LA SOGLIA DELL'INVISIBILE I CLASSICI DEL SOVRANNATURALE (The Ghost Omnibus I & II, 1965) a cura di KURT SINGER INDICE NE...
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LA SOGLIA DELL'INVISIBILE I CLASSICI DEL SOVRANNATURALE (The Ghost Omnibus I & II, 1965) a cura di KURT SINGER INDICE NEL MONDO DEGLI SPETTRI di Seabury Quinn LA ZAMPATA DEL FELINO di Seabury Quinn LA VENDETTA DEI DRUIDI di Robert Bloch L'OMBRA DEL CAMPANILE di Robert Bloch CANTICO DI MORTE di A. W. Calder IL TERRORE VIENE DAL CIMITERO di Thorp McClusky «VADE RETRO», PIOGGIA! di Gardner F. Fox CONDOMINIO CON LO SPETTRO di Gans T. Field GLI OCCHIALI BLU di Stephen Grendon LA CASA DELL'ALDILÀ di Allison V. Harding LA SIGNORA LANNISFREE di August W. Derleth E LORO RISORGERANNO di August W. Derleth e Mark Schorer «CHE VUOI, SPIRITO INQUIETO?» di Harold Lawlor LA MALEDIZIONE DELLA STREGA di Paul Ernst IL FANTASMA MOLESTO di Emil Petaja LA RAGAZZA-LUPO DI JOSSELIN di Arlton Eadie NEL MONDO DEGLI SPETTRI di Seabury Quinn Avanti e indietro, avanti e indietro; Jules de Grandin si passò sotto il naso il bicchiere a cipolla, gustando il bouquet della fine champagne con la riverenza del raffinato intenditore. Bevve un sorsetto di assaggio e la sua espressione compiaciuta divenne addirittura estasiata. «Parbleu», mormorò, «come usava dire il mio vecchio amico François Rabelais, 'il buon vino è lo spirito vivente della vita, ma il buon brandy è lo spirito vivente del vino', e...» «Accidenti!» lo interruppe bruscamente il dottor Taylor. Con un incauto movimento del gomito aveva urtato il sottilissimo calice posato sul tavolinetto accanto a lui, mandandolo a frantumarsi per terra. «Quel dommage, che peccato!» commentò de Grandin. «Rompere un
pezzo di cristalleria tanto prezioso è già di per sé una disdetta, ma le vieux cognac, Monsieur, è qualcosa di impareggiabile: sprecarlo costituisce una vera e propria catastrofe, senza esagerazione!» «A chi lo dice!» rispose tetramente il dottor Taylor. «È l'ultima bottiglia di Jérôme Napoléon che mi restava in cantina e soltanto il cielo sa quando potrò trovarne un'altra per rimpiazzarla. Questi inconvenienti sembrano capitare sempre tre alla volta. Stamattina, a colazione, ho rotto una tazza da caffè, oggi pomeriggio per poco non ho lasciato cadere tra le fiamme del caminetto un frammento di papiro di inestimabile valore, e adesso...» S'interruppe, con una smorfia di scontento. Poi soggiunse: «Spero di aver concluso il ciclo». «Ma è comprensibile, Monsieur», affermò de Grandin con simpatia. «Sono i tempi, la tensione provocata dalla guerra, il...» «La colpa non è della guerra», protestò Taylor. «Mi secca enormemente confessarlo, ma in questi ultimi giorni sono stato nervoso, agitato come un chicco di granturco nella macchinetta del pop corn. Ho perso la bussola.» «Comment?» De Grandin inarcò un tantinello le sopracciglia. «È un oggetto di così grande valore, quella bussola che lei ha perduto, Monsieur?» Suo malgrado, il nostro ospite si lasciò sfuggire una risatina. «Di grandissimo valore, dottor de Grandin. A meno che io non la ritrovi al più presto, dovrò... Oh, non voglio prenderla in giro! Perdere la bussola è un'espressione idiomatica che significa perdere la calma, non sapersi più orientare. È quella maledetta mummia, che per poco non mi fa diventar pazzo!» De Grandin non si fece cogliere di sorpresa una seconda volta: «Trowbridge, amico mio, traduci, per favore», disse, rivolgendosi a me. «È un altro idiotismo? La mummia in questione è un autentico cadavere imbalsamato, oppure una persona incartapecorita e musona?» «No!» Il dottor Taylor si trattenne a stento dallo scoppiare in una risata. «Non si tratta di un idiotismo, dottor de Grandin. Magari così fosse! Sta di fatto che da quando, la settimana scorsa, hanno consegnato al Museo una nuova mummia, sebbene per natura io non sia superstizioso, ho i nervi a fior di pelle in maniera spaventosa. A causa della guerra, il trasporto è andato per le lunghe e quando è arrivata a destinazione ci è capitata addosso alla sprovvista. Parecchi dei nostri giovani funzionari sono sotto le armi, di conseguenza me ne sono occupato io stesso. Ora vorrei non averlo fatto, perché, a meno che io non prenda una cantonata, la mummia è, come si suol dire, 'iellata', e... Be', ripeto, non sono superstizioso, però...»
«Io direi che qualsiasi mummia è iellata», intervenni io, piuttosto scioccamente. «Esser tirata fuori dal tranquillo rifugio di una tomba, farsi sballottare sul mare per quattromila miglia, per poi essere esibita davanti agli sguardi indifferenti di gente che potrebbe venir definita una orda di barbari...» Il mio fiacco tentativo di buttare la cosa in scherzo non fece presa sul dottor Taylor. «Quando, parlando di una mummia, un egittologo la definisce 'iellata', si riferisce agli effetti che essa produce sui viventi, non al fatto che essa sia o meno assistita dalla fortuna», m'interruppe quasi con asprezza. «Le chiami pure baggianate, se vuole, e probabilmente è quanto farà, ma fatto sta che pare vi sia un certo fondamento nella credenza secondo la quale le antiche divinità egizie avrebbero il potere di punire coloro che disturbano il riposo delle mummie di persone morte in condizione di apostasia. La gente del mestiere, questo genere di mummie le chiama 'iellate', perché portano male a chi le trova e a chiunque abbia qualcosa a che vedere con esse. Esempio classico, quella di Tutankamen. Quando era in vita, egli fu notoriamente un eretico e offese gravemente le 'Antiche Divinità' del suo tempo, o, per lo meno, i loro sacerdoti; il che, alla lunga, produceva gli stessi risultati. Perciò quando morì gli diedero, sì, minuziose onoranze funebri, ma non collocarono un simulacro di Amon-Ra sulla prua della navicella che doveva traghettarlo sull'altra sponda del Lago della Morte. Gli negarono persino le placche che era consuetudine collocare in tutte le tombe, i bassorilievi con le immagini di Seb, Tem, Neftis, Osiride e Iside. Nonostante i suoi tardivi tentativi di riconciliarsi con i Grandi Sacerdoti, in base ai canoni teologici dell'epoca, Tutankamen fu considerato poco meno di un ateo e la collera degli dèi lo seguì oltretomba. Questi ultimi non volevano che il suo nome fosse tramandato ai posteri e che le sue reliquie venissero un giorno tratte alla luce dagli uomini. «Infatti, attenzione a quanto è accaduto ai tempi nostri: nel 1922, Lord Carnarvon localizzò la tomba. Lui e altri quattro colleghi studiosi di egittologia. Tre di questi e lo stesso Carnarvon morirono entro un anno circa da quando il sepolcro venne violato. Il colonnello Herbert e il dottor Evelyn-White furono tra i primi ad entrare nella camera sepolcrale: entrambi spirarono prima che fossero trascorsi dodici mesi. Sir Archibald Douglass fu incaricato di eseguire le radiografie della mummia: prima ancora che le lastre fossero state sviluppate, si può dire, egli trapassò. E entro l'anno morirono anche sei dei sette giornalisti francesi che visitarono la tomba pochi
giorni dopo che essa era stata violata; quasi tutti gli operai addetti agli scavi perirono prima ancora di avere avuta la possibilità di spendere le loro paghe. Chi morì in una maniera, chi in un'altra. Ma un fatto è certo: fu una vera ecatombe! «E non basta: persino gli oggetti di importanza relativa trovati nel mausoleo sembrano esercitare un'influenza maligna. Abbiamo la prova incontrovertibile che gli impiegati del museo del Cairo, costretti dal loro lavoro a permanere nella sala dove sono in mostra le reliquie di Tutankamen, o anche soltanto in prossimità della stessa, si ammalano e muoiono senza una ragione plausibile. C'è forse da stupirsi che la definiscano una mummia 'iellata'?» «Bien, Monsieur. Et puis?» disse de Grandin, per incitare il nostro ospite, che sembrava essersi assorto in un tetro silenzio. «Ora le spiegherò», rispose il dottor Taylor. «Questa maledetta mummia che mi è capitata tra capo e collo è strana oltre ogni dire. Risale alla diciottesima dinastia, su questo non v'è dubbio, ma è differente da qualsiasi altra che abbiamo mai vista. Niente maschera funeraria, né sulla mummia, né sul sarcofago, sul quale non vi è traccia di bassorilievo o di una qualsiasi iscrizione. Come certo lei saprà, gli antichi Egizi erano usi a scrivere sempre gli appellativi e le biografie dei defunti sui sarcofagi, ma nel caso specifico, invece, non si può parlare di sarcofago ma di una semplice bara di legno grezzo, completamente spoglia. Un bel guscio di sottile e durissimo legno di cedro, al quale non è stata nemmeno data una mano di vernice. Nella maggior parte dei sarcofagi, il sistema di chiusura consiste in quattro piccole flange, due per parte. Sporgono dal coperchio, si incastrano nelle mortase intagliate nella parte inferiore, e sono tenute ferme da tasselli di legno duro. Questo ne ha otto, tre e tre sui lati ed una ad ogni estremità. Come se avessero voluto esser sicuri al cento per cento che chi era nella bara non potesse scappar fuori. Inoltre, e ciò è più che inusitato: è assolutamente unico, il fondo del cofano è cosparso di uno strato di spezie di circa dieci centimetri di spessore.» «Spezie?» fece eco con grande stupore Jules de Grandin. «Spezie, sì. Non le abbiamo ancora analizzate tutte, ma per il momento abbiamo già trovato chiodi di garofano, lavanda, cannella, aloè, timo, zenzero, senape, pimento e normale cloruro di calcio.» De Grandin sporse le labbra come per emettere un fischio silenzioso. «Stranissimo, stranissimo, vraiment», ammise. «E lei ha già svolto le bende che avviluppano il lui o la lei? Ha sottoposto la mummia ai raggi X?»
«Be', sì e no.» «Comment? Oui et non? Che significa? È uno di quei famosi doppi sensi di cui si sente tanto parlare?» «Non esattamente.» Il nostro ospite sorrise. «Intendevo dire che ho tolto il primo strato di bende, quella specie di crosta spalmata di bitume, capisce, e così come si trova, ancora avvolta nello strato di bende sottostante, ho sottoposto la mummia al fluoroscopio.» «Ah, sì? E allora, Monsieur?» incalzò de Grandin, visto che il nostro ospite taceva, come se non avesse avuto altro da dire. «Qui sta il punto, dottor de Grandin. La faccenda non mi piace per niente. Ciò che ho trovato conferma il mio iniziale sospetto di avere per le mani una mummia 'iellata'.» «Woeltjin, il dottor Oris Woeltjin, trovò la mummia in una tomba nascosta con eccezionale accortezza, tra Nagada e Dêr-El-Bahri, all'estremo limite orientale del deserto Libico: un territorio dove da anni non si facevano più ricerche, ritenendo che si fosse ormai trovato tutto ciò che vi era da trovare. Durante gli scavi, due dei suoi fallaheen, furono morsicati da quei ragni che vivono nei sepolcri, vennero presi da convulsioni e decedettero di una morte orribile. Già questo è inconsueto, perché il ragno delle tombe è, sì, una bestiaccia repellente, ma non particolarmente velenosa. Io stesso sono stato morso una mezza dozzina di volte, ma non ho mai sofferto neanche la metà di quanto ho patito quando sono stato pizzicato da uno scorpione. Il fatto deve aver impressionato anche gli altri operai, perché essi piantarono in asso il lavoro come un sol uomo. Woeltjin, però, non si diede per vinto: con l'aiuto degli uomini che riuscì a racimolare nei dintorni pagando doppio salario, finalmente raggiunse la camera funeraria. «Ma era soltanto il principio dei suoi guai. Per scendere il Nilo col sarcofago, ne passò di tutti i colori. Metà dell'equipaggio del suo dehabeeyah venne colto da una febbre misteriosa, molti morirono e gli altri abbandonarono l'imbarcazione. Gli ci vollero quasi due settimane per portare a termine un viaggio che in circostanze normali avrebbe richiesto al massimo cinque giorni. Da alcuni anni a questa parte, il governo egiziano ha proibito l'esportazione di mummie, ma Woeltjin era una vecchia volpe, in materia. Imboccò la strada giusta, unse le ruote che doveva ungere, e alla fine riuscì a contrabbandare il sarcofago mimetizzato da cassa contenente un carico di pietre spugna. «Arrivato a Liverpool, morì.
«Per due anni, la mummia venne sballottata da un deposito all'altro, nel porto di Liverpool; la guerra fece tirare le cose ancora più in lungo, ma come Dio volle il sarcofago arrivò a destinazione. Be', lei forse non ci crederà, ma il nostro dipartimento trasporti prese davvero la cassa per un carico di pietre spugna, e la piantò là, abbandonata in un magazzino per quasi altri due anni. Fu per puro caso, che il direttore del museo la rinvenne, la settimana scorsa. Bene, con dei precedenti del genere, quanto ho scoperto ieri non ha fatto che confermare il mio sospetto che quella dannata cosa sia iellata.» Jules de Grandin si sporse dalla seggiola. «Nom d'un million de moustiques pestijères, Monsieur, insomma, che cosa ha scoperto?» domandò. «Parli, la curiosità mi distrugge!» Taylor ebbe un sorriso un tantino amaro. «Il fluoroscopio ha rivelato che la struttura ossea del torace è stata maciullata. O quella donna ha perso la vita per delle lesioni dovute a un incidente paragonabile a ciò che oggigiorno si usa chiamare un disastro automobilistico, oppure...» Fece una pausa per bere un sorso di brandy. «Oppure ha incontrato la morte nel corso di un rituale corrispondente grosso modo alla peine forte et dure che veniva comminata dai tribunali inglesi nel Medio Evo; schiacciata sotto un mucchio di macigni fino a esalare l'ultimo respiro.» «Probabilmente è stato un incidente», obiettai. «Quei carri a due ruote dei tempi andati non dovevano essere dei veicoli molto stabili, quindi è ben possibile...» «Possibile, ma non probabile, se si tien conto di ciò che dice il papiro», tagliò corto il dottor Taylor. «Dopo aver completato l'esame al fluoroscopio, ho trovato lo scritto infilato tra due strati di bende. Infilato di soppiatto, direi.» De Grandin si tormentava le punte aguzze come spilli dei suoi baffetti biondissimi. «Tiens, Monsieur, perché ci tiene sulla corda, tirando per le lunghe una storia già di per sé interminabile? Che cosa diceva quello stramaledetto papiro?» «Un mucchio di cose», rispose il dottor Taylor. «Non ho ancora finito di decifrarlo, ma già il principio ha un'aria così misteriosa da far rabbrividire. La defunta si auto-presenta sotto il nome di Nefra-Kemmah, servente della Grande Madre, la Dea Falcata, la Signora della Luna... Per farla breve, una sacerdotessa di Iside. Capito cosa significa, implicitamente?»
Io scossi la testa; de Grandin puntò il suo sguardo magnetico da gatto sul nostro ospite, ma non diede risposta. «Le sacerdotesse di Iside, a differenza delle ancelle di tutte le altre Gran Madri Divine dell'antichità, per esempio Afrodite e Tanit, erano votate alla castità e dovevano mantenersi intatte come le Vergini Vestali e le suore cristiane. Se una di loro, dimenticando i doveri del proprio sacerdozio, si permetteva anche soltanto di guardare o parlare con un uomo che non facesse parte dell'ordine sacerdotale, le conseguenze erano decisamente spiacevoli. Colei che, come si suol dire, donava tutta se stessa a un uomo, per punizione veniva torturata a morte. La condanna poteva venir eseguita in varie maniere. Sepolta viva, avvolta nelle bende come una mummia, ma col volto scoperto per permettere la respirazione, era una delle forme. Un'altra era quella di schiacciare sotto un mucchio di pietre il cuore di colei che aveva deviato dal retto cammino, fino a ridurlo una massa sanguinolenta...» «Parbleu», mormorò de Grandin. «Quella poveretta, allora, fu una delle infelici creature...» «Tutti gli indizi lo fanno supporre. Era una sacerdotessa, votata alla castità, pena la morte; le sue costole sono state maciullate; la sua bara non reca nessuna iscrizione, nessun segno di riconoscimento. A quanto pare, non soltanto la morte, ma anche l'oblio assoluto sarebbe dovuto essere il suo fato. Adesso, forse, lor signori capiranno perché sono un poco nervoso. Facile dire 'che roba!... sciocchezze!' quando si sente parlare di mummie che danno il malocchio, però qualsiasi egittologo può citare un esempio dopo l'altro di 'incidenti' occorsi a coloro che vengono a contatto con le mummie di gente che morì maledetta. » «Che diceva ancora il papiro? O non ha decifrato altro, dottor Taylor?» domandai. «Hum... Più vado avanti, più mi si imbrogliano le idee. Conoscono qualcosa della dottrina degli Egizi in fatto di medicina?» «Io sì, un poco», ammise de Grandin. «Però non mi permetterei mai di discuterne con lei, Monsieur.» Taylor sorrise, grato dell'omaggio. «Avevano delle teorie piuttosto bizzarre. Per esempio, credevano che le arterie contenessero aria, che il centro emozionale fosse il cuore e che la collera nascesse dalla milza.» «Proprio così», annuì de Grandin.
«Però erano molto avanzati rispetto ai loro contemporanei e anche ai Greci e ai Romani, giacché avevano in parte afferrato che la ragione ha la sua sede nel cervello, oggi verità incontroversa. Si ricordino di questo, perché quanto vi dirò ora vi è connesso. «Probabilmente, gli Egizi furono il primo grande popolo dell'antichità che ebbe a formulare un'idea precisa dell'immortalità. Era per questa ragione che mummificavano i loro morti. Dopo tremila anni dal decesso, essi credevano, l'anima sarebbe tornata sulla terra per reclamare il proprio corpo e, non trovandolo, avrebbe vagato per l'eternità, ombra senza corpo, in Amenti, il regno dei dannati. Dato che la sacerdotessa Nefra-Kemmah visse al tempo della diciottesima dinastia, su per giù dovrebbe essere arrivata l'ora della sua resurrezione.» «Ah!» mormorò Jules de Grandin. «Davvero? Lei crede...?» «Non credo niente. Sono soltanto disorientato. Invece di pregare le divinità affinché guidino la sua Ka, o anima che dir si voglia, verso il corpo che la attende, Nefra-Kemmah asserisce, specificandolo espressamente, che risorgerà con l'aiuto di un essere vivente e in virtù della forza del cervello. Questo è qualcosa di assolutamente unico. Che io sappia, una cosa simile non è mai stata ventilata prima. Persino coloro che morivano in condizione di apostasia, negli ultimi istanti imploravano la misericordia degli dèi, invocando il perdono per il loro peccato di miscredenza, supplicando che venisse loro concesso l'aiuto divino per conseguire la resurrezione. Questa piccola sacerdotessa, invece, dichiara categoricamente che risorgerà con l'aiuto di un essere umano vivente, servendosi del potere dell'intelletto.» Taylor tirò fuori da una tasca della giacca una busta e vi scribacchiò rapidamente sopra qualcosa. «Ripetutamente, ho trovato questi ideogrammi», disse, porgendoci la carta affinché potessimo prenderne visione. «Il primo significa sorgere, o, per derivazione, sorgerò; il secondo significa quasi, ma non del tutto, la stessa cosa: destare, oppure 'mi desterò a nuova vita'. E, sempre, ripete che lo farà a mezzo del potere del cervello, il che complica ancor più il messaggio.» «O bella, e perché?» domandai io. «Perché, essendo una mummia, non può più avere una massa cerebrale. La prima cosa che facevano gli imbalsamatori egiziani era quella di asportare il cervello, servendosi di un uncino che facevano passare attraverso il naso.» «Certamente doveva saperlo anche lei», cominciai a dire, ma, prima che
il nostro ospite avesse il tempo di rispondere, dalla veranda ci giunse una risata cristallina; una chiave girò nella serratura della porta d'ingresso principale e Vella Taylor entrò giubilante in salotto, con al seguito un soldatino di assai bell'aspetto, un vero fusto. «Ciao, paparino», disse lei, piantando un bacione sulla pelata del padre. «Salve, dottor Trowbridge, buona sera dottor de Grandin. Ho il piacere di presentare Harrock Hall, il mio ragazzo, un tesoro di ragazzo. Mi scusino se non ho potuto pranzare qui con loro, questa sera, ma dovendo Harrock raggiungere domani mattina il suo accampamento, sono stata a casa dei suoi genitori. Non mi è parso bello rubarlo ai suoi proprio l'ultima sera di licenza e d'altra parte volevo stare con lui fino all'ultimo, perciò... Oh, gente, cosa state bevendo? Cognac?» Fece una smorfia, quasi si trattasse di un cocktail di aceto e olio di castoro. «Che porcheria! Vieni, tesoro.» Allacciò la sua mano a quella del soldatino. «Vediamo se riusciamo a scovare del Benedectine o del brandy spagnolo. Quello sì è all'altezza della situazione, e poi è così buono...» «Ci terrà al corrente degli sviluppi?» domandò de Grandin a Taylor, mentre prendevamo congedo. «Questa straordinaria donzella egiziana che ebbe il coraggio di sfidare i sacerdoti suoi giustizieri e affermò che sarebbe risorta a dispetto della loro condanna all'oblio eterno mi interessa molto.» Saranno state le tre di notte, quando l'insistente squillare del telefono mi svegliò di soprassalto. La voce che mi giunse attraverso il filo era angosciata, quasi isterica, ma i medici sono abituati a situazioni del genere. «Parla Granville Taylor, dottor Trowbridge. Può venire subito qui da me? Si tratta di Vella... ha una specie di attacco...» «Che genere di attacco?» lo interruppi. «Le fa male qualche cosa?» «Non so se le faccia male qualcosa. È priva di sensi, rigida come un pezzo di legno, e...» «Vengo immediatamente. Il tempo di mettermi in macchina e mi precipito», lo rassicurai. Riagganciai e mi affrettai a infilare il vestito, che anni di pratica medica mi avevano insegnato a tener sempre pronto su una sedia, ai piedi del letto. Svegliato dal rumore che facevo muovendomi in fretta, de Grandin domandò: «Che succede, mon vieux? È forse accaduto qualcosa al signor Taylor? L'incidente che lui temeva?» «No, si tratta di sua figlia. Pare che abbia una specie di attacco; Taylor dice che è rigida e priva di sensi.»
«Parbleu, quella deliziosa, raggiante creatura? Per piacere, amico mio, lascia che venga anch'io con te. Forse potrò essere di aiuto.» Dicendo che sua figlia era rigida come un pezzo di legno, Taylor non aveva esagerato le condizioni di Vella. Dalla testa ai piedi, era dura come qualcosa di surgelato; tesa, rigida come l'assistente di un ipnotizzatore quando è in trance. Non fu possibile massaggiarle le mani, perché le dita erano ferreamente contratte, l'epidermide non cedeva alla pressione. La ragazza sulla quale eravamo curvi sembrava piuttosto un grazioso manichino di cera che non la creatura felice, vibrante, piena di vita cui avevamo dato la buonanotte poche ore prima. A nulla valsero i nostri tentativi di farla rinvenire: era là sdraiata, dura e granitica, come se fosse pietrificata. La sua temperatura corporea era esattamente uguale a quella ambientale, come se lei fosse morta. Persisteva la misteriosa resistenza delle carni. Vella non reagiva a nessuno stimolo esterno, salvo una piccola contrazione delle pupille quando proiettavamo la luce della torcia sui suoi occhi spalancati e fissi. Praticamente, il polso non era percettibile e quando le infilai nel braccio l'ago di una siringa ipodermica per iniettarle una dose di stimolante, non notammo che la pelle reagisse col minimo riflesso. Ebbi l'impressione di infiggere un ago in qualche sostanza cerosa duriccia, non nella carne di un essere vivente. A quanto ci era dato vedere, le funzioni vitali sembravano sospese. Eppure non era paralizzata nel senso che si dà comunemente alla parola; di questo eravamo sicuri. «È... è un attacco di epilessia?» domandò allarmato il dottor Taylor. «Il fratello della sua mamma era...» «No, no, si calmi, amico mio», cercò di rassicurarlo de Grandin. «Non si tratta di epilessia, di questo mi rendo garante io.» Con un sussurro, rivolgendosi a me, soggiunse: «Ma che cosa sia, lo sa soltanto le bon Dieu». A oriente stava spuntando l'alba, quando Vella cominciò a dar segno di riaversi. La spaventosa rigidità, tanto simile al rigor mortis, piano piano cedette e l'espressione terrorizzata dei suoi occhi fissi fu sostituita da uno sguardo cosciente. Le sue guance, le sue mandibole perdettero la linea dura, angolosa, il busto snello si sollevò nel movimento ritmico della respirazione, mentre lei emetteva un leggero sospiro. Disse qualcosa, ma io non riuscii a capire le parole, perché le pronunciò biascicando, in tono sommesso, legandole strettamente le une alle altre, quasi mormorasse in fretta una invocazione; mi sembrò che avessero un
suono aspro e gutturale, come se contenessero molte consonanti. Pareva che parlasse una lingua del tutto dissimile da qualsiasi altra che io avessi mai udito prima. Poi il sussurro si trasformò in un canto, modulato sottovoce su un ritmo crescente, con una nota acutamente accentuata alla fine di ogni battuta. Tornavano sempre le stesse incomprensibili parole, cantate su un tono bizzarro e ondeggiante, vagamente somigliante a un canto Gregoriano. Una sola parola, riuscii a discernere, o, per lo meno, credetti di distinguere; se poi si trattasse veramente di una parola, o se invece la mia mente avesse inconsciamente fatto una suddivisione di sillabe, ordinandole poi in modo che il loro suono combinasse con quello di un nome più o meno familiare, non avrei saputo dirlo. Comunque, mi sembrò che nel rapido fluire dell'invocazione che Vella balbettava fosse ricorrente una parola trisillabe contenente una sibilante, la esse. «Sta cercando di dire 'Iside'?» domandai, distogliendo gli occhi da quelle labbra palpitanti. De Grandin fissava Vella con intensità, senza un battito di palpebre, con quel suo sguardo immobile che gli avevo visto negli occhi per interi minuti quando, nell'anfiteatro di qualche ospedale, assisteva a un'operazione chirurgica eccezionale. Con un gesto irritato agitò la mano per farmi star zitto, ma non aprì bocca e nemmeno mutò la fissità del suo sguardo. Il flusso di parole senza senso si fece più lento, più frammentario, come se la forza che muoveva le labbra rosate stesse diminuendo, ma il canto dolce e misterioso continuò, le quattro note in tono minore trascinate senza fine. La pronuncia di Vella sembrò farsi più intelligibile, tanto che, senza sforzo, si può dire, riuscimmo a captare una frase ricorrente: «O NefraKemmah nehen-Nehese, O Nefra-Kemmah!» «Dio del cielo!» esclamò il dottor Taylor. «Signori miei, ma si rendono conto? Sta cantando 'Nefra-Kemmah, svegliati!... Sorgi, o Nefra-Kemmah!' Nefra-Kemmah era il nome della sacerdotessa di cui parlammo ieri sera, non ricordano? Nel delirio, si sta identificando con la mummia!» «Probabilmente in questi giorni ne avrà sentito parlare da lei.» «Ma neanche pensarci! Fuori dal museo, loro due sono le uniche persone con le quali ne ho fatto cenno. Sapevo che de Grandin ha una certa passione per l'occultismo e in quanto a lei, Trowbridge, so di poter contare sulla sua discrezione. Parlare di quella mummia con qualcun altro, mai e poi mai! Cosa crede, che io ci tenga a farmi giudicare da mia figlia un vecchio
stupido e superstizioso o che io vada sollecitando i sorrisetti di compassione di altri profani? Ripeto, Vella non ha mai udito il nome di quella maledetta mummia, eppure...» «Sssst! Sta svegliandosi», ci ammonì de Grandin. Vella guardò il mio amico, poi me, poi dietro a noi, suo padre. «Papà!» esclamò. «Oh, paparino, caro, ho avuto tanta paura!» «Paura, tesoro? Di che cosa?» Taylor si lasciò cadere in ginocchio accanto al letto e strinse le mani di sua figlia tra le sue. «Chi ha cercato di spaventare la mia bambina?» Lei accennò un sorriso dolente. «Non... non lo so di sicuro», confessò. «Però, chiunque sia, può dire di esserci riuscito. Credo che siano stati quei brutti vecchiacci.» «Vecchiacci, Mademoiselle?» fece eco de Grandin. «Mi piacerebbe sapere chi sono e dove sono. Me lo dica e sarà per me un vero piacere far loro saltare la dentiera di bocca...» «Ecco, non erano affatto degli uomini in carne e ossa, soltanto delle immagini d'incubo, credo. Ma sembravano assolutamente reali e che paura, che paura tremenda mi facevano!» «Per piacere, ma belle, ci racconti tutto. Lei ha avuto un brutto shock. Forse si tratta di un incubo, forse no; in ogni modo, qualora si senta in grado di affrontare un argomento tanto penoso...» «Ma certo, dottore. Anzi, parlandone, può darsi che io riesca a mettere un po' d'ordine nella mia mente. Ieri sera, Harrock se ne andò poco dopo di loro, perché doveva prendere il treno stamattina presto; io salii di sopra e piansi tutte le mie lacrime, finché, sfinita, finii per addormentarmi. Durante la notte, non so bene verso che ora, ma deve essere successo poco prima delle tre, mi svegliai con una sete spaventosa. Forse a causa del gran piangere che avevo fatto, non riesco a vedere altra ragione; sia come sia, mi sentivo completamente disidratata, perciò andai in bagno a bere un bicchier d'acqua. Nel tornare in camera mia, la prima cosa che notai fu che un raggio di luna, entrando dalla finestra, batteva in pieno sullo specchio.» Accennò un gesto verso la grande psiche appesa alla parete in fondo. «Qualcosa che non saprei definire sembrava spingermi irresistibilmente ad andare a guardarmi nello specchio. Arrivata là, mi sembrò che la luna avesse privato la lastra della sua facoltà di riflettere le immagini: non riuscivo a vedermi affatto.» «Davvero?» domandò de Grandin. «Nemmeno un'ombra?» «Niente, dottore. Ecco, sembrava che sullo specchio fosse stato spalmato
un sottile strato di argento opaco, no, non del tutto opaco, piuttosto iridescente, direi. Quello che potevo vedere, erano dei puntolini luminosi, che sembravano in movimento, turbinanti gli uni intorno agli altri, come uno sciame di lucciole: delle minuscole fiammelle di un azzurro intenso, freddo. Poco alla volta, quelle capocchie di spillo lucenti mutarono il loro movimento rotatorio in un movimento più lento, ondeggiante. La luminosità che conferivano allo specchio sembrò frazionarsi e poi ricomporsi in un disegno ben definito, fatto di luci e ombre. Insomma, era come se lo specchio fosse una finestra, dal cui davanzale io stavo contemplando un altro mondo. «La scena che si presentò ai miei occhi era rischiarata dalla luce lunare, ma nitida come se fosse stato giorno pieno. Un edificio lungo, ampio, con un alto colonnato. Ricordandomi di certe descrizioni di papà, pensai subito che si trattasse di un tempio antico. Ne ebbi immediatamente la conferma, udendo il tintinnio dei sistri scossi all'unisono e il sommesso, dolce canto delle sacerdotesse. Erano inginocchiate in doppia fila, quelle graziose snelle fanciulle, tutte con vesti di lino bianco e cerchietti d'argento ornati di lapislazzuli intorno alla testa, bassi sulla fronte. Mentre cantavano sommessamente, tenevano il capo chino e le braccia levate verso l'alto, le mani ad angolo retto coi polsi. Ed ecco che un giovane entrò nel tempio, dirigendosi lentamente verso l'altare. Sebbene avesse la testa rasata a zero, lo trovai bellissimo: la bocca piena e rossa, il mento fermo, volitivo, gli occhi grandi, pensosi, carezzevoli. Camminando verso l'altare, egli tenne lo sguardo fisso sulle lastre del pavimento, ma, mentre stava per scostare il velo che nascondeva l'immagine di Iside, egli si voltò e i suoi occhi, colmi di rimprovero e di tristezza, si soffermarono sulla giovane inginocchiata più vicino a lui. «Vide un'ondata di rossore salire dal collo alle guance, alla fronte della fanciulla; sempre cantando, lei abbassò ancor più la testa e sebbene niente lo rivelasse, non so come, mi resi conto che tra i due c'era stata una specie di trasmissione del pensiero. Poi, lentamente, egli passò al di là del velo e scomparve. «Improvvisamente, al canto delle sacerdotesse si aggiunse il cantico più grave di voci maschili, impostate in gola. Per istinto, sapevo cosa stesse succedendo: il giovane che avevo visto, era entrato nel tempio di Iside per essere consacrato sacerdote. In quel momento, stava per essere iniziato ai misteri del culto. Iside lo avrebbe pervaso del suo fluido ed egli le sarebbe appartenuto per sempre. Ripudiando l'amore di qualsiasi donna e la spe-
ranza di una discendenza, egli si sarebbe dedicato anima e corpo al servizio della Grande Madre. Anche la sacerdotessa che avevo visto arrossire lo sapeva: dalle sue palpebre abbassate vedevo infatti sgorgare le lacrime e il suo esile corpo era scosso da singhiozzi irrefrenabili. «Gradatamente, come se lo specchio si appannasse di vapore, la scena del tempio divenne nebulosa e alla fine scomparve del tutto; poi, pian piano, il vapore si dissolse e ai miei occhi si dischiuse uno scenario in pieno sole: i raggi battevano in maniera quasi accecante sul pilone istoriato a colori di un tempio. Nel giardino antistante, gli uccelli sacri erano intenti a cibarsi, da una fontana l'acqua sgorgava scintillante come manciate di gemme. Una donna attraversò lo spiazzo, dirigendosi verso la fonte: era la sacerdotessa che avevo visto poco prima. Portava una veste di lino bianco, che le lasciava scoperto il seno e le arrivava fino alle caviglie. I piedi, arcuati e tinti con l'henné, erano protetti da sandali di papiro, le braccia ingioiellate. Una fascia argentea ornata di lapislazzuli le cingeva a corona la capigliatura a zazzeretta, che le arrivava alle spalle. Con una mano reggeva un bocciolo di loto e con l'altra teneva in equilibrio sulla spalla nuda un'anfora dipinta. «Improvvisamente, dalla zona d'ombra proiettata dall'alto portone del tempio sbucò trotterellando un vecchio. Era malfermo sulle gambe, ma, così come i fili muovono le marionette, l'odio e l'astio sembravano dare impulso ai suoi arti. Non soltanto dai suoi lineamenti, ma anche dalla veste rossa, dal turbante blu e dalla barba bianca, individuai in lui un ebreo. Egli sbarrò il cammino alla ragazza e la investì con una valanga di invettive. Non sentivo una parola di quello che dicevano, ma, soggettivamente, sapevo perfettamente cosa stesse accadendo tra i due. Egli la ingiuriava, accusandola di aver distolto suo figlio dalla venerazione di Jehova; per quanto pareva, il giovane ebreo aveva visto la fanciulla, se ne era innamorato perdutamente e poiché lei, a causa dei suoi voti, non poteva sposarlo, egli aveva rinnegato la propria razza, la propria stirpe, il proprio Dio per diventare un sacerdote di Iside, essendo questo l'unico modo per stare vicino all'amata, accomunandosi a lei nel culto della dea. «La piccola sacerdotessa lasciò parlare il vecchio fino in fondo, poi si girò di lato gettandogli sprezzantemente una secca domanda: 'Cane ebreo, tu ringhi ferocemente, ma dove li hai, i denti per mordere?' Al che il vecchio alzò le mani al cielo, invocando su di lei una maledizione: in vita e in morte, lei non avrebbe dovuto trovar pace finché non avesse espiato, finché
non si fosse rivoltata contro gli dèi pagani che venerava, testimoniando della loro caduta per bocca di un'altra persona. «'Che dici, vecchio rimbambito?' insorse la ragazza. 'Le nostre divinità sono potenti ed eterne. Grazie a loro noi dominiamo il mondo. È mai verosimile che io possa volger loro le spalle? E se ciò accadesse, come potrei confessarlo per bocca altrui? Dovrò per caso diventare come uno di quei magichi che i Greci chiamano polifonici, quelli che fingono di far parlare un legno, o una pietra, o un animale, servendosi delle loro qualità di ventriloqui?' «Una volta ancora lo scenario mutò e io mi trovai davanti una notte di plenilunio. Le stelle sembravano quasi a portata di mano e in quell'atmosfera inondata di luce lunare spirava un delicato profumo quasi tangibile, come un volo di danzanti farfalle. Nell'ombra fonda del pilone del tempio, il sacerdote e la sacerdotessa erano stretti, avvinghiati nell'abbraccio disperato di un amore proibito. La vidi appoggiare la testa incorniciata dai corti capelli ondulati sulla spalla di lui, la vidi alzare il suo volto verso quello dell'uomo amato, le palpebre abbassate, le labbra socchiuse, e vidi che lui le baciava la fronte, gli occhi chiusi, la bocca implorante, avida, la gola pulsante, il delicato turgore dei seni scoperti... Poi, come una muta di cani che si precipita sulla selvaggina, vidi gli Ebrei avventarsi sul giovane. Le lame scintillarono nel chiarore lunare, imprecazioni aspre e taglienti come pugnali sgorgarono dalle labbra degli Ebrei. 'Apostata, porco, voltagabbana, rinnegato', gli gridarono; ed ogni invettiva era accompagnata da una stilettata. Egli cadde e giacque sulla rena, perdendo sangue da una dozzina di ferite mortali. Mentre i suoi assassini volgevano le spalle per andarsene, mi sembrò di udire lo scalpiccio di piedi nudi sul lastrico: cinque o sei sacerdoti di Iside stavano accorrendo. 'Cosa sta succedendo, qui?', domandò ansimando, con voce irosa, il loro capo, un vecchio dal cranio lucido. 'Cani di Ebrei, se voi avete...' «Il capo degli assassini lo interruppe con una risata sardonica: 'Niente, succede, vecchio testa rapata. Tutto è già successo. Abbiamo colto sul fatto uno dei vostri preti e una delle vostre sacerdotesse, caduti in eresia. Dell'uomo ci siamo incaricati noi, perché un tempo è stato uno dei nostri; la donna la abbandoniamo alla vostra vendetta, si dice che voi ci sappiate fare, in materia'. «Vidi i sacerdoti afferrare la povera ragazza, tremante e sconvolta, che docilmente si lasciò trascinar via. «Lo specchio si appannò di nuovo e quando si rischiarò mi trovai faccia
a faccia con la piccola sacerdotessa. Sembrava fosse immediatamente dietro il cristallo, così vicino come lo sarebbe stata la mia immagine riflessa, e tendeva le sue mani verso di me con gesto di supplica, implorandomi di aiutarla. Ma il mio potere di comprensione era scomparso. Vedevo le sue labbra muoversi come per un appello, ma non riuscivo ad afferrare le parole che lei tentava disperatamente di articolare, sebbene mi sembrasse che ripetesse sempre la stessa cosa, con una angosciosa, terribile insistenza. «Ad un tratto sentii nell'aria un freddo tremendo, non un colpo di vento proveniente dalla finestra aperta, ma un'impressione puramente soggettiva, che mi diede uno di quei brividi che a volte ci fanno esclamare: 'la morte mi è passata vicino!' Per istinto, percepii la presenza di un'altra persona nella mia camera da letto. Qualcuno, no, qualcosa era entrato, mentre io osservavo la sequenza di scene che si erano avvicendate sullo specchio. «Mi voltai per guardare alle mie spalle... e li vidi! Credo che fossero cinque, ma è possibile che fossero di più, sette, forse: dei vecchi con lunghe vesti bianche e delle maschere spaventose. Uno aveva la testa di toro, un altro un mascherone che somigliava alla testa di un gigantesco sparviero, un altro ancora era camuffato con un muso da leone...» «Se erano mascherati, come ha fatto a capire che erano dei vecchi?» domandai. «Lo sapevo, ecco tutto. I loro occhi brillavano di una luce soprannaturale, crudele, quel tipo di luccichio che si vede soltanto negli occhi dei vecchi malvagi; i loro avambracci erano scarniti, soltanto i muscoli erano rimasti, e sporgevano come grosse funi. Mani e piedi erano nodosi e deformi, di quella bruttezza caratteristica dovuta alla tarda età; ossa e tendini risaltavano, da sotto la pelle, come rami secchi. «Si riunirono intorno a me a semicerchio, guardandomi biecamente, e sebbene non dicessero parola, io sapevo che mi stavano minacciando di qualcosa di spaventoso, se avessi aderito alla supplica della piccola sacerdotessa. «'Vella Taylor, stai sognando', mi dissi, poi chiusi gli occhi e scossi la testa. Quando li riaprii, quei vecchiacci orribili erano ancora là, anzi mi sembrò che si fossero avvicinati. «Anche la sacerdotessa nello specchio doveva vederli, perché di colpo alzò le braccia come a proteggersi da una percossa, mi fece dei segnali frenetici quasi incitandomi a fuggire e volse le spalle. Poi scomparve come nebbia che si dissolva, e io rimasi sola con quelle figure terrificanti, silenziose.
