza, per sapere che la temperatura era sotto lo zero e che il torrente impetuoso era in forma liquida solo grazie al contenuto salino. Il sottile bordo di ghiaccio sulle ali e le bordure di gelo sul parabrezza davano il tocco finale all'immagine, ma era la fitta calotta che ricopriva la Groenlandia, appena visibile dal vetro anteriore, a imporre la nota più gelida e sinistra. Cabrillo rabbrividì involontariamente e fissò lo sguardo fuori dal finestrino laterale. «Siamo a dieci minuti», lo informò il pilota. «La torre dice che il vento è solo tra i dieci e i quindici nodi. L'atterraggio sarà un gioco da ragazzi.» «Okay», rispose Cabrillo a voce alta, per sovrastare il rombo dei motori. Continuarono a volare in silenzio verso il profilo roccioso che si stagliava sempre più massiccio. Qualche minuto dopo Cabrillo sentì che il turboelica rallentava avvicinandosi al perimetro esterno dell'aeroporto. Il pilota manovrò l'aereo passando sottovento per mettersi parallelo alla pista. Cabrillo lo osservava regolare la strumentazione. Un minuto più tardi l'uomo virò in direzione della base, percorse un breve tratto e virò ancora per l'avvicinamento finale. «Ancora un po' di pazienza», disse il pilota, «e fra pochissimo saremo a terra.» Cabrillo guardava la distesa gelata sotto di sé. Le luci lungo la pista gettavano un fioco bagliore nella penombra del pomeriggio. La segnaletica si vedeva a intermittenza nel turbinare della neve. Avvolta nella foschia e nel buio sempre più marcato, Cabrillo avvistò la manica a vento, leggermente tesa. L'aeroporto di Kulusuk, dove sarebbero atterrati, serviva una ridottissima popolazione di quattrocento persone ed era poco più di una pista di ghiaia infilata dietro la cresta di una montagna assieme a un paio di modeste costruzioni. L'altro centro abitato più vicino - Angmagssalik, o Tasiilaq, il suo nome inuit - era a dieci minuti di elicottero da lì e contava tre volte la popolazione di Kulusuk. Quando il turboelica si trovò proprio sopra la pista, il pilota diede timo-
ne verticale e lo raddrizzò. Un secondo dopo il velivolo toccava terra leggero come una piuma. Rullò sulla ghiaia ricoperta di neve e rallentò davanti a un edificio di metallo. Poi, eseguiti rapidamente i controlli postvolo, il pilota spense il motore. «Devo fare rifornimento. Entri anche lei», disse indicando a Cabrillo l'edificio. 8 Nel momento in cui Cabrillo atterrava a Kulusuk il pilota dell'Hawker 800XP stava spegnendo i motori all'aeroporto internazionale di Kangerlussuaq, sulla costa occidentale della Groenlandia. Kangerlussuaq vantava una pista in cemento di oltre milleottocento metri che poteva accogliere grossi jet e veniva spesso usata come stazione di rifornimento per aerei cargo diretti in Europa e più lontano. L'aeroporto era a circa seicentocinquanta chilometri dal monte Forel, ma era la struttura più vicina con una pista abbastanza lunga per far atterrare l'Hawker. Clay Hughes aspettò che il copilota aprisse il portello, quindi si alzò dal proprio sedile. «Che ordini avete?» chiese. «Di attendere qui che lei ritorni oppure di aspettare una telefonata del capo che ci dica di andarcene.» «Come mi metto in contatto con voi?» L'uomo diede a Hughes un biglietto da visita. «Questo è il numero del telefono satellitare del pilota. Ci chiami con circa una mezz'ora di preavviso.» «Vi hanno detto come dovrei raggiungere la mia destinazione?» Il pilota sporse la testa fuori dalla cabina. «C'è una persona che viene incontro all'aereo», disse facendo segno al di là del parabrezza. «Immagino che sia qui per lei.» Hughes infilò il biglietto da visita nella tasca del parka. «Allora va bene.» Un vento gelido soffiava sulla pista sparpagliando i granelli di neve secca come coriandoli lungo una sfilata di carri. Mentre Hughes scendeva dalla scaletta dell'Hawker gli occhi cominciarono subito a lacrimare. «Dovete essere quelli che mi hanno assunto per farsi portare al monte Forel», disse l'uomo, tendendo la mano. «Mike Neilsen, piacere.» Hughes diede a Neilsen un nome falso, poi guardò in alto. «È pronto?» «Non possiamo partire fino a domani mattina. Sono state prenotate due
stanze in hotel per lei e i piloti. Decolleremo appena fa luce, a patto che il tempo migliori.» I due uomini si incamminarono verso il terminal. «Ha abbastanza carburante per volare direttamente al monte Forel da qui?» chiese Hughes. «Ho un'autonomia di mille chilometri in assenza di vento. Comunque, per sicurezza, credo che sia meglio fare rifornimento a Tasiilaq prima di affrontare la montagna.» Arrivarono al terminal. Neilsen aprì la porta e fece segno a Hughes di entrare. Lo guidò verso un banco dove un inuit solitario stava seduto a una comunissima scrivania di metallo. Aveva gli scarponi appoggiati sul piano e dormiva. Neilsen chiamò l'uomo appisolato. «Isnik, è ora di lavorare.» Isnik aprì gli occhi e guardò i due uomini che gli stavano davanti. «Ciao, Mike. Passaporto, prego», disse a Hughes. Hughes consegnò all'impiegato un passaporto americano con un falso nome, ma con la sua vera fotografia. Isnik diede un'occhiata distratta al documento e vi impresse il timbro di ingresso. «Scopo della visita?» si informò. «Ricerca scientifica», rispose Hughes. «Immagino che nessuno venga qui per il clima, no?» ribatté Isnik mentre annotava qualcosa su un foglio di carta appeso a un portablocco sulla scrivania. «Puoi dire ai piloti di raggiungere l'hotel, quando hanno finito?» gli chiese Neilsen. «Va bene», rispose l'impiegato piazzando di nuovo i mukluks sulla scrivania. Neilsen fece strada a Hughes verso l'uscita del terminal. «Questa è una vecchia base aerea americana», gli spiegò. «Il complesso degli alloggi è diventato un hotel. In effetti non è niente male. C'è l'unica piscina coperta della Groenlandia e persino una pista di bowling a sei corsie. Nel Paese è la cosa che assomiglia di più a un quattro stelle.» I due uomini attraversarono il parcheggio percorrendo la breve distanza che li separava dall'hotel. Lì Hughes ricevette la propria chiave. Due ore più tardi, dopo un pasto a base di bistecche di bue muschiato e patatine fritte, si preparò per andare a dormire. Era solo pomeriggio presto, ma l'indomani lo aspettava parecchio lavoro e voleva essere perfettamente riposato.
9 Juan Cabrillo attraversò in fretta la dogana al minuscolo aeroporto di Kulusuk, poi osservò una carta geografica appesa alla parete vicino all'uscita. Nei pochi mesi estivi l'isola di Kulusuk è circondata dall'acqua. Non appena arriva l'autunno e le temperature scendono, il mare ghiaccia in spessi strati, i quali, sebbene non raggiungano mai lo spessore sufficiente a reggere una locomotiva, per esempio, possono comunque sostenere auto, camion o veicoli da neve che li attraversano senza fatica. D'inverno Kulusuk non è più un'isola. È unita alla Groenlandia dai ghiacci. Rispetto al punto in cui si trovava Cabrillo, il circolo polare artico vero e proprio è a poco più di cento chilometri a nord, e da lì, dopo un'altra ventina circa, si raggiunge il monte Forel. Il solstizio d'inverno, il 22 dicembre, era passato da poco, e in quell'unico giorno dell'anno nella calotta artica regna la completa oscurità. Proseguendo sempre più a settentrione, il buio è costante. A sud del sessantaseiesimo parallelo il 22 dicembre segna un punto di svolta: con il progredire dell'inverno verso la primavera le ore di luce si prolungano di qualche minuto ogni giorno. All'arrivo dell'estate sorge il cosiddetto sole di mezzanotte, che nella zona a settentrione del circolo non tramonta mai per mesi. È un ciclo che si ripete da un'infinità di secoli. Fuori, un vento ululante scagliava pallottole dure di neve gelata contro le finestre del terminal. Il clima sembrava orribile come l'interno di una cella frigorifera di macellaio. Cabrillo guardava e rabbrividiva. Sebbene fosse ancora dentro, tirò su la cerniera del parka. Dal momento che Kulusuk si trova subito sotto il circolo polare artico, quel giorno avrebbe goduto di qualche minuto di luce. Il monte Forel, al contrario, restava ancora nella completa oscurità. Nei giorni e nelle settimane successivi la vetta della montagna avrebbe cominciato a ricevere i primi raggi di luce; poi, con il trascorrere dei mesi, il sole avrebbe iniziato a scivolare lungo i fianchi della montagna come pittura gialla rovesciata in cima a una piramide. Ma a guardare fuori dalla finestra uno non avrebbe mai immaginato che il sole fosse passato, passasse o sarebbe mai giunto da quelle parti. In quel preciso momento, però, Cabrillo era preoccupato più del trasporto che del buio. Allontanandosi in direzione del terminal estrasse un tele-
fono satellitare e attivò la chiamata speciale. «Che cosa hai scoperto?» chiese quando Hanley gli rispose. A causa della fretta di Overholt, Cabrillo era partito dalla Oregon senza un piano preciso su come raggiungere il monte Forel. Hanley gli aveva assicurato che quando fosse stato a terra avrebbe preparato un programma adeguato. «Ci sono delle mute di cani da slitta che è possibile affittare», osservò Hanley, «ma avresti bisogno di una guida che le conduca, e non penso che tu voglia testimoni, così ho scartato la possibilità. Gli elicotteri che fanno servizio su Kulusuk hanno voli regolari di linea, da Tasiilaq e ritorno, ma non si possono noleggiare e con il tempo che fa adesso sono costretti a terra.» «Non è il clima adatto per andare a piedi», disse Cabrillo guardando fuori. «O con gli sci», aggiunse Hanley, «anche se so che ti vanti della tua abilità di sciatore.» «E allora cosa?» «Ho chiesto al computer di darmi i dettagli dei veicoli della zona; non c'è voluto molto, dal momento che ci sono solo quattrocento persone o giù di lì a Kulusuk. Ho lasciato perdere le motoslitte perché saresti esposto alla neve e al freddo, e in più sono facili a rompersi. Non ci restano che i gatti delle nevi. Sono lenti e consumano un sacco, ma sono riscaldati e c'è parecchio spazio per metterci le scorte. Credo che sia la nostra opzione migliore.» «Mi sembra sensato», rispose Cabrillo. «Dove trovo il noleggio?» «Non c'è, ma ho recuperato i nomi e gli indirizzi dei proprietari privati dal registro groenlandese e ho fatto qualche telefonata. Nessuno dei possessori ha un telefono fisso, però sono riuscito a contattare il pastore della chiesa locale. Mi ha detto che c'è un uomo che potrebbe accettare di noleggiare il suo, gli altri servono ai proprietari.» «Qual è l'indirizzo?» chiese Cabrillo prendendo una penna e un piccolo taccuino dal parka. «Sesta casa dopo la chiesa: muri rossi con serramenti gialli.» «Nello sperduto Nord non ci sono indirizzi normali, eh?» «Tutti si conoscono fra loro, immagino.» «A quanto pare i locali sono accoglienti.» «Non ne sarei troppo sicuro. Il pastore ha accennato al fatto che il pro-
prietario beve parecchio d'inverno. Ha anche detto che quasi tutti in zona portano armi da fuoco per tenere alla larga gli orsi.» Cabrillo annuì. «E così, in parole povere, mi basta convincere un locale armato e sbronzo a noleggiarmi il suo gatto delle nevi e sono a cavallo», disse accarezzando i pacchetti di banconote da cento dollari che aveva in tasca. «Semplicissimo.» «Be', c'è ancora una cosa... non è uno del posto. È cresciuto ad Arvada, Colorado, ed è stato nell'esercito durante la guerra del Vietnam. Da quello che sono riuscito a mettere insieme dai database, una volta tornato ha passato qualche anno dentro e fuori dagli ospedali per veterani. Poi ha lasciato gli Stati Uniti con l'idea di andarsene il più lontano possibile.» Cabrillo guardò di nuovo fuori dalla finestra. «Pare proprio che abbia raggiunto lo scopo.» «Mi dispiace, Juan», si scusò Hanley. «Fra due giorni, quando il vertice chiude i battenti, potremo spostare la Oregon e Adams ti potrà portare lassù in elicottero. Ora come ora è tutto quello che abbiamo.» «Non c'è problema», disse Cabrillo guardando l'appunto che si era preso. «Sesta casa dopo la chiesa.» «Muri rossi e serramenti gialli», ribatté Hanley. «E va bene, andiamo a incontrare il pazzo.» Chiuse la comunicazione e uscì dal terminal. Cabrillo lasciò gli scatoloni con i rifornimenti all'aeroporto e si avvicinò a una motoslitta-taxi con un inuit che le stazionava accanto. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia quando sentì l'indirizzo, ma non disse niente. Sembrava più preoccupato per la tariffa, che calcolò in corone danesi. «Quanto in dollari americani?» chiese Cabrillo. «Venti», rispose il ragazzo senza esitazione. «Affare fatto», disse Cabrillo tendendogli una banconota. Il ragazzo salì sulla motoslitta e fece per accendere. «Lo conosci Garth Brooks?» domandò dando per scontato che negli Stati Uniti tutti conoscessero tutti come nel suo villaggio. «No, ma una volta ho giocato a golf con Willie Nelson.» «Grande. È bravo?» «Fa dei colpi tagliati pazzeschi», rispose Cabrillo mentre l'altro accendeva il motore che si destò rombando. «Sali.» Una volta che Cabrillo si fu accomodato, l'inuit si allontanò a gran velo-
cità dall'aeroporto. I fari della motoslitta quasi non riuscivano a penetrare la coltre di oscurità e la tormenta di neve. Kulusuk era poco più che un grappolo di case a circa un chilometro e mezzo dall'aeroporto. I muri delle abitazioni erano parzialmente coperti da cumuli di neve. Dall'interno degli edifici provenivano volute di fumo e di vapore. Vicino alle abitazioni stavano raggruppate mute di cani, insieme con una gran quantità di motoslitte; gli sci erano piantati nella neve con le punte all'insù e le racchette stavano appese a dei ganci vicino alle porte. La vita a Kulusuk pareva dura e ben poco allegra. A nord della cittadina la distesa di ghiaccio che portava alla terraferma si intravedeva appena, come una sagoma indistinta, nera e scivolosa, e il vento soffiava via la neve ammucchiandola in piccoli cumuli che si formavano e riformavano in continuazione. Delle colline al di là della coltre bianca si percepiva unicamente il profilo, di un grigio diverso sullo sfondo fatto di nulla. La scena era invitante come un tour in un forno crematorio. Cabrillo sentì che la motoslitta stava rallentando per arrestarsi. Scese da dietro e restò sulla neve semicompatta. «A dopo», disse il ragazzo con un rapido gesto della mano. Sterzò il volante tutto a sinistra, compì un'inversione completa sulla pista fatta di neve e si allontanò velocemente. Cabrillo era rimasto da solo al buio e al gelo. Guardò un istante la casa mezzo sepolta. Poi cominciò a farsi strada verso la porta tra i cumuli di neve. Prima di bussare esitò un attimo sui gradini. 10 Hickman stava esaminando i dati dell'Ufficio di approvvigionamento dell'Arabia Saudita che i suoi hacker avevano prelevato da un database. Le pagine erano state tradotte dall'arabo in inglese, ma la versione non era certo impeccabile. Mentre faceva passare gli elenchi scriveva alcune annotazioni lungo le colonne. Un dato colpiva immediatamente l'occhio. Era un ordine di tappeti inginocchiatoio di tessuto di lana, e il fornitore aveva sede in Inghilterra, a Maidenhead. Hickman chiamò la segretaria con l'interfono. «C'è un tale Whalid che lavora per me all'hotel Nevada. Credo sia il vicedirettore addetto al settore cibo e bevande.» «Sì, signore.» «Fammi chiamare subito. Devo chiedergli una cosa.»
Qualche minuto più tardi il telefono squillò. «Parla Abdul Whalid», disse una voce. «Mi hanno riferito che dovevo chiamarla.» «Sì», rispose Hickman. «Contatta questa ditta in Inghilterra», gli snocciolò il numero di telefono, «e fingi di essere un funzionario dell'Arabia Saudita o qualcosa del genere. Hanno un ordine di parecchi milioni di dollari per tappeti inginocchiatoio di tessuto di lana e voglio sapere esattamente cosa significa 'tappeti inginocchiatoio di tessuto di lana'.» «Posso chiederle la ragione, signore?» «Sono proprietario anche di industrie», mentì Hickman. «Vorrei appurare che cosa sono questi articoli, perché se riusciamo a produrli mi piacerebbe capire come mai i miei uomini non hanno partecipato alla gara d'appalto.» Whalid la trovò una risposta sensata. «Molto bene, signore. Telefono e poi la richiamo subito.» «Ottimo.» Hickman ritornò a fissare la fotografia del meteorite. Dieci minuti più tardi Whalid ritelefonò. «Sono tappeti da preghiera. L'ordine è così ingente perché il Paese sta sostituendo l'intera dotazione in uso alla Mecca. A quanto pare, lo fanno ogni dieci anni all'incirca.» «Uhm, così ci siamo lasciati scappare un'occasione che non si presenterà più per un po'. Peccato.» «Mi spiace, signore», disse Whalid. «Non so se ne è al corrente, ma prima del colpo di Stato dirigevo una fabbrica nel mio Paese. Sarei molto interessato...» Hickman lo interruppe sgarbatamente. La sua mente galoppava. «Mandami un curriculum, Whalid, e farò in modo che vada a finire nelle mani giuste.» «Come vuole, signore», rispose Whalid umilmente. Hickman riagganciò il telefono senza nemmeno salutarlo. Pieter Vanderwald rispose al cellulare mentre si trovava in automobile appena fuori Palm Springs, California. «Sono io.» «Non siamo su una linea protetta», disse Vanderwald, «dunque si tenga sulle generali e facciamo durare la chiamata meno di tre minuti.» «La sostanza di cui parlavamo è utilizzabile in forma di aerosol?» «Quello è uno dei modi in cui si può usare. Poi si trasmetterebbe con l'a-
ria oppure per contatto o con un colpo di tosse.» «E se la polvere fosse sui vestiti, si trasferirebbe da persona a persona?» Vanderwald guardò l'orologio digitale sulla radio della sua auto a noleggio. Metà del tempo consentito era trascorsa. «Sì, passerebbe dai vestiti e dalla pelle, anche attraverso l'aria.» «E quanto ci si metterebbe a morire per l'esposizione?» L'orologio digitale sul cruscotto fece scattare un numero. «Una settimana, forse meno. Mi troverà al telefono di casa questa sera, se vuole che ne parliamo ancora.» La linea restò muta e l'uomo si rilassò sulla poltrona. Poi sorrise. «Già due milioni mi sembra un prezzo esorbitante, considerando il profitto dell'anno scorso», diceva l'avvocato al telefono. «Una volta onorati i contratti che hanno in essere, le prospettive future non sono esaltanti.» «Lei concluda l'affare», rispose Hickman tranquillo. «Ammortizzerò le perdite con i guadagni della mia proprietà nei Docklands.» «Il capo è lei.» «Vede che ha capito?» «Da dove vuole che vengano i fondi?» Hickman fece scorrere una schermata sul suo computer. «Usi il conto di Parigi», disse, «ma voglio concludere la transazione domani e prendere possesso della compagnia entro settantadue ore al più tardi.» «Pensa che nei prossimi due giorni gli inglesi saranno a corto di aziende da vendere?» chiese l'avvocato. «Oppure è al corrente di qualcosa che io non so?» «So un sacco di cose che lei ignora. Ma se continua a parlare le resteranno solo settantuno ore per mettere insieme l'affare. Si limiti a fare quello che per cui la pago, al progetto ci penso io.» «Ho capito perfettamente, signore», disse l'avvocato prima di chiudere. Hickman si abbandonò sulla poltrona rilassandosi per un momento. Poi prese una lente d'ingrandimento dalla scrivania e osservò la fotografia aerea che aveva davanti. Ripose la lente e si mise a esaminare una carta geografica. Infine aprì un raccoglitore e scorse le fotografie che vi erano contenute. Le immagini raffiguravano le vittime dei bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki alla fine della seconda guerra mondiale. E, sebbene fossero assai vivide e forti, l'uomo sorrise. La vendetta è mia, pensò. Quella sera chiamò Vanderwald sul telefono di casa.
«Ho trovato qualcosa di meglio», disse il sudafricano. «È un germe che si propaga per via aerea e che colpisce i polmoni. È molto tossico, dovrebbe uccidere l'ottanta per cento della popolazione del Paese.» «Quanto costa?» domandò Hickman. «Occorreranno seicentomila dollari.» «Se li faccia consegnare assieme a tutto il C-6 che riesce a procurarsi.» «Quanto è grande la struttura che intende distruggere?» chiese Vanderwald. «Ha presente il Pentagono?» «Per quelle dimensioni la cifra sarà un milione e due.» «Assegno circolare?» domandò Hickman. «Oro», rispose Vanderwald. 11 Cabrillo diede un'occhiata alle corna di bue muschiato sulla porta, poi allungò la mano, sollevò un battente di ferro a forma di pesce e lo picchiò contro le assi di una porta massiccia. Sentì il rumore di passi strascicati proveniente dall'interno e infine tutto tacque. D'un tratto nella porta si aprì una piccola feritoia grande come un filone di pane, da cui spuntò una faccia. L'uomo aveva le guance incavate, la barba grigia macchiata di tabacco, baffi e occhi iniettati di sangue. I denti erano chiazzati e sudici. «Infilalo attraverso il buco.» «Cosa devo infilare attraverso il buco?» domandò Cabrillo. «Il Jack. La bottiglia di Jack.» «Sono qui per chiederle se mi affitta il suo gatto delle nevi.» «Non sei della bottega giù in paese?» chiese l'uomo con più di un accenno di delusione e disperazione. «No», rispose Cabrillo. «Ma se mi lascia entrare a parlarle, poi andrò a prenderle una bottiglia.» «Stiamo parlando di Jack Daniel's, non della roba a buon mercato, vero?» Cabrillo aveva freddo e ogni minuto che passava era sempre peggio. «Sì, prodotto a Lynchburg, Tennessee, etichetta nera. So di cosa stiamo parlando. E adesso apra la porta.» Lo spioncino si chiuse e l'uomo ubbidì. Cabrillo entrò in un salotto decorato dallo squallore e dal disordine. La polvere dell'estate prima rivestiva i tavoli e i bordi superiori delle cornici. Il tanfo che si respirava era un misto
di pesce vecchio e di odore di piedi. Un paio di lampade su due tavolini proiettava chiazze di luce giallastra nella stanza altrimenti immersa nel buio. «Scusa il casino. La donna delle pulizie si è licenziata qualche anno fa.» Cabrillo restò vicino alla porta: non aveva alcun desiderio di addentrarsi più in là nella stanza. «Come ho detto, sono interessato a noleggiare il suo gatto delle nevi.» L'uomo si era seduto su una malconcia poltrona con lo schienale reclinabile. Una bottiglia di whisky da un litro era appoggiata sul tavolo al suo fianco. Era quasi vuota, a malapena restavano due dita di liquore sul fondo. Poi, come da copione, si versò quel rimasuglio in una tazza sbeccata e bevve. «Dove hai in mente di andare?» si informò. Prima che Cabrillo potesse rispondere l'uomo ebbe un accesso di tosse. Cabrillo aspettò che finisse. «Al monte Forel.» «Anche tu con quegli archeologi?» «Sì», mentì Cabrillo. «Americano?» «Sì.» L'uomo annuì. «Scusa le maniere. Sono Woody Campbell. In questo posto tutti mi chiamano Woodman.» Cabrillo si avvicinò e gli porse la destra infilata nel guanto. «Juan Cabrillo.» I due si strinsero la mano e Campbell gli fece segno di accomodarsi su una sedia vicina. Cabrillo si sedette e Campbell restò a fissarlo senza parlare. Il silenzio pesava sulla stanza come un mattone su una patatina. Finalmente Campbell parlò. «Non mi sembri un professore», disse. «Come dovrebbe essere un archeologo secondo lei?» «Non come uno che ha combattuto, come uno che si è preso la vita di un altro uomo.» «Lei è ubriaco», replicò Cabrillo. «Questo è bere di mantenimento. Ma non ti ho sentito dire di no.» Cabrillo tacque. «Esercito?» insistette Campbell senza abbandonare l'argomento. «CIA... ma è stato tempo fa.» «Lo sapevo che non eri un archeologo.»
«La CIA ha i suoi», osservò Cabrillo. In quel momento si sentì bussare. Cabrillo fece segno a Campbell di non alzarsi e andò alla porta. Un inuit con indosso una tuta da sci era fuori con una busta in mano. «È il whisky?» chiese Cabrillo. L'uomo annuì. Cabrillo infilò la mano nella tasca e ne tolse un fermasoldi. Fece scivolare fuori una banconota da cento dollari e la consegnò all'inuit, che gli diede la bottiglia. «Non ho il resto.» «È sufficiente a pagare questa e un'altra da consegnare più tardi, più qualcosa per il tuo disturbo?» «Sì», disse l'inuit, «ma il padrone non mi permette di consegnare a Woodman più di una bottiglia al giorno.» «Porta l'altra domani e tieni il resto.» L'inuit fece segno di sì e Cabrillo chiuse la porta. Portò dentro il whisky, si avvicinò a Campbell e glielo porse. Campbell tolse la bottiglia dalla busta, appallottolò la carta e la gettò in un cestino, mancandolo. Poi spezzò il sigillo e riempì la tazza. «Ti ringrazio.» «Non dovrebbe», gli disse Cabrillo. «Deve smettere.» «Impossibile», rispose Woodman adocchiando la bottiglia. «Ci ho provato.» «Stronzate. Ho lavorato con dei ragazzi che avevano un problema peggiore... e oggi sono a posto.» «E va bene, mister CIA», disse allora Campbell, rassegnato, «tu trovi la maniera per disintossicarmi e il gatto delle nevi è tuo. Non lo uso da mesi... non riesco a uscire di casa.» «Era nell'esercito.» «Chi diavolo sei? Nessuno in Groenlandia ne è al corrente.» «Dirigo una società specializzata che si occupa di servizi segreti e di sicurezza, una società privata. Siamo in grado di scoprire tutto.» «Non conti balle?» «Non conto balle», ripeté Cabrillo. «Qual era il suo ruolo nell'esercito? Non mi sono preso la briga di chiederlo ai miei collaboratori.» «Berretti verdi e in seguito il progetto Phoenix.» «Dunque anche lei ha lavorato per la CIA?» «Indirettamente», ammise Campbell, «ma mi hanno voltato le spalle. Mi hanno addestrato, mi hanno fatto saltare le cervella per poi gettarmi via.
Sono tornato a casa con niente all'infuori di un problema con l'eroina che sono riuscito a risolvere da solo, e con un sacco di brutti ricordi.» «Capisco. Adesso dov'è il gatto delle nevi?» «Fuori sul retro», rispose Campbell indicando una porta. «Vado a controllarlo.» Cabrillo si avviò all'uscita. «Lei resti seduto qui e pensi bene se vuole davvero cambiare vita. Se è così, e se il gatto delle nevi è a posto, avrei un'idea che possiamo discutere. Altrimenti ci mettiamo d'accordo che io le do abbastanza soldi da mantenerla a Jack Daniel's finché il fegato non le scoppia. Va bene?» Campbell annuì e Cabrillo uscì. Cosa abbastanza sorprendente, il gatto delle nevi era in condizioni perfette. Un modello Thiokol 1202B-4 con cingoli larghi Spryte del 1970. Era alimentato da un motore Ford 500 cc sei cilindri a quattro velocità, carrozzato come un pick-up con un pianale sul retro. Sul tettuccio erano montati alcuni fari, il pianale ospitava un serbatoio extra e i cingoli sembravano praticamente nuovi. Cabrillo aprì la portiera. Fra i sedili c'era una gobba di metallo che alloggiava il cambio dalla strana forma ad angolo, oltre a un paio di leve davanti al sedile del guidatore che servivano a manovrare il mezzo come un carro armato. Cabrillo sapeva che con un semplice movimento delle leve il Thiokol si sarebbe messo a ruotare sui suoi cingoli. Il cruscotto era metallico, con un gruppo di indicatori davanti all'autista e bocchette dei riscaldamento più sotto. Piazzato dietro il sedile, fissato a dei supporti, c'era un fucile di grosso calibro. Non mancavano i razzi di segnalazione di emergenza, un kit di attrezzi con pezzi di ricambio e cartine topografiche impermeabili. Tutto era verniciato di fresco, oliato e ben curato. Cabrillo finì l'ispezione e ritornò in casa. Si fermò appena varcata la porta, batté i piedi per togliersi la neve dagli scarponi e rientrò nel salotto. «Che autonomia ha?» chiese a Campbell. «Con il serbatoio extra e un po' di taniche ti porta al monte Forel e ritorno, con più o meno centocinquanta chilometri di riserva nel caso di qualche problema o di slavine. Non esiterei a farci un viaggio, da qualsiasi parte... non mi ha mai lasciato a piedi.» Cabrillo si avvicinò a una stufa a petrolio. «Adesso è il suo turno di parlare.» Campbell taceva. Fissò la bottiglia, alzò gli occhi al soffitto, infine li abbassò sul pavimento e pensò per un istante. A quel ritmo gli rimaneva ancora sì e no un'estate. Poi il suo corpo avrebbe cominciato a dare forfait,
oppure, da ubriaco, avrebbe commesso qualche errore in una terra che non perdona gli errori. Aveva cinquantasette anni e si sentiva un centenario. Era arrivato al capolinea. «Ho chiuso», disse Campbell. «Non è facile. L'aspetta una dura battaglia.» «Sono pronto a provare.» «La tireremo fuori da qui e la faremo disintossicare in cambio del gatto delle nevi. C'è qualcuno vivo della sua famiglia?» «Due fratelli e una sorella in Colorado», rispose Campbell, «ma sono anni che non ci parliamo.» «Scelga: o torna a casa per curarsi oppure muore qui.» Per la prima volta dopo anni Campbell sorrise. «Credo che proverò a tornare a casa.» «Deve resistere per i prossimi giorni», disse Cabrillo. «Allora: ho bisogno che mi faccia vedere la strada in mezzo alle montagne qui sulle cartine e che mi aiuti a fare i preparativi. Poi le lascerò il mio telefono satellitare di scorta così da poterla chiamare se sono nei guai. Crede di farcela?» «Non sarò capace di smettere tutto di colpo», ammise onestamente Campbell. «Mi verrebbero le convulsioni o i tremori da astinenza.» «Non voglio e neanche mi aspetto che lei lo faccia», disse Cabrillo. «Ha bisogno di cure mediche. Deve soltanto rimanere sobrio abbastanza da saper rispondere al telefono e consigliarmi se ci fossero dei problemi che non so risolvere da solo.» «Questo sì.» «Allora aspetti che glielo preparo.» Cabrillo estrasse il satellitare e chiamò la Oregon. Campbell annusò il vento e guardò a nord. Il Thiokol era acceso al minimo a qualche metro di distanza. Sul pianale erano state caricate le taniche di benzina e gli scatoloni con le scorte ritirati all'aeroporto. Cabrillo stava sistemando sopra e sotto il sedile del passeggero altri imballi con del cibo e articoli che non voleva far congelare. La portiera era aperta e l'aria calda del riscaldamento creava nuvole di vapore. «È in arrivo una bufera», osservò Campbell, «ma direi che non sarà qui fino a domani pomeriggio o sera al più presto.» «Bene.» Juan aveva finito e si era tirato dritto in piedi. «Si ricorda come si usa il satellitare?» «Sono un ubriacone, non un idiota.»
Cabrillo fissava l'oscurità. «Quanto durerà il viaggio secondo lei?» «Sarai là domani mattina, se segui il percorso che ti ho segnato io.» «Ho un navigatore portatile e la bussola nel gatto, oltre alle cartine dove mi ha riportato le sue indicazioni. Credo di essere a posto.» «A ogni modo, tu segui quella strada. Ti troverai a costeggiare la calotta di ghiaccio per un bel pezzo, ma poi dovrai salirci sopra. Lassù si balla e il terreno cambia in continuazione. Se ti cacci nei guai o il gatto cappotta, gli aiuti ci metteranno parecchio ad arrivare... magari anche troppo.» Cabrillo annuì, fece un passo avanti e strinse la mano a Campbell. «Stia bene», gli disse sovrastando il boato sempre più forte del vento, «e tenga sotto controllo il bere finché non riusciamo a portarla in una clinica per la disintossicazione.» «Non ti deluderò, mister Cabrillo. E grazie per l'aiuto promesso; per la prima volta da tanto tempo mi sembra di vedere che c'è una luce in fondo al tunnel. Una speranza, chissà.» Cabrillo fece un cenno e salì nell'abitacolo del Thiokol. Una volta dentro, chiuse la portiera e si tolse il parka. Tirò su di giri il motore e poi lo riportò al minimo. Innestò la frizione, inserì la prima e lentamente si allontanò dalla casa. Messo in moto, il Thiokol cominciò a schizzare per aria la neve con i suoi cingoli. Sotto la grondaia della porta sul retro Campbell restò ad aspettare che le luci del gatto delle nevi scomparissero nell'oscurità. Infine rientrò e si versò un goccio di whisky, che dosò con cautela. Doveva calmare i demoni che cominciavano a mostrare il loro vero aspetto. Una volta che il Thiokol prese a scendere dalla collina verso la distesa gelata che collegava l'isola alla terraferma, Cabrillo sentì la cintura di sicurezza che gli tirava in vita. Quando il mezzo si mise in piano per attraversare gli ultimi metri di terra coperta di neve prima del fiordo, avvertì un brivido nella schiena. Sotto il ghiaccio, appena oltre il gatto delle nevi, c'era acqua a quasi zero gradi, profonda migliaia di metri, e poi un fondo roccioso. Se il Thiokol si fosse imbattuto in una lastra sottile e fosse sprofondato, gli sarebbe rimasto solo qualche secondo di vita, rifletté. Cabrillo scacciò il pensiero e premette il pedale dell'acceleratore. I cingoli del Thiokol toccarono il bordo del ghiaccio e salirono sulla distesa gelata. I fari sul tettuccio illuminavano il turbinio della neve, ma a causa del vento che faceva danzare i fiocchi la riflessione era distorta e la visibilità intermittente.
Cabrillo era perso in un mondo senza tempo e senza dimensione. Un uomo meno in gamba avrebbe avuto paura. 12 A Reykjavík, a bordo della Oregon, Max Hanley stava lavorando sodo. Il vertice arabo di pace volgeva al termine e una volta conclusi gli incontri del giorno seguente il sovrano sarebbe salito a bordo del suo 737 e le questioni relative alla sua sicurezza sarebbero tornate di nuovo nelle mani del suo staff. Sino a quel momento l'operazione era filata liscia come l'olio. L'emiro aveva potuto muoversi liberamente per l'Islanda protetto da una rete di sicurezza pressoché invisibile. Le squadre della Corporation erano insuperabili a non dare nell'occhio. Quel giorno, al termine delle riunioni, l'emiro aveva voluto visitare Blue Hole, una vicina sorgente naturale di acqua termale sgorgata in seguito alla costruzione di un nuovo impianto geotermico. Lì, l'acqua copiosa e ricca di minerali scorreva in mezzo a ettari di rocce vulcaniche a creare un'oasi all'aperto, in mezzo al freddo. Il vapore che saliva dalle acque riscaldate naturalmente si inanellava nell'aria come in un bagno turco. La gente nell'acqua appariva e scompariva, fantasmi in un cimitero sprofondato nella nebbia. Mentre il sovrano stava in ammollo, sei membri della Corporation non lo avevano perso di vista. Qualche minuto prima Hanley aveva ricevuto la notizia che l'arabo si trovava nello spogliatoio a rivestirsi, e in quel momento stava coordinando i due convogli separati che avrebbero riportato tutti all'hotel. «Hai staccato l'interruttore?» chiese Hanley a Seng sul satellitare. «Uno sì e uno no. Nessuno ha visto niente.» «Questo dovrebbe confondere il nemico.» «Liscio come il culetto di un bambino.» «Fai in modo di sincronizzare i due convogli, che arrivino a qualche minuto di distanza. Ed entrate dalle porte sul retro.» «Ricevuto», rispose Seng prima di chiudere. L'ufficiale medico Julia Huxley entrò nella sala controllo. «Hai preso tutti i contatti?» le chiese Hanley. «La clinica per la disintossicazione è a Estes Park, in Colorado. Ho assunto un'infermiera islandese che parla inglese benissimo perché lo ac-
compagni in aereo a New York e poi fino a Denver, dove lo aspetterà un pulmino della clinica. L'unica cosa che deve fare è prendere l'aereo da Kulusuk a Reykjavík da solo. Ho fatto consegnare all'aeroporto delle pillole di Librium e ho avvisato il pilota. Si incaricherà di portargliele personalmente. Serviranno a calmarlo e lo aiuteranno a tenere a bada le convulsioni fino a quando non ci sarà l'infermiera.» «Ottimo lavoro. Procederemo non appena il presidente ci darà l'okay.» «Per quanto riguarda l'altra cosa, il capo deve stare attento all'esposizione alle radiazioni quando recupera il meteorite», continuò l'ufficiale medico. «Ho dello ioduro di potassio a bordo che gli potrò dare quando ci incontriamo, ma più resta alla larga da quella cosa, meglio è.» «Lui pensa di avvolgere il meteorite nella plastica e in una vecchia coperta e di trasportarlo sul gatto delle nevi dentro una scatola di metallo.» «Così dovrebbe andar bene. La cosa più preoccupante è la possibilità di inalarne la polvere.» «Stando al nostro esame non dovrebbe essercene... nella foto sembra un cuscinetto a sfere gigante. Tutta la sostanza in superficie dovrebbe essersi bruciata entrando nell'atmosfera. Dunque, a meno che Cabrillo non abbia un contatto prolungato e ravvicinato con la sfera che lo esponga alle radiazioni, non dovrebbe correre alcun pericolo.» «È questo il punto», osservò Huxley. Fece per uscire, ma poi si fermò sulla soglia. «Capo?» «Sì, Julia?» «Non so se ha mai visto casi di esposizione alle radiazioni», sussurrò. «Non sono un bello spettacolo. Dica al presidente di tenere quel meteorite il più lontano possibile.» «Riferirò il messaggio.» 13 Aleimein al-Khalifa lesse il fax un'ultima volta e poi infilò i fogli di carta in una cartelletta di plastica. Per il gruppo Hammadi il costo di quell'informazione era stato l'equivalente di un milione di sterline inglesi in oro. L'avidità e la spilorceria dimostrate dall'umanità continuavano a stupirlo: per il giusto prezzo, la maggior parte della gente avrebbe venduto il proprio Paese, la vita futura, persino Dio. L'infiltrato in Echelon non si era comportato diversamente. Un cumulo di debiti di gioco e una cattiva amministrazione dei suoi beni lo avevano messo nella posizione di farsi sfrut-
tare. Una lenta opera di seduzione e le somme sempre più cospicue che gli venivano versate per tradire lo tenevano sotto il saldo controllo del gruppo Hammadi. E adesso, dopo due anni, il tizio era venuto fuori con il colpo grosso. Il problema era che al-Khalifa in quel momento aveva il piatto bello pieno. Si rivolse al compagno nella cabina dello yacht. «Allah benedice tutti i suoi fedeli.» Salmain Esky sorrise annuendo. «Sembra una preghiera esaudita», concordò, «anche se arriva in un momento già munifico.» Al-Khalifa lo guardò. Esky era piccolo, appena più di un metro e cinquanta di altezza, e sottile come un giunco. Nativo dello Yemen, aveva la pelle scura e opaca, il mento sfuggente e una bocca piena di denti piccoli e aguzzi macchiati di giallo e di marrone. Esky era un seguace, non particolarmente sveglio ma estremamente devoto alla causa. Tutti i movimenti avevano bisogno di uomini come lui: erano le pedine da giocare, la carne da cannone. Al contrario, al-Khalifa era alto e bello e si muoveva con una grazia che generazioni di antenati al potere gli avevano instillato nell'anima. Per centinaia di anni i suoi antenati avevano governato come capi tribali la polverosa penisola araba. Erano solo vent'anni - da quando il padre di al-Khalifa era caduto in disgrazia con la famiglia reale del Qatar - che la sua discendenza di sangue aveva perso ogni prerogativa. Perciò covava nell'animo il desiderio di ripristinare la situazione in tempi brevi. Poi avrebbe dato corso al progettato attacco per la causa dell'Islam. «Allah ci ha benedetto con il denaro per portare a termine entrambi i progetti», osservò al-Khalifa. «E così sarà.» «Dunque, vuoi che il comandante faccia rotta a nordest?» chiese Esky. «Sì», rispose tranquillo l'altro. «Porterò il passeggero a bordo più tardi.» Battente bandiera del Bahrein e immatricolato come appartenente all'Arab Investment and Trading Consortium, l'Akbar, con i suoi novantadue metri, era uno degli yacht privati più grandi del mondo. Ben pochi estranei l'avevano visitato, ma quei pochi avevano parlato del lussuoso salone, delle enormi vasche termali sul ponte a poppa e della flotta di imbarcazioni più piccole, di moto d'acqua e dell'elicottero a bordo. Dall'esterno l'Akbar sembrava il palazzo galleggiante di un plurimiliardario. Era quasi impossibile sospettare che ospitasse una cellula terroristica. Assieme al capo, al-Khalifa, e al seguace, Esky, entrambi a riva in quel
momento, c'erano altri sei uomini: due cittadini del Kuwait, due dell'Arabia Saudita, un libico e un egiziano. Tutti invasati di retorica fondamentalista islamica. Tutti pronti a morire per la causa. «Siamo autorizzati a lasciare il porto», disse il comandante parlando in una radio portatile. «Appena sei fuori dall'avamporto, comincia a procedere alla massima velocità», ordinò da riva al-Khalifa. «Ci daremo appuntamento fra un'ora e mezzo.» «Sì, signore.» Al-Khalifa infilò il cellulare in tasca e tornò a esaminare il quadro elettrico nello scantinato dell'hotel. «Metti le cariche lì», disse a Esky indicandogli la linea interurbana principale. «Dopo che l'allarme comincia a suonare e manca la luce, incontriamoci in fondo al vano delle scale come prestabilito.» Esky annuì e prese a modellare l'esplosivo C-6 attorno al tubo di alluminio. Poi iniziò a cercare i fili di innesco e i detonatori che aveva nelle tasche. Al-Khalifa se n'era andato. Passando dal parcheggio sotterraneo si fermò, aprì il retro di un furgone, vi guardò dentro, lo richiuse e attraversò di nuovo il parcheggio. Per ultimo aprì la porta che immetteva nel vano della scala di emergenza e salì alcune rampe. Una volta raggiunto il piano direttamente sotto la suite dell'emiro del Qatar, entrò con la tessera magnetica in un alloggio che la sua società fittizia aveva affittato. Al-Khalifa lanciò un'occhiata al letto che quel giorno aveva preparato contro la parete. Poi esaminò lo strano macchinario dipinto di rosso sistemato dove prima c'era il letto. Su, vicino al soffitto, c'era una sega circolare di centoventi centimetri di diametro con lama di diamante che sembrava la versione gigante di quella che un falegname avrebbe usato per praticare un foro nel lato di una casetta per uccelli. La lama era montata su un albero di acciaio inossidabile collegato ad arieti idraulici, sotto il quale si trovava una scatola metallica rettangolare contenente il motore diesel. Sotto la scatola del motore c'erano un asse e delle ruote simili a quelle di un autoveicolo, che consentivano di trainare la macchina dove fosse necessario. Un pannello di controllo portatile con un filo lungo sei metri permetteva di telecomandarla. Quando al-Khalifa abbassò la lama, restavano meno di due metri di distanza fra essa e il soffitto. Accanto al macchinario erano sistemati una
scala e un riquadro di compensato. La struttura, smontata, era stata introdotta nella stanza nel corso di diverse settimane, e poi assemblata lì. E, grazie a severe disposizioni impartite alla reception di non lasciare entrare nessuno, le cameriere erano rimaste alla larga. La macchina veniva usata nei cantieri per perforare il cemento armato allo scopo di far passare i cavi, e al-Khalifa riteneva che avrebbe trapassato il soffitto senza difficoltà. Il sovrano del Qatar dormiva pacificamente al piano di sopra. Le squadre di sicurezza della Corporation trascorrevano la notte di guardia in stanze sull'altro lato della hall e adiacenti alla suite dell'arabo. Erano sicuri che il sequestro avrebbe avuto luogo quella notte. Dalla loro camera Jones e Meadows tenevano sotto controllo le telecamere. A sinistra della suite dell'emiro, Monica Crabtree prendeva appunti mentre Cliff Hornsby puliva una pistola. Nella stanza a destra, Hali Kasim e Franklin Lincoln aspettavano piluccando da un vassoio di tramezzini. Non vi era nulla che indicasse ciò che stava per accadere. Un piano sotto, al-Khalifa si infilò un paio di occhiali per la visione notturna, schiacciò il telecomando e fissò l'orologio. I secondi passarono, finché la lancetta non fu sulle tre del mattino. In quell'istante un rimbombo attraversò i piani dell'edificio e le luci si spensero. Al-Khalifa premette l'interruttore e la perforatrice si accese rumorosamente. Schiacciò il pulsante che metteva in moto gli arieti e osservò l'albero e la lama rotante che si alzavano verso l'alto. Non appena azionata, la lama lacerò il cartongesso e i travetti di legno, sputando schegge e polvere in tutta la stanza. In meno di dieci secondi aveva attraversato il soffitto e da sopra filtrava aria fresca. Al-Khalifa abbassò l'albero, buttò il pannello di compensato sui denti acuminati della sega, poi afferrò il telecomando, salì sul pannello e fece alzare la perforatrice. Un secondo più tardi si trovava nella stanza dell'arabo e ne calpestava il pavimento. Grazie agli occhiali per la visione notturna, vide una figura seduta sul letto che si sfregava gli occhi. Attraversò la camera con un balzo, afferrò una sedia e la spinse sotto il pomolo della porta. Infine tornò di corsa accanto all'emiro. Si chinò su di lui, gli bendò gli occhi e gli chiuse la bocca con del nastro adesivo, lo strappò fuori dal letto e lo spinse verso il buco. Scesi entrambi sul pannello di compensato, al-Khalifa abbassò l'albero con il telecoman-
do, poi trascinò l'uomo sul pavimento verso la porta, l'aprì, e lo guidò lungo il corridoio fino alla scala di emergenza e poi verso i sotterranei. Dall'inizio del piano erano passati meno di due minuti. Ancora qualche istante e si sarebbe ritrovato in strada. «Ci siamo», disse Jones. Le squadre della Corporation erano equipaggiate di piccole e potenti torce fissate alle cinture. Sei sottili raggi di luce guizzavano nella hall fuori dalla suite dell'emiro. «La luce è diventata verde», gridò Meadows dopo avere infilato una tessera magnetica di scorta nella fessura all'esterno della suite. «Ma la porta non si apre.» «Hali», gridò Jones, «tu e Lincoln scendete ai garage e bloccate l'uscita.» I due uomini si precipitarono. «Crabtree, Hornsby», aggiunse, «sorvegliate l'atrio dell'hotel. Sta' indietro, Bob. Faccio saltare la porta.» Jones estrasse un dischetto metallico dalla tasca, tolse un pezzo di carta che proteggeva il nastro adesivo rinforzato, lo appiccicò alla porta e accese un piccolo interruttore di fianco. «Stia indietro, signore... Entriamo», gridò in direzione della porta. Jones e Meadows si spostarono più in là nella hall aspettando che la carica esplodesse. Subito dopo lo scoppio Jones si gettò sulla porta passando in mezzo a quel che rimaneva di essa. Andò di corsa alla camera da letto e passò la torcia sopra il letto. Era vuoto. Esplorando la stanza con il fascio sottile di luce si accorse del buco nel pavimento. A quel punto afferrò la radio portatile e chiamò la Oregon. «Codice rosso. Il nostro uomo è stato preso.» Mentre aspettava la risposta Jones esaminò la stanza da letto. «Bob, guarda un po' cosa c'è qui sotto.» Meadows si calò dal buco. «Che cosa succede?» chiese Hanley quando ebbe la linea. «Ci hanno soffiato via l'attore», si affrettò a dirgli Jones. «Questo però», rispose Hanley lentamente, «non faceva parte del piano.» «Qui siamo in fondo alle scale», disse al-Khalifa al prigioniero bendato. Indossava ancora gli occhiali per la visione notturna, ma, da quello che
vedeva, sua eccellenza non sembrava eccessivamente spaventato. Si limitava a seguire lui, come se i suoi addetti alla sicurezza gli avessero insegnato a non opporre resistenza. «Da questa parte», ordinò al-Khalifa aprendo la porta che immetteva nel garage e trascinando l'arabo per il braccio. Sentì dei passi provenire dall'alto e nello stesso istante Esky gli apparve entro la visuale degli occhiali. «Tira giù la motocicletta», gli gridò. Esky si precipitò al furgone, aprì il portello e fece scendere uno scivolo che toccò il pavimento. Poi dall'interno del veicolo guidò la motocicletta giù dalla rampa. Le gomme chiodate vi sferragliarono sopra come locuste. Al-Khalifa intanto era riuscito a trascinare il prigioniero sino al furgone. Si infilò nel vano e prese un fucile d'assalto AK-47 dal pavimento. Tenendo la camicia dell'emiro con una mano, fece un giro su se stesso e puntò l'arma contro la porta del garage, aprendo il fuoco non appena Kasim, seguito da Lincoln, si stagliò sulla soglia. In quel preciso istante Esky premeva il pulsante di accensione e faceva rombare la BMW650 con sidecar. Sebbene colpito al braccio da una raffica, Kasim riuscì a rotolare sulla pancia e a infilarsi sotto un'auto. Lincoln, illeso, si accovacciò accanto al compagno ed estrasse dal fodero la propria arma da fianco. Guardò dentro il mirino, ma l'emiro era nel suo campo di fuoco. «Coprimi la fuga», ordinò al-Khalifa consegnando a Esky il fucile. Esky prese l'AK-47 e cominciò a inondare la zona attorno al vano della scala di colpi precisi. Al-Khalifa spinse l'emiro nel sidecar e saltò a bordo della motocicletta. Innestò la marcia della BMW, poi sfiorò l'acceleratore e si allontanò dal furgone, mentre Esky aumentava il volume di fuoco. Al-Khalifa si avviò alla rampa che portava fuori dal parcheggio sotterraneo sino al livello del suolo. Lincoln afferrò il microfono che aveva sul bavero e chiamò la Oregon. «Il nostro uomo è a bordo di una motocicletta BMW», gridò. Kasim bilanciò la pistola con la mano del braccio illeso. Prese la mira con cura e lasciò partire una serie di tre colpi che centrarono Esky all'inguine, al cuore e alla gola facendolo crollare a terra come un sacco di patate. L'AK-47 cadde sul pavimento di cemento. Lincoln superò di corsa la distanza che lo separava dal furgone, allontanò il fucile e restò di guardia al moribondo. Il rumore della BMW intanto si allontanava.
Raggiunta la cima della salita, la ruota anteriore della moto sembrò impennarsi nell'aria. Al-Khalifa spostò in avanti il peso del corpo per riportarla a terra e uscì immettendosi sulla strada davanti all'hotel. Svoltò a destra, lungo Steintun Road, e superò alcuni isolati fino a dove quella si intersecava con Saebraut, prima di voltare a est e di sfrecciare lungo il porto. La strada correva fuori città e non c'era traffico. Al-Khalifa osservò l'arabo nel sidecar. Stranamente l'uomo non pareva spaventato. Dopo avere attraversato di corsa l'atrio sbucando precipitosamente dalla porta principale dell'hotel, Crabtree e Hornsby avvistarono la moto in fuga. Si precipitarono al SUV nero parcheggiato davanti all'albergo. «Okay, gente», disse la voce di Hanley alla radio dalla sala controllo della Oregon, «il nostro uomo si trova a bordo di una moto BMW.» Hornsby premette la chiave per aprire le portiere del SUV e salì sul sedile al posto di guida. Monica Crabtree agguantò la radio e si sedette. «Hanno preso a est e costeggiano il porto. Li inseguiamo.» Al-Khalifa premette l'acceleratore portando la BMW alla velocità di centodieci all'ora sulla strada coperta di neve. Superò tre incroci, scavalcò una collina e si lasciò alle spalle Reykjavík. Osservando attentamente il lato della strada, individuò una pista che aveva battuto il giorno prima con una motoslitta presa a nolo. Svoltò sulla stretta striscia di neve compressa e superò un'altra piccola altura: quasi alla base della collina si estendeva un fiordo racchiuso in un sottile strato di ghiaccio. Tutto a un tratto la civiltà sembrava lontanissima. In quel luogo, su uno spiazzo di neve pressata, lo aspettava un elicottero Kawasaki. Hornsby rallentò in corrispondenza della prima strada secondaria e aguzzò gli occhi alla ricerca di tracce sulla neve. Non trovandone, accelerò di nuovo e controllò l'incrocio successivo. Rallentare per ispezionare le strade laterali era una perdita di tempo, ma Hornsby e Crabtree non avevano alternative. Della BMW non c'era traccia. Al-Khalifa sistemò l'emiro bendato sul sedile del passeggero dell'elicot-
tero e poi chiuse il portello dall'esterno con una chiave. L'uomo non aveva alcuna possibilità di fuga, dato che il suo rapitore aveva tolto la maniglia dal suo lato. Il terrorista fece il giro dell'elicottero e si portò davanti, salì al posto di pilotaggio e girò la chiave di accensione. Mentre eseguiva la procedura di accensione, si mise a guardare il prigioniero. «Lo sai chi sono?» gli chiese. L'emiro, ancora bendato e con la bocca chiusa dal nastro adesivo, si limitò ad annuire. «Bene», osservò al-Khalifa, «allora è il momento di farci un giretto.» Aspettò che le turbine raggiungessero la spinta giusta, sollevò la leva del passo collettivo e alzò l'elicottero dalla neve. Una volta raggiunti i dieci piedi di altezza, spinse avanti la barra del passo ciclico. Il Kawasaki avanzò, superò l'effetto suolo sollevandosi in aria e poi si diresse verso il mare aperto. Tenendo l'elicottero basso per confonderlo con lo sfondo delle montagne, al-Khalifa si girò indietro a guardare Reykjavík. «Le tracce finiscono qui», disse Hornsby esaminando la neve dalla portiera aperta del SUV. Crabtree guardava fuori dal finestrino. «Là», esclamò indicando. «C'è una pista di neve battuta.» Hornsby guardò il sentiero. «La neve è troppo fresca. Ci impantaneremo.» Dopo avere contattato la Oregon, che prontamente inviò George Adams con l'elicottero Robinson della Corporation, Hornsby e Crabtree iniziarono a procedere a piedi lungo la pista. Trovarono la moto BMW dieci minuti dopo, e quando l'elicottero di Adams volteggiava sopra le loro teste avevano capito che cosa era successo. Lo chiamarono alla radio. «Abbiamo un mucchio di neve sollevato dalla raffica di un rotore», riferì Hornsby. «Terrò d'occhio la zona», rispose Adams. Adams si allontanò da Reykjavík il più possibile prima di esaurire il carburante, ma non vide altri elicotteri. Il prigioniero era semplicemente svanito, come prelevato da terra dalla mano di un gigante. 14 Cabrillo procedeva in mezzo alla distesa bianca seguendo il fioco sentiero ritagliato nell'oscurità dai fari montati sopra il Thiokol. Cinque ore do-
po, a un'ottantina di chilometri a nord di Kulusuk, si era finalmente assuefatto. I rumori del gatto delle nevi, che in un primo momento gli erano parsi caotici e tutti uguali, adesso cominciavano a prendere forma. Sentiva il pulsare del motore e lo scricchiolare del telaio, e si serviva di quegli indicatori per valutare il proprio viaggio. Il suono e le vibrazioni gli segnalavano quando il Thiokol saliva. Lo stridere dei cingoli gli permetteva di identificare il tipo di superficie che stava attraversando. Cabrillo stava diventando tutt'uno con il mezzo. Venti minuti prima era salito sull'imponente calotta di ghiaccio che ricopriva gran parte della Groenlandia. In quel momento, grazie alle mappe e alle dettagliate annotazioni di Campbell, stava guidando il Thiokol in mezzo a una serie di vallate. Se tutto continuava secondo il piano, avrebbe raggiunto il monte Forel circa all'ora di colazione in Islanda. Poi avrebbe preso il meteorite, lo avrebbe caricato a bordo del gatto delle nevi e sarebbe ritornato a Kulusuk, dove l'elicottero della Oregon lo avrebbe prelevato assieme alla sfera. Nel giro di qualche giorno avrebbe ricevuto il compenso pattuito e la faccenda sarebbe finita lì. Almeno quello era il piano: dentro, fuori, e via a casa. Cabrillo sentì il muso del Thiokol diventare più leggero e innestò la retro appena in tempo. Il gatto delle nevi si bloccò di colpo e rapidamente arretrò rombando. Da quando era partito da Kulusuk il viaggio procedeva senza intoppi, e tuttavia era raro attraversare quella natura così impervia senza difficoltà: se non fosse arretrato, nel giro di qualche secondo si sarebbe trovato con il Thiokol in fondo a un vasto crepaccio nel ghiaccio. Una volta fermo a una distanza di sicurezza, si infilò il parka e scese dall'abitacolo. Regolò i fari sul tetto, si avvicinò al burrone e vi guardò dentro. La spessa parete del ghiacciaio scintillava azzurra e verde alla luce artificiale. Guardò al di là della fenditura e stimò che la distanza fra un lato e l'altro fosse di oltre tre metri e mezzo. Non c'era modo di giudicare a quale profondità il crepaccio arrivasse prima che la roccia si richiudesse. Cabrillo strinse il cappuccio del parka contro il vento che ululava. Ancora un metro e il gatto delle nevi si sarebbe rovesciato nel dirupo precipitando sin dove la spaccatura via via sempre più angusta lo avrebbe incastrato a testa in giù. Anche nel caso in cui fosse riuscito a sopravvivere alla caduta, c'erano ottime probabilità di restare intrappolati nell'abitacolo senza via di scampo. Sarebbe morto congelato prima che qualcuno potesse trovarlo, e tanto me-
no organizzare una spedizione di soccorso. Rabbrividendo a quel pensiero, Cabrillo tornò al Thiokol, risalì nell'abitacolo e guardò l'orologio: le cinque del mattino, ma era buio come se fosse ancora notte fonda. Diede un'occhiata a una cartina, poi prese il compasso e misurò la distanza dal monte Forel. Ancora una cinquantina di chilometri e tre ore di viaggio. Prese il telefono satellitare e chiamò Campbell. Con sua sorpresa l'apparecchio squillò una sola volta. «Sì», rispose Campbell con voce nitida. «Ho rischiato di finire in un crepaccio.» «Dammi le tue coordinate sul navigatore.» Cabrillo le lesse e aspettò che Campbell consultasse la cartina a Kulusuk. «Ho paura che tu abbia fatto una deviazione più o meno un chilometro e mezzo indietro», gli spiegò Campbell. «Sei andato a sinistra invece che a destra, salendo a ridosso del ghiacciaio del Nunuk. Torna indietro e costeggia il ghiacciaio. Questo ti farà superare una collinetta e poi scendere in pianura. Da lì potresti vedere il Forel, se facesse chiaro e non fosse buio come la pece.» «Sicuro?» chiese Cabrillo. «Sicuro. Sono già stato nella gola dove ti trovi adesso: è un vicolo cieco.» «Indietro più o meno di un chilometro e mezzo e svolto a sinistra», ripeté Cabrillo. «No, a destra», lo corresse subito Campbell. «Hai cambiato direzione.» «Poi seguo il fronte del ghiacciaio?» «Sì, ma adesso che sei fermo punta obliquamente i fari dal lato del guidatore. In quel modo, quando raggiungi le propaggini del Nunuk, le luci le illumineranno. Il riflesso ti sembrerà di giada o zaffiri... Ogni tanto da' un'occhiata di fianco per controllare come procedi. Non appena la fronte del Nunuk si ritira, supererai una cresta e comincerai di nuovo a scendere. A quel punto ti aspetta un'arrampicata senza deviazioni sul pendio del monte Forel. È ripido, ma il vecchio Thiokol può farcela, io ci sono già salito.» «Grazie. Crede di riuscire a farcela ancora per qualche ora se avrò bisogno di lei? Crede di mantenersi sulla retta via?» «Bevo solo quel tanto che mi basta per tenermi su», rispose Campbell. «Ci sarò se hai bisogno di me.» «Bene.» Cabrillo chiuse il telefono.
Scese di nuovo dall'abitacolo, si allungò verso il tetto del Thiokol e sistemò i fari sul suo lato. Poi tornò dentro, ingranò la prima e girò il gatto delle nevi di centottanta gradi. Guidando lentamente trovò il fronte del ghiacciaio a qualche metro di distanza e iniziò a seguirlo. Il Forel non era lontano, ma nella neve e nell'oscurità restava ancora nascosto. Cabrillo doveva raggiungere la montagna e sottrarle il segreto. Ma c'era qualcun altro con lo stesso obiettivo e che non seguiva la stesse regole di fair play della Corporation. E i due erano destinati a scontrarsi. L'emiro si rendeva conto che l'elicottero rallentava: al-Khalifa stava allineando il Kawasaki sopra la coda a ventaglio dell'Akbar e poi lo fece scendere con cautela sulla piattaforma di atterraggio. Una volta che i marinai ebbero fissato con le catene i pattini e bloccato le pale del rotore, alKhalifa girò attorno all'elicottero, aprì il portello e trascinò il prigioniero nella sala principale. Gli occhi dell'uomo erano ancora bendati, ma sentiva quelle che gli parevano una mezza dozzina di voci arabe. L'aria della sala era impregnata della puzza di polvere da sparo, di petrolio e di uno strano odore dolciastro di mandorla. Spintonato giù per una serie di scalini a un ponte inferiore, l'emiro venne scaraventato senza tanti complimenti su un letto, con le mani e i piedi legati insieme da un robusto nastro adesivo, coricato sulla schiena come un pollo da cuocere. Sentì al-Khalifa che ordinava di mettere una guardia fuori dalla stanza. Infine venne lasciato solo a riflettere su un destino sconosciuto. Al di là del fatto che la pelle del viso aveva cominciato a traspirare per il caldo della cabina, l'emiro non pareva particolarmente preoccupato. Se alKhalifa avesse avuto intenzione di ucciderlo, non gli sarebbe mancata l'opportunità di farlo prima. E in più l'emiro sapeva che i suoi amici della Corporation si sarebbero messi presto a cercarlo. Se solo fosse riuscito a grattarsi il naso sotto la gomma, allora sì che si sarebbe sentito meglio. «Montate il contenitore delle armi», ordinò al-Khalifa mentre ritornava al salone principale. «Devo partire per il monte Farei il più presto possibile.» Quattro uomini uscirono per mettersi all'opera. L'installazione procedeva a rilento - vento, pioggia e neve spazzavano il ponte dell'Akbar -, ma gli uomini erano addestrati e tenaci. Ventisette minuti più tardi il loro capo tornò dentro, togliendosi la neve dai guanti.
«Il contenitore è montato», disse ad al-Khalifa. «Ordina agli uomini di entrare e falli sedere attorno al tavolo.» La squadra di terroristi prese posto sulle sedie attorno al lungo tavolo intarsiato. L'adunata era una congrega di assassini, una banda di delinquenti. Rivolsero lo sguardo ad al-Khalifa e aspettarono. «Allah ci ha benedetti un'altra volta», iniziò a dire al-Khalifa. «Come avete potuto vedere, ho catturato l'emiro filo-occidentale che governa il mio Paese e l'ho fatto prigioniero. Presto salirò al trono. La seconda questione è che un traditore occidentale mi ha reso nota l'ubicazione di una sfera di iridio che possiamo usare assieme alla bomba destinata a Londra. Se riuscirò a impossessarmene, il metallo amplificherà la devastazione nella città di Londra di almeno cento volte.» «Sia lode ad Allah», gridò con entusiasmo il gruppo di uomini. «In questo preciso istante l'Akbar si sta dirigendo verso la costa orientale della Groenlandia», dichiarò al-Khalifa in tono solenne, «e fra poche ore, quando saremo arrivati, partirò in volo con l'elicottero e andrò a prendere la sfera. Non appena sarò di ritorno faremo rotta per l'Inghilterra per concludere la nostra missione.» «Non vi è altro Dio al di fuori di Allah», gridarono gli uomini. «Voglio che quelli fra voi che sono liberi da incombenze si riposino bene. Avremo bisogno che tutti siano perfettamente efficienti quando saremo in Inghilterra. Presto gli infedeli sperimenteranno la nostra collera.» «Allah è grande», gridò il gruppo di uomini. La riunione si sciolse e al-Khalifa uscì dalla sala e scese nella propria cabina. Avrebbe strappato qualche ora di riposo. Non poteva sapere che si sarebbe trattato dell'ultimo, per lui, prima di quello eterno. 15 All'hotel Kangerlussuaq, a duemila chilometri di distanza, Clay Hughes stava finendo la colazione con pancetta, uova, patate fritte con cipolla e fette di pane tostato abbondantemente innaffiate da un bricco di caffè fumante. Michael Neilsen si avvicinò al suo tavolo. «Pronto a partire?» gli chiese Hughes alzandosi in piedi. «Il tempo non è migliorato un granché», rispose Neilsen, «ma sono disposto a tentare, se vuole. Qual è il verdetto?» «Si va.» «Fossi in lei chiederei all'hotel di preparare del cibo per il viaggio: in ca-
so di problemi passerà del tempo prima che arrivino i soccorsi.» «Ordinerò un vassoio di panini e un paio di thermos di caffè. Le viene in mente altro che potrebbe servirci?» «Direi un pizzico di fortuna», disse Neilsen guardando fuori. «Prendo la roba da mangiare e ci incontriamo all'elicottero.» «Mi terrò pronto», rispose Neilsen allontanandosi. Quindici minuti più tardi l'EC-130B4 si levava dalla pista di neve battuta e iniziava a volare in direzione est. Una tenue sfumatura gialla soffondeva le nuvole mentre la debole luce del sole cercava di penetrare attraverso l'oscurità. Ma per il resto tutto era buio e tetro come un presagio trasportato da un vento maligno. Le ore passavano, mentre l'Eurocopter volava alto sopra il territorio coperto di neve. Il Thiokol si fermò e Cabrillo esaminò la cartina. Stimava di trovarsi a meno di un'ora dalla grotta sul monte Forel. Aveva notato che il segnale del suo telefono satellitare era buono. Premette il tasto di chiamata rapida e telefonò alla Oregon. «Abbiamo provato a contattarti», gli disse Hanley. «L'altra notte hanno rapito l'emiro.» «Rapito?» ripeté subito Cabrillo. «Ritenevo che avessimo la situazione sotto controllo.» «Hanno preso il nostro uomo e da allora non abbiamo più comunicato né con lui né con i rapitori.» «Hai idea di chi possa averlo preso?» «Ci stiamo lavorando.» «Dovete riportarlo a casa.» «Lo faremo, Juan.» «Io sono quasi sul posto», continuò Cabrillo. «Prendo la cosa e me ne vado da qui. Voi intanto trovatemi un mezzo di trasporto più veloce per tornare alla base.» «Sarà fatto», rispose Hanley. Cabrillo chiuse la comunicazione e gettò il telefono sul sedile del passeggero. Nell'esatto istante in cui Cabrillo saliva sul monte Forel un dipendente dell'aeroporto internazionale di Reykjavík toglieva la neve dai piedi di una scaletta che portava a un 737 di proprietà privata. Alimentatori ausiliari
fornivano all'aereo riscaldamento ed elettricità da entrambi i fianchi. Il jet all'interno era illuminato come un tabellone pubblicitario, e la luce si riversava dai finestrini nella penombra dell'esterno. Scrutando fuori dal vetro della cabina, il pilota vide una limousine nera che procedeva lungo la pista e si fermava davanti alla scaletta. Quattro uomini scesero dal retro. Due salirono rapidamente gli scalini mentre gli altri si guardarono attorno per accertarsi che nessuno li vedesse, poi, trovando via libera, si affrettarono a seguire i primi e chiusero il portello del jet. L'addetto sganciò le APU, tirò indietro la scala e restò tranquillo a guardare il pilota che avviava i motori dopo avere chiamato la torre di controllo. Ricevuta l'autorizzazione, il velivolo prese a rullare sulla pista preparandosi al decollo. Con una sosta per il rifornimento in Spagna avrebbero raggiunto la destinazione in un tempo di quattordici ore. Non appena il 737 si fu alzato in volo, l'addetto si chinò per parlare in un microfono fissato al parka vicino al cappuccio. «Sono partiti», si limitò a dire. «Ricevuto», rispose Hanley. Dalla sua conversazione con Hanley circa un'ora prima, Cabrillo non aveva fatto altro che salire con il Thiokol. A quel punto si fermò, si strinse bene il parka e uscì. Sistemò i fari in maniera da poter perlustrare la montagna e girò attorno al mezzo per spazzare via la neve dalla mascherina del radiatore. Stava già per risalire nell'abitacolo, quando sentì un rimbombo in lontananza. Allungò la mano alla chiave di accensione e spense il motore. Poi si mise di nuovo in ascolto. Il rumore, trasportato dal vento, andava e veniva come la marea. Infine Cabrillo identificò il suono: risalì sul Thiokol e prese il telefono. «Max, sento un elicottero in avvicinamento. Hai mandato qualcuno fin qui?» «No, capo», rispose la voce di Hanley. «Ci stiamo ancora organizzando.» «Puoi scoprire che cosa succede?» «Cercherò di collegarmi con un satellite del dipartimento della Difesa per identificare l'apparecchio, ma potrebbero volerci dai quindici ai venti minuti.» «Mi piacerebbe proprio sapere chi si intrufola nei miei piani.» «Una cosa che abbiamo appurato è che nei paraggi c'è un sito radar
dell'aeronautica degli Stati Uniti, automatizzato», continuò Hanley. «Forse le antenne vengono ancora utilizzate e l'aeronautica sta mandando lì qualcuno per riparazioni o qualcosa del genere.» «Fammi la cortesia di scoprirlo», disse Cabrillo girando la chiave per riaccendere il motore. «Credo di essere quasi arrivato alla grotta.» «Va bene.» Servendosi di una slitta per battere la neve e di una dozzina di lattine, Ackerman era riuscito a creare una bella piazzola di atterraggio contrassegnata da una X su una piccola sommità piatta a soli settanta metri dall'apertura inferiore della grotta. Guardò la piazzola con orgoglio: l'elicottero sarebbe riuscito ad atterrare senza che il rotore urtasse la montagna. Si trattava di un allestimento precario, ma era il massimo che potesse ottenere sul fianco di una montagna. Ritornò dentro l'imboccatura della grotta e attese: l'elicottero si avvicinò alla piazzola, volò a punto fisso e atterrò. Il rotore rallentò sino a fermarsi, e un uomo scese dal lato del passeggero. Cabrillo aveva sentito atterrare l'elicottero, ma nel buio e nella neve non lo aveva visto. Era vicino, lo intuiva. Applicò delle ghette di nylon ai pantaloni imbottiti di piuma d'oca e tolse un paio di racchette da neve dal pianale sul retro. Infilò gli scarponi negli attacchi e li strinse. Poi, sempre dal retro, prese la scatola che conteneva il falso creato da Nixon. Tutto quel che gli restava da fare adesso era introdursi nella caverna senza farsi scoprire e operare la sostituzione. Hughes era risalito dal pendio fino all'apertura della caverna. «È stato il capo a mandarmi», disse a Ackerman, «per esaminare la tua scoperta.» Lo studioso sorrise pieno di orgoglio. «È una meraviglia; probabilmente la più importante scoperta archeologica del secolo.» «Così pare», osservò Hughes spingendosi all'interno della grotta. «E mi ha mandato per fare in modo che tu abbia quello che ti meriti.» Ackerman afferrò una lanterna già accesa e iniziò a guidare l'uomo lungo il passaggio. «Dunque lei si occupa delle pubbliche relazioni?» gli chiese. «Di quelle e di altri settori», rispose Hughes fermandosi all'altezza dell'apertura nel soffitto. Qualche giorno prima Ackerman aveva calato una scala di legno dalla grotta superiore attraverso la botola. Ciò rendeva
assai più facile muoversi fra i due condotti. «Adesso saliamo e le faccio fare il giro completo.» I due uomini sbucarono nella parte superiore della caverna. Hughes stava al gioco mentre Ackerman gli snocciolava quello che aveva scoperto, ma in realtà la cosa per cui era venuto fin lì era solo una. E ottenuta quella se ne sarebbe andato. Cabrillo scarpinò per il pendio del Farei sino a che non giunse in un punto dove la neve si era sciolta. Si chinò e si accorse che c'era una piccola apertura nel fianco della montagna segnalata dalla presenza di pietre, come se ve le avesse lanciate qualcuno dall'interno. L'aria più calda filtrava dalla caverna e faceva sciogliere la neve attorno all'apertura. Cabrillo sgombrò in parte le pietre così da potersi infilare attraverso il foro che portava nella parte alta della grotta; per ultimo, vi introdusse anche la scatola. Una volta dentro, si rese conto che era possibile stare in piedi. Si avventurò lungo il condotto per vedere dove arrivava. Nonostante il suo cuore di pietra, persino Hughes era impressionato dalla grotta e dal suo sacrario. Di fianco al meteorite sull'altare, Ackerman stava con il braccio proteso come una valletta in uno spettacolo a premi. «Bello, vero?» sussurrò entusiasta. Hughes annuì, poi prese un contatore Geiger dalla tasca. Lo accese e lo passò sul meteorite. Le rilevazioni erano fuori scala. Un paio d'ore di esposizione e si sarebbe presto ritrovato contaminato dalle radiazioni. Si rese conto che era necessario proteggere la sfera con molta cura per il viaggio di ritorno a Kangerlussuaq. «Hai trascorso del tempo vicino al reperto?» chiese. «L'ho esaminato da ogni angolazione.» «Ti senti bene? Hai notato qualche cambiamento fisico molto recente?» «Mi è sanguinato il naso più volte», rispose Ackerman. «Pensavo fosse semplicemente per l'aria secca.» «Credo che si tratti di contaminazione radioattiva», disse Hughes. «Dovrò tornare all'elicottero a prendere qualcosa per schermare il meteorite.» Cabrillo si affrettò lungo il condotto verso il rumore delle voci. Si nascose dietro una roccia e ascoltò la conversazione. «Dovrò tornare all'elicottero a prendere qualcosa per schermare il mete-
orite», diceva una voce. Rimase in ascolto mentre i due uomini si allontanavano e la caverna sprofondava nel buio, in attesa di vedere che cosa sarebbe successo. «Aspetta qui!» esclamò Hughes quando lui e Ackerman arrivarono all'uscita della grotta inferiore. Ackerman restò a guardarlo mentre scendeva lungo il pendio, si avvicinava all'elicottero e apriva il portello sul retro. «Sarò di ritorno fra qualche minuto», disse a Neilsen mentre prendeva una scatola dal retro. «Poi potremo partire.» «Mi sembra una buona idea», rispose il pilota scrutando il cielo. Hughes percorse di nuovo la salita con la scatola. Entrando nella grotta guardò Ackerman. «Ho portato qualcosa che ti allevierà un po' il disturbo», gli disse. «Te lo darò fra un attimo.» Cabrillo attese un momento per accertarsi di essere da solo, poi infilò la mano in tasca e ne estrasse una busta di plastica. L'aprì, tolse la barra a luce chimica, la piegò a metà come se stesse cercando di spezzare un grissino e il tubo cominciò a brillare di una luce verde. Servendosi di quella per illuminare il percorso, cominciò ad avvicinarsi al meteorite. Stava per raggiungere l'altare quando udì risuonare un colpo. Infilò velocemente la mano in una tasca, prese un pacchetto di stagnola, ne strappò l'orlo con i denti e rovesciò il contenuto sul meteorite. Poi, sentendo un rumore di passi che si avvicinavano rapidamente, si nascose appiattendosi dietro alcune rocce di fianco all'altare e si infilò la luce verde nella tasca. Un uomo alto con una lanterna in mano si diresse all'altare, sollevò il meteorite e lo infilò in una scatola. Cabrillo aveva lasciato il fucile nel Thiokol e c'era ben poco che potesse fare in quel momento. L'ideale sarebbe stato intercettare il reperto nella grotta sottostante. Con l'anello metallico della lanterna in bocca, l'uomo trasportò fuori la scatola. Cabrillo aspettò che il chiarore non fosse più visibile e, lentamente, procedette verso l'estremità opposta della caverna tenendo davanti a sé la luce chimica. Immaginava che gli uomini avrebbero esaminato il meteorite da qualche altra parte: avrebbe agito quando li avesse trovati. Poi andò a sbattere contro la scala e quasi precipitò dalla botola. Restò in ascolto per vedere se lo avevano sentito e quando non successe
niente scese dalla scala, ai piedi della quale incespicò nel corpo di Ackerman. 16 Non appena ricevuta la conferma che nessun elicottero civile o militare islandese era in volo al momento del rapimento dell'emiro, per Hanley era stato un gioco da ragazzi coordinare quell'informazione con i dati del porto e il passaggio di navi attorno a quell'ora. E non gli ci volle molto per focalizzare l'attenzione sull'Akbar. Tramite l'accesso ai dati satellitari era riuscito a ricostruire che lo yacht stava risalendo lo stretto di Danimarca fra l'Islanda e la Groenlandia. Allora aveva dato ordine di salpare immediatamente dal porto e di azionare i propulsori magnetoidrodinamici non appena fossero stati abbastanza al largo. La Oregon procedeva alla velocità di crociera di trenta nodi, serpeggiando in mezzo agli iceberg come una slalomista su una pista ghiacciata. Hanley provò di nuovo a contattare Cabrillo, ma il suo telefono non rispondeva. In quel momento Michael Halpert entrò nella sala controllo. «Non sapevamo niente dei veri proprietari. Ecco perché abbiamo sottovalutato la minaccia.» «Di chi si tratta?» chiese Hanley. «Il gruppo Hammadi.» «Al-Khalifa. Eravamo a conoscenza che aveva in progetto un'azione contro l'emiro, ma se avessimo saputo che controllava uno yacht le cose forse sarebbero andate in maniera molto diversa.» Eric Stone si girò sulla sedia. «Capo, ho stabilito il collegamento richiesto. Ho sullo schermo la scheda identificativa dell'elicottero. È un Eurocopter, modello EC-130B4. Sto facendo passare l'immatricolazione proprio adesso.» Hanley diede un'occhiata allo schermo. «Perché ci sono due segnali?» Stone fissò l'immagine allargata sul monitor. «Il secondo è appena comparso. Tirando a indovinare, direi che c'è un altro elicottero nella zona.» Cabrillo protese la luce verde, si abbassò e appoggiò le dita sul collo di Ackerman. Il battito era debole. Poi l'archeologo si mosse e aprì gli occhi. Erano acquosi, la pelle del viso di un colore grigio spettrale. Le labbra si muovevano appena.
