ELIZABETH A. LYNN LA RAGAZZA DEL NORD (The Northern Girl, 1980) Capitolo primo Ti odio, pensò Sorren, guardando l'oceano...
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ELIZABETH A. LYNN LA RAGAZZA DEL NORD (The Northern Girl, 1980) Capitolo primo Ti odio, pensò Sorren, guardando l'oceano. L'aria estiva, pregna di sale, la rendeva fiacca. Il braccialetto di monete che Arré le aveva consegnato per fare la spesa, le aveva lasciato un segno rosso sul polso. Dalla banchina alle sue spalle il pesce puzzolente esalava vapori che si levavano alti, simili a fumo. Le barche dondolavano nella rada. Un carro vuoto, trainato da un mulo grigio dall'aria stanca, le passò accanto sobbalzando con fragore. Le passere, ricordò a se stessa. Le passere, tra quattro giorni. S'incamminò tra le botteghe, le bancarelle e gli ambulanti del mercato, diretta al familiare pendio che s'inerpicava su per il fianco del colle. Dietro di lei l'oceano scintillava simile ad una lastra d'ottone. Le insegne delle botteghe penzolavano flosce nell'immobile mattino senza vento. I ciottoli ardevano nelle vie, ma i piedi di Sorren, induriti dai calli, a malapena ne avvertivano il tocco rovente. Stanca e sudata, giunse sulla sommità della collina; la blusa di cotone le si era ormai letteralmente incollata alle spalle ed ai seni. Sostò dinanzi alla porta che dava accesso alla proprietà della Famiglia Med. Contemplò la città. La cupola vermiglia del Tanjo risplendeva nel cuore del tessuto urbano. A sud l'oceano ribolliva luccicante, punteggiato dalle vele gialle dei pescherecci. A est e ad ovest della città, si estendevano le piantagioni di cotone. Sorren non riusciva a distinguere i raccoglitori coi grossi sacchi sulle spalle, ma sapeva che erano lì. A nord s'allungavano i vigneti dai quali era giunta sette anni addietro. Soltanto due volte vi era tornata in visita: la prima volta per sfoggiare gli abiti nuovi, e la seconda in occasione della sepoltura di sua madre. Ma non aveva fatto in tempo; aveva pronunziato l'estremo saluto presso la tomba sforzandosi di richiamare nitida nella mente l'immagine del volto di sua madre. Era accaduto quattro anni prima. Adesso, quando ci provava, non riusciva neppure a ricordarne vagamente le sembianze. Il grande edificio azzurro che si ergeva verso est, presso la sponda del fiume, era la sala del Clan Blu. Stendardi turchini sventolavano sulla facciata, e le banderuole azzurre appese alle botteghe, alle bancarelle ed ai
carri, rivelavano che i loro proprietari appartenevano alla Corporazione e che i loro affari prosperavano. Anche i carri che trasportavano in città le botti di vino provenienti dai vigneti dei Med, recavano banderuole turchesi. Al di là delle vigne si estendevano i campi di Galbareth coltivati a grano; e, al di là di essi, vi era la steppa... e le montagne. Sorren chiuse gli occhi un istante, e le montagne svettarono nella sua mente; solide, grigie ed incorruttibili, uguali a come le apparivano nei sogni. Ma lì, nei dintorni di Kendra-sul-Delta, non c'erano montagne. Sorren dischiuse gli occhi. Le pietre adoperate per costruire il Tanjo erano giunte dalle Colline Rosse che sorgevano oltre Shanan e le terre degli Asech, a giorni e giorni di distanza. Si voltò verso il cancello della proprietà. La sentinella la stava osservando dalla sua postazione presso l'albero di kava. «Buongiorno», la salutò Sorren. La Guardia brontolò qualcosa in risposta. La sua camicia rossa era bagnata di sudore. Aveva deposto la lancia sulla roccia ai suoi piedi, e Sorren si domandò come avrebbe reagito Paxe se fosse giunta all'improvviso ed avesse sorpreso la sua sentinella sprovvista della lancia. «Si crepa dal caldo!», disse Sorren. «Già,» brontolò la Guardia. La buccia verde di un kava gettata sul terreno, balzava all'occhio simile ad una pezzuola di stoffa. Tutti mangiavano i frutti di kava quando montavano di guardia, ma questa sentinella - un giovane dai baffi rossicci - non aveva ancora imparato ad allontanarne la buccia con un calcio. Né aveva imparato ad aprire il cancello a Sorren. Questa si accinse a farlo da sé ma, nello stesso istante, il giovane cambiò idea e si apprestò ad aprirlo, cosicché le loro dita finirono con l'incontrarsi. Quelle del giovane erano appiccicose. Sorren varcò la soglia delimitata dal cancello di ferro. «Grazie,» disse. Di nuovo il giovane le rispose con un grugnito. Le Guardie non sapevano mai quale fosse il modo giusto di trattarla. Era una schiava, ma il più delle volte Arré la trattava come una figlia... e poi c'era Paxe. Il cancello si rinchiuse. Sorren s'incamminò attraverso il cortile. Da ambo i lati il vialetto era fiancheggiato da fiori, ora flosci per effetto della calura. Come ogni volta, fu attratta ed incuriosita dal disegno che formavano le piastrelle che lastricavano il cortile. Seguì col passo uno dei margini della figura. Il triangolo azzurro disegnato sul fondo vermiglio era di
forma irregolare. Si domandò se fosse stata una scelta deliberata dell'artista che lo aveva progettato. Sorren giunse alla porta principale. Nel medesimo istante, questa si aprì ed un uomo ne uscì a passi decisi. I due si scontrarono e Sorren si piegò su un ginocchio, non tanto per aver perduto l'equilibrio, quanto per la rispettosa osservanza delle regole di cortesia. Il profumo dell'uomo le risultò familiare. Gli lanciò un'occhiata furtiva. Sì, era proprio Isak. Strano però: erano nel, mese del raccolto, e come mai non si trovava ai vigneti a sorvegliare i raccoglitori? «Mi spiace, Signore,» si scusò. Isak le sorrise. «Sorren.» La sua voce calda le rammentava sempre un gatto che faceva le fusa. Naturalmente l'incidente non lo aveva per nulla irritato. Isak non si adirava mai. «Sta un po' più attenta, bambina. Non vorrai mica far cadere uno dei nostri eccelsi membri del Consiglio?» «No,» replicò lei. «No, naturalmente!» Sfiorandole il capo con la mano inanellata, si allontanò a passo spedito lungo il cortile diretto al cancello d'ingresso. Sorren si alzò. Il ginocchio sinistro le doleva; lo strofinò leggermente. Isak si fermò un istante a parlare con la sentinella mentre il sole scintillava sulla seta azzurra della sua tunica. Sorren si chiese se stesse ordinando all'uomo di raccogliere la lancia. Nell'impatto aveva sentito il vigore dei suoi muscoli, sodi sotto la stoffa leggera. Adesso avrebbe trovato Arré di pessimo umore; era sempre particolarmente irritabile dopo un colloquio con Isak. Entrò in casa. Occorse qualche istante perché i suoi occhi si abituassero all'oscurità. Un profumo di lillà aleggiava nella sala lunga e fresca. Un vaso laccato, colmo delle odorose infiorescenze, adornava un tavolino posto sotto la statua del Guardiano. La scultura era nuova, ed era opera di Ramanth, lo stesso artista che aveva diretto i lavori di costruzione della grandiosa statua nel Tanjo. Sorren si inchinò alla statua: labbra di pietra le sorrisero, ed occhi di pietra baluginarono. Si domandò che fine avesse fatto la vecchia scultura. Era ovvio che non la si poteva ridurre in frantumi così come si fa con una vecchia pentola ormai inservibile. Un gesto simile sarebbe stato irriverente nei confronti del cea. Tese l'orecchio per carpire il suono della voce di Arré dallo studio. Quel mattino Arré aveva in programma una riunione con i suoi agrimensori per discutere un progetto di ampliamento di alcune strade. Dallo studio non giungeva alcun suono. Sbirciò allora nella sala grande. Elith era là,
intenta a spolverare mormorando tra sé, mentre passava lo strofinaccio sulle pareti. Era vecchia, Elith, grassa come un materasso di piume, e sorda per di più, ma un tempo era stata la cameriera personale della madre Arré Med e, da allora, aveva continuato a servire in quella casa. Sorren chiamò a voce alta: «Elith! Sai dov'è lei?» La donna si voltò lentamente. «In cucina». Sorren vi si diresse. Tutte le porte e le finestre erano aperte, schermate da reti per impedire alle mosche di entrare, ma la temperatura nell'ampia cucina era caldissima, più calda ancora dell'afa insopportabile del mercato. Arré stava lì, impegnata a discutere col cuoco. Si voltò non appena sentì Sorren entrare. «Ebbene? Cosa ti ha detto il pescivendolo?» Gocce di sudore scorsero sul labbro superiore della ragazza. «Il pescivendolo dice che non può mandarti il pesce persico ma, se vuoi, può servirti con delle buone passere,» risposte strofinandosi il labbro. «Le passere andranno bene». «È così che gli ho detto anch'io». «Come vuoi che le prepari?», le chiese il cuoco. «Non ha importanza, purché non siano troppo speziate. Marti non può mangiare carne piccante». Marti Hok era uno dei Consiglieri. Il pesce era difatti destinato al pranzo che si sarebbe tenuto in occasione dell'Assemblea del Consiglio. Il cuoco annuì e cominciò a chiamare i vari apprendisti cucinieri. Sorren rammentò il pericolo che aveva trascorso in cucina. Aveva detestato quella mansione. Una volta era persino svenuta suscitando il disgusto generale. Gli altri sguatteri l'avevano presa in giro per settimane a causa del suo terrore per il sangue, ma in realtà non era stata la vista del sangue a farle perdere i sensi, bensì il calore soffocante di quel luogo. Un caldo peggiore di quello che aveva sofferto nei vigneti. Probabilmente ad esso si era aggiunta la puzza; era molto sensibile ai cattivi odori, e nella cucina ve n'erano sempre troppi... Non c'era da meravigliarsi che i cuochi gettassero via tanta roba. Arré era vestita di bianco, e per contrasto la sua pelle bruna appariva ancora più scura di quanto lo fosse realmente. Il caldo le inanellava i capelli in piccoli riccioli; usava portarli corti quasi quanto quelli di Paxe, ma erano di una qualità diversa e striati da. sfumature grigie. Con un cenno del capo, invitò Sorren a seguirla. «Vieni,» le disse, ed uscì dalla cucina lastricata di piastrelle. Nell'aria più fresca del corridoio si accostarono entrambe ad una parete.
«Fa sempre più caldo ogni estate che passa,» osservò Arré. Raddrizzò quindi le spalle e sollevò gli occhi in un luccichio fulmineo. «Meno male che ci sei tu a fare la spesa e non devo farla io». Sorren sorrise all'idea di Arré Med, Consigliere di Kendra-sul-Delta e Capo della famiglia Med, impegnata a comprare passere giù alla darsena. «Cos'hai da sorridere?», la rimbrottò con stizza Arré. «Stavo pensando alla faccia sorpresa del pescivendolo». «Asciugati il viso!», le disse Arré. Si incamminò quindi lungo il corridoio. «E non ridere di me!» Non c'era da sbagliarsi: Arré era proprio di pessimo umore. Sorren si asciugò le labbra con una manica, e seguì la donna nella saletta. Il piccolo ambiente fungeva da studio e salotto; esposto a sud, di giorno le pareti risplendevano, inondate dal sole. Come nella sala grande, le pareti divisorie interne erano fatte di paraventi, mentre quella esterna, di legno, era tappezzata di arazzi di lana, tutti rossi e blu. I colori per la tintura delle lane provenivano dalle terre degli Asech, e non ve n'erano di più brillanti e durature. Il pavimento, anch'esso ligneo, non era ricoperto da stuoie. Il sole vi disegnava strie sfolgoranti. Le file di grano scintillavano. Arré prese posto sulla sua sedia ammorbidita dai cuscini, mentre Sorren rimaneva immobile presso la porta. La donna più anziana le rivolse un'occhiata. «Siediti», le ordinò, indicando lo sgabello posapiedi. «Devo parlarti». Obbediente, Sorren si mise a sedere. A destra della sedia la lacca rossa e nera del piano di un tavolo brillava sotto i raggi del sole. Appoggiato alla parete, un armadietto dalle ante di vetro mostrava uno scaffale ingombro di rotoli: erano i documenti contabili di Casa Med. Una volta al mese, il Clan Nero inviava uno scriba - non uno Scolaro, mai si sarebbero occupati di un'attività così mondana - col compito di correggere gli eventuali errori sotto gli occhi vigili di Arré. Questa non disponeva di un amministratore; le sembrava superfluo in una famiglia composta soltanto da lei e dalla servitù. Si occupava perciò personalmente di aggiornare i libri contabili. «Hai visto Isak?», chiese. Sorren annuì. «Ci siamo incontrati al cancello.» Il volto di Arré si fece teso, come lo diventava ogniqualvolta le capitava di nominare suo fratello. I braccialetti d'argento, due su ciascun braccio, tintinnarono, allorché adagiò le mani in grembo. Una gemma azzurra era incastonata nel bracciale più grande. «Cosa voleva?»
La bocca di Arré si storse in una smorfia. «Qualsiasi cosa gli riesca di ottenere». «Ma siamo nella stagione del raccolto! Dovrebbe trovarsi nei campi». «Sciocchezze. Myra amministra i vigneti meglio di quanto Isak sappia o voglia fare.» Myra era la moglie di Isak. «Ha chiesto il permesso di danzare per i Consiglieri». «Glielo hai dato?» Arré allargò le mani; erano grosse e sproporzionate in confronto all'esile corporatura, sgraziate, non belle da guardarsi. Isak, lui sì, aveva delle splendide mani. «È il miglior Danzatore della città: come potevo rifiutare?» Financo Arré riconosceva la straordinaria abilità che Isak mostrava nella Danza. Era il suo talento, la sua arte, così come l'amministrazione era l'arte di Arré, e forse la sua passione, o almeno una delle tante. Era stato iniziato alla Danza da Meredith di Shanan, che a sua volta aveva ricevuto l'alto insegnamento da Berenth di Shanan, istruito in precedenza da sua madre Jenézia di Shanan. E quest'ultima - ogni bambino della città lo sapeva aveva danzato con Kel di Elath. Isak aveva il diritto di indossare la shariza, la fascia rossa dei ceari, tuttavia, con una delicatezza maggiore di quella che era solito esibire, preferiva non portarla. Una volta Sorren gliene aveva domandato la ragione. «Gli antichi ceari venivano addestrati per diventare dei Guerriglieri,» era stata la risposta. «Io non lo sono». «Perché no?», aveva insistito lei. «La guerra è una pratica incivile, questo lo sai,» le aveva risposto. «È un mestiere rude che è meglio lasciare ai soldati. Oltretutto, portare lame è proibito a Kendra-sul-Delta». Nella Danza però, interpretava con maestria il ruolo del Guerriero. Sorren picchiettò con le mani sulle ginocchia. «Desidera che io suoni per lui?» «Si». «Ma non abbiamo avuto il tempo di provare». «Non importa. Suonerai qualche pezzo che conoscete tutti e due. Qualsiasi cosa andrà bene». Da quattro anni Sorren accompagnava la Danza di Isak con le sue percussioni. Il primo anno soltanto per piccole parti, ma l'anno successivo aveva suonato durante le più importanti Celebrazioni: per la Festa del Raccolto, la Festa di Primavera e la Festa della Fondazione della Città. «Forse...»
«Fa lo stesso. Non gli importa cosa danzerà, purché gli serva ad avvicinarlo all'Assemblea». Le ambizioni politiche di Isak ed il disprezzo che Arré nutriva per esse, non costituivano affatto un segreto in casa Med. Non è giusto, però, pensò Sorren. Isak teneva molto alla Danza. Lo aveva visto allenarsi per ore e ore, ansimante e grondante di sudore, resistere con tenacia là dove qualsiasi altro individuo meno disciplinato si sarebbe arrestato, risposato e quanto meno rinfrescato, versandosi un po' d'acqua sulla testa. I suoi muscoli le ricordavano quelli di Paxe, lisci e tesi, e come lei possedeva il pieno controllo dei suoi movimenti che però risultavano più ricchi di grazia. «A cosa pensi?», le domandò Arré. Sorren avvampò in volto. Non voleva dirle di Paxe; le sembrava scorretto. «A farmi bella,» mentì. Arré Med rise. «Non preoccuparti di questo,» le disse. Era piccola di corporatura, simile a Isak. Benché lo sgabello sul quale Sorren sedeva fosse più basso della sedia di Arré, quando la ragazza si drizzò, i loro occhi si trovarono alla stessa altezza. «Non hai bisogno di farti bella. La gente non può fare a meno di notarti così come sei». «È perché sono alta e pallida.» La ragazza guardò accigliata la sua pelle chiara. Esposta al sole più cocente rifiutava di scurirsi; al contrario, diventava sgradevolmente rossa. Si toccò i capelli, lunghi e del colore del grano. «Preferirei essere bruna, come Paxe.» «Esser bruni è di moda,» ammise Arré, «ma non rammaricarti mai per la tua statura. Noi gente piccola dobbiamo trovare altri mezzi per farci notare. Come Isak». E, di fatto, tutti notavano Isak. E nelle rare occasioni in cui ciò non si verificava, era lui a fare in modo di attirare l'attenzione su di sé. Era capace meglio d'ogni altro di far volgere il capo ad una folla di persone; tuttavia, la gente non mancava di notare anche sua sorella Arré. «Ti occorrerà qualche abito nuovo?», chiese Arré. «Cosa?» «Quando suonerai per Isak, all'Assemblea del Consiglio.» Arré picchiettò sul bracciolo della sedia. «Non distrarti, bambina». «Scusami,» sussurrò Sorren. Presente a se stessa, si fece scivolare dal polso il bracciale di monete e lo porse ad Arré. Le dita di questa contarono automaticamente i gusci di conchiglia avanzati. «No, ho vestiti a sufficienza». «Se vuoi qualcosa non hai che da chiederlo.» Arré sorrise con la malizia
d'un monello durante una rissa di strada. «Isak pagherà». Un colpetto leggero sul paravento la indusse a guardarsi intorno. Lalith era ferma sotto l'arco della porta: aveva tredici anni, la pelle bruna, ed era piccola e flessuosa. Arré l'aveva portata via dai vigneti così come aveva preso Sorren, ed ora lavorava ed abitava in casa sua. «Il cuoco mi ha mandato a portarti questa,» spiegò quindi, porgendole una scodella. «Bene,» approvò Arré, «portala qui! Cos'è?» Lalith gliela adagiò tra le mani. Vi erano delle bacche cosparse di panna dolce. Arré era notoriamente golosa di dolci. «Grazie, piccola». E poi è arrivata questa.» Lalith le porse una lettera. Sul sigillo di cera era disegnata una cresta. Arré ne strappò il lembo sigillato. Lesse il messaggio ed i suoi occhi scuri assunsero un'espressione arcigna. «Quando è arrivata?» «Proprio adesso. L'ha portata un servo.» Lalith spostò il peso del corpo sull'altro piede. «Bah!» Arré depose la lettera sul tavolo laccato. «È Boras Sul. Mi informa che è ammalato e non potrà partecipare all'Assemblea. Esprime il suo rammarico, saluta, e ringrazia la cara Arré.» Congedò Lalith con un cenno e sollevò la scodella di frutta. «Manderà suo figlio, che è più idiota di lui. Bah!» «Ma forse è ammalato davvero...», azzardò Sorren. «Forse si rimpinza troppo,» osservò Arré con disprezzo. Boras Sul era un grassone. Sorren fece scorrere un pollice lungo la superficie levigata del tavolo laccato. «Potrei scoprirlo». «Indagando tra i suoi servi?», disse Arré. Sorren annuì. «Non dartene pena. Serbati per cose più importanti. Avverti il cuoco che Boras non prenderà parte al pranzo. Ed ora va: non ho più bisogno di te». La lettera le aveva fatto tornare il malumore, e Sorren la lasciò sola a smaltirlo. Si recò in cucina a dar notizia al cuoco della defezione di Boras. Lo trovò impegnato a giocare a sassolini sul tagliere assieme a Kaleb, Capitano della Guardia Notturna, Vice-Comandante agli ordini di Paxe. La ragazza rimase qualche istante ad osservare il disegno delle pietruzze, quindi riferì al cuoco la notizia. L'uomo si strinse nelle spalle. «Lo avevo immaginato che quella lettera non annunziava nulla di buono», commentò. «Ecco perché ho preparato le bacche». «Non credo che siano servite a molto!», mugolò Sorren. «Peccato!», fece il cuoco. Kaleb fece avanzare una pedina di tre spazi e
quello aggrottò le ciglia. «Non appoggiarti al tavolo,» disse rivolgendosi a Sorren. In verità non si era affatto appoggiato al banco da taglio sul quale i due stavano giocando. Si domandò se Paxe avesse visto arrivare Isak. Lanciò uno sguardo a Kaleb. Anche questi, come lei, non era originario della città; Kaleb era un Asech dal colorito scuro e gli zigomi alti; piccole pietre colorate luccicavano ai lobi delle sue orecchie. «Il Maestro della Piazza è nella Piazza d'Armi?», domandò Sorren. L'uomo annuì senza sollevare gli occhi dal tavolo. Non appena fu uscita dalla casa, fu nuovamente assalita dal caldo. Attraversò lesta il cortile posteriore dove le piastrelle che lo lastricavano formavano un disegno diverso da quello che adornava il cortile anteriore. I vialetti erano fiancheggiati da filari di meli i cui frutti erano ancora acerbi. Sorren avanzò sotto i rami distesi, ricoperti di boccioli. Tutt'intorno le mattonelle erano cosparse di petali. Terminata la fila di alberi, Sorren si chinò a raccoglierne una manciata, dapprima tenendosi in equilibrio su di un piede, poi sull'altro. Ogni mattina Lalith ripuliva il cortile della coltre di petali, e puntualmente, tre ore dopo, le mattonelle tornavano ad essere rosa. Sorren si incamminò in direzione della Piazza D'Armi. Il cancello d'accesso si trovava dalla parte opposta, ma lei non aveva alcuna intenzione di entrarvi; non poteva farlo non essendo un soldato. Giunta che fu all'alta palizzata rossa, si issò su di essa e vi si sedette. Da quella postazione favorevole riusciva a vedere tutta la Piazza, dal cancello all'armeria. Una ventina di persone vi si stavano allenando, disposte in circolo intorno ad un piccolo nodo umano in movimento. Il centro di quel nodo era Paxe, attorniata da sei Guardie. Queste le si avventavano addosso a lei schivava l'assalto, si piegava e poi si volgeva atterrandoli senza difficoltà; fulminea, li superava di due passi per poi caricarli di scatto quando loro, affaticati, accennavano a rallentare. Paxe scorse Sorren appollaiata sulla palizzata; il candore dei suoi denti balenò in un sorriso, ma continuò la dimostrazione senza interrompere il passo. Infine si arrestò con un grido. «Yai» Le Guardie si avvicinarono per ascoltare. Le sue mani si muovevano mentre parlava. Come tutti gli altri indossava abiti da allenamento: la camicia di cotone e dei calzoni forniti di stringhe, una tenuta che rammentava a Sorren l'uniforme da allenamento indossata da Isak. Una volta gli aveva parlato di
quella somiglianza nell'abbigliamento, e lui le aveva spiegato che un tempo gli antichi ceari usavano vestirsi in quel modo, cosicché le Guardie cittadine conservavano quella tradizione pur ignorandone l'origine. «Esistono ancora dei veri ceari?», gli aveva chiesto. Probabilmente un altro uomo al posto suo si sarebbe sentito oltraggiato dall'allusione al fatto che lui non fosse un vero ceari. Ma Isak non si adirava mai e, del resto, era stato lui stesso a definirsi in quel modo. «Forse,» le aveva risposto. «Da qualche parte, su al nord. La leggenda narra che un discendente della dinastia di Van di Vanima viva ancora tra le Colline Rosse». A quelle parole Sorren era stata scossa da un fremito. Ricordava i racconti di sua madre a proposito della magica Valle di Vanima, ove nessuno si ammalava mai, né si pativano il freddo o la fame: la valle dell'eterna estate. «Esiste un posto simile?», aveva chiesto a Isak. Lui le aveva rivolto il sorriso sardonico che gli era proprio. «La leggenda dice di sì». «Ma tu non ci credi». «No,» aveva confermato scrollando la testa. Sorren conosceva la storia del Clan Rosso. L'aveva appresa dai raccoglitori nei vigneti allorché, nelle calde serate, si riunivano intorno ai falò. Una volta le Piazze d'Armi erano luoghi pubblici, dove i bambini andavano ad imparare l'arte del combattimento. Coloro che si dimostravano più forti, più sicuri di sé e più aggraziati nei movimenti, si dedicavano alla Danza. E quelli capaci di lottare e danzare ad un tempo, venivano chiamati ceari. I migliori costituivano piccoli gruppi uniti dall'amore, dal rispetto e dall'abilità. Ciascuno di questi gruppi assumeva il nome di ceara. Così riuniti, i ceari viaggiavano di villaggio in villaggio, di città in città, dalle steppe al mare e, ovunque danzavano, insegnavano l'arte delle armi e rapivano i cuori di coloro che li osservavano in tutta la terra di Arun, pervadendoli di perfetta armonia. Ma, col passare del tempo, Kendra-sul-Delta s'andava affollando sempre più, e ciò contrariava il Consiglio cittadino; ecco allora che questo bandì il porto di armi da taglio e l'insegnamento di esse all'interno delle porte della città. Il Consiglio delle Famiglie di Shanan adottò poco dopo il medesimo provvedimento. Infine, anche il Consiglio di Tezera approvò il Bando. I ceari, sgomenti di fronte all'abbandono di una così antica tradizione, si lamentarono presso il Tanjo. Il Consiglio dei Maghi si riunì allora per deliberare e, alla fine, il suo capo, il L'hel, si pronunziò.
Le cose cambiano, aveva detto, e il cea si manifesta nella pace. Il divieto imposto alle armi da taglio renderà pacifiche le città. Perciò, che i soldati combattano ed i ceari danzino. Non v'è più alcuna necessità che la gente delle città, ad eccezione delle Guardie, impari a combattere o ad usare le armi. Alcuni ceari, come Meredith di Shanan, misero da parte i loro pugnali, abbandonarono la Piazza d'Armi e, obbedienti al dettato dei Maghi, si dedicarono ad insegnare esclusivamente la Danza. Altri si unirono invece alla Guardia cittadina, e presero ad insegnare le arti della lancia, della mazza e della lotta corpo a corpo. Ciò era consentito dal Consiglio solamente alle Guardie. Tuttavia, la maggioranza dei ceari, increduli, offesi, ed avversi a cambiare, abbandonarono le città. «Dove andarono?», aveva chiesto Sorren ad Isak e successivamente a Paxe. Quell'antica storia l'affascinava e la incuriosiva. «Andarono ad ovest e a nord», le aveva risposto Isak, «alla ricerca, credo, della Valle di Vanima, dove il Clan Rosso aveva avuto origine». «Andarono ad ovest,» era stata la risposta di Paxe. «Sicché esiste ancora un Clan Rosso?» «Chiedilo a Isak Med,» le aveva consigliato Paxe. «Lui potrebbe indossare la shariza se volesse». E, a sua volta, Isak le aveva detto: «Chiedilo al Maestro della Piazza». Ma non bisognava forzare Paxe a parlare quando non ne aveva voglia. Sorren non glielo chiese una seconda volta. Invece immaginò da sé la risposta: No. Il Clan Rosso non esisteva più. Quest'idea la rattristava. Però, in fondo era vero: la città era pacifica. Le pattuglie di Guardie mantenevano l'ordine. Forse erano rimasti pochi vecchi ceari da qualche parte nell'Arun. Ma sembrava molto improbabile che un giorno si decidessero a spingersi entro i confini delle città. Sorren abbassò gli occhi sul terreno della Piazza d'Armi. La testa inclinata da una parte, le mani appoggiate sui fianchi, Paxe osservava gli allievi intenti ad allenarsi. Era alta, ampia di torace al pari delle sue Guardie: una figura grave e imponente. I suoi capelli, fittamente arricciolati, erano tagliati cortissimi. Sorren si mosse leggermente cambiando posizione sul suo punto d'osservazione. Il Maestro della Piazza la guardò, sorrise, ed accennò con la testa in direzione della sua abitazione, una villetta poco distante. Sorren contraccambiò il sorriso. Rivolte le gambe dall'altra parte della palizzata,
balzò giù. La villetta, dove Paxe abitava con suo figlio Ricard, si trovava nei pressi del lato orientale della Piazza d'Armi. La porta era aperta: Ricard era in casa. Ufficialmente abitava lì, ma di fatto dormiva raramente in quella casa, preferendo le abitazioni ed i covi dei suoi amici. Se ne stava accoccolato sulle stuoie inondato dalla luce solare. Aprì gli occhi non appena la figura di Sorren gli fece da schermo dalla luce che gli cadeva addosso. Si alzò lentamente. «Cosa ci fai qui?», le chiese. Sorren aveva voglia di ridergli in faccia e di dirgli di non fare lo stupido, ma Richard aveva soltanto quattordici anni e detestava che si ridesse di lui. Gli girò intorno. Là dove il corpo di Paxe era coperto di muscoli, quello di suo figlio era imbottito di grasso. Era perennemente imbronciato; se lei fosse stata una ragazzina altrettanto scontrosa tre anni prima, probabilmente Arré l'avrebbe rimandata nei vigneti in preda al disgusto. Entrò in cucina. Il gatto grigio di Paxe era appisolato sul ripiano piastrellato del focolare. Dischiuse un occhio - aveva solo quello, perché l'altro gli era stato accecato durante un combattimento l'anno prima - e le miagolò un saluto meravigliato. Sorren gli carezzò la soffice e folta pelliccia luccicante. La bestiola era in perfetta forma fisica, quanto la sua padrona. Con fievoli miagolii fece le fusa alle carezze della visitatrice. Poco distante, una pesca era adagiata su un vassoio abbellito da decorazioni floreali. Sorren la raccolse, ed il profumo del frutto le fece venire l'acquolina in bocca. L'addentò, avvertendo sulla lingua la lanugine della buccia. Era perfetta, dolce e matura. Intanto Ricard l'aveva seguita in cucina. «Quella non era destinata a te!», le disse con aria seccata ma non del tutto seria. «Ne vuoi un po'?», lo invitò Sorren, porgendogli il frutto. «No.» Il ragazzo si grattò il mento dal quale cominciavano a spuntare i primi accenni di barba. Aveva la pelle più chiara di quella di sua madre. «Ascolta, devo dirti una cosa». «Di' pure.» Sorren accarezzò il gatto e continuò a mangiare la pesca, pronta ad ascoltarlo. Ricard le raccontò una storia lunga e complicatissima che apparentemente riguardava un suo amico ed una ragazza. Sorren si domandò se davvero quello sbarbatello fosse convinto che lei avrebbe creduto all'invenzione dell'amico. Sul davanzale della finestra c'era una clessidra. Sorren la capovolse per osservare la sabbia versarsi lentamente da uno scomparto all'altro. Ricard si chinò su di lei. Avevano la stessa statura, il che significava che era alto
quasi quanto Paxe. Sorren lo scrutò. Le labbra di lui erano dischiuse. I suoi occhi, bassi, contemplavano il colletto aperto della camicia di lei. Entrambi persero contemporaneamente, il filo del racconto. Ricard mormorò qualcosa che Sorren non riuscì ad afferrare. Prima che la ragazza avesse il tempo di sbottare in un insulto, Ricard indietreggiò, fece dietro front, e si allontanò dalla stanza. Sorren udì il passo di Paxe. «Dove vai?» Ricard biascicò qualcosa. Seguì il fragore della porta sbattuta con violenza. «Sorren?» Leccandosi le punte delle dita, Sorren ripose sul vassoio il nocciolo sfilacciato della pesca. «Sono qui». Paxe entrò nella cucina. La sua camicia color panna era macchiata di sudore. «Quel Ricky», sospirò. «È uscito a spendere i miei soldi. Lo vedo soltanto quando ha bisogno di danaro. Non sa chiedermi altro». «È soltanto un ragazzino,» lo difese Sorren. Allargò le braccia e Paxe si offri all'abbraccio. Il suo corpo era ardente e coperto di polvere. «Non badare a ciò che fa.» Con delicatezza prese a carezzarle la nuca. Salirono di sopra, dirette verso l'enorme letto di Paxe, imbottito di piume d'oca. Sorridendo, Paxe si sfilò i vestiti e si sdraiò, in attesa che Sorren la raggiungesse. Avvinghiate, si rotolarono, amandosi e lottando ad un tempo. Aggrovigliate in un nodo d'amore, si carezzavano e si stuzzicavano a vicenda frementi di piacere. Il moto dei sensi fece avvampare la pelle di Sorren, ed essa adagiò la testa sulla coscia di Paxe. Nella mano raccolse il pube della sua amante e sentì crescere l'impulso del piacere. Lo sentì crescere, e crescere ancora, finché si smorzò lentamente. La lingua corse sulle labbra, assaporando Paxe. Le dita di questa si allungarono fino a raggiungerla per trarla a sé. «Vieni qui!» Sorren si tirò su fino a trovarsi distesa accanto alla sua amante, la testa adagiata sul cuscino. Le piaceva il modo in cui i loro corpi combaciavano, come un oggetto e la sua ombra. Paxe si voltò dalla sua parte. Con la mano destra sfiorò il seno di Sorren. «Io lo so perché ti amo,» le disse. «Sei l'unica donna da queste parti che si avvicini alla mia altezza». Fuori della villetta una voce di donna cominciò a cantare. «Alla luce del
sole dobbiamo separarci, amore mio; alla luce delle stelle possiamo sorridere. La luna brilla nel cielo, amore mio. Oh, lasciami rimanere un po'...» Sorren si unì al canto. «Canta hei e ho per gli amanti, canta hei per il sole che tramonta, canta hei per la fanciulla che mi fa sorridere quando la mietitura è finita!» Sospirando, Paxe inarcò il lungo corpo e, sovrastando quello di Sorren, prese a muoversi sinuosamente. «Non sai cantare, piccola.» Chinò la testa, le loro labbra si congiunsero e le lingue si incontrarono. Quando le due bocche si staccarono, Sorren replicò: «Lo so. È per questo che suono i tamburi.» Si dimenò sotto il corpo dell'amante. «Lasciami alzare». «Perché?» «Devo tornare a casa». Il viso di Paxe si atteggiò ad una smorfia. «Non ho scelta.» Rotolò da una parte, Sedutasi, Sorren allungò un braccio verso i vestiti. Si era appena infilata i pantaloni, quando la visione dei monti le invase la coscienza. Era un uccello (ma privo di forma e di peso) libratosi in volo sulla steppa. Annusò il profumo dell'aria del nord, pulita, rarefatta ed asciutta come un osso, ne assaporò l'essenza, la senti che le riempiva i polmoni. Il sole era caldo. Le colline si ergevano sotto di lei, marroni, verdi e bianche. Quel bianco erano i greggi di pecore che brucavano l'erba placidamente sotto lo sguardo vigile di fanciulle munite di bastoni. Un fiume, azzurro, come un nastro di stoffa solcava una valle. Oltre il fiume si innalzavano le montagne. E, incuneata tra esse, la guglia grigia di una torre svettava nel cielo. Sorren ritornò al presente per trovare Paxe seduta accanto a lei, con la fronte corrugata. Sollevò il palmo verso la guancia bruna dell'amata. «Sono qui». Paxe sospirò. «Dove sei stata stavolta?» «Dove vado sempre,» rispose Sorren. «Sulle montagne.» Aveva tredici anni la prima volta che era stata posseduta da quella visione. L'aveva colta mentre si trovava a bordo del carro che l'aveva portata via dai vigneti, col magro lascito delle poche cose di sua madre raccolto in grembo. Quell'esperienza l'aveva lasciata troppo stordita per spaventarla. Ma, quando le visioni erano continuate, aveva fatto un po' di domande in giro ed aveva scoperto che il potere di raggiungere luoghi lontani con la mente aveva un nome. Si chiamava teletrasporto a distanza e, coloro che ne erano dotati, venivano nominati automaticamente membri del Clan
Bianco, col conseguente obbligo di abbandonare qualsiasi attività o condizione ed andare a vivere nel Tanjo per servire il cea... Il titolo di Mago costituiva un'altissima onorificenza ed implicava un compito di grande importanza. Ma Sorren non lo voleva. I Maghi la spaventavano. Ostinata nel suo silenzio, aveva tenuto per sé il suo talento. L'unica persona della quale si fidava al punto di rivelarle il suo segreto era Paxe. «Dovresti andare al Tanjo,» le aveva detto questa quando Sorren le aveva parlato del suo potere. «Non voglio,» aveva protestato la ragazza, e Paxe ne aveva rispettato la volontà. Arré non avrebbe mai accettato la sua decisione, di questo Sorren ne era più che sicura; la sua padrona aveva una considerazione troppo alta del talento per riuscire a concepire l'idea che qualcuno potesse non desiderarlo. «Forse un giorno potresti sentire il bisogno di andarci,» aveva osservato Paxe. Sorren aveva annuito, ma in cuor suo ne dubitava. I Maghi vivevano nel Tanjo e parlavano soltanto tra loro. Per Sorren, abituata al movimentato andirivieni dei mercati, quel luogo appariva troppo angusto e rigoroso, e la vita che offriva, troppo limitata. Oltretutto era improbabile che l'avrebbero ammessa al Tanjo; in fondo non vedeva che un unico luogo: le montagne, solo e sempre le montagne. Le vedeva in primavera, quando il fiume azzurro saltellava lungo le pendici dei colli, agile come una lepre selvatica; le appariva in estate, e in autunno, quando la pioggia trasformava le valli in acquitrini; le vedeva in inverno. Era invariabilmente l'identico scenario: i campi, il fiume ed il castello con la sua unica, alta torre, luccicante di ghiaccio in inverno. Quel posto esisteva per davvero, Sorren ne era certa. A volte si avvicinava alla torre all'imbrunire, fino a scorgere una luce che si irradiava attraverso i vetri ambrati delle finestre. Aveva descritto tutto ciò a Paxe, ma il Maestro della Piazza non conosceva un luogo simile. Un giorno, pensava Sorren, quando sarò padrona del mio tempo, scoprirò dove si trova, e ci andrò. Ma sua madre l'aveva vincolata alla Famiglia Med per i tradizionali otto anni, ed il giorno della sua libertà sarebbe spuntato solo dopo un altro lungo anno. «Stamattina è venuto Isak,» disse Sorren. «Ah, sì?» Anche Paxe recuperò i suoi indumenti. «E cosa voleva?»
«Vuole danzare per il Consiglio, quando si riunirà in Assemblea». Paxe si infilò la camicia dalla testa. «Arré ha acconsentito, naturalmente.» Sorren annuì. «Mi domando cos'abbia in mente». Il suo tono era pensieroso. «Perché dovrebbe avere qualcosa in mente?», replicò Sorren, accarezzando la coscia di Paxe solcata da una lunga cicatrice. E, per l'ennesima volta, si chiese come se la fosse procurata. Riteneva che si trattasse della ferita di una lancia. «Perché la odia,» spiegò Paxe. «Ricordo quando Shana, la madre di Arré, era viva, ed insegnava a sua figlia a governare il Distretto. Allora Isak odiava anche lei». Dalla Piazza d'Armi si udì la voce di Dis, il Vice-Comandante della Guardia Diurna, gridare ordini alle sentinelle. Paxe si raddrizzò. «Devo andare, chelito. Ci vediamo più tardi.» Accostò le labbra ai capelli di Sorren e ve le tenne un istante; quindi si alzò, ed i suoi denti scintillarono nel volto bruno e austero. Scese di sotto. Sorren rimase seduta in silenzio, ad ascoltare i suoi passi. La camera da letto di Paxe somigliava alla sua amante: era pulita e bella. Non vi erano stuoie a rivestire il pavimento, e le pareti di legno rosso erano prive d'arazzi. Sorren cominciò ad intrecciarsi i capelli, ma poi rammentò di non avere nulla per legarli. Li lasciò dunque sciolti, e scese anche lei dabbasso. Uscì dal villino e si incamminò lungo il recinto della Piazza d'Armi, diretta alla casa dei Med. Poco distante trovò Ricard ad attenderla. Il ragazzo le si accostò goffamente e Sorren sorrise tra sé. Aspettò che le dicesse qualcosa, ma Ricard taceva, limitandosi ad aggrottare le ciglia. La cosa finì col seccarla. «Volevi finire di raccontarmi quella storia?», sbottò. Ricard la guardò con risentimento. «No». All'interno del piazzale, Paxe stava dando istruzioni; la sua voce echeggiava tra le assi della staccionata. «Cosa le hai detto?» «Detto a chi?» «A mia madre». Sorren si grattò la punta del naso. «Di te, niente». L'espressione di Ricard si fece, se possibile, più cupa del solito. Tuttavia riuscì a biascicare un «Grazie». Sorren si chiese come mai restasse nella città se la cosa lo disturbava tanto. «Ricard,» gli disse, «hai mai desiderato di andar via da qui? Di viaggiare?»
La fissò sbigottito come se d'un tratto si fosse messa a parlare in Asech. «Cosa cambierebbe?», replicò. Sorren non seppe interpretare il significato di quella risposta. Ricard si allontanò camminando sulle piastrelle del cortile. Aveva sentito Arré e Paxe discutere animatamente a proposito della sua persona. Arré reputava giusto che Paxe lo mandasse a nord, nei vigneti. «Myra lo farà lavorare,» aveva detto. Sorren era d'accordo. Ma Paxe non ne voleva sapere. Forse, pensò Sorren, Ricard sarebbe stato meno scontroso se avesse avuto dei fratelli o delle sorelle. Prima di lui Paxe aveva avuto altri due figli, ma erano morti entrambi. Sorren entrò nella villa passando dalla porta della cucina. Il cuoco se n'era andato. Gli apprendisti se ne stavano accoccolati tutti assieme con aria da cospiratori. Avvertì allora l'odore, dolce e inequivocabile, dell'Erba dell'Estasi. Si accostò al gruppo, ed i fumatori le passarono la pipa; aspirò lentamente l'aspro fumo narcotico. Porse quindi la pipa a Lalith. Di mano in mano l'oggetto compì il giro dei fumatori per tornare nuovamente a lei. L'agitò con delicatezza per smuovere le scaglie ed aspirare un'ultima volta. Salì di sopra silenziosamente. La sua stanza era ubicata nella zona posteriore della casa, vicina abbastanza a quella di Arré, affinché potesse udire il campanello che la padrona suonava per chiamarla. Per raggiungerla, doveva passare dinanzi alla stanza di Arré e, se la porta di questa era chiusa, ciò significava che la padrona non intendeva essere disturbata. Sorren sperò di non trovarla aperta. L'Erba dell'Estasi la rendeva ipercosciente del suo corpo. Scivolò piano sul tappeto decorato del corridoio del piano superiore. La porta di Arré era aperta, ma solo di uno spiraglio. Giunta nella sua stanza, Sorren trasse i tamburi dal cesto ove li teneva riposti. Erano di legno, e la parte superiore era fatta di pelle di daino. Aveva cominciato a suonare quand'era nei vigneti, percuotendo i tronchi cavi che i raccoglitori procuravano durante la Festa del Raccolto. Infilò i tamburi tra le ginocchia. Sulla pelle di quello di sinistra vi era un punto particolarmente consumato. Se avesse colto Isak in un momento favorevole, sarebbe forse riuscita a farsene comprare uno nuovo, il che avrebbe fatto piacere ad Arré. Picchiettò leggermente sulle pelli dei tamburi, Pah-pah-pah-dum-pah. Si chiese in quale Danza Isak si sarebbe esibito dinanzi ai Consiglieri. Certamente un pezzo lento e intrigante, ricco di sottili mutamenti nel ritmo; non le Danze vertiginose che offriva alle folle durante le feste popolari.
Pah-pah-pah-dum-pah. L'Erba dell'Estasi le impediva di concentrarsi. Le dita le pizzicavano. Le piaceva quell'erba, e le piaceva fumarla specialmente in compagnia di Paxe (sebbene questa lo facesse assai di rado), e dopo fare l'amore. Pah-dum-pah-pah. I muscoli le si muovevano sotto la pelle. Sentiva la fragile struttura del bracciale da schiava che portava alto sul braccio sinistro. Era d'ottone, decorato da triangoli smaltati di colore azzurro e scarlatto. Doverlo indossare non la disturbava; la vita che conduceva in qualità di schiava, era assai meno dura di quella alla quale era stata destinata, la vita di una raccoglitrice, di un'emigrante. In quella stanza erano poche le cose che le appartenevano effettivamente. I tamburi erano suoi: glieli aveva regalati Isak in un momento di generosità. Per usanza, anche gli abiti che indossava erano di sua proprietà. Così pure le cose custodite nella cassa di legno di cedro: la spazzola, il pettine, lo specchio di bronzo, la catenina d'oro ed i sandali. Le Carte erano sue. Le teneva riposte in una cassettina di legno infilata sotto il guanciale. Erano molto vecchie - non sapeva di preciso quanto - e i disegni che recavano, servivano a leggere nel futuro della gente, a predirne la sorte. Erano appartenute a sua madre. Ce ne erano ventidue, tutte numerate e diverse l'una dall'altra; a seconda dell'immagine che raffiguravano, Sorren aveva dato loro dei nomi. La ragazza aveva imparato a leggere i numeri quand'era ai vigneti, e le teneva racchiuse nella cassetta, ordinate secondo la sequenza numerica ed avvolte in una pezzuola di seta rossa. Una sola Carta non recava numero: il Danzatore. Le sue dita picchiettavano sulle pelli dei tamburi. Predire la sorte era contrario ai principi del cea, come dicevano al Tanjo. Ma quel divieto non turbava Sorren: di fatto non sapeva usare quelle Carte, né rammentava se sua madre ne fosse stata capace. Come le sarebbe piaciuto ricordare tutte le storie che le raccontava sua madre! Vi avrebbe certo trovato la spiegazione che chiariva la provenienza delle Carte, nonché il mondo in cui si utilizzavano. Forse vi avrebbe persino trovato una spiegazione alle sue visioni. Una volta aveva pensato di mostrare le Carte ad Arré ma, se lo avesse fatto, avrebbe potuto trovarsi costretta a rivelarle il suo talento, cosa che Arré non avrebbe esitato a riferire ai Maghi. Ed allora l'avrebbero obbligata a lasciare la casa dei Med per andare a vivere nel Tanjo a servire il cea, isolata da tutti i suoi amici, e specialmente da Paxe. E poi, avrebbe dovuto rinunziare definitivamente alle sue montagne. Tutto ciò sarebbe stato terribile. Le dita intanto danzavano sui tamburi.
Pah-pah-pah, pah-pah-PAH. Avrebbe odiato quella vita; sarebbe certo fuggita. Capitolo secondo La giornata di Paxe ebbe inizio allo spuntar dell'alba. Furono gli uccelli a destarla, e poi i primi lucori del giorno che filtravano dalla finestra orientale. Dalla villa dei Med si udiva il tramestio e l'andirivieni di Toh, apprendista di cucina, alle prese con la pulizia della fornace situata accanto all'abitazione. Ripulitala delle ceneri, vi attizzò un nuovo fuoco, ed il profumo di pino e d'abete aleggiò nell'aria trasportato dal vento. La brezza, umida e salmastra, soffiava da sud. Paxe si stiracchiò; i suoi tendini scricchiolarono e le giunture schioccarono. Reggendosi sui gomiti, sollevò la testa e tese l'orecchio verso la camera di sotto, ma non udì nulla. Ricard non aveva dormito a casa; non che si aspettasse di trovarcelo: nelle rare occasioni in cui decideva di usare la sua abitazione, l'ambiente si riempiva del fumo dell'Erba dell'Estasi, e certamente ne avrebbe avvertito l'odore intenso. Inoltre, se fosse entrato in casa, ne avrebbe sentito il passo barcollante. Si alzò e si vestì. Ormai era abituata a levarsi di buon'ora, visto che lo aveva fatto per tutta l'estate. I tre Comandanti dei Med - Paxe, Kaleb e Ivor - si alternavano a rotazione in quattro turni di guardia che cessavano al cambio di stagione. La Guardia Diurna iniziava all'alba per terminare a metà pomeriggio; il secondo turno andava dal pomeriggio a mezzanotte, e quello notturno da mezzanotte all'alba. Gli orari effettivi erano tuttavia alquanto elastici, adeguandosi alla variabilità delle stagioni. Il turno di notte era quello più imprevedibile, mentre quello diurno era certamente il più impegnativo dei tre, ed al momento era quello il servizio assegnato a Paxe. Kaleb la stava aspettando presso il cancello della Piazza d'Armi. «Buongiorno!», la salutò. «Buongiorno!», rispose lei, sorridendo. Si conoscevano molto bene. Era stato suo Vice per sette anni, ed era suo amico da sedici. Dopo la morte delle figlie durante la pestilenza, Shana Med, madre di Arré, le aveva dato il permesso di abbandonare il suo incarico nei vigneti e di viaggiare. Paxe era partita alla volta di Shanan per dirigersi poi all'Asilo di Tor, un piccolo villaggio situato nella propaggine più meridionale delle Colline Rosse, oltre il territorio Asech.
Vi si era fermata due anni e, durante il viaggio di ritorno, aveva conosciuto Kaleb. Questi l'aveva seguita a Kendra-sul-Delta e si era arruolato nella Guardia Cittadina dei Med grazie alla sua raccomandazione. Con ogni probabilità era lui il padre di Ricard. «Com'è trascorsa la notte?», gli domandò Paxe. Kaleb si appoggiò al recinto della Piazza. «Tutto tranquillo nel Distretto. Ai bacini, però, c'è stata una rissa; sono intervenute le Guardie dei Jalar». Il lavoro alla darsena era noioso ed estenuante, e talvolta gli scaricatori ed i pescatori si azzuffavano soltanto per sfogo. «Qualche ferito?» «Non esattamente. Poche teste ammaccate; le Guardie dei Jalar hanno dovuto usare le impugnature delle lance». Non era una cosa insolita. «Chi ha cominciato?», chiese Paxe. «Non lo so; ma, stando alle chiacchiere, ci doveva essere di mezzo Col Ismenin». Kaleb non le avrebbe riferito la notizia se non fosse stato certo della sua attendibilità. «Non è la prima volta che se ne sente parlare,» commentò la donna. I fratelli Ismenin erano notoriamente degli attaccabrighe. Osservò Kaleb dalla testa ai piedi: aveva i vestiti incrostati di polvere. Era più giovane di lei di tre anni, ma striature grigie gli brizzolavano già i capelli. Per nessuna ragione al mondo le avrebbe detto d'essere stanco. «Va' a letto,» gli disse Paxe. «Vado». Lo guardò allontanarsi dalla Piazza d'Armi; Ricard non gli somigliava. Si chiese dove suo figlio avesse trascorso la notte. Per metà della giornata se ne andava gironzolando per la città a spendere il suo danaro e a fumare erba... Aveva quindici anni e, a quella stessa età, lei era incinta. Forse era giunto il momento di ammettere che Ricard non era più un bambino. Cominciò gli esercizi di ginnastica. In piedi al centro del piazzale ampio e silenzioso, tese il busto compiendo un movimento circolare verso nord, sud, est ed ovest. Tese i muscoli nello stesso modo in cui i soldati tendevano le armi, levigandoli e lubrificandoli. Il suo corpo era ancora snello e sodo come lo era stato quando aveva l'età di Sorren, solo che adesso doveva faticare per conservarlo così in forma. «Buongiorno, Maestro, della Piazza!» Un gruppetto di Guardie varcò il cancello della Piazza. Accennò a gesti un saluto. «Hai saputo della rissa di stanotte?» A parlare era stato Seth; gli piaceva battersi. «Sì, l'ho saputo,» confermò
Paxe. «Vi hai preso parte anche tu?» La faccia color cioccolato si illuminò in un sorriso. «Oh, no. Ero a casa a dormire». «Ma guarda!», commentò Paxe. Seth si mostrò smarrito. «Risparmiami quell'aria innocente. Ti conosco bene!» Due volte aveva dovuto punirlo per essersi battuto nella Piazza d'Armi. Il soldato protese le mani coi palmi all'insù: era l'immagine stessa dell'innocenza. Paxe si strinse nelle spalle. Il gruppetto si avviò al capanno dov'erano depositate le armi e, durante il breve percorso, i soldati si stuzzicarono l'un l'altro dandosi gomitate nei fianchi e prendendo in giro Seth. Paxe si staccò da loro. Solitamente a quell'ora compiva un giro di perlustrazione. Si avviò verso la Porta del Distretto. Di tutti i Distretti della città, quello dei Med aveva la conformazione più irregolare. Somigliava difatti ad uno stivale con l'apertura rivolta a sud, l'alluce ad est ed il tallone a nord-ovest. Paxe lo chiamava «Distretto dei Med» ma, nel fondo del suo animo, lo considerava suo: il suo territorio, il suo regno, la sua fetta di città. Si fermò alla Casa dei Viaggiatori in Via della Sorgente per mangiare qualcosa. Gli avventori del luogo la salutarono suscitando la curiosità dei viaggiatori di passaggio (ai quali i pasti erano forniti gratuitamente) che la guardavano chiedendosi chi fosse. Attraversò quindi il Mercato del Vino stuzzicandosi i denti strada facendo per ripulirli dei pezzetti di salsiccia che vi si erano infilati. Imboccata la Via degli Orafi, si arrestò dinanzi ad una bottega. Il bottegaio le sorrise ed esibì le sue sgargianti mercanzie. «Maestro Paxe, a cosa debbo questo piacere? C'è forse qualcosa che ti piace? Non hai che da dirmelo». Paxe posò gli occhi sui costosi gingilli. Una volta, diversi anni prima, aveva comprato un bracciale per Arré proprio in quella bottega. «Mi piace tutto quello che hai, Tian, ma non sono qui per acquistare. Riporta dentro questa roba prima che i ladri diventino irrequieti!», gli consigliò, indicando i preziosi. «Con te qui vicino? Non oserebbero mai.» Ma, ciò detto, riportò i mobili nella bottega. Paxe s'incamminò verso sud, diretta al posto di guardia presso il Tanjo. La sentinella dei Med, una donna di nome Orilys, si chinò dinanzi a lei con le mani giunte in segno di saluto. Quattro Distretti circondavano il Tanjo: quello dei Med, dei Minto, degli Isara e dei Sul, e tutti e quattro vi tenevano una postazione di guardia.
«Com'è la situazione qui?», si informò Paxe. Orilys lanciò un'occhiata alla cupola del Tanjo. Oltre il cancello, l'ampio vialetto bianco scintillava sotto i raggi del sole. Vicino all'ingresso un uomo stava spazzando il pavimento già ben pulito. Un uccello rosso sfiorò le loro teste, sfrecciando verso il suo nido. Una colonia di quei piccoli volatili abitava nelle fessure dell'edificio. «Tutto tranquillo,» rispose Orilys. «Come sempre». Il traffico alla Porta Nord-Occidentale scorreva regolarmente. Paxe si fermò ad osservare. Le Guardie di turno si mostrarono un po' seccate dal suo sguardo insistente, e Paxe sorrise, intuendo di averli interrotti nel mezzo della consueta partita a dadi. L'avrebbero continuata non appena lei si fosse allontanata. Un corriere giunse alla Porta; era una donna vestita di verde, e le Guardie impedirono il passaggio ad un carro affinché lei passasse per prima. Paxe si domandò donde venisse e quale fosse il suo messaggio. Non doveva essere urgente; in tal caso la Messaggera avrebbe montato un cavallo. Questo era uno dei privilegi di cui godevano i membri del Clan Verde; potevano circolare a cavallo all'interno della città. Un nugolo di bambini le sciamarono intorno quando uscì dalla Porta. «Maestro della Piazza!», gridavano, e lei distribuì pacche affettuose a tutti quelli che riuscì a raggiungere; al più grande consegnò una moneta di bronzo con l'ordine di comprare pere per tutti. I ragazzini corsero via scansando i carri che continuavano ad entrare nel Distretto. Durante il cammino di ritorno verso la collina, Paxe attraversò la Via dell'Olio. Era così chiamata perché un tempo era fiancheggiata da file di alberi di choba carichi dei gialli baccelli dai quali veniva estratto l'olio. Alla fine del viale esisteva ancora un vecchio frantoio. Ma gli alberi erano stati sfruttati eccessivamente finché avevano cessato di produrre i baccelli ed erano stati abbattuti alcuni anni addietro. Il frantoio era ormai abbandonato. Le abitazioni erano vecchie e pericolanti. Uomini dagli sguardi arcigni e donne accigliate, la guardarono passare, ed i monelli cenciosi rannicchiati sull'acciottolato non le corsero incontro chiamandola a gran voce. Una capra gironzolava libera per la strada. Il rumore dei passi di Paxe pareva riecheggiare sul selciato arido e solcato da crepe e, sopra ogni cosa, stagnava l'odore dolciastro e pungente dell'Erba dell'Estasi. Erano pochi gli orti nei quali cresceva ancora il granturco; la maggior parte di essi erano secchi, e le piante avvizzite ed ormai prive di vita. Per un forestiero non era il luogo ideale dove fare quattro
passi. Paxe si chiese come sarebbero andate le cose se gli alberi di choba avessero continuato a produrre frutti. Purtroppo in città erano rimasti pochissimi di quegli alberi, perché buona parte erano stati abbattuti per lasciare spazio alle abitazioni. L'olio di choba proveniva adesso dai frutteti di Shirasai. Insegne a brandelli penzolavano sulla sua testa da costruzioni disabitate che un tempo erano state prospere botteghe. Gatti ridotti pelle ed ossa frugavano tra i cumuli di rifiuti. Tutta quella desolazione la intristì, e disse a se stessa che ogni Distretto doveva avere una sua Via dell'Olio. Quella del suo Distretto non era peggiore delle altre. Si avvicinò alla Piazza d'Armi dalla parte posteriore. Costeggiando l'alto steccato rosso, sentì odore di Erba dell'Estasi. Immaginò che alcune delle Guardie che non erano in servizio si fossero intrattenute a fumare. Sperò che si trattasse di quelle fuori turno e non delle Guardie impegnate nel servizio di sorveglianza: aveva proibito rigorosamente ai suoi soldati di fumare e di bere durante il turno. La Piazza d'Armi doveva essere vuota, giacché non si udiva alcun grido od incitamento di persone impegnate ad allenarsi. Raggiunse il cancello a passi silenziosi. La Guardia non era al suo posto. Paxe aggrottò le ciglia. La Piazza d'Armi, però, non era affatto vuota: un gruppetto di persone erano radunate in un angolo della palizzata. Non riuscì a scorgere cosa stessero facendo, ma le sembrò che stessero guardando qualcosa. Evrith, la Guardia di servizio al cancello, faceva parte del gruppo. Sentì la collera crescere dentro di sé. Se stavano fumando nella Piazza, li avrebbe scuoiati vivi! Attraversò decisa il cancello. D'un tratto una delle Guardie - si trattava di Seth - si fece da un lato e sollevò in aria entrambe di Seth - sì fece da un lato e sollevò in aria entrambe le mani. Paxe distinse l'oggetto che stavano osservando e, di colpo, i muscoli le si contrassero per lo sbigottimento: gli occhi di tutti erano rivolti al bagliore del sole estivo che come acqua si rifletteva sulla dura lama scintillante di una spada sguainata. Sulle prime le Guardie non si accorsero della sua presenza. Ma, quando la videro avvicinarsi, parvero come paralizzate. Paxe allungò la mano destra. «Dammela!», ordinò. In silenzio, Seth depose l'elsa nel suo palmo e lei vi avvolse intorno le due mani. Era di bronzo, con una decorazione in
rilievo che rendeva il metallo consunto più facile da impugnare. Automaticamente il suo corpo ritrovò la memoria della posizione offensiva: mosse in avanti il piede destro e fece oscillare la lama. Aveva imparato ad usare quell'arma durante il suo soggiorno all'Asilo di Tor. Gliel'aveva insegnato Tyré, che si vantava d'essersi allenato con Doménia, ultimo discendente di Van di Vanima. La spada oscillò ancora, sibillando nel fendere l'aria. Le Guardie la guardavano come se non l'avessero mai vista prima d'allora. «Non sapevate che so usarla?», disse. «Dove l'avete presa?» Evrith fece per parlare, ma Seth lo interruppe con una gomitata. «È mia!», affermò. «L'ho comprata dal figlio di un fabbro». «E lui, come l'ha avuta?» «Se l'è fatta da sé,» rispose Seth con disinvoltura. Paxe lanciò una rapidissima occhiata alla lama ad un solo taglio. Era più corta di quella che Tyré le aveva insegnato ad usare, ma sembrava altrettanto vecchia. «Dov'è il fodero?» Seth lo raccolse dal terreno. Paxe tese la mano, e lui glielo consegnò. Era di cuoio, un cuoio vecchio ed incrinato da numerose crepe. Paxe aggrottò le ciglia. Quella spada appariva troppo usata e troppo ben fatta per essere opera dell'ambizioso figlio d'un fabbro. Nuovamente Evrith fu sul punto d'intervenire, ma Seth lo precedette gridandogli con ferocia: «Tappati la bocca!» Paxe lo trafisse con lo sguardo. Mente, pensò. Con insolenza l'uomo sostenne il suo sguardo, e di nuovo lei si sentì assalire dalla collera. Inguainò la spada e si chinò per deporla sul terreno. Poi si drizzò di scatto, schizzando ritta e tesa come la corda d'un arco. Afferrò col pugno sinistro il collo della camicia di Seth e prese a scuotere il soldato fino a fargli roteare gli occhi. Quando ebbe cessato di scrollarlo, lo schiaffeggiò con violenza. «Questo è per aver mentito. Dove l'hai presa?» Attese una risposta e, quando Seth fu sul punto di parlare, lo colpì nuovamente, e fortissimo. Le lacrime appannarono gli occhi dell'uomo ed un nome gli sortì infine dalle labbra. «Lyrith!» «A quale Corpo di Guardia appartiene?», domandò Paxe. «A quello degli Ismenin,» mormorò Seth divincolandosi. Paxe mollò la presa.
Raccolse nuovamente la spada. «Ci terreste a dover giustificare di fronte ai membri del Tanjo il possesso di un'arma da taglio?», disse Paxe. Il volto di Seth si fece cinereo. Tutti gli altri scrollarono la testa. «Allora vi consiglio di dimenticare d'aver mai visto o toccato questa.» Sollevò in alto la spada. «Sì, Maestro della Piazza,» assicurò Evrith. Paxe si accinse ad allontanarsi, ed i soldati si fecero prontamente da parte. Uscì dalla Piazza d'Armi e, nel costeggiare la palizzata, sentì ancora intenso nell'aria l'odore dell'Erba dell'Estasi. In effetti l'increscioso incidente era durato pochissimo. Portò la spada a casa sua e la depose al piano di sopra, vicino al letto. Ma la vista di quell'arma la inquietava. E se poi Ricky fosse salito lassù ed avesse visto la spada lì per terra? Tornò di sotto e si diresse alla cassapanca di legno di cedro. Ne sollevò il coperchio e vi ripose la spada, ben nascosta tra le coperte trapuntate che vi erano custodite. Naturalmente avrebbe dovuto parlarne ad Arré, e questa avrebbe voluto sapere come fosse finita tra le sue mani, donde proveniva e chi era il fabbro che l'aveva forgiata. Allora la tirò fuori di nuovo e separò la lama dell'elsa nel mondo che le era stato insegnato da Tyré. Scoprì delle rune che indicavano il nome di colui che l'aveva fabbricata. Si soffermò sugli strani caratteri tentando d'interpretarli, ma si vide costretta a rinunziare. Sotto il nome vi era inciso un emblema raffigurante un pesciolino il cui significato le fu subito chiaro. La spada proveniva dal nord, da Tezera, ed era molto vecchia. La ruggine ne striava il metallo. Doveva esser stata forgiata prima dell'emanazione del Bando. La ricompose. Quel metallo, seppur scolorito, recava in sé il pericolo; un pericolo originato dalla sua stessa natura tagliente, nonché dal significato di cui era espressione. Quella spada era ni'cea. Le armi dotate di lame infrangevano - secondo i Maghi - quell'armonia che univa le genti nella pace e rendeva prospera la terra di Arun: per questo era proibito possederle od usarle nella città. Il divieto non era totale, ma le eccezioni erano chiare e note persino ai più piccini tra i monelli che giocavano nelle vie cittadine. Tutto ciò - Paxe ne era cosciente - non faceva altro che rendere la spada ancora più affascinante. In una nicchia nella parete campeggiava l'immagine del Guardiano. Raramente Paxe la guardava; essa era parte della sua vita, così come lo era il suo passato. Era costruita in pietra rossa, una rarità a Kendra sul Delta: quasi tutte le statue della città erano fatte d'argilla ed erano bianche. La sua le era stata regalata da Kaleb. Gli Asech rispettavano i simboli con estrema
serietà. Erano ben dieci anni che Kaleb non tornava nel deserto, eppure portava ancora l'emblema del Clan dei Disertori; lo portava sotto la camicia, dove nessuno poteva scorgerlo. Paxe osservò la faccia stilizzata interrogandosi sul da farsi. Secondo la legge avrebbe dovuto consegnare la spada ai Maghi del Tanjo denunziando Seth come suo possessore. Si chiese quali conseguenze avrebbe patito Seth se lo avesse tradito. Rischiava d'essere bandito dalla città, frustato, multato o peggio. L'ultimo trasgressore del Bando era stato punito con l'amputazione della mano destra. Aggrottando le ciglia, Paxe nascose nuovamente l'arma nella cassa. Ciò fatto, si alzò ed uscì di casa. Prima di rivelare la cosa ad alcuno, fossero i Maghi od Arré, voleva conoscere con esattezza la provenienza di quella spada. Discese la collina diretta in Via della Primavera, e da lì, piegando a est, s'incamminò verso il fiume, in direzione del Distretto che recava il nome degli Ismenin e che da questi era controllato. La casa degli Ismenin era costruita in pietra e torreggiava su un'ampia e ripida scogliera, volgendo le spalle al fiume. Era stata edificata di recente. La residenza originale della famiglia Ismenin era, come le altre ville cittadine, di cipresso rosso, quel pregevole legno che possedeva la caratteristica di assumere toni argentei col passare del tempo. Era stato Rath Ismenin, il nonno di Ron Ismenin, ad ordinare che la villa fosse ricostruita in pietra. Nell'Anno del Consiglio 93, si era recato a Tezera per discutere degli effetti del Bando sul commercio. Aveva così visitato le più importanti famiglie della città e, per la prima volta aveva attraversato dei saloni di marmo. Tornato a sud aveva ordinato che la casa degli Ismenin fosse rasa al suolo e, sotto gli occhi strabiliati dei vicini, si era fatto costruire una casa di granito bianco avvalendosi di architetti e muratori fatti giungere da Tezera. La strada nella quale era situata la villa recava il nome di Vicolo di Rath, in linea col senso dell'ironia caratteristico della città. Non distante vi era la Piazza d'Armi che, come quella dei Med, era cinta da una staccionata e non era pavimentata, bensì ricoperta di terra battuta. Paxe vi si diresse a passo spedito. Un soldato montava di guardia fuori dell'alto cancello di ferro. «Buongiorno,» lo salutò. «Vorrei vedere Dobrin, il Maestro della Piazza.» Dobrin ricopriva quella carica al servizio degli Ismenin da quindici anni. Era bru-
no e piccolo di corporatura, più vecchio di Paxe. Si conoscevano, seppur superficialmente. Ma, del resto a Kendra-sul-Delta tutti i Maestri della Piazza si conoscevano tra loro. «Mi dispiace,» le rispose il soldato. «Il Maestro della Piazza è impegnato nell'addestramento». Paxe arretrò di qualche passo per guardarlo bene in volto. Era giovane, e dei baffetti ridicoli campeggiavano sul labbro superiore; sembrava un bruco. «Io sono Paxe,» disse lei. «Sono Maestro della Piazza d'Armi dei Med.» Ciò doveva bastare a far cambiare idea alla sentinella, cosicché avanzò nuovamente. La regola imponeva che la lasciassero entrare. Leccandosi le labbra asciutte, il giovane le sbarrò il passo tenendo la lancia davanti al cancello. Nappe grigie e dorate penzolavano dalla punta dell'arma. «Mi dispiace, Maestro della Piazza,» ripeté. «È vietato entrare nella Piazza d'Armi a chiunque non indossi i colori degli Ismenin». Per Paxe era una novità assoluta. «Chi lo ha ordinato?» «Ron Ismenin». La donna scrutò il soldato dalla testa ai piedi valutando con lo sguardo la forza dell'avversario. E intanto il giovane stillava sudore. Tutti e due sapevano quanto sarebbe stato facile per Paxe liberarsi di quell'ostacolo. Il Maestro della Piazza sollevò il capo nell'udire il fracasso delle armi di legno che cozzavano l'una contro l'altra, ed i numeri urlati a piena voce attraverso il cancello: «Uno... e due... e tre... e quattro!» «Di' al Maestro Dobrin che sono qui e desidero parlargli». I gabbiani volavano in circolo sulla sua testa con striduli garriti beffardi. C'erano sempre i gabbiani presso il fiume. Con le mani poggiate sui fianchi, Paxe arretrò di qualche passo per dare modo al soldato di prendere una decisione. Se avesse rifiutato di trasmettere il suo messaggio a Dobrin, allora lo avrebbe convinto con la forza. Il giovane inghiottì. «Scusami, Maestro della Piazza,» disse. Tirò il catenaccio e si infilò attraverso la porta. Paxe lo udì richiuderla dall'altra parte. Fissò il cancello sforzandosi di mantenere la calma. La guardia fu di ritorno subito dopo. Sentì il catenaccio scivolare ed aspettò di vederlo uscire, ed invece il giovane aprì la porta affinché lei vi entrasse. «Scusami,» ripeté. Paxe lo guardò nello stesso modo in cui avrebbe guardato uno dei suoi soldati. «Ci sono macchie di ruggine sulla punta della tua lancia». Nel recinto della Piazza d'Armi i soldati degli Ismenin erano disposti in due righe poste una di fronte all'altra, formando così una fila di coppie.
Erano armati di spade di legno. Paxe rimase in silenzio a guardarli mentre facevano oscillare su e giù le spade che non abbassavano al di sotto della cintola dell'avversario. La presenza della sentinella al cancello d'ingresso non poteva non avere un significato preciso. Un ragazzino le passò accanto barcollando con un secchio tra le mani. Lo poggiò a terra e cominciò a gettare acqua sulla polvere che si alzava dal suolo. La fila di spade si inarcò verso l'alto. I soldati fingevano di non averla notata. Uno tra loro attrasse la sua attenzione: era alto, di carnagione chiara, aveva i capelli di un castano rossiccio e, anziché indossare i consueti abiti di cotone, portava indumenti di seta. Un anello d'oro gli cingeva il dito medio della mano destra.. Paxe si domandò chi fosse. Nella Piazza d'Armi dei Med, nessuno portava anelli; neppure lei. L'uomo si accorse del suo sguardo e, sorridendole, innalzò l'arma per poi repentinamente abbassarla in un netto fendente. Il corpo rigido rimase immobile; non un tremito scosse le mani ferme. «Uno... e due... e tre... e quattro!» Una voce di donna segnava la cadenza dei colpi. Paxe osservò il soldato dai capelli rossi e concluse che con ogni probabilità doveva trattarsi di uno dei giovani fratelli Ismenin. Si guardò intorno, ma non scorse da nessuna parte lame di metallo. Attese e, dopo un po', apparve Dobrin. I suoi abiti grigi di cotone erano macchiati di sudore. I baffi erano più bianchi di quanto ricordasse ma, a parte ciò, l'uomo si presentò con l'aspetto di sempre. «Benvenuta!», la salutò. «Ti ringrazio per avermi permesso di entrare nella tua Piazza d'Armi,» replicò lei. Dobrin assunse un'espressione seria, aggrottando le ciglia brizzolate. «Non avrebbero dovuto farti aspettare. Il divieto non riguarda la tua persona». Le ombre delle spade di legno danzavano nella polvere. «Vorrei parlarti in privato, Dobrin». «A proposito di che cosa?» Paxe lo guardò mentre era intento ad osservare i suoi soldati con volto impassibile. Ne ammirò la compostezza. «Di una delle tue guardie,» rispose. «Si chiama Lyrith». Dobrin la condusse alla sua abitazione. La casa era persino più spoglia della sua. L'uomo non si era mai sposato e forse questa ne era la spiegazione; semmai aveva avuto dei figli, questi erano rimasti in casa della loro
madre. Nella stanza anteriore non c'erano sedie, ma soltanto cuscini, ed un tavolo basso sul quale era deposto un vaso di rame che ospitava un rametto di boccinoli di rosa. Non c'erano rivestimenti sulle pareti né sul pavimento. Paxe si sedette su di un cuscino. Dobrin andò in cucina e ne ritornò recando dapprima una brocca colma d'acqua, ed una seconda volta con un piatto di fetuch ed una ciotola laccata ricolma di sale. Entrambi cosparsero di sale i verdi gambi croccanti e li mangiarono. Dividere il cibo aveva un piacevole sapore rituale. Una bianca effigie d'argilla del Guardiano campeggiava in una nicchia incassata nella parete orientale della stanza. Sotto di essa, su di una mensola, vi era un altro rametto di fiori. Quando ebbero mangiato tutti i fetuch, Dobrin riportò il piatto e la ciotola di sale in cucina. Ritornato, si sedette anche lui su di un cuscino e incrociò le mani in grembo. «Era da tanto che non mangiavamo insieme,» osservò. La bocca di Paxe si storse in una smorfia. Sei gambi di fetuch! «Ora capisco come fai a mantenerti così snello!», esclamò. Dobrin sorrise. «Desideravi parlarmi di Lyrith,» suggerì. «Sì,» confermò Paxe. Dalla finestra dell'abitazione di Dobrin poteva ancora udire la voce di donna che contava la cadenza dei colpi nella Piazza d'Armi. Era seduta di fronte alla effigie del Guardiano e non gradiva quella posizione; le pareva che l'immagine la scrutasse e leggesse i suoi pensieri prim'ancora che parlasse, così come sapevano fare alcuni dei Maghi del Tanjo. «Stamattina ho fatto il mio solito giro di ronda e, quando sono ritornata alla Piazza d'Armi, ho sorpreso uno dei miei uomini con una spada. Con la lama di metallo. Gli ho ordinato di consegnarmela e gli ho chiesto dove l'avesse presa. Mi ha confessato di averla comprata o ricevuta in regalo da Lyrith, una delle Guardie di questo Distretto». «Capisco!», commentò Dobrin impassibile. «Era contrassegnata da un marchio?» «Vi è inciso l'emblema del pesce». Dobrin serrò i pugni per un istante. Si alzò e si recò alla porta; apertala gridò: «Gavrienna!», e la sua voce, tagliente come la lama d'un coltello, interruppe la sequenza dei numeri. La donna smise di contare e, in un istante, fu alla porta di Dobrin. «Sì, Maestro della Piazza?» «Porta qui Lyrith,» ordinò Dobrin con severità. La donna gli rivolse un inchino e sparì. Paxe la sentì gridare.
Ritornò poco dopo in compagnia di un giovane dalla pelle scura. Dobrin riprese posto sui cuscini e fece cenno al soldato di entrare. «Paxe-noTamaris, Maestro della Piazza di Arré Med,» disse indicando Paxe. «Lei vieni qui nella nostra Piazza con una grave accusa. Lyrith, conosci una Guardia dei Med di nome...» Dobrin guardò Paxe interrogativamente. «Seth,» suggerì lei. Il giovane si morse il labbro inferiore. «Sì, Maestro della Piazza». «Hai dato o venduto a costui una spada tezerana?» Lyrith abbassò gli occhi a terra. Gavrienna lo scrollò. «Rispondi in fretta!» «Sì, Maestro della Piazza,» ammise Lyrith. «Dove l'hai presa?» Lyrith inghiottì sonoramente. «Mio cugino è un mercante, Maestro della Piazza. Quando noi... quando cominciammo ad allenarci con le spade di legno, gli chiesi di portarmene una. E lui me ne portò due. Seth frequenta mia sorella: le ha viste in casa e ne ha voluta una. Così gliel'ho data». «Ciò non di meno, quando abbiamo iniziato l'addestramento, sei stato avvertito che il possesso di lame metalliche è proibito». «Sì, Maestro della Piazza». Dobrin si protese verso di lui. «Ti è stato proibito di possedere una spada,» disse. «Ti è stato proibito anche di parlare del nostro addestramento. Se al Tanjo si venisse a sapere che a casa tua c'è una spada, ti rendi conto di quello che potrebbe accaderti? Potresti essere bandito, mutilato di una mano, d'un braccio! E invece tu chiedi ad un mercante di procurarti una spada, come se non mi avessi mai sentito quando vi ho detto: Non vi è permesso di possedere una lama. Sai cosa potrebbero farti i Maghi per questo?» Dobrin non aveva alzato la voce, ma Lyrith era cinereo e madido di sudore. «Sì, Maestro della Piazza». «Sei uno stupido!» «Sì, Maestro della Piazza». «Non mi prenderò il fastidio di riferire tutto a Ron Ismenin. Domani mi porterai la spada che hai a casa. E oggi, a mezzodì, sarai al posto di guardia. Gavrienna, dieci colpi, e voglio che tutti i soldati della Piazza d'Armi assistano». Il Comandante della Guardia annuì. «Uscite adesso!» «Andiamo, idiota!», disse Gavrienna, e lo tirò fuori dall'abitazione. Paxe guardò per un istante il volto del giovane; era quasi in lacrime. Non sapeva, però, se fossero lacrime di vergogna o di sollievo.
«Sei soddisfatta?», le chiese Dobrin, incrociando nuovamente le mani. Paxe rimase in silenzio. La conta riprese. (Uno... e due... e tre... e quattro). «No,» disse infine. «Non sono soddisfatta. Dobrin, perché stai addestrando i soldati ad usare la spada quando si sa che è proibito adoperarla in città?» «Perché io sono il Maestro della Piazza,» rispose Dobrin. «Ed eseguo gli ordini della Casa che servo». «Anche se ciò significa trasgredire il Bando?» Dobrin si protese verso di lei. «Io non lo trasgredisco». «Perché non usi lame di metallo? Non fare il furbo con me: non sono un magistrato. Tu stai trasgredendo consapevolmente il Bando. Lo sai benissimo, ed anche Ron Ismenin lo sa. Per quale altro motivo, dunque, hai ordinato alle tue Guardie di tacere sul loro addestramento? E per quale altra ragione il tuo Signore avrebbe piazzato una sentinella al cancello della Piazza d'Armi per tenerne fuori gli estranei?» «Io sto insegnando il komy, Paxe, e cioè l'uso della spada corta». «Cea, e che differenza fa la parola con cui chiami le tue spade?» «Conosci le parole esatte del Bando?», le chiese Dobrin. «No,» ammise Paxe. «Non l'ho letto. Ma so cosa dice, e lo sai anche tu». «È scritto nella vecchia lingua. Io non la conosco, ma me lo sono fatto tradurre. Vi sono elencate le armi proibite nella città. Nella vecchia lingua vi sono due parole che designano quella che conosciamo per "spada": una indica la lama lunga, l'altra una lama corta dotata di un solo taglio. Il Bando non menziona mai questa seconda arma». La spada che aveva tolto a Seth aveva la lama corta e ad un solo taglio. «Mi stai forse dicendo che i principi espressi dal Bando non si estendono alle spade a lama corta?» Dobrin scrollò la testa. «Non potrei dire una cosa del genere. Ma ti sto semplicemente dicendo che le parole del Bando non contemplano le spade a lama corta». Paxe cominciava ad accusare mal di gola. «Dobrin, né io né tu siamo Scolari. Noi siamo Maestri della Piazza d'Armi. Il Giuramento che abbiamo prestato ci obbliga a difendere la legge e, se trasgrediamo lo spirito del Bando, trasgrediamo la legge... e non solo quella. Trasgrediamo anche il cea». «Ah,» borbottò Dobrin. «Davvero?» Si protese verso di lei con un'espressione improvvisamente carica di veemenza. «Io non la penso così,
Paxe. No: Stammi a sentirei Fin dall'infanzia, a noi gente di città viene insegnato a rispettare i Maghi con grande deferenza, a credere che i loro poteri li avvicinino alla conoscenza più di ogni altro. «Ciò che ci insegnano a dimenticare è che essi sono dei semplici uomini e donne, come te e me. Qualunque sia il talento di cui sono dotati, restano esseri umani, ed io non credo affatto che sappiano più di te o di me, o di chiunque altro, della legge, della verità o del cea. E non solo, Paxe. Io non sono più tanto sicuro che il cea esiga che noi facciamo una tale cosa all'interno delle Porte cittadine ed un'altra - opposta - al di fuori di esse. Fuori della città la gente può portare ed usare armi da taglio, mentre dentro la città non può farlo, ed i Maghi affermano che sia il cea a volerlo. «Eppure, il segno della presenza del cea è la prosperità unita alla concordia tra i popoli, e guarda: fuori delle mura cittadine non regna la discordia. Sono passati cento anni dalle ultime guerre! Se il bando è tanto necessario a mantenere la pace nella terra di Arun, perché senza di esso il paese è riuscito lo stesso a prosperare?» Dobrin batté i pugni sul tavolo per conferire maggior enfasi alle sue parole. Paxe lo aveva sempre ritenuto un uomo taciturno e quella improvvisa loquacità non mancò di sorprenderla. Quella era la prima ed unica volta in cui lo aveva udito pronunziare un vero e proprio discorso. Per un attimo la sua mente corse a ritroso nel tempo sulle Colline Rosse, all'Asilo di Tor, a Tyré. Il vecchio ceari aveva accolto con astio il divieto del Bando. «Non ha senso,» aveva commentato. «Può forse esistere un cea per le città ed un altro per le terre di Galbareth?» Adesso era morto; era spirato tra le sue braccia, ucciso dal morso di una vipera, letale al punto da non lasciarle neppure il tempo di chiamare la Guaritrice distante tre città. Quella morte aveva spezzato il cuore di Paxe per l'ennesima volta. «Sicché tu credi che il Bando...» «Sia opera di esseri umani,» finì Dobrin. «Fatto dai Maghi. Immagino fossero convinti di avere delle ottime ragioni per redigerlo allora; ma il mondo cambia». («Uno... e due... e tre... e quattro!») Il volto del Guardiano sorrideva sereno dall'altra parte della stanza. Paxe sentiva la bocca secca. «Dovrò informare Arré Med del fatto che stai addestrando le tue Guardie ad usare la spada corta, Dobrin». «Lo so,» rispose questi, «Ripensa a ciò che ti ho detto sul cea, Paxe». La donna sfregò con le dita la cicatrice che le solcava la coscia. Riusciva
a sentirla sotto la stoffa ruvida dei calzoni. Era stato Tyré a procurargliela nel corso di un allenamento. «Stanne certo!», rispose lei. «Lo farò!» Capitolo terzo Il Consiglio delle Famiglie di Kendra-sul-Delta si riunì nella residenza di Arré Med. Ciò accadeva per la terza volta dall'inizio dell'anno. L'assemblea ebbe luogo la quinta sera della terza settimana dell'ultimo mese d'estate, nel 146° anno dalla Fondazione del Consiglio. Erano cinque le Famiglie a possedere dei seggi nel Consiglio. In passato erano tre, e potevano aumentare fino a sette od a nove. Il numero doveva essere dispari per evitare inutili risultati di parità nelle votazioni. Alle riunioni presenziavano i Capi delle Famiglie o i loro delegati, e le sedute si tenevano a rotazione di casa in casa secondo uno schema prestabilito. Arré Med sedeva a capotavola, dirimpetto alla porta a due ante della lunga sala; postazione consona al suo ruolo di padrona di casa. Sfoggiava abiti nuovi confezionati per l'occasione: una sottana ed una tunica di seta azzurra e argentina. Senza troppa attenzione, ascoltava Boras Sul, che aveva cambiato idea all'ultimo momento partecipando alla riunione, mentre piluccava dal dessert. L'uomo stava descrivendo una zuppiera d'oro che uno dei suoi mercanti gli aveva portato da Tezera. Era vestito di rosso, il che lo faceva apparire ancora più grasso e volgare di quanto già non fosse. Per l'ennesima volta Arré lo giudicò un idiota avido e noioso. Il pranzo era iniziato presto e si era protratto per due ore: Arré aveva tenuto d'occhio la candela situata nell'apposita nicchia. Lische di pesce erano ammucchiate sulla tavola. Sorren stava in piedi presso la porta: Si era occupata della direzione del pranzo, nello stesso modo in cui il capo di una compagnia itinerante dirige lo spettacolo dei suoi acrobati e giocolieri, ed aveva fatto un buon lavoro. Il Consiglio si riuniva ufficialmente alla fine del pranzo. Sicché Arré fece segno a Sorren affinché disponesse per ripulire la tavola di piatti e vassoi. Quando la ragazza si chinò a toglierle il piatto, Arré le chiese sottovoce: «La scriba è qui?» Sorren annuì. «Ha detto: "Per favore non fatemi rimanere in piedi nella sala, perché le ginocchia mi dolgono"». Arré ridacchiò. Da quindici armi la scriba era una vecchia irascibile di nome Azulith-no-Alis. «Falle portare una sedia».
«L'ho già fatto». «Bene.» Arré lasciò che Sorren le prendesse il piatto. «E mio fratello?» «È arrivato poco fa». «Dove lo hai sistemato?» «Nella stanzetta lontana dalla sala». «Ottimo. Quando lasceremo la tavola, porta i bicchieri e due fiaschi di vino del nord.» Sorren chinò la testa in segno d'omaggio. «Arré, mia cara, ci hai offerto un banchetto superbo!», si complimentò Boras, appoggiandosi comodamente allo schienale della sedia che emise un cigolio. Una mano solcò l'aria per poi adagiarsi delicatamente sul suo stomaco. «Il tuo cuoco merita un elogio». «Non mancherò di trasmetterglielo,» disse Arré. «Mi domando...», Boras esitò, come chi sia sul punto di commettere un'indiscrezione..., «se non ti dispiaccia passarmi la ricetta delle passere». «Dirò al mio cuoco di copiarla e la farò mandare alle tue cucine,» promise Arré, rivolgendo un sorriso di gratitudine al fantasma di sua madre Shana dalla quale aveva imparato che la gente è più docile da trattare quando ha la pancia piena. «La tavola dei Med è sempre stata eccellente,» affermò Boras, esprimendo il suo amore per la cucina con la massima sincerità. «Grazie!» rispose Arré. Il collo cominciava a dolerle per i numerosi inchini imposti dal galateo, ed era al tempo stesso turbata dalla consapevolezza della presenza di Isak, in attesa poco lontano da lì. Era stanca. Il giorno precedente (e quello prima, ed ancora tre giorni prima di quello) era stata impegnata con i suoi agrimensori decisi a scavar fossi per tutto il Distretto, eccitati come bambini dinanzi ad un mucchio di fango, ed ostinati a ignorare la sua richiesta di presentarsi a lei con un progetto sistematico dell'ampliamento stradale che intendevano effettuare. Quel giorno stesso si era recata al Tribunale Distrettuale sgattaiolando inosservata nel retro dell'edificio per ascoltare i Giudici. Quanto desiderava dormire! Ma, naturalmente, sperare che la riunione si concludesse presto era troppo. Lei non aveva alcunché di nuovo da dichiarare al Consiglio, ma ciò non valeva anche per tutti gli altri. Lanciò un'occhiata all'altro capo della tavola; vi sedeva Marti Hok, come le spettava di diritto essendo la più anziana tra i Consiglieri. Era anche colei con la quale Arré Med più sovente si alleava quando si passava ai voti. Accanto a lei, sulla destra di Arré, sedeva Kim Batto, sul cui capo chino e glabro si rifletteva la luce delle lampade. Kim era un tipo metico-
loso e sovente ostruzionista, ma la sua famiglia possedeva forti legami col Clan Bianco e per tale ragione era ritenuto un personaggio importante e pericoloso al tempo stesso. Al suo fianco, vicino ad Arré, sedeva Cha Minto, e di fronte ai due uomini stava Boras. Cha Minto alzò gli occhi dalla superficie del tavolo che fino ad allora aveva contemplato con aria assorta. «Grazie per il pranzo, Arré,» disse. Era il più giovane dei Consiglieri e, di solito, non faceva che snocciolare pettegolezzi, futilità e chiacchiere a non finire su questa o quella Famiglia. Arré si domandò cosa mai lo rendesse così taciturno. «Non c'è di che!», gli rispose. «Stasera sei molto silenzioso». «Mi dispiace». «Nessuno ha detto che devi parlare,» sbuffò Arré. «Potrei sempre parlare del cibo,» ribatté lui, con lo sguardo puntato su Boras. Arré gli sorrise. «Non disturbarti.» Poi, sottovoce, aggiunse: «Ci pensa già abbastanza Boras; quello lì parla per due». La battuta di Arré intendeva suscitare il riso, ma il Consigliere si limitò a sorridere con indifferenza, abbassando lo sguardo sulle sue mani. Arré lasciò perdere. Dal canto suo, Marti Hok stava sorridendo, quasi avesse percepito l'impazienza di Arré. Sembra un ragno grasso, pensò la padrona di casa. Con quel pensiero non aveva alcuna intenzione di insultare l'anziana collega; quella stessa immagine la associava alla sua persona: si vedeva nella forma di un agile insetto piccolo e scuro, un esserino insignificante... finché non ti morde. Marti Hok, il Consigliere più vecchio, picchiò sul pavimento col bastone la cui impugnatura d'argento recava incisa l'effigie d'una fenice. «Vogliamo cominciare?», invitò. «Cominciamo,» approvò Kim. Arré annuì ed invitò con un gesto la più anziana della compagnia, ad alzarsi per prima. All'altra estremità della sala un gruppo di sedie li attendevano presso il camino. Naturalmente la griglia era vuota, ma non mancava l'occorrente per far ardere un bel fuoco: le molle, l'esca, l'acciarino, ed una catasta di rami stagionati di betulla. La mensola della cappa era stata incerata di recente, ed il legno di quercia emanava luccichii sericei. Pronte per essere accese, vi erano poggiate due lampade dal paralume di materiale impermeabile. Nel vano concavo del camino campeggiava un alto vaso laccato di rosso, ricolmo di gigli azzurri. I Consiglieri presero posto e Sorren entrò recando un vassoio sul quale
erano poggiati bicchieri e brocche di vino secco ed ambrato. Ne offri quindi un bicchiere a ciascun Consigliere. Un cigolio rivelò ad Arré che la tavola appena lasciata era stata spostata ed accostata alla parete sì da far spazio alle Danze di Isak. Azulith fece il suo ingresso in sala e prese posto sullo sgabello sistemato per lei alla sinistra di Arré. «Buona sera,» salutò con voce allegra. Boras finse di non averla udita; Kim fissò il vuoto. Marti sorrise. «Buona sera, Azulith. Come vanno le tue ginocchia?» «Terribilmente. È l'umidità che me le fa dolere, mia Signora». Azulith posò in grembo la cassetta coi rotoli di pergamena e ne estrasse il pennello ed i recipienti contenti l'inchiostro. «Lo so,» convenne Marti. «Anche a me dolgono». «Vogliamo cominciare?», tagliò corto Kim. «Sacro cea!», esclamò Marti, e poi, addolcendo la voce: «Perché tanta fretta?» Kim serrò le labbra. Per prevenire una sua replica, Arré ordinò: «Sorren, chiudi le porte!» E Sorren eseguì, richiudendo la porta a due ante. Arré portò il bicchiere di vino bianco alla labbra. Le piaceva la fragranza del buon vino sebbene raramente ne bevesse più d'un bicchiere. Il vino la insonnoliva, e berne troppo la faceva star male. Sorren compì il giro della stanza e raggiunse il focolare, accendendo le due chobata poste sulla cappa. Il bagliore della fiamma si diffuse tenue attraverso i paralumi di porcellana dipinti. Arré depose il bicchiere sul tavolino che Sorren aveva sistemato a quello scopo accanto a lei. «Qualcuno ha qualcosa da dichiarare?», esordì. Queste parole davano ufficialmente inizio all'Assemblea del Consiglio. Kim Batto incrociò le gambe sotto la veste nera e scarlatta. «Io,» affermò. Arré incrociò le mani in grembo. La Famiglia Batto e quella dei Med avevano alle spalle una lunga storia di rivalità iniziata ben duecento anni addietro, ancor prima della fondazione del Consiglio. Ewain Med, Capitano della Guardia Cittadina ed erede dei Med, era stato ucciso da Raven Batto, figlio maggiore della stirpe dei Batto. Questi era stato bandito dalla città che aveva abbandonato in compagnia di Maranth Med, prima erede della famiglia Med, la quale lo aveva seguito per suo espresso desiderio suscitando la disperazione dei suoi congiunti. Per anni e anni dopo la loro scomparsa, i racconti dei loro viaggi nel-
l'Anhard o sulle Colline Rosse, avevano circolato nella terra di Arun tuttavia, non avendo mai più fatto ritorno a Kendra-sul-Delta, nessuno aveva mai conosciuto con certezza le mete delle loro peregrinazioni. Le due Famiglie avevano litigato e combattuto,' accusandosi reciprocamente della colpevolezza di quella tragedia, e l'ostilità era perdurata fino a quando Lerril Hok non si era adoperato per la riconciliazione una sessantina d'anni dopo la morte di Ewain Med. Da allora, la Famiglia Hok aveva guadagnato la fama di riappacificatrice, rama che non aveva mai più perduto. «Il Consiglio è pronto ad ascoltarti,» esortò Arré. La scriba alzò il pennello. I Consiglieri, compreso Boras Sul, si protesero leggermente in avanti scostandosi appena dagli schienali imbottiti. Arré sentì una scintilla di eccitazione scuoterle i nervi. «Si tratta del commercio dell'Erba dell'Estasi. Le mie Guardie mi hanno riferito che ultimamente c'è stato un grosso incremento nella compravendita dell'Erba, specie tra la gioventù Asech». La Famiglia Batto deteneva il controllo dei traffici con gli Asech, i cui mercanti vendevano spezie, monili, vasellame e tinture a tutti i mercati cittadini. In cambio di queste mercanzie ricevevano stoffe, Erba dell'Estasi, biada per i cavalli, metalli, e articoli in cuoio. Gli Asech continuavano a considerarsi gente del deserto, ma in numero sempre maggiore si trasferivano nella città, o andavano a lavorare nei vigneti e nelle piantagioni di cotone. Erano così diventati una classe di lavoratori a buon mercato, bene accolti in tempo di prosperità, guardati con sospetto in tempo di siccità e miseria. «Dobbiamo considerarla come una lamentela?», intervenne Arré. «Esatto!», confermò Kim. «Ma non tassate gli scambi commerciali?», chiese Marti Hok. «È naturale che li tassiamo,» rispose Kim in tono brusco. «Ciò vuol dire che un aumento della domanda non fa che portarvi una maggiore quantità di danaro. Non vedo perché ti lamenti». Kim appariva infastidito. «Marti, ci sono cose più importanti dei soldi. Non è questo il punto. Hai notato gli effetti che l'Erba dell'Estasi produce sui tuoi servi, sugli operai dei bacini, persino sui soldati? Ebbene, il fumo li rende litigiosi e pigri. Non hanno più voglia di lavorare. Non fanno altro che gironzolare e fumare tutto il giorno, e di notte si azzuffano e fanno guai». Marti prese la parola. «L'Erba dell'Estasi non rende gli uomini pigri, Kim. Nel caso non te ne fossi accorto, quelli sono pigri. Inoltre devo ri-
sponderti di no, non posso dire di aver notato questi effetti tra i miei soldati. Del resto i miei non fumano quando sono in servizio. I tuoi lo fanno?» «No, naturalmente!», sbottò Kim. «È facile dire che ci sono cose più importanti dei soldi se non te ne sono mai mancati,» commentò Azulith. «Sta zitta, Azulith!», la riprese Arré automaticamente. «Marti, sii seria». «Lo sono,» si difese Marti. «Intendi forse porre dei limiti al commercio, Kim?» Questi si accigliò. «Beh, no, non dico questo. Ritengo piuttosto che dei controlli più rigorosi potrebbero sortire benefici effetti. Per esempio, potrei cominciare con l'elevare le imposte sulle licenze di vendita. I mercanti in grado di farvi fronte diminuirebbero, e il mercato potrebbe cadere». «Il Clan Blu non lo gradirebbe,» disse Marti, «oltretutto un aumento delle imposte incoraggerebbe la gente ad acquistare da mercanti sprovvisti di licenza. Non credo che tu vorresti una cosa simile». «No,» rispose Kim. «Certo che no.» Appoggiò le spalle allo schienale. «Cha, qual è il tuo parere a proposito del commercio d'Erba?», chiese Arré. Il giovane Consigliere la guardò con aria assente. «Prego?», disse automaticamente. «Ero distratto. Ad ogni modo sono sicuro che Kim farà ciò che è più giusto». Kim apparve dibattuto tra il compiacimento per l'elogio del giovane ed il risentimento per la sua disattenzione. «Qualcuno vuole aggiungere qualcosa su questo argomento?», chiese Arré. Nessuno profferì parola. Boras Sul tossi fragorosamente. «Io ho qualcosa da dichiarare». Marti Hok trasse un sospiro. «Il Consiglio ti ascolta,» lo invitò Arré. Boras voleva parlare della moneta di scambio. Sin dal trentaquattresimo anno dalla fondazione del Consiglio, Kedra-sul-Delta aveva adottato i bonta, pezzi di conchiglia lucidati, per comprare e vendere in luogo dell'oro e dell'argento. I saggiatori erano collocati vicino a tutte e otto le Porte della città, muniti di pesi, misure e bilance. I mercanti ed i viaggiatori che intendevano entrare nella città, consegnavano loro le monete di metallo e ricevevano bracciali di bonta; all'uscita, l'equivalente in moneta metallica, calcolando una percentuale da pagare alla città. La Famiglia Sul conferiva la licenza ai saggiatori, e controllava il lavoro
degli artigiani che intagliavano ed incidevano i gusci perlacei dei molluschi dai quali venivano tratti i bonta. Questi venivano tagliati in cinque misure. I più piccoli possedevano un valore più scarso. I cittadini usavano chiamarli «ossi». Il più piccolo in assoluto era soprannominato da alcuni «ossicino dei desideri», da altri pesciolino. Gli altri pezzi erano noti come il due, il tre, il quattro ed il cinque, detto anche largo. Le accurate operazioni di misura e pesa delle valute metalliche erano di importanza vitale per la città; quando in tutti i territori riconosciuti a monte del fiume si riuscì a incidere una cresta su un pezzo di rame coniando così una moneta, la produzione di bonta a Kendra-sul-Delta agì come forza stabilizzatrice dell'economia di Arun. «Ma successivamente - spiegò Boras - le tavole dei saggiatori erano state invase da monete di bronzo. Come gettare ciottoli nelle bilance! A questo punto basta prendere un pezzo d'argilla, incidervi un marchio e si può dire d'aver coniato una moneta». E lui ha proprio la faccia come una moneta di bronzo, decise Arré meditando tra sé. Tonda, piatta e dello stesso colore. Dal canto suo, Boras Sul guardava tutti i presenti come se fossero stati loro a saturare il mercato di proposito. «Non immaginate quanto tempo sprechino i saggiatori!» «Da dove provengono quelle monete?», lo interrogò Marti. Boras aggrottò le ciglia. «Da Nuath». Questa era una delle città più grandi poste sul fiume, dopo Mahita. La maggior parte dei cereali destinati a Kendra-sul-Delta affluivano dapprima a Nuath, per essere poi caricati sulle grandi chiatte del Clan Blu che le trasportavano discendendo il corso del fiume. Gli affari devono andar bene da quelle parti se possono permettersi una zecca, pensò. Gran parte delle città fluviali adoperavano i conii di Shanan e Tezera. «Vi è inciso un volto,» spiegò Boras. «Mi hanno detto che si tratta del banchiere cittadino. Si fa chiamare "Signore". Il suo nome è Tarn, Tarn di Nuath». «Ne ho sentito parlare,» disse Kim Batto. «È uno dei Ryth.» I Ryth costituivano una delle Famiglie dominanti del Clan Blu, e si diramava in due branche, una che viveva a Kendra-sul-Delta e l'altra a Shanan. «Si crede un Nobile solo perché possiede molto danaro. È ambizioso». Marti sorrise. «Chi non lo è?» Kim assunse un'aria innocente. «Pericoloso?», disse Arré. Le Famiglie minori, specie quelle che controllavano o potevano ottenere il controllo di qualche punto chiave nel traf-
fico dei cereali, potevano dimostrarsi pericolose. «Non credo,» replicò Kim. «Come fai a conoscere quell'uomo, Kim?», domandò Marti con voce strascicata. Kim sorrise. «Gli vendo vasi e pentole». Kim si considerava un esperto in materia di vasellame Asech. Si conoscevano persone giunte addirittura da Shanan per chiedere una sua consulenza sulla qualità del lavoro di una particolare tribù o di un particolare vasaio. «Ha buon gusto?», continuò Marti con curiosità. Kim scacciò via dalla manica un granello di polvere. «Niente affatto, mia cara Marti,» le rispose. «È pur sempre un barbaro». Dal tono, sembrava estremamente compiaciuto di sé. Arré si sorprese ad attorcigliarsi le dita per l'irritazione. «Boras,» disse sbrigativamente - non che volesse mostrarsi maleducata nei confronti di Kim, ma non sopportava che la riunione andasse per le lunghe - «come si regolano i tuoi saggiatori con le monete di bronzo?» «Per lo più le ignorano,» grugnì il grassone. «Le fanno passare. Alcuni mercanti cittadini le accettano, altri le rifiutano. Ad ogni modo, la cosa non mi va giù. Indebolisce il valore medio delle altre monete in metallo». «Potreste creare delle tavole separate per i conii in bronzo,» suggerì Arré. «Troppo complicato,» protestò Boras. «E poi ciò incoraggerebbe la gente a usarli». Arré ne convenne tra sé e sé. Strano a dirsi, ma qualche volta persino Boras mostrava sprazzi d'intelligenza. «Perché non lasciar perdere?», concluse Marti Hok. «In fondo il problema non sembra ancora serio. Ordina ai saggiatori di far passare le monete di bronzo senza pesarle e contemporaneamente proibiremo ai mercanti della città di usare quei conii per il pagamento delle tasse o di qualunque altro servizio cittadino». «Um,» grugnì Boras. «Mi piace,» approvò Kim. Cha Minto si limitò ad annuire. Arré si domandò quanto in realtà avesse udito di quel discorso. «Io sono d'accordo,» affermò. Senza che nessuno gliel'avesse chiesto, Sorren si avvicinò alla finestra e ne scostò l'imposta. Fuori c'era ancora la luce, ma l'aria si stava rinfrescando. Un alito di brezza umida fece vibrare i gigli. Azulith agitò le dita per sgranchirle; aveva scritto tutto quanto senza interrompersi. Arré appoggiò
la testa allo schienale della sedia: non aveva cessato di dolerle. Isak. Cosa voleva Isak? Non riusciva ad immaginare una ragione plausibile per la quale il fratello avesse desiderato partecipare al Consiglio quella sera. Guardò Sorren muoversi attraverso la stanza. Se avesse avuto dei figli adesso, sarebbe stato uno di loro ed avrebbe fatto ciò stava facendo Sorren, servire il vino, accendere le lampade, proprio come lei, Arré, un tempo aveva fatto per la sua madre. Ma non aveva mai voluto figli. Arré fece un cenno a Sorren. «Di' a mio fratello che siamo pronti. Riempi i bicchieri prima di andare.» Sorren fece nuovamente il giro dei convitati con la caraffa. Quando abbandonò la stanza, Arré picchiettò sul bracciolo della sedia. «Consiglieri,» disse, «prima che il vino intorpidisca irrimediabilmente i nostri sensi, lasciate che vi offra una sorpresa ora che siamo lucidi abbastanza da apprezzarla». Le porte si aprirono, e Sorren entrò coi tamburi tra le mani. Indossava una veste di seta nera con l'orlo dorato; una catena d'oro le luccicava intorno alla gola, e sulla sua tunica nera spiccavano rosse farfalle ricamate. Arré capì che quell'abbigliamento era stato scelto da Isak ed annuì in segno di approvazione; come sempre, dimostrava un gusto squisito. Boras Sul fissò la ragazza con occhi improvvisamente rapaci. Sorren si sedette sul pavimento rivestito di tappeti e sistemò i tamburi tra le ginocchia. Con abilità da esperta cominciò ad attaccare un battito d'introduzione. Il cuore di Arré prese a pulsare più velocemente nell'attesa che Isak facesse la sua comparsa. Ed eccolo attraversare la porta. Era vestito di rosso e oro. Due enormi ventagli si aprivano sugli agili polsi simili ad ali. I lunghi capelli erano attorcigliati e trattenuti sulla sommità del capo grazie ad un pettine laccato di rosso. Nella larga fusciacca rossa sfavillava l'elsa istoriata del pugnale cerimoniale che tutti i Danzatori indossavano in ricordo del tempo in cui la danza era annoverata tra le Arti dei Guerrieri. Sollevò i grandi ventagli fino a coprirsi il volto. Come ogni Danza, anche quella che Isak si apprestava a eseguire narrava una storia. Raramente Arré si prendeva il disturbo di seguirne la trama. Tuttavia questa le era già nota: era il Racconto dell'Aquila Incatenata. Le percussioni dei tamburi ed i soffici fruscii della seta la fecero rilassare. Si adagiò contro lo schienale imbottito e socchiuse le palpebre. D'un tratto, la musica cambiò ed il ritmo accelerò. Arré riaprì gli occhi.
Isak assunse la posa richiesta: tese le braccia spiegandole come le ali di un'aquila. Volse il capo da una parte all'altra, di qua, di là, con la rapidità d'un uccello. Aveva adoperato del trucco per scurirsi la pelle. La linguetta e le stringhe dei sandali erano ricoperti di perline, sì da creare l'illusione di piedi muniti d'artigli. Si era anche ricalcato le sopracciglia di nero sicché gli occhi scintillavano come quelli di uccelli, fulgidi, impazienti e ferini. Scrollò la testa, pestò i piedi in terra, e si volse. Il pettine gli cadde dai capelli che gli si riversarono sulla schiena. Adesso impersonava la Strega. Curvò il busto in una posa grottesca, ed il volto gli si contorse in una maschera di malizia e perversità. I ventagli si richiusero divenendo così le bacchette magiche della Strega. Il ritmo dei tamburi si fece marziale. Isak si raddrizzò; i ventagli si incrociarono fino a diventare un arco ed una freccia. Adesso impersonava il Cacciatore, giovane e bramoso, puro come la fiamma. Il Cacciatore incontrò la Strega, fu da questa sottoposto ad una dura prova, e vinse. Alla fine della Danza, la cadenza delle percussioni si innalzò in un continuo crescendo, ed il Danzatore fu di nuovo Aquila. Sorren posò le mani sulle ginocchia. Isak abbassò i ventagli rivelando il volto sorridente. Se si fosse esibito in strada, sarebbe stato sommerso dalle grida esultanti del pubblico. Ma lì persino Azulith era muta, la lingua paralizzata, lo sguardo rapito da quell'incanto, immemore dell'inchiostro e delle pagine in attesa. Sorren si levò e riaprì le porte. Isak vi scivolò oltre seguito da lei. I Consiglieri rimasero immobili per lunghi minuti. Infine, Cha Minto si mosse sulla sedia. «Arré, tuo fratello possiede un raro talento!», osservò. Arré lo guardò con aria sorpresa. A Isak piacevano le donne; aveva forse cambiato i suoi gusti? No, Cha Minto non aveva affatto l'aspetto di chi avesse appena finito di assistere ad un'esibizione del suo amante. Ancora una volta si domandò cosa lo turbasse. Marti Hok si rivolse a Kim Batto. «Aiutami ad alzarmi», gli ordinò. L'uomo si alzò e l'aiutò a rimettersi in piedi. «Le mie ossa sono vecchie,» si lamentò Marti. «Se resto seduta troppo a lungo, alla fine devono sollevarmi di peso». Procedendo a fatica, fiancheggiò l'estremità della sala. Sorren riapparve. Si era cambiata e adesso indossava la morbida tunica azzurra ed i pantaloni riservati alla servitù per volere di Arré. Si accostò alla finestra aperta: la fresca bruma che soffiava dal sud le fece fluttuare i capelli da una parte. Boras si issò dalla sedia. «Sono stato seduto troppo a lungo,» disse.
«Vogliate scusarmi.» Uscì dalla porta con passo vacillante. Cha Minto si rigirò tra le dita il bicchiere. Sorren gli si accostò con la caraffa pronta a riempirglielo. Marti si arrestò vicino allo sgabello di Azulith. «Scrivi meravigliosamente, "Zuli,"» osservò. Posò quindi una mano gonfia sulla spalla della donna. «Grazie, Signora,» disse la scriba. «Il cea sa da quanto tempo faccio questo mestiere. Ventotto anni al novilunio». «Chi ti ha fatto da maestro?» «Samia-no-Reo, Signora». «Ah,» disse Marti. Samia-no-Reo era stata uno dei massimi scribi del Clan Nero. «L'ho conosciuta quand'ero una ragazzina. Sovente mi raccontava delle storie, Devi avere pressappoco la mia età, "Zuli"». «Compirò cinquantotto anni nella stagione del raccolto,» precisò la scriba. «Hai dei figli?» «Sei,» disse la donna. Boras Sul tornò nella sala. «Beh,» disse, «e adesso cosa c'è?» Si sedette. Marti ritornò alla sua sedia e Sorren l'aiutò a prendere posto. Arré si raddrizzò appena. Il collo le faceva male. «Ho qualcosa da dichiarare,» annunziò Cha Minto. Aveva messo da parte il bicchiere e sedeva con le punte delle dita unite, una posa tipica degli Scolari. Ma quella posa da lui assunta risultava poco autentica. Arré pensò ad Isak la cui immensa abilità ammantava di veridicità qualsiasi gesto. Si domandò se fosse ancora in casa, forse intento a ripiegare i suoi abiti, quegli eleganti costumi da Danzatore, e lì in attesa, impaziente e feroce come l'aquila. Ma in attesa di cosa? «Il Consiglio ti ascolta,» disse Arré con voce tesa. Cha Minto si schiarì la voce. «È sempre stato,» esordì, «costume del Consiglio di ingrandirsi, allorché le Famiglie della città diventavano forti e prospere abbastanza da meritarsi un posto in esso. Alla sua fondazione il Consiglio contava tre esponenti, la Famiglia Hok, la Famiglia Med e la Famiglia Batto. Le Famiglie Sul e Minto vi furono ammesse nel Novantaseiesimo Anno del Consiglio, ossia, come ben sapete, cinquant'anni fa». Boras Sul apparve alquanto seccato dal ricordo che la sua Famiglia non fosse stata una dei membri originali del Consiglio. «Durante questi cinquant'anni, Kendra-sul-Delta ha continuato ad in-
grandirsi. Una tregua ed un concordato sono stati stipulati con le tribù degli Asech, cosicché si è raggiunta la pace tra il popolo di Arun ed il popolo del deserto». Il che - pensò Arré con acidità - si doveva assai più all'influenza dei Maghi sugli ingenui Asech che non alle macchinazioni del Consiglio. «C'è stato poi un grande incremento nei rapporti commerciali con gli Asech,» continuò Cha. Ciò era vero. «Pertanto credo che i membri di questo Consiglio dovrebbero essere orgogliosi di quanto è stato compiuto dai loro genitori». Vieni al sodo, pensò Arré. «Ma, senza minimizzare i contributi apportati dalle Famiglie i cui rappresentanti siedono qui adesso, devo dire che molta parte di tale crescita è stata determinata dall'attività delle Famiglie Jalar ed Ismenin. Perciò propongo che invitiamo queste Famiglie ad unirsi al nostro Consiglio, portandolo così a nove membri». Seguì una pausa. L'unico suono percettibile nella sala era il rumore del vento sull'imposta ed il fruscio sussurrante del pennello della scriba. Ingegnoso, pensò Arré non appena ebbe assimilato i nomi proposti. La Famiglia Hok, alla quale apparteneva Marti, era la più vecchia della città, ed il secondogenito di Marti Hok aveva sposato la figlia di Meredith Jalar. I Jalar controllavano i bacini ed i pescherecci. Gli Ismenin possedevano invece le miniere. Per anni Kendra-sul-Delta era stata costretta ad importare i metalli da Tezera, specie il rame ed il ferro. Poi la Famiglia Ismenin aveva scoperto dei giacimenti di rame nelle colline ad est del fiume, e miniere di ferro nelle Colline Rosse, ad ovest di Shanan. Ferro e argento, rame e carbone, scorrevano prima tra le mani degli Ismenin per poi passare ai mercanti ed ai mercati della città. Gli Ismenin erano una banda di rozzi e potenti possidenti, ricchi e violenti. Ron Ismenin e Isak Med intrattenevano rapporti di intima amicizia. Arré sollevò il bicchiere e scrutò Cha Minto attraverso l'azzurro cristallo ondulato chiedendosi cosa in realtà stesse facendo e se ne fosse egli stesso consapevole. «Da molto tempo la Famiglia Jalar merita di essere rappresentata al Consiglio,» dichiarò Marti Hok. Boras Sul grugnì in segno d'approvazione. Cha apparve compiaciuto. «Però,» l'espressione di Cha Minto si fece alquanto diffidente, «non sono altrettanto convinto dei meriti degli Ismenin».
Il grassone continuò: «Quella banda di scavezzacolli non fa che attizzare risse, e poi sono troppo giovani». «Ron Ismenin ha trentasette anni,» protestò Cha Minto, «e sono soltanto in quattro». Racas divenne paonazzo finché, simile ad una tartaruga, fu sul punto di scattare. Marti sollevò una mano. «Ci sono stati dei disordini ai cantieri la settimana scorsa, Cha. E i giovani Ismenin vi erano di mezzo. Fanno a botte, seminano discordia, e ciò mi impensierisce. Cosa accadrebbe se Ron Ismenin dovesse morire all'improvviso? Che la pace del cea sia con tutti noi, non mi aspetto una disgrazia simile... ma neppure mi rallegra il pensiero di essere il membro più anziano di un Consiglio di ragazzacci turbolenti». Kim Batto si lisciò la barba. «Non credo che ciò sia giusto, Marti,» mormorò. Oho, pensò Arré. Questo significa che il Clan Bianco guarda con favore gli Ismenin? Cha gli fece eco. «Il tuo ragionamento è ingiusto. E se morisse uno di noi? Cosa accadrebbe se morissi tu, Arré?» Boras Sul emise un colpo di tosse. «È un discorso prematuro,» biascicò. «Neppure i Maghi sanno prevedere quando qualcuno stia per morire». «Cha, non è molto educato da parte tua,» ribatté Marti. «Boras ha ragione. Se io, che il cea mi conceda ancora qualche anno da vivere, ripeto, se io dovessi morire domani, il mio primogenito Sironem e perfettamente in grado di prendere il mio posto al Consiglio, come ha già fatto per la conduzione della Famiglia. Se Arré muore, c'è Isak. È giovane, ma è un artista, e di conseguenza è un uomo civile. Qualità che non è propria degli Ismenin.» Ciò detto, invitò con un cenno Sorren a riempirle il bicchiere ormai vuoto. Cha Minto appariva come se qualcuno gli avesse appena rovesciato in testa un secchio pieno di sabbia. Arré sorrise. L'avanzare degli anni non aveva reso meno affilata la lingua di Marti. Persino Kim Batto si copriva la bocca con la mano a celare un largo sorriso. «Mi scuso,» rimediò Cha Minto. «Non intendevo offendere nessuno». Kim lasciò cadere la mano. La sua voce si fece suadente. «Apprezzo i tuoi argomenti, Marti. Ma conosco Ron Ismenin: è un uomo ragionevole. Quando ai Jalar, naturalmente possiedono tutti i requisiti per essere accettati incondizionatamente. Appoggio quindi la proposta di Cha Minto e sono disposto a creare le basi di un rapporto con gli Ismenin».
«Io non lo sono,» dichiarò Boras Sul. Sorren gli riempì il bicchiere per l'ennesima volta e la mano dell'uomo carezzò con fare vorace il suo braccio nudo. La ragazza si ritrasse in fretta e per poco non rovesciò il tavolino posto accanto a Cha Minto. «Sta' attenta, piccola,» le disse Arré. Guardò Marti, e rammentò i suoi genitori, periti inaspettatamente durante la pestilenza che aveva devastato la città nell'Anno del Consiglio 129. Non aveva mai desiderato diventare Capo della Famiglia, ma sua madre l'aveva istruita a dovere; e così aveva colmato il vuoto lanciando soltanto qualche mesto sguardo alla perduta libertà. Marti prese la parola, «Convengo sulla considerazione che il Consiglio debba allargarsi così come la città si è espansa. Approvo la nomina della Famiglia Jalar quale membro del Consiglio. Ma, fintantoché non riconoscerò segni di serietà e maturità nel comportamento dei fratelli Ismenin, mi opporrò alla loro presenza tra di noi». Azulith scriveva furiosamente. «Credo che tu sia in errore,» sentenziò Cha Minto. Stringeva i braccioli della sedia con una forza tale che le nocche delle dita erano diventate esangui. Fu la volta di Arré. «C'è un'altra Famiglia che potrebbe costituire un'accoppiata accettabile?» Soltanto un'altra Famiglia poteva mostrarsi all'altezza della carica in gioco: gli Isara, i quali controllavano il commercio dell'olio di choba. Cha scrollò la testa. «A questo punto devo dire che anch'io ritengo gli Ismenin... imprevedibili. Sono d'accordo con Marti». I pannelli del paravento tintinnarono scossi dalla brezza. Il rumore fece sobbalzare i Consiglieri e Marti si sfregò le mani. «Sorren» chiamò Arré, «chiudi la finestra e metti un po' di legna sulla grata». La ragazza fece scorrere il paravento davanti alla finestra. La brezza cessò di alitare nella stanza. Spostò quindi il vaso e tirò la grata nel centro del focolare. Sistemò con cura l'esca ed i ramoscelli e colpì la pietra focaia: l'esca divampò lambendo i ceppi secchi e squamosi. Arré si stiracchiò. Sentiva su di sé gli abiti ruvidi e rigidi. Cha Minto la stava guardando, la bocca contorta in una smorfia. Se mio fratello si sta servendo di te, pensò la donna, mi dispiace tanto, amico mio. «Cha!», lo chiamò. Il giovane Consigliere serrò le labbra con forza e volse il capo dall'altra parte, rifiutandosi di incontrare il suo sguardo.
«Cha!» Si decise a guardarla. «Prima di venire qui stasera, hai per caso fatto parola a qualcuno dell'argomento che intendevi proporre alla discussione? A Meredith Jalar forse, o a Ron Ismenin?» «Sarebbe stato oltremodo scorretto,» rispose lui. «Dobbiamo interpretare la tua risposta come un no,» arguì Marti Hok in tono aspro. «Sì, è così!», confermò Cha. Issatasi a fatica dalla sedia, Marti si avvicinò al fuoco. «Ho freddo,» disse. Si appoggiò al bastone e Arré poté sentirne l'ansito. Marti sembrava piuttosto debole. «Marti, non ti senti bene?», le chiese. «Perfettamente!» Gli occhi dell'anziana donna schizzarono fulminei verso un'altra direzione. Si posarono su Sorren, inginocchiata sulle mattonelle mentre armeggiava con le molle da fuoco. «Ti assicuro, Arré, non vorrei tornare a essere giovane. Come ti chiami, ragazza?» «Sorren, Signora». Marti apparve interessata. «È un nome settentrionale. Sei nata nel nord?» «No, Signora,» rispose Sorren, e intanto teneva le molle angolandole come fossero una lancia. La luce della fiamma le scintillava sui capelli e sulla pelle chiara, e pareva indossasse un'armatura. C'è in lei qualcosa di barbaro, di strano, pensò Arré, qualcosa che richiama alla mente le donne guerriere dipinte sugli antichi vasi. «Sono nata nei vigneti, o almeno così credo». «Anche la tua carnagione è tipica del settentrione,» aggiunse Marti. «Conosci la storia di Sorren, la Signora di Tornor»? «No,» rispose la ragazza. «È un racconto del nord. Io lo conosco: lo sentii la prima volta da Samia-no-Reo quando arrivavo alla metà della tua altezza. Beh, non che poi sia diventata molto più alta! Mandala da me, Arré, e le racconterò la storia». Per un istante Arré avvertì una punta di gelosia. Non voleva che Marti Hok raccontasse delle storie alle sue schiave. Ma poi si strinse nelle spalle. Il comportamento di Marti al Consiglio l'aveva favorita, sicché meritava un ringraziamento. Rivolse in alto i palmi delle mani ed i bracciali d'argento le tintinnarono
sui polsi. «Fintantoché non l'allontani dal suo lavoro, Marti, puoi raccontarle tutto ciò che ti aggrada». Capitolo quarto Pah-pah-pah-PAH. Sorren riappese le molle al gancio. Arré e Marti stavano parlando di lei. I pantaloni si erano fatti roventi all'altezza delle ginocchia, ma a malapena vi faceva caso. Tornor. Dov'era e cos'era Tornor? Una perla di sudore le solleticò la pelle sotto i seni mentre quel nome risuonava nella sua testa come una nota musicale. Aveva bisogno di aria, di spazio. Si alzò dal focolare e, aggirando il circolo di sedie, raggiunse la porta. Scivolò nella sala. Le guance le bruciavano e vi posò i palmi delle mani per rinfrescarle. Attraverso la fessura della porta a due ante, scorse Boras Sul intento a guardare nella sua direzione, e si domandò se stesse osservando proprio lei. La mente le si riempì allora di pensieri poco educati che non avrebbe mai potuto esprimergli. In quell'istante Isak giunse dalla stanza nella quale si era vestito e truccato per l'esibizione. I suoi capelli neri erano ancora raccolti e trattenuti dal pettine rosso, ma i costumi - il mantello dorato dell'Aquila, gli stracci della Strega e la fusciacca incastonata di gemme del Cacciatore - gli pendevano disordinatamente da un braccio, quasi fossero privi di valore. Il Danzatore guardò Sorren. «Cos'hai?», le domandò. Sorren lasciò cadere le mani dalle guance. «Muoio del caldo.» La ragazza esitò. È un uomo istruito, pensò, forse sa qualcosa a proposito di Tornor. Ma, se gliel'avesse chiesto, lui le avrebbe certo domandato il motivo del suo interesse, e così rischiava di rivelargli qualcosa di troppo. «Tutto qua!» L'uomo aveva distolto lo sguardo da lei e fissava la porta, quasi che riuscisse a vedere attraverso il legno. «Sorren!» «Sì, mio Signore». «Fra tre settimane ci sarà una festa nella casa degli Ismenin. Io dovrò danzare. Vuoi accompagnarmi coi tamburi?» «Credo di sì. Danzerai qualcosa di nuovo?» «Un pezzo vecchio. Il Corteggiamento». Era una Danza che di norma si eseguiva in occasione di un fidanzamento. Sorren si domandò quale dei figli di Ismenin fosse in procinto di sposarsi e con chi. «Dovrò chiedere il permesso». «A mia sorella.» Isak pronunziò la parola "sorella" come se fosse rico-
perta di cenere. Intanto non staccava gli occhi dalla porta. Sorren si chiese cosa l'uomo pensava stesse accadendo lì dentro. Sentì la voce di Arré elevarsi di tono e poi smorzarsi. Isak non le aveva mai rivolto domande sugli argomenti discussi nel corso delle Assemblee, pur sapendo che era lei a servire il rinfresco agli ospiti. Ma, se mai lo avesse fatto, non avrebbe esitato a riferirlo ad Arré, cosa che Isak evidentemente immaginava e che lo tratteneva dall'indagare. Di sicuro non voleva che Arré scoprisse che il suo interesse era tale da indurlo ad interrogare il personale di servizio. Il Danzatore spostò i costumi da un braccio all'altro. «Cosa stanno facendo lì dentro?», mormorò. «Si scambiano convenevoli,» rispose Sorren. L'uomo le lanciò uno sguardo gelido. Tutto a un tratto la porta si apri e ne uscì Azulith, con le pergamene e la cassetta dei pennelli. La donna sorrise a Sorren, e si avviò in direzione della cucina. «Scriba!», chiamò Isak. La voce sottile sferzò l'aria come un colpo di frusta. Trasalendo, Azulith si voltò indietro e per poco non si fece cadere di mano la custodia dei pennelli. «Mio Signore?» Senza alterare il timbro della voce, Isak aggiunse: «Credo che nel rivolgerti a me tu debba mostrare maggior rispetto». Sorren sbatté le palpebre dallo stupore. Tutti sapevano che Azulith soffriva per via delle ginocchia. Ma non le restava che tacere. Furente, rimase in silenzio al suo posto, mentre Azulith si piegava su uno dei dolenti ginocchi. «Grazie,» disse Isak. «Ora puoi andare.» Azulith si issò con una smorfia. E, mentre gli occhi esprimevano con eloquenza furore e disprezzo, si incamminò verso il retro della casa. Isak parve non badarci. Dalle porte uscì Cha Minto. Un'improvvisa tensione irrigidì le espressive spalle di Isak. Il più giovane dei Consiglieri fece oscillare la testa da una parte all'altra in un cenno negativo. Paxe aveva ragione, pensò Sorren. Isak stava meditando qualcosa ed era stato deluso. La ragazza scorse un lembo della camicia fuori posto; mentre si rimetteva in ordine, alzò gli occhi per incontrare lo sguardo di Boras Sul che la contemplava come fosse qualcosa da mangiare. Lesta, attraversò la sala fino a raggiungere il guardaroba dove erano appesi i mantelli. Il servo di Boras Sul giunse dalla cucina; sentì il grassone impegnato ad istruirlo, e si attardò il più a lungo possibile presso il guardaroba
fingendosi alle prese con gli indumenti. Soltanto quando li udì allontanarsi si decise a muoversi. Ritornò alla porta della sala recando il mantello di Marti Hok. Questa e Arré stavano conversando all'interno della saletta privata della padrona di casa. Sorren attese che terminassero. Toli, giunta dalla cucina, stava riponendo le brocche vuote ed i bicchieri sporchi su di un vassoio. Kim Batto, il pignolo della compagnia, se n'era già andato. Sorren carezzò il mantello di Marti: era di pelliccia, una soffice pelliccia bianca, troppo caldo - pensò - per la stagione estiva. La vecchia si voltò e glielo vide tra le mani. Sorrise. «Da' pure, bambina». Sorren glielo accomodò per bene sulle spalle. La pelle di Marti era di un colore castano chiaro, quasi giallastro, e le mille rughe che la solcavano ne ammorbidivano la consistenza. I capelli, bianchi, erano acconciati in una folta treccia ravvolta in cima alla testa. La corporatura piccola e piena le ricordava la figura di Elith, ma questa doveva essere più giovane di Marti. La più anziana dei Consiglieri aveva figli, figlie, e nipoti, e forse pronipoti. Marti alzò gli occhi verso di lei. «Tu sei troppo alta, bambina. Arré, come fai a sopportare di vederti girare intorno questa giovane gigante?» «Mi piacciono le persone alte, Marti». «Già. Quanti anni hai, piccola?» «Diciassette, mia Signora!», rispose Sorren. «Non dimenticare che hai promesso di venire a casa mia». «È naturale che se ne ricorderà,» intervenne Arré. «Ehi, ma è quasi mezzanotte. Vuoi andartene, Marti?» La vecchia rise. «Resterò comunque sveglia per buona parte della notte, Arré. Ogni anno che passa dormo sempre di meno. Quando avrò novant'anni, veglierò tutta la notte, come una vecchia civetta spiumata tra le fronde di un albero, troppo debole per andare a caccia di topi... e allora sarò molto, molto saggia». Sorren sorrise alle sue parole. Effettivamente Marti rassomigliava un po' ad una civetta. Fece scivolare la mano sul viso per celare il sorriso. «Forse hai ragione,» ribatté Arré. «Comunque, sei già fin troppo saggia per tua natura. Il fatto è che stai tenendo sveglia anche me, ed io di notte dormo ancora». «Oh, va bene, va bene. Ti lascio al tuo letto.» Marti annuì a Sorren. «Chiama la mia lettiga, per favore». Sorren uscì nel cortile. Al chiarore delle fiaccole riconobbe la sagoma ricoperta di stoffa di una lettiga. I quattro portatori vi erano seduti vicino.
Scorse una piccola luce passare da una mano all'altra nell'oscurità, ed il vento notturno le alitò addosso il profumo dell'Erba dell'Estasi. Attraversò il cortile. Quando ebbe raggiunto i portatori, si accorse che la Guardia di turno alla porta si era unita a loro. Era uno dei soldati più anziani. Si chiamava Borti. Paxe si lagnava spesso della sua età e della sua lentezza, ma chissà perché non gli aveva mai detto di ritirarsi. Sorren provava simpatia per lui. Quando era venuta in città per la prima volta, le aveva fatto fare il giro di tutta la casa caricandosela sulla schiena. La chiamava «Gambo di fagiolo», ma lei non se la prendeva. «È pronta,» annunziò ai portatori. Gli uomini soffiarono in aria un ultimo sbuffo di fumo e si alzarono. Uno di essi tirò via il telo dalla lettiga e lo arrotolò. Sorren tornò in casa per riferire a Marti Hok che la lettiga era pronta. In quel momento Azulith percorse la sala. La sua bocca carnosa era unta e, oltre alle pergamene ed alla custodia dei pennelli, la donna recava una piccola sacca dalla quale emanava un odore di pasticcio di pesce. «Buona notte, Sorren,» la salutò, guardandola di sopra una spalla. «Buona notte,» ricambiò Sorren. «Buona notte, Sorren,» ripeté una voce familiare e beffarda. La ragazza si volse di scatto. Isak la guardava dal vano della porta e alle sue spalle vi era Cha Minto. Sorren era ancora seccata con lui. «Mio Signore,» disse, «credevo che fossi già andato via». «Non del tutto,» rispose. Dietro di lui, Cha Minto appariva pallido, e la ragazza si chiese se Isak non fosse responsabile di quel pallore. «Vieni a casa mia tra dieci giorni. Dobbiamo provare il Corteggiamento». Tra dieci giorni si sarebbe conclusa la Festa del Bue che veniva celebrata dagli Asech. «Se potrò, verrò senz'altro, mio Signore». «Sta pur certa che potrai,» aggiunse Isak e, prima che Sorren potesse replicare - ma in fondo cosa avrebbe potuto dire? - i due uomini svanirono insieme nell'oscurità. Marti Hok giunse alla porta d'ingresso della casa sorreggendosi pesantemente al suo bastone. Sorren si schiacciò contro la parete per lasciarla passare. I portatori l'aiutarono a sistemarsi sulla lettiga e si allontanarono a passo vivace, mentre il tintinnio dei campanellini che portavano alle caviglie si perdeva in lontananza. Arré sopraggiunse sospirando; aveva un'aria stanca. «Chiudi la porta,» ordinò. «Voglio andare a letto». Insieme salirono al piano superiore. Sorren si occupò della lampada mentre Arré si spogliava. (Non gradiva essere aiutata a svestirsi. Quando
Sorren ci aveva provato, le aveva urlato: «Non sono decrepita!») La ragazza verso l'acqua dalla brocca posta sull'apposito supporto. Era profumata di petali di rose colti nel giardino. Sorren portò ad Arré la bacinella ed un panno col quale la padrona si asciugò il viso. Questa si tolse poi i bracciali che Sorren rispose nello scrigno di legno sul quale era inciso l'emblema triangolare della Famiglia Med. Una volta Arré le aveva detto che era appartenuto a sua madre. Ne promanava un tanfo di muffa: i piccoli scomparti interni erano foderati di velluto color ambra. Arré sedette sul letto, nuda. «Boras ti ha infastidita stasera?», le chiese tutt'ad un tratto. Sorren si diresse alla cassapanca nella quale erano riposte le coperte trapuntate, «Un poco». «Gli dirò di smetterla,» promise Arré. «Più invecchia e più diventa sgarbato. Cosa te n'è parso del Consiglio?» «Beh, per lo più non ascolto. Però posso dire che l'esibizione di Isak è stata perfetta». Arré aggrottò le ciglia. «Ti ha detto qualcosa mentre si stava truccando, o dopo la Danza?» Si grattò un punto sulla coscia, dove la puntura di un insetto le aveva procurato un ponfo. «Sì. Mi ha chiesto di suonare per lui ad una festa di findanzamento dagli Ismenin». Arré inarcò un sopracciglio. «Ah sì? E ti ha detto di chi?» «No». «Quando ci sarà?» «Fra tre settimane». «Rrmph!», grugnì Arré in preda all'ira. Sorren le avvolse la trapunta intorno al corpo. La donna si coprì il volto con un braccio. «Lascia la luce accesa». Sorren rimboccò la coperta agli angoli; quando alzò gli occhi, vide Arré appoggiata sui gomiti, intenta a osservarla. «Cosa c'è?», le disse. Quella parola le riempiva la bocca; quasi non riusciva a pronunziarla. Infine prese fiato e disse: «Che cos'è T-T-Tornor?» «Perché balbetti?», le chiese Arré. «È una Rocca che sorge sul confine settentrionale». «Cos'è una Rocca?» «Un castello». «Ha una torre?»
Arré si distese supina. «Non ci sono mai stata: come faccio a saperlo? Adesso va', piccola, voglio dormire». Sorren sollevò dal supporto la bacinella d'acqua sporca. «Buona notte. Dormi bene». Fuori dalla porta di Arré, Sorren tese l'orecchio. Il rumore di passi strascicati ed il respiro asmatico le rivelarono che Elith era sveglia. La vecchia si levava presto e si addormentava tardi, e sovente si aggirava nell'oscurità della casa. Sorren scese silenziosamente al piano di sotto. Dal rumore indovinò che Elith si trovava nella sala grande e sgattaiolò oltre la porta a due ante prima che la vecchia potesse scorgerla. La quiete regnava in cucina. Gettò l'acqua sporca fuori della finestra più vicina. Avrebbe giovato all'orto. Nella sua stanza la finestra era semiaperta. I profumi del giardino le riempirono le narici. Alzò lo sguardo e scorse la falce della luna crescente, bianca e brillante sul suo fiume di stelle. Tornor. Sorren tamburellò sulla parete le due sillabe. La Rocca di Tornor. Pah-pah-dum. Nella sue breve esperienza di vita vissuta, il nord per lei s'arrestava ai vigneti. Ma sapeva che il fiume attraversava le vigne e continuava a scorrere fino a gettarsi nel mare e, giacché non era dalle vigne che esso sorgeva, evidentemente nasceva altrove; e i fiumi, le avevano detto, nascevano sui monti. C'erano dei monti a ponente; Paxe ci era stata, benché non ne parlasse quasi mai. Ma i monti sorgevano anche al nord, e Sorren era convinta che fossero proprio queste montagne settentrionali a prender forma nelle sue visioni. Infilò le dita tra i capelli. E se il castello con la torre, quello che in sostanza era l'oggetto principale delle sue visioni, fosse stata proprio una Rocca? Si mise a sedere sul letto, picchiettando con le dita. Forse sua madre l'aveva chiamata Sorren» per una ragione precisa. Come a dire: Tu sei diversa. Tu non sei di queste terre. Sor-en di Tor-nor. Pah-pah-a-dumpah. Tra i filari delle vigne aveva sempre sognato d'essere qualcun altro, non una raccoglitrice d'uva, ma qualcosa di meraviglioso, magari una Principessa, ed era stata felice di andare da Arré. Aveva lasciato i campi senza voltarsi indietro perché, segretamente, era convinta che Arré avrebbe fatto di lei una Principessa. Adesso, tutto ciò le sembrava molto sciocco. Ma i bambini sognano sempre queste cose. Eppure poteva essere vero. Sorren voleva che fosse così. Si domandò cosa avrebbe detto Paxe quando l'avesse saputo. Se fosse andata al suo
villino subito, immediatamente... ma forse Paxe dormiva, e probabilmente c'era anche Ricard con lei. Accigliata, Sorren guardò la luna. Non voleva assolutamente parlare col ragazzo. Un groviglio, fitto quasi che fosse incollato, le intricava un ricciolo. Sorren vi infilò le dita tentando di districarlo. Quando alla fine riuscì a sciogliere il nodo, frugò nella cassa alla ricerca della spazzola dal dorso di corno che le aveva regalato Arré. Prese quindi a spazzolarsi i capelli finché non li sentì crepitare. Non appena ebbe deposto la spazzola, la visione si affacciò alla sua mente. Delle immagini presero forma dietro alle sue palpebre. La stanza svanì e vide il castello e la torre. La costruzione mutava d'aspetto sotto i suoi occhi: rimpiccioliva o ingrandiva a seconda se la sua mente l'allontanava o l'avvicinava ad essa. Le stelle formavano un ponte sul mondo. Le fiaccole ardevano sui bastioni; l'aria gelida era secca e tersa. D'improvviso, spiccò il volo verso la finestra aperta della torre. Un uomo - o forse un ragazzo, perché l'aspetto era più di un giovane - era seduto nella camera contornata da più pareti. Teneva una penna in una mano: l'altra non era visibile. Sorren si accorse che non c'era affatto. Il braccio destro gli mancava, reciso all'altezza della spalla. La manica ricamata della camicia penzolava vuota. L'immagine del piccolo volto si sfocò, e la visione si fece indistinta. Sorren fu scossa da un fremito che le fece accapponare la pelle delle braccia. Si levò, chiuse la finestra e scese giù in cucina. Il chiaro di luna inargentava le pentole facendole apparire come il prezioso vasellame di un tesoro. Attraversò il cortile posteriore diretta al villino di Paxe. La porta non era chiusa a chiave: l'aprì con una cauta spinta. Ricard non c'era. Il gatto, raggomitolato sul suo cuscino, sollevò la testa affilata per guardarla. Nuda, salì sul letto di Paxe. Braccia forti si protessero ad accoglierla. «Chelito,» sussurrò Paxe insonnolita. Sorren adagiò una guancia sui seni della compagna. Il letto che divideva con lei, era caldo, sicuro, e piacevole come il riparo d'una grotta. Paga, si premette sulla pelle liscia di lei. Si destarono di buon'ora. Le stelle brillavano ancora vivide nel cielo, e fecero l'amore. Nella luce fievole della stanza i capelli di Sorren crepitavano attorno al suo capo come le scintille di un falò. Descrisse a Paxe la visione e poi le riferì ciò che Marti Hok le aveva detto. «Cosa ne pensi?», le domandò alla fine.