«'Non intendo lasciarmi bluffare da qualcosa di tanto assurdo, di assolutamente impossibile', dissi, e mi avviai verso la porta. Gli uomini mascherati si raggrupparono, sbarrandomi il cammino. Allora io mi diressi verso il letto e loro indietreggiarono negli angoli della camera. Mi coricai e chiusi gli occhi. 'Conterò fino a mille', mi dissi. 'Quando avrò finito di contare, riaprirò gli occhi e loro se ne saranno andati.' «Ma non fu così. Là stavano, nei cantoni, ingobbiti e rannicchiati, ansimando in attesa del momento buono per avventarsi su di me. «Un panico abissale s'impadronì di me; il terrore annientava la mia forza di volontà, una folle paura squassava i miei nervi; quando cercai di gridare per chiamare papà non riuscii a emettere il minimo suono. Avevo l'impressione che sul mio corpo gravasse un peso intollerabile, tanto greve che non riuscivo a sopportarlo; sentii che mi toglieva il respiro, mi spezzava le costole, rompeva tutte le ossa del mio corpo. Gli occhi mi stavano uscendo dalla testa, sentivo che la mia lingua sporgeva dalla bocca, e...» «E poi? Continui, Mademoiselle, e poi?» la incitò de Grandin, quando Vella tacque rabbrividendo. «E poi ho visto lei, il dottor Trowbridge e il mio caro papà vicino a me. Quegli orrendi vecchiacci se ne erano andati. Non li lascerete mica tornare, vero?» «Stia tranquilla, Mademoiselle, se dovessero tornare mentre sono qua io, indubbiamente si pentirebbero amaramente di averlo fatto. Ora sarà bene che lei si riposi per rimettersi in forze. «Vuoi preparare la siringa, amico Trowbridge?» soggiunse, rivolgendosi a me. «Ma si rendono conto che Vella ha visto i giudici delle Assise Infernali dell'antico Egitto?» sussurrò il dottor Taylor mentre uscivamo in punta di piedi dalla camera da letto. «Le Assise Infernali?» domandai. «Precisamente. Secondo il credo degli antichi Egizi, quando una persona moriva, la sua anima veniva presa in consegna da Thot e da Anubi che la guidavano nell'Amenti, il loro Averno, dove sarebbe stata giudicata dai Giudici della Morte. Tra questi c'erano Cnufi, dalla testa di avvoltoio, Taumatet, dalla testa di scimmia, Api, con la testa di toro, Bubaste, con la testa di gatto e, naturalmente, Osiride dalla testa di cane. Se una persona vivente veniva accusata di eresia, era giudicata da un tribunale di sacerdoti che si mascheravano in modo da rappresentare le divinità infernali. La sa-
cerdotessa Nefra-Kemmah, a suo tempo, deve essere stata giudicata da un tribunale del genere.» «Ah, sì?» mormorò de Gradin. «Oh, lalà! Lalalà!» «Come?» «Caro dottor Taylor, sono persuaso che sua figlia ha vissuto un'esperienza che va oltre il fatto non eccezionale di avere delle visioni, dovute all'attività onirica, o, per meglio specificare, visioni inventate dalla mente durante un sogno. Di che cosa si tratti non lo so con esattezza, ma tra la sacerdotessa Nefra-Kemmah e sua figlia si è stabilito un flusso trascendente, come una corrente segreta. La povera, infelice sacerdotessa cerca l'aiuto della signorina Vella e i vecchiacci, gli spettri, tentano di opporsi. A oriente il sole sta levandosi, tra poco sarà giorno pieno. Chiameremo un'infermiera che si prenderà cura di Mademoiselle Vella e noi, se vuole essere tanto gentile da accompagnarci, ci recheremo al museo per dare un'occhiata a quella sua mummia tanto fuori del comune.» «Hm, è un tantino irregolare», obiettò incerto Taylor. «Irregolare, eh? Ma, accidenti, non trova irregolare che a sua figlia sia stato concesso di sbirciare nel passato, di seguire passo passo lo svolgersi del romanzo d'amore di quei due sfortunati amanti e di vedere invasa la sua camera da letto dai vecchi che siedono sui bastioni dell'inferno? Parbleu, altro che irregolare, secondo me!» Con una precisione che avrebbe fatto invidia a un gioielliere, il dottor Taylor sforbiciò le bende di lino ingiallite dal tempo che, incrociandosi, avvolgevano la mummia della sacerdotessa Nefra-Kemmah. Sdipanò metro dopo metro, all'infinito, finché non ebbe messo allo scoperto un sudario di stoffa robusta, senza cuciture; il corpo vi era stato infilato come in un sacco, la cui abboccatura, ai piedi, era chiusa da una grossa fune. Il tessuto del sacco sembrava molto più robusto, più compatto di quello delle bende ed era spalmato di uno spesso strato di cera di api o di un'altra sostanza di natura simile alla cera. Il tutto dava proprio l'impressione di essere stato confezionato in maniera da risultare a tenuta stagna, impenetrabile all'aria e all'acqua. «Ma guarda un po'! Che Dio mi fulmini se ho mai visto prima una cosa del genere», esclamò il dottor Taylor. «Monsieur, a meno che io non prenda una chicchera più grossa di quanto sia lecito supporre, in questa faccenda le cose che le giungeranno nuove arriveranno per lo meno alla dozzina, su questo non v'è dubbio», rispose de
Grandin con tono piuttosto preoccupato. «Avanti, tagli questo stramaledetto sacco. Voglio vedere cosa nasconde.» «Ah-ah!» esclamò, mentre il dottor Taylor, con un cauto movimento a strappo, sollevava il sudario verso le spalle della mummia. «Que diable!» Alla luce azzurrata delle lampade al neon, piano piano, gradatamente, il corpo venne messo a nudo sotto i nostri occhi; ma non era, tecnicamente parlando, quello di una mummia: le spezie, le erbe aromatiche contenute nel sarcofago e l'atmosfera priva di umidità, arida, dell'Egitto, con azione combinata avevano mantenuto il cadavere in uno stato di conservazione quasi perfetta. Anzitutto furono messi a nudo i piedi, piccoli e leggiadramente modellati, molto arcuati, con gli alluci sottili e lunghi, i calcagni stretti; le dita e la pianta erano tinti con l'henné, di un rosso squillante. Stupefacente, quanto poco fossero essiccati. Sebbene sotto la pelle i tendini terminali dei brevis digitorum risultassero prominenti, non producevano nessun senso di disgusto. Protuberanze del genere si possono notare anche in malati in stadio avanzato di denutrizione, quante volte mi era capitato di vederne... Le caviglie erano sdutte e nervose, le gambe diritte e ben modellate, con la snellezza della gioventù, e non scheletrite dalla morte; i fianchi stretti, quasi mascolini, la vita sottile, i piccoli seni alti e fermi. «Parbleu, dottor Taylor, lei aveva ragione: prima di morire, la poveretta ha subito delle gravi lesioni», mormorò de Grandin quando anche le spalle della salma furono scoperte. Guardai oltre la sua spalla e a fatica trattenni un'esclamazione di orrore. Le braccia sottili e affusolate erano state pudicamente incrociate sul petto, cosi come d'uso in Egitto, ma l'omero del braccio sinistro era stato schiacciato senza pietà. Ne era risultata una frattura comminuta e uno spuntone d'osso di due o tre centimetri era penetrato nella carne al di sopra del legamento deltoide. L'insopportabile fardello che aveva stritolato il braccio aveva anche maciullato la cassa toracica: la terza e la quarta costola erano state spezzate in due e sotto il seno una scheggia sporgeva dalia pelle levigata. «La pauvre!» mormorò de Grandin. «Fi donc! Accidenti, se soltanto mi fosse possibile mettere mano su quei disgraziati che hanno fatto uno scempio del genere, so io cosa farei...» S'interruppe di botto, sporse le labbra come per emettere un fischio, poi, con un tono tra il giulivo e il meditabondo, bisbigliò: «Nom d'un porc vert, c'est possible!» «Che cosa è possibile?» domandai, ma la sua unica risposta fu una spal-
lucciata, mentre si voltava a guardare il volto della mummia, che il dottor Taylor aveva finalmente liberato dal sacco. I lineamenti erano quelli di una donna nella sua prima giovinezza; di struttura semitica, avevano una delicatezza di linea e di contorni che tradiva l'origine patrizia. Il naso piccolo, dal gobbo alto, leggermente aquilino, con le narici sottili, aristocratiche. Le labbra erano sottili e delicate; là dove, in conseguenza a un parziale processo di essiccazione, si erano ritratte, mettevano in mostra dei dentini aguzzi di un candore abbagliante. I capelli neri e lucenti le arrivavano all'omero, tagliati a zazzera in una maniera che risultava curiosamente moderna; al di sopra delle sopracciglia, un cerchietto di argento battuto, impreziosito da cabochons di lapislazzuli, le cingeva la fronte. Il resto del suo abbigliamento era composto da una collana d'oro a tre giri decorata di smalto azzurro, da braccialetti dello stesso modello e da una sottile cintura d'oro lavorata a scaglie di serpente. Originariamente, alla cintura che le cingeva l'esile busto proprio sotto i seni, era stata attaccata una specie di gonna pieghettata di sottilissimo lino bianco, ma il fragile tessuto non aveva superato vittoriosamente tutti quegli anni di attesa in una tomba e non ne rimanevano che le vestigia, due o tre sottili striscioline. «La pauvre belle créature!» ripeté de Grandin. «Se soltanto fosse possibile...» «Sarà meglio che copriamo di nuovo il corpo», lo interruppe il dottor Taylor. «Per essere sincero, sono un pochino nervoso...» «Lei teme» (non era una domanda, quella di de Grandin, era un'affermazione), «lei teme che le antiche divinità egizie possano sentirsi offese perché noi stiamo qui a cercare di scoprire in che maniera questa poveretta sia morta? O sia stata assassinata, per meglio dire!» «Senta, lei deve ammettere che sono successe alcune cose ben strane, in connessione con questa mummia... Se mummia si può chiamare, visto che non è stata mai veramente imbalsamata, ma soltanto conservata dalle erbe aromatiche sparse nella bara, perciò...» «D'accordo, è comprensibile», annuì de Grandin. «Come lei giustamente ha fatto notare, caro dottor Taylor, avvenimenti sorprendenti si sono già verificati e, se non vado errato, altri se ne verificheranno, prima che possiamo ritenere chiusa la faccenda. Secondo me... Grand Dieu des pommes de terre! Guardatela, per piacere!» Come il dottor Taylor ci aveva ricordato, il corpo non aveva subito un processo di imbalsamazione: era stato preservato dall'imputridimento sol-
tanto in virtù delle erbe aromatiche di cui era stato cosparso, dal cofano a chiusura quasi ermetica e dal sudario imbevuto di cera. Da quando era stato seppellito, nel correr degli anni, si era completamente disidratato, quindi sangue, tessuti, ossa erano ormai diventati qualcosa di meno consistente della polvere di talco. A causa dell'impatto con l'aria fresca, umida, e del sia pur cauto, delicato maneggio del dottor Taylor, la materia friabile di cui era ormai composto il cadavere cominciava a sbriciolarsi. Il procedimento non destò in noi nessun senso di orrore: avevamo piuttosto l'impressione di assistere alla lenta disintegrazione di una graziosa statua modellata nella rena o in polvere di gesso. «Sic transit pulchritudo mundi», commentò sottovoce Jules de Grandin, mentre la forma che guardavamo perdeva le sue sembianze umane. «Per lo meno, noi l'abbiamo vista in carne e ossa, cosa che quei malvagi vecchiacci non avrebbero mai creduto potesse accadere. E lei, Monsieur, per ricordo, ha il sarcofago e quei gioielli inestimabili. Sono oggetti veramente preziosi, e...» «All'inferno il cofano e i gioielli!» lo interruppe bruscamente il dottor Taylor. «Ciò che mi spaventa, sono le conseguenze che questa faccenda infernale può avere per mia figlia. Già si è parzialmente identificata con Nefra-Kemmah, già ha avuto una visione della corte sacerdotale che condannò la sacerdotessa a trovare la morte sotto un mucchio di macigni e non vorrei che la visione diventasse ricorrente... Non esiste una maniera di rompere l'incantesimo, di por fine all'ossessione?» «Certo, che esiste, Monsieur», affermò de Grandin. «Così come è possibile debellare una mania dimostrando alla persona che ne soffre che detta mania non ha fondamento, altrettanto possiamo cancellare dalla mente di sua figlia la visione dei vecchiacci malvagi. Ne sono sicuro nella maniera più assoluta. Ma il sistema terapeutico non sarà molto ortodosso...» «Non me ne importa un accidente! Si rende conto che può essere in gioco l'equilibrio mentale di mia figlia?» «Esatto, Monsieur. Allora, ci autorizza a procedere?» «Ma certo!» «Très bon! Questa sera, se lei non ha niente in contrario, torneremo a casa sua. A meno che io non sbagli di grosso, saremo in grado di dar battaglia agli spettri che si nascondono nel buio e di strappare loro la vittoria. Sissignore. Certamente. Senz'altro.» Per tutto il giorno de Grandin si diede da fare, affaccendato come un ta-
fano. Fece un sacco di telefonate, snocciolando una collezione assurdamente blasfema di moccoli in francese, quando scoprì che il nostro amico John Thunstone era assente da New York, chiamato altrove da un caso; si precipitò in biblioteca per consultare alcuni libri di cui i bibliotecari non avevano mai udito parlare ma che, vista la sua insistenza, riuscirono a esumare dal fondo di scaffali polverosi. E, per finire, mise in rivoluzione l'intero mercato del pollame all'ingrosso per conseguire qualcosa che portò a casa in una bottiglia termica e che collocò immediatamente nel fornetto di sterilizzazione del mio studio, avendone cura come se fosse la pupilla dei suoi occhi. A cena, quasi non fiatò, la mente altrove, al punto da dimenticare di servirsi una terza volta dell'aragosta alla cardinale, un piatto di cui era goloso in maniera incoercibile. Per poco non trascurò di versarsi un quarto bicchiere di Pouilly-Fuisse. «Hai già tutto chiaro in mente?» gli domandai, quando giungemmo al dolce. «Corbleu, magari!» rispose, portandosi alla bocca un grosso boccone di crostata di mele. «Parlando con Monsieur Taylor, ho fatto lo spaccone, amico mio, ma, sia detto tra noi, non so se sono nel giusto o se ho infilato un sentiero sbagliato. Vado a tastoni, brancolo nel buio, come un cieco in una strada che non gli è familiare. Ho formulato un'ipotesi, ma non la si può ancora chiamare una teoria, e non c'è tempo per fare dei controlli. Ti avverto, ciò che faremo questa sera potrebbe anche essere pericoloso. L'umanità sofferente ha bisogno di te; gli ammalati e i convalescenti necessitano del tuo aiuto. Se preferisci restare a casa, mentre io vado a dar battaglia alle vecchie forze del male, non me la prenderò. Non è soltanto tuo diritto, ma quasi direi tuo dovere, quello di non farti coinvolgere.» «Ti ho mai piantato in asso?» sbottai, risentito. «Mi sono mai tirato indietro a causa del pericolo?» «Non, par la barbe d'un bouc vert, mai, brave camarade», disse lui. «Non sarai un esperto in fatto di scienze occulte, amico mio, ma in compenso sei leale e coraggioso. Come te ce ne sono ben pochi, e io ti adoro, vieux camarade! Che io venga servito arrosto con sauce bordelaise alla mensa del diavolo, se non è vero!» Quella stessa sera, poco dopo le nove eravamo tutti riuniti nella stanza dei giochi in casa del dottor Taylor. Vella, sempre bella malgrado il trauma della notte precedente, portava un vestito da pranzo di velluto nero, sem-
plice e disadorno, se si esclude una grossa spilla d'oro elaboratamente cesellata, che, per contrasto, faceva risaltare il bianco avorio della sua carnagione e il nero cupo dei capelli. De Grandin preparò lo scenario con cura. Facendo gocciolare dalla sua bottiglia termica un liquido rosso, egli tracciò sul pavimento a mattonelle due triangoli incrociati tra loro e all'interno di questi collocò quattro poltroncine. «E adesso, Mademoiselle, se vuol avere la cortesia...» con un inchino scherzoso, la invitò a prendere posto. Vella si lasciò cadere in una poltrona, le mani contegnosamente raccolte in grembo, rovesciando un poco la testa all'indietro per poggiarla alla spalliera. Il mio amico francese si piazzò davanti a lei, trasse di tasca una matitina d'oro e la tenne in posizione verticale davanti al volto della ragazza. «Mademoiselle, per favore, guardi questo oggetto», le ordinò. «La punta, prego. Ecco, così. Eccellente. Vi tenga fisso lo sguardo.» Con precisione, come se battesse il tempo di un andante pianissimo, egli mosse avanti e indietro la matitina brillante, disegnando nell'aria complicati arabeschi. Da sotto le lunghe ciglia, gli occhi di Vella seguirono il movimento dapprima svogliatamente, poi, a poco a poco, con attenzione sempre crescente. Dopo aver accompagnato per un po' l'ondulazione, divennero fissi, leggermente convergenti, conferendo al volto della ragazza l'aspetto un tantino grottesco di una maschera; alla fine Vella rovesciò il capo di lato, mentre le palpebre si chiudevano sui suoi grandi occhi neri e i muscoli del collo si rilassavano. Finalmente, il ritmico alzarsi e abbassarsi del suo seno e la regolarità della sua respirazione tenuemente sibilante ci confermò che si era addormentata. De Grandin rimise in tasca la matita. Pugni sui fianchi, gomiti in fuori, ristette a guardare Vella fissamente. «Mademoiselle, sente quello che le dico? Mi ascolta?» le domandò. «Sento. Ascolto», rispose lei con voce sonnolenta. «Bien. Si riposi per qualche minuto, poi, quando ne ha voglia, dica tutto quello che le viene in mente. Ha capito?» «Ho capito.» Per un cinque minuti trattenemmo il fiato, aspettando in silenzio. Potevo udire il 'tictac, tictac' del grande orologio a pendolo del piano superiore e il leggero sibilo di un ceppo umido che bruciava nel caminetto, poi, gradatamente, la stanza cominciò a diventare sempre più fredda, senza che io
riuscissi a scoprirne la ragione. Un freddo pungente, lancinante, che sembrava trafiggere lo spirito quanto il corpo, pervase l'atmosfera della sala; un freddo che mordeva, bruciava come brucia il ghiaccio, facendo pensare all'incommensurabile gelida eternità degli spazi siderali. «Ah, ah!» sentii ansimare de Grandin, mentre i denti piccoli ma forti gli battevano in bocca come un paio di nacchere. «A quanto pare, non avete aspettato un secondo invito, Messieurs les Singes!» Come fossero entrati, non ne avevo la minima idea, ma là stavano: un semicerchio di vecchi con tuniche di lino bianco svolazzanti, camuffati con mascheroni simili a teste di avvoltoi, sciacalli, leoni, scimmie e arieti. Si erano disposti a mezzaluna, silenziosi, minacciosi, e ci fissavano con occhi opachi, senza lucentezza. Vere e proprie personificazioni di un odio folgorante. «Mademoiselle», sussurrò de Grandin, «è giunto il momento. Parli, se riesce a trovare le parole.» La ragazza addormentata emise un flebile lamento, tentò di articolare qualche suono, poi parve impuntarsi su una parola, come se stesse soffocando. I silenti, biechi spettatori fecero un passo avanti, stringendo il semicerchio; il freddo, che fino a quel momento non aveva superato i limiti del disagio, divenne autentica tortura. La più prossima delle larve travestite da animali raggiunse una delle punte dei triangoli disegnati sul pavimento, esitò irresoluta per un attimo, poi balzò indietro. «Ah, Monsieur Tête de Singe, non ti piace, hein?» domandò de Grandin con una breve risata colma di disprezzo. «Ancora un po' di pazienza, Monsieur Muso di Scimmia: il seguito vi piacerà ancor meno!» Lanciò un'occhiata alle sue spalle, dicendo a Vella: «Parli, Mademoiselle! Parli senza alcun timore!» «Signori del Mondo delle Ombre...» La voce usciva dalle labbra di Vella, ma non era la sua voce. Aveva un tono indefinibile, con un sottofondo misterioso che ci fece correre un brivido lungo la spina dorsale. Le parole furono pronunciate in modo confuso e languido, eppure stranamente meccanico, come se una mano invisibile avesse messo in moto un giradischi. «Venerati e temuti giudici dei mondi della carne e dello spirito, o voi augusti che sedete sui bastioni dell'inferno, mi dichiaro colpevole della
colpa che mi addebitate. Sì, colei che vi sta davanti, Nefra-Kemmah, si trova al margine della landa ove vagano i morti che non risorgeranno. Il suo spirito, privato per sempre della speranza di ritrovare il suo involucro terreno, dovrà vagare per tutti i tempi a venire. Nefra-Kemmah confessa che la colpa fu sua e soltanto sua. «Ma guardatemi, implacabili giudici dei vivi e dei morti! Non sono forse una donna, e una donna concepita per l'amore? Forse le mie membra non sono belle a vedersi? Le mie labbra non fanno pensare al melograno, i miei occhi al latte e al berillo, i miei seni all'avorio incastonato di corallo? Sì, potentissimi, sono una donna e una donna modellata per le gioie d'amore. «È stato forse per colpa mia, o per mio volere, che prima ancora di venire alla luce venni votata a servire la Grande Madre? Fui io a ripudiare i divini tormenti dell'amore per scegliere la sterile castità, o la promessa non fu invece pronunciata in mio nome da labbra altrui? «Ho dato tutto ciò che una donna può dare di sé, e l'ho dato con gioia, pur sapendo che come pena mi attendeva la morte, e dopo la morte la vendetta degli dèi, ma non ritengo di aver pagato un prezzo troppo alto. «Voi mi guardate arcignamente. Scuotete quelle vostre teste spaventose su cui torreggiano le corone di Amoura e di Fta, di Serapide e di Tem e di Seb, persino quella del potentissimo Osiride. Vi sussurrate l'un l'altro che il mio parlare è sacrilego. E allora ascoltate cos'altro ho da dirvi, ascoltatemi ancora per pochi istanti. Colei che vi è di fronte in catene, spoglia di ogni considerazione come sacerdotessa, priva del suo onore come donna, ben sapendo che non potrete farle soffrire mali più grandi di quelli che già l'attendono, vuol buttarvi in faccia la verità: il vostro regno e quello degli dèi che voi servite sta per giungere alla fine. Ancora per poco potrete pavoneggiarvi, incedere con sussiego, farvi interpreti dei voleri delle vostre divinità: nei giorni a venire, persino i vostri nomi cadranno nell'oblio, salvo quando, in altri tempi e da altri luoghi, qualche straniero giungerà in Egitto per frugare nelle vostre tombe, asportando le mummie calcificate per esibirle come curiosità. Sì, e anche gli dèi che servite saranno dimenticati. Cadranno così in basso che nessuno al mondo vorrà più venerarli; nessuno li invocherà più, nemmeno ne menzionerà il nome in una imprecazione. Nei loro templi in rovina, di vivente ci sarà soltanto l'uggiolante sciacallo e la lucertola dall'addome latteo. «E chi sarà responsabile della vostra caduta e di quella dei vostri dèi? Un discendente degli Ebrei. Sì, della stessa razza di colui che io ho amato e per il quale ho gettato al vento del deserto i miei voti di sterile castità. Sì,
dalla razza che voi disprezzate e odiate nascerà un fanciullo e in Lui sarà tutta la gloria dei Cieli. Egli calpesterà sotto i suoi piedi i vostri dèi, annientandoli. Essi diverranno divinità-ombra di un passato dimenticato. «Voi avete cancellato il mio nome dall'elenco delle sacerdotesse della Grande Madre. Verrò seppellita in una bara senza iscrizione, nascosta in una tomba anonima; gli uomini e gli dèi si dimenticheranno di me per tutti i tempi a venire. Questa è stata la vostra terribile sentenza. «Avete la testa canuta, ma siete degli sciocchi! La verità è un'altra, e io ve la grido in faccia: un giorno, ancora lontano nel futuro, uomini provenienti da lontani paesi scaveranno nella camera funeraria dove mi avrete deposta, ne estrarranno il mio corpo; la vostra ostilità, il vostro odio non varranno a fermarli. Essi guarderanno il mio volto, vedranno le mie ossa spezzate e udranno la storia del mio amore per il giovane Ebreo che per amor mio ripudiò il suo Dio e divenne uno dei servi dalla testa rapata della Grande Madre. Giuro che racconterò la storia del mio amore e della mia morte; in un lontano tempo a venire, in un altro paese, degli stranieri verranno a conoscere il mio nome, piangeranno per la mia sorte... Ma i vostri nomi, non li conosceranno mai! «Voi credete di condannarmi all'oblio eterno?... Io vi dico, invece, che un giorno trionferò. Sarete voi ad essere completamente dimenticati, ignoti a tutti come i granelli di sabbia che il vento insegue attraverso il deserto. «E adesso ammonticchiate le vostre pietre della espiazione sul mio cuore e fatene tacere il battito febbrile. La morte mi attende, ma non l'oblio di tutto il genere umano, come è certo che invece accadrà a voi. Ho detto.» La voce della ragazza si spezzò in un flebile, breve singhiozzo; la risata sarcastica di de Grandin fendette il silenzio come la lama di un pugnale che penetra nella carne viva. «Avete sentito, stolte creature dal muso di animali?», domandò. «Chi ha letto nel futuro, prima di morire, profetizzando la verità? E chi, invece, si è lasciato intrappolare dalla propria presunzione, vecchi musi di scimmia? Riportate le vostre ombre scialbe e senza vita là da dove vengono. Avete fatto il possibile per impedirle di raccontare la sua storia, ma avete fatto fiasco. Via, via, tornate al più presto nell'oblio. In nomine Dei, vi ordino di scomparire all'istante e per sempre!» Avanzò di un passo verso gli spettri mascherati disposti a semicerchio ed essi indietreggiarono. Un altro passo, ed essi indietreggiarono di nuovo. Stavano fluttuando,
diventando ad ogni istante meno consistenti, più indistinti; quando egli alzò le mani e si avvicinò a loro di un altro passo, essi ci apparvero ridotti a nuvolette di vapore grigiastro, turbinanti vorticosamente a remolo, nella luce proiettata dalle fiamme dei ciocchi scoppiettanti nel caminetto, e poi... Improvvisamente essi scomparvero. «Fini! Triomphe... Achevé... Parfait...!» De Grandin tirò fuori un fazzoletto di seta e si asciugò la fronte madida di sudore. «Eravate potenti e saturi di odio, Messieurs les Revenants, ma anche Jules de Grandin è formidabile; quando poi si tratta di fare a chi odia di più, morbleu, chi, meglio di voi, può conoscere la sua forza?...» Mentre tornavamo a casa in macchina, domandai con curiosità: «Cos'era quel liquido che hai spruzzato sul pavimento della stanza dei giochi, a casa del dottor Taylor, prima che cominciassimo la nostra seduta di questa sera? E come mai esso ha formato una specie di barriera che ha tenuto indietro quelle spaventose lemure spettrali, quando Vella stava parlando?» Jules de Grandin interruppe il motivo che stava canterellando in sordina e si mise a ridere. «Era sangue di piccione, amico mio. Me lo sono fatto dare dal marchand de volaille questo pomeriggio. E perché mai abbia avuto il potere di tenerli indietro, morbleu, anche io, come te, navigo in alto mare. È una di quelle cose che si sanno senza capirle. «Per esempio, lo sapevi che i sacerdoti delle antiche religioni erano avvezzi a purificare i loro altari col sangue degli animali uccisi in olocausto al loro dio, capre, tortore, torelli?» «Sì, questo lo sapevo.» «E perché mai lo facevano? Il sangue non deterge, di sicuro. Mais non. Il sangue è semplicemente un liquido organico, e piuttosto lutulento, per di più. E allora, perché? Perché, amico bello», disse, dandomi delle pacche su un ginocchio, «il sangue ha in sé non so quale misterioso potere invincibile. Questo potere teneva in scacco il dio. I sacerdoti disegnavano un cerchio col sangue e il dio non poteva oltrepassarlo. Con quel sistema lo costringevano a restare al posto suo, lo tenevano sotto controllo, per così dire. Quella barriera di sangue degli animali sacrificati impediva al dio di piombare sui fedeli, e finché c'era quella barriera insormontabile, essi non avevano da temere i suoi capricci che potevano nascere dall'ira, dal di-
sprezzo o semplicemente dal desiderio di far del male, di far soffrire. Sissignori. Proprio così. Molto bene: i sacerdoti di Iside aspergevano il suo altare col sangue di tortore. Io mi sono procurato una sostanza molto simile e con quella ho disegnato un pentagono intorno a noi; così come la loro dèa, anche i sacerdoti di Iside non potevano oltrepassare quel baluardo: all'interno di esso, noi eravamo al sicuro. E pardieu, quando Mademoiselle Vella ci ha trasmesso il messaggio di Nefra-Kemmah (ha cioè dimostrato a quei vecchiacci che la loro crudele e malvagia condanna non contava un bel niente) allora, morbleu, loro si sono sentiti completamente perduti. Non ebbero né la forza, né il desiderio di ribellarsi al mio ordine di far fagotto. Parbleu, li ho messi alla porta del nostro mondo, alla lettera!» Tamburellò con le dita guantate sul pomo d'argento del suo bastone di malacca, canticchiando: Sacré de nom. Ron, ron, ron. La vie est brève, La nuit est longue... «Accelera, amico mio.» «Perché tanta fretta?» «Battersi con degli spettri polverosi è un genere di lavoro che mette sete e, guarda caso, prima di uscire per andare a casa del dottor Taylor, ho visto un tizio mettere nel nostro frigorifero una bottiglia di champagne...» «Un tizio ha messo una bottiglia di champagne nel nostro frigorifero?» domandai, ripetendo a pappagallo. «Chi mai...» «C'est moi!... Quel tizio sono io, amico bello, e, nom d'un rat mort, sapessi che sete mi è venuta!» LA ZAMPATA DEL FELINO di Seabury Quinn La seduta della Società di Medicina si era prolungata fino a tardi; quando uscimmo in strada, la pioggia, che all'inizio della serata era stata soltanto una gelida acquerugiola, si era trasformata in neve mista a nevischio, che un vento da tregenda faceva turbinare vorticosamente. All'entrata sud del parco, dopo uno scoppio simile a quello prodotto da una lampadina che va in frantumi, la mia macchina sbandò pericolosamente, mentre si udiva
chiaramente un sibilo acuto accompagnato da uno sbatacchiare di malaugurio sull'asfalto della strada. «Gran Dieu des porcs», esclamò de Grandin. «Cosa diavolo è successo?» Sterzai per accostare al marciapiede e spensi il motore. «Se non lo hai capito da solo, io non ho il coraggio di dirtelo», risposi. Egli annuì melanconicamente. «C'era da aspettarselo. E non abbiamo una ruota di ricambio, naturellement...?» «Naturellement», feci eco. «È robetta razionata piuttosto severamente, quella lì. Non so se ne hai sentito parlare, ma è appena finita una guerra, sai...» «Fortunati come cani in chiesa, ecco cosa siamo. E adesso cosa facciamo?» Poi, prima che io avessi il tempo di dargli una risposta sarcastica, soggiunse: «Capito. Gambe in spalla, dunque?» «Esatto.» Testa china per proteggerci dal vento, ci inoltrammo nell'oscurità del parco. Le raffiche cercavano di strapparci i cappelli, staffilavano le maniche dei nostri cappotti che, investiti dalla furia selvaggia, ci si appiccicavano addosso; sotto le nostre suole si formò una crosta di neve a piramide invertita che ci rese ancora più faticoso il cammino. Di tanto in tanto, un ramo d'albero, sovraccarico, lasciava cadere su di noi il suo fardello glaciale. «Feu noir du diable», imprecò de Grandin, al sentirsi piovere sulle spalle una massa di neve particolarmente consistente. «Quelle nuit sauvage! Se soltanto... Morbleu! Un altro pellegrino sperduto nel buio di questa notte infernale! Ehi, amico Trowbridge, guardala...» Seguendo con gli occhi la direzione che egli mi indicava col bastone, vidi una donna, una ragazza, per meglio dire, avvolta in una pelliccia che la copriva dal collo alle ginocchia, ma a testa scoperta. Dalla sua andatura barcollante si capiva che doveva calzare scarpette col tacco alto; arrancava frettolosamente, come se fosse in preda al panico, inciampando nei dorsali dei mucchi di neve gelata. Quando fu quasi di fronte a noi, mi accorsi che, correndo, gemeva, singhiozzava sommessamente. «Pardonnez-moi, Mademoiselle», le disse de Grandin, portando la mano alla falda del cappello di feltro nero. «Posso esserle utile? A quanto sembra lei ha bisogno di aiuto.» «Oh...» La ragazza si lasciò sfuggire un gridolino di sorpresa. «Oh, sì, sì! Certo, che ho bisogno di aiuto! Per piacere!» La sua voce si fece più
acuta, prossima all'isteria. «Mi aiutino, per favore, sono...» «Tiens, non è il caso che lei perda la calma, Mademoiselle. Saremo ben felici di trarla d'imbarazzo. Di che si tratta?» «Io...» Un singhiozzo le mozzò il fiato per un attimo. «Io devo trovare un taxi, un autobus, un mezzo qualsiasi per tornare a casa alla svelta. Per piacere, io...» «Anche noi, ma petite, anche noi», la interruppe de Grandin. «Ma il guaio è che qui non ci sono né taxi, né autobus. Se vuole venire con noi fino all'altra uscita del parco...» «Oh, no!» rifiutò lei recisamente. «Da quella parte no. Ho paura. Per favore, non mi facciano tornare indietro da quella parte. Là c'è lui!» «Eh?» le sparò di rimando il mio amico. «E chi sarebbe, questo 'lui' di cui ha tanta paura, se è lecito chiedere?» «Quel... Quell'uomo!» La sua voce era rotta, affannata; lei stava già girandosi per riprendere la fuga. «Oh, signore, la prego, non mi costringa a tornare indietro. Sono pazza di paura!» Freddo e terrore le facevano battere i denti. «Calma, Mademoiselle», le intimò de Grandin. «Così non va. Ma proprio per niente. Che cosa le è successo, perché ha paura di tornare sui suoi passi? Laggiù c'è forse qualcuno da cui due uomini robusti e in perfetta efficienza fisica non possano proteggerla?» «Io...» ricominciò a obiettare la ragazza, ma poi sembrò riprendere il controllo dei propri nervi. «No, giusto, se mi accompagnano loro non avrò più paura. Andiamo.» Fece dietro front e si mise a camminare, tenendo il passo con noi. «Stavo rientrando a casa mia dopo aver passato la serata da alcuni amici che hanno dato una festicciola», disse parlando in fretta. «Il mio... Il mio ragazzo doveva prendere il treno di mezzanotte per Filadelfia, perciò non ha potuto riaccompagnarmi. Ero ferma da un bel po' sull'angolo, alla fermata dell'autobus, quando un tale che passava di là fermò la macchina per chiedermi se volevo un passaggio e io, stupida che sono, accettai. Gli dissi che dovevo andare in Boulevard MacKenzie, ma lui prese per il parco e quando arrivammo in cima alla collinetta mi... Oh, Gesù, mi sono presa un tale spavento! Sono schizzata fuori dalla macchina e mi sono messa a correre come una matta. Ho paura, ho una paura tremenda di quell'uomo!» Il volto di de Grandin, illuminato per un istante dalla luce di uno dei radi lampioni, aveva un'espressione di divertito stupore. «È comprensibile, ma fino a un certo punto, Mademoiselle. Lei si è
comportata davvero da scioccherella, accettando un passaggio da uno sconosciuto. Non ha mai sentito dire che la maggior parte delle volte l'accompagnatore esige una ricompensa in natura? Che quel giovanotto, è da presumersi che fosse un giovanotto, penso, si sia rivelato un lupo mannaro non mi meraviglia affatto, comunque lei gli è sfuggita. Non è riuscito a farle del male. Allora, perché è così angosciata, così terrorizzata? Forse che...» Lei gli tagliò la parola in bocca con un'esclamazione allarmata, mentre ci afferrava per le braccia con mani che stringevano come tenaglie, con la forza della paura: «Guardino! Ecco laggiù i fari della sua automobile. Mio Dio, mi sta aspettando... Ho paura, ho paura!» Il mio amico francese si liberò con garbo dalla stretta di quelle dita di acciaio. «Tu. amico Trowbridge, bada a lei. In quanto a me, mi occuperò di quel pappagallo della strada.» Raggiunta rapidamente l'automobile parcheggiata sull'altro lato del viale, investì l'invisibile automobilista: «Monsieur, quella signorina ci ha detto che lei le ha mancato di rispetto. Il sottoscritto non approva questo genere di faccende. Abbia la cortesia di scendere, Monsieur: romperle quel suo muso sfrontato sarà per me un vero piacere!» Non ricevette risposta alcuna; allora mise un piede sul predellino della macchina. «La vedo benissimo, razza di furfante: star zitto non le servirà a cavarsela. Scenda di lì e si batta come un uomo...» Avvicinò la testa a quella dell'individuo al volante. Udii il fruscio della manica tutta coperta di neve contro l'orlo del finestrino, poi: «Mordieu, Trowbridge, vieni a vedere», mi gridò, mentre pescava dal fondo di una saccoccia la torcia a mano. «Guardalo, per piacere, e non lasciarti scappare di mano quella donna!» Afferrai la ragazza per il polso e mi avvicinai. Mi chinai in avanti e ciò che vidi alla luce della torcia mi fece istintivamente indietreggiare di un passo, mentre, senza volerlo, la stretta delle mie dita sul braccio della sconosciuta si faceva più salda. Ritto, incastrato dietro al volante della macchina vi era un giovanotto robusto, senza cappello e col bavero del cappotto aperto. Notai che sulla mano sinistra calzava un grosso guanto, mentre la destra, appoggiata sul volante, era nuda. Gli occhi celesti, probabilmente sporgenti per natura, sembravano uscirgli dalla testa, spalancati e fissi, senza espressione come quelli di uno scemo. Aveva la bocca aperta, la mandibola pendula, la lingua leggermente
spenzolante; teneva il mento poggiato sul colletto completamente aperto e rovesciato indietro. «Mio Dio, è morto!» esclamò la ragazza che era accanto a me, con un grido acuto, stridulo e terrorizzato. «Comme un maquereau», concordò de Grandin laconicamente. «E non è certo morto d'indigestione! Da' un po' un'occhiata, Trowbridge.» Poggiò una mano sulla testa dai morbidi capelli biondi del giovane, imprimendole un leggero movimento rotatorio. La testa obbedì alla pressione della sua mano come se fosse stata attaccata alle spalle con una molla a spira allentata. «Concordi con la mia diagnosi?» domandò. «Indubbiamente deve trattarsi di una frattura, a quel che è dato vedere. Forse della terza vertebra cervicale», dissi. «Però se sia questa la causa della morte...» «Giusto: lo stabilirà l'autopsia», confermò de Grandin. Poi, rivolgendosi alla ragazza, soggiunse: «Era per questo che lei non voleva tornare da questa parte, Mademoiselle?» «Non sono stata io, giuro di no!» rispose lei con voce impastata. «Quando io sono scappata via lui era vivo, e sghignazzava. Mentre mi allontanavo correndo, l'ho udito gridare 'Con questa tempesta, non andrai lontano, cocca mia. Torna indietro, quando ti sarai congelata'. Per piacere, devono credermi, è la verità». «Hm...» De Grandin spense la torcia e scese dal predellino. «Personalmente, le credo, Mademoiselle. Non può essere stata lei, non ne avrebbe avuto la forza fisica. Ma il caso riguarda la polizia e il medico legale. Devo chiederle di venire con noi.» «La polizia?!» La sua voce era poco più di un sussurro, ma satura di panico come un grido. «Oh, no! Lei non può farmi arrestare. Io non c'entro, non so niente!» Il suo diniego fini in un singhiozzo soffocante, poi lei mi crollò addosso e scivolò a terra, sulla neve, priva di sensi. «Sistema tipicamente femmineo di eludere le difficoltà», commentò cinicamente de Grandin. «Vieni, solleviamola, amico mio.» Afferrò con le sue mani i miei polsi, e così formammo una specie di seggiolino per la ragazza svenuta. «In questo modo ci sarà più facile trasportarla. Non pesa poi molto.» «Appunto per questo ritengo che ci abbia detto la verità, affermando di non essere stata lei a ucciderlo», feci rilevare, mentre ci trascinavamo faticosamente verso l'uscita del parco. «È un donnino così fragile: se lei ha la
forza di spezzare il collo di un uomo, vuol dire che io posso fracassare le costole di un ippopotamo.» «Esatto», disse lui, accostando la testa bruna della ragazza alla propria spalla. «Penso anch'io che sia sincera, nel negare di averlo ucciso, ma qualcuno ha fatto fuori quel tizio non più tardi di una mezz'ora fa. Può darsi che lei sappia più di quanto ci ha raccontato; prima di chiamare la polizia, voglio scoprire cosa sa, esattamente. Se è colpevole, pagherà lo scotto, se invece è innocente abbiamo il dovere di proteggerla. En tout cas, io mi ripropongo di scoprire la verità.» Fragile o no, la ragazza sembrava pesare sempre più, in progressione geometrica, mentre noi arrancavamo sul terreno reso scivoloso dalla neve gelata. Quando arrivammo al cancello del parco ero completamente esausto; le luci ammiccanti dei fari del taxi che de Grandin riuscì a afferrare al volo furono per me ciò che è un faro per un marinaio che ha fatto naufragio. La portammo in casa e l'adagiammo sul lettino del mio studio medico. Mentre de Grandin versava in un bicchiere una soluzione aromatica contenente dell'ammoniaca e in un altro una buona dose di sherry, io le sbottonai la pelliccia. «Non credo che abbiamo il diritto di fare quanto stiamo facendo», dissi. «Non abbiamo veste ufficiale e da un punto di vista legale non siamo autorizzati a interrogarla... Santo cielo!» «Comment?» domandò de Grandin. «Guarda qui», gli ingiunsi. «Il torace...» Da sotto la punta della clavicola sinistra partivano tre incisioni verticali parallele che arrivavano quasi alla rotondità del seno sinistro. Superficiali, poco più che graffi, più profonde in principio che alla fine, distavano circa un centimetro l'una dall'altra; gli orli erano irregolari, la pelle rovesciata indietro come la terra nei solchi di un campo arato di fresco. Il sangue che ne era stillato aveva macchiato il corsetto del vestito da sera scollato, il quale era rotto, strappato, cosicché lasciava intravedere il pizzo nero del reggipetto che imprigionava due senini piuttosto minuti. «Morbleu, quelle chose étrange!» De Grandin si chinò sulla mia spalla per esaminare i graffi. «Se tu non sapessi come stanno le cose, a che cosa attribuiresti l'origine di queste ferite, Trowbridge?» Scossi la testa stupefatto. «Non saprei proprio. Se fossero più sottili e più vicine, direi che è stato un gatto, a farle.» «Tu parles, mon vieux! L'hai detto, è stato un felino, proprio un felino, a fare questi sfregi sulla delicata epidermide della ragazza, ma che razza di
felino! Nom d'un pipe, come minimo, deve essere stato un ocelot, un gattotigre. Eppure...» S'interruppe, notando che la fanciulla sbatteva le palpebre. «Ci stiamo svegliando, Mademoiselle? Ottimo. Tenga, beva.» Le porse il bicchiere contenente la soluzione con sali ammoniacali e rimase a guardarla senza batter ciglio mentre lei inghiottiva il beveraggio. Poi soggiunse: «Lei non ci ha raccontato tutto, nossignora. Quel giovanotto che l'ha presa su, no, come si dice?, che le ha dato un passaggio? Sì. Quel giovanotto che le ha dato un passaggio, l'ha portata nel parco e le ha messo le mani addosso. Già. Lei, offesa nel suo pudore, è saltata fuori dalla voiture ed è scappata, affrontando la bufera. Proprio così. Questo è quanto ci ha detto e più di tanto non sappiamo. Però...» I suoi occhi si indurirono, la sua voce si fece tagliente. «Però non ci ha detto come mai il suo vestito è strappato e qual è l'origine delle lacerazioni che ha sul torace. Non ne ha fatto parola. I nostri occhi e la nostra esperienza medica ci dicono che quelle ferite sono state inflitte da un felino: un grossissimo gatto, una pantera o un leopardo, forse. Il nostro buon senso respinge l'ipotesi. Comunque...» e alzò gli omeri striminziti facendo spallucce, «les voilà, le ferite ci sono!» La ragazza si tirò indietro come se avesse ricevuto uno schiaffo. «Non mi crederebbe, se glielo dicessi!» «Tenez, Mademoiselle, la mia infinita credulità, la farebbe restare a bocca aperta. Ci dica che cosa è successo, per piacere, e non ometta nulla.» Le porse lo sherry, che lei sorseggiò con espressione grata, mentre sembrava mettere ordine nei suoi pensieri. «Quello che le ho raccontato è la verità, la pura verità, parola», rispose, parlando a fatica. «Soltanto, non è tutta la verità. Non ho detto tutto perché temevo che loro pensassero che fossi ubriaca, o mezza matta, o che stessi mentendo; magari tutte e tre le cose. Ripeto: ero ferma all'angolo, aspettando un autobus, quando quel giovanotto ha fermato la macchina e mi ha chiesto se volevo un passaggio. Sembrava bene educato, cortese, e io mi sentivo così intirizzita che accettai l'offerta. Anche quando è entrato nel parco non mi sono preoccupata eccessivamente: non sono nata ieri e sono in grado di difendermi. Ma quando egli fermò la macchina e si chinò verso di me, allora sì che mi spaventai. A morte. Hanno mai visto un volto umano diventare come il ceffo di una bestia?» «Mordieu, vuol dire che...» «No, non intendo dire che le sue sembianze cambiarono effettivamente
di forma: era l'espressione. Nel buio, i suoi occhi sembravano davvero lampeggiare. Arricciò le labbra e mostrò i denti, come fanno i cani, o i gatti, ed emise dei suoni orrendi, come se ringhiasse. Non era proprio un rugghio, ma qualcosa di simile... No, non riesco a descriverlo, ma era un suono raccapricciante...» «E poi?» domandò de Grandin sottovoce, visto che lei taceva ingoiando nervosamente la saliva. «Non me ne ero accorta, ma lui si era tolto il guanto della mano destra e quando allungò il braccio verso di me, la mano era diventata la zampa di una pantera!» «Mordieu, ma cosa sta dicendo, Mademoiselle? La patte d'une panthère?!» «Sì, signore, proprio come le ho detto. Alla lettera. Nera e vellosa, con dei lunghi artigli adunchi; lui l'allungò verso di me agitandola con una specie di terrificante giocondità, come il gatto che gioca col topo, capisce? Con illusoria delicatezza. Sempre più vicino, finché gli artigli mi strapparono il vestito e un istante dopo sentii un dolore acuto al petto. Fu come se mi svegliassi all'improvviso, la paura mi aveva letteralmente paralizzata, prima, e allora mi buttai fuori dalla macchina. Come le ho già detto nel parco, egli non cercò di rincorrermi; rimase là seduto, sghignazzando, e mi gridò che in quella bufera non sarei potuta andare lontano. Poi incontrai lor signori, e quando tornammo indietro lui era...» Tacque di nuovo e de Grandin finì la frase per lei: «Morto e defunto, parbleu. Col collo spezzato in due come uno stecchino». «Ecco. Signore, lei mi crede, vero?» La sua voce era implorante, e ancor più lo erano i suoi occhioni neri, quando li alzò sul mio amico. Egli si tormentò le punte dei baffetti biondi. «Forse sono uno sciocco, Mademoiselle, ma le credo, sì. Però è possibile, anzi, probabile, che la polizia non condivida la mia naïveté. Perciò, non la metteremo al corrente del ruolo che lei ha avuto in questa disgraziata faccenda. Dato però che bisogna denunciare l'omicidio, mentre io mi occupo delle sue ferite, il dottor Trowbridge telefonerà alla centrale per trasmettere l'informazione.» Mi porse un pezzetto di carta sul quale era scarabocchiato un numero. «Ecco il numero di targa dell'automobile, Trowbridge. Per piacere, chiedi al nostro amico Costello di verificare chi era il proprietario della macchina e dove abitava.» «Qui, Costello.» La voce ben nota, profonda, mi giunse all'orecchio non
appena riuscii a mettermi in comunicazione con la centrale. «Ah, è lei, dottò? Ma guarda, stavo proprio per chiamare io. Che succede, dottò?» «Non lo so bene», risposi. «A quanto pare, il dottor Grandin ed io siamo inciampati in un omicidio, nel parco della Rimembranza...» «San Patrizio mio, aiutami tu! Un altro omicidio? Io sto uscendo pazzo, dottò. Sto dando i numeri, come si usa dire. È il quarto, stanotte. Mamma mia, non ho manco più il coraggio di alzare il ricevitore, quando suona il telefono, per paura che mi dicano che ce n'è un altro, di morti ammazzati. Come l'hanno fatto fuori, il loro?» «Non ne sono proprio sicuro, ma mi pare che gli abbiano spezzato l'osso del collo.» «Le pare, eh?» ringhiò lui. «Non scherziamo, dottò: se lo dice lei, vuol dire che è così. Tutti, hanno il collo spezzato. Qua non abbiamo altro che colli rotti e per San Patrizio, vorrei essermi rotto anche il mio, così non dovrei più preoccuparmi di tutti questi maccabei con l'osso del collo spezzato, parola mia! Come ha detto che era, il numero della targa? Grazie. Faccio controllare subito sul registro automobilistico. Da qui a un dieci minuti, su per giù, sarò lì da loro. Intanto manderò un carro-attrezzi al parco per prelevare la macchina completa di cadavere.» Mentre posavo il ricevitore, udii chiudersi quasi senza rumore la porta della saletta di pronto soccorso chirurgico; qualche minuto dopo Jules de Grandin entrò nello studio. «Le ho spennellato le lacerazioni col mercuriocromo», mi disse. «Graffi superficiali, nessun segno di infezione. Però sono disorientato. Già. Si capisce. Naturale.» «Perché 'naturale'?» «Mi spiego: quei graffi hanno tutto l'aspetto di essere stati prodotti da grossi unghioli di gatto, gli orli sono irregolari perché la pelle ha ceduto, quando le unghie l'hanno lacerata, ma esaminandoli con la lente, non ho trovato traccia di sostanze estranee. E questo non quadra. Come ben sai, gli artigli degli animali, specialmente di quelli che appartengono alla famiglia dei felini, nella parte sottostante sono accentuatamente concavi. Dato che le bestie, quando camminano, non li ritraggono completamente, nelle scanalature si accumulano in genere sostanze eterogenee. Ecco perché un graffio prodotto dall'unghiolo di un leone o di un leopardo, o anche di un micio domestico, è sempre più o meno infetto. Quelli della ragazza no, invece. Amico mio, l'animale che l'ha graffiata è un felino ben strano!» «Strano? Altro che!» concordai. «L'ho udita raccontarti che la mano del
giovanotto si era trasformata in una zampa di pantera. Spero che non ci sarai cascato, che non avrai bevute quelle sciocchezze, vero? Probabilmente lui ha allungato le mani diverse volte, le ha strappato il vestito e, senza volerlo, l'ha graffiata.» «Non, caro mio, non è andata così. Non è da ieri che pratico la medicina, e nemmeno dalla settimana scorsa. Conosco troppo bene i segni lasciati da unghie di esseri umani per ingannarmi. Non dico che la mano di quel tizio si sia trasformata in una zampa... È troppo presto per dare giudizi, ma una cosa è certa: le lacerazioni che abbiamo visto sul torace della ragazza non sono dovute a unghie umane. Inoltre...» «Dov'è, adesso?» lo interruppi. «Sta andando a casa sua, per lo meno me lo auguro. L'ho fatta uscire dalla porta della saletta del pronto soccorso, l'ho accompagnata fin sul marciapiede; quando è passato un taxi l'ho fermato e l'ho imbarcata.» «Ma Costello vorrà interrogarla...» «Gli hai detto di lei?» «No, ma...» «Très bon. Ottimo. Così va bene. Non coinvolgiamola nello scandalo. Se poi dovessimo aver bisogno di lei, so dove trovarla. Sì. Prima di lasciarla andare mi sono fatto dare il suo indirizzo e ho controllato sulla lista telefonica. Per intanto, ciò che il nostro buon Costello non sa, non nuocerà né a lui, né alla signorina Upchurch. Perciò...» Una scampanellata perentoria lo costrinse ad interrompersi; poco dopo il tenente investigativo Costello entrò pestando i piedi, cappotto e cappello luccicanti di neve, il volto quadrato, di solito sprizzante buon umore, immelanconito da un'aria estremamente infelice. «'Sera, signori», disse, mentre appendeva soprabito e copricapo all'attaccapanni dell'ingresso. «Allora, quel morto che hanno trovato, pure lui è uno di quelli che si sono fatti rompere l'osso del collo?» «Proprio così, vecchio mio», rispose de Grandin con un sorrisetto. «Ha scoperto nome e indirizzo dell'individuo che è stato accoppato nel parco?» «Ecco qua, dottò: John Percy Singletary, Atwater Drive 1652, e...» «Un momento, per piacere.» De Grandin sparì per un attimo in biblioteca e tornò con il Chi è? «Ah, ecco qui il suo dossier: 'Singletary, John Percy. Nato il 16 luglio del 1917 nella Contea di Fairfield, nel Massachusetts. Figlio di George Angus e di Martha Perry. Studi: scuole private e Harvard College; trasferitosi a Harrisonville, stato di New York nel 1937. Ufficiale dell'esercito americano, ha servito nel teatro di operazioni inglese
nel 1943-1944. Congedato con Croce di guerra nel 1945. Socio dei seguenti circoli: Lotus, Plumb Blossom, Explorers. Indirizzo: Atwater Drive 1652, Harrisonville, New York'. Si comincia a intravedere un po' di luce, sia pure debolmente.» «Dove sta, 'sta luce, dottò? Io sono cecato. Da quello che lei ha letto lì sopra, direi che era uno di quei 'pleiboi' ricchi sfondati che hanno più quattrini che cervello e niente di meglio da fare che far nascere delle grane. Risulta che è stato multato più di una dozzina di volte per eccesso di velocità; perché non gli abbiamo ritirato la patente non lo capisco. Non posso dire che la sua morte mi spezza il cuore: ci ha tolto un bel disturbo, facendosi far fuori, per dir la verità. Quello che vorrei sapere è chi è stato e perché.» Con un cenno, de Grandin gli indicò la caraffa di whisky e il sifone della soda. «Si serva, amico carissimo. Vedrà che un buon drink le solleverà il morale. Intanto, mi dia i nomi degli altri tre giovanotti che hanno avuto la malasorte di farsi rompere il collo.» Costello gli porse degli appunti. «Grazie. Dunque, vediamo...» Sfogliò di nuovo il Chi è?, poi: «Dieu des porcs de dieu des porcs de Dieu des cochons!» imprecò, chiudendo il libro. «Pas possible!» «Ch'è successo, dottò?» «I dossiers di questi disgraziati giovanotti sono quasi identici. Il giovane Monsieur Singletary, quello che abbiamo trovato defunto nel parco, e i Monsieurs George William Cherry, Francis Agnew Marlow e Jonathan Smith Goforth avevano pressappoco la medesima età e hanno frequentate le stesse scuole. Probabilmente furono compagni di classe. Tre di loro hanno servito nell'esercito americano, il quarto con gli Inglesi, ma tutti nello stesso teatro di operazioni, Cina, Birmania, India. Sono morti in maniera identica, su per giù alla stessa ora. Très bon. Cosa significa?» «Okei, dottò, abbocco: cosa significa?» Il bassetto francese scrollò le spalle. «Hélas, non lo so. Ma in queste strane coincidenze c'è di più, molto di più, di quanto sembri a prima vista. Il sottoscritto vuol vederci chiaro, farà le indagini necessarie. Già si intravedono le linee generali del caso. Rifletta, per piacere. Che cosa sappiamo, di loro?» Puntò l'indice, come la canna di una pistola, su Costello. «Sono stati uccisi perché erano molto ricchi? Possibile, ma improbabile. Perché hanno frequentato l'università di Harvard? Alunni di quel college che volentieri farei fuori io stesso ne ho conosciuti parecchi, ma nel caso presente dubito che la responsabilità della morte dei quattro, avvenuta nello stesso
modo e alla stessa ora, sia da far risalire alla comune alma mater. Potrebbe darsi che siano stati assassinati perché hanno fatto insieme il servizio militare, ma questo io lo ritengo un fatto marginale. Très bon. Dovrebbe quindi esservi, a rigor di logica, un altro fattore. Quale?» «Glielo dico io, dottò: chi li ha accoppati, e perché?» «Esatto, amico mio. Per gentilezza, mi dica qualcosa sulla loro morte.» Costello sfogliò i referti con le dita a salsicciotto. «Il Cherry è stato trovato cadavere davanti alla porta di casa sua. Era stato a una festa nella villa di amici, e l'aveva lasciata per tornare a casa verso le dieci. Logan, il poliziotto di ronda, lo vide lungo disteso nel giardino e pensò che fosse sbronzo, finché non gli diede una guardata da vicino. Marlow alloggiava stabilmente al Lotus Club, del quale, come lei ha fatto notare, erano soci tutti e quattro. Un amico, entrando nella stanza di Marlow poco dopo le otto di questa sera, lo ha trovato morto stecchito nel letto. Goforth è stato liquidato, o, per lo meno, è stato trovato defunto, nei gabinetti del teatro Acme. Tutti col collo spezzato e a parte questo, tutti senza la minima traccia di violenza. Sul collo, nessuna contusione dovuta alla pressione delle dita o a una eventuale garrotta. A regola, mica dovrebbero essere morti, eppure sono tutti all'obitorio stecchiti come baccalà.» De Grandin annui. «Come si chiama quell'amico che ha rinvenuto il cadavere di Monsieur Marlow?» «È un tizio di nome Ambergrast. Alloggia anche lui al club, sullo stesso piano. Entrò in camera di Marlow per invitarlo a andare con lui a far bisboccia a New York e lo trovò che era già partito per l'ultimo viaggio.» «Vedo. Presto, andiamo tutti quanti a far due chiacchiere con questo Monsieur Ambergrast, Può darsi che sia in grado di darci qualche informazione utile. E può darsi che anche lui sia sulla lista di quelli che devono farsi spezzare l'osso del collo. Sissignore. Certamente.» Wilfred Bailey Ambergrast junior era un esemplare tipico della sua classe sociale. Un giovanotto piuttosto pallido, non proprio il tipo del debosciato, ma ovviamente un coccolatissimo figlio di papà. Come ebbe a dire più tardi de Grandin, era «una di quelle persone di cui non si riesce a dare una descrizione soddisfacente». Evidentemente la morte dell'amico gli aveva causato un grosso trauma e perciò si sentiva poco incline a parlarne. «Non riesco a figurarmi chi possa aver ucciso Frank, e perché», ci disse, fissando imbronciato il contenuto del suo bicchiere di whisky. «Tutto ciò che so l'ho già detto alla polizia.
