JULIA NAVARRO LA FRATELLANZA DELLA SACRA SINDONE (La Hermandad De La Sábana Santa, 2004) RINGRAZIAMENTI A Fernando Escri...
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JULIA NAVARRO LA FRATELLANZA DELLA SACRA SINDONE (La Hermandad De La Sábana Santa, 2004) RINGRAZIAMENTI A Fernando Escribano, che mi ha svelato le gallerie di Torino e che è sempre "di guardia" quando gli amici hanno bisogno di lui. Ho un debito di gratitudine anche con Gian Maria Nicastro per avermi guidato attraverso i segreti di Torino, la sua città; è stato i miei occhi, oltre a fornirmi, rapidamente e con generosità, tutte le informazioni che gli ho chiesto. Carmen Fernández de Blas e David Trias hanno scommesso sulla nascita del romanzo. Grazie. E infine grazie a Olga, la gentile voce di Random House Mondadori. Esistono altri mondi, ma si trovano in questo. H.G. Wells A Fermin e Alex... perché a volte i sogni diventano realtà 1 Il re Abgar Ukkama a Gesù Salvatore buono apparso nella regione di Gerusalemme, salute! Ho udito parlare di te e delle guarigioni che tu operi senza alcun medicamento e senza erbe. Giacché, a quanto si dice, tu fai vedere i ciechi e camminare gli storpi; tu purifichi i lebbrosi, scacci gli spiriti impuri e i demoni, guariscigli oppressi da malattie croniche e resusciti i morti. Udendo di te tutte queste cose, mi sono ora convinto che una di queste due cose è vera: o tu che operi queste meraviglie sei Dio stesso disceso dal cielo, oppure tu, compiendo queste cose, sei il Figlio di Dio. Ti ho scritto perciò per supplicarti di venire da me a guarirmi dalla malattia che mi affligge. Ho anche udito che gli ebrei mormorano contro di te e vogliono farti del male: sebbene la mia città sia molto piccola, è tuttavia onorabile e basterà a tutti e due. Il re appoggiò la penna fissando lo sguardo su un uomo della sua stessa
età che, immobile e rispettoso, era in attesa dall'altra parte della stanza. «Sei sicuro, Josar?» «Signore, dovete credermi...» L'uomo si avvicinò con passo rapido e si fermò vicino al tavolo dove Abgar stava scrivendo. «Ti credo, Josar, ti credo. Sei l'amico più leale che ho, lo sei da quando eravamo bambini. Non mi hai mai deluso, Josar, ma i prodigi che racconti di questo giudeo sono tali da farmi temere che il desiderio di aiutarmi abbia confuso i tuoi sensi...» «Signore, credetemi, perché solo chi crede nel Giudeo si salva. Mio re, io stesso ho visto come Gesù, semplicemente accarezzando con le dita gli occhi spenti di un cieco, gli ha fatto recuperare la vista. Ho assistito alla scena di un povero paralitico che toccava il bordo della veste di Gesù ed egli con un'occhiata piena di dolcezza lo esortava a camminare. E quell'uomo, tra la meraviglia dei presenti, si alzava, e le sue gambe lo portavano come le vostre portano voi. Ho visto, mio re, come una povera lebbrosa osservava il Nazareno nascosta nell'ombra mentre tutti la evitavano. Gesù nell'avvicinarsi a lei le ha detto: "Sei guarita", e la donna, incredula, gridava: "Sono guarita! Sono guarita!", mentre il suo viso tornava davvero a essere umano e le sue mani, prima nascoste, si mostravano integre... «E ho visto con i miei occhi il prodigio più grande quando, al seguito di Gesù e dei suoi discepoli, ci trovammo di fronte al dolore di una famiglia che piangeva la morte di un parente. Gesù entrò nella casa e ordinò al defunto di alzarsi. Nella voce del Nazareno doveva esserci Dio perché, ve lo giuro, mio re, quell'uomo aprì gli occhi e si sollevò meravigliandosi lui stesso di essere vivo...» «Hai ragione, Josar, devo credere per guarire, voglio credere in questo Gesù di Nazareth, che è davvero Figlio di Dio se resuscita i morti. Ma vorrà guarire un re che si è lasciato prendere dalla lussuria?» «Abgar, Gesù non cura solamente il corpo ma anche l'anima. Egli assicura che il pentimento e il desiderio di condurre una vita onesta senza tornare a peccare sono sufficienti per essere perdonati da Dio. I peccatori trovano consolazione nel Nazareno...» «Mi auguro che tu abbia ragione... Io stesso non posso perdonare la mia lussuria nei confronti di Ania. Quella donna mi ha fatto ammalare il corpo e l'anima...» «Come potevi sapere, signore, che era malata, che il regalo del re di Tiro era una trappola? Come potevi sospettare che portasse in sé il seme della
malattia e ti contagiasse? Ania era la donna più bella che si fosse mai vista, qualunque uomo avrebbe perso la testa per possederla...» «Io però sono un re, Josar, e non avrei dovuto perderla, per quanto bella fosse la ballerina... Adesso sta soffrendo per la sua bellezza, perché le orme della malattia stanno consumando il candore del suo volto, e io, Josar, avverto un sudore che non mi abbandona mai, la vista mi si offusca e temo soprattutto che la malattia faccia imputridire la mia pelle e...» Un rumore di passi discreti mise in allerta i due uomini. La donna, esile, con la pelle scura e i capelli neri, si avvicinava abbozzando un sorriso. Josar l'ammirava. Sì, ammirava la perfezione dei lineamenti minuti e del sorriso allegro che aveva sempre pronto; ammirava anche la sua fedeltà al re e il fatto che dalle sue labbra non fosse uscito nemmeno un rimprovero per averle preferito Ania, la ballerina del Caucaso, la donna che aveva trasmesso a suo marito la terribile malattia. Abgar non si faceva toccare da nessuno perché temeva di contagiare a sua volta gli altri. Le sue apparizioni in pubblico erano sempre più rare. Tuttavia non aveva potuto opporre resistenza di fronte alla ferrea volontà della regina, che insisteva per curarlo personalmente; e non solo, gli infondeva coraggio perché credesse al racconto di Josar sulle meraviglie compiute dal Nazareno. Il re la guardò con tristezza. «Sei tu... Stavo parlando del Nazareno con Josar. Gli porterà una lettera di invito a venire qui, dividerò con lui il mio regno.» «Josar dovrebbe viaggiare con una scorta perché durante il percorso non gli accada nulla e possa accompagnare il Nazareno...» «Viaggerò con tre o quattro uomini, basteranno. I romani sono diffidenti e non apprezzerebbero l'arrivo di un gruppo di soldati. Non piacerebbe nemmeno a Gesù. Mi auguro, mia regina, di riuscire a portare a termine la missione e convincere Gesù a venire con me. Prenderò, questo sì, dei cavalli veloci in grado di portarvi delle nuove, una volta giunto a Gerusalemme.» «Terminerò la lettera, Josar...» «Partirò al tramonto, mio re.» 2 Il fuoco iniziava a lambire i banchi dei fedeli mentre il fumo avvolgeva
nella penombra la navata principale. Quattro figure vestite di nero avanzavano velocemente verso una cappella laterale. Da una porta vicino all'altare maggiore un uomo si tormentava le mani. L'ululato delle sirene dei pompieri si faceva sempre più vicino. Nel giro di pochi secondi avrebbero fatto irruzione nel duomo e questo avrebbe significato un nuovo fallimento. Sì, erano già lì. Andò rapidamente verso le figure in nero sollecitandole a correre verso di lui. Una di loro continuò a farsi avanti mentre le altre, spaventate, indietreggiarono davanti al fuoco che cominciava a circondarle. Avevano esaurito il tempo. Il fuoco era avanzato più in fretta di quanto avessero calcolato. La figura che insisteva nel raggiungere la cappella laterale si trovò avvolta dalle fiamme. Cominciava già a prendere fuoco ma trovò la forza di togliersi il cappuccio che le nascondeva il viso. Le altre cercarono di avvicinarsi ma non ci riuscirono, il fuoco era ovunque e la porta del duomo stava per cedere sotto la spinta dei pompieri. Seguirono di corsa l'uomo che li aspettava tremante vicino a una porta laterale. Fuggirono nell'istante stesso in cui l'acqua degli idranti irrompeva nel duomo, mentre la figura avvolta dalle fiamme bruciava senza emettere un suono. Ciò che i fuggiaschi ignoravano era che un'altra figura nascosta nell'ombra di uno dei pulpiti aveva seguito attentamente ogni loro passo. Teneva in mano una pistola con il silenziatore che non aveva avuto bisogno di usare. Quando gli uomini in nero sparirono dalla porta laterale, sotto il pulpito, e prima che i vigili del fuoco potessero vederlo, azionò un meccanismo nascosto in una parete e scomparve. Marco Valoni aspirò il fumo della sigaretta che gli si mescolava in gola con quello dell'incendio. Era uscito a respirare mentre i pompieri finivano di spegnere i tizzoni che continuavano ad ardere vicino all'ala destra dell'altare maggiore. La piazza era transennata e i carabinieri tenevano a bada i curiosi che cercavano informazioni su che cosa fosse successo nel duomo. Valoni aveva chiesto ai giornalisti inviati sul posto di tranquillizzare tutti: la Sindone non era stata danneggiata. Quello che non aveva raccontato è che qualcuno era morto tra le fiamme. Non si sapeva ancora chi fosse. Un altro incendio. Il fuoco perseguitava il vecchio duomo. Marco però non credeva alle casualità, e quello di Torino era un duomo in cui avvenivano troppi incidenti; tentativi di furto e, che lui ricordasse, tre incendi. In
uno, scoppiato dopo la Grande Guerra, furono trovati i cadaveri carbonizzati di due uomini. L'autopsia stabilì che entrambi dovevano avere circa venticinque anni e che, a parte il fuoco, erano morti uccisi da colpi di pistola. E infine un particolare raccapricciante: non avevano la lingua, che era stata tagliata. Perché? E chi aveva sparato ai due? Non era stato possibile identificarli. Caso irrisolto. Né i fedeli né l'opinione pubblica sapevano che nel corso dell'ultimo secolo la Sindone era stata per lunghi periodi lontano dal duomo. Forse proprio questo l'aveva salvata da tanti incidenti. Un caveau della Banca Nazionale era servito come rifugio, che la Sindone aveva lasciato solo per le ostensioni e sempre dietro strette misure di sicurezza. Tuttavia, nonostante queste rigide precauzioni, in diverse occasioni la Sindone aveva corso un pericolo, un vero pericolo. Valoni si ricordava ancora dell'incendio del 12 aprile 1997. Come poteva non ricordarlo, visto che quella mattina si stava ubriacando con i colleghi del Comando per la tutela del patrimonio artistico? All'epoca aveva cinquant'anni ed era reduce da una delicata operazione al cuore. Due infarti e un intervento ad alto rischio furono argomenti sufficienti per lasciarsi convincere da Giorgio Marchesi, suo cardiologo nonché cognato, a dedicarsi al dolce far niente o, al limite, chiedere un posto tranquillo, da burocrate, di quelli dove si passa il tempo a leggere il giornale e a metà mattina ci si prende con tutta calma un cappuccino al bar vicino. Nonostante le lacrime della moglie, aveva preferito la seconda proposta. Paola insisteva affinché si ritirasse; lo adulava dicendogli che era già arrivato al livello più alto del suo Comando - era il responsabile -, che poteva considerare conclusa la sua brillante carriera e pensare a godersi la vita. Lui, però, resistette. Preferiva poter andare tutti i giorni in un ufficio, uno qualunque, piuttosto che trasformarsi a cinquant'anni in un perdigiorno in pensione. Avrebbe comunque lasciato l'incarico di responsabile del Comando per la tutela del patrimonio artistico e quella notte, nonostante le proteste di Paola e Giorgio, se n'era andato a cenare e ubriacarsi con i colleghi. Gli stessi con cui, negli ultimi vent'anni, aveva passato quattordici o quindici ore al giorno inseguendo le mafie che trafficano con le opere d'arte, scoprendo falsificazioni e proteggendo, in definitiva, l'immenso patrimonio artistico italiano. Il Comando era un organo speciale che dipendeva dal ministero per i Beni culturali e ambientali. Era composto da carabinieri, ma anche da un certo numero di archeologi, storici, esperti di arte medievale, moderna, sa-
cra... Valoni gli aveva dedicato la parte migliore della sua vita. Salire la scala del successo non era stato facile. Suo padre lavorava presso un distributore di benzina, la madre era casalinga. Avevano giusto di che vivere; lui fu costretto a ricorrere a delle borse di studio e accontentò la madre che voleva si cercasse un impiego sicuro, che lavorasse per lo Stato. Un amico del padre, un carabiniere cliente abituale della stazione di servizio, lo aiutò a presentarsi al concorso per entrare nell'Arma. Lo superò, ma non aveva la vocazione per fare il tutore dell'ordine, per cui, dopo il lavoro, studiando di notte, riuscì a laurearsi in storia e chiese il trasferimento al Comando per la tutela del patrimonio artistico. Poteva così unire le due specializzazioni, di carabiniere e di storico, e a poco a poco, lavorando sodo e con un po' di fortuna, continuò a salire fino ad arrivare in cima alla scala. Quanto gli era piaciuto viaggiare per l'Italia! E quanto, poi, vedere altri paesi! All'Università di Roma aveva conosciuto Paola. Era una studentessa di arte medievale, fu un colpo di fulmine e nel giro di qualche mese si sposarono. Stavano insieme da venticinque anni, avevano due figli ed erano quella che si chiama una coppia felice. Paola insegnava all'università e non lo aveva mai rimproverato per il poco tempo che lui passava a casa. Una sola volta avevano avuto un contrasto furibondo. Fu quando lui rientrò da Torino nella primavera del 1997 e le disse che non sarebbe andato in pensione ma che non doveva preoccuparsi perché non aveva più intenzione di viaggiare e di andare avanti e indietro, avrebbe fatto solo il responsabile, un lavoro da burocrate. Giorgio, il suo medico, gli disse che era pazzo. I suoi colleghi, invece, si complimentarono con lui. Ciò che gli fece cambiare idea fu la convinzione che quell'incendio nel duomo non fosse stato fortuito, benché lui stesso dichiarasse il contrario alla stampa. Ed eccolo qui, a indagare su un altro incendio nel duomo di Torino. Non erano passati nemmeno due anni da un tentativo di furto. Erano riusciti a catturare il ladro per caso. In effetti non aveva rubato niente, sicuramente non ne aveva avuto il tempo. Un prete che passava vicino al duomo si era insospettito di quell'uomo che correva spaventato, inseguito dal rumore dell'allarme, che era più forte delle campane. Gli era corso dietro gridando: "Al ladro! Al ladro!", e con l'aiuto di due anonimi passanti, due giovani, dopo una colluttazione era riuscito a bloccarlo. Ma non fu possibile chiarire alcunché. Il ladro era senza lingua, gli era stata asportata, e non aveva neppure le impronte digitali: i polpastrelli erano cicatrici bruciate. Un uo-
mo senza patria e senza nome, che adesso marciva nel carcere di Torino e dal quale non si era mai riusciti a ottenere nulla. No, non credeva alle coincidenze, non era una coincidenza che i "ladri" del duomo di Torino fossero senza lingua e avessero i polpastrelli bruciati. Il fuoco perseguitava la Sindone. Valoni si era studiato bene tutta la sua storia e aveva scoperto che da quando era in mano a Casa Savoia il Lenzuolo era scampato a diversi incendi. Per esempio, nella notte fra il 3 e il 4 dicembre 1532, la sacrestia della cappella dove i Savoia lo custodivano cominciò a bruciare e le fiamme raggiunsero la Sindone, che all'epoca era racchiusa in un reliquiario d'argento rivestito di legno, dono di Margherita d'Austria. Un secolo più tardi un altro incendio fu sul punto di arrivare fino al luogo in cui era custodita la Sacra Sindone. Due uomini vennero sorpresi e, sentendosi perduti, si gettarono nel fuoco senza emettere alcun suono nonostante l'orribile tormento. Erano forse senza lingua? Non si sarebbe mai saputo. Da quando, nel 1578, i Savoia collocarono la Sacra Sindone nel duomo di Torino, gli incidenti si erano succeduti. Non c'era stato secolo senza un tentativo di furto o un incendio, e negli ultimi anni il punto più avanzato delle indagini sui responsabili offriva sempre un bilancio desolante: erano senza lingua. Chissà se il cadavere che avevano portato all'obitorio ce l'aveva? Una voce lo riportò alla realtà. «Capo, c'è il cardinale; è appena arrivato da Roma... Vuole parlare con lei, sembra molto turbato per quello che è successo.» «Non mi meraviglio. È sfortunato, non sono neanche sei anni che è bruciato il duomo, due che hanno tentato di rubare e adesso un altro incendio.» «Sì, gli dispiace di essersi lasciato di nuovo convincere a fare dei restauri. Dice che è l'ultima volta, che il duomo ha resistito centinaia di anni e adesso a forza di restauri e pasticci finiranno per rovinarlo.» Marco entrò da una porta laterale dove erano indicati gli uffici. Tre o quattro sacerdoti andavano su e giù in preda a una grande agitazione; due donne anziane che dividevano la scrivania in un piccolo ufficio sembravano molto indaffarate, mentre sotto le loro direttive alcuni carabinieri esaminavano le pareti, prelevavano campioni, entravano e uscivano. Un giovane sacerdote, sulla trentina, si avvicinò. Gli tese la mano. La stretta fu decisa.
«Sono padre Yves.» «E io Marco Valoni.» «Sì, lo so. Venga con me, Sua Eminenza l'attende.» Il sacerdote aprì una pesante porta che dava accesso a uno studio le cui pareti erano rivestite in legno pregiato, con quadri rinascimentali, una Madonna, un Cristo, l'Ultima Cena... Sul tavolo, un crocifisso in argento lavorato. Marco calcolò che doveva avere almeno trecento anni. Il cardinale era un uomo dal viso cordiale, in quel momento turbato per l'accaduto. «Si accomodi, capitano Valoni.» «Grazie, Eminenza.» «Mi racconti cos'è successo, si sa già chi è il morto?» «Non lo sappiamo ancora con sicurezza, Eminenza. Per il momento tutto sta a indicare che l'incendio è stato provocato da un cortocircuito.» «Di nuovo!» «Sì, Eminenza, di nuovo... ma, se me lo permetterà, indagheremo a fondo. Resteremo da queste parti per qualche giorno. Voglio esaminare il duomo da cima a fondo, senza tralasciare la minima fessura, e insieme ai miei uomini continueremo a parlare con tutti quelli che sono stati in duomo nelle ultime ore e negli ultimi giorni. Chiederei la collaborazione di Sua Eminenza...» «Ce l'ha, capitano Valoni, ce l'ha. L'ha avuta anche in altre occasioni, faccia le indagini che crede. Quello che è accaduto è una catastrofe, c'è un morto, oltre al fatto che sono bruciate opere d'arte insostituibili e le fiamme sono quasi arrivate alla Sindone. Non so cosa sarebbe successo se fosse andata distrutta.» «Eminenza, la Sindone...» «Lo so, Valoni, so cosa sta per dirmi: il carbonio 14 ha stabilito che non può essere il lenzuolo che avvolse il corpo di Nostro Signore, ma per molti milioni di fedeli la Sindone è autentica, checché ne dica il carbonio 14, e la Chiesa ne permette il culto. Inoltre, ci sono scienziati che non sanno ancora spiegarsi l'impressione della figura che si ritiene quella di Nostro Signore, e...» «Chiedo scusa, Eminenza, non volevo mettere in dubbio il valore religioso della Sindone. Ne sono rimasto impressionato la prima volta che l'ho vista e l'uomo del Lenzuolo continua a impressionarmi.» «Quindi?» «Volevo domandarle se negli ultimi giorni, negli ultimi mesi, è successo qualcosa di strano, qualcosa che, per quanto insignificante, abbia attirato la
sua attenzione.» «Direi proprio di no. Dopo l'ultimo spavento, quando due anni fa cercarono di rubare dall'altare maggiore, siamo stati in pace.» «Ci pensi, Eminenza, ci pensi bene.» «Ma cosa vuole che pensi? Quando sono a Torino celebro ogni mattina la messa in duomo alle otto. La domenica a mezzogiorno. Passo del tempo a Roma, proprio oggi mi trovavo in Vaticano quando mi hanno avvisato dell'incendio. Vengono pellegrini da tutto il mondo a vedere la Sindone; due settimane fa, prima che cominciassero i restauri, è stato qui un gruppo di scienziati francesi, inglesi e statunitensi per fare nuovi esami e...» «Chi erano?» «Ah! Un gruppo di professori, tutti cattolici, convinti che nonostante gli studi e il responso categorico del carbonio 14 la Sindone sia l'autentico sudario di Cristo.» «Qualcuno ha attirato la sua attenzione?» «No, direi proprio di no. Li ho ricevuti nel mio studio al palazzo episcopale, abbiamo chiacchierato per circa un'ora, ho offerto loro un piccolo rinfresco. Mi hanno esposto alcune delle loro teorie sul perché ritenevano che il metodo del carbonio 14 non fosse affidabile, e poco altro.» «Qualcuno di questi professori le è sembrato particolare?» «Vede, capitano Valoni, sono anni che ricevo studiosi della Sindone, come sa la Chiesa si è dimostrata aperta e ne ha agevolato le ricerche. Questi professori erano molto simpatici; solo uno di loro, il dottor Bolard, sembrava più riservato, meno ciarliero dei suoi colleghi ma è perché lo innervosiva il fatto che si facciano dei restauri nel duomo.» «Perché?» «Che domanda, capitano Valoni! Perché il dottor Bolard è uno scienziato che da anni collabora alla conservazione della Sindone e teme che venga esposta a inutili rischi. Lo conosco da parecchi anni, è una persona seria, uno scienziato rigoroso e un buon cattolico.» «Ricorda in quali occasioni è stato qui?» «Innumerevoli. Le sto dicendo che collabora con la Chiesa alla conservazione della Sindone; al punto che quando vengono altri scienziati per studiarla, siamo soliti chiamarlo perché adotti le misure necessarie a evitare di esporla a deterioramenti. Inoltre abbiamo in archivio i nomi di tutti gli scienziati che sono stati da noi, che hanno studiato la Sindone, gli uomini della NASA, quel russo, come si chiamava? Non me lo ricordo... Fa niente, e tutti quei nomi illustri, Barnet, Hynek, Tamburelli, Tite, Gonella!
E come dimenticare Walter McCrone, il primo a dichiarare che il Lenzuolo non era il sudario di Cristo Nostro Signore. È morto qualche mese fa, pace all'anima sua.» Marco pensava al dottor Bolard. Non sapeva perché, ma doveva scoprire qualcosa su quel professore. «Mi dica le date in cui è stato qui il dottor Bolard.» «Sì, sì, ma perché? Il dottor Bolard è uno scienziato illustre e non capisco come possa avere a che fare con le sue indagini...» Marco si rese conto che al cardinale non poteva parlare né di istinto né di presentimenti. Oltre tutto, era sicuramente una sciocchezza voler scoprire qualcosa di una persona solo per il fatto che era silenziosa. Decise di chiedere al cardinale l'elenco di tutti i gruppi di scienziati che avevano studiato la Sindone negli ultimi anni, nonché le date in cui erano stati a Torino. «Fino a quando vuole risalire?» domandò il cardinale. «Se è possibile, agli ultimi vent'anni.» «Perbacco, mi dica cosa sta cercando!» «Non lo so, Eminenza, non lo so.» «Capirà bene che mi deve una spiegazione su cosa hanno a che vedere gli incendi ai danni del duomo con la Sindone e gli scienziati che l'hanno studiata. Da anni lei si ostina a ripetere che gli avvenimenti che colpiscono il duomo hanno come obiettivo la Sacra Sindone e io, mio caro Marco, non riesco a crederci. Chi può voler distruggere la Sindone? Perché? Per quanto riguarda i tentativi di furto, sa bene che qualunque pezzo del duomo vale una fortuna e ci sono molte persone senza scrupoli che non hanno rispetto nemmeno per la casa del Signore. Anche se alcuni dei poveri disgraziati che hanno cercato di rubare sono inquietanti, non posso non pregare per loro.» «Lei ha sicuramente ragione, ma sarà d'accordo con me che non è normale che in alcuni di questi, chiamiamoli incidenti, siano coinvolti uomini senza lingua e senza impronte digitali. Mi darà l'elenco? Si tratta di pura routine, per non lasciare nulla in sospeso.» «No, certo che non è normale, e la cosa preoccupa la Chiesa. In diverse occasioni ho fatto visita, con discrezione, a quel poveraccio che due anni fa ha cercato di rubare. Si siede di fronte a me e resta impassibile, come se non capisse niente di ciò che dico. Comunque chiederò al mio segretario, il giovane sacerdote che l'ha accompagnata, di cercare quei dati e di farglieli avere appena possibile. Padre Yves è molto efficiente, è con me da sei me-
si, da quando è mancato il mio assistente precedente, e devo riconoscere che mi ha permesso di tirare il fiato. È intelligente, discreto, devoto, parla diverse lingue...» «È francese?» «Sì, è francese ma il suo italiano, come avrà avuto modo di sentire, è perfetto; e parla altrettanto bene inglese, tedesco, ebraico, arabo e aramaico...» «E chi è stato a raccomandarglielo, Eminenza?» «Il mio buon amico, assistente del sostituto del segretario di Stato, monsignor Aubry, una persona particolare.» Marco pensò che la maggior parte degli uomini di Chiesa che aveva conosciuto erano particolari, soprattutto quelli che si muovevano in Vaticano. Tuttavia restò in silenzio squadrando il cardinale, che gli sembrava un brav'uomo, più sagace e intelligente di quanto desse a vedere ed estremamente dotato in quanto a diplomazia. Il cardinale sollevò il telefono e chiese di far entrare padre Yves, il quale non si fece attendere nemmeno un secondo. «Entri, padre, entri. Ha già conosciuto il capitano Valoni. Vorrebbe che gli fornissimo un elenco di tutte le delegazioni che hanno visitato la Sindone nel corso degli ultimi vent'anni. Perciò al lavoro, perché il mio buon amico Marco ne ha già bisogno.» Padre Yves fissò Marco Valoni prima di domandargli: «Mi scusi, capitano Valoni, ma potrebbe dirmi cosa cerca?». «Padre Yves, non lo sa nemmeno lui, ma si dà il caso che voglia sapere chi ha avuto a che fare con la Sindone negli ultimi vent'anni e noi gli daremo una mano.» «Naturalmente, Eminenza, farò il possibile per fornirgli l'elenco quanto prima, sebbene con questa confusione non sarà facile trovare un attimo per cercare negli archivi; sa che ci manca ancora parecchio per l'informatizzazione.» «Non si preoccupi, padre» rispose Valoni «posso aspettare qualche giorno, però prima riesce a darmi l'informazione meglio è.» «Eminenza, posso chiedere cosa ha a che vedere l'incendio con la Sindone?» «Ah! Padre Yves, sono anni che chiedo al capitano Valoni perché ogni volta che ci capita una disgrazia si ostini a dire che l'obiettivo è la Sindone.» «Dio mio, la Sindone!»
Valoni osservò padre Yves. Non sembrava un sacerdote, o almeno non assomigliava alla maggior parte dei sacerdoti di sua conoscenza, e vivere a Roma comportava conoscerne parecchi. Padre Yves era alto, attraente, atletico; doveva praticare qualche sport. Per di più in lui non vi era traccia di mollezza, quella mollezza frutto del miscuglio tra castità e buona tavola che fa strage tra i preti. Se padre Yves non avesse portato il collare, sarebbe sembrato uno di quei manager che curano il proprio aspetto dedicando tempo allo sport. «Sì, padre» disse il cardinale «la Sindone. Ma fortunatamente Nostro Signore la protegge, visto che non è mai stata danneggiata.» «Cerco solo di non lasciare nulla in sospeso nelle indagini sui diversi fatti che stanno avvenendo nel duomo. Padre Yves, ecco il mio biglietto da visita. Le scrivo anche il numero del cellulare, così può chiamarmi non appena avrà l'elenco che le ho chiesto. E se le venisse in mente qualche elemento che secondo lei potrebbe esserci utile, la prego di farmelo sapere.» «Certo, capitano Valoni, non mancherò.» Quando squillò il cellulare, Marco rispose immediatamente. Il medico legale lo informò senza giri di parole: il cadavere bruciato nel duomo apparteneva a un uomo di circa trent'anni, sul metro e settantacinque, magro. E senza la lingua. «È sicuro, dottore?» «Sono sicuro come si può esserlo di fronte a un uomo carbonizzato. Il cadavere è senza lingua, e non in conseguenza del fuoco ma perché gli è stata asportata. Non mi chieda quando, è difficile saperlo viste le condizioni del corpo.» «Qualcos'altro, dottore?» «Le manderò il referto completo. L'ho chiamata appena terminata l'autopsia, come mi aveva chiesto.» «Verrò a trovarla, dottore, le spiace?» «No, affatto. Mi fermerò qui tutto il giorno, passi quando vuole.» «Marco, che cos'hai?» «Niente.» «Andiamo, capo, ti conosco e hai la luna storta.» «In effetti, Giuseppe, c'è qualcosa che mi disturba e non so cos'è.» «Io invece lo so. Ti fa impressione, come a noi, aver scoperto un altro mondo. Ho chiesto a Minerva di cercare nel computer se esiste qualche
setta che si dedica al taglio della lingua e al furto. So che è assurdo, ma dobbiamo cercare in tutte le direzioni e Minerva è un genio nelle ricerche su Internet.» «Va bene. Adesso raccontami quello che avete scoperto.» «Innanzi tutto, non manca nulla. Non hanno rubato. Antonino e Sofia assicurano che non si sono portati via niente: quadri, candelabri, sculture lignee... insomma tutte le meraviglie custodite nel duomo sono lì, anche se alcune hanno subito qualche danno. Le fiamme hanno distrutto il pulpito di destra e i banchi per i fedeli, e della scultura lignea del diciottesimo secolo della Vergine resta solo la cenere.» «Tutto questo sarà nel rapporto.» «Sì, capo, ma il rapporto non l'ho finito. Pietro non è ancora tornato dal duomo. Ha interrogato gli operai che lavoravano al nuovo impianto elettrico; a quanto pare il fuoco sarebbe dovuto a un cortocircuito.» «Un altro cortocircuito.» «Sì, capo, un altro come quello del '97. Pietro ha anche parlato con l'impresa incaricata dei lavori e ha già chiesto a Minerva di cercare nel computer tutto quello che esiste sui proprietari dell'impresa e già che ci siamo anche sugli operai. Alcuni sono immigrati, e sarà più complicato ottenere informazioni. Poi Pietro e io abbiamo interrogato tutto il personale della sede episcopale. Quando è scoppiato l'incendio nel duomo non c'era nessuno. Alle tre del pomeriggio è sempre chiuso, non c'erano nemmeno gli operai.» «Abbiamo il cadavere di un solo uomo. Aveva dei complici?» «Non lo sappiamo ma è probabile. È difficile che qualcuno prepari e metta in atto da solo un furto nel duomo di Torino, a meno che non sia un ladro che lavora su commissione, nel qual caso non aveva bisogno di nessuno. Non lo sappiamo ancora.» «Ma se non era solo, da dove sono spariti i suoi complici?» Marco restò in silenzio. Il disturbo che sentiva allo stomaco era un sintomo di preoccupazione. Paola gli rimproverava di avere l'ossessione della Sindone e magari aveva anche ragione: di certo lo ossessionavano gli uomini senza lingua. Era sicuro che gli sfuggisse qualcosa, che da qualche parte ci fosse un bandolo e che se lo avesse individuato e avesse cominciato a tirare avrebbe trovato la soluzione. Sarebbe andato nel carcere di Torino a fare visita al muto. Il cardinale gli aveva detto una cosa che lo aveva colpito: che quando era andato da lui, l'uomo era rimasto impassibile come se non lo capisse. Poteva essere una pista, magari il muto non era italiano e
non capiva quello che gli dicevano. Due anni prima lo aveva mollato ai carabinieri una volta verificato che non aveva la lingua e che si rifiutava di fare anche il minimo gesto di fronte alle sue domande. Sì, sarebbe andato in carcere, il muto era l'unica pista, e lui come un idiota l'aveva lasciata perdere. Mentre accendeva un'altra sigaretta, decise di chiamare John Barry, l'addetto culturale dell'ambasciata degli Stati Uniti. In realtà John era un agente dei servizi segreti, come quasi tutti gli addetti culturali delle ambasciate. I governi non avevano abbastanza fantasia quando dovevano cercare dei camuffamenti per i loro agenti all'estero. John era un brav'uomo, anche se lavorava per l'ufficio analisi e valutazioni della CIA. Il suo lavoro non era da agente sul campo: analizzava solo le informazioni che gli venivano fornite, le interpretava e le inviava a Washington. L'amicizia tra lui e Marco durava da anni. Si era rafforzata attraverso il lavoro, dal momento che il destino di molte delle opere d'arte rubate era quello di finire nelle mani di ricchi nordamericani che, innamorati di una certa opera o per vanità, o per una semplice questione di affari, non avevano nulla da obiettare all'acquisto di merce rubata. Alcune volte i furti avvenivano su commissione. John non corrispondeva all'immagine classica di statunitense e uomo della CIA. Era un cinquantenne come Valoni, innamorato dell'Europa, che si era laureato in storia dell'arte a Harvard. Si era sposato con un'archeologa inglese, Lisa, donna affascinante. Non bellissima, a dir la verità, ma così vitale e con un entusiasmo talmente contagioso che uno finiva per trovarla attraente. Era diventata amica di Paola, per cui ogni tanto si vedevano a cena tutti e quattro e avevano persino trascorso qualche fine settimana a Capri. Sì, avrebbe chiamato John non appena fosse rientrato a Roma. Ma anche Santiago Jiménez, il rappresentante dell'Europol in Italia, uno spagnolo bravo e simpatico con il quale i rapporti erano altrettanto buoni. Li avrebbe invitati a colazione. Magari, pensò, potevano essergli d'aiuto nella ricerca, anche se non sapeva ancora bene di che cosa. 3 Josar volse lo sguardo alle mura di Gerusalemme. La luce del sole al tramonto e la sabbia del deserto si fondevano con le pietre fino a formare una massa dorata accecante.
Scortato da quattro uomini, Josar si diresse alla Porta di Damasco, dove a quell'ora i contadini delle terre vicine cominciavano a entrare mentre le carovane uscivano in cerca del sale. Un gruppo di soldati romani, a piedi, perlustrava il perimetro delle mura. Era ansioso di vedere Gesù. Quell'uomo irradiava qualcosa di straordinario: forza, dolcezza, fermezza, devozione. Credeva in Gesù, credeva che fosse il Figlio di Dio, non solo per i miracoli che gli aveva visto compiere, ma perché quando Gesù ti guardava si percepiva che quello sguardo trascendeva l'umano, che ti leggeva dentro, che non gli sarebbero sfuggiti nemmeno i pensieri più nascosti. Tuttavia Gesù non ti faceva provare vergogna per come eri, perché i suoi occhi erano pieni di comprensione, di perdono. Josar voleva bene ad Abgar, il suo re, perché da lui era sempre stato trattato come un fratello. Gli doveva la sua posizione e la sua fortuna, ma se Gesù non avesse accettato l'invito di Abgar a recarsi a Edessa, lui, Josar, si sarebbe presentato dinanzi al suo re e gli avrebbe chiesto il permesso di tornare a Gerusalemme e seguire il Nazareno. Era disposto a rinunciare alla sua casa, alle sue fortune e al benessere. Avrebbe seguito Gesù cercando di vivere secondo i suoi insegnamenti. Sì, la decisione era presa. Josar si diresse a casa di un uomo, Samuele, che per qualche moneta gli avrebbe dato da dormire e accudito i cavalli. Non appena si fosse sistemato avrebbe cominciato a cercare Gesù. Si sarebbe recato a casa di Marco o di Luca, loro gli avrebbero detto dove trovarlo. Sarebbe stato difficile convincere Gesù a recarsi a Edessa, ma lui, Josar, avrebbe spiegato al Nazareno che il viaggio era breve e che, una volta guarito il suo signore, sarebbe potuto tornare indietro se avesse deciso di non fermarsi. Uscendo dalla casa di Samuele, diretto a quella di Marco, Josar comprò un paio di mele da un povero zoppo al quale chiese le ultime notizie da Gerusalemme. «Cosa vuoi che ti racconti, straniero? Ogni giorno il sole sorge a oriente e tramonta a occidente. I romani... non sarai per caso romano? No, no, non sei vestito come un romano, né parli come loro. I romani hanno aumentato le tasse per la gloria dell'imperatore, perciò Pilato teme una ribellione e cerca di ingraziarsi i sacerdoti del Tempio.» «Cosa sai di Gesù, il Nazareno?» «Ah! Anche tu vuoi sapere di lui. Non sarai una spia?» «No, buon uomo, non sono una spia ma solo un viaggiatore che conosce
i prodigi compiuti dal Nazareno.» «Se sei malato lui ti potrà curare, sono in molti ad affermare di essere guariti con una carezza del Nazareno.» «Tu non ci credi?» «Signore, io lavoro dall'alba al tramonto coltivando il mio orto e vendendo le mie mele. Ho moglie e due figlie da nutrire. Osservo tutti i precetti che posso per essere un buon giudeo e credo in Dio. Non so se il Nazareno è il Messia come dicono, non sono in grado di dire né sì né no. Ma ti racconterò, straniero, che i sacerdoti non lo amano e i romani nemmeno, perché Gesù non teme il loro potere e sfida gli uni e gli altri. Non si possono sfidare romani e sacerdoti senza conseguenze. Quel Gesù finirà male.» «Sai dove si trova?» «Si muove da una parte all'altra con i suoi discepoli, anche se passa molto tempo nel deserto. Non so, però puoi domandare all'acquaiolo lì all'angolo. È un seguace di Gesù, prima era muto e adesso parla. L'ha guarito il Nazareno.» Josar camminò per la città fino alla casa di Marco. Lì gli indicarono dove poteva trovare Gesù, vicino alle mura meridionali, che predicava a una folla. Lo vide quasi subito. Il Nazareno, vestito con una semplice tunica, parlava ai suoi seguaci con voce ferma ma dolcissima. Josar si sentì addosso il suo sguardo. Lui lo aveva visto, gli sorrideva e con un gesto lo invitava ad avvicinarsi. Gesù lo abbracciò e gli fece segno di sedersi accanto a lui. Giovanni, il più giovane dei discepoli, si fece da parte per fargli posto a fianco del Maestro. Trascorsero così la mattinata e quando il sole raggiunse il punto più alto nel cielo, Giuda, uno dei discepoli di Gesù, distribuì tra i presenti pane, fichi e acqua. Mangiarono in silenzio e in pace. Poi, Gesù si alzò per incamminarsi. «Signore» disse Josar in un bisbiglio «ti porto una lettera da parte del mio re, Abgar di Edessa.» «E cosa desidera Abgar, mio buon Josar?» «È malato, signore, e ti prega di aiutarlo, anch'io ti prego perché è un uomo buono e un bravo re, e i suoi sudditi lo sanno bene. Edessa è una città piccola, ma Abgar è disposto a dividerla con te.» Continuando a camminare, Gesù appoggiò la mano sul braccio di Josar.
E Josar si sentì un privilegiato per il fatto di stare accanto all'uomo che secondo lui era davvero il Figlio di Dio. «Leggerò la lettera e risponderò al tuo re.» Quella notte Josar divise la cena con Gesù e i suoi discepoli, preoccupati per le notizie della crescente avversione da parte dei sacerdoti. Una donna, Maria Maddalena, aveva udito al mercato che i sacerdoti sollecitavano i romani affinché arrestassero Gesù, da loro accusato di essere l'istigatore dei tumulti contro il potere di Roma. Gesù ascoltava in silenzio e mangiava con tranquillità. Era come se già sapesse tutto ciò che si stava dicendo, come se nessuna delle notizie di cui si discuteva fosse nuova per lui. Poi parlò del perdono, di come dovessero perdonare chi faceva loro del male, averne pietà. I discepoli gli rispondevano che era difficile perdonare un uomo che ti fa soffrire, restare impassibili senza rispondere alle offese. Gesù li ascoltava e dipingeva il perdono come un sollievo per l'anima della persona offesa. Terminata la cena, cercò Josar con lo sguardo e gli chiese di avvicinarsi per consegnargli una lettera. «Josar, ecco la mia risposta per Abgar.» «Signore, verrai con me?» «No, Josar, non verrò, non posso venire con te, devo fare la volontà del Padre. Manderò uno dei miei discepoli. Ma il tuo re mi vedrà a Edessa e, se avrà fede, guarirà.» «Chi manderai? Com'è possibile ciò che dici, Signore, come potrai restare qui se dici che Abgar potrà vederti a Edessa?» Gesù sorrise e trafiggendolo con lo sguardo gli disse: «Forse non mi segui e non mi ascolti? Sarai tu ad andare, Josar, e il tuo re guarirà e mi vedrà a Edessa anche quando non sarò più in questo mondo». Josar gli credette. Un gran sole entrava dalla finestrella della stanza in cui Josar si affannava a scrivere ad Abgar, mentre il locandiere rifocillava gli uomini che lo avevano accompagnato. Da Josar, ad Abgar, re di Edessa. Signore, i miei uomini ti recano la risposta del Nazareno. Ti prego, signore, di avere fede perché dice che guarirai. So che
compirà il miracolo, però non mi chiedere né come né quando. Invoco il tuo permesso di restare a Gerusalemme, accanto a Gesù. Il mio cuore mi dice che devo fermarmi qui. Ho bisogno di ascoltarlo, di udire le sue parole e, se me lo permetterà, di seguirlo come il più umile dei suoi discepoli. Tutto ciò che possiedo me lo hai dato tu, per cui, mio re, disponi dei miei beni, della mia casa, dei miei schiavi per suddividerli tra i bisognosi. Io resterò qui, e per seguire Gesù mi serve ben poco. Sento, inoltre, che sta per succedere qualcosa, visto che i sacerdoti del Tempio odiano Gesù perché si dichiara Figlio di Dio e, al contrario di loro, vive secondo la legge dei Giudei. Invoco, mio re, la tua comprensione e il permesso di seguire il mio destino. Abgar lesse la lettera di Josar e fu invaso dall'amarezza. Il Giudeo non si sarebbe recato a Edessa e Josar sarebbe rimasto a Gerusalemme. Gli uomini che lo avevano accompagnato avevano viaggiato senza sosta per consegnargli le due lettere. Aveva letto per prima quella di Josar, ora avrebbe letto quella di Gesù, ma la speranza era scomparsa dal suo cuore e non gli importava molto di ciò che il Nazareno poteva scrivergli. La regina entrò nella stanza e lo osservò preoccupata. «Ho sentito che sono giunte notizie da Josar.» «È così. Il Giudeo non verrà. Josar mi chiede di potersi fermare a Gerusalemme, vuole che ripartisca i suoi beni tra i bisognosi. È diventato un discepolo di Gesù.» «Quell'uomo è così straordinario che Josar abbandona tutto per seguirlo? Come mi piacerebbe conoscerlo!» «Mi abbandonerai anche tu?» «Signore, sai che non lo farò, ma credo che questo Gesù sia un dio. Cosa ti dice nella lettera?» «Non ho ancora rotto il sigillo; aspetta, te la leggo.» Tu beato che hai creduto in me senza avermi visto! A proposito di me sta scritto che coloro che mi hanno visto non crederanno in me affinché coloro che non mi vedranno credano in me e vivano. A proposito dell'invito che mi hai fatto di venire da te, è necessario ch'io compia le cose per cui sono stato mandato e, dopo aver compiuto questo, ch'io salga presso Colui che mi ha mandato. Dopo che sarò salito, ti manderò uno dei miei discepoli affinché ti
guarisca dalla malattia ed offra a te e ai tuoi la vita. «Mio re, il Giudeo ti guarirà.» «Ma come puoi esserne certa?» «Devi credere, dobbiamo credere e aspettare.» «Aspettare... Non vedi forse come mi sta divorando la malattia? Mi sento ogni giorno più debole e tra poco non potrò mostrarmi nemmeno a te. So che i miei sudditi mormorano e i miei nemici sono in agguato e sussurrano persino a nostro figlio Maanu che sarà presto re.» «La tua ora non è ancora giunta, Abgar. Lo so.» 4 La voce melodiosa di Minerva giungeva con qualche interferenza attraverso il cellulare. «Chiudi che ti chiamo io, siamo in ufficio.» Il Comando per la tutela del patrimonio artistico aveva a disposizione due uffici nella caserma dei carabinieri, di modo che quando Marco e la sua squadra si spostavano a Torino avevano un posto dove lavorare. «Che cosa succede, Minerva?» chiese subito Sofia alla collega. «Il capo non c'è, si è alzato presto ed è andato al duomo. Mi ha detto che ci passerà buona parte della mattinata.» «Ha il cellulare spento, perché mi risponde la segreteria.» «Si comporta in maniera strana, ormai da anni sostiene che qualcuno vuole distruggere la Sindone. A volte penso che abbia ragione. Con tutte le cattedrali e le chiese che ci sono in Italia, al duomo di Torino succede di tutto. Che io ricordi ha già subito una mezza dozzina di furti e diversi incendi, uno più grave dell'altro, ma così tanti eventi insospettirebbero chiunque. E poi c'è la storia dei muti: sarai d'accordo che il fatto che il cadavere trovato appartenga un uomo privo di lingua e di impronte digitali mette i brividi. Ancora una volta, un uomo senza identità.» «Marco mi ha chiesto di cercare se esiste qualche setta dedita al taglio della lingua. Mi ha detto che siete degli storici, ma che qualcosa vi può scappare. Non ho trovato nulla. Cioè, quello che sono riuscita a scoprire finora è che l'impresa che sta realizzando i lavori di ristrutturazione opera a Torino da molti anni, oltre quaranta, e il lavoro non le manca. Il suo migliore cliente è la Chiesa. In questi anni ha cambiato l'impianto elettrico alla maggior parte dei conventi e delle chiese della zona e ha perfino ristrut-
turato la casa del cardinale. È una società anonima, ma ho saputo che uno degli azionisti è una persona importante, con interessi in aziende aeronautiche, di prodotti chimici... insomma, questa impresa di ristrutturazioni è roba da niente rispetto a quello che ha tra le mani.» «Chi è questa persona?» «Umberto D'Alaqua, un habitué delle pagine dei quotidiani economici. Uno squalo della finanza che, guarda caso, ha anche una partecipazione in questa azienda che mette cavi e condutture. Ma non solo, è stato anche azionista di altre aziende, alcune scomparse, che in qualche occasione sono state legate al duomo di Torino. Ricorderai che prima dell'incendio del '97 ce ne furono altri, precisamente nel settembre dell'83, qualche mese prima che venisse firmata la cessione della Sacra Sindone al Vaticano da parte di Casa Savoia. Quell'estate si cominciò a ripulire la facciata del duomo e il campanile era coperto dai ponteggi. Nessuno sa come, ma scoppiò un incendio. In quella impresa di pulizie di monumenti aveva una partecipazione anche Umberto D'Alaqua. Ti ricordi quando si sono rotte diverse condutture in piazza del Duomo e nelle vie adiacenti per colpa di alcuni lavori di pavimentazione? Be', D'Alaqua possiede azioni anche dell'impresa incaricata della pavimentazione.» «Non diventare paranoica. Non c'è niente di straordinario nel fatto che quel tizio sia azionista di varie imprese che operano a Torino. Ce ne saranno molti come lui.» «Non sono paranoica. Espongo solo i fatti. Marco vuole sapere tutto, e in quel tutto è saltato fuori in diverse occasioni il nome di Umberto D'Alaqua. Quell'uomo deve essere in ottimi rapporti con il cardinale di Torino e, naturalmente, con il Vaticano. Di sicuro c'è che è scapolo.» «Bene, manda tutto via e-mail e Marco lo leggerà quando torna.» «Fino a quando rimanete a Torino?» «Non lo so, Marco non l'ha detto. Vuole parlare con alcune delle persone che si trovavano nel duomo prima che scoppiasse l'incendio. È deciso anche a incontrare il muto, quello del furto di due anni fa, oltre agli operai e al personale della sede episcopale. Immagino che ci fermeremo tre o quattro giorni, comunque ci sentiamo.» Sofia decise di andare al duomo per parlare con Marco. Sapeva che il capo preferiva stare da solo, altrimenti avrebbe detto a Pietro, Giuseppe o Antonino di accompagnarlo. Invece aveva affidato a ciascuno qualche incarico. Lavoravano con lui da molti anni. E sapevano che Marco si fidava
di loro. Pietro e Giuseppe erano due bravi segugi, due carabinieri incorruttibili; Antonino e Sofia avevano un dottorato in storia dell'arte, e con Minerva, che navigava in Rete, costituivano la spina dorsale della squadra di Marco. Ovviamente c'erano altri colleghi, ma la fiducia che Marco nutriva in questo gruppo era maggiore; e poi con gli anni erano diventati amici. Sofia pensò che passava più tempo al lavoro che a casa. Ovvio che poi lì non ci fosse nessuno ad aspettarla. Non si era sposata; si consolava dicendo a se stessa che non aveva avuto tempo: prima l'università, e poi il dottorato, l'ingresso nel Comando, i viaggi. Aveva da poco compiuto quarant'anni e si rendeva conto che la sua vita sentimentale era un disastro, perché non si raccontava storie: anche se ogni tanto andava a letto con Pietro, lui non avrebbe mai lasciato la moglie e lei stessa non era così sicura di volerlo. Stavano bene così, dividendo la stanza quando viaggiavano o andando qualche sera a cena insieme dopo il lavoro. Pietro l'accompagnava a casa, bevevano qualcosa, cenavano, andavano a letto, e verso le due o le tre lui discretamente si alzava e se ne andava. In ufficio cercavano di nascondere la cosa, ma Antonino, Giuseppe e Minerva lo sapevano, e Marco una volta aveva fatto loro presente che ormai erano abbastanza grandi per poter fare quello che volevano, anche se sperava che le questioni personali non pregiudicassero né l'affiatamento della squadra né il lavoro. Pietro e Sofia erano d'accordo di non lasciar trapelare qualunque dissapore tra loro all'interno del gruppo. Finora ce l'avevano fatta, ma va anche detto che i loro litigi erano stati minimi e sempre per idiozie, niente che non potessero sistemare. Entrambi sapevano che la relazione non poteva offrire di più e nessuno dei due si aspettava nulla. «Capo...» Marco si girò con un sussulto nel sentire la voce di Sofia. Era seduto a qualche metro dal reliquiario che custodiva la Sindone. Vedendola le sorrise e la prese per un braccio perché si sedesse accanto a lui. «È impressionante, vero?» «Sì, è davvero impressionante, e pensare che è un falso.» «Un falso? Io non lo affermerei con tanta decisione. Nella Sindone c'è qualcosa di misterioso, qualcosa che gli scienziati non sono riusciti a spiegare del tutto. La NASA ha stabilito che l'immagine dell'uomo è tridimensionale. Ci sono scienziati pronti ad assicurare che l'immagine è frutto di
una radiazione sconosciuta alla scienza, altri che le impronte sono resti di sangue.» «Marco, sai bene che la prova del carbonio 14 è irrefutabile. Il dottor Tite e i laboratorì che hanno lavorato alla datazione della Sindone non potevano permettersi errori. Il telo è del tredicesimo o quattordicesimo secolo, tra il 1260 e il 1390, e a stabilirlo sono stati tre laboratori diversi. La probabilità di errore è del cinque per cento. La Chiesa ha accettato il verdetto del radiocarbonio.» «Però continua a non essere chiaro come si è formata l'immagine sul tele. E ti ricordo che nelle foto tridimensionali sono state trovate alcune parole, vicino al volto c'è scritto tre volte INNECE.» «Sì, "Sarai condotto a morte".» «E sullo stesso lato, dall'alto in basso, verso l'interno ci sono diverse lettere: S N AZARE.» «Che si può leggere come NAZARENUS.» «In alto ci sono delle altre lettere, IBER...» «E certi credono che le lettere mancanti formino TIBERIUS.» «E il lepton?» «Le foto ingrandite mostrano dei cerchi sopra agli occhi, soprattutto nel destro si è potuto riconoscere una moneta.» «Cosa che a quel tempo si faceva per tenere chiusi gli occhi ai morti.» «E si può leggere...» «Unendo le lettere c'è chi sostiene di poter leggere TIBEPIOY CAICAROC, Tiberio Cesare, cioè l'iscrizione che compariva sulle monete coniate all'epoca di Ponzio Pilato. Erano in bronzo e al centro avevano il bastone degli indovini.» «Da brava storica, dottoressa, non dai niente per scontato.» «Marco, posso farti una domanda personale?» «Se non puoi tu, non può farlo nessuno.» «Sei credente? Ma credente sul serio. Tutti siamo cattolici, siamo italiani, e di quello che ti insegnano da bambino qualcosa rimane. Però avere fede è un'altra cosa, e a me sembra che tu ne abbia, e tu sia convinto che l'uomo della Sindone è Cristo e non ti importa un bel niente di quello che dicono i rapporti scientifici. Tu hai fede.» «Sai, dottoressa, la risposta è complicata. Non so bene in cosa credo e in cosa no. Potrei dirti diverse cose che la logica mi porta a rifiutare, e naturalmente le cose in cui credo hanno poco a che vedere con quelle che ordina la Chiesa, con ciò che chiamano fede. Ma questo telo ha qualcosa di
speciale, di magico, se vuoi, non è solo un pezzo di stoffa. Sento che qui c'è qualcosa d'altro.» Rimasero in silenzio, osservando il telo di lino con impressa l'immagine di un uomo che aveva sofferto gli stessi tormenti di Gesù. Un uomo che secondo gli studiosi e le misure antropometriche ottenute dal professor Judica Cordiglia pesava circa ottanta chili, raggiungeva il metro e ottantuno di altezza e aveva caratteristiche che non corrispondevano ad alcun gruppo etnico. Il duomo era chiuso al pubblico. Lo sarebbe rimasto per un po' e la Sindone sarebbe stata portata di nuovo nella cassaforte della Banca Nazionale. Era una decisione di Marco e il cardinale si era detto d'accordo. La Sacra Sindone costituiva il tesoro più prezioso del duomo, una delle grandi reliquie della Cristianità e, date le circostanze, sarebbe stata più al sicuro nei sotterranei della banca. Sofia strinse il braccio di Marco; voleva che non si sentisse solo, che sapesse che lei gli credeva. L'ammirava, aveva un'adorazione per lui, per la sua integrità, perché sapeva che dietro l'immagine da duro c'era un uomo sensibile, sempre disposto ad ascoltare, umile, che non faceva fatica a riconoscere ad altri nozioni superiori alle sue; era così sicuro di sé, che niente intaccava la sua autorevolezza. Quando discutevano sull'autenticità di un'opera d'arte Marco non imponeva mai la sua opinione, lasciava sempre che i membri del gruppo esponessero la propria, e Sofia sapeva che si fidava soprattutto di lei. Una volta la chiamava affettuosamente "genietto", per il suo curriculum accademico: dottorato in storia dell'arte, laurea in lingue morte, laurea in filologia italiana, parlava correntemente inglese, francese, spagnolo e greco, e il fatto di non essere sposata le aveva lasciato il tempo per studiare anche l'arabo: non lo padroneggiava alla perfezione, ma lo capiva e si faceva capire. Marco la guardò con la coda dell'occhio e si sentì confortato dal suo gesto. Pensò fosse un peccato che una donna come lei non avesse trovato un compagno. Era bella, molto bella, nemmeno lei si rendeva conto del suo fascino. Bionda, con gli occhi azzurri, slanciata, simpatica e intelligente, straordinariamente intelligente. Paola continuava a cercarle un compagno, ma aveva fallito la missione, con lei gli uomini si sentivano umiliati dalla sua superiorità. Marco non capiva come una donna così potesse avere una relazione stabile con il buon Pietro, ma Paola gli diceva che per Sofia era la cosa più comoda. Pietro era stato l'ultimo a entrare nel gruppo. Era nel Comando da dieci
anni. Un bravo investigatore, meticoloso, diffidente, che non si lasciava scappare un dettaglio per quanto piccolo fosse. Aveva lavorato molti anni nella squadra Omicidi e aveva chiesto il trasferimento perché, a quanto diceva, era stufo del sangue. A Marco fece subito una buona impressione quando glielo mandarono per un colloquio e perché gli trovasse un posto nel gruppo, date le sue continue lamentele che aveva bisogno di più gente. Marco si alzò seguito da Sofia. Si diressero verso l'altare maggiore, ci girarono intorno ed entrarono in sacrestia, dove in quel momento stava arrivando un sacerdote di quelli che lavoravano nella sede episcopale. «Ah, capitano Valoni, la stavo cercando! Sua Eminenza la vuole vedere, tra una mezz'ora arriverà il furgone blindato per trasferire la Sindone. Ci ha chiamato uno dei suoi uomini, un certo Antonino. Il cardinale continua a ripetere che non sarà tranquillo finché non la saprà in banca, e lei ha riempito il duomo di carabinieri e non si fa un passo senza incontrarne uno.» «Grazie, padre, fino a quel momento la Sacra Sindone sarà protetta e poi la seguirò personalmente con il furgone blindato.» «Sua Eminenza desidera che padre Yves, quale rappresentante della curia vescovile, accompagni la Sindone fino alla banca e si occupi di tutte le pratiche per la sua custodia.» «Va bene, padre, non c'è problema. Dov'è il cardinale?» «Nel suo studio, vuole che l'accompagni?» «Non ce n'è bisogno, la dottoressa e io conosciamo la strada.» Marco e Sofia entrarono nello studio del cardinale e lo trovarono nervoso, come a disagio. «Ah, Marco, entri, entri! E la dottoressa Galloni! Accomodatevi.» «Eminenza» disse Marco «la dottoressa e io andremo in banca con la Sindone, so che verrà anche padre Yves...» «Sì, sì ma non era per questo che volevo vederla. Deve sapere che in Vaticano sono molto preoccupati. Monsignor Aubry mi ha riferito che il papa è turbato per questo nuovo incendio e mi ha chiesto di fargli sapere tutto ciò che si scoprirà affinché possa tenere informato il Santo Padre. Per questo la prego, Marco, di informarmi sempre sulle indagini perché a mia volta possa metterne al corrente il monsignore. Naturalmente potrà contare sulla nostra discrezione, sappiamo quanto sia importante in questi casi.» «Eminenza, non sappiamo ancora nulla. L'unica cosa che abbiamo è un corpo senza lingua all'obitorio. Un uomo sulla trentina, senza identità. Non
sappiamo se sia italiano o svedese.» «A me sembra che quello che si trova nel carcere di Torino sia italiano.» «Come mai?» «Per l'aspetto: bruno, non molto alto, pelle olivastra...» «Eminenza, questo biotipo corrisponde a mezza umanità.» «Sì, ha ragione. Comunque, Marco, le dispiacerebbe tenermi aggiornato? Le darò il mio numero di casa e del cellulare perché mi possa rintracciare a ogni ora del giorno o della notte, nel caso scoprisse qualche elemento importante.» Il cardinale scrisse i numeri su un biglietto che consegnò a Marco e che lui mise in tasca. Naturalmente Marco non pensava di informarlo sui passi alla cieca che stava facendo. Non avrebbe svelato le sue indagini all'arcivescovo di Torino perché questi le riferisse a monsignor Aubry che, a sua volta, le avrebbe raccontate al sostituto del segretario di Stato, il quale ne avrebbe parlato con il segretario di Stato e il segretario di Stato con chissà chi, oltre che con il papa. Tuttavia non disse nulla, e annuì come se fosse d'accordo. «Marco, quando la Sindone sarà al sicuro nel caveau della banca, lei e padre Yves fatemelo sapere.» Marco sollevò un sopracciglio, perplesso. Il cardinale lo trattava come se lavorasse per lui. Decise di non rispondere a quella che considerava un'insolenza e si alzò, seguito da Sofia. «Noi andiamo, Eminenza. Il furgone blindato dovrebbe arrivare a momenti.» 5 I tre uomini riposavano sulle brande, ciascuno perso nei suoi pensieri. Avevano fallito e nei giorni seguenti avrebbero dovuto andarsene. Torino era diventata un luogo pericoloso. Il loro compagno era morto tra le fiamme e probabilmente l'autopsia avrebbe rivelato che non aveva la lingua. Nessuno di loro l'aveva. Cercare di tornare nel duomo sarebbe stato un suicidio, l'uomo che lavorava nella sede episcopale aveva raccontato loro che ovunque c'erano carabinieri che interrogavano tutti e che non si sarebbe rilassato finché non fossero spariti. Se ne sarebbero andati, ma dovevano restare ancora nascosti almeno un paio di giorni, fino a quando i carabinieri non avessero abbassato la guardia e i mezzi di comunicazione non fossero corsi in massa altrove, sul luo-
go di qualche altra disgrazia. La cantina puzzava di umidità e c'era appena lo spazio per camminare. L'uomo del palazzo episcopale aveva lasciato provviste per tre o quattro giorni dicendo che non sarebbe tornato finché non fosse stato sicuro del cessato pericolo. Erano passati due giorni che erano sembrati un'eternità. A migliaia di chilometri di distanza da quella cantina, a New York, in un edificio di vetro e acciaio, in un ufficio insonorizzato e dotato delle più avanzate misure di sicurezza per garantire la privacy, sette uomini brindavano con un bicchiere di borgogna all'insuccesso degli altri. Questi sette uomini, di età compresa tra i cinquanta e i settant'anni, elegantemente vestiti, avevano analizzato in dettaglio tutte le informazioni in loro possesso sull'incendio di Torino. La loro fonte non erano i giornali né la televisione; disponevano di un rapporto di prima mano meticolosamente redatto dalla figura vestita di nero che si era nascosta nel pulpito durante l'incendio. Si sentivano sollevati, esattamente come era accaduto ai loro predecessori in altre occasioni, ogniqualvolta avevano evitato che gli uomini senza lingua si avvicinassero alla Sindone. Il più anziano alzò leggermente la mano e gli altri si disposero ad ascoltare. «L'unica cosa che mi preoccupa è quello che ci dicono di quel carabiniere, il responsabile del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Se ha l'ossessione della Sindone può finire per trovare una pista che lo porti fino a noi.» «Bisognerà rafforzare tutte le misure di sicurezza e fare in modo che i nostri si confondano con l'ambiente. Ho parlato con Paul, cercherà di ottenere informazioni sui passi che farà quel Marco Valoni, ma non sarà facile, perché qualunque intoppo può farci scoprire. Secondo me, Gran Maestro, dovremmo starcene tranquilli e non fare nulla, a parte osservare.» A pronunciare queste parole era stato un uomo alto e atletico, poco più che cinquantenne, con i capelli grigi e il viso scolpito come quello di un imperatore romano. Il più anziano, che ricopriva il titolo di Gran Maestro, annuì. «Qualche suggerimento?» Tutti si dichiararono d'accordo sul non fare nulla e osservare da lontano i passi che avrebbe compiuto Valoni. Decisero di mettersi in contatto con questo Paul perché non esagerasse nel cercare informazioni. Uno degli assistenti, un uomo di costituzione robusta e statura media,
con un leggero accento francese, domandò: «Ci riproveranno?». L'anziano rispose senza esitare: «No, non subito. Innanzi tutto, cercheranno di uscire dall'Italia e poi di mettersi in contatto con Addaio. Per farlo, se hanno fortuna e ci riescono, ci vorrà tempo. Addaio ci metterà un po' a dare un nuovo ordine». «L'ultima volta è stato due anni fa» disse l'uomo che ricordava un imperatore romano. «E noi continueremo a esserci, come è sempre stato. Adesso stabiliamo il nostro prossimo incontro e cambiamo i codici.» 6 Josar seguiva il Nazareno ovunque. I discepoli di Gesù si erano abituati alla sua presenza e a volte lo invitavano a dividere con loro qualche momento di riposo. Gli rivelarono che Gesù sapeva che sarebbe morto ma, nonostante le raccomandazioni e i consigli perché scappasse, insisteva di dover compiere la volontà del Padre. Era difficile capire che il Padre volesse la morte del Figlio, ma Gesù lo diceva con tale serenità che sembrava una cosa naturale. Quando Gesù lo vedeva, gli dimostrava amicizia. Un giorno aveva detto: "Josar, io devo seguire il mio destino, per questo sono stato inviato dal Padre, ma anche tu hai una missione da compiere. Per questo sei qui, testimonierai quello che sono e ciò che hai visto, e mi avrai vicino quando non ci sarò più". Josar non aveva compreso le parole del Nazareno, ma non aveva osato fare domande o contraddirlo. Negli ultimi giorni le voci si erano fatte insistenti. I sacerdoti volevano che i romani risolvessero il problema di Gesù il Nazareno mentre Pilato, il governatore, cercava a sua volta che fossero gli ebrei a giudicare colui che era pur sempre uno di loro. Che gli uni o gli altri perpetrassero il crimine era ormai solo questione di tempo. Gesù era andato nel deserto. Lo faceva spesso. In questa occasione aveva digiunato, preparandosi, aveva detto, per affrontare il disegno del Padre. Una mattina Josar fu svegliato dal padrone della casa in cui alloggiava. «Hanno preso il Nazareno.» Balzò dal letto e si strofinò gli occhi; avvicinatosi a un'anfora che stava in un angolo della stanza, si gettò dell'acqua sul viso per svegliarsi. Poi prese il mantello e si diresse verso il Tempio. Lì trovò uno dei discepoli di Gesù che ascoltava timoroso tra la folla.
«Cos'è successo, Giuda?» Giuda scoppiò a piangere, cercando di scappare da Josar, ma questi lo raggiunse e lo afferrò per una spalla. «Ma che succede? Perché scappi da me?» Giuda, con gli occhi bagnati di lacrime, cercava inutilmente di liberarsi dalla stretta di Josar e alla fine rispose. «Lo hanno preso. I romani l'hanno portato via, lo crocifiggeranno, e io...» Le lacrime gli scendevano lungo le guance come a un bambino. Ma Josar, stranamente, non si impietosì e continuò a stringerlo con forza perché non scappasse. «Sono stato io a tradirlo, Josar. Ho tradito il migliore fra tutti gli uomini. Per trenta denari d'argento l'ho consegnato ai romani.» Josar lo allontanò e uscì di corsa, accecato dalla rabbia, senza sapere bene dove andare. Ancora sulla piazza del Tempio s'imbatté in un uomo che aveva visto qualche volta ascoltare le prediche di Gesù. «Dov'è?» gli chiese con un filo di voce. «Il Nazareno? Sarà crocifisso. Pilato accontenta così i sacerdoti.» «Ma di cosa lo accusano?» «Dicono che bestemmia proclamandosi il Messia.» «Ma Gesù non ha mai bestemmiato, non ha mai affermato di essere il Messia. È il migliore degli uomini.» «Fa' attenzione, tu lo seguivi, qualcuno ti potrebbe denunciare.» «Anche tu lo seguivi.» «Certo, è per questo che ti do questo consiglio. Noi che abbiamo seguito il Nazareno non siamo al sicuro.» «Dimmi almeno dove posso trovarlo, dove lo porteranno...» «Morirà venerdì prima del tramonto.» Il volto di Gesù rifletteva il dolore del supplizio. Sul capo gli avevano conficcato una corona di spine che gli penetrava nella fronte. Il sangue gli scorreva sul viso fino a impregnargli la barba. Josar contava mentalmente i colpi di flagello con cui due soldati romani stavano infierendo su Gesù. Centoventi. Trascinava la croce su cui sarebbe stato crocifisso e il suo peso, unito al dolore delle frustate, aveva il sopravvento e lo costringeva a piegare le ginocchia sui sassi della strada. Josar fece un passo per sorreggerlo, ma un soldato lo allontanò con uno
spintone. Gesù lo guardò con riconoscenza. Lo seguì fino alla sommità della collina dove sarebbe stato crocifisso vicino ad altri colpevoli. Sentì gli occhi annegare nelle lacrime quando vide un soldato mettere Gesù sulla croce e, dopo avergli preso la mano sinistra all'altezza del polso, fissarlo al legno con un chiodo. Quindi ripeté lo stesso gesto con la mano destra, ma il chiodo non riuscì a trapassare il polso al primo colpo, com'era avvenuto con l'altra mano. Il soldato dovette fare altri due tentativi prima che il chiodo arrivasse al legno. I piedi furono inchiodati insieme, sovrapponendo il sinistro al destro. Il tempo sembrava non finire, e Josar invocava Dio perché Gesù morisse prima possibile. Lo vedeva soffrire, in preda all'asfissia. Giovanni, il discepolo prediletto, piangeva in silenzio per il supplizio del suo Maestro. Anche Josar non poteva trattenere le lacrime. Un soldato conficcò la lancia nel costato di Gesù e dalla ferita sgorgarono parecchio sangue e acqua. Era spirato, e Josar rese grazie a Dio. Quel venerdì di aprile la primavera sembrava avvolta in nuvole cariche di tempesta. Quando deposero il corpo del Nazareno dalla croce, ebbero appena il tempo di comporto come si doveva. Josar sapeva che la legge ebraica obbligava a interrompere qualsiasi lavoro, persino la vestizione di un cadavere, quando il sole stava per tramontare. Inoltre, essendo Pasqua, bisognava seppellire il cadavere quello stesso giorno. Josar, con gli occhi velati di lacrime, assisteva immobile alla preparazione del cadavere, osservando come Giuseppe di Arimatea avvolgeva il corpo di Gesù con un telo di lino fine e delicato dalla forma rettangolare. Quella notte Josar non dormì, e non riuscì a riposare nemmeno il giorno successivo, talmente forte era il dolore della sua anima. Al terzo giorno dalla crocifissione di Gesù, si diresse verso il luogo dove era stato deposto il suo corpo. Lì trovò Maria, la madre di Gesù, e Giovanni, il discepolo prediletto, che insieme ad altri dei suoi seguaci gridavano che il corpo del Maestro era sparito. Nel sepolcro, sopra la pietra dove avevano deposto il cadavere, restava il telo nel quale Giuseppe di Arimatea lo aveva avvolto e che nessuno dei presenti osava toccare. La legge ebraica proibiva il contatto con oggetti impuri, e i resti di un morto lo erano. Josar lo raccolse. Lui non era ebreo e i divieti della legge non lo riguardavano. Strinse il telo contro il suo corpo e si sentì invadere dalla pace. Sentiva il Maestro, abbracciare quella semplice pezza era come abbraccia-
re lui. In quel momento capì ciò che doveva fare. Avrebbe predisposto il rientro a Edessa e consegnato ad Abgar il sudario di Gesù perché guarisse. Ora capiva quello che gli aveva detto il Maestro. Uscì dal sepolcro con il sudario piegato sul braccio e respirò l'aria fresca cercando la strada verso la locanda per lasciare Gerusalemme prima possibile. A Edessa il caldo di mezzogiorno spingeva gli abitanti ad aspettare in casa il calare della sera. La regina stava appoggiando dei panni umidi sulla fronte di Abgar e lo tranquillizzava assicurandogli che la malattia non gli aveva ancora consumato la pelle. Ania, la ballerina, era un relitto umano. Aveva ormai lasciato da tempo la città, ma Abgar non aveva voluto abbandonarla alla sua disgrazia e le mandava dei viveri nella caverna dove si era rifugiata. Quella mattina, uno dei suoi uomini, tornando indietro dopo aver lasciato vicino alla caverna un sacco pieno di cereali e un otre di acqua fresca, la vide. Una volta rientrato raccontò al re che quello che prima era un bel volto era diventato una massa informe e scarnificata. Abgar non aveva voluto ascoltare oltre e si era rifugiato nelle sue stanze dove, preso dall'orrore, era stato assalito da una febbre che lo faceva delirare. La regina aveva cura di lui e non permetteva a nessuno di avvicinarsi. Alcuni nemici del re avevano cominciato a cospirare per sostituirlo e la tensione aumentava con il passare dei giorni. Il peggio era che non avevano più avuto notizie di Josar. Era rimasto con il Nazareno e anche se Abgar si lamentava del fatto che l'amico lo avesse abbandonato, la regina lo esortava ad avere fiducia in lui. Ma in quel momento anche la sua fiducia vacillava. «Mia regina! È tornato Josar!» La serva era entrata gridando nella stanza dove Abgar sonnecchiava, mentre la sovrana gli faceva fresco con un ventaglio. «Josar? Dov'è?» La regina uscì di corsa sotto lo sguardo attonito di quanti incrociava, soldati e cortigiani, e andò incontro a Josar. Il suo fedele amico, ancora coperto dalla polvere del viaggio, tese le mani verso di lei. «Josar, l'hai portato? Dov'è il Nazareno?» «Mia regina, il re guarirà.» «Ma dov'è, Josar? Dimmi dove si trova il Giudeo.»
Dalla voce della regina trapelava la disperazione a lungo repressa. «Conducetemi da Abgar.» La voce di Josar era forte e decisa, e i presenti ne rimasero impressionati. La regina lo guidò fino alle stanze dove giaceva Abgar. Il re socchiuse gli occhi, e nel vedere Josar sospirò sollevato. «Sei tornato, mio buon amico.» «Sì, Abgar, e ora guarirai.» Sulla porta della stanza, la guardia del re impediva l'accesso ad alcuni cortigiani curiosi che non volevano perdersi la scena dell'incontro del re con il suo migliore amico. Josar aiutò Abgar a mettersi seduto e gli consegnò il lino, che il re strinse a sé senza sapere cosa fosse. «Ecco Gesù e, se credi, guarirai. Lui stesso mi ha detto che saresti guarito e mi manda a te con questo incarico.» La fermezza delle parole di Josar, la sua convinzione, riuscirono a infondere sicurezza in Abgar, che strinse ancora più forte il telo contro il suo corpo. «Sì, credo» disse Abgar. E il suo cuore era sincero. Fu allora che avvenne il miracolo. Il volto del re riprese colore e i segni della malattia svanirono. Abgar sentì le forze scorrergli nelle vene mentre una sensazione di pace invadeva il suo spirito. La regina piangeva in silenzio, turbata dal prodigio, mentre i soldati e i cortigiani ammassati sulla soglia della stanza non sapevano spiegarsi la guarigione del re. «Abgar, Gesù ti ha guarito proprio come aveva promesso. Questo è il lenzuolo in cui è stato avvolto il suo corpo; perché devi sapere, mio signore, che Pilato, con la complicità dei sacerdoti ebrei, ha ordinato che venisse crocifisso e, prima ancora, torturato. Ma non essere addolorato perché Egli è tornato al Padre e da lì dove si trova aiuterà noi e tutti gli uomini fino alla fine dei tempi.» Il miracolo della guarigione del re percorse tutte le strade come fosse polvere. Abgar chiese a Josar di parlargli di Gesù per fare propri gli insegnamenti del Nazareno. Lui, la regina e tutti i sudditi avrebbero abbracciato la religione di Gesù: ordinò pertanto che venissero smantellati i templi e chiese a Josar di predicare a lui e al suo popolo perché diventassero bravi seguaci del Nazareno. Josar predicò dunque ad Abgar e agli abitanti di Edessa come discepolo di Gesù, e in città non ci fu altra religione che quella del Nazareno.
«Che ne faremo del sudario, Josar?» «Mio signore, devi trovare un luogo sicuro dove metterlo. Gesù te l'ha mandato perché guarissi e dobbiamo conservarlo facendo in modo che non subisca danni. Molti dei tuoi sudditi mi chiedono di poter toccare il lino e devo dirti che ha compiuto altri miracoli.» «Ordinerò che venga eretto un tempio, Josar.» «Sì, mio signore.» Ogni giorno, nell'ora in cui il sole spuntava a oriente, Josar approfittava delle prime luci per mettersi a scrivere. Voleva lasciare una testimonianza dei miracoli compiuti da Gesù ai quali aveva assistito e di quanto gli amici del Maestro gli avevano raccontato quando aveva vissuto a Gerusalemme. Più tardi, Josar si recava a palazzo e parlava ad Abgar, alla regina e a molti altri di ciò che sapeva degli insegnamenti del Nazareno. Vedeva lo stupore nei loro volti quando predicava che non bisogna odiare né volere il male del nemico. Gesù aveva insegnato a porgere l'altra guancia. Oltre ad Abgar, Josar contava sulla fede della regina per aiutarlo ad accogliere il seme degli insegnamenti di Gesù. Ben presto Edessa divenne cristiana e Josar inviava missive ad alcuni dei discepoli di Gesù che come lui portavano la buona novella attraverso paesi e città. Quando Josar ebbe finito di scrivere la storia del Nazareno, Abgar ne ordinò diverse copie ai suoi scribi affinché gli uomini non dimenticassero mai la vita e le prediche di quel giudeo straordinario che lo aveva guarito dopo la morte. 7 Mentre parcheggiava la macchina, Marco pensò che forse stava perdendo tempo. Due anni prima non era riuscito a cavare un bel niente dal muto. Avevano fatto ricorso a uno specialista che, dopo averlo esaminato, li aveva rassicurati sul fatto che ci sentiva bene e non c'era alcuna causa fisica che gli impedisse di udire. Comunque il muto restava talmente chiuso in se stesso che era difficile capire se li sentisse o meno. Magari adesso sarebbe successa la stessa cosa, però a Marco sembrava giusto vederlo, indagare su ciò che poteva celarsi dietro quell'uomo misterioso e senza impronte. Il direttore del carcere non c'era, ma aveva dato ordini precisi perché qualunque richiesta di Marco venisse accolta; quello che lui chiese fu di
essere lasciato solo con il muto. «Non c'è problema» gli rispose il capo delle guardie «è un tipo tranquillo. Non crea difficoltà, e poi è un po' mistico, gli piace starsene nella cappella invece di uscire per l'ora d'aria con gli altri. Non gli manca molto per lasciare il carcere; non avendo provocato danni gravi, gli hanno dato tre anni. Per cui ancora uno e poi via, fuori. Se avesse un avvocato avrebbe già chiesto la condizionale per buona condotta, invece non c'è nessuno che si occupi di lui.» «Quando gli parlano, capisce?» «Ah! Questo è un mistero. A volte sembra di sì, altre di no. Dipende.» «Be', non è che mi stia dando un grande aiuto.» «Il fatto è che quell'uomo è particolare, cioè non sembra un ladro. Molti anni fa, avevamo avuto un altro muto ed era diverso, non so, si vedeva che era un delinquente. Questo invece, come le dicevo, passa il tempo guardando la facciata o in cappella.» «Non ha mai chiesto qualcosa da leggere, qualche giornale?» «No, mai, e non vede nemmeno la tivù, non gli interessano neanche le partite dei Mondiali. Non riceve lettere né scrive a qualcuno.» Quando il muto entrò nella stanza dove Marco lo stava aspettando, i suoi occhi non lasciarono trasparire alcuna sorpresa, solo indifferenza. Rimase in piedi, vicino alla porta, con lo sguardo basso, in attesa. Marco gli fece cenno di sedersi, ma il muto restò in piedi. «Non so se lei mi senta o meno, ma io sospetto di sì.» Il muto sollevò appena gli occhi da terra, con un gesto impercettibile per chiunque non fosse un professionista della condizione umana, e Marco lo era. «I suoi amici hanno cercato di nuovo di rubare nel duomo. Questa volta hanno provocato un incendio. Per fortuna la Sindone è rimasta intatta.» Il muto manteneva un rigoroso controllo delle emozioni e il suo viso restava immobile senza sforzo. Tuttavia Marco aveva l'impressione di non andare poi tanto alla cieca perché quell'uomo, in carcere da due anni, era più vulnerabile rispetto ai tempi dell'arresto. «Immagino che debba essere snervante stare qui. Non le farò perdere tempo perché non voglio perderne nemmeno io. Le restava ancora un anno di pena da scontare, e dico "le restava" perché abbiamo riaperto il suo caso per via delle indagini sull'incendio di qualche giorno fa. Un uomo è morto bruciato, ed era muto come lei. Ragion per cui l'aspetta un lungo periodo in prigione, finché non avremo terminato le indagini e tirato le somme, e
questo in termini di tempo può significare due, tre, quattro anni, non lo so. Ecco perché sono qui. Se lei mi dice chi è e chi sono i suoi amici magari possiamo trovare un accordo. Cercherei di farle dare la condizionale e lei diventerebbe un testimone protetto. Questo significherebbe avere una nuova identità e non essere mai più rintracciato dai suoi amici. Ci pensi. Posso metterci un giorno o dieci anni a risolvere questo caso, ma finché rimane aperto lei marcirà in prigione.» Marco gli diede un biglietto con i suoi recapiti telefonici. «Se vuole farmi sapere qualcosa, faccia vedere questo biglietto alle guardie e loro mi chiameranno.» Visto che il muto non allungò la mano per prendere il biglietto da visita, Marco decise di lasciarlo sul tavolo al centro della stanza. «Faccia come crede. È la sua vita, non la mia.» Uscendo, Marco resistette alla tentazione di voltarsi. Aveva recitato la parte del duro e delle due cose una: o era stato ridicolo perché il muto non aveva sentito niente, oppure, al contrario, era riuscito a seminare incertezza nell'uomo che forse avrebbe potuto reagire. Ma l'aveva sentito? Capiva l'italiano? Lui non lo sapeva. In certi momenti gli era sembrato di sì, però poteva anche sbagliarsi. Quando il muto rientrò nella sua cella si buttò sulla branda mettendosi a guardare il soffitto. Sapeva che le telecamere di sicurezza spiavano ogni angolo, per cui doveva continuare a mostrarsi impassibile. Un anno, gli mancava un anno per riconquistare la libertà e adesso questo carabiniere gli diceva che non doveva neppure sognarsi di uscire. Magari era un bluff, ma poteva anche essere la verità. Dal momento che per scelta non guardava la televisione con gli altri carcerati, restava tagliato fuori dalle notizie dall'esterno. Addaio aveva detto che nel caso li avessero presi avrebbero dovuto separarsi, scontare la condanna e cercare il modo di tornare a casa. Ora Addaio aveva mandato un altro gruppo, ci aveva riprovato. Un incendio, un compagno morto e di nuovo la polizia che cerca qualche pista, disorientata. In carcere aveva avuto tempo per pensare e la conclusione era chiara: fra loro c'era un traditore, non era possibile che ogni volta che programmavano l'azione qualcosa andava storto e finivano in manette o tra le fiamme. Sì, nelle loro file c'era un traditore come c'era stato nel passato. Ne era certo. Doveva tornare a casa e convincere Addaio a indagare per scoprire il
colpevole di tanti fallimenti, della sua disgrazia. Ma per quanto gli costasse, doveva aspettare. Se quel carabiniere era venuto a proporgli un accordo era perché non aveva niente in mano, altrimenti lui si sarebbe ritrovato in un tribunale. Era un bluff, e lui non poteva cedere. La forza gli veniva dal mutismo e dal rigoroso isolamento che si era imposto. Era stato addestrato per questo, ma che sofferenza in questi due anni, senza leggere un libro, senza avere notizie dall'esterno, senza comunicare, se non a gesti, con gli altri. I secondini e le guardie si erano convinti che fosse un poveraccio inoffensivo, che si era pentito di aver tentato di rubare nel duomo e perciò andava in cappella a pregare. Era quello che sentiva dire quando parlavano di lui. Sapeva di far loro pena. Adesso doveva continuare a recitare la parte di chi non solo non comunica ma nemmeno sente o capisce, insomma la parte del disgraziato, e aspettare che perdessero ogni diffidenza e parlassero in sua presenza. Lo facevano sempre perché per loro lui era una specie di mobile. Aveva lasciato apposta sul tavolo della sala visite il biglietto da visita che gli aveva dato il poliziotto. Non l'aveva nemmeno sfiorato. E adesso non gli restava che aspettare, aspettare che passasse un altro maledetto anno. «Ha lasciato lì il biglietto, senza nemmeno toccarlo.» «E in questi giorni avete notato qualcosa di speciale?» «Niente, continua a essere quello di sempre. Va in cappella nell'ora d'aria e per il resto se ne sta in cella a guardare il soffitto. Le telecamere della sicurezza lo riprendono ventiquattr'ore su ventiquattro. Dovesse fare qualcosa di diverso, ti chiamo.» «Grazie.» Marco riattaccò. Il suo presentimento non aveva funzionato. Era convinto che il muto avrebbe reagito, ma il direttore del carcere gli aveva appena assicurato che non si era verificato alcun cambiamento. Provava una certa irritazione perché le indagini non procedevano. Stava per arrivare Minerva. Marco le aveva chiesto di venire a Torino perché voleva fare una riunione con tutto il gruppo e vedere, tutti insieme, cosa si poteva scoprire. Si sarebbero fermati ancora due o tre giorni. Poi avrebbero dovuto fare ritorno a Roma; lui non poteva dedicarsi esclusivamente a questo caso, al Comando non l'avrebbero capito, ai ministeri nemmeno e la cosa peggiore
che potesse capitargli era che lo credessero fissato. I grandi capi non avrebbero compreso. La Sacra Sindone era intatta, non aveva subito danni, dal duomo non era stato portato via niente. C'era il cadavere di uno dei ladri; non lo si era potuto identificare, ma del resto la cosa non sembrava importare troppo a nessuno. Entrarono in ufficio Sofia e Pietro. Giuseppe era andato a prendere Minerva all'aeroporto e Antonino, sempre puntuale, era intento già da un po' alla lettura di alcune carte. «Novità, capo?» chiese Sofia, come saluto. «Nessuna, il direttore del carcere mi ha assicurato che il muto non si è minimamente scomposto, come se non mi avesse visto.» «È normale» notò Pietro. «Sì, credo di sì.» In quel momento una risata e il rumore di tacchi annunciarono l'arrivo di Minerva. Entrò con Giuseppe, ridendo. Minerva, di statura media, né grassa né magra, né bella né brutta, sembrava sempre di buonumore. Era felicemente sposata con un ingegnere informatico che, come lei, era un vero genio dell'office automation. Dopo i saluti di rito, ebbe inizio la riunione. «Bene» disse Marco «ricapitoliamo un attimo, e poi vorrei un parere da ognuno di voi. Pietro...» «L'impresa che sta realizzando i lavori nel duomo si chiama COCSA. Ho interrogato tutti gli operai impegnati nel rifacimento dell'impianto elettrico, non sanno nulla e mi sembra che dicano la verità. Per la maggior parte sono italiani, anche se c'è qualche immigrato: due turchi e tre albanesi. Sono in regola con i documenti, permessi di lavoro compresi. «A sentire loro arrivano al duomo alle otto e mezzo, quando finisce la prima messa. Non appena i fedeli sono usciti, le porte vengono chiuse e non ci sono altre funzioni fino alle sei del pomeriggio, l'ora in cui gli operai se ne vanno. «Anche se l'impianto elettrico non è molto vecchio, lo stanno cambiando per illuminare meglio alcune cappelle del duomo. Stanno anche sistemando qualche scrostamento nelle pareti dovuto all'umidità. Secondo i loro calcoli dovrebbero terminare nel giro di due o tre settimane. «Il giorno dell'incendio non ricordano sia successo nulla di speciale. Nella zona dove sono divampate le fiamme stavano lavorando uno dei turchi, Tarik, e due operai italiani. Non sanno spiegarsi come si sia potuto verificare il cortocircuito. Tutti e tre assicurano di aver lasciato i cavi in per-
fetto ordine prima di uscire per andare a mangiare in una trattoria vicino al duomo. Non si spiegano ancora come sia successo.» «Però è successo» fece notare Sofia. Pietro la guardò storto e proseguì: «Gli operai sono contenti dell'impresa. Dicono di essere pagati bene e trattati correttamente. Mi hanno riferito che chi supervisiona i lavori in duomo è padre Yves, che è molto gentile ma non si lascia scappare nulla e ha le idee perfettamente chiare su come va fatto il lavoro. Il cardinale lo vedono quando celebra la messa delle otto, e in un paio di occasioni ha controllato i lavori con padre Yves». Marco accese una sigaretta nonostante l'occhiata di rimprovero di Minerva. «Eppure, la relazione dei periti è inequivocabile» proseguì Pietro. «Alcuni cavi che pendevano sopra l'altare della cappella della Vergine hanno fatto contatto e da lì è partito l'incendio. Una disattenzione? Gli operai mi hanno garantito di aver lasciato i cavi raccolti, in condizioni perfette, ma sarà vero o lo dicono per giustificarsi? Ho interrogato padre Yves. Mi ha assicurato che gli operai gli erano sembrati molto professionali sul lavoro, ma è convinto che qualcuno abbia commesso un errore.» «Chi c'era nel duomo in quel momento?» chiese Marco. «A quanto pare» proseguì Pietro «negli uffici lavorano fino alle due, poi vanno a mangiare e tornano verso le tre e mezzo. L'incendio è scoppiato intorno alle tre, quando anche gli operai erano in pausa e c'era solo il custode, un uomo di sessantacinque anni. Ancora sotto choc. Mentre lo stavo interrogando si è messo a piangere, era molto spaventato. Si chiama Francesco Turgut, di padre turco e madre italiana. È nato a Torino. Il padre lavorava alla FIAT e la madre era la figlia del precedente custode del duomo, e aiutava la propria madre a pulire la navata. I custodi dispongono di un'abitazione adiacente all'edificio, e quando i suoi si sono sposati, per mancanza di mezzi si sono sistemati con i suoceri in questo alloggio. Francesco è nato lì, il duomo è la sua casa e dice di sentirsi in colpa per non essere riuscito a evitare l'incendio.» «Ha sentito qualcosa?» chiese Minerva. «No, stava guardando la televisione ed era mezzo addormentato. Si alza molto presto per aprire il duomo e gli uffici. Dice di aver fatto un salto quando hanno suonato il campanello e un uomo che camminava in piazza l'ha avvisato del fumo che usciva dall'edificio. È accorso subito e ha trovato l'incendio, ha chiamato i pompieri e da quel momento è sconvolto, praticamente non fa che piangere.»
