PHILIP PULLMAN LA PRINCIPESSA DI LATTA (The Tin Princess, 1994) A Gordon Dennis, con gratitudine e affetto Grazie a Tom ...
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PHILIP PULLMAN LA PRINCIPESSA DI LATTA (The Tin Princess, 1994) A Gordon Dennis, con gratitudine e affetto Grazie a Tom per l'aiuto con l'albero genealogico PERSONAGGI PRINCIPALI Rebecca Winter (Becky), sedici anni James Taylor (Jim), investigatore privato Signorina Adelaide Bevan, giovane donna di St John's Wood Herr Strauss, alias principe Rudolf di Razkavia Sally Goldberg, consulente finanziaria Daniel Goldberg, marito di Sally, giornalista politico Liam, Charlie, Sean e altri membri di una banda di strada nota come le Guardie Irlandesi Conte Thalgau, ambasciatore razkaviano presso la Corte di San Giacomo (ossia presso la Gran Bretagna) Contessa Thalgau, moglie dell'ambasciatore Frau Winter, mamma di Becky, artista Carmen Isabella Ruiz y Soler, attrice Principe Otto von Bismarck, Cancelliere di Germania Herr Gerson von Bleichröder, banchiere berlinese Julius, segretario di Bleichröder Re Wilhelm di Razkavia, padre del principe Rudolf Barone Gödel, ciambellano, responsabile della Casa Reale Karl von Gaisberg, studente, membro del Richterbund Glatz, studente ed esagitato attivista politico Conte Otto von Schwartzberg, cugino del principe Rudolf, cacciatore Anton, Friedrich, Fritz, Hans, Heinrich, Jan, Michael, Willi, studenti, membri del Richterbund Herr Alois Egger, commerciante di sigari L'Arcivescovo di Razkavia Frau Busch, vedova di un cacciatore Herr Bangemann, impiegato presso il ministero razkaviano degli Affari
Esteri Principe Leopold, fratello di Rudolf Matyas, proprietario del Café Florestan Soldato semplice Schweigner, sentinella della Guardia dell'Aquila Caporale Kogler, sentinella della Guardia dell'Aquila Miroslav e Josef, anziani fratelli, ladri fluviali ... e servitori vari, soldati, cittadini, diplomatici, dottori, bigliettai, ingegneri minerari, funzionari di Palazzo, garzoni del macellaio, capistazione della funicolare, impiegati, musicisti, telegrafisti, padroni di casa e assassini. Capitolo uno LA MACCHINA INFERNALE Rebecca Winter, allegra, piena di talento e povera, era arrivata all'età di sedici anni senza aver mai visto una bomba esplodere. Non che fosse tanto difficile: Londra nel 1882 non era certo più esplosiva di quanto lo è ora. Né lo era meno, a pensarci bene, perché la dinamite era già un potente strumento politico. In ogni caso, in quella bella mattina di maggio, Becky non stava affatto pensando alle bombe. Il sole splendeva luminoso nel cielo costellato di nubi piccole e grasse simili a pennellate di bianco su una tavolozza di blu oltremare, e Becky camminava lungo un viale alberato a St John's Wood, a nord di Londra, pensando ai verbi della lingua tedesca. Stava andando a conoscere la sua nuova allieva - la sua prima allieva, in verità, ed era ansiosa di fare una buona impressione. Il suo mantello era un po' logoro e la cuffietta fuori moda, e c'era un buco nella suola dello stivale destro. Ma non aveva importanza. La strada era asciutta, l'aria fresca e le era sembrato che quel giovane con la paglietta la guardasse con interesse: Becky si sentiva meravigliosamente bene, perché era una donna indipendente... o quasi. Tenendo la testa alta, ignorò il giovane curioso con il cappello di paglia, guardò il cartello con il nome della strada e svoltò in un viale fiancheggiato da spaziose ville. Il tedesco era la prima lingua di Becky. La seconda era l'inglese, la terza l'italiano, la quarta il francese e la quinta lo spagnolo; al momento stava imparando il russo e sapeva dire parolacce in polacco e in lituano. Viveva con sua madre e sua nonna in una pensione nell'angolino più modesto di
Maida Vale, dove sua madre lavorava come illustratrice di romanzi dozzinali e riviste scandalistiche. Abitavano lì sin dal giorno in cui erano state costrette a emigrare dall'Europa centrale quando Becky aveva appena tre anni, mantenendosi grazie alla loro industriosità e alla rete locale di esuli, un gruppo di persone povere, chiassose, litigiose, generose e di enorme talento provenienti da quasi ogni paese d'Europa. Per Becky pensare in diverse lingue era naturale quanto l'idea di doversi guadagnare da vivere. Di conseguenza le era sembrato sensato mettere le due cose insieme. Tuttavia Becky era infastidita dalle perenni costrizioni che soffocavano la sua vita. Come tutte le persone con un aspetto poco romantico (non tanto grassoccia quanto robusta, con luminosi occhi neri avidi di sapere, guance che arrossivano troppo facilmente e riccioli scuri ribelli) era certa di avere l'animo di un brigante. Agognava l'amore sentimentale. L'unico idillio fino a quel momento era stato all'età di dodici anni, con il figlio del macellaio. Lui le aveva dato una sigaretta in cambio di un bacio, ma lei non l'aveva neppure finita, perché il ragazzo le aveva detto che per le donne era pericoloso fumare sigarette... potevano farle impazzire. Perciò si erano seduti tra i cespugli e l'avevano fumata insieme e Becky gli aveva vomitato sugli stivali, e ben gli stava. Ma questo non aveva soddisfatto la sua anima: sognava coltellacci, pistole e brandy, e invece doveva accontentarsi di caffè, matite e verbi. Ma c'era motivo di gioia anche nei verbi. Becky era sinceramente affascinata dal modo in cui funzionavano le lingue, e se non poteva vivere con una banda di briganti in una grotta della Sicilia, era disposta a studiare linguistica e filologia all'università. Ma studiare costava. Così lei aveva fatto ciò che facevano molti dei suoi amici esuli: aveva messo un annuncio per offrirsi come insegnante di lingue, specializzata in tedesco e italiano. La risposta non si era fatta attendere, ed era stata una risposta decisamente singolare. Un giovane gentiluomo, che aveva insistito per parlare inglese anche se Becky e sua madre erano sicure che sarebbe stato più a suo agio con il tedesco, l'aveva assunta per andare ogni mattina alla sua villa al numero 43 di Church Road a St John's Wood per dare lezioni a una certa signorina Bevan. Il compenso che aveva offerto era stato più che generoso e il suo imbarazzo, data la sua giovane età, piuttosto evidente. Becky e sua madre avevano trascorso ore a fantasticare su di lui dopo che se n'era andato. Lei era certa che fosse un anarchico, mentre sua madre era altrettanto sicura che fosse un nobile, o persino un principe. «Io ne ho visti di principi in vita mia, mentre tu no» aveva detto. «Cre-
dimi, è un principe. E in quanto a lei...» Era difficile anche solo immaginare chi potesse essere la signorina Bevan. Era giovane? Vecchia? Una bambina? Una spia sinistra e affascinante? Be', pensò Becky, presto l'avrebbe scoperto. Svoltò in Church Road e stava per aprire il cancello del numero 43, una villa bianca con un viale protetto da folti cespugli di alloro, quando qualcuno disse: «Scusi, signorina». Becky si bloccò, sorpresa. Era il giovane con la paglietta. Come aveva fatto a precederla lì? Aveva poco più di vent'anni, un volto dall'espressione intelligente e intensa, occhi verdi e capelli dello stesso colore del cappello. Ma c'era qualcosa in luì che Becky non riusciva a definire: era un gentiluomo, a giudicare dalle apparenze, ma qualcosa nel suo modo di fare baldanzoso e disinvolto faceva pensare a un'intima conoscenza delle stalle, degli ingressi posteriori dei teatri e dei pub di infimo ordine. «Sì?» chiese Becky. «Lei conosce per caso la giovane signora che vive in questa casa?» «La signorina Bevan? In effetti no, non ancora. Sono stata assunta per insegnarle il tedesco. Ma lei chi è? E questo perché dovrebbe riguardarla?» Il giovane tirò fuori un biglietto da visita dalla tasca del panciotto. C'era scritto 'J. Taylor, Investigatore Privato', e sotto c'era l'indirizzo di un fotografo di Twickenham. A Becky sembrò tutto così surreale... «Lei è un investigatore? E su cosa starebbe investigando?» «Credo che la sua signorina Bevan possa essere la persona che sto cercando» rispose lui. «Mi dispiace rubarle del tempo. Posso chiedere il suo nome?» «Signorina Rebecca Winter» replicò Becky in tono gelido. «E ora mi scusi». L'uomo si scostò con un inchino leggermente ironico, si rimise la paglietta con fare sbarazzino e si allontanò. Becky lo guardò, perplessa, poi fece un profondo respiro, si incamminò lungo il vialetto e suonò il campanello. Le aprì un'impudente cameriera, che con un solo sguardo le fece capire cosa pensava di lei. Anche Becky sapeva come mostrarsi altezzosa quando voleva, e in quel momento fece del suo meglio, anche se rovinò leggermente l'effetto inciampando sul tappeto ai piedi delle scale. «Aspetti qui» disse la cameriera facendola accomodare in un salottino e
chiudendo la porta dietro di sé. Becky si ritrovò in una graziosa stanzetta che dava sulla facciata della casa. Dalla finestra aperta poteva vedere il cielo blu e le foglie verdi e sentire il profumo dell'aria fresca. Il mobilio era costoso, ma massiccio, e faceva sembrare la stanza ingombra e opprimente. Non c'erano libri e i quadri erano scialbi: l'unica cosa interessante in quel salotto era uno stereoscopio. Becky lo prese e guardò la lastra nella cornice. Era l'immagine di una bambina vestita di stracci seduta sulle ginocchia di un uomo magro con grossi baffi, e sul retro c'erano stampate le parole di una canzone sentimentale. «Cosa diavolo stai facendo?» Becky per poco non fece cadere lo strumento. Voltandosi, vide nell'arco della porta una giovane donna, spigolosa, scura di capelli e di carnagione, e dall'aria diffidente. «Mi dispiace» rispose Becky. «La signorina Bevan, suppongo». «E tu chi sei?» «La signorina Winter. Becky Winter. La sua insegnante». «Cosa stavi facendo con quello?» chiese la giovane guardando accigliata lo stereoscopio. «È solo che... adoro gli stereoscopi. So che non avrei dovuto toccarlo». «Mmm» bofonchiò la signorina Bevan, ed entrò nella stanza. Squadrò Becky da capo a piedi e poi sprofondò in una poltrona accanto alla finestra aperta, appoggiandosi languidamente allo schienale e guardando la sua ospite con espressione sorniona e guardinga. Tutto sommato non era carina: era troppo magra e aveva una certa durezza nei tratti e una discreta arroganza nei modi. Inoltre era vestita in maniera troppo vistosa e parlava con una voce aspra dall'accento dialettale; ma c'era qualcosa in lei da cui Becky fu suo malgrado attratta, una punta di vulnerabilità, una dolcezza sotto le maniere sprezzanti. I suoi occhi poi erano bellissimi, scuri ed enormi, e lei si muoveva con la grazia di un gatto. «Cos'è questa sciocchezza dell'insegnante?» chiese. «Sono stata assunta da un certo Herr Strauss per venire qui a insegnarle il tedesco». «Dimostramelo». Becky la guardò perplessa. «Non lo sapeva?» «Chiunque potrebbe venire qui e raccontare una frottola del genere. Tu potresti essere un sicario o giù di lì. Potresti avere una pistola in quella tua borsetta. Come faccio a sapere chi sei?»
«Oh, suvvia... Ci sono dei libri qui dentro, guardi. Lui non le ha detto che sarei venuta?» «Può darsi». La signorina Bevan si stiracchiò pigramente e sembrò rilassarsi. Non era veramente sospettosa, pensò Becky; solo annoiata. Aveva probabilmente diciannove o vent'anni e ora che Becky l'aveva vista, poteva immaginare quale potesse essere il rapporto tra lei e il misterioso Herr Strauss. St John's Wood aveva fama di quartiere dove i ricchi gentiluomini erano soliti sistemare le loro amanti in case di proprietà. «Perché stai arrossendo?» chiese la signorina Bevan. «Non è vero. Senta, sarà meglio che cominciamo. Ha mai studiato il tede...» «Pfff! Chi era quel tizio al cancello?» «Il giovane con il cappello di paglia? Un investigatore privato. Mi ha dato il suo biglietto da visita». Becky glielo porse. La signorina Bevan lo guardò accigliata e poi lo gettò sul tavolino di bambù accanto a sé. «Investigatore privato» disse in tono annoiato. «Scempiaggini. Probabilmente era un giornalista. Dunque, sai giocare ad Halma?» «Sì, ma...» «O che ne dici di questo qui? Me l'hanno portato lunedì e non ci ho ancora giocato. Non ricordo come si chiama...» La giovane balzò in piedi e andò verso uno scaffale pieno di scatole di cartone colorato: giochi da tavolo per bambini. «Ci gioco con Herr Strauss la sera» spiegò. «Mmm... che gioco è questo?» Lo scrutò con gli occhi socchiusi come se fosse troppo vanitosa per portare degli occhiali. «Si chiama Ludo o Non t'arrabbiare» disse Becky. «Ma non dovevamo...» «Tu sai come si gioca?» «Be', potremmo leggere le istruzioni, ma non sarà meglio che incominci a insegnarle il tedesco? Dopo tutto Herr Strauss mi paga per questo». «E quanto?» «Mezza corona l'ora». «Be', io allora ti pagherò il doppio per giocare ad Halma con me». «No. Giocherò con lei gratuitamente, ma devo anche insegnarle il tedesco. Ho fatto un accordo con Herr Strauss».
La signorina Bevan si accigliò e tornò ad accasciarsi sul divano. Poi squadrò Becky con aria di apprezzamento. «Tu sei un tipo onesto, vero?» chiese. «Non saprei. Non sono mai stata tentata dalla disonestà finora. Perché?» «Te lo dico un segreto?» «Se vuole. Ma lei mi conosce appena». «Non conosco nessun altro» replicò con amarezza la signorina Bevan. «Solo la cuoca e il lustrascarpe e la cameriera, viscida cagna intrigante che non è altro, e a lei non direi neppure l'ora, sempre ammesso che la sapessi. No, mi sta facendo impazzire il fatto di starmene rintanata qui come un animale in gabbia. E poi non so leggere e non so scrivere...» «È questo il segreto?» «In parte. Il principe avrebbe dovuto assumerti per insegnarmi quello, invece del tedesco». «Il principe?» chiese Becky. «Vuol dire Herr Strauss? È questo il resto del segreto?» «Una parte del resto. In ogni caso avevi già indovinato da sola, no?» «L'aveva indovinato mia madre. Principe cosa, di dove?» «Principe Rudolf di Razkavia. Scommetto che è un paese che non hai mai sentito nominare». Becky batté le palpebre, improvvisamente senza fiato. «Sì. L'ho sentito nominare. Ma perché... voglio dire, pensavo...» «Ed è in pericolo. Non so se ha fatto bene a fidarsi di te. E non so se dovrei farlo io. Tu potresti essere una socialista, o peggio». «Cos'hanno che non va i socialisti?» chiese Becky frastornata. «Io li odio. Sono conservatrice, lo sono sempre stata». «Ma se lei non ha neppure il diritto di voto!» «Bah! Non c'è bisogno di avere il diritto di voto per dimostrare la propria lealtà. Quelli che votano per il socialismo ovviamente non sanno quello che è bene per loro. Sono i re e le regine e i principi quelli che dovremmo avere. E i conservatori. E le principesse. Anche se non sanno leggere, porca miseria...» Becky fu sicura di aver sentito male. «Aspetti un attimo. Ha detto 'principessa'?» «Già. Siamo sposati, me e lui. Io sono una principessa». Becky la fissò incredula. La signorina Bevan fece una breve risata. «Aspetta, te lo dimostro» disse, e si alzò per andare ad aprire un cassetto dello scrittoio di noce.
Ne tirò fuori un pezzo di carta piegato e lo porse a Becky. La ragazza lo aprì e vide che era un certificato di matrimonio. Le nozze avevano avuto luogo nella chiesa cattolica di St Patrick di Hickson Street, a Manchester, e gli sposi erano la signorina Adelaide Bevan e Sua Altezza Reale il principe Rudolf Eugen Wilhelm August Josef von und zu Eschten und Rittersthal. I testimoni erano un certo signor Albert Suggs e la signorina Emily Thwaite. Il principe si era firmato Rudolf, mentre lei si era firmata più semplicemente con una X. «È il pezzo di carta giusto? Non è che ti ho dato per sbaglio la lista della lavanderia?» C'era amarezza nella sua voce. Becky le restituì il certificato, chiedendosi se dovesse farle la riverenza. «Sono sbigottita» mormorò. «Davvero? Be', io invece ho un vero casino in testa. Non so proprio cosa fare». «Ma come... perché...?» «Lui ha insistito. Ed è un uomo così caro. Quando uno ha visto e fatto tutte le cose che ho visto e fatto io non dice di no quando gli capita l'opportunità di qualcosa di meglio nella vita. Ma avrei dovuto. So che avrei dovuto». «Ma... perché Manchester?» «Be', perché era un posto fuori mano. Doveva essere una chiesa cattolica, ovviamente, e lui non voleva che nessuno lo scoprisse e potesse impedirlo, quindi non potevamo farlo a Londra, per ogni eventualità. Così siamo andati in questo buco di chiesa buia e polverosa dietro una fabbrica. I testimoni li abbiamo presi per strada, non sapevano niente di niente. E il prete era un vecchietto tremolante che puzzava di whisky. Continuava ad asciugarsi il naso sulla manica sperando che non l'avremmo notato. Ma è legale. Inoppugnabile. Cacchio, sono una principessa, Becky. Posso chiamarti Becky? Tu non devi chiamarmi Vostra Altezza. Adelaide andrà benone». «Ma... qualcun altro lo sa? La famiglia reale? La Corte? E il popolo? Cosa diranno quando lo scopriranno?» La signorina Bevan allargò le braccia in segno di impotenza e si accasciò nuovamente sul divano. «Non lo so» rispose. Becky la fissò con gli occhi sgranati. Anzi, più ci rifletteva, più gli occhi le si spalancavano. Il matrimonio di un principe era una questione di poli-
tica internazionale. C'erano di mezzo re, regine e uomini di Stato... ambasciatori da consultare, trattati da redigere, implicazioni dinastiche e diplomatiche da considerare. Ma cosa era venuto in mente a questo principe di portare una ragazzina analfabeta e ignorante su a Manchester e di sposarsela in segreto? Forse era un tipo ingenuo come lo era stata lei un tempo, quando aveva fumato quell'unica sigaretta tra i cespugli con il suo corpulento innamorato. E oltre tutto... «Lei pensava che non avessi mai sentito parlare della Razkavia» mormorò Becky timidamente. «Be', invece sì, perché ci sono nata. Sono una cittadina razkaviana». La signorina Bevan la fissò sbalordita. Poi montò su tutte le furie. «Allora sei una spia!» gridò, balzando su dal divano e battendo rabbiosamente i piedi sul pavimento lucido. «Sei venuta qui per ficcare il tuo maledetto naso, eh? Per chi lavori? Eh? Da quale parte stai? Dei tedeschi? Dei russi? Se avessi una pistola ti sparerei all'istante, brutta bagascia, viscida ipocrita. Ma guarda che faccia tosta! Come osi venire qui fingendoti una santarellina, mentre per tutto il tempo...» «Ora chiudi quella ciabatta» la interruppe Becky infuriata. Era un'espressione che aveva sentito, ma che finora non aveva mai usato, e funzionò. La signorina Bevan sgranò gli occhi e tacque, stizzita. Becky continuò su quello stesso tono: «Non ti permettere di fare l'arrabbiata con me. Io sono razkaviana, ma non avevo idea di chi fosse il principe e di certo non sono una spia. Pensi che potrei tradire il mio principe ora che so chi è?» «Allora cosa ci fai in questo paese?» «Siamo in esilio». «Perché?» «Non sono affari tuoi». «Certo che lo sono, perché, cacchio, io sono una principessa, no? Ho il diritto di sapere chi è la mia insegnante. Siediti e dimmi tutto. E smettila di guardarmi con quella faccia arrabbiata. Non credo che tu sia una spia, davvero, arrossisci troppo facilmente». Becky storse la bocca e si sedette con fare gelido: non si era resa conto di essere scattata in piedi. «Va bene» disse, «ti dirò perché siamo in esilio. Mio padre era un avvocato e tentò di dare vita a un movimento a favore della democrazia. Fu arrestato e messo in carcere. Si ammalò di tifo e morì. Così mia madre prese me e mia nonna e venimmo a vivere qui. Questo è quanto».
«Allora è poco probabile che tu sia dalla parte del principe, no?» «Non è stata la famiglia reale a metterlo in prigione, ma la Corte. Io non provo alcun rancore nei confronti del principe Rudolf». La signorina Bevan, o principessa Adelaide, sollevò un elegante sopracciglio, ma poi annuì e tornò a sedersi, strappando accigliata un filo allentato dell'abito. Poi sollevò su Becky uno sguardo triste e impotente. «Cosa posso fare?» chiese. Becky rifletté, mordendosi un labbro. «Be'... per cominciare sarà meglio che impari a leggere. E a scrivere. Non puoi continuare a firmare con una X». «Immagino di no». La ragazza si raddrizzò sul divano. «Allora procediamo. Da dove cominciamo?» Becky si guardò intorno. Non c'erano libri nella stanza, ma sul tavolo di fronte a loro c'era il tabellone del Ludo. «Potresti cominciare imparando a leggere le regole dei giochi. Sai già come funzionano, perciò sarà più semplice. E i colori... eccoli, è facile. Qui c'è scritto 'rosso'...» Lavorarono per mezz'ora sul tabellone, e alla fine Adelaide era in grado di leggere 'inizio', 'casa', 'fine' e i quattro colori. «Dovremmo anche pensare alla scrittura» le disse Becky. «Questo pomeriggio andrò a cercare un manuale di calligrafia. Potrai imparare la calligrafia più elegante che c'è. E anzi, dovrai imparare anche parecchie altre cose, non credi? Ti servirà molto di più di un semplice insegnante di scrittura e lettura. Ti servirà...» Ma non finì mai la frase, perché fu in quel momento che la bomba scoppiò. Ci fu un fragoroso bang e uno spostamento d'aria che sollevò le tende e fece sbattere la finestra, mandando in frantumi i vetri. Entrambe le ragazze istintivamente si abbassarono, Becky stringendo ancora in mano le carte che c'erano sul tavolo e Adelaide accucciandosi dietro il divano, con gli occhi sgranati. Dopo il primo momento di shock, fu Becky la prima a raddrizzarsi di scatto per vedere cos'era accaduto. Adelaide la raggiunse alla finestra. Un attimo prima dell'esplosione Becky aveva sentito il rumore di una carrozza che si fermava davanti alla casa e un cavallo che sbuffava con forza e scuoteva la testa; ora, mentre il nuvolone di polvere che si era sollevato tornava lentamente a posarsi sulla strada asciutta e sugli allori del giardino, la vide... distrutta. Il cavallo si contorceva riverso tra le stanghe e il coc-
chiere era a terra, immobile. A metà vialetto del giardino, illeso e stupefatto, c'era Herr Strauss, alias il principe Rudolf di Razkavia. Per un istante nessuno si mosse. Poi il principe si voltò per guardare verso la finestra, cercando con gli occhi quelli di Adelaide, e l'intera strada sembrò prendere vita: le porte delle case tutto intorno a loro si aprirono, ai cancelli apparvero i servitori, una bambinaia con i due piccoli a lei affidati allungò il collo per vedere meglio, un robusto gentiluomo con un bastone corse goffamente lungo la strada, il garzone di un macellaio con un cestino pieno di carne squadrò il cavallo con occhio esperto... e poi dal nulla apparve l'investigatore con la paglietta, J. Taylor, al fianco del principe e gli parlò in tono sommesso. «Quello è l'investigatore» disse Becky. La voce le tremava. Adelaide tacque. Stava studiando la scena con intensa concentrazione. J. Taylor guardò verso la strada e schioccò le dita in direzione del garzone del macellaio, che lasciò cadere il cestino all'interno del cancello e si tolse il berretto. «Va' a cercare uno sbirro» lo sentirono dire. «E fai in fretta. Ci servirà anche un dottore, per certificare la morte. Fa' tutto in meno di dieci minuti e ci sarà una mezza corona per te. Ora fila». «L'ho già visto prima» mormorò Adelaide. «Ne sono sicura». J. Taylor sembrava sapere come gestire una situazione del genere: mise il robusto gentiluomo a guardia della carrozza distrutta, strappò una tenda dallo sportello divelto e la distese con delicatezza sopra il morto, tirò fuori un coltello a serramanico dalla tasca e fece qualcosa al cavallo, che smise di dibattersi. Poi ripulì il coltello e si alzò, fissando prima Becky e poi Adelaide; alla fine raggiunse il principe e insieme entrarono in casa. «Sei impallidita» commentò Adelaide in tono critico. «Non mi pare sorprendente» rispose Becky. «Non ti dona. Senti, quando Rudi, il principe, entrerà, tu fai finta di non sapere chi è». Becky stava per protestare, ma poi qualcuno bussò alla porta: era il principe in persona. «Mia cara...» disse. Adelaide corse da lui con fare quasi protettivo, ma all'improvviso si bloccò. Dietro il principe c'era la spavalda figura dell'investigatore con la paglietta, assolutamente serio in quel momento. Mentre si fermava sulla soglia, Becky ebbe una stranissima sensazione... perché J. Taylor e Adelaide si stavano fissando con un'intensità quasi elettrica.
Il momento passò. Il principe, che sembrava stordito (e che non aveva visto ciò che aveva visto Becky, quell'intenso sguardo tra i due), si ricompose e disse: «Mia cara, mi dispiace davvero di interrompere la tua lezione, ma devo chiedere alla signorina Winter di lasciarci. Come ha visto, signorina Winter, io sono in pericolo. Anche se credo che per il momento sia cessato, non voglio esporla più di quanto sia già accaduto. Questo signore la riaccompagnerà a casa». «No, Becky» intervenne Adelaide. «Resta per un istante. Scenderà fra poco, Rudi». E spinse la porta, chiudendo fuori i due uomini. Poi con un sussurro concitato disse: «Come si chiama? L'uomo con la paglietta... Come si chiama?» «Ti ho dato il suo biglietto da visita... oh, ma certo, non sai leggere» disse Becky e andò a riprenderlo dal tavolino di bambù. «J. Taylor, Investigatore Privato, presso Garland & Lockhart, fotografi, Orchard House, Twickenham... Che succede?» La sua alunna si era portata una mano al petto ed era impallidita. I grandi occhi scuri la fissavano sgranati. Poi Adelaide le strappò il biglietto di mano e si accasciò su una sedia mentre le sue guance tornavano a colorirsi. «Farai meglio ad andare» disse con voce roca. «Vai. Ti starà aspettando. Ma torna, mi hai sentito?» «Te lo prometto» rispose Becky. Perplessa, uscì dalla stanza e scese di sotto, dove trovò il principe che l'aspettava ansiosamente nell'atrio. Si ricordò appena in tempo di non fare la riverenza quando lui la salutò con un cenno della testa, e uscì dalla casa per raggiungere J. Taylor, Investigatore Privato, in giardino. Capitolo due LA SIGNORA GOLDBERG Proprio mentre Becky raggiungeva il cancello del giardino, il garzone del macellaio arrivò ansimando, rosso in volto, e si fermò sorpreso quando la vide. «Oh, sei tu!» esclamò. «Allora hai visto l'esplosione, eh? Hai visto il morto? Tutte le frattaglie e le interiora che gli spuntavano dalla pancia?» «Non fare lo schifoso». «Ehi, ci provi ancora con le sigarette? Ti va un'altra fumatina nei cespu-
gli? Eh?» Becky gli voltò le spalle. J. Taylor si avvicinò e il garzone del macellaio rivolse a lui la sua attenzione. «Ho trovato uno sbirro» disse. «Uno bello grasso. Sarà qui tra un minuto. Cinque scellini ha detto, vero?» J. Taylor gli diede un paio di monete e si allontanò con Becky. «Non dovrebbe aspettare la polizia?» chiese Becky. «Ci penserà Herr Strauss. Ha il mio biglietto da visita: se mi vogliono sapranno dove trovarmi. E in fondo non è che abbia visto i dinamitardi... non li ha visti nessuno. Avranno usato una macchina infernale». «Una cosa?» «Un meccanismo a orologeria per far esplodere la dinamite. Non c'è più bisogno di lanciare bombe oggigiorno, è una cosa antiquata. Dov'è diretta, signorina Winter? Posso accompagnarla da qualche parte?» Erano già a metà strada lungo Church Road e Becky si ritrovò a tremare come una foglia. Non sapeva se fidarsi o meno di lui; ma il principe ovviamente si fidava, quindi... Cominciò a girarle la testa e il giovane la prese per un braccio. «Ecco, si sieda su questa panchina. Appoggi la testa, così. È lo shock, è normale. Si sentirà meglio fra un minuto o due». «Grazie» mormorò Becky. «Mi sento molto stupida». «Be', non lo sembra affatto. Smetta di preoccuparsi». «Quel povero cocchiere...» Un gruppetto sempre più folto di persone si stava radunando lungo la strada, davanti alla casa. Qualcuno stava tagliando le redini per liberare il cavallo morto dalle stanghe della carrozza; un poliziotto stava faticosamente trottando verso il luogo dello scoppio dall'altra estremità della strada. «Lei è davvero un investigatore privato?» chiese Becky. «Sì. Tra le altre cose. Sto cercando quella giovane donna da... oh, sono già dieci anni, da quando eravamo ragazzini. Pensavo che fosse ormai scomparsa per sempre. Ma un mese fa ho intravisto un volto che me l'ha ricordata e ho seguito la donna fino a quella casa. Stavo per bussare e farle una sorpresa, ma poi mi sono reso conto di dove abitava e ho pensato fosse meglio essere discreto. Si chiamava Adelaide...» «Ci si chiama ancora». «Ma cosa ci fa insieme a un principe?» Becky sollevò di scatto lo sguardo. «E lei come lo sa che lui è un princi-
pe?» «Non è stato difficile scoprirlo. I servitori parlano; e poi è facile rintracciare uno stemma araldico. Ho fatto la sua conoscenza un paio di settimane fa, ed è per questo che questa mattina sapeva chi ero. Vede, volevo essere sicuro che stesse trattando bene Adelaide. È innamorato di lei, poveraccio: innocente come un bambino. Ma io sono preoccupato, perché se lui è politicamente nei guai non voglio che la trascini in questa storia». «C'è già dentro» disse Becky. «L'ha sposato». «Cosa?» «Mi ha mostrato il certificato di matrimonio... Immagino che non abbia importanza che io ora lo stia dicendo a lei, dal momento che la conosce» aggiunse Becky dubbiosa. Gli occhi del giovane lampeggiarono di rabbia. «Idiota irresponsabile! Ha davvero bisogno che qualcuno badi a lui! Metterla in una situazione del genere... Sarebbe dura anche per una ragazza di nobili natali. Per l'amor di Dio, che cosa si aspetta da lei?» «Non l'ha certo costretta a sposarlo. È stata anche una sua scelta, immagino. E a proposito, Adelaide sa chi è lei». Il giovane la fissò con uno sguardo intenso. Becky gli parlò della reazione di Adelaide quando le aveva letto il suo nome sul biglietto da visita e lui annuì. «Avrà riconosciuto anche i nomi Lockhart e Garland» disse. «Non c'è alcun dubbio che sia lei. Dopo tutto questo tempo... che mi venga un colpo!» «Chi sono Lockhart e Garland?» Lui guardò verso la strada, consultò l'orologio, lo richiuse di scatto e si alzò in piedi. «Ascolti, signorina Winter. Credo sarà meglio lavorare insieme per un po'. Se non è impegnata nella prossima ora o due, posso portarla a Twickenham e presentarle una mia vecchia amica? Lei garantirà per me, e per Adelaide, e avremo la possibilità di raccontarle l'intera storia». Becky non era affatto sicura che la cosa non fosse sconveniente. Ma il giovane sembrava un tipo onesto e la faccenda la incuriosiva talmente... Dopo tutto, più sapeva, più le sarebbe stato facile aiutare Adelaide. «Va bene» disse. Sul treno il giovane le raccontò di quando, anni prima, aveva lavorato come fattorino nella City e aveva aiutato una giovane donna di nome Sally
Lockhart a risolvere il mistero dell'assassinio di suo padre. Era una storia torbida, in cui erano implicate società segrete cinesi, oppio e un enorme rubino. Adelaide era la domestica (più la schiava, in realtà) di un'orribile vecchia, la signora Holland, che era stata anch'essa coinvolta nelle peripezie di Sally Lockhart, e quando il mistero era stato chiarito e i cattivi erano stati eliminati, Adelaide era sparita. Avevano temuto che fosse morta, finché J. Taylor non l'aveva intravista un mese prima, seguendola poi fino al numero 43 di Church Road, dove aveva conosciuto il principe. «È la signorina Lockhart l'amica che mi vuole presentare?» chiese Becky. «Sì. Ora è la signora Goldberg». A quanto pareva, Sally (il signor Taylor la chiamava così) era una tiratrice formidabile con la pistola. Inoltre lavorava come consulente finanziario ed era sposata con il giornalista politico Daniel Goldberg, che l'aveva aiutata a salvare la sua bambina quando era stata rapita l'anno prima. Il giovane aveva raccontato il tutto in modo semplice, assolutamente disinvolto, come se rapimenti e fumerie di oppio fossero all'ordine del giorno, e Becky ne fu molto più impressionata di quanto lo sarebbe stata se lui avesse tentato di gonfiare la sua storia. Poi si rese conto di quello che il signor Taylor aveva detto a proposito della bambina. «Lei ha detto che la signora Goldberg aveva una bambina? Prima... prima di sposarsi?» «Sì. Succede, sa. La piccola Harriet è figlia di Fred Garland, che è morto in un incendio. Fred era con me la notte in cui Adelaide è scomparsa. Lei lo ricorderà, ne sono certo». Quest'ultima informazione fu decisiva: Becky era affascinata. Una donna sola doveva avere una grande forza di carattere per avere un bambino e rimanere rispettabile. Be', sì, serviva anche un amante, ma quelli non scarseggiavano: Becky l'aveva imparato dal garzone del macellaio. Fu così che si scoprì impaziente di conoscere questa intrepida pistolera che rispondeva al nome di signora Goldberg, per cercare di carpire il suo segreto... Orchard House a Twickenham sorgeva alla fine di un tranquillo viale alberato accanto al fiume: era una grande villa in stile Regency in stucco bianco, con un vialetto di ghiaia e stalle annesse alla casa sulla sinistra. I balconi avevano la ringhiera in ferro battuto e su un lato, affacciata su un ampio giardino, c'era una veranda con il tetto di vetro. Sembrava un posto strano da scegliere come sede di un'agenzia investigativa.
«Be', in verità siamo uno strano gruppo» spiegò J. Taylor. «Ho anche un ufficio a Edgware Road, ma non ho ancora fatto stampare i biglietti da visita. Questa è casa nostra più che un luogo di lavoro». Fece accomodare Becky in una stanza ampia, accogliente e disordinata, un misto di studio, laboratorio e salotto, con una portafinestra spalancata sul giardino per lasciare entrare il sole. Nella stanza c'era una vetrinetta in cui facevano bella mostra oggetti di porcellana blu, un'intera parete di scaffali pieni di libri, un pianoforte a coda e... su un cavalletto vicino alla porta c'era una cosa che attirò Becky come una calamita: uno schizzo a olio di una strada di periferia in una mattina assolata, una cosina adorabile, luminosa e vivace, una ventata di primavera. «Pissarro!» esclamò prima di potersi trattenere. «Oh! Le chiedo scusa...» Seduta sul divano accanto alla portafinestra c'era una giovane donna con capelli biondi e occhi marrone scuro. Era alle prese con un filo di lana blu che sbucava dal voluminoso lavoro a maglia che teneva in grembo. «Ciao, Jim» disse la donna. «Chi è questa ragazza?» «Questa è la signorina Winter. Mi ha portato fortuna. Signorina Winter, le presento la signora Goldberg». La signora Goldberg si alzò per stringerle la mano. Era magra e carina e più giovane di quanto Becky si fosse aspettata. Sul suo viso c'era la stessa espressione curiosa, franca, luminosa e amichevole di J. Taylor, quasi come se fossero fratello e sorella. «E sì, questo è un Pissarro» disse la signora Goldberg. «L'ho comprato la settimana scorsa. Ho fatto una buona scelta?» «È adorabile. Monsieur Pissarro sta da certi amici di mia madre quando viene a Londra e noi lo conosciamo, anche se non molto bene. Ecco perché ho riconosciuto il suo stile...» La signora Goldberg aveva ancora in mano il suo lavoro a maglia e Becky, pur sapendo che era scortese farlo, lo fissò insistentemente, perché la donna di cui le aveva raccontato J. Taylor sul treno, l'intrepida avventuriera che sparava meglio di un uomo e sposava socialisti e aveva avuto un figlio fuori dal matrimonio, di certo non era il tipo di persona che lavorava a maglia... La signora Goldberg seguì lo sguardo di Becky, sorrise e gettò il fagotto a J. Taylor. «Non ci credo» disse l'uomo, appoggiandoselo addosso: era un pullover da marinaio. «Cavoli, è pure della misura giusta». La signora Goldberg rise. «Jim ha scommesso con me cinque sterline
che non ci sarei riuscita» spiegò. «Mi ci è voluto quasi un anno, ma non avevo intenzione di perdere. Forza, paga» gli disse tendendo la mano. Il giovane contò cinque sovrane. «Non scommetta con le donne» disse a Becky. «Ascolta, Sal, ci siamo imbattuti in una faccenda di prim'ordine qui. La ragazza è davvero Adelaide e ha sposato un principe. La signorina Winter è la sua insegnante di lingue. Oh, e qualcuno ha tentato di farlo saltare in aria questa mattina». «E non c'è riuscito, spero...» «C'era una bomba sulla sua carrozza» spiegò Becky. «Una macchina infernale, o così crede il signor Taylor». «Una bomba?» disse la signora Goldberg. «Non ho mai sentito una bomba esplodere. Che tipo di rumore fa?» «Sa una cosa? Non riesco a ricordarlo. Un fragore, ovviamente, ma che sia un suono acuto o profondo o sibilante proprio non saprei dirlo. Ero di sopra in salotto con la signorina Bevan e i vetri della finestra sono andati in frantumi. E c'è stato anche un gran polverone...» «La signorina Bevan? È così che si fa chiamare Adelaide?» «Sì. Ma...» Becky fu nuovamente assalita dal dubbio: era il caso di rivelare i segreti di Adelaide a questi sconosciuti? Eppure di rado si era sentita così a suo agio, di rado aveva conosciuto persone di cui sentiva istintivamente di potersi fidare. La signora Goldberg vide la sua esitazione e prese uno stereoscopio dalla credenza. Prima di passarlo a Becky inserì una lastra. L'immagine mostrava una bambina con enormi occhi scuri vestita da sguattera, mentre nella successiva la bambina era una piccola fioraia, poi una fanciulla della Bibbia, una fata e infine la piccola Nell del libro di Dickens. Possibile che quella fosse la signorina Bevan? Era difficile dirlo. Poi la signora Goldberg le porse un'altra lastra. «Sì! È lei!» Era la stessa immagine che aveva visto quella mattina nel salotto della signorina Bevan: la bambina sulle ginocchia dell'uomo e la canzone sentimentale. Lo disse alla signora Goldberg, che batté le mani felice. «Non posso crederci!» esclamò. «Adelaide.... Pensavamo che fosse morta, pensavamo che fosse svanita per sempre...» «Perché avete fatto così tante fotografie?» «È stato agli inizi della nostra società. In principio le vendevamo singolarmente e poi creammo delle serie: Scene dalle opere di Dickens, Scene dalle opere di Shakespeare, Castelli di Britannia, Angoli della vecchia
Londra e così via. Ma a quell'epoca Adelaide era già scomparsa, perciò è solo nelle prime. E ne ha tenuta una...» Becky le disse come la ragazza aveva reagito a sentire i nomi Taylor, Garland e Lockhart. «Non c'è più alcun dubbio» dichiarò la signora Goldberg. «Ed è sposata con il principe di Razkavia... Ma dov'è questa Razkavia? Dan lo sa di certo. Probabilmente è stato arrestato da quelle parti più di una volta. Mio marito» spiegò a Becky. «Non è un criminale, ma un politico». «Io so dove si trova la Razkavia» disse Becky. «Anzi, a dire il vero ci sono nata. Immagino di essere ancora una cittadina razkaviana». Fu contenta della modesta sensazione che la sua dichiarazione suscitò. La signora Goldberg e il signor Taylor si scambiarono uno sguardo attonito, e poi sul viso del giovane apparve un simpatico ghigno e su quello della donna un caldo sorriso. «Be', allora questo taglia la testa al toro» disse la signora Goldberg. «Ora lei dovrà restare a pranzo con noi e raccontarci tutto. È un'opportunità troppo buona per lasciarcela sfuggire, vero, Jim?» Il pranzo fu una faccenda alla buona, con grande sollievo di Becky. Dopo mezz'ora si ritrovò con la sensazione di conoscere quelle persone insolite, spiritose, allegre e amichevoli da tutta la vita e raccontò loro quello che sapeva del piccolo regno in cui era nata. «È poco più grande del Berkshire. Si trova tra la Prussia e la Boemia, perciò in pratica è schiacciato tra la Germania e l'Austria-Ungheria. Una volta esistevano decine di piccoli regni del genere, ma la maggior parte ora è stata fagocitata dalle grandi potenze. Tranne la Razkavia. La sua storia risale al 1253...» Raccontò loro ciò che ricordava della storia dell'Aquila Rossa. A quell'epoca la Razkavia era stata invasa da Ottocaro II, re di Boemia, ma un nobile di nome Walter von Eschten e un centinaio di cavalieri si asserragliarono su un'alta rupe sulla curva del fiume Eschten, combattendo sotto una bandiera su cui era dipinta un'aquila rossa, e neppure tutte le forze di Ottocaro riuscirono a scacciarli. Una notte, Walter e i suoi uomini, che conoscevano molto bene le montagne, sgattaiolarono giù dalla rupe, senza le armature indosso per non fare rumore, e distrussero tutte le provviste dei Boemi. Nei giorni successivi i cavalieri di Ottocaro non poterono far altro che vagare impotenti sotto la rupe, accaldati, affamati e del tutto frastornati, finché Walter non li attirò in battaglia presso il suo castello di Wendel-
stein, dove la maggior parte degli invasori fu uccisa. Dopo quell'esperienza Ottocaro si tenne a debita distanza dalla Razkavia e altrettanto fecero tutti gli altri, e da allora la bandiera dell'Aquila Rossa, la Adlerfahne, continuò a sventolare sulla Rupe di Eschtenburg. Fintanto che l'aquila volerà, la Razkavia sarà libera, aveva detto Walter von Eschten e così era stato. La bandiera veniva tirata giù solo per due ragioni: quando aveva bisogno di riparazioni (ormai non c'era più neppure un filo originale dell'epoca di von Eschten, pur essendo sempre la stessa bandiera), e durante un'incoronazione, quando veniva portata alla Cattedrale per essere benedetta e poi riportata dal nuovo re attraverso l'antico ponte fino alla Rupe di Eschtenburg, per sventolare di nuovo. Ecco perché il re di Razkavia veniva anche chiamato l'Adlerträger, il portatore dell'Aquila. Per i Razkaviani l'Aquila Rossa non era semplicemente una bandiera: era la loro vera identità. Se fosse caduta, se avesse toccato il suolo... Nessuno osava neppure pensare a una simile eventualità. Il paese non era particolarmente prosperoso. Una volta c'erano ricche miniere sui monti Karlstein da cui si estraeva rame e un po' d'argento, ma già due secoli prima avevano cominciato a esaurirsi, soprattutto per quanto riguardava il rame. C'era ancora una certa abbondanza di un minerale che assomigliava al rame, ma non lo era e avvelenava i minatori che lo estraevano. Era stato giudicato talmente inutile e nocivo da essere battezzato Kupfer-Nickel o Rame del Diavolo e per decenni i razkaviani se ne tennero ben alla larga. Fu solo molti anni dopo che qualcuno scoprì che il Kupfer-Nickel era un composto di arsenico e di un nuovo metallo, che fu chiamato nichel, e quando all'inizio del Diciannovesimo secolo si trovò il modo per usarlo le miniere di Karlstein ripresero a funzionare. Ma per secoli non ci fu niente di prezioso in Razkavia, perciò le nazioni circostanti la lasciarono in pace. Il popolo mungeva le mucche che pascolavano sugli altopiani, produceva il vino con l'uva che cresceva sulle pendici della valle dell'Elpenbach e cacciava nelle ricche foreste. Nella capitale, Eschtenburg, c'era un teatro dell'Opera, dove il compositore Weber una volta aveva diretto l'orchestra; c'erano un teatro, una cattedrale e un bel palazzo barocco, con stravaganti colonne e fontane e intonaco bianco. C'era anche un elegante padiglione fatto costruire da un re folle, un tipo piuttosto innocuo come lo sono di solito i re folli. Intorno al 1840 un gruppo di giovani aristocratici, stanchi della vita noiosa che si conduceva presso la Corte conservatrice del re, tentò di trasformare Andersbad, una piccola stazio-
ne termale situata nella valle dell'Elpenbach, in un posto alla moda. Fu costruito un casinò; Johan Strauss andò a suonare lì con la sua orchestra e fu persino pagato per scrivere un valzer in onore di Andersbad, anche se non fu uno dei suoi migliori. Arrivò qualche turista e di tanto in tanto anche un re o un granduca in visita, ma non troppi da rovinare la bellezza del luogo. In effetti la Razkavia era uno dei luoghi più piacevoli d'Europa. Le foreste erano folte e pittoresche, la valle dell'Elpenbach suggestiva. Eschtenburg, con la Rupe e la bandiera, era medioevale, barocca e artistica, Andersbad dissoluta e divertente, la birra buona, la cacciagione abbondante e la gente ospitale. «Sembra un posto delizioso» disse la signora Goldberg. «Ma lei ora non ci vive più...» «Siamo in esilio, la mamma, la nonna e io. Vede, quando ero piccola mio padre e alcuni dei suoi amici, lui era un avvocato, tentarono di fondare un partito politico. Un partito liberale. Volevano dare vita a un sistema più democratico, perché non c'era il parlamento né il senato né niente del genere. Ma lo misero in prigione, dove si prese il tifo e morì. Così la mamma portò via me e la nonna e da allora viviamo qui. Lei non vuole tornare. A quanto pare oggi c'è più democrazia, ma anche il pericolo delle due Grandi Potenze». «E cosa vogliono?» chiese il signor Taylor. «Il nichel delle miniere. Credo che ci si faccia una lega, per le canne dei fucili o la blindatura o qualcosa del genere. Entrambi i paesi sono in attesa, pronti a colpire. La Germania potrebbe conquistare il regno nel giro di un'oretta e mezzo e anche l'Austria-Ungheria, ma se una delle due lo facesse avrebbe guai dall'altra, perciò si stanno trattenendo, finora. La mamma pensa che qui siamo più al sicuro». «E probabilmente ha ragione» disse la signora Goldberg. «E Adelaide... la piccola Adelaide! Sposata col principe...» Scosse la testa ancora incredula. «Dev'essere un matrimonio morganatico» disse Becky. «E cosa sarebbe?» chiese il signor Taylor. «Legale» spiegò la signora Goldberg, «ma limitato. Se lei avrà dei figli, non potranno succedere al padre. È così, non è vero?» Becky annuì. «C'è stato un re di Razkavia, Michele II, che era pazzo. Voleva sposare un cigno. Perciò glielo lasciarono fare, ma fu un matrimonio morganatico». «Mi pare giusto» commentò il signor Taylor. «Non era il caso di far sali-
re al trono un uovo. Ma è una strana coincidenza, no? Il fatto che il principe Rudolf abbia scelto uno dei suoi sudditi come insegnante di lingue di sua moglie, voglio dire». «Non così tanto, in realtà. Ce ne sono parecchi di noi a Maida Vale, gente che ha lasciato la Razkavia per una ragione o per l'altra. Io ne conosco almeno una dozzina. Scrittori, pittori, persone del genere. Uno dei modi in cui possiamo guadagnarci da vivere è insegnare il tedesco e Maida Vale non è molto lontana da Church Road. Il principe avrebbe potuto scegliere uno qualsiasi di noi senza sapere da dove proveniva». «E lei...» disse la signora Goldberg. «Cosa vuole fare nella vita?» Era una domanda che, in base all'esperienza di Becky, non veniva posta molto spesso alle ragazze e lei non era sicura di cosa rispondere. Le piaceva l'idea di entrare in una sala conferenze, austera, maestosa, con un bell'abito indosso e venire chiamata 'dottoressa Winter'. Ma l'attirava ugualmente il pensiero di gestire un bar in una baraccopoli, con un sigaro in bocca, un diamante come orecchino e una pistola alla cintola. Era difficile decidere. «Devo guadagnare» disse. «Voglio andare all'università, ma devo anche aiutare la mamma. Lei illustra le storie per alcune riviste. Ma ora sono coinvolta in questa faccenda... Ho promesso che sarei tornata dalla signorina Bevan. Da Adelaide... la principessa. Ha molto da imparare e io voglio aiutarla. E inoltre sono curiosa. Vedete, il principe Rudolf è un discendente di Walter von Eschten. E questo significa molto per me. Perché io sono razkaviana dopo tutto, nonostante quello che hanno fatto a mio padre, e se c'è qualcuno che sta tentando di far saltare in aria la mia famiglia reale...» «Sì?» la incalzò il signor Taylor. «Be', io voglio cercare di fermarlo». «Buon per lei» replicò il giovane. «Ma immagino che vorrà tenersi alla larga dalla dinamite». «Sapete, mi piacerebbe tanto sapere come andrà a finire questa faccenda» disse la signora Goldberg in tono dispiaciuto. «Ma devo partire per l'America con mio marito dopodomani. Lui andrà a studiare i rapporti tra i sindacati e i datori di lavoro a Chicago e io voglio dare un'occhiata alla borsa di New York. Staremo via per diverso tempo... Ascolta, Rebecca... posso chiamarti Rebecca?» «Becky». «Becky allora. Salutami tanto Adelaide. E fidati di Jim, il signor Taylor,
e segui i suoi consigli. Mi ha salvato la vita già tre volte. Spero che non dovrà mai salvare la tua, ma se dovesse capitare, puoi star certa che lo farà. Ti auguro tutta la fortuna del mondo!» Capitolo tre LE GUARDIE IRLANDESI Jim Taylor aveva ventitré anni. Come aveva raccontato a Becky, lui e Sally Goldberg avevano vissuto insieme parecchie avventure e affrontato una notevole dose di pericolo; inoltre era davvero un investigatore privato, anche se quello era solo uno dei molti modi in cui si guadagnava da vivere. Scriveva anche racconti per giornaletti scandalistici e riviste di quart'ordine del tipo per i quali la madre di Becky curava le illustrazioni, pur avendo ambizioni letterarie ben più elevate; giocava d'azzardo, era stato corriere europeo e aveva lavorato come guardia del corpo: in pratica aveva parecchi mezzi di sostentamento e una grande conoscenza della Londra più pittoresca, o per meglio dire meno rispettosa della legge. Ma sapeva molto poco della politica europea. Dopo aver riaccompagnato Becky a Maida Vale, Jim prese l'omnibus per Soho e a Dean Street salì al terzo piano di una squallida pensione che fungeva anche da sede di un'associazione socialista, dove trovò il marito di Sally, Daniel Goldberg, con un puzzolente sigaro tra i denti a impacchettare libri per il viaggio in America. «Mai stato in Razkavia, Dan?» «Ci sono passato una volta. Non bere l'acqua termale da quelle parti se non vuoi avere delle coliche da tenerti a letto per una settimana. Perché?» Jim gli raccontò tutto. Goldberg smise di fare le valigie per ascoltare. «Be', che mi venga un colpo» disse alla fine. «Come ci riesci? Come fai ad andarti a cercare i guai in questo modo?» «Pura fortuna. Ma quello che voglio sapere è: chi potrebbe volerlo uccidere? Che dici, sono gli anarchici?» «Mah... Chi può dirlo? Metà di loro è folle e l'altra metà chiacchiera tanto, ma non agisce. Tu mi hai detto di aver parlato con il principe in persona... Lui chi pensa che sia stato?» «Crede che possa essere suo cugino Otto. Il conte Otto von Schwartzberg. Mi ha dato una sua foto...» Jim infilò una mano nella tasca del gilè e tirò fuori la foto di un gruppo
di uomini, tra cui il principe stesso, con indosso delle giacche corte in stile australiano e cappelli adorni di penne e ciuffi di pelo di tasso, in posa fuori da un casino di caccia con una serie di cervi morti ai loro piedi. Alcuni di loro tenevano in mano dei fucili. «Quello è Otto, quello con l'arco» disse, indicando un uomo alto con le sopracciglia scure e folti baffi, un luccichio crudele negli occhi e una cicatrice su una guancia. «Gira voce che una volta abbia ucciso un orso... a mani nude. Aveva sparato a un cucciolo e la madre lo attaccò prima che avesse il tempo di ricaricare il fucile. Lui le strappò la mandibola e poi le fece schizzare fuori il cervello con un sasso. Era ricoperto di orribili ferite, ma rimase in piedi, a ridere. È secondo dopo Rudolf nella linea di successione. Il principe ha paura di lui, è piuttosto evidente, ma non saprei... c'è qualcosa che non ha senso in questa storia». «Sono d'accordo» disse Goldberg. «Per prima cosa bisogna sempre cercare una motivazione politica. Il paese prima o poi cadrà in mano a una delle due Grandi Potenze e, dai retta a me, è di questo che si tratta. E in quanto al folle che strappa la testa agli orsi... no, non mi sembra un dinamitardo. Passami quel libro, quello sotto i tuoi piedi. Quello costoso con l'elegante rilegatura». Jim tolse i piedi dal tavolo e passò a Goldberg un tomo tutto sciupato. L'uomo lo sfogliò e fece scorrere il dito lungo la colonna di una pagina. «Ecco qui» disse. «Questo è di un paio d'anni fa, ma quel posto non è una democrazia, perciò ci saranno ancora gli stessi uomini al potere». Passò il libro a Jim. Sfruttando tutto il tedesco che conosceva, il giovane lesse una breve descrizione del regno di Razkavia, con i nomi e le residenze del re, del principe ereditario e del principe Rudolf e i nomi di vari funzionari come il Cancelliere, il Sindaco di Eschtenburg, l'Ispettore delle Miniere, il Capo della Polizia e così via. «Il tuo principe non è il primo in linea di successione al trono?» chiese Goldberg. «No. C'è suo fratello maggiore Wilhelm, che è sposato, ma senza figli, quindi gli succederà il principe Rudolf. Ma solo per intenderci bene, Dan: tu chi sospetteresti di aver messo una bomba nella sua carrozza? A chi dovrei stare attento?» «Be', puoi scordarti di quel lupo mannaro di Schwartzberg. È un tipo interessante, ma dal punto di vista antropologico, non politico. Non può essere lui. Sarà senz'altro qualche illustre sconosciuto che agisce nell'ombra per provocare una crisi, in modo da dare al principe Bismarck di Berlino o
all'imperatore Francesco Giuseppe di Vienna la scusa per mandare un reggimento e annettersi questo staterello. E una volta accaduto, non cambierà poi molto. Il re diventerà un duca di qualche tipo e manterrà il suo palazzo e il suo casino di caccia, Otto von Schwartzberg continuerà a fare a pezzi gli animali con i denti, ma tutto il nichel delle miniere verrà alacremente spedito via treno in un posto o nell'altro. Io scommetto che sarà la Germania. Finirà alla Krupp, a Essen». «Sei un gran bell'ottimista, vero?» «Realistico, mio caro ragazzo. È il fatto di avere sempre ragione che mi mantiene così allegro. Vuoi quel libro? Non mi servirà a Chicago. Per inciso, conosco una storiella su Eschtenburg, la capitale della Razkavia. Le strade lì sono così contorte, antiche e strette che non hanno nomi e le case sono numerate non in base alla loro ubicazione, ma secondo l'anno in cui sono state costruite, perciò troverai un numero tre accanto a un quarantasei e così via. A ogni modo sembra che il Diavolo una volta l'abbia visitata e non sia riuscito a trovare la via d'uscita. Il che significa, ovviamente, che è ancora lì. E io preferisco andarmene a Chicago». Un paio d'anni prima Jim aveva fatto la conoscenza di una banda di ragazzini irlandesi di Lambeth. Erano un gruppo rissoso, sporco e sboccato, ma quando c'era da combattere lui non aveva mai visto gente migliore in quanto ad astuzia e tenacia: se i ratti si accoppiassero con i terrier, produrrebbero di certo frutti del genere. Jim li aveva usati per un certo numero di lavoretti diversi e li aveva sempre pagati bene, perciò era naturale che lo rispettassero come un buon giudice del valore altrui, e che lo ammirassero per il suo vestire sempre alla moda e la sua aria da donnaiolo. Non appena aveva sospettato che la ragazza potesse essere Adelaide, Jim li aveva messi a guardia della villa di St John's Wood... all'insaputa di tutti, naturalmente. L'ordine era di nascondersi tra gli arbusti di una villa vuota di fronte alla casa di Adelaide e in caso di guai armare un gran casino. Quella stessa mattina subito dopo l'esplosione Jim era andato prima da loro: i ragazzi non avevano visto nessuno tirare una bomba e da questo aveva ricavato la certezza che dovesse essere un ordigno a orologeria. Più tardi quella sera, mentre il principe era fuori per un ricevimento all'ambasciata del Brasile, Jim fece una visita d'ispezione alle Guardie Irlandesi. Li trovò in gran forma. Anche troppo, a dir la verità: avevano scoperto che i furfanti della zona non potevano competere con loro e quando Jim arrivò al loro nascondiglio, stavano cantando vittoria per aver fregato
il garzone del macellaio e arrostivano delle appetitose salsicce su un fuoco fumoso. «Ma noi viviamo dei frutti della terra!» protestò Liam quando Jim li rimproverò. «Sicuro... e poi non è quello che dovrebbero fare tutti i guerriglieri?» «Voi dovreste solo tenervi nascosti. Risparmiatevi i raid per quando questo lavoro sarà finito. La signora è in casa?» «È stata fuori a spasso» disse un ragazzino di nome Charlie. «È tornata un'oretta fa. Senti, signore, sapevi della serva?» «Che cosa?» «Ha un amichetto». «È un pappone!» «È un magnaccia come ne ho visti pochi!» «Va bene, ma parlate a bassa voce» li ammonì Jim. «Cosa fa questo tizio?» «Va a trovarla ogni sera quando fa buio» disse Liam. «Lei sgattaiola fuori e si fanno una chiacchierata tra i cespugli. Pensavo che forse potremmo dargli una bottarella sulla zucca, che dici? Frugargli nelle tasche». «Dico di no. Perché invece non lo seguite per vedere da dove viene?» «Psst!» disse la sentinella, e Jim superò a fatica l'intrico di gambe per vedere cosa stesse indicando il ragazzo. «Eccolo lì...» La strada era illuminata dai lampioni a gas, ma gli allori che sporgevano dal giardino di Adelaide proiettavano una forte ombra. Jim riuscì a malapena a intravedere una figura scura che si aggirava furtiva lungo il lato della casa e poi svaniva nell'oscurità. Dopo un paio di secondi un debole bagliore filtrò dalla porta della cucina, che si aprì e poi si richiuse. «Bene» disse Jim. «Andiamo a sentire cosa dicono. Io, Liam, Charlie e Sean. Se urlo, allora lo prendiamo. Altrimenti tenetevi nascosti e non fatevi sentire». Le Guardie Irlandesi erano brave. Attraversarono la strada furtivi come gatti e in pochi secondi Jim e i ragazzi furono sotto gli alberi nel giardino di Adelaide. Jim sentì una mano sul braccio e Liam gli sussurrò: «Ascolta». C'era un mormorio nelle vicinanze: due voci. La ragazza stava dicendo: «...E lei ha detto a quella ragazzetta presuntuosa che era sposata con lui!» «Sposata?» disse l'altra voce. Jim sentì uno strano brivido lungo la schiena, perché c'era qualcosa che non andava in quella voce... forse un accento straniero? O era qualcos'altro?
«E io ho preso questo». Ci fu un fruscio di carte e un piccolo lampo di luce quando l'uomo accese un fiammifero. Jim vide gli occhi di Liam brillare accanto sé. «Un certificato di matrimonio...» disse l'uomo. «Cos'è questo segno?» «Una X. È la sua firma. Cavoli, è talmente ignorante che non sa né leggere né scrivere, perciò deve firmare con una X. Ma quello è il suo nome, guarda, è tutto legale». «Ahh...» disse l'uomo. Ci fu un tintinnare di monete. Mentre i due erano distratti, Jim sussurrò: «Non appena lei rientra in casa, lo prendiamo. Voglio quel documento: è vitale. E non voglio che lui urli». Non dovette dire una parola di più. Come la maggior parte dei ragazzi della sua età, Liam portava al collo un fazzoletto di seta che aveva una grande varietà di utilizzi. Se lo tolse, si chinò e cercò a tentoni un sasso, poi lo legò a un'estremità in modo da poter lanciare il fazzoletto intorno al collo dell'uomo e usarlo come una garrotta. Gli altri ragazzi sgattaiolarono via e si nascosero vicino al cancello. Non dovettero attendere a lungo. L'uomo sussurrò: «Alla stessa ora domani?» «Va bene. Vedrò cos'altro riesco a scoprire. Ma voglio più soldi la prossima volta». «Li avrai» disse l'uomo. La serva si voltò e se la svignò lungo il lato della casa. L'uomo rimase dov'era per qualche istante ad accendersi una sigaretta, mentre Liam si agitava irrequieto accanto a Jim; poi si mosse verso il cancello del giardino. Due passi e Liam fu dietro di lui, con il fazzoletto che roteava nell'aria con un leggero sibilo. Lo fece scattare intorno alla gola dell'uomo e lo tirò verso di sé, mentre Jim gli si gettava addosso stringendolo alle ginocchia. Per qualche secondo ci fu una gran confusione di sibili, gemiti, calci e mugolii finché l'uomo non finì a faccia in giù sul prato buio sotto gli allori, con le ginocchia di Liam sulla schiena e gli altri due ragazzi che gli bloccavano braccia e gambe. «Bene, ascolta» sussurrò Jim. «Il mio amico smetterà di strangolarti non appena farai di sì con la testa». La testa dell'uomo si sollevò e si abbassò freneticamente e Liam allentò il fazzoletto. «Cosa volete?» sussurrò con voce gracchiante il prigioniero. «Quel documento che ti ha appena dato la serva. Giratelo, ragazzi».
Lo girarono sulla schiena e Jim gli frugò nelle tasche. Mentre si muoveva su di lui, la sensazione che qualcosa non andava si trasformò improvvisamente in uno strano sospetto. Esitò e gli occhi dell'uomo, grandi, scuri ed espressivi, lampeggiarono nell'oscurità. Poi Jim trovò il documento infilato nella tasca del panciotto e se lo mise in tasca prima di risollevarsi e accovacciarsi accanto all'uomo. Liam si alzò e si rimise il fazzoletto intorno al collo. Gli altri ragazzi lasciarono la presa. La spia si rimise lentamente in piedi, si accucciò e indietreggiò con grazia felina. E poi ci fu un luccichio nella sua mano. Jim ebbe il tempo di saltare all'indietro, ma non di evitare la lama del coltello. Lo prese sulle nocche della mano destra, un dolore forte e sordo che si trasformò quasi all'istante in un fuoco lancinante. Il giovane imprecò e rotolò da una parte mentre l'altro gli balzava addosso, e poi saltò su di nuovo, tirando fuori il braccio destro dalla giacca e avvolgendola automaticamente intorno al sinistro, come si fa per difendersi da un coltello; ma lui non aveva un'arma. Liam fece nuovamente roteare il fazzoletto. La spia la schivò e poi Jim udì diverse cose contemporaneamente: rumore di zoccoli, lo sferragliare di una carrozza dalla strada, una finestra che si apriva sopra di lui. A quel punto la spia si voltò e si precipitò fuori dal giardino. «Inseguitelo, ragazzi!» gridò Jim. «Stategli dietro!» Liam chiamò gli altri dal loro nascondiglio e Jim raggiunse il cancello in tempo per vedere l'uomo che correva lungo la strada, inseguito da una fila di ragazzini che lanciavano grida di guerra. E poi si rese conto che il principe era in piedi accanto a lui. Era appena uscito dalla carrozza ed era in pompa magna: cravatta bianca, frac, decorazioni luccicanti intorno al collo e un'espressione distrutta sul volto. «Cos'è successo?» chiese. «Lei è al sicuro?» «Era una spia. Sì, lei è al sicuro... per ora. Ma dobbiamo parlare, lei e io». «Sta sanguinando» disse il principe e Jim scoprì che il taglio sulle nocche sanguinava copiosamente. E faceva pure un male del diavolo. «Pensavo che lei fosse all'Ambasciata Brasiliana, signore» disse avvolgendosi un fazzoletto intorno alla mano. «Sì, ero lì, ma poi è successa una cosa... e ora una spia? Questo è troppo...» «Andiamo dentro» disse Jim e poi, rivolgendosi al cocchiere che lo fissava dalla cassetta con gli occhi spalancati, «vada a cercare un poliziotto, e
in fretta». L'uomo fece schioccare la frusta e partì. Non appena furono in casa, Jim portò il principe in salotto e mandò a chiamare la serva. La ragazza era spaventata e guardò dall'uno all'altro con gli occhi stretti, calcolatori. Jim capì immediatamente che tipo era. «Tu sei una ladra» le disse, «e da un minuto all'altro verrà uno sbirro a portarti via. Ma quanto tempo passerai in prigione dipenderà dal fatto che tu ci dica o meno la verità ora. Chi era quella persona con cui stavi parlando?» «Non lo so» disse la ragazza, sollevando sprezzante il mento. «Non mi manderanno in prigione». «Forse no. Dopo tutto questo è alto tradimento e c'è l'impiccagione per un reato del genere. Ti ci vedi in piedi sul patibolo mentre il boia ti mette il cappuccio nero, eh?» Un bluff, ma funzionò. La ragazza sgranò gli occhi e le sfuggì di bocca un gemito di sgomento. «Io... io non so chi è... mi ha dato cinque sovrane, ma non avevo cattive intenzioni... pensavo che non fosse importante...» Non era sincera, ma aveva ben poco da dire. Jim la chiuse a chiave nel retrocucina e quando tornò trovò il principe che camminava nervosamente avanti e indietro, mordicchiandosi un'unghia. «Cosa ha rubato?» disse. «Questo» rispose Jim, tirando fuori dalla tasca il certificato di matrimonio. Il principe si portò le mani alla testa. Sembrava stravolto, disperato... ma a ripensarci, rifletté Jim, il poveraccio aveva già quell'aspetto quando era arrivato: doveva essere accaduto qualcos'altro. «Perché non me l'ha detto, signore?» chiese Jim. «Perché tenermi all'oscuro? Io lavoro per lei, ricorda?» Il principe rimase fermo lì, come paralizzato, splendente nel suo abito da sera, con la Croce di San Qualcosa e l'Ordine di Qualcos'altro che brillavano alla luce della lampada, e sembrò sopraffatto dagli eventi. Era troppo per lui. E fu allora che disse a Jim perché era tornato a casa prima. «Ho dovuto lasciare il ricevimento. Ho ricevuto un messaggio... una notizia terribile. Mio fratello il principe ereditario e sua moglie la principessa Anna... hanno sparato a entrambi. Lui è morto e lei pare che non vivrà. Devo rientrare immediatamente. Sono venuto qui per... avvertire mia moglie... Ho chiesto all'ambasciatore e a sua moglie di raggiungerci tra venti minuti. Loro non sanno ancora perché».