Verso le otto di questa sera sono entrato nella sua stanza e l'ho trovato sdraiato, mezzo dentro e mezzo fuori, sul letto.» Tacque per bere un lungo sorso del suo highball, poi concluse: «Era morto. Aveva la bocca aperta e gli occhi spalancati... Dio, che cosa spaventosa!» «Monsieur», gli disse de Grandin, fissandolo col suo sguardo ipnotico come quello di un felino, «lei crede possibile un qualsiasi legame tra la morte del suo amico e qualche avvenimento connesso al servizio militare, nel periodo trascorso insieme in India o in Birmania, per esempio?» «Cosa?» «Précisément. A quanto pare, lei e alcuni suoi amici erano distaccati presso l'aviazione, non come piloti, ma come meteorologi. Dati i loro compiti, avevano molto tempo libero a disposizione per visitare certi posticini poco noti e poco frequentati, mischiandosi a gente dalla quale avrebbero fatto meglio a tenersi alla larga...» Ambergrast gli scoccò un'occhiata stupita. «Come ha fatto a indovinarlo?» domandò. «Io non tiro a indovinare, Monsieur. Sono Jules de Grandin, io. L'arte mia è quella di sapere le cose, specie quelle che si crede che io non sappia. Bien. Dunque: dove hanno conosciuto...» Tetro in volto, il giovane annuì. «Visto che sa già tante cose, tanto vale che si rimpinzi anche del resto. Tubby Goforth, Bill Cherry, Jack Singletary ed io eravamo di stanza vicino a Gontur. Frank Marlow era con gli Inglesi, suo padre era canadese, ma si trovava nelle vicinanze. Quando avevamo qualche giorno di licenza ci trovavamo tutti insieme. Un giorno Jack ci disse che a Stuartpuram c'era in preparazione qualcosa di straordinario. Una specie di congresso delle tribù chiamate 'Criminali', che avevano il loro quartier generale a Stuartpuram. Ci procurammo un mezzo e al cader della notte ci recammo sul posto. I nativi marciavano e marciavano intorno a una grande capanna di fango che loro chiamavano tempio, reggendo delle fiaccole e cantando mantras a Bogiri, una delle incarnazioni di Kalì. Mentre noi spiavamo la cerimonia, un vecchio mezzo rimbambito ci si avvicinò di soppiatto, proponendoci, in cambio di una rupia a testa, di farci entrare alla chetichella nel tempio. Lo prendemmo subito in parola e lui ci guidò lungo una specie di camminamento segreto, conducendoci in un locale situato proprio dietro il grande simulacro della dèa, fatto di mota impastata. «Ci eravamo aspettati di vedere chissà che, ed invece lo spettacolo fu deludente. Eravamo convinti che ci fossero delle donne, nautchnis e roba del
genere; speravamo di assistere a scene come quelle effigiate sulle pareti della Pagoda Nera di Kanarak. Invece erano tutti uomini, un mucchio di vecchie cornacchie pidocchiose, per di più. Uno di loro, che sembrava fosse il Gran Sacerdote, si alzò in piedi e arringò gli altri in indostano, lingua che noi naturalmente non conoscevamo. Dopo di che distribuì tra i presenti un buon numero di guantoni di pelliccia. La riunione si sciolse e noi stavamo già per andarcene, quando il vecchio barbagianni che ci aveva fatti entrare nel tempio fece di nuovo la sua comparsa. Parlava un inglese quasi incomprensibile, ma alla fine capimmo che ci offriva in vendita dei guanti come quelli che avevamo visto distribuire agli adepti di Kalì. 'Ma a che servono?' volle sapere Jack. Il vecchio prevaricatore si mise a sghignazzare convulsamente, tanto da farci temere che un attacco d'asma potesse farlo secco. 'Voi piace fare yum-yum, fare amore con ragazza mora?', domandò. Jack annuì e quell'altro giù a ridere... 'Voi mettere guanto, voi mostrare ragazza mora, lei lasciare voi fare yum-yum', promise. 'Voi fare lei piccolo sgraffio con guanto, lei fare tutto voi volere.' E così ciascuno di noi sborsò tre rupie per comprarsi uno di quei guanti. «In seguito, esaminandoli alla luce, vedemmo che erano fatti di non so quale pelliccia nera e che vi erano attaccati tre artigli adunchi, ricavati dagli zoccoli di un quadrupede. Naturalmente non avevamo idea del perché servissero come feticci per fare l'amore, ma la sera dopo Tubby fece un esperimento e la faccenda funzionò. Da un po' lui faceva la corte a una ragazza parsa, ma lei non ne voleva sapere. I parsi costituiscono la casta più aristocratica, in India: superbiosi da matti. La maggior parte sono ricchi, così non si possono né comprare, né corrompere, e quelli che sono poveri hanno abbastanza orgoglio per supplire con questo alla deficienza di quattrini. Tubby non era riuscito a concludere un bel niente, con la donzella, fino alla sera seguente a quella in cui comprammo i guanti. Egli si infilò la manopola nella mano destra, le ringhiò in faccia e le graffiò leggermente il braccio con gli unghioni. Funzionò a meraviglia, ci disse poi. Per tutta la serata la bimba si mostrò docile come un agnellino, sembrava che nel suo vocabolario la parola 'no' non esistesse per niente.» «Può fornirci una spiegazione per questo fenomeno davvero stupefacente, Monsieur?» domandò de Grandin, tentennando la testa. «Be', a un dipresso. Pochi giorni dopo, sentimmo dire in giro che varie persone di tutte le specie, uomini, donne, bambini, erano state trovate morte in luoghi poco frequentati, ma a volte persino sulle strade maestre, tutte dilaniate da artigli, come se fossero state assalite da un leopardo. Niente di
simile era accaduto prima di allora, e la polizia era completamente sbalestrata. Noi cinque pensammo che le tribù criminali avessero abbandonato il vecchio sistema di strangolare con un panno i loro nemici per adottare quello delle manopole di pelliccia munite di robusti unghioni. La popolazione era terrorizzata, le ragazze, quando vedevano i nostri guantoni simili a zampe di felini e ne pativano i graffi, si mettevano in testa che noi fossimo in combutta con le tribù criminali. Nessuno ne conosceva i membri, capisce? Erano specialisti nel mimetizzarsi, quelli, più bravi di Lon Chaney. Per paura di lasciarci la pelle, le donne preferivano non resisterci.» «Vedo. E l'emerito vecchio furfante che vi aveva venduto i guanti?» «Due giorni più tardi lo trovarono morto strangolato appena fuori dal suo villaggio. Supponemmo che lui avesse lasciato trapelare di avere improvvisamente fatto quattrini; aveva rimediato venti rupie, da noi: un bel gruzzolo, per un qualsiasi contadino indiano, e che qualcuno lo avesse ucciso per derubarlo. Però io non avevo mai sentito dire che fatti del genere avvenissero tra di loro, nell'ambito delle loro stesse tribù. È molto buffo, vero?» «Molto buffo. Davvero molto buffo, Monsieur. Ma ho i miei dubbi che i suoi quattro amici e quel galantuomo di indiano abbiano trovato molto divertente la situazione...» «I miei quattro amici?! Significa che Jack, Frank e...» «Esatto, Monsieur. Del gruppetto che quella famosa notte si introdusse nel tempio e in seguito comprò le manopole, lei è l'unico superstite.» «Signore Iddio, ma che dice? Allora, forse, stanno dando la caccia anche a me!» «Se non sto prendendo un grosso abbaglio, Monsieur, lei ha posto la questione nei termini esatti. E ora vuol avere la cortesia di mostrarci la stanza del signor Marlow?» «Hm...» grugnì Costello, quando fummo nella camera da letto, piccola, ma confortevole. «Che le avevo detto, dottò? Chi ha fatto il servizio, o ha le ali come un uccello, oppure è capace di camminare sulle pareti.» Spalancò la finestra e puntò il dito verso il basso. «Guardi: siamo a buoni cinque metri e mezzo dal suolo, abbiamo fatto due rampe di scale, infatti. Soltanto sparato a razzo, uno poteva entrare dalla finestra, oppure volando, o arrampicandosi come una mosca sulla parete. E per uscire? Come ha fatto, dico io? Non c'è un tubo di grondaia, e non può essersi servito di una scala portatile. Mica si può portare a spasso una scala per le strade senza richia-
mare l'attenzione di qualcuno, le pare? Be', certo, potrebbe essersi calato dal tetto con una fune, ma al letto, come ci sarebbe arrivato? L'ingresso, dabbasso, è pieno di lacchè e poi c'è un viavai continuo di soci e di ospiti, sarebbe stato notato. Visto che l'edificio è isolato, manco può essere passato dal tetto di un'altra casa...» «È un mistero, amico mio, come lei giustamente ha detto», confermò de Grandin. «Comunque, per il momento ciò che più preme è scoprire chi è l'autore di questi stranissimi assassinii, non come ha fatto a entrare e a uscire da questa stanza. Potrebbe darsi che... Morbleu! Che splendida idea! Io, de Grandin, ho avuto l'ispirazione!» «E si capisce! Chi altro poteva averla?» commentò Costello, tutto mansueto. «E se in ricordo dei vecchi tempi dicesse qualcosetta anche a noi? Eh?» «Ma certo, mon ami, pourquoi pas? Chiediamo il parere del nostro amico Ram Chitra Das. Può dirci più lui nello spazio di una mezz'ora di quanto possiamo indovinare noi ponzando per ventiquattr'ore filate. Aspettatemi qui. Corro, volo a telefonargli.» Tornò cinque minuti dopo, facendoci cenni soddisfatti. «La fortuna ci assiste, mes amis. Il signor Das e consorte sono appena tornati dal teatro dell'Opera e non si sono ancora coricati. Ci aspettano. Andiamo, sbrighiamoci. Nel frattempo...» Prese Costello per un braccio, lo trasse in disparte e gli sussurrò all'orecchio con animazione. «Okei, dottò», udii il tenente investigativo rispondere. «Anche se è contro i regolamenti, io ci provo. Ma vedrà che dovranno mollarlo ancor prima che faccia giorno.» «Basterà per darci tempo», rispose de Grandin. «Vada a telefonare alla centrale e veda di far presto: non possiamo permetterci di tirare per le lunghe.» «Cos'era tutto quel parlottare a bassa voce?» domandai, mentre ci mettevamo in macchina per rientrare a New York. «Cos'è che è contro i regolamenti e chi verrà 'mollato'?» «Quel giovanotto, Monsieur Ambergrast», rispose de Grandin. «Abbiamo a che fare con dei funamboli che riescono a raggiungere finestre assolutamente inaccessibili, per entrare in una stanza. Già, ma non credo che riescano a penetrare in una cella: no, troppo difficile, anche per loro. Perciò, visto che non possiamo portarci appresso il giovanotto e che sarebbe troppo rischioso lasciarlo solo nella sua stanza, lo faremo mettere al fresco come testimone indispensabile; al fresco e al sicuro, per alcune ore, in gat-
tabuia. Naturalmente gli sarà facile ottenere che lo rimettano in libertà, ma nel frattempo faremo i nostri passi e così non lo avremo sulla coscienza. Nossignore. No e poi no.» «Salve! Una visita molto gradita!» esclamò Ram Chitra Das, mentre noi salivamo in gruppo la scala che conduceva al suo appartamento, situato al primo piano di un edificio della Ottantaseiesima Strada Est. «Come sta, dottor Trowbridge? Piacere di conoscerla, tenente Costello.» Ci strinse la mano cordialmente e poi ci fece entrare in un salotto che sarebbe andato benissimo come scenario per la elaborata rappresentazione di uno dei racconti delle Mille e una notte. Le pareti di un bianco cremoso erano coperte di arazzi dai colori tanto splendidi quanto quelli evocati dall'immaginazione di un fumatore di hascisc; sul pavimento di legno tirato a lucido erano sparse pelli di leopardo, di lupi della montagna dalle pellicce nere spruzzate di platino. Davanti al sofà, in fondo alla sala, era stesa una magnifica pelle di tigre, fulva e brillante, macchiata di strisce gialle come l'oro. Nella stanza aleggiava un profumo esotico, risultante dalla mistura della fragranza dei fiori con l'odore del legno di melo scoppiettante nel caminetto e col fumo delle sigarette. In vestito da sera e sparato candido, il nostro ospite non faceva davvero pensare a un orientale; avrebbe potuto benissimo essere uno spagnolo o un italiano, con quei suoi capelli neri e lisci, gli occhi scuri vivacissimi e i lineamenti minuti, regolari. Per di più, nel suo accento si percepiva una vaga reminiscenza oxfordiana. La splendida creatura che si alzò dal sofà per farsi incontro a noi era di una bellezza da togliere il respiro. Alta, snella, le rotondità del seno appena accennate, si muoveva con una grazia tale che il suo incedere sembrava piuttosto un fluttuare, come se fosse sospinta da una brezza leggera, non percettibile dagli altri. La sua epidermide, levigata e quasi iridescente, aveva una tonalità dorata di incredibile leggiadria; i suoi capelli, semplicemente divisi nel mezzo della testa da una riga e annodati mollemente sulla nuca erano una massa di un nero azzurrato. Ma ciò che più colpì il nostro sguardo furono i suoi lineamenti estremamente esotici. Il naso era in linea retta con la fronte molto alta, senza la minima frattura di continuità: evidentemente nelle sue vene doveva scorrere il sangue dei guerrieri di Alessandro il Grande, conquistatori dell'India. Sotto le sottili, arcuate sopracciglia, gli occhi sembravano due laghi profondi, di un verde muschio screziato come l'agata. Le labbra delicate e scarlatte disegnavano finemente
una bocca piuttosto larga. Indossava un vestito da sera di seta bianca opaca, tagliato con la squisita semplicità delle tuniche greche e stretto alla vita da un cordone d'argento. Al braccio destro, proprio al di sopra del gomito, portava un braccialetto alla schiava di platino incastonato di rubini e smeraldi, alle orecchie dei pendenti di smeraldo che facevano risaltare il verde degli occhi. L'insieme destava l'impressione di una grazia sottile e nello stesso tempo regale. «Cara», disse cerimoniosamente il nostro ospite, inchinandosi, «ti presento il dottor de Grandin, il dottor Trowbridge e il tenente Costello. Signori, mia moglie, Naraini, che se non avesse avuto la sventatezza di accettare come marito l'umile sottoscritto, sarebbe oggi la Maharance di Khandawah.» «Madame», mormorò de Grandin, portando alle labbra la sottile mano ingioiellata della signora, «in India come in Groenlandia, nel Nepal o a New York, lei è sempre, non potrebbe essere altro, la personificazione della regalità.» I grandi occhi verdi di lei lo fissarono per qualche istante, come assenti, poi si illuminarono di un sorriso e le labbra si dischiusero su denti simili a perle. Ma già, non mi è mai capitato di incontrare una donna che non fosse pronta a sorridere a de Grandin. «Merci, Monsieur», mormorò, con una voce tanto dolcemente musicale da ricordarmi il tubare delle tortore. «Vous me faites honneur!» «Dunque», domandò Ram Chitra Das mentre ci sistemavamo nelle varie poltrone, «quale sarebbe il problema, dottor de Grandin? Dalla sua telefonata, piuttosto laconica, in verità, mi è sembrato che sia in atto un piano criminoso e che lei sospetti vi siano immischiati degli indiani.» «Proprio così, amico mio, lei ha colpito il bersaglio», annuì ponderatamente de Grandin. «Ascolti quanto sappiamo e ciò che sospettiamo e poi veda lei se le è possibile fornirci la chiave del nostro enigma.» L'indiano non fece nessun commento, mentre il mio amico esponeva il nostro problema. Parlò soltanto quando de Grandin ebbe terminato il suo racconto. «Ritengo che i suoi sospetti, dottore, siano fondati, e ben fondati. Quei mascalzoncelli ficcarono il naso in qualcosa che non era certamente affar loro. Chi avesse avuto una conoscenza più approfondita degli indù e degli usi e costumi dell'India l'avrebbe previsto, che un giorno sarebbero stati chiamati a pagarne il fio. «Come suppongo lei sappia, le tribù criminali indiane annoverarono cir-
ca dieci milioni di adepti. Non sono soltanto dei ladri comuni, o borseggiatori o assassini: quando vengono alla luce, sono già destinati, predestinati, al crimine, così come voi americani nascete protestanti o cattolici, democratici o repubblicani Ogni fanciullo che nasce in quelle tribù, per diritto e dovere ereditario, è un criminale, e come tale viene subito schedato dalla polizia indiana. Rubare, uccidere e commettere scelleratezze di ogni genere rappresenta per loro un dovere religioso, quanto lo è fare l'elemosina per un ebreo, per un cristiano e per un mussulmano. Fallire nella carriera del crimine significa scendere in basso nella scala sociale. «Scendere di un gradino nella gerarchia delle caste è una faccenda grave, per un indù. Qualcosa come la scomunica per un cristiano del Medio Evo; forse ancor peggio. Per l'anima, significa la condanna a dover passare attraverso innumerevoli reincarnazioni, per una infinità di tempo a venire; ma anche materialmente, rappresenta una degradazione. Se io adesso tornassi nel Nepal, nel palazzo di mio zio, non sarei che un essere assolutamente insignificante. Nessun servo consentirebbe a servirmi, nessun commerciante mi venderebbe la sua merce; soltanto i paria, gli spazzini che scopano le strade, oserebbero rivolgermi la parola. In quanto a Naraini, che ha piantato in asso il principe suo padre per sposare un vagabondo fuori di ogni casta come sono io, se tornasse a casa molto probabilmente la infilerebbero in un sacco e la butterebbero nel fiume più a portata di mano. «Il preambolo valga a chiarire la mentalità. Certamente lor signori sanno che un buon numero di lavoratori indù si sono sparpagliati per il mondo: in Cina, in Indonesia e, bene inteso, nelle colonie inglesi del territorio africano. A quanto pare, alcuni di questi 'Crims', come li chiamano familiarmente, ma non affezionatamente, i poliziotti indiani, qualche tempo fa si spostarono nella Sierra Leone, dove impararono certi trucchi degli uominileopardo del Protettorato e della limitrofa Liberia. Certuni fecero poi ritorno alla madre patria, l'India, e introdussero tra i loro contemporanei l'innovazione della 'zampa di gatto', una manopola di pelliccia munita di artigli duri come l'acciaio. Ho sentito dire che un paio d'anni fa, nella Presidenza di Madras vi fu un'ondata di morti violente; le vittime sembravano essere state assalite e dilaniate da un leopardo. Ed ecco dove entrano in gioco quei giovanotti. Indubbiamente essi assistettero a una riunione delle tribù criminali, erano presenti quando furono distribuite le 'zampe di gatto', e il vecchio cialtrone che fece loro da guida pensò bene di mungere dei quattrini maledetti vendendo loro quegli arnesi infernali. «Si ricordino di quello che gli accadde. Il signor Ambergrast trovò stra-
no che qualche appartenente alle tribù criminali se la prendesse con uno dei loro. Era prevedibile, invece: all'effetto pratico, quel tizio aveva venduto un segreto della loro massoneria, e le società segrete, quali più, quali meno, sono intolleranti, in materia. A quanto pare, il traditore in questione non visse abbastanza a lungo per godersi i frutti della sua illecita speculazione. «Venne liquidato con il roomal, sì, quel panno che i thugs usano per strangolare; la faccenda dei giovani stranieri rimase però in sospeso. Comprando le 'zampe di gatto' e usandole non per commettere delitti per così dire legittimi, ma a scopo intimidatorio, per costringere le ragazze native a cedere, anche controvoglia, alle loro brame, i bianchi avevano gettato il disonore sull'intero clan delle tribù criminali. Per colpa dei bianchi, i 'Crims' avevano perso la faccia. In Oriente, perdere la faccia è una disgrazia su per giù paragonabile a quella di essere espulso dalla propria casta: perciò, era indispensabile intraprendere un'azione drastica. Di conseguenza...» Alzò le mani come se annodasse a cappio una fune, poi le strinse con un gesto veloce. «Di conseguenza, exeunt omnes, come si legge nelle didascalie delle tragedie scespiriane.» «Quindi lei, signore, pensa...» cominciò a dire Costello; ma Ram Chitra Das fu svelto a interromperlo. «Potrei dire di esserne sicuro, tenente. Colui o coloro che hanno ricevuto l'incarico di fiducia di dare la buona morte ai giovani in questione sono probabilmente membri delle tribù criminali. Forse hanno perso il diritto di appartenere alla loro casta e devono riguadagnarselo assassinando gli stranieri spioni. Niente potrà fermarli. Se sono in diversi e qualcuno ci lascerà le penne, non per questo gli altri rinunceranno. Per loro è sottinteso che la strada più sicura, più breve, per arrivare al paradiso è quella di rimanere uccisi mentre commettono un delitto, in contrapposizione al fatto che se si fanno prendere perdono il diritto alla casta.» «Lei non ha idea di come cavolo hanno fatto a entrare nella camera di quel disgraziato, signore? Per me, dico che soltanto un uccello avrebbe potuto farcela, a entrare e a uscire; però a sentir lei pare che quelli siano dei dritti, magari conoscono dei trucchi che noi manco ce li sogniamo.» «Ho un'idea, tenente, e molto precisa», rispose Ram Chitra Das. «Dov'è, adesso, Ambergrast?» «In galera, ben protetto, speriamo!» «Il posto più sicuro, per lui. Se però vogliamo prendere la nostra selvaggina, dobbiamo montare una trappola. Credete che il giovane abbia già fat-
to i passi per farsi rilasciare?» «E chi lo sa? Se vuole, posso telefonare.» «Sarebbe una buona idea. Dica di trattenerlo con qualsiasi pretesto finché lei non telefonerà di rispedirlo a domicilio con una camionetta della polizia.» Ram Chitra Das, de Grandin e io eravamo rannicchiati in una rientranza del muro, nel vicolo che costeggiava sul retro il Lotus Club. Il freddo si faceva sempre più acuto, penetrando fino alle ossa, intirizzendoci; quando a oriente il cielo cominciò a schiarirsi leggermente, un vento pungente prese a soffiare, peggiorando ancor più la situazione. «Mille douleurs», gemette sottovoce il mio amico francese, «un'ora ancora di questo supplizio e Jules de Grandin non sarà più che un cadavere congelato, pardieu!» «Zitto, vecchio», sussurrò Ram Chitra Das. «Abbiamo già dedicato tanto tempo e sopportato tanto disagio, per questa faccenda: sarebbe un vero peccato lasciarci sfuggire il criminale all'ultimo momento. Verrà, ne sono quasi sicuro. Quei sicari lavorano a tamburo battente e possibilmente nelle ore notturne. Che dice, Costello starà facendo buona guardia, all'interno del club?» «Ho sistemato lui e un agente in borghese nella stanza accanto a quella di Ambergrast», risposi io. «Hanno lasciato la porta socchiusa, neanche un topolino potrebbe passare in corridoio senza che loro se ne accorgano. Se dalla stanza di Ambergrast dovesse giungere anche un solo pigolìo, essi...» «Se il tizio che stiamo aspettando riesce a entrare in quella stanza non udranno nemmeno un pigolìo», m'interruppe Ram Chitra Das, con tono lugubre. «I Bagrees sono capaci di togliere gli orecchini a una donna addormentata senza che questa manchi un colpo nel russare; quando poi si tratta di usare il roomal, si può dire che sono più veloci di una pallottola, nell'uccidere un uomo. E non fanno più rumore di una mosca che cammina sul soffitto. Mi è capitato di vedere i frutti di qualche loro bella impresa e... corpo di Bacco, credo che ci siamo!» Un uomo veniva verso di noi, camminando sulla neve gelata col passo felpato e sicuro del gatto. Un bassetto mingherlino infagottato in un cappottone troppo largo e troppo lungo, con in testa una bombetta per lo meno di tre numeri troppo grande, assurdamente calcata fino agli occhi. Da quel poco che potevo vedere, mi accorsi che aveva la carnagione scura, ma certamente non era un negro. Si arrestò per un istante, come un segugio quan-
do punta la selvaggina, esplorandole finestre del primo piano del club, poi si diresse senza esitare verso un punto proprio al di sotto della finestra socchiusa della stanza dove dormiva Ambergrast. «Stiamo attenti», ci ammonì Ram Chitra Das, con un sussurro quasi impercettibile. «Se succede quello che penso io, vale la pena di non perdere lo spettacolo.» L'uomo era fermo sotto la finestra; trasse di tasca una fiaschetta, la sturò e spruzzò per terra alcune gocce del contenuto. «È la libagione», mormorò Ram Chitra Das. «Prima di bere il mhowa consacrato, loro ne versano sempre un poco in offerta a Bhowanee: fa parte del cerimoniale relativo all'assassinio.» L'individuo inghiottì il contenuto della fiaschetta e una volta vuotatala se la rimise in tasca; poi, con l'indifferenza di un ragazzo che ha voglia di farsi una nuotata, si tolse cappotto, maglietta, pantaloni e scarpe e rimase là in piedi, esposto al vento gelido, quasi nudo, si può dire, perché non aveva addosso che un perizoma e l'assurda bombetta. Questa se la tolse per ultima e vedemmo che sotto portava un turbante di un bianco sporco, legato stretto intorno alla testa. «Mordieu, la mortificazione della carne non è una parola vana, per quello là», sussurrò de Grandin, ma trattenne bruscamente il fiato vedendo che l'uomo dalla pelle olivastra sdipanava una corda che aveva intorno alla vita e la riavvolgeva a spirale per terra, sulla neve gelata. Finito che ebbe, egli si chinò e fece con le mani dei movimenti rapidi e misteriosi, come dei gesti di magìa. Impossibile, lo sapevo bene, non potevo vedere una cosa del genere: eppure, ecco là, stava accadendo. Lentamente, come un serpente che si desta dal torpore, la corda sembrò prender vita. Uno dei capi si agitò, si contorse, un pezzetto si drizzò verso l'alto, cadde a terra, per poi rizzarsi di nuovo e restare così, rigido. Centimetro dopo centimetro, senza mai afflosciarsi, la fune si drizzò verso l'alto, cautamente come se cercasse una strada invisibile, finché fu in tutta la sua lunghezza rigida e diritta come un parafulmine. Un capo toccava terra, l'altro era a una trentina di centimetri dalla finestra della stanza di Ambergrast. «Grand Dieu des porcs, non può essere!» bisbigliò incredulo de Grandin. «Dico io, ho sentito parlare milioni di volte di quel trucco della corda rigida, ma...» «Vedere per credere, vecchio mio», lo interruppe Ram Chitra Das, con una risatina soffocata. «Gente che gira il mondo e che dovrebbe avere una
certa esperienza le avrà detto che il trucco della corda è una truffa, che in realtà non può essere realizzato: e invece eccolo là e lei può descriverlo in inchiostro rosso sul suo diario.» L'ometto dalla pelle scura aveva cominciato ad arrampicarsi sulla fune tesa verso l'alto. Agile come una scimmia, saliva, una bracciata dopo l'altra; a quanto mi parve, anche i suoi piedi erano prensili come quelli di una bertuccia: per non scivolare, non cercava di attorcigliare la corda intorno alla caviglia, la afferrava con le dita dei piedi. Era arrivato davanti alla finestra socchiusa e stava sciogliendo il panno che aveva intorno alla cintola, al di sopra del perizoma: Ram Chitra Das schizzò avanti di corsa, alzando le mani e gridando con voce acuta: «Darwaza bundo!» Come provocato da un corto circuito, l'effetto fu istantaneo: la corda si afflosciò come un palloncino punto da uno spillo, l'uomo che vi era aggrappato venne scagliato con impeto letale verso il selciato coperto di una lastra di ghiaccio. A mezza via tra finestra e suolo egli fece una giravolta nell'aria, le braccia aperte a croce, le mani contratte nel futile tentativo di aggrapparsi al nulla, la bocca spalancata nell'orrore di un istante spaventosamente interminabile e precipitò supino sulla neve gelata accumulatasi per terra. «Acchiappiamolo!» gridò Ram Chitra Das, mentre correva verso il corpo steso a terra; gli strappò di mano il panno e lo attorcigliò per farne un legaccio. Poi, rialzandosi e spazzando via la neve che gli era rimasta attaccata ai pantaloni, con disgusto soggiunse: «Lasci stare, è meglio: puzza come un'aringa affumicata». «E con questo la faccenda è chiusa», affermò Ram Chitra Das, quando fummo tutti riuniti nello studio, caffè e tramezzino a portata di mano. «Temevo che fossero in diversi, ma Sookdee Sinagh, il nostro amico bagree, mi ha detto di aver fatto tutto quel massacro da solo; solo soletto, quella canaglia. Un giovanotto molto intraprendente, non c'è che dire!» «Ma si può prestar fede alle sue parole?» domandò de Grandin. «In genere, no. In questo caso, sì. Un bagree mente come respira, senza neanche rendersene conto, ma quando immerge la sua mano nel sangue e dice: 'Se io mento la vendetta di Bhowanee possa perseguitarmi per l'eternità', allora gli si può credere. All'ospedale, mi sono fatto dare una spugna imbevuta di sangue e ho costretto quel disgraziato a strofinarvi sopra le dita e a giurare di dire la verità, prima di fargli qualsiasi promessa.»
«Be', ma cosa gli ha potuto promettere, signor Ram?» domandò Costello. «Quello è più che sistemato: la massima pena per omicidio premeditato non gliela leva nessuno, poco ma sicuro.» «Ritengo che lei sbagli, tenente. Cadendo, si è fracassato il torace e una costola gli ha lacerato un polmone: il medico dell'ospedale è del parere che non ce la farà ad arrivare a questa sera. Questo mi ha fornito l'arma per farlo parlare.» «Non vedo come», ribatté Costello. Con un sorriso, l'indiano continuò: «Le genti appartenenti alle tribù criminali sono molto devote, anche se l'etica della loro devozione sia da prendersi con beneficio d'inventario. C'è una cosa, però, che i 'Crims' condividono con i loro correligionari più onesti: non vogliono essere seppelliti, considerano il fatto alla stregua di un vero e proprio disonore. Per loro, l'unico sistema decoroso di disfarsi dei cadaveri è la cremazione. Se poi le ceneri vengono sparse nel Gange, questo facilita l'ingresso al paradiso; qualcosa di simile alla sepoltura in terreno consacrato per i cristiani, capisce? «Ed è su questo che ho fatto leva: gli ho promesso che se mi avesse detto la verità, e tutta la verità, se 'cantava', come dite voialtri, avrei provveduto a che il suo cadavere fosse cremato e le sue ceneri spedite in India per essere sparse nel Gange. Non avrei potuto offrirgli un incentivo maggiore.» «Se non è un segreto di stato, le rincrescerebbe rivelare che cosa lei ha detto, quando col suo grido ha fatto afflosciare la corda?» domandai. «Con piacere! Ho gridato: 'Darwaza bundo' il che, in lingua indù, significa semplicemente 'chiudi la porta'! Mi spiego: le parole non avevano importanza, potevo dire qualsiasi cosa mi passasse per la testa, l'effetto sarebbe sempre stato il medesimo. Per realizzare i suoi trucchi, un adepto deve concentrarsi al massimo; la minima distrazione, anche per un solo secondo, spezza l'incantesimo. Sentirsi d'improvviso rivolgere la parola nella sua lingua nativa fu per lui uno shock tanto grande che la sua attenzione fu sviata. Soltanto per un attimo, bene inteso, ma quell'attimo fu sufficiente. Una volta che la corda si era afflosciata, non avrebbe potuto far altro che avvolgerla di nuovo a spirale per terra e ricominciare tutto da capo.» «Mon brave!» esclamò esultante de Grandin. «Mio vecchio e impareggiabile amico, quel homme sensé, parbleu! Che mi venga un accidente se, dopo Jules de Grandin, lei non è l'uomo più intelligente del mondo! Forza, festeggiamo il successo: beviamoci sopra!»