«Pietro, credi che l'incendio sia stato doloso o sia dovuto a una negligenza?» La domanda di Marco lo sorprese. «Se non avessimo trovato il cadavere di un muto ti direi che si è trattato di una negligenza. Ma abbiamo il corpo senza vita di un uomo di cui non sappiamo nulla. Che cosa ci faceva lì? Come era entrato? Il custode dice di aver fatto il giro prima di chiudere e che non c'era nessuno. Una parte del suo lavoro consiste proprio nell'assicurarsi che nessuno resti all'interno. Giura che quando ha spento le luci il duomo era vuoto.» «Potrebbe essersi sbagliato, è anziano» rifletté Sofia. «Oppure mente» intervenne Pietro. «Qualcuno è entrato dopo la chiusura» disse Giuseppe. «Sì» convenne Pietro. «Effettivamente qualcuno ha forzato la porta laterale che conduce agli uffici, e da cui si può accedere al duomo. Quell'uomo sapeva da dove entrare e come arrivare. Prova ne è che lo ha fatto senza rumore, senza attirare l'attenzione e quando sapeva che negli uffici non c'era nessuno.» «Siamo sicuri» disse Giuseppe «che il ladro, o i ladri, conoscono qualcuno che lavora nel duomo o vi è legato. Qualcuno in grado di avvisarli che quel giorno a quell'ora non ci sarebbe stata anima viva.» «Perché ne siete così sicuri?» chiese Minerva. «Perché in questo incendio» proseguì Pietro «come nel tentativo di furto di due anni fa, nell'incendio del '97 e negli altri incidenti, i ladri sapevano sempre che all'interno non c'era nessuno. Oltre a quella principale aperta al pubblico, c'è una sola entrata ed è quella degli uffici, perché gli altri ingressi al duomo sono ciechi. E hanno forzato sempre quello laterale. La porta è blindata, ma per dei professionisti non è un problema. Riteniamo che con il nostro muto morto ci fossero altre persone e che siano scappate. Assaltare un duomo non è una cosa che si può fare da soli. Abbiamo anche appurato che tutti gli assalti falliti vengono realizzati quando sono in corso dei lavori. Ne approfittano per provocare un cortocircuito, un'inondazione, il caos. Ma anche questa volta non hanno portato via niente. E allora continuiamo a chiederci: cosa cercavano?» «La Sindone» affermò Marco senza ombra di dubbio «ma perché? Per distruggerla? Per rubarla? Non lo so. Mi chiedo se il fatto di forzare la porta non sia una falsa pista che ci hanno lasciato. È troppo evidente... non so. Minerva, tu cos'hai scoperto?» «Posso aggiungere che nell'impresa dei lavori, la COCSA, ha una parte-
cipazione Umberto D'Alaqua. Ne ho già parlato con Sofia. È un'impresa seria, che lavora per la Chiesa a Torino e nel resto d'Italia. D'Alaqua è conosciuto e stimato dal Vaticano. È una specie di consulente finanziario, ha consigliato grandi investimenti e concesso ingenti prestiti per operazioni in cui il Vaticano non voleva comparire. È uomo di fiducia della Santa Sede che ha partecipato anche a delicate missioni diplomatiche. I suoi affari vanno dall'edilizia all'acciaio, passando per le prospezioni petrolifere eccetera. La sua partecipazione nella COCSA è consistente. «Ed è anche un uomo interessante. Un affascinante scapolo di cinquantasette anni, austero. Non fa mai sfoggio dei soldi o del potere che ha. Non lo si è mai visto a una festa del jet set, né gli si conoscono fidanzate.» «Omosessuale?» chiese Sofia. «No, nemmeno. Non fa neanche parte dell'Opus Dei o di qualche ordine laico, ma è come se avesse fatto voto di castità. La sua passione è l'archeologia: ha finanziato diversi scavi in Israele, Egitto e Turchia, ed è addirittura andato per qualche periodo a scavare in Israele.» «Non mi sembra che con questo curriculum D'Alaqua possa rientrare tra i sospetti che vogliono rubare o distruggere la Sindone» fece notare Sofia. «No, però è un tipo strano» insistette Minerva. «Come lo è il dottor Bolard. Sai, capo, questo professore è uno stimato scienziato francese. Chimico e microanalista, è uno dei più quotati studiosi della Sindone. Sono più di trentacinque anni che la studia, verificandone lo stato. Viene a Torino ogni tre o quattro mesi, è uno degli scienziati a cui la Chiesa ha affidato la conservazione della Sindone. Non si fa un passo senza consultarlo.» «Esatto» disse Giuseppe. «Prima di trasportare la Sindone in banca, padre Yves ha parlato con Bolard e lui gli ha dato precise istruzioni su come organizzare il trasferimento. Nel caveau da anni c'è un piccolo locale che è stato allestito seguendo le istruzioni del dottor Bolard e di altri colleghi, dove si conserva la Sindone.» «Ebbene» continuò Minerva «Bolard è proprietario di una grande impresa chimica, è scapolo, ricchissimo, come D'Alaqua, e non gli si conoscono storie infelici. E non è omosessuale.» «D'Alaqua e Bolard si conoscono?» chiese Marco. «Sembra di no, ma sto ancora indagando. Non sarebbe neanche tanto strano, dal momento che anche Bolard è appassionato di antichità.» «Cos'hai scoperto su padre Yves?» le chiese ancora Marco. «Un tipo sveglio, quello. È francese, la sua famiglia appartiene alla vecchia aristocrazia, ancora influente. Suo padre, che è morto, era un diploma-
tico ed è stato un pezzo grosso del ministero degli Esteri all'epoca di De Gaulle. Il fratello maggiore è un deputato dell'Assemblea Nazionale, oltre ad aver ricoperto vari incarichi nei governi Chirac. La sorella è magistrato del Tribunale Supremo e lui sta facendo una carriera lampo nella Chiesa. Il suo protettore più diretto è monsignor Aubry, l'assistente del sostituto del segretario di Stato, ma lo ha in simpatia anche il cardinale Paul Visier, incaricato delle finanze del Vaticano, perché era compagno di università di Jean, il fratello maggiore di padre Yves. Così lo ha lanciato facendogli fare le prime esperienze nel servizio diplomatico. Padre Yves ha ricoperto cariche nelle nunziature di Bruxelles, Bonn, in Messico e Panama. E proprio dietro raccomandazione di monsignor Aubry è stato nominato segretario del cardinale di Torino e si vocifera che diventerà presto vescovo ausiliare di questa diocesi. La sua biografia non presenta nulla di speciale, se non che è un tipo molto impegnato, con una famiglia influente che lo appoggia nella carriera ecclesiastica. Il curriculum scolastico non è niente male. Oltre a teologia ha studiato filosofia, si è laureato in lingue morte, lo sapete già, latino, aramaico, e parla correntemente anche altre lingue. L'unica particolarità è che gli piacciono le arti marziali. Pare che da piccolo fosse un po' debole e per evitare che lo picchiassero il padre decise di fargli imparare il karate. Si è appassionato e oltre a essere cintura nera di karate con non so quanti dan, lo è anche di taekwondo, kick boxing e aikido. Le arti marziali sono la sua unica debolezza, ma considerando le debolezze che hanno in Vaticano, quella di padre Yves è più che innocente. Ah! E nonostante sia così bello, a giudicare dalle foto, non gli si conoscono capricci sentimentali né con ragazze né con ragazzi. Nulla, assolutamente casto.» «Che altro abbiamo?» chiese Marco senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Niente, non abbiamo niente» disse Giuseppe. «Siamo di nuovo a un punto morto. Senza piste e, peggio ancora, senza moventi. Indagheremo sulla storia della porta per vedere se è una falsa pista. Ma in questo caso da dove diavolo entrano ed escono? Abbiamo esaminato il duomo da cima a fondo e ti garantisco che non esistono porte nascoste. Quando gli abbiamo chiesto di questa possibilità, il cardinale si è fatto una risata. Ci ha assicurato che il duomo non ha passaggi segreti. Ha ragione, abbiamo controllato e ricontrollato i disegni delle gallerie sotterranee della città, e in quella zona non ce ne sono. Ovviamente i torinesi fanno affari portando i turisti a visitare le gallerie e spiegando la storia del loro eroe Pietro Micca.» «Il movente è la Sindone» ripeté Marco di cattivo umore. «Cercano la
Sindone, non so ancora se la vogliono rubare o distruggere ma l'obiettivo è lei, ne sono sicuro. Allora, suggerimenti?» Calò un silenzio imbarazzante. Sofia cercò lo sguardo di Pietro ma lui, a testa china, era impegnato ad accendersi una sigaretta, per cui decise di parlare e raccontare quello che aveva pensato. «Marco, io lascerei libero il muto.» Tutti fissarono lo sguardo su Sofia. Avevano sentito bene? «Il muto può essere il nostro cavallo di Troia. Vedi, Marco, se hai ragione tu e qualcuno sta cercando di arrivare alla Sindone, è chiaro che si tratta di un'organizzazione che assolda sicari muti, con le impronte digitali bruciate, così se vengono catturati, come quello nel carcere di Torino, possono isolarsi senza cadere nella tentazione di parlare. Senza impronte è impossibile risalire all'identità, all'origine di questi uomini. E secondo me, Marco, le tue minacce al muto non serviranno a niente; sono sicura che non chiederà di parlarti. Aspetterà di scontare la pena, e gli manca solo un anno. «Abbiamo due possibilità: o aspettiamo un anno oppure tu, Marco, convinci i capi ad approvare una nuova linea investigativa che passa dalla scarcerazione del muto, e una volta che lui è libero ci mettiamo alle sue calcagna. Dovrà pur andare da qualche parte, prendere contatto con qualcuno. È il bandolo che ci può portare al centro della matassa, il nostro cavallo di Troia. Se decidi di seguire questo piano, è necessario prepararlo bene. Non lo possono liberare subito, bisognerebbe aspettare direi almeno un paio di mesi e fare una bella messinscena perché lui non abbia sospetti sul motivo per cui lo rimettiamo in libertà.» «Dio, che stupidi!» esclamò Marco battendo il pugno sul tavolo. «Ma come abbiamo potuto essere così sciocchi! Noi, i carabinieri, tutti. Avevamo la soluzione in tasca e abbiamo passato due anni senza capire.» Lo guardarono perplessi. Sofia non sapeva se stesse approvando il suo piano o avesse invece appena colto qualcosa che era sfuggito agli altri, ma le parole di Marco dissiparono ogni dubbio. «Lo faremo Sofia, faremo così! Il tuo piano è perfetto, dovevamo solo pensarci prima. Andrò a illustrarlo ai ministri, abbiamo bisogno che parlino con i giudici, con il pubblico ministero, con chiunque, ma che mettano quell'uomo in libertà, e da quel momento attiveremo un sistema per seguirlo ovunque.» «Capo» lo interruppe Pietro «non essere precipitoso, pensiamo prima a come vendere al muto il fatto che lo lascino andare. Due mesi, come suggerisce Sofia, mi sembra un periodo troppo breve se consideriamo che sei
appena stato da lui e gli hai detto che marcirà in prigione. Se lo lasciamo libero capirà che è una trappola e non farà un passo.» Minerva si muoveva nervosamente sulla sedia mentre Giuseppe sembrava concentrato. Antonino era immobile. Adesso toccava a loro dire qualcosa, lo sapevano. Marco pretendeva sempre che i membri del suo gruppo si esponessero esprimendo la propria opinione. Le decisioni le prendeva lui, ma sempre dopo averli ascoltati. «Antonino, perché non dici nulla?» lo interrogò Marco. «Il piano di Sofia mi sembra brillante. Penso che dovremmo metterlo in atto, ma sono d'accordo con Pietro che il muto non può essere rimesso in libertà troppo presto. Sono quasi dell'idea di lasciargli scontare l'anno che gli manca.» «E nel frattempo cosa facciamo, incrociamo le braccia aspettando che tornino all'attacco della Sindone?!» esclamò Marco. «La Sindone» rispose Antonino «si trova nel caveau della banca, e può restarci anche per i prossimi mesi. Non è la prima volta che passa un lungo periodo senza che venga esposta al pubblico.» «Ha ragione» intervenne Minerva «e tu, Marco, lo sai benissimo. Voglio dire, adesso che abbiamo trovato il cavallo di Troia fa rabbia dover aspettare, ma se non lo facciamo possiamo perdere l'unica pista a disposizione, perché non ho il minimo dubbio che se lo lasci andare adesso il muto non farà passi falsi.» «Giuseppe?» «Sai, capo, anche a me fa rabbia, come a te, che adesso che abbiamo capito come iniziare a indagare sul serio su questo caso dobbiamo incrociare le braccia.» «Non voglio aspettare» disse Marco con decisione. «Non possiamo aspettare un anno come dice Pietro.» «È comunque la cosa più sensata» aggiunse Giuseppe. «Io farei qualcos'altro.» Tutti gli sguardi si fissarono di nuovo su Sofia. Marco sollevò sopracciglia e mani invitandola a parlare. «Secondo me bisogna ricominciare a indagare sugli operai finché non saremo convinti che il cortocircuito è stato davvero un incidente. Dobbiamo fare delle indagini anche sulla COCSA e interrogare D'Alaqua. Può darsi che dietro tanta normalità ci sia qualcosa che ci sfugge.» «Che cosa sospetti, Sofia?» chiese Marco. «Niente di preciso, ma l'istinto mi dice che dobbiamo indagare ancora
sugli operai.» Pietro la guardò contrariato. Era stato lui a prendersi il compito di interrogarli e lo aveva fatto in maniera esauriente. Aveva un raccoglitore con i dati di tutti, italiani e non, e negli archivi informatici dei carabinieri non aveva trovato nulla, come del resto in quelli dell'Interpol. Erano puliti. «Sospetti di loro perché sono stranieri?» Sofia accusò le parole di Pietro come un colpo basso. «Sai che non è così, e la tua mi sembra un'insinuazione in malafede. Credo solo che dobbiamo compiere altre indagini su tutti, stranieri e italiani, e se permetti anche sul cardinale.» Marco avvertì la tensione fra i due e la cosa gli diede fastidio. Li stimava entrambi, magari un po' di più Sofia Galloni, che in un certo senso ammirava. Oltre tutto pensava che avesse ragione, forse stavano davvero perdendo qualche elemento, e non c'era niente di male a proseguire le indagini sugli operai. Tuttavia doveva dare ragione a Sofia senza ferire Pietro, che vedeva seccato senza sapere perché. Era forse geloso del brillante piano di Sofia? Avevano avuto una discussione privata e stavano combattendo una schermaglia sentimentale lì, davanti a tutti e a scapito del lavoro? In questo caso, Marco l'avrebbe stroncata sul nascere. Sapevano che lui non ammetteva che i problemi personali si mescolassero al lavoro. «Riesamineremo ciò che abbiamo fatto finora e non chiuderemo alcuna linea di indagine.» Pietro si mosse sulla sedia. «Che succede, farete diventare tutti dei sospettati?» Marco cominciava ad averne abbastanza della situazione e il tono di Pietro gli suonò offensivo. «Continueremo a indagare. Io torno a Roma. Voglio parlare con i ministri perché diano il via libera al nostro piano. Penserò a come evitare di dover aspettare un anno per rimettere in libertà il muto senza che si insospettisca. A Roma c'è del lavoro che ci aspetta, quindi alcuni di voi si fermeranno qui ancora qualche giorno mentre gli altri rientreranno. Sia chiaro, comunque, che chi se ne va non lascia il caso, semplicemente lo gestirà attraverso il lavoro in ufficio. Chi si ferma?» «Io» esclamò Sofia. «E io» dissero contemporaneamente Giuseppe e Antonino. «D'accordo, allora Minerva e Pietro rientrano con me. Credo ci sia un volo alle tre, così con Pietro facciamo in tempo a recuperare il bagaglio in albergo.»
«Mi sembra» aggiunse Minerva «che vi sarò più utile con i miei computer a Roma.» 8 L'uomo sollevò la botola e con il fascio di luce della torcia elettrica illuminò il sotterraneo. I tre muti erano lì e lo guardavano impazienti. Scese la scala sgangherata che conduceva a quel locale nascosto e sentì un leggero turbamento. Voleva che i muti se ne andassero ma sapeva anche che qualunque decisione affrettata poteva significare la galera per tutti e, peggio ancora, la vergogna per un nuovo fallimento oltre al disprezzo eterno di Addaio, che poteva addirittura scomunicarlo. «I carabinieri di Roma se ne sono andati. Oggi hanno lasciato il duomo, ma il capo, quel Marco, è rimasto per un bel po' con padre Yves. Credo che possiate uscire di qui perché, da quello che sono riuscito a sentire, i carabinieri non sospettano che oltre al vostro compagno morto siano coinvolti altri. Ciascuno di voi deve seguire il proprio piano di fuga secondo le istruzioni di Addaio.» Il maggiore tra loro, un uomo poco più che trentenne, annuì e scrisse una domanda su un foglio di carta. "Sei sicuro che non ci sia pericolo?" «Sono sicuro nei limiti del possibile. Scrivimi se vi serve qualcosa.» Il muto che sembrava il capo scrisse di nuovo sul pezzo di carta. "Dobbiamo metterci un po' in ordine, non possiamo uscire così. Portaci dell'altra acqua, un catino dove poterci lavare come si deve. Cosa succede con i camion?" «Passata la mezzanotte, verso l'una, scenderò a prenderti. Ti accompagnerò per la galleria fino al Cimitero Monumentale e lì uscirai da solo. Un camion sarà in attesa allo scalo merci Vanchiglia, sull'altro lato della piazza. Si fermerà solo cinque minuti. Questa è la targa» disse dandogli un foglietto con segnato un numero. «Ti porterà fino a Genova. Lì ti imbarcherai come marinaio sulla Stella Maris e in una settimana sarai a casa.» Il capo fece cenno di sì con la testa. I suoi due compagni erano rimasti in attesa. Erano più giovani, sulla ventina. Uno alto e con i capelli neri a spazzola, spalle larghe, braccia muscolose. L'altro di corporatura meno robusta, più basso, capelli castani e un perenne luccichio di impazienza nello sguardo. L'uomo si rivolse a quello con i capelli neri.
«Il tuo camion passerà a prenderti domani all'alba. Faremo lo stesso percorso in galleria fino al cimitero. Quando uscirai per strada, gira a sinistra, prosegui fino al fiume; il camion sarà lì ad aspettarti. Passerai il confine con la Svizzera e da lì andrai in Germania. A Berlino ti aspettano, sai già l'indirizzo di quelli che ti porteranno a casa.» Il giovane dalla corporatura più esile rimase a fissarlo. L'uomo ebbe paura perché negli occhi castani del giovane muto lesse la rabbia. «Ti tocca uscire per ultimo. Devi rimanere qui altri due giorni. Il camion prenderà anche te alle prime ore del mattino, alle due, e andrai direttamente a casa. Buona fortuna. Adesso vi porto l'acqua.» Il muto con i capelli a spazzola lo prese con forza per un bracco e gli fece segno di volergli rivolgere una domanda, che scrisse in tutta fretta sul foglio. «Vuoi notizie di Mendibj? È in prigione, lo sapete. Si era comportato come un pazzo, non volle aspettare l'arrivo dei suoi compagni, entrò nel duomo e arrivò fino alla cappella. Non so cosa fece ma scattò l'allarme. Ho ordini precisi di Addaio di non correre rischi, per cui non posso aiutarlo. Lo presero mentre correva per piazza Castello. Seguite le istruzioni e non ci saranno problemi, non ci sono motivi per averne. Nessuno sa di questa cantina, né della galleria. Nel sottosuolo di Torino si incrociano decine di gallerie ma sono tutte conosciute. Questa non è stata ancora scoperta, se ciò avvenisse sarebbe un disastro. Ci cancellerebbero dalla faccia della terra.» Quando se ne fu andato, gli uomini si guardarono. Il capo cominciò a scrivere su un foglio le istruzioni che ognuno doveva seguire. Nel giro di qualche ora avrebbero iniziato un lungo viaggio: o riuscivano ad arrivare a casa o sarebbero finiti in prigione. La fortuna non li aveva abbandonati completamente, prova ne era che erano vivi, ma scappare da Torino non sarebbe stato così semplice. Non è facile che tre muti passino inosservati. Che il Signore ascoltasse le loro preghiere e potessero arrivare da Addaio. I tre si abbracciarono, mentre le lacrime si mescolavano all'abbraccio. 9 «Josar, Josar!» Il giovane entrò di corsa nel locale dove l'uomo stava riposando. Il sole si era appena delineato all'orizzonte e Josar sonnecchiava ancora, stanco. Faticava ad aprire gli occhi. Quando vi riuscì, si trovò davanti la figura
slanciata di Izaz, suo nipote. Izaz stava imparando il mestiere dello scriba. Josar gli faceva da insegnante, perciò passavano molto tempo insieme, sebbene Izaz prendesse lezioni anche da un filosofo, Marcione, con il quale studiava greco, latino, matematica, retorica e filosofia. «Sta arrivando una carovana e un mercante ha mandato un messaggio a palazzo chiedendo di te. Dice di essere accompagnato da Taddeo, un amico di Gesù, e che ti portano notizie di Tommaso.» Josar si sollevò sorridendo e si affrettò a prepararsi mentre interrogava Izaz. «Sei sicuro che Taddeo sia arrivato a Edessa? Non ti sarai confuso?» «Mi ha mandato la regina. È stata lei a dirmi ciò che dovevo riferirti.» «Ah, Izaz! Non posso credere a una gioia così grande. Taddeo era uno dei seguaci di Gesù. E Tommaso... Tommaso godeva della fiducia del Salvatore, era uno dei discepoli più vicini, uno dei dodici eletti. Taddeo porterà notizie di Gerusalemme, di Pietro, di Giovanni...» Josar si vestì rapidamente. Voleva raggiungere il luogo dove riposavano le carovane dopo i loro lunghi viaggi. Avrebbe portato con sé Izaz perché il giovane nipote conoscesse Taddeo. Uscirono dalla modesta abitazione in cui viveva Josar. Una volta tornato da Gerusalemme, aveva venduto i suoi averi, la casa e gli oggetti e aveva distribuito il ricavato tra i più bisognosi della città. Aveva trovato rifugio in una casa tanto piccola quanto umile dove oltre al letto, non possedeva che un tavolo, sedie e pergamene, centinaia di rotoli che leggeva e a sua volta scriveva. Josar e Izaz si affrettarono per le strade di Edessa fino a raggiungere i confini della città. Lì si trovava il caravanserraglio e a quell'ora del mattino i mercanti preparavano le merci per raggiungere la città mentre una moltitudine di schiavi si affaccendava per dare da mangiare e da bere agli animali, caricare fagotti e alimentare il fuoco dei falò. «Josar!» La voce profonda del capo delle guardie reali lo fece voltare. Vide Marvuz con un gruppo di soldati. «Sono stato mandato dal re perché ti scorti a palazzo con quel Taddeo che arriva da Gerusalemme.» «Grazie Marvuz. Aspettami qui mentre lo cerco e poi ci accompagnerai a palazzo.» «Mi sono informato e la bottega del mercante che lo accompagna è quel-
la grande dello stesso colore grigio della tormenta. Ci stavo andando.» «Aspetta, Marvuz, aspetta, mi piacerebbe abbracciare il mio amico in tranquillità.» Il soldato fece un gesto ai suoi uomini, che rimasero in attesa mentre Josar si dirigeva alla bottega del mercante. Izaz lo seguiva a due passi di distanza, conoscendo l'emozione che suo zio doveva provare nel rivedersi con un discepolo di Gesù. Gli aveva parlato molto di loro: di Giovanni, il prediletto del Maestro; di Pietro, di cui Gesù si fidava nonostante l'avesse tradito; di Marco e Luca; di Matteo e Tommaso e di tanti altri di cui non ricordava quasi il nome. Josar si avvicinò tremante all'ingresso della bottega da dove stava uscendo un uomo alto, dai lineamenti aggraziati, vestito come i ricchi mercanti di Gerusalemme. «Sei tu, Josar?» «Sono io.» «Entra, Taddeo ti aspetta.» Josar entrò nella bottega e lì, seduto su un cuscino per terra, ecco Taddeo che scriveva su una pergamena. Gli sguardi dei due uomini si incrociarono ed entrambi sorrisero felici per quell'incontro. Taddeo si alzò e abbracciò Josar. «Amico mio, sono contento di vederti» disse Taddeo. «Non avrei mai immaginato di poterti rivedere. Che gioia, quante volte vi ho ricordato! Pensare a voi mi fa sentire vicino al Maestro.» «Lui ti amava, Josar, e aveva fiducia in te. Sapeva che il tuo cuore era colmo di bontà e che avresti diffuso la Sua parola in qualunque luogo, ovunque ti fossi trovato.» «È ciò che ho fatto, Taddeo, è ciò che ho fatto, sempre con il timore di non essere all'altezza di trasmettere come dovevo le parole del Maestro.» In quel momento entrò il mercante. «Taddeo, ti lascio con il tuo amico perché possiate parlare. I miei servi vi porteranno datteri e formaggio con dell'acqua fresca, e non vi disturberanno a meno che non abbiate bisogno di loro. Io devo andare in città dove mi aspettano le merci. Tornerò nel pomeriggio.» «Josar» disse Taddeo «questo buon mercante si chiama Giosuè e ho viaggiato da Gerusalemme sotto la sua protezione. È un brav'uomo, che era solito accorrere ad ascoltare Gesù e si nascondeva nel timore che il Maestro lo cacciasse. Ma Gesù, che tutto vedeva, un giorno gli disse di avvicinarsi e le sue parole furono un balsamo per l'anima di Giosuè che era
rimasto da poco vedovo. È un buon amico che ci ha aiutato, le sue carovane mantengono i contatti tra noi e lui ci aiuta a portare ovunque la parola del Maestro.» «Tu sia il benvenuto, Giosuè» disse Josar. «Qui sei tra amici, dimmi se possiamo aiutarti in qualche modo.» «Grazie, mio buon amico, ma non ho bisogno di nulla seppure ti sono grato per la tua offerta. So che seguivi il Maestro, e Taddeo e Tommaso hanno grande stima di te. Ora mi reco in città e rientrerò al tramonto. Godetevi questo incontro, avrete sicuramente molto da dirvi.» Giosuè uscì dalla tenda mentre un uomo nero come la notte portava piatti di datteri e formaggio accompagnati da una brocca d'acqua. Quindi uscì, in silenzio come era arrivato. Izaz osservava la scena senza parlare. Non osava farsi avanti. Lo zio sembrava essersi dimenticato di lui ma Taddeo gli sorrise e gli fece un cenno perché si avvicinasse. «E questo giovane?» «È mio nipote Izaz. Gli sto insegnando il mio antico mestiere di scriba e può darsi che un giorno possa prendere il mio vecchio posto a palazzo. È un bravo ragazzo, seguace degli insegnamenti di Gesù.» Nella bottega entrò Marvuz. «Josar, perdona se ti interrompo ma Abgar ha inviato una serva dal palazzo perché è impaziente di avere notizie tue e di questa persona giunta da Gerusalemme.» «Hai ragione, Marvuz, l'emozione dell'incontro mi ha fatto dimenticare che il re attende nostre notizie. Vorrà conoscerti e onorarti, Taddeo, perché devi sapere che Abgar ha abbandonato i riti pagani e crede in un solo Dio, il Padre di Nostro Signore. E anche la regina e la corte professano la fede di Gesù. Abbiamo costruito un tempio, umile, senza decorazioni, dove ci riuniamo per chiedere misericordia a Dio Padre e parlare degli insegnamenti di Gesù. Ho scritto quanto ho potuto ricordare di ciò che avevo ascoltato ma, ora che sei qui tu, potrai parlarci degli insegnamenti del Maestro e spiegare meglio di quanto abbia saputo fare io com'era Gesù e come abbia deciso di morire per la nostra salvezza.» «Andremo dal re» acconsentì Taddeo «e lungo il cammino mi racconterai le ultime nuove. Alcuni mercanti hanno portato a Gerusalemme la notizia che Abgar è guarito dalla sua malattia mortale dopo aver toccato il sudario di Gesù. Voglio che mi racconti questo miracolo del Salvatore e mi parli di come si sia diffusa la fede in questa bella città.»
Abgar era impaziente. Al suo fianco, la regina cercava di tranquillizzarlo. Josar e Taddeo erano in ritardo. Sopra Edessa il sole brillava già alto e loro non erano ancora arrivati. Moriva dalla voglia di ascoltare quel discepolo di Gesù grazie al quale avrebbe ampliato le proprie conoscenze sul Salvatore. Gli avrebbe chiesto di fermarsi per sempre, o almeno il tempo necessario perché tutti potessero apprendere dalle sue labbra altre storie su Gesù, oltre a quelle che aveva narrato loro Josar. Lui, Abgar, re di quella città prosperosa, a volte faceva fatica a comprendere alcune cose che aveva detto il Maestro, tuttavia le accettava tutte, tale era la fede che aveva nell'uomo che lo aveva guarito dopo essere morto. Sapeva che in città non tutti condividevano la sua decisione di sostituire gli dèi che adoravano dalla notte dei tempi con un Dio senza immagine, che aveva inviato il proprio figlio sulla terra perché venisse crocifisso. Un figlio che, pur conoscendo le torture che gli sarebbero toccate, aveva predicato il perdono per i nemici, sostenendo che entrare nel Regno dei cieli era più facile per un povero che per un ricco. Erano ancora molti i sudditi che continuavano a adorare gli antichi dèi nelle proprie case e si recavano nelle caverne sulla montagna per abbandonarsi a libagioni davanti alle statue del dio Luna. Lui, Abgar, li lasciava fare; sapeva che non si poteva imporre un dio e che, come diceva Josar, il tempo avrebbe convinto gli increduli dell'esistenza di un solo Dio. Non che i suoi sudditi non credessero nella divinità di Gesù; solo erano inclini a credere che fosse semplicemente un dio in più, e come tale lo accettavano, ma senza rinunciare agli dèi dei propri padri. Josar intanto raccontava a Taddeo come aveva provato l'impulso di raccogliere il telo che aveva avvolto il corpo del Maestro, sapendo che nessuno dei suoi amici avrebbe osato anche solo toccarlo perché secondo la legge ebraica un sudario è un oggetto impuro. Taddeo annuiva ascoltando le spiegazioni dell'amico. Non avevano avvertito la mancanza del sudario; in realtà si erano dimenticati di quel pezzo di lino finché non era giunta la notizia che aveva compiuto un miracolo restituendo la salute al re Abgar. Erano rimasti sorpresi e meravigliati anche se erano abituati ai prodigi compiuti da Gesù. Taddeo spiegò all'amico anche il motivo della sua visita. «Tommaso ti ricorda sempre con affetto e rammenta la tua insistenza
con il Maestro affinché venisse a Edessa per curare il tuo re e l'impegno preso da Gesù di mandare uno dei suoi. Per questo, quando abbiamo saputo che il sudario aveva guarito Abgar e tu diffondevi gli insegnamenti del Salvatore, mi ha chiesto di venire qui per aiutarti. Mi fermerò il tempo che riterrai opportuno e ti sarò accanto nel predicare la parola di Gesù tra questa brava gente. Verrà il momento, però, in cui dovrò partire perché sono molte le città e gli uomini a cui dobbiamo insegnare la Verità.» «Vuoi vedere il sudario?» chiese Josar. Taddeo esitò. Era ebreo e la legge era legge, ed era anche quella del Salvatore. Tuttavia quel pezzo di lino portato da Giuseppe di Arimatea con il quale avevano avvolto il corpo di Gesù sembrava impregnato dei poteri che gli erano appartenuti. Non sapeva cosa dire né cosa fare. Non sapeva quasi nemmeno cosa pensare. Josar si rese conto del conflitto che il suo amico stava vivendo e gli strinse il braccio in segno di amicizia. «Non ti preoccupare, Taddeo, conosco la vostra legge e la rispetto. Ma per noi, abitanti di questa vecchia città, un sudario non è un oggetto impuro che non si deve toccare. Non lo devi nemmeno vedere, ti basti sapere che Abgar ha incaricato il miglior artigiano di Edessa di realizzare un'urna per la sua conservazione e che si trova in un luogo sicuro, custodito dalla guardia personale del re. Quella stoffa opera miracoli, ha guarito Abgar e molte altre persone che le si sono avvicinate con fede. Devi sapere che il sangue e il sudore hanno lasciato impressi sulla tela il volto e il corpo di Gesù. In verità ti dico, amico mio, che guardando il sudario posso vedere il nostro Maestro e soffro per i tormenti a cui lo hanno sottoposto i romani.» «Un giorno ti chiederò di farmi vedere il sudario ma devo cercare nel mio cuore il momento per farlo, dato che questo significa infrangere la legge.» Giunsero al palazzo, dove Abgar li accolse con affetto. Accanto a lui, la regina non poteva nascondere l'agitazione che le provocava conoscere un amico di Gesù. «Tu sia il benvenuto come amico di Gesù, quale fosti. Puoi trattenerti per tutto il tempo che desideri nella nostra città, dove sarai nostro ospite e nulla ti sarà fatto mancare. Ti chiediamo solo di parlarci del Salvatore, di ricordare i suoi insegnamenti e le sue opere, e io, con il tuo permesso, chiederò ai miei scribi di ascoltare le tue parole e di raccoglierle per conservarle nelle pergamene affinché gli abitanti della mia e di altre città pos-
sano conoscere la vita e la dottrina del tuo Maestro.» Per tutto il giorno e parte della notte Taddeo, accanto a Josar, raccontò al re e alla sua corte i miracoli compiuti da Gesù, accogliendo l'invito di Abgar di restare a Edessa. Taddeo accettò solo una piccola stanza con un letto, in una casa vicina a quella di Josar, e rifiutò, come aveva fatto Josar al rientro da Gerusalemme, di avere uno schiavo che lo accudisse. Stabilì con il re che Josar sarebbe stato il suo scriba e avrebbe raccolto quanto lui ricordava di Gesù. 10 A New York c'era un sole primaverile, cosa rara in quell'epoca dell'anno. L'uomo anziano distolse lo sguardo dai vetri che filtravano la luce del mattino mentre sollevava la cornetta del telefono che aveva iniziato a squillare. Il sistema di comunicazioni di quell'ufficio era tale da impedire a chiunque di ascoltare. «Sì» disse con voce ferma. «Il primo muto è già in viaggio.» «Senza problemi?» «Continuano a usare gli stessi contatti delle volte scorse e gli stessi percorsi senza che la polizia sospetti di nulla.» «E il secondo?» «Partirà questa notte. Il terzo domani; sarà trasferito con un camion che trasporta viti. È il più nervoso.» «Oggi parlerò con i nostri di Urfa. Dobbiamo sapere come reagisce Addaio e cosa intende fare.» «Avrà un attacco di collera.» «Cerchiamo di scoprire cosa dice e cosa decide. Ci sono novità dall'uomo di Addaio nel duomo?» «È molto scosso ma non desta sospetti, lo prendono per un poveraccio sconvolto dall'accaduto. Né il cardinale né la polizia sospettano di lui.» «Bisogna continuare a tenerlo sotto controllo.» «Lo faranno.» «E il nostro fratello?» «Stanno indagando. Chi è, i suoi gusti, come è arrivato al posto che occupa. Hanno fatto ricerche anche su di me e su altri fratelli. Quel carabiniere, Marco Valoni, è una persona intelligente e ha una buona squadra.» «Stiamo attenti.»
«Non mancheremo.» «La prossima settimana a Boston.» «Ci sarò.» Sofia e Pietro stavano in silenzio, entrambi imbarazzati. Marco era andato nell'ufficio del comandante dei carabinieri di Torino; Minerva, Giuseppe e Antonino decisero di andare a prendere un caffè al bar all'angolo per lasciare la coppia libera di parlare. Tutti avevano notato la tensione fra loro. Mentre Sofia riponeva con una certa flemma i documenti nella cartella, Pietro dalla finestra osservava la strada con aria assorta. Stava zitto perché non voleva rimproverare Sofia di non averlo messo al corrente dell'operazione Cavallo di Troia. Sofia, da parte sua, si sentiva in colpa e adesso le sembrava una bambinata non aver raccontato il piano a Pietro. «Sei arrabbiato?» gli chiese nel tentativo di rompere quell'imbarazzante silenzio. «No. Non sei obbligata a raccontarmi tutto quello che ti passa per la testa.» «Su, Pietro, ti conosco e so quando qualcosa ti dà fastidio.» «Non ho voglia di iniziare una discussione. Hai elaborato un piano, che io lascerei maturare ancora un po', ma sei riuscita a convincere il capo e a guadagnare un po' di punti. Si farà quello che dici e da questo momento lavoreremo perché l'operazione Cavallo di Troia riesca bene. Non stare a rimuginarci sopra o finiremo impelagati in una battaglia assurda che servirà solo a irritarci.» «D'accordo, però dimmi perché non credi che il mio sia un buon piano: perché è venuto in mente a me o perché trovi davvero che abbia dei punti deboli?» «Lasciare libero il muto è un errore, si insospettirà e non ci porterà da nessuna parte. Per quanto riguarda le altre indagini sugli operai, fatele, e raccontatemi se scoprite qualcosa.» Sofia tacque. Si sentiva sollevata dal fatto che Pietro se ne andasse. Preferiva rimanere con Giuseppe e Antonino, senza di lui. Se si fosse fermato avrebbero finito per litigare sul serio, e la cosa peggiore era che a rimetterci sarebbe stato il lavoro. Non era ossessionata dalla Sindone come Marco, ma cercare di risolvere il caso le sembrava una sfida. Sì, era meglio che Pietro se ne andasse e lasciassero passare qualche giorno, dopodiché tutto sarebbe tornato normale. Avrebbero fatto pace e amici come prima.
«Da dove cominciamo, dottoressa?» «Sai, Giuseppe, credo che sia il caso di riparlare con gli operai e vedere se quello che ci dicono adesso è diverso da quanto avevano raccontato a Pietro. Dovremmo anche scoprire qualcos'altro su di loro: dove vivono, con chi, cosa pensano di loro i vicini, se nella loro vita di tutti i giorni c'è qualcosa di strano...» «Ma ci vorrà tempo» intervenne Antonino. «Sì, e infatti Marco ha chiesto al comandante dei carabinieri un paio di uomini per farci dare una mano. Loro conoscono la città meglio di noi e sapranno se qualcosa di quello che ci raccontano su quei tipi non rientra nella norma. Se ne può occupare Giuseppe e noi due torniamo al duomo a parlare di nuovo con gli impiegati, con il custode, con quel padre Yves, con le zitellone della segreteria...» «D'accordo, ma se qualcuno ha qualcosa da nascondere sospetterà della nostra insistenza e non farà una mossa, te lo dice uno che ha dato la caccia a molti cattivi» disse Giuseppe. «Se qualcuno diventa nervoso, si tradirà. Credo che sia il caso di chiedere un appuntamento a D'Alaqua.» «Un pezzo grosso, troppo grosso. Se facciamo una figuraccia e lo disturbiamo, a Roma potrebbero tarparci le ali.» «Sì, lo so, Antonino, però bisogna provarci. Sono curiosa di conoscere quell'uomo.» «Attenzione, dottoressa, non vorrei che la tua curiosità ci portasse qualche noia!» «Non essere sciocco, Giuseppe. Dobbiamo parlare con quell'uomo perché la sua impresa ha sempre avuto qualche legame con i vari incidenti, e questo, almeno a me, sembra strano. A te che sei un carabiniere dovrebbe sembrarlo ancora di più.» Decisero di spartirsi il lavoro. Antonino avrebbe riparlato con gli impiegati del duomo, Giuseppe si sarebbe occupato degli operai e Sofia avrebbe chiesto un appuntamento a D'Alaqua. Avrebbero cercato di finire nel giro di una settimana per decidere poi il da farsi, nel caso in cui si fosse trovata qualche pista. Sofia aveva convinto Marco a muovere le pedine necessarie e a fare in modo che Umberto D'Alaqua la ricevesse. Marco aveva brontolato, ma era d'accordo con lei sul fatto che fosse indispensabile parlare con quell'uomo. Così il responsabile del Comando per
la tutela del patrimonio artistico lo chiese direttamente al ministro per i Beni culturali e ambientali: per tutta risposta questi gli disse che doveva essere impazzito per pensare di poter ottenere l'autorizzazione a immischiarsi negli affari di un'impresa come la COCSA e a fare indagini su un tipo come D'Alaqua. Alla fine, però, Marco l'aveva convinto che era necessario e che la dottoressa Galloni era una donna squisita, incapace della pur minima scorrettezza che potesse dare fastidio a quell'uomo potente. Il ministro ottenne l'appuntamento per la mattina successiva alle dieci. Quando Marco glielo disse, Sofia rise soddisfatta. «Sei un tesoro, capo. So quanto deve esserti costato.» «Sì, e farai meglio a evitare figuracce o il ministro ci spedirà tutti e due a spolverare gli archivi. Ti prego, Sofia, stai attenta, D'Alaqua è un imprenditore importante non solo in Italia, a quanto dice il ministro lo è in tutto il mondo, i suoi interessi vanno da qui al Nordamerica, al Medio Oriente, all'Asia... Insomma, da uno così non si può andare con delle sciocchezze.» «Ho un presentimento.» «Spero che i tuoi presentimenti non ci mettano nei guai.» «Abbi fiducia.» «Se non l'avessi, non saresti qui.» Adesso, mentre finiva di truccarsi, era nervosa. Si era preparata con grande cura, scegliendo un completo beige di Armani. Aveva fatto colazione in camera, ma prima di uscire avrebbe salutato Antonino e Giuseppe. «In bocca al lupo, dottoressa. Sei splendida, sembra quasi che tu stia andando a un appuntamento galante.» «Giuseppe, non scherzare! Sono nervosa. Guarda che se faccio una brutta figura creo un problema a Marco.» «Giuseppe ha ragione, sei bellissima, non so se non sia addirittura troppo per un uomo così strambo come quello là, di cui non si conoscono debolezze in campo femminile. Ma la tua arma migliore rimane la testa, e io mi fido di lei.» «Grazie, Antonino, grazie a tutti e due. Incrociate le dita.» Sofia rimase sorpresa dal segretario di Umberto D'Alaqua. Innanzi tutto perché si aspettava una donna anziché un uomo, e poi perché quel signore di mezza età, piuttosto elegante, sembrava un dirigente e non un segretario, per quanto importante fosse il suo capo. Si era presentato come Bruno Moretti e le aveva offerto un caffè in attesa che, come le disse, il signor D'Alaqua si liberasse da un altro incontro.
Sofia rifiutò, non voleva rovinarsi il trucco. Pensò che Bruno Moretti avesse il compito di tastare il terreno, ma si rese conto di essersi sbagliata quando lui la lasciò sola in quella sala incredibile alle cui pareti erano appesi un Canaletto, un Modigliani, un Braque e un piccolo Picasso. Era concentrata sul Modigliani e non si rese conto che la porta si era aperta e un uomo alto, bello, elegante, oltre la cinquantina, la stava osservando con sguardo severo e una certa curiosità. «Buongiorno, dottoressa Galloni.» Sofia si voltò e si trovò di fronte Umberto D'Alaqua. Si sentì arrossire come se stesse facendo qualcosa di illecito. D'Alaqua metteva soggezione non solo per l'altezza e l'eleganza ma anche per la sicurezza che emanava. Sicurezza e forza, disse fra sé Sofia. «Buongiorno, mi scusi, stavo esaminando il suo Modigliani. È autentico.» «Sì, certo che è autentico.» «Ci sono tanti falsi... ma questo è chiaro che non lo è.» Si sentì una stupida. Come poteva non essere autentico un Modigliani appeso nella sala di rappresentanza di quell'uomo potente! D'Alaqua avrebbe pensato che fosse una stupida, e lo era; il suo commento era stato sciocco, ma quell'uomo, non sapeva perché, l'aveva resa nervosa con la sola presenza, senza dire nulla. «Staremo più comodi nel mio ufficio, dottoressa.» Sofia annuì. Lo studio di D'Alaqua era altrettanto stupefacente: mobili moderni, di design, comodi, e alle pareti quadri di grandi maestri. Vari disegni di Leonardo, una Madonna del Quattrocento, un Cristo di El Greco, un arlecchino di Picasso, un Miró... Su un tavolino, in un angolo lontano dalla scrivania, un crocifisso intagliato in legno di ulivo attirava l'attenzione per la sua semplicità. Umberto D'Alaqua le fece un cenno perché si accomodasse sul divano mentre lui si sedeva in una poltrona lì accanto. «Allora, dottoressa, in cosa posso esserle utile?» «Signor D'Alaqua, sospettiamo che l'incendio nel duomo sia stato doloso. Crediamo che nessuno degli incidenti che hanno colpito il duomo di Torino sia stato casuale.» D'Alaqua non mosse nemmeno un muscolo. Nel suo atteggiamento niente denotava preoccupazione, o anche solo sorpresa. La guardava tranquillo, aspettando il seguito, come se ciò che stava ascoltando non avesse nulla a che fare con lui.
«Gli operai impegnati nei lavori del duomo sono di sua fiducia?» «Dottoressa, la COCSA è una delle tante aziende che dirigo. Capirà bene che non posso conoscere ogni dipendente. Come in tutte le imprese, anche qui c'è un ufficio del personale che sicuramente le avrà già fornito tutti i dati di cui avete bisogno sugli operai che lavorano nel duomo. Ma se le servono altre informazioni, sarà un piacere chiedere al capo del personale della COCSA di mettersi a sua disposizione per darle tutto l'aiuto necessario.» D'Alaqua sollevò il telefono e chiese del capo del personale. «Signor Lazotti, le sarei grato se potesse incontrare subito la dottoressa Galloni, del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Ha bisogno di altre informazioni sugli operai del duomo. Il mio segretario l'accompagnerà nel suo ufficio tra qualche minuto. La ringrazio.» Sofia rimase delusa. Aveva pensato di sorprendere D'Alaqua dichiarando apertamente il loro sospetto che gli incidenti fossero provocati, e l'unica reazione di quell'uomo era stata di dirottarla sul capo del personale. «Quello che le ho detto le sembra assurdo, signor D'Alaqua?» «Dottoressa, siete dei professionisti e fate bene il vostro lavoro. Non ho alcuna opinione riguardo ai vostri sospetti o alla vostra linea investigativa.» L'uomo la guardò con tranquillità; si capiva che considerava chiusa la conversazione e a Sofia la cosa diede fastidio. Non voleva andarsene, sentiva che non aveva saputo approfittare dell'incontro con D'Alaqua. «Posso esserle d'aiuto in qualcos'altro, dottoressa?» «No, in realtà no. Volevamo semplicemente farle sapere che secondo noi non si è trattato di un incidente e quindi indagheremo a fondo sulle sue maestranze.» «Il signor Lazotti le darà tutto l'aiuto di cui avrà bisogno e le fornirà qualsiasi informazione desideri sul personale della COCSA.» Sofia si arrese. D'Alaqua non le avrebbe detto una parola di più. Lei si alzò e gli tese la mano. «La ringrazio per la collaborazione.» «È stato un piacere conoscerla, dottoressa Galloni.» Sofia era furiosa con se stessa e turbata, sì. Umberto D'Alaqua era l'uomo più affascinante che avesse mai incontrato in vita sua. In quel preciso istante decise di rompere con Pietro; l'idea di avere una relazione con un collega le era diventata insopportabile. Bruno Moretti, il segretario di D'Alaqua, l'accompagnò nell'ufficio di
Mario Lazotti, il quale l'accolse con cortesia. «Mi dica, dottoressa, cosa le serve?» «Vorrei che mi fornisse tutte le informazioni possibili sugli operai che lavorano in duomo, compresi i dati personali, se sono disponibili.» «Queste informazioni le ho già date a uno dei suoi colleghi del Comando e alla polizia, ma sarò lieto di consegnare un dossier anche a lei. Per quanto riguarda i dati personali, mi dispiace non poterle essere di grande aiuto. Questa è una grande azienda, ed è difficile conoscere personalmente tutti i dipendenti. Forse il capomastro potrà darle qualche informazione di carattere più personale.» Una segretaria entrò in ufficio e consegnò a Lazotti un raccoglitore. Lui la ringraziò e lo diede a Sofia. «Signor Lazotti, avete avuto altri incidenti come quello del duomo di Torino?» «A cosa si riferisce?» «La COCSA è un'impresa che lavora per la Chiesa. Avete realizzato lavori di restauro e manutenzione in quasi tutte le cattedrali d'Italia.» «D'Italia e di gran parte d'Europa. E gli incidenti durante i lavori, purtroppo, si verificano anche attenendosi scrupolosamente alle norme di sicurezza.» «Potrebbe darmi un elenco degli incidenti che si sono verificati nel corso dei vari lavori nelle cattedrali?» «Farò il possibile per accontentarla, ma non sarà facile perché ogni volta ci sono problemi e incidenti, e non so se sono stati registrati. Generalmente il responsabile dei lavori stila una relazione sugli interventi. Comunque, a partire da che data vorrebbe questo elenco?» «Diciamo gli ultimi cinquant'anni.» Lazotti la guardò sbalordito, ma non fece commenti. «Farò il possibile. Nel caso trovassi qualcosa, dove posso mandarle le informazioni?» «Le lascio il mio biglietto da visita e il numero del cellulare. Mi chiami, e se sono a Torino passerò a prenderle. Altrimenti me le può mandare all'ufficio di Roma.» «Mi scusi, dottoressa Galloni, ma cosa sta cercando?» Con una rapida occhiata, Sofia valutò Lazotti e decise di dirgli la verità. «Sto cercando chi provoca gli incidenti nel duomo di Torino.» «Come?» esclamò l'uomo, sbalordito. «Sì, cerchiamo il responsabile degli incidenti nel duomo di Torino per-
ché sospettiamo che non si tratti di eventi casuali.» «Sospettate dei nostri operai? Dio mio! Chi mai può voler danneggiare il duomo?» «È quello che vogliamo scoprire: chi e perché.» «Ma siete proprio sicuri? La sua è un'accusa molto diretta nei confronti degli operai della COCSA...» «Non è un'accusa, è un sospetto, ed è quello che ci spinge a indagare.» «Capisco, dottoressa. Stia sicura che vi daremo tutta la collaborazione necessaria.» «Ne sono certa, signor Lazotti.» Sofia uscì dall'edificio di acciaio e vetro chiedendosi se non avesse commesso un errore di strategia nel rivelare i loro sospetti sia a D'Alaqua sia al capo del personale. In quello stesso momento D'Alaqua poteva essere al telefono con il ministro per lamentarsi, o invece non fare nulla. E questo perché non dava importanza ai sospetti che lei gli aveva svelato o, viceversa, perché gliene dava. Decise di chiamare immediatamente Marco per raccontargli della sua visita alla COCSA. Doveva essere preparato, nel caso in cui D'Alaqua avesse parlato con il ministro. 11 «Io, Maanu, principe di Edessa, figlio di Abgar, imploro il tuo aiuto, Sin, dio di tutti gli dèi, per distruggere i miscredenti che turbano il nostro popolo incitandolo ad abbandonare il tuo culto e a tradire gli dèi dei nostri antenati.» Su un promontorio roccioso situato nelle vicinanze di Edessa, il santuario di Sin era scarsamente illuminato dalle fiaccole che Sultanept, con l'aiuto di Maanu e Marvuz, aveva collocato nella grotta sotterranea. Il rilievo di Sin scolpito nella pietra sembrava quasi umano, tanto era realistica l'opera dell'artista che lo aveva eseguito. Maanu bruciava incenso ed erbe aromatiche che gli confondevano i sensi e lo aiutavano a comunicare con il dio Luna, Sin, un dio potente che lui e molti altri abitanti di Edessa fedeli alle tradizioni non avevano mai smesso di adorare. Lo adorava anche il suo leale Marvuz, il capo delle guardie reali, che alla morte di Abgar lui avrebbe nominato primo consigliere.
Sin parve ascoltare la preghiera di Maanu, perché irruppe con decisione uscendo dalle nuvole e illuminando il suo santuario. Sultanept, il gran sacerdote di Sin, fece notare a Maanu che era un segnale, il modo utilizzato dal dio per informarli di essere con loro. Sultanept viveva nascosto a Sumurtar con altri cinque sacerdoti, al riparo in quel labirinto di gallerie e stanze sotterranee da dove servivano gli dèi, il Sole, la Luna e i pianeti, principio e fine di tutte le cose. Maanu aveva promesso a Sultanept di restituirgli il potere e la ricchezza che Abgar gli aveva strappato con la messa al bando della religione degli antenati. «Mio principe, dovremmo andarcene. Il re potrebbe chiamarti e abbiamo ormai lasciato il palazzo da molte ore.» «Non mi chiamerà, Marvuz, penserà che sono in qualche locanda con gli amici o a fornicare con qualche ballerina. Mio padre non ne vuole quasi sapere di me, tanta è la delusione che gli procuro non adorando il suo Gesù. La colpa è della regina. È stata lei a convincerlo a tradire i nostri dèi e ha fatto di quel Nazareno il suo unico dio. Ma io ti assicuro, Marvuz, che il popolo tornerà a volgere lo sguardo verso Sin e distruggerà i templi che la regina ha ordinato di innalzare in onore del Nazareno. Non appena Abgar si addormenterà nel sonno eterno, uccideremo la regina e faremo fuori Josar e quel Taddeo.» Marvuz tremò. Non nutriva alcun affetto per la regina, la considerava una donna cattiva, la vera sovrana di Edessa da quando Abgar si era ammalato, contagiato da Ania, guarendo poi grazie al telo che gli aveva portato Josar. La regina non aveva fiducia in Marvuz, il capo delle guardie reali. Lui sentiva come i suoi occhi glaciali lo squadrassero perché sapeva che era amico di Maanu. Ma avrebbe avuto il coraggio di ucciderla? Perché era certo che Maanu glielo avrebbe chiesto. Josar e Taddeo non erano un problema. Li avrebbe trafitti con la propria spada. Ne aveva abbastanza delle loro prediche, delle loro parole di rimprovero perché fornicava con qualunque donna disponibile e perché in onore di Sin beveva smodatamente nelle notti di luna piena fino a perdere conoscenza. Perché lui, Marvuz, aveva ancora fede negli dèi dei suoi genitori, della sua città, e non accettava l'imposizione di quel dio virtuoso di cui parlavano Josar e Taddeo. Izaz scriveva con abilità quanto gli stava raccontando Taddeo. Josar, suo
zio, gli aveva insegnato l'arte della scrittura e lui sognava di diventare un giorno a sua volta uno scriba reale. Si sentiva orgoglioso perché Abgar e la regina avevano elogiato le pergamene dove aveva attentamente trasferito ciò che Taddeo gli raccontava di Gesù. Taddeo lo chiamava spesso per dettargli i ricordi sul Nazareno che custodiva così gelosamente. Il ragazzo conosceva a memoria le vicissitudini di Taddeo al fianco di Gesù. Taddeo chiudeva gli occhi e sembrava immergersi in un sogno mentre continuava a raccontare, perché lui scrivesse com'era Gesù, quello che diceva e faceva. Josar aveva scritto i propri ricordi, gli era stato ordinato di copiarli e una delle copie era custodita negli archivi reali. Avrebbero fatto altrettanto con le storie che gli raccontava Taddeo. A deciderlo era stato Abgar, il cui sogno era che Edessa potesse lasciare ai propri figli il racconto della vera storia di Gesù. Izaz era contento che Taddeo si fosse fermato in città. Suo zio Josar apprezzava la compagnia di qualcuno che, come lui, aveva conosciuto il Nazareno. Portava rispetto a Taddeo in quanto discepolo di Gesù e lo consultava in merito a ciò che doveva dire agli abitanti di Edessa che si presentavano a casa sua per sapere di lui e pregare. Taddeo non si era mai deciso a partire perché la regina e Abgar gli chiedevano di restare, di aiutarli a essere dei buoni cristiani, di aiutare Josar a divulgare gli insegnamenti di Gesù trasformando Edessa in un luogo capace di accogliere tutti coloro che avessero creduto nel Nazareno. Intanto il tempo passava e Taddeo aveva reso definitiva la sua permanenza a Edessa. Tutti i giorni, con Josar, si recava al primo tempio che la regina aveva ordinato di erigere in onore di Gesù; lì parlava e pregava con un gruppo di donne e uomini che accorrevano a cercare consolazione ai propri dolori nella speranza che le loro preghiere giungessero a quel Gesù che aveva salvato Abgar dalla più crudele delle malattie. Si occupava anche dei fedeli che si riunivano in un nuovo tempio costruito da Marzio, il grande architetto di corte. Taddeo gli aveva chiesto che il nuovo tempio fosse semplice come il primo, poco più di una casa con un grande chiostro dove poter predicare la parola di Gesù. Gli aveva spiegato come il Nazareno avesse cacciato i
mercanti dal tempio di Gerusalemme e come lo spirito di Gesù potesse stare solo dove c'è pace e semplicità. 12 Era l'ora del tramonto sul Bosforo quando la Stella Maris stava solcando le acque vicino a Istanbul. In coperta i marinai si affaccendavano nelle operazioni che precedevano l'attracco. Il capitano osservava il giovane abbronzato che puliva il ponte in silenzio. A Genova uno dei suoi marinai si era ammalato e aveva dovuto restare a terra e il suo secondo gli aveva portato quel muto assicurandogli che anche se non poteva parlare era un bravo marinaio. Lì per lì, spinto dalla necessità di partire prima possibile, non aveva notato che le mani del suo presunto marinaio non avevano nemmeno un callo. Erano le mani di chi non le aveva mai usate per lavorare. Il muto, però, durante la traversata aveva eseguito tutti gli ordini, senza che i suoi occhi tradissero la minima emozione qualunque fosse il lavoro richiesto. Il secondo ufficiale aveva assicurato che gli era stato raccomandato da un vecchio cliente della locanda del porto, Il Falco Verde, e per questo l'aveva portato a bordo. Il capitano sapeva che il suo secondo stava mentendo, ma per quale motivo? L'ufficiale gli aveva detto che il muto sarebbe sbarcato a Istanbul lasciando il lavoro sulla nave, e si era stretto nelle spalle quando lui gli aveva chiesto perché e come facesse a saperlo. Era genovese e solcava i mari ormai da quarant'anni, era riparato in mille porti e conosciuto gente di ogni tipo, ma quel giovanotto aveva qualcosa di speciale, gli si leggeva il fallimento nello sguardo e la rassegnazione nei gesti, come se sapesse che era giunto alla fine. Ma alla fine di che cosa? Perché? Istanbul gli sembrava più bella che mai. Il marinaio muto sospirò in silenzio mentre i suoi occhi scrutavano il porto. Sapeva che sarebbe venuto a prenderlo qualcuno, forse lo stesso uomo che l'aveva nascosto all'arrivo da Urfa. Aveva voglia di tornare nella sua città, abbracciare il padre, ricongiungersi alla moglie e udire la risata allegra di sua figlia. Temeva l'incontro con Addaio, la sua delusione. In questo momento, però, sentendosi vivo e di nuovo a casa non gli importava molto del fallimento, del suo fallimento. Era più di quanto fosse riuscito a fare suo fratello due anni prima. Il tipo del duomo gli aveva raccontato che Mendibj era an-
cora in prigione, anche se non aveva più avuto sue notizie da quel pomeriggio fatidico in cui l'avevano arrestato come un volgare ladruncolo. I giornali avevano poi riportato che il misterioso ladro era stato condannato a tre anni di carcere; in questo caso, tra un anno sarebbe tornato in libertà. Scese dalla nave senza salutare nessuno. La sera precedente il capitano gli aveva pagato la somma pattuita e gli aveva chiesto se non volesse continuare a lavorare con il suo equipaggio. A gesti, lui gli aveva risposto di no. Lasciò il porto e prese a camminare senza meta. Se l'uomo di Istanbul non si fosse fatto vivo, avrebbe cercato la maniera di arrivare a Urfa con mezzi propri. Aveva i soldi guadagnati come marinaio. Sentì un rumore di passi affrettati alle sue spalle e, voltandosi, si trovò di fronte l'uomo che mesi addietro gli aveva dato protezione. «Ti sto tenendo d'occhio da un po', dovevo assicurarmi che nessuno ti pedinasse. Stanotte dormirai da me, verranno a prenderti domani mattina all'alba. Fino ad allora è meglio che tu non stia in giro.» Il muto fece cenno di sì con la testa. Gli sarebbe piaciuto passeggiare per Istanbul, perdersi nelle viuzze del Gran Bazar in cerca di un profumo per sua moglie e di un regalo per la figlia, ma rinunciò. Qualunque altro contrattempo avrebbe accresciuto l'ira di Addaio, e lui, nonostante l'insuccesso, era felice di essere riuscito a tornare. Non voleva che qualche incidente potesse ulteriormente turbare il suo rientro. «Ce l'ho fatta.» La voce di Marco era allegra, trionfante. Sofia sorrise mentre faceva cenno ad Antonino di avvicinarsi per ascoltare con l'auricolare. «Non è stato facile convincere i due ministri ma alla fine mi hanno dato carta bianca. Rimetteranno in libertà il muto quando vorremo e ci autorizzano a pedinarlo ovunque vada.» «Ottimo, capo!» «Antonino, ci sei?» «Siamo qui tutti e due» rispose Sofia «ed è la più bella notizia che potessi darci.» «Sì, devo ammettere che sono contento. Non era facile. Adesso dobbiamo dire quando e come lo devono liberare. E a voi com'è andata?» «Ti ho già raccontato di D'Alaqua...» «Sì, ma i ministri non mi hanno detto niente, e questo significa che lui non si è lamentato.»
«Stiamo indagando di nuovo sugli operai e il personale del duomo, ma tra un paio di giorni torniamo.» «D'accordo, così decideremo come procedere, anche se ho già un piano.» «Quale?» «Non essere troppo curiosa, dottoressa, ogni cosa a suo tempo. Ciao!» «Vedi, come sei... Vabbe', ciao!» 13 Josar stava dormendo quando le dita nervose di un uomo bussarono alla fragile porta di casa sua. Il sole non era ancora sorto su Edessa, ma la guardia che stava sulla porta gli trasmise ordini diretti della regina. Doveva recarsi a palazzo, con Taddeo, prima del tramonto. Pensò che la regina, costretta dall'insonnia a vegliare al capezzale di Abgar, non si fosse resa conto di quanto fosse presto. Ma dallo sguardo nervoso della guardia capì che stava succedendo qualcosa. Avrebbe avvisato Taddeo e al calar della sera sarebbero saliti su per la collina del palazzo. Aveva il presentimento di qualcosa di grave. In ginocchio, a occhi chiusi, pregò cercando una risposta all'ansia che gli invadeva l'anima. Dopo diverse ore, arrivò Izaz, quasi insieme a Taddeo. Suo nipote gli riferì le voci che circolavano a palazzo. Le condizioni di Abgar stavano peggiorando a vista d'occhio. I medici disperavano che potesse uscire indenne da quello che sembrava l'ultimo assalto della morte. Consapevole del suo stato, Abgar aveva chiesto alla regina di chiamare alcuni amici al suo capezzale. Voleva dare loro le disposizioni per quando fosse morto. Ecco perché la regina li aveva fatti chiamare; con sua sorpresa, era stato convocato anche Izaz. Quando giunsero a palazzo, furono subito accompagnati nelle stanze di Abgar. Disteso sul letto, il re appariva più pallido che nei giorni precedenti. Quando li vide entrare, la regina, che gli stava rinfrescando la fronte con un panno inumidito con acqua di rose, emise un sospiro di sollievo. In quel momento altri due uomini entrarono nella stanza, Marzio, l'architetto di corte, e Senìn, il commerciante più ricco di Edessa, imparentato con il re, del quale era fedele amico. La regina fece loro un cenno perché si avvicinassero ad Abgar mentre
congedava le sue ancelle e ordinava alle guardie di chiudere le porte impedendo a chiunque di entrare. «Amici, volevo prendere commiato da voi e lasciarvi le mie ultime disposizioni.» La voce di Abgar era debole. Il re stava morendo, lo sapeva, e loro, per il rispetto e l'affetto che provavano per lui, non poterono rivolgergli parole di falsa speranza. Perciò attesero in silenzio di ascoltare quanto doveva dire loro. «Le mie spie mi hanno rivelato che non appena morirò mio figlio Maanu scatenerà una crudele persecuzione contro i cristiani e cercherà di uccidere qualcuno di voi. Taddeo, Josar e tu, Izaz, dovete lasciare Edessa prima che io muoia. Dopo non vi potrò proteggere. Maanu non oserà assassinare Marzio o Senìn, anche se sa che sono cristiani, perché rappresentano le famiglie nobili di Edessa e gli altri aristocratici gli giurerebbero vendetta. «Maanu incendierà i templi dedicati a Gesù e farà altrettanto con le case di alcuni dei miei sudditi più vicini al credo cristiano. Molti uomini, donne e bambini saranno assassinati per terrorizzare i cristiani e obbligarli a tornare a adorare i loro vecchi dèi. Ho paura per il sudario di Gesù, temo che il sacro lenzuolo venga distrutto. Maanu ha giurato di bruciarlo sulla piazza del mercato davanti a tutti gli abitanti di Edessa, e lo farà lo stesso giorno della mia morte. Voi, amici miei, dovete salvarlo.» I cinque uomini ascoltavano in silenzio le raccomandazioni del re. Josar guardò la regina e per la prima volta si rese conto che la grazia di una volta era scomparsa e i capelli che si intravedevano tra le pieghe del velo erano grigi. La donna era invecchiata, sebbene conservasse ancora una luce nello sguardo e i gesti rivelassero la regalità di sempre. Che ne sarebbe stato di lei? Sapeva che Maanu, suo figlio, la odiava. Abgar intuì la preoccupazione di Josar. Sapeva che il suo amico era sempre stato segretamente innamorato della regina. «Josar, ho chiesto alla regina di andarsene, è ancora in tempo, ma ella respinge le mie suppliche.» «Mia regina» disse Josar «la vostra vita è ancora più in pericolo della nostra.» «Josar, sono la regina di Edessa, e una regina non scappa. Se devo morire lo farò qui, vicino a coloro che come me credono in Gesù. Non abbandonerò chi ha confidato in noi, gli amici con cui ho pregato. Resterò accanto ad Abgar, non potrei mai abbandonarlo alla sua sorte in questo pa-
lazzo. Finché il re sarà vivo, Maanu non oserà fare nulla contro di me. Adesso ascoltate tutti il piano del re.» Abgar si raddrizzò nel letto stringendo la mano della regina. Negli ultimi giorni il sorgere del sole li aveva sorpresi a parlare ed elaborare il piano che adesso il re avrebbe illustrato ai suoi amici più cari. «La mia ultima disposizione è che salviate il sudario di Gesù. Ha compiuto su di me il miracolo della vita e ho così potuto giungere alla vecchiaia. Il lino sacro non mi appartiene, è di tutti i cristiani e per questo dovete salvarlo, ma vi chiedo, questo sì, che non esca da Edessa, che la città lo conservi per i secoli dei secoli. Gesù è voluto venire qui e qui resterà. Taddeo, Josar, dovete consegnare il sudario a Marzio. Tu, Marzio, saprai dove nasconderlo per salvarlo dall'ira di Maanu. Da te, Senìn, mi aspetto che organizzi la fuga di Taddeo e Josar, così come quella del giovane Izaz. Mio figlio non avrà il coraggio di assaltare una delle tue carovane. Li affido alla tua protezione.» «Abgar, dove vuoi che nasconda il telo sacro?» domandò Marzio. «Questo lo devi decidere tu, mio caro amico. Né la regina né io lo dobbiamo sapere, anche se dovrai scegliere una persona con cui condividere il segreto e metterla in salvo, sempre con l'aiuto di Senìn. Sento che la vita mi sta abbandonando. Non so quanti giorni mi restano, spero abbastanza perché possiate realizzare quanto vi chiedo.» Nell'ora che seguì, sapendo che poteva essere l'ultima occasione, il re prese amorevolmente congedo da tutti loro. Era l'alba quando Marzio arrivò alle mura occidentali. Gli operai lo aspettavano per seguire le sue istruzioni. In qualità di architetto di corte, Marzio non si occupava solo di costruire edifici che dessero gloria a Edessa ma sovrintendeva a tutte le opere della città, come queste mura occidentali dove si stava aprendo una nuova porta. Rimase stupito nel vedere Marvuz che parlava con Geremia, il capomastro. «Salute a te, Marzio.» «Che cosa fa da queste parti il capo delle guardie reali? Forse Abgar mi manda a chiamare?» «Mi ha inviato Maanu, che presto sarà re.» «Lo sarà se così vorrà Dio.» Nel silenzio dell'alba risuonò la potente risata di Marvuz. «Lo sarà, Marzio, lo sarà, e tu lo sai bene dal momento che ieri sei stato
con Abgar ed è chiaro come la morte lo stia minacciando.» «Cosa vuoi? Dillo subito perché ho da lavorare.» «Maanu vuole sapere cosa ha disposto Abgar. Sa che non solo tu ma anche Senìn, Taddeo, Josar e perfino Izaz lo scriba siete rimasti fino a tarda sera al capezzale del re. Il principe vuole informarti che se gli sarai fedele non ti accadrà nulla, in caso contrario non garantisce su quello che potrà succederti.» «Vieni a minacciarmi per conto di Maanu? Così poco è il rispetto che ha di se stesso il principe? Sono vecchio per temere qualunque cosa. Maanu può solo togliermi la vita, che sta già volgendo al termine. Ora vattene e lasciami lavorare.» «Mi rivelerai ciò che vi ha detto Abgar?» Marzio si voltò senza rispondergli e si mise a esaminare la malta di fango che uno degli operai stava mescolando. «Te ne pentirai, Marzio, te ne pentirai» esclamò Marvuz facendo girare il cavallo e avviandosi al galoppo verso il palazzo. Nelle ore che seguirono, Marzio sembrò concentrarsi sul lavoro. Il capomastro lo guardava con la coda dell'occhio. Marvuz lo aveva corrotto perché spiasse l'architetto reale e lui aveva accettato. Gli dispiaceva tradire il vecchio, che era sempre stato buono con lui, ma l'epoca di Marzio era finita e Marvuz gli aveva assicurato che Maanu avrebbe saputo come ricompensarlo per i suoi servigi. Il sole era al suo culmine quando Marzio disse al capomastro che era giunto il momento di fare una pausa. I corpi degli operai grondavano sudore e lo stesso capomastro si sentiva stanco, desideroso di sedersi a riposare. In quel momento arrivarono due giovani servi della casa di Marzio con due ceste, in cui il capomastro vide frutta fresca e acqua, che l'architetto cominciò a dividere con gli operai. Tutti riposarono per un'ora, anche se come in molte altre occasioni Marzio sembrava assorto nei suoi progetti, e continuava a salire e scendere dalle impalcature per verificare la solidità delle mura che stavano ampliando e i contorni della grande porta che voleva fosse ornamentale. Il capomastro chiuse gli occhi, esausto, mentre gli operai avevano appena la forza di parlare. Finché il sole non iniziò a calare verso occidente, Marzio non diede ordine di interrompere il lavoro. Il capomastro avrebbe potuto raccontare ben poco dell'attività di Marzio, ma si preparò a recarsi alla locanda di Trebol per incontrarsi con Marvuz. L'architetto salutò tutti e si diresse verso casa accompagnato dai suoi
servi. Marzio, vedovo da una ventina d'anni e senza prole, trattava i due giovani servi come se fossero figli suoi. Erano cristiani come lui, e sapeva che non l'avrebbero tradito. La sera precedente, prima di lasciare il palazzo di Abgar, si era accordato con Taddeo e Josar che avrebbe inviato loro un messaggio non appena avesse saputo dove nascondere il sudario di Gesù. Idearono un piano perché Josar glielo consegnasse senza destare sospetti in Maanu, dal momento che, Abgar l'aveva avvertito, poteva darsi che suo figlio li sorvegliasse. Decisero anche che Marzio avrebbe rivelato solo a Izaz dove intendeva nascondere il lenzuolo, per cui il nipote di Josar, non appena avesse ricevuto l'indicazione dall'architetto di corte, avrebbe dovuto fuggire dalla città con l'aiuto di Senìn. Taddeo aveva disposto che si recasse a Sidone, dove era nata una piccola ma prospera comunità cristiana. Il capo spirituale della comunità, Timeo, era stato mandato da Pietro a predicare. Izaz avrebbe trovato protezione presso Timeo e questi avrebbe saputo cosa fare con il sudario di Cristo. Nonostante la richiesta di Abgar perché si mettessero in salvo, Taddeo e Josar avevano deciso di rimanere a Edessa e seguire la stessa sorte degli altri cristiani. Nessuno dei due voleva abbandonare il sudario pur ignorando dove Marzio l'avrebbe nascosto. Taddeo e Josar si erano riuniti nel tempio con molti dei cristiani della città. Pregavano insieme per Abgar e chiedevano a Dio che avesse ancora una volta misericordia del re. Quella mattina Josar aveva piegato il lino con cura, nascondendolo sul fondo di un cesto secondo il piano escogitato da Marzio. Prima che il sole si facesse cocente, si recò al mercato, con il cesto al braccio, e si fermò qua e là a parlare con i commercianti. All'ora stabilita vide uno dei giovani servi di Marzio che comprava della frutta da un vecchio, si avvicinò e salutò affettuosamente il ragazzo che reggeva un cesto uguale al suo. Lo scambio avvenne di nascosto. Nessuno se ne accorse e le spie di Maanu non trovarono nulla di sospetto nel fatto che Josar salutasse un cristiano servo del suo amico Marzio. Peraltro, nemmeno il capomastro sospettò di Marzio quando questi, in cima a un'impalcatura dov'era salito con un cesto di frutta, prese una mela e la morse distrattamente mentre camminava su e giù per controllare la solidità delle mura che avrebbe continuato ad ampliare e tappava buchi con mattoni di argilla. A Marzio era sempre piaciuto sistemare mattoni, con-
tento lui di non riposare nemmeno quando il caldo annebbiava i sensi, pensò il capomastro. Marzio si rinfrescò con dell'acqua che uno dei servi aveva portato nella sua stanza. Ripresosi dalla calura della giornata, l'architetto di corte si cambiò la veste con una pulita. Sentiva che i suoi giorni stavano per finire. Alla morte di Abgar, Maanu avrebbe preteso di sapere dove fosse la Sindone per distruggerla. Avrebbe torturato tutti quelli che secondo lui potevano conoscere il nascondiglio, e Marzio era uno degli amici di Abgar che Maanu sospettava potessero condividere il segreto. Per questo Marzio aveva preso una decisione che avrebbe comunicato la sera stessa a Taddeo e Josar, e che avrebbe messo in atto non appena avesse saputo che Izaz era al sicuro. Accompagnato dai suoi due giovani servi andò al tempio, dove sapeva che i suoi amici stavano pregando. Si mise in un angolo appartato, lontano dagli sguardi della gente. Abgar lo aveva avvertito delle spie di Maanu. Izaz scorse il vecchio nascosto nell'ombra. Approfittò del momento in cui Taddeo e Josar gli chiesero di aiutarli a dividere il pane e il vino tra i fedeli per avvicinarsi a Marzio. Questi gli consegnò un foglio di pergamena piegato con cura che Izaz nascose tra le pieghe della sua veste. Quindi cercò con lo sguardo la sagoma di un uomo alto e forte che sembrava essere in attesa del suo segnale. Izaz uscì con discrezione dal tempio e, seguito dal colosso, si diresse velocemente al caravanserraglio. La carovana di Senìn era pronta a lasciare Edessa. Harran, l'uomo incaricato da Senìn di portare la carovana fino a Sidone, aspettava impaziente. Indicò a Izaz e al gigante di nome Obodas il posto che aveva assegnato loro e diede ordine di partire. Solo dopo che il sole fu tramontato, Izaz aprì la pergamena che gli aveva consegnato Marzio e riuscì a leggere le poche righe con cui l'architetto indicava con precisione dove aveva nascosto la Sacra Sindone. Strappò la pergamena e ne sparse i resti nel deserto. Obodas lo osservava con attenzione e si guardava anche intorno. L'ordine di Senìn era stato di proteggere il ragazzo anche a costo di perdere la propria vita. Dovettero passare tre sere prima che Harran e Obodas ritenessero di essere a una distanza sufficiente da Edessa per concedersi un breve riposo e inviare un messaggero a casa di Senìn. Ci avrebbe impiegato altri tre giorni ad arrivare, e nel frattempo Izaz sarebbe stato al sicuro.
Abgar era in agonia. La regina fece chiamare Taddeo e Josar per avvisarli che nel giro di qualche ora, forse di minuti, il re sarebbe morto. Ormai non riconosceva più nemmeno lei. Erano trascorsi dieci giorni da quando Abgar aveva riunito in quella stessa stanza i suoi amici per parlare con loro fino a notte fonda. Adesso il re era un corpo inerte, non apriva gli occhi e il debole fiato su uno specchio era il suo unico segnale di vita. Maanu non si allontanava dal palazzo, aspettando impaziente la morte di Abgar. La regina non gli permetteva di entrare nella stanza reale, ma poco importava: lui sapeva quanto stava succedendo perché aveva corrotto una giovane schiava promettendole la libertà in cambio del racconto di quanto accadeva nella stanza di Abgar. La regina, sapendo di essere spiata, all'arrivo di Josar e Taddeo fece uscire tutti i servitori e parlò con gli amici a voce bassa. Alla notizia che il sacro lino era in salvo sorrise sollevata. Promise di avvisarli non appena Abgar fosse mancato. Li avrebbe informati per mezzo di uno scriba, Tizio, che professava il cristianesimo ed era una persona fedele. Si salutarono con grande emozione sapendo che non si sarebbero rivisti in questa vita. La regina chiese a Taddeo e Josar di benedirla e pregare per lei affinché trovasse il coraggio nel momento di affrontare la morte alla quale suo figlio Maanu l'aveva condannata. Gli occhi pieni di lacrime, Josar non riusciva a staccarsi dalla regina. Non era più la bella donna di un tempo, ma il suo sguardo brillava di energia e i suoi nobili modi la rendevano straordinaria. Consapevole della devozione che il vecchio scriba aveva per lei, la sovrana gli strinse la mano e lo abbracciò per dimostrargli che sapeva quanto l'avesse amata e che a sua volta gli voleva bene come al più fedele degli amici. L'agonia di Abgar durò altri tre giorni. Il palazzo era immerso nell'oscurità della notte e il re era vegliato solo dalla regina. Aprì gli occhi e le sorrise riconoscente, con uno sguardo pieno d'amore e tenerezza. Quindi spirò, in pace con se stesso e con Dio. La regina strinse forte la mano del marito. Poi gli chiuse delicatamente gli occhi e lo baciò sulle labbra. Si concesse solo qualche minuto per pregare e chiedere a Dio di accogliere Abgar. Scivolò con circospezione lungo i corridoi bui fino a una stanza vicina dove da giorni si trovava Tizio, lo scriba reale. Stava dormendo, ma nel sentire la mano della regina che gli toccava una
spalla si svegliò. Nessuno dei due parlò. Lei tornò nella stanza reale nascosta dalla notte, mentre Tizio sgattaiolò con cautela fuori dal palazzo per recarsi da Josar. Non era ancora l'alba quando Josar, costernato, ricevette da Tizio la notizia della morte di Abgar. Doveva informare Marzio; così gli aveva chiesto di fare l'architetto di corte per portare a termine il suo piano. Doveva avvisare velocemente anche Taddeo dal momento che, ne era certo, la vita di entrambi era giunta alla fine. 14 «Dài, Marco, dicci cos'è che ti preoccupa.» La domanda diretta di Santiago Jiménez lo colse alla sprovvista. «Si vede così tanto che sono preoccupato?» «Siamo del mestiere, non ce la puoi dare a bere!» Paola sorrise. Marco le aveva chiesto di invitare a cena John, l'addetto culturale dell'ambasciata degli Stati Uniti, e Santiago Jiménez, il rappresentante dell'Europol a Roma. John era venuto con la moglie Lisa. Santiago era scapolo e ogni volta li sorprendeva presentandosi alle cene con un'accompagnatrice occasionale. Questa volta era arrivato con sua sorella, Ana, una ragazza bruna e piena di vitalità, giornalista, che si trovava a Roma per seguire una riunione dei capi di governo dell'Unione Europea. «Come sapete, c'è stato un altro incidente nel duomo di Torino» esclamò Marco. «E pensi che sia stato intenzionale?» «Sì, John, credo proprio di sì. La storia degli incidenti avvenuti in duomo negli ultimi secoli è impressionante, lo sapete: incendi, tentativi di furto, allagamenti. Come impressionanti sono tutte le vicissitudini che ha attraversato la Sindone. Nel nostro mestiere sappiamo che bisogna diffidare delle coincidenze.» «La storia della Sindone è interessante, le sue apparizioni e sparizioni in epoche diverse, i pericoli a cui è stata esposta... Ma sei convinto che qualcuno voglia danneggiarla o semplicemente rubarla?» disse Lisa. «Rubarla? No, non abbiamo mai pensato che qualcuno volesse rubarla. Piuttosto distruggerla, visto che questi incidenti potevano esserle fatali.» «La Sacra Sindone si trova nel duomo di Torino da quando i Savoia decisero di collocarla lì, dopo che l'allora cardinale di Milano, Carlo Borro-
meo, promise di recarsi a piedi dalla sua città fino a Chambéry, dove si trovava la Sindone, per invocare la fine della peste che flagellava Milano. I Savoia, commossi dalla devozione del cardinale, decisero di trasferire la Sindone a metà strada, a Torino, per risparmiargli un viaggio così lungo. E lì è rimasta. È chiaro che se il duomo ha subito tanti incidenti, e a quanto pare tu non credi alle coincidenze, è impensabile che chi ha provocato un incendio quindici giorni fa sia la stessa persona che lo ha fatto il secolo scorso. E poi...» «Lisa, non essere impertinente» l'ammonì John. «Marco ha ragione, in così tanti incidenti ci può essere qualcosa di strano.» «Sì, quello che mi chiedo io è perché, e non riesco a trovare un motivo. Può darsi che ci sia un pazzo che vuole distruggere la Sindone.» «Sì, però quel pazzo potrà aver provocato gli incidenti degli ultimi dieci, quindici, vent'anni, ma quelli precedenti?» domandò Ana. «Bella storia! Mi piacerebbe scriverla...» «Ana! Non sei qui in veste di giornalista!» «Non ti preoccupare, Santiago, lascia stare. Sono sicuro di poter contare sulla discrezione di tua sorella, anche se è giornalista. Vi chiedo di aiutarmi a pensare, a uscire da questa impasse. Forse con i miei collaboratori siamo troppo dentro al problema, non riusciamo a vedere al di là del nostro naso e ci stiamo fissando, be', soprattutto io, sul fatto che dietro gli incidenti ci sia un movente e magari invece non c'è nulla a parte un mucchio di coincidenze. Vorrei chiedervi di dare un'occhiata alla relazione che ho scritto su tutto quello che è successo nel duomo e alla Sindone negli ultimi cent'anni. So di approfittare della vostra amicizia, e che non avete assolutamente tempo, ma mi piacerebbe che la leggeste e ci rivedessimo quando avrete tratto le vostre conclusioni.» «Conta pure su di me, per quello che posso. E poi sai che se vuoi dare un'occhiata agli archivi dell'Europol non ci sono problemi.» «Grazie, Santiago.» «Amico mio, studierò la tua relazione e ti dirò sinceramente cosa ne penso. Sai di poter fare affidamento sul mio aiuto, ufficiale e non, per quello che ti serve» si offrì John. «Anche a me piacerebbe leggere la relazione.» «Ana, non sei una poliziotta, non c'entri niente con queste cose. Marco non ti può dare una relazione ufficiale di carattere riservato.» «Mi dispiace, Ana» iniziò a scusarsi Marco. «Peggio per voi, perché il mio istinto mi dice che se c'è qualcosa, di qua-
lunque tipo, dovete affrontarlo da un punto di vista storico, non poliziesco, comunque... contenti voi.» Si accordarono per incontrarsi a cena la settimana seguente. Lisa si propose come padrona di casa. «Sai, fratellino, che mi fermo con te ancora qualche giorno?» «Ana, so che il racconto di Marco può essere una bella storia per il tuo giornale, ma si dà il caso che sia un mio amico. Oltre tutto mi creeresti un problema professionale se si venisse a sapere che mia sorella scrive di fatti su cui indagano i carabinieri e dei quali può essere venuta a conoscenza solo attraverso me. Mi rovineresti letteralmente la carriera.» «Va bene, non fare il drammatico, non scriverò una riga, te lo prometto.» «Non farai scherzi? Rispetterai il carattere ufficioso della notizia?» «Non farò scherzi, sta' tranquillo, sono tua sorella. E poi io non divulgo notizie ufficiose, fa parte delle regole del mio lavoro.» «Ma come ti è saltato in mente di fare la giornalista!» «Sempre meglio di te che fai il poliziotto.» «Su, ti offro qualcosa in un posto che ti piacerà da pazzi. È di gran moda, così quando torni a Barcellona ti puoi vantare.» «D'accordo, ma comunque mi piacerebbe che ti fidassi di me. Credo che potrei aiutarvi, e ti prometto che lo farei senza dire niente a nessuno e senza scrivere una riga. Queste storie mi affascinano proprio.» «Ana, non posso permettere che ti intrometta in un'indagine che non è mia ma del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Mi creerebbe dei problemi, te l'ho già detto.» «Ma non se ne accorgerebbe nessuno. Te lo giuro, per favore, fidati di me. Sono stufa di scrivere di politica, di fiutare scandali nei governi. Nel mio lavoro ho avuto molta fortuna, mi è andata bene da subito, però non ho ancora trovato una bella storia e questa potrebbe esserlo.» «Ma non mi hai appena detto di fidarmi di te, che non dirai né scriverai niente?» «E non lo farò!» «Allora, cosa vuol dire che non hai ancora trovato una bella storia?» «Ascolta, facciamo un patto. Mi lasci indagare per conto mio, senza dire niente a nessuno. Sarai l'unico cui racconterò quello che scopro, ammesso che riesca a scoprire qualcosa. Se alla fine trovo una pista o qualunque cosa che vi possa aiutare a svelare il mistero degli incidenti nel duomo, e
Marco risolve il caso, allora vi chiederò il permesso di raccontare tutto o almeno una parte. Comunque, mai prima che il caso sia risolto.» «Non si può.» «Perché?» «Perché il caso non è mio e non posso e non devo scendere a patti né con te né con nessuno. Ma chi me l'ha fatto fare di portarti a cena da Marco!» «Non ti arrabbiare, Santiago. Ti voglio bene e non farei mai qualcosa che potrebbe danneggiarti. Sono una giornalista, mi piace moltissimo quello che faccio ma prima vieni tu, non potrei mai anteporre il giornalismo alle persone, mai. E tanto meno a te.» «Mi voglio fidare, Ana, voglio fidarmi di te, anche perché non ho scelta. Però domani te ne vai. Torni in Spagna, non resti qui.» 15 Il muto lasciava vagare lo sguardo lungo la strada battuta da un gran numero di macchine e camion. Il camionista che lo stava portando a Urfa sembrava muto come lui, da quando erano partiti da Istanbul gli aveva a malapena rivolto la parola. Si era presentato a casa dell'uomo che lo teneva nascosto. "Sono di Urfa, vengo a prendere Zafarìn." Il suo custode aveva annuito e l'aveva fatto uscire dalla stanza dove dormiva. Zafarìn aveva riconosciuto l'uomo che era venuto a cercarlo. Era del suo paese e, come lui, uomo di fiducia di Addaio. Il tipo che l'ospitava aveva consegnato ai due un sacchetto con datteri, arance e un paio di bottiglie d'acqua, accompagnandoli poi dove il camionista aveva parcheggiato il mezzo. "Zafarìn" gli aveva detto "con quest'uomo sarai al sicuro, ti porterà da Addaio." "Che istruzioni ti hanno dato?" aveva chiesto al camionista. "Solamente di fare il più in fretta possibile cercando di non fermarmi in posti dove potremmo attirare l'attenzione." "Deve arrivare sano e salvo." "Ci arriverà. Io eseguo sempre gli ordini di Addaio." Zafarìn si era accomodato sul sedile accanto a quello del conducente. Gli sarebbe piaciuto che questi gli avesse dato notizie di Addaio, della sua famiglia, del paese, ma l'uomo se ne stava chiuso in un ostinato silenzio. Gli
aveva rivolto la parola solo in un paio di occasioni per chiedergli se aveva fame o doveva andare in bagno. Dopo tante ore al volante si vedeva che cominciava a essere stanco. Zafarìn gli fece un gesto per dirgli che avrebbe potuto guidare lui, ma il camionista rifiutò. «Non manca molto e non voglio avere problemi. Addaio non mi perdonerebbe se combinassi qualche pasticcio, e tu, a quanto pare, ne hai già combinati abbastanza.» Zafarìn serrò la mascella. Aveva messo a rischio la sua vita e questo stupido lo rimproverava di aver combinato un pasticcio. Cosa ne sapeva lui del pericolo che aveva affrontato con i suoi compagni?! La quantità di macchine sulla strada aumentava. La E-24 è una delle strade più trafficate della Turchia perché è quella che la collega all'Iraq, con i giacimenti petroliferi iracheni, e per di più sovraffollata di camion e auto militari che perlustrano il confine turco-siriano, all'erta soprattutto per via dei guerriglieri curdi che operano nella zona. Tra meno di un'ora Zafarìn sarebbe stato a casa e in quel momento non gli importava altro. «Zafarìn, Zafarìn!» La voce sgraziata della madre gli parve una musica celestiale. Era lì, piccola e magra, con i capelli coperti dal velo. Nonostante la bassa statura dominava tutta la famiglia. Suo padre, i fratelli, lui stesso, naturalmente sua moglie e la figlia. Nessuno osava contraddirla. Sua moglie, Ayat, aveva gli occhi pieni di lacrime. Lo aveva supplicato di non andarsene, di non accettare quella missione. Ma come ci si poteva tirare indietro di fronte a un ordine di Addaio? Sua madre e suo padre avrebbero dovuto subire l'onta di essere marchiati dalla Comunità. Zafarìn scese dal camion e in un attimo sentì le braccia di Ayat attorno al collo mentre la madre si dava a sua volta da fare per abbracciarlo e sua figlia, spaventata, si era messa a piangere. Il padre lo osservava emozionato, aspettando che le donne smettessero di strapazzarlo con le loro dimostrazioni d'affetto. Si abbracciarono, e in quel momento Zafarìn, sentendo la forza delle braccia contadine del padre, si lasciò andare all'emozione e scoppiò in lacrime. Era come quando, da piccolo, suo padre lo stringeva forte per consolarlo le volte in cui tornava a casa con i segni di qualche zuffa scoppiata in strada o a scuola. Suo padre gli aveva sempre trasmesso sicurezza, la sicurezza di poter contare su di lui
che, qualunque cosa fosse successa, sarebbe stato lì a proteggerlo. E adesso Zafarìn sentì che avrebbe avuto bisogno della sua protezione al momento di affrontare Addaio. Sì, aveva paura di Addaio. 16 Il giardino della casa, in stile neoclassico, era più illuminato del solito. Poliziotti della contea e agenti segreti facevano a gara per tutelare la sicurezza degli invitati a quella festa esclusiva. Tra i presenti figuravano anche il presidente degli Stati Uniti e sua moglie, i ministri del Tesoro e della Difesa, diversi senatori e influenti rappresentanti del Congresso, sia repubblicani sia democratici, oltre ai presidenti dei principali consorzi e multinazionali nordamericani ed europei, e a una decina di banchieri, avvocati di grandi società, medici, scienziati e qualche altro celebre nome del mondo accademico. Quella sera a Boston non faceva caldo, perlomeno non nella zona residenziale dove si trovava la dimora degli Stuart. Mary Stuart compiva cinquant'anni, e suo marito James aveva voluto onorare il suo compleanno con una festa che riunisse tutti gli amici. In realtà, pensava Mary, alla festa c'erano buoni conoscenti più che amici. Non l'avrebbe mai detto a James per non deluderlo, ma sarebbe stata più contenta se le avesse fatto la sorpresa di un viaggio in Italia, loro due soli, senza fretta né impegni sociali. Un giro della Toscana, dove trent'anni prima avevano trascorso la luna di miele. Ma a James una cosa del genere non sarebbe mai venuta in mente. «Umberto!» «Mary, cara, auguri.» «Che gioia vederti.» «La gioia me l'ha data James facendomi l'onore di invitarmi a questa festa. Questo è per te, spero che ti piaccia.» L'uomo le mise in mano una scatoletta avvolta in una carta bianca lucida. «Non dovevi disturbarti... Cos'è?» Mary l'aprì velocemente e rimase incantata davanti all'immagine che spuntava dalla carta da imballaggio che l'aveva protetta. «È del secondo secolo avanti Cristo, una gentildonna affascinante e bella come te.» «Splendida. Grazie, grazie infinite. Mi metti in imbarazzo. James... Ja-
mes...» James Stuart si avvicinò alla moglie e a Umberto D'Alaqua. I due uomini si strinsero la mano con simpatia. «Questa volta con che cosa hai stupito Mary? Che meraviglia! Be', vicino al tuo il mio regalo è insignificante.» «James, non dire così, sai che mi è piaciuto tantissimo! Mi ha regalato questi orecchini e questo anello. Sono le perle più perfette che abbia mai visto.» «Sono le perle più perfette che esistano, te lo garantisco. E ora vai ad ammirare questa meravigliosa gentildonna mentre offro da bere a Umberto.» Dieci minuti più tardi, James Stuart lasciava Umberto D'Alaqua vicino al presidente e ad altri invitati mentre lui continuava a passare da un gruppo all'altro intrattenendosi con i suoi ospiti. A sessantadue anni, Stuart si sentiva arrivato. Aveva tutto ciò che poteva desiderare nella vita: una bella famiglia, la salute e il successo negli affari. Fabbriche di laminati in acciaio, laboratori farmaceutici, aziende impegnate nella riconversione tecnologica e un'altra moltitudine di imprese facevano di lui uno degli uomini più ricchi e influenti del mondo. Aveva ereditato dal padre un piccolo impero industriale che lui aveva saputo moltiplicare. Peccato che i suoi figli non fossero particolarmente portati per gli affari. Gina, la più giovane, aveva studiato archeologia e spendeva un patrimonio finanziando e partecipando a scavi nei luoghi più assurdi del pianeta. Gina era identica a sua cognata Lisa, per quanto lui sperasse che la figlia fosse più saggia. Tom aveva studiato medicina e se ne infischiava dei laminati in acciaio. Per fortuna si era sposato e aveva due figli, i suoi adorati nipotini, che lui sperava avessero capacità e voglia sufficienti per ereditare il suo impero. Nessuno si era accorto di quei sette uomini che stavano chiacchierando tra loro da un bel po', attenti comunque a quanto accadeva tutt'intorno. Quando qualcuno si avvicinava cambiavano argomento, facevano finta di parlare della situazione in Iraq, dell'ultimo vertice di Davos o di qualsiasi altro avvenimento che avrebbe potuto preoccuparli, considerato chi erano e di cosa si occupavano. Il più anziano, alto e magro, sembrava condurre la conversazione. «È stata una buona idea vederci qui.» «Sì» rispose uno degli interlocutori con accento francese «qui non attiriamo l'attenzione, nessuno ci noterà.»
«Marco Valoni ha chiesto al ministro dei Beni culturali che il muto della prigione di Torino venga liberato» disse un altro dei presenti in un inglese impeccabile nonostante la sua lingua madre fosse l'italiano «e il ministro degli Interni ha accettato la richiesta del collega. L'idea è stata di una delle sue collaboratrici, la dottoressa Galloni. Una donna intelligente, giunta alla conclusione che il muto sia l'unico che possa metterli su qualche pista. La dottoressa Galloni ha anche convinto Valoni che è necessario indagare sulla COCSA, da cima a fondo.» «C'è un modo per allontanare la dottoressa Galloni dal Comando?» «Sì, potremmo esercitare delle pressioni facendo notare che quella donna è un'impicciona. La COCSA potrebbe protestare, muovere delle pedine in Vaticano e fare in modo che da là si intervenga presso il governo italiano perché lascino in pace la società. Si può anche agire attraverso il ministro dell'Economia, cui non farà certo piacere che si dia fastidio a una delle principali aziende del paese per un incendio senza conseguenze. Però, secondo me, dovremmo aspettare prima di muoverci nei confronti di Sofia Galloni.» L'uomo più anziano fissò la persona che aveva appena parlato. Non sapeva perché ma nel tono di voce del suo amico c'era qualcosa che lo aveva fatto sussultare. Tuttavia né i gesti né lo sguardo lasciavano trasparire qualche emozione. Eppure... Decise di coglierlo di sorpresa per verificare la sua reazione. «Potremmo anche farla sparire. Non possiamo permetterci di avere alle calcagna un investigatore troppo curioso. Siete d'accordo?» L'uomo dall'accento francese parlò per primo. «No, io no. Mi sembra inutile. Un errore fatale. Per ora non dobbiamo fare niente. Che segua pure il suo filo, c'è sempre tempo di tagliarlo e levarla di mezzo.» «Credo che non dobbiamo essere precipitosi» aggiunse l'italiano. «Sarebbe uno sbaglio allontanare la dottoressa Galloni o farla sparire. La cosa non avrebbe altro effetto che irritare Marco Valoni dandogli la conferma che dietro gli incidenti c'è qualcos'altro. E poi spingerebbe lui e il resto del gruppo a non mollare l'indagine nemmeno se glielo ordinassero. La dottoressa Galloni è un rischio perché è intelligente, però è un rischio che dobbiamo correre. Abbiamo comunque un vantaggio, ed è quello di sapere tutto quello che Valoni e i suoi fanno o pensano di fare.» «Non sospettano del nostro informatore?» «È una delle persone di maggior fiducia di Valoni.»
«Bene, c'è altro?» chiese l'anziano. Un uomo che sembrava un aristocratico inglese iniziò a fornire ragguagli. «Zafarìn è arrivato a Urfa due giorni fa. Non mi hanno ancora riferito la reazione di Addaio. Un altro dei suoi compagni, Rasit, è arrivato a Istanbul e il terzo, Dermisat, arriverà oggi.» «Bene, sono già in salvo. Adesso il problema è di Addaio, non nostro. Noi dobbiamo occuparci del muto nel carcere di Torino.» «Potrebbe avere qualche contrattempo prima di uscire di prigione. Sarebbe il sistema più sicuro. Se esce seguiranno la sua pista fino a Addaio» suggerì l'inglese. «È la cosa più prudente» aggiunse un altro degli uomini dall'accento francese. «Possiamo farlo?» chiese l'anziano. «Sì, abbiamo qualcuno dei nostri all'interno del carcere. Ma bisognerà organizzare tutto con attenzione perché, se succede qualcosa al muto, Marco Valoni non si accontenterà del rapporto ufficiale.» «Anche a costo di un attacco d'ira, dovrà accettarlo. Senza il muto il caso per lui si chiude, almeno per ora» decretò l'anziano. «E la Sindone?» chiese un altro dei presenti. «È ancora in banca. Appena finiranno i lavori di restauro del duomo tornerà nella cappella dov'era esposta. Il cardinale vuole celebrare una messa solenne per ringraziare il Signore di aver salvato ancora una volta la Sacra Sindone.» «Signori... state concludendo qualche affare?» Il presidente degli Stati Uniti, accompagnato da James Stuart, si era avvicinato al gruppo. Gli uomini sciolsero il capannello per accoglierli. Per le due ore successive evitarono di riprendere a parlare per non destare sospetti tra gli altri invitati. «Mary, chi è quello laggiù?» «Uno dei nostri migliori amici. Umberto D'Alaqua, non te lo ricordi?» «Sì, sì, adesso che mi dici il nome, sì. È sempre un bell'uomo.» «È uno scapolone incallito. Un vero peccato, perché oltre che bello è adorabile.» «Non molto tempo fa ho sentito qualcosa su di lui... ma dove?...» Lisa si ricordò dove. Nella relazione che Marco aveva mandato a John in merito all'incendio del duomo di Torino si parlava di un'impresa, la COCSA, e del suo proprietario, D'Alaqua; ma non ne poteva far parola con
sua sorella. John non glielo avrebbe perdonato. «Se vuoi salutarlo ti accompagno. Mi ha regalato un'immagine del secondo secolo avanti Cristo che è una meraviglia. Se dopo sali in camera mia te la faccio vedere.» Le due sorelle si avvicinarono a D'Alaqua. «Umberto, ti ricordi di Lisa?» «Ma certo, Mary, che mi ricordo di tua sorella.» «Sono passati tanti anni...» «Sì, da quando tu, Mary, non vieni in Italia spesso come dovresti. Lisa, se non sbaglio, abita a Roma, giusto?» «Sì, viviamo a Roma e non credo che potrei abitare in un altro posto.» «Gina è a Roma con Lisa, sta preparando il dottorato all'università. E Lisa è riuscita anche a inserirla nel gruppo che esegue gli scavi a Ercolano.» «Ah! Ora ricordo che lei, Lisa, è archeologa.» «Sì, e la passione per l'archeologia Gina l'ha ereditata dalla zia.» «Non conosco un lavoro più affascinante che fare ricerche sul passato. Se ricordo bene, anche lei, Umberto, è appassionato di archeologia.» «Esatto. Ogni tanto trovo il tempo di scappare e lavorare a qualche scavo.» «La fondazione di Umberto finanzia scavi.» James Stuart si avvicinò a D'Alaqua e lo trascinò verso un altro gruppo deludendo Lisa, che avrebbe continuato a chiacchierare volentieri con l'uomo citato nella relazione di Marco Valoni. Quando glielo avesse raccontato, John non ci avrebbe creduto. Marco stesso si sarebbe stupito. Rise fra sé pensando che era stata una buona idea accettare l'invito di James a fare una sorpresa alla sorella il giorno del suo compleanno. Pensava che quando Mary fosse stata a Roma avrebbe potuto organizzare una cena e invitare D'Alaqua e anche Marco. Certo, D'Alaqua poteva seccarsi e Mary avrebbe potuto arrabbiarsi con lei. Si sarebbe consultata con la nipote, avrebbero compilato insieme la lista degli invitati. 17 Il giovane servo piangeva inorridito. Il viso di Marzio era coperto di sangue. Il secondo servitore era corso da Josar per avvisarlo della tragedia avvenuta nella casa dell'architetto di corte. Josar e Taddeo non si meravigliarono al suo racconto. «In quel momento abbiamo udito un grido acuto, terribile, e quando
siamo entrati nella sua stanza, Marzio teneva in una mano la lingua e nell'altra una daga affilata con la quale se l'era tagliata. Ha perso conoscenza e non sappiamo che fare. Ci aveva avvisato che stanotte sarebbe accaduto qualcosa e ci aveva ordinato di non spaventarci qualunque cosa avessimo visto. Ma, Dio mio, si è mozzato la lingua. Perché? Perché?» Josar e Taddeo cercarono di calmare il ragazzo. Era visibilmente spaventato. Si misero subito in cammino verso la casa di Marzio e lì trovarono l'amico svenuto, il letto pieno di sangue, mentre l'altro servitore rannicchiato in un angolo piangeva e pregava con grande strepito. «Calmatevi!» ordinò Josar. «Adesso verrà un medico e lo curerà. Ma questa notte, amici miei, dovete essere forti. Non vi potete far abbattere né dalla paura né dal dolore, altrimenti la vita di Marzio sarà in pericolo.» I giovani servitori lentamente si calmarono. Quando il medico arrivò, li fece uscire dalla stanza e restò da solo con il suo assistente. Si trattennero a lungo. «Ecco fatto. Ora riposa tranquillo. Voglio che per qualche giorno resti in uno stato di dormiveglia con queste gocce che gli dovrete versare nell'acqua da bere. Così eviterà di sentire il dolore e dormirà finché la ferita non si sarà cicatrizzata.» «Dobbiamo chiederti un favore» disse Taddeo rivolgendosi al medico. «Anche noi non vogliamo più la lingua.» Il medico, cristiano come loro, li osservò preoccupato. «Nostro Signore Gesù non approverebbe queste mutilazioni.» «È necessario» spiegò Josar «perché è l'unico modo per far sì che Maanu non ci costringa a parlare. Ci torturerà per sapere dove si trova il sacro lino che ha avvolto il corpo di Gesù. Noi non lo sappiamo, ma potremmo dire qualcosa che mette in pericolo chi invece lo sa. Non vogliamo fuggire, dobbiamo restare con i nostri fratelli perché devi sapere che tutti noi cristiani subiremo l'ira di Maanu.» «Per favore, aiutaci» insistette Taddeo. «Non siamo coraggiosi come Marzio, che è stato capace di mozzarsi la lingua con un colpo della sua daga affilata.» «Ciò che mi chiedete va contro le leggi di Dio. Il mio dovere è aiutare a guarire, non posso mutilare un essere umano.» «Allora lo faremo noi» esclamò Josar. Il suo tono di voce deciso convinse il medico. Per prima cosa andarono a casa di Taddeo, dove il medico diluì nell'acqua il contenuto di una bottiglietta. Una volta che Taddeo fu immerso nel
sonno, il dottore chiese a Josar di uscire dalla stanza e di andarsene a casa dove l'avrebbe raggiunto nel giro di poco. Josar attese con impazienza l'arrivo del medico. Questi entrò con aria contrita. «Sdraiati sul letto e bevi questo» disse a Josar. «Ti addormenterai, e al risveglio sarai senza lingua. Che Dio mi perdoni.» «Ti ha già perdonato.» La regina si era pettinata con cura. La notizia della morte di Abgar era giunta fino all'angolo più remoto del palazzo. Aspettava che da un momento all'altro suo figlio Maanu si presentasse nella stanza reale. I servitori, aiutati dai medici, avevano composto la salma di Abgar per esporla al popolo. Il re aveva chiesto che pregassero per la sua anima prima di tumulare il corpo nel mausoleo reale. La regina non sapeva se Maanu avrebbe permesso che seppellissero Abgar secondo le leggi di Gesù, ma era disposta a ingaggiare quest'ultima battaglia per l'uomo che amava. Nelle ore in cui rimase sola con le spoglie di Abgar, cercò nel profondo del suo cuore il motivo dell'odio di suo figlio. Trovò la risposta; in realtà l'aveva sempre saputa, anche se fino a quella mattina non l'aveva mai affrontata. Non era stata una brava madre. Decisamente no. Il suo amore per Abgar era totale, e lei non aveva permesso a niente e nessuno, nemmeno ai suoi figli, di allontanarla per un attimo dal re. Oltre a Maanu aveva dato alla luce altri quattro bambini. Tre femmine e un maschio che morì poco dopo la nascita. Delle figlie non si era curata molto. Erano delle bimbe taciturne che vennero presto date in sposa per rafforzare le alleanze con gli altri regni. Non si era quasi accorta della loro partenza, tanto era profondo il suo amore per il re. Per questo aveva sopportato in silenzio il dolore dell'amore di Abgar per Ania, la ballerina che gli aveva trasmesso la malattia. Dalle sue labbra non era uscito un solo rimprovero, perché nulla potesse turbare il suo rapporto con il re. Non aveva avuto tempo per Maanu, a tal punto l'assorbiva l'amore per Abgar e tanto vicini erano riusciti a stare l'uno all'altra. Ora che stava per morire, perché era sicura che Maanu non le avrebbe risparmiato la vita, sentiva di aver tradito il figlio negandogli una madre. Com'era stata egoista! Gesù l'avrebbe mai perdonata?