In quel momento la porta si aprì ed entrò Adelaide. Jim sentì un tuffo al cuore... fu come se l'anima gli balzasse via dal corpo per volare verso di lei. Quei grandi occhi scuri, quel corpo snello, quel viso espressivo pieno di malizia e curiosità e velato di malinconia o di preoccupazione... Jim capì in quell'istante che dovunque l'avesse portato quella faccenda, lui sarebbe andato fino in fondo. Un'ondata di entusiasmo lo travolse, seguita da una depressione profonda quando ricordò che lei era sposata, che era una principessa, che lui lavorava per suo marito. «Ciao, Jim» disse lei a voce bassa. «Piccola Adelaide» mormorò lui, e la voce gli tremava. «Dove sei stata tutto questo tempo?» Lei guardò verso il principe, vide la sua espressione e poi abbassò lo sguardo sulla mano di Jim. «Sei ferito» disse preoccupata e andò da lui per guardare più da vicino e slegare il fazzoletto che Jim aveva sistemato alla bell'e meglio intorno alla ferita. «Aspetta, ci penso io... bisogna lavare la ferita. Rudi, che succede? Cosa c'è che non va?» Mentre suonava il campanello e mandava la cuoca a prendere una bacinella d'acqua calda, il principe le raccontò ciò che era accaduto in Razkavia. «Perciò ora sono io l'erede al trono» concluse. «Quando mio padre morirà sarò re. Fra pochi minuti l'ambasciatore sarà qui. Gli ho chiesto di portare sua moglie: entrambi devono sapere. E poi dobbiamo partire, immediatamente». «Per la Razkavia?» «Naturalmente. Non andrò senza di te. Tu devi venire, Adelaide. E anche lei, signor Taylor». Adelaide lanciò un'occhiata cupa a Jim, poi tornò a fissare suo marito. «Voglio anche Becky con me». E poi accadde tutto contemporaneamente. La cuoca portò l'acqua e delle pezzuole pulite e in quello stesso istante qualcuno bussò alla porta, e quando guardò fuori dalla finestra, Jim vide un poliziotto in piedi sul vialetto e le luci di una carrozza che si fermava al cancello. «Vieni di sopra» disse Adelaide prendendo la bacinella, e Jim la seguì, lasciando il principe a riferire al poliziotto le accuse contro la serva e a ricevere l'ambasciatore e sua moglie in salotto. 'Dio solo sa cosa staranno pensando', rifletté Jim, 'be', fra poco sapranno tutto...' Adelaide si inginocchiò e gli ripulì la ferita dolorante per poi avvolgerla
con bende pulite e nel frattempo parlarono a bassa voce e in tono concitato, come bambini che si sentono in colpa. «Che succederà, Jim? Maledizione, non posso diventare una principessa...» «Lo sei già. Ora piantala. Ma dove sei stata? Cos'è successo dopo che sei sparita? Quella notte quando stavamo scappando dalla signora Holland...» «Sul molo... tu e il signor Garland che lottavate contro quell'energumeno...» «L'abbiamo ucciso. Ma, cavolo, per poco non ci ha fatti fuori lui. Perché tu sei scappata?» «Non lo so. È solo che avevo tanta paura... Oh, Jim, ho fatto delle cose terribili...» «Come ti sei impelagata in questa faccenda?» «Mi ha chiesto lui di sposarlo. È innamorato di me». «Questo si vede. Ma come l'hai conosciuto?» «Io ero... lavoravo... mi vergogno tanto, non riesco a dirtelo...» «Questa è l'unica opportunità che avrai, Adelaide, perché gli altri saliranno qui da un minuto all'altro e noi non saremo mai più da soli, te ne rendi conto? Facevi la vita, vero?» La giovane annuì. Il suo viso minuto era rosso di dispiacere e Jim aveva così tanta voglia di baciarla... Ma un istante dopo giurò a se stesso che finché il principe fosse stato vivo lui non avrebbe mai permesso che ciò accadesse, non avrebbe mai più permesso che le loro mani si toccassero come si stavano toccando in quel momento, non si sarebbe mai più avvicinato a meno di un metro da lei. Esisteva l'amore ed esisteva l'onore e quando le due cose si scontravano potevano spezzare il cuore. «Mi sono persa, Jim. Non sapevo più quello che facevo. Ho chiesto l'elemosina, ho rubato, sono quasi morta di fame... E alla fine sono finita in una casa a Shepherd Market. Sai che tipo di casa intendo. Questa vecchia che si faceva chiamare signora Catlett aveva una mezza dozzina di ragazze. Non era cattiva, aveva persino un dottore che chiamava ogni mese per mantenerci in buona salute... E un giorno arriva questo nobile tedesco con un gruppo di amici. Sembrava una visita turistica la loro... Nel gruppo c'era il principe. Si vedeva che era a disagio, non gli piacevano quel genere di cose, ma è stato carino e abbiamo parlato e... Immagino che si sia innamorato all'istante. Non aveva avuto molto affetto in vita sua, poveraccio. Perciò ha dato alla signora Catlett un sacco di soldi, per portarmi via, immagino, e poi mi ha fatto stabilire qui. E ci siamo sposati. Lui non ha voluto
sentire ragioni. Io... io andavo sempre su a Bloomsbury all'inizio, sai... Mi mettevo dall'altra parte della strada e guardavo i Garland, la loro bottega...» «E perché non sei mai entrata, sciocchina che non sei altro? Sapevi che avevamo messo degli investigatori a setacciare tutta Londra per cercarti?» «Avevo paura di aver fatto qualcosa di male. E poi quando alla fine mi sono fatta coraggio e sono tornata, era bruciato tutto...» «Fred è morto nell'incendio». «Lui... Oh, Dio... E la signorina Lockhart? E Trembler?» «La signorina Lockhart ora è sposata. È diventata la signora Goldberg. E il vecchio Trembler ha sposato una ricca vedova. Hanno una pensione a Islington». Poi lei ripeté: «Jim, cosa succederà ora? Io non posso diventare una principessa, non posso farlo...» «L'hai sposato e devi affrontare la situazione. Non ci si tira indietro da una cosa del genere... Ma io sarò con te, e Becky...» «Pensi che verrà? Io non vado senza di lei, lo giuro». «Sì, certo che verrà» disse Jim, che non ne era poi tanto sicuro. «Ascolta, ora stanno salendo, li senti? Fatti coraggio, ragazza mia. Ci siamo trovati in situazioni peggiori di questa. Ricordi il macello della fabbrica di carbone animale?» Adelaide fece un sorrisetto nervoso e il cuore di Jim mancò un battito. Qualcuno bussò brevemente e la porta si aprì. Jim si alzò per accogliere il principe. L'uomo anziano che lo seguiva sbatté le palpebre sorpreso alla vista del giovane con i capelli in disordine e la giacca strappata, della ragazza che si rassettava la gonna e della bacinella d'acqua sporca di sangue sul pavimento; poi batté i tacchi e si inchinò. Era il classico tipo del militare, un uomo robusto col viso rosso e i capelli a spazzola, una cicatrice da duello sulla guancia, folti baffi e un petto pieno di medaglie. La moglie, imponente e glaciale, luccicava come un lampadario. Il principe chiuse la porta. «Parleremo in inglese» cominciò. Era pallido e sembrava nervoso, ma continuò con voce ferma. «Non è questo il modo in cui avrei voluto darvi tali notizie. Tuttavia è impossibile fare altrimenti. Adelaide, questo è l'ambasciatore di Razkavia, il conte Thalgau, e Sua Grazia la contessa». Jim notò che entrambi si resero immediatamente conto del modo in cui il principe aveva fatto le presentazioni: erano stati loro a essere presentati a lei e non viceversa, quindi la ragazza doveva essere di rango superiore al
loro. Ci fu un moto di sorpresa, ma poi fu la volta di Jim. «Conte Thalgau, questo è il mio fidato segretario e consigliere, il signor James Taylor. Come potete vedere, questa sera è stato ferito mentre era al mio servizio». Un moto di approvazione questa volta, seguito da un battere di tacchi e un cenno del capo. Jim non poteva stringergli la mano, ma chinò e risollevò rispettosamente la testa alla maniera prussiana. Sentiva che dietro tutta quella cortesia c'era un'enorme curiosità che ribolliva come vapore in una caldaia. Il principe prese la mano di Adelaide e se la strinse al petto, facendola passare sotto il braccio. «E questa è mia moglie, Adelaide, e la vostra principessa» disse. Il conte fece un passo indietro; la contessa rimase senza fiato. Poi il vecchio esplose. «Dio del cielo! Sposato! Sposato! Ma siete impazzito, mio signore? Avete perduto la testa? Il matrimonio di un principe - e di un principe ereditario, ora, per Giove! L'erede al trono! - non è una faccenda da adolescenti innamorati o da spensierati poeti! È una faccenda che coinvolge diplomatici e uomini di stato! Buon Dio! Il futuro stesso della Razkavia dipende dall'alleanza che voi stringerete con il vostro matrimonio... Ach! Mein Gott!» «E questa è un'ottima ragione» disse il principe, pallido ma imperturbato dall'attacco, «se mai ne servisse un'altra oltre il mio amore per lei, per giustificare il mio matrimonio con questa signora. Qualunque matrimonio diplomatico avessi contratto sarebbe stato interpretato come un segno della mia posizione politica e questo sarebbe stato fatale. Ora ho la libertà di agire nel modo migliore per la Razkavia, senza essere vincolato a un'alleanza che dividerebbe il paese». «Ach! Sancta simplicitas!» gemette il conte. «Ma... la famiglia della signora... chi è?» Il principe guardò verso Adelaide e rispose: «Mia moglie è di sangue inglese. A quanto ricordo, non c'è mai stata altro che amicizia tra il popolo d'Inghilterra e quello della Razkavia. Non c'è niente ormai che possa impedire il nostro matrimonio». «Impedire no. Annullare sì. Presenteremo immediatamente istanza presso il Vaticano. Il cardinale arcivescovo di certo...» «Mai!» protestò il principe e passò al tedesco. Con voce alta e infuriata proseguì: «Non è compito vostro, conte Thalgau, tentare di modificare le decisioni prese da un principe. Se avessi chiesto il vostro consiglio, vi a-
vrei ascoltato con rispetto... ma non l'ho chiesto. Non cerco consigli da voi. Cerco la vostra lealtà. Voi siete sempre stato un amico fedele della mia famiglia: non mi tradite proprio ora. Io amo questa signora quanto la mia stessa anima. Niente ci separerà tranne la morte, e di certo non una qualche squallida macchinazione ordita con il Vaticano. Avete capito?» Per la prima volta Jim vide qualcosa di veramente regale nel principe. Il conte chiuse gli occhi. Poi si strofinò le tempie e disse: «Be', quel che è fatto è fatto. Ma ovviamente sarà morganatico. La discendenza reale degli Eschtenburg finirà con voi. Re Augusto II...» «Non può essere morganatico». «Perché mai?» «Perché ci siamo sposati in questo paese. La legge inglese non prevede il matrimonio morganatico. Mia moglie ha il rango di principessa». Solo il fatto che il principe era ancora in piedi impedì all'ambasciatore di accasciarsi su una sedia. Non potendo far altro, vacillò, e fu allora che intervenne Adelaide. «Vostra Eccellenza» disse con la sua vocetta dall'accento popolano, «capisco la vostra sorpresa. Sono molto felice di conoscervi: mio marito mi ha parlato spesso della sua ammirazione per voi e delle vostre imprese in battaglia. Sono impaziente di sentire tutti i particolari. Vorreste sedervi, voi e la contessa? E forse il signor Taylor potrebbe essere così gentile da ordinare qualcosa di ristoratore...» Ben fatto, ragazza mia, pensò Jim mentre prendeva la bacinella con l'acqua sporca di sangue e andava a esplorare la cucina. Trovò la cuoca e il lustrascarpe frementi di curiosità e disse loro di mandare su un piatto di tramezzini e del vino il più presto possibile. Quando tornò di sopra stavano discutendo di Becky, perciò decise di intromettersi. «Posso suggerirvi, signore, di andare subito insieme a Sua Altezza Reale e alla contessa dalla madre di Rebecca, Frau Winter? È vitale che lei venga con noi, sono d'accordo con Ad... ehm, con la principessa, ma ha solo sedici anni e sarà necessario rassicurare sua madre circa la... ehm... la...» «Die Richtigkeit» disse la contessa. «Ja. Il decoro» convenne l'ambasciatore. «Verissimo. Ja». Entrambi erano ancora sotto shock. Jim li capiva bene, ma la mano aveva cominciato a fargli un male del diavolo e quando il lustrascarpe portò su del vino, ne mandò giù tre bicchieri per alleviare il dolore. Poi il principe si alzò per uscire con Adelaide e la contessa e andare a comunicare la
sorprendente notizia a Frau Winter, lasciando Jim da solo con l'ambasciatore. «Dunque, signor Taylor» disse l'uomo, fissando Jim con uno sguardo che avrebbe disarcionato un ussaro. «Voglio che mi dica la verità. Com'è coinvolto lei in questa faccenda? E chi era la spia che questa sera ha dovuto tenere lontano a costo del suo stesso sangue? La avverto, signor Taylor. Ho già avuto un forte shock questa sera, ma amo il mio paese e onoro il mio principe e ora» fece un profondo respiro, «sono anche il più fedele servitore della... della principessa. Ci sono molte cose in questa faccenda che trovo alquanto misteriose. Mi dica tutto o se ne pentirà». Così Jim cominciò. Capitolo quattro IL TEATRO ALHAMBRA Becky era china sul tavolo, immersa in una grammatica di italiano. Il libro era al margine del cerchio di luce al centro del quale la mano di sua madre stava pazientemente disegnando Deadwood Dick che sparava con due grosse pistole a un enorme fuorilegge con la barba, che si trovava a un paio di metri di distanza e gli stava sparando addosso con due pistole altrettanto enormi. Forse le pallottole si erano scontrate a mezz'aria tra di loro, perché nessuno dei due era rimasto ferito. Un altro tuffo della penna nel calamaio, un altro ricciolo della barba del fuorilegge che veniva colorato... e poi la mamma ripulì il pennino, si portò le mani alle reni e si stiracchiò. «Basta per il momento» disse sbadigliando. «Una cioccolata calda?» chiese Becky mettendo un segnalibro nella sua grammatica. Il bollitore sibilava piano sulla mensola del camino e un piccolo orologio di legno di Elpenbach stava per battere le dieci. Ma prima che la ragazza potesse alzarsi, qualcuno bussò al portone. Becky e sua madre si guardarono: la pensione dove alloggiavano era un posto serio e rispettabile e raramente gli inquilini ricevevano visite dopo le sei del pomeriggio. Sentirono la signora Page, la padrona di casa, zoppicare lungo il corridoio per andare ad aprire. Un mormorio di voci; i passi di diverse persone; poi qualcuno bussò alla porta del loro salotto. Becky corse ad aprire, con sua madre in piedi dietro di lei, preoccupata. «Un gentiluomo e, ehm, due signore per te, cara...» disse una perplessa si-
gnora Page. «Non sono riuscita a capire i loro nomi» concluse in un sussurro. Becky riconobbe immediatamente Adelaide, con cappello e mantello; poi vide il principe e dietro di lei una signora così imponente, fredda e monumentale che sembrava fatta di marmo. «Oh! Ad... il principe... Vostra Altezza... signora... mamma, è... per favore entrate» balbettò in preda alla confusione. La mamma era perplessa, ma ansiosa di essere cortese e al tempo stesso imbarazzata dallo squallore della stanza. Mio Dio, aveva solo quattro sedie! Ma la signora Page l'aveva notato e andò a prenderne un'altra in soggiorno. Becky stava cercando di capire chi avrebbe dovuto presentare per primo e a chi, e se era il caso di ammettere che sapeva chi era il principe e che l'aveva detto a sua madre... ma Adelaide parlò per prima. «Rudolf» disse, «tu conosci la signorina Winter e sua madre. Becky, credo che tua madre sappia che Herr Strauss è il principe Rudolf». La mamma fece la riverenza al principe, arrossendo fino alla radice dei capelli. Becky seguì il suo esempio, anche se in maniera un po' rigida, e poi Adelaide si rivolse all'altra signora. «Contessa» disse, «posso presentarvi Frau e... und Fräulein Winter. Questa è la contessa von Thalgau, la moglie dell'ambasciatore razkaviano». Altre riverenze; una gelida stretta di mano. La contessa si guardò intorno e chiuse gli occhi: un gesto tremendamente eloquente. Quando la signora Page arrivò con l'altra sedia e furono tutti seduti, il principe cominciò a parlare. Prima raccontò loro dell'uccisione del principe ereditario e poi del suo matrimonio. In principio parlò in inglese, una lingua di cui aveva una notevole padronanza, ma che non lo faceva sentire a suo agio, ma a un certo punto si voltò verso Adelaide e le disse: «Scusami, cara, ma ora devo parlare in tedesco, altrimenti non potrò essere preciso». Con il volto da sognatore pallidamente illuminato dalla luce della lampada, il principe si rivolse alla madre di Becky: «Frau Winter, quando mia moglie mi ha detto che l'insegnante che avevo assunto era una cittadina del nostro paese, ho sentito che la mano del fato stava guidando le mie scelte. Poi ho saputo chi era suo padre e ne sono stato certo. Una volta ho avuto il privilegio di conoscere il suo defunto marito. Era venuto a Palazzo per parlare con me dell'evoluzione delle nostre leggi, una visita organizzata come parte della mia istruzione. Mi creda, sono davvero dispiaciuto della sua
morte. Una delle cose che desidero di più è modificare la nostra costituzione per consentire la creazione di partiti democratici, proprio come voleva suo marito. «Ma come con ogni altra cosa che desidero realizzare, farò affidamento sul giudizio e l'assennatezza di mia moglie. La sua esperienza del mondo le ha dato una saggezza ben oltre i suoi anni e una forza e una percezione dell'indole altrui su cui spero di contare molto in futuro». Becky vide la contessa voltarsi e fissare Adelaide con freddezza. La giovane era seduta in silenzio con le mani in grembo e guardava il principe, quindi non lo notò. «Ma mia moglie avrà bisogno di aiuto» continuò il principe. «Avrà bisogno di guida e compagnia. Avrà bisogno di istruzione. E lei stessa mi ha detto che Fräulein Winter può soddisfare tutte queste necessità in un modo che nessun altro potrebbe fare. «Frau Winter, mi sono dilungato troppo e me ne scuso. Se lei non può consentire a Fräulein Winter di accompagnare la principessa in Razkavia in qualità di sua dama di compagnia, io lo capirò e rispetterò la sua decisione, e le augurerò una buona serata. In ogni caso, signora, chiedo umilmente il suo perdono per averla disturbata». La mamma guardò Becky, fece un profondo respiro, poi giunse le mani come se stesse pregando. Un istante dopo le batté leggermente come se avesse preso la sua decisione. «Altezza» disse, «per prima cosa voglio dirvi quanto siamo onorati. E quanto vorrei potervi ricevere con maggiori comodità. Ricordo bene la visita di mio marito a Palazzo. Lui mi raccontò con quanta attenzione voi l'avevate ascoltato e gli avevate posto delle argute domande. Se fosse vissuto, voi non avreste potuto trovare un consigliere più saggio o più leale. «E sono onorata che abbiate avuto fiducia in noi. Ma voi mi chiedete molto... Io sono una vedova in un paese straniero e devo faticare per guadagnarmi da vivere. Le uniche persone che ho qui sono la mia anziana mamma e mia figlia, e le amo molto entrambe. Se dovesse accadere qualcosa a Rebecca, la mia vita sarebbe finita. «Ma la mia Rebecca è una giovane donna di grande forza e onestà e con molti talenti. Io ho tentato di crescerla buona, onesta, lavoratrice e caritatevole. E sono orgogliosa di lei. Credo che la vostra principessa avrà bisogno di una buona amica. Be', non potrà trovarne una più sincera e più preziosa della mia Rebecca. Signore, noi siamo onorate dalla vostra richiesta. Ma dovete consentirmi di dire che la principessa Adelaide sarà ancora più
onorata dall'amicizia di mia figlia. «Perciò la mia risposta è sì, Rebecca può andare, con la mia benedizione. Ma vi avverto: se le verrà torto anche un solo capello, non ci sarà un posto sulla terra in cui chi le ha fatto del male potrà nascondersi, perché io lo troverò e gli strapperò il cuore come lui avrà strappato il mio. Rebecca, liebchen...» E si voltò di scatto verso Becky, la voce rotta dal pianto, le braccia tese. Madre e figlia si abbracciarono così forte che Becky sentì uno scricchiolio di ossa e non riuscì a capire se erano le sue costole o il corsetto della mamma. Ma non importava, perché anche lei stava piangendo disperata. Quando si ricomposero un po', il principe Rudolf disse: «Partiremo fra trentasei ore. Le serviranno degli abiti, Fräulein... da lutto e non solo. La contessa Thalgau la consiglierà. Frau Winter, le darò del denaro per coprire le spese. La prego di far sapere alla contessa se ne dovesse servire dell'altro...» E ci fu dell'oro sul tavolo, più di quanto in famiglia se ne vedeva da anni. Adelaide incontrò lo sguardo di Becky e abbozzò un sorrisetto carico d'ansia, che le fu restituito con uguale trepidazione. Becky si domandò chi delle due avrebbe avuto più bisogno dell'altra. Le Guardie Irlandesi avevano inseguito la spia lungo Marylebone e per tutta Baker Street, raccogliendo rinforzi lungo la strada, finché l'uomo si ritrovò tallonato da più di un centinaio di ragazzini urlanti. All'angolo con Oxford Street, però, saltò su una carrozza pubblica. Liam e Charlie erano abbastanza vicini da sentire l'indirizzo che l'uomo sussurrò ansimando al guidatore e quando la carrozza svoltò per Mayfair gridarono: «Da questa parte! Seguiteci!» e corsero per tutta Oxford Street prima di infilarsi nelle strade di Soho. Senza fiato, corsero a precipizio tra i vicoli e arrivarono a Leicester Square proprio mentre una carrozza si fermava davanti all'ingresso degli artisti del Teatro Alhambra. «È lui quello?» chiese Liam, e «Eccolo!» gridò Charlie e «Inseguiamolo, ragazzi!» strillò Dermot. Il guardiano all'ingresso non ebbe alcuna possibilità: i ragazzini si riversarono dentro come vespe impazzite. Lo spettacolo di varietà della serata stava per finire e il retroscena, i corridoi e i camerini brulicavano di artisti, falegnami, tecnici delle luci e tecnici di scena; ma nel giro di un minuto non ci fu un angolo del teatro, dal ridotto alla graticcia, che non fosse infe-
stato da monelli. «Eccolo!» «Lo vedo... là sulla scala!» «È sceso in quella botola! Stiamogli dietro!» «Lungo quel corridoio... eccolo!» Cinque uomini diversi, acrobati, direttori di scena e camerieri, furono inseguiti, messi con le spalle al muro, interrogati e lasciati andare prima che Liam, Charlie e Dermot riuscissero a individuare la loro preda in un corridoio vicino alla Sala Verde. Con grande determinazione gli corsero dietro, ma era troppo tardi per impedirgli di infilarsi in un camerino. Arrivarono in tempo per sentire la chiave girare nella toppa e allora presero a picchiare con violenza sulla porta rivestita di pannelli. «Esci fuori, viscido buono a nulla! Codardo di una spia! Vieni fuori e combatti, brutto diavolo!» Silenzio dall'interno; ma le grida e il clamore alle loro spalle si stavano facendo sempre più forti. «Dovremo abbattere la porta, ragazzi» disse Liam, e tutti indietreggiarono nello stretto corridoio, preparandosi a caricare. «Uno, due...» E la porta si aprì. Sbilanciati, i ragazzi inciamparono e finirono uno sull'altro, e rialzandosi si ritrovarono a fissare il volto di una donna: bella, con gli occhi scuri, le spalle nude e i folti capelli corvini, un'attrice dalle fattezze di una spagnola con indosso un abito rosso scarlatto. Sembrava spaventata; riusciva a malapena a parlare per quanto le batteva forte il cuore. «Dov'è l'uomo?» chiese Liam. «Dov'è andato?» La donna indicò debolmente la finestra aperta. «Da questa parte!» gridò Liam nell'istante in cui la restante orda di monelli raggiungeva la porta del camerino. Con lui in testa, si riversarono tutti nella stanza e poi fuori dalla finestra, calandosi giù nell'oscurità lungo il muro per poi disperdersi tra il caos di un cantiere a Castle Street, mattoni, assi, mucchi di pietrisco, come tafani all'inseguimento di un toro inferocito. Un toro immaginario. L'attrice chiuse la finestra e con un lungo sospiro tremante lasciò uscire il respiro che aveva trattenuto. Era esausta, a malapena riusciva a stare in piedi. Ansimando, richiuse a chiave la porta, tirò le tende e alzò una mano per togliersi la parrucca. Poi sollevò l'abito, slacciò un bottone alla vita, si
tolse i pantaloni nascosti sotto la gonna e li gettò sopra la giacca, il panciotto e la camicia che si era tolta in tutta fretta e aveva nascosto dietro la porta. Infine si accasciò sulla sedia davanti alla toletta. Lentamente il respiro si calmò. La donna sciolse i capelli neri raccolti sul capo e tirò fuori il coltello insanguinato dal fodero legato al polpaccio per ripulirlo con un fazzoletto di seta. Sorrise debolmente e studiò il proprio riflesso nello specchio. L'assurdo sospetto di Jim era giusto. «Una donna? Come si chiama?» «Carmen Isabella Ruiz y Soler, signore. Un'attrice». «Affidabile?» «Credo di sapere come controllarla, signore». «Per Dio, lo spero. Be', finora non mi ha deluso, devo ammetterlo, anche se questa è una delle macchinazioni più folli che abbia mai sentito. Vada avanti, Bleichröder. E mi tenga informato». Siamo a più di novecento chilometri di distanza, a Berlino. Chi parla è un uomo anziano dall'aspetto crudele: una testa tonda, calva, occhi sporgenti ed enormi baffi. Si guarda intorno con occhi lampeggianti, saluta con un breve cenno del capo ed esce dalla stanza per andare verso la sua carrozza. I funzionari nell'anticamera si inchinano, i servitori gli aprono le porte, i suoi assistenti gli corrono dietro portando dei documenti e tutti si muovono intorno a lui con più di una punta di nervosismo, perché l'uomo è il grande Cancelliere, il principe Otto von Bismarck. L'uomo nell'ufficio appoggia le mani sui braccioli della sedia e si siede lentamente. È un banchiere, della stessa età di Bismarck, ma completamente privo dell'autoritaria energia del cancelliere. Bleichröder ha un'aria di studiata svagatezza: una nobile testa con incipiente calvizie, folte basette, occhi socchiusi, un naso sottile e ricurvo. L'uomo aspetta che il suo segretario abbia chiuso la porta. «Allora, Julius?» dice. «Come interpreti la faccenda?» È un gioco a cui amano giocare. Il giovane segretario deve basarsi sulle conoscenze che ha, tirare a indovinare su ciò che non sa e tentare di capire il funzionamento della mente subdola e impenetrabile del suo datore di lavoro. «La Razkavia... Non è quel posto dove oggi è stato assassinato il principe ereditario, signore? Ho visto qualcosa nei telegrammi di mezzogiorno... Un piccolo regno simile alla Boemia. Una cerimonia pittoresca... qualcosa
che ha a che vedere con una bandiera». «Sì. Tutto esatto finora». «Ah. Ora ricordo. Non estraggono qualcosa dalle miniere da quelle parti? Stagno o qualcosa del genere?» «Nichel. Molto bene, Julius». «Ma non vedo cosa abbia a che fare un'attrice spagnola con tutto questo. Troppo astruso per me, signore». «Allora te lo dirò io. Vai all'armadietto blu, per favore, e tira fuori il fascicolo con l'intestazione 'Thalgau'». Mentre il segretario apre l'armadietto, le mani del banchiere si muovono delicatamente sulla scrivania, risistemando una penna, raddrizzando il tampone di carta assorbente, spolverando immaginari granelli di polvere, soffermandosi carezzevoli su una piccola, ma pesante palla di vetro. Il segretario ritorna con il fascicolo e Bleichröder si appoggia di nuovo allo schienale della sedia, le mani dietro la testa, gli occhi socchiusi. «Comincia, allora» dice, ricomponendo i propri pensieri. Capitolo cinque GALATEO Il giorno successivo trascorse in un turbinio di compere per Becky. Non c'era tempo per farsi fare degli abiti su misura, perciò dovettero comprarli già fatti e farli modificare. La contessa guardava il tutto con espressione corrucciata, dando di tanto in tanto un secco ordine a Frau Winter, che lo riferiva in inglese alle modiste, alle commesse, alle sarte. Poi ci furono le valige da comprare e un baule; e Becky, ricordando il motivo principale per cui stava per partire, insistette per acquistare libri di calligrafia e dizionari. Con cosa avrebbe potuto insegnare a leggere ad Adelaide? Non c'era tempo per dilungarsi nelle ricerche: i due libri di Alice, Black Beauty... E un nuovo gioco chiamato Go e una scacchiera con un set di pedine da dama e uno di scacchi, più una manciata di Penny Dreadful dal tavolo da lavoro della mamma... Se li sarebbe fatti bastare. La nonna, debole di comprendonio e costretta a letto, capì che stava succedendo qualcosa e cominciò ad agitarsi finché Becky non le si sedette accanto e le parlò alla luce del giorno che moriva. L'anziana donna non riuscì a capire molto, ma la sua mano ruvida e delicata strinse con gioia quella della nipote finché non si addormentò. E poi ci furono ancora valige da
preparare, altri elenchi dell'ultimo minuto di cose da non dimenticare, una breve dormita, una veloce colazione, un abbraccio fin troppo frettoloso e lacrime... e il viaggio di Becky cominciò. Il mare della Manica era piuttosto turbolento, ma il mal di mare non è un argomento adatto a una discussione: è scritto su qualunque libro di galateo. E il galateo divenne l'incubo di Becky non appena raggiunsero la terraferma, perché una volta saliti sul treno la contessa cominciò a insegnare a lei e ad Adelaide un migliaio di cose che non avevano neppure mai sognato: come rivolgersi al cancelliere, la differenza esatta di rango tra il figlio minore di un conte e il figlio maggiore di un barone, come sbucciare un'arancia a tavola, il modo giusto di iniziare una conversazione con un vescovo... ogni possibile argomento di galateo, finché non si sentirono entrambe frastornate. E quando non c'era la contessa a insegnare eleganza e galateo, c'era Becky a insegnare ad Adelaide a leggere e a scrivere e un po' di tedesco. Chiunque altro si sarebbe avvilito, ma lei era forte: l'unico segno di stanchezza era un leggero cipiglio che aveva cominciato a insediarsi in permanenza sulla sua fronte, ma persino quello svaniva quando il principe o Becky giocavano ad Halma, a Go, all'Assedio di Parigi o a Spyrol con lei. Con grande sorpresa di Becky, Adelaide non aveva mai imparato a giocare a dama, ma il gioco le piacque immediatamente e già alla terza partita riuscì a battere la sua insegnante. Poi insistette per imparare gli scacchi, perché i pezzi avevano un aspetto più interessante... e così il tempo passava. La sera della prima giornata di viaggio attraversarono Essen, dove c'erano le grandi fabbriche della Krupp, rosse e fumose contro il tramonto infuocato. Dal treno si sentivano persino i potenti martelli che forgiavano cannoni e acciaio e corazze, e Jim Taylor, che era andato a sedersi vicino a Becky, disse: «È questa la ragione di tutto, sai? Alfred Krupp vuole il loro nichel. Come sta la principessa?» «Fatica come un operaio della Krupp. Le verrà un esaurimento». «Be', è compito tuo farla riposare. Falla giocare un po' a Ludo, forza». «Ti va di giocare?» «Io? Scherzi? Ho cose più importanti da fare, come oziare insieme al conte e fumare sigari». A quel punto non era più il signor Taylor, era Jim. E più cose Becky scopriva su di lui, più le piaceva. Stava tentando di comporre mentalmente una sua descrizione per la prossima lettera da spedire alla mamma, ma le
riusciva difficile trovare le parole, perché lui era diverso da qualunque giovane uomo di cui avesse mai sentito parlare (quelli che conosceva personalmente erano troppo pochi per avere importanza). C'era sempre quella prima impressione di spavalderia e dissolutezza, che si rafforzava ogni volta che lo vedeva. Ma contrastava curiosamente con la sensibilità e il tatto che dimostrava in compagnia degli aristocratici, privi però di qualunque traccia di servile deferenza o adulazione. Jim sembrava considerarsi un loro pari: una pretesa inconcepibile, a giudicare dalle apparenze, ma lui la portava avanti con successo. Becky supponeva che in parte fosse dovuto al suo aspetto fisico, al modo elegante con cui indossava abiti alla moda, alla grazia atletica dei movimenti, al pizzico di tracotanza nella camminata; ma per la maggior parte era l'intensa luce nei suoi felini occhi verdi, il luccichio pigro e divertito che emanavano, quell'aria di essere semplicemente molto più intelligente di chiunque altro avesse intorno. E infine (anche se questo, pensò Becky, non l'avrebbe detto alla mamma) c'era un'aura di pericolo che sembrava circondarlo sempre, l'impressione che se fosse stato necessario avrebbe combattuto e avrebbe ucciso, divertendosi anche. Perciò non era un gentiluomo: era molto più interessante. L'unica cosa che impediva a Becky di perdere completamente la testa per lui era l'ovvio fatto che lui era innamorato di Adelaide... una ragione in più per preoccuparsi. Ma neppure questo avrebbe menzionato nella sua lettera. Mentre il sole tramontava sul secondo giorno di viaggio, il paesaggio cominciò a cambiare. Il treno ora avanzava scoppiettando attraverso le montagne e più andavano verso sud più queste diventavano alte, finché dai finestrini della carrozza fu sempre più difficile vederne le cime, quelle frastagliate estremità di calcare colorate di rosa alla luce della sera e avvolte da nubi d'albicocca e arancio e giallo pastello. Più in basso spiccavano le rigogliose pendici, con pini verde scuro che coprivano ogni cosa; e una volta, in una radura, videro un cacciatore con il suo moschetto, il corno e un cane saltellante al seguito. L'uomo sollevò il cappello con la piuma quando lo salutarono. Becky si sentì improvvisamente felice: questo era il suo paese, il suo paesaggio, il luogo a cui apparteneva. Stava tornando a casa. Sbuffi di vapore in una stazione ammantata d'oscurità, un tappeto rosso, funzionari che si inchinano levandosi i cappelli a cilindro, servitori che si affrettano a scaricare bauli e valige e a caricarli sulle carrozze. Il lutto: tutti in nero, bandiere a mezz'asta per la morte del principe ereditario; ma an-
che, dalle pubbliche piazze e dai giardini, dal Labirinto delle Rose nei Giardini Spagnoli sull'ansa del fiume, il suono di allegre arie di Weber, Strauss e Suppé eseguite dalle numerose bande sovvenzionate con un'apposita tassa turistica per la musica; e la grande campana della Cattedrale che batteva i suoi lugubri rintocchi, all'infinito, e altre campane che battevano le ore dalle antiche chiese nelle stradine e nelle piazze. Odore di sigaro nell'aria e profumo di fiori di primavera, e l'aroma di stufati piccanti e crauti e carne alla griglia. Gli enormi cornicioni sporgenti dei vecchi palazzi sotto i quali passavano; i balconi straripanti di gerani scarlatti; le finestre illuminate delle birrerie e dei caffè dalle pareti tappezzate di corna di cervo, tassi impagliati e ogni altro tipo di trofeo da caccia. Il fiume, scuro e impetuoso, con la Rupe di Eschtenburg dall'altro lato e la sua Aquila Rossa, l'Adlerfahne, che sventolava sulla città come aveva fatto negli ultimi seicento anni. Poi il Palazzo: colonne di zucchero filato alla luce della luna, fontane che tintinnavano nei giardini all'italiana. Servitori che si inchinavano; scale di marmo; statue, quadri, arazzi, tappeti, porcellane. Adelaide accanto a Becky, scura in volto, nervosa, ma rivestita di una solenne dignità. E la lunga attesa in anticamera dove decine di candele ardevano su candelieri dorati di fronte a vecchi specchi scuri, mentre il principe spiegava tutto a suo padre il re. Adelaide, Becky e la contessa rimasero sedute lì per un'ora... Becky lo notò guardando l'orologio di bronzo dorato sul caminetto. Alla fine, a mezzanotte meno un quarto, la porta si aprì e un maggiordomo o un ciambellano di un qualche tipo si inchinò rigidamente e disse: «Sua Maestà ora vi "riceverà. Quando entrerete nella stanza dovrete fare una riverenza subito, sull'arco della porta, andare verso il re e fare un'altra riverenza. Se lascerete la stanza prima di lui, camminerete all'indietro, seguendo la linea del tappeto fino ad arrivare al punto in cui sarò io. Poi farete nuovamente la riverenza, vi volterete e ve ne andrete. Ora vi prego di seguirmi». Becky tradusse per Adelaide, che entrò per prima, con Becky e la contessa al seguito. Si ritrovarono in un ampio salotto molto illuminato, dove il principe era in piedi con aria nervosa accanto a un camino acceso. C'era anche il conte, con un aspetto solenne, mentre su un divano sedeva un uomo anziano e severo vestito a lutto, con lunghe basette grigie, la testa pelata e un'espressione di incommensurabile malinconia sul volto. Aveva la
mano destra appoggiata sul bracciolo del divano e Becky notò che le sue dita non la smettevano di tremare. Un piede poggiava su uno sgabello. Fecero la riverenza, andarono verso il divano e fecero nuovamente la riverenza. Il maggiordomo se ne andò in silenzio. «Contessa» disse il re con una voce roca e affannosa, «spero che questo viaggio non vi abbia stancato...» «Niente affatto, vostra Maestà, vi ringrazio». «Questi sono tempi difficili. Come sta vostra cugina, Lady Godstow?» Come molti monarchi, l'anziano re aveva una memoria prodigiosa per i legami di parentela, e in questo caso sapeva che la contessa aveva una cugina di quarto o quinto grado, una nobildonna inglese sposata con uno dei gentiluomini della Corte della regina Vittoria. La contessa arrossì di piacere e parlarono della cugina e del resto della famiglia per dieci minuti buoni prima che il re si voltasse verso Becky. Ma non verso Adelaide, non ancora. Erano tutti ancora in piedi e Adelaide era tremendamente stanca; ma il re la ignorò e si voltò verso Becky. «Fräulein Winter» disse. «Lei è molto giovane per aver coltivato tutti i talenti di cui mi parlano. L'istruzione delle giovani donne deve essere molto progredita in Inghilterra. Qui in Razkavia siamo più all'antica. Non c'è niente che apprezziamo più della modestia in una ragazza; forse ci troverà lenti a riconoscere il suo vero valore». Becky impiegò qualche istante a rendersi conto di cosa le stava dicendo e quando lo fece provò un immediato odio per lui. Non poté fare a meno di ricordare che quello era l'uomo responsabile, sia pure indirettamente, della morte di suo padre; e lei lo odiava anche per il modo deliberato in cui stava snobbando Adelaide, per il fatto che non si fosse ancora degnato di parlarle, lasciandola per ultima, dopo una semplice interprete. E anche lei era stanca e affamata e capì che non avrebbe dovuto reagire non appena aprì bocca, ma non poté impedirselo. Disse: «Vostra Maestà è molto benigno. Ma sono razkaviana anch'io e mia madre mi ha sempre detto che, per quanto il nostro paese possa essere povero di alcune cose, è sempre stato ricco di cortesia e gentilezza. Sono felice di avere la possibilità di imparare tali qualità dall'esempio rappresentato da Vostra Maestà». E fece la riverenza più umile che le riuscì di fare, fin quasi a toccare il tappeto col naso. Fu subito consapevole della contessa raggelata al suo fianco, del conte in preda all'ira, del principe che tremava, ma più di tutto di Adelaide all'erta e perplessa accanto a lei. E quando alzò lo sguardo vide
un'antica freddezza negli occhi del re. Lui la fissò a lungo e lei sostenne il suo sguardo; poi il re la ignorò e si rivolse ad Adelaide. La squadrò una o due volte e poi parlò. Becky tradusse nella maniera che le aveva insegnato la contessa, a bassa voce e nel modo più veloce e più discreto possibile, mantenendosi fedele alle parole pronunciate dai due. Il re disse: «Allora questa è la sposa che mio figlio ha scelto». «Sono onorata di conoscere vostra Maestà» rispose Adelaide. «Il vostro cognome è Bevan, mi pare. Parlatemi della vostra famiglia». «Mia madre era una sartina, vostra Maestà. Morì in un ricovero di mendicità a Wapping. Mio padre era un sergente di reclutamento, ma non l'ho mai conosciuto. È tutto ciò che so». Lo disse con estrema semplicità. Il volto del re mentre Becky traduceva era privo di qualunque espressione; solo le sue dita, che tremavano più che mai, tradivano le sue emozioni. Poi continuò: «Mi dicono che siete diventata una principessa». «Sono diventata la moglie di un principe. Ma è tutto ciò che posso scegliere di essere. Se qualcun altro desidera che io diventi una principessa, cercherò di esserne degna, per amor suo». Poi ci fu una lunga pausa, punteggiata dal crepitio del legno nel camino e dall'orologio sulla mensola che batteva la mezzanotte. Le dita del re tremarono con più intensità una, due, tre volte, mentre il vecchio tentava di sollevare il braccio destro senza riuscirci. Becky pensò che doveva aver avuto un qualche tipo di colpo apoplettico e che era davvero molto vecchio e molto malato. Alla fine il monarca riuscì a muovere il braccio sinistro e diede dei colpetti sul divano accanto a sé. Guardando Adelaide, disse con gentilezza: «Venite a sedervi accanto a me» e per un istante, curiosamente, ricordò a Becky il suo caro nonno, tanto che dovette sforzarsi di controllare la voce quando tradusse. Così Adelaide si sedette accanto al re e lui fece portare del vino. Quando fu versato, il monarca ne prese un bicchiere e con un enorme sforzo lo porse ad Adelaide con la mano tremante senza versarne una goccia e poi ne prese uno per sé. «Adelaide» disse. «È un bel nome. Somiglia a quello della nostra aquila, la nostra Adler. Avete visto l'Aquila Rossa che sventola sulla Rupe? Pensavo che al momento giusto mio figlio Wilhelm l'avrebbe portata dalla Cattedrale alla Rupe, ma il nostro Padre Celeste ha deciso altrimenti. Così sia. Rudolf è un uomo di valore. Assicuratevi che resti sulla retta via, Ade-
laide». Il re bevve un solo sorso di vino, poi rimase in silenzio accanto a lei per un minuto o due, tenendole la mano. Alla fine fece un sospiro che sembrò scuotergli dolorosamente il petto e lanciò un'occhiata a suo figlio. Il principe capì, tolse lo sgabello da sotto il piede del vecchio e lo aiutò ad alzarsi. Anche Adelaide si alzò e il re si chinò per darle un bacio. «Buonanotte, Adelaide» disse. Poi augurò la buonanotte al principe, al conte e alla contessa, e il maggiordomo gli prese il braccio per aiutarlo a uscire. Becky si rese conto di essere tutta rossa in viso, dal collo fino alla radice dei capelli, ma sapeva che doveva dirgli qualcosa. «Vostra Maestà» cominciò, lui si fermò e lei gli fece una profonda riverenza. «Sono terribilmente dispiaciuta, mio signore. Sono stata molto scortese con voi e ve ne chiedo perdono». Non riusciva a guardarlo negli occhi. Dopo una breve pausa lui disse: «Buonanotte, bambina. Quando rivedrai tua madre, dille che la ringrazio». Poi molto lentamente, con passo tremante, uscì dalla stanza. Un servitore chiuse la porta. Capitolo sei AQUILE E PANIA Becky aveva ragione riguardo a Jim, almeno su un punto: lui si considerava pari a chiunque altro, in una maniera rozzamente democratica. Si sentiva a suo agio in compagnia di stallieri e borseggiatori quanto tra artisti, attori e conti... ma non aveva mai visto una Corte reale prima, e ne era affascinato. La mattina del primo giorno della loro permanenza in Razkavia fu convocato nell'ufficio del ciambellano. Il barone Gödel era il responsabile della Casa Reale e si occupava della gestione di tutte le cerimonie e dei ricevimenti di Corte, di fissare gli appuntamenti per tutti i Reali e di amministrare i conti della famiglia reale. Jim entrò nel suo ufficio con una certa curiosità. Il barone era sulla cinquantina: pallido, con la pelle del viso flaccida e cascante, gli occhi chiari sporgenti e denti inclinati all'indietro come quelli dei ratti. Era di una bruttezza così impressionante che Jim si sentì imme-
diatamente dispiaciuto per lui. Poi vide l'espressione nei suoi occhi e capì che quell'uomo sapeva bene l'effetto che il suo aspetto faceva sugli altri e lo stava osservando per vedere come avrebbe reagito. Un lampo di trionfo sembrò guizzare nel suo sguardo per poi scomparire nell'acquoso pallore di quegli occhi. Poi Jim notò la cura meticolosa con cui l'uomo era vestito: il taglio perfetto della giacca, il bianco immacolato del colletto, il nero lucido dei capelli, così impomatati da sembrare incollati sul cranio. Quell'uomo era tanto vanitoso quanto brutto: interessante... «Herr Taylor» disse il ciambellano senza prima chiedergli di sedersi. «Mi dicono che Sua Altezza Reale l'ha assunta al suo servizio a titolo personale. Ovviamente non vorrei mai interferire con le sue decisioni. Ma devo informarla che lei non ha alcuna posizione all'interno della Casa Reale. L'ufficio di Sua Altezza è al completo, non c'è carenza di personale tra la servitù e la sicurezza di Sua Altezza è giorno e notte sotto l'attento controllo delle Guardie di Palazzo. Capisce cosa sto dicendo? Non c'è alcun lavoro per lei qui, nessun posto da occupare e quindi non ci sarà alcuna remunerazione. Sua Altezza Reale ha informato il mio ufficio che desidera che lei sia alloggiato con la servitù. La stanza in cui ha dormito la scorsa notte è necessaria a uno dei miei segretari. Senza dubbio se chiederà all'ufficio del maggiordomo le troveranno un altro alloggio. I suoi doveri e la sua remunerazione sono una questione che riguarda esclusivamente Sua Altezza Reale. Tutto ciò che le chiedo è di comportarsi in maniera appropriata mentre si trova nel Palazzo e di non essere in alcun modo d'impaccio al normale andamento della Casa Reale. Buongiorno». «Buongiorno a lei» rispose Jim e se ne andò. Quindi era così che stavano le cose. Be', sarebbe potuta andare peggio: Gödel avrebbe potuto assegnargli un'infinità di piccole incombenze che non gli avrebbero lasciato il tempo per fare quello che era venuto a fare. E cosa era venuto a fare esattamente? Il principe non lo sapeva. Come un bambino si era legato alla prima persona amica che aveva incontrato, proprio come aveva sposato Adelaide perché lei era stata gentile con lui. Si aspettava che Jim lo proteggesse, ma anche che sapesse da cosa proteggerlo e come farlo. E Jim si sentiva obbligato a farlo e non solo per il bene di Adelaide, ma perché il principe gli piaceva davvero: in fondo era solo un bambino impaurito, ma che desiderava fare il proprio dovere, qualunque esso fosse. Era come Pierrot in una arlecchinata: innocente, folle, tenero e troppo ingenuo per vivere in questo mondo. Il che faceva di Jim l'astuto servitore della farsa, con il compito di
toglierlo dai guai. Niente affatto un brutto ruolo, tutto considerato. Ma significava che Jim avrebbe dovuto prima di tutto esplorare il territorio in cui avrebbe agito: qui non era a casa sua. Perciò, dopo aver trascorso una lunga e faticosa giornata a discutere con l'ufficio del maggiordomo e a insediarsi in un'angusta stanza nella mansarda accanto agli altri domestici, proprio sopra la più comoda stanza di Becky al piano sottostante, Jim decise di dare un'occhiata in giro; così quel pomeriggio tardi indossò un elegante completo di tweed, il suo berretto da caccia e una cravatta verde scuro e si avviò con tutta calma verso il centro della città. Era un posto strano, Eschtenburg: mezza tedesca e mezza boema, mezza medioevale e mezza barocca, mezza moderna e razionale e mezza... assolutamente assurda. Sul lato occidentale del fiume c'erano il Palazzo, gli edifici governativi, le banche, le ambasciate e gli alberghi, l'università e la Cattedrale. Sul lato orientale, abbarbicata intorno alla Rupe sulla quale sventolava l'Aquila Rossa, c'era la città vecchia... e un posto meno salubre, più scricchiolante e più traballante di quello Jim non l'aveva mai visto da nessuna parte in Europa, perlomeno da quando avevano buttato giù le baraccopoli intorno a Seven Dials per far posto a Charing Cross Road. Nelle parti più antiche non c'erano neppure le strade: gli edifici erano tutti accatastati l'uno sull'altro. Secondo una leggenda, di notte le case si davano una bella scrollata e la mattina dopo ricomparivano in un posto completamente diverso. Un'altra leggenda raccontava invece che le nebbie che sorgevano dal fiume ingannavano la vista: facevano svanire le statue, cambiavano i nomi delle case, incidevano nuovi disegni sugli stipiti delle porte e sui telai delle finestre. Jim, incuriosito, pensava di attraversare uno degli eleganti e antichi ponti per vedere se era davvero così facile perdersi, ma ben prima di arrivarci fu attirato in uno scantinato nel quartiere universitario dal più buon odore di salsicce alla griglia e birra che avesse mai sentito. C'era anche musica là dentro: tromboni che suonavano un'esuberante polka. Era impossibile resistere, perciò Jim aprì la porta e scese i gradini. Il locale era piccolo e fumoso e la maggior parte degli avventori erano studenti. Indossavano un'uniforme, una tunica di foggia militare con pantaloni stretti, spalline e nastrini sul bavero per indicare la confraternita a cui appartenevano. Ce n'erano ottanta o novanta in uno spazio che ne avrebbe potuti accogliere forse trenta. Una banda di luccicanti ottoni dietro i quali s'intravedevano visi rubicondi suonava pomposa su un minuscolo palco in
fondo alla stanza, e tra lo spesso fumo di sigaro Jim intravide sulle pareti corna e animali impagliati sufficienti a popolare una piccola foresta. Jim si mise in un angolo, ordinò dei würst con crauti e un boccale di birra e scoprì che aveva scelto il posto migliore di Eschtenburg per sapere come la pensavano i razkaviani sulla politica, perché a non più di un paio di metri di distanza c'era in corso una lite furiosa. L'argomento sembrava essere la famiglia reale e il loro atteggiamento verso la questione tedesca. Uno studente in uniforme con spalline rosse e nere stava battendo i pugni sul tavolo e sbraitando con voce aspra e monotona per farsi sentire sopra il rumore. Aveva gli occhi accesi, il viso cadaverico e delle disgustose goccioline di bava agli angoli della bocca che lo identificavano come l'ultima persona con la quale Jim avrebbe voluto trascorrere il suo tempo. Un buon numero di studenti con spalline rosse e nere lo incitava a gran voce a continuare, mentre un gruppetto più piccolo in verde e giallo tentava di zittire i rivali. Jim stava cercando di capire cosa stesse dicendo l'oratore quando la cameriera portò la birra, un buon paio di litri a giudicare dalla grandezza del boccale, in un elegante recipiente in cotto con il coperchio di peltro. Il giovane lo sollevò per bere e all'improvviso ricevette una tale spinta nella schiena che una pinta di schiuma finì sul pavimento di segatura. «Ach! Mein Herr! Le chiedo scusa... Maledizione, Reiner! Fammi un po' di spazio, va bene? Mi permetta di offrirle un'altra birra, signore...» Jim si voltò e si ritrovò faccia a faccia con un giovane robusto dai capelli ricci e gli occhi azzurri che si stava facendo strada a fatica verso una sedia. Era uno del gruppo dei verdi e gialli. «Niente di grave» rispose Jim. «Era solo schiuma». «Allora le offrirò dell'altra schiuma. Lei è inglese?» «Jim Taylor» gli rispose tendendogli la mano. «E lei?» «Karl von Gaisberg, studente di filosofia. Mi dispiace che debba sopportare le ciance di questi mistici hegeliani... come Glatz laggiù» e indicò l'oratore. «Cosa sta dicendo?» chiese Jim. «Mi pare di aver sentito l'espressione 'sangue e ferro'... Non è una delle frasi famose del principe Bismarck quella?» Karl von Gaisberg fece un'espressione disgustata. «Balordaggini. C'è un gruppo di studenti che adora Bismarck e tutto quanto c'è di tedesco. La razza, il sangue e il sacro destino di una 'Più Grande Razkavia'. Robaccia
senza senso, se vuole sapere il mio parere». «Quindi lei è dalla parte del principe Rudolf e della democrazia, eh?» «Certamente!» esclamò von Gaisberg. «Non è perfetto, ma è la nostra unica possibilità. Questa gente non ci penserebbe due volte a correre tra le braccia di Bismarck: un errore fatale. Persino Francesco Giuseppe sarebbe meglio per noi». Poiché quello era più o meno il punto di vista di Daniel Goldberg e poiché Karl von Gaisberg sembrava il tipo di persona allegra, rumorosa, impulsiva e onesta che gli piaceva frequentare, Jim ordinò altre due birre. E mentre lui mangiava i suoi würst con crauti, Karl gli raccontò qualcosa di più sui retroscena delle discussioni in corso. «Chi è questo Leopold che quel tizio ha nominato un paio di volte?» chiese Jim. «Il principe Leopold. Il figlio maggiore del re...» «Pensavo che fosse Wilhelm, il principe ereditario che è stato assassinato...» «Leopold era suo fratello maggiore. Morto anche lui, molti anni fa. Ma ci fu qualcosa di strano nella sua morte... uno scandalo che fu messo a tacere. Oggigiorno nessuno parla più di lui: sembra quasi che vogliano che sia dimenticato. Glatz e la sua combriccola si sono aggrappati all'idea di Leopold come a una sorta di leader perduto, il sant'uomo tradito dalla sua stessa gente... È un buon metodo per non affrontare la realtà». A quel punto l'oratore con la schiuma alla bocca aveva raggiunto il culmine dell'esaltazione e la maggior parte degli studenti pendeva dalle sue labbra. Jim si mise in ascolto per tentare di capire quello che stava dicendo, anche se la sua voce aspra e acuta rendeva la cosa alquanto difficile. Poi qualcuno gridò: «Ma tu non vuoi un re razkaviano! Vuoi una marionetta nelle mani dei tedeschi!» «Questa è una bugia!» urlò Glatz. «Io voglio un re di pura nobiltà razkaviana! Un re degno di Walter von Eschten... non questo lezioso pagliaccio di un principe con la sua puttana inglese!» Le sue parole rimbombarono nel silenzio. Persino la banda aveva smesso di suonare. Tutti restarono immobili... e poi Jim spinse da parte il suo piatto e si alzò. Lentamente cominciò a togliersi la giacca. Karl von Gaisberg sussurrò: «Siediti, pazzo di un inglese! Glatz è un buono spadaccino... ti infilzerà come un pollo...» Jim sentì un piccolo brivido di trionfo quando tutti gli occhi si voltarono
verso di lui, ma al tempo stesso si diede dello sciocco: era venuto lì per spiare, non per giocare a fare D'Artagnan. «Cosa vorresti fare?» gli disse Glatz in tono sprezzante. «Questa faccenda non ha niente a che fare con te. Tu sei uno straniero. Tieniti fuori dalle questioni razkaviane». «Ti sbagli» replicò Jim. «Prima di tutto tu hai appena detto una cosa riguardo a una signora inglese che esige soddisfazione. In secondo luogo, anche se sono uno straniero sono un uomo del principe Rudolf, leale fino in fondo. Perciò se questi altri gentiluomini vorranno accettare il mio aiuto, io sarò lieto di offrirglielo». E si arrotolò le maniche, circondato dalle acclamazioni e dai pugni battuti sul tavolo dei verdi e gialli e dei fischi e delle proteste dei rossi e neri. Con la coda dell'occhio vide la banda che si affrettava a riporre gli strumenti e capì che il divertimento stava per cominciare. E poi Glatz si chinò sul tavolo e lo schiaffeggiò con il palmo della mano aperto. In una frazione di secondo Jim vide l'intera sequenza di ciò che sarebbe dovuto accadere: la sfida formale, i secondi, la scelta delle armi, i dottori... e lui stesso portato via con una ferita mortale. E non per la prima volta in vita sua ringraziò gli dei di non essere nato gentiluomo. Strinse la mano a pugno e colpì Glatz dritto sul naso. Lo studente cadde come un ciocco e fu allora che cominciò la migliore rissa che Jim avesse mai visto da quella sera che era stato buttato fuori dal Rose and Crown dopo una lite per duemila ghinee. Tavoli rovesciati, panche sfasciate, boccali di birra che volavano come palle di cannone. Questi razkaviani ci sapevano fare e Jim capì dalla furia che si era scatenata nel piccolo scantinato che una buona dose di fanatica esaltazione si stava accumulando tra quei giovani già da parecchio tempo. Avrebbe potuto essere pericoloso, ma in una rissa di quel genere un ragazzo cresciuto in strada come lui aveva un certo vantaggio rispetto a un gentiluomo addestrato con metodi più scientifici: perciò dopo solo mezzo minuto Jim lasciò i primi tre rossi e neri ammaccati e confusi e si allontanò per cercarne degli altri. A quel punto vide Glatz, con il naso che sanguinava come un rubinetto aperto, che si accaniva su un verde e giallo disteso a terra. Jim lo atterrò con un calcio alle gambe e stava per occuparsi di lui con maggiore attenzione quando sentì un rumore che riconobbe all'istante. La polizia emetteva gli stessi suoni in tutto il mondo: passi pesanti, fischietti, colpi insistenti alla porta... E il modo migliore per cavarsi d'impaccio era svanire all'istante. Jim recuperò la giacca, afferrò il braccio di von Gaisberg e lo trascinò
verso la cucina. La robusta cameriera si tolse di mezzo saltellando via come una pulce e in un istante si ritrovarono in un cortile buio e poi in un vicolo e dopo ancora in una specie di parco con ciliegi ornamentali, dove crollarono su una panchina. Karl stava ridendo a crepapelle. «Hai visto la faccia di Glatz quando gli hai dato quel pugno? Non riusciva a crederci! E Scheiber... quando è saltato sulla panca e l'altra estremità è scattata verso l'alto e ha colpito Vranitzky alla mascella... meraviglioso! Be', signor Taylor» continuò, «c'è da dire che tu sei uno che ci sa fare in queste cose. Ma chi sei veramente? E come mai sei così interessato al principe Rudolf?» Jim si fasciò la mano, la vecchia ferita aveva ricominciato a sanguinare. La luce della luna era abbastanza forte da consentirgli di vedere i riccioli arruffati e gli occhi luminosi del giovane studente, gli strappi sulla tunica, la spallina staccata. Tutto intorno a loro rimbombava il traffico delle strade della capitale e dall'altra parte del fiume, che luccicava come fosse di peltro, la Grande Rupe si stagliava contro il cielo con la Adlerfahne immobile sotto le stelle. Jim prese la sua decisione. «Va bene, te lo dirò» disse. «È cominciato tutto a Londra, dieci anni fa...» Raccontò a von Gaisberg ogni cosa, dalla prima apparizione di Adelaide, una bambina magra e sparuta con ancora addosso l'odore della pensione della Holland fino alla sua accettazione da parte del re la notte precedente, che Becky gli aveva riferito in ogni particolare. Karl rimase a fissarlo per tutto il tempo, sbalordito. Quando Jim ebbe finito, lo studente si diede una pacca sul ginocchio, si appoggiò allo schienale della panca e fece un lungo fischio. «Non c'è bisogno di dirti che ho corso un grosso rischio» disse Jim, «a raccontarti tutto questo. Ma ho visto il modo in cui ti batti e non credo che nuocerà agli interessi del principe il fatto che tu conosca tutta la verità. Ci saranno pettegolezzi di ogni genere, e difatti Glatz ne sta già diffondendo uno, ma la cosa peggiore è che alcuni sono veri. Lei proviene davvero dai più umili bassifondi di Londra; a malapena sa leggere o scrivere. Però è una dura, è appassionata, astuta e intelligente e combatterà per il principe fino alla morte. «Quindi le cose stanno così. Questa è la tua principessa ed ecco cosa ci faccio io qui al suo servizio. Posso contare su di te?» Senza esitare neppure per un istante Karl von Gaisberg gli strinse calo-
rosamente la mano e giurò di fare in modo che tutti i Richterbund, ossia la confraternita dei verdi e gialli, si unissero in difesa del principe e della principessa. «Mi fido della tua parola» disse Jim mentre l'orologio della Cattedrale batteva la mezzanotte. Fu in quel momento che si rese conto che la maggior parte degli eccellenti salsicciotti e quasi tutta la birra erano stati usati come proiettili prima che avesse il tempo di consumarli e che aveva una fame da lupi. Le zuffe avevano sempre avuto quell'effetto su di lui. A Londra avrebbe trovato un chiosco o avrebbe fatto una passeggiata fino a Smithfield, dove le trattorie facevano affari d'oro nelle prime ore del mattino con i trasportatori di carne. Ma non conosceva altrettanto bene Eschtenburg e quando chiese a Karl se c'era un posto dove mangiare, lo studente scosse la testa. «Andiamo a letto presto da queste parti» disse. «Ma non preoccuparti. Vieni con me nella mia stanza: ho del pane e del formaggio e una bottiglia di qualcosa...» Perciò salirono le quattro rampe di scale fino alla stanza di Karl che si affacciava sulla piazza dell'Università, dove, gli assicurò lo studente, se si fosse appeso fuori dalla finestra e si fosse sporto sulla sinistra mettendosi in punta di piedi sulla grondaia, avrebbe goduto di una bella vista delle colline boscose del nord. Jim gli credette sulla parola. Lì sopra, alla luce di una candela, cenarono con pane duro, formaggio ancora più duro e brandy di prugne, mentre Karl gli parlava di politica razkaviana e di duelli, del bere e di quanto fosse dura la vita di uno studente, e i due iniziarono a piacersi parecchio. Il giorno dopo Jim ebbe un colloquio privato con il principe e gli raccontò della zuffa nella birreria. «Il punto è, signore, che la gente sa del vostro matrimonio, ma è necessario che vedano la principessa riconosciuta pubblicamente. Più la terrete nascosta alla gente più i pettegolezzi cresceranno e la vostra posizione peggiorerà. Non potreste parlare a Sua Maestà e suggerirgli un qualche tipo di annuncio? E magari una funzione nella Cattedrale?» «È molto difficile in questo momento... La Corte è ancora in lutto per mio fratello e sua moglie... Taylor, chi ci sta uccidendo tutti?» «È quello che sto tentando di scoprire. Non credo che dovremmo preoccuparci di Glatz e della sua cricca di studentelli. Ma, vedete, sono un sintomo. Sono più interessato alla donna». «Donna? Quale donna?»
«La spia in giardino, quella notte. Ricordate?» «Una donna?» «Non ne ero sicuro. Ma quando le Guardie Irlandesi mi hanno raccontato di aver seguito la spia fino a un teatro e di essere stati depistati da un'attrice, ho cominciato a capire com'era andata... Non ve l'ho mai chiesto prima, signore, e non ve lo chiederò un'altra volta, ma... siete mai stato coinvolto con una donna del genere? Una donna che potrebbe volersi vendicare di voi per qualche ragione?» Il principe era talmente sconcertato che Jim credette al suo diniego. «Ma dovete comunque fare un annuncio riguardo al vostro matrimonio il più presto possibile» disse. «Lutto o no, è l'unico modo per portare la gente dalla vostra parte». Un'altra cosa tormentava Jim ed era il principe morto, Leopold. C'erano stati tributi di ogni genere per il principe ereditario Wilhelm e la sua principessa: articoli sui giornali che lodavano il rigore di lui e la bellezza di lei, fotografie e incisioni della coppia in vendita dappertutto, complete di bordo nero, rapporti sulla ricerca dei malvagi assassini, che erano stati scovati, a seconda dei giornali, a Bruxelles o a San Pietroburgo o a Budapest, ma le cui tracce si erano poi invariabilmente perdute. Il principe Wilhelm veniva propinato ovunque fino alla nausea... ma di suo fratello maggiore, il primo figlio del re, neppure una parola. Era come se fosse stato cancellato dalla storia. Inoltre ogni volta che chiedeva di lui Jim non otteneva altro che reazioni piuttosto gelide: sguardi accigliati, moti di sorpresa e paura. Persino il conte Thalgau era riluttante a parlarne. «È successo tutto molto tempo fa» disse. «Non c'è motivo di rivangare antichi scandali. Quel principe è morto; il nostro lavoro è proteggere questo. Dove si è fatto quell'occhio nero, ragazzo mio?» Jim raccontò al conte della zuffa nella birreria e il vecchio ridacchiò contento, battendo il pugno nel palmo della mano. «Per Giove!» esclamò. «Quanto mi sarebbe piaciuto esserci! Ecco lo spirito che ci serve intorno al Palazzo, giovani canaglie come il suo von Gaisberg. Conoscevo suo padre, sa? Mi sono ubriacato con lui più di una volta». «Mi è venuta l'idea» spiegò Jim, «di istituire una specie di guardia privata con l'aiuto dei Richterbund. Una sorta di guardie del corpo in borghese per il principe e la principessa».
«Eccellente idea. Ma qualunque cosa faccia non lo dica a Gödel: lo proibirebbe all'istante. Quanto vorrei essere ancora giovane, Taylor. Mi unirei alle sue guardie private all'istante...» Jim si stava affezionando molto a quel vecchio e chiassoso guerriero: c'era astuzia sotto tutta quella spavalderia e un cuore d'oro sotto l'apparente ferocia. Il conte non era affatto ricco, o almeno così gli era parso di capire: le vecchie tenute di famiglia erano in rovina e, cosa piuttosto insolita per un uomo del suo rango, aveva dovuto vivere con il suo stipendio di ambasciatore. Era rimasto con il principe Rudolf al suo rientro in patria non solo perché la contessa stava guidando Adelaide negli usi e costumi di Corte, ma principalmente perché Rudolf gli aveva dato un posto nel suo staff personale. In ogni caso era chiaro che il conte non avrebbe detto niente del principe Leopold. Jim andò perciò in cerca di informazioni altrove e verso la fine della settimana si ritrovò in una parte del Palazzo che non aveva ancora visitato: la Pinacoteca. In quelle sale trascorse mezz'ora a guardare le rappresentazioni di battaglie ormai dimenticate e incomprensibili scene di mitologia, robuste donne nude e muscolosi eroi che gesticolavano in maniera esagerata e che sarebbero stati perfetti al Victoria Theatre di Lambeth, dove alla gente piaceva la recitazione sopra le righe. C'erano anche i ritratti dei monarchi del passato: ce n'era uno del povero re Michele il Folle con il cigno che aveva sposato, Jim lo fissò a bocca aperta; e in alto, nell'angolo più buio della sala, c'era un giovane con l'uniforme da colonnello degli ussari che somigliava molto a Rudolf. E anzi, gli somigliava così tanto che Jim non riuscì a soffocare un'esclamazione di sorpresa, che fu udita dall'anziano soprintendente che stava passando in rassegna alcune acquetinte su un tavolo in fondo alla sala. Il vecchio si avvicinò per vedere cosa stesse guardando Jim. «Il defunto principe Leopold» disse a voce bassa. «Un esempio direi notevole dell'opera del grande Winterhalter. Le andrebbe di esaminarlo più da vicino?» Tirò fuori una scala di mogano da una nicchia e Jim vi salì per studiare il ritratto del defunto fratello di Rudolf. Non erano poi tanto somiglianti, a guardarli meglio: mentre l'espressione di Rudolf era sognante quella di Leopold era di debolezza e con tutta probabilità lo era stata ancora di più nella realtà, perché senza dubbio Winterhalter era solito fare ritratti lusinghieri dei suoi datori di lavoro. Nella curva delle labbra si leggeva una certa ir-
ritabilità, mentre una palpebra stranamente più cadente dell'altra lo faceva apparire in procinto di fare furtivamente l'occhiolino. Ma nel complesso era un bell'uomo e senza dubbio la fossetta sul mento gli aveva attirato più di un complimento. «Cosa è successo al principe Leopold?» chiese Jim. Il vecchio soprintendente fece un respiro profondo e si guardò intorno. Forse nessuno gli rivolgeva la parola da mesi o forse era semplicemente un vecchio pettegolo; in ogni caso Jim si affrettò a scendere dalla scala per consentirgli di parlare in tono confidenziale. «Il fatto è che contrasse un matrimonio tremendamente imbarazzante. Un'attrice, credo, e spagnola per di più: assolutamente sconveniente. Re Wilhelm era fuori di sé dalla rabbia. La donna fu cacciata via all'istante... trattata, a quanto pare, con un certo disprezzo. Con crudeltà persino, direbbero alcuni. Cosa sarebbe accaduto poi, davvero non lo so, perché, vede, Leopold era il principe ereditario... Ma ci fu un incidente di caccia e il principe morì. La storia fu presto dimenticata. Suo fratello minore era una persona molto più giudiziosa... il povero principe Wilhelm, intendo dire. Perciò quando il principe Rudolf... Ma credo che lei abbia già capito». Nella mente di Jim si accese improvvisamente una luce. Tutti a Corte, dal re fino alla sguattera di cucina, dovevano aver visto all'istante il parallelo: prima Leopold e poi Rudolf si erano sposati con donne di ceto sociale molto più basso del loro. E poi un'altra rivelazione: la spia! La donna del Teatro Alhambra... «Bene, bene, bene. Grazie per avermi raccontato questa storia. Le sono molto grato». Jim diede un'ultima occhiata a Leopold, fissando nella memoria quel volto affascinante ma debole. Non era affatto sorprendente che nessuno volesse parlare di lui... ma quali altri segreti si celavano in questo Palazzo? Il vecchio re trascorreva molto tempo in compagnia di Adelaide. Becky, che la seguiva come un'ombra, li guardava sorpresa mentre l'anziano monarca passeggiava sulla terrazza sottobraccio a lei nel sole del mattino, o le sedeva accanto sul piccolo calesse che Adelaide si divertiva a guidare lungo i viali di ghiaia del Palazzo. Era come se stesse facendo ammenda per l'ostilità che aveva dimostrato verso la moglie del principe Leopold... o forse si stava semplicemente affezionando a lei. In ogni caso, sembrava gli facesse piacere tenerla tutta per sé. Tuttavia la seconda settimana di permanenza di Adelaide a Razkavia il
re convenne che era arrivato il momento di fare un annuncio formale. Invitò perciò i più importanti esponenti politici, gli uomini di Chiesa e i proprietari terrieri, ossia tutti i cittadini di maggior spicco di Razkavia insieme ai più importanti ambasciatori, a un ricevimento a Palazzo per la sera seguente. Dal momento che la città brulicava ormai di chiacchiere, come Jim aveva previsto, l'interesse della gente era alle stelle e quando arrivò la sera del ricevimento il salone del Palazzo era gremito. Jim, in elegante abito da sera, osservava la scena da un angolo della stanza, con una pistola in tasca. Era una serata strana: la Corte era ancora in lutto, ma l'eccitazione era tangibile e quando la famiglia reale entrò nella sala, gli occhi di tutti si posarono all'istante sulla pallida e sottile figura di Adelaide, elegante nel suo abito nero, accanto al principe e subito dietro il re. Becky, a pochi passi di distanza, vide quegli occhi che si voltavano, un mare di occhi... e provò per Adelaide un brivido di paura, come quella che assale gli attori sul palcoscenico. Il vecchio re camminava senza aiuto, anche se a chi gli era accanto era evidente quanto sforzo gli costava. Salì su un palco e parlò in tono chiaro e forte, ma senza poter nascondere il tremore nella voce. «Cari razkaviani! Cari ospiti! Durante il lutto una riunione come questa potrebbe sembrare insolita, per non dire sconveniente... ma questi sono tempi insoliti. Viviamo in un mondo inquieto; grandi cambiamenti sono in corso; oltre le nostre antiche frontiere la scienza e l'industria stanno subendo rapide e portentose trasformazioni. Ma tra tante novità tre cose rimangono immutabili: la Rupe di Eschtenburg, l'Aquila Rossa e la sacra unità della famiglia. «Mio figlio Wilhelm ci è stato portato via. Ma mio figlio Rudolf ha occupato immediatamente il suo posto. E mi ha portato, nel mezzo del nostro comune dolore, una grande gioia, che ho voluto condividere con voi il prima possibile. Siamo ormai nell'era moderna e le circostanze mutano così rapidamente che dobbiamo muoverci anche noi in fretta per tenere il passo. Dobbiamo volare come un'aquila. Come l'Aquila Rossa! «Perciò, popolo mio, amici miei, ecco un annuncio che vi porterà grande gioia. Mio figlio Rudolf si è sposato. È stato un matrimonio celebrato in intimità e la nostra triste perdita ha reso sconveniente qualunque festeggiamento pubblico, ma la nostra gioia privata, che è ora anche pubblica, è sconfinata. Adelaide...» Becky era in piedi subito dietro ad Adelaide e traduceva a bassa voce.