«Lei non è...» bisbigliò. «No. Non sono l'uomo che le ha sparato.» Cabrillo spinse di lato il giaccone di Ackerman, prese un coltello dalla tasca e tagliò la camicia. La ferita era brutta, e sangue arterioso sgorgava dal foro come da una fontana. «Ce l'ha una cassetta di pronto soccorso?» chiese Cabrillo. Ackerman fece segno verso una borsa di nylon sopra un tavolino pieghevole poco distante. Cabrillo corse a prenderla, l'aprì e ne estrasse una scatola di plastica nella quale vi erano delle compresse di garza e del nastro adesivo chirurgico. Mentre tornava da Ackerman strappò le confezioni, poi premette un tampone di garze sulla ferita e lo fissò con il nastro. Prese una mano di Ackerman e la mise sulla fasciatura. «Tenga la mano qui, io torno subito.» «Lo Spettro», sussurrò Ackerman. «È stato lo Spettro a farmi questo.» Cabrillo girò i tacchi e corse all'ingresso della grotta. Scrutando fuori nell'oscurità, sentì la turbina dell'Eurocopter che si avviava e vide il profilo delle luci lampeggianti sulla carlinga. Quindi, una seconda serie di lampeggianti apparve in lontananza. Al-Khalifa era un ottimo pilota di elicotteri. Lo garantivano un falso visto per motivi di studio, centomila dollari di iscrizione e oltre un anno in una scuola di volo del Sud della Florida. Guardando fuori dal parabrezza, scrutò attentamente il terreno sul monte Forel. Aveva appena avvistato un gatto delle nevi arancione un poco discosto sul fianco della montagna, quando l'altro elicottero entrò nel suo campo visivo. Il destino è strano: cinque minuti di ritardo e l'occasione sarebbe andata perduta. Dopo un secondo al-Khalifa aveva valutato la situazione ed escogitato un piano. Cabrillo scivolò con cautela fuori dalla grotta e poi si lasciò cadere dietro uno sperone roccioso. Doveva riuscire ad arrivare al Thiokol e prendere il suo fucile, ma il secondo elicottero gli stava proprio di fronte. Tolse il satellitare dalla tasca e guardò il display. Adesso che era uscito dalla grotta il segnale era di nuovo forte. Schiacciò il tasto di chiamata rapida e attese che Hanley gli rispondesse. «Quassù sembra la caduta di Saigon», esclamò Cabrillo. «Quando sono arrivato sul posto ho trovato un elicottero e adesso ne è appena arrivato un
altro. Chi è questa gente?» «Stoney ne ha identificato uno. È un charter della Groenlandia occidentale e appartiene a un tale Michael Neilsen. Abbiamo controllato se il proprietario ha legami con organizzazioni, ma finora senza risultato. Perciò immagino che sia soltanto un pilota a noleggio.» «E il secondo elicottero?» chiese Cabrillo. Stone si stava dando furiosamente da fare alla tastiera. «È un Bell Jet Ranger in leasing a una compagnia mineraria canadese.» «Il secondo è un Bell Jet Rang...» iniziò a snocciolare Hanley. «Lo sto vedendo bene, ora», lo interruppe Cabrillo. «Non è un Jet Ranger, sembra piuttosto un McDonnell Douglas serie 500.» Alla tastiera Stone diede qualche istruzione e un istante più tardi l'immagine di un elicottero semidistrutto riempiva lo schermo. «Qualcuno ha rubato il numero di immatricolazione e di identificazione per evitare di essere individuato. Signor Cabrillo, riesce a vedere dei numeri sulla coda?» «Stone dice che abbiamo un'immatricolazione rubata. Ci sono dei numeri sulla coda?» Cabrillo estrasse dalla tasca un piccolo binocolo e scrutò nell'oscurità. «Noto due cose», disse lentamente. «La prima è che c'è un contenitore per le armi appeso sotto la carlinga. La seconda è che le marche sulla coda non si vedono. Però riesco a distinguere alcune lettere dipinte sulla fiancata. C'è una A seguita da una K e da una B. Le altre sono coperte dal ghiaccio. La successiva potrebbe essere una A, ma non sono sicuro.» Hanley riferì a Cabrillo quello che avevano scoperto sullo yacht Akbar. «È quel figlio di puttana di al-Khalifa?» sbottò Cabrillo. «Chi c'è sull'altro elicottero? Al Capone?» L'Eurocopter di Neilsen era in hovering proprio mentre l'altro apparecchio appariva nel parabrezza. «Guardi là», disse a Hughes nella cuffia. «Andiamocene subito», gli gridò Hughes. «Credo che sarebbe meglio ridiscendere e vedere che cosa succede», rispose Neilsen. Con una mossa fulminea Hughes estrasse una pistola dalla tasca e la puntò alla testa del pilota. «Ho detto di partire.» Un'occhiata a Hughes e alla pistola fu sufficiente: Neilsen mosse la barra del passo ciclico e l'Eurocopter fece uno scarto in avanti. In quel preciso istante una fiamma esplose dalla coda dell'altro elicottero e un missile saet-
tò verso l'area dove stavano volando a punto fisso, ma si perse nella distesa di ghiaccio senza raggiungere il bersaglio. Nella sala controllo della Oregon Stone aveva fatto apparire un'altra immagine sul monitor. «Questa è un'immagine satellitare del dipartimento della Difesa scattata un'ora fa», spiegò rapidamente. «L'elicottero numero due è arrivato da una postazione in mare aperto della Groenlandia orientale con rotta diretta sul monte Forel.» Adams entrò nella sala controllo. «Il nostro elicottero è armato e pronto.» «Hai abbastanza autonomia per andare e tornare da qui?» gli chiese Hanley. «No. Al ritorno ci mancheranno dai centoquindici ai centocinquanta litri.» «Che carburante usi?» «Cento ottani, a basso contenuto di piombo.» «Presidente», disse Hanley al satellitare, «Adams è pronto a partire, ma rimarremo senza carburante nel viaggio di ritorno. Hai delle scorte sul gatto delle nevi?» «Mi restano quasi quattrocento litri.» Hanley lanciò un'occhiata a Adams, che aveva ascoltato attentamente la trasmissione. «Se porto con me qualche additivo, potremmo aumentare il numero di ottani del carburante in maniera che la cosa funzioni. In un modo o nell'altro voglio arrivare fin là per aiutare il capo.» «Contatto l'officina meccanica e farò portare l'additivo al ponte di volo», concluse Hanley rapidamente. «Tu fai le tue operazioni prevolo e decolla prima possibile.» Adams annuì e corse fuori dalla porta. «Ti mando la cavalleria, Juan», disse Hanley al telefono. «Sarà lì fra un paio d'ore.» Cabrillo stava osservando il secondo elicottero che si portava sopra l'Eurocopter per un altro lancio. «Buona idea, perché l'elicottero con l'immatricolazione fasulla ha appena lanciato un missile contro quello a noleggio.» «Stai scherzando!» esclamò Hanley sbalordito. «Per niente, amico. E non ho ancora avuto la possibilità di riferire la notizia più brutta.» «Cosa potrebbe esserci di peggio?»
«Il meteorite si trova dentro l'elicottero noleggiato. Me lo hanno soffiato sotto il naso.» A bordo dell'Eurocopter Hughes teneva la pistola, puntata alla testa di Neilsen, in una mano e il telefono satellitare nell'altra. «Fai rotta a ovest verso la costa», gli ordinò, «c'è stato un cambio di programma.» Neilsen annuì e cambiò la rotta. Hughes premette il tasto di chiamata rapida del telefono e restò in attesa. «Signore», disse mentre Neilsen accelerava spostandosi velocemente sopra il terreno nevoso, «ho recuperato l'oggetto e ho sparato al custode, ma adesso c'è un intoppo.» «Qual è il problema?» «Ci sta attaccando un elicottero non identificato.» «Sei diretto verso la costa, no?» «Sì, come avevamo programmato.» «La squadra è là che aspetta. Se l'elicottero vi segue sul mare, risolveranno il problema tranquillamente.» Prima che Hughes potesse rispondere, un secondo missile colpì l'Eurocopter tranciando una pala del rotore di coda. Neilsen cercò di controllare il velivolo, ma quello iniziò una letale picchiata verso il suolo. «Scendiamo», riuscì a gridare Hughes prima che la forza centrifuga dell'elicottero in avvitamento gli facesse sbattere la mano contro il finestrino, fracassando il vetro e il telefono. Mentre i velivoli si allontanavano, Cabrillo si era diretto verso il punto della montagna dove aveva lasciato le racchette da neve. Se le stava allacciando quando il boato del missile che colpiva l'Eurocopter gli fece alzare gli occhi. C'era buio e per un secondo gli fu difficile distinguere qualcosa. Poi, qualche istante dopo, una intensa luce che pulsava apparve al suolo in lontananza: vi danzò come una maligna aurora boreale e poi iniziò ad affievolirsi. Cabrillo finì di allacciarsi le racchette da neve, raggiunse il Thiokol e lo guidò nella direzione della luce. Quando arrivò sul posto, dieci minuti più tardi, i fuochi covavano ancora sotto la cenere. L'elicottero era coricato sul fianco come una trottola rotta. Cabrillo scese dal gatto delle nevi e aprì con uno sforzo il portello bloccato: sia il pilota sia il passeggero erano morti. Prese quanto sarebbe potuto servire a identificare i corpi e il velivolo e
frugò nel relitto alla ricerca della scatola contenente il meteorite. Ma trovò solo una serie di impronte sconosciute. Dopo che il collegamento con Hughes si fu interrotto senza poter essere ristabilito, il suo principale chiamò un altro numero. «Abbiamo avuto un problema», disse. Una volta spiegata la situazione, dall'altro capo del telefono giunse la risposta rassicurante: «Niente di cui preoccuparsi... siamo addestrati a fronteggiare gli imprevisti». 17 Appena neve e freddo avevano cominciato a spegnere l'incendio del serbatoio esploso, al-Khalifa aveva aperto con una leva il portello dell'Eurocopter. Un rapido controllo dei corpi gli aveva rivelato occhi sbarrati e senza vita che sembravano indicare come la morte fosse sopraggiunta rapidamente. Al-Khalifa non si era preso la briga di identificare gli uomini: in tutta franchezza non gli importava di chi fossero. Erano occidentali ed erano morti, e tanto bastava. Il suo principale interesse era recuperare il meteorite e, per fare ciò, era dovuto salire sull'elicottero dove la scatola si era incastrata sotto un sedile. L'aveva presa ed era sceso, infine aveva tolto il lucchetto e aperto il coperchio. Il meteorite era là dentro, appoggiato su polistirolo e protetto da pannelli di piombo all'interno della scatola. Aveva richiuso nuovamente il contenitore e, in mezzo alla neve, era ritornato al Kawasaki HK-500D; poi l'aveva sistemato sul sedile del passeggero fissandolo con la cintura di sicurezza. Infine si era accomodato al posto di guida, aveva acceso il motore ed era decollato. Mentre si allontanava sopra il terreno il contenitore troneggiava accanto a lui come un ospite d'onore, non come una sfera mortale piena di veleno destinata ad appestare un'ignara popolazione. Al-Khalifa prese la radio e avvertì l'equipaggio dell'Akbar che ben presto sarebbe stato a bordo. Una volta che avesse raggiunto lo yacht, sarebbero potuti procedere per Londra e completare la missione. La collera dei giusti presto si sarebbe scatenata. E poi al-Khalifa si sarebbe occupato dell'emiro e del rovesciamento del governo del Qatar.
«Dammi qualche buona notizia», esclamò Cabrillo girando le spalle ai venti sempre più forti. «Abbiamo localizzato l'Akbar sul radar», gli rispose Hanley. «Siamo a due ore circa. Sto progettando un assalto per riprenderci il nostro uomo.» Cabrillo osservava l'intensità del segnale sul display del telefono. Si spostò per riceverne uno più forte. «Mi trovo sul posto dove l'Eurocopter si è schiantato. Lo ha spazzato via dal cielo l'elicottero misterioso. Il pilota e il passeggero sono morti... e non c'è segno del meteorite.» «Ne sei sicuro?» «Sicurissimo. C'è una sola fila di impronte all'esterno. Le ho seguite e sono arrivato ai solchi che l'altro elicottero ha lasciato nella neve. Chiunque sia stato a far fuori l'Eurocopter adesso ha il meteorite.» «Chiedo a Stone di provare a rintracciare la sua rotta sul radar», disse Hanley. «Non può essere andato lontano. Se è un elicottero McDonnell Douglas, dobbiamo cercare lungo una distanza di cinquecentosessanta chilometri in totale. E dal momento che non ha potuto fare rifornimento si trova da qualche parte entro un raggio di duecentottanta chilometri da dove sei tu.» «Di' a Stone di provare anche qualcos'altro. Sono riuscito a sabbiare il meteorite prima che lo rubassero.» «Sabbiare» era il termine in gergo che alla Corporation usavano per le microscopiche spie autoguidate che Cabrillo nell'oscurità aveva sparso sulla sfera. A un occhio non addestrato potevano sembrare grani di polvere, ma in realtà emettevano un segnale che le apparecchiature elettroniche della Oregon sapevano leggere. «Accidenti se sei in gamba», esclamò Hanley. «Non abbastanza, perché il premio ce l'ha un altro.» «Lo scoveremo, Juan.» «Chiamami quando sai qualcosa.» Dopo avere chiuso la conversazione, Cabrillo iniziò il faticoso tragitto di ritorno alla grotta in mezzo alla neve. A ottanta miglia di distanza e invisibili sugli schermi radar dell'Akbar, la scena a bordo dello yacht Free Enterprise era più pacata. L'equipaggio era pervaso da uno zelo che rivaleggiava con quello dei musulmani sull'Akbar, solo che si trattava di uomini ben addestrati e non abituati a dare enfasi alle proprie emozioni. Occidentali, alti più di un metro e ottantacinque, erano
in eccellente forma fisica e avevano prestato servizio nell'esercito statunitense in qualche ruolo. Tutti avevano ragioni personali per accettare l'incarico. E tutti erano pronti a morire per la causa. Scott Thompson, il capo della squadra del Free Enterprise, si trovava nella timoniera in attesa di una telefonata. Non appena l'avesse ricevuta sarebbero andati all'attacco. Occidente e Oriente stavano per scontrarsi in un'operazione condotta in segreto. Il Free Enterprise procedeva rapidamente verso sud immerso in una nebbia fitta. Nell'ora precedente si era accostato a un trio di iceberg, tutti con la sommità che copriva almeno quattromila metri quadrati. I banchi di ghiaccio più piccoli erano troppo numerosi per essere contati, sballottati sul mare come cubetti di ghiaccio in un bicchiere da whisky. Faceva un freddo pungente e il vento aumentava. «Attivo inserito», disse il comandante. Sulla sovrastruttura del Free Enterprise un'unità elettronica cominciò a catturare i segnali radar delle altre imbarcazioni. Poi li ritrasmetteva a velocità diverse. Senza un segnale di ritorno coerente i dispositivi radioelettrici delle altre navi non riuscivano a farsi un'immagine del Free Enterprise: la nave era diventata uno spirito fantasma sui mari neri e burrascosi. Un uomo alto dai capelli a spazzola entrò in timoniera. «Ho appena finito di scorrere tutti i dati. La nostra ipotesi più convincente è che Hughes sia andato.» «E dunque ci sono ottime probabilità che chi inseguiva Hughes adesso sia in possesso del meteorite», osservò il comandante. «Il grande capo sta rilevando la rotta dell'elicottero in una delle sue agenzie spaziali a Las Vegas.» «E dove è diretto?» «Questo è il bello: giusto dritto al nostro bersaglio.» «Sembra che possiamo prendere due piccioni con una fava», disse il comandante. «Proprio così.» Adams era un ottimo pilota, ma l'oscurità sempre più fitta gli faceva traspirare le mani. Da quando era decollato dalla Oregon volava solo con gli strumenti. Si asciugò il sudore contro la tuta, abbassò il riscaldamento e studiò lo schermo di navigazione. Alla sua attuale velocità avrebbe sorvolato la costa nel giro di due minuti. Aumentò la quota per tenersi alla larga dalle prime propaggini della catena montuosa e controllò di nuovo gli
strumenti. La mancanza di visibilità lo faceva sentire come uno che se ne vada in giro con un sacchetto di plastica infilato in testa. Cabrillo non era sicuro se Ackerman fosse vivo o morto. Ogni tanto sentiva ciò che poteva sembrare una flebile pulsazione, ma la ferita non sanguinava più, e quello era un brutto segno. Ackerman non aveva più mosso un muscolo da quando lui era ritornato alla grotta. Teneva gli occhi chiusi e le labbra ferme, immobili. Cabrillo lo tirò un po' su e lo coprì con un sacco a pelo. Non c'era molto altro che potesse fare per lui. Poi gli squillò il telefono. «Il segnale del meteorite ci porta dritti all'Akbar», disse Hanley. «Al-Khalifa...» sbottò Cabrillo. «Mi chiedo come abbia fatto a scoprire l'esistenza del reperto.» «Ho avvisato Overholt che hanno una spia a Echelon. È l'unica spiegazione.» «E così il gruppo Hammadi sta cercando di fabbricare una bomba sporca», concluse Cabrillo. «Ma ciò non spiega chi sono le persone che hanno preso il meteorite per prime.» «Non siamo riusciti a trovare nessuna informazione sul passeggero, ma la mia ipotesi è che fosse uno che lavorava per al-Khalifa e che abbiano avuto una divergenza.» Cabrillo rifletté per un istante. Era una spiegazione plausibile, forse l'unica ragionevole, eppure qualcosa non lo convinceva. «Credo che lo sapremo quando libereremo l'emiro e recupereremo il meteorite.» «Questo è il piano», concordò Hanley. «E la faccenda sarà conclusa.» «Liscia come l'olio, Juan.» Né Cabrillo né Hanley potevano prevedere che l'epilogo era lontano ancora diversi giorni. E nemmeno che non sarebbe andata liscia come l'olio. «Fammi telefonare da Huxley», disse Cabrillo. «Mi servono consigli medici.» «Va bene», rispose Hanley mentre chiamava. A bordo dell'Akbar potenti luci di atterraggio erano accese per illuminare la piazzola. Un paio di arabi osservava al-Khalifa portarsi sopra la piattaforma di co-
da dello yacht e posarsi. Non appena i pattini dell'elicottero sfiorarono il ponte, i due uomini si precipitarono sotto il vortice delle pale per assicurarli al suolo. Al-Khalifa tirò il freno del rotore e le pale rallentarono; una volta fermo, scese e fece il giro verso il lato del passeggero. Poi, con la scatola fra le mani, raggiunse la porta che immetteva nella sala principale. Entrò, si accostò al lungo tavolo e ve l'appoggiò. Mentre toglieva il coperchio, i terroristi si radunarono attorno a lui fissando la sfera in silenzio. Poi al-Khalifa la sollevò tenendola sopra la testa. «Un altro milione di infedeli morti», disse in tono solenne. «E Londra in rovina.» «Sia lode ad Allah!» gridarono i terroristi. «Un miglio di prua», disse il comandante del Free Enterprise. «Si muove a una velocità di quindici nodi.» Un gruppo di nove uomini con indosso divise nere impermeabili affollava la timoniera. Erano armati di fucili a tracolla, pistole e granate. Il Free Enterprise era immobile nell'acqua. All'esterno, sul ponte di poppa, un grosso gommone nero antiproiettile veniva calato in mare: a prua e a poppa erano montate mitragliatrici da cinquanta millimetri. E il rigido pavimento di fibra di vetro ospitava un motore a gasolio ad alte prestazioni. Il natante scomparve al di là della fiancata toccando l'acqua con un tonfo. «Entriamo a poppa», disse il capo della missione, «neutralizziamo gli obiettivi, recuperiamo il meteorite e ce ne andiamo. Voglio che tutto il gruppo sia di nuovo a bordo in cinque minuti al massimo.» «Ci sarà qualcuno da trattare con riguardo?» domandò uno degli uomini. «Uno», rispose il capo facendo passare una fotografia. «Come ci comportiamo con lui?» «Proteggetelo, se possibile, ma non a costo della vostra vita.» «Lo lasciamo a bordo?» «A noi non serve», rispose l'uomo. «E adesso andiamo.» Uscirono dalla timoniera avviandosi al ponte di poppa. A uno a uno scesero alcuni scalini di lato allo scafo che portavano a una piattaforma dove il gommone era ormeggiato in folle. Quando furono tutti a bordo, uno di loro prese posizione dietro il volante, innestò la marcia e si allontanò dal Free Enterprise.
A una velocità di cinquantacinque nodi impiegarono poco a raggiungere l'Akbar. Una volta che furono di poppa allo yacht, il conducente del gommone, dando la giusta dose di gas, si tenne contro la piattaforma di nuotata così da sbarcarvi la squadra. Poi il gommone arretrò di un breve tratto, mantenendosi al passo sostenuto dell'Akbar. Lentamente gli otto uomini salirono sul ponte superiore. Nella sua cabina sull'Akbar il prigioniero era riuscito a liberarsi le mani, ma non le gambe. Saltellando fino al bagno svuotò la vescica, poi tornò a sedersi sul letto con le mani di nuovo legate. Se qualcuno non si decideva a venire a salvarlo, avrebbe dovuto occuparsi della faccenda direttamente. Aveva fame, e quando era affamato montava su tutte le furie. Un ponte più sopra, l'unico rumore che si poteva sentire era il leggero tramestio di scarponi infilati in calzari di feltro degli uomini del Free Enterprise che si sparpagliavano per tutti gli angoli dell'Akbar. Nel giro di qualche secondo un leggero, pigro scoppiettare come di popcorn filtrò per la nave, seguito dal tonfo di corpi che crollavano sul ponte. Ancora qualche istante e la porta della cabina del prigioniero venne spalancata da un uomo con un cappuccio nero che gli sparò una luce in faccia. L'individuo lo guardò di nuovo, consultò una fotografia che teneva fra le mani e infine richiuse la porta. Il prigioniero iniziò a strappare la maschera che gli copriva il volto. L'Akbar aveva iniziato a rallentare, poi si bloccò. Muovendosi con rapidità, quattro degli assalitori spostarono i corpi dei terroristi, a cominciare dal loro capo, e li scaraventarono al di là della fiancata mentre gli altri membri della squadra ripulivano il sangue. Erano passati quattro minuti e quaranta secondi da quando avevano messo per la prima volta piede sul ponte dell'Akbar che già scendevano tutti in fila sulla piattaforma. Il caposquadra sistemò con cura una scatola sul retro del gommone e gli uomini risalirono a bordo. Il conducente diede gas e l'imbarcazione nera schizzò a pelo dell'acqua in direzione della nave madre. Rispetto all'impresa appena conclusa una pizza surgelata ci avrebbe impiegato di più a cuocere. Quando la squadra fu a bordo e il gommone stivato sul ponte, il comandante del Free Enterprise affiancò l'Akbar. La nebbia si era sollevata un
poco e le luci dell'imbarcazione si riflettevano sulle acque buie dell'oceano. L'Akbar dondolava fermo come una barca ancorata a una barriera corallina. La differenza consisteva nel fatto che lì la temperatura era troppo fredda per immergersi, e poi a bordo non era rimasto nessuno, tranne uno, che potesse uscire a divertirsi. Il Free Enterprise superò lo yacht e il comandante aumentò gradualmente la velocità. 18 Con il suo Robinson, Adams volava a punto fisso sopra il monte Forel; poi avvicinò all'altoparlante una tromba ad aria compressa e la azionò. Dopo avere atteso per qualche minuto individuò il bagliore di una luce verde sottostante. Volò per una breve distanza in quella direzione e suonò nuovamente la tromba per avvisare Cabrillo di allontanarsi dalla piazzola di atterraggio. Infine portò l'elicottero al suolo, sulla neve. Quando le pale del rotore ebbero smesso di girare, Adams uscì dall'abitacolo. «Signor presidente», disse a Cabrillo che si avvicinava, «sono contento di averla trovata. Qui è nero come dentro un sacchetto di liquirizie.» «Avete lasciato tutti l'Islanda sani e salvi?» «Ogni cosa è andata secondo i piani.» «Finalmente una buona notizia. E a peso come stiamo?» «Con noi due a bordo e il carburante ci resta ancora una cinquantina di chili. Perché me lo chiede?» «Abbiamo un altro passeggero», rispose Cabrillo. «Chi?» «Un civile. Gli hanno sparato. Credo che per lui si sia trattato solo di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.» «È vivo o morto?» «Non lo so per certo, ma non mi sembra in buone condizioni», disse Cabrillo. «Tu entra nella grotta, poi trasportalo all'elicottero. Io mi avvicino con il gatto delle nevi e comincio a fare il rifornimento.» Adams annuì iniziando a risalire il pendio. All'ingresso si bloccò e guardò a nord. Lungo l'orizzonte luci azzurre e verdi baluginavano e danzavano come sottili lenzuoli rischiarati da una luce ondeggiante. Il plasma che forma l'aurora boreale stava dando spettacolo. Adams provò un brivido davanti a quella scena surreale. Girò i tacchi ed entrò nella grotta.
Cabrilio era salito sul gatto delle nevi e l'aveva portato accanto all'elicottero. Cominciò a travasare il carburante servendosi di una pompa a manovella posta sulla sommità della tanica di scorta. Stava appunto terminando di riempire il secondo serbatoio del Robinson, quando Adams sbucò dall'oscurità trasportando Ackerman, ancora dentro il sacco a pelo. Il pilota depose con cautela l'archeologo sul sedile posteriore e aggiunse una cintura di sicurezza. «Ho dell'additivo per aumentare il numero di ottani», disse a Cabrilio. «Dammelo, ci penso io. Voglio che mi chiami Huxley alla radio e che le chiedi se c'è qualcosa che possiamo fare per il nostro passeggero. Spiegale che ha una grave ferita da arma da fuoco e che ha perso parecchio sangue.» Adams annuì, poi allungò la mano in uno scompartimento e prese due flaconi di additivo da passare a Cabrilio. Infine si sedette al posto di pilotaggio e accese la radio. Dopo avere effettuato la chiamata, si alzò di nuovo per frugare dentro la stiva e togliere una pala da neve pieghevole. Mentre Cabrilio terminava i rifornimenti, Adams si mise a spalare neve dentro il sacco a pelo di Ackerman. «Mi ha detto di raffreddarlo con il ghiaccio e di rallentargli il battito cardiaco», spiegò a Cabrilio che gli si avvicinava. «Per indurre un'ipotermia e metterlo in uno stato comatoso.» «Quanto impiegheremo a raggiungere la Oregon?» «Quando sono decollato procedevano a tutta velocità, e questo ci farà risparmiare un po' di tempo nel viaggio di ritorno. Se devo fare un'ipotesi, direi circa un'ora.» Cabrillo annuì, togliendosi i fiocchi gelati dalle sopracciglia. «Sposto il gatto delle nevi, tu intanto accendi.» «Va bene.» Quattro minuti più tardi, Cabrillo saliva sul sedile del passeggero dell'elicottero in folle. Ancora qualche secondo e Adams innestava la frizione facendo roteare le pale del rotore: in un minuto l'elicottero si sollevò dalla neve. A bordo della Oregon Hanley studiava il piano dell'assalto all'Akbar. In un angolo della sala controllo Eddie Seng buttava giù degli appunti su un blocco giallo. Eric Stone si avvicinò alla sedia di Hanley e gli fece cenno di guardare il grande monitor sulla parete. L'immagine mostrava la costa della Groenlandia, la posizione dell'Akbar e la rotta che la Oregon stava
seguendo. «L'Akbar è fermo da un quarto d'ora», gli mostrò, «mentre ciò non si può dire del meteorite. Se il segnale della sabbia è corretto, si sta allontanando.» «Ma è assurdo», rispose Hanley. «È possibile che stiamo ricevendo dei valori sbagliati?» Stone annuì. «Con l'aurora boreale che fa i capricci e la curvatura della Terra così a nord, potrebbe essersi verificato un salto nei segnali che ci rimanda la ionosfera.» «Quanto impiegheremo a raggiungere l'Akbar?» chiese Hanley. «Eravamo a circa un'ora. Ma adesso che lo yacht è fermo dovremo togliere circa dieci minuti dalla stima.» «Eddie, potresti far preparare i tuoi uomini con un po' di anticipo?» «Certo. Il primo uomo a bordo è quello che fa la maggior parte del lavoro. Dopo che ha spruzzato l'agente paralizzante nel condotto dell'aria e per mettere a nanna i cattivi, non si deve far altro che sbrigarsi a prendere il controllo della nave.» Stone era tornato alla propria sedia. Stava studiando il grafico di una frequenza radio che mostrava le intensità del segnale sulle diverse bande. «Riceviamo qualcosa giù in basso», esclamò. «Vedi di sintonizzarti», lo sollecitò Hanley. Stone manovrò una rotella e poi premette un pulsante sulla console per amplificare la potenza di ricezione. Infine accese l'altoparlante. «Portland, Salem, Bend», disse una voce, «dare okay per trasmissione.» Sull'Akbar il prigioniero era riuscito a liberarsi anche le gambe. Pur origliando alla porta della cabina, non aveva sentito niente e così l'aveva forzata ed era uscito in perlustrazione. Non c'era nessuno nella sala. Lentamente aveva controllato lo yacht da prua a poppa trovandolo deserto. Poi si era strappato la maschera di gomma. Si era diretto alla timoniera e aveva preso la radio. «Portland, Salem, Bend», aveva ripetuto, «dare okay per trasmissione.» Sulla Oregon, Hanley prese il microfono per rispondere. «Qui Oregon. Identificarsi.» «Sei-undici-cinquantanove.» «Murph», chiese Hanley, «cosa ci fai alla radio?» «Un piano molto audace», diceva Adams pilotando l'elicottero nel cielo nero, «quello di usare una controfigura per l'emiro del Qatar.»
«Era da un po' che sapevamo dei progetti di al-Khalifa», rispose Cabrillo, «e l'emiro ha dato corda alla nostra piccola operazione. Anche a lui preme sbarazzarsi di al-Khalifa, non meno che a noi.» «Ha mangiato qualcosa di recente? Ho panini, biscotti e del latte. Sono in una borsa dietro il sedile.» Cabrillo annuì e si allungò verso il vano posteriore di fianco a Ackerman. Aprì una borsa termica ed estrasse un panino. «Ce l'hai del caffè?» «Un pilota senza caffè?» rispose Adams in tono scherzoso. «Sarebbe come un pescatore senza esche. C'è un thermos per terra lì dietro. È la mia speciale miscela tostata italiana.» Cabrillo recuperò il thermos e si riempì una tazza. Bevve un paio di sorsate e appoggiò la tazza per terra accanto ai piedi. Mangiò un boccone del panino. «E così avete progettato di far rapire il falso emiro?» chiese Adams. «Questo no, pensavamo di poter catturare al-Khalifa prima della mossa. La cosa positiva, per fortuna, è che siamo sicuri che l'arabo non ha intenzione di uccidere l'emiro: vuole solo che abdichi al trono in favore del suo clan. Il nostro uomo dovrebbe stare tranquillo come una mucca a un congresso di vegetariani finché non si accorgono che è una controfigura.» Cabrillo diede un altro morso al panino. «Posso chiederle una cosa?» domandò Adams. «Come no», rispose Cabrillo ingollando l'ultimo pezzo e prendendo il caffè. «Che diavolo ci faceva in Groenlandia e chi è esattamente il tizio mezzo morto disteso qui dietro?» «Al-Khalifa e i suoi sono partiti», disse Murphy. «Io sono l'unico che è rimasto a bordo, a quanto vedo.» «Ma è assurdo», osservò Hanley. «L'elicottero c'è ancora?» «L'ho visto sul ponte di poppa.» «Hai fatto il giro di tutto lo yacht?» «Eh, sì. È come se non fossero mai esistiti.» «Aspetta», disse Hanley voltandosi verso Stone. «Trentotto minuti signore», rispose Stone alla tacita domanda. «Murph, saremo lì fra mezz'ora. Vedi che cosa ti riesce di scoprire prima che arriviamo.» «Sarà fatto.» «Sul posto riusciremo a capirci qualcosa.»
«Ho ricevuto una chiamata dal nostro contatto alla CIA», stava spiegando Cabrillo. «Quando eravamo a Reykjavík, Echelon ha intercettato una email riguardante un meteorite composto di iridio. Alla CIA erano preoccupati che andasse a finire nelle mani sbagliate e così mi hanno chiesto di fare un salto in Groenlandia e di impossessarmene. Quel signore», continuò indicando il retro, «è l'uomo che lo ha scoperto.» «Lo ha disseppellito lui dalla grotta?» «Non esattamente. Non hai avuto il tempo di guardarti in giro, ma c'è un grosso santuario costruito su un condotto sopra quello dove sei entrato, una cosa molto complessa. Qualcuno, tanto tempo fa, deve avere scoperto il meteorite interpretandolo come un oggetto religioso o spirituale. Il tizio lì dietro è un archeologo che non so come ha trovato un indizio ed è riuscito a individuare il sito.» Adams regolò la strumentazione, poi rispose nella cuffia. «Oregon, qui air one. Siamo a venti minuti.» Dopo avere ricevuto una risposta da Stone nella sala controllo, continuò: «L'intera faccenda sembra strana. Anche se il meteorite ha un'importanza storica, non riesco a immaginarmi degli archeologi rivali che si uccidono fra loro per un reperto. Forse sognano di farlo, ma non ho mai sentito dire che sia successo». «Per come stanno adesso le cose, sembra che il gruppo Hammadi e alKhalifa abbiano intercettato la e-mail e preso il meteorite per l'iridio. Di sicuro intendono costruire una bomba sporca con il materiale.» «Se è così, devono già avere qualche bomba funzionante da usare come catalizzatore», osservò Adams. «Altrimenti hanno il combustibile, ma non il comburente.» «Tale e quale come la penso io.» «E quindi anche dopo che la nostra squadra ha recuperato il meteorite c'è sempre da localizzare la bomba madre.» «Una volta che avremo preso al-Khalifa, gli faremo sputare l'ubicazione dell'arma. A quel punto si potrebbe mandare un equipaggio a disinnescarla e la faccenda sarebbe chiusa.» Cabrillo non sapeva ancora che al-Khalifa era sul fondo dell'oceano. Proprio vicino a una serie di sorgenti geotermiche. 19 Thomas Dwyer era un nome da uomo serio e posato. Persino il titolo di
Dwyer, «fisico teorico», gli conferiva un'immagine da accademico con la pipa all'angolo della bocca, da intellettuale o da uomo abituato a vivere una vita perfettamente sotto controllo. Nulla avrebbe potuto essere più lontano dal vero. Dwyer era il capitano della squadra di freccette del bar del suo quartiere, partecipava a gare di rally nel fine settimana e dava la caccia alle gonnelle nubili con una determinazione che i quarant'anni d'età non avevano scalfito. Dwyer presentava una curiosa rassomiglianza con l'attore Jeff Goldblum, si vestiva più come un produttore cinematografico che come uno scienziato e leggeva all'incirca venti fra giornali e riviste al giorno. Era intelligente, fantasioso e audace, e aggiornato sui fatti di attualità e le ultime tendenze come un esperto di moda. Il titolo professionale, tuttavia, poteva suggerire l'idea di un lato più serio. Il suo biglietto da visita diceva: «Central Intelligence Agency, Thomas W. Dwyer (TD) - responsabile scientifico alle applicazioni teoriche». Dwyer era uno scienziato-agente segreto. In quel preciso istante Dwyer si trovava a testa in giù, con i piedi infilati in un paio di scarponcini antigravità attaccati a una sbarra assicurata allo stipite della porta che immetteva nel retro del suo ufficio. Si stirava i muscoli della schiena e pensava. «Signor Dwyer», lo chiamò rispettosamente un altro scienziato suo sottoposto. Dwyer lanciò un'occhiata in direzione della voce. Vedeva un vecchio paio di scarpe di cuoio marrone sotto calze di spugna lasciate intravedere da pantaloni con l'orlo un dito troppo alto. Inarcando la schiena sollevò la testa quel che bastava per vedere chi stesse parlando. «Sì, Tim?» «Mi hanno affidato un compito che mi sembra superiore alle mie capacità», disse tranquillo il giovane scienziato. Dwyer allungò le braccia e afferrò la sbarra sopra la porta. Poi si capovolse con una giravolta da ginnasta, tolse gli scarponcini dal sostegno e si lasciò cadere a terra con compostezza. «L'ho visto fare nelle ultime olimpiadi», spiegò Dwyer sorridendo. «Che ne pensi?» «Ottimo, signore», rispose il giovanotto a bassa voce. Dwyer rientrò nell'ufficio e si sedette dietro la scrivania; poi si chinò e iniziò a sfilare le calzature antigravità dalle caviglie. Lo scienziato giovane lo aveva seguito docilmente, tenendo fra le mani un dossier con stampi-
gliate le parole ECHELON A-1. Dwyer lanciò gli scarponcini in un angolo dell'ufficio e allungò le mani per prendere in consegna il dossier che Tim gli porgeva. Tolse un'etichetta dal frontespizio, la siglò rapidamente con le sue iniziali e la restituì a Tim. «Adesso è un mio problema», disse sorridendo. «L'analizzerò e scriverò il rapporto.» «Grazie, signore», rispose Tim. «Chiamami pure TD. Mi chiamano tutti così.» Thomas «TD» Dwyer era seduto nel suo ufficio con i piedi sulla scrivania. In mano aveva una tesi sulla formazione naturale di buckminsterfullerene, dette più comunemente buckyball, sui meteoriti. I globi sferici, che prendevano il nome dal famoso architetto americano R. Buckminster Fuller, noto principalmente per avere progettato la cupola geodetica, sono le molecole grandi più rotonde e più simmetriche che l'uomo conosca. Scoperte nel 1985 nel corso di un esperimento spaziale impiegando molecole di carbonio, le buckyball non smettono ancora oggi di stupire gli scienziati. Quando la zona cava dentro la sfera si riempie di cesio, produce il miglior semiconduttore organico mai sperimentato. Gli esperimenti con le buckyball di carbonio puro hanno creato un lubrificante che annulla qualsiasi attrito. Alcuni dei possibili impieghi includono lo sviluppo di motori non inquinanti, la somministrazione di medicinali a lento rilascio e dispositivi più avanzati nell'ambito delle nanotecnologie. Il campo di sviluppo è aperto e in espansione. Sebbene le applicazioni concrete fossero interessanti, Dwyer non si preoccupava tanto del futuro quanto piuttosto del presente. Si era scoperto che le buckyball si trovano in natura sul luogo dei crateri di meteoriti e l'esame dei campioni aveva rivelato nell'area cava al loro interno la presenza dei gas argon ed elio insieme. Dwyer ci rifletté sopra per un momento. Prima immaginò due cupole geodetiche unite a formare una sfera della dimensione di un pallone da calcio, oppure all'incirca della medesima grandezza del meteorite nella fotografia. Poi il vuoto all'interno pieno di gas. E infine teorizzò di perforare la sfera con uno spiedo o di tagliarne via la sommità con una spada. Qualunque gas in essa contenuto sarebbe fuoriuscito. E poi che cosa sarebbe successo? Elio e argon erano innocui ed esi-
stevano abbondantemente in natura. Ma se quei gas racchiudevano anche dell'altro? Qualcosa che non apparteneva a questo mondo? Dwyer aprì la rubrica del suo computer, trovò un numero telefonico e diede l'ordine di comporlo. Quando il computer gli segnalò che la linea era libera prese in mano l'apparecchio. Dall'altra parte del Paese, a tre fusi orari di distanza, un uomo si avvicinò al telefono che squillava. «Nasuki.» «Mike, vecchio sgobbone... sono TD.» «TD, rifiuto del Mensa, come te la cavi a giocare alle spie?» «Te lo direi, ma è un segreto così segreto che dovrei ammazzarmi.» «Allora è proprio un segreto», rispose Nasuki. «Ho un favore da chiederti.» Miko «Mike» Nasuki era un astronomo della NOAA, la National Oceanographic and Atmospheric Administration, un'agenzia del dipartimento del Commercio che conduceva la ricerca scientifica su un'ampia base, anche se di solito lavorava nell'ambito dell'idrografia. «È per caso un favore del tipo nessuno deve sapere di questa nostra conversazione?» «Esatto. Del tutto ipotetico e ufficioso.» «E va bene, dimmi.» «Mi sto occupando di meteoriti e in particolare di formazione di buckyball.» «Fa proprio al caso mio», rispose Nasuki. «Roba all'avanguardia.» «Mai sentito parlare di teorie sulla formazione di gas all'interno delle sfere stesse?» chiese Dwyer con circospezione. «Perché elio e argon sono prevalenti?» «Principalmente perché questi sono i gas più comuni che si presenterebbero su qualsiasi altro pianeta.» «Così», osservò Dwyer, «l'interno delle sfere potrebbe racchiudere in potenza altre sostanze. Cose che normalmente non si trovano sulla Terra.» Nasuki ci pensò un momento. «Sicuro, TD. Ho partecipato a un simposio qualche mese fa dove qualcuno ha presentato uno studio in cui si sostiene che i dinosauri sono stati spazzati via da un virus venuto dallo spazio.» «Portato da un meteorite?» domandò Dwyer. «Esattamente. C'è un problema, comunque.» «Quale?»
«Un meteorite di sessantacinque milioni di anni fa non è stato ancora trovato.» «Ti ricordi i particolari della teoria?» Nasuki si sforzò di ricordare. «Il succo è che l'impatto determinò la fuoriuscita di microbi extraterresti all'interno dell'elio, e quelli che non bruciarono avvelenarono la vita che esisteva al tempo. La teoria si basa su due cardini», continuò Nasuki. «Il primo è che quei microbi erano di origine virale a diffusione rapida, come una superinfluenza, SARS o AIDS, che attaccò i dinosauri fisicamente.» «E il secondo?» «Che qualsiasi cosa si trovasse intrappolata dentro l'elio riuscì effettivamente a modificare l'atmosfera stessa, forse alterando la struttura molecolare dell'aria.» «In che senso?» si informò Dwyer. «Esaurendo per esempio tutto l'ossigeno.» «Così tutti i dinosauri morirono asfissiati?» chiese Dwyer incredulo. Nasuki ridacchiò. «TD, è solo una teoria.» «E se un meteorite formato principalmente di iridio esistesse in forma integra, non frammentato dall'impatto?» «L'iridio, come sai, è sia estremamente duro sia relativamente radioattivo», osservò Nasuki. «Sarebbe un sistema di diffusione praticamente perfetto per un agente patogeno trasportato dal gas. La radiazione potrebbe addirittura mutare il virus e cambiarlo. Rafforzarlo, o farne comunque qualcosa di diverso.» «Così», concluse Dwyer, «è possibile che nelle molecole sia contenuto un virus mutante di milioni di anni fa, proveniente da un luogo a miliardi di chilometri dalla Terra?» «Assolutamente sì!» «Devo andare», disse Dwyer in fretta. «Non so come, ma sapevo che lo avresti detto.» 20 All'incirca quando Cabrillo era atterrato in Groenlandia, a mezzo mondo di distanza da lì, in un edificio abbandonato che dava sul porto di Odessa, in Ucraina, due uomini si erano incontrati. A differenza delle transazioni nei film hollywoodiani, dove squadre di uomini armati convergono in un punto per scambiare i contanti con le munizioni, l'incontro in questione era
stato decisamente meno eccitante. Solo due individui, una grossa cassa di legno e una voluminosa borsa nera di nylon con i soldi. «Il pagamento è in valute diverse come richiesto», disse uno dei due in inglese. «Verdoni, sterline inglesi, franchi svizzeri ed euro.» «Grazie», rispose l'altro, in un inglese con forte accento russo. «Ed è riuscito ad alterare gli archivi per dimostrare che quest'arma è stata venduta segretamente all'Iran nel 1980?» «Sì. Dal vecchio governo comunista alle forze radicali di Khomeini che hanno rovesciato lo scià, e il ricavato della vendita è stato usato per finanziare l'occupazione russa dell'Afghanistan.» «Il detonatore?» «Ne abbiamo messo uno nuovo nella cassa.» «Che generosità!» esclamò il primo dei due sorridendo. Allungò la mano e strinse quella dell'altro. «Ha il numero da chiamare se ci saranno problemi.» «Va bene.» «Se ne andrà dall'Ucraina, vero?» Lungo un nastro trasportatore la cassa era spinta verso il pianale di un camion. «Questa sera.» «Io andrei lontano», osservò quello che aveva portato il denaro mentre chiudeva il portellone del camion e ruotava la maniglia. «L'Australia è abbastanza lontana?» «L'Australia sarebbe perfetta.» L'uomo salì al posto di guida, chiuse la portiera e avviò il motore. Meno di un'ora più tardi, a un molo diverso, la cassa veniva caricata a bordo di un vecchio cargo per l'attraversamento del mar Nero, la prima tratta di un viaggio assai più lungo. Salpata da Odessa, la nave da carico greca Larissa faceva ora rotta a ovest, sobbalzando sui flutti del Mediterraneo. A dritta si stagliavano oramai contro il cielo le scogliere di Gibilterra. «Carburante sporco», disse il meccanico coperto di unto. «Ho pulito il filtro e adesso dovrebbe andare bene. Quanto al suono metallico che si sente, credo che sia solo lo scampanamento dei pistoni. Questi diesel hanno un gran bisogno di essere revisionati.» Il comandante annuì tirando una boccata da una sigaretta senza filtro. Poi si grattò il braccio dove, quando erano al largo della Sardegna, aveva cominciato a formarsi un eritema che adesso si estendeva dal polso al gomito. C'era ben poco che potesse fare: la Larissa era a più di millequattro-
cento miglia e a quattro giorni dalla propria destinazione. Alzò gli occhi mentre una grande petroliera gli passava di fianco, poi allungò la mano, aprì un barattolo di petrolato e applicò la gelatina sulla pelle scorticata. Il termine di consegna del misterioso carico era a ridosso del capodanno. Adesso che il problema del carburante era risolto, il comandante cominciava a credere che ce l'avrebbe fatta a rispettare la scadenza di Londra. Una volta là, la sua idea era di fare la consegna, brindare al nuovo anno in un bar del porto e trovare un dottore il giorno dopo per fargli vedere l'eritema. Il comandante non poteva sapere che il primo dottore con cui avrebbe avuto a che fare sarebbe stato un medico legale. 21 Il panorama dal finestrino davanti dell'elicottero era un campo sfolgorante. Per ordine di Hanley l'equipaggio della Oregon aveva acceso tutte le luci disponibili e la nave sembrava un albero di Natale contro lo sfondo del cielo nero. Volare solo con gli strumenti era esasperante e Adams fu lieto di poter atterrare presto. Si allineò dietro la poppa, discese e si portò a punto fisso sul retro della nave, quindi gradualmente avanzò fino a che il Robinson fu sopra la piattaforma di atterraggio. Infine atterrò delicatamente e iniziò la procedura di arresto. «Volo difficile», commentò Cabrillo mentre aspettava che il rotore smettesse di vorticare. «È stato da cardiopalmo per quasi tutto il viaggio», ammise Adams. «Sei stato eccezionale, George.» Prima che Adams potesse rispondergli, Julia Huxley, l'ufficiale medico della Oregon, arrivò di corsa mentre il rotore si arrestava e Adams tirava il freno. La seguiva Franklin Lincoln. «È lì dietro», disse Cabrillo. Huxley fece segno di sì con la testa, aprì il portello e controllò rapidamente i segni vitali di Ackerman. Poi si fece da parte e lasciò che Lincoln entrasse nell'abitacolo per sollevare l'archeologo e il sacco a pelo fra le braccia. Ackerman fu trasportato precipitosamente in infermeria seguito da Julia Huxley. Mentre Cabrillo scendeva dall'elicottero Hanley gli si avvicinò. «Murph ha chiamato dall'Akbar», disse senza perdere tempo in convenevoli.
«È in pericolo?» chiese Cabrillo ansioso di sapere. «Direi di no», disse il direttore, mentre gli faceva strada verso la porta che immetteva all'interno della Oregon. «Sentendo dei rumori si è liberato. Ha aspettato che passasse abbastanza tempo per essere sicuro, si è avventurato fuori dalla cabina dove era tenuto prigioniero e si è messo a guardarsi intorno. La nave era deserta e non c'era il minimo indizio di dove fossero finiti al-Khalifa e il suo equipaggio, e così ha arrischiato la telefonata.» Hanley e Cabrillo erano usciti sul ponte di poppa e si stavano dirigendo attraverso un passaggio alla sala controllo. «Ha recuperato il meteorite?» domandò Cabrillo. «Sparito», rispose Hanley aprendo la porta della sala. «Riceviamo segnali dalle spie sopra il reperto, ma sono intermittenti.» «Da dove hanno origine?» chiese Cabrillo. Hanley gli indicò un monitor. «Lì. La traccia era diretta a nord ma adesso va a oriente verso il mar di Norvegia.» «Hanno cambiato imbarcazione», osservò Cabrillo. «Ma perché?» «Questa è la domanda.» «Quanto distiamo dall'Akbar?» Senza rispondere, Stone diede le istruzioni al computer e un'immagine apparve sul monitor alla parete. Una videocamera illuminata da fari sulla prua della Oregon la stava filmando. L'Akbar era dritto di prua. Il Free Enterprise solcava a tutta velocità i mari agitati. «Fermatevi alle isole Faroe», disse una voce maschile attraverso una linea protetta. «Manderò qualcuno all'aeroporto locale a prelevare il contenitore.» «Poi dove vuole che andiamo?» chiese il comandante. «Calais, il resto della squadra si trova là.» «Molto bene, signore.» «Ancora una cosa, comandante», aggiunse l'uomo. «Sì.» «Spieghi alla squadra che avranno un bonus di cinquantamila dollari ciascuno. E si accerti che la famiglia di Hughes venga adeguatamente ricompensata per la perdita.» «Sarà fatto», disse il comandante. L'uomo interruppe la comunicazione, poi prese un dossier che teneva sulla scrivania. Estrasse il documento di vendita dell'azienda tessile britan-
nica oltre all'autorizzazione di pagamento. Firmò entrambi, poi li infilò in un fax e attese. Una volta ricevuta la conferma, restò a guardarla per un istante. La prima parte del piano era in atto. Ben presto sarebbe arrivato il momento di ripagare con la stessa moneta. Mentre il fax viaggiava verso l'Inghilterra lungo la linea telefonica, la nave da carico Larissa circumnavigava Cabo Finisterre. Il comandante impostò la rotta per il porto di Brest, sulla punta della Francia, che immetteva nel canale della Manica. L'aria notturna era fresca e i cieli sopra di lui risplendevano limpidi sotto una coperta di miliardi di stelle. Mentre contemplava lo spettacolo, una cometa gli passò sopra la testa. Annuendo di approvazione accese una sigaretta, sorseggiò l'ouzo da una fiasca d'argento e si grattò il braccio che gli dava prurito. Un sottile filo di sangue affiorò alla superficie e lo asciugò con uno straccio. Altri due giorni e avrebbero raggiunto Londra, e poi avrebbe fatto vedere l'eritema. Servendosi dei propulsori laterali computerizzati Hanley portò la Oregon ad affiancarsi all'Akbar. Cabrillo fu il primo a salirvi, seguito da Seng, Jones, Meadows e Linda Ross. Murphy li stava aspettando sul ponte. Frammenti della maschera di gomma erano ancora visibili attorno alla scriminatura. Non appena Cabrillo lo raggiunse, Murphy gli indicò la porta aperta. «Dimmi che cosa hai sentito e cosa è successo dopo», gli chiese mentre lo seguiva nel salone. Murphy gli spiegò dei leggeri suoni scoppiettanti e dell'uomo incappucciato che era entrato nella sua cabina. «È finito tutto nel giro di cinque minuti», disse mentre il resto della squadra entrava nel salone. «Ne ho aspettati altri dieci prima di azzardarmi a uscire.» «Perlustrate tutti gli scompartimenti», ordinò Cabrillo. «Voglio delle risposte.» La squadra si divise sparpagliandosi per tutto lo yacht. Fucili e pistole erano sparsi in giro per le cabine, oltre a indumenti, effetti personali e valigie. Le lenzuola erano spiegazzate e alcuni letti avevano le coperte tirate indietro. Copie del Corano si trovavano in ogni cabina e le scarpe giacevano sul pavimento accanto alle cuccette. Era come se fosse arrivato un UFO a rapire quegli uomini e a portarli
nello spazio. A bordo della Oregon, Hanley si accertò che i propulsori fossero regolati a dovere e poi si rivolse a Stone. «Prendi il timone, vado anch'io sull'Akbar.» Stone iniziò a sistemate le telecamere sul ponte per poter avere la situazione sotto controllo, mentre Hanley, salito sullo yacht, si avviava al salone principale. Meadows faceva oscillare un contatore Geiger attorno al lungo tavolo da pranzo. «Era qui», disse al direttore della Corporation mentre attraversava la stanza. Alla fine del corridoio Ross teneva in mano un erogatore contenente del liquido azzurro con il quale spruzzava le pareti. Poi si infilò un paio di occhialini. Hanley le passò dietro e scese da una scala. Quando aprì la porta del salone, Cabrillo stava parlando con Murphy. «Se si sono trasferiti su un'altra nave, perché hanno lasciato qui gli effetti personali?» «Forse non volevano portarsi niente che potesse tradirli», disse Hanley. «Non ha senso», osservò Cabrillo. «Si prendono la briga di rapire quello che ritengono essere l'emiro del Qatar, e poi lo abbandonano, insieme con uno yacht multimiliardario, incustodito?» «Magari hanno in progetto di ritornare», buttò lì Murphy. Proprio in quell'istante Seng mise la testa dentro la cabina. «Signor presidente, Ross ha qualcosa da mostrarle.» I quattro uomini uscirono nel corridoio dove Linda li aspettava. Sulla parete c'erano delle zone colorate di azzurro contornate da barriere di schiuma. Ross si tolse gli occhialini e li passò in silenzio al presidente. Cabrillo si infilò gli occhiali sopra la testa e fissò le zone delimitate. La luminescenza fluorescente degli spruzzi di sangue sembrava un quadro di Jackson Pollock. Si tolse gli occhiali e li passò a Hanley. «Hanno cercato di ripulire», osservò Ross, «ma hanno fatto un lavoro in tutta fretta e poco accurato.» In quel preciso istante la voce di Stone uscì da una radio appesa alla cintura di Cabrillo: «Signor Cabrillo, signor Hanley, c'è qualcosa che dovete venire a vedere». I due uomini percorsero il corridoio, attraversarono il salone, poi salirono sul ponte di poppa e tornarono sulla Oregon. Una volta lì, raggiunsero rapidamente la sala controllo.
Cabrillo aprì la porta. Stone gli indicò il monitor alla parete. «Credevo fosse un cucciolo di balena morto», spiegò, «ma poi si è girato e ho visto la faccia.» In quel momento un altro cadavere affiorò in superficie. «Falli ripescare da Reyes e da Kasim», disse Cabrillo a Hanley. «Io torno sullo yacht.» Uscì dalla sala controllo e salì sull'Akbar. Seng era nel salone principale quando Cabrillo vi entrò. «Meadows ritiene che l'oggetto sia stato solo qui dentro, sta analizzando il resto dello yacht, ma finora non ha rilevato radiazioni.» Cabrillo annuì. «Ross ha trovato sangue nella timoniera e nelle cabine, e poi anche dentro e tutto attorno al salone principale e ai corridoi. Il comandante era di servizio, mentre le guardie di turno e gli altri dormivano. Questa è la mia ipotesi.» Cabrillo annuì un'altra volta. «Chiunque li abbia assaltati, capo», disse Seng, «ha colpito duro e veloce.» «Vado alla timoniera», fu l'unico commento di Cabrillo mentre si allontanava. Giunto sul posto, si mise a esaminare il giornale di bordo. L'ultima annotazione risaliva solo a due ore prima e non indicava niente di straordinario. I visitatori, chiunque fossero, erano arrivati senza preavviso. Lasciata la timoniera, Cabrillo stava attraversando il salone quando ricevette una chiamata sulla radio. «Signor Cabrillo», esclamò la voce di Julia Huxley, «venga subito in infermeria.» Cabrillo riattraversò l'Akbar e tornò di nuovo sulla Oregon. Reyes e Kasim si trovavano sul ponte con dei ganci d'accosto fra le mani. Stavano spingendo un corpo verso una rete assicurata con un cavo a un albero di carico che avevano calato in mare. Cabrillo entrò e scese per il passaggio che conduceva all'infermeria. Aprì la porta. Ackerman era disteso su un lettino, avvolto da termocoperte. «Ha cercato di parlare», disse Huxley. «Ho scritto ogni cosa, ma fino a qualche minuto fa era soprattutto un farfugliare incomprensibile.» «Dunque?» chiese Cabrillo osservando una vibrazione nelle palpebre di Ackerman. Un occhio si aprì, impercettibilmente. «Ha iniziato a parlare dello spettro. Non di uno spettro, dello Spettro,
come se si trattasse di un soprannome.» Proprio in quel momento l'archeologo aprì la bocca. «Non avrei mai dovuto fidarmi dello Spettro», disse con una voce sempre più flebile a ogni parola. «Ha comprato e ha pagato l'u... ni... versi... tà.» Ackerman iniziò ad avere le convulsioni. Il suo corpo tremava come quello di un cane che si scrolla l'acqua di dosso. «Mamma», disse debolmente. E poi morì. Nonostante tutte le stimolazioni di Huxley, il cuore non ne volle sapere di contrarsi, e passata da poco la mezzanotte venne dichiarato morto. Con cautela Cabrillo gli si avvicinò e gli chiuse gli occhi; infine lo coprì con un lenzuolo. «Hai fatto del tuo meglio», disse a Julia Huxley. Poi uscì dall'infermeria e percorse il corridoio della Oregon. Le parole di Ackerman gli risuonavano ancora in testa. Mentre raggiungeva la poppa della nave trovò Hanley che osservava un gruppo di tre cadaveri; teneva fra le mani una fotografia digitale ventuno per ventotto. Cabrillo si avvicinò. «Ho ritoccato l'immagine con il computer per distorcere i lineamenti, tenuto conto del gonfiore dei tessuti», gli spiegò immediatamente Hanley. Cabrillo prese la foto dalle mani di Hanley, si chinò per avvicinarsi al corpo e gliela tenne di fianco. Guardò attentamente prima il volto del cadavere e poi la fotografia. «Al-Khalifa», esclamò lentamente. «Devono averlo calato oltre la fiancata dello yacht e buttato di sotto», osservò Hanley. «Gli assassini però non sapevano che il fondo dell'oceano da queste parti è disseminato di sorgenti geotermiche. L'acqua calda ha fatto gonfiare rapidamente i corpi, superando la resistenza del peso. Non fosse stato per quello non li avremmo mai trovati.» «Hai identificato gli altri?» chiese Cabrillo. «Non ho ancora rinvenuto documenti, e poi mentre parliamo continuano ad affiorare nuovi corpi. Probabilmente sono i seguaci di al-Khalifa.» «Non i seguaci», gli fece notare Cabrillo. «I pazzi.» «Adesso il problema è...» «Chi è abbastanza pazzo da rubare ad altri pazzi», concluse Cabrillo. 22
Seduto nel suo ufficio, Langston Overholt IV faceva rimbalzare una pallina di gomma rossa su una racchetta di legno. La cornetta del telefono gli stava incastrata fra la spalla e l'orecchio. Non erano ancora le otto del mattino, ma si trovava al lavoro già da oltre due ore. «Ho lasciato un paio di tecnici a bordo», gli diceva Cabrillo. «Rivendicheremo i diritti di salvataggio.» «Niente male come premio», osservò Overholt. «Sono certo che potrà esserci utile in qualche modo.» «Dove vi trovate attualmente?» chiese Overholt. «A nord dell'Islanda, diretti a est. Stiamo cercando di seguire le spie sul meteorite. Chiunque abbia ucciso al-Khalifa e rubato il reperto deve essere a bordo di un'altra nave.» «Sei sicuro che il corpo che avete recuperato è quello di al-Khalifa?» «Ti mandiamo via fax le impronte e le foto digitali del cadavere», rispose Cabrillo, «così i tuoi potranno procedere all'identificazione definitiva. Ma sono sicuro al novantanove per cento.» «Dopo che mi hai svegliato, questa mattina, ho ordinato ai miei agenti di cercare di identificare il passeggero a bordo dell'Eurocopter. Non abbiamo trovato niente. Manderò una squadra in Groenlandia a prendere i corpi, poi spero che ne sapremo di più.» «Scusami per la telefonata a mezzanotte, ma ho pensato di farti avere la notizia il più presto possibile.» «Non c'è problema. È probabile che tu abbia dormito anche meno.» «Sono riuscito a coricarmi qualche ora dopo che ce ne siamo andati dall'Akbar», confermò Cabrillo. «Spassionatamente... che sensazioni hai, amico?» gli domandò Overholt. «Se al-Khalifa è morto, in tal caso la minaccia della bomba sporca sembra rientrata. Il meteorite è radioattivo, ma senza catalizzatore il pericolo è molto ridotto.» «Vero», rispose Cabrillo, lentamente. «Ma la bomba nucleare ucraina scomparsa è ancora in giro da qualche parte, e non sappiamo se siano stati alcuni dei suoi uomini a eliminare al-Khalifa per portare a termine la missione loro stessi.» «Questo spiegherebbe molte cose», ammise Overholt. «Per esempio come sia stato facile per i killer salire a bordo dell'Akbar.» «E se non erano uomini di al-Khalifa, allora dobbiamo pensare che ci sia un altro gruppo da affrontare. Se le cose stanno così, meglio essere cauti. Chi ha assalito l'Akbar era addestrato molto bene e letale come una vipe-
ra.» «Pensi a un altro gruppo terroristico, Juan?» «Ne dubito», rispose Cabrillo. «L'operazione non presentava nessuna delle caratteristiche del fanatismo religioso. Mi è sembrata piuttosto un'incursione militare. Niente sbavature emotive, niente pasticci, solo una pura e perfetta eliminazione chirurgica del nemico.» «Ci scaverò intorno e vedrò che cosa riesco a scoprire», concluse Overholt. «Te ne sarei grato.» «È stata una buona cosa che tu sia riuscito a mettere le spie sul meteorite», aggiunse Overholt. «L'unico asso che abbiamo nella manica.» «C'è altro?» «Appena prima di morire l'archeologo ha parlato dello Spettro», spiegò Cabrillo. «Come se si trattasse di un uomo e non di un'apparizione incorporea.» «Ti seguo.» «Questo mi fa venire in mente un episodio di Scooby-Doo», osservò Cabrillo. «Scopri chi è lo Spettro e risolviamo l'inghippo.» «Non mi pare di ricordare un episodio di Scooby-Doo con delle armi nucleari.» «Aggiornalo al ventunesimo secolo», rispose Cabrillo prima di chiudere la conversazione. «Il mondo è molto più pericoloso, adesso.» Il Free Enterprise filava nelle acque fredde dell'oceano diretto alle isole Faroe. La squadra stava cominciando a rilassarsi; dopo avere effettuato la consegna del meteorite, gli uomini si sarebbero potuti riposare per un po'. Una volta portata l'imbarcazione sulla rotta per Calais non restava altro che aspettare una chiamata in caso di necessità. L'atmosfera a bordo era spensierata. Non avevano idea che un levriero dei mari travestito da vecchia carretta li stava seguendo. E neppure potevano supporre che tanto la Corporation quanto la potenza del governo americano si sarebbero ben presto schierate contro di loro. Vivevano ancora in uno stato di beata ignoranza. «È importante», stava spiegando TD Dwyer alla receptionist. «Quanto importante? Si sta preparando per una riunione alla Casa Bian-
ca.» «Molto importante», insistette Dwyer. La receptionist annuì e telefonò a Overholt. «C'è qui il signor Thomas Dwyer del dipartimento di Applicazioni Teoriche. Dice che deve vederla immediatamente.» «Fallo entrare.» La receptionist si alzò, andò alla porta dell'ufficio di Overholt e l'aprì. Il funzionario era seduto dietro la scrivania. Chiuse un dossier, girò sulla sedia e lo infilò nella fessura di una cassaforte alle sue spalle. «Okay, entri pure.» Dwyer superò la donna che richiuse la porta alle sue spalle. «Sono TD Dwyer. Lo scienziato che ha il compito di analizzare il meteorite.» Overholt fece il giro della scrivania e gli strinse la mano. Poi gli indicò un angolo conversazione con sedie e divani. Una volta che si furono accomodati, parlò. «Che cosa ha trovato?» Il fisico stava dissertando da meno di cinque minuti quando Overholt lo interruppe, andò alla scrivania e disse: «Julie, il signor Dwyer mi accompagnerà alla riunione alla Casa Bianca. Dobbiamo inserirlo nel programma». «Potrebbe chiedergli la valutazione del suo intervento?» «Uno-A critico», rispose Dwyer. «Così possiamo essere in cima alla lista», disse Overholt a Julie. «Come da programma.» «Telefono subito.» Overholt ritornò alla sedia. «Quando sarà il nostro turno, desidero che lei comunichi i suoi risultati senza esagerazioni. Semplicemente esponga i fatti come meglio può. Se, com'è probabile, le chiederanno di esprimere un'opinione, la dia, ma indichi chiaramente che si tratta di una teoria personale.» «Va bene.» «Perfetto. E adesso, fra noi, mi racconti il resto, comprese le ipotesi strampalate.» «In poche parole il timore è questo: c'è una possibilità che se la struttura molecolare del meteorite venisse perforata potrebbe avvenire il rilascio di un virus con conseguenze terribili.» «Nella peggiore delle ipotesi?» «La fine di ogni vita organica sulla Terra.»
«Benone... posso concludere senza ombra di dubbio che lei mi ha rovinato la giornata.» Nella sala controllo della Oregon Eric Stone osservava con attenzione un monitor. Non appena localizzava la posizione del meteorite, sembrava che questo cambiasse direzione. Combinando tutti i vari spostamenti l'operatore cercava di teleguidarsi sull'oggetto. Infine batté altre istruzioni alla tastiera del computer e lanciò un'occhiata a un altro schermo. Stone usava uno spazio che la Corporation affittava su un satellite commerciale. L'immagine riempì il monitor, ma il mare era nascosto da una pesante cortina di nuvole. «Capo», disse a Cabrillo, «ci serve un'inquadratura dal KH-30. Le nuvole sono troppo fitte.» Il KH-30 era il satellite supersegreto più avanzato del dipartimento della Difesa, in grado di penetrare attraverso le nubi e addirittura attraverso la superficie dell'acqua. Nonostante i ripetuti tentativi, Stone non era riuscito a introdursi nel sistema. «Lo chiederò a Overholt la prossima volta che lo sento», rispose Cabrillo. «A dargli un po' di tempo, magari riesce a convincere il National Reconnaissance Office. Ottimo tentativo, Stone.» Hanley stava seguendo il tracciato della rotta su un altro monitor. La Oregon filava a tutto vapore, ma l'altra imbarcazione aveva un grosso vantaggio iniziale. «Se mantengono la velocità attuale, possiamo comunque superarli prima della Scozia.» Cabrillo lanciò un'occhiata al monitor. «A me sembra che facciano rotta per le Faroe.» «Se è così, saranno in porto prima che li possiamo sorprendere», osservò Hanley. Cabrillo, annuendo, ci rifletté. «Dove sono posizionati i nostri jet?» Hanley fece apparire una carta del mondo sullo schermo. «Washington, Dubai, Città del Capo e Parigi.» «Che cosa abbiamo a Parigi?» «Il Challenger 604», rispose Hanley. «Ordina che si porti a Aberdeen, in Scozia», disse Cabrillo. «La pista dell'aeroporto delle Faroe non è abbastanza lunga per l'atterraggio e la città più vicina è Aberdeen. Di' che lo riforniscano di carburante e che lo tengano pronto nel caso ci serva.» Hanley annuì e raggiunse un computer per dare le istruzioni. La stanza
della sala controllo si aprì, lasciando entrare Michael Halpert. In mano teneva un grosso faldone di documenti. Si avviò alla macchina del caffè, si riempì una tazza e poi si rivolse a Cabrillo. «Capo», gli disse con aria stanca, «ho esaurito il database. Non ci sono terroristi o altri gruppi criminali che adottino lo pseudonimo di Spettro.» «Trovato niente?» «Un attore di Hollywood che si atteggia a sostenitore del lato oscuro, un autore di libri di vampiri, un industriale, e 4382 mittenti vari di e-mail.» «L'attore e l'autore sono esclusi d'ufficio», osservò Cabrillo. «Tutti quelli che ho incontrato sono troppo stupidi per organizzare un pranzo... figuriamoci un attacco a una nave di terroristi. L'industriale chi è?» «Un tale Halifax Hickman», disse Halpert leggendo dal dossier, «un tipo ultraricco alla Howard Hughes con una svariatissima gamma di interessi economici.» «Trova tutto il possibile sul suo conto. Voglio sapere ogni dettaglio, dal colore delle mutande in avanti.» «Okay», rispose Halpert mentre lasciava la stanza per tornare al proprio ufficio. Sarebbero passate dodici ore prima che potesse uscire di nuovo. Ma a quel punto la Corporation ne avrebbe saputo parecchio di più sulla faccenda. Se TD Dwyer avesse sostenuto di non essere nervoso avrebbe mentito. Il gruppo che si trovava attorno al tavolo delle riunioni annoverava i supremi vincitori nazionali nella lotta per il potere. Non pochi di loro apparivano costantemente nei telegiornali e quasi tutti erano riconoscibili a chiunque non vivesse in una grotta. Si trattava di alti funzionari, il segretario di Stato, il presidente e i suoi consiglieri, più una manciata di generali a quattro stellette e capi dei servizi segreti. Quando venne il suo turno di rivolgersi al gruppo, Overholt fece un breve resoconto della situazione e poi presentò Dwyer per le domande. La prima venne dal peso massimo. «Tutto questo è stato forse mai verificato in laboratorio?» chiese il presidente. «Si ritiene che isotopi di elio siano stati rinvenuti in buckyball all'interno di frammenti recuperati presso il cratere di meteorite nel Nord dell'Arizona oltre che in un sito subacqueo nei pressi di Cancùn, in Messico. Tuttavia gli studi condotti dai laboratori universitari non hanno portato a risultati definitivi.»
«Dunque si tratta di una pura teoria», lo incalzò il segretario di Stato, «non di fatti scientifici comprovati.» «Signor segretario», replicò Dwyer, «tutto questo ambito è nuovo. Se ne parla solo dal 1996, da quando è stato assegnato il premio Nobel per la chimica a tre scienziati che hanno avuto il merito di scoprire le buckyball. Da allora, con i tagli ai fondi per la ricerca e cose simili, il campo viene principalmente sfruttato da aziende che si interessano delle applicazioni commerciali.» «C'è un modo di mettere alla prova la teoria?» insistette il segretario di Stato. «Potremmo recuperare dei frammenti e perforare gli atomi in un ambiente controllato», spiegò Dwyer, «ma non abbiamo garanzie di riuscire a recuperare un campione con il virus intatto. Certe parti potrebbero contenerlo, certe altre no.» «Signor Overholt, perché ha mandato dei professionisti esterni e non dei nostri agenti in Groenlandia?» intervenne il presidente. «Innanzitutto all'epoca ero convinto che avessimo a che fare con un oggetto relativamente innocuo e non potevo sapere che Echelon fosse compromessa. L'informazione che la minaccia era più grave mi è pervenuta solo oggi dal signor Dwyer. E poi intendevamo confiscare il reperto e desideravo proteggere l'amministrazione da qualsiasi contraccolpo negativo.» «Capisco», rispose il presidente. «A chi abbiamo affidato l'incarico?» «Alla Corporation.» «Che si è incaricata del ritorno del Dalai Lama in Tibet, è così?» «Esatto.» «Immaginavo che oramai fossero già tutti in pensione», osservò il presidente. «Con quella operazione hanno fatto un colpo eccezionale dal punto di vista finanziario. E comunque non ho alcun dubbio sulle loro capacità: avrei fatto anch'io la stessa cosa.» «Grazie, signor presidente», rispose Overholt. Poi prese la parola il capo di stato maggiore dell'aeronautica. «Dunque la situazione è questa: abbiamo una sfera di iridio a piede libero nel medesimo momento in cui un'arma nucleare ucraina manca all'appello. Se le due cose si incontrano, sarà un problema gigantesco.» Il presidente annuì. Quella era la situazione in breve. Esitò un istante. «Ecco ciò che voglio sia fatto», disse infine. «Il signor Dwyer dovrebbe recuperare qualcuna di queste buckyball extraterrestri e cominciare la sperimentazione. Se c'è una possibilità di liberare un virus alieno, dobbiamo
saperlo. In secondo luogo auspico che l'esercito e i servizi segreti uniscano i loro sforzi per rintracciare il meteorite. Terzo, Overholt deve continuare a collaborare con la Corporation. Dato che lavorano alla cosa fin dall'inizio, non voglio che vengano estromessi. Stanzierò qualsiasi fondo necessario a pagare il loro compenso. Infine, voglio che la cosa resti segreta: se leggo domani un'indiscrezione sul New York Times, licenzio chiunque abbia parlato. L'ultima cosa è la più ovvia. È necessario che recuperiamo sia la bomba ucraina sia il meteorite il più presto possibile così da non iniziare l'anno nuovo con una crisi.» Si interruppe, guardandosi attorno. «Va bene, signori, sapete che cosa mi aspetto che facciate. Adesso fatelo e sistemiamo la faccenda.» La stanza cominciò a svuotarsi, ma il presidente fece segno a Overholt e a Dwyer di fermarsi. Il marine di guardia controllò che tutti fossero usciti, richiuse la porta e restò fuori a vigilare. «TD, vero?» «Esatto, signor presidente», rispose Dwyer. «Mi porga l'amaro calice.» Dwyer lanciò un'occhiata a Overholt, che fece segno di sì con la testa. «Se c'è davvero un virus nelle molecole che costituiscono il meteorite», disse Dwyer lentamente, «una detonazione nucleare potrebbe essere il minore dei nostri problemi.» «Chiami al telefono Cabrillo», disse il presidente rivolto a Overholt. 23 A bordo della Oregon, la sala riunioni era gremita. «Quando siamo a trecentocinquanta miglia possiamo far decollare il Robinson», diceva Cabrillo. «Se voliamo a poco più di centosessanta chilometri all'ora contro il vento di prua, dovremmo riuscire a raggiungere le Faroe all'incirca alla stessa ora della nostra misteriosa nave.» «Il problema», osservò Hanley, «è che da soli tu e Adams non avete alcuna possibilità di assaltarla. Sarebbe un suicidio.» «Quelli sono dei bastardi pericolosi», aggiunse Seng. Proprio in quell'istante la porta della sala riunioni si aprì e Gunther Reinholt, il non più giovane tecnico della propulsione della Oregon, infilò dentro la testa. «Signor Cabrillo, c'è una telefonata per lei.» Cabrillo annuì e si alzò da capotavola per seguire Reinholt nel corridoio. «Chi è che chiama?» gli domandò.
«È il presidente», rispose il tecnico facendo strada verso la sala controllo. Cabrillo taceva, in effetti non c'era niente da dire. Raggiunse la sala, aprì la porta, si avvicinò al telefono protetto e sollevò il ricevitore. «Juan Cabrillo.» «La prego, resti in linea per il presidente degli Stati Uniti», rispose l'operatore. «Buonasera, signor Cabrillo», lo salutò una voce nasale dopo un paio di secondi. «Buonasera a lei, signor presidente», rispose Cabrillo. «Il signor Overholt è qui con me e mi ha già ragguagliato. Potrebbe spiegarci la situazione attuale?» In breve Cabrillo ricapitolò la situazione. «Potrei prendere qualche aereo dall'Inghilterra e far sparire la nave con un missile Harpoon», osservò il presidente quando Cabrillo ebbe finito. «Ma la bomba è sempre alla macchia, non è così?» «Sì», convenne Cabrillo. «Non possiamo far atterrare trasporti truppa all'aeroporto delle Faroe», continuò il presidente. «Ho verificato, è troppo piccolo. Questo significa che la nostra unica possibilità è farci arrivare una squadra in elicottero, e, in base alle mie stime, per preparare e dispiegare una simile forza lassù ci vorrebbero sei ore.» «Riteniamo di avere dalle tre e mezzo alle quattro ore al massimo», spiegò Cabrillo. «Ho parlato con la marina. Non hanno niente in zona.» «Signor presidente», continuò Cabrillo, «abbiamo un localizzatore sul meteorite. Finché non viene combinato con il dispositivo nucleare la minaccia è circoscritta. Se ci autorizza, riteniamo di poter seguire il meteorite fino al luogo in cui dovrà essere assemblato alla bomba atomica e di entrare in possesso di entrambi contemporaneamente.» «Strategia rischiosa», commentò il presidente. Poi si rivolse a Overholt. «Juan», chiese Overholt, «che possibilità ha la tua squadra di farcela?» «Buone», rispose subito Cabrillo. «Ma c'è un'incognita.» «Quale incognita?» domandò il presidente. «Non sappiamo per certo con chi abbiamo a che fare. Se il meteorite è in mano a una fazione del gruppo Hammadi, credo che riusciremo a prenderli.»