La voce forte e istrionica di Maanu lo precedette nella stanza reale. «Voglio vedere mio padre.» «È morto.» Maanu la guardò con sfida. «Allora sono il re di Edessa.» «Lo sei, e tutti ti riconosceranno come tale.» «Marvuz! Porta via la regina.» «No, figlio, non ancora. La mia vita è nelle tue mani, ma prima seppelliremo Abgar come si addice a un re. Lasciami adempiere le sue ultime volontà, che lo scriba reale ti potrà confermare.» Tizio si avvicinò timoroso portando un rotolo di pergamena. «Mio re, Abgar mi ha dettato i suoi ultimi desideri.» Marvuz bisbigliò qualche parola all'orecchio di Maanu. Questi diede un'occhiata alla stanza e si rese conto che il capo delle guardie reali aveva ragione: oltre ai servitori, assistevano trepidanti alla scena scribi, medici, guardie e cortigiani. Non poteva farsi trascinare dall'odio, almeno non in maniera evidente, o avrebbe spaventato coloro che erano destinati a essere suoi sudditi e che anziché collaborare avrebbero piuttosto cospirato contro di lui. Si rese conto che la regina aveva vinto di nuovo. L'avrebbe uccisa lì sul posto con le sue mani ma doveva aspettare e accettare di seppellire il padre come un re, quale era stato. «Leggi, Tizio» intimò. Lo scriba, con voce impaurita, lesse lentamente le ultime volontà di Abgar. Maanu deglutì, rosso dall'ira. Abgar aveva disposto che venisse celebrata una cerimonia cristiana, cui prendesse parte tutta la corte, per pregare per la sua anima. Alla funzione doveva essere presente Maanu accompagnato dalla regina. Il suo corpo sarebbe dovuto rimanere tre giorni e tre notti in quel primo tempio che Josar, su sua indicazione, aveva fatto costruire. Passati i tre giorni, un corteo aperto da Maanu e dalla regina lo avrebbe accompagnato al mausoleo reale. Tizio si schiarì la voce e guardò prima la regina e poi Maanu. Dalla piega della manica estrasse un'altra pergamena. «Se me lo permetti, signore, leggerò anche ciò che Abgar vuole che tu faccia una volta re.» Nella sala gremita si levò un mormorio di sorpresa. Maanu digrignò i denti intuendo che il padre, benché fosse morto, gli aveva teso un tranello. «"Io, Abgar, re di Edessa, ordino a mio figlio Maanu, diventato re, di rispettare i cristiani permettendo loro di continuare a professare il proprio
culto. Lo nomino inoltre responsabile dell'incolumità di sua madre, la regina, la cui vita tanto mi è cara. La regina potrà scegliere il luogo in cui vivere, le si porterà il rispetto che il suo rango impone e nulla le dovrà mancare. «"Tu, figlio mio, sarai il garante di quanto ordino. Se non adempirai a questi miei ultimi desideri, Dio ti castigherà e non troverai pace né in vita né dopo la morte."» Tutti gli sguardi si posarono sul nuovo re. Maanu tremava di rabbia e toccò a Marvuz prendere in mano la situazione. «Ci congederemo da Abgar secondo le sue volontà. Adesso, tornate tutti alle vostre occupazioni.» I presenti iniziarono a defluire lentamente dalla stanza reale. La regina, pallida e tranquilla, aspettava che suo figlio decidesse cosa fare di lei. Maanu attese che la stanza rimanesse vuota e si rivolse quindi alla madre. «Non uscirai di qui finché non ti farò chiamare. Non parlerai con nessuno, né interno né esterno al palazzo. Due servitori resteranno con te. Seppelliremo mio padre come ha chiesto. E tu, Marvuz, sarai responsabile dell'adempimento dei miei ordini.» Maanu uscì dalla stanza con passo veloce. Il capo delle guardie reali si rivolse alla regina. «Mia regina, sarà meglio che accettiate quanto ordinato dal re.» «Lo accetto, Marvuz.» La sovrana lo fissò con tale intensità che l'uomo abbassò lo sguardo, pieno di vergogna e, congedandosi, si allontanò con passo affrettato. Le istruzioni di Maanu furono precise: Abgar sarebbe stato sepolto secondo le sue disposizioni e, un attimo dopo aver sigillato il mausoleo reale, la guardia avrebbe arrestato i principali capi cristiani e gli odiati Josar e Taddeo. Avrebbe dovuto anche distruggere tutti i templi dove i cristiani si riunivano a pregare; inoltre, Maanu lo aveva ordinato personalmente a Marvuz, il sacro lino avrebbe dovuto essergli consegnato a palazzo. Alla regina non fu consentito uscire dalla sua stanza fino al terzo giorno dalla morte di Abgar. La salma del re rimase per tutto il tempo su un letto preziosamente ornato che venne sistemato al centro del primo tempio che Abgar aveva fatto costruire in onore di Gesù. Le guardie reali vegliarono quello che era stato il loro re e il popolo di Edessa gli rese l'ultimo saluto accorrendo a vedere le spoglie mortali del-
l'uomo che per tanti decenni aveva garantito loro pace e prosperità. «Mia regina, siete pronta?» Marvuz era andato a prendere la regina per portarla al tempio da dove, accanto a Maanu, doveva sfilare in corteo fino al mausoleo in cui Abgar avrebbe riposato per l'eternità. La regina aveva indossato la tunica migliore e il velo più bello, e si era ornata con i gioielli più preziosi. Appariva maestosa nonostante le rughe e la sofferenza avessero lasciato il segno sul suo viso. Quando giunsero al piccolo tempio cristiano, lo trovarono già gremito. Tutta la corte era lì con gli uomini più importanti di Edessa. La regina cercò Josar e Taddeo con lo sguardo, ma non li vide. Era in agitazione. Dove saranno stati i suoi amici? Maanu portava la corona di Abgar ed era di malumore. Aveva chiesto che fossero presenti anche Taddeo e Josar, ma le guardie non erano riuscite a trovarli. Nemmeno il sacro lino si trovava nel luogo in cui era stato custodito per tanti anni. Un giovane discepolo di Taddeo diede inizio alla preghiera guidando la cerimonia di addio. Quando la famiglia reale stava per aprire il corteo verso il mausoleo, Marvuz si avvicinò al re. «Signore, abbiamo cercato nelle case dei cristiani più importanti, ma non abbiamo trovato il sacro lino. E non c'è nemmeno traccia di Taddeo e Josar.» Il capo delle guardie reali tacque. In quel momento Taddeo e Josar, pallidi come la morte, si stavano avvicinando facendosi largo. La regina spalancò le braccia e lottando per trattenere le lacrime tese loro la mano. Josar la guardò con tenerezza, senza dirle nulla, e altrettanto fece Taddeo. Maanu ordinò di far avviare il corteo. Era il momento di seppellire Abgar, più tardi avrebbe fatto i conti con i cristiani. Una folla silenziosa li accompagnò fino al mausoleo. Lì, prima che il capomastro tornasse a sigillare l'ingresso, la regina chiese qualche minuto per pregare. Quando la pietra venne incassata chiudendo definitivamente la tomba, Maanu fece un cenno a Marvuz e questi, a sua volta, mandò un segnale alle guardie che si affrettarono a fermare Josar e Taddeo, davanti a tutti i presenti. Tra la folla iniziò a levarsi un mormorio di terrore, era chiaro a tutti che Maanu non avrebbe rispettato la volontà di Abgar e avrebbe perseguitato i cristiani. Alcuni con passo affrettato, altri di corsa, i presenti iniziarono a disperdersi per rientrare a casa in cerca di rifugio. Certi mormoravano che avreb-
bero lasciato Edessa quella notte stessa per fuggire da Maanu. Non avrebbero nemmeno avuto il tempo di provarci. Le guardie reali stavano già distruggendo le case dei cristiani più in vista, mentre altri venivano presi e giustiziati sul posto, davanti al mausoleo reale. Sul volto della regina, trascinata da Marvuz verso il palazzo, si dipinse il terrore. La donna riuscì a vedere come Taddeo e Josar venissero afferrati senza che nessuno dei due opponesse resistenza o emettesse un suono. L'odore del fumo arrivava fino alla collina dove sorgeva il palazzo reale. Le grida della gente sembravano ululati di disperazione. Edessa tremava dal terrore mentre nella sala del trono Maanu beveva vino e osservava soddisfatto la paura che si rifletteva sui volti dei cortigiani. La regina era in piedi, come le era stato ordinato da Maanu. Lì accanto Josar e Taddeo, con le mani legate dietro la schiena e le tuniche lacerate dai colpi inferti dalla guardia reale, continuavano a non dire una parola. «Continuate, voglio che mi supplichino di far cessare il supplizio.» Le guardie si affannavano con accanimento contro i due anziani, ma questi, tra lo sconcerto della corte e la rabbia del re, continuavano a non emettere un suono. Quando Taddeo cadde svenuto, la regina lanciò un urlo, mentre il viso di Josar, la cui schiena scorticata stava sanguinando, era quasi nascosto dalle lacrime. «Basta! Fermatevi!» «Come osi dare ordini!» gridò Maanu. «Sei un vigliacco, torturare due vecchi non è cosa degna di un re!» Maanu colpì la madre con il dorso della mano e questa vacillò prima di cadere a terra. Nella sala si levò un mormorio di raccapriccio. «Moriranno qui, davanti a tutti, se non mi dicono dove hanno nascosto il telo, e moriranno anche i loro compiici. Tutti! Chiunque siano!» Due guardie entrarono con Marzio, l'architetto di corte, seguiti dai suoi due giovani servitori spaventati. Maanu si rivolse loro. «Vi ha detto dove si trova il lino?» «No, Maestà.» «Frustatelo finché non parla!» «Possiamo anche frustarlo, ma non parlerà. I suoi servitori hanno rivelato che l'architetto ha fatto una cosa terribile: qualche giorno fa si è tagliato la lingua.»
La regina guardò Marzio, poi i suoi occhi si posarono sui corpi inerti di Taddeo e Josar. Capì che quegli uomini avevano deciso di mutilarsi per non cedere alle torture e mantenere così il segreto della Sindone. Si mise a piangere addolorata per il sacrificio dei suoi amici e consapevole che suo figlio avrebbe fatto loro pagare caro questo affronto. Maanu tremava. L'ira l'aveva reso paonazzo. Marvuz gli si avvicinò temendo la sua reazione. «Maestà, troveremo qualcuno che sa dove hanno nascosto il lino, cercheremo per tutta Edessa, lo troveremo...» Il re non lo ascoltava. Si diresse verso la madre, la sollevò da terra e scuotendola le gridò: «Dimmelo tu dov'è, dimmelo o ti strapperò la lingua!». La regina piangeva in preda a convulsioni. Alcuni nobili della corte decisero di intervenire vergognandosi di restare impassibili di fronte ai colpi che Maanu sferrava alla madre. Se Abgar fosse stato vivo avrebbe ordinato di ucciderlo! «Signore, lasciatela!» implorava uno. «Maestà, calmatevi, non colpite vostra madre!» pregava un altro. «Siete il re, dovete mostrare clemenza!» ammoniva un terzo. Marvuz fermò il braccio del re mentre stava per ricominciare a colpire la regina. «Signore!» Maanu lasciò cadere il braccio e si appoggiò a Marvuz. Si sentiva preso in giro dalla madre e dai due vecchi, ed era esausto. L'ira lo aveva sfinito. Marzio assisteva alla scena con le mani legate. Chiedeva misericordia a Dio, affinchè avesse pietà di loro. Pensò alle sofferenze di Gesù sulla croce, ai supplizi che gli vennero inflitti dai romani e a come lui li aveva perdonati. Cercò dentro di sé il perdono per Maanu, ma verso il re sentiva solo odio. Il capo delle guardie reali prese in mano la situazione e ordinò che la regina venisse accompagnata nei suoi appartamenti. Marvuz fece sedere il re e gli mise in mano un bicchiere di vino, che egli bevve con avidità. «Devono morire» disse quasi in un sussurro. «Sì» rispose Marvuz. «Moriranno.» Fece un cenno ai soldati e questi trascinarono via Taddeo e Josar già privi di sensi per il dolore. Marzio piangeva in silenzio. Adesso si sarebbero vendicati su di lui.
Il re alzò lo sguardo e lo fissò negli occhi. «Voi cristiani morirete tutti. Le vostre case, i vostri beni, qualunque cosa possediate la dividerò con chi mi è fedele. Tu, Marzio, mi hai tradito due volte. Sei uno dei più grandi nobili di Edessa e hai venduto il tuo cuore a quei cristiani che ti hanno ammaliato fino a strapparti la lingua. Troverò il lino e lo distruggerò. Lo giuro.» A un cenno di Marvuz un soldato portò via Marzio. «Il re vuole riposare. È stata una giornata lunga» disse poi congedando i cortigiani. Quando furono soli, Maanu si strinse al suo complice e scoppiò a piangere. La madre gli aveva scatenato il gusto della vendetta. «Voglio che la regina muoia.» «Morirà, signore, ma dovete aspettare. Prima dobbiamo cercare quel lino e uccidere tutti i cristiani, poi arriverà anche il turno della regina.» Quella notte le grida di terrore e il crepitio del fuoco giunsero fino all'angolo più remoto del palazzo. Maanu aveva tradito l'ultima volontà del padre. 18 Sofia aveva telefonato a padre Yves. Il sacerdote la incuriosiva. Non sapeva perché, ma aveva l'impressione che dietro la sua gentilezza e la sua disponibilità ci fosse qualche impenetrabile enigma. Aveva pensato di spiazzarlo invitandolo a colazione, ma lui non sembrò affatto sorpreso e rispose che, se il cardinale non avesse avuto nulla in contrario, avrebbe pranzato con lei. Ed eccoli in una piccola trattoria vicino al duomo. «Mi fa piacere che il cardinale le abbia permesso di accettare il mio invito. Sa, vorrei parlare con lei del duomo, di quello che è successo.» Il sacerdote l'ascoltava con attenzione, ma senza particolare interesse. «Padre Yves, vorrei che mi dicesse la verità: crede che l'incendio sia stato un incidente?» «Non sarebbe carino che proprio io non dicessi la verità...» rispose il sacerdote sorridendo. «Certo che credo si sia trattato di un incidente, a meno che lei non sappia qualcosa che io non so.» Padre Yves la fissò. Aveva uno sguardo pulito e gentile, eppure Sofia continuava a pensare che nascondesse qualcosa. «Immagino che sia una deformazione professionale, ma non mi fido del-
le coincidenze e nel duomo di Torino si sono verificati troppi incidenti fortuiti.» «Sospetta che questo incidente sia stato provocato? Da chi? E perché?» «È quello che stiamo cercando di scoprire: da chi e perché. Non dimentichi che c'è un cadavere, il cadavere di un giovane. Chi era? Cosa ci faceva lì? Una cosa certa, rivelata dall'autopsia, è che l'uomo carbonizzato non aveva la lingua. In prigione abbiamo un altro muto. Si ricorda del tentativo di furto di qualche anno fa? Non bisogna essere un genio per sospettare qualcosa di strano.» «Mi sconvolge... non avevo pensato che... Comunque, mi sembra che gli incidenti siano possibili, soprattutto in edifici antichi come il duomo di Torino. Sul cadavere senza lingua e il muto della prigione non so davvero cosa dirle, non so come possano essere legati tra loro.» «Padre, lei non mi sembra un sacerdote normale.» «Come?» «Sì, non è un sacerdote qualunque, ha un curriculum da persona intelligente e preparata. Per questo ho voluto vederla e parlare con lei, e ripeto che mi piacerebbe fosse sincero con me.» Sofia non nascondeva l'irritazione che le provocava il giochino del gatto con il topo tentato da padre Yves. «Mi dispiace contraddirla, ma sono un sacerdote e il mio mondo non è il suo. In effetti ho avuto la fortuna di ricevere una buona preparazione, ma le mie conoscenze non hanno nulla a che vedere con le sue. Non sono un poliziotto e tra le mie preoccupazioni e i miei doveri non rientra sospettare di niente e di nessuno.» Il tono di voce di padre Yves si era inasprito. Nemmeno lui aveva voglia di nascondere il fastidio. «Mi scusi, forse sono stata troppo brusca e non ho saputo chiederle aiuto.» «Chiedermi aiuto? Per cosa?» «Per decifrare il mistero degli incidenti, per cercare un bandolo che porti a una pista. Voglio essere sincera con lei: non crediamo che l'incendio sia stato fortuito. È stato provocato. Quello che non sappiamo è perché.» «E in cosa crede che la possa aiutare concretamente? Me lo dica.» Il sacerdote era ancora seccato. Sofia si rese conto di aver fatto una gaffe rivelandogli così apertamente la sua diffidenza. «Vorrei sapere la sua opinione sugli operai che lavorano nel duomo. Lei ha avuto a che fare con loro in questi mesi: c'è stato qualcuno che le è
sembrato sospetto, che ha detto o fatto qualcosa che abbia attirato la sua attenzione? Mi piacerebbe anche che mi dicesse cosa pensa del personale che lavora nel palazzo episcopale, non so, le segretarie, il custode, persino il cardinale...» «Dottoressa, sia io sia tutti i membri della sede episcopale abbiamo collaborato con i carabinieri e con voi del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Sarebbe sleale da parte mia dedicarmi a diffondere sospetti sugli operai o su coloro che lavorano nel palazzo episcopale. Non ho altro da aggiungere a quanto già detto e se lei ritiene che non si sia trattato di un incidente, deve proseguire le indagini. Naturalmente sa di poter contare sulla nostra collaborazione. In tutta sincerità, comunque, non capisco il suo gioco. Comprenderà che intendo informare il cardinale di questa conversazione.» La tensione tra i due era evidente. Sofia pensò che l'irritazione di padre Yves fosse sincera. Anche lei si sentiva a disagio, aveva la sensazione di non aver affrontato l'indagine con intelligenza. «Non le sto chiedendo di parlar male degli operai o dei suoi colleghi...» «Ah, no? Allora, o lei crede che sappia qualcosa che non ho detto, nel qual caso è chiaro che sospetta di me, perché se so qualcosa e ho taciuto è perché ho qualcosa da nascondere, oppure mi sta chiedendo non so che genere di informazioni sugli operai e sui miei colleghi della curia. E vuole che gliele dia qui, in via ufficiosa, senza sapere a quale scopo.» «Non sono in cerca di pettegolezzi! Mi dica perché ha accettato di venire a pranzo con me.» «Bella domanda!» «Allora trovi una risposta.» Il sacerdote la guardò fisso. L'intensità del suo sguardo la turbò al punto da farle sentire che stava arrossendo. «Mi era sembrata una persona seria e competente.» «Questa non è una risposta.» «Lo è.» Nessuno dei due aveva toccato cibo. Padre Yves chiese il conto. «L'avevo invitata io.» «Se non le dispiace, sarà ospite dell'arcivescovado.» «Credo ci sia stato un malinteso. Se è colpa mia, le chiedo scusa.» Padre Yves tornò a osservarla. Ma questa volta lo sguardo era tranquillo, di nuovo indifferente. «Lasciamo perdere.»
«Non amo i malintesi, vorrei...» Lui l'interruppe con un gesto della mano. «Fa niente, lasciamo stare.» Uscirono. Fuori brillava un tiepido sole. Si avviarono insieme, in silenzio, verso il duomo. Tutt'a un tratto il sacerdote si fermò e la guardò ancora intensamente. Sofia resse il suo sguardo e si stupì quando lui sorrise. «Le offro un caffè.» «Mi offre un caffè?» «O quello che preferisce. Forse sono stato un po' brusco con lei.» «E per questo mi offre un caffè?» «Insomma! Ci sono persone che litigano su tutto, e mi sembra che lei e io rientriamo in questa categoria.» Sofia rise. Non sapeva perché padre Yves avesse cambiato atteggiamento ma ne era contenta. «D'accordo, vada per il caffè.» Lui la prese delicatamente per il braccio mentre attraversavano. Superarono il duomo e camminarono tranquillamente e in silenzio fino a un vecchio caffè con tavolini in mogano lucido e camerieri dai capelli bianchi. «Ho fame» disse padre Yves. «Non mi meraviglio, per la sua arrabbiatura non abbiamo mangiato niente.» «Be', ordiniamo un dolce, che ne dice?» «Io non mangio dolci.» «Allora cosa prende?» «Solo un caffè.» Fecero l'ordinazione e rimasero l'uno di fronte all'altro, a guardarsi. «Di chi sospetta, dottoressa?» La domanda la spiazzò. Di fatto era lui che con il suo atteggiamento continuava a spiazzarla. «È sicuro di voler parlare dell'incidente del duomo?» «Vada!» «D'accordo. Non sospettiamo di qualcuno in particolare, non abbiamo alcuna pista, sappiamo solo che i tasselli non combaciano. Marco, il mio capo, crede che gli incidenti abbiano a che fare con la Sacra Sindone.» «Con la Sindone? Perché?» «Perché quello di Torino è il duomo con il numero più alto di incidenti di tutta Europa. Perché la Sindone si trova nel duomo di Torino e perché lui ha questo presentimento.»
«Però alla Sindone, grazie a Dio, non è mai successo niente. Sinceramente, non capisco che relazione ci sia tra gli incidenti e la Sindone.» «I presentimenti sono difficili da spiegare, ma Marco ce l'ha e ha già contagiato tutti noi del gruppo.» «Crede che qualcuno possa voler distruggere la Sindone come è avvenuto con la Pietà di Michelangelo? Qualche povero pazzo che vuole passare alla storia?» «Questa sarebbe la risposta più semplice. I muti, però?» «Be', ce ne sono solo due, e le coincidenze, dottoressa, per quanto lei possa non crederci, esistono.» «Riteniamo che il muto della prigione...» Sofia tacque, stava quasi per raccontare il piano a quel sacerdote bello e affascinante. «Continui.» «Insomma, riteniamo che il muto della prigione sappia qualcosa.» «Immagino che in qualche modo l'abbiate interrogato.» «È muto e sembra non capire nulla di quel che gli si dice.» «L'avrete interrogato per iscritto.» «Senza alcun risultato.» «Dottoressa, e se fosse tutto più semplice? E se le coincidenze esistessero?» Chiacchierarono per un'ora, ma a Sofia la conversazione non servì granché. Padre Yves non le aveva detto niente di rilevante. Era stato un incontro piacevole, ma nulla di più. «Fino a quando si ferma a Torino?» «Riparto domani.» «Mi chiami senza problemi se pensa che le possa essere di qualche aiuto.» «Ci penserò bene, non vorrei che si arrabbiasse di nuovo.» Si salutarono in tono amichevole. Padre Yves le disse che l'avrebbe chiamata se fosse passato da Roma. Sofia promise a sua volta di telefonargli se fosse tornata a Torino. Pura formalità da parte di entrambi. Marco aveva convocato la riunione per il primo pomeriggio. Voleva spiegare ai suoi il piano che avrebbe attuato per rimettere in libertà il muto. Sofia arrivò per ultima. Marco non capì perché, ma la trovò cambiata. Sempre bella, ma cambiata; quello che ancora non sapeva era in che cosa. «Allora, il piano è semplice. Come sapete, ogni mese in tutte le carceri si riunisce l'équipe di osservazione e trattamento, a cui prendono parte il rap-
presentante della sorveglianza, gli psicologi e gli assistenti sociali, oltre al direttore del carcere. Generalmente visitano tutti i prigionieri, soprattutto quelli che hanno quasi terminato di scontare la pena, hanno dimostrato buona condotta e meritano qualche beneficio come la libertà provvisoria. Domani toccherà a me andare a Torino per incontrarli. Voglio chiedergli che facciano un po' di scena.» Lo ascoltavano tutti in silenzio, con attenzione, per cui Marco decise di proseguire. «Voglio che il mese prossimo, quando i membri dell'équipe saranno nel carcere di Torino, vadano a vedere il muto e parlino con naturalezza davanti a lui, come hanno sempre fatto, pensando che non li capisca. Chiederò all'assistente sociale e allo psicologo di avanzare l'argomento che non ha molto senso continuare a tenerlo dentro, che la sua condotta è esemplare, che non lo si ritiene pericoloso per la società e che la legge prevede di poter usufruire della libertà condizionale. Il direttore porrà qualche obiezione e poi se ne andranno. Voglio che questa scena si ripeta per tre o quattro mesi, fino a lasciare il muto in libertà.» «Collaboreranno con te?» domandò Pietro. «I ministri hanno parlato con i responsabili. Non credo che faranno storie, in fin dei conti non si tratta di rilasciare un assassino o un terrorista ma un semplice ladruncolo.» «È un buon piano» disse Minerva. «Sì, davvero» aggiunse Giuseppe. «Ho altre informazioni. Questa piacerà a te, Sofia. Mi ha chiamato Lisa, la moglie di John Barry. Lisa è la sorella di Mary Stuart che, nel caso non lo sappiate, è sposata con James Stuart il quale, sempre nel caso non lo sappiate, è uno degli uomini più ricchi del pianeta. È amico del presidente degli Stati Uniti e dei presidenti di mezzo mondo, del mezzo mondo ricco, ovviamente. Nell'elenco dei suoi amici figurano anche gli uomini d'affari e i banchieri più importanti del pianeta. La figlia più piccola degli Stuart, Gina, è archeologa come Lisa e sta trascorrendo un periodo a Roma, a casa della zia, oltre a collaborare al finanziamento degli scavi di Ercolano. Ebbene, Mary e James Stuart arriveranno a Roma tra due settimane. Lisa organizzerà una cena alla quale inviterà molti degli amici che gli Stuart hanno in Italia, tra cui Umberto D'Alaqua. Sono stato invitato anch'io a questa cena e può darsi che John e Lisa siano magnanimi e mi permettano di portarti con me, dottoressa.» Il viso di Sofia si illuminò. Non poteva nascondere quanta soddisfazione
le dava rivedere D'Alaqua. «Mi sembra l'unico modo a disposizione per riavvicinarlo.» Una volta terminata la riunione, Sofia andò da Marco. «È sorprendente che una donna come Lisa abbia una sorella sposata con uno squalo della finanza.» «No, non lo è affatto. Mary e Lisa sono figlie di un professore di storia medievale dell'Università di Oxford. Hanno entrambe studiato storia: Lisa si è poi specializzata in archeologia e Mary in storia medievale, come il padre. Lisa ha ottenuto una borsa di studio per un dottorato in Italia e la sorella viene spesso a trovarla ma la vita di Mary ha seguito altri percorsi. È entrata da Sotheby's come esperta di arte medievale. Questo l'ha portata a conoscere gente importante tra cui suo marito, James Stuart. Si sono innamorati e si sono sposati. Lisa ha conosciuto John e l'ha sposato; tutte e due sembrano molto felici con i rispettivi mariti. Mary appartiene all'alta società mondiale, Lisa con il suo lavoro si è fatta un nome nel mondo accademico. La sorella l'appoggia, come fa adesso con sua figlia Gina, contribuendo al finanziamento di alcuni scavi. Non ci sono altri segreti.» «È una fortuna che tu sia amico di John.» «Sì, sono tutti e due brave persone. John è l'unico nordamericano che conosco a non essere interessato a fare carriera e non vuole essere trasferito. Naturalmente l'influenza degli Stuart l'ha aiutato a restare tanti anni nel posto che ricopre all'ambasciata.» «Pensi che ti permetteranno di portarmi alla festa?» «Ci proverò. D'Alaqua ti ha colpito, vero?» «Molto, è un uomo di cui qualunque donna potrebbe innamorarsi.» «Immagino non sia il tuo caso.» «Uffa! Non lo immaginare» rise Sofia. «Attenta, dottoressa!» «Non ti preoccupare, Marco, ho i piedi per terra e non lascerò che si sollevino per niente al mondo. D'Alaqua non è alla mia portata, per cui stai tranquillo.» «Ti faccio una domanda personale. Se ti secca, mandami affanculo. Come va con Pietro?» «Non ti mando affanculo, ti dico la verità: siamo alla fine. È un rapporto che non può dare più niente.» «Glielo hai detto?» «Stasera usciamo a cena per parlare. Ma lui non è scemo e lo sa. Credo che sia d'accordo.»
«Mi fa piacere.» «Ti fa piacere? Perché?» «Perché Pietro non è l'uomo per te. È una brava persona, con una moglie meravigliosa che sarà immensamente felice di riprendersi il marito. Tu, Sofia, fra poco dovresti andartene e iniziare un altro percorso professionale, con altra gente, altre prospettive. Il fatto è che il nostro Comando ti sta stretto.» «Non dirlo neanche per scherzo! Sai quanto sono felice del mio lavoro. Non voglio andarmene, non voglio cambiare.» «Tu sai che ho ragione. Il fatto che ti vengano le vertigini a pensarlo è un altro discorso.» Furono interrotti da Pietro, e lui e Sofia si congedarono da Marco, che l'indomani mattina presto sarebbe partito per Torino. «Andiamo da te?» chiese Pietro. «No, preferisco che ceniamo fuori.» Pietro la portò in una piccola trattoria di Trastevere. Sofia si accorse che era lo stesso posto dove avevano cenato insieme la prima volta, quando aveva avuto inizio la loro relazione. Era tanto che non ci andavano. Ordinarono e si misero a chiacchierare di cose senza importanza ritardando il momento del confronto. «Pietro...» «Sta' tranquilla, so cosa vuoi dirmi e sono d'accordo.» «Lo sai?» «Sì, lo capirebbe chiunque. In certe cose sei trasparente.» «Pietro, ti voglio un gran bene ma non sono innamorata di te e non voglio avere impegni. Mi piacerebbe che fossimo amici, che potessimo continuare a lavorare come abbiamo fatto fino adesso, con cameratismo e senza tensioni.» «Io ti amo. Solo uno stupido non sarebbe innamorato di te, ma so anche di non essere alla tua altezza...» Sofia, imbarazzata, fece un gesto per interromperlo. «Non parlare così, non dire stupidaggini, per favore.» «Sono un carabiniere e assomiglio a un carabiniere. Tu hai una cultura universitaria, sei una donna di classe, non importa se porti i jeans o un completo di Armani, hai sempre l'aspetto di una signora. Sono stato molto fortunato ad averti avuto, ma ho sempre saputo che un giorno mi avresti sbattuto la porta in faccia e quel giorno è arrivato. D'Alaqua?» «Non mi ha nemmeno guardato! No, Pietro, non c'è di mezzo nessuno.
Semplicemente il nostro rapporto si è esaurito. Tu ami tua moglie e lo capisco. È una brava persona, e oltre tutto bella. Non ti separerai mai da lei, non potresti sopportare di rimanere senza i tuoi figli.» «Sofia, se mi avessi dato un ultimatum avrei scelto te.» Rimasero in silenzio. A Sofia veniva da piangere, ma si trattenne. Era decisa a rompere con Pietro, a non lasciarsi prendere da un'emozione che rimandasse ulteriormente la decisione che avrebbe dovuto prendere molto tempo prima. «Credo che sia meglio per tutti e due chiudere. Sarai mio amico?» «Non lo so.» «Perché?» «Perché non lo so. Sinceramente non so come sopporterò il fatto di vederti e non stare con te, che un giorno arrivi e racconti che nella tua vita c'è un altro uomo. È molto facile dire che sarò tuo amico, ma non ti voglio ingannare, non so se ci riuscirò. E se non ce la faccio, me ne andrò prima di iniziare a odiarti.» Sofia fu colpita dalle parole di Pietro. Quanto aveva ragione Marco a dire che mischiare piacere e lavoro era un errore. Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. «Me ne andrò io. Voglio solo concludere l'indagine sull'incendio del duomo, vedere cosa succede con il muto. Poi chiederò il congedo e me ne andrò.» «No, non sarebbe giusto. So che sapresti benissimo trattarmi da amico, uno come gli altri. Il problema sono io, mi conosco. Chiederò il trasferimento.» «No. A te il Comando per la tutela del patrimonio artistico piace, è stato un salto di qualità per la tua carriera e non lo perderai certo per me. Marco dice che dovrei cercare altri percorsi professionali, e in realtà ho voglia di fare altre cose, di insegnare all'università, cercare lavoro in qualche scavo o, chissà, magari mi lancio e apro una galleria d'arte. Sento che sto chiudendo un ciclo della mia vita. Marco se ne è reso conto, mi ha spinto a cercare un'altra strada e ha ragione. Ti chiedo solo un favore: fa' il possibile per andare avanti ancora qualche mese, finché non concludiamo le indagini sull'incendio nel duomo. Per favore, aiutiamoci a passare questi mesi nel modo migliore.» «Ci proverò.» Pietro aveva gli occhi pieni di lacrime. Sofia si stupì, non aveva mai immaginato che l'amasse tanto. O magari era solo il suo orgoglio ferito.
19 Izaz e Obodas divoravano il formaggio e i fichi offerti loro da Timeo. Erano stanchi per i lunghi giorni di viaggio, ma soprattutto perché avevano temuto che le guardie di Maanu li prendessero per riportarli a Edessa. Invece erano lì, a casa di Timeo, a Sidone. Harran, il capo della carovana, aveva assicurato loro che avrebbe mandato un messaggero a Senìn a conferma che il viaggio si era concluso felicemente. Timeo era un vecchio dallo sguardo penetrante che li aveva accolti con affetto e li aveva mandati a riposare prima di farsi raccontare le peripezie del viaggio. L'uomo non si era meravigliato del loro arrivo. In realtà erano mesi che li aspettava, da quando aveva ricevuto una lettera di Taddeo che gli esternava la sua preoccupazione per la precaria salute di Abgar e gli spiegava la difficile situazione che aspettava i cristiani alla morte del re, nonostante l'appoggio della regina. Il vecchio li osservava pazientemente, sapendoli esausti nel corpo e nell'anima. Aveva ordinato che Izaz e il gigante Obodas rimanessero suoi ospiti dividendo una piccola stanza, l'unica di cui disponeva oltre alla sua, dal momento che l'abitazione era modesta come ci si aspettava da un seguace osservante degli insegnamenti di Gesù. Timeo raccontò loro che a Sidone era sorta una piccola comunità di cristiani. Si riunivano all'imbrunire per pregare e ne approfittavano per scambiarsi notizie; c'era sempre qualche viaggiatore che portava nuove da Gerusalemme o qualche parente che inviava missive da Roma. Izaz ascoltava il vecchio con attenzione e quando lui e Obodas ebbero finito di mangiare chiese a Timeo di potergli parlare da solo. Obodas si risentì. Le istruzioni di Senìn erano state chiare: non doveva perdere di vista il giovane Izaz, doveva difendere con la sua vita quella del nipote di Josar. Il vecchio Timeo, vedendo l'ombra di incertezza riflessa negli occhi del gigante, lo tranquillizzò. «Non ti preoccupare, Obodas. Abbiamo delle spie e sapremo in tempo se la gente di Maanu arriverà a Sidone. Riposa tranquillo mentre parlo con Izaz. Ci potrai vedere tu stesso dalla finestra della stanza dove dormirete.» Obodas non ebbe il coraggio di contraddire il vecchio e una volta nella stanza si sistemò vicino alla finestrella con lo sguardo vigile su Izaz. Il giovane parlava a voce bassa con Timeo e le parole si perdevano nella
brezza leggera del mattino. Obodas vide che il viso del vecchio si trasformava a mano a mano che ascoltava Izaz. Stupore, dolore, preoccupazione... queste e altre emozioni affiorarono sul volto di Timeo. Quando Izaz ebbe finito di parlare, Timeo gli strinse il braccio con affetto e lo benedisse con il segno della croce in ricordo di Gesù. Poi entrarono in casa. Timeo si diresse verso la stanza dove Obodas aspettava e i due giovani seguirono le sue raccomandazioni: avrebbero riposato fino al pomeriggio quando si sarebbero uniti alla piccola comunità di cristiani di Sidone, la loro nuova patria, perché sapevano che non sarebbero potuti tornare mai più nella terra dei loro avi. Se l'avessero fatto, Maanu li avrebbe fatti uccidere. Timeo entrò nel tempio accanto alla casa. Lì, in ginocchio, pregò Gesù e gli chiese di aiutarlo a capire cosa fare del segreto che Izaz gli aveva confidato e per il quale Josar, Taddeo, Marzio e altri cristiani si erano sacrificati. Adesso lui e Izaz erano gli unici a sapere dove si trovava il sudario del Signore. Timeo era angosciato al pensiero che prima o poi avrebbe dovuto a sua volta confidare il segreto a qualcuno perché lui era vecchio e sarebbe morto. Izaz era giovane, ma cosa sarebbe successo quando fosse diventato anziano? Poteva anche accadere che Maanu morisse prima di loro e i cristiani potessero tornare a Edessa, ma se così non fosse stato? A chi rivelare il luogo dove Marzio aveva nascosto il sudario? Non potevano portarsi quel segreto nella tomba. Le ore passarono senza che Timeo se ne accorgesse. Al calar della sera Izaz e Obodas lo trovarono lì, in ginocchio, a pregare. Nel frattempo il vecchio aveva già preso una decisione. Timeo si alzò lentamente. Aveva le gambe intorpidite, e le ginocchia gli facevano male. Sorrise ai suoi ospiti e chiese loro di accompagnarlo a casa del nipote, che si trovava al di là di un piccolo orto. «Giovanni! Giovanni!» chiamò il vecchio. Dalla casa imbiancata a calce, riparata dal sole da una vite rampicante, uscì una giovane donna con una bimba in braccio. «Non è ancora arrivato, nonno. Non tarderà, sai che rientra sempre per l'ora della preghiera.» «Lei è Alaida, la moglie di mio nipote. E questa è la loro figlioletta, Miriam.» «Entrate a bere acqua fresca con il miele» li invitò Alaida. «No, figlia mia, non adesso; i nostri fratelli saranno qui a momenti per
pregare Nostro Signore. Volevo solo che tu e Giovanni conosceste questi due giovani che d'ora in poi vivranno con me.» Si avviarono al tempio dove un gruppo di famiglie stava già chiacchierando amichevolmente. Contadini e piccoli artigiani che si erano convertiti alla fede di Gesù. Timeo presentò a tutti Izaz e Obodas e chiese ai due ragazzi di raccontare la loro fuga da Edessa. Con qualche timidezza, Izaz cominciò a dare notizie sulla città e a rispondere alle semplici domande che gli venivano poste dai membri della comunità. Quando ebbe finito di parlare, Timeo chiese a tutti di pregare perché Gesù aiutasse i fedeli di Edessa. Così fecero, pregando e cantando e dividendosi una razione di pane con del vino che Alaida aveva portato con sé. Giovanni era di corporatura robusta, né alto né basso, con i capelli neri, come la barba. Era arrivato tardi, accompagnato da Harran e da alcuni uomini della carovana carichi di sacchi. Timeo li fece entrare in casa. «Senìn, il mio signore» disse loro Harran «mi ha chiesto di consegnarvi questi doni che vi aiuteranno a mantenere Izaz, il nipote di Josar, e il suo guardiano Obodas. Mi ha ordinato anche di darvi questo sacchetto d'oro, vi sarà utile in caso di difficoltà.» Izaz osservava stupito la consegna di tante offerte. Senìn era generoso, molto generoso; prima di partire aveva consegnato anche a lui un sacchetto pieno d'oro, quanto bastava per vivere nell'agiatezza il resto dei suoi giorni. «Grazie Harran, mio buon amico. Prego perché tu possa ritrovare Senìn come l'hai lasciato e perché l'ira di Maanu non si sia scatenata contro di lui. Di' al tuo signore che questi doni, come quelli che mi hai portato mesi fa da parte della regina, li impiegheremo per aiutare i poveri, come ci ha insegnato Gesù, e per il benessere della nostra piccola comunità. Dal momento che ti fermerai ancora qualche giorno a Sidone prima di tornare a Edessa, farò in tempo a scrivere a Senìn.» Izaz non riuscì a dormire per gli incubi. Nel sonno vedeva volti consumati dalle fiamme e un campo irrigato di sangue. Quando si svegliò era madido di sudore, il sudore della paura. Uscì per rinfrescarsi alla vasca dell'orto e lì trovò Timeo che potava una pianta di limone. Timeo gli chiese di accompagnarlo a fare una passeggiata fino alla spiaggia approfittando della frescura dell'alba.
«Obodas non si spaventerà al risveglio?» «Certo, ma chiederò a Giovanni di stare attento perché quando il tuo guardiano si sveglia gli dica dove siamo.» Una volta impartite le istruzioni a suo nipote, che si era già alzato e aveva iniziato a lavorare nell'orto che divideva con il nonno, si avviarono verso la spiaggia. Il mare nostrum, come lo chiamavano i romani, quella mattina era impetuoso. Le onde colpivano con forza i ciottoli della spiaggia e trascinavano via la sabbia dalla riva. Izaz guardava estasiato. Era la prima volta che vedeva quell'immensità di acqua, e gli sembrò un miracolo. «Izaz, Dio ha voluto che fossimo i depositari di un gran segreto, il luogo dove si trova il sudario di suo Figlio che tanti miracoli ha già compiuto. Deve rimanere dove l'ha collocato Marzio, non importa per quanto tempo, ma deve assolutamente restarci fino a quando Edessa non sarà tornata cristiana. Solo così possiamo essere sicuri che il lino non correrà alcun pericolo. Può darsi che né tu né io riusciremo a vedere quel giorno, per cui quando morirò dovrai scegliere qualcuno che custodisca il segreto e a sua volta lo trasmetta a qualcun altro e così via fino a quando nessuna ombra minaccerà la presenza dei cristiani a Edessa. Se Senìn sopravvive, continuerà a farci avere notizie di quanto accade nel regno. Devo comunque mantenere una promessa che feci a Taddeo, a tuo zio Josar e alla regina quando mesi fa mi inviarono delle missive spiegandomi quello che sarebbe potuto succedere alla morte di Abgar. Mi chiedevano che, qualunque cosa fosse accaduta, facessi in modo che il seme gettato da Cristo non venisse estirpato da Edessa e mi pregavano che nella peggiore delle ipotesi, dopo un certo periodo, vi mandassi dei cristiani.» «Ma questo vorrebbe dire mandarli a morire.» «Coloro che vi andranno lo faranno senza esternare il nostro credo. Si insedieranno nel regno, lavoreranno e tenteranno di trovare i cristiani che potrebbero essere rimasti per rifondare la comunità in segreto. Non si tratta di provocare l'ira di Maanu né di scatenare una persecuzione, ma soltanto di far sì che il seme gettato da Gesù continui a vivere a Edessa. È stato Lui stesso a volerlo, facendo in modo che Josar portasse il suo sudario fino da Abgar. Ha santificato questa terra con la sua presenza e i suoi miracoli, e noi dobbiamo esaudire i desideri del Signore. «Aspetteremo che Harran ritorni con una carovana e allora decideremo cosa fare e quando. Ma devi sapere che il sudario non dovrà mai lasciare Edessa e dobbiamo fare in
modo che in città la fede in Gesù non si spenga mai.» In lontananza la figura imponente di Obodas si dirigeva verso di loro. Il gigante era offeso. «Izaz, Timeo, evitate la mia presenza e io ho giurato di proteggere Izaz a costo della mia vita. Se gli succede qualcosa la responsabilità sarà mia e non me lo potrei mai perdonare.» «Obodas, dovevamo parlare» disse Izaz. «Izaz, non ti disturberò quando dovrai parlare senza testimoni con Timeo o con chiunque altro. Starò nei paraggi, dove potrò vederti senza sentirti, però non ti allontanare dal mio sguardo, non osteggiare la mia promessa.» Izaz gli diede la sua parola che così sarebbe stato. Con il passare del tempo si sarebbe fidato di Obodas più che di chiunque altro. 20 Addaio era seduto dietro un enorme tavolo di legno intagliato. Il seggiolone antico non rimpiccioliva la sua figura imponente. Era completamente calvo, ma le rughe intorno agli occhi e gli angoli delle labbra non lasciavano dubbi circa la sua età, che era rivelata anche dalle mani nodose con le vene evidenti sotto la pelle. Nella stanza c'erano due finestre ma i pesanti tendaggi non lasciavano filtrare nemmeno un raggio di luce. Tutto era sprofondato nella penombra. Su entrambi i lati dell'imponente tavolo c'erano quattro sedie dallo schienale alto sulle quali erano seduti otto uomini, vestiti rigorosamente di nero, con lo sguardo basso. Un ometto magro, con indosso abiti modesti, aveva aperto loro la porta e li aveva accompagnati fino allo studio di Addaio. Zafarìn tremava. Solo la presenza di suo padre gli impediva di uscire di corsa. La madre lo teneva per il braccio e sua moglie Ayat e la figlioletta gli camminavano accanto senza dire una parola, spaventate quanto lui. L'ometto fece accomodare le donne in una stanza. «Aspettate qui» disse, e con passo affrettato accompagnò gli uomini fino alla soglia di una porta di legno riccamente lavorata; aprì uno dei battenti e fece entrare Zafarìn e suo padre. «Hai fallito.» La voce di Addaio riecheggiò contro le pareti in legno, ricoperte di libri.
Zafarìn chinò il capo senza nascondere un'espressione di dolore, di dolore nell'animo. Suo padre fece un passo avanti e senza paura piantò lo sguardo su Addaio. «Ti ho dato due figli. Entrambi sono stati coraggiosi, si sono sacrificati rinunciando alla lingua. Resteranno muti fino al giorno del Giudizio, quando Dio Nostro Signore li farà resuscitare. La nostra famiglia non merita le tue recriminazioni. Sono secoli che i migliori di noi dedicano la loro vita al Salvatore Gesù. Siamo uomini, Addaio, nient'altro che uomini, per questo possiamo fallire. Mio figlio crede che fra noi ci sia un traditore, qualcuno che sa quando stiamo per andare a Torino e che conosce i piani che stai elaborando. «Zafarìn è intelligente, lo sai bene. Tu stesso ti sei impegnato perché, come Mendibj, frequentasse l'università. L'errore è qui, Addaio, devi cercare il traditore che si annida tra noi. Il tradimento è stato perpetrato nella nostra comunità nel corso del tempo, solo così si spiega il fatto che finora tutti i tentativi di riprenderci ciò che è nostro sono falliti.» Addaio ascoltava senza muovere un muscolo, lo sguardo acceso dall'ira che con enorme sforzo riusciva a contenere. Il padre di Zafarìn si avvicinò al tavolo e consegnò ad Addaio più di cinquanta fogli scritti su entrambe le facciate. «Tieni, qui troverai il racconto di quanto è successo. Anche mio figlio ti mette al corrente dei suoi sospetti.» Addaio non guardò neppure i fogli che il padre di Zafarìn aveva appoggiato sul tavolo. Si alzò e cominciò a girare in silenzio per la stanza. Con passo deciso si piantò davanti a Zafarìn stringendo i pugni; sembrava sul punto di colpirlo in faccia, ma poi li fece ricadere lungo i fianchi. «Sai cosa significa questo fallimento? Mesi, mesi! Forse anni prima di poter ritentare! I carabinieri stanno indagando a fondo, qualcuno dei nostri potrebbe essere arrestato. E se parla, che si fa?» «Ma loro non sanno la verità, non sanno perché sono andati...» intervenne il padre di Zafarìn. «Taci! Cosa ne sai tu? I nostri in Italia, Germania, in altri posti, sanno quello che devono sapere, e se finiscono nelle mani degli inquirenti questi li faranno parlare, così da poter risalire anche fino a noi. A quel punto, cosa faremo? Ci taglieremo tutti la lingua per non tradire Nostro Signore?» «Qualunque cosa accada, sarà la volontà di Dio» esclamò il padre di Zafarìn. «No! Non lo sarà. Sarà la conseguenza del fallimento e della stupidità di
coloro che non sono capaci di compiere la sua volontà. Sarà colpa mia che non ho saputo scegliere gli uomini migliori per eseguire gli ordini di Gesù.» La porta si aprì e l'ometto fece entrare due giovani accompagnati a loro volta dai rispettivi padri. Rasit, il secondo muto, e Dermisat, il terzo, si persero nell'abbraccio con Zafarìn sotto lo sguardo infuriato di Addaio. Zafarìn non sapeva che i suoi compagni fossero arrivati a Urfa. Addaio aveva imposto il silenzio tra parenti e amici perché i tre non si incontrassero fino a quel momento. I padri di Rasit e Dermisat parlarono a nome dei figli, invocando comprensione e clemenza. Addaio sembrava non ascoltarli, era come assente, intento a rimuginare la propria disperazione. «Dovrete espiare il peccato che avete commesso contro Nostro Signore con il vostro fallimento.» «Non ti basta che i nostri figli abbiano sacrificato la propria lingua? Quale altro castigo vuoi infliggere loro?» ebbe il coraggio di chiedere il padre di Rasit. «Osi sfidarmi?!» gridò Addaio. «No. Dio non lo permetta! Sai che siamo fedeli a Nostro Signore e che ti ubbidiremo, ti chiedo solo pietà» rispose il padre di Rasit. «Tu sei il nostro pastore» si unì il padre di Dermisat. «La tua parola è legge. Sia fatta la tua volontà, dal momento che rappresenti il Signore sulla terra.» Si inginocchiarono e cominciarono a pregare a testa china. Dovevano solo aspettare la decisione di Addaio. Fino a quel momento gli otto uomini che erano con lui non avevano aperto bocca. A un suo cenno uscirono, seguiti dallo stesso Addaio. Entrarono in un'altra stanza per decidere. «Ebbene?» domandò Addaio. «Credete che ci sia un traditore, fra noi?» Il silenzio funesto degli otto uomini irritò oltremodo Addaio. «Non avete proprio nulla da dire? Nulla, dopo quello che è successo?» «Addaio, sei il nostro pastore, l'eletto da Nostro Signore. Tu devi illuminarci» disse uno degli uomini in nero. «Voi eravate gli unici a conoscenza del piano completo. Solo voi sapete chi sono i nostri contatti. Chi è il traditore?» Gli otto uomini si mossero agitati guardandosi tra loro, a disagio, senza
sapere se le parole del pastore fossero solo una provocazione o se li stava davvero accusando. Con Addaio erano i pilastri della comunità, i loro lignaggi si perdevano nel tempo, fedeli a Gesù, alla loro città, al loro incarico. «Se c'è un traditore, morirà.» L'affermazione di Addaio spaventò gli uomini, che lo sapevano capace di una simile punizione. Il loro pastore era un brav'uomo che viveva con modestia e tutti gli anni digiunava per quaranta giorni in ricordo del digiuno di Gesù nel deserto. Aiutava quanti si rivolgevano a lui chiedendo un lavoro, o del denaro o che facesse da mediatore in una lite familiare. Sapeva imporre la sua parola. A Urfa, dove passava per avvocato, e tutti come tale lo conoscevano e riconoscevano, era un uomo rispettato. Come gli altri otto uomini che erano con lui, Addaio viveva in clandestinità dall'infanzia, pregando senza farsi vedere da vicini e amici, perché era il depositario di un segreto che determinava le loro vite come aveva fatto con quelle dei loro genitori e dei loro antenati. Lui avrebbe preferito non essere nominato pastore, ma quando venne scelto accettò l'onore e il sacrificio, giurando quello che altri prima di lui avevano giurato: di adempiere la volontà di Gesù. Uno degli uomini in nero si schiarì la voce. Addaio capì che voleva dire qualcosa. «Parla, Talat.» «Non lasciamo che i sospetti accendano un fuoco in grado di devastare la fiducia che ci unisce. Non credo che fra noi ci sia un traditore. Siamo di fronte a forze potenti e intelligenti, per questo hanno impedito che recuperassimo ciò che è nostro. Dobbiamo metterci al lavoro ed elaborare un nuovo piano, e se fallisce ci riproveremo. Sarà il Signore a decidere quando saremo degni di ottenere il successo nella nostra missione.» Talat tacque, in attesa. I capelli bianchi gli coprivano il collo come un manto di neve e le rughe del viso davano un aspetto venerabile alla sua vecchiaia. «Dimostra la tua benevolenza ai tre prescelti» implorò un altro degli uomini in nero che rispondeva al nome di Bakkalbasi. «Benevolenza? Tu credi, Bakkalbasi, che potremo sopravvivere dimostrando benevolenza?» Addaio incrociò le mani con forza ed emise un sospiro. «A volte penso che abbiate sbagliato a scegliermi, penso di non essere il pastore di cui Gesù ha bisogno per questa era e in questa circostanza. Digiuno, faccio penitenza e chiedo a Dio di darmi forza, di illuminarmi
e mostrarmi il cammino, ma Gesù non risponde, né mi invia alcun tipo di segnale...» La voce di Addaio rivelava disperazione ma lui si riprese velocemente. «Finché sarò pastore, agirò e deciderò secondo coscienza, con un solo obiettivo: restituire alla nostra comunità quello che Gesù le diede, portando benessere per tutti e soprattutto sicurezza. Dio non ci vuole morti ma vivi. Non ha più bisogno di martiri.» «Che farai di loro?» domandò Talat. «Per un po' vivranno ritirati in preghiera e digiunando. Li terrò sotto osservazione, e quando riterrò che sia giunto il momento li restituirò alle loro famiglie. Però devono soffrire per il fallimento. Tu, Bakkalbasi, che sei un grande matematico, ti occuperai dei calcoli.» «Che cosa vuoi che faccia, Addaio?» «Voglio che calcoli se tra noi esiste uno spazio per il tradimento, che pensi a dove si verifica la fuga di notizie e perché.» «Allora dai per buone le insinuazioni del padre di Zafarìn?» «Sì, e non dobbiamo opporci all'evidenza. Scopriremo il traditore, e morirà.» Gli uomini in nero ebbero un sussulto. Sapevano che Addaio non parlava a sproposito. Quando tornarono nella sala dove erano rimasti ad attenderli i tre muti, li trovarono inginocchiati con i loro padri, gli occhi bassi, intenti a pregare. Addaio e gli otto uomini si sedettero ai loro posti. «Alzatevi» ordinò Addaio. Dermisat piangeva in silenzio. Rasit aveva un'ombra di rabbia nello sguardo e Zafarìn sembrava essersi calmato. «Sconterete il fallimento con il ritiro e la preghiera, insieme a quaranta giorni di digiuno. Resterete qui, con me. Lavorerete nell'orto finché le forze vi sorreggeranno. Una volta trascorso questo tempo, vi dirò io cosa fare.» Zafarìn guardò il padre con preoccupazione. Questi lesse nello sguardo del figlio e parlò per lui. «Permetterai loro di salutare le famiglie?» «No. L'espiazione è già cominciata.» Addaio fece tintinnare un piccolo campanello appoggiato sul tavolo. Dopo qualche secondo entrò l'ometto che aveva aperto la porta. «Guner, accompagnali nei locali che danno sull'orto. Procura loro abiti adatti e fa' che abbiano acqua e succhi di frutta. È quanto consumeranno
durante la permanenza con noi. Spiegherai loro anche gli orari e le abitudini della casa. E ora, andate.» I tre giovani abbracciarono i padri. I saluti furono brevi per non far spazientire Addaio. Quando i ragazzi uscirono seguendo Guner, Addaio parlò. «Ritornate alle vostre case, dalle vostre famiglie. Avrete notizie dei vostri figli tra quaranta giorni.» Gli uomini fecero un inchino, gli baciarono la mano e chinarono rispettosamente il capo davanti agli otto accompagnatori di Addaio, rimasti impassibili come statue. Quando furono soli uscirono dalla stanza. Addaio li condusse per un corridoio avvolto nella penombra fino a una porticina chiusa che aprì con una chiave. Era una cappella dalla quale uscirono solo al calar della sera. Addaio non dormì. Con le ginocchia spellate dopo tante ore di preghiera, sentiva ancora il bisogno di mortificarsi. Dio sapeva quanto lui lo amava, ma quell'amore non bastava perché Addaio ottenesse il perdono per la sua ira. Quell'ira che non era mai riuscito a togliersi dall'animo. Satana si compiaceva di rovinarlo con quel peccato capitale. Quando Guner entrò discretamente nella sua stanza l'aurora aveva già ceduto il passo al mattino. Il fedele servitore gli portava una tazza di caffè e una brocca di acqua fresca. Aiutò Addaio ad alzarsi e mettersi a sedere sull'unica sedia dell'austera camera da letto. «Grazie, Guner, avrò bisogno di questo caffè per affrontare la giornata. Come stanno i muti?» «Sono al lavoro da un pezzo nell'orto. Hanno lo spirito a pezzi, gli occhi arrossati dalle lacrime che non hanno potuto trattenere.» «Tu non sei d'accordo con la punizione, vero?» «Io obbedisco, sono al tuo servizio.» «No! Non lo sei! Sei il mio unico amico, lo sai bene, mi aiuti...» «E ti servo, Addaio, e ti servo bene. Mia madre mi mandò al tuo servizio quando compii dieci anni. Riteneva un onore avere un figlio che ti servisse. Morì chiedendomi di occuparmi per sempre di te.» «Tua madre è stata una santa donna.» «È stata una donna semplice che aveva accettato gli insegnamenti dei genitori senza fare domande.» «Dubiti forse della nostra fede?» «No, Addaio, credo in Dio e in Nostro Signore Gesù, ma dubito della bontà di questa follia che voi pastori della nostra Comunità perpetrate da secoli. Dio si onora con il cuore.»
«Hai l'ardire di mettere in discussione le basi della nostra Comunità?! Osi affermare che i santi pastori che mi hanno preceduto sbagliavano! Credi sia facile eseguire gli ordini dei nostri predecessori?» Guner chinò il capo. Sapeva che Addaio aveva bisogno di lui e gli voleva bene come a un fratello, dal momento che era l'unica persona con cui condivideva la sua intimità. Dopo averlo servito per tanti anni, Guner sapeva che solo davanti a lui Addaio appariva com'era veramente: un uomo iracondo, oppresso dalla responsabilità, che diffidava di chiunque ed esercitava maestosamente la propria autorità di fronte a tutti. Ma non di fronte a lui, Guner, che si occupava di lavargli la biancheria, spazzolare i suoi abiti, mantenere immacolata la sua stanza da letto. Lui che lo vedeva con gli occhi cisposi o sudato e sporco dopo essere stato colpito da un attacco di febbre. Che conosceva le sue miserie di uomo e i suoi sforzi per apparire maestoso al cospetto delle anime candide che guidava. Guner non si sarebbe mai separato da Addaio. Aveva fatto voto di castità e obbedienza, e la sua famiglia, i suoi genitori, finché erano stati in vita, e adesso i suoi fratelli e nipoti godevano della tranquillità economica con cui li ricompensava Addaio, oltre a essere onorati all'interno della Comunità. Erano quarant'anni che Guner serviva Addaio ed era arrivato al punto di conoscerlo come se stesso; per questo lo temeva, nonostante la confidenza che si era instaurata tra loro con il passare del tempo. «Credi che fra noi ci sia un traditore?» «Può darsi.» «Sospetti di qualcuno?» «No.» «Se così fosse me lo diresti, vero?» «No, non te lo direi se non fossi sicuro della fondatezza dei miei sospetti. Non voglio condannare nessuno per un pregiudizio.» Addaio lo guardò intensamente. Invidiava la bontà di Guner, la sua temperanza, e pensò che in realtà Guner sarebbe stato un pastore migliore di lui, che coloro i quali l'avevano nominato avevano commesso un errore in ossequio al peso del suo lignaggio, per quell'abitudine assurda e ancestrale di premiare i discendenti dei grandi, rendendo loro tutti gli onori e offrendo prebende in molti casi immeritate. Quella di Guner era un'umile famiglia di contadini i cui antenati, come del resto i suoi, avevano perseverato nel segreto della fede. E se avesse rinunciato? Se avesse convocato un concilio per chiedere la
nomina a pastore di Guner? No, pensò, non lo farebbero, penserebbero che sono impazzito. In realtà stava impazzendo a furia di fare il pastore, di lottare contro la sua natura di uomo, cercando di dominare il peccato dell'ira, offrendo certezze ai fedeli che gliele chiedevano t tutelando i segreti della Comunità. Ricordava con dolore il giorno in cui suo padre, emozionato, lo accompagnò in questa casa dove prima viveva il vecchio pastore Addaio. Il padre, un importante uomo di Urfa, militante clandestino della vera fede, gli aveva ripetuto sin da quando era piccolo che se si fosse comportato bene un giorno avrebbe potuto succedere a Addaio. Lui gli rispondeva che non voleva, che preferiva correre per gli orti pieni di verdure, nuotare nel fiume e scambiarsi sguardi e strizzatine d'occhio con le adolescenti che come lui si aprivano alla vita Gli piaceva soprattutto la figlia di certi vicini, la dolce Rania, una ragazzina dagli occhi a mandorla e i capelli scuri che lui sognava nella penombra della sua stanza. Suo padre, però, aveva per lui altri progetti, e così appena uscito dall'adolescenza lo costrinse a vivere nella casa del vecchio Addaio e prendere i voti preparandosi alla missione che, gli dicevano, Dio gli aveva riservato. Avevano deciso per lui che sarebbe stato Addaio. L'unico suo amico in quegli anni dolorosi fu Guner, che non lo tradì mai quando scappava per avvicinarsi alla casa di Rania e cercare di vederla da lontano. Guner era prigioniero come lui della volontà dei propri genitori, che onorava con l'obbedienza. Quei poveri contadini avevano trovato per il loro figlio, e di conseguenza per tutta la famiglia, un destino migliore di quanto non fosse lavorare dall'alba al tramonto. I genitori di Addaio gli avevano riservato gli onori che ritenevano spettassero alla loro famiglia. I due uomini avevano accettato la volontà dei genitori smettendo per sempre di essere se stessi. 21 Giovanni trovò Obodas che zappava l'orto. Il gigante era concentrato nel lavorare la terra. «Dov'è Timeo?» «Sta parlando con Izaz. Sai che lo istruisce perché un giorno diventi una buona guida per la Comunità.»
Obodas si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano e segui Giovanni in casa. «Ho delle notizie.» Timeo e Izaz attesero con ansia che Giovanni parlasse. «È arrivato Harran con la carovana.» «Harran! Che gioia! Andiamo a salutarlo» esclamò Izaz alzandosi in piedi. «Aspetta, Izaz. La carovana non è di Senìn, anche se Harran viaggia con lei.» «E quindi? Per Dio, Giovanni, parla!» «Sì, meglio che tu lo sappia. Harran è cieco. Quando è rientrato a Edessa, Maanu ha ordinato che gli fossero cavati gli occhi. Il suo padrone Senìn è stato assassinato e il suo corpo dato in pasto alle bestie del deserto.» «Harran ha giurato di non sapere nulla di te, che ti aveva lasciato nel porto di Tiro e che dovevi essere già in Grecia, cosa che ha fatto aumentare la furia di Maanu.» Izaz scoppiò in lacrime. Si sentiva in colpa per la disgrazia di Harran. Timeo gli strinse affettuosamente il braccio. «Lo andremo a cercare al caravanserraglio e lo porteremo qui, lo aiuteremo, se vuole potrà restare con noi.» «Ho insistito perché mi accompagnasse ma non ha voluto. Voleva che sapessi del suo stato prima di presentarsi qui. Non vuole che ti senta obbligato a sopportare il suo peso.» Izaz, accompagnato da Obodas e Giovanni, si diresse al caravanserraglio. Una delle guide della carovana indicò loro dove trovare Harran. «Il capo di questa carovana è parente di Harran. Per questo ha accettato di portarlo fin qui. Harran non ha più nessuno a Edessa: la moglie e i figli sono stati assassinati e il suo padrone Senìn torturato e ucciso in piazza davanti a coloro che hanno voluto assistere allo spettacolo delle sue sofferenze. Maanu ha punito con crudeltà tutti gli amici di Abgar.» «Harran non era amico di Abgar...» «Ma Senìn, il suo padrone, sì, e non ha voluto rivelare al re dove è nascosto il sudario di Gesù con cui fu guarito Abgar. Maanu ha distrutto la casa di Senìn, bruciato i suoi averi, ha persino acceso un'enorme pira per sacrificare gli animali e ha ordinato di fustigare i servi. Ad alcuni ha fatto tagliare le braccia, ad altri le gambe e ad Harran ha cavato gli occhi, gli occhi con cui aveva guidato le carovane di Senìn attraverso il deserto. Harran può ritenersi soddisfatto di essere ancora vivo.»
Lo trovarono seduto per terra, e Izaz lo fece alzare abbracciandolo. «Harran, mio buon amico!» «Izaz? Sei tu?» «Sì, Harran, sono io, sono venuto a cercarti. Verrai con me, avremo cura di te, non ti mancherà nulla.» Timeo accolse Harran con affetto. Aveva disposto che Giovanni lo sistemasse in casa sua finché lui non avesse costruito un'altra stanza nell'abitazione più piccola che divideva con Izaz e Obodas. Nell'udire che lo avrebbero ospitato e non avrebbe dovuto vagare chiedendo l'elemosina, Harran si sentì sollevato. Con voce tremante raccontò che Maanu aveva ordinato di bruciare le case dei cristiani, senza alcun rispetto nemmeno per i nobili. Non aveva avuto pietà per i vecchi, né per le donne e i bambini. Il sangue degli innocenti aveva scurito il candido marmo delle strade della città, ancora impregnato dell'odore della morte. Obodas, con voce rotta, chiese notizie della sua famiglia, del padre e della madre, servitori di Senìn e, come lui, cristiani. «Sono morti. Mi dispiace, Obodas.» Le lacrime inondarono il volto del gigante, senza che le parole di Timeo e Izaz potessero consolarlo. Infine, Izaz fece la domanda che più temeva: che ne era stato di suo zio Josar e di Taddeo? «Josar è stato ammazzato in piazza, come Senìn. Maanu voleva che la morte dei nobili servisse da monito al popolo, perché tutti sapessero che non avrebbe avuto pietà dei cristiani, chiunque fossero... Josar non si è lasciato scappare nemmeno un lamento. Maanu è andato a vedere il suo supplizio e ha costretto anche la regina ad assistervi. A nulla sono valse le sue suppliche. La regina si è inginocchiata implorando che fosse risparmiata la vita a tuo zio mentre il re rideva soddisfatto nel vederla soffrire. Mi dispiace, Izaz... Sono dolente di essere messaggero di morte.» Il giovane cercava di trattenere le lacrime. Tutti avevano un motivo per lasciarsi andare alla disperazione. Tutti erano stati oltraggiati e privati dei propri cari. Izaz sentiva un nodo allo stomaco mentre cresceva in lui un desiderio di vendetta. Il vecchio Timeo lo osservava intuendo la lotta inferiore che infuriava nel cuore del giovane, la stessa che avveniva in quello di Obodas. «La vendetta non è la soluzione. So che entrambi sareste sollevati se Maanu venisse punito, se poteste vederlo morire fra atroci sofferenze. Vi assicuro che sarà punito perché dovrà rendere conto davanti a Dio di quello che ha commesso.»
«Non dici, Timeo, che Dio è misericordia infinita?» si lamentò Obodas tra le lacrime. «È anche giustizia infinita.» «La regina, è ancora viva?» chiese Izaz temendo la risposta. «Dopo la morte di tuo zio nessuno l'ha rivista. Alcuni servitori di palazzo assicurano che è morta di dolore e Maanu ha ordinato di gettarla nel deserto perché il suo corpo servisse da cibo per gli animali. Altri raccontano che il re abbia ordinato di ucciderla. Nessuno l'ha più vista. Mi dispiace, Izaz, di dover recare notizie tanto tristi.» «Amico mio, il messaggero non ha colpa per ciò che racconta» disse Timeo. «Preghiamo insieme e chiediamo a Dio che cancelli l'ira dai nostri cuori e ci aiuti a sopportare il dolore per la perdita dei nostri cari.» 22 La serata era satura del profumo dei fiori. Roma brillava ai piedi degli invitati di John Barry e Lisa sulla grande terrazza dell'attico che dominava la città. Lisa era nervosa. John si era arrabbiato quando, al rientro da Washington, gli aveva annunciato di aver deciso di organizzare una festa in onore di Mary e James alla quale aveva già invitato Marco e Paola. Suo marito l'aveva accusata di slealtà verso la sorella. "Dirai a Mary perché hai invitato Marco? No, certo che no, perché non puoi e non devi. Marco è nostro amico e sono disposto ad aiutarlo per quanto possibile, ma questo non implica coinvolgere la famiglia e meno ancora che tu metta il naso nell'indagine del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Lisa, sei mia moglie, per te non ho segreti, ma ti prego di non immischiarti nel mio lavoro, come io non lo faccio nel tuo. Non ti facevo capace di usare tua sorella, e poi perché? Cosa ti importa dell'incendio del duomo?" Era la prima discussione seria in tanti anni. John aveva fatto sentire in colpa la moglie. In effetti si rendeva conto di aver agito con leggerezza per fare un piacere ai suoi amici. Mary non aveva sollevato obiezioni alla lista degli invitati quando gliel'aveva mandata per e-mail. Nemmeno sua nipote Gina aveva creato problemi nel vedere il nome di Marco Valoni e della moglie Paola; sapeva che erano cari amici dei suoi zii. Li aveva incontrati in qualche occasione e le erano sembrati affabili e simpatici. Chiese piuttosto chi fosse quella dotto-
ressa Galloni che sarebbe venuta con loro. La zia le spiegò che era una studiosa del Comando per la tutela del patrimonio artistico, molto stimata dai Valoni. Gina non fece altre domande. Quattro camerieri passavano tra gli invitati con i vassoi dei cocktail. Quando Marco Valoni fece il suo ingresso, accompagnato da Paola e Sofia, non poté nascondere la sorpresa: il nutrito gruppo di ospiti era formato da due ministri, un cardinale, vari diplomatici, tra cui l'ambasciatore degli Stati Uniti, uomini d'affari e una mezza dozzina di cattedratici amici di Lisa, oltre a diversi archeologi amici di Gina. «Mi sento fuori posto» sussurrò Marco alle due donne. «Anch'io» rispose Paola «ma ormai non possiamo più tornare indietro.» Sofia si mise a cercare con lo sguardo Umberto D'Alaqua. Lo vide che chiacchierava con una signora bionda, bella e sofisticata, che ricordava vagamente Lisa. Stavano ridendo, si vedeva che erano a proprio agio in compagnia l'uno dell'altra. «Benvenuti. Paola, sei bellissima. E lei è la dottoressa Galloni, immagino. Molto piacere.» Marco percepì l'imbarazzo di John. Era teso da quando Lisa li aveva invitati alla festa. Aveva addirittura fatto di tutto perché declinassero l'invito. In modo sottile, con garbo, ma aveva cercato di non farli venire. Si chiedeva il perché. Lisa si avvicinò sorridente. "È tesa anche lei come John. O sono io che sto diventando paranoico?" pensò Marco. Il fatto è che il sorriso di Lisa era una smorfia e gli occhi perennemente tranquilli di John brillavano per l'agitazione. Arrivò anche Gina a salutarli e la zia le affidò il compito di presentarli agli altri invitati. John si rese conto dell'effetto che Sofia faceva sugli uomini. Erano tutti lì a guardarla con la coda dell'occhio, compreso il cardinale. Fu presto coinvolta nella conversazione di un gruppo formato da due ambasciatori, un ministro, tre uomini d'affari e un banchiere. Vestita di bianco con una tunica di Armarti, i capelli biondi sciolti, senza altri gioielli all'infuori di due brillantini alle orecchie e un orologio Cartier, Sofia era sicuramente la donna più bella della serata. La conversazione ruotava intorno alla guerra in Iraq e, gentilmente, il ministro le chiese la sua opinione. «Mi dispiace ma sono contraria. Secondo me, Saddam Hussein non è una minaccia per nessuno, tranne per il suo popolo.»
Il suo era l'unico parere discorde e servì quindi a ravvivare la conversazione. Sofia iniziò a snocciolare argomenti contro la guerra, diede una magistrale lezione di storia e fece sì che i suoi interlocutori la guardassero strabiliati. Nel frattempo, Marco e Paola parlavano con due archeologi amici di Gina che si sentivano fuori posto come loro. Sofia non perdeva di vista la signora bionda che chiacchierava così animatamente con D'Alaqua e approfittò dell'arrivo di John per scusarsi con i suoi interlocutori e dirigersi verso i suoi amici. «Grazie mille per l'invito, signor Barry.» «Siamo felici che abbia potuto accompagnare i miei cari Marco e Paola...» La signora bionda si voltò sorridendo e fece un cenno di saluto con la mano. «Mia cognata. Mary Stuart.» «Assomiglia molto a Lisa» esclamò Marco. «Ce la presenti?» Sofia abbassò il capo, sapeva che Marco stava giocando le sue carte. Visto che Mary Stuart parlava con D'Alaqua, era l'occasione per avvicinarlo. Lisa arrivò proprio in quel momento. «Tesoro, Marco vuole conoscere Mary e James.» «Oh, sì, certo!» La donna accompagnò il gruppo dove c'era sua sorella con D'Alaqua e altre tre coppie. Sofia fissò D'Alaqua, il quale non batté ciglio. L'aveva riconosciuta? «Mary, vorrei presentarti due dei nostri più cari amici, Marco e Paola Valoni, e la dottoressa Galloni che li accompagna.» La signora bionda rivolse loro un ampio sorriso, li introdusse con gentilezza nel gruppo e fece a sua volta le presentazioni. D'Alaqua si produsse in un cortese cenno con il capo e sorrise con indifferenza. «Molto lieta. Tutti archeologi come mia sorella?» chiese garbatamente Mary Stuart. «No, Mary. Allora, Marco è il responsabile del Comando per la tutela del patrimonio artistico, Paola insegna all'università e Sofia lavora con Marco.» «Il Comando per la tutela del patrimonio artistico? Che cos'è?» «Siamo un nucleo speciale impegnato a perseguire i reati contro il patrimonio artistico. Furti di opere d'arte, falsi, contrabbando...» «Ah, interessante!» esclamò senza alcuna curiosità Mary Stuart. «Sta-
vamo proprio parlando di quel Cristo di El Greco che hanno battuto all'asta a New York... Sto tentando di far confessare a Umberto se l'ha comprato o meno.» «Purtroppo non è stato così» precisò l'uomo. Sofia, nervosa, non apriva bocca e guardava imbambolata D'Alaqua. Questi le si rivolse con naturalezza e tono distaccato. «Come procedono le sue indagini, dottoressa Galloni?» Mary e il resto del gruppo lo guardarono stupiti. «Vi conoscete?» chiese Mary. «Sì. Ho ricevuto la dottoressa a Torino qualche settimana fa. Sapete dell'incendio nel duomo. Il Comando stava indagando, non so se lo stia facendo ancora.» «E tu cosa c'entri?» domandò Mary. «C'entro perché l'impresa incaricata dei lavori nel duomo è la COCSA. Le indagini della dottoressa erano dirette a scoprire se si è trattato di un incidente casuale o piuttosto di origine dolosa.» Marco si morse il labbro. Pensò che D'Alaqua aveva uno straordinario controllo di sé e stava dimostrando pubblicamente la sua assoluta indifferenza verso le indagini del Comando. Era un modo per affermare la propria innocenza. «Mi dica, dottoressa, l'incidente può essere stato provocato?» chiese una delle signore del gruppo, una principessa che compariva spesso sulla stampa rosa. Sofia rivolse a D'Alaqua un'occhiata piena di rancore. L'aveva fatta sentire fuori posto, come se si fosse imbucata alla festa. Anche Paola e Marco sembravano a disagio. «Quando si verifica un incidente in un luogo, in questo caso il duomo, dove si trovano innumerevoli opere d'arte, è nostro dovere vagliare tutte le ipotesi.» «Ma siete già arrivati a qualche conclusione?» insistette la principessa. Sofia guardò Marco, che si schiarì la voce prima di intervenire. «Principessa, il nostro lavoro è più di routine di quanto possa sembrare. L'Italia è un paese con un patrimonio artistico straordinario e il nostro lavoro consiste nel salvaguardarlo.» «Sì, ma...» Lisa, nervosa, interruppe la principessa chiamando il cameriere perché servisse ancora da bere. John approfittò per prendere delicatamente Marco per un braccio e condurlo verso un altro gruppo, seguito da Paola. Sofia
invece rimase inchiodata al suo posto senza togliere gli occhi di dosso a D'Alaqua. «Sofia» disse Lisa cercando di allontanarla «vorrei presentarti il professor Rosso. Dirige gli scavi di Ercolano.» «Qual è la sua specializzazione, dottoressa?» chiese Mary. «Ho il dottorato in storia dell'arte, e sono laureata in lingue morte e filologia italiana. Parlo inglese, francese, spagnolo, greco e abbastanza bene l'arabo.» L'aveva detto con orgoglio ma si sentì subito ridicola. Aveva cercato di sbalordire quel gruppetto di ricchi ai quali non importava un bel niente di quello che lei era o sapeva. Provò una gran rabbia nel sentirsi esaminata e osservata come una bestia rara da quelle signore attraenti e da quegli uomini di potere. Lisa fece un altro tentativo di trascinarsela via. «Vieni, Sofia?» «Lisa, ci lasci godere della conversazione con la dottoressa.» Le parole di D'Alaqua sorpresero Sofia. Lisa fece un gesto rassegnato ma nel tentativo di dividere il gruppo portò via con sé la sorella. In un attimo Sofia e D'Alaqua si ritrovarono soli. «Mi sembra a disagio, dottoressa, perché?» «In effetti lo sono, e non so bene la ragione.» «Non dovrebbe sentirsi a disagio, e meno ancora dovrebbe essere offesa con Mary per averle chiesto la sua specializzazione. Mary è una donna straordinaria, intelligente e sensibile, la sua domanda non aveva secondi fini, mi creda.» «Immagino che lei abbia ragione.» «In realtà lei e i suoi amici siete venuti a questa festa per vedere me. Sbaglio?» L'affermazione di D'Alaqua la fece diventare rossa. Si sentiva colta in fallo un'altra volta. «No, sa, il mio capo è amico di John Barry, e io...» «E lei è uscita dal mio ufficio a mani vuote, per cui con il suo capo avete deciso di fingere di incontrarvi per caso con me. Troppo evidente.» Sofia si sentiva la faccia in fiamme. Non era pronta ad affrontare questo duello, alla franchezza di quell'uomo che la guardava con un'espressione tra il distante e il divertito, convinto della sua superiorità intellettuale. «Non è facile incontrarla.» «No, ha ragione, quindi approfitti e mi chieda quello che vuole.»
«Gliel'ho detto: abbiamo il sospetto che l'incidente nel duomo sia doloso, e possono essere stati solo alcuni dei suoi operai. Perché?» «Sa bene che non ho una risposta a questa domanda, ma dato che lei ha un sospetto, me lo riveli e vediamo se la posso aiutare.» Dall'altra parte della terrazza Marco li osservava stupito al pari di Lisa. John, incapace di nascondere nervosismo e irritazione, mandò Lisa a liberare D'Alaqua. «Scusami, Sofia, ma questa sera ci sono molti amici di Umberto che vorrebbero parlare con lui e tu lo stai monopolizzando. Mio cognato James ti sta cercando, Umberto...» Sofia si sentì ridicola. Lisa, con il suo nervosismo, l'aveva offesa senza volere. «Lisa, sono io a monopolizzare la dottoressa Galloni e permetterai che continui a farlo, vero? Da tempo non avevo una conversazione così interessante.» «Oh, sì certo, io... Insomma, se vi serve qualcosa...» «La serata è stupenda, la cena squisita e John e tu dei padroni di casa impeccabili. Sono felice di essere stato invitato per stare un po' con Mary e James, grazie Lisa.» La donna lo guardò stupita e li lasciò soli. Andò da John e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. «Grazie» disse Sofia. «La prego, dottoressa, non mi sottovaluti!» «Non l'ho mai fatto.» «Io direi che questa sera invece l'ha fatto.» «Venire qui è stata una sciocchezza.» «È stato troppo evidente. Il nervosismo dei nostri anfitrioni rivela che avevano preparato questa messinscena. Mi sorprenderebbe che Mary e John ne fossero al corrente.» «Non lo sono. E si staranno chiedendo perché Lisa ci abbia invitato, dato che non c'entriamo un bel niente. Mi dispiace, è stato un errore.» «Non ha ancora risposto alla mia domanda.» «La sua domanda?» «Sì, mi racconti cosa sospetta.» «Sospettiamo che qualcuno miri alla Sacra Sindone, non sappiamo se per rubarla o distruggerla, ma siamo sicuri che l'obiettivo dell'incendio era la Sindone, e che lo sia stata anche in passato, nei numerosi incidenti che si sono verificati nel duomo.»
«È una teoria interessante. Ora mi dica di chi sospettate, chi credete che possa voler rubare o distruggere la Sindone, e soprattutto perché.» «È quello su cui stiamo indagando.» «E non avete piste che avvalorino le vostre ipotesi, sbaglio?» «No.» «Dottoressa, lei crede che io voglia rubare o distruggere la Sindone?» Le parole di D'Alaqua avevano un tono di scherno che aumentarono il senso di ridicolo di Sofia. «Non ho detto che sospettiamo di lei, ma è possibile invece che qualcuno dei suoi dipendenti possa essere coinvolto nell'incidente del duomo.» «Il capo del personale della COCSA, il signor Lazotti, è stato collaborativo?» «Sì, non possiamo lamentarci. È stato molto gentile ed efficiente, e ci ha inviato un memorandum molto ampio con tutti i dati che gli avevo chiesto.» «Permetta una domanda: che cosa vi aspettavate, il suo capo e lei, dall'incontro di questa sera con me?» Sofia abbassò lo sguardo e bevve un sorso dalla coppa di champagne. Non aveva una risposta, perlomeno non una convincente. Con una persona come D'Alaqua non si potevano addurre scuse del tipo che avevano un presentimento. Sentiva di essere stata messa sotto esame e di aver fallito perché le domande poste da quell'uomo facevano sì che le risposte suonassero vuote e infantili. «Di incontrarla, se possibile parlarle, e stare a vedere.» «Che ne direbbe di cenare?» Lo guardò sorpresa. D'Alaqua l'aveva presa delicatamente per il braccio dirigendosi verso uno dei tavoli dove era stato allestito il buffet. James Stuart si avvicinò ai due in compagnia del ministro delle Finanze. «Umberto, Orazio e io stiamo discutendo delle ripercussioni che avrà l'influenza asiatica sulle Borse europee...» Per diversi minuti D'Alaqua dissertò sulla crisi dell'economia asiatica e, con grande stupore di Sofia, lo fece coinvolgendola nella conversazione. Sofia si ritrovò a discutere con il ministro delle Finanze e a replicare ad alcune affermazioni di Stuart. D'Alaqua l'ascoltava con interesse. Nel frattempo, Marco Valoni continuava a meravigliarsi di vedere Sofia integrata in quel gruppo di uomini importanti, soprattutto perché era evidente come lei fosse riuscita a suscitare l'interesse di Umberto D'Alaqua. «La sua amica è affascinante.»
La voce allegra di Mary Stuart lo riportò alla realtà. O fu piuttosto la gomitata che Paola gli diede di nascosto? «Sì, è vero» disse Paola. «È una donna molto intelligente.» «E molto bella» precisò Mary. «Non ho mai visto Umberto così interessato a una donna. Dev'essere proprio straordinaria perché lui le presti tanta attenzione. Ha l'aria di essere contento, rilassato, in sua compagnia.» «Non è sposato, vero?» chiese Paola. «No. Non abbiamo mai capito perché, visto che ha tutto: è intelligente, bello, colto, ricco ed è anche una brava persona. Non so perché non lo frequentiate di più, John, e tu, Lisa.» «Mary, il mondo di Umberto non è il nostro. E non è nemmeno il tuo, anche se sei mia sorella.» «Dài, Lisa, non dire sciocchezze.» «No, non sono sciocchezze. Nella mia vita di tutti i giorni non ci sono ministri, né banchieri o imprenditori. Non hanno motivo di esserci. Idem in quello di John.» «Non cadere nel vecchio luogo comune di dividere la gente secondo quello che c'è scritto sul biglietto da visita.» «Infatti non lo faccio, sto solo dicendo che sono un'archeologa, per cui nel mio giro è difficile che possa incontrare un ministro.» «Be', Umberto dovresti frequentarlo, è appassionato di archeologia, ha finanziato diversi scavi e sono sicura che avete molto in comune» insistette Mary. Sofia e Umberto D'Alaqua si erano seduti a un tavolo vicino ad altri invitati. D'Alaqua si mostrava attento nei confronti di Sofia e lei aveva un'aria contenta. Marco non vedeva l'ora di parlarle, di sapere cos'era successo, cosa si erano detti. Ma non voleva avvicinarsi, l'istinto gli diceva di non farlo. Era ormai quasi l'una quando Paola ricordò a Marco che l'indomani l'aspettava una levataccia. Aveva la prima lezione alle otto e non voleva arrivare troppo stanca. Marco le chiese di andare da Sofia per dirle che rientravano. «Sofia, noi andiamo, se vuoi un passaggio...» «Grazie, Paola, sì, vengo con voi.» Sofia sperava che D'Alaqua si offrisse di riaccompagnarla a casa ma non fu così. Lui si alzò e si esibì in un baciamano di commiato. Altrettanto fece con Paola. Mentre si avviavano alla porta accompagnati da Lisa e John, Sofia guar-
dò con la coda dell'occhio verso il terrazzo. Umberto D'Alaqua conversava animatamente con un gruppo di invitati; rimase delusa. Appena saliti in macchina, Marco diede libero sfogo alla sua curiosità. «Allora, dottoressa, raccontami cosa ti ha detto il grand'uomo.» «Niente.» «Cosa?» «Non mi ha detto niente tranne quanto fosse evidente che eravamo andati alla festa per incontrare lui. Mi ha fatto sentire ridicola, colta in fallo. E mi ha chiesto con sarcasmo se sospettavamo che fosse lui a voler rubare o distruggere la Sindone.» «Nient'altro?» «Per il resto della serata abbiamo parlato di influenza asiatica, di petrolio, arte e letteratura.» «Comunque, sembravate molto a vostro agio, insieme» osservò Paola. «E infatti io lo ero, ma niente di più.» «Lo era anche lui» insistette Paola. «Vi rivedrete?» chiese Marco. «No, no, non credo. È stato gentile, tutto qui.» «Touché?» «Se mi lasciassi trasportare dalle emozioni ti risponderei di sì, ma ormai sono grandicella per cui spero che continui a prevalere la ragione.» «Quindi, touché!» disse Marco, senza nascondere un sorriso. «Formate una bella coppia» commentò Paola. «Siete molto carini, ma non mi voglio illudere. Un uomo come Umberto D'Alaqua non si interessa a una donna come me. Non abbiamo niente in comune.» «Avete molto in comune. Mary ci ha raccontato che è un tipo appassionato di arte e partecipa addirittura a scavi archeologici finanziati da lui stesso. E tu, nel caso non lo sapessi, oltre che intelligente e colta sei anche bellissima, vero Paola?» «Ma certo, persino Mary Stuart è venuta a dirmi che non aveva mai visto D'Alaqua così gentile con una donna come stasera con te.» «Lasciamo perdere. Il risultato è che lui mi ha detto chiaro e tondo che ci eravamo imbucati alla festa. Speriamo che non protesti con qualche ministro per la nostra insistenza.» Pioveva forte. I sei uomini, seduti su comodi divani in cuoio, parlavano animatamente.
Il locale, una biblioteca con un caminetto scoppiettante e diversi quadri di maestri olandesi, rivelava i gusti sobri del proprietario. Si aprì la porta ed entrò un signore anziano, alto e dal fisico asciutto. I sei uomini si alzarono e l'uno dopo l'altro lo abbracciarono. «Scusate il ritardo, ma a quest'ora è difficile circolare per Londra. Non potevo annullare l'impegno di una partita a bridge con il duca, alcuni suoi amici e altri nostri fratelli.» Un delicato tintinnio alla porta annunciò il maggiordomo, venuto a ritirare le tazze del tè e a offrire qualcosa da bere ai sette uomini. Quando furono nuovamente soli, l'anziano riprese la parola. «Allora, ricapitoliamo.» «Addaio ha punito Zafarìn, Rasit e Dermisat per il loro fallimento. Li ha relegati nella residenza alle porte di Urfa. La penitenza durerà quaranta giorni, ma il mio contatto assicura che Addaio non si accontenterà di vederli soffrire, sta preparando qualcos'altro. Sull'eventualità, poi, di mandare un nuovo commando, non ha ancora deciso, ma prima o poi lo farà. Lo preoccupa Mendibj, il muto nel carcere di Torino. Dice che ha fatto un sogno e che per colpa di Mendibj la sventura incombe sulla Comunità. Il mio contatto è preoccupato, dice che da quando Addaio ha fatto questo sogno non mangia quasi più ed è fuori di sé. Teme per la sua salute e per le decisioni che potrebbe prendere.» L'uomo che aveva parlato restò in silenzio. Di mezz'età, bruno, con folti baffi, ben vestito e dall'impeccabile accento inglese, aveva un portamento simile a quello dei militari. L'anziano fece un cenno a un altro dei presenti perché prendesse la parola. «Il Comando per la tutela del patrimonio artistico sa molto, ma ignora di saperlo.» Gli altri lo guardarono preoccupati e incuriositi. L'anziano gli fece segno di continuare. «Sospettano che quanto è successo finora nel duomo di Torino non siano semplici incidenti e ritengono che qualcuno voglia rubare o distruggere la Sindone. Ma non trovano il movente. Continuano a indagare sulla COCSA convinti di riuscire a trovare il bandolo della matassa attraverso la società. Come vi ho annunciato, l'operazione Cavallo di Troia è cominciata, e il muto Mendibj verrà rimesso in libertà tra un paio di mesi. Un altro bandolo per sbrogliare la matassa.» «È arrivato il momento di agire» affermò un uomo avanti con gli anni, di
bell'aspetto e con un leggero accento che rivelava come l'inglese non fosse la sua lingua madre. «Mendibj deve sparire» proseguì. «Per quanto riguarda il Comando, è ora di fare pressione sui nostri amici perché fermino quel Marco Valoni.» «Può darsi che Addaio sia giunto alla stessa conclusione, cioè che Mendibj deve sparire per salvare la Comunità» dichiarò l'uomo con i baffi e il portamento militaresco. «Forse prima di agire dovremmo aspettare di conoscere le decisioni di Addaio. Anche se potrebbe sembrare ipocrita, preferisco non avere sulla coscienza la morte di quel muto.» «Non c'è ragione perché Mendibj debba morire, basta aiutarlo a raggiungere Urfa» suggerì uno dei presenti. «È molto rischioso» intervenne un altro. «Una volta in libertà, il Comando gli starà alle calcagna, non sono stupidi, è gente con esperienza. Elaboreranno un piano ben strutturato e potremmo trovarci al punto che per salvargli la vita ci tocchi sacrificare quella di molti altri, il che oltre a pesarci sulla coscienza sarebbe anche pericoloso dal momento che parliamo di carabinieri.» «Ah, la coscienza!» esclamò l'anziano. «Troppo spesso la mettiamo da parte dicendoci che non abbiamo altra via d'uscita. La nostra è una storia a cui la morte non è estranea. Come del resto non lo sono il sacrificio, la fede, la misericordia. Siamo uomini, nient'altro che uomini, agiamo come riteniamo più giusto. Sbagliamo, pecchiamo, a volte riusciamo... Che Dio abbia pietà di noi.» L'anziano restò in silenzio. Gli altri uomini abbassarono lo sguardo e si immersero nei propri pensieri. Per qualche minuto nessuno parlò. Sui loro volti si era dipinta un'ombra di rammarico. Alla fine, l'anziano alzò gli occhi e, drizzatosi, riprese a parlare. «Bene, vi dirò ciò che ritengo si debba fare e ascolterò le vostre opinioni.» Era ormai notte quando l'anziano dichiarò conclusa la riunione. La pioggia continuava a lasciare un manto umido sulla città. Ana Jiménez non aveva smesso di pensare all'incendio del duomo di Torino. Parlava con il fratello tutte le settimane e ogni volta gli chiedeva delle indagini di Marco. Santiago si arrabbiava e la rimproverava per il suo interessamento, ma non le raccontava niente. «Ti sta venendo l'ossessione e questa ossessione non ti porterà da nessuna parte. Per favore, Ana, dimenticati l'incendio del duomo e la Sindone.»
«Ma il fatto è che sono sicura di potervi aiutare.» «Ana, il caso non è mio, è un'indagine del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Marco è un caro amico convinto che quattro occhi vedano meglio di due e perciò ci ha chiesto di dare un'occhiata alle sue carte, ma solo per dargli un parere. Cosa che io e John abbiamo fatto, punto.» «Però, Santiago, lasciami dare uno sguardo ai documenti di Marco. Sono una giornalista, e riesco a vedere cose che voi poliziotti non vedete.» «Non ho dubbi che voi giornalisti siate sveglissimi e assolutamente in grado di fare il nostro lavoro meglio di noi.» «Non essere sciocco e non te la prendere.» «Non sono sciocco e non me la prendo, ma sia chiaro, Ana, che non ti lascerò mettere il naso nelle indagini di Marco.» «Dimmi almeno qual è la tua opinione.» «Le cose a volte sono più semplici di quel che sembrano.» «Questa non è una risposta.» «Be', è il massimo che ti dirò.» «Ho voglia di venire a Roma, sto pensando di prendermi qualche giorno di vacanza... Ti va bene se vengo adesso?» «No, non mi va bene perché non hai voglia di venire a Roma per una vacanza ma per ficcare il naso dove non devi.» «Sei insopportabile.» «Anche tu.» Ana guardò la pila di documenti che aveva sul tavolo, accanto a una dozzina di libri, tutti sulla Sacra Sindone. Erano giorni che leggeva sull'argomento. Testi esoterici, religiosi, storici... Era sicura che la chiave si trovasse in qualche luogo del percorso storico della reliquia. Marco Valoni l'aveva detto: gli incidenti si erano verificati da quando il sacro lenzuolo si trovava nel duomo di Torino. Prese una decisione: una volta che ne avesse saputo abbastanza delle vicissitudini della Sacra Sindone, avrebbe chiesto qualche giorno di ferie e sarebbe andata a Torino. Era una città che non le era mai piaciuta troppo, non l'avrebbe scelta per passarci una vacanza, ma aveva la sensazione che Marco Valoni avesse ragione, che dietro gli incidenti ci fosse una storia, una storia che lei voleva scrivere. 23 «Eulalio, c'è un giovane che vuole vederti. Viene da Alessandria.»