Finora era stato semplice, ma in quel momento arrivò il difficile, perché il vecchio re stava facendo un complicato gioco di parole sul nome della principessa. 'Adel' in tedesco significa nobiltà e Becky dovette spiegarglielo per farle capire. «Sta dicendo che i natali non hanno importanza quando si ha la Adel des Herzens, la nobiltà del cuore, e ora sta parlando di nuovo dell'Aquila, l'Adler e dice che tu sei adlig, ossia nobile e... svelta! Fatti avanti!» Il re le stava infatti tendendo la mano tremante. Adelaide lanciò a Becky uno sguardo che mescolava il nervosismo con l'irritazione per l'incompetenza della sua interprete e poi guardò il vecchio re con un tale affetto che tutti i presenti lo notarono. Fece un passo avanti verso di lui mentre un attendente gli porgeva un nastro onorifico. «Principessa Adelaide» disse, mettendoglielo intorno al collo. E questo fu quanto: ora era ufficialmente una principessa, riconosciuta come tale dal re in persona, e nessuno avrebbe più potuto affermare il contrario. Pochi minuti dopo lei e il principe (e Becky) erano al centro di una cerchia di persone desiderose di porgere i loro auguri e Becky era indaffaratissima a tradurre le loro parole e le risposte di Adelaide. Uno dei primi a salutarla fu l'ambasciatore inglese, sir Charles Dawson, un anziano burocrate dai baffi grigi che le si rivolse in tedesco. Quando lei rispose nel suo inglese smaccatamente popolano, l'uomo per poco non ingoiò il monocolo. «Sono di Londra, sir Charles. Parlo inglese come lei. Lieta di conoscerla». «Io... che mi venga un... parola mia che... oh, buon Dio del cielo! Una gentil... un'inglese, ehm... per Giove! Ehm... io.... Oh, caspiterina!» Il vecchio imbranato doveva essere l'unico in tutta Eschtenburg a non aver sentito le voci che giravano su di lei, pensò Becky. Alla faccia della grande efficienza dei diplomatici inglesi. Sir Charles si allontanò frastornato e qualche istante dopo davanti a loro apparve un gigante, che batté i tacchi, si inchinò e baciò la mano di Adelaide. Aveva i capelli neri pettinati a spazzola e i baffi erano talmente appuntiti che Becky pensò che avrebbe dovuto infilzarci dei turaccioli prima di baciare la gente. Gli occhi neri dell'uomo brillavano. «Il conte Otto von Schwartzberg» mormorò un valletto. Il famoso cacciatore! La prima cosa che Becky provò al vederlo fu pura e semplice pietà per qualunque animale, lupo, alce o mammut, che venisse
a trovarsi a portata del suo fucile. Incuriosita, fissò le mani che si diceva avessero ucciso un orso. Erano le più grosse che avesse mai visto e tutte coperte di cicatrici. «Cugina!» tuonò l'omone rivolto a Adelaide. «Sono lieto di darvi il benvenuto a Razkavia!» Il principe fu completamente ignorato. Adelaide ritirò con freddezza la mano e disse: «Grazie, conte Otto. Ho sentito parlare delle vostre prodezze di caccia. Non vedo l'ora di sentirvi raccontare degli uccelli e delle bestie della foresta. Sempre che ce ne sia rimasta qualcuna...» aggiunse, dicendo poi a Becky: «Questo non lo tradurre». Il conte Otto la fissò con occhi di fuoco e poi scoppiò a ridere. «Un cardellino inglese!» esclamò, e mentre in chiunque altro meno enorme quel tono di voce sarebbe sembrato insopportabile, in lui appariva assolutamente naturale. Non era fatto per stare in interni, quello era il guaio: Becky pensò che sarebbe stato un'ottima compagnia se si fosse trovato a diversi chilometri di distanza da loro. Il principe sembrò a disagio, ma Adelaide non aveva finito. «Avete mai ucciso un cardellino con il vostro arco, conte Otto?» «Oh, non si lanciano frecce ai cardellini! Li si prende con la pania, per poi metterli in eleganti gabbiette!» «Allora è probabile che stiate pensando a un altro tipo di uccello» replicò Adelaide. «Gli uccelli inglesi non si mettono in gabbia. E le aquile non si prendono con la pania». Mentre Becky traduceva, Adelaide fissò il conte con espressione arrogante. Il principe stava parlano con l'Arcivescovo e guardava altrove, ma Jim era molto vicino e anche il re, e ascoltava con attenzione, e quando Becky ebbe finito di tradurre, il vecchio rise così forte che la ragazza ebbe paura che sarebbe soffocato. Il conte Otto fece un sorriso che ricordò quello di un pirata. Sotto i baffi lampeggiarono dei denti bianchissimi. «Avete ancora molte persone con cui parlare» disse. «Buonanotte, cugina». L'uomo si inchinò nuovamente e le voltò la schiena. E così la serata si trascinò stancamente fino alla conclusione, con un gran viavai di persone da presentare, frasi cortesi da trovare e sorrisi da dispensare. Quando tutti i nobili e gli ambasciatori stranieri furono presentati, venne il turno delle persone più in basso nella scala sociale: i funzionari e i politici che erano i veri governanti del paese. Uno dopo l'altro avanza-
rono, si inchinarono, dissero parole di cortesia e se ne andarono. Becky si sentiva sempre più stordita: la testa le girava, i piedi le facevano male, aveva la gola secca... Perché mentre gli altri dovevano contribuire solo per metà alla conversazione, lei doveva riportarla per intero, a entrambi i partecipanti. Alla fine dovette persino reprimere una folle voglia di scoppiare a ridere come una sciocca mentre quegli uomini tutti lindi e impomatati che sembravano fatti in serie avanzavano, battevano i tacchi e si inchinavano, uno dopo l'altro: Herr Schnickenbinder, sindaco di Andersbad, Herr Rumpelwurst, ispettore per la purezza delle acque, Herr Knorpelsack, direttore dei Servizi Postali... Era impossibile che quei nomi fossero veri: di sicuro se li stava inventando. Ci sarebbe stato un incidente diplomatico per colpa sua. Lei sarebbe stata licenziata, incarcerata, fucilata. Dovette battere le palpebre, scuotere la testa, concentrarsi. A sovrintendere a ogni cosa, a fare le presentazioni più importanti e in generale ad ascoltare ogni conversazione c'era il ciambellano, il barone Gödel. Becky sapeva chi era e aveva paura di lui senza sapere perché. Verso la fine della serata, in un momento in cui non serviva l'aiuto di Becky perché Adelaide stava parlando a bassa voce con Rudolf, Gödel la chiamò a sé con un cenno del dito. La ragazza sentì il cuore che aumentava i battiti. Lui la condusse in un angolo della sala e si chinò su di lei. Becky sentì l'odore della sua acqua di colonia, della brillantina che aveva sui capelli, delle caramelle alla violetta che succhiava per addolcire l'alito. «Stai parlando troppo forte» le disse con la sua voce melliflua. «Non è questo il modo in cui dovrebbe comportarsi un interprete. Devi parlare con maggiore modestia. E, cosa più importante, non devi fissare in volto chi parla: è scortese. C'è un'insolenza nei tuoi modi che è estremamente spiacevole. Stai dimenticando qual è il tuo posto. E se questo accadrà, lo perderai». Becky doveva guardare in volto le persone per essere sicura delle sfumature di significato nelle loro parole; e inoltre la stessa Adelaide le aveva chiesto di parlare a voce alta. Ma era inutile mettersi a discutere con il ciambellano: in quel momento Becky non voleva altro che allontanarsi da lui. «Molto bene, signore» disse, e gli sorrise con dolcezza quando lui la congedò. Jim, che li stava guardando da qualche metro di distanza, le fece l'occhiolino.
E così la serata passò e Adelaide fu formalmente riconosciuta come la principessa. Quella notte il re morì. Capitolo sette VORTICE Dieci minuti dopo le sette, l'ora in cui il valletto del re era solito entrare nella sua camera per portargli il quotidiano bricco di caffè, tutto il Palazzo sapeva già che re Wilhelm era morto. Jim, affamato come un lupo, si stava radendo e vestendo quando un servo in livrea bussò alla porta e gli disse che la sua presenza era richiesta immediatamente nella stanza del conte Thalgau. Jim corse di sotto e trovò il conte che, aiutato da un servitore, indossava una cravatta nera e non appena vide l'espressione sul volto dell'anziano ex militare capì cosa era successo. «Sua Maestà è morto?» «Sua Maestà è vivo» ribatté il conte incenerendo Jim con lo sguardo da sopra i baffi ispidi mentre il valletto armeggiava intorno al suo collo. «Re Wilhelm è morto pacificamente nel sonno. Ora dobbiamo affrettarci a considerare come consigliare e proteggere al meglio re Rudolf. Ach, basta, ragazzo. Vai pure, finisco da solo» sbottò rivolto al servitore, che si inchinò e si affrettò a uscire. Jim aveva avuto intenzione di affrontare il conte parlandogli di quanto aveva scoperto sul principe Leopold e di chiedergli ulteriori informazioni sull'attrice spagnola, ma ora non era il momento. L'anziano ex ambasciatore stava allungando il collo davanti allo specchio nel tentativo di sistemarsi l'ampia cravatta. «Così andrà bene» disse dopo un ultimo strattone, e allungò la mano verso le spazzole col dorso d'argento. «Ora ascolti. Sua Maestà non è ancora al comando e non lo sarà per diverso tempo. Dovrà affrontare una dura lotta per averla vinta su Gödel e dare personalmente le proprie disposizioni a Palazzo. Quell'uomo non può essere licenziato: la sua è una carica ereditaria. E francamente il nuovo re non è abbastanza cresciuto da sapere quello che vuole, perciò dovremo aiutarlo. Vuole vedere me tra cinque minuti e lei fra dieci. Nell'Ufficio Verde. Lo incoraggerò a offrirle un posto di mag-
giore responsabilità e Gödel di certo obietterà, ma se il re manterrà la propria posizione alla fine dovrà cedere. Il suo compito è essere paziente e trattenere la lingua finché non sarà tutto deciso, mi ha capito?» «Sì. Conte, c'è il barone Gödel dietro l'assassinio del principe Wilhelm?» «Cosa?» «C'è lui dietro?» «Certo che no! È un'idea assurda. Quell'uomo è una maledetta seccatura, ma è anche un leale servitore della Corona. Non sprechi il suo tempo dietro a speculazioni del genere, per l'amor di Dio. Dieci minuti... otto ora. Non faccia tardi». Jim si picchiettò pensosamente un dito contro i denti mentre si avviava lungo il corridoio che dava sul giardino verso l'Ufficio Verde, dove venivano sbrigati gli affari della Casa Reale. In perfetto orario la porta dell'ufficio si aprì e un funzionario scuro in volto lo fece accomodare. L'ufficio era pesantemente arredato con sfarzosa tappezzeria e abbondanti frange: persino il modo in cui le linee della scrivania si incurvavano e le gambe delle sedie si gonfiavano e poi si restringevano forniva all'insieme un'aria di tronfia grandiosità. Re Rudolf sedeva dietro la scrivania, con indosso l'uniforme probabilmente dell'unico reggimento che aveva una divisa sobria in tutto il paese. Jim si inchinò. In piedi alla destra del re c'era il conte e all'altro lato il barone Gödel. «Grazie per essere venuto, Taylor» disse il nuovo re. Sembrava pallido e molto turbato e parlava a voce bassa, come se a malapena riuscisse a trovare il fiato. «Herr Taylor» disse Gödel con la sua voce melliflua, «Sua Maestà mi ha informato che desidera offrirle un posto di più alto prestigio nel suo staff. Sarò assolutamente sincero con lei: io l'ho consigliato di non farlo. In fondo non sappiamo niente di lei, a parte il fatto che è estremamente giovane, che predilige compagnie poco ortodosse e che non ha alcun collegamento con il nostro paese. Lei è qui, mi pare, in qualità di mercenario. Se un nemico dovesse offrirle una somma più alta per tradire Sua Maestà, come potremmo essere sicuri che lei rifiuterà? Un razkaviano, nato sotto l'Aquila Rossa, di lui potremmo fidarci senza timore. Ma uno straniero...» Rudolf trasalì: era il suo giudizio che veniva messo in dubbio. Il conte Thalgau si stava chiaramente inalberando, ma Jim provò un moto di rabbia.
«È vero» disse. «Sono uno straniero. E mi confesso colpevole di altre colpe: sì, sono giovane. Non sono di nobili natali. Mi piace la compagnia di mascalzoni e artisti e vagabondi. E in quanto all'accusa di essere un mercenario, ammetto che quando ho conosciuto Sua Maestà, o sua Altezza Reale com'era allora, gli ho offerto i miei servigi come investigatore privato. In quell'occasione ci siamo stretti la mano e quella stretta di mano era la garanzia del mio onore, perché io non sono uno straniero qualsiasi, sono un inglese, per Dio, e le sarò grato se lo ricorderà. Non mi si può corrompere con le lusinghe né piegare con le minacce e l'oro non può comprarmi. Io ho dato la mia lealtà liberamente e con tutto il cuore al re e alla regina, per sempre, e Dio aiuti l'uomo o la donna che oseranno metterlo in dubbio». Il conte era chiaramente impaziente di parlare e il re sembrava angosciato, ma per un istante un sorriso di gratitudine gli incurvò gli angoli della bocca. Poi lanciò uno sguardo ansioso verso Gödel. Il ciambellano fece un piccolo inchino. «Ovviamente io posso solamente darvi dei consigli, Vostra Maestà» disse a Rudolf. «Se lo desiderate, è ovvio che posso trovare una posizione di un qualche tipo per Herr Taylor; qualcosa di cerimoniale, forse, sarebbe la cosa più adatta. Ora che siete il re, signore, il vostro staff privato confluisce sotto la gestione dell'Ufficio del Ciambellano, perciò Herr Taylor risponderà direttamente a me come tutti gli altri vostri dipendenti. Se me lo ordinerete, signore, penserò io a qualcosa». «Benissimo» disse stancamente Rudolf. «Pensateci voi, barone». Gödel sorrise e fu come olio che si spandeva su una pozza d'acqua. Jim lo ignorò e si inchinò al re. «Le mie condoglianze per la morte di vostro padre, signore» disse. «Servirò voi e Sua Maestà la regina meglio che potrò». «Ne sono sicuro, Taylor. Grazie». E Jim uscì. Fuori dall'ufficio si fermò e scosse la testa. 'Maledetto sciocco' pensò. 'Sei caduto dritto nella trappola, buffone'. Perché ora avrebbe avuto ancora meno libertà di prima: Gödel gli avrebbe infilato una divisa da pinguino e l'avrebbe incastrato con qualche inutile compito puramente formale quando lui avrebbe dovuto essere là fuori a cercare questa attricetta spagnola... sempre ammesso che esistesse veramente e che fosse veramente lei la spia. Jim scoprì i denti in un ringhio e diede un energico calcio a un pallone immaginario, spedendolo contro la finestra con un'immaginaria esplosione
di vetri infranti. Poi scese per fare colazione. Trascorse il resto della mattinata a osservare i vari dignitari che arrivarono per porgere le loro condoglianze al re e alla regina. L'Arcivescovo fu uno dei primi: un vecchietto rimbambito dall'aspetto cadaverico, pensò Jim, con un viso grigio e scheletrico sotto la papalina nera. Poi arrivarono gli ambasciatori, e guarda caso quello tedesco e quello austro-ungarico si presentarono nello stesso esatto momento, dando al ciambellano un bel grattacapo diplomatico da risolvere: chi dei due annunciare per primo? Ma i ciambellani sono pagati per risolvere problemi del genere e i due ambasciatori stavano conversando abbastanza amabilmente tra di loro quando se ne andarono: in fondo, pensò Jim, era ciò per cui loro erano pagati. I visitatori andarono e venirono e nel frattempo l'attività a Palazzo continuò: l'argento doveva essere lucidato, i cavalli dovevano essere strigliati e nutriti, le Guardie dovevano essere cambiate e il pranzo doveva essere servito. Alle due e mezzo del pomeriggio Jim fu mandato a chiamare: la regina richiedeva la sua presenza. Trovò Sua Maestà nel salotto che dava sulla terrazza dove aveva sovente passeggiato sotto braccio al vecchio re. Era vestita di nero, ovviamente; in piedi accanto alla finestra giocherellava con un ventaglio, il visetto pallido e quei grandi occhi grigi bagnati di lacrime... Jim si riprese e si inchinò appena in tempo. «Grazie, contessa» disse Adelaide. «Per favore, lasciateci soli cinque minuti». La contessa Thalgau fece la riverenza (ora era obbligata a farla) e uscì gelida come un iceberg. Anche Becky stava per andarsene, ma Adelaide scosse la testa e la ragazza rimase. Era più stanca della regina: pallida, con un accenno di rossore intorno al naso, sembrava stesse per soccombere a un raffreddore. «Tu devi restare» disse Adelaide con voce piatta. «Dio solo sa cosa direbbero se restassi sola con un uomo. A meno che non sia l'Arcivescovo, quel vecchio scheletro ammuffito. Dove sei stato, Jim?» Parlava con voce roca e dall'accento pesantemente marcato ed era evidente che aveva i nervi a fior di pelle. Jim conosceva tutti i sintomi: li aveva visti spesso nella piccola Harriet, la figlia di Sally, quando aveva la febbre e non riusciva a dormire. «Se Vostra Maestà me lo permette» disse, «ve lo dirò. Credo di sapere chi potrebbe esserci dietro l'assassinio del principe ereditario. Il re vi ha
mai parlato di suo figlio maggiore, il principe Leopold?» Gli occhi di Adelaide si strinsero. Ma sembrava perplessa, non infuriata, e un istante dopo scosse la testa. «No. So chi era, ma solo questo. Non parlano molto di lui. Perché?» Jim raccontò alle due ragazze cosa aveva scoperto. «E ora ho fatto una maledetta sciocchezza» aggiunse, «e mi sono andato a cacciare nelle mani del ciambellano, il barone 'von Gargolla'. Quello che dovrei fare veramente è andare in città e ficcare un po' il naso in giro insieme a Karl von Gaisberg e ai Richterbund. Abbiamo intenzione di parlare sinceramente tra di noi, Vostra Maestà? Perché in caso contrario...» «Ma certo che sì» rispose Adelaide, ma a voce bassa. «Altrimenti non ce la farei a sopportare tutto questo. Ma solo quando siamo noi tre e basta. Perché potrebbe finire in bocca a... a quelli, a gente come quel tuo folle studente, Glatz. E a quel punto avrebbero altre carte in mano da giocare contro re Rudolf, capisci? Pover'uomo, è frastornato. Non era fatto per essere re. Ma io devo aiutarlo. E questo vuol dire che tu devi aiutare me, capito? E non posso farcela senza una chiacchierata tra di noi di tanto in tanto». Si accasciò su una sedia. Negli ultimi tempi Adelaide aveva due modi di fare completamente diversi: uno sereno ed educato, l'altro rozzo e più passionale. Jim li amava entrambi, ma in particolare adorava il secondo, perché lei lo teneva nascosto agli altri. Riflettendoci però in quel momento, scoprì che la differenza non era poi tanto netta. Nella grazia e nel fascino del suo modo di fare più regale c'era infatti un costante accenno di sfida; e anche se si comportava nel modo più rozzo di cui era capace non poteva nascondere un'accattivante dolcezza... Jim non riusciva a smettere di pensare a lei. «Dovrò accontentarmi di continuare le mie indagini di nascosto» disse. «Non mi arrenderò, in ogni caso. C'è qualcosa sotto questa faccenda che non riesco a capire... Allora, cosa ci aspetta nei prossimi giorni?» aggiunse dopo un istante di riflessione. «Martedì i funerali» disse Adelaide. «Poi due settimane di lutto; infine l'incoronazione. Posso farcela, lo so. La contessa mi dice cosa fare e dove mettermi e io lo faccio. Ma è la politica che non riesco a capire...» «E allora?» disse Jim. «Lasciala al re. È roba da uomini, la politica». L'aveva detto per pura provocazione, ma fu Becky a rispondere. Aveva la voce roca. «Non fare l'idiota» disse. «Sua Maestà conta su Adelaide, non lo capi-
sci? Re Wilhelm non gli mai permesso di vedere i documenti di Stato. E non dimenticare che è stato Principe Ereditario solo per poco più di un mese, quindi ne sa quanto noi e sta ricevendo talmente tanti consigli contraddittori che non ci capisce più niente. Adelaide deve agire come suo migliore consigliere. Lui conta su di lei. Perciò deve sapere cosa consigliargli. E tu devi scoprirlo e dirglielo». La voce le si spezzò. «Vedi?» disse la regina. «È la Germania o quegli altri, e se non avranno una risposta presto sarà guerra e anche se l'avessero sarà ugualmente guerra, perché il perdente obietterà. E nel frattempo c'è un maledetto assassino che si aggira tra noi. Perciò cosa diavolo devo fare, Jim?» Lui si grattò la testa. Poi disse: «Io probabilmente lo chiederei a Dan Goldberg e immagino di sapere cosa mi risponderebbe. Mi direbbe di portare la gente dalla tua parte. Esci e fatti vedere il più possibile. Loro ancora non ti conoscono e non sono sicuri di Ru... di Sua Maestà, voglio dire. Sono certo che si affezioneranno a te, ma tu devi dargliene la possibilità. A quel punto se ci sarà da combattere avrai la loro simpatia e quello potrebbe essere il fattore decisivo». Si bloccò e guardò Becky con espressione seria. «Non voglio nasconderti, però» continuò, «che potrebbe essere pericoloso. Ma posso prometterti che i Richterbund - quella confraternita studentesca con le spalline verdi e gialle, ricordate? - non saranno lontani dovunque andrai. Forse non li vedrai, ma ci saranno. Perciò esci e incontra gente, ma sii preparata al pericolo. Questo è il mio consiglio, per quello che vale». Adelaide annuì. «Grazie, Jim». Mentre usciva, Becky tirò stancamente fuori la tavola dell'Halma. Becky continuava a scrivere a sua madre due volte a settimana, ma tralasciava un numero sempre maggiore di informazioni. Le parlò della prima parte del consiglio di Jim, ma le nascose la seconda e riempì le sue lettere di resoconti dettagliati della sua vita quotidiana. C'era tantissimo da scrivere, perché Becky stava scoprendo che essere la migliore amica di una regina era parecchio più difficile di essere l'insegnante di lingue e la compagna di giochi da tavolo di una principessa. C'era molto meno tempo a disposizione, prima di tutto: ogni momento della giornata sembrava essere stato programmato in anticipo da un'enorme e anonima macchina burocratica e le lezioni, per non parlare del Ludo o degli scacchi, dovevano essere infila-
te nelle sporadiche pause. La giornata di Adelaide cominciava alle sette, quando la cameriera le portava un vassoio con caffè e brioche e le preparava il bagno. Poi la regina indossava gli abiti che le preparava la Guardarobiera di Corte (una grassoccia signora francese che era impallidita alla vista degli abiti che Adelaide aveva portato con sé e aveva immediatamente convocato un couturier da Parigi con le sue creazioni). Poi alle nove e mezzo arrivava un segretario con i biglietti di ringraziamento per le lettere di condoglianze da farle firmare (ora riusciva a scrivere una A, e da vera regina aveva detto che era sufficiente). In seguito c'erano le visite: una delegazione delle Dame di Carità di Andersbad oppure la moglie del Cancelliere o del Rettore dell'Università, venute a porgerle i loro ossequi. Poi c'era il pranzo, invariabilmente con qualche ospite noioso, invariabilmente con la contessa Thalgau che la sorvegliava da vicino. E nel pomeriggio un'altra lezione con la contessa: il comportamento che ci si aspettava da una regina durante i funerali del defunto re; come salutare i Capi di Stato stranieri; quale coltello e forchetta usare quando c'era lo storione nel menu... Adelaide sopportava tutto con caparbia pazienza. E nel frattempo, ovviamente, l'intera città moriva dalla voglia di vederla. La curiosità era immensa, ed ecco perché era necessario che ricevesse ogni persona che le faceva visita e si sforzasse di essere cortese. Così, tenendo bene a mente il consiglio di Jim, Adelaide chiese alla contessa Thalgau di organizzare un certo numero di uscite pubbliche: alla Cattedrale per controllare l'organizzazione del funerale del defunto re; al Labirinto delle Rose nei Giardini Spagnoli sulla riva del fiume per lo scoprimento di una statua; all'Ospedale della Febbre per inaugurare una nuova ala dell'edificio. Uno o due giornali locali la criticarono per questo: era indecoroso, scrissero, farsi vedere cosi tanto in pubblico durante un periodo di lutto. Ma le critiche ebbero molto meno peso del rispetto che Adelaide si stava guadagnando. Ogni volta che faceva fermare la carrozza per comprare delle rose da una vecchia fioraia e la ringraziava con un sorriso, ogni volta che camminava lungo una corsia d'ospedale e stringeva la mano ai pazienti, ogni volta che comprava dei regali per i bambini di un orfanotrofio conquistava altri cuori. Molto più del re, in effetti. Adelaide irradiava una naturale dolcezza, semplice e spontanea, mentre in pubblico Rudolf era rigido e impacciato. Becky lo guardava con comprensione, ma più lui si sforzava, più appariva goffo e insicuro.
E dovunque andava Adelaide, Becky la seguiva. Sedeva dietro di lei a tavola, sedeva di fronte a lei in carrozza, restava in piedi dietro la sua sedia quando riceveva visite... E ogni parola che Adelaide sentiva o pronunciava, tranne quelle scambiate in privato con suo marito, passavano attraverso Becky. Molto spesso quando Adelaide perdeva la pazienza o il suo tatto veniva meno, Becky riusciva a dire ciò che avrebbe dovuto dire la regina e subito dopo infilava nella traduzione delle parole dei visitatori un paio di frasi, pronunciate col più diplomatico dei bisbigli, del genere 'Smettila di fare il broncio, per l'amor del cielo', oppure 'Non dimenticare le buone maniere, scema che non sei altro' o 'Di' loro che stanno facendo un ottimo lavoro, se non ti viene in mente altro'. Non sapeva se la contessa Thalgau ci avesse fatto caso, perché la nobildonna era sempre lì con loro, abbastanza vicina da sentire, e parlava inglese abbastanza bene... Ma l'anziana donna restava impassibile. Una mattina però scoprì la verità. Era seduta come al solito accanto ad Adelaide in soggiorno mentre la contessa Thalgau spiegava loro la parentela tra i reali razkaviani e la nobiltà europea. A quel punto avevano sviluppato una loro routine di lavoro: la contessa era gelida e pedante, Adelaide gelida e precisa e le domande e le risposte venivano trasmesse dall'una all'altra attraverso Becky, che si sentiva come uno di quei tubi della posta pneumatica dei grandi magazzini nei quali sfrecciavano conti e ricevute, visto il poco contatto umano che c'era tra le due donne. Sentirono bussare alla porta e il servo in livrea annunciò un visitatore: il ciambellano in persona. L'uomo si scusò per l'interruzione con esagerata piaggeria e poi, in inglese e ignorando Becky, disse: «Domani, Vostra Maestà, vorremmo presentarvi il vostro nuovo interprete, il dottor Unger. È un letterato della nostra Università, laureato a Heidelberg e alla Sorbona e apprezzato consulente del Ministero degli Esteri razkaviano. Prenderà il posto di Fräulein Winter, che potrà così tornare alla sua famiglia e ai suoi studi a Londra». Becky spalancò gli occhi per la sorpresa: la contessa Thalgau invece li strinse. Adelaide si infuriò all'istante. «Cosa?» esclamò. «Ora che Vostra Maestà è la regina e non più una principessa sarebbe più appropriato avere al vostro servizio un uomo più qualificato. Ovviamente, date le circostanze, vorrete ricompensare Fräulein Winter per i suoi servigi e senza dubbio sarebbe opportuna una piccola onorificenza. Ma...» «Di chi è stata l'idea?» chiese Adelaide. Aveva le narici dilatate e un
rossore le si era diffuso sulle guance pallide. «L'impressione è che sarebbe più opportuno. Sono certo che Fräulein Winter sia piena di talento, ma...» «L'impressione? L'impressione di chi? Non la mia. Mi state dicendo che è un'idea del re?» «Sua Maestà è ovviamente ansioso di assicurarsi che voi abbiate la migliore assistenza e i migliori consigli. Il dottor Unger è un uomo di grande...» Adelaide si alzò in piedi. Becky e la contessa dovettero fare altrettanto, ma non fu tanto il loro improvviso movimento quanto la furia e il disprezzo che emanarono dalla sottile figura di Adelaide che costrinsero il ciambellano a fare un passo indietro. «Auguro al dottor Unger ogni successo per la sua carriera» disse gelida Adelaide. «Ma è Fräulein Winter la mia interprete. Lei e nessun altro. E inoltre deciderò io chi voglio che mi consigli. Mi avete capito?» «Io... ovviamente, io...» «Buona giornata a voi». «Forse il dottor Unger potrebbe lavorare al fianco di Fräulein Winter, come consigliere...» Adelaide prese fiato per parlare, ma prima che potesse dire qualcosa la contessa si intromise. Con assoluto sbalordimento di Becky la donna sbottò in un concitato tedesco: «Barone Gödel! Non dovrei essere io a ricordarvi che state parlando con la regina! Avete udito la sua risposta. Come osate continuare con questa insolenza? Fräulein Winter assolve ai propri doveri con la massima bravura, tatto e prontezza, e fa anche più di quanto dovrebbe. Non riesco a immaginare che un uomo possa fare meglio di lei. Ora state sprecando il tempo di Sua Maestà: vi prego di andarvene». Becky era esterrefatta. Il ciambellano si inchinò con melliflua grazia e uscì, e pochi minuti dopo la lezione ricominciò come se nulla fosse accaduto. I modi della contessa erano esattamente gli stessi di prima, freddi, formali e bruschi, ma Becky ora la guardava con un nuovo e cauto rispetto. Jim continuava a vedere Karl von Gaisberg e il resto dei Richterbund tutte le volte che riusciva ad allontanarsi da Palazzo. Di solito si riunivano al Café Florestan, un piccolo locale vicino al ponte Matthias il cui proprietario era tanto discreto quanto generoso nel concedere loro credito. Un paio di giorni prima dell'incoronazione Jim portò Becky con sé. La ragazza
era di rado libera dalle incombenze di Corte e le piaceva camminare lungo le strade affollate senza essere notata, come una normale cittadina. Ma una volta seduta a un tavolino del caffè, con una tazza di cioccolata e una fetta di torta davanti, Becky si ritrovò al centro dell'attenzione. Gli studenti del Richterbund fecero a gara a farle i complimenti e poi a cercare di non arrossire, un modo di fare in principio affascinante, poi sconcertante e infine imbarazzante per Becky; e poi arrivò Karl von Gaisberg. Jim glielo presentò e fu il turno di Becky di arrossire. Lui infatti fece un inchino e le baciò la mano e lei in principio pensò che la stesse prendendo in giro, ma poi si rese conto che era assolutamente serio: la sua era vera galanteria e per dimostrargliela aveva dovuto dominare la propria innata timidezza. E lei che per poco non gli aveva riso in faccia! Fu allora che arrossì. «Avete avuto fortuna, ragazzi?» chiese Jim. «Ho fatto il giro di tutti gli alberghi» disse uno degli studenti. «Ci sono un sacco di giornalisti in città. Sono riuscito a trovare cinque donne che viaggiano sole, ma tre di loro sono oltre i settanta e le altre due sono due sorelle invalide che alloggiavano ad Andersbad per una cura. Sono venute qui per vedere l'incoronazione e poi torneranno dritte alle terme». «Continuate a cercare. E tu che mi dici, Gustav?» «Ho passato in rassegna tutti gli archivi dei giornali. Non c'è molto sul matrimonio del principe Leopold, ma in ogni caso il Censore avrebbe impedito loro di pubblicare la notizia. Ho trovato però un articolo sulla sua morte. Sembra che sia stato ucciso da un cinghiale vicino al casino di caccia di Ritterwald. L'unico testimone è il cacciatore che era con lui, un vecchio dipendente della famiglia reale di nome Busch. Immagino che potrei andargli a parlare, se è ancora vivo». «Vale la pena tentare. Hans?» «Io e Friedrich abbiamo mandato a monte i progetti di Glatz! Avevamo sentito che aveva intenzione di rovinare la visita della regina alla Scuola delle Miniere domani e gli abbiamo detto che avevano cambiato i piani e che la regina avrebbe visitato il Conservatorio. Così si apposterà lì con la sua banda di scontenti e non troveranno nessuno da fischiare». «Eccellente! E ora, che mi dite dei piani per il giorno dell'incoronazione? Karl?» Karl si schiarì la voce e lanciò una veloce e timida occhiata a Becky prima di descrivere il modo in cui avevano intenzione di sorvegliare il percorso. Dopo un minuto o due il giovane dimenticò la propria timidezza e continuò a parlare con voce chiara e forte, tanto che Becky vide un altro
leader in lui, un altro Jim: più posato, meno brillante forse e senza dubbio con minore esperienza, ma ugualmente forte. «Il nostro problema è il numero» concluse. «Disponiamo di sessanta persone, sessantatré in caso di emergenza, ma non di più. E ovviamente le nostre uniche armi sono le spade. Ci è consentito portarle dalle regole della confraternita, ma non abbiamo neppure una pistola in tutto il gruppo». «Come vorrei potermi unire a voi!» esclamò Becky. «Sa sparare?» chiese qualcuno. «Scommetto che se provassi ci riuscirei». «Le insegnerò io» si offrì un altro. «Fanno delle pistole piccole ed eleganti che si possono portare in borsetta. Io le ho viste». Becky lo guardò con curiosità. «E cosa le fa pensare che io desideri l'eleganza in una questione del genere?» chiese. «Preferirei piuttosto essere un pirata e sparare con un cannone. In ogni caso devo stare al fianco della regina: lei ha bisogno di me. Ma starò all'erta sperando di vedere qualcuno di voi». «Spero proprio che non ci vedrà» disse Karl. «Se mai dovessimo uscire allo scoperto, significherà che le cose sono andate terribilmente storte». «Basta ora» intervenne Jim. «Avete fatto tutto ciò che potevate fare. Facciamoci una birra. Ma tenete d'occhio gli alberghi e in particolare la stazione ferroviaria...» Più tardi, mentre Jim e Becky riattraversavano a piedi il ponte, Becky disse: «Ti aspetti davvero guai per l'incoronazione?» «Sì. Vorrei tanto che non fosse così. Ma sembra quasi che tu invece non ne veda l'ora». «In che senso?» «Tutte quelle chiacchiere sui cannoni e così via. Ti fanno sembrare un tipo alquanto sanguinario, non credi?» «Non so se lo sono davvero» disse con sincerità Becky. «Non ho mai avuto la possibilità di scoprirlo. Sono piuttosto sicura però che combatterei se fosse necessario. Non mi arrenderei, né mi tirerei indietro e certamente non piangerei o sverrei. La gente non crede che le ragazze possano essere coraggiose, ma io vorrei tanto avere la possibilità di mettermi alla prova... Solo una volta magari... solo una volta, così saprei cosa vuol dire rischiare la propria vita e combattere fino alla morte. Non è che voglia uccidere qualcuno... il fatto è che voglio scoprire come mi comporterei io. Non conoscerò mai del tutto me stessa se non potrò mettermi alla prova». «Io personalmente non credo che le ragazze siano meno coraggiose degli
uomini, ma è perché conosco Sally. La signora Goldberg. E credo che mi fiderei di te in un combattimento». «Perché?» «Questione di intuito. Hai fatto una certa impressione su Karl von Gaisberg, sai?» «Oh, davvero? Oh. Mmm... Loro... sembrano molto competenti. I Richterbund, intendo...» «Non avrei potuto trovare gente migliore. Karl in particolare... Mi viene da chiedermi cosa mi sono perso a non essere mai stato uno studente. È bella la vita all'università, piena di risse, bevute, canti e così via... Quando tutto questo sarà finito potrei iscrivermi a filosofia... sempre ammesso che riesca a reggere il ritmo». Più tardi, una volta riaccompagnata Becky alla sua stanza, Jim andò a fare due passi intorno al Palazzo. Era una bella notte tiepida senza luna e il giardino all'italiana si estendeva silenzioso e profumato sotto un letto di stelle. Jim camminava lungo il sentiero di ghiaia tra le basse siepi scure, in parte assonnato, in parte inebriato dalla bellezza della notte e completamente cotto di Adelaide, le cui finestre si intravedevano sopra il terrazzo di pietra con i suoi vasi di marmo. Rimase fermo a guardare lassù per un po', poi si avviò verso la parte più incolta del parco, dove una grande distesa d'erba punteggiata di alberi si perdeva verso la lontana foresta. Vagò senza meta sull'erba per una ventina di minuti, descrivendo un'ampia curva che lo portò lontano dal Palazzo. Il silenzio era totale. Era come se fosse l'unico essere umano al mondo... All'improvviso un suono lo raggelò. Era la voce di un uomo che gridava. Lacerò l'oscurità senza preavviso e poi svanì. Jim non aveva mai avuto tanta paura. Gli sembrava di non avere più forza nei muscoli... Il terrore lo stringeva come in una morsa. Era stato più di un semplice grido... Quello era un ululato di orribile angoscia, un lamento acuto che rivelava un infinito dolore. Jim chiuse la mano sul bastone che portava con sé e si costrinse a restare immobile e a ricordare da quale parte era venuto quel suono... Da laggiù? Dalla parte della foresta? Poteva essere stato un animale notturno, come un gufo ad esempio, qualcosa di innocuo di cui non c'era da preoccuparsi? No, era impossibile. Deglutendo con forza, Jim si incamminò silenziosamente nella direzione del grido, verso un gruppo di querce al limitare di un leggero pendio. Tenendosi basso e sentendosi meglio per il solo fatto di essersi rimesso in movimento, si avvicinò di più, restando in ascolto con i
nervi tesi, pronto a vedersi saltare addosso qualcosa di orribile... ma non accadde niente. Raggiunse il primo albero, appoggiò la mano sul tronco, si mise nuovamente in ascolto e non udì nulla. Batté il tronco con il bastone. Nessuna risposta. Si mosse tra gli alberi, gli occhi spalancati che scrutavano ogni ombra. Nessun movimento: le ombre erano solo ombre... Non c'era niente lì che potesse fargli del male, niente che potesse aver urlato. Con circospezione uscì dal cerchio delle querce e si guardò ancora intorno. Niente: stelle, silenzio, ombre. Jim fece un sospiro lungo, sommesso e tremante e andò a letto. La notte prima dell'incoronazione il Palazzo e la città erano tutti un brulicare di gente e di attività. Nelle cucine del Palazzo i pasticcieri stavano completando le torri di glassa e pasticcini che avrebbero decorato il tavolo del Banchetto di Stato e nella ghiacciaia un artista del ghiaccio era impegnato a levigare e scavare un enorme blocco portato direttamente da San Pietroburgo e mantenuto intatto dall'inverno precedente. Avrebbe dovuto rappresentare la Cattedrale, ma se la giornata fosse stata troppo calda e il blocco avesse cominciato a sciogliersi troppo in fretta, lo scultore l'avrebbe trasformato in tutta fretta in una copia approssimativa della Rupe di Eschtenburg, completa di funicolare e minuscola bandiera. Nelle stalle i cavalli venivano nutriti e abbeverati, le code intrecciate a festa e le criniere pettinate. La carrozza reale era stata pulita, lucidata, oliata e nuovamente dorata, le ruote dotate di nuovi cerchioni, i sedili imbottiti con nuovi ciuffi di crine di cavallo. Fuori, in città, le strade venivano spazzate e lavate, i fiori nelle cassette sui davanzali innaffiati e potati, ogni vetro di ogni finestra lungo la strada del corteo reale lucidato fino a brillare. Accanto al lago Nenuphar nel parco Stralitzky una squadra di specialisti napoletani stava preparando le micce e le ruote per lo spettacolo di giochi pirotecnici. Nella Cattedrale il coro faceva le prove. L'orchestra del Teatro dell'Opera stava ripassando il programma per il Ballo dell'Incoronazione, incluso il Valzer di Andersbad di Johann Strauss figlio. Le sentinelle di servizio fuori dal Palazzo stavano pestando i piedi, facendo il dietrofront, il saluto e il presentat'arm con più gagliardia del solito, mentre la polizia razkaviana pattugliava le strade, arricciandosi pomposamente i baffi e sfoggiando cipigli minacciosi. In ogni albergo e locanda e birreria, ristoratori e cuochi e albergatori stavano controllando i barili di birra, le cantine di vini, le mezzene di cervo. Nei bar e nei caffè i giornalisti e i corrispon-
denti di tutta Europa, e un paio persino dall'America, stavano raccogliendo materiale per articoli di colore locale nel solito modo, ossia conversando l'uno con l'altro davanti a un bicchiere di roba forte. Nella sacrestia della Cattedrale, dove la bandiera riposava dal giorno della morte del vecchio re (il periodo tra la morte di un re e l'incoronazione era l'unico momento in cui non sventolava), le suore di Sant'Agata, le cucitrici che ne avevano cura, erano chine su di essa con aghi sottili e ancor più sottili fili, per ripararne ogni strappo e ogni minuscolo buco e rafforzarne ogni cucitura, delineando nuovamente l'antica aquila con un filo di seta scarlatta e cucendo nuove nappe intorno ai bordi. E il fulcro di tutta questa attività, il nuovo re e la nuova regina, sedevano a un tavolino a giocare a un gioco per bambini e a battere le mani, a ridere e a brontolare, e Becky era seduta con loro, come una bambinaia con i piccoli affidati alle sue cure. Era un gioco che si chiamava Vortice, al quale Becky e Adelaide stavano giocando prima che entrasse il re. Adelaide avrebbe voluto giocare a scacchi, ma Becky perdeva sempre, e la regina, che aveva trovato un libro di aperture (era ormai in grado di leggere la scaccografia, ma poco altro) non aveva la pazienza di sopportare una schiappa come Becky, perciò avevano deciso di giocare a Vortice. Lo scopo del gioco era di rimanere gli ultimi a essere risucchiati da un vortice, perciò serviva un punteggio basso ai dadi invece di uno alto e Adelaide stava barando clamorosamente. Ma nonostante avesse incidentalmente fatto cadere i dadi a terra più di una volta per poi fingere che fosse uscito un due, nonostante avesse contato in modo errato il numero delle caselle in cui doveva muoversi e nonostante avesse tentato più volte di distrarre Becky con le sue chiacchiere subito dopo che la ragazza aveva fatto la sua mossa e poi avesse insistito che era stata lei a muovere e quindi era di nuovo il turno di Becky, alla fine aveva dovuto accettare che la sua piccola barchetta di latta sarebbe finita nel gorgo molto prima di quella della sua avversaria... E a quel punto aveva avuto persino il coraggio di dire che senza dubbio Becky stava barando. La ragazza le rise in faccia. Adelaide stava per infuriarsi (ormai la sua amica sapeva riconoscere i segni) quando sentirono bussare piano alla porta ed entrò il re. Becky fece la riverenza. Adelaide balzò in piedi e lo accolse con un bacio. Gli voleva davvero bene, pensò Becky: era una ragazza con una grande capacità di amare. L'aveva chiamata 'sorella mia' un paio di volte, sorprendendo se stessa quanto Becky e facendo poi del suo meglio per na-
scondere la piccola rivelazione con uno scoppio di irritabilità. Perciò Becky non si sorprendeva mai a vedere le sue manifestazioni di affetto nei riguardi di Rudolf, anche se aveva la sensazione che fosse il tipo di amore che si dimostra a un fratello e non, forse, a un marito. Becky fece per uscire, ma re Rudolf disse: «No, signorina Winter, per favore, rimanga. Stavate giocando? A quale gioco?» «Questo l'abbiamo quasi finito» disse Adelaide. «Gioca a scacchi con me, Rudi. Becky potrebbe restare a guardare e imparare una nuova apertura». «No, no. Questi giochi mi piacciono di più. Posso unirmi a voi?» Sua Maestà non poté reprimere un sorrisetto di trionfo: ora poteva ricominciare da capo, senza essere risucchiata nel vortice. Si affrettò a togliere le pedine dal tabellone e il re si sedette con loro in quella stanza sfarzosa, ma accogliente, di fronte a un tavolino con la tovaglia cremisi. Fuori si stava facendo buio e le lampade accese gettavano il loro giallo chiarore sul tavolo e sul tabellone dai colori vivaci, sui dadi di avorio, sulle barchette di metallo e sulle loro mani: quella del re illuminata dall'anello di Stato e quella di Adelaide di un delicato rosa pallido mentre scuoteva i dadi nei palmi chiusi l'uno contro l'altro e tirava un doppio uno. «Un due!» esclamò battendo le mani felice. «Questa volta andrà bene, lo sento!» Mosse la sua barchetta di due caselle e il gioco iniziò. In uno degli imponenti edifici antichi affacciato sui gradini della Cattedrale nella piazza di Santo Stefano, una donna stava suonando il campanello di un appartamento al quarto piano. L'uomo dietro di lei portava una lunga scatola rivestita in pelle e quello che sembrava un treppiede in un sacco di feltro. Fu un servitore ad aprire la porta. Il padrone di casa, un mercante di sigari scapolo di nome Alois Egger, non conosceva la signora, che si presentò come Señora Menendez, corrispondente di una famosa rivista di moda di Madrid. L'uomo che era con lei era un fotografo. Herr Egger sapeva quanto interesse aveva suscitato in tutta Europa l'ascesa al trono di questa regina giovane e bella? Se la Señora Menendez avesse potuto ottenere in anteprima dei dettagli, e delle fotografie, dell'abito dell'incoronazione... E questo appartamento si affacciava sui gradini della Cattedrale, vero? Certamente. Dal balcone c'era uno dei panorami più belli della città. Herr Egger non era un antiquato provinciale: era un uomo d'affari co-
smopolita, che andava ad Amsterdam diverse volte l'anno e una volta era stato persino all'Avana. Che piacere fare affari con una donna moderna, cordiale e affascinante come la Señora Menendez! Anzi, gli ricordava una certa serata a Cuba... la luna sopra le palme, le morbide note di una chitarra, una rosa rossa, capelli corvini... E il prezzo offerto era piuttosto generoso. Si misero d'accordo: lui avrebbe lasciato libero l'appartamento la mattina presto per consentire alla donna e al fotografo di farne un uso esclusivo durante tutta l'incoronazione. Lui ci avrebbe guadagnato, le signore di Madrid avrebbero avuto il loro articolo corredato di fotografie e forse, la sera dopo (chi poteva dirlo?) una cenetta, una passeggiata nei Giardini Spagnoli, la città in festa... Avrebbe potuto essere come all'Avana. Perciò tutto fu pronto per l'incoronazione. Capitolo otto L'INCORONAZIONE La cameriera svegliò Becky alle sei. La ragazza non riuscì a restare un attimo di più a letto: saltò giù e andò alla finestra, per guardare fuori, verso il parco, i tetti rosso-bruni della città sotto di loro e il verde scuro delle distanti colline, mentre il sole donava a ogni cosa una chiarezza fresca, perlacea, che forse solo il conoscente di Frau Winter, Monsieur Pissarro, avrebbe saputo rappresentare, ma che Becky poteva solo guardare con meraviglia. Poi lavarsi, vestirsi, mangiare, correre di nuovo nella stanza, la cameriera che le sistemava i capelli, lo specchio, le scarpe, il cappello, la spilla, la borsetta a rete... Oh, dov'era? E il borsellino: il denaro... Ci sarebbe stata la colletta? Passavano il piattino in giro durante un'incoronazione? Sicuramente no; ma una monetina o due per ogni evenienza... Che ora è? Non può essere: sbrigati, sbrigati. Si precipitò di sotto, per poco non inciampò nel tappeto del corridoio occidentale e finì dritta contro qualcuno. Era Jim. Sul suo viso c'era un'espressione di rabbia mista a sconcerto, ma non per quello scontro involontario. Trascinò Becky nella piccola anticamera fuori dalla Biblioteca. «Ascolta,» disse «non c'è molto tempo...» «Lo so! Devo essere alla Porta Occidentale fra tre minuti!»
«Zitta e ascoltami. Gödel si è inventato una ridicola accusa contro di me e ha ordinato che venissi confinato a Palazzo, quel maledetto. Sono già sfuggito una volta al Comandante delle Guardie Reali, ma se mi troverà verrò messo sotto chiave. Tra un minuto tenterò di uscire per raggiungere Karl e gli altri. C'è qualcosa che non va, Becky. Per Dio, se potessi...» Jim si bloccò e si mise in ascolto, poi corse a nascondersi dietro una pesante tenda. Becky finse di armeggiare con i guanti quando qualcuno bussò in maniera perentoria e la porta fu spalancata all'improvviso. La ragazza si voltò simulando sorpresa e si ritrovò faccia a faccia con due soldati. «Scusatemi, Fräulein» disse uno dei due, «avete per caso visto l'inglese? Herr Taylor?» «Non questa mattina, no» rispose lei. «Non sarà con Sua Maestà?» «No, è scomparso, Fräulein. Scusate il disturbo». Le fece il saluto e si ritirò. Becky doveva scappare per raggiungere la Porta Occidentale o avrebbe fatto arrivare tutti in ritardo: doveva infatti raggiungere la Cattedrale insieme al conte e alla contessa, perché Adelaide aveva insistito ad averla sempre vicina. «Jim?» sussurrò in tono disperato. «Devo andare!» «Guarda se sono ancora in corridoio» disse lui, uscendo da dietro la tenda. «Fammi un cenno con la testa se ho via libera. E ricorda: verde e giallo è la salvezza». Becky aprì la porta. Il corridoio con il tappeto rosso era vuoto in entrambe le direzioni e la ragazza infilò nuovamente la testa dentro per sussurrare «Via libera» prima di precipitarsi fuori. Corse a perdifiato verso la Porta Occidentale e la raggiunse appena in tempo, superandola con passo traballante sotto gli occhi di uno sbalordito servo in livrea e precipitandosi giù per i gradini come un commediante in una farsa. Dalla carrozza aperta che sostava sul vialetto il conte le lanciò uno sguardo più bruciante di una granata. Becky vide che c'era un quarto passeggero a bordo e gemette tra sé. «Vi chiedo scusa» disse salendo con quanta più grazia poté. «Ho inciampato nel tappeto e sono caduta mentre uscivo». Ci fu un silenzio gelido. Becky si sedette accanto al conte, in senso contrario a quello di marcia. Lo stalliere chiuse lo sportello, il cocchiere scosse le redini e la carrozza si mosse lentamente per seguire quella reale, che stava già superando il cancello. Becky avrebbe tanto voluto voltarsi e guardare verso la folla, ma sarebbe stato poco educato, perché il conte la
stava presentando all'anziano gentiluomo seduto di fronte a lei, un duca di un qualche tipo di cui non afferrò il nome. Non sapendo come fare la riverenza da seduta, ma sentendo di dover fare comunque un gesto di saluto, Becky si contorse in modo poco aggraziato mentre l'uomo sollevava con cortesia il cappello a cilindro. La carrozza rallentò quando raggiunse quella reale e a quel punto altre due carrozze si misero al loro seguito e uno squadrone di Ussari o Ulani o Lancieri comparve dal nulla, scintillanti e tintinnanti e mostruosamente compiaciuti di se stessi mentre scrutavano Adelaide da sotto i copricapi di pelliccia nera. E poi partirono, al suono di una poderosa acclamazione che scosse i tetti delle case e disperse i piccioni, mentre migliaia di bandiere sventolavano dalle finestre, dagli usci delle porte e dai balconi. La strada per la Cattedrale non era lunga, ma per arrivarci impiegarono quasi mezz'ora, perché scesero per viale Cesky, passando sotto l'Arco della Rimembranza, e poi attraversarono il parco Stralitzky, costeggiando il lago Nenuphar e superando il Padiglione che re Michele aveva fatto costruire nel 1765 per la sua sposa-cigno. Lungo tutto il percorso i cittadini sventolarono bandiere, i turisti sollevarono i cappelli e i poliziotti si misero rigidamente sull'attenti. Qua e là Becky scorse dei giovani muoversi tra la folla e le parve di vedere delle spalline verdi e gialle... o almeno sperò che ci fossero. Jim scivolò silenzioso lungo il corridoio occidentale e guardò oltre l'angolo verso il Salone e la Sala Banchetti. Dall'altra parte della sala, a parecchi metri di distanza, c'era una stanza di servizio con una credenza a vapore per mantenere i piatti caldi e, dietro, un passaggio che portava alla cucina... Ma sarebbe riuscito ad arrivare all'altro capo della Sala Banchetti senza essere visto? C'erano domestici che entravano e uscivano in ogni momento per sistemare fiori, posizionare sedie, disporre bicchieri... Delle voci dietro di lui. Non c'era altro da fare: avrebbe dovuto tentare. Si accucciò e saettò attraverso il Salone, entrò nella Sala Banchetti (vuota, grazie a Dio!), ma... un rumore di piatti: qualcuno nella stanza di servizio... giù sotto il tavolo! La tovaglia arrivava quasi fino a terra. Jim avrebbe potuto arrivare all'altro capo della sala senza essere sentito, perché sul pavimento c'era la moquette: ma la distanza era notevole. Il tavolo era lungo quanto un campo di cricket. Jim l'aveva misurato una volta: venti metri da una parte all'altra. Era sorretto da massicce gambe centrali i cui piedi sporgevano come e-
normi radici da scavalcare lungo il passaggio. Si mise in movimento. Gli ci volle molto più tempo di quanto aveva sperato, perché quando giunse a metà del tavolo una squadra di domestici in livrea arrivò per disporre le posate con precisione geometrica. Jim non poté vedere altro che calze bianche e scarpe nere di vernice con le fibbie che si muovevano lentamente da un posto all'altro da entrambi i lati del tavolo. Dalla stanza di servizio arrivava il leggero sibilo del vapore, da sopra di lui i lievi colpetti delle posate disposte sulle tovaglie e il mormorio di una conversazione... che si interruppe quando il maggiordomo (pantaloni neri) entrò per iniziare la sua camminata lungo il tavolo, fermandosi di tanto in tanto per una critica, per poi proseguire. Poi ci fu un altro silenzio e i piedi e le gambe si voltarono verso la porta dalla quale Jim era entrato. Gambe in uniforme alla fine del tavolo: gli stretti pantaloni marrone-rossiccio con le strisce nere delle Guardie di Palazzo. «Ha visto il segretario di Sua Maestà? L'inglese Taylor?» «No, comandante» disse il maggiordomo. «Se dovesse vederlo, dia immediatamente l'allarme. Mi ha capito?» «L'allarme, comandante? Ma...» «È una questione di vitale importanza. Potrebbe esserci un complotto contro il re». «E l'inglese è...» «Esattamente. Tenga gli occhi aperti. Bene, caporale, lei prenda la Sala da Ballo. Io andrò di sopra nella Pinacoteca...» Uscirono. Jim imprecò tra sé. Era peggio di quanto avesse immaginato, perché quando avessero colpito, e ora lui non aveva più dubbi che sarebbe successo, avrebbero dato la colpa a lui. Quindi era ancora più urgente uscire di lì... Quanto tempo ancora ci avrebbero impiegato, questi maledetti lacchè? Quasi mezz'ora, alla fine. E quando l'ultimo cucchiaino fu al suo posto, l'ultima sedia fu disposta esattamente parallela al tavolo, l'ultimo granello di polvere fu rimosso dall'ultimo bicchiere, Jim stava quasi piangendo per la rabbia e la frustrazione. Ma alla fine tutti i domestici lasciarono la Sala Banchetti. Jim contò fino a cento, poi strisciò fuori e corse verso la stanza di servizio. Un domestico con le braccia piene di piatti lo guardò a bocca aperta mentre svoltava l'angolo e correva lungo il passaggio. Poi Jim spalancò con un tonfo la porta della cucina e sfrecciò tra le squadre di sottocuochi e sguatteri impegnati a
tagliare pezzi di carne e pelare verdure, e si ritrovò in un cortile lastricato di pietre, e qui dovette fermarsi per un istante per capire dove si trovava. Qualcuno stava gridando e dietro di lui sentì il rumore di passi affrettati, perciò corse verso il muro di fronte, saltò su un barile convenientemente posizionato e da lì sul muro, che scavalcò agilmente, ritrovandosi nel cortile delle stalle. Era proprio ora di avere un po' di fortuna, pensò, e infatti eccola: una magnifica puledra baia, sellata e pronta per il colonnello dei Dragoni, che stava sgridando uno stalliere in un angolo del cortile. Jim non era molto bravo con i cavalli, ma sapeva come farli muovere e come chiedere loro di fermarsi e tra le due cose se la cavava a restare in sella, perciò montò la puledra, trovò le staffe e afferrò le redini; e prima che il colonnello potesse dire una parola, o solo estrarre la sciabola, Jim era già fuori dal cortile e stava correndo lungo il sentiero di ghiaia verso il cancello principale. Il corteo reale era partito già da diverso tempo e la folla che lo seguiva aveva liberato la zona intorno al Palazzo; ma di lì a poco Jim fu costretto a rallentare, perché più si avvicinava al centro della città, più la gente affollava le strade. Rallentò al trotto e poi al passo, ma alla fine la folla era così fitta che decise che avrebbe fatto meglio a lasciare il cavallo e procedere a piedi. Affidò la puledra alle cure di un uomo dagli enormi baffi con un panciotto di stile ungherese, al quale promise di dare venti corone se si fosse fatto trovare lì quel pomeriggio. Ma tra sé e sé sapeva che l'uomo ne avrebbe potuto avere una cinquantina per il cavallo e che con tutta probabilità sarebbe svanito prima di mezz'ora. E buona fortuna a lui, pensò Jim. A quel punto procedette a piedi, correndo tra la folla, schivando i pedoni più lenti, svoltando a perdifiato angoli di strade e salendo gradini a due a due, impaziente di raggiungere la Cattedrale per impedire... che cosa? Non riusciva a immaginarlo, o meglio, ci riusciva fin troppo bene... il che rendeva ancora più imperativo arrivare lì in tempo. Quando il corteo svoltò nella piazza di Santo Stefano di fronte alla Cattedrale, Becky trattenne il fiato, sbalordita dalla moltitudine che la riempiva e dall'impetuosa acclamazione che si levò da essa, ma più di tutto dalla bellezza del luogo in quella luminosa mattina d'estate. Le antiche ed eleganti case con i loro tetti barocchi e i telai intarsiati delle finestre brillavano d'ocra, di crema e d'oro alla limpida luce del sole. Indistinte figure salutavano dai balconi di ferro, mentre dall'altra parte della piazza l'antica cupezza gotica della Cattedrale si stagliava alta contro il blu. Attraverso uno
spazio tra le case Becky intravide la grigia Rupe di Eschtenburg dall'altra parte del fiume, senza la sua bandiera, in attesa. L'organo suonava quando presero posto all'interno. Ci fu una fanfara di trombe, tanto forte che sembrava in procinto di scuotere la bandiera sul supporto collocato accanto alla grande Porta Occidentale, e tutti si alzarono mentre la fragile figura dell'anziano Arcivescovo procedeva lentamente lungo la navata verso il re e la regina. Il re indossava l'uniforme di Colonnello Supremo delle Guardie di Eschtenburg, il più elegante di tutti i reggimenti: di un bianco immacolato, con una fila di medaglie sul petto e spalline dorate, e una lunga spada ricurva con una nappa scarlatta. Ovviamente era a capo scoperto e quando le passò accanto, Becky notò che il suo viso era tirato e ansioso. Adelaide, accanto a lui, indossava un abito di seta color crema. Teneva la mano sul suo braccio e per Becky era chiaro chi dei due stesse infondendo calma e sicurezza all'altro. Il coro cominciò a cantare e poi ci fu la messa e alla fine, alle undici e un quarto, ebbe luogo l'incoronazione vera e propria. Fu una cerimonia semplice: una preghiera, il giuramento da parte di Rudolf che avrebbe portato sempre fedelmente l'Aquila Rossa e poi l'Arcivescovo lo unse con l'olio sacro. Becky guardò Rudolf e Adelaide inginocchiarsi fianco a fianco su un cuscino, simili a bambini in una recita scolastica, e sentì un nodo alla gola che non era del tutto dovuto al patriottismo. Ci fu un'altra preghiera, per una vita lunga e feconda, e poi l'Arcivescovo si voltò verso il paggetto che gli era accanto e prese la corona dal cuscino che il bambino teneva in mano. Non era un granché come oggetto: un semplice cerchio di ferro nero in cui era incastonato un unico, enorme topazio giallo dalla forma irregolare. Ma era stata forgiata dalla spada con cui Walter von Eschten aveva difeso la Rupe e sconfitto Ottocaro II nella battaglia di Wendelstein, mentre il topazio era la dote di Erszebet Cséhak, la contessa ungherese che aveva sposato il figlio di Walter, Karl. Perciò la corona di Razkavia era più preziosa di un qualsiasi gingillo d'oro. Rudolf si alzò e si voltò verso l'assemblea mentre l'Arcivescovo sollevava in alto la corona e poi la posava con delicatezza sulla testa del re. Per tutta la Cattedrale si udì una sorta di sospiro di sollievo collettivo e a quel punto l'Arcivescovo si inginocchiò per baciare la mano del re. Becky fu sicura di sentire le sue ginocchia scricchiolare. Poi anche Adelaide gli baciò la mano e le trombe proruppero in un forte squillo mentre l'organo tuonava sopra di loro. L'Arcivescovo li guidò lun-
go la navata verso la Porta Occidentale dove era stata posta la Adlerfahne e, mentre passavano, tutti li fissarono apertamente. La Porta Occidentale era stata spalancata. L'Arcivescovo aspettò che l'assemblea si raggruppasse nuovamente intorno a loro, il che significò qualche minuto di cortese pigia pigia. Becky incrociò lo sguardo di Adelaide e la regina sembrò sollevata di vedere la sua interprete, tanto che un veloce sorriso le illuminò gli occhi prima che tornassero nuovamente impassibili. Alla fine fu tutto pronto. Sotto di loro nella piazza quattromila o più paia di occhi (chi poteva dire esattamente quanti?) guardarono verso l'alto. Soldati e poliziotti si prepararono a sgomberare la strada per l'antico ponte. Poi l'Arcivescovo si voltò verso la Adlerfahne. La bandiera era due metri e quaranta per uno e ottanta ed era fatta di seta giallo oro con l'Aquila Rossa ricamata con il filo scarlatto e cremisi. Un'estremità era decorata con nappine d'oro e l'altra era legata a un pennone lungo all'incirca tre metri e mezzo e molto pesante... Ma in fondo era fatto per essere portato da un re. L'Arcivescovo disse una preghiera e asperse la bandiera con l'acqua santa; poi Rudolf prese il pennone, lo staccò dal supporto e percorse i due o trecento metri fino alla scalinata della Cattedrale. Quando apparve, un'enorme acclamazione si levò dalla folla. Tra lo sventolio di cappelli la gente si mosse per farsi da parte mentre i soldati e la polizia cominciavano a sgomberare la strada e i trombettieri, allineati sui gradini, sollevavano i loro strumenti dorati e suonavano la Fanfara dell'Aquila. Adelaide raggiunse il re e si mise leggermente dietro di lui alla sua sinistra e a Becky parve di sentire un'altra acclamazione di benvenuto. Almeno per il momento i razkaviani avevano messo da parte ogni dubbio su re Rudolf. Fosse anche un esteta, un damerino o un povero sciocco era comunque il loro re, l'Adlerträger, il portatore dell'Aquila, e loro lo amavano per questo. Quello era un momento importante per la nazione, un'occasione di rinnovamento. Becky sentì che il cuore le si riempiva d'orgoglio, ma anche di tristezza, per suo padre. Avrebbe dovuto essere lì per vedere tutto questo. Ma c'era anche gioia in lei ed era certa che tanti e tanti cittadini di Razkavia si sentivano come lei: quello era il loro re, la loro bandiera, la loro libertà, la loro nazione. Avrebbero dato la vita per lui. Ma fu lui a dare la vita per loro. Mentre faceva il primo passo verso la piazza uno sparo risuonò tra gli antichi palazzi, uno sparo tanto forte e orribile da superare persino il rumore della folla e della fanfara... e Rudolf
vacillò. Il tumulto e la musica si bloccarono all'istante, spegnendosi nel tremendo silenzio mentre la grande bandiera di seta si inclinava sempre di più, come se fosse stata l'Aquila stessa a essere colpita, e Becky sentì l'intera piazza, tutte e quattromila le persone, trattenere il fiato. La prima a muoversi fu Adelaide e il suo primo passo fu verso il marito. Una grande rosa rossa sembrava essergli fiorita sul petto bianco come la neve e lei tese le mani verso di lui, ma con le ultime forze che gli rimanevano Rudolf sollevò la bandiera e sussurrò: «Ber Adler...» Una dozzina di mani si tesero tutto intorno a lui, bloccandosi all'istante; ogni uomo, donna e bambino sulla piazza tese involontariamente la mano... Ma tutti si trattennero, perché la bandiera era ora saldamente nelle mani della regina, Adelaide, che le aveva impedito di cadere. L'Arcivescovo era in ginocchio accanto al re morente. La folla era avanzata, ma ora si stava dividendo, invitando la regina a scendere, ad andare avanti. Adelaide dovette faticare per raddrizzare il pennone e alla fine se lo appoggiò poco elegantemente sull'anca mentre spostava la mano per afferrarlo meglio; e poi, con un ultimo sguardo appassionato, devastato, verso Rudolf (che la folla notò e serbò nel ricordo), cominciò a scendere i gradini verso la piazza. Il conte era al suo fianco sulla sinistra e Becky sulla destra. Con la coda dell'occhio la ragazza vide Karl von Gaisberg e una mezza dozzina di verdi e gialli farsi strada fra la calca e creare una sorta di guardia d'onore affinché Adelaide potesse camminare in mezzo a loro. Serrarono i ranghi per tenere indietro la folla e darle spazio per muoversi e lei fece i primi passi sul selciato verso le antiche case all'angolo della piazza e il ponte sullo sfondo. La situazione era chiara: se Adelaide fosse riuscita a portare la Adlerfahne alla Rupe, la Razkavia sarebbe rimasta libera. Ma contro di lei giocava la possibilità che da un momento all'altro un altro assassino, o lo stesso di prima ancora in libertà, potesse nuovamente colpire... E poi c'era il peso dell'antica bandiera, la difficoltà di maneggiare un palo di tre metri e mezzo con oltre quattro metri di pesante seta appesa all'estremità, e Rudolf aveva fatto pratica in tutti quei giorni e lei no, e poi c'era il dolore di aver visto suo marito cadere accanto a lei... Il conte aveva tirato fuori il suo revolver. Karl von Gaisberg si avvicinò a Becky e le sussurrò: «Dov'è Jim?»