Dopo una breve esitazione, il presidente parlò di nuovo. «Okay. Procediamo secondo programma.» «Molto bene», disse Cabrillo. «Ora», aggiunse il presidente, «abbiamo scoperto un problema completamente diverso che riguarda il meteorite. C'è qui lo scienziato che potrà spiegarglielo.» Nel giro di qualche minuto Dwyer illustrò la propria teoria. Cabrillo sentiva il gelo paralizzargli la schiena: l'Apocalisse era alle porte. «Questo alza la posta in gioco, signore», suggerì, «ma i nostri avversari non sono di certo consapevoli della possibilità di scatenare un virus. Noi stessi abbiamo da poco appreso l'esistenza di questa eventualità. Il fatto è che causerebbero la propria distruzione. L'unico scenario ragionevole è che vogliano usare il reperto per costruire una bomba sporca.» «Questo è vero...» convenne il presidente. «E per immaginare tale scenario in cui le molecole vengano penetrate è necessario rompere il meteorite in pezzi. E tuttavia la minaccia è reale e le conseguenze potrebbero essere estreme e permanenti.» «Se la Corporation fosse stata pagata per effettuare una simile operazione», chiese Overholt, «come procederebbe?» «Vuoi dire se esistesse un gemello malvagio della Corporation e volessimo uccidere più gente possibile?» ribatté Cabrillo. «La prima cosa sarebbe di diffondere la radioattività dell'iridio tra il maggior numero di persone.» «Per cui vi servirebbe un sistema di diffusione di qualche tipo?» chiese il presidente. «Esatto.» «Pertanto, se facciamo chiudere lo spazio aereo dei terroristi dagli inglesi eliminiamo la minaccia di una dispersione ad alta quota», osservò il presidente. «E ci resta solo da pensare alla bomba.» «Occorrerà potenziare la sicurezza nelle stazioni della metropolitana oltre che nelle aree pubbliche», aggiunse Cabrillo, «nell'eventualità che il loro piano sia quello di irrorare il territorio con la polvere radioattiva. Magari sono riusciti in qualche modo a smontare la bomba e a sbriciolarne il nucleo, e progettano di combinarlo con l'iridio in forma polverizzata per avvelenare la popolazione.» «E allora gli inglesi dovranno sorvegliare anche il loro sistema postale», concluse il presidente. «Le viene in mente altro?» I quattro uomini restarono in silenzio mentre riflettevano.
«Preghiamo Dio che possiate recuperare il meteorite assieme alla bomba», esclamò infine il presidente, «proteggendo l'Inghilterra dalla distruzione. Qualsiasi altro esito è troppo spaventoso da considerare.» La conversazione si chiuse e Cabrillo ritornò nella sala riunioni. Quello che non poteva sapere era che, se l'Inghilterra era uno degli obiettivi di un'operazione, l'altro si trovava a est a tre fusi orari di distanza. Aprì la porta ed entrò nella sala. «Ho appena finito di parlare al telefono con il presidente», disse mentre raggiungeva il capotavola. «Le risorse del governo americano saranno dalla nostra parte.» Il gruppo aspettò che Cabrillo continuasse. «C'è un'altra cosa. Uno scienziato della CIA ha avanzato una teoria secondo la quale all'interno delle molecole del meteorite potrebbero esserci tracce di gas dallo spazio profondo. Questi gas potrebbero veicolare dei virus o degli agenti patogeni in grado di rivelarsi mortali. A prescindere da tutto, una volta recuperato, il reperto va lasciato in pace.» «E che cosa ha detto della superficie esterna del meteorite?» Era stata Julia Huxley a parlare. In quanto ufficiale medico, il suo compito era la sicurezza dell'equipaggio. «Lei, capo, è stato direttamente esposto.» «Il fisico ha affermato che, se sull'esterno ci fosse stato un virus, sarebbe bruciato durante l'ingresso nell'atmosfera. Il problema potrebbe insorgere se il meteorite fosse perforato, per esempio. Se le molecole si sono disposte in un certo modo, potrebbero avere dato luogo a sacche più grandi della solita dimensione molecolare che contiene i gas.» «E queste sacche quale volume potrebbero raggiungere?» si informò Huxley. «È solo una teoria, ma il meteorite potrebbe apparire come una sfera cava, tipo un uovo di Pasqua. Oppure potrebbe racchiudere un grappolo di gas come avviene nei geodi che si trovano in natura, dove esistono formazioni di cristalli di varie dimensioni. Nessuno può dirlo finché non sarà recuperato e studiato.» «C'è qualche ipotesi riguardo al tipo di virus? Potrei forse preparare un siero?» «Niente», rispose Cabrillo con cautela. «Ma se viene dallo spazio e si scatena sulla Terra potrebbe essere nocivo.» La stanza era così silenziosa che si sarebbe potuto sentir volare una mosca. Cabrillo fissava Hanley.
«Adams è quasi pronto a partire», osservò Hanley, «e il nostro Challenger 604 arriverà fra breve a Aberdeen.» «Dov'è Truitt?» Nella Corporation, Richard «Dick» Truitt era il vicedirettore per le operazioni. «Era a bordo dell'aereo dell'emiro», disse Hanley. «Lo ha riportato sano e salvo in Qatar. Ho ordinato al nostro Gulfstream a Dubai di volare in Qatar per riprenderlo. Dovrebbero essere già partiti e probabilmente stanno sorvolando l'Africa.» «Digli di andare a Londra», ordinò Cabrillo. «E tieni lui e il Gulfstream in standby.» Hanley annuì. «Voglio che continuiate a preparare l'assalto alla nostra nave misteriosa», aggiunse Cabrillo. «Se tutto va secondo i piani, possiamo concludere la faccenda nelle prossime dodici ore. E, come sempre, quando io non ci sono comanda Hanley.» L'equipaggio fece un segno di assenso e tornò al lavoro mentre Cabrillo usciva dalla sala e si incamminava lungo il corridoio all'ufficio di Halpert. Una volta lì, bussò alla porta. «Avanti.» Cabrillo aprì la porta ed entrò. «Cos'hai scoperto?» «In questo momento sto esaminando le svariate società che Hickman controlla.» «Passa al setaccio anche la sua vita privata e tira fuori un profilo psicologico.» «Va bene, ma fino a questo punto il tipo sembra proprio un americano tutto d'un pezzo. Ha contatti al ministero della Difesa, è amico di un paio di senatori e una volta è stato persino invitato nel ranch del presidente.» «Se è per questo, anche il presidente della Corea del Nord», osservò Cabrillo. «Obiezione giusta. Ma stia sicuro che se il tizio in questione presenta anche una sola brutta piega io la scoverò.» «Lascio la nave. Riferisci i risultati della ricerca a Hanley.» «Va bene.» Cabrillo percorse il corridoio e salì le scale che portavano al ponte di volo. George Adams era seduto al posto di guida del Robinson con indosso
una tuta color kaki fresca di lavanderia. Doveva ancora avviare il motore, e la cabina di pilotaggio era fredda. Si sfregò le mani protette dai guanti e finì di compilare il diario di bordo appeso a un portablocco a molla. Mentre accendeva l'interruttore principale della batteria per controllare lo stato delle apparecchiature vide Cabrillo che si avvicinava e gli aprì il portello. Cabrillo prese due borse, una contenente armi, abiti di ricambio e apparecchiature elettroniche, e un'altra con cibo e bevande, e le sistemò sul retro dell'abitacolo, riponendole al sicuro. Poi guardò Adams. «George, hai bisogno di qualcosa?» gli chiese. «No, capo, mi sono già occupato di tutto. Ho le previsioni del tempo, il piano di volo e i punti di riporto sono registrati nel GPS. Se vuole salire e allacciarsi la cintura, possiamo partire.» Erano anni oramai che Adams lavorava per la Corporation, eppure Cabrillo non aveva ancora smesso di stupirsi della sua efficienza. Mai che si lamentasse o che si agitasse. Con quel suo pilota aveva volato in più di una situazione difficile ma, al di là di qualche occasionale commento più loquace del solito, Adams sembrava impassibile e sereno. «Certe volte mi piacerebbe clonarti, George», gli disse Cabrillo mentre saliva e si allacciava la cintura. «Perché mai, capo?» rispose l'uomo staccando gli occhi dagli strumenti. «Finirei per divertirmi solo la metà.» Allungò la mano per girare la chiave e il motore a pistoni si avviò e si mise in folle. Osservò le spie finché il motore non raggiunse la temperatura d'esercizio e poi comunicò con la timoniera. «Siamo controvento?» «Affermativo», fu la risposta. Allora, con movimento fluido, Adams sollevò il collettivo e l'elicottero si alzò dal ponte. La Oregon continuò a procedere finché il velivolo non fu in quota. Adams accelerò e si affiancò alla nave superandola. Un paio di minuti ancora e il cargo si perdeva dietro di loro in lontananza. A riempire il parabrezza restavano solo le nuvole e il mare cupo. «Questo è tutto quello che sappiamo finora, signor primo ministro», esclamò il presidente. «Dichiarerò lo stato di allerta», rispose il suo interlocutore, «e rilascerò un comunicato stampa dicendo che riteniamo che un carico di polvere di ricino sia sfuggito al controllo. In questo modo i terroristi continueranno secondo il loro piano.» «Speriamo di sistemare la faccenda in tempi brevi», osservò il presiden-
te. «Avvertirò l'MI5 e l'MI6 perché coordinino gli sforzi con voi. Però quando il meteorite raggiungerà il suolo britannico le operazioni dovranno dipendere da noi.» «Capisco», rispose il presidente. «Buona fortuna, allora.» «Buona fortuna anche a voi.» Truitt fissava fuori dal finestrino del Gulfstream che filava nel cielo a quasi ottocento chilometri all'ora. La costa della Spagna si allungava scintillante sotto la luce del sole. Si alzò dal sedile, percorse il corridoio e bussò alla porta della cabina di pilotaggio. «Avanti», gli rispose Chuck «Tiny» Gunderson. Truitt aprì la porta. Gunderson pilotava e Tracy Pilston era al posto del copilota. «Come vanno le cose quassù?» chiese Truitt. «Ecco il resoconto», rispose Pilston. «Tiny si è mangiato un sandwich al tacchino, un sacchetto intero di M&M's e mezzo barattolo di mandorle tostate. Fossi in lei, gli terrei le mani lontano dalla bocca.» «Ci sono due cose che mi fanno venire fame», intervenne Gunderson. «Volare è una, e l'altra la conosci.» «La pesca al salmone?» suggerì Truitt. «Anche», ribatté Gunderson. «Il motocross?» fece Tracy Pilston. «Pure quello.» «Probabilmente è più facile scoprire che cosa non ti fa venire fame», concluse Truitt. «Dormire», rispose Gunderson, accasciandosi e fingendo di fare un riposino. «Che cosa desiderava, signor Truitt?» domandò Pilston mentre Gunderson continuava a fingere di essere addormentato, dato che il Gulfstream volava in automatico. «Semplicemente mi incuriosiva sapere se atterreremo a Gatwick o a Heathrow.» «Gli ultimi ordini dicevano Heathrow.» «Grazie.» Truitt si girò per andarsene. «Può farmi un piacere?» gli chiese Tracy Pilston. «Certo», rispose Truitt voltandosi di nuovo. «Ordini a Tiny di lasciarmi pilotare. Si impossessa sempre dei coman-
di.» «Ho messo il pilota automatico», biascicò Gunderson quasi senza aprire la bocca. «Bambini, fate i bravi», esclamò Truitt allontanandosi. «Ti do uno Snickers se mi lasci pilotare», offrì lei. «Giura, donna», rispose Gunderson. «Perché non l'hai detto prima?» 24 Un vento pieno di polvere morbida e sottile soffiava da est a ovest, ricoprendo di sabbia tutto quello che incontrava sul suo cammino. La polvere in Arabia Saudita è costante come le maree dell'oceano. Le temperature fresche come quel giorno, però, sono rare come le bistecche a uno sposalizio indù. Saud al-Sheik fissava la distesa vuota del gigantesco stadio della Mecca. L'Arabia Saudita può vantare enormi riserve di petrolio, ospedali e scuole all'avanguardia, nonché il luogo più sacro dell'Islam, La Mecca. Al musulmano devoto si raccomanda di compiere un pellegrinaggio alla Mecca, o hajj, almeno una volta nella vita, come testimonianza di fede. Ogni anno migliaia di fedeli vi convergono, di solito all'inizio di gennaio, e la maggior parte si spinge anche alla vicina Medina, dove è sepolto il profeta Maometto. L'afflusso di un così elevato numero di pellegrini in un arco di tempo tanto breve è un incubo logistico. Ospitare, sfamare, soccorrere malati e feriti, oltre a fornire sicurezza alle masse, è tanto costoso quanto strabiliante. E se qualcosa va storto l'Arabia Saudita si accolla i costi dei pellegrini in visita oltre che i commenti dell'opinione pubblica. Con le forze americane e britanniche a occupare Iraq e Afghanistan, l'odio per l'Occidente ribolliva nella regione come un barile di polvere da sparo pronto a esplodere. Quell'anno alla Mecca le maglie della sicurezza sarebbero state serrate e inflessibili. I fondamentalisti islamici volevano che l'Occidente fosse schiacciato e spazzato via dal pianeta come la peste. Quest'odio trovava una corrispondenza nel mondo occidentale che, dopo l'11 settembre, le minacce e i numerosi attentati terroristici, aveva esaurito ogni tolleranza nei confronti della predicazione fondamentalista. Ancora un altro attentato con il coinvolgimento di cittadini sauditi, e gran parte degli americani avrebbe reclamato l'invasione del Paese ricco di petrolio. Di recente nei Paesi occidentali i confini si erano fatti più netti; c'erano due
tipi di persone al mondo: amici o nemici. L'amicizia veniva ricompensata e i nemici andavano sradicati. Nel bel mezzo di tutte le tensioni, l'odio, la violenza e la rabbia, occorreva avere ogni cosa sotto controllo per assicurare la buona riuscita dello hajj, il cui inizio era previsto per il 10 gennaio. Mancavano meno di due settimane per portare a termine i preparativi necessari. Saud al-Sheik stava esaminando una pila di documenti sul blocco a molla. Restavano ancora mille e uno particolari, e la data del pellegrinaggio si avvicinava rapidamente. L'ultimo dei suoi problemi si era appena presentato: i nuovi tappeti da preghiera che aveva ordinato dall'Inghilterra non erano ancora pronti e la fabbrica era appena passata di proprietà. Il particolare, combinato con il fatto che l'Inghilterra non era esattamente ai vertici della stima popolare a causa del sostegno agli Stati Uniti nell'occupazione dell'Iraq, stava creando un problema. Al-Sheik si chiedeva se una tangente alla fabbrica fosse accettabile. Avrebbe aggiunto altri soldi per completare l'ordinazione e poi avrebbe fatto sbrigare la faccenda da un agente a Parigi per nascondere il Paese d'origine. Quello risolveva entrambi i problemi in un colpo solo. Compiaciuto dell'idea, bevve un sorso di tè e prese il cellulare per fare la telefonata. In quel momento la nave da carico greca Larissa entrava nella Manica. Il comandante stava osservando le carte. Aveva ricevuto ordine di attraccare all'isola di Sheppey, e in quel porto non ci era mai stato. Di solito arrivava a Dover, Portsmouth e Felixstowe. Quello che il comandante non poteva sapere era che nei porti a lui familiari le autorità britanniche avevano di recente installato dei detector di sostanze radioattive. L'isola di Sheppey, invece, era spalancata come il Grand Canyon. E la gente che pagava lui lo sapeva bene. Il comandante studiò la carta e corresse la rotta. Poi si grattò la crosta sul braccio. La Larissa avanzò, con il fumo del vecchio motore diesel che usciva dall'unico fumaiolo. Era una nave moribonda che trasportava un carico mortale. 25
Dal Sikorsky S-76 che sorvolava il Nord dell'Arizona Dwyer guardò in basso il terreno arido, desertico. A chilometri di distanza alla sinistra dell'elicottero poteva scorgere una catena di vette incappucciate di neve. La vista di quelle montagne bianche lo sorprendeva. Come la maggior parte di coloro che non sono mai stati in Arizona, Dwyer si era fatto l'idea che lo Stato fosse un'interminabile distesa di sabbia e di cactus. Invece l'Arizona, adesso se ne accorgeva, possedeva un po' di tutto. «Nevica spesso, qui?» domandò al pilota attraverso le cuffie. «Quelle vette sono vicino a Flagstaff», rispose il pilota. «Là nevica abbastanza e c'è una stazione sciistica. La cima più alta è l'Humphreys: quasi quattromila metri.» «Non mi sarei mai aspettato niente del genere», ammise Dwyer. «È quello che dicono quasi tutti.» Con Dwyer, che aveva incontrato a Phoenix due ore prima, il pilota si era mostrato piuttosto reticente fino a quel momento. E il fisico non se la sentiva di biasimarlo poiché era sicuro che i pezzi grossi responsabili della sicurezza interna dell'Arizona non lo avessero informato del lavoro che faceva o dello scopo del viaggio. Quasi tutti preferivano avere almeno una vaga idea della missione in cui si trovavano coinvolti. «Andiamo al cratere perché devo prelevare dei campioni di roccia», spiegò Dwyer, «da portare in laboratorio per dei test.» «Tutto qui?» rispose il pilota rilassandosi visibilmente. «Sì.» «Bene, perché non crederà mai quali incarichi mi hanno assegnato di recente. Certe volte non mi viene nemmeno voglia di andare a lavorare.» «Ci posso scommettere.» «È successo che, finito il turno, mi sia ritrovato a fare una doccia di decontaminazione chimica», continuò il pilota. «Non proprio l'idea che mi faccio di una tranquilla giornata in ufficio.» «Quella di oggi dovrebbe essere una bazzecola», lo rassicurò Dwyer. La rivelazione sciolse la lingua del pilota, che per il resto del viaggio fornì allo scienziato un'ininterrotta conferenza sulle bellezze paesaggistiche che sorvolavano. Venti minuti più tardi indicò davanti a sé attraverso il parabrezza: «Eccolo!» Il cratere del meteorite era una massiccia cicatrice sul terreno polveroso. A vederlo dall'alto, non era difficile immaginare la forza che era stata necessaria per penetrare così profondamente la crosta terrestre. Era come se una mano di gigante avesse afferrato un enorme martello da muratore e
avesse percosso il suolo. Dopo l'impatto, le nuvole di polvere dovevano essere rimaste visibili per mesi. Il bordo del cratere, simile a quello di una crostata, si andava profilando davanti a loro. «Da che parte?» chiese il pilota. Dwyer scrutò il terreno. «Là, vicino a quel furgone bianco.» Il pilota rallentò il Sikorsky, poi volò a punto fisso e atterrò leggero come una piuma. «Ho ricevuto l'ordine di restare a bordo e di monitorare il traffico radio.» Dopo che la procedura di arresto ebbe termine e che le pale del rotore furono immobili, Dwyer scese dall'elicottero per avvicinarsi a un uomo con un cappello e stivali da cowboy che lo aspettava poco distante. Il fisico strinse energicamente la mano che l'altro gli tendeva. «Grazie di avere accettato di collaborare.» «Ci mancherebbe. Non si rifiuta una richiesta del presidente degli Stati Uniti. Sono felice di poter essere di aiuto.» Tornò al proprio furgone e dal pianale prese qualche attrezzo e un secchio; consegnò a Dwyer una vanga e infine indicò la cavità. «Credo che quello che cerca sia proprio laggiù.» I due si arrampicarono sulla cresta di detriti che attorniava il cratere e poi scesero di venti metri. A mano a mano che proseguivano la temperatura si alzava. L'uomo con il cappello da cow-boy si fermò. «Questo è l'anello più profondo della voragine», osservò asciugandosi la fonte con una bandana, «dove ho sempre preso i pezzi più grossi.» Dwyer si guardò intorno, individuò un punto possibile e iniziò a usare la vanga. Mentre Dwyer scavava in Arizona, sulla Oregon, al largo della costa islandese, faceva decisamente più freddo. Sottocoperta nel proprio ufficio Michael Halpert fissava una stampa del computer. Erano ore che non smetteva di lavorare e gli occhi gli bruciavano per avere fissato così a lungo lo schermo. Digitando dei comandi alla tastiera fece apparire il file della missione e lesse di nuovo le annotazioni di Cabrillo. Lanciò un'altra occhiata al tabulato, raccolse gli appunti e andò alla sala controllo. «Richard», diceva Hanley mentre Halpert apriva la porta, «fai rifornire il Gulfstream e tienilo pronto. Ti chiamo non appena abbiamo bisogno di te.»
Il direttore riappese il telefono e si rivolse al responsabile finanza e contabilità. «Devo dedurre che hai trovato qualcosa?» Halpert gli consegnò il documento, che Hanley lesse rapidamente. «Potrebbe essere importante o forse no», osservò riflettendo. «È una grossa somma che Hickman ha donato all'università, ma potrebbe essere una sua abitudine fare lasciti di questo genere.» «Ho controllato», disse Halpert. «Infatti è così. E tutti devoluti all'archeologia.» «Interessante.» «Sommiamolo a quello che l'archeologo ha detto mentre stava per morire», aggiunse Halpert. «'Ha comprato e ha pagato l'università.'» «Capisco dove vuoi arrivare, e poi trovo strano che Ackerman abbia scritto la prima e-mail a Hickman. Non si è nemmeno preso il disturbo di comunicare al preside della sua facoltà la notizia della scoperta.» «Forse sono stati Ackerman e Hickman a organizzare la cosa», osservò Halpert. «Così Ackerman poteva essere sicuro di prendersi la gloria nel caso avesse scoperto qualcosa, lui e non i suoi superiori all'università.» «Non si spiega però come Hickman potesse essere certo che Ackerman avrebbe trovato qualcosa e tanto meno che il reperto si rivelasse un meteorite composto di iridio.» «Magari il coinvolgimento di Hickman all'inizio è stato dettato dall'altruismo», disse lentamente Halpert. «Ackerman fa il suo approccio e Hickman ha un interesse per Eric il Rosso, così decide di finanziare la spedizione. Poi, quando il meteorite viene scoperto, intravede un'opportunità.» «Non sappiamo nemmeno se Hickman è coinvolto», replicò Hanley, «ma se lo è, quale molla potrebbe spingere un uomo ricco a uccidere e a rischiare tutto?» «Le alternative sono sempre due», concluse Halpert. «Amore o denaro.» Quando sull'elicottero Cabrillo ricevette la telefonata di Hanley che lo informava a quali risultati Halpert fosse giunto, la sagoma delle Faroe si stava profilando in mezzo alla foschia. «Accidenti», sbottò Cabrillo. «Questo è uno sviluppo inatteso. Tu cosa ne pensi?» «Io dico che dobbiamo prenderla come viene.» Nel parabrezza le isole diventavano sempre più grandi. «Dick è arrivato a Londra?» domandò Cabrillo. «Gli ho parlato qualche minuto fa. Stavano facendo il rifornimento al
jet, poi sarebbe andato in un albergo di Londra ad aspettare la nostra chiamata.» «E il Challenger si tiene a disposizione a Aberdeen?» «A terra, rifornito e in attesa.» «Allora chiama Truitt e la sua squadra e informali che dovremo farli andare a Las Vegas per vedere cosa riescono a scoprire su Hickman.» «Le grandi menti viaggiano in sintonia», osservò Hanley. Attraverso il parabrezza dell'elicottero il porto prendeva contorni precisi. Cabrillo chiuse la comunicazione e si rivolse a Adams. «Atterriamo, vecchio mio.» Adams annuì e iniziò la discesa. Il Free Enterprise si trovava appena fuori dal frangiflutti quando iniziò a rallentare e poi a fermarsi. Una piccola barca da pesca priva di ponte, dotata di un paio di motori fuoribordo da 250 cavalli, gli si era affiancata. Avvicinandosi alla scaletta che portava al livello dell'acqua la barca rallentò e un marinaio dell'equipaggio ricevette la scatola dalle mani di un uomo dello yacht. Il contenitore venne fatto scivolare dentro una stiva per il pesce e il comandante si allontanò accelerando. Rimbalzando sulle onde agitate, la barca da pesca si diresse a una piccola baia. Il marinaio scese e si incamminò per una strada dove lo attendeva il furgone rosso di una ditta di un corriere locale. Dieci minuti più tardi il camioncino aveva consegnato la scatola all'aeroporto. E giaceva lì, in attesa di venire trasferita a bordo di un aereo che in quel momento era a pochi chilometri di distanza. Adams riempì fino all'orlo entrambi i serbatoi ed eseguì i controlli completi. Fatto ciò, aggiunse le relative annotazioni al diario di bordo. L'elicottero non aveva avuto il minimo problema nel viaggio di andata dalla Oregon, e dunque c'era poco da scrivere, solo gli orari di volo, le condizioni atmosferiche e un appunto su una vibrazione minima. Adams stava terminando proprio mentre Cabrillo arrivava sotto l'elicottero a bordo di un'auto a noleggio di dimensioni minuscole. Si arrestò di fianco al pilota e abbassò il finestrino. «Capo», esclamò quest'ultimo, «le hanno fatto metà prezzo?» «È una Smart», rispose Cabrillo ignorando la battuta. «Era tutto quello che avevano: prendere o andare a piedi. E adesso salta su, con cannocchiale e localizzatore.»
Da sotto il sedile dell'elicottero Adams recuperò un cannocchiale e il contenitore di metallo che leggeva i segnali delle spie sparse sul meteorite. Poi si avvicinò alla Smart e si accomodò al posto del passeggero. Appoggiò il cannocchiale per terra, la scatola appoggiata in grembo. Mentre Cabrillo si allontanava, cominciò a sintonizzare i segnali delle microspie. «L'apparecchio mi dice che l'oggetto è molto vicino.» Juan superò una collina sotto la quale si apriva direttamente il porto. Un furgone rosso procedeva verso di loro nell'altra corsia: l'autista gli lampeggiò con i fari. «Capo», disse Adams, «gli siamo addosso.» Cabrillo, resosi conto di guidare sulla destra come in America, sterzò riportandosi sulla corsia giusta. Lanciò un'occhiata mentre il furgone lo superava e l'autista gli faceva segno scherzosamente con il dito per la pessima guida, poi guardò ai piedi della collina dove una grossa imbarcazione, simile a uno yacht privato, ma nera come un aereo stealth, stava per attraccare. «Eccola...» Cabrillo vedeva bene i marinai pronti con le gomene mentre il comandante si avvicinava al molo con i propulsori. «Il segnale si indebolisce», esclamò Adams. Il presidente della Corporation accostò sui ciglio della strada e con il cannocchiale osservò la barca che veniva ormeggiata al molo. La fiancata più vicina a lui aveva una scala che dal ponte di poppa portava quasi alla linea di galleggiamento. Alla fine ebbe l'illuminazione. Cercò il telefono e schiacciò il tasto di chiamata veloce per la Oregon. Mentre Hanley gli rispondeva, mise la mano sul ricevitore e parlò con Adams. «Hanno fatto il passaggio in mare», gli disse in fretta. «Ti riporto all'elicottero e poi seguo il segnale.» Quindi, rivolto a Hanley: «Chiama Washington. Bisogna chiedere alle autorità danesi di sequestrare l'imbarcazione che ha appena attraccato». Dopo avere trasmesso gli ordini a Hanley, Cabrillo spense il telefono, poi sterzò tutto e schiacciò l'acceleratore. Rombando, la Smart eseguì un'inversione a U e si mise a percorrere la strada in senso inverso. Una volta rientrato all'aeroporto, Juan si fermò accanto al Robinson. Adams scese rapidamente, lasciando il localizzatore sul lato passeggero. «Prendi il volo, George», gli gridò Cabrillo. «Ti chiamerò io.» Poi pigiò di nuovo sull'acceleratore e si mise a seguire il segnale.
James Bennett aveva imparato a volare nell'esercito USA ma non aveva mai pilotato un elicottero. La sua qualifica era pilota di aerei ad ala fissa dell'esercito i quali, in piccolo numero, venivano utilizzati per la ricognizione e la localizzazione avanzata sul territorio nazionale, assieme a una decina di velivoli simili a jet privati che servivano nelle trasferte dei generali. Bennett aveva volato su Cessna da ricognizione quando era ancora in servizio attivo, e pertanto il Cessna 206 che pilotava in quel momento era una specie di residuato. Durante il viaggio verso nord aveva imposto al vecchio e stanco aereo a elica una velocità di crociera di più di centocinquanta chilometri all'ora. Rallentò e dal finestrino lanciò un'occhiata alla pista di atterraggio. Era corta e finiva su una scogliera, ma ciò non costituiva un problema. Bennett era atterrato su strisce ricavate a colpi di machete nelle giungle, fettucce inerpicate sui fianchi delle montagne nel Sudest asiatico e una volta, a casa, nel campo di un agricoltore dell'Arkansas, quando aveva rotto il motore. A paragone, scendere all'aeroporto delle isole Faroe era una bazzecola. Bennett completò il circuito e si preparò all'atterraggio. Derivando in un vento leggero, mise il Cessna in posizione all'ultimo momento: l'aereo toccò il suolo con un lievissimo stridore degli pneumatici. Bennett rallentò in un veloce rullaggio mentre leggeva le istruzioni scritte su un foglio di carta del suo blocco degli appunti. Poi rallentò ulteriormente e svoltò di lato verso un terminal commerciale. Nella Smart, Cabrillo teneva il piede sinistro a terra. Guidare quell'automobilina era come pilotare un go-kart dopo un bricco intero di caffè e mezza confezione di anfetamine. La Smart saltellava sull'asfalto traballando da un lato all'altro. Cabrillo procedeva ad alta velocità lungo la fila di hangar tenendo d'occhio il localizzatore. Un Cessna era appena uscito dalla pista e stava rullando. Guardò la coda dell'aereo, poi si fermò, accostando per controllare l'apparecchio. Tre minuti dopo essere stato scaricato dall'auto, Adams era in volo sul Robinson. Non era rimasto a terra nemmeno il tempo necessario per far raffreddare il motore. Volando di fianco all'aeroporto notificò alla torre che stava procedendo a un test dell'apparecchiatura e poi si mise a descri-
vere lenti cerchi nel cielo. L'unico aereo visibile era il Cessna appena atterrato. Notò che rallentava e si fermava davanti a un hangar. Poi seguì con gli occhi Cabrillo che a bordo della Smart si avvicinava. Un addetto in divisa si fece sotto il Cessna gridando per sovrastare il rumore del motore acceso. «È qui per i pezzi di ricambio del giacimento petrolifero?» «Sì», rispose Bennett urlando a sua volta. L'addetto fece segno di sì con la testa e tornò di corsa verso la porta aperta della rimessa. Un istante dopo ne uscì con la scatola, che sistemò per terra. «Davanti o dietro?» gridò al finestrino dell'aereo. «Davanti, sul sedile del passeggero», gridò Bennett di rimando. L'uomo sollevò il contenitore e fece il giro della coda dell'aereo per caricarlo. Cabrillo controllò di nuovo il localizzatore. L'ago era al massimo, contro la riga che segnava dieci. Alzò gli occhi e guardò attraverso il finestrino proprio mentre una persona in divisa faceva gli ultimi passi con la scatola. Era la stessa che Cabrillo aveva visto per mezzo secondo in Groenlandia. Accelerò mentre l'uomo la sistemava sull'aereo e richiudeva il portello. Il Cessna cominciò ad allontanarsi rullando. Era in vantaggio e stava per svoltare sulla pista, quando la Smart arrivò a tutta velocità: Cabrillo la guidava con le ginocchia e intanto cercava in una fondina sotto l'ascella. Infine con la mano destra tolse una Smith&Wesson calibro 50 e con la sinistra abbassò il finestrino. Svoltando sul tracciato laterale, Bennett fece una curva per allinearsi sulla pista. Guardando dietro di sé vide la Smart che lo inseguiva. Per un istante pensò che fosse l'addetto che per qualche ragione gli correva dietro per fargli segno di fermarsi. Poi si accorse della mano con una pistola luccicante che spuntava dal finestrino. Già autorizzato a decollare, entrò sulla pista e aumentò la velocità per un decollo sicuro. La corsa sarebbe stata serrata. Cabrillo aveva seguito il Cessna sulla pista con l'intenzione di raggiungerlo. L'aereo accelerava con forza ed era ovvio che il pilota non pensava minimamente di fermarsi. Non appena la Smart ebbe toccato gli ottanta all'ora, Cabrillo inserì il controllo automatico della velocità di crociera e si sporse fuori dal finestrino.
Prese la mira con cura e cominciò a sparare all'aereo. Bennett sentì il sibilo e l'impatto di una pallottola sul montante dell'ala sinistra, seguiti dalle deflagrazioni di altre pallottole esplose al suo indirizzo. Raggiunta la velocità di decollo, eseguì una rotazione tirando indietro la barra di comando. Sollevandosi in aria, aspettò di trovarsi a trecento piedi prima di voltarsi indietro a guardare. La Smart si era fermata alla fine della pista. E l'uomo che la guidava stava correndo verso un elicottero che era appena atterrato. Bennett accelerò al massimo mentre Cabrillo saliva sul Robinson. «Credi di farcela a prenderlo?» gridò Cabrillo a Adams mentre decollava. «Ci andremo vicini.» 26 Appena a sud delle Faroe uno strato di nubi poggiava quasi sul mare, il primo fronte di una tempesta proveniente da sud verso nord. Da due giorni le nuvole scaricavano neve e pioggia sulle Isole britanniche. Non appena il Robinson R44 fu entrato nella perturbazione, per Cabrillo e Adams fu come infilarsi in un labirinto. Un istante godevano di una striscia di cielo limpido e quello dopo si trovavano immersi in una massa densa perdendo completamente di vista il Cessna e l'acqua sotto di loro. I venti sballottavano l'elicottero, facendogli cambiare velocità e direzione come un disco su un campo da hockey aereo. La costa della Scozia si trovava a poco più di quattrocentocinquanta chilometri a sud. E Inverness, la prima città dove poter effettuare il rifornimento, ad altri centodieci. Con entrambi i serbatoi pieni, Adams e Cabrillo potevano arrivare sulla terraferma solo se i venti contrari non fossero stati di ostacolo. Il Robinson aveva un'autonomia senza riserve di circa seicento chilometri al massimo. Il Cessna 206 poteva farne quasi milletrecento. Bennett non si era rifornito di carburante alle Faroe - non appena si era reso conto che Cabrillo lo inseguiva aveva decollato il più in fretta possibile - e pertanto i due velivoli erano alla pari. Quanto alla velocità di crociera, le prestazioni erano uguali, duecentodieci chilometri all'ora.
«Eccolo là», esclamò Cabrillo indicando dentro uno squarcio nel banco di nuvole. «Ci precede di un paio di chilometri.» Adams annuì: erano dieci minuti che il Cessna gli appariva e gli scompariva davanti agli occhi. «Dubito che riesca a vederci. Gli siamo sotto e abbastanza indietro da star fuori dal suo campo visivo posteriore.» «Può sempre accorgersi di noi sul radar anticollisione», osservò Cabrillo. «Non credo ce l'abbia. Quello è un modello vecchio.» «Non puoi andare più forte?» «Stiamo andando al massimo, capo», rispose Adams indicando il tachimetro, «e anche lui fa altrettanto, da quel che posso dedurre. Non posso salire per scendere in picchiata e guadagnare velocità in quel modo perché così perderei troppa velocità di avanzamento, lui guadagnerebbe troppo vantaggio e non lo vedremmo più.» Cabrillo ci rifletté un attimo. «Dunque non ci resta altro che seguirlo e chiamare rinforzi.» «Esatto.» James Bennett continuava a volare ritenendo di essere solo nel cielo. Non conosceva la velocità di crociera del Robinson R44, ma sapeva che la maggior parte degli elicotteri più piccoli raggiungeva un massimo di circa centocinquanta chilometri all'ora. Dalle sue stime, quando lui fosse arrivato in Scozia, l'elicottero, se ancora lo inseguiva, si sarebbe trovato indietro di almeno una mezz'ora. Bennett prese il satellitare e fece una telefonata. «Ho prelevato il contenitore, ma credo che qualcuno mi segua.» «Sicuro?» chiese una voce. «Non al cento per cento», rispose Bennett, «ma anche in questo caso credo di poterlo seminare. Il problema è che una volta a terra mi resterà solo mezz'ora circa per il trasferimento. Questo è un problema?» L'uomo dall'altro capo della linea pensò un istante prima di rispondere. «Escogiterò qualcosa e poi richiamo io.» «A disposizione», replicò Bennett chiudendo. Mentre regolava l'assetto di volo per mantenere orizzontale il Cessna, Bennett esaminò rapidamente le spie degli strumenti con particolare attenzione a quella del carburante. Ce l'avrebbe fatta al pelo. Tenendo ferma la barra del comando doppio mentre l'aereo saliva spinto da una corrente termica, aspettò di poter riprendere di nuovo l'altitudine di crociera. Poi allungò la mano verso un vecchio thermos Stanley che possedeva da quasi
vent'anni e si versò una tazza di caffè. «Adesso telefono a Overholt e gli chiedo di intervenire con gli inglesi. Se fanno decollare in fretta e furia qualche caccia, possono costringere l'aereo ad atterrare», diceva Hanley. «Così si dovrebbe sistemare la faccenda.» «Però accertati che dica agli inglesi di aspettare che il Cessna stia sorvolando la terraferma», rispose Cabrillo. «Non mi andrebbe di perdere il meteorite adesso.» «Farò in modo che mi capisca bene.» «Quanto ti ci vuole per entrare in porto nelle Faroe?» «Circa venti minuti.» «I danesi hanno già sequestrato lo yacht?» chiese Cabrillo. «Stando all'ultimo messaggio da Washington non hanno gli uomini per farlo», replicò Hanley. «Però hanno messo un poliziotto sulla collina vicino all'aeroporto per sorvegliare l'imbarcazione... più di così non possono fare per il momento.» Cabrillo rifletté un istante. «Qualcuno ha recuperato la bomba nucleare?» «No, dalle ultime informazioni segrete.» «Potrebbe trovarsi sullo yacht.» «La fonte di Overholt sostiene che l'hanno messa su una vecchia nave da carico.» «Chiunque sia questa gente», osservò Cabrillo, «sembra che preferisca fare i trasferimenti in mare. Ci sono ottime possibilità che si sia data appuntamento con la nave da carico da qualche parte al largo e poi abbia preso l'ordigno a bordo.» «Cosa pensi che dovremmo fare?» «Raccomandiamo a Overholt che lo yacht sia autorizzato a uscire dal porto», suggerì Cabrillo. «Tieni fuori la Oregon, lascia che siano gli inglesi o la marina americana a occuparsi del problema. Possono salire a bordo dello yacht in mare, in questo modo è molto meno rischioso.» «Chiamo subito Overholt e gli riferisco le nostre idee.» Il telefono restò muto e Cabrillo si rilassò sul sedile. Non poteva sapere che il meteorite e la bomba nucleare erano in possesso di due fazioni distinte. Un gruppo progettava di colpire per l'Islam. Il secondo gruppo progettava di colpire l'Islam.
Ed era l'odio ad alimentare entrambi. 27 Non appena il Gulfstream era atterrato a Las Vegas, Truitt aveva lasciato Gunderson e Pilston all'aereo e aveva chiamato un taxi. La giornata era limpida e soleggiata e una leggera brezza scendeva dalle montagne attorno alla città. L'aria secca faceva l'effetto di una lente d'ingrandimento sul paesaggio, e le montagne, sebbene a chilometri di distanza, sembravano così vicine da poterle toccare. Truitt gettò la borsa sul sedile posteriore e salì davanti con l'autista. «Dove andiamo?» chiese il tassista con una voce che sembrava quella di Sean Connery con una tosse secca da fumatore. «Dreamworld», rispose Truitt. L'autista inserì la marcia e si allontanò a tutto gas dall'aeroporto. «Ci è già stato, a Dreamworld?» si informò mentre si avvicinavano alla celebre Strip. «No!» «È un paradiso tecnologico, un ambiente creato dall'uomo.» Rallentò e si mise in fondo a una fila di taxi e auto diretta all'entrata. «Questa sera non si perda la tempesta di fulmini», raccomandò a Truitt girandosi a guardarlo. «All'esterno, dietro il parco. Lo spettacolo è ogni sessanta minuti, all'ora in punto.» La colonna avanzò e il tassista svoltò su un vialetto che portava all'hotel. A pochi metri dalla strada entrò attraverso una grossa porta con strisce di plastica che scendevano fino a terra e che a Truitt fecero venire in mente le entrate dei magazzini frigoriferi. Si trovavano all'interno di una foresta tropicale. Sopra le loro teste si allungava la volta di una giungla e l'interno dei finestrini del taxi cominciò ad appannarsi per l'umidità. L'autista accostò davanti all'ingresso principale e si fermò. «Quando è fuori, stia attento agli uccelli. Un cliente la settimana scorsa mi ha detto che gli si sono buttati addosso in picchiata per prenderlo a beccate.» Truitt fece segno di sì e pagò. Poi scese dal taxi, aprì la portiera dietro e prese la borsa, la richiuse e fece segno di andare. Nel voltarsi vide un portiere d'albergo che spingeva via un grosso serpente nero dalla porta con una scopa. Alzò la testa e lanciò un'occhiata alla vegetazione sopra di lui:
non si vedeva la luce del sole e lo spazio era riempito dal cinguettare degli uccelli. Con la borsa in mano, Truitt raggiunse la guardiola del portiere. «Benvenuto a Dreamworld. Deve registrarsi?» «Sì», rispose Truitt consegnandogli una patente falsa del Delaware e una carta di credito intestata alla falsa identità. Il portiere passò entrambe in una macchina, prese una striscia adesiva con un codice che stampò e poi appiccicò alla borsa di Truitt. «Manderemo il suo bagaglio in camera con il nostro sistema di trasporto», gli spiegò in tono efficiente. «Troverà la stanza pronta e il bagaglio...» si interruppe un attimo per guardare lo schermo di un computer, «fra dieci minuti. C'è un addetto alle informazioni all'interno, se desidera richiedere un accredito al casinò o per qualsiasi altra sua esigenza. Le auguro un fantastico soggiorno qui a Dreamworld.» Truitt allungò al portiere un biglietto da dieci dollari, prese la scheda magnetica della stanza e si avviò all'entrata. Le doppie porte di vetro si aprirono automaticamente e quello che vide lo riempì di meraviglia. Era come se il mondo naturale fosse stato trasportato all'interno. Subito oltre l'ingresso un pigro fiume artificiale trasportava alcuni ospiti a bordo di piccole imbarcazioni. In lontananza, sulla sinistra, gli parve di distinguere le sagome di persone che scalavano una vetta artificiale. Osservò la neve che si riversava sopra di loro, poi inghiottita da un'apertura alla base. Scosse la testa stupefatto e si addentrò fino a un banco informazioni. «Dove trovo il bar più vicino?» chiese all'impiegato. L'uomo indicò un punto in lontananza. «Subito dopo Stonehenge, sulla destra.» Truitt si incamminò in una zona sovrastata da una cupola superando una replica di Stonehenge a grandezza naturale. Un sole artificiale imitava il solstizio d'estate e le ombre formavano un braccio che indicava il centro. Truitt trovò la porta del bar - una cosa rivestita di legno massiccio che sbucava da sotto un tetto di paglia -, l'aprì ed entrò in una sala fiocamente illuminata. Il locale era l'imitazione di una taverna inglese. Avviandosi a uno sgabello composto di legno, cuoio e zanne di cinghiale, Truitt si sedette e si mise a fissare il banco del bar. Era un blocco di legno così massiccio che doveva pesare all'incirca quanto un autocarro. Il bar era vuoto tranne che per la sua presenza, e la barista gli si avvicinò
di lato. «Grog o idromele, mio signore?» gli chiese. Truitt ci pensò un attimo. «Idromele, immagino», rispose alla fine. «Ottima scelta. È un po' prestino per il grog.» «La penso esattamente così anch'io», osservò Truitt mentre la barista prendeva un bicchiere e iniziava a riempirlo da una botte di legno dietro il bancone. La ragazza indossava il costume di una servetta. Il seno le traboccava dalla scollatura della divisa. Depose il bicchiere di fronte a Truitt, fece una mezza riverenza e poi indietreggiò sul fondo del locale. Mentre sorseggiava la bevanda seduto nella sala buia, Truitt pensava all'uomo che aveva creato quel Paese delle meraviglie artificiale. E adesso si sarebbe introdotto nel suo ufficio per indagare. «Quanto le devo?» domandò alla barista. «Posso segnarglielo sulla tessera magnetica della sua stanza.» «Preferisco pagare in contanti.» «Il Morning special è un dollaro.» Truitt mise qualche dollaro sul banco, poi attraversò la stanza e uscì. Girando a sinistra fuori dal bar, Truitt entrò in un atrio imponente. In fondo, su una montagna con la cresta avvolta da nuvole, saliva una seggiovia. Mentre alcune persone aspettavano di prenderla, osservò gli sciatori lungo una pista, con la finta neve che svolazzava nell'aria come cipria. Proseguì e trovò un punto informazioni. «Avete delle piantine dell'hotel?» chiese all'addetto. L'uomo gli sorrise e da dietro il banco prese una mappa indicando con un pennarello il punto dove si trovavano. Truitt gli consegnò la tessera magnetica della sua stanza. «Come trovo la mia camera?» L'addetto passò la scheda nello scanner ed esaminò i dettagli sullo schermo. Poi prese di nuovo il pennarello e scrisse delle annotazioni ai margini del foglio. «Percorra il fiume dei Sogni fino al canyon del Gufo e scenda dalla barca al pozzo della miniera numero diciassette. Qui troverà l'ascensore quarantuno: salirà al suo piano.» «Sembrerebbe facile», osservò Truitt mentre prendeva la piantina e infilava di nuovo in tasca la scheda magnetica. «Da quella parte», disse l'impiegato indicandogli la direzione. Trenta metri dopo, Truitt arrivò a un percorso recintato parallelo al fiu-
me che portava a una stazione di partenza dove una fila di canoe aspettava i passeggeri. Attaccate a un cavo come quelle di un luna park, le imbarcazioni giravano attorno all'hotel lungo un corso d'acqua senza né inizio né fine. Truitt salì sulla prima e studiò il pannello dei comandi. Digitò «pozzo diciassette» sulla tastiera e si sedette comodo sulla canoa, che dopo un istante si mise in movimento affrontando un falso canyon dalle pareti rocciose. Quando la barca si fu fermata automaticamente alla destinazione voluta, Truitt sbarcò dirigendosi a una fila di ascensori. Trovò il numero quarantuno e salì al proprio piano, uscì e raggiunse la camera dopo aver attraversato un lungo atrio. Con la tessera magnetica aprì la porta. La stanza era arredata a tema, secondo lo stile delle abitazioni di una cittadina mineraria. Le pareti erano rivestite di assi di legno invecchiato bordate di stagno. Contro la parete stava puntellata una libreria tutta imbarcata contenente vecchi libri e romanzi. Su un'altra c'era una vetusta rastrelliera con agganciati finti Winchester. Il letto era di ferro battuto, ricoperto da una pila di quelle che sembravano trapunte vecchio stile. Truitt aveva l'impressione di essere stato trasportato indietro nel tempo. Si avvicinò alla finestra, aprì le tende e guardò Las Vegas sotto di sé, come per accertarsi che il mondo esterno fosse sempre uguale. Poi richiuse i tendaggi e andò in bagno. Benché fosse decorato in modo da armonizzarsi con l'insieme, disponeva di una doccia sauna e di lampade per l'abbronzatura. Truitt si buttò dell'acqua in faccia, si asciugò e poi ritornò in camera per telefonare a Hanley. «Hickman è in grado di allestire una grossa operazione», disse Truitt quando il direttore gli rispose. «Non c'è dubbio. Non crederesti mai che posto è questo, è come un parco a tema con le slot-machine.» «Halpert continua a fare ricerche su di lui, ma è emerso il ritratto di un tipo molto riservato. Hai già pensato a come perlustrare il suo ufficio?» «Non ancora, ma mi sto dando da fare.» «Fai attenzione. Hickman è molto potente, e non vogliamo avere ripercussioni negative se alla fine si scopre che non è implicato.» «Entrerò e uscirò più silenziosamente che posso», rispose Truitt. «Buona fortuna, mister Phelps.» Truitt chiuse la comunicazione e cominciò a canticchiare il tema di Mission: Impossible.
Seduto alla scrivania con alzata a scomparsa, Truitt studiò la piantina dell'hotel e la planimetria dell'intero edificio che Hanley aveva inviato al Gulfstream via fax prima dell'atterraggio. Si fece una doccia, si cambiò d'abito e uscì dalla stanza. Prese l'ascensore, salì su una delle canoe e si fece portare all'ingresso principale. Poi lasciò Dreamworld e chiamò un taxi. Dopo avere spiegato la propria destinazione al conducente, si mise comodo ad aspettare. Qualche minuto più tardi l'auto si fermava davanti all'hotel più alto di tutta Las Vegas. Truitt pagò la corsa e scese. Entrò nella hall, acquistò un biglietto e un ascensore rapido lo portò sulla terrazza panoramica. L'intera città di Las Vegas si stendeva sotto di lui. Fissò il paesaggio per qualche minuto, poi si avvicinò a uno dei telescopi e inserì delle monete: a differenza degli altri turisti che spaziavano con i potenti cannocchiali da un lato all'altro, Truitt tenne fermo il suo su un solo punto. Una volta terminata la ricognizione, Truitt ridiscese con l'ascensore, fermò un altro taxi e si fece riportare a Dreamworld. Era ancora un po' presto, così salì in camera sua per fare un riposino. Quando si svegliò era da poco passata la mezzanotte. Si preparò un caffè con la caffettiera del bagno e lo sorseggiò per aiutarsi a restare sveglio, si rasò, fece un'altra doccia e ritornò in camera. Frugò nella borsa, prese jeans e T-shirt neri e si vestì. Prese anche un paio di scarpe nere con la suola di para e se le infilò. Richiuse la borsa e chiamò il facchino per farla portare all'ingresso. Gunderson aveva ricevuto disposizioni di passare a prenderla nel giro di dieci minuti. Infine fece scivolare sulle spalle una giacca con strane imbottiture. Poi salì sulla barca che portava all'atrio ed entrò nel casinò. Gruppi di vacanzieri con gli occhi rossi per la mancanza di sonno riempivano quasi tutti i posti ai tavoli e davanti alle slot-machine. Anche a così tarda ora il casinò faceva soldi a palate. Truitt proseguì ed entrò nel centro commerciale all'interno dell'hotel. Era un paradiso dell'esagerazione consumistica. Lungo un percorso lastricato di ciottoli si snodavano circa settantacinque punti vendita monomarca e boutique. Oltre a una ventina di empori di grandi firme c'erano negozi di scarpe, una valigeria, gioiellerie, ristoranti e persino una libreria. Truitt aveva ancora un po' di tempo da ammazzare, così vi entrò e si mise a sfogliare l'ultimo romanzo di Stephen Goodwin, un giovane scrittore
dell'Arizona, da mesi in cima alla lista dei best seller. In quel momento Truitt non poteva portare con sé un libro, ma si fece un appunto mentale di comprare il romanzo prima di partire da Las Vegas. Fuori dalla libreria si infilò in un ristorante specializzato in carne alla griglia. Ordinò un piatto di costolette e un tè ghiacciato, e una volta finito di mangiare decise che era arrivato il momento. L'attico di Hickman in cima a Dreamworld era dotato da tutti e quattro i lati di terrazze panoramiche alle quali si accedeva attraverso pareti di vetro mobili, che immettevano in una foresta di alberi in vaso perfettamente potati. Il pinnacolo dell'attico era a forma di piramide, con il tetto di rame ancora nuovo e luccicante. Pinnacolo e alberi erano illuminati da minuscole lucine. Mentre saliva in ascensore al penultimo piano, Truitt ripassò la planimetria. Poi uscì, scrutò in fondo al corridoio e vide che era vuoto. Allora raggiunse l'estremità opposta e trovò una scaletta di metallo bianco inchiodata alla parete, che terminava davanti a una porta chiusa con un lucchetto. Da un sacchetto nella tasca prese una sottile asticella di plastica che infilò nel lucchetto, poi girò un piccolo pomolo che aveva in cima. Il pomolo rilasciò un catalizzatore che fece indurire l'asta di plastica dentro il lucchetto: qualche secondo dopo Truitt la girò e il lucchetto si spalancò. Truitt lo tolse, aprì la porta sull'interno di una botola e salì. Dalla planimetria quella risultava essere una via d'accesso di servizio. Lo spazio era occupato da cavi elettrici, tubature dell'acqua e fili del telefono. Truitt accese una torcia. Lentamente strisciò lungo il percorso fino al punto dove la mappa indicava un'altra uscita che si apriva sulla terrazza. Si servì di una seconda asticella di plastica per aprire il lucchetto. Non suonarono allarmi e non c'era alcuna indicazione che l'avessero scoperto. Durante la sua osservazione dall'altro hotel, aveva notato una porta scorrevole spalancata. Quella era per lui la migliore occasione di entrare nell'attico senza essere scoperto. Tenendosi basso per evitare di essere visto, uscì sulla terrazza, richiuse il portello e strisciò verso la porta scorrevole che risultava ancora aperta. Forzandola lentamente all'indietro, Truitt scrutò nell'appartamento. Non si vedeva anima viva, così entrò, con la massima circospezione, nell'enorme soggiorno aperto dell'attico. Una zona conversazione sprofondata in una specie di anfiteatro circondava un camino di pietra con delle panche imbottite. Da un lato, un poco discosta e illuminata soltanto da una lampada posta sopra i fornelli, si trovava la cuci-
na. Dall'altro c'era una imponente zona bar con i rubinetti per la birra alla spina montati nella parete. La stanza era illuminata da luci invisibili che creavano una sorta di crepuscolo, e altoparlanti nascosti diffondevano musica bluegrass. Truitt attraversò guardingo il corridoio nella direzione dove la planimetria collocava l'ufficio di Hickman. 28 La Larissa entrò arrancando nell'isola di Sheppey e ormeggiò alla banchina. Il comandante, con i documenti falsificati, risalì il pendio e raggiunse la baracca della dogana. Sulla porta un addetto stava chiudendo per la notte. «Devo solo notificare l'arrivo», disse il comandante mostrandogli una carta. L'uomo riaprì la porta ed entrò nel piccolo ufficio. Senza preoccuparsi di accendere la luce, si avvicinò a un tavolo molto alto e prese un timbro dal suo supporto. Aprì un tampone, inumidì il marchio e fece segno al comandante di allungargli il foglio che teneva in mano. Quando lo ebbe lo appoggiò sul tavolo e lo timbrò. «Benvenuto in Inghilterra», esclamò il doganiere. Ora il comandante poteva uscire. «Dove potrei trovare un medico da queste parti?» chiese all'addetto mentre richiudeva la porta a chiave. «Due isolati su per la collina e uno a ovest. Ma adesso l'ambulatorio è chiuso. Può andarci domani, dopo essere tornato qui per la dichiarazione completa.» L'uomo se ne andò e il comandante tornò alla Larissa ad aspettare. Agli avventori abituali del bar sul lungomare dell'isola di Sheppey, Nebile Lababiti doveva sembrare un gay in cerca di un amante. E non erano entusiasti delle implicazioni. Lababiti indossava una giacca sportiva italiana, pantaloni lucidi di seta cruda e una camicia sbottonata che metteva in mostra il collo circondato da catene d'oro. Profumava di brillantina, sigarette e troppa acqua di colonia. «Una pinta», disse al barista, un uomo piccoletto e muscoloso coperto di tatuaggi, con la testa rasata e una maglietta sudicia. «Sicuro che non vuoi un cocktail alla frutta, amico?» gli rispose a bassa voce il barista. «C'è un locale in fondo alla strada dove fanno un daiquiri
alla banana favoloso.» Lababiti infilò la mano nella giacca sportiva, prese un pacchetto di sigarette e ne accese una, poi soffiò il fumo in faccia al barista. L'uomo sembrava un ex dipendente di un luna park licenziato perché spaventava i clienti. «No», rispose Lababiti. «Una Guinness andrà benissimo.» Il barista sembrò pensarci, ma non fece la mossa di riempire il bicchiere. Lababiti prese una banconota da cinquanta sterline e la fece scivolare sul bancone. «E offra da bere anche a tutti questi bei giovanotti», aggiunse strisciando la mano sul legno in direzione degli altri dieci clienti. «Mi danno l'impressione di esserselo guadagnato.» Il barista guardò in fondo al bancone, dove il proprietario, un pescatore in pensione con due dita in meno alla mano destra, stava afferrando una pinta di birra. Il padrone fece segno di sì e il barista prese il bicchiere. Anche se quel mediorientale era un finocchio in cerca, il locale non poteva permettersi di rifiutare i clienti che pagavano in contanti. Una volta che la Guinness fu sul bancone davanti a lui, Lababiti prese il bicchiere e bevve un sorso. Poi si pulì il labbro superiore con il dorso della mano e si guardò attorno. Il bar era un tugurio. Sedie scompagnate stavano attorno a malconci tavoli di legno rigato. Un fuoco di carbone bruciava in un caminetto sporco di fumo in fondo alla stanza. Il bancone stesso dove Lababiti si trovava in quel momento recava i segni e le incisioni praticati nel corso degli anni da numerosi coltelli. L'aria era impregnata di sudore, interiora di pesce, gasolio, urina e lubrificanti per macchine. Lababiti bevve un altro sorso e guardò il Piaget d'oro che aveva al polso. Non lontano dal bar, sulla collinetta che sovrastava il porto, un paio degli uomini di Lababiti sorvegliava la Larissa con binocoli da visione notturna. La maggior parte dell'equipaggio aveva già lasciato la nave per trascorrere la notte nella cittadina, e nella cabina di poppa era ancora visibile una sola luce. Sulla banchina una coppia di arabi spingeva un carretto lungo il molo, all'apparenza pieno di spazzatura. Di fianco alla Larissa rallentarono per passare un contatore Geiger vicino allo scafo. Era in modalità silenziosa, ma la spia indicava quello che era necessario sapere. Lentamente proseguirono sino alla fine del molo.
Sottocoperta Milos Coustas, comandante della Larissa, finì di ravviarsi i capelli. Poi si applicò un po' di unguento sul braccio. Non sapeva esattamente perché lo faceva: da quando l'aveva comprato, quell'unguento sembrava ben poco efficace. Sperava solo che il medico che avrebbe visto l'indomani gli prescrivesse qualcosa di più forte. Dopo avere finito i preparativi Coustas uscì dalla cabina e salì sul ponte. Aveva appuntamento con il cliente nel bar sopra la collina. Lababiti stava iniziando la seconda pinta di Guinness quando Coustas arrivò nel locale. L'arabo si voltò verso l'entrata e immediatamente riconobbe il suo uomo. Anche con indosso una maglietta con la scritta COMANDANTE DI NAVE GRECA Coustas non avrebbe potuto essere più visibile. Portava un paio di informi calzoni da contadino, una larga felpa di cotone bianca con il cappuccio dotato di cordino e il berretto di sghimbescio che pare il preferito di tutti i greci che abitano vicino al mare. Lababiti ordinò dell'ouzo al barista e fece segno a Coustas di avvicinarsi. Erano dei terroristi, ma non degli incompetenti. Non appena gli uomini con i binocoli da visione notturna diedero conferma che Coustas era entrato nel bar, i due che spingevano il carretto fecero dietrofront sul molo e si fermarono accanto alla nave da carico. Salirono a bordo rapidamente e cominciarono a cercare. Nel giro di pochi minuti avevano localizzato la cassa che conteneva la bomba nucleare e riferito alla squadra di vedetta seduta in un furgone a noleggio, che arrivò alla fine del molo proprio nel momento in cui i due terroristi a bordo della Larissa facevano scivolare la cassa giù dalla fiancata. Sollevata una copertura di plastica con incollata sopra della spazzatura, la infilarono nel carretto rinforzato. Si diressero poi in fondo al molo, l'uno che spingeva e l'altro che tirava. Lababiti e Coustas si erano spostati a un tavolo in fondo al bar. La puzza del vicino gabinetto li investì. Coustas era al secondo bicchiere e stava prendendo coraggio. Sorrideva. «Ma che cos'ha di tanto speciale questo carico che ha pagato così caro per farselo consegnare?» stava chiedendo a Lababiti. «Dato che lei è un arabo e la cassa pesa molto, sospetto che si tratti di oro di contrabbando.» Lababiti annuì, senza confermare né negare l'accusa. «Se le cose stanno così, credo che sarebbe buona cosa aggiungere un premio supplementare.»
Non appena la cassa con la bomba fu caricata sul retro del furgone le due sentinelle si allontanarono in fretta. Gli altri due uomini trascinarono il carretto fino all'acqua e ve lo buttarono dentro. Poi corsero verso una motocicletta parcheggiata lì vicino e salirono a bordo. Quello alla guida inserì la marcia e affrontarono la collina dove si trovava il bar. Lababiti non odiava i greci quanto gli occidentali, però non era che gli andassero un granché a genio. Li trovava quasi tutti rumorosi, insolenti e privi di buone maniere. Coustas aveva già bevuto due volte, ma non gli aveva ancora offerto niente. Indicando al barista che doveva servire ancora, Lababiti si alzò dalla sedia. «Parleremo di premi supplementari quando torno», disse. «In questo preciso momento devo andare a fare una capatina al bagno. Il barista sta preparando un altro giro... Perché non si rende utile e va lei al banco a prendere da bere?» «Ne ho ancora un po' nel bicchiere», rispose Coustas ridendo. «Può finirlo quando torna», osservò Lababiti allontanandosi. Mettere piede nel gabinetto era come andare a farla in una latrina in fondo al cortile. C'era un cattivo odore e l'illuminazione era scarsa. Per fortuna Lababiti sapeva esattamente dove aveva messo la pastiglia e, togliendo dalla tasca la scatola avvolta nella stagnola, l'aprì nella penombra. Poi, con la pastiglia in mano, tornò in fretta al tavolo. Coustas era ancora al bancone a scocciare il barista perché gli versasse un altro po' di ouzo nel bicchiere. Guardò l'ometto che si chinava e sollevava la bottiglia per colmare il bicchiere mentre, nello stesso momento, un tizio sottile e scuro di carnagione metteva dentro la testa nel locale, starnutiva e se ne andava. Lababiti stava appunto per sedersi quando ricevette il segnale che il furto era andato a buon segno. Sbriciolò la pastiglia e la sciolse in quel che restava nel bicchiere di Coustas. Poi si sedette mentre il greco ritornava portando da bere. Il rumore di una motocicletta che si allontanava sgommando all'esterno penetrò nel locale. «Il barista vuole altri soldi», esclamò Coustas sedendosi. «Dice che abbiamo finito quello che lei gli aveva lasciato.» Lababiti annuì. «Allora devo andare in auto a prendere altre sterline. Lei finisca tranquillamente di bere, io torno subito.» «E poi discutiamo dei premi?» domandò Coustas portandosi alle labbra
il bicchiere quasi vuoto e tracannando un sorso di liquore. «I premi e anche il trasferimento del carico», replicò Lababiti mentre si alzava. «Immagino che accetterà il pagamento in oro, no?» Coustas fece segno di sì con il capo mentre Lababiti si avviava alla porta. Il greco era inebriato dall'ouzo e dalla nuova ricchezza. Tutto gli sembrava perfetto al mondo, sino a quando non sentì la fitta di dolore al petto. Lababiti aveva fatto cenno con un dito al barista che usciva per un momento, poi raggiunse la sua Jaguar berlina parcheggiata in fondo alla strada. La via era vuota, cosparsa di spazzatura e scarsamente illuminata dai pochi lampioni funzionanti. Era un percorso di sogni infranti e speranze malriposte. Lababiti non esitava e non si mostrava mai indeciso. Aprì la portiera della Jaguar con il telecomando, salì e avviò il motore. Regolò il volume del lettore CD, innestò la marcia e si allontanò velocemente. Quando il proprietario del bar si precipitò fuori per riferire a quel forestiero elegante che il suo amico era stato male, tutto quello che riuscì a vedere furono le luci posteriori della Jaguar che sormontava la collina e scompariva. Gli ispettori di polizia inglesi di solito non si fanno vedere quando la gente muore nei bar. Capita di frequente e in genere le cause sono più che ovvie. Per tirare giù dal letto l'ispettore Charles Harrelson occorreva una telefonata dall'ufficio del coroner. E sui due piedi non era affatto contento. Dopo avere imbottito la pipa di tabacco, Harrelson l'accese e guardò il cadavere. Poi scosse la testa. «Macky...» disse al coroner, «... e tu mi hai svegliato per questo?» Erano quasi vent'anni che il coroner, David Mackelson, lavorava con lui. E sapeva che l'ispettore era sempre un tantino stizzoso quando veniva svegliato da un sonno profondo. «Vuoi una tazza di tè, Charles?» replicò Macky tranquillo. «Credo di riuscire a convincere il proprietario a farcene una.» «No, se poi torno a dormire», rispose Harrelson, «come credo proprio che farò, a giudicare dall'aspetto di questo infelice.» «Invece penso che ne avrai bisogno.» Tirando indietro il lenzuolo dal corpo di Coustas, Macky indicò i segni rossi sul braccio. «Lo sai cosa sono?» «Non ne ho idea.»
«Quelle sono bruciature da radiazioni», gli spiegò il coroner prendendo un pizzico di tabacco e infilandoselo nel naso. «E adesso Charles, sei contento che ti abbia svegliato?» 29 Adams aveva intravisto il Cessna: fece segno a Cabrillo e indicò la mappa sul satellitare. «Sorvolerà la terraferma fra qualche minuto», gli disse in cuffia. «Mi auguro che la RAF gli vada incontro», rispose Cabrillo. «A quel punto potremo considerare conclusa la faccenda. Come stiamo a carburante?» Adams indicò la spia. I venti contrari si erano presi la loro parte, e l'ago segnava appena sopra il serbatoio vuoto. «Siamo in riserva sparata, capo, ma ne abbiamo a sufficienza per arrivare a terra. Dopo di che, però, non si può dire.» «Atterreremo per il rifornimento», lo rassicurò Cabrillo, «non appena Hanley ci informerà che i jet hanno intercettato il Cessna.» Ma in quel momento Hanley si stava districando fra le maglie della burocrazia in due continenti. «Che diavolo significa che non dispongono di aerei?» stava sbraitando Hanley al telefono con Overholt. «Il tempo minimo che serve agli inglesi per far decollare un jet è dieci minuti da adesso, da Mindenhall, che è ben a sud. In questo momento non hanno niente con base in Scozia. E per peggiorare le cose», continuò Overholt, «le loro forze a sud sono ai minimi termini come le nostre: quasi tutti i loro cacciabombardieri sono schierati per aiutare l'America in Iraq e in Africa.» «Gli Stati Uniti hanno una portaerei nella zona?» chiese Hanley. «Nossignore. L'unica imbarcazione che abbiamo in mare nei paraggi è una fregata lanciamissili che ha ricevuto l'ordine di intercettare lo yacht in arrivo dalle Faroe.» «Signor Overholt», ribatté Hanley, «abbiamo un problema. Probabilmente il suo amico Juan in questo momento sta fumando di rabbia, e se non gli procuriamo subito qualche aiuto perderemo di nuovo il meteorite. Qui stiamo facendo la nostra parte, ma ci servono rinforzi.» «Capisco, mi lasci organizzare e poi la richiamo.»
Il telefono tacque e Hanley fissò la mappa sul monitor nella sala controllo. Il puntino dell'immagine radar del Cessna in quel momento stava attraversando la costa. Sollevò il ricevitore. «Sì, signore», rispose il pilota del Challenger 604 che aspettava a Aberdeen. «Facciamo andare le turbine ogni mezz'ora per tenerle calde. Decolliamo appena ricevuta l'autorizzazione.» «Il bersaglio ha raggiunto adesso la costa a capo Wrath», gli spiegò Hanley, «così prima si deve volare a est, e poi virare a nord. Risulta che la rotta attuale sia su Glasgow.» «Cosa facciamo quando lo abbiamo raggiunto?» «Seguitelo finché non arrivano i jet inglesi.» Mentre Hanley e l'uomo parlavano, il secondo pilota aveva ricevuto l'autorizzazione a decollare. Fece un segno al suo collega, il quale informò Hanley: «Abbiamo appena ottenuto l'autorizzazione, c'è altro?» «Tenete d'occhio il nostro presidente. È a bordo del Robinson e sono a corto di carburante.» «Stia tranquillo», gli rispose il suo interlocutore spostando avanti le leve di accelerazione e cominciando a rullare verso la pista. Una leggera foschia inumidiva il parabrezza del Challenger mentre l'uomo sterzava per la rampa di accesso verso la lista principale. Dall'aspetto delle nuvole a nord il tempo prometteva solo di peggiorare. Il pilota si preparò sulla pista ed eseguì i controlli. Poi spinse a fondo l'acceleratore e si lanciò sulla pista. James Bennett studiava preoccupato la spia del carburante. Non ce l'avrebbe fatta ad arrivare a Glasgow e così aggiustò di un poco la rotta a sinistra. Il suo piano era di tenersi sulla terraferma nel caso di un atterraggio di emergenza, perciò decise che la nuova rotta sarebbe stata a sud di Inverness, verso oriente, in direzione di Aberdeen. Sarebbe stato fortunato a raggiungere il porto scozzese. Ma Bennett non era un uomo fortunato. Proprio in quel momento gli squillò il telefono. «È sorto un problema», disse una voce. «Abbiamo appena intercettato una comunicazione inglese dove si dice che stanno per far decollare due caccia per bloccarla. Ci restano forse non più di quindici minuti prima che la raggiungano.» Bennett diede un'occhiata all'orologio. «È un problema eccome», si affrettò a rispondere. «Ho dovuto cambiare rotta per via del carburante. Non
sono in grado di raggiungere Glasgow come avevamo programmato. Al massimo posso arrivare a Aberdeen... e non ce la farò prima che i jet mi siano addosso.» «Anche se avesse fatto rifornimento alle Faroe», disse la voce, «adesso Glasgow è comunque da escludere per via dei caccia inglesi. E l'elicottero? Crede che continui nell'inseguimento?» «Non l'ho più visto da quando sono decollato», rispose Bennett. «Secondo me sono tornati indietro.» «Bene. Allora il mio piano dovrebbe funzionare. Prenda la sua carta.» Bennett aprì la carta della Scozia. «Ce l'ho.» «Vede Inverness?» Bennett guardò la mappa. «Sì.» «Subito a sud, lo vede il grande lago?» «Vuole scherzare?» «No. Loch Ness. Voli lungo la sponda est... abbiamo una squadra a terra in un furgone. Faranno del fumo così potrà vederli.» «Fare del fumo» in gergo militare significa accendere granate fumogene e segnalare una posizione. «E poi?» chiese Bennett. «Voli basso e lanci il carico fuori dal portello. Lo recupereranno e lo trasporteranno a destinazione.» «E io?» «Si lasci scortare a terra dai caccia in qualche aeroporto», continuò la voce. «Poi, quando avranno perquisito il Cessna senza trovare niente, crederanno che è stato tutto un errore.» «Splendido.» «È quello che ho pensato anch'io», concluse la voce prima di interrompere la comunicazione. Il Robinson con a bordo Adams e Cabrillo sorvolava la costa frastagliata. Adams fece un segno con il pollice all'insù a Cabrillo e poi gli parlò nel microfono. «Sembra che ce la facciamo. Se restiamo senza carburante adesso, posso scendere a terra in autorotazione.» «Mi auguro che, se proprio dobbiamo arrivare a questo, tu ti sia esercitato», esclamò Cabrillo. «Ne eseguo qualcuna tutte le settimane... non si sa mai.» La coltre di nuvole si faceva sempre più fitta a mano a mano che procedevano nell'entroterra. Ogni tanto si intravedevano le colline della Scozia coperte di ne-
ve. Trenta secondi prima Cabrillo aveva avvistato rapidamente la luce di coda del Cessna che lampeggiava sopra di loro. «I jet oramai dovrebbero essere qui», osservò mentre prendeva il telefono satellitare e chiamava Hanley. La Oregon si allontanava a tutto vapore dalle isole Faroe in direzione sud. Presto una decisione si sarebbe resa necessaria: proseguire a ovest lungo la Scozia e l'Irlanda o a est per il mare del Nord passando in mezzo alle Shetland e alle Orcadi. Hanley osservava le proiezioni che lampeggiavano sui monitor, quando il suo telefono squillò. «Com'è la situazione?» chiese Cabrillo senza preamboli. «Overholt fatica a convincere gli inglesi a far decollare rapidamente i loro jet», riferì Hanley. «Le ultime notizie dicevano che erano appena partiti da Mindenhall. Se viaggiano a Mach 1, dovrebbero essere da te fra mezz'ora, minuto più minuto meno.» «Non abbiamo un'altra mezz'ora di carburante.» «Mi dispiace, Juan. Ho mandato il Challenger da Aberdeen a rilevarvi nell'inseguimento fino a quando i caccia non arrivano. Possono individuare il Cessna e chiamarmi quando hanno l'informazione. Il nostro amico lo prendiamo, di questo non preoccuparti.» «E lo yacht?» «È salpato dal porto nelle Faroe dieci minuti fa», riferì Hanley. «Una fregata lanciamissili americana è sulla rotta per intercettarlo al largo nell'Atlantico.» «Finalmente una buona notizia!» esclamò Cabrillo. Hanley stava osservando il monitor che indicava la posizione del Cessna e del Robinson e contemporaneamente ascoltava il secondo pilota del Challenger che lo teneva aggiornato attraverso l'altoparlante nella sala controllo. Il Challenger stava rilevando i due velivoli sul radar e si avvicinava a essi rapidamente. «Adesso il Cessna sta sorvolando Inverness», disse Hanley. «Il Challenger ce l'ha sul radar. Quanto carburante vi resta?» Cabrillo si rivolse a Adams attraverso le cuffie. «Ce la facciamo a raggiungere Inverness prima di restare senza carburante?» «Credo di sì», rispose Adams. «Abbiamo preso vento di coda una volta arrivati sopra la terraferma.» «Abbastanza da arrivare a Inverness», riferì Cabrillo. Hanley stava per suggerire a Cabrillo e a Adams di fermarsi per fare ri-
fornimento, ma prima che potesse parlare il secondo pilota del Challenger lo chiamò per riferire che all'improvviso il Cessna aveva cominciato a scendere. «Juan», si affrettò a dire Hanley, «dall'aereo mi riferiscono che il Cessna sta iniziando la discesa.» Sulla mappa mobile a bordo del Robinson Inverness era a soli pochi chilometri di distanza. «Dove sta cercando di atterrare?» domandò Cabrillo. «Sembrerebbe a Loch Ness, lungo la sponda est.» «Ti richiamo», disse Cabrillo prima di chiudere la comunicazione. Il tempo andava peggiorando e scrosci di pioggia si riversavano sul parabrezza del Robinson in rivoli sottili. Adams accese la ventola dello sbrinatore e guardò con apprensione la soia del carburante. «Tu credi ai mostri?» gli chiese Cabrillo. «Credo ai camion mostro», rispose Adams. «Perché mi fa questa domanda?» Cabrillo puntò un dito sulla mappa dinamica. Il segno a forma di sigaro che indicava Loch Ness stava per essere avvistato. «A quanto dice Hanley, il Cessna sta scendendo per atterrare lungo il lato est di Loch Ness.» Da qualche minuto Adams riusciva a vedere sprazzi di suolo prima che le nuvole gli si richiudessero sotto. «Non credo proprio.» «Perché?» «Troppo collinoso, non c'è spazio per una pista.» «Allora questo significa...» Adams concluse la frase: «Che vuole effettuare un lancio». Non appena ricevuta la chiamata in cui Bennett lo informava di essere ripartito dalle Faroe con tanto di inseguitori, il capo dell'operazione aveva ordinato che due dei quattro uomini che aspettavano a Glasgow si dirigessero a nord a rotta di collo. Avevano percorso il tragitto di oltre centocinquanta chilometri che li separava da Loch Ness in meno di un paio d'ore, ed erano in attesa di ulteriori disposizioni. Dieci minuti prima avevano ricevuto l'istruzione di portarsi sul lato est del lago, di trovare una zona deserta e infine di aspettare altri ordini. Era giunta quindi una chiamata affinché accendessero le granate fumogene e attendessero il lancio di un pacco. Seduti nel retro del furgone con la portiera aperta, osservavano il fumo che veniva disperso dalla pioggia. L'aereo poteva arrivare da un momento all'altro.
«Hai sentito il rumore?» chiese uno dei due udendo il rombo di un aereo. «È sempre più forte.» «Credevo che il nostro amico fosse su...» Bennett stava lottando con i comandi mentre lo spostamento d'aria provocato dal Challenger faceva sballottare il Cessna. Chiunque fosse al comando di quel jet privato doveva essere un pazzo o un incompetente, pensò. Era impossibile che il suo piccolo aereo non fosse comparso sul loro radar. «Duecento piedi», disse il secondo pilota del Challenger. «Se un motore ci pianta adesso, siamo finiti.» «Guarda fuori dal finestrino», gli ordinò il collega. «Faccio un passaggio e poi torno su.» Il Challenger passò velocemente radente al suolo facendo il pelo alla cima delle colline. Dietro, nella scia, la neve soffiava in vortici. Un rilievo più elevato degli altri dominava il panorama fuori dal parabrezza: il velivolo, dopo avere superato l'ostacolo, si abbassò di nuovo. Adesso stavano sorvolando il lago. «Là», esclamò il secondo pilota indicando un furgone sulla sponda orientale più vicina a Inverness. «Vedo del fumo.» L'altro guardò nella direzione indicata e ricominciò a guadagnare quota. Dopo avere raggiunto di nuovo una velocità di crociera sicura, chiamò la Oregon. «Oregon, abbiamo un furgone bianco sulla sponda est, hanno acceso dei segnalatori fumogeni. Fra quanto devono arrivare i caccia?» «Challenger», rispose Hanley, «i caccia sono ancora a quindici minuti da lì.» «Provano a fare un lancio», spiegò il pilota del Challenger«Grazie dell'informazione», disse Hanley. «Tentano un lancio», disse Cabrillo non appena Hanley gli rispose. «Lo sappiamo, stavo appunto per chiamarti. Il Challenger ha appena effettuato un passaggio a bassa quota e ha visto un furgone con dei segnalatori di fumo attivi lungo la sponda est.» «Noi abbiamo appena intravisto il Cessna», continuò Cabrillo. «Si trova esattamente davanti a noi. Saremo tutti e due sopra il lago fra pochissimi minuti.» «E la situazione carburante?» Cabrillo lo chiese a Adams. «Il carburante?» «Mai vista la spia così bassa.»