Il vescovo finì di pregare e si alzò con un certo sforzo, appoggiandosi al braccio dell'uomo che lo aveva interrotto. «Dimmi, Efrem, cos'ha di tanto importante questo giovane venuto da Alessandria perché tu interrompa le mie preghiere?» Efrem, un uomo maturo dal volto nobile e i modi pacati, si aspettava la domanda. Eulalio sapeva che non l'avrebbe interrotto se non fosse stato qualcosa di importante. «È uno strano giovane. Lo manda mio fratello.» «Lo manda Abib? E che notizie porta?» «Non lo so, ha detto che parlerà solo con te. È stremato, sta viaggiando da settimane per arrivare fin qui.» Eulalio ed Efrem uscirono dalla chiesetta e si diressero a una casa vicina. «Chi sei?» domandò Eulalio al giovane dalla pelle scura che rivelava tutta la stanchezza nelle labbra secche e nello sguardo perso. «Cerco Eulalio, vescovo di Edessa.» «Eulalio sono io, e tu chi sei?» «Iddio sia lodato! Eulalio, ciò che sto per rivelarti è qualcosa di straordinario, possiamo parlare a quattr'occhi?» Efrem guardò Eulalio e questi annuì. Sarebbe rimasto da solo con il giovane di Alessandria. «Non mi hai ancora detto il tuo nome.» «Giovanni, mi chiamo Giovanni.» «Siediti e riposati mentre mi racconti questa cosa che consideri straordinaria.» «Lo è. Farai fatica a credermi, ma confido nell'aiuto di Dio per dimostrati quanto sto per dirti.» «Su, avanti.» «È una storia lunga. Ti ho detto che mi chiamo Giovanni, come mio padre e il padre di mio padre, e i suoi nonni e trisavoli. Posso risalire alle mie origini fino all'anno 57 della nostra era, quando a Sidone viveva Timeo, capo della prima comunità cristiana. Timeo era stato amico di Taddeo e di Josar, discepoli di Nostro Signore Gesù, che vissero qui, a Edessa. Il nipote di Timeo si chiamava Giovanni.» Eulalio ascoltava con interesse il giovane Giovanni, per quanto il suo racconto gli risultasse confuso. «Saprai che in questa città c'è stata una comunità cristiana protetta da re Abgar. Maanu, suo figlio, perseguitò i cristiani, confiscò i loro beni e a molti di loro toccò il martirio per aver mantenuto la fede in Gesù.»
«Conosco la storia della città» affermò impaziente Eulalio. «Allora sai che Abgar, ammalato di lebbra, fu guarito da Gesù. Josar portò a Edessa il sudario che avvolse il corpo di Nostro Signore. Il contatto del sacro lino con il corpo malato di Abgar compì il miracolo e il re guarì. Nel sudario c'è qualcosa di straordinario: l'immagine di Nostro Signore con i segni del martirio. Finché Abgar rimase in vita il sudario fu venerato perché lì c'era il volto di Cristo.» «Dimmi, ragazzo, per quale motivo ti manda Abib?» «Scusami, Eulalio, so di abusare della tua pazienza, ma ascoltami fino alla fine. Quando Abgar si rese conto di essere in punto di morte ordinò ai suoi amici - Taddeo, Josar e Marzio, l'architetto di corte - di nascondere il sudario in un luogo dove nessuno avrebbe potuto trovarlo. La custodia venne affidata a Marzio e nemmeno i due discepoli di Gesù, Taddeo e Josar, seppero dove l'aveva nascosto. Marzio si tagliò la lingua perché, per quanto lo torturassero, non potesse rivelare il nascondiglio. Fu sottoposto a orribili supplizi, gli stessi dei cristiani più illustri di Edessa. Solo un uomo sapeva dove Marzio aveva nascosto il lino con l'immagine di Gesù.» Gli occhi di Eulalio brillavano per lo stupore. Fu percorso da un brivido. Il giovane non sembrava pazzo, e tuttavia la storia che gli stava raccontando appariva irreale. «Marzio disse a Izaz, nipote di Josar, dove aveva nascosto il sudario. Izaz fuggì prima che Maanu potesse assassinarlo e giunse a Sidone, dove vivevano Timeo e suo nipote Giovanni, i miei antenati.» «Fuggì con il sudario?» «Fuggì con il segreto di dove si trovava. Timeo e Izaz giurarono di adempiere le volontà di Abgar e dei discepoli di Gesù: il sudario non avrebbe mai lasciato Edessa, poiché appartiene a questa città, ma sarebbe dovuto restare nascosto finché non si fosse stati sicuri che non correva alcun pericolo. Stabilirono che se prima della loro morte i cristiani di Edessa avessero continuato a essere perseguitati, avrebbero confidato il segreto a un altro uomo, che a sua volta non avrebbe potuto rivelarlo senza essere sicuro che il sudario non correva rischi, e così fino a che i cristiani non avessero potuto vivere in pace. Confidarono il luogo del nascondiglio a Giovanni, il nipote di Timeo, e quindi, generazione dopo generazione, un uomo della mia famiglia è stato il depositario del segreto del lino nel quale fu avvolto il corpo di Gesù.» «Sant'Iddio! Sei sicuro di quello che dici? Non è una storia? Se lo fosse meriteresti una punizione, non si nomina il nome di Dio invano. Dimmi,
dove si trova? Ce l'hai tu?» Giovanni sembrava non ascoltare Eulalio, tanto era stremato, e proseguì il suo racconto. «Mio padre è morto qualche giorno fa. Sul letto di morte mi ha confidato il segreto della Sacra Sindone. È stato lui a parlarmi di Taddeo e Josar, e di quell'Izaz che prima di morire tracciò una mappa di Edessa perché il mio antenato Giovanni sapesse dove cercare. La mappa ce l'ho io e indica il luogo dove Marzio nascose il sudario di Nostro Signore.» Il giovane tacque. Gli occhi febbricitanti tradivano lo sforzo cui aveva sottoposto il corpo e lo spirito da quando era venuto a conoscenza del segreto. «Dimmi: perché la tua famiglia non ha voluto rivelare il nascondiglio fino a oggi?» «Mio padre mi disse che avevano mantenuto il segreto così a lungo nel timore che il lino potesse cadere in mani illegittime ed essere distrutto. Nessuno dei miei antenati ha osato svelare ciò che sapeva, lasciando quella responsabilità al suo successore.» Gli occhi di Giovanni luccicavano, umidi. Al dolore per la morte del padre, che ancora lo lacerava, si univa l'angoscia di sapersi depositario di un segreto che avrebbe scosso la Cristianità. «Hai la mappa?» domandò Eulalio. «Sì.» «Dammela» lo esortò l'anziano vescovo. «No, non te la posso dare. Devo andare con te fino al luogo in cui è nascosto e non dobbiamo confidare il segreto a nessuno.» «Ma, figliolo, di cosa hai paura?» «Il sudario è miracoloso, tuttavia molti cristiani sono morti per possederlo. Dobbiamo essere certi che non correrà pericoli, e temo di essere arrivato a Edessa in un brutto momento. La mia carovana ha incrociato viaggiatori che ci hanno raccontato che la città potrebbe essere nuovamente assediata. Per generazioni gli uomini della mia famiglia sono stati i custodi silenziosi del sudario di Cristo, non posso essere io a commettere un errore mettendolo in pericolo.» Il vescovo assentì. Nel volto di Giovanni vedeva riflessi dolore e fatica. Il giovane aveva bisogno di riposare e lui di pensare e pregare. Avrebbe chiesto a Dio di illuminarlo sul da farsi. «Se quello che dici è vero e il sudario di Nostro Signore si trova in un punto della città, non sarò io a fargli correre dei rischi. Riposerai in casa
mia e quando ti sarai ripreso dalle fatiche del viaggio parleremo e decideremo insieme cosa sia meglio fare.» «Non rivelerai a nessuno quello che ti ho detto?» «No, non lo farò.» Il tono deciso della voce di Eulalio convinse Giovanni. Pregava Dio di non essersi sbagliato. Quando il padre moribondo gli aveva raccontato la storia, gli aveva ricordato che il destino del telo con il volto di Gesù era nelle sue mani, facendogli giurare che non avrebbe svelato il segreto se non fosse stato sicuro che era giunto il momento per i cristiani di recuperarlo. Ma lui, Giovanni, aveva sentito un irrefrenabile impulso a mettersi in cammino e arrivare a Edessa. Ad Alessandria era stato informato dell'esistenza di Eulalio e della sua benevolenza e aveva creduto che fosse l'occasione giusta per restituire ai cristiani quello che la sua famiglia, mantenendo il segreto, aveva conservato. Forse era stato precipitoso, si disse Giovanni. Era un'imprudenza recuperare il telo ora che Edessa stava per affrontare una guerra. Si sentiva perduto e temeva di aver sbagliato. Giovanni era medico, come suo padre. A casa sua arrivavano gli uomini più illustri di Alessandria confidando nelle sue conoscenze. Aveva studiato con i migliori maestri e suo padre stesso gli aveva insegnato quanto sapeva. La sua vita era trascorsa felicemente fino alla morte del padre, che amava e rispettava più di ogni altra persona, lo amava persino più della moglie, Miriam, snella e dolce, con un bel viso e profondi occhi neri. Eulalio accompagnò il giovane in una piccola stanza dove c'erano un letto e un rozzo tavolo di legno. «Ti farò portare dell'acqua e qualcosa da mangiare perché ti possa riprendere dalla stanchezza del viaggio. Riposa quanto vuoi.» Il vecchio, assorto, tornò verso la chiesa e lì, inginocchiato davanti alla croce, nascose il viso tra le mani chiedendo a Dio che gli indicasse cosa doveva fare nel caso in cui il racconto del giovane viaggiatore corrispondesse a verità. In un angolo, nascosto nella penombra, Efrem osservava preoccupato il suo vescovo. Non aveva mai visto Eulalio turbato né oppresso dalle responsabilità. Decise di avvicinarsi al caravanserraglio e cercare qualche carovana che andasse ad Alessandria per mandare una lettera a suo fratello Abib e chiedergli informazioni su quello strano giovane che sembrava aver causato tanto dispiacere a Eulalio.
La luna illuminava debolmente la notte quando il vescovo si avviò verso casa. Era stanco, aveva sperato di udire la voce di Dio, invece si era ritrovato di fronte al silenzio. Né la ragione né il cuore gli davano la benché minima indicazione. Sulla soglia trovò ad attenderlo Efrem. «Dovresti essere a riposare, è tardi.» «Ero preoccupato per te, posso esserti d'aiuto?» «Vorrei che mandassi qualcuno ad Alessandria e che Abib ci raccontasse qualcosa di Giovanni.» «Ho già scritto una lettera a mio fratello, però sarà difficile fargliela arrivare. Al caravanserraglio mi hanno detto che una carovana è partita per l'Egitto due giorni fa e ci vorrà un po' prima che ne parta un'altra.» «I commercianti sono preoccupati, ritengono che la guerra con i persiani sia inevitabile e dunque negli ultimi giorni è aumentato il numero delle carovane che hanno abbandonato la città. Eulalio, permettimi di domandarti cosa ti ha raccontato quel giovane per causarti tanta preoccupazione.» «Non posso ancora dirtelo. Magari potessi farlo, sentirei il cuore sollevato. I pesi divisi con altri diventano più leggeri, ma ho dato la mia parola a Giovanni che avrei mantenuto il segreto.» Il sacerdote abbassò lo sguardo e sentì una fitta di dolore. Eulalio si era sempre fidato di lui, avevano condiviso i dispiaceri e i pericoli che in diversi momenti avevano minacciato la comunità. Il vescovo, consapevole dello stato d'animo di Efrem, fu tentato di rivelargli ciò che gli aveva raccontato Giovanni ma riuscì a restare zitto. I due uomini si separarono, amareggiati. «Perché siete nemici dei persiani?» «Non lo siamo, sono loro che, avidi, bramano di conquistare la nostra città.» Giovanni chiacchierava con un giovane più o meno della sua età che era al servizio di Eulalio. Kalman si preparava a diventare sacerdote. Era nipote di un vecchio amico di Eulalio e il vescovo l'aveva preso sotto la sua protezione. Per Giovanni, Kalman era diventato la migliore fonte di informazioni. Gli spiegava i particolari della politica di Edessa, le vicissitudini che la città stava attraversando, gli intrighi di palazzo. Il padre di Kalman era maggiordomo del re e suo nonno era stato archivista di corte; il giovane aveva accarezzato l'idea di seguire le orme del nonno, ma l'incontro con Eulalio aveva lasciato il segno e ora sognava di
diventare sacerdote e chissà mai, un giorno, vescovo. Efrem entrò silenziosamente nella stanza dove stavano conversando Giovanni e Kalman, i quali non si accorsero del suo arrivo. Ascoltò per qualche secondo la loro animata conversazione e poi, con un colpo di tosse, li avvertì della sua presenza. «Ah, Efrem! Mi stavi cercando? Parlavo con Giovanni.» «No, non era te che cercavo, anche se, già che ci siamo, ti ricordo che dovremmo essere a ripassare le Scritture.» «Hai ragione, perdona la mia indolenza.» Efrem sorrise comprensivo e si rivolse a Giovanni. «Eulalio ti vuole parlare. È nella stanza dove lavora, ti aspetta lì.» Giovanni lo ringraziò e uscì in cerca del vescovo. Efrem era un brav'uomo, un sacerdote, ma lui notava che lo guardava con diffidenza, che non era a proprio agio in sua presenza. Bussò piano alla porta della stanza dove lavorava Eulalio e attesa risposta. «Entra, figliolo, entra. Ho brutte notizie.» La voce del vescovo tradiva la sua preoccupazione. Giovanni aspettò che riprendesse a parlare. «Ho paura che tra non molto potremmo essere assediati dai persiani. Se così fosse non avresti modo di uscire dalla città e la tua vita sarebbe in pericolo come quella di tutti noi. Già da un mese sei a Edessa e so che non ritieni ancora giunto il momento di confessarmi dove si trova il sudario di Nostro Signore. Ma ho paura per te, Giovanni, e per quel telo in cui è rimasto impresso il vero volto di Gesù. Se quanto mi hai raccontato è vero, salva il telo e vattene da Edessa appena puoi. Non possiamo correre il rischio che la città venga distrutta e l'effigie di Gesù vada persa per sempre.» Eulalio osservò l'incertezza affiorare sul viso di Giovanni. Sapeva che il giovane non era pronto a essere messo di fronte a un ultimatum, ma si vedeva costretto a farlo. Da quando era arrivato Giovanni, il suo sonno non era stato più sereno e temeva per quel telo sacro di cui gli aveva parlato. In certi momenti dubitava della sua esistenza, in altri gli occhi limpidi del giovane lo spingevano a credergli senza dubitare. «No! Non posso andarmene! Non mi posso portare via il lino in cui fu avvolto il corpo di Nostro Signore!» «Calmati, Giovanni, ho preso la decisione migliore. Ad Alessandria c'è tua moglie, non puoi restare ancora qui, non sappiamo che ne sarà del regno. Sei il depositario di un importante segreto e devi continuare a esserlo. Non ti chiederò di rivelarmi dove si trova il lino, dimmi solo come posso
aiutarti a recuperarlo perché tu lo possa salvare.» «Eulalio, devo restare, so che devo restare, non posso andarmene adesso, e men che meno esporre il telo ai pericoli del viaggio. Mio padre mi ha fatto giurare che avrei compiuto la volontà di Abgar, dell'apostolo Taddeo e di Josar. Non posso portare via il sudario da Edessa, l'ho giurato.» «Giovanni, mi devi obbedire» lo ammonì Eulalio. «Non posso, non devo farlo. Resterò e mi sottometterò alla volontà di Dio.» «Dimmi, qual è la volontà di Dio?» Per Giovanni la voce stanca e solenne di Eulalio fu un colpo al cuore. Fissò il vescovo e all'improvviso capì l'incertezza che gli aveva provocato il suo arrivo, la sua incredibile storia del lenzuolo con cui Giuseppe di Arimatea aveva avvolto il cadavere di Gesù e come il sangue ne avesse disegnato il corpo e il volto quasi fosse un calco. Eulalio era stato generoso e paziente con lui, ma ora lo esortava a partire. La determinazione del vescovo lo costringeva ad affrontare la verità. Sapeva che suo padre non gli aveva mentito, ma se lui stesso fosse stato ingannato? E se nel corso di questi primi quattro secoli dalla nascita di Nostro Signore qualcuno si fosse impossessato del lino sacro? E se fosse stata tutta una leggenda? L'anziano vescovo vide affacciarsi una tempesta di emozioni nello sguardo di Giovanni e provò compassione per l'angoscia del giovane. «Edessa è sopravvissuta ad assedi, guerre, carestie, incendi, inondazioni... Sopravviverà ai persiani, ma tu, figlio mio, devi agire secondo i dettami della ragione. Per il tuo bene, e per il segreto che la tua famiglia ha custodito per tanti decenni, devi salvarti la vita. Preparati a partire, Giovanni, fra tre giorni lascerai la città. Un gruppo di commercianti ha organizzato una carovana. È l'ultima occasione per metterti in salvo.» «E se ti dico dov'è la Sindone?» «Ti aiuterò a salvarla.» Giovanni lasciò la stanza confuso, con gli occhi pieni di lacrime. Uscì in strada dove la frescura dell'alba non era ancora stata soppiantata dal cocente sole di giugno e, vagando senza meta, per la prima volta si rese conto che gli abitanti di Edessa si stavano preparando all'assedio imminente. Gli operai lavoravano instancabilmente per rinforzare le mura e i soldati camminavano ovunque indaffarati e con aria avvilita. Le botteghe esponevano appena le merci e chiunque si incontrasse tradiva nello sguardo la preoccupazione per l'attacco che si sapeva ormai prossimo.
Giovanni pensò a quanto era stato egoista nel non prestare attenzione a ciò che accadeva intorno a lui, e per la prima volta dal suo arrivo ebbe nostalgia di Miriam, la sua giovane sposa, alla quale non aveva nemmeno inviato un messaggio per dirle che stava bene. Eulalio aveva ragione: o partiva immediatamente da Edessa o avrebbe subito lo stesso destino dei suoi abitanti. Un brivido gli corse lungo la schiena perché si rese conto che quel destino poteva essere la morte. Non sapeva quante ore avesse vagato per la città, ma una volta rientrato a casa di Eulalio sentì che la sete lo aveva accompagnato per tutto il giorno e lo stomaco brontolava per la fame. Trovò Eulalio con Efrem e Kalman che parlavano con due nobili dall'aria circospetta inviati dal palazzo. «Entra, Giovanni. Hannan e Manata ci portano tristi notizie» disse. «Subiremo un assedio, Edessa non si arrenderà ai persiani. Oggi sono arrivati alle porte della città due carri. Dentro c'erano le teste di un gruppo di soldati che erano usciti per saggiare le forze di Cosroe. Siamo in guerra.» I due nobili, Hannan e Maruta, osservarono con scarso interesse l'alessandrino e, dopo aver chiesto il permesso al vescovo, continuarono a informarlo sui particolari della situazione. Giovanni li ascoltava abbattuto. Capiva che anche volendo sarebbe stato difficile abbandonare la città. La situazione era peggiore di quanto avesse creduto Eulalio: nessuna carovana sarebbe più partita da Edessa. Nessuno voleva correre il probabile rischio di perdere la vita appena iniziato il viaggio. I giorni seguenti furono vissuti da Giovanni come un incubo. Dalle mura di Edessa si vedevano chiaramente i soldati persiani attorno ai falò. Gli attacchi a volte si succedevano per tutto il giorno. Gli uomini proteggevano le famiglie dietro i muri delle case, mentre i soldati rispondevano ai continui attacchi. Cibo e acqua per ora non mancavano perché il re aveva requisito grano e animali per non far mancare nulla ai suoi soldati. «Giovanni, dormi?» «No, Kalman, sono giorni che non riesco a dormire. Ho nella testa il sibilo delle frecce e i colpi contro le mura, e non riesco a prendere sonno.» «La città è sul punto di soccombere. Non possiamo resistere ancora per molto.» «Lo so, Kalman, lo so. Non basta curare le ferite dei soldati e assistere le donne e i bambini che mi muoiono tra le braccia in preda a convulsioni o
per la peste. Ho i calli alle mani a furia di scavare fosse nel terreno per seppellire i cadaveri. So anche che i soldati di Cosroe non risparmieranno la vita a nessuno. Come sta Eulalio? Non ho potuto occuparmi di lui... mi dispiace.» «Preferisce che aiuti chi ne ha più bisogno. È molto debole per questo prolungato digiuno e il dolore gli attanaglia le ossa. Ha il ventre gonfio ma non si lamenta.» Giovanni sospirò. Erano giorni che dormiva appena per correre da una parte all'altra delle mura a occuparsi delle ferite mortali dei soldati cui ormai non poteva portare sollievo perché non aveva più piante per preparare le pozioni. Donne disperate correvano alla sua porta pregandolo di salvare i loro figli e lui si lasciava scappare lacrime di impotenza non potendo fare nulla per quei bambini la cui vita si stava spegnendo per colpa della fame e della miseria che la guerra porta con sé. Com'era cambiata la sua vita da quando aveva lasciato Alessandria, quasi due anni prima! Quando si abbandonava al dormiveglia sognava il colore limpido del mare, le delicate mani di Miriam, i piatti caldi che gli preparava l'anziana governante, la sua casa circondata dagli aranci. Nei primi mesi di assedio malediceva la sorte e si rimproverava per essersi recato a Edessa seguendo un sogno, ma ora non lo faceva più. Non gliene restavano le forze. «Vado a trovare Eulalio.» «Gli farà bene.» Accompagnato da Kalman, si diresse verso la stanza dove il vescovo giaceva in preghiera. «Eulalio...» «Tu sia il benvenuto, Giovanni. Siediti accanto a me.» Il medico rimase impressionato dall'aspetto del vecchio. Si era rimpicciolito e sotto un sottile strato di pelle, il cui colore faceva pensare alla morte, si vedevano le ossa. La vista del vecchio moribondo commosse Giovanni. Lui, che era venuto a Edessa deciso a mostrare alla Cristianità il volto del Signore, non aveva osato svolgere il suo compito. Nei mesi dell'assedio non aveva nemmeno pensato al sacro lino; adesso, vedendo la morte aggirarsi intorno al letto di Eulalio, capì che presto avrebbe raggiunto anche lui. «Kalman, lasciami solo con Eulalio.» Il vescovo fece un cenno al sacerdote perché accettasse l'ordine di Giovanni. Kalman uscì preoccupato sapendo che nessuno dei due uomini stava
bene. Nel caso di Giovanni si vedeva che il dolore aveva solcato il suo spirito, mentre in Eulalio era la carne a decomporsi a vista d'occhio. Giovanni guardò fisso il vescovo e, prendendogli la mano, si sedette al suo fianco. «Perdonami, Eulalio, ho sbagliato tutto sin dal mio arrivo, e il mio torto più grande è stato di non essermi fidato di te. Ho peccato di superbia non rivelandoti il luogo segreto in cui si trova la Sindone. Te lo dirò, e sarai tu a decidere cosa dobbiamo fare. Che Dio mi perdoni se quello che sto per esprimere è un dubbio, ma se davvero sul telo vi è l'immagine di suo Figlio, allora Lui ci salverà, come ha salvato Abgar da morte sicura.» Eulalio ascoltò sbalordito la rivelazione di Giovanni. Per più di trecento anni il sudario di Gesù era rimasto nascosto sotto i mattoni di una nicchia scavata nelle mura, sopra la porta occidentale della città, l'unico posto che aveva retto agli assalti dell'esercito persiano. Il vecchio si sollevò a fatica e piangendo abbracciò l'alessandrino. «Il Signore sia lodato! Sento nel mio cuore una gioia immensa. Devi raggiungere le mura e recuperare la Sindone. Efrem e Kalman ti aiuteranno, ma devi andarci più in fretta possibile, sento che Gesù può ancora avere misericordia di noi e compiere un miracolo.» «No, non posso presentarmi ai soldati che rischiano la vita sorvegliando la porta occidentale e dire loro che devo cercare una nicchia nascosta nelle mura. Penseranno che sia pazzo o che nasconda un tesoro... No, non ci posso andare.» «Ci andrai, Giovanni.» D'un tratto la voce di Eulalio aveva recuperato energia. A tal punto che Giovanni chinò la testa sapendo che questa volta gli avrebbe ubbidito. «Permettimi, Eulalio, di dire che mi mandi tu.» «E sono io che ti mando. Prima che venissi a trovarmi con Kalman, in sogno ho sentito la voce della madre di Gesù dirmi che Edessa si sarebbe salvata. Così sarà, se Dio vuole.» Le grida dei soldati unite al pianto dei pochi bambini rimasti in vita arrivavano fino alla stanza. Eulalio mandò a chiamare Kalman ed Efrem. «Ho fatto un sogno. Accompagnerete Giovanni alla porta occidentale e...» «Ma, Eulalio» esclamò Efrem «i soldati non ci lasceranno passare...» «Andrete e ubbidirete agli ordini di Giovanni. Edessa si può salvare.» Il capitano, furibondo, ordinò ai due sacerdoti di andarsene.
«La porta sta per cedere e voi volete che ci mettiamo a cercare una nicchia nascosta... Siete matti! Non m'interessa che vi abbia mandato il vescovo. Andatevene!» Giovanni si avvicinò e, con voce ferma, assicurò al capitano che, con o senza il suo aiuto, avrebbero scavato nelle mura, sopra la porta occidentale. Le frecce cadevano tutt'intorno ma i tre uomini scavavano senza sosta sotto lo sguardo attonito dei soldati che, con le ultime forze, difendevano quella parte delle mura. «Qui c'è qualcosa!» gridò Kalman. Qualche minuto più tardi, Giovanni aveva tra le mani un cesto scurito dal tempo e dalla sabbia. Lo aprì e accarezzò il telo accuratamente piegato. Senza aspettare Efrem e Kalman, si mise a correre verso la casa di Eulalio. Suo padre gli aveva detto la verità: la sua famiglia era depositaria del telo con cui Giuseppe di Arimatea avvolse Gesù. Il vescovo tremò per l'emozione vedendo entrare Giovanni così agitato. Questi estrasse il telo e lo spiegò davanti al vecchio che, alzandosi dal letto, cadde in ginocchio incredulo davanti al volto di un uomo perfettamente delineato sul lino. 24 «Dev'essere appassionante quello che stai leggendo per non esserti nemmeno accorta che sono entrato.» «Uff! Scusami, Marco» rispose Sofia. «Hai ragione, io non me ne sono accorta, ma tu non hai fatto rumore.» «Cosa leggi?» «La storia della Sacra Sindone.» «Ma se la sai a memoria. In qualche modo, noi italiani la conosciamo tutti.» «Sì, però potrebbe darsi che ci sia qualcosa in grado di suggerirci una pista.» «Qualcosa che ha a che fare con la storia della Sindone?» «È solo un'idea, per non lasciare nulla di intentato.» Marco la guardò meravigliato. O stava invecchiando e non vedeva più a un palmo dal suo naso, oppure Sofia aveva ragione e magari bisognava indagare su qualche avvenimento del passato che avesse a che vedere con la
Sacra Sindone. «E hai trovato qualcosa?» «No, mi limito a leggere, sperando che a un certo punto mi si accenda una lampadina» affermò Sofia toccandosi la fronte. «Dove sei arrivata?» «Ho appena iniziato, quindi sono nel quarto secolo, quando un vescovo di Edessa chiamato Eulalio ha sognato che una donna gli svelava dove si trovava la Sindone. Sai che per tutto quel tempo era andata persa, nessuno sapeva dove fosse. In realtà non se ne conosceva l'esistenza, ma Evagrio...» «Di quale Evagrio state parlando?» chiese Minerva, che era appena entrata. «Vedi, secondo quanto ci racconta Evagrio nella sua Historia ecclesiastica, nel 544 Edessa vinse una battaglia contro le truppe di Cosroe I che avevano assediato la città, e tutto grazie al Mandylion che portarono in processione lungo i merli delle mura e...» «Comunque, chi è Evagrio, e cos'è il Mandylion?» insistette Minerva. «Se mi ascoltassi» si lamentò Sofia «lo sapresti.» «Scusa, hai ragione. Stavate parlando e mi sono intromessa nella conversazione» rispose Minerva con una smorfia. Marco la osservò divertito. Vide che era impaziente e di malumore. «Sofia sta ripassando la storia della Sindone. Mi stava parlando della sua comparsa a Edessa nel 544, quando la città fu assediata dai persiani. I suoi abitanti erano disperati, sul punto di soccombere all'assedio. Per quante frecce infuocate lanciassero contro le macchine da guerra persiane, queste non si incendiavano.» «E cosa successe?» domandò Minerva. «Stando a quanto racconta Evagrio» continuò Sofia «Eulalio, vescovo di Edessa, sognò una donna che gli rivelava dov'era nascosta la Sacra Sindone. La cercarono e la trovarono nella porta occidentale, in una nicchia scavata nelle mura. La scoperta restituì loro la fede e portarono la Sindone in processione lungo le merlature da dove continuarono a lanciare frecce incendiarie contro le macchine da guerra, che questa volta invece presero fuoco, e i persiani alla fine scapparono.» «Carina, come storia, ma è vera?» chiese Minerva. «Noi storici diamo per veri fatti che sono leggenda e riteniamo leggende avvenimenti che invece appartengono alla storia. Gli esempi migliori riguardano Troia, Micene, Cnosso... città che per secoli si credettero appar-
tenenti al mito ma di cui Schliemann, Evans e altri archeologi si impegnarono con successo a provare l'esistenza» rispose Sofia. «Di sicuro quel vescovo sapeva che la Sindone era lì, perché, per quanto ingenui possiamo essere, non crederemo certo alla storia del sogno, no?» «Questo è quanto ci è giunto» rispose Marco a Minerva «e probabilmente hai ragione. Eulalio doveva sapere dove si trovava la Sindone, o magari era stato lui a ordinare di metterla lì perché saltasse fuori al momento opportuno e si dicesse che era avvenuto un miracolo. Va' a sapere cos'è successo veramente più di millecinquecento anni fa. Per quanto riguarda la tua domanda sul Mandylion, è la parola greca che definisce gli abiti ecclesiastici.» Pietro, Giuseppe e Antonino arrivarono insieme. Stavano parlando animatamente di calcio. Marco aveva fissato un incontro con il suo gruppo per annunciare che nel giro di due mesi il muto di Torino sarebbe stato rimesso in libertà, per cui dovevano iniziare a preparare il piano necessario per seguirlo. Pietro guardò Sofia di sbieco. I due si evitavano, e per quanto cercassero di mantenere un rapporto professionale e di amicizia, in realtà quando erano insieme non si sentivano a proprio agio e a volte questo imbarazzo si trasmetteva al resto del gruppo. Sia Marco sia gli altri evitavano di lasciarli soli o di farli lavorare insieme. Era chiaro che Pietro era ancora innamorato di Sofia e che lei cominciava a non volerne più sapere di lui. «Bene» spiegò Marco «fra qualche giorno l'équipe di trattamento tornerà a visitare il carcere di Torino. Quando arriveranno alla cella del muto, chiederanno al direttore, all'assistente sociale e alla psicologa della prigione che opinione hanno di lui. I tre concorderanno sul fatto che il muto è un ladruncolo inoffensivo e che non rappresenta un pericolo per la società.» «Troppo facile» intervenne Pietro. «No, non la faranno così facile, perché l'assistente sociale proporrà che venga portato in un centro specializzato, una struttura dove i medici possano valutare la capacità del muto di vivere senza dipendere dagli altri. Vedremo se si innervosisce davanti all'eventualità di essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico o se resta impassibile. Il passo successivo sarà il silenzio. Le guardie, almeno per i primi giorni, non parleranno della possibile liberazione in sua presenza e ne osserveranno le reazioni. Dopo un mese l'équipe tornerà nel carcere e due settimane più tardi il muto verrà rimesso in libertà. Sofia, voglio che tu vada a Torino con Giuseppe e cominciate a
organizzare il piano. Ditemi di cosa pensate che avremo bisogno.» Una volta conclusa la riunione, ciascuno tornò al proprio lavoro. Marco ricordò che quella sera erano tutti invitati a cena da lui: era il suo compleanno. «E così libererete il muto. Bel rischio.» «Sì, ma è l'unica pista che abbiamo. O il muto ci porta da qualche parte o questo caso rimarrà aperto per il resto della nostra vita.» Marco e Santiago Jiménez parlavano animatamente sorseggiando un Campari che Paola aveva appena servito loro. La donna aveva organizzato nei dettagli il compleanno di Marco e aveva invitato i suoi amici più cari. Non disponendo di un tavolo abbastanza grande a cui far sedere tutti, aveva allestito un buffet e, aiutata dalle figlie, stava riempiendo piatti e bicchieri, occupandosi della ventina di invitati. «Sofia e Giuseppe avranno il compito di organizzare il piano a Torino. Vanno lì la prossima settimana.» «Anche mia sorella Ana va a Torino. È fissata con la Sindone da quella sera che ci avete invitato a cena. Mi ha mandato un incartamento dove sostiene che la chiave degli eventi che riguardano la Sindone va cercata nel passato. Be', ti racconto questa cosa di Ana perché, anche se non scriverà una riga di quello che ha saputo quella sera qui da te, ha deciso di indagare per conto suo, e siccome le ho detto che non la invito da me a Roma, ha deciso di andarsene a Torino. È una brava ragazza, intelligente, determinata e impicciona come tutti i giornalisti. Però ha fiuto. Credo che le sue indagini non vi daranno fastidio, ma se vieni a sapere di una giornalista che sta ficcando il naso dove non deve e ti crea problemi, dimmelo. Mi spiace, sono gli inconvenienti di quando si ha a che fare con la stampa, anche se è di famiglia.» «Me lo lasci l'incartamento?» «Quello di Ana?» «Sì. È curioso, ma l'altro giorno Sofia si è messa a ripassare la storia della Sindone e mi ha detto che magari potevamo trovare una pista nel passato.» «Però! Va bene, te lo manderò ma è roba molto teorica, non c'è niente che ti possa servire.» «Lo darò a Sofia, anche se è un'imprudenza mettere un giornalista su questa o su un'altra indagine. Alla fine fanno casino, e per un articolo sono capaci...»
«No, no, davvero, Marco, lasciami dire anche un'altra cosa. Ana è una persona onesta, che mi vuole bene e non farebbe mai nulla che potesse danneggiarmi. Sa che come rappresentante della Spagna all'Europol di Roma non posso avere problemi con le autorità locali, e men che meno perché un mio parente è a conoscenza di questioni ufficiali che non dovrebbe conoscere. Ragion per cui non farà niente che mi possa compromettere.» «Però mi hai detto tu stesso che è un po' impicciona e che va a Torino per indagare.» «Sì, ma non pubblicherà neanche una riga sulla faccenda, e se scopre qualcosa me lo dirà. Sa benissimo cosa mi gioco se scrive di un'indagine in corso del Comando per la tutela del patrimonio artistico.» «Ti dirà quello che scopre, nel caso in cui scoprisse qualcosa?» «Sì, voleva proporti un accordo: lei ti passa tutto quello che verrà a sapere e in cambio tu le racconti quello che sai. Ovviamente le ho detto di non sognarsi nemmeno di fare accordi né con te né con nessuno che abbia rapporti con me, ma la conosco, e se scopre qualcosa dovrà verificarlo, mi chiamerà e mi chiederà di dirtelo.» «Così abbiamo trovato un'aiutante volontaria... Comunque, non preoccuparti. Dirò a Giuseppe e Sofia di stare all'erta quando saranno a Torino.» «A che proposito dobbiamo stare all'erta?» «Ah! Sofia, Santiago mi sta raccontando di sua sorella Ana, non so se l'hai mai conosciuta.» «Mi pare di sì, un paio d'anni fa. Non era con te a quella festa per l'andata in pensione di Turcio?» «Sì, è vero. Ana era a Roma e mi ha accompagnato. Viene spesso a trovarmi, sono il fratello maggiore e l'unico che ha. Mio padre è morto quando lei era piccola e questo ci ha unito in modo speciale.» «Me la ricordo perché abbiamo parlato dei rapporti tra la stampa e gli inquirenti. Lei diceva che a volte si fa un matrimonio d'interesse fra le parti ma che alla fine si arriva sempre alla separazione. Mi sembrò molto simpatica e intelligente.» «Mi fa piacere che tu l'abbia trovata simpatica, perché come niente te la ritrovi a Torino a indagare sulla Sindone» le rivelò Marco. Sofia fece una smorfia di stupore e Santiago si affrettò a spiegarle come mai Ana si fosse interessata alla Sacra Sindone e come la cosa si stesse trasformando in un'ossessione. «Sai cosa mi ha appena raccontato Santiago? Che secondo Ana la chiave
degli avvenimenti che riguardano la Sindone si trova nel passato...» «Sì, l'ho pensato anch'io, te l'avevo già detto...» «Ne ho parlato a Santiago. Ci darà del materiale che gli ha mandato sua sorella. Gli daremo un'occhiata, magari la giornalista ci bagna il naso.» «E perché non parliamo con lei?» domandò Sofia. «Per adesso lasciamo le cose come stanno» rispose pensieroso Marco. «Sai bene che non è la prima volta che i carabinieri arrivano a un accordo con un giornalista durante un'indagine.» «Lo so, ma vorrei che almeno per ora questa storia restasse circoscritta al nostro Comando. Se Ana dovesse scoprire qualcosa che ci può essere utile, allora vedremo.» Lisa e John Barry entrarono in salotto accompagnati da Paola. Marcò abbracciò calorosamente John. «Sono contento che tu sia potuto venire.» «Sono appena arrivato da Washington. Sai come sono i capi, e quelli del Dipartimento di Stato non fanno eccezione. Mi sono sorbito una settimana di riunioni assurde che immagino servano a qualcuno per giustificare il proprio stipendio.» «Sappiate che gli hanno proposto il trasferimento a Londra» fece presente Lisa. «Vi piacerebbe?» chiese Paola. «No, ho risposto di no, preferisco restare a Roma. Il Dipartimento di Stato considera il trasferimento a Londra una promozione. Di fatto lo è, però preferisco starmene a Roma. Voi mi vedete come uno yankee ma io mi sento romano.» 25 Guner finì di spazzolare l'abito nero di Addaio e lo appese nel grande armadio dello spogliatoio; tornato in camera, mise in ordine le carte che Addaio aveva lasciato sparse sulla scrivania e sistemò un paio di libri su un ripiano. Addaio aveva lavorato fino a tardi. L'odore dolciastro del tabacco turco impregnava l'austera stanza. Guner spalancò la finestra e rimase per qualche secondo a guardare il giardino. Non udì i passi silenziosi di Addaio né si accorse che lo stava osservando con aria preoccupata. «A cosa pensi, Guner?» Guner si voltò, cercando di non far trapelare l'emozione.
«A niente in particolare, è una bella giornata e fa venire voglia di uscire.» «Appena sarò partito potrai farlo. Potrai anche approfittarne per trascorrere qualche giorno con la tua famiglia.» «Parti?» «Sì. Vado in Germania e in Italia, voglio incontrare la nostra gente, devo sapere in cosa sbagliamo e dove si annida il tradimento.» «Correrai dei pericoli, non dovresti andare.» «Non posso farli venire tutti qui, questo sì che sarebbe pericoloso.» «Datevi appuntamento a Istanbul. La città è piena di turisti tutto l'anno, passeranno inosservati.» «Non potrebbero venire tutti. È più facile che mi sposti io piuttosto che farli venire qui. Ormai è deciso. Parto domani.» «Che scusa inventerai?» «Che sono stanco e mi prendo una breve vacanza. Vado in Germania e in Italia, dove ho dei cari amici.» «Quanto starai via?» «Una settimana, dieci giorni, non molto di più, per cui approfittane e riposati. Non vedermi per qualche giorno ti farà bene. Ultimamente noto che sei teso, ce l'hai con me. Perché?» «Ti dirò la verità: mi fanno pena quei giovani che sacrifichi. Il mondo è cambiato e tu ti ostini a far sì che tutto resti uguale. Non puoi continuare a mandare dei ragazzi a morire con la lingua strappata per paura che parlino e...» «Se parlassero ci distruggerebbero. Siamo sopravvissuti per venti secoli grazie al martirio e al silenzio di quanti ci hanno preceduto. Sì, esigo grandi sacrifici, io stesso del resto ho sacrificato la mia vita, una vita che non mi è mai appartenuta, come non ti appartiene la tua. Morire per la nostra causa è un onore, sacrificare la lingua altrettanto. Non sono io a strappargliela, fanno volontariamente questo sacrificio perché sanno che è indispensabile. Così facendo proteggono tutti noi e anche se stessi.» «Perché non usciamo allo scoperto?» «Sei impazzito! Pensi davvero che potremmo sopravvivere se dicessimo chi siamo? Ma cosa ti succede, che diavolo hai in testa?» «A volte penso che il diavolo l'abbia in testa tu. Sei diventato insensibile e crudele. Non provi pietà per niente e per nessuno. Credo che la tua crudeltà sia una vendetta per il fatto di essere quello che non volevi.» Rimasero in silenzio guardandosi fisso negli occhi. Guner pensò di aver
parlato più di quanto avesse intenzione di fare e Addaio si stupì accettando, ancora una volta senza fiatare, i rimproveri dell'amico. Le loro vite erano irrimediabilmente intrecciate e nessuno dei due era felice. Guner sarebbe stato capace di tradirlo? Scacciò questo pensiero. No, non avrebbe potuto farlo. Di lui si fidava, di fatto gli aveva affidato la propria vita. «Preparami i bagagli per domani.» Guner non rispose. Si voltò e si mise a chiudere le finestre con la mascella irrigidita per la tensione. Quando udì il leggero rumore della porta richiusa da Addaio trasse un profondo respiro. L'uomo si accorse che per terra, accanto al suo letto, c'era un foglio di carta. Si chinò a raccoglierlo. Era una lettera scritta in turco e non poté fare a meno di leggerla. Certe volte Addaio gli permetteva di leggere lettere e documenti e gli chiedeva un parere. Sapeva che stava facendo qualcosa di deplorevole ma sentiva l'impulso irrefrenabile di conoscere il contenuto di quella lettera che aveva trovato sul pavimento. La lettera non era firmata. Chi l'aveva scritta informava Addaio che l'équipe di trattamento del carcere di Torino stava esaminando la possibilità di rimettere in libertà Mendibj e chiedeva istruzioni su che cosa fare quando fosse uscito. Si domandò perché Addaio non avesse custodito una lettera così importante. Voleva forse che lui la trovasse? Pensava che fosse lui il traditore? Tenendo la lettera in mano, Guner si diresse nello studio di Addaio. Bussò delicatamente alla porta e attese che il pastore lo facesse entrare. «Addaio, per terra vicino al tuo letto c'era questa lettera.» Il pastore lo guardò impassibile e allungò la mano per prendere il foglio. «L'ho letta, immagino che tu l'abbia persa apposta perché la trovassi e la leggessi. Intendevi così tendermi una trappola per sapere se il traditore sono io. No, non lo sono. Mi sono detto mille volte che dovevo andarmene, mille volte ho pensato di dire al mondo chi siamo e cosa facciamo. Ma non l'ho fatto, non lo farò per la memoria di mia madre, perché la mia famiglia possa continuare a vivere a testa alta e i miei nipoti godere di una vita migliore di quella che è stata la mia. È per loro che non lo faccio, e perché non so che ne sarebbe di me. Sono un uomo, un pover'uomo, troppo vecchio per iniziare una nuova vita. Sono un vigliacco, come te, lo siamo stati entrambi accettando questo destino.» Addaio lo guardava in silenzio cercando di scorgere sul volto di Guner
un gesto, un'emozione, la traccia di qualcosa capace di fargli capire che poteva ancora contare sul suo affetto. «Adesso so perché domani parti. Sei preoccupato, hai paura di quello che potrebbe succedere a Mendibj. L'hai detto a suo padre?» «Dal momento che sei così sicuro di non volermi tradire, ti dirò che sono preoccupato per il fatto che libereranno Mendibj. Se hai letto la lettera saprai che il nostro contatto nel carcere ha visto il capo del Comando per la tutela del patrimonio artistico fare visita a Mendibj, e dice anche di sospettare che il direttore del carcere stia tramando qualcosa. Non possiamo correre rischi.» «Cosa farai?» «Quello che sarà necessario perché la nostra Comunità sopravviva.» «Anche ordinare l'assassinio di Mendibj?» «Chi di noi due è giunto a questa conclusione, tu o io?» «Ti conosco bene, e so di cosa sei capace.» «Sei l'unico amico che abbia avuto, non ti ho mai nascosto nulla, conosci tutti i segreti della nostra Comunità ma mi rendo conto che non provi nemmeno una punta di affetto per me, che non l'hai mai provato.» «Ti sbagli, Addaio, ti sbagli. Sei sempre stato buono con me, dal primo giorno in cui arrivai in casa tua quando avevo dieci anni. Hai capito il mio dolore per essere stato separato dai miei genitori e hai fatto l'impossibile perché li potessi andare a trovare spesso. Non dimenticherò mai come mi accompagnavi a casa e mi lasciavi passare lì il pomeriggio mentre passeggiavi nei campi per far passare il tempo senza imporci la tua presenza. Non posso rimproverarti per come ti sei comportato con me, ti rimprovero per come ti sei comportato con il mondo, con la nostra Comunità, per l'immenso dolore che provochi. Se vuoi sapere se ti voglio bene, la risposta è... sì, ma ti confesso che a volte provo una profonda avversione nei tuoi confronti per esserti incatenato al tuo destino. Comunque non ti tradirò, se è questo che ti preoccupa.» «Sì, mi preoccupa che ci sia un traditore fra noi ed è mio dovere non dare nulla per scontato.» «Permettimi di dirti che la lettera dimenticata è stata troppo evidente.» «Forse volevo che la trovassi nel caso fossi il traditore, per metterti in allerta. Sei il mio unico amico, l'unica persona che non vorrei perdere.» «Andando in Italia corri dei pericoli.» «Li correremo tutti se non faccio niente.» «A Torino abbiamo delle persone che possono eseguire quello che ordi-
ni. Se la polizia sta preparando qualcosa non dovresti esporti.» «Perché credi che la polizia stia preparando qualcosa?» «Lo dicono nella lettera, mi stai tendendo un'altra trappola?» «Prima andrò a Berlino, poi a Milano e Torino. Sai che stimo la famiglia di Mendibj, ma non permetterò che diventi un problema.» «Puoi portarlo via da Torino non appena lo liberano.» «E se fosse un tranello? E se lo lasciassero libero per seguirlo? È quello che farei al posto loro. Non posso permettere che metta in pericolo la Comunità, lo sai bene. Sono responsabile di molte famiglie, anche della tua. Vuoi che ci annientino, che ci spoglino dei nostri averi? Vuoi che tradiamo la memoria che i nostri antenati ci hanno trasmesso? Siamo quello che dobbiamo essere, non quello che ci sarebbe piaciuto.» «Corri dei pericoli se vai a Torino. È un'imprudenza.» «Non sono un incosciente, lo sai bene, ma in quella lettera ci avvertono che potrebbero anche prepararci una trappola e io devo agire per evitare di caderci dentro.» «Mendibj ha i giorni contati.» «Tutti noi nasciamo con i giorni contati. Adesso lasciami lavorare e avvisami appena arriva Talat.» Guner uscì dallo studio e si diresse verso la cappella. Lì, in ginocchio, lasciò che le lacrime gli inondassero il viso e cercò nella croce posta sull'altare una risposta alle sue sofferenze. 26 «Stai diventando paranoico.» «Senti, Giuseppe, sono sicuro che i muti entrano ed escono da qualche parte che non è la porta, e il sottosuolo di Torino è come una gruviera. È pieno di gallerie, lo sai.» Sofia ascoltava i due uomini in silenzio ma pensava che Marco avesse ragione. I muti apparivano e sparivano senza lasciare traccia. I muti o i loro complici, perché erano convinti che queste manovre attorno alla Sindone fossero opera di un'organizzazione che sceglieva dei muti per realizzare i furti, sempre che intendessero davvero rubare la Sindone dal duomo come sosteneva Marco. Il capo aveva deciso all'ultimo momento di andare a Torino con loro. Il ministro dei Beni culturali gli aveva procurato un'autorizzazione del ministero della Difesa per esplorare le gallerie, quelle chiuse al pubblico. Nelle
mappe della Torino sotterranea in dotazione all'esercito non c'erano gallerie che portassero al duomo. Tuttavia l'istinto diceva a Marco che quelle mappe erano sbagliate, per cui, grazie all'aiuto di un comandante dei genieri e di quattro scavatori dello stesso reggimento di Pietro Micca, avrebbe perlustrato le gallerie che erano chiuse. Aveva firmato un documento in cui si assumeva la responsabilità dei rischi che correva, mentre il ministro gli aveva raccomandato di non mettere in pericolo la vita del comandante e dei militari che l'avrebbero accompagnato. «Abbiamo studiato le mappe, non ci sono gallerie che portano al duomo, lo sai benissimo.» «Giuseppe» intervenne Sofia «non sappiamo tutto quello che c'è nel sottosuolo di Torino. Se ci mettessimo a scavare, Dio solo sa cosa potremmo trovare. Certe gallerie che corrono sotto la città non sono state esplorate, altre sembrano non portare da nessuna parte. Ma potrebbe anche darsi che qualcuna arrivi fino al duomo. Sarebbe logico. Pensa che la città ha subito molti assedi e il duomo custodisce tesori unici che i torinesi avrebbero voluto salvare in caso di assalto o conquista da parte del nemico. Non è assurdo pensare che qualcuna delle gallerie che sembrano non portare da nessuna parte in realtà arrivi fino al duomo o nelle vicinanze.» Giuseppe restò in silenzio. Rispettava Marco e Sofia per le loro conoscenze, perché erano degli storici e a volte vedevano qualcosa dove altri non notavano nulla. Oltre tutto, Marco era ossessionato da questo caso. O lo risolveva o avrebbe finito per mandare a monte la carriera, perché erano mesi che si occupava solo dell'ultimo incendio del duomo. Erano alloggiati all'Hotel Alexandra, nei pressi del centro storico di Torino, e l'indomani avrebbero iniziato a lavorare. Marco sarebbe andato a visitare le gallerie della città, Sofia aveva chiesto un appuntamento al cardinale e Giuseppe doveva incontrarsi con i carabinieri per stabilire gli effettivi di cui avrebbero avuto bisogno per seguire il muto. Quella sera, però, Marco li aveva invitati a mangiare pesce in un ristorante classico e accogliente: Al Ghibellin Fuggiasco. Stavano parlando animatamente quando furono sorpresi dalla presenza di padre Yves. Il sacerdote si avvicinò al loro tavolo con fare amichevole e strinse calorosamente la mano a ognuno come se fosse contento di vederli. «Non sapevo che venisse a Torino anche lei, capitano Valoni. Il cardinale mi ha detto che verrà a trovarci la dottoressa Galloni. Credo che lei abbia appuntamento domani con Sua Eminenza.»
«Sì, esatto» rispose Sofia. «Come proseguono le indagini? I lavori nel duomo sono terminati e la Sindone è di nuovo esposta ai fedeli. Abbiamo rafforzato le misure di sicurezza, e la COCSA ha installato un modernissimo sistema antincendio. Credo che non avremo altri contrattempi.» «Speriamo proprio che lei abbia ragione, padre» esclamò Marco. «Bene, vi lascio alla vostra cena.» Lo seguirono con lo sguardo fino al tavolo dove lo aspettava una giovane bruna. Marco rise. «Sapete con chi è il nostro padre Yves?» «Con una bruna piuttosto appariscente, alla faccia dei preti» affermò sbalordito Giuseppe. «È Ana Jiménez, la sorella di Santiago.» «Hai ragione, Marco, è la sorella di Santiago.» «Adesso sarò io ad andare al tavolo di padre Yves per salutarla.» «Perché non li invitiamo a bere qualcosa?» «Capirebbero di aver suscitato il nostro interesse e non ci conviene, non vi pare?» Marco attraversò la sala e si avvicinò al tavolo di padre Yves. Ana Jiménez gli rivolse un largo sorriso e gli chiese con insistenza di dedicarle qualche minuto quando avesse avuto tempo. Era a Torino da quattro giorni. Marco non prese alcun impegno, rispose solo che l'avrebbe invitata volentieri a bere un caffè se gli fosse avanzato un po' di tempo, visto che non si sarebbe fermato molti giorni a Torino. Quando le chiese dove l'avrebbe potuta chiamare, Ana Jiménez rispose all'Hotel Alexandra. «Che coincidenza, anche noi siamo all'Alexandra.» «Me lo ha consigliato mio fratello, e per starci qualche giorno va bene.» «Be', in questo caso troveremo sicuramente un po' di tempo per vederci» disse Marco. Quindi li salutò e tornò da Sofia e Giuseppe. «La nostra fanciulla alloggia all'Alexandra.» «Che combinazione!» «No, non è una combinazione, glielo ha consigliato Santiago, c'era da aspettarselo. Comunque, sta di fatto che l'avremo troppo vicina, per cui cerchiamo di evitarla.» «Non sono sicuro di voler evitare una mora simile» esclamò Giuseppe ridendo. «Be', lo farai per due motivi, primo perché è una giornalista e sta cer-
cando di scoprire cosa c'è dietro gli incidenti della Sindone, secondo perché è la sorella di Santiago e non voglio casini, intesi?» «Intesi, stavo scherzando.» «Ana Jiménez è una donna caparbia e intelligente, non c'è da scherzare.» «Il materiale che ha mandato a suo fratello è pieno di spunti interessanti. Non mi dispiacerebbe fare due chiacchiere con lei.» «Non ti dico di no, Sofia, ma dobbiamo stare attenti.» «Che cosa ci fa con padre Yves?» si chiese Sofia a voce alta. «È una ragazza sveglia ed è riuscita a fare in modo che il braccio destro del cardinale la invitasse a cena» rispose Marco. «Padre Yves mi intriga.» «Perché, Sofia?» «Non lo so, ma è così a posto, così bello, così garbato e sempre ligio al suo ruolo di sacerdote. Non fa il galletto. Lo sto osservando, parla con lei, è gentile ma non si sogna di civettare e sì che Ana, come dice Giuseppe, è una gran bella ragazza.» «Se avesse intenzione di combinare qualcosa non la porterebbe in questo ristorante dove lo potrebbero conoscere in molti» ribadì Marco. «Nessuno di noi lo farebbe.» L'anziano abbassò la cornetta del telefono e per qualche secondo lasciò vagare lo sguardo dalla finestra. La campagna inglese, illuminata da un tiepido sole, risplendeva di un verde smeraldo. I sette uomini attendevano ansiosi che parlasse. «Uscirà tra un mese. La prossima settimana l'équipe di trattamento valuterà formalmente la domanda di scarcerazione.» «Per questo Addaio è andato in Germania e, secondo il nostro uomo, passerà la frontiera italiana. Mendibj è diventato il suo maggior problema, un pericolo per la Comunità.» «Lo ucciderà?» chiese l'uomo dall'accento francese. «Non può lasciare che seguano la pista fino a Mendibj. Addaio ha capito la mossa e fa in modo di impedirla» rispose l'uomo con il portamento militaresco. «Dove lo ammazzeranno?» insistette il francese. «Sicuramente in prigione» affermò l'italiano. «Sarebbe la cosa più sicura. Creerebbe un piccolo scandalo ma poco altro. Senza volere, Mendibj in libertà può mettere allo scoperto gli uomini di Addaio.» «Cosa proponete?» chiese l'anziano.
«Se Addaio risolve il problema, meglio per tutti.» «Abbiamo previsto qualche protezione per Mendibj nel caso in cui riesca a uscire vivo di prigione?» chiese ancora l'anziano. «Sì» affermò l'italiano «i nostri fratelli cercheranno di evitare che i carabinieri lo seguano.» «Non basta che cerchino di farlo, i nostri fratelli non possono sbagliare.» La voce dell'anziano risuonò forte come un tuono. «Così sarà» ribadì ancora l'italiano. «Spero di conoscere nelle prossime ore tutti i dettagli del piano dei carabinieri per l'operazione denominata Cavallo di Troia.» «Bene, arriviamo al punto cruciale della partita e l'epilogo non può che essere quello di salvare Mendibj dai carabinieri, altrimenti...» L'anziano non terminò la frase. Tutti assentirono, sapevano che per quanto riguardava Mendibj i loro interessi coincidevano con quelli di Addaio, non potevano permettere che si trasformasse in un cavallo di Troia. Un leggero colpo alla porta, prima dell'ingresso di un maggiordomo in livrea, fu il segnale che la riunione vespertina era terminata. «Signore, gli invitati stanno cominciando a svegliarsi.» «Bene.» Gli uomini, in tenuta da caccia alla volpe, uscirono lentamente dallo studio per entrare in un salone riscaldato dove li aspettava la prima colazione. Dopo qualche minuto un'anziana aristocratica accompagnata dal marito entrò nel salone. «Caspita, pensavo che fossimo i più mattinieri, invece, come vedi, Charles, i nostri amici ci hanno preceduto.» «Di sicuro ne approfittano per parlare di affari.» Il francese li assicurò che non vedevano l'ora di iniziare la giornata di caccia. Nel salone si susseguirono altri invitati, fino a un totale di trenta. Parlavano animatamente e alcuni commentavano indignati la proposta della Camera dei Comuni di abolire la caccia alla volpe. L'anziano li guardò con aria rassegnata. Detestava la caccia come gli altri sette uomini con cui aveva parlato qualche minuto prima, tuttavia non poteva sottrarsi a quello svago così tipicamente inglese. I membri della famiglia reale adoravano la caccia e gli avevano chiesto, come in altre occasioni, di organizzare una battuta nella sua splendida tenuta. Ed eccoli lì. Sofia aveva trascorso buona parte della mattinata con il cardinale. Non
aveva visto padre Yves, ad accompagnarla nello studio di Sua Eminenza era stato un altro sacerdote. Il cardinale era contento che i lavori fossero terminati. Aveva elogiato Umberto D'Alaqua che si era impegnato personalmente perché si concludessero prima del previsto, allargando la squadra di operai senza costi aggiuntivi. Sotto la supervisione del dottor Bolard, la Sindone era tornata nella Cappella Guarini, nella sua teca d'argento. Quando il cardinale si lamentò in maniera molto velata del fatto che né Marco né lei lo avessero chiamato per informarlo dell'andamento delle indagini, Sofia si scusò e cercò di ingraziarsi Sua Eminenza raccontandogli il minimo indispensabile. «E così credete che ci sia un'organizzazione o un privato che vogliono la Sindone e progettano gli incendi per creare confusione e poterla rubare. Bah! Molto complicato, direi. E per quale ragione ritenete che qualcuno voglia la Sacra Sindone?» «Non lo sappiamo. Può trattarsi di un collezionista, un eccentrico o un'organizzazione mafiosa che potrebbe chiedere un ingente riscatto per la sua restituzione.» «Mio Dio!» «La cosa di cui siamo sicuri, Eminenza, è che tutti gli incidenti che si sono verificati nel duomo sono legati alla Sindone.» «E mi diceva che il suo capo sta cercando una galleria sotterranea che porti al duomo. Ma è assurdo. Avete chiesto a padre Yves di controllare nei nostri archivi. Credo che vi abbia mandato una documentazione dettagliata della storia del duomo, e non sta scritto da da nessuna parte che ci fosse una scorciatoia.» «Questo, però, non significa che non ci sia.» «Ma nemmeno che ci sia. Non dovete credere a tutte le storie fantastiche che si scrivono sul duomo.» «Eminenza, sono una storica.» «Lo so, lo so, dottoressa, provo ammirazione e rispetto per il lavoro che state svolgendo al Comando, non era mia intenzione offenderla, mi creda.» «Eminenza, mi creda anche lei se le dico che la storia non è tutta scritta, che non conosciamo tutto ciò che è successo nel passato e men che meno le intenzioni degli uomini che ci hanno preceduto.» Al rientro in albergo, Sofia si ritrovò nell'atrio Ana Jiménez. Capì che la giornalista la stava aspettando.
«Dottoressa...» «Come sta?» «Bene. Si ricorda di me?» «Sì, è la sorella di Santiago Jiménez, un nostro caro amico.» «Sa cosa ci faccio a Torino?» «Indaga sugli incendi del duomo.» «So che al suo capo non fa per niente piacere.» «È naturale, nemmeno a lei farebbe piacere che i carabinieri si intromettessero nel suo lavoro.» «No, non mi piacerebbe e cercherei di piantarli in asso. So che quanto sto per dirle le sembrerà un'ingenuità, ma vi posso aiutare e potete fidarvi di me. Tengo moltissimo a mio fratello e non farei mai nulla che lo danneggi. È vero che mi piacerebbe scrivere un pezzo, ma non lo farò, mi impegno a non scrivere una riga finché non avrete concluso le indagini e tutto si sarà chiarito.» «Deve capire che il Comando per la tutela del patrimonio artistico non la può inserire nel suo gruppo così, tanto per fare.» «Però possiamo lavorare in parallelo, io vi racconterò quello che scopro e voi giocate pulito con me.» «Ana, questa è un'indagine ufficiale.» «Lo so, lo so.» Sofia fu sorpresa dalla preoccupazione che si leggeva sul volto della ragazza. «Perché è così importante per lei?» «Non glielo saprei spiegare. In realtà della Sindone non me ne era mai importato niente, né avevo fatto caso agli incendi e ai furti nel duomo. È stato a casa del suo capo, Marco Valoni, che mi ha preso questa febbre. Mio fratello mi aveva portato a quella cena pensando che sarebbe stata una cosa tra amici, invece il capitano Valoni voleva sentire il parere di Santiago e dell'altro amico, credo si chiami John Barry, a proposito dell'incendio. Hanno parlato per tutta la sera facendo delle ipotesi e sono stata conquistata dalla storia.» «Cosa ha scoperto?» «Ci beviamo un caffè?» «D'accordo.» Ana Jiménez tirò un sospiro di sollievo, mentre Sofia si era già pentita di aver accettato l'invito della giornalista. Le era simpatica, pensava che di lei ci si potesse fidare, ma Marco aveva ragione: perché avrebbero dovuto far-
lo? A quale scopo? «Allora, mi racconti» la sollecitò Sofia. «Ho letto varie versioni della storia della Sindone, è appassionante.» «Sì, è vero.» «Secondo me qualcuno vuole la Sindone. Gli incendi sono un trabocchetto per depistare gli inquirenti. L'obiettivo è prendersi la reliquia.» Sofia rimase meravigliata dal fatto che la ragazza fosse giunta alla loro stessa conclusione e continuò ad ascoltarla con interesse. «Però dovremmo cercare nel passato. Qualcuno la vuole recuperare» insistette Anna. «Qualcuno del passato?» «Qualcuno che è legato al passato della Sindone.» «E come è giunta a questa conclusione?» «Non lo so, è un presentimento. Ho mille teorie, una più pazzesca dell'altra, ma...» «Sì, ho letto il suo incartamento.» «E cosa ne pensa?» «Che ha molta immaginazione, indubbiamente del talento e magari perfino ragione.» «Credo che sulla Sindone padre Yves sappia più cose di quelle che racconta.» «Perché dice così?» «Perché è così perfetto, corretto, innocente, così trasparente da farmi pensare che nasconda qualcosa. E per essere bello, è molto bello, non crede?» «Sì, in effetti è un uomo molto affascinante. Come l'ha conosciuto?» «Ho chiamato la sede vescovile spiegando che ero una giornalista e che volevo scrivere una storia della Sindone. Mi ha ricevuto una signora di una certa età, giornalista, che si occupa dei rapporti con la stampa. Per due ore mi ha raccontato quello che c'è scritto nei dépliant turistici sulla Sacra Sindone, oltre a impartirmi una lezione di storia su Casa Savoia. Me ne sono andata annoiata. Quella cara signora non era la persona adatta per trovare qualche pista. Ho richiamato e ho chiesto di parlare con il cardinale. Si sono informati su chi ero e cosa volevo. Ho spiegato che ero una giornalista e che stavo indagando sugli incendi e gli incidenti che si sono verificati nel duomo. Mi hanno dirottato di nuovo sulla gentile giornalista, che questa volta mi ha risposto contrariata. Ho insistito perché mi fissasse un appuntamento con il cardinale. Alla fine ho giocato il tutto per tutto, le ho detto
che stavano nascondendo qualcosa e che avrei reso pubblici i miei sospetti, oltre ad alcune cose che avevo scoperto. «L'altro ieri mi chiama padre Yves. Mi dice che è il segretario del cardinale, che Sua Eminenza non mi può ricevere ma lo ha incaricato di mettersi a mia disposizione. Ci siamo visti, abbiamo parlato per un bel po'. Mi è sembrato sincero nel raccontarmi quanto era accaduto nell'ultimo incendio. Mi ha accompagnato a visitare il duomo e poi abbiamo preso un caffè. Eravamo rimasti d'accordo di continuare la chiacchierata. Quando ieri ho telefonato per fissare l'appuntamento, mi ha detto che sarebbe stato occupato tutto il giorno e mi ha chiesto se non mi fosse dispiaciuto un invito a cena. Tutto qui.» «È un sacerdote particolare» disse Sofia, come se pensasse ad alta voce. «Immagino che quando dice messa il duomo si riempia» replicò Anna. «Le piace?» «Se non fosse un prete cercherei di farmelo.» Sofia fu sorpresa dalla spregiudicatezza di Ana Jiménez. Lei non avrebbe mai confessato una cosa simile a un'estranea. Ma ie ragazze sono così. Ana non doveva avere più di venticinque anni, apparteneva a una generazione abituata a prendersi quello che voleva, senza scrupoli o ipocrisie, anche se il fatto che padre Yves fosse un prete, almeno per ora, sembrava frenarla. «Sa, padre Yves intriga anche me, ma le indagini svolte su di lui non rivelano nulla di strano o comunque di diverso da quel che si vede. A volte ci sono persone così, pulite e trasparenti. Allora, cosa pensa di fare?» «Se lei mi desse qualche dritta, potremmo scambiarci delle informazioni...» «No, non posso e non devo.» «Non lo saprebbe nessuno.» «Sia chiaro, Ana, io non faccio niente alle spalle di qualcuno, tanto meno delle persone di cui mi fido e con cui lavoro. Lei mi è simpatica, ma io svolgo il mio lavoro e lei il suo. Se a un certo punto Marco dovesse decidere che dobbiamo prenderla in considerazione ne sarò felice. Altrimenti, sarò felice lo stesso.» «Se c'è qualcuno che vuole rubare o distruggere la Sindone, il pubblico ha diritto di saperlo.» «Non ne dubito. Solo che è lei a dire che qualcuno vuole rubare o distruggere la Sindone. Noi stiamo indagando sulle cause degli incendi, una volta concluse le indagini informeremo i nostri superiori che faranno al-
trettanto con l'opinione pubblica nel caso in cui la faccenda risulti interessante.» «Non le ho chiesto di tradire il suo capo.» «Ana, ho capito quello che mi ha chiesto, e la risposta è no. Mi dispiace.» La ragazza si morse il labbro, seccata, e si alzò senza nemmeno finire il cappuccino. «E va be', cosa possiamo farci? Comunque, se scopro qualcosa le secca se la chiamo?» «No, non mi secca.» La giovane sorrise e uscì con passo frettoloso dal bar dell'albergo. Sofia si chiese dove andasse così decisa. In quel momento le squillò il cellulare e nell'udire la voce di padre Yves le venne da ridere. «Stavo parlando di lei qualche minuto fa.» «Con chi?» «Con Ana Jiménez.» «Ah, la giornalista! È una persona incantevole e molto intelligente. Sta indagando sugli incendi del duomo. So che Marco, il suo capo, è amico del fratello, il rappresentante per la Spagna nell'Europol italiana.» «Infatti. Santiago Jiménez è amico di Marco e di tutti noi. È una brava persona e un professionista molto competente.» «Sì, si direbbe proprio di sì. Senta, la chiamo a nome del cardinale. La vorrebbe invitare a un ricevimento con il capitano Valoni.» «A un ricevimento?» «Il cardinale ospita una commissione di scienziati cattolici che vengono regolarmente a Torino per esaminare lo stato della Sindone. Il dottor Bolard è il presidente di questa commissione. A ogni riunione il cardinale organizza un ricevimento. Mai troppa gente, trenta o quaranta persone al massimo, e gli farebbe piacere che veniste anche voi. Il capitano Valoni una volta ha manifestato il suo interesse a conoscere questi scienziati e ora ne ha l'occasione.» «Sono invitata anch'io?» «Naturalmente, dottoressa. È quanto desidera Sua Eminenza.» «Bene, mi dica dove e a che ora.» «Dopodomani, nella residenza di Sua Eminenza, alle diciannove. Oltre ai membri della commissione, ci saranno alcuni imprenditori che collaborano con noi alla conservazione del duomo, il sindaco, rappresentanti della Regione, e forse anche monsignor Aubry, aiutante del sostituto del segreta-
rio di Stato, e Sua Eminenza il cardinale Visier.» «D'accordo, grazie mille per l'invito.» «Vi aspettiamo.» Marco era di cattivo umore. Aveva passato gran parte della giornata nelle gallerie sotterranee di Torino. Alcuni tratti risalivano al sedicesimo secolo, altri al diciottesimo e perfino Mussolini aveva ordinato di utilizzare le gallerie e ampliarle in certi punti. Girare per i sotterranei era un lavoraccio. Nel sottosuolo c'era un'altra Torino, o per meglio dire, varie Torino. L'antico territorio dei torinesi colonizzati da Roma, assediati da Annibale, invasi dai longobardi fino a entrare a far parte di Casa Savoia. Era una città dove storia e fantasia si incrociavano a ogni passo. Alcuni frammenti archeologici dimostravano che certe gallerie erano precedenti al sedicesimo secolo, quindi risalivano ai primi secoli della nostra era. Il comandante Colombari si era dimostrato paziente e gentile ma anche inflessibile quando Marco aveva insistito per imboccare una galleria in cattivo stato o proposto di abbattere qualche parete per vedere se dietro ci fosse un tunnel che conduceva da un'altra parte. "Mi è stato ordinato di farle da guida per i sotterranei ma non esporrò inutilmente al pericolo né la sua vita né le nostre infilandoci in gallerie che non sono puntellate e potrebbero franare. E poi non sono autorizzato a scavare buchi nei muri. Mi dispiace." A essere dispiaciuto era invece Marco, che alla fine del pomeriggio aveva la sensazione di aver viaggiato invano nel sottosuolo di Torino. «Su, non ti arrabbiare, il comandante Colombari ha ragione, ha fatto solo il suo dovere, sarebbe stata una follia se vi foste messi a dare martellate.» Giuseppe cercava di calmare il suo capo, ma con scarso successo. Nemmeno Sofia ebbe maggior fortuna. «Marco, quello che vorresti fare sarebbe possibile solo se il ministero dei Beni culturali, d'accordo con la Sovrintendenza di Torino, ti mettesse a disposizione una squadra di archeologi e tecnici per scavare altre gallerie. Ma non puoi pretendere che ti lascino scavare, così alla leggera, dove pare a te. Non è logico.» «Se non tentiamo con le gallerie chiuse non sapremo se quello che sto cercando esiste o meno.» «Allora parlane con il ministro e...» «Uno di questi giorni il ministro mi manderà affanculo. Si è un po' stufato del caso della Sindone.»
Sofia e Giuseppe si guardarono preoccupati per la rivelazione di Marco, ma non obiettarono. «Comunque» disse Sofia «ho delle novità. Il cardinale ci invita a un ricevimento per dopodomani.» «A un ricevimento? Noi?» «Sì. Mi ha chiamato padre Yves. La commissione scientifica incaricata della conservazione della Sacra Sindone è a Torino e il cardinale ha l'abitudine di festeggiare con un ricevimento a cui invita i notabili della città. Sembra che una volta tu gli abbia manifestato un certo interesse per conoscere quegli scienziati, e così ci ha invitato.» «Non ho voglia di feste, preferirei parlare con loro in un'altra situazione, non so, nel duomo, mentre esaminano la Sindone... Però ci andremo. Mi farò stirare il vestito. E tu, Giuseppe, che novità hai?» «Qui non hanno gli uomini che ci servono. Dovremo chiedere rinforzi a Roma. Ho già parlato con l'Europol, come mi hai detto, nel caso in cui il muto cercasse di scappare. Sul territorio potrebbero collaborare con noi tre uomini, per cui dovrai parlare con Roma perché ci mandino dei rinforzi.» «Non sono entusiasta all'idea che ci mandino qualcuno da Roma. Preferirei attingere alla nostra squadra. Chi potrebbe venire?» «Il Comando è carico di lavoro» affermò Giuseppe. «Non c'è nessuno con le mani in mano, a meno che qualcuno lasci quello che sta facendo, se può, e al momento opportuno tu lo faccia trasferire qui.» «Sì, preferisco fare così. Mi sento più a mio agio con i nostri. Ci accontenteremo dell'aiuto che ci potranno dare gli uomini di qui. Anche se questo vuol dire che dovremo fare tutti i carabinieri.» «Credevo che lo fossimo» disse Giuseppe con sarcasmo. «Be', tu e io sì. Sofia non lo è e Antonino e Minerva neppure.» «Non vorrai mica metterli a seguire il muto?» «Tutti faremo tutto. Chiaro?» «Chiarissimo, capo, chiarissimo. Bene, se non ti dispiace vado a cena con un amico dell'Arma che ho invitato fuori, un tipo in gamba disposto a collaborare con noi. Sarà qui tra mezz'ora. Mi piacerebbe che bevessimo qualcosa insieme prima di andare.» «Per me va bene» disse Sofia. «D'accordo» rispose Marco «faccio una doccia e scendo. Tu che programmi hai, dottoressa?» «Nessuno, se vuoi ceniamo insieme qui intorno.» «Ti invito, così vediamo se mi passa il malumore.»
«No, ti invito io.» «Okay.» Sofia si era comprata un completo nero di seta. Non aveva portato niente di adatto per andare a un ricevimento, per cui cercò nei dintorni di via Roma una boutique di Armani, e oltre al vestito comprò una cravatta per Marco. Armani le piaceva per la sua semplicità, per quel tocco informale che hanno i suoi abiti. «Sarai la più bella» le garantì Giuseppe. «Sicuramente» rincarò Marco. «Aprirò un fan club con voi due» esclamò Sofia ridendo. Padre Yves li accolse sulla porta. Non era vestito da prete, non indossava nemmeno il collare ma un vestito di un blu scurissimo e una cravatta di Armani assolutamente identica a quella che Sofia aveva regalato a Marco. «Dottoressa... capitano Valoni... Prego, Sua Eminenza sarà lieto di vedervi.» Marco guardò con la coda dell'occhio la cravatta di padre Yves, che abbozzò un sorriso. «Ha buon gusto in fatto di cravatte, capitano Valoni.» «In realtà il buon gusto ce l'ha la dottoressa, visto che è stata lei a regalarmela.» «Mi pareva, infatti!» esclamò ridendo padre Yves. Si avvicinarono al cardinale il quale li presentò a monsignor Aubry, un francese alto e magro, elegante e dall'espressione benevola. Sulla cinquantina, assomigliava a quello che era: un esperto diplomatico. Mostrò subito interesse per l'andamento delle indagini sulla Sindone. Stavano parlando con lui da qualche minuto quando si accorsero che tutti gli sguardi erano rivolti alla porta. Sua Eminenza il cardinale Visier e Umberto D'Alaqua avevano appena fatto il loro ingresso. Il cardinale di Torino e monsignor Aubry si scusarono con Sofia e Marco e corsero a salutarli. Sofia sentì i battiti del cuore che acceleravano. Non pensava che avrebbe rivisto D'Alaqua, tanto meno lì. Lui l'avrebbe ignorata con la sua fredda cortesia? «Dottoressa, sei diventata rossa.» «Io? Be', non me l'aspettavo.» «Le probabilità che ci fosse D'Alaqua erano alte.»
«Non ci avevo pensato.» «È uno dei benefattori della Chiesa, un uomo di fiducia. Parte delle finanze del Vaticano passano con discrezione dalle sue mani. E ti ricordo che, secondo la relazione di Minerva, è lui che paga questa commissione scientifica.» «Sì, hai ragione, ma non pensavo che l'avremmo incontrato.» «Sta' tranquilla, sei bellissima, e se a D'Alaqua piacciono le donne è impossibile che non si arrenda di fronte a te.» «Sai benissimo che non si conoscono donne nella sua vita. È strano.» «Be', si vede che aspettava di conoscere te.» Non poterono continuare perché padre Yves si avvicinò accompagnato dal sindaco e da due signori anziani. «Ho il piacere di presentarvi la dottoressa Galloni e il capitano Valoni, responsabile del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Il sindaco, il dottor Bolard e il dottor Castiglia...» Iniziarono un'animata discussione sulla Sindone alla quale Sofia partecipò appena. Quando Umberto D'Alaqua le si fermò davanti in compagnia del cardinale Visier, trasalì. Dopo i saluti di rigore, D'Alaqua la prese per un braccio e la separò dal gruppo tra lo stupore generale. «Come procedono le indagini?» «Non posso dire che abbiamo fatto grandi passi avanti. È questione di tempo.» «Non mi aspettavo di vederla qui stasera.» «Ci ha invitato il cardinale: sapeva che volevamo conoscere i membri della commissione scientifica e spero sia possibile incontrarli prima che ripartano.» «E così siete venuti a Torino per essere presenti al ricevimento...» «No, non esattamente.» «A ogni modo mi fa piacere vederla. Quanto vi fermate?» «Direi qualche giorno, quattro o cinque, magari di più.» «Sofia!» La voce sonora di un uomo interruppe il momento di intimità con D'Alaqua. Sofia abbozzò un sorriso nel vedere che a chiamarla era stato il suo professore di arte medievale, un illustre cattedratico autore di numerosi libri, una stella del firmamento accademico europeo. «La mia migliore allieva! Che piacere incontrarla! Che fine ha fatto?»
«Professor Bonomi! Sono contenta di vederla.» «Umberto, non sapevo che conoscessi Sofia. Anche se non me ne meraviglio: è una delle migliori esperte d'arte che abbiamo in Italia. Peccato che non abbia voluto dedicarsi al mondo accademico. Le avevo offerto di farmi da assistente, ma le mie preghiere sono state inutili.» «Per carità, professore!» «Sì, sì, non ho mai avuto un allievo così intelligente e in gamba come lei, Sofia.» «Sì» intervenne D'Alaqua «so che la dottoressa Galloni è molto competente.» «Competente e brillante, Umberto, e con una mente speculativa. Perdoni se sono indiscreto, ma cosa ci fa lei qui, Sofia?» Sofia era imbarazzata. Non le andava di dare spiegazioni al suo vecchio professore, anche se sapeva di non avere altra scelta. «Lavoro per il Comando per la tutela del patrimonio artistico e sono a Torino di passaggio.» «Ah! Il Comando per la tutela del patrimonio artistico. Non pensavo che potesse fare l'investigatrice.» «La mia attività è più di tipo scientifico, non mi occupo delle indagini vere e proprie.» «Venga, Sofia, le presento qualche collega, le farà piacere conoscerli.» D'Alaqua l'afferrò per un braccio evitando che il professor Bonomi se la portasse via. «Scusa, Guido, ma stavo per presentare Sofia a Sua Eminenza.» «Se è così... Umberto, verrai domani al concerto di Pavarotti e alla cena che darò in onore del cardinale Visier?» «Sì, certo.» «Perché non porti anche Sofia? Mi piacerebbe che venisse, la mia cara bambina, se non ha altri impegni.» «Be', io...» «Sarò felice di accompagnare la dottoressa, se è libera da altri impegni. Adesso, se ci vuoi scusare, il cardinale ci aspetta... A dopo.» D'Alaqua si avvicinò con Sofia al gruppo dove si trovava il cardinale Visier. Questi la guardò con curiosità come se la stesse valutando. Si mostrò gentile ma freddo come un pezzo di ghiaccio. Sembrava essere molto intimo con D'Alaqua, si trattavano con una certa familiarità, come se li unisse un filo sottile. Parlarono per un bel po' di arte, poi di politica e in ultimo della Sindone.
Marco notò come Sofia si fosse integrata con naturalezza in quel gruppo selezionato. Persino il borioso cardinale sorrideva ai commenti e mostrava interesse per le opinioni di Sofia. Pensò che la donna, oltre che intelligente, era anche molto bella, e nessuno può restare insensibile di fronte alla bellezza, neppure quel raffinato cardinale. Erano le nove passate quando gli invitati iniziarono a congedarsi. D'Alaqua se ne stava andando in compagnia di Aubry e dei due cardinali, oltre che del dottor Bolard e di altri due scienziati. Prima di uscire cercò Sofia, che in quel momento era con Marco e il suo vecchio professore Guido Bonomi. «Buonanotte, dottoressa. Guido, capitano Valoni...» «Dove sei a cena, Umberto?» chiese Guido Bonomi. «Da Sua Eminenza l'arcivescovo di Torino.» «D'accordo, spero di vederti domani accompagnato dalla dottoressa.» Sofia sentì che stava arrossendo. «Certo. Mi metterò in contatto con lei, dottoressa Galloni. A domani.» Sofia e Marco presero congedo dal cardinale e da padre Yves. «Vi siete divertiti?» domandò il cardinale. «Sì, grazie infinite, Eminenza» rispose Marco. «Avete fissato qualche appuntamento con la nostra commissione scientifica?» si informò padre Yves. «Sì, domani saremo ricevuti dal dottor Bolard» rispose Marco. «Yves, perché non invita a cena il capitano Valoni e la dottoressa?» «Con grande piacere. Se mi aspettate un secondo, prenoto alla Vecchia Lanterna. Vi piace?» «Non si disturbi, padre...» «Nessun disturbo, capitano Valoni, a meno che le dispiaccia cenare con me per via della cravatta...» A mezzanotte passata padre Yves li lasciò all'ingresso dell'albergo. La serata era stata piacevole. Avevano riso, parlato del più e del meno e cenato magnificamente, come c'era da aspettarsi, dal momento che La Vecchia Lanterna era uno dei ristoranti più raffinati e cari di Torino. «La vita sociale mi sfinisce!» esclamò Marco avviandosi al bar per discutere con Sofia dei particolari della serata. «Però ci siamo divertiti.» «Tu sei una principessa ed eri nel tuo ambiente, io sono un carabiniere e stavo lavorando.»
«Marco, tu sei qualcosa di più di un carabiniere. Ti ricordo che sei laureato in storia e hai insegnato a tutti noi più cose sull'arte di quelle che abbiamo imparato all'università.» «Non esagerare. Certo è che il vecchio Bonomi ti adora.» «Era un gran professore, oltre che una primadonna del mondo dell'arte. È sempre stato gentile con me.» «Credo che fosse segretamente innamorato.» «Ma cosa dici! Sappi che ero un'allieva diligente che prendeva ottimi voti in quasi tutte le materie. Praticamente ero una secchiona.» «Allora, cosa mi racconti di D'Alaqua?» «Uff! Non so cosa dirti. Padre Yves gli assomiglia un po': tutti e due intelligenti, corretti, gentili, belli e inaccessibili.» «Non mi sembra che per te D'Alaqua sia inaccessibile, oltre tutto non è un prete.» «No, non lo è, ma in lui c'è qualcosa che lo fa sembrare come se non fosse di questo mondo, come se facesse dei piani su tutti noi... Non so, è una sensazione strana, non riesco a spiegartela.» «Con te sembrava contento.» «Ma non più che con gli altri. Mi piacerebbe poter dire il contrario, che quell'uomo è interessato a me, ma non è così, Marco, non mi illudo. Sono grandicella, e so quando piaccio a un uomo.» «Cosa ti ha detto?» «Nel poco tempo che siamo stati da soli mi ha chiesto delle indagini. Ho evitato di raccontargli cosa stavamo facendo qui, gli ho solo detto che volevi conoscere la commissione scientifica della Sindone.» «Come ti è sembrato Bolard?» «È curioso, ma anche lui fa parte di quel genere di uomini come D'Alaqua e padre Yves. Ora sappiamo che si conoscono. Be', in effetti c'era da aspettarselo.» «Sai, anche a me sembrano uomini particolari, non so esattamente perché e in che cosa, ma lo sono. In loro c'è qualcosa di imponente, forse la prestanza fisica, l'eleganza, la sicurezza che denotano. Sono abituati a dare ordini e a essere ubbiditi. Quel chiacchierone del nostro dottor Bonomi mi ha raccontato che a Bolard interessa solo la scienza, ecco perché resta fedele al suo celibato.» «Mi meraviglia la devozione che prova per la Sindone, dal momento che sa che la datazione al carbonio l'ha collocata nel Medio Evo.» «Sì, sorprende anche me. Vediamo cosa viene fuori dall'appuntamento
che ho con lui domani. Voglio che venga anche tu. Ah! Spiegami un po' la storia della cena da Bonomi.» «Ha insistito con D'Alaqua perché mi porti a teatro e poi a casa sua, alla cena che dà in onore del cardinale Visier. D'Alaqua non ha potuto fare altro che accettare di accompagnarmi. Però non so se sia il caso di andare.» «Sì, sì, ci devi andare e tenere le antenne alzate. Vai in missione. Ognuno di quegli uomini così rispettabili e potenti ha qualche scheletro nell'armadio, e magari qualcuno di loro sa qualcosa in relazione ai fatti del duomo.» «Marco, per favore! È assurdo pensare che quegli uomini abbiano a che fare con gli incendi, con i muti...» «No, non è assurdo. Adesso è il carabiniere che ti parla. Non mi fido dei potenti, per arrivare in alto hanno dovuto calpestare molta merda e molte teste. Ti ricordo anche che ogniqualvolta smantelliamo qualche organizzazione di ladri di opere d'arte finiamo per scoprire che il committente del furto è qualche eccentrico milionario desideroso di avere nella propria galleria privata ciò che è patrimonio dell'umanità perché si trova in qualche museo. «Tu sei una principessa buona, da fiaba, ma loro sono degli squali che distruggono tutto quello che si trovano davanti. Non lo dimenticare, domani, quando sarai a teatro e alla cena di Bonomi. I loro modi raffinati, le loro conversazioni colte, il lusso di cui si circondano sono apparenza, nient'altro che apparenza. Mi fido più dei borseggiatori di Trastevere che di loro, dammi retta.» «Mi toccherà comprarmi un altro vestito...» «Quando torniamo proporrò che ti diano una gratifica per tutte le spese che ti sta procurando questa indagine. Però, principessa, cerca di non andare da Armani o ti mangerai lo stipendio di questo mese.» «Ci proverò, ma non te lo prometto.» 27 La sposa riceveva emozionata le congratulazioni dei suoi innumerevoli parenti. Il salone traboccava di gente: una copertura perfetta, pensò Addaio. Le nozze della nipote di Bakkalbasi gli avevano permesso di riunirsi con la maggior parte dei membri della Comunità di Berlino. Aveva fatto il viaggio con Bakkalbasi, uno degli otto vescovi segreti del-
la Comunità, ufficialmente un ricco commerciante di Urfa. Accompagnato dai sette capi della Comunità tedesca e dai sette di quella italiana, si diresse in un angolo tranquillo del salone dove accesero lunghi sigari. Uno dei nipoti di Bakkalbasi rimase nelle vicinanze per controllare che nessuno si avvicinasse a disturbarli. Addaio ascoltò pazientemente le relazioni degli uomini, i particolari della vita della Comunità in quelle terre barbare. «Il mese prossimo Mendibj sarà libero. Il direttore del carcere ha parlato diverse volte al telefono con il capo del Comando per la tutela del patrimonio artistico. L'altro giorno un'assistente sociale si lamentava con il direttore perché le sembrava indegno fare quella messinscena davanti a un detenuto. Ha detto anche che tempo fa aveva consigliato di mandare Mendibj in un centro specializzato, vista la sua convinzione che non li capisse, e che far finta di sostenere la sua scarcerazione per individuare qualche segnale del contrario le sembrava un fatto riprovevole. Gli ha fatto chiaramente capire che non farà mai più una cosa del genere.» «Chi è il tuo contatto all'interno del carcere?» chiese Addaio all'uomo che aveva appena parlato. «Mia cognata. È la donna delle pulizie. Sono anni che pulisce gli uffici dell'amministrazione e alcune zone della prigione. Dice che sono abituati alla sua presenza e non le fanno nemmeno più caso. Quando al mattino arriva il direttore e lei sta pulendo, le fa sempre cenno di continuare anche se lui è immerso in una conversazione telefonica o sta parlando con qualche funzionario. Si fidano di lei. Oltre tutto, ha già una certa età, per cui nessuno sospetta di una donna con i capelli bianchi che gira con secchio e straccio.» «Possiamo sapere il giorno esatto in cui lo rilasceranno?» «Sì che possiamo» rispose l'uomo. «Come?» incalzò Addaio. «Gli ordini di scarcerazione arrivano al direttore via fax e al mattino, quando lui arriva, li prende. Mia cognata è lì prima di lui e sa già che deve controllare l'eventuale ordine di libertà provvisoria di Mendibj e chiamarmi immediatamente. Le ho comprato un cellulare solo per fare questa telefonata.» «Chi altro abbiamo in carcere?» «Due fratelli condannati per omicidio. Uno di loro ha lavorato a Torino come autista di un pezzo grosso della Regione, l'altro aveva un negozio di ortolano. Una sera, in una discoteca, c'è stata una rissa con dei tipi che a-
vevano attaccato briga con le ragazze che li accompagnavano. Loro sono stati più veloci e uno dei tizi è morto per una coltellata. È gente in gamba, e leale.» «Dio li perdoni! Appartengono alla nostra Comunità?» «No, no, ma un loro parente sì. Ha parlato con loro e gli ha chiesto se potevano... insomma, se potevano...» L'uomo era a disagio sotto lo sguardo fisso di Addaio. «Cos'hanno detto?» «Dipende dai soldi. Se faremo avere alle loro famiglie un milione di euro, si muoveranno.» «Quale sarà il segnale?» «Un parente li andrà a trovare e gli dirà se abbiamo consegnato il denaro, e quando dovranno... be'... fare quello che hai ordinato.» «Domani avrai i soldi. Però prepariamoci nel caso in cui alla fine Mendibj uscisse vivo di prigione.» Un uomo giovane, con folti baffi e modi eleganti, prese la parola. «Padre, se dovesse succedere, cercherebbe di mettersi in contatto con noi nei soliti modi.» «Illustrameli.» «Andrebbe al parco Carrara alle nove del mattino e si metterebbe a passeggiare sul lato del parco che dà su corso Appio Claudio. Tutti i giorni a quell'ora mio cugino Arslan passa di lì con le figlie per portarle a scuola. Sono anni che i membri della Comunità in difficoltà, se sono sicuri di non essere seguiti, si recano in quella zona e quando vedono passare Arslan buttano per terra un foglietto con l'indicazione di dove incontrarsi qualche ora più tardi. Quando la gente che manderai arriverà a Torino, daremo loro le stesse istruzioni. «Arslan si mette in contatto con me, mi dice dov'è l'appuntamento e organizziamo un piano per sapere se qualcuno sta seguendo i nostri uomini. Se è così non lo avviciniamo ma facciamo in modo di seguirlo e, appena possibile, di metterci in contatto con lui. «Se il contatto non riesce, il fratello capisce che qualcosa non va e cerca di fissare un altro appuntamento. Questa volta deve andare da un fruttivendolo in via dell'Accademia Albertina e comprare delle mele. Al momento di pagare consegnerà un foglietto con il luogo del nuovo appuntamento. Il fruttivendolo è un membro della nostra Comunità e si metterà in contatto con noi. Il terzo appuntamento...» «Spero che non ce ne sia bisogno. Se Mendibj esce vivo di prigione non
deve sopravvivere al primo appuntamento. È chiaro? Corriamo un gran pericolo. Sarà seguito dai carabinieri, gente esperta. Bisogna cercare una squadra capace di fare ciò che deve e sparire senza essere presa. Non sarà facile, ma non possiamo permettergli di mettersi in contatto con qualcuno di noi, ci siamo capiti?» Gli uomini annuirono preoccupati. Uno di loro, il più anziano, prese la parola. «Sono lo zio del padre di Mendibj.» «Mi dispiace.» «So che lo fai per salvarci, ma non c'è alcuna possibilità di allontanarlo da Torino?» «E come? Metteranno a punto un piano per seguirlo ovunque, fotograferanno e registreranno tutti quelli che avvicinerà per poi indagare su di loro. Possiamo cadere come un castello di carte. Provo il tuo stesso dolore, ma non posso permettere che arrivino fino a noi. Abbiamo resistito per duemila anni, molti dei nostri antenati hanno sacrificato la vita, la lingua, i beni, la famiglia. Non possiamo tradirli né tradirci. Mi dispiace.» «Capisco. Permetterai che sia io a farlo se Mendibj esce vivo di prigione?» «Tu? Sei un venerabile anziano della nostra Comunità, come potresti dal momento che sei suo zio?» «Sono solo. Mia moglie e le mie due figlie sono morte tre anni fa in un incidente d'auto. Qui non ho nessuno. Pensavo di tornare a Urfa per passare gli ultimi giorni della mia vita con i parenti che mi restano. Sto per compiere ottant'anni, ho già vissuto tutto ciò che Dio ha voluto concedermi e mi perdonerà se sarò io a togliere la vita a Mendibj e poi a me stesso. È la cosa più sensata.» «Ti toglierai la vita?» «Sì, padre, lo farò. Quando Mendibj arriverà al parco Carrara sarò lì ad aspettarlo. Mi avvicinerò a lui, non avrà sospetti, sono un parente, lo abbraccerò e in quell'abbraccio il mio pugnale gli strapperà la vita. Poi lo stesso coltello me lo conficcherò nel cuore.» Rimasero tutti in silenzio, colpiti. «Non so se sia una buona idea» rispose Addaio. «Ti faranno l'autopsia, scopriranno chi sei.» «No, non potranno farlo. Mi avrete tolto tutti i denti e bruciato le impronte digitali. Per la polizia sarò un uomo senza identità.» «Sarai capace di farlo?»
«Sono stanco di vivere. Lascia che questo sia il mio ultimo servigio, il più doloroso, perché la Comunità sopravviva. Dio mi perdonerà?» «Dio sa perché lo facciamo.» «Allora, se Mendibj esce di prigione, mandami a chiamare e preparami a morire.» «Lo faremo, ma se ci tradisci, il resto della tua famiglia a Urfa soffrirà.» «Non offendere con minacce la mia dignità e il mio nome. Non dimenticare chi sono, chi erano i miei antenati.» Addaio chinò il capo in segno di assenso, poi chiese di Turgut. Gli rispose un altro degli uomini, basso, robusto, con l'aspetto di uno scaricatore, anche se di mestiere faceva il curatore del Museo Egizio. «Francesco Turgut è spaventato. Quelli del Comando l'hanno interrogato in diverse occasioni ed è convinto che un certo padre Yves, il segretario del cardinale, lo guardi con diffidenza.» «Cosa sappiamo di quel prete?» «È francese, ha agganci in Vaticano e tra non molto sarà ordinato vescovo ausiliario di Torino.» «Potrebbe essere uno di Loro?» «Sì, potrebbe. Ha tutte le caratteristiche. Non è un prete normale. Appartiene a una famiglia di aristocratici, parla diverse lingue, ha un'eccellente formazione accademica, è sportivo... e casto, assolutamente casto. Sai bene che Loro non infrangono mai quella regola. È un protetto del cardinale Visier e di monsignor Aubry.» «Che siamo sicuri facciano parte di Loro.» «Sì, non ci sono dubbi. Sono stati bravi a infiltrarsi in Vaticano e a riuscire a sistemarsi nei posti più alti della Curia. Non mi stupirei se un bel giorno uno di loro finisse per essere eletto papa. Questo sì che sarebbe uno scherzo del destino.» «Turgut ha un nipote a Urfa, Ismet, un bravo ragazzo. Gli dirò di andare a vivere con lo zio.» «Il cardinale è buono, immagino che permetterà a Francesco di accogliere suo nipote.» «Ismet è sveglio, suo padre mi ha chiesto di prendermi cura di lui. Gli affiderò la missione di vivere con Turgut e di prepararsi per essere in grado di sostituirlo quando sarà il momento. Per questo è importante che si sposi con un'italiana, così potrà rimanere come custode prendendo il posto dello zio. In più terrà d'occhio quel padre Yves e scoprirà se è dei Loro.» «Lo è, non ho dubbi.»