LA VENDETTA DEI DRUIDI di Robert Bloch Le cronache dei tempi remoti affermano che i riti delle antiche credenze pagane tramandati dalla tradizione popolare sopravvivranno sempre; l'opinione è condivisa anche da molti studiosi. Si ha un bel sorridere di scherno, ma è innegabile che di tanto in tanto si verificano avvenimenti misteriosi, di una stranezza che mette paura, e per i quali non esiste alcuna spiegazione. Le vecchie leggende resistono al passare dei secoli; ancor oggi i poveri e gli umili le accettano come verità incontestabili, e sempre lo faranno perché sempre accadranno eventi fuori dal comune di cui né la scienza, né la religione sono in grado di fornire un'interpretazione plausibile, spoglia di qualsiasi venatura di superstizione. Non intendo prendere partito per l'una o per l'altra parte in causa nella controversia: io mi limiterò a narrare una storia che mi è stata raccontata tanto tempo fa in una terra dove le saghe esoteriche ancor oggi esercitano il loro potere di suggestione. Sul litorale si dice che Sir Charles Hovoc, quando si trasferì a Nedwick, era un individuo superbo e caparbio. Alla dignità di baronetto c'era arrivato facendosi strada a gomitate, così come si era fatto strada a gomitate nel campo degli affari, della politica e dell'alta società. A trentott'anni aveva già una solida posizione finanziaria, era un uomo arrivato, che si era fatto da sé, senza guardare troppo per il sottile. A giudicare dalle informazioni raccolte qua e là, non doveva appartenere alla categoria delle persone che riescono subito simpatiche: troppo ferrigno, troppo positivo, troppo testardo. Se, partendo dai bassifondi di Whitechapel, aveva raggiunto la vetta del successo nel mondo dell'industria, non lo doveva certamente a un'etica impeccabile: la sua ascesa era dovuta soprattutto a un'astuzia cupida e spietata. Dato il suo carattere, non c'è da stupirsi che dopo aver comprato la proprietà dei Nedwick non avesse fatto il minimo tentativo per ingraziarsi gli abitanti del villaggio. No, lui aveva semplicemente ignorato la loro presenza. I villici avevano notato la sua inurbanità e se ne erano avuti a male. Un po' strana, quella gente, fanatica sostenitrice di tradizioni arcaiche, per niente amante degli estranei.
Fin dal primo giorno, tutti i paesani avevano preso Sir Charles in antipatia. Comunque, in seguito, apprendendo il suo tragico fato, se ne erano mostrati sinceramente addolorati, sebbene ancora oggi alcuni sembrino del parere che la sua morte violenta sia da attribuirsi in parte a una specie di poetica giustizia: se quell'uomo non fosse stato tanto stupido, avrebbe preso in considerazione i loro ammonimenti e forse la tragedia non si sarebbe mai verificata. Invece Hovoc aveva riso sardonicamente dei loro racconti da vecchie comari, tirando diritto per la strada che si era scelta. Perciò era morto: perché non aveva capito un accidente. Quando aveva comprato la tenuta Nedwick, Sir Charles aveva trovata la casa padronale in condizioni deplorevoli, una vera rovina; immediatamente aveva posto mano ai lavori di restauro. Importata da Birmingham una squadra di operai specializzati, aveva fatto rimettere a nuovo l'edificio, sia all'interno sia all'esterno. Demolito il muro sulla sinistra e il timpano che lo sormontava, era sorta una nuova ala, che si protendeva direttamente dal grande vestibolo a pianterreno. Naturalmente aveva fatto installare il riscaldamento centrale e rinnovare gli impianti igienici. Tutto ciò non gli accattivò certo la simpatia dei campagnoli, devoti cultori delle sacre memorie dei tempi che furono. Per loro, tutta quella attività di radicale rinnovamento equivaleva a un sacrilegio, costituiva un insulto alle tradizioni locali. Anche l'ironico e presuntuoso atteggiamento di Sir Charles, che ignorava del tutto i commenti dei nativi, provocò la loro disapprovazione; figurarsi, egli aveva avuto persino l'ardire di ordinare di sgombrare il campo ad alcuni maggiorenti del paese che, in gruppo con altri criticoni, si erano fermati a osservare con occhio malevolo il lavoro degli operai. Da allora, tra il villaggio e il maniero i rapporti furono improntati a inequivocabile freddezza. Una freddezza che si estendeva anche ai muratori venuti da fuori, per i quali era un'ardua impresa trovare alloggio e vitto nel villaggio, situato più a valle. Al nuovo signorotto le provviste di viveri venivano vendute a prezzi esorbitanti e le consegne alla porta di servizio erano fatte di proposito con la massima trascuratezza. Sir Charles non se ne curava, forse nemmeno lo sapeva; non sapeva un bel niente degli abitanti del villaggio, e ben poco della sua nuova proprietà. Quando le maestranze ebbero completato i lavori di restauro e se ne furono andate, il baronetto decise di colmare la lacuna dovuta alla carenza di cognizioni sul suo recente acquisto. Fece lunghe passeggiate nella brughiera, vagando lungo gli stretti sentie-
ri che si intersecavano nei campi pietrosi, dove cresceva soltanto un'erba stentata. Ciò che vide non incontrò davvero la sua approvazione: l'aspetto pittoresco, selvaggio, dei suoi possedimenti era troppo incongruente per piacere al suo occhio di uomo pratico, coi piedi sulla terra. Gli alberi nodosi, i boschetti sterposi erano soltanto ostacoli a un'agricoltura razionale; se i campi erano pietrosi, all'atto pratico significava che non si prestavano alle pasture per il bestiame. Un bel giorno si arrampicò fin sulla cima di una collina avvolta in una leggera bruma e fece scorrere lo sguardo irritato sui suoi domini. Così non andava, no. Un groviglio di fratte, campi cosparsi di rocce, boscaglie: tutta roba che poteva andar bene per gli aristocratici appassionati della caccia alla volpe, ma Sir Charles Hovoc era di un'altra pasta: badava al sodo, lui. Non esisteva una ragione al mondo per cui quella buona terra fertile dovesse andare sprecata; una volta disboscati, dissodati, tutti quegli acri di terreno gli avrebbero fruttato una rispettabile sommetta di danaro. Il fatto che lui possedesse già un pozzo di soldi non era pertinente. Sir Charles non approvava lo spreco, sotto nessuna forma. Comunque, per cieco che fosse, si rendeva conto della possibilità che i paesani sollevassero qualche obiezione. Era abbastanza al corrente degli usi e costumi del tempo, che sancivano come legittima la servitù di passaggio attraverso le proprietà terriere, considerando l'abolizione di privilegi del genere un vero e proprio gesto criminoso. Vagamente, percepiva quanto quelle genti fossero attaccate alla loro terra e presentiva che l'alterazione, la profanazione delle caratteristiche tradizionali del paesaggio gli avrebbero probabilmente procurato non poche seccature. Ma questo non lo scoraggiò: dopo tutto, cosa c'entrava la tradizione? La terra era sua. Per quella proprietà aveva pagato una bella cifra, e anche in futuro avrebbe dovuto continuare a sborsare fior di soldi per i considerevoli tributi fiscali. All'inferno i bifolchi: lui avrebbe tirato dritto per la sua strada. Prima di porre in atto la sua decisione piuttosto temeraria, il baronetto fece vari altri giri d'ispezione. Fu durante la terza di queste escursioni che si ritrovò davanti all'altare dei sacrifici. Era collocato sulla cima di una collina, circondato da un albereto, nelle vicinanze della brughiera.
Sir Charles arrivò lassù nel pomeriggio inoltrato, alla fine di una lunga e faticosa camminata attraverso quella parte dei suoi possedimenti che includeva i colli circostanti. Il paesaggio aveva in sé qualcosa che faceva pensare a tempi molto antichi. Gli alberi del bosco avevano tronchi enormi, dovevano essere vecchissimi; ancor più vecchi, i fittoni affioranti sul terreno della piccola radura. Ciononostante il suolo era incredibilmente grasso; probabilmente non era mai stato sfruttato da una qualsiasi coltura. Tutto il terrapieno su cui sorgeva l'ara, dava l'impressione di essere particolarmente fertile, sebbene al momento fosse coperto da un lussureggiante tappeto di funghi mangerecci e velenosi. Un'incuria che rasentava l'incoscienza, ecco cos'era: Sir Charles ne fu profondamente irritato. Avrebbe fatto abbattere gli alberi e togliere di mezzo quell'altare pagano al più presto. Si arrampicò sul terrapieno in pendio ed esaminò da vicino la pietra che vi si ergeva sopra. Era un grosso macigno squadrato, levigato e bianchissimo; la parte superiore sembrava il ripiano di un tavolo. Su questa superficie piana spiccavano alcune macchie rugginose: i danni prodotti dal tempo, probabilmente, visto che anche la pietra, come gli alberi intorno, era molto antica. Perché si fosse formata quella convinzione, Hovoc non avrebbe saputo spiegarlo: forse dipendeva semplicemente dal fatto che tutto, lì, sembrava trasudare la quintessenza della vetustà. L'ara era un masso pesantissimo, la cui base affondava profondamente nelle zolle erbose; malgrado questo, Sir Charles ritenne che esso era stato trasportato in cima alla collina. Troppo pesante, troppo voluminoso, per trovarsi in quel posto per caso: gli altri frantumi di roccia sparsi intorno, residui dell'era glaciale, erano molto più piccoli e di natura calcarea. Quello, invece, era un tipo di marmo estratto da una cava, rozzamente squadrato e trasportato lì chissà in quale età remota. Sir Charles tornò a chiedersi perché era sicuro che l'altare fosse antichissimo; ci pensò sopra senza arrivare a una conclusione, senza scoprire una ragione che giustificasse il suo convincimento. Sulle superfici candide il muschio non allignava e nemmeno vi era traccia di una qualsiasi iscrizione. Si mise persino in ginocchio, per scrutare il masso più da vicino, ma invano. Nel frattempo il sole calava oltre la collina, lasciando immersa tutta la zona in una penombra sinistra e cupa.
Una foschia violetta incupì il crepuscolo, le ombre degli alberi stormenti si allungarono lentamente sul terreno. L'altare, da bianco che era, sembrò per un istante farsi incandescente tra il fiammeggiare di un tramonto apocalittico, poi, mentre scendeva l'oscurità, assunse il tetro colore del sangue coagulato. La bruma violetta oscurava la vista di Sir Charles. Abbandonando la ricerca di un'iscrizione, si rialzò in piedi. Imperturbabile, fissò per un attimo il tramonto, poi si mosse per scendere il declivio e prendere la via di casa. Prima, però, si voltò per un'ultima occhiata all'altare, mentre una brezza sottile alitava tra il fogliame degli alberi, con un mormorio misterioso. Ben presto il mormorio calò di tono, trasformandosi in un sussurrio strascicato e lamentoso come una nenia, un canto funebre per il giorno che stava morendo. Suo malgrado, Sir Charles ne rimase turbato. Il suono sembrava una voce clamante in una landa frequentata dagli spettri. Col sopraggiungere dell'oscurità, il paesaggio assunse un aspetto inusitato. I boschetti, masse confuse tra le tenebre crescenti, sembravano respingere con ostilità Sir Charles, come se ogni cosa, là intorno, indovinasse i suoi piani e lo odiasse per ciò che egli aveva in animo di fare. Gli alberi che egli in cuor suo aveva già condannati sospiravano e tendevano al cielo i rami vizzi come a invocare vendetta contro il loro nemico. I massi rocciosi si intravedevano appena nell'oscurità notturna e gli ostacolavano il passo; i campi, disseminati di fratte e cespugli, sembravano volerlo attirare in un labirinto magico dal quale non sarebbe mai più potuto uscire. Il vento stesso sembrava minacciarlo con il suo lugubre sibilo. «Ma che razza di fantasticherie deprimenti!» pensò il baronetto. Per un istante, i suoi occhi si volsero di nuovo verso l'altare dei sacrifici: era là, acquattato nel buio: sembrava rimuginare qualcosa, quasi fosse qualcosa di vivo, di cosciente. Sir Charles scrollò le spalle, scese la collina e proseguì il suo cammino a passi misurati. Una volta ancora gettò uno sguardo a tergo: un ultimo, sottilissimo raggio di luce crepuscolare batteva trasversalmente sulla cima della collina. Cadeva esattamente al centro dell'ara e gli occhi attoniti di Sir Charles credettero vedere una pozza di sangue. Il baronetto si girò più che in fretta e tornò a casa a passo svelto, senza mai più voltarsi indietro: stava cominciando a innervosirsi. L'indomani, la luce del giorno gli restituì l'abituale sicumera.
Con grande sorpresa dei nativi, passò la mattinata nel villaggio. Fece una capatina nell'osteria e si offrì un boccale di birra scura, appoggiato con disinvoltura alla sbarra del bancone, ignorando di proposito gli sguardi ostili dei clienti abituali. Dopo alcuni minuti di silenzio significativo, durante i quali l'oste lo esaminò da capo a piedi con sfacciata impassibilità, tanto da metterlo a disagio, improvvisamente Sir Charles rivolse la parola a quell'importante personaggio locale, chiedendogli dove avrebbe potuto trovare, nel villaggio, alcuni lavoratori disposti ad aiutarlo a dare una sistemazione alle sue terre. Stupito, l'oste fece la faccia di chi ponza su un grave problema, poi, dopo un po', gli domandò che genere di lavoro stesse progettando. Hovoc gli spiegò che intendeva disboscare il terreno per renderlo idoneo alla coltivazione. Gli servivano degli uomini per abbattere gli alberi inutili e togliere di mezzo tutto quel pietrame che ingombrava i campi. Dopo di che occorreva distruggere le tane dei conigli selvatici e uccidere gli uccelli dannosi. E poi c'era quel coso bizzarro, quel vecchio altare sull'altura vicino alla brughiera: quello bisognava portarlo via di là immediatamente. L'oste lo fissò per un buon minuto in silenzio, come fulminato da un colpo apoplettico. Finalmente, e senza perifrasi, informò il baronetto che nessun abitante del villaggio si sarebbe mai sognato di accettare un lavoro del genere. Quelli del posto non si sarebbero certo prestati a dar man forte a chi prospettava la distruzione del paesaggio, immutato da tempo immemorabile e mai e poi mai si sarebbero avvicinati all'ara, per nessun motivo al mondo. Essendo forestiero, Sir Charles probabilmente non era al corrente, ma generalmente in paese si riteneva consigliabile stare alla larga da quell'altare pagano. Godeva cattiva fama, da quelle parti: era considerato un oggetto maledetto, che esercitava un'influenza malefica. Da quanto tempo fosse là, in quel bosco, non si sapeva, come non si sapeva quanti fossero coloro che l'avevano irrorato del proprio sangue, nei tempi remoti in cui dalla collina arrivava l'eco del rullare dei tamburi. I vecchi dicevano che là i pagani avevano celebrato con danze i loro riti, riti che si sussurrava venissero ancora celebrati all'inizio della primavera e in alcune notti di autunno. Innumerevoli torelli erano stati trascinati su per quella scarpata e sacrificati alle divinità e c'era gente che sosteneva che i sacrifici continuavano ancora. Erano parecchi i contadini che in certe notti speciali non erano reperibili
a casa loro e che l'indomani non avevano una scusa plausibile da offrire per la loro assenza alla curiosità degli altri paesani, quelli che avevano il buon senso di rintanarsi in casa quando sulla cima del colle fiammeggiavano i fuochi sacri. No, no, meglio girare al largo da quell'ara votiva. Volendo, gli anziani ne avrebbero avute di storie da raccontare nelle serate d'inverno, a proposito di persone morte o scomparse senza che si sapesse mai bene come e perché. I nonni, però, non si sbottonavano volentieri, specie davanti agli estranei. Comunque, persino il reverendo Dobson, il pastore, era bene informato sulle leggende che si vociferavano intorno alla collina. Quello che il pastore non sapeva era che alcuni dei suoi parrocchiani più devoti partecipavano ai conclavi ai piedi dell'ara, nelle notti speciali, e portavano addosso strani amuleti, che nelle loro famiglie si tramandavano di padre in figlio fin dai tempi in cui le tribù pagane governavano quelle contrade. Di conseguenza, l'oste era del parere che Sir Charles avrebbe fatto bene a non immischiarsi in quelle faccende, evitando con cura persino di menzionare la collina e l'ara votiva. E non tentasse di distruggerla, nel modo più assoluto: sarebbe stata una follia. Se lo avesse fatto, non ne avrebbe ricavato che guai. Quando l'oste ebbe finito di impartirgli i suoi consigli, Sir Charles lasciò la taverna senza dire una parola. Si era intestardito nel suo proposito e non si sarebbe lasciato ostacolare dalle chiacchiere di quei bifolchi ignoranti; tutto quel gran parlare di stupide superstizioni gli aveva dato la nausea. Inoltre il loro atteggiamento di aperta ostilità feriva il suo orgoglio di uomo cresciuto nella metropoli. Gliel'avrebbe fatta vedere lui! A passo di carica raggiunse l'ufficio postale e fece una telefonata a Birmingham: ingaggiò due manovali, spiegando che voleva dare una ripulita ai suoi possedimenti. Insistette affinché partissero al più presto. Una volta presi gli accordi si sentì meglio. Con tutta calma tornò in strada. L'indomani mattina i due operai sarebbero arrivati e allora sì che quegli zoticoni di contadini avrebbero avuto di che sfogarsi a criticare. Malgrado tutto, le sue piccole debolezze umane le aveva anche il baronetto: si sentiva pungere da un'acuta curiosità, voleva conoscere i particolari delle bizzarre leggende di cui l'ara era il fulcro, perciò prese la strada che portava al presbiterio, la modesta casetta dove abitava il pastore, il già menzionato reverendo Dobson.
Il pastore lo ricevette nel suo studio; Sir Charles si presentò. Il reverendo era un uomo alto e filiforme, con una faccia dai lineamenti angolosi, affilati, curiosamente controbilanciati dagli occhi, acuti e sensibili. A prima vista quel volto faceva pensare a un abile uomo d'affari, ma era sufficiente una sua occhiata per rivelare il sognatore, il santo. Inoltre il reverendo diede prova di essere anche un gentiluomo di squisite maniere: intrattenne il suo visitatore con una conversazione talmente piacevole che Sir Charles fu lì lì per dimenticare lo scopo della sua visita. Quando cercò di tirare in ballo l'argomento era ormai ora di cena e molto cortesemente il suo ospite fece pressione per farlo rimanere. Hovoc accettò ed entrambi passarono in sala da pranzo, conversando amichevolmente mentre la governante serviva un desinare all'altezza del rango del nobile invitato. Dopo cena tornarono nello studio e si concessero lo stravizio di un bicchierino di sherry. La cortesia con la quale era stato ricevuto fu un balsamo per le ferite d'amor proprio del baronetto; di conseguenza egli fu pieno di tatto, nel portare sul tappeto il tema che lo interessava, quello dell'ara votiva. Alla fine azzardò qualche domanda, ma fece in modo che la sua curiosità sembrasse dettata unicamente dall'interesse che destava in lui tutto ciò che era attinente alla sua proprietà. Il pastore si mostrò dispostissimo a soddisfare quella curiosità. Aveva dedicato parecchio tempo allo studio degli usi e costumi locali. Coordinando ciò che aveva appreso dai libri con quanto si raccontava in giro, con le leggende in circolazione, e facendo alcune ricerche archeologiche, era riuscito a mettere insieme buona parte della storia dell'ara votiva. Felicissimo di darne un resoconto al suo ospite. L'altare, egli disse al baronetto, era un'antichissima ara dei sacrifici. Una data esatta non era stato possibile scoprirla, comunque, per determinare l'epoca in cui era stata eretta, si poteva probabilmente tenere presente la cronologia delle leggende connesse alla pietra sacrificale, senza tema di sbagliare di molto. Le prime notizie risalivano all'epoca preceltica. Quando le correnti migratorie convergenti in quella località vi si erano installate e avevano fondato un villaggio, l'ara era già al suo posto. I racconti erano passati di bocca in bocca, di generazione in generazione, direttamente dai tempi remoti agli attuali, in un flusso ininterrotto. I primissimi miti narravano che l'altare era il punto di ritrovo di una razza bar-
bara estremamente repulsiva, quasi dei pigmei, dalla pelle scura, selvaggi, i cui rachitici preti sacrificavano alla luna. Avevano un cerimoniale molto complicato e quando nel corso della loro guerra con i Celti, che avevano invaso il paese, riuscivano a fare dei prigionieri, li usavano spietatamente per i loro riti cruenti. Seguendo il filo conduttore delle narrazioni trasmesse attraverso i secoli si scopriva che un bel giorno le primitive tribù di pelle scura, decimate, erano in via di estinzione. Dapprima i superstiti si erano ritirati sulle colline, ma alla fine, rinunciando del tutto alle loro rivendicazioni, erano scomparsi. Seguì un lungo periodo in cui l'ara rimase completamente abbandonata, poi si ebbe una curiosa ripresa. Sorsero i Druidi. Vati barbuti e bardi inghirlandati cantarono le loro litanie alle divinità della foresta. Vicino all'ara si ersero querce e abeti, e una grotta artificiale a forma di mezzaluna fu costruita nel centro della radura. Là dimoravano i Vecchi Saggi, che conoscevano i segreti delle colline e facevano scaturire dalla terra voci misteriose battendo su grandi tamburi o sparpagliando incenso aromatico sui fuochi notturni. Accompagnati dal suono acuto dei liuti, essi facevano atto di adorazione alla Fiamma Infernale e con l'abete invocavano le Amadriadi, le ninfe dei boschi. La loro volontà era legge e tutta la gente della regione si inchinava e obbediva. I loro riti magici propiziavano la fertilità della terra e la forza del loro popolo. I sacrifici cruenti si susseguivano in numero sempre crescente e nelle campagne risuonava il belato dei fauni e l'acuto nitrito dei centauri. Sangue, sangue, sangue... Sempre più offerte, sempre più sacrifici. Gocce scarlatte che stillavano dalle lame dei coltelli, macchiavano le vesti sacre e le barbe degli anziani, o colavano fino alla base dell'ara facendo rosseggiare la terra. Le quadrate legioni romane invasero fulmineamente la regione. Vane furono le invocazioni agli dèi: essi non riuscirono a fermare i legionari. Una guarnigione venne posta di stanza nei paraggi e i Druidi si nascosero nelle loro tane nella brughiera. I Romani imposero le loro usanze e il popolo che essi avevano soggioga-
to poco alla volta abbandonò i costumi di un tempo. Ben presto gli invasori e i nativi, gradatamente, fraternizzarono. Intorno all'oppido romano sorse una città. Freschi arrivi di truppe dalle province romane d'Oltremare portarono ai soldati e alla popolazione nuove divinità da adorare: Cibele, Astarte, Afrodite e la Magna Mater, la Grande Madre. I rituali del culto furono spiegati e insegnati. Alcuni di questi rituali erano assolutamente spaventosi, perciò bisognava sottrarli agli occhi troppo curiosi dei comandanti, ed ecco perché l'ara divenne nuovamente un punto d'incontro clandestino. Là si celebravano i riti dell'antropomorfismo, dell'idromenzia e del culto degli animali: altro sangue contaminò la brezza notturna proveniente dalla collina. Al suono dei cimbali, in una specie di trance provocata dalle note acute delle trombe sacre, gli idolatri danzavano nudi in onore delle perverse divinità importate dall'Oriente. Sull'ara erano stati collocati simboli osceni e al sacrificio che dava inizio alle cerimonie seguivano orge indescrivibili. Per un certo tempo il nuovo culto prosperò, e gli adepti si abbandonarono a lascivie sempre più ributtanti. Una notte, però, il tuono rumoreggiò sulle cime delle colline, d'improvviso il chiarore lunare cedette il posto alla più profonda oscurità, e nell'aria echeggiarono grida belluine. Poi, mentre gli idolatri abbandonavano terrorizzati la vetta della collina maledetta, da lontano giunse una Voce tonante che levò alta nel cielo un'invocazione tremenda: i sacerdoti del culto abbietto lanciarono un grido e s'abbatterono morti. Il resto della congrega, uomini e donne della città, soldati della guarnigione, senza distinzione in preda al terrore, fuggì, cercando rifugio nella foresta. Ma là li attendeva al varco un orrore ancora più grande: non appena si spense l'eco della Voce tonante, gli alberi della foresta a un tratto divennero vivi. Calarono sui fuggitivi i loro rami diventati simili a giganteschi tentacoli, afferrarono quegli esseri perversi fuori di senno dalla paura, li alzarono verso il cielo notturno e poi li lasciarono cadere a terra dall'alto. Intanto s'era levato un vento tempestoso. Col suo ululare soffocò le grida e i gemiti e perciò fu soltanto quando i pochissimi scampati per miracolo, quasi impazziti, si precipitarono in città, che gli abitanti seppero della catastrofe. Nel frattempo la burrasca aveva raggiunto una furia tale da rendere impossibile alle truppe di raggiungere la collina. Del resto, i racconti dei superstiti idolatri non incoraggiavano di sicuro i soldati a cimentarsi in
un'impresa che si presentava tanto rischiosa. Il giorno seguente, non appena spuntò l'alba, una pattuglia fu mandata in perlustrazione: non trovò assolutamente nulla, nemmeno i cadaveri. Gli alberi erano al loro posto di sempre e sul terreno non vi era traccia di violenti sconvolgimenti. L'altare era là, terso e immoto. In giro non si vedevano resti che facessero pensare ai sacrifici. Torce, gong, simulacri erano scomparsi. Il sole splendeva su una scena pastorale addirittura idilliaca. Finalmente uno dei soldati intenti alle ricerche notò, del tutto per caso, qualcosa sull'ara: esattamente al centro del ripiano un unico ramoscello di abete. Dopo questi avvenimenti, registrati dalle cronache degli scribi locali, non mai comunicati alle alte gerarchie di Roma per ovvie ragioni di convenienza politica, per parecchio tempo intorno all'ara non accaddero altri fatti strani. Le persone mancanti non fecero ritorno e i pochi sopravvissuti che non erano impazziti pensavano che fosse meglio così. Sebbene tutto quello scompiglio potesse essere stato frutto di una contagiosa allucinazione collettiva, nessuno poteva negare che gli avvenimenti soprannaturali, seppur controversi, avevano avuto delle conseguenze tangibili orrende. Meglio, dunque, stare alla larga da quell'altare pagano e non porre neanche piede sul terreno circostante. A partire da allora, la gente nutrì un sacrosanto rispetto per i Druidi, misto a non poca paura. Troppe erano le cose connesse con le misteriose attività in atto nella brughiera che non si potevano spiegare in maniera soddisfacente. Molte caverne oscure, molte forre nascoste non vennero mai esplorate, e a ragione. Qualche vecchione con la lunga barba e la veste bianca di tanto in tanto faceva la sua comparsa nei villaggi più fuori mano, ma i soldati stranieri si guardavano bene dal molestare quegli sconosciuti, dall'ostacolare i loro andirivieni. Gli spavaldi conquistatori si erano fatti furbi, avevano imparato a loro spese che era meglio non schernire gli aspetti misteriosi dei costumi di un paese che loro non capivano. Quando ricevevano dei rapporti che parlavano di rullare di tamburi e di suoni di pifferi provenienti dalle impenetrabili foreste intorno alla brughiera, facevano orecchie da mercante. Non ci tenevano a udire quella famosa Voce misteriosa, né a vedere la natura circostante trasformarsi in una trappola mortale.
All'improvviso come erano venute, finalmente le legioni levarono le tende e marciarono via. Dopo la loro partenza, le cose tornarono ancora una volta alla normalità. La città rimase. Quando i vecchi barbuti rispuntarono fuori dai loro nascondigli, gli antichi costumi ripresero il sopravvento. Ricominciarono i riti e coloro che avevano assorbito l'influenza dei Romani al punto di sollevare obiezioni al ripristino del druidismo vennero misteriosamente catturati e bruciati vivi sulle colline, chiusi in gabbie di vimini. Dopo di che i taciturni Druidi regnarono indisturbati e le loro divinità ebbero di che nutrirsi in abbondanza: gli olocausti certamente non scarseggiarono. Poco alla volta, però, i riti declinarono. Tribù di barbari riottosi devastarono le campagne: erano gli AngloSassoni, che contro i Druidi si mostrarono implacabili. Avevano le loro divinità anch'essi, e potenti, per di più. L'inesplicabile catastrofe che aveva falciato gli idolatri romani non si ripeté. Che cosa accadde quando i nuovi venuti vennero a conflitto con i cultori del druidismo non è mai stato raccontato. Su questo punto anche i manoscritti in possesso del reverendo Dobson erano curiosamente evasivi. Tutto ciò che egli ne aveva cavato era che i Druidi erano improvvisamente scomparsi. Sebbene i feroci invasori avessero frugato a fondo senza paura e senza esitazioni ogni cantuccio di quella terra ostile, non li avevano trovati. Una notte, davanti all'ara, sulla collina, era stata celebrata un'ultima cerimonia di addio: l'indomani i Druidi erano spariti. Invano gli Anglo-Sassoni passarono al pettine fitto la brughiera. Abbatterono le querce e gli abeti, distrussero la caverna a forma di mezzaluna e considerarono chiusa la faccenda. Evidentemente, l'ara non erano riusciti a rimuoverla, a dispetto di vari tentativi; altro punto, questo, nebuloso in maniera stupefacente nelle cronache del tempo. Passarono i secoli, durante i quali, a poco a poco, il Cristianesimo prese piede. Anche su quella contrada il progresso gettò la sua influenza civilizzatrice. Nella zona fu costruita un'abbazia. Furono i pazienti monaci a mettere per iscritto la storia della regione e non mancarono di redigere anche la cronistoria dell'era pagana. Però, dall'altare maledetto si tenevano lontani, a quanto risultava, anche se a tenerli lontani era soltanto una leggenda: niente più celebrazioni di riti arcaici, niente più manifestazioni esoteriche
che giustificassero la loro riluttanza. Ciò nonostante, non un accenno, nelle cronache, che qualcosa fosse stato tentato per rimuovere la pietra contaminata dal sangue. Qualche tempo dopo, nuove pratiche sacrileghe sorsero e prosperarono. Alcuni crociati, di ritorno dalle cittadelle di Malta, di Rodi e di Cipro, si insediarono nell'abbazia, portando con loro il credo dei rinnegati: il Satanismo. In giro si cominciò a parlare di disgustose messe nere. Gli abitanti della zona erano ormai buoni e devoti cristiani, e il comportamento dei vescovi guerrieri che, da dentro le mura dell'abbazia e del monastero, governavano quelle terre, offendeva i loro sentimenti religiosi, semplici ma improntati a sincera riverenza. Una volta ancora si udì parlare di Pan, di satiri e di oreadi, che si aggiravano tra i tenebrosi macchioni e che scorrazzavano ridendo nella landa solitaria, al crepuscolo. Una volta ancora ci fu del sangue, sull'ara. Nelle notti dedicate al culto una volta ancora strane processioni di devoti si recarono in pellegrinaggio sulla collina. I Druidi, però, non erano caduti nell'oblio. Non c'erano più le querce, l'ara druidica serviva da altare per altre divinità, ma i nativi ricordavano le vecchie leggende e temevano il rinnovarsi degli antichi orrori ancor più di quanto temessero i nuovi. Passarono anche questi ultimi. I favoriti di Enrico VIII calarono come falchi sui vescovi ladroni e una notte l'abbazia, fiammeggiante olocausto, fu ridotta a un mucchio di ceneri. L'indomani i soldati se ne andarono, lasciandosi dietro soltanto i morti. Non dissero parola di ciò che avevano visto tra le mura dell'abbazia e non si avvicinarono all'ara, ma nelle cronache sta scritto che nella luce di prima mattina le loro facce erano di un pallore cadaverico. La notte seguente i contadini udirono giungere dalla collina la debole eco di un lontano tambureggiare e una sottile fiammella brillò per un istante sulla vetta. Nient'altro, ma bastò. I Druidi regnavano ancora su quelle terre. Uomini di tutte le razze erano venuti ed erano ripartiti, la sovranità del paese era passata per varie mani, ma il vecchio paganesimo ancestrale non era stato vinto: ancora permaneva nei suoi nascondigli segreti. Il barone Nedwick si era guadagnato gli speroni e la terra sotto il regno della buona regina Bess.
A Nedwick sorse un maniero e i cavalieri galopparono attraverso i campi verdeggianti, inseguendo la volpe. La stirpe dei Nedwick prosperò, e si accattivò la stima degli abitanti del villaggio e dei contadini dei dintorni. In parte, la popolarità era dovuta al fatto che i feudatari non facevano domande sull'ara e al fatto che nel cacciare attraverso la brughiera non si spingevano troppo lontano. In quel tempo l'altare pagano veniva usato di nuovo, ma questa volta dagli stessi contadini. Alcune vecchie avevano la reputazione di possedere il dono di leggere nel futuro e quello più pericoloso di dare il malocchio. Spesso esse si ritiravano in rozze capanne nella brughiera e consultavano i loro spiritelli domestici davanti all'ara. A volte si rendeva necessaria un'offerta di sangue e coloro che avevano bisogno dell'aiuto delle fattucchiere non si rifiutavano di donare una giovenca o una capra. Ormai la mala fama di quel posto si era sparsa in tutta la regione e soltanto chi praticava la magìa o la stregoneria osava avvicinarvisi. Certe notti l'ara veniva usata dalle fattucchiere, ma certe altre, quando sembrava che non ci fosse nessuno nei pressi, da lontano si sentiva l'eco di uno strano tambureggiare. E allora anche le vecchie streghe avevano paura, perché conoscevano e tenevano in alta considerazione le antiche leggende. Restava ben poco da aggiungere. Le fattucchiere passarono di moda e ancora una volta l'ara fu abbandonata. Di tanto in tanto ricominciavano a circolare le voci di riti pagani, quando sulla superficie dell'ara veniva notata qualche macchia fresca o quando, durante la notte, dalla collina sembrava arrivasse l'eco di tamburi. Ma a dire della maggior parte della gente, ormai il recarsi sul posto non comportava più rischi. Succedeva, sì, che al cambiar di stagione qualche animale venisse sacrificato alla chetichella sull'ara, ma gli elementi meno sprovveduti della popolazione locale disapprovavano tali pratiche. In fondo in fondo però, gli abitanti del villaggio avevano ancora i loro bravi sospetti: infatti, il giorno in cui morì l'ultimo dei Nedwick, sulla collina ebbe luogo una riunione segreta. Il reverendo Dobson concluse il suo racconto mettendo a disposizione di Sir Charles i volumi che possedeva e che parlavano della storia della regione; molti contenevano riferimenti all'argomento in questione. Poi aggiunse un piccolo consiglio. Egli era un uomo di Chiesa, disse, ma persino
la Bibbia ammette l'esistenza dello Spirito del Male. L'ara e il bosco che la circondava avevano in sé qualcosa che non andava, qualcosa di ripugnante, ecco. Lassù, troppo sangue era stato sparso, troppe preghiere sacrileghe erano state recitate. Nella storia dell'ara, tornava sempre a galla la celebrazione di riti druidici, e i vati erano creature malvage. Avendo studiato da vicino la leggenda di Stonehenge e altre manifestazioni dei poteri dei Druidi, il reverendo Dobson era portato a ritenere che il loro dominio non fosse del tutto cessato. In qualche posto, chissà dove, qualcosa sopravviveva. Sotto la luna crescente, i riti di adorazione continuavano. Per questo motivo, pur non essendo un individuo particolarmente superstizioso, il sacerdote fece del suo meglio per mettere in guardia Sir Charles, dicendogli che avrebbe fatto bene a tenersi lontano il più possibile da quella zona della sua proprietà dove sorgeva la pietra. Hovoc lo ringraziò per la narrazione e portò il discorso su altri argomenti. Un'ora dopo prese congedo, augurando al reverendo Dobson la buona notte. Mentre tornava a casa camminando di buon passo lungo la strada buia, il suo volto si trasformò in una maschera di sprezzante risolutezza. Quante storie, per delle fole sui Druidi! Il sacerdote era molto ospitale, d'accordo, ma era anche uno sciocco credulone. Quell'ara bisognava toglierla di mezzo, assolutamente. L'indomani mattina arrivarono gli operai di Birmingham, Joseph Gauer e Sam Williams: due pezzi d'uomo con i piedi ben saldi sulla terra e una viscerale antipatia per i fessacchiotti rurali e le usanze contadine. A ogni buon conto Sir Charles ritenne più saggio non metterli al corrente che specie di pietra fosse, quella che ordinò di distruggere, e di accompagnarli personalmente sul posto, per sovrintendere alla rimozione. Tirati fuori gli arnesi da lavoro dal portabagagli dello scassato macinino con cui erano arrivati, i due si avviarono a passo svelto attraverso i campi, insieme al baronetto. Era una giornata splendida. Quando arrivarono nel bosco, videro l'ara, nettamente delineata contro lo sfondo azzurro del cielo. Non aveva minimamente un aspetto sinistro o comunque tenebroso, cosa di cui in cuor suo Sir Charles fu molto soddisfatto. I manovali si misero al lavoro di buona lena. L'impresa era difficile. Cominciarono con lo scavare intorno alla base, spalando via la terra dura, consistente, finché la pietra non fu circondata da una stretta trincea. Poi diedero mano ai picconi e infine di nuovo ai badili.
Sir Charles rimase stupito, constatando come la pietra affondasse in profondità. Sprofondava nel terreno per un metro e più. Come Dio volle, finalmente ebbero finito. Facendo leva con i picconi, smossero il grosso masso di pietra e con uno sforzo titanico lo rovesciarono su un lato. E fu allora che Sir Charles ricevette un tremendo shock. Non c'era terra, sotto! In quel punto del terrapieno su cui l'ara era stata poggiata si apriva un buco enorme dal quale usciva un lezzo insopportabile, come di cose putrefatte. L'apertura era circolare; sbirciando nella cavità, non se ne vedeva il fondo. Un sasso buttato nell'orifizio rimbalzò senza far rumore da un punto all'altro della parete di terra, ma non si udì nessun suono che desse un'idea approssimativa della profondità della buca. Sir Charles fece appello a tutto il suo coraggio per non dare a vedere di essere rimasto sconvolto; disse agli uomini che per quel giorno avevano finito e potevano ritirarsi. Quelli, naturalmente, gli chiesero cosa pensasse del buco, ed egli rispose che a parer suo doveva trattarsi di un vecchio pozzo ormai secco e che forse per questo l'imbocco era stato ostruito. Poi li spedì via alla svelta; non aveva voglia di rispondere ad altre domande, come per esempio perché mai dalla fossa continuasse a uscire quell'odore nauseabondo. Gli operai si avviarono per scendere a valle e Sir Charles li seguì a una certa distanza. Per la prima volta cominciava a sentirsi realmente spaventato; dovette fare uno sforzo per dominare l'impulso repentino di richiamare gli uomini e ordinare loro di rimettere la pietra al suo posto primitivo. Con rabbia respinse quello stimolo istintivo: l'avrebbero preso per pazzo. Non osava ammettere di aver paura, nemmeno con se stesso. Meglio lasciare le cose come stavano. Rimase a guardarli mentre essi si dirigevano verso il villaggio per trovare un alloggio di fortuna, senza riuscire a scacciare un vago senso di preoccupazione che gli tormentava l'anima come un diavoletto maligno. Finalmente si costrinse a tornare a casa; per distrarsi si mise a leggere, ma era ben lontano dal sentirsi a suo agio. Verso la metà del pomeriggio si sentì talmente smanioso che decise di fare una corsa in città, per passarvi la serata. Tirò fuori la macchina e partì in tempo per arrivare a destinazione prima che si spegnesse l'ultima luce del tramonto. Non voleva star solo, una volta calata l'oscurità. Passò la serata in un cabaret e la notte in un albergo, destreggiandosi in modo da aver
sempre qualcuno in sua compagnia. Doveva essere all'incirca mezzogiorno, quando fece ritorno al villaggio; aveva recuperato del tutto l'abituale sangue freddo, si sentiva tranquillo. Ma non per molto: in paese lo attendevano notizie orripilanti. Gauer e Williams erano scomparsi. No, non se ne erano andati, erano spariti per sempre, definitivamente. La storia era semplicissima; l'oste gliela raccontò con una sfumatura di giusto risentimento, non disgiunto da una certa compassione. Nel pomeriggio del giorno prima, i due erano entrati nell'osteria e avevano chiesto alloggio per alcuni giorni; il proprietario, ignorando naturalmente il motivo del loro soggiorno nel villaggio, li aveva sistemati nelle camere al primo piano. Se avesse avuto la più lontana idea del lavoro che erano stati incaricati di eseguire li avrebbe messi alla porta sui due piedi. Dopo essersi rinfrescati, gli operai erano scesi dabbasso, nella taverna, per cenare. Dapprincipio si erano tenuti in disparte dai clienti abituali dell'osteria, ma dopo aver mangiato si erano scolati alcuni boccali di birra e vari bicchierini di gin con amaro. L'alcool li aveva resi euforici, inducendoli a non trincerarsi oltre dietro una barriera di riserbo e a considerare con maggiore indulgenza il gruppetto di paesani che verso le otto di sera si erano riuniti nell'osteria per scambiar parola. Ben presto, dopo essersi presentati, i forestieri avevano preso parte alla conversazione generale. Una cosa tira l'altra e così verso le dieci la rumorosa brigata era piuttosto avanti sulla strada di prendersi una bella sbronza collettiva. I due cittadini avevano offerto parecchi giri di consumazioni e gli altri, per non essere da meno, avevano ricambiato la gentilezza. In parole povere, una piacevole riunione di gente infervorata a discutere un po' di tutto, di politica, di sociologia, di economia. L'oste ammise che a quell'altezza anche lui aveva in corpo parecchi beveraggi piuttosto gagliardi e di non essere quindi in grado di dare un resoconto esatto di quanto era successo immediatamente prima che scoppiasse la lite. In ogni modo, uno dei forestieri, parlando del più e del meno, aveva evidentemente commesso la sciocchezza di lasciarsi sfuggire che loro due erano stati ingaggiati da Sir Charles Hovoc per i lavori preliminari necessari alla bonifica delle sue terre. Naturalmente, ignorando del tutto la generale presa di posizione contro la faccenda, essi erano rimasti molto, ma molto stupiti dal modo in cui la dichiarazione era stata accolta. Tra coloro che li ascoltavano, alcuni si erano trovati nell'osteria il pomeriggio pre-
cedente, quando Sir Charles vi si era recato: proprio questi per primi avevano inveito contro i due operai per il ruolo da essi assunto nel progetto scandaloso. Giunte le cose a quel punto, Gauer aveva commesso un'altra gaffe. Stizzosamente, aveva ritorto che, tanto per cominciare, non vedeva il motivo di tutte quelle storie. Perbacco, quel giorno, per esempio, che avevano fatto di straordinario? Avevano soltanto cavato fuori dal terreno una vecchia pietra, sulla cima di una collina, scoperchiando così una specie di pozzo fuori uso! Subito dopo questa rivelazione tremenda, i due erano stati investiti da una valanga di invettive indignate. Da cose del genere non potevano nascere che guai: non era permesso disturbare i Vecchi Saggi, violare le loro dimore. Agire in quel modo, voleva dire tirarsi addosso la peggiore iattura! Ovviamente, la notizia che sotto l'ara c'era un pozzo aveva provocato un sacco di congetture eccitate. Dio solo sapeva quanto era vecchia la pietra, e soltanto il diavolo avrebbe potuto dire chi aveva scavato il passaggio sotterraneo che essa nascondeva. Un vecchio catarroso aveva mormorato alcune allusioni alle chiacchiere che circolavano nei vecchi tempi intorno al culto dei Druidi. Suo nonno gli aveva una volta raccontato che i Druidi celebravano i loro riti davanti all'ara considerandola come un limite, e a che altro poteva riferirsi questo limite se non al passaggio, all'apertura sottostante? Anche la storia della Voce tonante era stata rievocata. Non era forse stato detto che la Voce tonante usciva dalla terra? E quando i Bardi celti erano scomparsi, dove erano andati a finire? L'antico culto non era estinto. I forestieri avevano commesso un sacrilegio fatale, che avrebbe provocato chissà quante disgrazie. A questa affermazione e ad altre similari gli operai avevano reagito con parole di scherno e di disprezzo. Figurarsi se si sarebbero lasciati spaventare da storie del genere, che parevano quelle del babau dei bambini! Loro non erano mica dei campagnoli ingenui, superstiziosi e sempliciotti, venivano dalla città, loro, dove giustamente non si dava alcun peso a fole così stupide! Non soltanto i due si erano rifiutati di credere una sola parola, ma avevano anche dichiarato spavaldamente in quale opinione poco lusinghiera essi tenessero i bifolchi che raccontavano fandonie tanto evidenti. I Druidi, o comunque si chiamassero, erano personaggi delle favole, nient'altro. Sì, magari era capitato, che qualche contadino ignorante avesse sacrificato degli animali sull'ara; e con questo? Tutte superstizioni! Loro non avevano certo paura.