Cabrillo riferì le parole di Adams. «Lasciate perdere e atterrate non appena possibile», lo sollecitò Hanley. Il Robinson attraversò una zona di aria più limpida e Cabrillo guardò sotto. Si vedeva l'acqua del lago, sferzata dal vento. «Troppo tardi, Max. Abbiamo appena cominciato a sorvolare il lago.» I due uomini che aspettavano accanto al lago avevano ricevuto ordine di mantenere il silenzio radio fino al recupero del meteorite e sino a quando non si fossero trovati a distanza di sicurezza dal punto del lancio. In virtù di ciò non avevano riferito della presenza del jet che volava basso. Era molto probabile che l'aereo privato fosse quello di una compagnia petrolifera e che avesse dei problemi, e se non era così c'era comunque ben poco da fare. Così avevano continuato a stare in ascolto e a scrutare il cielo per individuare il Cessna. Il Tornado ADV sorvolò Perth, in Scozia, e l'ufficiale di volo inglese riferì la propria posizione. Era a meno di sei minuti da Loch Ness e si avvicinava rapidamente. «Fare attenzione a un jet privato Challenger e a un elicottero a rotore nella zona», comunicò l'ufficiale di volo al suo gregario. «Sono amici.» «Ricevuto», rispose via radio l'altro. «L'obiettivo è il Cessna 206 a elica.» «Siamo a cinque minuti», comunicò l'ufficiale alla base. Bennett aguzzò gli occhi per vedere i fumogeni che gli era stato detto di cercare una volta che avesse individuato l'estremità nordorientale del lago. C'era foschia, e la nebbia sopra l'acqua si mescolava al fumo. Abbassò i flap e rallentò il Cessna al minimo, poi guardò di nuovo. Dall'altro lato del lago lampeggiò una luce, e Bennett si voltò per avvicinarsi. «Ecco il lago!» esclamò Cabrillo. Il Robinson si avvicinava velocemente al Cessna, e Adams frenò. «Sta rallentando», disse a Cabrillo nelle cuffie. Juan osservò la mappa mobile sul cruscotto. «Non risulta che ci sia nessun campo di aviazione: di sicuro sta cercando di fare un lancio, come pensavamo.» L'elicottero si trovava a metà strada sull'acqua, all'inseguimento del Cessna, che stava virando per volare lungo la sponda est. Adams aveva appena
impostato la discesa, quando il motore cominciò a sputacchiare. A bordo del Cessna 206 Bennett guardava davanti a sé. Adesso vedeva il fumo, i lampeggianti e il furgone. Volando più basso sul terreno si allungò a sbloccare il portello del passeggero, poi fece scivolare la scatola con il meteorite sul bordo del sedile più vicino all'apertura. Ancora qualche minuto e avrebbe potuto aprire il portello, inclinare l'aereo sul fianco e spingerla fuori. Billy Joe Shea percorreva la sponda orientale del Loch Ness a bordo di una MG TC nera del 1947. Shea, texano di Midland, venditore di fluidi di perforazione per pozzi petroliferi, aveva acquistato l'auto d'epoca solo qualche giorno prima da un meccanico di Leeds. Suo padre un tempo aveva posseduto un'auto simile, acquistata in Inghilterra quando era di stanza con l'aeronautica nel Paese, e Billy Joe aveva imparato a guidare con quella. Erano passati quasi trent'anni da quando il genitore aveva venduto l'auto, e lui coltivava da sempre il desiderio segreto di acquistarne una per sé. Una ricerca su Internet, una seconda ipoteca sulla casa e le tre settimane di ferie che aveva accumulato gli avevano infine consentito di realizzare quel sogno. Shea aveva deciso di fare un giro della Scozia e dell'Inghilterra per un paio di settimane, fino a quando non avrebbe dovuto lasciare l'auto in consegna all'aeroporto di Liverpool per farsela spedire a casa. Anche con la capote alzata la pioggia filtrava attraverso le portiere senza finestrino. Shea prese in mano il cappello da cowboy che teneva sul sedile del passeggero e scosse via la pioggia. Poi guardò le spie del motore e accelerò, superando un furgone parcheggiato sul ciglio della carreggiata. C'erano pace e silenzio e l'aria profumava di torba umida e di asfalto bagnato di pioggia. «Vedo i caccia sul radar», diceva il pilota del Challenger al telefono satellitare. «Quanto distate dal Cessna?» gli chiese Hanley. «Non siamo lontani. Ci prepariamo a un passaggio sulla sponda orientale, da sud a nord. Vogliamo fargli pelo e contropelo.» Bennett era in prossimità del punto del lancio. Si allungò per aprire il portello e iniziò a inclinare il Cessna sull'asse. Con la coda dell'occhio intravide una vecchia auto che procedeva lungo la strada. Poi si concentrò
per effettuare il lancio il più possibile vicino al furgone. Proprio in quell'istante il Challenger gli apparve nel parabrezza. «Il furgone è proprio sotto di noi sulla strada», disse il pilota del Challenger mentre l'aereo fischiando superava Bennett a bassa quota. «Che cosa...» fece per dire Hanley, prima di essere interrotto. «Il Robinson!» gridò il pilota. «L'elicottero di Juan riesce a vedere il furgone?» chiese Hanley. «Probabile», rispose il pilota alzandosi dopo il passaggio e riprendendo quota. «Però è ancora a una certa distanza.» «Toglietevi di lì. Abbiamo appena saputo dalle autorità britanniche che i caccia sono a pochissimi minuti. Adesso saranno loro a prendere in mano la situazione.» «Ricevuto», fu la risposta dal Challenger. A terra, vicino al furgone, i due uomini osservavano il Cessna avvicinarsi. «Mi pare di vedere un elicottero più indietro», disse uno di loro. L'altro guardò nella foschia. «Ne dubito. Se fosse così vicino, sentiremmo il motore e le vibrazioni del rotore.» Videro il portello del Cessna che si apriva. I due uomini avrebbero potuto sentire l'elicottero, se il motore fosse stato acceso. Invece la cabina di pilotaggio del Robinson si era fatta sinistramente silenziosa: si udiva solo il rumore dell'aria che scivolava sulla fusoliera mentre Adams dava inizio all'autorotazione. Piegò verso la terraferma e pregò Dio di non mancarla. Mentre scendevano Cabrillo aveva intravisto il furgone e i lampeggianti. Non si era preso la briga di informare Adams in cuffia: in quel momento era troppo occupato. Bennett spinse avanti la scatola, che si rovesciò fuori dal portello aperto. Poi raddrizzò il Cessna e virò per dirigersi all'aeroporto di Inverness. Stava risalendo per allontanarsi dal profilo delle colline sullo sfondo del lago, quando si accorse bell'elicottero a soli cinquecento piedi di quota. Non appena fosse riuscito a stabilizzare il suo aereo e avesse fissato la rotta, avrebbe telefonato per riferire.
Una roccia dentro un contenitore cade dritta a terra. Il meteorite scese a picco e andò a sbattere in un punto di torba fradicia d'acqua, senza rompersi. I due uomini si precipitarono sul posto. Stavano cominciando a tirare fuori la scatola dal fango, quando il gemito acuto dei motori di due caccia si fece più intenso. Sollevarono la testa e rimasero a fissare i due jet che sfrecciavano sopra di loro a bassa quota. «Filiamocela da qui», esclamò uno dei due non appena ebbe liberato l'oggetto dalla torba. L'altro si precipitò al furgone per accendere il motore mentre il compagno lo seguiva con il meteorite. «Credo di farcela a prendere la strada», gridò Adams attraverso le cuffie. Il Robinson stava disegnando un arco non proprio perfetto, sostenuto unicamente dall'aria che, passando in mezzo alle pale del rotore, le faceva girare. Adams stava pilotando l'elicottero verso terra, ma perdeva rapidamente la velocità aerodinamica. La riva del lago e la strada si avvicinavano e lui cominciò la richiamata finale. I caccia erano giunti alle spalle di Bennett e del suo Cessna così velocemente che parevano sbucati dal nulla. Gli passarono accanto facendo il pelo a entrambe le fiancate, poi lo superarono e iniziarono alcune virate ad alta velocità. E in quel momento la radio si mise a gracchiare. «Qui è la RAF», intimò una voce, «deve raggiungere il campo di aviazione più vicino e atterrare immediatamente. Se rifiuta di eseguire l'ordine o intraprende un'azione di fuga, verrà abbattuto. Confermi di avere ricevuto il messaggio.» I due jet si avvicinarono a Bennett frontalmente, il quale fece ondeggiare le ali in risposta. Infine prese il telefono satellitare. Così a portata di mano eppure così lontano. Cabrillo guardò fuori dal finestrino prima che l'elicottero perdesse quota dietro una collina. Il furgone e la zona del lancio erano a circa un chilometro di distanza. Anche se Adams fosse riuscito a portarli a terra sani e salvi, durante il tempo impiegato a uscire dal Robinson e a correre verso quel punto il furgone e il meteorite si sarebbero volatilizzati. Strinse il telefono satellitare al petto e si tenne forte per l'impatto al suolo.
L'autista del furgone innestò bruscamente la marcia e pigiò il pedale dell'acceleratore. Gli pneumatici posteriori sgommarono nel fango lanciando in aria schizzi di torba. Slittando, il mezzo raggiunse la strada asfaltata e inizio la discesa in direzione sud. L'uomo lanciò una rapida occhiata nello specchietto posteriore e trovò via libera. Adams pilotava il Robinson con il tocco squisito di un violinista. Calibrando la richiamata con precisione, sollevò il ciclico all'ultimo secondo possibile quando l'arco descritto dall'elicottero si trovava a pochissimi metri dal suolo. Sollevò il passo collettivo, e il Robinson si arrestò per aria, e da quella minima altezza piombò verso la strada sui suoi pattini. La struttura dell'elicottero ricevette un contraccolpo, ma non particolarmente duro. Lanciando un'occhiata a Cabrillo Adams si lasciò sfuggire una sonora esplosione di sollievo. «Accidenti se sei bravo», esclamò il suo capo. «Questa volta è stata dura», rispose Adams togliendosi le cuffie. L'elicottero bloccava quasi interamente la strada. «Se avessimo avuto carburante per un altro chilometro», disse Cabrillo aprendo il portello per uscire, «li avremmo fermati.» Sulla strada i due uomini si stirarono le membra in tutta la loro altezza. «Sarebbe meglio chiamare il signor Hanley e informarlo che li abbiamo persi», disse Adams mentre Shea e la MG TC spuntavano in cima alla collina rallentando perché la strada era ostruita. «Fra un minuto», rispose Cabrillo che guardava l'auto che si fermava. Shea sporse la testa dal finestrino. «Avete bisogno di aiuto, ragazzi?» si informò con la pronuncia nasale del Texas. Cabrillo raggiunse l'auto con una corsetta. «Lei è americano?» «Fatto e finito», rispose Shea, orgoglioso. «Stiamo lavorando direttamente per il presidente a una faccenda di sicurezza nazionale», gli spiegò rapidamente Cabrillo. «Mi servirà la sua macchina.» «Amico, l'ho comprata tre giorni fa.» Cabrillo allungò la mano nel finestrino e aprì la portiera. «Mi spiace, ma è una questione di vita o di morte.» Shea tirò il freno a mano e scese. Cabrillo fece segno a Adams con il satellitare; poi salì a bordo. «Chiamo
la Oregon», disse, «e chiedo che mandino qualcuno per rifornirci di carburante.» «Va bene, capo», rispose Adams. Cabrillo avviò il motore della vecchia auto d'epoca, schiacciò la frizione e ingranò la marcia. Poi ruotò il volante per compiere un'inversione di marcia. «Ehi», esclamò Shea, «e io cosa devo fare?» «Resti all'elicottero», gli gridò Cabrillo dal finestrino. «Penseremo a tutto dopo.» Con la MG TC in carreggiata, pigiò l'acceleratore e partì a tutta velocità. Dopo pochi secondi aveva superato il crinale della collina scomparendo alla vista. Shea raggiunse Adams, che stava controllando i pattini dell'elicottero. «Sono Billy Joe Shea», si presentò porgendo la mano. «Le spiace dirmi chi è l'uomo che mi ha preso l'auto?» «Quell'uomo? Mai visto prima.» 30 Richard «Dick» Truitt passava in rassegna i file sul computer di Hickman. La quantità d'informazioni era tale che l'operazione procedeva lentamente, così alla fine decise di connettersi con il computer della Oregon e mandargli l'intero contenuto di quello di Hickman. Dopo avere effettuato un collegamento, cominciò a trasmettere i dati a un satellite che a sua volta ne trasferiva il flusso alla nave. Poi si alzò dalla sedia della scrivania e si mise a perquisire l'ufficio. Da un cassetto prelevò diversi fogli di carta e qualche fotografia, li piegò e se li infilò nella tasca della giacca. Stava facendo passare la libreria lungo la parete, quando sentì aprirsi la porta d'ingresso e il suono di una voce si propagò per l'atrio. «Proprio adesso?» chiedeva la voce. Non vi fu risposta, dato che l'uomo parlava a un cellulare. «Cinque minuti fa?» domandò ancora la voce, in tono più alto. «Perché diavolo non hai mandato subito su quelli della sicurezza?» Il rumore dei passi nell'atrio era diventato più intenso. Truitt sgattaiolò nel bagno annesso all'ufficio e poi finì in una stanza da letto per gli ospiti. Un altro atrio portava nel salotto. «Sappiamo che sei qui», disse la voce. «I miei uomini della sicurezza
stanno venendo su. Hanno bloccato l'ascensore e quindi non ti resta altro da fare che arrenderti.» La chiave di un piano efficace è immaginare gli imprevisti. La chiave di un piano strepitoso è immaginarli tutti. I dati del computer di Hickman stavano volando nell'etere verso la Oregon. Tre quarti delle informazioni erano stati trasferiti quando Hickman entrò nella stanza. Truitt aveva commesso una piccola svista: si era dimenticato di spegnere lo schermo, e il miliardario appena entrato si rese conto che qualcuno aveva acceso il computer. Si precipitò alla scrivania e lo spense. Poi controllò e trovò la fiala di Vanderwald che giaceva indisturbata nel cassetto. Truitt scivolò dentro il salotto. La porta scorrevole di vetro era ancora aperta. Attraversò rapidamente la stanza. Era quasi arrivato all'uscita, quando andò a sbattere in una scultura che cadde andando in pezzi. Hickman sentì il rumore e si precipitò nell'atrio. Truitt era sgusciato dalla porta scorrevole e si trovava nel patio sul retro quando Hickman entrò in salotto e lo vide all'esterno. L'intruso era vestito di nero e si muoveva con una certa decisione, tuttavia era intrappolato mentre le guardie stavano salendo in ascensore. Hickman rallentò per assaporare quegli istanti. «Fermo dove sei», esclamò scrutando fuori dalla porta di vetro. «Non hai via di scampo.» L'uomo si era girato guardandolo dritto in viso. Poi aveva sorriso, si era arrampicato sul muretto ad altezza d'uomo che circondava la terrazza, gli aveva fatto segno di sì con la testa e lo aveva salutato con la mano. Infine si era voltato e si era buttato giù dal muro nell'oscurità. Quando gli uomini della sicurezza erano arrivati di corsa nella stanza, Hickman stava ancora lì, immobile per lo shock. La fede cieca è una potente emozione. Ed era tutto ciò di cui Truitt disponeva nel momento in cui tirava la corda attaccata davanti alla giacca. Fede cieca nel Magic Shop della Oregon. Fede cieca che l'invenzione di Kevin Nixon avrebbe funzionato. Un secondo spaccato dopo avere tirato la corda, un piccolo paracadute spuntò da dietro la giacca, strappando il velcro che avvolgeva l'indumento. E un istante dopo un paio di ali come quelle di un aquilone combattente cinese si dispiegò arrestandosi con uno scatto. Flap centoventi per centoventi attaccati a cavi di tenuta uscirono da sotto le ali come freni ad aria compressa su un aereo.
Truitt rallentò e cominciò a prendere il controllo della situazione. «Stai pronta», gridò Gunderson. «Sta arrivando veloce.» Tracy Pilston alzò gli occhi e avvistò Truitt per un secondo mentre passava attraverso la luce di un faro che spazzava il cielo vicino al vulcano. L'uomo descrisse una virata di trecentosessanta gradi nell'aria e poi prese una traiettoria in linea retta. Era a tre metri dal selciato, a venti metri dalla jeep, e si allontanava a tutta velocità. Per fortuna il marciapiede era quasi vuoto. A quell'ora così tarda della notte i turisti si trovavano per lo più a letto o incollati ai tavoli da gioco. Il vicedirettore della Corporation continuò nella sua discesa in linea retta. Gunderson girò la chiave di accensione della jeep e il motore prese a rombare. Infilò la marcia a tutta velocità e si lanciò alla rincorsa di Truitt. Due metri e mezzo, due metri, ma Truitt faticava a toccare terra. Continuava a spostarsi velocemente con i piedi che penzolavano per aria. Un paio di squillo erano ferme all'angolo della strada in attesa del verde. Erano infilate in abiti attillatissimi, appollaiate su zatteroni e con le acconciature alte e cotonate. Una stava fumando, l'altra prendeva l'appuntamento successivo al cellulare. Truitt allungò la mano e tirò le corde che consentivano ai freni ad aria di restare gonfi. Una volta disattivati quelli, piombò a terra come un sasso. Riuscì appena a mulinare i piedi prima di toccare il suolo e poi si mise a correre fino a riacquistare equilibrio e rallentare la spinta in avanti. Quando riuscì a impostare una normale camminata era a poco più di un metro e mezzo dalle donne. «Buonasera, signore. Bella serata per andare a passeggio.» Più lontano alle sue spalle un SUV rosso con la scritta DREAMWORLD usciva dal passo carraio dell'hotel. La guardia di sicurezza al volante schiacciò l'acceleratore e gli pneumatici scricchiolarono sull'asfalto. Esattamente in quell'istante Gunderson e Pilston accostarono. «Salti su», gridò Gunderson. Truitt salì sul predellino e si diede lo slancio per saltare dentro la jeep. Non appena si fu sistemato sul sedile posteriore, Gunderson accelerò lungo la Strip. La borsa di Truitt era appoggiata sul sedile di fianco a lui. Aprì la cerniera e vi frugò dentro, per estrarre una scatola di metallo. «Ci inseguono», gridò Gunderson voltandosi verso il retro dell'auto. «Me ne sono accorto», replicò Truitt. «Quando te lo dico, metti in folle e spegni il motore.» «Va bene.»
Filavano a centocinquanta all'ora, ma il SUV rosso guadagnava terreno. Truitt si girò sul sedile posteriore e puntò la scatola sul radiatore degli inseguitori. «Ora!» urlò. Gunderson mise la jeep in folle e girò la chiave. I fari si spensero e il servosterzo smise di funzionare, al punto che Gunderson dovette faticare parecchio a tenere in strada l'auto che sbandava. Truitt accese un interruttore a levetta sulla scatola, lanciando nell'etere un segnale in grado di friggere la centralina elettrica di qualunque veicolo si trovasse nei paraggi. Le luci del SUV rosso si spensero, e l'auto iniziò a rallentare. Anche alcuni taxi che transitavano vicino si fermarono stridendo. «Okay», esclamò Truitt, «puoi riaccendere.» Gunderson girò la chiave di accensione e la jeep riprese a rombare. Infilò la marcia e riacquistò il controllo. «Dove andiamo?» gridò a Truitt. «Avete tutti e due le vostre borse?» «All'hotel abbiamo fatto solo la doccia», rispose Tracy Pilston. «Le borse le abbiamo lasciate sull'aereo.» «Allora all'aeroporto», esclamò Truitt. «Meglio svignarsela da Las Vegas.» Max Hanley era in piedi vicino al computer dell'ufficio di Michael Halpert sulla Oregon. Entrambi erano concentrati a fissare lo schermo. «Poi si è interrotto», gli spiegava Halpert. «Quanti dati abbiamo recuperato?» «Dovrò farli passare tutti, ma sembrerebbe un bel po'.» «Comincia ad analizzarli», rispose velocemente Hanley, «e vieni a riferirmi non appena trovi qualcosa di interessante.» Proprio in quel momento la ricetrasmittente di Hanley si mise a gracchiare e ne uscì la voce di Stone: «Ho appena saputo dal Gulfstream che sono in partenza da Las Vegas». «Sono subito da te», rispose Hanley al microfono. Il direttore percorse rapidamente il corridoio, poi aprì la porta della sala controllo. Stone era seduto davanti ai monitor; si voltò sentendo Hanley che entrava e gli indicò lo schermo. Era occupato da una mappa dell'Ovest degli Stati Uniti, e una luce rossa intermittente indicava la posizione del Gulfstream. Il jet era in procinto di sorvolare Lake Mead diretto a est. Proprio allora squillò il telefono e Hanley si avvicinò alla propria console per rispondere. «Hanley.»
Era Truitt. «Avete ricevuto i file?» «Alcuni», rispose Hanley. «Halpert li sta analizzando in questo momento. Sembra che la trasmissione dei dati sia stata interrotta nel bel mezzo. Hai avuto dei problemi?» «L'obiettivo è entrato mentre li stavo scaricando», spiegò Truitt cercando di sovrastare il rumore dei motori del Gulfstream. «È probabile che abbia interrotto la connessione.» «Ciò significa pure che sa che qualcuno potrebbe stargli addosso.» «Esatto», convenne Truitt. «Che altro hai?» Truitt infilò la mano nella giacca appoggiata sul sedile dall'altro lato del corridoio e prese le fotografie che aveva sottratto nell'ufficio di Hickman. Accese il fax che era collegato al telefono dell'aereo e si mise a scannerizzarle per inserirle in memoria. «Ti mando delle foto», disse. «Di chi sono?» «È quello che voglio sapere.» 31 «Accidenti, se è un problema», stava dicendo il presidente a Langston Overholt. Da appena un'ora il primo ministro britannico aveva informato il presidente degli Stati Uniti che a meno di ottanta chilometri dal centro di Londra era saltato fuori il comandante di una nave greca con bruciature da radiazione. Mentre il presidente e Overholt parlavano, le linee private fra i due Paesi scottavano ancora per il flusso frenetico di comunicazioni. «Stiamo lavorando con i russi oltre che con la Corporation per recuperare l'ordigno», rispose Overholt. «Ma è comunque riuscito ad arrivare in Inghilterra.» «È quello che vorrebbe farmi dire al nostro più fido alleato?» lo incalzò il presidente. «Che ci abbiamo provato ma non ce l'abbiamo fatta?» «No, signore», ribatté Overholt. «Be', perché se chi sta dietro questa faccenda unisce la bomba al meteorite, Londra e il suo circondario si trasformeranno in un deserto. E qualunque scusa lei pensi si possa accampare sulla bomba, il meteorite è un pasticcio che abbiamo combinato noi.» «Capisco», rispose Overholt.
Il presidente si alzò dalla poltrona dello Studio Ovale. «Mi ascolti bene», disse con una punta di collera nella voce. «Voglio dei risultati, e li voglio adesso.» Overholt si alzò in piedi. «Sì, signore.» Poi si avviò alla porta. «Cabrillo è ancora all'inseguimento del meteorite», disse Hanley a Overholt sulla linea protetta. «Almeno da quanto risulta al pilota del nostro elicottero che ha chiamato pochi minuti fa.» «Il presidente è sul piede di guerra», lo informò Overholt. «Ehi, non date la colpa a noi: i jet inglesi se la sono presa comoda. Se fossero arrivati in tempo, il meteorite sarebbe al sicuro, adesso.» «Secondo l'ultima comunicazione, gli inglesi avevano costretto il Cessna ad atterrare a Inverness e si stavano preparando a perquisirlo.» «Non ci troveranno niente. Il nostro pilota dice che lui e Juan hanno visto che il contenitore è stato lanciato dal portello del Cessna.» «E allora come mai Cabrillo non si è fatto vivo? Potremmo coordinare i rinforzi.» «Questa, signor Overholt, è una domanda alla quale non so rispondere.» «Mi informerà non appena gli parla?» «Certamente», rispose Hanley prima di chiudere la comunicazione. La MG TC procedeva come un carro scoperto pieno di granaglie. Gli pneumatici sottili e le sospensioni antiquate non reggevano il paragone con un'auto sportiva moderna. Cabrillo era in quarta con il motore che girava al massimo, e la vecchia auto andava a poco più di centodieci all'ora. Tenendo con una mano il volante di radica aprì di nuovo il proprio telefono satellitare. Niente. Forse era stato l'atterraggio: nonostante tutti i suoi sforzi per proteggerlo, quando avevano toccato terra l'apparecchio era andato a sbattere sul lunotto. Forse era la batteria, dato che i satellitari esaurivano rapidamente la carica come un obeso l'aria condizionata in un'estate a Phoenix. Comunque stessero le cose, Cabrillo non riusciva ad attivare la lucina verde. Proprio allora avvistò il furgone che a qualche chilometro di distanza superava una collina. Eddie Seng lanciò un'occhiata a Bob Meadows, al volante dell'auto che in quel momento stava avvicinandosi all'isola di Sheppey. Dopo che l'ae-
reo anfibio della Corporation li aveva prelevati dalla Oregon, i due erano stati trasportati a un aeroporto alla periferia di Londra, dove li aspettava una Range Rover blindata fornita dai servizi segreti britannici dell'MI5. «Sembra che abbiamo ricevuto le armi che volevamo», disse Seng frugando nella borsa di nylon che si trovava sul sedile posteriore. «Adesso, se solo riusciamo a trovare dove la cellula di Hammadi si nasconde a Londra», osservò Meadows con sicurezza, «localizziamo la bomba e la disinneschiamo mentre il capo si impossessa del meteorite, possiamo considerare chiusa la faccenda.» «Sembra discretamente difficile.» «È un sette su una scala di dieci», ribatté Meadows rallentando per svoltare dentro l'aeroporto. Seng scese dall'auto mentre Meadows stava ancora spegnendo il motore. Si avvicinò a un tizio allampanato con i capelli biondo tiziano e gli tese la mano. «Eddie Seng», si presentò. «Malcom Rodgers, MI5.» Meadows era sceso dalla Range Rover e si stava avvicinando. «Questo è il mio collega, Bob Meadows. Bob, ti presento Malcom Rodgers dell'MI5.» «Piacere», disse Meadows stringendogli la mano. Rodgers si incamminò verso il molo. «Hanno trovato il comandante in un pub del posto, appena sopra la salita. Secondo la ricevuta della dogana aveva attraccato la sera stessa.» «È morto per le radiazioni?» chiese Meadows. «No. L'autopsia preliminare ha rivelato tracce di veleno.» «Di che tipo?» intervenne Seng. «Niente che sia stato possibile verificare, finora. Un agente paralizzante.» «Ce l'ha un telefono?» domandò Meadows. Rodgers rallentò il passo e si tolse un telefono cellulare di tasca. Guardò Meadows. «Chiami il coroner e gli dica di mettersi in contatto con i Centers for Disease Control di Atlanta. Deve chiedere di farsi inviare i profili tossicologici dello scorpione della penisola araba e dei veleni dei serpenti per vedere se combaciano.» Rodgers annuì e fece la chiamata. Mentre era al telefono, Seng studiò la
zona del porto sottostante: diverse navi cargo piuttosto vecchie, tre o quattro natanti da diporto e un solo catamarano con i ponti di coperta irti di antenne e due gru, e il ponte di poppa affollato di casse e strumentazione elettronica. C'era un uomo chino sopra un tavolo con le braccia dentro un apparecchio a forma di siluro. «Okay, controlleranno», disse Rodgers. I tre continuarono a scendere dalla collina e raggiunsero il mare. Camminarono sulle passerelle e poi presero la direzione di un'altra darsena che confinava con la prima ad angolo retto. Sul ponte della Larissa si vedevano tre uomini. E di sicuro ce n'erano altri sottocoperta. «L'abbiamo frugata centimetro per centimetro», spiegò Rodgers. «Niente. I giornali di bordo sono falsificati, ma interrogando l'equipaggio abbiamo saputo che il carico è stato preso a bordo vicino a Odessa in Ucraina e che la nave è arrivata qui senza fare soste.» «L'equipaggio era al corrente di cosa trasportava?» chiese Seng. «No. Girava voce che fossero opere d'arte rubate.» «Già, loro erano solo gli addetti alla consegna.» Meadows si era voltato indietro a guardare il catamarano nella darsena. «Volete salire a bordo?» domandò Rodgers. «Qualcuno ha visto l'uomo allontanarsi dal pub dopo l'incontro con il comandante?» si informò Meadows. «No. Il problema è appunto questo. Non sappiamo chi sia o dove sia andato.» «Ma il comandante non ha portato la bomba con sé al pub», pensò Meadows ad alta voce. «Dunque i casi sono due: qualcuno dell'equipaggio ha fatto il passaggio di consegna oppure è stata rubata dalla nave.» «Non si è vista la bomba al pub e il comandante è morto lì», disse Rodgers. «E voi l'avete torchiato, l'equipaggio?» chiese Seng. «Quello che sto per dirle è confidenziale.» Seng e Meadows annuirono. «Ciò che abbiamo fatto ai marinai è illegale in base alla convenzione internazionale... Ci hanno detto tutto quello che sapevano», rispose piano Rodgers. Gli inglesi non scherzavano: quei greci erano stati torturati o drogati, o entrambe le cose. «E nessuno di loro ha fatto la consegna?» «No. Chiunque fosse, l'uomo del pub aveva dei complici.»
«Eddie», esclamò Meadows, «perché non sali a bordo della Larissa a controllare? Io voglio andare fin là a scambiare due parole con il tizio del catamarano.» «L'abbiamo già interrogato», osservò Rodgers. «È un po' strano ma è innocuo.» «Torno subito», disse Meadows allontanandosi lungo la banchina. Seng fece segno a Rodgers e lo seguì a bordo della Larissa. «Signore, dobbiamo inserire il nome», stava dicendo Stone. «Atlantico o mare del Nord?» Hanley fissava la mappa mobile sul monitor. Non aveva idea di dove fosse diretto Cabrillo, ma una decisione era impellente. «Dov'è l'anfibio?» «Là.» Stone gli indicò un pulsare sulla mappa che mostrava l'aereo sopra Manchester diretto a nord. «Allora mare del Nord», ordinò Hanley. «Londra è l'obiettivo. Ordina all'anfibio di raggiungere Glasgow per portare rinforzi a Cabrillo'.» «Afferrato», ribatté Stone prendendo il microfono. «Hali», disse Hanley girandosi verso Kasim che era seduto a un tavolo dietro la poltrona dei comandi. «Come sta Adams a carburante?» «Non sono riuscito a farglielo consegnare dall'aeroporto di Inverness», rispose Kasim. «Così ho contattato una stazione di rifornimento a Loch Ness perché recapiti il carburante sul posto in taniche da venti litri. Dovrebbe arrivargli fra poco. Non appena lo avrà, sono sicuro che Adams ce lo farà sapere.» «Porca miseria», sbottò Hanley. «Ci serve che George stia lassù per aiutare il capo.» Linda Ross, l'esperta di sicurezza e sorveglianza della Oregon, era seduta al tavolo con Kasim. «Mi sono collegata con le autorità britanniche e ho detto loro quello che sappiamo: che abbiamo un furgone bianco diretto a sud sulla strada da Loch Ness, il quale riteniamo trasporti il meteorite, e che il signor Cabrillo lo sta inseguendo a bordo di una vecchia MG nera. Invieranno degli elicotteri, ma ci vorrà circa un'ora per raggiungere la zona.» «Il Challenger può fornire una copertura dall'alto e riferire?» chiese Hanley agli operatori. Per un istante nessuno parlò. Stone batté i comandi sulla tastiera e poi indicò il monitor. «Quello è il tempo reale dalla zona.»
La coltre di nebbia sembrava una coperta di lana grigia. Al suolo, nel Nord della Scozia, la visibilità si misurava in centimetri, non in metri. Dal cielo gli aiuti non sarebbero arrivati presto. Halifax Hickman era furente. Dopo avere ricoperto di improperi la squadra di sicurezza si rivolse al capo del gruppo. «È licenziato», gli gridò. L'uomo si avviò alla porta e uscì dall'attico. «Tu», disse al vice, «dov'è il ladro che è appena penetrato qui dentro?» «I nostri uomini lo hanno visto atterrare in fondo alla strada all'estremità opposta di Dreamworld. Sono passate a prenderlo due persone su una jeep decappottabile. I miei agenti li stavano inseguendo, quando la loro auto ha subito un completo blackout elettrico. A quel punto li hanno persi.» «Voglio che tutte le forze a disposizione perlustrino la città per trovare questa jeep. Voglio sapere chi ha avuto il fegato di entrare nel mio appartamento all'ultimo piano dell'hotel.» «Ci mettiamo subito al lavoro», si affrettò a rispondere il capo della sicurezza di fresca nomina. «Sarà meglio, accidenti», replicò Hickman allontanandosi lungo l'atrio verso il suo ufficio. Le guardie uscirono a una a una dall'attico. E questa volta si ricordarono di chiudere la porta a chiave. Hickman compose un numero sul telefono e parlò. Nel suo ufficio a bordo della Oregon Michael Halpert catalogava il contenuto della trasmissione di Truitt. I file erano un'accozzaglia disordinata di documenti societari, di registrazioni bancarie, di brokeraggio e di holding immobiliari. File personali non ce n'erano, oppure non erano stati trasmessi prima dell'interruzione del collegamento. Halpert impostò la ricerca per parole chiave e poi esaminò le fotografie che Truitt gli aveva faxato dal Gulfstream. Girandosi sulla sedia verso un altro computer, infilò le immagini in uno scanner, poi si collegò al computer del dipartimento di Stato e iniziò la ricerca nelle fotografie dei passaporti. Il database era enorme e la ricerca poteva anche durare dei giorni. Lasciando le macchine al lavoro, Halpert uscì dall'ufficio e attraverso l'atrio raggiunse la sala da pranzo. La specialità del giorno era manzo alla Stroganoff, il suo piatto preferito. «Signore», squillò la voce al telefono, «ci ha dato la voce un cacciator-
pediniere lanciamissili della marina degli Stati Uniti.» «Che cosa intendi?» chiese Hickman. «Ci hanno ordinato di fermarci altrimenti ci affondano», lo ragguagliò il comandante del Free Enterprise. Il piano di Hickman si disfaceva sempre più rapidamente. «Non riuscite a seminarli?» «Impossibile.» «E allora attaccateli», ordinò Hickman. «Sarebbe un suicidio.» Hickman rifletté un istante prima di rispondere. «Allora ritardate la resa il più possibile», disse alla fine. «Sì, signore», rispose il comandante. Hickman interruppe la comunicazione e si abbandonò sulla poltrona. Alla squadra del Free Enterprise aveva raccontato una storia fasulla sin dall'inizio. Per convincerli a collaborare, aveva detto che il suo piano era di servirsi del meteorite, in combinazione con un ordigno nucleare, per attaccare la Siria. Poi aveva detto che avrebbe incolpato dell'attacco Israele creando una guerra su vasta scala nel Medio Oriente. E alla fine di tutto gli Stati Uniti, aveva raccontato, avrebbero avuto il controllo della regione e il terrorismo sarebbe stato sradicato. Ma il vero piano era molto più personale. La sua intenzione era di vendicare la morte dell'unica persona che avesse mai veramente amato. E che Dio aiutasse chiunque si fosse messo in mezzo. Prese di nuovo il telefono e chiamò il proprio hangar. «Preparate l'aereo per un viaggio a Londra.» «Ehilà», gridò Meadows all'uomo sul ponte del catamarano. «Ehilà», rispose quello. L'uomo era alto, un po' più di un metro e novanta di statura, e snello. Il volto era incorniciato da una barbetta ben curata e da un fitto groviglio di sopracciglia ingrigite; gli occhi chiari luccicavano come se fossero stati in possesso di un segreto esclusivo. Sembrava avere passato ampiamente la sessantina. «Posso salire a bordo?» Il vecchio aveva le mani ancora infilate nell'oggetto a forma di siluro. «Lei è quello del sonar?» «No», rispose Meadows. «Salga a bordo comunque», ribatté l'altro con vago disappunto.
Meadows salì sul ponte e si avvicinò. L'uomo aveva un aspetto vagamente familiare. Poi riuscì a collocare il viso. «Ehi», esclamò, «ma lei è quello scrittore...» «Scrittore in pensione», rispose l'uomo sorridendo. «Sì, sono io. Ma se ne dimentichi per un momento... s'intende di elettronica?» «Sul mio forno è ancora impostata l'ora estiva», replicò Meadows. «Accidenti. Ho distrutto la motherboard di questo sonar e devo farla aggiustare prima che il tempo si rimetta al bello e ci permetta di uscire di nuovo. Il tecnico doveva essere qui un'ora fa. Deve essersi perso o qualcosa del genere.» «Da quanto tempo siete ormeggiati?» domandò Meadows. «Da quattro giorni. Ancora un paio e dovrò pagare dei fegati nuovi alla mia squadra: hanno assaggiato i condimenti locali. Tutti, tranne uno che ha giurato di astenersene anni fa e adesso è drogato di caffè e pasticcini. La domanda è: dove li trovo ragazzi simili? Queste spedizioni assomigliano a un manicomio galleggiante.» «Oh, sì», osservò Meadows. «So che lei è appassionato di archeologia subacquea.» «Non pronunci la parola 'archeologia' su questa barca», scherzò lo scrittore. «Su questa barca gli archeologi sono sullo stesso piano dei necrofili. Noi siamo avventurieri.» «Mi scusi», sorrise Meadows. «Ehi, noi stiamo investigando su un furto avvenuto proprio nel porto un paio di sere fa. Voi ragazzi non avete perso niente?» «Lei è americano. Perché mai dovrebbe investigare su un furto in Inghilterra?» «È disposto a credermi se le rispondo sicurezza nazionale?» «Oh, sì. Ma dov'era quando ancora scrivevo? Io dovevo inventarmi tutto.» «Dico sul serio.» Lo scrittore rifletté un momento. «No, non ci hanno preso alcunché», rispose infine. «Questa barca ha su più telecamere di Cindy Crawford quando si fa riprendere in costume da bagno. Sott'acqua, sopra l'acqua, giù nelle cabine sugli strumenti, diavolo, probabilmente nel cesso per quanto ne so. L'ho noleggiata da una troupe televisiva.» Meadows sembrava meravigliato. «Questo l'ha detto agli inglesi?» «Non me l'hanno chiesto. Sembravano molto più interessati a spiegarmi che io non avevo visto niente... il che era vero.»
«Dunque non ha visto niente?» «No, se era a tarda notte. Ho passato la settantina... e se sono le dieci di sera è meglio che ci sia un incendio o una ragazza nuda, se proprio uno vuole svegliarmi.» «Ma le telecamere?» «Sono sempre in funzione. Stiamo facendo uno spettacolo televisivo sulla ricerca, i nastri costano poco e i buoni filmati sono preziosi.» «Le spiacerebbe mostrarmeli?» chiese Meadows. «Solo se dice 'sia buono'.» E lo scrittore si diresse alla porta che immetteva nella cabina. Venti minuti più tardi Meadows aveva quello che cercava. 32 Nebile Lababiti diede un'occhiata, colma di un'eccitazione temperata dall'ansia, alla bomba nucleare appoggiata sul parquet dell'appartamento a poca distanza dallo Strand. Si trattava di un oggetto inerte - sostanzialmente metallo lavorato e qualche filo di rame -, ma irraggiava un senso di timore e pericolo. L'ordigno era più di un oggetto qualsiasi: aveva una vita. Come un dipinto o una scultura infusi della forza vitale dell'artista che li ha creati, quel congegno esplosivo non era solamente un pezzo di metallo. Era la risposta alle preghiere del suo popolo. Avrebbero colpito direttamente al cuore degli inglesi. Gli odiati inglesi che avevano saccheggiato gli arredi delle piramidi, che avevano oppresso gli abitanti del Medio Oriente e combattuto al fianco degli americani in battaglie che non avevano diritto di intraprendere. Lababiti si trovava proprio dentro la tana del leone. Il centro di Londra era intorno a lui; la City, dove risiedevano i banchieri che finanziavano l'oppressione; le gallerie d'arte, i musei e i quartieri dei teatri erano tutti lì vicino. E così il numero 10 di Downing Street, il Parlamento e Buckingham Palace. Il palazzo. La residenza della regina, antico simbolo di tutto ciò che egli disprezzava. La pompa e lo sfarzo, il cerimoniale e il sussiego. Ben presto ogni cosa sarebbe bruciata sotto i fuochi della spada dell'Islam, e quando l'incendio fosse finito il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Strappato il cuore alla bestia, il suolo consacrato grondante storia sarebbe diventato una distesa arida dove la vita degli uomini non avrebbe più avuto alcuno scopo. Lababiti si accese una sigaretta.
Non doveva aspettare a lungo. Prima della fine di quel giorno il giovane guerriero yemenita che aveva accettato di portare il carico esplosivo sul bersaglio sarebbe arrivato in città. Lababiti gli avrebbe dato da mangiare e da bere a volontà, procurato prostitute e hashish e gustosi piaceri. Non poteva fare di meno per un uomo pronto a dedicarsi alla causa con il sacrificio della propria vita. Una volta che il ragazzo si fosse ambientato e avesse imparato il percorso, Lababiti si sarebbe affrettato a sparire. Il segreto della leadership, pensava, non era morire per il proprio Paese, bensì far morire un altro per il suo. E Nebile Lababiti non aveva la minima intenzione di diventare un martire lui stesso. Al momento dell'esplosione della bomba si sarebbe trovato al sicuro oltre la Manica, a Parigi. Si chiedeva soltanto come mai non avesse avuto notizie da parte di alKhalifa. «Non so come abbiamo potuto farcelo sfuggire», disse Rodgers. «Non importa», rispose Meadows. «Adesso avete un numero di targa del furgone. Rintracciatelo e la bomba sarà vicina.» «Posso avere il nastro?» domandò Rodgers. Meadows non rivelò che aveva chiesto allo scrittore di farne due copie, di cui una si trovava al sicuro nella Range Rover a prestito. «Certo», rispose. «Sì, la registrazione ci sarà utilissima», continuò Rodgers riaffermando la propria autorità. «Mi occuperò personalmente che il mio superiore notifichi al capo dei servizi segreti americani di elogiarla per il suo contributo.» Una chiara manifestazione del costante braccio di ferro tra persone e agenzie. Di certo Rodgers aveva ricevuto istruzioni dai suoi superiori che, qualsiasi cosa accadesse, l'MI5 doveva assolutamente arrogarsi il merito di avere recuperato la bomba. E, adesso che possedeva quello che pensava gli avrebbe permesso di recuperarla, cercava di spingere la Corporation nell'ombra. «Capisco», disse Seng. «Le spiace se teniamo la Range Rover qualche altro giorno?» «No, prego, fate pure.» «E vi spiacerebbe se facessimo qualche domanda al padrone del pub?» continuò Meadows. «Tanto per completare il nostro dossier e tutto quan-
to.» «L'abbiamo già torchiato per bene», esclamò Rodgers, riflettendo sulla richiesta per un momento. «Non vedo che male ci sia.» L'agente prese il cellulare per comunicare il numero di targa del furgone, poi fissò ansioso i due americani. «Grazie», disse Seng, facendo segno a Meadows di andare verso la Range Rover e lasciando solo Rodgers. L'uomo accennò a un saluto militare e poi compose un numero telefonico. Meadows aprì la portiera e si mise al volante intanto che Seng si infilava accanto a lui. «Perché gli hai dato il nastro?» gli domandò Seng quando le portiere furono chiuse. Meadows indicò la copia sul pavimento e, dopo avere avviato la Range Rover, eseguì una rapida inversione a U. «Andiamo a trovare il padrone del pub e vediamo che altro si può scoprire.» «Pensi anche tu quello che sto pensando io?» gli chiese Seng qualche minuto più tardi mentre l'auto si fermava davanti al bar. «Non so. Ha a che fare con la moto che si vedeva sul nastro?» «Io comunico alla Oregon il numero di targa», disse Seng, «mentre tu entri, va bene?» Meadows scese dalla Range Rover. «Che razza di memoria hai, accidenti.» Seng guardò nel palmo della mano, dove c'era un numero scarabocchiato a penna. Meadows chiuse la portiera e si avviò all'ingresso del pub. Gli alberi di St James's Park e di Green Park vicino a Buckingham Palace erano privi di foglie e l'erba addormentata era ricoperta di una spessa brina. I turisti ammiravano il cambio della guardia con il fiato che gli si condensava quando usciva dalla bocca. Un uomo a bordo di uno scooter venne da Piccadilly, svoltò in Grosvenor Place e lentamente superò il lago nei giardini di Buckingham Palace. Proseguendo girò in Buckingham Palace Road, dove la via si intersecava con Birdcage Walk. Accostando lungo il lago all'interno di St James's Park, registrò i tempi di percorrenza e le condizioni del traffico. Poi infilò il piccolo taccuino nella tasca della giacca e si allontanò.
Cabrillo sporse la testa dal finestrino della MG. Un'ora prima, quando si era lasciato alle spalle il Ben Nevis, la montagna più alta della Scozia e del Regno Unito, aveva recuperato terreno sul furgone. Ma adesso che la MG si arrampicava a fatica sui Grampiani, il furgone aveva ricominciato a distanziarlo. C'era bisogno di un intervento esterno. E presto. Da un momento all'altro Cabrillo si aspettava di vedere Adams sul Robinson, l'esercito o l'aeronautica britannica, addirittura un'auto della polizia. Era sicuro che la Oregon gli stesse mandando rinforzi; era disarmato, all'inseguimento su un'auto che non ce la faceva. Di certo oramai qualcuno era riuscito a capire dove si trovava. A bordo della Oregon il problema veniva affrontato con parziale successo. La nave era ancora a un centinaio di miglia da capo Kinnaird, diretta a sud a tutto vapore. Ancora poche ore e sarebbe stata al largo di Aberdeen; qualche tempo dopo avrebbe passato un altro punto della bussola portandosi al largo di Edimburgo. «Okay», gridò Kasim a Hanley dall'altro lato della sala controllo. «Adams ci fa sapere che ha abbastanza carburante a bordo per arrivare all'aeroporto di Inverness. E poi riempirà di nuovo le taniche e farà rotta a sud seguendo la strada.» «Che autonomia avrà?» si informò Hanley. «Un momento», disse Kasim ripetendo la domanda a Adams. «Potrà volare su quasi tutta l'Inghilterra. Ma non ce la farà a raggiungere Londra senza un nuovo rifornimento.» «Dovremmo essere riusciti a sistemare la cosa prima di allora», osservò Hanley. «Okay... Adams comunica che il motore sta andando.» «Digli di seguire la strada finché non trova Cabrillo.» Kasim ripeté gli ordini. «George fa sapere che la nebbia è fitta come un cappotto ma che riuscirà a volare proprio sopra la strada.» «Bene», disse Hanley. Linda Ross si avvicinò alla sua poltrona. «Capo, io e Stone abbiamo rielaborato le frequenze sulle microspie del meteorite. Adesso ci arriva un segnale più completo.» «Quale monitor?»
Ross indicò quello sulla parete opposta. Il meteorite era quasi a Stirling. Presto l'autista del furgone avrebbe segnalato le proprie intenzioni con una deviazione. A ovest verso Glasgow o a est verso Edimburgo. «Chiamami Overholt», disse Hanley a Stone. Qualche secondo più tardi Overholt era in linea. «Chiederò agli inglesi di bloccare le strade fuori Glasgow e Edimburgo», disse Overholt, «e di perquisire tutti i furgoni.» «È una fortuna che non ci siano molte arterie di comunicazione», osservò Hanley. «Dovrebbero riuscire ad acciuffarlo.» «Speriamo. Cambiando discorso, ho ricevuto una telefonata dal capo dell'MI5 che ringrazia Meadows e Seng del lavoro che stanno facendo per risolvere il problema dell'ordigno. A quanto pare Meadows ha trovato un nastro con un numero di targa che secondo loro li porterà alla bomba.» «Sono contento», disse Hanley. Overholt si interruppe un istante prima di riprendere a parlare. «Ufficialmente hanno chiesto pure che i vostri uomini facciano un passo indietro, adesso: vogliono essere loro a gestire la cosa.» «Lo farò sapere a Meadows e Seng quando chiamano.» «Be', Max», rispose Overholt, «se fossi in lei non avrei questa gran fretta di prendere la telefonata.» «Capisco dove vuole andare a parare, signor Overholt.». Hanley riappese e si rivolse a Stone: «Overholt dice che gli inglesi vogliono che Meadows e Seng si tirino indietro, lasciando loro a occuparsi della bomba sparita». «Se me lo avesse detto! I ragazzi mi hanno appena telefonato per farmi cercare una targa di moto britannica.» «Hai localizzato il proprietario?» «Nome e indirizzo», rispose Stone. «Di che altro avevano bisogno?» «Ho faxato un po' di dossier al portatile di Meadows. La linea di terra che ha usato era un numero che nell'elenco telefonico compare sotto il nome di Pub'n Grub, sull'isola di Sheppey.» Meadows aveva imparato tanti anni prima che le minacce funzionano soltanto quando qualcuno ha qualcosa da perdere. L'agente dell'MI5 e la polizia locale avevano fatto presente al proprietario del pub cosa poteva
accadergli se non collaborava. Avevano dimenticato di prospettargli che cosa gli sarebbe successo se avesse collaborato. È facile attirare le api con il miele. Per avere informazioni i soldi funzionano meglio. «Orologio d'oro, eh», stava dicendo Meadows mentre Seng entrava nel pub e faceva cenno di sì con la testa. «Piaget, edizione limitata», rispose il padrone del locale. Meadows fece scivolare sul bancone delle banconote da cinquecento dollari, mentre Seng si avvicinava e si metteva a sedere. «Cosa bevi?» gli domandò il collega. «Black and tan», rispose Seng senza esitare. Il proprietario si allontanò per preparare il misto di birre. Meadows si chinò. «Quanto hai in contanti?» sussurrò all'orecchio di Seng. «Dieci», rispose Eddie, intendendo diecimila. Meadows annuì e girò il computer in maniera che sia lui sia il padrone del pub potessero vedere lo schermo. «Adesso per cinquemila dollari, e il nostro più sentito grazie, farò passare delle fotografie. Se riconosce l'uomo che era con il comandante della nave me lo dica e io mi fermo.» Il padrone del pub fece segno di sì e Meadows cominciò a mostrare le fotografie dei complici noti di al-Khalifa. Ne erano state visionate più di dodici prima che l'uomo gridasse di fermarsi. Si mise a fissare intensamente lo schermo. «Quello, credo», disse infine. Meadows girò verso di sé il computer così che il gestore non vedesse. Poi aprì il file che mostrava le abitudini della persona raffigurata. «Fumava?» chiese. Il suo interlocutore ci pensò per un secondo. «Sì, fumava.» «Ricorda che marca?» continuò Meadows indicando a Seng l'informazione come se fossero occupati con un gioco da tavolo e non con una questione di vita o di morte. «Oh, accidenti», esclamò il padrone del bar, pensoso. Meadows indicò la riga che diceva che Lababiti aveva un Piaget d'oro. «Ah, ecco!» gridò l'uomo. «Morelands... e aveva un accendino d'argento di gran lusso.» Bob richiuse il portatile e si alzò. «Paga questo signore», disse a Seng. Seng infilò la mano nella tasca della giacca e tirò fuori un rotolo di banconote, poi ruppe il sigillo di carta. Ne contò cinquanta e le consegnò al padrone del locale. «Bob!...» gridò a Meadows che aveva quasi raggiunto
la porta. «Verifica per me.» «Gliene hai dati cinquemila, debitamente segnati.» 33 La Oregon filava attraverso il mare del Nord come una balena lanciata a tutta velocità. Nella sala controllo, Hanley, Stone e Linda Ross tenevano lo sguardo fisso sul monitor che indicava la posizione del meteorite. I segnali si erano uniformati da quando avevano sistemato la frequenza. Al di fuori delle occasionali distorsioni che si verificavano quando le spie del meteorite passavano accanto a linee elettriche ad alta tensione, finalmente ricevevano un'immagine chiara. «L'aereo anfibio è appena sceso nel Firth of Forth», osservò Stone lanciando un'occhiata a un altro schermo. «C'è troppa nebbia per poter localizzare il signor Cabrillo.» «Digli di stare a disposizione», ordinò Hanley. Stone comunicò il messaggio via radio. Hanley chiamò Overholt sulla linea sicura. «Il furgone ha puntato verso Edimburgo», lo informò. «Gli inglesi hanno circondato il centro storico e anche le statali che portano a sud», rispose Overholt. «Se si dirigono verso Londra, li abbiamo.» «Era ora», ribatté Hanley. L'autista del furgone chiuse la comunicazione e si girò verso il compagno. «C'è stato un cambiamento nei piani», dichiarò disinvolto. «La flessibilità è la chiave del successo... nel sesso come nel furto», rispose il passeggero. «Dove siamo diretti?» L'autista glielo disse. «Allora sarebbe meglio girare a sinistra qua sopra», rispose l'altro consultando la cartina. Cabrillo continuava a guidare, inseguendo il furgone con il rilevatore di radioattività a distanza. Erano passati circa venti minuti da quando lo aveva avvistato, ma una volta raggiunta la serie di paesini attorno a Edimburgo si era messo ad accelerare e stava recuperando lo svantaggio. Distogliendo gli occhi dalla scatola di metallo osservò la campagna. La nebbia era fitta sulla strada, fiancheggiata di muretti divisori costruiti con pietre e massi; gli alberi, nudi e spogli, sembravano veri e propri sche-
letri su un fondale grigio. Un paio di minuti prima Cabrillo aveva adocchiato il Firth of Forth, l'insenatura nella quale il mare del Nord penetra nella Scozia. L'acqua era nera e agitata e l'arco del ponte sospeso sulla riva si distingueva a stento. Schiacciando sul pedale dell'acceleratore guardò di nuovo la scatola. Il segnale si avvicinava sempre più a ogni secondo. «Mi è stato ordinato di farla scendere qui e di filarmela», stava dicendo l'autista del furgone. «Qualcuno le verrà incontro.» Rallentò davanti alla stazione ferroviaria di Inverkeithing, poi si fermò vicino a un portabagagli con un carrello. «C'è altro?» chiese il passeggero mentre apriva la portiera. «No. Buona fortuna.» L'uomo scese sul marciapiede e fece un cenno con la mano. «Qui. Ho qualcosa da caricare.» Il facchino avvicinò il carrello. «Ce l'ha già il biglietto?» «No.» «Dov'è il bagaglio?» Il passeggero del furgone aprì il retro e indicò la scatola. L'altro si chinò per sollevarla. «È pesante», esclamò. «Che cosa contiene?» «Strumentazione speciale per testare giacimenti petroliferi. Dunque faccia attenzione.» Il facchino sistemò la scatola sul carrello e si tirò su diritto. «Meglio che entri a comprare il biglietto. Il treno parte fra cinque minuti. Dove è diretto?» «Londra», rispose l'altro avviandosi alla porta della stazione. «La aspetto al treno.» Mentre il meteorite veniva spinto sul carrello dentro la stazione, l'autista del furgone svoltava a sinistra per uscire dalla stazione di Inverkeithing. Aveva percorso solo qualche chilometro in direzione di Edimburgo che il traffico iniziò a rallentare. C'era un ingorgo più avanti. Guardò in fondo alla strada per cercare di capire quale fosse il problema. Sembrava un posto di blocco. Avanzò con il motore al minimo. «Vai, adesso», disse Hanley alla radio, rivolto al pilota dell'aereo anfi-
bio. L'uomo finì di attaccare con lo scotch un biglietto al pesante thermos del caffè, poi spinse avanti le leve dell'acceleratore. L'aereo iniziò a rullare sobbalzando e traballando sull'acqua increspata. Poi, con una sbandata, si sollevò. Il pilota cercava di volare più in basso che gli era possibile. Fissava il suolo per scorgere qualche traccia della strana auto che Hanley gli aveva descritto. Era a neanche un metro dai fili dell'elettricità, quando trovò la strada che stava cercando. Il segnale non c'era più. Il problema era che Cabrillo non aveva una mappa della zona, pertanto la sua unica speranza era girare in cerchio. «Ultima chiamata per il treno numero ventisette per Londra», annunciò l'altoparlante. «Tutti i passeggeri salgano a bordo.» «Ho solo dollari americani. Venti sono abbastanza?» «Va benissimo, signore», rispose il portabagagli. «Mi lasci sistemare il contenitore nel suo scompartimento.» Il facchino salì sul treno, individuò lo scompartimento e aprì la porta; poi sistemò la scatola con il meteorite sul pavimento e, una volta uscito, il passeggero del furgone, ancora con il biglietto in mano, entrò a sua volta. «Qual è la tabella di marcia?» gridò Hanley a Stone. «C'è un treno in partenza per Londra proprio adesso», rispose Stone osservando il suo computer. «Fammi vedere il percorso», ordinò Hanley. «Mi sto avvicinando a Edimburgo», comunicò Adams via radio. «Ancora nessun segno del signor Cabrillo.» «Stai attento se avvisti un idrovolante», gli rispose Hanley. «Ricevuto.» «Sarà meglio che la mia auto non riporti danni», disse Shea a Adams attraverso la cuffia. «Non si preoccupi», rispose George, «anche se è successo qualcosa, la mia società sistemerà tutto.» «Sarà meglio.» «Lei tenga gli occhi a terra per individuarla.» A bordo della Oregon Hanley prese la radio e chiamò l'aereo anfibio.
«Mi sembra di vederlo», disse il pilota. «Aggiungi al messaggio le parole TRENO PER LONDRA», spiegò Hanley, «e ADAMS STA ARRIVANDO, poi sorvola a bassa quota ed effettua il lancio.» «Capito tutto», rispose il pilota. Scribacchiando la frase in più sul messaggio con un pennarello, si piegò in mezzo ai fili della corrente elettrica e passò direttamente sopra Cabrillo nella MG a dieci piedi di quota. «Che diav...» esclamò Cabrillo mentre la poppa dell'idrovolante gli appariva nel parabrezza. Il pilota agitò le ali, accelerò allontanandosi di un poco e poi compì un'ampia virata preparandosi a un altro passaggio. Non appena Cabrillo vide la fiancata durante l'inversione di rotta, riconobbe che l'aereo apparteneva alla Corporation e accostò sul ciglio della strada. Abbassò la capote, allungò il collo fuori per guardarsi attorno e sopra la testa. L'idrovolante stava ritornando indietro e arrivava basso e lentamente. E quando ebbe quasi raggiunto l'auto, Cabrillo vide un oggetto allungato che volava fuori dal finestrino e rimbalzava sull'asfalto. Il thermos rotolò per un tratto sino a fermarsi tre metri davanti alla MG. Cabrillo balzò fuori dall'auto e corse a prenderlo. «Idrovolante 8746», riferiva il controllore aereo di Edimburgo, «state in allerta per la presenza di un elicottero nelle immediate vicinanze.» Il pilota dell'idrovolante della Corporation stava uscendo dalla ripida virata in salita e impiegò un istante a rispondere. «Torre di controllo. Idrovolante 8746, elicottero in zona, prego indicare modello.» «Idrovolante 8746, modello Robinson R44.» «Idrovolante 8746, lo vedo.» «Gli inglesi hanno fatto circondare il furgone», diceva Overholt a Hanley. «Credo che abbiano trasferito il meteorite sul treno per Londra», lo informò Hanley. «Ha voglia di scherzare», ribatté Overholt esasperato. «Dovrò chiamare il capo dell'MI5 e riferirglielo. Quale treno?» «Non siamo ancora sicuri, ma il prossimo in partenza è per Londra.» «La richiamo», disse Overholt buttando giù il telefono.
Qualche secondo più tardi, però, Overholt ricevette un'altra telefonata: e questa volta era il presidente. Il pilota dell'idrovolante contattò Adams alla radio. «Seguimi e ti porto dritto da lui.» «Vai avanti.» Piegandosi in una virata, l'idrovolante si allineò sopra la strada e iniziò un altro passaggio. Il Robinson lo seguiva a ruota. «Eccola là», gridò Shea vedendo la sua MG profilarsi all'orizzonte. Adams guardò in basso. Vedendo che il capo era sceso dall'auto e stava tornando sui propri passi, atterrò con l'elicottero in un campo sul lato opposto della strada lasciando il motore in folle. Cabrillo corse verso di lui con un thermos e il telefono satellitare infilati sottobraccio. Aprì la portiera del passeggero e sistemò i due oggetti sul retro. Shea stava armeggiando con la cintura di sicurezza. Cabrillo la slacciò e lo aiutò a scendere. «Le chiavi sono nell'auto», gli gridò per sovrastare il rumore del motore e delle pale. «La contatteremo presto per pagarle il noleggio.» Poi scivolò sul sedile del Robinson e chiuse il portello. Shea abbassò la testa e si allontanò dal rotore dell'elicottero. Quindi attraversò la strada e si avvicinò alla sua preziosa MG. Iniziò a ispezionarla mentre Adams decollava. All'infuori del serbatoio quasi vuoto, l'auto sembrava a posto. Adams era a centocinquanta piedi di altitudine quando Cabrillo si mise a parlare. «Il mio telefono è morto», disse nelle cuffie. «L'abbiamo immaginato. Crediamo che abbiano spostato il meteorite sul treno.» «Oramai questo messaggio è inutile», osservò Cabrillo strappando il pezzo di carta attaccato al thermos. «C'è dentro del caffè?» chiese Adams. «Me ne berrei una tazza.» «Anch'io», disse Cabrillo mentre svitava il coperchio e il vapore usciva. 34 «Capisco, signor primo ministro», disse il presidente degli Stati Uniti. «Li farò avvertire immediatamente.» Riattaccò e chiamò il suo segretario. «Trovami Langston Overholt alla CIA.» Poi si sedette comodo ad aspettare che lo mettessero in comunicazione. «Sì, signor presidente», esordì Overholt quando fu in linea.
«Ho appena parlato con il primo ministro britannico. Non erano molto contenti. Sembra che lei e la Corporation li abbiate fatti correre in su e in giù per la loro isoletta in quello che il primo ministro ha definito 'un vagabondare senza capo né coda e una serie di colpi a vuoto'. Il primo ministro ha ordinato il blocco delle strade che portano in due città della Scozia e adesso hanno perquisito il furgone che a suo dire conteneva il meteorite e l'hanno trovato vuoto. Vogliono che la Corporation si faccia indietro e lasci che siano loro a occuparsi della faccenda.» «Signor presidente, credo che sarebbe un errore molto grave a questo punto. Cabrillo e i suoi si sono trovati in una situazione difficile. In primo luogo si sono appiccicati al meteorite scomparso come colla sulla carta. Non l'hanno ancora recuperato, ma non l'hanno neppure perso. In secondo luogo hanno rintracciato un movimento verso un treno diretto a Londra; Cabrillo è di nuovo in volo, e si prepara a intercettarlo.» «Dia queste informazioni all'MI5, e lasci che siano loro a occuparsene.» Overholt tacque un istante prima di parlare. «Abbiamo ancora in circolazione la bomba ucraina. La Corporation ha una squadra vicino a Londra che la sta cercando... possono procedere in quella direzione?» «Sono stati gli ucraini ad assumere la Corporation per questo lavoro», osservò il presidente, «e non un'agenzia del governo degli Stati Uniti. Non vedo come possa essere in nostro potere ordinare loro di lasciar perdere.» «Ho chiesto all'MI5 di collaborare con loro. In certo modo questo avalla la posizione della Corporation.» Il presidente rifletté prima di rispondere. Poi disse lentamente: «Il primo ministro non ha fatto riferimento specifico all'ordigno mancante. Era più preoccupato di quello che succede in Scozia». «Sì, signore.» «Dunque dica che continuino la ricerca. Se riescono a recuperare l'ordigno la minaccia di una bomba sporca combinata con il meteorite è vanificata.» «Credo di capire che cosa intende.» «Procedere con la massima cautela e che si muovano con discrezione.» «Ha la mia parola, signore», ribatté Overholt mentre la comunicazione si chiudeva. Adams sorvolava il treno numero ventisette standogli in coda. Si stava avvicinando il più possibile per permettere a Cabrillo di saltare sul tetto, quando Hanley li raggiunse via radio.
«È arrivato ordine di lasciar perdere. Gli inglesi intendono intercettare il treno in una zona remota lungo la costa nei pressi di Middlesbrough.» «Siamo proprio qui, Max...» protestò Cabrillo. «Altri cinque minuti e sarò all'interno del treno a cercare il meteorite.» «L'ordine viene direttamente dal presidente, Juan. Se ce ne infischiamo di una direttiva presidenziale, ho idea che non ci sarà più lavoro per noi da parte dello Studio Ovale. Mi dispiace, ma, dal punto di vista di ciò che è bene per la compagnia, in questo momento non vale proprio la pena.» Sentita la conversazione, Adams aveva cominciato a rallentare il Robinson, restando tuttavia vicino ai binari nel caso che Cabrillo volesse continuare. Gli lanciò un'occhiata e scrollò le spalle. «Andiamo, George», disse Cabrillo in cuffia. Adams spostò il ciclico e l'elicottero si allontanò dai binari della ferrovia sorvolando i campi e salendo fino a raggiungere una quota di sicurezza. «E va bene, hai ragione tu», rispose Cabrillo con voce stanca. «Immagino che sia bene farci dare la vostra posizione, così Adams può riportarci tutti sulla nave.» «Stiamo passando al largo di Edimburgo e siamo diretti a sud a tutta velocità», gli spiegò Hanley, «ma se fossi in te chiederei a Adams di mettermi giù a Londra. Ho detto a Seng e a Meadows di andarci, e hanno tirato fuori delle piste interessanti relativamente alla bomba nucleare scomparsa.» «Possiamo ancora occuparcene, di quella?» chiese Cabrillo. «Fino a contrordine, sì.» «E così la Corporation recupera la bomba», rifletté lentamente Cabrillo, «mentre gli inglesi si occupano del nostro meteorite. Sembra un passo indietro.» «Un passo indietro è tutto quello che si può fare in questo momento», osservò Hanley. Sul ponte fradicio di pioggia del traghetto in partenza da Goteborg, in Svezia, per Newcastle upon Tyne, Roger Lassiter stava parlando a un telefono satellitare. Lassiter aveva lavorato per la CIA prima di essere fatto fuori qualche anno prima in seguito alla denuncia di cospicui ammanchi da conti bancari nelle Filippine. Il denaro doveva servire a pagare tangenti in loco in cambio di informazioni sui gruppi terroristi islamici attivi nelle province meridionali. Lassiter aveva perso i soldi giocando d'azzardo in un casinò di Hong Kong.
Una volta licenziato, all'agenzia avevano scoperto altre cose sul suo conto. Lassiter non disdegnava di impiegare la tortura non autorizzata, di appropriarsi indebitamente di risorse americane per il proprio profitto personale e di fare apertamente ricorso a frode e dolo. Aveva lavorato in zone poco controllate dalla CIA e aveva abusato di tale privilegio fino al limite estremo e oltre. Di lui si diceva pure che facesse il doppio gioco per la Cina, tuttavia una volta che lo avevano licenziato le indagini si erano fermate. Lassiter ora risiedeva in Svizzera, ma offriva le sue prestazioni al miglior offerente. In Svezia aveva sottratto i progetti di un imprenditore del settore navale, inventore di un sistema di propulsione rivoluzionario; per il furto era stato assoldato da un gruppo malese e il luogo di consegna doveva essere Londra. «Sì», diceva Lassiter. «Mi ricordo di averle parlato. Non era sicuro di aver bisogno di me.» In quel momento lo Hawker 800XP stava arrivando in New Jersey, dove avrebbe fatto rifornimento per il viaggio al di là dell'Atlantico. Mentre viaggiava, Hickman pensava a fare piani. «E invece pare proprio che sia così.» «Che cosa devo fare?» chiese Lassiter lanciando un'occhiataccia a un turista che lo aveva superato sul ponte. L'uomo tornò dentro. «Prelevare un pacco e portarlo a Londra per me.» «Questo mi porta di molto fuori strada», disse Lassiter. «Non stando a quel che riferisce il mio uomo che l'ha seguita in Svezia. Accennava al fatto che è salito sul traghetto diretto alla costa orientale d'Inghilterra qualche ora fa. Si trattava forse di qualcun altro?» Lassiter non si prese la briga di rispondere. Quando due impostori fanno conversazione la brevità è essenziale. «Dov'è il pacco?» «Deve ritirarlo alla stazione ferroviaria», spiegò Hickman. «Sarà in un armadietto.» «Vuole che lo porti a destinazione in aereo o in auto?» «In auto», disse Hickman. «Allora si tratta di qualcosa che non può passare un controllo ai raggi X», osservò Lassiter. «Questo aumenta il rischio.» «Cinquantamila alla consegna», replicò Hickman. «Metà adesso e metà a operazione conclusa.»
«Un terzo e due terzi», precisò Hickman. «Voglio essere sicuro che la consegna avvenga puntualmente.» Lassiter ci pensò un attimo. «Quando prendo il primo terzo?» «Posso provvedere subito. Qual è il suo conto?» Lassiter snocciolò il numero di un conto nelle isole del Canale. «Non posso verificare l'avvenuto pagamento fino a domani mattina. Posso fidarmi di lei?» «Mentre arriva a Londra domani mattina potrà chiamare la sua banca. Così saprà che è stato pagato prima della consegna.» «E per gli altri due terzi come farò?» «Glieli consegnerò io personalmente», rispose Hickman. «Non mi dica che lascia la sabbia e il sole per le nebbiose Isole britanniche», scherzò Lassiter. «Deve essere una cosa grossa.» «Lei si occupi della sua parte che io mi occupo della mia.» «Abbiamo intercettato una comunicazione britannica», disse Hickman all'uomo sul treno. «Vi fermeranno a Middlesbrough.» «Allora sono al corrente?» chiese l'uomo. «Hanno preso il suo collega mentre entrava a Edimburgo», rispose Hickman. «L'avrà tradita.» L'uomo ci pensò un momento. «Ne dubito. Quanto meno non così presto. Ci deve essere qualcun altro che ci sta alle calcagna.» Hickman non gli parlò dell'irruzione nel suo ufficio. Meno sapeva, meglio era. Fino ad allora aveva perso la squadra del Free Enterprise oltre agli uomini che aveva in Inghilterra. Hickman stava esaurendo le frecce al suo arco. E avrebbe avuto bisogno dell'uomo a Maidenhead. «Comunque stiano le cose, mi sono occupato della questione», continuò Hickman. «Lei scende dal treno a Newcastle upon Tyne e sistema la scatola in un armadietto. Poi va nel bagno più vicino e piazza la chiave dell'armadietto nella cassetta dello sciacquone più lontana dalla porta. Ho fatto in modo che qualcuno passi a prendere il contenitore e porti a termine la consegna.» «Io allora cosa dovrei fare?» chiese l'uomo guardando fuori dal finestrino. Il cartello diceva BEDLINGTON. Era a una cinquantina di chilometri dalla sua nuova fermata. «Raggiunga questo posto a Maidenhead con un'auto a noleggio», gli spiegò Hickman leggendo ad alta voce un indirizzo. «E si incontri con il resto della squadra in arrivo da Calais.»
«Mi sembra perfetto», osservò l'uomo. «Lo sarà.» Mentre Adams e Cabrillo volavano verso Londra, la Oregon attraversava il cinquantacinquesimo grado di latitudine, al largo di Newcastle upon Tyne. Nel suo ufficio Michael Halpert stava esaminando una pila di documenti che aveva stampato dai file inviatigli da Truitt. Mentre sottolineava alcune frasi con un evidenziatore giallo, uno dei computer dell'ufficio emise un segnale e la stampante si avviò. Halpert aspettò che il documento fosse uscito per intero, poi lo prese e lo lesse. Le foto rubate da Truitt avevano trovato una corrispondenza nel database dell'esercito USA. Il volto apparteneva a un certo Christopher Hunt di Beverly Hills, California. Hunt era stato un ufficiale dell'esercito americano ucciso in Afghanistan. Perché Halifax Hickman doveva tenere la fotografia di un soldato morto nel suo ufficio? Che legame poteva esistere con il furto del meteorite? Halpert decise di scavare più a fondo prima di contattare Hanley. Nebile Lababiti fissava con gioia la bomba, inondata dal fascio di luce di una torcia. Era appoggiata sul pavimento di un ufficio che era pure showroom al pianoterra, sotto il suo appartamento sullo Strand. L'ufficio era vuoto da qualche mese e Lababiti aveva scassinato la serratura la settimana prima, poi l'aveva cambiata e adesso ne possedeva l'unica chiave. A patto che nessuno volesse far visitare l'ufficio nei giorni immediatamente successivi, la cosa era sistemata. Lo showroom disponeva di una porta basculante per le consegne. Lo spazio era ideale per caricare la bomba su un veicolo in vista della corsa fino al parco. Un po' in disparte, ma con un'uscita rapida. Tutti i pezzi andavano al loro posto, pensò. Spense la torcia e scivolò fuori dall'ufficio, poi attraversò la strada e raggiunse un pub vicino all'hotel Savoy. Lì, dopo avere ordinato una birra, si mise a sognare di morte e distruzione. 35 La data era il 30 dicembre 2005. Bob Meadows e Eddie Seng procedevano sulla strada per Londra. Il traffico era intenso e l'asfalto scivoloso di
pioggia. Seng sintonizzò la radio per sentire le previsioni del tempo, poi ascoltò il meteorologo che forniva un resoconto dettagliato. Nella penombra il cruscotto della Range Rover era illuminato, e il climatizzatore soffiava aria calda. Seng spense la radio. «Pioggia con tendenza a diventare nevischio nella prossima ora», disse. «Come si fa a viverci, qui?» «È triste, di sicuro», gli rispose Meadows, mentre guardava l'oscurità sempre più fitta. «Ma la gente è sorprendentemente ottimista.» Seng ignorò il commento. «Traffico del venerdì sera. La gente andrà a Londra per gli spettacoli o cose simili.» «Mi stupisce che il signor Hanley non abbia ancora richiamato», osservò Meadows. Dopo che lui e Seng erano usciti dal pub, Meadows aveva chiamato per riferire ciò che avevano scoperto. «Probabile che in questo momento la Oregon navighi in acque agitate», ribatté Seng mentre si metteva a passo d'uomo in coda a una fila d'auto allungata per chilometri e chilometri. Faceva freddo nel mare del Nord, ma le acque non erano così tempestose come avrebbero potuto essere. La perturbazione che avanzava da nord teneva calmo il mare e, all'infuori di una diminuzione di dieci gradi nella temperatura nell'ultima ora, l'equipaggio della Oregon aveva notato ben pochi cambiamenti. Sottocoperta, nel suo Magic Shop, Kevin Nixon, in effetti, aveva caldo. Da qualche giorno stava lavorando sul telefono satellitare di al-Khalifa che avevano recuperato. L'apparecchio era rimasto immerso nell'acqua marina quando il corpo era stato gettato fuoribordo ma, dal momento che le sorgenti termali avevano gonfiato rapidamente il cadavere che era affiorato in superficie con il telefono ancora infilato in tasca, le parti interne non avevano subito un processo di corrosione irreparabile. Nixon aveva smontato l'apparecchio e lo aveva pulito alla perfezione. Ma dopo il riassemblaggio non funzionava ancora. A quel punto aveva deciso di scaldare i pannelli dei circuiti in un piccolo tostapane per essere certo di eliminare ogni minima traccia di umidità. Poi, con pinze da chirurgo, aveva cautamente rimosso le parti dall'elettrodomestico e ricostruito il telefono, dotandolo di una batteria appena ricaricata. L'apparecchio si era acceso e sul display lampeggiavano i messaggi. Nixon sorrise e prese l'interfono.
Hanley e Stone lavoravano alle informazioni di Seng e Meadows. Erano riusciti a introdursi nel Registro britannico dei veicoli a motore e a trovare un nome e un indirizzo corrispondenti alla targa della motocicletta. Avevano inserito le informazioni su Nebile Lababiti in diversi database e individuato i dati bancari e quelli relativi al suo visto turistico. Stone stava effettuando una serie di controlli incrociati in quel momento. «Gli assegni con i quali pagava l'affitto non corrispondono all'indirizzo che ha dato al controllo passaporti», osservò Stone. «Ho digitato il nome del condominio scritto sugli assegni dell'affitto in un programma di rilevamento e ho trovato il posto. Al controllo passaporti, però, Lababiti ha detto di abitare nella zona di Belgravia. Il palazzo dove paga l'affitto dista qualche chilometro da lì, è vicino allo Strand.» «Lo conosco, lo Strand», esclamò Hanley. «L'ultima volta che sono stato a Londra ho mangiato in un ristorante sullo Strand. Si chiama Simpson's.» «Si mangia bene?» chiese Stone. «È in esercizio dal 1828. Non resti in attività così a lungo se il cibo non è buono. Roast beef, montone, ottimi dessert.» «E la via, lo Strand, com'è?» «Affollata. Hotel, ristoranti, teatri. Non è il posto ideale per un'operazione segreta.» «Però mi sembra il posto ideale per un attentato terroristico.» Hanley annuì. «Trovami l'eliporto più vicino», esclamò. «Subito.» Poi l'interfono si mise a suonare. Era Nixon che chiedeva a Hanley di scendere nel Magic Shop. Lababiti aveva finito due pinte di birra e un doppio cicchetto di schnaps alla menta. Guardò l'orologio d'oro e poi fumò una sigaretta. Quando ebbe finito schiacciò il mozzicone nel posacenere, gettò qualche banconota al barista e uscì. Lo yemenita che doveva portare la bomba in loco sarebbe arrivato in autobus dall'aeroporto nel giro di qualche minuto. Lababiti trovò la fermata subito in fondo alla strada, si appoggiò al muro e fumò un'altra sigaretta intanto che aspettava. Londra pulsava dell'allegria di fine anno. Le vetrine erano decorate e la gente affollava le strade; la maggior parte degli hotel era al completo dal momento che i visitatori arrivavano a Londra per le celebrazioni del capo-
danno. C'era un concerto di Elton John in programma a Hyde Park. E sia in Green Park sia in St James's Park, vicino a Buckingham Palace, gli alberi erano stati adornati con migliaia di luci colorate. Le vie di accesso a Hyde Park sarebbero state chiuse e, in occasione della gigantesca festa, avrebbero allestito lungo le strade punti di ristoro, pub provvisori e gabinetti. Dalle chiatte ancorate nel Tamigi sarebbero stati lanciati i fuochi d'artificio per accendere il cielo. Lababiti sorrise a un pensiero segreto. Avrebbe pensato lui a fornire il botto più potente e, una volta sparato, la celebrazione e tutti gli invitati non sarebbero più esistiti. Il bus accostò e il terrorista attese che scaricasse i passeggeri. Il terrorista yemenita non era che un ragazzino, e appariva impaurito e confuso dal contesto così insolito. Fece capolino timidamente dal bus dopo che quasi tutti gli altri erano usciti, con una valigia da poco prezzo stretta fra le mani. Indossava un soprabito di lana nero male in arnese, che di sicuro aveva comprato usato. La sottile ombra di baffi che non avrebbero mai avuto il tempo di svilupparsi gli adornava il labbro superiore come il segno lasciato da una tazza di cioccolata. «Sono Nebile», disse Lababiti avanzando verso di lui. «Amad», rispose a bassa voce il ragazzino. Lababiti lo guidò per la strada verso il suo appartamento. Avevano mandato un bambino per un lavoro da uomini. Ma a lui non importava, non era neppure da pensare che lo avrebbe fatto lui stesso. «Hai mangiato?» gli chiese quando si furono allontanati dalla folla. «Qualche fico», rispose Amad. «Mettiamo i bagagli nel mio appartamento e poi ti faccio vedere.» Amad si limitò ad annuire. Tremava visibilmente e le parole non gli volevano uscire di bocca. Hanley ascoltò i messaggi di al-Khalifa e poi li salvò. «Il suo campione vocale è breve», osservò. «Può darsi che sia sufficiente», disse Nixon. «Allora lavoraci su.» «Bene, capo.» Uscito dal Magic Shop Hanley prese l'ascensore, percorse il corridoio ed entrò nella sala controllo. Stone indicava uno schermo che mostrava una mappa del centro di Londra. «Possiamo metterli proprio là», disse. «Battersea Park.»