«Ismet ce lo confermerà. La nostra galleria è sempre inespugnabile?» «Sempre. Due giorni fa il capo del Comando per la tutela del patrimonio artistico ha fatto un giro per le gallerie sotterranee accompagnato da alcuni militari. All'uscita, la sua espressione frustrata parlava da sola. No, la galleria non è stata scoperta.» Gli uomini continuarono a parlare e bere rachi fino a tardi quando gli sposi si congedarono dai parenti. Addaio, astemio, non aveva mandato giù una sola goccia di liquore. Accompagnato da Bakkalbasi e da tre uomini, abbandonò la stanza e si diresse a una casa sicura di proprietà di uno dei membri della Comunità. L'indomani aveva in programma di andare a Torino. Questo era quanto aveva raccontato, ma magari sarebbe tornato a Urfa. Ognuno sapeva che cosa doveva fare, aveva dato istruzioni precise. Mendibj doveva morire per salvare la Comunità. Passò il resto della notte a pregare cercando Dio nelle orazioni che si ripetevano, ma sapeva che il Signore non lo stava ascoltando. Non l'aveva mai sentito vicino, né Lui gli aveva dato qualche segnale e Addaio, poveretto, sconvolgeva la sua vita e quella di molti altri in Suo nome. E se Dio non esistesse? E se fosse tutta una bugia? A volte Addaio si era lasciato tentare dal diavolo ed era arrivato a pensare che la sua Comunità si fondava su un mito, su una leggenda, che niente di quello che gli avevano raccontato da bambino era vero. Tuttavia, non poteva tornare indietro. La sua vita era stata preordinata e il suo unico obiettivo era portar via il sudario di Gesù a Loro. Sapeva che avrebbero cercato nuovamente di impedirglielo, erano secoli che lo facevano, da quando avevano rubato il sacro lino, ma un giorno o l'altro la Comunità l'avrebbe recuperato, e a riuscirci sarebbe stato lui, Addaio. 28 Quando entrò nel palco di D'Alaqua, Sofia non riuscì a nascondere la sorpresa. Le aveva mandato una macchina in albergo per condurla a teatro e lì, all'ingresso, ad attenderla c'era l'assistente del direttore, pronto ad accompagnarla al palco di Umberto D'Alaqua. C'erano il cardinale Visier, il dottor Bolard, altri tre uomini che riconobbe immediatamente, un membro della famiglia Agnelli con la moglie, due banchieri e il sindaco Torrioni con signora. D'Alaqua si alzò e accolse affettuosamente Sofia con una stretta di mano. Il cardinale Visier la salutò rivolgendole un leggero sorriso.
D'Alaqua fece accomodare Sofia vicino al sindaco e a sua moglie e al dottor Bolard. Lui sedeva a fianco del cardinale. Sentì che gli uomini la guardavano con la coda dell'occhio, tutti tranne il cardinale, Bolard e D'Alaqua, e quella sera sapeva di essere particolarmente affascinante perché ce l'aveva messa tutta nel prepararsi. Nel pomeriggio era andata dal parrucchiere ed era tornata da Armani, questa volta per comprare un elegante completo giacca e pantaloni rosso, un colore in genere poco usato dallo stilista. Era affascinante, strepitosa, le avevano assicurato Marco e Giuseppe. La giacca aveva una provocante scollatura, e il sindaco non poté evitare di lanciarvi un'occhiata. Marco si era stupito del fatto che D'Alaqua non fosse andato a prendere personalmente Sofia e avesse invece mandato una macchina. Sofia capì il significato di quel gesto: D'Alaqua non nutriva alcun interesse personale nei suoi confronti e lei sarebbe stata un'invitata come un'altra. Quell'uomo metteva delle pesanti barriere tra loro e, sebbene lo facesse in modo sottile, non lasciava spazio ai dubbi. Nell'intervallo passarono nel salottino privato di D'Alaqua, dove furono serviti champagne e tartine, che Sofia non assaggiò per non rovinarsi il trucco. «Le piace l'opera, dottoressa?» Nel porle la domanda, il cardinale Visier la squadrava. «Sì, Eminenza. Stasera Pavarotti è stato eccezionale.» «È vero, anche se La Bohème non è la sua opera migliore.» Guido Bonomi entrò nel salottino e salutò affettuosamente gli ospiti di D'Alaqua. «Sofia, è bellissima! La sua avvenenza mi sorprende sempre anche se ci siamo visti il giorno prima. Mi succedeva quando era mia allieva all'università e mi succede anche adesso. Ho un elenco di amici che non vedono l'ora di conoscerla e diverse mogli gelose perché i binocoli dei loro mariti sono stati rivolti più tempo verso di lei che verso Pavarotti. Lei è una di quelle donne che rendono nervose le altre.» Sofia diventò rossa. I complimenti di Bonomi le sembravano fuori luogo. La trattava con frivolezza e la cosa le dava molto fastidio. Lo guardò seria, furibonda, e Bonomi afferrò il messaggio di quegli occhi verdi. «Bene, vi aspetto per la cena. Eminenza, dottoressa, signor sindaco...» D'Alaqua aveva notato l'imbarazzo di Sofia e le si avvicinò. «Guido è così, lo è sempre stato. Un uomo straordinario, un genio come medievalista, con una personalità, diciamo, un po' troppo esuberante. Non
se la prenda.» «Non me la prendo con lui ma con me. Mi domando cosa ci faccio qui, questo non è il mio posto. Se non le dispiace, al termine dello spettacolo rientro in albergo.» «No, non se ne vada. Si fermi e perdoni il suo vecchio professore che non riesce a manifestarle in altro modo la sua ammirazione.» «Mi spiace, ma preferisco andare via. In effetti non ha senso che prenda parte a una cena a casa di Bonomi. Sono stata una sua allieva, nient'altro. Non avrei dovuto lasciarmi trascinare dall'invito del professore a venire a teatro con lei, occupare un posto nel suo palco, tra i suoi invitati e i suoi amici, a imporle praticamente la mia presenza. Sono fuori luogo, le chiedo scusa per il disturbo che le ho arrecato.» «Lei non mi ha arrecato alcun disturbo, glielo assicuro.» Il campanello annunciò l'inizio del secondo atto e i due rientrarono nel palco. Sofia notò che D'Alaqua la osservava con discrezione. Aveva voglia di andarsene di corsa ma non l'avrebbe fatto, non voleva essere ridicola o comportarsi come una bambina. Avrebbe resistito sino alla fine, si sarebbe accomiatata e non avrebbe mai più incrociato la strada di D'Alaqua. Quell'uomo non aveva niente a che fare con la Sindone, e per quanto Marco diffidasse di quella gente potente lei non ce la vedeva dietro gli incendi o i tentativi di furto nel duomo. Era ridicolo, e l'avrebbe detto al suo capo. Al termine dello spettacolo il teatro, in piedi, applaudì Pavarotti. Sofia ne approfittò per salutare il sindaco, la moglie, i signori Agnelli e i banchieri. Alla fine si avvicinò al cardinale Visier. «Buonanotte, Eminenza.» «Va via?» «Sì.» Visier, sorpreso, cercò con lo sguardo D'Alaqua. Questi discorreva animatamente con Bolard sul registro del soprano e sulla perfezione delle arie interpretate da Pavarotti. «Dottoressa, mi farebbe piacere che venisse con noi alla cena» le assicurò il cardinale. «Eminenza, lei può capire meglio di chiunque altro il mio disagio. Preferisco andare via. Non voglio essere di alcun disturbo.» «Ebbene, se non posso convincerla a restare... spero di rivederla. La sua valutazione sui metodi archeologici moderni mi è sembrata molto innovativa. Prima di dedicarmi completamente alla Chiesa ho studiato archeolo-
gia.» Furono interrotti da D'Alaqua. «Le macchine ci stanno aspettando...» «La dottoressa non viene con noi» affermò Visier. «Mi dispiace, ma se vuole andare l'accompagneranno con la stessa macchina con cui è venuta.» «Grazie, ma preferisco fare una passeggiata, l'albergo non è molto lontano.» «Mi perdoni, dottoressa» l'interruppe il cardinale «ma mi sembra un'imprudenza che vada da sola. Torino è una città difficile, mi sentirei più tranquillo se accettasse il passaggio.» Sofia decise di accettare per non essere giudicata testarda o irritabile se avesse insistito per allontanarsi da sola. «Va bene, la ringrazio.» «Non mi ringrazi, lei è una persona forte, con molti pregi, non permetta che la rovinino. Anche se immagino che per lei la bellezza, proprio perché non l'ha mai utilizzata a suo favore, sarà stata un inconveniente più che un vantaggio.» Le parole del cardinale rincuorarono Sofia. D'Alaqua l'accompagnò alla macchina. «Dottoressa, mi ha fatto piacere vederla.» «Grazie.» «Si ferma qualche giorno a Torino?» «Sì, può essere che ci resti per i prossimi quindici giorni.» «La chiamerò, e se ha tempo mi piacerebbe che pranzassimo insieme.» Sofia non seppe cosa rispondere e abbozzò un debole "sì" mentre D'Alaqua chiudeva la portiera della macchina e dava istruzioni all'autista. Quello che Sofia ignorava era che Guido Bonomi sarebbe stato duramente ripreso dal cardinale Visier. «Professor Bonomi, lei ha mancato di rispetto alla dottoressa Galloni e a tutti noi che eravamo presenti. Il suo contributo alla Chiesa è innegabile e le siamo tutti grati per quanto fa come massimo esperto di arte sacra medievale, ma questo non le dà il diritto di comportarsi da villano.» D'Alaqua assistette attonito alla ramanzina del cardinale. «Paul, non immaginavo che la dottoressa ti avesse così colpito.» «Ho trovato inaccettabile l'atteggiamento di Bonomi, si è comportato come un vecchio zotico e ha offeso la dottoressa senza ragione. A volte mi chiedo come possa il talento artistico di Bonomi non accompagnarlo in altri aspetti della vita. La Galloni mi sembra una persona integra, intelligen-
te, colta, una donna di cui mi sarei innamorato se non fossi cardinale, se non fossi... se non fossi quello che siamo.» «La tua sincerità mi sorprende.» «Su, Umberto, sai come me che il celibato è una scelta dura, tanto dura quanto necessaria. Io l'ho rispettata, Dio solo sa che ho tenuto fede alla regola, ma questo non significa che se vedo una donna intelligente e bella non la sappia apprezzare. Sarei un ipocrita se affermassi il contrario. Abbiamo gli occhi, vediamo, e come ci rapisce una statua del Bernini, ci colpiscono i marmi di Fidia o ci sconvolge la solidità della pietra di una tomba etrusca, sappiamo riconoscere il valore delle persone. Non offendiamo la nostra intelligenza facendo finta di non vedere la bellezza e le capacità della dottoressa Galloni. Immagino che ti muoverai in modo da riparare.» «Sì, le telefonerò per invitarla a pranzo. Non posso fare di più.» «Lo so. Non possiamo fare di più.» «Sofia...» Ana Jiménez stava entrando in albergo mentre Sofia scendeva dalla macchina. «Caspita! Com'è bella. Viene da una festa?» «Vengo da un incubo, e a lei come vanno le cose?» «Così così, è più difficile di quanto pensassi ma non mi arrendo.» «Fa bene.» «Ha cenato?» «No, ma provo a chiamare Marco in camera, se non ha mangiato gli dirò di scendere al ristorante dell'albergo.» «Le dispiace se mi unisco a voi?» «A me no, al mio capo non lo so. Se aspetta un attimo glielo dico.» Sofia tornò dalla reception con un messaggio in mano. «È andato con Giuseppe a cena dal comandante dei carabinieri di Torino.» «Allora ceniamo noi due, la invito.» «No, la invito io.» Ordinarono la cena e una bottiglia di Barolo, e si scrutarono reciprocamente di sottecchi. «Sofia, c'è un episodio poco chiaro nella storia della Sindone.» «Uno solo? Io direi che lo sono tutti. La sua comparsa a Edessa, la sparizione a Costantinopoli...» «Ho letto che a Edessa c'era una comunità cristiana molto radicata e in-
fluente, al punto che l'emiro dovette affrontare le truppe di Bisanzio perché non volevano consegnare la Sindone.» «Sì, è così. Nel 944 i bizantini si impossessarono del Mandylion combattendo contro i musulmani, a quel tempo signori di Edessa. L'imperatore di Bisanzio, Romano Lecapeno, voleva il Mandylion, così veniva chiamato dai greci, perché credeva che grazie a esso sarebbe stato sotto la protezione di Dio e quindi invincibile. Inviò un esercito al comando del suo miglior generale e propose un patto all'emiro di Edessa: se gli avesse consegnato la Sindone, l'esercito si sarebbe ritirato senza provocare danni, lui l'avrebbe generosamente ricompensato e avrebbe inoltre liberato duecento prigionieri musulmani. Ma la comunità cristiana di Edessa si rifiutò di consegnarla all'emiro e questi, sebbene musulmano, nel timore che quel lino fosse magico decise di combattere. Vinsero i bizantini, e il 16 agosto del 944 il Mandylion fu portato a Bisanzio. La liturgia bizantina commemora quella data, e negli archivi vaticani si trova il testo dell'omelia che l'arcidiacono Gregorio recitò nel ricevere il telo. «L'imperatore ordinò che venisse custodito nella chiesa di Santa Maria di Blacherne, dove tutti i venerdì era venerato dai fedeli. Da lì sparì fino alla sua ricomparsa in Francia nel quattordicesimo secolo.» «La presero i Templari? Alcuni autori sostengono che furono loro a impossessarsi della Sindone.» «Difficile saperlo. Ai Templari viene imputato di tutto, si pensa a loro come a supereroi capaci di qualunque cosa. Può essere che si siano impossessati del Mandylion oppure no. I crociati seminarono morte e confusione ovunque al loro passaggio. Magari Baldovino di Courtenay, che era diventato imperatore di Costantinopoli, l'aveva impegnato e da quel momento si è perso.» «Poteva impegnare la Sindone?» «È una delle tante teorie. Non avendo denaro per mantenere il suo impero, mendicò presso i sovrani e i signori d'Europa arrivando al punto di vendere molte reliquie portate dalla Terra Santa dai crociati, tra i quali c'era anche suo zio, il re San Luigi di Francia. Potrebbe darsi che i Templari, i banchieri dell'epoca, che si dedicavano anche al recupero delle reliquie sacre, avessero dato del denaro a Baldovino per la Sacra Sindone. Ma non esistono documenti che lo confermino.» «Comunque, penso che se la siano portata via i Templari.» «Perché?» «Non lo so, ma lei stessa ha indicato questa possibilità.La portarono in
Francia dove poi, infatti, è ricomparsa.» Le due donne continuarono a parlare per un po', Ana fantasticando sui Templari e Sofia snocciolando dati. Marco e Giuseppe le raggiunsero mentre si avviavano verso l'ascensore. «Che cosa ci fai qui?» chiese Giuseppe a Sofia. «Ho cenato con Ana e ci siamo divertite molto.» Marco non fece alcun commento, salutò Ana con cortesia e chiese a Sofia e Giuseppe di accompagnarlo al bar dell'hotel per il bicchiere della staffa. «Cos'è successo?» «Bonomi ha fatto una gaffe. Per dirmi che ero bella mi ha quasi insultato. Ero molto imbarazzata e, finita l'opera, sono venuta via. Ascolta, Marco, non voglio trovarmi fuori posto, lì non c'entravo niente, mi sentivo a disagio.» «E D'Alaqua?» «Si è comportato da signore e, incredibilmente, il cardinale Visier ha fatto altrettanto. Lasciamoli in pace.» «Vedremo. Non ho intenzione di trascurare nessuna linea investigativa per assurda che possa sembrare. Questa volta non lo farò.» Sofia sapeva che non l'avrebbe fatto. Seduta sul bordo del letto - il resto l'aveva coperto di fogli, appunti e libri - Ana Jiménez rifletteva sulla chiacchierata con Sofia. Come sarà stato Romano Lecapeno, l'imperatore che rubò la Sacra Sindone agli abitanti di Edessa? Lo immaginava crudele, superstizioso, ossessionato dal potere. In effetti, la storia della Sindone non era stata tutta rose e fiori: guerre, incendi, furti... e tutto per il suo possesso, per quel sentimento radicato nel cuore degli uomini di credere che esistano oggetti magici. Lei non poteva dirsi cattolica, almeno non praticante; era battezzata, come quasi tutti in Spagna, ma non ricordava di essere tornata a messa dai tempi della prima comunione. Spostò i fogli, aveva sonno, e come faceva sempre prima di dormire prese un libro di Kavafis e cercò distrattamente una delle sue poesie preferite: Ideali, amate voci di coloro che son morti o come i morti sono per noi perduti.
A volte ci parlano in sogno a volte esse vibrano dentro. E con il suono, per un istante, l'eco fa ritorno della prima poesia di nostra vita come lontana nella notte una musica che dilegua. Si addormentò pensando alla battaglia ingaggiata dall'esercito bizantino contro l'emiro di Edessa. Udiva le voci dei soldati, il crepitare del legno bruciato, il pianto dei bambini che, tenuti per mano dalle loro madri, cercavano terrorizzati un rifugio. Vide un venerabile anziano, circondato da altri anziani e da uomini allarmati, in ginocchio a invocare un miracolo che non si compì. Poi l'anziano si avvicinava a un'urna, tirava fuori un telo ripiegato con cura e lo consegnava a un soldato musulmano molto robusto che riusciva a malapena a contenere l'emozione nel sottrarre a quegli uomini la loro preziosa reliquia. Avevano combattuto crudelmente per il Mandylion dei cristiani, perché Gesù era un grande profeta, che Allah l'abbia in gloria. Il generale delle milizie bizantine ricevette il Mandylion dalle mani di un nobile di Edessa e, vittorioso, partì spedito verso Costantinopoli. Il fumo anneriva i muri delle case e i soldati bizantini impegnati nel saccheggio caricavano il bottino su carri trainati da muli. L'anziano vescovo di Edessa si sentiva abbandonato da Dio. Più tardi, nella chiesa in pietra che era rimasta in piedi, accanto alla croce, circondato dai sacerdoti e dai cristiani più fedeli, giurarono di recuperare il Mandylion anche a costo della vita. Loro, discendenti di Tizio lo scriba, del gigante Obodas, di Izaz il nipote di Josar, di Giovanni l'alessandrino e di tanti cristiani che sacrificarono la propria vita per il Mandylion, l'avrebbero recuperato, e se così non fosse stato, i loro discendenti non avrebbero avuto pace fino all'adempimento della missione. Lo giurarono davanti a Dio, all'imponente croce di legno che sovrastava l'altare, davanti al ritratto della madre di Gesù e alle Sacre Scritture. Ana si svegliò urlando. L'angoscia la opprimeva, tanto vivido era stato l'incubo. Andò a prendere dell'acqua dal frigo e aprì la finestra della stanza per la-
sciar entrare l'aria fresca dell'alba. La poesia di Kavafis sembrava essersi fatta realtà e le voci dei morti avevano assalito il suo sonno. Sentì che quanto aveva visto e ascoltato era veramente accaduto. Era sicura che fosse andata così. Dopo la doccia si sentì meglio; non aveva fame e quindi rimase un po' in camera a cercare nei libri che aveva comprato qualche notizia su Baldovino di Courtenay, il re mendicante. Non avendone trovate molte, si collegò a Internet, sebbene non si fidasse troppo delle informazioni della Rete. Poi cercò notizie sui Templari e con sua grande sorpresa trovò una pagina presumibilmente dell'Ordine, ma dei Templari nessuna notizia diretta. A quel punto, chiamò il responsabile delle pagine di informatica del suo giornale. Gli spiegò cosa voleva e mezz'ora più tardi l'esperto la richiamò. L'indirizzo di quel sito dei Templari era a Londra, perfettamente registrato, perfettamente legale. 29 Addaio entrò in casa cercando di non fare rumore. Era stanco del viaggio. Aveva preferito andare direttamente a Urfa, senza fermarsi a dormire a Istanbul. Al mattino, vedendolo, Guner sarebbe rimasto di stucco. Non l'aveva avvisato del suo rientro, e nemmeno il resto della Comunità. Bakkalbasi era rimasto a Berlino, da lì sarebbe andato a Zurigo per raccogliere il denaro necessario a pagare i due uomini del carcere disposti ad ammazzare Mendibj. Gli dispiaceva che dovesse morire; era un bravo ragazzo, gentile, sveglio, ma l'avrebbero seguito e avrebbero scoperto la Comunità. Erano riusciti a sopravvivere ai persiani, ai crociati, ai bizantini, ai turchi. Vivevano da secoli in clandestinità svolgendo la missione assegnata. Dio avrebbe dovuto favorirli in quanto erano i veri cristiani, ma non lo faceva, imponeva loro prove terribili e adesso Mendibj doveva morire. Salì lentamente le scale ed entrò in camera sua. Il letto era fatto. Guner lo faceva sempre, anche quando, come adesso, lui avrebbe dovuto trovarsi in viaggio. Il suo amico lo aveva sempre servito fedelmente, cercando di rendergli la vita confortevole, intuendo i suoi desideri prima ancora che li esprimesse. Era l'unica persona che gli parlava con franchezza, che aveva il coraggio di criticarlo; a volte gli sembrava addirittura di percepire una certa sfida nelle parole di Guner. Ma no, Guner non l'avrebbe tradito, era
stata una sciocchezza pensarlo. Se non si fosse potuto fidare di lui, non avrebbe potuto sopportare il fardello che portava dacché era diventato uomo. Udì bussare leggermente alla porta e si affrettò ad aprire. «Ti ho svegliato, Guner?» «Non dormo da giorni. Mendibj morirà?» «Ti sei alzato per chiedermi di Mendibj?» «C'è qualcosa di più importante della vita di un uomo, pastore?» «Ti sei ripromesso di tormentarmi?» «No, Dio non voglia, mi appello solo alla tua coscienza perché questa follia cessi una buona volta.» «Vattene, Guner, ho bisogno di riposare.» Guner si girò e uscì dalla camera mentre Addaio stringeva i pugni e reprimeva l'ira che lo stava invadendo. 30 «Ha passato una brutta notte?» chiese Giuseppe ad Ana che mordicchiava distrattamente un croissant. «Ah, è lei! Buongiorno. Sì, ho passato davvero una brutta notte. E la dottoressa Galloni?» «Dovrebbe scendere tra poco. Ha visto il mio capo?» «No. Sono appena arrivata.» I tavoli al bar dell'hotel erano tutti occupati e Giuseppe non ci pensò due volte a sedersi a quello di Ana. «Le dispiace se prendo un caffè qui?» «Assolutamente no. Come vanno le indagini?» «È un lavoro lento. E lei come sta?» «Immersa nella storia. Ho letto diversi libri, ho cercato informazioni su Internet, ma a essere sincera ho imparato di più ieri sera ascoltando Sofia che in tutte le letture di questi ultimi giorni.» «Sì, Sofia spiega le cose in modo tale che le vedi. È capitato anche a me. Mi dica un po', ha qualche teoria?» «Nessuna solida, e oggi ho la testa in pappa, ho avuto degli incubi.» «Be', si vede che non ha la coscienza pulita.» «Come?» «Da piccolo, mia madre mi diceva così quando mi svegliavo gridando. Mi chiedeva: "Giuseppe, cos'hai fatto oggi che non avresti dovuto?". Se-
condo lei gli incubi erano un avviso della coscienza.» «Comunque, ieri non ricordo di aver fatto nulla di particolare perché la coscienza si faccia sentire. Lei è solo carabiniere o anche storico?» «Sono carabiniere e mi basta. Ma ho la fortuna di lavorare nel Comando per la tutela del patrimonio artistico, e in questi anni ho imparato molto da Marco.» «Vedo che adorate tutti il vostro capo.» «Sì, suo fratello le avrà già parlato di lui.» «Santiago lo stima molto, una sera mi ha portato a cena da lui e poi l'ho rivisto in altre due o tre occasioni.» Sofia entrò nel bar e li vide immediatamente. «Che cos'ha, Ana?» «Dovrò cominciare a preoccuparmi, si vede così tanto che ho passato una nottataccia?» «Come se fossi reduce da una battaglia.» «In effetti mi sono trovata nel mezzo di una battaglia, ho visto bambini fatti a pezzi e le loro madri violentate, ho persino annusato il fumo nero degli incendi. Sono stata malissimo.» «Si vede.» «Sofia, so di essere pesante, ma se oggi hai un attimo di tempo e non ti secca, mi piacerebbe parlare ancora con te.» «Be', non so quando, ma in linea di massima possiamo vederci.» Marco si avvicinò al tavolo leggendo un appunto. «Buongiorno a tutti. Sofia, ho qui un messaggio di padre Charny. Bolard ci aspetta in duomo tra dieci minuti.» «Chi è padre Charny?» domandò Ana. «È padre Yves de Charny» rispose Sofia. «Non sia curiosa, Ana» replicò Marco. «Devo esserlo.» «Bene, se avete già fatto colazione, ognuno al proprio posto. Giuseppe, tu...» «Sì, vado. Dopo ti chiamo.» «Andiamo, Sofia, se ci sbrighiamo arriveremo puntuali all'appuntamento con Bolard. Buona giornata, Ana.» «Farò del mio meglio perché lo sia.» Mentre andavano verso il duomo, Marco chiese a Sofia di Ana Jiménez. «Cosa sa?»
«Non lo so, fa domande però non parla. Sembra indifesa, ma sento che ha più risorse di quel che dà a vedere, ed è intelligente. Lei chiede, chiede ma non si sbottona. Si direbbe che non ha in mano nulla, però non ne sarei così sicura.» «È molto giovane.» «Ma è sveglia.» «Meglio per lei. Ho parlato con l'Europol, ci daranno una mano. Cominceranno a sorvegliare frontiere, aeroporti, dogane, stazioni ferroviarie... Quando finiamo con Bolard andiamo alla caserma, voglio farti vedere il piano che sta mettendo a punto Giuseppe. Non avremo molti uomini a disposizione, ma spero che siano sufficienti. Non dovrebbero esserci troppe difficoltà a seguire un muto.» «Come credi che farà per comunicare, una volta fuori?» «Non lo so, ma se fa parte di qualche organizzazione avrà un indirizzo di riferimento, deve andare da qualche parte. Cavallo di Troia ci guiderà, non ti preoccupare. Tu resterai a coordinare l'operazione in caserma.» «Io? No, non voglio, preferisco venire con voi.» «Non so chi potremmo trovarci di fronte, e tu non sei un carabiniere, non ti ci vedo a correre per Torino dietro il muto.» «Non mi conosci, posso partecipare al pedinamento.» «Qualcuno deve rimanere alla caserma, e tu sei la persona adatta. Saremo tutti in contatto con te attraverso le radiotrasmittenti: saprai ogni particolare. John Barry ha convinto i suoi colleghi della CIA a darci ufficiosamente una mano prestandoci una microcamera per riprendere le immagini del muto ovunque vada. Riceverai il segnale in caserma, sarà come se fossi per strada. Giuseppe si è messo d'accordo con il direttore del carcere perché ci lasci dare un'occhiata alle scarpe del muto.» «Ci metterete una trasmittente?» «L'intenzione sarebbe quella. Il problema è che ha quel tipo di calzature sportive dove è più difficile inserirlo, comunque i ragazzi della CIA ci aiuteranno a risolvere questo contrattempo. Negli Stati Uniti sono più abituati che in Europa a quei modelli.» «Però, non ci avevo pensato... Abbiamo già l'autorizzazione del giudice per l'operazione?» «Spero di risolvere il problema al massimo per domani.» Arrivarono al duomo. Padre Yves li aspettava per accompagnarli nel luogo dove Bolard e la commissione scientifica stavano esaminando la Sindone. Li lasciò lì con loro e si scusò dicendo che aveva molto da fare.
31 «Mio signore, è appena giunto un messaggero di vostro zio.» Baldovino saltò giù dal letto e, strofinandosi gli occhi, ordinò al suo cortigiano di far entrare il messaggero. «Vi dovete vestire, signore, siete l'imperatore, e il messaggero è un nobile della corte del re di Francia.» «Pascal, se non me lo ricordassi tu, io stesso dimenticherei di essere l'imperatore. Aiutami, dunque. Ho qualche mantello di ermellino che non abbia impegnato o venduto?» Pascal de Molesmes, un nobile francese vassallo del re di Francia e da questi posto al fianco del suo sventurato nipote, non rispose alla domanda dell'imperatore. In effetti aveva pochi mezzi. Non era molto che aveva ordinato di togliere il piombo dal tetto del palazzo per darlo in pegno ai veneziani che stavano facendo grossi affari sfruttando le difficoltà economiche di Baldovino. Quando l'imperatore si sedette nella sala del trono, i nobili bisbigliavano nervosamente in attesa delle notizie dal re di Francia. Robert de Dijon si inginocchiò e chinò il capo al cospetto dell'imperatore. Questi gli fece un cenno perché si rialzasse. «Ebbene, che notizie porti da mio zio?» «Sua Maestà il re sta combattendo con tenacia in Terra Santa per liberare il Sepolcro di Nostro Signore. Vi reco la buona notizia della conquista di Damietta. Il re sta avanzando e conquisterà le terre del Nilo verso Gerusalemme. In questo momento non vi può aiutare come vorrebbe in quanto il costo della spedizione supera abbondantemente la rendita annua della Corona. Si raccomanda che abbiate pazienza e fede nel Signore. Vi chiamerà presto al suo fianco come nipote fedele e amatissimo quale siete e vi aiuterà a risolvere le difficoltà che ora vi affliggono.» Baldovino si incupì e fu sul punto di lasciar sgorgare le lacrime, ma lo sguardo severo di Pascal de Molesmes gli ricordò il suo ruolo. «Vi ho anche portato una lettera di Sua Maestà.» L'uomo estrasse un documento sigillato con la ceralacca e lo consegnò all'imperatore. Questi lo afferrò con decisione e, senza guardarlo, lo passò a Pascal de Molesmes. Tese quindi la mano verso Robert de Dijon e il nobile depose un simbo-
lico bacio sull'anello imperiale. «Risponderete alla lettera del re?» «Ritornate in Terra Santa?» «Prima devo recarmi alla corte di donna Bianca di Castiglia. Le porto una missiva del figlio, il mio buon sovrano Luigi. Uno dei cavalieri che mi accompagna è ansioso di ritornare a combattere al suo fianco, sarà lui a recapitare il messaggio che Vostra Maestà vorrà trasmettere al re vostro zio.» Baldovino annuì e si alzò. Uscì dalla sala del trono senza voltarsi, afflitto dalla notizia che suo zio il re di Francia non lo poteva aiutare. «E adesso cosa farò, Pascal?» «Ciò che avete fatto in altre occasioni, mio signore.» «Recarmi di nuovo alle corti dei miei parenti, che sono incapaci di comprendere l'importanza del fatto che la Cristianità conservi Costantinopoli? Non è me che stanno aiutando, Costantinopoli è l'ultimo baluardo contro i musulmani, è terra cristiana, ma i veneziani sono avari e scendono a patti con gli ottomani alle mie spalle, ai genovesi importano solo i guadagni derivanti dal commercio e i miei cugini delle Fiandre si lamentano di non disporre di mezzi sufficienti per aiutarmi. Menzogne! Devo tornare a prostrarmi di fronte ai principi supplicandoli di aiutarmi a mantenere l'impero? Credi che Dio mi perdonerà per aver impegnato la corona di spine di Suo figlio crocifisso? «Non ho di che pagare i soldati, né la gente del palazzo, né i miei nobili. Non ho nulla, nulla. Sono diventato re a ventun anni, a quel tempo sognavo di restituire al regno tutto il suo splendore, di recuperare le terre perdute, e cosa ho fatto? Niente. Da quando i crociati hanno diviso l'impero e saccheggiato Costantinopoli, ho mantenuto a fatica il regno, e il buon papa Innocenzo è altrettanto insensibile alle mie suppliche.» «Tranquillizzatevi, mio signore. Vostro zio non vi abbandonerà.» «Ma non hai udito il messaggio?» «Sì, dice che vi manderà a chiamare quando avrà sconfitto i musulmani.» Seduto sul maestoso trono dal quale tempo addietro aveva fatto togliere le lamine d'oro che lo ricoprivano, l'imperatore si accarezzava la barba e muoveva il piede sinistro in un gesto incontrollato che tradiva agitazione. «Signore, dovete leggere la lettera del re di Francia.» Pascal de Molesmes gli porse il documento sigillato che Baldovino aveva già dimenticato, angosciato com'era per la sua precarietà.
«Ah! Sì, mio zio mi scrive, immagino per raccomandarmi di essere un buon cristiano e di non perdere la speranza in Dio Nostro Signore.» Rompendo la ceralacca, l'imperatore fissò la lettera e sul suo viso si lesse lo stupore. «Dio! Mio zio non sa quello che chiede.» «Il re vi chiede qualcosa, signore?» «Luigi mi assicura che, nonostante le difficoltà che sta attraversando per i costi della crociata, è disposto ad anticiparmi una quantità di oro se gli consegno il Mandylion. Il suo sogno è di poterlo mostrare alla madre, la devotissima cristiana donna Bianca. Luigi mi chiede di vendergli la reliquia o di lasciargliela in concessione per qualche anno. Dice di aver conosciuto un uomo il quale gli assicura che il Mandylion è miracoloso dal momento che ha già guarito un re di Edessa dalla lebbra e che chi lo possiede non è destinato a soffrire. Aggiunge, nel caso decida di accogliere la sua richiesta, di discutere i particolari con il conte de Dijon.» «E che farete?» «Proprio tu me lo domandi? Sai che il Mandylion non mi appartiene, che anche se volessi non potrei consegnarlo a mio zio, il buon re di Francia.» «Potreste cercare di convincere il vescovo a darvelo.» «Impossibile! Ci vorrebbero mesi, e non ci riuscirei. Non posso aspettare. Dimmi cos'altro posso impegnare. Ci resta forse qualche reliquia che possa essere all'altezza?» «Sì.» «Sì? Quale?» «Se convincete il vescovo a consegnarvi il Mandylion...» «Non lo farà mai.» «Glielo avete mai chiesto?» «Lo conserva gelosamente. La reliquia è sopravvissuta miracolosamente al saccheggio dei crociati. Gli è stata consegnata dal suo predecessore e ha giurato che l'avrebbe protetta con la propria vita.» «Voi siete l'imperatore.» «E lui il vescovo.» «È vostro suddito, se non obbedisce minacciatelo di tagliargli naso e orecchie.» «Che orrore!» «Perderete l'impero. Quel telo è sacro, chi lo possiede non deve temere nulla. Provateci.» «Va bene, parlate con il vescovo. Ditegli che vi mando io.»
«Lo farò, ma non si accontenterà di parlare con me, dovrete essere voi a chiederglielo.» L'imperatore si torse le mani con gesto contrito, affrontare il vescovo lo spaventava. Cosa gli avrebbe detto per convincerlo e farsi consegnare il Mandylion? Bevve un sorso di vino del colore delle melagrane e con un cenno indicò a Pascal de Molesmes che voleva rimanere solo. Aveva bisogno di pensare. Il cavaliere passeggiava sulla spiaggia concentrandosi sulle onde che si frangevano contro i ciottoli della riva. Il suo cavallo, slegato, lo attendeva paziente da fedele compagno di tante battaglie. La luce del crepuscolo illuminava il Bosforo, e Bartolomé dos Capelos percepì nella bellezza di quel momento la presenza di Dio. L'animale drizzò le orecchie e lui si voltò scorgendo una figura a cavallo tra la polvere del sentiero. Portò la mano alla spada con un gesto più istintivo che difensivo e aspettò di vedere se la persona che si stava avvicinando era colui che aspettava. L'uomo scese da cavallo e con passo rapido si avvicinò alla riva dove il portoghese attendeva impassibile. «Siete in ritardo» affermò Bartolomé. «Sono stato impegnato con l'imperatore fino a che ha cenato. Solo allora mi è stato possibile sgattaiolare dal palazzo.» «Ebbene, cosa avete da dirmi? E perché qui?» L'uomo robusto, di bassa statura, con la pelle olivastra e occhietti da topo squadrò il cavaliere templare. Con lui doveva fare attenzione. «Signore, so che l'imperatore chiederà al vescovo di consegnargli il Mandylion.» Bartolomé dos Capelos non mosse un muscolo, come se l'informazione che aveva appena ricevuto non lo riguardasse minimamente. «E tu come lo sai?» «Ho sentito l'imperatore parlare con il signor de Molesmes.» «Cosa vuole fare l'imperatore con il Mandylion?» «È l'ultima reliquia di valore che gli resta, la impegnerà. Sapete bene che il regno è alla bancarotta. Lo venderà a suo zio, il re di Francia.» «Tieni, vattene.» Il Templare consegnò qualche moneta all'uomo che, risalito a cavallo, se ne andò rallegrandosi per la sua buona sorte. Il cavaliere gli aveva pagato
bene l'informazione. Da anni faceva la spia a palazzo per conto dei Templari; sapeva che i cavalieri della croce vermiglia avevano altre spie ma ignorava chi fossero. I Templari erano gli unici a disporre di monete sonanti nell'impero in rovina, ed erano in molti, perfino tra i nobili, a offrire i loro servizi ai cavalieri. Il portoghese non si era scomposto quando gli aveva detto che l'imperatore pensava di dargli in concessione il Mandylion. Può darsi, pensò l'uomo, che i Templari lo sapessero già grazie a qualche altra loro spia. "Comunque" si disse "non è un mio problema, queste monete mi hanno ben ricompensato." Bartolomé dos Capelos cavalcò fino alla casa che il Tempio aveva a Costantinopoli. Un edificio in muratura, vicino al mare, dove vivevano oltre cinquanta cavalieri con i loro servitori e gli stallieri. Dos Capelos raggiunse la sala capitolare dove a quell'ora i fratelli stavano pregando. André de Saint-Rémy, il suo superiore, gli fece un cenno perché si unisse alla preghiera e solo dopo un'ora lo fece chiamare nella stanza in cui lavorava. «Sedetevi, fratello. Raccontatemi quanto vi ha detto il coppiere dell'imperatore.» «Conferma l'informazione del capo delle guardie reali: l'imperatore vuole impegnare il Mandylion.» «Il sudario di Cristo...» «Ha già impegnato la corona di spine.» «Esistono molte reliquie false... Il Mandylion però non lo è. Su quel lino vi è il sangue di Cristo, il suo vero volto. Aspetto il consenso del nostro Gran Maestro, Guillaume de Sonnac, per comprarlo. Diverse settimane fa gli ho inviato un messaggio spiegandogli che in questo momento il Mandylion è l'ultima vera reliquia che rimane a Costantinopoli e la più preziosa. Dobbiamo impossessarcene per custodirla.» «E se la risposta di Guillaume de Sonnac non vi arrivasse in tempo?» «In quel caso sarò io a prendere la decisione e spero che il Gran Maestro la sottoscriva.» «E il vescovo?» «Non vuole dare la reliquia all'imperatore. Sappiamo che Pascal de Molesmes si è recato da lui e lo ha supplicato di consegnargliela. Il vescovo si è rifiutato. L'imperatore in persona andrà a chiedergliela.» «Quando?»
«Fra sette giorni. Chiederemo di poter incontrare il vescovo e mi recherò dall'imperatore. Vi darò gli ordini domani, andate a riposare.» Non era ancora l'alba quando i cavalieri finirono le prime orazioni della giornata. André de Saint-Rémy, assorto, scriveva una lettera per chiedere udienza all'imperatore. L'Impero Romano d'Oriente era agonizzante. Baldovino era imperatore di Costantinopoli e delle terre limitrofe, ben poca cosa, e i Templari mantenevano un difficile equilibrio con Baldovino, che così spesso chiedeva loro credito. Saint-Rémy non aveva finito di mettere al sicuro il messaggio quando nella stanza entrò di corsa il fratello Guy de Beaujeau. «Signore, un musulmano chiede di parlare con voi. È accompagnato da altri tre...» Il superiore dei Templari di Costantinopoli non si scompose. Finì di riporre i documenti che aveva scritto. «Lo conosciamo?» «Non lo so, ha il viso coperto e i cavalieri che sono di guardia all'ingresso hanno preferito non obbligarlo a scoprirsi. Ha consegnato loro questa freccia, fatta con il ramo di un albero e con queste incisioni. Dice che voi le riconoscerete.» Guy de Beaujeau porse la freccia a Saint-Rémy e osservò lo sguardo del suo superiore adombrarsi nel contemplare sul palmo della mano un ramo rozzamente intagliato a mo' di freccia e cinque incisioni. «Fatelo entrare.» Qualche minuto più tardi un uomo alto e robusto, vestito semplicemente ma con indumenti che ne mettevano in risalto la nobiltà, entrò nella sala dove lo aspettava Saint-Rémy. Questi fece un cenno ai due cavalieri che accompagnavano il musulmano perché li lasciassero soli, cosa che loro fecero senza fiatare. Rimasti soli, i due uomini si guardarono negli occhi scoppiando in una sonora risata. «Ma Robert, perché ti sei travestito?» «Mi avresti riconosciuto se non ti avessero mostrato la freccia?» «Certamente, credi che non sarei capace di riconoscere mio fratello?» «Non sarebbe stato un buon segno perché avrebbe significato che il mio travestimento non era riuscito e il mio aspetto non era quello di un sarace-
no.» «I fratelli non ti hanno riconosciuto.» «Può darsi di no. A ogni modo cavalco ormai da settimane e sono riuscito ad arrivare sin qui attraversando le terre dei nostri nemici senza che nessuno sospettasse di noi. Sono contento di vedere che non hai dimenticato come da bambini ci piaceva prepararci le frecce con i rami strappati dagli alberi. Io ci facevo sempre cinque incisioni, tu tre.» «Hai avuto qualche contrattempo?» «Nessuno che non sia riuscito a risolvere con l'aiuto del giovane fratello François de Charney.» «Con quanti uomini viaggiate?» «Con due scudieri musulmani. In questo modo è più facile passare inosservati.» «Dimmi, che notizie mi porti del Gran Maestro?» «Guillaume de Sonnac è morto.» «Cosa? Che è successo?» «Il Tempio ha lottato al fianco del re di Francia e l'appoggio che gli abbiamo dato è stato proficuo, come saprai dal successo della conquista di Damietta. Ma il re ardeva dal desiderio di attaccare Al-Mansura, per quanto Guillaume de Sonnac lo esortasse alla prudenza per evitare di offuscare i propri sentimenti con la gioia del trionfo. Il re però è caparbio, ha fatto il voto di riconquistare la Terra Santa e bruciava dalla voglia di entrare a Gerusalemme.» «Intuisco che porti cattive notizie.» «Infatti. Il re ha voluto conquistare Al-Mansura. La sua strategia consisteva nel circondare i saraceni e attaccarli alle spalle. Ma Robert de Artois, fratello di Luigi, ha commesso un errore nel radere al suolo un piccolo accampamento. In questo modo ha messo in guardia gli aiubi. La battaglia è stata cruenta.» Robert de Saint-Rémy si strofinò gli occhi con il dorso della mano come se così facendo avesse potuto cancellare il ricordo dei morti che gli assaliva la memoria. Rivide la terra color cremisi, inzuppata di sangue saraceno e crociato, e i suoi compagni combattere con ferocia, senza sosta, con le spade come un prolungamento delle braccia mentre si conficcavano nelle viscere dei saraceni. Sentiva ancora la stanchezza nelle ossa e l'orrore nell'animo. «Molti dei nostri fratelli sono morti. Il Gran Maestro è rimasto ferito ma siamo riusciti a salvarlo.»
André de Saint-Rémy rimase in silenzio nel vedere riflesso sul viso del fratello minore un'esplosione di emozioni, di ricordi intensi di morte, di sofferenza. «Accanto al cavaliere Yves de Payens e Beltran de Aragón, abbiamo raccolto Guillaume de Sonnac dal campo di battaglia, gravemente ferito da una freccia traditrice, e ci siamo allontanati quanto abbiamo potuto. Ma lo sforzo è stato vano: Guillaume è morto durante la ritirata per un attacco di febbre.» «E il re?» «Abbiamo vinto la battaglia. Le perdite sono state ingenti, migliaia di uomini giacevano a terra morti o feriti, ma Luigi diceva che Dio era con lui e avrebbe vinto. In questo modo infondeva coraggio ai soldati, e ha avuto ragione, abbiamo vinto, ma mai una vittoria è stata così fragile. Le truppe cristiane hanno intrapreso il cammino verso Damietta ma il re è stato colpito dalla dissenteria, e i soldati erano affamati, sfiniti. Non so come sia accaduto, so solo che l'esercito si è arreso e Luigi è stato fatto prigioniero.» Nella stanza calò un silenzio opprimente e i due fratelli, assorti nei propri pensieri, restarono quasi immobili. Passarono lunghi minuti senza che nessuno dicesse una parola. Dalla finestra entrava l'eco delle voci dei cavalieri templari impegnati nelle esercitazioni nella spianata della fortezza; si udiva anche lo scricchiolio dei carri e il rumore del fabbro alle prese con una coppia di muli. Alla fine, André de Saint-Rémy ruppe il silenzio. «Dimmi, chi è stato nominato Gran Maestro?» «Il nostro Gran Maestro è Renaud de Vichiers, precettore di Francia, maresciallo dell'Ordine. Lo conosci.» «Sì. Renaud de Vichiers è un uomo prudente e devoto.» «Ha ordinato di trattare con i saraceni per ottenere la liberazione di Luigi. Anche i nobili del re hanno inviato degli ambasciatori con il compito di stabilire un prezzo per la libertà del loro sovrano. Quando sono partito per venire qui le trattative erano ferme, ma il Gran Maestro è fiducioso sulla riuscita della liberazione del re.» «Quale sarà il prezzo?» «Luigi soffre moltissimo sebbene venga trattato bene e curato dai medici saraceni. Chiedono che le truppe crociate restituiscano Damietta.» «I nobili di Luigi sono disposti a ritirare le truppe da Damietta?» «Faranno quello che dirà il re, lui solo può arrendersi. Renaud de Vichiers gli ha inviato un messaggio perché accetti. Le nostre spie assicurano
che il prezzo sarà questo e non un altro.» «Che ordini mi porti dal Gran Maestro?» «Ti porto un documento sigillato e altri messaggi che devo riferirti a voce.» «Allora dimmi.» «Dobbiamo impossessarci del Mandylion. Il Gran Maestro assicura che è l'unica reliquia di cui esiste la certezza di autenticità. Una volta nelle tue mani, devi portarla alla nostra fortezza di San Giovanni dAcri. Nessuno deve sapere che è in nostro possesso. Lo devi comprare, fare tutto quello che riterrai opportuno senza che si venga a sapere che è per il Tempio. Per il Mandylion i re cristiani sarebbero capaci di uccidere. Il papa lo reclamerebbe per sé. Gli abbiamo donato molte delle reliquie che in questi anni hai comprato da Baldovino, molte altre sono nelle mani di Luigi di Francia, regalate o vendute da suo nipote. «Sappiamo che Luigi vuole il Mandylion. Dopo la vittoria di Damietta ha inviato un seguito con un messaggio per l'imperatore, oltre a documenti con i suoi ordini alla Francia.» «Sì, lo so, qualche giorno fa è arrivato il conte de Dijon e ha consegnato una lettera all'imperatore. Luigi chiede al nipote il Mandylion come controparte per il suo aiuto.» Robert de Saint-Rémy affidò al fratello diversi rotoli di documenti sigillati che l'altro appoggiò sul tavolo. «Dimmi, André, sai qualcosa dei nostri genitori?» Le labbra di André de Saint-Rémy si contrassero, lui abbassò gli occhi al pavimento e, senza lasciarsi scappare il sospiro che gli si formava in gola, rispose al fratello. «Nostra madre è morta. Nostra sorella Casilda anche. La morte l'ha sorpresa durante il parto del quinto figlio. Nostro padre, seppure anziano, l'inverno scorso era ancora in vita. Trascorre le ore seduto nel grande salone, riesce a malapena a muoversi per il gonfiore ai piedi che gli procura la gotta. Nostro fratello maggiore, Umberto, gestisce le terre, la contea è fiorente e Dio gli ha dato quattro figli sani. È da tanto che abbiamo lasciato SaintRémy...» «Eppure ricordo ancora il sentiero con i pioppi che portava al castello, il profumo del pane sfornato e nostra madre che cantava.» «Robert, abbiamo scelto di essere Templari e non possiamo né dobbiamo lasciare spazio alla nostalgia.» «Ah, fratello mio! Sei sempre stato troppo rigido con te stesso.»
«E tu, dimmi, com'è che hai uno scudiero saraceno?» «Ho imparato a conoscerli e rispettarli. Tra loro ci sono uomini saggi, e anche nobiltà d'animo e onore. Sono nemici eccezionali che io rispetto. Devo confessarti che ho anche qualche amico tra le loro file. È impossibile non averli dividendo il territorio e dovendo trattare in modo discreto con loro. Il Gran Maestro ha voluto che tutti ne imparassimo la lingua e che alcuni di noi ne studiassero le usanze in maniera da poterci introdurre nei loro territori e nelle loro città per spiare, osservare o portare a termine le missioni per maggior gloria del Tempio e della Cristianità. La mia pelle olivastra è diventata ancora più scura con il sole d'Oriente e anche il nero dei capelli mi aiuta a mascherare il mio aspetto. Per quel che riguarda la lingua, devo confessarti che non mi è stato troppo difficile capirla e scriverla. Ho avuto un bravo maestro: lo scudiero che mi accompagna. Ricorda, fratello, che sono entrato nel Tempio molto giovane e fu Guillaume de Sonnac a ordinare che noi più giovani imparassimo dai saraceni fino a poterci confondere con loro. «Tu però mi hai chiesto di Alì, il mio scudiero. Non è l'unico musulmano che ha rapporti con il Tempio. Il suo paese è stato raso al suolo dai crociati. Lui, insieme ad altri due bambini, è riuscito a sopravvivere. Guillaume de Sonnac li ha trovati che vagavano a diversi giorni di cavallo da Acri. Alì, il più piccolo, era sfinito, delirava per via della febbre. Il Gran Maestro li ha portati nella nostra fortezza dove sono guariti e sono rimasti.» «E vi sono stati fedeli?» «Guillaume de Sonnac permetteva loro di pregare Allah e li impiegava come intermediari. Non ci hanno mai tradito.» «E Renaud de Vichiers?» «Non lo so, ma non ha mosso obiezioni al fatto che viaggiassimo da soli con Alì e Said.» «Bene, riposati e mandami François de Charney, il fratello con cui hai viaggiato.» «Sarà fatto.» Rimasto solo, André de Saint-Rémy srotolò le carte che suo fratello gli aveva consegnato e si dispose a leggere gli ordini scritti di Renaud de Vichiers, Gran Maestro dell'Ordine del Tempio. La stanza ornata con ricami color porpora assomigliava a una piccola sala del trono. I sedili imbottiti, il tavolo intagliato di legno pregiato, il croci-
fisso in oro zecchino e altri oggetti in argento sbalzato ostentavano l'opulenza in cui viveva il proprietario. Su un tavolino separato, diverse bottiglie in cristallo lavorato racchiudevano vini speziati e su un enorme vassoio era stato disposto un variopinto assortimento di dolci preparati in un vicino cenobio. Il vescovo ascoltava Pascal de Molesmes con fare impassibile. Da un'ora il nobile franco si prodigava in argomenti cercando di convincerlo a consegnare il Mandylion all'imperatore. Anche lui stimava Baldovino; sapeva che nel suo cuore vi era bontà, per quanto il suo regno fosse stato una lunga sfilza di incapacità. Pascal de Molesmes si interruppe non appena si rese conto che il vescovo aveva smesso di ascoltarlo ed era assorto nei suoi pensieri. Il silenzio lo fece sussultare. «Vi ho ascoltato, capisco il vostro ragionamento ma il re di Francia non può far dipendere le sorti di Costantinopoli dal fatto di possedere o meno il Mandylion.» «Il devotissimo re cristiano ha promesso aiuti all'imperatore; se non fosse possibile acquistarlo, chiede, almeno, di tenere il Mandylion per qualche tempo. Luigi smania perché la sua devota madre, donna Bianca di Castiglia, possa contemplare il vero volto di Nostro Signore Gesù. La Chiesa non perderebbe il possesso del Mandylion e potrebbe trarne profitto, oltre a contribuire a salvare Costantinopoli dalla miseria in cui si trova. Credetemi, i vostri interessi e quelli dell'imperatore sono identici.» «No, non lo sono. È l'imperatore che ha bisogno dell'oro per salvare ciò che resta dell'impero.» «Costantinopoli langue, l'impero è più finzione che realtà, un giorno i cristiani piangeranno la sua perdita.» «Signor de Molesmes, siete troppo intelligente per cercare di convincermi che solo il Mandylion può salvare Costantinopoli. Quanto ha offerto il re Luigi per averlo in concessione? Quanto per possederlo? Sarebbe necessaria una grande quantità di oro per salvare questo regno, e il re di Francia è ricco. Tuttavia, per quanto apprezzi suo nipote o desideri il Mandylion, non manderà in rovina il suo regno.» «Se la quantità di oro fosse consistente, Vostra Grazia acconsentirebbe a venderlo o a darlo in concessione?» «No. Riferite all'imperatore che non glielo consegnerò. Papa Innocenzo mi scomunicherebbe. Da tempo desidera entrare in possesso del Mandylion e ho sempre tirato in lungo adducendo i pericoli del viaggio perché
la Sindone rimanga qui. Avrei bisogno dell'autorizzazione del papa e voi sapete che stabilirebbe un prezzo, un prezzo che se anche il buon re Luigi potesse pagare, sarebbe per la Chiesa e non per suo nipote l'imperatore.» Pascal de Molesmes decise di giocare l'ultima carta. «Vi ricordo, Eminenza Illustrissima, che il Mandylion non vi appartiene. Furono le truppe dell'imperatore Romano Lecapeno a portarlo a Costantinopoli, e l'impero non ha mai rinunciato al suo possesso. La Chiesa è la semplice depositarla del Mandylion. Baldovino vi chiede di consegnarglielo spontaneamente e lui saprà essere generoso con voi e con la Chiesa.» Le parole di de Molesmes fecero breccia nell'animo del vescovo. «Mi state minacciando, signor de Molesmes? L'imperatore minaccia la Chiesa?» «Come voi ben sapete, Baldovino è un figlio amatissimo della Chiesa, che difenderebbe con la propria vita se fosse necessario. Il Mandylion è patrimonio dell'impero e l'imperatore lo reclama. Fate il vostro dovere.» «Il mio dovere è difendere l'immagine di Cristo e conservarla per la Cristianità.» «Non vi opponeste al fatto che la corona di spine che era custodita nel convento del Cristo Pantocratore fosse venduta al re di Francia.» «So che siete intelligente, signor de Molesmes. Credete davvero che quella fosse la corona di spine di Gesù?» «Voi no?» Il furore si delineava nello sguardo azzurro del vescovo. Il confronto tra i due uomini stava arrivando al culmine ed entrambi ne erano consapevoli. «Signor de Molesmes, le vostre ragioni non mi hanno convinto, ditelo all'imperatore.» Pascal de Molesmes chinò il capo. Il duello per adesso era terminato, ma i due sapevano che non c'erano ancora né un vincitore né un vinto. Il nobile uscì dalla stanza con la gola secca, senza aver assaggiato il bicchiere di vino aromatico di Rodi che il vescovo gli aveva offerto. E gli dispiaceva perché era uno dei suoi preferiti. Sulla porta del palazzo dove risiedeva il vescovo, i suoi servitori lo aspettavano con il cavallo, un sauro che era il suo compagno più fedele nella turbolenta Costantinopoli. Doveva consigliare a Baldovino di presentarsi con i suoi soldati al palazzo del vescovo e obbligarlo a consegnargli il Mandylion? Non aveva altra scelta. Innocenzo non avrebbe osato scomunicare Baldovino, soprattut-
to quando avesse saputo che il Mandylion era per il devotissimo re cristiano. Lo avrebbero dato in concessione a Luigi a caro prezzo affinché l'impero potesse recuperare parte della linfa disseminata. Il vento del pomeriggio era leggero e Pascal de Molesmes decise di cavalcare lungo la riva del Bosforo prima di far rientro al palazzo imperiale. Ogni tanto era piacevole evadere dalle mura opprimenti del palazzo dove intrighi, tradimenti e morte erano dietro ogni angolo e dove non era facile sapere chi era tuo amico e chi ti voleva male, considerata la raffinata arte della finzione di cui facevano sfoggio i cavalieri e le dame di corte. Si fidava solo di Baldovino, per il quale, con il passare degli anni, era arrivato a provare un affetto sincero, lo stesso che a suo tempo aveva provato per il buon re Luigi. Erano passati già molti inverni da quando il re di Francia lo aveva inviato alla corte di Baldovino per proteggere l'oro che doveva al nipote come pagamento di alcune preziose reliquie che questi gli aveva venduto, oltre alla sua contea di Namur. Luigi lo aveva incaricato di rimanere a corte e di tenerlo informato di quanto accadeva a Costantinopoli. In una lettera che lo stesso de Molesmes consegnò all'imperatore, Luigi di Francia raccomandava al nipote di avere fiducia nel buon Pascal de Molesmes, un uomo e un cristiano leale che, si leggeva nella lettera, avrebbe vigilato solo sul suo bene. Sin dal primo incontro, con Baldovino si stabilì una corrente di simpatia, ed eccolo lì, dopo quindici anni, trasformato in cancelliere dell'imperatore e in suo amico. Perché de Molesmes apprezzava gli sforzi compiuti da Baldovino per mantenere la dignità dell'impero e preservare Costantinopoli resistendo alla pressione dei bulgari da una parte e all'incombente agguato dei saraceni dall'altra. Se non fosse stato per la fedeltà che doveva a re Luigi e a Baldovino, già da anni avrebbe chiesto di entrare nell'Ordine dei Templari per combattere in Terra Santa. Ma il destino lo aveva collocato nel cuore della corte di Costantinopoli, dove doveva schivare tanti pericoli quanti sul campo di battaglia. Il sole cominciava a tramontare quando de Molesmes si rese conto di essere arrivato vicino al Tempio. Aveva rispetto per André de Saint-Rémy, il superiore della commenda. Un uomo austero e onesto che aveva scelto la croce e la spada come regola di vita. Tutti e due erano francesi, nobili, e avevano trovato il proprio destino a Costantinopoli. De Molesmes sentì il desiderio di parlare con il suo compatriota, ma le
ombre della sera cominciavano ad avanzare e i cavalieri sarebbero stati raccolti in preghiera, per cui la sua visita li avrebbe disturbati. "Meglio aspettare domani per mandare un messaggio a Saint-Rémy e fissare un incontro" pensò tra sé. Baldovino II di Courtenay batté il pugno contro la parete. Fortunatamente un arazzo attuti il colpo sulle nocche. Pascal de Molesmes gli aveva riferito in ogni dettaglio la conversazione con il vescovo e il suo rifiuto di consegnare il Mandylion. L'imperatore sapeva che le possibilità che il vescovo accettasse di buon grado la sua richiesta erano scarse, tuttavia l'aveva chiesto con fervore nelle preghiere a Nostro Signore in attesa che compisse quel miracolo per salvare l'impero. Il francese, seccato per lo scoppio d'ira dell'imperatore, lo guardò senza nascondere un gesto di rimprovero. «Non mi guardare così! Sono il più disgraziato tra gli uomini!» «Signore, calmatevi, il vescovo non avrà altra scelta che consegnarvi il Mandylion.» «Come? Vuoi che vada a strapparglielo con la forza? Sarebbe uno scandalo. I miei sudditi non mi perdonerebbero se portassi via loro la Sindone cui attribuiscono un carattere miracoloso, papa Innocenzo mi scomunicherebbe e tu mi chiedi di calmarmi come se ci fosse una soluzione quando sai che non c'è.» «I sovrani devono prendere decisioni ingrate per salvare il proprio regno. Voi siete in questa situazione. Non lamentatevi più e agite.» L'imperatore si sedette senza nascondere nei gesti la stanchezza che lo invadeva. Come re aveva assaporato più amarezze che gioie, e ora l'ultima prova che il regno gli riservava era dover affrontare la Chiesa. «Pensa a un'altra soluzione.» «Vedete forse un'altra via d'uscita?» «Sei il mio consigliere, pensa! Pensa!» «Signore, il Mandylion vi appartiene, reclamate ciò che è vostro per il bene del regno. Questo è il mio consiglio.» «Ritirati.» De Molesmes uscì dal salone e si avviò verso la sala della cancelleria. Lì, con sua sorpresa, incontrò Bartolomé dos Capelos. De Molesmes accolse con piacere il Templare, al quale chiese notizie del suo superiore e degli altri fratelli che conosceva. Dopo qualche minuto
di amabile conversazione, gli chiese cosa lo avesse portato a palazzo. «Il mio superiore, André de Saint-Rémy, chiede un incontro con l'imperatore.» Il tono serio del Templare portoghese allarmò de Molesmes. «Che succede, mio buon amico? Qualche cattiva notizia?» Il portoghese aveva ordine di non dire una parola di più e di non dare quindi informazioni sulla delicata situazione di Luigi di Francia, che evidentemente non era nota a palazzo dal momento che quando Robert de Dijon era partito da Damietta la città era ancora nelle mani dei franchi e l'esercito avanzava trionfalmente. Bartolomé dos Capelos rispose eludendo la domanda. «Da parecchio tempo ormai André de Saint-Rémy non incontra l'imperatore, e in questi mesi sono accaduti molti fatti. L'incontro sarà interessante per entrambi.» De Molesmes capì che il portoghese non gli avrebbe detto di più, ma intuì l'importanza dell'incontro sollecitato. «Prendo nota della vostra richiesta. Non appena l'imperatore avrà fissato il giorno e l'ora, verrò io stesso alla vostra commenda per comunicarvelo e avere anche il piacere di fare una chiacchierata con il vostro superiore.» «Vi chiederei di inoltrare la richiesta di udienza con quanta sollecitudine vi sarà possibile.» «Non mancherò, sapete che sono amico del Tempio. Che Dio sia con voi.» «Che Egli vi protegga.» Pascal de Molesmes rimase pensieroso. L'espressione circospetta del portoghese indicava che il Tempio era a conoscenza di qualcosa di vitale importanza che voleva trasmettere solamente all'imperatore, in cambio di chissà che cosa. I Templari erano gli unici a disporre di denaro e informazioni in quel mondo convulso in cui erano stati chiamati a vivere. Ed entrambe quelle prerogative, il denaro e le informazioni, conferivano loro un potere speciale, superiore a quello di qualsiasi sovrano, addirittura del papa stesso. Baldovino aveva venduto alcune reliquie al Tempio ricevendo in cambio ingenti quantità di denaro. I rapporti con Saint-Rémy erano di reciproco rispetto. Il superiore della commenda templare condivideva la pena di Baldovino per la situazione del sempre più esiguo impero. In più di un'occasione il Tempio aveva prestato del denaro, denaro che l'imperatore non era stato in grado di restituire ma in cambio del quale aveva dato in deposi-
to delle reliquie che erano poi diventate proprietà dei Templari. Oltre a esse, anche altri oggetti di valore non sarebbero mai più tornati nel palazzo imperiale fino a quando l'imperatore non avesse saldato il debito, eventualità piuttosto remota. De Molesmes scacciò questi pensieri e si dedicò a preparare la visita di Baldovino al vescovo. Doveva viaggiare accompagnato da soldati armati e ben equipaggiati, in numero sufficiente per circondare il palazzo del vescovo e la chiesa di Santa Maria di Blacherne, dove si trovava il Mandylion. Per non allarmare il popolo, nessuno doveva sapere quello che avevano in mente, neppure il vescovo, che considerava Baldovino un buon cristiano incapace di alzare la mano contro la volontà ecclesiastica. Sapeva che l'imperatore avrebbe considerato questa possibilità e nella sua disperazione si sarebbe reso conto che l'unica via d'uscita era consegnare il Mandylion a re Luigi. Fece chiamare il conte de Dijon per esaminare con lui i dettagli della consegna della Sacra Sindone. Il re di Francia avrebbe dato precise istruzioni al conte su cosa fare quando suo nipote gli avesse consegnato il sacro lino e come disporne il pagamento. A quell'epoca, Robert de Dijon aveva circa trent'anni. Di media statura, robusto, naso aquilino, occhi azzurri, il nobile francese aveva suscitato l'interesse delle dame di corte di Baldovino. Per il servitore mandato a cercarlo da Pascal de Molesmes, il compito non fu facile. Prima di scovarlo negli appartamenti di donna Maria, cugina dell'imperatore e da poco vedova, dovette corrompere altri servitori di palazzo. Quando Robert de Dijon si presentò in cancelleria aveva ancora addosso il profumo muschiato che l'illustre dama lasciava dietro di sé. «Ditemi, de Molesmes, perché tanta fretta?» «Conte, ho bisogno di conoscere le istruzioni che vi ha dato il buon re Luigi per cercare di assolverle.» «Sapete bene che il re vuole che l'imperatore gli ceda il Mandylion.» «Perdonate se non userò giri di parole: che prezzo è disposto a pagare re Luigi per la Sacra Sindone?» «L'imperatore accetta la richiesta di suo zio?» «Conte, permettete che sia io a porre le domande.» «Prima di rispondere, devo sapere se Baldovino ha già preso una decisione.»
De Molesmes si piantò in un baleno davanti al nobile francese e lo fissò negli occhi valutando che genere di uomo avesse di fronte. Il francese non si lasciò intimidire e sostenne lo sguardo del cancelliere di Baldovino. «L'imperatore sta riflettendo sull'offerta di suo zio. Tuttavia deve sapere quanto il re di Francia è disposto a dargli per il Mandylion, dove verrà trasferito e chi garantirà la sicurezza della reliquia. Senza conoscere questi e altri particolari, difficilmente l'imperatore potrà prendere una decisione.» «Ho l'ordine di attendere la risposta dell'imperatore e, se Baldovino accetta di consegnare la Sindone a Luigi, sarò io stesso a portarla in Francia e lasciarla nelle mani di sua madre, donna Bianca, che la custodirà fino a quando il re non tornerà dalla crociata. Se l'imperatore volesse vendere il Mandylion, Luigi consegnerà al nipote due sacchi d'oro del peso di due uomini e gli restituirà la contea di Namur, oltre a regalargli alcune terre in Francia grazie alle quali potrebbe disporre di una buona rendita annua. Se invece l'imperatore volesse solo impegnare la Sindone per un certo periodo, il re gli consegnerebbe ugualmente i due sacchi d'oro che a tempo debito Baldovino dovrà restituire per recuperare il Mandylion. In caso contrario, se trascorsa la data concordata fra le parti l'oro non venisse restituito, la reliquia diventerebbe patrimonio del re di Francia.» «Luigi vince sempre» affermò contrariato de Molesmes. «È un accordo equo.» «No, non lo è. Voi sapete, al pari di me, che il Mandylion è l'unica reliquia autentica di cui dispone la Cristianità.» «L'offerta del re è generosa. Due sacchi d'oro serviranno a Baldovino per far fronte ai suoi numerosi debiti.» «Non bastano.» «Voi sapete, come me, che due sacchi d'oro, ciascuno del peso di un uomo, risolverebbero molti dei problemi dell'impero. L'offerta è più che generosa nel caso l'imperatore consegnasse per sempre il Mandylion, dal momento che potrà disporre di una rendita sino alla fine dei suoi giorni, mentre se lascia la reliquia in concessione... insomma, non so se gli sarà possibile restituire i due sacchi d'oro allo zio.» «Sì, sì, lo sapete. Sapete anche voi che difficilmente potrebbe recuperare il Mandylion. Ebbene, ditemi, avete viaggiato con i due sacchi d'oro?» «Ho con me un documento firmato da Luigi nel quale si impegna al pagamento. Dispongo anche di una certa quantità di oro come anticipo.» «Che garanzie potete darci che la reliquia giunga in Francia?» «Come ben sapete viaggio con una numerosa scorta e sono disposto ad
accettare quanti uomini riteniate necessari per accompagnarci in un luogo sicuro. Impegno la mia vita e il mio onore perché il Mandylion giunga in Francia. Se l'imperatore accetta, invieremo un messaggio al re.» «Di quanto oro disponete?» «Il peso corrisponde a venti libbre.» «Vi farò chiamare quando l'imperatore avrà preso una decisione.» «Aspetterò. Vi confesso che non mi dispiace riposarmi a Costantinopoli qualche giorno in più.» I due uomini si congedarono con un cenno del capo. François de Charney si stava esercitando con l'arco insieme agli altri cavalieri templari. André de Saint-Rémy lo osservava dalla finestra della sala capitolare. Dall'aspetto, il giovane de Charney e suo fratello Robert gli erano sembrati musulmani. Entrambi avevano insistito sull'importanza di sembrare tali per poter attraversare ì territori nemici senza troppi inconvenienti. Confidavano nei loro scudieri saraceni, che trattavano con cameratismo. Dopo tanti anni in Oriente, i Templari stavano a poco a poco cambiando. Avevano cominciato ad apprezzare i valori dei nemici, non si erano solo accontentati di combatterli ma avevano fatto lo sforzo di conoscerli; da lì derivava quel mutuo riconoscimento tra i cavalieri templari e i saraceni. Guillaume de Sonnac era un cavaliere attento, e in Robert e François doveva aver percepito qualcosa di speciale, le qualità per diventare spie, perché in fondo questo erano. Entrambi parlavano correntemente l'arabo e quando discutevano con i loro scudieri si comportavano come tali. Con la pelle bruciata dal sole e gli indumenti dei nobili saraceni era difficile scambiarli per cavalieri cristiani. Gli avevano parlato delle loro numerose vicissitudini in Terra Santa, del fascino del deserto dove avevano imparato a vivere, delle letture degli antichi filosofi greci recuperati grazie ai saggi saraceni, dell'arte della medicina appresa tra loro. I giovani non potevano nascondere l'ammirazione per i nemici che combattevano, cosa che avrebbe preoccupato André de Saint-Rémy se non avesse verificato con i suoi occhi la devozione di entrambi e il loro impegno d'onore con il Tempio. Sarebbero rimasti a Costantinopoli fino a quando il superiore di questa commenda non avesse consegnato loro il Mandylion per portarlo ad Acri. André de Saint-Rémy non aveva nascosto i propri dubbi sul lasciarli viag-
giare da soli con una reliquia così preziosa, ma i due uomini gli avevano assicurato che sarebbe stato l'unico modo per farla giungere sana e salva a destinazione, alla fortezza dei Templari di San Giovanni d'Acri dove era custodita gran parte dei tesori del Tempio. Naturalmente Saint-Rémy doveva prima ottenere il sudario di Cristo, e per riuscirci erano necessarie pazienza e diplomazia oltre che astuzia, tutte qualità che non mancavano al superiore della commenda di Costantinopoli. Baldovino aveva indossato gli abiti migliori. De Molesmes gli aveva consigliato di non avvisare nessuno sulla visita che avrebbero fatto al vescovo. Pascal de Molesmes aveva scelto personalmente il gruppo di soldati che li doveva accompagnare, come pure quelli che dovevano circondare la chiesa di Santa Maria di Blacherne. Il piano era semplice. Al calar della sera l'imperatore si sarebbe presentato al palazzo del vescovo. Gli avrebbe gentilmente chiesto di consegnargli il Mandylion; se il vescovo non avesse accettato di buon grado, allora i soldati sarebbero entrati nella chiesa di Santa Maria di Blacherne e si sarebbero impossessati della Sindone anche a costo di usare la forza. De Molesmes aveva convinto Baldovino a non lasciarsi intimorire dal vescovo e di fare eventualmente ricorso alle minacce. Per questo si sarebbero fatti accompagnare dal gigante Vlad, un uomo delle terre del Nord, privo di comprendonio e che faceva senza fiatare quanto Baldovino gli ordinava. L'oscurità aveva ormai avvolto la città e solo le candele accese indicavano che le case e i palazzi erano abitati. I colpi secchi risuonarono nel palazzo del vescovo che in quel momento stava gustando un bicchiere di vino di Cipro mentre leggeva una lettera segreta di papa Innocenzo. Un servitore andò ad aprire il portone e si prese un bello spavento nel trovarsi faccia a faccia con l'imperatore. L'uomo lanciò un grido, e la guardia del vescovo accorse subito all'ingresso. Il signor de Molesmes ordinò loro di inginocchiarsi di fronte all'imperatore. Entrarono nel palazzo con passo deciso. Baldovino tradiva il panico, ma la risolutezza del suo cancelliere gli impediva di andarsene di corsa e tornare indietro. Il vescovo aprì la porta della sua stanza allarmato dal rumore che giungeva dalla scala e non riuscì ad articolare parola quando si trovò davanti
Baldovino, Pascal de Molesmes e un gruppo di soldati che li accompagnava. «Cosa succede! Che fate qui?» esclamò il vescovo. «In questo modo accogliete l'imperatore?» lo interruppe il francese. «Tranquillizzatevi, Eminenza Illustrissima» gli disse Baldovino. «Sono venuto a farvi visita. Mi dispiace di non avervi potuto avvisare per tempo, ma gli affari di governo non me l'hanno permesso.» Il sorriso di Baldovino non riuscì a rassicurare il vescovo che, piantato al centro della stanza, sembrava non sapere cosa fare. «Permettete che ci sediamo?» chiese l'imperatore. «Entrate, entrate, la vostra visita così inattesa mi ha sorpreso. Chiamerò i miei domestici perché vi servano come si conviene. Farò accendere altre candele e...» «No» lo interruppe de Molesmes. «Non c'è bisogno che facciate nulla. L'imperatore vi onora della sua presenza, statelo ad ascoltare.» Il vescovo, ancora in piedi, era in dubbio se seguire le indicazioni del francese mentre i servitori si affacciavano timidamente alla porta preoccupati dal rumore e in attesa di ordini da Sua Signoria Illustrissima. Pascal de Molesmes si avvicinò alla porta e disse loro che potevano ritornare nelle proprie stanze, che si trattava di una visita amichevole dell'imperatore al vescovo di Costantinopoli e che, vista l'ora, non si richiedeva la loro presenza dal momento che per assaggiare un bicchiere di vino avrebbero potuto fare da soli. L'imperatore prese posto su una comoda poltrona e si lasciò scappare un sospiro. Pascal de Molesmes lo aveva convinto di non avere altra scelta che impossessarsi del Mandylion per salvare Costantinopoli. Ormai ripresosi dalla sorpresa e dallo spavento iniziali, il vescovo si rivolse all'imperatore con tono arrogante: «Quale questione è così importante da violare la pace di questa casa a quest'ora? È la vostra anima ad aver bisogno di un consiglio o vi preoccupa qualche faccenda di corte?». «Mio buon pastore, sono venuto come figlio della Chiesa a farvi partecipe dei problemi del regno. Voi vi occupate delle anime, ma chi ha un'anima ha anche un corpo ed è dei problemi terreni che vi voglio parlare perché, se il regno soffre, soffrono gli uomini.» Baldovino sospirò cercando con lo sguardo l'approvazione di Pascal de Molesmes il quale, con un gesto appena percettibile, gli indicò di continuare. «I bisogni di Costantinopoli sono noti a voi quanto a me. Non è necessa-
rio essere a conoscenza dei segreti di corte per sapere che nelle casse restano poche monete e che l'assillo dei nostri vicini ci sta sempre più indebolendo. Sono mesi che i soldati non percepiscono l'intera paga, come non ricevono lo stipendio i funzionali del palazzo e i miei ambasciatori. Mi dispiace gravare senza poter contribuire con offerte alla Chiesa della quale mi sapete figlio amatissimo.» Giunto a questo punto, Baldovino tacque nel timore che da un momento all'altro il vescovo reagisse con rudezza. Questi invece lo ascoltava teso, meditando sulla risposta da dare all'imperatore. «Pur non trovandomi nel confessionale» proseguì Baldovino «vi rendo partecipe delle mie tribolazioni. Devo salvare il regno, e l'unica soluzione è vendere il Mandylion al re di Francia, che Dio lo protegga. Luigi è disposto a darci l'oro sufficiente per pagare i debiti che ci affliggono. Se gli consegnerò il Mandylion, salverò Costantinopoli. Per questo, Eminenza Illustrissima, vi chiedo come vostro imperatore che mi affidiate la Sacra Sindone. Rimarrà in mani cristiane, come le nostre.» Il vescovo lo guardò fisso e si schiarì la voce prima di parlare. «Signore, venite come imperatore per chiedermi una reliquia sacra della Chiesa. Dite che in questo modo salvereste Costantinopoli, ma per quanto tempo? Io non vi posso consegnare ciò che non mi appartiene. Il Mandylion è della Chiesa, pertanto della Cristianità, e sarebbe un sacrilegio se ve l'affidassi per venderlo. I fedeli di Costantinopoli non lo permetterebbero, devoti come sono all'immagine miracolosa di Cristo. Non mischiate le questioni terrene con quelle divine, i vostri interessi con quelli della Cristianità. Vogliate comprendere che non vi posso consegnare la Sacra Sindone, alla quale ogni venerdì tutti i cristiani si rivolgono in preghiera. I fedeli non vi lascerebbero mai vendere la reliquia e inviarla in Francia, per quanto ben custodita possa essere dal buon re Luigi.» «Non è mia intenzione discutere, Eminenza Illustrissima, e non vi sto pregando di consegnarmi il Mandylion, ve lo sto ordinando.» Baldovino si sentì soddisfatto per aver pronunciato quell'ultima frase in modo così energico, e cercò nuovamente approvazione negli occhi di de Molesmes. «Vi devo del rispetto come imperatore e voi mi dovete obbedienza come pastore» rispose il vescovo. «Eminenza Illustrissima, non permetterò che ciò che resta dell'impero vada in rovina perché voi volete conservare la preziosa reliquia. Come cristiano sono dispiaciuto di dovermi separare dal Mandylion, ma in questo
momento ho il dovere di agire come imperatore. Vi chiedo di consegnarmi la reliquia... spontaneamente.» Allarmato, il vescovo scattò in piedi e gridò: «Osate minacciarmi? Sappiate che se vi azzarderete a sollevarvi contro la Chiesa, Innocenzo vi scomunicherà!». «Scomunicherà anche il re di Francia per aver comprato il Mandylion?» replicò l'imperatore. «Non vi darò la Sacra Sindone. Appartiene alla Chiesa, e solo il papa può disporre della più sacra delle reliquie...» «No, non appartiene alla Chiesa, lo sapete bene. Fu l'imperatore Romano Lecapeno a recuperarla da Edessa e portarla a Costantinopoli. Appartiene all'impero, appartiene all'imperatore. La Chiesa è stata solo una depositaria fidata, ma ora sarà l'impero a farsi carico della sua custodia.» «Rimettetevi alla decisione del papa, gli scriveremo, voi gli esporrete le vostre ragioni e io mi sottometterò alla sua decisione.» Baldovino esitò. Sapeva che il vescovo cercava di guadagnare tempo, ma come rifiutare una proposta che sembrava onesta? Pascal de Molesmes si piazzò davanti al vescovo e lo guardò con ferocia: «Credo, Eminenza Illustrissima, che non abbiate inteso l'imperatore». «Signor de Molesmes, vi prego di non intromettervi!» urlò il vescovo. «Mi impedite di parlare? Con quale autorità? Sono suddito, come voi, dell'imperatore Baldovino e il mio dovere è quello di difendere gli interessi dell'impero. Restituite il Mandylion che non vi appartiene e risolviamo pacificamente questa discussione.» «Come osate parlarmi così?! Signore, ordinate al vostro cancelliere di tacere!» «Calmatevi tutti e due» intervenne Baldovino, ormai ripresosi dal dubbio iniziale. «Eminenza Illustrissima, bene ha detto il signor de Molesmes, siamo venuti a chiedervi di restituire ciò che non vi appartiene, non ritardate neppure di un minuto la sua consegna oppure ordinerò di requisire il Mandylion con la forza.» Con passi rapidi il vescovo raggiunse la porta della stanza e, gridando, chiese aiuto alle guardie. Nell'udire le urla, un drappello accorse in tutta fretta. Incoraggiato dalla presenza dei soldati, il vescovo cercò di congedare i suoi inopportuni visitatori. «Se oserete toccare un solo filo della Sacra Sindone, scriverò al papa e gli raccomanderò di scomunicarvi. Andatevene!» tuonò.
Sorpreso da quella inaspettata reazione, Baldovino non si mosse dal suo posto, mentre Pascal de Molesmes, in preda alla furia, si avvicinò alla porta dove era rimasto il vescovo. «Soldati!» gridò. Nel giro di pochi secondi i soldati imperiali percorsero la scalinata ed entrarono nella stanza di fronte allo stupore delle guardie del prelato. «Intendete sfidare l'imperatore? In questo caso vi farò arrestare per tradimento, e sapete bene che la punizione è la morte» esclamò de Molesmes. Il corpo del vescovo fu percorso da un tremito mentre guardava disperato i suoi soldati aspettando che intervenissero. Ma quelli non si mossero. Pascal de Molesmes si rivolse allo sbigottito Baldovino. «Signore, vi prego di dare l'ordine che Sua Eminenza Illustrissima mi accompagni alla chiesa di Blacherne e mi consegni il Mandylion che vi porterò a palazzo.» Baldovino si alzò e, forte della sua autorità imperiale, si diresse verso il vescovo. «Il signor de Molesmes mi rappresenta. Lo accompagnerete e gli consegnerete il Mandylion. Se non eseguirete l'ordine, il mio fedele servitore Vlad vi porterà personalmente nelle segrete del palazzo, da dove non uscirete più. Personalmente, preferirei vedervi officiare la messa domenica prossima...» Non disse altro. Dopodiché, senza guardare il vescovo e con passo deciso, lasciò la stanza circondato dai suoi soldati e certo di essersi comportato da vero imperatore. Vlad, il gigante, si mise davanti al vescovo pronto a eseguire l'ordine dell'imperatore. Sua Eminenza capì che a nulla gli sarebbe valso opporre resistenza e, recuperando parte dell'orgoglio ferito, affrontò il cancelliere. «Vi consegnerò il Mandylion e informerò il papa.» Circondati dai soldati e sotto lo sguardo vigile di Vlad si incamminarono verso la chiesa di Santa Maria di Blacherne. Lì, in una teca d'argento, si trovava la sacra reliquia. Il vescovo aprì la teca con una chiave che portava appesa al collo e, senza riuscire a trattenere le lacrime, estrasse la Sindone e la consegnò a de Molesmes. «State commettendo un sacrilegio per il quale Dio vi punirà!» «Ditemi, che castigo subirete voi per le tante reliquie vendute senza il permesso del papa e a vostro proprio vantaggio?»
«Come osate accusarmi di un tale sproposito?» «Siete il vescovo di Costantinopoli, dovreste sapere che niente di ciò che accade rimane nascosto agli occhi del palazzo.» Il cancelliere prese con grande precauzione la Sindone dalle mani del vescovo, che cadde in ginocchio piangendo sconsolatamente. «Vi raccomando, Eminenza Illustrissima, di calmarvi e fare uso della vostra intelligenza, che è grande. Evitate un conflitto tra l'impero e Roma, che non gioverebbe a nessuno. Non affrontereste solo Baldovino ma anche il re di Francia. Pensateci bene prima di agire.» L'imperatore aspettava de Molesmes camminando nervosamente su e giù per la stanza. Era turbato, incerto se cedere al dispiacere di aver affrontato il vescovo o essere soddisfatto per aver imposto la propria autorità imperiale. Un vino rosso di Cipro lo aiutava a rendere più gradevole l'attesa. Aveva congedato l'imperatrice e i servitori e aveva impartito ordini severi alla guardia personale perché solo al cancelliere fosse consentito di varcare la soglia dei suoi appartamenti. E si trovava nelle sue stanze quando, d'un tratto, udì dei passi frettolosi alla porta che lui stesso aprì, sicuro di vedere de Molesmes. Infatti era lui. Scortato da Vlad e con il Mandylion, il cancelliere, con aria soddisfatta, entrò nella stanza dell'imperatore. «Sei dovuto ricorrere alla forza?» domandò, timoroso, Baldovino. «No, signore. Non è stato necessario. Sua Eminenza ha capito e mi ha consegnato di buon grado la reliquia.» «Di buon grado? Non ti credo. Scriverà al papa, può darsi che Innocenzo mi scomunichi.» «Vostro zio, il re di Francia, non lo permetterà. Credete che Innocenzo vorrà sfidare Luigi? Non oserà contendergli il Mandylion. Non dimenticate che la Sacra Sindone è per lui, e non dimenticate neppure che al momento appartiene a voi, non è mai stata di proprietà della Chiesa. Potete placare la vostra coscienza.» De Molesmes consegnò la Sindone a Baldovino e questi, con un certo timore, la ripose in un baule preziosamente ornato che si trovava accanto al suo letto. Poi, rivolto a Vlad, gli disse di non muoversi dallo scrigno e, se fosse stato necessario, di difenderlo a costo della vita. Tutta la corte si presentò a Santa Sofia. Non c'era nobile che non sapesse
della discussione tra l'imperatore e il vescovo, e gli echi dello scontro erano giunti fino al popolo. Il venerdì i fedeli si erano recati a Santa Maria di Blacherne per pregare davanti al Mandylion e si erano trovati davanti alla teca vuota. L'indignazione si diffuse tra i bravi credenti, ma sfiniti come erano per la precaria situazione dell'impero, nessuno osò protestare contro Baldovino. Inoltre, tutti tenevano ai propri occhi e alle proprie orecchie e, per quanto piangessero la scomparsa della Sacra Sindone, pensavano che avrebbero pianto ancora di più la scomparsa di organi vitali così sensibili. A Costantinopoli le scommesse facevano parte della storia stessa della città. Per i suoi abitanti, tutto era motivo di gioco. Persino lo scontro fra l'imperatore e il vescovo. Una volta a conoscenza della discussione per il Mandylion, il giro delle scommesse aveva raggiunto cifre esorbitanti. Alcuni pronosticavano che il vescovo si sarebbe recato a celebrare la santa messa, altri che non si sarebbe presentato, e con questo affronto all'imperatore sarebbe stata dichiarata la guerra tra il papato e Baldovino. Nell'attesa, l'ambasciatore veneziano si accarezzava la barba e quello di Genova non staccava gli occhi dalla porta. A entrambi avrebbe fatto comodo, per gli interessi delle loro repubbliche, che il papa scomunicasse l'imperatore, ma Innocenzo avrebbe avuto il coraggio di umiliare il re di Francia? Baldovino entrò nella basilica circondato dal fasto che si addiceva a un imperatore. Vestito di porpora, accompagnato dalla consorte, dai nobili più fedeli e affiancato dal suo cancelliere, Pascal de Molesmes, si sedette sul trono ornato di lamine d'oro e d'argento che occupava un posto centrale nella basilica. Fece quindi scorrere lo sguardo tra i suoi sudditi senza che qualcuno potesse leggere sul suo volto segni di preoccupazione. I secondi parvero ore, ma nel giro di poco ecco apparire Sua Eminenza Illustrissima il vescovo di Costantinopoli. Con indosso i paramenti pontificali, si avviò con passo solenne verso l'altare. Un mormorio percorse la basilica mentre l'imperatore restava seduto impassibile sul trono. De Molesmes aveva dato disposizioni perché si aspettasse il vescovo qualche minuto, ma se questi non fosse comparso il rito sarebbe stato officiato da un sacerdote che lui stesso aveva generosamente remunerato. La messa si svolse senza incidenti, e il sermone del vescovo fu un appello alla concordia tra gli uomini e al perdono. L'imperatore ricevette la comunione dalle mani del prelato e altrettanto fecero l'imperatrice e i loro figli. Lo stesso cancelliere si accostò a ricevere la comunione. La corte colse il mes-
saggio: la Chiesa non avrebbe sfidato il re di Francia. Terminata la cerimonia, l'imperatore offrì un banchetto con abbondanza di cibo e vino portato dal ducato di Atene. Era un vino forte, corposo, con un robusto sapore di resina. Baldovino era di ottimo umore. Robert de Dijon si avvicinò al cancelliere. «Ebbene, signor de Molesmes, è possibile che l'imperatore abbia già preso una decisione?» «Mio caro conte, effettivamente l'imperatore vi darà una risposta a breve.» «Ditemi, cosa devo aspettarmi?» «Dobbiamo ancora discutere alcuni dettagli che preoccupano l'imperatore.» «Quali dettagli?» «Non siate impaziente. Godetevi la festa e venite da me domani verso le dieci.» «Riuscirete a far sì che l'imperatore mi riceva?» «Prima che l'imperatore vi riceva, voi e io dobbiamo parlare. Sono sicuro che troveremo un accordo soddisfacente per entrambi i nostri sovrani.» «Vi ricordo che siete francese come me e avete degli obblighi verso Luigi.» «Ah, il mio buon re Luigi! Quando mi mandò a Costantinopoli mi ordinò con fervore che servissi suo nipote come fosse lui.» Questa risposta fece capire a Robert de Dijon che de Molesmes era innanzi tutto fedele a Baldovino. «Alle dieci sarò da voi.» «Vi aspetto.» Con un cenno del capo il conte si allontanò dal cancelliere cercando con lo sguardo Maria, la cugina di Baldovino, che faceva di tutto per rendergli piacevole la permanenza a Costantinopoli. André de Saint-Rémy uscì dalla cappella seguito da un drappello di cavalieri. Entrarono nel refettorio dove come unico ristoro ebbero pane e vino. Il superiore della commenda era un uomo austero che si era mantenuto estraneo agli eccessi della decadente Costantinopoli, impedendo che agi e lussuria si insinuassero tra le crepe della fortezza. Le prime luci dell'alba non erano ancora visibili. Prima di dirigersi alle proprie occupazioni, i cavalieri facevano colazione con una pagnotta intinta nel vino. Una volta
terminato tale frugale pasto, i Templari Bartolomé dos Capelos, Guy de Beaujeau e Roger Parker si avviarono allo studio privato di Saint-Rémy. Sebbene non fosse arrivato che due minuti prima, il superiore li attendeva impaziente. «Il cancelliere non mi ha ancora mandato un messaggio per avvisarmi che sarò ricevuto dall'imperatore. Immagino che gli ultimi avvenimenti lo abbiano tenuto occupato. Il Mandylion è custodito da Baldovino in un baule vicino al suo letto e oggi stesso de Molesmes comincerà a negoziare con Robert de Dijon il prezzo della sua consegna. La corte non sa nulla della sorte toccata al re di Francia, anche se non ci vorrà molto perché da Damietta arrivi un messaggero con cattive notizie. Non dobbiamo attendere oltre la chiamata del cancelliere; andremo subito a palazzo e chiederò udienza all'imperatore per informarlo che il suo augustissimo zio è prigioniero dei saraceni. Verrete con me e non riferirete a nessuno quanto sto per comunicare all'imperatore.» I tre cavalieri assentirono e, seguendo il loro superiore con passo affrettato, giunsero alla spianata della fortezza dove i mozzi di stalla avevano preparato le loro cavalcature. Tre servitori con animali da soma e tre muli carichi di pesanti sacchi si unirono alla comitiva dei Templari. Quando giunsero al palazzo di Blacherne il sole era tramontato. I servitori furono stupiti di vedere il superiore della commenda di Costantinopoli in persona, e dedussero che stesse per succedere qualcosa di importante perché un cavaliere così autorevole si recasse a palazzo a quell'ora. Il cancelliere stava leggendo quando un servitore entrò precipitosamente nella sala per informarlo della presenza di Saint-Rémy con i suoi cavalieri e della sua richiesta di essere ricevuti immediatamente dall'imperatore. Il volto di Pascal de Molesmes tradì agitazione. André de Saint-Rémy, che lui tanto ammirava, non si sarebbe presentato a corte senza aver concordato un'udienza con l'imperatore, a meno che non stesse accadendo qualcosa di grave. Gli andò incontro con passo affrettato. «Mio buon amico, non vi aspettavo...» «È urgente che veda l'imperatore» rispose bruscamente Saint-Rémy. «Ditemi, che succede?» Il Templare soppesò la risposta. «Reco notizie di interesse per l'imperatore. Dobbiamo parlarne da soli.» De Molesmes capì che dal severo Templare non avrebbe ottenuto una parola di più. Avrebbe potuto cercare di carpirgli qualcosa dicendogli che
Baldovino non poteva riceverlo subito a meno che lui, il suo cancelliere, non valutasse l'urgenza del messaggio. Tuttavia si rese conto che questa tattica non avrebbe funzionato con Saint-Rémy e che, se avesse prolungato l'attesa, questi se ne sarebbe andato senza proferire parola. «Aspettate qui. Informerò l'imperatore dell'urgenza del vostro incontro.» I quattro Templari rimasero nella stanza, in piedi e in silenzio. Sapevano di essere spiati da occhi invisibili, capaci di leggere le loro labbra anche se avessero solamente accennato le parole. Erano ancora in attesa quando Robert de Dijon giunse al suo appuntamento con il cancelliere. «Signori cavalieri...» Si salutarono con un cenno del capo. I Templari senza quasi fargli caso, il conte sorpreso di vedere un così autorevole rappresentante del Tempio. Solo mezz'ora dopo, il cancelliere entrò di fretta nella sala adiacente alla cancelleria, dove gli altri erano in attesa. Fece una smorfia di disappunto nel vedere Robert de Dijon, nonostante l'importanza che attribuiva all'appuntamento con il rappresentante del re di Francia. «L'imperatore vi riceverà subito nella sua sala privata. E voi, conte, dovrete aspettarmi perché a mia volta devo aspettare nel caso in cui l'imperatore avesse bisogno di me.» Baldovino li attendeva in un salone attiguo a quello del trono. Nei suoi occhi si leggeva la preoccupazione per una visita così imprevista. Intuiva che i Templari gli portavano cattive notizie. «Ditemi, signori cavalieri, cosa c'è di tanto urgente da non poter aspettare di essere ricevuti in udienza come si conviene?» André de Saint-Rémy andò dritto al sodo. «Signore, dovete sapere che vostro zio, Luigi di Francia, è prigioniero ad Al-Mansura. In queste ore si stanno trattando le condizioni per la sua liberazione. La situazione è grave. Ho ritenuto opportuno mettervene a conoscenza.» Il volto dell'imperatore si fece pallido come se il sangue fosse defluito dal suo corpo. Per alcuni secondi Baldovino non riuscì a dire parola. Sentiva il cuore battergli forte e il labbro inferiore che gli tremava come gli succedeva da bambino quando si sforzava di trattenere le lacrime perché suo padre non lo punisse per avere mostrato debolezza. Il Templare si rese conto del vortice di emozioni che angosciavano l'imperatore e continuò a parlare per dargli il tempo di riprendersi. «So quanto profondo sia l'affetto che provate per vostro zio. Vi assicuro
che si stanno compiendo tutti gli sforzi necessari per ottenere la liberazione del re.» Baldovino riuscì solo a balbettare qualche parola, tale era il turbamento nella sua mente e nel suo cuore. «Quando lo avete saputo? Chi ve l'ha detto?» Saint-Rémy non rispose alle domande di Baldovino ma lo interrogò a sua volta. «Signore, conosco bene i problemi che affliggono l'impero e sono venuto a offrirvi il nostro aiuto.» «Aiuto? Ditemi...» «Vi preparavate a vendere il Mandylion a re Luigi. Il re vi ha inviato Robert de Dijon per trattare il contratto di concessione o la vendita. So che la Sacra Sindone è già in vostro possesso e che una volta chiuso l'accordo il conte la porterà in Francia per lasciarla in consegna nelle mani di donna Bianca. I banchieri genovesi vi fanno pressione e l'ambasciatore di Venezia ha scritto alla Signoria che tra breve potranno appropriarsi a buon mercato di ciò che resta dell'impero. Se non liquiderete parte dei debiti con i veneziani e i genovesi, diventerete imperatore del nulla. Il vostro impero comincia a essere una finzione.» Le parole dure di Saint-Rémy stavano facendo breccia nell'animo di Baldovino che, disperato, si torceva le mani nascoste sotto le ampie maniche della tunica color porpora. Non si era mai sentito così solo. Cercò inutilmente con lo sguardo il suo cancelliere, ma i Templari avevano avvisato che avrebbero preferito vedere l'imperatore da soli. «Cosa mi suggerite, signori cavalieri?» domandò Baldovino. «Il Tempio è disposto a comprarvi il Mandylion. Potreste disporre oggi stesso dell'oro sufficiente per far fronte ai debiti più assillanti. Genova e Venezia vi lascerebbero in pace... a meno che non torniate a indebitarvi. La nostra pretesa è il silenzio. Dovrete giurare sul vostro onore che non direte a nessuno, nemmeno al vostro buon cancelliere, di aver venduto il Mandylion al Tempio. Nessuno lo dovrà mai sapere.» «Perché esigete da me il silenzio?» «Sapete che preferiamo agire con discrezione. Se nessuno sa dove si trova il Mandylion non ci saranno litigi o scontri fra cristiani. Il silenzio fa parte del prezzo. Confidiamo in voi, nella vostra parola di cavaliere e imperatore, ma sul documento della vendita verrà riportato che sarete debitore del Tempio se rivelerete i termini dell'accordo. In tal caso, esigeremmo da voi anche il pagamento immediato dei debiti che avete con il Tem-
pio.» L'imperatore riusciva a malapena a respirare dal forte dolore che sentiva alla bocca dello stomaco. «Chi mi assicura che Luigi è prigioniero?» «Sapete bene che siamo uomini d'onore e che in noi non c'è posto per l'inganno.» «Quando potrei disporre dell'oro?» «Immediatamente.» Saint-Rémy sapeva che per Baldovino la tentazione era troppo forte. Accettando l'accordo avrebbe risolto buona parte dei problemi più pressanti; quella mattina stessa avrebbe potuto chiamare l'ambasciatore veneziano e quello genovese e saldare i conti con loro. «Nessuno a corte crederà che il denaro è piovuto dal cielo.» «Dite loro la verità: che ve l'ha dato il Tempio. Tralasciate solo il perché. Che credano che si tratti di un prestito.» «E se non accetto?» «Sarebbe vostro diritto, signore.» Rimasero in silenzio. Baldovino cercando di pensare se avesse preso la decisione giusta, Saint-Remy, tranquillo, sapendo che l'imperatore avrebbe accettato la sua proposta, così grande era la sua conoscenza dell'animo umano. L'imperatore fissò lo sguardo sul Templare e con voce appena udibile sussurrò una parola: «Accetto». Bartolomé dos Capelos consegnò al suo superiore una carta, che questi a sua volta porse all'imperatore. «È il documento dell'accordo. Leggetelo, vi sono contenuti i termini di ciò che vi ho detto. Firmatelo e i nostri servitori depositeranno dove direte l'oro che abbiamo portato con noi.» «Eravate così sicuri che avrei accettato?» gemette Baldovino. Saint-Rémy rimase in silenzio continuando a fissare l'imperatore. Questi prese una penna d'oca, appose la propria firma e la siglò con il sigillo imperiale. «Aspettate qui, vi consegnerò il Mandylion.» L'imperatore uscì da una porta nascosta dietro un arazzo. Qualche minuto più tardi rientrò e consegnò ai presenti un telo di lino accuratamente piegato. I Templari lo aprirono quel tanto necessario per assicurarsi che fosse l'autentico Mandylion. Poi tornarono a piegarlo. A un cenno di Saint-Rémy, Roger Parker, il cavaliere di origine scozze-
se, e il portoghese dos Capelos, uscirono dal salone imperiale e con passo rapido si diressero all'ingresso del palazzo dove li aspettavano i servitori. Pascal de Molesmes, che era rimasto ad attendere nell'anticamera, seguiva l'andirivieni dei Templari e dei loro servitori con pesanti sacchi. Sapeva che era inutile domandare cosa contenessero e continuava a meravigliarsi del fatto che l'imperatore non avesse richiesto la sua presenza. Pensò di entrare nel salone ma avrebbe potuto scatenare la collera di Baldovino, ragion per cui ritenne più prudente aspettare. Due ore più tardi, quando i sacchi di oro erano già al sicuro in uno scomparto segreto nascosto nella parete coperta dall'arazzo, Baldovino si accomiatò dai Templari. Avrebbe tenuto fede alla promessa di mantenere il silenzio, non solo perché aveva dato la sua parola di imperatore ma anche perché temeva André de Saint-Rémy. Il superiore della commenda templare era un uomo devoto, consacrato alla causa del Signore, ma nel suo sguardo si rifletteva la tempra di un uomo al quale non tremava la mano nel difendere ciò in cui credeva o per cui si era impegnato. Quando Pascal de Molesmes entrò nella stanza reale, trovò Baldovino pensieroso ma tranquillo, come se si fosse tolto un peso. L'imperatore gli raccontò della sventura che era toccata a suo zio il re di Francia e di come, viste le circostanze, avesse accettato un nuovo prestito dai Templari. Avrebbe fatto fronte al debito con Venezia e Genova in attesa che il buon re Luigi riconquistasse la libertà. Il cancelliere lo ascoltò preoccupato, intuendo che Baldovino gli stava nascondendo qualcosa, ma non disse nulla. «Allora, che farete con il Mandylion?» «Niente. Lo conserverò in un luogo segreto e aspetterò la liberazione di Luigi. Solo allora deciderò cosa fare, non vorrei mai che fosse stato un segnale di Nostro Signore per impedirci di commettere peccato vendendo la Sua sacra immagine. Chiamate gli ambasciatori e comunicate loro che riceveranno l'oro che dobbiamo alle loro città. E avvisate Robert de Dijon, gli farò sapere la sorte toccata al re di Francia.» André de Saint-Rémy distese con cautela la Sindone e vide apparire per esteso il corpo del Cristo crocifisso. I cavalieri caddero in ginocchio e, guidati dal loro superiore, pregarono. Non avevano mai visto la Sindone intera. Nella teca in cui era custodita in Santa Maria di Blacherne si riusciva a vedere solo il volto di Gesù, co-
me se si trattasse di un ritratto dipinto. Invece adesso era lì, davanti a loro, la figura di Cristo con i segni del supplizio che aveva patito. Persero il conto delle ore che avevano trascorso in preghiera, ma stava ormai calando la sera quando Saint-Rémy si alzò e, dopo aver accuratamente piegato il sudario, lo portò con sé nella sua stanza. Qualche minuto dopo mandò a chiamare suo fratello Robert e il giovane cavaliere François de Charney. «Preparatevi a partire appena possibile.» «Se ci autorizzate potremmo partire fra qualche ora, quando saremo avvolti dalle tenebre» suggerì Robert. «Non sarà pericoloso?» chiese il superiore. «No, è meglio che lasciamo la commenda senza essere visti e quando gli occhi delle spie sono vinti dal sonno. Non diremo a nessuno che partiamo» si intromise de Charney. «Preparerò il Mandylion perché non risenta delle difficoltà del viaggio. Venite a prenderlo prima di partire, non importa a che ora, porterete anche una mia lettera e altri documenti al Gran Maestro Renaud de Vichiers. Non vi allontanate dalla strada per Acri per alcun motivo. Vi consiglio di farvi accompagnare da qualche fratello, magari Guy de Beaujeau, Bartolomé dos Capelos...» «Fratello» lo interruppe Robert «vi prego di lasciarci partire da soli. È più sicuro. Possiamo passare inosservati e contiamo sull'aiuto dei nostri scudieri. Viaggiando così non desteremo sospetti, ma se partiamo accompagnati da un gruppo di fratelli le spie capiranno che portiamo qualcosa con noi.» «Portate il tesoro più prezioso della Cristianità...» «... di cui rispondiamo con la nostra vita» aggiunse de Charney. «Fate come avete deciso. Ora lasciatemi, devo preparare la lettera. E pregate, pregate chiedendo a Dio che vi guidi a destinazione. Lui solo può assicurare il buon esito della missione.» Era ormai notte fonda. Nella volta celeste non brillava nemmeno una stella. Robert de Saint-Rémy e François de Charney uscirono con circospezione dalle loro stanze e si avviarono verso quella di André de SaintRémy. La notte era avvolta nel silenzio e all'interno della fortezza i cavalieri dormivano. Presso le merlature alcuni cavalieri della croce rimanevano di guardia con i soldati al loro servizio. Robert de Saint-Rémy spinse leggermente la porta della cella del fratello
e suo superiore. Lo trovarono che pregava inginocchiato di fronte a una croce posta in un angolo del locale. Alla vista dei due cavalieri si alzò e senza dire una parola consegnò a Robert un sacco di media grandezza. «Dentro, in una teca di legno, vi è il Mandylion. Qui ci sono i documenti che consegnerete al Gran Maestro, e dell'oro per il viaggio. Che Dio sia con voi.» I due fratelli si unirono in un abbraccio. Non sapevano se si sarebbero rivisti. Il giovane de Charney e Robert de Saint-Rémy indossavano i loro abiti saraceni e con il favore delle tenebre si diressero alle stalle, dove i loro scudieri li stavano aspettavano cercando di calmare l'impazienza dei cavalli. Dissero la parola d'ordine ai soldati che erano di guardia al portone e abbandonarono la sicurezza della commenda per intraprendere il cammino verso San Giovanni d'Acri. 32 Mendibj passeggiava per lo stretto cortile del carcere godendosi i raggi del sole che illuminava la mattinata senza scaldarla troppo. Aveva udito abbastanza per sapere che doveva stare all'erta. Il nervosismo della psicologa e dell'assistente sociale lo inducevano a pensare che si stesse tramando qualcosa e che il trofeo in palio fosse lui. Era stato sottoposto al test medico finale: la psicologa l'aveva esaminato ancora una volta e persino il direttore aveva assistito a una di quelle lunghe sedute in cui la dottoressa cercava di farlo reagire agli sciocchi stimoli che sembravano richiami per gli uccelli. Alla fine l'équipe di trattamento del carcere aveva dato il benestare perché fosse rimesso in libertà, mancava solo la ratifica del giudice; sette giorni al massimo e sarebbe stato fuori. Sapeva che cosa doveva fare. Avrebbe girovagato per la città fino ad assicurarsi di non essere seguito, poi si sarebbe avvicinato al parco Carrara, per diversi giorni, avrebbe osservato da lontano Arslan e non avrebbe lasciato cadere il foglietto che indicava la sua presenza finché non fosse stato certo che nessuno gli stesse tendendo un agguato. Teneva alla propria vita. Quel carabiniere che era andato da lui non sembrava un fanfarone; l'aveva minacciato di fare l'impossibile per fargli passare il resto dei suoi giorni in galera, e all'improvviso tutto era in discesa verso la libertà. I carabinieri, pensò, stanno preparando qualcosa. Forse
pensano che se esco li guiderò fino ai miei contatti. Ecco cos'è, è questo che cercano, io sono solo l'esca. Devo stare attento. Il muto passeggiava su e giù senza accorgersi che due giovani lo stavano osservando di nascosto. Alti, di corporatura robusta e con l'espressione abbrutita dall'esperienza del carcere, i due fratelli Bajerai discutevano sottovoce i dettagli dell'omicidio che si preparavano a compiere. Nel frattempo, nell'ufficio del direttore della prigione, Marco Valoni parlava con lui e con il capo degli agenti di custodia. «È poco probabile che succeda qualcosa, ma non possiamo lasciare nulla in sospeso. Per questo bisogna garantire la sicurezza del muto nei giorni che gli restano da passare qui» insisteva Marco con i suoi interlocutori. «Senta, il muto non interessa a nessuno, è come se non esistesse: non parla, non ha amici, non ha rapporti con nessun interno. Nessuno gli farà del male, glielo assicuro» rispose il capo degli agenti di custodia. «Deve capire che non possiamo correre rischi. Non sappiamo chi abbiamo di fronte. Potrebbe essere un poveraccio oppure no. Abbiamo agito con discrezione, comunque non abbastanza perché a qualche orecchio non sia giunto che il muto uscirà di prigione. Qualcuno mi deve garantire la sua sicurezza qui dentro.» «Però, Marco» spiegò il direttore «in questo carcere non si sono mai verificati regolamenti di conti, né omicidi fra detenuti o cose simili. Non riesco a condividere la tua preoccupazione.» «Comunque la preoccupazione ce l'ho, per cui lei, signor Gennari, come responsabile degli agenti di custodia, immagino sappia bene chi sono i capoccia della prigione. Voglio parlare con loro.» Gennari fece un gesto di impotenza. Non c'era verso di convincere quel carabiniere a non ficcare il naso nelle segrete cose del carcere. Voleva addirittura che lui, Gennari, gli dicesse chi comandava lì dentro, come se lo potesse fare senza giocarsi la testa. Marco intuì le riserve dell'uomo e cercò di impostare la richiesta in altro modo. «Ascolti, Gennari, ci deve pur essere qualcuno che gli altri detenuti rispettano. Me lo porti qui.» Il direttore della prigione si mosse nervosamente sulla sedia mentre il capo degli agenti di custodia si chiudeva in un ostinato silenzio. Alla fine il direttore intervenne in favore di Marco. «Gennari, nessuno meglio di lei conosce questa prigione, ci deve essere qualcuno con le caratteristiche di cui parla il capitano Valoni. Ce lo porti.»