La lite degli ubriaconi si era invelenita, era andata avanti fino alla sua tragica conclusione. Uno degli agricoltori, un tale Leftwich, di età avanzata, ma indietro di comprendonio, aveva messo in dubbio le millanterie dei due forestieri, dichiarandosi pronto a scommettere una sterlina che essi non avrebbero avuto il coraggio di recarsi quella notte stessa sulla collina dove si ergeva l'ara. La sfida era stata immediatamente accettata, malgrado lui, l'oste, si fosse fatto in quattro per impedirlo. I pericoli dell'impresa erano stati messi in ridicolo dai due increduli esaltati dall'alcool, i quali, dopo un'ultima bicchierata, si erano messi in cammino insieme con lo sfidante, che però aveva deciso di fermarsi nel pascolo più vicino alla vetta della collina. Infatti, a un certo momento essi avevano continuato il cammino da soli, traversando il campo passo passo, con in mano una lanterna che si erano fatta prestare, barcollando e cantando a squarciagola una canzone malandrina. Il contadino era rimasto a guardarli per un po'. Di repente, mentre la luna si nascondeva dietro una nuvola, si era levato un vento furioso, che pareva lanciare nell'aria scrosci di risa beffarde. Svaniti i fumi dell'alcool, l'uomo era stato assalito da uno strano terrore; incapace di controllare quell'assurda, tremenda paura, girate le spalle era tornato indietro alla svelta, non senza notare che l'eco lontana della canzone si era spenta e che nel buio della notte nuvolosa le figure dei due non erano più visibili. Ad un tratto, senza quasi sapere perché, si era ritrovato a correre come un matto verso il villaggio per andare a chiamare aiuto. Mentre si affannava lungo la strada, aveva udito un boato, simile al suono ovattato del tuono in lontananza. Poi un grido acuto; poi il silenzio. Raggiunto il villaggio col fiato mozzo per il gran correre, si era precipitato nell'osteria. Dieci minuti dopo un codazzo di uomini dal viso arcigno e preoccupato, torce alla mano, era uscito dal paese, prendendo la strada che conduceva alle colline, alla brughiera. Quando la processione era arrivata nel campo attraversato poco prima dai due forestieri, la luna splendeva di nuovo, illuminando in pieno, con la sua luce argentea, la cima del terrapieno su cui era collocata l'ara, stagliandola contro il cielo. Lassù non c'era anima viva. I due uomini non si vedevano. Allora un gruppetto di audaci decideva di esplorare la vetta, mentre gli altri rastrellavano i campi circonvicini.
Un'ora più tardi i due gruppi erano di nuovo riuniti. Coloro che si erano portati sulla cima della collina annunciavano che i due forestieri non erano lassù, ma c'erano stati. Forse, ciò che era accaduto, lo si poteva dedurre, meglio che da qualsiasi altra cosa, dal fatto che il cappello di uno di loro si trovava a meno di un metro dal buco, da quella specie di pozzo precedentemente nascosto dall'ara. Sul terrapieno l'erba era molto pesta, come se vi avessero camminato sopra pesantemente; sulle zolle erbose del pendio, bagnate di rugiada, erano visibilissime le impronte degli scarponi, che salivano fino in cima, ma non vi era traccia di impronte in senso inverso, discendenti... Poi... Poi punto e basta. Sir Charles aveva ascoltato il resoconto con espressione incredula. «Spaventoso», disse. «Spaventoso, ma perfettamente logico. Quei due imbecilli erano ubriachi: arrivati in cima al terrapieno, probabilmente hanno perso l'equilibrio, precipitando nel pozzo. Ed ecco perché lei e Leftwich sono, si può dire, legalmente responsabili: Leftwich per aver proposto una scommessa tanto stupida, tanto stravagante, lei per non essersi opposto. Questa faccenda deve essere investigata a fondo e denunciata alle autorità competenti al più presto: probabilmente darà luogo a interminabili seccature. Domani chiamerò la polizia e l'avverto che riterrò lei e i suoi amici moralmente responsabili di questo disgraziato episodio. Buon giorno!» Il resto della vicenda mi fu raccontato dal reverendo Dobson: la responsabilità della veridicità dei fatti spetta al sacerdote. Non appena tornato alla sua residenza, Sir Charles si chiuse nel suo studio. Che cosa accadde là dentro tra le due del pomeriggio e le nove di sera non lo sapremo mai. Arrivò finalmente il baronetto a convincersi che le cause della tragedia erano di origine soprannaturale? O forse la sua coscienza lo tormentò al punto da spingerlo a un gesto di espiazione? Nessuno può dirlo. Sia come sia, certo è che egli lasciò casa sua alle nove, in fretta e furia, senza rivolgere la parola ai domestici, senza accennare cosa avesse in animo di fare. Sconvolto e spettinato, prese la strada che conduceva alla di mora del prete quasi di corsa. Ma non entrò nel presbiterio. Qualsivoglia siano state le sue intenzioni nel recarvisi, all'ultimo momento cambiò idea. Fu allora, mentre il baronetto restava esitante davanti all'ingresso, che Dobson, dando un'occhiata fuori dalla finestra, vide il volto angosciato del baronetto. Vide Sir Charles girare sui tacchi, con un brivido che rivelava l'intimo patimento, e riprendere in senso inverso la strada che aveva appe-
na percorsa, a passi sempre più rapidi. Pensando che egli non si sentisse bene, il prete si cacciò il cappello in testa, uscì e si mise a rincorrerlo. Mentre faceva del suo meglio per raggiungere il baronetto che lo precedeva di un bel tratto, Dobson fu costretto a rivedere la sua supposizione: uno che non si sentisse bene non avrebbe mai potuto camminare in quel modo, a passo di carica. Per un istante il pastore pensò di tornare indietro, ma poi il comportamento misterioso del suo ospite gli parve tanto strano da spingerlo a continuare l'inseguimento. All'improvviso Sir Charles abbandonò la strada rotabile per tagliare attraverso i campi che si stendevano oltre il villaggio. Ma non camminava più eretto; sembrava invece muoversi a lunghi balzi. Come se si vergognasse di farsi vedere, ma, malgrado tutto, fosse impaziente di arrivare a destinazione. Era spaventoso vederlo attraversare la campagna balzelloni, come un animale tozzo e deforme. La cosa era talmente strana, che il reverendo ebbe voglia di chiamare Hovoc ad alta voce, ma si trattenne. Per un bel po' l'inseguimento continuò in silenzio. Sir Charles correva e correva, senza mai voltarsi indietro. Teneva lo sguardo fisso sul bosco, sulla collinetta, e il suo corpo si muoveva come spinto da una forza soprannaturale che non gli concedesse scampo. Andava lassù per rendersi conto di persona di cosa ci fosse di vero in quanto gli avevano raccontato? Oppure era costretto ad andarvi? Sembrava nell'impossibilità di fermarsi; senza una lanterna, senza una guida, caracollava a rotta di collo attraverso il campo pietroso limitrofo al bosco. Dobson lo seguì tanto in fretta quanto le sue forze gli permettevano di farlo, ma era ancora varie centinaia di metri indietro, quando la figura del baronetto scomparve di corsa nel folto dell'intricato albereto. Per rincorrerlo, il reverendo mise a dura prova i muscoli dei polpacci, cercando di raggiungere Hovoc prima che questi arrivasse in vetta alla collina; purtroppo era chiaro che la sua meta era quella. Quando Dobson entrò nella piccola gola, la luna scomparve ed egli non fu più in grado di scorgere colui che stava inseguendo. Tese gli orecchi, con la speranza di udire almeno il suono dei passi, visto che non vedeva niente, ma invano. Udì invece un altro suono: un tambureggiare nel sottosuolo. Il terreno sotto i suoi piedi cominciò a trasmettere vibrazioni di suoni in sordina. Il tamburellare ovattato, demoniaco, martellò le orecchie del reverendo. Egli avanzò nell'oscurità, incespicando, mentre quello spaventoso battere di tamburi gli torceva addirittura le viscere. Almeno gli fosse stato possibi-
le raggiungere in tempo quel colle! Sir Charles stava per essere attirato verso il luogo della sua espiazione, così come erano stati adescati ed erano caduti in trappola i due operai spacconi. I Vecchi Saggi esigevano implacabilmente il tributo dovuto! Ansando affannosamente, col fiato corto, il reverendo giunse ai piedi dell'altura su cui giaceva l'ara funesta. I suoi occhi cercarono di trapassare l'oscurità e finalmente scorsero la forma confusa del baronetto: era ormai vicino alla vetta e i tamburi continuavano a rullare nel cuore stesso della collina. Dobson non credette ai suoi occhi, osservando la pazzesca visione di Sir Charles Hovoc che correva a quattro zampe, risalendo carponi il pendio del terrapieno con un'agilità animalesca, evidentissima in ogni movimento del suo corpo. Mentre scalava l'ultimo pezzetto del pendio i tamburi tacquero di colpo. Per un momento regnò il silenzio. Dobson vide che il baronetto, ritto in tutta la sua altezza, guardava come affascinato dentro la buca nera ai suoi piedi. A un tratto dalle labbra fumanti di vapore di Sir Charles proruppe un grido: uno solo, ma agghiacciante. Un secondo dopo i suoi piedi cominciarono a slittare sul terreno verso la grande, avida bocca spalancata del pozzo. Mentre un altro grido gli moriva in gola, la luna fece capolino dietro le nubi e delineò nettamente, contro il cielo burrascoso, per una frazione di secondo, il suo corpo freneticamente teso. Poi egli crollò in avanti e scomparve nel nero orifizio. E in quel preciso momento il reverendo Dobson vide anche qualcos'altro, qualcosa che lo fece barcollare e lo fece correre via, via da quel posto maledetto: vide, nel chiarore lunare, mani adunche che, sporgendosi dal pozzo, afferravano Sir Charles per le caviglie e lo trascinavano nel baratro. E questo è quanto. Dobson giura che è la pura verità e gli abitanti del paese che conoscono i precedenti sono inclini a credergli. Agli estranei è stato detto che le tre morti erano dovute ad incidenti e questa spiegazione, plausibile e riposante, è stata accettata ufficialmente. Attualmente la ex tenuta dei Nedwick è in mano di un altro proprietario, il quale ha il buon senso di non immischiarsi in cose che superano le sue facoltà di comprensione. I nativi si sono chiusi di nuovo in un prudente silenzio e scoraggiano
qualsiasi allusione all'ara, al bosco sulla collina, alle leggende sui Druidi. Sperano che col passar del tempo la faccenda passi nel dimenticatoio, e già cominciano a negare di aver mai prestato credito al vecchio mito. Cosa, questa, che non ha impedito loro di ricollocare con cura l'altare pagano al suo posto, sopra l'imboccatura del pozzo infausto e, di tanto in tanto, di irrorarlo, con altrettanta cura, di abbondante sangue fresco. L'OMBRA DEL CAMPANILE di Robert Bloch William Hurley era nato irlandese ed era cresciuto facendo il conducente di taxi, perciò, alla luce di questi due fattori fondamentali, sarebbe stato eccessivo affermare che era un tipo garrulo. Nello stesso istante in cui prese a bordo il suo passeggero, nei quartieri bassi di Providence, quella calda sera d'estate, Hurley attaccò immediatamente a chiacchierare. Il passeggero, un uomo alto e sottile sui trent'anni, salì nella vettura e prese posto sul sedile posteriore, stringendo fra le mani una borsa. Diede un indirizzo in Benefit Street e il conducente mise in moto lingua e taxi. Hurley, infatti, attaccò quella che si potrebbe definire una conversazione unilaterale, commentando lo spettacolo pomeridiano dei New York Giants. Per niente impressionato dal mutismo del suo cliente, passò poi ad alcune osservazioni sul tempo: quello recente, quello attuale e quello futuro. Dopo di che pur non ricevendo alcuna risposta, passò a parlare di un sensazionale avvenimento locale, vale a dire della fuga avvenuta quella stessa mattina e riportata anche sui giornali di due pantere nere o di due leopardi, dal serraglio viaggiante del Langer Brothers Circo, che teneva spettacolo in città. Di fronte alla domanda diretta se per caso avesse visto vagare le belve, il cliente di Hurley si limitò a scuotere lentamente la testa con un cenno negativo. Il conducente di taxi si tuffò allora in una lunga tiritera assai poco complimentosa sulle locali forze di polizia e la loro incapacità nel catturare le belve. Secondo il suo illuminato parere, anche un intero plotone di poliziotti non sarebbe stato in grado di prendere neppure un raffreddore, qualora l'avessero murato per un anno intero in un ghiacciaio. La battuta arguta lasciò completamente indifferente il taciturno passeggero, e prima che Hurley potesse continuare il suo monologo, il taxi si fermò davanti all'edificio di Benefit Street. Ottantacinque cents cambiarono
di mano, passeggero e borsa scesero dal taxi e il loquace irlandese si allontanò rapidamente. In quel momento non poteva saperlo, ma Hurley divenne così l'ultima persona in grado di testimoniare di aver visto il passeggero vivo. Il resto è semplice congettura, e forse è meglio così. Certamente è abbastanza facile trarre certe conclusioni per quanto si riferisce a ciò che accadde quella sera nella vecchia casa di Benefit Street, ma il peso di tali conclusioni è quasi insostenibile. Si può chiarire, forse, un mistero di secondaria importanza: lo strano silenzio e il riserbo del passeggero di Hurley. L'individuo in questione, Edmund Fiske di Chicago, Illinois, stava meditando sul compimento di quindici anni di ricerche; il percorso in taxi costituiva l'ultimo stadio di questo lungo viaggio. L'uomo, durante il tragitto, aveva riesaminato le varie circostanze. L'indagine di Edmund Fiske era iniziata l'otto agosto 1935, con la morte del suo intimo amico Robert Harrison Blake, di Milwaukee. Come lo stesso Fiske a suo tempo, anche Blake era stato un adolescente precoce, appassionato di letteratura fantastica; e come tale era diventato socio del 'Circolo Lovecraft', un gruppo di scrittori che si tenevano in corrispondenza fra loro e con il defunto Howard Phillips Lovecraft di Providence. Era stato attraverso tale corrispondenza che Fiske e Blake si erano conosciuti; i due giovani si erano scambiati numerose visite a Milwaukee e a Chicago, e il loro reciproco interesse per il soprannaturale e il fantastico nella letteratura e nell'arte aveva costituito la base della stretta amicizia che viveva tuttora all'epoca dell'inaspettata e inspiegabile scomparsa di Blake. La maggior parte dei fatti, e numerose congetture in relazione alla morte di Blake, sono stati esposti nella storia di Lovecraft, intitolata Il fantasma delle tenebre, che venne pubblicata più di un anno dopo la prematura scomparsa del giovane scrittore. Lovecraft aveva avuto un'occasione eccellente per osservare le cose da vicino, poiché era stato dietro suo suggerimento che il giovane Blake, all'inizio del 1935, si era recato a Providence e aveva trovato alloggio in College Street per interessamento dello stesso Lovecraft. Perciò, era stato come amico e come vicino di casa che lo scrittore più anziano aveva cominciato a narrare la storia singolare degli ultimi mesi di Robert Harrison Blake. Nel suo racconto, Lovecraft narra gli sforzi iniziali di Blake per comin-
ciare un romanzo che trattava l'argomento del culto delle streghe nel New England, ma omette modestamente la propria parte nell'aiutare l'amico a procurarsi il materiale. In effetti, Blake cominciò a lavorare al suo progetto con grande entusiasmo, ma in seguito si trovò avviluppato in un mondo di orrore superiore alla sua immaginazione. Blake cominciò a investigare intorno a un cumulo di macerie sulla Federal Hill, le rovine abbandonate di una chiesa che un tempo ospitava i fedeli di un culto esoterico. All'inizio della primavera, il giovane scrittore aveva fatto una visita al tempio diroccato e laggiù aveva compiuto alcune scoperte che, secondo l'opinione di Lovecraft, avevano reso inevitabile la sua morte. In breve tempo, Blake entrò a far parte della rigorosissima Free Will Church e incappò nello scheletro di un reporter del Providence Telegram, un certo Edwin M. Lillibridge che nel 1893 aveva tentato di svolgere analoghe indagini. Il fatto che la sua morte fosse rimasta inspiegabile era parso abbastanza allarmante, ma anche più sconcertante fu la scoperta che nessuno aveva avuto il coraggio di entrare nella chiesa nel periodo fra l'episodio e il ritrovamento del corpo. Blake trovò il libretto d'appunti del giornalista negli abiti del morto e il suo contenuto gli offrì una parziale scoperta. Un certo professor Bowen di Providence, aveva viaggiato ampiamente in Egitto e nel 1843, durante il corso di alcuni scavi archeologici nella cripta di Nefren-Ka aveva fatto una scoperta inconsueta. Nefren-Ka è il «faraone dimenticato», il cui nome è stato maledetto dai preti e obliterato dai documenti dinastici ufficiali. Il nome era familiare al giovane scrittore, a quell'epoca, soprattutto per l'opera di un altro autore di Milwaukee, che aveva parlato a lungo del faraone semi-leggendario nel suo racconto Il tempio del Faraone. Ma la scoperta che Bowen fece nella cripta fu del tutto inaspettata. Il libretto d'appunti del giornalista parlava poco della reale natura di tale scoperta, ma registrava gli avvenimenti successivi in un ordine preciso e cronologico. Immediatamente dopo aver rivelato la sua sensazionale scoperta in Egitto, il professor Bowen aveva abbandonato le ricerche e aveva fatto ritorno a Providence, dove nel 1844, era entrato a far parte della Free Will Church e aveva costituito il quartier generale di quella che venne poi definita la setta della «Starry Wisdom».
I membri di questo culto religioso, evidentemente reclutati da Bowen, dichiararono di adorare un'entità che chiamavano 'Il fantasma delle tenebre'. Fissando un cristallo, evocavano la reale presenza di tale entità, a cui rendevano omaggio con sacrifici umani. Questa, perlomeno, era la storia fantastica che circolava a Providence in quell'epoca, e la chiesa divenne pertanto un luogo da evitare. La superstizione locale fomentò l'agitazione e l'agitazione si trasformò in azione diretta. Nel maggio del 1877 la setta fu sciolta dalle autorità in seguito alla pressione pubblica, e parecchie centinaia dei suoi membri lasciarono in fretta la città. La stessa chiesa venne definitivamente chiusa e la curiosità individuale non riuscì a superare la paura ampiamente diffusasi, in seguito alla quale il tempio rimase abbandonato e inesplorato finché il giornalista, Lillibridge, svolse la sua personale e fatale indagine, nel 1893. Tale era la sostanza della storia redatta sulle pagine del suo libretto d'appunti. Blake la lesse; tuttavia non si lasciò scoraggiare dal proseguire le sue ricerche. Alla fine, giunse alla scoperta del misterioso oggetto che Bowen aveva trovato nella cripta egiziana, lo stesso oggetto su cui era stato fondato il culto della «Starry Wisdom», e cioè una scatola di metallo asimmetrica con un coperchio provvisto di cardini, che non veniva abbassato da innumerevoli anni. Blake guardò nell'interno della scatola, fissò il poliedro di cristallo rosso e nero sorretto dai sette supporti. Non si limitò a guardare il poliedro, ma fissò «dentro» il cristallo, allo stesso modo in cui avevano guardato i fedeli del culto e con gli stessi risultati. Il giovane scrittore si sentì assalire da uno strano malessere psichico: gli sembrava di «osservare visioni di altri mondi e di abissi oltre le stelle», come narrava l'antica superstizione. Fu allora che Blake commise il suo più grosso errore. Abbassò il coperchio. Chiudere la scatola, sempre secondo le credenze superstiziose annotate dal giornalista Lillibridge, rappresentava il gesto che evocava la misteriosa entità, il Fantasma delle Tenebre in persona. Il quale era una creatura del buio e non poteva sopravvivere alla luce. E nell'oscurità assoluta del tempio in rovina, la «cosa» emerse di notte. Blake fuggì in preda al terrore, ma ormai il danno era fatto. A metà luglio, un furioso temporale spense tutte le luci di Providence per un'ora e la colonia italiana, che abitava vicino alla chiesa deserta, udì alcuni insistenti colpi sordi e numerosi tonfi che partivano dall'interno del tempio, avvolto
dalle ombre. Una fitta folla armata di torce si raccolse all'aperto, sotto la pioggia torrenziale, per deporre i lumi contro l'edificio diroccato e proteggersi in tal modo dalla possibile apparizione del temuto fantasma con una barriera di luce. Evidentemente, nella zona la superstizione era rimasta viva. Non appena la tempesta cessò, i giornali locali s'interessarono del fenomeno, e il 17 luglio due reporter in compagnia di un poliziotto entrarono nella vecchia chiesa. Niente di definitivo venne trovato nell'interno del tempio, sebbene si potessero notare strane, inesplicabili chiazze sulle scale e sulle panche. Meno di un mese più tardi, alle due e trentacinque dell'otto agosto, per essere esatti, Robert Harrison Blake trovò la morte durante un furioso temporale, mentre sedeva davanti alla finestra della sua camera in College Street. Mentre la tempesta andava facendosi sempre più minacciosa, e poco prima della sua morte, Blake seguitò a scrivere freneticamente nel suo diario, rivelando la propria ossessione e le sue delusioni riguardo al Fantasma delle Tenebre. Era convinzione del giovane scrittore che, fissando nel misterioso cristallo della scatola, doveva aver stabilito un contatto con l'entità ultraterrena. Blake, inoltre, era convinto che con il suo gesto di chiudere la scatola, avesse condannato la creatura soprannaturale a vivere nell'oscurità del campanile della chiesa e che in un certo senso, il proprio destino fosse ormai irrevocabilmente legato a quel fenomeno mostruoso. Tutto ciò viene rivelato nell'ultimo messaggio che lo scrittore affidò alla carta mentre dalla finestra osservava l'avvicinarsi della tempesta. Nel frattempo, presso la chiesa di Federal Hill, una folla di agitati spettatori si era radunata per deporre le torce contro i muri dell'edificio. Che tutti quanti avessero udito cupi rimbombi e suoni allarmanti provenire dall'interno dell'antico tempio, era innegabile; perlomeno due testimoni attendibili hanno confermato il fatto. Uno dei due, padre Merluzzo della chiesa dello Spirito Santo, si trovava sul posto per calmare gli animi della sua comunità di fedeli. L'altro, l'agente (ora sergente) William J. Monahan, della centrale di polizia, tentava di mantenere l'ordine tra la folla in preda a un panico crescente. Lo stesso Monahan notò la forma accecante che parve scaturire come una colonna di fumo dal campanile dell'antico edificio, quando il cielo saettò il suo ultimo lampo. Fulmine, meteora, palla di fuoco (chiamatelo come volete) eruppe sopra la città in una vampata abbagliante forse nello stesso istante in cui Robert
Harrison Blake, dall'altra parte della città, stava scrivendo: «Non è forse un'incarnazione di Nayarlathotep, che nell'antico e misterioso Khem prese perfino la forma dell'uomo?» Dopo alcuni minuti, il giovane scrittore era morto. Il medico del «coroner» stabilì un verdetto che attribuiva il decesso a scossa elettrica, in seguito a un fulmine, sebbene la finestra davanti alla quale sedeva lo scrittore fosse intatta. Un altro medico, che Lovecraft conosceva, discusse privatamente quel verdetto, e il giorno successivo cominciò a occuparsi della faccenda. Senza autorizzazione legale, entrò nell'antica chiesa e s'arrampicò fino al campanile privo di finestre, dove scoprì la strana scatola asimmetrica (era d'oro?) e la curiosa pietra nell'interno. Il suo primo gesto fu quello di sollevare il coperchio e di portare la pietra alla luce. Dopo di che, noleggiò una barca, prese la scatola e la pietra dalla forma curiosa e lasciò cadere il tutto nel canale più profondo della Baia di Narragansett. Qui finiva il racconto «fantasioso» della morte di Blake scritto da H. P. Lovecraft. E qui iniziava l'indagine di Edmund Fiske, durata quindici anni. Fiske, naturalmente, conosceva alcuni avvenimenti tracciati solo a grandi linee nel racconto. Quando Blake era partito per Providence, in primavera, Fiske aveva promesso di raggiungerlo nell'autunno successivo. Dapprima, i due amici si erano scambiati regolarmente numerose lettere, ma all'inizio dell'estate, Blake aveva interrotto la corrispondenza. A quell'epoca, Fiske non era al corrente delle esplorazioni che Blake compiva regolarmente fra le rovine del tempio. Perciò, non sapendo spiegarsi il silenzio dello scrittore, scrisse a Lovecraft per avere notizie. Lovecraft seppe dirgli ben poco. Il giovane Blake, comunicò lo scrittore, gli aveva fatto frequenti visite durante le prime settimane del suo soggiorno a Providence, lo aveva consultato riguardo le proprie opere letterarie e lo aveva accompagnato spesso nelle sue passeggiate notturne attraverso la città. Ma durante l'estate, Blake aveva smesso di frequentare Lovecraft. Il quale, piuttosto riservato per natura, non amava mostrarsi invadente con gli altri; per questo non aveva voluto disturbare il giovane scrittore, che non vedeva da parecchie settimane. Quando però era finalmente andato a trovarlo e aveva saputo dal giovane Blake della sua esperienza nel tempio proibito di Federal Hill, Lovecraft aveva avuto parole di avvertimento per il collega quasi adolescente. Ma era già troppo tardi. Dieci giorni dopo la sua visita, seppe della sua morte misteriosa.
Fiske fu informato da Lovecraft il giorno seguente. Spettava a lui comunicare la triste notizia ai genitori di Blake. Per un po', fu tentato di recarsi immediatamente a Providence, ma, per mancanza di denaro e per gli impegni che lo trattenevano, dovette rinunciare. Il corpo del suo giovane amico arrivò a Chicago e Fiske presenziò alla breve cerimonia della cremazione. Poi Lovecraft iniziò le sue indagini, una ricerca meticolosa e accurata che risultò definitivamente nella pubblicazione del suo libro. E con questo, la faccenda avrebbe potuto considerarsi chiusa. Ma Fiske non era soddisfatto. Il suo migliore amico era morto in circostanze tali che anche i più scettici non potevano fare a meno di definire misteriose. Le autorità locali avevano archiviato il caso con spiegazioni banali e inadeguate. Fiske decise di scoprire la verità. Occorre tener presente un fattore di grande importanza, e cioè che tutti e tre questi personaggi, Lovecraft, Blake e Fiske, erano scrittori di professione e studiosi del soprannaturale o del sopranormale. Tutti e tre avevano la possibilità di accedere a un voluminoso materiale scritto che trattava gli argomenti delle antiche leggende e delle superstizioni del passato. Tuttavia i tre scrittori, alla luce delle proprie esperienze personali non riuscirono a interessare completamente il pubblico, tuttora piuttosto scettico verso quei miti di cui loro scrivevano. Fiske, infatti, scriveva a Lovecraft: «Il termine mito, come ben sappiamo, è semplicemente un cortese eufemismo. La morte di Blake non è stata un mito, ma un'orribile realtà. Vi supplico di investigare a fondo. Occupatevi scrupolosamente di questa faccenda, poiché se anche il diario di Blake nascondesse una verità deformata, non si sa che cosa potrebbe accadere nel mondo...» Lovecraft promise la sua piena collaborazione, scoprì quale fine avevano fatto la scatola di metallo e il suo contenuto e cercò di combinare un incontro con un certo dottor Ambrose Dexter, in Benefit Street. Ma il dottor Dexter, da quanto risultava, aveva lasciato la città subito dopo il drammatico furto e dopo essersi liberato del «Trapezedron splendente», come Lovecraft l'aveva definito. Lo scrittore si recò inoltre a intervistare padre Merluzzo e l'agente Monahan, frugò negli archivi del Bulletin e tentò di ricostruire la storia della setta «Starry Wisdom» e dell'Ente che i suoi membri adoravano. Naturalmente, scoprì assai più di quanto osò scrivere nel suo racconto.
Le sue lettere a Edmund Fiske scritte verso la fine dell'autunno e agli inizi della primavera del 1936 contengono caute allusioni e riferimenti guardinghi e «minacce dall'Esterno». Ma allo stesso tempo sembrava ansioso di rassicurare Fiske che sebbene ci fossero state certe minacce in senso più realistico che soprannaturale, il pericolo era ormai scongiurato perché il dottor Dexter si era liberato del «Trapezedron» che agiva come un talismano evocatore. Questo il succo del rapporto di Lovecraft. Per un certo tempo, la cosa parve arenarsi. Fiske, all'inizio del 1937, si ripromise di recarsi da Lovecraft, a casa dello scrittore, con l'intima intenzione di condurre ulteriori ricerche per suo conto, sulla causa della morte di Blake. Ma ancora una volta intervennero circostanze imprevedibili, poiché nel marzo di quello stesso anno, Lovecraft morì. La sua scomparsa inaspettata gettò Fiske in un periodo di sconforto da cui si riprese molto lentamente; di conseguenza, fu soltanto un anno più tardi che Edmund Fiske si recò per la prima volta a Providence e sulla scena dei tragici episodi che avevano annientato la vita di Blake. In un certo senso, sussisteva l'ombra del dubbio. Il medico del coroner si era mostrato alquanto superficiale, Lovecraft era stato eccessivamente riservato, la stampa e l'opinione pubblica avevano accettato i fatti senza approfondirli completamente... eppure Blake era morto, e nella notte qualcosa era accaduto. Fiske aveva la netta sensazione che se avesse potuto visitare personalmente la chiesa maledetta, se avesse potuto parlare con il dottor Dexter e scoprire il motivo che l'aveva trascinato in quella storia, interrogare i reporter e seguire qualsiasi traccia, seppure irrilevante, forse sarebbe stato in grado di scoprire la verità e, finalmente, di riabilitare il nome dell'amico morto su cui incombeva il sospetto di uno squilibrio mentale. Di conseguenza, il primo passo di Fiske, dopo il suo arrivo a Providence ed esser sceso in un albergo, fu quello di salire alla Federal Hill e al tempio in rovina. La sua ricerca venne funestata da un'immediata e irrimediabile delusione. Perché la chiesa non esisteva più. Era stata rasa al suolo l'autunno precedente e il terreno era stato rilevato dalle autorità municipali. La guglia nera e funesta del campanile non lanciava più il suo malefico sortilegio sulla collina. Fiske si precipitò da padre Merluzzo, nella chiesa dello Spirito Santo, che si trovava poco lontano. Da una cortese governante, seppe che il sacerdote era morto nel 1936, a un anno di distanza dalla scomparsa del gio-
vane Blake. Scoraggiato ma tuttavia deciso a proseguire le sue indagini, Fiske compì un altro tentativo per arrivare al dottor Dexter, ma la vecchia casa in Benefit Street era sprangata. Una telefonata all'Ordine dei medici diede per risultato la laconica informazione che il dottor Ambrose Dexter aveva lasciato la città per un periodo indeterminato. Una visita all'editore locale del Bulletin non diede miglior risultato. Fiske ottenne l'autorizzazione a entrare nell'archivio del giornale e leggere la breve e arida relazione sulla morte di Blake, ma i due giornalisti che avevano scritto il servizio e che in seguito si erano recati al tempio di Federal Hill, avevano lasciato il giornale per un impiego in altre città. C'erano, naturalmente, altre piste da seguire, e durante la settimana successiva Fiske le fece passare una per una. Una copia della rivista Who's Who non aggiunse particolari significativi al quadro mentale che s'era fatto del dottor Ambrose Dexter. Il medico era nato a Providence quarant'anni prima, esercitava la professione da parecchio tempo, era scapolo, era socio di numerose associazioni mediche, ma non c'era indicazione alcuna di qualche suo hobby fuori del comune o di altri interessi che potessero fornire una traccia sulla ragione che l'avevano spinto a immischiarsi in quella storia. Il sergente William J. Monahan della Centrale di Polizia fu reperibile, finalmente, e per la prima volta da quando aveva iniziato le sue indagini, Edmund Fiske riuscì a parlare con qualcuno che ammise di scorgere una certa relazione con gli avvenimenti che portarono alla morte di Blake. Monahan si mostrò molto cortese, senza tuttavia compromettersi. Nonostante l'assoluta fiducia che gli offriva Fiske, il poliziotto rimase piuttosto reticente. «In effetti, non c'è niente che io possa raccontarvi», si scusò subito. «È vero, come ha affermato il signor Lovecraft, che quella notte mi trovavo nei pressi della chiesa, poiché vi si era radunata una folla piuttosto tumultuosa e non si sa mai come va a finire quando la folla si scalda la testa. Come narra la leggenda, la vecchia chiesa aveva una cattiva fama; ma suppongo che Sheeley potrebbe fornirvi particolari più precisi.» «Sheeley?» lo interruppe Fiske. «Bert Sheeley... era lui di servizio, non io. Solo che quella sera aveva la polmonite, e così dovetti sostituirlo per due settimane. Poi, quando morì...» Fiske scosse la testa. Un'altra possibile fonte di informazioni sfumata: Blake morto, Lovecraft morto, padre Merluzzo idem, e ora anche Sheeley.
I reporter in giro per il mondo e il dottor Dexter misteriosamente spariti dalla circolazione. Lo scrittore sospirò, e proseguì nei suoi tentativi. «Quell'ultima notte, quando vedeste la vampata...» ricordò al sergente. «Avete per caso qualche particolare da aggiungere? Ci furono dei rumori? Qualcuno tra la folla gridò qualcosa? Cercate di ricordare... qualsiasi minima cosa potrebbe essermi di grande aiuto.» Monahan scosse la testa. «Di rumori ve n'erano in quantità», disse. «Ma con il temporale e tutto il resto, non era possibile distinguere quelli che potevano provenire dall'interno del tempio, come certamente saprete. E per quanto riguarda la folla, con le donne che mandavano gemiti lamentosi e gli uomini che borbottavano tutti insieme, era già tanto se riuscivo a udire la mia stessa voce che urlava di restar calmi, di non perdere la testa.» «E la vampata?» insisté Fiske. «Era una vampata, ecco tutto. Poi fumo, o una nuvola o soltanto un'ombra, prima che il fulmine si abbattesse di nuovo sulla chiesa. Ma in tutta coscienza, non posso affermare di aver visto demoni, mostri o streghe, come il signor Lovecraft soleva descrivere nei suoi racconti paurosi.» Dopo di che, il sergente Monahan si strinse nelle spalle con fare ipocrita e sollevò la cornetta del telefono per rispondere a una chiamata. Era chiaro che l'intervista doveva considerarsi chiusa. E così, per il momento, ebbe termine l'inchiesta di Fiske. Tuttavia, il giovane scrittore non perse ogni speranza. Per un giorno intero rimase seduto accanto al telefono della sua camera d'albergo e chiamò tutti i Dexter risultanti sull'elenco telefonico, nel tentativo di localizzare qualche parente del dottore scomparso. I suoi sforzi rimasero senza risultato. Non contento, trascorse un'altra giornata a bordo di una piccola barca nella Baia di Narragansett per individuare il «canale più profondo» cui Lovecraft alludeva nel suo racconto. Ma allo scadere di una settimana infruttuosa trascorsa a Providence, Fiske dovette dichiararsi battuto. Ritornò a Chicago, al suo lavoro, alle consuete occupazioni. A poco a poco, la faccenda venne relegata nei recessi della sua mente, anche se nell'intimo non l'aveva dimenticata completamente, né aveva rinunciato del tutto a svelare quel mistero, se mistero era. Nel 1941, durante una licenza di tre giorni dal Centro Addestramento, il soldato scelto Edmund Fiske passò da Providence, diretto a New York, e di nuovo tentò di rintracciare il dottor Ambrose Dexter, ma senza successo.
Durante il 1942 e il 1943, il sergente Edmund Fiske scrisse dai suoi posti di combattimento oltremare, al dottor Ambrose Dexter, Posta Centrale, Providence. Le sue lettere rimasero senza risposta, se mai furono ricevute dal destinatario. Nel 1945, nella sala di una biblioteca USA a Honolulu, Fiske lesse l'articolo su una rivista di astrofisica che ricordava un recente convegno all'Università di Princeton, in occasione del quale il relatore d'onore aveva tenuto una conferenza sulle «Applicazioni pratiche nella Tecnologia Militare». Il relatore era il dottor Dexter. Fiske non fece ritorno negli Stati Uniti fino al termine del 1946. E naturalmente, durante l'anno successivo si occupò soprattutto dei suoi affari privati. Fu solo nel 1948 che per caso rilesse il nome del dottor Dexter, stavolta in un elenco di studiosi nel campo della fisica nucleare, pubblicato da un notiziario settimanale. Scrisse agli editori per avere ulteriori informazioni, ma non ricevette risposta. E un'altra lettera, indirizzata a Providence, rimase egualmente senza risposta. Ma nel tardo autunno del 1949, il nome di Dexter attirò nuovamente la sua attenzione; stavolta il giornale riportava una discussione sulla segretissima bomba H. Nonostante le sue supposizioni, le sue paure e i suoi dubbi terribili, Fiske si sentì spinto ad agire. Fu allora che scrisse a un certo Ogden Purvis, un investigatore privato di Providence, affidandogli l'incarico di rintracciare il dottor Ambrose Dexter. Tutto ciò che chiedeva al detective era di poter esser messo in comunicazione con Dexter. Versò un cospicuo anticipo e Purvis accettò di occuparsi del caso. L'investigatore privato inviò numerosi rapporti a Fiske, rapporti che all'inizio furono decisamente scoraggianti. La residenza di Dexter era tuttora disabitata. Lo stesso dottore, secondo alcune informazioni ottenute da fonti governative, era in missione speciale. Il detective lasciava intendere che, a suo parere, il medico in questione era persona irreprensibile, uno studioso impegnato in delicatissime operazioni di difesa. La reazione di Fiske fu un senso di panico. Aumentò l'onorario dell'investigatore e insisté perché Ogden Purvis persistesse nei suoi sforzi per trovare l'elusivo dottore. Giunse l'inverno del 1950 e con l'inverno un altro rapporto. Il detective aveva seguito ogni traccia suggerita dallo stesso Fiske e una, finalmente, l'aveva condotto a un certo Tom Jonas.