«Quanto dista da Belgravia e dallo Strand?» chiese Hanley. «L'eliporto è costruito su piloni sopra il Tamigi, fra Chelsea Bridge a est e Albert Bridge a ovest. Se attraversano Albert Bridge a Queenstown Road sono a Belgravia. E da lì allo Strand è una passeggiata.» «Splendido», esclamò Hanley. Meadows rispose al primo squillo. «Vai a Battersea Park», ordinò Hanley senza preamboli. «C'è un eliporto sul Tamigi. Cabrillo arriverà fra poco con il Robinson.» «Ha prenotato l'hotel?» «Non ancora, ma riserverò diverse stanze al Savoy», rispose Hanley. «Così ha localizzato il nostro uomo?» «Crediamo di sì. Dovrebbe trovarsi proprio dall'altro lato della strada.» «Perfetto», ribatté Meadows chiudendo la comunicazione. Hanley poi chiamò Cabrillo per riferirgli. Dopo avergli dato i numeri per localizzare l'eliporto, gli spiegò che Meadows e Seng sarebbero stati là ad attenderlo. «George dovrà sistemare l'elicottero a Heathrow», disse Cabrillo. «Sono sicuro che non ci permetteranno di lasciarlo sulla piattaforma di atterraggio.» «Provvederò.» «Ricordati anche di prenotargli un hotel. È stanco morto.» «Gliene troverò uno a un passo da Heathrow, vicino al Robinson», rispose Hanley. «Nient'altro?» chiese Cabrillo. «Nixon è riuscito a far funzionare il satellitare di al-Khalifa.» «È in grado di riprodurre la sua voce per chiamare i suoi contatti?» domandò ansiosamente Cabrillo. «Lo sapremo presto.» 36 Roger Lassiter era seduto su una panca davanti ai bagni della stazione ferroviaria di Newcastle. Erano venti minuti che sorvegliava la porta e le zone limitrofe. Sembrava che non ci fosse niente fuori posto. Aspettò che l'uomo che era appena entrato finisse e se ne andasse. Ora i gabinetti dovevano essere liberi. Si guardò attorno un'ultima volta ed entrò.
Si diresse all'ultimo scomparto e tolse il coperchio dalla cassetta dello sciacquone. La chiave dell'armadietto era all'interno. Con un gesto rapido, Lassiter la tolse e se la infilò in tasca. Poi si allontanò dai bagni e individuò l'armadietto. Dopo avere controllato la zona per un'altra mezz'ora senza trovare nulla che non andasse, aspettò che gli passasse accanto un facchino e gli fece segno con la mano. «Ho un'auto a nolo nel parcheggio», gli disse sorridendo e allungandogli una banconota da venti sterline. «Se mi trovo all'uscita, potrebbe portarmi fuori una scatola?» «Dov'è, signore?» chiese il facchino. Lassiter gli consegnò la chiave. «Là, in un armadietto.» Il portabagagli prese la chiave. «E l'auto? Quale devo cercare?» «Una Daimler berlina nera.» «Benissimo», gii rispose spingendo il carrello verso l'armadietto. Lassiter uscì dall'atrio della stazione e attraversò la strada per raggiungere il parcheggio. Se saliva in auto, l'avviava e nessuno gli impediva di uscire dal garage, era a posto. Se qualcuno lo avesse seguito, avrebbe fatto immediatamente la propria mossa. Non venne nessuno. Nessuno lo fermò. Nessuno sapeva. Dopo avere pagato la tariffa del parcheggio, Lassiter uscì e fece il giro per portarsi davanti alla stazione. Il portabagagli lo aspettava lungo il marciapiede con la scatola sul carrello. Lassiter accostò, poi azionò la serratura del cofano dall'interno. «La metta nel bagagliaio», disse abbassando il finestrino dal lato del passeggero. Il facchino sollevò la scatola e la depositò nel bagagliaio della Daimler, poi richiuse. Lassiter ingranò la marcia e partì. Il collegamento della CIA presso i servizi inglesi era seduto in un ufficio del quartier generale dell'MI5 a Londra. «Come sa, i vostri contractor ci hanno fornito un nastro che mostra il numero di targa di un furgone che riteniamo sia partito con a bordo un ordigno nucleare. Abbiamo una squadra che in questo stesso momento sta piombando all'agenzia di autonoleggio. Non appena ci saremo procurati le informazioni su chi ha affittato il mezzo, dovremmo riuscire a recuperare la bomba.» «Ottimo», rispose con compostezza l'agente della CIA. «E invece come
stanno le cose con il meteorite?» «Anche quella faccenda dovrebbe risolversi presto», rispose l'uomo dell'MI5. «Vi serve il nostro aiuto?» «Non credo. Se ne occupano l'esercito e i Royal Marines.» Il contatto si alzò dalla sedia. «Allora aspetterò che lei mi chiami, dopo avere portato a termine il recupero.» «A operazione conclusa la ragguaglierò immediatamente.» Non appena l'agente della CIA ebbe lasciato l'ufficio, l'altro prese in mano il telefono. «Quanto occorre prima che lo intercettiamo?» chiese. «Il treno dista cinque minuti», rispose una voce. Nella zona boscosa poco più a nord del villaggio di Stockton, la stazione prima di Middlesbrough, l'impressione era che stesse per scoppiare una guerra. Un paio di carri armati Challenger dell'esercito britannico stavano ai due lati dei binari. Più a nord, lungo la ferrovia, all'incirca dove la coda del treno si sarebbe arrestata dopo l'alt, due plotoni di Royal Marines in tuta mimetica si nascondevano nei boschi, in attesa di fare irruzione sul treno da dietro; un po' più lontano, a sinistra e a destra dei binari, nei campi aperti, nascosti dietro le file di alberi che costeggiavano la ferrovia, c'erano un jet Harrier e un elicottero AgustaWestland A129 Mongoose dotato di un contenitore per le armi. Da nord, in lontananza, il rumore del treno numero ventisette si fece più intenso. Il colonnello dell'esercito britannico a capo dell'operazione aspettò di riuscire a scorgere la locomotiva. Poi chiamò il macchinista via radio e gli ordinò di fermarsi. Non appena l'uomo avvistò i Challenger, tirò i freni, e il treno iniziò a fermarsi tra lo stridore e le scintille che sprizzavano dalle ruote. L'Harrier e l'AgustaWestland, che si erano alzati volando entrambi a punto fisso, sbucarono da sopra gli alberi assumendo un ruolo di supporto alla linea di fuoco mentre i Royal Marines uscivano dal bosco e salivano sul treno da ogni porta. Avrebbero effettuato una ricerca sistematica senza trovare nulla. Intanto Roger Lassiter procedeva verso sud sulla statale che portava a Londra. Superando Stockton notò l'ingorgo in lontananza e prese l'uscita a destra in direzione di Windermere. Una volta raggiunta la principale arteria di collegamento nord-sud che attraversava Lancaster, avrebbe continuato
fino a Birmingham e si sarebbe trovato alle porte dell'Inghilterra meridionale. Si accese un sigaro e guardò la pioggia fuori dal finestrino. Avvicinandosi al Tamigi dall'alto, Adams studiò il navigatore satellitare per avere la posizione esatta. Cabrillo guardava un parco sull'altra riva del fiume. Un enorme tendone, illuminato da fari, era affollato di operai che completavano l'installazione. «A sinistra!» disse Adams in cuffia. La sagoma squadrata della piazzola dell'eliporto risplendeva di luci intermittenti. Poi un'auto nei paraggi fece lampeggiare i fari. Adams abbassò il collettivo e iniziò a scendere. «Ci sono Seng e Meadows», osservò Cabrillo. «Mi farò portare in albergo da loro, così riusciamo a riorganizzarci. Hanley ti manderà incontro qualcuno al terminal dei voli privati di Heathrow con la chiave della tua stanza all'hotel. Ti serve nient'altro, George?» «Niente. Farò rifornimento e andrò dritto all'hotel. Quando avrà bisogno di me, sarò a disposizione.» «Fatti una dormita. L'hai meritata», ribatté Cabrillo. Adams era in avvicinamento finale e non rispose. Scese sopra Battersea Park, si accostò lungo la piazzola davanti a sé e poi atterrò con leggerezza. Cabrillo aprì il portello e afferrò il telefono. Si chinò e si allontanò in quella posizione dal rotore del Robinson, per poi camminare eretto una volta a distanza di sicurezza. Non era ancora arrivato alla Range Rover che Adams si alzava di nuovo in volo al di là del Tamigi. Meadows era sceso dall'auto e gli aveva aperto la portiera. «A che punto siamo?» chiese Cabrillo infilandosi sul sedile posteriore. «Abbiamo spedito tutto al signor Hanley», spiegò Seng. «Ha detto che ci avrebbe ragguagliato lei.» Seng sterzò per allontanarsi dall'eliporto e uscire dal parco. Si fermò al semaforo e aspettò di girare su Queenstown Road e attraversare Chelsea Bridge. Mentre Seng li portava al Savoy, Cabrillo iniziò a fornire i ragguagli. La Oregon procedeva di gran carriera verso sud. Era quasi la mezzanotte del 30 dicembre e la nave avrebbe dovuto raggiungere il porto di Londra per le nove del mattino ora locale. La sala riunioni era affollata. Hanley stava scrivendo degli appunti su una lavagna, dove cominciava a esserci poco spazio.
«Questo è ciò che sappiamo. Adesso riteniamo che il furto del meteorite e la bomba nucleare ucraina che stiamo cercando non sono in relazione fra loro. Siamo convinti che al-Khalifa e il suo gruppo siano venuti a sapere del reperto da un funzionario corrotto della stazione di ascolto Echelon, e che in seguito abbiano deciso di inserirlo in un loro piano preesistente, che secondo noi riguardava un attentato terroristico nel cuore di Londra.» «Chi era interessato al meteorite in prima istanza?» chiese Murphy. «Le informazioni più recenti, acquisite dal signor Truitt a Las Vegas, sembrano puntare nella direzione di Halifax Hickman.» «Il miliardario?» intervenne Linda Ross. «Precisamente», disse Hanley. «Anche se non sappiamo ancora perché. Hickman ha interessi in hotel, casinò, centri vacanze, fabbriche di armi, elettrodomestici. In più ha una catena di imprese di pompe funebri e una ditta di ferramenta che produce utensili e serrature. Ha anche investimenti in campo petrolifero e nelle ferrovie, e gestisce una televisione satellitare.» «Un magnate d'altri tempi», esclamò Pete Jones. «Non come oggi, che i veri ricchi fanno i soldi con una sola attività, come il software o le catene di pizzerie.» «Per caso non è una specie di misantropo?» chiese Julia Huxley. «Un tipo alla Howard Hughes», rispose Hanley. «Metterò a punto un profilo psicologico», propose Huxley, «tanto per sapere con chi abbiamo a che fare.» «Mentre parliamo, Halpert sta rovistando tra i suoi file per vedere di riuscire a determinare il movente.» «E il meteorite adesso dove si trova?» domandò Franklin Lincoln. «Come tutti sapete, Juan e Adams lo hanno visto partire dalle Faroe a bordo di un Cessna e lo hanno seguito. Poi l'aereo ha lanciato il reperto, che è stato caricato su un furgone. Juan ha inseguito il furgone in auto fino a una stazione ferroviaria nei pressi di Edimburgo. Era pronto a intercettarlo, quando il presidente, attraverso Overholt, ha dato ordine che si facesse da parte per lasciare che fossero le autorità britanniche a occuparsi della faccenda. Erano intenzionati a bloccare il treno circa un'ora fa, ma non sappiamo ancora con quali risultati.» «Dunque, se lo recuperassero, il nostro unico compito consisterebbe nel restituirlo agli Stati Uniti», disse Hali Kasim. «Esatto. Perciò voglio che concentriamo i nostri sforzi sull'ordigno nucleare. Riteniamo che sia stato spedito attraverso il mar Nero all'isola di Sheppey, a bordo di una nave da carico greca. Lì si pensa che una squadra
appartenente all'organizzazione terroristica di al-Khalifa abbia sottratto l'ordigno, per poi allontanarsi. Seng e Meadows erano sul posto e hanno trovato un nastro che ci ha fornito indicazioni su dove potrebbe trovarsi attualmente.» «Sembra strano che dopo la morte di al-Khalifa gli altri non abbiano annullato la missione», osservò Jones. «Il loro capo è morto e continuano ad andare avanti?» «Il bello», rispose Hanley, «è che non crediamo che sappiano che alKhalifa è morto. Non ancora.» «Evidentemente non è più in contatto con loro», ribatté Linda Ross. «Questo è vero, ma a quanto pare si era eclissato già altre volte... almeno sulla base dei resoconti che abbiamo accumulato nel corso degli anni.» «Dunque uno di noi dovrà diventare al-Khalifa?» Hanley indicò Nixon, che fece segno di sì e prese in mano un registratore. «Abbiamo recuperato il telefono satellitare, al-Khalifa l'aveva in una tasca. C'era un breve messaggio sulla sua casella vocale. L'ho abbinato a una registrazione di una telecamera di controllo in nostro possesso, e ho stampato la voce sul computer.» Nixon accese il registratore e la voce del terrorista si propagò per la stanza. «Crediamo di poter chiamare il contatto con il suo telefono e di organizzare un incontro», spiegò Hanley. «E poi di recuperare la bomba.» «Quanto tempo abbiamo?» chiese Kasim. «Pensiamo che colpiranno domani allo scoccare della mezzanotte.» «Capodanno... bastardi esibizionisti», sbottò Murphy. «Nessuna idea di dove?» «Ci saranno dei festeggiamenti e un concerto in un parco molto vicino a Buckingham Palace. Canterà Elton John», spiegò Hanley. «Adesso sì che mi incavolo sul serio», sbottò Murphy. «Io adoro Elton John.» «Bene allora, ragazzi. Adesso voglio che tutti quanti andiate nelle vostre cabine a riposare. La maggior parte di voi scenderà a Londra domani per partecipare all'operazione. Ci incontreremo qui nella sala riunioni alle sette per gli incarichi, e non appena ci avvicineremo alla città verrete sbarcati. Ci sono altre domande?» «Solo una», chiese Julia Huxley. «Qualcuno sa come si disinnesca una bomba nucleare?»
37 «La lasci qui davanti», disse Seng mentre si fermavano di fronte al Savoy e scendevano. Prese dal portafogli una banconota da cento dollari e la consegnò al parcheggiatore. «E stia attento che non me la blocchino», aggiunse. Il presidente della Corporation entrò nell'hotel e si diresse al ricevimento. «Desidera?» chiese il portiere. «Mi chiamo Cabrillo. Ha prenotato per me la mia società.» Il portiere inserì il nome, poi lesse il messaggio che aveva lasciato il direttore dell'albergo. Era succinto: «Cliente abituale estremamente importante - credito illimitato verificato - Banca di Vanuatu - quattro suite con vista fiume questa sera - tutte le stanze in più che vengono richieste». Il portiere prese le chiavi, quindi schioccò le dita facendo accorrere un facchino. In quel preciso istante Seng e Meadows entravano nella hall. «Vedo che non ha bagaglio, signore», osservò il portiere. «C'è bisogno che mandiamo qualcuno a fare acquisti?» «Sì», rispose Cabrillo prendendo un foglio di carta e una penna. Cominciò a buttare giù un elenco. «Chiami Harrods domani mattina. C'è il signor Mark Andersen all'abbigliamento maschile: gli chieda di consegnarmi questi capi. Conosce già la mia taglia.» Meadows e Seng si avvicinarono al banco con un paio di borse ciascuno. Cabrillo consegnò loro le rispettive chiavi. «Vi occorre niente da Harrods?» chiese. «No», fu la risposta di entrambi. Il facchino fece per prendere le borse di Seng e Meadows, ma Seng levò la mano per fermarlo. «Meglio che ce ne occupiamo noi», esclamò infilandogli in mano una banconota da venti sterline. «Ci segua su al piano e poi riporti indietro il carrello.» Le borse erano strapiene di armi, apparecchi di comunicazione e abbastanza C-6 da radere al suolo l'hotel. L'ignaro facchino annuì, spinse il carrello più vicino e aspettò di seguire gli uomini fino alla loro suite. «Che cosa volete mangiare?» chiese Cabrillo ai suoi mentre sistemavano le borse sul carrello. «Per me andrebbe bene una colazione», rispose Meadows. «Mandate tre colazioni all'inglese complete nella mia suite», disse Cabrillo al portiere mostrandogli la chiave. «Fra quarantacinque minuti.»
«Facciamo una doccia, cambiamoci, e incontriamoci da me all'una e trenta.» Poi, seguiti dal facchino, spinsero il carrello portabagagli verso l'ascensore e salirono alle rispettive stanze. Davanti alla propria suite Cabrillo aprì la porta e si arrestò. «Mi aspetti qui, per favore. Dovrebbe mandare questi vestiti in lavanderia. Hanno bisogno di essere lavati e stirati.» Entrò, si spogliò, si infilò una delle vestaglie dell'hotel e tornò dal facchino con la pila degli abiti che indossava. Sorridendo, glieli consegnò in un sacchetto di plastica della lavanderia unitamente a una banconota da cento dollari. «Me li riporti il più presto possibile.» «Vuole far lustrare le scarpe?» chiese il portabagagli. «No, grazie, vanno bene così.» Non appena l'uomo se ne fu andato, Cabrillo si fece una doccia. Quando ebbe finito si infilò di nuovo la vestaglia, si diresse alla porta e l'aprì. Di fuori avevano lasciato una cesta di articoli da toeletta che portò in bagno. Si rasò, si spruzzò le guance di costoso dopobarba, si lavò i denti e si spazzolò i capelli. Infine ritornò nella suite e fece il numero della sala controllo della Oregon. Mentre Cabrillo finiva di rinfrescarsi, a Washington erano passate da poco le otto di sera. Thomas «TD» Dwyer aveva trascorso quegli ultimi giorni a fare doppi turni nel laboratorio degli agenti infettivi di Fort Detrick, nel Maryland, situato vicino a Frederick tra le colline a nord di Washington. Dwyer era sfinito e quasi sul punto di smettere per quella sera. Fino ad allora aveva sottoposto i campioni che venivano dall'Arizona a raggi ultravioletti, acidi, combinazioni di gas e radiazioni. E non era successo niente. «Pronto a chiudere bottega per questa sera?» gli domandò il tecnico dell'esercito. «Devo solo tagliare un pezzo di campione per domani», rispose Dwyer, «e così potremo riprendere domattina alle otto.» «Devo riscaldare il laser?» chiese il tecnico. Attraverso il vetro spesso della vetrina Dwyer osservò il campione, stretto in una morsa su un banco di lavoro all'interno della stanza perfettamente sigillata. Prima aveva sistemato oltre il foro di entrata una sega portatile ad aria compressa con lama di diamante, che adesso maneggiò con le braccia infilate in spessi guanti di kevlar, collocandola fra gli arti a tenaglia di un
robot che Dwyer controllava con il joystick. «Tieniti pronto. Adesso uso la sega!» esclamò. Il tecnico si accomodò su una sedia dietro un enorme pannello di controllo. La parete di fronte a lui, compresa la zona a vetri da cui guardare dentro l'area sigillata, era coperta di spie e quadranti. «Possiamo cominciare», osservò il tecnico. Dwyer mosse il joystick con cautela e iniziò a far girare la sega. Poi lentamente la abbassò sul campione. La lama prese a fumare, dopo di che si bloccò stridendo. Non si sarebbe potuta riparare fino al giorno seguente. Tiny Gunderson ridusse la velocità del Gulfstream e iniziò la procedura di atterraggio a Heathrow. Durante il volo di ritorno da Las Vegas lui e Tracy Pilston avevano dormito a turno. Truitt aveva sonnecchiato nel retro e adesso era sveglio e stava bevendosi la seconda caffettiera. «Ne vuoi?» chiese dalla porta della cabina di pilotaggio. «Sono a posto così», rispose Gunderson. «Tu, Tracy?» Pilston stava parlando alla torre via radio, ma fece segno di no con la mano. «Hanley ha prenotato in un hotel vicino all'aeroporto per voi due», disse Truitt. «Io prendo un taxi e vado in città.» Gunderson effettuò la virata per l'avvicinamento finale. «Faremo rifornimento, poi resteremo a disposizione all'hotel.» «Sembra tutto un piano...» osservò Truitt. C'era qualcosa che l'aveva tormentato durante il volo e Truitt non riusciva a individuare con precisione che cosa fosse. Per ore aveva provato a ricordare l'interno dell'ufficio di Hickman, ma per quanto si sforzasse l'immagine era sfocata. Si rilassò sul sedile, allacciò la cintura e attese che il Gulfstream atterrasse. Dieci minuti più tardi si trovava in un taxi diretto all'hotel Savoy attraverso le strade deserte. Il taxi stava superando Paddington Station, quando ebbe l'illuminazione. Overholt aveva in progetto di dormire in ufficio sul divano. Comunque andasse a finire, qualcosa sarebbe accaduto nelle successive quarantott'ore. Erano quasi le dieci di sera quando il presidente richiamò. «I suoi ragazzi hanno fatto un casino. Non c'era niente su quel treno.» «Impossibile», ribatté Overholt. «Lavoro con la Corporation da anni...
quelli non sbagliano. Il meteorite era sul treno... devono averlo trasferito di nuovo.» «Be', vuol dire che adesso è in giro da qualche parte in Inghilterra.» «Cabrillo si trova a Londra in questo momento. Sta lavorando alla bomba.» «Langston», disse il presidente, «sarà meglio prendere il controllo della situazione, e presto, altrimenti le consiglio di cominciare a immaginare come farcela con la pensione.» «Sì, signore», rispose Overholt prima che il telefono tacesse. «Abbiamo il meteorite in viaggio verso sud sulla strada appena sotto Birmingham», fu la stanca risposta di Hanley alle domande di Overholt. «Saremo a Londra domani mattina, così potremo sbarcare i nostri operativi che si rimetteranno sulle sue tracce.» «Sarà meglio. Qui sono nei casini. A che punto siamo con il recupero della bomba?» «Cabrillo e la sua squadra hanno intenzione di localizzarla domani e poi di chiamare quelli dell'MI5», spiegò Hanley. «Questa notte dormo in ufficio. Chiamatemi se c'è qualche novità.» «Ha la mia parola.» Dick Truitt prese la chiave dal banco della reception, poi diede una mancia al portiere perché gli portasse la borsa in camera. In fondo al corridoio raggiunse la suite di Cabrillo e bussò piano alla porta. «Soldi facili», disse Meadows quando vide chi era. Si fece da parte per lasciar entrare Truitt, che percorse la suite. I piatti semivuoti erano disposti attorno a un tavolo assieme a dossier aperti e appunti. «Buongiorno, capo», disse rivolto a Cabrillo. Poi andò al telefono e chiamò il servizio in camera per ordinare un club sandwich e una Coca-Cola. Infine ritornò al tavolo e si sedette. «Halpert ha scoperto l'identità del soldato delle fotografie che hai fregato», spiegò Cabrillo. «Ma quale sia il legame con Hickman è ancora da appurare.» «È suo figlio!» esclamò Truitt con semplicità. «Be', ciò spiega un bel po' di cose», sbottò Seng. 38
«Deve esserlo», ribadì Truitt. «Quando stavo nell'ufficio di Hickman ho visto una cosa che la mia mente ha registrato come strana, ma non ho avuto il tempo di indagare prima che lui tornasse nell'attico. Su una mensola vicino alla scrivania c'era un paio di scarpine da neonato di bronzo.» «Strano», osservò Cabrillo. «Non è noto che Hickman abbia figli.» «Vero, ma attorno c'era avvolta una serie di medagliette di cani.» «Ti è stato possibile leggerle?» chiese Seng, ex marine. «No, ma scommetto che qualcuno della polizia di Las Vegas potrebbe. Il fatto è... perché uno dovrebbe tenersi le medagliette dei cani altrui?» «A meno che non si tratti di qualcuno di intimo e che questa persona sia morta», concluse Meadows. «Chiamerò Overholt e gli domanderò di far eseguire un controllo alla polizia di Las Vegas», rispose Cabrillo. «Voi adesso andate a riposarvi. Ho l'impressione che domani sarà una giornata molto lunga.» Meadows e Seng uscirono, ma Truitt rimase. «Ho dormito sul Gulfstream, capo. Perché non mi dà gli indirizzi che ha in mano e mi lascia fare una piccola ricognizione notturna?» Cabrillo annuì e gli passò le informazioni. «Ci incontriamo di nuovo qui alle otto di domani mattina, Dick. Il resto dei nostri arriverà per quell'ora.» Truitt annuì, poi si allontanò nel corridoio per andare a cambiarsi d'abito. Dopo cinque minuti stava scendendo in ascensore. Halpert era destinato a stare sveglio tutta la notte. La Oregon avanzava verso Londra con solo il minimo dell'equipaggio ai comandi. Gli operativi dormivano nelle loro cabine e la nave era immersa nel silenzio. A Halpert piaceva la solitudine. Dopo avere impostato il computer per compiere una ricerca negli archivi del dipartimento della Difesa, si avviò attraverso la sala in direzione della cucina di bordo, dove tostò un panino e si preparò un bollitore di caffè freso. Spalmò il panino di formaggio tenero, lo avvolse in un tovagliolo, se lo infilò sottobraccio e con il bollitore in mano ritornò in ufficio. Un unico foglio di carta lo aspettava sul vassoio della stampante; Halpert lo prese e lo lesse lentamente. Il parente più stretto di Christopher Hunt era sua madre, Michelle Hunt, che risiedeva in California, a Beverly Hills. Halpert ne inserì il nome nel computer per vedere che cosa riusciva a trovare.
Erano le quattro del mattino ora di Londra quando l'Hawker 800XP con a bordo Hickman atterrava a Heathrow. Subito sulla pista venne a prelevarlo una Rolls-Royce nera, che ripartì attraverso le strade deserte in direzione di Maidenhead. Hickman voleva trovarsi alla Maidenhead Mills quando avesse aperto. Il resto della squadra sarebbe arrivato presto da Calais e c'era molto da fare. Fissò la fiala con il batterio della peste che aveva comprato da Vanderwald. Un po' di quella e un po' di polvere del meteorite... et voilà, il gioco era fatto. L'interno della casa era lussuoso considerando la sua posizione nell'East End di Londra. Per lungo tempo la zona più brutta della Londra vera e propria, l'East End negli ultimi anni era salito di grado, da quando i prezzi esorbitanti del centro avevano spinto i cittadini ad allontanarsene sempre di più. La casa a tre piani di Kingsland Road, non lontana dal Geffrye Museum, era sopravvissuta ai bombardamenti della seconda guerra mondiale praticamente intatta. Dopo una vita come pensione per immigranti che si erano insediati nella zona alla fine del ventesimo secolo, era stata fatta rinascere come bordello di lusso gestito da una famiglia criminale storica dell'East End che portava il nome del suo capo, Derek Goodlin. Il primo piano era adibito a sala comune con tutta una serie di salottini e un pub, il secondo conteneva un casinò con un altro bar lungo la parete e l'ultimo aveva le stanze da letto arredate per assecondare una gran varietà di gusti e di perversioni. Non appena Lababiti aveva accostato la Jaguar davanti al bordello e ne era sceso con Amad, Derek Goodlin, che quella sera era al lavoro nella casa, era stato avvisato del suo arrivo. Goodlin, che tutti alle spalle chiamavano «Cimice» a causa degli occhi a spillo e della pelle butterata, sorrise, accorse alla porta e mentalmente iniziò a contare i soldi. Aveva già avuto a che fare con quell'arabo, e sapeva che la casa avrebbe guadagnato migliaia di sterline prima che si decidesse ad andarsene. «Chivas e Coca-Cola», ordinò al barista mentre si affrettava incontro all'ospite. Spalancò la porta e sorrise mostrando i denti piccoli e aguzzi. «Signor Lababiti», esclamò con il calore di un serpente congelato in un pezzo di ghiaccio. «Quanta bontà da parte sua unirsi a noi questa sera.» Lababiti detestava Goodlin. Rappresentava tutto ciò che di sbagliato c'e-
ra nell'Occidente. Goodlin vendeva peccato e depravazione, e il fatto che Lababiti fosse un acquirente fedele non cambiava la sua opinione. «Buonasera, Derek», rispose con voce melliflua prendendo un bicchiere dalle mani del cameriere fattoglisi incontro. «Sempre a gestire i tuoi loschi affari, vedo.» Goodlin sorrise con cattiveria. «Mi limito a fornire ciò che la gente desidera.» Lababiti annuì e fece segno ad Amad di seguirlo. Si avvicinò al banco di mogano intarsiato e decorato del pub e si infilò su una sedia a un tavolo rotondo illuminato da una candela. Goodlin lo seguiva come un cagnolino. «Giocherà questa sera?» gli chiese quando i due ospiti si furono accomodati. «Forse più tardi», rispose Lababiti. «Ma per ora porta al mio amico un araq e fai venire Sally.» Goodlin ordinò al cameriere di servire una bottiglia del forte liquore alla liquirizia mediorientale, poi si rivolse di nuovo a Lababiti. «Sally Regolare o Sally Sadomaso?» «Regolare per lui e Sadomaso per me.» Goodlin si allontanò rapidamente per avvertire le ragazze. Qualche secondo più tardi il cameriere fece scivolare la bottiglia di araq e un bicchiere sul tavolo. Amad, che doveva morire di lì a un giorno, aveva l'aria spaventata. Derek Goodlin richiuse la porta alle spalle di Lababiti e del suo amico e poi ritornò in ufficio. Si sedette e iniziò a contare una pila di banconote sorseggiando da un bicchiere di brandy. Era stata una buona serata. L'arabo e il suo amico taciturno avevano aggiunto cinquemila sterline all'incasso del giorno. Quello, più un cliente fisso giapponese che aveva perso pesantemente alla roulette, gli fruttavano un trenta per cento in più sull'incasso della sera prima. Stava avvolgendo un mazzetta di soldi con un elastico per riporla, quando bussarono alla porta. «Un momento», rispose sistemando i contanti e richiudendo la cassaforte. «Okay», disse quando la serratura fu chiusa. «Avanti.» «Sono qui per la mia paga», disse Sally Regolare. «L'ultima.» L'orbita attorno all'occhio sinistro era violacea e gonfia. «Lababiti? Credevo a te dovesse toccare il ragazzino.» «Infatti. È diventato cattivello dopo che...»
«Dopo che cosa?» «Dopo che non è riuscito a drizzarlo», rispose Sally. Goodlin infilò la mano nel cassetto della scrivania, prese una delle buste preparate per le ragazze che avevano lavorato quella notte e gliela consegnò. «Prenditi qualche giorno di riposo e torna a lavorare mercoledì.» Con uno stanco cenno del capo la ragazza uscì dall'ufficio e si avviò lungo il corridoio. Lababiti era alla guida della Jaguar in Leadenhall Street in direzione ovest. Amad sedeva al suo fianco in silenzio. «Ti sei divertito?» Amad rispose con un grugnito. «Sarai pronto domani?» «Allah è grande», rispose lo yemenita sottovoce. Lababiti si voltò e gli lanciò un'occhiata. Il ragazzo fissava gli edifici che passavano davanti ai suoi occhi fuori dal finestrino. Cominciava ad avere qualche dubbio su Amad, ma li tenne per sé. L'indomani mattina gli avrebbe dato le ultime istruzioni. Poi lui sarebbe andato in auto al Chunnel e sarebbe scappato in Francia. Truitt percorse lo Strand fino alla strada laterale dove le informazioni di Cabrillo collocavano l'appartamento in affitto di Lababiti. Al pianoterra un negozio vuoto confinava con l'atrio. I tre piani superiori, dove si trovavano gli appartamenti, erano bui: gli inquilini dormivano. Truitt scassinò la serratura della porta dell'atrio, poi entrò a esaminare la fila di cassette della posta. Stava studiando i nomi, quando una Jaguar si fermò davanti al condominio e ne scesero due uomini. Dick scivolò in un vano scale che portava ai piani superiori, poi restò in ascolto mentre i due entravano nell'atrio e raggiungevano l'ascensore. Aspettò che la cabina arrivasse, si aprisse e si chiudesse, e iniziasse a salire di nuovo, poi uscì e guardò il numero sul riquadro sopra le porte. L'ascensore si era fermato al terzo piano. Truitt tornò alle scale e salì le tre rampe. Poi, togliendosi di tasca un piccolo microfono, si infilò l'auricolare nell'orecchio e lentamente percorse il ballatoio fuori dagli appartamenti. Davanti a una porta udì russare; davanti a un'altra sentì il sommesso miagolio di un gatto. Era a metà del corridoio, quando gli giunsero delle voci. «Se lo apri diventa un letto.» Truitt non riuscì a capire la risposta. Osservando il numero, fece mente locale dove potevano trovarsi le finestre dell'appartamento sul lato della
strada. Poi passò sulla porta chiusa un piccolo contatore Geiger che aveva con sé. Non c'era traccia di radiazioni. Scese dalle scale senza far rumore, uscì dall'atrio e guardò verso la finestra dell'appartamento di Lababiti. Le veneziane erano abbassate. Truitt si chinò sotto il baule della Jaguar e attaccò un piccolo disco magnetico al serbatoio della benzina. Poi analizzò l'auto con il contatore Geiger e la trovò pulita. Prese nota della disposizione degli altri edifici vicini e ripercorse lo Strand in senso contrario. La strada era semideserta; transitavano solo pochi taxi e un camion che consegnava a un McDonald's aperto ventiquattr'ore su ventiquattro. Costeggiò il lato nord dello Strand leggendo le locandine fuori dai teatri. Quando ebbe quasi raggiunto Leicester Square tornò indietro e attraversò portandosi sul lato opposto. Camminò davanti a un concessionario che vendeva moto d'epoca inglesi. Si fermò e ammirò le motociclette in vetrina, illuminate da fari: Ariel, BSA, Triumph, addirittura una leggendaria Vincent... un posto da perderci la testa per un maniaco delle moto. Ritornò al McDonald's e ordinò un caffè e un dolce alle mele. Alle cinque e trenta del mattino ora di Londra - le diciannove e trenta a Las Vegas -, il capitano Jeff Porte del dipartimento di Polizia di Las Vegas stava sudando sette camicie nel tentativo di convincere il capo della sicurezza di Dreamworld a lasciarlo entrare nell'attico. «Dovrai venire con un mandato», insisteva il capo della sicurezza. «È l'unica maniera in cui posso lasciarti entrare.» Porte rifletté. «Abbiamo saputo che avete subito un'irruzione, pertanto stiamo indagando su un reato ancora aperto.» «Non posso lasciarti entrare nemmeno così, Jeff.» «Allora vado a svegliare un giudice e mi faccio fare un mandato, e quando ce l'ho ritorno con le telecamere. Dovrebbe essere utile ai guadagni del tuo casinò, con i poliziotti e i reporter dappertutto, nell'ingresso e nelle zone comuni.» Il capo della sicurezza ci pensò un attimo. «Lasciami fare una telefonata», disse infine. Quando il satellitare squillò Hickman era quasi a Maidenhead. Dopo che
il capo della sicurezza gli ebbe spiegato cosa stava succedendo, rispose: «Digli che voglio un mandato e ordina al nostro avvocato di cominciare subito a lavorare per farlo revocare. Fai qualunque cosa, ma rimanda il più a lungo possibile il momento in cui entreranno». «Abbiamo problemi, signore?» «Niente che non possa tenere sotto controllo», rispose Hickman chiudendo la comunicazione. La rete gli si stringeva intorno: sentiva le corde che si tiravano. Michael Halpert stava procedendo nella ricerca. Si era collegato al computer della Federal Aviation Administration e aveva estratto i piani di volo del jet di Hickman. Non appena li aveva visti, aveva capito che era l'uomo che cercavano. Uno dei jet, un Hawker 800XP, aveva di recente presentato un piano di volo per la Groenlandia, e l'ultimo notificato era per un viaggio Las Vegas-Londra, che documentava che Hickman era nella capitale inglese in quel preciso momento. Halpert li stampò e cominciò a passare in rassegna i registri delle società immobiliari britanniche. Sotto il nome Hickman non usciva niente, così proseguì la ricerca usando il lungo elenco delle sue compagnie. Sarebbero passate ore prima di ottenere qualche risultato. Mentre il computer cercava, Halpert provò a immaginare perché uno degli uomini più ricchi del mondo potesse decidere di cospirare con dei terroristi arabi per far esplodere una bomba atomica a Londra. Era sempre una questione di soldi o di amore, pensò Halpert. Non era possibile immaginare cosa avrebbe guadagnato Hickman, in termini di denaro, da un disastro come un'esplosione atomica. Provò per un'ora a pensare a qualche motivo finanziario, ma non ne trovò. Allora doveva trattarsi di amore. E chi amiamo abbastanza da spingerci a uccidere, se non un membro della nostra famiglia? 39 Appena dopo le sei del mattino la Oregon attraccava a Southend-on-Sea, alla foce del Tamigi. Gli operativi erano tutti svegli e pronti. A uno a uno entrarono nella sala da pranzo per fare colazione. Dovevano riunirsi nella sala riunioni alle set-
te. Hanley era riuscito a strappare qualche ora di sonno e poi era tornato al lavoro alle cinque, per organizzare la logistica dell'imminente operazione. Appena passate le sei telefonò a Overholt svegliandolo. «La nostra squadra sarà presto a Londra. Pensiamo di avere localizzato i capi, ma per ora non abbiamo ancora trovato tracce di radiazioni.» «Vi state coordinando con l'MI5?» chiese Overholt. «Il signor Cabrillo li contatterà presto e passerà a loro il comando delle operazioni. Vuole solo essere sicuro che la nostra squadra sia al suo posto e faccia da rinforzo.» «Mi sembra ragionevole», osservò Overholt stancamente. «E del meteorite cosa si sa?» «Facciamo le cose una alla volta», replicò Hanley. «Sventata la minaccia della bomba, convoglieremo la squadra su quest'altro problema.» «Qual è la posizione attuale del reperto?» «Appena a sud di Oxford, diretto a sud. Se si avvicina troppo a Londra ci muoveremo. Altrimenti ce ne occuperemo dopo avere recuperato la bomba.» «La polizia di Las Vegas è stata ostacolata nelle indagini», osservò Overholt, «e così ho emanato una direttiva di sicurezza nazionale che la autorizza a fare tutto quello che è necessario. In tal modo dovrebbero poter entrare presto nell'attico. Lo sa che se vi sbagliate e Hickman non c'entra in tutto questo... non farò a tempo a sentirne gli effetti che mi ritroverò senza lavoro?» «Non c'è da preoccuparsi, signor Overholt. Siamo sempre alla ricerca di candidati qualificati per la nostra squadra.» «Lei sa sempre come farmi morire dal ridere, signor Hanley...» Overholt chiuse la comunicazione. Hanley riagganciò il telefono alla postazione di comando e si rivolse a Stone. «Come si stanno organizzando?» «Come al solito il signor Truitt è stato provvidenziale», rispose Stone. «È al lavoro da questa mattina presto. Ha acquistato articoli di vestiario e soprabiti inglesi per gli uomini che inviamo a Londra. Ha anche contattato un bus turistico che li venga a prendere alla Oregon. L'ultima volta che gli ho parlato era sul pulmino e stava arrivando.» «Ottimo soggetto. E Nixon?» «Nixon ha preparato l'equipaggiamento e in questo momento sta effettuando gli ultimi controlli.» «Halpert?»
«Sempre al lavoro, l'ultima volta che ho controllato. Dice che segue una pista diversa e che fra qualche ora dovrebbe avere dei risultati.» «Leggimi l'elenco.» «Ne abbiamo già quattro a Londra», rispose Stone leggendo da un foglio stampato. «Cabrillo, Seng, Meadows e Truitt. I sei da trasportare sono Huxley, Jones, Lincoln, Kasim, Murphy e Ross.» «E con questo abbiamo una forza di dieci persone in città», osservò Hanley. «Esatto. Rinforzi dal cielo a Heathrow con Adams sul Robinson e Gunderson e Pilston sul Gulfstream. Judy Michaels è rientrata dalla licenza e si occuperà di pilotare l'anfibio.» «E le operazioni dalla Oregon?» «L'equipaggio a bordo sarà composto da Gannon, Barrett, Hornsby, Reinholt e Reyes.» «Chi resta?» «Lei, io, Nixon nel Magic Shop, Crabtree qui alla logistica e King», concluse Stone. «Mi ero dimenticato di King», ammise Hanley. «Ci occorre là come rinforzo.» «Devo includerlo nel gruppo di Truitt?» Hanley ci pensò per un momento. «No», disse alla fine. «Fallo venire a prendere da Adams e ordina a entrambi di restare a disposizione. Li voglio vicini al teatro delle operazioni e pronti a prendere il volo senza preavviso. Adams e King forniranno l'eventuale copertura aerea.» «Organizzo il tutto», replicò Stone. «Perfetto.» «Questa notte Truitt ha fatto un sopralluogo nel condominio dove abita il terrorista», spiegava Cabrillo. Cabrillo, Seng e Meadows stavano facendo colazione nella suite del presidente della Corporation. «Adesso dov'è?» chiese Meadows. «Sta andando alla Oregon per prelevare il resto della squadra.» «Dunque immagino che non abbia rilevato tracce della bomba», osservò Seng, «altrimenti saremmo già in azione.» «Esatto.» «Così dobbiamo aspettare finché faranno la prossima mossa?» chiese Meadows.
«Se la bomba è a Londra e i capi si rendono conto che qualcuno sta loro addosso», continuò Cabrillo, «potrebbero farla esplodere da un momento all'altro. Può darsi che non abbiano ancora raggiunto l'obiettivo principale, ma con una testata nucleare - anche piccola come quella - le conseguenze sarebbero terribili.» «Così noi proviamo a farli uscire allo scoperto, prendiamo la bomba e la disinneschiamo?» domandò Seng. «Sono certo che non è quello che vogliono all'MI5», rispose Cabrillo, «ma è ciò che intendo suggerire io.» «Quando vi incontrerete?» domandò Meadows. Cabrillo si pulì la bocca con il tovagliolo di lino e guardò l'orologio. «Fra cinque minuti nella hall.» «Cosa dovremmo fare noi intanto?» chiese Seng. «Bazzicate la zona vicino all'appartamento e fatevi un'idea del luogo.» Edward Gibb non era felice. Essere svegliato la mattina dell'ultimo giorno dell'anno con l'ordine di andare al lavoro non era esattamente la sua idea di una vacanza piacevole. Un avvocato lo aveva contattato poco prima chiedendogli se poteva incontrare il nuovo proprietario della fabbrica e aprire l'edificio. Gibb era stato lì lì per rifiutare - aveva deciso di andare in pensione e progettava di dirlo all'ufficio del personale non appena tutti fossero tornati al lavoro -, ma l'idea di incontrare il misterioso acquirente della Maidenhead Mills lo intrigava. Dopo essersi fatto una doccia, vestito e dopo avere consumato una veloce colazione con tè e pane tostato, raggiunse la fabbrica in auto. Una limousine aspettava con il motore acceso vicino ai cancelli dell'ingresso principale, e la marmitta creava nuvole di fumo a contatto con l'aria gelida. Gibb si avvicinò e bussò al finestrino posteriore, che venne abbassato. «Lei è il signor Gibb?» gli chiese un uomo sorridendo. Gibb fece segno di sì. «Halifax Hickman», disse l'altro scendendo dall'auto. «Mi permetta di scusarmi con lei per averla allontanata dalla sua famiglia in un giorno di festa.» I due uomini si strinsero la mano. «Nessun problema», rispose Gibb avviandosi all'ingresso. «Comprendo che fosse impaziente di vedere in cosa ha speso il suo denaro.» «Sono in viaggio per l'Europa», mentì Hickman, «e ho il tempo contato.»
«Capisco», rispose Gibb infilandosi la mano in tasca e togliendone un mazzo di chiavi con le quali prese ad aprire le porte d'ingresso. «La ringrazio.» Gibb aveva aperto e si era fatto di lato. «Tenga queste», disse consegnando le chiavi a Hickman. «Io ne ho un altro mazzo.» Hickman se le infilò in tasca. Gibb superò la reception ed entrò nell'imponente capannone dove si trovavano le macchine follatrici e i tessuti. Allungò la mano e premette un interruttore alla parete. L'interno del capannone si illuminò. Gibb si voltò a guardare Hickman. L'uomo passava in rassegna i diversi macchinari. «L'unità di rasatura finale e di filtrazione», spiegò Gibb indicando una macchina che assomigliava a una versione gigante della griglia di un Burger King. «La stoffa viene messa sul nastro, trattata e poi esce qui su questa serie di rulli.» La struttura metallica che conteneva i rulli arrivava alla cintola di un uomo e proseguiva nella zona imballaggio per poi allungarsi in un semicerchio e terminare vicino alla piattaforma di carico. Le pezze di stoffa potevano essere spinte avanti fino a quando non erano inscatolate o impacchettate e poi trasportate ai camion per la spedizione. Gli occhi di Hickman esaminavano la zona circostante. «Quelli sono i tappeti da preghiera per l'Arabia Saudita?» chiese fissando tre grossi container vicino alla follatrice e accanto alla porta che immetteva sulle piattaforme. «Posso vederli?» «Certo», rispose Gibb aprendoli e spalancando gli sportelli dei cassoni. «Il termine di spedizione è già passato.» Hickman infilò dentro la testa. Ognuno dei container metallici aveva le dimensioni di un autoarticolato. Erano progettati per venire issati a bordo di un aereo da carico 747. I tappeti erano appesi a delle morse sul soffitto dei container e si distendevano in tutta la loro lunghezza. In ogni container ce n'erano migliaia. «Perché non sono impilati l'uno sull'altro?» chiese Hickman. «Dobbiamo trattarli con insetticida e disinfettante per ottenere l'autorizzazione a esportarli in Arabia Saudita. Non vogliono importare il morbo della mucca pazza o altri agenti patogeni trasmissibili per via aerea; adesso è una procedura obbligatoria in tutti i Paesi», spiegò Gibb. «Lasciamoli aperti», rispose Hickman, «e mi dia le chiavi dei container.» Gibb annuì e consegnò le chiavi.
«Quando rientrano gli operai dalle ferie?» «Lunedì due gennaio», disse Gibb seguendo Hickman che stava riattraversando il capannone in direzione dell'ingresso. «Arriveranno degli uomini dagli Stati Uniti ad aiutarmi. Quella spedizione avrà priorità massima», osservò Hickman mentre raggiungevano l'ingresso e gli uffici. «Adesso potrebbe indicarmi dove potrei usare un telefono?» Gibb fece un cenno alle scale che portavano a una stanza dalle pareti di vetro sopra il capannone. «Usi tranquillamente il mio. L'ufficio è aperto.» Hickman sorrise e tese la mano a Gibb. «Signor Gibb», disse affabilmente, «torni dalla sua famiglia. Ci vediamo lunedì.» Gibb annuì e si avviò alla porta. Poi si fermò. «Signor Hickman», disse lentamente, «perché non viene a casa mia questa sera a festeggiare il capodanno con noi?» Hickman, che si era avviato verso le scale, si voltò a guardarlo. «È molto gentile, ma capodanno per me è sempre un momento per riflettere in silenzio.» «Non ha una famiglia?» «Avevo un figlio. Ma me lo hanno ammazzato.» E con queste parole si girò e prese le scale. Gibb uscì. Hickman non era affatto come lo descrivevano i giornali. Era soltanto un uomo anziano e solo, comune come il riso bianco. Forse Gibb ci avrebbe ripensato ad andare in pensione: con un nuovo proprietario come Hickman, potevano esserci prospettive grandiose. Hickman entrò nell'ufficio e prese in mano il telefono. Cabrillo entrò nella hall seguito da Meadows e Seng. Un uomo biondo in abito nero e scarpe lucide lo avvicinò immediatamente. «Il signor Fleming ha riservato una zona tranquilla della sala da pranzo, così potrete incontrarvi in privato», disse. «Da questa parte.» Seng e Meadows si avviarono alla porta d'ingresso. Come per magia, molti uomini intenti a leggere il giornale nella hall si alzarono e li seguirono. Nella loro ricognizione non sarebbero stati soli. Cabrillo seguì l'uomo biondo nella sala da pranzo. Presero un corridoio sulla sinistra ed entrarono in una stanza appartata dove, a un tavolo apparecchiato con una teiera e un vassoio d'argento colmo di pasticcini, sedeva il capo dell'MI5. «Juan», esclamò l'uomo, alzandosi.
«John», rispose Cabrillo tendendo la mano per stringergli la sua. «Grazie», disse Fleming congedando l'impiegato, che uscì dalla porta e la richiuse dietro di sé. Fleming indicò una sedia e Cabrillo si sedette. Poi gli versò una tazza di tè e lo invitò con un cenno della mano a servirsi dei pasticcini. «Ho già fatto colazione», rispose Cabrillo prendendo la tazza di tè. Fleming guardò Cabrillo negli occhi, fissandoli per un lungo minuto. «Allora, Juan. Cosa diavolo succede?» Nella sala riunioni sulla Oregon tutti i posti a sedere erano occupati. Hanley era entrato per ultimo, si era avvicinato a una predella e vi aveva appoggiato sopra un faldone. «Questa è la situazione attuale», cominciò. «Siamo convinti di avere localizzato con una certa precisione la bomba nella zona del West End di Londra. Truitt ha controllato il condominio che il capo, Nebile Lababiti, ha affittato sotto falso nome ed è riuscito a vedere l'arabo mentre, in compagnia di un altro tizio, rientrava a tarda ora la notte scorsa. Dopo che i due sono entrati nell'appartamento, Truitt ha ispezionato l'area all'esterno della porta con un contatore Geiger senza trovare tuttavia tracce di radiazione. Voi sei entrerete come rinforzi del signor Cabrillo che si trova già in loco con Seng e Meadows. Truitt ha anche sistemato un localizzatore sulla Jaguar di Lababiti e fino a questo momento non ci sono stati movimenti.» «Quale riteniamo sia la loro tabella di marcia?» chiese Linda Ross. «Crediamo sempre che il piano preveda un attentato oggi, a mezzanotte», spiegò Hanley. «Come gesto simbolico.» «Riceveremo i nostri effettivi incarichi una volta a Londra?» domandò Murphy. «Esatto. Il signor Cabrillo si coordinerà con l'MI5. Gli agenti e Cabrillo vi assegneranno le effettive mansioni a mano a mano che la situazione si evolve.» Il cicalino di Hanley vibrò. Lui lo staccò dalla cintura e lesse il messaggio. «Va bene, gente», esclamò. «Truitt è arrivato a prendervi per portarvi a Londra. Si trova davanti alla nave. Assicuratevi di prendere con voi le casse con l'equipaggiamento che vi ha preparato Nixon. Sono accatastate lungo la passerella. Ci sono altre domande?» Nessuno parlò. «Buona fortuna, allora.»
I sei uscirono dalla sala a uno a uno e si avviarono lungo il corridoio. Cabrillo finì di mettere al corrente Fleming, poi sorseggiò il tè. «Il primo ministro faticherà a tenere l'opinione pubblica all'oscuro di tutto questo», ammise Fleming. «Sai bene che se quelli del gruppo Hammadi si rendono conto di non avere più copertura potrebbero far esplodere la bomba in qualsiasi momento. La nostra opportunità migliore è cercare di contattarli usando la voce registrata di al-Khalifa, oppure semplicemente aspettare che siano loro a muoversi, seguirli fino alla bomba e poi disinnescarla.» «Dovremmo annullare il concerto», osservò Fleming. «Con questo si riduce almeno il numero di persone nella zona.» «Credo che la cosa metterebbe una pulce nell'orecchio ai terroristi.» «Quanto meno, Juan, dobbiamo evacuare la famiglia reale e il primo ministro in luoghi sicuri.» «Se riesci ad agire di nascosto, fallo assolutamente.» «Secondo il programma sarà il principe Carlo ad annunciare Elton John prima dello spettacolo, però potrebbe darsi malato.» «Usate un sosia», suggerì Cabrillo. «Se il piano prevede di colpire durante il concerto», osservò Fleming, «e l'ordigno non è ancora collocato al suo posto, dovranno pure trasportarcelo.» «Se dai ordini di setacciare di nascosto le zone attorno al concerto con dei contatori Geiger e non si trovano radiazioni, allora dobbiamo dedurre che intendono portare la testata in loco a bordo di un veicolo.» «Così eliminiamo le zone vicine al concerto e, se non troviamo nulla», disse Fleming lentamente, «non ci rimane che controllare le strade di accesso a Mayfair e St James.» «Esattamente, John. Ma il traffico è già spaventoso in quella zona. Ti basterà collocare nelle strade laterali dei camion che si possono spostare opportunamente per bloccare le vie, ma non credo che si arriverà a tanto. Se abbiamo ragione e Lababiti ha davvero il controllo della bomba, sappiamo che non è nella sua Jaguar, ma che deve essere vicina. Credo che la nostra unica speranza sia di sorvegliarlo stretto come mosche su una carogna. E poi, al momento opportuno, prenderlo.» «Se ci sbagliamo e lui non ci porta all'ordigno», osservò Fleming, «la nostra unica speranza di bloccarlo è la circonvallazione attorno a Mayfair e St James.»
«Se piazzi bene i tuoi camion, non c'è nessuna auto al mondo che riuscirebbe a passare da quelle strade.» «Ma avremo il tempo di disinnescare la bomba?» «Più lontano dal concerto riusciamo a localizzarla, più tempo avremo. Accertati che tutti i tuoi uomini abbiano i diagrammi per sapere quali fili vanno tagliati per impedire al timer di completare il ciclo.» «Mio Dio», esclamò Fleming, «se solo sapessimo dov'è esattamente quella bomba.» «Se lo sapessimo, le cose sarebbero dannatamente più facili.» 40 Overholt stava ragguagliando il suo comandante in capo. «Ecco, siamo a questo punto, signor presidente», esclamò la mattina del 31 dicembre. «E voi avete offerto agli inglesi qualsiasi aiuto da parte nostra?» «Assolutamente sì», replicò Overholt. «Fleming, il capo dell'MI5, ha detto che, stando così le cose, per noi non c'è niente da fare se non tenere a disposizione due nostri esperti nucleari della base aerea di Mindenhall.» «E lei naturalmente ha già provveduto.» «L'aeronautica americana li ha portati a Londra in elicottero un'ora fa. In questo momento dovrebbero essersi messi in contatto con la Corporation e FMI5.» «Che altro possiamo fare?» chiese il presidente. «Ho contattato il Pentagono. Stanno preparando squadre di soccorsi e scorte mediche, in caso le cose andassero a finire male.» «Io ho ordinato che tutto il personale non strettamente necessario venga evacuato dalla nostra ambasciata di Londra. Erano comunque in pochi per via delle vacanze.» «Non so che altro si possa fare», osservò Overholt, «se non pregare che tutto finisca bene.» Al di là dell'Atlantico Fleming metteva al corrente il primo ministro della situazione. «Queste sono le ultime informazioni», concluse. «È necessario evacuare lei e la sua famiglia il più presto possibile.» «Non sono tipo da scappare in battaglia», ribatté il primo ministro. «Evacuate pure la mia famiglia, ma io resterò. Se le cose vanno male, non
posso lasciare che i miei compatrioti muoiano mentre io sapevo della minaccia.» La discussione proseguì per qualche altro minuto, con Fleming che implorava il primo ministro di lasciarsi condurre in salvo e il primo ministro che non recedeva dalla propria decisione. «Signore, il fatto che lei diventi un martire non sarà di alcun aiuto.» «Questo è vero. Ma resterò comunque.» «Almeno ci consenta di portarla nei bunker sotto il ministero della Difesa. Sono schermati e climatizzati.» Il primo ministro si alzò. L'incontro era terminato. «Sarò al concerto. Disponga il piano di sicurezza.» «Sì, signore», rispose Fleming alzandosi e avviandosi alla porta. Fuori dal condominio, sulla strada laterale che confinava con lo Strand, quattro microfoni parabolici stavano nascosti sugli edifici circostanti, diretti verso le finestre dell'appartamento di Lababiti. Le parabole raccoglievano le vibrazioni sul vetro delle finestre e amplificavano i suoni finché si poteva sentire chiaramente come in una registrazione ad alta definizione tutto quanto accadeva all'interno dell'appartamento. Una dozzina di agenti dell'MI5, fingendosi tassisti, pattugliavano le strade limitrofe, mentre altri percorrevano la via di Lababiti osservando le vetrine e mangiando nei ristoranti. Nell'hotel sul lato opposto della strada diversi uomini sedevano nella hall leggendo il giornale, in attesa che qualcosa accadesse. L'autobus si fermò davanti al Savoy e il vicedirettore della Corporation si alzò dal sedile accanto all'autista. Aveva chiamato Cabrillo dal proprio cellulare, e Meadows e Seng aspettavano davanti alle porte dell'atrio. Truitt scese dal bus, seguito dagli altri della squadra, e si avviò verso l'ingresso. «Ci dobbiamo incontrare nella suite del capo», gli disse Meadows aprendo la porta. Mentre la squadra gli passava davanti, Seng consegnò a ciascuno una chiave e qualche minuto più tardi tutti affollavano la suite di Cabrillo. Una volta che si furono seduti, Juan parlò. «All'MI5 hanno deciso che non vi saranno tentativi di intercettare l'ordigno finché non c'è movimento. Noi lavoreremo come rinforzo nell'evenienza improbabile che l'arma in qualche modo si avvicini alla zona del concerto.»
«E Lababiti che cosa fa nel frattempo?» chiese Murphy. «Abbiamo dei dispositivi di ascolto puntati su casa sua, e in questo momento lui e l'altro uomo dormono», rispose Cabrillo. «Ma noi, esattamente, cosa faremo?» chiese Linda Ross. «Tutti voi siete in grado di disinnescare l'ordigno, e pertanto verrete posizionati lungo i possibili percorsi che immettono nella zona del concerto. E là aspetteremo nel caso ci chiamino.» Cabrillo si diresse a una lavagna di sughero su un cavalletto con una grande pianta di Londra appiccicata sopra. Una serie di linee apparivano evidenziate in giallo. «In base all'ubicazione dell'appartamento, ecco i percorsi più probabili», spiegò. «Riteniamo che, dovunque si trovi adesso la bomba, chiunque ne sia in possesso si fermerà a prelevare Lababiti e l'altro tizio in maniera da riuscire a piazzare insieme l'ordigno al concerto.» «Crede che abbiano intenzione di nasconderlo, azionare il timer e scappare?» domandò Kasim. «È ciò che speriamo», ammise Cabrillo. «Questo tipo di ordigno ha un dispositivo di sicurezza che differisce di dieci minuti la detonazione da quando viene innescato, per evitare deflagrazioni indesiderate.» «Così non è possibile solo schiacciare e dare il via al processo di fissione?» osservò Julia Huxley. «No. Gli ordigni russi», rispose Cabrillo, «sono simili ai nostri da questo punto di vista: richiedono una serie di passaggi prima che il dispositivo sia operativo. Quella che riteniamo abbiano acquistato è una 'bomba baby' progettata per distruzioni mirate. L'intero dispositivo potrebbe stare in una cassa di un metro e mezzo di lunghezza per un metro di larghezza e uno di altezza.» «Quanto pesa?» si informò Franklin Lincoln. «Meno di duecento chili.» «Dunque sappiamo che non la possono trasportare o spostare con mezzi come una bicicletta», disse Pete Jones. «Avranno bisogno di un veicolo di qualche genere», osservò Cabrillo, «dunque ciò significa che dovranno viaggiare per strada.» Indicò l'appartamento sulla mappa. «Dall'appartamento ci sono un paio di percorsi che potrebbero fare. Il primo è proprio dietro di noi. Si gira dallo Strand giù per Savoy Street verso il Tamigi e si svolta in Victoria Embankment in direzione sud. Una volta su Victoria Embankment, ci sono diverse alternative: svoltare in Northumberland Avenue e poi procedere lungo il Mall, op-
pure continuare fino a Bridge Street e Great George Street, poi scendere lungo Birdcage Walk. Un'altra possibilità è andare direttamente lungo lo Strand fino al Mall, ma questo obbliga a passare da Charing Cross oltre che da Trafalgar Square, dove il traffico solitamente è molto congestionato. Inoltre hanno a disposizione numerose strade secondarie per mettere insieme un percorso che, sebbene non diretto, sarebbe più difficile da seguire per noi. Adesso non ci resta che tirare a indovinare.» «Lei istintivamente cosa ne pensa, capo?» domandò Truitt. «Non penso che trasportino la bomba su un camion che viene da qualche altra parte di Londra», sussurrò Cabrillo. «Secondo me è vicino a Lababiti, in questo momento. Il punto di partenza deve essere l'appartamento, o qualche luogo limitrofo, e se fossi l'autista vorrei sbrigarmela il più presto possibile e cercare di allontanarmi dalla zona prima dell'esplosione. Io prenderei Victoria Embankment, mi porterei al parco dove si tiene il concerto, poi inizierei la sequenza di innesco e mi darei alla fuga guardando l'orologio. Al nono minuto starei cercando un edificio molto solido in cui nascondermi.» «Per quanto si estende l'area primaria dell'esplosione?» chiese Truitt. Cabrillo prese l'evidenziatore e tracciò un cerchio. All'estremità nord c'erano la A40 e Paddington, all'estremità sud c'era Chelsea quasi fino al Tamigi. Il limite orientale era Piccadilly Circus, quello a ovest erano le estreme propaggini di Kensington e Notting Hill. «Tutto quello che sta dentro il cerchio cesserà completamente di esistere. Nella fascia a un chilometro e mezzo al di fuori del cerchio, la maggior parte degli uffici del governo britannico sarà gravemente danneggiata, e in un raggio di otto chilometri dal centro dell'esplosione gli edifici subiranno danni e il fallout radioattivo sarà pesante.» Tutti fissavano la pianta della città. Murphy fu il primo a parlare. «Praticamente si tratta di tutta Londra», disse dopo un po'. Cabrillo si limitò ad annuire. «E anche noi saremo ugualmente fritti», commentò Huxley, l'ufficiale medico. «Fritti. È un termine medico?» chiese Jones. Larry King raggiunse a piedi il punto dove Adams era atterrato in un campo vicino alla Oregon. Chinando la testa sotto il rotore ancora in movimento, aprì il portello posteriore del Robinson R44, vi infilò il fucile nel-
la custodia più diverse scatole, richiuse, aprì il portello davanti e salì sul sedile del passeggero. Si infilò le cuffie e mise la sicura. «Buongiorno, George», disse laconico. «Come va, Larry?» replicò Adams tirando su il collettivo e sollevando il Robinson da terra. Poi spinse avanti il ciclico e iniziò il volo di avanzamento. «Bella giornata per andare a caccia», osservò King mentre guardava il panorama fuori dal finestrino. Hanley aveva fatto in modo che potessero posizionare l'elicottero sul tetto di una banca chiusa per le vacanze. La piazzola di atterraggio serviva agli elicotteri-corriere che la notte dei giorni feriali facevano prelevamenti e consegne. Ma per prima cosa dovevano effettuare una consegna a Battersea Park. Meadows, Seng e Truitt erano seduti nella Range Rover presa a prestito e scrutavano il cielo. Non appena apparve il Robinson, Meadows si voltò per parlare a Truitt. «Sua maestà, la vostra faccia è arrivata.» Mettere Truitt al posto del principe Carlo era stata un'idea di Cabrillo, e Fleming aveva accettato. Innanzitutto, il Magic Shop della Oregon aveva la capacità di produrre una maschera di gomma che replicava perfettamente i lineamenti del principe Carlo, ed era in grado di adattarla a qualsiasi membro della squadra della Corporation usando le scansioni al computer dei volti che Nixon aveva già in memoria. In secondo luogo, Cabrillo in quel ruolo voleva uno che non facesse una piega, e sapeva che Truitt era impassibile come pochi. In terzo luogo, fra tutti gli uomini della Corporation Truitt era quello che più si avvicinava per statura e corporatura all'erede al trono. «Bene allora, perché uno di voi due borghesi non va a prendermela? C'è freddo e umido fuori, e io sto bene qui al calduccio.» Meadows, ridendo, aprì la portiera. Fece una corsa all'elicottero che atterrava e prese la scatola con la maschera che King gli porgeva. Ritornando alla Range Rover, si voltò a guardare Adams che prendeva nuovamente il volo. Adams attraversò un'altra volta il Tamigi, poi si diresse a nord piegando un poco su Westminster. Là, appena discosta da Palace Street, trovò la banca e atterrò sul tetto. Una volta che il rotore ebbe finito di girare, King
scese e si avvicinò al bordo guardando al di là del muretto che gli arrivava alla cintola e che circondava il tetto. In lontananza, a nord-ovest, vedeva il giardino di Buckingham Palace, con Hyde Park a nord. I venditori ambulanti stavano già arrivando per il concerto di quella sera. Il grosso furgone dei gelati Ben & Jerry non esercitava una grande attrazione, ma l'ampia scelta di Starbucks invece sì. King ritornò al Robinson e sorrise a Adams. «In una di quelle scatole c'è roba da mangiare, bottiglie d'acqua, soda, thermos di caffè», disse indicando il sedile posteriore. «E ho anche comprato una pila di libri e di riviste di attualità che ho messo nell'altro.» «Quanto tempo pensi che dovremo aspettare?» chiese Adams. King guardò l'orologio. Erano le dieci del mattino. «Al massimo sarà per quattordici ore. Speriamo che la trovino prima.» Nel frattempo al Savoy la squadra si stava infilando i vestiti che Truitt aveva acquistato. Uno per uno ritornarono nella suite di Cabrillo per ricevere gli incarichi. Tutti erano forniti di potenti microradio con auricolari. I microfoni erano assicurati intorno al collo, vicino alla laringe. Per comunicare dovevano solo toccare con il dito la gola e parlare. E tutti a quel punto potevano sentire quello che veniva detto. Le tre squadre di due persone ciascuna avrebbero formato un semicerchio attorno a Green Park, con la circonferenza più vicina allo Strand e il diametro di fronte a Green Park e St James's Park. All'estremità nord-ovest, Kasim e Ross avrebbero preso posizione a Piccadilly fra Dover e Berkley Street. Uscirono dal Savoy e furono trasportati in zona da un autista dell'MI5. Al centro del semicerchio, poi, si trovavano Jones e Huxley. A loro era stata assegnata una postazione esattamente sul lato opposto di Trafalgar Square, vicino alla stazione della metropolitana di Charing Cross. Se la bomba percorreva il tragitto diretto lungo lo Strand, sarebbe passata davanti a loro. L'ultima squadra, Murphy e Lincoln, era assegnata alla zona davanti alla War Cabinet Room in Great George Street e Horse Guards Road. Se la bomba procedeva lungo Victoria Embankment, l'avrebbero intercettata. Se si mettevano nel punto giusto, avrebbero potuto sparare un colpo pulito attraverso St James's Park. E dal momento che erano gli unici ad avere quella possibilità Murphy aveva con sé una borsa piena di minirazzi, fucili e fumogeni. Le altre squadre erano armate di pistole, pugnali e picche appuntite da gettare per strada per bucare le gomme di qualsiasi veicolo.
Cabrillo si sarebbe tenuto nei pressi dell'appartamento. Quasi a fargli compagnia, la strada brulicava di agenti dell'MI5. La mattina era diventata pomeriggio, e ancora non si vedevano movimenti. 41 Lababiti era un manigoldo senza scrupoli, ma era anche un terrorista perfettamente addestrato. Quello era il giorno più critico e non avrebbe lasciato nulla al caso. Svegliando Amad nel primo pomeriggio, gli mise una mano sulla bocca e un foglio di carta davanti agli occhi. Diceva, in arabo: «Da questo momento non si parla più, si comunica solo per iscritto». Amad annuì e si alzò a sedere nel letto. Si fece dare da Lababiti un blocco di carta e una penna e buttò giù un messaggio. «Gli infedeli ci ascoltano?» «Non si può mai sapere», scrisse in risposta Lababiti. Nelle ore successive i due uomini avevano comunicato per iscritto. Lababiti aveva esposto il piano e Amad si era accertato di avere ben capito in cosa consisteva la missione. Quando avevano finito, l'oscurità era già calata su Londra. L'ultimo messaggio di Lababiti era molto succinto: «Devo partire presto - sai dov'è situata la spada di Allah e sai cosa farne - ti auguro un buon viaggio». Amad deglutì e fece segno di sì con la testa. Le mani gli tremavano quando Lababiti gli porse un bicchiere di araq per calmargli i nervi. Qualche minuto più tardi Cabrillo si decise finalmente a usare il telefono di al-Khalifa per chiamare l'appartamento. Ma a quel punto i due uomini avevano fatto il voto del silenzio. Il telefono squillò quattro volte finché non scattò la segreteria telefonica. Cabrillo preferì non lasciare messaggi. Il tanto vantato asso nella manica della Corporation si era rivelato una scartina. «C'è movimento», comunicò alla radio uno degli agenti dell'MI5 addetto a monitorare i microfoni parabolici. Mancava pochissimo alle nove di sera e una leggera nevicata aveva cominciato a scendere su Londra. La temperatura era attorno allo zero e la neve non si fermava sulle strade, limitandosi a bagnarle. Se la temperatura fosse calata, le vie della città si sarebbero trasformate in un caos gelato. Le case si stavano ricoprendo di un manto leggero, e nuvole di vapore uscivano dai numerosi sfiatatoi sui tetti. Gli ultimi addobbi natalizi nelle vetrine
aggiungevano un tocco di allegria alla scena e le strade erano affollate di gente che festeggiava. A parte il fatto che un ordigno nucleare si trovava nei paraggi, tutto era tranquillo. Lababiti scese in ascensore. Aveva spiegato ad Amad come entrare nel negozio; il veicolo che sarebbe servito al trasporto della bomba era stato rifornito di carburante e controllato una settimana prima. Lo yemenita sapeva come attivare il timer e non c'era altro da fare. Nient'altro se non darsela a gambe. Il piano di Lababiti era semplice. Con la Jaguar avrebbe attraversato la città fino alla M20, impiegando quarantacinque minuti circa. Una volta sulla M20, si sarebbe diretto a sud al terminal ferroviario di Folkestone, a quasi un centinaio di chilometri. E giunto là, con un anticipo di trenta minuti come era necessario, avrebbe trasferito la Jaguar sul treno in partenza alle ventitré e trenta. A mezzanotte il treno sarebbe stato in procinto di uscire dal tunnel sottomarino per arrivare a Coquelles, vicino a Calais, alle dodici e cinque. Lui sarebbe stato fuori pericolo in caso di eventuali crolli nel tunnel al momento dell'esplosione, ma pur sempre in grado di vedere la palla di fuoco dal finestrino del convoglio. Era una fuga ben organizzata e tempestiva. Lababiti non poteva sapere che diverse dozzine di agenti dell'MI5, oltre che gli uomini della Corporation, sorvegliavano ogni sua mossa. Era una lepre e i segugi la stavano braccando. L'arabo scese dall'ascensore, attraversò l'atrio e uscì sulla strada laterale. Si guardò attorno, senza notare nulla fuori posto. A parte la sensazione fastidiosa di occhi che lo scrutavano di nascosto, si sentiva a proprio agio e sicuro di sé. Quell'idea era solo frutto di paranoia, pensò, il peso della consapevolezza dell'imminente distruzione. Lababiti scacciò i pensieri, aprì la portiera della Jaguar e vi salì. Avviò l'auto e, dopo averla riscaldata per un minuto, inserì la marcia, percorse i pochi metri fino allo Strand e svoltò a destra. «Ho un rilevamento», disse alla radio un agente dell'MI5. Il congegno che Truitt aveva applicato al serbatoio della Jaguar funzionava alla perfezione. Accanto all'ingresso del Savoy, Fleming e Cabrillo erano in sosta sul
marciapiede. Lanciarono un'occhiata di sfuggita alla Jaguar che aspettava di girare l'angolo. Fleming diede le spalle all'auto e parlò nel microfono attaccato alla gola: «Squadre quattro e cinque seguire a distanza». La Jaguar svoltò e un taxi si staccò dal marciapiede per seguirla a distanza di sicurezza. Un isolato più avanti l'auto superò il furgoncino di una ditta di trasporti notturni; il mezzo si immise nel traffico mantenendosi anch'esso a una discreta distanza. «La Jaguar è pulita», osservò Fleming. «La bomba lì non c'è. Dove credi che stia andando Lababiti, allora?» «Lui... scappa», rispose Cabrillo. «Lascia che sia il ragazzo a fare il lavoro dell'uomo.» «Quand'è che dovremmo muoverci per intercettarlo?» «Che arrivi a destinazione. Qualunque essa sia, l'aeroporto, il terminal ferroviario. Poi ordina ai tuoi di catturarlo. L'importante è che non faccia alcuna telefonata prima di essere preso.» «E poi?» «Fallo portare qui», rispose Cabrillo con una voce che raggelò l'aria già fredda. «Ci spiacerebbe che si perdesse la festa.» «Ottimo», rispose Fleming. «Vediamo se è davvero pronto a morire per Allah.» La tensione aumentava a mano a mano che ci si avvicinava alla mezzanotte. I microfoni nell'appartamento di Lababiti registravano i suoni prodotti da Amad che pregava da solo. Fleming era posizionato nell'hotel dall'altro lato della strada con una dozzina di agenti dell'MI5. Le tre squadre della Corporation si trovavano nelle proprie postazioni da oltre tredici ore. Gli uomini cominciavano a essere stanchi dell'attesa. Cabrillo passeggiava in su e in giù vicino a Bedford Street e in quel lasso di tempo era passato centinaia di volte davanti al negozio di motociclette d'epoca, al ristorante takeaway indiano e a un mercatino. «Dobbiamo entrare in casa», disse a Fleming uno degli agenti. «E se la bomba fosse a qualche isolato di distanza e qualcun altro facesse partire un timer ad azione ritardata? Non lo prenderemmo, e così Londra andrebbe in fumo. Aspettiamo: non c'è nient'altro da fare.» Un altro uomo dell'MI5 era entrato nella hall dell'albergo. «Signore», disse rivolto a Fleming, «abbiamo una ventina di veicoli che si aggirano nelle strade vicine. Non appena il terrorista sale su qualsiasi mezzo di tra-
sporto intenda usare, possiamo bloccare il traffico in un momento.» «E gli artificieri sono in zona... pronti a intervenire?» L'uomo annuì. «Quattro esperti britannici e un paio dell'U.S. Air Force.» In quell'istante Amad smise di pregare e il microfono registrò il suono dei suoi passi sul pavimento della casa. «C'è movimento», disse Fleming alla radio avvertendo le dozzine di uomini in attesa. «Non fate nessuna mossa nei suoi confronti fino a che non sarà alla destinazione finale.» Fleming si augurò che tutto finisse presto. Mancavano undici minuti alla mezzanotte. C'erano agenti dell'MI5 davanti, dietro e su tutti i lati del condominio. Ogni auto sulla strada aveva appiccicato un localizzatore; tutte erano state dotate di un sistema di disattivazione elettronica. Tutte erano state ispezionate con un contatore Geiger e trovate pulite. Era convinzione generale che Amad si sarebbe trasferito a un'altra postazione per recuperare l'ordigno. Ma l'ordigno era al pianoterra. Si trovava sul sidecar di una moto Ural di fabbricazione russa uguale in tutto e per tutto a quella su cui Amad si era esercitato nello Yemen. Non appena la porta dell'appartamento si aprì per lasciare uscire Amad, un agente dell'MI5 attraversò l'atrio e guardò il pulsante dell'ascensore. Indicava che la cabina stava salendo al piano di Lababiti. Poi che ricominciava a scendere. L'ascensore si fermò al primo piano. L'agente sussurrò l'informazione alla radio e si allontanò rapidamente dall'atrio. Tutti coloro che ascoltavano trattennero il fiato: quello era il momento e il luogo. Il cibo, la birra e il divertimento non risultavano intaccati dal freddo e dalla spruzzata di neve. Le zone attorno a Hyde Park e Green Park erano affollate di decine di migliaia di persone in festa. Nel backstage, una delegazione dell'MI5 stava spiegando la dura realtà a una rockstar. «Avreste dovuto avvisarci», protestò vivacemente il manager. «Avremmo cancellato il concerto.» «Te l'ha già detto. Questo avrebbe insospettito i terroristi», fece notare Elton John. Elton John: vestito di una tuta gialla scintillante di paillette, occhiali da
sole ingioiellati e stivali neri con la zeppa e luci nelle suole... sarebbe stato facile liquidarlo come uno dei tanti musicisti straviziati e coccolati abituati a una vita di capricciosa eleganza. La verità era ben diversa. Nato Reginald Dwight, da un'infanzia difficile si era fatto strada con le unghie e con i denti: forza e perseveranza e decenni di duro lavoro. Non si potevano dominare le hit parade per decenni se non si era temprati e pragmatici. Elton John era un sopravvissuto. «La famiglia reale è stata evacuata, vero?» chiese l'artista. «Entri, signor Truitt», gridò l'agente dell'MI5 fuori dalla roulotte. Truitt aprì la porta ed entrò. «Il signore è la controfigura del principe Carlo.» Elton John guardò Truitt e sorrise. «Proprio uguale.» «Signore, voglio che sappia che recupereremo la bomba e la disinnescheremo prima che succeda qualcosa», promise Truitt. «La ringraziamo della sua collaborazione.» «Ho fiducia nell'MI5.» «Lui è dell'MI5», precisò Truitt. «Io lavoro per la Corporation.» «Corporation?» chiese Elton John. «Che cos'è?» «Siamo spie private.» Elton John scosse la testa. «Spie private? Incredibile. Ma siete bravi?» «Abbiamo una percentuale media di successi del cento per cento.» Elton John si alzò dalla sedia: era tempo di andare nel backstage. «Mi faccia un favore», disse, «questa volta ci dia un centodieci per cento.» Truitt annuì. Alla porta John si fermò. «Dica al cameraman di non fare dei primi piani al principe Carlo... i cattivi potrebbero guardarci.» «Lei andrà là fuori?» chiese incredulo il manager. «E dritto filato, anche. C'è una folla di miei compatrioti che è venuta a vedere un mio spettacolo. O i signori risolvono la faccenda», concluse indicando con un ampio gesto Truitt e l'agente dell'MI5, «o io esco e canto subito.» Truitt sorrise e seguì Elton John fuori dalla porta. Ci sono sei modi per entrare in una stanza. Da quattro pareti, pavimento o soffitto. Amad si serviva dell'ultimo. In fondo al primo piano del condominio di Lababiti c'era uno sgabuzzino. Due mesi prima Lababiti aveva accuratamente segato i quattro angoli del pavimento di assi di legno e lo aveva tolto, scoprendo il vespaio. Poi, con una sega circolare del diametro
di sessanta centimetri, aveva praticato un foro che portava nel negozio del piano sottostante. Fra il vespaio e la botola di legno sopra aveva nascosto una scala di corda. Dopo avere tolto la polvere, aveva recuperato la sezione tagliata di pavimento e l'aveva rimessa al suo posto fissandola con due placchette. Alla fine aveva riempito i bordi dell'apertura nello sgabuzzino con stucco per legno in maniera che non si notasse. La botola era rimasta così fino a quel momento. Amad aprì lo sgabuzzino usando una chiave che Lababiti aveva fatto duplicare. Con la porta aperta e il corridoio vuoto, sollevò la botola facendo leva con un cacciavite. Appoggiò la sezione di assi di legno contro la parete e richiuse la porta. Prese un paio di ganci dalla tasca, li avvitò al muro e vi attaccò la scala di corda. Dopo avere tolto le placche che tenevano a posto la sezione rotonda di pavimento, Amad la issò nello sgabuzzino e la buttò da parte. Infine calò la scala nel buco e scese. Tutti gli agenti dell'MI5 sui tetti circostanti avevano i cannocchiali puntati sul primo piano. «Niente», comunicarono a uno a uno. L'agente dell'MI5 che aveva attraversato l'atrio del condominio e ne era uscito rientrò di nuovo. Si avvicinò all'ascensore e vide dall'indicatore luminoso che la cabina era ancora ferma al primo piano. «Sempre al primo», comunicò a Fleming. Nell'hotel sull'altro lato della strada Fleming fissava il proprio orologio. Erano passati quattro minuti da quando il loro uomo aveva fermato l'ascensore. «Vai su dalle scale», ordinò all'agente. Amad guardò le istruzioni scritte in arabo, poi fece scattare all'indietro sulla cerniera il pannello che copriva il meccanismo di innesco della bomba. I simboli erano in cirillico, ma il diagramma era facile da seguire. Accese un interruttore a levetta e un led iniziò a lampeggiare. Poi girò una manopola e sistemò il tempo sul cinque. Infine saltò sulla Ural e, una volta avviato il motore, prese l'apriporta del negozio attaccato con lo scotch al manubrio e premette il pulsante. Inserì la prima e, quando la porta si era già alzata di due metri da terra e continuava a salire, stava già facendo i quindici all'ora. Tutto cominciò a succedere all'improvviso.