Gennari si alzò. Sapeva di non poter tirare troppo la corda senza destare sospetti nel suo superiore e in quell'impiccione di carabiniere venuto da Roma. Il suo carcere funzionava a meraviglia, vigevano leggi non scritte che tutti rispettavano e adesso Valoni voleva conoscere chi muoveva i fili. Mandò un subalterno a chiamare Fraschello. A quell'ora sicuramente stava parlando al cellulare per dare istruzioni ai suoi figli su come dirigere il giro del contrabbando di droga che l'aveva portato in prigione per colpa di una soffiata. Fraschello entrò nel piccolo ufficio del capo degli agenti di custodia con aria seccata. «Cosa vuoi? Perché mi disturbi?» «C'è un carabiniere che vuole parlare con te.» «Io non parlo con i carabinieri.» «Be', con questo ci dovrai parlare perché altrimenti metterà sottosopra la prigione.» «Non ho niente da guadagnare a parlare con quel carabiniere. Se hai un problema risolvitelo e lasciami in pace.» «No, non ti lascerò in pace!» gridò Gennari. «Verrai con me e ci parlerai. Prima finirà e prima se ne andrà e ci lascerà stare.» «Cosa vuole quel caramba? Perché vuole parlare con me? Non conosco nessuno di loro e non lo voglio conoscere. Non mi scocciare.» L'uomo fece il gesto di uscire dall'ufficio ma, prima che potesse aprire la porta, Gennari gli fu addosso prendendolo per un braccio e immobilizzandolo con una chiave. «Lasciami! Sei impazzito? Sei un uomo morto!» In quel momento la porta dell'ufficio si aprì. Marco Valoni guardò fisso i due uomini notando la rabbia che lì invadeva. «Lo lasci!» ordinò a Gennari. Questi mollò il braccio di Fraschello, che rimase immobile come per esaminare il nuovo arrivato. «Ho preferito venire io anziché farla condurrre nell'ufficio del direttore. L'hanno chiamato al telefono, per cui gli ho detto che per non disturbarlo sarei venuto qui da lei. Si direbbe che sono arrivato al momento giusto, ha trovato il nostro uomo. Si sieda» ordinò a Fraschello. L'uomo non si mosse. Gennari, nervoso, lo guardò con odio. «Si sieda!» ripeté Valoni in tono seccato. «Non so chi è lei, ma in compenso conosco i miei diritti e so che non sono obbligato a parlare con un carabiniere. Chiamerò il mio avvocato.»
«Non chiamerà nessuno. Mi ascolterà e farà quel che le dico perché altrimenti la trasferiranno in un carcere dove non ci sarà il suo caro amico Gennari a chiudere un occhio.» «Non può minacciarmi.» «Non l'ho fatto.» «Basta! Cosa vuole?» «Visto che sta iniziando a capire, sarò chiaro: voglio che non succeda nulla a un uomo che si trova in questa prigione.» «Lo dica a Gennari, è lui il capo. Io sono solo un detenuto.» «Lo dico a lei perché sarà lei ad assicurarmi che a quell'uomo non succeda nulla.» «Ah, sì? E in che modo?» «Non lo so, e nemmeno mi interessa.» «Mettiamo che accetto, cosa ci guadagno?» «Qualche comodità qua dentro.» «Ah, ah, ah... A questo ci pensa già il mio amico Gennari. Con chi crede di avere a che fare?» «Bene, esaminerò il suo caso e vedrò se è possibile applicare qualche riduzione di pena per collaborazione con la giustizia.» «Non basta che esamini il mio caso, me lo deve garantire.» «No. Non le garantisco nulla. Parlerò con il direttore del carcere e gli raccomanderò che l'équipe di trattamento valuti la sua condotta, il suo stato psicologico, le sue possibilità di reinserimento nella società. Ma non farò altro.» «Non basta.» «Se non basta cominciamo a dire che non godrà più di qualcuno dei privilegi a cui l'ha abituata Gennari. Perlustreranno la sua cella da cima a fondo e applicheranno rigorosamente il regolamento. E Gennari sarà trasferito in un altro carcere.» «Mi dica chi è l'uomo.» «Farà quanto le ho chiesto?» «Mi dica chi è.» «Un muto, un giovane che...» La risata di Fraschello interruppe Marco. «Vuole che protegga quel povero disgraziato? Nessuno se lo fila, non dà fastidio a nessuno. Sa perché? Be', perché non è nessuno, è un poveraccio.» «Voglio che non gli succeda niente nei prossimi sette giorni.»
«Chi potrebbe fargli qualcosa?» «Non lo so. Ma lei lo impedirà.» «Perché le interessa il muto?» «Non sono affari suoi. Faccia quel che le ho chiesto e continuerà a godersi questa vacanza a spese dello Stato.» «D'accordo. Farò da balia al muto.» Marco uscì dall'ufficio con una sensazione di sollievo. Il detenuto era un uomo intelligente. Avrebbe fatto ciò che lui gli aveva chiesto. Adesso veniva la seconda parte: impossessarsi delle scarpe da ginnastica del muto, le uniche che aveva, e inserire il trasmettitore. Il direttore gli aveva promesso che quella sera avrebbe mandato un secondino a prendergli le scarpe, non sapeva ancora con che scusa, ma gli assicurò che lo avrebbe fatto. John aveva mandato a Torino Larry Smith, un esperto in trasmissioni capace, gli aveva detto, di inserire un microfono in un'unghia. Bene, si sarebbe visto se era così bravo come prometteva. 33 Il duca di Valant aveva chiesto udienza al cancelliere. Arrivò all'ora prevista in compagnia di un giovane commerciante, riccamente abbigliato. «Ditemi, dunque» si interessò il cancelliere «cos'è questa faccenda così urgente che volete discutere con l'imperatore?» «Vi chiedo di ascoltare questo signore che mi onora della sua amicizia. È un rispettato commerciante di Edessa.» Pascal de Molesmes, con aria annoiata, ma anche per cortesia verso il duca, ascoltò il giovane commerciante. Questi gli espose senza giri di parole il motivo del suo viaggio. «So delle difficoltà economiche dell'impero e vengo a fare un'offerta all'imperatore.» «Voi volete fare un'offerta all'imperatore?» esclamò il cancelliere tra l'irritato e il divertito. «E che offerta sarebbe?» «Rappresento un gruppo di nobili commercianti di Edessa. Come voi sapete, molto tempo fa un imperatore di Bisanzio con la forza delle armi strappò alla mia città la sua reliquia più preziosa: il Mandylion. Siamo uomini di pace, viviamo onestamente, ma ci piacerebbe restituire alla nostra comunità ciò che le apparteneva e le è stato sottratto. Non vengo a implorare che ce lo restituiate ora che appartiene all'imperatore, dal momento
che tutti sanno che ha obbligato il vescovo a consegnarglielo e il re di Francia giura che il nipote non l'ha venduto a lui. Se il Mandylion è nelle mani di Baldovino desideriamo comprarlo. Il prezzo non ha importanza, lo pagheremo.» «Di quale comunità parlate? Edessa è in mani musulmane, no?» «Siamo cristiani, e non siamo mai stati disturbati dagli attuali signori di Edessa. Paghiamo ingenti tributi e sviluppiamo in pace le nostre attività. Non possiamo lamentarci di nulla. Ma il Mandylion appartiene a noi e deve tornare nella nostra città.» Pascal de Molesmes ascoltò con interesse il giovane impertinente che senza smancerie osava proporre l'acquisto del Mandylion. «E quanto siete disposti a pagare?» «Dieci sacchi di oro ciascuno del peso di un uomo.» Il cancelliere non mosse un muscolo, sebbene l'ammontare lo avesse impressionato. L'impero era di nuovo indebitato, e Baldovino si dannava in cerca di prestiti, per quanto suo zio, il buon re Luigi, non lo abbandonasse. «Trasmetterò la vostra offerta all'imperatore e vi farò chiamare quando avrò una risposta.» Baldovino ascoltò dispiaciuto il suo cancelliere. Aveva giurato di non rivelare mai la vendita del Mandylion ai Templari. Sapeva che ne avrebbe risposto con la vita. «Direte a quel mercante che rifiuto la sua offerta.» «Ma, mio signore, prendetela in considerazione!» «No, non posso. E non mi chiedere un'altra volta di vendere il Mandylion. Mai più!» Pascal de Molesmes uscì a testa bassa dalla sala del trono. Trovava sospetto il disagio di Baldovino quando gli parlava del Mandylion. Era già da due lunghi mesi che la Sacra Sindone si trovava nelle mani dell'imperatore, sebbene non l'avesse mostrata a nessuno, nemmeno a lui, il suo cancelliere. Correva voce che quell'oro generosamente consegnato da André de Saint-Rémy, il superiore dei Templari di Costantinopoli, fosse il pagamento per il possesso del Mandylion. Baldovino aveva però sempre negato queste dicerie, e giurava che il sacro sudario era al sicuro. Quando il re Luigi fu liberato, e fece rientro in Francia, mandò di nuovo Robert de Dijon con un'offerta per il Mandylion ancora più generosa, ma con grande sorpresa della corte di Costantinopoli l'imperatore si mostrò inflessibile e assicurò davanti a tutti che non avrebbe venduto la reliquia a suo zio. Anche questa volta rifiutava un'offerta consistente, per cui Pascal
de Molesmes lasciò che nella sua mente si facessero strada i sospetti che nutriva: Baldovino non possedeva il Mandylion, l'aveva venduto ai Templari. Quel pomeriggio fece chiamare il duca di Valant e il suo giovane protetto per comunicare loro la risposta negativa dell'imperatore. De Molesmes rimase di stucco quando il mercante di Edessa gli disse che era disposto a raddoppiare l'offerta. Il cancelliere, però, non gli volle infondere false speranze. «Allora è vero quello che si dice a corte?» chiese il duca di Valant. «E che cosa si dice a corte, mio buon amico?» «Che l'imperatore non possiede più il Mandylion, che l'ha dato in pegno ai Templari come acconto per l'oro che gli hanno dato per pagare i debiti con Venezia e Genova. Solo questo può spiegare il rifiuto di un'offerta così generosa da parte dei mercanti di Edessa.» «Non mi curo delle voci o delle insidie della corte, e consiglio anche a voi di non credere a tutte le dicerie. Vi ho riportato la risposta dell'imperatore e non c'è altro di cui discutere.» Pascal de Molesmes si congedò dai suoi ospiti nutrendo i loro stessi sospetti: il Mandylion era in mano ai Templari. La fortezza del Tempio sorgeva su una rocca accanto al mare, e il colore dorato della pietra si confondeva con la sabbia del vicino deserto. L'edificio si ergeva dominando un vasto terreno: uno degli ultimi bastioni cristiani in Terra Santa. Robert de Saint-Rémy si strofinò gli occhi come se la visione della fortezza fosse un miraggio. Calcolò che nel giro di pochi minuti si sarebbero visti circondati dai cavalieri che li stavano osservando da un paio d'ore. Sia lui sia François de Charney sembravano veri saraceni. Persino i loro cavalli, purosangue arabi, li aiutavano a nascondere la loro identità. Alì, il suo scudiero, si era rivelato ancora una volta una guida esperta e un fedele amico. Gli doveva la vita, l'aveva salvato quando erano stati attaccati da una banda di aiubi. Aveva combattuto coraggiosamente al suo fianco e aveva impedito che una lancia destinata al suo cuore raggiungesse il bersaglio parandosi in mezzo e ricevendo nelle proprie carni la punta assassina. All'attacco non era sopravvissuto nemmeno uno degli aiubi, ma Alì restò agonizzante per diversi giorni mentre lui, Robert de Saint-Rémy, gli rimase accanto senza mai allontanarsi. Alì tornò in vita grazie ai decotti di Said, lo scudiero di de Charney, un
inserviente che aveva imparato le cure dai medici del Tempio e da altri dottori musulmani con cui aveva avuto a che fare nelle sue scorrerie. Fu Said a estrarre la punta di lancia dal costato di Alì, a pulire accuratamente la ferita, coprendola con un impiastro fatto con alcune erbe che portava sempre con sé, e a fargli bere un intruglio maleodorante che lo fece cadere in un sonno ristoratore. Ogni qualvolta il cavaliere de Charney chiedeva a Said se Alì ce l'avrebbe fatta, lo scudiero, per la disperazione dei due Templari, rispondeva invariabilmente: "Solo Allah può saperlo". Nel giro di sette giorni, Alì tornò alla vita svegliandosi dal sonno nel quale era sprofondato e che tanto assomigliava alla morte. Il dolore gli lacerava un polmone e respirare era un vero sacrificio, ma finalmente Said disse che ce l'avrebbe fatta e tutti ripresero coraggio. Ci vollero altri sette giorni prima che Alì potesse alzarsi, e ancora sette per poter cavalcare il suo docile destriero al quale l'avevano assicurato con dei sottopancia perché, nel caso avesse perso conoscenza, non cadesse. Alì si rimise, e ora era là, con loro, pronto a entrare nella fortezza quando fu avvolto da un polverone sollevato dagli zoccoli di una dozzina di cavalli. I cavalieri templari si presentarono e il comandante del drappello intimò loro l'alt. Non appena si qualificarono furono scortati fino alla fortezza e portati subito al cospetto del Gran Maestro. Renaud de Vichiers, il Gran Maestro del Tempio, li accolse con affetto. Nonostante la stanchezza, rimasero un'ora a raccontargli alcuni particolari del viaggio e gli consegnarono la missiva e i documenti ricevuti da André de Saint-Rémy, e il sacco che custodiva il Mandylion. Il Gran Maestro li mandò a riposare e ordinò che Alì venisse esentato da qualunque incombenza fino a quando non si fosse rimesso completamente. Poi, ormai solo, con mano tremante, Renaud de Vichiers estrasse dal sacco la teca che custodiva il Mandylion. Si sentiva stordito per l'emozione, perché era sul punto di vedere l'effigie di Cristo Nostro Signore. Spiegò il lino e, in ginocchio, pregò ringraziando Dio per avergli permesso di contemplare il suo vero viso. Stava calando la sera del secondo giorno dall'arrivo di Robert de SaintRémy e François de Charney quando il Gran Maestro radunò nella sala capitolare i cavalieri dell'Ordine. Lì, su un lungo tavolo, era esposto il Mandylion. Passarono l'uno dopo l'altro davanti al sudario di Cristo e alcuni di quei fieri cavalieri riuscirono a stento a trattenere le lacrime.
Dopo le preghiere, Renaud de Vichiers spiegò loro che il sacro sudario di Cristo sarebbe rimasto in una teca, lontano da occhi indiscreti. Era il gioiello più prezioso del Tempio e l'avrebbero difeso con la vita. Quindi li costrinse a fare un giuramento: non avrebbero rivelato a nessuno dove si trovava il Mandylion. Il suo possesso diventava uno dei grandi segreti dell'Ordine dei cavalieri templari. 34 Marco li aveva invitati a mangiare fuori. Minerva, Pietro e Antonino erano arrivati con il primo aereo del mattino. Pietro si mostrò freddo, distante, quasi antipatico con Sofia, al punto da farla sentire a disagio. Tuttavia lei sapeva di non avere scelta: finché fosse rimasta nel Comando per la tutela del patrimonio artistico avrebbe dovuto lavorare con Pietro, il che rafforzava la sua decisione di andarsene non appena avessero chiuso il caso della Sindone. Stavano finendo di pranzare quando suonò il cellulare di Sofia. «Sì?...» Nel riconoscere la voce all'altro capo del telefono, diventò rossa; anche il fatto che si alzasse da tavola e uscisse dalla sala attirò senza volere l'attenzione dei colleghi. Quando rientrò nessuno le fece domande, ma la tensione di Pietro era evidente. «Marco, era D'Alaqua, mi ha invitato a pranzo domani con il dottor Bolard e gli altri della commissione scientifica della Sindone. È una specie di pranzo di addio.» «Avrai accettato, no?» chiese Marco. «No» rispose Sofia alquanto turbata. «Be', hai fatto male, ti avevo chiesto di non mollarli.» «Se non ricordo male domani facciamo una prova generale del piano che hai messo a punto, e si dà il caso che io coordini tutta la parte operativa.» «Hai ragione, però era una buona occasione per rivedere il comitato, soprattutto Bolard.» «Comunque, sarò a pranzo con D'Alaqua dopodomani.» Tutti la guardarono stupiti. Marco stesso non poté trattenere un sorriso. «Ah! E questa da dove arriva?» «Mi ha semplicemente riproposto l'invito per il giorno successivo, solo che non ci saranno i membri della commissione scientifica.» Minerva osservò Pietro premere le nocche sulla tavola. Anche Antonino
era in imbarazzo per la conversazione tra Sofia e Marco, oltre che per la tensione manifestata da Pietro. Così, senza altre esitazioni, sollecitarono Marco a chiedere il conto e deviarono la conversazione verso i dettagli del piano operativo del giorno seguente. In jeans e giubbotto, senza trucco e con i capelli raccolti in una coda di cavallo, Sofia iniziò a pentirsi di essersi vestita così per il pranzo con D'Alaqua. Nell'insieme non era male, perché comunque era bella, e jeans e giubbotto li aveva comprati da Versace, ma voleva dimostrare a D'Alaqua che l'appuntamento faceva solo parte del lavoro, nient'altro. La macchina uscì da Torino e dopo pochi chilometri deviò in una stradina che portava a un imponente palazzo rinascimentale nascosto da un bosco. Il cancello si aprì senza che l'autista di D'Alaqua azionasse un telecomando e senza che qualcuno si avvicinasse per controllare. Sofia immaginò che a ogni angolo ci fosse nascosta una telecamera di sicurezza. Ad attenderla sulla porta c'era Umberto D'Alaqua con un elegante completo grigio scuro. Entrando nel palazzo, Sofia non poté nascondere un'espressione di meraviglia. Era un museo, trasformato in abitazione. «Le ho chiesto di venire da me perché sapevo che le avrebbe fatto piacere vedere alcuni dei quadri che possiedo.» Per oltre un'ora passeggiarono per diverse stanze adorne di magnifiche opere d'arte disposte in maniera molto appropriata. Chiacchierarono animatamente di arte, di politica e letteratura. Il tempo passò così velocemente che Sofia si stupì quando D'Alaqua si scusò dicendo che doveva andare all'aeroporto perché alle sette aveva il volo per Parigi. «Mi scusi, l'ho trattenuta.» «Assolutamente no. Sono le sei, e se non fosse per il mio impegno a Parigi la inviterei molto volentieri a fermarsi a cena. Rientro fra dieci giorni. Se sarà ancora a Torino spero di rivederla.» «Non lo so. Può darsi che per allora avremo concluso o saremo vicini a farlo.» «Concluso che cosa?» «L'indagine sull'incendio del duomo.» «Ah! E come procede?» «Bene. Siamo alla fase finale.»
«Non può essere più esplicita?» «Be'...» «Non si preoccupi, capisco. Una volta terminata l'indagine e chiarito tutto, avrà modo di raccontarmi.» Sofia si sentì sollevata per la reazione di D'Alaqua. Marco le aveva proibito di raccontargli qualunque cosa, e sebbene lei non condividesse i suoi sospetti su D'Alaqua, sarebbe stata incapace di disobbedirgli. Due macchine li stavano aspettando all'ingresso. Una avrebbe portato Sofia all'Hotel Alexandra e l'altra D'Alaqua all'aeroporto, dove lo attendeva il suo aereo privato. Si salutarono con una stretta di mano. «Perché lo vogliono ammazzare?» «Non lo so. Lo stanno programmando da giorni. Cercano di corrompere un secondino perché lasci aperta la porta della cella del muto. Il piano prevede di entrare domani notte e tagliargli il collo, poi rientrare in cella. Non se ne accorgerà nessuno, i muti non gridano.» «Il secondino accetterà?» «Può darsi. Dicono di avere molti soldi, credo che gli offriranno cinquantamila euro.» «Chi altro lo sa?» «Altri due compagni. Si fidano di noi, siamo turchi come loro.» «Va'.» «Mi pagherai l'informazione?» «Te la pagherò.» Fraschello rimase pensieroso. Perché i fratelli Bajerai volevano far fuori il muto? Sicuramente un omicidio su commissione, ma da parte di chi? Chiamò i suoi luogotenenti, due uomini che scontavano l'ergastolo per omicidio. Parlò con loro per mezz'ora. Poi chiese a un secondino di chiamare Gennari. Il capo degli agenti di custodia entrò nella cella di Fraschello a mezzanotte passata. L'uomo stava guardando un programma in televisione e, vedendolo entrare, rimase immobile. «Non fare rumore e siediti. Di' al tuo amico caramba che aveva ragione. Vogliono ammazzare il muto.» «Chi?» «I Bajerai.» «E perché?» chiese sorpreso Gennari. «E che ne so! Per quanto me ne frega. Io faccio la mia parte, il caramba
faccia la sua.» «Potrai impedirlo?» «Vattene.» Gennari uscì dalla cella e con passo rapido andò in ufficio per chiamare Marco Valoni sul cellulare. Marco stava leggendo. Era stanco. Avevano provato di nuovo il piano che avrebbero fatto scattare non appena il muto fosse uscito dal carcere. Poi era tornato nei sotterranei di Torino e per due ore era andato su e giù, dando colpi alle pareti nella speranza di udire il suono caratteristico della parete vuota. Il comandante Colombari, facendo sfoggio di pazienza, accompagnò Marco nel nuovo giro cercando di convincerlo che lì sotto c'era solo quello che vedeva. «Valoni, sono Gennari.» Marco guardò l'orologio, era mezzanotte passata. «Aveva ragione, lo vogliono ammazzare.» «Mi dica tutto.» «Fraschello ha scoperto che due turchi, i fratelli Bajerai, vogliono sistemare il muto. A quanto pare si vantano di aver preso dei soldi per farlo. Agiranno domani. Dovreste portarlo via prima possibile.» «No, non possiamo farlo. Sospetterebbe che stia succedendo qualcosa e manderebbe a monte tutta l'operazione. Fraschello farà la sua parte?» «La sta già facendo, mi ha ricordato che è lei a dover fare la sua.» «La farò. Lei è nel carcere?» «Sì.» «Bene, sveglio il direttore. Sarò lì tra un'ora, voglio tutte le informazioni che avete su quei due fratelli.» «Sono turchi, bravi ragazzi, hanno ammazzato uno durante una lite ma non sono degli assassini, cioè, non professionisti.» «Me lo racconterà tra un'ora.» Marco svegliò il direttore del carcere e gli chiese di incontrarsi nel suo ufficio, in carcere. Poi chiamò Minerva. «Dormivi?» «Stavo leggendo. Che c'è?» «Vestiti, fra cinque minuti ti aspetto nella hall. Voglio che tu vada alla caserma, ti sieda al computer e cerchi informazioni su certi tizi. Io andrò al carcere e ti chiamerò da lì con tutte le informazioni di cui dispongono.» «Ma dimmi cosa succede.» «Succede che l'intuito mi funziona ancora e ci sono due che vogliono
ammazzare il muto.» «Mio Dio!» «Tra cinque minuti, giù. Non perdere tempo.» Quando Marco arrivò al carcere, il direttore lo stava già aspettando nel suo ufficio. Il brav'uomo sbadigliava senza riuscire a nascondere la stanchezza. «Voglio il fascicolo dei Bajerai.» «I fratelli Bajerai? Ma cos'hanno fatto? Lei si fida di quello che le dice quel Fraschello? Senta, Gennari, quando questa storia finirà dovrà spiegarmi i suoi rapporti con Fraschello.» Il direttore cercò il fascicolo e lo consegnò a Marco che non perse tempo e si sedette sul divano immergendosi nella lettura. Quando ebbe finito, telefonò a Minerva. «Mi stavo addormentando.» «Be', invece svegliati e comincia a cercare tutto quello che ha a che fare con questa famiglia di turchi che, anche se sono nati qui, sono figli di immigrati. Voglio sapere assolutamente tutto di loro e dei loro parenti. Chiedi all'Interpol, parla con la polizia turca, insomma, fra tre ore voglio una relazione completa.» «Tre ore? Non sognartelo neanche, dammi fino a domani.» «Alle sette.» «D'accordo, cinque ore, è pur sempre qualcosa.» La sala per la colazione dell'albergo apriva alle sette in punto. Minerva, con gli occhi rossi per la mancanza di sonno e le tante ore davanti al computer, entrò sicura di trovarci già Marco. Il suo capo stava leggendo il giornale e bevendo un caffè. Come lei, non aveva una bella cera, gli si vedevano i segni della nottata in bianco. Minerva mise due raccoglitori sul tavolo e si lasciò cadere sulla sedia. «Uff! Sono sfinita!» «Lo immagino. Hai trovato qualcosa di interessante?» «Dipende da cosa intendi per interessante.» «Prova a raccontare.» «I fratelli Bajerai sono figli di immigrati turchi. I loro genitori andarono prima in Germania e da lì a Torino. A Francoforte avevano trovato lavoro ma la madre non si adattava ai modi di fare tedeschi per cui, dato che qui avevano dei parenti, decisero di tentare la fortuna. I loro figli sono italiani, torinesi. Il padre ha lavorato alla FIAT e la madre come domestica. Loro
sono andati a scuola e non erano né migliori né peggiori degli altri. Il maggiore era il più litigioso e il più sveglio. Il suo curriculum scolastico è buono. Finite le medie, è entrato a lavorare alla FIAT, come il padre, mentre il fratello minore è stato assunto come autista di un funzionario della Regione Piemonte, un certo Regio, che lo ha preso perché la madre del ragazzo aveva lavorato in casa sua come domestica. Il maggiore non ha resistito molto alla FIAT, il mestiere di operaio non faceva per lui, così ha affittato uno spazio al mercato e si è messo a vendere frutta e verdura. Le cose funzionavano, i due fratelli non hanno mai avuto noie con la polizia o con il fisco. Niente. Il padre e la madre non lavorano più, vivono con la pensione statale e i risparmi di una vita. Non possiedono altri beni a parte la casa acquistata quindici anni fa con molti sacrifici. Un paio di anni fa, un sabato sera, i Bajerai erano in una discoteca con le loro fidanzate. Dei tizi ubriachi hanno fatto degli apprezzamenti sulle ragazze, pare che uno abbia toccato il culo a quella del maggiore. Il rapporto della polizia dice che i fratelli si sono presi a coltellate con gli ubriachi. Uno l'hanno ammazzato e l'altro ha perso l'uso di un braccio per le ferite. Sono stati condannati a vent'anni, come dire a vita. Le loro fidanzate non li hanno aspettati, si sono sposate.» «Cosa sai della loro famiglia in Turchia?» «Gente modesta. Provengono da Urfa, vicino al confine con l'Iraq. Attraverso l'Interpol, la polizia turca ci ha mandato un'e-mail con quello che sanno della famiglia Bajerai: ben poco e per niente interessante. Il padre ha un fratello più giovane a Urfa, anche se sta per andare in pensione; lavora nei giacimenti di petrolio. Ah! Hanno anche una sorella, sposata con un insegnante da cui ha avuto otto figli. Sono persone perbene, non hanno mai dato problemi, i turchi si sono meravigliati che chiedessimo notizie su di loro. Magari abbiamo giocato un brutto scherzo a quella povera famiglia, sai come funziona da quelle parti.» «Altro?» «Sì, qui a Torino vive un cugino della madre, un certo Amin, a quanto sembra un cittadino esemplare. Fa il contabile, lavora da molti anni per un'agenzia pubblicitaria. È sposato con un'italiana, commessa in un negozio di abbigliamento. Hanno due figlie, la maggiore frequenta l'università, la piccola sta finendo le medie, e la domenica vanno a messa.» «A messa?» «Sì, a messa. Non dovrebbe sorprenderti il fatto che la gente vada a messa, siamo in Italia.»
«Sì, ma quel cugino non è musulmano?» «Be', non lo so, penso di sì, ma si è sposato con un'italiana, in chiesa, per cui si sarà convertito, anche se sulla scheda non risulta nulla a proposito della conversione.» «Indaga. Cerca di sapere anche se i Bajerai andavano alla moschea. Qualcuno deve sapere se erano dei bravi musulmani. Sei riuscita ad arrivare ai loro conti correnti?» «Sì, e non hanno niente di straordinario. Il cugino ha un buono stipendio, come la moglie. Consente loro di vivere discretamente, anche se stanno pagando il mutuo dell'appartamento. Non hanno avuto alcun introito speciale. Sono una famiglia molto unita e fanno regolarmente visita ai fratelli detenuti. Portano cibo, dolci, sigarette, libri, vestiti, insomma cercano di alleviare la loro vita in prigione.» «Sì, lo so. Ho qui una copia del registro delle visite. Quell'Amin questo mese gli ha fatto visita due volte, mentre di solito lo fa una sola.» «Va bene, ma non lo si può sospettare solo perché è andato a trovarli un giorno in più.» «Dobbiamo analizzare tutto, anche le cose insignificanti.» «D'accordo, d'accordo. Però, Marco, non dobbiamo perdere la prospettiva.» «Sai cosa mi incuriosisce? Quella storia che Amin va a messa e che si è sposato in chiesa. I musulmani non abiurano così facilmente.» «Ti metterai a fare delle indagini su tutti gli italiani che non mettono piede in chiesa? Senti, una mia amica si è convertita all'ebraismo perché un'estate è stata in un kibbuz e si è innamorata di un israeliano. La madre del ragazzo era un'ebrea ortodossa che non avrebbe mai acconsentito al matrimonio della propria creatura con una cristiana, per cui la mia amica si è convertita e ogni sabato va alla sinagoga. Non crede in niente ma ci va.» «D'accordo, questa è la storia della tua amica, ma qui abbiamo due turchi che vogliono ammazzare un muto.» «Sì, ma sono loro a volerlo ammazzare, non il cugino, e non lo farai diventare un sospettato perché va a messa.» Pietro entrò nella sala e li vide subito. Un minuto dopo, Antonino e Giuseppe si unirono a loro per la prima colazione. Sofia arrivò per ultima. Minerva li aggiornò su quanto avevano fatto nelle ultime ore e su invito di Marco ciascuno di loro lesse una copia del dossier preparato dalla collega. «E allora?» chiese Marco quando tutti ebbero terminato la lettura.
«Non sono degli assassini, quindi se il compito è stato affidato a loro è perché hanno qualche legame con il muto, oppure qualcuno che conosce il muto ha molta fiducia in loro» argomentò Pietro. «Nel carcere ci sono uomini che lo avrebbero accoltellato senza scrupoli, ma chi ha commissionato l'omicidio non sa come arrivare a questi uomini, e non appartiene al mondo della malavita, oppure, come dice Pietro, il mandante, per ragioni che non conosciamo, si fida di quei due fratelli che, a giudicare dal dossier, non sono niente di speciale. Non sono mai stati legati ai bassifondi, non hanno rubato la moto del vicino e sì, va bene, hanno ammazzato una persona, ma durante una lite fra ubriachi.» «D'accordo, Giuseppe, però dimmi qualcosa in più che non sappiamo» insistette Marco. «Be', io credo che Giuseppe e Pietro stiano dicendo parecchio» intervenne Antonino. «Da qualche parte c'è un anello che dobbiamo trovare, qualcuno vuole il muto morto perché sa che potrebbe condurci fino a lui. Ciò significa che c'è una fuga di notizie, che qualcuno è a conoscenza dell'operazione Cavallo di Troia, altrimenti il muto l'avrebbero fatto fuori da tempo, invece lo vogliono ammazzare proprio adesso.» Rimasero in silenzio per qualche secondo. Il ragionamento di Antonino sembrava aver colpito nel segno. «Ma chi è a conoscenza dell'operazione?» chiese Sofia. «Troppa gente» rispose Marco. «E Antonino ha ragione, lo vogliono ammazzare adesso per evitare che ci porti a loro. Quindi, conoscono in anticipo le nostre mosse. Minerva e Antonino, cercate altre informazioni sulla famiglia Bajerai, loro sono un anello. Devono avere rapporti con qualcuno che vuole morto il nostro uomo. Rianalizzate tutto, cercate e investigate anche il dettaglio più insignificante. Io torno al carcere.» «Perché non parliamo con i genitori e il cugino dei Bajerai?» chiese Pietro. «Perché se lo facciamo li mettiamo in allarme. No, non possiamo rendere la nostra presenza ancora più visibile. Non possiamo neppure far uscire il muto di prigione perché sarebbe lui a insospettirsi e non ci porterebbe alla sua organizzazione. Dobbiamo fare in modo che resti vivo, lontano dai Bajerai» rispose Marco. «E chi se ne occupa?» chiese Sofia. «Un capo del giro della droga, un certo Fraschello. Mi sono impegnato con lui perché l'équipe di trattamento riveda il suo fascicolo. Forza, al lavoro.»
Nella hall incontrarono Ana Jiménez. Trascinava la valigia verso l'ingresso. «Dovete avere tra le mani qualcosa di grosso, ci siete tutti...» scherzò la giornalista. «Parti?» indagò Sofia. «Sì, vado a Londra e poi in Francia.» «Per lavoro?» insistette Sofia. «Per lavoro. Magari ti chiamo, dottoressa, chissà che non abbia bisogno di un tuo consiglio.» Il portiere l'avvisò che il taxi la stava aspettando, per cui li salutò con un sorriso. «Quella ragazza mi innervosisce» confessò Marco. «Sì, non ti è mai piaciuta» affermò Sofia. «No, no, ti sbagli, mi piace, ma non mi va che ficchi il naso nel nostro lavoro. Cosa andrà a fare a Londra? E ha detto che poi andrà in Francia. Non so se sa qualcosa che a noi sfugge o se sta cercando di dimostrare una delle sue folli teorie.» «È molto intelligente» rispose Sofia. «E magari le sue teorie non sono così folli. Anche Schliemann lo consideravano suonato e poi scoprì Troia.» «A quella ragazza mancavi solo tu come avvocato difensore. Insomma, mi ha dato fastidio sentire che va a Londra, perché non so cosa diavolo può andarci a fare ma è chiaro che c'è un legame con la Sacra Sindone. Chiamerò Santiago.» Il secondino aveva accettato il denaro. Una quantità considerevole solo per lasciare aperta la porta di due celle, quella del muto e quella dei Bajerai. Non c'era niente di male, o perlomeno lui non avrebbe fatto nulla, se non dimenticarsi di chiudere con il chiavistello. Nel carcere regnava il silenzio. I detenuti erano stati rinchiusi nelle celle da due ore. I corridoi erano scarsamente illuminati e le guardie di turno sonnecchiavano. I Bajerai spinsero la porta della loro cella accertandosi che fosse aperta. Il secondino era stato di parola. Camminando rasente il muro e piegati sulle gambe si diressero dall'altra parte del corridoio dove si trovava la cella del muto. Se tutto andava bene, in meno di dieci minuti sarebbero rientrati nella loro e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Erano arrivati a metà del corridoio quando il più giovane, che stava die-
tro, sentì una mano che gli stringeva il collo. Non riuscì a emettere alcun grido, sentì un gran colpo alla testa e perse i sensi. Il maggiore dei Bajerai si girò troppo tardi, un pugno gli arrivò dritto sul naso facendolo sanguinare; non poté nemmeno gridare, una mano d'acciaio gli stringeva il collo e non lo lasciava respirare, si sentì sul punto di morire. I due fratelli si risvegliarono nella loro cella, sdraiati per terra, mentre un secondino sbigottito dava l'allarme. Mentre li portavano in infermeria, si rallegrarono di essere vivi, ma qualcuno li aveva traditi. Li stavano aspettando. Il medico ordinò che restassero nell'infermeria in osservazione. Avevano ricevuto dei brutti colpi alla testa e i volti erano un ammasso di sangue, con gli occhi quasi chiusi per il gonfiore. Si lamentavano per il dolore e, su indicazione del medico, l'infermiera somministrò loro un calmante che li fece ripiombare nel sonno. Quando Marco arrivò nell'ufficio del direttore, questi gli raccontò preoccupato gli eventi della nottata. Doveva informare le autorità giudiziarie e i carabinieri. Marco lo tranquillizzò e chiese di vedere Fraschello. «Ho fatto la mia parte» esordì questi appena entrato nell'ufficio del direttore. «Sì, e io farò la mia. Cos'è successo?» «Non faccia domande, è andato tutto come voleva. Il muto è vivo e i turchi pure, cosa vuole di più? Nessuno si è fatto male. Be', è stato necessario fermare quei due fratelli, ma non gli è successo nulla di grave.» «Voglio che continui a sorvegliare. Possono riprovarci.» «Chi, quei due? Non credo.» «Loro o altri, non lo so. Ci stia attento.» «Quando parlerà con l'équipe di trattamento?» «Appena questa storia sarà finita.» «E quando succederà?» «Spero fra tre o quattro giorni, non di più.» «D'accordo. Non faccia scherzi, caramba, altrimenti la pagherà.» «Non sia sciocco, non mi minacci.» «Non faccia scherzi.» Fraschello uscì dall'ufficio sbattendo la porta sotto lo sguardo sbigottito del direttore. «Comunque, Marco, crede che l'équipe di trattamento prenderà in considerazione la sua buona parola per Fraschello?»
«Ha collaborato, e di questo dovranno tenerne conto, non chiederò altro. Senta un po', quando potremo avere le scarpe da ginnastica del muto? Il mio uomo non può restare a Torino in eterno, dobbiamo sistemare quel microfono.» «Non mi è venuta in mente nessuna scusa, io...» «Be', ordini che gliele tolgano per lavarle, gli dica che siccome sta per tornare in libertà di solito si cerca di fare in modo che i detenuti escano il più puliti possibile. Se non capisce fa niente. Se capisce, la scusa è la più plausibile che mi venga in mente. Non ce ne sono altre. Per cui stasera, quando lo richiudete in cella, mi portate qui le scarpe da ginnastica; le lavate, visto che dovete restituirgliele pulite, e poi ce ne occuperemo noi.» 35 Addaio stava lavorando nel suo studio quando lo squillo del cellulare lo fece sobbalzare. Rispose immediatamente. Mentre ascoltava il suo interlocutore, cambiò espressione. Riattaccò rosso dalla rabbia. «Guner! Guner!» gridò per il corridoio, cosa per lui insolita. Il servitore comparve velocemente. «Che succede, pastore?» «Cerca subito Bakkalbasi. Non importa dove si trovi, lo devo vedere. Tra mezz'ora voglio tutti i pastori qui. Pensaci tu.» «Lo farò, ma dimmi, cosa è successo?» «Un disastro. Ora vattene e fa' ciò che ti ho chiesto.» Rimasto solo, Addaio si premette le tempie con entrambe le mani. Gli faceva male la testa. Da giorni aveva dolori quasi insopportabili. Dormiva male e non aveva voglia di mangiare. Sentiva di non provare più attaccamento alla vita. Era stanco della trappola mortale che significava essere Addaio. Le notizie non avrebbero potuto essere peggiori. I fratelli Bajerai erano stati scoperti. Qualcuno in carcere era a conoscenza dei loro piani e li aveva fatti saltare. Magari i Bajerai erano dei chiacchieroni o semplicemente qualcuno proteggeva il muto. Potevano essere Loro, ancora Loro, o quel carabiniere che stava ficcando il naso dappertutto. A quanto si diceva, negli ultimi giorni non usciva dall'ufficio del direttore. Stava organizzando qualcosa, ma che cosa? Gli avevano detto che Marco Valoni si era incontrato un paio di volte con un capo della droga, un certo Fraschello. Sì, sì, i conti tornavano, sicuramente quel Valoni aveva incaricato il mafioso di
badare a Mendibj; il ragazzo era la sua unica pista per arrivare fino a loro, dovevano proteggerlo. Era così, sì era proprio così. Sì, sì, era addirittura quello che gli aveva suggerito il suo interlocutore. O gli aveva detto un'altra cosa? Il dolore gli distruggeva il cervello. Cercò una chiave e aprì un cassetto, tirò fuori delle pillole e ne prese due, poi si sedette con gli occhi chiusi aspettando che il dolore passasse; con un po' di fortuna, quando fossero arrivati i pastori sarebbe stato meglio. Guner bussò piano alla porta dello studio. I pastori aspettavano Addaio nella sala grande. Quando entrò nella stanza lo trovò con la testa sul tavolo, gli occhi chiusi. Si avvicinò preoccupato e tirò un sospiro di sollievo: era vivo. Lo scosse delicatamente fino a svegliarlo. «Ti sei addormentato.» «Sì... avevo mal di testa.» «Devi tornare dal medico, quei dolori ti stanno distruggendo, dovresti fare una radiografia.» «Non preoccuparti, sto bene.» «No, non stai bene. I pastori ti aspettano, sistemati un attimo prima di scendere.» «Lo farò. Nel frattempo, offri loro una tazza di tè.» «Già fatto.» Qualche minuto più tardi, Addaio era riunito con il Consiglio della Comunità. I sette pastori, abbigliati con paramenti neri, che sedevano attorno a un massiccio tavolo di mogano formavano un gruppo dall'aspetto solenne. Addaio li informò di quanto era successo nel carcere di Torino e la preoccupazione si dipinse sui volti dei sette uomini. «Voglio che tu, mio caro Bakkalbasi, vada a Torino. Mendibj uscirà fra due o tre giorni e cercherà di mettersi in contatto con noi. Dobbiamo impedirlo, i nostri non possono commettere altri errori. Perciò è importante che tu sia lì, a coordinare l'operazione, in contatto costante con me. Ho il presentimento che siamo sull'orlo del disastro.» «Ho notizie di Turgut.» Tutti gli occhi si volsero verso il pastore che aveva parlato, un uomo anziano con vivaci occhi azzurri. «È malato, profondamente depresso. Soffre di un complesso di persecuzione. Sostiene che è sorvegliato, che nel palazzo episcopale non ci si fida di lui e che i carabinieri di Roma sono ancora a Torino per prenderlo. Do-
vremmo tirarlo fuori di lì.» «No, adesso non possiamo, sarebbe una follia» rispose Bakkalbasi. «Ismet è pronto?» chiese Addaio. «Ho ordinato che sistemasse le sue cose per andare con suo zio, è la cosa migliore.» «I suoi genitori hanno accettato, ma il ragazzo sembra riluttante. Ha qui la fidanzata» spiegò Talat. «La fidanzata! E sta mettendo in pericolo l'intera Comunità per una ragazza? Chiamate i suoi genitori, partirà oggi stesso per Torino, andrà con il nostro fratello Bakkalbasi. Che i genitori di Ismet chiamino Turgut e lo avvisino che gli manderanno il loro figliolo perché si occupi di lui mentre cerca un futuro in Italia. Fatelo subito.» Il tono perentorio di Addaio non lasciava spazio a repliche. Un'ora dopo, gli uomini abbandonarono l'edificio con ordini ben precisi da eseguire. 36 Ana Jiménez suonò il campanello. L'elegante casa vittoriana situata nel quartiere più elegante di Londra sembrava la residenza di qualche ricco lord. Un maggiordomo di una certa età aprì la porta. «Buongiorno, desidera?» «Vorrei parlare con il direttore di questa istituzione.» «Ha un appuntamento?» «Sì. Sono una giornalista, mi chiamo Ana Jiménez e l'appuntamento me l'ha fissato un collega del "Times", Jerry Donalds.» «Si accomodi e attenda un momento, per favore.» L'ingresso della casa era ampio, il pavimento in legno coperto da morbidi tappeti persiani e alle pareti erano appesi alcuni dipinti di soggetto religioso. Ana si era distratta guardando i quadri in attesa che tornasse il maggiordomo e non si rese conto che un signore anziano la stava osservando dalla soglia della porta. «Buongiorno, signora Jiménez.» «Ah! Buongiorno, mi scusi, non mi ero accorta che...» «Venga nel mio studio. E così lei è amica di Jerry Donalds.» Anna preferì sorridere e non rispondere alla domanda, perché in realtà non conosceva assolutamente quel Donalds che sembrava in grado di aprire le porte più ermetiche di Londra. Jerry Donalds era amico di un diplomatico amico di Ana che era stato
mandato a Londra e ora ricopriva una carica istituzionale nell'Unione Europea, a Bruxelles. Non era stato facile convincerlo ad aiutarla, ma alla fine ci era riuscita e l'uomo l'aveva messa in contatto con Jerry Donalds, il quale era stato ad ascoltarla con grande cortesia e, dopo averle chiesto un paio d'ore, l'aveva chiamata a Torino per annunciarle che sarebbe stata ricevuta dall'illustrissimo professor Anthony McGilles. Il professore si sedette su una poltrona di cuoio e la invitò ad accomodarsi sul divano. Si erano appena seduti quando l'anziano maggiordomo entrò con un vassoio e le tazze da tè. Per qualche minuto Ana rispose alle domande di McGilles, che si interessava al suo lavoro di giornalista e alla situazione politica spagnola. Alla fine, il professore decise di venire al dunque. «Dunque, le interessano i Templari.» «Sì, per me è stata una sorpresa sapere che esistono ancora e che hanno un indirizzo su Internet, cioè questo.» «Questo è un centro studi, niente di più. E ora mi dica, cos'è che vuole sapere?» «Se oggigiorno esistono i Templari, vorrei sapere cosa fanno, a cosa si dedicano... e se è possibile mi piacerebbe farle qualche domanda su alcuni eventi storici di cui furono protagonisti.» «Vede, signora, i Templari così come se li immagina lei, e come erano una volta, non esistono più.» «Allora, le informazioni che ho trovato su Internet sono false?» «No, e la prova è che lei è qui a parlare con me. Voglio solo incitarla a non lavorare di fantasia pensando a cavalieri con la spada in mano. Siamo nel ventunesimo secolo.» «Sì, questo lo so.» «In effetti siamo un'organizzazione dedita allo studio. Oggi come oggi la nostra missione è intellettuale e sociale.» «Ma voi siete i veri eredi del Tempio?» «Quando papa Clemente V abolì l'Ordine, i Templari entrarono a far parte di altri ordini. In Aragona si unirono all'Ordine di Montesa; in Portogallo il re Dionigi fondò un nuovo Ordine, l'Orden Do Cristo; in Germania entrarono nell'Ordine Teutonico e in Scozia l'Ordine non si è mai sciolto. L'esistenza ininterrotta dell'Ordine in Scozia mette in evidenza perché lo spirito dei Templari sia arrivato fino ai giorni nostri. Fecero parte della Garde écossaise francese, a partire dal quindicesimo secolo, destinata alla protezione del re, e appoggiarono la dinastia degli Stuart in Scozia. Dal
1705 l'Ordine non si nasconde. In quell'anno entrarono in vigore nuovi statuti e venne nominato Maestro Luigi Filippo d'Orléans. Ci furono Templari che presero parte alla Rivoluzione francese, all'Impero di Napoleone, all'indipendenza della Grecia, fecero anche parte della Resistenza francese durante la Seconda guerra mondiale...» «Ma in che modo? Attraverso quale organizzazione? Come si chiamano?» «In tutto questo tempo i Templari hanno condotto una vita silenziosa, dedita alla riflessione e allo studio, partecipando individualmente a questi avvenimenti, pur conoscendo sempre i propri fratelli. Ci sono diverse organizzazioni, club se preferisce questo termine, dove si riuniscono gruppi di cavalieri. Questi club sono legali, sparsi in vari paesi, secondo la legislazione nazionale di ciascuno di essi. Lei deve cambiare il suo punto di vista sull'Ordine dei Templari. Insisto nel dirle che oggi non troverà un'organizzazione come quella del dodicesimo o tredicesimo secolo. Semplicemente, non esiste. «La nostra istituzione ha il compito di studiare la storia e gli avvenimenti individuali e collettivi del Tempio, dalla sua fondazione ai giorni nostri. Esaminiamo archivi, rianalizziamo come storici alcuni eventi oscuri, cerchiamo documenti antichi. Vedo la delusione dipingersi sul suo volto...» «No, è che...» «Si aspettava che fossi un cavaliere con tanto di armatura? Mi dispiace deluderla. Sono solo un professore dell'Università di Cambridge in pensione che, oltre a essere un credente, divide con altri cavalieri alcuni principi: l'amore per la verità e la giustizia.» Ana intuiva che dietro le parole di Anthony McGilles c'era molto altro, che non poteva essere tutto così chiaro e semplice. Ragion per cui decise di continuare a tentare la sorte. «Visto che è così gentile, e anche se so di abusare della sua pazienza, potrebbe aiutarmi a comprendere un fatto nel quale credo siano stati coinvolti i Templari?» «Ben volentieri. Nel caso dovessi non sapere ciò che mi chiede, ricorreremo al nostro archivio informatizzato. Sentiamo, a quale fatto si riferisce?» «Vorrei sapere se i Templari si sono portati via la Sacra Sindone da Costantinopoli ai tempi di Baldovino II, cioè quando sparì, fino alla successiva ricomparsa in Francia.» «Ah, la Sacra Sindone! Quante polemiche e leggende... La mia opinione
come storico è che il Tempio non ha avuto niente a che vedere con la sua sparizione.» «Potrei verificarlo nei vostri archivi?» «Certo, il professor McFadden l'aiuterà.» «Il professor McFadden?» «La lascio in buone mani, io devo partecipare a una riunione. Le assicuro che il professore l'aiuterà per qualunque cosa, dal momento che ci è stata raccomandata dal nostro caro amico Jerry Donalds.» Il professor McGilles agitò appena un piccolo campanello d'argento. Il maggiordomo entrò immediatamente. «Richard, accompagna la signora Jiménez in biblioteca. Il professor McFadden la riceverà lì.» «La ringrazio per l'aiuto, professor McGilles.» «Spero che le possiamo essere di qualche utilità. Buongiorno.» 37 Guillaume de Beaujeu, Gran Maestro del Tempio, ripose con cura il documento in un cassetto segreto del suo tavolo da lavoro. Sul volto affilato si dipinse la preoccupazione. La lettera inviata dai fratelli di Francia lo avvisava che alla corte di Filippo non potevano più contare su tanti amici come all'epoca del buon re Luigi, che Dio l'avesse in gloria perché in tutta la Cristianità non ci fu un sovrano più gentiluomo e coraggioso. A loro Filippo IV doveva dell'oro, molto oro, e quanto più ne doveva, tanto maggiore sembrava essere il suo odio. A Roma, anche alcuni ordini religiosi non nascondevano la loro invidia per il potere del Tempio. In quella primavera del 1291, tuttavia, Guillaume de Beaujeu aveva un altro problema più urgente degli intrighi delle corti di Francia e di Roma. François de Charney e Said erano tornati con cattive notizie dal loro soggiorno con i mamelucchi. Per un mese avevano vissuto nell'accampamento, ascoltato i soldati e diviso con loro il pane, l'acqua e le preghiere ad Allah il misericordioso. Si erano fatti passare per mercanti egiziani, ansiosi di vendere provviste all'esercito. I mamelucchi dominavano Egitto e Siria, avevano conquistato Nazareth, la città che vide nascere Nostro Signore Gesù, e la loro bandiera sventolava nel porto di Jaffa, a poche leghe da San Giovanni d'Acri. Il cavaliere de Charney assomigliava più a un musulmano che a un cri-
stiano e si confondeva in mezzo a loro come se fosse nato in quella terra anziché nella lontana Francia. De Charney è stato chiaro: in pochi giorni, al massimo quindici, avrebbero attaccato San Giovanni d'Acri. Lo dicevano i soldati, glielo avevano assicurato gli ufficiali con cui aveva fraternizzato all'accampamento. I comandanti mamelucchi gli ripetevano che presto sarebbero diventati ricchi, non appena si fossero impossessati dei tesori custoditi nella fortezza di Acri che, giuravano, sarebbe caduta nelle loro mani come era successo con tante altre enclave. Il leggero vento di marzo preannunciava il caldo intenso dei mesi a venire in quella Terra Santa bagnata dal sangue cristiano. Da due giorni un gruppo selezionato di Templari riempiva gli scrigni con l'oro e i tesori che il Tempio custodiva nella fortezza. Il Gran Maestro aveva ordinato loro di imbarcarsi non appena fossero stati pronti, fare rotta su Cipro e da lì dirigersi in Francia. Nessuno voleva partire e avevano chiesto a Guillaume de Beaujeu di lasciarli rimanere a combattere. Il Gran Maestro, però, si era mostrato inflessibile: la sopravvivenza dell'Ordine dipendeva in buona parte da loro, dal momento che si sarebbero dovuti occupare di salvare il tesoro dei Templari. Il più afflitto tra i cavalieri era François de Charney. Aveva dovuto trattenere le lacrime quando de Beaujeu gli aveva annunciato che avrebbe affrontato una missione lontano da Acri. Il francese pregò il suo superiore che gli permettesse di combattere per la Croce, ma invano. La decisione era presa. Il Gran Maestro scese le scale fino ad arrivare ai freddi sotterranei della fortezza, e lì, in una sala sorvegliata da alcuni cavalieri, passò in rassegna i forzieri che dovevano partire per la Francia. «Divideremo le casse caricandole su tre galere. Tenetevi pronti a imbarcarle in qualsiasi momento. Il tesoro suddiviso in tre imbarcazioni ha più probabilità di arrivare a destinazione che se lo sistemiamo su una sola. Ciascuno di voi sa già su che imbarcazione viaggerà...» «Io non lo so ancora» gli disse François de Charney. «Voi, cavaliere, mi accompagnerete nella sala capitolare, devo parlarvi e darvi gli ordini circa la vostra destinazione.» Guillaume de Beaujeu piantò gli occhi addosso a de Charney. Questi, un uomo di oltre sessant'anni ma ancora forte, con il viso bruciato dal sole, era uno dei Templari più anziani. Era sopravvissuto a mille pericoli e come spia non aveva rivali, proprio come il suo amico, lo scomparso Robert de Saint-Rémy, caduto durante la difesa di Tripoli quando una freccia sarace-
na gli aveva trapassato il cuore. Il Gran Maestro lesse nello sguardo di de Charney l'angoscia che gli causava allontanarsi da quella terra che aveva fatto sua, da quella vita in cui la maggior parte delle volte dormiva all'aperto sotto le stelle, cavalcava con le carovane in cerca di informazioni e si perdeva negli accampamenti saraceni da dove era sempre tornato. Per François de Charney rientrare in Francia era una tragedia. «Sapete, de Charney, che solo a voi posso affidare questa missione. Tanti anni fa, quando eravate un ragazzo appena entrato nell'Ordine, al fianco del cavaliere de Saint-Rémy avete portato da Costantinopoli l'unica reliquia certa di Gesù, il lino che gli fece da sudario e sul quale rimasero impressi il Suo volto e il Suo corpo. Grazie alla Sacra Sindone conosciamo il volto di Gesù e lo veneriamo. Da tempo vi state avvicinando alla vecchiaia, ma state tranquillo, conosco la vostra forza e il vostro coraggio, per questo vi affido la salvezza del sudario. Fra tutti i tesori che possediamo è il più prezioso perché contiene il volto e il sangue del Signore. Voi lo salverete. Ma prima voglio che torniate all'accampamento dei mamelucchi. Dobbiamo sapere se possono impedire alle galere di raggiungere la loro destinazione, se in mare ci attende qualche imboscata. Una volta compiuta la vostra missione, andrete a Cipro con gli uomini che riterrete necessari. Potete scegliere il percorso, via nave o a cavallo. Confido nella vostra saggezza perché portiate la Sacra Sindone in Francia. Nessuno deve sapere cosa state trasportando, a voi la scelta di come portare la reliquia. E ora, preparatevi alla vostra missione.» Il cavaliere de Charney, accompagnato dal suo fedele scudiero Said, si infiltrò nuovamente tra le file dei mamelucchi. I soldati tradivano la tensione che precede le battaglie e, raccolti attorno ai fuochi, riandavano con la mente alle loro famiglie struggendosi per il ricordo sfocato dei figli che dovevano essere già diventati uomini. Per tre giorni il Templare ascoltò i commenti di soldati e ufficiali e dei numerosi servitori a disposizione dei capi saraceni. Allarmato, decise di tornare alla fortezza quando Said gli disse che un vecchio conoscente gli aveva raccontato che l'attacco sarebbe avvenuto due giorni dopo. Quella notte abbandonarono di soppiatto l'accampamento. Stavano ormai entrando nella fortezza di Acri quando le prime luci dell'alba iniziarono a dorare la pietra dell'imponente roccaforte templare. Guillaume de Beaujeu ordinò ai cavalieri del Tempio di prepararsi a re-
sistere all'attacco. L'isteria si impossessò di molti cristiani che non trovavano un mezzo di trasporto per abbandonare la fortezza la cui sorte era più che incerta. De Charney aiutò i suoi compagni a preparare la difesa, provata migliaia di volte, e a limitare i litigi tra alcuni cristiani capaci di uccidere il prossimo pur di scappare. Non restavano più navi con cui partire e la disperazione si era impadronita degli uomini. Calava di nuovo la sera quando il Gran Maestro lo mandò a chiamare. «Cavaliere, dovete partire a piedi. Ho commesso un errore mandandovi all'accampamento saraceno, adesso non c'è una nave su cui possiate viaggiare.» François de Charney dominò le emozioni e respirò a fondo prima di parlare. «Lo so, e vi devo chiedere un favore. Vorrei viaggiare da solo con Said.» «Sarà più pericoloso.» «Ma nessuno sospetterà di noi, due mamelucchi.» «Fate come credete.» I due uomini si abbracciarono. Era l'ultima volta che si sarebbero visti su questa terra; la sorte di entrambi era segnata. I due sapevano che il Gran Maestro sarebbe morto lì, difendendo la fortezza di San Giovanni d'Acri. De Charney cercò un telo della stessa grandezza della Sacra Sindone. Non voleva che subisse i disagi del viaggio e questa volta non pensava fosse il caso di custodirla in una cassa. Raggiungere Costantinopoli, da dove contava di salpare per la Francia, non sarebbe stato facile e meno bagaglio avesse avuto con sé, meglio sarebbe stato. Come Said, anche lui era abituato a dormire all'aperto, cibandosi di quanto cacciavano durante il viaggio, che fossero in un bosco o nel deserto. Avevano bisogno solo di due buoni destrieri. Sentì una fitta di rimorso al pensiero di partire mentre i suoi compagni sarebbero sicuramente morti. Sapeva di lasciare questa terra per sempre, che non vi sarebbe mai più tornato, e che la dolce Francia gli avrebbe ricordato con rimpianto l'aria secca del deserto e l'allegria degli accampamenti saraceni dove si era fatto tanti amici, perché in fin dei conti gli uomini erano uomini, indipendentemente da quale Dio pregassero. E lui nelle file dei nemici aveva visto onore, giustizia, dolore, gioia, saggezza e miseria esattamente come nelle proprie file. Non erano diversi, semplicemente
combattevano sotto bandiere diverse. Avrebbe chiesto a Said di accompagnarlo per un tratto, ma poi avrebbe proseguito da solo. Non poteva pretendere che l'amico lasciasse la sua terra; no, non sarebbe riuscito ad abituarsi a vivere in Francia, per quanto gli avesse raccontato le meraviglie del suo paese, Lirey, vicino a Troyes. Lì aveva imparato a cavalcare per i verdi prati della tenuta di famiglia e a maneggiare le piccole spade che suo padre ordinava al fabbro perché i figli diventassero cavalieri. Said era invecchiato, come lui, e ormai era troppo tardi per imparare a vivere un'altra vita. De Charney finì di arrotolare con cura il sudario nel nuovo telo e lo ripose in una bisaccia che portava sempre con sé. Andò a cercare Said e lo informò degli ordini ricevuti. Gli chiese se voleva accompagnarlo per un pezzo di strada, prima che i loro destini si separassero definitivamente. L'uomo assentì. Sapeva che al suo ritorno non avrebbe trovato alcun cristiano ad Acri. Sarebbe tornato con i suoi, a consumare ciò che gli restava della vecchiaia. Era una pioggia di fuoco. Le frecce incendiarie volavano con violenza sopra le mura distruggendo tutto quello che incontravano. Il 6 aprile di quell'anno del Signore 1291 i mamelucchi avevano iniziato l'assedio di San Giovanni d'Acri. Già da diversi giorni stavano lanciando l'assalto alla fortezza che i cavalieri templari difendevano con audacia. Guillaume de Beaujeu aveva dato ordine di confessarsi e fare la comunione il giorno stesso in cui ebbe inizio l'assedio. Si rendeva conto che pochi fra loro sarebbero sopravvissuti e volle dunque che mettessero la propria anima in pace con Dio. Sapeva che François de Charney stava cavalcando, prendendo congedo da quei luoghi che erano diventati la sua casa. Confidava nel fatto che avrebbe salvato il sudario di Cristo e l'avrebbe fatto arrivare in Francia. Era stato il cuore a fargli prendere la decisione di mandare de Charney con il sacro telo. Il giovane che quarant'anni prima l'aveva portato da Costantinopoli, tornava a custodirlo in viaggio verso l'Occidente. Insh'Allah! Quanti cavalieri rimanevano? Cinquanta appena difendevano le mura che non volevano cedere, mentre i civili cristiani correvano disperati, urlando. Durante quei momenti in cui la vita era l'unica cosa che si potesse salvare, veniva a galla il peggio della condizione umana. Le scene di panico si succedevano. Un'imbarcazione aveva fatto naufra-
gio a pochi metri dalla costa per il carico eccessivo di uomini ed equipaggiamenti che cercavano di fuggire da morte sicura. Ad Acri, nella grande fortezza templare, si combatteva corpo a corpo. I cavalieri non arretravano di un palmo, difendevano il terreno con la vita, e solo quando questa veniva loro strappata il nemico poteva avanzare. Guillaume de Beaujeu, la spada stretta fra le mani, si batte da ore; non sa quanti uomini ha ucciso né quanti ne siano morti attorno a lui. Aveva detto ai suoi che cercassero di partire prima della caduta di Acri. Richiesta inutile, perché tutti combattevano sapendo che presto avrebbero risposto dei propri atti davanti a Dio. Il Gran Maestro affronta due feroci saraceni, cercando di schivare i fendenti con lo scudo, ma... d'un tratto sente un dolore acuto al petto, non vede più nulla, è il buio. Insh'Allah! Jean de Périgord riesce a trascinare il corpo di Guillaume de Beaujeu e a metterlo al riparo vicino a un muro. Si sparge la voce: il Gran Maestro è morto. Acri sta per capitolare, ma Dio ha stabilito che non sarà questa notte. I mamelucchi rientrano nel loro accampamento, da dove arriva profumo di agnello speziato e il suono di canzoni che parlano di vittoria. I Templari si riuniscono, sfiniti, nella sala capitolare. Devono nominare un Gran Maestro, lì, adesso, non possono aspettare. Sono stanchi, stravolti, poco importa chi diventerà il loro capo quando domani andranno a morire, o forse dopodomani, che differenza fa? Però pregano e meditano, implorando Dio che li illumini. Thibaut Gaudin è il successore del valoroso Guillaume de Beaujeu. Il 28 maggio 1291 ad Acri faceva caldo e c'era puzza di disfatta. Prima che sorga il sole, Thibaut Gaudin ha stabilito che ascoltino la santa messa. Le spade si incrociano senza tregua e le frecce cercano le loro vittime alla cieca. Prima che il sole tramonti, su Acri sventolerà la bandiera del nemico. Insh'Allah! La fortezza assomiglia a un cimitero. Restava in vita solo qualche cavaliere. 38 Si svegliò gridando, come se si trovasse nel mezzo della battaglia. Invece era lì, nel cuore di Londra, in una camera del Dorchester Hotel. Ana Jiménez sentì il sudore correrle lungo la schiena. Le tempie le martellavano, aveva un attacco di aritmia.
In preda all'angoscia, si alzò dal letto e andò in bagno. Aveva i capelli appiccicati alla faccia e la camicia da notte era fradicia. Se la tolse ed entrò nella doccia. Era la seconda volta che aveva un incubo con una battaglia. Se avesse creduto nella trasmigrazione delle anime avrebbe giurato di essere stata lì, nella fortezza di San Giovanni d'Acri, a veder morire gli ultimi Templari. Poteva descrivere il viso e l'aspetto di Guillaume de Beaujeu, e il colore degli occhi di Thibaut Gaudin. Era stata lì, lo sentiva. Conosceva quegli uomini, avrebbe potuto giurarlo. Uscì dalla doccia rinfrancata, e prima di tornare a letto si mise una camicetta. Non aveva un'altra camicia da notte. Visto che il letto era umido di sudore, decise di accendere il computer e navigare un po' in Internet. Le spiegazioni del professor McFadden, con la documentazione che le aveva fornito sulla storia dei Templari, l'avevano colpita. Quell'uomo l'aveva sbalordita con i particolari della caduta di San Giovanni d'Acri, a suo avviso uno dei giorni più amari nella storia dell'Ordine. Forse era per questo che aveva sognato la resa di Acri, come le era successo quando Sofia Galloni le aveva raccontato dell'assedio di Edessa da parte delle truppe bizantine. L'indomani avrebbe rivisto il professor McFadden e avrebbe cercato di ottenere qualcosa di più di quelle storie appassionate dei Templari che la impressionavano fino a provocarle degli incubi. 39 L'odore del mare lo induceva all'ottimismo. Non voleva guardarsi indietro. Non era riuscito a trattenere le lacrime salendo a bordo della nave e lasciando Cipro, praticamente l'Oriente. I fratelli si erano immersi nei loro lavori per non vederlo piangere. Stava diventando vecchio perché piangeva senza pudore. Aveva pianto anche nel salutare Said. In tanti anni era la prima volta che si abbracciavano ed entrambi avevano versato lacrime disperate perché sapevano che la separazione equivaleva a dividersi in due metà. Per Said era giunta l'ora di riunirsi ai suoi mentre lui, François de Charney, tornava in patria, in una patria di cui non sapeva quasi più nulla, che non sentiva sua. La sua patria era il Tempio, e la sua casa l'Oriente; a rientrare in Francia era la carcassa di un uomo che aveva lasciato la propria anima ai piedi delle mura di San Giovanni d'Acri. La traversata fu tranquilla, sebbene il Mediterraneo fosse un mare tradi-
tore, come ben sapeva Ulisse. Tuttavia solcarono le acque senza sussulti. Gli ordini di Guillaume de Beaujeu erano stati tassativi: de Charney doveva collocare la Sacra Sindone nella fortezza del Tempio di Marsiglia e attendere lì nuove disposizioni, ma con il giuramento che non si sarebbe mai separato dalla reliquia e l'avrebbe difesa a costo della vita. Nonostante il dolore che portava nel cuore, la compagnia di alcuni cavalieri templari che come lui tornavano in Francia gli rese più sopportabile il viaggio. Il porto di Marsiglia gli sembrò impressionante, con decine di barche e una moltitudine di gente che andava da una parte all'altra gridando e parlando senza sosta. Quando lasciarono la nave, alcuni cavalieri li stavano aspettando per accompagnarli alla casa del Tempio. Nessuno sapeva nulla della reliquia che de Charney custodiva. Beaujeu gli aveva dato una lettera per il visitatore templare di Marsiglia e per il superiore della commenda. "Loro" gli aveva detto "decideranno per il meglio." Il superiore della commenda, un nobile dai modi bruschi ma che de Charney avrebbe presto scoperto essere una persona benevola, ascoltò il suo racconto senza dire una parola. Poi gli chiese di consegnargli la reliquia. Erano anni che i Templari conoscevano il vero volto di Cristo perché Renaud de Vichiers aveva ordinato di copiare l'immagine della Sacra Sindone e non c'era casa o commenda templare che non avesse un quadro con la riproduzione di Nostro Signore. Ciononostante, de Vichiers aveva raccomandato discrezione e questa immagine non era mai stata esposta ai curiosi, ma era custodita in cappelle segrete dove ci si recava a pregare. In questo modo si custodiva il segreto che il Tempio era in possesso dell'unica reliquia certa di Gesù. François de Charney aprì la bisaccia ed estrasse il telo con cui aveva avvolto il sudario. Lo spiegò e... I due uomini caddero in ginocchio pregando, tale era il prodigio che si era compiuto. Jacques Vezelay, superiore della commenda, e François de Charney ringraziarono Dio per il miracolo che i loro occhi stavano contemplando. 40 Il secondino entrò nella cella e cominciò a esaminare l'armadio, raccogliendo i pochi indumenti che vi trovò. Mendibj lo osservava in silenzio.
«A quanto pare stai per andartene e, come sempre, vogliono che quelli che sono stati qui escano con un aspetto decente. Servizio di lavanderia espresso. Non so se mi capisci o no, ma fa niente, mi porto via tutto. Ah! Anche le tue schifose scarpe da ginnastica. Devono puzzare come la merda dopo due anni che le porti.» Si avvicinò al letto e raccolse le scarpe. Mendibj fece il gesto di alzarsi, quasi fosse spaventato, ma il secondino gli mise un dito sul petto come avvertimento. «Calmo. Io eseguo gli ordini, e questa roba va in lavanderia. Domani te la restituiamo.» Rimasto solo, Mendibj chiuse gli occhi. Non voleva che le telecamere della sorveglianza registrassero la sua agitazione. Gli sembrava molto strano che prendessero la sua roba per lavarla, soprattutto le scarpe da ginnastica; perché mai lo facevano? Marco si congedò dal direttore del carcere. Era rimasto lì quasi tutta la giornata. Aveva interrogato i fratelli, nonostante le proteste del medico. Inutile. Non avevano voluto dirgli dove stavano andando quando erano stati colpiti, nemmeno chi sospettavano potesse averli conciati in quel modo. Anche se Marco sapeva che si trattava degli uomini di Fraschello, voleva sapere se i fratelli li avevano riconosciuti. Ma loro rimasero muti come pesci, urlando e lamentandosi per il dolore alla testa e per quel carabiniere che li torturava con le sue domande. Non andavano da nessuna parte, avevano visto che la porta della cella era aperta, erano usciti e qualcuno li aveva assaliti. Non una parola di più, né una di meno. Questa era la loro versione e niente e nessuno gliel'avrebbe fatta cambiare. Il direttore suggerì a Marco di dirgli che sapeva della loro intenzione di ammazzare il muto, ma lui scartò l'idea. Non intendeva mettere in allarme quelli fuori, chiunque avesse assoldato i fratelli Bajerai. In un carcere ci sono centinaia di occhi che vigilano. Chissà chi era l'anello di congiunzione con l'esterno? «Buonanotte, direttore.» «Buonanotte, a domani.» La donna uscì dall'ufficio senza voltarsi. Era entrata nel bagno privato del direttore per cambiare gli asciugamani. Ormai faceva parte del carcere, andava dappertutto senza che nessuno le facesse caso. Quando Marco arrivò in albergo, Antonino, Pietro e Giuseppe l'aspettavano al bar. Sofia era andata a dormire e Minerva aveva promesso di scen-
dere non appena avesse parlato con i suoi. «Bene, ancora tre giorni e il muto sarà fuori. Che novità ci sono?» «Niente di speciale» rispose Antonino «tranne che, a quanto pare, a Torino ci sono molti immigrati di Urfa.» Marco aggrottò le sopracciglia. «Spiegati.» «Minerva e io abbiamo lavorato come negri. Volevi sapere della famiglia dei Bajerai, allora ci siamo messi a cercare, a inserire dati nel computer, e abbiamo trovato per esempio che il vecchio Turgut, Il custode del duomo, è di Urfa, cioè non lui, suo padre. La sua storia è molto simile a quella dei Bajerai. Suo padre è venuto a cercare lavoro, l'ha trovato alla FIAT, si è sposato con un'italiana e Turgut è nato qui. Non hanno alcuna parentela con i Bajerai, a parte le origini. Vi ricordate di Tarik?» «Chi è Tarik?» chiese Marco. «Uno degli operai che lavoravano nel duomo quando è scoppiato l'incendio. Anche lui è di Urfa» rispose Giuseppe. «A quanto pare, la gente di quel paese ha una predilezione per Torino» aggiunse Marco. Minerva li raggiunse al bar. Era stanca e si vedeva. Marco sentì un po' di rimorso, negli ultimi giorni l'aveva sovraccaricata di lavoro, ma al computer era sicuramente la migliore e Antonino aveva una mente fredda e analitica. Era sicuro del buon lavoro realizzato dai due. «Allora, Marco» esordì Minerva «non puoi dire che non ci guadagniamo lo stipendio.» «Sì, mi stanno giusto raccontando della quantità di gente di Urfa che c'è a Torino. Cos'altro avete scoperto?» «Che non sono musulmani praticanti, potrebbero addirittura non essere musulmani. Vanno tutti a messa» spiegò Minerva. «In realtà non bisogna dimenticare che Kemal Atatiirk ha fatto della Turchia un paese laico, per cui il fatto che non siano musulmani praticanti non sarebbe così strano. Però è curioso che vadano a messa e siano così devoti, questo vuol dire che sono cristiani» fece notare Antonino. «Ci sono dei cristiani a Urfa?» domandò Marco. «Che sappiamo noi, no, e non risulta nemmeno alle autorità turche» rispose Minerva. Antonino si schiarì la voce come faceva sempre prima di intervenire su qualche tema storico. «Ma nell'antichità è stata una città cristiana, conosciuta come Edessa. I
bizantini la misero sotto assedio nel 944 per impossessarsi della Sacra Sindone, che era nelle mani di una piccola comunità cristiana, nonostante i musulmani all'epoca fossero i signori di Edessa.» «Svegliate Sofia» disse Marco. «Perché?» chiese Pietro. «Perché dobbiamo fare un brainstorming. Non molto tempo fa Sofia mi ha detto che magari la chiave sta nel passato. Ana Jiménez pensava la stessa cosa.» «Però, per favore, non perdere la bussola.» Le parole di Pietro infastidirono Marco. «Cosa ti fa pensare che stia perdendo la bussola?» «Ti vedo su quella strada. Si dà il caso che Sofia e quella certa Ana abbiano dato sfogo alla fantasia e credano che gli incendi del duomo abbiano un legame con il passato. Scusa, ma secondo me le donne hanno un'inclinazione per il mistero, per l'irrazionale, l'esoterismo, il...» «Ma cosa dici!» gridò Minerva infuriata. «Sei un maschilista e un imbecille!» «Buoni, buoni...» li esortò Marco. «È ridicolo che ci mettiamo a litigare fra noi. Dimmi quello che mi devi dire, Pietro.» «Antonino dice che Urfa è l'antica Edessa. D'accordo, e con ciò? Quante città sono state costruite sopra altre? Qui in Italia sotto ogni pietra c'è una storia, e non diventiamo mica matti a cercare nel passato ogni volta che c'è un omicidio o un incendio. So che per te, Marco, questo caso è speciale, e se me lo permetti ti dirò che sei fissato e hai esagerato dandogli un'importanza eccessiva. Ci sono diverse persone di origine turca che provengono da una città chiamata Urfa. E allora? Quanti italiani dello stesso paese negli anni difficili sono andati a Francoforte a lavorare nelle fabbriche? Non credo che per ogni delitto commesso da un italiano la polizia tedesca risalisse a Giulio Cesare e alle sue legioni. Quello che cerco di dirvi è di non cadere preda dell'irrazionalità. Le pubblicazioni spazzatura con storie esoteriche sulla Sacra Sindone abbondano, ma non lasciamoci influenzare.» Marco soppesò lo sfogo di Pietro. C'era della logica in quello che diceva, tanta, tanto da pensare che potesse avere ragione. Ma lui era una vecchia volpe, da una vita annusava l'aria, e il suo istinto gli diceva che non doveva abbandonare quella pista, per stupida che apparisse. «Ti ho ascoltato. Può darsi che tu abbia ragione, ma dal momento che non abbiamo niente da perdere non lasceremo nulla di intentato. Per favore, Minerva, chiama Sofia, spero che sia ancora sveglia. Cos'altro sappia-
mo di Urfa?» Antonino gli consegnò un rapporto completo su Urfa o Edessa. Aveva immaginato che il capo glielo avrebbe chiesto. «È risaputo che la Sindone è stata a Edessa» sottolineò Pietro. «Lo sapevo persino io, vi ho sentito raccontare la storia della Sindone fino alla nausea.» «Sì, è vero, ma qui la novità è che abbiamo parecchie persone che vengono da Urfa, e che in qualche modo sono legate alla Sindone» insistette Marco. «Ah, sì? Spiegami come» gli buttò lì Pietro. «Sei troppo in gamba perché te lo debba spiegare, ma se ci tieni... Turgut è di Urfa, è il custode del duomo, era presente il giorno dell'incendio e anche in occasione di tutti gli altri incidenti che si sono verificati. Guarda caso, non ha mai visto nulla. C'è un muto che sappiamo che cercava di rubare nel duomo, La cosa strana è che non è l'unico muto in cui ci siamo imbattuti. Qualche mese fa un altro muto è morto carbonizzato, e nella storia della Sindone sappiamo che ci sono stati altri incendi e altri muti. Poi ecco che due fratelli di origine turca, guarda caso di Urfa, volevano ammazzare il nostro muto. Perché? Voglio che domani tu e Giuseppe andiate dal custode. Ditegli che le indagini sono ancora in corso e che volete parlare con lui per vedere se ricorda qualche particolare.» «Si innervosirà. La prima volta che l'abbiamo interrogato, per poco non si è messo a piangere» ricordò Giuseppe. «Proprio per questo mi sembra l'anello più debole. Ah! Chiederemo un'autorizzazione del giudice per mettere sotto controllo tutti i telefoni di questi simpatici amici di Urfa.» Minerva tornò seguita da Sofia. Le due donne guardarono Pietro con freddezza e si sedettero. Quando chiusero il bar, verso le tre del mattino, Marco e i suoi stavano ancora parlando. Sofia era d'accordo con lui sul fatto che dovessero seguire quel filo imprevisto che li portava a Urfa. Antonino e Minerva pure. Giuseppe si mostrava scettico ma non metteva in discussione il ragionamento dei suoi colleghi, mentre Pietro riusciva a stento a nascondere il malumore. Andarono a dormire convinti di essere vicini alla conclusione. L'uomo anziano si svegliò. Il ronzio del cellulare lo aveva strappato da un sonno profondo. Erano passate al massimo due ore da quando era andato a letto. Il duca era di umore eccellente e non li aveva lasciati andare fino
a mezzanotte passata. La cena era stata splendida e la conversazione piacevole, come avviene tra uomini della sua età e posizione negli incontri senza le signore. Quando vide sul display il numero di New York da cui lo stavano chiamando, non rispose. Sapeva che cosa doveva fare: si alzò e, infilandosi una giacca da camera di morbido cachemire, si diresse nel suo studio. Una volta lì, chiuse la porta a chiave e, seduto alla scrivania, premette un pulsante nascosto. Qualche minuto dopo parlava al telefono attraverso un sofisticato sistema a prova di orecchie indiscrete. La notizia che gli stavano dando lo turbava: il Comando per la tutela del patrimonio artistico si stava avvicinando alla Comunità, a Addaio, sebbene non sapessero ancora dell'esistenza del pastore. Il piano di Addaio per eliminare Mendibj era fallito e l'uomo era diventato un vero cavallo di Troia. Ma non era tutto. Adesso il gruppo di Valoni aveva dato via libera alla fantasia e la dottoressa Galloni formulava tesi che sfioravano la verità, pur senza sospettarlo. La giornalista spagnola, invece, aveva una mente speculativa e un'immaginazione romanzesca che in questo caso erano armi pericolose. Pericolose per loro. Quando uscì dallo studio era ormai l'alba. Tornò in camera e iniziò a prepararsi. Lo aspettava una lunga giornata. Di lì a quattro ore avrebbe preso parte a una riunione cruciale a Parigi. Ci sarebbero stati tutti, anche se il carattere improvvisato di quell'incontro e il fatto che potessero attirare l'attenzione di occhi allenati lo preoccupavano. 41 La sera stava scivolando nella notte mentre Jacques de Molay, Gran Maestro del Tempio, leggeva alla luce delle candele il memorandum inviato da Vienna dal cavaliere Pierre Berard con i particolari del concilio. Le rughe solcavano il nobile volto del Gran Maestro. Le lunghe veglie avevano lasciato il segno nel suo sguardo stanco e arrossato. Per il Tempio erano brutti tempi. Di fronte a Villeneuve du Temple, l'immenso recinto fortificato, si alzava maestoso il palazzo reale da dove Filippo di Francia preparava il suo grande attacco contro l'Ordine dei cavalieri templari. Le casse del regno languivano e Filippo era uno dei maggiori debitori
del Tempio, al punto che si diceva che il re avrebbe dovuto vivere dieci vite per restituire tutto l'oro che gli era stato prestato. Tuttavia, Filippo IV non aveva intenzione di pagare i debiti. I suoi piani erano molto diversi: voleva essere l'erede dei beni dell'Ordine, anche se avrebbe dovuto dividere una parte del tesoro con la Chiesa. Aveva allettato i cavalieri ospitalieri promettendo loro commende e dimore se l'avessero appoggiato nella sua sordida campagna contro i Templari. E attorno a papa Clemente V c'erano sacerdoti influenti che lui pagava perché brigassero contro il Tempio. Da quando aveva comprato la falsa testimonianza di Esquieu de Floryan, Filippo aveva continuato ad assediare i Templari e ogni giorno che passava vedeva avvicinarsi il momento di assestare loro il colpo di grazia. Il re era colpito da Jacques de Molay, che ammirava in segreto per il suo coraggio e la sua fermezza, per il fatto che possedeva la nobiltà e le virtù che a lui mancavano, e non sopportava di specchiarsi nel limpido e nobile sguardo del Gran Maestro. Non si sarebbe arreso finché non l'avesse visto bruciare sul rogo. Quella sera, come molte altre, Jacques de Molay aveva pregato nella cappella per i cavalieri assassinati su ordine di Filippo. Da tempo, ormai, da quando Filippo si era incontrato con papa Clemente a Poitiers, il re di Francia aveva la custodia dei beni templari. Ora il Gran Maestro attendeva impaziente la risoluzione del Concilio di Vienna. Filippo in persona si era recato a fare pressioni sul papa e sul tribunale ecclesiastico. Non si accontentava di amministrare quanto non gli apparteneva: lo voleva per sé, e il Concilio di Vienna gli appariva come l'occasione propizia per assestare il colpo mortale al Tempio. Una volta terminata la lettura del memorandum, Jacques de Molay si strofinò gli occhi arrossati e cercò una pergamena. Fece scorrere a lungo la sua grafia aguzza sulla carta. Non appena ebbe finito, si preparò a chiamare due dei più fedeli cavalieri templari, Beltrán de Santillana e Geoffroy de Charney. Beltrán de Santillana, nato in una casa avita nelle montagne cantabriche, alto e robusto, si compiaceva del silenzio e della meditazione. Era entrato nell'Ordine appena diciottenne e prima di essere fratello professo aveva già combattuto in Terra Santa. Fu lì che si conobbero, e lì salvò la vita a de Molay facendogli scudo con il proprio corpo quando la spada di un saraceno stava per squarciargli la gola. Di quella prodezza, Santillana conservava sul torace, vicino al cuore, una lunga cicatrice.