Tom Jonas era il proprietario della piccola barca noleggiata dal dottor Dexter una sera della tarda estate del 1935, la stessa barca che aveva trasportato il dottore fino al «canale più profondo della Baia di Narragansett». Quella sera, Tom Jonas aveva sollevato i remi, mentre il dottor Dexter lasciava cadere in acqua la lucida e asimmetrica scatola di metallo con il coperchio sollevato, che conteneva il «Trapezedron splendente». Il vecchio pescatore aveva parlato senza reticenze con l'investigatore privato; le sue dichiarazioni erano riportate parola per parola nel rapporto confidenziale inviato a Fiske. «Veramente singolare è stata la reazione di Jonas. Dexter gli aveva offerto venti dollari per portarlo nella baia a mezzanotte in punto e gettare in acqua lo strano oggetto. Disse che non c'era niente di male, che si trattava di un ricordo di cui voleva liberarsi. Ma per tutto il tempo, non aveva fatto che fissare quella specie di gioiello luccicante sistemato dentro la scatola, e aveva seguitato a borbottare parole misteriose in una lingua straniera. No, non era francese o tedesco, e neppure italiano. Forse polacco. Non ricorda una parola, comunque. Ma si comportava come un ubriaco. Non che io abbia intenzione di parlar male del dottor Dexter, intendiamoci; viene da un'antica famiglia, anche se lui non si vede spesso da queste parti. Ma mi dava la chiara impressione che non fosse completamente in sé. E poi, perché mai avrebbe dovuto pagarmi venti dollari per fare una bravata simile?» La trascrizione letterale della dichiarazione del vecchio pescatore, tuttavia, non serviva a spiegare gran che. «Mi ricordo che sembrava felice di liberarsi di quello strano oggetto. Sulla via del ritorno, mi raccomandò di tenere la bocca chiusa, ma io non ci vedo alcun male, se ne parlo ora che è passato tanto tempo. Non mi va di aver grane con la legge.» Evidentemente l'investigatore privato era ricorso a uno stratagemma poco etico, facendosi passare per un vero poliziotto, costringendo così il vecchio Jonas a raccontare tutto ciò che sapeva. Questo non preoccupò eccessivamente Fiske, a Chicago. Anzi, fu sufficiente per fargli credere di aver messo le mani su qualcosa di tangibile, finalmente; sufficiente anche per spingerlo a inviare a Purvis un altro cospicuo onorario, con le istruzioni di continuare le ricerche sul conto di Ambrose Dexter. Seguirono parecchi mesi di attesa. Poi, alla fine della primavera, giunse la notizia che Fiske agognava. Il dottor Dexter era ritornato nella sua casa in Benefit Street. Le finestre erano state riaperte, erano apparsi alcuni furgoni a scaricare i mobili e un do-
mestico aveva l'incarico di aprire la porta e di ricevere le comunicazioni telefoniche. Il dottor Dexter non si fece trovare in casa dall'investigatore privato né da nessun altro. Doveva ristabilirsi da una grave malattia contratta mentre svolgeva la sua opera al servizio del governo. Si fece lasciare un biglietto da Purvis e promise di mandargli un messaggio, ma ripetute telefonate non ottennero alcuna risposta. Né ottenne miglior risultato lo stesso Purvis, il quale continuò a sorvegliare la casa e il vicinato. Il detective non riuscì mai a vedere il dottore di persona, né a scoprire qualcuno che dichiarasse di aver visto il convalescente per la strada. Le provviste giungevano regolarmente nella casa di Benefit Street, la posta veniva recapitata nella casella e l'abitazione del dottor Dexter era illuminata a giorno a tutte le ore. Per la verità, questa fu l'unica dichiarazione concreta che Purvis fu in grado di fare, riguardo qualsiasi possibile irregolarità nel modo di vivere del dottor Dexter: evidentemente il medico teneva tutte le luci accese per ventiquattr'ore al giorno. Fiske scrisse immediatamente un'altra lettera al dottor Dexter, e poi un'altra ancora. Nessuna risposta. E dopo numerosi rapporti di Purvis, che tuttavia non gli furono di nessuna utilità, prese la sua decisione. Sarebbe andato a Providence e in un modo o nell'altro avrebbe cercato di arrivare a Dexter. Forse i suoi sospetti erano del tutto infondati, forse aveva torto di credere che Dexter potesse riabilitare il nome del suo amico morto; forse era in errore quando sospettava una qualsiasi relazione fra i due, ma da quindici anni non faceva che tormentarsi e arrovellarsi. Era tempo di porre fine a quell'intimo conflitto. Perciò, al termine di quell'estate, Fiske telegrafò a Purvis per metterlo al corrente delle sue intenzioni e per fissargli un appuntamento in albergo, dopo il suo arrivo. Fu così che Edmund Fiske partì per Providence per l'ultima volta: lo stesso giorno in cui la squadra dei Giants perdette la partita, lo stesso giorno in cui due pantere nere scapparono dal circo dei fratelli Langer, lo stesso giorno in cui il conducente di tassì William Hurley si mostrò tanto loquace. Purvis non era all'albergo ad attenderlo, ma l'impazienza di Fiske era tale
che il giovane scrittore decise di agire senza la presenza dell'investigatore privato; perciò, come abbiamo visto, con un tassì si fece condurre in Benefit Street, nelle prime ore della serata. Quando la vettura si fu allontanata, Fiske sollevò lo sguardo verso la porta a larghi pannelli, poi fissò le luci che brillavano dalle finestre dei piani superiori della casa in stile georgiano. Sulla porta, luccicava una targa d'ottone su cui si rifletteva la luce proveniente dalle finestre: dottor Ambrose Dexter. Questo parve a Edmund Fiske un buon segno. Il dottore non nascondeva la sua presenza nella casa, anche se non si faceva mai vedere di persona. Di certo, le luci sfavillanti e il nome sulla targa promettevano bene. Con una scrollata di spalle, suonò il campanello. La porta si aprì quasi subito. Un uomo basso e snello, con la pelle scura e leggermente curvo apparve sulla soglia e chiese: «Sì?» «Il dottor Dexter, per favore.» «Il dottore non riceve visite. È ammalato.» «Vorreste portargli un messaggio?» «Certamente», rispose il domestico dalla pelle scura, con un sorriso. «Ditegli che Edmund Fiske di Chicago desidera vederlo, con suo comodo, per pochi minuti. Vengo appositamente dal Middle West, e quanto devo dirgli non richiederà che un minuto o due del suo tempo.» «Attendete, prego.» La porta si chiuse. Fiske rimase in piedi nell'oscurità che andava facendosi più fitta, passando la borsa da una mano all'altra. Poi, di colpo, la porta si riaprì, e il domestico fece capolino da dietro il battente. «Signor Fiske... siete voi il signore che ha scritto le lettere?» «Lettere? Ah, sì. Sono io. Non sapevo che il dottore le avesse ricevute.» Il domestico annuì. «Non saprei. Ma il dottor Dexter ha detto che se voi siete il signore che gli ha scritto, potete entrare.» Fiske si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo e varcò la soglia. Erano quindici anni che aspettava quel momento, e ora... «Al piano superiore, prego. Troverete il dottor Dexter nel suo studio, a destra in cima alle scale.» Edmund Fiske salì la scalinata, trovò la porta a destra ed entrò in una stanza dove la luce costituiva una presenza quasi palpabile, tanto era intensa. E in una poltrona accanto al caminetto, c'era il dottor Ambrose Dexter,
che in quel momento stava alzandosi. Fiske si trovò di fronte un uomo alto e sottile, elegantemente vestito, che avrebbe potuto avere cinquant'anni ma che ne dimostrava appena trentacinque; un uomo la cui assoluta grazia innata e l'eleganza del portamento nascondevano un'unica incongruenza nel suo aspetto: una profonda abbronzatura. «E così, voi siete Edmund Fiske.» La voce era morbida, ben modulata e con un inequivocabile accento del New England; la stretta di mano che accompagnò l'osservazione, salda e asciutta. Sul viso del dottor Dexter, un sorriso naturale e amichevole. I denti bianchissimi spiccavano sul volto abbronzato. «Non volete sedervi?» invitò il medico, indicando una poltrona e inchinandosi leggermente. Fiske non poté trattenersi dal fissarlo: nell'aspetto e nel comportamento del padrone di casa non si notava la minima traccia di malattia, attuale o recente. Il dottor Dexter tornò a sedersi accanto al caminetto. Mentre Fiske girava intorno alla poltrona per accomodarsi a sua volta, notò la libreria dall'altra parte della stanza. Le dimensioni e la forma di parecchi volumi attrassero immediatamente la sua attenzione, tanto che invece di sedersi si avvicinò agli scaffali per leggere i titoli dei libri ordinatamente disposti. Per la prima volta in vita sua, Edmund Fiske si trovò di fronte al quasi leggendario De Vermis Mysteriis, al Liber Ivonis, e alla quasi mitica versione latina del Necronomicon. Senza neppure chiedere il permesso al suo ospite, sollevò dallo scaffale il pesante volume e sfogliò le pagine ingiallite di quest'ultimo raro esemplare, nella traduzione spagnola del 1622. Poi si girò verso il dottor Dexter, lasciando cadere la maschera di fredda compostezza che s'era imposta. «Allora siete stato voi che avete trovato questi volumi nella vecchia chiesa!» esclamò. «Nella stanzetta dietro la sagrestia, accanto all'abside. Lovecraft ne ha parlato nella sua storia, e io mi son sempre chiesto che fine avessero fatto.» Il dottor Dexter gli rispose con un grave cenno del capo. «Sì, li ho presi io. Pensavo non fosse opportuno che libri del genere cadessero nelle mani delle autorità. Voi sapete ciò che contengono e che cosa potrebbe accadere se il loro contenuto venisse interpretato in modo errato.» Con riluttanza, Fiske rimise il grosso volume sullo scaffale e prese posto su una sedia di fronte al medico, tuttora seduto accanto al caminetto. Sulle ginocchia teneva la borsa, e con le mani seguitava a tormentare la chiusura
a scatto. «Non siate così turbato», osservò il dottor Dexter con un sorriso benevolo. «Parliamo con calma, senza equivocare. Voi siete qui per scoprire il ruolo da me sostenuto nella faccenda della morte del vostro amico.» «Sì. Vi sono alcune domande che vorrei porvi.» «Prego», disse il medico, alzando la mano scura e sottile. «Non mi sono ancora del tutto ristabilito da una grave malattia e posso concedervi solo pochi minuti. Lasciate che prevenga le vostre domande e che vi racconti quel poco che so.» «Come volete.» Fiske continuava a fissare l'uomo abbronzato, chiedendosi che cosa si nascondesse dietro quella assoluta padronanza di sé. «Ho incontrato il vostro amico Robert Harrison Blake una volta sola», prese a dire il dottore Dexter. «È stato una sera verso la fine di luglio del 1935. Era venuto qui come paziente.» Fiske si sporse in avanti, ansioso. «Non l'ho mai saputo!» esclamò. «Non c'era motivo che qualcuno lo sapesse», ribatté il medico. «Blake era un paziente, niente altro. Dichiarò di soffrire d'insonnia. Lo visitai, gli prescrissi un sedativo e per puro interesse professionale gli domandai se recentemente avesse subito qualche trauma o se si fosse sottoposto a inconsuete tensioni nervose. Fu allora che mi raccontò la storia della sua visita alla chiesa sulla Federal Hill, confidandomi ciò che aveva scoperto lassù. Devo dire che ebbi la perspicacia di non considerare il suo racconto come il prodotto di un'immaginazione isterica. Poiché appartengo ad una delle più antiche famiglie della città, conoscevo già la leggenda che circonda la setta Starry Wisdom e il Fantasma delle Tenebre. «Il giovane Blake mi confidò anche certe sue paure riguardo al 'Trapezedron splendente', affermando che si trattava di un punto focale di maleficio. Inoltre mi confessò il suo terrore di essere legato in qualche modo all'essere misterioso della chiesa. Naturalmente, non ero preparato ad accettare questa sua ultima dichiarazione come una premessa razionale. Cercai di rassicurarlo, gli suggerii di lasciare Providence e di dimenticare l'intera storia. In quel momento, agivo in perfetta buona fede. Poi, in agosto, mi giunse la notizia della morte di Blake.» «Fu allora che vi recaste al tempio?» domandò Fiske. «Voi non avreste fatto la stessa cosa?» ribatté il dottor Dexter. «Se Blake fosse venuto da voi a raccontarvi questa fantastica storia, se vi avesse confidato i suoi timori, la sua morte non vi avrebbe spinto all'azione? Vi assicuro che agii convinto di agire per il meglio. Piuttosto che provocare
uno scandalo, piuttosto che seminare fra il pubblico paure inutili, di permettere che il pericolo assumesse una forma qualsiasi, decisi di recarmi al tempio. Presi i volumi. Rubai il 'Trapezedron splendente' sotto il naso delle autorità. Poi noleggiai una barca e gettai l'oggetto maledetto nelle acque della Baia di Narragansett, dove non avrebbe più potuto fare alcun male al genere umano. Il coperchio era sollevato, quando lo lasciai cadere, poiché, come certamente saprete, solo l'oscurità può evocare il Fantasma, ed ora la pietra è eternamente esposta alla luce.» «Questo è tutto ciò che posso dirvi», riprese il dottore dopo una breve pausa. «Mi dispiace che il mio lavoro di questi ultimi anni m'abbia impedito di vedervi o di comunicare con voi prima d'ora. Apprezzo il vostro interessamento per questa faccenda e confido che le mie dichiarazioni possano aiutarvi a chiarire, almeno un poco, i dubbi che vi tormentano. Per quanto riguarda il giovane Blake, data la mia posizione di medico, sarò lieto di darvi un certificato che testimoni il suo perfetto equilibrio mentale al momento della sua morte. Redigerò il certificato domani stesso e ve lo farò avere al vostro albergo, se mi date l'indirizzo. Basta così?» Il medico si alzò, quasi a far intendere che l'intervista poteva considerarsi conclusa. Fiske rimase seduto, sollevando la borsa. «Ora vi prego di scusarmi», mormorò il dottor Dexter. «Un momento. Vi sono ancora una o due domande a cui vorrei che rispondeste.» «Ma certo.» Se il dottor Dexter era irritato, non ne diede segno. «Avete visto per caso Lovecraft, prima o durante la sua ultima malattia?» «No. Non ero il suo medico curante. Per la verità, non ho mai conosciuto personalmente lo scrittore in questione, sebbene naturalmente conoscessi le sue opere.» «Che cosa vi spinse a lasciare Providence così improvvisamente, dopo l'affare Blake?» «Il mio interesse per la fisica aveva sostituito il mio interesse per la medicina. Forse lo saprete, o forse no, ma durante l'ultimo decennio ho lavorato su certi problemi relativi all'energia atomica e alla fissione nucleare. Infatti, domani stesso lascerò ancora una volta Providence per un ciclo di conferenze presso le facoltà delle varie università orientali e presso alcuni centri governativi.» «Molto interessante, dottore», osservò Fiske. «Fra l'altro, avete mai co-
nosciuto Einstein?» «Sì, l'ho conosciuto alcuni anni fa. Ho anche lavorato con lui su... be' non ha importanza. Ma ora devo pregarvi di scusarmi. Un'altra volta, forse, potremo discutere di argomenti del genere.» La sua impazienza era più che evidente, adesso. Fiske si alzò, reggendo la borsa con una mano, mentre l'altra mano si allungava per spegnere una lampada sul tavolo. Il dottor Dexter attraversò rapidamente la stanza e riaccese la lampada. «Perché avete paura del buio, dottore?» domandò Fiske sottovoce. «Io non ho...» Per la prima volta, il medico parve sul punto di perdere la calma. «Che cosa vi fa credere una cosa simile?» sussurrò. «È il 'Trapezedron', non è vero?» continuò Fiske. «Quando l'avete gettato nella baia, avete agito troppo precipitosamente. Non avete ricordato, al momento, che anche se aveste lasciato il coperchio sollevato, la pietra sarebbe rimasta al buio, laggiù in fondo al canale. Ma forse il Fantasma non voleva che voi ricordaste. Avete fissato la pietra nella scatola, proprio come aveva fatto Blake, e così avete stabilito lo stesso contatto psichico. E quando avete gettato via l'oggetto maledetto, l'avete affidato all'oscurità perpetua, dove il potere del Fantasma si sarebbe accresciuto. «Ecco perché lasciaste Providence in tutta fretta; perché avevate paura che il Fantasma venisse da voi, come era andato da Blake. E perché eravate convinto che ormai l'oggetto non sarebbe riemerso alla superficie.» Il dottor Dexter si avvicinò alla porta. «Ora devo proprio pregarvi di andarvene», disse. «Se insinuate che io tengo le luci accese perché ho paura del Fantasma, come è accaduto a Blake, siete in errore.» «Niente affatto», replicò Fiske con un leggero sorriso. «Io so perfettamente che non avete nessuna paura. Perché ormai è troppo tardi. Il Fantasma dev'essere venuto da voi tanto tempo fa... forse lo stesso giorno o poco dopo che voi gli avevate ridato il suo potere affidando il 'Trapezedron' alle profondità della Baia. È tornato da voi, ma a differenza di Blake, non vi ha ucciso. «Si è servito di voi. Ecco perché avete paura del buio. Temete l'oscurità come il Fantasma teme di essere scoperto. Sono convinto che al buio voi avete un aspetto differente. Più simile all'antica figura. Perché quando il Fantasma è venuto da voi, non vi ha ucciso ma si è incorporato nella vostra persona. 'Voi' siete il Fantasma delle Tenebre!» «Signor Fiske, davvero...»
«Non c'è nessun dottor Dexter. Sono anni che non esiste una persona simile. C'è soltanto l'involucro esteriore, posseduto da un'entità più vecchia del mondo; un'entità che si muove rapidamente e con infinita abilità per portare distruzione a tutto il genere umano. Siete stato voi che vi siete trasformato in 'scienziato' e vi siete insinuato negli ambienti adatti, spingendo con i vostri suggerimenti e i vostri consigli quegli sciocchi che sono gli uomini verso la loro improvvisa 'scoperta' della fissione nucleare. Chissà come avete riso, quando è stata sganciata la prima bomba atomica! Ed ora che avete rivelato agli uomini il segreto della bomba all'idrogeno, insegnerete loro altre cose, altri nuovi sistemi per arrivare alla totale distruzione del genere umano. «Mi ci sono voluti anni e anni di interrogativi tormentosi per scoprire le tracce, la chiave dei cosiddetti 'miti primitivi' di cui Lovecraft ha scritto. Perché Lovecraft scrisse sotto forma di parabola e di allegoria, ma scrisse la verità. Ha messo sulla carta la profezia della vostra venuta sulla terra. Blake l'ha capito all'ultimo momento, quando ha identificato il Fantasma con il suo giusto nome.» «E sarebbe?» scattò il dottor Dexter. «Nyarlathotep!» Il medico scoppiò in una fragorosa risata. «Temo proprio che siate vittima delle stesse allucinazioni di cui soffrivano Blake e il vostro amico Lovecraft. Tutti sanno che Nyarlathotep è pura invenzione... che fa parte dei famosi miti di Lovecraft.» «Lo credevo anch'io, finché ho trovato la traccia nel suo poema. È stato allora che tutto ha cominciato ad apparirmi chiaro: il Fantasma delle Tenebre, la vostra fuga e il vostro improvviso interesse per le ricerche scientifiche. Le parole di Lovecraft assunsero un nuovo significato: E alla fine, dall'interno dell'Egitto venne l'uomo dalla pelle scura a cui i fellah s'inchinavano...» Fiske declamò i versi senza distogliere lo sguardo dal volto abbronzato del medico. «Sciocchezze, dovreste saperlo. Questo disturbo puramente dermatologico è il risultato della mia continua esposizione alle radiazioni di Los Alamos.» Ma Fiske non prestava orecchio alle parole del medico. Con voce distin-
ta continuò a declamare il poema di Lovecraft: ... le belve lo seguivano e gli lambivano le mani. Subito dal mare nacque il maleficio, terre dimenticate cosparse di radici d'oro. Il suolo si fendette e l'aurora impazzita rotolò giù, sulle città vacillanti dell'uomo. Poi, schiacciando ciò che s'era divertito a modellare e a plasmare per gioco, il Caos idiota soffiò via la polvere della Terra. Il dottor Dexter scosse la testa. «È tutto semplicemente ridicolo», dichiarò. «Sono sicuro che, sebbene siate piuttosto turbato, lo capite perfettamente. Il poema non ha alcun significato letterale. Forse che le belve mi lambiscono le mani? Vedete per caso sorgere qualcosa dal mare? Terremoti e aurore! Sciocchezze! Voi soffrite di quello che noi chiamiamo 'nevrosi atomica', ora lo capisco. Siete in preda alla folle ossessione, come tanti altri uomini d'oggigiorno, secondo i quali in un modo o nell'altro le nostre scoperte nel campo della fissione nucleare daranno per risultato la distruzione della Terra. Tutto questo discorso è il frutto della vostra immaginazione.» Fiske stringeva convulsamente la borsa. «Vi ho spiegato che Lovecraft ha scritto la sua profezia sotto forma di parabola. Dio sa che cosa realmente 'sapeva' o 'temeva'; ma qualunque cosa fosse, fu sufficiente a spingerlo a velare il significato delle sue parole. Ma anche così, 'loro' sono arrivati a lui, perché sapeva troppo.» «'Loro'?» «Quelli dall'Esterno... coloro che voi servite. Voi siete il loro Messaggero, Nyarlathotep. Siete venuto con il 'Trapezedron Splendente' dall'interno dell'Egitto, come dice il poema, e i fellah... i lavoratori di Providence che si erano convertiti al culto della setta Starry Wisdom, s'inchinavano davanti all'immagine dalla pelle scura, che loro adoravano come il 'Fantasma'. «Il Trapezedron fu gettato nella Baia e subito dopo, dal mare, nacque il maleficio. Intendo parlare della vostra nascita o incarnazione nel corpo del dottor Dexter. Poi avete insegnato agli uomini nuovi metodi di distruzione;
avete svelato loro il segreto della bomba atomica, così il 'suolo si fendette e l'aurora impazzita rotolò giù, sulle città vacillanti dell'Uomo'. Oh, Lovecraft sapeva bene quello che scriveva, e anche Blake vi ha riconosciuto. Tutti e due sono morti. Immagino che cercherete di uccidere anche me, così potrete andare avanti con il vostro diabolico programma. Seguiterete a tenere conferenze, assisterete gli uomini dei laboratori e darete loro nuovi suggerimenti per raggiungere una più vasta distruzione. E alla fine, 'soffierete via anche tutta la polvere dalla Terra'.» «Vi prego», disse il dottor Dexter alzando le mani. «Calmatevi. Lasciate che vi spieghi. Non vi rendete conto che tutto questo è assurdo?» Fiske avanzò verso di lui, le mani che armeggiavano convulsamente con la chiusura della borsa. La piccola serratura scattò e Fiske infilò una mano nell'interno. Ora impugnava una pistola, che puntò deciso contro il petto del dottor Dexter. «Certo che è assurdo», mormorò lo scrittore. «Nessuno ha mai creduto nella setta della 'Starry Wisdom', tranne pochi fanatici e qualche forestiero ignorante. Nessuno ha mai preso sul serio le storie di Blake, di Lovecraft o le mie; le hanno sempre lette e commentate con divertita ironia. Per la stessa ragione, nessuno crederà che in voi c'è qualcosa di strano, o nelle cosiddette ricerche scientifiche nel campo dell'energia atomica, o negli orrori che voi avete in mente di seminare nel mondo per portarlo alla distruzione totale. Ecco perché ho intenzione di uccidervi, ora!» «Mettete giù quella pistola.» Improvvisamente, Fiske cominciò a tremare; il suo corpo fu contorto da uno spasimo atroce. Dexter se ne accorse e si fece avanti. Gli occhi del giovane scrittore avevano uno sguardo allucinato, mentre il medico continuava ad avanzare lentamente verso di lui. «Restate indietro!» urlò Fiske. Le parole gli uscivano di bocca come deformate per il tremito delle mascelle. «So tutto ciò che m'interessava sapere. Dal momento che vi siete incarnato in un corpo umano, potete essere distrutto con armi comuni. E perciò io vi distruggerò, Nyarlathotep!» Il suo dito si mosse. E così pure quello del dottor Dexter. La mano del medico si levò rapidamente verso il quadro delle luci incassato nel muro. Si udì uno scatto, e la stanza piombò in un buio pesto. No, non era un buio pesto, poiché vi brillava una luminescenza.
Il viso e le mani del dottor Ambrose Dexter mandavano una luce fosforescente nel buio. Esistono probabilmente forme di avvelenamento da radium che possono provocare un effetto simile, e senza dubbio il dottor Dexter avrebbe spiegato tale fenomeno a Edmund Fiske, se ne avesse avuto l'opportunità. Ma non ebbe nessuna opportunità di farlo. Edmund Fiske udì lo scatto, vide i lineamenti dell'uomo inondati da quella fosforescenza e crollò sul pavimento. Con gesto rapido, il dottor Dexter riaccese le luci, si avvicinò al corpo esanime del giovane, s'inginocchiò per un lungo momento. Invano gli tastò il polso. Edmund Fiske era morto. Il medico sospirò, si rialzò e uscì dalla stanza. Nel vestibolo, a pianterreno, chiamò il domestico. «Si è verificato un doloroso e increscioso incidente», disse. «Quel visitatore che era salito da me, un isterico, ha avuto un attacco cardiaco. Sarà meglio avvertire subito la polizia. Poi continuate a fare i bagagli. Domani dobbiamo partire per un giro di conferenze.» «Ma può darsi che la polizia voglia trattenervi», osservò il domestico. Il dottor Dexter scosse la testa. «Non credo. È un caso che non lascia dubbi. A ogni modo, posso spiegare come si sono svolte le cose. Quando arriveranno, avvertitemi. Mi troverete in giardino.» Il dottore attraversò il vestibolo fino alla porta posteriore, uscì nel giardino inondato dal chiaro di luna, dietro la casa di Benefit Street. Il magnifico giardino, circondato da un alto muro che lo tagliava fuori dal mondo, era deserto. L'uomo dalla pelle scura rimase immobile nel chiarore della luna che si fondeva con la sua aureola fosforescente. D'un tratto, due ombre simili a morbida seta balzarono sopra il muro. Le due ombre rimasero accovacciate un attimo fra i cespugli del giardino, poi scivolarono in avanti, dirigendosi verso il dottor Dexter. Avanzarono con un sordo brontolio. Alla luce fredda della luna, l'uomo riconobbe le forme di due pantere nere. Immobile, attese che le belve avanzassero senza far rumore, gli occhi simili a carboni accesi, le fauci spalancate da cui colava un filo di bava. Allora il dottor Dexter si girò. Con gesto beffardo sollevò il viso verso la luna, mentre le belve si accovacciavano davanti a lui e gli leccavano le mani.
CANTICO DI MORTE di A. W. Calder Charlie Corliss non aveva doti medianiche ed era una delle persone meno superstiziose che io abbia mai conosciuto, eppure fu nel suo programma radiofonico che prese il via la spaventosa faccenda che avrebbe potuto dilagare sul continente come un'epidemia. Forse, se egli avesse agito più tempestivamente, avrebbe potuto stroncarla senza tragedie, ma fu soltanto dopo il secondo decesso che ci rendemmo conto della tremenda potenza che la minaccia racchiudeva in sé. Tutti i radioascoltatori conoscevano Charlie. Era un trombettista d'eccezione, e con la sua orchestra, che egli stesso dirigeva, andava in onda due volte la settimana con un programma che registrava il maggior indice di gradimento. La vera ragione per cui la tromba di Charlie tacque tanto improvvisamente, dando un addio definitivo alle onde radio, non è stata mai raccontata. «Se vuoi sentire qualcosa di stupendo, questa sera vai nella sala controllo dell'auditorio C», mi disse il giorno che segnò l'inizio di quel periodo di terrore. Ricordo che sprizzava entusiasmo, quella mattina, quando, finite le prove, venne da me. I suoi capelli crespi erano più ricciuti che mai e gli occhi gli brillavano. «Cos'è, tutta questa eccitazione?» gli domandai incuriosito. «Ho un nuovo numero che ti farà schizzare dalla poltrona.» I suoi occhi si velarono leggermente. «Per dir la verità, anche per me è un enigma, quella donna. Si chiama Alwa e ha fatto un'audizione con una sua composizione, una canzone inedita che metteremo in onda questa sera. Che strano: le parole non riesco a ricordarmele, ma la melodia continua a ronzarmi nella testa come un calabrone. Non perdere il programma!» Charlie era il tipo entusiasta per natura, ma in quella sua infatuazione mi parve che ci fosse qualcosa di eccessivo. Visto che la sera avrei dovuto comunque trattenermi alla stazione trasmittente, decisi che avrei dato un'occhiata alla sua ultima «scoperta». Ingolfato fino al collo nella preparazione di alcuni programmi e preso dalle operazioni di controllo di nuovi apparecchi, per poco non dimenticai la promessa fatta a Charlie. Quando mi ricordai che lui aveva parlato di qualcosa di eccezionale, il suo programma stava per andare in onda; entrai
nella sala controllo durante quella frazione di secondo di silenzio che precede fa sigla. Di tutta la gente che lavora in una stazione radio, soltanto tre o quattro persone al massimo, eccettuati i fonici di servizio, bene inteso, possono entrare in una sala controllo quando è in corso una trasmissione. Ed è lì che si può gustare la radio in tutta la sua perfezione, con un rendimento infinitamente superiore alla ricezione di qualsiasi apparecchio domestico; per di più, attraverso l'invetriata a doppio cristallo, si può godere lo spettacolo degli artisti al lavoro. Charlie presentò la sua protetta ai radioascoltatori con un discorsetto forse un tantino prolisso, ma io sapevo che le sue parole avrebbero fatto sì che milioni di ascoltatori sparsi in tutto il paese si facessero più attenti. Se avessero potuto vedere la ragazza ritta in piedi accanto a Charlie, il loro interesse si sarebbe raddoppiato. Nel corso di una infinita sequela di giorni e notti trascorsi nelle stazioni radio, di belle donne ne ho conosciute parecchie, ma non mi è mai capitato di vederne una che avesse il fascino irresistibile di Alwa. Delicata eppure non priva di carattere, la sua brillante personalità colpiva di primo acchito; anche così, a distanza, lei nello studio, io in sala di controllo, la sua smagliante bellezza mi lasciò immediatamente stupefatto e affascinato. Poi Alwa cominciò a cantare. A tutt'oggi non conosco una sola parola della sua canzone. La magica melodia cominciava in tono minore: come una fiamma oscillante al vento, Alwa ondeggiava all'unisono con la musica. Le parole erano brevi, frammentarie, facevano pensare a un uccello che chiama i suoi piccoli. Mi affascinarono e io mi curvai in avanti, tagliato fuori dal resto del mondo. Poi, gradatamente, il canto salì di tono: dopo alcune note profonde, carezzevoli, Alwa tacque per riprender fiato. Spirava calma e serenità. Il mio corpo si rilassò e il mio spirito fu pervaso da una grande pace. Ma ecco che nella melodia si insinuò un tremolo acuto. Quasi in stato di ipnosi, ne percepivo il richiamo con tutto il mio essere. Il canto di Alwa divenne una tenera invocazione: lei pareva struggersi, arrendersi al microfono. La canzone finì e Alwa, tremante in ogni fibra del suo corpo, come in cerca di un sostegno, si aggrappò all'asta del microfono. Sorda allo scrosciante applauso del pubblico presente nell'uditorio, avvicinò di nuovo il suo volto al microfono. Soltanto noi in sala controllo potemmo udire la sua voce sommessa, mentre lei cantava di nuovo le ultime, bellissime battute. Subito dopo il suo corpo si accasciò e lei crollò a terra. «È svenuta!», pensammo tutti.
Ma Alwa era morta. Quella sera vari radioascoltatori ci scrissero, esprimendo il loro vivo apprezzamento per la canzone inedita, ma lamentando la confusione che avevano notato immediatamente dopo la trasmissione della stessa. Il giorno dopo lessero sui giornali che la giovane cantante, tanto dotata di talento, alla fine della sua esecuzione era caduta al suolo morta, in seguito a un attacco cardiaco dovuto alla eccessiva tensione emozionale. Questo, almeno, diceva il referto medico. Noi tutti lo accettammo come oro colato, allora. Tre giorni dopo, però, durante la susseguente trasmissione del programma di Charlie, ci rendemmo conto che qualcosa stava andando male, ma male in maniera tremenda. Le case editrici musicali, nel frattempo, stavano facendo fuoco e fiamme per comprare i diritti della nuova canzone; naturalmente, la faccenda doveva rimanere in sospeso finché non avessimo trovato i parenti di Alwa; gli orchestrali di Charlie si erano serviti di partiture copiate a mano da loro stessi dal manoscritto di Alwa. «Chi era?» domandai a Charlie, non appena se ne presentò l'opportunità. «In effetti, non so proprio niente, di lei. Abitava in un albergo; non abbiamo altri indirizzi. Stanno rovistando tra la roba, per scoprire se aveva dei parenti.» Secondo me, uno degli aspetti più strani di quella strana vicenda è che non riuscimmo mai a scovare la minima informazione su Alwa, neanche se quel suo nome bizzarro fosse il cognome o il nome di battesimo. Da quale cosmo misterioso lei avesse cavato le note della sua canzone restò per sempre un enigma, sebbene Charlie ed io fossimo destinati a intravedere in virtù di quale malìa Alwa avesse perso la vita. Charlie si buttò a capofitto nelle prove per il programma successivo. I suoi colleghi notarono che la morte di Alwa lo aveva sconvolto molto più di quanto sia normale attendersi in un caso del genere; eppure, secondo quanto mi disse uno dei suoi orchestrali, non volle saperne di provare di nuovo la canzone della ragazza. I musicisti sono superstiziosi quanto gli attori: evidentemente gli ripugnava riesumare una musica legata a un così triste ricordo. Durante la seguente trasmissione di Charlie, feci in modo di trovarmi in sala controllo; quelle pieghe amare che nello spazio di tre giorni gli si erano disegnate attorno alla bocca non mi piacevano affatto. In una stazione trasmittente è possibile udire il programma nel suo in-
sieme soltanto in sala controllo; coi sistemi moderni, spesso gli orchestrali non possono neanche udire il solista. Essi suonano a pieno volume, magari volgendo le spalle al solista o al cantante, che dispone di un microfono tutto per sé. È compito dei fonici in sala controllo regolare in mixage il volume dei suoni provenienti dai vari microfoni, in modo che l'orchestra, quando occorre, fa soltanto da sottofondo. Questa premessa aiuterà a capire meglio ciò che accadde quella sera. Il programma di Charlie prese l'avvio molto bene. Dapprima l'orchestra al completo suonò un paio di pezzi di successo, poi subentrò una troupe di comici. Dopo di che toccò a Charlie di fare sfoggio della sua bravura in un assolo di tromba. Osservai il fonico manovrare le manopole per abbassare il volume dell'orchestra e mettere in evidenza la tromba di Charlie. Fin dalle prime note, capimmo che qualcosa non funzionava a dovere. L'esecuzione del trombettista era esitante e tremula. Lo vidi, al di là del doppio cristallo, aggrottare le sopracciglia e strizzare gli occhi. All'improvviso udii le prime, bizzarre note della canzone di Alwa. L'orchestra continuò il suo accompagnamento in sordina, ma era chiaro che stava suonando una melodia differente da quella che suonava Charlie. La sua tromba stava emettendo dei suoni imploranti, i magici accordi in chiave minore con cui Alwa aveva iniziato il suo tragico assolo. Charlie Corliss stava lottando con la sua tromba, che sembrava trascinarlo verso il microfono, vicino, sempre più vicino. Grosse gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Le sue labbra erano incollate all'imboccatura dello strumento, ma si vedeva bene che lui tentava con tutte le sue forze di staccarle. Guardando le sue mani che reggevano lo strumento, si aveva l'impressione che si sforzassero invano di gettarlo via, lontano. Tutto questo lo notai come attraverso un velo che mi annebbiava la mente. Il fonico contemplava estatico Charlie. Dall'altoparlante scaturiva il sommesso accompagnamento dell'orchestra: squarciandone l'armonia, la tromba squillava creando dissonanze orribili. Il solista era ormai giunto alla seconda parte della canzone stregata di Alwa, alle note profonde, supplicanti. La battaglia che Charlie combatteva col suo strumento era spaventosa a vedersi; come se la tromba avesse acquisito vita propria, dominava il trombettista. Era questi a perdere terreno nel conflitto. Ogni istante di più, la musica di Alwa si faceva più alta, più sicura. Improvvisamente, la tromba tacque: si sentiva soltanto il suono in sordi-
na dell'orchestra. Con palese irritazione, il fonico girò le manopole per portare il volume al massimo. Sbalordito, vidi che Charlie aveva ancora la tromba tra le labbra; la sua lotta con lo strumento continuava, sebbene questo fosse ammutolito. Dopo aver fatto un cenno al suo primo violino, Charlie si allontanò barcollando dal microfono e uscì nel corridoio che portava agli spogliatoi. Più tardi venni a sapere che la sua lingua si era incastrata tanto saldamente nell'imboccatura dello strumento da costringerlo a ricorrere all'aiuto di un medico. Uscito lui, il primo violino lo sostituì nella direzione dell'orchestra. Stupito e preoccupato da quegli eventi incomprensibili, rimasi in sala controllo per sorvegliare il prosieguo della trasmissione. Un altro incidente del genere e il programma sarebbe saltato. E l'altro incidente non si fece attendere molto. L'orchestra proseguì secondo lo schema abituale e con sollievo notai che il direttore sostituto teneva d'occhio l'orologio, rispettando al secondo la tabella di marcia. Fu trasmesso l'annuncio pubblicitario del patrocinatore del programma, poi la sigla della nostra stazione e infine subentrarono di nuovo i comici. L'orchestra attaccò il terzo pezzo. Gli orchestrali davano chiaramente a vedere di essere preoccupati, ma tiravano avanti: «lo spettacolo continua» è il motto un po' smargiasso di cui si fregiano i veri professionisti. Al momento in cui Charlie avrebbe dovuto iniziare il suo secondo assolo, non mi meravigliai di vedere che il violinista si avvicinava all'altro microfono: era un buon baritono, probabilmente era intenzionato a cantare il numero di Charlie. Si trattava di uno swing, un arrangiamento in cui erano stati inseriti degli effetti speciali per la tromba, ma la voce del violinista era all'altezza. Gli si era presentata l'insperata possibilità di far valere i suoi talenti ed egli l'aveva afferrata al volo. Ancora una volta il fonico mise mano alle manopole per ridurre il volume dell'orchestra. Dall'altoparlante la voce del baritono arrivò forte e sicura. Le prime cinque o sei battute furono cantate a pieni polmoni, ma improvvisamente la voce vacillò; malsicura, tentò ancora, ma poi si affievolì e uscì fuori ritmo. Inorridito, udii di nuovo le prime note della canzone fatale. In sottofondo, l'orchestra continuava imperterrita l'accompagnamento, suonando l'arrangiamento dello swing. Sovrastandola quasi del tutto, il violinista tuonava con la sua voce baritonale, sempre più potente, articolando
quelle incredibili, inafferrabili parole. Lo vidi oscillare seguendo il ritmo del canto, gli occhi semichiusi fissi sul microfono, come in un sonno ipnotico. Mentre io lo guardavo mio malgrado affascinato, attaccò le note basse, lamentose. «Mio Dio, anche lui!» alitò il fonico, tastando maldestramente le manopole per aumentare il volume dell'orchestra. Ma non fu abbastanza svelto a disinserire il microfono del cantante. Mentre la voce di questo calava di tono, udii ancora una volta le battute supplicanti, che sembravano esprimere la resa più completa, con cui si chiudeva la canzone. Il solista si chinò verso il microfono come se stesse implorando. Di colpo, crollò a terra. «Quest'orchestra è liquidata, non andrà mai più in onda!» esclamai amaramente, cercando di snebbiarmi il cervello. «Lo studio, è liquidato», ritorse il fonico. «Lei non troverà più nessun orchestrale che voglia metterci piede. Io me la squaglio! Qua ci sono gli spiriti!» Mi precipitai negli spogliatoi. Stetoscopio alle orecchie, il medico era chino sul violinista; scuro in volto, mi lanciò un'occhiata. «Sì, è morto», grugnì. «Attacco cardiaco, credo che dovrò scrivere sul certificato di morte. Eppure aveva un cuore di ferro; mi risulta con assoluta certezza. Questa faccenda sta assumendo un aspetto sconcertante: ritengo opportuno chiedere una autopsia.» Charlie Corliss entrò nella stanza; gli tremavano le mani e aveva le labbra gonfie, per via della tromba. «Oh, no!» esclamò, vedendo il cadavere del violinista. «Perché glielo hai permesso?» «Permesso? Ma dico io, come potevo impedirgli di morire?» «Potevi impedirgli di fare un assolo! Come è successo?» «Ha cominciato a cantare in sintonia con l'orchestra, poi ha deviato, ha attaccato quella pazzesca canzone di Alwa e si è accasciato.» «Già, già, lo so.» Charlie scosse la testa con aria affranta. «Per poco quella canzone non ha incastrato anche me.» «Ma cosa sta succedendo, Charlie? Stiamo diventando tutti matti? Perché ti sei messo a suonarla?» Charlie mi guardò accigliato. «Perché non potevo farne a meno», rispose sottovoce. «Quel microfono
mi ipnotizzava, comandava ai miei polmoni e alle mie labbra. A dirlo può sembrare un'assurdità, ma sta di fatto che, in quel momento, suonare quella canzone era la cosa che più desideravo al mondo. Avrei voluto arrotolarmici dentro, danzare con quella musica, uscire dalla mia pelle per fondermi con essa. Alla lettera, ti dico! Avrei voluto abbandonare il mio corpo e lasciare che la mia anima diventasse un tutto unico con la canzone. «La maggior parte di me stesso lo voleva, ma una piccola frazione del mio cervello lottava. Quell'atomo infinitesimale di discernimento mi diede la forza di infilare la lingua nell'imboccatura della tromba e così non mi fu più possibile suonare.» Accennando al cadavere, Charlie soggiunse: «Lui non ha avuto la possibilità di trovare una scappatoia». Percepivo la minacciosa potenza di tutte quelle cose incredibili, ma mi rifiutavo di ammetterla, allora. «Vieni un momento nel mio ufficio, Charlie», gli dissi. «Tutti e due abbiamo bisogno di un drink. Parlando, può darsi che riusciamo a schiarirci le idee.» «Ciò che Charlie dice non è un'assurdità», intervenne il dottore. «I libri di medicina non ne fanno cenno, ma un medico vede un mucchio di cose misteriose, che non si possono spiegare testi scientifici alla mano.» Nel mio ufficio, Charlie accettò una dose robusta di whisky, accese persino una sigaretta, ma il suo volto non perse l'espressione tirata. Sebbene l'alcool mi scaldasse lo stomaco, la mia mente non riusciva a liberarsi dalla gelida stretta della paura. «Di che cosa si tratta, Charlie?» insistetti. Non osavo esprimere con delle parole il profondo panico che si era impadronito di me. Charlie non rispose immediatamente. Mi guardò, invece, ma mi guardò come se io non ci fossi, quasi tentasse di raccogliere con calma i suoi pensieri... «George», disse finalmente, «ormai ci conosciamo da sei anni. Tu sai che io non sono il tipo che perde la testa facilmente...» Il suo sguardo sembrava implorare. Dovetti ammettere che, in genere, lui era una persona piena di buon senso. «Questa faccenda mi ha completamente sbalestrato!» esclamò. «È qualcosa al di fuori della vita reale, ma possiede un fascino diabolico. Non posso neanche tentare di spiegare come quella musica sia adescatrice, blandisca, chiami. Suonando di nuovo quella melodia non ho potuto fare a meno di abbandonarmi completamente al suo potere paralizzante. Sai cosa
significa? Per il mio corpo significa la morte. Che cosa significherebbe per là mia anima non lo so, ma promette cose deliziose!» «Ma da dove è uscito, tutto questo?» «E chi lo sa? Forse è il canto che le sirene intonavano migliaia di anni fa.» Charlie tacque, fissando la punta incandescente della sua sigaretta. Come facendosi coraggio a forza, continuò: «Tu sai che io non mi immischio in cose di carattere soprannaturale, George. In fatto di radio, poi, questo giocattolo col quale trasmettiamo i suoni dove vogliamo, dal punto di vista tecnico, non ne capisco un accidente. Per dir la verità, credo che nessuno ne capisca gran che, anche se ha una conoscenza specifica dei dettagli di funzionamento. La mente umana è troppo limitata per essere all'altezza delle cose che si verificano in un mondo che ci circonda ma che noi non possiamo vedere. «Ciò che sto tentando di spiegare è questo: da una dozzina d'anni a questa parte, noi non abbiamo smesso un sol giorno di donare alla nostra musica le invisibili ali dell'elettricità, spedendola nell'ignoto. Chi può avere un'idea di dove va a finire? Ricordati che le fiabe e le leggende di tutti i tempi hanno sempre parlato di esseri dotati di misteriosi poteri, che con la musica o con il canto riuscivano a far comparire gli spiriti provenienti da un mondo che non è il nostro. Noi abbiamo spedito la nostra musica nello spazio infinito con una energia di spinta che si può calcolare in centinaia di migliaia di chilowatt: chi ti dice che essa non abbia violato i confini di quest'altro mondo? Le tue onde sonore passano attraverso le pareti di cemento e girano intorno alla terra... Chissà, forse riescono a entrare anche in un'altra dimensione, superando la barriera che separa il visibile dall'invisibile». «Vuoi dire che la radio evoca gli spiriti maligni?» «No, non è questo che voglio dire. Forse, ciò che tu chiami uno spirito non è altro che musica. Ho pensato spesso che la musica in sé fosse qualcosa di vivo. Attraverso i secoli, molti scrittori l'hanno considerata come una entità vivente. In qualche altro mondo a noi ignoto, la musica può essere una forma di vita normale quanto la vita animale lo è sulla terra.» «Ma la musica non è che suono!» «Sì, e il suono è vibrazione. E tu, George, non sei che un gruppo ben coordinato di vibrazioni, se dobbiamo dar retta agli scienziati. In un altro mondo, la tua forma esteriore potrebbe essere quella di un accordo musicale o di una canzone, dotata di una mente cosciente. Credimi, se ci pensi
bene, vedrai che c'è una logica, esattamente come c'è nella tua radio, di cui, in realtà, non sappiamo niente. Il tuo corpo ha una sostanza che è costituita da atomi infinitesimali di energia. Se a questa energia viene data un'altra configurazione, perché non dovrebbe ugualmente avere un'anima?» «Ma Charlie, che cosa faremo, adesso? Discutere teorie metafisiche tirate per i capelli, non cambia la situazione. Io ti domando: cosa possiamo fare per salvare i nostri programmi?» «In fondo, è proprio tanto importante farlo?» Charlie mi guardò con aria trasognata. «Quando suono quella bellissima canzone tentatrice, penso che farei meglio a lasciarmi trasportare da lei fuori da questo mondo, per andare a vivere in un mondo differente e affascinante.» Così non andava, no! «Ti rendi conto», gli gridai, «che due persone sono morte, qui, nel nostro auditorio? Che il tuo programma di trasmissioni è andato a gambe all'aria? Che i tuoi orchestrali sono disoccupati? Dobbiamo fare qualcosa!» Charlie sussultò come se si svegliasse da un sogno. «Sì, forse hai ragione, George. Però tu ti rifiuti di riconoscere la stupenda forza nascosta che abbiamo chiamata in vita. Ricordati: tu hai visto soltanto i primi segni del suo potere. Ho paura che la tua grande stazione radio si ritroverà miseramente impotente contro la canzone di Alwa.» «Cosa devo fare, Charlie?» «Distruggi tutto ciò che è connesso a quella canzone. Io scioglierò l'orchestra ipso facto, così nessun orchestrale metterà più piede qua dentro. Assicurati che venga bruciata ogni singola partitura della musica di Alwa. Tieni d'occhio qualsiasi trasmissione dall'auditorio C. Ho notato che durante le prove la canzone non ci ha creato noie, e nemmeno quando suonata in gruppo. Non so perché, ma il suo potere si esercita soltanto quando si va in onda e anche allora ha appena la forza sufficiente per prendersela con un solista. Bada a quello che fai, George, in caso tu voglia lottare con quella musica!» Il giorno dopo cominciai a capire il significato del suo ammonimento. Il mattino, gli orchestrali non vollero neanche sentir parlare di fare le prove nell'auditorio che si era dimostrato tanto infausto per due persone. Una settimana prima l'avrei chiamata superstizione, ma ormai non me la sentivo proprio di discutere. Durante le trasmissioni, i solisti si lasciarono dominare dal nervosismo, davanti ai loro microfoni, col risultato che tutti i pro-
grammi furono massacrati. La sera arrivarono notizie ancora peggiori. Charlie mi aspettava nel mio studio, camminando nervosamente avanti e indietro, quando verso le cinque lasciai gli auditori. Ero stanco, la giornata era stata pesante di preoccupazioni, di discussioni con musici e tecnici, un'ora dopo l'altra, e sempre con un cattivo presagio di catastrofe incombente. «Hai visto i giornali?» mi gettò là Charlie. Afferrai le edizioni della sera. «Oh, è un trafiletto, non ci faresti neanche caso», mi interruppe Charlie. «Appena due righe su un qualsiasi ignoto musicista che ieri sera è morto all'improvviso per un attacco cardiaco... Ma il fatto è che in quel momento stava ascoltando la radio, ed è morto nello stesso istante in cui moriva il mio violinista.» «Ma Charlie!» esclamai. «Non può essere...» «Oh, sì, invece», rispose con amarezza. «È la canzone di Alwa, non c'è dubbio. Ma se persino tu ne hai sentito il richiamo, in sala controllo! Quel poveraccio si è semplicemente buttato a capofitto nella trappola di quella musica stregata.» «No, no! Non è possibile!» «Eppure è successo. Per amore di tutte le creature umane, non permettere che quella canzone vada di nuovo in onda! Sarebbe un vero genocidio!» «Mai più!» giurai. «Piuttosto, faccio saltare tutto l'impianto elettrico.» La sera ricevemmo una visita della polizia, nella persona di un agente investigativo in borghese, che si era portato un suo elettricista di fiducia. Dovetti condurli nell'auditorio in cui erano morti Alwa e il violinista. L'elettricista controllò cavi, spine, fusibili e via dicendo, per scoprire un eventuale corto circuito che potesse aver causato i decessi. «Tutto in ordine, qui», borbottò quando ebbe finito. «Sarebbe possibile, dalla sala controllo, far pervenire una scarica mortale su qualcuno a contatto col microfono?», domandò l'agente. «Neanche pensarci!», sbuffò l'elettricista. L'agente si avvicinò al microfono. «Ora, per piacere, mi faccia vedere dove stavano, quando sono morti», mi disse. Per dare un tocco di verismo accennò un paio di battute musicali. Con orrore vidi che d'improvviso si era rilassato. Il suo canterellare divenne canto pieno, salì di tono fino agli acuti. Ed eccole, le note in scala ascendente!