«Hanno tentato di arrestarlo a Palazzo. Non so se sia riuscito a venirne fuori». Karl emise un leggero fischio. «Lei ce la farà?» «Chi può dirlo? Ma piuttosto che arrendersi morirà». «Speriamo di no...» Lo studente riprese il suo posto a capo della falange e Becky si avvicinò ad Adelaide, che la vide e le lanciò uno sguardo angosciato. «Rudi?» chiese con voce tesa. Becky non poté far altro che scuotere la testa. «Non ce la faccio, Becky» mormorò Adelaide. «Non posso farcela...» «Sì che puoi» replicò la ragazza. «Riposati se ne hai la necessità. Prenditi tutto il tempo che vuoi. Ma tu puoi farcela, davvero». Adelaide si fermò, ma solo per spostare il peso da una parte all'altra del corpo, appoggiando la base del pennone contro l'anca. Centinaia di visi ansiosi si fecero più vicini, con gli occhi sgranati, le bocche spalancate... e poi una voce gridò: «Ein hoch dem Königin!» «Hoch! Hoch für Adelaide!» Altre voci si unirono al coro e l'acclamazione le diede forza. Adelaide sollevò nuovamente la bandiera e il corteo si mosse. Jim raggiunse la piazza nell'istante in cui il corteo reale usciva dalla porta della Cattedrale... in tempo per sentire la fanfara, per udire lo sparo fatale, per vedere Rudolf cadere. Un groppo amaro di pietà gli salì in gola: Rudolf non aveva mai chiesto niente, non aveva mai voluto la corona, ma aveva fatto del suo meglio, si era addossato il peso, e dentro di sé Jim era sicuro che anche se avesse saputo cosa lo aspettava, sarebbe andato avanti e avrebbe fatto ugualmente il suo dovere. Adelaide aveva visto qualcosa in lui, poveretto, e Jim aveva sempre provato la più profonda ammirazione per il modo in cui persone che non sono coraggiose di natura sanno affrontare il pericolo a testa alta. Vide Adelaide afferrare la bandiera: un giocatore di cricket professionista non avrebbe saputo fare meglio con la sua mazza, pensò. Poi ricordò un'altra cosa e prevedendo le discussioni che ci sarebbero state in futuro se le cose non fossero state fatte nel modo giusto, si fece strada a fatica su per la scalinata della Cattedrale, scambiò due parole con l'Arcivescovo e raccolse la corona. Nessuno l'aveva notato, ma il cerchio di ferro era rotolato via dalla testa di Rudolf ed era finito in un canale di scolo. Era inutile tentare di farsi strada sopra il ponte, perciò Jim prese l'Arci-
vescovo per un braccio e chiamò a sé un capitano degli Ussari, mostrandogli la corona. L'uomo strinse gli occhi e fece per prendere la sua spada... ma poi capì e li raggiunse. Insieme sospinsero l'Arcivescovo giù dalla scalinata e quasi lo trascinarono a un lato della Cattedrale e poi giù verso il traghetto sulla riva del fiume. Il traghetto era una chiatta vecchia e malconcia dal fondo piatto che veniva trascinata da una sponda all'altra grazie a una corda sospesa sull'acqua. Jim aveva guardato il vecchio traghettatore al lavoro almeno una dozzina di volte e sembrava facile, ma malgrado tirasse con tutte le sue forze e il capitano facesse altrettanto e l'Arcivescovo li aiutasse con le sue preghiere, la barca continuava a ondeggiare paurosamente. Jim guardò verso il ponte, notò il trambusto lungo il parapetto e si domandò cupamente se dopo tutto Adelaide non sarebbe arrivata per prima. «Tirate!» gridò. «Tirate più forte!» Sopra le teste Becky intravide le statue allineate lungo il parapetto del ponte. Su ciascuna era abbarbicato un folto gruppo di bambini che agitavano i cappelli e gridavano a squarciagola. Come la piazza, il ponte era lastricato di ciottoli e Becky osservò piena di tensione le delicate scarpine di satin di Adelaide che cercavano un precario equilibrio. Passo dopo passo il gruppo continuò lentamente a muoversi, da un'estremità del ponte fino al centro, e la folla era così fitta, uomini, donne e bambini ammassati l'uno sull'altro e persino aggrappati alla balaustra, che se qualcuno avesse perso l'equilibrio, avrebbe portato una dozzina di persone con sé in acqua. Adelaide piangeva in silenzio. Aveva i denti serrati, il volto terreo, le braccia tremanti. «Siamo a metà strada» le disse Becky. «Continua a camminare!» «Per la miseria, da adesso in poi è tutta salita, vero?» mormorò Adelaide tra le lacrime, ma non si fermò. Dall'altra parte del ponte la strada passava sotto un grande arco gotico e le finestre dell'edificio che sovrastava l'arco erano gremite. La strada poi si restringeva, tanto che divenne sempre più difficile farsi largo tra la folla. Karl non faceva che gridare: «Fate strada! Fate largo alla regina! Fate strada laggiù!» Il conte aveva riposto il revolver e osservava Adelaide da meno di mezzo metro di distanza, pronto a sorreggerla se avesse vacillato. Il suo volto rugoso e fiero era pieno di orgoglio e di ansia. Quando raggiunsero l'arco, Adelaide stava tremando così tanto che per
un istante Becky pensò che avrebbe lasciato cadere la bandiera. E a quel punto? A quel punto cosa faremo? le martellava in testa. Ma Adelaide non la lasciò cadere: si fermò di nuovo per sistemarsela sull'anca e sollevò lo sguardo verso il conte prima di appoggiarsi per qualche istante al suo braccio. Poi riprese ad avanzare, passò sotto l'arco e la folla alla sua sinistra si divise per farle strada, spingendo e strattonando e arrampicandosi sui davanzali delle finestre e su ogni minima sporgenza, lasciando libera la via per la rampa di scale che portava sulla sommità della Rupe. «Tirate, capitano, tirate!» Ma come ci riusciva il vecchio traghettatore? A Jim era già capitato di restare sbalordito di fronte al modo in cui un vecchio tremolante, che a malapena sembrava in grado di sollevare un cucchiaio di farinata d'avena, riusciva invece a scavare un fosso o ad abbattere un albero in un quarto del tempo che ci avrebbe impiegato un giovane pieno di muscoli nel fiore degli anni... Ed ecco la riprova. Lui e il capitano sudavano e tremavano per la fatica, la barca procedeva quasi a scatti e i tre uomini non avevano ancora raggiunto l'altra riva. «Ja - hau ruck! Hau ruck!» 'Dannazione' pensò Jim, 'per cosa lo sto facendo?' Be', non era solo per Adelaide. Era anche per Rudolf e per il conte; e per Becky e per Karl von Gaisberg e per tutto quel traballante staterello, con il suo orgoglio, la sua storia e il suo onore. In quel momento si sentiva razkaviano quanto il buon capitano lì presente, perciò continuò a tirare la corda di buona lena e di lì a poco riuscirono a sfuggire alla corrente e a muoversi con più facilità verso il molo di legno sull'altra sponda. E alla fine sbarcarono, esausti. «E ora? La funicolare?» chiese il capitano. «È l'unico modo. Venite!» Trascinarono l'uomo di Dio lungo il sentiero che girava intorno alla Rupe verso la piccola stazione, dove bussarono disperatamente alla porta della casetta del capostazione finché qualcuno non li sentì e venne ad aprire. «No... è proibito... la funicolare non è in funzione...» Poi l'uomo vide l'Arcivescovo, che sollevò la corona, sgranò gli occhi e capì. Cominciò subito ad azionare leve e aprire rubinetti, perché la funicolare funzionava a pesi. Un serbatoio d'acqua sulla sommità della Rupe (alimentato da quella stessa sorgente che aveva mantenuto in vita Walter von Eschten e i suoi cavalieri secoli prima e che ora stava giocando nuovamen-
te un ruolo vitale nella storia della Razkavia) riempiva un serbatoio nella carrozza vuota più in alto, la quale, essendo così diventata più pesante di quella in basso, scendeva lentamente giù, tirando su l'altra. Era una faccenda piuttosto semplice, precisa e silenziosa, ma tremendamente lenta. Perciò mentre l'Arcivescovo si accomodava nella carrozza e aspettava, il capitano e Jim cominciarono a correre lungo l'accidentato sentiero accanto ai binari. Adelaide guardò su verso la scalinata, chiuse gli occhi, poi si morse il labbro prima di fissare di nuovo lo sguardo a terra per essere certa di non scivolare. La rampa di scale era stretta, tanto da non permettere a più di due persone di camminare affiancate, e aveva una ringhiera sulla sinistra, mentre sulla destra una fila di case con le pareti di pietra lasciava dopo pochi metri il posto alla nuda roccia. A ogni finestra faceva capolino una rosa di volti curiosi. Karl e altri due studenti cominciarono a salire, seguiti da Adelaide e dal conte. Becky era quasi bloccata, ma Adelaide la chiamò con la disperazione nella voce, «Becky! Resta con me!» e la ragazza si fece strada a gomitate per raggiungerla. «Sono qui» disse. «Sono con te». Altri studenti si unirono al gruppo e la folla cominciò a salire anch'essa, inciampando, arrampicandosi mani e piedi, facendo spazio. I piedi di Adelaide nelle loro morbide scarpette, che ora erano strappate, lacere e polverose perché non erano state pensate per tali circostanze, annaspavano incerti gradino dopo gradino. Un gemito basso e costante le usciva di gola. Becky notò che aveva i denti serrati e gli occhi inondati di lacrime. A un certo punto si bloccò e Becky non riuscì a capire qual era il problema, finché il conte non disse con voce roca: «Il suo vestito... inciamperà» e si fece da parte per lasciare che la ragazza le corresse accanto e sollevasse leggermente la pesante seta ricamata in modo che i piedi della regina potessero trovare il gradino successivo senza inciampare. Becky sentì Adelaide tremare e lasciò che si appoggiasse a lei per qualche istante. Poi la udì sussurrare: «Togliti... ora vado avanti», e si fece da parte per lasciarle salire qualche altro gradino. Avanti, verso l'alto, un gradino alla volta, sempre più lentamente... E la folla in basso e quella che l'aspettava in cima, nonché tutte le persone abbarbicate su ogni più piccola sporgenza o aggrappate ai cespugli che crescevano sulle pendici della Rupe, tutti ora tacevano. Le acclamazioni si e-
rano spente: chi le era più vicino poteva vedere chiaramente la sofferenza sul volto bianco come un lenzuolo della regina e si sentiva partecipe della sua angoscia mentre Adelaide si mordeva il labbro così forte da farlo sanguinare. «Ci siamo quasi» disse Becky. «È proprio dietro la curva. Non arrenderti. Appoggiati a me. Fermati, se vuoi, e riposati. Prenditi tutto il tempo che ti serve. Non manca molto...» Adelaide aveva esaurito le forze. Non poteva neppure rispondere; a malapena riusciva ancora a vedere. Un lamento costante le scuoteva il petto e Becky notò persino, con suo grande spavento, che un rivolo di sangue le colava dalla punta di ciascuna unghia. Il sudore le imperlava il viso e i capelli acconciati con cura le si erano incollati alla fronte e le cadevano sugli occhi. Becky allungò una mano per scostare quelle ciocche e sentì che il tremito si era diffuso fino alla testa. In cima alla scalinata, proprio dietro l'ultima curva, c'era la piccola piazza d'armi con il pennone al centro e la piattaforma della funicolare in fondo. Ci siamo quasi, ci siamo quasi... Ma quando svoltarono l'ultima curva e i poveri piedi doloranti di Adelaide salirono a fatica gli ultimi sei gradini, un'ombra cadde su di loro. Becky sollevò lo sguardo sulla gigantesca sagoma e sugli occhi scuri e corrucciati di Otto von Schwartzberg. E Adelaide vacillò. Si bloccò. «Non ce la faccio» sussurrò. «Sono distrutta, Becky, voglio morire, non ce la faccio...» L'espressione di Otto von Schwartzberg era imperscrutabile: avrebbe potuto avere in mente di ucciderla o di portarla in braccio fino alla cima e guardandolo nessuno avrebbe potuto capire quale delle due cose... E la sua colossale presenza suscitò una tale impressione che per un secondo o due nessuno, neppure il conte, seppe cosa fare. E la bandiera si inclinava, sempre di più... Poi, in tutta quella immobilità, una figura balzò giù dalla cima della Rupe e atterrò proprio di fronte a Otto von Schwartzberg. Biondo, scarmigliato, sanguinante, con la giacca strappata, fissò con sguardo teso il gigante. Aveva qualcosa nella mano sinistra. «Scostatevi» disse. «Siete d'intralcio alla regina. Scostatevi immediatamente». Nessuno aveva mai parlato in quel modo a Otto von Schwartzberg prima, in nessuna lingua. L'uomo si fece da parte e Adelaide salì gli ultimi gradini che portavano alla piattaforma e l'intera città vide apparire la ban-
diera... e l'intera città la acclamò a gran voce. La Guardia dell'Aquila, le sentinelle che pattugliavano la Rupe notte e giorno, scattarono non appena il conte sbraitò un ordine, e presero la Adlerfahne dalle mani della regina proprio nell'istante in cui Adelaide crollava tra le braccia di Becky, svenuta. Tutto intorno ci furono scene di straordinario giubilo. Mentre centinaia di cappelli venivano lanciati in aria, la bandiera cominciò a salire orgogliosamente lungo il pennone, e i tetti delle case e la Rupe echeggiarono delle grida di acclamazione della folla, delle piccole esplosioni dei petardi e della fanfara suonata dalle trombe della Guardia dell'Aquila. Dove fosse finito Otto von Schwartzberg nessuno lo sapeva. Il conte era preoccupato per Adelaide, ma nella borsetta a rete di Becky c'era una bottiglia di sali. La ragazza la tirò fuori, la aprì e la passò sotto il naso di Adelaide: per lo shock la regina tirò indietro la testa e si riscosse. Poi sbatté le palpebre, aprì lentamente gli occhi, sollevò lo sguardo... e vide l'Aquila Rossa che sventolava contro il cielo blu. «Ce l'ho fatta» sussurrò. In quel momento ci fu un sibilo e un rumore di ferraglia e l'elegante carrozza di legno della funicolare raggiunse la cima. Ne uscì l'Arcivescovo, fragile e ansioso e sporco del sangue del re, e Jim gli porse ciò che teneva in mano: la corona di ferro di Razkavia. Becky aiutò Adelaide ad alzarsi e sotto la bandiera che aveva portato fino alla Rupe, la nuova regina, pallida e tremante, fu incoronata e tutti sulla cima si inginocchiarono per renderle omaggio. Capitolo nove DISPOSIZIONI Per un'ora o due dopo l'incoronazione di Adelaide, in città regnò il caos più assoluto, in cui al dolore si mescolava l'entusiasmo. Migliaia di persone avevano visto ciò che era accaduto, ma era ugualmente incredibile; fu solo quando Adelaide si fu ripresa a sufficienza da lasciare la Rupe con la funicolare che la sensazione di irrealtà cominciò a svanire. Il calesse che avrebbe dovuto riportare Rudolf a Palazzo da re di Razkavia ora dovette riportare lei da regina, da sola, e Adelaide vi si sedette, pallida e tremante ora che lo shock si stava finalmente manifestando, con la corona di ferro sui capelli scuri e un'espressione indomita sul volto. Era distrutta: non era
mai stata capace di nascondere le proprie emozioni e questo, Jim ne era ormai certo, era il suo maggior punto di forza nei riguardi degli altri... e ora dei suoi sudditi. Non riusciva a nascondere nulla, perciò le credevano. Ma la situazione era molto pericolosa. Jim requisì un altro cavallo e, aspettandosi un'altra pallottola, cavalcò accanto alla carrozza per tutta la strada fino al Palazzo, mentre il conte cavalcava dall'altro lato. Ghirlande di fiori, ovazioni, grida di incoraggiamento si levarono tutto intorno a loro, e per tutto il tempo Adelaide restò seduta con la stessa espressione sul viso. Un allegro sorriso sarebbe stato fuori luogo, ma anche l'estrema infelicità. Lei invece appariva cupa, orgogliosa, determinata, afflitta, impavida. Jim incrociò lo sguardo del conte e si rese conto che stavano pensando entrambi la stessa cosa: per un miracoloso colpo di fortuna la Razkavia aveva trovato il perfetto sovrano. La piccola Adelaide di Hangman's Wharf era una regina, fatta e finita. Nel frattempo i soldati e la polizia stavano setacciando la zona della piazza di Santo Stefano per cercare tracce dell'assassino. Ma un singolo colpo è talmente scioccante che la sua provenienza è quasi impossibile da individuare e ogni testimone aveva un'idea diversa del punto da cui era stato tirato il colpo; inoltre le finestre che si affacciavano sulla piazza erano centinaia e c'erano anche i balconi, gli androni delle porte e i tetti barocchi con la loro abbondanza di frontoni, fastigi, cornicioni e balaustre... Per non parlare della moltitudine di minuscoli vicoli tortuosi, poco conosciuti persino a coloro che vivevano sulla piazza e mai riportati sulle cartine. La ricerca continuò, ma nessuno si aspettava che avesse veramente successo. A Palazzo l'agitazione era al culmine. Tutto era stato preparato per un re: il ricevimento reale era stato allestito, gli ospiti stavano arrivando (i cittadini più eminenti per il pranzo e importanti dignitari stranieri per la serata) e all'improvviso non c'era nessuno al comando. Quando la carrozza e la sua scorta giunsero sotto il portico, il ciambellano nemico di Jim, il barone von Gödel, apparve sulla soglia e si inchinò con affabilità, ma alla vista del ragazzo il pallore del suo volto tradì un certo nervosismo. Il conte si chinò verso Adelaide per sussurrarle qualcosa, ma poiché non c'era Becky a tradurre lei dovette in parte indovinare cosa voleva dire e annuì. Poi, voltandosi verso Gödel, l'anziano ex militare disse: «Sua Maestà ora si ritirerà nei suoi appartamenti privati. Il ricevimento avrà luogo come stabilito. Vi aspetto nell'Ufficio Verde tra quindici minuti». Jim smontò da cavallo, porse le redini a uno stalliere e seguì il conte dentro il Palazzo proprio mentre la seconda carrozza, quella con Becky e la
contessa, entrava dal cancello. Rassicurato all'idea che Adelaide avrebbe avuto una persona amica con sé, il ragazzo seguì il conte nell'Ufficio Verde. Non appena la porta fu chiusa, il conte si tolse il cappello piumato e lo gettò a terra. «Schwartzberg!» tuonò con una voce che fece tremare i vetri delle finestre e ondeggiare l'inchiostro nel calamaio di cristallo. «Lo credete davvero?» «E chi altri? Quel lupo assassino... Ma non aveva fatto i conti con la nostra piccola aquila inglese! Non si prendono le aquile con la pania!» «No, conte. Sono certo che non è stato lui. A ogni modo se anche fosse, sarebbe tanto furbo da non lasciare prove. Ho un'altra idea...» Ma il conte era assorto nei suoi pensieri: dandosi dei colpettini con il pollice sul mento, camminava senza sosta tra la finestra e la scrivania. «Taylor, lei è brava, è forte... ma io ho una grande paura, ragazzo mio, ho la tremarella. Che ne sarà di noi? Sarà meglio che prepariamo per lei un discorso da fare al ricevimento... o dovremmo annullarlo? Suo marito è stato ucciso davanti a lei... chi potrebbe pretendere da una donna...» «Ma da una regina sì» gli fece notare Jim. «Ed è una regina quella di cui stiamo parlando. Inoltre se volete il mio consiglio, non dovreste neppure suggerirle cosa dire. Lasciate che trovi da sola le parole. Avete visto quanto ci sa fare con la gente: fidatevi di lei». «Mmm» disse il conte, strofinandosi la mascella. «Sarà...» «E dovremmo pensare urgentemente al da farsi riguardo al barone von Gödel. Sapevate che questa mattina mi era stato proibito di lasciare il Palazzo? Hanno mandato il comandante delle guardie a setacciare l'edificio e a mettermi agli arresti. Avete notato la faccia di Gödel quando ci ha visti un attimo fa?» «Ma...» Il conte era senza parole. Si accasciò su una sedia. «Ma lei era...» «Sono fuggito, ovviamente. Conte, il pericolo è molto vicino... forse nel Palazzo stesso. Non mi fido di quell'uomo, neppure un po'. Non potremmo cacciarlo via?» Il conte allargò stancamente le braccia. «La posizione di ciambellano è ereditaria. Non si può fare niente contro Gödel... Immagino che potremmo organizzare una linea gerarchica alternativa... Ma queste cose vanno fatte nel modo giusto. Lasci che ci rifletta». Jim avrebbe voluto dire di più, ma in quel momento bussarono alla por-
ta. Un istante dopo entrò il barone von Gödel, pallido, ma composto come sempre. «Sua Maestà mi ha appena nominato suo segretario privato» gli disse subito il conte: una spudorata bugia, ma Gödel non era in condizioni di smascherarla. «Finché non deciderà altre nomine, il lavoro a Palazzo proseguirà come al solito. Il signor Taylor è il mio rappresentante personale: voi dovrete fornirgli ogni possibile assistenza. Avete capito? Non deve essere intralciato in alcun modo nell'esercizio delle sue funzioni. Come prosegue l'organizzazione del ricevimento?» Gödel deglutì a fatica e rispose: «È tutto a posto, conte Thalgau. Viste le tragiche circostanze, ho ordinato che la banda della Guardia delle Aquile non suoni durante il ricevimento. Sua Maestà riceverà gli ospiti nella Sala Grande. Io credo che tutti sapranno reagire alla situazione porgendo i loro ossequi e andandosene in fretta». «Allora pensateci voi. Non appena il ricevimento sarà finito, Sua Maestà riceverà il signor Taylor e me nel suo ufficio privato. Voi tenetevi pronto a ottemperare a qualunque disposizione lei vorrà dare». «Certamente, conte». L'uomo batté i tacchi, si inchinò prontamente e uscì. «Obbedirà?» chiese Jim. «In principio sì. Ha visto anche lui da quale parte tira il vento... Dannazione, questi sono tempi pericolosi. A mio parere abbiamo una settimana per prendere in mano le redini del paese. Se entro lunedì prossimo non avremo un saldo controllo della situazione, la Razkavia cadrà. Ora vada, Taylor, si cambi d'abito e faccia in fretta». Venti minuti dopo, tutto vestito in pompa magna, Jim raggiunse gli ospiti nella Sala Grande. C'erano i più eminenti rappresentanti di ogni aspetto della vita della Razkavia: l'intera aristocrazia, i sindaci, i senatori, il presidente della Camera dei Lord, i Consiglieri di Stato, influenti avvocati, banchieri, uomini di chiesa, professori... e persino un paio di poeti e di artisti. L'umore generale era sobrio, solenne, riservato, ma tutti, dal primo all'ultimo, non vedevano l'ora di poter vedere la nuova regina. Con soli quindici minuti di ritardo suonò una fanfara e la snella figura di Adelaide, elegante nell'abito nero, discese le scale. La contessa era al suo fianco, mentre Becky la seguiva a pochi passi di distanza. Jim incrociò lo sguardo della ragazza e le fece l'occhiolino. Secondo quanto previsto, lei e il re avrebbero dovuto fermarsi in fondo alle scale e salutare gli ospiti che sarebbero passati davanti a loro in ordine
di importanza. Ma Adelaide si fermò un paio di gradini più in alto, in modo da poter essere vista da tutti, e disse in un tedesco esitante, ma preciso: «Benvenuti nel mio Palazzo. Il mio caro marito avrebbe voluto che salutassi ciascuno di voi personalmente, e io lo farò, ma prima vi prego di lasciare che vi dica qualcosa. Quando mio marito era principe, io ho giurato di fronte a Dio di essere una degna principessa. Quando è diventato re, ho giurato di servirlo e onorarlo fedelmente. Ora che il peso e il grande onore di regnare su questo paese è ricaduto sulle mie spalle, io giuro di fronte a voi tutti che servirò la Razkavia fino a che ne avrò la forza. Che nessuno dubiti mai in cuor suo che la Razkavia ora ha una regina e che quella regina difenderà e amerà il suo paese fino al giorno in cui morirà. Lunga vita all'Aquila Rossa! Lunga vita alla Razkavia!» Fu in quel momento che capirono davvero che era la loro regina. Quella sera, quando l'eccitazione della giornata cominciò a scemare, Jim lasciò il Palazzo per andare a cercare Karl von Gaisberg. C'erano diverse cose che lo preoccupavano e non aveva intenzione di confidarle al conte. Trovò Karl al Café Florestan, seduto insieme a quattro o cinque compagni. Accolsero Jim con bramosa curiosità: cos'era successo a Palazzo? Jim rispose a tutte le loro domande, poi disse: «Ora, per quanto ne so la polizia non ha arrestato nessuno. E francamente non mi aspetto che lo faccia. Ma sono piuttosto sicuro che non ci sia Otto von Schwartzberg dietro a questa faccenda: non è nel suo stile». «E allora cosa ci faceva sulla Rupe?» chiese Gustav. «Pensavo che stesse per buttarla a terra e prendersi la bandiera!» «Credo che stesse cercando di capire con chi aveva a che fare. Infatti non l'ha minacciata in nessun modo. Riflettiamo invece su ciò che è veramente accaduto questa mattina. Eravate abbastanza vicini da vedere il re quando è sceso dalla scalinata?» Karl annuì. «Io ero proprio ai piedi delle scale, Anton qui presente era un po' più giù, vicino al ponte... Io ho visto tutto». «Io ero tra la folla» disse Gustav. «Anch'io ho visto». «Ma cosa hai visto esattamente?» «Be'...» disse Gustav. «Ho sentito lo sparo e l'ho visto cadere». «In che direzione?» «All'indietro. No, aspetta...» «No!» esclamò Karl. «Si stava voltando verso sinistra... vero?» «In effetti è caduto all'indietro» disse Anton. «Ma è stato dopo che si è
voltato verso sinistra, o così mi è sembrato». «Sembra anche a me di aver visto la stessa cosa» convenne Jim. «Il proiettile l'ha colpito in pieno petto mentre si stava voltando e l'ha gettato a terra nella direzione opposta alla sua provenienza. Altrimenti Ad... Sua Maestà non avrebbe potuto prendere al volo la bandiera». «Per Giove, hai ragione!» esclamò Gustav. «Lei era dietro di lui da quella parte... e lui è caduto all'indietro verso di lei!» «Quindi» continuò Jim, «questo non ci dà un indizio sulla provenienza del proiettile?» Tutti tacquero. Poi Karl afferrò uno dei malridotti menu del Florestan e tirò fuori una matita. Disegnò una rozza piantina della piazza in cui era ben evidente la scalinata della Cattedrale con una croce sul punto in cui Rudolf era caduto. «Quanto si era girato? Era sul quarto gradino...» «Ma no, doveva essere più in alto» intervenne Anton. «Io lo vedevo chiaramente stando dall'altra parte della piazza. Doveva essere almeno a dieci gradini dal basso. E non si era voltato del tutto». «Un quarto di giro?» chiese Gustav. «Qualcosa del genere» replicò Karl. «Ed è caduto direttamente all'indietro?» «No. È sobbalzato leggermente verso l'alto. In questo modo...» Gustav prese la matita e disegnò l'angolo. Jim, che lo guardava, annuì. «Io ero a un lato della piazza» disse. «La regina era esattamente tra me e il re, ma ho visto la bandiera che iniziava a inclinarsi all'indietro verso di me. Credo che quello sia l'angolo giusto. Disegna una linea che parte da lì...» Karl obbedì. «Allora, cosa c'è in quel punto?» chiese Gustav. Karl si strinse nelle spalle. «Un condominio? Non me lo ricordo». «Lì ci abita mio zio» disse titubante Anton. «O almeno abita in una delle case su quel lato della piazza...» «E allora cosa stiamo aspettando? Andiamo a fargli visita» concluse Jim. Lo zio di Anton, un ricco dentista di nome Weill, fu felicissimo di ricevere gli amici di suo nipote. Come i suoi vicini, lui e sua moglie si trovavano sul balcone decorato di bandiere della loro casa quando il colpo era stato sparato, e avevano guardato con orrore il re morire sotto di loro.
«Be', Mathilde, il colpo è stato molto forte, vero?» chiese l'uomo rivolto alla moglie. «Io ho pensato che provenisse da più in alto rispetto a noi». Il loro appartamento era al terzo piano. Frau Weill non ne era sicura. «È stato tutto così improvviso... Sembrava che provenisse da ogni dove e da nessuna parte. Come un tuono» disse. «A ogni modo di sopra... chi ci abita? Madame Czerny è troppo vecchia... ottantanove anni, ci credereste? Non ce la vedo a sparare a qualcuno. E Herr Egger non era neppure in casa». «Chi è Herr Egger?» chiese Jim. «È un mercante di sigari» spiegò Herr Weill. «Un uomo molto cordiale. Mi regala sempre un ottimo Avana per Natale. E io puntualmente mi offro di cavargli un dente in cambio, e lui dice sempre, 'No, no, insisto, è molto meglio donare che ricevere'. Ma oggi non era in casa. Lo so perché l'ho visto ieri sera tardi al bar dell'Hotel Europa e mi ha detto che aveva affittato il suo appartamento a un giornalista per un giorno...» Herr Weill comprese il significato delle sue stesse parole un secondo dopo gli altri. Sgranò gli occhi, sbigottito. «Ma di certo...» balbettò sua moglie. «Avranno avuto dei documenti, qualcosa per identificarli... non crede?» «La polizia è stata qui?» chiese Jim. «Sì, ha visitato tutti gli appartamenti, ovviamente, e noi abbiamo detto cosa abbiamo sentito... Ma lei non penserà che...» «Andremo a parlare con Herr Egger, se è in casa» disse Jim alzandosi. «Nel frattempo la prego di non dire niente di questa faccenda. Credo che invece possiate fare entrambi una cosa: scrivere un resoconto di tutto ciò che sapete, esattamente come l'avete raccontato a noi, e depositarlo presso il vostro avvocato». «Sì... sì, buona idea. Lo faremo subito» disse il dentista, pallido in volto, precipitandosi allo scrittoio. «Herr Egger non finirà nei guai, vero?» chiese Frau Weill. «È un uomo così cordiale! Non sopporterei che...» «Non lo so» replicò Jim. «Ma grazie mille per il vostro aiuto. Qual è il numero del suo appartamento?» Herr Egger era in casa ed era un tantino sconcertato. Aveva riportato a casa un grosso fascio di rose da regalare alla giornalista di Madrid e lei se n'era andata, senza neppure lasciare un biglietto da visita. Be', senza dubbio il suo collega aveva scattato una bella foto della morte del re... ma
quella era una magra consolazione. L'uomo ricevette Jim e gli studenti nel salotto la cui portafinestra si apriva sul balcone dal quale, Jim ne era ormai sicuro, era venuto lo sparo. I capelli e i baffi impomatati di Herr Egger, insieme al forte odore di acqua di colonia e di violette di Parma che emanava da lui, rivelavano un uomo la cui vanità era più forte del senso del ridicolo e Jim capì ben presto che era meglio non fargli capire quello che sospettavano veramente. «Sto cercando un giornalista» disse. «Lavoro per un giornale inglese e mi hanno detto che lei ha affittato il suo appartamento a uno dei miei colleghi. Il fatto è che ha delle informazioni per me, ma non so dove sia ora. Non sa per caso dove posso trovarlo?» «Ah, è sfortunato, ragazzo mio! È venuto nel posto sbagliato. Sono certo che non è stato il suo collega ad affittare il mio appartamento... e sa come faccio a esserne sicuro?» «No» disse Jim in tono cortese. «Perché non era un lui, ma una lei! Ecco. Cosa ne dice?» «Interessante» replicò Jim, con un improvviso nodo allo stomaco. «Una giornalista, eh? L'ha detto alla polizia?» «La polizia?» «Pare che abbiano suonato a ogni porta. Per cercare l'assassino, immagino». «Non so se qui siano venuti o meno: ho dato alla servitù un giorno libero». «Molto generoso da parte sua. Questa giornalista... che aspetto aveva?» «Oh, un bel pezzo di donna!» rispose Herr Egger in tono malizioso. «Spagnola, sa... Capelli scuri, occhi neri, bel...» Fece un gesto per indicare cosa aveva di bello. «Be', avrà capito. Si chiamava Menendez. Ovviamente io conosco le donne spagnole. E parlo anche un po' la lingua. Vado all'Avana tutti gli anni, per affari. Sigari». «Ha lasciato un indirizzo? Per quale giornale lavorava?» «Nessun indirizzo, no. Era di un periodico che parlava di moda, mi pare. Di Madrid. C'era un fotografo con lei... con un astuccio lungo, un treppiede, immagino. Una bella donna davvero. Un po'... be', matura, direi, per un giovane come lei». «La signora parlava tedesco? O lei parlava spagnolo?» «Oh, tedesco. Con un forte accento. Ma aveva una bella voce. Come un violoncello al tramonto... Le va un sigarette? Provi questi. Una nuova linea. Vengono da Las Palmas. Un bicchiere di vino?»
Capitolo dieci LA SALA DELLE MAPPE Nei giorni successivi Adelaide sembrò in preda a un delirio di attività. A malapena dormiva. Confermò il conte come suo Segretario Personale, creò la carica di Primo Interprete per Becky, nominò la contessa Thalgau sua dama di compagnia; poi convocò il Capo della Polizia, pretese di sapere esattamente quali erano i suoi piani per catturare l'assassino e gli ordinò di fare rapporto ogni giorno al conte Thalgau sui progressi che stavano facendo; supervisionò l'organizzazione del funerale di Rudolf; ricevette tutto il personale del Palazzo, dal maggiordomo giù fino alle sguattere, e disse a tutti cosa si aspettava da loro; pianificò il primo di una serie di pranzi ai quali, dopo il primo periodo di lutto, aveva intenzione di invitare i cittadini più eminenti; camminò a capo scoperto dietro l'affusto di cannone che portò il corpo di Rudolf alla Cattedrale; cominciò a prendere ogni giorno due ore di lezioni intensive di tedesco; chiese all'Ambasciata Britannica una copia del Catalogo delle forniture per l'Esercito e la Marina, lo sfogliò felice e ordinò ogni gioco da tavolo esistente, da Animal Misfitz a Zelo, passando per Blinking Dandy, Puffette, Tipple Topple, Wibley Wob e così via. Alla fine cedette a quella che il Medico Reale definì 'prostrazione nervosa' e dormì ventiquattr'ore di fila senza mai svegliarsi. Ben presto la nuova struttura della Casa Reale cominciò a prendere forma. Il ciambellano, il peggior nemico di Jim, non poteva essere rimosso... ma poteva essere scavalcato. Tutte le decisioni di Adelaide venivano infatti riferite a Palazzo e al mondo esterno tramite il conte Thalgau. La cerchia delle persone che le erano vicine era molto ristretta: era limitata a Becky e alla contessa che, pur non essendo la più vivace delle compagnie, era almeno affidabile, come disse la stessa Adelaide. Becky fece del suo meglio per imparare a giocare a scacchi e fece dei progressi. Ebbe più successo nel farsi amica una cameriera da cui seppe che il gatto della stalla aveva partorito di recente dei gattini. La cucciolata fu mandata a prendere; ne fu scelto uno e regalato ad Adelaide come Gattino di Corte. Era nero come la pece e di conseguenza portava fortuna. Adelaide lo chiamò Pentolino. Man mano che il tedesco di Adelaide migliorava, Becky diventò sempre meno un'interprete e sempre più una consigliera, e cominciò a imparare le cose di Stato insieme alla regina. Adelaide faceva ancora fatica a leggere,
perciò facevano pratica con i rapporti ufficiali, scoprendo insieme la produzione di nichel delle miniere di Karlstein, leggendo dei negoziati per gli accordi doganali con la Germania e delle previsioni sul gettito fiscale. Non passò molto tempo che Adelaide decise di parlare con il Cancelliere, ossia con il capo del Senato, il detentore della maggiore carica politica del paese. Non che la cosa avesse una grande importanza, dal momento che non era stato eletto democraticamente, ma nominato da re Wilhelm. Era un uomo anziano, il barone von Stahl, e l'incontro con Adelaide fu istruttivo per entrambi. In principio infatti il barone non sapeva come comportarsi con la nuova regina e prese a trattarla con condiscendenza e adulazione. Adelaide troncò quel modo di fare sul nascere. «Mi dicono che alla regina Vittoria piacesse essere adulata da Disraeli» gli disse con severità. «Il motivo è che era una donna anziana. Quando sarò anch'io anziana potrete fare lo stesso con me. Nel frattempo non sono dell'umore, primo perché sono in lutto e secondo perché in giro c'è un'abbondanza di giovanotti che mi adulerebbe meglio di quanto non stiate facendo voi. Se volete che io vi rispetti, parlatemi con sincerità di ciò che accade in Senato e lasciate da parte i salamelecchi». Becky dovette tradurre con accuratezza, perché il tedesco di Adelaide era ormai abbastanza buono da poter capire quello che la sua interprete stava dicendo, ma con la regina che la guardava con severità da una parte e il Cancelliere che sgranava gli occhi per la sorpresa dall'altra, la ragazza si sentì molto a disagio per un paio di minuti buoni. Il vecchio però era una brava persona: non ci mise molto a riaversi dalla sorpresa, e parlando con maggiore rispetto, fece alla regina un rapporto completo e veritiero. Fu subito chiaro qual era il problema più urgente. Sia la Germania che l'Austria-Ungheria volevano inghiottire la Razkavia in un sol boccone, non per i pochi vigneti, la decina di castelli e quel gruppetto di sorgenti di acque sulfuree, ma per il nichel delle miniere: il Rame del Diavolo. Le potenti acciaierie di Essen lo bramavano, ma l'imperatore Francesco Giuseppe si opponeva per non dare a Bismarck e al Kaiser Guglielmo un vantaggio. La necessità di trovare un accordo era così urgente che superava in importanza persino le questioni interne, come la peronospora della vite nel Neustadt, le entrate del Casinò di Andersbad in diminuzione e la necessità di trovare nuovi investimenti per le Ferrovie dello Stato. Adelaide ascoltò con attenzione e lo ringraziò. Non appena fu uscito decise di visitare le miniere di nichel per vedere con i propri occhi la causa di tutto quel trambusto. Ignorando le obiezioni del conte Thalgau che insiste-
va che era indecoroso, che tali visite durante il lutto erano inopportune e così via, ordinò che venisse approntato il Treno Reale per una visita a Karlstein, e una luminosa mattina d'autunno partirono sbuffando verso Andersbad, dall'altra parte del paese, e dopo una sessantina di chilometri deviarono su per Karlstein. Alla stazione c'erano tutti i minatori e le loro famiglie ad accoglierli. Il tappeto rosso e le formali parole di benvenuto le erano ormai divenuti familiari e il discorso che fece in risposta fu pronunciato con molta grazia. Era curioso, rifletté Becky, che non fosse mai stata capace, né in verità avesse mai tentato di perdere il forte accento cockney che aveva quando parlava nella propria lingua madre. Quando parlava in inglese, tutto il suo corpo sembrava rilassarsi piacevolmente in una sprezzante rozzezza di modi; ma quando usava il tedesco sembrava stare più dritta, muoversi con maggiore grazia, comportarsi in un modo che Becky non riusciva a descrivere con nessuna parola tedesca, ma solo con una francese: chic. Era davvero chic quella mattina a Karlstein e la folla la ammirò molto per questo. Il Capo Ingegnere che li guidò durante la visita era un giovane dai capelli ricci, Herr Köpke, che scoprì ben presto che l'interesse della regina era sincero e che poteva spiegarle le cose senza doverle semplificare come avrebbe fatto per un minorato mentale. Ma quando Adelaide insistette per scendere sottoterra l'uomo rimase interdetto. «Ma... Vostra Maestà, non siamo preparati per una visita sotterranea... le condizioni non sono certo favorevoli...» Lei lo incenerì con lo sguardo. «Se la miniera è sicura, non mi accadrà niente. Se non lo è, voglio vedere i rischi che devono correre i miei sudditi». La sua risposta fece il giro di tutta Karlstein in meno di un'ora e quando più tardi salutò la folla, Adelaide ottenne un'acclamazione ancora più forte di quella che aveva accolto la sua apparizione sulla Rupe di Eschtenburg. Becky non vide nulla. Senza rendersene conto aveva sempre sofferto di claustrofobia e quando la fila di vagoncini in cui erano seduti cominciò a muoversi all'interno della montagna, provò un immenso terrore e dovette serrare gli occhi. Quando uscirono nuovamente alla luce del sole, Adelaide la fissò con severità. «Spero che tu abbia preso appunti» disse. «Andartene in giro con quel muso... Dovresti mostrare interesse e incoraggiare il prossimo». Quando lo salutarono il Capo Ingegnere fece un profondo inchino e baciò la mano alla regina, e Adelaide lo guardò a lungo con occhi pieni di
passione che lo fecero arrossire... Così anche Becky ebbe qualcosa da rimproverare alla sua amica alla fine della giornata. Prima di lasciare quella parte del paese per tornare a Eschtenburg, Adelaide volle visitare il castello di Wendelstein, dove Walter von Eschten aveva sconfitto Ottocaro II una volta per tutte. L'edificio sorgeva a un paio di chilometri da Andersbad, in cima a un sentiero che passava attraverso la foresta. La tenuta del conte Otto non era molto lontana e cortesia avrebbe voluto che egli si presentasse a renderle omaggio, ma a quanto pareva il conte era all'estero, impegnato in una battuta di caccia nell'Africa Orientale. L'antico castello di Wendelstein era in rovina: solo la Torre era ancora intatta, ma l'entrata era ostruita dalle macerie. Mentre Adelaide gironzolava sull'erba, con il conte che le spiegava come Walter avesse attirato i boemi sull'ampia spianata tra il castello e il limitare della foresta e poi li avesse ripetutamente caricati con i cavalieri che aveva tenuto di riserva, tanto che alla fine i nemici, col morale a terra a causa dei mesi passati a subire le tattiche di guerriglia di Walter, avevano ceduto ed erano fuggiti, Becky guardava quel tranquillo scenario col cuore in subbuglio. Quello era il suo paese, la sua storia... Il caldo sole d'autunno rivestiva tutto d'oro puro. Tra l'erba ronzavano gli insetti; in lontananza un uomo faceva ondeggiare la falce... Dalla ferrovia che attraversava la foresta sotto di loro un treno fischiò. Era tempo di andare. Come Becky raccontò a sua madre in una delle sue lettere bisettimanali, quello fu il periodo più strano della sua vita. Lei e Adelaide dovettero sopravvivere all'accreditamento di ogni nuovo funzionario, ai discorsi in onore del pensionamento di questo generale o della visita di quel principino, a inaugurazioni, dediche, ricevimenti, funzioni di commemorazione e di ringraziamento... C'erano volte in cui Adelaide piangeva lacrime di stanchezza e ribellione e se la prendeva con Becky come se fosse tutta colpa sua. In quei momenti la ragazza doveva ricordarsi di essere una leale cittadina della Razkavia e che quella che parlava era la sua regina. Il più delle volte funzionava... E per tutto il tempo c'era il contrasto tra Adelaide la sgualdrinella dei bassifondi di Londra e i nobili che la trattavano con il più profondo rispetto; c'era il fascino con cui la regina riusciva a coinvolgere ogni suo ospite
in una partita a scacchi e la furiosa passione con cui giocava, la crescente bravura e la padronanza delle tattiche che dimostrava; c'era la graduale crescita in lei di decisione, autorità e competenza. Come poteva Becky non restarne affascinata? Alla fine cominciò il lavoro di diplomazia: Adelaide invitò le Grandi Potenze a mandare i loro rappresentanti in Razkavia per formali colloqui. I funzionari governativi erano esterrefatti. «Vostra Maestà, è impensabile...» mormorò il ministro degli Esteri. «Troppo tardi. Io ci ho pensato». «Ma ci sono dei protocolli...» «Bene. Voi pensate ai protocolli e io penserò agli affari». «Ma i canali ufficiali...» «Ai canali ufficiali ci penserete voi». La regina non volle sentire scuse, ma le obiezioni non cessarono. Alla fine Adelaide perse la pazienza e lanciò un calamaio, urlando in un modo che non avrebbe avuto bisogno di essere tradotto neppure se Becky avesse conosciuto l'equivalente tedesco di 'scantonatori malefici' e 'crucchi fifoni'. I funzionari si inchinarono in tutta fretta e si precipitarono fuori e gli inviti furono spediti quel pomeriggio stesso. Nel frattempo Jim e i Richterbund trascorrevano ogni momento libero a cercare l'attrice spagnola. Avevano detto al conte della giornalista e dell'appartamento di Herr Egger e il conte l'aveva riferito al Capo della Polizia nel loro quotidiano incontro; ma Jim aveva poca fiducia nella pubblica sicurezza del paese, che non aveva neppure un reparto investigativo. Elmetti chiodati, spalline dorate e uniformi bordò dimostravano che la polizia razkaviana era più interessata allo sfarzo che all'efficienza. Jim non aveva dubbi che l'attrice spagnola fosse ancora in città, anche se non avrebbe saputo dire perché ne era così sicuro. Karl, Gustav, Heinrich e gli altri batterono i caffè e le birrerie della Città Vecchia, parlarono con i facchini alla stazione, si aggirarono nei pressi degli ingressi di servizio del Teatro dell'Opera e degli altri due teatri cittadini, tormentarono i portieri di ogni albergo e non ottennero nulla. Alla fine fu Jim a scoprire il primo indizio e per puro caso. Lo trovò, stranamente, a Palazzo nella saletta del maggiordomo, una sorta di sala di ritrovo per i domestici di più alto rango. Jim aveva scoperto che era piuttosto fruttuoso coltivare l'amicizia dei domestici e a loro quel giovane piaceva, perché non si dava mai arie e perché era un brillante conversatore.
Una sera Jim era appunto nella saletta del maggiordomo quando il vicemaggiordomo entrò scuotendo la testa. «Che succede?» chiese qualcuno. «Quel Gödel. Vuole che venga assegnata una cameriera a soddisfare i bisogni di una vecchia che ha portato a Palazzo e che ha messo in quella stanza vuota in mansarda, la quattordici. Ma io non ho una ragazza da riservare solo a quello scopo! E se gli dico che dovremo assumerne un'altra, sono certo che minaccerà di prendere i soldi della paga dalle nostre, quel maledetto spilorcio». «E di chi si tratta?» «Dio solo lo sa. Una vecchia serva di Schloss Neustadt, credo. No, aspetta, mi stavo sbagliando: viene da Ritterwald...» Erano le tenute di campagna della Famiglia Reale. Ma perché Gödel avrebbe dovuto interessarsi tanto a una vecchia serva? Jim drizzò le orecchie. Il vicemaggiordomo stava dicendo a un servo in livrea: «Senti, lo so che è tardi e che sei fuori servizio, ma pensaci tu. Non ha molta roba, giusto un baule e un paio di scatoloni... Portali su e non fare storie». «Parli della vecchia serva?» chiese Jim. «Allora lascia che ci pensi io. Ho sempre voluto indossare una di quelle vostre divise». Il domestico fu fin troppo contento di lasciarglielo fare e il vicemaggiordomo si limitò a stringersi nelle spalle e a correre in cucina per disporre che venisse mandato su un vassoio con la cena. Jim infilò la giacca e il gilè del domestico e si mise una salvietta intorno al collo a mo' di collarino. «Lasciamo stare i pantaloni» disse. «Dirò che sono a lavare. Le mostrerò le mie belle gambette un'altra volta. Dove vado ora?» Il domestico glielo spiegò e Jim si precipitò lungo il corridoio del piano terra verso l'entrata delle stalle, dove un cocchiere impaziente stava scaricando un baule di vimini dal retro di una carrozza e porgendo a una vecchia sui gradini una logora borsa da viaggio. «Eccoci qui, nonnina» disse Jim. «Lasci che le dia una mano con quel baule. Cosa ci ha messo qui dentro? Dei mattoni?» In realtà era molto leggero: evidentemente la vecchia aveva ben pochi averi. Jim portò il baule su nella stanza di cui aveva parlato il vicemaggiordomo, dove qualcuno aveva già acceso il fuoco e lasciato una candela. «Eccoci arrivati» disse. «Fra poco le porteranno qualcosa da mangiare, non appena avranno svegliato una delle cameriere. Le piace la sua stanza?»
La vecchia si guardò intorno e annuì. Era una donna magra e dal portamento eretto, con uno sguardo vivace e guance rosso acceso. «Grazie, caro» disse. «È molto carina. Starò bene qui». «Come si chiama, signora?» chiese Jim. «Mi piace portare rispetto agli anziani». «Sì, lo vedo» rispose la donna. «Mi chiamo Frau Busch. E lei?» Jim sentì un brivido, come una piccola scossa elettrica. Pensò in fretta qualcosa. «Jakob» rispose. «È così che mi chiamo. Se le serve qualunque cosa, Frau Busch, chieda di me. Ecco che arriva la cameriera. Buona cena». Jim lasciò la stanza e si trattenne per qualche minuto sulle scale, cercando di pensare a cosa gli aveva provocato quello strano brivido. Dove aveva già sentito quel nome? E poi ricordò. Da Gustav, la sera prima dell'incoronazione, quando gli aveva raccontato quello che aveva scoperto nei vecchi giornali sul principe Leopold: l'unico testimone della sua morte era un cacciatore di nome Busch. Ed era avvenuto a Ritterwald, la tenuta da dove proveniva quella vecchia. Il giorno dopo anche Becky fece una scoperta. Ogni volta che aveva un'ora libera le piaceva andare nella Sala delle Mappe. Il vecchio re Wilhelm era stato un grande appassionato di geografia: in gioventù aveva viaggiato molto e aveva collezionato mappe di tutti i tipi. La Sala delle Mappe era tappezzata di enormi cassettiere di mogano con luccicanti maniglie d'ottone che contenevano mappe e cartine provenienti da ogni parte del mondo e al centro c'era un enorme tavolo sul quale esaminarle, insieme a vari mappamondi terrestri e celesti, un piccolo telescopio gregoriano con montatura equatoriale e svariati strumenti di navigazione in teche di palissandro rivestite di panno verde. La stanza veniva spolverata e lucidata periodicamente, ma oramai quasi nessuno ci metteva più piede. Becky la usava come rifugio, perché le piacevano la quiete, l'odore della cera d'api usata per lucidare il legno, la precisione delle mappe e degli strumenti. Il pomeriggio precedente all'inizio dei Colloqui, Becky trascorse qualche minuto a guardare nel telescopio, ma non riuscì a regolarne l'obiettivo. Poi, senza una ragione particolare, pensò di cercare una cartina di Londra, per vedere se c'era segnata la strada in cui abitava lei, ma le venne in mente
che non c'era il catalogo. Come faceva il vecchio re a trovare una mappa dell'Africa Occidentale, ad esempio, se ne cercava una? La mente ordinata di Becky rimuginò febbrilmente sul problema, finché non ricordò che nel piccolo ufficio annesso alla Sala delle Mappe c'era un armadietto che non aveva ancora esaminato. Forse era lì la soluzione. Aprì la porta ed entrò. A differenza della maggior parte delle altre porte del Palazzo, questa era leggermente difettosa e si richiuse silenziosamente dietro di lei, così quando, dopo aver frugato per qualche minuto tra le schede dell'indice che, come aveva immaginato, erano nell'armadietto, sentì delle voci nella Sala delle Mappe, Becky si rese conto che chi era entrato non poteva sapere che lei era lì. Non aveva intenzione di nascondersi, ma non le sembrava neppure necessario tossire o battere i piedi o far cadere un libro a terra per rivelare la sua presenza, perché di certo lo scopo dei nuovi arrivati era innocente quanto il suo. E in effetti una delle due voci che sentiva era quella del conte... Ma aveva un tono che non gli aveva mai sentito prima: una sorta di ansiosa urgenza. L'altro uomo parlava invece nel modo pedante e affettato di un noioso insegnante. Becky non poté fare a meno di sentire quello che si stavano dicendo. «Mi dicono, Herr Bangemann, che lei possieda un raro talento» disse il conte. «Vorrei vederlo all'opera, se non le dispiace. Ho qui un documento». Il suono di un cassetto che veniva aperto e di carta che veniva srotolata. «Quanto tempo le serve per la prima pagina?» «Solo il tempo sufficiente a leggerla. Diciamo un minuto?» «Va bene. La cronometrerò». Silenzio, durante il quale Becky non poté fare a meno di contare i secondi. A quanto pareva andò più lenta dell'orologio del conte, perché era arrivata solo a cinquantacinque quando l'anziano ex militare disse: «Tempo scaduto». Ancora un fruscio di carte e poi Herr Bangemann si schiarì delicatamente la voce e cominciò. «Rapporto sulla spedizione alle sorgenti dell'Orinoco e del Rio Bravo, compiuta sotto gli auspici della Società Geografica Reale di Razkavia, 1843-44...» Andò avanti per diverso tempo. Era chiaro che l'uomo la stava recitando a memoria. «Notevole» disse il conte. «Parola per parola. E quanto riesce a memorizzare?»
«Una quantità non irrilevante» disse con modestia Herr Bangemann. «Non ho mai avuto l'occasione di memorizzare più di sessanta pagine in formato protocollo, ma sono abbastanza certo che se necessario potrei fare di meglio». «E le basta una sola occhiata?» «Esattamente. Ho ricevuto un colpo alla testa da piccolo e suppongo che questo dono sia arrivato come risarcimento». «Straordinario... Ora, lei ha una famiglia, vero?» «Ho cinque figlie, Vostra Eccellenza. Tutte ragazze brave e intelligenti. Ma... be', innegabilmente pesano sul bilancio familiare. Lo stipendio di un impiegato...» «Certamente. Bene, Herr Bangemann, mi serve giusto qualcuno con il suo particolare talento. Questo è un incarico che definirei privato, per non dire segreto...» Il conte si interruppe. Becky sentì un tuffo al cuore: l'aveva forse sentita? Ma poi sentì il suono dell'altra porta della Sala delle Mappe che si apriva e si richiudeva e il conte continuò a voce più bassa: «Come ho detto, è un incarico per cui è necessaria la massima discrezione. Nessuno deve saperlo, lei mi capisce...» «Potete contare su di me, conte Thalgau». Le voci erano diventate poco più di un sussurro. Becky si scoprì a tendere l'orecchio per sentire e arrossì: non aveva mai origliato in vita sua e non le piaceva farlo. Gli uomini nella Sala delle Mappe continuarono a parlare per un altro minuto o due, ma lei non sentì niente tranne, a un certo punto, il tintinnio di monete. Alla fine la porta che dava verso l'esterno si riaprì e si richiuse nuovamente e calò il silenzio. Becky rimase dove si trovava ancora per qualche tempo prima di uscire con circospezione dalla stanza. Si sentiva turbata, perché aveva sempre considerato il conte saldo e affidabile come la stessa Rupe di Eschtenburg, mentre nella Sala delle Mappe le era sembrato subdolo e sfuggente. Non poteva dirlo ad Adelaide: Sua Maestà aveva già abbastanza a cui pensare. Jim era la persona giusta con cui confidarsi, se fosse riuscita a trovarlo. Becky gli lasciò un messaggio nella sua stanza e incrociò le dita. Quella sera in salotto Becky preparò il tabellone di un nuovo gioco, La corsa ferroviaria continentale. Il tabellone era una cartina dell'Europa e Adelaide le diede solo un'occhiata e sbuffò di disprezzo, perché la Razka-
via era troppo piccola per essere visibile. «Bah, che razza di mappa è questa?» disse, e diede un colpettino con l'unghia ai trenini di latta che avrebbero dovuto correre da Londra a Costantinopoli, o da Brindisi a Stoccolma. «Treni di latta, navi di latta che cadono in un vortice... tu sai cosa sono io, Becky? Una principessa di latta. È come negli scacchi: ho attraversato tutta la scacchiera e sono diventata una regina. Ma sono ugualmente di latta... Facciamo una partita a scacchi? No, in effetti non va neppure a me questa sera. Andiamo fuori in terrazza a prendere una boccata d'aria fresca. Porca miseria, è così soffocante qui dentro...» Becky aprì la portafinestra e insieme uscirono per affacciarsi alla balaustra di pietra e guardare verso il parco. L'aria era immobile e soffocante. La foresta in lontananza era già una sagoma indistinta: gli alberi si confondevano nel manto d'oscurità e il cielo sopra di loro era più buio che mai, un nero acciaio con una goccia di blu di Prussia. L'erba del parco, che si perdeva nella boscaglia lontana, era agitata qua e là da piccole folate di vento che ne accarezzavano la superficie per un istante e poi svanivano. All'improvviso uno squarcio lacerò le nubi e gli ultimi fuochi del sole al tramonto lo attraversarono, accendendo l'erba e gli alberi di un verde così intenso da sembrare irreale. Una brezza irrequieta appiattì il prato come la mano di un fantasma invisibile, roteando poi verso di loro e sfiorando con una subitanea freschezza le loro guance. «Becky» mormorò Adelaide, lo sguardo rivolto all'ombra scura degli alberi al limitare del prato luminoso. «Sì?» «Immagino che questa sia casa mia ora, vero?» «Immagino di sì». «Non ho mai pensato che avrei avuto una casa. Pensavo che sarei morta sulla strada o in un ospizio. O in galera. Pensavo di essere destinata a finire così... O che sarei crepata di malattia. Che mi sarei presa... be', uno di quei malanni... o che so, la tisi magari... e mi sarei consumata o sarei impazzita e sarei morta in un manicomio. Ne ero davvero sicura». «Be', non accadrà niente del genere ora, non credi?» Adelaide tacque per qualche istante. Poi sospirò così forte che sembrò tremare tutta. Continuò a fissare la foresta mentre la brezza muoveva delicatamente i riccioli neri che le incorniciavano il viso. «Povero Rudi» disse con dolcezza. «Io... io non l'ho mai, mai amato davvero, Becky. Gli volevo bene, questo sì, ma... Credo che quando una ha
fatto quello che ho fatto io, quando una è andata con gli uomini per denaro, perda la capacità di amare... Non lo so. È buffo. Ci sono tre uomini che avrei potuto amare. Uno era un brav'uomo di nome Molloy. Si prese cura di me quando conobbi Jim e la signorina Lockhart. Era come un padre per me, era dolce e gentile... Poi c'era il vecchio re. È strano, non credi? Lo conoscevo solo da un mese e lui aveva ogni ragione per odiarmi, ma io mi sono affezionata talmente a lui...» La voce le si spezzò. Il sole era scomparso e il cielo era di un livido color porpora; il vento che soffiava dalla foresta era più forte ora e Becky si strinse lo scialle intorno alle spalle per difendersi dalle folate gelide. «Credo che anche lui ti volesse bene». «Becky, secondo te sono una buona regina?» «Che domanda buffa! Credo che nessuno al mondo potrebbe fare meglio di te». «Io invece penso che la signorina Lockhart sarebbe una regina di gran lunga migliore. La signora Goldberg, voglio dire. Quando questi colloqui saranno finiti, credi che verrà a farci visita?» «Ne sono certa. Le scriveremo e glielo chiederemo». «Credo...» disse Adelaide a bassa voce, con le mani che stringevano la balaustra di pietra e lo sguardo perso nella foresta, «credo che se lei... mi piacerebbe sapere che è orgogliosa di me... Credo che se lei approvasse, non m'importerebbe più del giudizio degli altri». «Chi è il terzo uomo?» chiese dopo qualche momento Becky. «Il terzo uomo?» «Dopo il signor Molloy e il vecchio re». «Oh, quello. Non lo so. Probabilmente mi sbaglio, probabilmente sono solo due. Ora rientro: si sta facendo freddino. Mi prenderò una tazza di cioccolata e andrò dritta a letto. Non restartene troppo qui fuori a prendere freddo. Domani dovrai parlare parecchio». Dopo che Adelaide fu andata a letto, Becky si mise a leggere per un po', ma sembrava non riuscire a trovare pace. Andò a bussare alla porta di Jim, ma lui non c'era ancora; tentò allora di giocare a scacchi da sola, mano sinistra contro mano destra, ma ben presto dimenticò a chi toccava muovere; giocò un po' alla Corsa ferroviaria continentale, ma rinunciò quando il suo trenino di latta raggiunse Vienna; tentò nuovamente di leggere, ma i libri erano o troppo noiosi o troppo frivoli e lei era troppo stanca per i primi e troppo agitata per i secondi. Alla fine si avvolse lo scialle intorno alle spalle e uscì di nuovo in ter-
razza. La serata si era fatta burrascosa: persino da quella distanza si sentiva chiaramente il vento che infuriava tra gli alberi e Becky provò una strana apprensione, come se gli spiriti vagassero in quel vento e venissero sbattuti come foglie morte da una parte all'altra, senza mai avere riposo, senza mai rendere la loro anima alla terra, mai morti, ma in un vasto limbo tra la vita e la fine eterna, rotolando e rimbalzando senza posa... Becky strinse con forza la balaustra e chiuse gli occhi nella tempestosa oscurità per sentire la forza del vento sul suo viso. All'improvviso, con un brivido di paura, li riaprì di scatto e un istante dopo un braccio le cinse la gola, una mano le premette sulla bocca e qualcuno la trascinò bruscamente a terra. Capitolo undici ALL'INTERNO DELLA GROTTA ARTIFICIALE E una voce le sussurrò nell'orecchio: «Becky... sono Jim. Shh... resta immobile... è pericoloso...» Nella mente di Becky una nuova inquietudine sostituì la precedente. Jim le tolse la mano dalla bocca e si raddrizzò leggermente per sbirciare attraverso la balaustra. Muovendosi il più silenziosamente possibile, anche lei si mise a sedere, seguì lo sguardo di Jim e, stagliata contro la pietra bianca della parete del Palazzo sotto di loro, vide la tenebrosa figura di una donna che sbucava lentamente da sotto la terrazza. «Chi è?» sussurrò Becky. «Una vecchia domestica di nome Frau Busch. È la vedova di quel cacciatore che era con il principe Leopold quando morì...» Becky si rese conto all'improvviso che Jim aveva una pistola in mano, anche se non gliel'aveva vista estrarre. La luce incostante della luna si rifletteva nei suoi occhi verdi. La donna si era fermata a non più di venti metri da loro, all'ombra di un arbusto. «Che succede?» chiese ancora Becky. «Cosa sta facendo?» «Shh» fu la risposta. Jim stava osservando la scena con attenzione. Dopo qualche istante la ragazza vide la sua espressione cambiare: sotto di loro stava accadendo qualcosa. Quando guardò tra le grosse colonne della balaustra, vide un'altra figura che svoltava silenziosamente l'angolo del palazzo
per andare a raggiungere la donna che aspettava accanto al muro. «Un'altra donna» sussurrò Becky. «O almeno così pare...» Percepì in Jim una tensione simile a quella di un gatto che aspetta di saltare addosso a un topo. Il giovane non ebbe bisogno di portarsi un dito alle labbra: Becky capì che doveva stare zitta. Entrambi continuarono a guardare mentre la seconda donna raggiungeva Frau Busch. Ci fu una breve conversazione fatta di sussurri, poi le due figure uscirono dal riparo offerto dalle mura del Palazzo e si avviarono in punta di piedi sul sentiero di ghiaia, raggiungendo velocemente l'erba e dirigendosi verso gli alberi in lontananza. «Le seguo» sussurrò Jim. «Tu resta qui». «Niente affatto! Vengo anch'io!» «No, tu non vieni» replicò lui. «L'altra donna è pericolosa. È la persona che sto cercando da mesi: l'assassina. Come potrei affrontare tua madre se ti succedesse qualcosa? E come se questo non bastasse, ad Adelaide servi in forma domani, non dimenticarlo. Quello è il tuo lavoro. Questo è il mio». Becky si morse il labbro. Aveva ragione. Poi ricordò e si portò la mano alla bocca con un gemito soffocato. «Oh! Hai avuto il mio messaggio sulla Sala delle Mappe? L'ho lasciato in camera tua». «Non ci torno da un paio di notti». Jim tornò a voltarsi verso il prato. Le due figure erano quasi scomparse. «Ascolta, ora non c'è tempo... Le perderò. Me lo dirai più tardi». Corse verso la scalinata al centro della terrazza, dove si fermò per controllare la direzione che avevano preso le due figure e poi si precipitò giù con passo leggero, correndo lungo il vialetto e attraverso il prato. Becky si strinse la sciarpa intorno alle spalle e stette a guardare finché il giovane non sparì nell'oscurità della notte. Tenendosi basso, Jim avanzò rapidamente nell'erba alta dietro le due donne. Inutile cercare di non fare rumore, perché il vento ora soffiava forte, sospingendo flottiglie di nuvole grigie davanti al luminoso faro della luna e sferzando con violenza gli alberi lontani. Il giovane correva senza staccare gli occhi dalle due figure che lo precedevano, una carica d'ansia e di tensione, l'altra magra e scattante come un uccellino che saltella delicatamente sopra il terreno accidentato. A un certo punto scoprì, con una certa inquietudine, che erano dirette verso quella parte del giardino da cui aveva sentito provenire quell'ag-
ghiacciante urlo. Era difficile esserne sicuro, perché i gruppi di alberi erano tra loro molto simili e il terreno saliva e scendeva in modo ingannevole; ma rispetto a quella notte ora c'era più luce grazie alla luna e dopo qualche istante Jim non ebbe più alcun dubbio. All'improvvisò, però, Frau Busch cambiò direzione, spostandosi un po' a sinistra verso il ponte palladiano che congiungeva le due estremità di un laghetto. Jim sapeva che l'acqua del lago finiva in una cascata artificiale che si gettava in un romantico precipizio: un burrone in miniatura, circondato da cedri e dalle rovine di una cappella, sul cui fondo c'era una grotta artificiale. Le due donne scesero nella minuscola valle e costeggiarono il ruscello formato dalla cascata dirigendosi verso l'entrata della grotta. Il posto aveva un aspetto bizzarro sotto la luce della luna. Non che fosse meno bizzarro alla luce del giorno, anzi: a lui non piacevano affatto le grotte artificiali, per il loro pessimo gusto e per l'umidità, e questa era particolarmente brutta. L'entrata era la bocca spalancata di un gigantesco volto di pietra ricoperto di erbacce con gli occhi sporgenti e lascivi, mentre la roccia tutto intorno era costellata di immagini distorte di serpenti, rane, lucertole e rospi che sembravano spuntare dalla roccia stessa. All'improvviso un varco tra le nubi consentì all'incostante luna di tornare a brillare e i chiaroscuri e le ombre sfumate diedero alla scena l'aspetto di un'illustrazione di un romanzetto dell'orrore: La grotta misteriosa oppure Alla ricerca dell'assassino. Jim si accucciò all'ombra del muro ricoperto di edera delle false rovine e guardò le due donne fermarsi sul sentiero accanto al ruscello. Frau Busch si chinò tra le canne per tirare una corda, alla cui estremità emerse un barchino luccicante d'umidità. La vecchia salì agilmente a bordo e l'attrice la seguì, sedendosi mentre Frau Busch prendeva i remi. Ci fu il bagliore di un cerino, che si trasformò nella luce di una lanterna nella mano dell'attrice; poi la barca si staccò dalla riva e dopo qualche istante la corrente si impadronì di lei e cominciò a trascinarla lentamente verso la caverna. Jim imprecò e si precipitò giù per la discesa. Quando raggiunse la riva non c'era più traccia della barca. La grande bocca oscura della grotta sbadigliava con aria beffarda mentre l'acqua nera scorreva impetuosa al suo interno, con i suoi gorghi argentei sotto la luce della luna. E ora cosa doveva fare? Be', doveva seguirle, ovviamente, ma non aveva pensato alla barca, maledizione. Seguì il sentiero ricoperto di erbacce che costeggiava il corso
d'acqua fin dentro all'ingresso della grotta. Il primo ambiente era abbastanza illuminato dalla luce fioca che penetrava dall'esterno, ma il punto dove il sentiero passava sotto un arco era nero come la pece. Il suono del vento era più debole lì dentro, mentre quello dell'acqua era diventato un ruggito che echeggiava sulla volta e sulle pareti rocciose. Il terreno sotto i piedi di Jim era bagnato e sconnesso, di certo fangoso e probabilmente pericoloso, dal momento che il ruscello scorreva a pochi centimetri di distanza. Jim avanzò nel buio. Avrebbe potuto accendere un fiammifero, ma non voleva farsi scoprire. Tra tutte le cose folli che aveva mai fatto, quella di infilarsi in questo orrendo buco doveva essere tra le più assurde... Se si fosse perso, se il tunnel si fosse biforcato e lui non se ne fosse accorto... Tieni la mano sulla parete, pensò. Era viscida e fredda e a un certo punto, con suo grande disgusto, si mosse persino e si trasformò in un rospo, che lo spinse a indietreggiare con un grido soffocato e per poco non lo fece finire nel ruscello. Ma se avesse tenuto la mano sulla parete per tutta la strada di andata e di ritorno, di certo avrebbe ritrovato l'uscita... Poi una doccia gelida di paura si abbatté su di lui: dal buio più nero venne nuovamente quel grido... Era il grido di un'anima dannata, un essere orrendamente torturato, di un dolore e una disperazione estremi. Giungeva distorto dall'eco delle caverne e attutito dallo scorrere dell'acqua, perciò Jim non avrebbe saputo dire da quale distanza provenisse, ma fu sufficiente per riempirlo di terrore. Gli ricordò il Minotauro, acquattato nell'oscurità in attesa della prossima vittima che avanzava tremante verso il centro del labirinto... Quanto tempo rimase lì in piedi, con il cuore che gli martellava nel petto e la pelle d'oca, non avrebbe saputo dirlo. Alla fine riuscì a riprendere un minimo di autocontrollo e giusto in tempo, perché c'era un leggero bagliore sulle pareti rocciose di fronte a lui: la barca stava ritornando. In un istante si guardò intorno per cercare un posto dove nascondersi. Ombre e oscurità dappertutto, ma c'era un'ombra più cupa delle altre, nel punto in cui la roccia si incuneava per formare una nicchia. Era così poco profonda che non l'aveva neppure notata quando ci era passato accanto, ma forse se si fosse premuto il più possibile contro la parete... Ecco il tonfo dei remi: non c'era tempo per trovare un altro nascondiglio. Sollevò il bavero della giacca, abbassò la visiera del berretto per nascondere il pallore del viso e strinse la pistola che portava in tasca. Lo sciabordio si fece più vicino. E così la luce, che di lì a poco brillò con un forte chiarore sull'acqua e illuminò con la sua fiamma tremolante l'inte-
ra caverna. Impossibile che non lo vedessero... Trattenne il fiato, guardando con gli occhi socchiusi da sotto la visiera del berretto la barca che gli passava davanti. Nessuna delle due donne lo notò: entrambe sembravano preda di una forte emozione. Il viso della vecchia era pieno di un'infinita tristezza, mentre quello dell'attrice era nascosto da un cappuccio. Ma all'improvviso un amaro singhiozzo scosse il suo corpo. E un istante dopo erano passate. L'oscurità tornò a riempire il tunnel; il tonfo dei remi si affievolì. «Bene, e ora cos'hai intenzione di fare, stupido pazzo?» mormorò Jim a se stesso, anche se conosceva già la risposta. Fece un profondo respiro, lasciò uscire il fiato molto lentamente e cercò a tentoni i fiammiferi. Ora poteva permettersi di accenderli: le due donne non sarebbero tornate. Ne accese uno, avanzò di diversi passi tenendolo con cura finché non si spense, poi ripeté il processo una dozzina di volte o più. Una volta sentì un tonfo nell'acqua alle sue spalle e per poco non lasciò cadere il fiammifero per la paura, ma quando si voltò vide la testa di un topo che nuotava nell'acqua; e un'altra volta un gemito flebile e pieno d'angoscia che sembrava provenire dalle pareti stesse della caverna lo riempì di terrore. Ma capì che era ormai vicino alla meta e che quella voce era umana, non la voce di un demone o di un essere dannato; e, cosa più importante, man mano che si avvicinava era sempre più convinto di sapere a chi poteva appartenere. Alla fine svoltò un angolo del tunnel. L'acqua continuava a ribollire alla sua sinistra, ma il sentiero era più largo di circa mezzo metro. Sulla destra c'era un'inferriata incassata nella parete. Le sbarre, spesse quanto il suo pollice, erano fissate saldamente nella roccia, mentre la porta al centro era chiusa con un robusto lucchetto. Dall'altra parte della grata c'era una cella non più di due metri e mezzo per lato. Disteso su un materasso in un angolo, sveglio e terrorizzato, c'era un pover'uomo che sembrava una versione più emaciata del principe Rudolf; ma quando si raddrizzò e si avvicinò alle sbarre, come attratto dalla luce del fiammifero, Jim vide che aveva avuto ragione a sospettare. Perché lì, davanti a lui, sotto quella barba incolta e la sporcizia, ma ancora evidenti come nel ritratto della Pinacoteca, c'erano le palpebre cascanti e il mento con la fossetta del fratello maggiore di Rudolf, il principe Leopold, ancora vivo.