Il gatto entrò e si rotolò sulla schiena. «Interessante!», osservò. Sorren era delusa. Ma sul volto di Paxe scorse un'espressione che non le aveva mai visto prima d'allora. I lucori dell'alba, deboli come il respiro di un infante, filtravano dagli scuri della finestra conferendo all'austera stanza un cupo aspetto invernale. «Perché mi guardi così?», le chiese. «Perché ti amo,» rispose Paxe. Sorren sorrise. Sollevò la mano di Paxe e con la lingua penetrò la calda cavità del pugno della sua amante. «Per una volta mi piacerebbe infilarmi nel tuo letto e restarci l'intera giornata». «Mi distruggeresti,» disse Paxe ridendo, e con la mano le carezzò la guancia. Il gatto seguì le due donne giù per la scala. Giunta sulla soglia, Paxe si fermò ad infilarsi i sandali. Aveva indosso gli abiti per allenarsi nella Piazza d'Armi: i ruvidi pantaloni azzurri e la camicia bianca, larga ed informe. «Ricard era qui quando sei venuta stanotte?» «No,» le rispose Sorren. Arrivate al cancello della Piazza, si baciarono. Sorren scorse Kaleb con la coda dell'occhio. Stava aspettando che si accomiatassero per presentare il suo rapporto al Maestro della Piazza. Era lì ad aspettare fin dal levarsi del sole; Sorren sperò che la notte fosse trascorsa tranquillamente. Se invece ci fosse stato qualche problema, Paxe si sarebbe arrabbiata con se stessa per averlo fatto aspettare. Si attardò nel giardino assaporando l'aria del mattino. Giunta alla villa, scorse Lalith farle dei cenni dalla cucina. La ragazza bruna era pettinata nella sua maniera preferita, ossia con i capelli attorcigliati in minuscole treccine che sembravano spuntarle dalla testa simili ad aculei. Lanciò uno sguardo alla candela oraria. «Ha già chiesto di te due volte». «Dannazione!» Sorren affrettò il passo. «Perché non sei venuta a chiamarmi?», disse a Lalith da sopra alla spalla. La ragazza rideva. Mentre Sorren saliva le scale, le venne da sorridere. Se Lalith fosse venuta in camera da letto ad avvertirla che Arré la voleva, con ogni probabilità Paxe le avrebbe tirato in testa la lampada. Arré stava seduta sullo sgabello di palissandro. «Dove sei stata?», le chiese di botto. Si era messa tutti i braccialetti, che tintinnavano ad ogni movimento. «Quando ho bisogno di te esigo che tu sia qui, e non a ciondolare per la città». «Ero a casa di Paxe», spiegò Sorren.
Arré la scrutò ma, dopo un istante, la sua espressione torva si addolcì. «Oh, bene! Comunque, adesso sei qui. Siediti. Odio vederti torreggiare davanti a me.» Sorren si sedette a gambe incrociate sul soffice tappetino di lana. «Hai i capelli spettinati». Sorren arrossi. Arré aggrottò le ciglia. Si accostò alla ragazza, avvicinandosi al tavolino su cui stavano la lampada, lo scrigno coi gioielli ed una statuetta di pietra che, a parere di Sorren, raffigurava un cane, mentre per Arré si trattava d'una foca. La padrona prese ad accarezzare il dorso della statuina. «Ieri sera mi hai detto che Isak ti ha chiesto di suonare per lui alla festa di fidanzamento di uno degli Ismenin». «Sì». «Più tardi andrai a fare la spesa». Non era certo una novità, visto che lo faceva ogni mattina. «Voglio che tu scopra quale dei giovani Ismenin è in procinto di sposarsi e con chi». «Sì, posso farlo». A Sorren non dispiaceva quel genere di missione. «Sii discreta!», raccomandò Arré in tono aspro. Le porse quindi un bracciale di monete. «Prendi». Sorren lo prese e fece per andarsene. «Guarda se ti riesce di trovare delle bacche dolci,» aggiunse Arré. «Il cuoco mi ha detto che le abbiamo finite quasi del tutto». Mentre scendeva dabbasso, Sorren si chiese come mai Arré avesse chiesto a lei di indagare sul fidanzamento di Ismenin. Sicuramente era stata invitata al ricevimento. Forse le interessava sapere semplicemente cosa la gente diceva giù al mercato. Lalith la stava aspettando in cucina. «Allora?», le chiese Sorren. La ragazza fece roteare gli occhi, «Agnello e pesce,» cominciò ad elencare, «anice, cinnamomo e sale, carote e cipolle, e mele gialle, se se ne trovano». Olio di choba, pensò Sorren, e bacche dolci. «Grazie,» disse. Alcune si recavano al mercato con liste scritte, ma Sorren non sapeva leggere né scrivere, perciò registrava tutto nella mente. Discese la collina ripetendo a se stessa l'elenco delle compere. Faceva freddo giù a valle presso il fiume. Era scesa la nebbia: la coltre umida ammantava il fiume e l'oceano, e stillava dai fianchi dei cavalli e dai teloni delle bancarelle. In certi giorni era così fitta da avvolgere l'intera città, finanche la collina; come dolevano allora le ossa della vecchia Elith! Non faceva altro che lamentarsi mentre teneva i piedi a bagno nell'acqua calda,
cosa che faceva infuriare Toli costretto ad alimentare la fornace due volte al giorno. Quella nebbia però non disturbava Sorren, che avanzava sorridendo attraverso l'umida cortina. Aveva sei commissioni da sbrigare, senza contare il compito di indagare sul fidanzamento di Ismenin. Si recò dapprima dal macellaio, giacché delle varie tappe quella le risultava la più sgradita. Il banco era attorniato da una folla di clienti, e dovette gridare gli ordini sulle teste dei più bassi. Fu poi la volta del pescivendolo. Thule si affrettò da lei sfregandosi le mani rosse e screpolate. «Le è piaciuto il pesce?», domandò . «Oh, ne è stata entusiasta». La notizia lo riempì d'orgoglio quasi che fosse stato lui in persona a pescarlo. «Bene, bene! In che modo possiamo servire i Med stamattina? Desiderano altre passere? Del nasello? Pesce persico?» «C'è Mirrim?», gli chiese Sorren. Mirrim era la figlia di Thule; una donna snella e tranquilla sempre aggiornata su tutto ciò che accadeva o stava per accadere in città. «No, oggi non c'è,» replicò Thule. «Vuoi forse dell'halibuf?» «Diamo un'occhiata,» disse Sorren. In verità non sapeva distinguere un pesce dall'altro, ma le piaceva guardarli. Thule la condusse presso le vasche e, parlando in fretta, le indicò gli esemplari più grassi in attesa delle dovute lodi. Poco lontano vi era il carro del deposito del ghiaccio e cristalli luccicanti si attaccavano ai corpi dei pesci che saltellavano e guizzavano come se fossero ancora vivi. «Vada per il pesce persico!», si decise Sorren. Math, il secondogenito di Thule, si arrampicò sull'alta tinozza e con una grossa rete riversò in un cesto i bei pesci marroni e dorati, per esser quindi consegnati nelle mani del cuoco di casa Med. I banchi dei fruttivendoli erano affollati, e la drogheria era gremita di gente che ordinava il sale. Sorren lesse ai commessi l'elenco delle cose che le occorrevano, e si allontanò. Si fermò poi alla bottega dell'olio nel Distretto di Ismara e vi lasciò l'ordinativo settimanale d'olio di choba. La bottegaia era una donna cordiale e loquace; chiacchierava sui mercanti i cui banchi di vendita si trovavano lì vicino, parlava del Consiglio, spettegolava sui suoi parenti. Le raccontò una storia divertente e scurrile che riguardava tre Maghi. «Arré Med e suo fratello continuano a farsi la guerra?», domandò. «Non si fanno la guerra,» disse Sorren. «Non hanno molta simpatia l'uno per l'altra, tutto qua.» La bottegaia aggrottò le ciglia, avida di novità.
Non aveva fatto alcun accenno al fidanzamento di Ismenin. Accigliata, Sorren uscì dal negozio. Si diresse allora verso l'angolo del mercato dove gli Asech tenevano i loro banchi di vendita. Presso uno di questi una donna Asech stava danzando con un serpente che si avvinghiava al suo corpo scivolando intorno ai suoi seni nudi. Con movenze aggraziate ed un'aria contegnosa attirava il serpente sui capezzoli. Due uomini sedevano ai suoi piedi; uno suonava il flauto, l'altro suonava lo sho, il caratteristico strumento degli Asech. Il suonatore di flauto incrociò lo sguardo di Sorren e le strizzò un occhio. La ragazza si appoggiò al muro in attesa che terminasse l'esecuzione. Il suo nome era Simbaha, ma tutti lo chiamavano Simmy, e la donna che danzava col serpente era sua sorella. Una volta Sorren aveva suonato per loro in occasione della Festa del Raccolto. L'esibizione cessò e gli spettatori applaudirono. Il serpente sibilò al rumore delle mani. Simmy si fece largo tra la folla recando un cesto. «Ehi, Sorren!». «Non fa un po' freddo per danzare nudi?», chiese la ragazza. «Non saprei, non sono io a farlo. Tani non ci fa caso.» Una donna gettò una moneta di bronzo nella cesta, e Simmy la fece ruotare con destrezza. «Grazie, signora, che il Guardiano ti sorrida sempre!» Tra le sue mani la cesta roteò compiendo un seducente moto circolare. Il flauto, che portava legato al collo con una cinghia, era dipinto con disegni floreali. «Suonerai per Isak Med al Festival di quest'anno?» «Credo di sì. Hai visto Jeshim di recente?» «Quel chaba'ck.» Nella lingua degli Asech quella parola indicava qualcosa di orribile. «Fa il venditore ambulante nel Distretto dei Jalar. Ehi, mi pareva che tu fossi già impegnata! Perché cerchi Jeshim?» «Difatti sono impegnata,» ribadì Sorren. «Voglio solo parlargli». «Peccato!», si rammaricò Simmy. «Mi piacciono le donne alte». Sorren fece un cenno di saluto a Tani intenta a stuzzicare il serpente sì da convincerlo a rientrare nella sua cesta. Si incamminò quindi verso sud, in direzione dell'oceano. Si stava avvicinando al territorio dei Jalar. Nappe gialle, l'emblema di Casa Jalar, ondeggiavano sui pali; ovunque erano appostate Guardie dalle gialle uniformi. Parevano animate da una certa apprensione, e Sorren se ne domandò la ragione. I carri calcavano con fragore le passerelle di legno, e le vele gialle dei pescherecci scintillavano nella nebbia. Alghe, molluschi, ed altri depositi marini, lasciavano indovinare fin dove s'era spinta l'alta marea. Ora l'acqua
era bassa, ma non al livello che raggiungeva talvolta. Con la bassa marea, durante il plenilunio pareva che l'intero oceano si ritirasse dalla terra, scoprendo il delta, fumante e puzzolente, affinché il sole vi infierisse impietoso. Sorren si avvicinò ad una delle Guardie. «Sto cercando Jeshim il giocoliere». «Vicino all'invasatura,» la informò il soldato. «Come ci si arriva?» «Da quella parte». Il percorso sì rivelò un dedalo di viuzze. Infine, Sorren girò intorno ad una cinquantina di edifici che dall'aspetto parevano depositi, ed uscì in uno spazio aperto trovando l'oceano davanti a sé. Stormi di gabbiani sciamavano nel cielo lontano. Un enorme fossa era scavata nel fango, e dentro vi erano le coste ed il fasciame di una nave. Uomini e donne vi erano arrampicati sopra e facevano un gran fracasso chiamandosi a piena voce e picchiettando forte coi martelli. Ne esalavano odori penetranti: il puzzo di catrame, l'odore di legname e di metallo rovente. Era una vista eccitante. Sorren trasse un profondo respiro. Scorse Jeshim sulla passerella. «Sorren!», le sorrise raggiante. Era un mezzo Asech e portava delle pietruzze azzurre alle orecchie. «Che bella sorpresa! Cos'è che ti ha fatto fare tanta strada giù dalla collina?» Sorren sorrise. «Il desiderio di vederti, naturalmente». Il giocoliere sospirò. «Come vorrei poterci credere!» Una mano risalì sinuosa lungo il braccio della ragazza. «Sai bene ciò che provo per te. Ma il Maestro della Piazza, Paxe,» tossì, «mi farebbe a pezzi e mi darebbe in pasto ai molluschi se solo mi azzardassi a toccarti». «Hai ragione, è proprio ciò che farebbe,» approvò Sorren. Con un lieve movimento fece ricadere la mano dell'uomo. Jeshim si strinse nelle spalle. «Vuoi fumare un po' d'Erba?» Si chinò sulla sua sacca, e ne trasse una pipa con un fornello grande quanto il pugno di lei. La riempì e tirò fuori la pietra focaia. Aveva le mani sfregiate da innumerevoli tacche simili a centinaia di piccoli morsi, e Sorren ricordò che si esibiva anche come lanciatore di coltelli. Due soldati di guardia sul ciglio della passerella annusarono il fumo che aleggiò verso di loro con l'intento di individuarne la natura. «Fumare non ti impedisce di fare i tuoi numeri?», gli chiese Sorren. «Niente affatto!», le assicurò Jeshim. «Anzi, mi riescono assai meglio dopo che ho fumato.» Aspirò una boccata dalla pipa. «Ah.» La passò
quindi a lei, ed anche Sorren ne assaporò una breve boccata. Quella droga inebriante le faceva ronzare le orecchie. Uno scalpiccio di passi risuonò sulla passerella. «Di nuovo a fumare, saltimbanco?», lo rimbrottò una voce roca. «Togliti dai piedi!» Un uomo avvolto in un mantello grigio aveva percorso la passerella ed ora fronteggiava Jeshim. Il giocoliere gli rise in faccia. «E tu, sei di nuovo ubriaco, storpio?» Scrollò via un po' di polvere dalla manica. «E se non avessi intenzione di muovermi?», lo sfidò Jeshim. L'uomo snudò i denti. «Fai il buffone davanti alla tua amica. Spostati, o sarò io a farti muovere». «Non oserai davanti alle Guardie,» replicò il giocoliere. Ciò detto, si decise a farsi da parte tanto da consentirgli di passargli accanto e dirigersi verso l'estremità della passerella. Ma, mentre l'uomo lo stava oltrepassando, Jeshim protese un piede in avanti. Lo storpio inciampò, imprecò e si rimise in equilibrio. «Oh, scusami!», disse Jeshim. «Non l'ho fatto apposta.» L'uomo vestito di grigio proseguì per la sua strada ed il giocoliere scoppiò a ridere. «Chi è quello?», gli chiese Sorren. «Lo storpio». Questi si arrestò proprio sul ciglio della passerella e si mise e sedere. «Cosa fa?» «Beve. E poi se ne sta lì seduto. Viene ogni giorno: gli piace guardare come costruiscono la nave.» Trasse quindi un'altra boccata dalla pipa. «Ma ora dimenticalo. È da un pezzo che non ti fai vedere, Sorren. Cos'hai fatto in tutto questo tempo?» Sorren scelse con cura le parole appropriate. Sapeva bene che se intendeva ottenere un'informazione da Jeshim, doveva a sua volta metterlo al corrente di qualche novità così da renderlo suo debitore. «Le solite cose,» rispose. «Ho suonato di tanto in tanto. Ieri sera ho suonato per Isak Med alla riunione del Consiglio. Tra qualche settimana dovrò accompagnarlo alla festa di fidanzamento di uno degli Ismenin». «Fantastico!», approvò Jeshim. «Mangerai bene». «Con i Med non ho di questi problemi. Ho sentito che eseguirai uno dei tuoi numeri». «Al fidanzamento di Ismenin?» I denti gialli di Jeshim luccicarono nel folto della sua barba rossiccia. «Magari! Chi te lo ha detto?» Sorren se lo era inventato. «Non ricordo. Perché, non è vero?» «No.» Le offrì di nuovo la pipa, ma Sorren la rifiutò con un gesto.
L'uomo se la rimise in bocca ed aspirò profondamente, tanto da farsi gonfiare il petto. «Beh, potrei fare in modo che la cosa si avverasse. Ne parlerò a Isak: potrebbe darti una mano». «Oh, te ne sarei immensamente grato. Così potrei far ingrassare un poco il mio povero e magro borsellino». «Non ti hanno chiamato per la Festa del Raccolto?» «Oh, sì, certo. La scriba del Clan Blu è venuta di persona a chiedermi di esibirmi nella loro tenda. Ma ci vogliono ancora cinque settimane». Sorren calcolò il tempo sulle dita. «Già». Voltò quindi lo sguardo altrove, con aria assente. «Quale degli Ismenin si sposa? Non ricordo». «Col,» disse Jeshim. «È il più anziano dopo Ron». «E chi è la promessa?» «Una baldracca del Clan Blu». Jeshim le parlava con gli occhi socchiusi, velati dal fumo che alitava dalla pipa. Sapeva che Sorren gli stava spillando quelle informazioni. Sorren sciolse il nodo del bracciale e ne sfilò una moneta. Il piccolo guscio di conchiglia scivolò quindi nella borsa di Jeshim. L'acrobata socchiuse gli occhi. «Si chiama Nathis Ryth». Sorren non sapeva chi fosse, ma certamente Arré la conosceva. «Guadagni qualche soldo quaggiù?» Jeshim sorrise, dopodiché abbassò gli occhi verso la sacca appoggiata a terra ai suoi piedi. «Questo posto non è né migliore né peggiore di ogni altro angolo della città.» La voce gli si era arrochita ed aveva assunto un timbro più profondo; l'Erba del Paradiso cominciava a sortire i suoi effetti. «Isak Med non sa chi si sposa e con chi, là sulla collina?» Sorren rifletté sul fatto che gli Ismenin non abitassero affatto sulla collina. Ma poi capì cosa intendeva l'amico giocoliere. «Non faccio mai domande a Isak; non lo gradisce.» Era una bugia. Isak gradiva che gli si chiedessero le cose, ma le piaceva l'effetto di quella menzogna. Jeshim annuì, cingendole le spalle con un braccio. «Io e te dobbiamo essere amici, Sorren», sussurrò. La ragazza gli tolse le dita dalle spalle. «Jeshim, metti via quella pipa!» Il saltimbanco la scrutò risentito mentre si alzava, e la seguì con lo sguardo mentre si allontanava lungo la passerella di legno. L'oceano ribolliva, e si contorceva in un moto convulso attraverso la cortina nebbiosa; simile ad un serpente, si dimenava in onde sinuose. Sorren si soffermò ad ascoltare il fragoroso sciabordio.
«È splendido, vero?», le chiese una voce. A parlare era stato lo sconosciuto vestito di grigio. «Credo di sì,» rispose Sorren incerta. Dentro di sé era spaventata dalla forza dell'oceano. «Sei un pescatore?» «L'uomo rise. «Ne ho forse l'aspetto?» Sorren lo osservò con attenzione. Era bruno di carnagione, ed il suo volto aveva un che di bizzarro: zigomi larghi, fronte spaziosa, mento stretto e affusolato, pareva che quella faccia risultasse da un insieme di pezzi che non combaciavano, simili ai lineamenti artificiali di una bambola di legno. Era ubriaco fradicio, i suoi occhi stentavano a mettere a fuoco le immagini, e l'alito era greve per il sentore del vino. «No,» concluse Sorren. «Non hai l'aspetto di un pescatore». La strana figura ondeggiò. «Io so chi sei,» disse. «La schiava di Arré Med. La ragazza del nord». «Mi chiamo Sorren». «E io Kadra. Kadra-no-Ilézia». Sorren sbatté le palpebre con stupore. Era un nome da donna. Scrutò allora con maggiore attenzione la persona che le stava davanti; notò la curva dei fianchi, ed un'altra curva sotto il mantello grigio all'altezza del petto. «Scusami,» le disse Sorren. «Succede,» la tranquillizzò Kadra enigmaticamente. «Oh, sono completamente ubriaca. Conosci quello?», e col pollice indicò il giocoliere. «Sì. È un mio amico». «Amico!» Kadra pronunziò quella parola come se ne ignorasse il significato. Con uno scatto violento estrasse dalla tasca una fiaschetta d'argento e prontamente la accostò alle labbra. Un rivolo le colò lungo il mento, e lo asciugò col palmo della mano. «Qui non siamo sulla collina dei Med. Che ci fai quaggiù?» Sorren fu alquanto irritata dalla sua invadenza. «La cosa non ti riguarda». Kadra la osservò intensamente. «Forse hai ragione. E sei stata molto gentile a farmelo notare». Sorren avvampò. «Non intendevo essere maleducata.» «Quanti anni hai?» Se c'era una cosa che Sorren detestava rivelare agli altri, era la sua età. «Diciassette». «Una bambina».
La ragazza serrò i denti per frenarsi dal rispondere. Kadra continuava a guardarla; alla fine annuì con aria compiaciuta. Sollevò nuovamente alle labbra la fiaschetta. L'agitò con forza. «È vuota, maledizione!» «Lavori dalla darsena? «le chiese Sorren. Kadra rise, ma di un riso che non esprimeva allegria. «No.» Si toccò un lembo del mantello; la stoffa grigia ricadde da un lato rivelando al di sotto un luccichio metallico. «Una volta ero una Messaggera». Sorren fissò il mantello e, sotto parecchi strati di sudiciume, baluginò un luccichio verdino. Il rumore metallico era stato forse provocato da un bottone o da una fibbia, ma Sorren ne dubitava. Soltanto i Messaggeri avevano il diritto di indossare i simboli verdi fuori della città. Quel colore conferiva loro la precedenza sulle strade nei confronti di chiunque, anche dei ricchi a bordo delle loro lettighe. I membri del Clan Verde usavano appartarsi dagli altri, ma Sorren ne aveva conosciuto qualcuno sulla collina. Erano loro che portavano alle tribù Asech e all'Anhard gli editti del Consiglio o le direttive proposte ai Consigli di altre città. «Ti sei ammalata?», chiese Sorren. «Caddi e mi ruppi un fianco,» spiegò Kadra. «Non posso più cavalcare». «Sei stata Messaggera per molto tempo?» «Dieci anni,» rispose Kadra. «Perché?» Sorren si accorse di aver assunto nuovamente un tono scortese. «Pura curiosità!», si giustificò. «A far troppe domande ci si può cacciare nei guai». «Stavo solo cercando di mostrarmi cordiale...» Kadra le aveva voltato le spalle e, passandole davanti, si era incamminata lungo la passerella in direzione della strada. Zoppicava dal lato sinistro. Il pensiero fino a quel momento riposto in un angolino della mente di Sorren, affiorò infine alla sua coscienza. Un Messaggero doveva conoscere il nord. Kadra ripassò davanti a Jeshim, e questi si alzò in piedi. Si avvicinò adagio a Sorren e fece per stringerla tra le braccia. Lesta, la ragazza lo respinse con una leggera gomitata. «Uuf!» Il saltimbanco si massaggiò le costole con ostentazione teatrale. «Smettila!» Sorren vide Kadra infilarsi tra due edifici e poi svanire. Un Messaggero avrebbe saputo dirle quali strade portavano a nord, e qual era il periodo più propizio per affrontare il viaggio. «Fuma un po' d'Erba con me».
«Non posso, devo tornare alla villa». Il giocoliere alzò le spalle. Estrasse da una tasca tre palle rosse e cominciò a farle roteare in aria. Sembrava che a stento gli sfiorassero le mani. «Avevi parecchie cosette da dire a quello storpio. È un tuo amico?» «No,» rispose Sorren. «Ci siamo appena conosciuti. Ma perché ne parli al maschile? È una donna». Jeshim sorrise dietro alle sfere roteanti. «È stato lo storpio a dirtelo?» «Non esattamente. Ha detto di essere...» Sorren cercò di rammentare le parole di Kadra. «Ecco, è proprio così,» disse Jeshim. «In realtà Kadra non può considerarsi una donna vera e propria, e neppure un uomo. È l'una e l'altro, o nessuno dei due, se preferisci. È un ghya. Possiede al tempo stesso parti femminili e parti maschili.» Il tono di Jeshim sembrava compiaciuto di quella spiegazione, o forse l'idea di possedere un sesso compiuto nelle sue parti procurava al giocoliere un certo sollievo. «Come fai a saperlo?» «Lo sanno tutti. Non è un segreto.» D'improvviso, le sfere rosse scomparvero, e Jeshim finse di ritrovarne una tra i capelli, mentre un'altra la recuperò dalla bocca. «Stai ferma, eccola qui!», esclamò, protendendosi verso di lei. «No!» Lei gli colpì la mano, e la palla ricadde sulle assi della passerella. Jeshim cercò di riafferrarla, ma quella rotolò fino all'orlo per poi atterrare nella melma. «Maledizione! Adesso mi toccherà andarla a prendere.» Fissò la ragazza intensamente. «Vieni con me. Sei stata tu a farla cadere». «La colpa è tua,» protestò Sorren. «Non avresti dovuto mettermi le mani addosso. Ti avevo avvertito». «Non sei affatto gentile,» sospirò Jeshim. La ragazza gli sorrise e, frugando nella sacca dell'amico, ne estrasse la monetina che gli aveva regalato. «Allora? Lo sono?» Jeshim gliela tolse di mano senza indugio. «No, no, sei una ragazza adorabile e generosa. Torna di nuovo a farmi visita». «Lo farò,» acconsentì Sorren. «Mi dispiace per la tua palla, Jeshim». «Oh, non è nulla!» Le spedì un bacio con un soffio, e lei finse di afferrarlo e di serbarlo nella blusa. Jeshim non fece in tempo ad accostarsi a lei per stringerla tra le braccia, che Sorren si era già allontanata lungo la passerella inviandogli un cenno di saluto, mentre si dirigeva verso i magazzini.
Quando scese dalla piattaforma, si accorse che l'aria si era fatta più calda; giunta che fu nell'intrico delle stradine, i vestiti le si erano appiccicati addosso. Sentì odore di vino. Esitò un istante, quindi calcolò con le dita i bonta che le erano rimasti al bracciale, consapevole che Arré non avrebbe ancora chiesto di lei. Aveva tempo. Sulla sua destra c'era una taverna dalla quale ondeggiava un'insegna su cui campeggiava un pesce dipinto d'argento. In verità non è che gradisse molto il vino. Avrebbe sostato presso una delle fontane pubbliche dove si sarebbe dissetata prima di inerpicarsi sulla collina. Decise allora di proseguire per la sua strada, ben sapendo che ad attirarla verso quella taverna non era stata certo la sete, bensì il pensiero che Kadra, il Ghya, poteva essere lì. Capitolo quinto Sorren fece ritorno alla casa dei Med più tardi di quanto avesse immaginato. Una folla di persone assembrava la linea di confine tra il Distretto dei Minto e quello dei Med. Sulle prime pensò che fosse accaduto un incidente per il modo in cui la gente si accalcava a guardare. «State indietro!», ripetevano le guardie. «Qualcuno si è fatto male?», domandò Sorren ad una donna che le stava vicino. Questa volse verso di lei i suoi enormi occhi castani. «Oh, no,» ansimò, quasi schiacciata dalla folla che la circondava. «È una Guarigione». Le Guardie cercavano in ogni modo di lasciare un varco libero e, contemporaneamente, respingevano coloro che premevano verso la tenda della Guaritrice. Al di sopra delle teste degli astanti, Sorren riuscì ad intravedere la tenda. Attorno a lei gli ammalati avanzavano in fila agitando le braccia ed urlando con voci febbrili per attirare l'attenzione degli accoliti che si muovevano intorno al perimetro della folla. Sorren sapeva che, per effettuare una Guarigione, era necessaria la presenza di due Maghi: un Mago della Verità col compito di interrogare l'ammalato, ed un Guaritore per compiere il mutamento. Non tutti però potevano giovarsi del loro aiuto: le persone molto avanti negli anni, i giovanissimi, gli storpi, i ciechi ed i sordi ne erano esclusi. Ad altri, invece, l'intervento taumaturgico veniva espressamente rifiutato; ciò accadeva a coloro che, già in via di guarigione, intendevano sottoporsi al mutamento soltanto per un vanitoso desiderio di prestigio o per l'eccitazione d'essere a
contatto con un Guaritore. Una volta Elith si era recata da una Guaritrice lamentando delle difficoltà respiratorie. La Guaritrice le aveva detto di non rimpinzarsi troppo e l'aveva congedata. Con notevole fatica Sorren riuscì finalmente ad attraversare la calca ed a raggiungere uno spazio sgombro. Si affrettò quindi verso casa a lunghe falcate. Sotto l'ombra dell'albero di kava scorse Borri. L'uomo stava chiacchierando con la Guardia di servizio al cancello; nel vederla, si interruppe. «Cosa ti è successo?», le domandò, guardandola dalla testa ai piedi. Sorren si lisciò gli abiti stropicciati. «Sono finita nel bel mezzo di una Guarigione». Arré stava nel giardino: amava molto i fiori. Ignorava assolutamente come si coltivassero ma. quando passeggiava nel giardino, soleva chinarsi a sfiorare i boccioli con una peculiare ed affettuosa tenerezza. «Hai trovato le bacche dolci?», chiese a Sorren mentre questa si avvicinava. La ragazza sospirò: se n'era dimenticata. Si sfilò il bracciale dal polso. «Me ne sono scordata. Però ho l'informazione che volevi». «Sentiamo». «Col Ismenin è fidanzato con Nathis Ryth del Clan Blu». «Ryth,» ripeté Arré. La voce le si fece tagliente. «Ne sei sicura?» Non c'era motivo perché Jeshim le dicesse una menzogna. «È così che mi è stato detto». Arré prese a fissare il muro della villa con l'espressione lievemente accigliata che sempre assumeva quando nella mente inseguiva un pensiero. «Cosa significa?», le chiese Sorren. «È interessante». «Perché?» Arré scacciò un'ape che le ronzava tra i capelli. «Conosci la nostra usanza,» disse. «Un uomo ed una donna sono liberi di congiungersi in matrimonio ma, se decidono di non farlo, i figli appartengono soltanto alla madre. L'uomo non può rivendicare alcun diritto su di loro.» Sorren annuì mostrandole d'aver capito. Sua madre non si era sposata, e lei non sapeva neppure quale fosse il nome di suo padre. Non aveva importanza. «Se i due si sposano, i figli appartengono ad entrambi, fermo restando che assumono il nome della madre. Mettiamo il caso che io avessi sposato Boras Sul. Ebbene, questi sarebbe venuto ad abitare qui, nella mia casa. Suo fratello, Emrith, sarebbe diventato il Capo della Famiglia Sul, ma i nostri figli avrebbero recato il nome dei Med». Sorren cercò di immaginare Arré sposata a Boras Sul e madre dei figli di
lui. Impossibile. «Sono felice che tu non lo abbia fatto». Arré tirò su col naso. «Figuriamoci! Non s'è mai posta una simile questione. Tornando al nostro discorso, gli Ismenin hanno sempre avuto difficoltà a rispettare la nostra consuetudine. Perché una famiglia prosperi è necessario che abbondi di figlie femmine, ed i figli degli Ismenin generano quasi sempre dei maschi. Se essi sposano donne appartenenti a famiglie importanti, i loro figli assumeranno il nome della madre. Orbene, gli Ismenin dispongono di due sistemi per ovviare agli inconvenienti che derivano da questa usanza. Il primo consiste nell'adottare cugine femmine e farle sposare ai rampolli della famiglia. Il secondo consiste nell'allearsi col Clan Blu. Ron Ismenin ha sposato una delle figlie degli Holleth, che appartengono al Clan Blu, e Karya Holleth ha acconsentito a concedere il diritto di attribuire ai figli il nome della sua Famiglia». «Capisco,» 'disse Sorren. Le piaceva quando Arré ragionava ad alta voce in sua presenza. «E anche stavolta la mossa, è la stessa, giusto?» «È quanto credo,» confermò Arré, chinando la testa da un lato. «In cosa commercia la Famiglia Ryth?», chiese Sorren. «Grano,» rispose Arré aggrottando le ciglia. Sorren restò qualche istante in silenzio a rimuginare e, quando fu certa d'aver capito tutto il ragionamento, domandò: «Perché agli Ismenin non nascono femmine?» Arré allargò le mani. «Suppongo che questa sia la volontà del cea.» Il volto le si illuminava di un sorriso sardonico ogniqualvolta si accennava al cea. «Mi sono imbattuta in una Guarigione mentre passavo per la Via delle Mele,» la informò Sorren. Ma ad Arré non interessava la Guarigione. «Mi domando chi abbia avuto quest'idea,» mormorò. «Di combinare il matrimonio?» «Oh, è evidente che vi sono vantaggi per entrambe le parti. I Ryth si imparentano con una delle Famiglie dominanti e, a loro volta, gli Ismenin rafforzano i loro legami col Clan Blu.» Si accigliò. «Legami che potrebbero essere più solidi di quanto possa farmi piacere. No; mi riferivo al fatto di non sapere del fidanzamento. Credo di aver capito». Dall'espressione del suo volto, Sorren indovinò cosa intendesse. «Isak». «È probabile. Lui e Ron Ismenin sono amici. Del resto, il mio affascinante fratello stringe amicizie ovunque va. Alla riunione del Consiglio ho notato una certa intimità tra lui e Cha.» Ciò detto, incrociò due dita.
Sorren strusciò gli alluci nell'erba fresca. Rammentò la faccia di Cha Minto alle spalle di Isak. Più che affascinato le era parso terrorizzato. Sfiorò la campanula d'un giglio; il polline le cadde sulle dita. «Isak è sposato,» disse. «Già,» confermò Arré. «E allora?» «Vive nella casa dei Med, ed i suoi figli portano il nome dei Med». Arré sorrise. «È facile da spiegare, piccola. Mirano-Ivrenia è la figlia di Ivrenia Ishem del Clan Blu. Isak ha sposato la figlia di un mercante. Gli Ismenin non sono gli unici qui in città a seguire le vecchie usanze». Quella notte Sorren sognò nuovamente il castello. Il sogno non durò a lungo. Vide la torre e quindi le mura del castello. Qualcuno vi stava sopra. Desiderò vedere chi fosse ma, non appena fece per avvicinarsi al castello, si svegliò di botto. Quel sogno le fece tornare in mente Kandra. Al levarsi del sole si recò alla casa di Paxe sperando di trovarcela, ma il Maestro della Piazza non c'era. Vi trovò soltanto il gatto guercio pronto a farle le fusa carezzandole le caviglie. Di Ricard nessuna traccia. Fece ritorno alle cucine di casa Med. Si preparò al compito quotidiano delle compere recitando nella mente l'elenco delle cose da acquistare. Ciò fatto si rivolse al cuoco: «Hai mai conosciuto un ghya?» Quello le soffiò in faccia dal folto della barba. «Ha! Chi ti ha raccontato queste storie? Non esistono esseri simili, ragazza. Dove lo hai sentito?» Sorren si strinse nelle spalle. «Non importa!» Poi si allontanò dalla cucina prima che l'uomo potesse farle delle altre domande. Era scesa la nebbia. Gli ambulanti attraversavano le strade facendo tintinnare i campanelli sui loro carri. Giunta al banco del fruttivendolo, Sorren si ricordò di prendere un sacchetto di bacche dolci. Ne pagò il prezzo e ordinò che fossero consegnate subito. Ad Arré avrebbe fatto piacere. Si mise quindi in cammino in cerca del cantiere dove si trovava l'invasatura della nave in costruzione. Non tardò a perdere l'orientamento nel dedalo dei bacini della darsena. I muri ciechi dei magazzini la confondevano. Infine, dopo un lungo vagare attraverso anguste viuzze fangose, tutte uguali fra loro, scorse un uomo intento a scrivere a grandi lettere su di un muro. Si avvicinò a lui. «Sto cercando il cantiere dei Jalar». Lo sconosciuto indicò un punto in fondo alla strada. Le mani brune gli erano diventate bianche per la polvere del gesso. «Segui quella direzione
ed imbocca la seconda traversa alla tua destra. Ti troverai davanti al cantiere». «Grazie!» Posò gli occhi sul muro. «Cosa c'è scritto?» «Niké il Timoniere si fotte le capre,» spiegò con aria soddisfatta. «È il quarto muro su cui lo scrivo». Sorrise e tornò a far ghirigori con la pietra bianca. Sorren seguì le sue istruzioni domandandosi chi fosse Niké il Timoniere. Giunta all'invaso, esitò un istante prima di scendere sulla passerella di legno. Le Guardie dei Jalar gironzolavano oziosamente sulle assi all'estremità della piattaforma. Indossavano dei mantelli sulle camicie gialle. Il rumore proveniente dalla nave in costruzione pareva più rauco rispetto al giorno precedente. Simile ad un mucchio di carbone, Kadra sedeva sulla passerella, raggomitolata nel suo grigio e sudicio mantello. Jeshim non c'era, e Sorren si chiese dove fosse. Si avvicinò a Kadra. Il fango le imbrattava i capelli corti e Sorren pensò che evidentemente dormiva sulla spiaggia. Dagli abiti promanava infatti un odore d'acqua di mare frammisto al lezzo del vino. Il ghya alzò gli occhi verso di lei. «Di nuovo tu! Il tuo amico non è qui». Sorren si mise a sedere senza essere invitata a farlo. Le tavole della passerella erano tiepide. Appoggiò le gambe sul bordo laterale. «Sono venuta per parlare con te, non con Jeshim». «Con me?» Kadra aggrottò le ciglia. «Ti ha mandata Norres?» «Non mi ha mandata nessuno. Sono uscita a fare la spesa: cioè, questa è l'ora in cui ogni giorno esco a far compere per i padroni. Nessuno sa che sono qui». Kadra sbadigliò. Poi, col palmo di una mano, si strofinò la faccia. «Come mai vuoi parlare con me?» Sorren inghiottì nervosamente. «Una volta eri una Messaggera». «Già». «Sei mai stata al nord, alle Rocche?» Kadra sollevò le ginocchia e vi appoggiò sopra la testa. «Molte volte». Sorren espirò sonoramente. Aveva trattenuto il fiato, temendo - quant'era stata sciocca - che le Rocche non esistessero più, che fossero abbandonate, in rovina, sparite, e che i suoi sogni non fossero che un'illusione, il passato, il nulla. «Vorresti parlarmene?», le chiese. «Come ci si arriva, chi vi abita, che aspetto hanno... quelle Rocche?» «Non sono io la persona giusta,» disse Kadra. «Tu hai bisogno di parlare con uno Scolaro».
«No. Gli Scolari conoscono la storia. Io voglio sapere le cose vere, reali.» Terminò la frase con una certa esitazione. «Perché?», le chiese il ghya. Sorren si era aspettata quella domanda. «Devo proprio dirtelo?» «Sì,» rispose Kadra. Sorren strofinò il palmo sull'assito piatto e scheggiato. «Tutti qui mi chiamano la ragazza del nord. Mia madre mi raccontava sempre delle storie: voglio andarci, quando sarò libera». Un'ondata di sentimenti, troppo rapidi per poter essere descritti, attraversò il volto di Kadra. «Quando accadrà ciò?» «Tra un anno,» rispose Sorren. Le pareva fosse un'eternità. Una rondine marina dal capo nero atterrò su di un paletto. Sollevò prima un piede, poi l'altro. Li esaminò per bene e, arruffando le penne, cominciò a beccarseli minuziosamente. «Ti dirò ciò che vuoi sapere,» disse Kadra, alzandosi. «Ma non qui. Se quel ruffiano di Jeshim torna, si offenderà se non ti metterai a conversare con lui». «Non ho voglia di parlare con lui,» convenne Sorren. «Dove possiamo andare?» «In un posto dove ci sia da bere,» disse il ghya. «Sarai tu a comprare il vino». Andarono al Pesce d'Argento. La taverna era cupa e semivuota. Vi stagnava l'odore dell'olio che i venditori ambulanti usavano per friggervi le ostriche. Si sedettero ad un tavolo in fondo alla sala, vicino all'entrata della cucina. La superficie del tavolo era intaccata da una miriade di tagli e graffi. Una donna col grembiule di cuoio portò a Kadra del vino in una bottiglia del color dell'ambra. Inarcò quindi le sopracciglia rivolgendosi a Sorren. «Tu cosa vuoi?» «Niente,» disse Sorren mentre armeggiava col bracciale per sfilarne il bonta più piccolo. Estrattolo, lo consegnò alla donna che, con un'alzata di spalle, ritornò in cucina. Kadra portò la bottiglia alle labbra come un bimbo goloso. Accigliata, Sorren la osservò tracannare la bevanda. «Se ti ubriachi, non potrai più parlare». Kadra mise giù la bottiglia. «Questo è affar mio,» rispose seccamente. «E poi, se vuoi che ti faccia un favore, addolcisci un po' il tono quando ti rivolgi a me». «Scusami,» rimediò Sorren. Il ghya si asciugò la bocca. «Hai un'idea di cosa sia una Rocca?»
«Un castello». «Sì,» confermò Kadra. La voce le si era fatta più pacata. «Ce ne sono quattro: la Rocca di Pel, la Rocca delle Nuvole, la Rocca di Tornor e quella di Zilia. Furono costruite centinaia di anni fa, al tempo in cui l'Arun era in guerra con l'Anhard-aldilà-dei-Monti. Si ergevano sulla steppa, con le montagne alle spalle... Non so in quale di queste vorresti andare». L'immagine evocata da Kadra corrispondeva alla sua visione, e ciò le fece rizzare i peli sulla nuca. «Non lo so neanch'io,» disse. «Che...», esitò, dopodiché proseguì: «Che aspetto hanno?» «Sono fatte di pietra,» spiegò Kadra. «Adesso la roccia si è scurita, sebbene sulle mura della Rocca di Pel si scorgano ancora degli sprazzi di bianco. A quei tempi usavano proteggere la pietra ricoprendola con un intonaco di calce. A sud dei castelli il terreno è piatto e arido, interrotto soltanto qua e là dai pini e dalle capanne degli abitanti dei villaggi. Dicono che la vita lì sia sempre uguale da centinaia di anni. Dietro le muraglie dei castelli, i monti si innalzano come una barriera, come se la terra finisse in quel punto e dietro non vi fosse nient'altro che il vuoto». Scoppiò a ridere. «E invece non è così». «Sì,» disse Sorren. «Sì». Kadra la guardò con una strana espressione. «Allora ci sei stata?» «No,» negò Sorren. «Beh, sì. In sogno.» Si sentì avvampare le guance. «Una di quelle Rocche ha per caso una torre?» «Una torre? Sì, credo che una ce l'avesse, ma poi crollò. Non ricordo quale Rocca». «Ci sono i lupi sulle montagne?» Kadra rise. «Io non ne ho mai incontrati.» Il volto le si fece improvvisamente serio. «Ma, dai viaggiatori provenienti dal nord, ho sentito raccontare di strani suoni nella steppa. Forse ci sono di nuovo i lupi». «E ci sono le aquile?», continuò Sorren. «E gli arcieri?» «Naturalmente ci sono le aquile e cacciatori con archi e frecce. Perché?» Per le Carte, pensò Sorren. Ma non aveva intenzione di parlarne a Kadra, «Così». Gli occhi di Kadra si assottigliarono e la mano si avvinghiò nuovamente alla bottiglia. «Perché non bevi?» «Non ne ho voglia, ti ringrazio». «Educata!» Il complimento suonò quasi come un sogghigno beffardo. «Educata e curiosa. Chi ti ha insegnato questi modi così raffinati?» «Arré Med,» rispose Sorren.
«Huh,» fu il commento di Kadra. Bevve ancora. «Sai quaggiù come chiamano Arré e la gente come lei?» Sorren lo sapeva. «Palloni gonfi di boria». «Com'è la tua Arré?» Sorren aggrottò le ciglia. Come poteva rispondere a quella domanda? «È stata molto generosa con me». La porta dell'osteria si apri ed entrarono due Guardie dei Jalar. Si sedettero ad un tavolo situato nella parte anteriore della sala. Con arroganza presero a fissare davanti a loro. Sorren pensò che stessero guardando lei. Non c'erano altri schiavi lì dentro. Sentì un formicolio nelle braccia. «Non mi piace questo posto», disse, grattandosi. «Io lo detesto», aggiunse Kadra, e bevve un'altra lunga sorsata. «Detesto le città. Sono posti per smidollati. Troppa gente e poco spazio. Piccole case strette, strade strette, menti strette!» La voce le salì di tono. Le Guardie si voltarono a guardarle con quello sguardo sospettoso che è proprio dei soldati. «Non era questo che intendevo,» disse Sorren. Picchiettò sul tavolo. «Non mi piace questo posto. Vogliamo andarcene?» Nello stesso istante ricordò che Kadra era stata ferita e forse camminare le provocava dolore. Ma il ghya era già in piedi. Sorren lo seguì verso la porta. La donna col grembiule di cuoio le guardò allontanarsi, immobile come una statua nella cornice della porta aperta della cucina. Kadra prese la direzione del cantiere. «Vieni con me,» invitò Sorren. «Vieni a vedere la nave.» Alla ragazza non importava granché della nave, tuttavia acconsentì a seguirla. Si calarono giù nel fondo dell'invasatura. Il fango era freddo, umido e scivoloso. Giunte nei pressi della nave, Kadra cominciò a tossire; pesanti colpi secchi che parevano fracassarle il petto. «Vuoi fermarti un po' a riposare?», le propose Sorren. Il ghya parve non sentirla nemmeno. Balle di lana erano disseminate sul fango lì vicino. «A cosa serve quella lana?», domandò Sorren. «Per il calafataggio,» spiegò Kadra. «Immergono la lana nella cera fusa e ne infilano delle lunghe strisce nelle fessure tra le assi». La nave era molto più grande dei pescherecci; persino Sorren, che non capiva nulla di imbarcazioni, riusciva a notarlo. Fissò in silenzio l'enorme scheletro del vascello. «A cosa servirà? Parlo della nave». «Navigherà verso il sud,» disse Kandra. Con un movimento del braccio indicò nella direzione dell'oceano. «Lontano dalla terra, dalle città, per
scoprire nuovi paesi.» Si schermò gli occhi. Veli di nebbia impedivano a Sorren di scorgere ciò che stavano facendo gli operai sulla nave. «I marinai sono quelli?», domandò. «No. Sono falegnami, velai, cordai. La maggior parte di loro non si sono mai allontanati dalla terraferma in tutta la vita. Bisognerà trovare un equipaggio quando la costruzione sarà terminata». «E se nessuno vorrà andarci?» Kadra sorrise. «Qualcuno ci sarà!», disse. Guardò la nave con lo sguardo languido ed intenso che un innamorato ha per la sua adorata. «Tu ci vuoi andare!» Kandra barcollò sul viscido fango traditore. Il suo volto scuro si contrasse per il panico, o forse per il desiderio. «Sì. Oh, mio Guardiano, sì!» Sorren provò ad immaginare cosa si potesse provare ad affidare se stessi ad una scatoletta di legno fluttuante su quella massa immensa d'acqua. Fu scossa da un brivido. «Quando salperà?» «Non appena sarà finita». «A chi appartiene?» «Ai Jalar ed agli Isara». Sorren si domandò se Arré sapesse di quella nave. «Anche tu vuoi lasciare la città. È per questo che hai accettato di rispondere alle mie domande?» Kandra si sedette sul terreno fangoso. «Esatto. Ti dirò qual è la via migliore per raggiungere il nord, quali abiti indossare e quali villaggi evitare. Se ti aiuto, forse il Guardiano permetterà che mi trovi un posto su quella nave». «Non immaginavo che tu potessi mercanteggiare col cea,» osservò Sorren. Le parole della ragazza suonarono aspre e irriverenti. «Sei forse una Maga tu che sai tante cose sul cea?», si infuriò Kadra. «No. Scusami, ti ho fatto arrabbiare. Me ne vado.» La convivenza con Arré le aveva se non altro insegnato quando era il momento di ritirarsi. Si voltò e fece per lasciare l'invasatura. «Aspetta!», la fermò Kandra. Sorren si voltò a guardarla. Il ghya le stava tendendo una mano. Affondando i piedi nel fango, le si avvicinò di nuovo. «Ho detto che ti avrei aiutato, e lo farò!», affermò la storpia. Sollevò in alto il palmo di una mano. «Prendilo, a suggello del nostro patto.» Sorren raccolse un piccolo guscio di conchiglia dalla mano di Kandra. Aveva la
forma d'una lacrima. Era minuscolo, leggero come una perlina, di un rosa traslucido e delicato come schiuma. Rigirandoselo tra le dita, Sorren prese a risalire la parete melmosa dell'invaso verso la spiaggia. Si voltò indietro una volta ancora e scorse Kadra accosciata sul fango accanto alla nave. Qualcosa nella posizione del ghya la fece rabbrividire. Avrebbe fatto bene ad andare da una Guaritrice, pensò; dev'essere molto ammalata. Man mano che si avvicinava alla strada, la parete dell'invaso si faceva più ripida, e Sorren dovette appoggiarsi sulle mani per mantenersi in equilibrio. I piedi le scivolavano sui mucchietti di alghe e gusci rotti sparsi qua e là. Raggiunta la strada, vi si incamminò stancamente. La faccia scura di Ricard le apparve dinanzi all'improvviso. Si arrestò, sorpresa ed infastidita dalla vista del ragazzo. Questi aveva gli occhi iniettati di sangue, gli abiti insudiciati e impregnati dell'odore d'Erba dell'Estasi. La fissava, col mento proteso in avanti e le labbra arricciate come un bimbo imbronciato. Sorren cercò di proseguire aggirandolo, ma Ricard allargò le braccia per sbarrarle il passo. «Cosa ci fai quaggiù?», gli chiese allora. «Puzzi!» Accompagnò la constatazione con una smorfia di disgusto. «Ti ho vista!», ribatté lui. Sorren serrò le dita intorno alla perlina di conchiglia domandandosi a cosa si riferisse. L'aveva vista fare cosa? «Ti sei messo a seguirmi?» Cercò di spingerlo e di farsi largo, ma lui si ostinava nell'impedirle il cammino. «Ti ho vista!», ripeté. Sorren sentì crescere in sé la collera. «Ricky, lasciami in pace!» «Ti ho vista parlare con quell'uomo». Sorren resistette all'impulso di gridargli in faccia che Kadra non era un uomo. «Vattene, Ricky!», gli intimò. «Ti ho vista!», insistette, e si gettò su di lei. Sulle prime Sorren pensò che il ragazzo avesse semplicemente perso l'equilibrio, sicché lo respinse tentando di rimetterlo in posizione eretta. Ma il ragazzo la trascinò con sé sui ciottoli del selciato, mentre con le mani le strappava la camicetta. Sorren lo allontanò a fatica; Ricard era forte. D'un tratto, si udì il suono penetrante d'un fischio. Aliti cocenti lambivano il volto di Sorren e la ragazza capì che Ricky stava cercando di baciarla. «Sei un idiota!», gli gridò e, con uno sforzo poderoso, lo scaraventò sul selciato. Ansimando, Ricky tentò nuovamente di sopraffarla, ma la ragazza lo cen-
trò con un pugno in pieno volto. Inarrestabile, Ricky le si gettò addosso inchiodandole la schiena contro la roccia. Nella caduta i ciottoli le escoriarono le scapole. «Stupido ragazzino!», gli disse. «Non sono un ragazzino!», grugnì Ricky, mentre le bloccava i polsi e le piantava un ginocchio tra le gambe. Sorren udì dei rumori, l'avvicinarsi d'una folla. Qualcuno rise. La ragazza prese a contorcersi e a dimenarsi, tentando di divincolare le mani, mentre Ricky le alitava in faccia l'odore pungente dell'aria dell'Estasi. Finalmente qualcuno lo sollevò di peso dal corpo di lei. Sorren si issò a sedere. I gomiti escoriati le dolevano intensamente. Ricky era lì davanti a lei, in mezzo a due Guardie dei Jalar. Aveva la camicia lacerata. La ragazza sorrise con furia e piacere e quella visione, e si rimise lentamente in piedi. «Vi chiamate?», chiese una delle Guardie. Sorren si scrollò la polvere dalle mani. «Sorren-no-Kité, schiava di Arré Med.» Si sfregò il fianco dolente. «E questo idiota è Ricard-no-Paxe, figlio del Maestro della Piazza d'Armi della Famiglia Med». L'altra Guardia, un uomo corpulento dalla pelle scura, strattonò il collo della camicia di Ricard. «Cosa stavi facendo?», lo interrogò. Ricard aggrottò le ciglia e rimase muto. La guardia si rivolse quindi a Sorren. «Sei ferita?» «No.» D'improvviso si ricordò del guscio di conchiglia. Fino al momento dell'aggressione lo aveva tenuto stretto nel pugno. «Oh, maledizione!» Tastò i vestiti nella speranza che fosse andato a ficcarsi in qualche piega. Niente! Probabilmente si era sgretolato nella colluttazione. Sentì di nuovo la collera crescere dentro di lei. «Oh, maledizione, maledizione!» «Cosa c'è?» «Mi ha fatto cadere una cosa». «Questo?», disse la prima Guardia mostrandole il bracciale di conchiglie. «Anche quello,» rispose Sorren. Non lo aveva neppure sentito cadere. «Non dovreste fare giochi così pericolosi!», li rimbrottò la Guardia. Sorren fissò la soldatessa. «Giochi! Quell'idiota mi ha aggredita! Credete che mi piacciano la polvere e le ferite? Non stavamo affatto giocando!» «Non datele ascolto,» protestò Ricky, «è una puttana!» Sorren gli balzò addosso. Voleva dilaniargli la faccia con le unghie, ed aveva voglia di fracassargli la testa. Lo colpì ripetutamente. Le due Guardie lasciarono libere le braccia di Ricard per agguantare quelle di lei.
Ricky si allontanò di corsa facendosi largo a spintoni tra la folla che si era radunata. Le Guardie lanciarono delle imprecazioni, e la donna colpì Sorren. Ma questa aveva già cessato di lottare. La soldatessa le torse il braccio piegandoglielo dietro la schiena, rendendola inoffensiva. Un dolore lancinante le invase la spalla. «Non è necessario», mormorò tra i denti serrati. La scortarono attraverso la città e su per la collina fino alla casa dei Med. Giunti al cancello, la Guardia lasciò il braccio, ormai intorpidito, di Sorren. La ragazza lo scrollò con forza per restituirgli la sensibilità. La Guardia di servizio alla porta osservò la scena. Elith venne ad aprire: la vecchia scrutò Sorren inarcando le sopracciglia, dopodiché si affrettò a chiamare Arré. Questa apparve dalla saletta. «Cosa è accaduto?» Una delle due Guardie cominciò a parlare, ma Sorren la interruppe. «È stato Ricard. Io mi trovavo alla darsena a parlare con un amico e lui mi ha vista. Puzzava di Erba dell'Estasi. Mi è saltato addosso. Stavo lottando per respingerlo, quando sono giunti loro. Ricky mi ha chiamata "puttana", allora non ci ho visto più e l'ho colpito. Loro mi hanno afferrata e lui è scappato.» Tremava. La schiena le doleva ed anche il braccio le faceva male; le pareva di essere tornata a quando aveva dodici anni. «Ti senti bene?», le chiese Arré. «Ti ha fatto male?» «No. Non mi ha fatto niente». «Allora?» disse Arré volgendosi alle Guardie. Queste apparivano imbarazzate. «Non sapevamo chi avesse cominciato,» disse la donna mettendosi sulla difensiva. «È stato lui,» ribadì Sorren. «Mi ha perfino strappato il braccialetto.» La guardia rammentò d'averlo raccolto e lo porse ad Arré. Questa lo prese e lo depose. «Vi ringrazio per aver agito così repentinamente nell'interrompere la lite,» disse infine alle Guardie, e rivolgendosi a Sorren con dolcezza aggiunse: «Perché non vai a ripulirti?» Sorren andò in cucina. Da lì riusciva a sentire la voce di Paxe nella Piazza d'Armi. Gli apprendisti cuochi si radunarono attorno a lei tempestandola di domande. La ragazza si abbandonò su uno sgabello. «Sono stata assalita, al mercato,» spiegò. «Chi è stato?», chiese Toli. «Cos'hai fatto?» «Mi sono difesa.» Si sentiva ancora scossa da tremori. Il cuoco uscì da dietro al banco da taglio e si avvicinò senza abbandona-
re la mannaia da macellaio. «Hai fatto le ordinazioni?» «Sì.» Sorren appoggiò la testa sul palmo di una mano. L'uomo le porse un panno inumidito e con esso la ragazza si deterse il viso e poi i gomiti. Lalith le portò del tè. Accasciata sullo sgabello, prese a sorbirlo a piccoli sorsi. Lalith le sfiorò con le dita la camicia lacera. «Te la rammenderò,» si offrì. Sorren scrollò la testa. «So farlo.» Il tè era addolcito col miele. Quel piacevole sapore produceva un effetto calmante. Il cuoco lanciò un'occhiata agli apprendisti che tornarono immediatamente al loro lavoro: bisognava lavorare l'impasto, tagliare la verdura. Ogni volta che Sorren posava lo sguardo su di loro, quelli le sorridevano. Non sentiva più la voce di Paxe. Si chinò sul banco da taglio. Il tepore della cucina era delizioso, simile a quello di una calda trapunta di piume. La porta della cucina si aprì. Nella stanza entrò Arré seguita da Paxe. Questa aveva interrotto l'addestramento nella Piazza, ed il sudore le imperlava il corpo. Sorren intuì che Arré le aveva raccontato l'accaduto. «È stato Ricard?», chiese. Lalith ansimò. Tutti gli sguardi erano posati su di lei. La donna sollevò il viso di Sorren tra le mani, e con le labbra sfiorò una piccola ferita di cui la ragazza non si era neppure accorta. «È stato lui a fartela?» Arré osservava la scena con le mani posate sui fianchi. «Te l'ho detto! Ormai è troppo cresciuto per continuare a bighellonare qui intorno, a spillarti danaro ed a lavorare solo quando gli va. «Deve imparare ad assumersi qualche responsabilità». «È ancora un ragazzo!», protestò Paxe. I bracciali d'argento di Arré tintinnarono. «È un marmocchio viziato». «Le Guardie lo hanno arrestato?» «No, è scappato. Mandalo nelle vigne, Paxe». «Gliene parlerò,» acconsentì Paxe, mentre le sue mani carezzavano la spalla di Sorren. «Non devi parlare con lui!» Arré sbatté con forza una mano sul banco da taglio. «Glielo devi ordinare. Tu lo lasci troppo libero di fare ciò che vuole, e guarda i risultati.» Accennò a Sorren con un gesto della mano. Sorren si figurò Ricky al lavoro nei vigneti. Era troppo pigro per essere utile laggiù. Il solo pensiero del ragazzo le faceva serrare i pugni. Non voleva rivederlo mai più. «Tu non ne sai niente, Arré,» proruppe Paxe furiosa. «Tu non hai mai avuto figli.»
«Sì, ma vedo ciò che è davanti ai miei occhi,» ribatté Arré. «Non tutti ci riescono». Gli sguatteri, e persino il cuoco, avevano interrotto il lavoro ed ascoltavano avidamente. «Io non mi permetto di darti consigli su come presiedere il Consiglio,» replicò Paxe. «E tu non darmi consigli su come educare mio figlio». L'alterco continuò sul capo di Sorren. Le battute le rintronavano nella testa che le doleva sempre più. Il caldo della cucina si era fatto soffocante. Si sentiva mancare. La schiena ed i gomiti le facevano male. Aveva perduto la conchiglietta che le aveva regalato Kandra; aveva usato il danaro di Arré per comperare del vino per un ubriaco... Si mosse freneticamente sullo sgabello: la gola le doleva, gli occhi le bruciavano. Scoppiò allora in lacrime come una bambina. L'alterco cessò di colpo. Paxe le cinse il corpo con le braccia. Insieme salirono di sopra, nella camera di Sorren, e questa si raggomitolò sul letto a piangere. Paxe le si sedette accanto, carezzandola, e sfiorandola dolcemente con le dita. Dopo un po', Sorren cessò di piangere. Sentiva il corpo rigido e pesante, come le capitava durante il ciclo mestruale. «Mi sento una stupida,» disse. «Ho sonno». Paxe la baciò sulla bocca. «Non sei stupida.» Le carezzò i capelli, liberandole il viso. «Riposa. Dopo ti sentirai meglio.» Quindi si alzò. Sorren fece per chiamarla, per dirle che aveva strappato la camicia di Ricard, ma il Maestro della Piazza aveva già oltrepassato la soglia. Con un sospiro Sorren adagiò la testa sul braccio che non le doleva. La porta della camera di Arré era aperta, ma Paxe bussò ugualmente. Arré conosceva quel modo di bussare. «Entra,» disse. Paxe si introdusse nella stanza. «Sta bene?», si informò Arré. «Dorme,» rispose Paxe con un tono che sottintendeva: Non parliamone. Con dolcezza Arré aggiunse: «Guarirà. I bambini guariscono in fretta e, per certi versi, lei è ancora una bambina. Non è poi tanto più grande di Ricard». «È molto più matura di Ricard», la corresse Paxe. E, dal modo in cui pronunziò il nome del figliolo scapestrato, Arré percepì la rabbia e la frustrazione che la sopraffacevano. Tendendole la mano, disse: «Ti prego, Paxe, non avercela con me. Mi rincresce di averti turbato. Fai con Ricky ciò che ritieni sia giusto».
Paxe annuì. La sua statura faceva sembrare piccola la mobilia della stanza. Prese tra le mani la statuina di pietra poggiata sul tavolo e ne seguì i contorni con le dita. «Cosa raffigura?», domandò. «Una foca». «Somiglia più ad un orso.» La rimise al suo posto. «Arré, non sono venuta per parlare di Ricky, o di Sorren.» L'espressione del suo volto era seria, la schiena dritta come un'asse di legno. Arré appoggiò le spalle sui guanciali e, mentre Paxe le raccontava che un mattino era andata alla Piazza d'Armi dopo il giro di ronda e vi aveva sorpreso le Guardie intente ad osservare una spada, non smise di carezzare con le dita i tasselli del rivestimento murale. Le mani di Paxe fendevano l'aria mentre descriveva i movimenti della spada; dimentica che Arré non aveva mai usato quell'arma in vita sua, le chiese di immaginare la spada senza la lama e cosa ciò potesse significare per lei. Paxe era snella e soda come lo era stata tredici anni prima: soltanto gli occhi e le mani recavano i segni del tempo. Arré la osservava immobile dal suo nido di guanciali, sentendo l'antica attrazione rimescolarle il sangue. Se soltanto, pensò, se soltanto fossimo rimaste insieme - ma ormai era troppo tardi per i rimpianti. Ascoltò con attenzione il racconto della visita di Paxe alla Piazza d'Armi degli Ismenin e di cosa vi aveva trovato. Quando Paxe le riferì delle file di soldati armati di spade di legno, Arré sentì un brivido correrle lungo la schiena. Nessuna Piazza d'Armi insegnava l'arte della spada. Era proibito. «Come ha fatto Ron Ismenin a convincere i suoi soldati ad infrangere il dettato del Bando?», disse. «Immaginavo che sarebbero stati terrorizzati all'idea di toccare delle armi, fossero pure di legno». Paxe spiegò quanto le aveva detto Dobrin a proposito del Bando e dei Maghi. La sua voce era tesa; era evidente che il colloquio con Dobrin l'aveva sconvolta. Arré annuì. Era un discorso logico; e poi, non aveva mai creduto nel cea. Sapeva bene quale fosse l'origine del Bando, altro che cea! Era stato architettato dal Consiglio con la connivenza del Clan Bianco al fine di distruggere il potere del Clan Rosso, la cui forza aveva superato i limiti di tollerabilità del Consiglio; inoltre il Bando era servito ad arrestare il progressivo impoverimento del tesoro cittadino che il commercio dei metalli stava provocando. La richiesta di armi comportava che un terzo dei fondi cittadini fossero impiegati per pagare il metallo e l'acciaio raffinato, e tutto quel danaro finiva al nord, a Tezera, lontano dai forzieri dei Governatori della città e dei mercanti. Il Clan Bianco aveva approvato il Bando
essendo nel suo interesse arginare il potere crescente del Clan Rosso. La nonna di Arré, Tabitha Med, aveva contribuito personalmente alla creazione del Bando. All'epoca della sua nascita non c'erano più ceari in città. E adesso abbiamo Isak, pensò Arré, il mio caro, intrigante fratello. Mi chiedo come abbia fatto a incastrare Cha Minto. La voce di Paxe interruppe bruscamente le sue meditazioni. «Arré, mi stai ascoltando?» «Ho sentito ogni parola,» la rassicurò Arré con voce ferma. «Dobrin mi avrà detto la verità?» «Su che cosa?» «Sul fatto che nel Bando non si faccia riferimento alle spade dalla lama corta». «Sì, di questo ho la certezza,» disse Arré. «Ho una copia del Bando nel mio studio, e possiamo darle un'occhiata, ma dubito che sia necessario. Una menzogna sarebbe troppo facile da svelare». Eccitata, scivolò giù dal letto e si avvicinò alla finestra. Gli Ismenin possedevano molte miniere. Sarebbe stato vantaggioso per loro se il Bando fosse stato soppresso o in qualche modo aggirato. Quand'è che una spada non è una spada? pensò, e rispose a se stessa; quando è una «spada corta». Kendra-sul-Delta era il mercato più grande nella terra dell'Arun, e cosa c'era di meglio da costruire col metallo? Un pensiero la colpì. «Quando è accaduto ciò che mi hai raccontato, Paxe?», le chiese. «Quattro giorni fa,» rispose il Maestro della Piazza. «Quattro giorni fa? Prima che il Consiglio si riunisse?» Paxe annuì. «Perché hai aspettato tanto a dirmelo?» Paxe si guardò le mani. «Avevo bisogno di riflettere». «Avresti dovuto dirmelo subito! Riflettere è compito mio, non tuo. Se io lo avessi saputo quando ho riunito il Consiglio...» Che differenza avrebbe fatto? pensò. Nessuna, in realtà. «Lo sanno tutti in città che gli Ismenin stanno addestrando i loro soldati ad usare le spade corte?» Paxe scosse il capo. «No. Hanno una sentinella al cancello della Piazza d'Armi che impedisce l'accesso a chiunque non indossi i colori degli Ismenin. Inoltre, Dobrin ha ordinato alle sue Guardie di tenere la cosa segreta». «Tu non hai visto delle armi vere e proprie». «No. E Dobrin è stato molto chiaro su questo punto: il possesso di armi da taglio è proibito ai suoi soldati». «Lyrith ne aveva una».
«È stato frustato per questo». «Ma a che scopo addestrare i soldati con lame di legno se non si progetta di farli poi combattere con armi vere?», disse Arré. Mi domando se il Clan Bianco è a conoscenza di questa storia, pensò. Dubito che lo siano. Comunque avrebbe dovuto informarli, ed Arré non pensava che avrebbero approvato. Cercò di immaginare cosa avessero in mente gli Ismenin. Forse speravano di incoraggiare un traffico d'armi clandestino. Ma non sarebbe stato difficile porvi fine; i primi cittadini trovati in possesso di spade si sarebbero visti mozzare la mano destra, e la cosa avrebbe terrorizzato tutti gli altri. «Cosa credi che stiano facendo gli Ismenin?», domandò a Paxe. Questa rispose: «Non lo so. So soltanto che tutto ciò e pericoloso.» Intanto carezzava la piccola scultura, tenendola tra le grosse mani come fosse viva. Arré sbuffò. «Certo che è pericoloso!» «Cos'hai intenzione di fare?», disse Paxe. «Io? Non c'è nulla che possa fare. Innanzitutto,» tornò presso il letto e vi si sedette, «non c'è un rigo nel Bando o nelle ordinanze del Consiglio che vieti il possesso di spade corte di legno». Paxe corrugò la fronte. «Si può uccidere con una spada di legno se la si sa usare,» osservò. «Tu ne sei capace?», disse Arré. «Non lo sapevo». Era forse possibile che gli Ismenin stessero addestrando un esercito privato? Cose ancor più strane erano accadute in passato, tuttavia, da ben ottant'anni, non erano più circolate armi nell'Arun: oltretutto, Arré non riusciva ad immaginare cosa Ron Ismenin avrebbe potuto ottenere armando un esercito privato che non sarebbe riuscito ad ottenere spendendo una piccola quantità di danaro. La donna trasse un sospiro. «Devo parlarne al Consiglio,» annunziò, alludendo a Marti Hok. D'improvviso avvertì una profonda stanchezza; la fame di qualcosa di dolce cominciò a solleticarle lo stomaco. Si adagiò sui cuscini. Strategie, complotti, alleanze, presero forma nella sua mente. Il Consiglio governava la città, ma il potere esisteva al di là della formalità rappresentata dalle leggi del Consiglio. Avvertì la sensazione di essere, unitamente all'intero Consiglio, manipolata... ma da chi? Cha Minto? Bah. Isak? Gli Ismenin? «Cosa dovrei fare?», disse Paxe. Arré aveva quasi dimenticato che Paxe era lì. Voleva fare qualcosa che infastidisse gli Ismenin. «Sai insegnare ad usa-
re la spada?» «Sì,» rispose Paxe. «Potrei farlo. Posso chiedere ad un falegname di fabbricarmi delle spade di legno, dei seji, e portarli nella Piazza d'Armi». «Allora fallo». «Perché?» Il tono della sua voce tradì un certo turbamento. Arré le sorrise. «Perché coglierà gli Ismenin di sorpresa. Fallo, Paxe! Non aver timore: non vi saranno problemi, a meno che il Consiglio non bandisca l'uso dei ferri corti». «Benissimo!» Con fluide movenze, Paxe si alzò e ripose l'animaletto di pietra sul tavolino laccato. Poi uscì dalla stanza in silenzio. Arré si alzò dal letto. Prese l'oggetto di pietra - forse, a ben guardare, era proprio un oros - e cominciò a carezzarlo anche lei: le sue dita cercarono gli incavi e le fessure che le calde mani di Paxe avevano appena sfiorato. Aveva comperato quella statuina diversi anni prima da un venditore ambulante Asech. Rigirò la figura tra i palmi sforzandosi di ricordare il giorno preciso. Erano ormai diciotto anni che viveva in quella città, in quella casa, in quella stanza. Ne respirò l'odore, un misto di fragranze floreali, aromi di cibi, sentori umani. Depose la statuina sul tavolo. Con un sospiro si piegò languidamente sulle ginocchia, accostò la guancia allo sgabello di palissandro e ne assaporò l'essenza, cercando di discernere tra il profumo di Paxe e l'odore del legno. Che sciocchezza! Si alzò. Le sue ginocchia scricchiolarono. Era troppo vecchia per sentire ciò che sentiva. Era gelosa di Paxe e Sorren? Un poco, pensò. Si avvicinò alla finestra e ne scostò l'imposta di sete e carta. Case, strade, botteghe, le si pararono dinanzi simili ai disegni d'un arazzo. Scorse un falco volteggiare nel cielo lungo il fiume, e quella visione le richiamò alla mente lontani pomeriggi nei quali aveva passeggiato lungo la riva seguendo con lo sguardo le zattere che ne discendevano il corso, le spalle cinte dal braccio di Paxe. Erano stati anni felici! Allora aveva imparato il suo mestiere, l'arte di governare; Paxe era Vice-Comandante della Guardia. E Isak: Isak era a Shanan, a studiare l'Arte della Danza. Isak sapeva delle spade? Si chiese. Era amico di Ron Ismenin, per cui doveva saperlo. Naturalmente non glielo avrebbe detto. Lei era sua sorella, una persona che Isak odiava e che voleva soppiantare, o almeno eguagliare nella posizione sociale. Un'immagine carpì il suo sguardo per un istante: un ragazzino, bruno e minuto, con la grazia d'un felino, gli occhi scurissimi e brillanti; lo vide, esultante, lanciare gridolini gioiosi mentre lei lo lanciava in aria, i lunghi capelli turbi-
nanti nella brezza. «Re!», la chiamava; «Re, aspetta. Re, posso venire con te? Re, voglio sedermi vicino a te...» Lo adorava, al pari di sua madre e di chiunque lo avesse conosciuto. Quando era accaduto che la sua gioia si era trasformata in gelosia? Non riusciva a ricordarlo; sapeva solo che era avvenuto molto presto. Tra i sette e gli otto anni metteva il broncio in sua presenza e, al contrario, si mostrava prodigo di attenzioni per la mamma, quasi fosse convinto che il suo amore potesse in qualche modo cambiare il fatto che lui era più giovane, e di conseguenza non avrebbe ereditato il comando della stirpe dei Med. Aveva pianto per Shana Med. Arré chiuse la finestra. Poi Isak era andato a studiare con Meredith e, quando era tornato da Shanan, era diventato fragile, eppure apparentemente duro come la superficie d'una chobata, ed inaccessibile, almeno per Arré, come se dimorasse nei profondi recessi di una caverna. Era già ora di pranzo quando Sorren uscì dalla sua stanza. I lampionai si stavano scambiando i loro acuti segnali tra le vie tortuose. Nelle sere in cui non c'erano ospiti a cena - cosa che accadeva il più delle volte - era abitudine di Arré consumare il pasto serale nella sua camera. Stava indugiando sul dessert, quando Sorren entrò. La contusione sulla fronte della ragazza era gonfia ed arrossata. «Siediti,» la invitò Arré, mentre agitava la campanella per chiamare Lalith. «Hai messo un impacco d'erbe su quella contusione?» «Sì.» Sorren si sedette sullo sgabello. Ih quell'istante entrò Lalith, ed Arré le ordinò di portare un altro vassoio con le vivande che anche lei aveva consumato. «Non ho fame». «Sciocchezze!», commentò Arré. «Dovresti essere affamata, invece: dopo aver dormito tutto il pomeriggio e fatto a botte tutta la mattina!» Sorren si toccò i margini della ferita. Arré disse a se stessa che sembrava più grave di quanto lo fosse realmente. Lei si feriva facilmente, e i più minuscoli taglietti ci mettevano un'eternità per guarire. La pelle di Sorren era diafana, e qualsiasi segno spiccava con particolare evidenza. Sembrava proprio una ragazza del nord; era stato il suo incarnato ad attirare l'attenzione di Arré quando l'aveva vista nei vigneti qualche anno prima: i capelli dorati come il sole splendente, ed i suoi occhi, blu come i gelsomini che crescevano tra i filari delle vigne. Quand'ero piccola, pensò Arré, ho sempre sognato d'essere come lei. «Non volevo dormire così a lungo,» si giustificò la ragazza.
Arré le sorrise. «Non ti sto rimproverando, bambina». «Non sono una bambina.» Sorren eresse l'alto busto come soltanto Paxe sapeva fare. «Lo so, lo so,» disse Arré con dolcezza. Però dimostrava meno di diciassette anni con quei capelli scompigliati dai cuscini e le bianche palpebre ancora pesanti per il sonno. «Come ti senti?» «Bene.» Lalith portò la cena. Sorren si accomodò il vassoio sulle ginocchia e prese un pezzetto di prosciutto. «Credo proprio d'avere fame,» ammise, sollevando timidamente lo sguardo tra le ciglia. «Dev'essere l'aria di mare. Ero alla darsena quando Ricard... mi ha vista». «Oh?» «Stavo guardando la nave; quella che gli Isara e i Jalar stanno costruendo per navigare verso il sud». Arré annuì. Edith Isara le aveva parlato della nave, quasi scherzando su quel suo investimento. «Probabilmente affonderà e non se ne sentirà parlare mai più,» aveva detto. «Ma chissà; potrebbe far ritorno con notizie interessanti da terre straniere, luoghi strani dove l'oro e l'argento sgorgano dal terreno e le gemme preziose crescono sugli alberi». «Ma io credevo che tu volessi andare a nord,» osservò Arré. Il tono era bonariamente beffardo, ma Sorren arrossì ugualmente. «Sì, certo! Un... un amico mi stava mostrando la nave». Arré leccò il cucchiaio. «Non ti biasimo per aver fatto a botte con Ricard». «Io non volevo!», protestò Sorren. «È stato lui a provocarmi!» «Posso immaginarlo». «Cosa accadrà quando tornerà a casa?» «Questo spetta a Paxe deciderlo,» rispose Arré, e al tempo stesso pensava: Spero che abbia il buonsenso di mandare quello zoticone nei vigneti. Davanti a sé vedeva una ragazza con la pelle dorata che, pensò con stizza, valeva certo due Ricard! Con voce calma le chiese: «Quei lividi ti impediranno di suonare?» Sorren sembrò sconvolta. «Oh, no, naturalmente!» Bene, pensò Arré. Esitò, soppesando ogni parola prima di parlare. «Quando andrai da Isak a provare?» «Tra una settimana. Se ne avrò il permesso,» rispose Sorren, mentre masticava un secondo boccone di prosciutto. «Avrai il permesso,» concesse Arré. «Voglio che tu faccia qualcosa per
me quando andrai da Isak.» Non gradiva servirsi di Sorren, ma non c'era altro sistema per scoprire ciò che doveva sapere. Isak amava parlare con Sorren: certo, non si abbandonava completamente a libere confessioni, ad ogni modo quel che le diceva era sicuramente meno calcolato di quanto non lo fosse allorché si rivolgeva a chiunque altro. «Se puoi, di' a Isak che hai visto Paxe usare un nuovo aggeggio nella Piazza d'Armi: una spada corta. Chiedigli cosa ne pensa, e fa' attenzione a ciò che dice». Sorren mangiò un'altra fettina di prosciutto. Una luce costante si irradiava dalla chobata rilucendo sulla trama fine e levigata della sua pelle. È una creatura amabile, pensò Arré con uno spasimo. Amabile com'io non lo sono mai stata, neppure da ragazza. «Ha davvero una spada?», chiese Sorren. «Credevo fosse proibito». «Forse. Staremo a vedere!», replicò Arré. Si domandò quanto Isak sarebbe riuscito a indovinare dalle garbate maniere di Sorren. L'arte dell'inganno era estranea alla sua natura. «Cosa dovrò dirgli se mi chiederà dove se l'è procurata?» «Gli dirai la verità; che non lo sai». «E se mi chiederà perché gli faccio quelle domande?» Arré sorrise. «Tu conosci Isak, piccola. Digli che le rivolgi a lui perché lui sa tutto ciò che accade in città». Capitolo sesto Quando al mattino Paxe si risvegliò, trovò il letto macchiato di sangue. Imprecando, saltò giù dal materasso e ne sfilò le lenzuola. Non si aspettava che le mestruazioni le arrivassero con tanto anticipo. Ammucchiò coperte e lenzuola sul pavimento ed andò al lavabo per lavarsi le cosce. Aprì poi il cassettone ai piedi del letto, ne trasse un tampone e, accovacciatasi, lo introdusse. Sentì una fitta alla schiena. Con espressione aggrottata, si vestì e scese di sotto con la biancheria sporca tra le braccia. Il ventre gonfio le premeva contro la cintura dei calzoni. Fuori, l'aria era fresca. Verso est il sole sfiorava il fiume, e le nuvole ne carpivano i riflessi riempiendosi della sua luce. Paxe ammucchiò la biancheria nella lavanderia. La preoccupazione le aveva fatto anticipare il flusso mestruale. Sì, era preoccupata per Sorren, per Arré, per la città, e, soprattutto, per suo figlio. Si domandò dove fosse in quel momento. Non era rientrato; né lei si era aspettata che tornasse. Probabilmente stava cercando faticosamente il co-
raggio di affrontarla. Arré ha ragione, pensò, sono stata troppo permissiva con lui. Ma, dopo averne persi due, si era stretta a quel terzo figlio forse con troppo impeto. Lasciò la lavanderia. Un ragazzo con un bracciale da schiavo degli Hok stava risalendo il sentiero. Paxe lo vide fermarsi a parlare con la Guardia al cancello; questi annuì, dopodiché lo lasciò entrare. Il Maestro della Piazza fece la sua ginnastica mattutina con più vigore del solito e, quando il sole si fu levato sui tetti bassi della città, era già tutta sudata. Le Guardie intanto arrivavano nella Piazza e la salutavano a voce bassa. Kaleb, però, tardava. Chiedendosi dove fosse, Paxe si mise a osservare i suoi soldati mentre si disponevano in coppie per l'allenamento. Seth entrò nella Piazza. «Buongiorno, Maestro!», disse in tono dimesso e amareggiato. Per aver portato la spada nella Piazza d'Armi, Paxe lo aveva punito ordinandogli di ripulire tutte le armi contenute nell'armeria, e adesso aveva le mani, le braccia ed i capelli, unti del grasso usato per la pulitura. Le Guardie si allontanarono in fila per esercitarsi con le picche. Il Maestro ne osservò i lanci e le giravolte. Kaleb entrò nel recinto con passi talmente leggeri che soltanto la sua ombra proiettata obliquamente sul terreno annunziò a Paxe il suo arrivo. «Buongiorno,» la salutò. «Buongiorno. Com'è trascorsa la notte?» «Altre zuffe alla darsena». La donna scrollò il capo. «Danni?» «Parecchi.» Con voce roca per la stanchezza, Kaleb elencò: «Sette Guardie ferite, una trafitta allo stomaco da un pugnale da pescatore, due colpite alla testa da un chiodo a becco. Adesso sono nel Tanjo. I Guaritori dicono che quello pugnalato ce la farà, ma uno degli uomini feriti alla testa rischia di restare cieco. Correo-no-Samantha è su tutte le furie». Correo era il Maestro della Piazza al servizio della Famiglia Jalar. «Lo credo bene!», commentò Paxe, rabbrividendo. Se fossero stati soldati suoi... «Anche stavolta erano presenti i fratelli Ismenin?» Kaleb allargò le braccia. «Non lo so. Gli uomini catturati dalle Guardie dei Jalar non hanno voluto parlare.» «Io scommetto che c'entrano anche stavolta,» disse Paxe. «Pensi che siano stati pagati?» «Solo un Divinatore potrebbe dirlo». «Forse sarà necessario consultarne uno,» osservò la donna. Poi, inclinando la testa, scrutò a fondo il volto bruno di Kaleb, provato dalla fatica.
«Sembri sfinito, amico mio». «Lo sono,» ammise Kaleb con franchezza. Ammettere una cosa simile non era da lui, e Paxe ne fu sorpresa. «Te ne vai a casa ora?», gli domandò. «Sì.» Kaleb abitava ad ovest della collina, in una casetta poco distante dalla Porta di Nordovest. «Ti faccio compagnia. Devo dirti una cosa». A lunghi passi si allontanarono insieme dall'altura del colle. Il profumo dei gelsomini aleggiava con la brezza del mattino, pregna degli odori più acri delle spezie, del pesce e del sudore. Paxe ricordò che nei vigneti i gelsomini erano tutt'uno con le viti cosicché, al tempo della vendemmia, le vivide infiorescenze turchine parevano sbocciate dalle viti stesse. Il Maestro della Piazza raccontò a Kaleb, di Seth, della spada, della sua visita a Dobrin e degli ordini di Arré. L'uomo ascoltò con attenzione, la testa obliqua per capire ogni parola, mentre avanzava con la sua peculiare andatura strisciante, caratteristica di chi è abituato a camminare sulla sabbia. «Cosa ne pensi?», gli chiese infine Paxe. Un lieve sibilo passò attraverso i denti dell'uomo. «Cosa posso dire? Gli Anziani Asech non ci hanno mai proibito l'uso delle armi. Ma noi rispettiamo la scienza del Clan Bianco perciò, nella cinta della città, tutte le genti del deserto onorano il Bando». «Sicché tu pensi che non dovrei insegnare ai miei uomini l'arte della spada?» Kaleb scrollò la testa: era un gesto che aveva acquisito lì a Kendra. Gli Asech non scuotevano il capo per indicare un diniego. «Arré Med è un membro del Consiglio. Deve avere delle buone ragioni per impartire simili ordini». «S-s-sì,» ammise Paxe. Erano giunti alla casa di Kaleb. «Le notizie dalla darsena non le piaceranno». «Non se ne dovrebbero sentire più,» disse Kaleb. «Correo sta raddoppiando la guardia». «Molto saggio!», approvò Paxe. Sollevò quindi una mano. «Ti lascio qui, amico mio. Dormi bene». Kaleb le afferrò le mani. «Ho saputo di Ricard,» le confidò con delicatezza. Paxe non gli chiese in che modo; sapeva che Kaleb aveva le sue fonti d'informazione. «Lo hai visto?», gli chiese invece.
L'uomo scrollò il capo. «No. Ma non stare in pena per lui, Paxe. È di buona razza; non c'è malizia in lui». Con sua sorpresa, Paxe sentì gli occhi riempirsi di lacrime. «Sì,» disse. «Beh, se lo vedi, digli di tornare a casa». Perrit, il falegname, lavorava nel Distretto degli Hok, dalla parte opposta della città rispetto al Distretto dei Med, e cioè ad un'ora circa di cammino. Il sole, rotolando veloce sull'alto orizzonte cominciava a riscaldare i ciottoli del selciato. Paxe decise di percorrere strade diverse dalle solite e s'incamminò verso est. Lo stomaco cominciò a brontolare ricordandole che non aveva mangiato nulla. Un ragazzetto con un cesto di ciliege le passò accanto. «Quanto vuoi?», gli chiese Paxe. «Non le vendo, Maestro della Piazza,» spiegò, mentre il suo sguardo guizzava nervosamente da una parte all'altra della strada. «Le sto portando alla nonna; le ho comprate da Seri. È qui vicino, due isolati più giù...» Paxe alzò una mano per fermare il flusso di parole del ragazzino. «Va bene, va bene. Vai pure.» Imboccò quindi la Via dei Cardatori» ed attraversò il confine che delimitava il Distretto della Famiglia Minto. Si fermò presso una bancarella a comprare delle pizzette di pesce; iniziò quindi una conversazione col venditore al quale, grazie a qualche lusinga ed un bicchiere di vino, riuscì a strappare diverse informazioni. L'uomo le raccontò per filo e per segno com'era scoppiata la zuffa alla darsena. «Quaranta persone ferite!», concluse con orrore misto a soddisfazione. «Sette!», corresse Paxe. «Soltanto sette». L'uomo sembrò deluso. Paxe si rimise in marcia e, mentre camminava, prestava attenzione ai discorsi dei passanti. Tutti parlavano degli scontri ai bacini e della Festa del Raccolto ormai prossima. Per tre volte, lì nel Distretto dei Minto, Paxe scorse dei vecchi chinarsi su mucchietti di paglia sparsi sulla strada dove formavano particolari disegni. Da questi si credeva possibile prevedere il futuro. Predire la sorte era ni'cea, ossia contrario ai sacri principi del cea, come aveva dichiarato il Clan Bianco diversi anni prima; ciò non di meno, quando gli eventi cittadini apparivano contrassegnati dall'incertezza, i lanciatori di paglia facevano puntualmente la loro comparsa. Il mercato pareva più affollato del solito, e più sporco anche, come se i pulitori non avessero fatto il loro lavoro. L'odore acre dell'Erba dell'Estasi ammorbava l'aria. Ci fu un momento in cui Paxe credette di scorgere suo
figlio in un angolo brulicante di gente. Ma, quando raggiunse il posto, non vi trovò Ricard, né alcuno che gli somigliasse. Un mendicante le strisciò accanto piagnucolando. Paxe gli rivolse un grugnito minaccioso che lo fece allontanare alla svelta. Cercò di ricordare quando i mendicanti erano arrivati in città. Si trattava perlopiù di truffatori, e tutti erano ladri. Con la testa piegata da un lato, passò davanti alla Piazza d'Armi degli Hok. Si aspettava di udir contare il Maestro («Uno - due - tre - quattro!») ma percepì soltanto i consueti tonfi, grugniti e strascichi. Le Guardie del Distretto, vestite dell'azzurro e del bianco delle Insegne degli Hok, le rivolsero un inchino. Quando entrò nella bottega in Via dei Falegnami, Perrit era alle prese con un pezzo di legno imprigionato nella morsa. Paxe non volle disturbarlo e si fermò nel vano della porta, con le spalle appoggiate al muro, fino a quando uno degli apprendisti non l'ebbe scorta offrendole tempestivamente uno sgabello. Osservò le mani di Perrito padroneggiare la sgorbia nella stanza pregna dell'odore di legno tagliato e trementina. Assi di tutte le fogge, e di tutti i generi e colori, erano affastellate dappertutto. Perrit depose la sgorbia e liberò il pezzo di legno dalla morsa. «Buongiorno,» gli disse allora Paxe. Perrit annuì in risposta. Aveva la pelle bruna come lei, i suoi capelli erano bianchi, era vecchio, e tuttavia le sue spalle erano simili alla quercia che modellava. «Maestro Paxe,» le disse, saltando i suoni che non riusciva a pronunziare. I tre incisivi superiori, deteriorati dalla vecchiaia, erano quasi del tutto fuoriusciti dalla mascella. «Cosa posso fare per te?» Giacché le Guardie Cittadine occasionalmente si trovavano a dover affrontare marinai o contadini ubriachi in possesso di armi di contrabbando, Paxe aveva pensato di insegnare ai suoi soldati alcune mosse di difesa col coltello. Per questo tipo d'allenamento usava delle lame intagliate nel legno di quercia bianca, chiamate niji. Ed era Perrito a rifornire di queste armi Paxe ed altri due Maestri. Paxe si protese in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Mi serve un po' d'equipaggiamento per gli allenamenti». Un'espressione di sorpresa si disegnò sul volto bruno di Perrito. «Di già?» Paxe scelse con cautela le parole giuste. «Perrit, la tua memoria arriva oltre il tempo del Bando?» Due ragazzi le passarono accanto con pali di cedro rosso in equilibrio sulle spalle. Granelli di segatura picchiettavano loro i capelli e gli abiti.
Perrito rispose: «Sì. Avevo tredici anni quando fu emanato. Perché?» «Credo che tu sia l'unico intagliatore in città che possa ricordare come si modella un seji». Il vecchio si strofinò il mento glabro. «Ce ne sarà qualcun altro,» disse. «Ne hai bisogno?» Il tono di Perrit non era né impressionato né sorpreso. Paxe voleva chiedergli chi tra i suoi compatrioti avesse costruito i seji per Dobrin, ma sapeva che l'artigiano non glielo avrebbe detto. «Si, me ne occorrono alcuni; diciamo una ventina». Perrit annuì. «Li farò». «Falli tu personalmente,» lo invitò Paxe. «E sarai tu stesso a consegnarli». L'uomo rispose con un grugnito. «Non è necessario che me lo dica. Per quando dovranno essere pronti?» «Quanto ti ci vorrà per farli tutti?» Perrit fece i suoi calcoli fissando il vuoto. «Tre settimane». «Vada per tre settimane,» confermò Paxe. «Vedrai che i Med sapranno ricompensarti generosamente». Mentre si allontanava dalla bottega, sentì un'altra fitta attraversarle la schiena. Percorse il Distretto degli Isara e, ad ogni passo, pulsazioni dolorose le colpivano il tratto lombare della colonna vertebrale. Al cancello del Tanjo si fermò dinanzi ad Orilys. Questi le rivolse un inchino accompagnandolo con un ossequioso: «Maestro». «Come va?» «Tutto tranquillo, come sempre». Nulla si muoveva sul pavimento immacolato, che i fedeli servi del cea provvedevano a tenere sempre ben spazzato. «Lasciami passare,» disse Paxe con un gesto d'impulso. Sorridendo, Orilys le aprì il cancello di ferro. Era buio nel palazzo di pietra rossa. Lentamente, gli occhi di Paxe si adattarono all'oscurità. Quando la vista le fu tornata chiara, unì i palmi e si inchinò. Mattonelle azzurre ed argentee formavano il pavimento. Le pareti erano prive di ornamenti. La luce filtrava da alcune fessure nella cupola e si irradiava fioca dalle lampade di filigrana argentata che pendevano dall'alto, fissate alla parete per mezzo di ganci e lunghe catene. Un sommesso cinguettio rilevava la presenza di uccelli. Paxe avanzò d'un paio di passi e si sfilò i sandali. Le mattonelle erano fredde. Incrociò le braccia sui seni e sollevò il capo, fissando la bianca colonna nel centro della sala. La pietra era levigata, lucida verso la base per il sudore e l'unto delle di-
ta. L'immagine del Guardiano - chiunque lo sapeva - era quella, l'immagine di qualcosa che non esisteva, giacché il Guardiano non era un essere reale, ma il simbolo stesso di una realtà più potente che gli studiosi definivano il cea. Ma, in quella quiete grave ed imperante, era facile dimenticare che il Guardiano era un mero simbolo e che la sua statua altro non era che un pezzo di pietra inciso. O Guardiano, invocava la gente della città; Che il Guardiano ti sorrida, ci si augura l'un l'altra. I cittadini avevano sue statue nelle loro case, e vi si inchinavano dinanzi con rispetto. Una volta - rammentò Pax - anche lei era andata lì, piangendo per i suoi figli. Guardò l'immutabile alabastro senza età. Era facile crederlo reale, un essere più forte di lei, più saggio di lei, non un uomo, non una donna, senza nascita e senza morte, senza i solchi e le cicatrici che segnano il passaggio della vita umana, finanche dei più fortunati. Con gli occhi chiusi Paxe recitò una breve, silenziosa preghiera, in quella segreta oscurità; pregò affinché nessun danno potesse venire attraverso lei al popolo delle città che amava. Raggiunto che ebbe il confine del suo Distretto, Paxe cominciò ad avvertire un certo disagio. Sapeva quanto fosse sconsigliabile andare in giro da quelle parti; ciò non di meno rallentò il passo, si inoltrò in diversi vicoletti ed infine ritornò sul suo cammino. Silenziosamente imboccò l'arco d'una porta ombreggiata e vi rimase in attesa. Un istante dopo, le sue orecchie tese carpirono lo scalpiccio di piedi nudi sul selciata. Una piccola figura con un cesto stava attraversando il vicolo che lei aveva appena lasciato. Afferrò il ragazzo per un braccio. «Le portavi alla nonna, vero? Bugiardello!» Lo schiaffeggiò con vigore sufficiente a fargli arrossare la guancia. Il cesto gli scivolò dalle mani e cadde sulla strada. Il ragazzo si contorse cercando di divincolarsi, ma Paxe serrò con forza la mano sul suo braccio snello. «Sta fermo!» Lo scrollò. «Mi stavi seguendo». Gli abiti cenciosi e la pelle scura, il ragazzo, simile a cento altri abitanti di quei viottoli, la guardò fissamente. «Come ti chiami?», gli domandò. «Dove abiti?» Il ragazzo scrollò la testa, quasi sfidandola ad accompagnare il suo interrogatorio con una stretta più dolorosa. Paxe si rabbuiò. Poi, illuminata da un'idea improvvisa, gli afferrò insieme un braccio ed una gamba e lo capovolse. Il ragazzo gridò; due monete,
una di consistenza dura e pesante, l'altra fulgida, gli caddero dalle tasche. Il pezzo di bronzo rimbalzò due volte e ricadde sul terreno. Lesta, Paxe coprì con un piede la lucida moneta incisa. «È mia!», protestò il ragazzo. Paxe lo mise giù e lui frugò il terreno per recuperare il pezzo di bronzo. «Se mi dirai chi te le ha date, riavrai l'altra moneta,» sentenziò Paxe. Il labbro inferiore del ragazzino cominciò a tremare. «Piangere non ti servirà a nulla». Le lacrime che gli occhietti avevano minacciato di far sgorgare, si ritirarono prontamente. «Non so come si chiama,» disse infine. «Non ti credo,» ribatté Paxe. «È vero! Non lo so!» Gli occhietti la guardavano con astuzia. «Ha i capelli rossi, però». «Ce ne sono molti coi capelli rossi in città». «Ha tre fratelli, e anche loro hanno i capelli rossi». Sogghignando, Paxe sollevò il piede dalla moneta brillante. «Non dirgli che ti ho scoperto,» gli intimò, «o altrimenti sarò costretta a darti una lezione.» Paxe arretrò e, fulmineo come una serpe all'attacco, il ragazzo afferrò il pezzo da tre e corse giù per il vicolo. Paxe si rimise in cammino e stavolta evitò inutili deviazioni, tagliando direttamente verso la casa dei Med. Passò dall'ingresso delle cucine: Toli stava lavorando l'impasto sul tavolo del pane canticchiando una canzone popolare. Lalith stava sgusciando dei gamberetti, ed i rosei gusci traslucidi erano sparsi sui gradini della cucina. «Arré è nel suo studio?» Lalith depose sul pavimento la zuppiera colma di gamberi e si asciugò le mani sul grembiule. «Sì, Maestro della Piazza, vuoi che ti annunci?» Paxe sorrise alla ragazza. «No, non disturbarti.» Attraversò svelta la lunga cucina. Il forno era acceso e il sudore le solleticava le gote. Nello studio Arré stava seduta con un pezzo di carta in grembo; era un foglio di colore giallastro, spesso come una pelle di vitello, ed era sigillato da un pezzetto informe di cera rossa. Il sigillo recava l'emblema triangolare dei Med. «Buongiorno,» disse Paxe. Paxe si sedette sullo sgabello. Non le riusciva di ignorare la lettera, la cui consistenza era notevole sulle ginocchia di Arré. L'intestazione non si leggeva. «Cos'è?» Arré diede un colpetto alla carta. «Una lettera per il Tanjo. Da parte mia,» aggiunse.
Paxe ne fu sorpresa. Sapeva che Arré aveva poco a che fare col Clan Bianco. «In merito alle spade?», domandò. «Già,» confermò Arré. «I Maghi devono sapere cosa stanno facendo gli Ismenin. Qualunque provvedimento il Consiglio decida di adottare, sarà necessaria l'approvazione del Clan Bianco». «A chi la manderai?», continuò Paxe. «A Jerrin-no-Dovia i Elath,» disse Arré facendo rotolare quel nome sulla lingua. Jerrin-no-Dovria era L'hel - ossia il Capo - del Consiglio dei Maghi di Kendra sul Delta. Paxe lo ricordava per i suoi interventi durante le diverse cerimonie di festeggiamenti che si tenevano nel corso dell'anno: era un uomo robusto, con spalle possenti e serici capelli. Tre anni prima aveva presieduto il Festival di Primavera. Quell'anno Ricky aveva compiuto dodici anni e Paxe lo aveva condotto al Tanyo per la Cerimonia del Riconoscimento. Paxe, come la maggioranza di coloro che vivevano al di fuori dei confini della città, non aveva mai assistito al cerimoniale; i Maghi lo avevano istituito in sostituzione dell'antica tradizione che una volta contrassegnava il passaggio all'età adulta, e cioè la consegna del coltello. Durante la cerimonia, i dodicenni venivano presentati a turno al L'hel il quale li accompagnava solennemente dinanzi al Guardiano. L'impressione che Paxe aveva ricevuto del Capo in quell'occasione, era stata favorevole; le era sembrato gentile e, al tempo stesso, sicuro di sé. Bene, pensò. Lui dovrebbe sapere cosa dire agli Ismenin. Rammentò il discorso eccitato di Dobrin a proposito dei Maghi. «... Pur se hanno dei poteri, sono comunque esseri umani...» «Non ti fa piacere?», le chiese Arré. «Ti sei rabbuiata. Credevo che approvassi.» Il tono della sua voce tradì la nota sardonica che sempre la accompagnava allorché si alludeva ai Maghi. «Mi fa piacere!», la rassicurò Paxe. Arré si accigliò. «Spero solo di non dover andare personalmente al Tanjo». Paxe decise di cambiare argomento. «Ci sono stati disordini alla darsena la notte scorsa. Sette feriti. È probabile che siano stati gli Ismenin a fomentarli». «Ron farebbe meglio a prendere provvedimenti contro i suoi fratelli!» sbottò Arré. Subito dopo si distese e la sua voce suonò quasi falsa. «Senti un po' donde giunge la predica!» «Isak non fa a botte,» osservò Paxe.
«Sarei più felice se lo facesse: almeno saprei quello che fa. Isak vive per conto suo, danza, fa qualche visita, non lavora... ma cosa fa con la sua mente?» Il tono si alzò in preda all'esasperazione. Mi sembra di sentire me stessa, preoccupata come sono per Ricard, pensò Paxe. Era stufa di preoccuparsi per suo figlio. «Sono stata nella Via dei Falegnami, ed ho ordinato venti seji, come tu hai detto». «Benissimo!» «Arré...» Paxe si sforzò di trovare le parole appropriate. «Se le spade ritornano in città, le persone ferite saranno più di sette. Una spada è assai più pericolosa di un bastone o di un coltello». Arré spiegò le mani. «Ho forse detto che voglio far ritornare le spade in città? No di certo». «Perché ordinare dei seji allora?» «Perché ciò ha un significato politico,» le rispose Arré. «Gli Ismenin li hanno». Paxe scrollò la testa. La politica non le interessava affatto. «Sono stata pedinata fino alla bottega del falegname». «Da chi?» «Da un ragazzino. L'ho bloccato in un vicolo e lui ha ammesso che gli Ismenin me lo hanno messo alle calcagna». Arré sbuffò sprezzante. «Idioti! Credevano che non te ne saresti accorta?» Si grattò il mento. «Però, è interessante il fatto che loro vogliano sapere dove vai e con chi ti incontri». «Vuoi che gli faccia perdere le mie tracce?» Arré serrò le labbra. «No. Lasciatelo gironzolare attorno.» Sollevò la lettera sigillata dal grembo. Ce n'era un'altra di sotto, più piccola, e aperta. «Sorren non è ancora tornata?» «In cucina non c'era». Arré picchiettò con le dita sulla seconda lettera. «Marti invita Sorren a farle visita. È stata subito attratta da lei». «Sorren me lo ha detto». «Marti desidera raccontarle le sue storie, tutto ciò che ha a che fare con le Rocche del nord. L'altra sera Sorren mi ha chiesto cosa fosse una Rocca». «E tu glielo hai detto?» «Gliel'ho detto». Paxe si chiedeva se Sorren avesse raccontato ad Arré delle sue visioni. «Lei spesso sogna il nord,» disse. «Vuole andare là quando sarà libera».
«I ragazzi hanno sempre strane ambizioni. Le passerà!», disse Arré. Paxe scrollò la testa. «Ne dubito». Vi fu un breve silenzio. Fu Arré ad interromperlo. «Ricard non è ancora tornato a casa?» Paxe abbassò lo sguardo. «No.» Un debole ronzio riempì la stanza: una mosca era entrata in picchiata dalla finestra e stava roteando sulle loro teste. «Mi spiace se ho parlato senza averne il diritto». Paxe capì che alludeva all'acceso scambio di opinioni che avevano avuto a proposito di Ricard. «No, ne avevi il diritto,» disse Paxe stancamente. «Ciò che hai detto era giusto; sono stata io a rovinarlo.» Quest'ultima, brutta parola, suonò quasi come un segno nefasto. Con tono fermo Arré disse: «Non tormentarti così, Paxe. Tornerà». «Lo spero». Sorren era preoccupata. Aveva ripercorso la strada che portava all'invaso, e stavolta ci era andata da sola. La nebbia era fitta ed inghiottiva i pescherecci, ciechi nella bruma; e tutta la darsena risuonava dei segnali, ciascuno diverso dall'altro, che i barconi lanciavano per avvertire gli altri della loro presenza. Jeshim non era più ai bacini; probabilmente se n'era andato in cerca di un posto più caldo. Quanto al ghya, Sorren setacciò ogni angolo, si calò persino nel fango per dare un'occhiata sotto la passerella di legno, ma niente, di Kadra nemmeno l'ombra. Salì di nuovo sulla pedana. Le Guardie dei Jalar sostavano all'estremità del passaggio. Sorren si incamminò nella loro direzione. Le giunsero dei frammenti della loro conversazione, sospinti dal vento. «Accoltellato...», disse uno. «Nelle budella, come un maiale.» Poi, quando la videro arrivare, tacquero, ed uno allungò la mano verso la lancia. L'altro lo bloccò. Si rivolse quindi a Sorren. «Stai cercando il tuo amico?», le chiese. «Sto cercando Kadra,» rispose lei, mantenendosi ad una buona distanza da loro. Non provava una particolare simpatia per le Guardie dei Jalar. «Hai guardato sotto la passerella?» «Sì, non c'è». «Potresti chiedere alla locanda "Il Pesce", sai?» Era una buona idea. «Grazie,» disse Sorren. Le porte della taverna erano chiuse per riparare dall'aria fredda dell'esterno. A Sorren bastò una piccola spinta e quelle si aprirono. La donna col
grembiule di cuoio apparve dalla cucina. Aveva le mani insaponate. «Che c'è?», le domandò. «Sto cercando Kadra». «Ah!», commentò la donna. «Quello! Prova in strada.» Ciò detto, tornò nel retro della locanda. Sorren si accigliò. Niente da fare, pensò. Uscì di nuovo. Poi, dato che le era stato insegnato a prendere alla lettera ogni ordine che non potesse avere qualche altro significato, decise di rimanere nei pressi della locanda. La porta posteriore era aperta; ne fuoriusciva il clangore delle pentole accompagnato dalle imprecazioni della donna. Accanto alla parete orientale della palazzina semirivestita di legno, un informe ammasso di stracci attrasse la sua attenzione. Quei cenci avevano un'aria familiare. Si avvicinò. Gli stracci si mossero, e Sorren si inginocchiò. «Ehi,» disse. Scrollò delicatamente la stoffa. Il lungo fagotto grugnì ed un occhio la guardò dalla piega penzolante d'un cappuccio. «Vattene!», intimò una voce. Era Kadra. Sorren spiegò un lembo del mantello. La faccia del ghya era contusa da un lato. La mascella inferiore di sinistra sembrava rigonfia. Gli abiti apparivano invece sorprendentemente puliti, ma lo spazio intorno a Kadra mandava un fetore di vino e vomito. «Posso aiutarti?», si offrì Sorren. «Vattene!», biascicò il ghya. Muoveva le labbra come se le dolessero. Con una mano tremolante cercò di tirarsi sulla testa il cappuccio del mantello. «Tu non vuoi farlo,» disse Sorren. «Hai forse bisogno di sentirti malata?» Spinse indietro il cappuccio dalla testa di Kadra. «No!», protestò quella. Quindi si raddrizzò. «Ho bisogno di lavarmi.» La sua voce si era fatta più forte. «Visto che non te ne vuoi andare, aiutami ad alzarmi.» Sorren si drizzò e le tese una mano. Kadra si aggrappò a lei e si tirò su appoggiandosi al muro. «Guardiano, la mia testa!», mormorò sistemandosi i vestiti alla meglio. «Aspetta qui!», disse poi. Andò verso il retro della taverna barcollando un pochino. «Norres!» Un grido acuto le rispose. Sembrava avere un significato. Kandra si infilò attraverso la porta. Sorren esaminò con lo sguardo il posto dove il ghya aveva passato la notte. Era privo di ogni comodità; l'unica nota positiva era il fatto che gli edifici circostanti lo riparavano dal vento. Dopo un po', Kandra uscì dalla locanda coi capelli gocciolanti. Con pas-
so più fermo avanzò verso Sorren. «Sei tenace,» le disse. «Come facevi a sapere dove trovarmi?» «Me l'ha detto quella donna,» rispose Sorren indicando la porta posteriore della taverna. «Già. Cosa vuoi?» «Avevi detto che mi avresti insegnato come andare al nord». «Cea, è vero! Ciò non significa però che tu debba diventare il mio custode!» Si accosciò quindi appoggiando la schiena al muro di mattoni ed assi di legno. Ora si vedeva chiaramente che aveva la mascella sinistra gonfia. «Hai fatto a botte?», le chiese Sorren. «C'è stato qualche incidente alla darsena la notte scorsa; sciocchezze!», spiegò il ghya. «Sono finito mio malgrado in una disputa che non mi riguardava». Un carro proveniente da un magazzino rotolò rumorosamente verso la darsena. «Se non vuoi che venga qui, non tornerò più,» disse Sorren, «ma ho bisogno di sapere dove posso vederti, e quando. Posso venire di mattina, dopo aver fatto la spesa. Non tutti i giorni però, altrimenti qualcuno potrebbe farci caso». Altri carri seguirono il primo. Con tono assente, Kadra osservò: «Staranno scaricando una nave.» Si strofinò le palpebre. «L'hai presa sul serio, non è così? Hai già pensato a tutto. Dove ti sei fatta quel graffio?» Per un attimo Sorren non capì a cosa alludesse il ghya. Poi rammentò il livido sulla fronte. «Non è niente,» disse. «Una discussione animata». «Hai vinto?» «Non ho perso». «Conosci le regole del combattimento?» Sorren scrollò la testa. I servi non imparavano cose del genere. «Sono forte!», disse. «La forza da sola non basta,» disse il ghya. «Sai cacciare? Sei capace di usare una lancia od un coltello?» Ancora una volta, Sorren scrollò la testa. «Quando andrai al nord dovrai conoscere tutte le arti della caccia, e provvedere alla tua difesa. La gente di Galbareth non ti molesterà ma, dopo il Lago Aruna, le strade si fanno selvagge e pericolose. Non è certo l'itinerario migliore per un viaggiatore solitario». «Voglio sapere soltanto come arrivarci,» insisté Sorren, sforzandosi di non tradire la sua impazienza. Mezzodì era vicino, e non voleva che Arré
si accorgesse della sua assenza. «Sarebbe più facile spiegartelo se avessi una mappa,» disse Kandra. Sorren non ne aveva mai vista una. Sapeva, però, cosa le avrebbe mostrato: la terra d'Arun, rimpicciolita abbastanza da entrare in un foglio di pergamena. Si domandò se fosse possibile per lei procurarsene una. «Tu sai dove si trova la Via dei Susini?», le chiese Kandra. «Posso trovarla». «È nel Distretto dei Batto. Una mia zia ha una casa laggiù; a volte ci passo un po' di tempo. Ci incontreremo lì la settimana prossima, tre ore dopo che il sole si sarà levato». «In quale giorno?» «Il quarto. Lei va ai bagni il quarto giorno di ogni settimana; ci va di mattina e vi si trattiene un paio d'ore». «Come farò a riconoscere la casa?» «Basterà che tu chieda di me; a uno qualunque». Stava risalendo la collina in tutta fretta, quando da un uscio una voce la chiamò sussurrando: «Sorren.» La ragazza si guardò intorno, contrariata. Era forse Jeshim che la pedinava? Un'ombra si proiettò sul selciato. «Sorren!» Era Ricard, in piedi sotto un albero di kava. Sembrava sfinito e preoccupato e, più che mai, un ragazzino. «Ti prego,» le disse. Sorren si avvicinò ad una distanza tale da consentirgli di parlare a bassa voce. «Cosa vuoi?» «Sorren, mi dispiace!», disse. La voce era quella titubante e acuta d'un bambino. Sorren si chiese se non la modulasse di proposito in quel tono. Aveva i vestiti sudici, e la camicia ancora strappata. «Mi dispiace davvero! L'Erba mi ha fatto perdere il controllo: ero quasi pazzo. Adesso sono lucido; non ho fumato una sola boccata da quando sono scappato via dalle Guardie». Poteva essere vero. «Cosa vuoi adesso?», ripeté Sorren. «Mia madre è arrabbiata con me?» «Probabilmente. Non ne abbiamo parlato». «Tu stai bene?» Guardò con apprensione la contusione sulla fronte della ragazza. «Non sei riuscito a ferirmi,» lo tranquillizzò. «Ricky, ora devo andare a casa. Se vuoi parlare con me, accompagnami».
«Ho paura di tornare». Era la risposta più onesta che Sorren avesse mai sentito da quella bocca. «Prima o poi dovrai farlo,» gli disse. Alquanto sorpresa si rese conto di non avercela più con lui. «Penso che sia tuo dovere». «Posso venire con te?», le chiese strascicando i piedi. «Ti ho già detto di sì.» Sorren si chiese dove avesse dormito. Uscito allo scoperto, Ricard si avvicinò a lei con prudenza e insieme si incamminarono su per la collina. Era strano camminare con lui in quel modo. «Dove sei stato?» Il ragazzo curvò le spalle. «In giro. Lontano da qui.» Sospirò. «Alla darsena». «Strano che le Guardie dei Jalar non ti abbiano trovato». «Ero a monte del fiume, nel Distretto degli Hok. L'ho vista... la mamma. Ero nascosto nei dintorni della Piazza d'Armi». «Non è onesto farla stare in pena. Ha il suo lavoro da compiere». Ricard allontanò un sasso con un calcio. «Io non voglio crearle problemi. Succede. Sono così stupido». «Proprio quello che stavo pensando!», aggiunse Sorren non riuscendo a trattenere le parole. Ricard la guardò, e subito dopo distolse lo sguardo: Sorren si vergognò per averlo rimproverato. I loro passi coincidevano mentre si inerpicavano su per il colle. «Cosa dirai?» «Cosa posso dire?» Sorren si strinse nelle spalle. Giunti quasi alla Piazza d'Armi, Sorren disse: «Sarà impegnata adesso. Di solito a quest'ora sta facendo lezione.» «Lo so,» disse Ricard. Ancora una volta curvò le spalle. «Credo che sarà meglio aspettarla a casa». «Sì,» approvò Sorren. «Buona fortuna!», gli augurò poi toccandogli una manica. Ricard abbassò la testa. «Grazie». Chissà Paxe cosa gli dirà, si domandò Sorren. Era troppo grande per punirlo con una bastonata. Lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava verso la casetta. Strascicava i piedi come un bambino, lasciando piccoli solchi nel terreno polveroso. Lalith la stava aspettando nei cortile posteriore. Petali rosa le ricoprivano i capelli irsuti. I suoi occhi neri guizzarono di curiosità. «Ma quello non era Ricard?» Sorren annuì.
«Come hai potuto rivolgergli la parola dopo quello che ha fatto?» Sorren sospirò. «È stato facile. Ho dovuto soltanto aprire la bocca.» Lalith ridacchiò. «Dov'è Arré?» «Nella saletta privata.» Entrarono in casa. Lalith si diresse in cucina, e Sorren nella saletta di Arré, chiedendosi, intanto, se la padrona l'avesse cercata, ed augurandosi che non l'avesse fatto. La porta era aperta ed entrò senza prendersi il fastidio di bussare, già pronta a consegnare il bracciale di bonta. Paxe era lì. Sorren ne fu immediatamente intimidita: detestava interrompere una conversazione, e poi non era mai sicura del comportamento da assumere quando Arré e Paxe erano assieme. L'ultima volta le aveva viste litigare. arretrò di un passo, pensando di allontanarsi e tornare alla fine del colloquio tra le due donne. Ma Paxe si voltò verso di lei e le sorrise. «Entra!», la invitò Arré. «Non startene là fuori a gironzolare. Dove sei stata finora?» Dai raggi obliqui che il sole proiettava sul pavimento ligneo, Sorren capì che era tardi. «A fare la spesa,» disse. «Fare la spesa ti porta via più tempo ogni giorno che passa,» osservo Arré, mentre protendeva la mano per ricevere la cordicella coi bonta che Sorren le lasciò cadere nel palmo. «Ho incontrato Ricky,» disse. Paxe si voltò sullo sgabello. «Dove?» «Mentre tornavo qui. Abbiamo fatto la strada assieme. Ora è a casa». Paxe si alzò. «Vorrei scambiare due chiacchiere con lui». «Naturalmente!», consentì Arré. «Va pure.» Si rivolse poi a Sorren ed i braccialetti tintinnarono nell'indicarla. «Tu vai a darti una rinfrescatina. Metti una camicia pulita. Voglio che consegni un messaggio per me». «Dove?», domandò Sorren. «Al Tanjo». Sorren si sentì raggelare, ed Arré continuò. «E domani potrai andare a sentire qualche storia del nord. È arrivato un invito per te da parte di Marti Hok.» Si interruppe un istante, poi aggiunse: «Ebbene? Non sei contenta?» Sorren inghiottì. «Non voglio andare al Tanjo». Nella stanza vi fu silenzio. In quella quiete le urla dei soldati nella Piazza d'Armi giungevano chiare dalle finestre aperte. Il sudore imperlò la schiena di Sorren. Una mano la carezzò da tergo, e lei sussultò. Era Paxe, ancora nella saletta.
«Come sarebbe a dire, non vuoi andare al Tanjo?», disse Arré. «Io... io ho paura di loro». «Sciocchezze!», tagliò corto Arré. «Vai a prepararti». «Arré,» intervenne Paxe, «perché non lasci che io mandi una delle mie Guardie con la lettera? È più formale». Arré la guardò accigliata. «Credevo che stessi andando a parlare con tuo figlio». «Ci sto andando.» Ma non si mosse. Gli sguardi delle due donne si incontrarono per un lungo istante. Arré trasse un sospiro. «D'accordo. Manda una Guardia.» La mano di Paxe si ritrasse dal fianco di Sorren, e solo allora lasciò la sala. Sorren si morse il labbro ed attese che Arré le domandasse perché aveva paura dei Maghi. Ma Arré le disse semplicemente: «Beh, cosa fai ancora qui? Non hai nessun lavoro da sbrigare?» Agitò una mano invitandola a congedarsi da lei. Sorren lasciò la stanza come se avesse le ali ai piedi. Più tardi, quando sarebbe stata certa che Arré non fosse seccata con lei, le avrebbe chiesto ragguagli sull'invito di Marti Hok. Cosa avrebbe dovuto indossare? Non lo sapeva. Attraversò di corsa la cucina. «Ehi, cos'è che ti fa tanto felice?», le chiese Toh. «Te lo dico più tardi,» gridò da sopra la spalla. Corse alla casa di Paxe per ringraziarla del suo intervento. Ma la porta della villetta era, eloquentemente, chiusa. Quella sera il tempo cambiò. Il vento, sferzando da meridione, sospinse la nebbia sulle strade cittadine, ammantandole di lunghe strie di bambagia. Al tramonto gli alberi si scuotevano come in autunno, nella furia dei temporali. L'aria fredda mise il cuoco di ottimo umore: canticchiava mentre lavorava. Lalith, per ragioni tutte sue, apparecchiò al tavolo della sala grande. Sorren accese la chobata ed andò ad avvertire Arré che il pranzo era pronto. Il cuoco aveva superato se stesso; aveva preparato uova di tartarughe, gamberetti al forno, e mele gialle al miele. Arré ammirò la parata delle portate. «Come mai?», domandò. «È contento quando non fa caldo,» spiegò Sorren. Era andata alla casa di Paxe altre due volte, ed aveva trovato sempre la porta chiusa. Guardò Arré mangiare, ed intanto pensava a Marti Hok. Quando servì l'ultima portata, trovò Ricard in piedi nel corridoio. Si era
ripulito bene; aveva i capelli umidi, ed indossava abiti puliti. Sorren intuì che doveva essere andato ai bagni. «Cosa vuoi?», gli chiese. «Voglio parlare con lei». «Glielo dico.» Sorren portò il dessert - una delizia spumosa di panna e succo di frutta - dinanzi ad Arré, e sollevò il coperchio del vassoio. Arré sorrise. «Ha un aspetto meraviglioso». «Ricard è qui fuori. Vuole parlarti,» le annunziò Sorren. Arré perse il cucchiaio. «Fallo entrare!», ordinò. Sorren invitò dentro il ragazzo con un cenno del capo. Questi le passò accanto timorosamente come se temesse o si vergognasse di toccarla. Cosa gli avrà detto Paxe? si domandò lei. Ricard aveva un'aria avvilita. Giunto ai piedi del tavolo, si schiarì la voce e disse: «Ti ringrazio per avermi concesso il permesso di venire a disturbati, mia Signora.» Era la prima volta in assoluto che Sorren lo sentiva parlare in maniera così formale. Arré bevve un po' di succo di frutta. «Hai qualcosa da dirmi?», gli chiese. «Sentiamo!» Ricard si umettò le labbra. «Da quando sono nato abito in una casa che si trova sulla tua terra, mangio nelle tue cucine e spendo il danaro che tu dai a mia madre in compenso del suo lavoro. L'altro giorno ho fatto una cosa assai stupida.» Lanciò uno sguardo a Sorren, e immediatamente lo distolse. «Se io lavorassi per te, ed avessi fatto ciò che ho fatto, allora avresti potuto multarmi, oppure, farmi bastonare, o altro. Se io fossi un bambino, allora potrei essere punito come un bambino, da mia madre. Io posso... mia madre dice che io posso essere un bambino oppure un uomo». «Tu cosa vuoi essere?», gli chiese Arré. «Qualunque cosa mi tenga lontano dai guai». «Avresti dovuto pensarci prima!», replicò Arré. «Lo so. Non ci ho pensato». «Ebbene? Pensaci ora. Cosa vuoi essere?» «Mi è dato di scegliere?», disse Ricky. «Allora voglio essere un uomo». Arré annuì. «Anche tua madre te lo ha chiesto?» «Sì». «Cosa le hai risposto?» «Esattamente ciò che ho detto a te» «E lei?» Ricky si umettò le labbra nuovamente. «Mi ha detto che sarei dovuto venire qui a dirlo a te, e che avrei dovuto fare qualsiasi cosa mi avessi ordinato».
«Benissimo!», approvò Arré. Impugnò il cucchiaio. «Voglio che tu vada ai vigneti. Potrai partire domani stesso. Scriverò una lettera che porterai con te e consegnerai a Myra-no-Ivrenia Med. Dovrai fare come lei deciderà, anche se dovesse ordinarti di lavorare nei campi.» Si interruppe, e Ricard annuì. «Giacché siamo nel periodo della vendemmia, è probabile che te lo chieda. Guadagnerai la tua paga come chiunque altro e, tra sei mesi, se lo desidererai, ti sarà permesso di lasciare i campi e tornare qui. Poi vedremo come andranno le cose. Da ora fino a quel momento esigo da te sei mesi di lavoro irreprensibile. Intesi?» «Sì, Signora». «Bene. Vai a salutare tua madre.» Ciò detto, Arré affondò il cucchiaio nel succo dolce. Ricard le rivolse un inchino e si allontanò. La chobata tremolò nella corrente d'aria quando la porta si aprì e si richiuse. «Cosa ne pensi?», chiese Arré rivolgendosi a Sorren. La ragazza ritornò al suo posto presso il focolare. «Penso che gli faccia bene lavorare per un po'». Arré si rabbuiò. «Senza dubbio.» Picchiettò col cucchiaio sul piatto da portata. «Ma non mi riferivo a questo. Paxe sarà adirata con me per aver allontanato suo figlio?» Sorren considerò la cosa. Non le era venuto in mente che Paxe potesse desiderare di mandar via suo figlio ed esserne contrariata al tempo stesso. «Non credo,» concluse. «È una cosa che lei non poteva fare. Perciò lo ha mandato da te». Capitolo settimo La mattina seguente, fredda e tersa, Sorren si alzò di buon'ora. Subito infilò la mano sotto il guanciale per estrarre il pezzo di carta mandatole da Marti Hok. Arré glielo aveva consegnato la sera prima, raccomandandole ripetutamente di non perderlo. Sentì sotto le dita la spessa consistenza della carta, e sorrise. La lettera era ancora lì. Indossò i primi abiti che le capitarono a portata di mano e si recò da Arré per portarle l'acqua calda. Il bricco la stava aspettando; quando lo ebbe riempito, si diresse alle scale. Salì il più silenziosamente possibile ed entrò col bricco in camera di Arré. Versò l'acqua nel lavamano e poi lo depose accanto al tavolo. Arré scalciò leggermente sotto la coperta e mormorò qualcosa, ma non si svegliò. In cucina Sorren trovò Lalith intenta a tagliare i pasticci di pesce. «Oggi
dovrai fare tu la spesa,» le annunziò Sorren. «Cosa?» Le treccioline della ragazza sussultarono. «Perché?» «Io vado da Marti Hok». «Ecco la Signora Fantasia,» esclamò Toli in tono canzonatorio. «Hai la camicetta sporca di fuliggine; ci vai così?» Sorren non gli badò, limitandosi a fargli il segno delle corna. «No. Lalli, è facile. Tu conosci i negozi; te li ho fatti vedere. Dovrai soltanto dire ai commessi cosa dovranno consegnare». «Dovrò portare una filza di monete?», s'informò Lalith. «No. Manderanno il conto a casa». «Se ti spaventa andare da sola, verrò io a farti compagnia,» si offrì Toli. Impettita, la tredicenne Lalith si alzò. «Non ho affatto paura; so andarci da sola». Sorren raggiunse la casa di Paxe, ma non c'era nessuno, ad eccezione del gatto. Sorren immaginò che la sua compagna si trovasse nella Piazza d'Armi, cosicché si accostò al recinto a sbirciare tra le sbarre del cancello. Gli stava mostrando ad una nuova Guardia come fare a schivare un colpo di picca. Borti, con i pollici infilati nella cintura, stava ondeggiando sui talloni proprio dietro il cancello. Il soldato uscì a parlarle. «Ehi, Gambo di fagiolo!» Ammiccò. «Vuoi fare un giro?» Sorren si finse offesa. «Sto cercando il Maestro della Piazza, e poi quello non è il mio nome, vecchio». «Chi sarebbe il "vecchio"?» «I tuoi baffi sono grigi. E poi, guardati un po': stai ingrassando». Borti si diede una pacca sull'addome. «Tutti muscoli, ragazzina!» «Huh!» Sorren cercò di dare un'occhiata intorno nel recinto. «Non c'è». «Sai dov'è andata?» «Ha fatto il giro di ronda molto presto. Credo,» Borti si lisciò un baffo, «credo che sia andata alla Porta a dire addio a suo figlio». Sicché Ricard partiva davvero. «Grazie,» disse Sorren. Si protese in avanti e baciò l'uomo sulla guancia. «Lo sai che sei un simpaticone?» Borti rimase impalato a guardarla, nemmeno si fosse trasformata in un pesce! Sorren attraversò le cucine e passò davanti alla saletta. Ai piedi della scala s'imbatté in Elith. Un sentore d'aglio le impregnava l'alito. Le riferì che la sala grande aveva un paravento rotto e che c'era bisogno d'altro olio per le lampade.
«Ho ordinato l'olio di choba tre giorni fa,» disse Sorren. Le lamentele dell'anziana donna la rendevano impaziente. «Di' a Toli di andarlo a prendere nel deposito». Indossò abiti freschi di bucato e bussò alla porta di Arré. «Avanti!», le fu risposto. Sorren entrò nella stanza, dove trovò Arré seduta sulla sponda del letto, intenta ad infilarsi i bracciali. «Aha, fatti un po' guardare. Voltati! Sei molto graziosa, bambina». «Grazie,» disse Sorren. Diede un'occhiata intorno nella stanza. «C'è qualcosa che possa fare per te?» Arré ridacchiò. «Non ti tratterrò. Hai visto Paxe stamattina?» «Ha accompagnato Ricard alla Porta». «Ah. Bene, piccola, puoi andare!» Agitò le mani congedandola, e Sorren si allontanò. L'abitudine le fece accomodare i lembi del copriletto quando vi passò accanto. Avrebbe voluto dire qualcosa - fare qualcosa - ma non sapeva che dire o fare. Un rimescolio di sentimenti le turbava l'animo. Uscì dalla porta principale nello stesso istante in cui un ragazzo, abbigliato alla maniera del Clan Bianco, attraversava il cancello. Ostentava un'aria di superbia. «Ho una lettera per la Signora Arré Med,» annunziò a Sorren ed all'intero cortile, «da parte di Jerrin-no-Dovria da Elath.» Le pulsazioni di Sorren accelerarono, come sempre le accadeva, alla menzione del Clan Bianco. «Dentro!», gli indicò, e si fece da parte per lasciarlo passare. Il ragazzo le passò allato senza una parola di ringraziamento, quasi che ogni deferenza gli spettasse d'obbligo. Questa, pensò Sorren, era la risposta alla lettera che si era rifiutata di consegnare. Quando arrivò al cancello, le sembrò che le Guardie degli Hok la stessero aspettando. Aveva portato con sé la lettera d'invitò, ma non occorse che la esibisse; i soldati le fecero cenno di risalire il vialetto non appena ebbe detto il suo nome. Aveva messo i sandali, e ne udì lo scalpiccio sulle mattonelle che conducevano alla porta d'ingresso. La casa degli Hok era enorme, molto più grande dell'abitazione dei Med. Era costruita in legno di cedro, e foggiata come una «U», con un vasto giardino nel cortile aperto. I gelsomini si arrampicavano sui tralicci e dondolavano dal tetto aguzzo. La famiglia Hok al completo dimorava lì. Una ragazza vestita di bianco condusse Sorren in una stanza da bagno rivestita con maioliche azzurre dove poté sciacquarsi il viso e le mani impolverate; le fece poi strada verso
l'alcova dove lasciò i sandali. Almeno una dozzina di paia di scarpe e sandali vi erano ammucchiati. La camera di Marti Hok era ampia e luminosa grazie alle numerose finestre tutt'intorno che lasciavano entrare liberamente la luce solare. Marti vi stava seduta al centro, su una spaziosa sedia di legno. I braccioli istoriati erano due teste di serpente. «Entra, bambina!», la invitò l'anziana donna. «Lascia che ti guardi.» Sorren obbedì, e fu lieta di aver indossato degli abiti puliti. «Sei incantevole! Siediti.» Sorren ripiegò le gambe e si sedette sul pavimento. Le stuoie che lo ricoprivano, morbidissime e di fulgida paglia dorata, promanavano una dolce fragranza. Una bambina entrò correndo nella stanza, seguita subito da un altro piccolo. «Sono i miei nipotini,» disse Marti con orgoglio. Delle voci risuonarono nel corridoio; un terzo bambino fece capolino. Sorren si domandò quanti nipoti avesse Marti Hok: sei, dieci, una dozzina? Continuarono il frenetico andirivieni nella camera per mostrare alla nonna rane vive, tritoni morti, ginocchia sbucciate, dispute, incertezze, tesori inestimabili. Le figlie di Marti - adulte - si affacciavano nella stanza, le domandavano qualcosa e, rivolte ai bambini, dicevano: «Non date fastidio alla nonna». Ogniqualvolta una di costoro entrava, Sorren, sollecita nell'osservare le buone regole della decenza e del galateo, si issava rimanendo su un ginocchio. Una serva portò delle coppe di succo di frutta per Marti e la sua ospite. Sorren si alzò per prenderle e servirle lei stessa. «Sta' seduta!», la pregò Marti. «E smettila di andare su e giù ogni volta che entra una delle mie figlie. Tu sei mia ospite; sei soltanto Sorren, ed io sono semplicemente Marti. Ora alzati da terra, e siediti su un cuscino. Sono lieta che tu sia potuta venire». Sorren sorrise. «Mi piace stare sul pavimento,» disse. Lasciò che la serva le porgesse la coppa. «Allora, resta dove sei. Gradisci del tè, del vino o dell'acqua?» «Preferirei del vino. Grazie, Marti». L'anziana Hok disse alla serva di portare un bicchiere di vino. Sorren degustò una cucchiaiata di sciroppo. Sapeva di lamponi; l'aroma intenso le fece vibrare la lingua esplodendo con una soffice bolla. «È squisito!», disse. «Sì,» convenne Marti. «Cosa te ne pare di questa casa?» Sorren si guardò intorno. Un odore gradevole aleggiava nella stanza; in ogni angolo vi erano alti vasi colmi di fiori. I cuscini, imbottiti di piume
d'oca, erano di seta. Un grillo canticchiava da una gabbia di vimini appesa ad un'alta pertica. «Mi piace.» Con movimenti misurati, memore della lunghezza delle proprie gambe, Sorren distese gli arti nel sole. Una ragazzina dai lunghi capelli neri si precipitò nella stanza «Abu, guarda!» Protese verso Marti le mani unite e piegate a conca. Marti si chinò a guardare ciò che custodivano. «Oh, eccezionale!», commentò con convinzione. «Dove l'hai trovata?» «Nel giardino». «Bene. Portala fuori e lasciala andare. Ha bisogno di luce e aria». «Ma io voglio tenerla!» Dischiuse le mani il tanto che bastò a mostrare a Sorren un'enorme farfalla arancione, incollata al palmo della bambina. «Non puoi tenerla, morirebbe! Lasciala volare, chelito». La piccola mise il broncio. Marti sventolò appena le ali della farfalla. «Vedi, chelito. Sta crescendo. Desidera essere libera.» L'insetto scuoteva le ali arancioni nel tentativo di spiegarle. «Lasciala andare! Non può vivere in una gabbia come il grillo». La ragazzina emise un sospiro. «Voglio tenerla». «Ci sono creature che non possiamo tenere». Con gli occhi fissi sulla farfalla nel palmo, la bambina uscì dalla stanza. Nella camera attigua qualcuno cominciò a cantare. «Fa' la nanna, dormi piccino, né la paura, né la bestia selvaggia, ti molesteran, riposa piccolino sul petto della tua mamma. Fa' la ninna, dormi piccino...» Quindi il canto morì piano piano. Marti sorrise. «È la mia figlia più giovane, Alanna. È incinta». «Quanti ne hai?», le chiese Sorren. «Nipoti? Figli? Tre figli maschi, quattro femmine. Quanto ai nipoti, solo il Guardiano sa quanti ne ho. Ormai ho perso il conto. La casa di Arré non è come questa, vero?» «Oh, no!», disse Sorren. Assaporò l'ultimo cucchiaio di vellutata polpa di frutta, che si era sciolta nel piatto in una crema vermiglia. «È molto più silenziosa». «Troppo silenziosa!», aggiunse Marti. «La fiamma di Arré arde lenta. La tua padrona è come un pezzo di carbone che sta tutto solo sulla griglia. Arré ha bisogno di più gente attorno a lei. Ha bisogno di un amante». «Arré?», ribadì Sorren. Depose il piatto accanto a sé. Non riusciva a figurarsi Arré con un amante. «Pensi che sia troppo vecchia?» disse Marti, divertita. E il viso le si corrugò in una risata. «Aspetta d'avere quarant'anni anche tu, e allora capirai
come stanno le cose». «No,» protestò Sorren, «io so...» Dopotutto Paxe aveva quasi quarant'anni. Ma Paxe era Paxe. «Avrebbe dovuto avere dei figli,» aggiunse Marti. «Beh, in fondo ha te.» Allungò la mano verso il bastone e si alzò. Fulminea, anche Sorren scattò in piedi. «Vieni, andiamo in biblioteca». La biblioteca di casa Hok ricordò a Sorren lo studio di Arré, con l'unica eccezione che, anziché esservi un solo armadietto per riporvi i rotoli di pergamena, la stanza era tappezzata da mobiletti con le ante di vetro contenenti file su file di rotoli. C'era inoltre una grande sedia di legno identica a quella che aveva visto nella camera di Marti e, davanti, una scrivania egualmente massiccia. Marti prese posto sulla sedia. «Hai mai visto tanti pezzi di carta tutti assieme?», chiese poi a Sorren accennando con la mano alle scaffalature. Sorren scrollò la testa, pensando a quanto fosse gravoso il compito di spolverarle tutte. «Mio nonno Mordith apparteneva al Clan degli Scolari. È stato lui a collezionare tutti questi rotoli. Offriva dei compensi a coloro che riuscivano a procurargli antiche cronache e documenti, tanto più preziosi per lui quanto più erano vecchi. A volte me ne leggeva dei brani. Samiano-Reo era sua amica, e spesso veniva a fargli visita. Assieme esaminavano i reperti rintracciando l'albero genealogico di questo o quel Signore, e ne erano felici come bambini. Non permetteva mai alla servitù di entrare qui; badava lui stesso a tenere tutto in ordine». «È morto?», domandò Sorren. Marti rise. «Eh, sì. Se fosse vivo, bambina, ora sarebbe tanto, tanto vecchio!» Sorren si senti un po' stupida. Chinandosi, sbirciò oltre il vetro striato di un armadietto. «La storia di Sorren è qui dentro?» «Non in quello. Due scaffali più sotto. Portami la cartella di cuoio coi fogli dentro». Sorren aprì il mobiletto. Sbuffi di polvere la fecero starnutire. La cartella di cuoio era color ruggine, crepata in più punti, spellata, consunta. La portò alla scrivania e la depose dinanzi a Marti. La vecchia toccò il cuoio con mani accorte. «Credo che sia proprio quella giusta,» confermò. Alzò gli occhi. «Tornor. Sai dove si trova?» «Al nord, sulle montagne. È una Rocca». «Sai cosa sia una Rocca?»