L'agente raggiungeva il primo piano e riferiva di averlo trovato vuoto nel medesimo istante in cui la porta del negozio iniziava ad aprirsi. «C'è una porta che si apre», disse Fleming alla radio mentre attraversava di corsa la hall dell'albergo e usciva. Era già alla porta interna di vetro, quando la motocicletta gli apparve e uscì in strada. Nel giro di un secondo Amad sarebbe stato all'angolo per girare nello Strand. «Il nostro uomo è su una moto», gridò alla radio. I cecchini seguirono Amad, ma lui riuscì a svoltare prima che arrivasse l'ordine di sparargli. Sullo Strand tre taxi guidati da agenti dell'MI5 avevano sentito la chiamata alla radio. Si staccarono dal lato della strada per cercare di bloccare la Ural. Amad con uno scarto salì sul marciapiede per superarli, poi ritornò sulla carreggiata e accelerò a tutto gas. Guadagnando velocità si mise a zigzagare in mezzo al traffico come un pazzo. Davanti a lui un camion guidato da un altro agente dell'MI5 cercò di sbarrargli la strada, ma Amad riuscì a passargli di fianco per un pelo. Mi stanno addosso, pensava. Non gli restava che riuscire a portare la bomba alla destinazione prescelta o morire nel tentativo. In un modo o nell'altro, sarebbe diventato un martire. In un modo o nell'altro, Londra sarebbe bruciata. Cabrillo, guardando in fondo allo Strand, aveva visto come il loro uomo l'avesse fatta in barba ai veicoli dell'MI5. Non avevano considerato la possibilità di una motocicletta, e ciò complicava enormemente l'operazione. Non c'era che una sola cosa da fare e Juan non ebbe esitazioni. Strappato un espositore di giornali dal marciapiede, lo lanciò nella vetrina principale del concessionario di moto d'epoca. L'allarme antifurto iniziò a ululare. Cabrillo entrò attraverso la vetrina in frantumi. La Vincent Black Shadow del 1952 in esposizione aveva la chiave d'accensione infilata. Allontanando con lo stivale i frammenti di vetro dal telaio, Cabrillo schiacciò il pedale d'avviamento e il motore si accese rombando. Sollevò la Vincent sopra lo scalino della vetrina, innestò la marcia e poi giù sul marciapiede. Amad passò davanti al negozio e sfrecciò lungo lo Strand. Cabrillo diede gas e balzò all'inseguimento. La Ural era veloce, ma non esiste una moto come la Black Shadow. Se l'altra non avesse goduto di un netto vantaggio, la Shadow l'avrebbe beccata nel giro di pochi secondi.
«Il nostro uomo è a bordo di una moto verde scuro con un sidecar lungo lo Strand», gridava Fleming alla radio. «Trasporta la bomba, ripeto, la bomba è nel sidecar.» Il Robinson con Adams e King prese il volo. Vicino alla stazione di Trafalgar, Jones e Huxley estrassero le armi e presero la mira lungo la strada. Centinaia di persone mulinavano tutt'intorno cercando invano l'angolazione per un tiro pulito. Davanti alla War Cabinet Room Murphy e Lincoln si allontanarono da Victoria Embankment iniziando il puntamento su Hyde Park e Green Park. In Piccadilly Street, Kasim e Ross si separarono iniziando a pattugliare le due estremità della via. Truitt era stato tenuto separato dagli altri del backstage fino al momento di presentarsi davanti al microfono. Dondolandosi su un piede e sull'altro, aspettava. «È ora», disse il manager di Elton John. Truitt lanciò un'occhiata all'agente dell'MI5, ma questo parlava alla radio, e così non gli restò che salire sul palcoscenico e avvicinarsi al microfono. «Signori e signore, vi invito a unirvi a me per dare il benvenuto all'anno nuovo con il musicista preferito d'Inghilterra, Sir Elton John.» Il palco era buio tranne nel punto in cui si trovava Truitt. Poi un faro illuminò Elton John seduto a un piano sopraelevato, sempre con indosso la tuta gialla e la testa riparata da un elmetto da battaglia in kevlar dell'esercito britannico. Partì la musica che introduceva la canzone Saturday Night's Alright for Fighting, e un secondo dopo Elton John cominciò a cantare. Truitt scese dal palco e si avvicinò all'agente dell'MI5. «Si è diretto da questa parte su una motocicletta», disse l'agente. «Mi mescolo tra la folla», rispose Truitt. La Ural, tallonata dalla Vincent, stava superando a grande velocità la Colonna di Nelson. Cabrillo voleva aprirsi la giacca per arrivare alla fondina assicurata alla spalla, ma non poteva staccare le mani dal manubrio per afferrare la pistola. Premette sull'acceleratore e la Vincent schizzò in avanti e affiancò la Ural proprio nel momento in cui superavano Charing Cross. Huxley e Jones, accorsi in mezzo alla strada, tentarono di prendere la mira intanto che le due motociclette transitavano, ma Cabrillo era troppo
sotto e la folla troppo fitta. All'intersezione dello Strand con Cockspur Street, Cabrillo si affiancò alla Ural e cominciò a sferrare calci ad Amad con lo stivale. Lo yemenita sbandò senza tuttavia perdere il controllo. «Vanno dritti al Mall», stava gridando Jones nella radio. Kasim e Ross si misero a correre per Queen's Walk in direzione del concerto. Anche a Murphy capitava di innervosirsi, ma con un fucile da cecchino fra le mani era sempre calmissimo. Lincoln si stava occupando di perlustrare per lui i parchi che aveva davanti. «L'unica possibilità di un colpo pulito in mezzo agli alberi è quando arriveranno in prossimità del Queen Victoria Memorial», osservò. «La strada attorno al monumento gira in senso orario, vero?» chiese Murphy. «Esatto.» «Becco il bastardo mentre rallenta per girare l'angolo... stile JFK», disse Murphy. «Li ho», esclamò Lincoln cominciando a vedere il muso delle motociclette. Adams virò a sinistra sopra gli Old Admiralty Buildings e si mise a sorvolare il Mall dietro le motociclette lanciate. «Testa e spalle», disse King in cuffia. «Shampoo?» scherzò Adams. «No. È dove voglio colpire quello stronzetto.» Prese la mira con il telescopio e controllò il respiro. Il vento freddo del portello aperto dell'elicottero gli faceva lacrimare gli occhi, ma King non se ne accorgeva quasi. Cabrillo guardò davanti a sé. C'era una fila di venditori ambulanti e di chioschi che si allungava ai lati della strada circolare dove si trovava il Queen Victoria Memorial. Si stava avvicinando al perimetro esterno dell'area del concerto. Si affiancò alla Ural preparandosi a saltarle sopra. «Quattro, tre, due, uno», disse Lincoln. Murphy aveva fatto partire il colpo nel momento stesso in cui anche King sparava dall'elicottero. Amad era quasi sulla rotonda quando il sangue gli sgorgò dalla testa, dal petto e dalle spalle. Un secondo più tardi era
morto, proprio mentre Cabrillo saltava dalla Vincent sulla Ural, afferrando con le mani un corpo oramai senza vita. La Vincent si abbatté sull'asfalto in una pioggia di scintille rotolando e ribaltandosi prima di fermarsi. Cabrillo gettò a terra Amad, che rimbalzò sulla strada come un manichino per le prove d'urto sbattuto giù da un tavolo. Afferrò la frizione, tolse la marcia e frenò. La Ural sbandò fino a fermarsi vicino a una fila di ambulanti. Cabrillo guardò il timer. Il conto alla rovescia era già partito da due minuti. Sperava solo che fosse tempo normale e non metrico. Truitt era avanzato di una buona ventina di metri in mezzo alla folla, quando si accorse che doveva togliersi il travestimento. In quanto principe Carlo tutti volevano toccarlo, ma una volta che si fu strappato la maschera la gente cominciò a indietreggiare. «Il signor Cabrillo ha il controllo della bomba al Queen Victoria Memorial», riferiva Lincoln alla radio. Le auto civetta delle squadre dell'MI5 che avevano acceso lampeggianti e sirene si precipitavano al monumento e i loro suoni lancinanti riempirono l'aria. I poliziotti addetti al traffico presero posizione per bloccare i veicoli, nel frastuono di un allarme aereo. Truitt attraversò la strada di corsa raggiungendo Cabrillo mentre stava tagliando il filo. «È ancora attiva», gridò Juan vedendo Truitt. Dick si guardò attorno rapidamente. Parcheggiato lungo la strada c'era un furgone dei gelati Ben & Jerry. Lo raggiunse di corsa e aprì il portello sul retro. Il proprietario fece per protestare, ma in un lampo Truitt era già salito. Dopo avere afferrato con i guanti un blocco di ghiaccio secco, tornò di corsa sull'altro lato della strada dove Cabrillo stava velocemente smontando l'ogiva con un paio di pinze speciali. Juan aveva appena tolto il pannello di lamiera. «Cerchiamo di raffreddare il meccanismo di innesco», esclamò Truitt. Il timer segnava meno un minuto e dodici secondi. «Vai!» urlò Cabrillo. I guanti di Truitt erano appiccicati al blocco di ghiaccio e l'uomo aveva perso sensibilità nelle mani. Lanciò il blocco, con i guanti, sull'ogiva, e poi si infilò le dita oramai grigie sotto le ascelle. Il timer ticchettò ancora per qualche secondo e poi si bloccò di colpo. Cabrillo lanciò un'occhiata a Truitt e sorrise. «Mi sorprende che abbia potuto funzionare.» «La necessità», replicò Truitt a denti stretti, «è la madre dell'inventiva.»
Cabrillo annuì e allungò la mano al microfono attaccato alla gola. «Mi servono gli artificieri al Queen Victoria Memorial immediatamente.» I giochi pirotecnici illuminavano il parco e il cielo di Londra per l'arrivo dell'anno nuovo. Due minuti più tardi un ufficiale dell'esercito britannico scese da un'auto, seguita da un'altra con a bordo un esperto della U.S. Air Force. Nel giro di cinque minuti i due avevano rimosso e posto al sicuro il meccanismo di innesco. Ora la bomba era solo il contenitore di una sfera di uranio arricchito. Il cuore era stato strappato dal corpo, e con esso l'energia vitale che avrebbe portato la morte. Mentre gli esperti rendevano inoffensivo l'ordigno, Cabrillo e Truitt si avvicinarono al corpo di Amad, che giaceva sull'asfalto in una pozza di sangue. La radio aveva comunicato che Lababiti era stato trattenuto e si trovava in quel momento a bordo di un elicottero diretto a Londra. Elton John stava ancora cantando e la sua voce riempiva l'aria. La scena attorno alla motocicletta era delimitata da un cordone di militari britannici e agenti dei servizi segreti; la maggior parte degli spettatori del concerto non si era neppure resa conto dell'accaduto. «Era solo un ragazzo», esclamò Cabrillo abbassando gli occhi. Truitt annuì. «Adesso andiamo dal dottore a fargli vedere le tue mani.» Kasim e Ross, sopraggiunti qualche minuto dopo che il timer era stato bloccato, stavano spingendo quel che restava della Black Shadow verso Cabrillo. La moto d'epoca era in uno stato pietoso. I serbatoi e le fiancate graffiati, il manubrio piegato, una gomma a terra: un esemplare perfetto della storia della motocicletta distrutto. Cabrillo guardò la moto e scrollò il capo. «Voglio che voi due torniate dal concessionario», disse a Ross e a Kasim, «e paghiate al proprietario qualunque prezzo vi chiede. Poi gli domanderete dove si può mandarla a far restaurare.» «Se la vuole tenere, capo?» «A tutti i costi.» In quel preciso momento apparve Fleming, e Cabrillo gli andò incontro per ragguagliarlo. Lababiti veniva riportato a Londra, ma sarebbero passate settimane prima che si decidesse a parlare.
PARTE SECONDA 42 A bordo della fregata lanciamissili della marina degli Stati Uniti, Scott Thompson e la sua squadra del Free Enterprise dovevano ancora vuotare il sacco. Benché il comandante li stesse torchiando da quando si erano arresi, non avevano ancora rivelato niente. Nella timoniera il comandante Timothy Gant aspettava l'arrivo di un elicottero da terra. Il cielo era nero e il vento sferzava il mare sollevando una schiuma bianca. Sullo schermo del radar il puntino indicante l'elicottero in arrivo avanzava. «È in fase di avvicinamento finale, signore», disse il timoniere, «venti fino a trenta nodi da nord e da nord-ovest.» Gant prese in mano la radio. «Ancoratelo al ponte appena atterra», ordinò al capo delle operazioni sul ponte. «Ricevuto, signore.» L'elicottero sbucò dalla nebbia con la luce di atterraggio accesa; puntava dritto alla fregata quasi senza rallentare. «Scendo in picchiata», comunicò il pilota alla radio. Cento metri, ottanta, sessanta, quaranta, venti e finalmente il pilota rallentò. Una volta sopra il ponte, a un terzo della discesa verso la nave, vide gli uomini con i segnalatori, poi la piattaforma libera, e così portò giù l'elicottero. Non appena i pattini ebbero toccato il suolo, un quartetto di marinai a testa china si avvicinò per fissarli con catene. Il rotore non aveva ancora smesso di girare che un uomo con una ventiquattrore scese dall'apparecchio per farsi condurre all'interno: Gant era uscito per andargli incontro e gli aprì la porta. «Venga... al riparo da questo tempaccio», disse. «Sono il comandante Timothy Gant.» L'individuo che entrava era alto e allampanato con il viso leggermente butterato e il naso adunco. «Sono il dottor Jack Berg», si presentò. «Della CIA.» «I prigionieri non hanno ancora confessato niente», spiegò Gant mentre lo guidava lungo il corridoio verso la cella. «Non si preoccupi. Sono qui per questo.» Trovare un tecnico che riparasse la sega durante le vacanze non era facile e alla fine Dwyer, con indosso una tuta anticontaminazione, era entrato
nella stanza schermata e lo aveva fatto lui stesso. Per fortuna il guasto si era rivelato semplice - una cinghia di trasmissione slittava -, e così aveva soltanto dovuto tirare la puleggia con una chiave inglese. Dopo avere verificato se la riparazione funzionava e vedendo che la sega andava benissimo, Dwyer era uscito attraverso la camera di sicurezza, aveva lavato la tuta anticontaminazione nel bagno chimico, l'aveva appesa a un gancio ed era rientrato nella sala controllo. Il tecnico che monitorava le apparecchiature alzò gli occhi. «Nessuna perdita», esclamò. «E a quanto pare ha anche riparato la sega.» Dwyer annuì, poi premette il pulsante per farla ripartire. Non appena la lama si mise a ruotare, si avvicinò al comando per abbassarla sopra il campione prelevato dal cratere in Arizona. La lama affondò nel pezzo di metallo delle dimensioni di un limone e le scintille cominciarono a volare tutt'intorno come le code filanti di un fuoco d'artificio del Quattro luglio. Dwyer era a metà dell'operazione quando scattò l'allarme. «Pressione negativa», gridò il tecnico. «Aggiungi aria.» Il tecnico girò una manopola e fissò le spie sulla parete. «Scendiamo ancora», gridò. All'interno della stanza di isolamento cominciavano a formarsi vortici simili a quelli di un piccolo tornado. Numerosi campioni erano stati sollevati e volteggiavano come privi di peso, mentre la chiave inglese che Dwyer aveva lasciato sul banco di lavoro era stata risucchiata e danzava per aria accanto alla sega. Era come se fosse stato aperto un tubo di scarico gigantesco e l'atmosfera venisse aspirata nel nulla. «Aria al massimo», gridò Dwyer. Il tecnico girò completamente la valvola di controllo. E nonostante ciò, la pressione continuava a scendere. Sullo strato interno della spessa vetrata cominciava a formarsi una ragnatela. Se si fosse infranta, non sarebbe rimasta che una sola protezione di vetro fra Dwyer e il tecnico oltre a una morte sicura. I guanti di kevlar che sporgevano attraverso la parete erano completamente risucchiati su loro stessi. In tutta fretta Dwyer richiuse le placche di metallo rotonde sopra le aperture per le braccia e abbassò gli sportelli che le tenevano fisse al loro posto. La postazione di lavoro nella stanza di isolamento era inchiodata al pavimento con bulloni del diametro di due centimetri e mezzo. Uno di questi saltò via schizzando verso il centro del banco, che si mise a ondeggiare a mano a mano che pure gli altri bulloni si allentavano.
«Signor Dwyer», gridò il tecnico, «lo perdiamo. Sono al massimo della pressione positiva e il vuoto aumenta.» Dwyer guardava dentro la stanza. Entro pochi secondi si sarebbe verificato un gorgo spaventoso. Poi l'idea lo colse come un pugno nello stomaco. Si avvicinò al pannello di controllo e accese il laser. Lo strumento si illuminò e la punta incandescente iniziò a roteare all'impazzata. Il fumo, volteggiando, riempì la stanza, poi si posò sul campione. Qualunque cosa il laser toccasse, bruciava. «La pressione diminuisce», gridò il tecnico qualche istante dopo. «Interrompi l'immissione di aria», ordinò Dwyer. Gli oggetti nella stanza cominciarono a posarsi con il normalizzarsi della pressione; e qualche attimo dopo tutto era finito. Dwyer spense il laser e guardò nella stanza. «Signor Dwyer, le spiacerebbe spiegarmi che cosa è successo?» «Credo che ci sia qualcosa in quei campioni che trova assai gradevole il sapore della nostra atmosfera.» «Mio Dio», sussurrò il tecnico. «Per nostra fortuna, abbiamo appena scoperto la malattia assieme alla cura.» «In giro ce n'è altra di roba così?» chiese cauto il tecnico. «Una cinquantina di chili.» Ben presto i pellegrini avrebbero iniziato a riversarsi in Arabia Saudita con voli charter, torpedoni dalla Giordania e navi in arrivo dall'Africa attraverso il mar Rosso. Saud al-Sheik doveva occuparsi di un migliaio di dettagli, il più importante dei quali era predisporre la consegna dei tappeti da preghiera. Gli avevano promesso che il nuovo proprietario della fabbrica lo avrebbe chiamato l'indomani. Così aveva telefonato alla Saudi National Airline riservando spazio da trasporto su un 747 cargo nel giro di due giorni. Se i tappeti non fossero arrivati in tempo, neppure le buone relazioni della sua famiglia avrebbero potuto salvarlo dall'ira che lo avrebbe investito. Si guardò attorno nel magazzino della Mecca. Pallet di cibo e bottiglie d'acqua si allungavano fino al soffitto. Un carrello elevatore era entrato a prelevare dal pavimento il primo container perché fosse caricato sull'autocarro e trasportato allo stadio. Alcune tende in esso contenute il giorno seguente sarebbero state montate. E da quel momento in poi le cose si sarebbero succedute rapidamente.
Mentre si scriveva un appunto per non dimenticarsi di controllare che i pali, le funi di sicurezza e i pioli venissero imballati, al-Sheik si avviò alla porta per vedere se l'autista riempiva l'autocarro nel modo corretto. Jeff Porte radunò gli oggetti che avrebbe portato via dall'ufficio di Hickman e guardò il capo della sicurezza. «Il mandato ci dà il diritto di prendere indistintamente qualsiasi oggetto che riteniamo possa essere importante.» La grossa cartella in mano a Porte conteneva documenti, le medagliette dei cani e qualche capello sparso ritrovato sulla scrivania. «Capisco, Jeff», gli rispose il capo della sicurezza. «Due dei miei uomini resteranno qui nel caso ci serva qualcos'altro.» Il capo della sicurezza annuì. Porte uscì dall'ufficio e si avviò lungo il corridoio che immetteva nel salotto, dove i due investigatori lo stavano aspettando. «Che nessuno entri o esca senza la mia autorizzazione», ordinò. Alla fine lasciò l'attico e scese con l'ascensore. Uscì dalla hall dell'hotel e salì in auto. Non appena rientrato al dipartimento di Polizia, fotocopiò le medagliette e i documenti e spedì il tutto via fax alla CIA. Appena Overholt ebbe ricevuto i fax li inoltrò alla Oregon. Hanley stava leggendo la pila di incartamenti quando Halpert entrò nella sala controllo. «Ho steso il rapporto, signor Hanley.» Hanley annuì consegnandogli i documenti che Overholt gli aveva trasmesso. Halpert li lesse e poi li restituì. «È la conferma dei miei risultati», spiegò. «Ho scoperto il certificato di nascita di Hunt. Sua madre, Michelle, non lo ha registrato con il nome del padre dopo il parto, ma sono riuscito ad avere accesso ai vecchi registri ospedalieri e ho appurato che è stata una delle società di Hickman a pagare il conto. Tirando le somme non abbiamo dubbi: Hunt era figlio di Hickman.» «E questo ha a che fare con il meteorite?» domandò Hanley. «Guardi qui», gli rispose Halpert passandogli un foglio. «Hunt è stato ucciso in Afghanistan dai talebani», osservò Hanley dopo avere finito di leggere. «E, immediatamente dopo, Hickman ha cominciato a dare segni di un comportamento strano», continuò Halpert leggendo i propri appunti.
«Dunque incolpa gli arabi della morte del suo unico figlio.» «Ma come mai ha finanziato la spedizione in Groenlandia?» intervenne Stone. «Sembra che dopo la morte del figlio Hickman abbia devoluto fondi a numerose facoltà di archeologia in tutto il Paese. La spedizione di Ackerman per conto dell'università di Las Vegas era una delle tante in programma quest'anno, mentre la principale, in Arabia Saudita, era guidata da uno studioso che cerca di screditare la figura di Maometto dimostrando che si tratta solo di un personaggio leggendario. Ackerman, pur operando in un campo completamente diverso, ha ricevuto comunque dei fondi. Credo che il ritrovamento del meteorite sia stato semplicemente un colpo di fortuna.» «Così Hickman in un primo tempo decide di servirsi della storia per attaccare il mondo arabo», rifletté Hanley lentamente, «dopo di che, come un dono degli dei, il meteorite gli piove in grembo.» «Ma questo non ha niente a che fare con l'Islam o con Maometto», insistette Stone. «A un certo punto credo che Hickman abbia deciso che era necessaria una vendetta più mirata», osservò Halpert. «Ho trovato dei dati che ha richiamato sul suo computer immediatamente dopo la scoperta di Ackerman. Riguardano la natura radioattiva dell'iridio e i pericoli che rappresenta.» «Ed ecco allora che pensa di impossessarsi del meteorite e infine», continuò assorto Hanley, «di combinarlo con una testata già esistente e bombardare qualche Paese arabo?» «È esattamente quello che ho continuato a pensare anch'io a lungo», ammise Halpert. «All'inizio anch'io ho seguito lo stesso filo logico... che il meteorite andava usato in qualche operazione di tipo nucleare. Ma si tratta di un vicolo cieco... non c'è niente che colleghi Hickman all'ordigno nucleare ucraino o simili... e così ho cominciato ad ampliare le mie ipotesi.» «Polvere radioattiva?» suggerì Hanley. «Questo è l'unico altro impiego logico.» «Cos'hai trovato ancora?» «Ho scoperto che Hickman ha appena acquistato un'industria tessile in Inghilterra accanto alla cittadina di Maidenhead.» «All'incirca il posto dove si trova il meteorite attualmente, in base ai dati delle microspie», osservò Stone. «Progetta di spargere la polvere sulle stoffe e mandarle in Medio Oriente?» chiese Hanley.
«Non precisamente», rispose pensoso Halpert. «La fabbrica ha ricevuto una grossa ordinazione dall'Arabia Saudita per una partita di tappeti da preghiera di lana ancora da consegnare.» «Dunque medita di contaminare i tappeti per irradiare i musulmani mentre pregano», concluse Hanley. «Una mente diabolica.» «È arrivato a Londra stamattina presto sul suo jet», disse Halpert. «Secondo me...» In quel preciso istante il telefono si mise a squillare e Hanley fece segno a Halpert di aspettare, mentre rispondeva. Era Overholt, che andò subito al dunque. «Abbiamo un problema.» «No», diceva il capo della sicurezza di Dreamworld. «Telefono da casa mia. Non credo che sia sorvegliato.» Continuando, spiegò del mandato di perquisizione e degli oggetti prelevati dall'ispettore. Hickman ascoltava. «Dove si trova, signore? Desiderano parlarle con urgenza.» «Meglio che tu non lo sappia», rispose Hickman. «C'è qualcosa che possiamo fare per lei?» «In questo momento nessuno può fare niente tranne il sottoscritto.» Hickman chiuse la comunicazione e si abbandonò sulla sedia nell'ufficio della Maidenhead Mills. Qualcuno del governo gli stava con il fiato sul collo. Non sarebbe passato molto tempo prima che localizzassero dove si trovava attualmente. Prese il telefono e compose un numero. L'equipaggio del Free Enterprise sbarcato a Calais quando l'imbarcazione aveva puntato verso nord era arrivato a Londra quella mattina: quattro uomini - un equipaggio ridotto all'osso, in verità -, ma era tutto quello che restava a Hickman. Così telefonò loro per impartire gli ordini. «Bisognerà che rubiate tre camion», disse Hickman. «Non sarà possibile trovare niente a noleggio perché è giorno di festa.» «Di che tipo?» domandò il capo. «Il carico è composto da container standard da dodici metri che possono essere caricati a bordo di rimorchi piani», spiegò Hickman. «Ho chiamato il mio uomo alla Global Air Cargo e mi ha suggerito alcuni differenti tipi di camion.» E così dicendo lesse l'elenco. «E una volta che li abbiamo, dove si va?» chiese il capo.
«Se guardate la cartina, c'è una cittadina di nome Maidenhead appena a nord di Windsor.» «La vedo», rispose l'uomo. «Una volta a Maidenhead, venite a questo indirizzo», continuò Hickman leggendo quello della fabbrica e fornendo le indicazioni per arrivarci. «Con quanta urgenza dobbiamo muoverci?» «Il più in fretta possibile», rispose Hickman. «Un jet 747 della Global Air Cargo aspetta il carico a Heathrow.» «Ma come ha fatto, la sera dell'ultimo dell'anno?» si stupì l'interlocutore. «La compagnia è di mia proprietà.» «Ci dia almeno un'ora.» «Prima è, meglio è.» Il cappio si stringeva, ma Hickman non lo sentiva ancora tirare attorno al collo. Rullando, Judy Michaels portò l'idrovolante a fianco della Oregon. Poi spense il motore e andò al portello del carico. Mentre l'aereo avanzava galleggiando, la donna attese di vedere qualcuno sul ponte, poi lanciò una corda. Il marinaio assicurò l'aereo alla fiancata e Cliff Hornsby scese dalla scaletta. «Buonasera, Judy», esclamò mentre cominciava a impilare i rifornimenti che gli venivano passati dall'alto della nave. «Com'è il tempo lassù?» «Neve e nevischio», rispose Michaels prendendo i numerosi pacchi e casse. Rick Barrett scese dalla fiancata con una borsa fra le mani. Una volta sul ponte si rivolse a Michaels. «C'è del caffè e qualcosa per cena qui dentro. Cucinato da me.» «Grazie», rispose Judy afferrando l'ultimo pacchetto. Halpert e Reyes salirono sull'apparecchio. «Chi di voi ha qualche esperienza come pilota, ragazzi?» chiese lei prima di tornare nella cabina. «Io sto prendendo lezioni», rispose Barrett. «Pilota e cuoco», osservò Michaels. «Un'accoppiata pazzesca. Allora vieni davanti. Puoi aiutarmi con la radio e la navigazione.» «Cosa dobbiamo fare noi?» domandò Halpert. «Quando il marinaio scioglie la corda spingeteci via con quella gaffa. Poi chiudete il portello con la sicura e prendete posto. Accenderò il motore quando mi dite che abbiamo via libera.»
Judy Michaels si infilò al posto di guida, aspettò che Barrett si fosse sistemato al suo fianco e poi si voltò verso la stiva. «Ditemi quando siete pronti.» Hornsby afferrò la corda che il marinaio aveva lanciato. Halpert allontanò l'idrovolante dalla nave e Reyes chiuse il portello. «Accendi», gridò Halpert un istante dopo. Michaels girò la chiave di accensione e il motore rombò. Allontanandosi con il motore al minimo dalla Oregon aspettò di trovarsi a cinquanta metri e spinse sull'acceleratore. L'idrovolante si lanciò sull'acqua e poi si sollevò in aria guadagnando quota, infine effettuò un'ampia virata a sinistra, continuando a salire mentre già raggiungeva la periferia di Londra. Hanley osservò l'apparecchio che si allontanava sulle telecamere, poi si rivolse a Stone. «Tu come stai andando?» Halpert aveva lasciato gli appunti nella sala controllo e Stone stava seguendo le diverse piste. «Adesso sto passando in rassegna le società di Hickman», rispose l'operatore. «Faccio un controllo per vedere se il pilota di Hickman ha presentato richiesta di qualche altro piano di volo», osservò Hanley. All'aeroporto di Heathrow, nel terminal dei cargo, una coppia di piloti stava bevendo tè davanti alla televisione nella sala dello spazioso hangar della Global Air Cargo. «Ti sei procurato le ultime previsioni del tempo?» chiese l'uomo al suo secondo. «Quindici minuti fa. La tempesta si rompe sopra la Francia. Il Mediterraneo è pulito e resta tale fino a Riyadh.» «Documenti e autorizzazioni a posto?» «Siamo pronti per partire.» «La destinazione si trova a cinquemila chilometri», disse il pilota. «Poco più di cinque ore e mezzo di volo.» «Se solo adesso arrivasse il carico...» «Se il proprietario della compagnia dice di aspettare, si aspetta.» Il pilota annuì. «Cosa danno alla tele questa sera?» «Il concerto di Elton John a Hyde Park. Sta per iniziare.» Il pilota si alzò e si incamminò verso l'angolo cucina. «Faccio dei popcorn al microonde.»
«Sui miei, burro a volontà», gli rispose il secondo pilota. Michaels si allineò sopra il fiume e ammarò. Dopo che il velivolo ebbe virato in direzione della riva, gli uomini lo fissarono con le corde ad alcuni alberi vicini, poi scaricarono la merce e scesero a terra. LMI5 aveva tutte le forze impegnate a Londra e non c'era dunque nessuno ad accoglierli. «Qualcuno sa come si mette in moto un'auto facendo contatto con i fili?» domandò Halpert. «Io sì», rispose Reyes. «Cliff... vai con Tom e trova qualcosa di abbastanza grande per trasportare noi e l'attrezzatura.» «Okay», rispose Hornsby risalendo l'argine con Reyes e avviandosi in direzione del centro abitato. Mentre aspettava, Halpert si mise a studiare la piantina. Durante il viaggio fin lì aveva chiesto a Michaels di sorvolare la Maidenhead Mills... e ora non gli restava che trovare il tragitto sulla carta. Una volta individuata la località, si rivolse a Michaels che era ancora sull'aereo. «C'è una tazza di caffè per me?» Judy scomparve nella cabina e riempì una tazza che porse a Halpert sulla riva. «Qual è il piano?» «Prima guardiamo, poi gli piombiamo addosso.» In quel preciso istante Reyes comparve dietro l'argine su un vecchio camion Ford con pianale aperto. Dietro, vicino alla cabina, si trovavano diverse gabbie per i polli assieme a degli attrezzi arrugginiti e a una matassa di corda. «Scusate il mezzo», esclamò Reyes, «ma non possiamo fare i difficili.» «Carichiamo il materiale», disse Halpert consegnando a Reyes la piantina segnata. «Io controllerò la radio», esclamò Michaels mentre gli uomini trasportavano l'attrezzatura sul rimorchio. «Buona fortuna.» Halpert sorrise, ma non rispose. Una volta che tutti furono a bordo, batté i piedi sul pianale. «Si parte.» In un turbine di neve, il camion partì traballando dall'argine in direzione della fabbrica. 43
All'una di notte passata del 1° gennaio 2006 Cabrillo aveva finalmente chiamato la Oregon per un resoconto dell'accaduto. «Abbiamo recuperato l'ordigno.» «Cosa dicono all'MI5?» chiese Hanley. «Sono in delirio. Gira voce che vogliano farmi cavaliere dell'Impero Britannico.» «Sei stato tu a dare la zampata finale?» chiese Hanley incredulo. «Ti ragguaglio quando torniamo sulla nave. Cos'altro succede?» «Mentre la tua squadra lavorava alla bomba, Halpert ha scovato altre informazioni che collegano il meteorite a Halifax Hickman. Adesso siamo convinti che, siccome suo figlio è stato ucciso dai talebani in Afghanistan, lui abbia in mente di sferrare un colpo mortale a tutta la religione islamica. Di recente ha acquistato un'industria a ovest di Londra che ha ricevuto un ordine di tappeti da preghiera che verranno usati durante lo hajj.» «Rinfrescami la memoria», disse Cabrillo. «Lo hajj non è il pellegrinaggio alla Mecca?» «Esatto, e quest'anno cade il dieci.» «Pertanto abbiamo un sacco di tempo per concludere l'operazione.» «Avrebbe anche potuto essere così», osservò Hanley, «se non fosse che oggi, mentre tu eri bloccato a Londra, sono accadute molte cose.» Hanley gli riferì quello che Overholt aveva spiegato riguardo ai test sui frammenti di meteorite. «A che punto siamo di preciso, adesso?» chiese Cabrillo. «Ho mandato Halpert e altri tre alla fabbrica, nella cittadina di Maidenhead.» «E le microspie sul meteorite, Max?» «Indicano che si trova ancora in zona.» «Per cui se Hickman fa qualcosa per disturbare l'integrità della sfera potremmo ritrovarci con una situazione peggiore rispetto a quella della bomba», concluse Cabrillo. «Stone ha fatto qualche controllo e ha scoperto che in un'industria tessile standard non esiste alcun macchinario abbastanza robusto da macinare o frantumare l'iridio. Se il piano di Hickman è questo, deve essersi procurato l'attrezzatura per ottenere lo scopo, nella fabbrica o nelle vicinanze.» Cabrillo restò in silenzio per qualche istante. «Halpert avrà bisogno di aiuto», esclamò poi. «Lascio qui Seng e Meadows... si sono coordinati con l'MI5 per l'operazione e possono occuparsi di concludere e coprire il nostro coinvolgimento.»
Hanley stava prendendo appunti su un blocco. «Capito. E gli altri?» «Chiama Adams e fagli portare il Robinson all'eliporto oltre il fiume fra mezz'ora», ordinò Cabrillo. «E di' a Halpert che stiamo arrivando.» «Consideralo fatto», ribatté Hanley mentre la comunicazione si chiudeva. «Gli uomini della Corporation hanno localizzato la bomba, signor presidente», riferì Overholt. «Ora si trova nelle mani dei servizi segreti britannici.» «Ottimo lavoro», rispose il presidente allegro. «Porgi loro le mie più sentite congratulazioni.» «Lo farò, signore. Ma c'è un altro problema del quale è necessario che sia al corrente.» «Che cosa?» Overholt gli spiegò dei test effettuati con i campioni di meteorite. «Questo è un problema. Si potrebbe facilmente sostenere che il meteorite è finito nelle mani sbagliate in conseguenza di un pasticcio della CIA.» «Allora ho bisogno di un favore da lei», continuò Overholt. «È necessario che prendiamo segretamente in custodia la madre del figlio di Hickman... niente mandati, niente avvocati.» «Sospendendo i suoi diritti in base al Patriot Act?» «Proprio così, signore.» Il presidente rifletté un momento. Benché fosse ansioso di chiudere la faccenda, portare via dei cittadini americani dalle loro case o dalle loro attività senza spiegazioni gli puzzava sempre di dittatura. Il capo dello Stato usava quel potere unicamente se la minaccia era molto grave. «Allora proceda», esclamò infine. «Ma prelevatela con discrezione.» «Si fidi di me. Nessuno saprà che è sparita.» Sei uomini della direzione operativa della CIA avevano circondato la casa di Michelle Hunt a Beverly Hills quel pomeriggio stesso. Non appena lei era rientrata dalla galleria dopo l'orario di lavoro, l'avevano rapita. Per le sette di sera dello stesso giorno era stata trasferita all'aeroporto di Santa Monica e imbarcata su un jet governativo diretto a Londra. L'aereo stava appunto sorvolando il fiume Colorado nei cieli dell'Arizona, quando uno degli agenti della CIA iniziò a spiegare la situazione. Alla fine, Michelle Hunt parlò. «Che cosa sarei dunque... un'esca?» chiese dolcemente.
«Non ne siamo ancora certi», ammise l'agente. Michelle Hunt scosse la testa e sorrise. «Non conoscete il padre di mio figlio. Per lui le persone sono proprietà da usare e buttare, se necessario, e minacciare me non vi servirà a un bel niente.» «Ha forse un'idea migliore?» Michelle Hunt si mise a riflettere sulla domanda. Rubare tre camion il giorno di san Silvestro si era rivelata un'operazione facile. L'interporto fuori Londra era praticamente deserto, e l'unico scalo merci aperto per servire i corrieri era affidato a un solo addetto. Quelli che restavano della squadra del Free Enterprise non avevano fatto altro che entrare in punta di piedi, legare l'impiegato e prendere le chiavi che servivano. Nessuno avrebbe cercato l'uomo fino all'indomani. Per allora i container sarebbero stati trasferiti e i camion abbandonati. Scott Thompson, il capo dell'equipaggio del Free Enterprise, aveva mostrato una determinazione d'acciaio, restando sprezzante fino a quando un attendente della fregata non lo aveva legato a un lettino con delle cinghie accertandosi che le braccia fossero ben ferme. «Esigo di sapere che cosa sta succedendo», aveva chiesto Thompson con le gocce di sudore che cominciavano a imperlargli la fronte. L'attendente si era limitato a sorridere. Poi la porta si era aperta e il dottor Berg era entrato nell'infermeria. Teneva in mano una ventiquattrore. Era andato al lavabo e si era lavato le mani. Thompson, pur sforzandosi di guardarlo, era legato così stretto che quasi non riusciva a muovere il collo. Il rumore dell'acqua corrente era come una pugnalata nel cuore. I tre camion entrarono nel parcheggio della Maidenhead Mills e poi fecero il giro alle spalle dei fabbricati dove si trovavano le piattaforme di carico. Fatta una retromarcia fino alle porte delle banchine, gli uomini spensero i motori e scesero. Halpert e Hornsby erano dislocati sul retro della fabbrica, mentre Barrett e Reyes dovevano sorvegliare la zona anteriore. A parte una Rolls-Royce e una berlina Daimler nel parcheggio accanto all'ingresso principale, la fabbrica appariva deserta. Halpert aspettò che gli uomini fossero entrati e poi sussurrò nella radio: «Ci avviciniamo per vedere il più possibile». «Noi ci porteremo sul davanti», rispose Reyes.
All'interno della fabbrica, Roger Lassiter era seduto nell'ufficio e guardava Hickman. «Non ho pensato che a causa della chiusura festiva è impossibile verificare che il trasferimento dei fondi sia avvenuto.» «Dovrà fidarsi di me.» La scatola contenente il meteorite si trovava sulla scrivania in mezzo ai due uomini. «Non sono molto portato alla fiducia», osservò Lassiter, «ma lei deve esserlo.» «Le posso assicurare che verrà pagato.» «Qual è la destinazione del meteorite?» chiese Lassiter. Hickman si chiese se fosse necessario rispondere. «Alla Kaaba», replicò frettolosamente. «Lei è marcio fino al midollo», osservò Lassiter alzandosi. «Ma tant'è, lo sono anch'io.» Lassiter uscì dall'ufficio e poi dalla porta d'ingresso principale. Reyes in segreto gli scattò delle fotografie mentre saliva sulla sua Daimler. Mentre percorreva il capannone trasportando faticosamente la scatola del meteorite, Hickman vide due degli uomini dei camion che si avvicinavano dalla zona dietro l'edificio. Si incontrarono circa a metà strada. «Avete visto i container?» domandò Hickman. «Quei tre di fianco alla porta?» «Sì», rispose Hickman avvicinandosi alle piattaforme seguito dagli uomini. «Dopo che li avrò preparati, voglio che li carichiate sui camion per trasportarli a Heathrow.» Hickman si trovava oramai quasi sulla soglia. «Ecco il rivestimento che ha ordinato», disse uno degli uomini tenendolo sollevato. «Perfetto», rispose Hickman, raggiungendo la follatrice. «Lo dia a me.» Uno degli uomini sollevò un sacco dal pavimento, iniziò a scuoterlo e glielo consegnò. 44 A bordo della Range Rover in prestito, Cabrillo e la sua squadra aspettavano all'eliporto di Battersea quando Fleming raggiunse il presidente della Corporation al cellulare. In quel momento Adams stava scendendo sul
Tamigi e con una virata si preparava ad atterrare. «Juan», disse Fleming, «abbiamo appena saputo qualcosa che troverai interessante, relativamente al meteorite. Considerala una maniera di sdebitarci per l'aiuto che ci avete dato con la bomba.» Il frastuono dell'elicottero in avvicinamento aumentava. «Di cosa si tratta?» chiese Cabrillo. «L'informazione viene dal nostro principale agente in Arabia Saudita. Il luogo specifico dove i musulmani pregano fino a cinque volte al giorno alla Mecca, la Kaaba, è un tempio speciale che custodisce un oggetto molto interessante.» «Che oggetto?» chiese Cabrillo. «Un meteorite nero che si dice sia stato ritrovato da Abramo. Il sito è il cuore della fede islamica.» Cabrillo restò in silenzio, sbigottito. «Grazie per avermi edotto», rispose infine. «Mi metterò presto in contatto.» «Ho creduto importante che lo sapessi. Chiama pure l'MI5 se possiamo esservi di aiuto. Siamo in debito.» Halpert infilò la mano in uno zaino che si era portato dietro dalla Oregon e applicò i localizzatori a tutti e tre i camion. Poi piazzò un microfono al fondo della parete vicina alla porta basculante. Fece segno a Hornsby ed entrambi indietreggiarono sino alla fila degli alberi. Una volta di nuovo nascosto e al sicuro, Halpert sussurrò nella radio: «Tom, tu a che punto sei?» Reyes e Barrett avevano applicato un microfono simile vicino alle porte di vetro dell'ingresso principale. Erano appena rientrati in zona di sicurezza dietro un muro ai bordi del parcheggio. «Siamo collegati», rispose sussurrando. «Adesso non ci resta che aspettare e stare in ascolto.» La squadra di Hickman stava lavorando in silenzio. Dopo aver chiuso ermeticamente i container con uno spruzzatore portatile di plastica liquida, uno degli uomini praticò un paio di piccoli fori attraverso le fiancate metalliche. Un foro era vicino alla sommità del container, all'incirca all'altezza del petto, mentre l'altro era più in basso, all'altezza delle caviglie. Poi i fori vennero filettati per installarvi dei piccoli tubi. Terminata anche quella operazione, Hickman parlò. «Le maschere», fu
tutto quello che disse. Dopo avere frugato nelle borse che avevano con sé, i cinque uomini si applicarono delle maschere sulla bocca e sul naso. Poi uno di loro fissò una pompa pneumatica al fondo del container e la mise in moto, cominciando così a risucchiare l'aria che si trovava all'interno. Hickman, dopo avere segnato due tacche sulla fiala di Vanderwald per dividerla in tre terzi, versò il liquido in un piccolo serbatoio di acciaio inossidabile che era avvitato nella parte superiore del raccordo. Osservando attentamente l'orologio che aveva al polso regolò l'introduzione del batterio nel container, poi tolse il serbatoio e avvitò un tappo a chiusura ermetica sul foro. Hickman lasciò che la pompa continuasse a lavorare per altri trenta secondi per creare un leggero vuoto, poi la tolse e chiuse il foro con un tappo. Mentre si spostava verso il container successivo uno degli uomini spruzzò la coppia di tappi con la plastica liquida per assicurare la tenuta ermetica. Intanto che Hickman introduceva l'agente patogeno dentro i container, un altro membro della squadra irrorava il meteorite sul pavimento della fabbrica con un secondo strato di rivestimento speciale, girandolo per raggiungere ogni punto della sua superficie. Quando ebbe finito sollevò la sfera e la sistemò nella scatola. Hickman aveva terminato il suo lavoro sui container. Si allontanò dalla zona con la fiala e l'appoggiò sul pavimento. Dopo averla spruzzata con della benzina accese un fiammifero e ve lo gettò sopra. Le fiamme divamparono immediatamente. Intanto, ai container, gli altri quattro si erano dotati di piccoli saldatori al butano, di quelli usati dagli idraulici per le condutture. Li accesero, puntarono le fiamme verso l'alto e le agitarono in aria per almeno cinque minuti. «Okay», esclamò Hickman. «Aprite le porte, ma tenete le maschere.» Uno degli uomini si diresse alle porte basculanti e spinse i montacarichi elettrici sulle tre banchine. Poi gli autisti uscirono, tirarono fuori i cavi degli argani dal retro delle cabine dei camion e iniziarono a issare i container al loro posto. Una volta assicurati, Hickman salì sul primo camion, si sistemò sul sedile del passeggero e fece segno all'autista di partire. Halpert e Hornsby assistettero all'operazione dal loro nascondiglio scattando quante più foto possibile con le macchine a infrarossi. Ma oltre a ciò c'era ben poco che potessero fare. Restarono a guardare mentre i camion si allontanavano a uno a uno dalle banchine di carico e scarico con le porte aperte alle intemperie.
La neve era diventata pioggia e gli pneumatici degli autocarri sguazzarono nel parcheggio mentre aggiravano l'edificio dal retro e prendevano la strada per abbandonare la fabbrica. «Tom, non cercare di entrare là dentro», si affrettò a dire Halpert. «Gli uomini che se ne sono appena andati indossavano delle maschere antigas.» «Ho capito», rispose Reyes. «Chiamo la Oregon per avere istruzioni.» Appena riagganciato con Fleming, Cabrillo telefonò a Hanley per riferirgli quanto aveva appreso. «Dirò a Stone di indagare immediatamente», rispose Hanley. «Forse Hickman non è intenzionato a distruggere il meteorite», osservò Cabrillo. «Può darsi che voglia fare qualcosa di completamente diverso.» Proprio in quel momento Halpert si fece vivo alla radio. «Aspetta», gli disse Hanley. «Ti metto in comunicazione a tre con Cabrillo.» E quando tutti poterono sentirsi, Halpert spiegò che cosa era accaduto. «Riesci a leggere i segnali del localizzatore dei camion?» chiese Cabrillo. Hanley lanciò un'occhiata allo schermo che Stone gli indicava. C'erano tre puntini luminosi che si spostavano. «Li abbiamo, ma c'è un altro problema.» «Che problema?» ribatté Cabrillo. «Qualche minuto fa abbiamo perso il segnale del meteorite.» «Maledizione», sbottò Cabrillo. La linea restò muta per un istante. «Ecco che cosa faremo», riprese Cabrillo dopo avere riflettuto. «Mando Adams e Truitt con il Robinson alla nave a prendere delle tute anticontaminazione; Michael, tu e gli altri aspetterete finché non arrivano.» «Bene, capo», rispose Halpert. «Jones e io resteremo qui nella Range Rover», continuò Cabrillo. «Non appena i camion avranno preso una direzione precisa, cercheremo di intercettarli. L'altra squadra ha già raggiunto Heathrow?» «Si sono appena incontrati con Gunderson e Pilston al Gulfstream. Cinque minuti fa», spiegò Hanley. «Bene. Assicurati che Tiny tenga caldo l'aereo, forse dovranno partire da un momento all'altro.» «Capisco.»
«Di' a Nixon di preparare le tute», ordinò Cabrillo. «L'elicottero sarà lì fra dieci minuti.» «Va bene.» «E adesso lascia aperta questa linea e tienimi informato sulla direzione dei camion.» «Okay.» Seduto nella Range Rover, Cabrillo coprì il telefono con la mano. «Dick, mi serve che tu e Adams corriate alla Oregon a prendere una cassa di tute anticontaminazione. Crediamo che Hickman abbia introdotto qualche agente chimico nella fabbrica. Dopo che avrete preso le tute, andate direttamente a Maidenhead: Halpert e altri tre dei nostri vi staranno aspettando.» Truitt non fece alcuna domanda; semplicemente aprì la portiera della Range Rover, nel buio raggiunse di corsa il punto dell'eliporto dove Adams teneva il Robinson con i motori al minimo e salì a bordo. Dopo che ebbe spiegato il piano a Adams, l'elicottero decollò e si diresse verso la Oregon. «Hanno svoltato sulla M4, l'autostrada principale che entra a Londra», riferì Hanley a Cabrillo. «Jones, sei in grado di trovarci la via più rapida per raggiungere la M4?» domandò Cabrillo. «Con tutti che stanno in centro a festeggiare l'anno nuovo», rispose Jones, «direi che una via rapida ce la sogniamo.» E innestata la retromarcia si diresse verso la strada che portava fuori Battersea Park. L'idea era di attraversare il Battersea Bridge e prendere Old Brompton Road, per raggiungere West Cromwell e la A4, che portava alla M4. Anche a un'ora così tarda della notte il traffico non sarebbe stato scorrevole. Hickman e il terzetto di autocarri avevano un percorso più facile. Attraversarono Maidenhead su Castle Hill Road, che era anche la A4, poi svoltarono sulla A308, che portava direttamente alla M4. Quattordici minuti dopo essere partiti dalla Maidenhead Mills erano in prossimità dell'uscita numero 4 per l'aeroporto di Heathrow. Mentre i camion rallentavano per uscire dalla M4, Truitt e Adams atterravano sul ponte di poppa della Oregon. Nixon li stava aspettando con una
cassa di legno contenente le tute anticontaminazione. Corse fuori, aprì il portello sul retro dell'elicottero e sistemò la cassa sui sedili posteriori mentre Adams teneva in movimento il rotore. Alla fine Nixon consegnò a Truitt un foglio stampato con le istruzioni affinché le tute fossero ermetiche. Una volta a distanza di sicurezza, fece a Adams il segno di okay e il Robinson si alzò dalla piazzola. Nel giro di pochi minuti l'elicottero tornava a sorvolare Londra dirigendosi a tutta velocità verso Maidenhead. La distanza era di quaranta chilometri: fu coperta in dodici minuti. Quando i camion accostarono di fronte all'hangar, la coppia di piloti si trovava ancora nella sala di attesa della Global Air Cargo. Il 747 era fuori, sul davanti, con il muso sollevato in aria, in attesa del carico. Anche la rampa posteriore era abbassata per facilitare l'accesso. Hickman entrò da una porta secondaria e trovò i piloti ancora davanti al televisore. «Sono Hal Hickman. Siamo arrivati con il carico prioritario.» Il primo pilota si alzò e si diresse verso Hickman. «Onorato di conoscerla», disse tendendo la mano. «Lavoro per lei da anni... è fantastico incontrarla, finalmente.» «Il piacere è tutto mio», rispose Hickman sorridendo. «E adesso, come ho comunicato al telefono, ho un carico prioritario che deve partire immediatamente. Siete pronti?» «Non abbiamo scaricatori. Non saranno qui prima di un'ora... le feste hanno rallentato tutto.» «Nessun problema», ribatté Hickman. «Io e i miei uomini caricheremo i container a bordo e li fisseremo. Avete già le autorizzazioni?» «Posso fare una telefonata e ottenerle fra qualche minuto», osservò il pilota. «Lo faccia. Noi ci occuperemo del carico.» Quando Hickman uscì, il pilota si rivolse al secondo. «Chiama per avere di nuovo le previsioni e traccia la rotta. Credo che sorvoleremo la Francia e poi, attraverso il Mediterraneo, arriveremo a Riyadh. Sempre che il tempo decida di darci una mano... altrimenti introduci le deviazioni necessarie.» Uscito dall'hangar, Hickman prese la maschera che aveva lasciato per terra e si coprì la bocca e il naso. Gli autisti erano a conoscenza delle procedure di carico e, non appena diede loro il segnale con un cenno della
mano, il primo spostò l'autocarro con il container da prua a poppa del 747. Si fermò con il camion in prossimità della rampa posteriore, sganciò il cavo che teneva fissato il container al pianale, poi inclinò leggermente il cassone per far sì che scivolasse all'indietro sulle guide a rulli incorporate nel pianale stesso. Il primo autista si stava ancora allontanando dalla poppa del 747 che quello successivo faceva retromarcia sotto il muso e sistemava un lato del proprio container contro quello già sull'aereo. Fece scivolare la cassa giù dal camion e si spostò, svoltando nella direzione opposta del terzo autocarro che era già pronto a entrare. Poi si fermò a una certa distanza. Mentre il terzo autocarro stava iniziando l'operazione di scarico, Hickman salì sul 747 con il primo degli autisti. Come avevano già provato a fare in precedenza, i due uomini iniziarono a fissare i container al pavimento con lunghe cinghie di tela. Uno faceva passare cinghia e puleggia in alcune fessure nelle rotaie sul pavimento, poi lanciava la cinghia al di là del container dove l'altro uomo la assicurava alla successiva rotaia sul pavimento e poi la tirava stretta. Una per una strinsero tre cinghie a ciascun container. L'ultimo autista aveva finito e si stava allontanando dal 747. Uno, due, tre: finito. Hickman scese dal 747, fece segno che gli autocarri fossero allineati a una certa distanza dall'aereo e infine ritornò nell'hangar. «Ecco i documenti», disse Hickman, consegnando al pilota una cartella di dichiarazioni doganali. «I container sono a bordo e fissati. Decolliamo.» «Con che urgenza vuole che si effettui la consegna, signore?» domandò il secondo pilota. «Sembra esserci maltempo sul Mediterraneo. Sarebbe molto più sicuro se si potesse aspettare fino a domani per partire.» «Il carico doveva essere consegnato ieri», rispose Hickman. «Va bene. Allora sarà un volo agitato.» Hickman girò le spalle e si allontanò sotto lo sguardo del secondo pilota. C'era qualcosa di strano in quell'uomo, ma non si trattava dell'aspetto bizzarro che alcuni giornali scandalistici pretendevano di attribuire al misterioso miliardario. Sotto tutti i punti di vista Hickman appariva un individuo perfettamente normale, comune, addirittura. Ma quella sera aveva attorno alle labbra un contorno rosso, come un triangolo un po' smussato. Il pilota scacciò l'idea: aveva molto da fare e pochissimo tempo a disposizione. «Cerca una pianta dettagliata», disse Hanley a Stone.
I localizzatori sui container avevano smesso di muoversi da qualche minuto. E Hanley voleva sapere dove fossero. Stone diede le istruzioni al computer e aspettò che l'immagine si caricasse sugli schermi. Avvicinandosi lentamente alla zona che mostrava le luci intermittenti, ridusse gradualmente le piantine a una scala inferiore. «Aeroporto di Heathrow, scalo merci», esclamò Stone. Hanley prese il dossier che Halpert aveva lasciato aperto e fece passare velocemente le pagine. Si ricordava che Hickman era proprietario di una compagnia di spedizioni. Eccola: Global Air Cargo. Trovò il numero di telefono dell'hangar a Heathrow e lo passò a Stone. «Chiama e vedi cosa riesci a scoprire. Io telefono a Cabrillo.» «Perfetto», diceva il pilota. «Partiamo.» Il secondo radunò le schede delle previsioni del tempo e il diario di bordo, e seguì il collega alla porta. L'avevano appena aperta per uscire, quando il telefono iniziò a squillare. Il secondo si girò per andare a rispondere. «Lascia perdere», gli disse il collega. «Ho un affitto da pagare.» «Ci stiamo dirigendo da quella parte», rispose Cabrillo. «Ma procediamo lenti.» «Nessuna risposta», gridò Stone dall'altro capo della sala controllo della Oregon. «Abbiamo cercato di chiamare l'hangar», spiegò Hanley, «ma non risponde nessuno.» «Allerta Gunderson nel Gulfstream di tenersi pronto a decollare», ordinò Cabrillo. «Io cerco di rintracciare Fleming.» Mentre a Heathrow il pilota rimetteva in posizione il muso del 747 e avviava i motori, Cabrillo premette il tasto di chiamata rapida sul proprio telefono, e quando Fleming rispose cominciò a spiegargli la situazione. «E ritieni che il carico possa essere radioattivo?» chiese Fleming alla fine. «Tossico, in qualche modo. Una delle mie squadre ha visto gli addetti con indosso le maschere antigas. È necessario che tu faccia chiudere Heathrow.» Fleming non rispose subito. «Credo sia meglio che lascino l'Inghilterra.» Adams era atterrato nel parcheggio davanti alla Maidenhead Mills e a-
veva spento il Robinson. Una volta che il rotore aveva smesso di girare, Adams era sceso, aveva fatto il giro del velivolo e con Truitt si era messo a scaricare la cassa. Halpert e gli altri si avvicinarono. Con il cacciavite che aveva nella borsa degli attrezzi, Adams sollevò il coperchio, dopo di che appoggiò la cassa a terra. «Ecco le vostre tute spaziali, ragazzi», esclamò Adams sorridendo. «Mi pare che Kevin ne abbia imballate quattro.» «Ci vestiamo», disse Truitt. «Tu sigillaci polsi e caviglie con il nastro.» Adams annuì. «Barrett, tu ci aspetti seduto qui», continuò Truitt. «Gli altri si mettano in ghingheri.» Otto minuti dopo Truitt, Halpert, Hornsby e Reyes erano pronti. Fecero il giro dell'edificio per entrare dalla porta sul retro. Nella mano infilata nel guanto Truitt teneva un'apparecchiatura per rilevare la presenza di agenti chimici. E il responso positivo gli arrivò quasi immediatamente. «Allarghiamoci e cerchiamo dappertutto.» Hornsby corse alla porta principale, aprì le serrature di sicurezza e uscì. Il traffico si era fatto meno intenso a mano a mano che Cabrillo e Jones si allontanavano dal centro di Londra. Una volta sulla M4, Jones accelerò toccando i centocinquanta chilometri orari. Dopo aver terminato la conversazione con Fleming, Cabrillo compose di nuovo il numero della Oregon. «Fleming non ne vuole sapere di chiudere Heathrow», disse a Hanley non appena questi rispose. «Qual è l'uscita più vicina alla Global Air Cargo?» Stone gliela lesse e Cabrillo ripeté il dato a Jones. «Ci siamo, capo», rispose Jones mentre iniziava a rallentare per uscire dall'autostrada. «Segui le indicazioni per la Global Air Cargo.» Jones premette sull'acceleratore e si lanciò per le strade secondarie. Nel giro di pochi secondi apparve un grosso hangar con la scritta dipinta sul lato in caratteri alti tre metri. Un 747 si stava allontanando dall'edificio per portarsi sulla pista. «Possiamo avvicinarci ancora?» chiese Cabrillo. Jones si guardò attorno, ma la zona era delimitata da una recinzione metallica. «Impossibile, capo. È recintato.» Il 747 stava svoltando per immettersi nella pista di rullaggio. «Portami fin là, a quel punto in mezzo ai capannoni», disse Cabrillo.
Jones accelerò e poi fermò l'auto. Cabrillo afferrò un binocolo dalla tasca sulla portiera e osservò il cargo. Poi lesse i numeri sulla coda a Hanley, che rapidamente li annotò. «Di' a Gunderson di seguirli con il Gulfstream», esclamò Cabrillo un po' demoralizzato. «Ora come ora non si può fare altro.» «Va bene», rispose Hanley. Proprio allora Hornsby si mise in comunicazione via radio con Stone. Dopo che ebbe spiegato cosa avevano scoperto, Stone prese nota e consegnò gli appunti a Hanley, che li lesse. «Signor presidente», disse Hanley, «chiamo il Challenger 604. Penso proprio che ti verrà voglia di fare un bel viaggio in Arabia Saudita. Subito.» 45 Più o meno nel momento in cui il 747 della Global Air Cargo decollava dalla pista di Heathrow, il camion con a bordo Hickman si fermava in un'altra zona dell'aeroporto. «Vada con gli altri, poi mollate i camion e sparite», disse Hickman all'autista che lo stava lasciando davanti al terminal dei jet privati. «Se avrò bisogno di voi, vi contatterò.» «Buona fortuna, signore», gli augurò l'uomo mentre Hickman scendeva. Hickman ricambiò con un gesto della mano e si diresse verso l'ingresso. L'autista uscì con il mezzo dal parcheggio, poi prese la radio. «Il grand'uomo è a posto. Ci incontriamo al nostro rendez-vous.» Dopo altri dodici minuti i tre si ritrovarono presso una fabbrica abbandonata nella parte ovest di Londra, dove avevano nascosto l'auto della fuga. Scesero dai camion, ripulirono rapidamente tutte le superfici con le quali erano entrati in contatto senza avere i guanti addosso, poi salirono in un'anonima berlina di produzione inglese. Il piano era di attraversare la città in direzione della Manica, lasciare l'auto a nolo in un parcheggio e prendere il traghetto per il Belgio. Tutto sarebbe proceduto senza il minimo intoppo. Mentre Jones entrava nel terminal dei voli privati a Heathrow, Cabrillo era al telefono con Hanley. «Preparate la Oregon a salpare; rotta Mediterraneo e poi mar Rosso attraverso il canale di Suez. La voglio il più vicino possibile all'Arabia Saudita.»
Hanley fece suonare l'allarme in tutta la nave. Cabrillo sentiva il suono acuto attraverso il telefono. «Gunderson e gli altri sono in volo. L'aereo da carico fa rotta su Parigi.» «Fra qualche minuto io e Jones saremo a bordo del Challenger», rispose in fretta Cabrillo. «Ordina alla squadra che si trova a Maidenhead di ritirarsi e di salire sull'idrovolante. E poi allerta Michaels: deve decollare e incontrare la Oregon nella Manica.» «E la fabbrica?» chiese Hanley. «Di' a Fleming quello che abbiamo trovato e passa la faccenda a loro.» «Mi dà l'idea che ci siamo scambiati la metà campo», osservò Hanley. «L'azione si è spostata in Arabia Saudita.» Il secondo pilota dell'Hawker 800XP di Hickman attendeva al terminal. «Il pilota ha fatto rifornimento, ha terminato le operazioni prevolo e ricevuto le autorizzazioni necessarie», disse mentre guidava Hickman verso la pista. «Possiamo partire adesso.» I due uomini uscirono, si diressero all'Hawker e salirono a bordo. Dopo tre minuti stavano rullando verso la pista nord-sud. Altri tre minuti ed erano decollati. Una volta sopra la Manica il pilota aprì la porta della cabina. «Signore, con la velocità a cui desidera volare bruceremo una tonnellata di carburante.» Hickman sorrise. «Non risparmi i motori. Il tempo è della massima importanza.» «Come desidera, signor Hickman», rispose il pilota richiudendo la porta. Hickman sentì che i motori acceleravano e che l'aereo acquistava velocità. Il piano di volo diceva che l'Hawker avrebbe percorso la Francia lungo il confine con il Belgio e poi sorvolato Zurigo. Continuando sopra le Alpi, avrebbe passato la costa orientale dell'Italia e poi la Grecia, Creta e l'Egitto. E dopo avere attraversato il mar Rosso, sarebbe giunto a Riyadh, la capitale araba, la mattina presto. Non appena Hanley ebbe chiamato, Truitt e gli altri cominciarono a prepararsi a lasciare la fabbrica. Accertatisi di avere fotografato tutto accuratamente, prima di andarsene misero a punto dei cartelli per avvertire di non entrare. Una volta fatto ciò, risalirono a bordo del loro malconcio camioncino e tornarono verso il fiume dove avevano lasciato l'idrovolante.
Al limitare degli alberi una giovane volpe rossa muoveva qualche passo incerto fuori dalla tana nel sottobosco. Annusando, iniziò ad attraversare la zona di carico e scarico alle spalle della fabbrica. L'aria tiepida soffiava al di fuori attraverso le porte di servizio, e la volpe, alzando il muso, sentì il calore. Allora si avvicinò guardinga e si fermò presso la porta centrale, aperta. Poi, non avvertendo alcuna minaccia, si avventurò all'interno. Cresciuta vicino alle persone, sapeva che la loro presenza significava cibo. Sentendo l'odore dell'uomo iniziò a rovistare alla ricerca di avanzi alimentari, e finì per trovarsi dentro una strana sostanza nera sul pavimento, che le ricoprì le zampe. Infine continuò a procedere all'interno, mentre il rivestimento appiccicoso raccoglieva le tracce dell'agente patogeno. Proprio in quel momento i soffioni sul soffitto scattarono e il rumore spaventò l'animale che si precipitò alla porta di carico e scarico. Quando si accorse che non succedeva niente, decise di coricarsi sul pavimento e aspettare. Sollevò la zampa e se la portò alla bocca per pulirla, leccando via la sostanza. Dopo pochi minuti il corpo della volpe iniziò a essere scosso dalle convulsioni. Gli occhi erano iniettati di sangue e dal muso prese a colare del liquido. Contorcendosi, come se fosse sottoposto a scariche elettriche, l'animale cercò di alzarsi e di darsi alla fuga. Ma le zampe non ne volevano sapere di funzionare, e una schiuma bianca fuoriusciva dalla bocca. La volpe restò a terra, in agonia. Il suono lancinante della sirena riecheggiava in tutta la Oregon. I membri della squadra accorsero alle proprie postazioni riempiendo la nave di un brulicare di attività. «Le cime sono sciolte, signor Hanley», disse Stone. «Allontanate la Oregon dalla banchina», ordinò Hanley alla timoniera attraverso l'interfono. La nave iniziò ad allontanarsi acquistando gradualmente velocità. «Hai tracciato la rotta?» chiese Hanley. «Ho appena finito», gli rispose Stone indicando il grande monitor alla parete. Una vasta carta dell'Europa e dell'Africa vi appariva, con una spessa linea rossa a indicare la traiettoria. Lungo la linea erano rappresentati gli in-
tervalli di tempo. «Quand'è che potremo essere nel mar Rosso nella migliore delle ipotesi?» chiese Hanley. «Il quattro gennaio alle undici del mattino», disse Stone. «Concorda con Michaels dove incontrarci con l'idrovolante per recuperare Adams. Poi predisponi i turni di guardia per il viaggio.» «Sissignore», rispose Stone. Hanley prese in mano il telefono. L'insistenza che la consegna di tappeti da preghiera fosse documentata come proveniente dalla Francia era per un verso un vantaggio e per l'altro uno svantaggio. Il 747 della Global Air Cargo aveva avuto rapidamente l'autorizzazione ad atterrare. Dopo meno di un'ora al suolo l'aereo era ripartito con il carico contrassegnato con le nuove etichette. Gunderson e la squadra sul Gulfstream non avrebbero avuto altrettanta fortuna. Subito dopo l'atterraggio, i funzionari della dogana francese erano saliti a bordo. Hickman si era procurato un elenco di tutti gli aerei privati che avevano transitato dall'aeroporto McCarran di Las Vegas al momento dell'irruzione nel suo attico. E da lì era stato semplice, grazie ai piani di volo, individuare chi in seguito aveva fatto rotta verso l'Inghilterra. Il Gulfstream era l'unico. Hickman aveva fatto una telefonata anonima all'Interpol sostenendo che l'aereo trasportava droga. Ci sarebbero voluti due giorni interi e un'infinità di telefonate da parte di Hanley e di altri prima che la squadra fosse rilasciata. A volte trattare con i francesi poteva rivelarsi difficile. Cabrillo invece fu più fortunato. Il Challenger 604 con lui e Jones a bordo era decollato da Heathrow a trenta minuti di distanza dalla partenza di Hickman. Il pilota aveva impostato immediatamente la rotta su Riyadh alla velocità massima consentitagli di ottocentottantadue chilometri orari. Con la sua superiore velocità, il Challenger che trasportava Cabrillo e Jones sarebbe dovuto arrivare per primo, ma non sarebbe andata così. Hickman conosceva la propria destinazione da tempo, mentre Cabrillo l'aveva saputa solo all'ultimo momento. Ottenere un visto per visitare l'Arabia Saudita è comunque difficile. Il processo è lento e arbitrario, e il turismo viene non solo scoraggiato, ma addirittura bandito. Però, siccome parecchie compagnie di proprietà di
Hickman erano in affari con quel Paese e lui era un personaggio noto, la sua richiesta di visto era stata approvata nel giro di qualche ora. A Cabrillo non sarebbe andata altrettanto bene. La mattina presto del 1° gennaio Saud al-Sheik fu svegliato dal cinguettio del computer nell'ufficio di casa, che indicava l'arrivo di una e-mail. La ditta inglese informava che i tappeti da preghiera che aspettava erano transitati dalla dogana e che la documentazione era stata rilasciata a Parigi. E in quel momento erano in volo per Riyadh a bordo di un 747. Una volta giunti allo scalo merci a Riyadh, i cassoni dovevano essere caricati su mezzi pesanti e trasportati alla Mecca, attraversando l'Arabia Saudita. Lì, aperti i container, gli addetti avrebbero spruzzato i tappeti con pesticida e li avrebbero distesi perché prendessero aria per un giorno o due prima di essere sistemati nello stadio. Al-Sheik guardò gli appunti sulla scrivania. Non conoscendo la data esatta dell'arrivo dei tappeti, aveva destinato tutti i camion ad altre incombenze. Sarebbe stato impossibile organizzare il trasporto prima del 7 gennaio. Avrebbe fatto in modo che fossero disinfettati il giorno seguente e arieggiati per qualche ora, e poi sistemati al loro posto il 9 gennaio. Questo gli lasciava ventiquattr'ore prima dell'inizio ufficiale dello bajj. Al-Sheik si concedeva un margine molto stretto, ma che alternativa aveva? C'era un milione di dettagli di cui occuparsi e solo il tempo di fare l'impossibile. Tutto sarebbe andato al proprio posto, pensò mentre si alzava per uscire dall'ufficio e tornarsene a letto; tutto si sistemava sempre in una maniera o nell'altra. Inshallah, a Dio piacendo. Ma, una volta coricatosi, il suo cervello ribolliva di migliaia di particolari. Avendo deciso che non c'era nessuna concreta possibilità di continuare a dormire, l'arabo si alzò e andò in cucina a prepararsi un bricco di tè. Il Challenger 604 stava sorvolando il Mediterraneo quando il pilota aprì la porta della cabina e gridò verso il fondo: «Signor presidente, i sauditi ci rifiutano l'ingresso sino a che non avremo i documenti richiesti. Dobbiamo decidere che cosa fare». Cabrillo rifletté. «Devia sul Qatar. Chiamerò il rappresentante dell'emiro fra due minuti. Non temere, onorerà la nostra richiesta.» «Allora Qatar», esclamò il pilota richiudendo la porta.
Stava sorgendo il sole quando l'Hawker di Hickman, attraversato il mar Rosso, entrò in Arabia Saudita e sorvolò il deserto fino a Riyadh. Il pilota atterrò con leggerezza, rullò fino al terminal dei jet e rallentò. «Tieni l'aereo pronto e rifornito», ordinò Hickman. Poi, non appena il portello si aprì, discese la scaletta e mise piede sul suolo saudita trasportando faticosamente la scatola con il meteorite. «Ecco dunque il Paese che distruggerò», mormorò Hickman mentre guardava le aride colline attorno all'aeroporto. «Il cuore dell'Islam.» Sputò per terra con un sorriso cattivo. Poi si avviò a una limousine che lo aspettava per condurlo all'hotel. Hickman era già registrato e stava dormendo prima che il Challenger risalisse l'oceano Indiano, virasse e, una volta in cima allo stretto di Hormuz, sorvolasse il golfo Persico in rotta per il Qatar. L'emiro aveva compiuto la sua missione. Il suo rappresentante aveva facilitato l'ingresso nel Paese e una suite in albergo attendeva Cabrillo e la sua squadra. L'emiro in persona avrebbe incontrato il presidente della Corporation a mezzogiorno. Cabrillo poteva dormire per qualche ora e poi gli avrebbe spiegato direttamente qual era il problema. Il pilota aprì di nuovo la porta della cabina e gridò: «La torre ci autorizza». Fuori dal finestrino, Cabrillo guardò le acque azzurre del golfo, dove si cullavano pacifici i dau, le barche dalla strana forma che trasportavano pescatori e merci. In lontananza, a nord, riuscì a distinguere la lunga sagoma di una petroliera diretta a meridione. La scia delle sue potenti eliche si trascinava per chilometri e chilometri. Sentì che il Challenger iniziava a rallentare, preparandosi per l'atterraggio. 46 Dodici indù stavano stipati in un modesto appartamento di un edificio fatiscente nel centro di Riyadh. Erano arrivati in Arabia Saudita da una settimana, con visti di lavoro come manovali. Una volta superata la dogana e l'immigrazione, erano spariti, senza mai presentarsi all'agenzia di collocamento che aveva reso possibile il loro ingresso nel Paese. A uno a uno si erano recati all'appartamento che Hickman aveva riempito di cibo, acqua e altri generi che potevano bastare per diverse settimane.
Dovevano restare lì, in attesa di venire contattati, senza mai avventurarsi fuori o comunicare con qualcuno. Quei dodici uomini rappresentavano le sole forze che Hickman avrebbe utilizzato in Arabia Saudita per il piano a cui stava per dare inizio. Ciò che aveva in mente era semplice all'apparenza, ma notevolmente più complicato nella sua applicazione: arrivare alla Mecca. Una volta là, Hickman avrebbe rubato l'oggetto più sacro all'Islam, il meteorite all'interno della Kaaba, che si diceva scoperto da Abramo, per sostituirlo con quello proveniente dalla Groenlandia. Poi avrebbe portato l'originale altrove, per distruggerlo. Hickman progettava di colpire l'Islam dritto al cuore. Nella sua stanza d'albergo a Riyadh Hickman esaminava i propri appunti. La Mecca è il centro dell'Islam. La città è il luogo natale di Maometto e della religione da lui fondata. Situata a una settantina di chilometri dal mar Rosso su una polverosa pianura punteggiata di colline e montagne, un tempo la città era un'oasi lungo una via commerciale che collegava i Paesi affacciati sul Mediterraneo con l'Arabia, l'Africa e l'Asia. Lì, secondo la leggenda, circa duemila anni prima dell'epoca di Gesù Cristo Dio aveva ordinato ad Abramo di erigere un sacrario che, nel corso dei secoli, era stato distrutto e ricostruito numerose volte. Nel 630 il profeta Maometto aveva preso il controllo della Mecca allontanandone i falsi idoli. Tutto quello che aveva lasciato era la Kaaba e la pietra sacra in essa ospitata, facendo di esse il cuore della nuova religione. Nei secoli che erano seguiti la zona che ospitava la pietra era stata circondata da una serie di mura e strutture sempre più grandi e complesse. L'ultima aggiunta importante, nel ventesimo secolo, era avvenuta con il finanziamento della famiglia reale saudita e si era concretizzata nella costruzione della moschea circostante, l'al-Haram, la più grande della terra, al centro della quale si trova la Kaaba, una piccola struttura ricoperta da drappi di seta nera ricamati in fili d'oro con versetti del Corano. La copertura di seta viene cambiata ogni anno e, in segno di umiltà, il pavimento tutto attorno viene spazzato dal re saudita. I pellegrini baciano la pietra sacra e bevono dal vicino pozzo di Zamzam. In meno di una settimana, oltre un milione di persone sarebbe transitato dalla Kaaba.