«Vostra Altezza» sussurrò Jim in tedesco, sollevando il fiammifero. L'uomo non reagì in alcun modo. Gli occhi, lucidi e febbricitanti, sembravano vuoti e incapaci di comprendere, come quelli di un animale. «Principe Leopold? Siete voi, vero? Ascoltate, io mi chiamo Taylor, mi capite? Taylor. Vi farò uscire di qui. Diamo un'occhiata a questo lucchetto...» Ma in quel momento il fiammifero si spense e il principe gemette e corse via nell'oscurità. C'erano rimasti solo tre fiammiferi. Jim imprecò tra sé e sé e stava per accenderne un altro quando senti un rumore provenire dall'altra estremità del tunnel: il suono rimbombante di un grosso cancello di ferro che veniva aperto e poi il rumore di stivali pesanti. Qualcuno stava arrivando. Il principe aveva sentito e stava emettendo gridolini inarticolati. «Ascoltate, Vostra Altezza!» sussurrò Jim. «Ora devo andare, ma tornerò! Vi porterò fuori di qui... mi capite?» Poi, con la mano sinistra sulla parete del tunnel, si allontanò il più silenziosamente che poté. Quando ebbe svoltato il primo angolo si fermò per un istante e guardò indietro. C'era un leggero bagliore sulla parete umida, ma era fermo, e anche il rumore di passi era cessato. Sentì invece la voce di un uomo che diceva in tono gentile: «Su, su, ora smetti di piangere, ragazzo mio. Lutz è tornato. Vedi? Sono andato su solo per sgranchirmi le gambe e prendere una boccata d'aria. Cosa dici? Fiamma? Fuoco? No, no, quella è una lanterna, non ti brucerà. Mettiti giù e dormi un po', forza. Non vorrai essere sveglio quando prenderà servizio Kraus, vero?» Un debole gemito di paura; una grassa risata. Jim rimase in ascolto ancora per qualche istante, ma non udì più nulla. Si voltò e uscì dal tunnel. Mezz'ora dopo, mentre l'orologio del Palazzo batteva l'una, Jim stava aprendo la porta della sua stanza. Aveva mani e faccia sporche, gli stivali e i pantaloni infangati, la camicia umida e gelata e voleva darsi una ripulita prima di andare a svegliare il conte. Mentre chiudeva silenziosamente la porta vide un biglietto piegato sul pavimento. Lo aprì e lo lesse: Caro Jim,
devo proprio dirti cosa ho sentito questo pomeriggio. Non so cosa possa significare, ma la faccenda mi ha preoccupato. Credo che sia stato più il loro comportamento furtivo che quello che hanno detto... Era il messaggio di Becky del giorno prima, con un resoconto di quello che aveva sentito origliando involontariamente nella Sala delle Mappe. Mentre lo leggeva, Jim si sedette lentamente: era meglio evitare di svegliare il conte, dopo tutto. Ma era mai possibile che non ci fosse nessuno di cui fidarsi? Tutto questo maledetto Palazzo era un covo di intrighi e di segreti: avrebbero meritato che crollasse loro addosso e li seppellisse tutti. Ma c'era Adelaide... Adelaide stava tentando di salvarli da tutto quello schifo, maledizione! Jim accese l'ultimo fiammifero e bruciò il biglietto: era meglio andare sul sicuro, viste le circostanze. Ma se non poteva andare dal conte, poteva però andare da Frau Busch. A quell'ora doveva essere già tornata in camera sua. Si lavò la faccia e infilò in fretta degli abiti asciutti, mise delle scarpe con la suola di gomma e uscì dalla sua stanza. Il corridoio era buio, ma ormai lui conosceva bene la strada: in fondo fino alle scale, su nella mansarda e contare le porte fino al numero quattordici. Davanti alla porta si fermò e si mise in ascolto. Da sotto filtrava una pallida luce, mentre dall'interno si sentivano dei fruscii, come se qualcuno stesse tirando indietro le coperte del letto. Jim bussò piano e sentì un gemito soffocato. «Chi è?» Il giovane girò la maniglia ed entrò, chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé. «Jakob» disse. «Non si ricorda di me? Ho portato su il suo baule». «Cosa vuole? Lei non è un domestico, questo è evidente. Chi è lei?» La vecchia era in piedi accanto al letto, con una voluminosa camicia da notte bianca indosso e una cuffietta di pizzo sui capelli grigi. La fiamma della candela sul comodino tremolò per la corrente d'aria. «Sono il segretario privato del conte Thalgau» rispose Jim. «E lei è nei guai, Frau Busch. L'ho seguita fino alla grotta questa sera e ho visto l'uomo che è rinchiuso lì dentro. Perché il principe Leopold è tenuto prigioniero? E perché lei sta aiutando sua moglie?» La donna emise un gemito di sorpresa e si sedette sul letto. La sua bocca si aprì una, due volte e poi si richiuse e cominciò a tremare.
«Farà meglio a dirmelo» continuò Jim. «Lei sa che quella donna ha ucciso re Rudolf. Vede questa cicatrice che ho sulla mano? Me l'ha fatta lei con un coltello. E non sarei affatto sorpreso se ci fosse lei anche dietro la morte del principe Wilhelm e della principessa Anna. Suo marito era col principe Leopold quando è stato dichiarato morto... e ora, Frau Busch, lei è coinvolta in questa faccenda. È in grossi guai, ed è ora che se ne renda conto. Cosa sta succedendo qui?» La vecchia si portò una mano al petto e chiuse gli occhi. Poi fu scossa da un sospiro e cominciò a piangere sommessamente. «Io non volevo fare nulla di male! Tutto ciò che ho fatto l'ho fatto per amore! Cosa ha intenzione di fare? Ha intenzione di denunciarmi al barone Gödel? Lui mi farebbe fucilare! E a chi gioverebbe?» «Lei cominci a parlare» disse Jim. «Io mi siederò qui e ascolterò. Siamo soli e abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Mi dica tutto». La vecchia si infilò nel letto e tirò su le coperte fino al mento, tremando come se avesse un gran freddo. «Ero la bambinaia del principe Leopold» cominciò. «Sono stata la bambinaia di tutti, ma a lui volevo più bene che agli altri. Quando si sposò io fui la prima persona a cui lo disse. E mi portò sua moglie perché la conoscessi, in segreto. Vede, voleva che io l'approvassi. Si sentiva più vicino a me che a chiunque altro. Lei non era la donna che avrei voluto per lui, ma non spettava a me scegliergli una moglie e lei lo amava, a modo suo. Era una donna passionale e forte e io ero sicura che gli sarebbe stata accanto, e lui ne aveva tanto bisogno... Aveva tanta paura di suo padre, paura del barone Gödel, paura del proprio dovere... «Perciò mantenni il loro segreto, ma ovviamente non rimase un segreto a lungo. Lo scoprirono; bandirono lei dal paese e portarono lui a Ritterwald. Mio marito era il capocaccia della tenuta. Gli dissero cosa avrebbe dovuto fare: avrebbe dovuto portare il principe Leopold nella foresta e uccidere un cinghiale, ma far sembrare che prima il cinghiale avesse ucciso il principe. Degli uomini li aspettavano nella foresta e portarono via il principe, a Neustadt, dove c'era un manicomio, e lì fu rinchiuso. Io lo so perché il barone Gödel mi pagò per andare lì e prendermi cura di lui». «Quindi il piano era di Gödel?» «Oh, sì». «E il re ne era a conoscenza?» «Non erano affari miei. Agli occhi del re il principe Leopold morì quando sposò quella donna».
«Perciò fu opera di Gödel, il fatto di mantenerlo in vita... Ma è pazzo, pover'uomo». «E chi non lo sarebbe? Prigioniero sotto terra, nessuno che sa che è ancora vivo, con la proibizione di parlare a chiunque... È ovvio che sia impazzito, povero caro. Io ho fatto del mio meglio per prendermi cura di lui, ma l'ho visto accadere, giorno dopo giorno: la follia che si insinuava in lui come... come una ragnatela che cresce lentamente in una stanza vuota. Oh, quanto ho maledetto me stessa, più e più volte! Ho pregato e ripregato di poter tornare come d'incanto a dieci anni fa, prima che tutto questo accadesse! Mio marito, pover'uomo, lui sapeva e non è riuscito a sopportare il male che aveva fatto: si è sparato poco tempo dopo. Io mi sono presa cura del principe Leopold per tutta la vita: da neonato, da bambino, da ragazzo, da prigioniero, da folle. Mi sono presa cura di lui a Neustadt e quando l'hanno trasferito qui qualche settimana fa, hanno portato anche me perché gli restassi vicina...» «Perché Gödel l'ha portato qui?» «Non lo so. Non sono affari miei. Suppongo che voglia rovesciare quell'inglese... Lei è inglese?» «Sì». «Lo immaginavo. È al suo servizio?» «Sì. E anche lei lo è, Frau Busch. La regina Adelaide è il sovrano che Gödel non sarà mai. Ciò che lui sta facendo è alto tradimento e se lei farà una qualunque cosa per aiutarlo, diventerà anche lei una traditrice. Mi parli di quella donna, dell'attrice. Come si chiama?» «Il suo nome d'arte è Carmen Ruiz. Ma usa anche altri nomi». «Perché l'ha portata lì questa notte? Fa anche questo parte del piano di Gödel?» «No! Dio non voglia! Lui non sa niente di lei. Io ho mantenuto i contatti con quella donna per amor suo, per amore del principe. Principe... ah! Lui è il legittimo re e lei è la regina! Quell'inglese...» «Allora lei non conosce la sua storia! La regina Adelaide è l'Adlerträger, e a buon diritto. Pensa davvero che quel pover'uomo sia in grado di regnare? Non sarà più in grado di fare niente per il resto della sua vita. Cosa pensava che sarebbe successo quando ha coinvolto sua moglie? Sapeva che era lei la responsabile della morte degli altri due principi?» «Non ha niente a che fare con me». La vecchia lo fissò con aria di sfida, con le labbra strette, le guance arrossate, gli occhi cerchiati, ma duri. Jim sostenne il suo sguardo con de-
terminazione. Alla fine la donna cedette e grosse lacrime caddero sulle lenzuola. «Non sono affari miei!» singhiozzò Frau Busch. «Io le ho scritto perché lei lo amava! E l'ho portata lì questa notte perché voleva vedere con i suoi occhi che lui era ancora vivo! Tutto quello che faccio è per lui, il mio povero piccolo Leo, il mio principino...» «Vuole vederlo fuori da quel buco puzzolente?» «Sì!» «Anch'io. È necessario che venga liberato e curato nel modo giusto. Ma mi ascolti, Frau Busch». «La sto ascoltando...» Gli occhi della donna erano iniettati di sangue, il respiro affannoso. «Lei ha già agito all'insaputa di Gödel. Se lui dovesse scoprire cosa ha fatto, la punirebbe, la manderebbe via e lei non vedrebbe mai più il principe Leopold. E se non dovesse punirla lui, lo farò io. Se lei verrà mandata via, sarà la fine per il principe. Ora, dove posso trovare Carmen Ruiz?» «Cosa ha intenzione di fare?» «Qual è quella frase che usa sempre lei? Non sono affari suoi. Se vuole che il principe resti in vita e se vuole avere la possibilità di continuare a prendersi cura di lui, mi dica dove si trova quella donna». A quel punto la vecchia emise un singulto, o una specie di grido soffocato. Il respiro le uscì con grande fatica mentre diceva: «A Para... Parasole... Paracelso...» A quel punto la testa le cadde in avanti. Un gemito acuto le uscì di bocca e un filo di bava le colò sul mento e sgocciolò sulle lenzuola. Jim balzò in piedi, guardandosi intorno per cercare il cordone del campanello, ma ricordando un istante dopo che non ce n'erano nella stanza di un domestico. Frau Busch stava avendo una sorta di colpo apoplettico: cosa poteva fare lui? La fece distendere sul letto, si assicurò che non stesse soffocando e corse a bussare alla porta accanto. La aprì senza attendere una risposta e disse alla cameriera assonnata che lo fissò sbalordita dal suo letto: «Frau Busch, la stanza accanto alla tua. Sta male... non l'hai sentita gridare? Ha svegliato persino me! Vai a chiamare aiuto, e sbrigati». Lasciando la ragazza che si alzava a fatica, Jim tornò di corsa nella sua stanza, si mise in tasca il revolver e uscì di nuovo. Capitolo dodici
IL GIOCO DELLA POLITICA Quarantacinque minuti dopo, Jim stava salendo le scale polverose che portavano alla soffitta dove abitava Karl von Gaisberg. Bussò alla porta, la aprì e alla luce di un fiammifero vide che Karl era profondamente addormentato. Parte del tavolo era ancora occupato dagli avanzi della cena, sui quali banchettava un grosso topo che alla vista di Jim scappò via per andarsi a rifugiare in un buco nello zoccolo della parete, da cui rimase a fissare l'intruso con sguardo risentito. Accanto al piatto sporco c'era un libro di Schopenhauer con la lama di un fioretto come segnalibro; una candela si era completamente consumata tra le corna del cranio di una capra, sulle cui orbite vuote campeggiava un paio di occhiali rotti; un tappo di champagne chiudeva l'apertura di un calamaio incrostato. Sulla stufa di ghisa era appoggiata una sedia rotta, pronta per essere usata come combustibile; sulla parete sopra il letto di Karl, circondata da cuori disegnati sull'intonaco tutto sbriciolato, spiccava una fotografia dell'attrice Sarah Bernhardt, mentre sul pavimento tutto intorno c'erano almeno una ventina di fogli di carta coperti da macchie d'inchiostro, scarabocchi, cancellature, diagrammi e righe fitte in corsivo gotico. Il documento era intitolato Un esame delle implicazioni idealiste del platonismo di Schopenhauer. A metà dell'ultimo foglio c'era la trionfante parola 'Fine'. Jim scavalcò le carte, spalancò gli scuri e agitò rumorosamente l'attizzatoio nella stufa per rianimare le ceneri. Karl si mosse e gemette. «Che stai facendo? Chi è là?» «Sono Jim. Dove tieni il caffè?» «Nel vaso di fiori. Sul davanzale. Che ora è? Cosa ci fai alzato?» Karl si mise a sedere e rabbrividì, infilandosi poi in tutta fretta la vestaglia che Jim gli gettò. L'orologio della Cattedrale a un tiro di schioppo di distanza si risvegliò con un cigolio di ingranaggi, molle e pesi e l'antico meccanismo ripeté la sua consueta pantomima prima di battere le cinque, Karl si passò una mano tra i capelli e sbadigliò mentre Jim metteva dell'acqua a bollire sul fornello. «Ascolta, ragazzo mio» disse, «siamo nei guai...» Gettò l'ultima gamba della sedia nella stufa e poi si sedette per raccontare a Karl gli avvenimenti di quella notte. Quando ebbe finito, l'acqua nel pentolino di rame stava bollendo e Karl trascinò i piedi sul pavimento ge-
lido per cercare due tazze in un armadio. «Leopold?» disse. «Ne sei sicuro? È impossibile». «Io l'ho visto e ho visto anche l'attrice spagnola, e l'ho sentito dalla bocca della vecchia. È vero». «Ma... Perché? Cui bono? Chi ci ha guadagnato dall'averlo tenuto prigioniero per tutto questo tempo? Di certo non la famiglia reale...» «No. Non credo neppure che il vecchio re lo sapesse. Il piano è stato ideato da Gödel dall'inizio alla fine. Si è tenuto Leopold come asso nella manica per poterlo un giorno riportare sul trono. Ricordi la rissa in birreria la sera in cui ci siamo conosciuti? Quel tipo, Glatz, continuava a parlare di Leopold. Credo che ci sia una forte corrente di fautori della successione per via dinastica, in particolare negli angoli più oscuri di questo paese. Gödel sta progettando qualcosa ed è per questo che ha portato qui Leopold dal manicomio di Neustadt, per poterlo tirare fuori quando servirà...» «Ne hai parlato al conte Thalgau?» «No, maledizione. Anche lui sta tramando qualcosa». Jim raccontò a Karl del biglietto di Becky, poi andò alla finestra per guardare fuori. Il vento della notte aveva disperso le nubi e l'aria era fresca; a est le stelle stavano sbiadendo mentre la luce dell'alba illuminava lentamente il cielo dietro di esse. «Quindi abbiamo due cose da fare» continuò Jim. «Dobbiamo salvare il principe Leopold, sia per il suo stesso bene che per mandare all'aria i piani di Gödel, e dobbiamo trovare la spagnola. E dobbiamo fare entrambe le cose senza dirlo al conte. Conosci un qualche posto nella Città Vecchia che abbia un nome tipo Paracelso?» Adelaide si svegliò presto. Rimase distesa per un po', tesa e ansiosa sotto le lenzuola di lino, accarezzando il gattino nero ancora addormentato e pensando con inquietudine al momento in cui avrebbe illustrato i propri piani ai negoziatori della Germania e dell'Austria-Ungheria. Man mano che la città si risvegliava intorno a lei, si sentì al centro di un brulicare di vita. Riusciva quasi a vederli tutti, i suoi sudditi: i domestici che sbadigliavano e accendevano i fuochi nelle gelide cucine, i panettieri che infilavano le loro pale sotto pagnotte fumanti per tirarle fuori dai forni, i contadini che schiaffeggiavano delicatamente i fianchi delle mucche nei mungitoi, i monaci dell'Abbazia di San Martino che borbottavano l'ufficio della Prima. Si stavano svegliando tutti, uno dopo l'altro, e solo il piccolo Pentolino dormiva ancora. Mentre il sole sorgeva e il traffico nelle strade si intensificava, mentre i
camerieri dei caffè si affaccendavano tra i tavoli con tazze fumanti e paste calde, il capo della rappresentanza austriaca era in piedi davanti alla finestra aperta dell'ambasciata, respirando profondamente e facendo roteare un paio di clave per corroborare la circolazione. La sua controparte tedesca, invece, era ancora distesa a letto, assonnata, a riflettere se ordinare una brioche in più per colazione in previsione della dura giornata che l'attendeva. In un appartamento al terzo piano di un vecchio e solido edificio sulla Glockengasse, uno degli impiegati del Ministero degli Affari Esteri razkaviano si tamponò i perfetti baffi con un fazzoletto immacolato, spinse indietro la sedia dal tavolino e dopo essersi lisciato i capelli già impomatati, uscì nell'atrio per salutare la sua famiglia. Sua moglie gli porse la valigetta e il cappello di feltro; le sue cinque figlie erano già allineate in ordine di altezza, pronte per ricevere il suo bacio. «Arrivederci, Greti... Inge... Bertha... Anna... Marlene. Fate le brave. Lavorate sodo oggi, come farà papà. Arrivederci, mia cara. Farò un po' tardi questa sera: ho un incarico eccezionale. Davvero eccezionale!» Tutte aspettarono rispettosamente che l'uomo desse un'ultima rassettata ai propri baffi nello specchio e che ponesse con disinvoltura il cappello sulla testa imbrillantinata e poi lo salutarono con la mano mentre si avviava giù per le scale. «Arrivederci, papà! Arrivederci!» Da ogni parte della città i colleghi di Herr Bangemann, gli impiegati, i segretari e i giovani assistenti amministrativi, si stavano dirigendo verso il Palazzo, con passo più spedito e scarpe più lucide del solito. I maestri di cerimonie e i servitori del Palazzo erano invece impegnati a preparare la Sala Consiliare per i colloqui. La Sala Consiliare era nel lato più soleggiato del Palazzo: la luce autunnale inondava ogni cosa al suo interno di immacolato splendore. Sul tavolo era stato disposto un tappeto verde e a ogni posto (sedici in tutto: cinque ciascuno per la Germania e l'Austria-Ungheria, cinque per la Razkavia e la sedia della regina al centro) c'era un tampone di carta assorbente, un calamaio di cristallo con inchiostro rosso e nero, un piccolo vassoio con penne e matite, una caraffa d'acqua, un bicchiere e un posacenere. Dietro ogni sedia principale ce n'era una più piccola e meno comoda su cui si sarebbe seduto un impiegato o un segretario. Dietro la sedia di Adelaide, ovviamente, c'era quella di Becky, leggermente sulla destra. Mentre i delegati si riunivano nell'anticamera, con i segretari che strin-
gevano tra le braccia i fasci di carte e le scatole di documenti e i volumi delle argomentazioni giuridiche, Adelaide la regina era in piedi nel suo salotto al piano di sopra e si guardava attentamente nello specchio tenuto sollevato dalla sua cameriera. «Molto affascinante» disse. «Li stenderò tutti. Ecco, sistemami quella ciocca dietro l'orecchio... così, bene. Becky! Piantala di sbadigliare! È la terza volta in due minuti. Non sono venuti qui per guardare le tue tonsille, ragazza mia. Sei stata in piedi tutta la notte? Sembri uno straccio. Non dovresti spassartela quando abbiamo un lavoro importante da fare. Che ora è? Da quanto tempo aspettano? Diamogli un altro minuto. Cinque minuti di ritardo è regalità; quattro è impetuosità; sei è languidezza. Oggi non voglio essere languida. Farò ballare tutti quei bastardi al suono della mia musica, vedrai. Va bene, Marie-Hélène, smettila di agitarti e vai ad aprire la porta. Dov'è il conte? Ah, eccolo...» Aggrottando con forza la fronte per tentare di soffocare un altro sbadiglio, Becky la seguì. Non aveva dormito bene: i suoi sogni erano stati tormentati da una donna dai capelli scuri armata di coltello, una figura senza volto con un mantello nero che si arrampicava lentamente su una parete del Palazzo verso una finestra ma, se fosse la sua o quella di Adelaide, Becky non avrebbe saputo dirlo. E ora la testa le doleva e aveva gli occhi rossi. Be', avrebbe dovuto concentrarsi come mai in vita sua per aiutare Adelaide durante questi colloqui. Era per questo che era diventata regina, aveva detto Adelaide. Questa era la cosa più importante che avrebbe mai fatto in vita sua. Sua Maestà era pallida, composta, bella. Solo le labbra serrate e lo strofinio del pollice contro l'indice tradivano la sua tensione mentre i lacchè si inchinavano al suo cospetto e aprivano le porte che portavano alla Sala Consiliare. Be', se mai non dovesse essere più regina potrebbe fare una folgorante carriera sul palcoscenico, pensò Becky, guardando tutti quegli occhi che si posavano su di lei e si spalancavano di ammirazione. Adelaide andò al suo posto e cominciò a parlare. Aveva scritto lei stessa il discorso, lettera per lettera, con grande fatica, e Becky l'aveva tradotto e l'aveva ascoltata mentre lo provava fino alla perfezione. Ora l'insegnante guardava con orgoglio la sua allieva mentre con voce chiara pronunciava le parole in un tedesco impeccabile, con un tono perfetto per la grandezza della stanza e la solennità dell'occasione. «Buongiorno a tutti voi. Benvenuti nella Sala Consiliare del mio Palaz-
zo. In principio pensavo di tenere questi colloqui nella Sala Grande del Castello, dove Walter von Eschten firmò nel 1254 il Trattato che garantì la libertà della Razkavia. «Ma poi ho deciso che i castelli sono per i tempi di guerra, i palazzi per i tempi di pace. Oggi la Razkavia non è minacciata come lo era allora: il nostro piccolo paese è saldo e sicuro e incrollabile». A quel punto fece una breve pausa, con un leggero sorriso sulle labbra e, come sperava, sentì un mormorio di approvazione, uno strascicare di piedi, alcuni cenni discreti col capo. Chi poteva essere in disaccordo con un qualcosa dichiarato con così tanta innocenza? Ed era esattamente ciò che serviva a instaurare un'atmosfera di disponibilità, di buone intenzioni, persino di sottile umorismo. Becky si mise al lavoro e ben presto dimenticò il dolore alla testa e la rigidezza delle spalle, affascinata com'era dalla storia che si compiva davanti ai suoi occhi. Al Café Florestan i Richterbund stavano mettendo in comune tutto ciò che sapevano della città. Paracelso... Che diavolo significava? «Paracelsus-Strasse?» suggerì qualcuno. «Esiste una strada con quel nome?» «No! Forse pensavi ad Agrippa-Strasse, vicino al Castello!» «Be', un altro alchimista... Paracelsus-Garten, ecco cosa intendeva». «Non è Paracelsus-Garten, è Parasol-Garten! Dove c'è il Teatro delle marionette!» «Oh, sì. È vero. Be', c'è anche un Paradies-Garten. Potrebbe essere quello». «Restiamo su Paracelso, per l'amor del cielo. Paracelsus-Platz? Esiste una Paracelsus-Platz?» «È un codice. Si riferiva all'alchimia e quindi all'oro. Credo che intendesse Goldenergasse». «C'è un quadro di Paracelso da qualche parte. Sono sicuro di averlo visto. Al museo...» Jim guardò verso Karl, che sbuffò. «Meglio cominciare a cercare» disse. «Ciascuno di noi prenderà una parte della città e la setaccerà a fondo. Qualunque cosa troverete, riferitela. Anton, tu resta qui e prendi nota della posizione di ciascuno e di cosa ha scoperto...» E così la ricerca di Paracelso incominciò.
Adelaide mise in questo gioco politico tutta l'astuzia e la passione che metteva in ogni altro gioco e Becky iniziò a capire che con tutta probabilità con ogni lancio di dado e con ogni mossa sulla scacchiera la sua amica si stava preparando proprio per questo momento. Con il passare delle ore, e l'ormai quasi definitivo chiarimento delle posizioni delle parti, Becky, che accanto a lei era al centro del gioco, continuò a seguire le mosse della regina con crescente ammirazione. Verso metà mattina il ministro del Commercio tedesco insistette per ottenere un forte sconto sul prezzo del nichel razkaviano come compensazione per non avere avuto l'autorizzazione a comprare l'intera produzione. Adelaide chiese allora una sospensione e mentre il resto dei delegati usciva in terrazza a fumare i loro sigari, assorti nelle loro conversazioni, la regina fissò il ministro tedesco con i suoi grandi occhi scuri pieni di passione e lo invitò a uscire con lei per vedere le ultime rose del roseto. L'uomo non poté rifiutare e Becky, che faceva da interprete alla regina a un passo dietro di loro, guardò allibita i due che passeggiavano insieme tra i cespugli di rose. Adelaide continuò a guardare l'uomo negli occhi e gli parlò con fervore della grande ammirazione e dell'affetto che la Razkavia aveva per la Germania e dell'esistenza di un mistico legame di affinità tra i due popoli, un'unione spirituale che andava ben oltre le esigenze del commercio. Non passarono cinque minuti che già il pover'uomo era quasi convinto che, primo, Adelaide era innamorata di lui; secondo, lui era una persona troppo nobile per sfruttare la cosa a suo vantaggio e, terzo, lei avrebbe serbato per sempre nel cuore una sua eventuale offerta di aiuto. Così quando i colloqui ripresero, lo sconto su cui le parti si accordarono era di gran lunga inferiore a quello che i tedeschi avevano chiesto all'inizio. Poi fu il turno degli austriaci a creare difficoltà. Il loro capo delegazione insistette per aumentare la quantità di nichel che acquistavano dalla Razkavia da duecento a trecentocinquanta tonnellate l'anno. Becky vide che i tedeschi stavano cominciando a irritarsi, ma proprio in quel momento i colloqui furono aggiornati per il pranzo. Adelaide prese da parte il conte Thalgau, che a sua volta parlò con un lacchè, e quando entrarono nella Sala Banchetti, chi si ritrovò seduto vicino a Sua Maestà? Nientemeno che il ministro delle Finanze austriaco. Era un tipo molto diverso dal più impressionabile tedesco e in principio Adelaide trovò difficoltà a lavorarselo, anche perché, ovviamente, il posto a capotavola di fronte a tutti gli ospiti non si prestava certo a civettare apertamente. Alla fine, insieme alla Charlotte à la Parisienne, arrivò l'opportunità che
cercava. Adelaide aveva portato la conversazione verso gli interessi del ministro al di fuori della professione. Gli piaceva la musica, ad esempio? Vienna era praticamente la patria della musica... Con una certa riluttanza l'uomo menzionò la caccia. Becky vide Adelaide chinarsi leggermente verso di lui e ascoltare con attenzione. La caccia? Quello era uno sport che avrebbe adorato praticare. Cosa avrebbe dovuto cacciare per prima cosa? Come cominciare? Un minuto dopo il ministro aveva dimenticato il suo pranzo e stava parlando in termini così lirici delle gioie dell'inseguimento della preda che Becky pensò che sarebbe stato appropriato far accompagnare la propria traduzione dal suono dei corni. Adelaide ascoltò con attenzione, incitandolo a continuare con una domanda qui e un commento lì e Becky capì che ormai l'aveva in pugno; e, come volevasi dimostrare, durante la riunione del pomeriggio venne fuori che le foreste che circondavano le miniere di nichel erano eccezionalmente ben fornite di selvaggina di tutti i tipi e che aumentare la produzione del metallo avrebbe comportato la costruzione di una nuova strada tra quelle montagne e di conseguenza la rovina dell'habitat naturale e di ogni possibilità di caccia. Questo fatto gettò nuova luce su un'eventuale espansione dell'attività mineraria. C'era ancora abbondanza di metallo, ma sarebbe stato necessario sviluppare nuovi metodi di estrazione, magari con l'assistenza dell'Istituto Imperiale per l'Estrazione Mineraria di Vienna... Il ministro austriaco era ansioso di essere d'aiuto. Becky osservò con crescente stupore il cambiamento avvenuto nella ragazza imbronciata, annoiata, mal vestita e analfabeta che aveva conosciuto solo pochi mesi prima. Quella Adelaide avrebbe sbuffato, messo il muso, scalpitato; la nuova era paziente, piena di grazia, arguta e ostinata. Becky, che era una ragazza sinceramente modesta, non pensò neppure per un momento di avere un qualche merito per quella metamorfosi. E poi, alla fine della giornata, si rese conto che l'enorme mutamento avvenuto non riguardava solamente il suo modo di vedere Adelaide, ma anche la storia stessa della Razkavia, perché le Grandi Potenze stavano ora discutendo amichevolmente su un qualcosa per cui in altri tempi si sarebbero fatte la guerra; e per di più non c'era neppure il minimo sentore che il futuro della Razkavia come stato indipendente potesse essere altro che garantito. Tuttavia rimaneva la necessità di assicurare tale futuro e quello sarebbe stato l'argomento di discussione della successiva giornata di colloqui. Becky quasi moriva dal sonno: andò dritta a letto, con la gola infiammata e la testa che le martellava, e dormì come non aveva mai dormito in vita sua.
Stava facendo il suo lavoro, un lavoro complesso e importante: avevano bisogno di lei. Era completamente felice. Strade senza nome, vicoli senza fine, piazzette che invitavano a entrare e poi nascondevano la via d'uscita... Gli studenti del Richterbund erano in grado di identificare anche la più velata delle argomentazioni tra le fitte pagine della filosofia hegeliana, ma individuare una persona in carne e ossa richiedeva un tipo diverso di abilità. La ricerca continuò per tutta la prima giornata dei colloqui, invano. Lo studente al comando delle operazioni presso il Café Florestan fu sostituito tre volte e sul suo tavolo la mappa della città continuò a espandersi mentre un foglio dopo l'altro veniva incollato al precedente, riempito e messo da parte. Il gruppo passò in rassegna ogni possibile variazione sul nome 'Paracelso', da Paradiso a Parigi a Parallelo, Paraguay, Parasole, Paralisi; poi si pensò a Cornelius Agrippa, Alberto Magno e chiunque altro anche solo vagamente collegato all'alchimia; si pensò all'oro e a qualunque cosa avesse la parola 'oro' all'interno; a Theophrastus Bombastus von Honenheim, ossia il nome completo di Paracelso... ma senza risultati. Al calare dell'oscurità Jim e Karl si incamminarono senza fretta verso l'antico ponte e si appoggiarono sulla balaustra di pietra affacciata sul fiume. «Parapetto» disse Karl. «Paracolpi». «Parabola. Cosa faremo quando la troveremo, Jim? La arresteremo?» «No. La polizia farebbe un gran pasticcio e non sono neppure certo di potermi fidare del conte Thalgau. Pensavo invece che potremmo offrirci di aiutarla». «Cosa?» «O fingere di farlo. Andare da lei e dire, 'Senti, tu vuoi liberare Leopold, noi ti aiuteremo a salvarlo. ' Il principe è indifeso come un bambino: ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui e Frau Busch ha avuto un ictus e non può muoversi né parlare, perciò quel qualcuno dovrà essere Carmen Ruiz. Dopo tutto lei sa in che stato si trova suo marito. E sa dove si trova e che è ben sorvegliato. Non riuscirebbe mai a liberarlo da sola. Potrebbe avere un complice, quell'uomo che Herr Egger credeva fosse un fotografo, ma per un lavoro del genere ha bisogno di un nutrito gruppo di persone. Ha bisogno di noi». «Quindi usiamo lui come esca per catturare lei, vuoi dire?»
«Esattamente. E una volta che li avremo entrambi nelle nostre mani, potremo sistemare quel bastardo di Gödel; potremo mettere lei sotto chiave e trovare qualcuno che si prenda cura di Leopold e sistemare l'intera faccenda. Quindi è così che faremo. Tu hai un piano migliore?» «No, non ce l'ho. A proposito, hai dormito la notte scorsa?» «No, ora che ci penso». Jim fece un grosso sbadiglio. «Non sarebbe meglio che andassi a riposarti un po'? In caso contrario non credo che sarai in grado di fare proprio un bel niente, e meno che mai combattere dentro un tunnel. Noi continueremo a cercare. Se la troveremo prima di domattina, ti farò recapitare un messaggio». Jim gli diede una pacca sulle spalle. «Bravo ragazzo» disse. «Porgerò a Fräulein Winter i tuoi saluti, va bene? Si è presa una bella cotta per te l'altro giorno. Tornerò al Café domattina presto». Capitolo tredici LA PICCOLA PALLA DI VETRO Il tempo stava cominciando a cambiare. Una depressione sull'Europa centrale aveva portato venti freddi dalla Russia e con essi le prime nevicate dell'inverno. Non c'era nessun pallido sole a illuminare la Sala Consiliare il secondo giorno di colloqui trilaterali. Becky si era svegliata da un sonno profondo e tormentato, in cui era stata tenuta prigioniera da tre donne spagnole esattamente identiche. Jim era arrivato come D'Artagnan con una spada e un cappello con la piuma e una ridicola barba finta, che secondo lui serviva per tenere lontane le mosche. Lei aveva tentato di fargli capire con una certa irritazione che stava confondendo 'moschettiere' con 'mosche', ma lui non aveva voluto ascoltarla, così lei l'aveva afferrato per le spalle e l'aveva scosso e si era svegliata ritrovandosi a lottare con la cameriera. Le sembrava che fosse passato solo un minuto da quando era andata a letto... Bagno, colazione, un gargarismo e via di nuovo nella Sala Consiliare. Nonostante il cielo grigio fuori, l'umore positivo del giorno prima era ancora intatto: era come se i partecipanti fossero in balia di un incantesimo, che li aveva resi gioviali, indulgenti e ansiosi di venire incontro alle esigenze delle controparti e di cercare attivamente il modo per superare le loro obiezioni. Becky, al centro di tutto, più di ogni altro poteva rendersi
conto di quanta parte di quell'incantesimo fosse merito di Adelaide, quanta parte di quel buonumore, di quella galanteria risvegliata e al tempo stesso ricompensata dalla sua naturale grazia. Durante il pranzo Becky si chiese se un uomo sarebbe stato in grado di fare tutto questo, e si rispose da sola: no. Ma questo significava che il successo di Adelaide era dovuto interamente al suo fascino? Una qualsiasi bella donna sarebbe riuscita a far firmare un trattato di questa importanza solo con la civetteria e un pizzico di malizia? Ovviamente no. Non era il suo fascino che stava compiendo l'opera: era la sua abilità strategica di giocatrice, la sua naturale caparbietà e il suo spirito arguto. La sua bellezza era solo una carta tra le tante che aveva in mano ed era quindi giusto usarla. Becky, che non era bella, non provava però alcuna invidia, solo ammirazione. Più tardi, nel pomeriggio, uno studente entrò nel Café Florestan e si avvicinò ai tre tavoli ormai occupati dalla mappa in via di espansione. Stropicciato, gualcito, macchiato e pieno di cancellature, l'enorme foglio si estendeva davanti ad Anton e ai due sconsolati studenti accanto a lui come fosse la più sporca tovaglia del mondo. «Non ne sono sicuro...» cominciò titubante lo studente. «C'è una piazzetta con una fontana piena di foglie cadute e una statua di marmo e io credo che la statua possa essere Paracelso. A ogni modo somiglia molto a quel suo ritratto che c'è al museo. Ma non c'è scritto niente». «Dov'è?» chiese Anton, prendendo stancamente la penna. «Be', è... diciamo...» Lo studente si chinò sulla mappa per tentare di darle un senso. «Lì. Pressappoco. In fondo a quel vicoletto. Si chiama Hohenheim-Platz. Potrei portarti lì...» «Hohenheim-Platz?» «Quello era...» cominciò uno degli altri. «Quello era lui» disse un altro. «Credo che ci siamo riusciti! Fatti un rum! Anzi, due! Karl e Jim saranno di ritorno fra cinque minuti. Ce la fai a bere due rum in cinque minuti, eh?» E trenta minuti dopo lo studente, leggermente stordito dall'alcol, mostrava a Jim e Karl la piazzetta. Era tanto piccola da essere quasi un cortile; un grosso albero di platano la sovrastava tutta, inclusa la piccola fontana quasi soffocata dalle foglie e la statua di marmo di un uomo dall'aspetto imbronciato, bilioso, avvolto in un mantello e che guardava torvo un libro aperto.
C'era solo una casa sulla piazza, perché sugli altri lati c'erano il muro di un cimitero, il lato di una chiesa e il retro di un negozio di articoli di cancelleria. Jim si mordicchiò l'unghia del pollice, riflettendo. «Sarà meglio che ci assicuriamo che non ci siano vie d'uscita sul retro» disse. «Non fissare la casa; siediti sul bordo della fontana e fingi di disegnare la statua o qualcosa del genere. Tornerò tra cinque minuti». Quando tornò, aveva con sé un grosso fascio di rose. Karl sollevò le sopracciglia. «Quella donna è un'attrice» disse Jim, «e io conosco le attrici. Hanno bisogno di attenzioni e lusinghe. E anche gli attori. E quando dico che ne hanno bisogno, intendo che ne hanno davvero bisogno, come tu e io dell'aria per respirare. Questi fiori ci faranno entrare in quella casa, vedrai». Scrisse un biglietto, lo mise tra le rose e tirò il campanello della casa alta e stretta e dalla facciata scura. Dopo un minuto la porta fu aperta da una trasandata cameriera. Jim le diede i fiori e disse: «Per la gentildonna spagnola che abita qui. Glieli porti su: c'è anche un biglietto». La cameriera aprì la bocca per dire qualcosa, ma cambiò idea e si strinse nelle spalle. «Aspetteremo qui» disse Jim. La donna annuì e chiuse la porta. Trascorsero dieci minuti, durante i quali Jim lanciò ciottoli nella fontana, li ripescò, costruì con essi una piccola piramide sul bordo della vasca e fece pratica di tiri di golf con il suo bastone sui ciottoli. Alla fine la porta si aprì di nuovo. «Prego, entrate» disse la cameriera. «Fräulein Gonzales vi riceverà». «Ah, ora è Gonzales» sussurrò Jim a Karl, e lasciando fuori l'altro studente a fare la guardia, i due seguirono la cameriera su per una scala buia e che puzzava di cavolo fino a una porta del secondo piano. Jim teneva la mano sulla pistola che aveva in tasca. La cameriera bussò, aprì e disse: «I suoi ospiti, Fräulein» prima di farsi da parte per lasciarli entrare. Carmen Ruiz era in piedi accanto all'unica poltrona, con le rose tra le braccia. Se anche non avesse saputo che era un'attrice, Jim l'avrebbe sospettato dal portamento, dall'inclinazione della testa e dall'intensità dei suoi occhi scuri ed espressivi. Portava i capelli neri tirati meticolosamente indietro dalla fronte e acconciati in modo elaborato sulla testa; gli occhi erano truc-
cati con il kohl e le labbra dipinte accuratamente di rosso. Sul palcoscenico sarebbe stata un'apparizione di sicuro effetto, ma in quella stanzetta stretta scarsamente illuminata dalla luce grigia del tardo pomeriggio, con il fuoco spento e una tazza di tè sporca posata sul tavolino accanto a una borsetta, l'impressione era di squallore. La donna indossava un abito liso e spiegazzato e aveva le scarpe impolverate. Stava tremando. Per un istante Jim pensò che fosse per il freddo. «Chi è lei?» disse in un tedesco molto più approssimativo di quello di Jim. «Il suo nome non significa niente per me. Cosa vuole?» «Vogliamo aiutarla a liberare il principe Leopold dalla grotta artificiale» rispose Jim. Un momento di silenzio scioccato... Poi la donna gettò via i fiori e gli saltò addosso come una tigre, i denti scoperti e le unghie pronte a cavargli gli occhi: era puro istinto, odio, aggressività. Se Jim non si fosse mosso lei l'avrebbe fatto a pezzi con le sue mani e ne avrebbe bevuto il sangue... o almeno quella era l'impressione che dava. Ma anche lui era un combattente istintivo e si fece agilmente da parte, facendola inciampare e finire pesantemente a terra. La donna si raddrizzò e si voltò all'istante, ma Jim era pronto: prima che potesse balzargli nuovamente addosso, aveva tirato fuori la pistola. Neppure il furore poteva impedirle di rendersi conto che era stata sconfitta. Si accucciò e lo incenerì con gli occhi, tremando per la tensione, mentre Karl la guardava con la bocca spalancata. «Si sieda» disse Jim. «Facciamo finta di essere persone civili. Voglio sapere qualcosa di più su di lei, Señora Ruiz. O Menendez. O Gonzales. Ma al momento sono io che comando, non lei. Perciò faccia come dico e si sieda». «Inglese» disse. «Lei è inglese». «Esatto». La donna non si era ancora mossa. Jim indicò la sedia e, altera e riluttante, lei si alzò e vi si accomodò con regalità. Fece poi dei respiri profondi, col petto che si sollevava e si abbassava sotto l'abito di seta rossa e le labbra scarlatte increspate di disprezzo. «Anche lei è inglese» continuò, la voce piena di veleno. «Quella piccola nullità, quel topo di fogna londinese, quella strega dal bel visetto. Avrei dovuto esserci io al suo posto! Una bambina! Un gattino con gli occhi ancora chiusi e il muso sporco di latte! Che cosa ne sa lei? E suo marito, quel pagliaccio! L'eterno bambino mai cresciuto! Guardate lei e poi guardate me, e dov'è il confronto? Lei non vale un soldo paragonata a me! Sciatta,
ordinaria, volgare, rozza, ignorante, stupida... stupida, stupida, vuota!» «Quando ha scoperto che suo marito era ancora vivo?» chiese Jim. La donna batté le palpebre e sembrò fare uno sforzo per concentrarsi sulla domanda. «Un anno fa. Mi scrisse la sua vecchia bambinaia. Pensava di stare per morire e si sentiva in colpa. Aveva tenuto i ritagli di giornale! Di ogni spettacolo che avevo fatto, in ogni parte d'Europa! Immaginate un po'... Lei si prendeva cura di lui al manicomio e gli teneva da parte quei ritagli. Ma a un certo punto si sentì in colpa e decise di dare pace alla sua anima. Così mi scrisse. Io restai stupefatta... Ma sapevo. Ho sempre saputo che lui non era morto. Il mio cuore era in una prigione, ma non in una tomba. Io lo sentivo... sentivo che era ancora vivo». Si asciugò furiosamente le lacrime. Le sue emozioni erano sì teatrali, ma anche potenti. «Che crudeltà!» gemette. «Tenerlo rinchiuso per così tanto tempo, in segreto! Meglio averlo ucciso subito! Sarebbe stato più pietoso tagliargli la gola e lasciarlo morire dissanguato! Maledetti! Bas...» Mentre parlava, la donna aveva allungato la mano lungo il lato della sedia, e fu Karl a notare ciò che Jim non poteva vedere, il luccichio di una lama. Questa volta fu lui a balzare su di lei e a gettarla a terra quando tentò di aggredirlo. Ringhiando, la donna cadde e si divincolò con agilità dalla presa di Karl, e a quel punto lo studente rotolò su se stesso e diede un calcio al tavolo, facendolo cadere tra di loro e infrangendo la tazza di tè. Jim allora le mise un piede sul polso e si chinò per strapparle il coltello di mano. «Ora basta» disse. «Karl, versa alla signora un bicchiere di brandy... Dovrebbe essercene un po' nella credenza. Ora mi ascolti» continuò, chinandosi per afferrarle senza troppi complimenti i capelli e voltandole la testa in modo che lo guardasse. «Io non sono un gentiluomo. Non avrei alcuna remora a picchiarla. A quanto ne so lei non è altro che una sporca assassina e se io la uccidessi ora, il mondo sarebbe un posto migliore. Ma c'è quel poveraccio rinchiuso al buio, e ora che l'ho visto mi sento in dovere di aiutarlo, perciò lei ci aiuterà a liberarlo, mi ha capito?» La scosse con forza. Lei gli sputò addosso e Jim la scosse ancora. La donna si divincolò e tentò di morderlo e a quel punto lui la schiaffeggiò con tanta forza che per un istante lei non riuscì a respirare per lo shock. Poi lo guardò sconcertata. Con estrema cautela Jim le lasciò andare i capelli e la aiutò a sedersi sulla poltrona. Karl le portò il brandy e la donna strinse il bicchiere con entrambe le
mani, tremando. «Beva» ordinò Jim. Lei ne bevve un sorso. Il giovane si chinò per raccogliere la borsetta che era caduta nel caminetto e la trovò leggera e vuota. La Señora Ruiz si ripulì il viso col dorso della mano: niente colpettini aggraziati con il fazzoletto per lei, solo pura fisicità animale. Il segno della mano di Jim sul suo viso spiccava di un rosso acceso, e con i capelli in disordine e il trucco degli occhi colato sulle guance sembrò all'improvviso più vecchia, ma più reale, più avvicinabile. Jim si sedette. «Ora deve dirmi tutto. Cominci dal principe Leopold». Lei fece un sospiro tremante. «Si innamorò di me a Parigi. Ci sposammo quasi subito. Perché non avrei dovuto sposare un principe? Ero degna di diventare una regina. Ma loro non lo permisero. Tentarono di annullare il matrimonio, tentarono di corrompermi affinché gli dessi i motivi per ottenere un divorzio, tentarono il ricatto, tentarono con le minacce. Non servì a niente. Così mi rapirono e mi fecero portare in Messico, in una sporca cittadina sulla costa del Pacifico a mille miglia dalla civiltà. Avevano il potere di fare una cosa del genere! E quando riuscii ad avere notizie, mio marito era morto. Ma io ho sempre saputo che non era vero. Sapevo che avrebbero fatto qualunque cosa, non hanno scrupoli, nessuna coscienza. Nessuno di loro! Erano tutti d'accordo, tutta quella putrida, dissoluta, vigliacca massa di corrotti che è la Corte, dal primo all'ultimo...» «Anche il conte Thalgau?» «Non conosco quel nome. Chi è? Non è importante». «Otto von Schwartzberg?» «Un cugino. Per loro non significa niente. Lo disprezzano perché è rozzo, selvaggio. Io intendo dire la corruzione che è al cuore di ogni cosa, la Corte stessa. Il vecchio re, lui sapeva cosa avevano fatto a Leopold. Non dovette dire niente a Gödel o a chi per lui: bastò un cenno del capo, un movimento delle dita» mimò il gesto, «e loro capirono ed eseguirono. Lo rinchiusero, finsero che era morto. Tutto quello che io ho fatto» - si premette una mano sul cuore e si raddrizzò, con gli occhi lampeggianti di orgoglio e di sfida - «è stato pulito. La dinamite e le pallottole sono pulite, niente a che vedere con la sporca vigliaccheria di imprigionare un uomo finché non impazzisce. Io li ho uccisi! Sì! E continuerò finché non saranno tutti morti e all'inferno!» «Ma non ha fatto tutto da sola. Aveva dei complici». «Non avevo nessun complice. Avevo il denaro. Si può pagare la gente
per fare qualunque cosa». «Ma non le è rimasto più niente...» Jim le mostrò la borsetta vuota. «Ne ho a sufficienza per pagare la padrona di casa». «E poi?» A quel punto lei lo guardò negli occhi, e quello che Jim vide fu un'anima davvero confusa, infelice, e non una fiammata di passione abilmente confezionata per superare le luci dei riflettori e abbagliare la platea. «Non lo so...» rispose. «Voglio aiutarlo. La bambinaia, Frau Busch, non riesce a tirarlo fuori di lì: ha corrotto la guardia per lasciarci soli per cinque minuti, ma ha paura di Gödel. Io no, ma da sola non ho potere». Non molto, almeno, pensò Jim. Guardò Karl e poi tornò a fissare lei. «Va bene» disse. «Ora mi ascolti. Lui deve uscire da quel maledetto buco nella roccia... e noi lo tireremo fuori, questa notte. Ma se lei crede che quella banda di parassiti che ruota intorno a Gödel le permetterà anche solo di avvicinarsi al trono, allora è pazza. Non appena Leopold si sarà rimesso, loro la uccideranno senza pietà. No, non m'interrompa. Leopold non sarà mai re, ma ha la possibilità di vivere una vita abbastanza decente se lei l'aiuterà. E questo vuol dire aiutare noi. In realtà lei non ha altra scelta. Questa è l'unica via». La donna batté le palpebre, e per un istante nei suoi occhi ci fu un fremito di ribellione, un rifiuto che si agitava nel suo animo come un uccello ferito che tenta di sfuggire al gatto... Ma non riuscì a spiccare il volo; non poté far altro che continuare a dibattersi affannosamente dentro di lei. E Jim il gatto non si era mai sentito più crudele. La Señora Ruiz chinò il capo. «Cosa devo fare?» chiese. Jim glielo disse. Il fremito nei suoi occhi si calmò, come se una presenza invisibile avesse improvvisamente taciuto e si fosse ritirata in qualche oscuro meandro della sua mente, e per un po' Carmen Ruiz si dimostrò mortificata e ansiosa di compiacere... e anzi così ansiosa e così cordiale che Jim dovette fare forza su se stesso per ricordare chi era e cosa aveva fatto, e ugualmente gli sembrava impossibile da credere. Nella Sala Consiliare, il secondo giorno di colloqui volgeva alla fine e lo schema generale del trattato era stato delineato. Era un risultato stupefacente. Adelaide aveva persuaso le due potenze a garantire congiuntamente l'indipendenza della Razkavia, a venire in suo aiuto se fosse stata minacciata, a rispettare i suoi confini, a estradare i contravventori alle leggi pe-
nali, a creare un'Unione Doganale per consentire il libero scambio di merci e servizi... in breve, a rinunciare a qualsiasi rivendicazione che entrambi avrebbero potuto avere sul piccolo regno che sorgeva in mezzo a loro. I funzionari e i segretari di tutte e tre le delegazioni furono lasciati a completare la stesura finale del trattato per la cerimonia della firma che sarebbe avvenuta la mattina dopo. La regina e i delegati, insieme con i rappresentanti delle altre maggiori potenze, andarono all'Opera per uno spettacolo di gala. Becky andò a letto. Alle otto, il nostro amico Herr Bangemann (quello delle cinque figlie allineate in ordine di grandezza) asciugò con il tampone l'ultima pagina che stava scrivendo, la passò al Primo Segretario e si mise cappello e cappotto per andare. Il Primo Segretario controllò il lavoro. Era impeccabile: ogni parola, ogni virgola era al posto giusto, scritta in un perfetto corsivo su una delicata pergamena. Mise il documento insieme alle altre due copie nella cassaforte, la chiuse con cura e corse a cambiarsi per l'opera. Herr Bangemann nel frattempo era su una carrozza, diretto verso un grosso edificio non lontano dal Casinò sulle colline boscose alla periferia occidentale della città. La sua paffuta moglie l'aspettava tranquilla nel loro appartamento; c'era della zuppa di cervo e fagottini ripieni sul fornello; le cinque figlie erano allineate in salotto, pronte a raccontargli la loro giornata a scuola. Ma il salario da impiegato di Herr Bangemann non avrebbe potuto pagare le lezioni di piano di Greti, il nuovo abito di calicò di Inge, il cappello invernale di Bertha, le scarpette di satin di Anna, le lezioni di danza di Marlene, per non parlare poi dei cioccolatini che tanto piacevano a Frau Bangemann. Tutte pensavano che il loro uomo avesse un posto importante, per lavorare fino a così tardi ed essere in grado di offrire loro i piccoli lussi che desideravano. E in un certo qual modo avevano ragione. Herr Bangemann pagò il vetturino, suonò il campanello, diede cappello e cappotto al domestico e fu fatto accomodare in uno studio dove c'era un bel fuoco acceso. Nella stanza sedevano due uomini, uno in poltrona, l'altro a un tavolo sul quale era disposto un armamentario davvero curioso: scatole di mogano con terminali d'ottone, bobine d'induzione rivestite di rame e uno strumento simile a una tastiera di pianoforte con una lettera dell'alfabeto su ciascun tasto. Dai terminali partivano alcuni fili rivestiti di guttaperca che salivano fino a un angolo del soffitto, per poi sparire in un buco. Dall'apparato giungeva un ronzio elettrico che faceva ben sperare
nella sua efficienza. Herr Bangemann lanciò un'occhiata di garbata curiosità all'apparato prima di augurare buonasera all'uomo sulla poltrona. «Buonasera a lei, Herr Bangemann» disse il padrone di casa. «Per favore, si sieda all'altro tavolo e cominci quando vuole». C'era un tavolo più piccolo su cui erano stati premurosamente posati una caraffa d'acqua e un bicchiere. L'operatore della tastiera si stava sgranchendo le dita. Herr Bangemann si sedette, si schiarì la voce, chiuse gli occhi e richiamò sullo schermo della sua memoria fotografica l'intero testo del trattato trilaterale. «Premesso che» cominciò... Un paesaggio invernale: sullo sfondo, un castello su una montagna coperta di pini, in primo piano, una fila di antiche case e la neve che cade silenziosa dal cielo basso e si posa titubante sui ciottoli del viale per poi risollevarsi e mulinare tra gli edifici. Potrebbe essere la Razkavia. In realtà il tutto ha un diametro di soli otto centimetri ed è racchiuso in una di quelle palle di vetro piene di liquido che quando vengono agitate simulano una tempesta di neve, e che al momento si trova nelle mani di un'altra nostra conoscenza: il banchiere di Berlino, Herr Gerson von Bleichröder. L'uomo la solleva davanti agli occhi e ne scruta attentamente l'interno, poi torna a posarla con delicatezza sulla scrivania. È l'unica neve che sta cadendo al momento a Berlino: fa freddo, ma le strade sono asciutte. Bleichröder va alla finestra, guarda giù verso la Behrenstrasse ben illuminata sotto di lui, dietro la schiena picchietta con una mano il palmo dell'altra e aspetta. Aspetta che il poderoso picchiettio della telescrivente in un angolo dell'ufficio cessi, e un istante dopo l'attesa è finita. Julius, il segretario, che stava pazientemente radunando i metri di carta in un cestino di vimini, strappa la fine del foglio e dice: «Pronti, signore. È tutto qui». «Bene. Leggimelo, Julius». Julius solleva un sopracciglio, ma si siede obbediente e passa rumorosamente in rassegna tutto il mucchio per trovare l'inizio. Mentre legge, il banchiere torna alla sua sedia e si accomoda nella sua abituale posizione, appoggiato allo schienale con le mani dietro la testa. Il naso e il mento prominenti sono immobili, ma gli occhi socchiusi saettano da una parte all'altra, come se tentassero di visualizzare ogni implicazione di ogni clau-
sola letta a voce alta da Julius. Poi Julius raggiunge la fine e lascia cadere i fogli nel cestino. «È tutto, signore» dice. «Bene, bene. Il messaggero sta aspettando?» «Sì, signore». «Bene. Mandalo al Capo, allora». Julius suona un campanello e dà istruzioni a un impiegato di arrotolare il nastro di carta, di metterlo in una busta e di darlo al messaggero che aspetta nell'atrio. Bleichröder si raddrizza sulla sedia, strofinandosi le mani. «Ora, Julius, ti detterò una lettera. Ci vedi bene? Vorresti un po' più luce?» «Ci vedo benissimo, signore, grazie». «A Sua Eccellenza Conte Emil Thalgau... Via messo speciale, Julius. Indirizzala al Palazzo di Eschtenburg». Julius, alla sua scrivania, riempie un foglio di carta del suo taccuino con i suoi precisi caratteri stenografici. «'Mio caro conte Thalgau'» comincia il banchiere. «'È con grande piacere che ho appreso dell'imminente salita al trono di Sua Altezza Reale il principe ereditario Leopold. Confido che la sua salute abbia tratto beneficio dalle premurose cure mediche che senza dubbio sta ricevendo. I vari...' Suggeriscimi un sinonimo di 'ostacoli', Julius». «Impedimenti, signore?» «Sì, perfetto. 'I vari impedimenti costituzionali che potrebbero ostacolare una sua immediata assunzione del titolo di re non riguardano affatto, ovviamente, la Banca Bleichröder, né, cosa più importante, il principe Bismarck'». Il banchiere si interrompe e accarezza per un momento la piccola palla di vetro. Il segretario attende, con la matita sollevata. Bleichröder continua: «Ecco un piccolo test per te, Julius. Ho saputo dall'ambasciatore britannico che Londra se ne infischia di quello che potrebbe accadere a questa ragazzina inglese che si è ritrovata regina e che la sua presenza è di profondo imbarazzo per loro. In parole povere, se le capitasse un fatale incidente, il leone britannico non agiterebbe neppure la sua imperiale coda. Ora, Julius, riformulalo in maniera più diplomatica». Il segretario aggrotta leggermente la fronte, ricompone le idee e dice, continuando la lettera: «'Né, se è per questo, il governo britannico. Fonti confidenziali al più alto livello hanno rivelato una decisa preferenza da parte di Londra per una ripresa della normale linea dinastica'».