«Un castello». «E sai anche a cosa serve una Rocca?» Sorren rammentò le parole di Kandra. Furono costruite... quando l'Arun era in guerra con l'Anhard-aldilà-dei-Monti. «Per la guerra,» rispose. «Cosa sai della guerra?» continuò Marti Hok. «Niente!», rispose Sorren. Poi ricordò le storie che aveva sentito raccontare da piccola, attorno ai falò. «Anzi, un poco ne so. Mia madre mi raccontava di quando eravamo in guerra contro gli Asech. Venivano dal deserto, incendiavano ed uccidevano...» Un brivido le attraversò il corpo. Ricordò i guizzi della fiamma lampeggiare sui volti delle vecchie nei campi, e le mani dure e callose accompagnare i loro discorsi. «Anche a me raccontavano le stesse storie,» disse Marti con dolcezza. «Mio nonno le ricordava tutte. Mi narrava di campi e villaggi in fiamme, e di cavalieri che arrivavano al galoppo dal deserto... A volte avevo degli incubi, sognavo che la mia stanza stesse bruciando, ed io con essa; affondavo la faccia nel guanciale e piangevo, finché una volta la nonna mi sorprese in lacrime e disse al nonno di smetterla con quei racconti. Mi spiegò che i Maghi del Tanjo erano giunti ad una pace definitiva col popolo degli Asech e che non avrebbero mai permesso che la città fosse divorata dalle fiamme». Per un istante Sorren vide nel volto di Marti Hok la ragazzina che era stata sessant'anni prima. «Abitava in questa casa?»; le domandò. «Sì, in questo stesso appartamento. Beh, quel tempo è passato e voglio il Guardiano che non torni più. Io prego affinché tu non sappia mai cos'è la guerra. Nella storia della nostra terra c'è un periodo che chiamiamo "gli anni della guerra". O almeno è così che dicono al nord: me l'ha insegnato mio nonno. Le Rocche furono costruite tanti anni fa per proteggere i popoli della steppa dalle scorribande dei saccheggiatori Anharditi. Questi, assieme agli Asech, erano nemici della nostra gente. Ma ciò accadeva duecentocinquanta anni fa». «Adesso abbiamo rapporti commerciali con l'Anhard,» osservò Sorren. Si toccò il braccio. «Nei campi, spesso molestavano mia madre dicendole che io avevo sangue Anhardita». «Potrebbe essere: molti sono biondi. Ma la loro pelle è più gialla della tua». «Difatti mia madre diceva sempre che non era vero». «E quindi così dev'essere. Allora... questi sono documenti di Tornor. Il Clan Nero esisteva persino duecentocinquanta anni fa, e gli Scolari del
nord registravano ogni battaglia. Mio nonno raccolse alcune di quelle cronache». Marti aprì la cartella di cuoio. Sorren si chinò sul tavolo a guardare. Chissà per quale ragione era convinta che quei documenti contenessero illustrazioni: donne armate di spade, cavalieri, castelli, belve sconosciute, figure simili a quelle dipinte sulle sue Carte. Invece ne fu delusa: le fragili pagine ingiallite non recavano immagini, ma soltanto lunghe file di scrittura. L'inchiostro, sbiadito, era diventato grigio. «Riesci a leggerle?», domandò Sorren. «Quelle no,» disse Marti, e ne scelse delle altre. «Queste invece riesco a decifrarle. Qui l'inchiostro era più chiaro e i caratteri occupavano la pagina da destra e sinistra, com'era giusto che facessero. Sorren allungò una mano e fece scorrere un dito su una serie di svolazzi e ghirigori con estrema delicatezza. Una patina di polvere le ricoprì il polpastrello, ed una minuscola particella di carta s'incrinò al suo tocco per cadere sul pavimento come fosse un petalo. «Questa è la storia di Sorren», spiegò Marti, indicando un passo nella pagina. «Ecco, qui si legge il nome: Sorren.» La fissò indicando il segno che rappresentava il suo stesso nome. «Guarda, qui compare di nuovo. Sorren, Sorren». «Narrami la storia». Marti si curvò sulla pagina. «Te la leggerò». «Qui si narra di gesta audaci e di magnifiche avventure trascritte da Elin, scriba di Berent, 22° Signore della Rocca di Tornor, nell'Anno del Consiglio 89, nel terzo mese d'inverno, nel settimo anno del regno di Berent.» S'interruppe. «L'89 è l'anno in cui il Tanjo emise il Bando a Kendrasul-Delta». «Oh,» disse Sorren. «È questa la trascrizione di una copia fatta nell'anno 32 di Josen, scriba presso Morven, 19° Signore della Rocca di Tornor. Qui prosegue spiegando che il documento più antico, che sembrerebbe copiato dall'originale, fu danneggiato durante un incendio. E venne ad accadere - la scriba Elis ama questo stile di linguaggio - che nell'anno 24 del regno del Signore Athor, un Signore della Guerra del villaggio meridionale di Iste, presso la città di Tezera, il cui nome era Col, noto come Col Istor, in virtù del suo orgoglio e senza darsi pena alcuna per i popoli della sua terra, radunò intorno alla sua malvagia persona un esercito di scontenti e malfattori, e pose mano all'impresa di far di se stesso e dei suoi proseliti, uomini ricchi e potenti.
Non ti leggerò tutta la storia; ci vorrebbe una giornata intera. In poche parole, pare che Col Istor reclutasse gente delle parti del Lago Aruna, e li conducesse al nord per muovere guerra alle Rocche». «Fu durante gli "anni della guerra"!» «No, quell'epoca era già passata. L'Arun e l'Anhard erano già in pace l'una con l'altra». «Allora perché Col I... I...» «Istor». «... Col Istor voleva combattere?» «La cronaca non lo dice. Beh, era un uomo abituato alle armi, aveva combattuto contro gli Asech nel sud. Probabilmente si annoiava. Riuscì a prendere tre delle quattro Rocche. Nella Rocca di Tornor, Athor aveva una figlia, Sorren, ed un figlio, Errel. Entrambi furono fatti prigionieri da Col Istor. Riuscirono a fuggire in inverno, ed il fatto che fosse inverno ha una grande importanza per il corso che ebbero gli eventi. In quella stagione i ghiacci alla deriva raggiungevano l'altezza di un uomo di alta statura, e l'acciaio era talmente freddo da gelare le dita, sicché un uomo poteva afferrare l'elsa d'una spada e lasciarvi sopra brandelli di pelle nel trarre da essa la mano. Ugh. I due giovani scapparono a sud-ovest e, stando alla cronaca, raggiunsero la terra dell'eterna estate, la magica Valle di Vanima». Sorren sussultò. «Dice proprio così?» «Sì.» Marti lesse: «Venne ad accadere che, mentre s'approssimavano a Vanima, le montagne si aprirono nel mezzo per lasciarli entrare, e si richiusero dietro di loro. La magica valle fu così nuovamente protetta». La descrizione non sembrava reale; probabilmente non lo era. «Cos'altro dice?» «Dice che Errel e Sorren si presentarono a Van che era colui che aveva il governo della valle, e gli chiesero il suo aiuto. Questi acconsentì ad aiutarli a difendersi da Col Istor, a condizione che fossero stati disposti a pagargli un prezzo». «E quale?» «Van non volle dirlo». «Non è leale!», esclamò Sorren. «No,» convenne Marti, «però è plausibile. Vado avanti?» «Sì, ti prego». «I due giovani accettarono, sicché Van radunò i suoi ceari ed insieme partirono alla volta della Rocca di Tornor. Presero d'assalto il castello ed
uccisero Col Istor e tutti i suoi uomini. Allora Van chiese il prezzo posto come condizione della sua impresa.» Marti si interruppe per voltare la pagina. «Quale ricompensa per l'aiuto prestato, egli chiese che uno dei due figli di Athor andasse a vivere nella terra dell'esterna estate, senza mai abbandonarla. I due giovani si sfidarono in combattimento per stabilire chi sarebbe rimasto a Tornor e chi invece sarebbe dovuto tornare a Vanima con Van ed i suoi ceari. Fu Errel a perdere. Sorren divenne così Signora della Rocca di Tornor, e sua figlia governò dopo di lei, e ancora dopo costei, la figlia. E venne ad accadere che la Dinastia della Rocca di Tornor oggi continua.» ... Ancor oggi... Sorren sospirò di piacere. Kité non le aveva mai raccontato quella storia. Probabilmente non la conosceva. Chissà come ci si sente a dover combattere contro il proprio fratello, pensò. Certamente nessuno dei due intendeva far del male all'altro. «Si somigliavano?», domandò. «Sorren ed Errel? Non è scritto,» disse Marti. «Di Sorren dice, I suoi capelli erano pallidi come l'erba del nord, e gli occhi azzurri come il cielo d'inverno. Errel non è descritto da nessuna parte. Oh, dice anche che Sorren era alta.» L'anziana donna sorrise. «Se ti fa piacere, puoi immaginare che somigliasse a te». Sorren annuì. «Tu mi hai detto che ho l'aspetto di una del nord». «È vero!», confermò Marti. «Molti settentrionali hanno la pelle e gli occhi chiari. Ti è piaciuta la storia?» «Sì, grazie,» Sorren si chiese se sua madre avesse mai sentito quel racconto, magari nella sua infanzia; poteva darsi che ricordandola avesse scelto per sua figlia il nome dell'antica guerriera del nord. «Potresti raccontarne ancora?» «Cea, ragazza!», esclamò Marti. «Ce ne sono almeno una cinquantina!» Rimise a posto le pagine nell'ordine originale. «E poi, piccola, il passato è una trappola, e tu sei troppo giovane per finirci dentro. Aspetta d'essere vecchia e brutta: allora il passato sarà tutto ciò che ti resta». Sorren non capì ciò che Marti intendeva. «Tu non sei brutta!», disse. La vecchia rise. «Ti ringrazio.» Poi richiuse la copertina rossa. «Rimettila a posto», le disse. Sorren prese tra le braccia la cartella di cuoio che il tempo sfaldava ad ogni tocco. Un pezzo di carta scivolò dalle pagine e svolazzò sul pavimento. «Aspetta!», la fermò Marti, che appoggiò la punta del bastone sul fo-
glietto. «Cos'è quello?» Sorren depose nuovamente l'involto sulla scrivania e si chinò a raccoglierlo. Il foglio era illustrato con una serie di figure, disegni fitti ed elaborati contornati da riquadri sotto i quali si leggevano una sorta di didascalie. Le immagini avevano un'aria familiare, come se Sorren le avesse già viste. «Cos'è?», ripeté Marti, protesta in avanti. «È caduto dalle pagine.» Sorren girò il foglio. Dei disegni ricoprivano anche l'altra facciata. «Fammi vedere!», disse Marti, e con delicatezza glielo trasse di mano. «La Sognatrice,» lesse. «Una donna che dorme. Una finestra sovrasta il suo letto: attraverso di essa possiamo vedere due stelle di un rosso brillante. La Tessitrice è una donna vestita di verde, seduta davanti ad un telaio. La Signora è una donna bionda che sta in piedi all'aperto. Sorride. Che significa?» «Sono le Carte,» disse Sorren. «Di cosa parli?» Sorren riprese il foglio. «La Signora. La Sognatrice. Questo è il Danzatore». «Fammi vedere...» Si chinarono entrambe sul foglio. «Sì. Ma tu non sai leggere, bambina: come fai a saperne il nome?» «Me le ha date mia madre: ce ne sono ventidue. Di questa grandezza.» Disegnò un rettangolo con le dita per mostrarne le dimensioni. «Hanno disegni come questi: colorati però, e con altri particolari. La Signora ha un cane accanto a lei». Marti contò le figure. «Qui ci sono disegnate otto Carte. È così che le hai chiamate, Carte? Dove sono le altre?» Avvicinò a sé il fascicolo. «Devono essere qui». Aprì la cartella e cominciò ad esaminare ogni pagina. Sorren scorse un secondo foglio illustrato. «Qui ce ne sono altre otto,» disse. Marti continuò a voltare pagina dopo pagina, finché non apparve un terzo foglio. «Qui c'è il resto.» Sorren riconobbe le figure, per quanto curiose e rimpicciolite. «La Torre, La Ruota, Il Demone, La Vecchia Tutt'Ossa, La Signora della Luna, Il Villaggio». «Fammi vedere.» Marti osservò le figure. «Hanno dei nomi, piccola. Quella che chiami la Vecchia Tutt'ossa, è la Morte, la Signora della Luna è la Luna, e il Villaggio è il Sole». «Mia madre non mi ha mai detto come chiamarle». Marti appoggiò le spalle allo schienale della sedia. Le sue guance brune
si erano rabbuiate. «Sai cos'è che possiedi?», le disse. «Stando a quanto dice questo scritto, chi impara a usare queste Carte può servirsene per prevedere il futuro. Hai detto che te le ha lasciate tua madre?» «Sì». «Chissà...» Marti rise, «Dev'essere così». «Cosa, dev'essere così?» Marti toccò l'antico documento. «Una volta quelle Carte erano affidate alla custodia della Casa Regnante di Tornor». Sorren deglutì, poi guardò nuovamente le figure. «Non è possibile,» fece poi. «Le mie Carte sono più nuove di quei disegni». «Hmm.» Marti corrugò la fronte. «Hanno un disegno anche nella parte posteriore?» «No». «Ah. Qui è scritto che sul dorso delle Carte vi era dipinta una stella rossa in campo bianco. L'emblema di Tornor è difatti una stella rossa a otto punte su fonda bianco. Evidentemente possiedi una copia del mazzo originale.» Il volto di Marti si increspò in una smorfia di compiacimento. «Chissà in che modo la tua famiglia ne entrò in possesso. Tua madre sapeva usarle?» «Non lo so, È morta». «Forse,» soggiunse Marti, «forse sì. Forse non è per caso che porti questo nome. Forse parecchie decadi fa i tuoi antenati, dalla parte di tua madre, appartenevano alla Casa Regnante di Tornor». Sorren sbatté le palpebre. Non sapeva se ridere o piangere. «La mia famiglia?» «Sì. Certo. Talora cose del genere vengono celate.» Marti rise. «E sai che ti dico ancora? La Casa Regnante di Tornor discendeva originariamente da un ramo ribelle della Famiglia Med. Sicché tu potresti essere una lontana, lontanissima parente di Arré!» Sorren ebbe voglia di darsi un pizzicotto per accertarsi che non stesse sognando. Dunque era veramente una settentrionale, nata nel sud ma con sangue del nord nelle vene. Era persino... no! Frenò a tempo la rapida corsa dei pensieri. Non era una Principessa. Era solo una schiava la cui bisbis-bisavola era forse stata la figlia minore d'una Famiglia Nobile. «Mi piacerebbe saperlo!», disse. Il volto di Marti tornò serio. «Non voglio confonderti, piccola. Sono solo fantasie,» le disse gentilmente. Una voce chiamò dal corridoio, «Madre?» Una donna fece capolino nel-
la stanza. Era giovane, ed in avanzato stato di gravidanza. «Cosa stai facendo qui dentro?», domandò. «E a te cosa importa?», fece Marti. «Sono occupata. È importante? Se non lo è, vattene e lasciaci in pace». «Whoops!», esclamò la giovane, e sparì. Marti scoppiò a ridere. Sorren guardava le figure. Aveva detto a se stessa che era soltanto una storia, la storia di una Principessa morta. Ma adesso si sentiva come se la Signora di Tornor avesse allungato una mano verso di lei e l'avesse toccata, colmando un vuoto di secoli e secoli... Forse una volta aveva avuto le Carte, le aveva toccate, le aveva adoperate per proiettare il suo sguardo nel futuro. Vide forse anche me? pensò. «Tornor ha una torre?», chiese poi. «Una torre?», ripeté Marti, senza però chiederle perché. Avvicinò di nuovo a sé il fascio di antichi reperti. «Una torre. Sì: Tornor aveva proprio una torre. Elin la scriba ne parla, ed indica anche la data della sua costruzione. Essa guarda a nord, dice, e sin dalla sua costruzione è stata una postazione favorita donde i Signori di Tornor hanno diretto ogni battaglia contro gli incursori dell'Anhard... Non si può dirigere una battaglia dall'alto di una torre. Ma come poteva saperlo lei, una sciocca scriba?» «Anche le altre Rocche hanno una torre?» «No». Allora era Tornor che aveva visto, ed era a Tornor che era giunta nel corso dei suoi viaggi mentali. Sentì il sangue pulsarle rapido nella testa, e la torre della Rocca, lontanissima, svettò nuovamente dinanzi ai suoi occhi. «Sorren?» Marti la richiamò al presente. Sorren inghiottì, mentre l'immagine svaniva. «Sì. Chiedo scusa, Sign... Marti. Stavo sognando». «Ti ho procurato un po' di piacere con le mie storie?» «Oh, sì». «Ne sono lieta. Dunque potresti fare anche tu qualcosa per me in cambio». «Naturalmente!», rispose Sorren. Marti le prese i fogli con le figure dalle mani. «Mi piacerebbe vedere quelle Carte». Sorren non profferì parola. Poteva andare a casa, prenderle e portarle a Marti... ma, se fosse tornata alla casa sulla collina, si sarebbe trasformata da Sorren l'ospite a Sorren la schiava. Arré le avrebbe certo trovato una commissione da sbrigare, ci sarebbe stato il pranzo da servire, la bianche-
ria da levare, insomma tante cose da fare. «Non importa, bambina,» si rassegnò Marti. «Ma io voglio mostrartele!», disse Sorren guardando la vecchia. «Me le porterai quando potrai. No, lascia stare...», la fermò quando Sorren prese a riordinare le Carte. «Ci penserà qualcun altro. Sembra che non mi sia sbagliata nel chiamarti settentrionale. Dimmi: hai pensato di andare a nord quando il tuo servizio presso Arré sarà cessato?» Sorren rammentò Kadra e le visioni. «Sì». «Ci andresti subito, se potessi,» soggiunse Marti. «Te lo leggo negli occhi; non darti la pena di negarlo.» Allungò la mano in cerca del bastone, e Sorren glielo pose sotto il palmo. «È un bene che tu non possa partire adesso. Hai un innamorato? Ah, sì, ricordo, il Maestro della Piazza. Ti vuol bene. Ed anche Arré, e pure tu le vuoi bene, almeno un po'. È importante: Arré ha bisogno di avere intorno a sé della gente che la ami. Conosci suo fratello?» La brusca domanda disorientò Sorren. «Sì,» rispose. «Suono per lui». «È un uomo malvagio,» disse Marti. «Sono vecchia abbastanza da saper riconoscere la malvagità quando mi sta davanti». Sorren non giudicava Isak un uomo malvagio. Malizioso, forse, persino crudele magari, ma non malvagio. «Non mi credi?», disse Marti. «Beh, staremo a vedere!» Puntò il bastone sul pavimento e si alzò. «Intanto puoi esercitare la tua pazienza mostrandoti cordiale con una vecchia signora ancora per un po'. Ti piacciono i fiori? Bene! Vieni: andiamo nel mio giardino». Capitolo ottavo «Ha-ha-ha-ha-tay-ha-ha-ha...» Le strofe di una canzone echeggiarono nei vicoli. Paxe avanzava a lunghi passi sotto il sole splendente diretta alla Porta Nordoccidentale. Si stava celebrando il Festival del Bue, una festa Asech che durava tre giorni. Odori invitanti fluttuavano nell'aria e le donne intonavano canti che via via raggiungevano tonalità sempre più alte, fino a tramutarsi in fragorosi scoppi di risa. Gli uomini suonavano flauti di giunco, mentre intorno nugoli di bambini scorrazzavano picchiando rumorosamente con dei batacchi scolpiti a forma di bue. Per gli Asech era la festa più importante, seconda soltanto al Festival del Cavallo, che veniva celebrato in primavera dopo la semina. Paxe si scoprì a camminare al ritmo di quella musica esotica. Una voce limpida si levò cantando da una casa poco
distante, e il profilo del corpo di una giovane si stagliò dietro ad un paravento. «Ya-ha-ha-ha-tay...» Il ricordo di Sorren prese forma nella mente di Paxe. Ad eccezione dei saluti casuali ed inevitabili, non aveva contatti con lei da quattro giorni. Non che fosse adirata con la ragazza o, peggio ancora, le attribuisse la colpa della bravata di suo figlio, semplicemente non desiderava vederla, almeno per un po' di tempo. Sorren, dal canto suo, negli ultimi quattro pomeriggi era andata pazientemente a sedersi sulla palizzata della Piazza d'Armi, ad osservare Paxe che, rimasta coi suoi soldati, aveva puntualmente finto di non accorgersi della snella ed agile figura appollaiata sul recinto di legno. Arré aveva notato quanto stava accadendo, e la mattina precedente aveva detto senza preamboli: «Sorren è infelice. Suppongo che tu lo sappia». «Lo so». «E hai intenzione di fare qualcosa?» «Quando sarò pronta.» Era stata crudele. Arré s'era limitata a scrollare le spalle. «Credo che ti stia comportando scioccamente,» aveva poi soggiunto, chiudendo così l'argomento. Paxe non voleva essere crudele ma, ogniqualvolta il suo sguardo si posava su Sorren, qualcosa frenava l'impulso di tenderle una mano ed attrarla a sé. Sperava che nessuno oltre Arré se ne fosse accorto. Presso la Porta di Nordovest il traffico scorreva lento; una lunga fila di carri sostava in attesa di entrare. Paxe si domandò cosa avesse provocato quell'insolito ingorgo. Si guardò attorno in cerca del Capitano di turno. Si chiamava Sereth, ed era nato proprio lì a Kendra. «Dov'è Sereth?», chiese ad una delle altre Guardie. «Alla guarnigione!», rispose quella prontamente. «Maestro della Piazza!» Paxe si voltò per scorgere Sereth che le faceva dei cenni dall'altro lato del posto di guardia. Rispose all'invito e s'incamminò verso di lui facendosi largo tra la folla sul duro acciottolato. I capelli, folti e rossicci, spuntavano ritti dalla testa del soldato. «Ho una cosa da mostrarti.» Paxe lo seguì dietro l'edificio, fino alla piccola armeria nella quale le Guardie in servizio alla Porta riponevano le picche e le fionde. Sereth si inginocchiò accanto ad una cassa di cui subito aprì il coperchio. «Guarda!» Paxe si inginocchiò a sua volta. Il marchio impresso sulla parte esterna della cassa ne dichiarava il contenuto: pezze di lana. Un involto di lana
arancione occupava di fatto l'interno del collo, ma qualcosa di luccicante si intravedeva tra le soffici pieghe. Paxe vi infilò una mano e tastò delicatamente il morbido tessuto. Sereth divenne impaziente. Chinandosi sulla spalla della donna, scostò la lana arancione per svelare una... no, due, anzi più di due... armi ben custodite nella loro guaina. Spade! Sereth si accovacciò accanto a Paxe. «Ci sono sette coltelli e dieci spade. È stata Vanesi la mercante a portarle. Però giura di non saperne niente. Adesso è al Corpo di Guardia; l'abbiamo trattenuta pensando che tu volessi interrogarla». Il soldato quasi ansimava. Paxe percepì la profonda eccitazione che lo animava e si domandò se avesse mai visto una spada prima d'allora. «Hai trovato altre armi tra le sue merci?» «Niente. Abbiamo frugato l'intera carovana». «Non avete scoperto altre armi da nessun'altra parte?» «No, non ancora. Stiamo perquisendo tutti i vagoni, specialmente quelli provenienti dal nord». Paxe si rigirò la prima spada tra le mani. Scintillava, ben levigata, priva di macchie, scalfitture o ruggine. «Quando è stata l'ultima volta che qualcuno ha tentato di introdurre clandestinamente armi da taglio nella città?» «Tre anni fa,» rispose Sereth prontamente, «Benno-Shana portò in città due spade passando attraverso la Porta Occidentale. Gli fu amputata la mano destra». Paxe si alzò, lasciando ricadere la spada nella cassa. «Avevo dimenticato il suo nome,» disse. «Hai una buona memoria, Sereth.» Il Capitano arrossì di piacere. «Portami qui Vanesi». Il Capitano si allontanò alla svelta, per tornare di lì a poco in compagnia della mercante, una grassona pettinata alla maniera tehezerana, vestita di seta gialla e con un paio di alti stivali di cuoio marrone. Non appena scorse Paxe, affrettò il passo verso di lei superando Sereth. «Maestro Paxe!» Protese le mani e continuò: «Ti giuro: non so niente di quelle armi nascoste nella mia lana». «Quando hai saputo che erano lì?» «Quando i tuoi soldati hanno aperto la cassa. Naturalmente sono inorridita». Paxe squadrò la donna da capo a piedi. «Chi poteva nascondere armi tra le tue merci senza che tu lo sapessi, Vanesi?» La donna sospirò ed appoggiò le mani sui larghi fianchi. «Chiunque possieda un borsellino ben imbottito. Tra la mia gente sono pochi quelli che
non si lascerebbero corrompere. Capita sempre nei nostri viaggi che qualcuno subisca un furtarello: cose di poco conto, ma questa è la prima volta che nelle mie casse ci trovo qualcosa in più e non in meno. Maestro della Piazza, tu mi conosci: sono sei anni che entro in città da questa Porta. Sono una commerciante; che interesse avrei a contrabbandare armi rischiando di essere multata, bandita o peggio?»» Paxe si grattò il mento. Qualcuno fuori dalla Porta stava discutendo animatamente con una sentinella sul tempo interminabile che ci voleva per entrare. Sereth accorse per ristabilire l'ordine. «Sì, Vanesi, è vero che ti conosco,» disse Paxe. «E mi piacerebbe crederti. Chi è il tuo capo-carovaniere?» «Leth-no-Chayatha. Sta nella Via dell'Ambra, nel Distretto dei Minto». «Lo farò interrogare. Suppongo che la lana e la cassa che la conteneva siano tue, non è così?» Vanesi si rabbuiò in viso. «Purtroppo, non posso negarlo. Il mio marchio vi è impresso sopra». «Conosci la legge,» disse Paxe. «Dovrò riferirlo». «Lo so,» confermò Vanesi. «Dovrò aspettarmi d'essere convocata dal mio Clan. Ma ora posso andare? Abito nella Via della Terza Fontana: sai dove trovarmi». Anche quella strada era nel Distretto dei Minto. «Se occorrerà...» «Farò in modo che mi troviate,» promise la mercante. «Bene, puoi andare. Mi dispiace che ti abbiano trattenuta». La grassa mercante si strinse nelle spalle. «Ho subito trattamenti peggiori.» Si allontanò a passo svelto. Sereth giunse dalla Porta; Paxe lo vide seguire con lo sguardo la ritirata della massiccia Vanesi. «Non credo che trattenerla possa tornarci utile,» spiegò. «Manda qualcuno in via dell'Ambra ad interrogare Leth-no-Chayatha, il capocarovaniere. Anzi, vacci tu personalmente». «Con piacere!» Sereth puntò un pollice verso la Porta. «Vuoi che continuino a perquisire le carovane?» «Si, certamente!» «Rallenta il traffico». «Non c'è altro da fare». Le palme congiunte, Sereth si inchinò dinanzi a Paxe. «Maestro della Piazza,» la salutò, congedandosi e, in un baleno, raggiunse le sue Guardie in attesa di istruzioni. Paxe provò pena per le persone in coda alla lunga fila di convogli; probabilmente sarebbero state costrette ad accamparsi
fuori dalle mura quando la Porta si sarebbe chiusa, come tutte le altre, al calar del sole. Purtroppo non poteva fare altrimenti. Le grida delle carovane si erano man mano affievolite, e la notizia già trapelava oltre la cinta delle mura cittadine. Dopo un breve giro di ronda si affrettò verso casa; Arré doveva sapere quanto stava accadendo. Giunta sulla cima del colle, una voce d'uomo la salutò da tergo. «Maestro della Piazza!» Paxe si volse. Era Ivor, Comandante dell'ultimo turno di guardia. Bruno come lei, ostentava con orgoglio una barbetta ben curata sormontata da un paio di baffi. «È vanitoso come un pavone,» dicevano di lui le sue Guardie; ma attirava la simpatia di tutti, specie per la sua abilità nel giocare coi dadi. Quanto alla sua mansione, era un ottimo Comandante. Paxe attese che si avvicinasse a lei, dibattuta tra l'opportunità di raccontargli delle spade o di diffondere la notizia soltanto dopo averla comunicata ad Arré. Optò per la seconda soluzione. In pochi istanti Ivor le fu dappresso, il volto bruno solcato dall'ira e dalla preoccupazione. «Maestro, ho perduto un uomo!», disse. «Cosa intendi dire? Chi?» «Seth. Ha disertato». Paxe si accigliò. «Ne sei sicuro?» «È scomparso. Nessuno lo ha più visto da ieri, e non si è presentato all'adunata». Seth era alle sue dipendenze da due stagioni. «Dove pensi sia potuto andare?» «È un ragazzo di campagna. Forse si era stufato di lucidare picche, e sarà tornato al suo villaggio». «Credi?», disse Paxe dubbiosa. «Lo pensi davvero?» Ivor poggiò le mani sui fianchi. «Beh, veramente ne dubito. Non l'ho mai inteso parlare della campagna se non con disprezzo. La città gli piace troppo per decidere di abbandonarla. Scommetto che è ancora qui a Kendra». Paxe si sfregò il naso. Una mosca le ronzò intorno; la scacciò con un movimento distratto. Non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva avuto un disertore tra i suoi soldati. «Ha detto qualcosa a qualcuno?» «Aveva assunto un tono altezzoso da quando lo hai messo a lucidare i ferri. Ma no, non ha mai accennato a nessuno d'essere intenzionato ad andarsene». Una volta uscito dal suo Distretto, sarebbe stato facile sfuggire alla cat-
tura, ma non altrettanto semplice sarebbe stato trovare un lavoro. Avrebbe certo dovuto sfacchinare per un tozzo di pane. «Manda un dispaccio a tutte le Piazze d'Armi ed ai magistrati: Seth... no...» «Lenia,» suggerì Ivor. «Seth-no-Lenia ha disertato dal suo servizio. Chiunque lo veda ne dia avviso al Maestro della Piazza dei Med; una ricompensa sarà elargita a chi fornirà informazioni utili per la cattura del disertore, eccetera, eccetera. Maledizione, ma perché è scappato? Lo avrei lasciato libero; non ho mai trattenuto una Guardia che non volesse restare». «C'è dell'altro,» aggiunse Ivor avvilito. «A quanto mi risulta, ha portato con sé la chiave del deposito delle armi». «Oh, dannazione! Come diavolo ha fatto ad averla?» Ivor, sempre più avvilito, confessò: «Gliel'ho data io. Non me l'ha più restituita». Era chiaro che non era necessario rimarcare la stoltezza di quel gesto. Un istante dopo, Paxe ordinò: «Bisognerà cambiare la serratura. Trova un fabbro, e metti una sentinella a guardia del deposito: ci manca solo che qualcuno venga a rubarci metà dell'equipaggiamento. Di' a Kaleb di fare la stessa cosa». Entrò nella casa dei Med. «Arré!», chiamò, senza tener conto del cerimoniale. La testa di Elith spuntò dalle porte della sala grande. «La Signora Arré è nel suo studio,» disse con uno sguardo severo. Arré sedeva sulla poltroncina ricoperta di morbidi cuscini. «Cos'è che ti porta qui con tanto fracasso?», le chiese. Paxe si sedette sullo sgabello. «Ascolta,» esordì, per poi continuare col racconto delle spade introdotte clandestinamente entro le mura della città di Kendra. Arré serrò le mani in grembo e chinò la testa, in una posa che favoriva la concentrazione. Quando Paxe ebbe finito il resoconto degli avvenimenti, le domandò: «Quali ordini hai dato al Capitano presso la Porta?» «Gli ho detto di perquisire tutte le carovane in arrivo, senza alcuna eccezione». «Bene. Ti fidi di Vanesi? Pensi che ti abbia detto la verità?» «Se quelle spade fossero state vecchie, beh, allora si poteva pensare che qualcun altro le stesse portando in città. Ma soltanto gli Ismenin possono contrabbandare spade nuove». «La prima era vecchia, però».
«Gli Ismenin devono aver portato delle vecchie spade dal nord da far utilizzare ai loro fabbri come modelli». Sembrava ragionevole. Paxe aveva una sola obiezione da opporre. «Dobrin ha detto che il possesso di lame vive era vietato ai suoi soldati». «Non poteva fare altrimenti,» concluse Arré con gentilezza. «Sarà stato certamente terrorizzato all'idea che tu fossi andata direttamente a riferire tutto al Tanjo». «No,» protestò Paxe. «Non era affatto terrorizzato. E non avrebbe mentito a me. Non è quel genere d'uomo». «Dici?», replicò Arré. «Non saprei: non lo conosco». Il contare cadenzato della Piazza («Uno-e due-e tre-e quattro») riecheggiò per un istante nella mente di Paxe. «Le spade entrano da tutte le Porte, non soltanto da quella». «Scriverò ai Capi di tutte le Famiglie, ed informerò anche il Clan Blu!», annunziò Arré. «Se sono nel giusto - e credo di esserlo - gli Ismenin trasportano le spade attraverso il fiume, caricandole sulle chiatte e le zattere minerarie. Del resto sono loro i proprietari di tutte le zattere per il trasporto dei minerali». «Le Guardie degli Hok sono incaricate di sorvegliare quelle imbarcazioni». «E lo fanno?», ribatté Arré. Paxe si grattò la punta del naso. «Credo di sì. Ma, se ne vuoi la certezza, puoi sempre consultare una Maga della Verità». Arré disserrò le mani. «Ne darò notizia al Tanjo io stessa,» disse. «Ad ogni modo, cercherò di evitare di ricorrere ad una Maga, se potrò farne a meno. Quanto a te, Paxe, passa parola agli altri Maestri che le spade vengono portate in città attraverso le Porte delle mura. Chiedi loro di prendere le stesse precauzioni che hai adottato tu». Paxe annuì. «Chi ritieni sia l'artefice di tutto questo?» «Le spade che hai visto erano vecchie o nuove?», si informò Arré. «Nuove,» rispose Paxe, domandandosi cosa potesse significare. «Ah!», esclamò Arré. «Allora credo di poter indovinare chi le stia portando in città. Sono gli Ismenin». «Come fai a dirlo?» Arré alzò un dito. «Uno: nella Piazza d'Armi degli Ismenin si stanno insegnando le tecniche d'uso della spada. Due: gli Ismenin possiedono terre ad occidente nelle quali vi sono grandi depositi di ferro. Tre: gli Ismenin possiedono fucine e fonderie dove è possibile fabbricare spade nuove.
Quattro... - quattro dita tagliarono l'aria - il soldato sorpreso in possesso di una spada, aveva avuto quell'arma da una guardia degli Ismenin». Paxe aggrottò le ciglia. «Perché mi hai chiesto se le spade erano vecchie o nuove? Che significa per te?» «Di solito lasciano che le Guardie degli Ismenin facciano la maggior parte del lavoro». «Le Guardie degli Hok dovranno fare quanto loro spetta, tanto per cambiare. E persino Dobrin - oh, scusa, Paxe, dimentica quello che ho detto persino gli Ismenin dovranno ordinare ai loro soldati presso il fiume di perquisire le zattere. In città si chiacchiera dell'addestramento in corso nella Piazza d'Armi degli Ismenin?» «Non ne ho sentito parlare finora,» disse Paxe. «Dobrin ha ordinato a tutte le sue Guardie di tacere sull'argomento». Si protese verso la Signora dei Med. «Arré, perché gli Ismenin vogliono le spade in città? Cos'hanno intenzione di fare?» «Se lo sapessi, te lo direi, cara. Ma non lo so. Dovrei forse andare da Ron Ismenin a chiederglielo? Non me lo direbbe.» Appoggiò la testa allo schienale della sedia: la pelle nell'incavo della gola apparve sorprendentemente bianca. Il debole suono d'un flauto penetrò nella stanza. Sulle fievoli note, Paxe disse: «Perché mi hai fatto ordinare i seji e mi hai chiesto di addestrare i soldati con la spada?» «Perché gli Ismenin acquisterebbero un potere tremendo nella città se le loro Guardie fossero le sole a saper usare la spada». Le note flautate mutarono tonalità, scegliendo infine un motivo noto da suonare. Paxe piegò la testa da un lato per ascoltare. Sono uno straniero in terra straniera; sono un esule ovunque io vada... «Ad ovest dicono che questa canzone veniva cantata dai ceari quando lasciavano le città». Arré si strofinò gli occhi. «È ancora più antica.» Sembrava molto stanca. «Quando andrai al Tanjo?», le chiese Paxe. «Tra quattro giorni». «L'ultimo giorno dell'estate». «Già.» Arré abbozzò un sorriso. «Io detesto il caldo estivo ma, quando la bella stagione finisce, ne sento la mancanza. Non è sciocco?» «No,» disse Paxe. «Non è sciocco.» La sua mano indugiò su quella di Arré per un lungo istante. Talora le sembrava così strano che due donne come lei si fossero trasformate in persone oberate dalle responsabilità, dal-
le preoccupazioni. Sorrise, al ricordo di altre estati, quando si preoccupavano assai meno. Passeggiavano nei giardini della casa rurale - le siepi e gli alberi erano più bassi allora - e non c'erano marmocchi per i quali litigare (Ricard era in fasce), né Isak a disturbare il sonno di Arré (si trovava a Shanan, a guadagnarsi la shariza), né spade, né contrabbandieri - e non c'era Sorren. Sorren stava andando da Kadra. Gli odori del kadashi e del pitof, il pane speziato degli Asech, permeava le strade. Sorren strizzò gli occhi nel bagliore solare. Le piacevano le feste degli Asech, le piaceva il modo in cui esse si alternavano alle feste cittadine: la Festa d'Inverno, il Festival di Primavera, la Festa di Cavallo, la Festa della Fondazione della Città, il Festival di Mezz'estate, il Festival del Bue, la Festa della Mietitura, e così via. «Ya-ha-ta-ha-tay», una donna cantava, e Sorren picchiettò il ritmo sulle cosce, tamburellando in accompagnamento alla melodia straniera. L'unica cosa che la turbava al momento era Paxe. Da quando Ricard era partito, la sua compagna non le aveva quasi più rivolto la parola, allontanandosi da lei. Ne soffriva. Sperava che quel distacco finisse presto. Aveva persino chiesto al Maestro della Piazza se Paxe fosse adirata con lei, e Paxe le aveva detto di no. Eppure, negli ultimi quattro giorni era sembrato che non s'accorgesse di Sorren, appollaiata nel suo solito angolino sulla palizzata della Piazza d'Armi. La Via dei Susini si trovava nel Distretto dei Batto, nella parte nordoccidentale della città, dove le strade che partivano dalla terra degli Asech si immettevano nel cuore della città. Non era una zona prospera: tegole penzolavano dai tetti, e casette vecchie, sciatte ed anguste fiancheggiavano la via. Sorren si domandò come avrebbe fatto a trovare la casa di Kadra. Gli odori da soli bastavano a rivelarle che quello era un quartiere Asech, e molte architravi sfoggiavano il simbolo del bue, emblema del Festival in corso. Una ragazzina gironzolava nei paraggi; canticchiava accompagnandosi col suono sordo di due pezzi di legno che batteva ritmicamente uno sull'altro. Sorren la chiamò. «Chelito,» le disse, «sai dove abita Kadra, la Messaggera?» La piccola sollevò la testa verso l'alta figura della sconosciuta; anelli dorati rimbalzarono su e giù dai piccoli lobi bruni mentre annuiva. «Mi ci accompagneresti?»
Di nuovo gli orecchini ondeggiarono. Le casette all'altra estremità del vicolo erano separate dalla strada da giardini e orticelli. Taluni ospitavano Erba dell'Estasi assieme ad altre piante. La ragazzina asech si arrestò davanti ad una casa. «Bé,» disse, intendendo «Lì.» Non c'era alcun segno di festa sull'architrave, né dall'interno dell'abitazione provenivano musiche e canti. «Kandra abita qui?», chiese Sorren. «Dosh.» Significava «sì». Sorren raddrizzò le spalle e s'incamminò verso la porta della villetta. La piccola asech restò ferma a guardarla. Sorren bussò, ma nessuno venne ad aprirle. Provò ancora una volta. «Là,» le gridò la ragazza. Sorren si volse verso di lei; stava indicando un sentiero di terra battuta che piegava intorno al lato occidentale della costruzione, separandola dalla parete laterale della villetta attigua. Perplessa ma determinata, Sorren imboccò il sentiero. Ne aveva percorsa la metà, quando rammentò la ragazzina e tornò indietro a ringraziarla. Ma la piccola era scomparsa e la strada era deserta. Dietro la casa la terra era incolta. Vi campeggiava una baracca di legno dal tetto aguzzo. Puzzava di capra, e di qualcos'altro. Se vi era stata una capra, ormai doveva esser finita nell'orto di qualcun altro. Quanto all'altro tanfo, Sorren si avvicinò alla baracca per identificarlo. Una bottiglia di cuoio stava ritta sul terreno. «Kadra?», chiamò. «Si,» rispose la voce del ghya. Sorren sbirciò nella piccola costruzione di legno e vi scorse Kadra seduta con una bottiglia tra le mani. Sembrava ubriaca. Il tanfo di capra e di vino le fecero rivoltare lo stomaco. «Sei ubriaca!», disse. «Sì». «Dovevi aiutarmi. Lo hai detto tu. Come puoi aiutarmi se sei ubriaca?» Rabbia e delusione affilavano la voce di Sorren. Si voltò, decisa ad andarsene. «Dannazione, ragazza, torna qui!», la bloccò il ghya. A fatica si alzò e rimase in piedi barcollando. Poi si sfregò gli occhi con le nocche della mano. «Non pensavo che saresti venuta». «Io mantengo le promesse». «Lingua tagliente, eh?» Kadra si riaccasciò sul terreno. «Vieni qui. Ho una cosa per te». Riluttante, Sorren le si fece vicino. Il ghya raccolse un rotolo dal terreno sudicio e lo porse alla ragazza. Questa lo svolse con cautela per scoprirvi
una serie di linee e piccoli segni. «Che cos'è?», chiese. «Per il Guardiano, ragazza! È una mappa!», esclamò il ghya. «L'ho disegnata io.» Sorren trattenne il respiro. Kadra si protese verso di lei. «Questa è Kendra-sul-Delta.» Indicò un cerchietto nella parte inferiore della carta. «Vi ho segnato la runa "k", il simbolo che vedi sui conii; guarda quelli che hai infilati nel bracciale.» Le dita di Kadra risalirono verso la cima del foglio. «Questa linea rappresenta il fiume. Questo è il Lago Aruna. Tezera si trova qui, accanto al simbolo del pesce.» Mentre spiegava, indicava col dito ogni luogo che nominava. L'intrico di linee somigliava al disegno d'un bambino. Delle linee curve occupavano la parte superiore del foglio. Attrassero l'attenzione di Sorren. «Cosa sono quelle?» «Montagne,» spiegò Kadra. «Le Colline Grigie, dove si trovano le Rocche». Montagne, pensò Sorren. Chinata sulla carta, le sue dita si contrassero. Immaginò d'essere un uccello, e sorvolò la terra d'Arun, così come sorvolava la steppa nei suoi sogni. Quella mappa le poteva insegnare ogni strada, ogni piega, ogni curva del fiume. Seguì con le dita la linea che saliva a nord. «Come si arriva lassù?» Il ghya raccolse una pagliuzza nella baracca. Con delicatezza ne posò la punta sul foglio. «Questa è la città, dove siamo noi. La strada segue il corso del fiume, così. Per andare alle Rocche bisogna prima raggiungere Tezera e quindi piegare a nordest, in direzione della Rocca di Zilia, oppure a nordovest, verso le altre. Hai già deciso quale Rocca sarà la meta del tuo viaggio?» «Tornor,» rispose Sorren. «Eccola.» Kadra sfiorò la carta col filo di paglia. «La strada sale a nord fiancheggiando questo fiume, il Rurian. Quando partirai? Ti segnerò i nomi dei villaggi che incontrerai lungo il percorso». «La prossima estate». «Sarebbe meglio in autunno,» obiettò il ghya. «Non è cosa da poco attraversare Galbareth durante l'estate. Il caldo inaridisce la via, mentre in autunno l'aria è più fresca, e le strade sono meno polverose. L'unico problema, però, è raggiungere il nord prima che inizino le piogge». «E cosa accade allora?» «La steppa, le strade, ogni cosa si trasforma in fango. I cavalli lo odiano». Sorren non aveva pensato ai cavalli. «Io non so cavalcare».
«Allora viaggerai a piedi,» disse Kadra, «e ci vorrà molto di più. Se hai un po' di danaro, forse i mercanti ti permetteranno di montare su uno dei loro carri fino a Tezera». Sorren inghiottì. Le parole di Kadra evocavano immagini nient'affatto piacevoli: caldo soffocante, strade melmose, e stranieri ostili. «Quanto tempo impiegherò?» «A piedi per l'intero tragitto? Due mesi, come minimo. Se ti aggreghi ad una carovana fino a Tezera, allora ci vorrà meno. Diciamo un paio di settimane fino a Tezera, e altri dieci giorni da lì a Tornor. Questo è quanto impiegheresti tu. Un Messaggero, anche a piedi, ci metterebbe meno». Il viaggio era molto lungo. Sorren si morse il labbro. «Qualche ripensamento?», la stuzzicò Kadra. Sorren avrebbe voluto gridarle in faccia: «No, naturalmente no!» Ma era stupido fingere d'essere più forte di quanto fosse in realtà. «Sì». «Bene,» disse il ghya. «È naturale che ne abbia.» Riavvolse con abilità la mappa e legò il rotolo con una cordicella. «Sono comunque decisa ad andare». «Va'!» La voce di Kadra assunse il tono piatto che talvolta le era proprio. «In tal caso dovrai pensare a procurarti uno di questi.» Frugò sotto il mantello e, con un movimento che fece scattare Sorren all'indietro, estrasse un coltello. L'uso dei coltelli non poteva essere completamente proibito all'interno della città; erano aggeggi troppo utili. Sicché il Consiglio aveva stabilito con esattezza la lunghezza e l'ampiezza delle lame ammesse, nonché a chi ed in quali circostanze ne fosse consentito il porto. I Messaggeri erano tra questi, purché i loro pugnali rientrassero nei limiti legali. Quello di Kadra era di fatto piccolo ed assai sottile. «Ha il taglio da un solo lato,» spiegò il ghya. Mostrò quindi a Sorren l'elsa di metallo e d'osso intarsiato. La lama s'incurvava all'indietro, ed una scalfittura la cui forma ricordava una testa di cavallo stilizzata, ne intaccava la punta. «Sembra ben affilato,» osservò Sorren. «Lo è,» confermò il ghya. «Serve per pugnalare, non per tagliar fette. Posso procurartene uno simile». «No,» rispose Sorren d'impulso. «No. Non lo voglio.» Le regole contro il porto d'armi da parte degli schiavi erano particolarmente severe. «No». «Avrai pur bisogno di qualcosa per difenderti». «No.» Ogni discorso che riguardasse le armi in genere le provocava ten-
sione. «Non voglio niente». «Vedremo,» disse Kadra. «Vuoi che la tenga io?», le chiese indicando la mappa. «Ti segnerò il percorso». «Lo faresti?» «Non è questo che vuoi? Torna la settimana prossima. Però ti avverto: sarò ubriaca come un maiale e dovrai svegliarmi tu». «Perché?» «Come una volta tu hai detto a me... la cosa non ti riguarda». Ciò detto, il ghya si alzò. Non riusciva ancora a reggersi ritto sulle gambe. Puzzava, era sporco; la sua faccia era chiazzata di giallo là dove le contusioni, procurate nella zuffa che l'aveva coinvolto, tardavano a guarire. Sorren rimase in piedi a guardarlo. «Ti prenderanno sulla nave se sarai ubriaca?», disse. Kadra la colpì. La violenza dello schiaffo le fece girare la testa di lato, e per poco non la scaraventò sulla mappa. Ritrovò l'equilibrio aiutandosi con le mani poggiate sul terreno e si allontanò alla svelta. Kadra, ferma nel mezzo del sentiero, la fissava con occhi di pietra, i denti visibili tra le labbra contratte per l'ira. Trascorse ancora un istante, poi i suoi pugni serrati si sciolsero. «Te l'avevo detto di stare attenta a come parli». Con la faccia ardente per la vergogna e per la percossa, Sorren si scusò: «Mi dispiace». «Vattene!», le intimò Kadra. Sorren, frastornata, le passò davanti diretta alla strada. Non si sarebbe mai aspettata che Kadra potesse colpirla in quel modo; mai aveva sospettato che Kadra potesse muoversi con tanta fulminea agilità. Né sapeva spiegare a sé stessa perché aveva detto ciò che aveva detto. Stupida, si disse. Sei una stupida. Ogni volta che parli con Kadra, finisci col dirle qualcosa di sbagliato! Furiosa contro se stessa, e sul punto di piangere, si affrettò verso il Distretto dei Med. Percorsa parte del cammino, si fermò alla fontana pubblica per lavarsi la faccia. I vecchi seduti lì dappresso a chiacchierare si fecero educatamente da parte per consentirle di azionare la pompa. L'acqua fresca sulla pelle infuocata le provocò una sensazione deliziosa. «Allora, mio Signore,» disse una voce meravigliosa accanto a lei, «com'è andato il raduno dei Corrieri a Nuath?» Fu quel nome - Nuath - a farla voltare di scatto. Tra le goccioline d'ac-
qua che le stillavano dalle ciglia cercò con lo sguardo le persone impegnate in quella conversazione. Lampi bianchi balenarono negli occhi azzurri di Sorren. La ragazza trattenne il respiro allorché s'accorse che lo sguardo della Maga si era posato direttamente su di lei. «L'uomo è cocciuto come un mulo!», esclamò in risposta una voce maschile. Sorren la conosceva bene; l'aveva sentita poco tempo prima nella sala dei Med. Il compagno della Maga era Kim Batto. Sorren congiunse i palmi e fece un inchino. Non le era mai capitato di trovarsi cosi vicina ad una Maga prima d'allora. «Che bei capelli hai, piccola,» sentì dire dalia voce straordinaria della Maga, una voce bassa e musicale, dolce e seducente come miele. «Hai pianto, vero? Sei turbata? Posso forse aiutarti?» Era splendida. I suoi capelli scuri le ricadevano attorno alla veste come un fiume nero in un campo di margherite. Sorren cercò di ritrovare la calma. «Sto bene, damisen. Ho litigato con un'amica». Kim Batto tossì. «Io conosco questa ragazza, lehi. È la ragazza del nord: serve nella casa dei Med. Non darti pena; probabilmente non è nulla». «Ma non è ferita! Basta guardarla per capirlo. Cos'hai, Sorren?», le chiese poi ad alta voce, quasi si stesse rivolgendo ad un cane o ad una mucca. Sorren si piegò riverente sfiorando la terra con un ginocchio. «Sto andando a casa, mio Signore», spiegò, rialzandosi. «Stavo facendo la spesa». «Vedi?», disse Kim Batto esultante. La Guaritrice lo ignorò. «È impaurita,» disse. «Credo che abbia paura di me.» Le tese una mano. «Non devi temermi, bambina. Io sono devota al cea, all'armonia.» La sua voce era seducente. «Lehi, è una sciocchezza!», disse Kim Batto, posando una mano sulla spalla della Maga. Questa roteò su se stessa liberandosi dal contatto con la mano dell'uomo. «Mio Signore, non ti ho dato il permesso di toccarmi,» disse, e il suo tono fu alto abbastanza da raggiungere i vecchi seduti attorno alla fontana. Questi udirono e ridacchiarono. Kim Batto divenne scarlatto. «Né ho chiesto il tuo aiuto.» Si rivolse poi nuovamente a Sorren. «Mi hai chiamata "damisen": è una parola della Vecchia Lingua. Dove l'hai appresa, bambina?» Esitante, Sorren rispose: «Sono stata raccoglitrice nei vigneti, lehi. È lì che l'ho imparata». «Tu sei una raccoglitrice? Perché dunque sento...» La Maga s'interruppe. D'improvviso Sorren sentì... percepì... riconobbe, un contatto, una presenza, soffice come una tela di ragno, forte ed intensa come la luce del sole,
inevitabile come il battito del suo cuore. Le parve che i suoi sensi si offuscassero, per poi riaccendersi più luminosi di prima. La brezza le sferzò il viso; fu penetrata dagli odori del cuoio, del legno di sandalo, del lino, dell'acqua. Incapace di muoversi, sentì la Maga entrare nel santuario del suo cranio. Il contatto durò solo qualche istante, poi svanì. Libera, emise un grido e, goffa come un infante, urtò contro Kim Batto, il quale imprecò. Ritrovando l'equilibrio, Sorren fuggì come un criminale dalla scena del delitto, zigzagando tra la miscellanea di bottegai, mercanti, bambini, buoi e capre. Finalmente, quasi senza fiato, raggiunse la dimora dei Med. La Guardia al cancello la fissò con stupore. «Chi ti sta alla calcagna?» Sorren non aveva parole per rispondergli. «All'inferno!» Con la furia d'un uragano, passò oltre il cancello prima ancora che il soldato potesse aprirglielo. Paxe era nella Piazza d'Armi. La sentì parlare, impartire istruzioni. Stava addestrando i soldati alla picca. Sorren mosse in direzione della villetta, ma subito si arrestò. Paxe non le dava retta da quattro giorni; se fosse andata alla villetta, si sarebbe potuta arrabbiare. Non poteva sopportarlo. Se invece fosse entrata in casa, Arré avrebbe potuto vederla, e certamente le avrebbe chiesto cosa le era accaduto. E cosa avrebbe potuto dirle? Respirando a fatica, optò per il giardino. Stanca, si sedette sul prato. Borti la trovò lì. Quasi fosse priva di peso, la sollevò da terra e la portò sul retro della villa, vicino alla lavanderia. «Prendi!», le disse, mettendole tra le mani un frutto. «Mangia!» La ragazza addentò il frutto. Il succo dolcissimo le tolse il respiro; era delizioso. «Come...» «Me lo ha detto Ruath.» Ruath era la Guardia al cancello. «Mi ha detto che sembri inseguita da un Demone». «Oh!» «Gli ho risposto che ne dubitavo. Poi ho pensato che avrei fatto bene a trovarti.» La sua voce profonda cantilenava roca, simile ad una ninnananna. «Sai che non sei obbligata a raccontarmi niente: siamo amici, non è vero? Ma, se stavi correndo, dovevi essere affamata, perciò t'ho portato qualcosa da mettere sotto i denti. E assetata!» Le pose in grembo una fiaschetta di cuoio. «Perciò ti ho portato anche questa». Sorren ne tirò via il tappo - le dita le tremavano, ma soltanto un po' - e portò la fiaschetta alle labbra. Il vino era aspro e forte. Si sentì stringere alla gola; si riebbe e bevve ancora. «Grazie».
«Di niente. Avresti fatto lo stesso per me, non è così?» «Sì,» rispose lei. Un sorriso tremulo balenò sul suo viso mentre guardava il volto baffuto di Borti. Dei fili bianchi striavano quei baffi, tuttavia erano ancora lunghi e lussureggianti. «Però, dubito che ti avrei portato in braccio». Borti serrò le labbra. «Avresti fatto tutto ciò che dovevi fare.» La certezza nella voce del soldato la fece raddrizzare. Borti le diede una pacca sulla schiena. «Tutto a posto?» «Tutto a posto». Recuperò la fiaschetta dal grembo di lei, poi vi infilò il tappo e la ripose sotto la cintura. «Bene. Con questo basta. Ora è meglio che entri in casa». Capitolo nono Ora Isak era lo Stallone. A torso nudo, e con un enorme fallo di giunco legato alla ciotola, nella Danza simulava l'impennarsi di un destriero. Le dita di Sorren si muovevano velocemente. Era la terza volta che provavano questa scena. Vedeva la mano di Isak muoversi mentre contava. I suoi capelli neri ondeggiavano, sciolti come una criniera. La Danza iniziava con la rappresentazione del Pavone, del suo incedere impettito, delle seducenti posizioni che assumeva per attirare la femmina. Seguiva l'Orso dalle goffe movenze, che effettuava un pesante girotondo attorno al palcoscenico. Avevano già provato due figure. Nella scena finale il Danzatore assumeva le fattezze di un Cigno, distaccato, leggiadro, regale. La parte dell'Orso era la più difficile, perché vi si intrecciavano due diversi generi di ritmo. Pah-pah-dum. Sorren osservava le spalle di Isak oscillare all'unisono con le sue percussioni. Lo Stallone uscì di scena. Isak le volse le spalle, il che significava appunto che si trovava fuori scena. Sorren continuò a suonare. Perle di sudore le scivolavano lungo i seni sotto la camicetta. Il ritmo cominciò a rallentare, ad addolcirsi... Isak annuì: era pronto. Sorren, ricevuto il segnale, suonò l'entrata del Cigno. A questo punto dello spettacolo, il Danzatore indossava un mantello di penne e piume; nelle prove, Isak ne faceva a meno, simulando con le braccia sollevate il movimento delle ali. Eccolo tornare sulla scena, scivolare, la testa reclinata all'indietro, il collo straordinariamente allungato, o almeno atteggiato in modo tale da sembrare più lungo. Quella era la magia della Danza: irretire lo spettatore nelle
maglie dell'illusione. Questa parte riusciva meglio con la presenza d'un flautista. Pah-pah. Il Cigno racchiuse tra le sue ali la femmina invisibile, oggetto delle sue attenzioni, così come la Puledra lo era stato per lo Stallone, l'Orsa per l'Orso, la Pavonessa per il vanitoso Pavone. Isak giacque quindi sul pavimento, con le braccia alte sì da drappeggiare il mantello intorno al volto ed al corpo. Sorren intonò le note finali, poi lasciò che le sue mani riposassero. «Come ti è sembrato?» «Bello!», approvò Sorren. «Basta adesso,» disse il Danzatore. Si diresse alla porta e fece capolino nel corridoio. «Porta un po' d'acqua!», ordinò. Ritornò quindi nella stanza e si sedette sulle stuoie. «Sorren, sto invecchiando». Allungò un braccio verso l'asciugamano e si strofinò la faccia e gli occhi. I suoi muscoli si muovevano agilmente sotto la pelle d'ambra. Sorren sorrise. Non sembrava affatto vecchio. «Tu ridi!», disse. «Quanti anni hai?» «Diciassette». «Guardiano, sei una lattante! Io ne ho trentatré, quasi il doppio della tua età». «Non si vede,» commentò Sorren. Isak rise. Rideva sempre quando le prove erano state soddisfacenti. «Teneth!», chiamò. La porta di dischiuse ed una ragazza grassoccia entrò nella stanza recando un vassoio su cui poggiava una brocca d'acqua e due calici. «Grazie!», disse Sorren. Prese quindi il vassoio dalle mani della ragazza. «La verso io». «Lascialo fare a lei,» disse Isak. «Ha bisogno di fare pratica.» Sorren mise giù il vassoio. Teneth, avvampando, versò l'acqua per Isak e poi per Sorren. «Puoi andare.» Isak congedò la serva con un gesto. Sollevò il calice alle labbra e ne bevve un'unica lunga sorsata. Spruzzò quindi le ultime gocce sul volto sollevato verso il soffitto. «Aah!» Sorren allentò le pelli dei tamburi. Le prove erano andate bene. Centellinò l'acqua aromatizzata con succo di limone. L'ultima volta che era stata in quella casa li aveva serviti un ragazzo di nome Koré. «Cos'è accaduto a Koré?» «Non sta più qui». Isak si stancava alla svelta della gente; probabilmente Koré era tornato nei vigneti. Sorren raccolse l'asciugamano usato da Isak e si strofinò le
mani ed il volto. Isak distese le gambe sulle stuoie e cominciò a flettere il busto, toccandosi le ginocchia con la testa. Sorren aveva visto Paxe fare quell'esercizio dopo l'addestramento nella Piazza d'Armi. Serviva a distendere i muscoli; se trascurava di farlo, andava incontro a dolorosi crampi. «Allora,» disse il Danzatore dalla posizione flessa, «come sta la mia cara sorellina?» «Arré Med sta bene». La bocca di Isak si sollevò agli angoli. Sapeva che Sorren non gradiva parlare di Arré con lui. Prima che potesse aggiungere qualcosa, la ragazza domandò: «Come sta tua moglie?» «Abbastanza bene. Verrà in città per il Festival». In quell'occasione Myra ed i bambini venivano a stare per un po' da Isak. «E i ragazzi?», chiese. «Stanno bene, suppongo. Myra me lo avrebbe fatto sapere se fossero morti». Isak era come uno specchio; non gli si cavava mai niente, se non il luccichio della sua mente e l'immagine riflessa delle domande che gli si ponevano. Sorren si drizzò. Le ginocchia le dolevano per averle tenute a lungo nella stessa posizione. «Quando ci sarà la festa di fidanzamento, mio Signore?» «Tra quattordici giorni». «Dovremo fare un'altra prova?» «Non so.» Si distese sulla schiena. «Tu cosa ne pensi?» «Come desideri». Isak rise. «Non credo sia necessario. Oggi è andata bene. La festa comincerà un'ora prima di mezzogiorno, ma sarà meglio che arrivi con un po' d'anticipo». «D'accordo.» Le feste di fidanzamento si protraevano fino al tramonto, e spesso ancora oltre. «Credi che gli Ismenin gradirebbero il numero di un giocoliere?», domandò Sorren ricordando Jeshim. «Sì, può darsi,» rispose Isak. «Perché? Ne conosci qualcuno?» «Sì. Uno che si chiama Jeshim. È per metà Asech. Fa esercizi con sfere e piattelli; sa anche lanciare i coltelli. È molto bravo». «Se lo vedrai prima d'allora, digli di passare da me per farmi vedere cosa sa fare. Ron ha affidato a me l'organizzazione degli intrattenimenti» «Glielo dirò,» promise Sorren. «Vuoi che indossi qualcosa di particolare quel giorno?» «Mettiti qualcosa di grazioso».
«Potrei mettere l'abito di seta con le farfalle che indossai in occasione del Consiglio». «Sì. Perfetto!» Le diede un colpetto sul ginocchio. «Eri molto carina quella sera, sai?» Sorren avvampò. «Grazie». Si avvicinò ad una finestra che affacciava su un giardinetto: la luce solare scintillava sui fiori e sui tulipani rossi e gialli allineati in file ben composte. Isak ci teneva che il giardino ed il cortile anteriore fossero sempre in ordine. Non che lui avesse una passione particolare per i fiori - e questo Sorren lo sapeva - ma semplicemente amava circondarsi di bellezza. Persino in quella stanza che utilizzava per gli allenamenti, sete costose luccicavano negli arazzi, i cuscini erano imbottiti di soffici piume d'oca e le chobata erano di porcellana sopraffina magistralmente decorata. Sorren trasse un profondo respiro e lentamente lasciò l'aria fuoriuscire. Era tesa. Durante il pasto del mattino, Arré le aveva raccomandato: «Non dimenticare di parlare a mio fratello della spada!» Una settimana prima le era sembrato facile acconsentire alla richiesta di dire una piccola bugia; ma adesso non le pareva più tanto semplice. Isak era molto acuto. D'altro canto, ora la bugia era più palese di quanto lo fosse stata una settimana prima. Qualcuno stava di fatto portando delle spade in città: la notizia era di dominio pubblico. Le Guardie alle Porte di Kendra perquisivano le carovane, e tutti al mercato sapevano che fino ad allora erano state scoperte più di trenta armi da taglio celate in balle di cotone e pezze di lana, su zattere da legname e carri minerari, in un sacco di grano e persino in un pacco di giocattoli proveniente da Tezera. Il giorno dopo Arré sarebbe andata al Tanjo a colloquio con il L'hel a proposito del Bando. Anche ciò era di dominio comune nelle strade. Sorren si domandava se il Bando sarebbe stato abolito, cosa di cui dubitava. Però, se si fosse verificato un simile caso, il Clan Rosso sarebbe potuto ritornare a Kendra-sul-Delta. Pur consapevole di quanto ciò fosse improbabile, il pensiero di quella possibilità le procurava una grande eccitazione. Isak si stava strofinando i capelli con l'asciugamano. In piedi alle sue spalle, Sorren gli domandò: «Mio Signore, posso chiederti una cosa?» «Naturalmente». «Stamattina ho visto Paxe addestrare i soldati nella Piazza d'Armi usando una spada». Isak lasciò cadere il panno e si volse a guardarla. La voce del Danzatore si fece tenue e suadente, come quella di un gatto che fa le fusa. «Dici dav-
vero? Interessante!» «La cosa ha destato in me parecchia preoccupazione. Pensavo - so che qualcuno sta portando le spade in città anzi, tutti lo sanno - che fosse proibito possederne». «Dovresti chiederlo a Paxe,» disse Isak. «Con lei non parlo di queste cose,» disse Sorren. Era vero. Sorren diresse lo sguardo, volutamente vagante, verso gli arazzi intessuti nel rosso e l'azzurro, emblema dei Med. Isak raccolse i capelli sulla nuca con una mano mentre con l'altra cercava un fermaglio. «I veri innamorati non dividono ogni cosa?» Trovò il fermaglio. «Perché mi stai chiedendo queste cose?» Il cuore di Sorren prese a battere più veloce. Perché è stata tua sorella ad ordinarmelo, pensò. «Perché ho pensato che tu avresti saputo darmi una spiegazione,» rispose invece. Isak si strofinò la mascella rasata. «In effetti, è illegale possedere una spada lunga, una spada da guerra. Ma nessuna delibera del Consiglio ha mai vietato il possesso dei ferri corti, i komy. La spada che hai visto era corta?» «Non lo so. Non so com'è una spada lunga». Le mostrò a gesti la lunghezza e l'ampiezza dell'arma. «Più o meno così e così». «Non saprei dire: ero distante. Sono solo una serva, e non mi è permesso entrare nella Piazza d'Armi». Isak si alzò. «Tu e Paxe avete litigato?» Sorren abbassò gli occhi, stupefatta. «Cos'è che te lo ha fatto pensare?» «Quel graffio sulla fronte». Isak aveva la vista acuta. Sorren si tastò la contusione. Se n'era quasi dimenticata. «È stato Ricky,» spiegò. «Chi è Ricky?» «Uno stupido,» disse, «che mi ha aggredita al mercato la settimana scorsa». «Un ammiratore!» Inclinò la testa da un lato, attendendo la reazione di Sorren. Lei si domandò a sua volta cosa avrebbe detto Isak se avesse saputo che Ricky era il figlio di Paxe. L'avrebbe derisa. «Meglio così!», osservò l'uomo. «Mi sarebbe dispiaciuto se tu e Paxe aveste litigato». Gli piaceva dire quel genere di cose. Sorren si allungò verso il vassoio tirandolo a sé. Versò per entrambi un altro bicchiere di limonata. «Chi sta per sposarsi?», chiese con studiata indifferenza.
«Col Ismenin sposerà Nathis Ryth, del Clan Blu». Sicché l'informazione ricevuta da Jeshim era esatta. Sorren bevve. «Allora lei diventerà una Ismenin?» Gli occhi di Isak si assottigliarono. «Di fatto, no,» disse lentamente. «L'accordo stabilisce che lui diventerà un Ryth. Perché me lo hai chiesto?» «Per curiosità,» disse Sorren, incrociando lo sguardo di Isak. Un istante dopo, questi sorrise. «Dopotutto, così vuole la tradizione,» osservò. «La Famiglia Ryth è oltremodo lieta di accogliere il suo nuovo figlio». Sorren depose il bicchiere. «Ora dovrei andare, mio Signore». «Si, certo. Ci vedremo alla casa degli Ismenin. Porgi i miei saluti alla mia cara sorella». «Sì, mio Signore». «Presuppongo che dorma ancora da sola.» Sorren non rispose. Isak continuò languidamente: «Ha bisogno di qualcuno che le faccia compagnia a letto. Un amante che le impedisca di diventare vecchia, brutta ed acida. Sarei lieto di raccontarle la persona adatta, ma temo che i nostri gusti non coincidano affatto». Sorren non sopportava che si usasse quel tono nei riguardi di Arré. Rivolse lo sguardo agli arazzi. «Potresti farlo tu, invece,» soggiunse Isak, «visto che i tuoi gusti in amore sembrano identici ai suoi. Tu sai che lei e Paxe sono state amanti?» Sorren lo fissò impietrita. «No,» disse. «Tredici anni fa, quando erano ancora giovani, belle, ed ardenti.» Isak alzò il tono della voce. «Teneth! Portami una camicia pulita.» La ragazza arrivò nella stanza con una casacca azzurra poggiata sul braccio. Vi spiccava lo stemma dei Med, rosso e blu. L'uomo indossò l'indumento. Sorren si allontanò dalla finestra strofinandosi le braccia. La pelle le si era raffreddata. Raggiunse la porta recando con sé i tamburi. La faccia di Isak emerse dalla casacca. Sorrideva. «Addio, Sorren. Ci vedremo alla festa». La ragazza scese in strada coi tamburi serrati al petto, come portasse un bambino in braccio. Si figurò nella mente Paxe ed Arré avvolte dalla luce del sole, passeggiare nel giardino sotto i meli, il braccio di Arré stretto intorno alla vita sottile di Paxe, ed il lungo braccio di questa intorno alle spalle di Arré. Non le era difficile immaginare Paxe più giovane. Tredici anni fa, pensò, ero una bambina di quattro anni.
«Ehi! Ragazza!» Sorren si voltò. Una giovane col viso abbronzato ed un cappello di paglia da raccoglitrice, sostava sul pendio del colle, pochi passi sotto di lei. Una mano sporca e scura stringeva un pezzetto di carta. «Sì?», rispose Sorren. «Servi dai Med?» «Sì». «Conosci il Maestro della Piazza?» Ancora più stancamente, Sorren rispose: «Sì». La ragazza snudò i denti bianchi in un largo sorriso. «Avrei dovuto lasciare questa per lei al Cancello, ma ci abbiamo messo così tanto ad entrare in città che, quando siamo arrivati al Cancello, il Capitano di Guardia ci ha detto che se n'era già andata.» Porse a Sorren il pezzo di carta. «Ecco, prendila! È una lettera per lei da parte di suo figlio». Un istante dopo, la missiva fu tra le dita di Sorren. «Grazie,» disse. «Gliela consegnerò.» La giovane agitò il cappello in segno di saluto e corse via come una capra giù per il declivio. Sorren andò alla Piazza d'Armi, ma Paxe non c'era. Con la lettera in bella vista davanti a sé, quasi fosse una bandiera di tregua, andò alla villetta e bussò alla porta. «Avanti,» gridò Paxe. Sorren entrò. Vi trovò l'amante seduta a gambe incrociate sulla stuoia davanti al tavolino, cosparso, come il pavimento circostante, di tutto l'occorrente per scrivere. «Cos'è?», chiese. «Una lettera da Ricard». Il volto di Paxe s'illuminò. «Dammela!», disse. Sorren gliela porse e Paxe ne strappò immediatamente la busta. La lesse, e tutto il suo corpo sembrò sorridere. La posò quindi in grembo ed allungò una mano. Sorren le si accostò a Paxe le prese la mano, ne cercò il palmo, poi lo portò alle labbra e sfiorò con la lingua la piccola cavità. «Sei stata molto paziente con me». Toccò la lettera con l'altra mano. «Come l'hai avuta?» «Me l'ha data una ragazza che viaggiava con una carovana. Sorren desiderava gettarsi tra le braccia di Paxe. Il suo pensiero corse ancora a Isak. «Cosa dice?» Paxe riprese la lettera. «A Paxe-no-Tamaris, Maestro della Piazza presso Arré Med, da suo figlio Ricard, con affettuosi saluti,» Potrebbe essere opera di uno scriba, aggiunse. «Sto lavorando nei campi. Sto bene. Celénia-no-Tazia è il mio capo. Il lavoro è faticoso. Ho imparato a cogliere i
grappoli d'uva dalla vite senza rovinarli. La mia paga è quattro pezzi da tre a settimana. Per favore, mandami un paio di stivali morbidi o del danaro per comperarli. Mi manchi. Vorrei essere a casa. Il tuo amato figlio, Ricard». Sorren tirò su col naso. «Avrei potuto dirglielo io che il lavoro era faticoso,» osservò. Paxe le scostò i capelli dal viso con una carezza. «Ma tu sai bene che non te lo avrebbe mai chiesto». E così tutto era tornato a posto. Sorren si sedette sulla stuoia, accanto ai tamburi. «Cosa stai facendo?», domandò, guardando I rotoli di carta ed il calamaio. Paxe poggiò la lettera sul tavolo e prese un pennello. «Dopodomani sarà il primo giorno d'autunno. Sto compilando il nuovo orario dei turni di guardia». «Quale turno prenderai tu?» «Quello notturno,» disse Paxe. Sorren sospirò. «Non ti vedo mai quando fai il turno di notte». «Lo so,» disse Paxe. «Mi dispiace, chelito. Devo farlo». «Ci saranno altri cambiamenti?» «Kaleb farà il turno serale, e Ivor quello del mattino. Non lo ha mai fatto finora, perciò nominerò Borti suo secondo». Sorren sorrise. «Ne sarà contento». «Lo so. Spero che Ivor avrà il buon senso di prestargli ascolto. Sarà vecchio e pigro, ma è pur vero che conosce questa città meglio di chiunque altro». Paxe sì stiracchiò; i muscoli le si gonfiarono sotto la camicetta. «Dove sei stata oggi?» «Ho provato con Isak stamattina.» Si accostò più vicino a Paxe sulla stuoia. «È andata bene?» «Sì. Ma io odio Isak». «Perché lo odi, chelito?» Col braccio cinse le spalle di Sorren, che vi si adagiò con piacere. «È un choback; si diverte a far del male alle persone». L'intero corpo di Paxe si irrigidì. «Ti ha fatto del male?», chiese. «Mi ha detto una cosa». Paxe aggrottò le ciglia. «Cosa ti ha detto?» «Mi ha detto...» Lo sguardo di Sorren si abbassò sulle stuoie. D'improv-
viso le parve così difficile parlarne... «Mi ha detto che tu ed Arré siete state amanti, molto tempo fa». «Ah!» Le dita di Paxe carezzavano il collo di Sorren. «Lui non era qui allora. Stava a Shanan, a studiare con Meredith.» Con tutte e due le braccia avvolse il corpo di Sorren attirandola su di sé. La ragazza odorò le mani dell'amante. «Vuoi che te ne parli?» «Sì, ti prego!» Il respiro di Paxe alitò tra i capelli di Sorren. «Ero Vice Comandante della Guardia dei Med. Kemmeth-no-Vira era il Maestro della Piazza: adesso è morto. Io avevo ventiquattro anni, Ricard era piccolissimo, ed Arré aveva trent'anni. Erano passati tre anni dalla morte di sua madre e lei stava imparando a governare la famiglia ed a far parte del Consiglio. Più o meno era come la vedi adesso, piccola ed arrogante, ostinata e irriducibile come un ciclone, ed io,» Paxe esitò, «per molti versi ero come te. Arré aveva bisogno di qualcuno a cui parlare, ed a me piaceva ascoltare...» «Era bella?» Paxe ridacchiò. «Non userei questa parola. Conturbante, si... magari sconvolgente, ma non bella». Sorren intrecciò le dita con quelle dell'amante. «Tu devi essere stata bellissima!» «Non credo». «Cosa accadde?» «Fummo amanti per due anni, poi ci lasciammo. Tutto qui». Sorren si rabbuiò. «Questo non mi dice molto». «È passato tanto tempo!», disse Paxe con dolcezza. «Hai notato il braccialetto d'argento con la pietra azzurra di Arré?» «Certo, è il suo preferito». «Fu un mio regalo». «Oh!» Sorren rimase in silenzio qualche istante. «Ti dispiace che sia finito?», le chiese, incapace di reprimere l'ondata di gelosia che affiorò nella sua voce. Le braccia di Paxe la strinsero con foga. «Ho un'amante!», disse. Fecero l'amore lì sulle stuoie, ed il disegno della paglia intrecciata si impresse sulle spalle nude di Paxe. Dopo, Sorren si sedette nuda nella stanza al pianterreno e raccontò a Paxe della sua visita a Marti Hok, della storia di Sorren di Tornor, e della scoperta delle Carte. «È vero,» concluse. «Marti Hok ha detto così. Sono veramente una ragazza del nord».
«Le hai confessato la tua intenzione di partire?» Sorren raccolse i capelli per acconciarli in una treccia. «Lo sapeva,» disse, ed arrossì ricordando che Marti Hok sapeva anche di Paxe. «Sa molte cose». Arrestò le dita che intrecciavano i capelli rammentando le parole di Marti. «Ha detto che Isak è malvagio». Paxe appoggiò la schiena su di un cuscino. «Malvagio è una parola forte». «Tu stessa hai detto che ha qualcosa in mente,» le fece notare Sorren. «Ed è così. Ti serve un nastro, chelito.» Paxe si alzò e salì di sopra. Sorren ne sentì i passi in camera da letto. Quando ne discese, aveva tra le mani un nastro di colore indaco. Con movimenti sinuosi, il nastro scivolò sulla testa di Sorren per poi carezzarle i seni. La ragazza ne afferrò l'estremità. «No: mi fa il solletico.» Quindi lo legò intorno alla punta della treccia e strinse forte il nodo. «Cos'ha in mente?» «Non ne ho idea,» rispose Paxe. «Perché è stato così pronto a farti soffrire oggi? Credevo provasse simpatia per te». «Credo,» disse Sorren «che si sia comportato così perché gli ho fatto delle domande sulle spade». Paxe, nell'atto di sedersi, restò paralizzata a mezz'aria. Poi, lentamente, si riadagiò sulla stuoia. «Cosa sai tu delle spade?» «Arré mi ha detto di riferirgli se ti avevo vista nella Piazza d'Armi con una spada». Paxe si accigliò. «Lui cosa ti ha detto?» «Mi ha chiesto se l'arma era corta o lunga. Io gli ho risposto che non lo sapevo, e lui mi ha spiegato che le spade lunghe sono illegali ma che il Consiglio non ha mai vietato il possesso di quelle corte. Mi ha detto la verità?» L'espressione di Paxe era nuovamente severa. Per un istante Sorren si pentì d'averle parlato di Isak, ma poi Paxe interruppe il silenzio. «Sì, è la verità». Sorren scrollò la testa per provare la tenuta della treccia. Questa scattò simile alla coda d'un puledro. Scrutò il volto di Paxe, rabbuiato dalla preoccupazione. Un sospetto la colse. «Paxe, hai davvero una spada?» «Sì,» rispose lei. «Non è mia; l'ho presa ad uno dei miei soldati.» La sua espressione si fece ancora più grave. A quella notizia Sorren avrebbe voluto gridare. Se le spade ritornavano in città forse anche il Clan Rosso sarebbe tornato!
«Posso vederla?» Paxe alzò gli occhi. «Perché?» Il ricordo delle facce dei Cantastorie attorno ai falò le infiammò la mente; ricordò lo scintillio nei loro occhi allorché raccontavano dei ceari. «Io... io non ho mai visto una spada». «Ciò vale per la maggior parte degli abitanti di questa città,» osservò Paxe. «Hai mai visto un coltello? Non mi riferisco a quelli di cucina; sai com'è fatto un pugnale?» Sorren ripensò ai coltelli di Jeshim, poi pensò allo stiletto di Kadra. Arrossì violentemente. Cosa avrebbe detto Paxe se avesse saputo di Kadra? «Sì». «Una spada è simile ad un coltello, soltanto è più lunga». Era evidente che Paxe non aveva intenzione di mostrarle l'arma. Sorren fece attenzione a non apparire contrariata. «È una di quelle introdotte clandestinamente in città?», le chiese. «Come fai a sapere queste cose?», le chiese Paxe in tono brusco. «È forse un segreto? Tutti al mercato ne parlano». Paxe allungò la mano verso la blusa. «Sì!», disse infine. «È una di quelle». Sorren si domandò cosa avrebbe detto Arré quando avesse saputo di Isak. L'indomani sarebbe dovuta andare al Tanjo... «Pensi che i Maghi ritireranno il Bando?» Il viso di Paxe emerse dal collo della blusa. «Non avevo preso in considerazione questa possibilità,» rispose. Poi cercò i calzoni sulla stuoia dietro di lei. «Non lo so». Devo raccontare della lehi? si domandò Sorren. Ma il ricordo le fece contrarre lo stomaco. «Se i Maghi ritirano il Bando,» disse, «il Clan Rosso potrebbe ritornare. Ne sarei felice». Paxe serrò le mani in grembo. L'emozione sfavillò sul suo volto col bagliore d'una fiamma. «Lo vorresti?», disse. «Perché?» «Sarebbe eccitante!», proruppe Sorren. «Le Piazze d'Armi sarebbero aperte a tutti come lo erano un tempo, e i ceari danzerebbero... Non succede mai niente in città adesso. Non credi che sarebbe splendido avere di nuovo i ceari tra di noi, e vederli danzare ed insegnare le loro Arti?» «Una volta ne ho conosciuto uno,» disse Paxe. «Cosa?» Sorren sbatté le palpebre. «Non me lo hai mai detto...» «Ora è morto. Io stessa lo adagiai nella tomba. Sembrava così piccolo lì dentro... lo avvolsi nella mia coperta. Era tutto ciò che potevo donargli.
Era così vecchio, roso dalla febbre... affidarlo alla terra fu come portare in braccio un bambino». Sorren inghiottì. «Non me lo avevi mai detto!», ripeté, scossa dal dolore che con crescente intensità appariva sul volto di Paxe. «No». «Come si chiamava?» «Tyré». Il cancello della Piazza d'Armi si richiuse al crepuscolo. Paxe, avvolta nel mantello, sbirciò tra le sbarre nel passargli davanti, e la vista dello spazio vuoto la fece rabbrividire, senza una ragione. Era quell'ora incerta della sera, quando la luce riposava nel cielo d'occidente e le stelle ad oriente già luccicavano. La luna non si era ancora levata, né sarebbe apparsa prima di mezzanotte. Lungo le strade i lampionai gridavano il consueto: «Aahoo! Aahooo!» Paxe superò un posto di guardia. Il profilo del suo corpo era inconfondibile. «Maledizione!», si sentì sussurrare insieme al caratteristico tintinnio di un paio di dadi. Paxe non si voltò. Quella sera non voleva essere Paxe, il Maestro della Piazza: quella sera era Donita, una contadina di fuori città. Era Kemmeth che le aveva insegnato quel trucco. «Va' a sederti in una taverna ed aguzza l'orecchio; verrai a sapere più cose dalle chiacchiere degli avventori che dai tuoi giri di ronda». Dall'odore di cipolla e anice capì che stava passando accanto ad un orto. Si inginocchiò ed impastò il terreno tra i palmi finché non le penetrò nei pori e sotto le unghie. Un cane abbaiò da una casetta poco distante, e Donita si rimise in cammino, con le mani realisticamente sporche ed un gambo d'anice infilato tra i denti. Erano stati i discorsi di Sorren a proposito delle spade a farla decidere per quella mossa; in più il ricordo di Tyré non l'avrebbe lasciata riposare. Quella sera aveva bisogno di rumore e risate, delle chiacchiere di sconosciuti. Passò davanti a La Coppa, la taverna più grande del Distretto. Le porte erano aperte e da esse giungevano suoni invitanti: risate e tintinnio di bicchieri. Qualcuno stava suonando lo sho. Ma La Coppa era troppo popolare, e troppo illuminata; qualcuno avrebbe certo riconosciuto il Maestro della Piazza dei Med. No, non faceva al caso suo. Piegò verso nord, poiché Donita la contadina sarebbe rimasta nei pressi della Porta di Nord-Ovest, Solitamente i viaggiatori tendevano a frequentare i quartieri cittadini nei quali concludevano i loro affari. I naviganti affol-
lavano i bar del porto nel Distretto del Jalar; infine, i mercanti ed i carovanieri frequentavano le taverne nei paraggi della Sala del Clan Blu. Ad ovest della Via dell'Olio ci si imbatteva in un vicoletto chiamato La Bocca. Vi abitavano poche persone; numerosi invece si susseguivano magazzini e sudice botteghe. In fondo vi era un bar il cui nome era La Lingua. La bassa e tozza costruzione, in legno e mattoni rossi, aveva la porta aperta, e Paxe vi scorse le sagome in movimento dei suoi frequentatori. Piatti di choba, troppo spianati per poter essere definiti lampade, pendevano dal soffitto sorretti da catene ossidate, e l'odore dell'Erba dell'Estasi usciva in spire dal vano della porta e, denso come fumo, stagnava sui muri bisunti. Tre persone stavano facendo il gioco dei sassi sui gradini della soglia. Paxe si avvicinò. Senza alzare gli occhi, uno dei loro le disse: «Passa di lato». «Non posso,» protestò Paxe. «Non c'è spazio». Tutti e tre sollevarono il capo. «Allora passaci sopra, se devi entrare,» disse uno, spostando appena una gamba. Paxe si girò di lato e salì i gradini. Deliberatamente, urtò il bordo della tavoletta col tallone facendo cadere alcune pedine. «Guarda dove metti i piedi!», mormorò il giocatore. Paxe sorrise sotto l'ombra del cappuccio: aveva riconosciuto due dei giocatori. Entrambi lavoravano in un magazzino dei Med, e nessuno, dei due aveva scoperto la sua vera identità. Nella sala della taverna il caldo era soffocante. Dalla cucina giungeva un forte odore di zuppa di pesce misto all'aroma del vino. Paxe si slacciò il mantello e fece cenno ad un cameriere di portarle un boccale di vino. «Sì soffoca qui dentro,» osservò, rivolgendosi all'uomo più vicino. Questi la guardò con aria assente, poi, senza darle retta, distolse lo sguardo. «Uh-uh». Un gruppetto di Asech assembrati in un angolo stavano giocando ai dadi. Fumavano Erba dell'Estasi, ed una nuvola azzurrina aleggiava sulle loro teste. Altri giocatori, più rumorosi, vociavano ad un tavolo presso la cucina. Paxe si fece largo tra i clienti verso il tavolo e si unì alla fila di spettatori. La gente chiacchierava quando giocava ai dadi. Ora era il turno di una grassona dai capelli di tre colori. Davanti a sé aveva raggranellato più bonta di tutti gli altri giocatori. «Dai piccolo... su dolcezza! Vieni amore!», cantilenò suadente nell'incavo delle palme giunte. «Eeyah!» Lanciò i dadi, che rimbalzarono sulla su-
perficie verniciata ed andarono a conficcarsi in una fessura tra le listarelle di legno del tavolo. «Sette! Pagate!», esclamò schioccando le dita. Una cicatrice le solcava un braccio nudo, ed i suoi occhi castani erano talmente vispi da sembrare brillanti. I compagni di gioco brontolarono, ed uno di essi gettò sul tavolo tre monetine, ritirandosi. Un altro prese immediatamente il suo posto. «Hai saputo del vecchio Scivith?», disse qualcuno. «Che gli è successo?», chiese la donna con la cicatrice, mentre agitava i dadi. «È fuggito con una ragazza di Shanan. Si è portato via tutti i bonta che c'erano in casa. Beria sembra una vespa impazzita». «Starà cento volte meglio senza di lui. Su piccolo... dai amore...» I dadi rotolarono ancora. «Quattro!» Li passò ad un altro. «Tocca a te, Toby!» Toby perse. I dadi fecero il giro del tavolo. Un altro lasciò il gioco e Paxe prese il suo posto. La grassona le sorrise cordialmente. «Una nuova arrivata. Benvenuta al tavolo, amica! Conosci le regole? I pari perdono, i dispari vincono: il sette, il nove e l'undici raddoppiano la posta, che è di tre pesciolini». «Grazie,» disse Paxe, strascicando un po' le sillabe per simulare l'accento dei contadini. Frugò in tasca alla ricerca delle monete e posò tre piccoli bonta sul tavolo. Gli altri giocatori si scambiarono dei sorrisi furtivi. «Di dove sei?», le chiese la grassona. «Della vallata,» rispose Paxe senza scendere nei particolari. La donna seduta alla sua destra picchiò un pugno sul tavolo. «Piantatela di chiacchierare, e giocate!» I dadi compirono un nuovo giro di mano. Paxe vinse qualcosina; e così pure la grassona. Nessun altro giocatore vinse nulla. «Io mi chiamo Annali,» si presentò la donna. «Donita-no-Elli.» Elli era un nome molto comune. «Sei in città da parecchio?» «Sono arrivata oggi.» Paxe osservò i dadi rotolare. Non sembravano truccati. Lo stesso non poteva dirsi per Annali. Paxe fiutava un baro anche senza conoscere il trucco particolare di cui si serviva per imbrogliare. Si domandò se lavorasse da sola o avesse un complice, e da quanto tempo stesse derubando la gente di quel Distretto. «Per poco non riuscivo ad entrare in città prima della chiusura del mercato. Ci ho messo un'ora ad attraversare la Porta. Hanno frugato il carro fino alle assi delle ruote. Ma cosa
credevano di trovarci?» Quattro o cinque voci le fornirono la risposta. «Spade. Armi». «Nel mio carro?» Paxe si finse scioccata. «In tutti i carri,» precisò Tiby, appoggiando le spalle allo schienale della sedia. Il cameriere portò un boccale a Paxe. «Un giro per il piatto,» ordinò un uomo in piedi alle spalle di Paxe. Questa lo guardò di sottecchi. Era piccolo e magro, e portava indosso indumenti grigi, ormai privi di ogni forma. Non aveva affatto l'aspetto d'uno che avesse soldi da sprecare al gioco dei dadi. Eppure, stava lì ad osservare il tavolo con avidità, ticchettando con le dita sui fianchi, i pollici infilati con apparente casualità nello spesso cuoio della cintura. Sicché era lui il complice. Paxe si domandò quanto danaro doveva perdere per ottenere le informazioni che le interessavano. Quella faccenda non doveva durare da troppo tempo, certamente da non più di un paio di settimane, altrimenti le Guardie ne sarebbero venute a conoscenza. Il gioco era onesto finché non vi prendeva parte un forestiero; da quel momento Annali cambiava i dadi. Se il nuovo arrivato restava sobrio, era condannato semplicemente a perdere. Se invece si ubriacava, gli veniva consentito anche di vincere, per essere poi derubato mentre rincasava. Paxe si domandò se gli altri giocatori fingessero di non sapere chi fosse Annali. Taluni erano forse onesti, o stupidi. Annali lanciò i dadi e perse. Le mani della grassona erano costantemente in movimento: gesticolavano, applaudivano, si strofinavano l'una contro l'altra. Un giocatore fissò Paxe a lungo. «Sei sicura di sapere come si gioca?», le chiese infine. «So di contadini che hanno perso tutto il loro danaro ai dadi». Annali lo guardò con astio. «Chano, sei proprio maleducato! Si vede benissimo che Donita sa giocare. Inoltre, qui non si spenna nessuno; il nostro è un gioco amichevole.» Sorrise all'uomo mettendo in mostra l'intera dentatura. «Cos'avevi nel tuo carro, Donita?» «Granturco, meloni, ciliegie e pesche». «Com'è andata quest'annata per i meloni?» «Oh, benissimo! Sono grassi come il sedere di un bambino.» Giunse il turno di Paxe. Pronta, lanciò i dadi e li riprese sveltamente. Le parve che fossero di peso differente ma non ne era sicura. «Credevo che le lame fossero vietate in città,» disse. «Lo sono,» confermò la donna alla sua destra. Sbadigliò, mostrando la dentatura cariata. «Ma qualcuno le sta portando qui ugualmente».
«Chi?», domandò Paxe. La dorma alzò le spalle. «Nessuno lo sa». «Allora giochi?», la sollecitò Toby. Paxe tirò. «Nove! Pagate!» Tra i borbottii contrariati dei giocatori, raccolse i bonta che divise in piccoli mucchietti davanti a sé. Chano era sotto di due bonta. Fu il suo turno di tirare; lanciò i dadi, e perse. Imprecando a mezza voce, si alzò, ondeggiando come un salice al vento. «Io lascio. Buonanotte a tutti. Buonanotte, contadina. Scegli bene le tue compagnie.» Con un singulto da ubriaco, si allontanò barcollando. Uno degli spettatori ne occupò lestamente il posto vacante. «Io una spada l'ho vista,» annunziò la donna alla destra di Paxe. Tutti alzarono gli occhi. «L'ha portata mio marito dal fiume. Ha detto che gliel'ha venduta uno, e che il metallo non è un granché. L'ha nascosta nella baracca del legname». «Le Guardie alla Porta mi hanno detto di stare lontana dal fiume,» disse Paxe. «Pare che alcune persone siano state ferite da quelle parti». Toby sorrise. «Sono i giovani Ismenin; a quelli piace giocare. I Jalar invece non hanno il senso dell'humour.» Tutti proruppero in una fragorosa risata. Toby tirò e perse. «Dannazione! Sembra proprio che la fortuna si allontani da me». Il raccolto divenne il nuovo argomento della conversazione. Paxe ascoltava fingendo di bere. Chissà quante persone in questa taverna hanno visto una spada, pensò. No, le armi non appartengono alla realtà del cittadino, decise. I dadi compirono un nuovo giro. Il mucchio di bonta dinanzi ad Annali era più sostanzioso che mai. Paxe finì il vino e finse di rovesciare il boccale vuoto. «Whoo! Devo essere più ubriaca di quanto pensassi». Si strofinò le tempie con le dita, ma non accennò ad abbandonare il tavolo. «Un altro giro per il piatto,» disse l'uomo che Paxe aveva individuato come complice di Annali. «Ci si azzuffa anche in questo Distretto?», domandò Paxe. L'uomo che aveva preso il posto di Chano, tirò e perse. «Qui?» Toby rise. «No, qui no. I Capitani scuoierebbero vivo chiunque si azzardasse a farlo. Questo è un quartiere tranquillo. Giocare ai dadi è la cosa più eccitante che vi si possa fare.» Batté il palmo sul tavolo, ed i bonta rimbalzarono. «Siamo nel Distretto dei Med, e Arré vuole che sia così. Tranquillo». «E dove finiscono poi quelle spade?», incalzò Paxe. «Lo sa solo il Guardiano! Su, al Distretto del fiume, forse; così gli Isme-
nin ci possono giocare». La donna alla destra di Paxe aggiunse: «Ho sentito dire che il Clan Bianco si pronunzierà a proposito delle spade». «Sì, forse,» replicò Annali. «Nessuno sa mai cosa faranno i Maghi. Gioca, Toby». Toby giocò e perse. Imprecò, poi passò i dadi alla donna alla destra di Paxe e si voltò a guardare Annali. «Non so proprio a cosa ci serva avere un Consiglio. Se lo volesse, potrebbe far cessare il traffico d'armi. I Maghi sono quelli che governano di fatto questa città: il Consiglio ha soltanto un potere apparente. Anche un lattante se ne accorgerebbe.» La donna alla destra di Paxe lanciò i dadi e vinse. «Maledizione! Tutti vincono, tranne me». «La pazienza è una virtù!», sentenziò Annali sottovoce. Raccolse quindi i dadi dal tavolo, e li passò a Paxe. Paxe allungò la mano esitando, poi li lasciò cadere. «Ho mal di testa,» si lamentò. «Sembra che la nostra contadinella stia per lasciarci,» disse l'uomo che aveva sostituito Chano. Annali sorrise. «Solo un'altra mano,» la invitò. La sua voce era molle ed untuosa come burro. «L'ultima volta è sempre fortunata». Paxe giocò ancora, e vinse. Sbatté quindi il palmo sul tavolo. «Adesso basta! Io me ne vado.» Raccolse le vincite e le infilò nelle tasche. Qualcuno si fece avanti per occupare il suo posto. «Grazie a tutti». «Vieni a trovarci qualche volta,» disse Toby, ritrovando il buon umore. Il complice di Annali era sparito. Paxe si fece largo verso la porta, continuando a fingersi ubriaca; mentre avanzava, notò che anche al tavolo degli Asech il gioco si era interrotto. I gradini della taverna erano sgombri. Paxe scese in strada, respirò piano, poi tese l'orecchio. Non percepì altro suono se non il brusio proveniente dalla taverna. S'incamminò a lunghi passi irregolari. Percorso un breve tratto, udì alle sue spalle il trepestio rivelatore dei tacchi d'un paio di stivali. Sorrise nell'oscurità. L'addestramento di Tyré aveva sviluppato le sue abilità ad un livello tale che soltanto un autentico Asech nato nel deserto poteva eguagliare. Lasciò che il suo pedinatore le stesse dietro per un altro di isolati, dopodiché si immerse nel buio della notte. Il complice di Annali continuò il suo vagabondare, poi cominciò a perlustrare vicoli e portoni in cerca della sua preda. La quale, seduta sul tetto di
un capanno, lo sentiva ansimare, grugnire ed imprecare. Ad un certo momento scivolò giù dal tetto e, con passo volutamente vacillante, riprese a camminare sotto il chiarore d'un lampione. Il segugio la scorse all'istante e, ignaro, si lasciò condurre in un cul-de-sac dalla sua stessa pedina. Gli sforzi dell'uomo per non farsi scorgere fecero contorcere la bocca di Paxe in una muta risata. Al momento opportuno si fermò, ondeggiò, e finse di sentirsi male. Abbandonando ogni precauzione, il pedinatore balzò avanti. Paxe si chinò all'indietro; reggendosi in equilibrio su una mano ed una gamba, fece oscillare l'altra che colpì come una falce. L'uomo cadde con le gambe all'aria; Paxe gli fu subito addosso bloccandogli i gomiti dietro la schiena. Serrò più saldamente la presa quando quello tentò di divincolarsi, poi gli afferrò il naso tra il pollice e l'indice. «Te lo spezzo!», lo minacciò, cominciando a torcerlo. L'uomo gemette e cessò d'opporre resistenza. Paxe lo costrinse bocconi sul terreno piantandogli un ginocchio nella schiena. «Potrei consegnarti alla Guardia...», disse. L'uomo respirò dolorosamente. «Chi era l'uomo che ha lasciato il tavolo prima degli altri?» «Citano. È un mezzano». Paxe gli strinse la mano attorno alla trachea. «Chi è?», chiese, premendo forte. «Ah... no!» La morsa gli mozzava il fiato. «A... abita nella Via delle Anguille. Fa il tessitore». «Perché ha cercato di mettermi in guardia?» «Oh, Guardiano! Non lo so! Vorrei che non l'avesse fatto». «Non biasimarlo,» disse Paxe. «Sapevo cosa stava accadendo prima ancora di sedermi a quel tavolo». Paxe rifletté un istante sull'opportunità di consegnarlo alle Guardie, poi decise di non farlo. Era sicura che non le avrebbe trovate nel Distretto: non a quell'ora. Inoltre - Paxe sorrise tra sé - quella veloce schermaglia le aveva fatto bene; si sentì magnanima, e lasciò che il furfante si alzasse sulle ginocchia. «La prossima volta non aver tanta fretta nell'inseguire una forestiera,» gli intimò. «Vai via di qua, e non voltarti.» Tremante, l'uomo si alzò e si allontanò da lei, facendo bene attenzione a non voltarsi. Silenziosamente come un fantasma, Paxe lo seguì fino all'imbocco del vicolo, resistendo a fatica all'impulso di gridargli all'ultimo momento un fragoroso: «Buu!» A metà strada sulla via di casa, si accorse di essere nuovamente seguita. Non era il ladro, di questo ne era certa. Chi poteva essere? Si voltò di
scatto a guardare, ma la strada era sgombra e pulita come un campo dopo il raccolto. Sostò sotto un portone, tese l'orecchio, ma non udì alcunché, si allontanò quindi dalla soglia, ma non aveva superato tre isolati, quando sentì il fruscio ritmico di stoffa sul terreno. Si arrestò impietrita in un punto buio. Il fruscio cessò. Furiosa, varcò un cancello, attraversò un giardino e scavalcò una staccionata. La luce si era fatta più intensa. Rivolse lo sguardo ad occidente: la luna, non ancora piena, ma fulgida quasi come la luna del raccolto, stava risalendo simile ad un faro lungo la linea dell'orizzonte. I suoi raggi rischiararono un mucchietto di conchiglie bianche sparse nel giardino. Paxe ne raccolse una e la lanciò nel cortile attiguo provocando scompiglio in una nidiata di pulcini. Un cane abbaiò; si udì sbattere una porta. «Chi è là?» Nel mezzo di quel baccano, Paxe si tirò il cappuccio sulla faccia e ritornò in strada. Superati altri due isolati, sentì nuovamente dietro di sé la presenza del pedinatore. Senza fermarsi un istante a pensare, raggiunse un pergolato in quattro lunghi passi; da questo si issò sulle tegole lisce e scivolose di un tetto lì vicino. Vi si distese per tutta la lunghezza del suo corpo e, scrutando la strada dal ciglio, attese l'arrivo dell'inseguitore. Questi non giunse. Allora sorrise e, strisciando sulla parte centrale del tetto, raggiunse la parte opposta della casa. Il coperchio di una botte per l'acqua piovana le fornì un comodo gradino per ridiscendere a terra. Poi si sfilò gli stivali e se li appese attorno al collo, quindi attraversò un boschetto di alberi di kava da cui emerse coi piedi appiccicosi per la polpa dei frutti caduti. A quel punto, soltanto se avesse avuto il fiuto d'un lupo, l'inseguitore sarebbe riuscito a scovarla. Nella Via dei Fabbri sentì un rumore di passi. Paxe si mise a correre, silenziosa come un cervo nel deserto, le gambe tese, il volto sferzato dal vento. Il segugio era bravo, davvero in gamba, ma ormai era a soli cinque isolati da casa. Entrò nei bagni pubblici e ne uscì dalla parte opposta. Corse lungo un vicoletto, s'infilò nella porta posteriore di una scala da fumo, poi ne uscì da quella anteriore sotto gli occhi stupiti ed assonnati dei clienti. Scavalcò una staccionata e scivolò sopra il pozzo d'argilla d'un vasaio. Superò una seconda staccionata atterrando in un cespuglio di rose. Le spine le punsero le caviglie. Entrò in una stalla e ne uscì dalla finestra, sotto gli sguardi sconcertati di muli e cavalli, in tutto simili alle occhiate perplesse dei fumatori di poco prima. Imboccò due volte lo stesso vicolo u-
scendone però ogni volta da un varco diverso. Alla fine si fermò, e tese l'orecchio. Di nuovo sentì i passi. Sorridendo, si mosse nella loro direzione, liberandosi i capelli dai petali di rosa. Un'ombra si staccò dalle tenebre e le andò incontro. Si abbracciarono, ansanti. «Quando hai capito?», le chiese Kaleb. Paxe rise, e mentì, mentre gli cingeva le spalle con un braccio. Kaleb, a sua volta, le strinse la vita. «Dal primo istante ho capito che eri tu». S'incamminarono lungo la strada. Il respiro di Paxe si fece più regolare. «Ti ho vista nella taverna,» disse Kaleb. «Io, invece, non ti ho notato. Stavi giocando ai dadi, lì nell'angolo?» «Sì. Perché sei venuta là dentro?» «Volevo sentire la voce del popolo». «Quello è il posto migliore. Cosa ne pensi di Annali?» Paxe sogghignò. «È molto brava. Da quanto tempo lavora in questo Distretto?» «Tre settimane. Hai rovinato il mio piano. Non vedevo l'ora di ripulire le tasche a quei due». «Ivor non li ha individuati». «No: è giovane. Imparerà». «Perché hai permesso che Armali ed il suo compare andassero avanti così per tre settimane?» «Li ho beccati soltanto tre giorni fa,» spiegò Kaleb. «Sono molto astuti; interrompono il gioco al cambio della Guardia». «Conoscono la tua fama.» Paxe lo abbracciò. «Per il Guardiano, che divertimento!» «Vero, eh?», disse Kaleb in tono pensoso. «Kaleb, hai nostalgia della tua terra?» Solo due strade li separavano dalla casa dei Med. Passarono sotto il chiarore di un lampione, ed il volto di Kaleb brillò di uno splendore bronzeo. Le pietruzze rosse infilate nei lobi degli orecchi scintillarono simili a gocce di sangue. Paxe s'arrestò, e fece sì che il compagno si voltasse in modo da trovarsi faccia a faccia. «Hai nostalgia?» «A volte,» confessò lui. «Quando il vento soffia dal mare, divento irrequieto. Questa città è fredda per un cavaliere del deserto, ed è difficile sentirsi a casa in una terra dove non ci sono cavalli né luoghi per farli correre». Paxe non era mai stata un'appassionata cavallerizza. Posò le mani sulle
spalle di Kaleb. «Vuoi partire?» «No,» disse Kaleb. «La mia casa è qui. Mi piace il mio lavoro. E poi, mi mancheresti». Paxe deglutì, sollevata. Improvvisamente era stata assalita dal timore che avrebbe detto di sì. Percorsero ancora un breve tratto. «Chissà dov'è Ivor?», si chiese poi, coprendo uno sbadiglio con la mano. «Nella Piazza d'Armi,» disse Kaleb. D'un tratto si fermò. «Paxe... quando tutto questo sarà finito, quando il contrabbando delle spade sarà cessato, dopo il Festival potremmo partire. Potremmo andare a ovest, nel mio paese. Potremmo cavalcare, cacciare. La mia gente ci accoglierà con gioia». La brezza alitò tra i kava. Paxe sospirò, ricordando il fulgore delle stelle nel deserto, lontano dalla nebbia e dalla polvere della città. «Per quanto tempo?», domandò, cedendo alla tentazione. «Per tutto il tempo che Arré Med ci concederebbe». Paxe fece una smorfia. «Arré non ci lascerebbe andare affatto.» In fondo le cose in qualche modo si potrebbero accomodare, pensò. Sereth conosceva il mestiere, poteva dispensarlo dalle guardie alla Porta e nominarlo Vice-Comandante; Ivor l'avrebbe sostituita in qualità di Maestro della Piazza... «Non possiamo, Kaleb. Non ora; Tra un anno, forse». «Sì, lo penso anch'io.» La baciò sulla guancia. «Buona notte, amica mia!» Quando Kaleb si voltò per andare, l'odore dell'Erba dell'Estasi pizzicò le narici di Paxe. Andò a casa. Un senso di vuoto la pervase nell'entrarvi. I cuscini erano sparsi un po' dovunque; li rimise in ordine. Il profumo del sesso aleggiava nella stanza a pianterreno. I raggi della luna filtravano dal paravento davanti alla finestra, disegnando sul muro una linea luminosa. La casa era fredda come il letto: vi si sedette sopra e sbadigliò. Ripercorse nella mente il tortuoso itinerario compiuto per seminare i suoi inseguitori, e si domandò cosa avrebbe detto Arré se avesse saputo che i suoi Comandanti della Guardia avevano giocato a nascondino sulle cime dei tetti, rincorrendosi dentro e fuori dei bagni pubblici, come due bambini. Si liberò dei vestiti ed abbracciò il guanciale. Era stato divertente. Anche lo scontro col complice di Annali lo era stato. Tuttavia, c'era stato un momento quella notte in cui Kaleb l'aveva spaventata. Non voleva che lasciasse la città. Gli voleva bene: aveva bisogno di lui. Sentì un bruciore pungerle gli occhi. Tyré era morto, Ricard se n'era andato, Arré era preoccupata e, man mano che invecchiava, diventava sempre più inaccessibile...
Paxe si rivoltò nel letto, decisa a reprimere il pianto, decisa a non provare pietà per se stessa, decisa a non pensare - e come poteva! - a Sorren. Capitolo decimo Con una mano Arré lisciava ogni lembo del vestito, ed intanto lanciava occhiate torve alla lettiga in attesa nel cortile antistante l'ingresso principale della casa dei Med. Paxe sostava presso il cancello, aspettando che partissi. Aveva ordinato che delle bandiere recanti l'emblema dei Med fossero legate alle stanghe del veicolo, così da rendere nota ad ognuno l'identità di colei che vi era trasportata... Arré si era pentita di aver deciso di prendere una lettiga; le detestava. Quel mezzo di trasporto aveva il potere di rendere pubblico ogni viaggio. E poi lei godeva di buona salute, sicché la cosa diventava pura ostentazione. Gli unici ad usare le lettighe, ad eccezione dei vecchi e degli infermi, erano i mercanti danarosi che amavano far sfoggio della loro mancanza di buon gusto, o i forestieri che vi ricorrevano per evitare di smarrirsi. Una certa agitazione le scuoteva i nervi, e ciò la irritava. Lanciò un'occhiata a Sorren, in piedi nella sala dietro di lei. Notò qualcosa di diverso in lei: la nota tagliente che le induriva la voce e la nuova fierezza del suo viso, rivelavano che qualcosa era accaduto. Si era riconciliata con Paxe, o forse era stata Paxe a riconciliarsi con lei. Era una buona cosa. La riconciliazione era avvenuta immediatamente dopo il ritorno di Sorren dalla casa di Isak, e Arré si domandò se il nuovo umore di Sorren avesse qualcosa a che fare con Isak. Isak. Tutti i suoi pensieri tornarono a lui. Con la mente ripercorse il succedersi degli eventi che avevano determinato l'attuale situazione. Isak aveva stretto un patto con Ron Ismenin. Ron Ismenin stava facendo entrare le spade in città. Cha Minto si era alleato con Isak; era stato lui a proporre che gli Ismenin avessero un seggio al Consiglio. Kim Batto appoggiava questa proposta, ed era alleato del Clan Bianco. Gli Ismenin stavano fomentando disordini e zuffe nel Distretto dei Jalar. Uno dei fratelli Ismenin progettava di sposare una Ryth e, per ragioni che Arré ignorava, di entrare a far parte di quella famiglia; la sua parte di eredità sarebbe passata automaticamente alla casa della sposa. Era curioso che gli Ismenin acconsentissero con tanta facilità a privarsi di una porzione così sostanziosa dei loro beni. Aveva ogni buon motivo di sospettare che quell'operazione non avesse nulla a che fare con i dettami della tradizione.
Le lettere che aveva spedito ai Capi delle maggiori Famiglie mettendoli al corrente del contrabbando delle spade, avevano sortito gli effetti previsti; la città era diventata un vespaio dove gli innocenti si davano da fare per smascherare il traffico illecito, ed i colpevoli studiavano ogni maniera di occultarlo. Quella mattina Paxe aveva riferito che il numero di armi scoperte alle Porte era diminuito enormemente; ma ciò poteva significare che i contrabbandieri avevano escogitato un altro sistema per introdurle in città. E poi, ammesso che l'introduzione clandestina di armi si fosse potuta completamente arrestare, le spade sfuggite al controllo delle Guardie si trovavano di fatto a Kendra... tenute ben nascoste dagli Ismenin, pensava Arré. E, a meno che il Consiglio non disponesse una perquisizione delle proprietà degli Ismenin - di tutte le loro proprietà - Arré dubitava che quelle armi potessero mai esser rinvenute. Ma una tale descrizione - Arré ne era più che certa - il Consiglio non l'avrebbe mai presa. Tutt'al più, il Consiglio avrebbe potuto annunciare che il Bando, malgrado le ambiguità del suo dettato, doveva applicarsi alle spade a lama corta così come a quelle a lama lunga. Tuttavia, le dichiarazioni del Consiglio significavano ben poco senza l'avallo del Tanjo. Arré aggrottò le ciglia. Kim Batto aveva sostenuto l'ingresso degli Ismenin tra i membri del Consiglio, e lui rappresentava la voce del Clan Bianco. Ciò significava in qualche modo che il Clan Bianco era alleato degli Ismenin? E cosa sarebbe successo se fosse stato proprio il Clan Bianco a volere il ritorno della armi a Kendra-sul-Delta? C'era un solo modo per scoprirlo, ed Arré stava per attuarlo. Lo stomaco intanto le doleva, di quella dolenzia lamentosa con la quale le diceva che desiderava qualcosa di dolce; ma stavolta Arré lo ignorò. I dolci la rendevano più malleabile e, per un incontro con il L'ehl, voleva avere il pieno controllo di tutte le energie del suo intelletto. Com'era accaduto che il Clan Bianco - e il L'hel suo Capo - avesse conquistato un siffatto potere nella terra di Arun? Arré non era sicura di comprenderne le cause. Il Clan esisteva soltanto da cento anni, e faceva quasi la figura di un «nuovo ricco» al confronto con la Famiglia Med, le cui generazioni risalivano a cinquecento anni addietro, in un'epoca che precedeva la fondazione stessa della città. Era sì vero che il paese aveva goduto grande prosperità e pace in quegli anni, ma perché attribuire ai Maghi il merito di ciò? I Maghi riscuotevano le lodi, ma erano in realtà le Famiglie governanti a recare sulle spalle tutto il peso delle responsabilità.
Arré guardò l'angolo che il sole disegnava sulle mattonelle del cortile: era ora d'andare. Rivolse a Paxe un cenno del capo, e quella fece un segno a sua volta ai portatori che subito presero posto alle stanghe della lettiga. Una fila di lucide lance marciò fino al cancello dove si arrestò in attesa; era la scorta. Arré scostò la cortina di seta e prese posto nel veicolo. Potevano arieggiarle per mesi, ma era tutto inutile! Quei dannati aggeggi parevano puzzare sempre. Picchiò sulla parete della cabina rivestita di seta. La lettiga sobbalzò, sballottandola prima in avanti e poi indietro ed Arré digrignò i denti, mostrando il suo disgusto per quel movimento, quella prigionia, e la sua impotenza... «Yai!», si udì il grido ovattato di Paxe. «Ho... e ho... e ho... e ho...» La lettiga rimbalzava al ritmo del canto sommesso dei portatori. Arré afferrò il cuscino. Attraverso la fessura della tendina che oscillava scorse il cancello di casa, l'albero di kava, e poi la scorta indietreggiare... anzi no, era lei che stava avanzando. Le due file di soldati si erano divise per far si che la lettiga passasse tra loro. Il veicolo ebbe un nuovo sussulto, ed Arré afferrò i cuscini e lanciò un'imprecazione. «Ho...», cantilenavano i portatori e, sempre fiancheggiata dalle Guardie, Arré si allontanò dalla sua casa, discendendo la collina dei Med. Il viaggio fu misericordiosamente breve. I portatori trasportarono la passeggera con molta cautela e, quando finalmente la deposero nel parco del Tanjo, Arré fu talmente grata di essere di nuovo in posizione statica, che rivolse loro un sorriso ed ordinò al Capitano della Guardia di premiarli con una piccola mancia. Era stupita di ritrovarsi con i piedi a terra tutta intera e senza neppure un'ammaccatura. Seguita dalla scorta, e maestosa nell'aspetto, Arré s'incamminò verso l'ingresso dell'imponente edificio rosso. Raccomandò a se stessa di non restarne troppo impressionata. Giunta alla porta del Tanjo, la donna ebbe un attimo d'esitazione; fu allora che un uomo uscì dalla palazzina. Lo riconobbe, e non fu sorpresa di incontrarlo, quanto, invece, del fatto che lui fosse lì e proprio in quel momento. Era Kim Batto. «Arré!», esclamò sorridendo. «Ti stanno aspettando. Entra subito!» Le liberò il passaggio e si allontanò a passo spedito. Pensierosa, Arré lo seguì con lo sguardo. Era venuto senza scorta armata, e non si era preso il disturbo di farle sapere che lui era al corrente del motivo della sua visita al Tanjo... Era un modo valido per rendersi importante. Mentre indugiava in
quei pensieri, si accorse che una delle sue Guardie stava facendo il gesto delle corna alla sagoma di Kim in ritirata, e represse un sorriso. «Grazie, Capitano,» disse. «Ci rivedremo qui tra un'ora». L'ampio pavimento bianco era pulitissimo. Arré guardò le Guardie allontanarsi. Si voltò poi verso l'edificio e ne varcò la porta. Dentro c'era penombra. Stolidamente, il Guardiano la fissava e, allo stesso modo, fissava le altre persone nella stanza, la città, il mondo: era soltanto una statua. Arré lo fissò con sguardo torvo, rifiutandosi di soccombere alla seduzione del timore e dell'adorazione. Era soltanto una statua: ne aveva una simile nella sala d'ingresso della sua villa, ed era opera dello stesso scultore. Era soltanto una statua! Qualcuno sussurrò il suo nome; l'avevano riconosciuta. Due donne, inginocchiate presso la base della scultura, la stavano fissando. Arrossirono quando Arré incrociò il loro sguardo, ma continuarono a parlare bisbigliando. Arré congiunse le palme nella postura della supplica e fece un inchino, odiando la necessità che la obbligava a quei convenevoli. «Arré Med.» Stavolta non fu un sussurro ad annunziare il suo nome. Un accolito le si avvicinò. «Sì?» «Vieni da questa parte, ti prego.» Le rivolse un cenno col capo e lei lo seguì. Aggirando la statua, le fece strada verso una porta il cui ricordo offuscato si affacciò alla sua mente: aveva varcato quella stessa porta l'ultima volta che aveva incontrato Jerrin-no-Dovria da Elath. Le piastrelle azzurre che formavano un archivolto su di essa, si intonavano a quelle del pavimento. La porta era un paravento, facile da aprire. L'accolito le fece intendere con un gesto che lo precedesse nel corridoio lastricato delle medesime piastrelle azzurre. «Tu sei Arré Med,» disse una donna con una voce straordinaria, profonda e rauca. Il suo volto era liscio e sensuale, sovrastato da un pesante drappeggio di lunghi capelli neri. L'orlo della sua sottana bianca sfiorava le piastrelle decorate. «Tu sei la benvenuta qui al Tanjo. Io sono Senta-noJorith». Aveva pronunziato il proprio nome come se si aspettasse che Arré lo conoscesse. Il portamento flessuoso e ricco di grazia fece sentire la più anziana Arré immediatamente goffa. Quella era una sensazione che Arré era abituata a provare, perciò attese che passasse spontaneamente. «Vieni con me, ti prego!», disse Senta. Il corridoio era corto e terminava
in un archivolto che si apriva direttamente su un cortile assolato. Un prato fiorito campeggiava nel mezzo del cortile, dove c'erano pure una fontana con dei pesciolini rossi ed una panchina. Su quest'ultima sedeva Jerrin-no-Dovria di Elath. L'uomo si levò, non appena Arré apparve. Il suo aspetto corrispondeva più o meno al ricordo che Arré ne aveva conservato: aveva la pelle scura (sebbene non quanto quella di lei), i capelli chiari, gli occhi d'un azzurro intenso e cicatrici su entrambe le guance. Era vestito di seta bianca. Un anello d'oro con una pietra bianca gli adornava il dito medio della mano sinistra. Era robusto, con ampie spalle da lottatore, ed era appena più alto di lei. «È un piacere rivederti, Arré Med,» le disse. La sua voce era gradevole. «Siediti, prego!», e le indicò un'estremità della panca di pietra. Arré si sedette. «Grazie, L'hel.» Con un lieve turbinio delle vesti, Jerrin si sedette di fronte a lei. La donna dalla chioma nera si accoccolò ai suoi piedi con la grazia di un acrobata, ripiegando le mani in grembo. Il bianco della veste sfolgorava contro il verde dell'erba. «Ho detto alle mie Guardie di tornare tra un'ora,» disse Arré. «Sono certo che un'ora ci basterà!», disse Jerrin. «Posso offrirti qualcosa di fresco? Vino? Acqua? Tè?» «Vino,» disse Arré, aspettandosi che il suo ospite chiamasse un servo. Invece l'uomo guardò semplicemente l'edificio di pietra rossa. Arré udì quindi il fruscio di un paravento che scivolava sul suo binario. Una brocca di cristallo azzurro e tre coppe dello stesso colore fluttuarono quindi dall'edificio e, quasi fossero sorrette da mani invisibili, attraversarono il cortile per depositarsi ai piedi del L'hel. Senta raccolse la brocca e versò il vino nelle coppe. Ne porse poi una al L'hel ed una ad Arré. Questa la tenne fermamente con tutt'e due le mani. «Ignoravo che sapessi fare questo,» disse. «Il mio talento è sollevare gli oggetti,» spiegò Jerrin. «E, giacché ho ritenuto fosse meglio discutere in privato, ho fatto in modo che il vino fosse preparato anticipatamente». «Riesci a sollevare qualsiasi cosa?», domandò Arré. La coppa era leggera. «Gli oggetti pesanti comportano maggior difficoltà. Non riuscirei a sollevare questa panca, ma potrei facilmente sollevare te». Arré fece attenzione a non protendersi in avanti e si aggrappò saldamente al bordo della panchina. «Non c'è bisogno che me lo dimostri,» disse.
Jerrin rise. «No, non lo farò. Tra queste mura tutti hanno già visto questo genere di giochetti; fa piacere parlare con qualcuno che ne resta ancora impressionato.» Il tono della sua voce si fece autocritico. «Temo di essermi lasciato sopraffare dalla vanità» Arré sorrise ed assaggiò il vino. Aveva un sapore pieno ed intenso. Ne fece le lodi. «Viene dai vigneti del Med,» disse Jerrin. Arré annuì compiaciuta. Aveva riconosciuto il vino; non era di quelli a buon mercato; ne lo erano la brocca e le coppe; né le sete che indossavano i Maghi, o l'anello d'oro al dito di Jerrin; né lo erano le maioliche azzurre ed argentee che creavano quegli splendidi decori sui pavimenti del Tanjo. Il Clan Bianco pagava parte di tutto ciò col danaro che riceveva dalla città, tratto dalle tasse cittadine. Il resto del danaro proveniva da altre fonti; dal Clan Blu, dalle Corporazioni degli artigiani e, naturalmente, dalla riconoscente popolazione della terra di Arun. Arré carezzò la seta della sua veste. Il tocco leggero e raffinato della stoffa le regalò un senso di piacere e di sicurezza. Nel vestirsi si era tolta i braccialetti pensando che il L'hel avrebbe potuto trovarli frivoli, ma ora le mancavano. Si chiese chi fosse Senta-no-Jorith e perché presenziasse a quella discussione. Decise di cominciare lei, introducendo l'argomento indirettamente, con discorsi generici. «I miei Messaggeri mi hanno detto che quest'anno il raccolto sarà eccellente, L'hel. Sarebbe un peccato se il Festival venisse guastato dalla presenza di armi da taglio». «Ti prego,» disse l'uomo, «chiamami Jerrin. I titoli sono formali, e noi due ci conosciamo, perciò non dobbiamo attenerci alle formalità. Si, Arré, hai ragione: sarebbe un terribile peccato. Dobbiamo sperare che ciò non accada. Il Guardiano ci ha benedetti quest'anno; il raccolto è davvero abbondante e, senza dubbio, il Festival sarà affollato. Io stesso conto di parteciparvi, di aprirlo con l'Invocazione. So che il Clan Blu e le Corporazioni hanno organizzato i consueti intrattenimenti per la gente. Immagino che tuo fratello danzerà...» Arré divenne tesa. «Mio fratello danza ogni anno». «È molto bravo!», sentenziò il L'hel. Neppure Arré gradiva che Jerrin-no-Dovria si ergesse a patrono di suo fratello. «È più che bravo,» disse con voce tagliente. «Isak ha il diritto di indossare la shariza; cosa che nessun altro Danzatore merita qui in città». «Proprio così!», disse Jerrin. «Tu ne tessi le lodi, eppure so che non an-
date d'accordo». «È vero,» confermò Arré. I Maghi sapevano tutto: così diceva la gente. Arré ne dubitava, ma era sicura che Kim Batto avesse riferito al L'hel tutto ciò che sapeva, pensava, o sospettava sulla Famiglia Med, compreso il fatto che fratello e sorella si detestavano e che Isak non si era mai rassegnato al ruolo della loro defunta madre. «È motivo di preoccupazione per me,» disse Herrin in tono serio, «che tra le Famiglie, particolarmente tra quelle Nobili, vi siano contrasti e divergenze». «Oh?», disse Arré. «Per esempio,» continuò Jerrin, «Ho saputo che tu non approvi l'ingresso dei Jalar e degli Ismenin nel Consiglio. Posso conoscerne la ragione?» «Non è uso discutere affari del Consiglio al di fuori di esso,» sentenziò Arré. Jerrin sorrise. «Ma a me puoi dirlo,» disse con voce mielata. «A meno che tu non preferisca che sia Kim Batto a farlo...» Arré incrociò le mani. Le natiche le dolevano, e desiderò tanto un cuscino ed un po' d'ombra. «Non ho nulla da obiettare sull'ingresso dei Jalar nel Consiglio,» disse. «Mi oppongo invece alla candidatura degli Ismenin, perché sono troppo giovani ed ambiziosi, e perciò inaffidabili». Il L'hel serrò le labbra. «Sarebbe più facile tenerli sotto controllo se facessero parte del Consiglio». «Non c'è nulla che garantisca una cosa simile,» puntualizzò Arré. «Ciò che è certo, è che acquisterebbero un potere che adesso non posseggono. Ritengo che - per loro e per la città - sia meglio lasciare le cose come stanno». La donna ai piedi di Jerrin disse piano: «Perché pensi che non ci si possa fidare degli Ismenin, Arré Med?» Arré si rigirò tra le mani la coppa delle numerose sfaccettature. «Perché sono convinta che siano responsabili della presenza di armi in città». «Ne hai le prove?», chiese Senta. «No,» ammise Arré. «Ma consideriamo. Uno: gli Ismenin possiedono i depositi di ferro scoperti ad ovest di Shanan. Due: nella loro Piazza d'Armi si insegna l'Arte della Spada. Tre: i fratelli Ismenin hanno un gusto particolare per la lotta. È risaputo in città: non sono affatto una Famiglia pacifica». «Tutto questo lo so già,» disse Jerrin. «E so pure che gli Ismenin non sono gli unici ad aver introdotto l'addestramento alla spada. C'è almeno
un'altra Famiglia Nobile che ha intenzione di fare altrettanto.» Accompagnò con un sorriso quest'ultima frase. «Lo ammetto,» confessò Arré. «Però sono certa che ne capisci la ragione. Sarei più che lieta di annullare l'ordine che ho impartito al mio Maestro della Piazza se Ron Ismenin interrompesse l'addestramento in corso nella sua Piazza d'Armi». «Dubito che vorrà farlo,» osservò Jerrin. «Ma,» soggiunse Arré, «io non sono venuta qui per accusare gli Ismenin, malgrado le apparenze. Sono venuta per domandare al Tanjo ed al Clan Bianco in che modo quest'ultimo intende affrontare il problema della presenza di spade in città» «Vuoi sapere cosa farà il Clan Bianco?», precisò Senta. «O ciò che il Clan Bianco vorrebbe fosse fatto dal Consiglio?» «Il Consiglio non avrebbe mai la presunzione di dettar legge al Clan Bianco,» ribatté Arré. «Potrebbe dunque il Clan Bianco dettar legge al Consiglio?» . «No,» concesse Senta. «Ma se il Clan Bianco occupasse un posto all'interno del Consiglio, essi potrebbe agire unitamente». Arré non immaginava che la conversazione avrebbe finito col prendere quella piega, ma gli argomenti da opporre all'ipotesi suggerita da Senta le ardevano nella mente. «Vi sono due buone ragioni per le quali il Consiglio rifiuta la presenza del Clan Bianco all'interno della sua Assemblea. La prima è una questione di competenze. Il Clan Bianco guarisce, si occupa di metereologia e ricerca la verità: queste sono le sue competenze, e sono cose che il Consiglio non può fare. Il Consiglio governa. È questa la sua competenza, ed essa non può essere assunta dal Clan Bianco. Quanto alla seconda ragione, se il Consiglio ammettesse il Clan Bianco tra i suoi rappresentanti, la medesima cosa dovrebbe fare con il Clan Nero e con il Clan Blu, e, presumibilmente, anche con il Clan Verde». «E il Clan Rosso?», disse Jerrin. «Non esiste un Clan Rosso». Jerrin sollevò la coppa. «Il tuo secondo argomento è più valido del primo,» giudicò. «Cosa intendi dire?» chiese Arré. «Hai perfettamente ragione nel dire che se il Consiglio ammettesse tra i suoi membri il Clan Bianco, con ogni probabilità dovrebbe fare la stessa cosa con gli altri Clan, il che complicherebbe ulteriormente la possibilità di governare la città. Tuttavia, nessun membro del Consiglio governa la città
individualmente. Il Consiglio - quale organo collegiale - esercita il potere governativo. Di conseguenza, l'ammissione del Clan Bianco non gli garantirebbe un potere maggiore di quello posseduto da qualsiasi altro membro dell'Assemblea». «Il governare è un compito che spetta alle Famiglie Nobili della città», sentenziò Arré. «Noi possediamo la competenza e l'esperienza per farlo». «Anch'io posseggo una simile competenza.» obiettò Jerrin. «Io governo il Tanjo». «Se tu diventassi un membro del Consiglio, chi comanderebbe qui?», incalzò Arré. «Ma io non vorrei diventare membro del Consiglio,» disse Jerrin. «Per usare le tue parole, non rientra nelle competenze di un L'hel». Arré rimase muta in attesa finché non fu evidente che l'uomo non si sarebbe pronunziato oltre senza opportune blandizie. «Chi proporrebbe, dunque, il Clan Bianco quale suo rappresentante presso il Consiglio di Kendra?» «Un Mago della Verità,» disse Jerrin. La diplomazia, pensò Arré con amarezza, non va d'accordo con la verità. «No. Quando il Consiglio riterrà necessario ottenere una prova delle azioni degli Ismenin, la prova sarà trovata. È una faccenda da risolvere in privato». «Perché allora mi hai scritto chiedendomi di discutere insieme?», le chiese Jerrin. «Perché portare le spade in città non è soltanto una violazione delle leggi cittadine ma, secondo il dettato del Bando, costituisce un atto ni'cea», spiegò Arré. «Inoltre... ho pensato che tu volessi sapere come stanno le cose». Jerrin sorrise. Il silenzio si fece più profondo. Lo stomaco di Arré brontolava rumorosamente; supplicava disperatamente per avere un bocconcino di dolce. Bevve un po' di vino per cercare di calmarlo, poi si domandò se Ron Ismenin si fosse mai seduto in quello stesso posto. «Non hai considerato,» disse, «che tu possiedi un'autorità morale di cui il Consiglio è privo? Tu potresti, se volessi, avvicinare direttamente gli Ismenin, e suggerire loro che portare le spade nella città è una mossa poco saggia». «Potrei... certo!», convenne Jerrin. «Sempre che gli Ismenin si fossero qualche volta interessati della mia opinione. Ma Ron Ismenin non mi ha mai consultato». È una comoda scappatoia, pensò Arré. Ma Kim Batto parla con te, e so-
stiene gli Ismenin... Gli occhi color indaco di Jerrin fissavano il volto di Arré, e la donna provò la sgradevole sensazione che le leggesse i pensieri. «Sei un Mago della Verità?», gli chiese. Jerrin sussultò e distolse immediatamente lo sguardo dagli occhi di lei. «Io? No. La mia specialità è la telecinesi. Solitamente i Maghi sono dotati di un solo talento. Non ho accesso alla tua mente e, se anche l'avessi, non ne farei uso. Sarebbe scortese». «E tu non sei scortese,» Arré si domandò se poteva fidarsi. «Quanti anni hai, se mi è consentito?» Jerrin si carezzò i capelli sottili e serici. «Quarantasette. Fui nominato L'hel all'età di trentanove anni». «È una carica a vita?» «Può esserlo. Ci sono tre L'hel; uno qui, uno a Tezera, ed uno a Shanan. Gli altri due sono molto più vecchi di me.» Fece la coppa con le mani, e l'anello che portava al dito catturò e rifletté la luce solare. «Nel mio caso non credo che lo sarà; sono già stanco». Arré non gli credette. La stava avviluppando nella rete del suo fascino, così come un ragno tesse la tela intorno alla sua vittima. La franchezza poteva rivelarsi un inganno; non era nuova a tattiche del genere. «Come ti sei procurato quelle cicatrici?», gli domandò. «Sembrano seguire un disegno regolare, come se fossero state praticate deliberatamente». «E lo furono,» Jerrin si sfiorò con la mano la guancia sinistra. «È opera degli Asech; segnano i loro Maghi in quel modo. Un tempo erano indice di vergogna, ma adesso sono motivo d'onore». «Tu non sei un Asech: perché le hai?» «Ho vissuto due anni con i loro Maghi». «Quali sono i loro talenti?» «Guariscono, condizionano il tempo, scoprono la verità. Servono anche a mantenere le tribù in contatto tra loro. Mandare un corriere attraverso il deserto porta via molto tempo, e talora è pericoloso. Inviare un pensiero invece, è un sistema assai più rapido e sicuro». Arré vuotò la coppa. Parlare le faceva venir sete. «Posso arrecarvi il disturbo di mescermi un altro po' di vino?», disse, sollevando la coppa. Jerrin la fece fluttuare dalle mani di Arré e la riempì nuovamente senza toccarla. La vista della brocca che si sollevava e riversava il liquido facendo tutto da sola, risvegliò in Arré magiche sensazioni, creando in lei l'impressione che gli oggetti nel giardino, i fiori, la panchina, le pietre, i pesciolini che scivolavano nell'acqua, fossero dotati dei sensi proprio del-
l'uomo, e che quindi potessero ascoltare e fors'anche parlare. «Grazie,» disse. «Possiamo tornare al discorso sulle spade?» Jerrin inclinò la testa, acconsentendo. «Sì dice che i Maghi sappiano tutto ciò che accade in città. Eravate al corrente del fatto che gli Ismenin hanno fatto entrare clandestinamente delle spade attraverso le Porte della città, e che stanno addestrando i loro soldati ad usarle?» Fu Senta a rispondere. «Sì, lo sapevamo». «Ed avete lasciato che continuassero?» «Cosa volevi che facessimo?» disse Jerrin. «Dichiarare gli Ismenin ni'cea,» suggerì Arré. Jerrin ridacchiò. «La città ne sarebbe stata lacerata». «Dichiarare le spade ni'cea». «Lo abbiamo fatto. Esiste il Bando». «Il Bando non riguarda le spade a lama corta, e sono quelle le spade che gli Ismenin stanno portando in città!» «Allora il Consiglio dovrà affermare che anch'esse sono contemplate dal divieto del Bando,» consigliò Jerrin. «Il Clan Bianco appoggerà il Consiglio?» La voce di Jerrin si fece insinuante. «Il Consiglio governa. Il Clan Bianco guarisce, si occupa del tempo e ricerca la verità. Il Consiglio dipende forse dall'appoggio del Clan Bianco?» Arré serrò tra le dita la coppa di cristallo con tanta forza che temette di frantumarla. «In questa faccenda, sì». Seguì il silenzio: per Arré un silenzio avvelenato dall'ira. Era stata costretta ad un'ammissione che mai avrebbe voluto fare. La quiete fu interrotta dal sonoro cinguettio di un uccello. Discendendo in picchiata dal cielo, un uccellino rosso atterrò ai piedi di Senta. Sorridendo, la donna protese la mano. Il volatile arruffò le penne e, sollevandosi dall'erba, si posò sul polso di lei appollaiandosi e lasciandosi carezzare dolcemente. «Questa è Leeka,» disse Senta. «Sono già due stagioni che lei ed il suo compagno costruiscono il nido nella cupola del Tanjo.» La voce di Senta era calda. Arré rivolse lo sguardo al L'hel e restò impietrita. L'uomo stava fissando Senta e l'uccellino col volto sfigurato dall'ira. Accortosi dello sguardo di Arré, distese all'istante i tratti alterati, ma non abbastanza in fretta da sfuggire alla curiosità della sua ospite. Questa si domandò cosa potesse trovare di tanto irritante nell'affetto di Senta per la colombella. Quello sguardo non le era nuovo: lo aveva già visto sul volto di suo fratello; era uno sguardo che tradiva orgoglio ferito ed acre gelosia.