Che al momento, tuttavia, era chiusa per i preparativi. Hickman accese il computer nella suite del suo hotel connettendosi all'elaboratore centrale di una delle sue compagnie aerospaziali in Brasile, dove aveva salvato i file più importanti. Scaricò le immagini e i documenti e li fece passare. Fissò una fotografia aerea della moschea della Mecca. La Masjid al-Haram, altrimenti nota come Grande Moschea, è una costruzione imponente. Mura gigantesche e archi di pietra circondano la zona in una disposizione a gradini che formano livelli successivi con gli stessi archi. Le mura sono circondate da sette altissimi minareti che sembrano librarsi nell'aria. L'accesso dei pellegrini è consentito da un totale di sessantaquattro porte che immettono in una zona di circa ventimila metri quadrati. La moschea sovrasta la Kaaba, che raggiunge le dimensioni di soli dieci metri per dodici. Tutto quello che Hickman e la sua squadra dovevano fare era introdursi al di là della cortina che circonda la Kaaba, sottrarre la pietra sacra, montata in una struttura d'argento in una parete nell'angolo sudorientale dell'edificio a circa un metro e venti dal terreno, e sostituirla con il meteorite della Groenlandia. Poi dovevano cercare di darsi alla fuga. Tutto sommato la cosa sembrava decisamente impossibile. Il telefono della stanza suonò. Era l'impiegato della reception che avvertiva Hickman di una scatola arrivata per lui nella notte. Hickman chiese che un cameriere gliela recapitasse, e qualche minuto più tardi udì bussare. Hickman aprì la porta, infilò una mancia in mano al cameriere e prese la scatola. La Oregon aveva rallentato nelle acque al largo della costa francese. «Lo vedo sul radar», disse Stone a Hanley. Hanley annuì e guardò nelle telecamere esterne l'idrovolante che si profilava contro uno sfondo cupo. Rallentando, l'aereo discese e atterrò nell'acqua, per poi rullare verso la nave. Hanley vide i marinai di coperta che lo legavano alla fiancata e la squadra che scendeva. A quel punto prese la radio e chiamò il pilota. «Michaels.» «Sì, signore.» «La nave è diretta al mar Rosso. Ha dormito di recente?»
«Poco», ammise Michaels. «Atterri in Spagna e si cerchi un albergo. Dopo essersi riposata come si deve, inizi a portarsi a sud. Fossi in lei mi troverei un aeroporto nell'Italia meridionale, per il momento; là dovrebbe essere abbastanza vicina nel caso avessimo bisogno di lei.» L'idrovolante si era dimostrato utile, ma era troppo voluminoso per essere preso a bordo della nave. «Bene, signore», rispose Michaels. «Uno degli uomini le consegnerà due mazzette di banconote da cento dollari, per un totale di diecimila dollari. È in grado di volare sola in tutta sicurezza oppure desidera che qualcuno venga con lei?» «No, signore, va benissimo così.» «Se le servono altri fondi, dovrà solo chiamare. Possiamo mandarle denaro dovunque decida di trasferirsi. Adesso si riposi, ma tenga l'aereo sempre rifornito e pronto a partire.» «Bene, signore.» «Un'ultima cosa, Michaels...» continuò Hanley. «Ha fatto un gran bel lavoro. So che questa è stata la sua prima missione da primo pilota e voglio che sappia che la Corporation non potrebbe essere più soddisfatta.» «Signor Hanley», lo avvertì Stone, «abbiamo Adams in arrivo sul Robinson.» Michaels sporse la testa dal finestrino e guardò in su dove sapeva che era posizionata una telecamera. Fece a Hanley il segnale di okay, poi ritornò dentro e chiuse il portello. Appena in cabina accese i motori e parlò nel microfono. «Sento Adams alla radio. Dunque sgombro adesso.» Le cime vennero issate a bordo della Oregon e Michaels si allontanò dalla nave con i motori al minimo. Una volta a distanza, accelerò, portò l'idrovolante alla velocità necessaria, decollò e con un leggero arco verso sinistra prese la direzione della Spagna. «Facciamo salire Adams a bordo», esclamò Hanley, «e riportiamoci alla velocità massima.» Due minuti più tardi il Robinson compariva sopra la coda a ventaglio della Oregon e atterrava sulla piazzola. Non appena l'elicottero fu assicurato al ponte, Hanley ordinò di riprendere la massima velocità. Il presidente della Corporation aveva dormito come un sasso fino alle
undici del mattino, quando dalla reception dell'hotel gli avevano telefonato per svegliarlo. Cabrillo ordinò la colazione e poi chiamò Jones nella sua stanza. «Sono sveglio, capo.» «Fai la doccia, cambiati e vieni a mangiare da me nella suite.» «Sarò lì fra venti muniti.» Cabrillo si era già fatto la doccia e si stava radendo quando il cameriere del servizio in camera bussò alla porta. Con indosso la vestaglia andò ad aprirgli e indicò dove sistemare il carrello. Poi prese il portafogli sul comò, ne tolse una banconota e cercò di darla all'uomo. «Mi spiace, signore, ma l'emiro ha già provveduto a tutto.» E così dicendo scomparve prima che Cabrillo avesse il tempo di protestare. Allora Cabrillo finì di radersi e indossò abiti puliti. Stava accendendo il televisore per guardare il telegiornale quando Jones bussò alla porta. Lo fece entrare e i due iniziarono a fare colazione. «Non ho mai incontrato l'emiro», disse Jones a metà dell'omelette. «Che tipo è?» «Ha passato i cinquanta, ed è di mentalità molto progressista. Da qualche anno autorizza l'esercito americano a tenere una base nel suo Paese. A dire il vero, per tutta la seconda guerra del Golfo siamo partiti da quel campo di aviazione per le incursioni aeree.» «E che rapporti intrattiene con l'Arabia Saudita?» continuò Jones. «Di regola buoni, ma la situazione può cambiare da un giorno all'altro. Gli arabi tracciano sempre una linea molto labile tra apparire filooccidentali, che nell'opinione di quasi tutto il mondo arabo è la politica recente dell'emiro, e accontentare la massa di fondamentalisti religiosi fra la popolazione. E più di una volta la linea è stata tesa fin quasi al punto di rottura.» Cabrillo stava finendo le patate quando squillò il telefono. «La limousine ci aspetta di sotto», disse dopo avere riagganciato. «Andiamo, così ti farai un'idea personale.» Alzandosi da tavola, Jones seguì Cabrillo fuori dalla porta. A Langley, in Virginia, Langston Overholt stava leggendo un rapporto dell'MI5 sulla testata nucleare recuperata dalla Corporation. La Gran Bretagna era oramai al sicuro, tuttavia il recupero del meteorite non era ancora avvenuto. Michelle Hunt era stata trasferita in Inghilterra, ma fino a quel momento Overholt non sapeva come la donna avrebbe potuto essere loro
utile. Hanley si era fatto vivo un'ora prima e lo aveva aggiornato sulla situazione. Un recente dissidio con il governo americano a causa del sostegno a Israele aveva reso critici i rapporti con i sauditi. Overholt aveva contattato il capo della polizia segreta saudita per riferirgli della teoria sui tappeti da preghiera contaminati, ma non aveva ancora ricevuto una risposta. Cominciava a pensare che sarebbe stato necessario telefonare al presidente per chiedergli di intercedere. Ma ciò che più lo sconcertava era questo: al momento della perquisizione nella Maidenhead Mills gli uomini della Corporation non avevano rinvenuto alcuna traccia del meteorite e neppure un residuo che dimostrasse che il reperto era stato sottoposto al trattamento ipotizzato inizialmente. Proprio in quell'istante squillò il telefono. «Ho i dati satellitari che aveva richiesto», disse un funzionario della National Security Agency. «Glieli mando adesso.» «Grazie», rispose Overholt, «ma mi dica dove è andato l'Hawker.» «Riyadh, Arabia Saudita. È arrivato questa mattina presto e rimane lì. Abbiamo una fotografia dell'aereo sulla pista e le tracce delle sue rotte aeree, quelle che appunto le invierò.» «La ringrazio», rispose Overholt chiudendo la comunicazione. Overholt si sistemò comodo sulla sedia e prese una pallina da tennis dal cassetto della scrivania; poi cominciò a farla rimbalzare contro la parete. Dopo qualche minuto iniziò a fare segno di sì con la testa. Allungò la mano al telefono e compose un numero. «Ricerche», rispose una voce. «Mi serve una rapida panoramica della fede islamica e in particolare dei luoghi sacri della Mecca.» Overholt ricordava qualcosa di un meteorite e dell'Islam dalle lezioni di storia di anni addietro. «Quanto dettagliata e in che tempi?» «Sintetica, ed entro un'ora», replicò Overholt. «Trovi anche un esperto di Islam e lo mandi qui nel mio ufficio.» «Bene, signore.» Durante l'attesa Overholt continuò a far rimbalzare la palla contro la parete. Si sforzava di pensare come un genitore con il fantasma di un figlio morto che gli attanagliava il cervello. Fino a che punto si sarebbe spinto per vendicarne la morte? Come avrebbe deciso di colpire la bestia al cuore?
Il palazzo del sovrano, situato sulla sommità di una collina sovrastante il golfo Persico, era opulento. Circondati da alte mura di pietra che delimitavano un cortile con i garage, una vasta area verde adibita a parco e numerose piscine, gli edifici che componevano il palazzo avevano un'aria sorprendentemente accogliente, ben diversa da quella tetra e monotona di molti palazzi inglesi ed europei. La limousine attraversò i cancelli per dirigersi verso il viale circolare che portava all'ingresso principale, facendo spaventare i molti pavoni e un paio di fenicotteri. In disparte, un meccanico in tuta color kaki stava lavando un fuoristrada Lamborghini mentre due giardinieri raccoglievano i frutti da una vicina pianta di pistacchio. La limousine si fermò davanti all'ingresso e un uomo che indossava un abito all'occidentale uscì. «Signor Cabrillo, sono Akmad al-Thani, l'assistente speciale dell'emiro. Ci siamo parlati prima al telefono.» «Signor al-Thani...» rispose Cabrillo stringendo la mano tesa verso di lui, «è un vero piacere incontrarla finalmente di persona. Il mio socio, Peter Jones.» Jones strinse la mano ad al-Thani sorridendo. «Se volete venire da questa parte», continuò al-Thani avviandosi verso la porta, «l'emiro vi sta aspettando in salotto.» Subito Cabrillo lo seguì assieme a Jones. Entrarono in un vasto atrio con pavimenti di marmo e un paio di scale a chiocciola che da entrambi i lati conducevano ai piani superiori. Numerose statue erano disposte con eleganza attorno a un grande tavolo in centro, di mogano levigato, decorato da un'imponente composizione floreale. Due cameriere in divisa si affaccendavano nella sala e, in un angolo, un maggiordomo in frac nero impartiva disposizioni a un operaio intento a sistemare un faro che illuminava un dipinto che sembrava un Renoir. Al-Thani superò l'atrio e, attraversato un corridoio, entrò in una sala enorme con un'intera parete di vetro che dava su uno specchio d'acqua. La sala doveva misurare più di ottocento metri quadrati, con molte zone conversazione raggruppate attorno ad alte piante in vaso. Disposti qua e là c'erano numerosi televisori al plasma, e non mancava neppure un pianoforte a coda. L'emiro era seduto al pianoforte, e smise di suonare quando gli uomini entrarono. «Grazie per essere venuti», esclamò alzandosi. Si avviò verso Cabrillo e gli tese la mano. «Juan, è sempre un piacere
incontrarla.» «Sua eccellenza», rispose Cabrillo sorridendo e voltandosi verso Jones, «le presento il mio socio, Peter Jones.» Jones prese la mano dell'emiro e la strinse con forza. «Piacere», rispose il sovrano indicando dei divani vicini. «Andiamo a sederci là.» I quattro uomini presero posto e, come per magia, apparve un cameriere. «Tè e pasticcini», ordinò l'emiro. Il cameriere scomparve con la stessa rapidità con cui era arrivato. «Dunque, come è andata a finire in Islanda?» chiese l'arabo. Cabrillo lo ragguagliò sui particolari. L'emiro annuì. «Se i suoi uomini non fossero stati pronti a effettuare lo scambio, chi può dire dove mi troverei adesso?» «Ora al-Khalifa è morto, sua eccellenza», lo confortò Cabrillo. «Senza dubbio è una preoccupazione in meno.» «In ogni caso», continuò l'interlocutore, «voglio che la Corporation si occupi il più presto possibile di indagare sulle minacce alla mia sicurezza e al mio governo.» «Saremo lieti di farlo», ribatté Cabrillo, «ma in questo preciso momento c'è una questione più urgente che desideriamo discutere.» «Prego...» rispose l'emiro annuendo. E Cabrillo cominciò a spiegare. 47 I tre container pieni di tappeti contaminati stavano in disparte nello scalo merci dell'aeroporto di Riyadh dietro una rete metallica che circondava un'area pari a diversi campi di calcio. Se lo hajj non fosse stato così imminente, i cassoni sarebbero stati spostati e il loro contenuto scaricato; invece erano arrivati con molto ritardo ed erano finiti in fondo alla lista delle priorità. Sarebbe bastato che i tappeti si trovassero al proprio posto per terra attorno alla Kaaba il giorno prima dell'inizio dello hajj, e al-Sheik lo avrebbe comunque considerato un successo. In quel preciso momento l'organizzatore si doveva occupare di faccende più pressanti. Insieme con i tappeti da preghiera c'erano quasi un milione di bottiglie d'acqua di plastica da sistemare, diecimila gabinetti chimici da aggiungere a quelli già in loco, le tende e il necessario per montare sei postazioni
complete di primo soccorso da dislocare lungo il perimetro e diecimila cestini della spazzatura estraibili. Scatole di souvenir e opuscoli, volumi del Corano omaggio, cartoline e scatole contenenti tubetti di crema solare ingombravano i pallet. Cibo per i pellegrini, seimila scope per gli spazzini che avrebbero dovuto sgombrare la sporcizia quotidiana, ombrelli pieghevoli in caso di pioggia. Dodici grosse casse di ventilatori da installare all'interno dell'imponente struttura attorno alla Grande Moschea. Al-Sheik però non c'entrava affatto con le misure di sicurezza. Quelle riguardavano la polizia segreta saudita. In una zona separata dello scalo merci gli autocarri avevano già iniziato a trasportare le forniture di sicurezza alla Mecca: una stazione completa di controllo e comando dotata di radio e telecamere per la diretta; centomila munizioni e gas lacrimogeno in caso di disordini; mille manette di plastica usa e getta; quaranta cani addestrati con recinti, cibo, collari, guinzagli e una decina di mezzi corazzati per il trasporto delle truppe; quattro carri armati e migliaia di soldati. L'annuale hajj era un'impresa mastodontica e la famiglia reale saudita pagava il conto. Al-Sheik esaminò il blocco degli appunti e cancellò un autocarro che si allontanava dall'aeroporto. Da una ventina di minuti l'emiro sorseggiava tè bollente ascoltando Cabrillo che parlava senza interromperlo. Finalmente, calò il silenzio. «Mi consente di raccontarle una breve storia dell'Islam?» chiese. «Certo», rispose Cabrillo. «Ci sono tre luoghi importanti nella religione islamica, due in Arabia Saudita e il terzo in Israele. Il primo e il più sacro dei luoghi è la moschea di al-Haram alla Mecca, dove si trova la Kaaba; il secondo è la Masjid alNabawi, la Moschea del Profeta a Medina, dove è custodita la tomba di Maometto. Il terzo è la Masjid al-Aqsa, a Gerusalemme, la Cupola della Roccia, il luogo in cui Maometto salì al cielo a cavallo a parlare con Allah.» L'emiro si interruppe per sorseggiare il tè e poi continuò. «La Kaaba riveste un'importanza fondamentale per i musulmani; è il punto in direzione del quale pregano cinque volte al giorno. È il faro della nostra fede. Dietro i drappi che rivestono il luogo sacro della Kaaba, all'interno dell'edificio stesso, si trova la pietra nera che Abramo trovò e sistemò lì molti secoli fa.»
Cabrillo e Jones ascoltavano annuendo. «Come lei ha menzionato», continuò il sovrano, «la pietra è generalmente ritenuta un meteorite inviato da Allah ai fedeli.» «Potrebbe descriverci la pietra?» chiese Jones. L'emiro fece segno di sì con il capo. «L'ho toccata molte volte. È rotonda, all'incirca trenta centimetri di diametro, di colore nero. Se dovessi azzardare un peso, direi che più o meno si tratta di una cinquantina di chili.» «Grosso modo le dimensioni del meteorite ritrovato in Groenlandia», osservò Cabrillo. Dal volto dell'emiro traspariva non poca agitazione. «C'è qualcosa che non le ho detto, sua eccellenza», continuò Cabrillo. «I nostri scienziati hanno motivo di credere che nel meteorite della Groenlandia sia contenuto un virus che potrebbe venire rilasciato una volta che la sfera si spezza.» «Che tipo di virus?» si informò l'emiro. «Un virus che consuma ossigeno a una velocità allarmante, creando un vuoto che risucchia tutto ciò che gli sta accanto.» «Armageddon», commentò l'emiro. «Devo entrare in Arabia Saudita per fermarlo», esclamò subito Cabrillo. «Questo, amico mio, è più difficile di quanto sembra», rispose l'uomo. «Dalla guerra dell'Iraq del 2003, fra me e il re Abdullah i rapporti si sono fatti precari. Il mio sostegno evidente e ininterrotto agli Stati Uniti, il fatto che io abbia autorizzato l'accesso alle truppe e la costruzione del grande campo di aviazione hanno rotto la nostra amicizia, almeno pubblicamente. Per accontentare le frange intransigenti del Paese e per conservare il potere, Abdullah si è visto costretto a condannare pubblicamente il mio operato.» «Ma di certo, se spiegherà qual è la minaccia, si lascerà convincere», intervenne Jones. «Tenterò», rispose l'emiro. «Ma attualmente ci parliamo solo attraverso degli intermediari. E il processo è lento e noioso.» «Ci proverà?» chiese Cabrillo. «Naturalmente. Ma anche se vi consentisse di portare il vostro aiuto, abbiamo un altro problema. E questo è molto grave.» «Di che si tratta?» «Solo i musulmani hanno il permesso di entrare nella città della Mecca.» Scott Thompson era madido di sudore freddo.
Il dottor Berg aveva appena finito di legargli sopra gli occhi quelle che sembravano cuffie da videogame stringendo bene i cinturini. Fino a quel momento Thompson non aveva ceduto. Gli era stato iniettato il siero della verità, che non aveva funzionato; da giorni lo torchiavano senza sosta; aveva ricevuto telefonate dai familiari negli Stati Uniti in cui gli spiegavano cosa sarebbe successo loro se non avesse collaborato. Ma niente di tutto ciò lo aveva convinto a parlare. Thompson era stato addestrato per far fronte a simili situazioni, e indottrinato in profondità. Aveva imparato a contrastare l'effetto dei barbiturici, gli era stato insegnato all'infinito come reagire agli interrogatori e a interiorizzare il concetto che, qualunque cosa gli avessero detto, gli Stati Uniti non avrebbero fatto del male a degli innocenti per costringerlo a parlare. Ma nessuno lo aveva preparato a ciò. Thompson sentiva il fiato di Berg vicino all'orecchio. «Scott», disse Berg, «fra un minuto vedrai delle luci colorate davanti agli occhi. Con il passare del tempo ti indurranno degli attacchi simili a quelli epilettici e un violento bruciore, come se dei chiodi ti venissero impiantati nel cervello. Se dovrai vomitare, e sarà così, probabilmente non riuscirai a muovere la testa, dunque stai attento a non inghiottire il tuo stesso vomito. Ci sarà un'infermiera accanto a te che aspirerà qualsiasi residuo. Mi hai capito bene?» Thompson mosse leggermente la testa. «Adesso voglio darti un'ultima possibilità di parlare prima che tutto abbia inizio. Voglio che tu sappia che questa tecnica la usiamo di rado perché abbiamo avuto un numero elevato di insuccessi nei pazienti. Per insuccessi intendo l'induzione di stati vegetativi o catatonici e addirittura una percentuale di veri e propri decessi. Capisci cosa significa?» Il comandante Gant era in un angolo dell'infermeria. Non sopportava di assistere a quello che sarebbe accaduto e fece segno che stava per uscire. Berg lo salutò mentre si allontanava. Poi si portò a un terminale di computer e digitò i comandi. Thompson cominciò a contorcersi e a inarcare la schiena contro le cinghie. Si mise a dibattersi sul lettino come un pesce fuori dall'acqua. Erano le due del pomeriggio in Qatar, le nove del mattino a Washington, quando Overholt rispose al telefono. Cabrillo non aveva sprecato tempo.
«Sono in Qatar. Adesso crediamo che Hickman possa cercare di colpire uno dei tre luoghi più importanti dell'Islam.» «La Kaaba, la tomba di Maometto o la Cupola della Roccia», continuò Overholt. «Sto studiando.» Il giorno prima Overholt aveva trascorso ore con l'esperto di Islam della CIA a leggere pagine di documenti preparati dal dipartimento di Ricerca. «Ben fatto», esclamò Cabrillo. «Ho anche chiesto alla National Security Agency di fornirmi il tracciato di tutte le comunicazioni effettuate e ricevute da Hickman nelle ultime settimane, e finalmente ho i risultati. È in comunicazione con Pieter Vanderwald... anzi, è stata fatta una spedizione urgente di un pacco in Arabia Saudita da una delle compagnie di facciata di Vanderwald.» «Pieter l'Avvelenatore?» domandò Cabrillo. «Proprio lui.» «Qualcuno dovrebbe occuparsene.» «Ho emanato una direttiva», rispose Overholt. «Attualmente è ricercato da una squadra speciale.» «Hai parlato con Hanley di recente?» «Sì. Mi ha spiegato quello che i tuoi hanno trovato alla fabbrica di Maidenhead. Siamo certi che si tratta di qualche tossina fornita da Vanderwald.» «E Hickman l'ha spruzzata sui tappeti da preghiera, Langston.» «Sono sicuro che avrà fatto sigillare i container, altrimenti i piloti si sarebbero sentiti male durante il volo dall'Inghilterra. E si sarebbero schiantati. Hickman è pazzo, ma non è un idiota. Il problema sarà quando apriranno i container.» «Il che potrebbe avvenire in qualsiasi momento, oramai.» Proprio in quell'istante il fax iniziò a stampare. Overholt si avvicinò con la sedia, prese tutti i fogli, ritornò alla scrivania e li fece passare. «Io direi che colpirà la Cupola della Roccia dando la colpa agli israeliani di tutta la faccenda.» «Com'è che ti è venuto in mente?» «Ti ricordi dello yacht che trasportava il meteorite alle Faroe e che è stato abbordato dalla fregata della nostra marina?» «Come no.» «Ho mandato a bordo uno specialista dei nostri. Finalmente è riuscito a far parlare il capo.» «E...?»
«Un paio di settimane fa Hickman ha mandato un'altra squadra in Israele per nascondere telecamere ed esplosivi attorno alla Cupola della Roccia. Se sarà in grado di prendersi la Pietra di Abramo, sembra che abbia intenzione di portarla a Gerusalemme per distruggerla nell'esplosione e mostrare il video in tutto il mondo.» «Cosa mi dici delle operazioni in Arabia Saudita?» chiese Cabrillo. «Ha rivelato niente in proposito?» «All'apparenza non ne sapeva niente. Hickman probabilmente le ha affidate a una squadra diversa.» «Mi occorre un favore, Langston.» «Che cosa?» «Procurami gli stati di servizio di tutto il personale militare americano in Qatar.» «Per quale ragione?» «Mi servono tutti i musulmani che abbiamo a disposizione», rispose Cabrillo. «E chi li guiderà dentro la Mecca?» «Non preoccuparti. Ho l'uomo giusto.» Hanley chiudeva la comunicazione con Cabrillo mentre la Oregon entrava nello stretto di Gibilterra. Cercò il pulsante dell'interfono e lo premette. «Kasim e Adams in sala controllo, immediatamente. Kasim e Adams in sala controllo, immediatamente.» «Cambia rotta su Israele», disse rivolto a Stone mentre li aspettava. «Il primo posto all'altezza di Gerusalemme che trovi.» Stone visualizzò una carta sul monitor. Il porto di Ashdod era il più vicino. Diede i comandi e il programma che governava la nave si resettò automaticamente. Adams era entrato nella sala controllo. «Sì, signor Hanley.» «Devi preparare l'elicottero per lasciare Kasim in Marocco, a Tangeri.» «E poi dove vado?» «Fai rifornimento e ritorni alla Oregon.» «Mi metto subito al lavoro», rispose Adams uscendo. Qualche minuto più tardi anche Kasim entrò nella sala. «Pronto per guidare un'operazione?» gli chiese Hanley. «Sì, signore», rispose Kasim sorridendo. «Cabrillo è l'unico ad avere accesso alle cartelle personali, ma mi ha det-
to che sei musulmano. È vero?» «Sì, signore.» «Bene. Abbiamo il Challenger che si sta portando dal Qatar in Marocco. Ci serve che tu guidi una squadra dentro La Mecca.» «A quale scopo, signore?» «Tu salverai i luoghi sacri dell'Islam.» «Sarebbe un onore.» 48 Hickman non trepidava certo all'idea di trovarsi dentro La Mecca senza essere musulmano. Odiava la religione islamica e tutto quello che essa rappresentava. Aveva incontrato i dodici indù nella casa di Riyadh alle quattro del pomeriggio e, dopo averli ragguagliati, era partito con loro per il viaggio di dieci ore alla Mecca e alla Kaaba in un pulmino rubato che portava scritto sul fianco PULIZIE DEL REGNO in caratteri arabi. Indossavano tutti lunghe tonache bianche e fluttuanti e ognuno di loro era dotato di. scopa, secchio, spazzole e spatola. Hickman aveva pagato un falsario perché gli scrivesse una lettera in arabo che spiegava che si trovavano lì per raccattare da terra le gomme da masticare. All'interno di un carrello per le pulizie di un giallo brillante, sotto una tenda di tela bianca, Hickman aveva sistemato sia il meteorite sia alcuni fusti di aerosol inviatigli da Vanderwald con la sua ultima consegna. Sul fondoschiena di ognuno degli indù era stato attaccato un blocco plasmato di esplosivo C-6 con un minuscolo timer. E sulle gambe, nascoste sotto la tonaca, una pistola, nell'eventualità che le cose si mettessero male. Il pulmino si fermò davanti a una cancellata che portava dentro la gigantesca moschea. Hickman e gli altri scesero, estrassero carrello, secchi e scope e si avvicinarono alla guardia. Per tale messinscena Hickman si era esercitato instancabilmente, imparando sia a parlare arabo sia a interpretare il linguaggio del corpo. Consegnò il foglio di carta e parlò. «In nome di Allah misericordioso veniamo a pulire questo luogo sacro.» L'ora era tarda, la guardia era stanca e la moschea era chiusa. Non c'era ragione di credere che quegli uomini non fossero chi dicevano di essere, pertanto il sorvegliante fece loro cenno di entrare senza aggiungere commenti. Spingendo il carrello davanti a sé, Hickman oltrepassò un
passaggio a volta che immetteva all'interno del santuario. Si fece scivolare sopra la bocca e il naso una piccola maschera e un filtro, poi vi avvolse attorno il turbante in maniera da mostrare solo gli occhi. Una volta dato il segnale agli indù di sparpagliarsi e di piazzare le cariche attorno al perimetro, si diresse subito alla Kaaba. Quattro uomini alti in uniforme da cerimonia montavano di guardia a ogni angolo. Ogni cinque minuti si allontanavano dal drappo nero sollevando i piedi in aria con passi esagerati come i Beefeater di Buckingham Palace. Ciascuna guardia si spostava dall'angolo dove aveva sostato a quello successivo in senso orario, e poi si fermava e aspettava. Quando Hickman si avvicinò, gli uomini avevano appena finito di cambiare posizione. Hickman infilò una mano nel carrello, aprì uno dei fusti di aerosol e lo spinse vicino alla guardia. Questa rimase immobile per un secondo, poi si accasciò sulle ginocchia, si piegò in due sul petto e finì a faccia in giù sul pavimento di marmo. Rapidamente Hickman si infilò sotto il drappo con il carrello, spingendolo all'interno. Corse alla Pietra di Abramo e la tolse dal sostegno d'argento facendo leva con una corta sbarra di ferro che aveva nascosto nel carrello. La sostituì in fretta con il meteorite della Groenlandia e la sistemò sotto la tenda di tela bianca che avvolgeva il telaio del contenitore. Infine nascose cariche esplosive attorno al perimetro e si infilò di nuovo sotto il drappo. Vanderwald gli aveva spiegato che il suo gas stordente sarebbe stato efficace solo per tre, quattro minuti, dopo di che chiunque lo avesse inalato avrebbe cominciato a rinvenire. Hickman spinse il sacro oggetto attraverso il passaggio a volta. Gli indù lavoravano alacremente: i primi sei, scelti i pilastri più vicini al passaggio, stavano già aspettando nel tunnel. Altri due uomini arrivarono qualche minuto più tardi, e poi ancora altri due. Hickman vide l'ultima coppia che attraversava di corsa la vasta distesa rivestita di marmo e spinse il carrello davanti alla guardia all'ingresso. «Che cosa fate?» chiese la guardia. «Mille scuse», rispose Hickman in arabo, senza smettere di allontanarsi verso il pulmino, «dentro ci hanno detto che dobbiamo pulire domani notte.» Hickman e gli indù si strinsero nel pulmino e partirono proprio mentre la guardia rinveniva. Tirandosi su a sedere sopra il pavimento di marmo si guardò attorno per vedere se qualcuno avesse notato qualcosa. A quanto
pareva, no. Il collega all'altro angolo guardava nella direzione opposta, come voleva la tradizione. L'uomo si alzò in piedi e osservò l'orologio. Un minuto e trenta secondi al cambio. Decise di mantenere segreto lo svenimento: sapeva che se lo avesse riferito lo avrebbero sostituito prima dello hajj. Era tutta la vita che sognava di essere una guardia cerimoniale: un leggero collasso o un avvelenamento da cibo non avrebbe posto fine a quel sogno. Hickman diede indicazione all'autista di prendere la strada che portava alla cittadina di Rabigh sul mar Rosso. Una volta là, gli indù si sarebbero nascosti in una casa in affitto. L'indomani notte si sarebbero recati a Medina. Hickman non avrebbe trascorso la notte a Rabigh: una imbarcazione lo aspettava al porto. Alle prime luci sarebbe stato a bordo diretto a nord a tutta velocità. Nello Studio Ovale, Langston Overholt era seduto sulla sedia, un po' più rilassato al termine della sua relazione. «Questo qui è un gran pasticcio, Overholt», esclamò il presidente. Il funzionario della CIA annuì lentamente con il capo. «I nostri rapporti con l'Arabia Saudita non sono mai stati così tesi. Da quando il senatore Grant ha approvato la proposta che condanna il regno come patria dei dirottatori dell'11 settembre, e il Congresso ha approvato la tassa speciale sul greggio saudita, i nostri diplomatici non sono quasi più neppure in grado di organizzare degli incontri. Gli ultimi sondaggi mostrano che la maggioranza dei cittadini americani ritiene che avremmo dovuto attaccare l'Arabia Saudita e non l'Iraq, e adesso viene a dirmi che un miliardario americano impazzito progetta un attentato ai luoghi sacri del Paese.» «So bene che è una polveriera, signore.» «Polveriera!» sbottò l'altro. «È molto peggio. Se Hickman ha avvelenato i tappeti da preghiera e ha sostituito la Pietra di Abramo con le conseguenze che ha appena finito di teorizzare, io vedo tre possibili scenari. Il primo è scontato: i sauditi interrompono le forniture di petrolio agli Stati Uniti. E questo ci precipiterà in un'altra recessione mentre non siamo ancora completamente fuori dall'ultima, un contraccolpo che la nostra economia non potrebbe reggere. Il secondo è che, siccome Hickman è americano, si alimenterà la fiamma del terrorismo. Verranno da noi a nuoto pur di portarci
distruzione. Diciamocelo chiaro e tondo: le frontiere con il Messico e il Canada sono dei colabrodo. O ci mettiamo a tirar su dei muri o c'è ben poco che si possa fare se qualcuno è determinato a entrare negli Stati Uniti. La terza possibilità è la peggiore. Se il meteorite della Groenlandia viene sbriciolato e rilascia un virus simile a quello del campione dell'Arizona, gli altri due scenari potrebbero essere argomenti oziosi. L'ossigeno verrebbe risucchiato dall'atmosfera come l'acqua in uno scarico e ci ritroveremmo tutti a respirare polvere.» Overholt scosse ancora la testa lentamente. «I primi due si possono risolvere facilmente, se la confessione estorta dal medico della CIA risponde a verità. Cioè che Hickman intende dare la colpa di tutto a Israele.» «Disgraziatamente, per quanto abbia tentato di abituare gli israeliani a fare a meno dei nostri aiuti, non sono riuscito a ottenere molto. Il mondo arabo crederebbe che gli Stati Uniti e Israele sono alleati stretti... ed è così. Se la colpa ricadesse su Israele, lo Stato ebraico verrebbe invaso da truppe arabe da qualsiasi Paese che disponga di un esercito. E sappiamo bene che cosa accadrebbe a quel punto.» «Gli israeliani ricorrerebbero al nucleare.» «Pertanto che alternativa ci resta? Mi offra una via d'uscita, Overholt.» «L'unica maniera in cui possiamo risolvere la cosa è eliminare i tappeti da preghiera, catturare Hickman e cercare di sostituire il meteorite, se ha effettuato lo scambio, e poi perquisire i luoghi sacri alla ricerca di esplosivi.» «Il tutto senza che il governo saudita ne sappia niente?» osservò il presidente. «Mi sembra una pretesa eccessiva.» «Signor presidente... lei ha un'idea migliore?» Il 4 gennaio del 2006, alle cinque del mattino ora del Qatar, il telefono nella stanza di albergo di Cabrillo squillò, svegliandolo. «Sono io, Juan», disse Overholt. «Ho concluso l'incontro con il presidente e ho le disposizioni per te.» «Qual è la sentenza?» chiese Cabrillo alzandosi a sedere nel letto. «Vuole che si faccia tutto senza la collaborazione saudita. Mi spiace, ma è l'unica maniera in cui ci sembra che possa funzionare.» Il sospiro di Cabrillo si sentì lungo tutta la linea telefonica. «Mancano sei giorni allo hajj, poi due milioni di pellegrini si riverseranno alla Mecca e a Medina. E tu vuoi che mandi là dentro una squadra. A che scopo?» «Primo, trovi Hickman», rispose Overholt, «e ti accerti dell'ubicazione
del meteorite. Se lo ha scambiato con la Pietra di Abramo, rimetti quest'ultima al suo posto. Poi cerchi nelle moschee di al-Haram e al-Nabawi e ti assicuri che non vi siano cariche da far esplodere durante lo hajj. Infine te ne vai dall'Arabia Saudita prima che si venga a sapere della tua presenza là.» «Detesto parlare di lavoro quando sei in vena di fantasticherie», ribatté Cabrillo. «Ma per caso hai un'idea di quanto verrebbe a costare agli Stati Uniti?» «Otto cifre?» «Anche nove, forse.» «Dunque è fattibile?» «Forse... ma mi occorrerà avere al mio fianco tutte le risorse del dipartimento della Difesa e dei servizi segreti.» «Tu chiama, e io farò in modo che corrano subito», replicò Overholt. Cabrillo riagganciò e compose un numero. Un'ora più tardi, mentre Cabrillo era ancora all'hotel sotto la doccia, Hali Kasim usciva sulla pista di atterraggio davanti a un hangar al limitare della base dell'aeronautica americana in Qatar. Tutt'intorno si muovevano indaffarati i trentasette militari musulmani statunitensi al completo, dalla base di Diego Garcia nell'oceano Indiano al continente africano. Tutti arrivati nel Qatar il giorno prima, su jet dell'esercito, dalle più diverse assegnazioni. A nessuno di loro era stato rivelato il motivo della convocazione. «Signori», ordinò Kasim, «formate i ranghi.» Gli uomini si misero in fila aspettando in riposo. Kasim intanto osservava un foglio di carta. Alzò gli occhi rivolgendosi ai soldati. «Il mio nome è Hali Kasim. Ho servito sette anni la marina degli Stati Uniti come sottufficiale W-4 nelle demolizioni subacquee prima di entrare nel settore privato. Sono stato richiamato in servizio attivo per decreto presidenziale con il grado di comandante sul campo per gli scopi di questa operazione. Secondo la mia agenda la persona di rango subito inferiore qui presente è un capitano dell'aeronautica di nome William Skutter. Il capitano Skutter è pregato di fare un passo avanti.» Un uomo di colore, alto e sottile, con indosso l'uniforme azzurra dell'aeronautica fece due passi avanti. «Il capitano Skutter è il mio secondo. È pregato di venire qui al mio
fianco e di mettersi di fronte alla truppa.» Skutter lo raggiunse e, girando i tacchi, si mise accanto a Kasim. «Il capitano Skutter fra qualche ora vi dividerà in squadre in base ai vostri diversi ranghi di servizio», continuò Kasim. «Adesso desidero spiegarvi perché ciascuno di voi è stato scelto per essere qui oggi. Prima di tutto, e soprattutto, voi siete personale americano; in secondo luogo, e cosa di estrema importanza per la missione, nel vostro curriculum militare avete inserito alla voce 'religione' quella islamica. C'è qualcuno qui che non è musulmano? Se c'è, faccia un passo avanti.» Nessuno si mosse. «Molto bene, signori. C'è un'operazione speciale che richiede la vostra presenza. Se potete seguirmi nell'hangar, abbiamo riunito delle sedie e creato una zona istruzioni. Una volta che vi sarete accomodati, comincerò a spiegare.» Kasim e Skutter si avviarono all'hangar. Gli uomini li seguirono a uno a uno. C'erano numerose lavagne attorno a una predella, alcuni lunghi tavoli a cavalletto con sopra una varietà di armi e dispositivi, una caraffa d'acqua fresca e molte file di sedie pieghevoli di plastica nera. Gli uomini presero posto mentre Kasim e Skutter si preparavano davanti a loro. 49 Persino in un Paese immerso nella tradizione come l'Arabia Saudita il mondo moderno trova la maniera di insinuarsi nel passato. La Moschea del Profeta a Medina ne è un esempio. Un mastodontico progetto edilizio avviato nel 1985 e completato nel 1992 ne ha esteso e ammodernato le strutture. La zona è stata ampliata di quindici volte per coprire un'area di circa 165.000 metri quadrati, e lo spazio aggiunto consente oggi a quasi 750.000 visitatori di trovarsi sul posto contemporaneamente. L'ampliamento consiste in tre edifici insieme con un imponente cortile di marmo intarsiato a motivi geometrici. Ventisette nuovi cortili sormontati da intricate cupole mobili abbelliscono adesso l'orizzonte unitamente a due vaste zone ricoperte da sei grandi ombrelli meccanici che si possono aprire o chiudere in base alle condizioni atmosferiche. Attorno al perimetro, sei minareti si librano nell'aria per 110 metri, ciascuno con in cima una gigantesca mezzaluna d'ottone del peso di circa cin-
que tonnellate. Elaborate dorature e piastrelle in oro sono state aggiunte in diverse zone, e fasci di luce sottolineano i vari particolari architettonici. Gli impianti hanno subito un ammodernamento completo. Si è provveduto a installare scale mobili per spostare i pellegrini ai piani superiori e si è aggiunto un gigantesco sistema di condizionamento dell'aria, uno dei più grandi mai costruiti, che pompa nelle tubature incanalate sotto il livello inferiore 65.000 litri di acqua refrigerata al minuto. L'intero sistema è controllato da una centralina a poco meno di sette chilometri dalla moschea. Si stima che la ristrutturazione della Moschea del Profeta e i nuovi edifici attorno alla Kaaba siano costati al governo saudita circa venti miliardi di dollari. Il principale appaltatore dell'immane progetto della Moschea del Profeta è una società appartenente alla famiglia di Osama bin Laden. Il capo dei mercenari indiani osservò nuovamente i diagrammi. Prima di salire a bordo della nave a Rabigh, Hickman aveva messo in chiaro che la tomba di Maometto alla Moschea del Profeta andava distrutta. Il fatto che bin Laden avesse tratto un profitto dalla ristrutturazione lo irritava ancora di più: Hickman voleva spazzare via l'intera opera dalla faccia della terra. Un bonus di dieci volte superiore alla ricompensa già pattuita era pronto per gli indiani in caso di successo. Fino a quel momento era stato pagato un milione in oro: il riscatto di un re nel loro Paese. Anche diviso fra dodici era abbastanza da consentire a ciascuno di vivere nell'agiatezza per il resto dei propri giorni. I dieci milioni in più che erano stati promessi li avrebbero resi immensamente ricchi. Tutto quello che dovevano fare era raggiungere Medina e infilarsi nei tunnel sotterranei dove le tubature dell'acqua gelata scorrevano sotto la moschea, piazzare le cariche seguendo le indicazioni del diagramma e tornare a Rabigh, dove Hickman aveva un'altra nave in attesa di trasportarli sul mar Rosso, a Port Sudan; lì avrebbero trovato un jet con l'oro e numerose guardie. Avrebbero lasciato passare tre giorni e, una volta che la Moschea del Profeta fosse andata distrutta la mattina del 10 gennaio, il jet li avrebbe trasferiti in India con l'oro. Differire il pagamento finale a risultato ottenuto era una lezione che Hickman aveva imparato molti decenni addietro. Se si vuole trovare una chiave sicura per un'operazione di successo non bisogna mai affidarsi a un unico sistema: una dottrina comprovata dall'af-
fare Desert One durante la crisi degli ostaggi iraniani del 1980. Il presidente aveva voluto intervenire con pochissimi elicotteri, e quando uno di essi era andato in avaria l'intera missione era abortita. Davanti al dilemma se avere un'arma o averne mille sarebbe sempre meglio scegliere il maggior numero possibile. I sistemi operativi a volte non funzionano, le bombe possono non esplodere e le armi si inceppano. Sia Kasim sia Skutter erano a conoscenza del problema. «Signore, la minaccia principale in questo momento sono i container a Riyadh», osservò Skutter. «Sappiamo che sono stati consegnati. Non appena li apriranno, il che dovrà avvenire comunque prima dell'inizio dello hajj, l'intera operazione potrebbe andare a monte.» «Già. Basta un primo caso di contaminazione da virus e l'Arabia Saudita dà un giro di vite e blocca tutto», concordò Kasim. I due uomini si trovavano nell'hangar, davanti a una mappa fissata a una bacheca. Su un tavolo vicino c'erano pile di passaporti del Qatar e autorizzazioni al pellegrinaggio per Kasim e ognuno degli altri trentasette membri della squadra: i funzionari governativi dell'emiro ci avevano lavorato per tutta la notte. I documenti erano autentici e non falsificati e avrebbero superato qualsiasi ispezione da parte delle autorità saudite, e, siccome i visti sauditi erano di regola concessi ai cittadini del Qatar senza fare storie, gli uomini adesso avevano una strada aperta per accedere al regno. «Allora mandiamo al magazzino due squadre di quattro uomini ciascuna», continuò Kasim. «E con questo restiamo in trenta uomini per entrare alla Mecca.» Skutter indicò la carta aerea che la National Security Agency aveva inviato via fax a Kasim in Qatar. La fotografia mostrava l'area adibita a ospitare i container nell'aeroporto di Riyadh. «Con i numeri di identificazione che i suoi colleghi hanno recuperato dalla spedizione in Inghilterra possiamo individuare i container in questo punto.» Con un evidenziatore Skutter tracciò un cerchio. «È una gran bella cosa», osservò Kasim, «che dipingano numeri di matricola sui tetti di tutti i container per permettere ai gruisti di vederli. Altrimenti sprecheremmo un sacco di tempo a cercarli in quella massa enorme di rifornimenti.» «Quando le due squadre saranno sul posto, come vuole che si comportino?» domandò Skutter. «Devono impossessarsene e portarli via», rispose Kasim. «Una volta stabilito che sono ancora sigillati, dobbiamo caricarli sui camion e lasciarli
nel deserto finché non decideremo che cosa farne, se distruggerli sul posto o trasferirli in un luogo sicuro.» «Ho letto gli stati di servizio», disse Skutter. «Abbiamo un sottufficiale di nome Colgan. È nei servizi segreti dell'esercito e ha fatto del lavoro da infiltrato.» «Colgan? Sembra irlandese», osservò Kasim. «Si è convertito all'Islam all'università. Il suo dossier mostra uno stato di servizio esemplare e sottolinea che è metodico ed equilibrato. Credo che possa occuparsene lui.» «Proceda a ragguagliarlo», disse Kasim. «E scelga personalmente il resto della squadra. Poi li metta sul prossimo aereo in partenza dal Qatar per Riyadh. Gli uomini dell'emiro mi dicono che c'è un volo regolare che parte da qui alle sei del pomeriggio.» «Molto bene, signore», rispose Skutter. «E con questo ci rimangono le moschee alla Mecca e a Medina», continuò Kasim. «Io guiderò la squadra dentro La Mecca e lei si occuperà di Medina. Avremo quattordici uomini ciascuno a nostra disposizione e il nostro obiettivo principale sarà individuare e disinnescare qualsiasi tipo di ordigno Hickman abbia piazzato. Entriamo, perquisiamo, portiamo via, e ce ne andiamo senza farci scoprire.» «E se Hickman avesse scambiato i meteoriti?» «La mia organizzazione sta lavorando sull'ipotesi in questo preciso istante.» Il capo degli indiani guardava fuori dalla finestra della casa di Rabigh. Il sole era basso all'orizzonte e la notte sarebbe presto calata su di loro. C'erano poco più di trecento chilometri da Rabigh a Medina, circa quattro ore di macchina. Una volta là, avrebbero impiegato qualche altra ora a controllare la configurazione del campo d'azione, a trovare all'esterno della moschea il pannello di accesso al tunnel sotterraneo che Hickman aveva segnato sul diagramma e infine a entrare. Sarebbe servita meno di un'ora per piazzare le cariche e uscire di nuovo dal tunnel. Poi c'erano le quattro ore di viaggio per rientrare a Rabigh. Se, come stabilito, gli indù volevano essere a bordo della nave diretta in Egitto all'alba del giorno seguente, 6 gennaio, dovevano muoversi. Dopo avere controllato un'ultima volta la cassa di esplosivi, il capo fece segno che la trasportassero fuori sul camion. Otto minuti più tardi erano
tutti in viaggio per Medina. Hanley scoprì che in quel momento la parola di Overholt valeva oro. Otteneva tutto quello che chiedeva. E lo otteneva molto rapidamente. «Siamo pronti a trasmettere», disse Overholt al telefono. «Apra il collegamento e controlli la qualità dell'immagine.» Hanley fece segno a Stone e le immagini apparvero su un monitor. Telecamere all'ingresso e all'uscita del canale di Suez mostravano le navi in transito chiare come se fossero state osservate dalla riva. «Che meraviglia!» esclamò Hanley. «Serve altro?» «La CIA ha un agente musulmano in Arabia Saudita?» «Ne abbiamo mezza dozzina.» «Occorre sapere se il meteorite è già stato scambiato.» «Anche i nostri non possono entrare dentro la tenda della Kaaba», rispose Overholt. «Ci sono quattro guardie che passeggiano di continuo lungo il perimetro.» «Ma possono accedere alla moschea di al-Haram. Dica loro di avvicinarsi il più possibile alla tenda con un contatore Geiger e poi di inginocchiarsi e di pregare. Se il meteorite della Groenlandia è già dietro il drappo, si dovrebbe rilevare la presenza di radioattività.» «Ottimo», osservò Overholt. «Ci mettiamo al lavoro subito e la informo non appena so qualcosa. C'è altro?» «Ci servono foto satellitari di entrambe le moschee, il più particolareggiate possibile, assieme a diagrammi tecnici, piante, schemi o qualsiasi altra cosa può trovare.» «Farò mettere insieme la documentazione al più presto e gliela farò spedire via satellite e poi da un corriere», disse Overholt. «Bene. Il piano della Corporation è immaginare di essere Hickman e procedere come farebbe lui. Una volta che abbiamo la documentazione, metteremo insieme la nostra squadra e prepareremo un piano come se la missione fosse quella di distruggere le moschee.» «Resto in ufficio per tutta la durata dell'operazione. Se sa qualcosa o le serve altro, chiami in qualsiasi momento.» «Grazie. Non la deluderemo.» Dopo essere atterrato a Tel Aviv, Cabrillo noleggiò un'auto e si portò il più vicino possibile alla Cupola della Roccia. Entrò dalla porta accanto alla
moschea di al-Aqsa e poi attraversò il cortile, al centro del quale si trovava il possibile obiettivo. L'intero complesso occupava circa quattordici ettari, con giardini, fontane e diversi sacrari. Il cortile era affollato di turisti e studiosi. Cabrillo entrò nella cupola per vedere la roccia illuminata dalla luce. Era facile capire che un tempo quella era la sommità della collina, dato che lo scabro affioramento sporgeva circondato da una zona di osservazione, ma era la storia della roccia, non un suo particolare attributo fisico, a farne un luogo tanto sacro. Cabrillo lasciò l'edificio e si diresse sottoterra alla Musalla Marwan, sotto il cortile lastricato nell'angolo sudorientale del complesso. Questa vasta area sotterranea, nota anche come le Scuderie di Salomone, ha un soffitto a cupola ed è bisecata da lunghe mura con archi e colonne. In gran parte la Musalla Marwan è aperta, e oggigiorno viene adibita a spazio di deflusso dopo le preghiere del venerdì. Lì, nella frescura del sotterraneo, Cabrillo sentiva la storia penetrargli nelle ossa. Nel corso dei secoli milioni di anime erano transitate da lì, alla ricerca di un contatto più intimo con il proprio Dio. Ogni particolare era immerso nella tranquillità, disturbata unicamente dal distante sgocciolare dell'acqua di qualche fontana, e per un attimo Cabrillo si sentì sopraffare dalla gravità del piano di Hickman. In quel momento, in qualche luogo, un uomo tanto radicato nel proprio odio e pervaso da un fortissimo sentimento di vendetta per la morte del figlio desiderava spazzare via dal mondo tre luoghi simili. Cabrillo rabbrividì. Eserciti di uomini avevano combattuto ed erano morti lì vicino e lui avvertiva la presenza dei loro spiriti. Si voltò per andarsene. Qualsiasi piano nefasto Hickman avesse in mente, era compito di Cabrillo e della Corporation fermarlo subito. Salì per gli scalini di pietra e rientrò nella zona del cortile. Un vento asciutto lo investì mentre si allontanava dalla porta. In un campo di aviazione nei pressi di Port Said, in Egitto, un antiquato Douglas DC-3 con a bordo Pieter Vanderwald rullava sulla pista fino all'arresto completo. Il DC-3 aveva alle spalle una lunga e onorata carriera nel trasporto merci su e giù per il continente africano. A partire dal 1935 furono costruiti migliaia di esemplari del leggendario bimotore, centinaia dei quali ancora in servizio. La versione militare del velivolo, il C-47, fu assai usata nella seconda guerra mondiale, in Corea e persino in Vietnam,
equipaggiata con armamento pesante. Noto anche come Dakota, Skytrain, Skytrooper e Doug, la denominazione più comune è quella di Gooney Bird. Il Gooney Bird pilotato da Vanderwald aveva un piede nella fossa dell'aviazione. Essendo già destinato alla rottamazione in Sudafrica e privo di un certificato di navigazione, Vanderwald lo aveva acquistato per una bazzecola. In tutta franchezza, si era meravigliato che ce l'avesse fatta a fare il viaggio fino in Egitto, eppure era così. E adesso, anche se si fosse trattato del suo ultimo volo, il vecchio aereo sarebbe potuto andare incontro a una morte dignitosa. Il DC-3 atterra su un carrello retraibile, la cabina di pilotaggio è appollaiata in alto sul davanti mentre la stiva si presenta inclinata verso la pista. La lunghezza è di venti metri e l'apertura alare di ventinove. Alimentato da una coppia di motori a stella da mille cavalli, ha un'autonomia di duemilaquattrocento chilometri e un regime di crociera fra i duecentocinquanta e i trecento chilometri orari. Con i flap aperti riesce a rallentare quasi a passo d'uomo prima dell'atterraggio. In un'epoca in cui gli aerei sono affusolati e lisci come un pugnale, il DC-3 è un'incudine. Solido, resistente a tutto e sempre pronto, il velivolo richiede poca manutenzione e fa il proprio dovere senza troppo clamore: un vero e proprio furgone in un parcheggio pieno di Corvette. Vanderwald spense i motori e tirò indietro il finestrino della cabina. «Blocca le ruote e fai il pieno», ordinò a un inserviente egiziano che lo aveva guidato al punto della pista in cui si trovava. «E rabbocca bene l'olio. Presto verrà a prenderlo qualcuno per la tratta successiva.» Detto ciò Vanderwald si portò in fondo alla cabina inclinata, tirò fuori la scaletta e scese sulla pista. Due ore più tardi si trovava al Cairo in attesa di un volo per Johannesburg. Non appena i fondi fossero stati trasferiti sul conto corrente, la sua parte poteva considerarsi conclusa. Cabrillo rispose al telefono proprio mentre arrivava all'auto presa a noleggio. «L'Hawker ha appena passato il confine tra la costa e il Mediterraneo. L'impressione è che sia diretto a Roma», disse Hanley. «Chiama Overholt e fai sequestrare l'aereo quando atterra a Roma. Forse Hickman ha deciso di abbandonare il progetto.» «Ne dubito.»
«Se è per quello, ne dubito anch'io», continuò Cabrillo. «Anzi, scommetto che non è affatto così.» «E dunque come pensa di progettare la propria fuga?» Cabrillo esitò prima di rispondere. «Non credo che voglia farlo... Penso che stia progettando una missione suicida.» La linea restò muta. «Terremo conto di questo», disse infine Hanley. «Adesso ho una riunione con il Mossad. Ti chiamerò quando sarà finita.» Il sole stava tramontando quando la vecchia nave su cui era imbarcato Hickman entrava borbottando nel golfo di Suez all'estremità settentrionale del mar Rosso. Il viaggio di cinquecento miglia da Rabigh era stato lento ma costante, e la nave sarebbe entrata nel canale di Suez quella stessa sera come programmato. La nave era poco spaziosa e Hickman aveva trascorso il proprio tempo alternandosi fra il piccolo corridoio dove il timoniere governava e il ponte di poppa dove l'aria non era ammorbata dal fumo dei sigarilli che il pilota fumava senza interruzione. La Pietra di Abramo era avvolta in una cerata sul ponte accanto alla sola borsa da viaggio che accompagnava Hickman, e che conteneva un cambio d'abito, l'essenziale per la toletta e un classificatore a tre anelli che l'uomo aveva continuato ad aprire e a chiudere per studiarlo nel corso del viaggio. Huxley stava entrando nella sala controllo. «Questo è quello che ho», disse. «Ho preso le foto che Halpert e gli altri hanno scattato a Maidenhead, ho cancellato la maschera antigas e con il programma biometrico ho creato un fotomontaggio.» Hanley prese il CD e lo portò a Stone, che lo inserì nel computer principale. Sul monitor apparve un'immagine. «Accidenti, non è affatto come si dice in giro!» «È strano, ma ha un senso», concordò Huxley. «Se fossi una specie di recluso come Hickman, vorrei cercare di avere un aspetto il più normale possibile: in tal modo potrei confondermi dovunque vada.» «Credo che le voci che lo paragonavano a Howard Hughes fossero appunto questo», intervenne Stone. «Voci.» «Vai avanti, Stoney», gli chiese Huxley. Stone digitò sulla tastiera e fece apparire l'immagine tridimensionale del profilo di un uomo. «Qui è ricreato il suo modo di muoversi», spiegò Huxley. «Ciascuno di
noi ha un portamento che è unico. Lo sapete come fanno quelli della sicurezza a identificare i bari al casinò?» «Come?» chiese Stone. «Grazie all'andatura. Una persona può usare dei camuffamenti, alterare il proprio aspetto, addirittura il modo di gesticolare... ma a nessuno viene mai in mente di modificare la maniera di camminare o la postura.» Stone armeggiò con i tasti e la figura cominciò a camminare, a girarsi, a muovere le braccia. «Facciamo una copia e mandiamola a Overholt», disse Hanley. «Così può distribuirla ai funzionari israeliani.» «Posso sovrapporre l'immagine con quelle delle telecamere di Suez», propose Stone. «Fallo.» Esattamente mentre Hanley osservava le immagini di Hickman, otto uomini scendevano da un volo commerciale dal Qatar per Riyadh e passavano la dogana senza il minimo intoppo. Dopo essersi riuniti all'esterno della zona ritiro bagagli, salirono su una Chevrolet Suburban bianca che il dipartimento di Stato aveva preso a prestito dal funzionario di una compagnia petrolifera. Poi si diressero a una casa sicura dove avrebbero atteso il calare della notte. «Possiamo fare quello che vi serve questa sera», disse il capo del Mossad, i servizi segreti israeliani, «ma non possiamo usare i cani... potremmo sostituirli con degli agenti equipaggiati di rilevatori chimici. Nelle moschee i cani sono tabù.» «Ci saranno problemi?» chiese Cabrillo. «Qualche anno fa, dopo che il primo ministro israeliano si è recato alla Cupola della Roccia, abbiamo avuto sommosse per parecchie settimane. Dobbiamo agire rapidamente e in sordina.» «I suoi uomini sono in grado di coprire l'intera area?» «Signor Cabrillo», rispose il funzionario, «Israele è costretto ad affrontare attentati terroristici tutte le settimane. Se ci sono degli esplosivi dentro l'Haram al-Sharif, lo verrà a sapere domani entro il sorgere del sole.» «E disinnescherete qualunque cosa possiate trovare?» «Disinnescheremo o rimuoveremo. L'alternativa più sicura.»
«Ai vostri posti, ragazzi», ordinò Kasim. I ventotto uomini rimanenti si sedettero. Skutter era rimasto accanto a Kasim alla lavagna. «Chi di voi non ha mai guidato una motocicletta?» chiese Kasim. In dieci alzarono la mano. «Vi aspettano delle difficoltà notevoli, ma abbiamo degli istruttori per un corso accelerato. Una volta terminato, voi dieci comincerete a esercitarvi. In quattro ore dovreste avere acquisito tutti una conoscenze base degli elementi fondamentali.» Gli uomini annuirono. «La situazione è questa», continuò Kasim. «Non possiamo entrare in Arabia Saudita su un volo commerciale. Semplicemente, il rischio di venire intercettati è troppo alto. Da qui in Qatar alla Mecca sono quasi milletrecento chilometri e la pista attraversa un brutto tratto di deserto senza rifornimenti di carburante. Pertanto abbiamo pensato alla seguente soluzione: l'emiro ci ha preparato un volo merci che ci porterà ad Al Hudaydah nello Yemen, dove meno di ottocento chilometri ci separeranno da Gedda, in Arabia Saudita, lungo una strada asfaltata che costeggia il mar Rosso. L'emiro ha pagato il silenzio delle autorità yemenite e ha svuotato il magazzino di un concessionario di motociclette qui in Qatar per il nostro trasporto. Le moto presentano alcuni vantaggi: il primo è che possiamo attraversare il confine lontano dal posto di frontiera per evitare di essere scoperti. Percorreremo un tratto di deserto e poi riprenderemo la litoranea una volta in Arabia Saudita. Il secondo vantaggio sono i consumi di benzina: ci sono numerose città lungo il percorso per il rifornimento, ma sono distanti fra loro, e le moto possono farcela da un centro abitato all'altro. Il terzo vantaggio è il più importante. Ognuno di noi viaggerà da solo in motocicletta: se le autorità fermano qualcuno, l'intera missione non sarà compromessa.» Kasim fissò gli uomini. «Qualcuno pensa di avere dei problemi?» Nessuno parlò. «Bene, se gli uomini che hanno bisogno dell'addestramento vogliono seguire il capitano Skutter sulla pista, abbiamo mezzi e istruttori che vi aspettano per esercitarvi. Gli altri si riposino, partiamo questa notte alle dieci.» Vanderwald si passò sotto il naso un tampone imbevuto di acqua di co-
lonia. La prima tratta del volo di ritorno, dal Cairo a Nairobi, in Kenya, era molto affollata. L'interno del jet puzzava di corpi sudati e dell'agnello servito per cena. Mentre Pieter Vanderwald sprofondava nel sonno, due uomini si avvicinavano alla sua casa nei sobborghi di Johannesburg. Dopo essere scivolati sul retro dell'abitazione, si misero lentamente a disattivare il complesso sistema di sicurezza, poi aprirono la porta di servizio ed entrarono. Perquisirono l'interno della casa lentamente e con sistematicità. Dopo due ore avevano finito. «Adesso chiamo e collego il suo telefono all'unità centrale», disse uno dei due, «così possono analizzare le registrazioni delle sue chiamate.» L'uomo compose un numero di Langley, Virginia, inserì un codice e aspettò il segnale. Un computer della CIA avrebbe preso il numero e cercato nell'unità centrale della compagnia telefonica sudafricana la registrazione di tutte le telefonate in uscita e in entrata di quell'ultimo mese. I risultati sarebbero stati disponibili entro alcune ore. «E adesso?» chiese l'altro. «Dormiamo a turno mentre si aspetta.» «Quanto staremo qui?» «Finché non torna», rispose il collega aprendo il frigorifero, «a meno che qualcun altro non si occupi di lui prima.» 50 I mercenari indiani erano arrivati all'esterno della grata che portava alle tubature di raffreddamento dell'acqua sotto la Moschea del Profeta a Medina. La grata era situata in uno spazio esterno accanto a un condominio, all'estremità di uno spiazzo in terra battuta che serviva da parcheggio supplementare in caso di necessità. L'area era pressoché vuota, e accanto al condominio non era parcheggiata più di una decina di auto. Il capo degli indù non aveva fatto altro che portare l'autocarro in retromarcia vicino alla chiusa, tagliare il lucchetto con un tronchese e poi guidare la sua squadra giù per la scala di ferro che immetteva nel tunnel. Una volta entrati, l'autista e un membro della squadra erano saliti in retromarcia sopra la grata, in attesa. Il tunnel di cemento misurava un metro e ottanta centimetri di diametro,
con una serie di condutture contrassegnate in arabo per indicarne la funzione, sollevate dal fondo del tunnel tramite dei supporti; di lato correva uno stretto camminamento per le ispezioni. L'interno era buio e freddo, e puzzava di cemento bagnato e di muffa. Il capo accese la torcia, imitato dagli altri membri della squadra. Poi avanzarono in fila indiana verso la moschea. Avevano percorso quasi un chilometro e mezzo sottoterra, quando giunsero alla prima biforcazione. Il capo guardò un GPS portatile. Il segnale era debole a causa dello strato di cemento sovrastante, così dovette studiare il diagramma del tunnel che Hickman gli aveva fornito. «Voi cinque andate in quella direzione», sussurrò ai suoi uomini con un gesto della mano. «Il tunnel si snoda in un percorso ad arco e alla fine forma un rettangolo. Mentre procedete, posizionate le cariche agli intervalli che abbiamo concordato e poi vi incontrerete con noi all'estremità opposta.» Il primo gruppo si avviò lungo il tunnel a destra, mentre il capo e gli altri presero a sinistra. Quarantasette minuti più tardi si incontrarono. «Adesso ci scambiamo il percorso», ordinò il capo. «Voi sei andate lungo il nostro perimetro e controllate le cariche piazzate. Noi prendiamo il vostro lato e facciamo altrettanto.» Gli uomini si avviarono in direzioni opposte con le torce che oscillavano nel buio. A ognuna delle sei postazioni ubicate in ciascun passaggio, assicurati alle tubature con nastro adesivo, C-6 e candelotti di dinamite erano avvolti in fasci di circa trenta centimetri di diametro. E ogni stazione aveva un timer digitale. Il primo timer segnava: 107:46. Le cariche erano programmate per esplodere a mezzogiorno del giorno 10, quando la moschea sarebbe stata affollata da circa un milione di pellegrini. La quantità di esplosivo collocata dagli indù avrebbe ridotto il luogo di culto in macerie; la carica più grossa, con il doppio di C-6 e dinamite, era sistemata direttamente sotto il punto che nel diagramma indicava la tomba di Maometto. Se il piano avesse funzionato, in meno di cinque giorni sarebbero stati spazzati via secoli di storia. Dopo avere ripercorso il tunnel a ritroso, la squadra era tornata alla grata che portava in superficie. Il capo si era arrampicato sotto il camion ed era
scivolato fuori. Poi si era avvicinato al finestrino dal lato dell'autista e aveva bussato. «Vai avanti.» Una volta che tutti gli uomini furono a bordo, prese un lucchetto che aveva portato con sé e richiuse la grata. Quattro minuti più tardi, illuminati da un sottile spicchio di luna, i mercenari erano di nuovo in partenza per Rabigh. Alle sei del mattino di quel medesimo giorno Hanley convocò gli operativi della Oregon nella sala riunioni. La nave si trovava al largo di Tel Aviv a descrivere cerchi pigri e lenti nelle acque del Mediterraneo. Su uno schermo, Hanley stava osservando l'avvicinamento del Robinson da prua. «È il presidente», esclamò indicando l'elicottero. «Terrà la riunione. Finché non sarà atterrato, voglio che tutti studino bene i propri appunti. Ci sono caffè e brioche sul tavolo. Se avete bisogno di mangiare qualcosa, fatelo ora. Una volta che il signor Cabrillo avrà iniziato, non voglio che ci siano interruzioni.» Hanley uscì per andare nella sala controllo per gli ultimi aggiornamenti. Ottenutili da Stone, stava per uscire quando Cabrillo e Adams gli passarono davanti. «Tutti ti aspettano nella sala riunioni», disse Cabrillo seguendo i due uomini. Cabrillo raggiunse la sala, aprì la porta e i tre entrarono. Adams, con la tuta da pilota indosso, prese posto al tavolo. Hanley si mise al fianco di Cabrillo, che si portò dietro la predella. «Lieto di vedervi ancora tutti», esordì. «In particolare sono felice di incontrare Gunderson e la sua squadra. È bello sapere che alla fine vi hanno lasciato andare», osservò sorridendo al pilota. «Mi servirete tutti per quello che sta per succedere. Sono appena rientrato da Tel Aviv dove ho avuto una riunione con il Mossad. Questa mattina presto hanno mandato una grossa squadra nella moschea attorno alla Cupola della Roccia a cercare cariche esplosive. Non ne è stata localizzata nessuna, di alcun tipo. Niente di convenzionale, di nucleare o di biologico. Tuttavia hanno trovato una videocamera che non avrebbe dovuto trovarsi lì, nascosta vicino a un edificio in un albero.» Nessuno parlò. «La telecamera era agganciata a un collegamento terra satellite senza fili che inviava le immagini a un'unità di elaborazione all'esterno della moschea, e poi, attraverso un cavo convenzionale, a un edificio vicino. Quan-
do me ne sono andato, il Mossad stava preparando un piano per entrarci. Presto dovrebbero aggiornarmi sulla situazione.» I presenti annuirono. «La cosa interessante sulla telecamera è che era posizionata in modo da puntare verso il cielo sopra la Cupola della Roccia, così da riprendere la sommità della struttura. Ciò conferma che Hickman, se si è impossessato della Pietra di Abramo, progetta un attacco aereo per distruggerla e al tempo stesso danneggiare la Cupola della Roccia. Il suo piano è di filmare l'attacco e in qualche modo trasmetterlo in tutto il mondo.» L'uditorio annuì. «La situazione alla Mecca e a Medina è questa», continuò Cabrillo. «Kasim e un ufficiale dell'aeronautica americana guideranno un paio di squadre, costituite da soldati dell'esercito americano di confessione musulmana, per cercare le bombe. In Qatar, a coordinare le cose con l'emiro, è rimasto Pete Jones. Il sovrano ci ha offerto tutto l'aiuto possibile. Il signor Hanley vi spiegherà di cosa si tratta.» Cabrillo si allontanò dal podio e lasciò il posto a Hanley. Si avvicinò alla caffettiera, riempì due tazze e ne portò una a Adams che lo ringraziò con un cenno del capo. «Come tutti sapete, La Mecca e Medina sono i due luoghi più sacri dell'Islam. E proprio per tale ragione sono preclusi a chi non è musulmano. In quanto unico membro del nostro gruppo che professa la fede islamica, Kasim è stato scelto per guidare le squadre. L'emiro ha procurato loro un aereo da carico e una flotta polivalente di motociclette da strada e da fuoristrada. Uomini e mezzi sono arrivati nello Yemen questa mattina presto e hanno superato il confine con l'Arabia Saudita percorrendo uno uadi, il letto asciutto di un corso d'acqua. L'ultimo aggiornamento mi dice che hanno già superato la città saudita di Sabya e procedono verso nord. Poi saliranno a bordo di autobus pubblici per raggiungere le due moschee e, una volta là, si divideranno e inizieranno a cercare gli esplosivi.» «E i container?» chiese Halpert. «La squadra che si trovava a Maidenhead», continuò Hanley, «ha scoperto le tracce di una tossina che riteniamo essere stata vaporizzata sui tappeti da preghiera all'interno dei container. Kasim ha inviato otto uomini su un volo commerciale a Riyadh che hanno già preso posizione attorno alla zona di carico e scarico dove i container vengono depositati, in attesa della consegna alla Mecca. Per dirla in tutta franchezza, qui siamo stati fortunati. Se quei container fossero arrivati in tempo, probabilmente a
quest'ora sarebbero già stati scaricati e il veleno liberato nell'aria. Invece Hickman ha effettuato la consegna talmente in ritardo che gli autocarri addetti al trasporto dei tappeti erano già stati destinati a un nuovo incarico. In base alla tabella di marcia che la National Security Agency ha ricavato dall'agenda elettronica del responsabile dell'organizzazione, la data di consegna è stata spostata a domani, sette gennaio. Il nostro piano è che la squadra che si trova al magazzino prelevi direttamente i container e si avvii lungo la strada per La Mecca. Da qualche parte fra Riyadh e La Mecca dovremo distruggerli oppure farli uscire dal Paese.» Proprio in quell'istante prese a squillare il telefono della sala riunioni e Cabrillo andò a rispondere. «Capito», disse riagganciando. Hanley lo guardò ansioso. «Era Overholt. Il suo agente ha individuato radiazioni nelle vicinanze del drappo che copre la Kaaba. In qualche modo Hickman è riuscito a scambiare i meteoriti.» A Londra Michelle Hunt aveva trascorso gli ultimi giorni rinchiusa in una stanza d'albergo a farsi torchiare dagli agenti della CIA. Era stanca, ma ancora disposta a collaborare. Onestamente alla CIA cominciavano a rendersi conto che c'era poco che lei potesse fare per aiutarli. Fin dall'inizio avevano scartato l'idea di farle contattare Hickman. Anche nel caso avesse avuto con sé un cellulare, una volta visto che lei non lo chiamava dal solito numero, l'uomo avrebbe capito che c'era sotto qualcosa. Un aereo avrebbe dovuto riportarla negli Stati Uniti, e sarebbe partito nel giro di un'ora. Tutto sommato, quello che Michelle Hunt aveva potuto fare era stato gettare qualche spiraglio di luce sulla vita di Hickman. E lo aveva fatto con abbondanza di particolari. L'avevano interrogata su tutto, e lei aveva collaborato. L'agente incaricato doveva oramai solo precisare qualche altro dettaglio e poi avrebbe potuto presentare il suo rapporto. «Adesso, torniamo all'inizio. Quando vi incontraste la prima volta, ha detto che Hickman era arrivato a Los Angeles per ispezionare un terreno petrolifero che era intenzionato ad acquistare.» «Sì. Lo conobbi quel giorno, a pranzo da Casen's. Io avevo ricevuto un buono omaggio da un'amica, come regalo per il mio compleanno. All'epoca non potevo certo permettermi ristoranti costosi... neppure il pranzo mi potevo permettere, in verità.» «Poi che cosa successe?»
«Venne al mio tavolo, si presentò e così io gli chiesi di restare. Rimanemmo là tutto il pomeriggio. Di certo conosceva i proprietari, perché quando tutti gli altri clienti se n'erano andati ci lasciarono tranquilli. Attorno a noi preparavano i tavoli per la cena... ma nessuno ci disse niente.» «Cenaste là quella sera?» «No. Sorvolammo in aereo il giacimento petrolifero al tramonto, così poté controllarlo. Direi che cercava di fare colpo su di me.» «Dunque, mentre sorvolavate il giacimento potevate guardare dai finestrini dell'aereo?» «Non c'erano i finestrini. Era un biplano. Io sedevo sul sedile posteriore.» «Un attimo. Era un biposto?» «Un vecchio Stearman, se ricordo bene.» «Chi pilotava?» «Be', pilotava Hal, che domanda. Chi altrimenti?» «Il signor Hickman è un pilota?» «Be', a quei tempi lo era. Se lo faceva Howard Hughes, anche Hal doveva provarci.» L'agente si precipitò al telefono. «Ciò complica ancora di più le cose», osservò Hanley. «Adesso non ci basta recuperare la Pietra di Abramo da Hickman, dobbiamo anche rimetterla al suo posto senza essere scoperti. Il presidente ci ha raccomandato di fare il possibile per tenere il governo saudita fuori da questa operazione.» In quell'istante uno dei monitor da cento pollici della sala si accese. Lo schermo era diviso a metà verticalmente e Stone era visibile sul lato sinistro. «Mi scusi, signore, so che ha chiesto di non essere interrotto, ma è importante. Guardi l'altra metà del display.» Un'immagine riempiva la metà di destra. «Viene da alcune telecamere che la CIA ha posizionato sul canale di Suez. L'immagine è stata registrata negli ultimi quindici minuti.» La telecamera mostrava la panoramica di una vecchia nave mercantile. Un paio di marinai tirava le gomene mentre l'imbarcazione passava attraverso il canale. Un uomo era in piedi sul ponte di poppa con una tazza di caffè. La telecamera lo aveva colto mentre guardava verso il cielo. «L'ho sovrapposta con la simulazione creata da Huxley», spiegò Stone. Tutti nella sala osservarono l'immagine tridimensionale che si posava sull'uomo. I bordi combaciavano perfettamente. Quando l'individuo della
barca si muoveva, l'immagine ricreata dal computer lo seguiva. «Signore», disse Stone eccitato, «quello è Halifax Hickman.» «Stoney, dov'è la nave adesso?» domandò Cabrillo. Il lato sinistro dello schermo mostrò Stone che guardava un altro monitor nella sala controllo. «Sta rallentando per entrare a Port Said, in Egitto.» «George...» Cabrillo non fece in tempo a finire la frase. «Rifornimento e pronti subito», continuò Adams alzandosi. Quattro minuti più tardi il Robinson si alzava in volo dal ponte. La posizione della Oregon era a duecento miglia da Port Said. Ma il Robinson non avrebbe mai raggiunto l'Egitto. 51 L'aereo di Vanderwald aveva preso vento di coda ed era arrivato con mezz'ora di anticipo. Il traffico era inesistente; sarebbe passata un'altra ora prima che i pendolari cominciassero a intasare le strade diretti al lavoro, e così Vanderwald fu davanti a casa solo quindici minuti dopo essere sceso dall'aereo. Prese la posta dalla cassetta sulla strada, la infilò sotto il braccio e portò l'unica borsa da viaggio all'ingresso. Una volta dentro, appoggiò la borsa sul pavimento e la corrispondenza su un tavolo. Si stava girando a chiudere la porta, quando gli apparve un uomo che sbucava di lato, mentre un rumore di passi provenienti dall'atrio andava in direzione della cucina. «Buongiorno, pezzo di merda», disse il primo, puntando alla testa di Vanderwald una pistola con il silenziatore. Non aggiunse altro. Si limitò ad abbassare l'arma e a sparare al sudafricano in entrambe le ginocchia. Vanderwald crollò a terra urlando di dolore. Anche il secondo uomo era arrivato. Si accovacciò accanto a Vanderwald, che si rotolava sul pavimento. «Ci vuoi spiegare questa fattura che abbiamo trovato sul tuo computer per un DC-3?» Due minuti e due colpi ben piazzati più tardi, gli sconosciuti avevano la loro risposta. Un altro minuto ancora e il primo uomo diede il colpo di grazia. I sicari uscirono dalla porta di servizio allontanandosi da un vicolo che passava dietro la casa, poi proseguirono per una strada laterale dove ave-
vano nascosto l'auto a noleggio. Salirono e il passeggero si tolse i guanti per comporre un numero al cellulare. «L'obiettivo è appena rientrato dopo aver consegnato un DC-3 a Port Said, in Egitto. Non sarà più un problema.» «Capisco», rispose Overholt. «Potete tornare a casa.» «Mi serve un'inquadratura in tempo reale del campo di aviazione di Port Said», disse Overholt al capo della National Security Agency. «Stiamo cercando un DC-3.» L'uomo urlò le istruzioni ai tecnici. «Stiamo dirigendo il satellite. Resti in linea.» Mentre aspettava, Overholt allungò la mano al cassetto della scrivania, tolse la racchetta di legno con annessa la palla di gomma rossa e iniziò a lanciarla con forza avanti e indietro. L'attesa, che non durò più di qualche minuto, sembrò lunga ore. Finalmente il capo dell'agenzia tornò in linea. «Resti in attesa, le stiamo trasmettendo l'immagine.» Overholt guardò sul proprio monitor. Un campo di aviazione ripreso dall'alto gli riempì lo schermo. Poi iniziò a rimpicciolirsi finché il DC-3 non fu visibile. L'immagine lentamente si ridusse ancora, arricchendosi di dettagli. C'era un uomo che attraversava la pista con quella che sembrava una coperta stretta al petto. Si stava incamminando direttamente verso il DC-3 sino a che Overholt vide che cominciava ad aprire il portello laterale. «Continuate a riprendere il DC-3», ordinò Overholt. «E se decolla cercate di seguirlo.» «Sarà fatto», rispose il capo dell'NSA chiudendo la comunicazione. Hanley era seduto nella sala controllo con Stone quando squillò il telefono. Era Overholt. «Siamo a questo punto», disse senza troppi preamboli. «La signora Hunt ha appena rivelato ai miei agenti che un tempo Hickman pilotava aerei. Due dei miei uomini hanno incontrato il mercante d'armi sudafricano qualche minuto fa e costui ha rivelato di aver consegnato un DC-3 per Hickman a Port Said, ieri. Proprio adesso ho un'immagine satellitare sullo schermo che mostra un tizio approssimativamente della taglia di Hickman e che corrisponde al profilo tridimensionale che mi hai mandato. Sta aprendo il portello in questo preciso istante.» «È così, dunque», lo interruppe Hanley. «Si prepara all'attentato alla Cupola della Roccia.»