«Eccellente, ragazzo mio! Scrivilo esattamente così». La matita del segretario si muove sul foglio e Bleichröder continua: «'Per quanto riguarda il trattato trilaterale, non c'è dubbio che Sua Eccellenza il Cancelliere von Bismarck comunicherà le proprie volontà nel prossimo futuro. In base al nostro accordo, posso confermare l'invio della prima metà della somma concordata, vale a dire ottomila marchi, con una tratta spiccata sulla Banca Rothschild. Il resto verrà pagato in toto il giorno successivo all'incoronazione del principe ereditario Leopold. «'Cordiali saluti, Gerson von Bleichröder eccetera eccetera'. Abbiamo finito, Julius. Inviala col messaggero speciale. Sarà ad Eschtenburg in mattinata». «Molto bene, signore». Bleichröder si appoggia nuovamente allo schienale della sedia, con le mani dietro la testa. Julius attende con deferenza. «Ora, Julius, dimmi cosa hai capito da questa corrispondenza». «Prima di tutto, il conte Thalgau ha problemi finanziari, e si aspetta di esserne tirato fuori dalla Banca Bleichröder». «Esatto. Un'ipoteca sulla sua intera proprietà: non poteva pagare, perciò sarebbe stato rovinato. È un patriota come nessun altro, ma ora la sua tenuta e il suo castello resteranno suoi qualunque cosa accada alla Razkavia. Per ora è tutto esatto, ma fin troppo facile, ragazzo mio: in fondo hai visto il fascicolo. Continua». «C'è un complotto per destituire la ragazza inglese e sostituirla con il principe Leopold... Ma è il vero principe, signore? Pensavo fosse morto. E il diritto al trono della ragazza inglese è legittimo, no?» «Sì, lui è assolutamente quello vero, anche se probabilmente è fuori di senno a questo punto. E il diritto della ragazza è quanto di più legittimo possa esserci. Hai sentito parlare del loro pittoresco rituale, con la bandiera e tutto il resto? Affascinante... Vorrei tanto poter assistere, almeno una volta. Ma perché dobbiamo mandarla via? Forza, Julius, il vero motivo. Guarda dietro le apparenze». «Il trattato...» «Sì. Cosa credi che penserà il Capo del trattato?» Julius si sforza di riflettere: il trattato sembra vantaggioso per tutte le parti, di conseguenza dev'esserci qualcosa che non va. Ufficialmente la politica tedesca è di negoziare e giungere a un accordo, quindi la vera politica di Bismarck dev'essere sovvertire e distruggere l'ordine costituito. A meno che ovviamente non stia facendo veramente ciò che finge di fare, nel qual
caso... «Il Capo vuole bloccare il trattato per... negoziarne uno più vantaggioso?» «Non proprio, Julius. Il piano vero è questo: il Capo vuole limitare il potere del parlamento tedesco. Il Reichstag sta diventando troppo forte e il trattato è una faccenda del Reichstag, non della Cancelleria. Se non verrà firmato, il Capo vedrà rafforzata la propria posizione di potere. E anche le conseguenze incidentali ci saranno favorevoli: il Capo vuole tutto il nichel prodotto in quel buffo staterello. La Krupps ne ha bisogno. Perciò deve averlo. Il trattato lo impedirebbe, di conseguenza non deve essere firmato. Hai capito fin qui?» «Certamente, signore». «Inoltre domani ci saranno dei disordini nella capitale razkaviana. Come gesto di amicizia, il Capo invierà un reggimento di granatieri per aiutare a ristabilire l'ordine. I soldati stanno salendo sui treni proprio in questo momento». Julius è sbalordito. Stare seduto in questo tranquillo ufficio nel cuore dell'Europa e venire a scoprire questi complessi intrighi di stato! È un privilegio raro e immenso. «Capisco, signore. Ma... il conte Thalgau e il misterioso principe Leopold, come sono collegati?» Bleichröder fa una risata. È una risata allegra, come quella di un nonno affettuoso a una cena di Natale. «Non sono collegati affatto, Julius! Quando il povero Thalgau leggerà il primo paragrafo di quella lettera rimarrà a bocca aperta. E quando leggerà l'ultima frase... ancora più sbigottito! No, ho saputo che alcuni elementi conservatori del paese hanno tenuto in serbo la carta del principe Leopold per diverso tempo, per giocarla in una situazione disperata. Era già lì bello e pronto il giorno in cui la ragazza inglese è stata incoronata, ma lei è stata troppo forte per loro». Julius è sbalordito. «Vuole dire che... l'assassinio...» «Era pianificato, sì. Ricordi l'attrice spagnola di cui ti ho parlato? Era sposata con il principe Leopold. Una donna testarda, piena di passione, dal sangue caldo. Tu sai come sono le donne, Julius. Be', lei è un siluro. Basta innescarla, caricarla, puntarla nella giusta direzione, premere il pulsante e bang! La povera donna pensava di aver ideato tutto da sola. Ma era tutto progettato, Julius, tutto pensato in anticipo. L'unica cosa che non era stata prevista è la ragazza inglese. Lei si è rivelata troppo forte e fin troppo popolare tra la gente comune. Be', molto presto le cose cambieranno. E il po-
vero conte Thalgau, che crede che l'unica conseguenza sarà che il trattato verrà semplicemente rimandato di sei mesi...» «È questo che gli è stato detto?» «Oh, sì. Lui non avrebbe mai voluto fare del male alla sua reginetta inglese. Gli abbiamo detto che volevamo solo rimandare un po' la firma, che dopo il regno sarebbe stato al sicuro... E ora scoprire che il terreno gli sta franando sotto i piedi... Oh, pover'uomo! E scoprire che noi sembriamo presumere che lui abbia sempre saputo e che sia parte della cospirazione...» Julius tace. Bleichröder, sorridendo tra sé e sé, sta guardando verso il soffitto, ma un istante dopo tossisce e si raddrizza sulla sedia. «Su, su, ragazzo mio, questo genere di cose accade continuamente. Tra un anno o due farò due chiacchiere con il Capo in suo favore. Creeremo un qualche tipo di carica per il conte Thalgau, che so, governatore provinciale o qualcosa del genere. Io sono convinto che bisogna farsi degli amici, Julius, non dei nemici. Le banche prosperano in tempo di pace, sai... Questa è una lezione molto importante da imparare. Ora rileggimi la lettera». E il segretario obbedisce. Bleichröder si appoggia allo schienale e ascolta, suggerisce un paio di piccoli cambiamenti e poi manda via il giovane a far trascrivere la lettera perché venga trasmessa via telegrafo alla casa nel bosco vicino al Casinò. Poi riprende in mano la piccola palla di vetro e la scuote nuovamente. Tenendola a pochi centimetri dall'occhio destro, tenta di scorgere i piccoli fiocchi bianchi, ma senza risultati: non vede che un vago biancore sfocato. Il banchiere ha perso la vista all'occhio sinistro già qualche tempo prima e ora con il destro riesce solo a distinguere l'oscurità dalla luce. La neve nella piccola palla di vetro turbina e danza e si posa sul piccolo paesaggio, così simile a quello della Razkavia, e lui non riesce a vedere niente. Capitolo quattordici TRADIMENTO Becky, profondamente addormentata, sentì bussare alla porta e mormorò: «Andate via. Hau ab! Leine ziehe!» Ma chiunque fosse non se ne andò. Bussò di nuovo e la porta si aprì leggermente. «Sono io» disse Jim a voce bassa. «Devo parlarti. Dormivi? Be', pecca-
to. Riattizzerò il fuoco e ti verserò un bicchiere di qualcosa». Becky grugnì. Mentre Jim chiudeva la porta, la ragazza, ancora immersa nel sonno, cercò a tentoni la vestaglia. Quando un minuto dopo si trascinò nel salottino attiguo alla sua camera, con i capelli arruffati, gli occhi assonnati e a piedi nudi, lo trovò in piedi accanto al fuoco con una bottiglia di vino e due bicchieri in mano. Sembrava un marinaio: indossava pantaloni pesanti, scarpe con le suole di gomma e il maglione blu che gli aveva fatto la signora Goldberg. Su una sedia lì accanto c'era un giaccone alla marinara. «Ma chi ti credi di essere?» chiese Becky irritata. «L'ammiraglio Nelson? Non voglio il vino. Voglio della cioccolata calda. Schokolade. Ma ti rendi conto di quanto sono stanca? Che ci faccio col vino? E non serve neppure a te, perché sei pieno di birra. Ne sento l'odore... bleah, disgustoso! Se fossi un gentiluomo non ti sogneresti neppure di fare irruzione nella stanza di qualcuno senza una Schokolade. Vai a procurarmene subito una. Oh, va bene, lascia stare. I domestici dormono e tu daresti fuoco alla cucina. Che cosa vuoi?» «Potrei farti una tazza di tè» si offrì Jim. «Ho tutto quello che serve...» «Tè... puah! Brodaglia inglese. Che vuoi, allora?» «Voglio che mi ascolti. Siediti e metti l'attizzatoio nel fuoco». «Oh... vin brulé. Allora le cose cambiano...» Jim tirò fuori un fagottino di carta dalla tasca, fece cadere dello zucchero e un pizzico di aroma in ciascun bicchiere e ricoprì il tutto con del vino rosso. Quando l'attizzatoio fu caldo, lo immerse nel vino facendo attenzione a non toccare il vetro e il liquido sibilò e ribollì infuriato. «C'è un tantino di fuliggine, ma andrà bene lo stesso» disse, e le porse il bicchiere. Becky si sedette accanto al fuoco con i piedi nudi sul parafuoco e si rannicchiò con le braccia intorno alle ginocchia, sorseggiando il liquido fumante mentre Jim parlava. Il giovane le raccontò tutto ciò che era accaduto da quella notte sulla terrazza due giorni prima. Lei ascoltò sbigottita. Dopo il lavoro delle ultime due giornate aveva creduto di aver imparato cos'era la politica: era un'attività complessa, ma chiara e palese, nel quale il successo giungeva tramite attenti negoziati e compromessi. Quanto si sbagliava invece! Perché in tutto quel tempo, segretamente, c'era stato un altro tipo di politica all'opera. E quella politica era molto più semplice ma segreta, e il suo successo giungeva tramite crudeltà e violenza. «Io... io non so che dire» mormorò alla fine. «Il barone Gödel ha nasco-
sto quel pover'uomo in un manicomio per tutto questo tempo? È troppo per me... E quella donna? Tu dici che è stata lei a uccidere re Rudolf... Dove si trova ora?» «È con Karl e gli altri... guardata a vista. Ci serve per tirare fuori Leopold da lì. In questo momento stanno venendo tutti qui. Una volta che l'avremo liberato potremo arrestare Gödel e mettere fine a questa storia. Chiarire l'intera faccenda». «E a lei cosa succederà?» «È un'assassina, Becky». «Ma cosa le succederà?» «La consegneremo alla polizia». «E a quel punto cosa le faranno?» «Verrà processata. La pena è l'impiccagione. Ma sono sicuro che chiederà l'infermità mentale, così verrà rinchiusa lei in un manicomio invece di lui. Sarebbe una bella beffa del destino, non credi?» «Sarebbe tremendamente ingiusto. Lei l'ha fatto perché amava suo marito e ora tu la vuoi ingannare affinché ti aiuti, e poi la tradirai». Jim si passò le mani tra i capelli e fissò il pavimento, i gomiti appoggiati alle ginocchia, la tensione evidente nella postura delle spalle. «È più o meno così» ammise. «Ma amare il proprio marito non è una ragione sufficiente per uccidere qualcuno. Lei non ci sta del tutto con la testa, Becky. Se la vedessi capiresti subito quanto è strana. Piccole cose che non quadrano... I suoi capelli, ad esempio. Deve passare delle ore a curarli, a tirarli indietro con tanta forza dal viso che anche la pelle della fronte è tirata, e poi sono legati così stretti che sembrano di legno... L'ho notato quando abbiamo lottato. Ma con tutta l'attenzione che dedica ai suoi capelli, trascura del tutto le scarpe, che sono tutte graffiate, sporche, con le suole rotte. E ci sono decine di piccoli particolari del genere: quella donna si sta lasciando andare. E non è solo questo... C'è qualcosa nei suoi occhi, nella loro intensità. Ma sia pazza o meno, è comunque troppo pericolosa per poter essere lasciata in libertà. E pensa a questo: se ottenesse ciò che vuole, sarebbe felice? Pensi che potrebbe riuscire a mettere suo marito sul trono e a regnare accanto a lui? Leopold è un uomo distrutto, povero diavolo. Non sarebbe neppure in grado di sollevare la bandiera e meno che mai saprebbe dove portarla, per non parlare poi del dover trattare con questi diplomatici come sta facendo Adelaide. Se Carmen Ruiz fosse sana di mente, quel genere di vita non la farebbe mai felice. E se non lo è, non se ne renderà mai conto. È davvero tragico, secondo me, per lei, per lui, per entrambi. E noi
siamo solo degli strumenti in questa tragedia. Ma dobbiamo farlo. Non possiamo sacrificare tutto quello che Adelaide ha fatto, tutto quello che hai fatto tu, l'intero futuro del paese, solo per darle un momento di felicità... che sarebbe in ogni caso un'illusione. Perciò sì, abbiamo usato lui come esca per catturare lei e ora useremo lei come esca per prendere lui e poi la tradiremo; ma io sono disposto a salire su qualunque banco dei testimoni del mondo per giurare che è pazza. Non la impiccheranno se dipenderà da me». Becky sentì un nodo alla gola. «E il conte?» chiese. «Lui sa?» Jim scosse la testa. «Oggi sembrava molto pallido» continuò Becky. «Anzi, direi malato. Persino Adelaide l'ha notato. Sono sicura che si sente in colpa per qualcosa». Jim si mordicchiò il labbro. «Vecchio sciocco. Pensavo di potermi fidare almeno di lui. Ascolta, Becky, io... Quella mattina di tanto tempo fa a St John's Wood, quando scoppiò la bomba... Sono dannatamente felice che fossi tu quella ragazza. Hai fatto un lavoro superlativo. Ma ora vorrei che fossi a un migliaio di miglia di distanza». «Perché?» «Perché la faccenda si fa pericolosa. Sto pensando a tua madre, immagino. Se ti accadrà qualcosa, non potrò mai perdonarmelo. E lei come sta? Ti scrive?» «Certo che mi scrive. E io scrivo a lei, due volte alla settimane, lettere lunghe e dettagliate. Tu non lo faresti?» «La mia vecchia non sarebbe stata comunque in grado di leggerle» rispose Jim. «È morta quando avevo dieci anni. Di tisi. Era una lavandaia, su a Clerkenwell. È stato mio padre a insegnarmi a leggere... Dickens, principalmente. Amava particolarmente la rivista 'All The Year Round': la comprava ogni settimana. Ricordo che una volta mi portò a una lettura di Dickens e il Grande Inimitabile in persona lesse il pezzo di Sikes che assassinava Nancy, facendoci venire la pelle d'oca... Ma di cosa stavamo parlando? Di tua madre, giusto. Perciò ecco perché vorrei che fossi a mille miglia di distanza... Ascolta, Becky, dormiresti nella stanza di Adelaide questa notte?» «Be'... sì». «Non si sa mai». Jim si alzò, andò verso la finestra e scostò la tenda per guardare fuori. «Becky, come finirà tutto questo?» le chiese senza girarsi. «Cosa farai
quando questo trattato sarà firmato e archiviato?» «Io? Voglio andare all'università e studiare bene le lingue. Ma per il momento voglio solo vedere questo trattato firmato domattina. È stata la cosa più entusiasmante della mia vita, Jim... Non puoi neppure immaginare cosa significhi. Il mio paese... e io sono al centro delle cose, di discussioni epocali... niente potrebbe essere meglio di questo!» Jim scosse la testa. Stava ancora guardando fuori dalla finestra. «E tu?» chiese Becky. «Tu cosa vuoi fare?» «Voglio combattere, Becky. Lo capisci? Voglio la lotta, il pericolo. Sai, una volta Sally mi disse una cosa... Stava parlando della felicità e di quello che poteva significare. Lei disse che non voleva essere felice, che quella le sembrava una cosa passiva, da deboli: lei voleva essere viva e attiva. Voleva lavorare. Questo è lo spirito che mi piace. È quello che voglio anch'io e il mio è un lavoro sporco, duro, pericoloso. Oh, voglio anche altre cose. Voglio scrivere un dramma e voglio vederlo interpretare da Henry Irving. Voglio andarmene in giro per la città pavoneggiandomi e fumando Avana e cenare con delle belle ragazze al Café Royal. Voglio giocare a poker su un battello lungo il Mississippi. Voglio vedere Dan Goldberg eletto al Parlamento. Voglio vederti andare all'università e prendere una laurea magna cum laude. E in quanto a Sally... Sally può fare qualunque cosa vuole secondo me. C'è un intero mondo che voglio, Becky». «Non hai menzionato Adelaide». «No». Jim si voltò. Gli occhi verdi luminosi e i capelli biondi arruffati gli davano un aspetto spiritato, di un uomo posseduto da forze devastanti. Poi Becky si rese conto che l'attenzione di Jim era concentrata su qualcosa al di fuori della stanza e si mise anche lei in ascolto: un rumore di passi che correvano lungo il corridoio, seguiti da un breve bussare alla porta. «Avanti» disse Becky, raddrizzandosi. La porta fu aperta da una cameriera dallo sguardo ansioso. «Mi scusi, Fräulein» disse. «Ho un messaggio per...» Imbarazzata dal vedere Becky in vestaglia, la cameriera guardò Jim e gli porse un biglietto. «Grazie» disse il giovane, e la ragazza fece un rapido inchino e uscì. Jim aprì il foglietto, lo lesse in fretta, lo gettò nel fuoco e si alzò. «È ora di andare» disse. «Cosa farai ora?» «Combatterò, ovviamente».
E si chinò per darle un breve bacio sulla guancia. Becky si sentì travolta da un'ondata di sentimenti contrastanti: c'era un 'Come osa?', misto a un pizzico d'invidia perché lui sapeva cosa doveva fare e si gettava in quell'avventura con una formidabile energia istintiva, e c'era anche un brivido di paura. Tutto il suo fantasticare di una vita da pirata o da brigante le sembrò improvvisamente infantile e sciocco. Jim era reale. Becky si alzò e lo seguì alla porta. Lui le premette qualcosa nella mano. Era una pistola. «Vai a dormire in camera di Adelaide» disse. «E nascondi questa. Se dovrai usarla, tienila con entrambe le mani e sii preparata al rinculo. Ci vediamo più tardi». E se ne andò, correndo silenziosamente lungo il corridoio. La cameriera non si era ancora allontanata. Becky nascose la pistola sotto la vestaglia e la chiamò. «Sua Maestà è tornata dall'Opera?» «Sì, Fräulein. Sono tornati tutti tranne il conte Thalgau». «Tranne... Ma perché? Dov'è il conte?» «Non saprei dirglielo, Fräulein. Non è tornato con il resto del gruppo. È tutto quello che so. È tutto, Fräulein?» «Sì, Ilse. Grazie. È tutto...» Becky guardò la cameriera allontanarsi e con il cuore che le batteva all'impazzata tornò nella sua stanza per prendere ciò che le sarebbe servito per la notte. Karl e una dozzina di altri ragazzi, insieme a Carmen Ruiz, aspettavano nella cappella diroccata sopra l'entrata della grotta. Indossavano tutti abiti scuri, come aveva suggerito Jim: il cielo nuvoloso non lasciava passare neppure un raggio di luna e nell'oscurità si intravedeva solo il lieve biancore dei volti. Anton era stato istruito a tenere d'occhio Carmen Ruiz e Jim notò che era in piedi a pochi passi dietro di lei, guardingo. «Buonasera, señora» disse a voce bassa, e la donna chinò la testa. «Tutto tranquillo?» sussurrò a Karl. «Neppure un suono. No... in realtà non è vero: lo si sente gridare da sotto la terra, come fosse un demone o uno spirito dei boschi. Hans sta sorvegliando la botola insieme al suo gruppo». Jim aveva trovato un'apertura nascosta tra i cespugli nel boschetto dove aveva sentito il grido la prima volta. «Tutto pronto allora?»
«Tutto pronto. Lasceremo Jan all'ingresso della grotta con altri tre ragazzi per guardarci le spalle». Jim annuì. «Bene. C'è una barca nascosta tra i giunchi laggiù. La prenderemo e lo porteremo fuori con quella. È troppo debole per camminare a lungo. E poi nella foresta e via da quella parte». Gli studenti strinsero la mano a Jim, si augurarono l'un l'altro buona fortuna e tutti insieme si avviarono lungo la discesa che portava alla grotta. L'aria quella notte era immobile, non c'era il vento che sferzava gli alberi, e quando raggiunsero la bocca del mostro Jim sentì distintamente il rumore del fiume. Un uccello gridò in lontananza dalla foresta, un urlo acuto e lacerante, mentre un animaletto produsse un lieve tonfo quando entrò nell'acqua. Si fermarono per consentire a Jan e agli altri tre ragazzi di entrare nella grotta e Jim cercò a tentoni tra i giunchi la fune d'ormeggio della barca. Karl, Anton e la donna salirono a bordo e Jim guidò il resto del gruppo lungo il sentiero e nella cupa oscurità della caverna artificiale. Aveva istruito tutti a tenersi vicino alla parete destra: avevano delle lanterne, ma erano per il ritorno. «Buona fortuna, ragazzo mio» sussurrò Jim nel buio quando furono dentro la grotta. «Se dovesse servire, grida a squarciagola». «Con piacere» fu la risposta di Jan. La lunga, gelida e silenziosa camminata nel buio avvolgente non fu affatto più piacevole ora che Jim aveva compagnia e una meta precisa. Il costante gocciolio dell'acqua, l'aria appiccicosa, la viscidità della roccia sotto la sua mano, l'ansia continua per le possibili rocce sporgenti all'altezza della testa erano opprimenti quanto la volta precedente. Di tanto in tanto un leggero tonfo proveniente dall'acqua alla sua sinistra indicava che Karl non era riuscito a tenere la barca lontana dalla parete, ma il suono non era abbastanza forte da propagarsi nella grotta e poi era rassicurante sapere che era vicino. Alla fine Jim si fermò. C'era un leggerissimo bagliore sulla roccia bagnata di fronte a loro. Sollevò una mano e fermò il ragazzo dietro di lui. «Piano ora» sussurrò. «Ci siamo quasi». Poiché non sapevano quante persone erano a guardia della prigione, una volta arrivati avrebbero dovuto improvvisare; la seconda cosa essenziale era dare a Jim abbastanza tempo e spazio per lavorare sul lucchetto. La prima cosa essenziale, ovviamente, era la sorpresa. Jim tirò fuori la sua pistola. Con gli occhi fissi sul bagliore sulla roccia,
avanzò più lentamente di prima, facendo segno agli altri di seguirlo. Sbucando dal buio, ebbero il vantaggio di trovare la scena che si presentò loro davanti ben illuminata. Jim, che svoltò l'angolo per primo, con un unico sguardo notò la lanterna che tremolava attaccata al gancio, il tavolino, i due soldati, le carte sporche e la figura raggomitolata dietro le sbarre. Avanzò silenziosamente e disse: «Restate seduti e mettete le mani sul tavolo». Entrambi i soldati sobbalzarono per la sorpresa e si lasciarono sfuggire esclamazioni tanto forti da svegliare l'uomo nella prigione, che si raddrizzò all'istante e gemette di paura. Gli altri studenti stavano arrivando dietro Jim; Karl stava invece aiutando Carmen Ruiz a scendere dalla barca mentre Anton la teneva ferma, e un istante dopo la donna si gettò contro le sbarre, gridando con veemenza il nome del principe. Leopold si fece piccolo per la paura. «Non muovetevi» ordinò Jim ai soldati. «Non fate rumore. Non fate niente. Karl, prendi la mia pistola e tienili sotto tiro». Un altro studente spostò i fucili fuori dalla portata dei due soldati, che erano rimasti seduti, pallidi e frastornati. Uno dei due stava tentando di allungare il collo per vedere oltre la spalla di Jim, che si era già messo al lavoro sul lucchetto. «Per favore, señora» disse Anton, «si sposti un po', lo lasci lavorare...» «Cosa gli avete fatto?» gridò la donna all'improvviso e si voltò come una tigre verso i due soldati, che trasalirono. Il volto del principe era gonfio e pieno di lividi. «Chi gli ha fatto del male? Chi ha osato?» «Señora!» disse bruscamente Anton. «Lo tireremo fuori di qui tra un minuto. E loro saranno puniti, non ne dubiti». «Ci sono quasi» mormorò Jim, torcendo il filo di ferro, infilandolo nella serratura e poi piegandolo di nuovo prima di riprovare. «Un bel lucchetto nuovo. Ben oliato, proprio come piace a me...» E all'improvviso uno sparo risuonò alle loro spalle. Era attutito e al tempo stesso amplificato dalle pareti del tunnel, ma era impossibile sbagliarsi... E poi ce ne fu un altro e la voce di Jan che gridava. Le teste si voltarono di scatto, gli occhi si spalancarono. La donna si irrigidì. In quel momento di shock Karl disse: «Heini, prendi tre uomini e corri ad aiutare Jan. Peter, prendi una lanterna e corri dall'altra parte finché non troverai la scala. Aspettaci là». Jim non staccò gli occhi dal lucchetto. Mentre gli altri facevano come
era stato loro ordinato, lui ritirò con calma il filo dalla serratura, lo studiò attentamente, lo piegò un po' di più e lo rinfilò. Dal tunnel arrivarono altri spari. Il principe Leopold era rannicchiato in un angolo e piagnucolava come un cane bastonato stringendo a sé la coperta. «Calmati, amico» mormorò Jim. «Fra pochi istanti ti tireremo fuori di qui. E andremo su per le scale, okay?» Continuò a parlargli con voce bassa e suadente e a poco a poco l'uomo si avvicinò titubante. Altri spari risuonarono nella grotta, questa volta più vicini, seguiti da grida. Il lucchetto si aprì con uno scatto. «Principe» disse Jim, «ora dovete venire con noi. È vostro dovere. Forza, venite». Accanto al giovane, Carmen Ruiz fremeva. «Vieni, Leo!» mormorò. «Vieni, mio principe!» Leopold si avvicinò alla porta e guardò con occhi pieni di paura verso il tunnel, dove qualcuno stava gridando degli ordini e il suono dei passi diventava sempre più forte di secondo in secondo. Jim afferrò il principe e lo tirò fuori: non c'era tempo per la delicatezza. Trascinandolo insieme a Carmen, passò davanti ai due soldati terrorizzati e corse verso Karl che faceva loro segno di sbrigarsi dal fondo della scala. Un altro studente con una lanterna in mano stava guardando ansiosamente verso la botola in alto. «Stanno arrivando» disse qualcuno dietro di loro, ma in quell'istante dall'alto si udì un'esplosione di colpi, tremendamente forte, e un grido... e poi il tonfo di un corpo che rotolava. «Attenti!» gridò Karl e Hans cadde dall'oscurità ai piedi della scala, morto. «Fuggite!» fu l'urlo disperato che giunse dall'alto. «Fuggite! È una trappola...» La barca nel frattempo stava andando alla deriva, inosservata. Con la coda dell'occhio Jim vide la donna afferrare la corda, tirare la barca verso l'argine e poi saltare dentro, trascinando con sé il principe tenendolo per la camicia. Leopold inciampò sull'argine e cadde con un grido, e il fragile cotone si strappò, lasciando il povero principe a dimenarsi disperatamente sulla roccia scivolosa alla ricerca di un appiglio. Anton si chinò e lo tirò su e l'ultima cosa che videro della donna fu il suo volto bianco, con la bocca aperta in un grido silenzioso, e le mani pallide, tese verso la riva... E poi la corrente, molto più forte in quel punto, la trascinò con sé nell'oscurità. Jim imprecò.
«Portate qui il principe!» gridò e corse verso le scale. Se avesse potuto farsi strada lottando, forse gli altri sarebbero riusciti a portare via Leopold. Con la pistola puntata verso l'alto, divorò gli stretti gradini tre alla volta e diede una testata allo stomaco al primo uomo che vide. Il soldato cadde con un grugnito. Jim lo superò con un balzo e afferrò il bordo della botola, di cui si intravedeva il profilo scuro contro il cielo scarsamente illuminato. C'era un corpo sopra il varco; Jim lo spinse da una parte per uscire e poi qualcosa lo colpì con forza alla testa. Stordito, cadde e rotolò da una parte nell'erba fredda e bagnata. Grida, il bagliore di una lanterna, il suono di gente che correva... e poi fu di nuovo in piedi e si accucciò e sparò alla vampa e al fragore degli spari tutto intorno a lui nel buio, e si gettò da una parte, rotolò per rimettersi in piedi qualche metro più in là e sparò di nuovo; e per tutto il tempo ai margini del suo campo visivo fu cosciente della pallida figura del principe con la camicia bianca strappata che veniva trascinato fuori dalla botola da due figure, che avrebbero potuto essere Anton e Karl. «Fuggite!» gridò. «Fuggite!» Ma ci furono altre grida, figure pesanti che gli si scagliavano addosso, che lo gettavano a terra e un altro tremendo colpo alla testa. E il suo ultimo pensiero fu 'Chi ci ha tradito? Conte, se siete stato voi...' Capitolo quindici PENTOLINO Becky si svegliò, indolenzita e infreddolita, sul divanetto ai piedi del letto di Adelaide. Sua Maestà dormiva ancora. Sbadigliando e stiracchiandosi, la ragazza mosse la pistola che teneva sotto il cuscino, che cadde rumorosamente a terra. Adelaide aprì di scatto gli occhi. «Chi è là?» «Sono io» disse Becky, recuperando la pistola e nascondendola di nuovo. «Perché? Che ci fai qui?» «Io... Jim mi ha detto di venire qui e proteggerti in caso... oh, non ne ho idea. Sapevate di russare, Vostra Maestà?» Adelaide, ancora sprofondata tra i cuscini, le lanciò un'occhiata di disprezzo e chiuse nuovamente gli occhi. «Dove cavolo sono i miei soldati?» borbottò. «Perché non ci sono loro
qui a proteggermi? Che bisogno c'è che lo faccia tu?» Becky stava per rispondere quando qualcuno bussò alla porta e la cameriera di Adelaide entrò e si inchinò, battendo le palpebre sorpresa quando vide Becky. Portava il vassoio della colazione. «Buongiorno, Vostra Maestà» disse la ragazza. «Buongiorno, Fräulein...» Adelaide grugnì quando la cameriera aprì le imposte e si accucciò per attizzare il fuoco. Nel giro di un minuto ardeva già. Il gattino nero di Adelaide si svegliò tra le pieghe della trapunta d'oca e mostrò la sua boccuccia rosa piena di dentini appuntiti in un grande sbadiglio. «Vieni qui, Pentolino» lo chiamò Adelaide e sollevò il morbido batuffolino per dargli un bacio mentre la cameriera le sistemava i cuscini dietro la schiena. «Oggi è nuvoloso, Vostra Maestà» disse la ragazza. «Credo che nevicherà. Vi serve nient'altro?» «No. Che ora è? Non importa, me lo dirà Fräulein Winter. Tu puoi far scorrere l'acqua in bagno, ecco cosa. Devo sembrare davvero chic quest'oggi» disse poi a Becky. «E anche tu. Dormire su un divano... avrai il collo tutto indolenzito. Te ne starai in piedi dietro di me rigida come un manico di scopa. Che sta combinando Jim?» Da dietro la porta chiusa del bagno giunse il rumore dell'acqua che cadeva nella vasca. Becky posò il vassoio della colazione in grembo ad Adelaide e si sedette sul letto per poter parlare a bassa voce con lei. «Non ho avuto l'occasione di dirtelo prima. Non volevo distrarti. Ma la notte prima dell'inizio dei colloqui, ero fuori in terrazza con Jim e abbiamo visto una donna parlare con una delle domestiche...» Adelaide posò il gatto sul vassoio e sollevò il coperchio del piattino del burro per lasciarglielo leccare. «Sto ascoltando» disse. «Avete visto una donna con una delle domestiche. E chi era?» «Una donna che è risultata essere la moglie del fratello maggiore del principe Rudolf, Leopold». «Di re Rudolf. Era re». Adelaide, che era diventata molto precisa quando si trattava di formalità ed etichetta, tranne che per quel che riguardava Pentolino, stava imburrando una brioche tra un colpetto e l'altro delle zampe del gattino. «E hai detto 'moglie'. Volevi dire 'vedova'». «No. Moglie. Perché Jim ha scoperto che Leopold è ancora vivo». Adelaide, improvvisamente pallida, intinse il cucchiaino d'argento nella
marmellata di albicocche. Pentolino stava leccando la crema della brioche. La mano di Adelaide si mosse con lentezza sempre maggiore man mano che Becky le raccontava cosa aveva scoperto Jim. «E dov'è Jim ora?» chiese quando Becky ebbe finito. «Stavano andando a salvare Leopold dalla grotta. Lui e gli studenti...» Entrambe si bloccarono, Becky a metà della frase e Adelaide con la brioche già quasi in bocca. Il gattino aveva tossito una volta, poi aveva emesso un grido strozzato ed era caduto goffamente col muso in avanti. Incapaci di muoversi, le due ragazze lo guardarono ansimare e scalciare in uno spasmo di dolore e poi, con un flebile miagolio, rovesciarsi sulla schiena, contorcersi e morire. Dietro la porta del bagno il rumore dell'acqua cessò. La maniglia girò; la cameriera entrò, si inchinò e disse: «Il bagno è pronto, Vostra Maestà. Devo tirare fuori gli abiti di seta, o...» Ma prima che potesse finire la frase, la porta fu aperta di schianto e la contessa Thalgau si precipitò dentro. La cameriera si voltò sbalordita. La contessa, pallida e con gli occhi spiritati, la vide e, sconvolta, le fece cenno di uscire. La cameriera fece un rapido inchino ad Adelaide e scappò via e un istante dopo la contessa era ai piedi del letto. Né Becky né Adelaide avevano ancora mosso un muscolo. La contessa respirava affannosamente; era ancora in vestaglia e aveva i capelli grigi tutti in disordine. «Oh... grazie a Dio!» mormorò, e tolse la brioche dalle dita di Adelaide. Poi vide il gattino. I suoi occhi si annebbiarono e la donna vacillò. Becky balzò in piedi e la aiutò a sedersi su una sedia. «Che... cosa... sta... succedendo?» chiese Adelaide con voce carica di rabbia. Becky non aveva mai visto la contessa in quello stato. Il suo normale sguardo di gelida disapprovazione era svanito: ora piangeva apertamente e non riusciva a stare ferma sulla sedia. Si rialzò a fatica e prese il vassoio della colazione dal grembo di Adelaide per portarlo dall'altra parte della stanza e posarlo a terra nell'angolo più lontano dal letto come se la sua sola presenza potesse avvelenarle. E per tutto il tempo continuò a piangere, dicendo tra i singhiozzi: «Un complotto... L'ho scoperto solo ora... Mio marito... Non posso sopportare la vergogna... Vostra Maestà è salva? Non avete assaggiato nulla? Dio sia lodato... Oh, questo è troppo da sopportare...» Becky corse alla porta e la chiuse a chiave. Poi aiutò la contessa, che
singhiozzava senza ritegno, a sedersi sul divano. «Mio marito... Non lo sapevo... stava facendo qualcosa di sbagliato... ma non questo! Non è stato lui a fare questo! È stato Gödel... non avrebbero mai voluto che voi succedeste a vostro marito... pensavano che sareste crollata, che avreste fallito... ma voi non avete fatto quello che si aspettavano, ci siete riuscita... e ora i colloqui, il trattato... non vi lasceranno mai firmarlo!» «Ma il conte?» chiese Becky. «Non c'è lui dietro questa faccenda del veleno?» «Mi ha confessato questa mattina che voleva fare in modo che il trattato fosse rinviato di sei mesi... ma questo mai! Gödel aveva in mente di fare molto peggio... ma lui, io, noi l'abbiamo scoperto solo ora, lo giuro...» Adelaide stava accarezzando meccanicamente il gattino morto. Mentre la contessa spiegava la situazione, la sua espressione si rabbuiò gradualmente fino a diventare decisamente torva. Poi sollevò la creaturina e ne posò il corpo sul comodino prima di alzarsi, posando i piedi nudi sul pavimento. Gli occhi scuri lampeggiavano sul viso arrossato quando affrontò la contessa. «Volevano avvelenare me? La regina? Quindi è questo lo scopo del complotto che vede coinvolto Leopold». «Leopold?» La contessa era sconcertata: era evidente che non ne aveva mai sentito parlare. Becky le spiegò con poche parole. L'anziana donna nascose il volto tra le mani. «Dov'è ora il conte?» chiese Adelaide. «Sta male. Mi stava spiegando la situazione e il suo cuore... Non so... ha avuto un collasso. Io sono venuta subito qui...» «E voi? Voi siete dalla mia parte?» «Ja! Ja, natürlich! Auf alle Zeiten!» E quella donna statuaria, dai modi gelidi ma dal cuore appassionato, si inchinò goffamente prima di affrettarsi a far indossare la vestaglia alla sua regina. «Mi vestirò immediatamente» disse Adelaide. «Lasciamo stare il bagno, sono abbastanza pulita. Becky! Tira fuori l'abito di seta bianca. Oggi non sono in lutto, sono infuriata, ecco cosa sono. Dove diavolo è Jim? Perché non è ancora tornato?» Dal momento che Becky non sapeva cosa rispondere, non rispose, e in ogni caso Adelaide era già in bagno a lavarsi i denti. Becky trovò l'abito di
seta bianca, ordinato prima della morte di Rudolf, ma mai indossato, e lo posò sul letto, insieme con calze pulite e indumenti intimi. Dieci minuti dopo Adelaide era vestita e la contessa stava cercando di sistemarle i capelli. Becky correva dalla toletta all'armadio, portando ora il cofanetto dei gioielli, ora lo spruzzatore del profumo, ora il rossetto, e poi Adelaide sobbalzò come se avesse ricordato qualcosa e disse: «Becky, ascolta, nell'ultimo cassetto del comò c'è un borsellino di velluto. Prendimelo, sii gentile». Becky lo trovò subito: una borsetta di velluto pesante non più grande del suo palmo, ricamata con il filo dorato e chiusa da una fibbia d'oro. La porse ad Adelaide, che se la infilò nel corpetto dell'abito, proprio mentre qualcuno bussava imperiosamente alla porta. Le tre donne si guardarono l'un l'altra. Adelaide si alzò in piedi. «Come stanno i miei capelli?» «Abbastanza in ordine. Vuoi che apra la porta?» «Sì, vai. Voi rimanete qui, contessa. Stile 'guardia d'onore'». Becky aprì la porta e indietreggiò. Sulla soglia c'era il barone von Gödel, con un capitano e un drappello di soldati. Il ciambellano respirava affannosamente; sul suo collo, simile a un piccolo pugno contro il colletto alto e inamidato, pulsava una vena. I suoi occhi passarono velocemente in rassegna la stanza, cercando qualcosa, e Becky si rese conto che era il vassoio della colazione. Forse avrebbero dovuto nasconderlo per usarlo come prova, ma ormai era troppo tardi. Prima che chiunque altro potesse parlare, la contessa gli andò incontro come una belva. «Barone Gödel! Qual è la vostra spiegazione per questo... questo spregevole atto di tradimento e tentato omicidio?» Senza guardarla, il barone si voltò e si rivolse al capitano. «Porti la contessa da suo marito» ordinò. «È malato. Qui non c'è bisogno di lei». La contessa si erse in tutta la sua statura e disse con voce chiara e potente: «Io resto al fianco della regina. È un mio dovere e una mia scelta. Non mi muoverò da qui». Il barone, continuando a evitare il suo sguardo, fece un cenno al giovane capitano, che disse con aria infelice: «Ho il potere di costringervi, Vostra Grazia». «E non dubito che lo farà. Be', dovrà farlo allora, giovanotto. E io non le renderò la cosa facile». La donna sollevò il mento e incenerì il capitano con lo sguardo. Adelai-
de, che aveva seguito la conversazione, batté le mani, e sia il capitano sia il barone trasalirono con aria colpevole. «Sarà meglio che non mettiate le mani addosso a nessuno» disse guardandoli entrambi con gelida indignazione. «Contessa, non desidero che vi venga fatto del male. Vi sono molto grata. La vostra lealtà è davvero preziosa per me. Ma vi prego di andare con il capitano senza discutere. Andate a prendervi cura di vostro marito, che ha bisogno di voi. Senza dubbio ci rivedremo non appena questa follia sarà finita. Nel frattempo potete dire a tutti coloro che si daranno la pena di ascoltarvi che io sono la regina e non mi arrenderò mai». Parlò in un tedesco chiaro e preciso e anche se la contessa sembrò volersi ribellare, alla fine fece un profondo inchino. D'impulso Adelaide le si avvicinò e la baciò sulla guancia. Gli occhi della donna si riempirono di lacrime e le sue mani si tesero involontariamente per stringere quelle di Adelaide. Becky si stupì di quanto era cambiata, da quel monumentale mostro di disprezzo che era stata quando aveva preso in mano l'educazione della principessa Adelaide. Il capitano batté i tacchi mentre la contessa usciva dalla stanza, e ordinò a due soldati di scortarla via. Gödel tornò a voltarsi verso di loro e in quell'istante Becky vide qualcosa che le fece venire un tuffo al cuore: la pistola che Jim le aveva dato, in bella vista sul divano di seta blu. Si spostò allora come se volesse mettersi accanto ad Adelaide, ma in realtà per nascondere la pistola alla loro vista. Forse avrebbe potuto prenderla senza che nessuno se ne accorgesse... «Le metta sotto attenta sorveglianza» ordinò Gödel al capitano. «Entrambe. Le porti al Castello». Adelaide capì l'intenzione di Becky e parlò per distrarlo. «Forse sarete sorpreso di vedermi sana e salva, barone, dopo la colazione avvelenata che mi avete fatto portare. Siete stato voi, non è vero?» Becky, fingendo di piegare la camicia da notte di Adelaide, raccolse la pistola e la nascose sotto la vestaglia, voltandosi in tempo per vedere l'espressione turbata di Gödel mentre tentava di trovare una risposta. Alla fine non riuscì a dire altro che: «Si sbrighi, capitano!» con una certa asprezza. Il giovane ufficiale fece il saluto e un passo avanti. «Devo chiedervi di accompagnarmi di sotto alla carrozza. Se opporrete resistenza, sarò costretto a ordinare ai miei uomini di portarvi con la forza».
La voce gli tremava: Adelaide era ancora la regina per lui. In altre circostanze sarebbe bastato che lei gli lanciasse una delle sue occhiate per farselo schiavo per tutta la vita, ma un senso di vergogna gli impediva di guardarla negli occhi. Fissando invece un punto dietro di lei, il capitano aspettò con la pistola in mano e l'aspetto infelice. «Io non sono stupida, capitano, e spero che lei non sia scortese» replicò Adelaide. «Deve concedere a Fräulein Winter il tempo di vestirsi prima di uscire: di certo non avrà intenzione di trascinarla per tutta la città in vestaglia». Il capitano arrossì. «Scortatela nella sua camera da letto» disse in tono impaziente Gödel, «e aspettate fuori mentre si veste. Poi portatela alla carrozza. Ha cinque minuti, Fräulein». Becky uscì, stringendosi la vestaglia intorno al corpo. Non degnò il soldato che l'accompagnava neppure di uno sguardo e una volta arrivata nella sua stanza sbatté rumorosamente la porta dietro di sé. Si lavò in fretta la faccia e i denti e si infilò degli abiti comodi: non c'era bisogno di apparire elegante se stava per andare in prigione, mentre invece era senz'altro necessario stare caldi, o almeno così immaginò. Gettò in fretta due o tre cose utili in una delle vecchie borse della mamma e si infilò la pistola alla vita. Nel giro di pochi minuti aprì la porta e uscì, già pronta con mantello e cuffietta. Il soldato le fece segno di seguirlo e insieme marciarono con passo rigido attraverso i corridoi stranamente deserti verso la Porta Orientale, un'entrata laterale nascosta dietro la serra degli aranci, dove una carrozza chiusa era in attesa con una scorta a cavallo. Fuori, accanto alla carrozza, c'era Gödel. «Mi dia quella» disse, e le prese di mano la borsa. Becky lo guardò indignata mentre frugava tra le calze, gli indumenti intimi e la camicia da notte che vi aveva infilato e poi gliela restituiva. La ragazza gliela strappò di mano e lo fissò con disprezzo. Un soldato aprì lo sportello. Becky salì e la carrozza si mosse immediatamente, facendola vacillare e cadere sul sedile. L'unica luce all'interno proveniva dai bordi degli scuri serrati e Becky chiese: «Chi c'è? Non vedo niente...» «Solo io» rispose Adelaide. «Smettila di rimbalzare di qua e di là. Mi fai venire il capogiro». Becky si raddrizzò con cautela e cercò a tentoni il revolver infilato sotto la gonna. Lo tirò fuori con un sospiro di sollievo.
«Almeno non mi farò un buco se dovesse sparare accidentalmente» disse mettendolo nella borsa. «Ci sono solo sei pallottole dentro. Dovremo usarle con giudizio». Poi si sedette accanto ad Adelaide, la quale, anche in quella luce fioca, sembrava più che disposta a uccidere qualcuno. La carrozza ondeggiò mentre superavano il cancello del Palazzo e poi aumentò la velocità immettendosi sulla strada che conduceva al Castello. Pochi minuti dopo alcuni messaggeri giunsero alle ambasciate di Germania e Austro-Ungheria. Estremo rammarico... Sua Maestà si è improvvisamente ammalata... impossibilitata a partecipare alla cerimonia della firma come programmato... necessità di posporla almeno di tre giorni, su ordine del medico... sessione finale dei colloqui sospesa fino alla sua guarigione, che ovviamente ci si augura con tutto il cuore... eccetera, eccetera. Un messaggio simile, ma più conciso, fu mandato ai rappresentanti della stampa negli uffici che erano stati messi a loro disposizione. C'erano una ventina di corrispondenti in totale, due terzi dei quali inviati di giornali esteri, incluso un giornalista del Times e tre reporter della stampa popolare londinese, ansiosi di avere notizie della 'Regina Cockney', come l'avevano battezzata. Il corrispondente del Wiener Beobachter lesse ad alta voce il messaggio che il funzionario gli portò. I suoi colleghi cominciarono allora a interrogare l'uomo, che mise le mani avanti e dichiarò: «Perdonatemi, signori, ma non posso dirvi più di quanto so, ossia che Sua Maestà si è sentita male nelle prime ore di questa mattina, che il suo dottore è stato chiamato immediatamente, che un bollettino completo verrà emesso a mezzogiorno e che, nel frattempo, i colloqui sono sospesi. Altre notizie a mezzogiorno, a mezzogiorno, signori. Scusatemi. A mezzogiorno!» E se ne andò, mentre i reporter e i corrispondenti esteri cominciavano immediatamente a scrivere. Alcuni dei più svegli, in grado di fare due cose allo stesso tempo, presero cappotto e cappello e corsero per assicurarsi una carrozza, componendo a mente le prime frasi. Gli impiegati e gli scrivani, inclusa la nostra vecchia conoscenza Herr Bangemann, appresero la notizia con la debita preoccupazione, e in assenza di lavoro da fare, occuparono il tempo con le speculazioni, le carte o la composizione di poesiole. Uno dei colleghi di Herr Bangemann gli mostrò come fare un mandarino cinese con un foglio di carta e Herr Bangemann si mise immediatamente al lavoro e creò cinque omini identici, in ordine de-
crescente di grandezza. Jim non aveva mai avuto idea, neppure la benché minima ombra di un barlume di sospetto, di quanto avrebbe odiato trovarsi in una prigione. Era una condizione assolutamente e profondamente detestabile. Ci si ritrovava impotenti come bambini, a brancolare nel buio quanto e più del povero Leopold. Jim sentì gli occhi che gli si riempivano di lacrime brucianti ripensando alla scena di cui era stato testimone nel boschetto vicino alla botola: il principe che si aggrappava disperatamente ad Anton, singhiozzando come un bambino mentre i soldati glielo strappavano di dosso. O si era immaginato tutto dopo quel secondo colpo alla testa? Né riusciva a togliersi di mente l'immagine di Carmen Ruiz con le mani tese mentre la barca la trascinava con sé nell'oscurità. Non sapeva se quel ruscello prima o poi sfociasse nel fiume o anche solo se tornasse nuovamente in superficie, ma il solo pensiero che potesse non sbucare mai più alla luce del giorno era davvero orribile. Jim si passò con rabbia una mano sul volto e tentò di pensare invece ad Adelaide, ma quello non fece che aumentare la sua frustrazione. Basta, non ce la faceva più: si alzò dalla branda, la strappò dalle staffe arrugginite che la tenevano agganciata al muro, la fece a pezzi e ne usò uno per battere contro la porta finché una voce da fuori non gridò: «Piantala con questo baccano! Tu continua così e verremo lì a darti una bella lezione!» Jim rispose con una grandinata di colpi ancora più forte e una generosa dose di tutte le parolacce del suo vocabolario, e la voce sembrò cambiare idea sul fatto di entrare da lui e andò invece a informarsi su cosa fare. Stufo di quel tipo di esercizio fisico, Jim salì sulle rovine del letto e tentò di saltare abbastanza in alto da raggiungere le sbarre della finestrella sopra la sua testa. Riusciva a toccare la strombatura del soffitto di pietra, ma la finestra era così inclinata che non riusciva ad afferrarla. Trascorse allora dieci minuti nel tentativo di costruire dei gradini con i pezzi del letto, ma non appena ci salì sopra, crollarono inesorabilmente. Jim gridò di rabbia e prese a calci i pezzi di legno per tutta la cella. La luce che penetrava dalla finestrella era grigia e deprimente e dal tempo che gli sembrava fosse trascorso da quando era lì, Jim giudicò che fossero all'incirca le dieci del mattino. In quanto al luogo dove si trovava, poteva essere il Castello, ma l'unica cosa che gli suggeriva quell'idea erano le mura di pietra, e qualunque prigione probabilmente le aveva. Dopo aver assestato un altro robusto calcio alla porta, liberò un po' di
spazio e si sedette sul pavimento. «Ragiona» disse ad alta voce. «Usa il cervello». Non poteva raggiungere la finestra né il soffitto, non poteva praticare un buco nelle pareti e anche il soffitto era di pietra... Quindi rimaneva solo la porta. Dopo tutto una volta l'avevano aperta, per metterci dentro lui, e prima o poi avrebbero dovuto aprirla di nuovo. Si alzò per esaminarla con più attenzione. Era fatta di pesante legno di quercia e non c'era né serratura né maniglia all'interno. All'altezza degli occhi c'era uno spioncino rettangolare grande quanto la sua mano, con una robusta griglia nella parte interna e una copertura scorrevole in legno all'esterno, ossia all'incirca a otto centimetri di distanza: un spessore notevole per una porta, rifletté Jim. La copertura era chiusa. Con un dito Jim non riusciva a raggiungerla, ma armeggiando per diversi minuti sulla tavola rotta del letto ricavò un lungo frammento di legno da usare come strumento. Infilandolo nella griglia e spingendo lateralmente, riuscì a spostare la copertura di pochi millimetri. Una volta creato un minuscolo varco, ci infilò dentro il frammento di legno e fece leva piano piano. Dopo cinque minuti la copertura era aperta. Il panorama non era certo spettacolare: un triste corridoio di pietra illuminato dalla luce grigia che entrava da una grande finestra con le sbarre. Non c'era mobilia né guardie, ma c'erano altre porte che davano su altre celle, tutte aperte. Quindi era l'unico prigioniero. Forse era un'informazione importante. Jim studiò con attenzione le serrature delle altre porte: grossi marchingegni di ferro nero, bloccati all'esterno delle porte con robuste graffe. Robaccia medioevale, pensò con disprezzo: se anche il suo lucchetto era così, ci avrebbe impiegato solo pochi secondi ad aprirlo con un pezzetto di fil di ferro, sempre ammesso che riuscisse ad arrivarci. E che avesse un pezzetto di fil di ferro. Fece scivolare nuovamente la copertura sullo spioncino, così non avrebbero capito che era in grado di aprirla (anche il più piccolo vantaggio poteva essergli utile), poi si picchiettò i denti con la scheggia di legno mentre si guardava intorno per la cella: era possibile che avesse trascurato qualcosa? Be', le proprie tasche, per cominciare. Vuote, a parte un fazzoletto: gli avevano tolto il coltello a serramanico e i passe-partout, ovviamente. Lì niente di utile, quindi. Cosa indossava? Scarpe, pantaloni, cintura, camicia, giacca, maglione... Il maglione di Sally! Ecco l'idea... Jim non poté fare a meno di sorridere,
pensando a tutta la pena che la sua amica si era data per farlo. Fischiettando allegramente tra i denti, si tolse il pesante maglione di lana blu e si mise all'opera per disfarlo. La porta dell'Appartamento del Governatore si chiuse dietro a Becky e Adelaide e la chiave fu girata nella toppa. «Bene» disse Becky. «Siamo prigioniere. E fa freddo qui dentro. Seccante, lo definirei io. Sai una cosa? Mio padre è stato prigioniero qui... Me lo sono appena ricordato. Ed è morto...» All'improvviso e del tutto inaspettatamente si ritrovò a singhiozzare disperata: non per se stessa, ma per quel padre che aveva a malapena conosciuto e che era morto di tifo in quello stesso luogo. E ora che lei avrebbe potuto sposare la causa della democrazia e portare avanti il suo lavoro, tutto stava crollando a pezzi, ed era talmente ingiusto, talmente crudele... Adelaide, scura in volto, camminava su e giù sul tappeto logoro davanti al caminetto freddo e sporco. Il Castello non aveva un Governatore da un centinaio d'anni, da quando cioè era stato costruito il Palazzo, e quella stanza molto probabilmente era rimasta vuota per tutto quel tempo. Adelaide sembrò non curarsi affatto delle lacrime della sua amica e dopo circa un minuto Becky si calmò, si asciugò gli occhi e tirò su col naso. «Va bene» disse poi. «Basta con le lacrime. Non succederà più. Mi domando se ci porteranno da mangiare... Che dici, suono il campanello?» In effetti c'era il cordone di un campanello vicino al caminetto, un vecchio pezzo di velluto logoro e sbiadito. Adelaide lo afferrò e lo tirò con furia selvaggia e tutto l'armamentario crollò giù dal soffitto con una pioggia di intonaco e polvere; ma prima in corridoio risuonò un soddisfacente scampanellio. «Molto utile» disse Adelaide guardando il cordone. «Possiamo impiccarci a turno. Vado prima io. Tu sei così grassa che la spezzeresti». La porta si aprì ed entrò il capitano. «Capitano, lei sapeva che qualcuno ha tentato di avvelenarci questa mattina?» L'uomo sbatté le palpebre e deglutì, poi scosse la testa e si strinse nelle spalle. «E che come risultato non abbiamo mangiato né bevuto niente da ieri sera?» «Io... vi farò portare qualcosa». «Provvedete immediatamente».
Il capitano fece per inchinarsi, ma si trattenne, sostituì l'inchino con un cortese cenno del capo, batté comunque i tacchi e uscì. La chiave fu nuovamente girata nella toppa. «Mmm» mormorò Adelaide, sedendosi sull'orlo di una vecchia poltrona dopo aver soffiato via la polvere. «Suppongo che se sono arrivati al punto di arrestarci il piano di Jim non abbia funzionato. Spero tanto che stia bene». Becky sentì come un gelo alla bocca dello stomaco. Non si era resa conto fino a quel momento di quanto la propria fiducia nel futuro dipendesse dalla certezza che Jim era libero. «Certo che sta bene» mormorò con voce tremante. «E il povero Pentolino... Cosa architetteranno ora? Qualcosa di veloce, spero. Una pallottola non mi dispiacerebbe. Invece l'idea di farmi tagliare la testa non mi va molto a genio...» «Smettila» la interruppe Becky. «Smettila di dire sciocchezze. 'Una pallottola non mi dispiacerebbe'. Cavoli, dovrebbe dispiacerti invece, e parecchio! Non osare rassegnarti. Non hai alcun diritto di farlo. Ciò che invece dobbiamo fare è cercare di capire cosa hanno in mente di fare e come fermarli». Gli occhi di Adelaide lampeggiarono di rabbia. Era stata regina abbastanza a lungo da dimenticare cosa voleva dire essere trattata in quel modo... Ma annuì. «Va bene. Be', senza dubbio non possono fare niente senza un qualche tipo di regnante. Devono avere qualcuno che firmi i documenti e ratifichi le leggi e... che porti la bandiera. Che sia l'Adlerträger. Perché è da lì che deriva l'autorità, no?» Becky annuì. «Perciò pensi che la tireranno giù e faranno in modo che Leopold la porti alla Rupe... sempre ammesso che lui sia nelle loro mani?» «Sì. Speravano davvero che io avrei mandato giù quella bella colazione e che avrei tirato le cuoia, come Pentolino. Così avrebbero potuto dire, 'Oh, che peccato, guarda, la nostra Regina è schiattata' e mi avrebbero fatto un bel funerale e tutti avrebbero pianto fino a non avere più lacrime. Così avrebbero fatto una bella figura, sarebbero sembrati innocenti, avrebbero potuto far finta di piangermi come tutti gli altri. E poi avrebbero tirato fuori quel vecchio demente di Leopold e gli avrebbero fatto fare quello che volevano....» «Ma noi non siamo sicure che ce l'abbiano loro. Se il piano di salvataggio di Jim ha funzionato...»
La chiave girò di nuovo nella toppa e un soldato tenne aperta la porta mentre un altro portava dentro un vassoio con un bricco di caffè, due tazze e un piatto di brioche. Posò il tutto sul tavolo, fece il saluto e stava per voltarsi e andarsene quando Adelaide si alzò e disse: «Aspetta». Prese una brioche e gliela porse. Il soldato lanciò un'occhiata perplessa al sergente che era sulla soglia. «Mangia» ordinò Adelaide. «Essen sie». Il sergente annuì e il soldato diede un piccolo morso, masticando educatamente e deglutendo con forza prima di fare un sorriso incerto. Adelaide stava versando del caffè. «Ora bevi» disse. Era bollente e il soldato dovette soffiarci sopra. Poi ne bevve un sorso, due, e fece schioccare le labbra. Adelaide guardò verso Becky. «Quanto tempo dovremmo dargli? Pentolino si è sentito male subito». «Era molto piccolo. Credo che ci voglia di più in una persona». «Specialmente uno grosso come questo. Ancora!» gli ordinò. «Trinken sie mehr!» Cercando di non apparire sorpreso, il soldato mandò giù tutta la tazza, con Adelaide che osservava ogni suo movimento con circospezione. Quando l'uomo ebbe finito, lei prese la tazza continuando a fissarlo e alla fine annuì. «Va bene, mandalo pure via» disse a Becky. L'uomo, ancora perplesso, batté i tacchi e fece il saluto prima di uscire. Adelaide si avventò immediatamente sulle brioche e Becky versò il resto del caffè. «Dovremo dividerci l'altra tazza» disse. Adelaide annuì con la bocca piena. Ma i suoi occhi brillavano: aveva avuto un'idea. Becky mangiò una brioche, un affarino secco e stantio, cercando di mantenere la pazienza il più a lungo possibile, poi aspettò il suo turno per il caffè prima di chiedere: «Allora?» «Stavo solo pensando... a quello che ho detto prima che entrassero... riguardo alla bandiera». «Tutta l'autorità deriva dalla bandiera. Sì, e loro non devono far altro che tirarla giù e farla portare a Leopold e il gioco sarà finito». «A patto che la trovino ancora lì...» disse Adelaide. «Cosa?» «Supponiamo che si sveglino domattina e scoprano che è scomparsa».
Becky la fissò sconcertata, ma Adelaide sembrava assolutamente seria. «Cosa stai suggerendo esattamente? Che usciamo di qui senza essere scoperte e rubiamo la bandiera da sotto il naso delle guardie e poi... cosa?» «Non lo so» rispose Adelaide. «Ancora non ci sono arrivata. Ma è un buon inizio, non credi?» E prese con tutta calma l'ultima brioche. Becky andò alla finestra, che dava su uno stretto cortile nel quale un'unica sentinella marciava avanti e indietro. Di fronte c'era un alto edificio che si stagliava contro il cielo grigio. Tutte le finestre avevano le sbarre. Eccetto il rumore dei passi della sentinella, tutto taceva: non c'era alcun segno di vita. Mentre stava per voltarsi di nuovo, intravide un movimento con la coda dell'occhio, e poi un altro e un altro ancora: i primi grossi fiocchi di neve avevano cominciato a cadere. Capitolo sedici LANA Nove studenti, tra cui Karl, Anton e Gustav, erano sopravvissuti alla battaglia della grotta, anche se Karl e Gustav erano rimasti leggermente feriti. Era stata una lotta corpo a corpo: non volendo sparare per paura di colpire il principe, i soldati avevano dovuto fare affidamento su pugni e spade, per cui gli studenti si erano ritrovati meno svantaggiati di quanto lo sarebbero stati altrimenti. Il combattimento non era durato a lungo, perché l'unico interesse dei soldati era catturare il principe. Non appena erano riusciti a strapparlo ad Anton, l'avevano trascinato via verso il Palazzo, respingendo gli studenti che li inseguivano. E poi un gruppo più numeroso di soldati era emerso dal tunnel e gli studenti, in minoranza e senza armi da fuoco, erano dovuti fuggire. Solo allora avevano scoperto che anche Jim era stato catturato e un opprimente senso di colpa e di fallimento era calato sul gruppetto lacero e contuso che si era trascinato verso i vicoli e i cortili del quartiere universitario. Quando si svegliarono la mattina dopo, scoprirono che la città brulicava di voci di ogni genere. A ogni angolo di strada si riunivano folti capannelli di persone che discutevano della situazione, passavano in rassegna i pochi giornali e alla fine venivano dispersi dalla polizia. La regina si era ammalata, dicevano; una carrozza chiusa era stata vista entrare nel Castello; numerose truppe erano state portate in città dalla guarnigione di Neustadt;
una rumorosa dimostrazione organizzata da Glatz e dai suoi amici era cominciata e finita quasi subito per l'intervento delle forze dell'ordine; la Borsa era chiusa; si attendeva un bollettino ogni ora dal Palazzo sulla salute della regina. Karl e gli altri, che sapevano molto più degli altri, si sentivano carichi di ansia per quello che invece non sapevano. L'unica cosa che potevano fare era chiedere ai barcaioli dei dintorni se sapevano di un ruscello che si immetteva da qualche parte nel fiume, perché anche loro erano ossessionati dall'immagine di Carmen Ruiz che si allontanava impotente sulla barca: sarà anche stata un'assassina, ma nessuno meritava di morire come un topo nell'oscurità, e loro erano convinti che proprio quella sarebbe stata la sua fine. Ma neppure quelle ricerche diedero alcun frutto e in preda a una profonda infelicità, gli studenti del Richterbund se ne tornarono mogi mogi al Café Florestan, mentre intorno a loro la città fremeva di confusione e paura. Quando la luce del pomeriggio cominciò a sbiadire, Jim aveva finito i suoi preparativi. Una guardia aveva fatto capolino due volte durante la giornata, per portare un vassoio di cibo e per riportarlo via, ed entrambe le volte aveva trovato Jim apparentemente accasciato sul materasso in preda all'apatia. Il giovane aveva mangiato il gulasch tiepido e unto e i fagottini ripieni per tenersi in forze, dando allo stesso tempo un'impressione di letargia e disperazione. Era stato piuttosto utile e ancora più utile era stato osservare la guardia mentre entrava e usciva. E per il resto del tempo Jim aveva pazientemente continuato a disfare il suo maglione. Era roba robusta: lana sottile, oleata e resistente, e difficile da vedere in quella luce cupa. Quando ebbe finito, Jim si scoprì a tremare senza quel bel maglione caldo indosso, ma ora era in possesso di otto gomitoli di robusto filato. Come avrebbe potuto usarli? Fischiettando tra sé e sé, scelse una delle schegge di legno più lunghe e più robuste da quel che rimaneva del suo letto. Era molto appuntita e all'altra estremità Jim avvolse tanta lana da creare un confortevole manico: ed ecco un pugnale. Poi si mise al lavoro sulla parete della cella, dove aveva notato un paio di pietre smosse. Usando un altro pezzo di filo, riuscì a tirare fuori una pietra grossa all'incirca quanto la sua testa e poi infilò la mano nel buco per prendere quello che in realtà stava cercando: sassi più piccoli. Ne tirò fuori una manciata prima di trovarne uno delle dimensioni di un uovo d'anatra e sufficientemente arrotondato, poi ficcò il resto dei sassi sotto il materasso e
rimise a posto la grossa pietra che aveva tolto dal muro. Dopodiché, intrecciando e annodando la lana che tendeva maledettamente ad arricciarsi, creò una piccola rete in cui infilare la pietra e poi la legò stretta a una specie di impugnatura che aveva fatto unendo tre fili di lana e poi intrecciandoli nuovamente con altri due fili: ottenne così un cordone robusto con un cappio per il polso, dal quale pendeva una pietra abbastanza grossa da stordire un cavallo se l'avesse fatta roteare con precisione. Jim la provò più e più volte colpendo il materasso, finché non sentì che i suoi muscoli avevano familiarizzato con il suo peso e il suo movimento. Quindi ora aveva due armi. Quando ebbe finito era già buio e lui aveva freddo e sete. Presumibilmente non avevano intenzione di farlo morire di fame, altrimenti non gli avrebbero portato da mangiare all'ora di pranzo, il che significava che sarebbero tornati prima o poi. Jim rifletté sull'idea di battere sulla porta e urlare per attirare l'attenzione, ma decise che era probabile che in quel caso sarebbero stati in allerta e incuriositi, mentre lui li voleva rilassati, e voleva che si aspettassero da lui quell'apatia che avevano visto in precedenza. Meglio avere pazienza, pensò, e dando una bella scossa al materasso per scacciare gli insetti, si infilò il pugnale in un calzino, si distese, si raggomitolò e un istante dopo, come un gatto, dormiva già pacificamente. Adelaide, mordicchiandosi un'unghia, finì di sistemare la piccola lampada che i soldati avevano portato e si voltò accigliata. «Hai finito con i pezzi degli scacchi?» «Quasi». «Be', sbrigati». Non avendo altro modo con cui impedire a Sua Maestà di impazzire per l'agitazione, Becky aveva suggerito una partita a scacchi. Così avevano disegnato una scacchiera nella polvere sul pavimento e Becky aveva cominciato a creare i pezzi degli scacchi con carta e fili di cotone staccati dai bordi lisi delle tende. Non era facile e si era persino rotta un'unghia strofinando metà dei pedoni nella cenere del camino per annerirli. «Ho finito le nappine» disse. «Ce ne servono quattro per i re e le regine. Io ne ho solo due. Sentì, non potremmo semplicemente sparare alla guardia e darcela a gambe?» «Se ci sarà da sparare, ci penserò io. Ma non contro la guardia. In fondo sta solo eseguendo gli ordini. Anche se non i miei, in effetti. Ripensandoci forse gli sparerò. Dove sono gli alfieri?»
«Gli alfieri?» «Non hai fatto gli alfieri. Togliti di mezzo, lascia fare a me». Sistemandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, Adelaide si inginocchiò nella polvere e cominciò a piegare e attorcigliare. Becky andò alla finestra. Era quasi buio, ma giù nel cortile un gruppo di soldati stava uscendo da una porta con una lanterna in mano. La ragazza stette pigramente a guardare mentre ripulivano dalla neve una parte del muro di fronte. Due di loro cominciarono a scavare una piccola fossa quadrata e poi altri quattro portarono un palo robusto e pesante e lo appoggiarono contro il muro. Becky si rese conto con un tuffo al cuore di cosa stava a significare e si affrettò a voltarsi con l'intenzione di distrarre Adelaide. «Come te la stai cavando?» «Ho fatto gli alfieri» rispose Adelaide, alzando lo sguardo. «Si capisce quali sono perché hanno degli affarini in testa. Dov'è la pistola?» Si alzò e la prese dalla borsa di Becky. «Per Dio, è pesante, no? Quante pallottole ci sono? Sei. Vorrei tanto che la signorina Lockhart fosse qui. Lei saprebbe cosa fare». «Sicuramente». Becky sentì un improvviso groppo in gola. Stava pensando a sua madre e un'immagine fece capolino nella sua mente: lo squallido salotto del loro appartamento, caldo e familiare, con i colori della mamma sparsi sul tavolo alla luce della lampada e un muffin sul forchettone per arrostire il pane, la nonna che sonnecchiava sulla sua sedia e TomTom che faceva le fusa davanti al camino... Era così vivida che Becky tirò su col naso e deglutì con forza. «Non va bene piangere, Becky» disse Adelaide, rimettendo la pistola nella borsa. «Tirati su. Io non piango da... Non so da quando. Oh, sì, lo so invece. L'ultima volta che ho pianto è stato dalla signora Catlett, a Shepherd Market». «Fu quando...» Becky non sapeva come dirlo. «Mi aveva trovato per la strada... stavo morendo di fame. Mi portò da lei e mi diede da mangiare e mi ripulì. In principio non capii perché. Poi lo scoprii. Fu allora che piansi, quando mi resi conto di quanto ero caduta in basso, anche se erano di seta le lenzuola su cui giacevo. Ma avrei potuto cadere molto più in basso di così. Sono stata fortunata che fu la vecchia Bessie Catlett a trovarmi e non qualcun altro. Lei era stata a servizio, conosceva tutti i duchi e i conti e simili, sapeva come fare la civetta, come compiacere... E ce lo insegnò. Ci addestrò. E ci manteneva pulite, anche. Faceva venire un dottore una volta al mese per farci visitare. Ma una ra-
gazza, una mia amica, si prese una malattia. Fu buttata fuori quel giorno stesso. Bessie Catlett non spendeva mai denaro per le medicine; non voleva una ragazza che stesse in ozio mentre ce n'erano decine, centinaia sulla strada. Così la povera Ethel fu buttata fuori. Mi sono chiesta spesso che fine abbia fatto. Spero tanto che sia guarita e abbia trovato un uomo decente, ma, Dio, ce ne sono talmente poche che ci riescono...» «E fu allora che incontrasti il principe Rudolf?» «Sì. Un tipo dell'alta società portò con sé un gruppo di amici e Rudi... be', lui non voleva venirci. Perciò io e lui ci sedemmo a parlare. Era così carino... Be', conosci il resto». «Quanto tempo ci sei stata lì?» «Quasi due anni». «E cosa hai fatto prima di allora?» «L'ho dimenticato». Adelaide abbassò improvvisamente lo sguardo. «Allora, giochiamo o no a scacchi?» Becky si inginocchiò sul pavimento di fronte a lei con la scacchiera in mezzo. I quadrati si vedevano appena, perciò la ragazza prese la piccola lampada e la posò accanto alla scacchiera sul pavimento. «Ti darò una torre di vantaggio» disse Adelaide. «Forza, cominci tu che hai i bianchi». Becky sentì un debole e regolare martellio proveniente dal cortile. Chiacchierando senza sosta per coprire il rumore, fece avanzare il pedone di fronte al re di due caselle. Adelaide si mise una ciocca di capelli dietro le orecchie e cominciò a concentrarsi con un sospiro di soddisfazione. Jim si svegliò. Qualcuno stava armeggiando con le chiavi fuori dalla porta, e dallo spioncino che era stato aperto filtrava una debole luce. Il ragazzo fu all'erta in un istante e allungò la mano destra per cercare a tentoni la pietra legata al cordone. La porta si aprì con uno scricchiolio. Con gli occhi socchiusi Jim osservò la guardia entrare con il vassoio della cena, lasciando la lanterna sul pavimento all'esterno. Ancora meglio: l'uomo era solo. Prima erano venuti in due. Un po' di fortuna, finalmente... Guardando Jim con circospezione, la guardia si chinò per posare il vassoio sul pavimento. Era troppo furbo per voltargli la schiena, ma anche troppo vecchio per muoversi in fretta, così quando Jim rotolò improvvisamente giù dal materasso e balzò in piedi, facendo roteare la pietra, l'uomo non riuscì a schivarla.
Jim dovette farsi forza per farlo: non gli piaceva colpire la gente in testa. Ma il pensiero di Adelaide lo aiutò a essere spietato e il sasso si schiantò contro il lato della testa dell'uomo, mandandolo a gambe all'aria. Con uno strattone Jim gli strappò il mazzo di chiavi dalla cintura. Prendendo un pezzo di pane dal vassoio, se lo ficcò in tasca per mangiarlo più tardi e sgattaiolò fuori dalla cella. La chiave della sua cella fu facile da trovare: era la più grande e la più vecchia. Jim chiuse dentro l'uomo per andare sul sicuro, poi prese la lanterna e si incamminò lungo il corridoio, silenzioso con le sue scarpe dalla suola di gomma, il sasso ancora in mano. Si fermò dietro il primo angolo, si mise in ascolto e si guardò intorno. In cima a una rampa di scale c'era una porta aperta da cui proveniva una luce, e Jim salì in punta di piedi e si fermò sull'ultimo gradino ad ascoltare. Non c'era niente da sentire, tranne uno sporadico fruscio di carte. Guardando attraverso la fessura tra le cerniere della porta intravide parte della schiena di un uomo seduto a un tavolo. Poi l'uomo si mosse e Jim vide che stava sfogliando le pagine di un giornale. Posò silenziosamente a terra la lanterna, si mise in tasca la pietra con l'impugnatura verso l'esterno e tirò fuori il pugnale dal calzino. Poi, muovendosi furtivo come un gatto, entrò nella piccola guardiola, dove c'era una stufa accesa con sopra una caffettiera che bolliva. Prima che l'uomo potesse accorgersi di lui, la mano di Jim si era già chiusa sulla sua bocca e la punta affilata del pugnale di legno era premuta contro la sua gola. «Fai un rumore o muovi un muscolo e questo coltello ti squarcerà la gola» sussurrò Jim. L'uomo si irrigidì. Era un tipo corpulento e rubizzo, con il respiro affannoso del fumatore di sigari e un'espressione non troppo sveglia. «Ora chinati e togliti gli stivali. Muoviti lentamente. Il mio pugnale resterà premuto contro la tua gola, perciò non provare a fare scherzi». L'uomo fece come gli era stato ordinato. «Ora i calzini» disse Jim, e spinse con maggiore forza sulla gola per incoraggiarlo. I calzini vennero tolti, con grande imbarazzo della guardia: non si lavava i piedi da diverso tempo. Ma Jim non aveva tempo per sentirsi dispiaciuto per lui. E poi vide il bottino più ambito: un revolver infilato in una fondina appesa a un chiodo dietro la porta.