Si sfregò le braccia, improvvisamente gelate nonostante il sole rovente. Senta fece schioccare le dita verso il cielo. «Va', Leeka!», disse. L'uccello si librò nell'aria. «Arré Med,» disse Jerrin, «hai mai sentito parlare di preveggenza?» Cosa c'entra adesso? pensò Arré. «So che è uno dei talenti posseduti dai Maghi», rispose. «Sai in che cosa consiste?» Arré scosse il capo. «I Maghi che ne sono dotati, hanno la facoltà di vedere le cose prima che accadano. Si tratta di un talento le cui caratteristiche si presentano un po' incerte; in altri termini, non riusciamo ancora a capirlo sicché, quando vediamo degli eventi futuri, non sappiamo se essi accadranno di sicuro o potrebbero accadere». «Com'è possibile...» Arré si accigliò. Il futuro era il tempo non ancora giunto: come poteva essere «visto»? La cosa non aveva alcun senso. «Perché mi stai dicendo queste cose?», disse. «I nostri preveggenti hanno visto un tempo nel quale la gente di Kendrasul-Delta si farà guerra nelle strade, facendo uso di spade.» Arré prese fiato e fece per intervenire, ma Jerrin sollevò una mano intimandole di tacere. «Abbiamo visto pure un tempo nel quale le spade a lama corta saranno bandite dalla città per ordine del Consiglio. E ancora un altro in cui la città sarà gremita di forestieri giunti a bordo di vascelli simili ai nostri pescherecci più grandi, molto più grandi, arrivati dal sud; strana gente abbigliata in maniera bizzarra, gente che non comprende la nostra lingua. «In un altro tempo ancora abbiamo visto le navi giungere dal sud e recare Guerrieri che entravano nella nostra città, ne abbattevano le mura ed incendiavano le case della nostra gente». Arré rabbrividì. Automaticamente la sua mano fece un gesto di scongiuro. «Uno di questi futuri si avvererà?» «Non lo sappiamo,» ammise Jerrin. «Forse nessuno di essi. Se ti ho detto questo, non è per terrorizzarti, ma per insegnarti una lezione che noi qui nel Tanjo abbiamo appreso. Non è facile da attuare ma è semplice nel suo significato. Non fare nulla». Lo sguardo di Arré sprofondò negli abissi della coppa. È questo il consiglio che hai dato a Kim Batto? pensò. «E,» continuò Jerrin, «la prossima volta che il Clan Bianco chiederà una rappresentanza presso il Consiglio, non rifiutargliela». «Io rappresento soltanto un voto, L'hel; non sono io a prendere le decisioni». «Ma sei la voce più forte,» disse Senta. «Boras Sul non è degno di men-
zione, Cha Minto è... "docile", per così dire, e Marti Hok è vecchia». «Hai tralasciato Kim». «Kim Batto farà ciò che io - che noi - gli diremo,» disse la donna. I suoi occhi cercarono quelli di Arré; erano neri come quelli degli uccelli, ed opachi come la roccia. Si udì un fruscio sull'erba. Un ragazzo bruno con una corta tunica bianca si avvicinò alla panchina. «Scusatemi L'hel, Lehi, ma la scorta della Signora Arré è nel cortile: i soldati vogliono sapere dov'è la loro padrona». «Come vedi, Niko, è qui,» disse Senta. Si protese dunque verso Arré per prenderle una mano tra le sue. «Di' loro che è seduta nel giardino a godersi il sole, e che verrà tra poco». L'accolito fece un inchino e si allontanò alla svelta. Arré ritrasse la mano. Con sguardo fermo fissò la donna dalla tunica bianca. «Possiedo quel dono. Ho anche il talento della Verità». «Senta: accompagna la Signora Arré al cancello,» ordinò Jerrin. Senta si alzò. «L'hel», mormorò, e si inchinò verso di lui. Anche Arré si alzò. Le sue ginocchia scricchiolarono, e sentì una fitta alla schiena. Senta le fece strada lungo il corridoio lastricato e fiancheggiato da colonne verso l'edificio sovrastato dalla cupola. Penetratavi, si voltò verso la statua del Guardiano e s'inchinò, riversando la cascata di lunghi capelli sul pavimento, il corpo forte e flessuoso come un giunco. La statua sorrise col suo sorriso enigmatico alle due donne. Le Guardie della scorta erano disposta in due file davanti al cancello. Arré fece per incamminarsi in quella direzione, ma Senta la fermò trattenendola per un braccio. «Arré Med,» le disse, «ho un favore da chiederti. Tu hai una schiava al tuo servizio, una ragazza di origine settentrionale. I suoi capelli sono come l'oro. Conosci la persona a cui mi riferisco?» «Sì». «Mi piacerebbe poterle parlare. Non ho intenzione di farle alcun male, ti assicuro. Vorresti mandarla da me?» Arré fu sconcertata da quella richiesta. Cosa poteva volere da Sorren una Maga della Verità? «Non accetterà di venire,» disse. «Ha paura del Tanjo». «Lo so,» disse Senta. Chinò la testa accostando la bocca all'orecchio di Arré. «Ha ragione a temere alcuni di noi. Ed ha torto a temerne altri». Non sta parlando di Sorren, pensò Arré. «Chi è giusto temere?», domandò in un sussurro. «Il potere è pericoloso,» disse Senta. «Temi colui che ne desidera di
più». Sorrise, come se avesse detto qualcosa di banale ed insignificante. «Il L'hel è tuo nemico, Arré Med.» Nelle profondità di quegli occhi straordinari qualcosa luccicò. La verità! pensò Arré. Poi disse: «Addio!», quindi si voltò e fece un cenno ai soldati. Quindi, con passi lunghi ed eleganti si diresse verso la cupola del Tanjo. Capitolo undicesimo Lo stomaco di Arré gorgogliava. Davvero? pensò. Ma quell'avvertimento l'aveva impressionata. Cosa aveva fatto lei per meritare l'inimicizia del L'hel? E perché doveva fidarsi di Santa-no-Jorith, la portavoce del L'hel? Lanciò un'occhiata furtiva alla cupola, ma la Maga era scomparsa. «Signora?» Una voce maschile la chiamò dall'alto. Alzò gli occhi. Era il Capitano della Guardia. Sovrastata dalla sua figura, aggrottò le ciglia. «Cosa vuoi?» L'uomo arretrò d'un passo. «Siamo pronti per scortarti fino a casa,» disse. «Grazie,» fu la risposta di Arré. Contemplò per un istante la possibilità di tornare a piedi. Ma ci avrebbe messo troppo tempo, e Paxe si sarebbe infuriata, avendone ogni ragione. «Chiama la lettiga.» Il Capitano le rivolse un inchino e fischiò tra i denti. «Accertati che sia pulita,» gli disse in tono brusco, e l'uomo si inchinò nuovamente. La lettiga apparve dall'altra parte del cancello, adorna di svolazzanti banderuole azzurre. Arré vi si arrampicò dentro ignorando il braccio teso del Capitano. Pensò a sua madre e si domandò cosa avrebbe detto al L'hel se si fosse trovata al suo posto. Il ricordo di sua madre le era sempre d'aiuto. Shana Med non aveva mai avuto paura di niente, neppure della terribile malattia che l'aveva uccisa. D'improvviso, la lettiga sbandò spingendo Arré contro la parete, poi si arrestò. Il Capitano si portò a lato del veicolo e tese il braccio per aiutare la passeggera a scendere. Ma, ancora una volta, Arré fece a meno del suo aiuto. «Grazie, Capitano,» disse. «Per favore, avverti il Maestro della Piazza che voglio vederla». Ciò detto, entrò in casa; Elith stava nella sala biascicando qualcosa tra sé e sé, ed Arré pensò con impazienza: Sta diventando senile. Dovrei mandarla ai vigneti; se ne starebbe seduta all'aria aperta a parlare da sola, e morirebbe in pace.
«Portami del cibo,» ordinò seccamente alla vecchia. Elith sbatté le palpebre. «Va' a dire al cuoco che voglio fragole e panna.» Quindi andò nel suo studio. Il sole scintillava sull'argenteo pavimento di legno di cedro, sugli arazzi dalle tinte sgargianti, sullo sportello di vetro del piccolo archivio. Arré si sedette sulla sua poltrona e scalciando si liberò delle scarpe. Si abbandonò lussuriosamente tra i cuscini e pensò: Io sono un ragno, e questa è la mia ragnatela. Era forse puerile, ma quell'immagine impudente la faceva star meglio. Lo stomaco, intanto, continuava a protestare. «Pazienza!», disse Arré dandovi una pacca. «La pazienza è una virtù,» fece eco Paxe dall'arco della porta. Arré le sorrise. «Chi lo ha detto?» «Una donna che ho conosciuto l'altra notte.» La larga bocca del Maestro della Piazza s'incurvò ai due angoli. «Era una ladra. Firth mi ha detto che volevi vedermi». «Già. Siediti». Arré indicò lo sgabello, e Paxe vi si sedette. «Da quanto tempo hai ordinato i seji?» «Da una settimana». «Quanto ci vorrà perché siano pronti?» «Perrit ha detto che me li avrebbe consegnati entro tre settimane. Spesso anticipa le consegne, ma non credo che stavolta lo farà. Diciamo tra dodici giorni». «Li voglio adesso,» disse Arré. «Offrirgli il doppio del compenso. Voglio che la Piazza d'Armi dei Med cominci l'addestramento all'uso della spada a lama corta, e voglio che i soldati dei Med imparino ad usarla alla perfezione prima dell'inizio del Festival». La fronte di Paxe si corrugò di solchi profondi. «Alla perfezione?», ripeté. «Non è possibile! Mancano meno di quattro settimane al Festival!» «So bene quando c'è il Festival! Esigo che il maggior numero possibile delle mie Guardie sappia combattere con la spada entro quella data. Fai in modo che sappiano almeno tenere in mano una lama in maniera convincente, e che non si taglino l'un l'altro le loro stupide capocce. Questo puoi farlo?» La porta si aprì e Lalith entrò recando una grossa scodella azzurra ricolma di fragole. Arré gliela prese dalle mani. «Sorren è tornata dalla spesa?», domandò. La ragazza con le treccine scrollò la testa. «No, Signora». «Quando sarà ritornata, dille che voglio vederla».
«Sì, Signora,» disse Lalith. Lanciò un'occhiata curiosa a Paxe e si allontanò. Arré mangiò una cucchiaiata dei frutti. L'aroma forte e dolcissimo la fece sospirare di piacere. Guardò Paxe di sbieco. Il Maestro della Piazza aveva il volto accigliato; senza dubbio stava pensando alle spade. Devo dirle quanto è accaduto al Tanjo? si domando Arré. Paxe ha fiducia nel Clan Bianco. La venalità del L'hel le spezzerebbe il cuore. «Dove sono finite le spade sequestrate alle Porte?» «Quelle che abbiamo trovato noi sono al sicuro nel Corpo di Guardia della Porta,» disse Paxe. «Portale qui,» ordinò Arré. «Portale alla Piazza d'Armi». Paxe annuì. «Ron Ismenin ti fa ancora pedinare da quel ragazzino?» Paxe sorrise. «Quando glielo lascio fare». «Puoi trovarmi qualcuno - non un marmocchio - uno fidato, da mettere alle calcagna di Kim Batto?» Paxe si grattò il mento. «Sì,» rispose. «Credo di sì. Doppio compenso?» «Qualsiasi somma tu ritenga adeguata,» disse Arré. «Ma voglio che sia seguito dovunque, anche di notte». «Perché?», chiese Paxe. Arré trasse un respiro. «Diciamo semplicemente,» disse soppesando le parole con cautela, «che il nostro Kim non è quell'uomo pio che sembra essere». Paxe s'irrigidì. «Credi che sia in combutta con gli Ismenin?» «Potrebbe esserlo». «Il Tanjo lo tiene in grande considerazione; almeno, così dicono in giro». «Lo so,» disse Arré. «Voglio solo accertarmene. Quando prenderai accordi con la tua spia, dille che venga a riferire direttamente a me». «Come desideri,» disse Paxe. «C'è altro?» «No.» Paxe si alzò. «Hai avuto notizie di tuo figlio?», aggiunse Arré. Paxe sorrise. «Ieri,» disse. «È giunta una lettera con una delle carovane. Sta bene. Vuole che gli mandi un paio di stivali». «Bene,» commentò Arré. «Sono contenta che stia bene.» Paxe se ne andò. Arré appoggiò i piedi sullo sgabello, tornando col pensiero a Kim Batto ed a Sorren. Cosa può volere da lei Senta-no-Jorith? si domandò. Sorren stava partecipando ad una festa nuziale. Tani, la danzatrice coi serpenti, prendeva marito. La cerimonia vera e
propria non era stata ancora celebrata, e soltanto al suo ritorno nella tribù il rito matrimoniale sarebbe stato officiato. L'uomo che aveva scelto di sposare si trovava ancora nel deserto. Tani era felice perché il promesso sposo le piaceva. Simmy era felice perché Tani non sarebbe tornata a vivere nel deserto; una delle condizioni del contratto matrimoniale era che il futuro marito si sarebbe trasferito a Kendra-sul-Delta dopo il matrimonio. I serpenti di Tani erano felici perché si erano rimpinzati tanto da addormentarsi. La festa era cominciata nel mercato del Distretto degli Isara ma, dopo un po', gli spiriti erano diventati troppo allegri e Simmy aveva suggerito di spostarsi a casa sua prima che le Guardie degli Isara fossero sopraggiunte ad interrompere i festeggiamenti. La casa di Simmy era molto piccola, e vi stagnavano il puzzo di pelle di capra e l'aroma dell'Erba dell'Estasi e delle piccanti spezie caratteristiche della gastronomia degli Asech. Sorren si sedette su un cuscino e cominciò a suonare. Simmy l'accompagnava col flauto. Sothri e Tani danzavano attorcigliando sinuosamente una fusciacca intorno ai seni ed al ventre in un movimento lento ed erotico, mentre Nerim, la loro giovane partner, sostava nel vano della porta con la bocca incollata ad uno sho dalla peculiare forma a scatola. I tamburi degli Asech erano più piatti di quelli che Sorren era abituata a percuotere, e di solito ci si serviva di bacchette per suonare. Ma queste erano state immediatamente scartate da Sorren. Producevano un suono più metallico, meno risonante, più simile ad un tintinnio. Ma non importava. La musica dello sho era misteriosa e selvaggia, e le inebriava il sangue come fosse vino. Percuoteva il tamburo con tutte e due le mani, mentre il flauto di Simmy risaliva e discendeva la scala musicale. Nella stanza affollata tutti fumavano l'Erba dell'Estasi, ed ondeggiavano inebetiti da una parte all'altra. Tani e Sothri accennarono una melodia simile a quelle che si sentivano durante i Festival, ma dal ritmo più veloce. In breve, al motivo si aggiunsero le parole, e gli uomini si unirono al coro, gridando e ridendo. Il volto di Tani cominciò ad arrossarsi. Dalle poche parole che riuscì ad afferrare, Sorren capì che si trattava di una canzone oscena. «Sai cosa dice?» le chiese una voce insinuante. Un braccio le cinse le spalle. Era Jeshim, il cui alito sapeva dell'erba inebriante. «Dice: Come lo stallone quando s'impenna chiama a sé la sua puledra; anch'io, quando mi rizzo, chiamo a me la mia amata». «Huh,» fu il commento di Sorren.
«E tu come stai, mia dolce tamburina?» «Io non sono la tua tamburina, Jeshim, e sto benissimo.» Scrollò le spalle per liberarsi del braccio di lui. Ma l'uomo non sembrava intenzionato a lasciarlo cadere. Le sue dita raggiunsero il seno della ragazza. «Jeshim, se mi stringi in questo modo, non riesco a suonare.» Le percussioni cessarono. Simmy allontanò il flauto dalla bocca e rivolse a Jeshim uno sguardo minaccioso. Il giocoliere si strinse nelle spalle e ritirò la mano. «Dov'è il cibo?», gridò qualcuno. Tani e Sothri si recarono nella minuscola dispensa e ne ritornarono con vassoi ricolmi di specialità Asech: pasticci di semi e polpette d'agnello in pastella, nonché altre leccornie che Sorren non conosceva. Tani le pose davanti il vassoio, e Sorren prese uno dei piccoli pasticci ai semi. Jeshim scelse invece una striscia di carne lunga e sottile, che infilò in bocca con grande e pubblico godimento. «Cos'è?», gli domandò Sorren. Jeshim sorrise. «Lucertola». La ragazza ritrasse immediatamente la mano dal vassoio. «Oh, per il Guardiano! Sto solo scherzando!» Sorren non gli credette. Probabilmente era davvero carne di lucertola. Prese un altro pasticcio. «Ho un messaggio per te da parte di Isak Med,» gli disse. Forse, se gli avesse dato la buona notizia, sarebbe riuscita a toglierselo di torno. «Cosa?» «Se vuoi eseguire i tuoi numeri al fidanzamento di Ismenin, vai da lui». «Wa'hai!» Jeshim balzò in piedi. Poi si chinò a baciare Sorren sulla guancia con grande esuberanza. «Oh, adorabile creatura, ti sono debitore!» Si diresse quindi in cucina insinuandosi tra gli invitati, e ne tornò con un otre. La offrì a Sorren: «Ne vuoi un po'?» Ma la ragazza scrollò la testa. Era bello poter trascorrere un po' di tempo ad una festa. Arré era andata al Tanjo, e probabilmente non sarebbe rientrata prima di mezzodì. Ta-tata-ta-ta... Picchiò sulla pelle del tamburo. Le spalle ondeggiavano al ritmo della musica. Nerim la stava osservando; Sorren gli sorrise e il volto del ragazzo si fece di fiamma. Subito voltò la testa. Gli ricordava Ricard, soltanto era più simpatico. La sua timidezza era attraente. Continuò a percuotere con forza il tamburo finché non sentì le dita bruciare. Quando uscì dalla casa, Simmy la raggiunse in strada per salutarla e ringraziarla per aver suonato. «Grazie a te per avermi invitata. Avrei portato un regalo se avessi saputo». Gli Asech presenti alla festa avevano portato dei doni: vasi, oggetti di cuoio e monili.
«Non preoccuparti. La tua presenza è stata già uno splendido regalo.» Alzò gli occhi al cielo. «Non avrai dei problemi, vero?» «No: nessun problema, Stamattina ho del tempo libero». «Mi dispiace per il comportamento di Jeshim.» Il suo tono si fece serio. «Io non lo avevo invitato, ma non è facile tenerlo fuori». Sorren percorse la via diretta a casa mentre le canzoni Asech ancora le rintronavano nella testa. Non appena fu entrata in cucina, Lalith le disse: «Arré ti vuole.» Aggricciò il naso. «Hai uno strano odore. Dove sei stata?» «Ad una festa Asech,» spiegò. «Ho mangiato lucertola». Lalith strabuzzò gli occhi. Sorridendo, Sorren si diresse verso la saletta di Arré. «Dove sei stata,» le chiese questa, con un tono simile a quello di Lalith. Sorren si sedette sullo sgabello. «Ad una festa. Ho suonato. Una festa di Asech». Arré emise un verso poco educato. «A me non capita mai di partecipare ad una festa a metà giornata». La sua voce era aspra e tagliente: era di buono o di cattivo umore? «Chi festeggiava?» «Una Danzatrice ed incantatrice di serpenti,» rispose Sorren. Si domandò come fosse andato l'incontro con il L'hel. Per diversi giorni aveva temuto che Arré le avrebbe ordinato di accompagnarla al Tanjo, e quella mattina era uscita di buon'ora deliberatamente e si era attardata in città per cavarsi d'impiccio. La mano di Arré cercò i braccialetti che normalmente le cingevano il polso sinistro. Ma i monili non erano al loro posto. Si guardò le mani. «Perché non ho... oh.» Sorrise. «Mi stavo chiedendo perché stamattina non avevo indossato i braccialetti. Non volevo apparire troppo frivola. Frivola! Bah!» Sbuffò. «Vai a prenderli, piccola». Sorren andò nella camera da letto al piano di sopra. Prese i bracciali dallo scrigno e li portò ad Arré, che li infilò prontamente. Le sue dita indugiarono sul bracciale con la gemma, quello che le aveva regalato Paxe. «Siediti, piccola!» Sorren obbedì, chiedendosi se fosse accaduto qualcosa di spiacevole. Arré chinò la testa da un lato. «Di' un po', per quale ragione una Maga della Verità può desiderare di incontrarsi con te?» Sorren raggelò. «Io... io non lo so,» balbettò. «Ne hai mai conosciuta una?» «Una volta, al mercato». «Che aspetto aveva?»
«Lei... aveva i capelli neri, ed una bella voce. Passeggiava con Kim Batto». «Doveva essere Senta,» concluse Arré. «Cosa ti ha detto?» «Lei... io ero sconvolta, e lei mi chiese perché stessi piangendo. Ne ebbi paura, e scappai». «Hai sempre avuto paura dei Maghi?», chiese Arré. «Ricordo che non volevi andare al Tanjo a recapitare la mia lettera al L'hel... Sorren, smettila di tremare!» «Non ci riesco». Arré si protese verso di lei e le prese le mani tra le sue. «Puoi, invece!», le disse con voce ferma. «Sorren, i Maghi potranno essere strani, ma che io sappia, non hanno mai fatto del male a nessuno. Perché dovresti temerli? Hai o fai qualcosa che loro hanno proibito?» Sorren inghiottì. Quel colloquio si stava rivelando peggiore di quanto si era aspettata. Non osava parlare ad Arré delle sue visioni: l'avrebbe mandata sicuramente al Tanjo. Possedeva però qualcosa che poteva mostrare alla sua padrona: le Carte. «Io... devo farti vedere una cosa,» disse. «Ce l'ho di sopra». «Vai!», disse Arré, liberandole le mani. Sorren portò dabbasso il cofanetto e lo depose in grembo ad Arré. «Ecco perché,» confessò. Arré lo apri e ne estrasse le Carte. Con delicatezza svolse la seta rossa e sollevò la prima Carta, girandola dal lato della figura. «Huh!», commentò, inarcando le sopracciglia. Girò quindi la seconda Carta, la Tessitrice. «Cosa sono?», chiese. «Me le ha lasciate mia madre,» spiegò Sorren. «Vengono dal nord. Sono le Carte della Fortuna». Arré girò la terza Carta, raffigurante una donna addormentata. «Vengono dal nord? Cosa intendi dire con ciò?» Sorren le raccontò delle raffigurazioni delle Carte scoperte tra gli antichi documenti conservati da Marti Hok. «Provengono dalla Rocca di Tornor,» disse. Tornor... Quel nome le suonava ancora strano. Arré carezzo le figure con tocco lieve, nello stesso modo in cui sfiorava i fiori del suo giardino. «Sono belle,» disse. «Perché non me le hai mai fatte vedere?» Sorren chinò la testa. «Pensavo che me le avresti portate via. Tenerle è contro il cea». «Perché servono a predire la sorte? Ma sono tue, piccola: le hai eredita-
te.» Le ripose nel cofanetto e ripiegò la seta sopra di esse. «Sai usarle?» «No. Andai via dai vigneti... e, dopo, mia madre morì. Non ebbe mai il tempo di insegnarmi ad usarle». Arré sospirò. «Fu colpa mia,» disse. «Sono io che ti portai via.» Prese la scatoletta tra le mani. «Penso che dovresti imparare». «Come?» «Non lo so.» Arré riabbassò il coperchio sulle Carte e le porse a Sorren. «Mettile via, piccola!» Sorren le riportò di sopra. Quando tornò nella saletta, notò che Arré aveva preso carta e penna e stava scrivendo una lettera. Osservò il fluido movimento della penna che correva sul foglio. Quando la lettera - molto breve - fu finita, Arré la cosparse di sabbia. «Ho detto alla Maga della Verità che ti avrei lasciato andare da lei,» disse. «Tuttavia, sai come sono smemorata.» Arré non dimenticava mai nulla. «Devo essermi scordata di dirtelo». «Non si arrabbierà?», disse Sorren. «È possibile. Ma non m'importa, né deve importare a te. Tu sei al mio servizio, e sotto la mia protezione. Ma sarà meglio che eviti sia le Guaritrici che il Tanjo per un po' di tempo». «Lo farei comunque». «Hai finito le compere?», si informò Arré. «Sì». «La casa è pulita? Il bucato è stato fatto?» Sorren annuì. «Bene!» Arré ripiegò la lettera e la sigillò con il marchio dei Med in ceralacca. «Allora puoi consegnare questa a Marti Hok». Ma Marti Hok non era a casa. Le Guardie si ricordavano di Sorren, e la lasciarono entrare dall'ingresso principale senza neppure chiederle di mostrare il sigillo dei Med sulla missiva. La porta le fu aperta dalla ragazza vestita di bianco. «Ho una lettera per la Signora Marti da parte della Signora Arré Med,» annunziò. La ragazza assunse un'espressione rammaricata. «È alla darsena con suo figlio. È urgente? Posso fargliela recapitare da una Guardia». «Non credo sia il caso,» disse Sorren. Arré non aveva detto che la lettera andava consegnata con urgenza. «Yona, che c'è?», domandò una voce femminile. Si udì chiudere una porta nell'interno della casa, e una donna apparve nel corridoio d'ingresso. Indossava una leggera tunica argentata, che si rigonfiava clamorosamente sul suo corpo in avanzato stato di gravidanza. Al suo apparire, sia Sorren che Yona si inchinarono.
«Ha una...» «Ho una...» Entrambe si interruppero simultaneamente. Alanna Hok rise. «Una alla volta,» disse, ricevendo la lettera dalle mani di Sorren. «Cos'è questa? Ah, capisco. La metterò sulla scrivania di mia madre.» La sua faccia, tonda e piacente, era incorniciata da soffici riccioli castani. La schiena appariva leggermente sospinta in avanti, così da bilanciare il peso del bambino. «Mi ricordo di te: sei la ragazza del nord. Riferisci ad Arré che mia madre avrà la lettera stasera. Dev'essere importante se ha mandato te.» Sventolò la rigida carta a mò di ventaglio. «Sai cosa c'è scritto?» «No. Signora!», rispose Sorren. In verità, immaginava quale ne fosse il contenuto, ma Arré non le sarebbe stata affatto grata se ne avesse parlato a qualcuno, foss'anche un membro della Famiglia Hok. Alanna continuò a farsi vento oziosamente, e a Sorren giunse il profumo di legno di sandalo che promanava dai capelli di lei. Le rivolse un nuovo inchino. «Porterò ad Arré Med il tuo messaggio». Quella notte non riuscì a prender sonno. Irrequieta, si dimenava nel letto come un pesce preso all'amo, sforzandosi di non pensare a niente. Alla fine si sollevò a sedere. Cercò la scatoletta con l'esca e l'acciarino nei pressi del letto e, ottenuta una fiammella, vi accostò lo stoppino di una candela. L'ombra del suo corpo si disegnò sulla parete. Prese le Carte da sotto al guanciale e le tenne tra le mani. Sollevò la prima Carta, Il Danzatore, e se la pose in grembo. Bello e gioioso, sorrideva dallo scenario dipinto quasi fosse vivo. Sorren si domandò se rappresentasse un ceari. Sparse quindi tutte le Carte davanti a lei e ne scelse una a caso: Il Sole. Raffigurava un paesaggio rurale, un granaio, un campo, e delle persone nell'atto della danza. Ne alzò un'altra: Il Cavaliere. Il suo mantello era verde. Era forse Kandra? Sorren guardò da vicino la figura dipinta per vedere se ne riconoscesse le sembianze; ma il volto era troppo piccolo per distinguerne i lineamenti. Ne girò una quarta: La Signora. Una donna dai capelli biondi. Sorren si domandò se in quel gioco della fortuna che non sapeva leggere, La Signora rappresentasse sua madre. Dal mazzo di Carte, Il Lupo le lanciò occhiate di fuoco. Una terribile malizia si sprigionava dai suoi occhi rossi. L'Illusionista le rammentò Jeshim, e poi Isak. Fu poi la volta della Fenice. Questa, a parer suo, era la Carta più bella; le ali dell'uccello, tra aliti di fuoco, scintillavano dei colori dell'arcobaleno. Erano tutte sciocchezze. Lei non aveva la minima idea di cosa signifi-
cassero quelle Carte e, per quanto restasse lì a fissarle, non ne avrebbe mai capito il segreto. Ricompose il mazzo senza badare all'ordine che solitamente le Carte seguivano nel succedersi l'una all'altra, e le ripose nella custodia. Scostò quindi un lembo della coperta e si alzò, diretta alla finestra. Guardò il cielo: pareva che la luna calante si stesse tuffando nell'oceano. Si sorprese ad anelare una delle sue visioni. Ma, per un disegno perverso, nulla le accadde. Il mondo rimase fermo e sicuro attorno a lei. Con un sospiro se ne tornò a letto, desiderando di sapere dove Toh tenesse riposto il sacchetto d'Erba dell'Estasi. Fumare da sola non le piaceva, ma almeno l'avrebbe aiutata ad addormentarsi. La mattina del cambio dei turni di guardia, Paxe aveva un brutto mal di testa. Si strofinò le tempie. Il dolore era iniziato durante la notte e, sebbene si fosse attenuato, era pur sempre lì, a torcere ed a scavare come un verme nella testa. Rassicurò se stessa dicendosi che sarebbe andato via non appena si fosse messa in movimento. Uscì. Ivor, in piedi nella Piazza d'Armi con le mani poggiate sui fianchi, le rivolse un saluto gioioso. Paxe gli fece un cenno con la testa, e l'uomo la raggiunse in breve con aria soddisfatta. «Maestro, grazie per aver dato a me questo turno. Farò del mio meglio, te lo prometto!» «So che lo farai,» disse Paxe. «Non farti tiranneggiare da Borti; vedrai che ci proverà». «Non ci riuscirà». «Ma non cercare neppure di fare tutto da solo. Il turno diurno è pesante, e ci sono molte cose da tenere sott'occhio; ma non ti avrei messo qui se non avessi avuto fiducia nel tuo buon senso e nella tua abilità». Gli occhi di Ivor luccicarono a quelle parole. «Grazie». «Hai già fatto la ronda?» «Stavo appunto per cominciare il giro». «Quando andrai alla Porta, di' a Sereth di caricare su di un carro le spade che abbiamo sequestrato e di farle consegnare qui. Arré Med vuole che le custodiamo nell'armeria». «Sarà fatto». «La serratura è già stata cambiata?» «Il fabbro verrà oggi pomeriggio». «Bene!» La tempia le pulsava, e resistette all'impulso di strofinarsele.
«Ci vediamo più tardi». Ivor le rivolse un inchino e ritornò al di là del cancello della Piazza d'Armi camminando con aria baldanzosa. Paxe scelse la via più breve per raggiungere il Distretto degli Hok. Mentre passava dinanzi al Tanjo, si accorse che i muscoli le si contraevano per la tensione. Scrollò le braccia per distenderli. Le Guardie in servizio al confine del Distretto, si inchinarono al suo passaggio. Il Distretto degli Hok era sempre movimentato; gente e carri gremivano le strade gridando l'uno all'altro, tutti presi dalla fretta. Alla vista di Paxe sgombravano rapidamente e silenziosamente la strada. Il Maestro della Piazza entrò nella bottega di Perrit. Il vecchio si trovava nel retro ad istruire una nuova apprendista all'uso del martello. «Vedi quei segni?», disse, indicando un'asse montata su due cavalletti da sega. «Li chiamiamo "occhi di gufo". Compaiono quando tieni il martello troppo stretto o troppo lento.» Ciò detto, prese il martello e lo batté sul chiodo con un colpo netto. «Il martello rimbalza se lo tieni troppo forte. Quando io batto, colpisco solo il chiodo. Il martello non dà rinculo.» Porse quindi l'arnese alla ragazza. «Prova tu». Paxe interruppe la lezione. «Perrit,» disse. «Ho bisogno di parlarti». L'uomo aggrottò le ciglia. «Un momento, Maestro della Piazza». «Subito». «Prova tu,» ripeté il vecchio alla ragazza. «Torno subito.» Accigliato, si avvicinò a Paxe. «Che c'è?» «Ho bisogno di quei seji». Perrit scrollò la testa. «Non posso». «E se raddoppiassi il compenso?» Il vecchio la scrutò, inclinando il capo. Paxe intuì la domanda che stava per rivolgerle. «Non chiedermelo,» lo precedette. «Tu non puoi saperlo. Quando potrò averli?» «Dieci giorni ancora. Non prima». «D'accordo. Ivor-no-Akia è il Comandante della Guardia Diurna; sarà lui a mostrarti dove dovrai metterli se io non sarò disponibile.» Alle loro spalle l'apprendista vibrava cauti colpi sul tartassato pezzo di legno. Paxe tornò al Distretto dei Med percorrendo a ritroso quasi automaticamente la via seguita all'andata. Ad un isolato di distanza dal Tanjo scorse un volto familiare dietro di lei. Tornò sui suoi passi e sorprese il ragazzino cencioso mentre attraversava il vicoletto, cercandola tra i portoni. Lo sollevò da terra e prese a scrollarlo finché il piccolo pedinatore non si
mise a tremare, terrificato. «Di' a Ron Ismenin,» intimò tra i denti, «che, se ti pesco di nuovo a seguirmi, ti butto nel fiume, e ciò vale per chiunque si azzardi a pedinarmi!» Il ragazzo tremava, prigioniero nella morsa di Paxe, e questa lo guardò torva. La sua ira non era solo una finzione. La testa continuava a pulsarle dolorosamente. Lo abbandonò sulla strada come una scarpa vecchia e, quando si voltò indietro, si era già dileguato. Proseguì verso la collina, un po' imbarazzata dalla sua stessa ferocia. Jenith-no-Terézia era una dorma piccoletta, dai capelli castani. Paxe la conosceva già da molti anni. Aveva lavorato presso i vigneti quando Paxe vi prestava servizio di guardia, ed entrambe si erano trasferite in città pressappoco nello stesso periodo. Adesso lei lavorava in uno dei magazzini dei Med. Paxe la trovò intenta ad ispezionare una botte che perdeva da qualche parte e ad imprecare furiosamente contro il bottaio responsabile della falla. «Guarda qua!», disse, indicando la pozza rossa sotto il barile. «Qualche figlio di un'asina bastarda ha usato legno fresco, e quello si è ritirato prima che ci mettessimo dentro il vino! Dannazione! Che i Demoni dell'Inferno se lo portino via!» Guardò Paxe e le sorrise. «Maestro della Piazza. Cosa t'ha spinto fin qui... la sete?» «No. C'è qualcuno che possa sostituirti per un po'?» «Certo!» Andò a chiamare il suo vice, al quale diede alcune brevi istruzioni. «Andiamo. Sono curiosa come una vergine in un'orgia». Paxe rise e la condusse alla Coppa. Il personale nella cucina della locanda riconobbe le due donne. A Paxe fu servito del vino esonerandola dal pagarlo. Jenith ordinò dell'acqua. «Non bevi?», le chiese Paxe. «Cea, non devo! Le esalazioni di quel deposito mi fanno tornare a casa barcollando. Dimmi come stai! Ci vediamo troppo poco: tu sei una donna con molti impegni. Kaleb lavora ancora per la Piazza d'Armi dei Med? Un uomo adorabile!» Sorrise. «Come sta tuo figlio?» «È nei vigneti,» disse Paxe. Bevve un sorso di vino. «È andato a lavorare!» «Bene. Anche le mie figlie sono là. Ho detto loro che potranno tornare in città soltanto quando avranno denaro a sufficienza da non chiederne a me per un anno intero». Le figlie di Jenith erano nate quasi nello stesso periodo in cui erano nati i figli di Paxe. Questa rammentò i quattro bambini, e li rivide giocare in-
sieme nel cortile del casale. «Stanno bene?» «Abbastanza,» rispose Jenith. «Cosa posso fare per te, Paxe?» «Non per me,» la corresse il Maestro della Piazza. «Per Arré Med. Jen, sei ancora capace di sparire tra le vie della città?» Jenith sorrise. «È un pezzo che non lo faccio. Ma suppongo di sì.» Era un'Asech, ed era stata allevata nel deserto fino all'età di dodici anni. «Perché?» «Arré Med ha bisogno del tuo talento. È disposta a pagarti il doppio di quanto guadagni al magazzino se seguirai una certa persona e riferirai a lei tutti i suoi movimenti». «Per il doppio della mia paga sarei disposta a spogliarmi ed a ballare nuda in un nido di serpenti,» disse Jenith. «Chi devo pedinare?» «Kim Batto». Jenith contrasse le labbra, ma non domandò perché. Bevve l'acqua, celando il volto dietro la coppa. Mentre metteva giù il grosso boccale d'argilla, disse: «D'accordo! Per un po' sarà Shem ad occuparsi del deposito. Quanto durerà il mio lavoro? Posso farmi aiutare da qualcuno se ne avrò bisogno?» «Puoi prendere l'aiuto che vuoi, ma sarai tu a pagare,» disse Paxe. «Quanto alla durata...» Aggrottò le ciglia. Non aveva avuto istruzioni in merito. «Non oltre l'inizio del Festival,» decise. «Quando devo cominciare?» «Al più presto. Riferisci tutto ad Arré Med ogni tre giorni, a meno che non sia lei a stabilire diversamente». Jenith annuì. Si accostò quindi a Paxe e, abbassando la voce, le chiese: «Cosa ha detto ieri il L'ehl ad Arré a proposito delle spade?» «Non lo so,» rispose Paxe. «Non me l'ha detto». Jenith disegnò con un dito un piccolo cerchio sul tavolo. «La gente per strada dice che il Tanjo sopprimerà il Bando, e che il Clan Rosso tornerà». Paxe sollevò la coppa. «Io non ne so niente,» disse, mentendo. Anche Sorren aveva detto la stessa cosa. E se fosse vero? pensò. Una scintilla d'ira si accese in lei al pensiero di Tyré, esiliato dalla sua città, contrario ad insegnare un'Arte menomata nella sua essenza, nemico dei Maghi, nemico del Bando. «E c'è dell'altro,» soggiunse Jenith. Il timbro della sua voce si fece ancora più fievole. «Si dice che nella Piazza d'Armi degli Ismenin i soldati si stiano addestrando ad usare la spada! Ne ho chiesto conferma ad una delle loro Guardie e mi ha detto che è una menzogna. Però hanno messo una
sentinella al cancello, e nessuno può più sbirciare nel recinto. Pensi che potrebbe essere vero?» Paxe fu tentata di dirle: Sì, è vero. Ma qualcosa, probabilmente un senso di lealtà nei confronti di Dobrin, la trattenne dal farlo. Si domandò quanto tempo ancora mancava perché la voce facesse il giro della città. Perché pensò, Jerrin-no-Dovria da Elath non aveva bandito immediatamente le spade e lama corta? Forse lo avrebbe fatto di lì a poco; forse il Clan Bianco stava aspettando che fosse il Consiglio ad agire. Desiderò che Arré le avesse detto qualcosa. Jenith la stava osservando, gli occhi animati dall'impazienza. Paxe scrollò la testa. «Non so niente di tutto questo, Jen». Paxe decise di tornarsene a casa, a dormire. Forse il sonno avrebbe calmato quell'emicrania che le tormentava la fronte come un carbone ardente. Mentre passava dinanzi al cancello della Piazza d'Armi, vi lanciò un'occhiata per vedere chi vi fosse dentro. Uno sconosciuto stava inginocchiato accanto alla porta dell'armeria... Dev'essere il fabbro, pensò. Ma, rammentando Seth, attraversò lo spiazzo per accertarsene. Era un piccoletto con dei ciuffi di capelli neri che spuntavano fuori dalla testa ciascuno per conto proprio. Lo facevano apparire come uno che avesse la rogna. Alla vista di Paxe che lo osservava dall'alto della sua statura, si rimise rispettosamente in piedi. La vecchia serratura stava sul terreno. «Continua il tuo lavoro,» gli disse. «Se il Comandante della Guardia non sarà ancora tornato quando avrai finito, consegna la chiave alla Guardia al cancello.» Il piccoletto le rivolse un inchino. Paxe attraversò la Piazza d'Armi, consapevole che i suoi soldati avevano rallentato il passo per guardarla. Si domandò che aspetto avesse. Un rumore dalla strada la fece girare di scatto; era il suono di campanelli frammisto alla cantilena caratteristica dei portatori di lettighe. Raggiunse un angolo del recinto in tempo per scorgere una portantina vuota svanire giù per il declivio della collina. Si avvicinò al soldato di turno al cancello. «Chi c'era in quella lettiga?», gli domandò. «La Signora Marti Hok, Maestro della Piazza». Paxe annuì. Era logico, pensò, che Arré avrebbe chiamato Marti per consigliarsi con lei. Andò a casa. I muscoli le dolevano. Il gatto miagolò strusciandosi sulle sue caviglie: lo sollevò dal pavimento e prese a strofinargli il pelo sotto il mento finché non cominciò a far le fusa disteso tra le sue mani, fluido come cera, con le zampe all'aria. Il corpo della bestiola vibrava di piacere. «Su, micetto,» gli disse mentre lo posava sul pavimen-
to. Il gattino occhieggiò verso di lei con l'unico occhio che aveva e sbadigliò. «Andiamo a dormire,» La bestiola si leccò una zampa e poi, sventolando la coda come una bandiera, si arrampicò sulle scale dietro di lei, seguendola in camera da letto. Capitolo dodicesimo «Non fare nulla,» ripeté Marti Hok. «Che consiglio interessante!» Era seduta con Arré nello studio fragrante e luminoso. Tutte le finestre erano aperte ed il profumo dei fiori si levava dal giardino sottostante effondendosi nella piccola stanza. Nel biglietto che aveva mandato a Marti, Arré aveva scritto: «Vieni più presto che puoi.» E Marti aveva preso quell'invito alla lettera disdicendo altri due appuntamenti per recarsi alla casa dei Med. Avevano fatto colazione insieme nella saletta ed Arré le aveva fatto un resoconto dettagliato della sua conversazione al Tanjo. Adesso l'anziana Hok era seduta su una sedia foderata di cuscini, e stava centellinando un tè alla rosa in una tazza di ceramica verdina. «Cosicché Jerrin-no-Dovria di Elath pensa che io sia troppo vecchia per contare qualcosa?», disse. «E che Boras sia troppo stupido,» aggiunse Arré. Marti aggrottò le ciglia. «Beh, io sono vecchia, e Boras è stupido, ma non tanto da non riuscire a discernere una minaccia quando ce la troviamo di fronte.» L'espressione del suo volto si inacidì. «Puh! "Non fare nulla". Al Clan Bianco piacerebbe.» Sotto le palpebre giallastre gli occhi la guardavano con durezza, con la stessa durezza che Arré aveva scorto in quelli di Senta-no-Jorith. La voce, poi, era stridula per la rabbia ed il disprezzo. «Ci considerano tanto stupidi, Arré!» Questa sorrise. Marti produceva un effetto tonificante, come un tuffo nella piscina fredda dopo aver fatto la sauna nei bagni pubblici. «Grazie per essere venuta così in fretta,» le disse. «La tua lettera diceva che era "Importante",» fece Marti. Si guardò intorno. «Ti ho mai detto quanto mi piace questa stanza? Anche tua madre la usava come studio. Sul pavimento aveva un tappeto giallo». «È vero,» confermò Arré, «è nella mia camera da Ietto». «Te la ricordi?» «Sì,» disse Arré. Marti sorrise. «Io voglio che i miei figli si ricordino di me. La vecchia signora - già li sento dure - la vecchia signora non lo avrebbe fatto. A vol-
te mi chiamano così quando pensano che non stia ascoltando: "La vecchia signora non lo farebbe, e non lo lascerebbe fare neppure a te!" Eh, sì.» Adagiò le spalle sullo schienale. La parte interna delle tazze da tè era decorata con pesciolini blu e rossi. La vista dei pesci rammentò ad Arré il Tanjo. Aveva raccontato ogni cosa a Marti, ad eccezione delle parole con le quali la Maga della Verità si era accomiatata da lei. Quelle parole l'avevano spaventata. Ma non avevano nulla a che fare con le spade, né con gli Ismenin e, oltretutto, neppure sapeva se fossero veritiere. I Maghi della Verità non mentivano, almeno così si diceva. Ma si diceva pure che il L'hel fosse un uomo onesto. Se crede di spaventarmi per mezzo di quella Maga addomesticata, resterà deluso, pensò Arré. «Bene,» disse Marti, «Come vogliamo affrontare questa assurda faccenda, Arré? Non facciamo nulla, e lasciamo la città nelle mani del Clan Bianco?» «No,» disse Arré fermamente, «questo no». Sorren aveva riempito di lillà un alto vaso che aveva poggiato sul tavolino laccato prima di uscire per le compere. I vividi germogli azzurrini sì riflettevano, al pari del vaso vermiglio, nel nero della lacca. I colori dei Med, pensò Arré. Toccò i petali di un fiore. Così era prima dell'avvento del Consiglio, pensò, una sola Famiglia governava la città. «Pensi che dovremmo coinvolgere anche Boras Sul in questa discussione?», disse. Dopotutto stava dalla loro parte. Marti inarcò le sopracciglia. «Vorresti davvero che Boras fosse qui?», disse. «Non farebbe altro che agitarsi, mormorare, addormentarsi e rimanere scioccato ad ogni parola senza suggerire una sola idea degna di considerazione - anzi, credo proprio che ormai ne sia rimasto del tutto privo oppure, se qualche idea gli è rimasta, riguarda soltanto il cibo. No, Arré, non credo che dovremmo chiamarlo». Arré sorrise. «Potremmo chiamare Meredith Jalar ed Elith Isara». «Non fanno parte del Consiglio». «Già,» disse Arré. «È pur vero che la Famiglia Batto è vecchia quanto quella dei Med e quasi più di quella degli Hok, ciò non di meno preferirei avere Meredith Jalar al Consiglio piuttosto che Kim Batto». «Oh, sono d'accordo,» convenne Marti. «Credo che Kim ci resterà molto male quando tutto questo sarà finito. Sono d'accordo con te; deve senz'altro fungere da tramite fra il Tanjo e gli Ismenin. Pomposo com'è, dovrà ritenersi fortunato se uscirà da questa situazione tutto intero. Ma Kim è
soltanto un piccolo, piccolissimo problema.» Le sue mani restarono sospese a mezz'aria. «Ne abbiamo due molto più grossi. Ron Ismenin e le spade sono il primo. Le ambizioni del Clan Bianco sono il secondo. Ciascuno dei due è convinto di usare l'altro per ottenere ciò che vuole. Immagina una matassa di lana. Ha due capi, ma un corpo solo. Se tiriamo l'uno o l'altro capo, la matassa si scioglie. Ciò che dobbiamo decidere è quale bandolo vogliamo tirare». «Oh, se fossi stata con me al Tanjo!», sospirò Arré. Marti continuò a centellinare il tè. «Sono sicura che non avrei fatto meglio di te. Arré, non sottovalutare le forze, e non sopravvalutare quelle altrui. Anche loro devono essere vulnerabili: lo siamo tutti. Io, per esempio, vado soggetta ai colpi di freddo». Arré cominciò a ridere. «Marti, sei unica». «Lo spero proprio,» disse l'anziana donna. «Ora che ti ho fatto ridere, vogliamo proseguire con questo Consiglio a due? Tu hai avuto il tempo per riflettere su tutta la faccenda. Dimmi quali sono le tue considerazioni». «Bene,» cominciò Arré, «innanzitutto ho valutato l'eventualità di dare al L'hel ciò che vuole». «Un voto nel Consiglio». «Sì. Ma dovremo stabilire che il membro del Clan Bianco non deve essere un Mago della Verità». «E come faresti a sapere di quale talento sia dotato il candidato?» «Potremmo chiedere una dimostrazione,» disse Arré. «I Maghi possiedono un solo talento». «Chi te lo ha detto?» «Il L'hel... ma credo che sia vero». «Non ha importanza,» tagliò corto Marti. «Non possiamo cedere alle richieste del Clan Bianco. Se concediamo loro il voto perché ci hanno costretti a farlo, il nostro potere diventa trascurabile; ci mostreremmo come un corpo inutile ed impotente e, prima o poi, qualcuno ci annienterebbe del tutto.» Accompagnò le parole con un gesto eloquente. «Forse ciò incombe già su di noi,» osservò Arré. «Non credo. Ma è certamente la base sulla quale il L'hel poggia la sua minaccia: mediante il silenzio permetterà a Ron Ismenin di fare ciò che desidera, indipendentemente da ciò che il Consiglio voglia o decida. Vogliamo provare ad affrontare il problema tirando l'altro capo della matassa? Forse si dimostrerà più facile. Quante spade ci sono adesso in città?» «Ne abbiamo sequestrate trentacinque alle Porte, e adesso sono custodite
nei Corpi di Guardia,» disse Arré. «Quanto alle altre... non ho idea di quante ne siano state introdotte prima che cominciassimo i controlli, tuttavia presumo che la maggior parte delle spade in circolazione dopo l'inizio delle perquisizioni si trovino in mano nostra». «Ron Ismenin ha le spade sfuggite ai controlli,» sentenziò Marti. «Credi che siano sufficienti ad equipaggiare una guarnigione?» «Potrebbero esserlo. Ho già pensato a questa possibilità». La vecchia le lanciò un'occhiata maliziosa. «È per questo che hai fatto ordinare dei seji la settimana scorsa?» Arré sorrise. «Cosa ne sai tu?» «Nulla resta un segreto in questa città,» disse Marti. Guardò crucciata il fondo della tazza. «Che beneficio può portare a Ron Ismenin la creazione di un esercito? Questa città ha troppi abitanti per poter essere governata con la legge marziale». «Vuoi dell'altro tè?», chiese Arré. Allungò quindi una mano per suonare il campanello che avrebbe fatto accorrere Lalith. «No,» disse Marti. «Perché i pesci in questa tazza sono rossi e blu?» «Perché il rosso ed il blu sono i colori dei Med,» disse Arré. «Ne ho sei come quella». «Ma io non ho mai visto un pesce blu,» obiettò la vecchia. «Neppure io. Forse il vasaio che l'ha modellata ne aveva visti». «Hmm...» Marti considerò la cosa. «Io credo piuttosto che abbia dato sfogo alla sua capacità inventiva. A proposito, mi fa piacere che tu abbia incaricato il tuo Maestro della Piazza di mettere qualcuno alle calcagna di Kim. Ecco, questa è stata una mossa che dimostra la tua inventiva». «Non è stata un'idea mia,» disse Arré. «Ron Ismenin ci ha pensato per primo. Ha mandato un piccolo pezzente a pedinare Paxe». «Dubito che sia stata un'idea di Ron Ismenin,» disse Marti lentamente. «Oh?» «Credo piuttosto che sia opera di tuo fratello.» La voce di Marti era calma e sicura. «Isak è amico di Ron. Sono anni che lo osservo. Tuo fratello è un predatore. Cha Minto è un uomo educato e discreto - qual è la parola che ha usato il L'hel? Ah, sì, docile: Cha è docile, e tuo fratello l'ha preso in trappola. Li ho visti insieme alla riunione del Consiglio. Ti sembrava che Cha fosse felice? Non lo era affatto; era adirato e terrorizzato al tempo stesso, incapace di trovare una scappatoia per liberarsi dalla trappola. Sono molto addolorata per Cha». Tuo fratello è un predatore... Arré rabbrividì a quelle parole. «Anche a
me dispiace,» disse. Rammentò Isak nel ruolo dell'Aquila Ammaliata, gli occhi sfavillanti di passione ferina. Cosa è accaduto al mio fratellino? pensò Arré con tristezza. «Non fare niente per Isak». «È il tuo erede, vero?», le domandò Marti. «Sì,» confermò Arré, «e, dopo di lui, i suoi figli. Ne ha tre; il più grande è Riat, che ha otto anni». «A chi somiglia, al padre o alla madre?» «Somiglia a suo padre, ma ha la sensibilità e la dolcezza della madre». «È una Ishem, non è così?», disse Marti. «Ottima scelta». Affondò nuovamente lo sguardo nella tazza. «Adesso gradirei un altro po' di tè, Arré». Arré suonò il campanello e Lalith entrò nella stanza. Chinandosi, prese a Marti la tazza e gliela restituì colma. «Portarmi del vino,» ordinò Arré. E, quando questo le fu versato, lo tracannò in una lunga sorsata. «Cosa ne pensi del fidanzamento del giovane Ismenin?», disse Marti. «Stavo appunto per farti la stessa domanda.» Il vino le riscaldò lo stomaco. Bevve ancora. «Tu sai, naturalmente,» disse Marti, «che Col Ismenin cederà il suo nome e che Nathis Ryth è la figlia del Capo del Consiglio di Nuath, l'uomo il cui volto è inciso sulle monete di bronzo». Questo le giungeva nuovo. «Non lo sapevo,» ammise Arré. «Ho fatto qualche domanda su di lui ai miei capocarovanieri,» spiegò Marti. «Mi hanno detto che possiede un esercito privato. Inoltre pare che le sue monete siano accettate nella maggior parte delle città lungo il fiume». «Cosa fa col suo esercito?», chiese Arré. «Niente. È piccolissimo. Però ladri e truffatori stanno alla larga da Nuath: preferisco morire di fame piuttosto che finire nelle mani dei soldati di Ryth. Dicono che sono particolarmente efficienti». «Lo sono anche le nostre Guardie Cittadine.» Arré fece roteare i braccialetti intorno ai polsi. «E Kendra-sul-Delta non ha bisogno di un esercito privato, malgrado ciò che accade a monte del fiume. Se Ron Ismenin pensa il contrario, si sbaglia. Forse lui dovrebbe andare a vivere a Nuath, e diventare un Ryth.» Un pensiero le balenò nella mente. «Questo barbaro del Clan Blu parteciperà alla festa di fidanzamento?» «Immagino di sì,» disse Marti. «Desideri parlare con lui del comportamento dei suoi futuri parenti? Io ci sarò con aria minacciosa». Arré sorrise. «Non ci posso andare,» disse. «Non sono stata invitata».
Marti afferrò l'impugnatura del bastone con tutte e due le mani. «Cosa? È ridicolo. Isak danzerà...» «Oh, lo so,» disse Arré. «E Sorren suonerà per lui. I miei servi sono più richiesti di me; come ti ho detto prima.» Il vino le ardeva nello stomaco. L'ira disegnata sul volto di Marti le fece venir voglia di ridere. Marti picchiò sul pavimento con la punta del bastone. «Tu ci andrai!» «Ci andrò?» «Naturalmente! Non riesci a immaginare quanto sembrerà stupido Ron Ismenin? Già me lo figuro sulla porta di casa a crepare dalla rabbia perché non potrà mandarti via». Arré fece appello alla sua immaginazione. «No.» Cominciò a sorridere. «Marti, sei un demonio!» E cosa avrebbe fatto Isak quando l'avrebbe vista arrivare alla festa? «Ci andrò!», concluse poi. Marti assunse un'aria soddisfatta. «Sicché Sorren suonerà. Faranno il pezzo del Corteggiamento, naturalmente. È una cara ragazza, Arré; gentile, incantevole, ha tutto ciò che si può desiderare in una persona». «Lo so,» convenne Arré. «Non ne sarei più orgogliosa anche se fosse mia figlia.» Le parole parvero indugiare nell'aria come fumo. Marti sospirò. «Le spade, Arré.» La sua voce tornò seria. «Le spade, e le ambizioni degli Ismenin... Come vogliamo muoverci? Hai già un piano? Devo confessarti che non ho alcun consiglio da darti». «Avrei qualcosa in mente,» disse Arré. Si domandò cosa avrebbe pensato Marti se le avesse parlato di quei tempi futuri che i Veggenti del Tanjo avevano "visto", quei tempi nei quali tutti gli eventi erano in contraddizione l'uno con l'altro eppure, in qualche modo, esistevano sì da poter essere "visti". Quale sarà quello vero? pensò. Quello in cui gli abitanti della città si faranno guerra nelle strade? Quello in cui il Consiglio bandirà il kymos? Quello in cui la città brucia? O un altro ancora? All'avvento di quale futuro contribuiranno le mie azioni? Non aveva importanza. Toccò un fiore con la punta delle dita. Un petalo si staccò e le cadde in grembo. «Il mio piano,» disse, «servirà - o almeno lo spero - a far fallire qualsiasi azione Ron Ismenin conti di intraprendere per mezzo delle spade che ha nascoste. Potrebbe essere pericoloso ma, se funzionerà, ci assicurerà due cose. Una: che i suoi piani falliranno, e con essi il male che ne deriverebbe. Due: che, attraverso le sue azioni, Ron condannerà se stesso in maniera tale che il L'hel non potrà sostenerlo». «Marti incrociò le mani in grembo. «Dimmi!», la esortò.
Quel pomeriggio, quando Sorren tornò dal mercato, trovò Elith che urlava, Lalith in lacrime, ed Arré irascibile, ubriaca ed insonnolita. «Cosa è successo?», chiese alla vecchia nel corridoio. Ma Elith, il volto in fiamme, era troppo occupata a rampognare Lalith. Sorren distinse il nome di Arré nella tirata di accuse e, con passi cauti, andò nello studio. Vi trovò due caraffe vuote sul tavolino laccato. Annusò ed aggricciò il naso all'odore. Arré stava seduta, l'espressione corrucciata, i capelli in gran disordine. «Cosa è successo?», disse Sorren. Non l'aveva mai vista star bene tanto da superare la soglia dell'allegrezza. «Niente,» rispose Arré. Elith apparve sulla porta. «Basta!», disse, agitando l'indice contro Arré. A Sorren ricordò una gallina con le penne arruffate per la stizza. «Berrò ancora se ne avrò voglia!», replicò Arré tra un singhiozzo e l'altro. «Perché vuoi ubriacarti?» disse Sorren. Ma Arré si limitò a puntare il mento con aria di minaccia somigliando moltissimo ad un bambino cocciuto. «Esco di casa per qualche ora,» disse Elith, «soltanto per qualche oretta, e guarda cosa trovo quando rientro!» Sorren si avvicinò alla vecchia. Promanava da lei un profumo di gelsomino; doveva essere andata a trovare la sua amica, la saponaia. «Perché sei così arrabbiata?», le chiese. Elith tirò su col naso. «Nessuno mi dà ascolto.» La sua voce ritrovò pian piano il piagnucolio abituale. «Non voglio sentirla,» disse Arré. Singhiozzò di nuovo e si leccò le labbra. Parlava lentamente, quasi fosse in uno stato stuporoso. «Ho sete». «Non puoi più averne», disse Elith. Arré sollevò una mano e lanciò in aria il bicchiere. Questo rimbalzò contro la parete lacerando il rivestimento per poi frantumarsi sul pavimento. Sorren andò in cucina. Prese una brocca ed un boccale poi, riempita la brocca d'acqua, pose entrambi su un vassoio. Lalith stava seduta sui gradini, piangendo e soffiandosi il naso con una pezzuola. Segni colorati le striavano le gote. «Lalli, perché le hai dato tutto quel vino?», le chiese Sorren. «Me lo ha chiesto! Cos'altro potevo fare?» «Niente,» convenne Sorren. Si domandò se Arré avesse bevuto tanto da
star male. Sperò che si sarebbe ripresa. «Ha rotto un bicchiere,» disse. «Sarà meglio che venga a pulire». Sollevò il vassoio con tutte e due le mani e lo portò nello studio. Elith era ancora nel vano della porta; Sorren dovette premersi contro di lei per passare. Depose il vassoio sul tavolo, versò l'acqua, e porse il boccale ad Arré. La donna bevve con avidità. Il suo viso era scarlatto. «Bene!», sussurrò. Si accasciò poi sulla sedia e chiuse gli occhi. Sorren si sedette sullo sgabello. Lalith entrò nella stanza con una scopa ed uno strofinaccio umido. «Non vorresti andare a letto?», disse piano Sorren. Non vi fu risposta. «Lalli, vai a chiamare il cuoco». «Lo sapevo che sarebbe andata a finire così!», mormorò Elith dalla porta. Sorren sentì la collera crescere dentro di lei. «Invece di star lì a dire "te l'avevo detto", perché non vai a preparare il letto?» Ma Elith mormorò qualcosa tra i denti e si rifiutò di muoversi. Il cuoco lanciò un'occhiata nella stanza. «Cosa succede?», chiese, contorcendo la faccia in una smorfia. «Oh!» Si accostò ad Arré e, con un piccolo movimento abile e delicato, le sollevò le palpebre chiuse. Arré aprì la bocca respirando pesantemente, ma non accennò a muoversi. «Tu sollevale i piedi,» disse il cuoco a Sorren. Quindi si chinò ed infilò le lunghe braccia sotto le spalle di Arré. Sorreggendola con cautela, la trasportarono fuori dello studio e su per le scale. Sorren riempì un bacinella con dell'acqua fresca e la portò accanto al letto. Si chiese cosa avesse spinto Arré a bere così tanto. Tamponò con una pezzuola bagnata il viso di Arré, secco e squamoso. Adesso il suo respiro si era fatto più rumoroso, e l'alito era dolciastro come latte fresco. Sorren fu scossa da un brivido improvviso, e la pezzuola le cadde dalle mani. Arré era spesso stanca, ma non si era mai ammalata. E se una malattia l'avesse colpita: una febbre, la polmonite?» E se si fosse ammalata tanto gravemente da morire? Sorren depose a terra la bacinella e, con un balzo, raggiunse la porta. Arré mormorò qualcosa ed allungò una mano nell'aria. Sorren tornò presso il letto. «Arré?», la chiamò. «Uh,» mormorò quella, dischiudendo un occhio. «Sorren. Non te ne andare». La ragazza si rimise a sedere. «Come ti senti?» le chiese. «Ho sete».
Quella sera Paxe si recò alla casa dei Med. Il sole era appena tramontato. Lalith la condusse al piano di sopra. Aveva gli stivali con i tacchi di legno che la facevano apparire più alta di quanto già non fosse. Sorren fu felice di vederla. Arré era sveglia; aveva alternato il sonno alla veglia per tutto il pomeriggio. Adesso era seduta, la schiena appoggiata ai cuscini. Aprì gli occhi non appena Paxe si fu seduta. «Ah, sei tu!» A fatica raddrizzò la schiena. «Hai... hai portato i seji?» «Non potrò averli prima di altri dieci giorni,» disse Paxe. «Va bene?» «Se non si può far di meglio,» disse Arré. «E la spia?» Quale spia? pensò Sorren, e si avvicinò di un passo al letto. «Si chiama Jenith. Lavorava nei vigneti». Arré si leccò le labbra, «Ho sete!», mormorò. La brocca ed il boccale erano ai piedi di Paxe. Questa si chinò, verso l'acqua e accostò il bicchiere alla bocca di Arré. La donna ingoiò febbrilmente e, quando ebbe finito, lascio ricadere la testa sul guanciale. Guardò quindi Sorren. «Rinfrescami». La ragazza si inginocchiò, immerse la pezzuola nella bacinella e poi l'appoggiò con delicatezza sulla fronte di Arré. L'acqua le colò lungo il collo. «Cosa dicono in città a proposito delle spade?» «Non se ne parla molto». «E di Ron Ismenin?» «Corre voce che nella Piazza d'Armi degli Ismenin i soldati vengano addestrati a combattere con la spada. Ma la Piazza d'Armi lo nega». Arré annuì. La pezzuola scivolò giù dalla fronte, e Paxe la recuperò. Lei stessa la immerse nell'acqua fresca e la riadagiò gentilmente sulla fronte di Arré. «Naturalmente!», osservò questa. «Devono negarlo. Ron Ismenin è molto prudente. Non intende allarmare la gente o destare il sospetto che stia compiendo azioni contrarie al cea. La prossima volta che qualcuno ti farà qualche domanda, di' pure quello che sai. Però dirai che lo hai sentito da altri. Di' pure che gli Ismenin stanno insegnando l'uso della spada corta, il kymos». «Davvero?», sbottò Sorren. Era la prima volta che sentiva una cosa del genere. Paxe non le aveva detto niente al riguardo». «Sì,» disse Arré. «Isak lo sa?» Arré sorrise. «Isak sa tutto. È amico di Ron Ismenin». Facili lacrime da
ubriaca le velarono improvvisamente gli occhi. «Il mio fratellino! Re. Mi chiamava Re. Potrai dire che il Tanjo non approva questo ma sta aspettando che il Consiglio si riunisca tra due mesi giacché, in occasione della prossima assemblea, il Bando sarà esteso alle spade a lama corta. Sottolineerai quanto sia fortunato Ron Ismenin per il fatto che le esercitazioni con la spada corta non siano state dichiarate ni'cea». Agitò in aria le mani. «Dillo a tutti. Che tutta la città sappia!» Paxe le prese le mani tenendogliele con delicatezza. «Arré, è vero?», disse. «Ha importanza? La gente ci crederà comunque». «Voglio sapere,» insisté Paxe. «Una parte corrisponde a verità,» disse Arré. «Può bastare, non credi, Paxe? Ron Ismenin sarà convinto di sapere quanto di tutto ciò sia vero e quanto non lo sia, ma la cosa lo renderà molto infelice, brucerà, fremerà, sarà roso dai dubbi in cuor suo, finché non saprà più a cosa o a chi credere...» Un singhiozzo interruppe la tirata. «Mi gira la testa». «Arré, cosa t'ha detto il L'hel a proposito delle spade?», le domandò Paxe all'improvviso. Arré scrollò la testa. La pezzuola cadde sulla coperta. «Oh, no...», mormorò, «non mi farai cadere in trappola così.» Chiuse gli occhi, sospirò, e sembrò che si fosse addormentata. Paxe si alzò, con negli occhi un'espressione preoccupata. «È stata così per tutto il giorno?» «Da quando sono tornata dal mercato. Ho trovato Elith che sbraitava contro Lalli, e lei ubriaca nel suo studio. Ha bevuto due caraffe di vino». Paxe aggrottò le ciglia. «Non dovrebbe bere. E lei lo sa.» Posò la mano sulla guancia di Arré. Questa rimase immobile. Pur senza volerlo, Sorren cercò la mano della sua amante. «Sta molto male?», disse. Le parole le straziarono la gola. «Non tanto da morire,» disse Paxe. Col braccio cinse il corpo di Sorren, abbracciandola con dolcezza. «Non ti preoccupare, chelito». Passi pesanti ed un respiro roco provenienti dal corridoio, le sorpresero abbracciate, e le due donne si separarono quando Elith si affacciò alla porta. «Come sta?», domandò la vecchia. «Si è addormentata,» disse Paxe. «È così che se ne andò sua madre,» rammentò Elith. Quelle parole raggelarono Sorren fin dentro le ossa. «Shana Med morì durante la peste!», obiettò Paxe.
«Eh, sì: ma fu questo che la uccise, come aveva ucciso sua madre prima di lei,» sentenziò Elith. La voce della vecchia assunse il tono d'un lamento funebre. «Io ho accudito tre generazioni di Med, e so bene qual è il punto debole della loro razza. Me lo disse la Guaritrice. È un morbo che fiacca i muscoli, secca la bocca e addolcisce l'alito. Arré ha quel morbo, come lo ebbe sua madre, e come lo avrebbero avuto i suoi figli, se ne avesse generato.» Riprese fiato. «Io l'ho visto; lo conosco». «Basta,» disse Paxe. Con due passi fu alla porta, afferrò la vecchia per le spalle a la spinse fuori nel corridoio. Poi tornò al capezzale di Arré. Si chinò su di lei e le sentì la fronte. «Elith è una vecchia cornacchia,» disse. «Arré non ha quella malattia. Ma va tenuta sotto controllo». Sorren inghiottì. «Resterò io con lei». «Se avrai bisogno d'aiuto, lascia un messaggio alla Guardia al cancello. Lui sa come rintracciarmi». «D'accordo,» disse Sorren. Quando Paxe se ne fu andata, Sorren andò in camera sua. Equipaggiata di coperta e guanciali fece ritorno nella stanza di Arré. La fiamma della candela tremolava sulle forme minute della dormiente. Sorren non voleva che Arré morisse. Si sedette accanto al letto, ascoltando il suo respiro regolare, ed una marea di pensieri infuriò nella sua testa. Forse la malattia di Arré aveva un significato per lei, forse sarebbe cessata se fosse andata al Tanjo, se avesse rivelato il suo talento, rinunziando ai suoi sogni e diventando una Maga... Ma sapeva far di meglio. Non poteva mercanteggiare col cea. Era così che aveva detto a Kadra. Arré dormì per due giorni. Sorren rimase al suo capezzale più che poté. Lalith si occupò della spesa; Toli delle pulizie. Alle Guardie fu detto semplicemente che Arré era indisposta, e che non riceveva visite. Paxe saliva a vederla ogni due o tre ore. Diceva soltanto che, se il ritmo della sua respirazione non cambiava, né mutava la sua temperatura, allora bisognava lasciarla riposare ed aspettare che si ridestasse da sola. E se non si fosse più svegliata? Questo pensiero angosciava Sorren, ma la ragazza non manifestava i suoi timori. Parlarne, li avrebbe resi troppo reali. Il secondo giorno, Jenith fu tra i visitatori. Sorren non la conosceva, ma ne ricordò il nome. Lei stessa andò al cancello a parlare. «Mi spiace,» le disse, «ma Arré Med non può riceverti adesso. Puoi tornare un'altra volta?»
«Tornerò,» promise la donna bruna. Da lei promanava un odore di vino e d'Erba dell'Estasi. «Non dimenticarti di dirle che sono venuta». Il terzo giorno, al mattino, Arré si svegliò. Era molto debole; Sorren dovette aiutarla a raggiungere il vaso da camera. Non voleva credere in alcun modo che avesse dormito tutto quel tempo. «Due giorni e due notti? Non è possibile.» Ma le lenzuola zuppe di sudore contribuirono a convincerla. «Voglio fare un bagno, e voglio far colazione!», disse. Annusò intorno. «Per il Guardiano! Apri la finestra!» Sorren scostò i paraventi. «Temevo che ti raffreddassi,» spiegò. Arré guardò il mucchio di coperte sul pavimento. «Chi c'è stato qui? Tu?» Sorren annuì. Arré le toccò un braccio. «Grazie, piccola. Ti ho spaventato, vero? Ho spaventato anche me.» Si passò le mani tra i capelli. «Puh! Sono vuota come un boccale vuoto, e puzzo peggio di una capra». Dopo un bagno caldo, insisté per scendere nello studio. «Ho del lavoro da sbrigare. Chi è venuto mentre dormivo?» «Jenith,» la informò Sorren. «Jenith... ah, la spia. Quando ritornerà?» Sorren alzò le spalle. «Perché non te lo sei fatto dire?» Quasi volesse compensare i due giorni di silenzio, Arré era irritata come un'ape intrappolata. Quando infine Sorren fu libera, andò dal cuoco e gli disse: «Io vado a fare la spesa. Di' a Lalith di rispondere al campanello.» Era il quarto giorno della settimana e voleva andare da Kadra. Fece le compere in fretta, augurandosi che il ghya fosse ancora a casa... In caso contrario sarebbe andata a cercarlo alla darsena. Ma Kadra era li, seduta nella stalla delle capre con la mappa in grembo. «Sei in ritardo,» osservò. «Arré aveva bisogno di me». «Huh!» il ghya tossì. «Prendi!» Pose la mappa tra le mani di Sorren. «Ti ho segnato il percorso. I cerchietti indicano i villaggi. Le croci blu indicano i punti in cui sostano i mercanti. Potresti trovare qualche commerciante gentile che ti dia un passaggio a bordo d'un carro. Il segno rosso, quello più grande, sta su Elath, la Città dei Maghi. La via più breve ti condurrà sulla riva orientale del Lago Aruna, che arriva fin sotto le mura della città di Tezera. Sono pochi i mercanti che viaggiano da Tezera alle Rocche ma, se ci sai fare, potresti convincere uno di loro a portarti fino a Tornor. Altrimenti, dovrai proseguire a piedi, o comprare un mulo. La terra è paludosa là dove si incontrano i fiumi».
Kandra elencò i nomi dei villaggi. «Terzi, Mahita, Elath, Shonet, Sharon: e questa è la regione di Galbareth, Nuath...» «Fermati!», disse Sorren. Quella litania di nomi le faceva girare la testa. «Vai più adagio.» Kadra elencò i nomi più lentamente e Sorren li ripeté dopo di lei, indicando sulla carta il cerchietto corrispondente. «Riconoscerai Mahita perché è più grande degli altri e sorge su entrambe le rive del fiume, unite tra loro da un ponte. A Shonet vedrai grandi estensioni di Erba dell'Estasi, e ne sentirai il profumo a metà giornata di cammino dalla città.» L'alito avvinazzato era tiepido sulla guancia di Sorren. «Quando si passa per Shonet non si cavalca, si galleggia su quel mare di profumo.» Un accesso di tosse la costrinse ad interrompersi. La faccia le si fece vermiglia, e con gli avambracci si compresse lo stomaco. «Vuoi un po' d'acqua?», disse Sorren, accennando ad alzarsi. Una botte colma d'acqua stava accanto alla casa. «No, sta' seduta,» disse il ghya con voce roca. Dopo un po', gli spasmi si attenuarono e riprese a parlare. «Vicino alla strada di Tezera ci sono molte taverne. Non avrai problemi a trovare il cibo. Dopo Nuath,» indicò un punto sulla mappa, «viene Yfarra. Ci abita la gente del fiume. Seguono Morriton, Septh e Kup-sulla-Palude. Poi c'è Tezera». Sorren ripeté i nomi. «Hai una buona memoria,» osservò Kadra. «Grazie,» disse Sorren. China sulla mappa ripeté i nomi tra sé, cercando di fissarli bene in mente. Terzi, Mahita, Warrintown, La città dei Maghi dove non sarebbe andata, Sharon, Shonet... no, aveva sbagliato: quella stalla in rovina le dava le vertigini. Ma non c'era altro posto all'ombra dietro la casa. Kadra tossì di nuovo. Quando l'accesso fu passato, disse con voce rauca: «Cosa sai tu a proposito della Piazza d'Armi degli Ismenin dove dicono che i soldati si stiano esercitando ad usare le armi proibite?» «Perché dovrei saperne qualcosa?», disse Sorren. «Perché Arré Med parla con te, ragazza, ecco perché. Non fare la stupida. È vero?» Terzi, Mahita, Warrintown, la Città dei Maghi, Shonet, Sharon, Nuath. Tamburellò la sequenza sul ginocchio. «Non lo so,» rispose, rammentando le istruzioni di Arré quando aveva inviato Paxe a diffondere la notizia. «Però ne ho sentito parlare al mercato». «Beh, non dirmelo se non vuoi,» disse Kadra. «Tu cosa ne pensi?», fece Sorren.
«Cosa vuoi che me ne importi?», replicò il ghya. «Io me ne andrò... in un modo o nell'altro». Estratto il coltello dalla cintura, cominciò a scorciarsi le unghie. Quella del mignolo era più lunga, alla maniera degli scribi. «Dovresti avere un coltello, sai,» le disse, come già aveva fatto in precedenza. «Un'arma qualsiasi». «No,» ribadì Sorren corrucciata. Terzi, Mahita, Warrintown, la Città dei Maghi, Shonet. «Un arco allora, per cacciare. Oh, Guardiano! Hai intenzione di viaggiare a piedi in una terra che ti è sconosciuta? Cosa farai se ti perdi? Cosa mangerai? Bacche e noccioline, come le tamie? E se ti ferisci? O se bevi acqua malsana e ti ammali?» «Costruirò delle trappole». «Non sempre le trappole catturano la preda. Sai lanciare pietre e colpire un bersaglio?» «Non molto bene». «Ti servono un arco e delle frecce. Io te ne posso procurare uno, e conosco un posto dove puoi imparare ad usarlo. Sei una del nord: è un'abilità che hai nel sangue. Non dovresti fare fatica». Ce l'hai nel sangue: quella frase stimolò la fantasia di Sorren. Ricordò le Carte, la figura di donna che tendeva un arco stagliata contro le falce di luna crescente. L'Arciere aveva i capelli biondi, come i suoi. «Gli schiavi non possono avere armi». «Lo terrò io per te». «Questo è ni'cea. E se qualcuno mi sorprendesse mentre mi esercito?» «Nessuno ti vedrà,» la rassicurò Kandra. «Conosco un posto perfetto. Ad ogni modo, anche se qualcuno ti dovesse scoprire, non succederebbe nulla. Ti sbagli: archi e frecce sono ni'cea soltanto se queste ultime hanno la punta di ferro. Farò per te delle frecce con le punte smussate. Oltretutto, sono consigliabili per cacciare piccole prede». «Sai come fare una freccia?», si stupì Sorren. «Non lo sapevo». Kandra sorrise, di un sorriso sgradevole. «Preparami un elenco delle cose che non sai.» Tossì di nuovo. La violenza dei colpi la fece piegare in due. Sputò nel terreno. «Maledetta aria di città!», mormorò. Non è l'aria che ti fa tossire così, pensò Sorren, ma il vino. Ma non glielo disse. Warrintown, la Città dei Maghi, Shonet, Sharon, Nuath, Yfarra, Morriton, Septh, e Vattelappesca-sulla-Palude. Kup. Paxe aveva una spada, il che era ni'cea; perché lei non poteva avere un arco?
Incurvò le braccia, cercando di ricordare la posa dell'Arciere sulla Carta. Kadra ridacchiò. «Vuoi provare?» Sorren la guardò di sottecchi. «Credo di sì». «Bene,» approvò il ghya. «Vediamoci qui la settimana prossima ed avrò un arco per te. Alzati; fammi vedere quanto sei alta.» Obbediente, Sorren si rimise in piedi. La sua statura superava ogni cosa che si trovava in quel giardino incolto; solo la casa era più alta di lei. Ciò la faceva sentire grossa e goffa, come al solito. Kadra si alzò. «Non muoverti!», disse, e procedette a misurare Sorren a palmi, partendo dai piedi per finire alle ascelle, quasi che la ragazza fosse un cavallo. «Perfetto!» Si rimise quindi a sedere sul terreno, imitata da Sorren. «Perché hai preso le mie misure?», domandò. «L'artigiana ha bisogno di conoscere la tua altezza per costruire l'arco». «Quanto verrà lungo?» «Tenuto con l'estremità inferiore poggiata a terra, l'estremità superiore dovrebbe toccarti l'ascella. Le dirò di fare il tuo un po' più corto; un arco corto è più adatto alla caccia perché non urta contro gli sterpi». «Non potrò pagarlo prima del Festival,» disse Sorren timidamente. «Di solito Arré mi regala una filza di monete in quell'occasione». Kadra aggrottò le ciglia, come se l'accennare al danaro la facesse adirare. «Non importa. Colei che lo costruirà mi deve un favore. Non mi costerà niente; perché dovrei farlo pagare a te?» Sorren provò la sensazione inquietante che stesse mentendo. Ma non si sarebbe azzardata a dirlo. Ripeté ancora una volta la serie di nomi nella mente: Warrintown, Wlath, Shonet, Sharon... «Cosa dovrei indossare per il viaggio?» «Degli indumenti resistenti,» disse il ghya. «Stivali, un mantello e qualcosa di pesante per affrontare il freddo». «Ma io partirò in estate,» obiettò Sorren. «A nord fa freddo di notte, anche d'estate». Sharon, Nuath, Yfarra, Morriton, Kup-sulla-Palude. «Quanto danaro mi occorrerà?» Kadra si strinse nelle spalle. «Quanto ne hai?» «Non lo so,» disse Sorren. Il contratto di schiavitù prevedeva che una somma di danaro fosse messa da parte per lei, per poi venirle consegnata alla fine del servizio. Arré di certo lo sapeva. Chissà se Arré starà meglio quando sarò tornata a casa, pensò Sorren. «A che punto è la nave?», domandò poi. «L'hanno finita?»
Uno sguardo sognante di desiderio tornò ad illuminare il volto di Kadra. «Lo scafo e la chiglia sono già terminati. Anche i ponti inferiori sono pronti; ora stanno lavorando a quello superiore. Una volta costruito, i falegnami saliranno a bordo per montarvi le cabine. Dieci giorni fa hanno portato gli alberi alla foce. Potrebbe essere pronta a salpare prima dell'inizio del Festival». «Come la chiameranno?», domandò Sorren. Anche le navi, pensò, devono avere un nome. «Porterà un nome nella vecchia lingua,» spiegò Kadra. «Significa "Scopritrice di stelle". La scopritrice di stelle... Ilnalamaré». Capitolo tredicesimo I seji arrivarono nella Piazza d'Armi il sesto giorno della prima settimana d'autunno, con quattro giorni d'anticipo rispetto alla data prevista da Perrit. Paxe stava dormendo, quando una carezza sulla spalla nuda la fece schizzar via dal guanciale con uno scatto fulmineo. Stava sognando le Colline Rosse. Riconobbe Kaleb anche se con la mano gli stava già tranciando la gola, e gli rivolse una smorfia di scusa mentre quello sfuggiva al suo assalto con un balzo rapidissimo. «Scusa». «Volevi che ti avvertissimo subito dell'arrivo dei seji,» disse l'uomo. Paxe si stropicciò gli occhi. «Sono già stati consegnati? Perrit è un prodigio!» Il cielo risplendeva di un azzurro intenso attraverso la finestra. «Com'è andata la guardia oggi?» domandò. «Finora è tutto tranquillo». Kaleb annuì. «Ora è giù a riporle nell'armeria». Insieme raggiunsero il deposito delle armi. Perrit aveva costretto Sekki, uno dell'ultimo turno, ad aiutarlo. Alla vista di Paxe, che si era chinata per passare sotto la bassa architrave del capanno, il vecchio cominciò a brontolare. «Lo sapevo che non avrei trovato rastrelliere,» si lamentò. Il Maestro della Piazza lanciò una rapida occhiata verso il retro della baracca per assicurarsi che le lame trasferite lì dal corpo di Guardia della Porta fossero tenute lontano da occhi indiscreti. E difatti erano opportunatamente occultate sotto sete e tele. Volse quindi lo sguardo alle pareti. Perrit aveva costruito delle rastrelliere per riporvi i seji. Scelse una lama tra le tante e fece scorrere il pollice lungo il legno. «Quercia bianca,» osservò.
«Naturalmente». La finitura era satinata. Paxe poggiò l'arma sul palmo per provarne l'equilibrio. «Sono splendide, Perrit! Grazie. Nessun altro in città avrebbe saputo fare un lavoro simile». «Aspetta che Arré Med abbia dato un'occhiata al conto.» Il vecchio divenne improvvisamente timido. «Il mio carro è qui fuori.» Uscì dal capanno e s'incamminò a passi svelti attraverso lo spiazzo: era piccolo, tarchiato, e dotato di spalle immense. Kaleb chiuse a chiave la porta dell'armeria. Il suono metallico echeggiò aspro nel silenzio. Sekki si inchinò. «Scusate, Capitano, Maestro della Piazza...» Si allontanò quindi in direzione del cancello. «In ogni angolo del Distretto degli Ismenin si insegna ad usare la spada a lama corta,» disse Kaleb. «Lo riferirò ad Arré Med». «Paxe,» continuò Kaleb, «Ivor lo sa che hai intenzione di cominciare l'addestramento alla spada corta?» «Non gliel'ho detto». «Allora non lo sa.» Kaleb si strofinò il mento. «Forse avrà dei problemi ad accettarlo. È nato in città ed è stato educato secondo gli antichi principi. Per lui una spada in città è ni'cea, qualunque ne sia la lunghezza». Quella sera Paxe fece il giro di ronda nell'oscurità allo stesso modo in cui era abituata a farlo con la luce del sole, facendo tappa da una postazione di guardia all'altra, passando per la Sala dei Viaggiatori, attraverso la Via del Vino, e lungo la Strada degli Orafi. Giunta alla garitta posta in prossimità del Tanjo, sostò a guardare la cupola. Rischiarati dalla luce stellare, i contorni si stagliavano netti nella notte tersa. Una luce illuminava l'ingresso, ed un'altra baluginava dagli appartamenti ubicati alle spalle della massiccia costruzione di pietra rossa. «Chi abita là?», domandò, indovinando la risposta prima ancora che le fosse data. «Quelle sono le stanze del L'hel». Al levarsi del sole, andò alla Piazza d'Armi a dar le consegne a Ivor. Come sempre lo trovò fresco nell'aspetto ed estremamente curato nell'abbigliamento: assomigliava ad un Danzatore, coi capelli acconciati in una piccola crocchia sulla sommità del capo, e gli indumenti puliti e profumati di lavanda. «Vieni, andiamo a casa mia,» gli disse. Ivor la seguì alla villetta. «Siediti,» lo pregò indicando le stuoie. La Guardia si sedette a gambe incrociate sulla stuoia presso il tavolo. Paxe si sedette di fronte a lui.
«C'è qualcosa che non va?», chiese il giovane. Paxe ripiegò le mani in grembo, domandandosi quale fosse il modo migliore per iniziare il discorso. Meglio usare delicatezza, pensò. «Ivor,» cominciò, «hai mai usato una spada?» L'espressione del soldato mutò elusivamente. «No, Maestro della Piazza». «Perché mi guardi in quel modo?» Ivor si toccò la faccia con la punta delle dita. «Hai sentito anche tu le voci che corrono per tutta la città?» «Sui soldati degli Ismenin che stanno imparando ad usare la spada a lama corta? Naturalmente». «Quelle voci sono vere,» affermò Paxe. Ivor chinò la testa. Forse vuole impedirmi di vedere la sua faccia, pensò Paxe. Ivor alzò di nuovo gli occhi. «Le spade introdotte clandestinamente in città... quelle che abbiamo scoperto, erano spade a lama corta». «Avevi mai visto una spada prima?» gli chiese Paxe. Ivor scrollò il capo. «Allora come fai a sapere che fossero a lama corta?» Ivor prese a tormentarsi i baffi. «Me lo ha detto Borti. Ha detto che poteva essere importante saperlo». «È importante. Le spade corte non sono vietate espressamente dal Bando. Per questo gli Ismenin non temono di usarle negli addestramenti. Giorni fa Arré Med è andata al Tanjo, a discutere col L'hel sulla presenza di quelle spade in città. Non so cosa si siano detti; Arré non me l'ha riferito. Però, le spade a lama corta non sono coperte dal Bando. Sicché anche noi addestreremo i nostri soldati ad usarle». «In che modo?», domandò il Capitano. «Con i seji: spade di legno. Sono già stati approntati; li abbiamo nell'armeria.» Paxe estrasse dalla tasca la chiave del capanno e la posò sul tavolo. Ivor la prese. «Arré Med desidera che la guarnigione acquisti una discreta familiarità con le armi prima dell'inizio del Festival del Raccolto», Ivor inghiottì. «Maestro della Piazza...», cominciò, per poi interrompersi. «Avanti!», lo incoraggiò Paxe. «Da quando sono nato mi è stato sempre detto che possedere ed usare spade all'interno della città è ni'cea». Paxe si guardo le mani e le scoprì serrate in due pugni minacciosi. «Se quelle spade fossero ni'cea,» disse, disserrandole, «non credi che il Clan Bianco si sarebbe pronunziato?» «Suppongo di sì,» disse Ivor. «Ma... Maestro della Piazza, ti è mai capi-
tato di camminare sopra un terreno dall'apparenza solida, ma che sotto il tuo peso vibrasse e si sfaldasse come la sabbia sotto le maree? Tu mi stai dicendo che le spade a lama corta non sono ni'cea, ed il mio stomaco sente la terra cedere sotto i piedi». «Lo so,» disse Paxe. «Anch'io sento la stessa cosa. Ma io sono il Maestro della Piazza, e queste sono le istruzioni di Arré Med: addestrare i soldati alla spada corta. Tutto ciò che mi occorre sapere - che a tutti voi occorre sapere, Capitano - è che non è illegale». A mani giunte, Ivor le rivolse un inchino dalla posizione in cui era, poi si alzò con un movimento fluido. Si avviò quindi verso l'uscita. «Aspetta!» Il Capitano si voltò. «Maestro della Piazza?» La sua faccia era di pietra. «Non ti ho fatto il mio rapporto,» disse Paxe. «Allora?» «Tutto tranquillo.» Troppo maledettamente tranquillo, pensò. Ivor aveva ancora negli occhi d'agata quell'espressione enigmatica, e Paxe avrebbe voluto colpirlo alla testa, o magari stringerlo tra le braccia; qualunque cosa, pur di sciogliere il gelo di quello sguardo. «Le Guardie presso i bagni hanno trovato due uomini addormentati vicino alla caldaia e li hanno mandati in uno dei rifugi che accolgono i viandanti. Due ubriachi si sono azzuffati sul confine del Distretto dei Batto; la Guardie sono intervenute a dividerli. Nella Via dell'Olio è stata trovata una donna colpita da malore; una delle Guardie l'ha portata al Tanjo...» Paxe continuò il resoconto e, man mano, vide gli occhi dell'uomo mutare lentamente, prender vita. Quando ebbe finito, la tempia destra le pulsava come se qualcuno l'avesse colpita. Ivor, almeno, non aveva più l'aria di uno il cui sangue si era trasformato in ghiaccio. «C'è altro, Maestro della Piazza?», le chiese inchinandosi. Paxe s'interrogò sull'opportunità di metterlo a parte dell'incarico ricevuto da Arré di trovare un pedinatore per Kim Batto. No, decise, non è affar suo. Apprenderlo sarebbe valso soltanto a sconvolgerlo ulteriormente. L'equilibrio che aveva ritrovato era precario, e Paxe non intendeva minarlo. «Nient'altro, Capitano. Puoi andare». Due ore prima del tramonto, la Piazza d'Armi era piena di soldati. Quando Paxe vi giunse, contò quaranta persone all'interno della staccionata. La maggior parte dei componenti del turno diurno erano presenti, e la tensione generata dall'eccitazione repressa era soffocante, simile alla pressione
dell'aria prima che si scateni il temporale. Paxe si domandò come avesse fatto la notizia a diffondersi con tanta rapidità. Alcuni soldati si erano disposti in circolo da combattimento. Ma, allorché Paxe mise piede nella Piazza, i circoli si aprirono. Tutte le Guardie si voltarono a guardarla. La porta dell'armeria era, naturalmente, chiusa a chiave. Paxe incrocio lo sguardo di Kaleb; questi, pronto, le si affiancò. «Non ci sono seji a sufficienza per tutti,» disse. «Chi ha ordinato questo assembramento?» «Non io!» Trasse la chiave di tasca. Paxe aprì la porta dell'armeria; i seji erano sistemati sulle rastrelliere. Paxe ne scelse uno, poi un secondo che diede a Kaleb. «Ricordi?», gli disse. «Ne è passato di tempo da quando eravamo nel deserto». I denti dell'uomo lampeggiarono nella penombra del capanno. «Ricordo». I due uscirono all'aperto e marciarono nel sole, accompagnati dal respiro collettivo delle Guardie in attesa. Paxe puntò a caso. «Tu: piazzati fuori dal cancello. Non deve entrare nessuno, a meno che non indossi i colori dei Med». La delusione affiorò sul volto del soldato scelto da Paxe; malgrado ciò, si inchinò e, senza profferire parola, si diresse al cancello. Il Maestro della Piazza si voltò quindi a fronteggiare Kaleb. «Facciamogli vedere qualcosa,» suggerì. «Lentamente». L'uomo abbassò la punta della lama lignea in segno di saluto, poi assunse la posizione di combattimento. Paxe vibrò il primo affondo, e Kaleb lo parò. Attaccò di nuovo, e di nuovo il compagno parò il colpo. Fu poi lui a passare all'offensiva, costringendola a sottrarsi con un salto. L'alternanza di mosse d'attacco e di difesa, costituiva uno schema che entrambi conoscevano; era un naiga, ossia una serie prescritta di colpi e parate che Paxe aveva appreso da Tyré ed aveva poi insegnato a Kaleb nel deserto. Quel particolare naiga si articolava in venticinque passi. Fendente, fendente, parata, arretramento, giù alle gambe. Mentre combatteva, Paxe sentì stringersi il petto; stava respirando in maniera scorretta. Costrinse l'aria a fuoriuscire mentre colpiva. Buff! Buff! Al quattordicesimo passo della Danza, Kaleb ebbe un attimo d'esitazione; Paxe balzò nella sua guardia, gli bloccò la mano armata contro il fianco e lo atterro con una mossa che lo assicurò il possesso della spada dell'avversario. Questi rotolò su se stesso e si rimise in piedi fuori dal raggio d'azione della compagna.
Inginocchiatasi, Paxe fece scivolare la spada verso di lui, con l'elsa in avanti. Kaleb la raccolse, facendo attenzione a non toccare il taglio della lama con le dita. Paxe allora parlò in un silenzio così profondo e tangibile, che quasi riusciva a sentirne l'odore: «La prima regola da osservare nelle esercitazioni con la spada, è quella di maneggiare l'arma come fosse d'acciaio, dimenticando che è di legno. Mai toccare la punta o il taglio della lama. Mai giocare con essa, o permettere che qualcun altro lo faccia». I soldati si fecero più vicini. Alcuni annuirono, e Paxe continuò: «Questa spada è un koymos,» si interruppe per richiamare l'attenzione degli astanti sul punto focale. «Al momento l'uso della spada corta, come quello della lancia, è riservato esclusivamente alle Guardie che hanno ricevuto un appropriato addestramento, e deve essere limitato entro i confini della Piazza d'Armi. Chiunque tra i miei soldati usasse una lama,» picchiettò sui seji affinché tutti capissero che si riferiva anche ad una spada di legno, «al di fuori di questo recinto, sarà punito e la trasgressione sarà riferita al Tanjo». Di nuovo i soldati annuirono. Paxe sorrise ed abbandonò il tono formale. «Avete afferrato? Bene. E niente chiacchiere sulle spade, somari; non ne parlate alle vostre madri, né con chi vi portate a letto; non parlatene neppure tra di voi fuori della Piazza. Ciò che faremo qui dentro è solo affar nostro. Se vi sarà fatta qualche domanda, assumete un'aria innocente. Non sarete creduti, ma non avrà importanza. Adesso...» Scelse quattro soldati dal cerchio e disse loro di andare a prendere i seji nel capanno e di distribuirli. «Non ce ne saranno per tutti. Non preoccupatevi per questo. No!» Il «no» era diretto a Kepi, che aveva preso tra le dita la lama al di sopra dell'elsa. «Hai appena perso quattro dita della mano sinistra. Lascia andare la spada.» Kepi, col viso scarlatto, fece cadere al suolo il seji. «Adesso vai a metterti vicino alla staccionata. Kinith, raccoglila tu.» Kinith si inginocchiò ed impugnò il seji come aveva visto fare a Paxe, con le dita intorno all'elsa. «Qualcuno di voi ha mai usato una spada?», domandò. Quattro voci mormorarono il loro assenso. «Bene! Voi farete da istruttori. Non vi montate la testa per questo. Quelli con i seji si dispongano in due file contrapposte. Brandite la spada in avanti, così.» I soldati copiarono la sua posizione. «Il piede destro avanti. La mano destra sull'elsa, poi la sinistra, come se impugnaste la lancia, ma serrandole insieme. Abbassate le spalle. Le mani devono stare all'altezza della vita. La stretta salda, ma leggera.»
Depose il suo seji e controllò da vicino i quattro «istruttori» per accertarsi che sapessero davvero cosa stavano facendo. Le Guardie sprovviste dell'arma guardavano con aria gelosa. «Sì. Bene! Voi quattro date ad altri le vostre spade. Andate a controllare le posizioni. No, non è così che devi raccoglierla! Un ginocchio avanti e la schiena dritta in modo da poterti guardare attorno, idiota!» Imitò quindi l'uomo che si era piegato per raccogliere la spada. «Non c'è sistema migliore per farti colpire nel sedere. Vai a metterti accanto a Kepi». Insegnò ai suoi uomini il primo colpo, il fendente discendente anteriore. Di lì a poco, nella Piazza d'Armi risuonò la conta dei passi. «Uno... e due... e tre... e quattro!» Spirava da sud una brezza leggera che rinfrescava l'aria, senza però impedire che Paxe e Kaleb, e tutte le Guardie cominciassero a sudare. «Serrate i muscoli alla fine dell'oscillazione, ma tenete mani e spalle più sciolte. Il colpo dev'essere fermo. Non abbassate la punta. Se la lama ondeggia quando colpite, vuol dire che la presa è sbagliata, e che probabilmente è troppo stretta. E uno... e due... e tre... e quattro. E uno... e due... e tre... e quattro. Prima linea, posate a terra le spalle, inginocchiandovi, idioti: sì, così va bene! Rialzatevi! Voi dieci: venite avanti e raccoglietele. Perché impugnate la spada al di sopra dell'elsa? Idioti! Spalle alla staccionata! Tu, raccoglila! E uno... e due... e tre... e quattro». Trascorse due ore, tutte le Guardie, compreso l'uomo al cancello e quelli che avevano trascorso la maggior parte del tempo presso la staccionata, avevano avuto l'opportunità di imparare i primi tre passi del naiga. Paxe li radunò tutti insieme e ripeté le sue raccomandazioni prima di congedarli. Kaleb controllò con attenzione che tutti i seji tornassero nell'armeria. Dopo raggiunse Paxe. «Cosa ne pensi?», gli chiese questa. Kaleb annuì. «Ce la faranno». «Finché non ne parleranno in giro.» Si stiracchiò, sentendo schioccare le giunture. Aveva i muscoli tesi ed indolenziti. Toccò un braccio di Kaleb. «Alleniamoci un po'. A mano libera». L'uomo sorrise, e spostò il peso del corpo. «Yai!» Paxe si lanciò su di lui, ma Kaleb la schivò girandole attorno. Colpi, parate ed atterramenti si susseguirono finché i muscoli di Paxe non si furono sciolti. Alla fine, fu lei a segnalare la fine del combattimento. Capelli e vestiti erano coperti di polvere. «Ah, adesso va meglio!», disse il Maestro della Piazza. «Mi sento più simile ad un essere umano». «Puzzi come un'asina!», le disse Kaleb scherzosamente.
«Vecchia canaglia! È questo il modo di parlare al tuo Comandante?» Sorrise. «Per il Guardiano! Puzzo davvero! Sarà bene che vada a fare un bagno. Dammi la chiave dell'armeria». «Quando hai intenzione di tenere una seconda lezione di spada?», le chiese Kaleb mentre le porgeva la pesante chiave. «Dovresti fare in modo che possa parteciparvi anche il gruppo dell'ultimo turno». «Domani pomeriggio,» stabilì Paxe, «prima del cambio della guardia». Due giorni dopo, a mezzanotte, Paxe entrò nella Piazza d'Armi a ricevere il rapporto di Kaleb ma, anziché uno, vi trovò due uomini ad attenderla: Kaleb, e Sereth, Capitano della Guardia Diurna presso la Porta. Oltre a loro due, nessun altro si trovava nel recinto. Paxe annuì in segno di saluto, chiedendosi perché Sereth fosse là. Dal cambio dei turni non l'aveva ancora visto. Non aveva partecipato al nuovo addestramento, e lei aveva immaginato che il motivo di quella diserzione fosse da attribuire alla fatica che comportava un giorno di guardia alla Porta. Anche Kaleb appariva stanco. E seccato. «Com'è andata la giornata?» «Ne ho avute di migliori,» disse Kaleb. Le fece un breve resoconto, dopodiché puntò il mento ad indicare Sereth. «Il tuo Capitano della Porta desidera parlarti. Si rifiuta di farlo con me o con Ivor». Sereth si bilanciò sui piedi. «Maestro della Piazza,» disse, «so che sembra insolito, ma ho le mie buone ragioni». «Lo spero bene!», disse Paxe. Qualunque lamentela o suggerimento da parte dei Capitani doveva essere prima presentata ai loro comandanti o a Kaleb. I folti capelli biondastri spuntavano ritti dalla testa di Sereth, come sempre accadeva quando qualcosa lo metteva in allarme. «Bene,» disse Paxe, «andiamo a casa mia». L'interno della villetta era immerso nell'oscurità. Paxe cercò l'esca e l'acciarino e con essi accese una lampada. Quando la stanza fu rischiarata, Sereth disse: «Maestro, perdonami se sono venuto direttamente da te». «Non sono io a doverti perdonare, piuttosto dovresti chiederlo a Ivor ed a Kaleb. È un insulto ignorare la loro autorità in questo modo». «Non intendevo offenderli, lo giuro,» si difese Sereth. «La cosa è troppo importante!» Kaleb aggrottò le sopracciglia. «Sei impertinente e privo di tatto,» disse Paxe con freddezza. «Siediti. Di cosa si tratta?»
Sereth si sedette, minacciosamente sovrastato dalla figura di Kaleb, in piedi alle sue spalle. «Riguarda Leth-no-Chayatha,» disse. «Il capo-carovana di Vanesi». «Sì. Mi avevi detto di interrogarlo a proposito delle spade». «E tu lo hai fatto». «Sì, e mi ha detto di non sapere niente. Ha giurato sul Guardiano, sulla tomba di sua madre, su tutti i Demoni dell'inverno.» Sereth si accigliò. «Ma io non gli ho creduto. C'era qualcosa nei suoi modi... però il Clan Blu non avrebbe acconsentito a chiamare un Mago della Verità. Ho continuato ad interrogarlo per ricevere sempre e soltanto le stesse risposte. Non potevo andare avanti così in eterno. Allora ho smesso». «Quando hai smesso di interrogarlo?» gli domandò Kaleb. «L'ultimo giorno della Festa del Bue,» disse Sereth. «Ho smesso sì, però ho continuato a tenerlo d'occhio.» Si interruppe, poi sporse in fuori la mascella con ostinazione e continuò: «Ho chiesto al mio Vice di sostituirmi al Posto di Guardia, ed ho detto ad alcuni amici del turno serale e notturno di aiutarmi». «Va' avanti!», disse Paxe con un'espressione arcigna. «La notte della mezzaluna - tre giorni fa - uscì di casa ed andò in un luogo dove non era mai stato prima. Nei giorni precedenti aveva fatto perlopiù le stesse cose: si era attardato in qualche locanda e poi giù nel Vicolo dei Venditori». «Lo hai seguito anche lì?», disse Kaleb con la voce gonfia di sarcasmo. «Sì. Ma sono rimasto nell'ombra, e non credo mi abbia mai scoperto. Ha un bel corpo - un lampo bianco guizzò sui denti di Sereth - e credo gli piaccia usarlo per ricavarne danaro. Comunque sia, entrò in quella casa e, quando ne uscì, aveva con sé molto danaro. Lo ha speso in vestiti, gioielli e giocando d'azzardo nelle taverne... inoltre, va a mangiare in posti che un capo carovana di solito non può permettersi». «È stato pagato per aver fatto qualcosa,» concluse Paxe. «D'accordo, Sereth, quale cosa ha visitato?» «La casa di Isak Med,» disse Sereth. Paxe sbatté le palpebre. Isak. Arré aveva sospettato che suo fratello fosse implicato in qualche modo nella faccenda delle spade. «Cosa credi sia accaduto in quella casa?», disse. «Sono sicuro che il mio uomo abbia ricevuto il compenso per qualcosa,» disse Sereth, sforzandosi di non apparire sorpreso a quella domanda. «Beh, mi sembrò probabile che avesse qualcosa a che fare con le spade».
«Perché?», disse Kaleb. La concentrazione che ora si leggeva sul suo volto bruno mostrava che aveva preso finalmente sul serio il racconto di Sereth. «Perché nella Piazza d'Armi degli Ismenin si sta insegnando la spada a lama corta, fin da prima che trovassimo le armi nel carro di Vanesi. E Isak Med e Ron Ismenin sono amici». Paxe si protese in avanti. «Come fai a sapere quando gli Ismenin hanno cominciato l'addestramento?» «Il padre del figlio di mia sorella ha un fratello tra le Guardie degli Ismenin. Tre sere fa si è ubriacato e me lo ha detto». Così la barriera di segretezza imposta da Dobrin stava finalmente cominciando a sgretolarsi. Con le voci che come pipistrelli volavano in giro per la città, i soldati degli Ismenin pensavano, evidentemente, che ormai non era più tanto importante essere prudenti nell'accennare all'argomento proibito. Paxe annuì a Sereth. «Hai ragione,» gli disse, «ed hai fatto bene a parlarne direttamente a me. Ritiro le parole aspre che ti ho rivolto prima». «Purtroppo,» osservò Kaleb, curvo accanto a Sereth, «niente di ciò che hai raccontato è prova di qualche reato. Un uomo ha molto danaro. Ebbene? Ti presenteresti dinanzi ad un Magistrato del Distretto dei Med con un'accusa contro Isak Med?» Sereth si passò le dita tra i capelli. «No di certo! Ma pensavo che se si parlasse con Leth...» Lanciò a Paxe uno sguardo che esprimeva speranza ed incertezza al tempo stesso. «La tua forza è più convincente della mia, Maestro della Piazza. A te potrebbe dire ciò che non ha voluto rivelare a me». Kaleb ridacchiò sommessamente al suo fianco. «Paxe, vuole che tu gli faccia sputar fuori la verità scordando le buone maniere». «Non è detto che debba andare necessariamente così,» si affrettò ad aggiungere Sereth. «Sapete... lui è molto vanitoso». I denti di Kaleb scintillarono. «Minaccialo di tagliargli il naso». «Ehi, aspetta un momento!», disse Paxe. «Non ho mica intenzione di mettermi a dare la caccia al capo-carovana di Vanesi per tutta Kendra-sulDelta con un coltello da incisore!» Sereth sussultò leggermente sulla stuoia. «Non è necessario: so dov'è. Oggi pomeriggio è andato ai bagni pubblici e, in questo momento, si trova in una sala da fumo nel Distretto dei Batto. Il posto si chiama la Casa dei Bei Sogni, ed è in Via dei Bisbigli. Conta di restarvi fino alle due dopo mezzanotte, dopodiché andrà nel Vicolo dei Venditori».
«Conosco quella sala,» disse Kaleb. La luce della chobata gli illuminava il volto; la stanchezza era svanita, messa da parte come una camicia sporca. «Il proprietario è un Asech; si chiama Skandar. Lo conosco. Non avrà nulla da obiettare se chiederemo di parlare in privato con uno dei suoi clienti, fintantoché non sveglieremo gli altri... Ha anche delle salette private». Sereth si illuminò alle parole del Comandante della Guardia. «Beh, sei proprio convinto che funzionerà!», osservò Paxe. Si alzò, e cominciò a camminare nella stanza. La statua del Guardiano pareva la guardasse dalla sua nicchia, e per un istante parve quasi che si muovesse. «D'accordo!», disse alla fine. «Tentiamo!» Si domandò quale sarebbe stata la reazione di Arré se le avesse portato le prove che Isak era direttamente implicato nel contrabbando di spade. Sereth, naturalmente, accompagnò Paxe e Kaleb alla sala da fumo. I due uomini attesero nella Piazza d'Armi mentre Paxe chiamava Dis e le impartiva istruzioni per compiere i giri di ronda in vece sua. Dis era una donna dal temperamento glaciale, una guardia fidata ed anche una nonna con sei nipotini, stando agli ultimi calcoli. «Qualunque cosa vai a fare,» disse a Paxe, «divertiti». I tre s'incamminarono verso sud e, più avanzavano, più la nebbia si infittiva. Si sentiva un forte tanfo di pesce. «Già alla darsena sarà tanto fitta da poterla attraversare a nuoto,» scherzò Sereth. «Io non so nuotare,» replicò Kaleb. Paxe gli lanciò un'occhiata. L'uomo aveva un'aria estremamente seria. Gli fece lo sgambetto, ma Kaleb fece due rapidi passi in avanti e roteò sulle punte dei piedi. «Cos'è quel muso lungo?», gli domandò. «Poco fa, sprizzavi allegria, e adesso sembri nel fondo di un pozzo!» «Stavo pensando». «A cosa?» «A quello che dovremo dire a Leth-no-Chayata.» Un sorriso di lupo gli baluginò sulle labbra. Paxe si accigliò. «Non occorrerà che ci sforziamo di essere persuasivi,» disse. «Starà già toccando le nuvole sulle ali dell'Erba dell'Estasi». «Già,» disse Kaleb. «Verissimo!» Furono fermati tre volte prima di raggiungere la Via dei Bisbigli; due
volte dalle Guardie dei Med ed una volta da quelle dei Batto. L'umidità che ammantava le strade sembrava attutire il rumore dei loro passi. Kaleb era naturalmente il più silenzioso, e Sereth non poté fare a meno di lanciargli due o tre occhiate invidiose, finché non gli chiese: «Come fai a muoverti così silenziosamente?» «Questione d'allenamento,» disse Kaleb. «Esercizio. Io sono stato allevato nel deserto, e li ho imparato ad avvicinarmi ai ratti senza fare il minimo rumore, tanto da riuscire a catturarli con le mani». Sereth lanciò a Paxe uno sguardo incredulo. «È vero!», confermò lei. «Gliel'ho visto fare!» Gocce di bruma le rotolarono lungo il colletto. Il Maestro della Piazza infilò le mani nelle tasche imprecando contro se stessa per non essersi ricordata di indossare il mantello col cappuccio. La bruma rendeva lucide le strade grigie, che luccicavano riflettendo la luce dei lampioni. Incontrarono pochi passanti: i reduci di qualche gozzoviglia consumata a notte tarda, del tutto incuranti dell'acquerugiola che veniva giù; una ragazza che aveva finito in ritardo il turno di lavoro in qualche taverna; un vecchio che rincasava a passi lenti al fianco di un asino dalle orecchie penzolanti; presenze che apparivano e svanivano nella nebbia come fossero fantasmi. Molte delle taverne che oltrepassarono erano semivuote, e qualcuna, che pareva dovesse essere aperta, era del tutto chiusa. Giunsero nella Via dei Bisbigli. «Perché la chiamano così?», domandò Paxe. «Perché c'è un punto dove dicono che si possa sentire ogni parola che la gente sta dicendo in qualsiasi angolo dell'isolato,» spiegò Sereth. «A me non è mai riuscito,» aggiunse. «Ci hai provato?», disse Kaleb. Sereth alzò le spalle. «Una volta o due». Erano a soli due isolati dalla Casa dei Bei Sogni. Paxe già sentiva il profumo dolce ed intenso della droga. L'erba fumata nelle sale da fumo era molto più forte di quella che si poteva trovare per strada. Paxe la preferiva al vino per il suo effetto inebriante, per il modo in cui esaltava il potere dei sensi. Ma aveva smesso di fumarla quando Ricky aveva cominciato a non fare altro. Il pensiero corse a lui; si domandò se stava bene, e se avesse ricevuto gli stivali che gli aveva mandato. «È qui,» annunziò il Capitano Sereth. «Siamo arrivati». La costruzione era lunga e bassa, simile nell'architettura ad un magazzi-
no, e con poche finestre. Un'insegna pendeva da un'asta in cima alla porta. Vi campeggiava l'immagine dipinta di una pipa d'argilla e della foglia dentellata della pianta da cui si ricavava la sostanza stupefacente. Sotto la figura, una scritta dai caratteri sbiaditi annunziava: La Casa dei Bei Sogni. Il profumo dell'erba era di una intensità opprimente. «In questo posto,» disse Sereth, «persino i topi sono fatti». Imitò quindi un topo drogato. Paxe ridacchiò e, con un cenno del capo, indicò la porta. «Andiamo, attore». «Lascia che parli con Skandar,» suggerì Kaleb. Paxe annuì. Poi spinsero la porta ed entrarono nel locale. La lunga sala era in penombra: piatti di choba poggiati su tavolini bassi mandavano lingue di luce sui volti trasognati dei fumatori. L'aria era rovente e viziata. Il calore proveniva dai bracieri posti nel corridoio ad intervalli regolari; i fumatori avvertivano il freddo più rapidamente delle persone in condizioni normali. Bassi paraventi non più alti d'un uomo di buona statura ripartivano la sala in tante piccole salette che davano agli occupanti una sensazione d'intimità. Un mormorio di voci si levava dai cubicoli; un suono di risa echeggiava invece dal retro della costruzione. I. fumi inebrianti dell'erba ammorbavano l'aria e, quasi subito, Paxe sentì il suo corpo cominciare a cedere alla seduzione della droga. Anche questa è un'illusione, disse a se stessa. Un uomo si affrettò verso di loro lungo il corridoio. Di sembianze tipicamente Asech, era bruno, il viso ovale bronzeo, e gemme turchine gli luccicavano nei lobi delle orecchie. Kaleb si fece avanti per parlare con lui, ed i due si scambiarono una serie di battute sussurrate. Kaleb tornò poi dai compagni in attesa. «Leth-no-Chayatha si trova in una saletta posteriore: ha già raggiunto la cupola del Tanjo per quanto è fatto. Skandar dice che può darci una saletta poco distante e poi condurre l'uomo da noi, a patto, però, che non creiamo confusione: altrimenti disturberemo i suoi clienti». «Quanto?», disse Paxe, cercando la filza di monete. «Un pezzo da tre». Paxe tirò fuori un bonta dalla tasca e lo diede a Kaleb, il quale lo consegnò a Skandar. I tre seguirono l'uomo lungo il corridoio che fiancheggiava i cubicoli fino ad una porta di legno. Qui le salette erano più solide, separate da pareti di legno. Dei cuscini ricoprivano le stuoie, e v'era un tavolino per appoggiarvisi. Paxe si sfilò le scarpe e si sedette sopra un cuscino. Sereth si passò ripetutamente le mani tra i capelli fino a che non divennero simili in tutto ad una spazzola di setole. Il Maestro della Piazza gli diede
un colpetto sulle gambe per attirare la sua attenzione. «Siediti!» Obbedì. Kaleb si appoggiò allo stipite della porta. Un istante dopo udirono una voce. «È Leth,» disse Sereth. «Cea, è completamente fatto!» Le parole biascicate erano appiccicose come colla. «Non appena sarà entrato, lo butterò a terra,» disse Kaleb. «Paxe, tu lo terrai per le braccia e le spalle. Sereth, tu immobilizzagli le gambe. Ci vorrebbe qualcosa da infilargli in bocca». «Usa la sua camicia. Lo spoglieremo!», propose Paxe. «Buona idea!», approvò Kaleb. «E io dove...», cominciò Sereth. «Là!», disse Paxe, indicando l'estremità del tavolo più vicina alla porta. Sereth raggiunse la sua postazione. La porta si aprì ed un uomo entrò nella saletta. «Beh, cos'è questa?», disse, sbirciando nella semioscurità del vano. Kaleb uscì dall'ombra, fece roteare l'uomo su se stesso e lo scaraventò con la schiena sul tavolo, il tutto in un'unica mossa. Sereth gli afferrò i piedi, e Paxe gli bloccò le braccia dietro la testa immobilizzandogli il busto. Nel momento in cui la schiena urtò contro il piano del tavolo, l'uomo urlò per il dolore. Inginocchiatosi, Kaleb agguantò la camicia con una mano possente e la strappò via. Infilò quindi la parte posteriore di essa nella bocca aperta di Leth prima ancora che il capo carovana si rendesse conto di cosa gli stesse accadendo. Quando la stoffa gli riempì la bocca, cominciò a lottare, a dimenarsi, nel tentativo di sfuggire alla morsa dei tre aggressori. Kaleb gli mise una mano sulla gola, premendo l'indice ed il pollice sulle due grandi arterie. Leht ansimò ed i suoi occhi cominciarono a farsi vitrei. Kaleb ritirò la mano. «Se griderai, nessuno potrà sentirti,» disse. La mano corse sinuosa allo stivale e riapparve armata di pugnale. Sereth sgranò gli occhi e guardò Paxe. Queste si strinse nelle spalle. «Tutto quello che vogliamo è la risposta ad alcune domande. Rispondi, e sarai libero di andare. Altrimenti dovremo farti male. Intesi?» Lucidità ed obnubilamento conseguente alla droga, lottavano negli occhi azzurri di Leth. Cercò di parlare attraverso il bavaglio. Kaleb sorrise ed appoggiò delicatamente la punta del coltello sull'addome scuro dell'uomo. «Non gridare!», intimò, ed estrasse il bavaglio bagnato. «Chi diavolo..» Kaleb appoggiò di nuovo il bavaglio sulla bocca dell'uomo, senza però spingerlo dentro. «Questo è un problema che non ti riguarda, amico. Allora, ecco la prima domanda.» Il pugnale affondò leggermente nella pelle di Leth. Un rivoletto
di sangue gli solcò l'addome. Con un profondo respiro ritrasse gli addominali per sfuggire al taglio dell'acciaio, e Paxe gli premette le braccia verso il basso così da costringerlo ad inarcare la schiena. Kaleb sollevò il pugnale. «Chi ti ha pagato per nascondere i koymos nella carovana di Vanesi?» Sollevò il bavaglio. Con voce strozzata, Leth rispose: «Non le ho messe io, non le ho messe io! Avete preso la persona...» «Sbagliata,» concluse Kaleb, comprimendogli di nuovo la bocca. «Tu non credi che io faccia sul serio. Tenetelo fermo!» Con mano leggera, cominciò a far scorrere il pugnale lungo il torace dell'uomo, dai capezzoli all'ombelico, disegnando una linea, poi una seconda, una terza... quindi, si fermò, e si frugò in tasca. Ne tirò fuori un sacchetto. Paxe lo riconobbe. Era il sacchetto dove teneva il sale; Kaleb lo aveva preso in cucina. Non si era neppure accorta che ci fosse andato. «Sale,» disse. Depose il pugnale e cominciò a slacciare lentamente il sacchetto. Paxe guardò Sereth. Il giovane era pallido, ed aveva le labbra serrate. Leth cercò nuovamente di divincolarsi; la donna esercitò una pressione più forte sulle braccia. Il sale gli avrebbe procurato dolore, senza però danneggiarlo. Sperò soltanto che l'effetto della droga non fosse tale da impedirgli di sentirlo. Il sacchetto era aperto. Con aria indifferente, Kaleb ne prese un pizzico tra l'indice ed il pollice e lo sparse sulle ferite. L'urlo di Leth attraversò il bavaglio; cercò di liberarsi, ma Sereth e Paxe lo tenevano saldamente. Gli occhi dell'uomo cominciarono a stillare lacrime. Kaleb attese che avesse smesso di dimenarsi, poi sollevò il bavaglio. «Chi ti ha pagato per nascondere i kymos nella carovana di Vanesi?», ripeté. «Minto,» disse Leth. «Il Signore Cha Minto». «Sta mentendo!», disse Sereth immediatamente. «Non si è mai avvicinato alla casa di Minto». «Non sto mentendo, lo giuro...», protestò Leth, alzando la voce. Kaleb rimise a posto il bavaglio e lo premette con forza. Con la mano sinistra abbassò i pantaloni di Leth sui fianchi, all'altezza dei genitali. Raccolse quindi il pugnale. «Aspetta,» intervenne Paxe. Leth possedeva un corpo veramente magnifico; snello, sodo e flessuoso come quello d'un gatto selvatico. «Togligli il bavaglio.» Kaleb obbedì. «Dimmi,» lo invitò Paxe, «che ti ha consegnato i soldi». «Isak Med,» rispose Leth. «Dove?»
«A casa sua. Mi ha detto che erano soldi di Minto, e che lui era soltanto incaricato di pagarmi». «Gli credi?», disse Kaleb. «Altrimenti...», e sollevò il coltello. «È vero, lo giuro!», disse Leth, poi la sua voce si ruppe. «Vi prego...» «Chiudi il becco!», disse Paxe. Non c'era ragione che mentisse. Naturalmente, esisteva la possibilità che Isak gli avesse detto di rispondere in quel modo ad eventuali domande. Era nello stile di Isak. «Assicuratene!», disse a Kaleb, e rinsaldò la stretta. Kaleb annuì con aria risoluta. Paxe distolse lo sguardo, imitata da Sereth. Nulla di quello che seguì fu piacevole. Ma, alla fine, Kaleb sollevò il pugnale e disse: «Credo che sia sincero.» Leth singhiozzava, più per la paura e l'umiliazione che per il dolore. Kaleb gli tirò su i calzoni, coprendogli i tagli e badando a non strusciarvi sopra. Leth aveva confermato la prima versione; e cioè che Isak gli aveva detto casualmente che era stato semplicemente incaricato da Cha Minto di compensarlo col danaro. «Soltanto un'altra cosa,» disse Paxe. Kaleb liberò la bocca dell'uomo. Leth la guardò con occhi gonfi. «Da dove avete portato le spade?» «Ci furono consegnate appena fuori Mahita. Là le sistemai nelle casse». «Come faceva a sapere dove avresti ricevuto il compenso?» «Ricevetti un messaggio». «Non avevi paura del Bando?» Leth si strinse nelle spalle ed ebbe un sussulto. Paxe aggrottò le ciglia, e l'uomo si ritrasse. «Pensavo: se la Famiglia Minto sta portando le spade in città, allora vuol dire che è lecito,» disse timidamente. Kaleb sbuffò. «Lo pensavi prima o dopo di essere stato pagato?» In qualche punto della grande sala si sentì una donna sospirare sonoramente: per paura o per piacere era impossibile dirlo. Il fumo onnipresente alleggeriva la testa di Paxe. Cha Minto, pensò, e Isak? Non avrebbe mai giudicato Cha Minto capace di un atto simile - le era sempre apparso come un sempliciotto - ma se Isak lo aveva manipolato... allora si, era felice di crederci. «Perché hai acconsentito a farlo?», incalzò. «Per il danaro,» disse Leth, con una punta di perplessità nella voce. Paxe trasse un sospiro, e mollò la presa sulle braccia di lui. «Può bastare!» Sereth gli liberò i piedi. L'uomo si sollevò a sedere con cauti movimenti e, pian piano, si alzò in piedi. Con aria assente, Kaleb si fece da parte per fargli spazio. «Posso andare?», chiese Leth umilmente.
Kaleb si rivolse a Paxe, impugnando ancora il coltello. «Può andare?» «Sì, lascialo andare. Dagli la camicia.» Sereth la raccolse dal pavimento e gliela porse, ormai ridotta ad un cencio bagnato di saliva. «Non andare a gridare ai quattro venti che sei stato interrogato sulle spade,» intimò Paxe, «o potresti ritrovarti nella cella d'un Corpo di Guardia. Finché il Consiglio non si pronunzierà diversamente, introdurre spade in città è illegale. Un soldato controllerà i tuoi movimenti fino a quando non sarai partito. Quando andrai al nord?» «Dopo il Festival», disse Leth. «Fai in modo di partire veramente,» disse Paxe con voce dura e minacciosa. «Te la sei cavata bene, sai? Sarebbe potuta andare molto peggio. Ma si può sempre rimediare, se non terrai la bocca chiusa». Leth rabbrividì. «Non dirò nulla». «Ti conviene! Siediti qui: usciremo noi.» Si alzò. Sereth stiracchiò le braccia contratte. Kaleb recuperò il sacchetto di sale e, alzatosi, fece sparire il pugnale. Tutti e tre infilarono gli stivali e passarono nella zona anteriore della sala da fumo. Skandar uscì da una porta. «Come lo avete lasciato?», bisbigliò. «Intero,» disse Kaleb, «ma un po' scosso. Grazie, amico mio. Il tuo aiuto non sarà dimenticato». «Nessun disturbo!» Li accompagnò all'uscio. Paxe sospirò quando furono nuovamente avvolti dall'aria fresca e brumosa. La testa le doleva; disse a se stessa che doveva essere colpa del fumo della sala. Diede una pacca a Kaleb su una spalla. «Grazie. Io non ci sarei riuscita». Sereth fu scosso da un brivido. «Neppure io». Kaleb alzò le spalle. «Prendi!» Porse a Paxe il sacchetto col sale, e lei se lo infilò in tasca. Il vento spirava da sud, stormiva tra le foglie, e sbatteva le imposte socchiuse sui telai delle finestre. «Devo farlo sorvegliare da uno dei miei uomini?», disse Sereth. Paxe sorrise. «No. Ma lasciargli credere che lo hai fatto. Tu sai dove abita; potresti gironzolare attorno a casa sua quando sai che è lì, facendo in modo che ti veda. Hai fatto bene a parlarne direttamente a me». Sereth si studiò di nascondere il sorriso di soddisfazione. «Ora dove stiamo andando?» «Voi due ve ne andate a letto,» disse Paxe. «Ed io al lavoro.» E domani mattina, pensò, andrò a parlare con Arré. S'incamminarono lentamente verso nord-est, tre fantasmi che apparivano
e svanivano nella lugubre oscurità. Capitolo quattordicesimo «Cha Minto?», disse Arré. «Ne sei certa?» «Ne sono certa,» disse Paxe. Erano sedute nella sala piccola. Arré stava aspettando Jenit, e Morin il sarto. Nelle prime ore del mattino si era levato il vento dell'est e, spirando vivace sulla città, aveva sospinto ad ovest la coltre di nebbia. Il sole tramontò sull'oceano scintillante come argento, ed il cielo era terso, azzurro e caldo. Il racconto di Paxe trovò Arré impreparata, ciononostante, la notizia che Cha Minto avesse pagato per introdurre clandestinamente le spade in città non la sorprese. «Ecco perché era turbato all'ultima riunione del Consiglio.» Fece roteare i braccialetti intorno al polso sinistro. «Suppongo che non sia necessario chiederti in che modo hai ottenuto queste informazioni». «No,» convenne Paxe, «non è necessario. Ma ti garantisco che il mio informatore è convinto di quello che ha detto». Arré si domandò che espediente avesse usato Isak per irretire Cha Minto. Erano amanti? No, qualcosa la induceva a scartare questa ipotesi. Sentì la bocca arida; portò la mano alla caraffa colma d'acqua poggiata sul tavolino laccato e si versò un secondo bicchiere. Da quando era stata malata, veniva talora assalita da una sete insaziabile. Gli occhi di Paxe seguirono i suoi movimenti. «Arré, sei guarita?» «Sembra di sì. Non ho più bevuto vino da quella sera.» Le riusciva ancora difficile credere che avesse dormito due intere giornate. «Cosa si dice in città a proposito delle spade e di Ron Ismenin?» «La notizia che nella Piazza d'Armi degli Ismenin ci si addestra con le spade è ormai di dominio pubblico». «E la gente mette in relazione il contrabbando d'armi con la Famiglia degli Ismenin?» Paxe si strofinò il mento. «Non ancora. Qualcuno però l'ha fatto. È strano, Arré. Sembra che per la gente nata a Kendra-sul-Delta le armi non siano qualcosa di reale. Ne parlano, sì, ma non pensano mai ad esse». «Come reagiscono i tuoi soldati alle nuove esercitazioni?» «Sono entusiasti. Ma persino loro non sembrano considerare le spade come vere armi, strumenti che possono mutilare o uccidere».
«Mi auguro che non debbano mai funzionare in quel modo,» disse piano Arré. «Credi che esista la possibilità di usarle?», disse Paxe. Arré trasse un sospiro. «Te l'ho già detto una volta: ignoro i piani di Ron Ismenin. Forse potresti scoprirlo tu. Chiedilo al tuo amico Dobrin». Nel lanciare quest'idea, Arré aveva parlato tra il serio e il faceto. Ma gli occhi di Paxe si assottigliarono, ed il Maestro della Piazza d'Armi dei Med annuì. «Perché no?», disse. Lalith bussò alla porta. «Signora?», chiamò. «Sì, piccola, cosa c'è?» «È venuta Jenith. Vuole vederti». «Bene.» Arré posò il bicchiere sul tavolino. Paxe si alzò. «Vi lascio sole.» Stiracchiò le lunghe braccia al di sopra della testa. «Guardiano, sono stanca.» Uscita, si fermò qualche istante nel corridoio a scambiare due parole con Jenith: Arré udì le loro voci; quella di Paxe, bassa e profonda, e la voce della straniera, più alta ma un po' roca. Poi Jenith entrò nella saletta: attraente, bruna e piccola di statura, aveva degli anelli d'oro che le adornavano gli orecchi. «Signora...» Fece un inchino, e si guardò attorno con sincera ammirazione. «È molto bello qui!. Quelle lampade sono splendide». «Grazie,» disse Arré, compiaciuta ed affascinata. Le lampade erano di porcellana bianca, la migliore di tutto l'Arun. Su di esse l'artista aveva dipinto grappoli d'uva ancora sulla vite, in omaggio alla fonte della ricchezza dei Med. I colori erano freschi e luminosi. «Piacciono anche a me. Siediti, prego!» Indicò lo sgabello. Jenith si sedette. «Ti disturba se fumo?» «No.» Arré la guardò incantata mentre estraeva una pipa ed un sacchetto dalla tasca della tunica. Jenith riempì la pipa con un pugnetto d'erba verde tratto dal sacchetto; estrasse poi esca ed acciarino dalla stessa tasca ed accese la pipa. «Ah!» Inclinò la testa all'indietro ed aprì la bocca. Un anello di soffice fumo grigio fluttuò verso il soffitto. «Adesso va meglio». Arré non aveva mai visto nessuno soffiare anelli di fumo. Restò a guardare rapita mentre gli anelli grigi uscivano fluttuando dalla bocca della donna ed aleggiavano verso il soffitto. Tutti, però, si dissipavano prima di giungervi, e Arré si chiese come sarebbe stato vederli prendere insieme; si figurò il soffitto completamente ricoperto di anelli grigi sospesi nell'aria. «Vuoi tirare una boccata?», la invitò Jenith, porgendole la pipa.
«No, grazie!», disse Arré. Il profumo dell'Erba dell'Estasi riempì la stanza assolata. «Mi dispiace, ma sono stata male; quando sei venuta l'altra volta ero a letto ammalata». «Oh, davvero? Non me lo hanno detto; mi è stato detto soltanto di tornare. Sarei venuta il giorno seguente, ma capitò che quel giorno il corriere lasciò la città e, naturalmente, lo seguii». «Lasciò la città,» ripeté Arré. «Kim Batto ha lasciato la città?» «Non lui, ma il suo Messaggero». Jenith puntò la canna della pipa verso Arré. «Sai, Signora, le tue istruzioni lasciavano un po' a desiderare. Paxe disse che dovevo seguire Kim Batto, ma in verità a te non importa di sapere dove va ogni giorno, non è così? Quello che vuoi sapere veramente è cosa fa». Arré inarcò le sopracciglia, «Vai avanti!», la incoraggiò. «Un momento. Scusami.» Jenith prese un bastoncino e compresse l'erba nel serbatoio della pipa. Risucchiò poi con forza finché il fumo non cominciò a fluire regolarmente da essa. «Ad ogni modo, cominciai a seguire Kim Batto, come mi era stato richiesto. Ignoro cosa fece il primo giorno della settimana scorsa; allora non lo sorvegliavo ancora dato che Paxe venne ad interpellarmi soltanto nel pomeriggio. Il secondo giorno andò al mercato ed al Tanjo. Il terzo giorno andò ai bagni, poi dal sarto dove scelse della stoffa per degli abiti nuovi da indossare in occasione del fidanzamento di Ismenin». «Come sai a cosa servissero gli abiti?», le domandò Arré. «Ho parlato col sarto. Abita vicino a Shem, il mio Vice nel deposito. Non sa perché gli abbia chiesto quelle cose». «Capisco,» disse Arré. «Continua». «Il quarto giorno - Jenith si interruppe per soffiare via un grasso anello di fumo - il quarto giorno, di mattina rimase in casa sua. Domandai notizie ad un garzone di cucina e scoprii che stava scrivendo e bestemmiando parecchio. Quel pomeriggio si presentò alla casa un corriere, non un Messaggero, bensì una Guardia in abbigliamento da cavallo. La cosa mi incuriosì. Trovai un amico e lo pregai di rimanere presso la casa a spiare Batto, mentre io mi sarei occupata del corriere. Questi si allontanò dall'abitazione con una borsa sotto il braccio, e si recò alla scuderia per noleggiare un cavallo. Ho qualche amicizia nel Distretto dei Med, così presi in prestito un cavallo e lo seguii. Imboccò la via del fiume. La borsa, ed il suo contenuto, l'aveva sistemata nella bisaccia e, ogniqualvolta si fermava per mangiare, portava la bisaccia con sé, il che mi rivelò quanto fosse importante. La
prima notte raggiunse Mahita, ed io mi fermai nella locanda con lui; ma il mio uomo dormi con la borsa nel letto. La stessa cosa face a Warrintown e ad Elath. Qui ebbe una breve conversazione con una ragazza nella Sala dei Viaggiatori e le disse che era diretto a Nuath.» Un altro anello di fumo decollò dalle labbra di Jenith. Arré stava seduta, ipnotizzata da quella esibizione. «Sulla strada tra Elath e Shonet si fece meno scrupoloso nel proteggere la preziosa borsa; difatti, quando si recò in una locanda per mangiare, non esitò a lasciarla nella stalla. Naturalmente, non sospettava di essere seguito. La stessa cosa fece quella sera. Sicché mi introdussi nella stalla munita d'una grossa foglia di kava arrotolata - la più grossa che riuscii a trovare legata con un pezzetto di spago, e gliela infilai nella borsa al posto del rotolo di pergamena che vi era custodito.» Frugò nell'ampia tunica e ne estrasse un rotolo bianco recante un sigillo con l'emblema dei Batto, il cavallo al galoppo. «Subito dopo, montai sul mio cavallo e, galoppando il più velocemente possibile, rifeci il percorso a ritroso, diretta a casa. Ciò sarebbe stato impossibile per il suo cavallo, ma il mio era Asech, cosicché impiegai la metà del tempo che era occorsa a lui per arrivare fin là. Anche se al mattino avesse scoperto la foglia al posto della pergamena, non avrebbe potuto far ritorno a Kendra-sul-Delta prima di due giorni». Arré prese il rotolo con tutte e due le mani. «Mi stupisci!», riuscì a dirle. Jenith sorrise. «È stato facile,» replicò con soddisfazione. «Il soldato è stato uno stupido a non accorgersi della mia presenza: a me non sarebbe sfuggita. Il fatto è che, da quando cominciò a fumare l'erba, non si sarebbe accorto neppure se un maiale si fosse infilato nel suo letto». Arré srotolò la pergamena. Ne scorse rapidamente il contenuto, traducendo automaticamente il significato effettivo del suo linguaggio formale. Era un messaggio indirizzato al Signore Tarn da Nuath Ryth della città di Nuath. Confermava un accordo tra Tarn da Nuath Ryth e Kim Batto «in riconoscimento di interessi reciproci» e conteneva vaghe allusioni a dei prezzi di cereali che sarebbero stati abbassati in conseguenza di un servigio reso, un servigio che aveva a che fare con il Consiglio delle Famiglie di Kendra-sul-Delta. Cosa sta accadendo? pensò. Si aspettava che Jenith le portasse una prova del legame tra Ron Ismenin ed il Tanjo; invece, niente di tutto questo veniva contrattato tra Kim Batto e quel barbaro del Clan Blu che abitava a monte del fiume! Lesse di nuovo la pergamena. Dalla seconda lettura non ne ricavò niente
di più. Si chiese quali fossero i «servigi» (lasciati prudentemente imprecisati) a cui si faceva riferimento. Nessun servigio sarà reso, pensò mordacemente. La stipula di convenzioni tra singole Famiglie o Clan era rigorosamente proibita, a meno che non si verificasse nella maniera tradizionale, ovverosia attraverso il matrimonio. Sorrise al pensiero della reazione di Kim Batto allorché il suo corriere sarebbe ritornato dicendogli che giunto a Shonet - o a Sharon, o magari a Nuath - si era accorto di non avere più la pergamena. «È qualcosa che volevi?», disse Jenith. Arré alzò gli occhi. «Sì, lo è certamente,» disse. «Solo, non mi aspettavo una cosa simile, e non sono sicura di averne interpretato bene il significato. Ad ogni modo, ti devo del denaro.» Si avvicinò allo scrigno, esitò, poi ne trasse due tetra. Li offrì quindi alla minuta donna bruna. «È sufficiente?», le domandò. «Devi aver sostenuto delle spese». «Le copre,» disse Jenith. «Non ne ho avute poi tante; ho noleggiato un cavallo, ed ho dormito nelle stalle.» Raccolse la pipa dal tavolino laccato. «Vuoi che continui Signora?» «Sì,» disse Arré. «Per almeno altri quattro giorni, fino al fidanzamento di Ismenin». Le agili mani di Jenith nascosero le monete tra le pieghe interne della tunica. I capelli, di un nero sfocato, profumavano di gelsomino. Un talismano di rame con la figura di un bue, le cingeva il collo. «Non ti fanno male?», chiese Arré, accennando con un gesto agli orecchini d'oro. «No, no,» rispose la donna Asech. «Mia zia mi fece i buchi con uno spillo quando ero ancora in fasce. Anche le mie figlie li portano». «Hai figli?» «Ne ho tre; due femmine ed un maschio». «Quanti anni hai?», le chiese Arré. «Quaranta.» Jenith sorrise. «Lavoro per la Famiglia Med da quando ne avevo dodici; prima nei campi, poi nella cantina, ed ora nel magazzino». Quarant'anni, pensò Arré. Jenith aveva soltanto quattro anni meno di lei. «Ti ringrazio per il servizio reso alla mia Famiglia,» disse. Jenith annuì. «Il tuo compenso è stato generoso. Buona giornata a te, Signora.» Uscì dalla stanza. Noleggiato un cavallo e dormito nelle stalle, ripeté Arré tra sé, io non saprei farlo. Neppure vent'anni fa. Una consapevolezza che la lasciò alquanto perplessa.