«Zitto!» gli urlai. «Per l'amor del cielo, smetta di cantare!» Lui sembrava non sentirmi affatto. L'elettricista lo guardava a bocca aperta, stupito, ma anche un po' spaventato. Il canto guadagnava di intensità. Charlie non aveva detto che se il microfono non era innestato nel circuito non poteva succedere niente? Mi precipitai in sala controllo. Era inserito, sì, e la manopola del volume al massimo. L'altoparlante rovesciava nella sala la melodia, le note profonde, adescatrici, della seconda parte della canzone. Le mie facoltà mentali vacillarono, ebbi la sensazione che la musica mi ipnotizzasse, cullandomi in una dolce apatia. A tentoni, allungai la mano e staccai un interruttore. «Ha toccato lei queste manopole?», gridai all'elettricista. «Niente affatto!», rispose lui. Nell'auditorio, l'agente investigatore stava raddrizzando le spalle. Fissò il microfono con meraviglia, come se questo lo avesse colpito in piena faccia. «Ma voialtri qua dentro ci avete gli spiriti!» Il trauma lo fece parlare con un forte accento dialettale. «Questo auditorio è frequentato dagli spettri!» «Vuol farmi il piacere di chiuderlo e apporre i sigilli?», domandai ansiosamente. «Non ho ricevuto ordini in merito», rispose, esitante. Anche lui, come noi, era esterrefatto, turbato. «Che razza di posto è questo? Fa venire la pelle d'oca! A che pro i sigilli? Le Parche, mica si possono mettere sotto chiave», soggiunse, come a scusarsi. Che avesse ragione ne ebbi la prova fin troppo alla svelta. Ogni volta che entravo in uno degli altri auditori, spinto dall'assillo di controllare come stessero andando le cose, vedevo il panico dilagare tra gli artisti in preda al nervosismo, al limite del loro coraggio. I miei andirivieni non facevano che aumentare la paura che si era impadronita di loro: guardavano i microfoni con sospetto, perdevano la battuta, dimenticavano il tempo, facevano scempio dei programmi. Se qualcuno rivolgeva loro la parola o li toccava, sussultavano, schizzavano indietro come per schivare un pericolo raccapricciante in agguato nell'ombra. Quando entrai nel mio ufficio per tirarmi su il morale, che quella sera era a zero, con una doppia razione di whisky, vi trovai Charlie. Notò che la mia mano tremava, nel reggere il bicchiere. «Quella roba non ti sarà di nessun aiuto», disse, accennando alla bottiglia. Aveva gli occhi stravolti, le guance incavate, il volto contratto. La sua bocca, che un tempo esprimeva una delicata sensibilità, tremava nel visibi-
le sforzo di non perdere il controllo. «Niente può aiutarmi!», risposi, bilanciando il bicchiere. «Charlie, sono così scoraggiato che se ce la facciamo ad arrivare alla fine dei programmi di questa sera sono deciso a togliere per sempre la stazione dall'aria, anche se per farlo sarò costretto a farla saltare con la dinamite!» «Se ce la facciamo! Nessun musico camperà a lungo, fintantoché quella canzone ammaliatrice palpiterà nell'etere. Non so se il suo appello impellente conduca al paradiso o all'inferno, ma è irresistibile. Va oltre questa stazione radio, ormai...» «Charlie», dissi, chinandomi verso di lui, dimentico del mio drink, «Charlie, credi che in quell'altro mondo, quello invisibile, le anime catturate dal canto delle sirene abbiano in qualche modo una loro esistenza? Visto che sulla terra non possiamo combattere questa forza misteriosa, qualora fosse possibile, mi lascerei svellere dal mio corpo mortale per affrontarla nella dimensione che le è propria». «Dici sul serio?» domandò ansiosamente Charlie. «Vuoi dire che daresti la tua vita per batterti con questo spirito nell'ai di là? Anch'io ci avevo pensato.» «Che altro ci resta?», risposi. «Dominato da un terrore sempre in agguato, per me la vita significherebbe soltanto una eterna fuga da questa canzone. E mi sentirei come un assassino, con le mani lorde di sangue, ogni volta che venissi a conoscenza della morte di un altro cantante.» Ma l'entusiasmo di Charlie era caduto di colpo. «Non risolveresti niente», mormorò. «Ogni conquista ha incrementato la sua potenza. La tua forza vitale non farebbe che aumentare il suo orrendo potere.» «Charlie, se non distruggiamo la potestà di questa musica, né tu, né io potremo continuare a vivere.» «Lo so bene. Quello che conta, non è la mia vita, non è la tua vita. Ciò di cui voglio essere certo è che la mia morte significhi anche la morte della canzone di Alwa. Sono pronto a morire, e tu pure. Ma il nostro sacrificio deve distruggere il mostro! Più tardi, appena finite le trasmissioni, torna qui nel tuo ufficio: progetteremo insieme il nostro decesso.» Mentre aprivo la porta per uscire in corridoio la risata di Charlie mi fece rabbrividire. Il vampiro extraterreno bramava avidamente altre anime. Mancava soltanto mezz'ora al momento in cui abitualmente la nostra stazione chiudeva le trasmissioni, ed io mi diedi da fare per prevenire un qualsiasi altro inci-
dente. «D'ora in poi, soltanto l'orchestra al completo», ruggii passando da un auditorio all'altro. «Niente assolo, di nessun genere! Quanto più numerosa l'orchestra, tanto meglio.» Nel terzo auditorio in cui entrai non feci in tempo a bloccare uno dei nostri soprani più celebri: stava già cantando al microfono. Finita la prima strofa, passò agilmente al refrain. Mi precipitai in sala controllo. Nel cantare il refrain, la voce del soprano cominciò a farsi tremula. La cantante fissava il microfono con sguardo implorante. Dall'altoparlante sgorgarono le fatali note in tono minore. Nelle mie vene si insinuò l'apatia paralizzante. «Si è scatenata di nuovo», gemetti. Fattasi più forte, la «cosa» aveva superato i confini del primo, tragico auditorio. Con uno sforzo di volontà sovrumano, alzai una mano intorpidita, mentre il fonico, come ipnotizzato, contemplava la cantante. Puntando tutto quel poco di consapevolezza che ancora mi rimaneva su un unico pensiero, allungai la mano: le mie dita toccarono l'interruttore. Con uno strattone, tolsi il contatto. Non eravamo più in onda. «E così deve rimanere», urlai al fonico. Immediatamente telefonai al trasmettitore generale e diedi ordine di chiudere all'istante tutte le trasmissioni. Prodigiosamente, la canzone di Alwa era diventata troppo potente, per noi. Mi domandai quanto tempo le sarebbe occorso per infestare altre stazioni radio. In fretta e furia, i musici abbandonarono l'edificio maledetto, nell'ansia disperata di sfuggire al pericolo misterioso. Persino i fonici e i tecnici sbirciarono spaventati i loro apparecchi, e se la svignarono. Tempo pochi minuti ed io ero solo, nell'immenso, silenzioso edificio. Solo, bene inteso, salvo la presenza della canzone fantasma e del trombettista. Tornai nel mio ufficio, dove mi aspettavano Charlie e Madonna Morte. Non so nemmeno io quale pazzesca trovata mi aspettassi dal musicista, ma ciò che egli stava facendo mi lasciò stupefatto: stava scrivendo a tutto vapore delle note su carta pentagrammata. «Quello è l'originale della canzone di Alwa», mi disse, indicandomi alcuni fogli con dei segni a matita. Vincendo una certa ritrosia, diedi un'occhiata alla musica. Bloccai il mio cervello per non cedere all'istintivo desiderio di leggere gli accordi letalmente affascinanti.
Charlie stava componendo della musica, ma non capii dove prendesse l'ispirazione: sembrava copiare le note da alcuni grossi volumi di consultazione che aveva lì accanto. Volumi di carattere tecnico, illustrati con tavole che spiegavano l'uso degli accordi, le armonie, le modulazioni di frequenza. Come gli antichi alchimisti, Charlie scartabellava i libroni e scarabocchiava note. Il sudore gli scorreva dalla fronte, i suoi capelli erano madidi, negli occhi gli si leggeva il terrore e una fretta disperata. «Sei pronto?», mi domandò. «Sì», fu la mia sola risposta. «So che sai suonare il violino.» Con tono amaro, soggiunse: «Farai poca fatica a non stonare!» Non volevo morire. Anche se da quando lo spettro si era impadronito dei nostri canali radio la vita era soltanto un susseguirsi di ondate di terrore, non volevo buttarla via inutilmente. Rabbrividii, al pensiero di venire inghiottito nel vuoto senza fondo, di dissolvermi nella muta eco di una canzone distruttrice, di donare per l'eternità una energia tremenda a un canto che riduceva l'anima a un nulla. Poi ripensai ai tre che erano già morti. Migliaia di altre persone avrebbero cantato davanti a un microfono; domani e i giorni a venire, milioni di creature umane avrebbero aperto la radio, inconsapevoli dell'ingorda morte pronta a suggere l'anima dai loro corpi indifesi. «Sono pronto, Charlie», dissi. «Sei certo di volere andare fino in fondo?» «Se non c'è altro mezzo, sono pronto.» «Siamo nella stessa barca, George. Sto aggrappandomi a una pagliuca, questa composizione alla quale sto lavorando. Stiamo affrontando una cosa peggiore della morte e la previsione logica è che saremo entrambi preda della mostruosa sirena. Giocando questa carta, rischiamo le nostre anime.» «È meglio morire combattendo. Proviamo!» «Ricordatelo: è un tentativo disperato. Ho fatto del mio meglio per scovare l'esatto opposto di ogni nota di quella canzone. Che il suono sia soltanto vibrazione lo sai; ad ogni vibrazione corrisponde una vibrazione contraria. Cozzando l'una contro l'altra, si annullano. Io ho messo giù per iscritto l'opposto di ogni nota, di ogni accordo della canzone di Alwa. Stai a sentire!» Afferrò un violino e si mise a suonare il brano che aveva composto. Mai, in vita mia, avevo udito dei suoni tanto discordanti. Il violino strideva acu-
tamente, quasi gridasse improperi. Il suo lamento raggiungeva il limite della sopportazione, superava il massimo della frequenza percettibile dall'orecchio umano, diventava ultrasuono. Dopo aver trillato come un campanello impazzito, emetteva dissonanze tali da far allegare i denti. «È spaventoso!», dissi, rabbrividendo. «Esattamente. Repellente nella stessa misura in cui la canzone di Alwa è affascinante. Le note opposte, gli accordi opposti, ecco cos'è.» Ciascuno col violino in mano, entrammo nell'auditorio. Innestai il trasmettitore e misi a punto un microfono. A quell'ora della notte era poco probabile che sulla nostra lunghezza d'onda vi fosse qualcuno in ascolto. «Quando vuoi, George», bisbigliò Charlie. «Nel caso non dovesse funzionare, addio, amico...» Diedi un'ultima occhiata in giro. L'auditorio era spoglio come una sala operatoria: c'erano soltanto alcune seggiole e, per terra, i cavi dei microfoni. L'atmosfera era pesante, vi stagnava un presagio di catastrofe; i doppi cristalli dell'invetriata della sala controllo deserta riflettevano debolmente la luce. Per un momento pensai a quel chiarore riflesso sui nostri cadaveri abbandonati sul pavimento fino all'indomani mattina, fino a che qualcuno li avesse trovati. Con un'alzata di spalle rassegnata, mi dedicai al manoscritto di Alwa. Gli altri tre erano morti senza soffrire. Ma le loro anime, dove erano andate a finire? Alzai il braccio. Il mio archetto trasse dallo strumento le prime note in chiave minore. Improvvisamente mi ritrovai in un altro mondo. Non riuscivo più a controllare le mie dita, esse suonavano indipendentemente dalla mia volontà. Un qualcosa di estraneo si era frapposto tra il mio cervello e le mie mani, quasi abbacinandomi; e usava i miei muscoli, il mio violino. Anelavo a sprofondare nelle tenebre tentatrici. Bramavo lasciarmi trasportare da quella musica meravigliosa come la lanuggine del cardo selvatico portata dal vento. In un cantuccio del mio cervello squillava insistente un campanello di allarme, ma lontano, in un'altra vita. Fluttuavo su una soffice nube di sogni incantevoli. Come in un dormiveglia, vidi Charlie alzare il suo violino. Ma era molto più affascinante osservare le mie mani e ascoltare. Improvvisamente la musica del mio strumento cessò. Continuavo a suonare come in stato di ipnosi, ma dal violino non usciva alcun suono! Sentii sotto il mio mento vibrare il legno fino alle corde, ma lo strumento era mu-
to! Charlie suonava con furia selvaggia, gli occhi inchiodati sul suo manoscritto. Il mio archetto andava su e giù sulle corde, le mie dita guizzavano sul manico dello strumento, ma non udivo il minimo suono. Non che io fossi diventato sordo, no, perché per due volte il violino alzò la sua voce implorante. Come saette erompenti da un cielo tempestoso, a tratti alcune note sprizzavano fuori, spegnendosi istantaneamente. Poi le mie mani non furono più in balìa di un potere misterioso: smisi di suonare. Il mio cervello si districò dal conflitto tra fattori sovrumani. «Ha funzionato!» esclamò ansando Charlie. Col braccio si asciugò il sudore che gli imperlava la faccia. «Presto, un'altra volta!», mi ordinò. E questa volta dovetti fare attenzione alla musica. Il potere arcano si impadronì di nuovo delle mie mani, ma con minor vigore. Incitò la mia volontà ad abbandonarmi al flusso della melodia, ma mentre suonavo ero ancora in grado di pensare, sia pure torpidamente. Come poco prima, vidi Charlie alzare il suo archetto e la mia musica cessò. Come quando al cinema non funziona il sonoro, noi suonavamo furiosamente ma nel più completo silenzio. Soltanto due volte, quando Charlie commise un errore di sincronizzazione, per una frazione di secondo nell'auditorio risuonò un accordo. Ex abrupto tutto finì. Poco prima della canzone, quando avrei dovuto udire le note imploranti di capitolazione, le mani dello spettro lasciarono le mie. Le abbandonarono così di repente che le mie dita annasparono sulle corde e io saltai parecchie note. Nel mio cervello tumultuarono le discordanze della composizione di Charlie. «Charlie», gridai. «La sirena se ne è andata! Sono libero!» Tornai a guardare il manoscritto della canzone di Alwa. «No!» urlò Charlie, balzandomi addosso. Afferrò i fogli, accese un fiammifero e diede fuoco al manoscritto. «L'abbiamo uccisa?» domandai ansiosamente, osservando la carta farsi nera e contorcersi. «Non si può uccidere uno spirito immortale», mi rispose. «Però lo abbiamo ricacciato nel mondo cui appartiene.» Battendo dei colpetti sul manoscritto della sua composizione, egli mi ammonì: «Questa sarà l'armatura dell'umanità contro qualsiasi altro assalto nel futuro. Conservala religiosamente!»
Signori radioascoltatori, è a lor signori che mi rivolgo. Si contano a milioni, gli amanti della musica che lamentano la scomparsa dei famosi programmi radiofonici di Charlie Corliss: ebbene, ora essi sanno per quale ragione i meravigliosi assolo della sua tromba non solcheranno mai più l'etere, né ora, né mai. IL TERRORE VIENE DAL CIMITERO di Thorp McClusky Fu in maggio che Karl Maercklein si legò un grosso peso da stadera alle caviglie e si buttò dal ponte coperto, per affogare nelle acque gelide e veloci del Little Stony che scorre cinque chilometri più a sud del nostro villaggio; il mese di maggio non era ancora finito quando sotterrarono Jorma Nurmi nel riquadro del cimitero riservato alla famiglia Nurmi, a qualche metro dallo steccato di legno verniciato di bianco che separa il reparto dei riformisti olandesi dalle altre sezioni del nostro piccolo cimitero, destinate alle varie sette protestanti. Secondo quanto si sussurrava in giro, Karl si sarebbe tolto la vita perché il vecchio Sven Nurmi aveva giurato che mai e poi mai una sua figlia avrebbe sposato un olandese della Pennsylvania. Si mormorava anche che Jorma fosse morta di crepacuore. Ne ero convinto pure io, allora... Non partecipai al funerale di Jorma. Nessun olandese vi andò, conoscevamo troppo bene l'odio che Sven nutriva per tutti noi; un odio di cui forse persino Sven aveva dimenticato la genesi. Ma il mattino presto mi recai a casa dei Nurmi, con la fondata convinzione che, per permettere agli amici olandesi di Jorma di portare il loro ultimo saluto alla salma della povera fanciulla colpita da morte prematura, durante la mattinata il padre si sarebbe ritirato in cucina. Così fu, infatti: Sven non si fece vedere. Chris Petersen mi ricevette sulla porta d'ingresso e mi condusse in casa con l'atteggiamento di ipocrita untuosità che gli imprenditori di pompe funebri pare abbiano il particolare talento di assumere e di svestire a comando. «Per l'amor del cielo, Chris», gli mormorai con tono di rimprovero, mentre entravamo nell'anticamera, «non fare quella faccia da bacchettone. Già sono nervoso: Sven non mi può sopportare, perciò qua dentro mi sento fuori posto.» Egli allora mi guardò. E in quell'istante mi sfiorò una strana sensazione
di stupore: i suoi occhi erano colmi di un orrore profondo. «Che succede, Chris?», domandai subito. «Niente», borbottò, «niente.» Intanto eravamo arrivati alla porta del soggiorno. Bruscamente, la sua mano guantata si staccò dal mio braccio. «È lì dentro.» Io entrai da solo, avvicinandomi al cataletto coperto di fiori. Jorma Nurmi era bella persino in morte. L'avevo vista l'ultima volta al funerale di Karl Maercklein e anche allora soltanto per un momento: aveva il volto tirato e smunto, gli occhi arrossati per il gran piangere. Ma nella pace del sonno eterno la sua giovanile bellezza era tale da togliere il respiro. Sembrava addormentata, le mani sottili incrociate sul petto, i bei capelli soffici sparsi sul cuscino di satin come oro liquido. Ristetti a guardarla per un bel po', mentre nella mia mente confluiva una ridda di ricordi: la rivedevo com'era quando si affrettava verso la scuola, e alle feste campestri, e passare davanti a casa mia nella vecchia, decrepita guida interna di Karl Maercklein, facendomi grandi cenni di saluto, gli occhi stellati. Poi, con un nodo in gola e un velo di lacrime negli occhi, passai in sala da pranzo per dire due parole di conforto, almeno così erano nelle mie intenzioni, alla povera madre, sopraffatta dal dolore. Cosa le dissi esattamente non ricordo più: troppo grande era la mia pena per la duplice tragedia. Il terrore latente che avevo notato in fondo agli occhi di Chris Petersen mi era sfuggito di mente; me ne ricordai quando egli mi fermò, mentre stavo uscendo. Eravamo soli, sulla veranda, lui appoggiato alla ringhiera, io fermo sul secondo gradino della scaletta. «In nome di Dio, Chris», gli dissi, «dimmi cosa ti è successo: non sembri nemmeno più tu!» Si inumidì le labbra e annuì. «Queste morti», mormorò sottovoce, quasi si vergognasse. Accennò con la testa alle finestre del soggiorno. «Sono soltanto due settimane che Karl Maercklein giace nella sua tomba, e Jorma già lo ha raggiunto.» Lo fissai di nuovo negli occhi e mi venne da sorridere, ma poi mi trattenni: improvvisamente mi ero reso conto che se la paura era riuscita a insinuarsi nell'anima di quell'imperturbabile necroforo tanto da fargli tremare la voce, senza dubbio il motivo non era da prendersi scioccamente alla leg-
gera o da riderci sopra. «Non capisco, Chris», dissi pacatamente, dopo qualche istante. «Stai parlando per enigmi.» Allungò la mano e le sue dita guantate mi toccarono il braccio: dal tremito che le agitava percepii quanto egli fosse sotto tensione. «C'è qualcosa di strano, nella morte di Jorma... Ho parlato col dottor Strom...» Mi feci subito attento: il dottor Strom era un medico generico giovane ancora, ma in gamba. Sven Nurmi, naturalmente, non si era rivolto a un professionista di origine olandese. «Kurt, tra la gente originaria del Nord, circola un'antica credenza: l'anima di un suicida non può trovar pace finché non è stato esorcizzato il demone che ha indotto l'infelice a togliersi la vita. Si crede che l'anima tormentata del suicida rimanga accanto al suo corpo tribolato, per trascinare le persone amate in una morte che non è morte, ma una sacrilega cessazione della vita, un rinvio della morte reale, uno stato del tutto simile a quello del suicida.» Lo scrutai a lungo, da vicino. «Sei un vecchio imbecille», gli dissi, dopo un po' di tempo. Mi guardò fisso, le mascelle serrate. «Ah sì?» replicò pazientemente. «Kurt, non è normale che una ragazza giovane e sana muoia di crepacuore. Del resto, ho i miei dubbi che qualcuno sia mai morto di crepacuore... E non lo dico per il gusto di esibire del cinismo. Si capisce, per il gran dolore può succedere che una persona si trascuri al punto che la morte può sopravvenire per cause collaterali; ma Jorma non è morta di fame, o di sete, o di malattia. È morta, semplicemente... entro due settimane!» «Che stupidaggini!», replicai senza tanti complimenti. «Mi hai scocciato. Me ne vado, ho da fare.» Egli mi fermò mettendomi la mano sul braccio. «Stai a sentire, Kurt: il corpo di Karl Maercklein giacque sul letto del fiume Little Stony per una notte e metà del giorno susseguente, prima che fosse dato l'allarme e che si trovasse il cadavere. Eppure, nella notte in cui egli si uccise, quando nessuno al mondo poteva sapere che era morto, Jorma Nurmi sognò di vedere accanto a sé lo spirito di Karl! Un sogno così nitido, di un realismo tanto straordinario che l'indomani lei lo raccontò a sua madre. Kurt, in nome del cielo, come faceva Jorma Nurmi a sapere, dico sapere, che Karl Maercklein si era ucciso, ore e ore prima che ripescas-
sero la salma?» Mio malgrado rimasi impressionato: parlava con una convinzione tanto profonda! Mi strinsi nelle spalle, vagamente a disagio. «Telepatia, forse», suggerii. «Nell'attimo supremo che precede il decesso, la mente umana a volte può realizzare cose incredibili. È noto che le visioni telepatiche sono fenomeni ammessi dalla scienza. Cosa c'è di più normale del fatto che Karl, nell'ultimo istante della sua vita, abbia desiderato mettersi in comunicazione con Jorma?» Chris scosse la testa. «Da allora, Jorma Nurmi ha continuato a sognare il suo innamorato, una notte dietro l'altra. Kurt, ho parlato con i suoi familiari e col dottor Strom. Nelle ultime ore, lei era là, sdraiata sul letto come una cosa ancora viva ma esangue, come se la sua anima se ne fosse già andata. Le pupille dei suoi occhi non reagivano più alla luce, i riflessi motori erano scomparsi, eppure Strom la imbottiva di stimolanti. Kurt, era come un veicolo senza nessuno al posto di guida!» «Oh, smettila», replicai con impazienza. «Stai dando corpo a delle fantasie...» Mi guardò fisso, con occhi privi di espressione come quelli di una bambola di porcellana. Poi rise rocamente. «Se questa notte verrai con me al cimitero, Kurt», disse, con tono macabramente allusivo, «ti mostrerò le prove!» S'interruppe bruscamente perché stavano entrando altri visitatori: marito e moglie di mezza età, venuti a porgere le loro condoglianze. Come un attore che si immedesimasse anima e corpo nel ruolo assegnatogli, ex abrupto raddrizzò le spalle, ridivenne il perfetto cerimoniere funebre. Ma l'orrore nascosto in fondo ai suoi occhi non scomparve per niente. «Sta bene, Chris. Verrò con te.» Lentamente, mi allontanai, dopo aver fatto un leggero inchino ai nuovi venuti, incrociandoli sul vialetto inondato di sole. «Chris, secondo me, ci stiamo comportando come due vecchi rimbambiti!» Coi muscoli indolenziti dal freddo penetrante portato dalla brezza notturna, Chris Petersen ed io eravamo fermi nello stretto vialetto ghiaioso che si snoda tra le tombe del reparto riformista olandese del cimitero. Niente luna, quella notte, perciò il buio era abissale; più che vedere, percepivamo intorno a noi le tombe ornate di sottili colonnine e i tumuli erbosi
sotto i quali riposavano i defunti. Poi il raggio giallastro della torcia a mano di Chris trafisse l'oscurità, palesando ai nostri occhi un piccolo cippo nuovo di zecca, una tomba sulla quale le zolle erbose conservavano ancora la divisione in rozzi rettangoli, conseguenza del fatto di essere state tolte dapprima dal terreno e poi ricollocate con cura sul tumulo: la sepoltura di Karl Maercklein... Quasi con risentimento, guardai quella tomba recente, più alta delle altre per via della terra spalata di fresco. Sopra vi erano ancora le intelaiature di alcune corone, coperte di muschio, e i rimasugli di fiori appassiti; accanto al cippo, qualcuno aveva collocato una piccola cornucopia colma di zinnie, astri e altri fiori freschi. Con un brivido mi venne fatto di pensare che anch'io, entro una ventina di anni al massimo, sarei diventato un residente stabile di quello stesso cimitero... Chris aveva diretto la luce della sua torcia sulla tomba e stava scrutando l'erba, centimetro per centimetro, con accurata, snervante lentezza. Finalmente si lasciò cadere in ginocchio e si mise a separare i fili d'erba con la mano sinistra mentre nella destra avevo ancora la torcia. «Kurt!» Accoccolandomi alle sue spalle, esaminai attentamente la zolla erbosa su cui cadeva il cerchio di luce della sua torcia, circa a metà della sepoltura ancora fresca. Non mi riuscì di scoprire niente di straordinario: soltanto un monticello di erba appassita e i petali morti, secchi, residui, del funerale. Ah, sì, anche due piccoli fori, molto vicini, scarsamente visibili tra gli steli d'erba; fori che avevano tutta l'aria di essere stati fatti di recente da grossi lombrichi, quelli che vengono comunemente usati come esca dai pescatori. Chris aveva poggiato la sua mano sinistra sul mio braccio. «Hai visto, Kurt?», esclamò con voce roca. «Quei buchetti? Li ho notati alcuni giorni fa... Le vecchie leggende dicono...» Mi rizzai in piedi, le giunture rigide. «Sei un idiota», risposi con impazienza. «Sono stati i vermi, a fare quei buchi, e tu lo sai benissimo. Andiamo, sta facendo sempre più freddo.» Improvvisamente egli spense la torcia e l'oscurità che piombò a bruciapelo su di noi mi provocò una sensazione assai più sgradevole della sua vaga, assurda allusione. Nel buio fondo, lo sentivo respirare, pesantemente. Poi, dopo un momento, mentre ci allontanavamo lentamente dalla tomba, mi giunsero le
sue parole: «Kurt, ho un presentimento: non passeranno molti giorni e tu rimpiangerai con tutto il cuore di non avermi aiutato a purgare la sepoltura di Karl Maercklein questa notte stessa...» Fatto curioso, nei giorni che seguirono mi riuscì difficile cancellare dalla mia mente il ricordo delle allusioni di Chris. Allusioni senza fondamento, ma lui era sembrato così convinto, così lucido, che più spesso di quanto avrei creduto potesse accadere mi colsi a chiedermi se non fosse nell'ambito delle possibilità che oscuri fenomeni, come quelli da lui accennati, fenomeni di natura per metà occulta e per metà fisica, si verificassero realmente. Mio malgrado, ripensai alle leggende, alcune delle quali erano state accettate persino dalla Chiesa, nel Medio Evo. Leggende che negavano all'anima di un suicida l'ingresso al paradiso, all'inferno e persino al limbo, quel regno delle ombre che molti studiosi di scienze occulte credono esista veramente. Comunque, confesso che non ero propenso a dare troppo peso a fantasticherie del genere e, col passar del tempo, le rievocai sempre più raramente. Poi, una sera, Wilfrid Andersen mi mandò a chiamare: sua moglie Hildur era malata. Gettata la mia borsa sul sedile posteriore, mentre salivo in macchina mi colse una strana sensazione di disagio: improvvisamente mi ero ricordato che Hildur era la sorella di Jorma. Aveva circa un anno di più della fanciulla morta di recente. Wilfrid mi aspettava sulla porta di casa e mi fece subito entrare. Ci scambiammo una stretta di mano da buoni amici: lui non condivideva affatto i pregiudizi del suocero contro gli olandesi. Trovai Hildur in salotto, sdraiata sul sofà. Vedendomi entrare, mi rivolse un pallido sorriso. Dopo lo scambio di frasi di convenienza, Wilfrid ci lasciò soli. L'aspetto di Hildur mi aveva dato un vero e proprio shock. I Nurmi hanno tutti una salute di ferro: fino alla letale malattia di Jorma, le ragazze, belle bionde dalle gambe lunghe e dritte, coi seni alti, raramente erano state indisposte. Dio mio, povera Hildur! Quando l'avevo vista l'ultima volta pesava sui cinquantacinque chili, carne soda, sprizzante vitalità, e ora eccola lì che sembrava un sacchetto di ossa! Sulle tempie, la pelle era diventata trasparente, tanto era tirata; i contorni del cranio e degli zigomi risaltavano angolosi, come intagliati con uno scalpello.
La visitai a fondo, soffermandomi con particolare cura a interrogarla sulla dieta che seguiva. Alla fine del mio esame ero completamente disorientato: Hildur era sana come un pesce, non presentava traccia di disturbi organici, né sintomi di malattia. Soltanto i suoi occhi erano leggermente vitrei. Feci ricorso a un atteggiamento di cordiale giovialità: «Su, su, Hildur!» le dissi in tono di rimprovero. «Un fior di figliola come te che se ne sta a letto facendo la malatina! Dovresti cercare di reagire: tenta di dimenticare quello che è successo, pensa soltanto a cose gradevoli. Hai passato dei brutti momenti, lo so bene, ma non sei mica ammalata.» Lei mi sorrise. Era un sorriso sinceramente divertito. «No, dottor Kurt», rispose tranquillamente, «non sono ammalata. Entro pochi giorni sarò morta, ma lei ha ragione: non sono affatto ammalata...» «Morta?!», feci eco stupidamente. Mi guardò e per un istante i suoi occhi mi parvero non più vitrei. Il divertito sorriso che le aleggiava sulle labbra si accentuò. «Morta», ripeté soavemente. «E indicibilmente felice. Wilfrid non tarderà molto a seguirmi. Jorma era la mia sorellina prediletta...» Girò la testa verso la parete. «Le persone positive come lei, dottor Kurt, a volte sono terribilmente stupide. Se ne vada, per favore, mi lasci dormire e sognare...» La sua voce, diventata un sussurro, si spense. «E questo è quanto, Chris. Ho lasciato a Wilfrid varie medicine e Hildur ha consentito a prenderle senza fare la minima obiezione, ma con l'aria di chi, in fondo, trova la cosa divertente; dentro di me, so che non le saranno di nessun giovamento. Lei vuole morire, Chris. Dio solo sa che cosa la tormenta.» Lasciando la casa degli Andersen, ero andato direttamente da Chris Petersen. Eravamo seduti nel salotto-ufficio dell'impresario di pompe funebri, arredato con piante di Hevea brasiliensis, un tavolo dal ripiano di marmo e seggiole dallo schienale austeramente rigido. Chris poggiò le mani sulle ginocchia spigolose e mi fissò. «Ti avevo avvisato, Kurt», disse gravemente. «Qui nel nostro villaggio qualcosa ha preso il via col suicidio di Karl Maercklein. Di cosa si tratti non lo sappiamo, possiamo soltanto intuirlo. Non abbiamo precedenti a cui riferirci, unicamente delle leggende, ma una cosa è certa: dobbiamo stron-
care il fenomeno, e al più presto possibile. Ovviamente, l'anima di Karl non ha raggiunto la pace eterna. Altrettanto ovviamente, l'anima di Karl deve essere liberata dai lacci che la costringono a rimanere accanto ai viventi, se vogliamo sperare di metter fine a questa serie di morti a catena.» Ascoltai le parole di quell'uomo attempato in umiltà. La sconfitta delle mie conoscenze mediche mi aveva disorientato. «Già», domandai con esitazione, «ma come facciamo a sapere in che cosa consistono questi lacci?» Scosse la testa con insofferenza. «Non possono consistere che in carne e sangue... La carne e il sangue dai quali la sua anima è stata separata prima che arrivasse la sua ora. Per un certo verso, il suicidio di Karl Maercklein ha un aspetto chiaramente peculiare: il suo corpo non subì lesione alcuna, rimase intatto. Le vecchie leggende suggeriscono vari esorcismi, parlano di piuoli per trapassare il cuore e anche d'incinerazione. Per il bene di tutti noi dobbiamo assolutamente rendere il corpo di Karl Maercklein inabitabile per la sua anima.» «E quello di Jorma Nurmi?...» sussurrai. «Sì. Anche quello di Jorma Nurmi.» Restammo a lungo in penoso silenzio. Come affascinato, fissavo stupidamente un punto del tappeto, dove la trama era lisa. Poi, con imbarazzo, mi decisi a parlare. «Né i Maercklein, né Sven Nurmi ci permetterebbero di manomettere quelle tombe. Facendolo di nascosto, corriamo il pericolo di essere presi sul fatto. Non ho nessuna voglia di finire in galera per vampirismo!» Chris mi guardò per alcuni istanti. L'azzurro dei suoi occhi si fece più cupo, come velato da una caparbia determinazione. «Gustav Wendt, il guardiano, abita nella piccola portineria, dietro la cappella del cimitero. Per quanto ne so io, in vita sua non ha mai respinto l'opportunità di farsi un buon bicchiere di whisky gratis. Dubito che in questa stagione i pescatori, anche i più fanatici, vadano al cimitero in piena notte a caccia di vermi. I tumuli sono freschi: potremmo ricomporre il loro aspetto attuale senza difficoltà.» Io continuavo a fissare il cantuccio di tappeto liso. «Avremmo bisogno di qualcun altro, per aiutarci.» «Sì. Ho già parlato con Wilfrid Andersen. È d'accordo.» L'affermazione, espressa in tono pacato, mi lasciò di stucco. «Ma oggi lui non me ne ha detto niente», feci osservare, stupefatto. Chris annuì. «L'avevo messo al corrente dei tuoi... tentennamenti. Wil-
frid, invece, condivide la mia convinzione. Giorno per giorno, mi ha riferito le condizioni di Hildur. Se abbiamo aspettato tanto tempo è stato soltanto per non avere proprio il minimo dubbio.» A un tratto si alzò; avvicinatosi alla sua piccola scrivania, tirò fuori da un cassetto una lunga busta piatta che sembrava contenere vari oggettini angolosi di metallo. «Vieni», disse, sottovoce. Senza commenti, infilò la busta nella tasca interna della giacca. Lasciata la casa, mentre percorrevamo il vialetto che attraversava il giardino, non seppi trattenermi dal chiedergli che cosa contenesse la busta che si era appena messo in tasca. La sua risposta fu laconica. «Crocifissi». «Crocifissi!» esclamai. «Ma noi non siamo cattolici apostolici romani, Chris; e non lo erano nemmeno Jorma e Karl.» Mi pose la mano sul braccio, e parlò con profonda gravità: «Ci stiamo buttando alla cieca, in questa faccenda, Kurt. Come tu sottintendi, è ben possibile che questi crocifissi non abbiano alcuna efficacia, però sarebbe proprio da sciocchi trascurare una eventuale arma, qualunque essa sia. E in quanto al fatto che noi non apparteniamo alla Chiesa Cattolica Romana, ti dirò che il significato della Croce oltrepassa i confini del cattolicesimo. A volte io mi domando, Kurt, se noi protestanti non commettiamo un errore, dando così poca importanza ai grandi simboli della religione. Oh, ma eccoci arrivati.» Il capanno degli attrezzi si ergeva come una massa indistinta, stagliandosi più scuro contro la volta del cielo notturno. Chris scomparve nell'interno. Udii il rumore sordo di oggetti di metallo e di legno che cozzavano tra loro e quando egli ricomparve aveva le braccia cariche: un telone impermeabile ben ripiegato, una vanga, una pala, un mazzuolo e due corti picchetti, ciascuno lungo circa venticinque centimetri e con una delle estremità appuntita tanto da sembrare uno stocco; probabilmente questi erano stati ricavati dal manico di un badile, di legno particolarmente duro. Con metodo, Chris distribuì tra noi due quei sinistri arnesi e poi raggiungemmo là sua macchina, parcheggiata vicino al marciapiede. Scaricati gli attrezzi nel portabagagli, salimmo e ci dirigemmo verso la casa di Wilfrid Andersen. Wilfrid non mostrò nessuna sorpresa, nel vedermi. Afferrò la mia mano e la strinse forte per un buon momento, mentre varcavo la soglia di casa
sua, ma non disse una parola. Entrammo in salotto e ci mettemmo a sedere. Il sofà sul quale nel pomeriggio avevo trovato sdraiata Hildur era vuoto. «L'ho portata di sopra, l'ho messa a letto», disse Wilfrid, in risposta alla nostra muta domanda. «Le hai dato le compresse di sedativo?» domandai. Chris si avvicinò al tavolo del salotto e la luce della lampada mise in evidenza le sue mani scarne, affilate. Con uno strappo, aprì la busta e un eterogeneo assortimento di piccoli crocifissi cadde sul ripiano. Inutilmente, mi chiedevo dove e come se li fosse procurati. «Wilfrid», disse, scandendo le parole, «prendi questi crocifissi, vai di sopra e attaccali alle persiane avvolgibili. Uno appuntalo sulla camicia da notte di Hildur e un altro legalo alla maniglia della porta. Assicurati che tutte le finestre e le porte siano ben chiuse, le porte a chiave.» Dopo aver accennato, chissà perché, una riverenza come quelle che fanno i bambini, Wilfrid Andersen raccolse i crocifissi e lasciò il salotto. Noi attendemmo in silenzio, in piedi al centro della stanza arredata all'antica. Dal piano di sopra ci giunse il tonfo delle imposte che venivano chiuse, poi lo scricchiolio dei gradini di legno che gemevano sotto il peso dei passi di Wilfrid, mentre questi tornava a pianterreno. «È profondamente addormentata.» Tutti e tre insieme, uscimmo in istrada. Ci fermammo qualche minuto sul marciapiede, mentre con frasi stringate Chris esponeva il piano di battaglia. «Wilfrid, nella tasca laterale della mia auto ci sono due bottiglie di whisky. Tirale fuori, versati addosso un po' di liquido e risciacquati varie volte la bocca con lo stesso. Il dottor Kurt ti darà qualcosa da mettere nel bicchiere di Gustav; ma stai attento a non farti sorprendere. Lasceremo passare un'ora, prima di seguirti, e non entreremo nel cimitero con la macchina; il tuo compito è unicamente quello di tenere fuori dai piedi Gustav. Se puoi, rifilagli il sonnifero, ma se non vi riesci, la cosa migliore è che tu gli faccia fare il pieno di alcool. Quando avremo... finito..., torneremo alla mia macchina e daremo un breve colpo di clacson, a intervalli di cinque minuti. Capito?» Con il volto serio, compunto, Wilfrid ci guardò. «Sì, ho capito», disse, con voce bassa ma ferma. «Farò esattamente come dice lei.» Chris appoggiò la sua mano sulla spalla del giovane e ve la lasciò per un buon momento.