«Mettiti il calzino in bocca. Sì, in bocca, tutto. Sbrigati». L'uomo obbedì con riluttanza. Jim si avventò sulla pistola e la sfoderò prima che la guardia potesse reagire. Era carica. «Bene» disse. «Togliti quel calzino per poter parlare, ma bada che se anche solo oserai prendere fiato per gridare ti ritroverai con una pallottola nel cuore prima di aver detto una sola parola. Ora dimmi: che posto è questo?» «Il Castello» rispose l'uomo con voce tremante. «Dov'è la regina?» La guardia aprì la bocca e la richiuse, ma non senza aver prima alzato involontariamente lo sguardo verso l'alto. «Di sopra» disse Jim. «Capisco. Dove?» La guardia serrò la bocca. «Rimettiti il calzino in bocca» disse Jim. La ferocia del suo tono dovette averlo spaventato, perché la guardia obbedì immediatamente. A quel punto Jim gli diede un calcio su uno stinco con quanta più forza poté e dalla gola dell'uomo proruppe un grugnito soffocato. «Ti ho fatto male? Be', la prossima ti romperò un dito e quello sì che ti farà male. Togliti di nuovo il calzino e dimmi dov'è». Con gli occhi pieni di lacrime la guardia si sfilò il mucchietto di lana fradicia dalla bocca e mormorò: «C'è una scala in fondo al corridoio. È su al quarto piano, nelle vecchie stanze del Governatore. Una grossa porta a due battenti». «E qual è la via d'uscita più rapida?» «Dall'altra estremità di quello stesso pianerottolo... La porta che dà sulla scala della servitù. Poi attraverso le cucine. La prego...» «Rimettitelo. Sbrigati o te lo farò ingoiare». Con un'espressione infelice sul faccione rosso, la guardia si rimise in bocca il calzino, che gli traboccò disgustosamente dalle labbra. «Ora alzati e voltati». Muovendosi il più lentamente possibile, l'uomo obbedì e Jim gli legò rapidamente intorno alla bocca un po' di lana da uno dei gomitoli che portava in tasca per tenere fermo il bavaglio. «Metti le mani dietro la schiena». Jim legò insieme i pollici dell'uomo e li assicurò il più saldamente possibile a un robusto tubo di ferro che sporgeva dalla parete. La lana era resistente come uno sverzino: non sarebbe riuscito a slegarsi. Dopo aver dato una rapida occhiata intorno per assicurarsi che la guardia
non avesse niente a cui tirare un calcio per fare rumore, Jim gli lanciò un bacio, prese lanterna e pistola e se ne andò. «Scacco» disse Adelaide. «Non sei concentrata». «A malapena ci vedo. Cos'è quello? Un alfiere? Ma se era un pedone un minuto fa! E uno dei miei, per di più!» «Come vuoi tu» replicò Adelaide, rimettendolo a posto e muovendo un altro pezzo al suo posto. «Scacco matto. Stavo solo tentando di tirarla per le lunghe. Ti va un'altra partita?» Becky si alzò, si stiracchiò, sbadigliò e rabbrividì. Non aveva idea di che ora fosse; aveva freddo e fame, era stanca e aveva paura e in quel momento Adelaide era più utile a lei di quanto lei non lo fosse ad Adelaide. Era arrivato il momento di guadagnarsi la sua paga... se solo avesse avuto la più pallida idea di come! Guardò verso la lampada per vedere se lo stoppino aveva bisogno di essere allungato: la luce aveva cominciato a tremolare. Forse stava finendo l'olio. Si era appena chinata per guardare e Adelaide aveva cominciato a radunare i pezzi di carta e stoffa che avevano usato per giocare quando entrambe sentirono lo stesso rumore: un fruscio e poi uno scatto provenienti dalla porta. Adelaide si alzò in piedi, allisciandosi la gonna. Poi la serratura sembrò scattare di nuovo e la maniglia venne girata. «Jim!» gridò Becky e il ragazzo si portò immediatamente un dito alle labbra. Era sporco, pieno di lividi, con la barba lunga; aveva un taglio sulla fronte e i capelli tutti arruffati. In una mano stringeva una pistola e nell'altra una lanterna e aveva un'aria di tetra determinazione che Becky non aveva mai visto in nessun altro in vita sua. Quasi incuteva soggezione... Ma c'era anche dell'altro e Becky si voltò verso Adelaide per verificare se quello che sentiva era vero. C'era una sorta di carica elettrica nell'aria e sembrava passare tra Adelaide e Jim. Era un qualcosa di fisico, di animale: quei due si stavano fissando con una tale intensità che Becky sentì che si erano dimenticati di lei e persino del Castello. Poi però Jim batté le palpebre e con grande sorpresa di Becky, si inchinò. «Vostra Maestà» disse a bassa voce. «Mettetevi i mantelli, se li avete. Poi seguitemi, e non fate rumore. Becky, hai ancora la pistola? Bene. Non sparare se non te lo dirò io. La cosa più importante è il silenzio... Parleremo dopo».
Le ragazze si avvolsero in fretta nei mantelli. Becky prese la borsa ed entrambe seguirono Jim in punta di piedi fuori dalla stanza che era stata la loro prigione, addentrandosi nei meandri del Castello che ancora li teneva reclusi. Circa due minuti dopo il capitano mandò giù un uomo al corpo di guardia con l'ordine di portare su Jim. Quando vide la robusta guardia a piedi nudi, che lottava contro un muro e nell'apparente atto di mangiarsi un calzino, il soldato scoppiò a ridere; ma poi i grugniti, i gemiti, l'angoscioso movimento delle mani legate, gli occhi spalancati lo fecero tornare immediatamente serio. «Dov'è andato?» chiese tirando fuori il calzino dalla bocca tremante dell'uomo. «Di sopra... dalla Regina... e poi fuori attraverso le cucine... Aspetta! Cosa ha fatto a Trautmann? Non è più tornato dopo che gli ha portato da mangiare...» «Vai tu a vedere! Che bella guardia che sei. Non vorrei proprio essere nei tuoi panni quando il capitano lo scoprirà...» Poi il nuovo arrivato inciampò sugli stivali mentre usciva, e imprecando li gettò alla guardia. «E vedi di renderti presentabile, almeno!» E corse fuori per dare l'allarme. Infiniti corridoi, infinite scale; archi, volte, porte murate, finestre chiuse da grate... e a un certo punto una sala dal polveroso pavimento di legno grande abbastanza da giocarci una bella partita a cricket, pensò Jim. Enormi colonne di pietra intagliate a forma di steli intrecciati si ergevano verso l'alto soffitto. Dalle immense finestre sudice, alcune con i vetri rotti da decenni, si scorgeva la città ammantata di neve e i tre fuggiaschi si fermarono per un istante ad ammirare a bocca aperta quella gelida bellezza, per poi trasalire sorpresi alla vista di una fila di silenziose figure che li fissavano dalla parete dietro di loro. Il dito di Jim si irrigidì sul grilletto... ma un istante dopo il ragazzo notò l'opaco luccichio delle armature vuote. Ma dov'era l'uscita? Si erano persi in questo tremendo labirinto ed era colpa sua. «Ehi, Jim?» sussurrò Adelaide. «Cosa?» «Ti ricordi il macello della fabbrica di carbone animale? Quando scap-
pavamo dalla signora Holland?» «Non lo dimenticherò mai». «Neppure io. Stavo solo pensando... qui almeno è più pulito». «Ma se ci prenderanno il risultato sarà lo stesso. Proviamo con quella porta laggiù». C'era un alto passaggio a volta che portava a un'ampia scalinata di pietra che scendeva al piano inferiore. Scesero in silenzio i gradini bassi, come tre fantasmi al debole luccichio della lanterna, che Jim teneva il più possibile coperta. «Di qua... cos'è questa?» disse poi fermandosi davanti a una finestra. Dava su un giardino, o su quel che ne rimaneva: alberi spogli e cespugli con i rami cosparsi di neve, un paio di statue, una silenziosa fontana a vasca ricoperta di ghiaccio e una pergola rotta, il tutto ammantato da un'atmosfera di desolata malinconia. Ma, cosa più importante, la finestra era a soli tre metri dal suolo e oltre il muro del giardino c'era una strada cittadina, con antiche case dietro le cui finestre chiuse si intravedevano deboli bagliori. «Tieni la pistola» disse Jim ad Adelaide, e tirò fuori il pugnale dal calzino. Grazie a una crepa creata dalla ruggine il gancio si aprì in pochi secondi. I tre fuggiaschi respirarono con gioia l'aria fresca della sera. «E ora cosa faremo? Non vorrai saltare giù...» protestò Becky. «Sono solo tre metri e atterreremo sulla neve. Andrai tu per prima, poi la regina e io per ultimo. Quando atterri, tieni le ginocchia piegate e rotola, così non ti storcerai una caviglia. Quando ti sarai rialzata ti lancerò la borsa. Vai ora, non riflettere, salta». Ostacolata dalla gonna pesante e dal mantello, Becky scavalcò a fatica la finestra e cadde giù più all'improvviso di quanto si era aspettata. Colpì pesantemente il suolo con un gemito e cadde a faccia in giù nella neve, ma quando ebbe recuperato il fiato si rialzò senza un graffio. Jim le lanciò la borsa e poi aiutò Adelaide a scendere... con molto più riguardo di quello che aveva usato con lei, pensò Becky. Adelaide cadde con leggiadria, quasi come un uccellino che atterra, e rotolò su un fianco come le aveva suggerito Jim, rialzandosi in un istante. Jim stava armeggiando con la maniglia della finestra; Becky non riusciva a vedere cosa stava facendo, ma dopo aver saltato, il ragazzo si guardò intorno nella neve e raccolse un gomitolo di lana scura che era agganciato a qualcosa in alto. Arrotolando il filo, Jim tirò lentamente e la finestra sem-
brò chiudersi da sola. Il giovane strappò il filo e si rimise il gomitolo in tasca. «Non possiamo nascondere le nostre impronte nella neve» spiegò, «ma non c'è neppure bisogno di attirare l'attenzione su di loro lasciando la finestra aperta. Ora andiamo verso quella porta, tenendoci sempre all'ombra del muro». Recuperò la lanterna e fece loro strada lungo il muro del giardino. «Restate dietro questo cespuglio. Non uscite finché non avrò aperta la porta». Quando guardò il lucchetto, vide subito che non c'era niente da fare: era ormai diventato una massa di ruggine. Così prese il pugnale, lo infilò nella grappa che teneva attaccata la serratura alla porta e fece leva. Come si era aspettato, la grappa si spezzò immediatamente ed ecco la porta, aperta, con la strada dietro di essa. Adelaide e Becky corsero sulla neve farinosa per raggiungerlo e tutti e tre varcarono la porta e si incamminarono in fretta lungo la stradina. «Nessuna idea di dove siamo?» chiese Jim. «Immagino che se seguiamo questa strada fino in fondo arriveremo al fiume...» suggerì Becky, dubbiosa. «Lì c'è la Rupe!» esclamò Adelaide. Si fermarono per guardare. Tra gli alti edifici che li circondavano la Rupe imbiancata brillava in lontananza contro il cielo nero. «Bene, la useremo come punto di riferimento» disse Jim. «Andremo al Café Florestan. Forza, camminate di buon passo e tenete i cappucci alzati». Quindici minuti dopo Becky e Adelaide erano ferme all'ombra di un portone. Jim si chinò e prese una manciata di neve con cui ripulirsi il viso e quando fu ragionevolmente soddisfatto del risultato aprì la porta del Café Florestan ed entrò nel locale caldo e fragrante di birra. Il posto era pieno, ma tra gli avventori serpeggiava un'aria di tensione: un mucchio di chiacchiere, ma niente risate, facce lunghe e volti tirati. Uno o due alzarono incuriositi lo sguardo mentre Jim si faceva strada tra i tavoli verso l'angolo dove erano seduti gli studenti e poi posava una mano sulla spalla di Karl. Il ragazzo trasalì. «Jim! Grazie a Dio! Vieni a sederti...» «Non ancora. Salve, signori. Karl, vieni fuori un attimo». Karl lo seguì senza indugio.
«Cosa è successo?» gli chiese impaziente a bassa voce. «Sai che la regina è scomparsa? Girano un sacco di voci... Dicono che Gödel vuole farla fucilare... Chi sono queste donne?» Adelaide spinse indietro il cappuccio e fece un passettino avanti in modo che la lampada a gas sopra la porta del bar le illuminasse il viso. Karl trattenne il fiato per la sorpresa e chinò la testa, ma Jim lo prese per un braccio e gli disse, «Non qui. Ascolta, dobbiamo andare dentro. La stanza sul retro è sicura? Siamo appena fuggiti dal Castello. Dobbiamo mangiare, bere e riscaldarci, ma non possiamo entrare e sederci così, come se niente fosse». Karl annuì. «Dammi un minuto. Dirò a Matyas di aprire la porta sul retro... è quella nel vicolo là in fondo». Lo studente tornò dentro e due minuti dopo la porta sul vicolo venne aperta e Karl li fece accomodare dentro. Li guidò in una stanzetta con una stufa di porcellana luccicante per il calore, una lampada su un tavolo che gettava una luce calda su una tovaglia a scacchi immacolata e un gatto tigrato che sonnecchiava su una sedia a dondolo. Karl spinse via il gatto e Adelaide fu grata di potersi finalmente sedere. «L'ho detto a Matyas, il padrone del bar. Lui non parlerà. Fra poco porterà della zuppa e una bottiglia di vino. Posso prendere il vostro mantello, Vostra Maestà?» Qualcuno bussò piano alla porta. Karl andò ad aprire ed entrò l'oste con un enorme vassoio, che posò prima di inchinarsi ad Adelaide. Era un uomo robusto con gli occhi azzurri sulla cinquantina ed era emozionato come un bambino a Natale all'idea che la regina fosse nel suo locale. «Signora... Vostra Maestà, spero che perdonerete questa misera sistemazione... Se c'è qualunque altra cosa che possiate gradire, non dovrete fare altro che dirmelo e ve lo procurerò all'istante. Siete al sicuro qui, Vostra Maestà, al sicuro come nel vostro stesso Palazzo». «Spero di essere più al sicuro di quanto lo ero lì» rispose Adelaide nel suo miglior tedesco. «Ma senza dubbio non mi sono mai sentita tanto bene accetta. Grazie». L'oste si inchinò di nuovo e uscì. Aveva portato brodo, pane e vino e mentre gli altri tre mangiavano, Karl trovò dei bicchieri e aprì la bottiglia. «Per Dio» disse Jim, «questa è la migliore minestra che abbia mai mangiato. Potrei mangiarne un quintale. Voi quando avete mangiato l'ultima volta?» «Questa mattina» rispose Becky. «Jim, hanno tentato di avvelenarla! La
regina!» Raccontò loro ogni cosa e Jim e Karl si scambiarono sguardi torvi. Karl disse loro della battaglia alla grotta e che due studenti erano morti. Jim si incupì ancora di più. «E poi c'è la donna» disse. «Non avremmo dovuto permettere che scomparisse nel buio in quel modo». «Nessuno avrebbe potuto impedirlo» ribatté Karl. «Ci abbiamo pensato e ripensato. Abbiamo anche chiesto ai barcaioli di tenere d'occhio il fiume nel caso quel ruscello si immettesse da qualche parte, ma...» Karl fu interrotto da una serie di colpi alla porta. Il giovane si alzò e Jim fece altrettanto, impugnando la pistola. Karl aprì la porta ed entrò trafelato uno studente, che si inchinò quando vide Adelaide. «Vi chiedo scusa» disse con voce tremante. «Vengo adesso dalla stazione Tristan-Brücke. L'hanno bloccata... nessuno può entrare... e ci sono diversi treni in arrivo da nord. Sono riuscito a nascondermi per vedere cosa stava accadendo... Truppe tedesche, a centinaia, ben armate... scendono dai treni. Non appena sono riuscito a uscire sono corso qui... Ma, Vostra Maestà, cosa sta succedendo?» «Grazie, Andreas» disse Karl. «Ottimo lavoro». Ma sembrava sconvolto, come se fosse troppo per lui. Si voltò verso Jim e disse: «Allora, cosa possiamo fare ora?» «Ascoltate» disse Adelaide. «Quanti dei vostri amici ci sono ora qui nel locale?» «Circa una dozzina». «Sono armati?» «La maggior parte di loro sì. Ma combatteranno ugualmente, armati o no». «Ne sono sicura, Herr von Gaisberg» rispose Adelaide. «Ma mi servirà il loro aiuto, perché ho un piano. L'ho ideato quando ero nel Castello, per fermare il barone Gödel, ma ora è ancora più importante. Parlo della bandiera, ovviamente». Jim comprese al volo. Adelaide lo vide sorridere e continuò: «Fintanto che l'Aquila sarà nelle mie mani, la Razkavia sarà libera. Voglio fare ciò che fece Walter von Eschten nel 1253. Noi non possiamo difendere la Rupe come fece lui, non contro obici e fucili. Ma possiamo portare la bandiera a Wendelstein e chiamare a raccolta la gente da lì. Quindi il mio piano è questo. Voi studenti mi aiuterete?» Karl balzò in piedi, entusiasta, e annuì con vigore. «Vado a radunare gli
altri!» disse, e uscì. Jim stava guardando Adelaide con sincera ammirazione. Pur in disordine e sporca, era più bella di qualunque ragazza avesse mai conosciuto, ma era comunque lo stesso fragile esserino che aveva visto la prima volta molti anni prima quando si era introdotta nell'ufficio dei datori di lavoro di Jim per cercare Sally. La stessa determinazione che l'aveva portata lì allora, tanto nervosa da riuscire a malapena a tirare fuori un filo di voce, la stava sostenendo anche in questo momento... Ma ora lei era la personificazione di una nazione, orgogliosa, infuriata e bellissima. Lei gli sorrise e Jim capì che quel sorriso significava 'Mi fido di te, Jim. Possiamo farcela'. Lui le rispose con un sorriso altrettanto sincero. Poi uno a uno gli studenti del Richterbund entrarono nella piccola stanza sul retro del Café Florestan e si inchinarono di fronte ad Adelaide la regina e le baciarono la mano come pegno della loro fedeltà. Si affollarono tutti intorno al tavolo a sbirciare da sopra le spalle del vicino e a tentare di non buttare giù gli oggetti dalla credenza con i gomiti mentre lei parlava. Adelaide si rivolse a loro attraverso Becky, dicendo in breve di voler impedire che la bandiera del loro paese, l'emblema più sacro della nazione, cadesse in mano nemica. Se qualcuno di loro non voleva partecipare poteva tirarsi indietro subito e andarsene con l'onore intatto; coloro che restavano forse non sarebbero vissuti per vedere un'altra alba. Nessuno di loro si mosse e quando se ne rese conto, Adelaide dovette battere rapidamente le palpebre e distogliere lo sguardo. Poi in tedesco disse: «Vi ringrazio, signori. Mi aspettavo coraggio, ma voi mi avete dato anche la speranza. Per favore, sedetevi mentre discutiamo del modo migliore per portare a termine il nostro piano». Adelaide si sedette e gli altri si appollaiarono goffamente sui braccioli delle poltrone o sedettero a gambe incrociate sul pavimento. «Dobbiamo decidere il da farsi in ogni dettaglio» disse la regina. «Perciò chiunque sappia qualcosa della Rupe o della funicolare o qualunque cosa possa esserci d'aiuto, parli pure, per l'amor del cielo. E, a proposito, se mi dovesse accadere qualcosa... Se mi dovesse accadere qualcosa, la bandiera dovrà andare a Herr von Gaisberg. Sarà lui il prossimo Adlerträger». Ci fu un mormorio di comprensione e approvazione. Karl sembrò in procinto di dire qualcosa, ma si trattenne. Aveva le guance in fiamme. Jim allora disse: «Bene, signori. Parlate pure. Più cose riusciremo a risolvere ora, meno ne andranno storte in seguito. Chi è il primo?»
Capitolo diciassette LA FUNICOLARE In tutta la città le voci si stavano diffondendo come il fuoco che corre lungo migliaia di micce. Nei caffè, Bierkelleer e Weinstube, nei salotti privati e nelle cucine, negli atri degli alberghi e nel foyer del Teatro dell'Opera, agli angoli delle strade e nelle piazze le voci correvano: «Diecimila soldati tedeschi...» «Cannoni sulle carrozze ferroviarie!» «La regina è fuggita con l'amante...» «Il conte Thalgau è morto! Si è sparato!» «No, non è vero... è stato arrestato!» «Hai sentito del trattato? Volevano farci rinunciare alla nostra indipendenza! Non mi meraviglio che non volessero renderlo pubblico!» «Non avrebbero dovuto fucilarla così...» «Fucilarla? La regina è stata fucilata?» «Nel Castello. Ho visto il plotone d'esecuzione che entrava. Hanno dovuto tirare a sorte e anche così metà degli uomini si sono rifiutati di obbedire agli ordini!» «Non ci crederai mai... il principe Leopold è vivo! Mio cugino, lui lavora come domestico a Palazzo, e dice che Leopold aveva una terribile malattia deturpante, ma ora è uscito dal suo nascondiglio per salvare il paese all'ultimo momento!» «Hai sentito...» E così via. Le strade brulicavano di persone, ma in maniera disomogenea: alcuni posti erano deserti, altri gremiti. Una grande folla si stava radunando di fronte alla stazione, dalla quale le truppe tedesche non erano ancora emerse, anche se dall'interno arrivava il rumore delle pesanti attrezzature che venivano spostate. Un'altra folla, meno concentrata, ma più infuriata, stava cominciando a muoversi verso il Palazzo e, come accade sempre con le folle, diventava sempre più esaltata man mano che il grido 'Vogliamo la regina! Vogliamo la regina!' cominciava a diffondersi. Gente che non aveva idea di cosa volesse dieci minuti prima provava ora un bruciante desiderio di vedere Adelaide e difenderla da... Be', da cosa di preciso nessuno lo sapeva, ma tutti ardevano dal desiderio di difenderla da qualcosa...
Al Palazzo il barone Gödel stava cercando di mantenere il controllo della situazione, anche se in realtà la situazione cambiava di minuto in minuto. L'invasione tedesca era stata un'orribile sorpresa per lui: non si aspettava che sarebbero calati sul paese, ma che l'avrebbero appoggiato da lontano quando avesse riportato Leopold sul trono. Non sarebbe dovuta andare così. Cercando qualcuno da incolpare, fece irruzione negli appartamenti privati del conte e della contessa Thalgau. La contessa tentò di respingerlo, ma lui si introdusse con la forza nella camera da letto del conte e trovò il vecchio sdraiato sotto le coperte, col viso teso per la sofferenza, gli occhi offuscati, i folti baffi ridotti a ciuffi di paglia. Persino Gödel rimase turbato dal cambiamento subito dall'anziano soldato. «Qual era il vostro accordo con Berlino?» gli domandò. «Insisto che me lo diciate all'istante». Il conte lo guardò per un momento, poi chiuse gli occhi. «Dov'è la regina?» chiese con voce roca. «Maledizione, Thalgau! Rispondete alla mia domanda! Qual era il vostro accordo con Bismarck?» Il conte sospirò. Fu un sospiro profondo che sembrò scuoterlo fin nell'anima. «Non avevo alcun accordo con Bismarck. Il mio accordo era con il suo banchiere. Io avrei dovuto comunicare il contenuto del trattato ventiquattr'ore prima, ecco tutto. In cambio... una somma di denaro. Me ne pento amaramente... dovrei spararmi. Ma ciò che avete fatto voi, Gödel... il principe Leopold... mille volte peggio... Dov'è la regina? Cosa le avete fatto?» Per pronunciare queste ultime parole si sollevò dai cuscini con la sola forza di volontà e, col viso segnato da un pallore spettrale, affrontò Gödel, che fece un passo indietro, impaurito. Ma prima che potesse rispondere, un assistente corse dentro, si inchinò goffamente e mise un pezzo di carta in mano al ciambellano, che lo prese con dita tremanti. «Dal generale von Hochberg al barone Gödel...» lesse. «Chi è questo generale von Hochberg?» «L'ufficiale che comanda le forze tedesche» balbettò l'uomo. «Questo messaggio è stato recapitato a mano dalla stazione Tristan-Brücke un minuto fa». Il ciambellano continuò a leggere: Mi è stato comunicato che lo strumento per mezzo del quale
viene trasferita l'autorità in questo paese è la bandiera che sventola sulla Rupe. Vi prego di disporre che venga portata alla mia carrozza alla stazione Tristan-Brücke entro un'ora. In caso contrario, le mie truppe la rimuoveranno con la forza. Gödel vacillò. Il pezzo di carta gli cadde di mano e per sorreggersi strinse il braccio del giovane assistente. Poi si raddrizzò. Ignorando il conte e la contessa corse verso la porta, con l'assistente al seguito. A metà del corridoio il ciambellano si bloccò all'improvviso. Era per natura un uomo subdolo, cauto, pauroso, non abituato ad agire d'impulso e quando invece era necessario farlo si sentiva insicuro. Chiamò a sé il giovane. «Vogliono la bandiera» disse. «Vogliono che gliela dia io. Ma se io l'avrò... se l'avrò nelle mie mani...» I suoi occhi sollecitarono una risposta dall'assistente. «Non avrete bisogno di darla a loro?» «Esatto. Ora ascolta attentamente. Voglio subito una carrozza alla Porta Occidentale per raggiungere la Rupe. Poi di' all'infermiera di svegliare il principe Leopold e di vestirlo. Quando sarà pronto, fallo portare con una carrozza chiusa alla stazione dei Giardini Botanici. Capito?» L'assistente ripeté gli ordini. Gödel continuò: «In ultimo, vai alla stazione Tristan-Brücke e disponi che una locomotiva venga agganciata al Treno Reale in modo che venga portato ai Giardini Botanici, e poi a Praga. E per l'amor di Dio, non far capire ai tedeschi quello che stai facendo». «Locomotiva..'. Treno Reale... Giardini Botanici... Praga» ripeté obbediente il giovane e corse via. Il barone Gödel si asciugò la fronte e corse verso le proprie stanze per preparare una valigia. Nell'appartamento del conte, la contessa raccolse il biglietto che il barone aveva lasciato cadere e lo lesse ad alta voce al marito. Il conte ascoltò, scuro in volto, e poi disse: «Minna, quel soldato davanti alla nostra porta... se n'è andato? Siamo ancora in arresto?» La donna si affacciò per guardare. «Non c'è nessuno» disse. «Dov'è il mio binocolo?» Forse tutto questo era troppo per lui, pensò la contessa. Prudentemente aveva tolto le pallottole dalla pistola del marito già quella mattina, quando la disperazione e il rimorso erano al culmine, ma era difficile che si facesse
del male con un binocolo. La contessa gli portò la custodia di pelle e si sedette stancamente accanto a lui. Attraverso le strade buie Adelaide e la piccola banda di studenti si affrettava verso la Rupe. La maggior parte dei disordini era altrove: grida lontane, il rumore di vetri rotti, uno sporadico scoppio che avrebbe potuto essere un colpo di fucile. Il gruppo si mantenne nell'ombra, sgusciando furtivo fra le stradine piene di neve in assoluto silenzio. Quando raggiunsero i piedi della Rupe, si divisero. Uno studente andò alla stazione Tristan-Brücke per controllare la situazione; un altro andò a cercare una carrozza e dei cavalli. Karl, insieme ad altri quattro, girò intorno alla Rupe per salire dalla scalinata lungo la quale era salita Adelaide con la bandiera il giorno dell'incoronazione. Il vero rischio era che sarebbero stati chiaramente visibili, perché quel lato della Rupe era in piena vista dalla riva del fiume e dal ponte. Il resto del gruppo, insieme a Jim, Becky e Adelaide, si diresse verso la stazione della funicolare. Non avevano intenzione di usare una delle carrozze: si sarebbero fatti notare ancor più del gruppo che stava salendo lungo la scalinata. Inoltre avrebbe significato coinvolgere il capostazione e non volevano correre rischi. I convogli correvano però su rotaie istallate su grosse traverse orizzontali di legno disposte come gradini lungo il fianco della Rupe, quindi chi avesse deciso di salire da quella parte sarebbe stato meno in evidenza contro le rotaie scure. Quando raggiunsero la piccola stazione, la casa del capostazione, che faceva anche da biglietteria e sala d'attesa, era buia e silenziosa. Alla banchina c'era una delle due carrozze, legata al lungo cavo che la collegava all'altra in attesa sulla cima. Becky doveva rimanere giù e nascondersi tra i cespugli accanto alle rotaie. «Ecco» disse Jim, e le porse un gomitolo di lana. «A cosa mi serve?» «Per fare segnalazioni. Tu ne terrai un capo e lo tirerai con forza in caso di pericolo. Fritz qui presente lo srotolerà man mano che saliamo». Becky si legò un capo della grossa lana scura intorno all'indice per essere sicura di non farlo cadere. Poi Adelaide sollevò il mantello, scavalcò la staccionata e cominciò a salire lungo il ripido percorso delle rotaie sopra la carrozza. C'era un solo binario per entrambi i convogli, che a metà del percorso si biforcava per consentire alla carrozza che saliva di passare accanto a quella che scendeva.
«Buona fortuna!» sussurrò Becky. «Viel Glück!» Si sistemò su una trave di legno che era stata abbandonata tra i cespugli. All'altezza degli occhi aveva le ruote della carrozza che apparivano inclinate verso l'alto per la forte pendenza delle rotaie, e dall'altra parte dei respingenti intravedeva la stazione, silenziosa, con le persiane chiuse e il tetto ricoperto di neve che luccicava debolmente contro il cielo scuro. Accanto a lei scorreva un piccolo ruscello, e Becky vi immerse la mano e si portò l'acqua gelida alle labbra, pensando: Walter von Eschten bevve da questa stessa fonte quando combatté qui... Il filo di lana che teneva in mano cominciò a contorcersi e a dare leggeri strattoni mentre gli altri continuavano a salire. A metà della salita, il gomitolo di lana si esaurì. Fritz avvertì Jim, che gliene diede un altro. Lo studente legò le due estremità. Una spessa neve ricopriva le travi di legno su cui salivano. Erano piuttosto in alto rispetto ai tetti delle case più vicine e Jim aveva paura che qualcuno potesse vederli. Da quel lato della Rupe non potevano essere visti né dalle piazze o dalle strade principali, né dalla Cattedrale, dal ponte o dal Palazzo, ma il tetto in vetro e ferro della stazione Tristan-Brücke luccicava debolmente nell'oscurità poco lontano e a Jim sembrò di intravedere del movimento lì di fronte. Tra i cespugli sotto di loro sentiva scorrere dell'acqua e capì che doveva provenire dalla sorgente che alimentava il serbatoio della carrozza sulla Rupe. «Come funziona la funicolare?» chiese a bassa voce allo studente che gli era accanto nella salita. «Il serbatoio della carrozza sulla cima si riempie d'acqua e così il convoglio diventa più pesante di quello in basso, comincia a scendere e tira su l'altro. Il macchinista controlla la velocità con un freno. Mentre i passeggeri scendono e salgono, il serbatoio della carrozza in alto viene riempito e quello in basso svuotato. È semplice». «E tengono sempre quello in cima pieno, pronto a far partire la carrozza?» «Questo non lo so. Non starai pensando di scendere con il convoglio...» «Ero solo curioso». Non dissero più niente finché non furono vicini alla piccola stazione in cima alla Rupe. La carrozza sopra di loro sembrava pronta a precipitarsi giù dal pendio e a schiacciarli da un momento all'altro e Jim fu più che felice di lasciare il binario e salire sulla banchina, che, come la carrozza, era
a due piani. Fritz si accucciò al piano inferiore con il gomitolo in mano, mentre Jim, Adelaide e gli altri salirono furtivamente i gradini che portavano al piano superiore. Si ritrovarono così allo stesso livello della sommità stessa della Rupe, ossia di quella piccola piazza d'armi dove Adelaide era stata incoronata. Al centro c'era il pennone con la bandiera, che pendeva immobile e irrigidita dal gelo. L'unica altra struttura sulla cima era una garitta. La Guardia dell'Aquila era composta da due soldati che facevano la guardia alla bandiera a turni di quattro ore, giorno e notte. Per la maggior parte del tempo il loro compito era di stare sull'attenti e di avere un aspetto solenne, ma quando faceva freddo preferivano marciare avanti e indietro per tenersi caldi. Un cancelletto separava la banchina della funicolare dalla piazzetta. Tenendosi all'ombra del tetto della stazione, Jim si avvicinò per guardare. Le sentinelle avevano scavato un sentiero quadrato nella neve intorno al pennone a furia di marciare: Jim sentiva il tonfo regolare dei loro stivali, ma per il momento non poteva vederli, perché erano ancora dietro il muro della stazione. Adelaide e gli altri avanzarono dietro Jim. Ciascuno degli studenti impugnava una pistola. All'improvviso un brusco comando spezzò il silenzio: «Altolà! Chi va là?» Le sentinelle non erano ancora visibili, quindi con tutta probabilità il soldato si era rivolto al gruppo che stava salendo dall'altro lato della Rupe. Prima che Jim potesse reagire, Adelaide corse verso il cancelletto e disse con voce chiara, «Die Königin... la regina». Jim le fu accanto in un istante. Le sentinelle si erano voltate di scatto, in preda alla confusione, e sembravano non sapere se puntare i loro fucili su Karl, che stava salendo ora sulla cima, o su Adelaide, che stava aprendo il cancelletto. «Mettete giù quei fucili!» esclamò Karl. «Non vedete con chi avete a che fare?» Entrambi gli uomini fissarono a bocca aperta Adelaide mentre si toglieva il cappuccio e faceva un passo avanti. Uno studente sollevò una lanterna in modo che i soldati potessero vederla in faccia. Uno dei due guardò dubbioso il compagno, ma questi si stava già precipitando a fare il presentat'arm, seppure con lo sbalordimento scritto in faccia. Alla fine anche l'altro si riebbe dalla sorpresa e fece altrettanto.
«Vorrei che Becky fosse qui» mormorò Adelaide. «Jim, digli che gli ordino di tirare giù la bandiera, perché il paese è stato invaso e... e noi la porteremo a Wendelstein, e se vogliono salvare il loro paese possono unirsi a noi». Jim tradusse tutto con l'aiuto di Karl. Le due sentinelle si scambiarono sguardi chiaramente dubbiosi. «Ma, Vostra Maestà... la Adlerfahne resta qui per tutta la vita di un sovrano! E il nostro compito è fare in modo che continui a sventolare, e non ammainarla!» Adelaide annuì e disse: «Lo so. E voi siete ottime guardie, entrambi. Ma è esattamente per questo che sono venuta, personalmente. Porterò io stessa la bandiera. Se non la porteremo via...» E qui si interruppe, perché dalla direzione della stazione ferroviaria giunse una raffica di colpi e poi il rimbombo più cupo di un pezzo d'artiglieria. Tutti si voltarono all'istante. Jim si affrettò a tradurre le parole di Adelaide e aggiunse: «Quelli che sentite sono i tedeschi. Un traditore a Palazzo ha tentato di arrestare la regina e li ha invitati a invadere il paese. Volevano fucilare Sua Maestà, ma siamo fuggiti in tempo. Ora, volete fare come lei vi ordina e ammainare la bandiera?» Uno degli uomini guardò il pezzo di stoffa con espressione angosciata. «Noi siamo qui per proteggere la bandiera!» esclamò. «Essa è più importante di qualunque re o regina. Sventola su questa Rupe da cinquecento anni e per tutto il tempo... per tutto il tempo ci sono stati uomini come me a proteggerla e... io non posso, Vostra Maestà! Anche se ci sono i tedeschi laggiù, noi dobbiamo far sì che continui a sventolare sulla Rupe!» Adelaide capì abbastanza da sapere cosa doveva rispondere. «Voi due avete ragione» disse. «E se Walter von Eschten fosse vivo sarebbe orgoglioso di voi come lo sono io. Ma lui non ha mai dovuto affrontare cannoni come quelli che ci sono laggiù...» Perché un istante prima un altro pezzo d'artiglieria aveva tuonato. Ora si sentivano anche delle grida e c'era del fumo non lontano dalla stazione. «Se la bandiera resterà qui» continuò Adelaide in un concitato miscuglio di inglese e tedesco, «il paese durerà non più di un'ora. Se dovessero salire quassù adesso, io combatterò al vostro fianco perché la bandiera continui a sventolare. Ma se noi la portiamo via, loro non potranno mai dire di aver conquistato il paese, perché non avranno la bandiera! E pensate... pensate a quello che ha fatto Walter von Eschten tutti quegli anni fa. Ha tirato giù la bandiera, l'ha portata a Wendelstein, ricordate? Al Castello. E ha combat-
tuto i boemi e li ha sconfitti. Ed è quello che faremo anche noi: porteremo la bandiera a Wendelstein. L'intero paese saprà cosa questo vuol dire e si unirà a noi per sconfiggere i tedeschi. Capite? Unitevi a noi! Venite con me a Wendelstein e salvate la bandiera!» Ci fu una pausa di diversi secondi durante i quali nessuno si mosse: nella mente del soldato dubbioso si stava combattendo un'epica battaglia tra la disciplina e l'immaginazione. Alla fine, dopo quasi mezzo minuto, l'immaginazione vinse. L'uomo sbatté a terra il calcio del fucile e fece il saluto. «Soldato Schweigner» disse. «Ai vostri ordini, signora». «Caporale Kogler» disse l'altro. «Siamo con voi, Vostra Maestà». Adelaide non riuscì a trattenersi e batté le mani dalla gioia. «Bravissimi!» esclamò. «E ora tirate giù la bandiera, in fretta...» I due si misero subito a trafficare col pennone. Un istante dopo Jim sentì un leggero fischio dalla banchina dietro di loro e corse al cancelletto. «Sta tirando il filo!» disse Fritz sottovoce. «Sta succedendo qualcosa giù in basso!» Jim fece un balzo al piano inferiore dove era accucciato lo studente, e insieme cercarono di scrutare giù lungo il pendio. Il binario, nascosto in parte dai cespugli, correva giù alla stazione dritto come una freccia, se si escludeva la biforcazione. «C'è qualcuno giù sulla banchina» sussurrò Fritz. «Due... di più... e stanno salendo sulla carrozza! Stanno venendo su!» Jim e Fritz sentirono un suono metallico provenire da sotto la carrozza che era accanto a loro e poi il veicolo sobbalzò leggermente contro i freni che lo tenevano serrato alle rotaie. Un istante dopo venne il suono dell'acqua che entrava nel serbatoio. «Apri le porte della carrozza» ordinò Jim, «e alla svelta». Lui invece corse alla scala, salì al piano superiore della banchina e trovò Karl e altri due studenti che stavano aprendo il cancello, avendo sentito anche loro il suono dell'acqua nel serbatoio. «Svelti!» esclamò Jim. «Scenderemo giù con questa mentre loro salgono... è manovrata dal basso...» Dietro Karl i due soldati stavano staccando con deferenza la bandiera dalla drizza. Adelaide li stava aiutando, piegandola come fosse un lenzuolo fresco di bucato, ma con grande difficoltà: la stoffa era infatti rigida e trapuntata di brina. «Sbrigatevi!» gridò a bassa voce Jim. «Siamo in pericolo! Muovetevi!
Portatela alla banchina!» Adelaide stava giusto ripiegando l'ultimo angolo. Nessuno voleva muoversi finché non si fosse mossa lei; i soldati avevano ripreso i loro fucili, gli studenti si stavano scostando per farle spazio... Un altro forte rumore metallico proveniente dalla carrozza: il peso in costante aumento la stava portando a premere contro i freni... Adelaide si rialzò con la bandiera in mano. Jim, impaziente, le mise un braccio intorno alla vita e quasi la trasportò oltre il cancelletto. Karl lo tenne aperto e lei passò, seguita da tutti gli altri, alcuni dei quali scavalcarono la staccionata per fare più in fretta. Tutt'e quattro le porte della carrozza erano spalancate. Il gruppetto riuscì a entrare appena in tempo prima che il veicolo sobbalzasse in avanti. «Chiudete piano le porte e restate giù!» ordinò Karl. «Sdraiatevi a terra e non fatevi vedere!» Becky, in preda all'ansia, si accucciò sotto un cespuglio carico di neve e guardò gli uomini (tre in tutto, il barone von Gödel, un giovane aiutante con il cappello a cilindro e un ufficiale con la spada e l'elmetto piumato) entrare nella carrozza, seguiti da un accigliato capostazione che si stava ancora abbottonando la tunica. Si staccò distrattamente il filo di lana dal dito: oramai era servito al suo scopo. Becky sapeva che Fritz aveva sentito il suo strattone perché lo studente le aveva risposto allo stesso modo, ma non riusciva a vedere niente di ciò che stava accadendo sulla cima. Il capostazione, dopo aver controllato la tensione del cavo, spinse in avanti la leva del freno e la carrozza avanzò verso l'alto con un sobbalzo. Durante il giorno si muoveva con maggiore fluidità, quando l'uomo era più sveglio e il gelo non irrigidiva le ruote... Ciononostante si stava muovendo e Becky uscì dai cespugli, si ripulì il mantello e attraversò a fatica il binario per salire sulla banchina e vedere meglio. Arrivò in tempo per vedere la grazia con cui la carrozza che saliva deviò a sinistra, facendo spazio a quella che scendeva per poi tornare sul binario principale. Pensando che la carrozza in discesa sarebbe stata vuota, Becky non vi prestò attenzione: tutta la sua inquietudine era diretta verso l'alto. Perciò quando il veicolo si fermò con un gran stridio di freni, lei stava ancora guardando verso la cima, e per poco non svenne per la sorpresa quando tutte e quattro le porte si aprirono e ne uscirono una decina di figure avvolte dall'ombra.
«Cosa... Oh, mio Dio! Jim, sei tu?» «Sì. E dobbiamo andarcene in fretta. In questo momento staranno fissando il pennone vuoto e...» «La trave!» esclamò Becky. «Quale trave?» «Mettiamola di traverso sul binario...» La ragazza saltò giù dalla banchina e corse tra i cespugli. Karl e un altro studente la seguirono, videro cosa stava facendo e si chinarono per aiutarla. Proprio in quel momento sentirono l'acqua fuoriuscire dal serbatoio della carrozza e scorrere nel canale di scolo sotto il binario. Trascinarono a fatica fuori dai cespugli la trave su cui era stata seduta Becky, e poi la piazzarono sulle rotaie. «Mettetela in modo da bloccare le ruote...» mormorò Becky ansimante, ignorando i graffi e i tagli che si stava procurando. Altri due studenti si mossero per aiutarli e la trave cadde goffamente di fronte alle ruote proprio nell'istante in cui il cavo si tendeva e la carrozza sobbalzava in avanti. «Attenti!» gridò Karl e tirò via Becky appena in tempo. La carrozza si stava muovendo verso l'alto, trascinando il pezzo di legno con sé. Con un ultimo sforzo, gli altri due studenti fecero ruotare la trave, che si infilò tra la catena delle ruote e si incastrò. La carrozza si bloccò con un sobbalzo che fece vibrare il cavo come la corda di un'arpa. «Tornate qui, svelti» disse Jim a voce bassa, il gruppetto riattraversò a fatica le rotaie e fu aiutato a risalire sulla banchina da diverse mani tese. «Ascoltate» continuò Jim. «Willi e Michael sono tornati. Non ci sono né carrozze né cavalli da nessuna parte, ma su uno dei binari di raccordo stanno preparando il Treno Reale. Immagino che qualcuno stia pensando di svignarsela, ma se riusciremo ad arrivarci abbastanza in fretta, potremo requisirlo noi. Ora ci divideremo e ci muoveremo in piccoli gruppi: io e il soldato Schweigner con Becky e la regina; il caporale Kogler con Karl e il suo gruppo; il resto per conto proprio. Dirigetevi alla stazione. Ci incontreremo sotto la statua di... be', insomma, la statua con quelle donne nude, sapete quale intendo. Sarà pieno di gente: noi fingeremo di non conoscerci e parleremo a bisbigli. Ma ho un piano. Ora dividiamoci e andiamo! Via!» Gli altri si sparpagliarono. Jim aiutò Adelaide a scendere i gradini scivolosi e poi, tenendo il pesante fagotto tra le braccia come fosse un bambino, la regina si mise silenziosamente in marcia insieme agli altri verso la stazione. Jim scarabocchiò qualcosa nel suo taccuino mentre camminava.
Dalle finestre degli appartamenti privati del conte e della contessa Thalgau c'era un'ottima vista sopra i tetti della città fino alla sommità della Rupe. L'anziano ex militare abbassò il binocolo e si raddrizzò. «Minna!» gridò. «La mia uniforme. Preparamela, per favore, tesoro». La contessa si raddrizzò di scatto sul divano sul quale stava sonnecchiando. «Ma cosa vuoi fare?» «Mi laverò, mi raderò e mi vestirò. Poi andrò alle stalle a cercare un cavallo». «Ma non stai bene!» «Sto meglio di quanto sia mai stato in vita mia» replicò il conte. Aveva la carnagione spenta e gli occhi iniettati di sangue; un tremito gli scuoteva la mano sinistra e trascinava leggermente il piede sul tappeto. Ma quando si mise dritto in piedi di fronte a lei, con la testa alta e le spalle dritte, la contessa capì quello che stava per fare e si rese conto che era la cosa giusta, dopo tutto. Gli occhi la ingannavano... le sembrava di non riuscire a vederlo chiaramente': non vedeva in lui il traditore. Tutto ciò che vedeva era il giovane soldato pieno di orgoglio che aveva amato per quarant'anni, ancora lì dentro di lui. Corse a cercargli la sua migliore uniforme, quella con i pantaloni verde scuro attillati con la banda lucida, la giacca con i bottoni d'oro e i galloni e lo sciaccò nero con la piuma rossa. Poi gli stivali da cavallerizzo e il mantello; e infine il cinturone con la lunga sciabola di cavalleria. Lo aiutò a vestirsi. Quella mano sinistra era messa male: non riusciva ad allacciarsi i bottoni, ma per non imbarazzarlo ci pensò lei e non disse una parola. «La mia bambina» disse il conte in tono burbero e le toccò la guancia. Poi prese la fondina di cuoio in cui teneva il suo revolver e lei glielo agganciò alla vita dopo averlo ricaricato; alla fine il conte si avvolse nel mantello scuro e gettò il lembo sulla spalla sinistra. Si voltò verso di lei. Non era facile per nessuno dei due parlare. Ma i semplici gesti del vestire, dell'abbottonare, dello spazzolare, la franchezza dello stare uno di fronte all'altra a testa alta, la semplice tenerezza di una mano familiare sulla guancia... quelle sono cose che vanno oltre ogni vergogna. Il conte le baciò la testa grigia e uscì con passo solenne. Il generale tedesco aveva dato a Gödel un'ora per portargli la bandiera,
ed era un uomo di parola; ma quando dopo sessanta minuti nessuno si presentò, chiese il suo cavallo. Lasciando la calca, le grida e la confusione della stazione nelle capaci mani del vicecomandante, il generale e il suo aiutante di campo uscirono da una porta secondaria. Il giovane ufficiale consultò una mappa della città e indicò con il dito una direzione, e il generale fece voltare il cavallo verso la Rupe. «Sa, Neumann» disse mentre avanzavano a fatica tra le strade brulicanti di persone, «credo che stia succedendo qualcosa. Non mi sorprenderebbe affatto se quell'uomo, Gödel, avesse progettato un suo piccolo colpo di stato. Tanto meglio». «Perché, signore?» «Politica, mio caro ragazzo. Se c'è veramente qualcuno da cui dobbiamo salvarli, e noi lo facciamo, odoreremo di rose. Quella è la Rupe? Con una carrozza della funicolare sulla cima? E degli uomini che agitano una luce?» Guardarono su da un varco tra le case. Il generale fece cortesemente spostare il suo cavallo per lasciar passare una giovane coppia: una ragazza snella con mantello e cappuccio e quello che sembrava un bambino tra le braccia e un giovane con un giaccone da marinaio che le mise il braccio intorno alle spalle con fare protettivo mentre passavano. «Sembra che ci sia qualcosa che non va» disse il giovane ufficiale. «Sulla cima. Guardi, credo che la funicolare si sia guastata o qualcosa del genere...» Anche al generale sembrava così. Scosse le redini e gli zoccoli dei cavalli risuonarono sul selciato mentre i due galoppavano verso la stazione della funicolare. Fu all'incirca a quella stessa ora che due anziani fratelli, ladri fluviali specializzati nell'introdursi nei magazzini sulla riva del fiume per caricare di merci rubate la loro barca prima di darsela a remi, si ritrovarono con un cadavere impigliato a prua. Si facevano soldi con i cadaveri, se si riusciva a portarli alla Scuola di Anatomia prima che si decomponessero, perciò valeva la pena lasciar perdere quel promettente magazzino di tabacco e tirare in barca il corpo. Ed era un cadavere davvero bello, oltretutto: capelli scuri, labbra rosse, corpo formoso. Fu naturale restare delusi quando la morta riprese vita e cominciò a tossire e sputare acqua, ed essere tentati di darle una bella botta
in testa per fare di lei una vera salma, ma erano due tipi sentimentali, questi fratelli. Mentre Miroslav remava per riportare la barca alla casa in rovina in cui abitavano nel cuore della Città Vecchia, Josef le strofinò pazientemente le mani, la aiutò a mettersi seduta e le fece bere qualche sorso da una fiaschetta di brandy di prugne. In pochi minuti la donna cominciò a respirare bene e aprì a fatica gli occhi. «Credo che se la caverà, Slava!» esclamò Josef. «Sì, mia cara, risparmia il fiato: fra pochi minuti sarai asciutta e al sicuro. Ma che fortuna che hai avuto che noi ci stavamo facendo questa gitarella in barca, eh? Siamo quasi a casa. Andrà tutto bene d'ora in poi...» La statua a cui Jim si riferiva era una raffigurazione allegorica della Pace che riceveva un tributo dal Commercio e dall'Arte, fusa in bronzo e posta su un piedistallo di marmo. Non c'entrava assolutamente niente con le Ferrovie dello Stato, ma le allegre e corpulente donne nude erano diventate un punto d'incontro della città e ora, con la folla che stava cominciando a schernire le truppe tedesche che si raccoglievano all'entrata della stazione, la Pace, il Commercio e l'Arte erano più popolari che mai. Diversi giovani si erano arrampicati sul monumento e uno si era addirittura messo a cavalcioni sulle ampie spalle della Pace e scuoteva il pugno contro gli invasori, ricoprendoli di parolacce. In mezzo a quella confusione non fu difficile per Jim e gli altri parlare senza dare nell'occhio. Il giovane parlò prima con Anton. «Anton, tu resta in città. Prendi questi appunti, sono piuttosto approssimativi, e usali come base per un volantino. Fallo scrivere a macchina e stampare in quante più copie possibile e poi incollali dappertutto, infilali negli stipiti delle porte, falli girare per tutta la città. La cosa essenziale è che la gente sappia ciò che è accaduto: la regina è stata arrestata su ordine di Gödel e doveva essere giustiziata, ma è fuggita; ha preso la bandiera e, come Walter von Eschten, la sta portando a Wendelstein. La bandiera è libera: questo è il messaggio. Che nessuno pensi che lei si sia arresa o abbia tradito il paese. Fallo immediatamente». Anton annuì, fece un breve inchino ad Adelaide senza farsi notare e svanì tra la folla. Jim fece un cenno a Karl, che disse: «Ora dobbiamo arrivare al binario di raccordo sulla destra della stazione, dietro quell'albergo laggiù. Dirigetevi alla cabina di manovra. Michael dice che il Treno Reale è fermo lì davanti, con la locomotiva già in moto. Ovviamente Gödel aveva intenzione di fuggire, ma noi lo batteremo sul tempo, basta che ci sbri-
ghiamo. Lo zio di Willi è un macchinista: lui sa come far funzionare un treno e anche il soldato Schweigner... quindi loro andranno avanti e si impadroniranno della locomotiva. La cosa fondamentale è far salire a bordo la regina. Non appena sarà salita, ce ne andremo, senza badare a chi ce l'ha fatta e chi no. Perciò ora dividiamoci, che ciascuno pensi per sé e buona fortuna a tutti». Impiegarono cinque minuti a farsi strada tra la folla che circondava l'albergo e a infilarsi nella stradina laterale dietro l'edificio, venti secondi per introdursi nel deposito bagagli vuoto e trenta per uscirne. Poi si ritrovarono su una piccola banchina sporca sotto un enorme serbatoio idrico e a meno di un centinaio di metri di distanza, di fronte a una cabina di manovra dipinta di scuro, c'erano le due carrozze bordeaux del Treno Reale. Dalla ciminiera della piccola locomotiva usciva un filo di vapore e mentre guardavano, le indistinte figure di Willi e del soldato Schweigner, avvolto nel suo soprabito, balzarono nella cabina. «Forza, muoviamoci» disse Jim, e il gruppetto corse a perdifiato lungo la discesa alla fine della banchina e attraversò la strada sterrata che li separava dal treno. In attesa accanto allo sportello aperto della carrozza c'era uno degli studenti, Michael. Il ragazzo disse a bassa voce: «Noi resteremo qui e bloccheremo gli altri treni il più a lungo possibile. Gli scambi sono stati impostati in modo da farvi immettere sulla linea che conduce ad Andersbad e fin lì avrete via libera. Buona fortuna!» Una selva di mani si tese per aiutarli a salire e Michael fece dei cenni verso la locomotiva. Una mano rispose al gesto e con un sussulto il treno cominciò a muoversi. Erano riusciti a fuggire. Capitolo diciotto PRIMA DELL'ALBA Grida da dietro, colpi di fucile... ma il treno stava acquistando velocità e poi uscirono dal binario di raccordo per immettersi sulla linea principale. Due figure, scure contro il bianco della neve, li salutarono per pochi istanti con la mano e poi si affrettarono a manovrare gli scambi dietro di loro. Jim si rilassò e si guardò intorno. Erano nella carrozza di coda. Non si vedeva molto, perché l'unica luce proveniva da fuori, finché Karl non accese un fiammifero e aprì il gas di
una delle lampade. Quando il beccuccio si accese e la fiamma si stabilizzò, l'interno della carrozza apparve lentamente intorno a loro: un ampio e comodo salotto con sedili di velluto, moquette e pannelli di mogano. Adelaide stava posando con estrema cura la bandiera su uno dei tavoli. Quando l'ebbe sistemata, alzò lo sguardo. «Signor von Gaisberg» disse, «vuole per favore chiedere a tutti di venire qui da me?» Poi vide Becky, pallida per la stanchezza, appoggiata allo schienale di un sedile. «Siediti» le disse, sedendosi anche lei. «Fra un minuto potrai farti un pisolino, ma prima voglio parlare con tutti». Karl tornò portando con sé altri cinque studenti e il caporale Kogler. Adelaide chiese a tutti di sedersi ed essi obbedirono, persino il caporale, che si sedette rigido in punta al sedile con il fucile dritto al suo fianco. Con Becky che traduceva, Adelaide parlò al gruppo. «Ottimo lavoro, tutti voi. Avete visto quanto siamo stati vicini a perdere la bandiera: è ovvio il motivo per cui il barone Gödel stava salendo sulla Rupe. Ma è ancora in nostro possesso e la Razkavia è ancora libera, e io sono ancora regina. Ecco cosa faremo ora. Porteremo questo treno ad Andersbad, che è poi la destinazione di questo binario, e andremo dritti alla guarnigione. Lì parlerò alle truppe e farò appello a tutti i leali sudditi della città affinché mi appoggino. Poi marceremo su fino al vecchio castello di Wendelstein. L'intero paese saprà cosa questo significa». Karl fece un colpetto di tosse. «Wendelstein è a pochi chilometri da Schwartzberg, Vostra Maestà. Il conte Otto...» Il giovane esitò. «Vada avanti» lo esortò Adelaide. «Be', siete sicura della sua lealtà? Tutti noi sappiamo che si aspettava di succedere al trono. È forse coinvolto in qualche modo in questi complotti?» Il viso di Adelaide si rabbuiò e i suoi occhi lampeggiarono. Jim e Becky riconobbero quell'espressione. «Non ho idea di cosa farà il conte Otto. Ma sono stata regina abbastanza a lungo da conoscere l'importanza della bandiera e di ciò che Walter von Eschten fece a Wendelstein. E lo sa anche il conte Otto. Ciò che deciderà di fare in questa situazione è affar suo. Ci sono altre domande?» Adelaide si guardò intorno. I volti che la fissavano erano molto seri. Nessuno parlò. «Molto bene. Ora noi tutti abbiamo bisogno di riposo. Vi suggerisco di
tentare di dormire tra qui e Andersbad. Mettetevi comodi dove potete. E io sono orgogliosa di tutti voi...» Becky aveva raggiunto quello stadio di stanchezza in cui si cominciano a immaginare le cose, o in cui forse si vedono delle cose che normalmente non si noterebbero. Le sembrò di vedere un'espressione sul viso di Adelaide quando guardò Jim, e su quello di Jim quando guardò Adelaide, che era al tempo stesso passionale e tenera, bramosa e timida e stranamente... animale. Sembrava non riuscissero a togliersi gli occhi di dosso. Poi lei e Becky andarono nella carrozza anteriore e quando ebbe acceso la lampada nello scompartimento letto principale, la ragazza si voltò e vide Adelaide, col viso arrossato e la respirazione affannosa, che si mordicchiava un'unghia. «Va' a chiamare Jim» fu tutto ciò che disse. Becky obbedì e quando tornarono Adelaide stava aprendo la borsetta di velluto che le aveva chiesto di prendere dal comò quella mattina, una vita fa, quando si erano svegliate nel suo appartamento a Palazzo. Jim tremava e i suoi occhi verdi erano cerchiati di rosso, ma ardevano della stessa emozione di quelli di Adelaide. 'Suvvia' pensò Becky, 'è davvero indecente... Se si toccano, esploderanno!' Poi Adelaide li sorprese entrambi. «Volevo farlo il giorno del mio compleanno, ma non sono sicura di quand'è e in ogni caso nessuno di noi potrebbe vivere tanto a lungo. Se ti venisse voglia di rifiutare o qualcosa del genere, ti caverò gli occhi personalmente, porca miseria, perché io sono la regina e posso fare quello che mi pare. Ora, Jim, dovresti inginocchiarti. Dai, inginocchiati!» Lui lo fece, lentamente, e lei tirò fuori una decorazione d'oro a forma di stella legata a un nastro di seta verde scuro. «Questo è l'Ordine di Santo Stefano. È un ordine nobiliare. Significa che sei nobile ora, un barone o qualcosa del genere, non me lo ricordo. Per tutto quello che hai fatto sin dal principio, per re Rudolf e il paese, non per me». Per una volta in vita sua, Jim era senza parole. I suoi occhi brillavano di un qualcosa che a Becky parve rabbia, ma poi il giovane prese la mano che Adelaide gli porse e la baciò. Lei gli mise il nastro intorno al collo e si voltò verso Becky. «E tu...» disse. «Ne ho una anche per te». Frugò nella borsa e tirò fuori una medaglia d'oro con un nastro cremisi. «Vieni qui» disse. Becky si avvicinò e Adelaide gliel'appuntò sul petto.
«Questo è il Nobilissimo Ordine dell'Aquila Rossa» spiegò. «Di Seconda Classe. È per i civili. Perché sei stata una brava interprete. E ora esci e vai a dormire nell'altro scompartimento, Becky, perché io voglio... voglio parlare con...» Becky uscì e mentre chiudeva la porta sentì una sorta di singulto o gemito o entrambi. Si sentiva esclusa, ovviamente, ma non perché le era stato chiesto di dormire da un'altra parte; era il fatto che gli altri due volessero tanto urgentemente... fare cosa? Lei lo sapeva, ma solo a pensarci si sentiva arrossire. Lo volevano con un'intensità che lei non riusciva neppure a immaginare. Forse non era ancora abbastanza grande; forse la passione veniva con un altro paio d'anni di vita; o forse c'era una particolare persona che lei non aveva ancora incontrato e con la quale... Con le guance arrossate e il Nobilissimo Ordine dell'Aquila Rossa (di Seconda Classe) appuntato sul petto, Becky si addormentò. Il treno avanzò sbuffando nel silenzio innevato della notte. Sulla piattaforma del macchinista, Willi controllò i comandi. Il manometro si manteneva intorno alle otto atmosfere, che era un tantino basso, ma d'altro canto anche il livello dell'acqua lo era. Non avevano avuto il tempo di riempire al massimo il serbatoio. Potevano permettersi di alimentare ancora la fornace e aumentare la pressione? Avrebbe potuto significare doversi fermare per rifornirsi d'acqua, ma dove? D'altro canto se mantenevano una velocità bassa, avrebbero potuto essere raggiunti... Era un bel rompicapo. E non era l'unico. La linea era libera? Non erano previsti treni, ma poteva arrivarne uno speciale da un momento all'altro; e tutti gli scambi sarebbero stati impostati a loro favore? Poi c'era il soldato, Schweigner. Willi non riusciva a inquadrarlo. Finora aveva spalato carbone di buona lena, ma aveva detto ben poco, rispondendo a monosillabi a ogni domanda. E ora si stava sporgendo sulla sinistra della cabina di comando, schermandosi gli occhi per proteggerli dal fumo e dalla neve che aveva cominciato a cadere fitta. I pesanti fiocchi turbinavano fin dentro la cabina e Willi fu contento della fornace che ardeva di fronte a lui. Curioso di vedere dove si trovavano, si sporse sulla destra, con la mano a proteggere gli occhi, proprio come stava facendo Schweigner sulla sinistra. Non vide altro che buio chiazzato di bianco. Un istante dopo la pala lo colpì così forte alla testa che sentì il metallo risuonare... o era stata la sua immaginazione? All'improvviso si ri-
trovò in ginocchio e tese la mano verso la ringhiera. Tutto stava accadendo con una straordinaria e tranquillizzante lentezza... Ma poi venne un altro colpo che portò con sé tutto il dolore che dopo il primo aveva appena cominciato a fare capolino nella sua coscienza. «La regina...» cominciò a dire, ma non andò oltre, perché si ritrovò a faccia in giù sulla pedana e scivolava, scivolava... Poi il vento lo strappò via dalla locomotiva per portarlo con sé nella turbinante oscurità, dove c'era ghiaia e radici e ghiaccio e sotto il ghiaccio, acqua gelida e profonda. Il soldato Schweigner si raddrizzò, tremando. Riusciva a malapena a reggere la pala. Ma aveva fatto il proprio dovere, o almeno una parte; per il resto non ci sarebbe voluto ancora molto. Afferrò con forza la maniglia, gettò diverse altre palate di carbone nella fornace, poi richiuse lo sportello. Controllò la velocità: quaranta chilometri l'ora, ma al momento la strada era leggermente in salita. La pressione stava aumentando. Seguì il tubo del vapore per cercare la valvola di sicurezza e la distrusse a palate. Poi, mentre la locomotiva rallentava a poco più di trenta chilometri l'ora sul punto più ripido della salita, il soldato Schweigner saltò giù dalla piattaforma e rotolò sulla scarpata ricoperta di neve, fermandosi con una botta che lo lasciò senza fiato. Si rialzò a fatica, appoggiandosi all'albero contro il quale aveva sbattuto, e si tolse la neve dagli occhi mentre guardava il treno che gli sfrecciava davanti, acquistando velocità oltre la cima della collina. Lo aspettava una lunga discesa ora: Schweigner conosceva quella linea molto bene. Tuttavia non poteva prevedere quando la caldaia sarebbe esplosa: quello era nelle mani di Dio. Trasalendo per il dolore, risalì dal fondo della scarpata e cominciò a macinare il chilometro che lo separava dalla cittadina di St Wolfgang, dove sapeva che c'era un telegrafo. Dallo scantinato di un tipografo nel quartiere universitario sbucavano giovani con fasci di volantini ancora freschi di stampa tra le braccia, disperdendosi poi per le vie, dove ficcavano la ruvida carta nelle mani dei passanti, nelle cassette delle lettere, nelle tasche, la incollavano ai muri, ai lampioni, alle porte. Qua e là c'erano capannelli di gente che leggeva, o che tirava la manica del vicino indicando un volantino: «La regina ha preso la bandiera! È andata a Wendelstein come Walter von Eschten!» «Che colpo! Proprio come nel Medioevo!»
«Li ha fregati tutti!» C'era il caos per le strade e in diverse parti della città si combatteva ormai apertamente. Il comandante delle forze tedesche, il generale von Hochberg, stava tenendo di riserva il grosso delle truppe, perché immaginava che a un certo punto l'esercito razkaviano avrebbe potuto riprendersi dallo shock e decidere di unirsi ai gruppetti raffazzonati di civili con fucili da caccia e sassi. Non appena aveva saputo cos'era accaduto sulla cima della Rupe, aveva fatto arrestare il barone Gödel. Il ciambellano, amareggiato e stupito, non aveva trovato la forza di resistere. Immediatamente dopo, il generale von Hochberg, vedendo un grosso incendio levarsi dal quartiere delle banche, aveva mandato una compagnia di granatieri con l'ordine di spegnere il fuoco e proteggere i civili e ora stava per occuparsi delle barricate intorno all'Università quando un maggiore molto agitato era arrivato al galoppo con una carrozza chiusa al seguito. «Generale! Guardi chi c'è qui dentro! L'abbiamo trovato vicino alla stazione dei Giardini Botanici...» Il generale guardò il principe Leopold e l'infermiera che il barone Gödel aveva mandato con lui. «Chi è quest'uomo?» «Il principe Leopold» disse la donna, ansiosa di proteggere il principe, ma anche preoccupata di aver fatto qualcosa di sbagliato. «Ah! Ora capisco». Ciò che il generale aveva capito era la seconda parte del piano di Gödel. Diede una veloce occhiata al povero principe e si voltò verso il maggiore. «Riporti questo pover'uomo a Palazzo, gli dia parecchio brandy e lasci che la natura faccia il suo corso. Neumann, dove sei? Occupiamoci di queste barricate...» Nel frattempo gli studenti con i volantini si erano addentrati nella Città Vecchia, portando il loro messaggio di fuga e di speranza nei vicoli, nei cortili e nelle più recondite piazzette di quel labirinto di case. Miroslav Kovaly, uno degli anziani ladri fluviali, era in giro a cercare qualcosa da mangiare per la loro ospite quando un giovane gli mise un foglietto in mano. «Ecco, nonno! Leggi questo! Portalo a casa e mostralo alla tua famiglia». «Lo farò di certo. Grazie...» Fu l'oscillazione del treno a risvegliare Jim. Aveva il braccio sotto la te-
sta di Adelaide. Lei dormiva ancora, e quando Jim tentò di ritrarlo, si mosse e mormorò: «Non andare...» Ma lui la baciò e si raddrizzò sulla cuccetta, roteando la spalla per rimettere in moto la circolazione. Ora non aveva più alcun dubbio: il treno stava ondeggiando da una parte all'altra come una barca su un mare in tempesta, e sobbalzava così tanto che la borsetta di velluto di Adelaide e il suo giaccone si erano staccati dall'attaccapanni a cui li avevano appesi. «Svegliati!» le disse, e la scosse per la spalla morbida come la seta. «Forza, tesoro... per l'amor di Dio...» «Che succede?» Adelaide si mise a sedere ancora assonnata, sentì il movimento del treno e si strinse a Jim per non cadere. «Jim, cosa sta succedendo?» «Credo che il treno sia fuori controllo. Vado alla locomotiva a vedere. Tu vestiti e sta' attenta alla bandiera. Resta vicina al letto nel caso dovessimo schiantarci... Per lo meno sarà morbido». Jim si infilò la giacca, si allacciò in fretta le scarpe e poi prese Adelaide tra le braccia. «Ti amo» disse. «Mi capisci? Più di ogni altra cosa. La vita, la morte, la Razkavia, l'Inghilterra... niente conta oltre questo. Non te l'ho detto subito, ma devo dirtelo almeno una volta». Lei aveva affondato il viso nel suo collo. Jim le accarezzò i capelli folti, scuri e profumati e la sentì dire: «Jim, tra tutti gli uomini che ho conosciuto, io ho amato solo te, e ti ho amato dal primo giorno che ti ho visto alla Lockhart and Selby... E non ho mai smesso di amarti. Ti amo, Jim...» E fu allora che una violenta esplosione li riportò indietro a quell'assolata mattina di parecchi mesi prima a St John's Wood, perché sembrava proprio che fosse scoppiata una bomba. Un istante dopo ci fu un sobbalzo più forte dei precedenti e poi la carrozza ondeggiò e si rovesciò di schianto, ruzzolando giù dai binari, e i due giovani furono gettati contro la parete... o il pavimento o il soffitto, perché in quel momento era impossibile distinguerli. Un'affannosa lotta contro le coperte della cuccetta che gli si erano aggrovigliate intorno... e poi l'odore e il sibilo del gas che fuoriusciva dai tubi e la vampa del carbone rovesciato, il calore del ferro incandescente... Jim tentò dolorosamente di riprendere il controllo del proprio corpo. Aveva una gamba intrappolata. Tirandola per liberarsi, cadde all'indietro e infranse un vetro. Riuscì nuovamente a raddrizzarsi, trovò Adelaide a malapena cosciente con un grosso taglio sopra l'occhio e la liberò dalle macerie.