Quel pomeriggio Paxe andò a parlare con Dobrin. Aveva programmato di dormire fino all'ora della prima lezione di spada. Ma non ci era riuscita. Alla fine si era alzata e, avvicinatasi alla cassapanca, ne aveva sollevato il coperchio. Ne trasse la spada e la poggiò in terra accanto a lei. Cercò quindi le cose che vi sapeva custodite, sebbene non le avesse più toccate da sedici anni. Trovò per primo l'olio di chiodi di garofano; ne stappò la bottiglietta ed odorò il profumo. La fragranza era ancora viva. La cipria era nel suo astuccio, assieme al pennello. La prese tra le mani. Infine, le sue dita si posarono sul pezzo di stoffa rossa, ora sbiadita, che aveva portato con sé dalle Colline Rosse. La estrasse dalle profondità della cassa e la distese sulle ginocchia. Era stata di Tyré. Quando questi era morto, gliel'aveva tolta dal braccio e se l'era stretta nella mano: la shariza di Tyré, l'emblema del ceari, consegnatagli cinquant'anni prima da Doménia. Paxe aveva cercato di dirgli che lei non aveva il diritto di possederla, ma lui non le aveva dato ascolto. La carezzò: profumava di cedro. Non l'aveva mai indossata, né lo avrebbe fatto adesso; però aveva sentito il bisogno di vederla. Fissò gli occhi sull'effigie rossa del Guardiano. Ma non accadde nulla, non avvertì alcun senso di sollievo, né sentì scemare la preoccupazione che la turbava. Disse a se stessa che era solo una statua, e che non sempre il cea si manifestava. Poi si alzò, ed avvolse la fascia intorno alla base della scultura. Tornò quindi presso la cassapanca e cominciò a pulire la lama della spada. Quando ebbe finito, la ripose nella cassa ed uscì di casa. La dimora degli Ismenin troneggiava sul pendio della sua collina in uno splendore imponente; Paxe risalì il declivio e raggiunse la sontuosa costruzione. Mentre ne attraversava il cancello d'ingresso, si domandò come fosse vivere lassù. Umido, probabilmente. S'incamminò verso la Piazza d'Armi. Il cancello era stato sostituito. Non era più di ferro, con le sbarre attraverso le quali era possibile sbirciare nel recinto quando non c'era una sentinella a sorvegliarlo. Rosse tavole in legno di cedro serrate da un pesante saliscendi costituivano il nuovo cancello, più alto di lei, e pari in altezza alla sommità della palizzata. La Guardia di turno (diversa da quella che aveva incontrato la volta precedente) la scorse e s'irrigidì attenta, la lancia tenuta orizzontale a sbarrare il varco. «Di' al tuo Maestro della Piazza che Paxe-no-Tamaris è qui, e desidera parlargli!», ordinò Paxe.
L'uomo le rivolse un inchino. «Se vuoi scusarmi, Maestro della Piazza...» Apri il pesante cancello e vi si infilò, richiudendolo all'istante per impedirle di guardare nello spiazzo. Una conta cadenzata si levava dall'alta recinzione. Paxe l'ascoltò finché la sentinella non fu tornata. «Il Maestro della Piazza ti prega di raggiungere la sua casa passando intorno alla Piazza». «Grazie,» disse Paxe. Girò intorno alla Piazza d'Armi; la conta si fece più sonora. (Uno... e due... e tre... e quattro!) I gabbiani del fiume roteavano sulla sua testa. La porta della villetta era aperta, e Paxe entrò. Dobrin la stava aspettando, seduto a gambe incrociate dietro il tavolo. Gialli boccioli fiorivano da un vaso di rame, mentre un altro ramo delle stesse gemme adornava la statua del Guardiano. In luogo del fetuch, alcune fette di mela erano disposte in un piatto azzurro. Paxe si tolse gli stivali, li ripose nell'apposita alcova presso la porta e, camminando sulle stuoie, si diresse al cuscino che l'attendeva. I due mangiarono le trance di mela. «Mi fa piacere rivederti,» le disse Dobrin. «Sai dove abito,»'replicò Paxe. «Sì,» fece lui, quasi scusandosi. «Sono stato molto impegnato... e poi tu sei passata al turno di notte, non è vero? Non volevo interrompere il tuo sonno». Paxe sorrise. «Come vanno gli allenamenti?» «Bene,» disse Dobrin, «ed i tuoi?» Aveva immaginato che ne fosse al corrente. «Discretamente,» rispose. «È solo da poco che abbiamo i seji». «Trovi che i soldati nativi della città mostrino maggiore o minore abilità nel maneggiare le spade?», le domandò. Paxe si grattò il mento. «Non si differenziano molto da quelli provenienti dalla campagna - tranne che per il fatto che tendono a dimenticare di trattare il legno come se fosse acciaio. Non pensano ai seji come a delle vere spade; sembra che per loro non siano altro che bastoni». «Sì,» convenne Dobrin, «l'ho notato anch'io». «Dove ti sei procurato le armi da esercitazione, Dobrin?» «Ce le ha fornite una donna di Galbareth, una certa Sitili. Era piuttosto vecchia. Prima del Bando aveva fatto parte di una ceara, senza però possedere la shariza. Perché?» Paxe sfiorò con un dito i soffici petali gialli. I fiorellini, quasi comple-
tamente inodori, crescevano lungo tutto il delta del fiume. «In questi giorni ho ripensato a quanto mi dicesti a proposito dei Maghi, e di altre cose... Dobrin, tu ti fidi di Ron Ismenin?» Dobrin si irrigidì. «Non capisco cosa intendi dire.» Paxe assunse un'aria torva. «Maledizione, uomo, non fare lo stupido con me! Siamo pur sempre colleghi, se non amici. Tu sai cos'hanno fatto gli Ismenin; hanno introdotto clandestinamente armi da taglio attraverso le Porte della città. Dove sono adesso: nella tua armeria? O nascoste da qualche parte in casa?» Si scoprì, con suo stesso stupore, a desiderare di urlare contro quell'uomo. Le costò fatica tener la voce bassa. «Cos'è che ha in mente di fare Ron Ismenin con quelle spade?» Sbigottita, vide Dobrin sorriderle. «Comprendo i tuoi sospetti, Paxe, ma sei in errore». «Su che cosa sarei in errore?» «È vero, le spade sono qui. Ma non sono stati gli Ismenin ad organizzare il trasferimento in città: Ron Ismenin me lo ha giurato, ed io gli credo. L'idea è stata concepita da un altro uomo». Isak? pensò Paxe. Cha Minto? «Da chi?» «Non lo so». «Cos'ha intenzione di farci Ron, ora che le ha a disposizione?» «Niente,» disse Dobrin. Sollevò una mano. «Niente, fino a che il Consiglio non si sarà riunito dopo il Festival. Allora - così mi ha detto - suggerirà all'Assemblea che il possesso e l'uso delle spade a lama corta siano nuovamente consentiti in città. Ovviamente soltanto alle Guardie». «E il Clan Bianco?», disse Paxe. «che ruolo ha in tutto questo?» Dobrin apparve sorpreso. «Assolutamente nessuno. La Famiglia Ismenin non ha rapporti con Tanjo. Il mio Signore condivide il mio atteggiamento nei confronti dei Maghi. Rispetta il cea, ma non consulta né ha fiducia nei Maghi». Dubito, pensò Paxe, che Ron Ismenin nutra rispetto per qualcosa che non siano i suoi personali desideri. «E se fossi tu a sbagliarti?» disse, protendendosi in avanti, la voce tremula. «Ma io non mi sbaglio, Paxe,» disse l'uomo con gentilezza. Posò le mani sul tavolo. «Conosco gli Ismenin. Sono al loro servizio da anni ormai; sono stato il Maestro della Piazza di Colin Ismenin, ed ho conosciuto persino il vecchio Rath Ismenin qualche anno prima che morisse. Gli Ismenin hanno sempre agito nell'interesse della città».
«E nel proprio,» aggiunse Paxe. «La Famiglia Med si comporta forse diversamente? Pensi che Arré Med faccia qualcosa senza valutare prima i vantaggi che ne derivano alla sua Famiglia?» La domanda era onesta. «No,» rispose Paxe. Dobrin annuì. «Credimi,» le disse con espressione severa. «Se io pensassi che Ron Ismenin stesse tramando a danno della città, non resterei il suo Maestro della Piazza neppure un istante. Lo giuro sulla mia abilità d'uomo di spada». C'era ben poco che Paxe potesse aggiungere. «Che tu non debba mai provar rimorso per questo giuramento». «Vedrai,» disse Dobrin, «la mia fiducia non è mal riposta». «Scocca!», disse Kadra. Sorren lasciò andare la corda dell'arco. La freccia prese il volo ondeggiando un poco, viaggiò verso il bersaglio poi sbandò in un cespuglio di rovi, lasciando un buco nel terreno. «Ancora,» disse Kandra. «Incocca!» Sorren abbassò l'arco all'altezza della cintola e, ponendola in posizione orizzontale, appoggiò una freccia sulla corda. Il braccio sinistro era dolorante e desiderava massaggiarlo. Il dolore - le aveva detto Kadra - non era causato dalla stanchezza, ma indicava un'eccessiva pressione nel mantenere l'arco. Allentò quindi la presa con cautela. «Punta!» Sorren sollevò l'arco, quindi tirò la corda piegando il gomito come Kadra le aveva mostrato, finché la corda non andò a toccarle il punto mediano del mento. Guardò il bersaglio sforzandosi di localizzarne il centro. Non era facile identificare il centro di una balla di fieno. «Scocca!» Sorren schiuse le dita. Stavolta la freccia colpì il margine esterno del bersaglio, si conficcò per un istante, poi rimbalzò via atterrando accanto alle balle legate. La ragazza lanciò un'occhiata alla scorta di frecce sul terreno vicino al piede destro. Gliene restavano altre quattro. «Incocca!», ordinò Kadra. «Brava! Punta: non guardare la freccia, tieni gli occhi sul bersaglio. E rimani immobile. Non alzare le spalle. Scocca!» Si trovavano su un terreno da pastura nel Distretto dei Batto; poche strade le separavano dalla Via dei Susini. Muli e cavalli pascolavano poco lontano. Mosche azzurre ronzavano freneticamente intorno agli animali, alle balle di fieno, ed a loro due; il terreno era cosparso di sterco vecchio e fresco. Faceva molto caldo, e Sorren si chiese con stizza da quanto tempo
erano lì. Le sembrava un'eternità, quando invece, probabilmente, erano soltanto un paio d'ore. Tammo le si avvicinò da tergo con la sua peculiare andatura strascicata; Sorren non si voltò, ma ne riconobbe il passo ed il tanfo. Avanzava trascinandosi, come se i suoi piedi fossero troppo pesanti per poterli sollevare dal suolo. Con voce piagnucolante, rivolse una domanda a Kadra, e lei gli rispose in tono gentile. Tammo era una persona semplice; il suo compito era quello di ripulire il pascolo dallo sterco, un compito interminabile che non sembrava disdegnare, malgrado fosse tale da far diventar matto persino un bambino. Ma Tammo non era un bambino; era bello e cresciuto, con possenti braccia muscolose e lisci capelli neri che gli ricadevano sulle spalle abbronzate in mille grovigli. Sorren esercitava su di lui un fascino straordinario: incantato, guardava i capelli biondi e la pelle chiara della ragazza. Quando Kadra l'aveva condotta per la prima volta al pascolo, il giovane aveva allungato una mano per accarezzarla. Sorren, allarmata, si era ritratta all'istante. «Lascialo fare,» le aveva detto il ghya, «non ti farà del male. È soltanto curioso.» Così Sorren era rimasta immobile mentre Tammo le passava le dita tra i capelli come fosse la criniera d'un cavallo. Ma, dopo quella volta, l'aveva lasciata in pace. «Incocca!», disse Kadra. Sorren raccolse una delle frecce rimaste. Il sudore le faceva bruciare gli occhi. Lasciò andare la freccia e se li asciugò. Gli arcieri dovevano avere la vista acuta. Recuperò la freccia., badando a non danneggiare le penne. «Punta! Scocca!» Stavolta la freccia volò dritta sul bersaglio e vi si conficcò, oscillando. «Brava!», disse Kadra, e Tammo emise un buffo grido. Sorren piegò le dita intorno al punto centrale dell'arco. Questo era costruito in legno e corno; le arrivava all'altezza del seno quando lo poggiava sul terreno, e le punte erano curve a mo' di ali. Non era faticoso tirarne la corda; Kadra diceva, infatti, che era troppo leggero per lei, ma che all'inizio era preferibile ad un arco pesante. Le frecce erano in legno di cedro, adorne di penne grigie di tacchino. La corda era di seta. «Incocca!», disse Kadra. Per tutto il tempo dell'esercitazione era rimasta dietro di lei, in piedi alla sua sinistra. «Punta! Non premere le dita insieme. Scocca!» Le era rimasta a disposizione un'unica freccia. Sorren sospirò e la raccolse. Aveva la punta smussata, il che significava che non era un'arma tagliente; tuttavia, quando pensava che stava adoperando un arco all'interno delle mura cittadine, il cuore cominciava a batterle forte.
«Incocca!», disse Kadra. Le punte smussate, così le aveva detto, erano preferibili alle punte acuminate per cacciare gli animali di piccole dimensioni. La preda cascava giù, tramortita. (Ovviamente ciò significava dover uccidere l'animale dopo averlo catturato. Sorren evitava di considerare questo particolare. L'odore del sangue la disgustava) «Punta! Scocca!» La freccia volò sul bersaglio e vi si conficcò. Sorren sorrise. «Togli la corda,» le ordinò Kadra. Sorren smise di sorridere. Quest'operazione le riusciva difficoltosa, nonostante le fosse stato spiegato come compierla, e l'avesse già eseguita una ventina di volte. Appoggiò l'estremità inferiore dell'arco sul collo del piede, lo immobilizzò con la mano destra e lo fece flettere con la sinistra; la corda scivolò via dalla scanalatura. Se avesse sbagliato un movimento, l'arco sarebbe tornato nella posizione naturale colpendola malamente. Compì la manovra senza problemi. Poi depose a terra l'arco. La zona interna del braccio sinistro al di sotto del gomito le faceva male, pur essendo protetta da una pezzuola che Kadra le aveva consigliato di avvolgervi intorno. Le dita della mano destra erano arrossate e screpolate al di sotto delle falangi. «Prendine un po',» le offrì Kadra, porgendole la fiaschetta d'argento che teneva sempre con sé. Sorren la prese e se la portò alle labbra. Il forte gusto del vino la fece soffocare; ne bevve solo un piccolo sorso e la restituì. Kadra ne tracannò il contenuto come se fosse acqua. «Per il Guardiano, è ottimo!», disse. «Vai a recuperare le frecce». Sette frecce avevano raggiunto il bersaglio - una l'aveva colpito al centro - sei erano sul terreno davanti ad esso, e due nel cespuglio di rovi. Sorren si servì di un bastone per estrarle dall'intrico spinoso. Le spalle le dolevano, e cercò di sgranchirle con movimenti ascendenti e discendenti, come aveva visto fare a Paxe dopo gli allenamenti. Si rammaricò per non aver messo i sandali; non tanto per i rovi, quanto per lo sterco di cavallo disseminato ovunque. Portò le frecce a Kadra. Il ghya le ispezionò con attenzione, alla ricerca di eventuali rotture. Non ne trovò nessuna. Offrì di nuovo la fiaschetta a Sorren. «No, grazie,» rispose la ragazza. Kadra invece bevve. La superficie d'argento scintillò sotto i raggi del sole. «Dove l'hai presa?», disse. «È bella». «Mi fu donata da una Famiglia per la quale lavoravo. Portavo a Tezera i messaggi che mi affidava.» Kadra tossì, poi mise via la fiaschetta. Non indossava il mantello, e la forma dei suoi seni si mostrava con evidenza sotto la leggera camicetta di lino.
«Devo preparare di nuovo le frecce?», chiese Sorren. «No,» disse Kadra. «Per oggi basta. Come ti senti?» «Mi fa male la schiena». «Stai sollecitando dei muscoli che finora non avevi mai utilizzato. Non lasciarti scoraggiare. Sei molto brava con l'arco, lo sai?» Il ghya sorrise; un sorriso sincero, libero da quella vena sardonica che Sorren si era puntualmente aspettata. «Dev'essere il sangue settentrionale che ti scorre nelle vene». «Grazie,» disse Sorren. Raccolse l'arco. Le sue braccia erano arrossate, arse dal sole. Durante la notte le avrebbero di certo fatto male. Un infuso di tè da applicare con impacchi le avrebbe giovato. Una mosca le si posò su un ginocchio, e la schiacciò con un colpo. «Io sono sempre dell'idea che dovresti procurarti un coltello,» disse Kadra. «Non lo voglio!», protestò Sorren. «Non sto parlando di un'arma! Oh, Guardiano! Non puoi viaggiare senza un coltello. Come farai a sbudellare i pesci? Coi denti? E anche un'accetta non guasterebbe. Potrebbe servirti per tagliare un po' di legna da ardere». «Ci penserò!», disse Sorren. «Ho tutto un anno davanti a me.» Sollevò l'arco. «Cosa ne faccio di questo?» «Lascialo qui! Tammo sa dove nasconderlo. La settimana prossima verremo ad allenarci di nuovo.» Sentendosi chiamare in causa, Tammo si avvicinò. «Tammo,» gli disse Kadra, «metti l'arco e le frecce dove nessuno può trovarli, intesi?» «Aaah, aaah!», fece lui, agitando le mani in direzione del granaio. «Sì, va bene. Torneremo!» Kadra gli diede una pacca sulla spalla. «Sei stato di grande aiuto, Tammo: bravo!» «Aaah!» Raggiante, espresse la sua soddisfazione con un bizzarro passo di danza. «Aaah!» Si allontanarono seguiti dallo sguardo di Tammo che agitava le braccia dietro di loro. «Chi è?», domandò Sorren. Kadra rise. «Mio fratello. Mia madre non ebbe fortuna coi suoi figli. Partorì due fenomeni, e le bastò. Quando si accorse d'essere di nuovo incinta prese una pozione.» Rise ancora. «Allora, ti piace il tiro con l'arco?» Sorren si strinse nelle spalle. «Sì, credo di sì». «Tirare contro una balla di fieno è semplice. La prossima volta avrai un bersaglio mobile, così capirai cosa si prova a puntare su qualcosa che non
ti sta immobile davanti». «Una creatura viva?» «No. Vedrai! Però sappi che, alla fine, dovrai puntare su esseri vivi, Sorren». «Preferirei ricorrere alle trappole». «Non sempre le trappole funzionano. Credimi, lo so bene.» Giunsero al vicolo che dava accesso alla strada. Mucchi di rifiuti ne ingombravano un'estremità: erano pannocchie, bucce di kava e frammenti di vasellame. All'ingresso della strada, Kadra si arrestò di colpo, poi barcollò, il volto improvvisamente esangue. Protese una mano in avanti e si aggrappò al muro di mattoni. «Che ti succede?», chiese Sorren, allarmata. «Posso aiutarti?» «Non starmi appiccicata,» ringhiò il ghya, e Sorren indietreggiò. Kadra continuava a respirare affannosamente. Alla fine si raddrizzò e staccò la mano dal muro. «Non mi piace essere toccata!», disse. Sorren nascose le mani dietro la schiena. «Scusa». «Lo so,» disse il ghya, «stavi cercando di aiutarmi. Ma io non voglio aiuto». Due donne passarono davanti a loro tenendosi a braccetto. Quella più vicina aggricciò il naso e bisbigliò qualcosa all'amica. Sorren si guardò i piedi imbrattati di sterco. «Non posso presentarmi a casa in questo stato,» disse. «C'è una sala da bagno da queste parti?» «Arriva in fondo alla strada e poi gira a sinistra». «Vuoi venire con me?» «Ti accompagnerò fin lì,» disse il ghya, «Ma non entrerò. Io faccio il bagno in privato.» Dove, il suo tono implicava, nessuno può vedermi. Sorren si domandò cosa avrebbe fatto Kadra se quelli - chiunque fossero - non l'avessero presa a bordo della nave. I suoi modi ed il vizio del bere erano sicuramente un motivo sufficiente a renderla sgradita. Il ghya si fermò due volte appoggiandosi al muro più vicino, la mano destra sullo stomaco come se avesse dei crampi, mentre Sorren si chiedeva cosa avrebbe potuto fare se fosse caduto privo di sensi. Invece, ogni volta si raddrizzava. Raggiunsero infine l'archivolto di mattoni rossi che dava accesso ai bagni. Una statua del Guardiano si ergeva fuori dell'ingresso. Ai suoi piedi vi era un pesante recipiente dal collo allungato nel quale i clienti erano tacitamente invitati a depositare un'offerta. Sorren si inchinò dinanzi alla statua. Kadra non imitò il suo gesto.
A Sorren venne in mente che forse non aveva il tempo di fare il bagno. Aveva la sensazione - probabilmente infondata - che Arré avesse cominciato a sorvegliarla, controllando quanto tempo si assentava da casa. Ma, quel mattino, Arré era impegnata col sarto. Dopo aver lanciato uno sguardo a Kadra, sfilò una monetina dalla filza e la lasciò cadere nella capace bocca del vaso. «Dovresti venire anche tu,» disse. «Perché?», proruppe il ghya con improvvisa brutalità. «Per vedere cosa c'è veramente sotto i miei vestiti? No grazie!» Poi si voltò e se ne andò prima che Sorren avesse il tempo di dirgli che non pensava assolutamente una cosa simile. Dannazione, pensò la ragazza. Si lanciò per rincorrere Kadra ma, dopo un po', s'arrestò. Il ghya l'avrebbe sicuramente scacciata. Meglio aspettare una settimana. Forse sarebbe bastata a smorzare l'ira di Kadra. Ogni Distretto della città disponeva di una sala da bagno aperta al pubblico. Erano state costruite dopo la pestilenza, e venivano sovvenzionate dagli stessi cittadini mediante il pagamento delle imposte. In tutte le sale, prima di accedere alle vasche, si passava attraverso una stanza adibita a spogliatoio. Solitamente era piccola ed illuminata da un lucernario, tappezzata da file di scaffali. Vi sedeva un inserviente, la cui mansione ufficiale era quella di badare agli effetti personali dei clienti e di consegnare loro il sapone, mentre, in realtà, stava lì a controllare che accedessero ai bagni solo coloro che ne avevano la facoltà. Di fatto, ad alcuni individui non era consentito entrare nelle sale: alle donne durante le mestruazioni, alle persone affette da eruzioni o lesioni cutanee, ed a chiunque avesse una ferita aperta. A Sorren le mestruazioni si erano appena concluse. Entrò allegramente nello spogliatoio. Una vecchia, curva e quasi calva, quel giorno era di servizio ai bagni dei Batto. Aveva anche una spalla più alta dell'altra. «Vuoi una tunica, dolcezza?» Indicò l'esposizione di tuniche di cotone in fantasie sgargianti disposte sulle mensole. «No, grazie!», disse Sorren, mentre si toglieva i pantaloni e la camicia, che poi ammucchiò in un angolo. Sopra vi poggiò la filza di monete ed il bracciale da schiava. La vecchia la osservò con lasciva ammirazione mentre si scioglieva i capelli. «Sei incantevole!», le disse. Aggricciò quindi il naso. «Cos'è quest'odore?» Sorren si guardò le gambe imbrattate. «Sterco,» disse. «Sono stata in un
pascolo». La vecchia ridacchiò tra i denti. «Bisognerà lavare tutto, uh!» Premette un pane di sapone nel palmo di Sorren che ne sentì l'aroma; profumava di menta. «Entra pure, bellezza. La sala calda è a destra, le fontane e la vasca tiepida sono a sinistra, e la vasca d'acqua fredda in fondo». Il corridoio che portava alle camere da bagno era lastricato di piastrelle bianche e gialle. Sorren girò a sinistra, diretta alle fontane. Ve n'erano due, e da esse l'acqua fuoriusciva in un getto continuo riversandosi in grossi bacini e straripando sul pavimento cosparso di grate. L'acqua proveniva dal fiume, ed una caldaia provvedeva a riscaldarla. Panche di legno circondavano le fontane, cosicché i clienti potevano sedersi mentre si lavavano. Quando Sorren entrò nella camera, vi erano sedute tre donne impegnate in una conversazione che accompagnavano con un animato gesticolare. Il pavimento era disseminato di spugne; presso la fontana più vicina, un vecchio si stava lavando le dita dei piedi. Una ragazzina, agile come una tamia, stava giocando sotto lo zampillo della seconda fontana. Sorren si munì di una spugna. In piedi accanto alla fontana, cominciò a strofinarsi con la spugna intrisa d'acqua per eliminare lo sporco superficiale; si insaponò poi tutto il corpo, iniziando dai peli sul pube. Il sapone le faceva bruciare la pelle del braccio sinistro e della mano destra; la spugna, invece, le procurava una gradevole sensazione, come se una mano grande ed affettuosa le carezzasse le membra. Quando fu completamente pulita, si diresse alla piscina tiepida, ubicata proprio a fianco alla sala delle docce. La gente si recava alla piscina tiepida per passarvi un po' di tempo a sedere in completo relax, ad immergersi ed a chiacchierare con qualche amico. Alla piscina fredda si accedeva sia dalla sauna che dalla piscina tiepida. Delle pietre roventi riscaldavano la sala per la sauna. Anche in questa vi erano delle file di panche, disposte a terrazza; le panche inferiori erano più fresche, ed i frequentatori della sala usavano occupare dapprima le panche inferiori per poi risalire gradualmente verso quelle più calde. Sorren diede un'occhiata alle sue braccia arrossate. Le piaceva sostare nella sala della sauna, ma il calore avrebbe irritato ulteriormente le ustioni provocate dal sole. Scivolò nell'acqua tiepida della piscina, ed i capelli le fluttuarono intorno alla testa. Inarcò la schiena, lasciando che i capezzoli affiorassero sul pelo dell'acqua. Si domandò oziosamente come fosse veramente il corpo di Kadra. Non poteva avere nulla di straordinario. Era mai possibile che a-
vesse insieme gli attributi del maschio e quelli della femmina? Dopo la meravigliosa sensazione provata durante e dopo il bagno, gli abiti le apparivano ancora più sudici, puzzolenti ed appiccicosi. Digrignando i denti, li indossò ugualmente. Lasciò i capelli sciolti, affinché si asciugassero durante il cammino. Contò i bonta della filza di monete; erano tutti al loro posto. La vecchia la vide contare e, con aria risentita, le disse: «Credi che sia una ladra?» «Oh, no, zietta, ma poteva darsi che ti fossi distratta un istante». «Zietta?» La vegliarda snudò i pochi denti rimasti. «Io non potrei mai essere tua zia: non con quella pelle bianca e quei capelli d'oro.» Le mostrò le braccia scure e consunte. «E poi sono troppo vecchia, o tu sei troppo giovane. Tua nonna, forse. Somigli ad una Signora che conoscevo, tanto tempo fa, nel Galbareth. Ah, era davvero bella». Rinfrescatasi, Sorren passò sotto l'archivolto dell'ingresso, ed uscì in strada. Il sole le baciò la testa, e si passò le dita tra i capelli separando le trecce. Socchiuse gli occhi, e sperò che Arré fosse ancora impegnata col sarto. Si avviò quindi verso nord a passi spediti, cercando di imboccare una strada che la conducesse direttamente al distretto dei Med. Ne trovò una: la Via della Tartaruga. Cominciò a cantare sommessamente. «Dove sono andati, coloro che furon scelti? Dove sono andati, i Danzatori possenti? Con le lunghe lame affilate ed i loro lunghi capelli fluttuanti. Dove sono andati, qual è il loro canto?» Un vocio cadenzato giungeva da qualche parte davanti a lei. «Ho... ho, e ho... ho, e ho...» Non era il canto dei portatori di lettighe. Vide la gente indietreggiare e schiacciarsi contro le vetrine e le entrate delle botteghe, come facevano al passaggio d'una carovana. Anche Sorren arretrò, e sentì il gomito di qualcuno comprimerle lo stomaco. Sentiva delle grida davanti a lei. Una ventata calda sembrò spirare sulla via divenuta improvvisamente fredda. Un cavallo nitrì: era un suono musicale, simile alle note di sfida d'un corno. Come un'apparizione giunta dal passato, un plotone di soldati avanzò lungo la strada. Indossavano uniformi di cuoio e d'acciaio e portavano sulle spalle alte picche. Gli elmi sormontati da alte piume dorate oscuravano i loro volti. L'incitamento cadenzato era il loro, e li guidava nella marcia. Formavano quattro colonne, e facevano oscillare le braccia sollevando i
piedi ricoperti dagli stivali. Al centro, un uomo montava un cavallo nero; anche lui indossava l'armatura, e portava in grembo una spada sguainata. Foderi vuoti oscillavano al fianco dei soldati in marcia. Discesero la Via della Tartaruga spingendosi fino al centro del Distretto dei Batto. E, mentre man mano scomparivano, la gente si riversava sulla strada. «Sono di Tezera!», gridò una donna, battendo il pugno sul cardine di un portone. Altri insistevano che i soldati provenissero da Shanan, o da Mahita, o anche da Shirasai. Sorren si recò in casa. Nell'attraversare la Porta Nordoccidentale, vide una folla enorme assiepata intorno ad essa, ed il personale delle scuderie pubbliche che conduceva dei cavalli privi di cavalieri. I finimenti erano sontuosamente decorati con penne e fermagli d'argento. Quando infine giunse al cancello della casa dei Med, scoprì che, la notizia l'aveva preceduta con un'abbondante anticipo. «Hai sentito dell'arrivo dei soldati?», disse il raccoglitore di letame vicino al suo carretto. «Li ho visti!», gridò Sorren mentre attraversava il cancello. Si chiese se giungessero veramente da Tezera. Sembravano essere usciti dal passato: non erano dei ceari, ma simili ai ceari. Le pareva quasi che fossero state le note della sua canzone ad evocare quell'apparizione. Ansimando, corse dritta nella saletta, ma si arrestò di colpo. Paxe era lì. Arré guardò Sorren e storse la bocca. «Hai visto i soldati!», disse. «Ti si legge in quel luccichio degli occhi.» Si rivolse poi a Paxe. «Vai avanti». «Vengono da Nuath,» disse la donna bruna. «Li ha portati con sé il Signore Tarn da Nuath Ryth!», esclamò Arré a metà tra il divertimento e la rabbia. «Che sfrontatezza!» E quel nome poi! Dovrebbe chiamarsi Tarnno-Vattelapesca Ryth da Nuath. Come si chiamava sua madre? E perché non ne porta il nome? Quanti soldati ha portato con lui?» «Quaranta,» disse Paxe. Aveva gli abiti spiegazzati, e Sorren ne dedusse che doveva essere a letto quando il Messaggero della Porta era andato a chiamarla. «Hanno acconsentito a lasciare cavalli e spade presso la Porta. Lui, però, non ne ha voluto sapere. Ha detto - non a me, dato che io non c'ero, ma al mio Comandante della Guardia Diurna - «Mi piazzerò fuori delle mura, io ed i miei soldati, e nessuno entrerà o uscirà da quella Porta fino a quando non mi sarà permesso di entrare in città in groppa al mio cavallo ed armato della mia spada». Arré sbuffò. «Avrebbe bloccato il traffico fino a Nuath!» «È per questo che alla fine Ivor ha deciso di lasciarlo entrare». «Non poteva fare altrimenti. Ma ha trovato Kim Batto ad aspettarlo?»
Sorrise con malizia. «Come avrei voluto assistere alla scena! Che spiegazione ne è stata data? Doveva esserci Ron Ismenin ad accoglierlo». «Ron Ismenin è stato trattenuto da un contrattempo,» disse Paxe. «Ha mandato un messaggio. Poi, mentre mi stavo allontanando, è arrivato Col Ismenin e tutto è tornato a posto. Tarn da Nuath Ryth è ospite nella casa dei Batto; lì ha più spazio che dagli Ismenin. Probabilmente è vero; gli Ismenin hanno una casa piena di parenti del Clan Blu». «E la donna per la quale si sta facendo tutto questo? Dov'è?» «Quando ho lasciato la Porta, la sua lettiga stava entrandovi». Arré rivolse lo sguardo a Sorren. «E tu, cosa ne pensi di loro?» Sorren cercò una risposta. Ma la sola cosa che riusciva a pensare era il modo in cui i soldati le erano apparsi. «Avevano pennacchi dorati sugli elmi, e stivali alti fino al ginocchio». «Chissà che caldo devono aver sentito ad attraversare la valle conciati in quel modo,» osservò Arré con sarcasmo. «Bene, è tutto molto interessante. E domani, nella casa degli Ismenin, sarà più eccitante ancora. Raddoppia la sorveglianza sul confine col Distretto dei Batto,» ordinò a Paxe, «finché quella gente non sarà tornata là da dove è venuta». Paxe annuì e si congedò. «Sei rimasta intrappolata tra la folla?», disse Arré. «Perciò sei stata fuori tutto questo tempo?» «Sì,» mentì Sorren. «Hai scelto i vestiti?» «Il sarto me li riporterà stasera.» Arré inclinò la testa da un lato, e Sorren si irrigidì. «C'è una cosa per te sul tuo letto: va' a vedere». Sorren salì di sopra. Giunta nel vano della porta s'arrestò, spalancando la bocca. Un completo di seta - tunichetta e pantaloni - era disteso sul copriletto. I due pezzi erano blu con intrecci scarlatti sui polsi e sul collo. Sorren si inginocchiò, e con la mano accarezzò il tessuto. Era di seta pesante, due volte più pregiata di qualunque altro capo avesse mai posseduto. Le maniche ampie si allargavano fino al gomito come la bocca d'una campana. Si strofinò una guancia con un lembo di stoffa; amava sentirne il tocco delicato. Poi accostò la tunica al corpo calcolandone la taglia. Tornò di corsa dabbasso. Arré era seduta ad attenderla. «Ti piace?», le chiese, sorridendo. «C'è anche questo.» Protese la mano: si trattava di un pettinino, di quelli che Isak portava durante alcune delle sue esibizioni. Era rosso, incastonato di lapislazzuli. «È splendido!» Sorren si inginocchiò accanto alla sedia, con il pettine appoggiato sui palmi. Non riusciva neppure a immaginare quanto valesse
quell'oggetto, né quale valore avesse l'abito di seta. «Sono troppo belli per me!» «Non essere sciocca!», disse Arré. «Starai d'incanto! E poi, perché non dovresti indossare abiti costosi per una simile occasione?» «E tu, cosa indosserai?» «Una tunica. La vedrai stasera.» Accarezzò i capelli della ragazza. «Profumi di menta». «Sono stata ai bagni». «Capisco!», disse Arré. Si strofinò una guancia. «Non voglio sapere i fatti tuoi, piccola. Ma... hai un'altra amante?» «Un'altra...» Sorren fu sul punto di scoppiare in una fragorosa risata. Era questa dunque la ragione per la quale Arré l'aveva tenuta d'occhio negli ultimi tempo? «Oh, no. Niente del genere». «Meno male! Paxe ne avrebbe sofferto; anche se probabilmente non lo avrebbe dato a vedere. Ha perso il figlio, e perdere anche te la sconvolgerebbe». «Ma Ricard le ha scritto,» disse Sorren, «ed io non me ne andrò da nessuna parte». «Non ancora, pensò, ricordando Kadra, l'arco e la mappa... non ancora. «Tu stai bene?», le domandò. «Mai stata meglio,» rispose Arré. «Devo semplicemente ricordarmi di non bere alla festa». Capitolo quindicesimo La sontuosità della residenza degli Ismenin era persino più grandiosa di quella che caratterizzava la dimora degli Hok. Il viale che conduceva al cancello principale della grande costruzione bianca era fiancheggiato da alberi di kava. Coi tamburi sotto un braccio e gli stupendi abiti nuovi sotto l'altro, Sorren lo stava percorrendo quando una farfalla si librò dal ramo di un albero per posarsi, nello spazio di un istante, tra i suoi capelli. Con un gesto delicato lo scacciò via. L'aria era pregna del profumo di kava e degli odori provenienti dalle cucine degli Ismenin dove fervevano i preparativi per la festa. La Guardia di servizio alla cancellata che circondava il cortile aveva riconosciuto Sorren - il che la lusingava - e le aveva aperto il cancello della villa. Era ovvio, però, che la Guardia sulle scale non la conosceva. La scrutò con aria sospettosa mentre gli si avvicinava.
«Devo suonare alla festa,» disse, mostrandogli i tamburi. «Vai in cucina,» disse quello, indicando col pollice un vialetto che si allungava perpendicolarmente al cortile. Indossava l'armatura: elmo, corsaletto di cuoio e metallo, sandali con cinghie larghe e rinforzi in metallo. Un abbigliamento scomodo, a giudicare dall'umore del soldato. La cucina di casa Ismenin non differiva granché da quella di casa Med; era soltanto più grande. La capo cuoca era una donna esile e bruna. Alta quasi quanto Sorren, e persino più scura di Paxe, snocciolava con ferocia frasi tronche ai sei o sette assistenti ed apprendisti che le turbinavano intorno. Trance di pesce crudo affollavano i banchi, ed il loro odore soverchiava ogni altra fragranza. Fu la capo cuoca a notare per prima la presenza di Sorren. «Sì?», le disse. «Suono alla festa,» disse. «La Guardia mi ha detto di venire qui». La cuoca alzò la voce. «Tokki!» «Yo!» rispose una voce dall'esterno, e subito una persona entrò nella stanza. Sorren sbatté le palpebre. Era una persona alta, snella e con la pelle scura, ed era un uomo, realizzò, fissando i fianchi e le mani di Tokki, oltre alla barba riccia e bruna. L'uomo le rivolse un cenno col capo. «Hai intenzione di rimanere piantata li in eterno, ragazza? Andiamo!» Sorren attraversò la cucina, dirigendosi verso Tokki per il quale provò una profonda ostilità. Detestava che la chiamassero ragazza. Quando gli fu vicino, l'uomo le disse: «Come ti chiami?» «Sorren». «Sorren. Bene, puoi smettere di meravigliarti. Io e Tekka siamo gemelli. Lei è cuoca ed io dispensiere. Tu sei la percussionista di Isak Med, nevvero? Ci ha detto che saresti arrivata presto.» Mentre parlava, le faceva strada in tutta fretta lungo uh corridoio; i suoi passi erano più lunghi di quelli di Sorren, e per la ragazza, allungare anziché accorciare il proprio passo, costituiva un'assoluta novità. «Whoa, fermati!», le disse quando aveva cominciato a superarlo. «Lascia qui i sandali». Quel «qui» si riferiva ad un'enorme alcova, grande quasi quanto una stanza isolata dal corridoio. Sorren si sfilò i sandali e li ripose su uno scaffale, chiedendosi se dovesse girare per tutta la casa a piedi nudi. Fino a quel momento non aveva visto stuoie sul pavimento di pietra. Tokki indicò una cassa. «Lì dentro ci sono delle scarpe. Trova un paio che ti vadano bene».
Sorren guardò dentro la cassa: era piena di scarpe di tutte le misure. Ciascun paio era legato assieme per mezzo d'un nastro. Sembravano tutte uguali: gialle e grigie, i colori degli Ismenin. Cercò un paio della sua misura, ne trovò uno che sembrava giusto, e provò una scarpa, muovendo le dita... «Queste vanno bene,» disse alla fine. Tokki si alzò le gambe dei pantaloni per farle vedere che anche lui portava delle scarpe simili. «Anche gli ospiti le portano.» Prese quindi Sorren per un gomito e la condusse lungo un altro corridoio. Il pavimento era rivestito da uno spesso tappeto di lana decorato da una fastosa fantasia geometrica in rosso e nero che richiamava quella degli arazzi alle pareti. Tutte le porte della casa sembravano essere di legno - non di carta o stoffa come solitamente erano i paraventi - sicché bisognava tirarle per aprirle e spingerle per rinchiuderle. «Puoi cambiarti qui. La sala grande è da quella parte; è lì che saranno accolti tutti gli invitati. L'orinatoio è di là...» Indicò una porta dall'altro lato della stanza. «Verrò ad avvisarti quando lo spettacolo starà per iniziare. Non preoccuparti, non sarai la prima. Hai fame?» Sorren annuì. «Ti farò avere qualcosa da mettere sotto i denti. Non metterti a gironzolare; ti perderesti sicuramente. In questa casa è facile perdere l'orientamento». Le sorrise, poi si allontanò. Le dimensioni della stanza erano pari a quelle della saletta di Arré Med. Le pareti erano di pietra, come pure il pavimento, e persino il soffitto. Sul pavimento c'era un tappeto di corteccia, e dello stesso materiale erano fatti gli arazzi appesi alle pareti. Un lungo divano basso, foderato di cuscini, era appoggiato ad una parete. Sorren vi si sedette, domandandosi se sarebbe dovuta rimanere per tutta la durata della festa imprigionata in quella stanza. Picchiettò coi talloni la base del divano. Sarebbe stata una vera noia. Chissà quante persone ci sono in casa, si chiese. La Famiglia Ismenin era numerosa e, come la Famiglia Hok, i suoi componenti abitavano tutti insieme. Tuttavia, diversamente da come si era sentita in casa Hok, lì, nella dimora degli Ismenin, non si sentiva benvenuta, gradita, ma soltanto una serva. Aguzzò l'udito, ma le pareti di pietra ed il pesante materiale che le rivestiva, attutivano la maggior parte dei suoni. Un carro potrebbe passare davanti alla porta senza che me ne accorgessi, pensò. E se Tornor fosse così, fredda, isolata e silenziosa? In quel momento la porta si aprì, e Jeshim entrò. Recava tra le braccia una cassetta dalla forma allungata e dalla schiena gli pendeva una sacca informe. Attraversò la stanza e depositò la cassetta
sul divano accanto a Sorren. «Sorren, mia adorabile ragazza, come stai? Non è una meraviglia essere qui? E lo devo a te.» Le rivolse un inchino, «Grazie. Come ti sembro?» Indossava una lunga tunica rossa ed arancione con grosse chiazze di un turchese sgargiante. Il rosso e il marrone s'intonavano con la barba. «Non c'è rischio che passi inosservato». «Ci credo.» Aprì la cassetta. Vi erano custoditi sei pugnali, scintillanti sul feltro scuro della fodera interna. Con amorosa delicatezza fece scorrere un dito lungo la lama splendente d'uno di essi. «Oh, quanto sono belli! Non sono splendidi?» Sorren non era della stessa opinione. «Cosa c'è nella borsa?», gli domandò. Jeshim posò anche quella sul divano. Ne allargò l'apertura e mostrò a Sorren il contenuto. «Le mie sfere!», disse. Sorren sbirciò nella sacca. Conteneva pressappoco una ventina di bocce. «Ne usi così tante per il tuo numero?» «No. Ma ne porto sempre alcune di riserva. Sono un vero professionista, qualunque cosa faccia.» Ammiccò lentamente con la palpebra sinistra. «Ricordalo». «Quali altri numeri ci saranno? Lo sai?» «Un mimo. Ricordi Saedi? L'anno scorso partecipò al Festival del Raccolto. Tre musicisti. Dopo ci sono io, poi un intervallo e, alla fine, tu ed Isak Med». «Quali musicisti?» «Non ricordo.» Si sedette sul divano e le mise un braccio intorno alle spalle. La barba le solleticò il mento. L'odore dell'Erba dell'Estasi promanava dal giocoliere. «Vuoi fumare?» «No.» Sorren si alzò. «E non voglio che continui a toccarmi, Jeshim. Non mi piace». L'uomo si strinse nelle spalle. «Stavo solo cercando di dimostrarti la mia amicizia.» Sorrise con astuzia. «Kadra ti piace, eh? Di' un po', com'è quando si spoglia? Non l'ho mai visto quel mantello». Sorren lo fissò, sbigottita ed adirata. «Cosa intendi dire?» «Su, andiamo, dolcezza!», fece lui alzando gli occhi con aria maliziosa. «Lo sa mezza città che vi vedete. Com'è andare a letto con un ghya?» Sorren rabbrividì. «Non ci sono mai andata,» disse. Jeshim trasse un pugnale dalla custodia aperta e cominciò ad incidere un callo sul palmo della mano. «Di' quello che ti pare. La mia era solo una
domanda». La ragazza gli strappò lo stiletto dalle mani. «Ascoltami bene!», intimò, tenendo basso il coltello come Paxe impugnava il niji. «Forse tu non hai amici, e per questo non riesci a concepire che una persona possa piacerti senza che tu voglia andarci a letto. Ma io e Kadra siamo amiche, e non voglio più sentire discorsi del genere». Tremava, tanta era la rabbia che provava. Jeshim restò immobile per qualche istante, poi protese la mano verso di lei. «Sorren, dammi quel coltello!», le disse piano. La ragazza serrò più saldamente ancora le dita intorno all'arma. Era minuscolo, più piccolo di un coltello da cucina, per nulla minaccioso. «Mi lascerai in pace?» «Ridammi il coltello. O ti farò male». «Non lo farai!», disse lei. «Non provocarmi!» Sorren sentì la tensione crescere nell'uomo che le stava di fronte, pronto a colpirla. Indietreggiò, allontanandosi dalla sua portata. Tutt'ad un tratto sentì una mano affondare nella sua spalla, arrestando la sua ritirata e facendola ansimare dal dolore. «Adesso basta!», disse una voce: la voce di Isak, che poi ritrasse la mano dalla spalla di Sorren ed avanzò nella stanza frapponendosi tra lei e Jeshim. «Non m'importa cosa abbia dato inizio a questo, ma adesso finisce. Sorren - le puntò addosso gli occhi scuri - posa quel coltello sul pavimento. Subito!» La ragazza si inginocchiò, e depose l'arma ad un braccio di distanza. Isak la raccolse e la consegnò a Jeshim. «Giocoliere, metti via quella scatola!» La stanza sembrava più piccola ora che c'era Isak. Sorren si alzò, strofinandosi la spalla. Isak le sorrise amabilmente. «Beh, come stai, piccola?» Sorren si chiese se Isak ricordasse ancora ciò che le aveva detto l'ultima volta che si erano incontrati. «Sto bene». Accennò a Jeshim con un gesto, ed il suo tono si fece canzonatorio. «Credevo foste amici, ma gli amici non si trattano in questo modo. Sembravi pronta a sgozzarlo». «Volevo soltanto che mi mettesse le mani addosso». «Giocoliere, tieni le mani a posto. E anche la lingua. La mia borsa è nel corridoio; va' a prenderla.» Jeshim, ridotto al silenzio, obbedì. Isak si sedette sul divano, allontanando la cassetta piena di coltelli.
«Come sta la mia cara sorellina?», disse, inclinando la testa di lato. Vestiva abiti da passeggio, ma i capelli erano già raccolti sulla sommità del capo, profumati ed impomatati, sì che il Danzatore olezzava al pari di un giardino. Quel mattino, Arré aveva raccomandato a Sorren: «Puoi dire ad Isak tutto ciò che desidera sapere, tutto tranne il fatto che parteciperò alla festa. Se te lo chiedesse, allora menti». «Sta meglio,» rispose Sorren. «Ho saputo che si è ammalata. Mi dispiace tanto. Avrei voluto farle visita, ma le persone ammalate si stancano così facilmente!» Scorse i tamburi, e notò gli abiti accanto ad essi. «Cos'è questo? Un vestito nuovo?» «Sì. Arré lo ha comprato per me». Isak osservò il completo. «È molto bello!» Con gran difficoltà Jeshim entrò dal corridoio: aveva entrambe le braccia occupate da una borsa di dimensioni enormi. «Per il Guardiano, ma cosa diavolo c'è qui dentro?» «Costumi,» disse Isak. Sciolse il laccio che ne legava l'apertura ed estrasse il fallo di paglia che utilizzava per la parte dello Stallone. Jeshim ridacchiò e lo prese tra le mani. Finse di legarselo attorno alle cosce. «Non mi dispiacerebbe averne uno così.» La bocca gli si contorse in una smorfia oscena. «Non ne hai un altro?» «No!», disse Isak. Il tono della sua voce bastò da solo a raggelare il giocoliere. Jeshim rispose il fallo accanto alla borsa e raccolse la sua sacca dal pavimento. «Scusami!», disse. Isak sorrise, poi i suoi occhi tornarono a Sorren. «Sicché la mia cara sorellina ti ha mandato qui preparata per benino. Che cara! Ma è stata davvero ammalata?» «Sì,» disse Sorren. Prese a muovere le dita per sgranchirle; la sua rabbia si era smorzata, ma l'aveva lasciata tesa e contratta sotto i vestiti. Isak riaprì la borsa e ne trasse i colori per il trucco. Ne aveva di svariati tipi contenuti in boccette verniciate. «Di cosa?», disse. Sorren, intanto, tamburellava con le dita sulle cosce. «Ha bevuto troppo». La bocca di Isak si contorse in una smorfia. Tirò fuori i pennelli che adoperava per dipingersi il volto e ne lisciò le punte luccicanti. «Ironia della sorte! I Med hanno costruito e continuano a costruire la loro fortuna sui
vigneti e sulle cantine, e la mia cara sorellina non può bere». D'improvviso la porta s'aprì, e delle persone entrarono nella stanza. Un servitore in livrea gialla e grigia portò un vassoio ricolmo di cibo. Saedi il mimo lo seguiva. Con interesse da artista, la sua faccia bruna ed affilata si voltò dapprima verso Isak (il quale fu salutato con un inchino) poi verso Jeshim e Sorren. Tre donne con indosso tuniche argentate ed in mano lunghi flauti di legno, gli fecero compagnia e, senza indugiare un istante, si sedettero in un angolo e cominciarono a suonare. Trilli, sequenze di note, motivi da strada, invasero la stanza. Lo stomaco di Sorren brontolava. La ragazza si avvicinò al vassoio poggiato sul pavimento, e piluccò un pezzo di formaggio, un po' di frutta e qualche salsiccetta, finché non si accorse dei nidi di pasta. Ne mangiò sei. Quando alzò gli occhi dal vassoio, trovò Isak intento ad osservarla. Con la mano sorreggeva un pennello, mentre uno specchio d'ottone gli stava sulle ginocchia. Sorren avvampò vergognandosi della sua golosità. «Desideri qualcosa, mio Signore?» «No. Ho già mangiato.» Le fece un cenno col capo. «Vieni qui!» Sorren attraversò la stanza fermandosi al suo fianco. Isak avvicinò il viso di Sorren al suo. «Non muoverti. Chiudi la bocca.» Sorren serrò le labbra e, un istante dopo, sentì il bacio leggero e tremante del pennello sul volto. Sentì che scorreva tutt'intorno alla linea degli occhi per poi ritrarsi. «Guarda.» Isak girò lo specchio in modo che potesse mirarsi. Sorren si ritrovò a guardare se stessa... se stessa, sì, ma diversa, una Sorren con folte ciglia nere ed occhi languidi. Sollevò una mano per toccare quelle strane linee nere, e Isak sospinse via le dita curiose. «Lascialo! Ti sta bene! Puoi togliere tutto dopo che avrai suonato.» Alzò la testa altera. «Gli ospiti staranno arrivando. Fai presto: vestiti, piccola! Si comincerà col servire un antipasto, seguirà quindi lo spettacolo, poi il pranzo vero e proprio, ed alla fine la cerimonia». Sorren tese l'orecchio ed udì il fievole brusio degli invitati che parlavano tutti nello stesso momento nel salone poco distante. «Tu non ti unisci a loro?», domandò. Isak scrollò la testa. «Dopo l'esibizione, mai prima; rovinerebbe l'atmosfera.» Cominciò a spogliarsi. Sorren si tolse la camicetta. Nella settimana e mezza trascorsa da quando lo aveva visto l'ultima volta, l'odio che aveva provato per lui era in qualche modo svanito, sostituito da quella sorta di curioso cameratismo che, frammisto ad un senso di rispetto e di timore,
aveva sempre provato per Isak Med. Lo osservò mentre vestiva i panni del Pavone, ammirando il modo in cui i suoi muscoli scattavano sodi sotto la pelle, deliziandosi alla vista del torso flessuoso... Dall'altra parte della stanza, anche Saedi lo contemplava. D'improvviso, un suono lacerò l'aria, zittendo i musici e paralizzando tutti nella stanza, compreso Isak. Una delle flautiste si vide cadere lo strumento dalle mani. A provocare il sussulto generale era stato lo squillo di un corno, simile alle sirene delle navi nella nebbia, ma più sonoro ancora, e più selvaggio. «Che accidenti!», disse Jeshim. Isak rise, e raccolse lo specchietto che gli era scivolato dalle ginocchia. «È Tarn Ryth,» annunziò seccamente. «L'uomo con i soldati,» disse Sorren. «L'uomo con i soldati,» confermò Isak. «Li hai visti marciare nella città ieri? Cosa hai pensato?» Sorren carezzò la seta in grembo e richiamò alla mente le reazioni suscitate in lei dalla vista dei soldati. Il suo primo pensiero era andato ai ceari. Ma ora, dopo aver visto le Guardie della villa bardate in quelle ridicole armature, pensò che i ceari non somigliavano affatto a quei soldati. Isak era assai più simile ad un vero ceari di quanto lo fosse quell'uomo a cavallo. «Li trovo stupidi!», disse infine. Isak ridacchiò. «Anch'io,» convenne, mentre si sistemava sulla testa la corona di piume del Pavone. La porta si aprì. Cha Minto entrò nella stanza. «Isak!» La voce suonò alta e strana. «È qui! È venuta!» «Di che stai parlando?», disse Isak, abbassando il pennello col quale stava disegnando folte e lunghe sopracciglia sulla fronte. «Tua sorella è alla porta,» spiegò Cha Minto, particolarmente avvenente nel suo abito verde pallido. Isak sbiancò in volto. Il colore rifluì dalla sua faccia riversandosi nelle mani, serrate intorno allo specchio come se volessero frantumarlo... Quando parlò, la sua voce era di ghiaccio. «Cos'ha fatto Ron?» «La sta facendo entrare, naturalmente. Cos'altro poteva fare?» «Niente!», ammise Isak. Un poco alla volta, stava cominciando a ritrovare il colorito naturale. «Niente! Va bene: fai come se nulla fosse accaduto. No,» disse acidamente precedendo l'uomo in procinto di parlare. «Non
posso venire: guarda come sono truccato! Vai!» Cha Minto uscì dalla stanza, ed Isak posò gli occhi su Sorren. La ragazza inghiottì. Aveva le mani gelate. Non c'era calore nello sguardo di Isak; né sentimento, niente di tutto ciò che avevano condiviso fino a poco prima... Goffamente armeggiò con la tunichetta, ed infine riuscì a infilarvi dentro la testa. Mentre le scivolava sulle spalle, Isak le disse piano: «Tu sapevi che sarebbe venuta». Sorren annuì. Aveva la bocca secca, come fosse incrostata di fango. «Me lo avresti detto se te lo avessi chiesto?» Sorren si passò la lingua sulle labbra, e scoprì che era incapace di parlare. Scrollò la testa. Nel suo angolo, Jeshim fece cadere una sfera che rimbalzò davanti ai piedi della ragazza. Isak annuì, una volta sola. «Mettiti i pantaloni,» le disse, e si levò: era una splendida creatura ingioiellata, l'immagine di un Principe degli uccelli. Arré Med si stava divertendo. L'espressione di Cha Minto - e la sua immediata scomparsa dalla sala oltre a quella di Ron Ismenin, allorché si era reso conto che in nessun modo poteva trovare un pretesto plausibile per averla esclusa dalla rosa degli invitati, erano un balsamo per il suo spirito. Accettò con un sorriso il saluto balbuziente di Ron Ismenin, e si fece da parte per lasciare che Marti Hok (più vecchia, inferma e la più anziana del Consiglio) entrasse nella villa. La Guardia alla porta d'ingresso, ingabbiata nell'armatura e madida di sudore, la divertì. La vista di Cha Minto la divertì. Gli sguardi vacui sui volti degli ospiti più sensibili i quali, ancorché ignari, avevano percepito la mancanza di qualcosa, le facevano venir voglia di ridere, di ridere forte. Con passo sicuro si avvicinò a Kim Batto, intento a conversare con un mercante. «Buongiorno!», gli disse. L'uomo le voltava la schiena e, quando si girò per rispondere al saluto, Arré conobbe il piacere di vedergli ricadere la mascella. «Lo so, pensavi che non sarei venuta. Spiacente di averti deluso. A proposito, il tuo corriere ha gradito il viaggetto al nord?» Lasciatolo a bocca aperta, andò a salutare Edith Isara e le sue alte figliole. La casa, dovette riconoscerlo, era incantevole sia nell'aspetto che negli odori. Gli Ismenin non avevano badato a spese nel loro desiderio di soddisfare, intrattenere e compiacere i loro ospiti. Un tavolo ricolmo di carni gustosamente cucinate, frutti sciroppati, e tante altre leccornie, occupava l'intera larghezza del salone. Gigli recisi di fresco erano sparsi un po' o-
vunque. Lampade con olii profumati rischiaravano il camerone altrimenti oscuro, e specchi, di bronzo e d'argento, appesi alle pareti, ne riflettevano la luce raddoppiata d'intensità. Arré intravide la sua immagine in una delle lastre luccicanti, ed annuì compiaciuta del suo aspetto. La lunga tunica rossa le donava straordinariamente; per non parlare dell'enorme zaffiro che aveva indossato insieme ai consueti bracciali. Nel prezioso castone d'argento, la gemma, simile ad un grande occhio coloro indaco, pareva ammiccare dalla gola di Arré. Aveva acquistato lo zaffiro quel mattino nella bottega del fabbro Tian. Era forse un'ostentazione, ma quello era il carattere dell'avvenimento a cui stava prendendo parte. Si chiese dove fosse Isak: probabilmente si stava truccando. Scelse una frittella alle alghe e la mangiò. Un angolo del salone era interamente occupato da un assembramento di persone, ed Arré intuì che Tarn da Nuath Ryth vi si trovasse nel mezzo. Il suo arrivo a Kendra-sul-Delta era il primo avvenimento di rilievo dai tempi del Bando. Era lui la ragione per la quale aveva comprato lo zaffiro, oltre al fatto che era molto bello. Voleva parlargli e, per trattenerlo a lungo, era necessario che attirasse la sua attenzione. I barbari, che fossero o no dell'Armi, erano notoriamente appassionati di gioielli. Cha Minto era ritornato nella sala. Arré lo raggiunse. «Buongiorno, Cha!» Questi si sforzava di evitare il suo sguardo. «Buongiorno, Arré. Uno sfoggio impressionante, vero?» «Presentami a Tarn di Nuath Ryth». Cha Minto la prese per un braccio. «Guarda, ci sono i musici!» La fece volgere nella direzione delle tre flautiste dalle tuniche di garza. «Perché non andiamo ad ascoltarle?» «No,» disse lei. «Posso sempre chiederlo a qualcun altro, Cha. Sei uno stupido, sai? È stato mio fratello a dirti di tenermi lontana da lui?» Divincolò il braccio fino a liberarlo dalla stretta dell'uomo. Imponente, Cha Minto restò muto a fissarla. Le musiciste diedero inizio alla loro esibizione con una melodia leggera che in breve fece dondolare la testa agli invitati più sensibili al ritmo della musica. «Suonano bene,» osservò Arré. «Farai ciò che t'ho chiesto?» «Non posso.» Il panico affiorò nei suoi occhi. «Lascia stare. Ma, quando la tua sottomissione alle trame di mio fratello comincerà ad irritarti, allora vieni da me». Karya Holleth Ismenin apparve al fianco di Arré. «Buon giorno, Arré.
Non è una giornata stupenda per un fidanzamento? È passato molto tempo dall'ultima volta che sei venuta qui. Posso farti vedere il resto della casa? È completamente cambiata, sai?» «Grazie,» disse Arré. «Un'altra volta, Karya. Adesso voglio parlare con Tarn da Nuath Ryth. Vuoi presentarci?» «Oh, non è poi così interessante, ti assicuro!», disse Karya in un disperato tentativo di dissuasione. «Guarda le musiciste, non sono eccezionali?» «Non c'è dubbio,» convenne Arré. «Scusami!» Così dicendo le passò davanti, diretta verso l'angolo affollato del salone. Stavolta fu Kim Batto a bloccarla. «Arré, vorrei capire il significato di quanto mi hai detto al tuo arrivo». La donna lo scrutò dall'alto in basso, notando il luccichio del sudore sulla fronte, e chiedendosi se anche la chiazza calva al centro della testa fosse egualmente madida. «Sai bene a cosa alludessi,» gli disse. «So del messaggio che hai mandato al nord, e ne conosco il contenuto. E so pure che non è mai arrivato a destinazione. Ti piacerebbe se il Consiglio venisse a sapere che hai stipulato per conto tuo degli accordi con altri Clan? Dubito che approverebbe. Se tu continui a intralciarmi, stai pur certo che ti denuncerò.» Sentì l'ira crescere in lei. Il suono di un campanello echeggiò all'improvviso. Tutti tacquero. Con fare discreto i servitori riempirono il salone di soffici sgabelli pieghevoli col sedile in pelle di vitello. Le musiciste cominciarono a suonare una fanfara. L'assembramento nell'angolo si zittì, e le persone al margine di esso si sedettero. Arré intravide un uomo dai capelli castani ed una folta barba, con indosso una tunichetta di un giallo brillante ed un gonnellino nero. Numerose catene d'oro gli pendevano dal collo. Kim incrociò le sue braccia con quelle d'Arré non appena questa fece per muoversi. «Ascolta la musica,» insistette. «Introduce il numero del mimo. Devi vederlo!» Quindi si sedette, trascinando Arré accanto a lui. Oltre ad urlare o colpirlo, non c'era nient'altro che Arré potesse fare, sicché, arsa dall'ira, si lasciò inchiodare sullo sgabello. Il mimo apparve da dietro una tenda. Era piccolo e snello, e straordinariamente fluido nei movimenti. Esordì con una rapida successione di personaggi: una donna che si pettinava i capelli davanti a uno specchio, un vecchio intento a lavarsi i vestiti nell'acqua di un fiume, un marinaio nell'atto di arrampicarsi sull'albero, un uomo in attesa di un'amante nel Vicolo dei Venditori (questo era un po' audace), ed un soldato annoiato nel posto di guardia, mentre compiva ogni sforzo possibile per non addormentarsi e, con un solo occhio aperto, stava
attento se arrivava il Capitano. Era molto bravo! Arré si sorprese a ridere malgrado la furia di cui era ormai preda. Il mimo si esibì nella rappresentazione di un ubriaco colto nel tentativo di orinare. Le risa riempirono la sala alla vista del personaggio che fingeva di aver perso l'emblema della sua virilità e lo cercava disperatamente nella sua camera da letto con l'originale in mano. Alla fine perse il vaso ed urinò fuori della finestra, sulla testa di un passante per nulla entusiasta della cosa. «Non è straordinario?», disse Karya Holleth Ismenin. Si protese in avanti per dare un pacca sulla spalla di Arré. «Non è bravo?» «Brillante!», convenne Arré, notando che Ron Ismenin si era piazzato tra lei e l'angolo che attirava il suo interesse. Il mimo terminò il suo numero, fece un inchino, e scomparve dietro la tenda. Le flautiste ripresero a suonare. Arré fu tentata di chiedere a Karya Holleth Ismenin perché lei, Arré, non fosse stata invitata alla cerimonia, per la sola curiosità di sentire cosa le avrebbe risposto. Ma sarebbe stato crudele e volgare. Rivolse un sorriso a Kim. «Ho fame. Andiamo a tavola?» «Ti porto qui un vassoio,» disse Karya, alzandosi repentinamente. «Non muoverti!» Si precipitò quindi ai tavoli. «"Non muoverti" sembra essere il tema ricorrente di questa riunione,» bisbigliò Arré a Kim. «Un bel momento dovrete pur lasciarmi libera!» L'uomo finse di non averla udita. «Non vedo l'ora che si esibisca tuo fratello,» disse. «Oh, anch'io,» fece Arré. Voleva vedere la reazione di Isak quando l'avrebbe scorta. Il suo volto non avrebbe rivelato il risentimento interno dopotutto era un Danzatore, avvezzo a mascherare i suoi sentimenti fino a cancellarli del tutto - ma il suo corpo lo avrebbe tradito. Si domandò cosa avesse detto a Sorren quando aveva appreso della sua presenza. Sperò che non si fosse adirato eccessivamente. «Eccomi qui!», esclamò Karya, posando un vassoio straripante di cibarie sulle ginocchia di Arré. Vi erano ammucchiate dieci o dodici squisitezze: pasticcini di pesce, dolcetti, nidi, frittelle di alghe, trance di frutta... Arré mangiò un'altra frittella alle alghe. Le musiciste intonarono un motivetto allegro che servì d'introduzione all'artista successivo. Un uomo vestito di rosso, arancione e turchese, uscì con un balzo dalla tenda mentre delle sfere colorate gli roteavano intorno alla testa. Contando sottovoce tra sé, rimase dapprima in equilibrio su una gamba, poi sull'altra.
Scivolò quindi dietro la tenda per riapparire con una manciata di coltelli di piccole dimensioni. Cominciò a lanciarli in aria. Le musiciste smisero di suonare e tutti tacquero, tesi sugli sgabelli, intenti ad osservare le lame luccicare nell'aria come monetine... Anche Arré rimase a guardare col fiato sospeso. Poi, lentamente, riprese a respirare. «Fammeli vedere!», tuonò una voce. Tutti trasalirono, ed al giocoliere sfuggì un coltello che andò a finire sul tappeto ai suoi piedi. L'uomo in giallo e nero percorse il salone a grandi passi con una mano protesa. «Dammene uno!» Trasse uno stiletto dalla mano del giocoliere e ne saggiò la punta col pollice. «Hunh! È affilato. Ma non è questo il modo di trattare un coltello. Non è un giocattolo!» Il braccio oscillò verso l'alto, ed un oggetto luccicante sfrecciò nell'aria. Qualcuno urlò. Il coltello andò a conficcarsi in una delle pregiate porte di legno di casa Ismenin. Karya Ismenin rabbrividì. «Che barbaro!», commentò. «Lanci bene per essere un dilettante!», osservò il giocoliere. Con freddezza scelse uno dei coltelli che aveva nella mano e lo lanciò nella medesima direzione. L'arma si piantò nel legno, oscillando ad un palmo da quella che l'aveva preceduta. Ron Ismenin attraversò la sala in tutta calma ed estrasse entrambi i coltelli dalla porta. «Spaventerai gli invitati, Tarn,» disse. «Non sarà meglio riservarlo per dopo?» Restituì i coltelli al giocoliere. «Grazie, sei stato bravissimo!» Si rivolse quindi agli ospiti. «Il pranzo è pronto, amici. Vogliamo trasferirci di là?» Bastò un cenno della mano e le porte della sala da pranzo si aprirono. Lunghi tavoli attorniati da panche attendevano carichi di pietanze. La musica riattaccò e tutti si alzarono. Il banchetto parve interminabile. Kim Batto e Karya Ismenin fecero in modo che Arré occupasse un posto il più lontano possibile da Tarn da Nuath Ryth, e che per tutto il tempo non potesse far altro che mangiare e conversare con loro. Arré, dal canto suo, parlò e mangiò il meno possibile. Non bevve un goccio di vino, malgrado le infinite insistenze di Karya che si trattava del vino dei Med e che era gustosissimo. Normalmente avvenimenti di quel genere prevedevano una pausa tra il banchetto e la fase successiva della festa, ma Arré ebbe la sensazione che stavolta non ci sarebbe stata alcuna pausa. Come avrebbe voluto sbagliarsi! Finalmente il pranzo terminò, e tutti sciamarono nuovamente nel salone. Gli sgabelli erano ancora lì, ma la tavola con gli stuzzichini era sparita, sostituita da una piattaforma di legno. Era il palcoscenico per Isak.
Arré riuscì a scorgere per la prima volta gli altri componenti del Clan dei Ryth: erano tutti riuniti intorno a Tarn da Nuath Ryth, conversando con lui, ridendo, raccontando storielle... Erano tutti lì per proteggerlo dalla gente (e da persone come lei), o, al contrario, si trattava di un espediente per proteggere gli ospiti da lui?, si domandò Arré. Nathis Ryth e Col Ismenin, naturalmente, non avevano ancora fatto la loro comparsa. Né si sarebbero uniti al resto della compagnia prima della celebrazione della cerimonia di fidanzamento. Adesso, pensò, devo farlo adesso! Dopo la cerimonia lo avrebbero fatto uscire in tutta fretta. Arré sorrise a Kim, che continuava a starle appiccicato come un innamorato. «Devo dire una cosa a Marti,» annunziò. «Vengo con te,» fece lui prontamente. Marti era seduta attorniata dalle figlie con un'aria da vera matriarca. Mentre avanzavano nella sua direzione, Arré scorse Boras Sul aggirarsi sconsolato per la stanza. Probabilmente ha ancora fame, pensò con disgusto. Le pantofole ricamate che avevano ricevuto al loro ingresso nella villa bisbigliavano sul tappeto. Le figlie di Marti, adorabili nella loro cortesia, si alzarono nel vederla arrivare. «Che bella festa!», disse Marti. Indicò lo sgabello accanto a lei. «Vuoi sederti, Arré? Il pranzo è stato superbo». «Ma lungo,» aggiunse Arré contrariata. «Marti, ho voglia di conoscere Tarn da Nuath Ryth, ma vengo continuamente distratta. Posso contare sulla tua ben nota imperturbabilità?» Marti si appoggiò al bastone d'argento con tutte e due le mani e si sollevò. «Naturalmente!» Sorrise quindi a Kim Batto, la cui espressione era quella di uno che avesse ricevuto una cacca d'uccello sulla testa, ed intrecciò il suo braccio con quello di Arré. «Neppure io l'ho ancora conosciuto. Vogliamo andare?» Non vi fu modo per Kim, o Karya, o Cha, o Ron Ismenin, di fermarle. Marti Hok era il membro più anziano del Consiglio. Attraversarono il salone dirette alla nutrita rappresentanza del Clan dei Ryth che, senza commenti, si disgregò alla vista delle due donne. Kim Batto le accompagnò fino a metà della distanza che le separava dal Clan; mormorò quindi qualcosa e si allontanò. L'uomo con la barba osservò la loro avanzata con impassibile curiosità. Ron Ismenin si affiancò a lui. «Tarn da Nuath Ryth,» disse, «posso presentarti la Signora Arré Med? Signore, questo è Tarn da Nuath Ryth della città di Nuath». «Il Signore Tarn da Nuath Ryth,» corresse quello. Chinò il capo in segno
di saluto come usavano fare i cittadini di pari condizione sociale. «Sono onorato di fare la vostra conoscenza.» Gli occhi gli si assottigliarono nel guardare Arré. «Perdonami, mia Signora, avevo sentito che non avresti partecipato a questa festa. M'era persino giunta voce che non guardassi con favore a questo fidanzamento». Se non altro si sa esprimere, pensò Arré. Sembra intelligente. «Sei stato informato male,» disse. «È un piacere conoscerti: ho sentito parlare molto di te.» Con studiata casualità le sue dita carezzarono lo zaffiro. Tarn osservò la gemma, poi alzò gli occhi sul viso di Arré. «Col tuo permesso, Signora,» disse rivolgendosi a Marti Hok, «Arré Med, io e te dovremmo parlare». «Ne sarei felice,» disse lei. «Ora e in privato?» «Certamente!» «Tra poco inizierà lo spettacolo di Danza, amici,» intervenne Ron Ismenin. Tarn lo guardò. «Che aspettino il nostro ritorno!», disse. Condusse Arré attraverso le stanze ed i corridoi di casa Ismenin con la disinvoltura di chi vi fosse cresciuto. «Conosci bene questa casa!», osservò lei. Passò davanti ad un servitore esterrefatto. «Sì. La mia casa a Nuath è molto simile a questa». Aprì una porta, e con un gesto le fece cenno di varcarla per prima. Arré attraversò la soglia e si ritrovò all'aria aperta col fiato sospeso. Da quella posizione si godeva una vista impareggiabile del delta del fiume e, oltre, dell'oceano. Il pomeriggio era nel pieno del suo splendore: il caldo aveva raggiunto la massima intensità, ed il sole, risplendendo sull'immensità dell'acqua, creava faville multicolori, verdi, rosse, azzurre, arancioni, argentate... Il mare era un velluto increspato, ed il fiume, sotto di loro, brulicava di zattere, che sciamavano minuscole come giocattoli. «Per il Guardiano, che meraviglia!», disse Arré in uno slancio spontaneo. Tarn da Nuath Ryth annuì in segno di ammirazione. «Sì, la tua città è incantevole.» Il tono suonò rammaricato. «Se ti piace tanto, perché non vieni ad abitare qui?», disse Arré. «Il tuo Clan sarebbe certo lieto di accoglierti». L'uomo sorrise. «Ho una casa, una famiglia, e dei figli. E poi, Arré Med, trasferirmi in città significherebbe per me ciò che per te sarebbe trasferirti a monte del fiume».
Le catene d'oro gli luccicavano sul petto. Arré si appoggiò sulla balaustra del balcone. «Perché?» Tarn le si fece accanto. «Perché là sono un Signore. A Nuath. Qui sono un nuovo ricco, un mercante, un barbaro. Io sono nato a nord del fiume; conosco bene la mia terra, ed essa conosce me. Non ho intenzione di barattare tutto ciò che ho costruito col privilegio di imparentarmi con gli Ismenin». «È stato Ron Ismenin a dirti che non volevo partecipare alla festa?» Tarn annuì. «In realtà non sono stata invitata. Lui non voleva che venissi. Sono quattro ore che si stanno dando da fare per tenermi lontana da te. Cos'altro ti hanno detto sul mio conto?» «Che sei un'ostruzionista, che disprezzi i mercanti, che preferisci il passato al presente, e che sei gelosa del privilegio di governare e rifiuti di dividerlo con...» «Fermati!», disse Arré. Dischiuse le dita che fino a quel momento avevano stretto con forza il corrimano di ferro della ringhiera. Tarn intrecciò tra le dita la collana più lunga, ed osservò Arré dall'alto della sua statura dominante. «È falso?» «Non vero.» Arré si grattò il naso. «Sono gelosa del privilegio di governare soltanto perché ritengo di esercitare correttamente il potere che detengo. Non è vero che preferisco il passato al presente. Non è vero che disprezzo i mercanti. Non credo di essere un'ostruzionista... Ma tutto dipende...» «Da chi vuole il potere, e fino a che punto intende arrivare. Sì. Allora perché hai rifiutato di sostenere la candidatura del Clan Blu al Consiglio?» «Non mi è stato chiesto di sostenerla né di osteggiarla,» disse Arré scandendo le parole lentamente. «Ho rifiutato di ammettere il Clan Bianco al Consiglio». Un gabbiano discese in picchiata poco lontano da loro, invocando del cibo. Tarn da Nuath Ryth frugò nella tasca e ne trasse una manciata di polpette alle alghe. Ne lanciò una all'uccello. Un'altra la mangiò lui e ne offri una terza ad Arré. Questa scrollò la testa. «Mi avevano detto che avevi rifiutato la rappresentanza del Clan Blu». «Non è stata proposta,» disse Arré. «Non nelle ultime dieci riunioni». «La sosterresti?» «Non lo so. Dovrei valutare gli argomenti che ne giustificano l'ammissione.» Gli posò una mano sul braccio. «Tu mi sconcerti, Tarn da Nuath Ryth».
«Per gli amici sono Tarn Ryth, o più semplicemente Tarn». «Tarn. Parli come un uomo istruito, come un uomo di cultura. Ciò non di meno, lanci coltelli ad una festa di fidanzamento, vai in giro per le strade in groppa ad un cavallo, porti soldati e armi dentro la città...» Tarn rise. «Cea, donna, ho lanciato quel coltello perché mi stavo annoiando a morte; non ne potevo più di stare ad ascoltare le chiacchiere ed i bisbigli dei miei cugini. Quanto al cavallo ed ai soldati... io sono un Signore nel mio territorio. Se il Signore Santh di Anhard entrasse in città a cavallo, tu diresti a lui di smontare? Ne dubito!» «Non credi di essere - perdonami - un tantino presuntuoso? Mi rendo conto che devi avere un certo potere a Nuath...» «Tu non sai di cosa parli!», disse Tarn recisamente. «Io non ho "un certo potere". Io ho il potere. Il fiume è mio da Shonet a Septh. Ogni zattera mi paga il diritto di passaggio, ed ogni casello daziario mi versa le tasse con danaro che reca incisa la mia faccia. I miei soldati mantengono il territorio Libero da ladri e malfattori. Gli acquedotti e le chiuse per l'irrigazione sono costruite dai miei costruttori. I carri percorrono le mie strade». Arré rimase in silenzio. Poi, alla fine, parlò. «Io non dubito che tu dica la verità. Solo spiegami com'è che io non so niente di tutto questo». «E come potresti saperlo?», disse lui. «Il tuo danaro proviene dai vigneti che si trovano molto più a sud dei miei confini. Tu paghi le mie tasse senza saperlo attraverso il Clan Blu. Ogniqualvolta un carro dei Med viaggia diretto a nord, diciamo a Tezera, carico di vino da consegnare in quella città, il Clan Blu, a cui il carro appartiene effettivamente, versa un pedaggio nelle mie casse, e la cifra ti viene addebitata nel totale delle spese. Tu non lasci mai la città, cosa che invece, a quanto ho capito, tuo fratello fa sovente. Tutto ciò vale anche per quelle Famiglie che hanno accumulato il loro patrimonio grazie al mare. Ron Ismenin, invece, ha rapporti continui con me. Da lui compro i metalli e, in cambio, beh, suo fratello sposerà mia figlia». «E Kim Batto?» «È stata la mia voce al Consiglio... o così pensavo». «Non lo è stato,» disse Arré seccamente. «Sarei pronta a qualunque giuramento. Non è stata fatta alcuna menzione del Clan Blu al Consiglio. Per il Guardiano, non credi che se fosse stato oggetto di discussione, non risulterebbe dalla relazione di ciascuna riunione? Le relazioni sono documenti pubblici; ce n'è una copia negli archivi del Clan Nero, ed un'altra nella sala del Clan Blu».
«Capisco.» Trasse dalla tasca un'altra polpetta alle alghe e la masticò con aria assorta. «Sono buone, sai? Da noi non le abbiamo; però potremmo comprarle. Così saresti disposta ad appoggiare l'ammissione di una rappresentanza del Clan Blu al Consiglio?» «Non ho detto questo. Non mettermi le parole in bocca. Ho detto che valuterei la cosa. A proposito, cos'hai a che fare tu non le spade in città?» Se sperava di stupirlo o turbarlo, ne fu delusa. Tarn si grattò il mento. «Niente. Beh, ho sentito dire che gli Ismenin stanno addestrando i loro soldati nell'arte della spada. Non so nient'altro. Comunque, ritengo che sia una buona idea». «Davvero? E perché?» L'uomo sbuffò. «I tuoi antenati non avrebbero fatto una domanda simile». «Ma io ti ho detto che non preferisco il passato al presente». Tarn sorrise. «Ah, sei sveglia! Hai due volte il cervello di quel meschino d'un Batto, e migliore fiuto. Stai attenta! La civiltà è una costruzione, come questa casa.» Picchiò il pugno sul balcone di ferro che cigolò. Arré represse il l'impulso di farsi indietro. «Le fondamenta sono la parte più vecchia, ma anche la più forte, perché sostengono il resto della casa. Quando le fondamenta sono deboli, la costruzione crolla. Le nostre fondamenta - le fondamenta della terra di Arun - non sono deboli. Molte cose ne costituiscono la struttura: le nostre Nobili Famiglie, la ricchezza delle nostre città, la fertilità del suolo e la bellezza dei nostri generosi fiumi senza i quali la nostra terra si spaccherebbe e sarebbe spazzata via; le nostre Danze, le nostre verità, la nostra fede nel cea, e la nostra valentia di guerrieri, sono parte di essa! Senza il nostro coraggio e la nostra abilità con le armi, l'Anhard ci avrebbe sopraffatto quattrocento anni fa. «Hai detto di aver rifiutato l'ammissione del Clan Bianco al Consiglio. Condivido la tua posizione. I Maghi sono utili, ma non lo sono più dei contadini o dei mercanti... o dei soldati. La pace è preziosa, necessaria, desiderata, ma non al prezzo di cavare una pietra angolare dalle nostre fondamenta e minarne irrimediabilmente la solidità. Il Bando è stato un errore, Arré Med. Un paese ha bisogno dei suoi Guerrieri. Bada, non ti sto parlando di eserciti. Il Bando è stato un errore, ed i Maghi hanno sbagliato. Non avrebbero - non avreste - mai dovuto allontanare i ceari dalla città». L'impeto del suo eloquio era impressionante. Arré sentì i peli rizzarglisi sulla nuca dinanzi a tanta abilità oratoria. «La gente impara ancora ad usare la spada fuori delle città,» disse in tono difensivo.
«No. Perché dovrebbero farlo? L'Arun è in pace. Non ce n'è bisogno. I ceari costituivano un motivo valido: qualsiasi bambina che fosse abbastanza buona, sveglia, aggraziata e disciplinata, poteva aspirare a diventare una ceari. Ma, quando avete negato loro le città, li avete distrutti, li avete privati del pubblico più vasto. La città - con un ampio gesto abbracciò il fiume, la darsena, le barche, la gente - tu la conosci bene, ci hai sempre vissuto, e non sai cosa significa per un ragazzo del Galbareth venire in città. La città è il cuore di tutto ciò che è vivo, eccitante, diverso, creativo. I ceari... beh, si dice che giungessero dalle Colline Rosse. Forse. Forse. Ma, - le mani spaziarono nell'aria - la città è una fontana. Sì, una fontana che si alimenta traendo l'acqua da tutta la terra di Arun, ed alla terra di Arun restituisce il suo getto vitale.» Disegnò un grande cerchio a simbolo di quell'idea. Arré si sentì svilita, sconfitta, sopraffatta. L'uomo incrociò le braccia sul petto, fissandola intensamente. Lei si strofinò le mani sul viso. «Tarn Ryth,» disse, «sei straordinario!» Tarn s'inchinò e rimase in silenzio. «Io... io ho bisogno di riflettere su quanto mi hai detto. Le tue idee - esitò; cea, dove aveva preso quelle idee? pensò - le tue idee mi hanno confusa. Non so se posso riporre in te la mia fiducia». Tarn sorrise senza profferire parola. «Ma se sei veramente ciò che sembri essere - e non ho ancora deciso cosa sia, né voglio che sia tu a dirmelo! - allora consentimi di dire che non siamo nemici». «Siamo amici?» «Non lo so». «Credo che potremmo esser amici,» disse Tarn meditabondo. «Sempre che tu voglia stringere amicizia con un barbaro di lassù». «Se può farlo Kim Batto, allora posso farlo anch'io». «Kim Batto - il volto di Tarn si contorse in una smorfia di disgusto, come avesse sentito un tanfo di marcio - è un chaba'ck». «Cosa significa?» Tarn sorrise di nuovo. Quel sorriso che baluginava dal folto della barba lo faceva somigliare ad un bandito o ad un pirata del fiume. «Un ruffiano!», spiegò. Arré rise. «Sì, è un ruffiano,» ripeté. «Ma sei tu che hai rapporti segreti con lui, non io». L'uomo si lisciò la barba. «Se ne sei a conoscenza, vuol dire che non so-
no segreti, ti pare?» «Dimmi,» incalzò Arré, «che ne pensi di Cha Minto?» Arré non sapeva se dar credito alle sue parole. La porta del balcone si aprì, ed un volto di donna si affacciò guardando intorno. Era Karya Ismenin. «Scusatemi,» disse, con una timidezza inappropriata per una donna che si trovi in casa propria, «la Danza sta per cominciare...» «Saremo lì tra un istante, grazie,» disse Tarn. Kaya sparì. L'uomo sorprese Arré intenta a fissarlo, e sorrise con amarezza. «Tu pensi che non conosca le buone maniere? Che sia un barbaro? Anche loro sono della stessa opinione. Ed io non faccio che soddisfare le loro aspettative». «Sono i padroni di casa». Tarn alzò le spalle. «Stanno ottenendo ciò che vogliono: un'alleanza con l'uomo che detiene il controllo del fiume. Col Ismenin è un fantoccio, ma io ne farò un uomo». «Cosa dev'essere tua figlia!», esclamò Arré. Il volto di Tarn si illuminò. «È una meraviglia. Aspetta di conoscerla. Allora, vogliamo andare ad ammirare questo tuo famoso fratello Danzatore?» Arré fece roteare i braccialetti intorno ai polsi. «Conosci Isak?» «L'ho incontrato ieri sera a casa di Batto. Non ha parlato granché». Il sole, inclinato a ponente, cominciava a lasciare in ombra un angolino del balcone. Arré si avvicinò nuovamente alla ringhiera, poi invitò Tarn con un gesto, e lui le si affiancò. Indicò un punto sotto di loro, dove una zattera galleggiava carica di sacchi di grano. «È tua quella?», domandò. Tarn sorrise. «Uh-huh. E anche quella, e quell'altra, e quell'altra ancora...» Indicò le imbarcazioni sul pelo dell'acqua. Arré annuì. «Capisco perché gli Ismenin hanno bisogno di te,» disse. «Quello che invece non capisco è perché tu hai bisogno di loro». «Metalli,» fece lui. «Le loro miniere sono vicine. Le miniere di Tezera sono troppo distanti, e buona parte di esse sono esaurite». «I depositi minerari degli Ismenin si trovano sulle Colline Rosse, nei pressi di Shanan, e cioè più lontano di Tezera rispetto a Nuath,» osservò Arré. Tarn sbatté le palpebre. «Sei bene informata!» Intrecciò la collana più lunga intorno alle dita della mano sinistra. «Hmm. Beh, c'è un altro motivo. Ti sembrerà sciocco.» Guardò Arré di sbieco. «Prova a dirmelo!», lo incoraggiò lei. «Io sono nato a Nuath e, quand'ero piccolo, venivo in città discendendo
il fiume... Avevo dieci anni, o pressappoco. Ora ne ho quarantasette. Allora la casa di Rath Ismenin aveva quindici anni, ed era qualcosa di magnifico. La guardavo dal fiume, al tramonto, quando i raggi obliqui coloravano i muri bianchi... ero quasi accecato da quello splendore. Mi pareva che gli Ismenin fossero i più saggi, i più forti, i più belli della città, per meritarsi una casa simile.» La sua mano carezzò la parete di marmo bianco. «Quando feci costruire la mia casa a Nuath, mi procurai il disegno di questa ed ordinai ai miei architetti e costruttori di copiarla con la massima precisione possibile. È per questo che mi so orientare benissimo qui dentro. E, quando Ron Ismenin venne da me a proporre il matrimonio... come avrei potuto rifiutare? Nathis lo voleva.» Sorrise. «E c'erano delle buone ragioni economiche perché si facesse». La brezza del fiume soffiò su di loro. Una leggera foschia azzurrina cominciava ad ammantare l'oceano. Quanto tempo erano stati lì a parlare? Un'ora? Forse di più? Gli Ismenin staranno certo sui carboni ardenti, pensò Arré. Posò una mano sul braccio nudo di Tarn Ryth. «Vieni,» gli disse, «torniamo dentro». Capitolo sedicesimo La danza di Isak lasciò tutti col fiato sospeso. Arré vide ben poco dello spettacolo. Seduta nel salone accanto a Marti Hok, non fece altro che pensare, pensare... Ogniqualvolta alzava gli occhi dal tappeto, scopriva Tarn Ryth intento ad osservarla. La musica dei tamburi martellava incessante finché non le parve di sentirla scorrere nel sangue, come una febbre. Le mani di Sorren si muovevano cosi velocemente da diventare invisibili. Era bella con l'abito di seta che luccicava intorno al chiarore del viso e dei capelli raccolti sulla testa come fili d'oro brunito, dall'infinita flessibilità. Arré scorse la faccia di Boras Sul. Stava fissando la ragazza come fosse una pietanza appetitosa... un piatto di fragole con panna. La fusciacca che cingeva i fianchi di Isak era incastonata di gemme che mandavano riflessi abbacinanti quand'egli si muoveva. Adesso stava danzando nella parte del Cigno, regale e seducente. Il corpo nudo del Danzatore veniva qui esaltato al massimo. Bern, il terzo dei fratelli Ismenin, fissava Isak con le labbra dischiuse ed un luccichio negli occhi. Sua moglie, accanto a lui, appariva rassegnata
all'adorazione che il marito mostrava palesemente per il ballerino. Questi aveva i capelli raccolti sulla sommità del capo, il che faceva sembrare il suo collo snello ed elegante più lungo di quanto non lo fosse già. La Danza intendeva rievocare le movenze del cigno maschio allorché cerca di sedurre la femmina; essa risultava erotica senza essere volgare (come invece lo era quella dello Stallone) o comica (come quella dell'Orso). Le percussioni incalzavano in crescendo accompagnando i volteggi di Isak, il quale, inarcando la schiena, turbinava in una posizione che sembrava impossibile. La musica rallentò, sì addolcì, si affievolì, e l'estatico Cigno piegò le ali leggiadre e con elegante alterigia scivolò via dal palcoscenico. Tutti gli spettatori ritrovarono il respiro. Berd Ismenin sorrise e batté le mani insieme a sua moglie. Uno scroscio di applausi proruppe dalla Famiglia Ryth, e cessò soltanto quando i forestieri si accorsero che nessun altro nella sala stava applaudendo. L'arte vera si apprezzava meglio in silenzio. Qualcuno si alzò per riordinarsi l'abito o per ordinare qualcosa ai servitori. Marti Hok si allontanò dal salone sotto braccio a suo figlio Sironen. Di lì a poco sarebbe iniziata la cerimonia. Arré desiderò potersene andare. I rituali l'annoiavano. D'altro canto, era curiosa di vedere Nathis Ryth. Un frastuono improvviso s'udì dal retro del salone. Arré si volse a guardare in quella direzione. Soldati con indosso il giallo ed il nero di Nuath stavano entrando nella sala brandendo spade sguainate. La voce di Tarn Ryth risuonò nitida nella confusione. «Amici, familiari, ospiti,» disse, alzandosi. «Non allarmatevi, vi prego! È spettacolo, tutto qui: nulla che possa spaventarvi. Se i servitori vogliono rimuovere il palcoscenico...» Guardò Ron Ismenin, il quale, dopo un istante di paralisi totale, si affrettò a dare ordini ai servitori. «Le mie Guardie hanno preparato una sorpresa per voi. Le spade sono di legno, e possono essere maneggiate liberamente, ma per questo si dovrà aspettare dopo lo spettacolo. Sedetevi, per favore». La forza irresistibile dei suoi modi era tale che tutti, compreso Ron Ismenin, obbedirono. I soldati marciarono fino allo spazio anteriore del salone e si disposero in due file, una di fronte all'altra, le spade ritte davanti a loro. In questo modo, ogni spada andava a toccare la punta di quella posta di fronte. «Mio figlio Dennis vi spiegherà ciò che state per vedere». Tarn si sedette, e l'uomo in testa alla fila di sinistra con le spalle rivolte al pubblico, si girò a fronteggiare gli invitati. Somigliava a Tarn. «Vi mo-
streremo tre cose, ospiti e familiari,» annunziò con una voce che ricordava, in versione attenuata, i toni risonanti della voce di Tarn. «Prima vedrete i colpi di riscaldamento che ogni Guardia effettua durante l'allenamento. Si tratta dell'esercizio più facile. Poi vedrete il primo naiga, anch'esso un esercizio di allenamento in coppia, consistente in una serie specifica di colpi e parate. Infine, assisterete ad un vero duello tra due soldati; con spade di legno, naturalmente.» Ciò detto rientrò nei ranghi. I soldati si irrigidirono. «Uno... e due... e tre... e quattro! Uno... e due... e tre... e quattro!» Le spade oscillavano al ritmo della conta. Ad ogni colpo le guardie avanzavano; ad ogni parata, indietreggiavano. Il pavimento vibrava. Arré osservò le facce dei soldati. Erano volti giovani, intensi, totalmente rapiti dalla concentrazione. La precisione dei loro movimenti era spettacolare. «Yai!» Il segnale di Dennis Ryth arrestò la Danza. I soldati si rivolsero inchini reciproci, poi s'inchinarono verso il pubblico, ed infine verso di lui. Marciarono quindi intorno allo spazio libero e si sedettero al margine di esso. Dennis rimase dov'era, all'estrema sinistra del salone. «Adesso il naiga.» Urlò due nomi e due soldati si alzarono ed entrarono nello spazio. Rivolsero un inchino al pubblico, poi s'inchinarono l'uno verso l'altro. Uno dei due era una donna, come i seni sporgenti sotto la tunica di cotone rivelavano chiaramente. Aveva il viso largo ed i capelli castani striati di ciocche bionde. L'avversario era un uomo, più vecchio di lei, con una folta barba bionda. Il pallore quasi giallastro della sua pelle suggeriva che avesse sangue anhardita. «Yai!», gridò Dennis, ed i due alzarono le spade. «Ha!» Le lame sibilavano nell'aria. Tutti sussultarono. Arré serrò le dita intorno al legno duro della sedia. I colpi - diretti alla testa, alle gambe ed all'addome - sembravano terribilmente reali. I duellanti respiravano profondamente. Huff, huff! Pestavano i piedi, saltellavano, attaccavano e si schivavano... Arré cominciò a distinguere lo schema nell'apparente casualità. Si rese conto che determinati colpi e parate riapparivano in una sequela ordinata. E, proprio quando stava cominciando a capire l'intero schema, Dennis gridò, e lo scontro cessò. Col Ismenin era apparso nella sala, e si era seduto accanto al fratello sorridendo nervosamente. Arré si guardò intorno, ma se Nathis Ryth era entrata, allora evidentemente era nascosta tra la miriade di cugini Ryth. Le due Guardie tornarono al loro posto. Dennis gridò di nuovo, ed un altro soldato si levò dal circolo.
Fu Dennis a portarsi di fronte a lui. Si inchinarono verso il pubblico, poi l'uno verso l'altro. Inaspettatamente, senza emettere alcun suono, Dennis attaccò. Lo schiocco prodotto dall'urto delle lame fece trasalire tutti. Arré rammentò le parole di Paxe. «Puoi uccidere con una spada di legno, se la sai usare.» E quei colpi sembravano tali da poter uccidere. Se uno di loro fosse scivolato, se una parata fosse giunta con ritardo... Arré guardò Tarn Ryth. Stava sorridendo, la schiena adagiata sui cuscini, apparentemente tranquillo. La mano sinistra tormentava la collana. Arré non era in grado di valutare quale dei due soldati fosse più bravo nel combattere con la spada. Avanzavano, arretravano e giravano uno intorno all'altro. Più di una volta un tallone fu pericolosamente prossimo a calpestare gli uomini e le donne seduti sul pavimento, ma nessuno si mosse, neppure d'un palmo. I soldati rimasero impassibili e disciplinati. Inaspettatamente, Dennis Ryth sorprese l'avversario con un abile fendente e sferrò un affondo. La punta della spada di legno si arrestò alla distanza di una falange dalla gola indifesa dell'uomo. Questi lasciò cadere la spada. Una delle Guardie la raccolse. Poi Dennis abbassò la sua lungo il fianco. Entrambi si inchinarono verso il pubblico, poi uno verso l'altro. Tarn Ryth si alzò. «Speriamo che abbiate gradito questa dimostrazione,» disse con gentilezza. Oh, sì pensò Arré. Le facce degli invitati esprimevano sbalordimento, ammirazione, ma non la minima traccia di paura. Hai dimostrato la tua potenza, Tarn Ryth, ed io per prima ne sono molto, molto impressionata. «Mi piace pensare che i miei soldati siano dei Guerrieri capaci,» continuò Tarn, «quantunque, naturalmente, la loro abilità non potrà mai paragonarsi alla maestria dei ceari di un tempo. Ho ancora una sorpresa per voi.» Sorrise. «Nel caso non ve ne foste accorti, adoro le sorprese. Vorrei presentarvi - s'interruppe, e la Guardia che si era esibita nel naiga si alzò dal circolo dei soldati e lo raggiunse - mia figlia, Nathis-no-Iryllen Ryth». Col Ismenin sorrise dalla sua postazione. Anche Nathis Ryth sorrise. «Cosa?», sbottò Boras Sul. Poi, Col Ismenin si alzò ed andò ad affiancare la fidanzata. La cerimonia non durò a lungo. Dal modo in cui Nathis Ryth e Col Ismenin si guardavano, Arré intuì che, sebbene quell'unione non scaturisse dall'amore, era pur vero che nessuna delle due parti si mostrava contrariata. Nathis Ryth non era bella, ma era ben fatta, in buona salute, e sicura-
mente adatta a fare figli. Le condizioni del fidanzamento non furono enunciate ad alta voce ma Arré poteva facilmente immaginarne alcune, ed una, sicuramente, la conosceva: Col Ismenin acconsentiva a rinunziare al suo nome di famiglia per diventare Col Ismenin Ryth, e di conseguenza il suo patrimonio (qualunque fosse la parte che gli spettava il diritto) si trasferiva a Nuath insieme a lui. La cerimonia si concluse quando Tarn Ryth disse: «E tutti dovrete venire a Nuath per il matrimonio.» Improbabile, pensò Arré. Tradizionalmente il matrimonio veniva celebrato tre mesi dopo il fidanzamento, ed un viaggio fin lassù alla fine dell'autunno, nella stagione delle piogge, sarebbe estremamente scomodo.. Si stiracchiò, e trovò Tarn Ryth a distanza di gomito. Le tese una mano per aiutarla ad alzarsi. La ignorò. «Ti è piaciuto il mio spettacolo?», le chiese con orgoglio. «Sì, moltissimo!», disse Arré. Alzò la testa con fare provocatorio. «Dimmi,» sussurrò, «anche il duello era preparato?» Tarn rise, e chinò la testa a sfiorare quella di Arré. «Naturalmente,» bisbigliò con voce cavernosa. «Credi che rischierei mio figlio per un gioco?» «No,» disse Arré. «Anzi, direi che non sei uno che corre molti rischi». Tarn si raddrizzò. «Hai ragione!», disse, mentre con la mano continuava a tormentare la catena d'oro. Si passò ai saluti di rito. «Devo raggiungere i miei cugini ed i nuovi parenti». «Non oserei toglierti a loro,» disse Arré, provocando un nuovo sorriso. «Sei stato franco con me: posso farti un'ultima domanda?» «Prego,» fece lui. «Hai già dei progetti matrimoniali per tuo figlio?» Tarn annuì. «Non ancora. Ho preso contatti con la Famiglia che governa una Rocca del nord. Un'alleanza al nord mi sarebbe sicuramente utile. D'altro canto, prendo atto che la Famiglia Isara di questa città vanta quattro figlie». «Vorresti che tuo figlio diventasse un Isara?» Infilò la mano tra le collane. «No. Ma se gli Isara guardassero oltre il muro della tradizione, potrebbero desiderare che una Isara diventasse una Ryth...» Arré aggrottò le ciglia. Disapprovava un'ipotesi di quel genere. «Quando ripartirai per Nuath? «Quasi subito. Dopodomani.» Sorrise con amarezza. «Trascorrerò i
prossimi due giorni evitando la compagnia di Kim Batto». «Parlare con te è stato molto istruttivo». «Lo avevo sperato.» La mano enorme di Tarn Ryth si chiuse sulla mano di Arré, facendola apparire minuscola. «Mi hai detto che non siamo nemici, Arré Med,» le disse. «Spero che tu lo abbia pensato davvero. So essere un nemico crudele. In compenso - le offrì un sorriso da pirata - so essere un ottimo amico. Addio!» Poi le lasciò libera la mano e si allontanò, passando spedito tra la gente come un vascello a vele spiegate. Arré andò in cerca di Marti Hok. L'anziana donna si trovava nel cortile della villa, ad ammirare i fiori. «Devo chiedere a Ron Ismenin chi si cura del suo giardino,» disse. Si appoggiò sul bastone con tutte e due le mani. «Ti sei trattenuta a lungo con quell'uomo». «Ne è valsa la pena,» disse Arré. «È... assolutamente singolare». Avanzando sui gradini di granito con la tunica penzolante, Kim Batto si avvicinò alle due donne. «Arré,» cominciò, «credo che faresti bene ad ascoltarmi». «Io non lo credo affatto. Mi riempiresti di menzogne, come hai fatto con Tarn.» L'uomo sgranò gli occhi. «Credevi che tu stessi usando lui? Sei uno sciocco, Kim Batto, più sciocco ancora di Boras. Vattene!» Kim Batto si allontanò da lei come se si fosse improvvisamente trasformata in un orso od in un serpente. «Meraviglioso!», commentò Marti Hok. «Vuoi dirmi cosa è successo? Detesto l'ignoranza, specie la mia». «Kim Batto ha giocato d'astuzia con noi,» spiegò Arré in maniera incisiva. «Ha detto a Tarn Ryth che abbiamo rifiutato al Clan Blu la rappresentanza al Consiglio, e con questa manovra ha fatto sì che Tarn si alleasse separatamente con altre Famiglie della città, ovvero i Batto e gli Ismenin». Gli occhi di Marti si assottigliarono. «Arré, è mai possibile che tu approvi l'ambizione di quest'uomo? È un barbaro! Basterà che gli mostriamo la nostra debolezza una sola volta, e saremo perduti. Potrà estorcerci qualunque cosa, minacciando di bloccare le forniture di grano». «Può farlo fin d'ora,» disse Arré. «Tarn non ci minaccia». «E allora, come chiameresti quella esibizione nel salone?», replicò Marti. «Puro intrattenimento?» «Sì,» disse Arré con fermezza. «Io credo che il Consiglio non debba temere l'ipotesi di un'alleanza con Tarn Ryth». «Ma, così facendo, come potremmo evitare di dare ascolto agli Ismenin?» obiettò Marti. Arré corrugò la fronte. «Non lo so. Ad ogni modo, Marti, è preferibile
sapere cosa Ron Ismenin sta facendo piuttosto che ignorarlo». «Pensi che Tarn Ryth te lo direbbe?» «Potrebbe darsi». Sironen Hok si accostò al fianco della madre. «La lettiga è arrivata, Madre,» le disse. «Signora Arré. Sei splendida». Sironen era un uomo attraente, con un bel paio di folti baffi neri e la bocca volitiva e sensuale. Era anche sposato, con cinque figli, e fedele a sua moglie. «Grazie!», gli disse Arré. «Il tatto non gli manca,» osservò Marti. «Questo è il suo modo di dirmi che dobbiamo andare a casa. Bene, Arré, è valsa la pena di venire a questa festa?» «Assolutamente sì,» disse Arré. «Mi sono divertita tremendamente, e tu sei una vecchiaccia malefica». Marti ridacchiò. «Mi esercito continuamente.» Il figlio fece roteare gli occhi allusivamente e la prese sottobraccio. «Aspetta!», disse Marti. «Arré: manda da me la tua Sorren questa settimana». Arré sorrise. «Con tante nipoti del tuo stesso sangue, Marti, non capisco perché hai bisogno di un'estranea per raccontare le tue storie. Ma naturalmente farò come mi chiedi». «Vieni, Madre.» Sironen rinsaldò la presa sul braccio della vecchia. «Hai visto come mi trattano,» disse Marti scherzosamente. Poi baciò Arré sulla guancia. «Vengo, caro». Sorridendo, Arré li guardò allontanarsi. La sua lettiga era da qualche parte sulla strada insieme alle altre, ma non aveva nessuna voglia di salirci dentro. Un altro stelo di purpurei lillà attrasse la sua attenzione, e si chinò a sentirne il profumo. Quando si raddrizzò, trovò Cha Minto accanto a lei. Aveva un'aria molto infelice. «Arré,» disse, «voglio soltanto che sappia che non è stata la cattiveria a farmi agire in quel modo. I... io dovevo farlo. O almeno così credevo». Arré si sentì dibattuta tra la pietà per la sua angustia ed il disprezzo per la debolezza. «Cha, non possiamo parlare qui,» gli disse. «Vieni a trovarmi». Si umettò le labbra per rispondere ma, proprio in quell'istante, una voce suadente lo precedette. «Mia cara sorella. Ti è piaciuta la Danza?» Era Isak. Sul suo volto erano ancora dipinti i contorni delle penne del Cigno. Indossava degli abiti normali, sotto i quali i muscoli si indovinava-
no, duri come metallo, elastici come cera. Intrecciò un braccio con quello di Cha, stringendo a sé l'uomo come fosse un amante. «Hai avuto parecchie cose da dire al mercante nostro ospite. Trovi che sia un uomo colto?» «Abbiamo parlato di politica, non di arte,» disse Arré. «E tu lo hai trovato colto quando hai fatto la sua conoscenza ieri sera?» «Non ha parlato con me,» disse Isak. «Non sono io il Capo della mia Famiglia. Ti è piaciuto davvero il mio numero?» «Sì. Tu danzi sempre stupendamente. Isak, perché hai detto a Ron Ismenin di escludermi dagli invitati?» «Per farti dispetto,» disse Isak sorridendo. «E perché pensavo che i piani di Kim Batto sarebbero falliti se tu avessi avuto l'opportunità di parlare direttamente a Tarn Ryth. Ci sei riuscita, naturalmente. Sei una donna piena di risorse. Povero Kim, sembra una gallina affogata». Si, pensò Arré, questa è la fine della vostra alleanza. Dovrò dire a Jenith di riprendere il suo posto in magazzino. «Ron era a conoscenza delle manovre di Kim Batto?», domandò. «Chiedilo a lui, mia cara». «E il L'ehl?» Il Danzatore alzò le spalle. «Non lo so. Cerco sempre d'aver a che fare il meno possibile col Tanjo; è l'unica cosa sulla quale io e te siamo d'accordo. Cha - la voce si fece più acuta - vieni con me. Devo farti vedere una cosa». «Ci hai interrotto,» obiettò Arré acidamente. «Lo so,» disse Isak. Serrò quindi la mano intorno al gomito del debole Cha Minto e lo trascinò via con sé. Arré andò a cercare la sua lettiga. La individuò grazie alle banderuole rosse e blu che pendevano dalle stanghe. Sorren vi era seduta accanto, con i tamburi ed i vestiti nuovi sulle ginocchia. «La Danza è stata magnifica,» si complimentò Arré. «Tu eri un incanto.» Sorren abbozzò un debole sorriso senza rispondere alcunché. Sembrava avvilita. «Forza, vieni nella lettiga con me». «Posso andare a piedi». «So bene che puoi camminare! Entra!» Sorren sospirò. Si rimise in piedi e prese posto nell'abitacolo. Arré la seguì, ed i portatori si alzarono. Le lunghe gambe della ragazza occupavano per intero l'angusto spazio tra i due sedili; le tirò su flettendole sotto le natiche. Arré batté il pugno sulla parete della cabina e la lettiga si mise in movimento con un sussulto. «Ebbene?» disse Arré. «Cosa è successo?»
Sorren si strofinò le mani sul viso. I capelli erano ancora arrotolati sulla testa, ed il pettinino coi lapislazzuli rifulgeva ammiccante nella vettura puzzolente. «Isak sa che gli ho mentito,» disse. «Si è adirato molto?», chiese Arré con dolcezza. Sorren lasciò cadere le mani in grembo ed annuì. «Non ha detto nulla. Ma so che lo era». «Non è necessario che lo dica. Il suo corpo parla per lui. Piccola, non sei obbligata a suonare per lui. Può trovare un'altra percussionista per il Festival». Sorren si morse le labbra. «Probabilmente è ciò che farà. Non vorrà più vedermi. Ma... a me piace suonare per lui!» L'ultima frase fu un gemito. Arré si protese nel minuscolo spazio ed afferrò le mani di Sorren tra le sue. La ragazza singhiozzava e respirava sonoramente. «Marti Hok aveva ragione. È malvagio». «Quando te lo ha detto?» «Quando sono stata a casa sua». Arré ricordò la richiesta fattale poco prima da Marti. «Ti piacerebbe tornare a farle visita?» «Oh, sì!», disse Sorren. Tracce della consueta vitalità riapparirono sul suo viso. «Posso andarci? Vuole vedere le Carte». «Certamente. Deve vederle.» Arré lasciò libere le mani della ragazza. E, con tono vivace, aggiunse: «Non devi permettere ad Isak di angustiarti. Non vale affatto la tua pena». Il mio fratellino, pensò. Credo che un tempo mi volesse bene. Bastò la semplice menzione del nome di Isak perché la gioia svanisse dal viso di Sorren. Rabbuiata, chinò la testa. Arré cercò nella mente un modo per distrarla. «Cantami qualcosa,» propose. La testa di Sorren tornò su. «Non so cantare». «Io sì,» disse Arré. «Canta con me». Automaticamente, Sorren trasse i tamburi in grembo. «Una canzone qualsiasi?», disse. Arré annuì, sperando che non scegliesse qualcosa di troppo licenzioso. La lettiga oscillava mentre i portatori risalivano la collina. Sorren cominciò ad intonare a bassa voce; «Dove sono andati, coloro che furon scelti? Dove sono andati, i Danzatori possenti!» Arré conosceva quella canzone, e si unì a Sorren col pensiero rivolto a Tarn Ryth, ai suoi figli, alle sue visioni.
«Con le lunghe lame affilate, ed i lunghi capelli fluttuanti. Dove sono andati, qual è il loro canto?» Il pomeriggio seguente Jenith si recò alla casa dei Med. Si sedette nello studio di Arré, soffiò nell'aria alcuni anelli di fumo e parlò di Tarn Ryth. «È accampato coi suoi soldati nella Piazza dei Batto,» disse, «e i suoi servitori dicono che lui e Kim Batto non si rivolgono la parola.» Sorren scorse l'ampio sorriso di Arré mentre percorreva il corridoio antistante la saletta. Il giorno successivo fu dedicato al bucato. Sorren e Lalith strofinarono e lavarono tutta la biancheria e gli abiti di casa (persino i grembiuli del cuoco) e stesero ogni cosa ad asciugare nel cortile posteriore. Arré uscì di buon'ora. (Lo faceva sempre nel giorno del bucato. Diceva che l'odore del sapone la faceva vomitare). Dall'estremità meridionale del Distretto erano giunte lamentele a proposito di un pozzo che pareva non funzionasse, sicché Arré colse l'occasione per andarvi a dare un'occhiata. Sorren si sentiva la coscienza a posto. Discese allegramente il pendio della collina con la scatoletta delle Carte tra le mani. Nuvole di schiuma si scorgevano in ogni vicolo; pareva che tutta la città stesse facendo il bucato. L'odore di noci arrostite impregnava l'aria. Attraversò il Distretto dei Minto diretta a quello degli Hok, passando dalla Via dei Tessitori per immettersi nella Via di Lerril. Un giorno avrebbe chiesto ad Arré chi fosse questo Lerril. L'indomani sarebbe andata al pascolo nel Distretto dei Batto per continuare l'addestramento al tiro con l'arco. Provò a flettere le mani e sentì i muscoli muoversi sotto la pelle. Nella sua camera, dove nessuno poteva vederla, aveva esercitato braccia e spalle nel modo in cui faceva Paxe, sollevandosi cioè dal pavimento facendo forza sulle braccia senza flettere il corpo. Quando aveva iniziato la ginnastica, le braccia avevano ceduto alla quinta flessione, ma quel mattino era riuscita a farne dieci. Le Guardie degli Hok le fecero cenno di entrare senza farle domande, e fu accompagnata nella stanza di Marti Hok come una vera visitatrice. Marti vi era seduta con un mucchio di rotoli affastellati in grembo, ed aveva un'aria affaticata. Quando Sorren entrò, le sorrise, poi depose i rotoli sul tavolino accanto a lei. «Se hai da fare, Signora, posso tornare un altro giorno,» disse la ragazza. «Chiamami Marti. No, sono stata io a chiedertelo, ricordi? Hai portato le Carte?» Sorren le porse la scatoletta.
«Bene!» Marti la ricevette dalle mani di Sorren che si mise a sedere sulle stuoie. Una ragazza con un abito bianco portò un vassoio con dello sherbet, al limone stavolta, addolcito col miele. Marti estrasse tutte le Carte dalla custodia e le guardò una ad una. «Sono bellissime!», commentò. «Erano in ordine quando le hai avute?» «Sì. Il Danzatore per primo, poi La Tessitrice, La Sognatrice, La Signora...» «Sì, capisco!» Marti pescò nel mazzo rimettendo le Carte nell'ordine previsto, poi le restituì a Sorren. «Vieni, andiamo nella biblioteca. Porta pure il tuo scherbet». Si incamminarono verso la biblioteca. Mentre avanzavano, la bambina che voleva tenere con sé la farfalla uscì di corsa da una stanza. «Abu, dove stai andando?», disse. «Nella biblioteca, mani lunghe, dove tu non puoi venire». «Io vado all'acqua,» disse la piccola, impettita. «Pa' mi porta a vedere le navi!» La biblioteca era esattamente come Sorren la ricordava, e lo disse a Marti. «Naturalmente, piccola!», disse la vecchia, sedendosi nella grande sedia di legno. «Nessuno entra qui oltre a me. Ti ricordi in quale armadietto si trova la cartella rossa?» Sorren indicò il posto. «La tua memoria è migliore della mia,» mormorò Marti. «Vai a prenderla». Sorren obbedì e poggiò l'involto sul tavolo. La fragile carta si sgretolava al contatto con le sue dita, nonostante Sorren si studiasse di toccarla con la massima delicatezza possibile. Riconobbe il proprio nome e lo indicò alla vecchia. «È questo il mio nome?» «Sì. Quella lettera alta è la "S". Questa è la storia che ti ho letto la volta scorsa. Adesso... cosa dovevo fare con queste carte? Ah, ecco!» Estrasse i piccoli fogli dalla custodia rossa. «Adesso tu sfoglia le Carte mentre io ne leggo i nomi. Controlliamo se hai il mazzo completo, o se ce ne sono altre che non possiedi. Il Danzatore. La Tessitrice. La Sognatrice... sì, quella. La Signora. Il Signore. Lo Studioso: è l'uomo vestito di nero, naturalmente. Gli Amanti. L'Arciere.» Sorren estrasse quest'ultima Carta con un sussulto, provando familiarità per quella immagine. «Il Messaggero. Il Cavaliere. Provengono sicuramente dal nord, piccola. Guarda quanta neve in questa, e in quell'altra l'uomo cavalca attraverso la steppa». «Tu ci sei stata lassù?»
«Nella steppa? No. Ma ne ho sentito le descrizioni. Vaste pianure che si estendono a perdita d'occhio finché non approdano alle montagne. Una campagna desolata. Colei che guarda le stelle. È vestita di blu. L'Illusionista.» Marti osservo il disegno sul foglio, poi posò gli occhi sulla Carta. «Interessante. L'uomo sulla Carta indossa gli stessi colori dell'abito che portava il giocoliere al fidanzamento di Ismenin». Sorren guardò di nuovo la Carta. Marti aveva ragione, solo che Jeshim non aveva il collare. «L'Aquila,» continuò Marti. «No, prima Il Lupo, poi L'Aquila. La Fenice. Lo Specchio. Guarda con quanta abilità è dipinto. Se sulla Carta non ci fosse il numero, non sapresti da quale parte tenerla. La Torre. La Ruota. Il Demone. Che creatura mostruosa! La Morte. La Luna. Il Sole.» Si interruppe. «Ci sono tutte?» «Tutte!», confermò Sorren. Le aveva disposte sul tavolo di legno scuro in due file di undici. «Guarda i particolari,» disse Marti ammirata. «Guarda come si distingue bene l'albero nell'arazzo che sta tessendo La Tessitrice; e le facce delle persone intrappolate tra i raggi della ruota. Non sai usarle?» «No». «Peccato». «Ma usarle è ni'cea». Marti sbuffò. «No, è stata la gelosia che ha spinto il Clan Bianco a dichiarare ni'cea le Arti Divinatorie come l'osservazione dei corpi stellari e l'interpretazione dei disegni di paglia». Com'è possibile! si chiese Sorren. È la debolezza a rendere gli uomini gelosi, non la forza. «Arré ha detto che dovrei imparare ad usarle, ma non ha saputo dirmi in che modo». Marti annuì. «Lo penso anch'io.» Posò un dito sulla Carta dello Studioso. «Negli archivi del Clan Nero potrebbe esserci qualche antico documento che ne spiega l'uso. Ma, anche se vi fosse veramente, dubito che i membri del Clan sarebbero disposti a condividere con te una simile conoscenza. Con ogni probabilità tenterebbero di portarti via le Carte». «Ma le Carte sono mie!», protestò Sorren. Allungò una mano verso di loro, pronta a ricomporre il mazzo. «Certo che lo sono. Io non ho alcuna intenzione di togliertele.» Si appoggiò su una mano fissando le figure. «Il Clan Bianco dovrebbe sapere come si usano. Perché non chiedi a loro?»
Sorren si morse un labbro. «Non posso». Marti lisciò le maniche del giubbetto color panna. «Non capisco perché non dovresti,» disse. «Il L'hel sarà venale, questo è vero, ma ogni Mago lo è. Potrebbero farti giurare che non le userai, ma starà a te giudicare quanto la promessa sia vincolante. Potrebbero cercare di portartele via, ma tu appartieni alla Famiglia Med e di conseguenza sarebbero obbligati a chiedere il permesso ad Arré. Ed io sono sicura che Arré te le lascerebbe tenere. Perché, dunque, non puoi rivolgerti a loro?» «Non posso!» «Dimmi perché!», insisté Marti. Sorren le rivelò tutto quanto. A metà del racconto, Marti cominciò a sorridere. Quando Sorren ebbe finito, si protese verso di lei e le prese la mani tra le sue. «Tu non lo hai mai detto ad Arré, vero?», le chiese. Sorren scrollò la testa. Aveva la gola secca: soltanto a Paxe aveva rivelato il suo segreto. «E questa è la ragione per la quale non vuoi portare le Carte dai Maghi, perché temi che ti costringano a rimanere nel Tanjo, a diventare una di loro, e a non poter mai lasciare la città.» Le dita di Marti erano tiepide. «Povera piccola Sorren. Nessuno può costringerti a farti fare ciò che non desideri! Sei una Maga, sì. Ma non c'è nessun modo, nessun modo per costringerti ad esercitare il tuo talento, il tuo potere telepatico, se non vuoi utilizzarlo. La parola Tanjo significa scuola; e di fatto è una scuola. Secondo me dovresti andare al Tanjo, rivelare le tue facoltà e lasciare che ti insegnino ad utilizzarle nella maniera appropriata. Dopotutto potresti scoprire che non desideri più andare a nord». «No,» disse Sorren. «Io voglio andarci». «Ti assicuro, Sorren, che non ti impedirebbero di partire. Non possono». Gli occhi di Sorren fissavano le figure dipinte. Ditemelo voi, pensò. Ditemi cosa accadrà se lo faccio. Ma le Carte rimasero mute. Le mani di Sorren tremavano, e le serrò strette sui fianchi. L'idea di andare al Tanjo la terrorizzava. E se Marti Hok aveva ragione? Pensò a Sorren la Guerriera, la Principessa, quella Sorren che le somigliava. La Sorren della quale portava il nome, e (forse) anche il sangue. Cosa avrebbe fatto lei? Sarebbe andata ovunque avesse desiderato e nessuno avrebbe osato toccarla. Ma io non sono quella Sorren, pensò. «Perché non hai mai parlato ad Arré di questo?», le chiese Marti con dolcezza. «Sono sicura che non lo hai mai fatto, perché so che ti avrebbe
detto la stessa cosa». Sorren si strofinò una guancia. Non era facile spiegarle ciò che pensava. «Avrebbe voluto che andassi al Tanjo». «Non ti costringerebbe mai a farlo». «No. Ma mi chiederebbe di farlo, e mi giudicherebbe una sciocca se io rifiutassi». Marti annui. «Questo è vero,» disse in tono grave. «Arré non cerca il potere ma, se le viene offerto, allora se lo prende, e non riuscirebbe mai a capire perché tu non voglia prenderlo. Ma cosa ne pensa la tua amante, il Maestro della Piazza?» «Non gliel'ho chiesto,» disse Sorren. «Perché no? È una donna saggia; dev'esserlo, se gode della fiducia di Arré. Forse dovresti chiederle consiglio». Era un buon suggerimento. Sorren meditò sull'opportunità di discuterne con Paxe mentre risaliva il declivio del colle. Giunta alla Piazza d'Armi, sbirciò tra le sbarre del cancello cercando Paxe. Le Guardie si stavano allenando con le nuove armi di legno, ma Paxe non era tra loro. Sorren esitò, poi si diresse verso la villetta. Bussò piano alla porta: sarebbe andata via subito se non vi fosse stata risposta. «Un momento!», disse la voce di Paxe. Si udì il trepestio dei passi sulle stuoie e la porta si aprì. Paxe si affacciò sull'uscio con un'esperienza severa. «Oh,» disse, «sei tu. Entra». «Se hai da fare...», disse Sorren. «Te lo avrei detto,» replicò il Maestro della Piazza. «Vieni!» Sorren entrò nella villetta con le Carte tra le mani. Si sedette sulle stuoie; Paxe le gettò un cuscino che infilò sotto le natiche. Pose quindi la scatola con le Carte accanto al tavolino. «È molto che non ci vediamo,» disse alla sua amante. «Sono al turno di notte,» disse Paxe. «E tu sei stata molto occupata. Ogni volta che ti incontro, stai scendendo giù in città per commissioni». È Arré che mi tiene occupata, pensò Sorren, ma le parole le rimasero in gola. Non era Arré ad occupare il suo tempo. Ricordò quando le aveva domandato se per caso non avesse un'altra amante. Forse Paxe pensava che avesse un'altra amante? Guardò con intensità la donna più anziana di lei, scoprendole sul viso nuove rughe, i segni d'una nuova preoccupazione. Le sembrò anche smagrita. Forse era per via degli allenamenti con le spade, o forse dipendeva da una domanda che evitava di rivolgerle. Quando Paxe
era adirata, o seccata, o turbata da qualcosa, non ne parlava: lavorava. «Mi sei mancata,» disse Sorren. Il Maestro della Piazza le tese una mano. «Allora perché te ne vai sempre dove non posso raggiungerti? Vieni qui!» Sorren e Paxe si strinsero in un delicato abbraccio. «Così va meglio,» sussurrò Paxe. Seguì con la lingua il contorno degli occhi di Sorren. «Qualcosa ti turba, chelito?» La ragazza adagiò la testa nell'incavo della spalla di Paxe. «Devo dirti una cosa». «Dimmela!», la invitò l'amante, infilandole le dita tra i capelli. «Ti ricordi quando Isak mi chiese per la prima volta di suonare al fidanzamento? È stato alcune settimane fa, durante la riunione del Consiglio». «Ricordo,» disse Paxe. Non immaginava che il malessere di Sorren avesse a che fare con Isak. «Ebbene, il mattino dopo, Arré mi chiese di scoprire chi dei fratelli Ismenin fosse in procinto di sposarsi». «Fu sorpresa quando glielo dicesti?» «Sì... ma non è di questo che intendo parlarti. Mi rivolsi a Jeshim, il giocoliere. Quel giorno si trovava alla darsena, nel Distretto dei Jalar, ad esibirsi per i marinai ed i pescatori. Ad ogni modo, fu allora che conobbi... che ho conosciuto questa persona. Si chiama Kadra. Mi disse che un tempo era stata una Messaggera, e che, per via d'una ferita alla gamba, non aveva più potuto montare a cavallo». «Kadra. Abita nel nostro Distretto?» «No, in quello dei Jalar. Mi misi a parlare con lei. Sa disegnare le mappe. Le chiesi se avesse mai sentito parlare di Tornar, e mi disse di sì. Si offrì di disegnarmi una carta per mostrarmi le strade che avrei dovuto percorrere e le città che avrei incontrato...» «Da quanto tempo ha smesso di viaggiare?», disse Paxe. «Potrebbero essere cambiate». «Non lo so. Non me lo ha mai detto. Credo che sia passato molto tempo.» Si divincolò dall'abbraccio di Paxe. «Se continui a farmi domande, non riuscirò mai a raccontarti tutto per bene!», protestò Sorren. «Scusami,» disse Paxe. Incrociò le gambe e pose le mani in grembo. «Mi piace stringerti». «Lo farai dopo. Kadra... Kadra è strana. Si ubriaca. Non ho mai visto nessuno bere tanto e riuscire ancora a reggersi in piedi. È stata Messaggera finché non si è spezzata un'anca, cadendo. Vuole imbarcarsi su una nave:
l'Ilnalamaré.» Pronunziò con attenzione la bizzarra parola, per non rischiare di tralasciarne qualche sillaba. «Una nave?», disse Paxe. Sorren le raccontò del vascello. Il Maestro della Piazza scrollò la testa. «Le cose che ignoro di questa città! Ma ti ho interrotto di nuovo. Continua». «Kadra ha segnato il percorso sulla mappa e mi ha insegnato i nomi di tutte le città che sorgono tra qui e Tezera. Ora li so tutti a memoria». «Davvero? Sentiamo». «Terzi, Mahita, Warrintown, Yfarra, Monitori, Septh, Kup-sulla-Palude, Tezera». «Perfetto!» Sorren emise un respiro. «C'è ancora un'altra cosa?» Una pagliuzza fuoriusciva dall'intreccio della stuoia; Sorren cominciò a tormentarla tentando di strapparla. «Kadra mi sta insegnando a tirare con l'arco». Paxe raddrizzò la schiena. «Chi ha avuto quest'idea?» «Lei. Ha detto che dovevo imparare a cacciare la selvaggina se volevo andare a nord da sola.» La pagliuzza ostinata cedette finalmente alle dita di Sorren. La ragazza sollevò la testa per incontrare lo sguardo di Paxe. «So che la legge mi proibisce di imparare a catturare gli animali ed i pesci: niente di più». Paxe scrollò la testa. «Celito, stai correndo dei rischi,» le disse con dolcezza. «Dove ti alleni?» «In un terreno da pastura nel Distretto dei Batto. L'arco è nascosto. Ci sono andata questa settimana, ci andrò la settimana prossima, e poi quell'altra ancora, finché la nave non sarà salpata». «Cosa farai dopo?» «Non lo so,» disse Sorren. «Portalo qui,» suggerì Paxe di scatto, e si alzò con un moto improvviso. «Lo terrò io, nella mia cassapanca.» Puntò il mento verso la cassa di legno istoriato. «Farò montare un bersaglio nella Piazza d'Armi per farti esercitare. A cosa stai tirando adesso?» «A balle di fieno. Non sono un granché.» Si sentì il cuore in gola. «Pensi di farlo sul serio?» «Non dico mai una cosa che non penso». Si avvicinò alla ragazza, si chinò su di lei ed appoggiò le labbra su quelle della sua amante. «Sei cresciuta, chelito». «I vestiti mi vanno tutti,» obiettò Sorren. «Non intendevo questo.» Si baciarono, ed i loro corpi disegnarono un
cerchio di luci ed ombre nel villino rischiarato dal sole. Paxe fu la prima a staccarsi. «Cea,» sussurrò, «mi mancherai quando te ne andrai al nord». «Starò qui ancora un anno». «Mi occorrerà un anno per abituarmi all'idea di perderti,» disse il Maestro della Piazza. «Vieni, voglio farti vedere una cosa.» Condusse Sorren alla cassapanca. Le incisioni sul coperchio formavano il disegno di un grosso albero pieno di rami; da questi occhieggiavano dei graziosi uccellini. La forma di un uccello dalle ali spiegate aveva pure la chiusura d'ottone. Paxe l'aprì e ne trasse una spada. Era punteggiata di ruggine, ma la lama sembrava ben affilata, e l'elsa e la protezione metallica erano ben lustre e scintillanti. Paxe allungò la mano nella cassa e ne estrasse anche il fodero. «È molto vecchia,» disse. «Non la tengo nel fodero perché è talmente consunto che il cuoio si squarcerebbe se ve la infilassi. La seta è un ottima protezione.» Sollevò la lama verso la luce. «Volevi vederla,» disse. «Ti piacerebbe toccarla?» Sorren annuì. «Tendi le mani, con i palmi in su,» la diresse Paxe. Sorren obbedì, e la donna depose la spada sui suoi palmi aperti. Era meno pesante di quanto avesse immaginato. Poi Paxe la riprese. «Vuoi impugnarla?» «Posso?» «Prendi l'elsa nella mano destra». Sorren allungò la mano. Paxe teneva l'elsa con la sinistra. La ragazza richiuse le dita intorno ad essa e Paxe ritirò la mano. Sorren rinsaldò la presa. «È... è vecchia?», chiese. «Vecchissima,» rispose Paxe in tono grave. Sorren si domandò se quell'arma avesse mai ucciso. Il pensiero la fece rabbrividire. Chiuse gli occhi, desiderando con tutte le sue forze di trovarsi al nord, quasi che la presenza della spada evocasse una magia, e l'aiutasse a proiettarsi lassù. Adesso era là. Era l'uccello e sorvolava le montagne... ma non erano le sue montagne, le grandi colline grigie che aveva imparato a conoscere. Erano rosse. Le rammentavano il Tanjo; ma, laddove le pietre del Tanjo erano levigate e ben modellate, le rocce dei monti erano scabre ed erose dal vento, dalla pioggia, dal gelo. Pennacchi di neve imbiancavano le cime. Sorren-l'-uccello discese planando e scoprì che era estate. Scorse il verde dei campi, le case, un mulino a vento... poi aleggiò sullo squarcio che si apriva tra due alte catene di monti, e sotto di lei avvistò un villaggio.