«Non possiamo abbatterlo, altrimenti la Pietra di Abramo va perduta», osservò Overholt. «Dobbiamo lasciare che esegua il lancio.» «Okay. Adesso avverto Cabrillo.» Hanley chiuse la comunicazione con Overholt e si mise in contatto radio con il Robinson. «Fai dietrofront», disse Cabrillo a Adams dopo avere ricevuto spiegazioni da Hanley. Adams iniziò un'ampia virata a sinistra. «Tranne Murphy e Lincoln, voglio tutti a terra, alla Cupola della Roccia. E il più presto possibile», esclamò Cabrillo. «Di' a loro due che comincino a puntare la batteria missilistica.» «Sarà fatto subito», rispose Hanley. «Richiama Overholt e comunicagli di tenere alla larga gli israeliani. Non voglio aerei in volo o altre indicazioni che facciano capire a Hickman che gli stiamo addosso.» «Ricevuto.» «E poi fammi richiamare il più in fretta possibile da Kevin Nixon. Voglio discutere di quella sua cosa ancora una volta.» «Dove andiamo, signore?» chiese Adams. «Nel centro di Gerusalemme», rispose Cabrillo. «Alla Cupola della Roccia.» Adams inserì le istruzioni nel GPS mentre il Robinson si avvicinava di nuovo alla costa. Gli operativi sulla Oregon correvano da una sala all'altra nel fervore dei preparativi; Nixon si avviò attraverso il corridoio alla sala controllo, aprì la porta e scivolò dentro. Hanley premette il pulsante del microfono e Cabrillo rispose all'istante. «Ho qui Nixon», disse Hanley passandogli il microfono. «Kevin?» «Sì, signore.» «Sei sicuro che quello che hai creato funzionerà? Se hai dei dubbi, devo saperlo ora.» «Ho calcolato il peso e raddoppiato la stima di altezza che lei mi ha dato», rispose Nixon, «ed era ancora dentro i limiti. Come si sa, niente è perfetto... ma direi di sì, funzionerà.»
«Quanto tempo ci vuole perché sia pronto?» «Meno di un minuto.» «E hai abbastanza materiale?» «Sì, signore. Ne ho prodotto di più di quanto dovrebbe servirci.» «Okay, seguiremo la tua idea. Però non c'è un piano di riserva, e quindi deve funzionare a tutti i costi.» «Funzionerà», rispose Nixon. «Ma c'è un problema.» «Quale?» «Potremmo perdere la pietra, se colpisce la Cupola della Roccia.» Cabrillo non parlò per un istante. «Di quello mi occuperò io.» Erano più di vent'anni che Hickman non pilotava un aereo, ma tutto gli era ritornato in mente come se fosse stato il giorno prima. Seduto al posto del pilota, fece il controllo prevolo e scaldò i motori: l'accensione degli antiquati motori provocò sbuffi di fumo, ma dopo qualche minuto questi si misero a girare al minimo sobbalzando velocemente. Con gli occhi sul pannello di controllo, Hickman individuò i diversi interruttori e si accertò che il rudimentale pilota automatico fosse sempre agganciato ai comandi. Poi, avanzando con il vecchio DC-3, chiamò la torre di controllo per l'autorizzazione a decollare. Il campo di aviazione era tranquillo e ottenne subito una pista. Hickman si lanciò avanti e provò i freni. Erano un po' morbidi, ma funzionavano. Al miliardario quel particolare non interessava per nulla... Quella era l'ultima volta che qualcuno li avrebbe usati. Per il DC-3 era il viaggio finale. Rullò in avanti, deviò lentamente per entrare sulla pista e si preparò. Controllati gli indicatori un'ultima volta, Hickman diede potenza e mollò i freni: il DC-3 si lanciò sulla pista e, raggiunta la velocità necessaria, si sollevò in aria e a fatica iniziò a salire. La tratta era di poco più di trecento chilometri. A velocità piena e con un leggero vento di coda sarebbe arrivato in un'ora. «Ho i battelli in acqua», disse Stone in sala controllo. «E ho richiesto un elicottero israeliano per trasbordare i dieci della squadra da Tel Aviv a una postazione vicina alla Cupola della Roccia. L'elicottero è troppo grande per la nostra piazzola. Eccolo che arriva.» Stone indicò un monitor che mostrava l'immagine presa dalla telecamera
sulla prua della Oregon. Il grosso velivolo a doppio rotore stava appunto atterrando sulla sabbia in lontananza. «Vado in sala riunioni», disse Hanley. Attraversò di corsa l'atrio e aprì la porta della sala riunioni per precipitarsi all'interno. «Okay, ragazzi. I battelli sono pronti e a riva c'è un elicottero che vi trasporterà per il resto del viaggio. Tutti sono aggiornati su quello che stiamo per fare?» I dieci annuirono tutti. «Il signor Seng vi coordinerà. Buona fortuna.» Gli uomini della squadra iniziarono a uscire dalla sala riunioni, ciascuno con in mano uno scatolone. Hanley fermò Nixon mentre passava. «Hai la scala di corda?» «È in questa scatola, sopra l'altra roba.» «Okay, allora», rispose il direttore della Corporation seguendolo lungo l'atrio fino al ponte di poppa, da dove rimase in osservazione finché i due battelli non furono carichi e in partenza per coprire la breve distanza dalla riva. Poi rientrò per fare il punto con Murphy e Lincoln. «Dove la faccio scendere?» chiese Adams. «Andiamo dritti alla Cupola della Roccia», disse Cabrillo. «A quel punto la squadra della Oregon dovrebbe essere già arrivata.» «E poi?» «Adesso ti spiego.» Qualche minuto più tardi Cabrillo aveva finito. Adams si lasciò sfuggire un fischio. «Con tutti gli esperti di tecnologia che la Corporation ha nel suo arsenale, ci siamo ridotti a questo!» «Una specie di numero di acrobazia, roba da circo», concordò Cabrillo. La squadra della Oregon scese dall'elicottero in una strada chiusa vicino alla Cupola della Roccia. Carri armati israeliani bloccavano tutte le vie di accesso laterali e plotoni di militari allontanavano la gente dalle strade e dalla moschea. Folle di palestinesi, ignari che il loro venerato santuario fosse in pericolo, avevano cominciato a protestare, e gli israeliani dovevano tenerli indietro con gli idranti. Seng guidò la squadra verso l'ingresso della moschea. «Dividetevi e prendete posizione», ordinò. «Kevin, assicurati per prima cosa che la corda sia fissata.» «Va bene», rispose Nixon mentre la squadra si allontanava di corsa per
sparpagliarsi nel cortile della moschea. Seng si rivolse a un ufficiale israeliano lì accanto. «Mi serve che attacchiate delle maniche antincendio agli idranti da tutti i lati e che poi le facciate passare dentro la moschea. Bisogna assolutamente che ce ne siano abbastanza per raggiungere ogni punto che ci interessa.» L'uomo si mise a gridare degli ordini. Hickman continuava il proprio volo sul Mediterraneo. Era animato dalla sensazione di essere giunto alla fine. E che la sua vita fosse stata un fallimento. Tutta la sua ricchezza, la fama e il successo non avevano nessun significato. L'unica cosa che gli sarebbe importato di fare bene l'aveva distrutta. Non era mai stato un buon padre per suo figlio. Ossessionato da una mania di grandezza e da una superbia che non permettevano a nessun altro essere umano di avvicinarsi troppo, non aveva mai lasciato che l'amore di un bambino per suo padre penetrasse quella corazza. Solo la morte di Chris Hunt l'aveva spaccata. Per Hickman gli stadi di elaborazione del lutto si erano fermati all'odio gelido. Rabbia verso una religione che alimentava fanatici pronti a uccidere senza rimorso. Rabbia verso i simboli che costoro veneravano. Ben presto quei simboli sarebbero spariti, e se da un lato Hickman avrebbe visto solo i primi frutti del proprio operato, sarebbe tuttavia morto contento, nella consapevolezza che ogni cosa presto sarebbe finita in macerie. Manca ancora poco, pensava, mentre avvistava la costa. Di lì a breve l'Islam sarebbe andato in pezzi. Nixon e Gannon avevano preso una scala di corda da uno scatolone e la stavano rapidamente srotolando sul cortile di fianco alla Cupola della Roccia. Purtroppo non era lunga abbastanza. «Aprirò quella di scorta», disse Kevin tagliando con il coltello il nastro adesivo che chiudeva un altro scatolone ed estraendo un'altra scala arrotolata. «Con i nodi ci sai fare?» «Ho una barca a vela», rispose Gannon, «perciò credo di avere i requisiti adatti.» Gannon cominciò a unire i capi delle due scale. Attorno alla Cupola della Roccia i membri della Corporation si erano messi a togliere da altri imballi grosse buste di plastica piene di una polvere bianca. Accanto al minareto di Silsila, Seng controllò che i soldati israeliani ti-
rassero le maniche antincendio appena dentro l'entrata. «Lasciatele lì», ordinò. «Ci penseranno i miei uomini a portarle all'interno.» Poi si spostò su tutti e quattro i lati dell'imponente complesso della moschea e ripeté le istruzioni. «Okay», esclamò Gannon poco dopo. «Le corde sono unite.» «Adesso dobbiamo cominciare da questo lato e arrotolare la scala con cura», osservò Nixon. Mentre Gannon tirava, Nixon l'arrotolava ordinatamente. Murphy seguiva la traiettoria sullo schermo del computer. Poi si voltò a guardare Hanley. «C'è un budget per questo lavoretto?» gli chiese. «Nessuno», rispose Hanley. «Bene, perché la barriera che gli mettiamo tra i piedi si avvicina al milione se si vuole il successo garantito.» «O si fanno le cose in grande o si torna a casa», replicò Hanley. Lincoln seguiva l'arrivo del DC-3. «Speriamo che la rotta si mantenga uguale e che le vostre ipotesi siano vere.» «Dall'angolazione della sua telecamera sembra che stia per abbassarsi per il lancio», osservò Hanley. «La cosa renderebbe la distruzione della Pietra di Abramo più visibile. Se la sganciasse più in alto, le lenti della telecamera dovrebbero essere sul grandangolo e al momento dell'impatto i dettagli sarebbero sfuocati.» «Non è di questo che mi preoccupo», rispose Lincoln. «Mi tiene in ansia il secondo passaggio.» «Per essere sicuro che il DC-3 riesca a distruggere la Cupola, Hickman deve salire di parecchie migliaia di piedi di quota e poi scendere in picchiata.» «Abbiamo inserito nel computer la velocità ascensionale del DC-3», intervenne Murphy, «e impostato i parametri per un'elevazione ulteriore di duemila piedi. Tenendo conto di ciò, l'aereo dovrebbe arrivare qui», e indicò un punto sul monitor. «Perfetto», esclamò Hanley. Murphy sorrise. «Anch'io e Lincoln la pensiamo così.» Hickman era ancora a nove minuti di distanza, quando Adams sorvolò il cortile che circondava la Cupola della Roccia abbassando l'elicottero sul punto dove Nixon, sbracciandosi, gli faceva segno. Kevin corse sotto il rotore e consegnò a Cabrillo il capo della fune attraverso il finestrino, poi si
allontanò nuovamente di corsa. «Lento e costante», disse Cabrillo attraverso le cuffie. «Lo sa che questo è il mio nomignolo?» rispose sicuro di sé il pilota. Sollevandosi con cautela Adams maneggiava i comandi con la precisione di un chirurgo. Senza fretta portò in alto il Robinson e si tenne di traverso mentre Cabrillo srotolava la corda. Sopra la cupola cominciò a formarsi una sottile ragnatela. Raggiunto il lato opposto, Adams volò a punto fisso appena sopra il suolo per consentire a Cabrillo di gettare l'estremità della scala. Meadows e Ross ne presero un lato ciascuno e tirarono fuori l'imbando, infine rimasero dov'erano tenendo tesa la scala, dalla quale pendevano diverse reti. «Adesso se tu riuscissi a mettermi sopra l'obiettivo», disse Cabrillo sorridendo dall'altro lato dell'abitacolo «te ne sarei molto grato.» Adams si sollevò lentamente e si avvicinò con estrema cautela alla cupola. Cabrillo aprì il portello e uscì sul pattino. Poi, con un rapido gesto a Adams, fece un passo e afferrò un piolo di corda della scala. Il pilota indietreggiò con molta attenzione e atterrò in una strada vicina. Cabrillo si trovava in cima alla cupola e fissava un grande aereo d'argento che si avvicinava in lontananza. Tirò le reti più strette che poteva. «Via, via, via», gridò Seng a sette membri della squadra, che cominciarono subito a spargere la polvere nel cortile come agricoltori intenti a seminare. Una volta finito, si precipitarono agli idranti in attesa che arrivasse l'ordine di spruzzare. Nixon e Gannon stavano azionando un idrante. Nixon teneva l'ugello, Gannon gli stava dietro con la canna puntata. «Sicuro che la cosa funzionerà, vecchio mio?» chiese Gannon. «Funzionerà. È ripulire tutto che sarà problematico.» Hickman non aveva notato il fatto che nessun aereo israeliano fosse decollato in gran fretta per intercettarlo. Semplicemente pensava che il suo arrivo a bassa quota avesse portato il DC-3 sotto il radar. Dopo avere inserito il pilota automatico, si spostò indietro verso la stiva e aprì il portello. La Pietra di Abramo era ancora avvolta nella tenda. Hickman la tolse e strinse il meteorite fra le mani. «Maledetta te, con tutto quello che rappresenti», sussurrò. Dal finestrino laterale vedeva il complesso della moschea sempre più vicino. Aveva calcolato che, alla velocità con cui viaggiava il DC-3, per col-
pire la cupola avrebbe dovuto lanciar fuori il meteorite esattamente quando il muso dell'aereo avesse raggiunto il limite del primo muro. Lui non avrebbe mai visto la pietra schiantarsi sopra la Cupola, ma era appunto per tale motivo che c'erano le telecamere. «Ora, ora, ora», gridò Seng udendo il rumore del DC-3 in avvicinamento. Le squadre addette alle pompe aprirono gli ugelli e spruzzarono la polvere sparsa per terra. L'acqua era il catalizzatore: non appena colpiva la polvere, i minuscoli grani cominciavano a espandersi e a impastarsi fra loro in un denso materiale schiumoso. La sostanza crebbe fino a sessanta centimetri di altezza. Gannon si sentì spingere in alto mentre con il getto della canna che teneva in mano bagnava la polvere sotto i suoi piedi. Il peso del suo corpo fece sì che le scarpe lasciassero un'impronta nella schiuma. Hickman osservava fuori dal finestrino per calcolare il lancio. Non appena vide il muro che circondava la moschea, lanciò la Pietra di Abramo. Poi corse di nuovo alla cabina di pilotaggio per iniziare la risalita e prepararsi alla picchiata suicida, mentre il pesante meteorite precipitava nell'aria, rotolando, verso la cupola. Se si fosse trattato di un film, Cabrillo, afferrato alla scala, avrebbe ribattuto la sacra roccia come se fosse una pallina da tennis, allontanandola dalla cupola e salvando la situazione. Oppure la Pietra di Abramo sarebbe atterrata nella rete e si sarebbe salvata. Invece la presenza di Juan si rivelò inutile: il lancio di Hickman era stato troppo corto. Senza la schiuma per terra, la reliquia sarebbe andata in frantumi nell'impatto con la pavimentazione di marmo. Fortunatamente rotolò a tre metri buoni di distanza dal limite esterno della cupola, si incastrò nella schiuma e, dopo essere affondata di una trentina di centimetri, rimase accoccolata e protetta come una preziosa pistola nel suo astuccio su misura. Seng accorse e osservò il meteorite. «Che nessuno lo tocchi», gridò. «Fuori c'è un agente della CIA musulmano. Se ne occuperà lui.» Seng afferrò la radio e chiamò Hanley sulla Oregon. «Le spiegherò tutto dopo, ma la pietra è salva. Può contattare Adams e dirgli di andare a recuperare il capo?»
Hanley si rivolse a Stone. «Chiama tu, per favore.» Mentre Stone era alla radio, Hanley, con Murphy e Lincoln, si mise al pannello di controllo dei missili. Un ponte sopra di loro, a poppa della Oregon, la batteria missilistica seguiva lentamente il DC-3. L'aereo viaggiava a quasi cinque chilometri al minuto. Intanto che Hickman era ritornato alla cabina e si era di nuovo seduto al posto del pilota per iniziare la salita, il DC-3 aveva superato Gerusalemme di circa quindici chilometri e si trovava più o meno alla medesima distanza dal mar Morto. Tirando indietro la cloche, Hickman salì più in alto. «Altri trenta secondi ed eviteremo che i rottami cadano sugli insediamenti palestinesi», disse Lincoln. Hickman non era certo innocente, e tuttavia i membri della Corporation non erano assassini. Se l'uomo avesse proseguito il volo verso la Giordania, avrebbero cercato di prenderlo una volta a terra. Se invece avesse iniziato una virata, non ci sarebbe stata scelta. L'unica ragione di un cambio di rotta in direzione di Gerusalemme era quella di tentare una picchiata suicida. Nel giro di qualche secondo il DC-3 avrebbe attraversato il mar Morto. «Signore», esclamò Murphy. «Il computer ha individuato l'inizio di una virata.» «Sei autorizzato», sussurrò Hanley. «Indicazione oraria», disse Lincoln leggendo data e ora. «Missili partiti», aggiunse Murphy un secondo spaccato più tardi. «Inseguimento», disse Lincoln. Due missili lasciarono la batteria, due pacchetti dei quattro presenti su ciascun lato di una piccola cupola che ospitava un'unità radar di inseguimento. Partendo a un intervallo di tempo di qualche millesimo di secondo, i due pacchetti descrissero una scia dalla nave in direzione del DC-3, come frecce scoccate dall'arco di un guerriero che viaggiano dritte e precise verso il bersaglio. Adams stava prelevando Cabrillo da sopra la cupola quando i missili gli passarono sulla testa. Dopo avere tolto rapidamente la scala di corda e averla lanciata a quelli che stavano a terra, tirò su il collettivo e salì con il Robinson sopra la moschea, poi avanzò. Hickman era quasi di traverso allorché per una frazione di secondo vide due punti di luce arrivare da lontano. Prima che la sua mente potesse regi-
strare l'immagine, i missili si schiantarono nella fusoliera del DC-3. La fine giunse istantanea, mentre i rottami dell'aereo precipitavano nel mar Morto. Il muso trasparente del Robinson era di fronte al DC-3, in lontananza, quando i missili trovarono il loro bersaglio. «La pietra è al sicuro», disse Cabrillo via radio a Hanley sulla Oregon. «Io vado sul luogo dello schianto.» 52 «È una mistura di amidi della farina di riso con l'aggiunta di un acceleratore naturale che fa gonfiare il tutto», spiegò Nixon. Seng osservava il cortile che circondava la Cupola della Roccia. Un agente musulmano della CIA assegnato a Israele rimuoveva delicatamente la Pietra di Abramo dalla crosta superficiale. Il pesante oggetto era penetrato sotto la superficie di oltre trenta centimetri, ma era comunque ancora protetto da uno spesso strato di quella bianca coltre. L'uomo guardò Seng e con un cenno del capo gli fece capire che la pietra era sana e salva. «E adesso come tiriamo via questa roba dal cortile?» si informò Seng. «Non ho avuto molto tempo per fare dei test», rispose Nixon, «ma credo che l'aceto dovrebbe funzionare.» Eddie annuì, poi prese un coltello a serramanico che teneva alla cintura. Si abbassò e tagliò un riquadro nel rivestimento di schiuma bianca. Facendo leva con la lama sollevò il pezzo e lo tenne fra le mani. «Assomiglia a una torta di riso», esclamò lanciando per aria il cubo leggero come una piuma e poi riprendendolo. «Prima va spaccata con dei badili per asportarne le porzioni più grandi», disse Nixon, «poi si bagna la zona con dell'aceto e si spazza il cortile che, a quel punto, basterà lavare bene con getti d'acqua.» Il rumore del Robinson si fece più intenso. Poi l'elicottero sorvolò la moschea per atterrare in una strada vicina. Mentre Seng spiegava ai soldati israeliani come procedere alla ripulitura, Cabrillo attraversò il portale a volta ed entrò nel cortile. «La carcassa del DC-3 è finita nel mar Morto», disse a Seng. «Il pezzo più grande che abbiamo visto in superficie aveva più o meno le dimensioni
di un filone di pane.» «E Hickman?» chiese Seng. «Quello che rimane di lui, se rimane qualcosa, dorme con i pesci.» Seng annuì e nessuno disse niente per un istante. «Signore, la pietra è sana e salva e abbiamo iniziato a ripulire la moschea», aggiunse poi Seng. «Le squadre sono pronte per l'estrazione.» Cabrillo fece un segno di assenso. «Può procedere all'estrazione», disse rivolgendosi all'agente della CIA. «Prenda la pietra e venga con me.» L'uomo sistemò la pietra, avvolta con cura, in una carriola dei giardinieri della moschea, infine, spingendola, seguì Cabrillo alla porta. Mentre Juan si avviava verso il Robinson, Hanley conferiva con Overholt al telefono. «Abbiamo messo al sicuro la pietra e stiamo per uscire da Israele», diceva Hanley. «Che contatti avete in Egitto?» «Ottimi», rispose Overholt. «E in Sudan?» «Il nostro uomo è di prim'ordine.» «Ecco che cosa ci serve.» Mentre Hanley spiegava, Overholt prendeva appunti. «Okay», disse quando Hanley ebbe finito, «Al Ghardaqah, Assuan, e, in Sudan, Ras Abu Shagara. Mi occuperò delle autorizzazioni e farò trovare carburante a cento ottani a ogni sosta.» Hanley stava per chiudere la comunicazione, quando Halpert entrò nella sala controllo tenendo in mano un faldone pieno di carte. «Credo di essermi fatto un'idea precisa della Moschea del Profeta a Medina», esclamò. «Ho prelevato i progetti dal database della ditta appaltatrice e li sto studiando da un'ora.» «Progetti?» si meravigliò Hanley. «Ma se è stata costruita centinaia di anni fa.» «Ma ampliata e ristrutturata dal 1985 al 1992», osservò Halpert. «E a quell'epoca scavarono tunnel sotterranei e posarono le tubature dell'acqua del sistema di condizionamento. Mi ha detto di pensare come Hickman... se fossi stato in lui è là sotto che avrei piazzato le cariche.» Hanley osservò i diagrammi per un istante. «Michael», disse poi, «credo che tu abbia fatto centro.» «Se ne ricordi quando ci sarà l'assegnazione dei bonus.»
Halpert uscì dalla sala controllo e Hanley prese in mano il telefono e compose un numero. Mentre aspettava una risposta, si rivolse a Stone. «Tirami fuori una ripresa satellitare di Medina.» Stone diede le istruzioni al computer mentre una voce rispondeva al telefono. «Sì», rispose Kasim. «Come procede?» Kasim si trovava poco discosto da una folla di persone al capolinea degli autobus di Gedda. «Tutte e due le squadre sono arrivate senza problemi. Abbiamo sistemato le moto nel letto di un torrente in secca fuori Gedda e ci siamo poi mossi verso la città. Skutter, che guida l'operazione a Medina, è già salito su un autobus diretto in città con la sua squadra. Io ne sto aspettando un altro con la mia squadra.» «E Skutter ha con sé un telefono satellitare?» «Sì.» «Quanto manca all'arrivo dell'autobus di Skutter?» «Quattro, cinque ore al massimo», rispose Kasim. «Aspetterò che arrivi prima di chiamarlo, ma crediamo di sapere dove si trovano le cariche nella Moschea del Profeta.» La corriera stava accostando. «Il mio autobus è arrivato. Cosa vuole che facciamo?» «Alla Mecca incontrerete un contatto della CIA che vi porterà in una casa sicura», disse Hanley. «Vi chiamerò là.» «Va bene.» Pete Jones guardò l'emiro del Qatar. «Sua eccellenza, come sono le relazioni diplomatiche con il Bahrein?» «Ottime. Sono buoni amici.» «È possibile far passare senza difficoltà degli autocarri dalla dogana?» «Ne sono certo.» «Ha una nave da carico disponibile a prelevarli al porto nel Bahrein?» L'emiro lanciò un'occhiata ad al-Thani, il suo assistente. «Provvederò subito a procurarne una qui o nel Bahrein», disse al-Thani. «Abbiamo circa sei ore di tempo per predisporre le cose», osservò Jones. «Sarà fatto, signor Jones», rispose l'emiro. «Sarà fatto.» All'interno del recinto che ospitava lo scalo merci dell'aeroporto di Ri-
yadh, il sottufficiale dell'esercito degli Stati Uniti Patrick Colgan e la sua squadra erano ancora in attesa di istruzioni. Avevano trascorso tre notti nascosti sotto i container, mangiando le loro razioni e bevendo acqua da bottiglie di plastica. Adesso cibo e acqua iniziavano a scarseggiare e i container attorno che avevano offerto loro una copertura erano sempre meno. Bisognava che succedesse qualcosa, e che succedesse alla svelta. Jones studiò il file prelevato dall'agenda di al-Sheik, poi prese in mano il telefono. «Ha ricevuto dei contrordini in merito alla spedizione dei container?» chiese quando gli risposero. «Nessuno», rispose Hanley. «Okay, allora, ho la via di uscita.» Hanley ascoltò le spiegazioni di Jones. «Mi piace», esclamò alla fine, «bello e semplice.» «Sono autorizzato?» «Procedi.» La zona attorno ai tre container dove gli uomini si nascondevano veniva gradualmente sgombrata. A sinistra ce n'era ancora qualcuno, ma sulla destra c'erano solo sabbia e ghiaia. Il telefono di Colgan squillò piano. Lui premette il pulsante e rispose. «Colgan.» «Qui Jones, dal Qatar.» «Che cosa ha in mente per noi, signor Jones? Ci troviamo praticamente allo scoperto. Dobbiamo fare qualcosa, e presto.» «Fra dieci minuti tre camion arriveranno a prelevare i container», continuò Jones. «I camion sono tutti dotati di localizzatori GPS applicati sul retro della cabina. I localizzatori hanno le dimensioni all'incirca di un pacchetto di sigarette e sono tenuti fermi da un magnete. Tre dei suoi uomini dovranno fare la parte dei facchini quando ci sarà da agganciare i container. Dica loro di togliere i localizzatori intanto che i camion entrano in retro, altrimenti vi individueranno.» «Okay», rispose Colgan. «Avverta inoltre che ognuno dei localizzatori va applicato a un container non contaminato, poi si tratterà di saltare su un altro camion e farsi dare un passaggio fino alla Mecca. La gente che segue la consegna dovrebbe così pensare che i camion stanno procedendo vicini, l'uno dietro l'altro.» «E, quando sono alla Mecca, i miei uomini cosa dovrebbero fare?»
«Saltare giù dal camion prima del terminal di scarico e gettare i localizzatori nel primo cestino della spazzatura. Poi devono prendere un autobus per Gedda e arrivare alla zona del porto. Una volta là, troveranno un battellino di nome Akbar. Dica loro di salire a bordo e saranno trasportati al largo.» «Akbar», ripeté Colgan. «I cinque di voi che restano dovranno immobilizzare gli autisti e confiscare loro i camion. Legate e imbavagliate gli autisti e distendeteli sul pavimento dal lato del passeggero. Poi uscite dal cancello e, quando siete sulla strada maestra, prendete a est invece che a ovest. La vostra destinazione finale è il Bahrein.» «Okay», disse ancora Colgan. «Ora, dal momento che dopo la partenza dei tre uomini per La Mecca restate ancora in cinque, sarete ammucchiati su due camion: l'autista e il passeggero, più quello imbavagliato e legato che avete immobilizzato. Si accerti allora che il vostro uomo in più si infili sotto la coperta quando uscite dal cancello, per non farsi notare.» «Non ci fermeranno per un controllo?» chiese Colgan. «Oggi abbiamo messo una persona a sorvegliare il cancello», disse Jones. «Controllano il camion all'entrata per vedere se è quello giusto, poi si limitano ad annotare il numero del container mentre il camion esce di nuovo carico.» «Ma che succede quando scoprono che il carico non c'è e trovano i localizzatori? Non cominceranno a cercarci a quel punto?» «Il viaggio da Riyadh alla Mecca è di sei ore. Per il Bahrein sono solo quattro. Quando si renderanno conto che i container mancano, sarete su una nave da carico con destinazione Qatar.» «Ed è sicuro che riusciremo a superare il posto di blocco al confine con il Bahrein?» «Abbiamo già pensato a tutto.» «Bel piano», esclamò Colgan. «Buona fortuna.» Quindici minuti più tardi, Colgan e gli altri quattro uomini diretti in Bahrein uscivano incolumi dallo scalo merci e prendevano la strada principale. Dopo altri sette minuti un sottufficiale della guardia costiera di nome Perkins, assieme ad altri due, applicava i localizzatori a tre camion in un convoglio costituito da sei veicoli, poi saliva a bordo dell'ultimo.
L'autocarro era pieno di bottiglie d'acqua, così almeno non avrebbero avuto sete durante il viaggio di sei ore fino alla Mecca. Se solo il camion avesse avuto a bordo un pallet di M&M'S, la traversata sarebbe stata certo più piacevole. Quasi a mezzogiorno Adams, Cabrillo e l'agente della CIA che aveva in consegna la Pietra di Abramo erano atterrati per la prima sosta di rifornimento a Al Ghardaqah, in Egitto, all'imboccatura del golfo di Suez per entrare nel mar Rosso. Overholt non si era limitato al carburante, aveva anche promesso cibo, acqua, caffè e un meccanico dell'esercito americano specializzato in elicotteri per controllare l'R44. Il meccanico aveva aggiunto mezza tanica di olio al motore a pistoni ed effettuato un rapido controllo del velivolo prima di dichiarare il Robinson in forma smagliante. I tre uomini si erano fermati brevemente alla toilette ed erano ripartiti. La tratta successiva del volo, i circa trecento chilometri fino ad Assuan, era stata coperta in meno di due ore a una velocità di duecento all'ora. L'elicottero era stato rifornito e controllato una seconda volta ed era ripartito. Quella da Assuan a Ras Abu Shagara, la penisola che si protendeva sul mar Rosso verso Gedda in Arabia Saudita, era la tratta più lunga, circa cinquecentosessanta chilometri da coprire in circa tre ore di volo. Il Robinson sorvolava in quel momento il deserto a trenta minuti da Assuan. «Signori», disse Adams, «mancano circa due ore alla prossima sosta. Se volete dormire un po', per me va bene.» L'agente della CIA sul sedile posteriore fece segno di sì e si raggomitolò tirandosi il cappello sugli occhi. «Tu sei a posto, George?» chiese Cabrillo al suo pilota. «Hai volato molto in questi ultimi tempi... reggi ancora?» «Al cento per cento, capo», rispose Adams sorridendo. «Prima andiamo in Sudan, poi attraversiamo il mar Rosso, vi faccio scendere... e una volta che sarò arrivato in Sudan mi concederò una dormita.» Cabrillo annuì e lentamente, mentre l'elicottero volava verso sud, si addormentò cullato dal ronzio. Erano da poco trascorse le quattro del pomeriggio quando Hanley, dalla Oregon, effettuò la chiamata via satellite a Skutter. Senza chiare direttive su come procedere, Skutter e la sua squadra stavano ancora gironzolando per la stazione delle corriere in attesa di un contatto.
«Sono Max Hanley, il superiore del signor Kasim.» «Cosa dobbiamo fare?» si affrettò a chiedere Skutter. Numerose persone si erano già avvicinate alla squadra e solo uno degli uomini era in grado di dire qualcosa in arabo. Se fossero rimasti lì, li avrebbero scoperti. «A sinistra c'è un mendicante con un vecchio vassoio di latta per la questua che sembra addormentato. Lo vede?» «Lo vedo», rispose Skutter. Fra un attacco e l'altro di quella che sembrava sonnolenza l'uomo non perdeva di vista la squadra da venti minuti. «Lo raggiunga e metta una moneta nel vassoio», continuò Hanley. «Non abbiamo monete, solo banconote.» «Allora usi la banconota più piccola che ha. Il mendicante le consegnerà quello che sembra un opuscolo religioso. Prenda l'opuscolo, poi, assieme ai suoi uomini, si allontani dalla stazione, prenda una strada laterale e trovi un posto dove poterlo leggere senza dare nell'occhio.» «E poi, signore?» «Le istruzioni le troverà all'interno.» «È tutto, signore?» «Per ora sì», rispose Hanley. «E buona fortuna.» Skutter chiuse la comunicazione e sussurrò qualcosa a uno dei suoi uomini. Poi si avvicinò al mendicante, tolse una banconota da una mazzetta che aveva in tasca, si chinò e la fece scivolare sul vassoio. «Che Allah vi ricompensi», esclamò il mendicante in arabo mentre consegnava l'opuscolo. Skutter si stava rialzando quando nell'occhio sinistro del mendicante guizzò brevemente un cenno di riconoscimento che all'improvviso lo fece sentire pieno di una nuova speranza. Si allontanò dalla stazione delle corriere seguito dagli uomini della sua squadra, trovò una zona deserta e lesse le istruzioni. La sua destinazione si trovava a solo qualche isolato di distanza e mentre camminava ingoiò l'intero opuscolo. Nell'abitazione sicura alla Mecca, il contatto della CIA diede a Kasim e ai suoi uomini le disposizioni necessarie. «Non uscite, non fate niente che possa attirare l'attenzione su di voi. In cucina trovate cibo, acqua e bibite.» «Come possiamo raggiungerla se ce ne sarà bisogno?» «Non mi dovrete raggiungere. Aspettate che i vostri vi diano altre istru-
zioni. A me è stato detto di rifornire la casa, di incontrarvi al terminal e di portarvi qui. È tutto quello che devo fare. Vi auguro buona fortuna.» L'uomo della CIA si avviò alla porta e uscì. «Mi sembra strano», si azzardò a dire un soldato semplice della squadra di Kasim. «Tutto è a compartimenti stagni. Ogni parte di questa operazione resterà a sé stante finché non verrà il momento di mettere insieme il tutto. Adesso abbiamo bisogno di dormire e di fare a turno per lavarci. Voglio che mangiamo un buon pasto e cerchiamo di rilassarci. Presto ci chiameranno e, quando avverrà, sarà il momento di agire.» Gli uomini della squadra annuirono. Il sole tramontava quando Adams si avvicinò all'Akbar dal mar Rosso. Sorvolò una volta lo yacht per avvertire l'equipaggio, poi si allineò sopra la poppa e si mise a scendere lentamente. Dal momento che l'elicottero Kawasaki di al-Khalifa occupava ancora l'eliporto, Adams dovette volare a punto fisso qualche metro sopra l'imbarcazione, in corrispondenza di uno spazio libero a poppa. L'agente della CIA lasciò cadere sul ponte la Pietra di Abramo robustamente imballata in una scatola e poi balzò giù dall'elicottero. «George, gli uomini di Overholt ti aspettano a Ras Abu Shagara», disse Cabrillo. «Pensi di farcela?» «Sì, capo.» L'agente della CIA stava trasportando la scatola verso l'entrata da poppa dell'Akbar. Cabrillo scese dal Robinson accovacciandosi per passare sotto le lame del rotore. Poi Adams prese di nuovo il volo. In quel preciso istante il telefono di Cabrillo si mise a squillare. Era Hanley. «Minaccia numero uno eliminata. I container sono a bordo di una nave che sta salpando dal Bahrein diretta in Qatar.» «Nessun problema?» «Tutto è andato secondo i piani. Tre uomini saliranno sul battellino dell'Akbar a Gedda. Saranno trasferiti a bordo dello yacht: la loro parte di operazione è conclusa.» La testa di Kent Joseph, membro di un equipaggio della Florida assunto dalla Corporation per occuparsi dell'Akbar, spuntò dalla porta. Cabrillo sorrise e levò un dito per far segno al capitano di attendere un istante.
«E Skutter?» «Ha i diagrammi e questa sera lo mandiamo dentro con la sua squadra», disse Hanley. «Se tutto andrà bene, avremo due problemi in meno e ce ne resterà ancora uno da risolvere.» «Come lo affronti, quel piano?» domandò Cabrillo. «Ti richiamo presto.» Il telefono restò muto e Cabrillo se lo infilò in tasca. Poi sorrise e andò a porgere la mano a Joseph. «Piacere, Juan Cabrillo. Sono della Corporation», esclamò stringendogli la mano. «È la stessa cosa della CIA?» chiese Joseph. «Be', no», rispose Cabrillo sorridendo. «Io non sono una spia.» Joseph annuì e gli indicò la porta. «Lui invece sì», aggiunse Cabrillo mostrandogli l'agente. 53 Era buio quando il sottufficiale della guardia costiera di nome Perkins e gli altri due uomini dentro l'ultimo camion del convoglio sentirono che il loro automezzo cominciava a rallentare. Perkins cercò di scrutare attraverso la fessura fra i portelloni posteriori. C'erano edifici sparsi lungo la strada e i fari di un'auto che li seguiva. Aspettò quasi per cinque minuti prima che la macchina, trovando via libera per poter superare, accelerasse ed effettuasse il sorpasso. «Okay, ragazzi, adesso dobbiamo saltare.» Quando era salito a bordo, Perkins aveva manomesso i portelloni in maniera che si aprissero dall'interno, così uscire non fu un problema. Il problema era la velocità del camion: viaggiava ancora a cinquanta all'ora. Perkins guardò il ciglio della strada dietro il camion. «Ragazzi», disse subito dopo, «non è per niente una cosa facile. Possiamo solo sperare di trovare della sabbia lungo il lato sinistro del camion. Allora, voi due afferrate la parte alta del portellone e io lo spingo e lo apro. Lo scatto dovrebbe portarvi vicino al ciglio della strada... lasciatevi cadere appena possibile.» «Ma l'autista non se ne accorgerà?» chiese uno degli uomini. «Magari se guarda nello specchietto retrovisore in quello stesso istante sì», ammise Perkins, «ma il portellone poi dovrebbe richiudersi, e se invece non se ne accorge subito procederà un bel pezzo sulla strada prima di
notare che il camion è aperto.» «E lei, signore?» «Tutto quel che posso fare è prendere la rincorsa e saltare il più lontano possibile.» Le costruzioni lasciavano il posto a una zona meno popolata appena fuori La Mecca. Perkins aguzzò gli occhi nell'oscurità. «Non so, ragazzi, mi sembra che un posto valga l'altro.» Li sollevò per aiutarli ad afferrare la parte alta del portellone, infine un istante dopo spinse. Il portellone si aprì all'esterno e i due uomini si lasciarono cadere a terra rotolando sulla sabbia. Perkins indietreggiò il più possibile in mezzo al container strapieno e corse dal lato destro verso quello sinistro, poi spiccò il salto, facendo mulinare le gambe per aria mentre volava. Il camion, con la portiera che sbatacchiava, si perse in lontananza. Erano isolati, e solo le luci della Mecca a qualche chilometro di distanza illuminavano il cielo del deserto. Perkins si tolse dei pezzi di pelle dal ginocchio: si rese conto che nell'atterrare se lo era contuso. Restò disteso per terra sul ciglio della strada. Gli altri due uomini, uno sanguinante per un'abrasione al gomito, l'altro con una chiazza rossa in viso dove era andato a sbattere sulla sabbia, lo aiutarono a tirarsi in piedi. Il ginocchio gli cedette e crollò a terra. «Prendi il telefono che ci hanno dato», disse infilando la mano in tasca e consegnandolo a uno degli uomini. «Schiaccia l'uno. Spiega cosa è successo a chiunque risponda.» Sulla Oregon, Hanley andò a rispondere al telefono che squillava. «Va bene, un momento», disse dopo che l'uomo ebbe spiegato. «Dammi la posizione su questo segnale», gridò a Stone, che inserì subito i comandi nel computer. «Trovato», disse Stone qualche momento più tardi. «Non c'è un punto sul lato della strada dove non possono vedervi?» domandò Hanley. «Ci troviamo proprio lungo il letto di un torrente in secca», rispose l'uomo. «Sopra c'è una duna.» «Cominciate a risalire la duna e cercate un riparo», disse Hanley. «Lasci acceso il telefono... sarò da lei fra un secondo.» Hanley prese un altro telefono e compose il numero che Overhoit gli a-
veva dato per contattare il capo del distaccamento della CIA in Arabia Saudita. «Qui i contractor», spiegò quando l'uomo gli rispose. «Ha degli agenti alla Mecca sottomano?» «Certo. Abbiamo un cittadino saudita sul nostro libro paga.» «Ha un'auto?» «Guida un furgone della Pepsi.» «Ci serve che vada a queste coordinate satellitari a prelevare tre uomini. È possibile?» «Resti in linea», rispose Overhoit mentre componeva il numero del cellulare dell'autista del furgone. Hanley sentì in sottofondo che stava spiegando la faccenda. «Parte adesso; crede che ci vogliano circa venti minuti.» «Gli dica di suonare il clacson quando si trova in zona. I nostri uomini usciranno dal loro nascondiglio.» «Dove li dovrà portare?» «A Gedda.» «Chiamerò se ci sono problemi.» «Non ci saranno problemi», ribatté Hanley. «I problemi non ci piacciono.» Hanley chiuse la comunicazione con l'uomo della CIA, passò all'altro telefono e spiegò il piano. Per quanto a Hanley i problemi non piacessero, in quel momento ce n'erano diversi da affrontare. La sala riunioni era affollata. C'erano Seng, Ross, Reyes, Lincoln, Meadows, Murphy, Crabtree, Gannon, Hornsby e Halpert. E sembrava che parlassero contemporaneamente tutti e dieci. «Un'azione via aerea è impossibile», diceva Lincoln. «Ci vedranno arrivare.» «Non c'è tempo per scavare un tunnel», osservò Linda Ross. «La soluzione», diceva Halpert a Crabtree, «sta anzitutto nel capire come Hickman sia riuscito a farcela.» «Posso organizzare uno spettacolo pirotecnico per distrarli», suggerì Murphy rivolgendo un sorriso a Hornsby, «ma siamo sulla Oregon, nel Mediterraneo, e loro sono in Arabia Saudita.» «Gas lacrimogeno?» provò a proporre Reyes. «Togliere l'elettricità?» ribatté Meadows. Seng si alzò in piedi. «Okay, ragazzi. Mettiamo un po' di ordine.»
In qualità di membro di grado superiore, era lui a condurre la seduta di brainstorming. Seng si avviò al bollitore e si versò un'altra tazza di caffè. Mentre camminava parlava. «Abbiamo meno di un'ora per escogitare un piano coerente che la squadra a terra possa eseguire, se vogliamo farcela per questa notte... e lo vogliamo.» Finì di versarsi il caffè e ritornò al tavolo. «Come ha detto Halpert: come ha fatto Hickman a scambiare i meteoriti, anzitutto?» «In qualche modo avrà dovuto rendere impotenti le guardie», osservò Meadows. «Non c'era altra maniera per riuscire.» «E allora come mai il furto non è stato scoperto subito dopo e denunciato?» chiese Seng. «Aveva un complice infiltrato. Non può essere altrimenti», rispose Murphy. «Abbiamo controllato le guardie. Se una di loro fosse stata complice di quello che è successo, non si troverebbe più alla Mecca adesso. E invece tutte sono al loro posto.» La sala riunioni sprofondò nel silenzio per un istante, mentre gli uomini riflettevano. «Hai detto di avere controllato le guardie», disse infine Linda Ross, «dunque conosci i turni e tutto quanto?» «Certamente», rispose Seng. «Pertanto l'unica maniera in cui mi sembra che la cosa possa funzionare è di sostituirle tutte e quattro.» «Questa è una buona idea», intervenne Halpert. «Beccarle al momento del cambio e sostituire le guardie nuove con la nostra squadra.» «E poi fare che cosa?» lo incalzò Seng. «Togliere la corrente in tutta La Mecca», disse Reyes, «e far effettuare lo scambio di meteoriti.» «Ma poi avremmo quattro guardie che verranno trovate al successivo cambio», osservò Seng. «Capo», rispose Gannon, «a quel punto la squadra proveniente dal Qatar sarà già lontana e al sicuro e i sauditi potranno fare quello che vogliono.» La stanza piombò nel silenzio per un istante, mentre Seng considerava la cosa. «È rozzo», esclamò alla fine, «ma fattibile.» «Certe volte bisogna spaccare la noce di cocco con una pietra per avere il latte», commentò Gannon. Seng si alzò. «Vado a proporlo a Hanley.»
Mentre a bordo della Oregon la seduta di pianificazione si stava concludendo, Skutter e i suoi uomini trovarono una delle grate che conducevano nel tunnel sotto la Moschea del Profeta e vi si infilarono dentro. Erano sottoterra solo da cinque minuti, quando il primo pacco esplosivo fu localizzato. «Sparpagliatevi su e giù per il tunnel», ordinò Skutter, «e scoprite quanti ce ne sono come questo qui dentro.» Poi si rivolse all'unico membro della sua squadra che ne sapeva qualcosa di demolizioni. «Che cosa ne pensi?» L'uomo sorrise e mettendo la mano in tasca prese un paio di pinze. Si chinò, tirò su un filo e lo tagliò. Poi ne trovò altri e tagliò anche quelli e infine iniziò a tirare il nastro adesivo dalla conduttura. «Rudimentali ma potenti, accidenti, così li descriverei», disse appoggiando separatamente il C6 e la dinamite sul pavimento del tunnel. «Finito?» domandò Skutter esasperato. «Finito. Però c'è una cosa.» «Cioè?» «Stia attento a dove mette i piedi e a non far cadere la dinamite. Vecchia com'è, potrebbe essere instabile.» «Non preoccuparti», rispose Skutter. «Lasciamo tutto qui.» Nel giro di due ore le cariche sarebbero state disinnescate e il tunnel controllato e ricontrollato per sicurezza. E a quel punto Skutter avrebbe potuto telefonare e riferire. Intanto che l'uomo di Skutter tagliava i fili del primo pacchetto esplosivo, Hanley telefonava a Cabrillo sull'Akbar. «Questo è quello che abbiamo pensato, capo», disse dopo avere terminato di ragguagliare Cabrillo sul piano che avevano escogitato. «È rozzo, lo ammetto.» «Hai già parlato con Kasim?» chiese Cabrillo. «Volevo prima la tua autorizzazione.» «Sono d'accordo. Perché non mi mandi via fax tutto quello che hai, così metto al corrente l'uomo della CIA? Intanto chiamo Kasim e gli riferisco quello che deve fare.» «Mando subito il fax.» «Bisognerà muoversi velocemente», spiegò Cabrillo a Kasim. «Il cam-
bio del turno di guardia è alle due del mattino.» «E gli eventuali esplosivi?» «L'uomo della CIA che consegnerà la Pietra di Abramo porterà una dozzina di rilevatori chimici. Di' agli altri della tua squadra di dividersi e di cercare mentre effettuiamo il cambio.» «Va bene», rispose Kasim. «Tu e la tua squadra avete a disposizione un'ora e quaranta minuti per arrivare alla Grande Moschea, osservare le guardie per capire le procedure, poi trovare le guardie del nuovo turno, metterle fuori combattimento e sostituirvi a loro. Ce la farete?» «Sembra che non ci sia altra scelta.» «Tutto dipende da te, Hali.» «Non deluderò né lei né la mia religione.» «Finirò di ragguagliare l'agente della CIA», continuò Cabrillo. «Ci sono un'auto e un autista che aspettano di portarlo alla Mecca in questo momento. Entrerà nella Grande Moschea alle due e dieci, se non sente sparare dei colpi.» «Ci saremo», disse Kasim. La comunicazione si interruppe e Kasim si rivolse alla squadra. «Attenti: ci sono gli ordini per noi.» Cabrillo prese i fogli del fax e ragguagliò rapidamente l'agente della CIA. Una volta fatto ciò, entrambi salirono a bordo del battello per attraversare il tratto di mare che li separava dal porto di Gedda. Era una notte piacevole, ventiquattro gradi quasi senza brezza. La luna calante gettava un pallido bagliore sull'acqua mentre il battello scivolava sul mare placido. Le luci dell'Akbar si persero in lontananza e quelle del porto di Gedda si stagliarono più intense. Non appena il furgone della Pepsi ebbe accostato presso la duna suonando il clacson, Perkins e gli altri due uomini misero fuori la testa dal nascondiglio, aspettarono che non vi fossero auto in transito e raggiunsero la strada. Il ginocchio di Perkins era molto gonfio e uno degli uomini lo sorreggeva, mentre l'altro si avvicinava al furgone. «Sei qui per noi?» chiese all'autista. «Sbrigatevi a salire», rispose l'altro aprendo la portiera dal lato passeggero. Una volta che gli uomini furono a bordo l'autista fece un'inversione a U
e si diresse verso le luci della Mecca. Prese una strada a scorrimento rapido che costeggiava la zona più popolata della città e non aprì bocca prima di avere percorso tre chilometri in direzione di Gedda. «Vi piacciono gli Eagles, ragazzi?» chiese infilando un CD nel lettore. Il lato A di Hotel California cominciò a suonare mentre il furgone viaggiava nella notte. Quando il battellino toccò la terraferma, l'agente della CIA scese per precipitarsi verso una Chevrolet Suburban che lo aspettava. Un minuto più tardi, con un testa coda, la Suburban partiva a tutta velocità sollevando la ghiaia con le ruote posteriori. «E adesso che si fa?» domandò uno dei meccanici della Florida che pilotava il battellino. «Adesso stiamo un po' indietro e aspettiamo un furgone della Pepsi», gli rispose Cabrillo. L'uomo innestò la retromarcia e cominciò ad arretrare. «E così voi siete dei contrabbandieri di Pepsi?» «C'è una radio a bordo?» Il meccanico girò una manopola sul cruscotto. «Cosa ascoltiamo?» «Trovami il notiziario», rispose Cabrillo. Cabrillo e il pilota restarono seduti al chiaro di luna a dondolare nella baia. Una Chevrolet Suburban sfrecciò di fianco al furgone della Pepsi nella direzione opposta proprio mentre l'autista usciva dalla strada principale per immettersi in quella che andava al porto di Gedda. Svoltò secondo le istruzioni ricevute, poi si fermò con il muso del furgone rivolto al mare. Fece lampeggiare i fari tre volte e rimase ad attendere. A poca distanza, nell'acqua, le minuscole luci rosse della prua del battello risposero. «Okay, ragazzi», esclamò l'autista. «Io qui ho finito. C'è un barca che viene a prendervi.» Uno degli uomini scese dal furgone e aiutò Perkins a fare altrettanto. Una volta che entrambi si furono allontanati, anche il terzo uomo scese. «Grazie del passaggio», disse chiudendo la portiera. «Vi manderò il conto», gridò l'autista attraverso il finestrino aperto mentre avviava il motore e faceva marcia indietro.
Il gruppetto si avvicinò alla riva mentre il battello dell'Akbar accostava. Cabrillo scese per aiutare i tre a salire a bordo, poi risalì anche lui. «A casa, James», disse al meccanico. «Come diavolo sa che mi chiamo James?» ribatté il meccanico prendendo il largo. Non appena Perkins e i suoi uomini furono a bordo sani e salvi, Cabrillo ordinò a Joseph di dirigersi a nord lungo la costa alla massima velocità. Sulla Oregon Hanley monitorava le diverse operazioni. Era appena passata l'una di notte, quando l'autista del camion che era andato a prendere Skutter e i suoi riferì che avevano lasciato Medina e si dirigevano a grande velocità verso Gedda. La distanza era di circa centocinquanta chilometri. Se non ci fossero state sorprese, la fase due era quasi completata. Hanley prese il telefono e chiamò Cabrillo. «Jones ha incontrato il gruppo con i tappeti da preghiera ed è tutto a posto. Gli abbiamo somministrato agenti antivirali, gli abbiamo dato vestiti puliti e adesso dormono. La squadra due a Medina ha terminato la missione e ora si sta dirigendo da te. Dovrebbero arrivare fra qualche ora.» «Hanno trovato degli esplosivi?» domandò Cabrillo. «A quanto sembra in quantità tale da radere al suolo la Moschea del Profeta. Li hanno disinnescati e lasciati nel tunnel. Sarà la CIA o qualcun altro a doversene occupare alla fine.» «Quindi ora tutto dipende da Kasim.» «Pare di sì.» Esattamente in quel momento, Kasim e la sua squadra si avvicinavano alla moschea che racchiudeva la Kaaba. Il fatto di essere cittadini americani non costituiva certo un vantaggio per i membri della squadra: si trovavano nel territorio di uno Stato straniero dove la pena capitale era la decapitazione. E stavano per penetrare nella più sacra delle località del Paese per una missione che poteva facilmente essere interpretata come attentato terroristico. I quattordici soldati e Kasim ne erano perfettamente consapevoli. Un errore, un passo falso, e l'intera operazione sarebbe andata a monte. Intanto che Kasim passava attraverso una delle porte che immettevano nel cortile dove si innalzava la Kaaba rivestita del suo drappo, un aereo da
trasporto militare C-17A decollava dalla pista in Qatar. Il jet di fabbricazione Boeing, che ha sostituito il venerabile Lockheed-Martin Hercules C130 a elica, può trasportare centodue uomini o un carico di settantasei tonnellate. Progettato per atterraggi su campi d'aviazione corti o accidentati, aveva un equipaggio di tre persone. E la sua autonomia di quattromilaottocento chilometri quella sera si sarebbe rivelata preziosa. Dopo avere lasciato il Qatar sul golfo Persico, avrebbe seguito la rotta sopra il golfo di Oman proseguendo verso sud. Poi avrebbe cambiato direzione e, attraversando il mare Arabico, il golfo di Aden, il varco fra lo Yemen e Gibuti, in Africa, sarebbe arrivato nel mar Rosso. E lì avrebbe sostato in attesa di essere chiamato in azione oppure lasciato libero. Il C-17A era il classico asso nella manica che si spera di non dover usare. Kasim si addentrò nella moschea, poi, assieme ad altri quattro, si nascose di lato e restò a osservare le guardie che da lontano eseguivano la ronda di routine. Sembrava una cosa molto semplice. Ogni cinque minuti le guardie si spostavano da un angolo all'altro in senso orario. I loro passi così calcati sembravano abbastanza facili da imitare. Kasim studiò le piantine che aveva, cercando il piccolo edificio di pietra all'interno della moschea dove le guardie andavano per togliersi i loro vestiti in borghese e indossare le uniformi. Dopo averlo localizzato sul diagramma disegnato a mano, fece segno agli uomini che lo accompagnavano di stare pronti al loro posto e poi tornò dove il resto del suo gruppo si nascondeva. «Tu resta di guardia», disse a uno di loro, «e se devi attirare la nostra attenzione fischia.» «Di cosa devo preoccuparmi?» «Di tutto quello che ti sembra fuori posto.» L'uomo annuì. «Voglio che gli altri mi seguano. Adesso ci intrufoleremo in quella struttura», ordinò a bassa voce, «e aspetteremo che arrivi la prima sentinella. La metterò KO non appena apre la porta.» Gli uomini assentirono con un cenno. Poi si sparpagliarono per la moschea scivolando lentamente verso la piccola costruzione di pietra. Qualche minuto più tardi tutti erano al proprio posto.
Abdul Ralmein era stanco. I suoi turni di guardia erano completamente rivoluzionati ogni mese: alcune volte le quattro ore di lavoro si svolgevano nella calura del giorno oppure al sorgere del sole - il momento che preferiva -, ma capitava che cominciassero alle due di mattina come in quel momento. Era a quest'ultimo orario a cui non era mai riuscito ad abituarsi: il suo orologio biologico non cambiava e quando gli toccava lavorare così tardi doveva ricorrere a ogni stratagemma per non cedere al sonno. Dopo avere finito di bere una tazza fumante di caffè al cardamomo, aveva sistemato la bicicletta in una rastrelliera sulla strada che costeggiava la Grande Moschea e l'aveva chiusa con catena e lucchetto. Poi si era avviato verso l'ingresso ed era entrato dal cancello. Si trovava quasi a metà del cortile, quando sentì il fischio acuto di un uccello. Si sfregò gli occhi assonnati e tolse le chiavi di tasca mentre si avvicinava al piccolo edificio. Afferrò il lucchetto e infilò la chiave. Stava appunto girandola, quando una mano gli tappò la bocca e avvertì una lieve puntura sul braccio. E gli venne ancora più sonno. Kasim aprì la porta della costruzione e trascinò dentro Ralmein. Premette l'interruttore e una sola lampadina illuminò la stanzetta affollata. Nello spazio non troppo ampio, c'era un appendiabiti addossato alla parete con sopra le uniformi in buste di plastica per tenerle al riparo dallo sporco, un grosso lavandino e un gabinetto dietro una tenda. Appeso con delle puntine a una lavagna di sughero, si vedeva l'orario della settimana. E sul muro accanto c'erano una foto incorniciata del re Abdullah e un'altra della Grande Moschea durante lo hajj, scattata dall'alto, che mostrava folle immense. L'unico altro oggetto presente era un orologio rotondo dal bordo nero. Che segnava l'1.51. Kasim aveva udito quello che sembrava lo strido di una civetta. Aveva spento la luce ed era rimasto ad aspettare. La seconda guardia era entrata dalla porta aperta e aveva allungato la mano verso l'interruttore. Aveva acceso la luce e per una frazione di secondo aveva visto Kasim, in piedi. L'immagine era stata così traumatica per la sua mente che non aveva capito nulla per un istante; quando si fu ripreso, Kasim lo aveva già stretto con le braccia e lo aveva punto con l'ago. E poi lo aveva sistemato vicino a Ralmein.
In quel preciso momento risuonarono le voci di altri due arabi che si avvicinavano. Non ebbe tempo di raggiungere l'interruttore o di nascondersi: le guardie entrarono e lo guardarono sbigottiti. «Che razza di...» fece per dire uno, prima che un paio degli uomini di Kasim nascosti fuori bloccasse l'uscita. La lotta si concluse quasi prima di cominciare. «Tu», esclamò Kasim al compagno, «torna al cancello e porta qui gli altri.» L'uomo si allontanò di corsa. «Voi sei dividetevi e iniziate a cercare le bombe», ordinò Kasim. «Quando arrivano i rilevatori, ve li manderemo. Per ora limitatevi a guardare. Se non trovate niente, lasciate perdere.» I sei uomini si dileguarono nella notte. «Gli altri restino qui con me. Dopo che le guardie del turno nuovo saranno vestite e avranno preso posizione, ci dovremo anche occupare di quelle che smontano.» Di lì a tre minuti le finte guardie erano vestite. «Bene», esclamò Kasim. «Avete visto quello che facevano, vero?» Gli uomini annuirono vigorosamente. «Voi fate esattamente la stessa cosa.» «Usciamo tutti insieme da qui?» «No», rispose Kasim. «Il piano dice che il cambio avviene uno alla volta, a cominciare dall'angolo di nord-est in senso antiorario.» L'orologio segnava l'1.57. «Tu sei il primo», disse Kasim indicando uno dei suoi. «Ti seguiremo tutti e guarderemo da lontano.» La prima finta guardia attraversò il cortile. Kasim e gli altri si nascosero addossandosi all'edificio più vicino alla Kaaba e rimasero in osservazione. L'uomo si avvicinò all'angolo di nord-est. A volte anche i piani meglio congegnati non sono altro che quello: piani. L'idea in questione, raffazzonata in tutta fretta e priva del consueto perfezionismo della Corporation, stava per disfarsi come un maglione da poco prezzo. Si dava il caso che la guardia che Ralmein doveva sostituire fosse anche il suo migliore amico, e che quando al suo posto si presentò un altro la cosa causasse ben più della semplice preoccupazione. La sentinella sapeva che c'era qualcosa che non andava. «Tu chi sei?» gridò in arabo.
Kasim sentì e seppe che i problemi stavano per cominciare. L'uomo afferrò un fischietto che portava appeso a una catenina al collo. Ma prima che potesse soffiare la finta guardia l'aveva buttato per terra. «Adesso è un gran casino», gridò Kasim ai suoi. «Non bisogna lasciar scappare nessuno.» Kasim, le ultime tre sentinelle false e gli altri quattro militari si precipitarono dai loro nascondigli per raggiungere la Kaaba. Rapidamente misero fuori combattimento due degli arabi, però uno riuscì a scappare e a raggiungere il cancello. Kasim gli corse dietro, ma l'uomo era veloce. Aveva superato il cortile e si trovava quasi sotto l'arco che conduceva all'esterno quando uno del gruppo che cercava gli esplosivi uscì dall'ombra e lo bloccò con il braccio. L'arabo cadde sul pavimento di pietra perdendo i sensi. Un sottile rivolo di sangue gli sgorgò da dietro la testa. «Portatelo fino all'edificio», disse Kasim avvicinandosi. «Gli fascerò la testa.» I suoi afferrarono l'arabo sotto le ascelle e iniziarono a trascinarlo via. Kasim ritornò di corsa alla Kaaba, si accertò che le false guardie fossero al loro posto, poi aiutò a portare quelle vere nell'edificio di servizio. Quando ebbe finito guardò l'orologio. Erano le 2.08. Kasim si precipitò al cancello per andare incontro all'agente della CIA. Un minuto più tardi, Joseph arrivava a bordo della Suburban. Scese, tirò fuori la scatola con i rilevatori e l'appoggiò di lato, poi, a forza di braccia, sollevò la Pietra di Abramo dal sedile posteriore. «Sono Kasim. Mi dia la pietra.» L'agente esitava. «Sono musulmano, mi dia la pietra», lo incalzò Kasim. Joseph gliela consegnò. «Porti dentro i rilevatori e li consegni al primo che vede», disse Kasim. «Poi esca da qui. Le cose non vanno lisce come avevamo progettato.» «Okay», ribatté l'agente. Kasim, con la pesante scatola premuta contro il torace, corse verso l'ingresso seguito dall'agente della CIA. Una volta all'interno del cancello, l'agente consegnò la scatola di rilevatori a un uomo che era accorso, poi restò immobile per un istante guardando Kasim che attraversava di corsa il cortile verso il drappo appeso sopra la Kaaba. Solo quando si fu infilato dietro la tenda l'agente si voltò per correre dove aveva lasciato la Suburban.
Un senso di pace, di tranquillità e di storia lo investì non appena dietro la tenda. Per una frazione di secondo si sentì pieno di speranza. Un singolo faro gettava un raggio di luce verso l'intelaiatura d'argento dove il meteorite della Groenlandia stava adesso in mostra. Kasim si avvicinò, poi appoggiò la scatola e con il coltello tagliò il nastro adesivo sull'orlo della chiusura. Si avvicinò, strappò il reperto groenlandese dal supporto e lo appoggiò sul pavimento. Poi con cautela tolse la Pietra di Abramo dalla sua scatola. Lentamente e con rispetto la ripose al suo posto. Infine Kasim indietreggiò, rivolse una breve preghiera e prelevò il meteorite che ripose nella scatola. Infine scivolò di nuovo fuori dalla tenda e trasportò il contenitore fino alla baracca delle guardie. Il resto della sua squadra era intenta a perquisire la moschea con i rilevatori. A quel punto prese il telefono. Skutter era seduto di fianco all'autista sul camion che lo trasportava assieme ai suoi uomini, seduti dietro. In quel preciso istante squillò il telefono. «Vi vediamo dall'alto», esclamò Hanley. «C'è stato un piccolo cambio di programma... non vogliamo più che andiate a Gedda. Vi tireremo fuori prima.» «Dove vuole che ci dirigiamo?» domandò Skutter. Sulla Oregon Hanley stava osservando l'immagine satellitare a infrarossi che mostrava il camion diretto a sud. «Andate nove punto novantasette chilometri più a sud», ordinò, «poi accostate sul ciglio della strada. C'è una nave al largo proprio di quel punto. Manderanno un battello a prendervi. Faccia salire tutti i suoi uomini a bordo, capitano Skutter, e vi porteremo via da lì.» «Quante cariche avevano trovato Kasim e i suoi quando ha telefonato?» chiese Stone. «Cinque», rispose Hanley. «Be', signore, io gli ordinerei di lasciare le altre ai sauditi. Ho appena intercettato una telefonata della moglie di una delle guardie. Ha chiamato la polizia per sapere come mai suo marito non è ancora rientrato.» «Ma se sono le due e ventuno!» tuonò Hanley. «Certe volte è impossibile vivere con una donna», osservò Stone.
Hanley afferrò il telefono. Kasim, accovacciato, stava disinnescando un pacchetto di C-6 quando gli suonò il telefono. «Via subito!» ordinò Hanley. Kasim fece per ribattere. «Non abbiamo coperto...» «Ordino un'evacuazione immediata», ripeté Hanley. «La cosa è andata storta. Ho un furgone lì davanti che vi porterà al secondo portello di fuga. Mi hai sentito?» «Ricevuto, capo.» «E adesso, via da lì.» Mentre Kasim stava rimettendosi il telefono in tasca un agente della CIA si fermava di fronte alla Grande Moschea alla guida di un pick-up Ford furgonato a quattro ruote motrici. I secondi passavano e l'uomo muoveva nervosamente le mani sul volante. «Basta», gridò Kasim da un capo all'altro del cortile, «tutti all'uscita.» Le quattro guardie fasulle si lanciarono di corsa attraverso il cortile e gli altri che perquisivano i dintorni cominciarono a spuntare da dietro le colonne e gli edifici. Kasim si avvicinò di corsa al furgone. «Stiamo arrivando.» «Li faccia salire dietro e tiri su il telone.» Hali abbassò il portellone posteriore e gli uomini vi balzarono sopra mentre Kasim li contava: dieci, undici, dodici, tredici. Compreso lui erano in quattordici: un uomo era rimasto dentro. Accorse al cancello e scrutò il cortile. L'ultimo militare lo stava attraversando, ma era ancora lontano. Quando lo raggiunse si giustificò. «Mi dispiace, ma quando ha gridato l'ordine avevo già iniziato a disinnescare una delle cariche.» Kasim lo afferrò per il braccio e lo trascinò via. «Salta dietro», gli urlò quando raggiunsero il furgone. Poi Kasim tirò il telo sopra la squadra e salì davanti di fianco all'autista. «Sa dove siamo diretti?» chiese mentre l'uomo inseriva la marcia e pigiava sull'acceleratore. «Come no», gli rispose quello. Il maggiore dell'aeronautica statunitense Hamilton Reeves comprendeva tanto la necessità del decoro militare quanto quella di allentare un po' le redini con il suo equipaggio. Dopo avere riposto il microfono della radio si rivolse al pilota in seconda e al motorista di bordo.
«Ragazzi, ce la fareste a penetrare lo spazio aereo di uno Stato sovrano questa sera?» «Io non ho niente in ballo», rispose il secondo pilota. «Una cosa vale l'altra», aggiunse il motorista. «E va bene. Allora andiamo a fare una capatina in Arabia Saudita.» Skutter e la sua squadra scesero dal camion quando Cabrillo attraversò di corsa la spiaggia. «Molli il camion e venga con noi», disse all'autista. «Se la sua copertura non è già saltata, succederà presto.» L'autista spense il veicolo e scese. Poi i sedici uomini e Cabrillo si avviarono al battello dove James aspettava di aiutarli a salire a bordo. Una volta che tutti vi furono ammassati sopra, salì anche Cabrillo. James prese il timone. «Signore, è una cosa molto pericolosa, non ho abbastanza giubbotti salvagente per tutti.» «Mi assumo io la piena responsabilità», rispose Cabrillo. James avviò il motore e si allontanò dalla spiaggia. Poi si rivolse a Cabrillo: «Lo dica». «A casa, James», esclamò il presidente della Corporation ad alta voce. «Abbiamo dovuto far intervenire l'aeronautica», diceva Hanley. «La situazione si era fatta difficile, alla Kaaba.» «La Pietra di Abramo è tornata al suo posto?» s'informò Overholt. «Sì... però non hanno potuto rimuovere tutte le cariche.» «Chiamerò il presidente», continuò Overholt, «alle sette va a una cena del dipartimento di Stato, ma adesso posso raggiungerlo.» «Se telefona al re e ottiene che non si metta a sparare sul C-17 ne usciamo puliti.» Due auto della polizia saudita con le sirene spiegate e i lampeggianti accesi superarono il furgone Ford procedendo nella direzione opposta. Si trovavano a tre chilometri dalla moschea, ma Kasim e l'autista sapevano con certezza dove fossero dirette. L'autista del Ford andava a centoquaranta all'ora e osservò il navigatore inserito nel cruscotto. «Indica più o meno un chilometro. Stiamo attenti a una strada sterrata che va verso nord.» Kasim scrutò l'oscurità e, quando l'autista iniziò a rallentare, riuscì a scorgere una strada che svoltava.
«Eccola», disse l'uomo. Pigiò sui freni e il furgone scivolò sulla sabbia che ricopriva l'asfalto, ma all'ultimo momento riuscì a girare il volante e ad abbandonare la strada principale. Poi accelerò di nuovo lanciandosi sullo sterrato. Premette il pulsante sul cruscotto per passare alle quattro ruote motrici. A destra e a sinistra del Ford le colline cominciavano a diventare più alte a mano a mano che si avvicinavano alla zona paludosa. L'autista consultò il navigatore. «Okay, adesso svoltiamo a destra qui su e ci infiliamo dietro quella collina.» Qualche minuto più tardi il pick-up si arrestava. L'uomo frugò nello scompartimento fra i sedili, tolse un faro e lo infilò nella presa della corrente. Poi con quello illuminò il terreno dietro la collina. C'era una vasta distesa di sabbia compatta e piatta, lunga all'incirca un chilometro e mezzo e larga ottocento metri. «Adesso giro il furgone», disse l'autista inserendo la retro e ruotando il volante finché la cabina non fu puntata verso ovest. «Devo far scendere gli uomini?» chiese Kasim. «No. Vado direttamente nella stiva.» Benché Reeves e il suo equipaggio facessero volare il C-17A il più basso possibile, il sofisticato radar saudita acquistato dagli Stati Uniti lo aveva individuato. Dopo soli dieci minuti dallo sconfinamento nello spazio aereo saudita e appena prima dell'atterraggio previsto, l'aeronautica reale aveva fatto decollare un paio di caccia dalla base di Dhahran diretti verso la distesa del deserto a velocità Mach 1. Sentendo avvicinarsi il C-17A, l'autista iniziò a lampeggiare con i fari. Reeves vide le luci, fece un primo passaggio, virò e si preparò ad atterrare. «Ma siamo nel cuore della notte», replicò l'assistente del re Abdullah. «Mi ascolti», insistette il presidente, «sto per mandare lì il segretario di Stato, che arriverà domani in tarda mattinata per spiegare che cosa è successo. In questo preciso istante ho un aereo dell'aeronautica degli Stati Uniti dentro il vostro spazio aereo. Se aprirete il fuoco, non avremo altra scelta che reagire.» «È solo che io non...» «Svegli il re», insistette il presidente, «o ci saranno serie conseguenze.» Qualche minuto più tardi la voce insonnolita del re Abdullah era in li-
nea. Una volta che il presidente ebbe spiegato, il sovrano prese un altro telefono per chiamare il capo dell'aeronautica saudita. «Fateli scortare fuori dal Paese, ma senza compiere azioni ostili», ordinò in arabo. Poi tornò in linea con il presidente. «Se il suo segretario di Stato non ci fornirà una spiegazione adeguata di quello che sta accadendo, i cittadini americani avranno un inverno molto freddo.» «Una volta che saprete che cosa è successo, credo che tutto andrà a posto.» «Sono ansioso di partecipare a questo incontro», rispose Abdullah prima di chiudere la comunicazione. Reeves fece atterrare il C-17A, poi si girò puntando il muso nella direzione opposta. «Abbassa il portello», disse al motorista. Mentre il portello scendeva lentamente, il furgone Ford stava già avvicinandosi in mezzo alla sabbia; quando fu più sotto, il portello era completamente abbassato e formava una rampa. Accostando, l'autista la raggiunse, diede gas e salì fin dentro la stiva. L'uomo scese dal pick-up e corse alla cabina di pilotaggio. «Siamo dentro.» «Tirare su il portello», ordinò Reeves, e fece girare i motori al massimo per controllarne il funzionamento. Tutto era a posto e così, non appena la luce sulla plancia diventò verde, tirò su le valvole e si lanciò lungo la distesa di sabbia. Due minuti più tardi erano decollati. «Centoquaranta chilometri al mar Rosso», si voltò a gridare. «Più o meno cinque minuti.» «Ho due caccia in avvicinamento», esclamò il secondo pilota. «Preparare contromisure», disse Reeves. Ma i jet non avrebbero mai acceso i loro computer per aprire il fuoco. Si limitarono a restare vicino alla punta delle ali fino a quando il C-17A non si trovò a sorvolare l'acqua e poi si allontanarono rapidamente per ritornare alla base. «E così siamo fuori dallo spazio aereo saudita», annunciò Reeves. «Due ore al Qatar.» Kasim si avvicinò al retro del furgone e tirò indietro il telo. «Okay, uomini, ce l'abbiamo fatta: si torna in Qatar.»
Le grida di gioia riempirono la stiva del C-17A. «Prendi i comandi», disse il maggiore al secondo pilota. Reeves andò nella stiva. «Vi avrei portato un frigo portatile pieno di birre, ma se ho capito bene voi ragazzi non bevete. E così me ne sono fatto preparare dalla mensa uno colmo di sode ghiacciate con del cibo, nel caso fossimo dovuti venire a prendervi. Ci sono hamburger, hot dog, insalata di patate e roba simile. Sono passate un po' di ore, ma hanno avvolto tutto in quelle buste termiche e i cibi dovrebbero essere ancora caldi. Buon appetito.» Detto ciò Reeves tornò in cabina. «Okay, ragazzi», concluse Kasim aprendo una borsa termica rigonfia di cibo. «Abbuffatevi.» EPILOGO Il 10 gennaio, tre ore prima del sorgere del sole, alcuni equipaggi militari statunitensi in collaborazione con l'esercito saudita e i funzionari dei servizi segreti finivano di ripulire le tre moschee. Tutti gli esplosivi trovati erano stati rimossi e distrutti e l'area dichiarata sicura e agibile per lo hajj. Saud al-Sheik guardò di sotto nel cortile mentre l'ultimo dei vecchi tappeti da preghiera veniva sistemato. Avrebbe voluto trovare quelli nuovi, ma erano svaniti nel nulla, e così aveva fatto tirar fuori dal magazzino i soliti e li aveva riutilizzati anche quell'anno. Dietro il drappo che circondava la Kaaba, la Pietra di Abramo aspettava i fedeli. Al sorgere del sole, un mare di pellegrini in tunica bianca iniziò a riempire i luoghi santi. Lo hajj si era messo in moto senza intoppi. L'alba del 10 gennaio del 2006 spuntò chiara con un leggero vento da est e temperature di poco sopra i ventiquattro gradi. Quasi un milione di fedeli si affollava nella città di Medina, per visitare la tomba di Maometto e poi salire a bordo delle spaziose vetture aperte sulla ferrovia dello Hajaz per il viaggio di quattrocentocinquanta chilometri alla Mecca. Mentre il treno si avvicinava alla città sacra che ospitava la Kaaba, i devoti si tolsero le tuniche e indossarono grembiuli con pezzi di stoffa sulla spalla sinistra. Quando il treno si fu fermato, il primo gruppo scese e si avviò alla moschea. Una volta dentro, iniziarono il Tawaf, o il giro intorno. I pellegrini si misero a fare il giro della Kaaba sette volte in senso antiorario
e poi entrarono a baciare la Pietra sacra di Abramo. E mentre il primo gruppo usciva migliaia di nuovi fedeli erano già entrati nella moschea. Nel corso dei giorni successivi i pellegrini avrebbero bevuto dalla fonte Zamzam e partecipato a una cerimonia in cui si lapidava il diavolo; si sarebbero recati a piedi negli altri luoghi sacri non lontani da lì, in centinaia di migliaia lungo un tragitto dalla moschea contenente la Kaaba alla Mina, al monte della Pietà, al monte Namira, a Muzdalifah e ad Arafat. Le zone attorno alla mecca e a Medina avrebbero conosciuto folle di musulmani biancovestiti. Le giornate sarebbero trascorse in preghiera e meditazione, in contemplazione e nello studio del Corano. Allo hajj ognuno avrebbe trovato un significato da ricordare per il resto della vita. Quel giorno era soltanto uno di molti altri, al quale ne sarebbero seguiti ancora a migliaia. POSCRITTO Alla fine tutto aveva funzionato. I tappeti da preghiera contaminati furono portati nell'oceano Indiano, dove il container venne calato in una buca molto profonda e fatto saltare con cariche sottomarine. Sull'Akbar Cabrillo e le squadre di Skutter e Colgan proseguirono per il Qatar ricevendo una sontuosa accoglienza alla base americana. Ognuno dei trentasette uomini ottenne un avanzamento di un grado e un aumento di stipendio, e Skutter e Colgan ne meritarono due. Skutter diventò tenente colonnello, mentre Colgan, davanti all'opportunità di essere ufficiale, declinò. Era soddisfatto del rango attuale e così gli aggiunsero due anni sullo stato di servizio. Il giorno seguente Cabrillo, Kasim e Jones partirono a bordo di un jet della Corporation e si diedero appuntamento con la Oregon a Barcellona. L'equipaggio della Florida assunto per portare l'Akbar al cantiere navale nel Mediterraneo ricevette doppia paga per completare il viaggio: arrivarono a casa due settimane più tardi del previsto, ma con le tasche rigonfie di dollari. L'unico saudita rimasto ferito era la guardia che aveva battuto la testa cadendo nel tentativo di fuga e che aveva sofferto per due mesi di annebbiamenti alla vista. Ma alla fine si ristabilì completamente e, come ricompensa per il coraggio dimostrato, il re Abdullah gli concesse di ritirarsi con il massimo della pensione.
Con tante scuse e con l'ordine di non riferire mai a nessuno della faccenda, Michelle Hunt tornò in California a piangere la scomparsa di Halifax Hickman, in quello completamente sola. Il meteorite della Groenlandia fu portato al laboratorio di Fort Detrick, dove ancora viene sottoposto a continui test. Woody Campbell terminò il programma di riabilitazione e fino a oggi non ha più toccato un goccio di whisky. Elton John racconta ancora ai suoi amici del concerto di capodanno, ma ben pochi gli credono. Lababiti, dopo il processo in una corte segreta, fu condannato all'ergastolo. Qualche settimana dopo essere rientrato dall'Inghilterra con la sua MG TC, Billy Joe Shea ricevette la più grossa ordinazione di fluidi di perforazione della sua vita. L'ordinazione veniva da una società che effettuava trivellazioni in Tibet. In un'affollata officina in Inghilterra un uomo lentamente ricostruiva una Vincent Black Shadow. E in mezzo all'Atlantico la Oregon faceva rotta verso il Sudamerica. FINE