Geoffroy de Charney, visitatore dell'Ordine in Normandia, un Templare severo la cui famiglia aveva dato alla congregazione altri due cavalieri, come suo zio François de Charney, che Dio l'avesse in gloria, anni addietro si era consumato nella malinconia visitando la vecchia casa di famiglia. Jacques de Molay si fidava di Geoffroy de Charney come di se stesso. Avevano combattuto insieme in Egitto e davanti alla fortezza di Tortosa, e conoscendo il coraggio e la misericordia di Beltrán de Santillana, aveva deciso che sarebbero stati loro a portare a termine l'incarico più delicato. Il cavaliere templare Pierre Berard lo aveva informato nella sua lettera che Clemente stava per accondiscendere alle pretese di Filippo. I giorni dell'Ordine erano contati, da Vienna sarebbe uscita la condanna con la soppressione dell'Ordine. Era questione di giorni, per questo Jacques de Molay doveva disporre velocemente la salvezza di ciò che ancora restava al Tempio. Geoffroy de Charney e Beltrán de Santillana entrarono nello studio del Gran Maestro. Il silenzio della notte era rotto da qualche rumore lontano che giungeva dall'agitato popolo di Parigi. Jacques de Molay, in piedi, determinato e tranquillo li invitò a sedersi. La conversazione sarebbe stata lunga perché i particolari da discutere erano molti. «Beltrán, è urgente che partiate per il Portogallo. Il nostro fratello Pierre Berard mi informa che non passeranno molti giorni prima che il papa ci condanni. È ancora presto per conoscere che sorte toccherà all'Ordine negli altri paesi, ma in Francia il suo destino è segnato. Avevo pensato di mandarvi in Scozia, dal momento che il re Robert Bruce è scomunicato e le disposizioni del papa non lo riguardano. Però confido nel buon re Dionigi di Portogallo, dal quale ho avuto garanzie che proteggerà l'Ordine. È molto quello che ci ha sottratto re Filippo. Tuttavia, a preoccuparmi non sono né l'oro né le terre, quanto piuttosto il nostro grande tesoro, il vero tesoro del Tempio: il sudario di Cristo. Sono anni che i re cristiani sospettano che sia in nostro possesso, e smaniano per recuperarlo perché credono che la reliquia sia dotata di un potere magico che rende invincibile chi la possiede. Detto questo, credo che le suppliche del re santo Luigi perché gli concedessimo di pregare davanti alla vera immagine di Cristo fossero sincere. «Abbiamo sempre mantenuto il segreto e così deve continuare a essere. Filippo accarezza l'idea di entrare nel Tempio e rovistare fin nell'ultimo angolo. Ha confidato ai suoi consiglieri che se trova la Sacra Sindone raddoppierà il suo potere ed estenderà la sua supremazia come re cristiano su
tutti i confini. È accecato dall'ambizione e sappiamo quanta cattiveria alberghi nel suo animo. «Dobbiamo salvare il nostro tesoro come fece un giorno il vostro buon zio de Charney. Voi, Beltrán, andrete alla nostra commenda di Castro Marini attraversando il Guadiana e consegnerete il sudario al superiore, nostro fratello José Sa Beiro. Porterete una lettera nella quale ordino come dovrà procedere per la sua custodia. «Solamente voi, Sa Beiro, de Charney e io sapremo dove si trova la Sacra Sindone, e solo Sa Beiro in punto di morte trasmetterà il segreto al suo successore. Resterete in Portogallo per custodire la reliquia. Se dovesse rendersi necessario, vi farò avere nuove istruzioni. Durante il vostro viaggio attraverso la Spagna passerete per diverse giurisdizioni e commende templari. Porterete un documento per tutti i superiori e priori nel quale do loro istruzioni su come procedere se la disgrazia dovesse abbattersi sul Tempio.» «Quando devo partire?» «Appena sarete pronto.» Geoffroy de Charney non poté nascondere la delusione nel chiedere al Gran Maestro: «Ditemi, qual è la mia missione?». «Andrete a Lirey e lì attenderete il telo con cui vostro zio avvolse la santa reliquia. Ritengo opportuno che resti in Francia ma in un luogo sicuro. In questi anni mi sono posto degli interrogativi sul miracolo compiuto su quel lino, perché di miracolo si tratta. Vostro zio piangeva per l'emozione quando ricordava il momento in cui spiegò il telo per consegnare il sudario al Maestro di Marsiglia. I due teli sono sacri, per quanto solo il primo fu quello che avvolse il corpo del Signore. «Conto sulla nobiltà della famiglia de Charney, la vostra famiglia, e so che vostro fratello e il vostro vecchio padre proteggeranno e custodiranno questo telo fino al giorno in cui il Tempio lo reclamerà. «François de Charney ha attraversato due volte il deserto in terre infedeli per far sì che la Sacra Sindone arrivasse al Tempio. E il Tempio chiede ancora una volta un servizio a una famiglia così coraggiosa e di provata fede cristiana.» I tre uomini restarono in silenzio per qualche secondo, superando l'emozione del momento. Quella notte stessa, per strade diverse, i due Templari avrebbero viaggiato con le preziose reliquie. Jacques de Molay aveva ragione: Dio aveva compiuto un miracolo sul telo spiegato da François de
Charney. Un telo leggero, con lo stesso ordito e colore di quello utilizzato da Giuseppe di Arimatea per avvolgere il corpo di Gesù. Cavalcavano ormai da molti giorni quando, finalmente, intravidero il Bidasoa. Beltrán de Santillana e i quattro cavalieri che lo accompagnavano con i loro scudieri spronarono i cavalli. Non vedevano l'ora di entrare in Spagna, lontano dall'insidia di re Filippo. Sapendo che gli assassini del re potevano inseguirli, Beltrán e i suoi non avevano quasi riposato. Filippo aveva occhi dappertutto e non ci sarebbe stato da meravigliarsi se qualcuno fosse andato a raccontare alle sue spie che un gruppo di uomini aveva lasciato la fortezza di Villeneuve du Temple. Jacques de Molay aveva consigliato loro di non indossare né il mantello né la cotta di maglia dei Templari, per passare inosservati. Almeno finché non fossero stati abbastanza lontani da Parigi. Non si erano cambiati gli abiti, né l'avrebbero fatto fino a diverse leghe dal confine. Solo allora sarebbero tornati a vestire i panni di ciò che erano: Templari, perché non c'era orgoglio più grande di appartenere al Tempio e compiere la sacra missione di salvare il suo tesoro più prezioso. Beltrán de Santillana gioiva nel riconoscere i paesaggi della sua patria perduta e si rallegrava di parlare castigliano con i contadini e i fratelli che li accoglievano nelle giurisdizioni e nelle commende disseminate sui tanti tenitori che attraversavano. Dopo trenta giorni di cavalcata giunsero nei dintorni della cittadina di Jerez, nell'Estremadura, nota ai cavalieri per essere sede di una commenda templare. Beltrán de Santillana annunciò ai suoi accompagnatori che avrebbero riposato un paio di giorni prima di intraprendere l'ultima tappa del viaggio. Ora che si trovava in Castiglia provava nostalgia per il suo passato, quando ancora non sapeva ciò che il futuro gli avrebbe riservato e sognava solo di essere un guerriero che liberava il Santo Sepolcro per restituirlo alla Cristianità. Fu suo padre a farlo entrare nell'Ordine dei Templari per diventare un guerriero di Dio. I primi anni furono difficili perché, per quanto gli piacesse maneggiare la spada e l'arco, la sua natura vivace non era fatta per la castità. Furono tempi duri, di penitenza e sacrificio, finché Beltrán riuscì a dominare il proprio corpo, accordarlo con l'anima ed essere degno di professare come
fratello templare. Aveva già compiuto cinquant'anni e la vecchiaia era in agguato, ma si era sentito ringiovanire durante questo viaggio che lo aveva portato ad attraversare da nord a sud le terre di Castiglia. In lontananza, all'orizzonte, si ergeva imponente il castello dei cavalieri. Una valle fertile garantiva alla commenda il cibo, e l'acqua generosa dei ruscelli la salvava dalla sete. Alcuni contadini li videro arrivare e li salutarono con la mano. Consideravano i Templari dei galantuomini. Uno scudiero si prese cura dei cavalli e indicò loro come entrare nel castello. Beltrán de Santillana spiegò al superiore della commenda la situazione in Francia e gli consegnò un documento sigillato di Jacques de Molay. In quei giorni, de Santillana poté godere della conversazione con un altro Templare nato fra le montagne cantabriche. Essendo originari di paesi molto vicini, ricordarono i nomi degli amici comuni, dei servitori del palazzo in cui erano nati e anche quelli delle mucche che pascolavano orgogliose e indifferenti agli schiamazzi dei bambini. Quando si salutarono il loro animo era sollevato. Beltrán de Santillana non raccontò nulla della missione che gli era stata affidata, e il superiore e i fratelli Templari non chiesero niente perché non sapevano niente. Le case intonacate accarezzate dal sole appartenevano all'ultimo paese prima di attraversare il fiume in direzione del Portogallo. Il padrone della chiatta che ogni giorno andava da una sponda all'altra trasportando uomini e materiali chiese un buon compenso. I Templari non discussero il prezzo. L'uomo li portò dall'altra parte del Guadiana indicando loro da che parte andare per raggiungere Castro Marim, la cui solida fortezza si vedeva dalla sponda castigliana. José Sa Beiro, Maestro di Castro Marim, era un erudito, un uomo colto che aveva studiato medicina, astronomia, matematica e leggeva i classici grazie alla sua conoscenza dell'arabo, dal momento che erano stati gli arabi ad aver letto, tradotto e custodito il sapere di Aristotele, Talete di Mileto, Archimede e molti altri. Aveva combattuto in Terra Santa, conosciuto il suo arido paesaggio, e rimpiangeva ancora le notti illuminate da centinaia di stelle che lì in Oriente sembrava si potessero prendere con la mano. Dalle mura della commenda templare si scorgeva in lontananza il mare,
tuttavia la fortezza era al riparo dalle incursioni di qualunque nemico, protetta in un'ansa del Guadiana, e dai suoi merli lo sguardo si perdeva all'orizzonte. Il superiore li accolse con affetto e li lasciò riposare e ripulirsi dalla polvere del viaggio. Non volle parlare con loro fino a quando non ebbero mangiato e bevuto, e si fossero sistemati negli austeri alloggi che erano stati preparati. Beltrán de Santillana arrivò nello studio di Sa Beiro, dove una grande finestra lasciava entrare la brezza del fiume. Quando il cavaliere de Santillana ebbe concluso il suo racconto, il superiore gli chiese di mostrargli la reliquia. Il castigliano la spiegò ed entrambi sussultarono nel vedere la nitidezza del profilo della figura di Cristo. Davanti a loro c'erano i segni della passione, il supplizio inflitto. José Sa Beiro accarezzò lievemente il telo, consapevole del privilegio che questo rappresentava. Davanti a lui c'era la vera immagine di Gesù, ben conosciuta dai Templari da quando il Gran Maestro de Vichiers aveva mandato in tutte le case del Tempio dei dipinti assicurando i suoi fratelli che l'uomo raffigurato era proprio Gesù. Il Maestro lesse quindi la lettera di Jacques de Molay e rivolgendosi a Beltrán de Santillana disse: «Cavaliere, difenderemo la reliquia con la vita. Il Gran Maestro mi raccomanda di non dire a nessuno che si trova nella nostra commenda. Dobbiamo attendere di sapere cosa accade in Francia e che effetti avrà sull'Ordine il Concilio di Vienna. Jacques de Molay mi ordina di inviare subito un cavaliere a Parigi come spia. Dovrà camuffarsi, non potrà avvicinarsi al Tempio né cercare di incontrare qualche Templare, si limiterà a guardare e ascoltare e, quando sarà venuto a conoscenza della sorte riservata all'Ordine, dovrà rientrare immediatamente. Allora, secondo i suoi ordini e consigli, sarà il momento di decidere se il sudario resterà a Castro Marim o se dovrà essere portato in qualche altro luogo sicuro. Così sarà fatto. Cercherò il cavaliere in grado di compiere la missione assegnata dal Gran Maestro». Geoffroy de Charney si era lasciato alle spalle il paese di Troyes. Ormai poche leghe lo separavano dal feudo di Lirey. Aveva viaggiato in compagnia del suo solo scudiero e durante il viaggio si era sentito sorvegliato, sicuramente dalle spie di Luigi. Portava il telo chiuso nella bisaccia, come aveva fatto suo zio François de Charney.
I contadini raccoglievano gli attrezzi da lavoro vedendo che la luce diventava meno intensa. Il Templare provava una certa emozione nel rivedere i campi della sua infanzia e ardeva dal desiderio di abbracciare il fratello maggiore. L'incontro con i suoi familiari fu emozionante. Suo fratello Paul lo accolse con affetto e deferenza, assicurandogli che quella era casa sua. Il padre, più vicino alla morte che alla vita, venerava il Tempio e aveva collaborato con l'Ordine tutte le volte che gli era stato chiesto. La famiglia si sentiva orgogliosa del fatto che due di loro, François e Geoffroy, avessero professato e giurato fedeltà all'Ordine. Per qualche giorno, Geoffroy ritrovò la tranquillità. Si intrattenne con il nipote, che portava il suo nome e che un giorno avrebbe ereditato la casa di famiglia. Era un ragazzino sveglio e coraggioso che seguiva lo zio ovunque andasse chiedendogli di insegnargli a combattere. «Da grande farò il Templare» gli diceva. E a Geoffroy veniva un nodo alla gola, ben sapendo che per il Tempio le porte del futuro si stavano chiudendo. Il giorno della partenza, il ragazzino salutò lo zio con le lacrime agli occhi. Gli aveva chiesto di portarlo con sé per combattere in Terra Santa. Non ci fu modo di consolarlo. Il piccolo innocente non sapeva che Geoffrey andava a ingaggiare la peggiore delle battaglie contro un nemico che non conosceva la nobiltà del combattimento né faceva sfoggio di onore. Il suo nemico non era un saraceno ma Filippo di Francia, il re. Il Gran Maestro stava pregando nella sua stanza quando un servitore gli annunciò il ritorno del cavaliere de Charney. Gli andò immediatamente incontro. Jacques de Molay informò l'amico sulle ultime notizie. Il re accusava i Templari di paganesimo e di sodomia; li avrebbero presi nel giro di pochi giorni, dovevano prepararsi al peggio: avrebbero subito torture e calunnie prima di trovare la morte. Li accusavano di adorare il Diavolo e di inginocchiarsi davanti a un idolo che chiamano Bafometto. C'era un'altra figura che i Templari pregavano in ogni parte del mondo, in ogni casa e commenda, e il cui segreto era trapelato. Poteva darsi che un servitore fosse stato corrotto perché raccontasse i segreti della vita nel Tempio, e avesse svelato che i cavalieri erano soliti riunirsi in preghiera in una cappella dove nessuno poteva entrare, e lì alla parete c'era un quadro con una figura; un altro idolo, sostenevano ì nemici dei cavalieri.
La fortezza di Villeneuve du Temple aveva smesso di essere un recinto sacro e inespugnabile. I soldati del re avevano requisito ogni cosa e Filippo era furibondo per non aver trovato traccia dell'immenso tesoro del Tempio. Non sapeva che da mesi Jacques de Molay aveva ripartito l'oro tra varie commende e che gran parte del tesoro si trovava in Scozia, dove erano stati trasportati anche i documenti segreti. A Villeneuve non restava quasi nulla, e la cosa non faceva che accrescere la furia del re. Un inviato di Filippo si presentò alla fortezza e chiese di vedere il Gran Maestro. Jacques de Molay lo ricevette tranquillo e sicuro. «Vengo in nome del re.» «Lo immaginavo, per questo mi sono visto costretto a ricevervi.» Il Gran Maestro rimase in piedi e non invitò ad accomodarsi il conte di Champagne, che lo guardò furibondo. La dignità del Gran Maestro lo intimoriva e lo faceva sentire a disagio. «Sua Maestà vuole proporvi un patto: la vostra vita in cambio della Sacra Sindone. Il re è certo che la reliquia sia nelle mani del Tempio, come riteneva il re santo Luigi. Negli archivi di corte esistono documenti in proposito, relazioni del nostro ambasciatore a Costantinopoli, confidenze del re Baldovino a suo zio il re di Francia, ci sono fascicoli con le relazioni delle nostre spie alla corte dell'imperatore. Sappiamo che il sudario di Cristo è nelle mani del Tempio. Voi lo nascondete.» Jacques de Molay ascoltò senza scomporsi l'intemerata del conte di Champagne. Ringraziò mentalmente Dio per aver provveduto alla salvezza della reliquia che, in quel momento, pensò, doveva già essere al sicuro a Castro Marim, sotto la protezione del buon José Sa Beiro. Quando il conte ebbe finito di parlare, il Gran Maestro rispose con asprezza. «Signor conte, vi assicuro che non possiedo la reliquia di cui mi parlate, ma sappiate che se così fosse non la scambierei mai con la mia vita. Il re non deve confondere gli altri uomini con se stesso.» Nell'udire l'impertinenza rivolta a Filippo il Bello, il conte di Champagne avvampò. «Signor de Molay, il re vi dimostra la sua magnanimità facendovi salva la vita, giacché possedete qualcosa che appartiene alla Corona, alla Francia e alla Cristianità intera.» «Appartiene? Spiegatemi perché appartiene al re Filippo.» Il conte di Champagne conteneva a stento l'ira. «Sapete come me che il re santo Luigi inviò ingenti quantità di oro a suo nipote, l'imperatore Baldovino, e che questi gli vendette altre reliquie. Vi
risulta, come a me, che Robert de Dijon si recò alla corte di Baldovino per trattare la vendita di quello che da loro veniva chiamato Mandylion e che l'imperatore acconsentì.» «Il commercio tra sovrani non mi riguarda. La mia vita appartiene a Dio, il re me la può togliere ma è di Dio. Andate e dite a Filippo che non ho la reliquia, ma che se anche l'avessi non la scambierei mai con la mia vita. Non vi è posto in me per il disonore.» Qualche ora più tardi, Jacques de Molay, Geoffroy de Charney e il resto dei Templari che si trovavano ancora a Villeneuve du Temple furono presi e portati nelle prigioni sotterranee del palazzo. Filippo IV di Francia, conosciuto come Filippo il Bello, ordinò ai carcerieri di torturare senza pietà i cavalieri del Tempio, specialmente il Gran Maestro, al quale dovevano strappare una confessione: dove nascondeva la sacra reliquia con l'immagine di Cristo. Le urla dei torturati rimbalzavano contro le spesse mura delle segrete. Quanti giorni erano passati dalla loro cattura? I Templari avevano perso il conto. Alcuni confessavano crimini che non avevano commesso nella speranza che il loro aguzzino smettesse di stirargli le membra, bruciargli i piedi con il ferro rovente, praticargli ferite sulle quali veniva poi versato dell'aceto. Ma a nulla servivano le confessioni, perché i carcerieri continuavano a tormentarli in maniera implacabile. Qualche volta un uomo con il volto coperto si recava nelle celle e assisteva da un angolo alle sofferenze dei cavalieri che un giorno avevano brandito la spada e l'anima per difendere la Croce. Era il re Filippo, malato di cupidigia e crudeltà, che si compiaceva del supplizio dei cavalieri. Faceva gesti al carceriere perché proseguisse, perché il tormento non avesse fine. Una sera l'uomo dal volto coperto chiese che gli venisse portato Jacques de Molay. Il Gran Maestro ci vedeva a malapena, ma intuì chi si nascondeva dietro la maschera. Resistette con determinazione, e sulle sue labbra apparve un sorriso quando il re insistette perché confessasse dove custodiva la sacra reliquia di Gesù. Filippo si rese conto dell'inutilità di protrarre le torture: quell'uomo sarebbe morto senza confessare. Non gli restava che emanare un monito pubblico perché il mondo sapesse che il Tempio veniva abolito per l'eternità. Era il 18 marzo dell'anno del Signore 1314 quando venne firmata la sen-
tenza di morte contro il Gran Maestro del Tempio e i cavalieri che erano sopravvissuti alle interminabili torture ordinate dal re. Il 19 marzo Parigi era tutta una festa perché il re aveva ordinato di preparare una pira dove sarebbe arso l'orgoglioso Jacques de Molay. Nobili e plebei si sarebbero recati allo spettacolo, il sovrano stesso aveva promesso di assistervi. Alle prime luci del giorno la piazza si riempì di curiosi che litigavano per avere un buon posto da dove contemplare il supplizio finale di quelli che un tempo erano stati orgogliosi cavalieri. Il popolo gode sempre nel vedere umiliati i potenti, e il Tempio lo era stato, per quanto dalle sue mani fosse arrivato più bene che male. Jacques de Molay e Geoffroy de Charney vennero condotti sullo stesso carro. Sapevano che di lì a pochi minuti sarebbero bruciati e il loro dolore sarebbe cessato per sempre. La corte indossava gli abiti migliori, il re scherzava con le dame; lui, Filippo, aveva sottomesso il Tempio. La sua impresa sarebbe passata alla storia delle infamie. Il fuoco cominciavava a lambire le carni esangui dei Templari. Jacques de Molay fissava il re mentre il popolo di Parigi, così come Filippo, ascoltava il Gran Maestro proclamare la propria innocenza e rimandare al giudizio di Dio il re di Francia e papa Clemente. Un brivido percorse la schiena di Filippo il Bello. Il sovrano tremò di paura e dovette ripetersi che lui era il re e nulla gli poteva accadere perché godeva del consenso del papa e delle più alte autorità ecclesiastiche per quello che aveva fatto. No, Dio non poteva stare dalla parte dei Templari, quegli eretici che adoravano un idolo di nome Bafometto, che avevano peccato di sodomia e di cui erano noti accordi con i saraceni. Lui, Filippo, metteva in pratica i comandamenti della Chiesa e osservava le feste comandate. Sì, lui, Filippo re di Francia, obbediva alla Chiesa, ma obbediva forse anche alle leggi di Dio? «Ha finito?» «Uh, che spavento! Stavo leggendo dell'esecuzione di Jacques de Molay. Fa venire la pelle d'oca. Volevo chiederle cos'è il giudizio di Dio.» Il professor McFadden la guardò con aria annoiata. Erano due giorni che Ana Jiménez stava curiosando negli archivi facendogli domande a volte senza senso. Era sveglia ma un po' ignorante, e lui aveva dovuto impartirle
qualche rudimento di storia. La ragazza sapeva ben poco delle crociate e del turbolento mondo dei secoli dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo. Tuttavia non prendeva abbagli, la sua ignoranza della storia era inversamente proporzionale alla sua intuizione. Cercava, cercava, e sapeva dove trovare. Una frase, una parola, un fatto sembravano farle da traccia nell'anarchia della sua indagine. McFadden era stato attento, e aveva cercato di distogliere l'attenzione della giornalista da quegli eventi che sapeva avrebbero potuto essere materia pericolosa nelle sue mani. Si aggiustò gli occhiali e si preparò a spiegarle cos'era il giudizio di Dio. Ascoltandolo, Ana Jiménez lo guardava stupita e non poté evitare di commuoversi quando in tono drammatico il professore ripeté le parole di Jacques de Molay. «Papa Clemente morì dopo quaranta giorni e Filippo il Bello dopo otto mesi. Le loro morti furono terribili, proprio come le ho raccontato. Dio ha reso giustizia.» «Sono contenta per Jacques de Molay.» «Scusi?» «Sì, il Gran Maestro mi è simpatico. Credo che fosse un uomo buono e giusto, e Filippo il Bello un malvagio. Per cui sono contenta che questa volta Dio si sia deciso a fare giustizia. Purtroppo non si può dire che lo faccia sempre. Comunque, non ci sarà stata la mano dei Templari dietro quelle morti un po' strane?» «No, non c'è stata.» «E lei come lo sa?» «Esiste un'esauriente documentazione che attesta le circostanze della morte del re e del papa, e le assicuro che non troverà alcuna fonte che suggerisca, nemmeno come congettura, la possibilità di una vendetta dei Templari. Oltre tutto, non rientra nel loro modo di agire. Con tutto quello che ha letto, dovrebbe saperlo.» «Be', io l'avrei fatto.» «Che cosa?» «Avrei organizzato un gruppo di cavalieri perché sferrassero un colpo mortale al papa e a Filippo il Bello.» «È chiaro che non fu così. I cavalieri templari non si sarebbero mai comportati in questo modo.» «Mi racconti cos'era quel tesoro che cercava il re. Secondo gli archivi, aveva già lasciato i Templari praticamente senza niente. Tuttavia Filippo
insisteva perché Jacques de Molay gli consegnasse un tesoro. A quale tesoro si riferiva? Doveva trattarsi di qualcosa di concreto, qualcosa di grande valore, no?» «Filippo il Bello credeva che nel Tempio fossero custoditi più tesori di quanti aveva potuto requisire. Ne era ossessionato, pensava che Jacques de Molay lo stesse ingannando e gli nascondesse dell'altro oro.» «No, no, non credo che cercasse altro oro.» «Ah, no? Interessante! E cosa crede che cercasse?» «Come le ho detto, qualcosa di concreto; un oggetto di enorme valore per il Tempio e per il re di Francia, sicuramente per la Cristianità.» «Be', allora mi dica che cosa, perché le assicuro che è la prima volta che sento una simile... una simile...» «Se non fosse così educato direbbe "una simile scemenza". Magari ha ragione, lei è un professore e io una giornalista, lei si attiene ai fatti e io formulo ipotesi.» «La storia, signorina, non si scrive con le ipotesi ma con fatti certi, verificati da varie fonti.» «Secondo i vostri archivi, nei mesi prima che il re lo arrestasse, il Gran Maestro inviò delle lettere a diverse commende, molti cavalieri partirono senza fare ritorno. Avete copia di quelle lettere scritte da Jacques de Molay?» «Di qualcuna sì, copie di cui abbiamo potuto verificare l'autenticità. Altre si sono perse per sempre.» «Posso vedere quelle che avete?» «Cercherò di accontentarla.» «Mi piacerebbe poterlo fare domani, parto di sera.» «Ah, parte!» «Sì, e vedo che la cosa le fa piacere.» «Signorina, la prego!» «Sì, so che le sto rompendo le scatole e la distraggo dal suo lavoro.» «Farò in modo di recuperare i documenti per domani. Torna in Spagna?» «No, vado a Parigi.» «D'accordo, venga domattina presto.» 42 Ana Jiménez uscì. Le sarebbe piaciuto parlare ancora con Anthony McGilles, ma sembrava svanito nel nulla.
Era stanca. Aveva passato la giornata a leggere degli ultimi mesi del Tempio. Aveva la testa imbottita di numeri, date e racconti anonimi. Lei però aveva una fantasia straripante, come suo fratello le rimproverava sempre, per cui ogni volta che leggeva frasi come "Il Gran Maestro Jacques de Molay inviò una lettera alla commenda di Magonza attraverso il cavaliere de Larney che partì il mattino del 15 luglio accompagnato da due scudieri", cercava di immaginare che faccia avesse quel certo de Larney, se montava un cavallo nero o bianco, se faceva caldo, o se gli scudieri erano di malumore. Tuttavia sapeva che la sua fantasia non era in grado di supplire alla realtà, e soprattutto che era arduo scoprire cosa aveva scritto Jacques de Molay nelle sue lettere ai Maestri templari. C'era un dettagliato resoconto di quanti cavalieri avevano viaggiato recando delle missive, e di alcuni si diceva che avessero fatto ritorno, come quel Geoffroy de Charney, visitatore di Normandia. Degli altri si erano perse per sempre le tracce, almeno per quel che riguardava quegli archivi. Il giorno dopo, Ana sarebbe andata a Parigi. Aveva fissato un appuntamento con una professoressa di storia della Sorbona. Le era toccato mobilitare ancora una volta i suoi contatti per riuscire a farsi dire chi fosse la massima autorità accademica sul quattordicesimo secolo. A quanto pareva, si trattava della professoressa Elianne Marchais, una rispettabile sessantenne, autrice di numerosi volumi del tipo che leggono solo gli eruditi come la Marchais stessa. Andò direttamente in albergo; le stava costando più di quanto potesse permettersi, ma almeno si toglieva lo sfizio di dormire al Dorchester, come una principessa. Riteneva anche che in un bell'albergo sarebbe stata più al sicuro perché aveva avuto l'impressione di essere sorvegliata, ma poi, all'idea, si era data della stupida. Pensò che fossero quelli del Comando per la tutela del patrimonio artistico, e questo la tranquillizzò. Chiese che le portassero in camera un sandwich e un'insalata. Voleva andare subito a letto. Quelli del Comando potevano pensare ciò che volevano, ma lei era sicura che a comprare la Sacra Sindone dal povero Baldovino fossero stati i Templari. Quello che non tornava era che poi la Sindone fosse ricomparsa in un paesino della Francia, a Lirey. Come era arrivata fin lì? Ana andava a Parigi perché voleva che la professoressa Marchais le spiegasse ciò che quel brav'uomo del professor McFadden sembrava non volerle spiegare. Ogni volta che lei gli aveva chiesto se i Templari avessero ottenuto la Sacra Sindone, lui si era irritato invitandola ad attenersi ai fatti. Non c'era nessun documento, nessuna fonte che confermasse quella
teoria folle, e aveva insistito nell'affermare che ai Templari veniva attribuita ogni sorta di mistero, cosa che, come storico, lo indignava. Cosicché, il professor McFadden e quella istituzione apparentemente dedita allo studio del Tempio rifiutavano la possibilità che i Templari avessero mai posseduto la Sindone. Non solo, il professore le assicurava di essere indifferente a quella reliquia che, come avevano dimostrato gli scienziati, risaliva al tredicesimo o quattordicesimo secolo e non al primo; che comprendeva la superstizione della gente comune ma che a lui la superstizione non interessava né lo riguardava. Fatti, voleva parlare solo di fatti. Ana decise di chiamare Sofia; le piaceva parlare con lei e magari le avrebbe dato qualche consiglio sul comportamento da tenere con la professoressa Marchais. Sofia però non rispose, per cui lei restò a guardare l'agenda. E d'un tratto se ne rese conto: era lì. Come aveva fatto a non accorgersene? Magari era una follia, però se avesse avuto ragione? Se quello che stava succedendo aveva a che fare con gente del passato? Dormì male. Ormai gli incubi erano diventati una costante. Era come se una forza estranea la trascinasse sui luoghi cruenti del passato facendole contemplare l'atrocità del dolore. Vide Jacques de Molay e Geoffroy de Charney con gli altri Templari ardere tra le fiamme. Lei era lì, seduta in prima fila ad assistere, e sentì lo sguardo implacabile del Gran Maestro che le imponeva di andarsene. "Vattene, smetti di cercare o la Giustizia di Dio ricadrà su di te." Si svegliò di nuovo tutta sudata, atterrita. Il Gran Maestro non voleva che continuasse a indagare. Se avesse proseguito sarebbe morta, di questo era certa. Non riuscì più a prendere sonno. Sapeva di essere stata lì, quel 19 marzo 1314, sul sagrato di Notre-Dame, davanti al rogo in cui bruciava Jacques de Molay, e che lui stesso le aveva chiesto di rinunciare, di non cercare la Sindone. Il suo destino, si disse, era segnato, non si sarebbe arresa, per quanto potesse temere Jacques de Molay e perfino capisse che lui non voleva si sapesse la verità, ma ormai non poteva più tornare indietro. Il pastore Bakkalbasi aveva viaggiato con Ismet, il nipote di Francesco Turgut, il custode del duomo. Avevano preso un volo diretto da Istanbul a Torino. Altri membri della Comunità sarebbero arrivati dalla Germania, da altri posti d'Italia e dalla stessa Urfa.
Bakkalbasi sapeva che ci sarebbe stato anche Addaio. Nessuno sapeva dove fosse, dove si nascondesse, ma lui li stava sorvegliando, stava controllando i loro movimenti, dirigendo l'operazione attraverso i cellulari. Ognuno di loro ne aveva diversi. Gli ordini di Addaio erano di non usarli troppo e di fare in modo di comunicare tra loro dai telefoni pubblici. Mendibj doveva morire e Turgut calmarsi, altrimenti sarebbe morto anche lui; non c'era scelta. La polizia aveva perquisito le loro case a Urfa, segno che il Comando per la tutela del patrimonio artistico sapeva più di quanto volessero ammettere. Bakkalbasi ne era a conoscenza perché aveva un cugino al comando di polizia di Urfa: un bravo membro della Comunità che li aveva informati del repentino interesse dell'Interpol nei confronti dei turchi emigrati in Italia da Urfa. Non si sapeva cosa stavano cercando, ma la richiesta era stata di informazioni complete su varie famiglie, tutte appartenenti alla Comunità. Erano scattati i campanelli d'allarme e Addaio aveva designato il suo successore nel caso in cui gli fosse accaduto qualcosa. All'interno della Comunità ne esisteva un'altra segreta che viveva ancora più immersa nella clandestinità. Sarebbe toccato a loro proseguire la lotta se gli altri fossero caduti, e sarebbe successo: Bakkalbasi lo sentiva dal senso di oppressione allo stomaco. Non esitò ad accompagnare Ismet da Turgut. Quando il custode aprì la porta gridò spaventato. «Calmati, accidenti! Perché gridi? Vuoi mettere in allarme tutto il palazzo?» Entrarono in casa e, tranquillizzatosi, Turgut raccontò ai nuovi arrivati le ultime novità. Sapeva di essere sorvegliato, lo sapeva dal giorno dell'incendio. E quel padre Yves lo guardava in un modo... Sì, con lui si comportava in modo gentile, ma nei suoi occhi c'era qualcosa che gli diceva di stare attento o sarebbe morto; sì, sì, sentiva proprio così. Bevvero un caffè e il pastore diede istruzioni a Ismet perché non si allontanasse dalla casa dello zio, il quale lo doveva presentare alla sede vescovile annunciando che suo nipote avrebbe abitato con lui. Poi Bakkalbasi impose a Turgut di mostrare a Ismet il nascondiglio attraverso il quale si accedeva ai sotterranei, poteva capitare che qualcuno degli uomini giunti da Urfa dovesse nascondersi lì e quindi essere rifornito di acqua e cibo. Poi il pastore li lasciò, doveva incontrare vari altri membri della Comu-
nità in luoghi diversi. 43 «Che facciamo?» chiese Pietro. «Forse dovremmo seguirlo.» «Non sappiamo chi sia» rispose Giuseppe. «È turco, si vede.» «Se vuoi, lo seguo.» «Non so cosa dirti. Va bene, andiamo dal custode e gli chiediamo semplicemente chi è quello che è appena uscito da casa sua.» Ismet aprì la porta pensando fosse il pastore Bakkalbasi che aveva dimenticato qualcosa. Quando vide i due uomini si accigliò. I carabinieri, si disse, sono sempre riconoscibili. «Buongiorno, vorremmo parlare con Francesco Turgut.» Il giovane lasciò intendere che li capiva appena e chiamò suo zio in turco. Questi apparve sulla porta senza riuscire a controllare il tremore delle labbra. «Sa, stiamo proseguendo con le indagini sull'incendio del duomo. Vorremmo che cercasse di ricordare qualche particolare, qualcosa che abbia attirato la sua attenzione.» Turgut udì appena la domanda di Giuseppe, tanto era lo sforzo per non scoppiare in lacrime. Ismet si avvicinò allo zio e, cingendogli le spalle con un braccio con fare protettivo, rispose al suo posto in un misto di italiano e inglese. «Mio zio è anziano e dal giorno dell'incendio ha sofferto molto. Ha paura che vista la sua età pensino che non sia più in gamba come una volta e lo caccino perché non è stato più attento. Non potete lasciarlo stare? Vi ha raccontato tutto quello che ricorda.» «Lei chi è?» chiese Pietro. «Mi chiamo Ismet Turgut, suo nipote. Sono arrivato oggi, spero di poter restare a Torino e trovare lavoro.» «Da dove viene?» «Da Urfa.» «E lì non c'è lavoro?» intervenne Giuseppe. «Nelle aree petrolifere, ma quello che voglio fare io è imparare un buon mestiere qui, risparmiare e tornare a Urfa per aprire un'attività. Sono fidanzato.» Il ragazzo aveva l'aria di una brava persona, pensò Pietro, addirittura in-
nocente. Magari lo era anche. «Bene, ma ci piacerebbe che suo zio ci dicesse se ha contatti con altri immigrati di Urfa» disse Giuseppe. Francesco Turgut ebbe un sussulto. Ora sì che era sicuro che i carabinieri sapessero tutto. Ismet prese di nuovo in mano la situazione rispondendo con prontezza. «Be' certo, e anch'io spero di potermi vedere con la gente del mio paese. Anche se lo zio è mezzo italiano, noi turchi non perdiamo mai le nostre radici, vero zio?» Pietro insistette. Il giovane sembrava non voler lasciar parlare Francesco Turgut. «Signor Turgut, conosce la famiglia Bajerai?» «Bajerai!» esclamò Ismet come se gli avessero dato una buona notizia. «Ero a scuola con un Bajerai, credo che abbiano qui dei cugini di secondo grado o qualcosa del genere...» «Vorrei che fosse suo zio a rispondere» insistette Pietro. Francesco Turgut deglutì e si preparò a dire quello che aveva provato a lungo. «Sì, certo che li conosco. È una famiglia rispettabile a cui è capitata un'enorme disgrazia. I loro figli... insomma, i loro figli hanno commesso un errore e ora stanno pagando, ma le assicuro che i genitori sono brave persone, può chiedere a chiunque.» «Negli ultimi tempi ha incontrato i Bajerai?» «No, ultimamente non sto bene ed esco poco.» «Mi scusi» li interruppe Ismet con aria innocente «cosa hanno fatto i Bajerai?» «E perché crede che abbiano fatto qualcosa?» indagò Giuseppe. «Perché se voi, che siete carabinieri, vi presentate qui e chiedete dei Bajerai è perché hanno fatto qualcosa, altrimenti non lo fareste.» Il giovane sorrise soddisfatto ai due uomini che lo guardavano senza capire se era cinico o così innocente come sembrava. «D'accordo, torniamo al giorno dell'incendio» insistette Giuseppe. «Vi ho già detto tutto quello che ricordo. Se mi fosse venuto in mente qualcos'altro mi sarei messo in contatto con voi» affermò l'anziano con voce piagnucolosa. «Sono appena arrivato» spiegò Ismet «e non ho avuto ancora neanche il tempo di chiedere allo zio dove dormirò, non potreste tornare un'altra volta?»
Pietro fece un cenno a Giuseppe. Salutarono e se ne andarono. «Che ne dici del nipote?» chiese Pietro al collega. «Non so, ma sembra un bravo ragazzo.» «Potrebbero averlo mandato per controllare lo zio.» «Bah! Cerchiamo di non vedere fantasmi, sono d'accordo con te sul fatto che Sofia e Marco su questo caso stanno facendo un film, anche se Marco dove butta l'occhio... Ma con la Sindone è proprio fissato.» «Però ieri mi hai mollato da solo quando glielo dicevo.» «A che serve discutere? Facciamo quello che ci ordinano. Se hanno ragione, fantastico, siamo a cavallo; se non ce l'hanno, fa lo stesso, se non altro avremo tentato di trovare una risposta a quei maledetti incendi. Non c'è niente da perdere a indagare, però senza angoscia, con tranquillità.» «La tua flemma mi stupisce, sembri inglese più che italiano.» «Sei tu che te la prendi troppo, ultimamente poi trovi da discutere su tutto.» «Ho l'impressione che il gruppo si sia rotto, che le cose non siano più come prima.» «Be', certo che il gruppo si è rotto, ma si aggiusterà. La colpa è tua e di Sofia, quando siete insieme diventate tesi come corde di violino e sembra che vi divertiate a fare i bastian contrari. Se lei dice "a" tu dici "b" e vi guardate come se doveste saltarvi alla gola da un momento all'altro. Marco ha ragione quando dice che è sbagliato mischiare il lavoro con il letto. Sarò sincero, per colpa vostra adesso siamo tutti in imbarazzo.» «Non ti ho chiesto di essere così sincero.» «Vero, ma avevo voglia di dirtelo e te l'ho detto.» «Va bene, la colpa è mia e di Sofia. Cosa vuoi che facciamo?» «Niente. Immagino che vi passerà, e comunque lei se ne va. Una volta chiuso il caso taglia la corda, ormai qui tutto le va stretto. La ragazza è troppo in gamba per dare la caccia ai ladri.» «È una donna straordinaria.» «La cosa strana è che uscisse con te.» «Fantastico! Ti ringrazio.» «Bah! Bisogna accettare ciò che si è, e tu e io siamo due carabinieri. Non abbiamo la sua classe e nemmeno la sua preparazione. Non siamo come lei, non siamo neanche come Marco, il capo ha studiato e si vede. Ovvio che sono contento di essere quello che sono e di essere arrivato dove mi trovo. Lavorare nel Comando per la tutela del patrimonio artistico è una pacchia e dà prestigio.»
«La tua sincerità mi sta rompendo le palle.» «Va bene, allora sto zitto, però credevo che tra noi potessimo parlare così, dirci la verità.» «Me l'hai già detta, adesso lasciami in pace. Andremo alla caserma e chiederemo all'Interpol che i turchi ci mandino qualche informazione sul nipote che è saltato fuori a Turgut. Ma prima potremmo andare a parlare con quel padre Yves.» «E perché? Lui non è di Urfa.» «Buona, questa. Però quel prete...» «Adesso ce l'hai con lui?» «Non essere stupido, andiamo a trovarlo.» Padre Yves li ricevette subito. Stava preparando un discorso che il cardinale doveva pronunciare l'indomani nel corso di una riunione con alcune madri superiori di conventi di clausura. «Routine» disse. Si informò sulle indagini, più per cortesia che per interesse, e assicurò loro che con i nuovi sistemi di sicurezza contro gli incendi difficilmente il duomo avrebbe subito altri danni. Rimasero a chiacchierare per un quarto d'ora, ma dato che non avevano nulla di nuovo da dirsi si salutarono. 44 Il Templare diede di sprone. Intravedeva il Guadiana e i merli della fortezza di Castro Marim. Aveva cavalcato senza sosta da Parigi dove aveva assistito, impotente, al sacrificio del Gran Maestro. Gli rimbombava nelle orecchie la voce profonda di Jacques de Molay che rimetteva Filippo il Bello e papa Clemente al Giudizio di Dio. Non aveva il minimo dubbio che il Signore avrebbe fatto giustizia e non avrebbe lasciato impunito il crimine commesso dal re di Francia con l'aiuto del papa. A Jacques de Molay era stata tolta la vita ma non la dignità, perché mai vi fu uomo più degno e coraggioso negli ultimi istanti dell'esistenza. Il Templare concordò con il barcaiolo il prezzo della traversata del fiume e una volta sulla sponda portoghese si diresse in tutta fretta verso la commenda che negli ultimi tre anni, dopo aver combattuto in Egitto e aver difeso Cipro, era stata la sua casa. Il Maestro José Sa Beiro accolse immediatamente Jòao de Tomar e lo fece accomodare, offrendogli dell'acqua fresca che lo ristorasse dall'arsura
del viaggio. Il superiore della commenda si sedette di fronte a lui e si preparò ad ascoltare le nuove del cavaliere che aveva inviato come spia a Parigi. Per due ore Jòao de Tomar raccontò con fervore gli ultimi giorni del Tempio, scendendo nei particolari sulla giornata nera del 19 marzo quando Jacques de Molay e gli ultimi Templari erano bruciati vivi sotto lo sguardo impietoso del popolo e della corte di Parigi. Commosso dal racconto, il Maestro dovette ricorrere a tutta la dignità del proprio ruolo per non lasciar trapelare l'emozione. Filippo il Bello aveva decretato la morte del Tempio, e in quei giorni in ogni angolo d'Europa veniva messa in atto la soppressione dell'Ordine avallata dal papa. I cavalieri dovevano essere giudicati nei regni cristiani. In alcuni sarebbero stati assolti, in altri si sarebbero eseguiti gli ordini del pontefice per farli entrare in altri ordini religiosi. José Sa Beiro conosceva le buone intenzioni di re Dionigi, ma il sovrano del Portogallo sarebbe stato capace di opporsi ai dettami di papa Clemente? Sa Beiro doveva saperlo, e a questo scopo avrebbe inviato un cavaliere perché trattasse a suo nome con il re e questi chiarisse le sue intenzioni. «Mi rendo conto di quanto siete stanco, ma devo chiedervi di accettare una nuova missione. Andrete a Lisbona e porterete una lettera al re. Gli racconterete ciò che avete visto senza omettere alcun dettaglio. E attenderete la risposta. Vado a preparare la lettera, nel frattempo potete riposare. Se possibile, dovreste partire domani.» Jòao de Tomar ebbe appena il tempo di riprendersi dalle fatiche del viaggio. Il sole non era ancora sorto quando fu chiamato alla presenza del Maestro. «Ecco la lettera, andate a Lisbona e che Dio vi protegga.» In quelle prime luci dell'alba, Lisbona appariva in tutto il suo splendore. Jòao de Tomar viaggiava ormai da diversi giorni, avendo dovuto fare una lunga sosta perché il suo cavallo si era fatto male a una zampa. Non volle lasciarlo alla posta, anzi lui stesso gli applicò un impiastro e attese due giorni perché si rimettesse. Quell'animale era il suo amico più fedele, quello che gli aveva salvato la vita in più di una battaglia. Per niente al mondo l'avrebbe lasciato per un ronzino e, anche a rischio di essere rimproverato dal Maestro per il ritardo nel compiere la missione, Jòao de Tomar aspettò che il suo cavallo fosse in condizioni di procedere. Anche
così, comunque, non lo caricò del suo peso ma montò un altro cavallo che gli avevano dato alla posta in cambio di una moneta d'oro. Sotto re Dionigi, il Portogallo era diventato una nazione prospera. Dal genio del sovrano era nata l'università, e stava per essere completata una profonda riforma dell'agricoltura, al punto che per la prima volta c'erano eccedenze di grano, olio di oliva e vino buono per l'esportazione. Non passò molto tempo prima che il re ricevesse Jòao de Tomar, e il Templare portoghese, dopo aver consegnato al sovrano la lettera di José Sa Beiro, raccontò di nuovo quanto aveva vissuto a Parigi. Avrebbe risposto presto alla missiva, gli assicurò il re, che aveva già avuto notizia della disposizione del pontefice circa l'abolizione dell'Ordine. Jòao de Tomar sapeva dei buoni rapporti tra re Dionigi e il clero, con cui aveva firmato un concordato qualche anno prima. Avrebbe avuto il coraggio di tenere testa al papa? Il Templare attese tre giorni prima di essere nuovamente chiamato dal re. Questi aveva preso una decisione tanto saggia quanto salomonica: non avrebbe affrontato il papa ma nemmeno avrebbe perseguitato i Templari. Dionigi del Portogallo aveva stabilito che venisse fondato un nuovo ordine, l'Ordine di Cristo, del quale avrebbero fatto parte tutti i Templari, conservando le proprie regole, con l'unica differenza che il nuovo ordine sarebbe stato sotto il controllo reale anziché papale. Così facendo, questo re prudente garantiva che le ricchezze dei Templari rimanessero in Portogallo senza essere trasferite sotto il potere della Chiesa o di altri ordini. Avrebbe potuto contare sulla riconoscenza dei Templari e soprattutto sull'aiuto del loro oro, per realizzare i suoi piani, i piani del regno. La decisione del re era ferma, e come tale lui l'avrebbe comunicata ai superiori di tutte le commende. D'ora in avanti il Tempio del Portogallo sarebbe stato sotto la giurisdizione reale. Quando il Maestro José Sa Beiro venne a sapere della disposizione del re, capì che anche se i Templari non sarebbero stati perseguitati né arsi vivi sui roghi come in Francia, da quel momento i loro beni erano a disposizione del re. Quindi doveva prendere una decisione, dal momento che era possibile che da Lisbona gli venisse chiesto un inventario dei beni di ciascuna commenda. Castro Marim, dunque, non era più un luogo sicuro per custodire il vero tesoro del Tempio, e lui doveva fare in modo di nasconderlo dove né le mani del re né quelle del papa sarebbero potute arrivare. Beltrán de Santillana aveva ripiegato con cura la Sacra Sindone e l'aveva
riposta nella bisaccia da cui non si separava mai. Aspettava che la marea si alzasse perché la nave che l'avrebbe condotto in Scozia potesse salpare. Fra tutti i paesi della Cristianità, era l'unico dove la notizia dell'ordine di abolizione del Tempio non era arrivata, e non l'avrebbe mai fatto. Il re Robert Bruce era stato scomunicato, e così come lui non si occupava delle questioni della Chiesa, la Chiesa ignorava quelle della Scozia. I cavalieri templari non avevano dunque nulla da temere da Robert Bruce, e la Scozia sarebbe perciò diventata l'unico territorio dove il Tempio avrebbe conservato tutto il suo potere. José Sa Beiro sapeva che solo in quella terra il tesoro del Tempio sarebbe stato salvo per sempre, e obbedendo alle indicazioni dell'ultimo Gran Maestro arso sul rogo, Jacques de Molay, si preparò a mandare il cavaliere Beltrán de Santillana, con Jòao de Tomar, Wilfredo de Payens e altri a proteggere la sacra reliquia fino alla casa del Tempio ad Arbroath. Sarebbe spettato al Maestro di Scozia decidere dove nascondere la Sacra Sindone. La responsabilità che la reliquia non cadesse mai in altre mani che non fossero quelle dei Templari sarebbe stata sua. Il Maestro di Castro Marim consegnò a Beltrán de Santillana una lettera per il Maestro di Scozia, oltre alla missiva originale che gli aveva mandato Jacques de Molay, esponendogli le ragioni per cui dovevano mantenere segreto il possesso del sudario di Cristo. La barca doppiava l'ansa del Guadiana presso lo sbocco al mare, dove era in attesa la nave che avrebbe portato il tesoro del Tempio fino in Scozia. I cavalieri non si voltarono. Non volevano essere vinti dall'emozione nell'abbandonare per sempre il Portogallo. La nave dei cavalieri fu sul punto di colare a picco, tanta era la forza della tempesta che li sorprese durante il viaggio. Il vento e la pioggia sballottavano l'imbarcazione come se fosse stata un guscio di noce, ma questa, comunque, aveva tenuto. Le scogliere della costa scozzese annunciavano la fine della traversata. I fratelli del Tempio di Scozia erano a conoscenza del terrore che il papa e il re di Francia avevano scatenato contro i Templari, ma si sapevano al sicuro grazie ai buoni rapporti con il re Robert Bruce, al cui fianco combattevano e si difendevano dai nemici. Il Maestro li chiamò nella sala capitolare. Lì, davanti agli sguardi attoniti dei cavalieri, distese il sacro telo. Aveva una certa somiglianza con il dipinto di quel Cristo che adoravano nella discrezione della cappella privata,
perché tutti i Maestri sapevano di possedere la vera immagine di Cristo, di cui si erano fatti delle copie in modo che i Templari avessero presente il Signore. Il sole sorgeva all'orizzonte quando i cavalieri uscirono dalla sala dove nelle ore precedenti avevano avuto il privilegio di pregare davanti al vero volto di Gesù. Beltrán de Santillana restò solo con il Maestro dei Templari di Scozia. I due uomini parlarono brevemente, poi, ripiegato con cura il sacro telo, si accinsero a riporre il tesoro più prezioso del Tempio. Un tesoro di cui, con il passare dei secoli e secondo quanto stabilito dall'ultimo Gran Maestro, solo pochi eletti avrebbero potuto godere. Jacques de Molay poteva riposare in pace. 45 Elianne Marchais era minuta, elegante e non priva di fascino. Accolse Ana Jiménez con un misto di rassegnazione e curiosità. I giornalisti non le piacevano, riassumevano in modo talmente approssimativo quello che gli si raccontava che alla fine alteravano tutto. Ecco perché non concedeva interviste, e quando le chiedevano un'opinione su qualcosa la sua risposta era invariabilmente: "Si legga i miei libri, lì c'è tutto ciò che penso, e non mi chieda di dirle in tre parole quello che ha richiesto trecento pagine per essere spiegato". Quella giovane, però, era un caso a parte, era raccomandata. A telefonarle per chiederle un favore era stato l'ambasciatore spagnolo presso l'UNESCO. Oltre a due rettori di prestigiose università spagnole e tre colleghi della Sorbona. O la ragazza era molto importante o era una testarda disposta a tutto pur di averla vinta, nel qual caso le avrebbe dedicato qualche minuto del suo tempo perché non era disposta a fare di più. Ana Jiménez capì che con una donna come Elianne Marchais non c'era spazio per i sotterfugi e quindi decise di dirle la verità; delle due l'una: o la professoressa la mandava fuori dai piedi o decideva di aiutarla. Ci mise meno di venti minuti per spiegarle che voleva scrivere una storia sulla Sindone e che aveva bisogno del suo parere di esperta per separare la fantasia dalla realtà nella storia della reliquia. «E perché le interessa la Sacra Sindone? È cattolica?» «No... be'... immagino di sì, in un certo senso, sono battezzata, anche se non sono praticante.»
«Non ha risposto alla mia domanda. Perché le interessa la Sindone?» «Perché è un oggetto controverso che, oltre tutto, sembra attirare una certa violenza: incendi, furti nel duomo...» La professoressa Marchais inarcò un sopracciglio e con un certo disprezzo si preparò a porre fine alla conversazione. «Signorina Jiménez, temo di non poterla aiutare. La mia specialità non sono gli eventi esoterici, ragion per cui dovrà cercarsi qualcuno di più adatto per parlare di una tesi così interessante come la Sindone che attira le calamità.» Elianne Marchais si alzò. Non le interessava minimamente parlare con una stupida giornalista. Per chi l'aveva presa per osare esporre, proprio a lei, una simile assurdità? Ana non si mosse. Guardò fisso l'accademica e tornò alla carica cercando di non fare gaffe. «Credo di essermi espressa male, professoressa Marchais. Non mi interessa l'esoterismo, se le ho dato questa impressione mi dispiace. Quello che sto cercando di fare è scrivere una storia documentata, lontana appunto da qualsiasi interpretazione magica, esoterica o come la si voglia chiamare. Cerco fatti e solo fatti, non congetture. Per questo sono venuta da lei, per essere in grado di separare la verità dalle interpretazioni di certi autori più o meno conosciuti. Lei sa ciò che è avvenuto in Francia nel tredicesimo e quattordicesimo secolo come se fosse oggi, e sono queste le conoscenze che mi servono.» La professoressa Marchais, sempre in piedi, esitò. La motivazione che le aveva appena dato la ragazza, se non altro, era seria. «Non ho molto tempo, per cui mi dica esattamente che cosa vuole sapere.» Ana tirò un sospiro di sollievo. Sapeva di non potersi permettere un altro errore o sarebbe stata cacciata a pedate. «Mi piacerebbe che mi spiegasse esattamente tutto quello che è legato alla comparsa della Sacra Sindone in Francia.» Con fare indifferente, la professoressa le raccontò con dovizia di particolari la comparsa della Sindone a Lirey. «Le cronache più documentate dell'epoca riferiscono che nel 1349 Geoffroy de Charny, signore di Lirey, fece sapere di essere in possesso di un sudario con l'impronta del corpo di Gesù a cui la sua famiglia era molto devota. Questo nobile inviò delle lettere chiedendo l'autorizzazione al papa e al re di Francia per costruire una collegiata dove esporre il sudario per la
venerazione da parte dei fedeli. Alla richiesta del signore di Lirey non risposero né il papa né il re, per cui la collegiata non si poté costruire, ma il sudario cominciò a essere oggetto di culto con la complicità dei canonici di Lirey, che videro un'occasione per aumentare la loro influenza e importanza.» «Ma de Charny dove aveva trovato il sudario?» «Nella lettera che scrisse al re di Francia, conservata negli archivi reali, sosteneva di aver mantenuto segreto il possesso del sudario per non provocare dispute fra cristiani. Già altri sudari erano apparsi in luoghi molto distanti come Aquisgrana, Jaén, Tolosa, Magonza e Roma. Proprio a Roma, dal 1350, nella basilica vaticana era esposto un sudario che naturalmente veniva considerato autentico. Geoffroy de Charny giurò al re e al papa, sull'onore della sua famiglia, che il sudario da lui posseduto era quello autentico, ma ciò che non confessò mai, né al re né al papa, era come fosse finito nelle sue mani. Eredità di famiglia? L'aveva comprato? Non lo rivelò e perciò non lo sappiamo. «Dovette attendere anni prima di ricevere l'autorizzazione per costruire la collegiata, anche se non fece in tempo a vedervi esposta la Sindone dato che morì a Poitiers per salvare il re di Francia cui fece da scudo con il proprio corpo durante la battaglia. La vedova di de Charny donò la reliquia alla chiesa di Lirey, cosa che contribuì ad arricchire i canonici locali suscitando al contempo l'invidia dei prelati di altri paesi e città, dando origine a un vero e proprio conflitto. «Il vescovo di Troyes ordinò che fosse eseguita un'approfondita indagine. Riuscì addirittura a portare un testimone importante per mettere in dubbio l'autenticità del sudario. Un pittore sostenne di aver realizzato l'immagine su incarico del signore di Lirey, cosicché il vescovo trovò lo spunto per proibire l'esposizione del sudario. «Sarebbe stato un altro Geoffroy, Geoffroy II de Charny, anni dopo, esattamente nel 1389, a ottenere da papa Clemente VII l'autorizzazione a esporre il sudario. Intervenne di nuovo il vescovo di Troyes, allarmato dal flusso di pellegrini che si recavano a adorare la Sindone. Per qualche mese riuscì a far sì che il sudario tornasse nella sua teca e non venisse esposto, ma, nel frattempo, Geoffroy de Charny raggiunse un accordo con il pontefice: avrebbe potuto esporre il sudario a patto che i canonici di Lirey spiegassero ai fedeli che si trattava di un dipinto realizzato per rappresentare il sudario di Cristo.» Con voce incolore la professoressa Marchais continuò il suo viaggio at-
traverso la storia, spiegando che la figlia di Geoffroy II, Marguerite de Charny, decise di custodire il sudario nel castello del suo secondo marito, il conte de la Roche. «Perché?» chiese Ana. «Perché nel 1415, durante la Guerra dei Cent'Anni, i saccheggi erano continui. Per cui Marguerite ritenne che la reliquia sarebbe stata più al sicuro nel castello del marito, a Saint-Hippolyte-sur-le-Doubs. Era una donna particolare perché quando rimase vedova per la seconda volta incrementò le scarse rendite che le aveva lasciato il marito facendosi pagare da chiunque volesse vedere da vicino il sudario di Cristo e pregarvi di fronte. Furono proprio le difficoltà economiche a spingerla a vendere la reliquia a Casa Savoia. La data della cessione fu il 22 marzo 1453. I canonici di Lirey protestarono perché si proclamavano proprietari del telo dal momento che la vedova di quel Geoffroy I de Charny lo aveva ceduto a loro. Marguerite, d'altro canto, non se ne curò e si godette il castello di Varambom e le rendite della signoria di Miribel, ceduti da Casa Savoia. Esiste un contratto in merito, firmato da Luigi I duca di Savoia. Da allora la storia della Sindone è di dominio pubblico.» «Volevo chiederle se è possibile che il sudario fosse giunto in Francia attraverso i Templari.» «Ah, i Templari! Quante leggende e che trattamento ingiusto è stato loro riservato per ignoranza! È spazzatura, solo spazzatura, quella pseudoletteratura che parla dei Templari. E sa perché? Perché molte organizzazioni massoniche si proclamano eredi del Tempio. Alcune di esse sono state, per dirla tutta, dalla parte buona, per esempio durante la Rivoluzione francese, mentre altre...» «Ma il Tempio è sopravvissuto?» «Certo, ci sono organizzazioni che, come le dicevo, dichiarano di esserne eredi. Non dimentichi che in Scozia il Tempio non venne mai soppresso. Per me, comunque, il Tempio è morto il 19 marzo 1314 nel rogo dove Filippo il Bello ordinò di bruciare il Gran Maestro Jacques de Molay con altri cavalieri.» «Sono stata a Londra, ho trovato un centro di studi sui Templari.» «Come le ho detto ci sono club e organizzazioni che si dichiarano eredi del Tempio. Non mi interessano assolutamente.» «Perché?» «Signorina Jiménez, io sono una storica.» «Sì, lo so, ma...»
«Niente ma. C'è altro?» «Sì, vorrei sapere se la famiglia de Charny è arrivata ai giorni nostri, se ci sono dei discendenti...» «Le grandi famiglie succedono a se stesse, dovrebbe interpellare un esperto in materia, un esperto in genealogia.» «Mi scusi se insisto, ma dove pensa che abbia trovato il sudario quel Geoffroy de Charny?» «Non lo so. Le ho già detto che non lo ha mai rivelato, come altrettanto fecero la vedova e i discendenti che ne entrarono in possesso fino al passaggio ai Savoia. Poteva trattarsi di una reliquia comprata, o regalata, chi lo sa. In quei secoli l'Europa era piena di reliquie portate dai crociati. In gran parte erano false, ecco spiegato il gran numero di "santi graal", sudari, ossa di santi...» «C'è modo di sapere se la famiglia di Geoffroy de Charny è stata in qualche modo legata alle crociate?» «Le ripeto che dovrebbe parlare con un genealogista. Certo che...» La professoressa Marchais rimase pensierosa, picchiettando la punta della biro sul tavolo. Ana pendeva dalle sue labbra. «Potrebbe essere che Geoffroy de Charny avesse qualcosa a che fare con Geoffroy de Charney, il visitatore del Tempio in Normandia che morì nel rogo con Jacques de Molay dopo aver anch'egli combattuto in Terra Santa. È una questione ortografica e...» «Sì, sì, è così! Certo che sono della stessa famiglia!» «Signorina, non si lasci trasportare dai suoi desideri. Ho detto che potrebbe darsi che i due cognomi provengano dallo stesso ramo, per cui il Geoffroy de Charny che possedeva il sudario...» «Lo possedeva perché anni prima l'altro Geoffroy l'aveva portato dalla Terra Santa e lo custodiva nella casa di famiglia. Non è una supposizione strampalata.» «Sì, invece lo è, perché il visitatore di Normandia era un Templare. Se avesse avuto la reliquia sarebbe stata di proprietà del Tempio, non l'avrebbe mai nascosta nella casa di famiglia. Su questo Geoffroy abbiamo una ricca documentazione perché restò fedele a de Molay e al Tempio... Non facciamo volare la fantasia.» «Però ci può essere qualche motivo per cui non ha consegnato il sudario al Tempio.» «Ne dubito. Intorno a Geoffroy de Charney non c'è posto per le speculazioni. Mi dispiace se l'ho messa in confusione. Secondo me non si tratta di
un problema di ortografia, semplicemente i due Geoffroy appartengono a famiglie diverse.» «Andrò a Lirey.» «Perfetto. C'è altro?» «Grazie mille, credo che, senza saperlo, lei abbia svelato una parte dell'enigma.» Elianne Marchais salutò Ana Jiménez confermando ancora una volta la sua opinione sui giornalisti: superficiali, abbastanza ignoranti e portati per le elucubrazioni più stupide. Non c'era da meravigliarsi che i giornali raccontassero tante sciocchezze. Ana arrivò a Troyes il giorno dopo l'incontro con la professoressa Marchais. Aveva noleggiato una macchina per andare fino a Lirey e si sorprese nel vedere che si trattava di una frazione in cui vivevano non più di una cinquantina di persone. Passeggiò fra i resti dell'antica casa signorile accarezzando vecchie pietre, cercando di far sì che il contatto con esse le offrisse qualche pista, qualche intuizione. Negli ultimi tempi agiva seguendo l'istinto, senza programmare niente. Si avvicinò a un'anziana signora che portava a spasso il cane lungo il sentiero che conduceva a quella che era stata la fortezza del nobile Geoffroy. «Buongiorno.» La donna la scrutò da capo a piedi, con curiosità. «Buongiorno.» «È un posto molto bello.» «Certo che è molto bello, ma i giovani non la pensano così e preferiscono la città.» «Be', diciamo che in città ci sono più opportunità di lavoro.» «Il lavoro è dove uno lo vuole trovare. Qui a Lirey la terra è buona. Lei di dov'è?» «Sono spagnola.» «Ah! Mi pareva, dall'accento, però parla abbastanza bene il francese.» «Grazie.» «E che ci fa da queste parti? Si è persa?» «No, assolutamente. Sono venuta a vedere il posto. Sono giornalista e sto scrivendo una storia sulla Sacra Sindone. E dato che è comparsa qui, a Lirey...»
«Uff! Roba di molti secoli fa! Adesso dicono che il sudario non è autentico, che l'hanno dipinto qui.» «E lei cosa ne pensa?» «Per me fa lo stesso, sono atea, be' in realtà agnostica, e le storie di santi e reliquie non mi hanno mai interessato.» «Infatti, è la stessa cosa per me, però mi hanno assegnato l'articolo e il lavoro è lavoro.» «Ma qui non troverà niente, i resti della fortezza sono quelli che vede.» «Non ci sono archivi o documenti sulla famiglia de Charny?» «Può darsi che ce ne siano a Troyes, anche se i discendenti della famiglia vivono a Parigi.» «Vivono?» «Be', ci sono molti rami della famiglia, sa che i nobili erano prolifici.» «Come posso fare per trovarli?» «Non lo so, non ho rapporti con loro, anche se ogni tanto qualcuno si è fatto vedere. Tre o quattro anni fa è venuto il fratello minore di uno dei discendenti degli Charny. Bel ragazzo! Siamo usciti tutti a vederlo.» «Ma come faccio a trovarli?» «Chieda in quella casa in fondo alla valle. Ci abita il signor Didier, è lui che si occupa delle terre degli Charny.» Ana lasciò perdere l'anziana e si diresse in tutta fretta verso la casa che le aveva indicato. Non riusciva a credere alla fortuna che le era capitata. Stava per incontrare i discendenti di Geoffroy de Charny. Il signor Didier doveva essere sulla sessantina. Alto e robusto, con i capelli bianchi e un viso poco cordiale, guardava Ana con diffidenza. «Signor Didier, sono una giornalista, sto scrivendo una storia sulla Sacra Sindone e sono venuta a vedere Lirey, dato che è qui che è comparsa. So che queste terre appartengono alla famiglia de Charny e mi hanno detto che lei lavora per loro.» Didier la fissò seccato. Stava sonnecchiando seduto sulla sua poltrona preferita. Sua moglie era nel retro della casa, in cucina, e non aveva sentito suonare alla porta, per cui aveva aperto lui e ora si trovava con una ficcanaso. «Cosa vuole?» «Be', mi piacerebbe che mi parlasse di questo paesino, della famiglia Charny...» «E perché?» «Come ho detto, sono giornalista e sto scrivendo una storia.»
«E a me cosa importa di quello che fa? Crede che mi metta a raccontarle degli Charny solo perché lei è giornalista?» «Insomma, non mi sembra di chiederle nulla di male. So che in questo paese dovete essere orgogliosi perché qui è comparsa la Sacra Sindone e...» «Non ce ne frega un bel niente, non frega a nessuno. Se vuole avere notizie della famiglia se le cerchi a Parigi, ma non venga qui a chiedere informazioni, non siamo dei pettegoli.» «Signor Didier, mi ha frainteso, non sono in cerca di pettegolezzi, voglio solo scrivere una storia di cui questo posto e la famiglia Charny sono una parte importante. La Sacra Sindone l'avevano loro, è stata esposta qui e, insomma, direi che c'è di che essere orgogliosi.» «Alcuni di noi lo sono.» Ana e il signor Didier volsero lo sguardo verso la donna che era appena entrata nel soggiorno. Alta e robusta, sembrava di qualche anno più giovane del signor Didier e, a differenza di lui, non aveva un'espressione seccata ma piuttosto cordiale. «Temo che lei abbia svegliato mio marito, e questo incide sul suo umore. Si accomodi. Desidera un tè, un caffè?» Ana non ci pensò due volte ed entrò in casa. «Grazie mille, sì. Se non è di troppo disturbo prendo volentieri un caffè.» «Bene, glielo porto fra un minuto. Si sieda pure.» I Didier si guardarono squadrandosi. Era chiaro che avevano caratteri opposti e litigavano spesso. Ana decise di parlare del più e del meno in attesa che la signora Didier tornasse. Quando arrivò, le raccontò il motivo della sua visita. «Gli Charny sono i signori di queste terre da tempo immemorabile. Dovrebbe andare alla collegiata, dove troverà notizie su di loro, e naturalmente negli archivi storici di Troyes.» La signora Didier parlò a lungo della vita a Lirey, lamentandosi della fuga dei giovani. I loro due figli vivevano a Troyes, uno era medico e l'altro lavorava in banca. La brava donna diede ad Ana informazioni puntuali su tutta la sua famiglia e lei stette pazientemente ad ascoltare. Preferiva sorbirsi quella conversazione prima andare al sodo, cosa che alla fine, puntualmente, fece. «E gli Charny che tipi sono? Dev'essere emozionante per loro venire a Lirey.»
«Esistono molti rami della famiglia. I discendenti di uno di essi, quelli che conosciamo noi, non si fanno vedere spesso, però noi ci occupiamo delle loro terre e dei loro interessi. Sono un po' boriosi, come tutti gli aristocratici. Anni fa è venuto un lontano parente, un bel ragazzo, e anche molto simpatico! Era accompagnato dal superiore della collegiata. È lui che ha avuto più a che fare con gli Charny. Noi siamo in contatto con un amministratore che vive a Troyes. Le darò l'indirizzo, così lo può chiamare. Il signor Capell è molto gentile.» Due ore più tardi, Ana usciva dalla casa dei Didier con qualche informazione in più rispetto a quando era arrivata. Era tardi, perché in Francia alle sette già si cena, per cui decise di tornare a Troyes e aspettare l'indomani per curiosare negli archivi e recarsi alla collegiata di Lirey per parlare con il superiore, se mai l'avesse ricevuta. L'incaricato dell'archivio municipale di Troyes era un giovanotto con un piercing al naso e tre orecchini per lobo. Le confessò di annoiarsi a morte in quel posto, pur ammettendo che in fin dei conti era stato fortunato a trovarlo dato che era bibliotecario. Ana gli disse che cosa stava cercando e Jean, si chiamava così, si offrì di aiutarla. «E così credi che il visitatore del Tempio in Normandia fosse un antenato del nostro Geoffroy de Charny. I cognomi, però, non sono uguali.» «Sì, ma potrebbe trattarsi di una variazione nell'ortografia del cognome, non sarebbe la prima volta che a un cognome viene tolta o aggiunta una lettera.» «Certo, certo. Be', non sarà facile, magari se mi dai una mano vediamo un po' cosa si può trovare.» Innanzi tutto, cercarono negli archivi informatizzati, poi passarono ai vecchi fascicoli cartacei. Ana era sbalordita dall'intelligenza di Jean. Oltre che bibliotecario era laureato in filologia francese, e il francese antico non aveva segreti per lui. «Ho trovato un elenco di tutti i battezzati nella collegiata di Lirey. È un documento del diciannovesimo secolo con cui uno studioso locale ha deciso di riscattare la memoria del suo paese, dilettandosi a ricopiare gli archivi ecclesiastici. Vediamo se c'è qualcosa.» Dopo quattro giorni di lavoro, Ana e Jean erano quasi riusciti a tracciare un albero genealogico degli Charny ben sapendo entrambi che era incom-
pleto: pur avendo infatti la copia di qualche atto di nascita, nulla si conosceva delle vicissitudini di quei personaggi che si erano sposati più volte per stringere alleanze con altri nobili e le cui tracce, come quelle dei loro figli, erano praticamente impossibili da seguire. «Credo che dovresti cercare uno storico, qualcuno esperto di genealogia.» «Sì, me l'hanno già detto. Ma chi? Ne conosci uno?» «Ho un amico che è di qui, di Troyes. Abbiamo fatto la maturità insieme, poi lui è andato a Parigi a fare il dottorato di storia alla Sorbona, è stato perfino assistente. Però poi si è innamorato di una giornalista scozzese e in meno di tre anni ha finito la scuola di giornalismo. Vivono a Parigi e dirigono una rivista, "Enigmi". Personalmente ho qualche perplessità su quel tipo di pubblicazioni. Parlano di misteri del passato, di enigmi irrisolti. Collaborano con genealogisti, storici, scienziati. Lui potrebbe darci il nome di qualche genealogista. Non ci vediamo da anni, più o meno dai tempi del matrimonio. Lei ha avuto un incidente e non sono più tornati. Ma è un caro amico e ti riceverà. Anche se prima devi comunque andare alla collegiata, magari il superiore dispone di archivi o sa qualcosa di questa famiglia che può essere interessante.» Il superiore della collegiata si rivelò un gentile settantenne che ricevette Ana un'ora dopo la sua telefonata. «Gli Charny sono sempre stati legati a questo posto. Hanno mantenuto la proprietà dei terreni, ma sono secoli che non vivono qui.» «Lei conosce gli attuali Charny?» «Be', alcuni. Ci sono diversi rami di Charny, e come può immaginare i discendenti sono dozzine. I membri di una delle famiglie, quelli più legati a Lirey, sono persone importanti, vivono a Parigi.» «Vengono spesso?» «No, in realtà no. Sono anni che non si vedono.» «Una persona di Lirey, la signora Didier, mi ha detto che tre o quattro anni fa è venuto un ragazzo molto simpatico della famiglia.» «Ah, il prete!» «Il prete?» «Sì. La sorprende che uno di loro possa essere prete?» disse ridendo il superiore. «No, no, assolutamente. Solo che a Lirey mi hanno detto che era un ragazzo molto bello, ma non che era prete.»
«Non lo avranno saputo, probabilmente. Quando è venuto qui non portava nemmeno il collare, era vestito come un qualunque ragazzo della sua età. Non sembrava un sacerdote, ma lo è, e credo che stia facendo strada. Insomma, non resterà un prete di campagna. Però non è uno Charny, anche se pare che i suoi antenati avessero qualche legame con queste terre. Non mi ha spiegato granché. Mi avevano chiamato da Parigi perché lo accogliessi e lo aiutassi per qualunque esigenza.» La conversazione fu interrotta dal cellulare di Ana. La ragazza rispose e udì la voce agitata di Jean. «Ana, credo di aver trovato qualcosa!» «Che cosa?» «Di' a padre Salvaing che ti faccia vedere gli atti dei battesimi del dodicesimo e tredicesimo secolo, può darsi che tu abbia ragione e che alcuni Charny una volta fossero Charney.» «Come fai a dirlo?» «Ho riguardato le carte, ma non so se è uno sbaglio o se invece abbiamo fatto centro. Chiudo e arrivo. Aspettami, ci metterò al massimo mezz'ora.» Non fu facile per Ana convincere padre Salvaing a permetterle di accedere agli atti dei battesimi archiviati nella collegiata e custoditi nella biblioteca come veri e propri gioielli. Il vecchio sacerdote chiamò il fratello archivista che, informato della richiesta della giornalista, lanciò un urlo. «Se fosse una studiosa, una storica, ma è solo una giornalista in cerca di chissà cosa» reagì l'archivista di malumore. «Sto cercando di scrivere una storia della Sindone che sia più completa possibile.» «E cosa le importa in quanti modi si scrive il cognome Charny?» insistette l'archivista della collegiata. «Be', perché voglio sapere se è stato il visitatore del Tempio di Normandia, Geoffroy de Charney, a morire bruciato con Jacques de Molay, il proprietario della Sindone, e se per qualche motivo nascose la sacra reliquia qui, nella casa di famiglia, in modo che Geoffroy de Charny, quarant'anni dopo, figurasse come suo proprietario.» «Ossia lei vuole provare che la Sindone è appartenuta ai Templari» affermò più che chiedere padre Salvaing. «E se così non è, se lo inventerà» ribadì l'archivista. «No, non mi inventerò niente. Se non è così, non è così e basta. Cerco solo di trovare una spiegazione del perché la Sindone è comparsa qui, e mi
sembra verosimile che l'abbia portata qualcuno dalla Terra Santa, un crociato o un cavaliere templare. Chi altri, se no? Geoffroy de Charny avrà avuto le sue ragioni per sostenere che fosse autentica.» «Non l'ha mai dimostrato» affermò l'anziano superiore. «Magari non lo poteva fare.» «Bah, sciocchezze!» intervenne l'archivista. «Permettetemi una domanda: voi credete che la Sacra Sindone sia autentica?» I due sacerdoti restarono qualche secondo in silenzio. Avevano dedicato la loro vita a Dio perché avevano fede. Solo la fede poteva spingere un uomo a rinunciare a farsi una famiglia, all'amore. E questa fede a volte vacillava, li gettava nella disperazione perché non potevano smettere di sentire il richiamo della ragione. Parlò per primo l'archivista. «Da secoli la Chiesa permette che il sudario sia oggetto di culto.» «Io però ho chiesto la sua opinione e quella di padre Salvaing, la dottrina della Chiesa la conosco già.» «Mia cara» disse Salvaing «la Sindone è una reliquia adorata da milioni di fedeli. La sua autenticità è stata messa in discussione dagli scienziati e tuttavia... devo riconoscere che quando l'ho vista nel duomo di Torino ho provato un'emozione forte. In quel telo c'è qualcosa di soprannaturale, qualunque sia il verdetto del carbonio 14.» Quando Jean arrivò, Ana stava continuando a cercare di convincere i due sacerdoti a lasciarle vedere gli archivi della collegiata. Il superiore e l'archivista guardarono Jean con un certo disgusto, ma al ragazzo bastarono dieci minuti per convincerli a fargli dare un'occhiata ai fascicoli della biblioteca. E chiese all'archivista di aiutarlo. Ci misero oltre due ore, ma alla fine trovarono quello che cercavano: oltre agli Charny, a Lirey c'erano anche degli Charney con un certo grado di parentela. Rientrati a Troyes, Ana invitò Jean a cena. «Ce l'abbiamo fatta.» «Be', avevi ragione tu: quei due Geoffroy erano imparentati.» «In realtà non sono stata io a scoprirlo. È stato un commento della professoressa Elianne Marchais a suggerirmi che era possibile. E infatti lo è. Adesso sono quasi certa che Geoffroy de Charney fu il proprietario della Sindone. Di sicuro l'ha fatta dipingere o l'ha comprata per autentica in Terra Santa.»
«Se fosse stata autentica sarebbe stata nelle mani del Tempio. Non dimenticare, Ana, che i cavalieri facevano voto di povertà e non possedevano nulla. Ragion per cui continua a essere strano che il Templare avesse la Sindone. Magari i due Geoffroy erano parenti, ma stiamo attribuendo al primo il possesso del sudario senza alcun fondamento, senza prove.» «Tranne che è stato in Terra Santa» insistette Ana. «Sì, come quasi tutti i Templari.» «Già, però questo si chiamava Geoffroy de Charney.» «Ana, la tua teoria è interessante ma sta a malapena in piedi, e lo sai bene. Ecco perché non riesco a credere a quello che raccontano i giornali, perché voi giornalisti a volte date per sicuro ciò che è solo probabile.» «Un altro con una cattiva opinione dei giornalisti!» «Cattiva opinione no, ma una certa diffidenza sì.» «Non raccontiamo bugie, sai?» «Non dico che mentite, ammetto persino che in quello che scrivete c'è una base di realtà, ma questo non significa che sia la verità. Quello che sto cercando di dire è che dovrai essere rigorosa nello scrivere questa storia. Altrimenti la gente la prenderà come una cosa di fantasia, un'altra bizzarria esoterica sulla Sindone, e come sai ce ne sono già tante.» Ana decise di fidarsi di Jean. Lo conosceva da una settimana e tuttavia aveva la sensazione di conoscerlo da sempre. Jean era sensibile, intelligente e saggio. Dietro quell'apparenza trascurata c'era un uomo tutto d'un pezzo. Gli raccontò tutto ciò che sapeva ma senza citare il Comando per la tutela del patrimonio artistico o suo fratello Santiago, e aspettò di sentire il suo parere. «Per un libro esoterico non è male, però in realtà, Ana, mi parli solo di intuizioni e presentimenti. Quello che dici, raccontato bene, può risultare una storia interessante per una rivista, però non hai in mano nessun elemento fondato su una prova, niente. Mi spiace deluderti, ma se in un giornale trovassi una storia come quella che racconti non ci crederei, penserei che sia un'elucubrazione di uno di quei pseudoautori che scrivono di UFO e vedono misteri dietro ogni angolo.» Ana non riuscì a nascondere la delusione, sebbene in cuor suo ammettesse che Jean aveva ragione e che le sue teorie non avevano una base che le supportasse seriamente. «Non mi arrendo, sai, Jean? Ma se non dovessi trovare prove consistenti
non scriverò una riga, è il patto che ho appena fatto con me stessa. Così non deluderò tutti voi che mi avete aiutato. Continuerò a indagare, però. Adesso mi resta da scoprire se uno Charny che conosco ha qualcosa a che fare con questi Charny.» «Chi è quello Charny che conosci?» «Un uomo molto bello e interessante, un po' misterioso. Andrò a Parigi, lì mi sarà più facile contattare la sua famiglia, sempre che della sua famiglia si tratti.» «Mi piacerebbe venire con te.» «Allora fallo.» «Non posso, dovrei chiedere delle ferie, e così da un giorno all'altro non me le danno. Che altro pensi di fare?» «Prima di partire passerò dall'ufficio del signor Capell, l'amministratore degli Charny. Mi piacerebbe anche che tu chiamassi per me il tuo amico, l'editore di quella rivista, "Enigmi" hai detto? Dopo Parigi andrò a Torino, ma dipenderà da quello che trovo a Parigi. Ti chiamerò per tenerti informato. Sai, sei l'unico con cui ho potuto parlare apertamente di questo argomento, e dato che hai molto buonsenso, saprai sicuramente mettere un freno alle mie fantasie.» Il signor Capell risultò essere un uomo serioso e poco loquace il quale le fece educatamente capire che non aveva la minima intenzione di darle informazioni sui propri clienti. Le confermò solo, questo sì, che in Francia c'erano decine di discendenti degli Charny e che i suoi clienti erano una delle tante famiglie. Ana uscì delusa dall'ufficio di Capell. Una volta arrivata a Parigi, andò direttamente alla redazione di "Enigmi", che si trovava al primo piano di un palazzo ottocentesco. Paul Bisol era l'opposto di Jean. Vestito impeccabilmente, sembrava più il dirigente di una multinazionale che un giornalista. Jean l'aveva chiamato chiedendogli di darle una mano. Paul Bisol stette pazientemente ad ascoltare il racconto di Ana. Non la interruppe nemmeno una volta, cosa che la meravigliò. «Sa dove si sta cacciando?» «A cosa si riferisce?» «Signorina Jiménez. «Chiamami pure Ana.» «Bene, Ana, sappi che i Templari esistono. Ma non sono solamente que-
gli eleganti storici che dici di aver conosciuto a Londra, oppure altri gentiluomini di circoli più o meno esclusivi che si dichiarano eredi dello spirito del Tempio. Jacques de Molay prima di morire organizzò il futuro dell'Ordine, e molti cavalieri sparirono senza lasciare traccia passando alla clandestinità. Tutti comunque rimasero in contatto con la nuova casa madre, il Tempio di Scozia, che è dove de Molay aveva deciso di stabilire la legittimità dell'Ordine. I Templari impararono a vivere nascosti, si infiltrarono nelle corti europee, nella stessa curia del papa, e hanno continuato così fino a oggi. Non sono scomparsi.» Ana provò una sensazione di fastidio. Le sembrava che Paul parlasse come un illuminato anziché come uno storico. Fino ad allora aveva incontrato persone che rifiutavano le sue folli teorie, che la esortavano a non farsi trascinare dalla fantasia, ora di colpo trovava qualcuno che era d'accordo con lei, e la cosa non le piaceva. Bisol sollevò la cornetta del telefono e parlò con la segretaria. Un minuto dopo invitò Ana a seguirlo. La condusse in un altro ufficio vicino al suo. Bussò alla porta e aspettò che una voce femminile lo invitasse a entrare. Una donna sui trent'anni, con capelli castani ed enormi occhi verdi sedeva a una scrivania lavorando al computer. Quando li vide entrare rivolse loro un sorriso ma non si mosse. «Accomodatevi. Allora sei amica di Jean?» «Be', ci conosciamo da poco ma ci siamo subito capiti e mi ha aiutato molto.» «Jean è fatto così» disse Paul. «Ha un animo da moschettiere, anche se non lo sa. Bene, Ana, vorrei che tu raccontassi a Elizabeth tutto quello che hai detto a me.» Quella situazione cominciava a renderla nervosa. Paul Bisol era un tipo gentile, ma in lui c'era qualcosa che le dava irrimediabilmente fastidio; anche Elizabeth le scatenava una forma di rifiuto senza sapere perché. Provava un irrefrenabile desiderio di scappare, tuttavia si contenne e si preparò a esporre di nuovo i suoi sospetti in merito alle vicissitudini della Sacra Sindone. Anche Elizabeth l'ascoltò in silenzio, senza fare domande. Quando Ana ebbe finito, Paul ed Elizabeth si guardarono. Ana si rese conto che stavano parlando con gli occhi, decidendo che cosa fare. Alla fine Elizabeth ruppe il silenzio carico di tensione che si era creato. «Ebbene, Ana, credo che tu abbia ragione. Non avevamo mai pensato alla tua teoria, cioè che Geoffroy de Charney avesse a che fare con Geoffroy
de Charny, ma effettivamente può essere una questione di ortografia, e se ci dici che negli archivi di Lirey hai trovato membri delle due famiglie... Insomma, è evidente che quei due Geoffroy erano in qualche modo legati. Per cui, in realtà, il sudario apparteneva ai Templari. Perché si trovava nelle mani di Geoffroy de Charney? La prima cosa che mi viene in mente è che forse il Gran Maestro gli aveva ordinato di metterlo al sicuro nel caso in cui Filippo il Bello avesse cercato di impossessarsi dei tesori del Tempio. Sì, è andata sicuramente così, Jacques de Molay ordinò a Geoffroy de Charney di nascondere il sudario nelle sue terre e anni dopo il sudario ricomparve nelle mani di un parente dell'altro Geoffroy. Sì, è stato così.» Ana decise di contraddirla, in realtà di contraddire se stessa. «Comunque, non esistono prove a sostegno di quello che dico, è solo un'ipotesi.» «Ma è quello che è successo» affermò Elizabeth senza esitazioni. «Si è sempre parlato di un misterioso tesoro dei Templari, può darsi che il sudario fosse il tesoro, in fin dei conti per loro era autentico.» «Però non lo è» rispose Anna. «Sapevano che non era autentico. La Sacra Sindone è del tredicesimo o quattordicesimo secolo, per cui...» «Sì, hai ragione, ma ai Templari potevano averla spacciata per buona in Terra Santa. Tutto sommato in quelle circostanze era difficile stabilire se una reliquia era vera o falsa. Di sicuro c'è che la considerarono autentica quando ne ordinarono la custodia. Le tue teorie sono esatte Ana, ne sono certa. Però devi fare attenzione, non ci si avvicina ai Templari impunemente. Abbiamo un bravissimo genealogista, ti darà una mano. Per quanto riguarda quello Charny che conosci, dammi un'ora di tempo e ti saprò dire qualcosa.» Uscirono dall'ufficio di Elizabeth. Ana salutò Paul Bisol assicurandogli che nel primo pomeriggio sarebbe tornata in redazione per incontrare il genealogista e raccogliere le informazioni che Elizabeth le avrebbe procurato su de Charny, su Yves de Charny, il segretario del cardinale di Torino. Girò per Parigi senza meta. Aveva bisogno di pensare e le piaceva farlo camminando. A mezzogiorno si sedette dietro la vetrina di un bistrot e pranzò leggendo i quotidiani spagnoli che era riuscita a trovare. Erano giorni che non sapeva nulla di quanto succedeva nel suo paese. Non aveva chiamato il giornale e neppure Santiago. Sentiva che le indagini stavano giungendo alla conclusione. Era convinta che i Templari avessero qualcosa a che fare con il sudario, che fossero stati loro a portarlo da Costantinopoli.
Ricordò la serata al Dorchester quando, riguardando l'agenda, aveva pensato che il fatto che il bel sacerdote francese, segretario del cardinale di Torino, si chiamasse Charny poteva essere qualcosa di più che una semplice coincidenza. Fino a quel momento non aveva trovato alcuna pista convincente. L'unico indizio le sembrava la presenza di padre Yves a Lirey qualche anno prima, perché, di questo era certa, si trattava di lui, non c'erano molti sacerdoti belli. Poteva essere che padre Yves fosse legato ai Templari, ma con quelli di allora o quelli di oggi? E se così fosse, cosa avrebbe significato? Niente, si disse, non avrebbe significato niente. Si immaginava il bellissimo sacerdote che, con il suo sorriso innocente, le raccontava che in effetti i suoi antenati erano andati alle crociate e che effettivamente la sua famiglia proveniva dalla zona di Troyes. E con ciò? Questo che cosa provava? Nulla, non provava nulla. Ma il suo istinto la convinceva dell'esistenza di un filo che portava da qualche parte. Un filo che andava da Geoffroy de Charney a Geoffroy de Charny e che, dopo mille traversie, arrivava a padre Yves. Tuttavia padre Yves non aveva nulla a che vedere con gli incendi del duomo, di questo era sicura. Allora, dov'era la chiave? Sbocconcellò qualcosa. Chiamò Jean e si sentì sollevata quando lo udì ripeterle dall'altro capo del telefono che, anche se sembrava un po' strano, Paul Bisol era una brava persona, di cui lei poteva fidarsi. Alle tre, Ana tornò alla redazione di "Enigmi". Quando arrivò, Paul la stava aspettando nell'ufficio di Elizabeth. «Bene, abbiamo qualche novità» disse Elizabeth. «Il tuo sacerdote appartiene a una famiglia altolocata. Il fratello maggiore è stato deputato e ora siede nel Consiglio di Stato, mentre la sorella è giudice della Corte Suprema. Provengono dalla piccola nobiltà, anche se a partire dalla Rivoluzione francese gli Charny vivono come perfetti borghesi. Quel sacerdote ha dei protettori importanti in Vaticano, ti dico solo che il cardinale Visier è amico del suo fratello maggiore. Ma la notizia bomba è che Edouard, il nostro esperto che sta lavorando da tre ore al suo albero genealogico, crede che effettivamente questo Yves de Charny sia un discendente di quegli Charney che parteciparono alle crociate e, cosa ancora più importante, del Geoffroy de Charney visitatore del Tempio in Normandia che morì sul rogo con Jacques de Molay.» «Ne siete sicuri?» chiese Ana ancora incredula. «Sì» rispose Elizabeth con decisione.
Paul Bisol vide affiorare il dubbio negli occhi della giornalista e decise di intervenire. «Ana, Edouard è un professore, uno storico rigoroso. So che a Jean la nostra rivista non piace molto, ma ti assicuro che non abbiamo mai pubblicato nulla che non avessimo potuto verificare. Indaghiamo sugli enigmi della storia, e cerchiamo di trovare una risposta. Questa risposta la danno sempre gli storici, a volte aiutati da una squadra di ricerca composta da giornalisti. Non è mai successo che dovessimo rettificare una notizia. Non ci proviamo neanche a scriverla, quando non siamo sicuri della sua fondatezza. Se qualcuno ha un'ipotesi lo dichiariamo, si tratta solo di un'ipotesi, ma non la diamo per certa. Tu sostieni che alcuni degli incendi del duomo di Torino hanno a che vedere con il passato. Non lo so, non ci abbiamo mai pensato e perciò non ce ne siamo mai occupati. Credi che i Templari siano stati i proprietari della Sindone, e qui potresti avere ragione, come potresti averla quando dici che quel padre Yves proviene da un'antichissima famiglia di aristocratici e Templari. Ti chiedi se i Templari hanno qualche legame con i fatti del duomo. Non ti so rispondere ma credo di no. In tutta sincerità non credo che i Templari abbiano qualche interesse a danneggiare la Sindone e ti assicuro che, se la volessero, sarebbe già loro. Sono un'organizzazione potente, più di quanto immagini, e capace di tutto.» Paul guardò Elizabeth, che assentì. Quando vide che la poltrona dov'era seduta Elizabeth avanzava verso di lei, Ana restò senza parole. Non se ne era accorta, sembrava una normale poltrona da scrivania, e in effetti lo era, ma studiata in modo tale da far muovere chi non poteva camminare. Elizabeth bloccò la poltrona di fronte ad Ana e tolse la coperta che le copriva le gambe. «Sono scozzese, non so se Jean te l'ha detto. Mio padre è lord McKenny e conosceva lord McCall. Non l'avrai mai sentito nominare. È uno degli uomini più ricchi del mondo, ma non appare mai sui giornali né in televisione. Non appartiene a questo mondo, nel suo c'è spazio solo per i potenti. Possiede un castello incredibile, un'antica fortezza templare vicino alle Small Isles. Non ci invita nessuno. Noi scozzesi abbiamo un debole per le leggende e quindi su lord McCall ne fioriscono parecchie. Alcuni abitanti che vivono nei pressi del castello lo chiamano "Il Templare" e sostengono che ogni tanto lo vengono a trovare in elicottero altri uomini, tra cui alcuni membri della famiglia reale inglese. «Un giorno raccontai a Paul di lord McCall e ci venne l'idea di fare un
servizio sulle commende e sulle fortezze templari sparse in tutta Europa. Una specie di inventario: sapere quali sono ancora in piedi, se appartengono a qualcuno, quali invece sono andate distrutte con il passare degli anni. Ci mettemmo al lavoro e all'inizio non ci furono grossi problemi. Ci sono centinaia di fortezze templari, la maggior parte in rovina. Pensammo anche che non sarebbe stato male se lord McCall ci avesse permesso di visitare il suo castello e chiesi a mio padre di parlare con lui perché ci lasciasse scattare alcune foto. Fu inutile, lord McCall avanzò cortesemente ogni tipo di scusa. Non mi arresi e decisi di provarci per conto mio. Lo chiamai per telefono ma non mi rispose nemmeno, un cortese segretario mi informò che lord McCall era via, negli Stati Uniti, e perciò non avrebbe potuto ricevermi. Naturalmente lui non era autorizzato a lasciarmi fotografare la fortezza. Insistetti perché mi permettesse di visitare il castello, ma il segretario non cedette di un millimetro: senza il permesso di lord McCall nessuno, per nessun motivo, poteva entrare in quella antica commenda. «Non mi diedi ancora per vinta e decisi di presentarmi alla porta del castello, ero sicura che una volta lì non avrebbero avuto altra scelta che farmi dare un'occhiata. «Prima di andare parlai con gli abitanti del luogo. Tutti nutrono per lord McCall un rispetto reverenziale e affermano che è un uomo buono che si preoccupa di non far mancare loro nulla. Si può dire che, oltre a rispettarlo, lo adorano. Nessuno muoverebbe un dito contro di lui. Uno dei contadini mi raccontò che suo figlio era vivo grazie al fatto che McCall gli aveva pagato una costosissima operazione al cuore a Houston, negli Stati Uniti. «Quando giunsi al cancello che chiude l'accesso alle proprietà del castello non trovai il modo di entrare. Iniziai a costeggiare il muro di cinta cercando un punto dove scavalcare. Dietro il muro vidi, in mezzo al bosco, una cappella di pietra coperta di edera. Per capire cosa è successo, devi sapere che le scalate sono la mia grande passione, che dall'età di dieci anni ho cominciato ad arrampicarmi e che ho all'attivo numerose cime importanti. Per cui superare quel muro non mi sembrava particolarmente difficile, nonostante fossi senza attrezzatura. «Non chiedermi come ho fatto, ma sono riuscita a salire in cima e a saltare dall'altra parte. È l'ultima cosa che ricordo. Udii un rumore e poi un dolore lancinante alle gambe. Caddi. Piangevo contorcendomi dal dolore. Un uomo mi stava puntando contro un fucile. Poi parlò in un walkie-talkie, apparve un fuoristrada, mi caricarono a bordo e mi portarono in ospedale. Rimasi paralizzata. Non spararono per uccidermi, ma con precisione suffi-
ciente per ridurmi così. «Naturalmente tutti presero le difese dei guardiani di lord McCall. Io ero un'intrusa che aveva saltato il muro di cinta della fortezza.» «Mi dispiace.» «Sì, resterò paralizzata per sempre, e tutto per una stupidata. Comunque, sai, sono convinta che nel buon lord McCall ci sia dell'altro. Chiesi a mio padre un elenco particolareggiato di tutti coloro che sapeva intrattenevano rapporti con McCall. Non voleva darmelo, ma alla fine lo convinsi. Mio padre ha sofferto molto per quello che mi è successo. Non è mai stato contento che facessi la giornalista, e men che meno che mi interessassi di questi argomenti. Lord McCall è un personaggio particolare. Scapolo, amante dell'arte sacra, ricchissimo. Ogni cento giorni alcuni signori arrivano al castello, in macchina o in elicottero, e si fermano due o tre giorni. Nessuno sa chi siano, si intuisce solo che sono altrettanto importanti quanto lui. Ho seguito la pista dei suoi numerosi affari fin dove ho potuto, cioè non granché. Ma le sue aziende hanno interessi in altre aziende, e ti dirò che non c'è evento economico al mondo che non abbia a che fare con lui e i suoi amici.» «Che vuoi dire?» «Che c'è un gruppo di uomini che muovono i fili, che il loro potere economico è quasi maggiore di quello dei governi, ragion per cui hanno influenza su questi ultimi.» «E questo cosa c'entra con i Templari?» «Sono cinque anni che mi dedico a studiare quanto è stato scritto sui Templari. Ho molto tempo, non posso muovermi da questa poltrona. Sono giunta ad alcune conclusioni: oltre a tutte le organizzazioni che si proclamano eredi del Tempio, ce n'è un'altra segreta, formata da uomini discreti, tutti importanti, inseriti nel cuore della migliore società. Non so chi sono né quanti sono, ma credo che i veri Templari, gli eredi di Jacques de Molay, siano lì, e che McCall sia uno di loro. Ho fatto tutte le verifiche sul suo castello e c'è un fatto curioso: sono secoli che passa di mano in mano, sempre a uomini solitari, ricchi e con una buona posizione, e tutti con un'ossessione: evitare la presenza di estranei, Credo che esista un esercito templare, un esercito silenzioso, ben strutturato, i cui membri occupano posizioni di spicco in tutti i paesi.» «Si direbbe che ti riferisci a un'organizzazione massonica.» «Be', come sai certe organizzazioni massoniche si dichiarano eredi del Tempio. Ma quella cui mi riferisco io è l'unica della quale non si sa nulla.