Discese più in basso, fino a sorvolare il villaggio. Lentamente, invisibile come una musica, fluttuò su una strada, la via principale del villaggio. Un vasto slargo si apriva in un punto - la Piazza d'Armi, pensò -popolato da persone. Si parlavano l'un l'altro, ma i loro accenti erano stranieri; non capiva quello che dicevano. Alcuni avevano armi, coltelli di legno come quelli che aveva visto a Paxe. Un uomo stava da solo in disparte: sostava al centro dello spiazzo con le mani poggiate sui fianchi. Una posa da Maestro, pensò. Aveva i capelli di tre colori raccolti all'indietro da una fascia rossa - una shariza, pensò Sorren - e, a quel punto, la visione si interruppe. Ritornò al presente e scoprì che Paxe le aveva tolto la lama dalla mano. Sentì che le ginocchia le venivano meno. Il Maestro della Piazza la prese tra le braccia e con delicatezza la fece sedere sul pavimento. «Cos'hai visto?», le chiese. «La Rocca?» «No,» Sorren inghiottì. La gola ed i polmoni le dolevano come se avesse realmente respirato l'aria delle montagne. «No. Ho visto delle montagne... ma diverse. Montagne rosse.» Le descrisse a Paxe. Questa ascoltò, cingendo Sorren con le braccia. «Somigliano alle Colline Rosse,» mormorò, mentre Sorren descriveva il colore e l'altezza dei rilievi dai cocuzzoli innevati. «Cos'altro hai visto, chelito?» «Un villaggio tra le montagne. E un uomo che impartiva istruzioni in una Piazza d'Armi. Portava la shariza.» Chiuse di nuovo gli occhi, perlustrando la memoria alla ricerca di dettagli. «Indossava abiti simili a quelli che porti tu nella Piazza d'Armi, e sulla camicia c'era un disegno, un cavallo lanciato al galoppo... come l'emblema dei Batto». «Stava addestrando i soldati?» «Ho visto dei coltelli di legno.» Si sforzò di richiamare alla mente altri particolari, terrorizzata di potersi nuovamente tramutare in Sorren-l'uccello. «Non avevo mai visto quel posto prima d'ora. Cos'è che mi ha fatto andare là? Dove credi che fosse?» «Non lo so,» disse Paxe. Poteva essere un posto qualunque tra le Colline Rosse. Persino Vanima». Sorren ebbe uno scatto. «Vanima»? Paxe accennò un sorrisetto. «L'ho detto così per dire, chelito. Credo che la spada ti abbia portato da qualche parte, ma non so immaginare dove». «Ma io ho visto un ceari». «È probabile!», la corresse Paxe. Fece quindi scivolare il pollice lungo la schiena di Sorren. «Ma non c'è modo di stabilire se lo hai visto davve-
ro». A meno che non lo domandi ai Maghi, pensò Sorren. Paxe raccolse la spada dalle stuoie, vi avvolse attorno un drappo di seta e la ripose nella cassa. Sorren osservò i suoi movimenti sapienti. Un tempo Paxe aveva conosciuto un ceari. Una domanda le affiorò sulle labbra. Esitò, ma poi si fece animo. «Credi che ne esistano ancora?» Paxe capì a chi si stava riferendo. «No,» rispose. «Spero di no. Il mondo li ha superati. La vita è cambiata». No, pensò Sorren, ed i suoi pugni si serrarono. Non è cambiata fino a questo punto! Raccolse le Carte da dove le aveva poggiate, vicino al tavolo. «Le ho fatte vedere a Marti Hok; me lo aveva chiesto lei,» spiegò. «Cosa ne pensa?» «Secondo lei dovrei andare al Tanjo per imparare a diventare una Maga. Mi ha detto che lì potrebbero insegnarmi a usare le Carte». «Tu vuoi andarci?» Io non voglio andare al Tanjo, pensò Sorren. E se tutto quello che aveva detto Marti era vero? Rammentò l'incontro con la Maga dai capelli neri, ricordò quando quella l'aveva... toccata. Rabbrividì al pensiero. Però in fondo le aveva fatto del male. Cosa sarebbe accaduto se avesse portato le Carte al Tanjo? Predire la sorte era ni'cea; potevano privarla delle Carte. E se poi non lo facevano? Se magari le insegnavano a prevedere il futuro? Forse non era tanto terribile diventare una di loro. «Tu cosa faresti?», disse Sorren. «Se fossi al posto tuo?», rispose Paxe. «Ci andrei.» «E se ci vado, e divento una Maga, continuerai ad amarmi?» La bocca di Paxe si contrasse come se quelle parole l'avessero ferita. Riempì lo spazio che le divideva, si chinò e baciò la testa di Sorren. La sua voce si fece roca mentre le rispondeva, «Ti amerò sempre, ovunque tu vada». Arré andò a letto presto. La passeggiata al pozzo l'aveva stancata; non mangiò, irritando non poco la suscettibilità del cuoco. Si appoggiò pesantemente al braccio di Sorren mentre saliva di sopra. «A Marti sono piaciute le tue Carte?», chiese dal letto. La ragazza annuì. «Bene». Dopo averla messa a letto - dove, come un bambino esausto e capriccioso continuava a chiacchierare fino a crollare a metà d'una frase - Sorren andò in camera sua. Il silenzio la turbava. Era irrequieta, troppo irrequieta
per addormentarsi; di suonare, però, non aveva voglia. Scese dabbasso, nella saletta. Elith la scoprì. «Cosa ci fai qui dentro?», le disse. «Vado, vado!», si limitò a dire Sorren, accompagnando le parole con gesti espliciti. Era futile mettersi a discutere. Uscì, diretta alla cucina. Toli stava pulendo uno storione per la colazione dell'indomani; l'odore del pesce le diede fastidio. Finalmente uscì all'aperto. Il cielo era privo di luna; la falce levatasi nel pomeriggio era adesso annegata sotto il mondo. Sorren passeggiò nel cortile posteriore. Le mattonelle erano fredde sotto i piedi nudi. Se andava al Tanjo... Quel pensiero le seccava la bocca. Camminò fino alla staccionata della Piazza d'Armi e, con la mano, seguì il contorno di un'asse. Se era veramente una Maga... Si morse un labbro e continuò a camminare, mentre le dita scivolavano leggermente sul legno. Arrivò al cancello, e lì si fermò. Cera qualcuno nello spiazzo. Il suono di un respiro profondo e controllato le giunse attraverso le inferiate del cancello, un suono regolare come lo sciabordio delle onde. Guardò tra le sbarre e provò un tuffo al cuore. Paxe era nella Piazza d'Armi. Il profilo della sua figura alta era inconfondibile. Brandiva una spada come se fronteggiasse un nemico, e si muoveva seguendo uno schema di rapidi passi, la schiena ritta come un filo di piombo. Sorren strinse le mani intorno alle fredde sbarre del cancello e rimase immobile a guardare. La spada luccicava; non era di legno, ma di lucido metallo. Paxe non si era accorta di lei. Il Maestro della Piazza indossava gli abiti che solitamente portava quando era di guardia; ma, nel chiarore delle stelle, era più simile ad un'ombra che ad un essere umano. I suoi movimenti ritmici rammentarono a Sorren i passi della Danza di Isak, ma laddove Isak era un'immagine di grazia, Paxe era un'immagine di morte. Tutt'ad un tratto il Danzatore le apparve come un bimbo che giocasse a simulare l'arte. Questa è arte vera, pensò. Gli occhi cominciarono a bruciarle. Sbatté le palpebre per alleviarne la stanchezza. Abbacinata, vide mutare la sagoma della guerriera: non era più Paxe, ma il Maestro della visione... Sbatté di nuovo le palpebre, e distinse il profilo della sua amante. Questa era una Paxe che Sorren non conosceva, che forse non aveva mai conosciuto. La ragazza rabbrividì. E, alta, snella e mortale, Paxe danzava; colpiva, saltava, colpiva ancora, un'ombra oscura e fluida stagliata contro la trama delle stelle, il bianco degli occhi fulgido come quarzo. Capitolo diciassettesimo
Il quarto giorno della settimana, Sorren si recò nella Via delle Susine per incontrarsi con Kadra. Ora che Paxe sapeva di Kadra e dell'arco, la ragazza si sentiva più tranquilla quando si allontanava dalla villa dopo aver sbrigato tutte le faccende che le competevano. Elith brontolava ma, fintantoché Sorren si occupava della spesa e della pulizia, non poteva aver nulla di che lamentarsi. Arré, dal canto suo, pareva non badarci. Lungo la Via delle Susine, i bambini Asech stavano giocando ad acchiapparella tra le case ed i giardini. Sorren cercò di individuare la ragazzina che l'aveva guidata la prima volta verso la stalla in rovina, ma non ci riuscì. Con i loro occhi neri, la pelle scura ed i visetti smunti, quei bambini sembravano tutti uguali. Kadra non era nella baracca. Sorren guardò dappertutto dietro la casa. Si avvicinò anche alle finestre e sbirciò dentro attraverso la carta setificata del paravento, ma non vide nulla. Chiamò il ghya, ma soltanto le risa sonore dei bambini le risposero. Decise allora di andarsene, e si allontanò in direzione del pascolo. Tammo fu felicissimo di vederla. Corse immediatamente al nascondiglio dell'arco e lo tirò fuori unitamente alle frecce. «No, Tammo, oggi non tiro,» disse Sorren. Il giovane corrugò la faccia, deluso. «Tammo, hai visto Kadra?» Quello piagnucolò qualcosa, si raggrinzì in volto ed alla fine scrollò la testa. «Non hai visto Kadra, Tammo?» Un enfatico gesticolare fu la sola risposta. «Se la vedi, dille che Sorren la sta cercando. Sorren. Te ne ricorderai?» L'uomo-bambino annuì ed agitò le braccia. «Sorren,» ripeté lei, e s'incamminò attraverso il pascolo disseminato di letame. Ormai non occorreva più che chiedesse indicazioni per raggiungere l'invasatura dei Jalar. Percorse in fretta le vie cittadine, poi attraversò il Distretto dei Sul fino alla taverna del Pesce d'Argento. Schegge di vetro azzurro rilucevano sui ciottoli come i lapislazzuli del suo pettinino, e la massiccia porta oscillante della taverna era stata completamente divelta dai cardini. Un falegname armato degli strumenti del mestiere stava misurando il telaio della finestra infranta. «Cosa è successo?,» domandò Sorren. L'uomo grugnì. «Un idiota di carrettiere voleva scendere lungo la strada ed è finito dritto nella taverna. Ha distrutto la porta e le finestre. Norras si è talmente arrabbiata da ubriacarsi.» Infatti, le urla della proprietaria del locale si udivano dall'interno della locanda. Sorren si voltò e si avviò in direzione del molo, rallegrandosi d'aver messo i sandali. Un cane le rin-
ghiò contro da un uscio, e lei lo zittì con un ciottolo. Le Guardie in uniforme gialla le permisero di sostare a lungo sul pontile. Sorren contemplò la nave; sembrava ultimata. I fianchi risalivano obliqui verso il ponte. La poppa era squadrata, la prua appuntita. Tre alti alberi svettavano nell'aria, e da essi pendevano numerose corde. Altre ancora erano sparse un po' dappertutto sulla nave, avvolte in grossi rotoli. Là dove i fianchi si incurvavano verso l'interno, a prua ed a poppa, erano state costruite delle cabine, ed in parecchi punti del ponte si aprivano delle botole quadrangolari affiancate da tavole di copertura. Diverse scale affondavano nell'oscurità. Il ponte era bianco, e così pure i fianchi della nave: le cabine, invece, erano gialle. Mentre Sorren osservava assorta, un gatto bianco e nero attraversò il ponte con l'agilità d'un acrobata, passando tra l'intrico di corde, tele arrotolate e scatole. «Posso andare laggiù?», domandò. Il posto sembrava deserto, ma Kadra poteva esser lì da qualche parte, vicino alla nave che adorava. Le Guardie titubarono ma poi le rivolsero un cenno di assenso. Così Sorren scivolò rumorosamente sull'acciottolato digradante che scendeva all'invasatura. Presso la nave l'odore di vernice fresca quasi soverchiava l'odore del mare. Mucchi d'argilla punteggiavano la spiaggia con strane angolazioni. In certi punti lo spostamento del fango aveva spinto da una parte i cumuli terrosi. Un granchio dal guscio rosso agitò le chele provocatoriamente dal margine di un cumulo. Sorren si avvicinò a quello successivo, ma lì non trovò neppure un granchio a salutarla. Chiamò Kadra, e la sua voce si fuse con quella dell'oceano. «Kadra!» Nessuna risposta. Alla fine si arrese, e ritornò sulla strada. Si recò alla locanda: due donne stavano trasportando una tavola di legno attraverso la porta; Sorren attese che fossero entrate, dopodiché le seguì. Dalla cucina proveniva il rumore di un martello. Norres stava in piedi al centro della sala, con la mani sui fianchi ed i gomiti in fuori, minacciando i falegnami di non pagarli se avessero sprecato altro tempo. Una raffica di parole investì come pioggia le orecchie di Sorren. Poi la proprietaria della locanda si accorse della sua presenza e si girò verso di lei. «E tu cosa vuoi?» «Sto cercando Kadra,» disse Sorren. «Dovevamo vederci oggi, alla casa di Via delle Susine, ma non c'era». Norres la guardò in cagnesco. Aveva i capelli corti ed arruffati: le arrivavano appena alle spalle. «Non lo so dove sta quella!» «Quando l'hai vista l'ultima volta?»
«Due giorni fa: era ubriaca.» Poi si rivolse di nuovo ai falegnami. «E dovrete anche pagarmi la birra che state bevendo. Credevate che fosse gratis?» Sorren ci provò ancora. «Non ti interessa sapere che fine ha fatto?» «Perché dovrebbe?», replicò Norres. «Pensavo...» «Non mi importa niente di che cosa pensi,» disse la donna. Quindi squadrò Sorren dalla testa ai piedi. «Accidenti, che spilungona!» «Non sono una spilungona,» protestò Sorren, «Sono solo alta. E voglio trovare Kadra! È malata: potrebbe essersi sentita male, da qualche parte in città, potrebbe trovarsi per strada, abbandonata per terra...» Norres la fissò intensamente: aveva gli occhi verdi come la giada, ed un po' velati. «Lo so,» disse calma, «e gli anni mi hanno insegnato a non badarci». «Anni?» «Per otto anni siamo state amanti. Tu non puoi saperlo: quella non ne parla mai. Otto anni... e ne ho viste di sbornie e di zuffe, consapevole che un giorno o l'altro sarebbero venuti a dirmi "Conosci Kadra-no-Ilezia, il ghya? Vieni con noi, c'è un cadavere da ritirare." Quando una persona desidera la morte come la desidera quella lì, allora c'è poco da fare per tenercela lontana. Io ho fatto del mio meglio, ma poi mi sono dovuta arrendere». Sorren si sentì come se d'improvviso fosse finita in una palude. «Non capisco,» disse. «No, certo, come potresti?», disse Norres, coi suoi occhi incredibili pieni di lacrime. «Vattene a casa, ragazza, dovunque essa sia, trova la tua amante e stai con lei. E siate felici. Hai guardato vicino alla nave?» Sorren annuì. «Ci ho guardato anch'io ieri sera. Sei andata da Tammo?» «Sì». «Io non ci sono potuta andare. Ad ogni modo, se fosse morta, lo avrei saputo.» Corrugò la fronte e si asciugò le lacrime. «Vedi? Mi hai fatto piangere, ed io avevo giurato che non avrei mai più versato una lacrima per quella lì. Ora vattene, ragazza: ingombri il passaggio». In quell'istante si udirono le sirene. «Ma non c'è nebbia...», disse uno dei falegnami. «È il segnale d'allarme!», disse Norres. «Incendio, alluvione, guerra.» Alzò la testa. «Da dove proviene?» «Da nord,» disse il falegname.
«No, da ovest,» corresse l'altro. «È meglio che vada!», disse Sorren. Sgattaiolò fuori dalla porta, ascoltando il mugghiare dei corni. S'incamminò quindi lentamente verso nord, attraverso il Distretto dei Jalar ed il territorio degli Isara. Una Guardia le tagliò la strada; era armata di picca e fionda, caricata con tre palle. Gridò qualcosa d'incomprensibile, mentre le passava davanti di corsa. Sorren imboccò il Viale dei Pini e sentì di nuovo suonare le sirene. «Awoo!», ululavano come lupi attraverso le pianure. «Aawhooo!» Un uomo le passò accanto di corsa; brandiva un pezzo di legno dal quale fuoriuscivano dei chiodi di ferro. Le lanciò un grido inarticolato e fece mulinare sulla testa la sua mazza rudimentale, ma non si arrestò. Spaventata ma risoluta, Sorren percorse il viale e mosse in direzione del Tanjo. Udì un boato sordo, simile al rombo del mare in tempesta. Rimase paralizzata, mentre il cuore le batteva all'impazzata, tentando di localizzarne la provenienza e quindi fuggire nella direzione opposta. Bastò quell'attimo di esitazione perché il boato la raggiungesse. Tutt'ad un tratto, la strada fu invasa da persone che urlavano. Scorse un uomo con un coltello, ed un altro che lottava per strapparglielo di mano. Aveva i vestiti imbrattati di sangue. Una donna stava accovacciata nel vano della porta, stringendo tra le mani il fondo di una bottiglia rotta. «Jalar,.. Jalar... Jalar... Jalar...», si udiva da sud. «I... sar... a, I... sa... era...» Sorren cercò un posto per nascondersi. La massa di gente che le stava davanti indietreggiò all'improvviso in una corsa precipitosa, e così fu costretta ad unirsi alla ritirata per non finire calpestata. Qualcuno cadde, ed un grido si levò lacerante. Una lama di coltello scintillò nella ressa, subito seguita da un'altra. I soldati dei Jalar stavano cercando di spingere la gente incontro ai soldati degli Isara, e la folla resisteva alla pressione. Di sotto, di sopra, ed intorno al tumulto, le sirene continuavano ad ululare. Sgombrate le strade! dicevano. Sorren sentiva la gola secca, come se stesse respirando sabbia. Si rifugiò nel vano di una porta, e si accorse che era la stessa dove prima aveva scorto la donna accovacciata con la bottiglia rotta in mano. Sorren la cercò intorno con lo sguardo, ma se n'era persa ogni traccia. Una donna con addosso l'uniforme delle Guardie dei Jalar le corse davanti zoppicando. Rivoli di sangue le striavano una gamba. Ora la strada sembrava sgombra. Sorren uscì allo scoperto, tremando. Ma, inaspettatamente, la strada si affollò di nuovo. La gente si riversò nel-
la via come acqua in una pozza creata dalla marea. Sorren compresse il corpo contro l'uscio. Una donna ruzzolò all'indietro, e la sua testa batté sul suolo davanti agli occhi di Sorren con un rumore sordo, terribile, quindi rimase immobile. Sorren allungò una mano e la posò sulla bocca della sventurata, ma non sentì nulla. Il volto pallido fissava il cielo, senza vederlo. Sorren afferrò la donna per la camicia e la trascinò nel suo rifugio: la sua testa urtò pesantemente sui mattoni. Desistette. Altre grida echeggiarono nella strada, provenienti da nord. Udì lo scalpiccio di una marcia. «Is... men... in, Is... men... in!» Soldati in grigio e oro - i colori degli Ismenin - bloccarono l'imbocco della via. Brandivano delle spade. Avanzarono lentamente verso la folla in tumulto. Sorren si appiattì contro il legno duro della porta. Vide le spade avvicinarsi: i volti dei soldati erano decisi, intransigenti. Un uomo cercò di colpire uno di loro: una spada gli recise la gola. Rovinò al suolo, mentre il sangue gli colava giù per il petto e la schiena. Un uomo piccolo e scuro sembrava essere quello che dava gli ordini. Sorren voltò la faccia dall'altra parte per non vedere la lama abbattersi su di lei. La strada tremò. Uh istante dopo, il plotone era passato, lasciandosi alle spalle corpi coperti di sangue e senza vita. Strisciando, Sorren uscì dal nascondiglio e raggiunse la strada. Le sirene avevano cessato di ululare; nessun rumore proveniva dalla città. Le occorse molto tempo per trasportare il corpo della donna al riparo dell'uscio. Aveva le mani e le braccia scosse da un tremito irrefrenabile. Piangeva. Quando ebbe finito, si ritrovò le mani rosse. Una porta si aprì dalla parte opposta della strada, ed un uomo si affacciò a guardare. Quando scorse Sorren, la richiuse immediatamente. La ragazza si domandò chi vi abitasse, e se sapevano che lei era lì fuori. Si tirò su a fatica e si costrinse a camminare tra i cadaveri. Il sibilo del vento che sferzava i viali, freddo e tagliente come il dolore, le sembrò la voce della città, il suo pianto. Il tumulto era cessato. Arré stava in piedi alla finestra della saletta in attesa che i Messaggeri mandati da Paxe facessero ritorno. Lo stomaco le gorgogliava per la tensione. La prima Guardia era corsa senza fiato a riferirle che i soldati degli Ismenin e dei Jalar stavano combattendo nelle strade della città con spade di metallo. La notizia era stata poi smentita dalla Guardia giunta poco dopo, secondo la quale dei disordini erano scoppiati ai bacini dei Jalar e le Guardie dei Jalar e degli Isara
avevano cercato insieme di riportare l'ordine senza però riuscirvi. «Se non fossero arrivati gli Ismenin, i disordini si sarebbero diffusi al Distretto degli Hok, e forse anche oltre!» «Ne dubito,» disse Arré. Ma l'urlo delle sirene la terrorizzava. L'ultima volta che le aveva sentite, un incendio spaventoso aveva minacciato di inghiottire metà del Distretto dei Sul, e per spegnerlo erano state necessarie le forze combinate di tre Distretti oltre ai Maghi del Tanjo dotati del loro talento telecinetico. In cucina gli apprendisti stavano parlando degli scontri. I nervi di Arré erano allo stremo. Voleva bere. Serrò i pugni e continuò ad andare avanti e indietro nella saletta. Avrei dovuto prevederlo, s'accusò. Non essere sciocca, come potevi saperlo? Sei forse onnisciente? Sai vedere nel futuro? Sono cose che capitano, la difese un'altra voce dentro di sé. Non credo affatto che questo incidente sia solo «capitato», continuò a dirsi, e no, certo, non sono onnisciente. Ciò non di meno, avrei dovuto saperlo. Paxe entrò nella stanza. Indossava l'armatura, fatta di scaglie sovrapposte di cuoio ed acciaio, e recava una picca. «Ventidue morti,» riferì in un sussurro. «Stanno sgomberando le strade». Arré emise un grugnito. Nell'ultimo rapporto le avevano detto che i morti erano dodici; perché ventidue erano tanto peggio di dodici? «Sorren è tornata?», chiese. «Non ancora!», rispose Paxe. Lalith entrò con uno strano luccichio negli occhi. «Altre due risposte, una da Boras Sul ed una da Kim Batto,» annunciò. «Verranno tutti e due. Il cuoco vuole sapere cosa dovrà preparare per il pranzo». «Non ho fame,» disse Arré. Lalith chinò il capo ed uscì. «Sarebbe meglio mangiare,» suggerì Paxe. «I morti non mangiano». Paxe scrollò la testa. «Arré, tu non hai alcuna responsabilità». «Io mi sento responsabile». «I sentimenti non sono fatti». «E la pazienza è una virtù,» rispose Arré seccamente volgendosi dalla finestra. «Non fare l'ipocrita con me. Le tue Guardie sono riuscite a prendere una di quelle spade?» «Non ancora». «Ne voglio una. E voglio qualcuno - chiunque sia - che abbia visto iniziare la sommossa. Anche se si tratta di qualcuno che vi si è trovato coinvolto, o che vi abbia preso parte. Non importa: trovamelo! Lo voglio qui!»
«Lo farò. Stai calma,» La calma di Paxe era irritante. Il Maestro della Piazza si avvicinò alla porta, poi chiamò Lalith e le diede alcune istruzioni. Quindi tornò nella sala. Appoggiò con noncuranza la picca alla parete. Il cuoco entrò e si piantò dritto con le mani sui fianchi. «Che storia è questa? Non vuoi mangiare?», disse. «Ti ammalerai.» Lalith scivolò nella saletta con un vassoio ricolmo di mele, e l'uomo la guardò con la bocca spalancata. «Vattene!», gli disse Paxe. Il cuoco fece dietrofront, offeso. «Cucina qualcosa: mangerà!» Il profumo delle mele fece venire ad Arré l'acquolina in bocca. «Non parlate di me come se non ci fossi!», intimò tra i denti. Lalith depose il vassoio sul tavolo, s'inchinò, ed uscì dalla stanza. Paxe prese una mela e se la rigirò tra i palmi. In quell'istante, entrò Sorren. Paxe depose la mela. «Dove diavolo sei stata?», l'assalì Arré. «Il Consiglio si riunisce qui, stasera!» Sorren si avvicinò al vassoio con le mele. «Ero lì,» disse con un filo di voce. Il suo volto, pallido, aveva un'espressione desolata. Arré le andò vicino. Con aria assorta, la ragazza stava cercando tra le mele come se fossero la cosa più importante nella stanza. Ne scelse una tenera e gialla e la tenne tra le mani unite a coppa. Le sue unghie erano cerchiate di rosso, aveva gli abiti sudici, ed i suoi occhi guardavano straniti. «Lì dove?», incalzò Arré. «Nel tumulto. Ho visto tutto». Arré si raggelò. «Cosa ci facevi laggiù?» «Ero andata alla darsena. Avevo sentito le sirene...» Addentò la mela e cominciò a tremare. La sua bocca continuava a parlare. «Mi sono nascosta sotto l'arco di una porta. Una donna è morta davanti ai miei occhi. La sua testa era molle, come fango.» Inghiottì, scossa dai brividi. Paxe le prese la mela di mano. «Vatti a lavare!», le disse in tono sbrigativo. «Meglio tenerla occupata,» continuò poi, rivolgendosi ad Arré. «Stasera si riunirà il Consiglio, e potrebbero aver bisogno di te. Lalith!» Il tono era adesso quello del Maestro della Piazza. Lalith entrò nella stanza come un fulmine, quasi vi fosse stata scaraventata di forza dall'esterno. «Porta Sorren nella lavanderia ed aiutala a ripulirsi. Poi resta con lei». «Ma... la cucina...» «Vai!», ordinò Paxe, mentre sospingeva Sorren. La ragazza bionda uscì.
Arré guardò Paxe e la vide fremere dalla rabbia. «Se le fosse accaduto qualcosa...» «Non le è accaduto nulla!», disse Arré. Paxe trasse un profondo respiro e si calmò, ma i suoi occhi erano duri come l'ossidiana. Un rumore di passi pesanti rimbombò dal corridoio: le due donne si voltarono. Una Guardia giunse alla porta con una spada tra le mani. «Volevi questa, Maestro della Piazza?» Paxe la prese. «Grazie! Puoi andare.» Il soldato si inchinò e tornò rumorosamente sui suoi passi. «Guarda, Arré!» Paxe sollevò la lama verso la luce: il sole sfavillò sull'acciaio. Arré rabbrividì, domandandosi se avesse mietuto vittime. «Da dove viene?», le chiese. «Sei in grado di dirlo?» Paxe annuì. «Proviene dalla forgia degli Ismenin. L'acciaio è più leggero di quello tezerano. È una delle spade che Cha Minto ha portato ad est». «Se è stato lui,» obiettò Arré. «Leth-no-Chayatha non ha mentito, Arré,» ribatté Paxe. «Oh, ti credo». Ma io conosco Cha Minto, pensò Arré, ed anche con la connivenza di Isak, non riesco a credere che sia responsabile della presenza delle spade in città. Devono essere stati gli Ismenin. «Giureresti sull'origine di quella spada?», domandò. «Sul Tanjo,» affermò Paxe. Arré si sentì bruciare gli occhi. Dovrò dirglielo, pensò. «Paxe...» Trasse un profondo respiro. Paxe la interruppe. «So già cosa stai per dire,» disse. «Pensi che Dobrin abbia potuto mentirmi. Non dirlo». Arré sospirò. «No,» disse, «non è questo che stavo per dire. Se tu dici che Dobrin era sincero, io devo crederti. Non conosco quell'uomo. Tuttavia... qualcuno potrebbe aver mentito a lui». Paxe si rabbuiò in volto. «S-s-sì. Ma lui era così convinto, Arré!» «Stasera, dopo la riunione, avvicinerò Cha Minto,» disse Arré. «Gli dirò quello che tu mi hai riferito a proposito delle spade, e la sua parte nella faccenda. Desideri essere presente?» «Sì,» rispose il Maestro della Piazza. «È possibile?» «Si può organizzare,» promise Arré. Paxe gettò un occhiata alla lama della spada. «Mi piacerebbe,» disse piano. Poi si allungò verso la picca. «Devo metterla via. Se mi vuoi, mi troverai alla lavanderia - mi ci fermerò per un poco - poi scenderò alla posta-
zione presso il Tanjo. La Guardia al cancello saprà dove rintracciarmi.» Si infilò quindi di lato nell'apertura della porta, con un'arma in ciascuna mano. Arré sentiva un nodo alla gola: aveva voglia di piangere. Non avremmo dovuto aspettare, pensò. Avremmo dovuto perquisire la Piazza d'Armi degli Ismenin e portar via le spade. Avremmo dovuto far cessare l'addestramento fin da quando lo hanno iniziato. Ventidue morti! Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto percepirlo, maledetto Ron Ismenin; oh, Madre, avrei dovuto saperlo... Quando Paxe giunse alla lavanderia, dopo aver depositato le armi all'interno della Piazza d'Armi, vi trovò Sorren da sola. Si stava asciugando i capelli con un panno, e le ciocche le scorrevano come oro filato tra le mani e la tela. La lavanderia era un posto sporco e squallido; un tempo le pareti erano color zafferano ma, col passare degli anni, il vapore delle tinozze aveva scrostato la pittura. La pelle chiara di Sorren appariva scarlatta. Quando Paxe apparve sulla porta, la ragazza lasciò cadere l'asciugamano e le corse incontro come un daino. «Ti graffierai!», le disse Paxe, staccandola con delicatezza dall'armatura. «Non m'importa!» Paxe si guardò intorno tra le pareti umide. «Dov'è Lalith? Le avevo detto di stare con te». «Il cuoco aveva bisogno di lei,» spiegò Sorren, «così le ho detto di andare. Sto bene». «Sicura?» «Sì,» disse Sorren. Con i capelli tirati indietro, somigliava ad una foca privata della pelliccia. Paxe le carezzò il viso. «Sei venuta nuda fin qui?» «No. Lalith ha preso gli abiti sporchi e me ne ha portati degli altri puliti.» Erano appesi ad un gancio. Li prese e li indossò. Strinse con forza la cintura dei pantaloni. «Paxe, cos'ha provocato tutto questo?» «Non lo so, chelito,» disse Paxe. Ma posso indovinarlo, pensò. È stato Ron Ismenin a far scoppiare il tumulto. Penso a Dobrin con una stretta al cuore. Sorren avvolse i capelli intorno alle mani e li intrecciò come fossero nastri di stoffa. L'acqua gocciolò sul pavimento. «C'è davvero il Consiglio stasera?», domandò. «Lo ha detto Arré,» disse Paxe, invidiando la capacità di ripresa dei gio-
vani. Dimenticano così in fretta? pensò. L'orrore attraversa le loro menti come un brutto sogno. «Ti senti in grado di servire gli ospiti?», chiese all'amica. Sorren mise il broncio. «Non sono una bambina!» Sollevò le mani davanti a sé e cominciò ad ispezionarle: unghie, falangi, palmi. Paxe la guardò interrogativamente e Sorren arrossì. «Erano insanguinate». Paxe prese tra le sue le mani immacolate della ragazza, e le baciò. «Se fossi stata ferita...» Non riuscì a completare la frase. Per un istante la visione straziante di Sorren distesa sul selciato senza vita le passò davanti agli occhi. Una rabbia terribile sorse dal profondo del suo animo e si sprigionò dai muscoli, scuotendola come una foglia. «Paxe?» «Non importa!», disse il Maestro della Piazza. «Chelito, sono di turno; devo andare.» Aprì quindi la porta della lavanderia, ed uscirono insieme. La brezza era fredda dopo i vapori caldi. Il cielo ad occidente stava diventando color lavanda, mentre il sole calante fluttuava frettoloso verso le montagne. Paxe trasse a sé Sorren e la baciò sulla bocca. Le labbra della ragazza erano morbide, e sapevano di sapone. «Bevi un po' di vino prima di andare a letto,» le suggerì. «Preferirei un po' d'erba,» disse Sorren mentre s'incamminavano verso la casa dei Med. «Maestro della Piazza!» Paxe si girò. Sekki le stava correndo incontro dall'altro lato del cortile, «Maestro della Piazza, lo abbiamo trovato». «Chi?», domandò Paxe. «La persona che cercavi. Uno che avesse visto iniziare gli scontri. È un pescatore. Dice d'aver visto tutto dal principio; poi è scappato quando sono arrivati i soldati. Si è nascosto in una ritirata. Puzza da qui alla luna, ma è disposto a parlare». «Dov'è ora?» «Con Kaleb, nella Piazza d'Armi». «Vengo subito!» Il pescatore si chiamava Luki. Era giovane - non aveva ancora sedici anni - ma con l'ampiezza toracica d'un uomo e la tendenza ad arcuare le gambe, caratteristica di chi trascorre la maggior parte del suo tempo a combattere contro il rollio di una barca. Lo condussero alla lavanderia e lo fecero ripulire, ma il fetore persisteva. L'idea di farlo incontrare con Arré in cucina fu di Paxe. Dopo qualche ten-
tennamento, ammise timidamente che non aveva mangiato dall'alba. Paxe gli diede un pezzo di pane ed un po' di formaggio. Arré si sedette su uno sgabello, ed il ragazzo ne occupò un altro, addentando, alternativamente, una volta il pane ed una volta il formaggio. Gli indumenti, di cotone grezzo, erano quelli di un povero, ed aveva le braccia e le mani sfregiate da numerose cicatrici: «Colpa dei coltelli da scuoio», aveva spiegato quando Arré gli aveva chiesto come se le fosse procurate. Cominciò il racconto lentamente, provando, com'era ovvio, soggezione nei confronti di Arré e timore di Paxe, che lo sovrasta con la sua altezza. Ma la sua esitazione non durò a lungo: nella foga del racconto dimenticò la presenza delle due interlocutrici. «Stavo scendendo dalla nave - avevamo un grosso carico di pesce ed il capitano voleva scaricarlo nelle tinozze per poi correre alle rive esterne quando ho visto una folla di persone sulla banchina: erano gli operai dei bacini, Signora, che formavano un cerchio e ridevano indicando qualcosa. Mi sono allora avvicinato per vedere cosa li facesse ridere tanto. Avevano legato Nonna Gatta in una delle sue stesse reti: secondo loro era divertente». «Chi è Nonna Gatta?», chiese Arré. «È una vecchia che rammenda le reti per i pescatori. È un po' scimunita, ma con le reti ci sa fare, come dice mia madre... Era furiosa come un demonio: sputava, gridava e li minacciava con le unghie attraverso i buchi della rete, mentre quelli continuavano a ridere, e qualcuno la punzecchiava per farla irritare ancora di più, come si fa quando si vuole molestare un cane... Io non lo farei neppure ad un cane. E pensare che non erano soltanto gli scaricatori a divertirsi in quel modo. C'era persino qualche scioccoso...» «Scioccoso?», ripeté Arré. Il ragazzo sorrise con timidezza. «Anche tu lo sei, Signora. Quelli che appartengono alle Famiglie». Arré annuì. «Continua,» Io invitò con gentilezza. «Chi erano questi scioccosi?» «Gli Ismenin,» disse succintamente. «I due più giovani». «Quanti erano gli operai radunati lì?», gli chiese Paxe. «Diciamo una quindicina. Ma ce n'erano molti altri li intorno a guardare. Ad un certo punto, anche il resto della ciurma si è avvicinato. Medi - l'ufficiale in seconda - s'è imbestialita nel vedere Nonna Gatta in quello stato, dato che per lei è una specie di zia. Ha cominciato a gridare, ed allora quel-
li hanno tentato di legare anche lei in una delle reti. Medi ha sferrato il primo colpo, ed i suoi compagni dell'equipaggio sono accorsi a difenderla: così è scoppiata la zuffa». «Chi è stato il primo a tirar fuori un'arma?», disse Paxe. «Medi ha estratto il pugnale per tagliare la rete che avvolgeva la Nonna, e qualcuno ci si è trovato di mezzo. Lei non voleva ferirlo. L'equipaggio della Eel ha sentito il trambusto, e gli uomini sono scesi sul molo. A quel punto, le Guardie dei Jalar sono spuntate fuori dappertutto ed io sono scappato.» Rabbrividì. «Ho visto mio cugino sgozzato. Il sangue... Sono un vigliacco, Signora, non posso farci nulla, ma la vista del sangue mi fa vomitare. Sono scivolato sotto il pontile e vi sono rimasto nascosto. Quando ne sono uscito, c'erano due persone morte ed altre tre coperte di sangue, come foche bastonate. «Medi era una di loro, aveva la faccia maciullata...» «Basta così!», lo interruppe Paxe. Poi gli posò una mano sulla spalla. «Dove abiti?» «Nel Distretto dei Jalar. Nella Via di Sam». «Sei capace di tornare a casa da solo, o preferisci che venga a prenderti una Guardia dei Jalar?» «Non so...» Inarcò le spalle. «Manderò una Guardia ad accompagnarti,» decise Paxe. «Prendi!» Gli pose una moneta tra le mani. Il ragazzo la fissò, incredulo. «Per quello che ho detto?», disse. «Sì. E per non dire in giro che lo hai fatto,» disse Arré. «Dimentica persino d'aver visto questa casa». Luki sorrise con aria scaltra. «Quale casa?» Fece scorrere le dita grosse sul bonta. «Non ho mai avuto uno di questi tra le mani.» Poi si alzò e fece un goffo inchino. «Non dirò nulla, Signora». Seguì Paxe alla porta; Arré la sentì chiamare una Guardia. Dopo un po', la donna tornò dentro e si fermò davanti ad Arré con le mani sui fianchi. «Sono stati gli Ismenin,» sentenziò. Arré annuì. «Ne ero convinta.» Si alzò. «I soldati degli Ismenin dovevano sapere che stava per scoppiare la rissa. Erano lì già pronti, armati. C'è un'unica spiegazione: hanno saputo con tanta rapidità quel che stava avvenendo perché sapevano in anticipo che sarebbe accaduto, il che significa che sono stati loro a darvi origine...» Si sorprese a scagliare antiche maledizioni contro Ron Ismenin nel chiuso della sua mente; Che tu perda il
raccolto e le sementi siano vuote, che i Demoni dell'inverno divorino la tua anima... «Ron Ismenin parteciperà al Consiglio?», chiese Paxe. «No,» rispose Arré. Né ora, né mai, pensò. Sentì lo stomaco contrarsi al pensiero della donna sul molo, con la faccia maciullata come quella «di una foca bastonata». Il cuoco ritornò nella cucina ed annusò l'aria. «Puzza!», disse. «Non ha importanza,» disse Arré. «Non dare la colpa a me se il cibo avrà uno strano odore.» Cominciò quindi ad affettare la carne con potenti colpi di mannaia. Arré si recò nello studio e si abbandonò sulla sedia imbottita con le ginocchia tremanti. Entrò Lalith. «La Signora Marti Hok ha fatto sapere che parteciperà alla riunione». «Bene!», disse Arré. «Quando arriverà la risposta di Cha Minto, fammelo sapere subito». Finalmente, l'immagine della donna, vivida nella sua mente, cominciò ad offuscarsi. Chiamò Lalith per sapere cosa stessero cucinando. «Della minestra, Signora». «Portamene un poco». «Lalith tornò con una zuppiera colma di minestra di piselli. Mandava un profumo appetitoso. «Dov'è Sorren?» «Si sta vestendo, Signora. Hai bisogno di qualcosa?» «No. La chiamerò più tardi». Mentre mangiava, le Guardie continuarono ad arrivare con notizie aggiornate. Secondo l'ultima stima, vi erano ventitré morti e quarantuno feriti. Dei morti, sei erano Guardie dei Jalar. Sette, Guardie degli Isara e tre degli Hok avevano riportato gravi ferite. Se la Piazza d'Armi degli Ismenin aveva riportato perdite, queste non erano state denunziate; dopo aver sgomberato le strade, i soldati degli Ismenin erano tornati alle loro postazioni per attendere ai normali doveri dal loro servizio, dopo aver prontamente occultate le spade e le armature. Qualcuno, approfittando della confusione, aveva cercato di attizzare un incendio nel Distretto degli Isara, ma le Guardie lo avevano spento sul nascere ed avevano arrestato il responsabile, che era stato quasi linciato dai vicini infuriati mentre veniva portato in guardina. Oltre ai morti, c'erano stati anche dei danni alle cose: imposte rotte o squarciate, reti strappate, carretti rovesciati. Erano stati lamentati diversi furti; a seguito dei disordini, le strade deserte erano diventate il bersaglio di buona metà dei ladri
cittadini. Quarantatré persone erano state messe agli arresti. Si calcolava che un numero assai superiore avesse partecipato alla battaglia urbana, (quasi cento, sosteneva Paxe) ma molti si erano dileguati, scomparendo nei vicoli, nei giardini, nelle case, o lungo i pascoli. Le donne e gli uomini arrestati si ostinavano a tacere, ma Arré era convinta che il loro silenzio non sarebbe durato più di tre o quattro giorni, fino a quando, cioè, si sarebbero resi conto che nessuno li avrebbe aiutati ad evadere o avrebbe pagato la cauzione per liberarli. Allora avrebbero cominciato a spifferare tutto quanto. Marti Hok fu la prima ad arrivare. Arré le andò incontro alla porta principale e la baciò. «Mia cara,» disse la vecchia con voce tremula, «che cosa terribile!» «Vieni.» Arré la condusse nella sala grande e la fece accomodare su una sedia. Aveva dato ordini che riscaldassero il vino, e suonò perché venisse servito. Sorren entrò con un vassoio. Porse a Marti un boccale di vino fumante e chiese ad Arré cosa desiderasse con un cenno delle ciglia e dell'indice. Arré sospirò: voleva il vino, ed invece ordinò: «Tè!» Cha Minto e Kim Batto entrarono insieme. Arré guardò Cha con disprezzo; a Kim lanciò uno sguardo carico di veleno. Benvenuti nella mia ragnatela, pensò. Cha appariva teso e silenzioso: accettò il boccale che Sorren gli offriva, e bevve metà del vino in una sola volta, non badando alla temperatura elevata. Kim sembrava più calmo e prudente. Si sistemò nella poltrona prima di cominciare a parlare. «Marti, ho saputo che tre delle tue Guardie sono rimaste ferite durante gli incidenti. Mi dispiace molto». «Grazie,» disse Marti. «Molto gentile da parte tua». I battenti della porta si aprirono ed entrò Boras Sul. «Terribile!», esclamò. «Raccapricciante!» Poi si accasciò sulla sedia. «Mostruoso!» «Sai dire una sola parola alla volta?», disse Marti. La guardò con aria offesa. «Io...» «Perché, se non riesci a dire delle frasi intere, ti prego di stare zitto». La faccia di Sul avvampò di uno sgradevole colore vermiglio. Strappò il boccale dalle mani di Sorren senza neppure vederla. «Desolato!», si scusò rigidamente. «La scriba non c'è?», chiese Kim. «Verrà,» rispose Arré. «La pazienza è una virtù, Kim». Sorren portò ad Arré il tè in una tazza coi pesciolini rossi e blu. Le code
turbinavano nel mare di ceramica. Ad Arré rammentavano delle figure di Danzatori. Siamo tutti dei Danzatori, pensò, specialmente Isak che stasera non è qui. E Ron Ismenin. Ma questa è casa mia, e sarò io a condurre la danza. Cominciò a centellinare il tè. Sorren vi aveva sciolto del miele, e quel sapore dolcissimo la acquietava. Le fiamme della lampade baluginavano nelle loro prigioni dipinte, sotto la sferza del vento del sud che tintinnava sui paraventi alle finestre. Entrò Azulith. In silenzio, si sedette alla sinistra di Arré, e tirò fuori pennelli ed inchiostro. Arré aspettò che spiegasse in grembo il primo rotolo di pergamena. «Consiglieri,» esordì, «ho alcune dichiarazioni da fare. Desidero discutere della manifattura, contrabbando ed uso delle spade e lama corta, i kymos, ad opera della Famiglia Ismenin». «È questo il problema che ci tocca affrontare?», replicò Kim Batto. «Mi permetto di dissentire, Arré. A mio avviso, l'avvenimento che ci ha riuniti qui stasera riguarda la necessità di mantenere l'ordine nelle strade cittadine; la presenza delle spade corte in città è una questione secondaria. Con chiarezza inequivocabile le Guardie Jalar si sono dimostrate incapaci di arginare i disordini. Credo, invece, che la Famiglia degli Ismenin meriti un encomio, e non la censura, per aver mandato così tempestivamente i propri soldati in aiuto delle Guardie dei Jalar». Quanta pomposità! pensò Arré. Riuscirebbe a irritare anche un pesce di ceramica. Si domandò se avesse contribuito ad escogitare il piano, ma ne dubitava. Immaginò Isak e Ron Ismenin concertare insieme i movimenti delle truppe nello stesso modo in cui il Danzatore stabiliva i passi delle sue Danze. Marti Hok prese la parola. «Kim, vuoi veramente discutere dell'ordine pubblico?» Kim Batto si girò sulla sedia a fronteggiare l'anziana Consigliera. «Non capisco costa intendi dire con quel tono». «I disordini sono iniziati alla darsena, nel territorio dei Jalar. Si sono allargati al mio Distretto quando i cittadini coinvolti sono scappati dalle picche dei soldati dei Jalar. Cos'ha indotto i soldati degli Ismenin ad accorrere in "aiuto" dei Jalar, per usare le tue parole? Sono stati loro a chiedere aiuto? Non credo proprio». «Forse avrebbero dovuto farlo!», sbottò adirato Kim Batto. «No so perché gli Ismenin si trovassero lì proprio nel momento del bisogno, comun-
que sia, credo che sia stata una fortuna che ci fossero». Marti si lisciò le maniche. «Dubito che la fortuna abbia qualcosa a che fare con tutto questo». «Come facevano a sapere che stava per scoppiare una rissa?», disse Boras Sul in uno dei suoi rarissimi sprazzi d'intelligenza. Cha Minto era pallidissimo. «Pensi che gli Ismenin sapessero della rissa prima che accadesse?», disse. «Cha,» disse Arré, «io credo che l'abbiano programmata. Ma non dovrebbe essere una sorpresa per te». L'uomo scrollò la testa; le mani gli tremavano. «Io non lo sapevo,» balbettò. «Come potevo saperlo?» È mai possibile che se ne fosse dimenticatoi pensò Arré. Marti Hok perse il controllo sui suoi nervi. «Cha, non mostrarti più stupido di quanto non lo sia già! Chi ti ha messo in bocca queste parole?», lo aggredì selvaggiamente. «Perché mai uno dovrebbe fare una cosa simile? Per il potere! Hai quasi quarant'anni, e non riesci a capire la motivazione principale di tutto questo lavoro? Arré, spiegagliela tu». «Sono state le spade a riportare l'ordine, è vero,» disse Arré, «ma gli Ismenin sapevano della rissa; forse hanno pagato quelli che l'hanno aizzata. Kim, qui presente, è la voce degli Ismenin al Consiglio.» Questi fece per interloquire protestando, ma lei lo soverchiò con la forza del suo eloquio. «Gli Ismenin progettano di creare un mercato di spade in città. Questi incidenti sono stati accuratamente preparati per far sì che l'uso delle spade appaia necessario per mantenere l'ordine». «Non hai nessuna prova di questo, Arré,» disse Kim, corrucciato. «Non abbiamo prove della tua complicità,» puntualizzò Marti. «Ma dodici persone sono agli arresti nelle celle degli Hok, che non sono quelle degli Ismenin; e, se i prigionieri degli Ismenin resteranno ovviamente muti, i miei prigionieri parleranno, o altrimenti vorrà dire che non conosco il mio Maestro della Piazza. Tre delle sue Guardie sono rimaste ferite, come tu stesso mi hai fatto notare.» Afferrò il bastone, furibonda come Arré non l'aveva mai vista. «Parleranno». La sicurezza di Kim cominciò a vacillare. Mandò giù il vino in un solo sorso. «Da quando in qua creare un mercato è un reato, Marti? Se così fosse, allora Arré Med deve rispondere di tutti gli ubriachi ed i derelitti che affollano le cantine, e tutti noi dobbiamo ritenerci responsabili per la diffusione ed il consumo dell'Erba dell'Estasi». «Forse,» disse Arré, «oggi sono ventitré le persone ammazzate a Ken-
dra-sul-Delta. Se delle persone muoiono per realizzare le ambizioni politiche di qualcun altro, allora credo che l'ambizione sia una cosa oscena e malvagia. Quanto meno dovremmo definirla un errore. Se non siamo migliori dei nostri predecessori che usavano le spade, allora dovremmo tornare ad uccidere la gente programmando e combattendo delle guerre. La guerra almeno è un male che non si cela.» La voce le tremò, ed Arré cessò di parlare, stupita dal suo stesso impeto. «Non avevo intenzione di dire una cosa simile». Marti sollevò il boccale in silenziosa ammirazione. Kim, invece, scaricò la sua furia. «Sei brava a parlare, Arré Med, ma nella tua Piazza d'Armi si insegna il kyomos!» «E tu come lo hai saputo?», mormorò Arré. «Da Ron Ismenin, o dal Tanjo?» «Cosa c'entra il Tanjo?», disse Cha a voce alta. «Niente,» rispose Kim freddamente. «Arré stava scherzando». «Non c'è nulla di divertente, Kim. E ti sbagli di grosso se credi che non abbia prove per dimostrare le mie accuse. La prova c'è. Posso metterci le mani sopra.» Lo fissò con durezza. Se ti metti contro di me, Kim Batto, pensò, io renderò pubblici i tuoi affari privati col nuathano. Il messaggio parve raggiungerlo; l'uomo serrò le labbra, ed abbassò gli occhi nella coppa. «Cosa proponi, Arré?», disse Marti Hok. La stanza sembrò contrarsi. Arré parlò: «Propongo che questo Consiglio bandisca ufficialmente la fabbricazione, l'importazione e l'uso del kyomos, la spada a lama corta, a Kendra-sul-Delta. Propongo, inoltre, che la Famiglia Ismenin venga censurata per aver introdotto le spade nella città, e venga multata di una cifra pari all'intero ammontare dei danni provocati dai disordini occorsi oggi.» Marti Hok annuì. «Suggerisco pure che alla prossima sessione del Consiglio, di qui ad un mese, estendiamo il Bando al kyomos. In considerazione di quanto è accaduto, sono certa che il Tanjo vorrà offrire il suo appoggio ad un simile provvedimento». «Sono d'accordo!», disse Marti Hok. «Anch'io,» aggiunse Boras. «Sconvolgente!» Giacché tre volti bastavano ad approvare la risoluzione di Arré, né Kim né Cha si pronunziarono, Kim sembrava svilito, sgonfio come una vescica da cui sia uscita tutta l'aria. «Ora vi chiedo di lasciarmi sola,» disse Arré. «Sono stanca». Azulith fu la prima ad alzarsi. In silenzio raggruppò le sue cose, si in-
chinò verso i Consiglieri e si allontanò difilato senza salutare nessuno. Boras biascicò qualcosa a proposito del vino e si congedò. Sorren portò a Marti il suo mantello. «Arré,» disse la vecchia, «sei sempre dell'avviso che questo Consiglio debba trattare alla pari Tarn di Nuath Ryth? È un uomo che apprezza le armi. Ci sarebbe altro sangue nelle strade». «È esattamente ciò che non avremmo,» replicò Arré. «Tarn Ryth non nasconde le sue armi.» Cha Minto stava armeggiando con le aperture del mantello come un uomo ridotto improvvisamente alla cecità. Arré gli toccò un braccio. «Cha: resta ancora un momento!» Gli occhi dell'uomo erano due pozzi. «Io... io dovrei andare... Arré: ricordi cosa ti dissi al fidanzamento?» «Prima che Isak ti trascinasse via? Ricordo. E tu ricordi cosa ti dissi, no? Che saresti dovuto venire da me.» Un moto di pietà scaturì dal suo animo: sembrava così disperato! «Rimani,» gli disse con gentilezza. «Rimani. Voglio parlare un po' con te». Arré accompagnò Marti alla lettiga. La falce della luna galleggiava sull'oceano come una barca. Quando raggiunsero il cortile ammantato di nebbia, il pensiero che l'aveva tormentata sin da quando aveva sentito il primo rintocco che suonava a morto, le affiorò finalmente alla labbra. «Marti, siamo state noi a provocare tutto questo, con le voci che abbiamo messo in giro e con i nostri piani? Forse, se avessimo lasciato in pace Ron Ismenin, a quest'ora in città regnerebbe la pace». Marti scrollò la testa. «No.» Dietro di lei i campanelli tintinnarono mentre i portatori sollevavano la lettiga. «No, mia cara, non siamo state noi. Noi non abbiamo portato le spade in città. Pensa se fosse successo al Festival! Io credo che la rissa fosse stata programmata per quella occasione: i morti sarebbero stati molti di più. E, nel momento della tragedia, gli Ismenin sarebbero potuti apparire come dei salvatori.» Appoggiò per un istante la guancia su quella di Arré. «Io invece penso che, agendo così, abbiamo salvato parecchie vite». Capitolo diciottesimo Arré ascoltò il suono dei campanelli che si andò via via affievolendo. Quando tacque del tutto, attraversò il cortile raggiungendo la sentinella presso il cancello della via. Il profumo dei kava maturi impregnava la cortina di nebbia. L'autunno è alle porte, pensò. «Idrith,» disse.
La Guardia si mise sull'attenti. «Signora?» «Il Maestro della Piazza mi ha detto che avresti saputo rintracciarla. Vuoi mandare qualcuno a chiamarla, per favore?» Il giovane contrasse le labbra incorniciate dai baffi e fischiò due note penetranti. Un istante dopo si udì lo stesso sibilo in lontananza. «È il segnale, Signora,» spiegò. «Verrà quando lo avrà sentito». «Grazie!», disse Arré, e rientrò in casa. Sorren stava in piedi nel corridoio d'ingresso. «Che ci fai tu ancora in giro?», le disse. «Vattene a letto!» «Cha Minto è rimasto qui». «Lo so! Porta una brocca di tè nel salone e poi ritirati. Credi che non sia capace di versarmi una tazza di tè? Chi pensi si occupasse degli ospiti durante le riunioni del Consiglio quando mia madre era viva? Lo facevo io!» «Lo so,» disse Sorren. «Me lo hai raccontato». «Vai!», disse Arré. «Non posso costringerti con la forza: sei troppo grossa». Sorren sorrise. «Vado.» Si diresse in cucina. Arré tornò nella sala grande. Cha Minto sedeva rannicchiato sulla sedia con l'aria di un bambino in attesa della punizione. Arré prese la lampada dalla mensola del camino e la depose sul tavolino tra loro due. Sorren spinse la porta con la spalla ed entrò sorreggendo un vassoio. Lo appoggiò sul tavolo. «Grazie!», disse Arré. «Lascia la porta aperta quando esci.» La ragazza annuì, ed avvicinò alla bocca un pugno per nascondere uno sbadiglio. Arré versò il te, osservando il vortice di foglioline nere sul fondo della tazza. Cha Minto si protese dallo schienale della poltrona e prese la tazza più vicina. «Marti aveva ragione, non è vero?», disse. La sua faccia si contorse. «Ho fatto la figura di un imbecille». «Di un ingenuo,» lo corresse Arré. Sollevò la testa di scatto al rumore di passi. Come un'ombra, Paxe scivolò tra i battenti della porta aperta. E, come un'ombra silenziosa, scomparve dietro la sedia di Cha. «Da quanto tempo mio fratello ti tratta come se fossi una sua proprietà, Cha?» L'uomo si strofinò gli occhi. «È questa l'impressione che dà?» «Sì». «In principio non era così». «Quando è cominciato?» «Più o meno nel periodo del Festival di Mezz'estate. Lo vidi danzare. Dopo l'esibizione gli andai vicino, soltanto per dirgli... tu sai le cose che si dicono in queste occasioni. Gli dissi quanto avevo apprezzato in Danza. Lui... lui si comportò con me in maniera squisita. Geniale, complimento-
so... come posso descriverlo?» «Non ce n'è bisogno!», disse Arré seccamente. «Conosco Isak. Continua». Uno scricchiolio ruppe il silenzio nella grande sala in penombra; doveva essere il vento sugli scuri, o un movimento di Paxe nel suo angolino nascosto. Arré si irrigidì, allarmata, ma Cha parve non badarvi. «Mi invitò a casa sua: ricambiai l'invito. Conversavamo. Era piacevole». «Di cosa parlavate?», chiese Arré. «Principalmente di te. Le prime volte no, ma poi, ad un certo punto, si cominciò a parlare sempre di te.» Cha Minto arrossì. «M... mi dispiace. Ma devo confessare che credevo a tutto ciò che mi raccontava; che tu eri gelosa della sua bellezza e del suo talento, che gli avevi dato una responsabilità solo nominale, giacché eri tu a governare di fatto su ogni cosa, anche sui vigneti e, nonostante fosse il tuo erede, non lo mettevi a parte di nulla, non gli riferivi quel che accadeva al Consiglio, né gli chiedevi mai la sua opinione od un consiglio...» Arré bevve il tè e guardò le foglioline posarsi nuovamente sul fondo. «Parte di ciò corrisponde alla verità,» disse. «Io non invito Isak al Consiglio, né chiedo la sua opinione. Non mi fido di lui. Quanto ai vigneti... li detesta. È sua moglie ad amministrarli. E credo di essere gelosa della sua bellezza. Ma non lascerei mai che la gelosia interferisse con l'opinione che ho di lui.» Lo spero, almeno, si corresse tra sé. «Sicché, diventaste amici!» «Diventammo amici». «Amanti?» Cha scrollò la testa. «No. Oh, non nascondo d'averci pensato, ma non lo diventammo.» Inarcò la schiena in avanti. Arré continuò a centellinare il tè, assaporando il dolce aroma alla menta. «E poi cosa accadde?» «Gli prestai del danaro,» disse Cha. Arré aggrottò le sopracciglia. «Non c'è ragione perché mio fratello debba ricorrere a dei prestiti,» osservò. «Mi raccontò una lunga storia: non starò qui a ripeterla. Aveva a che fare con te. Comunque sia, non si trattò di una grossa somma». «Quanto?» «Quattrocento largos,» disse con un'espressione avvilita. «E dici che non era una grossa somma?», sbottò Arré. «Per il Guardiano! Una delle mie Guardie non arriva a guadagnarne la metà in un anno intero! Fu un prestito privato?»
«Sì. Ma Isak insistette perché firmassimo una scrittura tra noi due. Io la guardai appena». «E cosa accadde poi?», lo incalzò Arré. «Si riunì il Consiglio,» disse Cha, e si strofinò di nuovo gli occhi. «Isak venne a farmi visita prima della riunione. Cominciò a parlarmi della possibilità di proporre la rappresentanza dei Jalar e degli Ismenin al Consiglio. Fui stupito dal fatto che sapesse una cosa simile. Gli dissi che non potevo parlare con lui di affari che riguardavano il Consiglio, poi gli chiesi come avesse saputo della proposta. Mi disse che era stato Ron Ismenin a rivelarglielo. «E chi dovrebbe lanciare la proposta?» gli domandai. Al che si mise a ridere e disse che avrei dovuto farlo io. Lo pregai di non essere ridicolo, e gli dissi che ritenevo gli Ismenin degli irresponsabili. Lui cambiò argomento e cominciò a parlarmi delle spade che stavano portando in città. Quando espressi il mio orrore, mi disse di non preoccuparmi, perché il Bando non si applicava alle lame corte. Gli domandai come facesse a sapere tutte quelle cose, e lui mi rivelò di aver aiutato Ron Ismenin ad organizzare il contrabbando fornendogli anche parte del danaro necessario per l'operazione.» Il flusso di parole si arrestò di botto. «Sì,» disse Arré. «Continua!» «Io ero adirato, offeso: gli chiesi come poteva permettersi di prestare danaro a Ron Ismenin quando ne aveva appena chiesto in prestito a me. Sorrise, tirò fuori il foglio che avevo firmato, e lo fece leggere. Diceva, Per il trasporto di spade a lama corta a Kendra-sul-Delta. E sotto c'erano la mia firma ed il mio sigillo!» La voce di Cha si spezzò. «Bevi il tè,» mormorò Arré. Lui lo trangugiò d'un sorso, e lei gli riempì di nuovo la tazza. «Dev'essere stato terribile per te». La bocca di Cha Minto si contrasse in una smorfia. «Non merito la tua comprensione, Arré. Preferirei che mi dessi dello stupido. Non sapevo cosa fare. Gli dissi che nessuno ci avrebbe creduto. Indicò la mia firma dicendo che a quella avrebbero creduto tutti. Inoltre, mi disse, ai contrabbandieri era stato detto che ero io a pagarli. Lo minacciai di ricorrere ad un Mago della Verità, e lui si mise a ridere, dicendo che il Tanjo era al corrente del traffico delle armi e che il Clan Bianco aveva i suoi interessi da difendere. Mi diede da intendere che in qualche modo lui, o Ron Ismenin, avevano corrotto il Clan Bianco». Arré si aspettò di udire un fruscio, un rumore, un segno di reazione da parte di Paxe. Nessun movimento! Il cuore le batteva come i tamburi di Sorren. Adagiò le spalle sullo schienale e sorseggiò il tè, costringendosi a
rimanere ferma, a respirare, a rilassarsi. «Così avanzasti la proposta al Consiglio!», disse. «Già. Poi, al fidanzamento, mi accorsi di non riuscire più a sopportare il peso di quel segreto e cercai di dirtelo...» «E Isak ti fermò in tempo». «Forse non sono all'altezza di rappresentare la mia Famiglia,» mormorò Cha. «Dovrei dimettermi, e lasciare il posto a Gwyneth». Gwyneth era sua sorella e sua erede. Probabilmente non avrebbe fatto peggio, pensò Arré. Ma nulla garantiva che avrebbe fatto di meglio. La voce di Arré si fece tagliente. «L'autocommiserazione non ti farà approdare da nessuna parte, Cha. Non vedo perché dovresti abdicare. Usa il buon senso, uomo. Sei stato messo in trappola, ma adesso non lo sei più. Non sei costretto a sostenere gli Ismenin. Se Kim dovesse avanzare la proposta al prossimo Consiglio - esitò - beh, dubito che lo farà... Comunque sia, se proporrà la loro candidatura, tu voterai contro, se è questo che vuoi. E se Isak minaccia di usare il biglietto che hai firmato, digli che ti sottoporrai ad una Prova della Verità, e non lasciarti spaventare da quello che ti dirà sul Tanjo». «Allora era una menzogna?», disse Cha, animato dalla speranza. «Eppure sembrava così sicuro!» Arré trasse un profondo respiro. «No, non era una menzogna: non esattamente. Il L'hel e Senta-no-Jorith, la sua Maga della Verità, e forse anche altri membri del Clan Bianco, sapevano delle armi dall'inizio. Hanno cercato di servirsi della presenza delle spade per ottenere la loro rappresentanza al Consiglio. È stato il L'hel in persona a dirmelo: il Tanjo sosterrebbe l'estensione del Bando alle spade a lama corta se il Consiglio lo ammettesse tra i suoi membri. Kim Batto ha fatto da anello di congiunzione tra il L'hel e gli Ismenin; è in contatto con entrambi». «Era dunque questo che intendevi quando hai chiesto a Kim se avesse appreso dal Tanjo la notizia degli addestramenti nella tua Piazza d'Armi,» dedusse Cha. «Esatto!», confermò Arré. Il freddo della sera aveva increspato la pelle sulle braccia di Arré. Avrei dovuto chiedere a Sorren di accendere il fuoco prima di andare di sopra, pensò. La luna crescente sull'orizzonte proiettava raggi d'argento nella sala. Arré lanciò un'occhiata dietro alla sedia di Cha. L'ombra di Paxe si disegnava lunga sul tappeto. Cercò di scorgere il volto della donna, ma non vi riuscì. Tornò con lo sguardo al suo interlocutore.
«Vai a casa, Cha,» gli disse con modi gentili. «Vai a casa e non preoccuparti. Tutto si risolverà.» Si accomiatò con questa banale assicurazione. «Desideri una scorta?», aggiunse. «Manderò una delle mie Guardie a farti compagnia». L'uomo scrollò la testa. «Non sono un bambino che sobbalza davanti ad un'ombra. Quando faccio degli errori, li faccio grossi. Vedo le ombre e le scambio per il sole.» Quindi si alzò. «Sarei dovuto venire da te». «Capisco perché non lo hai fatto,» disse Arré. Lo accompagnò al cancello. L'umidità la fece rabbrividire. Cha Minto oltrepassò la cancellata e si voltò indietro. «Perché dubiti che Kim Batto faccia di nuovo la proposta? È stato lui a dirlo?» «No,» disse Arré. «È soltanto un presentimento». «C'è qualcosa che non vuoi dirmi, e ne hai tutte le ragioni.» Raddrizzò quindi le spalle e si allontanò. La nebbia lo inghiottì. Quella sparizione produsse in Arré un improvviso moto di panico. Persino i passi, attutiti dall'umidità, non si distinguevano tra gli altri rumori della notte. Si rivolse alla sentinella. «Manda qualcuno dietro di lui». «Signora?» «Non ha scorta. Mandagli qualcuno dietro, e digli che non si faccia scoprire. Voglio essere sicura che arrivi a casa sano e salvo, dopo quanto è accaduto oggi in città». La Guardia contrasse le labbra, ma non per obiettare sulla decisione di Arré. Emise un fischio in tre toni e, dopo pochi istanti, una figura incappucciata risalì la collina. Si scambiarono delle frasi; la figura annuì e s'incamminò verso est, in direzione del Distretto dei Minto. «Hani lo seguirà, Signora. Nessuno gli recherà disturbo». «Grazie.» Tremando dal freddo, Arré si affrettò in casa. Elith stava sull'uscio ad attenderla. «Sconsiderata!», borbottò mentre chiudeva la porta. Cominciò a sprangarla. «Aspetta!», disse Arré. Si affrettò nella sala grande. Attraverso la finestra, lo splendore della luna inargentava le chobata di porcellana sulla mensola del camino, le molle d'ottone presso il focolare, ed il legno grigio delle porte istoriate... Arré si avvicinò alla poltrona che Cha aveva occupato fino a poco prima; si aspettava di trovarvi Paxe, seduta ad attenderla. La poltrona era vuota. Elith apparve nel vano della porta. «Chi stai cercando? Qui non c'è nessuno. Vado a chiudere». «Aspetta!», gridò Arré. Sollevò la chobata dal tavolo e la portò nell'angolo dove aveva visto l'ombra di Paxe. «Paxe?», chiamò.
Ma nell'angolo non c'era nessuno, e neppure nel corridoio, né nella cucina. Paxe se n'era andata. La cupola del Tanjo rifulgeva nel bagliore morente della luna. Paxe si fermò fuori del cancello. Il vento le sferzava i capelli; le intimava di trovarsi un riparo, dato che fuori faceva freddo... Ma Paxe non sentiva il freddo. La gelida luna riluceva sulla campagna, dai boschi di choba di Shirasai alle montagne occidentali. La tomba di Tyré riposa nell'Eremo di Tor, pensò, rischiarata dalla luna. I mattoni di granito che lastricavano il cortile del Tanjo brillavano come fossero uno specchio d'acqua. Cosa avrebbe visto se fosse stata un uccello in volo sulla terra di Arun? Città e fattorie, viandanti accoccolati intorno a falò sfrigolanti... Una nuova raffica di vento la investì facendole sventolare il mantello, e lei appoggiò la guancia sulle sbarre di ferro del cancello sussurrando: «Vattene via!» Un ticchettio di stivali risuonò sul selciato. «C'è qualcuno lì?» La figura si avvicinò; era una Guardia dei Med. «Maestro della Piazza, lascia che ti apra». «No,» disse Paxe. «Sto andando via.» La Guardia la seguì con lo sguardo mentre si allontanava, e lei si voltò, lanciando un'occhiata alla faccia pallida e stupida, in tutto simile ad una piccola luna nell'oscurità. Quello che dico deve suonare molto strano, pensò, o forse il mio aspetto è molto strano. Magari lo sono tutt'e due. Si diresse a sud, verso la bocca dello stivale che costituiva il suo Distretto, e poi tornò indietro, costeggiando il confine dei Batto. Le Guardie la salutarono senza però riferire nulla. Forse erano spettri. Sorpresa dei suoi stessi pensieri, si diede della sciocca. Imboccò la Via delle Pere Piccole e, alla prima postazione che raggiunse, interrogò la sentinella: «Come va la notte?» «Tutto tranquillo!», rispose Nekko, una donna alta e scura che spesso veniva scambiata per Paxe nella luce fioca del crepuscolo. Percorse la Via Larga che divideva il Distretto dei Med da quello dei Batto. La sua estensione copriva quasi per intero il confine tra i due territori. Si diresse poi alla Porta di Nordovest. Le mura della città si ergevano solide sotto la luce incantatrice della luna; una piccola figura, sovrastata dalla grandiosa costruzione, marciava lentamente avanti e indietro lungo la parete del casotto. La luce tremolante di un braciere gli illuminò il volto per un istante allorché sostò per scaldarsi le mani. Voltò la schiena al tepo-
re delle braci e riprese la marcia. Al di là delle mura, un cane ululò. Paxe costeggiò la punta dello stivale. Nel passare davanti alla garitta di una sentinella dei Minto, scorse una lanterna oscillare da una mano in movimento; Darin-no-Sara, il Maestro della Piazza dei Minto, stava facendo i suoi giri di ronda, in direzione nord, verso la Porta della città. Paxe restò nell'ombra finché Darin non l'ebbe oltrepassata. Stava procedendo a passo lento... quanto tempo era passato da quando aveva abbandonato la sala di Arré? Un'ora? La notte si stava facendo via via più oscura. Si voltò indietro senza riuscire a distinguere la falce luminosa, ma soltanto il bagliore che proiettava sull'orizzonte. Allora era già passata mezzanotte! Sotto i suoi piedi le foglie frusciavano sospinte dal vento. La nebbia arrivava aleggiando da sud e si divideva in brandelli quando andava ad investire la cupola del Tanjo. Un muro infinito di nuvole, e neppure il barlume di una stella, era ciò che un osservatore avrebbe visto dinanzi a sé guardando l'oceano con un tempo simile. Alle prime luci dell'alba, Paxe aveva compiuto cinque volte il giro del Distretto. Quando il sole si fu levato, tornò nella Piazza d'Armi per lasciare le consegne a colui che l'avrebbe sostituita. Se le sue parole apparivano strane, o se il suo aspetto appariva strano, Ivor preferì non darci peso. Il sole sorse simile ad un'aquila cieca nella nebbia, che avesse abbandonato il suo nido. Era stanca; desiderava andare a casa, a dormire. Ma non poteva farlo, non ancora; aveva un incarico da compiere. Attraversò il Distretto dei Minto (superò la Via delle Tre Fontane, dove Vanesi alloggiava quando era in città) ed entrò nel territorio degli Ismenin. Non vi scorse alcun segno della carneficina del giorno precedente. Tutto era tranquillo. I pescatori sostavano presso il fiume; le zattere, ormeggiate, erano cariche di sacchi di grano e dondolavano sospinte dalle correnti e dalla marea del grande fiume. Vapori fumosi ed odori di cucina sortivano dalle case mentre gli abitanti del Distretto si svegliavano per attendere ai loro affari. Un profumo di noci arrostite cominciò ad insinuarsi negli stretti vicoli. La Piazza d'Armi degli Ismenin era gremita di persone; dietro l'alta recinzione rossa, Paxe udì la conta di un'esercitazione (Uno... due; uno... due!) Una donna in abiti asech s'incamminò verso occidente con una cesta di lumache sulla spalla; Paxe ricordò che le lumache erano una specialità culinaria del popolo degli Asech. Non si prese il disturbo di fermarsi al cancello. Preferì aggirare la Piazza
d'Armi e recarsi direttamente al villino di Dobrin. Le tende erano chiuse (come aveva immaginato) ma, inaspettatamente, la porta era spalancata, e tutte le stuoie giacevano sul terreno davanti alla costruzione. Nel Galbareth, quando qualcuno moriva, era uso sollevare le stuoie dal pavimento, spazzare e lavare ogni casa del villaggio (Dobrin era originario del Galbareth). Striscianti come lumache, i pensieri penetrarono nella mente di Paxe. Ebbe un sussulto, come se qualcuno l'avesse colpita da tergo, e si lanciò di corsa verso il villino. Si precipitò nella casa di Dobrin senza neppure togliersi gli stivali. La tavola era stata spostata da un lato; accanto vi era stata sistemata la statua del Guardiano, e la fioriera ai suoi piedi era adorna di rami fioriti. La stanza non era vuota. Gavrienna, Comandante in Seconda, stava in piedi al centro di essa: aveva le guance rigate di lacrime. «Ha detto che saresti venuta,» disse a Paxe. Poi le porse qualcosa: una lettera. Paxe la prese. «È morto?», domandò. Gavrienna scrollò la testa. «Se n'è andato. La lettera ti spiegherà». Uscì. Paxe aprì la lettera. Paxe, diceva, avevi ragione. Io, invece, ero in errore. Ho fatto il mio dovere verso la Famiglia che ho servito, ed ora parto. Andrò nel Galbareth, ed abbandonerò le armi per diventare un contadino. Ho chiesto a Gavrienna di prendere il mio posto come Maestro della Piazza; aiutala, per favore, se puoi farlo. Non era a conoscenza delle intenzioni degli Ismenin. Come invece lo ero io. Addio, amica mia. Dobrin. Arré era seduta nello studio. Quella notte non aveva dormito bene. Quando Sorren era entrata nella stanza a portarle l'acqua calda, l'aveva trovata già desta, seduta sul letto. Adesso stava tentando, senza molto successo, di leggere i progetti presentati quella mattina dagli agrimensori tramite i loro corrieri... come se non ci fossero cose più importanti da pensare! Allontanò con stizza i rotoli di pergamena, che andarono ad atterrare sul pavimento, dove si riavvolsero come foglie. Lalith entrò nella stanza con un piatto di pasticcini di pesce, e guardò i documenti con trepidazione, come se quelle carte avessero i denti. «Signora, vuoi che li raccolga?», si offrì. «No, lasciali lì». Lalith alzò le spalle, porse il piatto ad Arré e uscì. Questa cominciò a sgranocchiare un pasticcio guardando il pavimento con occhi torvi. Desi-
derava parlare con Paxe: non che avesse qualcosa di particolare da dirle, ma voleva soltanto assicurarsi che stesse bene. Sorren bussò sullo stipite della porta. «Entra,» disse Arré. «Raccoglimi quei rotoli, per favore». Sorren raccattò tutte le carte e le appoggiò sul tavolo. «Vado a fare la spesa,» annunziò. Arré indicò lo scrigno con un cenno della mano. «Sai dove sono le filze: fai da te». Sorren si avvicinò allo scrigno. Estrasse una filza di monete e richiuse il coperchio. Rimase li vicino a contare i bonta che tintinnarono tra le sue dita. «Hai visto Paxe stamattina?», le domandò Arré. La ragazza scrollò la testa. Aveva gli occhi cerchiati da solchi scuri, che sul fondo chiaro della sua carnagione pallida, assumevano l'aspetto di lividure. Neppure lei ha dormito bene, pensò Arré. Nessuno di noi. «Dove andrai a fare la spesa?» «Dove vado di solito,» rispose la ragazza. «Ai mercati presso il fiume». «Nel Distretto degli Hok. Bene! Voglio che tu dia un'occhiata in giro. Guardati attorno con attenzione: mi dirai qual è l'entità dei danni provocati dagli incidenti. Dopo andrai nel Distretto degli Isara ed in quello dei Jalar». Sorren annuì e si umettò le labbra. «I Maghi avrebbero potuto fermare la rissa ieri?», disse. «Non vedo come,» rispose Arré. «L'unica cosa che potevano fare era scendere in strada e presentarsi alla folla; e probabilmente non sarebbe servito a molto». «E se avessero saputo degli scontri in anticipo?» «In tal caso, immagino che avrebbero detto qualcosa, ma come potevano saperlo prima che accadesse?» Arré rammentò la storia che il L'hel le aveva raccontato al Tanjo, le terribili visioni future che i Maghi avevano avuto. Si domandò se quanto era accaduto fosse uno di quei futuri. «Non lo so, piccola. Potresti chiederlo a loro,» soggiunse con dolcezza, per non dare a Sorren l'impressione che si stesse burlando delle sue paure. Sorren si limitò ad annuire. Poi si fece scivolare il braccialetto intorno al polso ed uscì dalla stanza. «Non dimenticarti di ordinare le bacche dolci!», le gridò Arré. Raccolse i rotoli dal tavolo e li svolse sulle ginocchia. I progetti non erano malvagi. Dalla porta le giunse improvvisa la voce di Lalith. «Signora, il Maestro
della Piazza è qui e vuole vederti». Arré trasalì, ed i rotoli scivolarono sul pavimento. «Dille di entrare, e raccogli quelle carte, per favore.» Lalith la guardò come se fosse ammattita, e poggiò i rotoli sul tavolo. Andò nella sala d'ingresso; Arré udì sussurrare delle parole, seguite dal passo deciso di Paxe che entrò nella stanza con entrambe le mani infilate nelle tasche. Arré la scrutò, inclinando il capo. Aveva un'aria molto stanca, ed i suoi stivali erano inzaccherati di fango. «La notte è stata calma?», le chiese. Paxe annuì. «Dobrin se n'è andato, ed ha lasciato una lettera». «Il Maestro della Piazza d'Armi degli Ismenin? "Andato"? In che senso?» «È tornato nel Galbareth, a fare il contadino. Gavriénna-no-Nusuth sarà il nuovo Maestro della Piazza». Il dolore rendeva lugubre il tono della sua voce. Arré cercò febbrilmente le parole appropriate. «Quale perdita!», commentò. Paxe annuì. «Ho incontrato Sorren qui fuori; mi ha detto che volevi vedermi». «Era logico che volessi vederti!» Le tese una mano. «Dopo ieri sera... Paxe, siediti, ti prego». La donna scrollò la testa. «No. Voglio andare a dormire». Arré sospirò. «Come vorrei confortarti!», disse mestamente. Che fine aveva fatto la sua abilità dialettica? Si strofinò gli occhi, «Sai,» disse lentamente, avanzando a tentoni come un marinaio che si arrampica sull'albero maestro, «sai benissimo che io non credo nel cea. Ma se il cea esiste, se esiste davvero una grande armonia universale che governa la Danza di noi tutti... ebbene, la sua esistenza non dipende dall'onore, o dalla mancanza d'onore, del Clan Bianco». Paxe restò qualche istante in silenzio. Poi parlò. «Sì. Hai ragione.» Inaspettatamente si avvicinò alla poltrona di Arré e, chinatasi, appoggiò la guancia a quella del Capo dei Med. «Arré: perché hai atteso tutto questo tempo per rivelarmi il tradimento del L'hel?» «Perché sono una vigliacca, Paxe,» disse Arré con voce ferma. «Ho provato una volta, ieri, ma tu hai pensato che volessi dirti un'altra cosa, e non potevo, non potevo parlare. Biasimami pure, se vuoi». «Un po' sì,» le sussurrò Paxe nell'orecchio. «Ma io sono da biasimare ugualmente per non averti ascoltata.» Si raddrizzò ed uscì dalla stanza prima che Arré avesse il tempo di chiamarla. Questa portò una mano alla
guancia. Non sapeva se aveva detto cose giuste o sbagliate. Passato un certo punto, disse a se stessa, le parole non hanno importanza. Ciò che conta è la fiducia. Il suo stomaco brontolò, avido di frutta, di panna, di miele. Non riusciva a concentrarsi sui progetti contenuti nei rotoli. Si alzò, percorse il corridoio fino alla cucina, quindi uscì nel cortile posteriore. Gli alberi chinavano le chiome, ricchi e fronduti. Piccole mele aspre penzolavano dai rami, ma Arré non era alta abbastanza da raggiungerle, e, oltretutto, avevano un sapore terribile. Andò nel giardino. I fiori vi sfilavano ritti ed ordinati come picche di soldati. Le ultime api dell'estate ronzavano attorno ai boccioli secchi. Si piegò a sfiorare l'erba con la mano. La sentì più secca: l'anno era al termine. Di lì a poco, la pioggia avrebbe sfrondato gli alberi e privato gli steli delle loro corolle inodori, e la città avrebbe dato inizio alle celebrazioni rituali. Si figurò il L'hel mentre elevava la sua voce calda e potente nel ringraziare il Gurdiano per la generosità dell'anno... Serrò i pugni. Era a conoscenza del piano di Ron Ismenin? Camminò lungo le aiuole. Il L'hel era intoccabile; il Consiglio non aveva alcuna autorità sul Clan Bianco. Però poteva impedirgli di ottenere ciò che voleva; una Maga della Verità al Consiglio. E Isak? pensò. Come debbo agire con Isak? Forse, pensò, forse è colpa mia se mio fratello è quello che è: un bugiardo ed un irresponsabile. Non l'ho mai trattato come il mio erede. Io frequentavo il Consiglio quando lui aveva diciassette anni... forse dovrei fare per lui ciò che mia madre fece per me: dovrei farlo assistere alle riunioni, lasciarlo ascoltare. Forse si comporta in quel modo perché non gli ho mai dato la mia fiducia. Dovevo invitarlo al Consiglio, chiedere le sue opinioni, dargli il potere che desidera così disperatamente? Magari potrebbe crescere? Cambiare? Dovrei dargli la possibilità di farsi un'idea di ciò che faccio effettivamente giorno per giorno; dovrei lasciare che governasse il Distretto per un mese o due. Scoprirebbe che non c'è nulla di eccitante nelle fogne, nello scavo di canali e nei furtarelli quotidiani. E tu, Arré Med? Dove te ne andresti? Ai vigneti? A tener compagnia a Myra? Ti annoieresti a morte dopo soli tre giorni. Dove, allora? Vide la soluzione e sorrise. Attraversò lesta il cortile, sostò in cucina per chiedere a Lalith di portarle dell'acqua, poi tornò nello studio.
Sapeva dove poteva andare. Non era forse stata invitata? Preparò sul tavolo l'occorrente per scrivere e, immergendo il pennello nell'inchiostro, scrisse: Da parte della Signora Arré Med, Kendra-sul-Delta, al Signore Tarn da Nuath Ryth, saluti... Sorren si recò al mercato. Nell'attraversare i viali del Distretto degli Hok, scorse i segni della distruzione lasciati dagli incidenti: paraventi squarciati, vetri infranti, e le conseguenze meno appariscenti: donne e uomini dai volti mesti, borbottii rabbiosi delle Guardie. Per tre volte passò dinanzi a case con le tende abbassate e le finestre chiuse. Dalle porte aperte senti levarsi dei pianti luttuosi. In alcuni punti le strade erano bagnate: era dove gli spazzini aveva lavato via il sangue dalle pietre. Tre bambini stavano giocando in un giardino incolto. Uno di loro brandiva un bastoncino di legno e, fingendo che fosse una spada, attaccava i compagni. Sorren sentì l'impulso di sgridarli, di dir loro che le spade non erano giocattoli ma, proprio in quell'istante, un uomo uscì dalla porta posteriore della villetta e, non appena li vide, cominciò ad urlare. La ragazza andò quindi dal pescivendolo. Nella bottega trovò Thule con la faccia più rossa del solito. «È successo qualcosa?», gli domandò Sorren. «Soketh si è trovato nella mischia,» disse. Soketh era il marito di Mirrim. «La Guaritrice del Tanjo ha detto che rischia di perdere un braccio». Nel ritornare alla collina, passò davanti al Tanjo, e fuori vi scorse i familiari dei feriti in attesa di notizie sulle condizioni dei loro congiunti. La domanda che prima aveva rivolto ad Arré si ripresentò alla sua mente con morbosa insistenza. I Maghi avrebbero sicuramente trovato un modo per far cessare quella furia, pensò. Se lo avessero saputo, ci sarebbero riusciti sicuramente. Tu avresti potuto prevederlo, bisbigliò una voce nella sua testa. Le Carte potevano rivelarlo se solo tu fossi stata capace di leggerle. Tu, Sorren dei campi, potevi essere la chiave per aprire al Tanjo la conoscenza del futuro. Ma loro ignoravano che sarebbe scoppiato quell'inferno, e per questo non hanno potuto fermarlo. Ventitré persone sono morte, ed il marito di Mirrim rischia di perdere un braccio. «No!», disse ad alta voce. Alcune persone si voltarono a guardarla, poi distolsero lo sguardo. Non è colpa mia, protestò in silenzio. Non puoi dire che è colpa mia. Ma quella voce interna si ostinò ad accusarla per tutto il tragitto su per la collina.
Entrò in casa. Arré stava scrivendo. La statua del Guardiano nell'ingresso attirò il suo sguardo. Il vaso nero ai suoi piedi sfoggiava boccioli bianchi e purpurei. Si avvicinò alla scultura e ne fissò i tratti scolpiti. Mi stai parlando?, pensò. Attese una risposta, ma gli occhi non la guardarono e le labbra non si schiusero. Alla fine andò di sopra e trasse le Carte da sotto al guanciale. Queste sono mie, pensò. I Maghi non le avranno; sono mie. La mia eredità. È così che ha detto Arré. Me le ha lasciate mia madre, e la sua le lasciò a lei, ed a lei le lasciò la sua... Immaginò una dinastia di donne, alcune alte, altre basse, alcune bionde, altre brune, che si passavano le Carte di madre in figlia. Si domandò quanto datasse quella sequela di generazioni. Strinse la scatola tra le mani con una forza tale da farsi male con gli spigoli. Forse erano i fantasmi di quelle donne a parlarle in quel momento. Se non sai usare le Carte allora non devi tenerle, disse la voce interiore. Non hai il diritto di possederle. O le consegni, o impari a usarle. Un passo dopo l'altro, Sorren usci di casa e mosse alla volta del Tanjo. La sentinella di servizio al cancello non le rivolse alcuna domanda. «Da questa parte,» le disse, indicando la folla in attesa. Mentre attraversava il cortile lastricato di bianco in direzione della folla respinta dagli accoliti, rammentò a se stessa le parole di Marti Hok, allorché le aveva detto che i Maghi non potevano costringerla a fare cose che non desiderava. Mormorò qualche parola di scusa mentre si faceva largo tra la ressa. Un accolito dalla pelle tanto scura da sembrare dipinta la bloccò con un braccio. «Nome della persona?», le disse. «Cosa?» «Qual è il nome della persona sulla quale vuoi chiedere informazioni?» «Non sono qui per questo,» disse Sorren. «Una Maga della Verità mi ha chiesto di venire a trovarla». «Davvero?», disse quello. «E chi sarebbe?» «Non so come si chiama. Ha i capelli neri, lunghi, ed una bella voce». L'uomo sollevò marcatamente le sopracciglia. «Cosa potrebbe volere da te la Maga della Verità del L'hel?» L'incredulità dell'accolito le fece salire il sangue alla testa. «Perché non vai a chiederlo a lei?» L'uomo sbuffò. «Sarei un idiota se lo facessi. Sta guarendo». «Lo saresti di più se non mi lasciassi entrare,» ribatté Sorren. «Vai a dirle che Sorren, della Casa di Arré Med, è venuta a trovarla. «Si girò in modo da mostrargli il bracciale da schiava sul braccio sinistro. «O credi che
non la irriterà sapere che mi ha fatto aspettare qui fuori?» L'uomo si grattò il mento. «Aspetta,» disse con astio, «torno subito.» Quindi si allontanò verso la cupola con la tunica sventolante attorno alle gambe. Sorren rimase al cancello a dondolare la scatoletta tra le braccia. Aveva la gola secca. La gente intorno la fissava, ed alcuni bisbigliarono qualcosa. Prima di quanto avesse immaginato, l'accolito fece ritorno e, con un cenno della testa, la invitò ad entrare. «È appena arrivata e già entra!», protestò una donna tarchiata con un cappello di paglia malridotto sulla testa. «Io sto aspettando dall'alba». «Una lehi vuole vederla,» spiegò l'accolito. Sorren lo seguì, pronta ad entrare nella grandiosa costruzione. Vi era stata soltanto tre volte, ed il pensiero di quel luogo tenebroso e profumato d'incenso la fece rabbrividire. Ma, anziché imboccare l'ingresso dell'edificio, l'accolito la fece deviare intorno ad esso per poi infilarsi in una porta, attraversare un corridoio lastricato con mattonelle azzurre, ed approdare infine nello spazio aperto di un giardino. «Questi sono gli appartamenti,» spiegò. «Tutti i Maghi, compreso il L'hel, abitano qui». Il giardino era ben curato, ricco di alte siepi fiorite tra le quali campeggiavano una vasca poco profonda popolata da pesciolini rossi che Sorren vide nuotare avanti e indietro. Una panchina rosa di granito stava tra le aiuole. Sorren aspettò con la scatoletta tra le mani: poi una porta si aprì nella fiancata del Tanjo, e ne uscì la Maga della Verità. L'accolito le rivolse un profondo inchino. Anche Sorren si inchinò. «Grazie, Jomi,» disse la donna, con la sua voce melodiosa e seducente. «Puoi andare». Il giovane si allontanò, e la Maga si sedette sulla panchina. «Così sei venuta, finalmente! Ho sperato che saresti riuscita a dominare la tua paura abbastanza da venire da me. Chiesi ad Arré Med di mandarti qui, ma evidentemente aveva deciso di non farlo. Io so che il tuo nome è Sorren. Tu conosci il mio? È Senta. Santa-no-Jorith.» Piegò la testa da un lato. «Cosa ti ha spinto a venire qui oggi, ragazza?» Sorren si leccò le labbra. Come poteva spiegarle lo sconvolgimento interiore che l'aveva condotta lì? Porse alla Maga la scatola con le Carte. «Io dovevo... dovevo portarti queste. Marti Hok mi ha detto che mi avresti insegnato ad usarle». «Sicché,» arguì Senta, «hai parlato di me a Marti Hok?» Non sembrò contrariata. Prese la scatola in mano. Sorren aspettò che l'aprisse, ma la Maga non lo fece. «Come si sente la Famiglia Med dopo questi tristi even-
ti?» Sorren immaginò che alludesse ad Arré. «Adirata,» rispose. Senta fece una smorfia. «Ne ha tutto il diritto. Ron Ismenin è uno stolto. Il Consiglio si è già riunito?» Sorren annuì. «Non preoccuparti, non ti chiederò cosa è stato detto.» Aprì la scatola e girò la prima Carta, Il Danzatore. «Oh!» La depose in grembo con delicatezza e sollevò la seconda, poi la terza... «Dove le hai prese?», le chiese. «Appartenevano a mia madre, Kité,» disse Sorren. «Me le ha lasciate quando è morta». «Sono splendide!», disse la Maga. «Servono per guardare nel futuro, non è vero? Bisogna disporle secondo uno schema?» Con la mano disegnò un semicerchio. «Immagino di sì,» rispose Sorren. Senta annuì con convinzione. I capelli le ricaddero sul viso. Erano lucenti come l'ala di un corvo. «Chissà cosa significa. Sorren...», alzò gli occhi, «tu sai di essere una Maga, vero? Quel pomeriggio, quando ci incontrammo vicino alla fontana - ero in compagnia di Kim Batto, ricordi? - io cercai un contatto con la tua mente, e tu lo percepisti. E per questo che scappasti via?» Sorren annuì. Il cuore le pulsava forte nel petto e nella gola. «Quanti anni hai?» «Diciassette. Ne compirò diciotto in primavera». «Quanti anni avevi quando tua madre morì?» «Tredici». «E quando hai sentito il dono in te per la prima volta?» «Mentre tornavo in città dopo la sepoltura di mia madre». «Tua madre era una Maga?» «Non lo so». «L'hai mai vista adoperare le Carte?» Sorren scrollò la testa. «No». «Lascia che ti dica subito, Sorren-no-Kité, che non posso aiutarti a perfezionare il tuo talento. Tu non hai il dono del linguaggio telepatico: non sei ciò che la gente chiama una Maga della Verità. Credo che tu possieda il talento di viaggiare con la mente. Dimmi: ti capita mai di avere delle visioni, o sogni così vividi da sembrare reali, di luoghi che non hai mai visto?» «Sì. Vedo una Rocca del nord: si chiama Tornor. Voglio andarci, quando sarò libera».
Senta parve compiaciuta. «Allora hai già esplorato il tuo dono! Perché non sei venuta prima qui al Tanjo?» «Non voglio essere una Maga». «Non è una cosa sulla quale hai la possibilità di scegliere,» disse Senta. «Così come non ti è dato di scegliere se essere alta o bassa.» Si carezzò la tunica bianca. «Ma ti assicuro che non è poi una cosa tanto spiacevole». Marti Hok le aveva detto che non potevano costringerla a rimanere. «Voglio andare al nord». «Nord, est, ovest? Chi potrebbe fermarti? Andrai dove vuoi». «Ma... se sono una Maga, non sono obbligata a restare qui?» «Nel Tanjo? A Kendra-sul-Delta? Sorren, farai ciò che vorrai del tuo talento. Io spero che, una volta imparato ad utilizzarlo, sceglierai di rimanere qui, oppure, visto che desideri andare al nord, potresti andare al Tanjo di Tezera. Comunque sia, starà a te decidere». Sorren inghiottì. «Promettimelo!», disse, consapevole di comportarsi in modo puerile, ma incapace di fare diversamente. Senta l'accontentò senza batter ciglio. «Giuro sul cea che potrai fare ciò che vuoi, e dove vuoi, sia che impari ad usare il tuo talento sia che non impari.» Si scostò i capelli dal viso, sorridendo. «Soddisfatta?» Sorren annuì. Era ancora spaventata, ma un po' meno di prima. Senta assunse un'espressione meditabonda. «Ero la figlia di una pescatrice quando cominciai a sentire i pensieri degli altri dentro la mia testa,» disse. «Al principio ne fui terrorizzata; nessuno nella mia famiglia possedeva un talento. Alla fine mi decisi a parlarne con mia madre e lei, che era molto saggia, mi portò al Tanjo. Una volta all'anno ritorno al mio villaggio sulla costa e vado e pescare con la mia gente: in questo modo non corro il rischio di dimenticare com'è la vita che i miei fratelli e sorelle vivono giorno dopo giorno... Talvolta ne provo nostalgia.» Si mosse sulla panchina e volse lo sguardo ad una porta. Un istante dopo, quella si aprì e ne uscì un uomo. Aveva i capelli castani, ed era piccolo di statura, in tutto simile ad un acrobata. «Questo è Rinti,» lo presentò Senta. «Ha il dono di viaggiare col pensiero». Rinti portava una collana dalla quale pendevano delle luccicanti perline di colore azzurro; nell'incedere aveva un'andatura saltellante. Si sfregò le mani in un modo che Sorren trovò fastidioso. «Cosa c'è, cosa c'è?», chiese. «Questa è Sorren, e potrebbe diventare una di noi. È al servizio di Arré Med, e credo che abbia il tuo stesso talento». «Oh!», sorrise Rinti. Aveva i denti grossi e storti. «Davvero? Vedi luo-
ghi lontani, ragazza?» Sorren cominciava a non poterne più di sentirsi chiamare "ragazza". «Il mio nome è Sorren,» precisò con decisione. Rinti la fissò, e poi si mise a ridere. «Ti chiedo scusa.» Senza tante cerimonie si sedette sull'erba. Puzzava d'aglio. «Sorren! Allora vedi luoghi lontani?» «A volte». «Descrivili». «Vedo la steppa... certe volte è verde, certe altre è marrone, oppure è coperta di neve... vedo le montagne...» «Che aspetto hanno?» «Sono grigie e ghiacciate. Sono percorse da piste, sentieri. Le capre dimorano tra le rupi scoscese. I fiumi sono gelidi...» «Continua!», la incoraggiò Rinti. «Cos'altro vedi?» «Il castello». «Com'è?» «Sempre diverso. A volte sembra molto vecchio e diroccato, altre volte le mura sono intatte». «Vedi delle persone». «Di rado. Una volta ho visto un uomo con un braccio solo che scriveva in una torre. Poi ho visto un ceari.» Erano state due esperienze diverse, ma non volle scendere nei particolari. Le domande del Mago la mettevano a disagio. «Come fai ad andare in quel luogo?», disse Rinti. «Ci vado e basta! In sogno, o quando sono sveglia». Rinti si accigliò. «Non hai bisogno di toccare un oggetto?» «No. Una volta - le venne in mente la spada - una volta mi è successo. Ma non andai al castello.» «Quando viaggi, le stagioni che trovi sono uguali a quelle della realtà?» Senta specificò meglio la domanda. «Quando siamo in autunno, il castello ti appare nella stagione autunnale, e così via?» «A volte sì, a volte no». Rinti annuì, «Adesso vai!» Sorren non capì. Le stava dicendo di lasciare il Tanjo? Interrogò Senta con lo sguardo. La Maga disse: «Vuole che tu faccia uno di quei viaggi, Sorren; lui entrerà in contatto con la tua mente e ti seguirà. Riesci a proiettare la tua mente a Tornor quando sono presenti altre persone?» «Non lo so, non ci ho mai provato».
«Prova!», la invitò Rinti. «Prendi!» Raccolse la scatola delle Carte dal grembo di Senta e la depositò in quello di Sorren. «Fallo ora». Quei modi bruschi la offesero; aveva voglia di scalciare, come un mulo caparbio. Ma Senta le fece un cenno di incoraggiamento. «Parti,» disse ad alta voce, poi, entrando direttamente nei pensieri della ragazza, continuò: «Ancora non ti fidi di noi, Sorren? La menzogna non è permessa nel contatto tra due menti. Tu sei una di noi; in nessun modo vorremmo farti del male, ingannarti o tenderti delle trappole.» Quelle dolci parole possedevano l'inconfondibile armonia della verità. Sorren posò le mani sulla scatola, e pensò a Tornor, alle mura del castello stagliate come un armatura contro il grigio cielo del nord... Il giardino si dissolse, e si trovò sospesa al di sopra di un letto. Vi giaceva una donna; aveva i capelli bianchi come latte, e le rade strie più scure rivelavano che un tempo dovevano essere stati biondi. Due donne erano sedute, una a ciascun lato del letto: la prima era giovane ed aveva i capelli del color dell'ambra; l'altra celava il viso tra le mani; anche i suoi capelli erano bianchi, e le mani vecchie e grinzose. La più giovane stava piangendo, e la donna distesa sul letto le carezzava la testa. Ad un tratto cercò di sfilarsi un anello dal dito, ma questo era così gonfio che non riuscì a toglierlo. Sorren si accorse d'improvviso che c'era una quarta persona nella stanza: un uomo. I suoi capelli fulvi erano percorsi da strie argentate, e molte rughe gli solcavano il volto simile ad una foglia d'autunno. Con delicatezza si protese verso la donna per aiutarla a liberarsi dell'anello... «Sorren!» Per lo spazio di un istante, la ragazza non riuscì a capire se la voce che la stava chiamando apparteneva alla dimensione del sogno o alla realtà del presente. «Sorren!» La visione svanì. Sorren sbatté le palpebre, e guardò Sorren. «Ci sono andata!», disse. «Cos'hai visto?» «Una donna che giaceva su un letto, altre due donne, ed un uomo...» Quindi descrisse lentamente la visione. Senta cercò lo sguardo di Rinti, che stava tormentando le perline della collana con entrambe le mani. «Cosa c'è?», gli chiese. L'uomo assunse un'espressione torva. «Non so! Ho cercato di entrare in contatto e di seguirla, ma è stato come correre verso un muro. Il contatto si è spezzato, e lei era già partita... ma, maledizione, non so dove è andata». «Te l'ho detto. Alla Rocca di Tornor».
«Prova di nuovo,» disse Senta. «Cerca di andare in un posto diverso. Dalle le tue perline». «Cosa?» Rinti coprì protettivamente le gemme azzurre con una mano. «Rinti, lasciagliele toccare per un po'!», disse Senta. «Può usarle per un nuovo viaggio». Rinti armeggiò con la chiusura della collana. «Le tratterò bene,» lo rassicurò Sorren. Il Mago gliele consegnò con una certa riluttanza. La ragazza si domandò se l'avrebbero veramente condotta in qualche luogo lontano. Con la spada era successo: perché non poteva accadere con le pietruzze azzurre? Le sfiorò con le dita, e chiuse gli occhi. ... Adesso era in un campo di grano. Attorniata e sovrastata dalle alte spighe. Sorren-l'-Uccello si librò in volo e vide sotto di sé una sconfinata distesa d'oro. Una casetta minuscola dal tetto bianco affiancava un mulino a vento che girava pigramente sotto il sole. D'improvviso, un ragazzino uscì di corsa dalla casa, e si precipitò in mezzo al grano come se fosse inseguito da un Demonio, però non sembrava spaventato, anzi, aveva un'espressione felice. Planò giù verso il campo per cercare di scoprire cosa lo rendesse tanto felice, ma il grano, la casa, ed il ragazzino, svanirono pian piano... Sorren sbatté le palpebre. «Sono tornata,» disse. Rinti percosse l'erba con le mani. «Maledizione! È successo di nuovo!» Recuperò la collana di perline. «Dove sei andata? Descrivi il luogo». «In una fattoria. C'era del grano tutt'intorno. Ho visto un ragazzo...» Lo descrisse nell'aspetto e nell'abbigliamento. A metà della descrizione, Rinti alzò una mano. «Fermati!», le disse. La sua voce si era fatta rauca. «Non so come tu abbia fatto... ma, ero io quello che hai visto». «Cosa?» esclamò Senta. «Ne sei...» «Sicuro? Sì, ne sono sicuro. Ricordò bene quel giorno. Stavo correndo perché mia madre mi aveva appena detto che saremmo andati a trovare mio padre a Shanan. Corsi e corsi, finché non caddi. Avevo le perline al collo. Per il Guardiano! Non c'è da stupirsi che non sia riuscito a seguirla, Senta. La ragazza non viaggia con la mente, lei vede. Non nel futuro, ma nel passato. Non sono io la persona giusta, bisogna chiamare Tukath!» Un uccellino rosso discese in volo dalla cupola del Tanjo per posarsi sulla spalla di Senta. «Non ora, Leeka...», disse la Maga. Con un cinguettio lamentoso, spiccò il volo perdendosi a distanza. «Non ho mai sentito una cosa simile. Viaggiare nel passato!»
«Non è questo il suo talento. Se così fosse, sarei riuscito ad andare con lei. La ragazza è una veggente». Sorren si accigliò. Detestava che gli altri parlassero di lei. Senta disse: «Sorren, perdonaci. Ma tu sei... o meglio, il tuo talento non somiglia a quello di nessun altro. Hai mai provato la sensazione di sapere in anticipo ciò che stava per accadere, ed averne poi avuto la conferma?» «No,» disse Sorren. «Nessuna premonizione di eventi piacevoli o dolorosi?» «No». «Non c'è alternativa: dobbiamo chiedere a Tukath se ha mai saputo di una cosa simile.» Senta si alzò. Rinti si issò dall'erba. «Andiamo!», disse. Sorren incrociò le braccia. «Dove andiamo?» Non era un'accolita, e non aveva intenzione di farsi condurre con la forza in alcun luogo. «Chi è Tukath?» «Tukath-no-Amani è il nostro Veggente, ed è molto saggio. Se anche tu possiedi il suo dono, lui saprà riconoscerlo. Vuoi venire a fare la sua conoscenza?» Protese le mani verso di lei. «Sei libera di andartene quando lo desideri, Sorren. Ma, se vuoi imparare ad usare le Carte, allora devi rimanere». Capitolo diciannovesimo Tukath-no-Amani alloggiava in una stanza nell'ala posteriore del Tanjo. Il corridoio d'ingresso lastricato di piastrelle azzurre era pulito e silenzioso e, per certi versi, le ricordava la residenza degli Ismenin. Non poteva certo immaginare di sentirsi a casa in quel luogo, tuttavia si era in parte affrancata dal terrore che fino a quel momento l'aveva sopraffatta. La curiosità aveva avuto la meglio. Si domandò quante persone abitassero lì: non aveva idea di quanti Maghi vi fossero a Kendra-sul-Delta. Una tenue fragranza che non riusciva a localizzare si effondeva nei corridoi. Senta camminava davanti a lei, mentre Rinti le trotterellava al fianco. «Quanti anni hai?», le chiese. «Diciassette». «Da quanto tempo vivi in città?» «Sette anni». «Hai ricevuto il Dono nel periodo del primo ciclo mestruale?» Sorren abbassò gli occhi su di lui con aria sbigottita. Ignorava che anche
gli uomini parlassero di quell'argomento. «Sì». «Allora perché non sei venuta prima?», le gridò quasi. Senta si voltò, e le sue lunghe chiome fluttuarono simili ad una nube nera. «Rinti, lasciala in pace. Le sue ragioni appartengono soltanto a lei». Il Mago aggrottò le ciglia alla rampogna. «Quale sarebbe stata la differenza?», chiese Sorren. Rinti corrugò la fronte. «E lo domandi? Possiedi un talento del quale nessuno di noi ha mai sentito parlare: riesci a vedere nel passatoi Immagina quale preziosa utilità avrebbe avuto se lo avessi sviluppato. Avresti ripercorso la storia di Arun, ci avresti rivelato cosa accadde realmente, e ci avresti svelato i misteri che ci sono ignoti. Da te avremmo potuto sapere quale fu la causa della morte del primo Maestro. Non esistono scritti che lo documentino». «Chi era, e cosa insegnava?» disse Sorren. «Costruì il primo Tanjo a Elath,» spiegò Rinti con riverenza, «e si chiamava Sefer. Potresti vedere le antiche guerre ed apprenderne le cause, per esser certi di evitarne di nuove. Potresti vedere la tua famiglia; ti piacerebbe?» Sorren inghiottì. «Potrei vedere il Clan Rosso?» «Certamente! Perché vorresti vederlo?» «Io... voglio soltanto sapere dove sono andati». «Sono morti, mia cara,» disse Rinti. I sandali del Mago erano sciolti e picchiettavano leggeri sulle mattonelle. «Sono morti!» «Ecco la stanza di Tukath,» disse senta. Fece scivolare di lato il paravento che ne ostruiva l'apertura e rivolse a Sorren un gesto d'incoraggiamento. «Forza, Sorren, entra!» Sorren obbedì. Le pareti della stanza erano in realtà quattro paraventi. Un gatto bianco stava disteso sul pavimento piastrellato e, alla vista di Sorren, andò a ripararsi sotto un tavolo presso il quale era seduto un uomo. Questi alzò gli occhi e sorrise. Indossava una tunica bianca col cappuccio, ed i suoi capelli trasparivano di sotto, neri con riflessi argentei. Ritagli di stoffa sottile, numerosi vasetti ed un pezzo di vetro chiaro curiosamente ricurvo, erano disposti sul tavolo davanti a lui. Guardò Senta e mosse le dita in una sorta di segnale convenuto. «Tukath è sordo,» spiegò Senta con la sua voce meravigliosa. «Lo è dall'infanzia. Sa parlare, ma preferisce evitare di farlo perché i suoni che emette sono alquanto sgradevoli. Ha sviluppato un linguaggio di segni che tutti noi qui al Tanjo conosciamo ed usiamo. Con me può comunicare di-
rettamente: le nostre menti si scambiano i pensieri senza necessità di linguaggi convenzionali. Per te dovrò tradurre. Se ci riesci, immagina che lui possa sentirti, e parlargli normalmente. Io gli trasmetterò col pensiero le tue parole, poi riferirò a te le sue risposte». Sorren osservò il tavolo e lo strano pezzo di vetro. «Cosa stai facendo?», chiese. Tukath assunse un'espressione raggiante. Prese il pezzo di vetro e mostrò alla ragazza che entrambi i lati erano ricurvi. Senta disse piano: «Questo vetro rende grandi le cose piccole. È stato Tukath a crearlo, ed ora lo sta lucidando affinché le immagini si vedano perfettamente». «Le cose piccole? Di che genere?» L'inventore la invitò a guardare con un cenno del capo. Orientò la lente verso qualcosa di minuscolo che doveva trovarsi sul tavolo. Sorren si chinò. Sulle prime non vide nulla; Tukath prese allora a far oscillare la lente su e giù, ed un'immagine sfuocata cominciò a prender forma sotto i suoi occhi, assumendo man mano contorni più netti. Sorren gli bloccò il polso perché lo tenesse fermo. Adesso distingueva l'oggetto chiaramente: era bianco ed aveva una grossa punta ricurva simile ad un corno mostruoso. «Che cos'è?», chiese, intimorita. Tukath spostò la lente e la invitò a guardare. I suoi occhi quasi non percepivano l'immagine di ciò che fino a poco prima aveva osservato con tanta facilità. L'uomo rise silenziosamente e raccolse qualcosa dalla superficie del tavolo. Avvicinò l'oggetto agli occhi della ragazza, e questa riconobbe un pezzetto della guaina che circonda l'artiglio di un gatto. «Tukath vuole sapere se hai mai guardato le rocce sotto l'acqua, e poi, sollevatele in aria, hai scoperto che erano molto più piccole di quanto sembravano». «Sì». «Il vetro funziona allo stesso modo. La superficie dell'acqua è anch'essa un po' curva: quel tanto che basta ad alterare le immagini». «Tutto ciò è prodigioso!» disse Rinti, «però non ci avvicina affatto a quello che ci occorre sapere. Tukath, ascolta cosa fa questa ragazza! Riesce a vedere indietro nel tempo! Senta pensava che avesse il dono del viaggio mentale, sicché ho provato a seguirla, ma è stato impossibile: è come cercare di vedere attraverso la nebbia. Sono sicura che non possiede questo talento perché non si serve di oggetti per iniziare il viaggio: lei ci va di punto in bianco. Vai con lei e scopri se ho ragione». Tukath guardò Sorren interrogativamente.
«Vuoi sapere se non sei troppo stanca per provare ancora una volta». «Non lo sono per niente». «Ecco, questa è un'altra particolarità,» mormorò Rinti. «Perché non si è stancata? Eppure dovrebbe esserlo!» «Tukath dice che è pronto a raggiungerti non appena sarai disposta a partire». «D'accordo!», disse Sorren. «Devo tenere qualcosa in mano?» «No,» disse Rinti. «Se riesci a farlo senza il contatto con nessun oggetto, allora vorrà dire che possiedi il dono del viaggio mentale». Sorren fissò la lente e... la stanza sparì. Stava sorvolando un fiume: un ragazzino vi stava accovacciato dappresso, col faccino assorto. Stava osservando qualcosa. Sorren scese un po' più in basso per vedere cosa attirasse l'interesse del piccolo. Era una foglia sulla quale brillava una goccia d'acqua. Il ragazzino stava osservando le venature della foglia attraverso la goccia. Aprì la bocca e si allontanò: «Huh, huh!», urlò trionfante. Poi Sorren tornò al presente, dove Tukath la stava fissando con gli occhi sgranati dalla meraviglia. Sollevò una mano, indicò la lente, poi, lentamente, se stesso. Sorren capì. Aveva visto Tukath. Era lui il ragazzino sulla sponda del corso d'acqua. Rinti si mise a danzare, a saltellare per l'eccitazione. «Sei riuscito a seguirla?», gridò. Il Veggente annuì. Rinti sorrise. «Hai visto? Te l'avevo detto, Senta: la ragazza è una Veggente, ma vede il passato!» «Credo che tu abbia ragione,» convenne la Maga. Posò quindi una mano sulla spalla di Sorren. «Capisci cosa, significa? Possiedi un talento rarissimo. Tukath dice di non aver mai sentito di un Veggente che viaggi nel passato. Devi venire al Tanjo, devi farlo! Abbiamo bisogno di capire questo tuo dono». Sorren si irrigidì. «Hai detto che potevo andare». La Maga della Verità lasciò cadere la mano dalla spalla della ragazza. «L'ho detto, e sei libera di farlo. Ma pensa, Sorren, a cosa rinunzierai se parti, Oh, puoi partire e ritornare, ma pensaci. Il luogo che hai visto nei tuoi sogni, Tornor... è ancora lì, certo, ma non ha nulla in comune con quello che ti è apparso nelle visioni. Tutto ciò che hai visto appartiene al passato. Non puoi andare in quel mondo». Sorren sapeva che quella era la verità. Tukath la stava guardando, annuendo per conferire enfasi alle parole di Senta. Si domandò chi fossero le persone che aveva visto: le tre donne, l'uomo con un braccio solo, e tutti gli altri che aveva incontrato nel corso degli anni...
Raddrizzò le spalle. «Voglio partire ugualmente.» Rinti grugnì ed infilò rabbiosamente le mani tra i capelli. Senta annuì. «Sapevo che avresti deciso così,» disse. «Ma, se dovessi cambiare idea Sorren, torna da noi. La porta sarà sempre aperta». Le parole suonarono come un addio. Rinti continuava a scrollare la testa ed a far rumore con i denti. «Quanto alle Carte?», domandò Sorren. Le raccolse da dove le aveva appoggiate. Le lunghe, delicate dita di Tukath le vollero toccare. Il Mago guardò Senta in cerca di una spiegazione. La conversazione proseguì silente tra le menti dei due. Poi l'inventore aprì la scatoletta e cominciò ad osservare le Carte ad una ad una. Si fermò alla figura di Colei che guarda le Stelle, e di nuovo alla Ruota. «Cosa sai di queste Carte?», chiese Senta. «Sono vecchie,» rispose Sorren. «Vengono da Tornor. Marti Hok possiede dei documenti antichi dove sono riprodotte le figure delle Carte. Erano di mia madre, e lei sapeva come usarle. Io, invece, non lo so, e vorrei imparare». Tukath riavvolse la pezzuola di seta attorno alle Carte e le ripose nella scatoletta. La sospinse verso Sorren ed il suo volto, pallido e rugoso, fu pervaso da un'improvvisa mestizia. Senta ne tradusse la ragione. «Tukath dice che si tratta effettivamente di Carte della Fortuna, Carte per leggere il futuro. Riesce a percepirne la forza divinatoria. Dubita, però, che possano funzionare con te, E, anche se estrinsecassero la loro energia, non saprebbero mai rivelarti il futuro, ma soltanto il passato». Tutti tacquero, persino Rinti. Nella quiete del Tanjo, Sorren udì il cinguettio degli uccellini, e si rese conto, tutt'ad un tratto, che Tukath con tutti i suoi poteri non poteva godere di quel canto, così come non poteva udire la voce soave di Senta, gli scrosci dell'acqua dalle grondaie, lo stormire del vento tra gli alberi o soltanto il verso del suo gatto. La ragazza respinse le Carte, offrendole al Mago. «Prendile tu,» disse. «Tu puoi usarle. Io no». Ma il Veggente scrollò la testa e le fece scivolare delicatamente sul tavolo nella direzione di Sorren. «Tukath dice che sono tue e, anche se non desideri usarle, devono appartenere a te. Se poi decidi di rinunziare ad esse, dovrà essere per i tuoi fini, non per quelli di un altro». Sorren riprese le Carte. «Grazie,» disse a Tukath. «Grazie per avermi spiegato qual è il mio talento». Il Veggente sollevò un dito. «Tukath ti raccomanda di essere prudente». «In cosa?», disse Sorren.
«Il passato ti sta chiamando a sé, ed è certo un richiamo seducente. Non lasciarti intrappolare da esso». Una volta Marti le aveva detto una cosa simile. «Allora non devo usare il mio talento?» «Usalo, usalo!», mormorò Riniti. «Usalo, se vuoi,» disse Senta. «Ma non riempire la tua vita con esso. Ricorda: il passato è già trascorso, e non può ritornare. Anche se tu lo desideri». «Perché non si stanca?», disse Rinti. «Dopo i viaggi dovrebbe avvertire della stanchezza». Senta guardò Tukath in cerca d'una risposta. «Perché,» riferì, «viaggia nel passato. E il passato è pietrificato, immutabile, quindi non oppone alcuna resistenza». «Allora posso usare le Carte per andare a Tornor ogni volta che lo desidero!», disse Sorren. «Non è necessario che aspetti una visione». «No,» disse Senta. «Puoi farne a meno. Però sarebbe meglio che aspettassi che le visioni arrivino in modo naturale. Non è saggio esagerare nell'uso di un talento. Si sa che col tempo tendono a perdere forza. Così, quando ti avvicini al luogo dei tuoi sogni, Sorren, non stupirti se lo vedrai man mano più sbiadito, fino a svanire del tutto. Quanto più ti avvicinerai all'oggetto delle visioni, tanto meno esso sarà visibile. Ciò vale per i viaggi nel futuro, sicché dev'essere vero anche per il passato». «Perché?», disse Sorren. «Lo ignoriamo,» rispose Rinti. «Vieni ad Elath ed aiutaci a scoprirlo». Ma Sorren non voleva andare ad Elath. Scrollò la testa all'insistenza del Mago tarchiato. «No!» Rivolse lo sguardo a Senta. «Adesso voglio andare via.» Tukath le sorrise col tepore dei suoi occhi grigi. «Ebbene,» chiese una voce potente, «cosa succede qui?» Si voltarono tutti. I tre Maghi si inchinarono. Tukath coprì la lente con una lunga mano. Inginocchiati, sussurrò Senta nella mente di Sorren. La ragazza si piegò su un ginocchio e sollevò il capo, incrociando lo sguardo penetrante di un uomo dai capelli chiari e con un ampio torace. Indossava una tunica bianca, come bianca era la perla che pendeva dalla catena che portava intorno al collo. «Chi è questa?», domandò. «Una serva di Arré Med,» spiegò Senta. «È venuta a trovarci con un mazzo di Carte della Fortuna. Sapendo che sono ni'cea, desidera consegnarle a noi.» Dammi le Carte, le ordinò nel suo linguaggio intramentale,
Lasciamele, poi te le restituirò. «Una serva di Arré Med? Oh, proprio la persona adatta! Alzati, ragazza!» Sorren obbedì e passò le Carte alla Maga. «Sembri intelligente,» disse l'uomo. «Sei capace di ricordare un semplice messaggio?» Il tono in cui le rivolse la domanda fece contrarre i muscoli a Sorren. «Sì, mio Signore,» rispose, ben sapendo che non ci si indirizzava ai Maghi in quel modo, ma ignorando quale altro titolo attribuirgli. «Io sono il L'hel, ragazza. Ho un messaggio per la tua padrona. Dille che la nostra guerra non è finita, che ha soltanto vinto una schermaglia. Ripetilo.» Sorren ripeté per filo e per segno. «Bene! Dille anche che è sempre spiacevole perdere delle vite umane, ma non sempre è possibile scegliere quali armi utilizzare». Sorren ripeté tutto quanto. «Perfetto!», disse il L'hel. Voltò lo sguardo agli altri Maghi. «Lehi, ci sono delle guarigioni da eseguire, e necessita la tua presenza». «Sì, L'hel,» disse Senta, con la voce carezzevole intrisa di sottomissione. L'uomo si voltò e lasciò la stanza. I tre Maghi si scambiarono degli sguardi allusivi. Sorren si appoggiò al tavolo. Marti Hok aveva detto che il L'hel era venale. Non conosceva il significato di quella parola, ma aveva un suono crudele. Senta le posò una mano sulla spalla. «Sorren!», disse, «ti accompagno fuori. Lasciami le Carte; potrebbe chiedere di vederle, e non potrò dire di averle distrutte. Te le restituirò, te lo prometto. Vieni.» Mentre parlava, si era già inoltrata nel lungo corridoio seguita dalla ragazza. Sorren si voltò a salutare Tukath, ma l'inventore si era chinato nuovamente sul pezzo di vetro e non la vide. Il corridoio lastricato in azzurro condusse le due donne fino alla porticina che dava accesso al giardino, e da questo alla strada. Il sole luccicava sulla pavimentazione bianca. I raggi erano accecanti, e Sorren si schermò gli occhi. Senta posò tutte e due le mani sulle spalle della ragazza. «Sorren, posso gravarti del peso di un altro messaggio?», le chiese. «Anche il mio è destinato alla tua padrona». «Sì,» rispose Sorren. «Grazie. Quando comunicherai ad Arré il messaggio del L'hel, dille pure che ero presente e che ho sentito quello che ti ha detto. Poi, riferiscile,
questo da parte mia...», s'interruppe un istante. «Dille che alcuni Maghi di Elath, ed altri ancora, condividono le ambizioni del L'hel. Sarà presto interpellata affinché le approvi. Dille di mostrarsi forte, ed aggiungi che, se vi sono delle persone fuori della città nelle quali ripone la sua fiducia, allora farà bene a metterle in guardia. Lei capirà a cosa mi riferisco». Quando Sorren fece ritorno alla villa, Arré era nello studio. La lettera indirizzata a Tarn Ryth stava sul tavolo, sigillata. Aveva deciso di affidarla a Jenith, affinché la consegnasse al Capo nuathano. Sentì i passi di Sorren percorrere tutta la lunghezza del corridoio per poi fermarsi. La serie di colpi leggeri sulla portala indusse a sollevare il capo. «Cosa c'è?» «Ho un messaggio per te dal Tanjo,» annunziò Sorren. Le sopracciglia di Arré si sollevarono di scatto. «Dal Tanjo?», ripeté, sbigottita. «Cosa sei andata a fare al Tanjo?» «Ci sono andata con le Carte». «Sei andata là?» Sorren annuì. Il terrore era scomparso dal suo volto ed appariva calma e risoluta. «Cos'hai fatto?» «Ho parlato con Senta, la Maga della Verità,» disse Sorren. «E con altri due Maghi. Sono stati molto gentili con me». «Ti hanno mostrato come si usano le Carte?» Sorren si accigliò lievemente. «Sì e no. Il mio... il mio talento permette di guardare verso il passato, non verso il futuro, perciò non posso leggere gli schemi delle Carte». «Così le hai lasciate a loro». «Senta me la ridarà. Così ha detto. Ho un messaggio per te da parte sua, ed uno da parte del L'hel». Un brivido gelato fece rizzare i peli sul collo di Arré. «Ti ascolto!» Sorren li ripeté, prima quello del L'hel, poi il messaggio di Senta. Le parole del L'hel la fecero balzare su dalla sedia, troppo furiosa per commentarlo verbalmente. Sicché il L'hel pensa che la morte di ventitré cittadini sia un fatto «spiacevole»? La rabbia la pervase in tutto il corpo, correndo sotto la pelle più rapida del sangue, e quasi si sentì mancare. «Quel... quel mostro!», proruppe. «Mostro?» «Sì, lo è». Il secondo messaggio sortì un immediato effetto pacante. «Senta non ti
ha detto chi voleva che avvertissi?» «No. Persone di cui ti fidi, ha detto, fuori della città». Tarn Ryth, concluse Arré. Ma cosa posso dirgli? «Grazie, piccola,» disse a Sorren in tono assente. La ragazza si inchinò e scomparve. Forse dovrei aspettare d'essere «interpellata». Si domandò chi l'avrebbe contattata. Il L'hel? Kim Batto? Tutti e due? Il L'hel non poteva certo dirsi soddisfatto dell'operato di Kim Batto. Né poteva essersi rallegrato alla notizia che il suo fantoccio, Ron Ismenin, era stato formalmente censurato e multato dal Consiglio. Non le toccò aspettare a lungo per conoscere le intenzioni del L'hel. Il pomeriggio seguente, Kim Batto si recò alla casa dei Med. Sorren lo annunziò alla padrona. Arré lo guardò con freddezza. Non lo aveva perdonato per la connivenza con chi aveva causato la strage in città; forse non lo avrebbe perdonato mai. «Non ti offrirò una sedia perché non desidero che tu rimanga,» gli disse, e provò il piacere di vederlo avvampare. «Ti porto un messaggio del L'hel». «Trovi che fare il Messaggero sia un'occupazione interessante?» L'uomo serrò le labbra reprimendo l'impulso di risponderle per le rime. Arré smise di provocarlo ed incrociò le mani in attesa. «Jerrin-no-Delta da Elath vuole incontrarsi con te,» disse Kim Batto. «Io non andrò al Tanjo». «Verrà lui qui da te». Arré ipotizzò un rifiuto. Era troppo. Sarebbe stata una sfida aperta. «Quando?» Kim propose un giorno della settimana successiva. «Accetto,» disse Arré. «Che sia di pomeriggio. Ricevere una sua visita al mattino, rovinerebbe tutto il resto della giornata». Piovigginava quando il L'hel arrivò. Giunse a bordo di una lettiga, scortata da un paio di accoliti. Dalla finestra dello studio, Arré lo vide uscire dalla cabina, e percorrere il viale d'accesso a capo scoperto. Ritornò in fretta alla sedia quando sentì aprire la porta d'ingresso. Un'altra poltrona era stata sistemata di fronte alla sua, separata dalla barricata d'una lunga tavola. La porta scorrevole dello studio scivolò di lato. Jerrin si fermò nella cornice della porta. Che attore, pensò Arré con disprezzo. Formava un bel quadro. Arré trasse un respiro - la figura di Jerrin era imponente - e disse: «Benvenuto, L'hel». Questi sorrise, avanzò verso di lei, ed andò a sedersi sulla poltrona vuo-
ta. Sembrava quasi che la sua persona fosse circondata da un alone di tenue lucentezza. Ma questa dopo un po' si dissolse, lasciando Arré nel dubbio di averla immaginata. Però, quando la tunica di Jerrin si mosse in un piccolo vortice, vide che la seta bianca era asciutta come vetro, incontaminata dalla fitta acquerugiola. Il luccichio non era quindi un effetto della pioggia. Arré serrò i pugni, per riaprirli subito con uno scatto che fece tintinnare i braccialetti. «Posso offrirti qualcosa da bere? Vino? Tè? Acqua?» «Vino,» scelse Jerrin. Arré suonò il campanello sul tavolo e Lalith fece capolino dalla porta. «Porta una caraffa di vino per il L'hel, e dell'acqua per me». Le cicatrici sulla faccia dell'uomo si incresparono. «Non vuoi bere quello che bevo io, vero?» «No,» disse Arré. «Non è questo. Ho smesso di bere il vino, mi fa stare male». «Hai consultato una Guaritrice?» «No. Ma lo hanno fatto gli altri componenti della mia famiglia. È una malattia che non può essere curata». «Purtroppo ciò è vero per le malattie che non riguardano il corpo,» osservò il L'hel. Lalith entrò con un vassoio. Aveva un'aria spaventata ed intimidita. Le mani le tremarono quando si inginocchiò per deporre il vassoio sul tavolo. Jerrin, protesosi verso di lei, glielo prese dalle mani e lo posò sul tavolo. Sorrise poi calorosamente alla ragazza. «Grazie, piccola!» Lalith si alzò. Gli occhi luccicarono alle parole di ringraziamento. Estasiata, si allontanò. Ancora una volta, Arré dovette riconoscere che quell'uomo possedeva un grande fascino. Prese dal vassoio il bicchiere colmo d'acqua e bevve. Il liquido fresco le fece contrarre lo stomaco. Jerrin si versò del vino nel calice e la imitò. «Beviamo alla nostra bella città,» propose con la sua voce eloquente e misurata. «Cha guarisca presto dai suoi mali!» Arré depose il bicchiere con un tonfo. «Mali dei quali in gran parte siete voi i responsabili!» Il L'hel allargò le mani. «Ciò è ingiusto. Ti assicuro, Arré Med, che io ignoravo completamente che Ron Ismenin stesse progettando un piano così distruttivo per procurarsi il potere. Io non lo approvo, e mi associo totalmente al giudizio del Consiglio nei suoi confronti». Arré rimase perplessa. Tutto si era aspettata, fuorché un discorso simile.
«Kim Batto ha votato contro». «Kim Batto vuole strafare,» disse Jerrin seccamente, in un tono che rallegrò Arré. «Tende a sopravvalutare le proprie forze,» disse, con una punta di sarcasmo che non riuscì a reprimere. «Sono lieta che il Tanjo approvi i provvedimenti del Consiglio». Jerrin non commentò le ultime parole. Si guardò intorno. Al mattino, Toli aveva acceso il fuoco nel camino, ed i ceppi di pino avevano effuso nella stanza un piacevole aroma. «È una bella stanza!», disse. «Grazie,» rispose Arré. Bevve un sorso d'acqua. «Se non sei venuto a riferire la disapprovazione del Tanjo in merito all'atteggiamento del Consiglio, perché dunque sei qui?» Jerrin appoggiò le spalle sullo schienale della poltrona. «Per fare un patto con te, Arré Med». «Per fare di me un tuo strumento, vorrai dire». L'uomo si accigliò. «Quel messaggio fu dettato dall'ira, e ne sono rammaricato. Sembra chiaro che nessuno di noi desidera trasformare questa città in un campo di battaglia per le nostre ambizioni. Scegliamo la via della collaborazione, Arré Med. Il vecchio sistema di governo di Arun sta mutando: deve mutare... perché il cambiamento è l'essenza stessa della vita. Nuove forze stanno salendo verso il nord, e questa città deve possedere la forza di fronteggiarle. Io so che tu hai tale forza, ed immagino che anche tu creda nella mia forza. Tu comandi il Consiglio, ma è a da me, dal Tanjo, che la città si lascia guidare. Insieme, potremmo creare una potenza formidabile.» Adesso era proteso in avanti; la fiamma di quegli occhi azzurri penetrava Arré con una forza quasi fisica. «Se non saremo noi a farlo, allora, stai pur certa, che lo farà un altro. Desideri forse vedere questa città governata da un Kim Batto o da un Ron Ismenin? O vederla cadere nelle mani di Tarn Ryth?» Pronunziò quel nome con un sogghigno beffardo. «Il tempo procede secondo un moto circolare, Arré Med, ma non ripete mai lo stesso giro.» Disegnò nell'aria una spirale. «Le occasioni perdute non ritornano mai più». Arré inghiottì. «Se alludi al seggio del Clan Bianco al Consiglio...» «Niente affatto! È irrilevante. Se dovessimo ottenerlo, beh, tanto meglio! Ma non capisci, Arré Med, che il Consiglio è condannato? Tutti i vecchi ordini e le vecchie forme stanno cambiando: devono cambiare, e noi con loro. Il Consiglio ha assolto i fini per i quali è stato concepito, e perciò ha fatto il suo tempo. Adesso inizia una nuova era. Unisciti a me nel dare
l'impronta a questo nuovo tempo, Arré Med. Meglio essere alleati che antagonisti. Ti prego di credermi: è soltanto il bene della nostra città che mi spinge ad agire in questo modo. E non solo di Kendra-sul-Delta, ma di tutta la terra di Arun. Per secoli l'Arun è stato appartato come un'isola, ed ora è tempo che noi - che l'Arun - usciamo da questo isolamento e diventiamo il cuore di qualcosa di grandioso, che neppure in sogno abbiamo mai osato figurarci. Tutto ciò è già cominciato, e la nave degli Isara ne costituisce un aspetto. Così come lo sono la fondazione di Shirasai e l'alleanza con gli Asech. Anch'essi fanno parte dell'Arun, anche se sono ignari di esserlo.» Trasse un respiro. «Anche questo hanno visto i nostri Veggenti». «Ma tu mi dicesti che i Veggenti del Tanjo vedono tanti futuri, uno diverso dall'altro.» obiettò Arré. «Sì. Ma sapere che quello che desideriamo si avveri è di fatto possibile, ci consente di adoperarci per la sua attuazione con l'ausilio della speranza». L'eloquio di Jerrin era coinvolgente. Arré si scoprì, suo malgrado, turbata dalle parole de L'hel. Appoggiò le spalle allo schienale, frapponendo deliberatamente maggiore spazio tra loro. Parte di ciò che aveva detto le aveva fatto ricordare il discorso di Tarn. Se vogliamo, sono molti simili, pensò. La colpiva il fatto che si fosse umiliato ad andare da lei per chiederle il suo aiuto. «I L'hel delle altre città la pensano come te?», gli domandò. «Non ho discusso con loro,» disse Jerrin. «Quelli, come la maggior parte di coloro che detengono il potere nell'Arun, sono ancorati alle vecchie forme. Preferiscono che ogni città, ogni regione, siano separate l'una dall'altra, autonome e isolate, collegate soltanto dal commercio». «E tu, invece?» La voce di Jerrin si fece più potente. «Io vedo la nostra terra unita, ricomposta in un'unica nazione». «E chi dovrebbe governarla?» «Non lo so. Forse la scelta non è nelle mani degli uomini». «Potresti essere tu?», disse Arré. «Se così vorrà il cea!» Allargò le braccia come a contenervi quella possibilità, e poi richiuse le mani in grembo. «O potresti essere tu!» Arré si sentì intrappolata nella poltrona, inchiodata ai morbidi cuscini. Si alzò, e girò intorno alla poltrona per fermarsi dietro di essa. Si appoggiò quindi sul bordo di legno dello schienale. Governare una città è una cosa, pensò. Ma come poteva una persona sola governare tutto l'Arun? «Ho già parecchi problemi a governare un solo Distretto di Kendra-sul-Delta».
«Ti sottovaluti,» disse Jerrin. Arré chiuse gli occhi, cercando di immedesimarsi nel ruolo di Governatrice di quel mondo nuovo che le parole di Jerrin avevano evocato. Si domandò in che modo questo sogno di un paese unito sotto un solo governo avrebbe potuto realizzarsi. Con la forza? Non sarebbe stato facile persuadere i Consigli delle singole città a rinunziare al proprio potere. «Kim Batto condivide la tua idea?» Il L'hel sbuffò sprezzante. «Kim Batto è un inetto, uno stupido». «Non mi hai risposto». Jerrin si accigliò. «Sì,» ammise tra i denti. «Ne discutemmo quando avevo di lui un'opinione diversa da quella che ho adesso. Allearsi segretamente con quel barbaro del nord!» Le parole erano intrise di disprezzo. La sua espressione si indurì. Arré annuiva, mentre rifletteva. Era giunta ad un bivio? Il futuro le chiedeva di scegliere tra la via indicata da Tarn Ryth o quella che le stava proponendo Jerrin-no-Dovria da Elath. Scrutò Jerrin giudicandolo con la forza dello sguardo. Non le occorreva possedere il talento di una Maga della Verità per sondare la profondità della sua brama di potere. Ne era affamato, bramoso come un lupo della preda. Non c'era calore in lui, né compassione, e soprattutto non c'era spazio ch'egli fosse disposto a dividere in parità con altri. Era venuto, a suo dire, per proporre una collaborazione, ma ciò che voleva in realtà era fare di Arré una sua creatura: uno strumento che avrebbe funzionato a dovere, senza rompersi come Ron Ismenin o Kim Batto. Arré Med adagiò gli avambracci sullo schienale della poltrona. «L'hel, stai sprecando il tuo tempo!», disse. L'uomo la trafisse con lo sguardo, ed Arré sentì tutta la malvagità che lo pervadeva. «Non intendo collaborare con te». «Allora sei una stupida». «Sono una stupida.» Si raddrizzò, girò intorno alla poltrona e si chinò sul tavolo per suonare il campanello. «Ciò che farai, lo farai senza di me». Jerrin la fissò, poi, alzandosi, puntò un dito verso il bicchiere colmo d'acqua. «Verrà un giorno in cui ti pentirai della tua decisione!», sentenziò. Serrò il pugno ed il bicchiere andò in frantumi. Le schegge si sparsero dappertutto; alcune si conficcarono nel tessuto della poltrona che lui stesso aveva occupato. L'acqua si riversò sul tavolo e prese a gocciolare lentamente sul pavimento. «Sarai meno di questo bicchiere per me». Lalith apparve nel vano della porta, attonita di fronte allo spicinio del
cristallo. «Il L'hel sta andando via,» bisbigliò Arré. L'uomo si voltò e seguì la ragazza. Lo vide allontanarsi: le mani le tremavano, ed il gelo le increspò la pelle. Raccolse le sue forze e, con tutte e due le mani, sollevò il bicchiere del L'hel e lo accostò alle labbra. Il vino le arse nello stomaco. Per un attimo provò compassione per Kim Batto, intrappolato tra l'incudine che era Tarn Ryth, ed il martello che era il L'hel. Sentì il tintinnio della lettiga. Mise giù il bicchiere e desiderò con lacerante intensità d'avere una persona da cui correre in quel momento, una persona che l'abbracciasse, la proteggesse: un'amica, una sorella, un'amante... Mosse un passo, ed il piede frantumò un pezzo di vetro. Non era sola. Aveva Marti Hok. Aveva Paxe. Aveva il povero Cha Minto che forse aveva imparato qualcosa dai suoi errori. Aveva persino un'alleata nel Tanjo: Senta, i cui avvertimenti si erano rivelati fondati. Era chiaro che doveva fidarsi di lei, malgrado la sua avversione per il Tanjo. Lalith tornò con una scopa in mano. «Signora, vuoi che...» «Sì,» disse Arré. Si diresse al piccolo archivio e ne trasse l'occorrente per scrivere. Sedutasi, avvicinò a se la tavola laccata e cominciò una nuova lettera, con la medesima intestazione: Da parte della Signora Arré Med, Kendra-sul-Delta, al Signore Tarn da Nuath Ryth... Nella settimana che precedette il Festival, i turni di guardia divennero frenetici. Paxe trasferì quattro Guardie notturne ai turni diurni e pomeridiani, rimanendo con soli dodici soldati, il minimo indispensabile per la vigilanza di un intero Distretto. Per di più, l'avvento della stagione fredda faceva ritardare il levarsi del sole, il che rendeva il servizio notturno più lungo e faticoso. I soldati avvertivano la stanchezza, e Paxe andava di postazione in postazione ad alleviare la fatica di coloro che avvertivano il peso. Sostituendoli per un po', permetteva loro di entrare nella guardiola, mangiare qualcosa, o dormicchiare un quarto d'ora. Si trovava nella Via dei Gelsomini, al limite del Distretto dei Sul, quando udì il fischio che le segnalava di recarsi sulla collina. Entrò immediatamente nel casotto a scuotere la Guardia appisolata. «Devo andare!» Augurandosi che non si trattasse di un'emergenza, si avviò verso nord a passo spedito. Impiegò mezz'ora per raggiungere la collina. Una torcia era accesa nella Piazza d'Armi. Varcò il cancello e trovò ad aspettarla Idrella, la Guardia di turno.
«Chi sta al cancello?» «Ho chiamato Rak dalla Via dell'Olio,» Sollevò la torcia dal supporto e condusse Paxe al capanno dov'erano depositate le armi. I segni tondi prodotti da uno scalpello circondavano la serratura. Paxe verificò se fosse stata forzata. Era intatta. «Guarda,» disse Idrella, avvicinandosi alla finestrella del capanno. Il vetro spesso ed opaco era stato infranto dall'esterno. Il terreno sottostante era stato calpestato, come dimostravano le orme impresse. «Ho sentito dei rumori e sono accorsa a controllare. Sono arrivata appena in tempo per vedere una persona scappare scavalcando la staccionata; ho visto una gamba svanire nel buio. Impossibile riconoscerla, o sapere se era riuscita a entrare». Paxe si frugò in tasca in cerca della chiave dell'armeria. «Andiamo a dare un'occhiata.» Aprì il capanno e piegò la testa sotto la bassa architrave. Idrella le porse la torcia. Tenendola alla distanza di un braccio per evitare di strinarsi le ciglia, Paxe si diresse verso il retro del capanno. Le picche, normalmente disposte in file ordinate lungo le pareti, erano ruzzolate al suolo e dovette passarvi sopra facendo attenzione a non incespicare. «Qualcuno è entrato!», disse. L'odore del grasso per la pulitura le solleticava le narici. Mosse un altro passo nel capanno ingombro e si fermò non appena la luce della torcia si riflesse su di un corpo metallico. «Maledizione!», imprecò. «Cosa c'è?», le chiese Idrella. Paxe si inginocchiò. «Qualcuno ha scoperto le spade». La seta che le ricopriva giaceva spiegazzata sul duro pavimento di terra. Lentamente contò le spade: undici, dodici, tredici, quattordici... dovevano essere quindici. Delle trentacinque sequestrate presso le Porte della città, la Piazza d'Armi dei Med doveva averne quindici, quella degli Hok sei, dieci quella dei Minto, e quattro la Piazza d'Armi dei Sul. Ora le spade erano quattordici. Illuminò con la torcia gli angoli ammantati di ragnatele, sperando che il ladro l'avesse lasciata cadere nella fuga. Nulla scintillò nell'oscurità. Paxe tornò sui suoi passi. Porse la torcia a Idrella e richiuse a chiave la porta del capanno. «Mi dispiace, Maestro della Piazza!», disse Idrella. «Non potevi stare dappertutto,» disse Paxe. «Dammi un attimo la torcia.» Con questa si recò al capanno degli attrezzi nel giardino, dove Toli teneva i suoi ferri. Vi trovò un'asse, un martello e dei lunghi chiodi di ferro. Portò il materiale presso la finestra dell'armeria e vi inchinò sopra l'asse
di legno. «Dovremo chiamare il vetraio,» disse. Una luce tremolò dalla cucina e si udì la voce di Toh. «Chi è là?» «Sono io,» disse Paxe. «Non è niente!» Ispezionò quindi tutt'intorno nella Piazza d'Armi nell'ipotesi che il ladro non fosse riuscito a scappare e si stesse nascondendo da qualche parte; ma il grande spiazzo era vuoto. Si domandò chi fosse il ladro. C'è voluto del coraggio per rompere la finestra! pensò. Poteva essere qualcuno che aveva visto il carro con le spade arrivare dalla Porta ed aveva intuito cosa trasportasse... La cosa, però, la preoccupava, e non solo perché una lama da taglio circolava liberamente nella città, nel suo Distretto. Il rischio che il ladro aveva corso era troppo alto per qualcosa che non poteva essere usata apertamente, e che doveva essere nascosta a tutti, familiari e vicini di casa. Il giorno seguente, all'ora del pranzo, Paxe si recò da Arré per riferirle del furto. Quando arrivò alla villa, il pasto era già stato consumato, e trovò Arré nella sua camera, seduta sul letto. Aveva appena finito di fare il bagno, ed i suoi capelli corti erano tutti raggruppati in stretti riccioli, fitti quasi quanto quelli di Paxe. Stava sorseggiando il tè. «Sono diventata una bevitrice di tè,» disse, e mandò Sorren a prenderne un'altra tazza. Paxe seguì con lo sguardo la ragazza che si allontanava dalla stanza. Le parve turbata, e si chiese quale fosse il motivo della sua preoccupazione. Arré tossì richiamando la sua attenzione sull'argomento che era venuta a discutere. «Ho interrotto l'addestramento con le spade, come tu hai ordinato,» disse. «Bene». Mi dispiace, però, pensò. «Anche gli Ismenin hanno smesso», disse. «Lo spero bene!» Arré si adagiò sui cuscini. «Ron Ismenin dovrà fondere le spade e venderne il metallo per pagare la multa che gli ha inflitto il Consiglio». Sorren entrò con una tazza verde tra le mani. La porse a Paxe. «Grazie!», le disse questa. «Devo portare qualche altra cosa?» «No. Puoi andare!», disse Arré, e la ragazza uscì. Arré rigirò la tazza tra le palme delle mani. «Il L'hel è stato qui la settimana scorsa». «Lo so,» disse Paxe. «Me lo ha detto la Guardia al cancello». «Mi ha chiesto di allearmi con lui per unire la nostra terra e farne una cosa unica, sotto la guida di un unico governo».