Era in sottoveste. Nel groviglio delle coperte Jim intravide il suo mantello scuro e tirò fuori anche quello e poi, alzandosi in piedi, batté la testa e imprecò prima di infrangere il vetro del finestrino sopra di lui. «Vieni qui» disse, e la sollevò. Era leggera come un bambino. La spinse attraverso il varco e poi l'aiutò a sollevare i piedi affinché potesse uscire indenne. «Muoviti! Allontanati dal motore! Io andrò a cercare Becky!» gridò Jim e poi vide uno degli stivali di Adelaide. La ragazza era a piedi nudi nella neve, quindi lui tornò giù nella carrozza rovesciata illuminata ora da una tremolante luce rossa, mentre il sibilo del gas si faceva sempre più forte di momento in momento. Dopo aver frugato tra le macerie per qualche secondo, trovò l'altro stivale e balzò fuori dal finestrino. «Vai verso la carrozza posteriore! Prendi la bandiera, ma muoviti!» Adelaide annuì, lo guardò per un istante con quei bellissimi occhi neri e si infilò gli stivali prima di arrampicarsi faticosamente sui resti del vagone diretta verso la carrozza di coda. Poi Jim sentì delle altre voci e pochi istanti dopo vide braccia, teste e corpi emergere dalla carrozza distrutta, ma lui tornò indietro, camminando in precario equilibrio sul fianco del vagone verso la prima porta. La trovò, forzò la maniglia, la spalancò e cominciò a gridare: «Becky! Becky! Dove sei?» Dall'oscurità giunse una voce piuttosto tranquilla: «Non gridare. Credo di essermi rotta un braccio o le costole o qualcos'altro. La clavicola, forse, non lo so. Ma non posso muovermi». Jim allora si calò nel buio e a tentoni seguì il braccio libero della ragazza fino al suo fianco. Era intrappolata sotto la cuccetta superiore, che si era staccata dalla parete. Sollevò il pezzo di ferro e disse: «Ora puoi muoverti?» Becky tentò, gridò per il dolore e tentò di nuovo mentre lui si sforzava di tenere sollevata la cuccetta. Quando lei fu fuori, la lasciò ricadere. «Hai indosso gli stivali?» «No...» «Ti serviranno». Jim cercò nel buio tutto intorno a sé finché non li trovò, li gettò fuori dalla porta aperta sopra di loro e poi strinse Becky alla vita per sollevarla fuori dalla carrozza. La ragazza svenne. Fu più facile sollevarla in quelle condizioni e mentre lo faceva, Jim sentì le sue costole rotte che stridevano, ma la spinse senza pietà dalla porta finché la maggior parte del corpo non
fu fuori. Poi si arrampicò anche lui e la trascinò via. A quel punto la maggior parte degli studenti era uscita dalla seconda carrozza e un preoccupatissimo caporale Kogler stava consegnando ad Adelaide la bandiera, dal cui lato pendeva un lembo strappato di seta scarlatta. «Siete tutti salvi?» chiese la regina. «Michael è morto» mormorò Gustav con voce tremante. «Si è rotto il collo. È morto...» Dietro di lui, altri due ragazzi stavano tirando delicatamente fuori il corpo. Poi lo posarono sotto gli alberi e lo coprirono con un lenzuolo. Jim posò una mano sulla spalla di Gustav e la strinse con gentilezza. «Dov'è Willi?» chiese Karl. «È ancora nella cabina del macchinista?» Guardarono verso i binari divelti. Il carbone che si era riversato fuori della fornace rosseggiava ancora di una luce sinistra, mentre le sagome scure degli alberi in lontananza incombevano sulla scena come le quinte di un palcoscenico. Jim, ormai al limite delle forze per la stanchezza, la rabbia e la passione che ardeva in lui, non sarebbe rimasto affatto sorpreso di vedere il grande attore Henry Irving apparire all'improvviso con la sua slitta, o gli alberi spostarsi di lato come una quinta. «Smettila con queste sciocchezze» mormorò tra sé e scosse la testa. «Willi non si vede» disse poi in tedesco. «E neppure quel soldato, come si chiamava...» «Schweigner!» esclamò il caporale. «Non era convinto fin dall'inizio! Maledizione, avrei dovuto andare in cabina con lui...» «Non abbiamo avuto il tempo di pianificare le cose per bene» disse Jim. «Tirate fuori dal treno tutto quello che vi serve, e fate in fretta». E come per sottolineare le sue parole, ci fu un'improvvisa vampata di calore dietro di loro: il gas che era fuoriuscito dal serbatoio aveva preso fuoco e lo spostamento d'aria li sbilanciò per qualche secondo. Mentre due studenti tornavano dentro il vagone per recuperare le loro armi, Jim chiese al caporale: «Lei sa dove siamo?» «A non più di tre chilometri da Andersbad. Guardi, lì c'è un cartello». Inchiodato al tronco di un albero c'era una placca rettangolare di latta con i colori sbiaditi delle Ferrovie di Stato razkaviane. Jim guardò oltre il motore che bruciava, proteggendosi gli occhi dal calore, e non vide altro che file e file di pini scuri che svanivano nell'oscurità più totale. «Allora non dovremmo essere molto lontani dal Castello» disse a nessuno in particolare. «È in cima alla collina» disse una voce affaticata sotto di lui, e Jim
guardò verso il basso e vide Becky seduta su un ceppo d'albero che si teneva il fianco. «Se è davvero così vicino andremo direttamente su» disse Adelaide. «Dobbiamo portare lì la bandiera...» Si interruppe, sentendo lo stesso suono che sentivano anche gli altri: il rumore ritmico di una locomotiva a vapore che arrivava dalla direzione della capitale. La notte era silenziosa e anche se il treno era ancora molto distante, il suono era inconfondibile. «Dunque c'è poco da decidere» disse Jim. «Andremo direttamente su al Castello». «E Fraülein Winter?» chiese Karl. Becky era ancora seduta, immobile. Jim vide le lacrime che brillavano sulle sue guance. «Non puoi muoverti?» le chiese con dolcezza. Lei scosse la testa. «Lasciatemi qui. Mi nasconderò o qualcosa del genere». «Non essere stupida!» si infuriò Adelaide. «Non crederai che possa permettere che ti lascino qui? Non ci pensare nemmeno. Prendete delle lenzuola dalla carrozza, forza, e fate una barella!» Karl e altri due ragazzi si precipitarono dentro mentre Jim e il caporale Kogler staccavano un paio di rami dagli alberi e li ripulivano per quanto possibile da foglie e ramoscelli. Un paio di minuti dopo Becky era distesa su una coperta sospesa ai quattro angoli tra due pali. Era terribilmente doloroso per lei e quando i quattro portatori cominciarono a trascinarsi su per l'erta salita, dovette farsi forza per non urlare. Ma si stavano muovendo, un gruppetto lacero e contuso, e in breve tempo si ritrovarono a una certa distanza dalla linea ferroviaria nel folto del bosco. Jim guardò indietro; il luccichio delle fiamme del motore si intravedeva ancora tra gli alberi. Poi si mise in ascolto: ora l'altro treno si sentiva molto più distintamente. Sembrava stesse rallentando, il che significava o che avevano visto il treno distrutto o che si aspettavano di vederlo presto, e significava anche che qualcuno doveva averli avvertiti. Schweigner... Jim si strinse nelle spalle. «Quant'è lontano il Castello?» chiese a Karl. «È in cima alla salita. Siamo sul sentiero giusto». «Magari questo fosse un sentiero! Questo terreno su cui camminiamo è pericoloso da morire... Ehi! Volete fare a cambio, ragazzi?»
I quattro barellieri cedettero volentieri il loro posto a Jim, Karl, Gustav e il caporale. Becky era immobile, ma Jim sentiva un gemito quasi impercettibile uscirle dalle labbra, come se soffrisse terribilmente. «Non manca molto, ragazza mia» disse, sapendo che era una bugia. Sopra rocce e ceppi d'albero, scivolando sul muschio ghiacciato, annaspando nella neve nei punti in cui il sentiero ne era ricoperto, il gruppo continuò la sua salita, ciascuno concentrato sul terreno di fronte a sé. Tutto ciò che riuscivano a vedere erano macchie indistinte di grigio e di nero. Ben presto il ginocchio che Jim si era fratturato anni prima cominciò a pulsare dolorosamente, ma il giovane continuò ad avanzare, con le scarpe piene di neve e il viso graffiato dai rovi, tenendo l'asta della lettiga il più ferma possibile. Adelaide, poco più avanti a lui, stringeva al petto la bandiera e mormorava tra sé e sé una serie di pittoresche imprecazioni. Poi, da molto lontano sotto di loro, il rumore del treno in avvicinamento cambiò. Ci fu un debole stridio di freni e un lungo sibilo del vapore, ma così attutiti dai fitti alberi che si poteva credere di averli immaginati. «Sono arrivati» disse Karl. «Continuiamo a camminare, allora» replicò Jim, e proseguirono. La povera Becky sembrava nuovamente svenuta, perché dal lenzuolo non proveniva altro che silenzio, notò Jim, scuro in volto. Senza dubbio poteva essere pericoloso trasportarla in quel modo: c'era il rischio che una costola le perforasse un polmone. Ma quella in fondo non era che una piccola parte dell'enorme pasticcio in cui si erano cacciati. Jim era praticamente certo che sarebbero morti tutti, lì, in quel dimenticato angolo dell'Europa, per una battaglia comunque vana. Dan Goldberg aveva avuto ragione: la Germania, o l'Austria, avrebbero inevitabilmente schiacciato la Razkavia. E se fosse stato possibile identificare causa ed effetto con sufficiente accuratezza, pensò, forse si sarebbe potuto trovare il bandolo della matassa, il punto in cui tutto questo era cominciato, e avrebbe potuto essere a migliaia di miglia di distanza o molti anni prima, nei libri contabili di un finanziere o nell'infanzia di un qualche principino frustrato... Ma molto più probabilmente ce n'erano a milioni di fili del genere da seguire, e se anche solo uno di essi si fosse spezzato o si fosse attorcigliato in un altro modo, il risultato sarebbe stato completamente diverso. Non c'era nessun disegno nelle cose, pensò Jim, nessun senso: tutto era casuale e caotico. E il risultato in questo caso era una raffazzonata banda di ragazzini feriti, ansiosi di piantare un rettangolo di seta su un mucchio di rovine e di mori-
re per difenderlo. Dal momento che niente aveva un senso, questo aveva senso quanto ogni altra cosa. Ora la salita stava diventando meno faticosa. Gli alberi di fronte a loro si andavano diradando; il cielo non si era ancora rischiarato, ma qualcosa nell'aria preannunciava l'arrivo dell'alba: una freschezza, un lieve movimento delle foglie. Faceva molto freddo. Jim sentì il sudore che gli si gelava in faccia. «Cambio» disse qualcuno, e i barellieri lasciarono i loro posti ai quattro che si erano riposati. Jim guardò Adelaide, che procedeva a testa bassa, con il mantello tutto lacero, la sottoveste bianca strappata e sporca di fango, ma con la bandiera stretta al petto con fermezza. «Va tutto bene, ragazza mia?» chiese. La giovane raddrizzò la testa e sollevò il mento. Nella spettrale luce che precede l'alba quando tutto il mondo sembra grigio, i suoi grandi occhi neri brillavano, pieni di sentimento. «Sì» mormorò. «Quanto manca ancora?» «Non lo so. Ma non molto, credo». Le prese la mano e la aiutò ad arrampicarsi sull'ultimo pendio costellato di rocce bianche di neve. All'improvviso si ritrovarono al margine della foresta. Gli alberi erano svaniti e di fronte a loro c'era una stupefacente catena di monti frastagliati. Il cielo sopra di loro, di un livido grigio scuro, era carico di neve. Esattamente davanti, alla fine di un leggero pendio ricoperto di neve immacolata, c'erano le rovine del Castello Wendelstein, che Adelaide aveva visto per la prima volta illuminate dal caldo sole di un pomeriggio autunnale. Il luogo appariva molto più desolato ora: la Torre svettava verso il cielo come un dente rotto, mentre i contorni delle mura crollate si confondevano sotto il bianco della neve. A sinistra un sentiero scendeva dal Castello e portava dritto in città attraverso la foresta. L'oscurità si addensava ancora sotto i rami degli alberi: il mondo era avvolto nel silenzio. E in silenzio, dopo aver osservato la scena, il gruppetto si mise in marcia nella neve. Camminare era più facile ora... Facile, ma tremendamente lento, perché la neve arrivava alle ginocchia. Becky si era svegliata e aveva chiesto di essere messa giù, e Karl ora la sorreggeva mentre camminava. Impiegarono quasi dieci minuti ad attraversare i quattrocento metri scarsi che li separavano dal primo muro del castello. Era inutile cercare rifugio nella torre, perché non era altro che un guscio
vuoto. Il tetto era crollato all'interno e il pavimento al piano terra era pieno di macerie ricoperte di rovi. Adelaide si guardò intorno e fu chiaro che non aveva mai smesso di essere la regina: era la regina anche ora, e prendeva lei le decisioni. «Prendete una di quelle aste con cui stavate trasportando Becky. Fissateci sopra la bandiera e poi mettetela tra quelle pietre laggiù. Mi sentirò meglio una volta che la vedrò sventolare di nuovo». Ma non c'era niente con cui legarla, finché Jim non ricordò il suo ultimo gomitolo di lana. Le sopracciglia del caporale si sollevarono perplesse per quel rimedio poco militaresco, ma funzionò abbastanza bene. C'è da dire però che la bandiera non sventolò affatto: penzolò floscia nell'aria immobile, con il bordo inferiore che strusciava nella neve. Jim e Gustav legarono la prima asta a un'altra con dei pezzi di lenzuolo strappati e la sollevarono dal suolo... almeno quello! Era importante mantenersi caldi. Jim stava tremando come una foglia, perché non aveva più il suo maglione e anche Adelaide, che pure aveva un mantello pesante sulle spalle, era scossa da brividi. Jim la fece sedere accanto a Becky, in modo che si scaldassero l'un l'altra. Poi il caporale Kogler fece il saluto e disse timidamente: «Vi chiedo scusa, Vostra Maestà. Non credo che dovrei dirvelo, ma ho fatto una cosa brutta. Vedete, è così freddo lassù sulla Rupe, che a volte mentre siamo di sentinella ci facciamo un sorsetto di qualcosa. In condizioni normali voi dovreste mandarmi sotto corte marziale, immagino. Ma non l'ho ancora toccato e se potrà servire a tenere calda voi o la giovane signora, prendetene pure...» Tirò fuori una vecchia borraccia di metallo e svitò il tappo. «Brandy di prugne» disse. «Lo fa mia nonna su a Erolstein. Non troverete niente di più buono». Adelaide lo fissò con sguardo severo. Il sole stava spuntando e ora potevano vederla abbastanza chiaramente. «Lei è un uomo cattivo» disse. «Me lo dia. Non posso permettere che i miei soldati si sbronzino mentre sono in servizio. Sono scioccata». Ne bevve un sorso, batté le palpebre, fece un respiro profondo e deglutì diverse volte. «Ma la perdono. Può dire a sua nonna che le darò un'onorificenza. Becky, bevine un sorso, forza». E le tenne la borraccia sollevata alle labbra. Mentre si muoveva, Becky lanciò un gridolino sommesso e Adelaide le disse: «Vuoi sdraiarti, cara? Ti faccio spazio, se vuoi. Puoi avere tutta la coperta per te, io sono bella calda ora...»
Ma Becky scosse la testa. Adelaide si fece più vicina. «Non avrebbe anche una fila di salsicce in quella tasca, caporale?» chiese Gustav. «Immaginate... Una bella salsiccia dura, con pezzettini di grasso simili a perle e ben pepata all'esterno...» «Non per me» disse Karl. «Io vorrei un dolce. Un bello strudel di mele. Con una spruzzata di cannella e glassa, e della panna sopra». «Roba da femminucce» disse uno degli altri. «Carne per me. Un piatto di carne di cervo in salsa di gulasch... grossi tocchi di carne, appesi prima a macerare per un paio di settimane, e poi cipolle, aglio e paprika, come la preparano al Florestan, con la panna acida sopra... e dei fagottini...» «No, vi sbagliate tutti» intervenne un altro. «La cosa migliore di tutte è il pane. Pane caldo appena uscito dal forno. Lo apri e fuma ancora un po' e poi lo porti alla bocca e...» «Ora basta» li interruppe Adelaide. «Non possiamo mangiare le parole e ci state solo facendo venire più fame. Quant'è lontana la città? Poco più di un chilometro, no? Manderemo giù qualcuno a comprare del pane e simili non appena i fornai apriranno. Nel frattempo...» Ma non ci fu un frattempo. Adelaide aveva visto del movimento al margine della foresta da dove erano sbucati dopo la salita e gli studenti, Jim e il caporale videro la sua espressione e si voltarono a guardare. Poi si raddrizzarono e si raggrupparono intorno alla regina e anche Adelaide si alzò e mise la mano sul pennone della bandiera. Becky, raggomitolata sotto la coperta, desiderò con tutto il cuore di potersi alzare per mettersi accanto a loro (tentò di farlo, ma non ci riuscì) mentre si preparavano a difendere la bandiera dai soldati tedeschi che, vestiti di grigio, stavano sbucando uno dietro l'altro dalla foresta, i fucili contro il petto, avanzando con passo deciso nella neve. Capitolo diciannove FANTASMI Il primo fiocco di neve si posò sulle ciglia di Becky. Lei batté le palpebre per cacciarlo via, ma un istante dopo ne arrivarono altri. Ora il cielo era abbastanza luminoso da permetterle di vedere i pesanti fiocchi scuri stagliati contro il grigio dell'alba e l'esercito che stava sbucando dagli alberi (un centinaio di persone o più, o almeno così sembrava) all'improvviso acquistò un'apparenza spettrale, circondato com'era da quella candida leg-
gerezza, come se qualcuno avesse fatto scoppiare un milione di cuscini... Becky ebbe l'impressione di sognare a occhi aperti. Questo mondo innevato, bianco e grigio, roteava e mutava intorno a lei e figure da altri mondi vi entravano, diventavano visibili e poi svanivano di nuovo. Quello era il luogo in cui Walter von Eschten aveva combattuto, e ora eccolo lì davanti a lei, una gigantesca figura con i suoi cavalieri dall'elmo piumato intorno, ancora lì dopo tutto quel tempo. Becky era tremendamente orgogliosa che fossero tornati dalla morte per aiutarli. Perché c'erano altre figure che sorgevano dalle mura crollate ed emergevano dalla candida confusione dell'aria, e anche Jim e gli altri l'avevano notato, e si stavano guardando intorno stupiti. Becky stette a guardare, con il cuore che le batteva dolorosamente sulle costole rotte come il martello di un fabbro, mentre il fantasma che li guidava tutti si avvicinò ad Adelaide, bloccandosi quando Jim balzò davanti a lei con la pistola in mano, pronto a difenderla. «L'inglese!» disse una voce profonda e tonante, una voce con un accenno di risata, una voce che non avrebbe mai potuto appartenere a un fantasma: la voce di Otto von Schwartzberg. Becky si tolse la neve dagli occhi, sforzandosi di vedere e di sentire, e le sembrò che Adelaide tendesse la mano e che il gigante si chinasse per baciarla. «Cugino» disse Adelaide. «Pensavo che foste andato in Africa a sparare ai leoni». «Oh, qui ci si diverte di più! Ho sentito della vostra beffa della bandiera: bello scherzo, rubargliela da sotto il naso! E dove sareste potuta venire se non a Wendelstein?» «Come l'avete saputo?» «Me l'ha detto un vostro buon servitore» rispose Otto, e si scostò. Dietro di lui, grigio in volto per la stanchezza e il dolore, ma ugualmente dritto e marziale nell'aspetto, c'era il conte Thalgau. Adelaide lo guardò e l'anziano guerriero abbassò gli occhi, poi si inchinò e si tolse lo sciaccò nero, mentre la neve gli bagnava i capelli grigi. «Vostra Maestà» disse con voce roca. «Ho sbagliato. Vi ho tradito e ho tradito il mio paese. Non so dirvi quanto me ne vergogno. Voi... voi avete un cuore più buono del mio. Vi siete comportata nel modo giusto, sempre, per istinto, mentre io ho sbagliato. Ma non vi deluderò di nuovo. Fidatevi di me ora, Vostra Maestà, e io combatterò al vostro fianco fino alla morte. Ogni goccia del mio sangue, ogni minuto restante della mia vita è vostro e
vi prego di perdonarmi e di permettere che vi serva nel modo giusto, finalmente». La sua voce tremò, poi si spense. Adelaide tese la mano e gliela porse. Il vecchio conte la baciò con passione. «Certo che vi perdono. Ora alzatevi e fate come vi dirà il signor Taylor». «Allora è lei il generale?» chiese amabilmente Otto a Jim e poi, vedendo la stella d'oro col nastro verde, aggiunse: «Le mie congratulazioni, barone». «Grazie, conte. Siete venuto per parlare o per combattere?» disse Jim. «Per combattere. Parleremo dopo, davanti a una bella colazione. Quanti siete?» «Sei uomini. Un fucile, sei pistole. Tutto qui. Quando avremo finito le pallottole, lanceremo pietre». Otto si guardò intorno. Becky, accoccolata nella coperta contro un angolo del muro, era ancora confusa su quell'uomo: continuava a guardarlo, ma le sembrava ancora come sospeso tra il Diciannovesimo e il Tredicesimo secolo... Otto e Walter, aria e neve. «Dunque» disse il gigante, tornando a voltarsi verso Jim. «Bene, barone, dal momento che siete voi al comando, vi offro due dozzine di uomini armati di fucile, più me stesso e il mio arco. Quante pallottole avete?» «Solo sei». «Prendete questa allora». Otto tirò fuori la sua spada dal fodero e la offrì a Jim dalla parte dell'elsa. Il giovane la prese e gli fece il tradizionale saluto, portandosi l'elsa alla fronte prima di infilare la spada nella cintura. «Siamo tutti ansiosi di fare quella colazione» disse. E un istante dopo Becky lo vide trasformarsi in un generale. Come se fosse nato solo per quello, dispose gli uomini intorno alle rovine, nascondendone uno qui, ordinando ad altri due di aspettare in riserva lì, concentrando le forze principali al centro dietro il basso muro che proteggeva la bandiera. Otto rimase a guardare, annuendo. Alla fine il gigante disse: «E la regina?» «Io rimango con la bandiera» rispose Adelaide. «Allora tenete bassa la testa, cugina. Ma la ragazzina dovrà nascondersi nella Torre». Becky era troppo debole per protestare: ragazzina... ma come si permetteva? Ma il conte Otto la sollevò come fosse un fuscello e la depositò al sicuro dietro una pila di macerie all'interno della Torre.
«Non sparate finché non ve lo ordinerò io» disse Jim. Quelli furono gli ultimi istanti di lucidità di Becky. Ci fu un momento di profondo silenzio, durante il quale la neve cominciò a roteare così forte in mille direzioni diverse che sembrò più neve che aria e anche le persone più vicine divennero fantasmi. Poi giunse un suono simile a quello di un petardo che esplode in giardino in una sera d'inverno, udito da dietro le tende tirate di una finestra da un bambino che se ne sta dentro al calduccio. Era attutito, ingentilito quasi da quel turbinio di fiocchi morbidi e bianchi. Poi un altro e un altro ancora: piccole esplosioni - crack, silenzio, crack - che sembravano innocue, come se l'unica cosa che potessero causare fosse una grandinata di scintille colorate. Ma con ogni piccolo scoppio partiva una pallottola, e ciascuna pallottola saettava davanti al suono come un falco liberato dal guanto del cacciatore. I proiettili fendevano l'aria e la neve, lasciando invisibili scie di calore che continuavano a disturbare la pace di quei fiocchi per molto tempo dopo che le pallottole avevano finito la loro corsa, appiattendosi contro le rocce o conficcandosi nel suolo gelato di fronte a loro. Becky, con il petto in fiamme e la mente congelata, era ormai consapevole solo di un turbinare di piccoli dettagli, come i pezzi scomposti di un mosaico. Una volta c'era il quadro completo e di certo ci sarebbe stato ancora, ma non adesso... Vide un uomo con il fucile, vestito tutto di verde come un cacciatore, trascinarsi tra la neve, gettarsi in ginocchio dietro un muretto e sollevare il fucile per mirare a quel mondo di vorticosa bianchezza. Sentì il lamentoso sibilo di una pallottola che rimbalzava su una roccia. Vide due figure avanzare faticosamente tra la neve che arrivava alle ginocchia, con lunghi soprabiti che impedivano loro di muoversi e fucili usati come bastoni o grucce. Vide l'antica bandiera muoversi lentamente mentre una leggera brezza si insinuava tra le sue pieghe, e vide Adelaide guardare in alto verso di essa come un bambino orgoglioso di un genitore. Sentì un cozzare metallico, acciaio contro acciaio, un ansimare per lo sforzo, un nuovo clangore, un grugnito, un clangore, un gemito, un clangore. Vide delle piume, un uomo con la faccia di ferro, un cavallo che si impennava, zoccoli che si agitavano nell'aria. Vide una mano che si contraeva, col palmo all'insù, vide le dita serrarsi e
poi rilassarsi definitivamente, mentre il palmo aperto cominciava a riempirsi di fiocchi di neve simili a monete gettate a un mendicante. In principio si sciolsero, ma poi altri ne continuarono a cadere e si accumularono, coprendo interamente la mano finché ci furono solo le dita e poi solo le loro punte, poi quattro ombre e infine più niente. Vide Otto von Schwartzberg chinarsi sopra un uomo ferito, un gigante con un bambino, un'enorme mano che tranquillizzava, un braccio che lo sollevava per portarlo al riparo. Lo vide chinarsi, tendere la corda del suo arco, mirare, tirare; sentì il sibilo della freccia e una possente risata quando andò a segno. Vide un soldato, un viso largo e rosso, occhi pallidi sgranati per lo stupore mentre la punta di una spada trapassava feltro, lana, pelle per infilarsi tra le costole e spegnere il battito del suo cuore. Vide Jim, sporco di sangue, balzare giù dalle macerie vicino alla bandiera, prendere la mira con la sua pistola, sparare, sparare di nuovo, tirare il grilletto per la terza volta e poi gettare l'arma scarica verso le facce che avanzavano su di lui nella neve, vide uno degli uomini cadere, vide Jim spostare la spada nella mano destra, farla roteare a destra e a sinistra per sentirne il peso, poi balzare nuovamente in avanti e colpire, trafiggere, parare... un fantasma che lottava contro delle ombre. Vide del sangue; vide un cumulo di neve macchiarsi di rosso dall'interno; vide delle gocce cadere e penetrare con il loro scarlatto calore nel morbido bianco, lasciando fori scuri come ferite. Vide il conte Thalgau, quel vecchio dall'indomito coraggio, risoluto nonostante gli mancassero le forze, guardare verso Adelaide e percepire la sua gratitudine e continuare a combattere senza tregua, fino all'oscurità della propria morte. Ricordò la pistola che aveva in borsa e gemendo di dolore la tirò fuori, e tenendola poi con due mani, sparò, provando una gioia feroce quando vide un uomo cadere. Vide Adelaide colpita: credette di vedere la pallottola stessa, un affarino nero quanto come un'ape, sibilare nell'aria per conficcarsi nel suo petto. Vide il rosso del sangue che sprizzava, una mano pallida che si sollevava per afferrare la bandiera, vide Jim prenderla al volo e la bandiera inclinarsi, tremare e poi cadere; vide Otto balzare per prenderla e poi sventolarla con forza sopra la testa con una mano sola, mentre con l'altra continuava a sparare. Vide Jim in piedi sul corpo di Adelaide, la spada che roteava, gli occhi
verdi non più umani, ma felini, demoniaci, illuminati da una rabbia feroce. Sembrava lottare contro l'aria stessa, spaccando, lacerando, fendendo, affondando... E il cielo, quell'avvolgente aria densa di fiocchi, sembrava roteare con più forza intorno a lui, popolato di ombre che avanzavano e gli piombavano addosso, che lo afferravano, lo tiravano, lo spingevano, trascinandolo giù, indomito, mai vinto, giù, sempre più giù... E poi ci furono ettari di silenzio. I morbidi fiocchi continuarono a cadere incessanti, riempiendo le fessure dei muri, posandosi sugli occhi e sulle bocche, coprendo i volti rivolti verso il cielo dapprima con un sottile velo, poi con una bianca maschera da Pierrot e infine con il nulla, un soffice e liscio spazio vuoto. Il sangue che era fiorito sulla neve, come nelle favole, sbiadì lentamente, finché il rosso non si arrese al rosa e il rosa al bianco, e svanì. Soldati e studenti, corpi e pietre, cacciatori e cavalli... tutti divennero poco più che cumuli di neve. Poi arrivarono le voci. In principio pensò che fossero frammenti di sogno o brandelli di conversazione da un altro mondo, il mondo dopo la vita: «... andato...» «... li ho sentiti sparare dalla fattoria...» «... il conte Otto von Schwartzberg...» «... morti! Così tanti...» «... un'uniforme tedesca...» «... da quel treno laggiù...» «... la regina? Non può essere....» «... un nobile, guarda! Ha un nastro e la stella...» «... respira?...» «... non può essere vivo...» «... il brandy! Svelto, vallo a prendere...» «... non riesco a fargli allentare la presa...» «... è forte come un toro... Ehi, sì, noi siamo amici, bevi un sorso...» «... il conte Otto... ha preso la bandiera...» «... ho mandato giù un uomo per chiedere aiuto...» «... cos'era quella? Hai sentito quella voce?...» «... nella Torre, svelti...» «... viva!» Perché Becky voleva parlare, anche se quelli erano solo fantasmi. Un uomo apparve sulla soglia, un uomo anziano, coi baffi, il volto teso per l'ansia. La vide, si voltò per chiamare aiuto, cominciò ad arrampicarsi
goffamente sulle macerie tendendo le dita tremanti come un nonno che esorta con gentilezza un nipotino ad andare da lui affinché possa prenderlo in braccio. E a quel punto lei si rese conto che era davvero tutto finito. Capitolo venti LA CLINICA SVIZZERA La gente della città di Andersbad portò giù chi era ancora vivo e chi era già morto, che fosse tedesco o razkaviano. Fu un viaggio gelido, scomodo e malinconico, e l'Istituto Medico di una piccola stazione termale in poche ore si affollò di uomini feriti accasciati contro le pareti nei corridoi, o sdraiati privi di conoscenza nelle sale della Clinica Idroterapica e nelle saune. I dottori lavorarono sodo, ma erano più a loro agio con casi di arciduchi con la gotta o di baroni con l'indigestione che con ferite da spada e d'arma da fuoco. Le acque medicinali erano buone, ma non facevano miracoli, nonostante ciò che dicevano gli opuscoli. Il Direttore ordinò al suo staff di dividere i pazienti in tre gruppi, quelli che potevano aspettare, quelli che sarebbero morti in ogni caso e quelli che potevano essere salvati da un intervento tempestivo, e di concentrarsi su questi ultimi; e alle tre e mezzo di quel pomeriggio arrivarono a Jim. «Questo qui non voleva proprio saperne di morire» commentò il chirurgo. «Due pallottole...» «Tre» disse l'assistente, lasciando cadere qualcosa in una ciotola di porcellana. «Tre fori di pallottola, quattro ferite... da spada, forse? Parrebbe di sì. In ogni caso, quattro ferite che richiedono suture, escoriazioni multiple, assideramento... Ma chi è?» «Non lo sappiamo. Ha l'Ordine di Qualcosa intorno al collo; un nobile di un qualche tipo». «Loro o nostro?» «Oh, nostro. I loro sono molto più puliti e in ordine». «Allora tienilo nascosto. Hai trovato altre lesioni?» Un giovane robusto con un taglio sopra un occhio e una clavicola rotta si fece strada a fatica tra la folla dell'atrio dove Becky, ancora stordita dal do-
lore, era stata posata su un divano. «Fräulein Winter...» «Karl! Sei tu? Grazie a Dio! Stai...» «Mi sistemeranno l'osso rotto fra un po', ma a parte questo sto bene. Lei come...» «Hai sentito se...» «La Regina? Non lo so. L'ho vista cadere... Credo che l'abbiano messa in una delle saune. È lì che tengono i...» Becky capì cosa intendeva: i morti. «Oh, no... Ma tu cosa farai?» «Andrò a raggiungere il conte Otto. È stato lui a dirmi di venire qui e di farmi rimettere in sesto e poi di raggiungerlo sulle colline intorno a Neustadt, ma credo che passerà ancora diverso tempo prima che arrivino a curare quelli come me che possono ancora camminare. Voglio andarmene subito». «Oh, sta' attento, ti prego!» Karl si era chinato su di lei per parlare a bassa voce. Ora le prese la mano e gliela baciò con solennità. «Arrivederci, Fräulein Winter». «Oh, per favore, chiamami Becky! Se te ne vai...» «Spero davvero di rivederti un giorno, Becky. Quando tutto questo...» Erano imbarazzati, timidi. Poi Becky intravide delle uniformi tra la folla davanti alla porta, uniformi pulite, asciutte, sconosciute: tedeschi? «Fai attenzione» sussurrò. «E ora vai. Il conte Otto sarà un ottimo leader. E per favore cerca di restare vivo...» Lui le baciò nuovamente la mano e svanì. Erano passate diverse ore e il dottore non voleva darle retta. «Si riposi» disse. «Rimanga immobile e tranquilla. Non c'è niente di meglio per le costole rotte. Guarirà, ma se si agita...» «Ma non vede che lei mi fa agitare ancora di più?» gridò Becky. «Voglio sapere dov'è lei! È viva o morta? Non può neppure dirmi questo?» «Lei? Lei chi? Fräulein, credo che farei meglio a prescriverle un sedativo. Troppa ansia in questo momento non può che...» «La regina! La regina Adelaide! È viva o morta? Lei deve dirmelo! Io sono la sua segretaria, la sua dama di compagnia, la sua amica... tutto questo è crudele! Lei deve dirmelo!» Il dottore si voltò verso l'infermiera. «Infermiera, la prego, vada a prendermi della tintura di valeriana dalla farmacia. E dello sciroppo di papave-
ro». Non appena l'infermiera fu uscita, il dottore posò con delicatezza la mano sulla fronte di Becky e disse a voce bassa: «È viva, ma nascosta in un luogo sicuro. Era ferita molto gravemente: la pallottola è passata a pochi centimetri dal cuore. Non siamo sicuri se riuscirà a riprendersi completamente, ma la stiamo mandando in un altro posto. Se la tenessimo qui verrebbe di sicuro arrestata. Sono già venuti poliziotti dalla Germania a frugare dappertutto e c'è stata una pazza... Fräulein?» Ma a Becky non serviva la tintura di valeriana: alle parole 'luogo sicuro' era stata invasa da una tale ondata di sollievo che il suo sistema nervoso già provato non aveva potuto sopportarlo. Ora dormiva beata. I dottori che per primi avevano diviso i pazienti tra quelli che sarebbero sopravvissuti e quelli che sarebbero morti non avevano avuto dubbi a metterla nel secondo gruppo... sempre ammesso che non fosse già morta. Avevano deposto il suo fragile corpo gelato in una sauna e solo nel tardo pomeriggio di quel giorno qualcuno aveva avuto il sospetto che potesse riprendersi, dopo tutto. Un inserviente che stava deponendo il corpo di un poveraccio aveva sentito un leggero sospiro e quando si era voltato, aveva visto le sue palpebre che tremavano, le labbra che si aprivano e le dita che si muovevano debolmente. Novanta secondi dopo un dottore le stava sentendo il polso e due minuti dopo fu raggiunto da due dei suoi colleghi più anziani. «Dobbiamo operare?» «Sì. Immediatamente». «E poi?» «Vuoi dire... dal punto di vista politico?» «Ho sentito che ieri hanno cercato di giustiziarla. Lei è fuggita con la bandiera e ora l'ha passata a Schwartzberg. Se scoprissero...» «La città è nel caos. Non c'è nessuno a dare ordini a parte il generale tedesco. Questo è quello che mi hanno detto, almeno». «Se sapessero che è ancora viva...» «La rivorrebbero indietro. Lei è il simbolo della libertà del paese... e ancor più della bandiera, oserei dire». «La costringerebbero a sottomettersi». «Lei non lo farebbe mai!» «Allora la imprigionerebbero e la lascerebbero morire di fame. Non potrebbero mai lasciarla vivere».
«Be', noi non possiamo lasciarla morire». «Sono d'accordo. Ma cosa possiamo fare?» «La operiamo. Poi la mandiamo in tutta segretezza in Austria. Alla clinica Schwannhofer di Vienna». «In Svizzera sarebbe meglio. Gli austriaci...» «Potrebbero usarla come arma di scambio? Sì, hai ragione. Conosco una persona a Kreuzlingen, alla St Johann...» «Posto eccellente. Forza, portiamola in sala operatoria». E dopo quattro giorni Jim Taylor era seduto su una sedia a rotelle e fissava con odio i pattinatori che scivolavano sul ghiaccio fuori dalle ampie finestre del colonnato nella cittadina lacustre di Kreuzlingen in Svizzera. L'atmosfera all'interno era asettica e pesante, una combinazione di silenzio, rumore di macchinari e disinfettante. Verdi felci crescevano rigogliose nei contenitori di vetro accanto ai tavolini di vimini; un anziano signore impiegò quasi cinque minuti per girare la pagina di un giornale, con un grande fruscio di carta. Jim lo incenerì con lo sguardo. Il trio d'archi che suonava brani scelti di Strauss e Suppé nella Trinkhalle fuori in giardino e il successivo scoppio di cortesi applausi che si sentì attraverso la porta aperta coprirono il suono di passi che si avvicinavano. La giovane donna bionda con la pelliccia di volpe si sedette sulla panchina di ferro a un metro da Jim e aspettò che lui si voltasse e la vedesse. Sembrava pallido e stanco. Aveva una coperta sulle ginocchia. Ma i suoi capelli biondi erano accuratamente imbrillantinati, l'alto colletto bianco da dandy era immacolato e la giacca a tre bottoni era all'ultimissima moda. Poi il giovane si voltò, riconobbe la sua più cara amica e lanciò un grido soffocato. «Sally!» Le tese entrambe le mani. Lei le prese e si tese verso di lui per dargli un bacio. «Cos'è successo?» chiese Sally Goldberg. «Adelaide...» «È a letto. Non le permettono di muoversi. Ti dirò...» Ma si interruppe, notando un cameriere in attesa con un vassoio di bicchieri e una brocca di acqua sulfurea della sorgente termale. «Tu stai troppo bene per bere quella schifezza» disse Jim a Sally, «e io sto troppo male. Prenderemo del brodo ristretto. Fleischbrühe, bitte» disse al cameriere, che borbottò qualcosa con fare rispettoso e se ne andò. «Come ti ha chiamato?» chiese Sally.
«Barone. È tutto vero. È praticamente l'ultima cosa che ha fatto Adelaide prima della battaglia. Io non ho voluto... non ho potuto... non sarebbe stato giusto rifiutare. E lei aveva tutto il diritto di conferirmi quel titolo, perché era la regina. Quando mi hanno rattoppato ad Andersbad e mi hanno mandato qui, non avevano altro che quell'onorificenza che avevo intorno al collo per identificarmi, perché ero privo di conoscenza. C'è da dire che fa trottare i camerieri, ma quando torneremo a casa sarò solo Jim. Ma cosa ti porta qui? Pensavo fossi ancora in America». «Siamo tornati prima del previsto. E la prima cosa che ho visto è stata questa». Tirò fuori dalla borsa un ritaglio di giornale piegato. «Ho telegrafato all'Istituto Medico di Andersbad e lì mi hanno detto dove vi avevano mandato. Ed eccomi qui». Jim prese il ritaglio e lesse: LA CADUTA DI UN ANTICO REGNO La 'Regina Cockney' scomparsa Sparizione dell'Aquila Rossa Abbiamo avuto notizia che il regno di Razkavia è stato annesso dall'Impero Germanico. Questo piccolo paese, a malapena più grande del Berkshire, era indipendente sin dal 1276, ma i disordini civili degli ultimi giorni, insieme a un appello da parte del Cancelliere, il barone von Grödl, hanno spinto le autorità tedesche ad agire. Un reggimento di granatieri della Pomerania è ora acquartierato nella capitale, Estenburg, e sono in corso trattative per un'eventuale entrata del paese nell'Unione Doganale Tedesca e per una sua amministrazione da parte di Berlino. La Razkavia è diventata oggetto di diffuso interesse sei mesi fa, in occasione dell'incoronazione del suo ultimo re, Rudolf II. I lettori forse ricorderanno che fu assassinato durante la cerimonia e che il suo posto fu preso dalla sua regina, un'inglese. La regina Adelaide ha regnato di diritto per sei mesi, ma pare non sia più nella capitale da diversi giorni. Sono spariti anche diversi oggetti di valore appartenenti al Tesoro della Razkavia, inclusa l'antica bandiera... Jim appallottolò con furia il ritaglio di giornale e lo gettò a terra. «Dicono tutti la stessa cosa! Lasciano intendere che se la sia svignata
con il bottino! Schifosi bugiardi...» «È quello che ho pensato anch'io. A proposito, ho portato Frau Winter con me; è con Becky in questo momento. Farai meglio a raccontarmi tutto». «Mamma, non devi credere quello che dicono i giornali. Credi a me, a tua figlia. Io c'ero! Oh, c'eravamo così vicini, mamma! Un altro giorno ancora e ci sarebbe stato un trattato che ci avrebbe garantito la sicurezza e l'indipendenza per sempre! E loro l'amavano, il popolo intendo, e avresti dovuto vedere come abbiamo lottato... fino alla fine...» Le mani di Frau Winter lasciarono quelle di sua figlia e allisciarono la coperta che Becky nella sua agitazione aveva sgualcito. «Non la perdonerò mai di aver messo in pericolo la tua vita. Se avessi saputo...» «Mamma, tu dovrai perdonarla se vorrai parlare ancora con me. Non è stata colpa sua, io l'ho seguita. E poi non l'ha causato lei il pericolo, è stata tradita. Hai visto i giornali? Non avrei mai creduto che potessero scrivere cose del genere. Pensavo che non fosse consentito, che dovessero stampare solo la verità. È troppo crudele, mamma, dopo quello che ha fatto. Ma il conte Otto sa. E gli uomini che hanno combattuto... loro sanno. Oh, mamma, quando ascolterà la gente?» Frau Winter non lo sapeva. Quel pomeriggio, Sally Goldberg andò al Consolato britannico. Il console era un uomo grassoccio dalle maniere brusche ed era leggermente irritato per essere stato costretto a lasciare il suo studio, dove stava catalogando il risultato di un'estate di raccolta di esemplari di flora alpina. «Sì? Come posso aiutarla, signora?» «Mi chiedevo se potesse dirmi qual è la posizione del governo britannico in merito all'invasione della Razkavia. Stiamo presentando delle rimostranze a Berlino? E che mi dice della sicurezza dei residenti britannici? E degli attentati alla vita della regina, che in Gran Bretagna c'è nata?» «Posso chiederle in che veste la cosa la interessa?» «Sono una suddita britannica preoccupata». «Capisco. Be', la Razkavia non è una questione di immediata preoccupazione per il governo di Sua Maestà. Per quanto ne so, ci sono pochissimi residenti britannici nel paese, ma senza dubbio i loro interessi sono curati con la massima efficienza dal rappresentante di Sua Maestà nella capitale.
Cos'altro voleva sapere? Qualcosa riguardo a Berlino? Oh, sì. Be', la linea politica del governo di Sua Maestà è sempre stata quella di instaurare e mantenere relazioni il più possibile cordiali con le grandi potenze. La Germania è una nazione di estrema importanza; non sarebbe nei nostri interessi interferire in quella che è essenzialmente, a mio avviso, una questione interna tedesca. E in ultimo, cosa c'era? Oh, sì, la famosa Regina Cockney. Be', vede, questo è il genere di cose che accade ai vecchi regimi, quelli ormai logori, corrotti: cadono preda del primo truffatore o avventuriero che arriva. Da quanto ho capito è scappata via con metà del tesoro di stato... Non l'ha letto sui giornali? Era una ballerina di varietà, o peggio, credo. Probabilmente sarà quasi arrivata in Brasile a quest'ora. Ha fatto un bel colpo. Ma, santo cielo, signora... ehm, Goldberg, non è compito di noi diplomatici fornire aiuto e protezione ai criminali comuni, per quanto pittoreschi possano essere. No, il nostro è un lavoro molto serio e, se posso dirlo, 'adulto'. Non abbiamo alcun interesse per la cosiddetta 'Regina Cockney'. C'era nient'altro che...» «Capisco. Grazie. No, non c'era nient'altro. Buon pomeriggio». Mentre la luce del giorno svaniva sul lago, un'infermiera entrò per cambiare le fasciature di Adelaide e per dirle che le era stata consentita una visita. «Ma solo per un'ora» aggiunse. «E lei non deve muoversi. Non deve agitarsi. Deve riposare». Adelaide si accigliò, ma erano stati gentili con lei in quella clinica e in ogni caso non aveva la forza per discutere. L'infermiera l'aiutò a mettersi seduta e le sistemò la vestaglia intorno alle spalle prima di uscire senza fare rumore. Il letto era posto di fronte a un'alta portafinestra che nella bella stagione poteva essere aperta per dare accesso a un balcone affacciato sul lago. Adelaide non era sensibile alla bellezza dei paesaggi, o almeno non lo era mai stata in passato, ma nei tre giorni che era rimasta sdraiata di fronte a quella finestra aveva cominciato a trovare gli impercettibili cambiamenti di luce affascinanti quasi quanto la diplomazia, e a pensare che anche l'immobilità aveva i suoi vantaggi. Un fischio distante la spinse a guardare verso sinistra, dove scorse le luci dell'ultimo vaporetto che lasciava il molo per fendere le acque scure. «Adelaide?» Poteva essere solo Jim. La giovane sentì il battito del proprio cuore ac-
celerare e si voltò per guardarlo. Il suo bastone da passeggio, la cravatta di seta, gli occhi verdi pieni di tenerezza e ironia... «Parola mia» disse. «Elegante, ma non pacchiano...» «... disse la scimmia quando si pitturò il sedere di rosa...» «... e si legò un nastro verde alla coda. Vedo che lo conosci anche tu questo detto... Oh, Jim, ti amo!» «Sono felice di sentirlo. Sono venuto per un bacio». Si chinò e lei si tese verso di lui. Erano entrambi troppo doloranti perché il bacio potesse durare a lungo, ma ci sarebbe stato tutto il tempo del mondo per qualcosa di più. Per un istante ebbero entrambi la stessa impressione, come di un muro di una prigione che si fosse improvvisamente dissolto per rivelare uno straordinario paesaggio, di ceppi che si fossero aperti, di inseguimenti che non ci sarebbero stati... Erano liberi. «Vieni a sederti accanto a me» disse Adelaide. «Non credo di poter tirare su le gambe. Abbiamo un bel po' di strada da fare prima di tornare in forma, noi due». Spostò una sedia accanto al letto con un certo sforzo e si sedette, tenendole la mano. «Non ho soldi, Jim. Non posso permettermi di pagare tutto questo. Non so cosa succederà quando...» «Ce li ho io. Smetti di preoccuparti». «Come li hai avuti? Sei ricco?» «Con il gioco d'azzardo, per la maggior parte. E un po' con i romanzi e anche la storia del detective rende qualche soldino. Ne rimarresti sorpresa... In ogni caso ce n'è abbastanza per pagare la retta per tutto il periodo che ci servirà per ristabilirci. Poi potrò guadagnarne degli altri. Ci serviranno se dobbiamo sposarci». «Sposarci? E quando l'abbiamo deciso?» «Sul treno. Non puoi cambiare idea, non ti è permesso». «Va bene». Adelaide rimase seduta tranquilla, con il volto soffuso di felicità. Le luci del vaporetto si allontanavano lentamente verso Friedrichshafen sulla sponda tedesca. «Jim» disse poi, «ho bisogno che tu mi dica una cosa ora. Dimmelo con tutta sincerità. Lo chiederei anche a Becky se fosse qui. E anzi, glielo chiederò di certo. Sono stata regina, vero? Non me lo sono immaginata?» «No». «E sono stata brava?»
«Tu sei stata il miglior sovrano, re o regina che sia, che potessero mai sperare di avere. Eri magnifica». «Giusto. Pensavo di esserlo stata, ma... E allora, tu credi che dovrei tornare e continuare a combattere? O fare la regina in esilio? Oppure ho chiuso con questa storia?» «Ricordi qualcosa della battaglia di Wendelstein?» «Ricordo il freddo. E che avevo tanta neve negli stivali. E che abbiamo messo la bandiera su quella pila di macerie... E il brandy di prugne del caporale, Dio lo benedica. E quel povero conte... E Otto che sbucava dalla tempesta. Ho pensato che fosse un fantasma. Mi ha chiamato cugina, vero?» «Esattamente. Ricordi quando sei stata ferita?» «No. Solo un forte sparo e poi tutto è svanito». «Be', sei caduta da una parte e io ti ho presa al volo, mentre la bandiera è caduta dall'altra parte. La tenevi tu in mano in quel momento. Ma quando l'hai lasciata andare, l'ha presa Otto. Per Giove, è un vero gigante, quell'uomo. L'ultima volta che l'ho visto la stava sventolando in alto sulla testa come se fosse un fazzoletto». «Perciò ora è lui l'Adlerträger!» «Sembrerebbe di sì». «E io non lo sono più... Sono libera, libera! Oh, grazie a Dio!» «Quindi non ti piaceva essere regina?» «Adoravo essere il motore delle cose... Convincere tutti quei diplomatici a firmare il trattato, ad esempio. Oh, quello l'adoravo davvero, Jim. Era il miglior lavoro del mondo. Ma... tutte quelle formalità... soffocanti. Non credo che avrei resistito a lungo». E sorrise. «A cosa dobbiamo quel sorriso?» «Quando ero piccola, a Burton Street, con la signorina Lockhart e te e il signor Garland, ricordo il giorno in cui arrivò la signora Holland e mi portò via. Ero stata a fare una passeggiata con il vecchio Trembler Molloy e lui mi portò a vedere Buckingham Palace. Disse che saremmo andati a trovare la regina per prendere una tazza di tè e io gli credetti. Ma quando arrivammo, non c'era la bandiera, sai quale intendo... lo stendardo reale. E lui disse, 'Per la miseria, dev'essere fuori per il fine settimana. È proprio il tipo da fare questi scherzi'. E quando sono diventata io regina, ho pensato che sarebbe stato divertente presentarmi un giorno a Buckingham Palace e farle visita. Ma nel modo giusto questa volta. Tappeto rosso, guardia d'onore e compagnia bella. Ma immagino che ora non potrò più farlo».
«Ti saresti annoiata a morte se ci fossi andata. Ho sentito dire che è una vecchiaccia arcigna. Preferirei farmi una fumatina e una chiacchierata con il Principe di Galles». «Sì! Andersbad gli piacerebbe, non credi?» «Prima dovrebbero dare una bella ripulita al Casinò». «Va bene, gliela daremo. Anzi, no, non lo faremo, vero? È tutto finito. Jim, ho visto il giornale oggi. Ho costretto l'infermiera a portarmene uno e quella furbetta me ne ha portato uno in tedesco, ma io l'ho fregata. Leggo meglio il tedesco dell'inglese. Ho visto cosa dicono di me». «Sì, ma sono solo bugie. Lo sanno tutti». «Lo sanno tutti quelli che erano lì. Ma per il resto del mondo io sono solo la Regina Cockney, un'imbrogliona di mezza tacca...» «Che ha infinocchiato tutti». «Già, proprio così. Un'avventuriera da quattro soldi. Devo stare attenta, Jim, perché sento che mi sto arrabbiando. Comincia a battermi il cuore». Ignorando le proprie ferite, Jim si sedette sul letto accanto a lei e le passò il braccio sinistro intorno alle spalle, posandole la mano destra sul fragile petto nel quale il cuore batteva all'impazzata. Riusciva a sentirlo, un uccellino in gabbia. «Così va meglio» disse lei. «Ho un piano per sistemare le cose» disse Jim dopo un minuto. «Quale?» «Scriverò un libro. Non uno di quei romanzacci dell'orrore o un giallo, ma un vero libro, serio, storico, dotto, e parlerà dei colloqui e del trattato. Scriverò tutto ciò che tu mi dirai e che Becky riuscirà a ricordare e poi andrò a Vienna e parlerò con gli austriaci e metterò tutto nero su bianco. Scriverò anche di come tu sei stata tradita e di ciò che è accaduto esattamente alla bandiera. Sarà di aiuto anche a Otto. Sosterrà la sua rivendicazione del trono di Razkavia, perché spiegherà come il diritto di successione è passato a lui». Adelaide rimase appoggiata a lui, senza parlare. Il suo respiro divenne pian piano più lento, più regolare, e quando Jim la guardò, vide che aveva gli occhi chiusi. Ammirò l'ampia curva delle sue ciglia scure, il modo in cui risaltavano come i pennelli di un pittore sulla pelle rosata delle guance di seta. I suoi capelli folti e profumati si muovevano leggermente con ogni respiro e per il momento, pensò Jim, questo era sufficiente... Stare seduto e stringerla tra le braccia in quel modo era più che sufficiente. E dopo poco anche lui si addormentò.
Di sotto i medici stavano riguardando i loro appunti prima del giro di visite serale; i cuochi stavano preparando le loro salse e cuocendo i loro manicaretti e tagliando le loro verdure; i musicisti stavano cominciando ad arrivare per il concerto serale nella Trinkhalle; gli inservienti delle piscine, le infermiere dei bagni turchi e i massaggiatori stavano aiutando gli ultimi pazienti della giornata a tornare nelle loro stanze. Le luci elettriche intorno alla pista di pattinaggio erano accese e un gruppetto di uomini con la scopa stava preparando il ghiaccio per i pattinatori che sarebbero arrivati più tardi quella sera, spazzando ritmicamente a destra e a sinistra mentre il loro respiro si addensava in lievi nuvolette intorno al viso. L'Ispettore della Qualità dell'Acqua aveva appena completato le analisi giornaliere e stava chiudendo il laboratorio per quella notte. Sotto terra, nella sala delle pompe, i tecnici stavano girando le ruote che portavano l'ininterrotto flusso d'acqua dalla sorgente fino ai serbatoi igienici dello stabilimento, che si sarebbero riempiti nottetempo per essere pronti per il primo turno di imbottigliamento dell'indomani. Nella biglietteria della linea dei vaporetti gli impiegati stavano per chiudere, e il bigliettaio, che aveva un problema per le mani, fu felice di poterlo scaricare al capoufficio di turno. «È arrivata da Friedrichshafen e dice di aver perso il biglietto. Be', io non posso certo assumermi la responsabilità per lei. Secondo me deve pagare, questo è il regolamento, ma lei dice di aver già pagato sull'altra sponda. Perciò io dico...» «Va bene, va bene. Dov'è ora?» Il bigliettaio indicò con la testa la sala d'attesa, dove era seduto il problema: una donna di mezza età vestita in modo trasandato, con gli occhi e la carnagione scura e un cestino in grembo. Avrebbe potuto essere un'italiana, o forse una spagnola. «Vede, il fatto è» continuò in tono confidenziale il bigliettaio «che credo che non abbia denaro. Secondo me sta provando a fregarci. Se vuole sapere la mia opinione...» «Non voglio sapere la sua opinione» rispose il capoufficio, e aprì la porta della sala d'attesa. «Signora, stiamo per chiudere. Mi dicono che ha perso il suo biglietto». La donna sembrò fare un grosso sforzo per distogliere la sua attenzione da qualcosa di molto più interessante che solo lei vedeva. Aveva una stra-
na espressione sul volto: più che distratta, sembrava quasi in bilico tra questo mondo e un altro. «Sì?» Si alzò e aspettò che il capoufficio dicesse qualcos'altro. «Sì, be', c'è un modulo che lei potrebbe riempire...» L'uomo esitò. Più la guardava, più gli sembrava strana: quasi certamente pazza, a guardarla meglio. E il tempo stringeva, e lui quella sera doveva suonare il trombone con la Kreuzlingen Band e... «Oh, non fa niente» disse. «Sono sicuro che non ha importanza. Venga, la accompagno fuori». Mentre le teneva aperta la porta, notò che non si lavava da diverso tempo e che sembrava portare avanti una conversazione silenziosa, ma animata, con se stessa. Nel suo cestino non c'era altro che un paio di lunghe forbici affilate. «È una pazza» disse il capoufficio al bigliettaio mentre i due uomini la guardavano attraversare la strada, guardare un cartello stradale e avviarsi lungo la salita che portava alla clinica. «È inutile perdere tempo a discutere con una fuori di testa. Forza, chiudiamo». Becky stava facendo quattro passi con la signora Goldberg lungo il colonnato e guardava gli uomini che spazzavano il ghiaccio. «Come ti senti ora?» chiese Sally. «Fa ancora male. Pare che non si possa fare niente per le costole rotte, a parte lasciare che si aggiustino da sole. Ma almeno non mi sono presa la polmonite, cosa che a volte succede in questi casi. Devo essere robusta come un cavallo. È solo che mi sento così... delusa, frustrata...» «Posso immaginarlo». «Sa, prima che tutto questo iniziasse leggevo sempre quei romanzetti che la mamma illustrava, e fingevo di essere Deadwood Dick o Jack Harkaway e di combattere contro i pirati e catturare i rapinatori. Volevo così tanto agire, partecipare attivamente, rischiare. E ora l'ho fatto. Ho preso parte a importanti negoziati diplomatici, sono fuggita da un castello e ho combattuto una battaglia... Ho sparato e credo anche di aver ucciso qualcuno e io... io non credo che qualcuno possa aver avuto sei mesi più eccitanti di quelli che ho avuto io. E sa come mi sento?» «Vuota». «Esattamente! Svuotata, inaridita, finita. È stato tutto inutile. Il tradimento... Adelaide ha lavorato sodo e a lungo e c'era quasi... E per tutto il tempo c'era qualcuno che tramava nell'ombra per minare il suo lavoro. Che
la usava, si trastullava con lei! Che giocava con il futuro dell'intero paese e persino con lo stesso barone Gödel. E non sappiamo neppure chi sia». «È un certo Bleichröder» disse la signora Goldberg. Becky la fissò con gli occhi sgranati. «E chi è? E lei come lo sa?» «È il banchiere del principe Bismarck. Dan, mio marito, sta compilando da diverso tempo un dossier su di lui. Bleichröder è una specie di spia, di agente segreto, di... Qual è la parola yiddish? Macher. Un faccendiere. All'apparenza è un anziano gentiluomo cortese e affabile e quasi cieco; ebreo, quindi non è veramente accettato dalla società tedesca, in particolare dalle persone di mentalità gretta che frequentano la Corte, ma cura gli affari di Bismarck ormai da anni. Questo è esattamente il genere di impresa in cui eccelle. Non appena Dan ha appreso la notizia, ha capito subito che c'era Bleichröder di mezzo. Sembra che Bismarck sia impegnato in un braccio di ferro con il Reichstag, il parlamento tedesco, e impedire la firma del trattato era parte del suo piano per spuntarla. Ma l'abbiamo capito troppo tardi per potervi avvertire, ovviamente. Sui giornali americani non c'era niente in proposito». Becky si asciugò una lacrima di rabbia. «Perciò tutto quello che abbiamo passato era parte di una macchinazione di cui noi non sapevamo niente, organizzata a centinaia di chilometri di distanza... Oh, mio Dio, com'è crudele! Il paese non aveva alcuna possibilità!» «Tu, Adelaide e Jim gli avete dato la migliore possibilità che potesse avere. Avete fatto tutto ciò che il coraggio e l'intelligenza e l'immaginazione possono fare, ma la forza ha vinto. La forza vince sempre». «E sarà sempre così? Non c'è speranza in niente che non sia la forza?» «No, io non lo credo. La forza vince sempre, ma solo per un po'. Poi cominciano ad apparire delle sottili crepe, che si allargano man mano che la gente inizia a ricordare com'era prima e a sentire di voler prendere nuovamente in mano il proprio destino. Vedi, la vita non è statica, Becky. La vita è dinamica. Tutto cambia. È questa la sua vera bellezza...» Si fermarono alla fine del colonnato. Gli uomini sul ghiaccio diedero un ultimo ritocco con le loro scope e indietreggiarono verso il pavimento di legno al lato della pista. «E ora cosa farà Adelaide?» continuò Sally. «Ho incontrato l'ex regina di Sardegna una volta. Conduceva una vita orribile. Sempre a rimuginare sul passato, a escogitare assurdi complotti per riconquistare il trono, circondata da esiliati altrettanto ossessionati e vestiti di stracci, a invecchiare con l'amarezza nel cuore senza avere mai avuto una vera vita. Spero pro-
prio che ad Adelaide non capiti una cosa del genere». «Io credo di sapere cosa potrebbe fare nella vita» disse Becky. «Lei ancora non lo sa e io non gliene ho parlato. Ma la prima mattina dei colloqui, quando è entrata nella Sala Consiliare, ho pensato che sembrava proprio un'attrice che sale sul palcoscenico. L'attenzione di tutti era solo per lei, li aveva tutti in pugno... E poi ha una mente così sveglia! È una vera diva. Non sarei affatto sorpresa se scegliesse il teatro come professione». «Ma è un'idea fantastica! E Jim potrà scriverle i testi. E tu andrai all'università. Ci sono così tante cose da fare, Becky, cose che vale la pena di fare... Guarda, stanno mettendo le sedie per l'orchestra. Vogliamo andare a vestirci per la cena?» Becky si sentì rinvigorita dopo la chiacchierata con la signora Goldberg. Lei era proprio il tipo di donna che Becky voleva diventare, la prova vivente che era possibile diventare così... Portava con sé un senso di speranza, la percezione di una vita piena di promesse, brulicante di attività. Quando aveva saputo cosa aveva fatto Jim con il maglione che lei gli aveva confezionato, aveva riso di pura gioia, come se non esistesse che un lieto fine, come se l'intero universo non fosse che un gioioso gioco di luci. Becky lasciò il colonnato per tornare alla sua stanza, dove la mamma stava riposando. Di lì a poco si sarebbero ritrovate intorno a un tavolo al ristorante e forse Jim si sarebbe unito a loro. Fra un paio di giorni forse anche Adelaide sarebbe stata in grado di alzarsi. Si sarebbe dovuta riguardare ancora per molto tempo: niente pattinaggio per lei, né per Becky, che avrebbe tanto voluto scivolare su quel ghiaccio... o almeno provarci. Sognando a occhi aperti, svoltò nel lungo corridoio, così silenzioso e asettico, alla fine del quale c'era la sua stanza, a tre porte di distanza da quella di Adelaide. Mentre passava davanti alla porta che dava sulle scale di servizio, vide un'infermiera che ne usciva con un mucchio di lenzuola tra le braccia e la superava in tutta fretta. Forse perché lei stessa era calma e rilassata, o forse perché l'innata capacità di descrizione di Jim era riuscita a darle un'immagine molto vivida e precisa di Carmen Ruiz, o forse fu solo fortuna... ma qualcosa attirò l'attenzione di Becky verso un particolare di quell'infermiera che ora la precedeva di diversi metri: le sue scarpe. Erano così consumate e sporche! E in questo tempio dell'igiene... E aveva anche la cuffietta storta, come se l'avesse appena.... Becky prese fiato e tentò di gridare: «Hilfe! Zu Hilfe!»
Ma il dolore alle costole glielo impedì e dalla sua bocca uscì solo un gemito roco. L'infermiera la sentì, si voltò in un lampo, lasciò cadere le lenzuola e corse verso di lei come una belva. Becky vide le forbici sollevate sopra la testa, vide una bocca rosso fuoco aperta in un grido silenzioso, denti bianchi... e cercò a tentoni la maniglia della porta più vicina, un posto qualsiasi, per nascondersi, dove stare al sicuro... Cadde all'indietro in una stanza buia che odorava di disinfettante. Ritrovandosi seduta sul pavimento lucido, tentò di strisciare lontano dalla donna, la quale, avendo perso anche lei l'equilibrio per l'impetuosità della carica, le cadde sulle gambe e immediatamente sollevò le forbici e le calò su di lei, una, due, tre volte. Becky si scansò, tentò di divincolarsi e sentì le punte acuminate bloccare la sua gonna al pavimento. Afferrò i capelli della donna, capelli impastati, grassi, sui quali la cuffietta non resistette che pochi secondi, e fu sbattuta da una parte all'altra, come un cavaliere su un cavallo selvaggio, ma non mollò la presa finché non sentì le forbici che si staccavano dal suolo e a quel punto afferrò il bordo del banco da laboratorio sopra di lei e si tirò su con un grido silenzioso delle sue costole doloranti... Ma il banco non era fissato al pavimento. Si inclinò, qualcosa scivolò via, qualcos'altro si rovesciò, cadde al suolo e si frantumò, e poi il pesante bordo ondeggiò di fronte a lei e Becky capì che sarebbe caduto e le avrebbe spaccato le gambe, ma in quel momento Carmen Ruiz le si avventò nuovamente contro con quelle terribili forbici... Il bordo del banco colpì la donna sulla nuca come una ghigliottina e in un istante la schiacciò sotto il suo peso. Le forbici si fermarono a un centimetro dalla gola di Becky e poi ci fu il silenzio, interrotto soltanto dal gocciolare di un liquido. Becky non riusciva a muoversi. Le sue gambe erano bloccate sotto il peso inerte del corpo della donna. La testa di Carmen era posata sul suo grembo, ma con un'angolazione talmente strana che era evidente che la donna era morta, anche perché il bordo del pesante bancone di quercia premeva ancora contro il suo collo. Un dolore lancinante, più forte di quello provato finora, cominciò a pulsare nel petto di Becky... Non aveva neppure il fiato per lamentarsi. Qualcuno sarebbe venuto e l'avrebbe trovata. La mano sinistra era bloccata sotto di lei, ma quella destra era sul suo grembo, accanto alla guancia di Carmen. Era bagnata: il volto della donna era fradicio di lacrime. Senza pensarci, Becky tentò di asciugarle.
Oh, questo dolore! Era assurdo, inconcepibile... Cominciò ad alternare momenti di veglia e momenti di torpore. Era così simile al sonno e lei era così stanca... Affiorarono piccoli sogni, simili alle immagini in dissolvenza di uno spettacolo con la lanterna magica, immagini che si rischiaravano e svanivano e si fondevano l'una con l'altra... Immaginò Carmen Ruiz entrare nella clinica e cercare lo spogliatoio delle infermiere, trovare un'uniforme e indossarla in fretta, controllare l'elenco dei pazienti per capire dove andare. Vide il principe Leopold vagare con passo malfermo per i corridoi vuoti del Palazzo e affacciarsi in una gelida stanza dopo l'altra, chiamando i servitori che erano fuggiti, i fantasmi della sua infanzia. Vide i giochi con cui avevano giocato lei e Adelaide, la principessa di latta, i dadi e i tabelloni e i pezzi degli scacchi, abbandonati in un angolo, a raccogliere polvere. Vide i negozianti della Città Vecchia spazzare i vetri rotti disseminati sulle strade; e la contessa Thalgau, vestita di nero, con il volto statuario segnato dal dolore, riporre lentamente le cose del conte; e gli studenti del Richterbund radunarsi in silenzio al Café Florestan per attendere notizie di Karl, di Gustav e degli altri che erano morti. Immaginò il generale tedesco - ora nominato Governatore o Amministratore Provinciale o in qualunque altro modo avessero deciso di chiamarlo; un uomo scaltro, cortese, spietato, o almeno così se lo figurava la sua mente non del tutto cosciente - convocare gli ufficiali a Palazzo e assegnare equamente le diverse responsabilità agli uomini sotto il suo comando. Vide il capostazione della funicolare supervisionare una coppia di operai che stava tirando fuori la trave di legno da sotto le ruote della carrozza. Vide uffici che aprivano, impiegati che inchiostravano le loro penne, camerieri che spazzavano via briciole immaginarie con i colpetti di salviette immacolate, figlie che si mettevano in riga per baciare un padre amorevole, caffè che bolliva, pane che cuoceva, birra che schiumava in grossi boccali di terracotta. Vide un pennone di bandiera vuoto; non vide nessuno che guardava su verso di esso; vide dei nuovi giornali apparire nelle edicole, venire smaniosamente acquistati e allegramente letti. Vide un giovane su un cavallo con un arco a tracolla cavalcare lungo un sentiero all'interno di una foresta. Vide un gigante con le mani ricoperte di cicatrici e baffi scuri passare il suo binocolo al compagno e indicare in basso, attraverso i pini, verso un fortino che attendeva silenzioso tra la neve. Vide una caverna tra le montagne, un fuoco acceso, dei fucili appoggiati contro la roccia, un'antica bandiera che riluceva alla luce rossa della brace.
Ma erano solo sogni. Quando un dottore che passava notò la porta aperta del laboratorio, si ritrovò davanti uno stranissimo spettacolo: una donna morta, con la testa posata in grembo a una ragazza profondamente addormentata. Albero genealogico della Casa regnante di Razkavia (monarchi in maiuscolo) MICHAEL VI s. Sophia di Schwartzberg (1812-1836) (m. 1840)
LEOPOLD II s. Caroline (1836-1852) (m. 1857)
Heinrich s. Augusta (m. 1868) (m. 1872)
WILHELM IV s. Mathilde (1852-1882) (m. 1875)
Michael s. Teresa (m. 1880)
Leopold s. Carmen Wilhelm s. Anna Ruiz (1842(n. (1850-1882) (m. 1836) 1882)
RUDOLF s. ADE- Count Otto LAIDE von (n. 1846) Schwar(1854tzberg 1882) (n. 1862)
FINE
Alois