Vivo da cinque anni su questa sedia a rotelle. Con l'elenco che mi diede mio padre e l'aiuto di un ottimo giornalista investigativo sono riuscita a tracciare un organigramma di quella che credo sia la vera organizzazione del Tempio. Ti dirò che non è stato facile. Michael, il giornalista, è morto tre anni fa in un incidente d'auto. Sospetto che l'abbiano ammazzato loro. Se qualcuno si avvicina troppo, si gioca la vita. Lo so, ho seguito da vicino quello che è successo a certi curiosi come noi.» «Hai una visione cospirativa della realtà.» «Ana, credo che ci siano due mondi, quello che vediamo e nel quale vive la stragrande maggioranza di noi, e un altro sommerso di cui non sappiamo nulla, da dove muovono i fili varie organizzazioni economiche, massoniche o quel che è. E il nuovo Tempio si trova in questo mondo sotterraneo.» «Se anche dovessi aver ragione, questo però non spiega che rapporto hanno oggi i Templari con la Sindone.» «Non lo so nemmeno io. Mi dispiace. Ti ho raccontato tutto questo perché potrebbe darsi che il tuo padre Yves...» «Parla.» «Magari è uno di loro.» «Un Templare di quell'organizzazione segreta che pensi tu?» «Tu credi che ti stia raccontando una storia sciocca, ma sono giornalista come te, Ana, e distinguo perfettamente la finzione dalla realtà. Ti ho detto ciò che credo. Regolati di conseguenza. Se la Sindone è appartenuta ai Templari, se padre Yves discende dalla famiglia di Geoffroy de Charney...» «Ma la Sindone non è il sudario di Cristo. Il carbonio 14 non ha lasciato spazio a dubbi. Non so né perché gli Charny la tenessero nascosta, né perché ricomparve. Di fatto non so nulla.» Ana si sentiva a terra. Ascoltando Elizabeth si rendeva conto che quella donna faceva su di lei lo stesso effetto che lei faceva agli altri ogni volta che esponeva le sue teorie sulla Sacra Sindone. Ebbe la netta sensazione di non essere contenta di se stessa, di aver perso la testa cacciandosi in una storia assurda, cercando di dimostrarsi più in gamba di quelli del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Basta, pensò, sarebbe tornata subito a Barcellona. Avrebbe chiamato Santiago. Come sarebbe stato felice suo fratello nel sentire che aveva deciso di lasciar perdere la Sindone. Elizabeth e Paul la lasciarono immergersi nei suoi pensieri. Vedevano la
sua confusione, l'incredulità che si dipingeva sul suo volto. In effetti erano pochissime le persone con cui avevano parlato del nuovo Tempio e che erano al corrente delle loro indagini, perché temevano per la propria vita e per quella di quanti li aiutavano. «Elizabeth, pensi di darglielo?» Le parole di Paul riportarono Ana alla realtà. «Sì, glielo do.» «Cos'è che mi dai?» chiese Ana. «Prendi questo dossier, è una sintesi del mio lavoro degli ultimi cinque anni. Mio e di Michael. Ci sono tutti i nomi e le biografie di quelli che crediamo siano i nuovi Maestri del Tempio. Secondo me, lord McCall è il Gran Maestro. Comunque, leggilo. Vorrei chiederti un favore. Ci fidiamo di te perché crediamo che tu stia per fare una scoperta importante, non sappiamo bene quale né in che direzione ma di sicuro ha a che fare con Loro. Se questi documenti dovessero finire in mani sbagliate moriremo, puoi starne certa. Per questo ti chiedo di non fidarti di nessuno, assolutamente di nessuno. Loro hanno orecchie dappertutto, nella magistratura, nella polizia, nel Parlamento, in Borsa... ovunque. Sanno che sei stata da noi, quello che non sanno è che cosa ti abbiamo raccontato. Abbiamo investito molto per la sicurezza e abbiamo degli apparecchi in grado di scoprire i microfoni. Ciononostante, non è detto che non ci siano, Loro sono potenti.» «Scusate, ma non è che siete diventati un po' paranoici?» «Pensala come vuoi, Ana. Ti sei messa a fare ricerche sull'esistenza dei Templari perché hai creduto di rilevarne la presenza. Farai quello che ti abbiamo chiesto?» «Non ti preoccupare, non parlerò con nessuno di questo dossier. Vuoi che te lo restituisca quando finisco di leggerlo?» «Distruggilo. È solo una sintesi, ma ti assicuro che ti sarà utile, molto utile, soprattutto se deciderai di andare avanti.» «Cosa ti fa pensare che possa tornare indietro?» Elizabeth sospirò prima di rispondere. «Sei un po' più trasparente di quanto immagini.» 46 Nella chiesa c'era odore di incenso. La messa era finita da poco. Addaio si diresse con passo rapido verso il confessionale più lontano dall'altare, quello situato in un angolo al riparo da sguardi indiscreti.
Portava una parrucca e si era messo il collare. Tra le mani aveva un breviario. L'appuntamento era per le sette. Mancava ancora mezz'ora, aveva preferito arrivare in anticipo. In realtà erano due ore che gironzolava nei dintorni, cercando di capire se lo stavano seguendo. Seduto nel confessionale, pensò a Guner. Lo vedeva nervoso, a disagio con lui e con se stesso. A dire la verità sapeva che era stufo, come lui, del resto. Nessuno era al corrente della sua presenza a Milano, nemmeno Guner. Il pastore Bakkalbasi aveva ordini precisi per organizzare l'operazione che avrebbe dovuto porre fine alla vita di Mendibj, ma lui a sua volta stava per metterne in piedi un'altra di cui nessuno dei suoi sapeva nulla. L'uomo che stava aspettando era un killer. Un professionista che lavorava in proprio e non sbagliava mai; finora, perlomeno, non aveva mai sbagliato. A parlargliene era stato un uomo di Urfa, un membro della Comunità che qualche anno prima era andato a chiedergli perdono per i suoi peccati. L'uomo era emigrato in Germania e da lì negli Stati Uniti, ma non aveva avuto fortuna, gli disse, e aveva intrapreso un'altra strada diventando un ricco narcotrafficante che inondava di eroina le città d'Europa. Aveva peccato, ma non aveva mai tradito la Comunità. Dietro il suo ritorno a Urfa c'era una brutta malattia. Stava per morire, la diagnosi era chiara, aveva un tumore che gli stava devastando l'intestino e ogni altro intervento sarebbe stato inutile. Per questo aveva deciso di tornare a casa sua, alla sua infanzia, e cercare il perdono del pastore, oltre a fare una generosa donazione alla Comunità per contribuire a garantirne la sopravvivenza. I ricchi sono sempre convinti di potersi comprare la salvezza nell'aldilà. Si era offerto di aiutare la sacra missione della Comunità ma Addaio aveva rifiutato il suo contributo. Un uomo empio, pur membro della Comunità, non avrebbe mai potuto partecipare a quella sacra missione anche se, come pastore, lui aveva l'obbligo di dargli conforto negli ultimi giorni di vita. Durante una di quelle chiacchierate che fungevano da confessione, l'uomo gli consegnò un foglio con il numero di una casella postale di Rotterdam dicendogli che se un giorno avesse avuto bisogno di qualcuno per un lavoro difficile, ai limiti dell'impossibile, avrebbe potuto scrivere a quell'indirizzo. Ed era esattamente ciò che Addaio aveva fatto. Aveva spedito un foglio bianco e il numero di telefono di un cellulare che aveva comprato appena giunto a Francoforte. Due giorni dopo lo chiamò uno sconosciuto. Aveva già pensato a dove incontrarsi e glielo disse. Eccolo dunque lì, nel
confessionale, in attesa dell'arrivo dell'assassino. «Ave Maria purissima.» La voce dell'uomo fece sobbalzare Addaio. Non si era accorto che qualcuno si fosse inginocchiato nel confessionale. «Concepita senza peccato.» «Dovrebbe stare più attento, era distratto.» «Voglio che uccida un uomo.» «È il mio mestiere. Ha portato un dossier su di lui?» «No, non ci sono dossier, e nemmeno foto. Dovrà trovarlo da solo.» «Questo farà aumentare il prezzo.» Per un quarto d'ora Addaio spiegò all'assassino quello che si aspettava da lui. Quindi l'uomo si alzò e scomparve nella penombra della chiesa. Addaio uscì dal confessionale e si diresse verso uno dei banchi di fronte all'altare. Lì, coprendosi il volto con le mani, scoppiò in lacrime. Bakkalbasi si sedette sul bordo del divano. La casa di Berlino era sicura. La Comunità non l'aveva mai usata. Ahmed gli aveva detto che era di un'amica di suo figlio che si trovava in vacanza ai Caraibi e gli aveva lasciato le chiavi perché ogni tanto andasse a occuparsi del suo gatto d'angora. L'animale lo aveva accolto con un miagolio. Bakkalbasi non amava i gatti, era allergico, e iniziò subito a tossire e a sentire prurito in tutto il corpo. Tuttavia resistette. Gli uomini dovevano essere sul punto di arrivare. Li conosceva dall'infanzia. Tre di loro erano di Urfa, e lavoravano in Germania. Gli altri due erano arrivati da Urfa seguendo strade diverse. Erano tutti membri fedeli della Comunità, disposti a sacrificare la propria vita se fosse stato necessario, come già avevano fatto in passato i loro fratelli e altri familiari. La missione che li aspettava era motivo di sofferenza: la morte di uno dei loro, ma il pastore Bakkalbasi aveva chiarito che altrimenti la Comunità sarebbe stata scoperta. Non c'era alternativa. Il pastore Bakkalbasi aveva spiegato loro che lo zio del padre di Mendibj si era impegnato a infliggere la pugnalata mortale al muto. Gli avrebbero dato questa opportunità, ma a loro sarebbe toccato verificare che così avvenisse. Bisognava mettere a punto un piano per seguire Mendibj dal momento stesso in cui avesse riacquistato la libertà, e controllare se lo stavano utilizzando perché li portasse fino alla Comunità. Avrebbero potuto contare sull'aiuto di due membri della Comunità di
Torino, ma non dovevano correre rischi, né esporsi a un possibile arresto; la loro missione era di non perdere di vista il ragazzo, nient'altro. Il punto era che se qualcuno aveva l'opportunità di ammazzarlo doveva farlo senza esitazioni, anche se questo onore, aveva sottolineato Bakkalbasi, era riservato a un suo parente. Ciascuno sarebbe dovuto arrivare a Torino con mezzi propri, preferibilmente in auto. L'assenza di frontiere, grazie all'Unione Europea, permetteva loro di passare da un paese all'altro senza lasciare tracce. Poi si sarebbero diretti al Cimitero Monumentale di Torino e avrebbero cercato la tomba 117. Una piccola chiave nascosta in un sottovaso, vicino al portone d'ingresso della cappella, avrebbe permesso loro di entrare nell'edificio. Una volta all'interno, dovevano azionare il meccanismo nascosto che avrebbe rivelato una scala segreta, situata sotto una delle bare, e infilarsi nel sotterraneo che li avrebbe portati al duomo, esattamente alla casa di Turgut. Finché fossero rimasti a Torino, il sotterraneo sarebbe stato il loro mondo. Non si dovevano registrare in nessun albergo, dovevano rimanere invisibili. Il cimitero era scarsamente frequentato, anche se alcuni turisti curiosi venivano a visitare le tombe barocche. Il custode del cimitero era un membro della Comunità. Anziano, di padre emigrato da Urfa e madre italiana, era un buon cristiano e il loro miglior alleato. Il vecchio Turgut aveva preparato il locale del sotterraneo con l'aiuto di Ismet. Lì non li avrebbe trovati nessuno, perché nessuno sapeva dell'esistenza di quella galleria che partiva da una tomba del cimitero e finiva proprio dentro al duomo. Quel labirinto segreto non era riportato su alcuna mappa. Era lì che avrebbero dovuto lasciare il cadavere di Mendibj. Il muto avrebbe riposato a Torino per l'eternità. 47 «Vi è tutto chiaro?» chiese. «Sì, Marco» ripeterono quasi all'unisono Minerva, Sofia e Giuseppe. Antonino e Pietro annuirono. Erano le sette del mattino e i segni della stanchezza apparivano ormai sul volto di tutti. Alle nove il muto sarebbe stato rimesso in libertà. Marco aveva minuziosamente messo a punto il piano per seguire Mendibj. Avrebbero potuto contare sull'aiuto di un gruppo di carabinieri e sull'Interpol, ma il capo del Comando per la tutela del patrimonio artistico contava sul nucleo della sua squadra.
Stavano aspettando che arrivasse la prima colazione. Il bar dell'albergo aveva appena aperto e loro erano stati i primi a entrare. Sofia, senza sapere perché, era nervosa e le sembrava che neanche Minerva fosse molto tranquilla. Persino in Antonino la tensione era visibile da come teneva le labbra serrate. In compenso Marco, Pietro e Giuseppe erano impassibili. Si vedeva che erano del mestiere e che per loro un'operazione di pedinamento faceva semplicemente parte della routine. «Marco, ho cercato di trovare una risposta al perché tanta gente di Urfa sembra avere qualche legame, in un modo o nell'altro, con la Sindone. Stanotte ho riguardato i Vangeli apocrifi e altri libri che ho comprato l'altro giorno sulla storia di Edessa. Magari è una sciocchezza, però...» «Ti ascolto, Sofia. Be', ti ascoltiamo tutti. Raccontaci a che conclusione sei arrivata» disse il capo del gruppo. «Non so se Antonino sarà d'accordo con me, ma se consideriamo che Urfa è Edessa e che per i primi cristiani di Edessa il sudario è stato importantissimo, al punto da guarire re Abgar dalla lebbra, e che lo custodirono come una reliquia nel corso dei secoli finché l'imperatore Romano Lecapeno non lo rubò... potrebbe darsi che abbiano deciso di recuperarlo.» Sofia tacque. Cercava di fare in modo che le parole rendessero con precisione la sua intuizione. «Che vuoi dire?» le chiese Marco. «Voglio dire che le coincidenze esistono, hai ragione: è troppo ricorrente, per essere un caso, che tanta gente di Urfa sia legata alla Sindone. Non solo, penso che il nostro muto potrebbe venire da quella città ed essere arrivato qui proprio per la Sindone, esattamente come gli altri muti. Non so, magari gli incendi sono stati solo dei diversivi per cercare di rubare il sudario.» «È una vera sciocchezza!» esclamò Pietro. «Sofia, non ci incanti con le spiegazioni irrazionali o le favole.» «Senti, Pietro, ormai sono grandicella per le favole! È un'ipotesi un po' azzardata, lo so, e non dico nemmeno che quello che ho pensato si avvicina alla verità, ma non continuare a disprezzare tutto ciò che non coincide con quello che pensi tu.» «Buoni, ragazzi!» intimò Marco. «Sofia, quello che stai dicendo non è proprio assurdo, potrebbe anche avere un fondamento di verità, ma sembra la sceneggiatura di un film del mistero... non so... significherebbe...» «Significherebbe» intervenne Minerva «che a Urfa ci sono dei cristiani. Ecco perché tutti quelli che abbiamo trovato a Torino vanno in chiesa, si
sposano e si comportano come rispettabili cattolici.» «Cristiano non è sinonimo di cattolico» si intromise Antonino. «Lo so» rispose Minerva «ma una volta qui la prima cosa da fare è confondersi con l'ambiente, e per pregare Cristo non cambia molto se si va nel duomo di Torino o da qualche altra parte.» «Mi spiace, Sofia» intervenne Marco «la tua ipotesi non mi convince del tutto.» «Hai ragione, era solo un'idea folle. Scusami, Marco» ammise Sofia. «No, non devi chiedermi scusa. Bisogna pensare a tutte le possibilità, non dobbiamo scartare le nostre intuizioni o qualunque altra teoria per quanto bizzarra ci possa sembrare. Non ti seguo in quello che dici, ma mi piacerebbe sentire cosa ne pensano gli altri.» Tranne Minerva, il resto del gruppo fu d'accordo con Marco, per cui Sofia lasciò perdere. «Io credo» disse Pietro «che siamo di fronte a un'organizzazione criminale, a una banda di ladri che forse ha dei legami con Urfa, ma senza alcun significato storico.» Dall'altra parte del mondo, a New York, era sera e pioveva. Mary Stuart si avvicinò a Umberto D'Alaqua. «Uff, sono a pezzi! Però il presidente si diverte talmente che non sarebbe carino andarsene adesso. Come ti sembra Larry?» «Un uomo intelligente e un padrone di casa impeccabile.» «Lo dice anche James, eppure i Winston hanno qualcosa che non mi piace. Questa cena... non so, mi sembra un po' troppo sfarzosa.» «Mary, il fatto è che tu sei inglese, però sai come sono fatti gli americani di successo. Larry Winston ha un cervello eccezionale, è il re dei mari, e la sua flotta è la più importante del mondo.» «Ma sì, sì, lo so. Però non mi convince. E poi in questa casa non c'è un solo libro, hai notato? Mi fanno effetto le case dove non ci sono libri, di solito sono rappresentative dei loro proprietari.» «Be', almeno non è un ipocrita che ostenta una biblioteca con tutti i libri perfettamente allineati ma che non leggerà mai.» Una coppia si avvicinò e si unì alla conversazione. L'animazione generale lasciava presagire che il ricevimento sarebbe andato avanti ancora per ore. Passata la mezzanotte, sette uomini fecero in modo di trovarsi nello stesso posto con una coppa di champagne in mano. Fumavano ottimi avana e
sembravano immersi in una conversazione di affari. Il più anziano informò gli altri. «Mendibj sta per lasciare il carcere. È tutto pronto.» «La situazione mi preoccupa. Il pastore Bakkalbasi può contare in tutto su sette uomini, Addaio ha assoldato un assassino di professione e Marco Valoni metterà in campo un vero e proprio spiegamento di uomini e mezzi. Non ci esporremo troppo? Non sarebbe meglio che la risolvessero loro?» chiese l'uomo francese. «Abbiamo un vantaggio, ed è che sappiamo tutto del piano di Valoni e di Bakkalbasi, per cui possiamo seguire le loro operazioni senza che ci vedano. In quanto all'assassino di Addaio non c'è problema. È sotto controllo anche lui» rispose l'anziano. «Anch'io ritengo che ci sia troppa gente sulla scena» aggiunse un signore dall'accento indefinito. «Mendibj è un problema per Addaio e per noi perché Marco Valoni è fissato con questo caso» insistette l'anziano «ma mi preoccupano molto di più quella giornalista sorella del rappresentante dell'Europol a Roma e la dottoressa Galloni. Le conclusioni a cui entrambe stanno arrivando le avvicinano pericolosamente a noi. Ana Jiménez è stata da lady Elizabeth McKenny la quale le ha consegnato un dossier, il dossier. Sapete quale. Mi rincresce dover prendere una decisione, ma lady Elizabeth, la giornalista e la dottoressa Galloni sono diventate un problema. Tutte e tre sono giovani, intelligenti e coraggiose, quindi un pericolo insidioso.» Fra i sette uomini, che si squadravano l'un l'altro senza darlo a vedere, calò un pesante silenzio. «Che intendi fare?» La domanda, in un certo tono di sfida, era stata formulata da un uomo con un leggero accento italiano. «Quello che va fatto. Mi dispiace.» «Non dovremmo essere precipitosi.» «Non lo siamo stati, finora, per questo quelle donne, con le loro congetture sono arrivate più in là del dovuto. È il momento di finirla. Voglio il vostro consiglio, oltre al vostro consenso.» «Possiamo aspettare ancora un po'?» chiese uno degli uomini, quello dal portamento militaresco. «No, a meno di mettere tutto in pericolo. Sarebbe folle continuare a correre rischi. Mi dispiace, mi dispiace sinceramente. La decisione mi ripugna quanto a voi, ma non trovo altre soluzioni. Se pensate che ce ne sia una, di-
temela.» Gli uomini tacquero. In cuor loro sapevano che l'anziano aveva ragione. Avevano seguito ogni passo delle tre donne, conoscevano tutto di loro. Da anni erano al corrente di ogni parola che Elizabeth McKenny scriveva. Tenevano sotto controllo il suo computer e i telefoni di "Enigma", e avevano installato dei microfoni in redazione e a casa sua, perfino sulla sua sedia a rotelle. Il consistente investimento sostenuto da Paul Bisol per la sicurezza non era servito a niente. Di loro sapevano tutto. Come da mesi sapevano tutto di Sofia Galloni e Ana Jiménez. Dal profumo che adoperavano a quello che leggevano la sera, con chi parlavano, le loro relazioni sentimentali... tutto, assolutamente tutto. Sapevano che cosa stavano facendo minuto per minuto, perfino quante ore dormivano. Come pure da mesi conoscevano ogni particolare sui membri del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Avevano messo sotto controllo i loro telefoni, fissi e cellulari, e ciascun componente del gruppo era oggetto di un meticoloso pedinamento. «E allora?» domandò l'anziano. «Mi rifiuto di...» «Lo capisco, lo capisco» tagliò corto l'anziano interrompendo l'uomo dall'accento italiano. «Non dire niente, non prendere parte alla decisione.» «Pensi che questo potrà alleggerirmi la coscienza?» «No, lo so. Però può aiutarti. Credo che tu abbia bisogno di aiuto, aiuto spirituale, rimettere ordine dal di dentro. Tutti nella vita abbiamo passato momenti così. Non è stato facile, ma noi non scegliamo il difficile, scegliamo l'impossibile. È in situazioni come questa che si misura se siamo all'altezza della nostra missione.» «Dopo aver dedicato tutta la vita a... credi che debba ancora dimostrare di essere all'altezza della nostra missione?» chiese l'uomo dall'accento italiano. «No, credo che tu non debba dimostrare niente» rispose l'anziano. «Vedo che stai soffrendo. Devi cercare conforto, hai bisogno di parlare dei tuoi sentimenti. Non qui, però, né con tutti noi. Capisco il tuo tormento ma, per favore, fidati del nostro giudizio e lasciaci agire.» «No, non sono d'accordo.» «Posso sospenderti temporaneamente fino a quando non ti sentirai meglio.» «Puoi farlo. E che altro farai?» Gli altri uomini del gruppo iniziarono a dare segno di imbarazzo. La ten-
sione continuava a salire e senza volere avrebbero potuto attirare la curiosità del resto degli invitati. L'uomo dal portamento militaresco li interruppe. «Ci stanno guardando. Che modo è questo di comportarci? Siamo impazziti? Rimandiamo questa discussione a un altro momento.» «Non abbiamo tempo» rispose l'anziano. «Chiedo il vostro consenso.» «Sia» risposero tutti meno uno, che, serrando le labbra, si allontanò. Sofia e Minerva si trovavano alla caserma dei carabinieri di Torino. Mancavano due minuti alle nove e Marco le aveva appena avvisate che le porte del carcere si stavano aprendo. Ecco uscire il muto. Camminava lentamente, guardando davanti a sé. Le porte si richiusero alle sue spalle, ma lui non si voltò. Percorse duecento metri fino a una fermata dell'autobus, e attese. La sua tranquillità era sorprendente, diceva Marco alle due donne attraverso il microfono nascosto nel bavero della giacca. Non sembrava nemmeno contento di aver riacquistato la libertà. Mendibj si disse che lo stavano osservando. Lui non li vedeva però sapeva che erano lì, a sorvegliarlo. Doveva depistarli, ma come? Avrebbe tentato di mettere in atto il piano che aveva escogitato in prigione. Sarebbe andato in centro, avrebbe girovagato e dormito sulla panchina di qualche parco. Non aveva molti soldi, sarebbero bastati al massimo per pagarsi tre o quattro giorni in una pensione e qualche panino. Si sarebbe anche disfatto degli abiti e delle scarpe da tennis pur avendole esaminate senza trovarci nulla, il suo istinto gli diceva che non era normale avergli preso i vestiti per restituirglieli lavati e stirati con le scarpe pulite. Conosceva Torino. Addaio ce lì aveva mandati un anno prima del tentativo di rubare la Sindone proprio perché si abituassero alla città. Avevano seguito le sue istruzioni: camminare e camminare, girare da un estremo all'altro. Era il modo migliore per conoscere la città, oltre che per imparare i percorsi dei mezzi pubblici. Mendibj si stava avvicinando al centro. Era arrivato il momento della verità, quello di scappare da coloro che sicuramente lo stavano seguendo. «Mi sembra che abbiamo compagnia. Due compari.» La voce di Marco giunse attraverso la trasmittente nell'ufficio che fungeva da quartier generale dell'operazione. «Chi sono?» chiese Minerva nel microfono collegato alla trasmittente di Marco. «Non ne ho idea, ma sembrano turchi.»
«Turchi o italiani» sentirono che diceva Giuseppe «sono uguali a noi, capelli scuri e pelle olivastra.» «Quanti hai detto che sono?» si interessò Sofia. «Per adesso due» rispose Marco «ma potrebbero essercene altri. Sono giovani. Il muto sembra non accorgersi di nulla. Vaga senza meta, guarda le vetrine ed è assorto come sempre.» Udirono Marco dare istruzioni ai carabinieri perché non perdessero di vista i due tizi. Marco Valoni e il resto del gruppo non fecero caso a un vecchietto zoppicante che vendeva biglietti della lotteria. Né alto né basso, né grasso né magro, vestito in modo anonimo, il vecchietto faceva parte del paesaggio del quartiere Crocetta. Lui, però, aveva visto loro. Il killer assoldato da Addaio aveva la vista di un falco e aveva già individuato dieci carabinieri, oltre ai quattro uomini del pastore Bakkalbasi. Era seccato, l'uomo che l'aveva assunto non gli aveva detto che ci sarebbero stati di mezzo i carabinieri, né che altri sicari come lui avrebbero seguito il muto. Doveva fare attenzione, e naturalmente avrebbe chiesto un onorario più elevato. Stava correndo un pericolo imprevisto. Inoltre, tutta quella compagnia gli avrebbe impedito di eseguire il lavoro come aveva programmato. Un altro uomo sollevò in lui dei sospetti che poi svanirono. No, quello non era un carabiniere, e non sembrava nemmeno turco, di sicuro non aveva niente a che fare con la faccenda, anche se quel modo di muoversi... D'un tratto scomparve e l'assassino si tranquillizzò. Quel tizio non c'entrava proprio. Mendibj vagò tutto il giorno per la città. Aveva scartato l'idea della panchina, sarebbe stato un errore. Se qualcuno voleva ucciderlo, gli avrebbe reso la vita troppo facile dormendo su una panchina in mezzo a un parco. Decise quindi di incamminarsi verso l'ostello delle Sorelle della Carità che aveva visto al mattino durante le sue peregrinazioni. Ci entravano barboni e vagabondi in cerca di qualcosa da mangiare e di un posto dove dormire. Lì sarebbe stato più al sicuro. Marco era sfinito. Una volta appurato che il muto aveva scroccato una cena e rimediato un materasso che aveva sistemato vicino alla suora di guardia allo stanzone per evitare risse, aveva lasciato il comando dell'operazione a Pietro. Era sicuro che quella notte il muto non si sarebbe mosso. Decise quindi
di fare un salto in albergo per riposare un po' e ordinò ai suoi di fare altrettanto, tranne Pietro e una squadra di carabinieri composta da tre uomini freschi. Abbastanza per seguire il muto, se mai questi avesse deciso di andarsene. Sofia e Minerva sottoposero Marco a un vero e proprio interrogatorio nel ristorante dell'albergo. Volevano sapere tutto, e dire che avevano seguito minuto per minuto gli eventi della giornata. Le due donne gli chiesero di poter partecipare alla sorveglianza in strada ma la risposta fu negativa e categorica. «Ho bisogno che rimaniate a coordinare l'operazione. Oltre tutto, vi si noterebbe troppo.» All'aeroporto di Parigi, Ana Jiménez aspettava un volo notturno per Roma. Da lì sarebbe andata a Torino. Era nervosa. Aveva iniziato a sfogliare il dossier di Elizabeth ed era rimasta sconvolta. Se anche ci fosse stato solo un quarto di verità in ciò che raccontava, sarebbe stato già tremendo. Ma il motivo per cui aveva deciso di tornare a Torino era che uno dei nomi presenti nel dossier l'aveva già visto in un altro documento, quello che Marco Valoni aveva consegnato a suo fratello Santiago, e se quanto sosteneva Elizabeth era vero, quell'uomo era uno dei maestri del nuovo Tempio ed era direttamente legato alla Sindone. Aveva deciso di fare due cose: parlare con Sofia e presentarsi alla sede episcopale nel tentativo di trovare padre Yves. La prima non le era riuscita, aveva passato gran parte della mattinata e del pomeriggio cercando di mettersi in contatto con Sofia ma all'albergo le avevano detto che era uscita molto presto. Le aveva lasciato diversi messaggi ma senza ottenere risposta. Da padre Yves, invece, sarebbe andata l'indomani. Elizabeth aveva ragione: si stava avvicinando a qualcosa, ma ancora non sapeva a cosa. Gli uomini di Bakkalbasi riuscirono a sottrarsi alla sorveglianza dei carabinieri. Uno di loro restò a controllare l'ingresso dell'ostello delle Sorelle della Carità, mentre gli altri si sparpagliarono. Quando arrivarono al cimitero stava calando la sera e il custode li stava aspettando nervoso. «Sbrigatevi, devo andarmene. Vi darò una chiave del cancello nel caso in cui una sera arrivaste troppo tardi e io me ne fossi dovuto andare.» Li accompagnò fino alla cappella il cui ingresso era protetto da un angelo con una spada in mano. I quattro uomini entrarono illuminando il per-
corso con una torcia e sparirono nelle viscere della terra. Ismet li stava aspettando nel locale sotterraneo. Aveva portato dell'acqua perché si lavassero e qualcosa da mangiare. Erano affamati e sfiniti, e volevano solo dormire. «Dov'è Mehmet?» «È rimasto nei paraggi di dove si trova Mendibj, casomai gli saltasse in mente di uscire di nuovo stasera. Addaio ha ragione, vogliono che Mendibj li porti fino a noi. Hanno predisposto un piano di sorveglianza pazzesco» disse un uomo che a Urfa faceva il poliziotto, come uno dei suoi compagni. «Vi hanno scoperto?» chiese preoccupato Ismet. «No, non credo» rispose un altro degli uomini. «Ma non si può escludere, sono in tanti.» «Dobbiamo stare attenti, e se pensate di essere seguiti non dovete venire qui» si raccomandò Ismet. «Lo sappiamo, lo sappiamo. E non ti preoccupare, perché fin qui non ci hanno seguito.» Alle sei del mattino Marco era già appostato vicino all'ostello delle Sorelle della Carità. Aveva dato ordini perché la squadra di carabinieri venisse rinforzata e seguisse i due tizi che aveva scoperto stare alle calcagna del muto. «Cercate di non farvi vedere perché li voglio liberi di muoversi. Se seguono il muto è perché appartengono a un'organizzazione, cioè l'organizzazione che stiamo cercando, per cui bisogna cercare di prenderli, ma prima dobbiamo tirare la corda ancora un po'.» I suoi uomini avevano annuito. Pietro aveva insistito per continuare a lavorare nonostante fosse stato sveglio tutta la notte. «Ti garantisco che reggo. Quando non ce la faccio più ti avverto e me ne vado a fare un pisolino.» Sofia aveva ascoltato la voce angosciata di Ana nei messaggi che le aveva lasciato sul cellulare. In albergo le avevano detto che l'aveva cercata cinque volte. Sentì una fitta di rimorso per il fatto di non essersi fatta viva, ma non era il momento di distrarsi con le elucubrazioni della giornalista. L'avrebbe chiamata una volta chiuso il caso, fino ad allora avrebbe concentrato tutte le energie nell'eseguire gli ordini di Marco. Stava quasi uscendo per andare alla caserma quando un fattorino la raggiunse di corsa. «Dottoressa Galloni, dottoressa!»
«Sì, che c'è?» «La vogliono al telefono, una chiamata urgente.» «Adesso non posso, dica al centralino di prendere il messaggio e...» «Dal centralino mi comunicano che il signor D'Alaqua ha detto che è urgentissimo.» «D'Alaqua?» «Sì, è lui che la sta cercando.» Sofia si voltò sotto lo sguardo attonito di Minerva e andò verso uno dei telefoni della reception. «Sono la dottoressa Galloni, credo che ci sia una telefonata per me.» «Ah, dottoressa, meno male! Il signor D'Alaqua ha insistito molto perché la rintracciassimo. Un attimo.» La voce di Umberto D'Alaqua aveva un tono diverso, come di misurata tensione, che la sorprese. «Sofia...» «Sì, sono io. Come sta?» «Vorrei vederla.» «Mi farebbe molto piacere, ma...» «Niente ma, tra dieci minuti passerà a prenderla la mia macchina.» «Mi dispiace, devo andare a lavorare. Oggi mi è proprio impossibile. Sta succedendo qualcosa?» «Sì, succede che voglio farle una proposta. Come lei sa, l'archeologia è la mia grande passione. Ebbene, vado in Siria, ho la concessione di una zona archeologica dove hanno trovato alcuni pezzi che mi piacerebbe lei potesse valutare. E durante il viaggio vorrei parlare con lei, intendo farle una proposta di lavoro.» «La ringrazio, però in questo momento non posso partire, mi dispiace.» «Sofia, ci sono delle occasioni che capitano una sola volta nella vita.» «Lo so, ma ci sono delle responsabilità da cui non si può fuggire. E in questo momento non posso mollare quello che sto facendo. Se può aspettare due o tre giorni, magari...» «No, non credo di poter aspettare tre giorni.» «È così urgente che vada in Siria oggi stesso?» «Sì.» «Mi spiace, forse potrei venire fra qualche giorno...» «No, non credo. La prego di accettare di partire subito con me.» Sofia esitò. La proposta di Umberto D'Alaqua la sconvolgeva quanto il tono perentorio della voce.
«Che succede? Me lo dica...» «Glielo sto dicendo.» «Mi dispiace, davvero mi dispiace non poter venire con lei. Ora la devo lasciare, mi stanno aspettando e non posso tardare troppo.» «Buona fortuna.» «Sì, certo, grazie.» Era confusa, non capiva la telefonata di Umberto D'Alaqua. Il tono premuroso quando le aveva detto "Buona fortuna". Per che cosa? Sapeva forse dell'operazione Cavallo di Troia? Quando fosse finita la storia del muto lo avrebbe chiamato. Voleva capire il motivo di quella telefonata, perché era sicura che la proposta della Siria nascondeva ben altro che un'avventura galante. «Cosa voleva D'Alaqua?» le chiese Minerva mentre si dirigevano alla caserma dei carabinieri. «Che andassi in Siria con lui.» «In Siria? Perché in Siria?» «Perché lì ha la concessione di alcuni scavi archeologici.» «Come dire che ti stava proponendo una fuga d'amore.» «Credo che mi stesse proponendo una fuga, ma non d'amore. L'ho sentito preoccupato.» Quando arrivarono alla caserma, Marco aveva già chiamato due volte. Era di cattivo umore. La trasmittente che avevano messo al muto non funzionava. Emetteva dei ronzii che però non portavano nella direzione in cui andava l'uomo, per cui o il muto aveva scoperto il marchingegno o questo si era guastato. Si resero conto ben presto che il muto si era cambiato le scarpe da ginnastica. Quelle che portava adesso erano più vecchie e consumate. Si era infilato anche un giubbotto e dei jeans lerci. Qualcuno nel cambio aveva fatto un affare. Il muto era uscito e stava andando verso il parco Carrara. Lo videro passeggiare nel verde. Chi invece sembrava invisibile, almeno fino a quel momento, erano i due segugi del giorno prima. Il muto aveva con sé un pezzo di pane che sbriciolava per gli uccellini. Incrociò un uomo che teneva due bambine per mano. Marco ebbe l'impressione che l'uomo piantasse gli occhi addosso al muto per qualche secondo e poi allungasse il passo. L'assassino giunse alla stessa conclusione di Marco. Quello doveva esse-
re un contatto del muto. Non poteva ancora ucciderlo. Non c'era modo di farlo, era protetto da oltre una dozzina di carabinieri. Sparargli sarebbe stato un suicidio. L'avrebbe seguito per altri due giorni e se le cose non fossero cambiate avrebbe rotto il contratto, non era disposto a rischiare. La sua maggiore qualità, oltre a quella di uccidere, era la prudenza, non faceva mai un passo falso. Né Marco né i suoi uomini o i due compari, e stavolta neppure l'assassino, si resero conto di essere a loro volta sorvegliati da altri uomini. Arslan chiamò suo cugino. Sì, aveva visto Mendibj, si erano incrociati al parco Carrara. Sembrava abbastanza in forma, però non aveva buttato per terra alcun foglietto né fatto qualche gesto, niente; sembrava volesse solo comunicare che era libero. Ana Jiménez chiese al tassista di portarla al duomo di Torino. Entrò dalla porta che conduceva agli uffici del palazzo episcopale e chiese di padre Yves. «Non c'è» disse la segretaria. «Ha accompagnato il cardinale in una visita pastorale. Comunque, lei non aveva un appuntamento, sbaglio?» «No, non sbaglia, ma so che padre Yves sarà felice di vedermi» ribatté Ana, ben consapevole della propria impertinenza. Non sopportava l'aria supponente della segretaria. Non era la sua giornata. Aveva richiamato Sofia e non aveva trovato neanche lei. Decise di restare nelle vicinanze del duomo e far passare il tempo in attesa del ritorno di padre Yves de Charny. Bakkalbasi ricevette la relazione da uno dei suoi uomini. Mendibj continuava a girovagare per la città, sembrava impossibile ucciderlo. C'erano carabinieri ovunque, se continuavano a seguirlo avrebbero finito per essere scoperti. Il pastore non sapeva che ordini impartire. L'operazione poteva fallire e provocare la fine della Comunità. Dovevano accelerare l'entrata in scena dello zio del padre di Mendibj. Giorni prima gli avevano strappato tutti i denti, come pure la lingua, e bruciato le impronte digitali. Un medico gli aveva praticato l'anestesia perché non soffrisse. Il suo era stato un sacrificio simile a quello di Marzio, l'architetto di Abgar. Mendibj si sentiva controllato. Gli era sembrato di vedere una faccia conosciuta, un uomo di Urfa. Era lì per aiutarlo o per ucciderlo? Conosceva Addaio e sapeva che non avrebbe permesso che per colpa sua la Comunità
venisse scoperta. Non appena fosse calata la sera sarebbe tornato all'alloggio e, se possibile, avrebbe raggiunto il cimitero. Avrebbe saltato il muro di cinta e cercato la tomba. Se la ricordava benissimo e non aveva dimenticato neppure dove era nascosta la chiave. Avrebbe percorso il sotterraneo fino alla casa di Turgut e gli avrebbe chiesto di salvarlo. Se fosse riuscito ad arrivare fin lì senza essere scoperto, Addaio avrebbe potuto organizzargli la fuga. Non gli importava di dover aspettare due o tre mesi sottoterra, fino a quando i carabinieri non si fossero stancati di cercarlo. Quello che voleva era solo salvare la pelle. Si diresse verso il mercato all'aperto di Porta Palazzo per comprare qualcosa da mangiare e cercare di confondersi tra le bancarelle. Per coloro che lo stavano seguendo sarebbe stato più difficile passare inosservati, e se lui fosse riuscito a vederli in faccia li avrebbe evitati più facilmente durante la fuga. Erano andati a prenderlo a casa. Bakkalbasi gli consegnò il coltello. Il vecchio lo prese senza esitazioni. Stava per uccidere il figlio di suo nipote, preferiva farlo lui anziché lasciare che altri lo profanassero. Il cellulare del pastore li avvisò della presenza di un messaggio: Mendibj stava andando verso piazza della Repubblica, a Porta Palazzo, al mercato. Bakkalbasi ordinò all'autista di andare a Porta Palazzo e fermarsi vicino a dove dicevano che fosse Mendibj. Abbracciò il vecchio e lo lasciò andare. Pregò perché potesse portare a termine la sua missione. Mendibj vide lo zio di suo padre. Gli veniva incontro come un automa. Il suo sguardo angosciato lo allarmò. Non era lo sguardo di un rispettabile anziano, ma piuttosto di un uomo disperato. Perché? Si guardarono negli occhi. Mendibj non sapeva che cosa fare, se scappare o avvicinarsi con noncuranza per vedere se lo zio gli avrebbe consegnato qualche foglietto o bisbigliato un messaggio. Decise di fidarsi del parente. Di sicuro l'angoscia nei suoi occhi rifletteva la paura che provava, nient'altro. Paura di Addaio, paura dei carabinieri. I loro corpi si sfiorarono e Mendibj sentì un acuto dolore al fianco. Aveva sbattuto, pensò, poi vide il vecchio cadere ai suoi piedi con un coltello conficcato nella schiena. Tutt'intorno la gente iniziò a correre, a gridare, e lui fece altrettanto, si mise a correre in preda al panico. Qualcuno aveva ammazzato lo zio di suo padre, ma chi? L'omicida correva tra la folla facendo finta di essere spaventato come gli altri. Aveva sbagliato. Anziché uccidere il muto aveva inferto la pugnalata
a un vecchio. Un vecchio che a sua volta aveva in mano un coltello. Ne aveva abbastanza, non ci avrebbe riprovato. L'uomo con cui aveva firmato il contratto non gli aveva raccontato tutta la verità, e senza la verità non poteva lavorare perché non sapeva cosa aspettarsi. Per lui il contratto era rotto. Non avrebbe restituito l'anticipo perché questo caso gli aveva già causato abbastanza problemi. Marco raggiunse il punto dove giaceva il moribondo. I suoi uomini arrivarono subito dopo. Mendibj, da lontano, riuscì a vederli, proprio come i due compari videro lui. I carabinieri erano usciti allo scoperto, ora sarebbe stato più facile evitarli. «È morto?» chiese Pietro. Marco cercava inutilmente il polso del vecchio. L'uomo aprì gli occhi, lo guardò come se volesse dirgli qualcosa e spirò. Sofia e Minerva avevano seguito l'accaduto attraverso la radiotrasmittente e avevano sentito i passi frettolosi di Marco, gli ordini che impartiva agli uomini, la domanda di Pietro. «Marco, Marco! Cos'è successo?» chiese Minerva nervosa. «Dicci qualcosa, per l'amor di Dio!» «Qualcuno ha tentato di uccidere il muto, non sappiamo chi, non l'abbiamo visto, invece ha ammazzato un vecchio che in quel momento si è trovato in mezzo. È senza documenti, non sappiamo chi sia. Sta arrivando l'ambulanza. Dio santo, che casino!» «Calmati. Vuoi che veniamo lì?» disse Sofia. «No, non ce n'è bisogno, veniamo noi alla caserma. E il muto, piuttosto? Dove cazzo si è cacciato il muto?» gridò Marco. «L'abbiamo perso» si udì una voce nei walkie-talkie. «L'abbiamo perso» ripeté. «Se l'è svignata nella confusione.» «Porca puttana! Come ha potuto scapparvi?» «Calmati, Marco, calmati...» esclamò Giuseppe. Minerva e Sofia seguivano angosciate la scena che sapevano svolgersi a Porta Palazzo. Dopo tutti quei mesi a preparare il cavallo di Troia, il cavallo era fuggito al galoppo. «Cercatelo! Tutti!» Mendibj respirava a fatica. Era stato pugnalato al fianco. In un primo momento aveva avvertito una sensazione di bruciore, ma adesso il dolore era diventato insopportabile, la cosa peggiore era che stava lasciando una scia di sangue. Si fermò e cercò la penombra di un portone per riprendersi. Pensava di essere riuscito a depistare i suoi inseguitori, anche se non ne era
sicuro. L'unica speranza era riuscire ad arrivare al cimitero, però era lontano e doveva aspettare la sera. Ma dove poteva aspettare? Dove? Ana vide un gruppo di persone correre verso i tavolini di Porta Palatina dove si era seduta. Urlavano che c'era un assassino in libertà. Notò un ragazzo che correva con gli altri, sembrava ferito, ma si infilò in un portone e scomparve. Si incamminò nella direzione da dove arrivava la gente cercando di capire cosa stesse succedendo. Ma oltre a dire che c'era un assassino, nessuno era in grado di spiegare qualcosa. Bakkalbasi aveva visto Mendibj fuggire mentre il vecchio cadeva colpito a morte. Chi l'aveva ucciso? I carabinieri no, erano stati Loro? Ma perché ammazzare il vecchio? Chiamò Addaio per raccontargli l'accaduto. Il pastore lo ascoltò e gli diede un ordine. Bakkalbasi assentì. Ana vide due ragazzi, somiglianti a quello che era appena entrato nel portone, dirigersi verso lo stesso posto. Pensò che era tutto molto strano e senza esitazione li seguì. I due uomini di Urfa pensarono che la donna che si stava avvicinando potesse essere dei carabinieri e cominciarono la ritirata. Avrebbero tenuto d'occhio Mendibj da lontano e anche quella donna. Se fosse stato necessario avrebbero fatto fuori pure lei. Il muto trovò una porta che dava in uno stanzino dove era riposto il cassonetto della spazzatura del condominio. Si sedette per terra dietro il cassonetto cercando di non svenire. Stava perdendo molto sangue e doveva tamponarsi la ferita. Si tolse il giubbotto e riuscì a strappare la fodera per rimediare una benda con cui coprire il taglio, premendo con forza e cercando di frenare l'emorragia. Era sfinito, non sapeva quanto tempo sarebbe potuto restare lì nascosto, forse fino a sera, quando sarebbero venuti a prendere il cassonetto. Si sentì girare la testa e svenne. Yves de Charny era nel suo ufficio da un po'. Sul volto gli si era dipinta un'espressione preoccupata. La sua segretaria entrò nella stanza. «Padre, sono arrivati quei due sacerdoti amici suoi, i soliti, padre Joseph e padre David. Ho detto loro che lei è appena arrivato e che non so se potrà vederli.» «Sì, sì, li faccia entrare. Sua Eminenza non ha più bisogno di me, per oggi, è in partenza per Roma, e qui siamo già avanti con il lavoro. Se vuole, si prenda il pomeriggio libero.» «Ha saputo che c'è stato un omicidio qui vicino, a Porta Palazzo?»
«Sì, lo stanno dicendo alla radio. Mio Dio, quanta violenza!» «Altroché, padre. Be', allora, se non le dispiace... mi fa molto comodo uscire, così posso andare dal parrucchiere, domani sono a cena da mia figlia.» «Vada, vada tranquilla.» Padre Joseph e padre David entrarono nell'ufficio di padre Yves. I tre uomini si guardarono in attesa che il rumore della porta confermasse loro che la segretaria se n'era andata. «Sai già quello che è successo?» gli domandò padre David. «Sì. Lui dov'è?» «Si è rifugiato in un portone qui vicino. Non ti preoccupare, i nostri sono pronti, ma non sarebbe prudente andarlo a prendere adesso. La giornalista è lì davanti.» «Come mai?» «Per caso, stava bevendo qualcosa in un bar all'aperto per far passare il tempo mentre ti aspettava. Se arriva saremo costretti a farlo» rispose padre Joseph. «Qui non mi sembra il caso.» «Non c'è nessuno» insistette padre Joseph. «No, ma non si sa mai. E la dottoressa?» «In qualunque momento, appena esce dalla caserma dei carabinieri. È già tutto pronto» lo informò padre David. «A volte...» «A volte dubiti come noi, ma siamo dei soldati ed eseguiamo gli ordini» disse Joseph. «Questo, però, non lo ritengo necessario.» «Non abbiamo altra scelta che obbedire.» «Sì, ma questo non significa che non possiamo pensare con la nostra testa e persino manifestare il nostro disaccordo, anche se poi ubbidiamo. Ci hanno insegnato a pensare per conto nostro.» La sorte decise di sorridere a Marco. Giuseppe gli aveva appena annunciato via radio di aver visto uno dei compari vicino al duomo. Marco si precipitò nella direzione indicatagli dal collega. Quando arrivò alla piazza adeguò il passo a quello delle altre persone che, in capannelli, stavano ancora commentando i fatti di un'ora prima. «Dove sono?» chiese avvicinandosi a Giuseppe. «Là, seduti al bar. Sono sempre gli stessi due.»
«Attenzione a tutti quanti, non voglio che vi facciate vedere. Pietro, tu vieni verso di me, voialtri circondate la piazza, ma tenetevi a una certa distanza. Questi tizi sono molto svegli e hanno dimostrato di saperci fare.» Mezz'ora più tardi, infatti, i due se la svignarono. Si erano accorti di avere ancora i carabinieri alle calcagna. Loro li avevano visti, i loro colleghi no. Così il primo si alzò, attraversò distrattamente la piazza e salì su un autobus. L'altro si avviò in senso opposto e cominciò a correre. Non c'era modo di seguirlo senza che se ne accorgesse. «Ma come abbiamo fatto a perderli di nuovo?!» gridò Marco a un interlocutore invisibile. «Non gridare» gli intimò Giuseppe via radio dall'altra parte della piazza. «Ti stanno guardando tutti e penseranno che sei un matto che parla da solo.» «Non sto gridando!» urlò di nuovo Marco. «Ma, cazzo, è una maledizione! Ci siamo fatti scappare il muto e pure i due che lo pedinavano. Appena li individuiamo li arrestiamo, non possiamo permetterci di perderli un'altra volta. Fanno parte dell'organizzazione che stiamo cercando, e a quanto pare non sono muti, per cui canteranno fino in fondo, come è vero che mi chiamo Marco.» Due degli uomini di Urfa erano sempre appostati in attesa che Mendibj uscisse. Sapevano che in piazza c'erano i carabinieri, ma dovevano correre il rischio. I loro compagni quando si erano visti scoperti se ne erano andati e gli altri tre uomini di supporto li seguivano da vicino. Si erano già fatti un'idea precisa di quanti carabinieri ci fossero in piazza in quel momento. Quello che non sapevano, come non lo sapevano Marco e i suoi, era che tutti loro continuavano a essere a loro volta sorvegliati da uomini addestrati al meglio, al punto da risultare invisibili persino agli occhi esperti degli stessi carabinieri. Calava la sera e Ana Jiménez decise di ritentare la sorte con padre Yves. Suonò il campanello degli uffici, ma non venne nessuno ad aprire. Spinse la porta ed entrò. Non c'era anima viva e il custode non aveva ancora chiuso a chiave. Si avviò verso l'ufficio di padre Yves, ed era quasi arrivata quando udì delle voci. Non conosceva quella dell'uomo che stava parlando, ma quanto diceva la indusse a rimanere in silenzio e a non farsi vedere. «Per cui arrivano dal sotterraneo. Li hanno seminati. E gli altri? D'accordo, andiamo là. Di sicuro cercherà di rifugiarsi qui, è il posto più sicu-
ro.» Padre Joseph spense il cellulare. «Bene, i carabinieri non sanno dove stanno andando. Hanno perso i due uomini di Addaio e Mendibj è sempre nell'androne. C'è ancora troppa gente. Immagino che uscirà da un momento all'altro, il nascondiglio che ha trovato non è molto sicuro.» «Dov'è Marco Valoni?» chiese padre David. «Mi dicono che è furibondo perché l'operazione gli sta scappando di mano» rispose padre Joseph. «È più vicino alla verità di quanto non creda» si intromise padre Yves. «No, non lo è» affermò seccamente il sacerdote che chiamavano David. «Non sa niente, ha avuto solo una buona idea: usare Mendibj come esca perché ritiene che faccia parte di un'organizzazione. Ma non sa nulla della Comunità e men che meno di noi.» «Non illuderti» insistette padre Yves. «Si sta avvicinando pericolosamente alla Comunità. Per il momento si sono resi conto che c'è troppa gente di Urfa legata alla Sindone. La dottoressa Galloni ha colpito nel segno, ieri commentava con il gruppo del Comando del patrimonio artistico di essere giunta alla conclusione che il passato di Urfa ha a che fare con gli avvenimenti del duomo. Non le hanno prestato attenzione, tranne l'esperta di informatica, però Valoni è intelligente e da un momento all'altro capirà tutto come la dottoressa. È un peccato che una donna così debba...» «Bene» li interruppe padre Joseph. «Ci vogliono nel sotterraneo. Speriamo che Turgut e suo nipote siano già dentro. I nostri sono al cimitero.» «I nostri sono dappertutto, come sempre» disse padre Yves. I tre uomini si avviarono alla porta. Ana si nascose dietro un armadio. Aveva paura. Ora sapeva che padre Yves non era un prete come gli altri; ma era un Templare o faceva parte di un'altra organizzazione? E gli altri che erano con lui? Le voci sembravano appartenere a uomini giovani. Quando li vide uscire trattenne il respiro. Non dovevano essersi accorti della sua presenza perché avevano percorso frettolosamente l'anticamera. Rimase in attesa senza fiatare e poi, appiattendosi contro le pareti, come aveva visto fare in tanti film, li seguì. Attraverso una porticina il gruppetto si diresse verso i locali del custode del duomo. Padre Yves bussò senza ricevere risposta, poco dopo uno dei giovani che erano con lui estrasse un grimaldello e aprì la porta. Ana osservava la scena con terrore e meraviglia. Sempre incollata alla parete si diresse verso l'ingresso della casa del custode. Non si udiva alcun
rumore, per cui decise di entrare. Pregò di non essere scoperta, ma intanto cominciò a pensare a qualche scusa nel caso in cui invece fosse accaduto. 48 Mendibj udì un rumore e sobbalzò. Aveva ripreso conoscenza già da qualche minuto. La ferita gli faceva male e il sangue si era seccato formando una crosta sulla camicia sporca. Non sapeva se ce l'avrebbe fatta a reggersi in piedi, ma doveva provarci. Pensò alla strana morte dello zio di suo padre. Era stato Addaio a ordinarne l'uccisione perché sapeva che l'avrebbe aiutato? Non si fidava di nessuno, men che meno di Addaio. Il pastore era un sant'uomo, però inflessibile, capace di qualunque cosa per salvare la Comunità, e lui, Mendibj, senza volerlo avrebbe potuto farli scoprire. Voleva evitarlo, si stava sforzando da quando era tornato in libertà; tuttavia Addaio sapeva sicuramente cose che lui ignorava, per cui non scartava l'ipotesi che avesse cercato di ucciderlo. La porta dello stanzino dell'immondizia si aprì. Una donna di mezza età con un sacco di spazzatura in mano lo vide e lanciò un urlo. Mendibj, con uno sforzo sovrumano, si alzò in piedi e le tappò la bocca. Non poteva dirle nulla, era senza lingua, per cui o la donna si calmava o avrebbe dovuto colpirla fino a ridurla in stato di incoscienza. Non aveva mai picchiato una donna, ma adesso era in gioco la sua vita. Per la prima volta da quando gli avevano strappato la lingua, sentì un'angoscia infinita per non poter parlare. Spinse la donna contro il muro. Stava tremando, e lui temette che se avesse tolto la mano che le tappava la bocca avrebbe ripreso a gridare. Decise di colpirla alla nuca e lasciarla priva di sensi. La donna, stesa a terra, respirava con difficoltà. Mendibj aprì la sua borsetta e trovò quello che cercava, una penna e un'agenda da cui strappò un foglio. Scrisse in tutta fretta. Quando la donna cominciò a tornare in sé, Mendibj le tappò di nuovo la bocca e le diede il foglietto. "Mi segua. Faccia come le dico e non le succederà niente, ma se cerca di scappare o grida non potrà raccontare a nessuno questa storia. Ha la macchina?" La donna lesse lo strano messaggio e annuì. Lentamente, Mendibj le tolse la mano dalla bocca, ma la strinse con forza a sé per evitare che si met-
tesse a correre. «Marco, mi senti?» «Dimmi, Sofia.» «Dove sei?» «Vicino al duomo.» «Bene, ho novità dal medico legale. Il vecchio che è stato ammazzato non ha lingua né impronte digitali. Secondo il medico la lingua gli è stata asportata un paio di settimane fa e le impronte gli sono state bruciate nello stesso periodo. Non c'è nulla che lo possa far identificare, nulla. Ah, non ha nemmeno un dente, la bocca è come una caverna vuota, niente.» «Cazzo!» «Il medico non ha ancora ultimato l'autopsia, ma è uscito a chiamarci per farci sapere che abbiamo un altro muto.» «Cazzo!» «Insomma, Marco, dimmi qualcosa oltre a "cazzo"!» «Scusami, Sofia, scusa. So che il muto, il nostro, è da queste parti. Qualcuno vuole ucciderlo, o portarselo via, o proteggerlo, non lo so. I due pedinatori che avevamo individuato sono spariti ma c'è sicuramente dell'altro. Il peggio è che quando hanno ammazzato il vecchio al mercato ci siamo esposti. Se ci sono altri compari in giro, a questo punto sanno benissimo chi siamo mentre noi non conosciamo loro. E il nostro muto non si vede.» «Lasciami venire lì con Minerva, non ci conoscono, possiamo darvi il cambio.» «No, no, sarebbe pericoloso. Non riuscirei a perdonarmelo se vi accadesse qualcosa. Restate là.» La conversazione fu interrotta da una voce. Era Pietro. «Attenzione, Marco! Il muto si trova all'angolo della piazza. È con una donna. La tiene abbracciata. Li prendiamo?» «Perché? A che scopo? Sarebbe assurdo. Cosa vuoi fare con lui? Non perdetelo di vista, vengo lì. Come noi, l'avranno visto anche quelli della sua organizzazione. Comunque stavolta non ammetto errori, se vi sfugge di nuovo vi taglio le palle.» La donna portò Mendibj fino alla sua auto, una piccola utilitaria, e una volta aperta la portiera sentì l'uomo spingerla e mettersi lui al volante. Mendibj respirava a fatica ma riuscì a partire e a infilarsi nel traffico ca-
otico di quell'ora del pomeriggio. Gli uomini di Marco lo seguivano da vicino. Anche quelli della Comunità. E tutti insieme, a loro volta, erano seguiti da un esercito silenzioso che nessuno dei due gruppi era stato in grado di scoprire. Il muto cominciò a vagare per la città. Doveva sbarazzarsi della donna ma sapeva che, non appena l'avesse fatto, lei avrebbe avvisato i carabinieri. Ciononostante doveva correre il rischio, non poteva portarla fino al cimitero. Ovvio che se lasciava la macchina lì vicino, i carabinieri avrebbero potuto seguire la sua pista. Però non era in condizioni di camminare. Si sentiva estremamente debole, aveva perso molto sangue. Pregava perché il custode del cimitero fosse nella sua guardiola, gli avrebbe affidato l'auto perché la facesse sparire. Il brav'uomo era un fratello, un membro della Comunità, e l'avrebbe aiutato. Sì, l'avrebbe aiutato, sempre che Addaio non avesse ordinato di ammazzarlo. Prese una decisione: sarebbe andato al cimitero. Quando furono abbastanza vicini, ma non così tanto perché la donna capisse dove lui pensava di nascondersi, fermò la macchina. Sotto lo sguardo di nuovo atterrito della donna prese la borsetta, tirò fuori la penna e un pezzo di carta e scrisse. "La lascio libera. Non avvisi i carabinieri, se no sarà peggio per lei. Adesso la proteggono, ma verrà il giorno in cui non lo faranno più e allora arriverò io. Se ne vada e non racconti niente a nessuno. Si ricordi che altrimenti tornerò a cercarla." La donna lesse l'appunto e nei suoi occhi il terrore aumentò. «Le giuro che non dirò nulla, ma per favore mi lasci andare...» supplicò. Mendibj prese il foglietto e lo fece a pezzetti, che buttò dal finestrino. Poi scese dalla macchina e con qualche difficoltà si raddrizzò. Aveva paura di svenire di nuovo prima di riuscire a raggiungere il cimitero. Si avvicinò al muro e cominciò a camminare mentre sentiva il rumore della macchina che si allontanava. Camminò per un bel pezzo, sedendosi quando il dolore si faceva insopportabile e pregando Dio perché gli permettesse di salvarsi. Voleva vivere, non desiderava dare la vita né per la Comunità né per nessuno. Gli avevano già preso la lingua e i due anni di vita passati in galera. Marco scorse la sagoma barcollante del muto. Si vedeva che era ferito e camminava con difficoltà. Ordinò ai suoi di stargli dietro, mantenendosi però a distanza. Avevano individuato altri due compari che seguivano il muto, con discrezione, da lontano, gli altri si erano volatilizzati. «State attenti, dobbiamo prenderli tutti. Nel caso in cui decidessero di
non continuare a seguire il muto, sapete perfettamente cosa dovete fare: ci dividiamo, qualcuno va dietro a loro, gli altri dietro al muto.» Gli uomini di Bakkalbasi parlavano sottovoce mentre seguivano Mendibj a distanza di sicurezza. «Sta andando verso il cimitero. Sono sicuro che vuole arrivare al sotterraneo. Appena siamo fuori dalla vista della gente gli sparo» disse uno. «Calmati, ho l'impressione che ci stiano seguendo. I carabinieri non sono fessi. Forse è meglio lasciare che Mendibj si infili nella tomba e noi gli andiamo dietro. Se ci mettiamo a fare casino con gli spari ci arrestano tutti» rispose un altro. All'orizzonte cominciava a delinearsi il crepuscolo. Mendibj allungò il passo, voleva entrare nel cimitero prima che il custode chiudesse il cancello, altrimenti avrebbe dovuto scavalcare il muro e non era in condizioni di farlo. Accelerò quanto poté ma dovette fermarsi. Aveva ripreso a sanguinare. Premette contro la ferita il fazzoletto che aveva preso alla donna. Almeno era pulito. La sagoma del custode si stagliava vicino ai cipressi all'ingresso del cimitero. Sembrava come in attesa di qualcosa o qualcuno. Intuiva la preoccupazione dell'uomo, persino la sua paura. Quando il custode lo vide cominciò a chiudere il cancello, ma Mendibj, con enorme sforzo, arrivò all'ingresso e riuscì a infilarsi tra i due battenti. Spintonandolo e rivolgendogli uno sguardo furente, si avviò verso la tomba 117. La voce di Marco giunse a tutti i carabinieri che partecipavano all'operazione. «È entrato nel cimitero, il custode aveva l'aria di non volerlo far entrare ma il muto l'ha spinto da parte. Vi voglio dentro. E i compari?» «Stanno per entrare nel tuo campo visivo. Si dirigono anche loro verso il cimitero.» Con gran sorpresa di Marco e dei suoi uomini, i pedinatori del muto avevano la chiave del cancello, per cui lo aprirono ed entrarono, assicurandosi di richiuderlo. «Hanno la chiave!» si sentì esclamare da un carabiniere. «Che facciamo?» chiese Pietro. «Cercheremo di scassinare la serratura, e se non ci riusciamo scavalcheremo il cancello» disse la voce di Marco. Una volta giunti al cancello, uno dei carabinieri tentò di forzare la serra-
tura con un grimaldello. Ci riuscì abbastanza in fretta, sotto lo sguardo impaziente del capo del Comando per la tutela del patrimonio artistico. «Giuseppe, cerca il custode. Non l'abbiamo visto uscire, deve essere lì intorno, ben nascosto o... non so, cercalo.» «D'accordo, capo, e dopo cosa faccio?» «Prima mi dici cosa ti racconta e poi decidiamo. Fatti accompagnare da un collega, nel caso in cui ti servisse protezione.» «Va bene.» «Tu, Pietro, vieni con me. Dove si sono cacciati?» chiese Marco ai carabinieri via radio. «Mi sembra di vedere i compari andare verso una cappella che ha sulla porta un angelo di marmo» disse una voce. «Bene, dicci dov'è e ci andiamo.» Ana Jiménez era entrata nell'abitazione di Turgut senza trovare nessuno. Padre Yves e i suoi amici sembravano essere spariti nella casa del custode del duomo. Restò ferma cercando di udire qualche rumore, ma in quei modesti locali regnava il silenzio più assoluto. Cominciò a cercare senza vedere nulla che attirasse la sua attenzione. Spinse con un certo timore la porta di una stanza. Non c'era nessuno neppure lì, anche se la stupì il fatto che il letto sembrava spostato. Si avvicinò lentamente, ma non vide nulla di speciale e tornò quindi in soggiorno, poi andò in cucina ed entrò anche in bagno. Niente. Non c'era nessuno, ma Ana sapeva che dovevano essere lì perché dall'ingresso non erano più passati. Rifece il giro della casa. In cucina c'era un armadio a muro. Batté sulla parete ma le sembrò solida. Poi osservò il pavimento di legno, si mise in ginocchio e cominciò a cercare un'apertura, perché ormai era arrivata alla conclusione che ci doveva essere un accesso segreto a qualche locale. Visto che il pavimento suonava a vuoto, cercò qualcosa per sollevarlo. Con coltello e martello riuscì ad alzare le assi e, dopo averle tolte una a una, si trovò davanti una scala che si insinuava nelle viscere della terra. Era buio e non si udiva il minimo rumore. Se quegli uomini avevano lasciato la casa dovevano averlo fatto da lì, per cui decise di cercare una torcia e dei fiammiferi. Ci mise un po' a trovare una piccola torcia elettrica, non sembrava illuminare granché ma non c'era di meglio. Infilò in borsa anche una scatola di fiammiferi da cucina. Cercò con lo sguardo qualcos'altro che le sarebbe potuto servire in quel
sotterraneo e prese due strofinacci e una candela. Poi, raccomandandosi a santa Gemma, patrona delle imprese impossibili, alla cui intercessione doveva sicuramente la laurea, cominciò a scendere l'angusta scala che l'avrebbe portata Dio sa dove. Mendibj avanzava a tentoni nel sotterraneo. Ricordava ogni palmo di quel terreno umido e viscido. Il custode aveva cercato di impedirgli di arrivare alla tomba, ma aveva rinunciato a fermarlo quando lo aveva visto prendere una pala, pronto a colpirlo. Il vecchio si era messo a correre e Mendibj aveva potuto arrivare alla cappella. La chiave era lì, nascosta sotto un vaso di piante. La infilò nella serratura, entrò e trovò il meccanismo dietro la camera sepolcrale che rivelava una scala che scendeva nel sotterraneo e arrivava fino al duomo. Faceva fatica a respirare. La mancanza d'aria e l'odore nel sotterraneo gli davano la nausea, ma lui sapeva che la sua unica possibilità di salvezza era arrivare fino alla casa di Turgut, ragion per cui, superando il dolore e la debolezza, continuò ad avanzare. La luce dell'accendino non bastava a illuminare quel corridoio, ma era l'unica di cui disponeva. La paura più grande di Mendibj era di restare al buio e perdere l'orientamento. Gli uomini di Bakkalbasi erano entrati nel cimitero qualche minuto dopo. Con passo leggero si erano avviati alla cappella dell'angelo. Anche loro avevano una chiave per entrare. Nel giro di pochi secondi si ritrovarono nelle viscere del cimitero all'inseguimento di Mendibj. «Si sono infilati lì» esclamò un carabiniere. Marco osservò l'angelo a grandezza naturale che brandendo una spada sembrava sbarrargli la strada. «Che facciamo?» chiese Pietro. «Ovviamente entriamo e li cerchiamo.» Dovettero ricorrere ancora al carabiniere specializzato nel far saltare le serrature. Questa lo fece un po' dannare perché aveva un sofisticato sistema di chiusura. Nel frattempo, Marco e i suoi uomini attendevano fumando, senza accorgersi di essere osservati. Gli uomini invisibili li sorvegliavano dagli angoli più impensati. Turgut e Ismet passeggiavano nervosamente nella sala nascosta nel sotterraneo. A condividere con loro l'attesa c'erano tre degli uomini arrivati da Urfa. Erano riusciti a seminare i carabinieri e da diverse ore aspettavano in
quella stanza segreta. Gli altri uomini di Bakkalbasi dovevano essere sul punto di arrivare. Il pastore li aveva avvertiti che forse sarebbe venuto anche Mendibj e che avrebbero dovuto tranquillizzarlo e aspettare che arrivassero gli altri fratelli. Dopodiché, ormai sapevano cosa dovevano fare. Udirono dei passi affrettati e Turgut fu percorso da un brivido. Il nipote gli diede una pacca sulla spalla per fargli coraggio. «Sta' tranquillo, è tutto a posto, abbiamo ricevuto gli ordini e sappiamo cosa fare.» «Ho il presentimento che succederà una disgrazia.» «Non menare gramo! Andrà tutto secondo i piani.» «No, so che accadrà qualcosa.» «Smettila, per favore!» Né Turgut né Ismet avevano udito i passi silenziosi dei tre sacerdoti che, nascosti nell'ombra, li osservavano ormai da un pezzo. Padre Yves, padre David e padre Joseph assomigliavano più a tre guerriglieri che a tre sacerdoti. Mendibj entrò di corsa nella sala, fece in tempo soltanto a vedere Turgut prima che la vista gli si annebbiasse e lui cadesse svenuto. Ismet gli si inginocchiò accanto per controllargli il polso. «Mio Dio! Sanguina, ha una ferita vicino al polmone, ma non credo che sia stato colpito perché altrimenti sarebbe morto. Dammi dell'acqua e qualcosa per pulire la ferita.» Il vecchio Turgut si avvicinò con gli occhi fuori dalle orbite per porgere al nipote una bottiglia d'acqua e un asciugamano. Ismet strappò la camicia sporca di Mendibj e pulì con cura la ferita. «Qui sotto non c'era un sacchetto delle medicine?» Turgut annuì senza avere la forza di parlare. Cercò il sacchetto e lo diede al nipote. Ismet pulì di nuovo la ferita con acqua ossigenata e poi ci passò un po' di cotone imbevuto di disinfettante. Era tutto ciò che poteva fare per Mendibj. Gli uomini di Bakkalbasi lo avevano lasciato fare, anche se pensavano che non valesse la pena impegnarsi tanto dal momento che Mendibj doveva comunque morire. Era Addaio a volerlo. «Non è il caso che lo curi.» Dall'oscurità uscì un altro degli uomini di Bakkalbasi. Poco dopo altri due membri lo seguirono. Si trattennero qualche minuto a raccontare le peripezie dell'inseguimento. Le chiacchiere impedirono loro di udire che
qualcuno si stava avvicinando attraverso la galleria sotterranea. Marco, accompagnato da Pietro e da una dozzina di carabinieri, fece irruzione nel locale puntando la pistola. «Fermi tutti! Siete in arresto!» gridò. Non ebbe il tempo di continuare, una pallottola uscita dall'oscurità lo mancò per un pelo. Anche due dei suoi vennero presi di mira. Gli uomini di Bakkalbasi approfittarono della confusione e si misero a sparare a loro volta. Marco e i suoi si ripararono come poterono, e lo stesso fecero gli uomini di Bakkalbasi, ben sapendo che i primi colpi non erano partiti da loro. Marco si mise a strisciare per cambiare posizione e tentare di circondare gli uomini di Bakkalbasi. Non ci riuscì, da qualche angolo nascosto che non poteva vedere gli spararono di nuovo, e quasi contemporaneamente udì una donna gridare. «Attento, Marco! Sono qui sopra. Attento!» Ana era uscita allo scoperto. Da un po', senza muoversi, stava nascosta dietro i tre sacerdoti che aveva trovato dopo aver percorso la galleria fino a quella sala sotterranea. Padre Yves si voltò con un'espressione sbigottita nello sguardo. «Ana!» La ragazza cercò di correre via ma padre Joseph fu più veloce e l'afferrò con forza. L'ultima cosa che Ana riuscì a vedere fu una mano che le si avvicinava alla testa. Il sacerdote la colpì facendole perdere i sensi. «Ma che fai?» chiese Yves de Charny. Non ebbe risposta. Non poteva averla. I proiettili arrivavano da tutte le parti, e quindi, a loro volta, dovettero rispondere al fuoco dei carabinieri e degli uomini di Urfa. Erano trascorsi pochi minuti quando altri irruppero sulla scena. Erano gli uomini invisibili, che in un attimo ammazzarono Turgut, suo nipote Ismet e due degli scagnozzi di Bakkalbasi. La risonanza degli spari stava provocando la caduta di pietre e sabbia dal soffitto del sotterraneo. Tuttavia, la battaglia continuò a infuriare. Ana riprese conoscenza. La testa le faceva molto male. Con uno sforzo si mise a sedere e si trovò davanti i tre sacerdoti che sparavano. Non sapeva nulla degli uomini invisibili che erano appena arrivati. Decise di aiutare Marco, quindi si alzò in piedi e dopo aver raccolto una pietra si diresse verso i sacerdoti. La scagliò con forza contro padre David; padre Joseph stava per spararle ma non ne ebbe il tempo: dal soffitto del sotterraneo
cominciarono a cadere delle pietre e una raggiunse la spalla di padre Joseph. Anche Yves de Charny era ferito e guardava Ana con una rabbia incontenibile. Lei si mise a correre per fuggire dal sacerdote e dalle pietre che continuavano a cadere con violenza. Il putiferio generale le impedì di ritrovare la strada da cui era venuta. Era perduta, sapeva che padre Yves la inseguiva urlando, ma non riusciva a distinguerlo. Il rumore assordante del sotterraneo che crollava le provocò un attacco di panico. Oltre a Yves de Charny le sembrava che anche Marco gridasse il suo nome. Inciampò e cadde. Era avvolta dall'oscurità, e lanciò un urlo sentendosi afferrare da una mano. «Ana?» «Dio mio!» Non sapeva dove si trovava. Il buio era totale. Le faceva male la testa ed era tutta ammaccata. Provò un senso di terrore. Sapeva che la mano che la stringeva era di Yves de Charny, cercò di divincolarsi e lui non oppose resistenza. Non udiva più la voce di Marco, e nemmeno gli spari, Che cosa stava succedendo? Dov'era? Gridò forte senza soffocare un singhiozzo. «Siamo perduti, Ana, non usciremo da qui.» La voce rotta di Yves de Charny le fece capire che era ferito. «Ho perso la torcia nell'inseguirla» disse il sacerdote «per cui moriremo al buio.» «Basta! Basta!» «Mi dispiace, Ana, mi dispiace. Lei non meritava di morire, non ce n'era motivo.» «Mi state ammazzando! Ci state ammazzando tutti!» Il sacerdote tacque. Ana cercò la candela e i fiammiferi nella borsa. Fu felice di trovarli, la mano tastò il cellulare. Accese la candela e vide il volto angelico di padre Yves contratto dal dolore. Era ferito gravemente. Ana si alzò e ispezionò la cavità dove erano intrappolati. Non era molto grande e non aveva alcun varco. Pensò che non ne sarebbe uscita viva. Si sedette accanto al sacerdote e, resasi conto che ormai accettava il suo destino, si preparò a giocare la sua ultima carta come giornalista. Padre Yves non la vide prendere il cellulare dalla borsa. L'ultimo numero che aveva chiamato senza risposta era stato quello di Sofia. Magari adesso avesse risposto! Magari il suo telefono fosse stato in grado di portare le loro voci al di là delle pareti mortali di quel sotterraneo! Doveva solo schiacciare il tasto e il numero di Sofia sarebbe stato ricomposto automaticamen-
te. Premette uno degli strofinacci presi nella casa di Turgut sulla ferita di padre Yves, che la guardò con occhi vitrei. «Mi dispiace, Ana.» «Sì, me l'ha già detto. Adesso mi spieghi perché questa follia.» «Cosa vuole che le spieghi? Che cosa cambia? Tanto moriremo.» «Voglio sapere perché morirò. Lei è un Templare, come quei suoi amici?» «Sì, siamo Templari.» «E chi erano gli altri uomini, quelli che sembravano turchi, che erano con il custode del duomo?» «Gli uomini di Addaio.» «Chi è Addaio?» «Il pastore, il pastore della Comunità della Sacra Sindone. La vogliono...» «Vogliono la Sindone?» «Sì.» «La vogliono rubare?» «Pensano che appartenga a loro, gliel'ha inviata Gesù.» Ana pensò che l'uomo stesse delirando, gli avvicinò la candela al viso e vide un sorriso affiorare sulle labbra del sacerdote. «No, non sono pazzo. Mi ascolti, nel primo secolo ci fu un re a Edessa, Abgar. Aveva la lebbra e guarì grazie al sudario di Gesù. È quello che narra la leggenda. Ed è quello che credono i discendenti di quella prima comunità cristiana che nacque a Edessa: che qualcuno abbia portato lì il sudario e che quando Abgar ci si avvolse, guarì.» «E chi lo portò?» «Secondo la tradizione fu uno dei discepoli di Gesù.» «Comunque, la Sindone ha conosciuto parecchie vicissitudini. È partita molti secoli fa da Edessa...» «Sì, ma quando ai cristiani di quella città le truppe dell'imperatore di Bisanzio...» «Romano Lecapeno...» «Sì, Romano Lecapeno rubò la Sindone, e loro giurarono che non si sarebbero dati pace finché non l'avessero recuperata. La comunità cristiana di Edessa è tra le più antiche del mondo e non ha mai rinunciato a cercare di recuperare la sua reliquia, e noi non abbiamo mai smesso di impedirglielo. Non è più loro proprietà.»
«I muti appartenevano a quella Comunità?» «Sì, sono i soldati di Addaio, ragazzi che considerano un onore sacrificare la lingua per recuperare la Sindone. Se la tagliano per non parlare nel caso in cui venissero arrestati.» «È una cosa atroce!» «Sembra che il primo a farlo sia stato Marzio, un architetto di Abgar. Noi cerchiamo di impedire che si riprendano la Sindone, che vengano arrestati e attraverso di loro si risalga fino a noi. Marco Valoni ha ragione, gli incendi che ha subito il duomo sono dolosi, li ha provocati la Comunità, cercando di approfittare della confusione per prendersi la Sindone. Ma noi siamo sempre stati presenti, nel corso dei secoli ci sono sempre stati dei Templari che hanno impedito il furto.» Yves de Charny si lasciò sfuggire un gemito di dolore. La testa gli girava e lui riusciva a malapena a vedere il viso di Ana nella penombra. La donna teneva il cellulare vicino a lui. Non sapeva se Sofia avesse risposto, se li stesse ascoltando. Non sapeva nulla ma voleva provarci, voleva che la verità non morisse con lei. «Che cosa hanno a che fare i Templari con la Sindone e con quella Comunità di cui parla?» «Abbiamo comprato la reliquia dall'imperatore Baldovino. È nostra.» «Ma se è falsa! Sa bene che il carbonio 14 ha stabilito che il telo risale al tredicesimo o quattordicesimo secolo.» «Gli scienziati hanno ragione, il telo è della fine del tredicesimo secolo, ma come lei sa non riescono a spiegarsi perché certi pollini attaccati alla stoffa siano uguali a quelli che si trovano in strati sedimentati di duemila anni fa nella zona del lago di Genezaret. Anche il sangue è autentico e corrisponde a sangue venoso e arterioso. E il lino viene dall'Oriente! E sono stati trovati resti di albumina di siero in corrispondenza dei punti in cui Gesù fu flagellato.» «E lei come lo spiega?» «Lei lo sa, o è stata sul punto di saperlo. È andata in Francia, a Lirey.» «Sa anche questo?» «Noi sappiamo tutto, assolutamente tutto. Non c'è cosa che lei abbia fatto o detto che noi non sappiamo. Il suo intuito non ha sbagliato: sono un discendente di Geoffroy de Charney, l'ultimo visitatore del Tempio in Normandia. La mia è una famiglia che ha dato all'Ordine molti dei suoi figli.» Ana era affascinata dal racconto. Sapeva che Yves de Charny le stava
facendo una rivelazione eccezionale, che sarebbe morta con loro in quella tomba di pietra. Non avrebbe mai potuto pubblicare la storia, tuttavia in quel momento così drammatico sentì una fitta di presunzione nel rendersi conto che era riuscita a decifrarla. «Continui.» «No, non lo farò.» «De Charny, lei sarà chiamato a comparire davanti a Dio, lo faccia con la coscienza a posto, confessi i suoi peccati, confessi i motivi della follia in cui ha vissuto e che è costata tante vite.» «Confessarmi? Con chi?» «Con me. Le servirà per alleggerirsi la coscienza e per dare un senso alla mia morte. Se crede in Dio, Lui la starà ascoltando.» «Dio non ha bisogno di ascoltare per sapere cosa c'è nel cuore degli uomini. Lei crede in Dio?» «Non lo so. Spero che esista.» Padre Yves rimase in silenzio. Poi, con movimenti faticosi, si asciugò la fronte imperlata di sudore e prese la mano di Ana, mentre lei continuava a tenergli accanto, nella penombra, il suo cellulare. «François de Charney fu un cavaliere templare che visse in Oriente da quando era molto giovane. Non starò a raccontarle le innumerevoli avventure di questo mio antenato, le dirò solo che il Gran Maestro del Tempio, pochi giorni prima della caduta di San Giovanni d'Acri, gli affidò il compito di salvare il sudario che era custodito nella fortezza insieme al resto dei tesori dei Templari. «Il mio antenato avvolse il sudario in un pezzo di lino molto simile e rientrò in Francia come gli era stato ordinato. La sorpresa, sua e del Maestro di Marsiglia, fu enorme quando una volta spiegato il lino scoprirono che la figura di Cristo era rimasta impressa nel tessuto in cui era stato avvolto. Ci può essere una spiegazione diciamo chimica, o possiamo credere che si sia trattato di un miracolo, fatto sta che da quel momento ci furono due Sindoni, entrambe con la vera immagine di Cristo.» «Mio Dio! Questo spiega...» «Questo spiega che gli scienziati hanno ragione quando, basandosi sulla prova del carbonio 14, affermano che la tela del sudario risale al tredicesimo o quattordicesimo secolo, e dà anche ragione a coloro i quali credono che sulla Sindone ci sia l'immagine di Cristo e non si spiegano l'esistenza di quei pollini o dei resti di sangue. La Sindone è sacra, contiene i segni del calvario di Gesù e la sua immagine: Cristo era fatto così, Ana, era fatto
così. Quello è il miracolo con cui Dio onorò la Casa dei de Charney, sebbene più avanti un altro ramo della famiglia, i de Charny, si impossessarono della nostra reliquia, la storia ormai è nota anche a lei, e la vendettero a Casa Savoia. Così adesso conosce il segreto della Sacra Sindone. Solo pochi eletti al mondo sanno la verità. Questa è la spiegazione dell'inspiegabile, del miracolo, Ana, perché di miracolo si tratta.» «Però lei ha detto che c'erano due Sindoni, quella vera, comprata dall'imperatore Baldovino, e l'altra, cioè questa, la Sindone che si trova nel duomo, che è come un negativo di quella vera. Dove la tenete? Me lo dica.» «Dove teniamo che cosa?» «L'autentica, quella del duomo è la copia.» «No. Non è una copia, è autentica anche lei.» «Ma l'altra dov'è?» gridò Anna. «Non lo so nemmeno io. Fu Jacques de Molay a ordinarne la custodia. È un segreto che solamente pochi uomini conoscono. Solo il Gran Maestro e i sette Maestri sanno dove si trova.» «Può essere nel castello di McCall in Scozia?» «Non lo so. Glielo giuro.» «Però lo sa che McCall è il Gran Maestro e che Umberto D'Alaqua, Paul Bolard, Armando de Quiroz, Geoffrey Mountbatten, il cardinale Visier...» «Basta, per favore! Le ferite mi fanno molto male, sto per morire.» «Sono loro i Maestri del Tempio. Per questo restano scapoli, ben lontani dalle frivolezze proprie della gente che ha tanto denaro e potere come loro. Si mantengono lontani dai riflettori, da qualunque pubblicità. Elizabeth aveva ragione.» «Lady McKenny è una donna molto intelligente. Come lei, come la dottoressa Galloni.» «Siete una setta!» «No, Ana, no, si calmi. Lasci che le dica una cosa a nostra difesa. Il Tempio è sopravvissuto perché le accuse che ci vennero rivolte erano false. Filippo di Francia e papa Clemente lo sapevano, volevano solo il nostro tesoro. Il re, oltre all'oro, puntava al possesso della Sindone, credeva che se fosse riuscito a impadronirsene sarebbe diventato il sovrano più potente d'Europa. Le giuro, Ana, che nel corso dei secoli noi Templari siamo stati dalla parte del giusto, almeno i veri Templari. So che ci sono sette, organizzazioni massoniche che si dichiarano eredi del Tempio. Loro non lo sono, noi sì. La nostra è l'organizzazione clandestina fondata da Jacques de
Molay in persona perché l'Ordine potesse sopravvivere. Abbiamo preso parte a numerosi eventi che sono risultati fondamentali: la Rivoluzione francese, l'Impero di Napoleone, l'indipendenza della Grecia, abbiamo anche partecipato alla Resistenza francese durante la Seconda guerra mondiale. Abbiamo contribuito allo sviluppo di processi di democratizzazione in tutto il mondo, e non ci siamo mai lasciati coinvolgere in qualcosa di cui ci dovessimo vergognare.» «Il Tempio vive nell'ombra e nell'ombra non c'è democrazia. I suoi capi sono estremamente ricchi, e non si è ricchi impunemente.» «Sono ricchi, ma la loro è una fortuna che non gli appartiene, è del Tempio. Loro la gestiscono solamente, e anche se va detto che la loro intelligenza li ha fatti diventare uomini ricchi, quando muoiono ciò che possiedono torna all'Ordine.» «A una fondazione che...» «Sì, quella fondazione che è il cuore delle finanze del Tempio e grazie alla quale siamo presenti ovunque. Sì, siamo dappertutto, per questo siamo sempre in vantaggio, per questo abbiamo sempre saputo cosa facevano e dicevano al Comando per la tutela del patrimonio artistico. Siamo dappertutto» ripeté con un filo di voce padre Yves. «Perfino in Vaticano.» «Che Dio mi perdoni.» Furono le ultime parole di Yves de Charny. Ana lanciò un urlo nel vederlo ormai morto, con gli occhi persi nell'aldilà. Glieli chiuse con le dita della mano e cominciò a singhiozzare chiedendosi quanto invece avrebbe impiegato lei a morire. Forse giorni, e il peggio non sarebbe stata la morte, quanto il sapersi sepolta viva. Avvicinò il telefono alle labbra. «Sofia? Sofia, aiutami!» Il telefono restò muto. All'altro capo non c'era nessuno. Sofia Galloni urlava disperata. «Ana, Ana, ti faremo uscire da lì!» La linea era caduta pochi secondi prima. Il cellulare di Ana doveva essersi scaricato. Sofia aveva ascoltato attraverso i walkie-talkie la sparatoria nel sotterraneo e le grida di Marco e dei carabinieri che temevano di rimanere sepolti. Non aveva esitato un solo istante ed era uscita in strada come un razzo. Non era neanche arrivata alla porta quando il suono del cellulare l'aveva messa in allarme; pensava fosse Marco. Rimase di stucco nell'udire la voce di Ana Jiménez e di padre Yves. Con il telefono incollato all'orecchio per non perdere nemmeno una parola, se ne restò ferma senza nem-
meno accorgersi degli uomini che le correvano accanto per tirare fuori quanti erano rimasti intrappolati nel crollo del sotterraneo. Minerva trovò Sofia che piangeva sconsolata con il cellulare in mano. Iniziò a scuoterla per liberarla dall'attacco isterico. «Sofia, ti prego! Ma che succede? Calmati!» La donna le raccontò con difficoltà quanto aveva udito. Minerva la guardava sbigottita. «Andiamo al cimitero, qui non possiamo fare nulla.» Le due donne si avviarono in strada. Non c'era neanche una macchina, quindi cercarono un taxi. Sofia continuava a piangere. Si sentiva in colpa per non essere riuscita ad aiutare Ana Jiménez. Il taxi si fermò a un semaforo. Quando ripartì, l'autista lanciò un grido. Un camion piombò loro addosso. Il fragore dello scontro infranse ancora una volta il silenzio della notte. 49 Addaio piangeva in silenzio. Si era chiuso nel suo ufficio e non permetteva nemmeno a Guner di entrare. Erano più di dieci ore che stava lì, seduto, lo sguardo perso nel vuoto, abbandonandosi a un'ondata di sentimenti contraddittori. Aveva fallito, e per la sua testardaggine molti avevano perso la vita. I giornali non parlavano dell'accaduto, dicevano solo che si era verificato un crollo nei sotterranei di Torino in cui erano morti diversi operai, tra cui alcuni turchi. Mendibj, Turgut, Ismet e altri fratelli erano rimasti sepolti per sempre sotto le macerie, i loro corpi non sarebbero mai stati recuperati. Aveva sostenuto la severità dello sguardo della madre di Mendibj e di Ismet. Non lo perdonavano, non l'avrebbero mai perdonato, come non l'avevano fatto le madri dei ragazzi ai quali aveva chiesto di sacrificare la lingua sull'altare di un sogno impossibile. Dio non stava dalla sua parte. La Comunità doveva rassegnarsi a non recuperare il sudario di Cristo dal momento che questa era la Sua volontà. Non poteva credere che tanti insuccessi fossero solo prove che Dio mandava loro per verificarne la forza. Finì di scrivere il proprio testamento. Lasciava istruzioni precise su chi dovesse essere il suo successore: un uomo buono, dal cuore limpido, privo di ambizioni e soprattutto che amasse la vita come lui non aveva fatto. Gu-
ner sarebbe diventato il pastore. Chiuse la lettera e la sigillò. Era indirizzata ai sette pastori della Comunità, sarebbe toccato a loro compiere la sua ultima volontà. Non avrebbero potuto rifiutarsi: il pastore sceglieva il pastore, così era stato per secoli, così avrebbe continuato a essere per sempre. Estrasse un flacone di pillole che teneva nel cassetto e ne ingoiò l'intero contenuto. Poi si sedette sulla poltrona con il poggiatesta e si abbandonò al sonno. Lo aspettava l'eternità. 50 Erano passati quasi sette mesi dall'incidente. Zoppicava. Quattro operazioni le avevano lasciato una gamba più corta dell'altra. Il suo viso non aveva più la pelle bianca e luminosa di una volta. Era solcato da rughe e cicatrici. Aveva lasciato l'ospedale da quattro giorni, le ferite del corpo non le facevano male, ma il dolore che le attanagliava il petto era più forte di quello sofferto mesi prima. Sofia Galloni stava uscendo dallo studio del ministro degli Interni. In precedenza si era recata al cimitero a deporre dei fiori sulle tombe di Minerva e di Pietro. A Marco e a lei era toccata una sorte migliore: erano sopravvissuti. Solo che Marco non sarebbe potuto tornare a lavorare mai più, era invalido, su una sedia a rotelle, e soffriva di crisi d'ansia. Si malediceva per il fatto di essere vivo mentre molti dei suoi uomini erano morti sotto le macerie del sotterraneo, di quel sotterraneo di cui aveva intuito l'esistenza e il percorso fino al duomo, anche se non era stato capace di trovarlo. Il ministro degli Interni l'aveva ricevuta insieme al suo collega dei Beni culturali, i due responsabili del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Entrambi le avevano chiesto di assumere la direzione del Comando, cosa che lei cortesemente aveva rifiutato. Sapeva di aver messo in agitazione i due politici e che la sua vita poteva essere di nuovo in pericolo, ma la cosa non le importava. Aveva inviato loro una relazione sul caso della Sacra Sindone in cui illustrava dettagliatamente quel che sapeva, compresa la conversazione tra Ana Jiménez e padre Yves. Il caso era risolto, solo che non poteva essere rivelato all'opinione pubblica. Era un segreto di Stato, e Ana giaceva senza vita in una galleria di Torino accanto all'ultimo Templare della Casa de Charny. I ministri le dissero con gentilezza che la storia non risultava credibile,
che non c'erano testimoni, nulla, nemmeno un documento che dimostrasse quanto aveva scritto nel dossier. Certo che le credevano, ma forse si sbagliava... Non potevano accusare di associazione illecita gente come McCall, Umberto D'Alaqua, il dottor Bolard, uomini che costituivano le colonne della finanza internazionale e i cui patrimoni erano indispensabili per lo sviluppo delle loro nazioni. Non potevano presentarsi in Vaticano e dire al papa che il cardinale Visier era un Templare. Non potevano accusarli di nulla perché non avevano fatto nulla, anche nel caso in cui il racconto di Sofia corrispondesse a verità. Quegli uomini non cospiravano contro lo Stato, contro nessuno Stato, non volevano sovvertire l'ordine democratico, non erano collegati alle varie mafie, non avevano commesso niente di riprovevole, e in quanto al fatto di essere dei Templari... Be', non era certo un delitto, ammesso che lo fossero. I ministri tentarono di convincerla ad accettare il posto di Marco Valoni. Se non l'avesse fatto, sarebbe andato ad Antonino o a Giuseppe. Che ne pensava? Ma lei non pensò, sapeva che uno dei due era il traditore, o il carabiniere o lo storico, uno dei due aveva continuato a informare i Templari di quello che stava succedendo al Comando per la tutela del patrimonio artistico. Padre Yves l'aveva detto: conoscono tutto perché avevano informatori ovunque. Non sapeva che cosa avrebbe fatto in futuro, ma sapeva che doveva affrontare un uomo di cui, nonostante tutto, era innamorata. Non avrebbe continuato oltre a ingannare se stessa: Umberto D'Alaqua era più che un'ossessione. Quando premeva l'acceleratore dell'auto, la gamba le faceva male. Erano molti mesi che non guidava, dall'incidente. Sapeva che non si era trattato di un caso, che avevano cercato di ucciderla. Sicuramente D'Alaqua stava cercando di salvarla quando l'aveva chiamata chiedendole di accompagnarlo in Siria. I Templari non ammazzavano, aveva detto padre Yves, aggiungendo che lo facevano solo quando era necessario. Giunse al cancello che impediva l'accesso alla residenza e attese. Dopo qualche secondo, si aprì. Arrivò con la macchina fino alla porta e scese. Umberto D'Alaqua l'aspettava sulla soglia. «Sofia...» «Mi dispiace di non averle preannunciato la mia visita, ma...» «Si accomodi, la prego.» La condusse nel suo studio. Si sedette alla scrivania, mantenendo le di-
stanze, o forse proteggendosi da quella donna che zoppicava e i cui occhi verdi si erano fatti più duri in un volto attraversato da cicatrici. Anche così era sempre bella, solo che adesso era una bellezza tragica. «Immagino sappia già che ho inviato al governo un dossier sul caso della Sindone. Un dossier in cui denuncio che esiste un'organizzazione segreta formata da uomini potenti che si credono al di sopra di tutto, dei governi, della società, e chiedo che vengano smascherati e sottoposti a indagini. Ma lei sa benissimo che non accadrà nulla, che nessuno indagherà su di loro, che potranno continuare a muovere i fili del potere rimanendo nell'ombra.» D'Alaqua non rispose, anche se sembrò annuire con un lieve cenno del capo. «So che lei è un Maestro del Tempio, che ha fatto voto di castità, forse anche di povertà? No, a quanto pare quello di povertà no. Per quanto riguarda i comandamenti, so che onora quelli che le fanno comodo e quelli che... È curioso, mi ha sempre fatto un certo effetto che alcuni uomini di Chiesa, e lei in un certo senso lo è, credano di poter mentire, rubare, uccidere come fossero tutti peccati veniali in confronto al gran peccato mortale che è quello di... fornicare? Se lo pronuncio ferisco la sua sensibilità?» «Mi dispiace per quello che è successo, per la scomparsa della sua amica Minerva, per quello che è capitato al suo capo, il capitano Valoni, al suo... a Pietro...» «E la morte di Ana Jiménez sepolta viva? Le dispiace? Spero che questi morti le assalgano la coscienza e non le concedano un solo attimo di riposo. So di non avere chance con lei o con la sua organizzazione. Mi è stato appena detto, e si è tentato di comprarmi offrendomi la direzione del Comando per la tutela del patrimonio artistico. Che poca conoscenza hanno degli esseri umani!» «Cosa vuole che faccia? Me lo dica...» «Cosa può fare? Niente, non può fare niente perché non può restituire la vita ai morti. Be', forse può dirmi se figuro sempre nell'elenco di quelli da giustiziare, se sarò ancora vittima di un incidente stradale o se l'ascensore di casa mia finirà per precipitare. Mi piacerebbe saperlo per evitare che qualcuno possa trovarsi con me e perdere la vita come Minerva.» «Non le accadrà nulla, le do la mia parola.» «E lei che farà? Andrà avanti come se quello che è successo fosse stato un semplice incidente, qualcosa di inevitabile?» «Se vuole proprio saperlo, mi ritiro. Sto trasferendo i poteri delle mie
società in altre mani e sistemando le cose perché le aziende continuino ad andare avanti senza di me.» Sofia ebbe un sussulto, amava e odiava quell'uomo allo stesso tempo. «Vuol dire che lascia il Tempio? Impossibile, lei è un Maestro, uno dei sette uomini che comandano. Sa troppe cose, e gli uomini come lei non scappano.» «Non sto scappando, non saprei perché né da chi. Ho semplicemente risposto alla sua domanda. Ho deciso di ritirarmi, di dedicarmi allo studio, di aiutare la società da altri luoghi, diversi da quelli attuali.» «E il suo celibato?» D'Alaqua rimase di nuovo in silenzio. Capiva che Sofia era ferita nell'intimo e lui non le poteva offrire nulla. Non sapeva se sarebbe stato capace di fare altri passi oltre a quelli già compiuti, finire di lacerare ciò che aveva rappresentato l'essenza della sua vita. «Sofia, anch'io ho diverse ferite. Lei non le vede, ma ci sono e fanno male. Le giuro che mi dispiace per quanto è successo, per quello che ha sofferto, per la perdita dei suoi amici, per la disgrazia che l'ha travolta. Se mi fosse stato possibile evitarlo l'avrei fatto, ma io non domino le circostanze e noi esseri umani siamo dotati di libero arbitrio. Tutti abbiamo deciso quello che volevamo fare nel dramma che abbiamo vissuto, tutti, persino Ana.» «No, non è vero, lei non aveva deciso di morire, non voleva morire, neanche Minerva o Pietro, nemmeno i carabinieri e gli uomini della Comunità, e nemmeno i suoi uomini, quegli amici di padre Yves o quegli altri di cui non si è parlato ma che sono comunque morti nella sparatoria anche se altri sono fuggiti. Chi erano i suoi soldati? L'esercito segreto del Tempio? No, so già che non mi risponderà, non può, o meglio non vuole farlo. Lei resterà un Templare per il resto della sua vita, anche se dice che si ritirerà.» «E lei cosa farà?» «Le interessa?» «Sì, sa che mi interessa, che voglio sapere cosa farà, dove sarà, dove la posso trovare.» «So che è venuto a farmi visita in ospedale e che ha passato diverse notte a vegliarmi...» «Mi risponda. Cosa farà?» «Lisa, la sorella di Mary Stuart, mi ha aperto le porte dell'università. Da settembre comincerò a insegnare.»
«Mi fa piacere.» «Perché?» «Perché so che avrà fortuna.» Si guardarono a lungo, senza dire una parola. Non c'era più niente da dire. Sofia si alzò. Umberto D'Alaqua l'accompagnò alla porta. Si salutarono con una stretta di mano. Sofia notò che l'uomo le tratteneva la mano tra le sue. Scese i gradini senza voltarsi, sentendo lo sguardo di D'Alaqua, sapendo che nessuno ha potere sul passato, che il passato non si può cambiare, che il presente è un riflesso di ciò che siamo stati, nient'altro. E che il futuro esiste solo se non si fa nemmeno un passo indietro. FINE