«Cosa gli hai risposto?» «Ho rifiutato. La terra di Arun potrà unirsi, o forse no, non lo so. A me interessa la città. Potrei anche desiderare di vedere unito il nostro paese. Ma il L'hel vuole che ciò accada subito, per diventarne lui il capo. Gli ho detto che non gli avrei offerto la mia collaborazione». Paxe annuì. Pensare al L'hel, a ciò che era, ed a ciò che faceva, la disgustava e l'imbestialiva ad un tempo. Preferiva ignorarlo. «Hai avuto notizie di tuo figlio?», chiese Arré. «L'ultima volta che ho saputo di lui è stato quando gli ho mandato gli stivali. La scriba dev'essere carica di lavoro ora che tutti mandano auguri in occasione del Festival. Non sono preoccupata.» Non era vero: preoccupata lo era, ma solo un poco. Non avrebbe mai cessato di preoccuparsi per lui. Depose la tazza. «La notte scorsa è accaduta una cosa che devi sapere, Arré!» Con le mani poggiate sulle ginocchia, raccontò ad Arré del furto della spada. «Bevi il tè!», disse Arré corrucciata. Paxe prese la tazza del tavolino e ne bevve il liquido amarognolo. Non gradiva il tè, a meno che non fosse addolcito col miele. «Cos'hai fatto?» «Ho fatto diffondere degli avvisi in tutto il Distretto, offrendo una ricompensa in cambio di informazioni utili; ho fatto sprangare la finestra dall'interno». Arré annuì. «Non rimarrà nascosta a lungo. Il ladro la mostrerà ad un amico per vantarsi, e il giorno dopo saprai tutto». «Spero che sia così». Seguì una breve pausa di silenzio. Poi Arré disse: «Mi fa piacere che sia venuta qui stasera. Avevo intenzione di parlare con te di mio fratello. Vorrei un tuo consiglio». Paxe si mosse sullo sgabello. Detestava dare consigli, e poi, cosa poteva dire lei di Isak che Arré non sapesse di già? «A quale proposito?» «Sto pensando di andare via per un po' di tempo». La figurina di pietra che somigliava ad un orso attirò l'attenzione di Paxe. Questa depose la tazza e prese la statuina tra le mani, carezzandone la fresca superficie. «Dove?» «A monte del fiume. La settimana scorsa ho scritto a Tarn Ryth per aggiornarlo sugli esiti della riunione del Consiglio e su alcune altre cose; gli ho chiesto anche se potevo fargli visita. Lui desidera il mio appoggio politico. Il nostro incontro al fidanzamento risultò positivo e piacevole, e poi Tarn è troppo potente per essere ignorato. Stamattina ho ricevuto la sua
risposta». «È stato veloce,» commentò Paxe. Normalmente occorrevano almeno otto giorni perché una lettera viaggiasse tra Kendra-sul-Delta e Nuath. «Cosa ti ha detto?» Arré sorrise. «Tante cose. Che Ron Ismenin è uno stupido ed una canaglia per aver organizzato la rissa. Ha detto che dovremmo espellere Kim Batto dal Consiglio. Mi ha anche consigliato di stare in guardia contro il L'hel; ma non c'era bisogno di dirmelo.» Il suo sorriso si colorò di malizia. «Ha detto di sì, che posso andare a star lì tutto il tempo che desidero: mi porterà a pescare. Non sono mai andata a pescare». «Quell'uomo ti piace, vero?», disse Paxe con un filo di voce. Arré la guardò con la coda dell'occhio. «Sì. Mi piace». «Quando partirai?» «Dopo il Festival». Paxe la guardò fissamente. «E chi governerà al posto tuo?» Arré si guardò le mani. «Avevo pensato di farmi sostituire da Isak». «Perché?» Arré sospirò. Rigirò la tazza tra le palme. «Perché... perché alcune delle cose che Cha Minto mi ha detto l'altra notte erano vere. Non ho mai dato a Isak molta responsabilità. Non gli ho mai chiesto consigli, né l'ho mai invitato ad assistere alle riunioni del Consiglio... È mio fratello. Potrebbe essere...», esitò, «potrebbe essere colpa mia se si è messo a cospirare con gli Ismenin ed ha ingannato Cha Minto. Forse non sarebbe accaduto nulla di tutto questo se lo avessi trattato per quello che è, ossia il mio erede». «Naturalmente è un tuo privilegio fare le scelte che ritieni opportune,» disse Paxe. Arré lasciò la tazza. «Cos'è quest'atteggiamento così formale, Paxe? Voglio sapere cosa ne pensi». Paxe trasse un sospiro, e depose la statuina sul tavolo. «Io penso che Isak sia capace solo di odiare, e non credo che tu lo possa far cambiare». Arré storse la bocca. «Ti ricordi quando era piccolo, Paxe?», disse trascurando la sequenza logica del discorso. «Era un bimbo splendido. Se io partissi, e lo nominassi mio sostituto, prenderesti ordini da lui?» Il bagliore della lampada tremolò nei suoi capelli; le punte grigie stavano diventando d'argento. «Io prendo ordini dalla Famiglia Med,» rispose Paxe. «Lo faresti,» sussurrò Arré, «ma ti costerebbe molto.» Si adagiò sui guanciali. «E costerebbe molto anche a me: sarei sulle spine ogni momento
durante la mia assenza. Ciò non di meno, credo che lo farò». «Devi fare ciò che ritieni più giusto!» disse Paxe. Sorren era preoccupata per Kadra. Era più facile pensare a Kadra - chiedersi dove fosse finita, cosa le fosse successo - piuttosto che pensare al Tanjo. Malgrado ciò, non fu a Kadra che il pensiero corse immediatamente quando Lalith si affacciò alla porta della sua camera annunziandole: «C'è una persona che chiede di te. La troverai alla porta della cucina». Sorren balzò giù dal letto, facendo ruzzolare in terra i tamburi che teneva in grembo. «Vengo!» Si domandò se fosse un Messaggero di Senta, venuto a riportarle le Carte. Si precipitò dabbasso, quasi cadendo nel saltare l'ultimo scalino. «Strane visite!», commentò Toli, col pollice rivolto verso il cortile posteriore. Era Kadra. La trovò seduta sulle mattonelle: era molto pallida, ed aveva gli occhi chiusi. Spaventata, Sorren le si inginocchiò accanto. Allorché il suo ginocchio toccò il pavimento, gli occhi del ghya si dischiusero. Kadra tossì. «Non guardarmi come se fossi una mucca malata!», le disse con la usuale scontrosità. «Ero preoccupata per te,» disse Sorren con un sospiro. «Lo so. Norres me lo ha detto. Credevi che fossi fuggita portandomi dietro la tua mappa?» «Non l'ho pensato affatto!», protestò Sorren. «Beh, non l'ho fatto». Si mosse - le costò una smorfia - scostò da un lato un lembo del mantello, ed estrasse la mappa. «Ci ho messo molto tempo per finirla, e non vorrei che andasse sprecato. Eccola». Sorren prese il cilindro di carta con entrambe le mani. Lo srotolò, seguì con lo sguardo il percorso verso il Nord e nella mente ripeté la sequenza dei nomi dei villaggi. Li conosceva tutti. Giunta a Tornor, sorrise. Anziché scriverne il nome, che Sorren non avrebbe saputo leggere, Kadra vi aveva disegnato un castello turrito con l'inchiostro rosso. Accanto alla torre vi era una stella rossa ad otto punte. Arrotolò la pergamena con estrema attenzione. «Grazie!», disse. «Legala!», disse il ghya. Tirò un nastrino dalla cintura. Era verde, il colore dei Messaggeri, e la ragazza provò una strana sensazione alla vista del nastrino colorato. Lo prese dalla mano di Kadra e legò il rotolo. «L'arco è ancora nascosto nel pascolo?»
«Suppongo di sì.» Mancava da quel posto da due settimane. «Non ti sei più esercitata?» «Ho avuto molte cose da fare,» disse Sorren in tono difensivo, «poi, quando sono venuta a cercarti, non ti ho trovata. Ho avuto paura che fossi stata coinvolta negli incidenti del porto». «C'ero anch'io». «Sei rimasta ferita?» Kadra scrollò la testa. «Soltanto un colpo nello stomaco». «Anch'io ero là,» disse Sorren. «Davvero?», disse il ghya. «Cosa ci facevi?» Sorren gli raccontò la sua esperienza. La paura e l'orrore si erano affievoliti e adesso riusciva a parlarne senza sentirsi male. Kadra la ascoltò annuendo. «Meno male che sei riuscita a cavartela!», disse. «Molti ci sono rimasti.» Tossì. «Sono venuta a dirti addio». «Addio?» «Maledizione, ragazza, cosa sei oggi? Un'eco? M'imbarco sulla nave. Stamattina ho avuto i documenti». «Ma cosa farai... il marinaio?» Kadra rise, e tossì. «Io sono un cartografo. Sarò utile a bordo, per disegnare le mappe delle terre che scopriranno». Naturalmente. «Ma come fai ad andare? Tu...» Sorren si interruppe, memore della suscettibilità del ghya. «Oh, andrò. In un modo o nell'altro. Probabilmente non ti rivedrò alla locanda. Ascolta, la nave salperà il giorno dopo il Festival. Ci sarai? Se verrai al molo, potrai vedermi a bordo. Ti cercherò tra la gente. Verrai?» «Certo che verrò!», disse Sorren. «Ma non passerai per la locanda? Potrei venire a salutarti prima». «Forse sì, forse no,» disse Kadra. Si alzò: nel drizzarsi, Sorren la vide poggiare una mano sul fianco destro. Mosse un passo obliquo. «Tutti i tuoi amici mi stanno osservando dalle finestre della cucina. Cosa penseranno?» «Non lo so e non m'interessa,» disse Sorren. «Hai mangiato? Ci sono dei pasticci di pesce in cucina: te ne porto qualcuno». Kadra rise, ma la sua risata si trasformò in un terribile spasmo di tosse. Sputò in un'aiuola. «Sto bene!», disse. Si nettò le labbra con la mano. «Ti cercherò tra la gente quando la nave salperà, ricordalo. Con la marea, il giorno dopo il Festival.» Alzò una mano in segno di saluto e si allontanò zoppicando verso la strada.
Toli si sporse dalla finestra. «Psst!», sibilò. «Chi è quello?» «Non te lo voglio dire!», ruggì Sorren. «Lasciami in pace». Capitolo ventesimo Arré e Myra Med stavano chiacchierando nel cortile. Sorren fece capolino nella cucina. Lalith le sorrise in mezzo al caos di pentole e tegami. «Noi adesso andiamo,» disse Sorren. «Ci vediamo dopo.» Percorse in fretta il corridoio, passando davanti alla sala. Gli avanzi del pranzo non erano ancora stati rimossi: lische di pesce, gusci di molluschi, noccioli di pesca e bucce di kava ingombravano il tavolo. Due lettighe sostavano in attesa nel cortile anteriore. Era una notte perfetta per il Festival. I Maghi avevano promesso bel tempo, ed avevano mantenuto fede alla parola data: dopo giorni di afa e foschia, la nebbia si era allontanata verso il sud. L'aria crepuscolare frizzava per l'eccitazione generale; folle di persone sciamavano vorticosamente lungo le strade scintillanti tra chiacchiere, canti e risa. Il cielo era teso, trapunto da miriadi di stelle. I due figli più piccoli di Isak stavano giocando chiassosamente a rincorrersi da una lettiga all'altra. Sorren aveva dimenticato gli schiamazzi degli infanti. Riat, il suo primogenito ed erede, era in piedi accanto alla madre e, dall'alto dei suoi otto anni, guardava i fratelli con aria severa ed adulta, azzimato com'era nell'abito di seta nuovo fiammante. Sorren respirò profondamente: i suoi piedi fremevano per partire. Controllò se aveva preparato ogni cosa: un paio di coperte in ciascuna lettiga. Myra e Arré avevano preso i mantelli; infine, nella prima lettiga aveva messo un cesto di cibarie, sperando che fossero sufficienti. Si morse il labbro, chiedendosi se Myra Med le era simpatica; era una donna piacente, formosa, dai modi garbati e con molto cervello. Era raro che si affrettasse, e anche stavolta non aveva nessuna fretta, attardandosi sui gradini a parlare con Arré dell'amministrazione dei vigneti. Sorren si guardò intorno in cerca di Paxe. Il Maestro della Piazza era venuta poco prima per discutere con Arré in merito ad alcuni dettagli relativi all'organizzazione del servizio di sorveglianza. Ma poi era svanita, il che non era sorprendente; il turno di notte contava il doppio del personale normale, e Paxe doveva tenere d'occhio tutti quanti. Kaleb stava presso il cancello con una lanterna in mano che oscillava mentre discuteva coi portatori delle lettighe. Sorren udì il tintinnio delle monete che gli uomini si
scambiarono. Con aria depressa, la Guardia al cancello si bilanciò sui piedi. Con la tunichetta ed i pantaloni rossi, Arré era molto attraente quella sera. Aveva lavato i capelli e li aveva profumati con l'essenza di gelsomino: i morbidi riccioli neri le adornavano il capo come la corona di un pavone. Myra era vestita di verde, un verde scurissimo da sembrare blu. Lei ed Arré andavano perfettamente d'accordo, fintantoché trascorrevano poco tempo insieme. Il giorno e la sera del Festival «è il massimo che riesca a sopportare,» aveva detto Arré al mattino. «Comincia a parlare del raccolto, poi attacca con i figli e, dopo un po', mi viene voglia di scappare via urlando dalla stanza». Improvvisamente, dalla seconda lettiga giunse un suono penetrante che fece trasalire tutti. La bambina (che aveva tre anni) era seduta nella cabina, e si era messa a soffiare in uno zufolo di giunco. Sorren corse alla lettiga e si chinò sull'apertura d'entrata. «Perché non aspetti che arriviamo al parco per metterti a suonare?», disse. La bambina sorrise con dolcezza e scrollò la testina. Sorren le tolse lo zufolo di mano e lo portò a Myra. «Grazie,» disse questa, e continuò a chiacchierare. Dentro la lettiga la bambina cominciò a piagnucolare; quando si accorse che nessuno sarebbe andato da lei, scese dalla portantina e corse al fianco della mamma. «Riavrai lo zufolo quando saremo al parco,» disse Myra senza adirarsi. «Smettila di frignare!» «Vogliamo andare?», disse Arré. Quel pomeriggio erano andati tutti ai giardini del Tanjo per ascoltare l'invocazione che il L'hel rivolgeva al Guardiano affinché la terra e la città godessero del suo favore e della sua benedizione. Durante l'intero pomeriggio, in ogni Distretto erano state montate delle tende. La tenda del Clan Blu, nel Distretto degli Ismenin, era la più grande, ma il padiglione dei Jalar era il più bello ed il più sfarzoso. Dodici giorni erano trascorsi dai cruenti incidenti che avevano sconvolto il Distretto, ma non vi era alcun segno dei danni, ad eccezione dei punti in cui muri e finestre erano stati sostituiti. Il padiglione dei Med era stato issato nel parco ai piedi della collina. Era rosso con triangoli blu, ed era grande abbastanza - così diceva Arré - da ospitare parecchie migliaia di persone. Arré aveva trascorso nel parco gli ultimi quattro giorni a controllare l'o-
perato degli ingegneri ed a contestarne le decisioni sull'ubicazione del padiglione. Due vasti pozzi erano stati scavati per la raccolta dei rifiuti; due strade erano state spianate nel terreno scabro, e capaci serbatoi colmi d'acqua erano stati sistemati nei paraggi nell'eventualità di un incendio. Qualche anno prima un incendio era scoppiato nel Distretto dei Sul, distruggendo il padiglione e provocando il ferimento di numerose persone. Adesso tutti i Distretti prendevano le dovute precauzioni. Per Sorren era già un miracolo che non scoppiasse un incendio in ogni strada. I lampioni erano tutti accesi, come pure le lanterne nelle case, ed in più la gente passeggiava portando candele ardenti fino al levarsi della luna. «Prendi!», disse Arré dandole il mantello. «Sei sicura di aver capito dove saremo?» «Vicino all'albero grande. Vi troverò. C'è una Guardia lì, no?» Arré si accigliò. «Come vorrei che fosse già finito tutto!», disse. «Ti dispiace non suonare quest'anno?» Sorren sospirò. «Un po'». Isak aveva trovato un'altra percussionista, come Sorren aveva previsto dopo ciò che era accaduto alla festa di fidanzamento. Tuttavia, le sembrava strano essere lì come spettatrice e non come esecutrice. «Non pensarci,» disse Arré. Entrò nella lettiga infilandovi per prima la testa. Myra sorrise a Sorren e la seguì. Nella seconda lettiga la bambina di tre anni stava gridando: «Voglio andare con mamma!». Sorren la prese in braccio e la portò a sua madre. «Zitta!», disse Myra, cullandola in grembo. «Anch'io!», disse Kathi, la secondogenita, già pronta a saltar giù. Riat sospirò ed incrociò le braccia con signorile disdegno. «No,» disse Sorren. «Tu stai qui, altrimenti ti faccio rimanere a casa a lavare tutte le pentole insieme a Lalli.» Bastò a farla tacere. I portatori presero posto alle stanghe e, in men che non si dica, le lettighe erano già scomparse nella macchia ai piedi del colle; soltanto il tintinnio dei campanelli continuava a risuonare nell'aria. Sorren fece un cenno di saluto a Kaleb e si avviò a piedi lungo il declivio con i mantelli tra le braccia. In strada il frastuono era terribile. Sembrava che, ad ogni angolo, si stesse svolgendo uno spettacolo. Ovunque si esibivano dei giocolieri, che lanciavano in aria pere e mele, falcetti e cucchiai; c'erano mimi e Danzatori, acrobati in equilibrio sulla testa e sulle spalle di compagni, venditori di pasticcini di pesce, nidi di pasta, Erba dell'Estasi e vino. I bambini a cavalcioni sulle spalle dei genitori guardavano con gli occhi
sgranati lo spettacolo che animava la città; donne e uomini in turbante con indosso le tuniche velate e fluttuanti degli Asech si radunavano negli angoli a guardare le esibizioni. Un vecchio stava predicendo la sorte nel mezzo della strada. L'odore di quaglie arrostite si levava dalla bancarella di un ambulante. Dappertutto circolavano le Guardie, all'erta soprattutto contro i ladri, giacché il Festival era una cuccagna per i borsaioli. Rubavano le borse; molti erano armati di coltelli per tagliare le cordicelle delle filze di monete maneggiate con disattenzione. Il braccialetto di Sorren (era veramente suo, e lo aveva ricevuto da Arré come dono per il Festival) era al sicuro nella tasca dei pantaloni. Vi era una moneta di ogni conio, ad eccezione del largo. Mentre camminava, Sorren cercava volti amici tra la folla. Con ogni probabilità Tani e Simmy, ed anche Nessim, si aggiravano nel Distretto degli Isara, e Jeshim - che non era più un amico - doveva starsi esibendo nella tenda del Clan Blu. Era facile incontrare altri visi noti, gente del mercato per esempio; la tradizione voleva che si facesse il giro di tutta la città, di Distretto in Distretto, guardando in ogni tenda. Nuvole di fumo dell'Erba dell'Estasi accompagnavano le lanterne; degli otri penzolavano dalle spalle dei festanti. Una mano s'insinuò flessuosamente davanti al naso di Sorren: stringeva una pipa. La ragazza abbassò gli occhi ed un ragazzo asech le sorrise. Aspirò dalla pipa e, prima ancora che avesse il tempo di ringraziarlo, quello era già sparito. La droga le solleticò piacevolmente le membra. Il bagliore del plenilunio cominciava ad effondersi nel cielo. Non sapeva dire se le piacesse di più il Festival del Raccolto o la Festa di Primavera, durante la quale la gente danzava per le strade in lunghissime file sinuose, costellate di fiaccole. Ricordava che nei vigneti si usava danzare attraverso i campi nei solchi cosparsi di semi, pestandoli coi piedi nudi per farli penetrare nella terra. Entrò nel parco. Le Guardie del turno di notte erano sparse in ogni angolo. Frotte di bambini sgambettavano dappertutto, salterellando come cuccioli. Sorren cercò l'albero più alto. Era vicino alla tenda, ma non troppo prossimo ai pozzi che mandavano un cattivo odore, o alle strade dalle quali si levavano nubi di polvere. Avvistò l'albero e s'incamminò in quella direzione. D'improvviso, tutti gridarono: stava sorgendo la luna. Si alzava quasi direttamente a sud: era gialla come il cuore di una margherita, enorme, e di uno splendore intenso. La gente saltava, pestava i piedi ed urlava. Sorren gettò indietro la testa e gridò: «Yip-yip-yip-yip!» Era il grido dei raccoglitori nei vigneti. Una cin-
quantina di voci risposero al richiamo: Sorren si strinse addosso il mantello e provò un fremito di eccitazione nell'udire quei suoni gioiosi. Avanzando con difficoltà tra la ressa, riuscì a raggiungere l'albero. La bambina di tre anni stava suonando lo zufolo con grande solennità, marciando avanti e indietro come se fosse in testa ad una banda. Arré era seduta su una coperta, col cestino aperto accanto a lei, e stava mordicchiando una polpetta alle alghe. «Siediti!», la invitò, indicando la coperta. Sorren si sedette, non senza una certa timidezza. Myra stava spiegando a Kathi tutto quanto riguardava il Festival, cosa celebrava, da quanto tempo si ripeteva, e così via. La Guardia vicino all'albero stava mostrando la picca a Riat. Sorren si sdraiò sulla coperta con la testa adagiata su un braccio, ed osservò la luna ascendere nel cielo. Si faceva via via più bianca, ma rimaneva pur sempre enorme, sfolgorante e bellissima. La bimba di tre anni cominciò a stufarsi di suonare, ed andò a sedersi accanto a sua madre. Le somigliava molto, coi capelli castani, la pelle bruna e gli occhi chiari. Sorren si chiese dove fosse Paxe. Ufficialmente, il Maestro della Piazza non era in servizio prima della mezzanotte, ma di fatto era lì, da qualche parte tra la folla, ad assicurarsi che ogni cosa si svolgesse con tranquillità. «Sorren!» La ragazza sussultò. Riat le stava accanto. «Mi hai fatto trasalire, chelito. Che c'è?» «Voglio andare a vedere Papà. Mi accompagni?» L'anno precedente il ragazzino si era recato nelle tende dove si preparavano gli artisti per vedere suo padre prima dello spettacolo. «Chiedilo a tua madre,» disse Sorren. Riat si avvicinò a Myra e le bisbigliò qualcosa in tutta fretta. Tornò quindi saltellando da Sorren. «Ha detto che ci posso andare.» Afferrò la mano di Sorren. «Mi accompagni?» Quindi le sorrise fiducioso. I suoi occhi scuri somigliavano a quelli di Isak. Sorren non voleva andare, ma non c'era nessun altro che potesse condurre fin là il bambino. Lanciò un'occhiata ad Arré, e questa allargò le mani. «Andiamo.» E s'incamminò in direzione della tenda. Kathi cominciò a frignare in preda ad una crisi di gelosia. Myra la prese tra le braccia e le diede da mangiare una polpetta alle alghe. Riat corse verso la tenda sorpassando Sorren. Era un piccolo Isak, un misto di vitalità ed entusiasmo, ma senza la crudeltà di quello. Le Guardie presso il padiglione li scrutarono con ostilità: Sorren si girò in modo da mostrare loro il
bracciale da schiavi. All'ingresso delle piccole tende che fungevano da camerini, furono fermati nuovamente. «Mi dispiace, nessuno può entrare oltre agli artisti». «Ma lui è il figlio di Isak Medi», protestò Sorren. La Guardia aggrottò le ciglia. «Ho ricevuto degli ordini!», disse. «Papà!», strillò Riat. Sorren alzò gli occhi e scorse Isak gironzolare intorno all'angolo del padiglione. Riat si divincolò dalla stretta della ragazza e corse verso suo padre. Questi lo sollevò da terra e lo fece oscillare in aria. «Cosa ci fai qui, eh?», gli chiese, tenendolo in braccio. La sua voce era sinceramente affettuosa. Sorren abbassò gli occhi a terra, e Isak la raggiunse. «C'è anche Sorren: allora mia moglie e mia sorella sono qui». «Sì, mio Signore». «Papà, voglio vedere i mangiatori di fuoco: mi ci porti?» «Sì, caro. Sorren...» La ragazza alzo la testa: Isak le stava sorridendo. «Ti perdono,» le disse. «Vorrei che fossi tu a suonare anziché Itaka, ma ormai è troppo tardi». Maledetto! pensò. Sa sempre trovare le parole giuste per guadagnarsi la mia simpatia. «Anch'io lo vorrei tanto, Signore», disse a voce alta. La luna scintillava sull'abito ricco di lustrini. «Porto Riat con me,» disse, tenendo il bambino stretto a sé. «Non è necessario che tu rimanga.» Riat guardò suo padre con adorazione. «Torna a prenderlo tra un po'». «Sì, mio Signore». «Come siamo formali!», osservò in tono canzonatorio. Infilò una mano tra i capelli ricci del figlioletto. «Andiamo, marmocchio!» Riat scivolo giù e trotterellò verso la tenda nella scia di Isak. Sorren sapeva che di lì a poco si sarebbe stancato di tenere con sé il bambino ma, almeno in quel modo, aveva avuto la possibilità di starsene un poco da sola. S'incamminò per il parco. La Guardia che prima l'aveva fermata, la guardò ed annuì. Il chiarore lunare conferiva ad ogni cosa delle sfumature pastello. Fece una capatina nel padiglione, gremito di persone come un alveare lo è di api. Sul palcoscenico grande due donne eseguivano delle acrobazie mentre una terza suonava un flauto di legno. Ad un certo punto sentì menzionare alle sua spalle il nome di Paxe. Si voltò: due Guardie dei Med stavano chiacchierando presso uno dei pali di sostegno della grossa tenda. Stavano parlando del Maestro della Piazza, lodandone le qualità nel linguaggio scurrile proprio dei militari: «Tu prova a maneggiare una di quelle spade come se fosse di legno, e ti staccherà le
tue fottute orecchie. È dura come un fabbro.» Si accorsero che Sorren le stava ascoltando, e tacquero. La ragazza sorrise. Ritornò nel parco. Incrociò le braccia sul petto in modo da coprire con la palma della mano il bracciale da schiena. Adesso era una qualunque, una forestiera; in pratica, nessuno! Si avvicinò ad un venditore di zampe di porco. Frugò in tasca ed estrasse un pezzo da due; lo diede all'ambulante e questi le porse una zampa di porco e quattro monetine di resto. La zampa di porco scottava, e se la passò ripetutamente da una mano all'altra finché non si fu raffreddata. Ritornò quindi sui suoi passi, dirigendosi verso le tende piccole. Un uomo vestito di rosso, arancione e turchese, si affiancò a lei. Si riconobbero a vicenda simultaneamente. L'uomo si girò dalla parte opposta. «Cosa ci fai qui?», gli disse Sorren. Jeshim sorrise. «Mi rivolgi di nuovo la parola, eh?» Si protese quindi verso di lei e, prima ancora che riuscisse a bloccarlo, l'illusionista finse di estrarle una palla rossa da un orecchio. «Oh, tante cose! Adesso ho da fare. Vieni a vedermi». Sorren gli lanciò alle spalle un'occhiata torva. Non aveva alcuna intenzione di andare a vedere i suoi numeri. Addentò il piede di porco, ed il succo le colò sul mento. Riat si trovava con Isak nella tenda-camerino, intento ad osservare il Danzatore alle prese col trucco davanti ad uno specchio d'argento. Nella tenda faceva caldo per via delle numerose candele. Il costume di Isak era verde e oro, e disegnato in modo da imitare la pelle squamosa di un serpente: avrebbe danzato «Il Serpente e la Maga Saggia». Disegnò il contorno degli occhi con linee scure sì da evidenziare la forma. Le dita di Sorren presero a tamburellare sulle cosce, memori del ritmo della Danza. Riat contemplava a bocca aperta la trasformazione di suo padre. Itaka stava seduta in un angolo, ripassando il pezzo che avrebbe dovuto suonare. Sorrise al bambino, desiderando di rubargli il posto. «Quanto tempo è passato?», chiese Isak. Sorren guardò la candela oraria posta sulla destra dello specchio. «Mezz'ora». «Ah. Toglimi questo demonietto dalle mani!» «Riat, ora dobbiamo andare: il tuo Papà ha da fare». «Voglio stare qui a guardare,» protestò il ragazzino. Ma lasciò che Sorren lo tirasse via dallo sgabello.
«Sei capace di ritornare da solo fino all'albero grande?», gli chiese. Riat gonfiò il petto. «Naturalmente!» «Perché non vai ad avvertire tua madre che la Danza sta per iniziare? Vorrà vederla.» Il ragazzo puntò avanti la testa come un puledro e trotterellò via. Isak le sorrise dallo specchio. «Ci sai fare con i bambini! Perché non ti trovi un uomo? Potresti averne quanti ne vuoi». Sorren si mise a ridere. «Ad Arré non piacerebbe». Era stata una risposta infelice. Desiderò scioccamente di poterla cancellare. Ma Isak non fece altro che sorridere. «I desideri della mia cara sorella sono così importanti per te?» «Naturalmente!», fece lei. «Naturalmente. Io, invece, non ho mai avuto questo problema.» Disegnò un'ultima riga sul volto, poi depose il pennello. «Dimmi: credi che verrà a vedermi danzare?» La domanda era retorica; sapevano tutti e due che non ci sarebbe andata. Sorren entrò nel padiglione. Le tre acrobate stavano accendendo le torce intorno al palcoscenico; corse, scherzi e trovate clownesche, spintoni e finte cadute, servivano a rendere spettacolare l'operazione. Il nome di Isak circolava tra i sussurri della gente. Una mano si infilò in quella di Sorren. Era Riat. «Le ho trovate, stanno venendo,» annunziò. Sorren si voltò, chiedendosi se Arré avesse infine deciso di assistere allo spettacolo. Invece no: Riat si riferiva a Myra, alle sorelline... ed a Paxe. Alla vista di costei, il cuore di Sorren prese a battere più rapidamente. Paxe portava in braccio la piccola di tre anni. Riat rimase abbacinato a guardarla con la stessa riverenza che aveva mostrato nei confronti del padre. Il Maestro della Piazza vestiva i colori dei Med, e calzava alti e soffici stivali. Era stupenda! Paxe si accorse del bambino e sorrise. «Sorren: vuoi prendere tu la bambina?» Sorren obbedì, e Paxe sollevò Riat con le mani ponendoselo a cavalcioni sulle spalle. Myra teneva in braccio Kathi. «Ecco, adesso vedrai tutto!», disse Paxe. «Maestro della Piazza, non devi lasciare che i miei figli ti allontanino dai tuoi doveri,» disse Myra con grazia. «Non preoccuparti, Signora; in verità mi forniscono il pretesto per guardare lo spettacolo.» E per vedere te, dissero a Sorren i suoi occhi. Si mosse di quel tanto che bastò a sfiorare il braccio della ragazza. La gente intorno aveva riconosciuto il Maestro della Piazza e si teneva ad una certa distan-
za. «Possiamo avvicinarci al palco, se volete». «Stiamo bene qui!», disse Myra. Poi vide l'espressione imbronciata di Riat e sorrise. «Sì, forse sarà meglio avvicinarci un poco.» Paxe avanzò di qualche passo e la gente si spostò per farle largo. Sorren la seguì, passando la bimba da un braccio all'altro. La piccolina si era addormentata con la testa adagiata sul petto di Sorren che la dondolava dolcemente. Era molto graziosa... quando non urlava; paffuta, morbida e profumata di cose dolci. Strofinò delicatamente una guancia sul collo della piccola dormiente. Adesso le acrobate si stavano passando le torce reciprocamente fingendo di farle cadere e suscitando apprensione tra la folla ululante. Il sudore bagnava i fianchi di Sorren. Spostò la bambina sull'altro braccio, sollevando l'anca per sostenerne il peso. Itaka salì sul palcoscenico. Tutti applaudirono. Riat si chinò verso sua madre; «Sta arrivando Papà!» «Oh, che bello!», disse Myra. «Kathi, ora arriva Papà. Non tirarmi i capelli, chelito.» Riat rimbalzava sulle spalle di Paxe mulinando le braccia per l'eccitazione. Isak apparve sulla scena. Gli occhi cerchiati di bianco spiccavano sul volto del Serpente, e le scaglie scintillavano sul suo corpo sinuoso. Pom-pom, pom-pom, martellavano i tamburi. Dopo la prima esplosione d'entusiasmo, la folla era piombata nel silenzio, soggiogata dalla magia del Danzatore. Isak era il Serpente: sinuoso, sottile, e brutale. Sibilava, e la gente in prima fila si ritraeva. Sorren rabbrividì di fronte alla potenza della sua arte. Poi il Danzatore scivolò dietro il paravento, e ne uscì poco dopo con indosso una tunica bianca che copriva il suo costume verde e oro. Adesso era la Donna Saggia. Lentamente, la storia svolse la sua trama: il Serpente bramava possedere la saggezza della Maga. Si avvicinò alla sua casa e cominciò a danzare attorno a essa. La Maga non sapeva che lui fosse lì. Mescolò una pozione nel calderone e, nell'attimo in cui stava guardando da un'altra parte, il Serpente s'insinuò dentro la casa ed andò ad acquattarsi vicino al calderone. Quando tutti gli ingredienti furono mescolati, la Maga assaggio la pozione. Il Serpente rimase in attesa che la Maga si allontanasse. (A questo punto i bambini presenti tra gli spettatori avevano gridato «Stai attenta!», immediatamente zittiti dai genitori) La Maga uscì di casa, e il Serpente uscì allo scoperto, pronto a rubare la pozione. La Maga tornò e lo sorprese presso il calderone. Qui le percussioni accelerarono in crescendo. La Maga
lanciò un Incantesimo e la bestia si ritrasse impaurita, il ventre che strisciava sul suolo, e quindi si allontanò, incapace di sollevarsi, ormai priva di braccia e di gambe. Alla punizione del Serpente, i bambini esultarono. Isak tornò sulla scena prima nei panni del Serpente, poi in quelli della Maga Saggia. «Yip-yipyip!», gridò Sorren: Isak la guardò e le sorrise. «È bravo, vero?», disse Myra; la sua voce era dolce, pervasa dalla tristezza e dalla solitudine. Le manca, pensò Sorren. «Deve amarlo molto». «La folla pensa di sì,» disse Paxe. Alzò le braccia sulla testa e fece tornare Riat a terra. «Mi dispiace, chelito: ora devo andare.» Guardò Sorren e le sorrise. La ragazza le mandò un bacio silenzioso. «Danzerà ancora?», disse Riat. «Io voglio vederlo!» «No,» disse Sorren. «Ne fa sempre una soltanto». Tornarono all'albero. Arré sorrise nel vederli. «Ebbene?», chiese. «Alla gente è piaciuto molto,» disse Myra, sedendosi accanto a lei. «Spero che non ti sia annoiata troppo qua da sola. Il tuo Maestro della Piazza è molto gentile. È rimasta con noi a guardare lo spettacolo». «Posso andare a vedere di nuovo papà?», disse Riat. Myra prese la figlioletta di tre anni dalle braccia di Sorren e le avvolse intorno la coperta. «I bambini sentono la sua mancanza,» disse ad Arré. «Ne sono certa,» disse Arré con garbo. «Sorren ti spiacerebbe accompagnare il bambino dietro la tenda?» La ragazza si inchinò e fece un cenno a Riat. «Andiamo!» Intanto, nelle strade, il frastuono era aumentato. Impiegarono parecchio a farsi largo tra la calca in direzione del padiglione. Riat non si staccava da Sorren, un po' spaventato da quella massa di sconosciuti, tutti più alti di lui. Ad un certo punto si fermano a guardare una donna con un serpente. Il corpo dell'animale era ricoperto da delle scaglie verdi. «Come papà,» disse Riat, indicandolo. «Ma non così grande,» disse Sorren, provocando la risata del bambino. Il Danzatore, poi, non possedeva la stéssa agilità di Tani. «Mio padre è un bravo Danzatore, Sorren?», chiese ad un tratto il bambino, mentre avanzavano. L'amore che scaturiva dalla vocina del piccolo era così palese da esser doloroso. «Il migliore!» disse Sorren in tono fermo e risoluto. Riat ripeté a se stesso quella risposta per tutto il cammino attraverso il parco: «Il migliore, il migliore!» Giunsero all'angolo del padiglione e si imbatterono in Borti. Questi salu-
tò Sorren con un sorriso ed un abbraccio. «Come stai, ragazza?» Fu lieta di vederlo. Da quando era diventato il vice di Ivor, non lo vedeva più nei paraggi della villa. «Sto bene». «Vieni con me!», le sussurrò, tirandola dietro ad una tenda. Riat, inseparabile, seguì i suoi passi. «Guarda che cosa ho.» Il soldato aveva infilato un po' d'Erba dell'Estasi in una conduttura dell'acqua. Porse a Sorren l'estremità del tubo. «Non dovresti avere questa roba: e se Paxe ti vedesse?», disse, ma non disdegnò di annusare l'erba inebriante. L'acqua gorgogliò nella canna. «Non se ne accorgerà: stai tranquilla!» Aspirò dal tubo riempiendosi l'ampio torace. «Dovevi suonare tu per Isak Med, non quell'altra». La testa di Riat ebbe uno scatto alla menzione del nome di suo padre. «Voglio andare a trovare papà,» disse e, prima che Sorren riuscisse ad afferrarlo, le scappò irrimediabilmente di mano, correndo sull'erba calpestata. «Oh, maledizione!», imprecò Sorren. Lasciò quindi il tubo tra le mani di Borti. «Devo acchiapparlo!» «Chi è?», le domandò la vecchia Guardia. «Il figlio di Isak Med, stupido!» «Allora è perfettamente in grado di badare a se stesso». Probabilmente aveva ragione. «Ne sono responsabile. E se dovesse perdersi?» «C'è molta luce intorno. Riuscirà a trovare sua madre». «È meglio che vada a cercarlo». Si gettò di nuovo tra la folla gridando forte il nome del ragazzo. «Riat, Riat!» Ma, nel trambusto che la circondava, riusciva a malapena a sentire la sua stessa voce. Andò nella tenda di Isak, ma la trovò vuota. I costumi erano appesi ad un gancio in un angolo. Il cuore cominciò a batterle forte, dolorosamente forte. Non accadeva mai nulla ai bambini... ma se stavolta non fosse andata così? Poteva precipitare nel pozzo dei rifiuti, poteva mangiare qualcosa di cattivo, di malsano, poteva essere morso da un cane o preso a calci da un mulo... «Riat!» L'eco della sua voce era l'unica risposta. Ancora un po', ed avrebbe dovuto avvertire le Guardie: Arré ed Isak. Guardiano, aiutami a trovarlo! implorò tra sé. Aveva voglia di mettersi a piangere, ma sapeva che era un effetto dell'erba. Fermò una delle acrobate, e le chiese: «Hai visto per caso un ragazzino, pressap-
poco alto così, con un vestito di seta blu?» «No, mi dispiace,» «Se dovessi vederlo, ti prego di condurlo immediatamente da una Guardia dei Med». «Certo. È tuo?» «In un certo senso... Riat!» Non riusciva a trovarlo da nessuna parte. Ispezionò ogni angolo del padiglione, guardò sul palcoscenico, sotto il palcoscenico, dietro ogni lembo della tela della tenda. Poi le venne in mente la Danzatrice col serpente, e si precipitò fuori a cercarla. Guardiano, fa' che sia là... A spintoni si fece largo tra gli spettatori di Tani, ma Riat non c'era. Imprecò nello sforzo di non lasciarsi sopraffare dal panico, ed uscì maldestramente dalla cerchia degli astanti, ignorando i caustici commenti alle sue spalle. «Ancora in difficoltà, Sorren?», le disse una voce vellutata. Sorren si voltò di botto. Senta, la Maga della Verità, le stava accanto. Non indossava la tunica bianca del suo Clan, ma portava degli indumenti ordinari: una casacca rossa, dei pantaloni scuri, e stivali. Ma la sua voce restava pur sempre inconfondibile, come anche la cascata dei capelli che brillavano come ebano nel chiarore della luna. Senta sorrise. «Perché quest'aria sbigottita? Anche ai Maghi piace il Festival. Sono venuta a dirti che le Carte sono a casa tua. Le ho lasciate ad una vecchia grassa col fiatone. Le ho detto di metterle assieme alle tue cose. Cosa c'è?» La sua voce divenne particolarmente gentile. «Forse posso aiutarti». «Sto cercando una persona, lehi». «Siamo colleghe, no? Chiamami Senta. Chi stai cercando?» «Un ragazzino vestito di blu. Si è perso. È... è il figlio di Isak Med». «Era stato affidato a te, e lo hai perduto? Oh, è un brutto affare! Pensi che sia rimasto in questi paraggi, o si sia messo a vagare per il parco?» «Non so. No: credo che sia rimasto qui». «Allora vediamo se riesco a trovarlo. Non muoverti!» Le sopracciglia si congiunsero. «Ah, sì. Eccolo, vicino alle tende.» Trasse un pesante respiro. «Ti consiglio di avvicinarti alle tende molto silenziosamente, e facendo grande attenzione. Isak Med è occupato, e non gradirà interruzioni». Sorren si sentì mancare le ginocchia dalla gioia. Si piegò con deferenza. «Grazie, lehi». Senta la tirò su in piedi. «Non ringraziarmi, piccola! Vai, ma fai attenzione: avvicinati silenziosamente, molto silenziosamente. E ricordami alla
tua padrona». Perché... Sorren non ebbe il tempo di domandarsi il motivo di tante precauzioni. Ricordando la raccomandazione della Maga di avvicinarsi senza far rumore, si portò sul retro del padiglione. L'erba era alta, poco calpestata; un bambino poteva facilmente passare inosservato là in mezzo. «Riat!», chiamò piano. Girò intorno alla prima tenda, poi alla seconda. «Riat!», ripeté: Le parve di udire una risatina e si voltò, ma non scorse nulla. «Riat, ti prego!», bisbigliò. Era difficile distinguere le forme dalle ombre; i raggi della luna striavano l'erba e le pieghe delle tende con scie argentee. Tutt'ad un tratto, dalla seconda tenda uscì un uomo. Era alto, ed i suoi capelli luccicarono fulvi. Benché avanzasse rapido e deciso, qualcosa di furtivo trapelava dai suoi modi. Senza alcun indugio, Sorren si appiattì contro un lato della tenda, dove il gioco di luci ed ombre confondeva l'occhio. L'uomo si guardò intorno con un gesto rapidissimo, dopodiché abbassò il cappuccio sulla faccia e si allontanò. Sul mantello non portava emblemi, ma a Sorren era bastato lo spazio di un istante per vederne chiaramente il volto e riconoscerlo. Era Ron Ismenin. Lo stupore le fece quasi dimenticare la preoccupazione per Riat. Cosa era andato a fare lì il capo degli Ismenin, nel cuore del Distretto dei Med? Un fruscio nell'oscurità le ricordò lo scopo della sua missione. «Riat!», bisbigliò e si gettò a terra. Le sue dita si strinsero intorno ad un lembo di stoffa. Afflitta, si rialzò. Ma stavolta, senza ombra di dubbio, udì una risatina, chiara e distinta nel silenzio. «Riat, vieni subito qui», disse, senza alzare troppo la voce. Qualcuno parlò dall'interno della tenda. «È un bel gruzzolo di danaro, mio Signore. Si vede che desideri molto la morte di tua sorella!» Sorren si voltò di scatto quando la voce di Isak, in un tono che era ad un tempo divertito e minaccioso, rispose: «Hai ragione! La desidero al punto da pagare per ottenerla... e, se dovessi fallire, allora pagherò qualcun altro per eliminare te». «Oh, non fallirò!», disse l'altra voce in tono sicuro. «Ho anch'io un conto da regolare con la Famiglia Med. Vuoi che agisca stanotte?» «Sì, il momento è favorevole: la Guardia è tutta impegnata nelle strade. Sai che il tuo complice è... il giocoliere». «Chiamiamolo «compagno», mio Signore. Suona meglio.» Seguì un tintinnio di monete. «Denaro nuathano, Signore?»
«Preferisci doverti fermare alla Porta per cambiare i bonta?» «No». «Allora non fare domande stupide. Hai un'arma?» «Ho una spada. L'ho rubata proprio questa settimana nella Piazza d'Armi dei Med». Isak ridacchiò. «Hm, mi piace! Il tuo compagno - il suo tono si fece ironico - ti condurrà fuori dalla città prima che sia dato l'allarme. Ti importuna la presenza degli Asech?» «Riesco a sopportarli». «Vivrai per qualche tempo con loro, finché non sarò chiamato a succederle. Allora tornerai in città». «Forse non potrò, Signore.» La voce dell'uomo era secca. «Farai come riterrai opportuno». «Papà!», gridò Riat. Balzò fuori dall'erba alta. Sorren ne vide la figura stagliata contro la luna mentre si infilava nella tenda. «Papà, posso andare anch'io? A me gli Asech piacciono!» Nella tenda, i due uomini rimasero sorpresi. «Riat, cosa ci fai qui?», disse Isak. «Mi stavo nascondendo da Sorren, e volevo trovarti. Papà, là fuori c'è una signora con un serpente che ti somiglia!» «Sorren... chi diavolo è?», disse l'altro. «Tappati la bocca!», intimò Isak. «È la mia ex percussionista, la serva di mia sorella. La ragazza del nord». «Ah. La puttanella del Maestro della Piazza. Vado a vedere.» Sorren allargò le dita che stringevano il lembo della tenda e, in batter d'occhio, si gettò nell'erba, col ventre piatto al suolo. Strisciò il più vicino possibile alla tenda e si tirò addosso la stoffa che pendeva libera. Un uomo uscì allo scoperto e si mise a camminare tutt'intorno. Sentì il trepestio degli stivali ad un palmo dal suo mento. Trattenne il respiro. «Non la vedo!», gridò l'uomo, e tornò dentro la tenda. Fulminea, Sorren rotolò via rifugiandosi nella macchia d'ombra che si proiettava dalla tenda adiacente. Era scossa dai brividi. Respirò profondamente finché il tremito non si fu calmato. Se avessi con me l'arco, pensò. Si alzò e, con passo fermo, si avviò verso l'apertura della tenda. «Riat!», gridò. Riat gracchiò dalla tenda. Un lembo si aprì verso l'esterno e due uomini uscirono nel lucore della luna. Uno era Isak col figlio in braccio, l'altro girò intorno alla tenda e scomparve in direzione del padiglione. Sorren
trovò familiare la sua andatura ma, oltre a quella, non riuscì a vedere altro dell'uomo. La puttanella del Maestro della Piazza, era così che l'aveva chiamata. Cercò di fingere di non essersi accorta di Isak, ma il cuore le era già balzato in gola quando lo vide avanzare verso di lei. Era vestito di soffice cotone azzurro, ed il suo volto era privo di trucco. Sorrideva debolmente. «Riat,» disse, «non è gentile da parte tua far preoccupare Sorren. Lei è responsabile di te.» Depose il piccolo sull'erba. «Papà, chi era quell'uomo?» «Un mio conoscente: non pensare a lui!» Guardò Sorren al di sopra della testina scura del bambino, e la ragazza fece appello a tutto il suo sangue freddo per sostenere quello sguardo. «Signore, mi ha terrorizzata. È quasi un'ora che lo sto cercando.» La voce le tremò, malgrado gli sforzi. Ci avrebbe fatto caso? «Davvero?» Isak posò una mano sulla spalla del figlio. «Riat, sei stato cattivo! Scusati con Sorren per averla fatta stare in pena». «Mi dispiace,» disse Riat. «Papà, vieni a vedere la signora?» «No. Sorren, come ti è sembrata la Danza?» «È stata bella, ma le percussioni erano troppo forti». «Lo so,» disse Isak. «Dovevi esserci tu! Dove vai adesso?» La ragazza allungò una mano verso Riat. Il monello le scivolò via di mano. «Vado a riportare questo diavoletto a sua madre, se me lo permetterà». «Lo farà.» La mano di Isak afferrò di scatto il polso del ragazzino. «Tu vieni con me, mocciosetto.» Si allontanarono quindi verso l'apertura della tenda. Sorren si appoggiò le mani sulle guance. Si sentiva gelata ed arsa dalla febbre nello stesso istante. Cercò di capire chi fosse l'altro uomo. Qualcuno che conosceva... o che conosceva lei. Sapeva per certo chi fosse il giocoliere: si trattava di Jeshim. Era facile. Isak stava parlando a Riat con dolcezza; il bambino annuiva. Probabilmente stava istruendo il piccolo a non dire nulla a sua madre a proposito di «quell'uomo». Guardiano, ora ho bisogno che tu stia con me. Doveva tornare indietro, a cercare Paxe. Isak e Riat riapparvero. «Eccoti qua,» disse Isak. «Chelito, ci vediamo domani.» Sorrise di nuovo a Sorren e si allontanò. «Ciao, papà!», gridò Riat. Sembrò che stesse per correre da Isak, e Sorren lo prevenne afferrandolo per la camicia. «Non scappo: lasciami!» Sorren lo lasciò. Riat rimase fermo a guardare suo padre. «Ho un segreto!», disse con orgoglio.
«Beh, allora non dirmelo!», disse Sorren. Lo sollevò dal suolo e se lo caricò sulle spalle. Il ragazzino le infilò le dita tra i capelli. «Ho-ho, vai cavallo!», comandò. Sorren gli lasciò il piacere della finzione trotterellando attraverso il parco in direzione dell'albero più alto, e cercando con lo sguardo le Guardie dei Med. Il cuore le martellava in petto, e sentiva le ginocchia flosce. Disse a se stessa che c'era troppa gente in giro, che non sarebbe accaduto nulla nel parco. La bambina stava piangendo, e Myra stava camminando avanti e indietro, cullandola per calmarla. Sorren fece per far smontare Riat. «Dove siete stati?», chiese Arré, aggressivamente. «Sono scappato,» disse Riat. «Ho visto una signora con un serpente, e papà!» «Mi è sfuggito di mano e ci ho messo un sacco di tempo per trovarlo,» spiegò Sorren. «Sono stanca,» disse Arré. «Va' a chiamare le lettighe, piccola. Myra, ti faccio scendere a casa di Isak». Myra annuì. «Riat, non dovevi allontanarti per tanto tempo!». Kathi si era addormentata, rannicchiata sulla coperta con lo zufolo stretto nel pugno. Addormentata, somigliava ad Arré. Sorren si recò all'ingresso del parco per chiamare i portatori delle lettighe. Doveva trovare Paxe! Scorse una Guardia dei Med e gli afferrò la camicia. «Dov'è il Maestro della Piazza?» Il soldato alzò le spalle. «Per favore, è importante! Arré Med vuole vederla». L'espressione del soldato mutò all'istante. «Perché non lo hai detto subito?» Fischiò il segnale a due note. Dopo qualche secondo, il suono si ripeté dalla direzione del padiglione. «È da quella parte,» indicò. «Grazie!», disse Sorren. Fissò lo sguardo verso il padiglione, in attesa che la folla si facesse da parte per lasciar passare Paxe... Il respiro le raschiava la gola: le parole che aveva udito nella tenda gli ardevano nella mente come un tizzone infuocato. «Hai una buona memoria!», le disse nel pensiero la voce di Kadra. «Eccola là!», le mormorò la Guardia in un orecchio. Sorren sbatté le palpebre: Paxe stava camminando verso di lei, allegra e sorridente. Guardiano, fa' che lei sappia cosa è giusto fare, pensò poi, finalmente, il suo disperato auto-controllo si frantumò e, tra i singhiozzi, si gettò nelle braccia di Paxe. Capitolo ventunesimo
Non ti credo!», disse Arré. Paxe rimase in silenzio. Nella penombra della camera da letto, Arré camminava instancabilmente da una parete all'altra, sfiorando con le dita i paraventi e sorreggendosi ai mobili con mani malferme. I rumori dei bagordi che si consumavano giù in strada giungevano alle finestre, sospinti dal vento della notte. Paxe attese che Arré la smettesse con quel frenetico va e vieni. Udì il fievole pah-pah-dum dei tamburi di Sorren; il suono, però, anziché provenire dalla camera della ragazza, giungeva dalla sommità della scala. Giù in cucina, Lalith stava strofinando le pentole già pulite. Arré si avvicinò alla finestra. Il paravento era scostato, e mostrava la vista del giardino. Paxe si accostò a lei e le cinse il corpo con tutte e due le braccia. Arré stava tremando, il volto irrigidito nel chiarore della luna. «Sto bene!», mormorò, adagiando la fronte sul seno di Paxe. «E ti credo.» Si riempì i polmoni con un lungo respiro. «Il mio fratellino! Il mio assassino! Stupido fratellino! Cosa faccio adesso? Cosa devo fare?» Pian piano si stava riprendendo dallo shock iniziale. Paxe la tirò via dalla finestra. «Sorren sta suonando sulle scale, così può tenere sotto controllo la porta principale. Lalith è in cucina: le ho detto di far rumore. La porta della cucina è sprangata dall'interno. Le Guardie, le poche rimaste intorno alla villa, occupano le postazioni consuete». «Sono al corrente? Le hai informate?» «No. Dovevo dirlo a te per prima. Dammi mezz'ora, ed avrò un muro di uomini a difesa di questa casa.» Il cuore di Arré pulsava rapido come quello di un uccello. Paxe le sollevò la testa e la baciò sulle labbra. Le trovò salate; aveva pianto così silenziosamente da non farsi sentire. «No, nika,» le sussurrò Paxe. «Non ti accadrà nulla, lo giuro!» «Non riesco.» Si staccò con delicatezza dall'abbraccio di Paxe e riprese a camminare nella stanza. «Non credevo che sarebbe arrivato a pagare qualcuno per farmi ammazzare». «Cosa credi che sia, un esercito?», disse Paxe. Si strofinò le mani sulla faccia. La sua pelle era tesa e compatta. «La gente fa qualsiasi cosa per il danaro». «No,» disse Arré, «un esercito è un'altra cosa.» Si voltò. «La gente fa qualsiasi cosa per danaro? Basta pagare per ottenere lealtà... amore?» «No,» disse Paxe. «Questo no». I festanti dabbasso si erano fermati sotto la finestra della villa per deci-
dere quale sarebbe stata la loro prossima tappa. Restate qui ed azzuffatevi, pensò Paxe. Forza! Ma la vicinanza della villa li metteva in agitazione, e preferirono allontanarsi, continuando a chiacchierare. Pah-pah-dum. Era Sorren: dopo la crisi di pianto, si era calmata ed aveva ritrovato la lucidità mentale. Era stata lei a suggerire di piazzare Lalith in cucina a fare tutto quel tramestio. «Quanti saranno?», domandò Arré. «Finora sappiamo di due uomini: il lanciatore di coltelli ed un altro. Ce ne potrebbero essere altri». «Non voglio feriti tra noi». «Qualcuno dovrà pur fermarli, Arré!» «Potremmo spaventarli e farli fuggire». «E rischiare che ci riprovino? Vuoi passare la tua vita e guardarti alle spalle?» Le sue parole risuonarono sonoramente nella quiete della casa. Le percussioni di Sorren si arrestarono, per poi riprendere dopo un istante. «Se vorranno uccidermi stanotte, dovranno entrare in questa stanza,» disse Arré. «Potremmo lasciarli entrare in casa e prenderli quando arriveranno qui». «Li vuoi sorprendere in flagrante?» «Sì. E li voglio vivi, per sentire da loro chi li ha assoldati». Paxe ipotizzò una strategia tra sé. «Credo che si possa fare, ma devi farmi una promessa». «Quale?» «Che lascerai decidere a me ogni dettaglio dell'azione, e che farai tutto ciò che ti chiederò di fare». Arré rise nervosamente. «Non è facile per me fare delle cose che non abbia deciso io stessa». «Lo so!», disse Paxe. «Ti conosco!» «Prometto. Però mi riservo il diritto di fare delle obiezioni dopo». «Le avresti fatte comunque». Arré si sedette sul letto. Un raggio di luce le attraversò le mani mentre faceva roteare i bracciali. «Credo che non andrò più al nord». «Già!», disse Paxe. «Tuo fratello non è fatto per governare. La sua mente è avvelenata». Arré si sforzò di sorridere, ma il suo sorriso si mutò in un brivido. «Tarn Ryth resterà deluso». «Capirà, quando saprà i motivi che ti hanno impedito di partire». Arré sbatté il pugno sul letto. «Nessuno dovrà sapere! Voglio che ri-
manga una faccenda privata, Paxe. Devo dire a tutta la città che mio fratello sta tentando di uccidermi?» «Farò il possibile per non divulgare la notizia,» assicurò Paxe. «E cercherò di fare in modo che non ci siano feriti. Nessuno lo saprà, tranne te, me e Sorren, e coloro ai quali tu deciderai di dirlo». «E la Maga della Verità,» aggiunse Arré. «Mi domando...», cominciò, lasciando poi la frase incompiuta. «E mio fratello...» Paxe ordinò ad Arré di seguire Sorren nella sua camera da letto. «Non dovrete uscire di qui finché non verrò io a chiamarvi,» stabilì. «Se pure sentite dei rumori, non vi muovete. E parlate sottovoce». «Devo comportarmi come faccio di solito, o devo fingere di non esserci?». «Comportati normalmente». «Mi metto a suonare?» «Suoni di notte?» Sorren arrossì. «A volte. Cerco di non fare troppo rumore». Paxe le sorrise. «Allora suona un po', poi smetti!» Tornò nella camera di Arré, e prese a sistemarla a modo suo. Piazzò lo sgabello davanti alla porta, dove chiunque fosse entrato sarebbe inevitabilmente inciampato, poi scese in cucina. Lalith era una minuscola ombra irta di treccine. «Mi sento le braccia stanche,» si lamentò. Imbronciata, prese poi a calci una pentola. «Ora esco,» disse Paxe, «voglio che resti ancora un po' a far rumore, poi te ne andrai a letto, e rimarrai là. Questa porta,» indicò con un gesto la porta della cucina, «La chiuderai senza sprangarla. E non alzarti dal letto finché non ti avrò detto che potrai farlo. Intesi?» «Cosa stiamo facendo?», domandò la ragazzina con gli occhi sgranati. «Non importa. Lo saprai dopo.» Paxe si mise a camminare per la stanza, ammucchiando pile di pentole in punti strategici sotto le finestre. Queste sembravano un po' troppo piccole perché vi si potesse passare attraverso, ma era meglio non correre rischi. Lalith la osservò con un cipiglio di disapprovazione. «Non è là che vanno!», disse. «Non toccarle!», ordinò Paxe. «Le metterai a posto domattina.» Tirò leggermente una treccina d'ebano sulla testa di Lalith. «Ricorda: a letto, e senza far rumore!» Ritornò quindi nel corridoio anteriore, passando per le
due sale di ricevimento. La luce della luna si rifletteva sull'alto vetro dell'archivio dove erano custoditi i rotoli di pergamena, ed in esso Paxe vide specchiata l'intera stanza e se stessa, curva sui documenti arrotolati. Poi, come faceva ogni sera da quando aveva cambiato il turno di guardia, uscì per fare il giro di perlustrazione di tutto il Distretto. La notte era ancora fulgida, ma a sud le nebbia si stava ammassando in strati sempre più fitti. Piccole nubi aleggiavano simili ad uccelli nel cielo trapunto di stelle. La sentinella presso l'albero di kava non era che un'ombra, e l'albero... un'ombra più intensa. Si studiò di camminare lentamente, a passi regolari, com'era solita fare. Un gruppetto di festanti uscì da un vicolo e si inerpicò ridendo sulla collina. Nel passare davanti alla villa, tacquero, intimandosi l'un l'altro di non disturbare Arré Med. Paxe si accostò al muro del giardino, e quelli passarono senza notarla. Puzzavano di Erba dell'Estasi e di vino scadente. Si diresse quindi ad est, e poi a nord, lungo il confine del Distretto dei Minto. Superò un angolo dove avrebbe dovuto trovare una Guardia. La postazione era vuota: dov'era finita la sentinella? Drizzò il capo e tese l'orecchio, ma non udì nulla: non una voce, non le grida di un alterco, né un rumore di passi. Sorprese il soldato in una macchia d'alberi, alle prese con una pipa ben piena di Erba dell'Estasi. Gli si avvicinò di soppiatto da tergo, lo afferrò per i gomiti, e conficcò le dita nel nervo dell'articolazione. La pipa gli guizzò via dalle mani. Fu poi la volta dell'uomo che aveva abbandonato il posto: lo sollevò in aria e lo scaraventò al suolo con ferocia. L'urto col terreno lo fece vibrare dalla testa ai piedi. «Cinque frustate se ti sorprendo di nuovo a fumare!», gli bisbigliò nell'orecchio. L'uomo vacillò, mentre si girava a guardarla. «Maestro della Piazza...» «Non inventare scuse, e torna al tuo posto!» Il soldato si raddrizzò e si ritirò nell'angolo. Paxe cercò a terra la pipa caduta. Trovatala, la raccolse ed aspirò con tutta la sua forza. L'erba luccicò per un istante prima di finire nel giardino di qualche sconosciuto. Giunta al cancello del Tanjo, si fermò - com'era suo costume - a scambiare qualche parola con la Guardia di turno. Le curve della cupola rossa si stagnavano nette si da sembrare dei luccicanti ritagli di carta. L'ombra di un uccello attraversò il viso tondo della luna piena. «Sono irrequieti,» disse la Guardia. «Senti come tubano? Le luci li tengono svegli». Lo sguardo di Paxe cercò gli appartamenti del L'hel, ma stavolta non e-
rano illuminati. Ancora una volta si domandò perché la Maga della Verità avesse raccomandato a Sorren di avvicinarsi silenziosamente alla tenda di Isak. Quella raccomandazione era valsa, probabilmente, a salvare la vita di Arré, e forse anche quella di Sorren. Paxe si chiese se Isak avrebbe ucciso immediatamente la ragazza nell'ipotesi che avesse udito i particolari di quel complotto mortale. Forse non l'avrebbe fatto davanti a suo figlio ma, in un modo o nell'altro, avrebbe certamente eliminato Sorren. Piegò verso nord. Giunta al parco, ebbe un attimo di esitazione, poi proseguì. Ormai Lalith doveva aver cessato di darsi da fare in cucina. Completò rapidamente il giro di ronda. Sentiva i muscoli rigidi: era in servizio da parecchio, fin da quando il padiglione aveva cominciato ad ospitare gente, ed era spossata. Fece un cenno alla Guardia al cancello e le disse qualcosa ad alta voce, sperando che molti orecchi la udissero. «Vado a casa a riposare un po': svegliami, se hai bisogno di me». Prima di andare alla villetta, fece una breve sosta nella Piazza d'Armi. La luna proiettò sui muri i contorni ben delineati dell'alta figura. Da lì, si recò al villino. Il gatto le miagolò un saluto perplesso e lei lo carezzò finché non le fece le fusa. Salì in camera da letto ed accese la lampada, sperando che gli assassini fossero lì fuori e, vedendo la luce, pensassero che stesse per coricarsi. Camminò nella stanza, fece tintinnare la bacinella ed il vaso, producendo in tal modo i rumori che quelli si aspettavano di sentire poi, finalmente, spense la lampada. Si distese sul letto nella luce incerta della notte e rimase immobile. Il sudore cominciò a stillarle copioso dalla fronte. Aveva paura. Cercò di indovinare in quanti potessero essere ad agire; due, tre, quattro, cinque? Devono assolutamente venire stanotte, pensò. Oh, Guardiano, fai che vengano stanotte. Arré non acconsentirà mai a vivere scortata da un esercito, sempre sorvegliata, sempre terrorizzata. .. Aguzzò l'udito. Voleva sentire il tamburo di Sorren, ma la casa era troppo lontana perché il suono potesse giungerle. Le sembrava che il letto fosse irto di sassi, e dovette faticare per restare immobile a contemplare la luna che mondava l'assito. Fa' che vengano stanotte! Cominciò a sentire freddo e contrasse i muscoli, riscaldandoli in vista del lavoro che li attendeva. Non era passato molto tempo, quando si udì in lontananza un clamore. Se l'era aspettato: un litigio preparato, un furto simulato, insomma, una
distrazione qualunque, avrebbe dovuto attirare l'attenzione delle Guardie. Con una flessione delle dita, delle cosce e del collo, si alzò dal letto. Scese di sotto nel massimo silenzio. Aprì la cassa di legno di cedro e ne trasse la spada del nord. Era riuscita a scrostarne la maggior parte della ruggine. La luce brillò sulla lama levigata di fresco. Immaginò che Tyré la stesse guardando da lì dove si trovava, e cercò di far tacere la sua mente per udire il richiamo dell'anima del vecchio ceari, ma il battito tonante del suo cuore fu l'unica voce che interruppe il silenzio. Niente le parlò dalla piana desolata della morte. Infilò la spada nel fodero e, stringendolo forte a sé, aprì la porta della villetta. La luna fluttuava in mezzo ad una ragnatela di nubi. Attese che la luce si offuscasse, poi richiuse la porta ed attraversò di corsa il cortile verso il retro della villa di Arré Med. La grondaia del tetto disegnava una vasta ombra sull'ingresso. Le pentole poggiate sul pavimento della cucina erano rimaste nel punto in cui erano prima. Paxe ne pose una pila davanti alla porta; sarebbero cadute rumorosamente al minimo movimento. Senza sprangarla, si allontano verso le scale; salì in camera di Arré e si sdraiò sul Ietto. Entrarono dalla porta sul retro, come lei aveva previsto, ed inciamparono sulle pentole, dandole il segnale che aveva sperato di udire. Si alzò e sguainò la spada. Stavano attraversando il corridoio diretti alle scale, e camminavano in fretta. Udì una voce ed il rumore di un oggetto caduto. Si domandò cosa fosse. Non sentiva ancora crescere l'ira dentro di sé, e pregò affinché essa la pervadesse, così come si prega per la pace... Guardiano, accendi la furia in me! Con un calcio, mandò il fodero a finire sotto il letto, e cercò di rievocare le ferite del passato, gli antichi odii, qualunque cosa servisse a far scoccare la scintilla della necessaria furia assassina. Salirono di sopra. Calzavano degli stivali, e Paxe contò ogni passo. Un uomo bisbigliò: non distinse le parole, ma la voce le suonò familiare. Il sangue le pulsava nelle vene. Si avvicinarono: Paxe si appiattì contro le parete, contando... uno, due, tre, quattro. In quattro per uccidere una donna minuta, pensò, e una rossa rabbia cominciò a divamparle nella testa come un incendio, come aveva pregato e sperato che accadesse. Soltanto così poteva tener fronte agli assalitori. Entrarono: uno, due, tre... il quarto rimase fuori. Balzò su di loro, e recise al primo la gola mentre questi scattava verso il letto vuoto impugnando un coltello. L'uomo crollò sul pavimento tra fiotti di sangue. Paxe sfilò la spada dal
suo corpo e si avventò sul secondo. Questi cercò di disarmarla: lei arretrò per schivare il colpo e sferrò un fendente che gli attraversò l'addome, tranciandogli le costole. Quello gridò come un maiale e si piegò su se stesso arginando la ferita con le mani. Il quarto uomo si lanciò nella stanza: la lampada vacillò cadendo sul tavolo, e l'olio si riversò sul pavimento. Paxe lo riconobbe: era Seth, che le sorrise dalla parte opposta della stanza. «Avevo immaginato che fossi tu!», disse. Brandiva una spada. Paxe riconobbe anche quella: tre notti prima si trovava nell'armeria della Piazza d'Armi. L'altro uomo aveva un lungo coltello, che teneva per la punta. «Lascia stare, amico: questa la voglio io!» «Ah sì?», disse Paxe. Puntò la spada contro di loro e, avvicinatasi alla porta, la spinse chiudendola. «Eccomi allora: forza!» Il lanciatore di coltelli si fece indietro mentre Seth si lanciava all'offensiva. Attaccò con un fendente che finì per tagliare un paravento. Paxe si abbassò fulmineamente per schivare il colpo, e sentì il sibilo della lama sulla testa. Attaccò a sua volta, ma Seth si portò dall'altro lato del letto che ospitava il cadavere del primo aggressore. «Ora!», gridò Seth. Il lanciatore di coltelli si mosse, e Paxe vide la lama sfrecciare luccicando. La colpì nella parte superiore del braccio: il dolore le infiammò la carne. Grugnì, poi lo cancellò dalla mente. Mentre il lanciatore cercava la seconda lama, lo colpì. L'uomo gridò. «Dannazione!», disse Seth. I piedi di Paxe scivolarono sulla macchia d'olio mentre l'uomo si avventava su di lei, e la spada le sfuggì di mano. Il fendente di Seth mancò il bersaglio. Anche lui scivolò e perse l'equilibrio, agitando la spada freneticamente. Paxe gli afferrò il polso con la mano sinistra, ignorando il dolore che gli estorse un grido, e gli bloccò il gomito con la destra, costringendolo ad arretrare contro la parete di legno. Lottarono. L'uomo ringhiava, selvaggiamente. Paxe sollevò un ginocchio e lo spinse tra le cosce di lui più forte che poté. Seth urlò, e la spada gli cadde di mano. Paxe lasciò che si inginocchiò poi, con una torsione brutale, gli spezzò il gomito destro. Il suo avversario crollò a terra, privo di coscienza, o quasi. La porta della stanza si aprì all'improvviso. Sorren apparve con una candela nella mano sinistra ed una mostruosa mannaia da cucina nella destra. Paxe si appoggiò alla parete ed imprecò contro di lei. «Ti avevo detto di non uscire dalla stanza!» «Dovevo farlo!», disse Sorren, e sollevò la lampada rovesciata., Ombre arancioni sfidavano il lucore lunare. I suoi occhi si posarono a turno sugli
uomini immobili. «Sono morti?» «Tre lo sono». «Quello è Jeshim?» «Il giocoliere? Sì, è lui». Le Guardie salirono di corsa i gradini. «Maestro della Piazza, cosa...» Paxe raccolse la spada, e lanciò un'occhiata a Seth, che gemeva con le mani tra le ginocchia. «Portate fuori i corpi. Attenta alla lampada!», gridò a Sorren. «C'è dell'olio sparso per terra». D'improvviso, la tensione sortì i suoi effetti. Il dolore del braccio la fece ondeggiare, e sentì Sorren muoversi accanto a lei. Poi la luce oscillò e roteò vertiginosamente... «Sei ferita!», disse Arré. Le stava di fronte, scrutando il suo volto. «Hai del sangue sulla camicia: ce la fai a camminare, o preferisci restare qui?» «Posso camminare!» disse Paxe, e si lasciò condurre nella stanza di Sorren. Qui si accasciò sul letto e depose la spada ai suoi piedi. Nella casa c'era un trambusto di persone: Lalith, Toli, ed il cuoco furioso e indignato. Sorren andò a prendere dell'acqua, ed Arré si sedette sul letto accanto a Paxe, cingendole la vita con un braccio. «Chi erano?», chiese. «Jeshim, il giocoliere, quello che lanciava i coltelli alla festa di fidanzamento. Seth, una Guardia fuggita qualche tempo fa: un disertore. Gli altri due non li conosco». «Nessuno di loro è rimasto vivo?» «Seth. Hai detto che ne bastava uno.» Il sangue le colava lungo il braccio. «Dammi qualcosa per tamponarlo!» Arré si guardò intorno, poi si tolse la camicia e la diede a Paxe. «Fa male?», le domandò. «Non so dirlo.» Premette la camicia sul taglio ed imprecò. «Me la sono meritata!», mormorò. Era stata una stupida: non avrebbe dovuto dar loro l'opportunità di avventarsi su di lei. «Cinque anni fa, non sarebbero riusciti a toccarmi». Il cuoco entrò recando una bacinella colma d'acqua. Lalith lo seguiva dappresso con un panno bianco. «Fatemi vedere,» disse l'uomo ad Arré, che si spostò senza indugio. Il cuoco si sedette ed appoggiò le bacinelle sul pavimento. «Un bel lavoretto!», disse a Paxe, sollevando la camicia di Arré dalla ferita. «Mettilo qui!», ordinò quindi a Lalith indicando le sue ginocchia con la punta del mento. La ragazza depose il panno e ne aprì i due lembi laterali, scoprendo una borsetta di polvere verde, del filo, ed un
lungo ago curvo. «Dove sono quelle strisce che ho detto a Toli di preparare?», Lalith corse fuori per ritornare dopo un istante con una grande quantità di strisce di stoffa. Il cuoco ne immerse una nell'acqua e ripulì la ferita dal sangue: Paxe strinse i denti per sopportare il bruciore. «Bisogna cucinare!», annunziò l'uomo. «Tu sai farlo?», disse Arré. «Non c'è poi tanta differenza dal ricucire un'oca imbottita.» Guardò il viso di Paxe. «Lalith, credi che Toli abbia un po' di Erba?» La ragazza annuì. «Portala qui, ed anche una pipa». Lalith tornò poco dopo con una pipa d'argilla piena della potente erba verdastra. Sorren l'accese e l'accostò alle labbra di Paxe. Questa aspirò con gratitudine riempiendosi i polmoni, dopodiché si appoggiò con le spalle alla parete, mentre il cuoco ripuliva, spolverizzava e infine suturava la lunga e brutta ferita. «A giudicare dalla profondità del taglio, è strano che il pugnale non vi sia rimasto conficcato dentro,» osservò il cuoco. «Si è mosso nel momento del lancio, ed anch'io mi sono spostata. Il movimento ha rovinato il tiro.» Paxe sorrise. L'Erba dell'Estasi stava facendo effetto. «Puntava al cuore, od alla gola». Il cuoco legò saldamente l'ultimo nodo della benda che sosteneva tutta la medicazione. «Dovresti recarti da una Guaritrice,» consigliò. «Sì, forse ci andrò,» disse Paxe. «Grazie, hai fatto un ottimo lavoro!» «Oh, è stato più facile di quanto sembri,» disse il cuoco improvvisamente imbarazzato. «Ti cucinerò del brodo nei prossimi giorni.» Quando raccolse la bacinella, le bende insanguinate e l'ago, il suo occhio scorse la mannaia. «Cosa ci fa qui quella?» Si rivolse poi a Lalith con uno scatto della testa. «Forza, andiamo, lo spettacolo è finito!» S'incamminò quindi lungo il corridoio facendo rimbombare il pavimento sotto i passi pesanti. La stanza sembrava oscillare... Paxe sorrise, intorpidita dai fumi dell'erba. «È tutto finito?», disse Sorren. «No,» rispose Arré. «Soltanto questa parte è conclusa.» Poi sollevò la mano destra di Paxe e la baciò. «Non so cosa dire per ringraziarti». «Tu mi hai chiesto di farlo!», disse lei, e si raddrizzò. Il dolore le scoppiò nel braccio sinistro, e la sensazione di fluttuare nell'aria dovuta alla droga scemò in parte. Una delle Guardie era in piedi nel vano della porta. Paxe la notò. «Sì?», chiese. «Signora,» disse la Guardia, ed Arré alzò gli occhi. «Signora, scusami...
puoi venire di là?» «Cosa c'è?», disse Arré. Guardò Paxe. Insieme seguirono la Guardia giù per la scala. Qualcuno aveva acceso le lampade. Il chiarore mostrò il corpo di Elith disteso sul pavimento tra la sala grande ed il corridoio: le Guardie lo avevano coperto con una vecchia coperta che mandava un forte puzzo di stalla. Paxe si inginocchiò accanto all'anziana donna: la Guardia le scoprì il volto, e Paxe le toccò le labbra secche. Gli occhi, immoti, erano spalancati. Sollevò il peso flaccido d'una grassa mano. «Deve averli sentiti entrare ed è andata a vedere chi fosse,» disse la Guardia. L'avevo dimenticata, pensò Paxe. Si alzò, colta da nausea. Mi sono dimenticata di avvertirla. «Me n'ero dimenticata,» disse Arré. «Gira sempre per tutta la casa... lo faceva sempre di notte. Non ho pensato a lei. Perché non ho pensato a lei?» La faccia le si contorse per il dolore, improvvisamente rigata di lacrime. La Guardia coprì di nuovo il cadavere della vecchia. Paxe posò la mano sul braccio di Arré. «È stata colpa mia!», disse. «Era compito mio pensarci. La colpa è mia!» Arré singhiozzò come una bambina e tacque. «La colpa è di Isak,» sentenziò Sorren. «La colpa è sua!» Arré alzò gli occhi. «Sì,» disse. «Isak! Dov'è quell'uomo? L'unico sopravvissuto?» «In cella». «Portate... portate via il corpo di Elith, e conducetelo qui.» Tirò a sé una delle grosse poltrone e vi si sedette. «Paxe, ce la fai a rimanere? Sorren, portami del vino». «Ma... puoi?» «Oh, per il Guardiano! Solo un po'! Prendine un po' anche tu.» Quindi piegò la testa da un lato. «Paxe, lo conosci?» «Sì, lo conosco,» disse Paxe con amarezza. Condussero Seth nella sala. Con sommo piacere, Paxe notò che camminava con grande difficoltà. Qualcuno gli aveva fasciato alla meno peggio il gomito fratturato utilizzando una pezzuola e del semplice spago. Sorren portò due bicchieri di vino, uno per Arré e l'altro per se stessa. Seth fissò Arré, poi abbassò gli occhi indugiando sui suoi seni nudi. «Vai a prendere una camicia,» disse Paxe a Sorren. Si avvicinò quindi all'uomo e serrò la mano destra intorno ai suoi capelli. Accostò la faccia
alla sua, e con voce sommessa minacciò: «Tra poco potresti essere morto, ricordalo!» Il volto di Seth si fece grigio ed i suoi occhi si contrassero. Paxe mollò la presa ed arretrò di qualche passo. Sentiva il braccio ferito pulsare violentemente, ma la droga attenuava lo spasmo rendendolo meno reale. «Il Maestro della Piazza dice che facevi parte del mio Corpo di Guardia,» cominciò Arré. «Perché abbandonasti il servizio?» «Non mi piaceva il modo in cui venivo trattato,» rispose quello, con lo sguardo rivolto a terra. Sorren portò una camicia ad Arré: aveva preso una delle sue, e per Arré era enorme. «Non sono potuta entrare in camera tua!», spiegò. «L'olio... Toli sta pulendo». Arré indossò la camicia. «Come ha fatto mio fratello a trovarti?» Seth si strofinò il mento con la mano sana. «Sono stato io a trovare lui. Seppi che non andavate molto d'accordo. Pensai che forse mi avrebbe preso al suo servizio». «E lo ha fatto?», disse Paxe. «Lavoro per lui da circa un mese». «Ecco perché non riuscivano a trovarti!», disse Paxe. «Secondo il piano, cosa dovevi fare dopo avermi uccisa?», chiese Arré. «Dovevo fuggire nella terra degli Asech. Il giocoliere avrebbe organizzato tutto il resto». «Chi erano gli altri?», disse Paxe. Seth fece per stringersi nelle spalle, poi ritenne fosse meglio rispondere. «Assassini di professione di Via dell'Olio». Arré bevve un sorso di vino. «Sai cosa può accaderti adesso?», gli disse. Seth si passò un dito sulla gola in un gesto dal significato universale. «Sì,» confermò Arré. «Ma io non ho intenzione di farlo. Voglio che tu viva affinché possa testimoniare contro di lui. Dopo, vedremo». Indirizzò un cenno alle Guardie invitandole a condurlo via, poi guardò Paxe. «Potevi sederti,» disse. Sorren si affrettò presso una delle poltrone e la girò in modo da porla di fronte a quella occupata da Arré. Paxe si sedette: l'imbottitura era così comoda e soffice, che temette di addormentarsi all'istante. Mosse il braccio ferito perché il dolore la tenesse sveglia. Arré si strofinò gli occhi. «E adesso?», chiese. «Lascia che vada a prenderlo,» disse Paxe. «È un membro di una Famiglia Nobile. È necessaria una delibera del Consiglio, altrimenti non è obbligato a seguirti.» Non era necessario che
chiedesse a Paxe a chi stesse alludendo. Un rigurgito tardivo dell'ira che aveva posseduto Paxe nella camera da letto di Arré, fece rabbrividire il Maestro della Piazza. «Vorrei proprio vederlo mentre prova a sfidarmi. Lo affronterei: non importa che abbia il braccio ferito». «No,» rispose Arré. «Lui... Myra è qui. E ci sono i bambini». Il cielo cominciava ad impallidire ad oriente. Sotto le finestre si udirono rotolare i primi carri. «Non è detto che debba saperlo,» osservò Paxe. «Se il suo piano avesse avuto successo, a quest'ora sarei dovuta andare a casa sua per informarlo della tua morte e per chiedergli cosa fare. Lasciamo che pensi che tutto si è svolto secondo i piani, fino a quando non sarà fuori dalla sua casa». Arré si avvolse intorno un lembo della camicia di Sorren quasi fosse una coperta. «D'accordo!», disse. «Fai così». «Bene!», disse Paxe. Il dolore era lancinante, e desiderò di non essere costretta muoversi. Con un sospiro fece appello alla sua forza e si alzò. «Cosa gli farai?», domandò Sorren. «Non lo so!», fu la risposta di Arré. «E a Ron Ismenin?» «Ron Ismenin? Cosa c'entra lui?» «Era là,» disse la ragazza. «L'ho visto uscire dalla tenda prima di sentire le voci. Non mi ha vista». «Ron Ismenin,» ripeté Arré. «Quel... quel...», le parole le vennero meno. Si sfilò uno dei bracciali d'argento - quello grande, con la pietra azzurra - e lo porse a Sorren. «Prendi questo, piccola: ti servirà come lasciapassare. Vai nel Distretto degli Hok e portami qui Marti». Un'ora dopo, Arré si trovava faccia faccia con suo fratello nella sala piccola. Non era sola con lui: Paxe ed un'altra Guardia erano presenti. Le ginocchia le tremavano, e riuscì a frenare il tremito con grande sforzo. Il mio fratellino! pensava. Lo scrutò intensamente, cercando in quel volto attraente e malvagio il viso del ragazzino che un tempo aveva amato e col quale aveva passato liete ore di gioco. E quelle sembianze le rammentavano tanto Riat. Isak si era vestito in tutta fretta, senza mettere i gioielli che era solito portare; Paxe gli aveva detto che sua sorella era morta, e lui aveva preso le prime cose che gli erano capitate sotto mano ed era uscito di casa, lascian-
do Myra ed i piccoli placidamente addormentati nel sonno della pace e dell'ignoranza. Si sfregò i polsi con un gesto assente, senza mai staccare gli occhi da quelli di lei, ed Arré notò i segni rossi di una corda. Paxe ha detto che non ha opposto resistenza; perché allora lo ha fatto legare? «Ebbene?», disse Isak, mentre Arré si domandava cosa significasse per lui vedere ancora viva sua sorella e quindi constatare che il complotto era fallito. «Perché?», gli chiese. «Perché in quel modo?» «Era l'ultima risorsa,» spiegò lui. «Non lo avrei mai fatto se tu avessi acconsentito ad ammettere gli Ismenin al Consiglio». «Sicché ne erano al corrente?» «Non esattamente. Hanno pagato senza sapere per che cosa. Dopo qualche tempo glielo avrei detto, naturalmente». Era la stessa tattica che aveva adottato con Cha Minto. «Come hai fatto a spillar soldi a Ron Ismenin?» «Abbiamo fatto una scommessa,» spiegò con ironia, «e lui l'ha persa». «Su cosa avete scommesso?» «Una sciocchezza!» La risposta lasciò Arré dubbiosa. Ma poteva - anzi voleva - occuparsi di Ron Ismenin dopo. «Il Consiglio avrebbe dovuto distruggere l'intera città per realizzare le tue ambizioni?» Il lampo di un sorriso baluginò sul volto di Isak. «Tu non hai mai capito!», disse. Per un attimo, pur stremata ed affranta, Arré trovò la forza di odiarlo. Lo odiò perché era sempre bello; più arguto di lei, più dolce di lei, leggiadro ed effimero come il bagliore della luna. Poi l'odio si spense ed in lei restò soltanto la stanchezza. Allargò le mani. «Spiegamelo, allora». «Cos'avresti fatto tu, sorella, al posto mio, se fossi stato confinato in campagna, a controllare i raccolti, a far crescere i figli e le viti: saresti stata soddisfatta di questa vita, Arré?» Un uccellino trillò nel giardino. Qualcuno - forse Lalith - passò in punta di piedi davanti alla porta della sala. «Non lo so,» rispose Arré. «No, dubito che sarei stata soddisfatta, Isak. Ma avrei cercato di trarne il meglio!» «L'ho fatto. Era come vivere in una gabbia». «C'è gente in questa città che darebbe l'anima per una gabbia simile!» «Stupidi!», disse Isak, e tese una mano verso di lei. Paxe si mosse aggressivamente e lui la ritrasse. «Non puoi biasimarmi, Arré, per aver desiderato il potere».
«Io ti biasimo per aver cercato di ottenerlo uccidendo me». «Se tu me lo avessi dato in un altro modo, forse non avrei mai cercato di vederti morta». «Sicché lo ammetti!», fece Arré. Isak alzò le spalle: un bellissimo gesto da Danzatore che gli increspò sinuosamente le mani, le braccia, il collo, e le spalle. «So che hai due testimoni.» Arré annuì. «Sono un uomo pratico; perché dovrei negarlo? Ma ci sei solo tu che mi biasimi per questo». Arré scrollò la testa. «Isak, non credere di convincermi a biasimare me stessa per la tua ambizione. Perché non gettare la colpa sui nostri genitori che mi hanno messa al mondo per prima?» «Oh, sì: la colpa è anche loro!» Arré non resisteva più in piedi. La poltrona le stava accanto; vi si abbandonò stancamente ed alzò gli occhi a guardare Isak. «Ed ora, cosa debbo fare con te?» Isak sorrise. «Io lo so cosa farei se fossi al tuo posto». «Cosa?» Fece scorrere il pollice sulla gola da un orecchio all'altro. Paxe annuì in segno di approvazione in faccia ad Arré. «No,» disse questa. «Non ti voglio morto, benché tutti mi dicono che dovrei». Gli occhi di Isak si assottigliarono. «Ma non ti voglio qui, a Kendra-sul-Delta. Continueresti a tramare contro di me, a spiarmi, ad infastidirmi». «Se io...» «Vuoi darmi la tua parola? No non credo alla tua parola.» Vide il primo sole filtrare attraverso la finestra e si domandò quando sarebbe arrivata Marti. «Voglio che te ne vada». «Un ordine di esilio va firmato da tutti i membri del Consiglio,» obiettò Isak. «Lo sarà. Oggi, al tramonto, sarà proclamata la tua proscrizione; sarai privato del tuo rango, e condotto fuori delle Porte cittadine. Non m'interessa quale direzione prenderai. I vigneti non ti appartengono più; li darò a chiunque mi parrà meritevole di averli». Isak inghiottì. «E Myra?», disse. «Ed i bambini? Anche loro saranno banditi?» «Myra sarebbe disposta a seguirti?» Scrollò la testa. «No. Perché dovrebbe? La vita è dura senza un tetto,
senza amici, senza danaro. Non voglio che i miei figli debbano vivere in questo modo». Arré rigirò i bracciali intorno ai polsi. Vuole che dia i vigneti a Myra, pensò. «Sai che non ti sarà permesso di vederla? Se sarai sorpreso in territorio dei Med, le Guardie ti daranno la caccia come ad un lupo». Isak sorrise. «Non ci sono lupi nei vigneti, Arré. Le ambizioni di Myra sono meno sconsiderate delle mie. Sceglierebbe una vita comoda senza di me, piuttosto che seguirmi in un'esistenza da randagi». «Dove andrai?» Allargò le mani. «Non a monte del fiume. Tarn Ryth non mi vorrà sulle sue terre. E neppure nel Galbareth: morirei di noia. Shirasai forse, o più lontano. Ci sono altre terre». «Nell'Anhard?» «Troppo freddo!» Non sembrava avvilito. Probabilmente contava su Cha Minto o Ron Ismenin per ottenere un po' di danaro. Arré non ne voleva sapere. Erano ormai innumerevoli le ore di veglia forzata; gli occhi le pungevano come fossero cosparsi di sabbia, la bocca le sembrava di cera, ed era stanca, tanto stanca. «Fintanto che resti fuori da Kendra-sul-Delta, non mi importa dove andrai. Portalo via.» Paxe avanzò verso di lui e lo afferrò per un braccio. Per un attimo tutti i suoi muscoli si irrigidirono, poi il Danzatore sorrise e si rilassò, abbandonandosi alla stretta. Arré non riusciva a sopportare di vederlo andare via. Quando riaprì gli occhi, Marti Hok era presso la porta. La vecchia le si avvicinò zoppicando e le poggiò una mano sui capelli. «Quando Sorren è venuta da me stamattina ero già sveglia. Io mi sveglio presto, e rimango a letto ad ascoltare gli uccelli ed i mercanti che sciamano nelle strade diretti alle botteghe. Quando Sorren mi ha chiesto di venire qui, non ho pensato che fosse successo qualcosa di spiacevole. Ho pensato, invece, quanto fosse originale Arré ad organizzare una festa di primo mattino. Ne sono rimasta affascinata». «E poi lei ti ha detto...» «E poi lei mi ha detto...», ripeté la vecchia. «Mia cara, mi dispiace». Arré annuì. Poi allungò la mano verso il campanello e chiamò Lalith. Entrò Sorren. «Dì a Toh di portare un'altra poltrona.» Si alzò. «Siediti, Marti: Tu sei più anziana di me». «Ma sospetto che tu sia più stanca.» Ciò non di meno si sedette. Toli,
con gli occhi ancora incrostati di sonno, portò una poltrona dal salone. Arré si sedette. «Vuoi un po' di tè?» «Sì». Arré suonò di nuovo. Sorren entrò con i capelli intrecciati solo a metà. «Porta del tè, piccola». Il tè fu servito e le due donne presero a sorseggiarlo. Arré sbadigliò. «Cosa vuoi che faccia, Arré?», disse Marti. «Due cose. Voglio che mi aiuti a ottenere le firme dei Consiglieri per l'ordine di esilio di mio fratello». Marti sospirò. «Gli hai parlato? Cosa dice?» «Non dà segni di pentimento». Marti scrollò la testa, non in segno di diniego, ma di tristezza. «Ti aiuterò, naturalmente. Cosa ne sarà di Myra e dei bambini?» «Darò a lei i vigneti: Riat resta il mio erede». «Approvo,» disse Marti. «Qual è la seconda cosa?» «Voglio che tu sia presente quando parlerò con Ron Ismenin». «Era al corrente?», chiese Marti lentamente. «Ha pagato per questo. Isak, però, dice che non sapeva che cosa avesse pagato». Marti sbuffò. «Ron Ismenin è stupido, ma non riesco a figurarmi che paghi per qualcosa senza sapere di che si tratti». «Neppure io,» concordò Arré. «Ma soltanto lui ed Isak conoscono la verità». «Sarò lieta di essere presente quando gli parlerai,» disse Marti amaramente. La ragazza alta entrò nella stanza: aveva arrotolato la lunga treccia sulla sommità del capo, fermandola col pettinino ornato dai lapislazzuli. I suoi occhi erano arrossati, ed Arré si chiese se avesse pianto per Isak. Si inginocchiò dinanzi a Marti Hok, poi si rivolse ad Arré. «Posso andare al molo?», domandò. «Giù al molo? Perché?» «La nave salpa oggi, ed ho promesso ad un'amica che sarei andata a salutarla. È a bordo». «La nave... oh, la nave degli Isara. Chi è quest'amica?» «Si chiama Kadra; è una cartografa». La nave degli Isara le fece pensare al L'hel. Era possibile che lui sapesse del complotto? E Kim Batto? Sapeva? Forse poteva trovare il modo di
chiederlo a Senta-no-Jorith. Guardò torva il pavimento e, quando rialzò gli occhi, scorse Sorren in paziente attesa di una sua risposta. «Scusami, chelito. Stavo pensando. Sì, va' pure. Le promesse vanno mantenute. Sai a che ora salperà?» Sorren scrollò la testa. «Oggi la marea salirà quattro ore prima di mezzogiorno,» disse Marti Hok. «La nave partirà con l'alta marea». Arré grugnì. «Come fai a saperlo?» «Non essere sciocca. Arré. Il mio Distretto costeggia il delta; è naturale che conosca le maree. Metà degli abitanti di questa città le conosce». «Sì,» disse Arré. «Hai ragione». Non poteva evitare di pensare ad Isak. Si domandò se lo avessero legato quando lo avevano riportato in cella. «Ron Ismenin», mormorò, afferrando un pezzo di carta. «Per favore vieni a casa mia oggi, nella prima ora prima di mezzogiorno». «Suona come la convocazione di un magistrato,» osservò Marti. «Voglio che abbia questo effetto.» Sarebbe venuto: ne era certa. Consegnò la lettera a Sorren. «Dalla ad una Guardia e dille di portarla alla casa degli Ismenin». Sorren si inchinò. «Vai, vai!», ordinò Arré. La ragazza girò le spalle e scomparve oltre la porta. Arré la sentì fermarsi e dire qualcosa alla Guardia. Marti si chinò in avanti, ed il sole scintillò sui suoi capelli. «Arré,» disse con voce seria, «lasciala andare». Arré stava ancora pensando a Ron Ismenin. Quando lo avesse incontrato, avrebbe scritto di nuovo a Tarn Ryth. «Cosa?», disse. «Le ho detto di sì!» «No,» disse Marti. «Dai a quella ragazza il permesso di partire. Non ti accorgi quanto è cresciuta? È pronta ormai. Lei brama andare al nord: oh, sì, me lo ha confidato. Ed anche tu lo sai. Quanto tempo ancora è obbligata a servirti?» Per un attimo Arré fu incapace di calcolarlo. «Un anno, suppongo,» disse. «Sì, un anno». «Regalale quell'anno. Non fosse altro che per il grande servigio che ti ha reso stanotte; si è ben guadagnata la sua libertà!» Marti sollevò la tazza alle labbra. Arré rivide nel ricordo la bambina bionda dalle lunghe gambe china sull'erba nei vigneti che aveva attirato la sua attenzione fin dal primo istante. È vero, pensò. È cresciuta. Quella bambina non esiste più.
Capitolo ventiduesimo L'Ilnalamaré stava partendo. Ritta nella grossa invasatura di legno, la nave era tenuta in equilibrio da massicce travi angolate, mentre la marea favorevole turbinava intorno alla prua. L'equipaggio a terra stava aspettando, pronto a tirar via le funi delle travi cui erano assicurate. Due barche robuste galleggiavano lì vicino in attesa di rimorchiarla al largo; delle corde terminanti in ganci simili ad artigli le legavano alla nave pronta per il varo. Sorren strizzò gli occhi abbacinati dal sole. Erano stanchi, e la sua bocca era pastosa per le troppe ore di veglia. Si domandò se Myra fosse stata informata di quanto era avvenuto. Tutto l'insieme degli avvenimenti di quella notte le sembrava un incubo il cui ricordo l'accompagnava senza posa. Si aspettava di trovare il pontile affollato. Un numero di Guardie maggiore del solito sorvegliava la strada. Mentre si avvicinava alla passerella di legno, un soldato le segnalò di fermarsi. «Non puoi andare là,» disse. «Perché?» «È spazio riservato.» Si fece da parte un istante per lasciarla guardare. Un gruppetto di persone ben vestite affollava l'estremità dei pontili. Riconobbe Edith Isara. «Posso scendere sulla spiaggia?» La Guardia si guardò da una parte e dall'altra, poi alzò le spalle. «Tu non mi hai chiesto niente. Io non ti ho visto». «Grazie». Sorren si accingeva a discendere la costa ciottolosa quando, improvvisamente, un suono penetrante la paralizzò. «Awhoo! Awhoo!» L'allarme! pensò, sopraffatta da un panico impotente: i membri dell'equipaggio si tirarono su i guanti tranquillamente e guardarono la nave. Da quella prospettiva Sorren poteva ammirare le sue mastodontiche dimensioni. Eppure, paragonata all'oceano, non era più grande di un giocattolo, di una scheggia di legno galleggiante. «Awhoo!» Il suono si udì nuovamente, proveniente da sud. «Sono le sirene dei pescherecci,» disse un uomo. Stava seduto nell'ombra che si proiettava dal pontile. Sorren si schermò gli occhi: una ventina di persone stavano sedute lungo il bordo della passerella. «Stanno salutando la loro nuova sorella,» spiegò, poi si girò dall'altra parte e sputò nella
fanghiglia. «I componenti dell'equipaggio sono tutti a bordo?», domandò Sorren. «Sì. Conosci qualcuno?» La ragazza annuì. L'uomo puntò il pollice verso gli altri. «Ci siamo tutti». La marea, intanto, stava crescendo attorno allo scafo bianco della nave. Sorren si sedette accanto al cordiale sconosciuto da cui promanava un puzzo di pesce. Ascoltò gli uomini raccontarsi storie sulla costruzione della nave e sul suo Capitano, Ruth-no-Tania. Era una donna cresciuta nella zona occidentale della città, in un villaggio di pescatori, e da sedici anni viaggiava per mare, dapprima come mozzo, poi come Secondo, ed infine in qualità di Comandante. Era una dei Comandanti più rispettati a Kendrasul-Delta e, quando Edith Isara aveva concepito l'idea della nave, si era rivolta immediatamente a lei. «Quanti anni ha?», chiese Sorren, immaginando una donna forte, dal volto scarno ed i capelli grigi. Il pescatore glielo disse, chinandosi di nuovo per sputare. Una grossa voglia porpurea a forma di mano campeggiava sulla sua coscia sinistra. «Trentuno». Altre persone scesero sulla riva, riparandosi all'ombra del pontile. Sorren piegò le gambe ed appoggiò la testa sulle ginocchia. «Io credo che andranno ad ovest,» disse una ragazza con indosso una camicetta logora. «Ad est,» propose qualcun altro. «A sud, nella nebbia.» Discussero le diverse ipotesi. Una borraccia colma d'acqua cominciò a passare di mano in mano; quando giunse a Sorren, la ragazza bevve con gratitudine. L'odore forte di corpi non lavati le stava dando la nausea. Desiderò una posizione più elevata. Poi, laggiù, Kadra non l'avrebbe mai vista, mai riconosciuta. Si chiese dove fosse Norres: tutt'ad un tratto, un brivido scosse il piccolo assembramento, e tutti si alzarono. Sorren allungò il collo come un uccello di mare quando la gente attorno a lei gridò: «Aah!» «Ecco Jemmi, la vedo!», urlò la ragazza dalla camicia logora. Agitò le braccia febbrilmente. «Eccola, sta salendo!» Le corde che legavano la nave ai rimorchiatori si tesero. I rematori presero a vogare al massimo dell'energia. L'equipaggio di terra cominciò ad arretrare, estraendo le travi dai fianchi della nave... D'improvviso, con un fremito profondo ed uno spruzzo possente, l'Ilnalamaré scivolò nell'ocea-
no. I pescherecci dalle vele gialle suonarono di nuovo le sirene, e la riva fangosa sotto il pontile risuonò di grida giubilanti. Una piccola imbarcazione si accostò alla nave bianca. Una fune penzolò dal ponte di questa ondeggiando nella barca. Una persona in abiti blu l'afferrò e cominciò ad arrampicarsi. Dagli alberi si spiegarono le vele, anch'esse colorate di un blu vicino all'indaco, quasi purpureo. Il pescatore al fianco di Sorren le guardò. «Sbiadiranno!», disse. «Due mesi di sole e di sale, e diventeranno del colore del grano». «Kadra,» sussurrò Sorren. «Buon viaggio...» Le parole le si strozzarono in gola. Gli spettatori accanto a lei corsero verso il fosso che aveva ospitato la nave per raccogliere pezzetti di legno, ritagli di vele, chiodi, frammenti di rete, tutto ciò che la nave si era lasciata alle spalle prima che la marea trascinasse via anche quello. Sorren non si mosse. Il vento dell'est gonfiò le vele e la nave bianca virò seguendo la direzione del vento. Intravide un'incisione sulla prua; era un uccello dal grosso becco, simile all'Aquila, fiero e forte, potente abbastanza da volare giorno e notte nei cieli del mondo. Sperò che fosse forte abbastanza da guidare la nave verso la terra, e per poi riportarla a casa, sana e salva. «Arrivederci,» disse, rivolgendosi alla nave e non alla sua amica. A Kadra aveva già detto addio. Memore dell'istruzione del ghya, risalì il piccolo pendio fino alla strada. Si voltò una volta ancora a guardare la nave, ormai minuscola. Scorse la Guardia che l'aveva lasciata scendere sulla spiaggia e ringraziò di nuovo con un cenno della mano. La nuova porta della locanda era aperta e fermata da un sasso, e lasciava che il sole entrasse nella sala pubblica. Sorren entrò nel locale vuoto. «Ehi!», gridò. Nessuno rispose. Chiamò di nuovo. La porta della cucina si aprì su Norres. «Oh,» disse. «Sei tu. Ha detto che saresti venuta». La sua voce era roca, l'espressione desolata. Sorren si chiese se per caso fosse ammalata. «Non ti senti bene?» Norres ignorò la domanda. Indicò un punto dietro di sé. «Passa quella porta!», disse. «Nella dispensa, dietro la cucina: è lì». «Chi?», disse Sorren. «Kadra». Sorren sbatté le palpebre. «Cosa?» «Vai a vedere tu stessa,» disse Norres. Lentamente la ragazza le passò davanti ed entrò nella cucina. Una sguattera stava scrostando un fornello e non alzò neppure gli occhi al suo passaggio. La cucina puzzava di grasso e
di pesce. Erbe ed ortaggi secchi pendevano dalle travi del soffitto. Sorren cercò la dispensa e scorse una porta socchiusa. Si avvicinò e l'aprì completamente con una spinta: entrò in uno stanzino umido ed oscuro. Gli scaffali, i bidoni e le alte giare sul pavimento, le indicarono che aveva imboccato l'ingresso giusto. Una finestrella schermata da una rete era l'unica fonte di luce. Nella penombra scorse un giaciglio, appena sollevato dal pavimento, e su di esso una forma umana ricoperta da un lenzuolo. Si avvicinò. Il volto era scoperto: era Kadra. «Ma... doveva imbarcarsi sulla nave,» bisbigliò Sorren. «Non ci sarebbe mai salita!», disse Norres dal vano della porta. «Tu hai sentito la sua tosse. Poi il vino, e dormire per strada o sulla spiaggia... l'hanno uccisa; era inevitabile! Io le dicevo: «Vieni a dormire nella taverna.» E lei, «No» Allora: «Vieni a dormire a casa mia». «No». Così imparai a non dirglielo più. La nave... la nave era un sogno, ragazza. Forse tu ci credevi, ma quella lì non ci ha mai creduto.» Si avvicinò ad uno scaffale. «Queste cose le ha lasciate per te. Mi ha raccomandato di dartele». «Quando è morta?», chiese Sorren. «Stamattina, prima dell'alba. Sbrigati su, vattene! Scaverò la fossa quando te ne sarai andata.» Uscì bruscamente. Sorren si accostò al letto: Kadra aveva un'espressione serena. Chissà Norres dove la seppellirà, si domandò. Quando qualcuno moriva, bisognava avvertire un magistrato, il quale provvedeva a far esaminare il corpo per esser certi che la persona non fosse morta a seguito di una malattia contagiosa. «Io credevo...» Sorren si interruppe ed inghiottì. Perché stava parlando ad un morto? Abbassò gli occhi sul volto del cadavere. La pelle stava cominciando a perdere l'umidità naturale, era tesa sugli zigomi, e la stanza era ammorbata da uno strano tanfo. Sorren sfiorò con le dita le labbra giallognole. Il lenzuolo pendeva libero sul corpo: adesso era soltanto un corpo, dato che l'anima lo aveva lasciato per vagare insieme alle altre anime del mondo. Di lì a poco avrebbero avvolto quel corpo tra bende di ruvido lino e l'avrebbero calato nella terra. La mano di Sorren scivolò verso il lenzuolo. E se lo scostassi?, pensò. Nessuno poteva vederla. Non aveva mai visto Kadra nuda. Non avrebbe mai più avuto la possibilità di scoprire come fosse fatto un ghya. Le lacrime sgorgarono mentre esitava. Sollevò la mano. «Maledetta!», gridò. Le pareti di pietra assorbirono il grido senza neppure restituirne l'eco. «Perché?» Il ghya morto le puntava in faccia il mento, mentre un filo attorno alla testa gli teneva chiuse le mascelle. Non poteva dire nella morte
ciò che non aveva voluto dire nella vita. Sorren si stropicciò gli occhi. «Vai con la nave,» disse all'amica morta. Forse l'anima non l'aveva ancora abbandonata e poteva sentirla. «Vai con la nave, e riportala a casa». Andò allo scaffale indicatole da Norres. Una custodia di cuoio, simile a quella di un flauto ma molto più lunga, vi era riposta. Sorren l'aprì: vi trovò l'arco e le frecce. Accanto alla custodia c'erano la fiaschetta d'argento, lo stiletto ricurvo e, piegato minutamente, il mantello da Messaggero, liso e rattoppato. Prese la custodia morbida come stoffa e adorna di incisioni floreali. Esitò, poi prese il pugnale nel fodero e la fiaschetta. Da ultimo prese il mantello: lo scrollò e vi infilò dentro fiaschetta e pugnale. Nessuno l'avrebbe fermata per il mantello. Se qualche Guardia le avesse chiesto cosa c'era nella custodia, avrebbe detto che la stava portando a Paxe sulla collina. Con quel lascito tra le braccia, attraversò la sala della locanda lasciandosi alle spalle la porta socchiusa, così come l'aveva trovata. Norres stava pulendo i tavoli con uno strofinaccio. Vide Sorren ed annuì. «Mi ha detto che partirai per il nord. Ti auguro buon viaggio». «Grazie,» disse Sorren. Ebbe un momento di esitazione, poi si diresse alla strada. Il vento faceva rotolare i sassolini sul selciato. Guardò l'oceano: la nave era lì, la prua puntata verso il sud, piccola ora come il giocattolo di un bambino. Giunta nel cortile anteriore della villa, vide che la lettiga di Marti Hok era scomparsa, ed un'altra lettiga, con banderuole blu e rosse sulle stanghe, sostava sulla polvere della strada. La Guardia al cancello stava sbucciando un frutto di kava. La buccia verde si attorcigliò intorno al suo braccio come il serpente addomesticato di Tani. Si avvicinò al soldato. «Di chi è quella lettiga?», chiese. Di Myra Ishem Med; è venuta a trovare suo marito». «Il Maestro della Piazza è nei paraggi?» «Nel suo villino. Il Capitano Ivor ha assunto il comando.» Il giovane aveva lo sguardo dilatato di chi è stato sveglio troppo a lungo. Sorren si domandò se anche lei e gli altri avessero un'espressione simile. Piegò le dita e s'incamminò verso il villino, sperando che Paxe stesse dormendo. Sospinse delicatamente la porta. Il sole brillò sulla paglia delle stuoie. I cuscini erano sistemati in mucchi ordinati: sul pavimento accanto alla cassapanca c'era uno straccio unto, rimasto là dove Paxe lo aveva gettato. Sorren depose il mantello e la custodia di cuoio vicino alla pezzuola. Udì un tonfo proveniente dalla cucina, ed il gatto guercio venne a strofinare la
testa sulla sua gamba. Lo carezzò e tese l'orecchio. Dopo un po' sentì il respiro regolare di Paxe addormentata. Voleva dirle di Kadra... ma adesso no, non ancora. Fece al gatto un'ultima carezza, ed uscì silenziosamente dal villino. Entrò nella casa dei Med passando dalla porta della cucina. Il cuoco era là da solo. «Prendi!», le disse mentre gli passava davanti, e le porse un pezzo di kava. Sorren lo mangiò con aria assente, china sul banco da taglio. Un fievole tintinnio di campanelli giunse dall'ingresso principale della villa. Una lettiga stava arrivando, ed allora andò nel corridoio per vedere chi fosse. La porta principale si aprì e si udì una voce di donna, seguita poi dal ticchettio del bastone di Marti Hok. Sorren rimase ad ascoltare nel vano della porta mentre la vecchia percorreva il corridoio. Finì di mangiare la fetta di kava e si asciugò le mani con uno strofinaccio. Nel passare davanti allo studio, scorse Marti Hok che consegnava un foglio ad Arré. Rallentò il passo per sentire quel che si stavano dicendo. «Kim lo ha firmato senza discutere,» disse la vecchia. «Qualcosa ha cambiato quell'uomo: sembra sconfitto. Boras era indignato... soprattutto perché ho osato svegliarlo prima di mezzogiorno. Cha Minto non voleva ricevermi poi, quando gli ho detto cosa era successo, è scoppiato in lacrime. E quelle, almeno, sono sul documento. Ho portato una copia della delibera al Clan Nero ed ho detto agli scribi di fare un numero di copie sufficiente per distribuirle alle postazioni di guardia di ogni Distretto. Ho chiesto che siano pronte prima del tramonto». Così qualcun altro ha pianto per Isak, pensò Sorren. I gradini cigolarono mentre saliva di sopra e ripensò a quella notte, quando vi era stata seduta nell'oscurità a piangere, ed a suonare e suonare i ritmi sincopati. Ron Ismenin giunse alla casa dei Med nella prima ora avanti mezzogiorno. Non venne in lettiga, ma fece a piedi il cammino. Arré aveva ordinato che fosse condotto nella sala piccola, dove lei e Marti lo avrebbero atteso. Lalith annunziò il suo arrivo, e l'uomo entrò nella stanza con passi lunghi e impazienti, come se stesse camminando nella pubblica strada. Arré incrociò le mani in grembo. Dimenticava sempre come fossero chiari di carnagione gli Ismenin. Ron era biondo come Sorren: indossava i colori della sua Famiglia, oro e grigio, e alla mano destra sfoggiava un enorme anello d'oro. Aveva un'aria circospetta ed infastidita. «Signore,» disse in tono sbrigativo, mentre chinava il capo come si conveniva tra pari. Si guardò intorno in cerca di una sedia e, non vedendone
alcuna, aggrottò le ciglia. «Spero che sia importante; ho molto lavoro da sbrigare. Non gradisco ricevere inviti che suonano come ordini». «È importante, e non eri obbligato a venire, come sai!», replicò Arré. «Ho immaginato che si trattasse di affari riguardanti il Consiglio,» disse Ron in tono fermo. «In parte è così,» disse Arré. Si sentiva gli occhi appiccicosi, e la bocca densa, come feltro. Marti sedeva immobile come una statua; soltanto i suoi occhi luccicavano. «Devi scusare la mia brevità. Stanotte, quattro uomini sono entrati in casa mia ed hanno tentato di uccidermi». La lunga mascella di Ron Ismenin ricadde per la sorpresa. «Cosa?» Gli occhi azzurri sfuggivano quelli di Arré, schizzando da un canto all'altro della stanza. L'uomo tossì per schiarirsi la voce. «Sono felice di constatare che hanno fallito». Non è un buon attore, giudicò Arré con freddezza. «Non chiedi nemmeno chi fossero». «Chi erano?» «Assassini di professione, assoldati da Isak, mio fratello. Uno di loro è in prigione: gli altri sono morti. Mio fratello è stato preso, e il Consiglio ha ordinato il suo esilio della città. La sentenza sarà resa pubblica al tramonto. Ho ritenuto che volessi saperlo prima che la notizia si divulgasse in ogni angolo della città». Ron Ismenin impallidì, e le lentiggini parvero bruciare sulla sua pelle bianca. «È... è orribile!», mormorò. «Cosa,» mormorò Marti Hok sottovoce, «cosa è più orribile? L'attentato alla vita di Arré o l'esilio di Isak Med?» «Il tentato omicidio, naturalmente.» Di nuovo cercò una sedia con lo sguardo. «Io... io non riesco a crederci». «Sei un bugiardo,» disse Arré senza alterarsi. «Tu lo sapevi!» L'uomo arretrò di un passo. «Sei impazzita! Come facevo a sapere una cosa simile?» Arré contò sulle dita le ragioni della sua accusa. «Uno. Hai dato ad Isak il danaro col quale ha pagato gli assassini; così ha detto lui. Due. Sei stato visto nel parco stanotte. Tre. Uno degli assassini era il giocoliere che si esibì al fidanzamento di tuo fratello. Quattro. Un altro ha usato una spada forgiata nelle tue fucine, portata in città grazie al tuo piano. Tutti i fatti sono contro di te». Ron Ismenin inghiottì, e la sua gola sussultò sotto il colletto. «Non puoi provare che sapevo del delitto,» sussurrò. «Io non lo sapevo.» La voce gli
si fece più potente. «Non lo sapevo!» È un vigliacco, pensò Arré. Si chiese se Tarn Ryth lo sapesse. Suonò il campanello senza staccare gli occhi da lui; occhi carichi di disprezzo che non si dava la pena di celare. Lalith venne alla porta. «Di' a Toli di portare un'altra sedia». L'apprendista cuoco arrivò barcollando con una delle poltrone della sala grande, e la sistemò accanto a Ron Ismenin. «Puoi sederti,» concesse Marti Hok. Lentamente, Ron si sedette. A fatica riuscì a ritrovare una certa compostezza. Respirò profondamente. «Non riesco a credere che tu voglia far esiliare tuo fratello, Arré Med». Stupido! pensò Arré. «È già stato fatto». Il colorito naturale era riapparso sul volto dell'uomo. «Dev'essere comodo avere il Consiglio nelle tue mani,» disse. «Ma non credo che ti sarà facile con me». La voce di Arré si fece languida, malgrado i suoi muscoli fossero tesi come acciaio. «Non ci proverei neppure. I Consiglieri concordano nel giudicarti uno sciocco per esserti lasciato usare da Isak, tuttavia preferiamo aver a che fare con te piuttosto che con i tuoi fratelli più giovani». Ron si corrucciò per quell'insulto, ma Arré vide le sue spalle rilassarsi. «Mi hai invitato qui per dirmi ciò che non farai?» Quasi fosse un contrappunto alla domanda, le note di un flauto si insinuarono nella stanza. Sono uno straniero in terra straniera; sono un esule, ovunque io vada... Arré rabbrividì. Non sarebbe mai più riuscita a sentire quella canzone senza pensare a Isak. Il sudore stillò sulle tempie ed il sole riflesso nel vetro dell'archivio le ferì gli occhi. Spostò la testa. «Tu giochi d'azzardo, Ron Ismenin?» Gli occhi dell'uomo si assottigliarono sospettosamente. «Non sono un giocatore,» rispose. «Ma si è saputo di una certa tua scommessa». «Sì?» «Ti è mai venuto in mente che la politica è simile al gioco?» Lo vide irrigidirsi. «No». «Prova a pensarci, allora.» Arré si protese verso di lui. Con la coda dell'occhio scorse Marti Hok annuire appena. «La politica è come una partita, Ron Ismenin, e la posta in gioco è il potere. Ma si tratta di un gioco molto complesso, e tu hai già commesso due errori madornali. Ventitré persone hanno perso la vita a causa della tua ambizione. Tu sei soltanto uno stru-
mento, Ismenin. Sei stato usato da mio fratello, da Jerrin-no-Dovria da Elath, persino da Tarn Ryth. Tu sai poco della politica e niente del potere.» La faccia dell'uomo era diventata di gesso per la collera. Arré sorrise. «Ora sei furioso. Ma ti assicuro che sto dicendo la pura verità. È soltanto perché hai perduto la posta, e non costituisci più un pericolo adesso che sei qui, e non in prigione. Desideri conservare ciò che hai, Ron Ismenin? Allora abbandona il gioco. Un giocatore intelligente sa quando è il momento di ritirarsi». Ron Ismenin la guardò con occhi di fuoco. «Sono solo chiacchiere da strada». «Già!», convenne Arré. «La scelta sta a te, Signore. Ritirati, o perderai tutto». Il torace le si gonfiò mentre il suo sguardo si spostava da Arré su Marti Hok. Alla fine, Ron Ismenin si alzò. «Mi ritiro,» disse e, giratosi, imboccò l'uscita smantellando quasi il paravento. Arré emise un sospiro di sollievo. La tensione le dava le vertigini. Poi disse: «Ho parlato bene?» Marti Hok sorrise sollevando la tazza da tè dal tavolo laccato. «Mia cara, tua madre non avrebbe saputo fare meglio!», disse. «Hai parlato più che bene, sei stata magnifica». Al tramonto Paxe condusse Isak Med alla Porta di Nordovest. Non doveva essere lei a farlo; Kaleb le aveva detto esplicitamente che avrebbe eseguito con piacere l'ordine di esilio. Ma Paxe aveva insistito che il soldato la svegliasse. Sicché Kaleb salì di sopra e, dalla porta della camera da letto, la chiamò per nome, ma Paxe lo aveva già sentito salire e si stava alzando. Il braccio le faceva male e storse la bocca in una smorfia quando vi si appoggiò per issarsi. Kaleb avanzò verso il letto. «Lascia che dia un'occhiata». Paxe scrollò la testa. «È a posto». L'uomo la guardò accigliato. «Donna cocciuta! Non hai più vent'anni, sai?» «Il cuoco ha ricucito la ferita. Lasciami in pace!» Fece oscillare il braccio provandone la mobilità. Le doleva, ma del resto c'era da aspettarselo, e il dolore era netto, circoscritto al taglio, senza quei molesti bruciori diffusi, sintomatici di un'infezione. Guardò oltre la finestra, e vide il cielo color lavanda striato dalle tonalità arancioni delle rose estive. La luna, smussata ad un'estremità, galleggiava
fulgida sul mare. «Come sta?», chiese Paxe. «Lo hai visto?» «Alludi al prigioniero? Sta bene. Sua moglie gli ha portato dell'oro, e Arré Med ha lasciato che lo tenesse». «Gli avvisi sono stati affissi?» Kaleb scrollò la testa. «Non ancora». Paxe si avvicinò alla bacinella e si lavò la faccia con l'acqua tiepida. Cercò poi una camicia che non recasse emblemi. «Il Capitano alla Porta sa che arriveremo?» «Sì. Non ci saranno fatte domande.» Kaleb era irritabile; Paxe se ne accorse dal moto frenetico delle mani. «Qualcosa non va?», gli chiese Paxe da tergo mentre scendevano al piano di sotto. Kaleb le lanciò un'occhiata torva senza fermarsi. «Non riesco a capire perché lo stiamo facendo,» disse. «Facendo cosa?» «Perché lo lasciamo vivere,» disse l'Asech. «Se fossi stato io a dover decidere...» «Ma non è toccato a te,» finì Paxe. «Né a me. È Arré Med ad averne il diritto». Il Maestro della Piazza capiva perfettamente i sentimenti di Kaleb nei confronti di Isak. Le tribù degli Asech ponevano la famiglia al centro della loro organizzazione sociale; il tradimento commesso da Isak verso sua sorella meritava una sola punizione secondo il codice del deserto. Ripensò alla studiata reazione di orrore che il Danzatore aveva simulato quando era andato a svegliarlo nelle prime ore del mattino. Una parte di lei desiderava la sua morte, come Kaleb. Ma uccidere non era giusto. Immaginò Jerrinno-Dovria da Elath affermarlo con la sua voce stentorea e persuasiva. Quando lo aveva ascoltato durante la cerimonia dell'Invocazione al Guardiano aveva provato un profondo sentimento di tristezza e bruciante disprezzo. Cosa accade dopo la morte all'anima di chi ha violato così perversamente i dettami del cea? domandò a se stessa. Passò accanto alla cassapanca e si arrestò. Un involto grigiastro ed una custodia di cuoio erano poggiati per terra lì vicino. Si inginocchiò ed aprì la custodia. Conteneva un arco ed un fascio di frecce. «Hai intenzione di diventare arciere?», le chiese Kaleb. Paxe richiuse la custodia e si alzò. «No». Discesero la collina fino alla postazione di guardia. La sentinella alla
prigione scattò sull'attenti quando li vide. «Maestro della Piazza... Comandante...» «Come sta il prigioniero?», disse Paxe, ricevendo la chiave della cella dalle mani della donna. «È tranquillo. Sua moglie è stata qui poco fa». Paxe introdusse la chiave nella serratura e la girò. Questa produsse un rumore stridente. La porta si aprì ed un puzzo di vino stantio, sterco e vomito, investì il Maestro della Piazza. Paxe aveva volutamente rinchiuso Isak in una delle piccole celle annesse ad ogni guardiola. Si trattava di squallidi casotti di mattoni, privi della minima comodità. Non avevano acqua né luce; un buco nel terreno fungeva da pitale. Della paglia ed una coperta ruvida costituivano il letto. «Fuori!», ordinò Paxe. Isak uscì serrando gli occhi alla luce. Aveva la faccia stanca e chiazzata. Paxe si domandò se era riuscito a riposare un poco. «Buona sera, Maestro della Piazza,» disse in tono spento, privo ormai dell'antica sfrontatezza. Paxe lanciò la chiave alla guardia, e questa richiuse la cella. «Dagli il danaro!», ordinò. Kaleb estrasse una piccola sacca dalla cintura e, dal modo in cui la maneggiava, si intuiva che fosse alquanto pesante. Isak protese tutte e due le mani per riceverla. Non poteva fare altrimenti; le mani erano legate assieme da una corda che stringeva i polsi, mentre un'altra, più larga, passava intorno ai gomiti. «Grazie!», disse il prigioniero. Si guardò le mani. «Posso essere liberato adesso?» «Quando saremo alla Porta,» stabili Paxe. Lanciò un'occhiata a Kaleb, aspettandosi che si allontanasse. Ma l'Asech non si mosse. «Comandante,» disse lei, «non voglio strapparti ai tuoi doveri». Il volto di Kaleb restò impassibile. «Vengo con te». Paxe si irrigidì. «Kaleb...» L'uomo scrollò la testa senza rispondere. Isak seguì tutta la scena e ridacchiò, mentre Imrath, la Guardia del turno pomeridiano, guardava studiatamente altrove. Paxe si sorprese a serrare i pugni. Il dolore le lambì come una fiammata il braccio ferito. Bestemmiò e rilassò le mani: lo spasmo si ridusse ad un indolenzimento. Afferrò il braccio di Isak con la mano destra. «Cammina!», ordinò. Obbediente, il prigioniero si mosse. Si diressero a nord, pro-
cedendo sotto braccio, come due innamorati. Il tanfo della cella stagnava sui vestiti di Isak. Silenzioso come sempre, Kaleb marciava alla destra del prigioniero. Percorsa un po' di strada, Paxe lo guardò e gli sorrise. «Potrei farti punire per insubordinazione,» disse. Kaleb sorrise. «Non lo farai. Sono un Comandante della Guardia. E poi... a chi ordineresti di eseguire la punizione?» Incrociarono un venditore di castagne, e l'odore di caldarroste profumò l'aria. Isak annusò. «Mi mancherà,» disse. Paxe si accigliò. Voleva intimargli di tacere, poi le sembrò un'eccessiva crudeltà. Il traffico cominciò a farsi più intenso; segno che si stavano avvicinando alla Porta. Paxe non si era mai accorta di quanto fosse breve il cammino fino a lì. Un uomo passò di corsa, zigzagando tra i carri, con le braccia ingombre di fogli di carta. Paxe si chiese se stesse consegnando gli avvisi che notificavano alla popolazione l'ordine di esilio. Il sole indugiava sull'orizzonte alle loro spalle mentre, avanti, il cielo si era già tinto di blu. Il traffico scorreva per lo più in direzione della città, giacché la gente si affrettava ad entrare prima che la Porta chiudesse. Paxe sentiva i muscoli tesi del braccio di Isak allorché il prigioniero si guardava attorno volgendosi da una parte e dall'altra. Sta cercando qualcuno? pensò. Un complice, che potrebbe aiutarlo! Osservò la testa dell'uomo girarsi ripetutamente, e capì che i suoi timori erano infondati. Isak non stava cercando nessuno; stava semplicemente guardando la sua città. «Maestro della Piazza,» disse ad un tratto. «Possiamo fermarci, per favore?» «Perché?», disse Kaleb in tono aggressivo. Ma Paxe si fermò. «Tienilo tu!», ordinò, e Kaleb afferrò il braccio destro di Isak. Paxe articolò le dita per sgranchirle. Isak guardò la folla. Una donna Asech, molto alta, attraversò la Porta tirandosi dietro un branco di capre; vide Kaleb e gli gridò qualcosa nella sua lingua. Il soldato le rispose e quella sorrise. «La conosci?», disse Isak. «Siamo della stessa tribù,» rispose Kaleb. Una schiera di bambini si divertivano a rincorrersi attorno al casotto delle Guardie. Isak raddrizzò le spalle. «Maestro della Piazza,» disse bruscamente, «daresti a Sorren un messaggio da parte mia?» Paxe gli afferrò di nuovo il braccio riprendendo la marcia. «Dipende». «Oh, a lei farà piacere sentirlo,» disse il Danzatore. «Dille che mi dispiace che sì sia trovata coinvolta in tutto questo. E dille anche che è molto
più brava di Itaka». Paxe annuì. «E a tua sorella?», disse inaspettatamente. Isak ritrovo il suo sorriso sardonico. «Non ho niente da dire ad Arré, che non sia già stato detto stanotte». «Capisco!» Kaleb mormorò qualcosa tra i denti. Mancava poco alla guardiola. I soldati stavano facendo passare gli ultimi viaggiatori. Il Capitano alla Porta li scorse ed indicò la Porta Piccola. Questa si trovava a breve distanza dall'ingresso principale e non era una Porta vera e propria, ma un'apertura appena sufficiente a far passare una persona, essendo impensabile farvi passare un cavallo od un carro. Molti decenni prima il piccolo passaggio veniva utilizzato per mandare degli esploratori nei territori occupati dagli Asech. La pratica era poi caduta in disuso ed i cardini si erano ricoperti di ruggine. Kemmeth, il predecessore di Paxe, l'aveva fatta riparare, e da allora, per ordine di Paxe, si era continuato a tenere i cardini ben lubrificati. Disponeva anche di una grata che le Guardie abbassavano di tanto in tanto per pulirla, mentre, normalmente, rimaneva alzata. «Buona idea!», disse Paxe a Kaleb. «Sei stato tu a pensarci?» Il Comandante alzò una spalla mostrando il suo imbarazzo alla maniera degli Asech. Una Guardia si allontanò dalla Porta principale portandosi all'ingresso secondario. Kaleb si unì al soldato ed insieme tirarono la porta verso l'interno fermandone il battente con un sasso e lasciando uno spazio sufficiente a farvi passare un uomo di corporatura snella. Le carovane ritardatarie occupavano l'area fuori delle mura. Odori di cibi cucinati si levavano dai bracieri e dai fuochi da campo. Una fascia di nubi grigie velava l'orizzonte e, sopra di essa, scintillavano le stelle del nord. Isak affondò lo sguardo nell'oscurità e il suo respiro si fece più rapido. «Lascialo!», ordinò Paxe. Kaleb si chinò e, quando si rialzò, impugnava il coltello. Con un netto movimento ascendente recise le pastoie di Isak. Le corde caddero sul terreno. Isak si slegò le mani. «Adesso va meglio!» Infilò in tasca il sacchetto con l'oro. Alle loro spalle gli assaggiatori stavano richiudendo i tavoli. Il vento cambiò direzione, recando con sé gli odori delle stalle. Paxe udì il lamento acuto dei lampionai. Il volto di Isak era pallido e risoluto nel chiarore della torcia frammisto a quello della luna. Si tirò sulla nuca il colletto della camicia poi, come se
fosse sul punto di iniziare un'esibizione, si sciolse i capelli. Una nuvola nera gli ammantò le spalle. «Buona sera, Capitani!», disse, con una voce che aveva ritrovato la sua vitalità. Contemplò il cielo stellato. «È una bella notte per mettersi in viaggio». Bastarono tre lunghi passi leggeri, e Isak fu oltre la Porta. Kaleb si chinò e ripose il coltello nello stivale. La Guardia allontanò il sasso con un calcio e richiuse la porta. Paxe rabbrividì. Kaleb le strinse il braccio illeso e, insieme, si incamminarono nell'oscurità. Dopo alcuni passi, la donna appoggiò la testa sulla spalla dell'uomo. «È una bella notte per mettersi in cammino,» disse. «Andiamo a casa». Sorren si svegliò tardi. L'odore di cibo che si levava dalla cucina le fece brontolare lo stomaco. Si sollevò a sedere lentamente: non ricordava di essersi addormentata. Aveva sognato; fissò il buio oltre le finestre schermate dai paraventi picchiettati di seta, ma nulla le affiorò alla memoria. I vestiti le si erano appiccicati addosso; se li sfilò con difficoltà e ne cercò di puliti nell'oscurità della stanza. Si domandò chi altri fosse sveglio in casa. Le sembrò strano vestirsi, pettinarsi, e sentire odore di cibo: tante cose erano successe in un giorno solo e adesso ogni cosa pareva diversa. La sua mano incontrò la scatola delle Carte accanto al letto. Le toccò, riflettendo. In qualcuno dei loro disegni doveva trovarsi tutto ciò che era accaduto dall'alba del giorno precedente: il Festival, il tradimento di Isak, il ferimento di Paxe, l'editto di proscrizione. Dove sarebbe andato? Strofinò un dito sull'angolo della scatoletta. Anche la morte di Kadra ed il varo della nave poteva trovarsi tra gli schemi delle Carte. Scese in cucina e vi trovò il cuoco impegnato in una partita a dama con Kaleb. Era già iniziato il turno serale, e si domandò cosa facesse lì a quell'ora. Forse era entrato in cucina per riscaldarsi un poco. Toli stava tagliando un'oca sotto l'occhio vigile del cuoco. «Dormigliona!», le disse. «Chiudi il becco!», gridò il cuoco spostando una pedina. «Siamo tutti stanchi». Sorren voleva chiedere a Kaleb di Isak. Si rivolse invece a Toli. «Marti Hok è ancora qui?», gli chiese. L'apprendista scrollò la testa. «È andata a casa. Ma il Maestro della Piazza è nello studio,» aggiunse con un sorrisetto sciocco. «Oh!» Kaleb mosse una pedina sottraendo quattro pezzi all'avversario. «Sor-
ren,» disse, «il Maestro della Piazza ha un messaggio per te». «Per me?» Sorren carpì un pezzetto d'oca al coltello di Toli. «Grazie.» Mordicchiando si avviò difilato nello studio. La porta era chiusa. Si leccò il sugo sulle dita prima di bussare. Diede quindi un paio di colpetti e sentì l'invito di Arré: «Avanti!» Spinse di lato il paravento ed entrò. Un dolce tepore aleggiava nella stanza; le lampade di porcellana sulla mensola del caminetto erano accese e, non lontano da esse, scorse Arré, seduta in poltrona, e Paxe, con i piedi rivestiti dagli stivali, distesi sul pavimento. Una teiera era poggiata sul tavolo laccato tra le due donne. Paxe aveva un'aria riposata; una fasciatura pulita le cingeva il braccio. Inclinò da un lato la testa quando vide Sorren entrare. Le sorrise; ma quel sorriso aveva qualcosa di strano. Sorren si sentì afferrare dalla tensione. «Maestro della Piazza,» disse, «K... K... Kaleb - il Capitano Kaleb - ha detto che hai un messaggio per me». Arré le tese una mano. «Vieni qui, piccola!», la invitò dando un colpetto sul fianco della poltrona. Sorren si accovacciò vicino a lei incrociando le gambe. «Sai che hai ancora il mio bracciale?» Sorren si guardò i polsi con stupore. Non c'era alcun bracciale «Oh!» La sua mano destra corse al gomito sinistro. Aveva accostato il bracciale all'altro, dimenticandosene. Si affrettò a sfilarlo, ma Arré la fermò. «No,» disse. «Tienilo. Voglio che lo prenda tu. È un regalo». «Ma...», Gli occhi di Sorren corsero da Arré a Paxe. «Tienilo!», disse piano Paxe. Sorren si mise il monile al polso e rimase a guardarlo. Lo spessore dell'argento si era consumato a forza di indossarlo. La pietra azzurra rifulgeva sul castone. «Grazie,» disse, e strofinò la gemma col pollice. «Isak se n'è andato,» disse Arré bruscamente. «Paxe lo ha condotto alla Porta al tramonto. Ora è bandito dalla città». Sorren inghiottì. «Per sempre?» «Per sempre!», confermò Arré. «Da solo?» «Da solo. Non ha voluto compagnia. Myra gli ha detto addio. Ho permesso che gli desse dell'oro». Sorren rabbrividì. Le parve crudele scacciare una persona dalla città in quel modo. Poi ripensò agli uomini sulla scala, a Elith. «Dove andrà? Al nord?» Paxe si mosse sulla sedia.
Arré alzò le spalle. «A est, forse. A Shirasai. O forse è quello che ha voluto farmi credere. Non lo so. Ho scritto una lettera a Tarn Ryth da Nuath per informarlo dell'ordine di esilio e per dirgli di stare in guardia. Se Isak si aggirerà dalle parti di Nuath, lo saprò.» Adagiò la testa sulla spalliera della poltrona. Lalith giunse alla porta. «Signora, vuoi che serva il pranzo adesso?» «Tra poco,» disse Arré. «Suonerò.» Lalith si ritirò con un inchino. Paxe si schiarì la voce. «Isak mi ha detto di darti un messaggio». Sorren sentì rizzarsi i peli sulla nuca. «Mi ha detto di riferirti che gli dispiace che tu sia stata coinvolta in questa faccenda, e che sei molto più brava di Itaka». Sorren si morse il labbro. «È stato gentile.» Si domandò se avesse inviato un messaggio anche per Arré. Seguirono alcuni istanti di silenzio. Fu il flauto di Toli ad interromperlo. «Sorren, va' a dirgli di smetterla. Non voglio sentire musica!», ordinò Arré con una voce che aveva perso di colpo tutto il calore. Sorren balzò in piedi. Percorse in fretta il corridoio e si infilò in cucina mancando di un palmo il gomito del cuoco. Strappò il flauto dalle labbra di Toh. «Ehi!», gridò quello. «Cosa fai?» «Arré ha detto di smetterla. Non vuole sentire la musica». Il giovane assunse un'aria offesa. «Non ha mai detto così prima,» borbottò, ma il cuoco lo trafisse con un'occhiata la cui ferocia gli fece sbattere le palpebre e riporre in fretta e furia lo strumento nella custodia di velluto. «Dille che l'oca si sta bruciando,» ordinò minacciosamente. L'odore che si effondeva dall'arrosto fece gorgogliare lo stomaco di Sorren. Una mano della ragazza si insinuò sotto il panno che lo copriva, rubandone un secondo pezzo. Lo mangiò mentre tornava nello studio. Nel percorrere lo spazio della stanza, vide la sua immagine riflessa nel vetro del piccolo archivio: una figura spettrale che dominava con la sua statura l'insieme di sedie, tavoli ed arazzi. Avvertì nell'aria una tensione estrema. Arré era forse adirata con lei? Non riusciva a pensare cos'avesse fatto di male. Turbata, tornò al suo posto vicino alla poltrona di Arré. La luce della lampada inargentava i capelli della donna più anziana. Paxe, adagiata sull'altra poltrona, sembrava quasi invisibile: un'ombra oscura immersa in profonda meditazione dietro le palpebre chiuse. Arré posò la mano sulla spalla sinistra di Sorren. La sua mano scivolò pian piano lungo il braccio, fino al bracciale da schiava. Le dita ne cerca-
rono la chiusura: bastò un piccolo movimento, ed il gancetto scattò, gettando il bracciale sul pavimento dove tintinnò sonoramente. «Sorren dei vigneti, ti libero da ogni obbligo nei miei confronti. Nessun vincolo ti lega più a me od alla mia Famiglia. Il tempo del servizio coatto è scaduto. Sei libera di andare». Fu quanto Arré le disse. Libera? Chi era libera? Sorren non riusciva a parlare, lo sguardo inchiodato sul bracciale da schiava. Allungò una mano e lo raccolse, girandoselo tra le dita. I triangoli rossi e blu scintillarono. Cercò di far scattare il gancio di chiusura, ma sembrava si fosse rotto. «Perché?», disse. «Perché è il momento,» disse Arré. Si chinò verso di lei. «Se desideri rimanere al mio servizio, sarai la benvenuta in questa casa... ma sarai pagata per il tuo lavoro. Se vorrai, potrai tornare ai vigneti. Ti darò un cavallo. Come vuole l'usanza, una somma di danaro è custodita per te». Sorren toccò il pallido segno lasciatole sulla pelle dal bracciale al di sopra del gomito. «Non so cavalcare!», disse. Il suo sguardo corse a Paxe: ora aveva gli occhi aperti. «Non voglio andare nei vigneti». Abbassò le palpebre e vide davanti a sé la mappa che le aveva disegnato Kadra: vi scorse chiaro l'itinerario segnato per il suo viaggio. L'ultima tappa era Tornor. Non poteva rinunziare a quel viaggio, allo stesso modo in cui non poteva rinunziare a sognare, a parlare, o ad amare. Si alzò e si avvicino a Paxe, inginocchiandosi presso la sua poltrona. Il Maestro della Piazza si chinò su di lei; i suoi occhi luccicavano di lacrime non versate. Sorren protese una mano; Paxe la prese tra le sue e l'accostò alle labbra. Sorren sentì il tepore del suo alito. «Chelito!» Dolcemente posò l'altra mano sui capelli della ragazza. Sorren si appoggiò a lei, attenta a non urtare il braccio fasciato. «Verrai con me sulle montagne?», le chiese. Arré si mosse senza interrompere il dialogo. In silenzio distolse lo sguardo da Paxe. «Il mio viaggio alle montagne l'ho fatto molti anni fa, chetilo», disse Paxe, cercando gli occhi di Arré. «Mi mancherai, ad ogni respiro. Ma... mio figlio è qui; le mie responsabilità sono qui; i miei amici sono qui. Non voglio lanciare Kendra-sul-Delta.» Il chiarore della lampada illuminò la curva del suo volto. «Ho già fatto il mio viaggio; il tuo sta per cominciare, e comincia da qui. Ma per me, questa è casa mia».
Capitolo ventitreesimo Ora le mura della città erano dietro di lei. Il sole brillante dell'autunno proiettava a sinistra le ombre. Una lunga ed una corta, pensò Sorren confrontando la sua ombra con quella più piccola di Jenith. Il vento stormiva tra i rami penduli dei salici; il fiume scorreva cupo alla sua destra. Le zattere galleggiavano poco distante, e da esse giungevano le voci dei barcaioli che si scambiavano racconti, notizie, saluti. I campi di cotone, con le capsule ancora bianche, si stendevano sulla riva opposta. I raccoglitori coi sacchi sulle spalle ne attraversavano i lunghi solchi. Sorren si domandò se avessero già appreso la notizia dell'esilio di Isak Med. Spostò le stringhe dello zaino che portava sulle spalle. La custodia con l'arco e le frecce gli martellava il fianco destro. Erano trascorsi tre giorni da quando Isak era stato allontanato dalla città. Myra Ishem Med si trovava ancora a Kedra-sul-Delta. Sorren ricordò le voci secondo cui Isak Med era ancora in città nonostante l'ordine di esilio. Sapeva che non era vero. Si chiese dove fosse in realtà il Danzatore. Era curioso pensare a lui come ad un semplice viandante, in cammino su chissà quale strada. Il ricordo di Elith riaccendeva in lei l'ira nei suoi confronti. Ma, quando pensava a Isak il Danzatore, il sentimento d'ira sfumava, lasciando spazio all'ammirazione, alla mestizia e ad un'altra emozione, quella della pura pietà. «Non hai ancora fame?», le chiese Jenith. «No. E tu?» «No!», fischiettò Jenith. Arré le aveva chiesto di portare ai vigneti la notizia dell'esilio di Isak, e la donna aveva acconsentito di buon grado giacché il viaggio le dava l'opportunità di rivedere le figlie. Marciava spedita al fianco di Sorren con una borsa a tracolla e, apparentemente, era instancabile. Sorren rammentò il momento in cui aveva varcato la Porta di Nordovest. Aveva sempre immaginato che avrebbe provato una sensazione meravigliosa, ma non vi aveva trovato nulla di prodigioso. Si guardò furtivamente alle spalle, ma c'erano troppi carri, cavalli e viaggiatori sulla strada, e tutto quel che riuscì a scorgere tra lei e la città, fu un alto polverone. Ripensò a Paxe, e provò una fitta al cuore. Si erano dette addio quella notte; Paxe non aveva voluto accompagnarla alla porta per non dare spettacolo dinanzi ai suoi soldati. «Inoltre,» le aveva sussurrato tra i capelli, «odio gli addii troppo lunghi.» Il dono di separazione che aveva fatto alla
ragazza era stato qualcosa di estremamente pratico ed utile: dieci frecce da caccia a punta larga. Anche il regalo di Arré era stato di natura simile: le aveva donato un paio di stivali. L'aveva salutata al mattino senza dilungarsi. All'ultimo momento le aveva affidato una lettera da consegnare a Tarn Ryth di Nuath. «Se non passerai per Nuath,» aveva detto, «dalla ad una carovana che viaggia verso il nord.» Quando, infine, si era voltata a rivederla, aveva scorto il luccichio delle lacrime che le rigavano le guance. Sette cavalieri Asech passarono al trotto accanto alle due donne. Uno di loro vide Jenith e le mandò un saluto nella lingua del deserto. Jenith contraccambiò, ed entrambi risero. «Ti dispiace molto dover viaggiare a piedi?», le chiese Sorren. Jenith si strinse nelle spalle. «Arré Med mi ha chiesto di andare a piedi, ed io lo faccio. Non preoccuparti». A mezzogiorno si fermarono su un lato della strada. L'erba era asciutta e fragrante. Jenith bevve dalla borraccia e si sdraiò, fresca nell'aspetto come al momento della partenza. Sorren, invece, si abbandonò pesantemente sull'erba, grata per quella sosta. Il suo stomaco reclamò attenzione con qualche sibilante brontolio, e la ragazza estrasse qualche pezzetto di carne secca dal fagotto. Le sue dita scivolarono sulla superficie fresca della fiaschetta. Ripensò a Kadra, e si domandò dove fosse in quel momento l'Ilnalamaré, «Sei stata sull'oceano?», chiese a Jenith. La donna Asech rabbrividì. «No, e non ci tengo affatto!», disse con una smorfia. «Si muove troppo. A me piace la terraferma.» La mano bruna picchiò eloquentemente il terreno secco. Una donna passò davanti a loro in groppa ad una piccola puledra rossa. Sorren la guardò, ed il profilo della testa le fece ricordare Paxe. Si chiese cosa stesse facendo a quell'ora: forse stava dormendo sul letto basso e duro, col gatto guercio vicino a lei. La frusta del ricordo la sferzò e ne provò un dolore fisico. Sorren intrecciò le dita tra i fili d'erba e strappò con forza. Gli alti steli cedettero e perse l'equilibrio, ricadendo su di un gomito. «Dovremmo andare,» disse Jenith. S'incamminarono lungo la strada. Sorren cominciò a sentire dolore alle gambe. Ai piedi no; gli ultimi due giorni li aveva trascorsi in giro per la città per abituarli agli stivali nuovi. Ma i polpacci le dolevano. Si sforzò di non pensarci, e concentrò la mente sullo scenario, sui suoni e sugli odori: le carovane di passaggio, i campi ed i granai, gli odori dolci e arroventati
delle messi, le cicale canterine nascoste nell'erba. Jenith avanzava con disinvoltura, le mani lungo i fianchi, un filo di paglia tra i denti. «Da quanto manchi dai vigneti?», domandò la donna Asech. «Dalla morte di mia madre, quattro anni fa,» rispose Sorren. «Perché... è cambiato qualcosa?» Jenith scrollò la testa. Scintille dorate balenarono dagli orecchini colti dai raggi del sole. «No,» disse. «Lì non cambierà mai niente». L'odore fu la prima cosa che Sorren ricordò: il profumo forte e inebriante dell'uva. Annusò. «Credo... che stiamo per arrivare, non è vero?» «Già,» confermò Jenith puntando il mento verso occidente. «Sai riconoscere le viti?» Sorren strizzò gli occhi alla sfera rosseggiante. Scorse solchi profondi e piante verdi arrampicate attorno a tralicci di legno. Le piante erano disposte perpendicolarmente alla strada, ed improvvisamente ricordò - meravigliandosi che ancora potesse dopo quattro anni - che l'uva era più dolce quando si giovava della piena luce di sudovest. Jenith indicò un tetto appuntito seminascosto tra i filari delle viti. «Lì dentro si pigia l'uva,» commentò. Sorren spostò l'involto sulle spalle. «È tutta terra dei Med?» Jenith allargò le mani, rispondendo affermativamente alla maniera degli Asech. Giunte in uno squarcio di terra libera dai solchi, deviarono dalla strada principale. «Dove stiamo andando?», chiese Sorren. «A trovare le mie figlie,» spiegò Jenith. «A quest'ora saranno al lavoro.» Lo sguardo di Sorren percorse l'immensità dei campi, senza scorgere altro che le viti. Seguì Jenith nel labirinto di solchi e canali, sentendo la terra friabile sotto gli stivali. Le viti le sfioravano il mento. Spinse il ricordo indietro nel tempo, a sette anni prima, quando era una ragazzina... Ero più piccola delle viti, pensò. Il ricordo sbiadito di se stessa alle prese con le erbacce da strappare, le affiorò nella mente. Allora indossava un cappello di paglia - si toccò i capelli - un cappello di paglia con una fascia blu! «Ecco la casa!», annunziò Jenith. Sorren scorse il bagliore delle assi di legno di cedro baluginare in lontananza. La casa di Isak, pensò, poi si corresse: non è più di Isak. D'un tratto si drizzò, tenendo l'orecchio. Pah-pah, pah-dum-pah. Il tamburo echeggiò nell'aria del tramonto. Pah-pah-dum. Le sue dita ripeterono il ritmo sulla coscia. Erano i tamburi dei raccoglitori che diffondevano la notizia del loro
arrivo. «Ci staranno aspettando,» disse Jenith. Indicò un punto. «Da quella parte.» Sorren la seguì mentre i tamburi continuavano a suonare, mescolandosi allo stormire del vento ed ai ronzii degli insetti. E il martellamento andò avanti finché a Sorren sembrò di sentirlo sotto la scuola degli stivali. D'improvviso, i filari delle viti s'interruppero, e le due viaggiatrici si ritrovarono in una radura di raccoglitori, davanti ad un gruppo di tende disposte in circolo. Il vento spirava nella loro direzione e le investì con fumo profumato di mais arrostito. Delle persone erano sedute in semicerchio attorno al fuoco. Sorren seguì lentamente Jenith verso di loro. Le percussioni erano cessate. «Forza!», la esortò Jenith. «Vengo,» rispose la ragazza. Guardò le tende e le casupole. Donne e uomini dalla pelle bruna la stavano osservando dagli stretti usci. Quasi tutte le donne portavano anelli d'oro alle orecchie. I loro volti erano impassibili, impenetrabili, tuttavia Sorren percepì i pensieri che nascondevano come se possedesse il talento di una Maga della Verità... Sei una straniera, parevano dirle. Non sei una di noi, straniera! Con aria sprezzante Sorren raddrizzò le spalle e camminò verso il fuoco. Una donna sollevò la mano. «Io sono Nado,» disse. «Benvenuta!» «Grazie,» disse Sorren mentre si sedeva accanto a Jenith. Anche seduta era più alta di chiunque altro nel circolo. «Jenith dice che un tempo eri nei campi,» disse Nado. La ragazza fece scivolare lo zaino giù dalle spalle. Tirò su una gamba e si massaggiò il polpaccio con le nocche delle dita. «Sì, è vero». «Sei nata qui?» «Sì. Mia madre faceva la raccoglitrice. Morì quattro anni fa. Negli ultimi sette anni sono stata al servizio di Arré Med». Nado batté leggermente le palme delle mani. «Ah, tu sei quella bambina. Ricordo: conoscevo tua madre. Le somigli, ma sei più alta». «La conoscevi... bene?» Sorren si protese in avanti. Non le era mai venuto in mente che qualcuno nei vigneti ricordasse lei o sua madre. «No, non molto bene,» disse Nado. «È stata sempre... diversa». Dovrei chiederle delle Carte, pensò Sorren. Ma, se lo avesse fatto, con ogni probabilità le avrebbero chiesto di vederle, e lei non aveva intenzione di tirarle fuori. Tutt'a un tratto si udirono delle voci provenire dai campi e Jenith balzò in piedi». «Iaaah!»
«Yip-yip-yip-yip!», rispose l'Asech. Due donne giunsero nella radura. Jenith andò loro incontro, raggiante. Le condusse quindi presso il falò. Erano brune e robuste, e le somigliavano molto; la più anziana si chiamava Jezi, l'altra, Aisha. Questa portava orecchini d'oro simili a quelli di sua madre; Jezi, invece, aveva il lobo sinistro reciso, mentre il foro nel lobo destro si era evidentemente otturato. Ricami di perline cucite a formare degli anelli ornavano il davanti e le maniche delle loro bluse. «Salve!», dissero all'unisono, e poi risero mostrando i denti candidi. Aisha fece un cenno con la mano. «Parlo io,» disse Jezi, sorridendo. «Saremo liete di offrirti la nostra ospitalità per tutto il tempo che vorrai.» Aisha la strattonò leggermente e le disse qualcosa nella lingua Asech, al che la sorella più anziana scrollò la testa in segno di diniego. «La nostra tenda non dista molto da qui». «Grazie,» disse Sorren. «Ne sarò felice». Nado batté le mani. «Wa'hai,» disse. «Il pasto è pronto; ora mangeremo, e poi ci racconterai di te e della città». Altri raccoglitori si radunarono intorno al fuoco. Il pasto era semplice: mais arrostito nella terra rovente vicino al fuoco, fettine di carne di capra, fette di melone, vino. Non vi erano piatti o coltelli, e la carne veniva tratta con le mani da una pentola comune. Del burro accompagnava il mais, mentre il miele guarniva il melone. Buona parte della conversazione si svolse nella lingua degli Asech. Jenith si sedette tra le due figlie con aria compiaciuta. Sorren mangiò lentamente. Le gambe le pulsavano forte e sentiva le palpebre pesanti per la stanchezza: è il viaggio, spiegò a se stessa. Il pasto, intanto, era già terminato. «Adesso,» disse Nado, mentre i piccoli sgambettavano intorno raccogliendo avanzi da dare in pasto ai maiali, «raccontateci tutto!» E Jenith parlò; riferì che Isak Med aveva pagato quattro uomini affinché uccidessero sua sorella e che era stato esiliato, disse che Myra Ishem Med si trovava ancora a Kendra-sul-Delta, e che nel giro di pochi giorni sarebbe ritornata ai vigneti. Sorren non si unì al racconto. Si era tolta gli stivali e sbadigliava continuamente. Nell'oscurità non sembrava poi tanto diversa dagli altri. Jenith gesticolava mentre parlava. Dalla parte opposta del fuoco, i tamburi tacevano in attesa; dopo, loro avrebbero preso la parola. «Scusa!», disse una voce maschile, e un'ombra si abbassò accanto a lei. Sorren si spostò automaticamente per far posto al nuovo arrivato. «Sorren?», disse questi.
La ragazza lo fissò. Il bagliore della fiamma gli illuminò il volto. «Ricky?», disse lei. «Sei tu?» «Sì... spero non ti dispiaccia.» La sua voce si era fatta più profonda. «Me ne vado, se vuoi. Ho sentito i tamburi e sono venuto ad ascoltare. Non sapevo che fossi tu la Messaggera». «Non sono io, infatti. È Jenith la Messaggera». Il ragazzo prese posto accanto a Sorren. Un lampo rosso balenò nei lobi delle orecchie, e Sorren capì che se li era fatti forare. Attese che fosse lui il primo a fare domande, ma Ricky restò in silenzio ad ascoltare Jenith intenta a raccontare la storia del tradimento di Isak. Quando ebbe finito, ripiegò le mani in grembo e tacque. Nado disse poche parole nella lingua Asech, ed i raccoglitori si allontanarono dal fuoco: alcuni si avviarono alle proprie tende, altri ai tamburi in attesa. «Tornerai in città?», disse Ricky. «No, vado al nord». Lo vide annuire. Sembrava meno grasso e più muscoloso. Si leccò le labbra e con aria diffidente le domandò: «Mia madre sta bene?» Sorren inspirò profondamente prima di rispondere. «Sì. Durante la lotta è stata ferita a un braccio, ma ora è in via di guarigione». «Quale lotta?» «Contro gli assassini. È stata lei a catturarli». Naturalmente dovette raccontargli tutto nei particolari. Il racconto le prese più tempo di quanto avesse immaginato; quando ebbe finito, riusciva a stento a tenere gli occhi aperti. Ricard l'accompagnò alla tenda delle figlie di Jenith. Era cambiato: non aveva più l'aria perennemente imbronciata e scontrosa di una volta. Giunti all'ingresso della tenda, le mormorò qualcosa, dopodiché si tuffò nell'oscurità della notte. Le parole borbottate somigliavano molto ad un Buon viaggio detto tra i denti. Con uno sbadiglio immenso che le fece schioccare la mascella, Sorren si ritirò nella tenda, grande abbastanza da ospitare quattro persone. Sorren trasse il mantello grigio dall'involto con le sue cose, e sistemò quest'ultimo in un cantuccio. Inginocchiatasi, distese il mantello, frapponendo uno strato di stoffa tra la terra ed il suo corpo. Jenith tirò fuori la pipa e la offrì alla ragazza, ma Sorren scrollò la testa. «Non ne ho bisogno,» disse. «Sto già sognando». «Sogni d'oro!», augurò Jenith. Si rivolse poi ad Aisha nella lingua degli Asech, e la donna più giovane portò una coperta a Sorren ridacchiando. «Questo può bastare,» disse indicando il mantello. Ma Aisha appoggiò
la coperta ai suoi piedi e ritornò al suo giaciglio. «Grazie,» disse Sorren. Si avvolse nella coperta ed adagiò la testa sugli stivali a mo' di guanciale. Uno squarcio di cielo blu trapelava da una fessura tra i pali della tenda, e verso di esso si levava il fumo della pipa di Jenith in un flusso continuo e regolare. I tamburi cominciarono a parlare. «Tutto bene?» disse Jenith. «Sei comoda?» «Sì, sto benissimo». Jenith sbadigliò. «Chissà dov'è Isak Med stanotte?», disse. Sorren non voleva pensare a Isak... Sì chiese invece se Arré Med fosse già andata a letto. Lalith avrebbe dovuto fare tutto ciò che fino al giorno prima era stato di sua competenza. Al cuoco, adesso, bisognava assegnare un'altra sguattera, qualcun altro che tenesse compagnia a Toli... Paxe stava certo dormendo, forse da sola, forse con qualcun altro... Sentì un bruciore negli occhi. Si rigirò, volgendo la schiena al cielo, ed adagiò la testa sul braccio. Ormai non poteva più ritornare a Kendra-sul-Delta; non c'era più posto per lei. Al mattino ringraziò le figlie di Jenith per la loro ospitalità. «Quanto dista Nuath da qui?», domandò a Jenith. «Una settimana e mezza,» disse l'Asech. «Sei giorni fino al bivio di Shanan, ed altri sei da lì a Nuath.» Il primo giorno di viaggio trascorse discretamente. Marciò lungo il ciglio della strada guardando i carri passarle accanto. Al tramonto giunse a Terzi, ma non entrò in città; imitando, invece, molti altri viaggiatori, dispose in circolo dei sassi e vi accese un fuoco nel mezzo. I raccoglitori dei vigneti avevano insistito per darle del cibo da portare con sé: mais e carne secca di capra. Si sedette così davanti al fuoco e consumò il suo posto, bevendo dalla fiaschetta d'argento. Le venne voglia di suonare e fece per prendere i tamburi dal bagaglio, ma poi pensò che all'aria aperta il suono si sarebbe disperso, sicché decise di mettersi a cantare. Cantò tutte le canzoni d'amore che riuscì a ricordare ma, quando intonò Sono uno straniero, si interruppe al pensiero di Arré e Isak. Il secondo giorno incontrò maggiori difficoltà. I campi correvano davanti al suo sguardo, piatti e uguali come nella mappa di Kadra. I carri ed i cavalli continuavano a passarle rumorosamente accanto, sollevando la polvere. A mezzogiorno consumò l'ultima striscia di carne. Il cielo era azzurro, contornato in lontananza da fiocchi di nuvole fungiformi. I campi erano
bruni, e nessuno sembrava accorgersi di lei, una piccola viandante solitaria sulla via maestra... La noia non tardò ad attecchire dentro di lei. Quella sera catturò un coniglio. Lo scuoiò e lo ripulì delle interiora usando il coltello di Kadra. La frugalità le impose di scrostare ben bene la pelliccia e di stenderla ad asciugare ad una buona distanza dal fuoco; affettò quindi la carne, l'arrostì e la mangiò. Un cespuglio di bacche le fornì un gustoso contorno. Era riuscita a colpire il coniglio al primo colpo e la cosa la rendeva assai orgogliosa. E fu quella gratificante sensazione che la indusse a prendere i tamburi. Ho ucciso un coniglio annunziò la voce dei timpani. Pah-pah-pah-dum-pah. Ne creò una canzoncina, imitando il trotterellare del coniglio ed il tonfo della freccia. Il fiume alle sue spalle l'accompagnava con una più profonda melodia. Alla fine si accoccolò tra l'erba secca arrotolandosi intorno il mantello, e restò ad ascoltare i grilli e l'acqua, desiderando un compagno con cui parlare. A mezzodì del terzo giorno giunse a Mahita. Sentì le pulsazioni accelerare mentre vi si avvicinava: Mahita non era un villaggio, ma una vera città. Il pigia pigia davanti alla Porta l'attrasse intensamente. Provò una voglia irresistibile di entrare. Ma non aveva nulla da comprare ai mercati di Mahita: se vi fosse entrata, avrebbe soltanto sprecato del tempo utile. Con severità si costrinse ad ignorare le strade che conducevano alle Porte della città. Quella notte dormì di nuovo all'aperto, presso il ciglio della strada. Distesa sull'erba a contemplare le braci incandescenti, rivolse i suoi pensieri a Kadra. Il ghya sarebbe stato fiero del modo in cui aveva imparato ad accendere un fuoco, a cacciare la selvaggina ed a vivere di ciò che le offriva la terra. Occorsero altri quattro giorni per raggiungere il bivio di Shanan. Pioveva quando vi arrivò. Quel luogo era in realtà una città di piccola estensione: aveva una scuderia, una sala di bagni pubblici, undici taverne, ed un mercato dove i viaggiatori potevano acquistare vivande, equipaggiamenti e persino cavalli. Sorren utilizzò parte del suo danaro per comperarsi un cappello di paglia, un parasole ed una filza di pesce affumicato. Oltrepassato il bivio, il paesaggio mutò. Benché la strada continuasse a costeggiare il fiume, i campi avevano cominciato ad ondularsi fino ad assumere l'aspetto di piane collinari. Grasse pecore brucavano sui pendii, e bassi muretti di pietra separavano tra loro i campi. Mulini a vento con le pale munite di assicelle, giravano su ognuna delle piccole alture. Stando alla mappa, di lì a poco si sarebbe trovata sulla strada che portava ad Elith. Osservò i falchi a caccia attraverso i campi mietuti e si interro-
gò sul da farsi. Doveva andare ad Elath? Non doveva andarci? Era una Maga, una di loro, ed una donna libera, non più schiava. Non l'avrebbero trattenuta se avesse deciso di lasciarli. La curiosità era viva in lei. Si chiese che aspetto avesse la città, chi vi abitasse: soltanto i Maghi? Che aspetto avesse il Tanjo, il primo Tanjo... come le aveva detto Rinti. Se lo figurò di pietra, due volte più grande di quello di Kendra-sul-Delta. Supponendo che vi fosse andata, quanto tempo le avrebbero chiesto di rimanervi? Due settimane, tre settimane, un mese... Fece roteare il braccialetto d'argento intorno al polso. Si stupì essa stessa di quel gesto che era tipico di Arré, e ridacchiò. Se fosse rimasta qualche tempo ad Elath, a nord sarebbe arrivato l'inverno, troppo tardi per rimettersi in viaggio. Sarebbe stata costretta a procrastinare il viaggio fino alla primavera. E non voleva farlo. Oltretutto... cosa aveva Elath da offrirle? I Maghi l'avrebbero trasformata in Sorren-laPostveggente. Ma lei non intendeva trascorrere tutta la vita attraverso squarci del passato; voleva andare a Tornor. La voce di Senta, interprete delle parole di Tukath, le risuonò nella mente. Non è facile rinunziare al proprio talento. Fuori dalle mura di Shonet scorse la prima pattuglia di soldati armati. Cavalcavano in sei; recavano sulle spalle emblemi neri e dorati, e dietro la schiena portavano le spade infilate nei foderi. Sorren si chiese se l'avrebbero fermata. In quel caso decise che avrebbe mostrato loro la lettera di Arré. Ma il gruppo le passò accanto degnandola appena d'uno sguardo. Più tardi, quel giorno stesso, incrociò un'altra pattuglia. Il Capitano, il cui elmo era adorno di un pennacchio dorato, stava ascoltando il capo di una carovana del Clan Blu. Man mano che si avvicinava alla città di Nuath, la strada si allargava. Ad un certo punto discendeva sotto un acquedotto. Ad un'ora di cammino dalle Porte, il traffico era già intasato. In breve si diffuse la voce che i soldati avevano bloccato la strada. Sorren apprese dai commenti degli altri viaggiatori che non si trattava di un fatto strano; pareva che una o due volte la settimana i soldati fermassero tutti i viaggiatori interrogandoli sulla loro provenienza e destinazione. Negli altri giorni si limitavano a controlli casuali. Quando Sorren giunse al posto di blocco, aveva già la lettera tra le mani. «Nome?», le chiese un uomo grasso coi baffi. Le rammentò Borti. «Sorren-no-Kité». «Luogo di partenza?»
«Kedra-sul-Delta». «Destinazione?» «Nuath». «Per quale scopo?», incalzò il soldato. Sorren gli mostrò la lettera. L'uomo stava guardando altrove e non la vide. «Affari, divertimento, ragioni familiari...» «Ecco perché,» disse Sorren, agitando la lettera sotto il suo naso. «Huh?» Finalmente la guardò e socchiuse gli occhi. «Uh!» Arretrò di qualche passo e strattonò una Guardia alle sue spalle. I due si bisbigliarono qualcosa. La seconda Guardia infilò le dita in bocca e fischiò sonoramente. Una donna con un elmo piumato si avvicinò alla barriera di legno: aveva i capelli chiari e l'incarnato giallastro proprio di chi abbia nelle vene sangue anhardita. Qualcuno gridò alle spalle di Sorren. «Ehi, cos'è che rallenta la fila?» «Sbrigatevi!» La donna con l'elmo ignorò le lamentele. «Cosa c'è?», disse. I soldati le mostrarono la lettera. Lei la girò leggendo il nome del mittente, poi guardò Sorren. «Quando sei partita da Kendra-sul-Delta?», le chiese. «Tredici giorni fa». La donna annuì. «Pintor!», chiamò. Un uomo si volse dalla fila di soldati a cavallo. «Conduci questa ragazza alla residenza del Signore Tarn Ryth». Fecero montare Sorren alle spalle del soldato. «Metti le braccia intorno alla mia cintola,» le disse. Era giovane, ed aveva un sorriso affabile. Portava un gallone sulla spalla destra, ed un'ascia sul fianco, ma non indossava armatura né spada. Cavalcava un castrato marrone che accolse senza difficoltà il peso in più. «Il mio nome è Pintir-no-Ellita,» disse. «Io mi chiamo Sorren». «Devi essere una persona importante, eh?» Le lanciò un'occhiata obliqua. «Non ti arrabbiare, scherzo. Sei mai stata a Nuath?» «No». Vista dall'esterno, Nuath le ricordava molto Kendra-sul-Delta. Era una vera città, circondata da solide mura di pietra che formavano un imponente anello difensivo. All'interno, però, Sorren notò parecchie differenze. A Kendra-sul-Delta predominava un odore di pesce e sale; Nuath, invece, era impregnata dall'odore di ferro, carne e cavalli. Le costruzioni erano di pietra, non di legno, e vi erano infisse solide finestre dotate di vetri opachi in luogo dei fragili paraventi. Tutti i soldati erano armati di spada, e molte
persone portavano dei pugnali infilati nella cintura. Anche gli abitanti erano diversi. Erano più alti e robusti della gente del sud. Molti avevano la pelle chiara, i capelli biondi o rossicci, e Sorren, per la prima volta nella sua vita, cominciò a sentirsi inosservata. Nell'avvicinarsi alla facciata principale della dimora del Signore, Sorren per un attimo ebbe la sensazione di essere tornata indietro, nel suo recente passato. La costruzione era molto grande, bianca, e prospiciente il fiume. «Grandiosa, vero?», disse Pintor nel vedere la sua espressione. Quando i due grossi battenti del portale d'ingresso sì aprirono, Sorren si aspettò di vedere Tokki, il dispensiere. Ma l'interno della casa di Ryth non aveva nulla in comune con quella degli Ismenin: lampade luminosissime rischiaravano i saloni di pietra bianca; tappeti di pelliccia rivestivano il pavimento; arazzi immensi e ricchi di sontuose raffigurazioni adornavano le pareti; bracieri profumati riscaldavano il corridoio d'ingresso. Una donna vestita di giallo accolse Sorren alla porta. «Benvenuta a Nuath!», le disse. «Io mi chiamo Windra e mi occupo dell'amministrazione della casa. Il Signore Tarn da Nuath Ryth è occupato in questo momento, ma si libererà tra breve e potrà riceverti; nel frattempo mi ha detto di offrirti del cibo, abiti puliti e, se lo desideri, un bagno caldo». «Lo desidero,» disse Sorren. L'ultimo bagno lo aveva fatto a Kendra-sulDelta, e si sentiva sporca dopo tanti giorni di viaggio. La donna la condusse in una camera nell'interno della casa, dove trovò una tinozza piena di acqua calda, una tavola ricoperta di cibo, ed un letto col baldacchino. «Se hai bisogno di qualcosa, suona il campanello e qualcuno verrà,» le disse, chiudendosi la porta alle spalle. Sorren si liberò del bagaglio, si spogliò, ed entrò nella tinozza con un sospiro, si spogliò, ed entrò nella tinozza con un sospiro. Un pezzo di sapone profumato all'arancia era a sua disposizione. Restò sdraiata a lungo nell'ampia tinozza mentre la polvere della strada si scrostava dalla pelle e dai capelli galleggiando sulla superficie dell'acqua. Quando uscì dalla tinozza, la pelle dei polpastrelli era bianca e raggrinzita. Si asciugò con un telo più grande di lei ed indossò gli abiti che trovò spiegati sul letto: pratici indumenti da viaggio consistenti in un paio di pantaloni trapuntati di colore marrone ed una tunichetta di lana azzurra. Trovò anche un paio di stivali leggeri, foderati di pelliccia. Il cibo pareva strano agli occhi di una meridionale: c'era del pesce, naturalmente, ma anche una quantità di carne maggiore di quelle che era abi-
tuata a vedere in tavola, e verdure che non aveva mai visto. Fu da queste che trasse il primo assaggio sperimentale. Si era appena pulita le mani, quando Widra aprì la porta. «Il Signore Tarn Ryth vuole vederti ora,» annunziò. Sorren, munita della lettera, la seguì lungo un corridoio fino ad un'altra camera. «Entra!», disse la donna, e Sorren entrò da sola in quello che capì essere lo studio di Tarn Ryth. Armadi colmi di rotoli di pergamena tappezzavano le pareti; il loro numero superava addirittura quello degli armadietti che aveva visto nella biblioteca di Marti Hok. Tarn Ryth era in piedi al centro della stanza, e l'aspettava. Lo trovò più grosso di quanto ricordasse; con la folta barba riccia e lo splendore aureo del suo abbigliamento, sembrava assai più che il Signore di quella città. Non sapendo cos'altro fare, Sorren si inginocchiò dinanzi a lui, e rimase sbigottita quando si sentì sollevare da sotto il gomito per tornare nella posizione eretta. I denti dell'uomo luccicarono tra la barba maestosa. «Qui non badiamo troppo ai cerimoniali come da voi al sud,» disse. «Hai una lettera per me?» «Sì, mio Signore,» disse Sorren, porgendogliela. Tarn Ryth la prese dalla sua mano e ne staccò il sigillo col pollice. «Huh!», commentò, mentre gli occhi ne scorrevano il contenuto. «Oh!» Gli occhi si assottigliarono. Quando ebbe finito di leggere, sorrise. «Tu sai cosa dice questa lettera?», domandò a Sorren alzando gli occhi. «No, mio Signore». «Mi informa dell'esilio di Isak Med... e di altre cose. Quando sei partita da Kendra-sul-Delta?» «Tre giorni dopo l'allontanamento di Isak, mio Signore». «Hai viaggiato sempre a piedi?» «Sì». Contrasse le labbra, ma non le chiese perché. «Dimmi come sta Arré Med,» le disse invece. «Ha sofferto molto per l'azione di suo fratello? Si è ripresa? Sta bene? Ha avuto a che fare col L'hel da quando mi ha scritto?» Rispondere a queste domande richiese diverse ore. Alla fine, soddisfatto, disse: «Le scriverò stasera stessa, e le manderò la lettera domattina. Aggiungo i tuoi saluti?» «Sarebbe molto gentile da parte tua, mio Signore». La voce dell'uomo si fece estremamente affabile. «Tu le vuoi bene, vero?» Sorren annuì.
«In questa lettera mi chiede di offrirti tutto ciò di cui hai bisogno. Dice che tiene a te come alla figlia che non ha mai avuto». Sorren rimase in silenzio. Arré non le aveva mai detto una cosa simile, mai a parole. Alla fine si rivolse al Signore di Nuath: «Mio Signore, ho il danaro. Comprerò al mercato ciò di cui avrò bisogno». L'uomo sbuffò. «Prenderai almeno un cavallo dalla mia scuderia?» «No, mio Signore. Non mi troverei a mio agio in groppa ad un cavallo. Preferisco andare a piedi». Tarn si tirò leggermente la barba. «Ha detto che avresti risposto così. Ma...», le puntò contro l'indice, «terrai i vestiti che indossi ora, come mio dono. Ti occorreranno presto; qui il tempo è peggiore di quello a cui sei abituata laggiù. E stanotte sarai ospite in casa mia. Sarai servita meglio che in una taverna». Sorren chinò il capo. «Grazie». «A quale scopo vai a nord, Sorren?» «La mia famiglia viene da lì, mio Signore». Tarn Ryth si muoveva senza posa; la luce delle candele sfavillava sul suo abito dorato. «Dove di preciso?» Sorren avrebbe preferito tacerlo. «Una Rocca. Tornar». «Proprio là!» Socchiuse gli occhi. «Ho avuto rapporti con la gente di Tornor. Sono... indipendenti. Ma degni di ammirazione. Porteresti un mio messaggio alla Rocca di Tornor?» «Una lettera, mio Signore?» «No, non una lettera. Semplicemente i miei saluti alla Signora Merith, Governatrice di Tornor. E...», sollevò una mano per sottolineare l'importanza di quella parte del messaggio, «quello di mio figlio: i saluti di Dennis a sua figlia. Te lo ricorderai?» «I tuoi saluti alla Signora Merith; i saluti di tuo figlio Dennis a sua figlia,» ripeté la ragazza. «Grazie.» Toccò un campanello appeso ad una corda. Un istante dopo, Windra comparve nel vano della porta. Il mattino seguente Sorren si recò al mercato e comperò un'ascia, pellicce da viaggio, una pietra per molare il coltello ed un pezzo di magnetite. Gli acquisti le costarono quasi un terzo del danaro che aveva con sé. Mentre girava per il mercato, scorse una statua del Guardiano. Con l'elmo sul capo ed una spada intagliata nella pietra somigliava ad un soldato, e quell'immagine la turbò, inducendola ad affrettare il passo mentre gli
camminava davanti. Da Nuath giunse ad Yfarra, poi a Morriton ed a Septh. Fu fermata tre volte da pattuglie di soldati e, dopo la terza volta, spiegò il mantello da Messaggero lasciatole da Kadra, e lo indossò sopra le pelli da viaggio. Da quel momento, con una grande delizia e stupore, passò indisturbata tra le pattuglie di soldati. A Septh spese altri soldi, pagando per farsi traghettare fino al Lago Aruna dai barcaioli che risalivano e discendevano il corso del fiume a bordo di lunghe chiatte dai bordi alti. Le chiesero dove fosse diretta, e lei rispose; «A nord». «Stai attenta ai banditi!», le raccomandarono. Quelle parole le fecero ricordare Isak. «Quali banditi?», domandò. Le spiegarono che, negli ultimi anni, bande di malviventi estromessi dalle città si aggiravano nelle campagne a nord di Tezera rubando capi di bestiame, rapinando viaggiatori imprudenti ed assalendo le ultime carovane autunnali. «Non la molesteranno,» disse il Comandante in Seconda dell'imbarcazione, un uomo di nome Rok. «È armata». «Loro non portano armi?», chiese Sorren. L'idea di imbattersi in una banda di grassatori la terrorizzava. Ma il Capitano della chiatta, una donna chiamata Tovi, scosse la testa e sputò. «No. Chi venderebbe loro le armi sapendo che il giorno seguente potrebbero tornare a scannarti?» «Potrebbero rubarle,» suggerì Sorren. Tovi scosse di nuovo la testa. «E dove?», disse calma. «Oltre alle spade che portano i soldati di Tarn Ryth...» «Ed ai nostri coltelli,» soggiunse Rok. «Ed ai nostri coltelli,» ribadì Tovi, «non ci sono armi al nord». Sorren si ripromise di usare prudenza. Presso le sponde del Lago Aruna cacciò al chiarore della luna, e divise il pasto con una pescatrice di passaggio. Il terreno andava somigliando sempre più ad una palude, divenendo perciò più insidioso, anche in prossimità della strada. Stormi di anitre oscuravano l'aria sugli acquitrini, volando in circoli bassi e monotoni. Servendosi dell'ascia, trasformò un ceppo in un bastone e, con occhio vigile, si preparò all'eventualità di qualche brutto incontro, ma non ne fece alcuno. Superata Tezera, viaggiò per tre giorni in compagnia di un mercante diretto alla Rocca di Zilia. Si separarono alla biforcazione della strada: l'uomo andò a nordovest, Sorren a nordest. Ormai il più era fatto. Le cinghie dello zaino le tagliavano la pelle, e i
polpacci le dolevano come quando aveva attraversato il Galbareth. Da due giorni marciava in salita, su un terreno cosparso di sassi. Le montagne, davanti a lei, tagliavano il cielo nette come lame di coltello. I giorni erano brevi ed uggiosi, e persino a mezzogiorno il sole non superava di molto le creste dei monti. La falce di luna crescente brillava a ponente. Sorren affrontò la savana. Quattro giorni prima era caduta la neve; Sorren non l'aveva mai vista, e la bianca lamina sfavillante la incantò con la sua bellezza, fino a quando non provò ad attraversarla, scoprendola bagnata e fredda. Il giorno seguente, nei primi lucori dell'alba, scorse la prima volpe grigia. Dapprima la scambiò per un lupo e restò paralizzata mentre il cuore le ballava in gola; poi si accorse di quanto era piccola, e riconobbe il muso e la coda larga e folta come un pennello. Una lingua rossa penzolava tra le mascelle. La bestiola rimase appollaiata presso un macigno finché il vento non cambiò. La notte successiva, la temperatura si abbassò bruscamente, raggiungendo livelli assolutamente nuovi per lei: si rintanò come un animale tra rami di pino caduti osservando il suo alito solidificarsi in cristalli di ghiaccio che cadevano al suolo. Avvistò davanti a lei un boschetto di pini nani e decise di fermarvisi e riposare al riparo dei loro rami. La notte precedente aveva dormito nella capanna di uno spaccalegna. L'uomo l'aveva vista procedere a piedi e le aveva offerto un passaggio sul suo carro. Non era stato facile comprendersi, giacché Sorren parlava col rapido accento delle città, mentre il dialetto dell'uomo era lento, compatto e morbido. La ragazza gli chiese quanto distasse ancora la Rocca di Tornor e, alla fine, riuscì a capire che un solo giorno di viaggio la separava dalla meta. Il taglialegna la ospitò per la notte; dormì sul pavimento, accanto al fuoco. Al mattino l'uomo le diede delle strisce di carne secca. In cambio, Sorren gli lasciò la pelle di coniglio sperando che l'avrebbe utilizzata in qualche modo. La carne fu un dono più prezioso di quanto l'uomo potesse immaginare, poiché le erano rimaste soltanto due frecce. Al riparo del boschetto, la sferza del vento era meno violenta. Grata, Sorren si scrollò lo zaino dalle spalle. Frugò dentro in cerca della fiaschetta d'argento. Trovatala, ne strappò coi denti il sughero e bevve una lunga sorsata d'acqua. Prese poi una striscia di carne e la masticò godendone il sapore. Sentì il tanfo che esalava dalla sua persona. Si figurò la sensazione meravigliosa che le avrebbe procurato fare un bagno. Nelle ultime notti aveva sognato acqua e cibo caldo, nonché il calore del sole del sud. Inghiottì, ed un pezzetto di carne secca le scivolò lungo la gola gelata.
Qualcosa si mosse tra i pini: un uccello, forse, o una donnola. Sorren osservò con curiosità, chiedendosi se si sarebbe mostrata; ma, alla vista della ragazza l'animale svanì nel nido o nella tana. Si rimise lo zaino sulle spalle. Inspirò una boccata di aria secca e gelida: profumava di pino, di roccia e di silenzio. Davanti le montagne l'attendevano. Gli stivali scrocciarono sul terreno roso dalla brina; si allontanò dal boschetto socchiudendo gli occhi al bagliore niveo. Capitolo ventiquattresimo A mezzogiorno Sorren giunse a Tornor. Una mole compatta e poderosa si stagliava contro il paesaggio di ghiaccio: il castello scintillava alla luce del giorno. Era più grande del Tanjo, più grande della casa degli Ismenin. La piana antistante era ricoperta di neve punteggiata da massi lisci tondeggianti, quasi che un gigante avesse cercato di usare la nuda terra per piantare una seconda catena di montagne. Sorren avanzò tra i massi impugnando il bastone. Man mano che si avvicinava al castello, esso diventava sempre più grande. Scorse il cancello delle mura esterne, e una bandiera sventolare dai bastioni raffigurante una stella rossa a otto punte in campo bianco. Tornor! Slacciò la cordicella del cappuccio e lo gettò dietro, incurante del vento aspro, avida di scoprire le cose viste e riviste nelle magiche apparizioni: le Guardie, i greggi, la torre. Dov'era la Torre di Guardia? Non riusciva a scorgerla. Sforzò gli occhi fino a farli lacrimare. Una grossa colonna di fumo si levava dal castello. Stringendo il bastone, Sorren si mosse in direzione del cancello dissestato. Attraversò il ponte di legno gettato sul fiume gelato. Le assi erano coperte di ghiaccio e dovette usare il bastone per sgombrare la via. Giunta nel centro del ponte, si affacciò a guardare il fiume. La coltre di ghiaccio che lo ricopriva era dura, increspata e scolorita, ma sotto riuscì a scorgere l'acqua che fluiva, scura e pulsante di vita. Correva seguendo il cammino che lei stessa aveva percorso: attraverso le paludi tezerane, il Galbareth, oltre le colline, i frutteti ed i campi di cotone, per gettarsi nel mare del sud. Si avvicinò maggiormente al cancello. «Alt!», gridò una voce. Sorren si arrestò. Scrutò lentamente la zona d'accesso cercando di localizzare la provenienza di quella intimazione. Una figura emerse dall'intrico di pietre intorno al cancello rotto. Si avvicinò a Sorren e lei si accorse che
si trattava di un ragazzo. Alto e slanciato, aveva la pelle chiara, arrossata dal freddo, e gli occhi erano azzurri come lapislazzuli, azzurri come la pietra che rifulgeva sul suo bracciale. I suoi capelli costituivano una folta criniera. Indossava una pelliccia rovesciata, sì da tenere il pelo a contatto col corpo. Le sue mani erano rivestite da guanti, e non brandivano armi. «Chi sei?», le domandò. «Dove stai andando?» «Mi chiamo Sorren, e vengo dal sud». «Lo vedo. Porti stivali nuathani. Sei una Messaggera?» Sorren pensò al messaggio verbale affidatole da Tarn Ryth. «Sì». «Lo avevo immaginato. Sei sola?» Sorren sorrise e puntò un pollice verso la scia che aveva lasciato sul terreno. «Vedi qualcun altro?» Il ragazzo ridacchiò. «No.» Si lisciò i capelli con le dita. Sorren si domandò quanti anni avesse. Undici o dodici, non di più, pensò. «Sai usarlo?», le chiese il giovane, indicando l'arco. Sorren annuì. Il vento la sferzava con fredde raffiche, e la ragazza rabbrividì mentre i muscoli cominciavano a perdere il calore creatosi durante la marcia. «Tu sei la Guardia del castello?», gli chiese. Il ragazzo sorrise raggiante. «Sì!», esclamò. «A volte,» si corresse. «Hai visto mia sorella? Sta cavalcando». «Non ho visto nessuno». «Con lei c'è Lauf. Vieni da questa parte!», le disse con un cenno di capo. «Il cancello è alzato.» Sorren lo seguì, camminando con prudenza tra i detriti del cancello rotto, schegge di legno e frammenti di ferro arrugginiti. Pur privo di porta, l'arco che si apriva nelle mura esterne era formidabile. «Mia madre è nel cortile,» disse il ragazzo. Attraversò il cancello interno, fiancheggiato da due garitte. Il cancello era arrugginito e, nel passarvi sotto, Sorren ebbe l'impressione di entrare in una bocca irta di denti dalle punte di ferro. Seguì la piccola guida nel cortile interno. Una donna stava spazzando. Il ragazzo trotterellò verso di lei. «Madre!» Le bisbigliò qualcosa all'orecchio con aria impaziente. La donna raccolse la scopa e girò intorno al mucchietto di foglie e sterco dirigendosi verso Sorren. Era di corporatura minuta, ma gli strati di abiti trapuntati ed un casaccone di pelliccia la infagottava facendola apparire più grassa di quel che era. Aveva il viso largo, la pelle e gli occhi chiarissimi. Dovrei parlare io per prima, pensò Sorren. Io sono straniera qui. «Salve!», disse la donna. «Benvenuta alla Rocca di Tornor».
Aveva una voce piacevolmente gutturale. I capelli erano lunghi e di colore castano chiaro; li portava sciolti, infilati tra la camicia ed il casaccone di pelliccia. «È una brutta stagione per viaggiare nel nord». «Lo so. Quando sono partita dal sud era estate». «Vieni dal sud?» Sorren si appoggiò al bastone. «Da Kendra-sul-Delta», disse. Il ragazzo spalancò la bocca per lo stupore. «Non me lo avevi detto!» «Ryke,» lo rimbrottò dolcemente la donna, «è maleducazione interrompere chi sta parlando». Il ragazzo divenne rosso come un lampone. «Hai viaggiato a piedi?», chiese la donna. «Per la maggior parte. Ho approfittato di qualche carro di passaggio, ma per lo più ho dovuto marciare sin dal Lago Aruna.» il vento spirava violento, sparpagliando le foglie. «E qual è la tua destinazione?» «Qui,» disse Sorren. «La Rocca di Tornor,» Distolse gli occhi dal viso della sua interlocutrice per abbracciare il cortile con lo sguardo. Era vuoto, come il guscio di un mollusco che abbia trovato una nuova dimora. Lo stendardo garriva in un lamento luttuoso contro le mura. «Sono pochi i viaggiatori meridionali che si spingono così a nord,» osservò la donna. Appoggiò la scopa alla parete. «Ryke, vai a dire a Meg che abbiamo un'ospite. E chiedi a Innit di riscaldare dell'acqua.» Il ragazzo annuì e salterellò via. La donna lo seguì con lo sguardo con un'espressione improvvisamente dolcissima. Tossì; un suono aspro nella quiete della Rocca. «Come ti chiami, viaggiatrice?» «Sorren-no-Kité». La donna inarcò le sopracciglia, in un modo che le ricordò Arré. «Sorren. È un nome famoso, qui a Tornor, almeno. Ma forse dimenticato dalle altre parti. Come Tornor». «Io non l'ho dimenticato,» disse Sorren. «Molti ne hanno perso il ricordo,» disse la donna in tono grave. «D'altronde, cos'è una Rocca senza qualcosa da salvaguardare? Tornor non ha una guarnigione. È passato molto tempo da quando il nord possedeva ciò che l'Arun desiderava o di cui aveva bisogno. Ma le cose possono sempre cambiare,» aggiunse criticamente. «Mio figlio ha detto che hai un messag-
gio da riferire». «Sì. Da parte di Tarn Ryth da Nuath per la Signora Merith.» Alzò gli occhi verso le costruzioni all'interno delle mura, chiedendosi quale tra esse fosse la dimora della Signora di Tornor. Se la immaginò esile, pallida, nascosta da qualche parte dietro le spesse mura. La donna sorrise: le rughe divennero più profonde attorno ai suoi occhi. «Sono io Merith». Sorren spalancò la bocca. «Credevo che fossi una serva!» La Signora di Tornor scoppiò a ridere. «Perché ho in mano la scopa? Qui io lavoro. Tutti lavorano.» Raccolse la scopa e Sorren notò soltanto allora l'anello che portava alla mano sinistra. Una gemma rossa incastonata su una fascia di metallo giallo; sembrava molto antico. Sorren congiunse le palme e si inchinò. «Signora...», disse. Merith tossì di nuovo, con un suono spezzato e lacerante. A Sorren rammentò Kadra. «Vieni dentro!», la invitò. «Entra: così parleremo. Devo sentire il tuo messaggio. Sono curiosa di sapere cosa ti ha portato fin qui da Kendra-sul-Delta. Sono sicura che il messaggio di Tarn Ryth non è stato lo scopo principale del tuo viaggio». Impugnando il bastone, Sorren seguì la Signora di Tornor attraverso il cortile. Oscuri edifici di pietra sporgevano alla sua sinistra; finestre sprangate interrompevano le solide pareti. Poche finestre erano socchiuse. Altre erano aperte, e i battenti ondeggiavano al vento, graffiando la pietra. Una sala si ergeva direttamente davanti a lei; a destra scorse un pozzo ed un altro edificio che, indovinò, un tempo doveva essere stato la fucina di un fabbro. A cosa servisse attualmente non sapeva immaginarlo. Uno spazio aperto si allungava accanto alla fucina. La Piazza d'Armi, pensò. La polvere che l'ammantava in uno strato uniforme, non era interrotto da orme. Dalla costruzione sulla destra della sala si levava una colonna di fumo. Guardò fissamente le mura interne, domandandosi a quanto datassero. Sapeva che Kendra-sul-Delta era più vecchia delle Rocche, ma laggiù, le abitazioni, le sale e le botteghe, erano state ricostruite un centinaio di volte. Il legno marciva o bruciava; i paraventi si laceravano; i mattoni si sgretolavano. Le mura di Tornor erano più vecchie di qualunque costruzione del sud. Percepì il peso del passato nel granito di quei muri: lo vide nella roccia scura ed implacabile. I miei familiari hanno camminato su queste pietre, pensò. Sono entrati nella immensa sala. Le finestre erano strette e lascia-
vano appena trapelare la luce, ma Sorren riuscì ugualmente a distinguere le alte travi arcuate del soffitto, i contorni del gigantesco camino, ed anche gli arazzi. Erano incrostati di sudiciume, gravati dal peso di una polvere secolare: qui un cavallo s'impennava con le narici fiammeggianti; là un uomo brandiva una spada a stento riconoscibile. Un fuoco sfrigolava nel camino. Merith si avvicinò ad esso, ed i tacchi degli stivali echeggiarono sul pavimento di pietra. Davanti al focolare vi era una lunga tavola. Un vecchio stava in piedi lì vicino: una marcata gibbosità gli storpiava la schiena, sicché una spalla era più alta dell'altra. Le sue mani erano nodose e raggrinzite. Guardò le due donne da sotto le folte sopracciglia grigie. «Questo è Sark, il dispensiere di Tornor,» disse Merith. Il vecchio grugnì, probabilmente in segno di saluto. Merith serrò le labbra. Sark guardò Sorren a lungo. «Da dove sei venuta?» «Da Kendra sul Delta». «Avrai bisogno di lavarti». «È stato già disposto!», disse Merith con impazienza. «Di' a Meg di sbrigarsi col pranzo.» Il vecchio sbuffò, poi depose un piatto sul tavolo e si avviò verso la cucina. «Puoi toglierti lo zaino dalle spalle, Sorren,» le disse Merith, sedendosi su una delle lunghe panche. Sorren appoggiò il bastone al tavolo ed allentò le corregge dello zaino, poi lo lasciò scivolare giù dalle spalle mentre si sedeva. Si sfilò quindi i guanti e si strofinò le gote con tutte e due le mani. Il calore della fiamma la raggiunse procurandole un brivido. Quel luogo desolato non era certo ciò che aveva sognato. Aveva immaginato che Tornor fosse una piccola città, piena di vita e movimento. La stanchezza le si insinuò nelle ossa e chiuse gli occhi cercando di evocare un sogno, uno qualsiasi. Sicuramente, trovandosi lì, nel cuore di Tornor, avrebbe avuto una delle sue visioni. Ma non accadde nulla; la realtà - fredda, sporca, senza vita - cancellava il suo legame col passato. Cosa sto facendo qui? pensò. Perché sono venuta in questo posto? In preda all'angoscia, si ritrovò a pensare a Paxe, ad ascoltare nel vuoto in attesa dei passi di Paxe, ad aspettare di vederla apparire da un momento all'altro... Ma Paxe non era lì. Non ci sarebbe mai stata. Sollevò la testa, lottando per reprimere le lacrime. Merith la stava osservando. «Capisco che devi essere stanca,» disse la Governatrice di Tornor. Sorren annuì senza rispondere. Anche Merith aveva un'aria stanca. Una
raggiera di rughe le contornava gli occhi; non le rughe dovute all'età, ma quelle più profonde della preoccupazione e della fatica. Si slacciò la pelliccia e Sorren notò dei rattoppi sulla camicia trapuntata. La superficie del tavolo era scalfita da numerosi fori e tacche. I piatti ed i vassoi erano di metallo, ma scoloriti in modo tale che Sorren dovette sforzare la vista per riconoscere le antiche decorazioni. Ne seguì i rilievi frusti con i pollici e scoprì prima un animale - una capra, pensò, per via delle corna - e poi un cacciatore che imbracciava un arco. «Quanti anni hanno?», chiese Sorren. «Due... trecento anni?», disse Merith. «Non lo so. I documenti sono andati distrutti quando è crollata la Torre». «Quando è crollata la Torre? Come? Perché?» «È stato parecchi anni fa,» disse Merith. «Quarant'anni fa, forse. Io ero una bambina. Dissero che era stato il vento, ma non può essere vero. Dev'essere stato il freddo a far crepare le mura». «Cosa ne fecero?» «Furono trasportate al villaggio ed usate per costruire. I documenti...» s'interruppe un istante «... molti finirono bruciati. Alcuni furono portati al sud e venduti. La Corporazione degli Scolari di Tezera ne acquistò parecchi». Memore dei documenti nello studio di Marti Hok, Sorren provò un senso di colpa. Poi disse a se stessa di non essere sciocca: non era stata lei a vendere quei documenti al nonno di Marti Hok. «Perché i documenti furono venduti?» Merith assunse un'espressione stupita. «Per ottenere danaro, naturalmente!», disse. Con un gesto della mano abbracciò L'intera sala. «Non lo vedi, Sorren? Tornor è povera. Un tempo la maggior parte della lana dell'Arun proveniva dal nord, ma i greggi si sono trasferiti ad ovest, ad est, a sud, ed i mercanti dell'Anhard non passano più per Tornor. Preferiscono i Passi meno elevati vicino alle Rocche di Pel e di Zilia. Durante gli Anni della Guerra, le Rocche non dovevano pagare per la carne, il grano, le stoffe o il cuoio: ora i villaggi ci forniscono tutto ciò, e non per gratitudine o per carità. Io sono la venticinquesima Governatrice di Tornor, e forse l'ultima. E ormai Tornor è un rudere. Lasceresti un rudere in eredità ai tuoi figli?» La sua voce si alzò, echeggiando nel salone. Sorren strinse tra le palme la ciotola d'argento. «Non lo so!», disse. «Mia madre era una raccoglitrice d'uva. Quando morì, mi lasciò una camicia, un vecchio cappello di paglia, ed un mazzo di Carte».
Una porta si aprì all'estremità della sala che comunicava con la cucina, ed entrò una donna recando un vassoio con del cibo. Lo stomaco di Sorren borbottò all'odore della carne. La donna portò il vassoio al tavolo e lo poggiò pesantemente davanti a Merith. Era bassa e tarchiata, con muscoli poderosi simili a quelli delle lavoratrici della darsena. Indossava un grembiule di cuoio pieno di macchie. «La carne fresca sta per finire!», annunziò. «Dovremo procurarne dell'altra nel villaggio». «Sorren, questa è Meg. Sorren è venuta dal sud,» spiegò Merith. «Huh,» grugnì Meg. «È arrivata giusto in tempo. Tra due giorni ci sarà la neve». «Come fai a dirlo?», fece Sorren. «Dall'odore del cielo. Io sono nata qui». «Io sono nata in un vigneto, credo. Ma la mia Famiglia è originaria di Tornor». «Non mi sorprende,» disse Meg. «Dirò a Sark di uccidere uno dei maiali». «Fai pure,» assentì Merith. Una caraffa di vino e tre calici erano pronti sul vassoio. La Signora versò il vino in due dei calici e ne sospinse uno verso Sorren. La ragazza ne bevve un sorso. Era vino bianco, aspro come l'inverno, ma tale da lasciarle un calore intenso sulla lingua e nello stomaco. I calici erano di cristallo giallo. Merith le servì della carne nel piatto e Sorren l'assaggiò. Era piccante e speziata. «È buona!», disse. Meg era rimasta in piedi accanto al tavolo con le robuste braccia incrociate sul petto. Annuì. «È ovvio!», disse, allontanandosi con andatura marziale. «Io e Meg abbiamo la stessa età,» disse Merith. «Siamo cresciute assieme, e mi ha aiutato a partorire i miei due figli.» Si asciugò la bocca con un tovagliolo. «Bene, qual è il messaggio che devi comunicarmi?» «Solo saluti. Per te da parte del Signore Tarn Ryth, e per tua figlia da parte di Dennis, il figlio di Tarn». Merith si accigliò. «Come mai ha preso te per Messaggera? A Nuath c'è una Sala del Clan Verde». «Dovevo venire qui comunque, ed ero passata da lui per trasmettergli un messaggio da parte di Arré Med». «Arré Med... ah, la Famiglia Med di Kendra-sul-Delta. Fu un ribelle della loro Famiglia a costruire la Rocca di Tornor.» Merith sorrise a Sorren. «Ti sorprende che debba pensarci un po' su per riconoscere quel nome?
Tornor è isolata, sai, Sorren-no-Kité. Io sono stata a Tezera, e due volte sono scesa fino a Nuath, ma mai più a sud, e nessuno in questa casa è mai andato a Kendra-sul-Delta». «Quante persone abitano qui?», chiese Sorren. «Dieci, contando anche i cavalli. Io, Ryke e Kedéra, Sark, Meg, Juli, che aiuta Meg, Innis, la figlia della sorella di Meg, che si occupa delle pulizie, ed Embri, che si occupa delle stalle. Una volta all'anno mia sorella viene a farci visita da Elath». «Tua sorella è una Maga?» «Sì. Sono trent'anni che Miella vive nella Città dei Maghi. Sa prevedere i cambiamenti del tempo». Ryke si precipitò nella sala dalla porta della cucina. «Sark ha detto che posso aiutarlo ad uccidere il maiale!», esultò. «Vieni qui!», disse sua madre. Il ragazzo le si accostò. La donna gli carezzo i capelli con la palma della mano. «Fai attenzione a ciò che dice». «Sì, mamma.» Merith aveva appena sollevato la mano dalla sua testa, che era sfrecciato via verso la porta. «Quanti anni ha?», domandò Sorren, quando fu sparito. «Undici». «Non sembra angustiato dall'isolamento di questo luogo». «No: trascorre molto tempo nel villaggio. È Kedéra a soffrire terribilmente. Lei... è scontenta. E non so cosa la renderebbe felice.» La voce di Merith si fece così fievole che Sorren riuscì a stento a distinguere le parole. Mangiò ancora un po' di carne. Aveva un sapore strano, come se fosse leggermente guasta. Arré non l'avrebbe mai mangiata. D'improvviso guardò quel luogo con gli occhi di Arré: un enorme rudere freddo e scomodo. Arré non ci sarebbe mai rimasta. «Perché stai qui?», chiese alla Signora di Tornor. «Perché ci sono nata, e tocca a me aver cura di questo posto,» rispose Merith, poi abbandonò il tono grave per assumerne uno più vivace, «Ma perché tu ci sei venuta, piuttosto? Tua madre era una raccoglitrice d'uva, ma la tua Famiglia era originaria di Tornor, è così? Come lo hai saputo?» Sorren appoggiò i gomiti sul tavolo e, nella maniera più semplice possibile, raccontò delle visioni, delle visite a Marti Hok ed ai Maghi del Tanjo, e della sua determinazione di andare al nord non appena fosse diventata una libera cittadina. Merith l'ascoltò centellinando il vino. Quando Sorren tacque, commentò:
«Sembra il racconto di una leggenda». Accennò un sorriso. «Se lo fosse veramente, adesso ti farei un bel discorso dando il benvenuto ad una figlia perduta da tanto tempo e finalmente ritrovata. Ma qui non c'è nulla che possa accoglierti così calorosamente. Temo che le tue visioni ti abbiano ingannato, come solitamente accade con cose del genere. Qualunque cosa tu cerchi - gloria, eroismo - ormai non è più qui, se mai c'è stata, cosa di cui dubito». «Ma io non cercavo la gloria,» obiettò Sorren. Il suo pollice scivolò sulla ciotola consunta. Chissà se la donna che portò il mio nome si sedette mai su questa panca e tocco questa ciotola, si domandò. «Mi fai vedere le Carte?», le chiese Merith. Sorren provò una strana riluttanza a mostrarle. Malgrado ciò, affondò la mano nello zaino e ne trasse fuori il cofanetto che poi depose sul tavolo. Merith aprì il coperchio e scostò la seta dalla figura del Danzatore. Mentre lo osservava, l'espressione del suo volto si addolcì come quando guardava il suo figliolo. «Sì,» disse. Sollevò la figura per guardare la Carta successiva. «Oh, che bei colori... come sono vividi. Quanto hai detto che sono vecchie?» «Non lo so,» disse Sorren. «Comunque molto». Merith tossì e prese la scatoletta tra le mani. «Sembra curioso pensare che dei fragili pezzi di pergamena abbiano il potere di evocare delle visioni.» Lanciò a Sorren un'occhiata obliqua. «Ne hai avute da quando hai varcato il cancello?» «No. I Maghi lo avevano previsto». «E non sai leggerle?» «No». «Allora non ti sono di grande utilità, vero?» Merith tossì di nuovo. «Se le avessero lasciate a me, le avrei certo vendute». Sorren provò orrore a quell'idea. «Perché?» «A che servono?», chiese Merith. Il dolore aveva reso la sua voce stridula. «Possono forse procurare del cibo per un bambino affamato, o sanare una gamba spezzata, o salvare un uomo che sta per annegare? Se fossero mie e non fossi riuscita a venderle, le avrei bruciate.» Il suo volto rigido ed immobile fissava gli arazzi col loro offuscato fulgore. «Il passato è una pastoia, una catena. Meglio dimenticarlo e ricominciare da capo. Strapperei anche quegli arazzi dai muri se non servissero a riscaldare la stanza!» Poi gettò il cofanetto nelle mani di Sorren. Dal cortile sopraggiunse il nitrito di un cavallo. Sorren udì il tintinnio
dei finimenti ed il rumore degli zoccoli sul selciato. La voce di una giovane gridò: «Hoy! Embri!» Qualcuno corse nel cortile. Seguì il latrato di un cane. Merith ripiegò le braccia in grembo. «Kedéra è tornata». La porta si aprì. Sorren sentì un lieve fremito percorrerle i nervi, come se qualcuno l'avesse pizzicata di sorpresa. Kedéra apparve nella cornice della porta: era di corporatura minuta come quella di sua madre, ed aveva i capelli chiari come suo fratello. Portava indumenti di cuoio macchiati ed un cappotto di pelliccia sopra una corta tunica di tessuto grezzo color marrone; calzava stivali color ruggine. Avanzò verso il tavolo con le movenze leggere di una Danzatrice. Merith la scrutò, mentre si avvicinava con un'espressione ferma e risoluta. «Kedi,» disse, «questa è Sorren-no-Kité. Vieni dal sud. Sorren questa è mia figlia: Kedéra». «Salve!», disse Sorren. «Ciao!», replicò Kedéra. «Benvenuta alla Rocca di Tornor.» Aveva il volto più affilato rispetto a quello di sua madre. «Sorren viene da Kedra-sul-Delta, ed ha un messaggio per te da parte di Dennis Ryth da Nuath». Kedéra assunse un'espressione ostile. «Non voglio sentirlo.» La sua voce era carica di minaccia e di veemente avversione. Si sedette sulla panca al fianco di Sorren allungando le gambe sotto il tavolo. Poi sollevò la caraffa e si versò il vino guardando sua madre con aria di sfida. «So già di cosa si tratta». «Ti manda dei saluti, tutto qua!», disse Merith con una punta d'ira. Kedéra depose la caraffa pesantemente. «Non voglio i saluti di Dennis Ryth. Non voglio niente da Dennis Ryth.» Il suo sguardo si fece torvo e gli occhi grigi parvero scurirsi. Senza alcun garbo prese un pezzo di carne dal vassoio ed alcune gocce di sugo colarono sulla superficie di legno. «Non è questo il modo di rivolgerti ad una Messaggera. E i tuoi modo sono disgustosi». Dev'esserci qualche contrasto, pensò Sorren. Un profondo rancore promanava da quelle parole. Kedéra arrossì violentemente. Merith sospirò, e la sua espressione arcigna si attenuò. «Non dobbiamo litigare in presenza della nostra ospite,» disse. «No,» convenne Kedéra. Aveva i capelli molto corti: le sfioravano appena la nuca. Sembravano
soffici e lisci come piume. Sorren provò ad immaginare la sensazione che davano al tatto. «Perché mi stai fissando in quel modo?», chiese Kedéra. Sorren non si era accorta dello sguardo intenso col quale era rimasta ad osservarla. Imbarazzata e confusa inventò: «Somigli ad una persona che conosco.» Perché ho detto questo? Non è vero, pensò. Un'ombra nera si accucciò al fianco della ragazza. Era un cane. Sorren si irrigidì: non provava una grande passione per quegli animali, e quello poi aveva un aspetto smunto ed un'aria famelica. Le sue lunghe orecchie erano sfregiate da diverse cicatrici, ed aveva le unghie ricurve. «Di che razza è?», domandò. Le unghie del cane ticchettarono sul pavimento di pietra. «Un canelupo,» disse Kedéra. «Si chiama Lauf.» Accarezzò la testa affusolata dell'animale con disinvolta autorità. «Raccontami del tuo viaggio!», disse. «Quanto hai impiegato ad arrivare quassù?» «Un mese e mezzo». «A cavallo?» Sorren sorrise. «A piedi». Kedéra sgranò gli occhi. Aveva le ciglia chiare e lunghissime. La loro notevole lunghezza conferiva un'aria di fragilità al viso della giovane. «È un viaggio lungo: lo hai fatto da sola?» «Per un tratto ho avuto una compagna, poi ho proseguito da sola». «Vorrei farlo anch'io,» disse Kedéra, lanciando a sua madre una rapidissima occhiata. «Sì, vorrei fare un viaggio come questo». «Dove vorresti andare?», le chiese Sorren. Kedéra sollevò il mento con aria di sfida. «A occidente: sulle montagne». «Faresti meglio ad andare a sud, a Nuath», obiettò Merith in tono secco. Quindi si alzò dalla panca. «Sorren, credo che l'acqua per il bagno sia pronta. Lascia che ti mostri la tua camera». «Ti accompagno io!», disse Kedéra. «No!», replicò Merith con voce aspra. «Tu aiuterai Meg in cucina, mentre Juli ed Innis porteranno l'acqua calda per il bagno». Kedéra trattenne il respiro, e la sua pelle chiara prima si fece vermiglia per poi sbiancare. Nella sala la tensione crebbe al punto da diventare palpabile. Prima che Kedéra si riavesse e ricominciasse a parlare, Sorren disse in tono vivace: «A Kedra-sul-Delta ero una schiava». La ragazza rinunziò all'invettiva ch'era stata in procinto di dire. «Crede-
vo fossi una Messaggera». «No: non proprio! Ho portato qui un messaggio perché mi è stato chiesto di farlo in questa occasione. Ma ero addetta a fare la spesa, il bucato, e ad aiutare in cucina». «Io lo detesto,» disse Kedéra. «Anch'io,» convenne Sorren. «Ma lo facevo. Se verrai nella mia stanza dopo che avrò fatto il bagno, ti racconterò del viaggio». Kedéra raccolse una delle ciotole d'argento e la depose sul vassoio. «Grazie. Ne sarò lieta.» Quindi infilò l'altra ciotola dentro la prima. Sorren e Merith si avviarono verso la porta del salone. «Grazie,» mormorò Merith mentre uscivano. «Sei stata molto diplomatica.» Era chiaro che non credeva che Sorren fosse stata una serva. Tossì di nuovo con un rumore secco, e si passò con forza le dita tra i capelli, imitando il gesto di sua figlia. Uscirono sul cortile. Il freddo sferzò il viso, le mani e la gola di Sorren. Lo zaino le sembrò più pesante tra le mani di quando lo portava sulle spalle. La luce disegnava un angolo acuto sulle mura interne. Sorren lo misurò con gli occhi; era quattro volte più alto di lei. Anche in estate la sera calava più presto nella Rocca. Nell'ombra del muro l'aria era più fredda. Merith precedette Sorren per aprire la porta che dava negli appartamenti: il corridoio era stretto, buio, e puzzava di vecchio. Una candela infilata in un candelabro a muro diffondeva un debole chiarore nel passaggio angusto. Nella penombra, Sorren scorse la ruvida tela di iuta che costituiva la tappezzeria delle pareti. Sotto i piedi sentì lo sgretolio della paglia. «Un tempo queste erano le stanze della servitù,» disse Merith. «Ma, essendo così pochi ad abitare qui, sembrava stupido far dormire Sark, Meg e Juli separati da me e da Kedi.» La sua mano corse lungo il davanzale di una finestra chiusa ed incontrò una candela. La sollevò accostando lo stoppino alla fiamma di quella nel candelabro. Salirono una scala. Sorren starnutì due volte; gli angoli dei gradini e la tela che rivestiva le pareti erano incrostati di polvere. Ad un certo momento l'arco andò a infilarsi in una piega della stoffa. Lo liberò con delicatezza e sentì qualcosa zampettare ai suoi piedi. «Topi!», spiegò Merith, rammaricata. Al piano di sopra faceva più caldo. Merith aprì la porta di una stanza illuminata da molte candele di spessore più grosso. «La camera da letto è
là!», disse Merith indicando un'altra porta nella parete opposta. Sorren lasciò cadere lo zaino. La stanza odorava di cera e di qualcosa di più tenue... un profumo. Era fornita di un grosso armadio di legno scuro, due casse, una poltrona di legno, un parafuoco, un posapiedi, un tavolo... Merith raddrizzò i cuscini sulla poltrona e Sorren capì che quella non era una camera per gli ospiti. «Questa è la tua stanza, vero?» «La camera degli ospiti è così piena di polvere...» Sorren si chiese se ve ne fosse veramente una. «Non voglio prendermi la tua stanza. Dove dormiresti tu?» «Con Kedéra». «Dormirò io là.» Sorren sollevò nuovamente lo zaino «Dove dorme? Accompagnami!» La stanza di Kedéra era dalla parte opposta del corridoio. La mobilia era simile: un armadio, una poltrona, un tavolo. Attraverso la fessura della porta socchiusa che dava nella camera da letto, Sorren scorse i drappeggi ombrosi di un letto a baldacchino. Un alto candelabro d'argento era poggiato sul tavolo, e Merith vi sistemò dentro la candela. Un oggetto brillò sul piano del tavolo. Sorren lo prese tra le mani: era una spilla d'argento modellata nella forma di una margherita. Il tocco delle mani succedutesi negli anni aveva consumato i petali ricurvi, che erano levigati come seta. «Juli! Innis!», chiamò Merith. Sorren sentì lo scalpiccio sulla scala. Due donne apparvero nel corridoio trasportando una marmitta d'ottone. Oscillava pesantemente, sospesa ad un giogo di legno. Si girarono e, camminando di fianco, la deposero presso il focolare. Una di loro, robusta, taciturna, e somigliante a Meg, si inginocchiò accanto al focolare ed accese il fuoco. La fiamma divampò con un scoppio secco. L'altra donna portò gli asciugamani, il sapone, un mestolo di legno, ed un catino di porcellana che depose vicino al pentolone. Sorren capì che per lavarsi doveva togliersi i vestiti, entrare nel catino, restarvi in piedi, e versarsi addosso l'acqua calda attingendola dalla marmitta con il mestolo. «Juli rimarrà qui ad aiutarci,» disse Merith. Juli sorrise. Aveva la carnagione ed i capelli chiari... i pallidi colori del nord. Sorren depose ancora una volta lo zaino sul pavimento. Merith esitò, poi usci dalla stanza in compagnia di Innis. Sorren si tolse le pelli da viaggio lentamente, aspettando che la stanza si riscaldasse. Un osso masticato stava in terra vicino al fuoco. Su un angolo dell'armadio c'era un pezzo di finimenti intrecciati, ed
un sottile scudiscio pendeva dalla sedia. Non poté fare a meno di ricordare, con bramosia, i bagni di Kendra-sulDelta. Con un sospiro si sedette per sfilarsi gli stivali. Si tolse poi uno ad uno gli strati di indumenti che la ricoprivano, ed entrò nel catino. Juli sollevò il coperchio dalla marmitta, ed il vapore riempì la stanza. Con il mestolo cominciò quindi a versarle l'acqua sulla schiena. Sorren se la sentì scorrere sui seni e sul ventre. Si frizionò tutto il corpo col sapone grezzo ed inodore, dopodiché si inginocchiò sulla superficie di porcellana chiudendo gli occhi. Juli la sciacquò gettandole l'acqua sulla testa. «Cea, che bello!», sospirò, godendo al contatto col getto caldo. Juli le toccò il braccio sinistro al di sopra del gomito. «Che cos'è?», le domandò. Ci volle un istante perché Sorren capisse la domanda. «È il segno lasciato da un bracciale da schiava. Fino a poco tempo fa ero una schiava». Juli contrasse le labbra. «Qui al nord non facciamo queste cose,» osservò con disapprovazione. Pose quindi un asciugamano tra le braccia di Sorren. «Avvicinati al fuoco o ti congelerai.» Sorren si accostò più vicino al fuoco strofinandosi velocemente con il telo. Il tepore le aveva fatto venire sonno. Si avvicinò allo zaino; vi erano conservati degli indumenti puliti, custoditi espressamente per quell'occasione. L'indossò. Juli asciugò il pavimento dove l'acqua aveva bagnato la pietra. «Non ho mai sentito dire che a Nuath ne portino di simili,» disse. Alludeva al bracciale da schiava. «Non so se li portano,» disse Sorren. Il bracciale d'argento che le aveva regalato Arré era caduto sul fondo dello zaino. Lo ripescò e lo fece passare sulle nocche delle dita. «Sono stata a Nuath soltanto di passaggio». «Hai visto il Signore?» «Tarn Ryth? Sì. Ho portato un suo messaggio alla tua Signora». Juli annui; le sue trecce bionde oscillarono. «Riguarda certamente il fidanzamento». «Quale fidanzamento?» «Quello della nostra ragazza con il figlio del Signore di Nuath.» Juli ammucchiò gli indumenti sporchi nel catino e si alzò. «Aspetta.» Sorren protese una mano. «Cos'altro sai di questo fidanzamento?» Juli appoggiò il catino sul fianco. «Il Signore di Nuath vuole che suo figlio sposi la nostra Kedi. Lei andrebbe a vivere a Nuath, in quella grande casa di pietra che dicono possegga. In cambio, il Signore Ryth manderebbe
muratori, fabbri, Cavalieri e Guardie a Tornor, che così tornerebbe allo splendore di un tempo.» Indicò la marmitta col pollice. «Ora vado a chiamare Innis per portarla via.» Uscì dalla stanza. Sorren prese l'asciugamano. Sicché era questo il messaggio di Ryth, pensò. L'imposta di una finestra sbatté al vento. Sorren si strofinò i capelli per asciugarne l'umidità. Si domandò cosa ne avrebbe pensato Arré del piano di Tarn Ryth. Se Kedéra sposava Dennis Ryth, Ryke avrebbe ereditato Tornor. La prosperità sarebbe tornata nella Rocca. E Kedéra... Sorren si accigliò. Era solo una ragazzina. Si domandò quali fossero i progetti che Tarn Ryth aveva per Tornor. Arré avrebbe saputo indovinarlo. Si massaggiò i capelli vigorosamente. Si chiese se Arré fosse a conoscenza di quel piano. Porse poteva cercare di mandare un messaggio a sud. Si alzò, fece un lungo passo ed urtò il tavolo col fianco. «Maledizione!», esclamò. La voce di Juli chiamò dal corridoio. «Possiamo entrare?» «Entrate,» disse Sorren. Le due donne entrarono, andarono presso il focolare, e posero le spalle sotto il giogo che sorreggeva la marmitta. Quando si drizzarono, il pentolone oscillò pesantemente tra loro. Pareggiando i passi, si allontanarono verso la porta. «Cosa ne pensi di questa proposta di fidanzamento?», disse Sorren. «Il cea sia lodato! Se tutta quella gente venisse quassù, ci sarebbe lavoro per il villaggio». «Kedéra desidera sposarsi?» Juli sbuffò. «È una bambina. Vuole cavalcare e giocare col suo cane. Chi non desidererebbe andare in sposa ad un Signore ed abitare in un sontuoso palazzo?» «Io no!», disse Innis. «Tu!», sbottò Juli con disprezzo. «Cosa ne sai tu della vita? Se non hai mai fatto un passo oltre la torbiera! Io ci sono stata a Nuath, ed è un gran bel posto. Forza, muovi quei piedoni: usciamo!» Innis obbedì. Juli chiuse la porta sospingendola col fianco. Il freddo era entrato nella stanza dal corridoio e Sorren andò ad accoccolarsi davanti al fuoco, chinando la testa verso il calore della fiamma. Un colpo alla porta la fece voltare. «Avanti!», disse. La porta si aprì ed apparve Kedéra. Il cane nero si appoggiava alla sua gamba. «Non volevo disturbarti». «Questa è la tua stanza,» disse Sorren, scoprendo un lieve tremito nella sua voce. «Puoi entrare ed uscire ogniqualvolta lo desideri».
Kedéra non parve accorgersi dell'esitazione nella voce di Sorren. «Hai detto che mi avresti raccontato del tuo viaggio». Sorren si sentì afferrare dal panico. Cosa poteva dire a quella ragazza? Era la figlia di una raccoglitrice, una schiava, niente di più. Si sentì impacciata, stupida, una goffa intrusa. «Non c'è molto da raccontare,» disse. Le mancavano le parole. Kedéra raccolse lo scudiscio dal pavimento e lo intrecciò con le dita. «Ti piacerebbe vedere il mio cavallo?» «Certo!», disse Sorren, e prese gli stivali. «Lascia che ti aiuti!», si offrì Kedéra. Quindi si abbassò e pose la mani tra quelle di Sorren sul bordo degli stivali. Per poco Sorren non abbandonò la presa. Il lieve contatto le fece sussultare il cuore in petto come se avesse toccato un attizzatoio. Per il Guardiano, pensò, cosa mi sta succedendo? Kedéra non si accorse di nulla. «Faccio io!», esclamò Sorren. Kedéra lasciò andare lo stivale. Che stupida sono! pensò Sorren. Adesso penserà che sono arrabbiata con lei! Infilò anche l'altro piede nello stivale e si alzò. Kedéra aveva preso l'arco: Le sue dita seguirono il contorno dell'arma con delicatezza. «È splendido! Lo hai costruito tu?» «No,» rispose Sorren. «Una... me lo ha costruito un'amica. Sai tirare?» Kedéra aggrottò le ciglia. «No. Mia madre non vuole che impari; dice che le donne non hanno bisogno di possedere abilità di questo genere.» Un lampo improvviso illuminò i suoi occhi grigio fumo. «E tu sai cavalcare?» Sorren allungò la mano verso il mantello. «No,» rispose. Capitolo venticinquesimo La scuderia era calda ed impregnata dell'odore del fieno e dei cavalli. Un unico cavallo occupava una delle stalle ed un mulo di colore marrone gli teneva compagnia. Kedéra condusse Sorren nella stalla. «Questa è Piéleggero,» disse. «È mia!» Accarezzò la mascella lucida della puledra. «Toccala: non ti farà male». Sorren protese una mano esitante e lasciò che la cavalla ne fiutasse l'odore. Sentì l'alito caldo sulla palma. Kedéra sorrise ed entrò nella stalla. «Non è bellissima?», disse, abbracciando il collo dell'animale. Agli occhi di Sorren appariva soltanto grande, tuttavia riusciva anche a scorgere i tratti che la differenziavano dai cavalli del sud. Era più piccola e tonda, ed il suo manto grigio era lungo ed irsuto. «Di che razza è?»
Kedéra scivolò senza timore sotto il ventre della cavalla. «È un incrocio di razza asech ed anhardita.» Sollevò la mano sul muso della puledra offrendole una carota. L'animale la risucchiò con le labbra e cominciò a masticare rumorosamente, soffiando frammenti arancione sui capelli di Kedéra, che si allontanò con disinvoltura dal ventre della cavalla e si appoggiò alla porta della stalla. Le si leggeva sul volto la felicità, la sicurezza di chi si trova nel suo ambiente naturale: non vi era ombra di fragilità in quel viso. Un giovane dai lineamenti marcati ed i capelli rossi si avvicinò percorrendo il passaggio tra le stalle; tra le braccia recava numerosi finimenti. Annuì a Kedéra. «Questo è Embri!», disse lei. Inclinò quindi la testa. «A te non piacciono i cavalli, vero?» «Non ho mai avuto l'opportunità di entrare in confidenza con loro,» disse Sorren. Ripensò alla breve cavalcata a Nuath ed al soldato che l'aveva accompagnata al palazzo dei Ryth... Come si chiamava? si chiese, Pintor, era quello il suo nome. «È da molto tempo che ti dedichi all'equitazione?» «Da quando avevo sei anni. Fu mio padre ad insegnarmela». «È morto?», chiese Sorren con garbo. «È morto sei anni fa,» rispose Kedéra senza alterare il tono della voce. «Io avevo dieci anni». «Io non ho mai conosciuto mio padre,» disse Sorren. «Mia madre morì quando avevo tredici anni». «Da allora sei rimasta sola?», disse Kedéra con commossa partecipazione. Sorren pensò ad Arré, ed a Paxe. «No,» rispose. «Non sono rimasta sola». Uscirono dalla scuderia nello spazio aperto del cortile. Il cielo era blu; poche stelle brillavano a occidente. Diverse nuvole avanzavano con moto costante verso est. A nord le montagne disegnavano un'ombra nel cielo. La luna era bassa oltre la curva del mondo. Ryke giunse al galoppo dalle ombre del crepuscolo, con i capelli fulgidi sciolti nel vento; stringeva sul petto il bastone di Sorren. Era più lungo del suo corpo. «Lo vuoi questo?», le chiese con voce speranzosa. Sorren gli sorrise. «Puoi tenermelo tu finché non ne avrò bisogno». «Quando ti servirà?» «Quando deciderò di partire». «E quando sarà?» Sorren infilò le mani nelle pieghe del mantello. «Non lo so».
Soddisfatto, Ryke fece mulinare il bastone sulla testa e galoppò via. «Perché sei venuta qui?», disse Kedéra. Sorren trasse un profondo respiro. Si sentì stringere il cuore. «Ho fatto dei sogni,» disse. «Ho sognato le montagne e la Rocca di Tornor. Ma adesso non sono più sicura della ragione che mi ha condotta qui, se mai ve ne è stata una. I sogni sono svaniti». Kedéra curvò le spalle nella sua pelliccia color ruggine. «Anch'io faccio dei sogni,» disse. «Sogno delle montagne... non queste montagne, ma più alte, rosse. Sogno una valle, e le persone che vi dimorano. Sogno di vederle danzare, e di trovarmi assieme a loro». «Conosco quel sogno,» disse Sorren. Kedéra girò su se stessa, con le braccia spiegate verso il cielo. «Lo avevo immaginato!», disse. Poi si arrestò e voltò lo sguardo verso le finestre degli appartamenti, dove una fioca luce filtrava dalle fessure delle imposte. «Mia madre vuole che sposi Dennis Ryth, e che mi lasci alle spalle tutti i miei sogni, Ma io non lo farò». La sua voce suonò chiara e determinata. Sorren era contenta che l'oscurità le celasse il viso. Le emozioni che stava provando la scuotevano come venti contrari. Desiderava proteggere Kedéra - da Tarn Ryth, da Dennis Ryth, da Merith - e, al tempo stesso, voleva fuggire, fuggire da quel tumulto che le esplodeva fin dentro le sue ossa. «Cosa accadrà a Tornor se non sposerai Dennis Ryth?» Kedéra incrociò le braccia sul petto. «Mia madre non mi perdonerebbe mai». Non era questo che intendevo, pensò Sorren, poi si rese conto che Kedéra aveva risposto nell'unico modo che le era possibile. A lei non importava di Tornor, né dalla Rocca. Aveva a cuore soltanto la sua famiglia. A passi lenti si avviarono verso gli appartamenti. Lauf le stava aspettando presso la porta della camera: dimenò forte la coda alla vista di Kedéra, ma cessò quando Sorren entrò; drizzò le orecchie e si alzò ringhiando. Kedéra gli arruffò i peli dietro le orecchie, ed il cane smise di ringhiare. «Fa sempre così quando divido il letto con qualcuno,» spiegò. Il fuoco aveva consumato la legna diventata ormai brace, e la stanza era fredda. Sorren si tolse il mantello. Juli apparve alla porta con un panno avvolto attorno a due mattoni: Kedéra prese la candela ed entrarono nella camera da letto. Non appena Sorren si mosse per seguirle, il cane-lupo si mise a ringhiare ferocemente. Sorren si inginocchiò e tese una mano verso l'animale. «Lauf,» disse,
«Non voglio farle del male. Diventiamo amici.» Ma il cane snudò i denti minacciosamente. Kedéra sopraggiunse dalla camera da letto con Juli alle calcagna. «Juli sa dove trovare indumenti della tua misura. Ti occorreranno!» Esitò. «Posso prestarti una camicia da notte». Una camicia per dormirci dentro? «Non ne ho bisogno,» rise Sorren. Juli uscì e ritornò con un secchio. Ai piedi del letto vi era poggiato un alto braciere e tre gambe. Vi versò del carbone rovesciando il secchio. Kedéra puntò un dito contro il cane. «Lauf, a cuccia.» Il cane posò la testa sulle zampe e guardò la padrona dilatando gli occhi. «Vieni,» disse la ragazza a Sorren, ed insieme andarono in camera da letto. Juli aveva acceso il carbone nel braciere, ed il calore cominciò ad effondersi attraverso la grata di ferro. Una candela ardeva in un candelabro infisso nel muro. La stanza era piccola: in un angolo vi erano una bacinella col bricco per lavarsi, ed in un altro un'asta dalla cui sommità si irradiavano dei ganci di legno. Kedéra appese la pelliccia ad uno dei ganci. Juli aprì le tendine ai piedi del letto spazioso, ricoperto da numerosi strati di trapunte. Era così alto che su un lato vi era una scaletta per salirvi. Juli vi girò intorno scuotendo le tende. Un finestrino si apriva alto nella parete; Sorren vi scorse uno squarcio di cielo. A Kendra-sul-Delta i lampionai avevano già finito il giro, Arré aveva finito di cenare, e Paxe era andata a dormire: Sorren. cancellò bruscamente quelle immagini, in collera con se stessa. Si accorse di essere sola nella camera. Juli se n'era andata, e Kedéra era nella stanza esterna a bisbigliare qualcosa a Lauf. Si sedette sul letto affondandovi col suo peso. Poi si tolse il mantello e gli stivali, e li lasciò cadere sul pavimento. La stanza divenne improvvisamente gelida. Metodicamente si sfilò la, tunica corta, i pantaloni, la sottotunica, le calze, gli indumenti intimi ed appese tutto all'asta uncinata. Si arrampicò quindi nel letto, e le ci volle qualche istante perché trovasse il punto in cui le coperte si aprivano. Scivolò tra di esse, riavvolgendovisi, con le dita dei piedi cercò il calduccio all'estremità del giaciglio... «Hai fatto in fretta!,» disse Kedéra. Sorren fece capolino dalla tana che si era fatta tra le coperte. Kedéra stava in piedi, nuda, presso l'attaccapanni. La sua pelle era candida là dove il sole non l'aveva sfiorata. Una peluria dorata le rendeva i seni vellutati, s'infoltiva sul ventre, e diventava fitta e lanosa tra le cosce. Prese uno smoccolatoio da un gancio nel muro e spense la candela. Adesso lo sfolgorio del braciere era l'unica luce della stanza. Salì sul letto: il sudore imperlava le palme delle mani di Sorren. Un fruscio
si levò dalle coperte quando Kedéra vi si raggomitolò nel mezzo. «Occupo troppo spazio?», disse. «No,» rispose Sorren. La sua mente era dominata dall'immagine di Kedéra nuda. Restò immobile nel letto, coricata. «Buona notte!» Kedéra tirò le tende oscurando anche il bagliore del braciere. L'aria si fece grave, immota, tenebrosa. Al mattino stava nevicando. Le svegliò Lauf coi suoi guaiti. Kedéra balzò giù dal letto per rassicurarlo e correre al vaso da camera. Sorren ascoltò i rumori in dormiveglia. I muscoli del suo corpo erano tesi come se non avesse riposato, ma sapeva che invece aveva dormito. Se aveva sognato, non lo ricordava. Era buio tra le tende che racchiudevano il letto. Si stiracchiò per sgranchire i muscoli. Le tende si aprirono, ed il viso sorridente di Kedéra si affacciò per salutarla. «Sei sveglia?» «Sì, sono sveglia». «Juli sta portando il tè.» La ragazza sparì, e Sorren sentì il rumore della finestra che si apriva. La luce illuminò la camera da letto, e con essa l'aria fredda penetrò rapidamente. Sorren si rannicchiò sotto le coperte. La luce era grigia, opaca, poco invitante. Un trepestio di passi giunse dalla camera esterna, accompagnato dalla voce di Juli. Kedéra lanciò una esclamazione. Il profumo del pane appena sfornato penetrò attraverso le tende. A Sorren venne l'acquolina in bocca. Incurante del freddo, si sollevò su un gomito e scostò la tenda più vicina a lei. Dall'apertura della porta ad arco vide Juli con un vassoio con sopra una teiera, dei boccali, ed un piatto pieno di biscotti. Kedéra stava in piedi vicino a Juli; indossava una larga veste rossa orlata di pelliccia bianca. Tra le braccia aveva dei vestiti ammucchiati l'uno sull'altro. Si voltò e vide Sorren. «Guarda!» Si avvicinò quindi al letto e vi depose gli abiti. «Questi sono per te!» Rise. «Alcuni sono maschili, ma non tutti.» La sua mano carezzò l'indumento in cima al mucchio: una tunichetta di velluto blu. «Che lavoro accurato!» Sollevò la casacca col colletto ed i polsi bordati di pizzo pesante. Odorava di cedro. «Li ho presi nei bauli degli appartamenti.» Poi lasciò cadere la tunica, ed aprì completamente le tende. «Vieni a prendere il tè?», la invitò, infilando un braccio nel mucchio e tirando fuori qualcosa di lungo, color porpora. «Questo è un abito lungo, credo. «Sì lo è.» Se lo accostò al corpo: le arrivava ai piedi con soffici pie-
ghe. Rise di nuovo. «A te andrà bene!» Quindi lo appoggiò sul mucchio, ed andò nella stanza esterna. Sorren scese dal letto. La pelle delle braccia e dei seni le si accapponò per il freddo. Indossò la veste purpurea, respirando la fragranza di cedro: era di lana, ed era caldissima. Mentre si recava nella stanza esterna, si domandò chi fosse stata l'ultima donna che l'aveva indossata. Juli era andata via lasciando il vassoio. Il fuoco scoppiettava nel focolare: Kedéra vi stava inginocchiata davanti, smuovendo i carboni con le molle. Lauf era accucciato accanto a lei. Quando Sorren entrò, sollevo la testa, ma non si mise a ringhiare. «Ti ho versato il tè,» disse Kedéra. «Grazie!», rispose Sorren, e prese tra le palme il tazzone fumante. Era marrone, del colore della terra, e così era pure il tè. Il sapore forte e amaro le fece lacrimare gli occhi, ma almeno la riscaldò. Alzò lo sguardo all'imposta della finestra, socchiusa, e scorse i fiocchi di neve fluttuare nell'aria. Si avvicinò alla finestra. La neve aveva ammantato il mondo con una soffice coltre. Aveva ricoperto il cortile e le mura esterne... «Guarda,» disse Kedéra, posando una mano sulla spalla di Sorren ed indicando un punto distante con l'altra. «Vedi quella strada? Porta ad ovest». «Alla Rocca delle Nuvole,» disse Sorren, ricordando la mappa. Le dita di Kedéra si staccarono dalla spalla di Sorren. «Sì. E alla Rocca di Pel, al di là di essa. Ed alle Montagne Occidentali». Sorren si voltò a guardarla. Stava sorridendo; i suoi occhi erano grandi e luminosi. Si avvicinò al vassoio e prese un biscotto. «Hai sognato?», chiese. «No!», disse Sorren. «Io sì,» fece Kedéra, ma non andò avanti. «Parlami del sud,» disse invece. Sorren prese un biscotto. «Cosa vuoi sapere?» «Cosa fa la gente?» «Coltiva la terra, pesca e costruisce. E fila la seta». «Noi tessiamo la lana». «I meridionali lavorano i metalli e l'argilla». «Danzano?» «Alcuni. Gli Asech danzano con i serpenti. I cittadini veri e propri fanno gli acrobati o gli equilibristi, e pochi, i più abbienti, imparano la vera arte della Danza. Io suonavo i tamburi per un Danzatore». «Chi era?»
«Isak Med. Ora non è più in città; ne è stato allontanato.» Ancora non le riusciva, neppure in quel luogo lontano, di parlare di Isak con disinvoltura. E soprattutto non era capace di usare quella brutta parola: bandito. «Eri una schiava, ed ora sei una Messaggera; suonavi i tamburi, e sei una Maga!», disse Kedéra. «Ma c'è qualcosa che tu non sappia fare?» Sorren sorrise. «Cantare e montare a cavallo. E leggere e scrivere». Mangiarono tutti i biscotti. Kedéra scostò le coperte per far prendere aria al letto. Lauf, intanto, andava avanti e indietro dal ginocchio di Kedéra alla porta. «È irrequieto!», osservò la padrona. «Vuole correre.» Poi si vestì e scesero nel cortile interno. Lauf si dimenava come un cucciolo sulla neve friabile. Sorren alzò gli occhi al cielo. I fiocchi di neve venivano giù simili a piume di ghiaccio. Allungò una mano per prenderne uno, senza riuscirvi. Aprì allora la bocca chiedendosi che sapore avessero... Il suo alito formava nuvolette nell'aria e li scioglieva. Un fiocco le sfiorò le labbra: le leccò. La neve non aveva sapore. Delusa, andò a cercare Kedéra. Sark, Ryke, Kedéra e Merith stavano presso il cancello interno. Il mulo marrone faceva loro compagnia con aria stolida, attaccato ad una specie di carro. Nell'avvicinarsi al gruppetto, Sorren notò che il carro non aveva ruote; al posto di queste aveva dei pezzi di legno piatto dalle punte curvate all'insù. «Che cos'è quello?», sussurrò all'orecchio di Kedéra. «Una slitta,» disse la ragazza. Merith sorrise a Sorren. «Hai dormito bene?», le chiese. «Era caldo abbastanza?» «Sì, grazie,» disse Sorren. «Non ti deve essere facile sopportare questo freddo visto che vieni dal sud,» osservò Merith con garbo. Ma io non sono una meridionale, pensò Sorren, e ho l'inverno nel sangue. «Veramente no,» disse a Merith. «Mi sento a mio agio». Il sorriso di Merith si inasprì appena. Si rivolse a Sark ed a suo figlio. «Porta i miei saluti a Varin quando sarai nel villaggio. Domanda se possono conservarci un po' di pesce». «Pesce?», disse Sorren. «In inverno si pesca attraverso il ghiaccio,» spiegò Kedéra. Mi piacerebbe vederlo, pensò Sorren. Sark schiaffeggiò il mulo sul groppone. La slitta scivolò leggera sulla coltre di neve. Quanto è sensibile, pensò Sorren. Lauf la seguì sotto il cancello esterno. Kedéra lo chiamò a sé; il cane abbaiò una volta e trotterellò indietro nel cortile con qualcosa tra le mascelle.
Kedéra si fece consegnare l'oggetto con affabili blandizie. «È una quaglia,» disse, poi rigirò tra le mani il piccolo corpo marrone. Era irrigidito, e le penne erano avvolte da una rete di cristalli ghiacciati. «Non c'è sangue: dev'essere morta per il freddo». «O per qualche malattia,» soggiunse Merith. Le dita di Kedéra ispezionarono il corpicino. «Ha un'ala rotta. Riesco a sentire il punto il cui l'ossicino è spezzato. Non poteva volare per trovare il cibo, e questo l'ha uccisa. Madre, la porto a Meg: la metterà nella minestra.» Fece schioccare le dita. «Vieni, Lauf!» Si allontanò col cane che salterellava alle sue calcagna. «Cosa porteranno Sark e Ryke sulla slitta al ritorno?», disse Sorren. «Legno,» disse Merith. «E spero del pesce». «Io so cacciare la selvaggina,» si offrì Sorren. «Potrei procurare della carne fresca». Merith tossì. «Grazie, è un'offerta molto gentile. Ma, se rimandi la partenza per Nuath, sarai costretta a trascorrere l'inverno qui». «Ma...» Sorren esitò, ripensando a tutto ciò che aveva detto a quella donna il giorno precedente. Non aveva detto espressamente che intendeva rimanere a Tornor. Forse Merith voleva che partisse? «Non avevo intenzione di ritornare a Nuath». Merith incrociò le braccia sul petto. «Ma tu devi ritornarci,» disse. «Il cibo che abbiamo basta appena a sfamare le persone che vivono in questa casa. Oltretutto sei una Messaggera. Non puoi rimanere rinchiusa a Tornor per tutto l'inverno». «Io non sono una Messaggera». «Mi hai portato un messaggio e, se desideri rendere un importante servigio alla Rocca di Tornor, devi portare a Tarn Ryth un messaggio da parte mia. Gli dirai che apprezzerei molto di più i suoi saluti se fossero accompagnati da qualcosa di più sostanzioso... come il grano e le stoffe.» Si voltò in direzione degli appartamenti. I desideri di tua figlia non hanno dunque alcun valore? pensò Sorren. «Signora,» disse, «che cosa vuoi?» La voce di Merith si fece fragile come la neve. «Voglio che la Rocca di Tornor sopravviva. Voglio che nel villaggio torni la prosperità. Voglio che Tarn Ryth mandi al nord beni, oro e soldati e, perché questo accada, Kedéra deve sposare Dennis Ryth». «Non puoi stipulare un accordo con Tarn Ryth per ottenere queste cose?»
«No,» disse Merith. «Il Consiglio delle Famiglie di Tezera si opporrebbe a qualsiasi trattativa privata tra me e Tarn Ryth. Mentre, se Dennis e Kedéra si sposassero, non potrebbero impedire a Tarn Ryth di mandare alla Rocca di Tornor Guardie e rifornimenti». «Non potrebbero aiutarti?» «I Nobili di Tezera?» Merith rise. «Ed io dovrei andare da loro a mendicare? Morirei di fame piuttosto! Quanto a Tarn Ryth, lui è venuto da me.» La neve velò i suoi capelli castani con una bianca ragnatela. Sorren la vide invecchiata di venti anni, piccola, pallida, canuta ed amareggiata. D'improvviso capì perché Tarn Ryth voleva Tornor. Lui traeva dal fiume il suo potere, ma il suo controllo del grande corso d'acqua si arrestava ai confini di Septh. Era fin lì che si spingevano le sue pattuglie armate. Possedendo Tornor, avrebbe controllato il fiume a nord e a sud di Tezera, cosa che avrebbe accresciuto immensamente il suo potere. Se avesse tentato di conquistare Tornor con la forza, il Consiglio Tezerano si sarebbe opposto, il che, con ogni probabilità, avrebbe provocato lo scoppio di una guerra. Ma il Consiglio non poteva contrastare la più tradizionale delle alleanze, il matrimonio. Era un piano ben articolato. Sorren inghiottì. Era così facile da discernere una volta capito dove fissare lo sguardo. Vivere sette anni con Arré Med le aveva fatto apprendere alcune delle sue abilità. Ma Arré era distante ormai, e non poteva aiutarla. «Le altre Rocche non possono venirti incontro?» Merith aveva raggiunto la porta che dava negli appartamenti. «Si trovano nelle nostre medesime condizioni. Si dice che il Signore Meth della Rocca di Zilia abbia stipulato un accordo privato con l'Anhard. Ma io mi rifiuto di crederci.» Lanciò un'occhiata nel cortile. Kedéra si stava avvicinando a loro. «Non discutiamone oltre,» disse. «Meg era di buon umore. Ha dato un osso a Lauf,» disse Kedéra. «Ho del lavoro di tessitura da sbrigare. Vuoi entrare ad aiutarmi, Kedi?» Kedéra si passò le mani tra i capelli. «Volevo mostrare il castello a Sorren,» disse. «Puoi fare a meno di me per un'ora?» Merith alzò le spalle. «Credo di sì.» Poi si ritirò negli appartamenti. Sorren e Kedéra rimasero sole. Gli occhi di questa luccicavano come quelli di una bambina. «Che cosa vuoi mostrarmi?», le chiese Sorren. Kedéra si strinse la pelliccia attorno al collo. «Pensavo che volessi fare una passeggiata sulle mura».
«Preferisco rimanere al coperto,» disse Sorren. Kedéra apparve delusa. «Potremmo fare un giro negli appartamenti,» propose, indicando il corpo principale dell'edificio. «So orientarmi là dentro». «D'accordo!», disse Sorren. Entrarono dalla porta che aveva usato Merith. Ma, anziché girare a destra e salire su per i gradini, Kedéra girò a sinistra. Sorren avvertì subito il gelo; incrociò le braccia sul petto per raccogliersi nel suo calore. «Non veniamo mai qui!», disse Kedéra, ed indicò le pareti sgombre da arazzi e tappezzerie. «Mia madre ci ha fatto trasportare nelle stanze della servitù tutto quello che si poteva spostare». Una scala si delineò nel corridoio ombroso; i gradini si inerpicavano verso l'oscurità. Sorren annusò: dalle pareti promanava un odore particolare. Forse anche il tempo aveva un suo profumo. Kedéra si accovacciò armeggiando con qualcosa sul pavimento, e Sorren sentì l'attrito delle pietre focaie. La ragazza si alzò reggendo il moncone di una candela. «Vieni!», disse. «Aspetta!», fece Sorren. «Che cosa c'è laggiù?» Percorse con lo sguardo la lunghezza del corridoio e scorse delle rientranze nella liscia parete di pietra che rivelavano la presenza di porte. «Ci sono dei magazzini,» spiegò Kedéra. «Ora sono vuoti.» Toccò il braccio di Sorren. «Andiamo». «Erano tutti magazzini?», insisté Sorren. Seguì quindi Kedéra su per la scala: gli scalini di legno scricchiolavano sotto gli stivali con un rumore che somigliava ad una risata. La candela tremolava davanti a lei: era l'unico barlume di luce in quella vasta oscurità. Sorren sentì rizzarsi i peli sul collo ed esortò se stessa a non comportarsi da stupida. Nulla poteva nuocerle in quelle stanze vuote. «No,» rispose Kedéra, «non credo. Un tempo ci vivevano delle persone. «Ma, quando le guerre finirono, Tornor cominciò a svuotarsi e la gente che vi abitava si spostò in cerca di locali più caldi. Ai piani superiori fa sempre più caldo». D'improvviso sollevò in alto la candela. Un oggetto di ferro si parò dinanzi alle due ragazze. Era un candelabro da muro a forma di pesce. Nel guardarlo, Sorren rammentò ciò che le aveva raccontato Marti Hok a proposito del ribelle di Kedra-sul-Delta, esiliato dalla città e mandato a nord, per vivere nella prosperità o morire nella natura selvaggia.
Era stato lui a costruire Tornor. Si chiese se i suoi fabbri avessero ricevuto da lui l'ordine di foggiare i candelabri a quel modo e cosa ne avessero pensato. Per un istante un'immagine si insinuò nella sua mente, e fu così vivida che sulle prime credette di essere nel pieno di una visione: un uomo stava disegnando dei pesci su fogli di pergamena, impegnandosi a far sì che somigliassero ai pesci che conosceva, le creature dell'oceano. Sorren sbatté le palpebre. La bocca del pesce si apriva verso l'alto, e la coda s'incurvava nel muro. Si sollevò sulle punte dei piedi e lo toccò, poi ritirò le dita coperte da uno strato di polvere. Non sentì l'odore e lo trovò uguale a quello che aleggiava dattorno: era l'odore della polvere. Devono esserci i fantasmi, pensò. Non c'era da meravigliarsi che i suoi fantasmi non l'avessero seguita fin lì. La sua mano corse lungo l'antica parete. «Forza!» l'incitò Kedéra impaziente. Il corridoio al piano di sopra era più luminoso di quello inferiore. Le porte erano socchiuse, e da esse trapelava la luce. Kedéra appoggiò la spalla ad una massiccia porta di legno e spinse. «Guarda!», disse. Sorren entrò nella stanza. Un letto enorme occupava la maggior parte dello spazio. Era fatto di legno scuro e pesante, e drappeggi di velluto vi pendevano intorno. Vicino vi era una bacinella col bricco, ed una cassa era poggiata ai suoi piedi. Su un tavolino c'era una brocca d'ottone. Il pavimento attorno al letto era ricoperto di cera. «Chiunque abbia vissuto qui non doveva avere molta dimestichezza con le candele,» osservò Kedéra. L'imposta di una finestra sbatté rumorosamente. Sorren trasalì. Osservò quindi il letto chiedendovi chi ci avesse dormito e se l'avesse mai visto nelle sue visioni. La brocca d'ottone attrasse la sua attenzione: aveva un albero inciso su di un lato. Si avvicinò al tavolino e prese la brocca tra le mani: era fredda. La rovesciò, aspettandosi quasi di veder l'acqua colare, ma un soffio di polvere grigia e soffice fu tutto ciò che ne uscì. Depose la brocca. «Andiamo via di qua,» disse. «Va bene!», disse Kedéra. Entrarono nella stanza successiva, e lì il letto mancava. «Da questa ho preso il mio letto,» spiegò Kedéra. La terza stanza invece era più spaziosa, ed aveva una camera da letto separata. Un arazzo raffigurava una ragazzina intenta a scavalcare un muro. La fattura tradiva l'inesperienza di chi lo aveva realizzato. «Dev'essere opera di una bambina,» disse Kedéra. «Forse,» disse Sorren. O di una donna, pensò, annoiata e inesperta dell'ago, che ha espresso la sua nostalgia del sud nell'unico modo che le era
possibile... Perché il sud? pensò Sorren. I colori sbiaditi la turbarono, e non volle vedere più niente. «Ho freddo,» disse, strofinandosi le braccia con le mani. «Voglio riscaldarmi». Kedéra sorrise. «Andiamo a dar fastidio a Meg». Discesero le scale di corsa, attraversarono il cortile, ed entrarono in cucina. Era piena di fumi di vapore, enorme, e deliziosamente profumata. Meg stava in piedi davanti al grande focolare aperto a sbirciare in una pentola con un vasetto di spezie in mano. Quando le due ragazze entrarono, si voltò di scatto ed aggrottò le ciglia. «Ti avevo detto...», poi s'interruppe. «Oh, pensavo fosse Embri.» Kedéra le si avvicinò e la baciò sulla guancia. «Ti conosco bene: vuoi qualcosa da me. Quei dolci sulla mensola sono per il pranzo». «Non vogliamo dolci,» disse Kedéra con aria di sufficienza, quindi si sedette pesantemente su uno sgabello. «Sorren vuole riscaldarsi, e questo è il posto più caldo di tutto il castello». «E quello dove si fatica di più. Come faccio a lavorare se mi state tra i piedi?» Meg mescolò lo stufato nella pentola con aria sostenuta. «Gira un po' questo!», disse a Kedéra mentre riponeva il vasetto di spezie. Sorren si chiese quale sarebbe stato il giudizio del cuoco dei Med su quella cucina. Era molto più grande della sua, e dei grossi ganci pendevano da rastrelliere di legno. Si domandò cosa sorreggessero normalmente: spezie, carne, pentole e padelle? Kedéra rimescolò lo stufato, assaggiandone un pezzetto. «È insipido!», mormorò. «Occorre forse che tu mi dica come si cucina?», sbottò Meg. «Aspetta di trasferirti a Nuath; allora ordinerai ogni cosa a tuo piacimento». Kedéra smise di mescolare nella pentola. «Io non andrò a vivere a Nuath,» disse con voce calma. «Humph!», commentò Meg. Il cambiamento di temperatura aveva fatto accapponare la pelle delle braccia di Sorren. La ragazza si avvicinò al fuoco: il volto di Kedéra mostrava un'espressione ferma e risoluta. D'improvviso, lasciò andare il mestolo. «Vado sulle mura,» disse. Poi guardò Sorren. «Vieni?» Sorren annuì non senza riluttanza; si era appena riscaldata. Kedéra indicò una scala che si arrampicava lungo la canna fumaria. «Fai attenzione mentre sali». La scala era stretta, ma non cigolava. In cima vi era una porta. «Prima era sprangata,» disse Kedéra, toccando i sostegni di ferro che avrebbero
dovuto ospitare la spranga. «Ho detto a Sark di toglierla.» Poi spinse la porta. Una ventata d'aria fredda spruzzata di neve soffice e friabile turbinò dalla fessura aperta. Una spinta più poderosa, e la porta si spalancò. «Andiamo!», disse, e salì tre gradini, seguita da Sorren. La neve sferzava il volto delle due ragazze. Sorren si chiese come doveva lasciare la porta. «Lasciala così!», la istruì Kedéra. Mulinelli di neve turbinarono sui loro visi. Sorren si riparò le mani tra le pieghe del mantello. Senza vedere, a testa bassa, continuava a seguire Kedéra. D'improvviso, il turbinio del vento si arrestò, e si trovarono nell'ombra di un blocco di pietra. Davanti a loro si ergevano le mura interne. Erano più alte di quelle esterne: massicce, tenebrose, imponenti! Sorren cercò di immaginare un modo per valicarle, ma non vi riuscì. Kedéra uscì ben presto da quel riparo per esporsi nuovamente alla furia del vento. Si trovavano ora nella zona orientale della Rocca, il lato più freddo perché bersagliato dal vento che spirava dalla steppa... Kedéra si fermò di nuovo, respirando pesantemente, e Sorren trasse un profondo respiro; il freddo le tagliava il petto come la lama di un coltello. «Perché vieni quassù?», chiese, sforzandosi di non tremare. «Da qui posso vedere,» disse Kedéra. Si appoggiò quindi al muro e dei cristalli di ghiaccio le luccicarono sulle guance. No, non erano cristalli di ghiaccio: stava piangendo. Sorren le posò entrambe le mani sulle spalle e scoprì che stava tremando. «Fa troppo freddo quassù per rimanerci,» disse. Kedéra annuì. «Andiamo fino alla scala della garitta vicina al cancello.» Poi, senza attendere la risposta di Sorren, s'incamminò lungo il camminamento di pietra accompagnata dall'eco degli stivali. Girarono oltre l'angolo voltando le spalle al vento: le sferzate da tergo incollavano gli abiti sui loro corpi. Kedéra si fermò davanti ad una delle brecce che si aprivano nel muro. Diressero lo sguardo a sud, sui campi che si stendevano ai piedi del castello. Erano bianchi, immacolati, e soltanto il ponte di legno e la scia oscura e irregolare del fiume ne violavano la purezza. Un mulo con una slitta al traino, carica di legna, emerse dagli alberi. Ryke era in groppa all'animale, mentre Sark stava seduto sulla catasta di tronchi. Ryke avanzava curvo in avanti, la faccia abbassata sul collo. Sark stava gridando. «Stanno correndo all'impazzata!», osservò Kedéra, perplessa. Ryke incitò il mulo con una frustata, e l'animale rizzò il collo ed accelerò ulteriormente l'andatura. Si stavano avvicinando al ponte. D'improvviso, un cavaliere uscì galop-
pando dalla boscaglia... subito seguito da un altro, poi da un altro ancora. «Cosa...», disse Sorren alle spalle di Kedéra, ma questa stava già correndo. Il casotto presso il cancello apparve improvvisamente davanti a loro, e Kedéra vi si gettò dentro. Sorren la seguì più in fretta che poté, ed intravide una grossa ruota attorno alla quale era avvolta una fune. Kedéra stava correndo giù per una scala sfiorando appena i pioli: Sorren si precipitò dietro di lei e riuscì a raggiungerla nel buio del casotto. «Cosa succede?», gridò! Kedéra spalancò la porta e sfrecciò nel cortile. «I banditi!», disse ansimando. Sorren l'afferrò per un braccio. «Dove stai andando?» Kedéra si divincolò. «Alla scuderia. Vai a prendere l'arco!», rispose, volando in direzione della scuderia. Lauf, spuntato dal nulla, galoppò alle sue calcagna, mentre Sorren correva negli appartamenti. I fiocchi di neve continuavano a disegnare delle spirali nell'aria. Udì rumori distanti, ed un urlo di terrore che parve levarsi dalla terra stessa - il mulo pensò. Fece le scale quattro gradini alla volta ignorando Menth. Questa rimase immobile strabuzzando gli occhi, la faccia larga fattasi bianca come gesso. I furiosi latrati di Lauf giungevano dal cortile. Si precipitò nella stanza di Kedéra. L'arco, con la corda avvolta intorno, stava appoggiato alla parete; lo afferrò con un gesto fulmineo. Si voltò, il cuore in gola, a cercare la faretra, e la trovò: vi erano rimaste solo due frecce. Pensò a Paxe che gliele aveva date: il suo pensiero fu una preghiera. Per il Guardiano, io non voglio uccidere! pensò, ed intanto era già scesa nel cortile. La neve si era infittita. Vide Embri correre verso il cancello brandendo un forcone. Il cavallo grigio uscì dalla scuderia con Kedéra in groppa. La ragazza fece un cenno col capo, poi si protese di lato tendendo un braccio a Sorren, le gambe strette saldamente intorno al ventre della puledra sprovvista di brighe. Non posso!, pensò Sorren ormai in preda del panico, ma si gettò la faretra su una spalla ed allungò il braccio. Kedéra lo afferrò. «Aggrappati a me!», gridò. La puledra scalpitò, mentre Sorren prendeva posto con difficoltà sulla sua groppa. Questa è pazza! pensò. Cosa possiamo fare noi due contro degli uomini armati! Ma la cavalla si lanciò al galoppo così impetuosamente che rischiò di disarcionarla. Allora si aggrappò con un braccio alla vita di Kedéra, mentre l'altro stringeva l'arco. Il cappuccio le scivolò sulle spalle sospinto dal vento ed i capelli ne fluirono liberi, ondeggiando come una bandiera.
I cavalieri avevano accerchiato il mulo carico. Sark li stava minacciando con un pezzo di legno, e Ryke, ancora in groppa all'animale, agitava il bastone di Sorren come fosse un randello. Sorren contò, tre, quattro, cinque, sei uomini, su dei cavalli dall'aspetto scarno. Si domandò perché stessero indugiando senza decidersi a prendere il mulo e scappare. Si accorse che non erano armati. Lauf, al fianco di Piéleggero, dava sfogo alla sua rabbia. Anche il mulo stava manifestando la sua furia nitrendo e scalpitando sonoramente. Sorren non aveva teso l'arco e, per farlo, occorrevano tutte e due le mani. Cea...! La parola fu come una preghiera. Si appoggiò alla schiena di Kedéra e sentì i loro polsi battere all'unisono. Armeggiò quindi con la corda incerata cercando la punta dell'arco. Piegò l'arma premendola nell'interno della coscia, ed infilò l'asola della corda nella scanalatura: l'arco si tese. Sentì Kedéra riempirsi i polmoni con un respiro immenso. Seguì un urlo: un grido acuto che parve sorgere dalla più intima essenza del suo essere. La puledra riprese velocità. Kedéra si chinò fino a toccare la criniera dell'animale con la guancia. Le sussurrò qualcosa, guidandola con le mani, le ginocchia, le cosce, regolandone il passo: Sorren imbracciò l'arco e prese una freccia, poi alzò gli occhi e scorse i volti dei banditi; sotto i laceri cappelli di pelliccia i loro occhi erano dilatati dalla paura. Fuggite! intimò loro col pensiero. Fuggite! Fuggirono. Li vide sparpagliarsi: tutti fuorché uno. La sua mano stringeva la briglia del mulo. Ryke si avventò su di lui sorgendo da un cumulo di neve, e lo stivale del bandito lo colpì nelle costole. Il ragazzo si accasciò, e Sorren tirò la corda. Sentiva le mani intorpidite, e a stento percepiva il contatto con la freccia. Tirò. La freccia ondeggiò nel vento e cadde tintinnando sulle tavole del ponte. Ciò bastò a far sì che il bandito mollasse le redini del mulo, e con un calcio, spronasse il suo cavallo a ritirarsi tra gli alberi. Il cappello volò via. Lauf vi si avventò sopra abbaiando. Kedéra urlò il suo trionfo e frenò di colpo la cavalla. Sorren cercò un appiglio ma le sue dita avevano perso la forza di aggrapparsi. Lo sapevo di aver fatto una sciocchezza, pensò, mentre vedeva la terra avvicinarsi nella caduta. Avvolse le braccia intorno alla testa lasciando cadere l'arco. La neve zampillò nell'urto. «Uuh!» Sentì una martellata nelle costole e sull'anca. Sollevò la testa. Kedéra fece girare la puledra e smontò con un balzo. «Sei ferita?», chiese. Le sue mani tastarono la schiena ed il collo di Sor-
ren mentre il respiro formava delle piccole nuvole nell'aria. «Sorren, parla!» «Non sono ferita,» disse questa sollevandosi a sedere. Una caduta da cavallo non era poi la fine del mondo. «Come sta tuo fratello?» «Sto bene!» disse Ryke, agitando il randello. «Mi ha dato un calcio; hai visto, Kedi?» «Ho visto!», disse Kedéra. Poi raccolse l'arco di Sorren dalla neve, e se lo posò sulle ginocchia. «Somigliavi... somigliavi...» Il ragazzo stentava a trovare le parole. «Somigliavi ai soldati!» disse finalmente, contemplando Sorren con adorazione. «Non sapevo che sapessi tirare con l'arco dalla groppa di un cavallo». «Neppure io!», confessò Sorren. Si domandò cosa avessero pensato i banditi quando si erano visti caricare da due donne, una che agitava in aria un arco, e l'altra che urlava con tutta la forza dei suoi polmoni. Il fianco le doleva terribilmente. Non ho dovuto uccidere nessuno, pensò. Grazie al cea, non ho dovuto uccidere... Si chiese come sarebbe andata a finire se i banditi fossero stati armati: probabilmente sarebbe morta. «Non lo hanno mai fatto prima d'ora,» osservò Kedéra. «Non ci hanno mai attaccato. Si limitano a rubare le pecore dal villaggio.» Sark, alle sue spalle, stava cercando di acquietare il mulo. Una parte della catasta di legno era caduta sulla neve. Kedéra sollevò l'estremità di un tronco. «Aiutami!», disse. Sorren si chinò - e le costò un gran dolore - a sollevare l'altra estremità. Gettarono il tronco sulla slitta. Poi sopraggiunse Embri col forcone in mano, e le aiutò a raccogliere la legna caduta. In fretta ricaricarono la slitta e spronarono il mulo a partire. Sorren lanciò una rapida occhiata agli alberi dietro di lei ma non scorse traccia alcuna degli assalitori; l'impavida resistenza li aveva intimoriti. Lauf affiancava la slitta col cappello di pelliccia tra le fauci. Kedéra procedeva a piedi al fianco della cavalla, dandole affettuosi colpetti sulla groppa e lodandola. Il gruppetto marciò tra i fiocchi di neve mentre il vento mordeva loro le guance. Merith li stava aspettando sotto l'arco del cancello, e Ryke si gettò tra le braccia di sua madre precedendo gli altri. Si riunirono nella sala. Ryke agitava con boria il randello finché Sark non gli ordinò in tono aspro di smetterla e di sedersi. Sorren si accostò al fuoco per scaldarsi le mani, e Kedéra le si affiancò.
«Chi erano?», chiese Sorren. «Chi?», fece Kedéra. «I banditi». Kedéra si accigliò. «I banditi... sono banditi e nient'altro. Sono persone scacciate dai loro villaggi. Alcuni sono ladri, e vivono nella steppa, nelle piccole capanne di pietra costruite dagli spalatori di torba. Fanno razzie di bestiame nei villaggi. Ma questa è la prima volta che attaccano la Rocca». Sorren ripensò ai loro volti pallidi. «Devono essere affamati,» disse. Il pensiero che della gente dovesse vivere a quel modo l'angustiava profondamente. «Dovrebbero andare in città a trovarsi un lavoro». «La vita a Tezera non è facile quando si è abituati alla steppa,» disse Merith. Quindi continuò ad accarezzare i capelli di Ryke finché questi non schizzò via irritato. «Cosa faranno adesso?», chiese Sorren senza aspettarsi una risposta. «Ruberanno qualche pecora,» disse Sark, poi si accasciò pesantemente sul tavolo, destando la preoccupazione dei presenti. «Sark, sei stanco?», gli chiese Merith in tono aspro. «No,» rispose l'uomo, ma la sua testa si abbassò suo malgrado. Kedéra gli si accostò. «È naturale che tu sia stanco,» disse. «Perché non vai a sederti in cucina e ti riposi un po'?» Aiutò quindi il vecchio ad alzarsi e lo accompagnò in cucina. Ne ritornò con un vassoio sul quale vi erano una caraffa di vino e dei bicchieri a calice. «Meg lo farà riposare,» disse. Juli servì il pasto. «Avresti dovuto ucciderli tutti!», disse in tono bellicoso. «Sono ladri e furfanti». «Sono solo uomini affamati ed infreddoliti,» disse Kedéra. «Se è così, allora dovrebbero trovarsi un lavoro onesto». «Non c'è lavoro,» disse Merith. Guardò quindi sua figlia. «Né ci sarà, se le cose non cambieranno». Kedéra si irrigidì. «Non ho voglia di parlarne adesso,» disse. «Dobbiamo,» insisté Merith, mentre le guance le si chiazzavano di rosso come in un accesso febbrile. «Kedi - la sua voce si fece implorante - questa gente dipende da noi. Persino i banditi. Dobbiamo trovare il modo di aiutarli, di alleviare la povertà che li costringe a rubare». Kedéra scosse la testa, e Sorren decise di allentare la tensione; prese la caraffa e riempì i calici col vino settentrionale. Era lo stesso vino che Arré aveva servito al Consiglio. Si domandò se Arré sapeva che proveniva da Tornor. Desiderò che Arré fosse lì in quel momento: lei avrebbe trovato la soluzione per i problemi di Tornor. Arré non credeva all'esistenza di diffi-
coltà insormontabili: in mancanza di una soluzione facile ed evidente, non avrebbe esitato ad inventarne un'altra. Sorseggiò il vino, ed il pensiero di Arré continuò ad occuparle la mente. Come una musica carezzevole, un'idea le sorrise tra quei pensieri. No, pensò. Sarebbe, sarebbe... Si domandò se per caso il vino non l'avesse ubriacata. «Signora,» disse, «non riesci a scorgere nessun altro modo per salvare la gente di Tornor che non sia il matrimonio di Kedéra con Dennis Ryth?» «No,» fu la risposta secca di Merith. «Kedi...», disse poi, posando il cucchiaio accanto al piatto. «Io non sposerò Dennis Ryth,» disse Kedéra. «Ho l'età per fare le mie scelte». «Non t'importa nulla, dunque,» disse sua madre alzando la voce, «di me, di tuo fratello, della tua eredità? Cosa farai? Scapperai ad occidente come un bambino che va a caccia di passeri con un pugno di sale, mentre Tornor va in rovina?» Lauf alzò la testa e si mise a ringhiare ai piedi di Kedéra. La padrona si morse il labbro. «Zitto, Lauf!», disse, rigirando il calice tra le mani. «Mi importa invece. Ma non desidero sposare Dennis Ryth, e non sono una bambina». Sorren, frattanto, stava contemplando le pareti tappezzate. Gli arazzi parevano ammiccare in una sorta di complicità. «Altri dividono l'eredità di Tornor,» disse. «Ti ho già detto che le altre Rocche versano nelle stesse condizioni,» disse Merith. «Non alludevo alle altre Rocche.» Sorren appoggiò i gomiti sul tavolo. «Mi riferisco alla Famiglia dei Med, nel sud. È stato un membro di quella dinastia a costruire la Rocca di Tornor. So bene che ogni vincolo è andato perduto da lungo tempo ma, se Arré Med verrà a conoscenza della tua situazione, non esiterà ad aiutarti». «Non chiederò l'elemosina al sud,» sbottò Merith furibonda. «Non si tratterebbe di elemosina. Io conosco Arré Med. Ha molto a cuore la sua Famiglia, e da poco ha perduto un fratello: il Consiglio lo ha esiliato. È soltanto l'ignoranza a dividere lei da te. A Kendra-sul-Delta tutti pensano che le Rocche siano disabitate». Le parole di Sorren echeggiarono contro le pareti di dura roccia. La ragazza scrutò il volto di Merith. «E così finiranno se non riceveremo aiuti,» disse la donna. La collera era svanita dalla sua voce, pervasa soltanto di
dolore. Tese la mano a sua figlia. «Non voglio che tu sposi Dennis Ryth contro la tua volontà». Kedéra lasciò il posto sulla panca e girò intonino al tavolo per andare ad abbracciare sua madre. «Ne sono lieta, madre, perché non posso farlo. Dai ascolto a Sorren: lei sa più del mondo di quanto ne sappiamo tu od io». Sorren avrebbe voluto scoppiare a ridere. Lei conosceva il mondo... lei, la figlia della raccoglitrice d'uva, la ragazza del nord! «Arré Med ha forti legami con Tarn Ryth,» disse. «Se dovesse aiutarvi, il Signore di Nuath non ne sarebbe offeso. Anzi, potrebbe trovare un modo per mandare ugualmente i soldati a Tornor giovandosi dell'appoggio di Arré. Questo lei non potrebbe farlo: Tornor è troppo lontana per mandare delle truppe da laggiù». Si immaginò Paxe nella neve. Odierebbe questo posto, pensò. «E in che modo potrei fare per stabilire i contatti con la Signora Arré?», disse Merith. I battiti accelerarono nel petto di Sorren. «Scrivile,» disse. «Rammentale l'antico legame. Dille delle tue necessità». «Rifiuterà,» insisté Merith. «Perché dovrebbe aiutare chi non potrà mai pagare il suo debito?» «Tutti noi abbiamo dei debiti,» replicò Sorren. Pensò a Paxe, a Kadra, a Isak. «Sono convinta che accetterà!», ripeté. Merith aggrottò le ciglia. Non mi crede, pensò Sorren Cea... Cercò altre parole. Avrebbe potuto parlarle del L'hel. Ma Merith non era Arré; venire a conoscenza delle ambizioni del L'ehl avrebbe soltanto aumentato la sua incertezza. Posò le palme sul tavolo, quasi volesse trarre la fiducia di Merith dal legno, o dalla pietra, o dalla terra silente. Il contatto con la superficie del tavolo riportò la sua memoria ad un altro tavolo, in una stanza silenziosa. Si alzò. «Torno subito.» Andò nel cortile. Cosa le aveva detto Tukath? Se deciderai di rinunziare alle Carte, dovrà essere per i tuoi fini. Avanzò nella tormenta di neve fino a raggiungere la porta degli appartamenti. Salì di sopra, nella camera di Kedéra. Prese il cofanetto con le Carte dallo zaino. Chiuse gli occhi in attesa che i confini della realtà si offuscassero, che gli arazzi svanissero... ma non accadde nulla. Le Carte rimasero mute. Quella era la loro casa, le loro mura, il loro silenzio. Lì non avevano bisogno di parlare. Le portò nella sala. Merith e Kedéra erano sedute l'una accanto all'altra, mano nella mano. Sorren porse a Merith il cofanetto. «Prendile!», disse. «Cosa vuoi che ne faccia?»
«Quello che desideri,» disse Sorren. «Qui non mi servono. Vendile, se vuoi, Marti Hok della Famiglia Hok di Kendra-sul-Delta le acquisterebbe volentieri. Vendile a Tarn Ryth.» Depose la scatoletta sul tavolo, e Merith liberò la mano da quella di sua figlia e la sollevò. Kedéra guardò interrogativamente Sorren, che scosse la testa sperando che la ragazza tacesse, che non facesse domande. Merith aggrottò le ciglia. Poi, i suoi tratti si distesero. Con gentilezza porse a Sorren la scatoletta. «No. Non voglio prenderle. Apprezzo il tuo dono, ma queste Carte appartengono a Tornor, fanno parte del suo retaggio e non voglio che facciano il giro del mondo con te per essere vendute. Hai detto che ti provocavano delle visioni». «Ora non più,» disse Sorren. «Ma prima sì. E potrebbero farlo ancora. La capacità di avere visioni è troppo straordinaria per essere venduta. Piuttosto io...», voltò il capo da una parte e dall'altra guardando le pareti della sala, «sfilerei il filo d'oro di quegli arazzi e lo rivenderei. Può darsi che ci toccherà farlo quando l'inverno sarà passato e torneranno i mercanti». «Madre, scrivi ad Arré Med!», disse Kedéra. Merith sospirò. Toccò la guancia di sua figlia con le nocche della mano. «Testarda! Tutti testardi quelli della nostra stirpe.» Guardò Sorren. «Anche tu lo sei, Messaggera. Se scriverò ad Arré Med, sarai tu a portarle la mia lettera?» «Ma...» Kedéra ansimò. I suoi occhi cercarono quelli di Sorren. Pensavo che saresti venuta con me nell'ovest, le dicevano. Sorren si sentì stringere il cuore. Non voleva. Cosa sarebbe accaduto quando avrebbe rivisto Paxe? Cosa si sarebbero dette? L'odore dell'oceano penetrò la sua mente, etereo come un fantasma. Umido e salato, quel fantasma la chiamava a sé. «Se scriverai questa lettera, la porterò», disse. «Se non riuscirai a trovare un'altro Messaggero». «Mi sembra giusto,» disse Merith. Poi spinse di lato il piatto e si alzò. «Ho da tessere oggi pomeriggio: mi aiuterai, Kedéra?» «Sì. Sarò da te tra un istante». «Mi troverai nel magazzino ad avvolgere la lana.» Quindi uscì. Juli uscì dalla cucina e cominciò a sparecchiare. Stava fischiettando, e Sorren conosceva quel motivo: era la canzone che Arré non sopportava di sentire. Sono uno straniero in terra straniera... Le faceva ricordare Isak, e Kadra. Forse il mantello di Kadra era stato un segno premonitore. Forse era destinata a vagare, a viaggiare per portare da un paese all'altro i messaggi della gente.
Kedéra le toccò un braccio. «Sorren?» La ragazza tornò al presente. «Eccomi!» Si sentiva la testa pesante. «Facciamo due passi,» propose, e Kedéra annuì. Si diressero all'entrata del salone. Lauf si svegliò, e saltellò al fianco di Kedéra con un guaito. La padrona gli accarezzò le orecchie. «Bravo!», gli disse amorevolmente. «Il mio cacciatore di banditi». Continuava a nevicare, ma i fiocchi erano più lievi nella luce grigia del pomeriggio. Sorren strinse il cofanetto nella mano. «Non voglio andare a sud,» sussurrò, rivolta al castello. Ma quello non le rispose. Forse non aveva mai avvertito realmente la sua presenza, né aveva notato le sue visite. Per lui contava meno del fiume. Quando arrivava il disgelo, il fiume scendeva al sud. Ripensò ai volti dei banditi: la disperazione, non la malvagità, aveva guidato i loro passi. L'ordine che avevano rispettato un tempo era stato spazzato via. Non riusciva ad odiarli. Si chiese se sarebbero ritornati, e quando. Forse il cancello sarebbe stato riparato prima di allora. Sorren si sentiva attratta da due poli contrapposti, divisa come mai lo era stata a Kendra-sul-Delta. Voleva rimanere a Tornor, e - sorrise a se stessa - allo stesso tempo voleva seguire Kedéra, ovunque andasse. «Sorren?», la chiamò la ragazza. «Eccomi!» «Se m'insegnerai a tirare con l'arco, io ti insegnerò a cavalcare». Sorren la guardò. La neve luccicava tra i suoi capelli. Mi ero sbagliata, pensò. Non somiglia a nessuno. È lei, Kedéra: è unica. «E se dovrò andare a sud?», chiese. «Allora verrò con te». Pareva stesse parlando di una cavalcata giù al villaggio. «Tu non sai di cosa stai parlando!» Sorren sbatté le palpebre, stupita del suo stesso tono, tanto simile a quello che era stato una volta di Kadra. Quanto doveva esserle sembrata puerile, con i suoi piani, i suoi programmi, le sue certezze! Non esistono certezze, pensò. Solo il passato è certo, e il passato è morto. Kedéra la stava guardando con quello sguardo acceso che ben conosceva. La fece arrossire. Con la mano libera scrollò la neve dai capelli di Kedéra. Soffici come piume, erano simili ad un raggio di sole, delicati come la tela di un ragno, come le fronde vellutate delle lattiginose piantine di bosco. Di scatto Kedéra voltò il capo, e le sue labbra sfiorarono la mano di Sorren. «Sembri infelice,» le sussurrò, «ma io non voglio che tu sia infelice».
Un ringhio le interruppe. Abbassarono gli occhi. Lauf le stava osservando con le zampe ben ritte. Kedéra rise. «È geloso!» Ha ragione di esserlo, pensò Sorren. Si domandò quanto distassero realmente le Montagne Occidentali, e se, in qualche valle dimenticata, i ceari danzassero ancora. O anche ciò apparteneva al passato? «Farai bene ad insegnargli a non ringhiare contro di me,» disse. Kedéra afferrò il collare di Lauf. «Ascolta, Lauf. Questa è Sorren. Lei è mia amica, stupido d'un cane, e non voglio che ringhi contro di lei! Sorren non andrà via. Lei appartiene a questo castello, e dovrai abituarti a questo fatto.» La voce di Kedéra si elevò, risuonando sulle pietre delle mura. «Il suo nome è Sorren. Riesci a capirlo? Sorren. Sorren!» FINE