«Chris, se dei pescatori in cerca di lombrichi si presentassero al cancello della cappella, impedisci loro di entrare nel cimitero. Soltanto Iddio e noi tre dobbiamo sapere quanto accadrà questa notte.» La mezzanotte era prossima, quando Chris, dopo un'attesa che sembrò durare un'eternità, mise in moto la sua auto e la guidò silenziosamente per le strade del villaggio addormentato. La distanza non era molta: ben presto costeggiammo la cancellata di ferro battuto oltre la quale le tombe si susseguivano in file serrate tra i funerei sempreverdi, potati in maniera convenzionale come in tutti i cimiteri del mondo. Passammo davanti alla volta dell'ingresso, oltrepassammo la cappelletta di arenaria e la casetta del guardiano. Le persiane non erano chiuse e due rettangoli di luce giallognola sembravano spiarci; la guida interna di Wilfrid Andersen, un macinino che aveva i suoi buoni cinque anni di servizio, era parcheggiata sul margine della strada, vicino all'alta cancellata di ferro. Silenziosamente, la macchina di Chris scivolò lungo la stradina dal fondo coperto di ghiaietta, per un duecento metri circa. Poi Chris uscì cautamente fuori strada, infilando la macchina tra i cespugli di una macchia. Spense il motore e i fari. Avvolti nelle tenebre fitte, scendemmo dall'auto e cercammo a tentoni nel portabagagli i macabri arnesi che avevamo portato con noi. Senza fiatare, con infinita prudenza, tornammo sulla strada e costeggiammo la cancellata di ferro battuto fino al pilastro quadrato di pietra che ne segnava il termine. Da lì partiva una siepe artificiale di filo di ferro spinato su tre file, che recingeva lateralmente il cimitero. Insinuandoci tra un filo spinato e l'altro ci ritrovammo sul terreno consacrato. Qui l'oscurità, densa, quasi palpabile, stendeva il suo velo fluttuante sull'erba tagliata rasa e sui monticelli di terra lugubremente evocativi nei quali inciampavamo in continuazione. La notte era fresca, ma l'aria non era pungente: da questo dedussi che entro poche ore sarebbe piovuto. C'era da attendersi una pioggerella minuta, insistente, di quelle che penetrano fino alle ossa. Per paura di essere avvistati, non osammo accendere la torcia di Chris. Non ci volle molto per arrivare alla piccola staccionata che circoscrive il reparto del cimitero riservato ai riformisti olandesi. Dopo aver fatto scivolare sotto lo steccato i nostri sinistri arnesi, scavalcammo la bassa palizzata. Chris si fermò di botto: capii che stava tastando in giro per trovare i pezzi di fil di ferro coperti di muschio che ci avrebbero aiutati a individuare la tomba di Karl Maercklein. Infatti, poco dopo grugnì:
«Ci siamo, Kurt. Stendiamo l'incerata qui vicino; dobbiamo fare molta attenzione, nel togliere le piote erbose che poi dovremo rimettere al loro posto: il tumulo dovrà sembrare come se non fosse stato toccato. Ma penso che dopo, più tardi, potremo accendere la torcia senza correre il pericolo di essere visti.» Cominciammo il nostro macabro lavoro. Un lavoro lento, repellente. Servendoci unicamente del senso del tatto, asportammo le zolle erbose, ammonticchiandole con cura su un angolo del telo incerato. Poi, con vanga e badile, attaccammo la terra, e la sabbia sottostante, per fortuna ancora abbastanza molli e cedevoli. Sebbene lavorassimo come dannati, senza fermarci un momento, con il sudore che ci scorreva lungo la schiena, mentre la montagnola di terra che scaricavamo sull'incerata cresceva gradatamente fino a raggiungere quasi il metro di altezza, ci vollero circa due ore, prima che la pala di Chris urtasse contro la cassa di zinco che racchiudeva la bara. Non furono momenti piacevoli, quelli che impiegammo per ripulire il coperchio di metallo... Un tondino di luce vermiglia, un barlume appena percettibile, sfiorò la superficie della cassa di zinco, incrostata di terra. Eravamo quasi due metri più in basso dei margini della buca, difficile che qualcuno potesse scorgere quel debole chiarore, a meno che non si trovasse nelle immediate vicinanze; tanto più che Chris aveva coperto la lente della torcia con della carta-seta rossa. Lui era ginocchioni, trafficando attorno ai morsetti che tenevano chiusa la cassa... Sei morsetti: poi il coperchio si staccò. Facendo leva col piede di porco e con la vanga lo rovesciammo. Dopo averlo sollevato e tirato fuori dalla tomba, lo appoggiammo al monticello di terra ammonticchiata sull'incerata. Avevamo davanti ai nostri occhi la bara, coperta di stoffa non ancora sciupata dalle infiltrazioni d'acqua, di un colore grigio che il debole chiarore della torcia rendeva quasi rosato. Con abilità professionale, sebbene le mani gli tremassero violentemente, Chris svitò le viti che tenevano a posto il coperchio della bara. Adagio adagio, lo rovesciammo di lato... Eravamo inginocchiati in equilibrio instabile, uno ai piedi, l'altro a capo del feretro. Sotto i nostri occhi giaceva il cadavere di Karl Maercklein. La salma era nella esatta posizione in cui Chris l'aveva composta per il funerale, le mani incrociate sul petto, gli occhi chiusi. Sul volto, la barba era cresciuta di un buon mezzo centimetro e le unghie erano notevolmente lunghe. Le guance erano incavate, ma la gola appariva turgida e sulla fron-
te l'epidermide tendeva al bluastro. Il vestito fasciava strettamente il torace fattosi gonfio; il cadavere emanava un pungente odore di disinfettante misto all'inconfondibile miasma della putrefazione già in atto. Osservando la salma di Karl Maercklein, appena visibile alla luce smorzata della torcia di Chris, mi sentii venire la pelle d'oca. «Chris», mormorai allora, «abbiamo commesso un errore tremendo, tremendo! Questo corpo è morto definitivamente: la decomposizione è già in atto. Ci siamo lasciati prendere la mano dalle nostre idee pazzesche, abbiamo voluto inserire il soprannaturale nella cosa più normale di questa terra, la morte di un essere umano! Gesù! Rimettiamo a posto la tomba e lasciamo in pace questo infelice!» Per alcuni minuti che trascorsero lenti come un'eternità, Chris rimase là accoccolato alla testa della bara, mentre il silenzio e l'umidità della notte mi facevano tremare come una foglia, sconvolto di paura e di orrore. Poi la sua voce mi giunse in un sussurro rauco, distorto. «Sì... sì! Ma prima devo essere sicuro...» Lo intravidi frugarsi in tasca, tirar fuori un piccolo bisturi. La sua mano si protese, la lama incise la carne della salma, raggiungendo un'arteria già marcia. Poi le dita di Chris premettero delicatamente quella carne morta. Dalla piccola incisione trasudarono lentamente alcune goccioline del liquido che si usa per imbalsamare. «Morto», bisbigliò Chris, «morto e stramorto. Devo essere stato pazzo...» Quaranta minuti più tardi, i muscoli irrigiditi e doloranti, i nervi a fior di pelle per la tensione cui erano stati sottoposti, collocammo le ultime zolle erbose sulla tomba di Karl Maercklein. Poi rimettemmo al loro posto i pezzi di fil di ferro delle corone funebri e la cornucopia con i fiori freschi. Stanchi morti, muovendoci come automi, ripiegammo il telone impermeabile e rimanemmo là in piedi nel buio per un bel po', tendendo le orecchie. Per un istante Chris diresse la luce della sua torcia, vivida perché egli aveva tolta la carta-seta rossa con cui l'aveva velata, sulla fossa, poi la spense di nuovo. «Fra poche ore pioverà», borbottò. «E per questo, sia lode al cielo!» Inciampando, trascinandoci a fatica, tornammo indietro e dopo una camminata che ci sembrò durare anni, finalmente ci arrampicammo sull'auto di Chris; infilata la stradina cosparsa di ghiaia passammo di nuovo davanti alla casetta del guardiano. Dalle due finestre gemelle usciva ancora luce e la macchina di Wilfrid era sempre là, dov'era prima, sul ciglio
della strada. Fatto un centinaio di metri, Chris diede un colpo di clacson. Pochi minuti dopo udimmo il rumore dell'avviamento dell'auto di Wilfrid e il motore mettersi in moto. Con Wilfrid al seguito, proseguimmo fino alla casa di questi. Senza fiatare, entrammo. Il giovane ci lasciò subito soli, dicendo, con la voce un po' impastata: «Hildur...» Quasi in un dormiveglia ascoltai i passi che salivano le scale. Ad un tratto il suo grido di angoscia lacerò la quiete della notte. Dopo esserci scambiati un'occhiata allarmata, Chris ed io ci precipitammo su per la scala angusta. La porta della stanza di Hildur era spalancata e ne usciva un fiotto di luce. Come invasati, piombammo nella camera. Wilfrid Andersen era ritto sul tappetino scendiletto, la figura giovanile come contratta, gli occhi stravolti fissi sul corpo disarticolato, immobile, di sua moglie, che giaceva rattrappito tra le coperte in disordine, quasi fosse un assurdo manichino di cera. Gesù! Nel pomeriggio, quando l'avevo visitata, era, sì, incredibilmente emaciata, macilenta, ma in poche ore Hildur era diventata addirittura irriconoscibile, alla lettera. Uno scheletro ricoperto di una sottile pellicola di pergamena; la mano destra, che pendeva senza vita dal bordo del letto, sembrava quasi trasparente. Ne ho visti di malati, specie tubercolosi, indugiare sulla soglia dell'ai di là, ma mai, prima di allora, mi era capitato di vedere un corpo tanto strutto che trattenesse ancora un barlume di vita. Perché era viva, sì. Seppure vacillante come la fiammella di una candela giunta al lumicino, il polso reggeva ancora. Capii che soltanto un'immediata trasfusione di sangue avrebbe potuto salvarla. L'alba grigia era già penetrata nella stanza, prima che io mi azzardassi, sia pure per un istante, a scostarmi dal capezzale di Hildur. Ero intontito di stanchezza, i miei nervi avevano perso ogni facoltà di reazione, quasi fossero diventati pezzetti di elastico vecchio e logoro. Avevo la sensazione che se qualcuno avesse sparato un colpo di pistola vicino al mio orecchio, o Satana in persona fosse entrato nella stanza, non avrei nemmeno sussultato. Nella camera regnava un silenzio sepolcrale. Wilfrid, il volto cereo per la perdita di sangue, da quando avevo estratto dal suo braccio il tubulo e medicato l'incisione, non aveva spiccicato parola. Chris Petersen era in piedi davanti alla finestra, dando le spalle alla stanza e fissava il cielo
plumbeo che andava a poco a poco schiarendosi. Stava rimuginando, lo sapevo; stava rimuginando da parecchio tempo... Alla fine si voltò e si guardò intorno con le sopracciglia aggrottate. «Avevo ragione io, Kurt», mormorò con calma. «Avremmo dovuto fare al corpo di Karl Maercklein il trattamento consigliato dalle vecchie leggende: avremmo dovuto tranciare i legami che ancora incatenano la sua anima. Mi sono lasciato trarre in inganno dal fatto che nel cadavere era già cominciata la decomposizione: non andava d'accordo con quanto avevo sentito raccontare. Ma adesso abbiamo una prova addizionale. La... la quasi morte che stanotte ha colpito Hildur non è conseguenza di una malattia che potresti trovare nei tuoi libri di medicina, Kurt. Dobbiamo ricominciare tutto da capo.» Alzai la mano destra e rimasi per un momento a fissare le vesciche che mi si erano formate alla base di ogni dito, poi lasciai ricadere il braccio lungo il fianco. «Sì, Chris», dissi con voce piatta, «dovremo ricominciare tutto da capo.» Fece un passo verso di me. La fronte aggrottata rivelava che egli era ancora perplesso. «Avevo sperato... I crocifissi...» disse con esitazione. Poi guardò la figura esangue di Hildur. Sul davanti della camicia da notte di un giallo pallido, c'era un piccolo strappo triangolare. Durante la notte lei si era tolta di dosso il crocifisso... Anch'io, come Chris, guardai verso la porta. La piccola croce che Wilfrid aveva appeso alla maniglia era ancora là, pendeva dal suo pezzetto di cordicella. Con una rauca esclamazione, Chris si avvicinò ai piedi del letto e raccolse un secondo crocifisso, al quale era rimasto attaccato un brandello di stoffa gialla. «L'ha buttato via!» sussurrò. «Pensa, sebbene intontita dai sonniferi, ha avuto la forza di gettarlo via! Ma ce n'era un altro attaccato alla finestra...» Fissò la finestra con l'aria di chi si trova davanti a qualcosa di incomprensibile. Poi sollevò lo sguardo, puntandolo sul rullo dell'avvolgibile. Svelto si avvicinò e srotolò la veneziana. Appuntato alle stecche con uno spillo, là stava il terzo crocifisso. «Capisco», borbottò. «Ora capisco...» Anch'io capii. Forse spinta da un impulso ispiratole dal demonio, Hildur si era alzata dal letto per andare a strappare il crocifisso dalla finestra: la veneziana le era sfuggita dalle mani ormai prive di forza, arrotolandosi sul rullo collocato in alto. Chris lasciò andare il cordone, liberando così la veneziana. Le stecche
risalirono fino a metà finestra, poi si bloccarono bruscamente. Il crocifisso, creando una protuberanza, impediva al rullo di avvolgersi oltre. Si vedeva benissimo il contorno della croce tra le stecche arrotolate: una piccola prominenza a due bracci incrociati. Però... Però la posizione era invertita, il ceppo era rivolto verso l'alto! Senza dire altro, Chris raccolse i crocifissi e se ne andò; dentro di me ero assolutamente certo che era diretto al cimitero, per collocare le piccole croci sulle due tombe. Trascorso un giorno interminabile, verso mezzanotte eravamo di nuovo accanto alla sepoltura di Karl Maercklein e, nel buio più fondo, stavamo disponendo i nostri macabri arnesi da lavoro. La gelida pioggerella che avevamo prevista già cadeva; di tanto in tanto una folata di mucido nevischio ci schiaffeggiava il volto e si posava sui nostri vestiti. Poco probabile, ci dicemmo, che dei pescatori scelgano una notte come questa per andare in cerca di lombrichi! Subito Chris raccolse i due crocifissi che aveva posto alla testa e ai piedi della sepoltura di Karl Maercklein e se li mise nella tasca interna della giacca. Una volta cominciato a scavare, malgrado i nostri muscoli fossero ancora intorpiditi, lavorammo molto più in fretta di come avevamo lavorato ventiquattr'ore prima. Anzitutto eravamo meno timorosi di un'eventuale intrusione di estranei, ma la ragione principale consisteva nel fatto che la terra, smossa di recente, risultava più molle, più facilmente asportabile. In meno di un'ora la bara di Karl Maercklein fu scoperchiata; il suo volto raccapricciante pareva guardarci, alla fioca luce rossastra della torcia che Chris aveva di nuovo oscurata. Raccapricciante non perché era quello di un morto, ma per un'altra ragione: una ragione che mi fece scorrere ghiaccio nelle vene, con fitte dolorose come punture di aghi roventi, una ragione che risucchiò ogni forza dalle mie gambe anchilosate, dalle mie mani contratte, che mi sconvolse il cervello dandomi le vertigini e per poco non mi gettò a capofitto sul cadavere, mentre farfugliavo come uscito di senno! Il volto di Karl Maercklein era cambiato! Le guance non erano più incavate, ma piene e rosse; la turgidezza era scomparsa dalla sua gola; e la barba era appena una ombreggiatura, tale e quale, mi disse Chris, come era quando egli aveva preparato la salma per la sepoltura. Sulla fronte non v'era traccia di mutamento di colore dell'epidermide. Il busto aveva ripreso le
proporzioni normali e le unghie erano di nuovo corte! La bara esalava ancora l'acre odore del disinfettante, però l'altro lezzo, l'orribile miasma di putridume, era scomparso! Mi giunse la voce di Chris, boccheggiante, poco più di un bisbiglio: «Dio del cielo, Kurt, si direbbe che questa notte i crocifissi abbiano impedito la fuoriuscita della demoniaca forma di vita che ancora permane nel cadavere... La demoniaca forma di vita che la notte scorsa era altrove! Lo vedi, la 'cosa' è tornata nella sepoltura e ha cancellato dalla salma ogni traccia di decomposizione! Gesù, Kurt! Di giorno marcisce, e di notte vaga sulla terra e ringiovanisce se stessa...» Con un gesto istintivo la sua mano sfiorò la tasca in cui aveva riposto i piccoli crocifissi tolti della tomba, prima che ci mettessimo a scavare. Anch'io ebbi l'incrollabile certezza che la «cosa» era viva e che le piccole croci l'avevano imprigionata nella tomba. Reggendosi a fatica in equilibrio sull'orlo della cassa di zinco, Chris allungò la mano destra, cercando a tastoni qualcosa sul margine della fossa. Quando tornò ad accoccolarsi aveva in mano uno dei paletti di legno che egli aveva preparato in precedenza, aguzzandone una delle estremità come la punta di uno stocco. «Ci siamo, Kurt», disse. E la sua voce risuonò sinistra. «Puntaglielo sul cuore e reggilo con forza.» Mi porse il paletto. In quell'istante terribile, in me si verificò una specie di sdoppiamento di personalità: una parte di me stesso stava vivendo un incubo spaventoso, l'altra parte faceva da spettatore allo svolgersi del sogno, quasi assistesse a uno spettacolo. Collocai la punta del piuolo sul petto del cadavere, spostandolo finché trovai il punto esatto tra le costole fluttuanti e dandogli l'inclinazione necessaria affinché potesse penetrare direttamente nel cuore. Chino in avanti, per non perdere l'equilibrio dovetti poggiare la mano sinistra sull'orlo della cassa di zinco: il contatto col metallo liscio e freddo mi fece rabbrividire. Chris alzò il mazzuolo. Aveva collocato la torcia in un angolo della fossa, puntellandola perché non oscillasse; in quella luce vermiglia, sembravamo demoni, come quelli che si vedono nelle illustrazioni dell'Inferno del Doré. In quel preciso istante ebbi l'impressione che una saetta di fuoco mi trapassasse il cervello: udii la muta implorazione della «cosa»! Le parole che sembravano nascere dentro la mia testa, parole-pensieri, perché non erano labbra mortali a pronunciarle, suonavano con la voce di
Karl Maercklein! Vidi il mazzuolo oscillare, vidi la bocca di Chris fremere, scossa da un breve tremito e compresi: anche lui aveva udito la «cosa». Poi la mazza descrisse un arco nell'aria e il paletto affondò fino a metà nel cadavere: misto ad abbondante liquido antisettico, dalla ferita sgorgò un getto di sangue di un rosso acceso, che si riversò sulle mie mani. Di nuovo il maglio si alzò e ricadde, conficcando fino in fondo il paletto nel cadavere, tanto che la punta raschiò la base della bara. Guardai quel corpo inerte, il sangue che sgorgava copioso dalla ferita; guardai il volto e dalle mie labbra proruppe un grido, un grido che mi parve non avesse nulla di umano. La faccia aveva di nuovo cambiato colore, diventando grigiastra. Le guance erano di nuovo incavate e sulla gola era riaffiorato il turgore. Anche il busto era gonfio da scoppiare e le dita, inondate di sangue fresco, terminavano con unghie diventate improvvisamente molto lunghe. La parte inferiore del volto era oscurata da oltre mezzo centimetro di barba. L'odore nauseabondo della decomposizione mi giunse alle narici. Eppure, mentre ero là, accoccolato in una buca profonda due metri, immerso, sprofondato in una atmosfera di orrore, mi sentii improvvisamente pervaso da una grande pace. Seppure incredibilmente lontana, credetti udire di nuovo la voce di Karl Maercklein, che mi ringraziava per quanto avevo fatto e mi incitava a proseguire su quella strada, a fare di più... Con la massima cura, aiutandoci di tanto in tanto con brevi sprazzi di luce della torcia, che conferivano alla cena un aspetto irreale, cercammo di ridare alla tomba di Karl Maercklein la sua forma primitiva, come se non fosse stata violata. I brevi piovaschi si susseguivano con crescente frequenza, mentre ricollocavamo le zolle erbose, le intelaiature delle corone, le frasche, i fiori appassiti e la cornucopia con i fiori freschi. Ci sentivamo il cuore leggero, sebbene sapessimo che la parte peggiore del compito che ci eravamo imposti doveva ancora venire: bisognava ripetere sul corpo di Jorma Nurmi l'operazione che avevamo appena compiuta su quello del suo innamorato e il tempo a nostra disposizione era limitato. Mancavano soltanto due ore all'alba. Raccogliemmo alla svelta i nostri arnesi incrostati di terra e ci fermammo un istante per un'ultima, breve occhiata di controllo alla tomba. Poi, procedendo a tentoni, trascinammo le nostre membra indolenzite attraverso il terreno irregolarmente disseminato di tumuli, lasciammo il reparto dei
Riformisti Olandesi, dirigendoci verso il riquadro riservato alla famiglia Nurmi. Là giunti, sostammo un istante, circondati dal buio più profondo. Udivo il respiro pesante di Chris, mentre lui si aggirava tra le tombe, cercando di localizzare quella di Jorma. D'improvviso mi giunse una sua imprecazione di sgomento che mi diede la pelle d'oca. Contemporaneamente, egli accese la torcia, proiettando il rosso bagliore sul terreno ai suoi piedi. Sulla tomba coperta di fiori di Jorma Nurmi giaceva per traverso il corpo di Hildur Andersen! Anch'io imprecai, sottovoce. Poi avanzai e mi inginocchiai accanto al corpo immobile; automaticamente, le mie mani eseguirono i gesti cui erano avvezze. Vagamente, il mio cervello registrò che il polso non era percettibile, che il corpo di Hildur era freddo... «È morta, Chris!» Aspirò il fiato con un sibilo. Quando parlò, le sue parole suonarono lugubri e amare. «La 'cosa' in cui, per l'intervento di Karl Maercklein, Norma si è trasformata, ha chiamato Hildur e lei ha raccolto le sue ultime forze per venire. Ma perché?... Ah, ecco: per togliere i crocifissi dalla tomba!» Sbirciai la sepoltura e vidi che sulla superficie coperta di fiori non c'era nessun crocifisso. Hildur Andersen li aveva gettati lontano, chissà dove: in quel buio non si vedeva niente. Chris fissava la tomba. «Ha lasciato il corpo di Jorma», mormorò, «ma credo che sia nelle vicinanze. La 'cosa' sa ciò che stiamo facendo e deve essere spaventata.» S'interruppe bruscamente, tendendo l'orecchio. Io pure mi misi in ascolto, sebbene non avessi la più lontana idea di quale suono mi aspettassi di udire. Eppure lo udii, o meglio, lo intuii. La «cosa» era là, nascosta tra le tenebre che ci circondavano, riempiendo la notte della sua immonda, inumana, macabra esultanza. E, più terrificante di ogni altro fatto, la «cosa» era Jorma, una demoniaca deformazione della Jorma da me conosciuta un tempo. Inoltre pareva che una seconda, vaga entità fosse al seguito dell'invisibile fantasma di Jorma; lo sentivo, ne ero certo, anche Hildur era là vicina, ansiosamente implorante. «Dio mio, Chris!» balbettai. «Ho la sensazione che non so quali cose ci stiano tenendo d'occhio...» Per un tempo che mi sembrò infinito, rimanemmo inchiodati sul posto, fermi, immobili...
«Sì», disse lui alla fine, parlando lentamente. «Jorma ci sta osservando, e anche Hildur. Posso percepire la turpe potenza e l'ostilità di Jorma, ma Hildur sembra in un certo senso disorientata, sperduta... Chissà se...» Scrutai l'oscurità, come se sforzando la vista i miei occhi avessero potuto intravedere l'impalpabile, l'invisibile. Mi accorsi che Chris, malgrado le tenebre, si era curvato, aveva sollevato con delicatezza il corpo di Hildur dalla tomba di Jorma e con altrettanta delicatezza lo stava posando sul sentiero. La sabbia della clessidra scorreva rapidamente, in quella notte allucinante, e molte erano le cose che rimanevano da fare. Dopo aver messo da parte le corone di fiori non ancora del tutto appassiti e rimosso le zolle erbose con cura meticolosa, cominciammo a scavare. Sotto il tappeto d'erba, il terreno sabbioso era molle, cedevole: proseguimmo a sterrare senza tregua, con una scorta di astratta, spaventosa efficienza, come se i nostri muscoli avessero ormai imparato a fare automaticamente i movimenti giusti per scavare nelle tenebre. Oscuramente, ricordo di essermi tolto la giacca e di averla distesa sul corpo immobile di Hildur: le spruzzate d'acqua intermittenti si erano trasformate in acquerugiola insistente, gelida. Mentre sgobbavamo senza tregua, non riuscivo a liberarmi della convinzione che lo spirito di Jorma, non con l'anima dolce, limpida che io avevo conosciuto, ma un'anima distorta, come vista in uno stregato specchio deformante che rifletteva l'immagine di un mostro femmineo scaturito dalle profondità dell'inferno, che lo spirito di Jorma, dicevo, planasse intorno a noi, schernendo la nostra fatica. «Accidenti, Chris», ricordo di aver detto, mentre eravamo quasi arrivati alla cassa di zinco, «non credo che ciò che ci gira intorno e ci osserva, sia quel che sia, tema minimamente quanto stiamo per fare. Anzi, pare che si diverta!» Chris non rispose perché in quel momento vanga e badile urtarono il metallo levigato della cassa di zinco e lui si dedicò al compito di svitare il coperchio, togliere i morsetti dalla bara foderata di raso bianco e aprirla. Fissai quell'incantevole volto giovanile che un tempo mi era stato tanto familiare, reso misterioso dalla luce rossastra della torcia schermata di Chris. Appariva calmo e sereno, nella melanconica compostezza della morte. In quel momento resi grazie al cielo che nella salma non avesse ancora avuto
inizio il repellente processo di putrefazione: il volto di Jorma, eccettuato un leggero gonfiore sotto gli occhi e alla mascella, era leggiadro quanto lo era stato in vita; i suoi splendidi capelli biondi erano sparsi sul cuscinetto foderato di raso bianco. Per non perdere l'equilibrio, dovetti appoggiare le spalle alla parete della fossa, una parete di terra alta due metri, fredda, umida. Già un sottile velo di goccioline di pioggia copriva il volto, la bianca veste verginale, le mani intrecciate sul petto della fanciulla. «Il picchetto», disse Chris, con voce spaventosamente calma. Con altrettanta calma la mia mano si mosse, afferrò il piuolo di legno, il pezzo di manico di badile che lui aveva reso puntuto come uno stiletto. Vidi la mazzuola descrivere velocemente un arco. La mazza cadde pesantemente, poi tornò a sollevarsi: scivolando tra le mie dita, il picchetto era penetrato per circa otto centimetri nel petto delicato di Jorma. Mentre il picchetto mi scorreva tra i polpastrelli, rabbrividii: il rozzo stocco aveva incontrato una resistenza maggiore di quella che aveva ostacolato la penetrazione dell'altro, di quello che avevamo infisso nel corpo in decomposizione di Karl Maercklein. Eppure non una goccia di sangue sgorgò a macchiare il vestito lacerato dal picchetto. Ancora e ancora la mazzuola si abbatté e al terzo colpo sentii che la punta del piuolo si era saldamente incastrata nell'asse di legno che costituiva il fondo della bara. Niente: intorno alla ferita non compariva una stilla di sangue, soltanto un gocciolio di liquido antisettico. Il cadavere non subì alcuna stupefacente trasformazione: era là, sotto i nostri occhi, tale e quale come prima, una salma normale. Mi asciugai il sudore della fronte. Chris scrutava il cadavere. «Strano!» borbottò. «Avrei creduto... Eppure, abbiamo fatto la stessa cosa che abbiamo fatto col corpo di Karl... E l'alba è prossima...» Cominciò a ribaltare il coperchio foderato di satin sulla bara. A un tratto, dalle tenebre ci piombò addosso la risata della «cosa», una risata diabolica, trionfante, esultante... La sghignazzata silenziosa di una entità che non potevamo né vedere, né sfiorare, né toccare; ma non per questo la sinistra ilarità era meno veristica. Chris si immobilizzò e dall'estremità opposta della bara mi giunsero le sue parole, calme, deliberate, permeate di una profonda certezza. «Ha riso troppo presto, Kurt», disse tranquillamente. «La 'cosa' ha creduto che il pericolo fosse superato e non ha saputo trattenersi più a lungo...
Non era nel cadavere, Kurt. Strappando dalla sepoltura i crocifissi, Hildur l'ha messa in grado di uscirne. Perciò abbiamo piantato il picchetto in qualcosa di morto quanto una zolla di terra. Karl Maercklein, invece, l'abbiamo liberato, perché la cosa era in lui, quando abbiamo trafitto il suo corpo. Molto bene: vuol dire che aspetteremo l'alba.» Per alcuni istanti il silenzio regnò sovrano: qualcosa di più del silenzio, perché si era taciuto persino il riso silenzioso della malvagia entità che si era impadronita dell'anima di Jorma Nurmi, corrompendola. Mi colsi a guardare verso l'alto, verso il cielo cupo, chiedendomi quando arrivasse, l'alba. «Non ci vorrà molto», mormorò accigliato Chris. «Un'ora, all'incirca. Dobbiamo aspettare: è l'unica possibilità che ci resta. Di questo orrore spaventoso ne sappiamo meno di quanto ne sappiano della metafisica i fantolini appena nati. Però una cosa l'abbiamo accertata: sia pure in maniera confusa, disordinata, le leggende seguono i binari della verità.» Puerilmente, in quel momento provavo un sentimento di umile gratitudine per la pioggia che cadeva con violenza via via crescente ed ero ben felice che il riquadro dei Nurmi fosse nascosto dietro un rado filare di abeti. Una volta spuntata l'alba, saremmo stati molto prudenti, attenti a non farci vedere... L'alba... Risalimmo dalla fossa e ci sedemmo immusoniti, in attesa; un'attesa che sembrava eterna. Pareva che le entità impalpabili, vendicativa quella di Jorma, meno consistente e come stupita quella di Hildur, se ne fossero andate. Eppure io ero in grande apprensione. Ad un tratto sentii che Chris, rannicchiato accanto a me su un angolo del telone impermeabile grondante acqua, si faceva più attento. «Sst!» Passò un minuto; poi udii il rumore, un rumore sordo di passi affrettati, inciampicanti. Nelle tenebre qualcuno stava correndo verso di noi, inciampando nei rialzi di terreno delle sepolture. «Gesù!» Mi alzai in piedi, tenendo strettamente in pugno il manico della pala. Se quella persona fosse arrivata fino a noi, se ci avesse riconosciuti... Le mie dita si contrassero sul manico della pala, che tenevo in mano all'incontrano, la parte di ferro rivolta verso di me, l'impugnatura di legno protesa in avanti. Se l'individuo ci capitava addosso, forse con un unico colpo secco avrei potuto metterlo fuori combattimento prima che ci riconoscesse... Però dovevo stare attento a non colpirlo troppo forte! Poi le mie dita allentarono la stretta e la pala cadde a terra, senza far ru-
more sul terreno zuppo di pioggia: il nuovo venuto si avvicinava ciangottando, barbugliando tra sé e sé come chi ha perso il bene dell'intelletto e io avevo riconosciuto la voce. Era Wilfrid Andersen! Inciampando ad ogni passo, corse accanto al corpo di sua moglie, si accoccolò per terra. «Wilfrid!» La fioca luce rossiccia della torcia di Chris colse in pieno il viso rivolto verso l'alto. Egli stava massaggiando la fronte e le tempie di Hildur. «Wilfrid!» Era Chris a chiamarlo con dolcezza, cercando di calmarlo. «È morta, Wilfrid.» «Morta?» Si girò lentamente verso di noi. «Morta?» Il volto imperlato di goccioloni brillava sotto il raggio schermato di rosso. «Non è morta!» La sua voce era colma di una incrollabile, assurda certezza. «Jorma è venuta da me, mentre ero in casa del guardiano, mi ha detto che Hildur era qui e mi ha detto cosa devo fare per farla tornare a me!» Era là acquattato per terra, e io vidi i suoi muscoli irrigidirsi, le sue labbra arricciarsi lasciando scoperti i denti, come se ringhiasse. «Rinterrate quella fossa, maledetti vampiri! Rinterrate quella sepoltura, altrimenti vi ammazzo tutti e due, adesso, qui, con le mie stesse mani!» Sembrava un animale incantucciato da una muta di cani, mentre se ne stava là raccolto su se stesso, a proteggere il corpo immoto di sua moglie. Giovane, robusto, fuori di sé dal dolore, affrontava noi due vecchi malandati. «Ma ascoltate, maledetti vampiri! Non la sentite? Sta parlando a me, a tutti noi... È Jorma, che sta parlando; e anche Hildur! Ascoltate!» Dio del cielo! Sentivamo, sì. Come provenienti dal più profondo delle nostre menti, udimmo le mute voci che ci parlavano, comunicando con noi a mezzo di non so quale fantomatica telepatia che forse i negromanti saprebbero spiegare, ma io no di certo. «Dottor Kurt! Dottore!» Era la voce di Jorma... Sarei stato disposto a giurarlo, che era la voce di Jorma: riconoscibile al di là di ogni dubbio, eppure spaventosamente, orribilmente diversa, come se un velo di nequizia oscurasse un'anima che un tempo era stata soltanto radiosa bellezza. Non
posso descrivere, nessuno vi riuscirebbe, la raccapricciante intensità di quegli istanti. Prima avevamo soltanto avuto la convinzione di presenze impalpabili che ci osservavano, ma giunti a quel punto le cose erano diverse... Perché Jorma si rivolgesse a me non so proprio; forse perché ero sempre stato come un pupazzo di cera, tra le sue mani. «Dottor Kurt! Dottor Kurt, sono Jorma, la piccola Jorma; non mi riconosce? Non si ricorda di me? Vada via, mi lasci in pace e io le prometto che lascerò libera Hildur...» «Ecco, sentito?» intervenne improvvisamente Wilfrid Andersen. La sua voce salì di tono, divenne un ringhio. «Sentito?» Poi mi sembrò di udire un'altra voce, implorante ma con una sfumatura di sbalordimento, come se Hildur, era sua la voce, non fosse certa di capire bene... «Costringili a fare quello che dice Jorma, Wilfrid, Jorma sa.» Anch'io sapevo; sapevo che il demone che un tempo era stato Jorma Nurmi sghignazzava esultante, nell'udire quelle parole. Ma ecco che parlò Chris Petersen. Il suono della sua voce mi fece sussultare, era tanto differente dagli incredibili pensieri-immagini che sembravano nascermi direttamente nel cervello, così calmo e sensato a confronto delle incoerenti divagazioni di Wilfrid! «Tu dovresti essere accanto a Karl, Jorma», disse, scandendo le parole. Mi sentii raggricciare la pelle, udendolo rivolgere la parola a qualcuno che non era fisicamente presente, quasi parlasse nel vuoto. «Questo... questo interludio non avrebbe dovuto realizzarsi. In te c'è lo spirito del male, adesso, Jorma, sebbene non per colpa tua. Dovresti permetterci di liberartene.» La «cosa» rise, divertita, e poi rispose: «Quando ero tra voi, il vostro modo di vivere mi piaceva: ora che vivo in un'altra maniera, mai accetterei di cambiarla». A un tratto la voce dell'invisibile fantasma si affievolì. In fretta, disse a Wilfrid: «Adesso devo andare. Wilfrid, non permettere che tocchino la mia salma: in cambio ti restituirò viva Hildur...» La voce si tacque, come svanisce un sogno. Per un istante rimasi là fermo sotto la pioggia, quasi paralizzato dallo stupore. Poi, come se fino a quel momento io fossi rimasto accecato da uno strano fenomeno ipnotico, mi accorsi che l'oscurità della notte si era trasformata nel grigiore che pre-
cede l'alba. Distinsi chiaramente le pietre sepolcrali l'ima accanto all'altra, il lungo filare di abeti grondanti pioggia. A oriente l'aurora sembrava indugiare sotto la linea dell'orizzonte. Un grugnito quasi scimmiesco mi fece sussultare. Wilfrid Andersen si era rizzato in piedi, fermo accanto al corpo di Hildur, le spalle leggermente curve, chiudendo a pugno e riaprendo le sue mani vigorose. Fece un passo verso di noi. «Riempite la fossa!» Affrontandolo a faccia a faccia, Chris scosse la testa. La sua mascella imperlata di goccioline di pioggia era velata dall'ombra dei peli brizzolati della barba. «No.» E allora, agitando nell'aria i pugni massicci, gli occhi azzurri sbarrati come quelli di un pazzo e colmi di implacabile risolutezza, Wilfrid Andersen caricò con la furia di una belva ferita. Chris, sorpreso dall'attacco improvviso, piombò a terra, colpito da un pugno che avrebbe atterrato un bue. Istintivamente, mi lasciai cadere in ginocchio, afferrai la pala... Ho soltanto un ricordo confuso di come mi rialzai, come presi lo slancio e feci descrivere al manico della pala un breve arco... Attonito, udii il tonfo sordo del legno che picchiava sulle ossa del cranio, vidi Wilfrid accasciarsi grottescamente. So che balzai nella fossa, illuminata ormai dal pallido chiarore che si stava diffondendo sulla terra, so che per un breve istante guardai affascinato le piccole pozze di pioggia che si erano fermate tra le pieghe del vestito di Jorma, sul cuscino di raso bianco. Ricordo il grido strozzato che mi sfuggì dalle labbra senza che io riuscissi a controllarmi... In fondo alla fossa e nella bara sembrava si fosse raccolta una nebbiolina, una specie di vapore, di fumo così trasparente ed elusivo che in un primo momento non mi ero accorto della sua presenza. E questo vapore stava infiltrandosi nelle narici del cadavere, come risucchiato dall'interno! Il picchetto di legno, cinque centimetri di diametro!, che Chris mi aveva aiutato a conficcare tra le costole di Jorma stava per essere lentamente espulso dal petto maciullato della fanciulla. Con un movimento pigro ma inesorabile, scorrevole e meccanico come quello dello stantuffo di una pompa idraulica, veniva spinto fuori dal corpo immoto. Centimetro per centimetro, emergeva dalla sua guaina di carne. Dalle labbra della ferita schizzava un rivoletto di liquido antisettico che dilagava sulla seta bianca del vestito.
Sempre più rapidamente i due filamenti gemelli di fumo grigiastro venivano risucchiati dalle narici di Jorma... Il picchetto era ormai fuoriuscito quasi del tutto; cominciava a ondeggiare, a vacillare. Bagnato di pioggia, luccicante di liquido antisettico si inclinò di lato, si staccò dalla ferita, rotolò sul fondo della bara, e là rimase. E... Dio mio... la ferita era scomparsa! Attraverso lo strappo del vestito di satin bianco, un buco grosso modo rotondo, io vidi la pelle intatta, l'epidermide nemmeno scalfita, rosea, di una ragazza nel fiore degli anni. Gli ultimi sbuffi di vapore si erano infilati nelle narici di Jorma e in quell'istante di orrore supremo, io percepii la risata della «cosa», una risata atroce, trascinata, scellerata. Quel riso demoniaco ruppe bruscamente l'orripilante incantesimo che mi aveva paralizzato. Il sangue che sembrava essersi congelato nelle mie vene, riprese a scorrere; quasi senza volerlo, allungai la mano verso il fondo della bara, afferrai il macabro, viscido paletto. Fu questione di un istante: accoccolato sui calcagni, tenendomi in equilibrio sull'orlo della cassa come un goffo uccellaccio da preda, il dorso appoggiato alla parete di terra grondante acqua, alzai la mano destra armata della pesante mazzuola. Con una serie di brevi colpi maldestri, insicuri, mancando a volte il bersaglio, conficcai il paletto nel corpo di Jorma Nurmi. Quante mazzate mi ci vollero per farlo arrivare fino a toccare il solido asse di legno che costituiva il fondo della bara, non lo saprò mai: forse cinque, forse sei, non so. Ricordo soltanto il sangue rosso, limpido che sgorgò dalla ferita, scorrendo sulla veste bianca di seta, facendosi subito più spesso, coagulandosi. E quella nebbiolina, quel fumo sottile che pareva appiccicarsi alle mie mani, quasi implorasse clemenza, mentre intorno alla gola di Jorma riappariva il turgore. Sì, e ricordo anche la voce di Jorma, quando io ebbi finito: una voce che aveva perso ogni intonazione malvagia, tornando tersa e armoniosa come un tempo la voce di una bimba che mi era stata cara e che mi ringraziava. Mentre la voce si dileguava nello spazio infinito, la profonda convinzione che Jorma fosse andata a raggiungere il suo innamorato spazzò via dalla mia mente ogni altro pensiero... Non guardai il cadavere, in quel momento: non osavo. Con le giunture irrigidite, mi arrampicai per uscire dalla fossa. Tutto era compiuto: e il mio corpo fu scosso da un tremito irrefrenabile. Ma a un tratto mi passai la mano sugli occhi con gesto insicuro, cercando di vedere meglio attraverso la cortina di pioggia, pietrificato dallo stu-
pore: Hildur Andersen stava rimettendosi in piedi, dritta, forte, splendente in tutta la sua bionda bellezza. Sul suo volto attonito, però, si andava diffondendo un'espressione di orrore crescente, allucinato. Chiaro: Hildur si era svegliata da un sogno angoscioso per ritrovarsi immersa in un nuovo incubo. Mi resi conto che se volevo restituirla a Wilfrid sana di mente dovevo fare subito qualcosa, calmarla, confortarla... Sostammo davanti alla casetta di Gustav Wendt e ci voltammo a guardare quel mare di sepolture che ci eravamo lasciati dietro, una grande oasi di pace e di silenzio. Rimanemmo là fermi per qualche istante. Poi, Wilfrid, che col braccio destro cingeva le spalle di Hildur, con la mano sinistra sfiorò delicatamente il bozzo grosso come un uovo d'anitra che gli era spuntato sul cranio e sbirciò all'interno della casa del guardiano del cimitero, facendo una smorfia di disgusto. La porta era semiaperta, la luce ancora accesa; e l'inconfondibile puzzo di whisky straripava fin fuori, diffondendosi nell'aria mattutina lavata dalla pioggia. A passo svelto raggiungemmo le nostre automobili, volgendo finalmente le spalle al cimitero e a chi vi riposava in pace. «VADE RETRO», PIOGGIA! di Gardner F. Fox Ritto davanti alla finestra, Anton Markov guardava fuori, nel grigiore opaco di quella giornata melanconica: stava per piovere. Rabbrividì violentemente; in fretta, tirò giù la veneziana, per non vedere i primi goccioloni spiaccicarsi sul marciapiede sottostante: non osava confessarlo a se stesso, ma aveva paura della pioggia, una paura mortale. Perché? Non esisteva un motivo o, quanto meno, un motivo ragionevole. Ciò gli era chiaro, ma quella paura era stata sua inseparabile compagna fin dalla più lontana infanzia, fin dai tempi delle elementari. Innumerevoli volte si era rincantucciato sotto l'arco di un portone, quando dal cielo calava la grigia cortina di pioggia, imperversando con scrosci rabbiosi sul lucido asfalto; rannicchiato su se stesso, con gli occhi chiusi per non vedere, terrorizzato dalla paura di essere raggiunto da qualche spruzzo. Come una strega malvagia decisa a perseguitarlo, l'ossessione sedeva perennemente a cavalcioni delle sue spalle striminzite. L'odore della pioggia che per gli altri, a quanto si diceva, era una piacevole fragranza, per le sue
narici era un lezzo insopportabile che gli richiamava alla mente pensieri di morte. Per contro, appena passato il temporale, l'aria pungente rappresentava per lui la liberazione dall'incubo di un panico insostenibile, che durante l'acquazzone gli aveva stretto il cuore in una morsa ferrea, paralizzandogli i muscoli. A scuola era stato lo zimbello dei compagni; nessuno di loro gli aveva dimostrato un minimo di comprensione. Non aveva conservato risentimenti; fattosi adulto, si era reso conto che nei bambini la crudeltà è un sentimento innato. Ma negli anni dell'infanzia le loro voci acute, il loro scherno, avevano esasperato il suo tormento, eterna ambascia che aveva scavato i contorni del suo volto pallido e conferito una piega amara e ambigua alla sua bocca sottile. Del sogno non aveva mai fatto cenno con nessuno: non disponeva di un solo amico incline ad ascoltarlo con orecchio benevolo, a mettergli un braccio attorno al collo e a dirgli qualche parola di conforto... Gli tremavano le mani. Si diede un'aggiustatina alla cravatta nera costellata di macchie, poi si asciugò le palme umidicce sulla giacca e infine infilò i pugni in tasca. Si guardò intorno smarrito: doveva trovare qualcosa da fare. Non poteva starsene là in piedi, piantato nel bel mezzo della stanza, aspettando che la burrasca imminente si scatenasse. D'altra parte non voleva ancora una volta mettersi a letto tirandosi le coperte sulla testa, restare coricato tremante come una foglia, come se avesse la febbre terzana. Sul tavolo erano sparpagliati in disordine alcuni libri; li prese in mano, cercò di concentrare su di essi la sua attenzione, ma subito rinunciò e li posò di nuovo. Si inumidì più volte le labbra riarse con la punta della lingua. Qualcosa da fare, buon Dio, qualcosa da fare! Sì, doveva trovare un sistema per occupare il tempo quando, di lì a poco, si sarebbero aperte le cateratte del cielo e la pioggia avrebbe avviluppato ogni cosa intorno, gettando sulla città un manto funebre. Guardò l'orologio da polso: le tre e dieci di un pomeriggio di sabato. Niente lavoro fino al lunedì mattina. E stava per piovere! «Porco mondo!» sussurrò. «Porco mondo, perché non posso essere normale, come tutti gli altri?...» Come Evans Carrel, per esempio, o Betty Stokes, che lavoravano nella sua stessa ditta: chissà che cosa avrebbero pensato di lui, se avessero potu-
to vederlo, rintanato in camera sua per paura del temporale... «Ma non è esattamente che io abbia paura della pioggia», gridò irosamente, con nella voce un tremolio isterico. «È qualcosa di più. Lo so, oh se lo so! Ma non posso provarlo. Non capisco cosa sia, il mio sogno non arriva a spiegarmelo!» Il sogno. Ecco, le vedeva, le rane che si contorcevano sotto le sferzate di canne di bambù sottili come aghi; gracidavano disperatamente e le gole del colore del ventre dei pesci pulsavano in una agonia di sofferenza mentre le cannucce filiformi squarciavano i loro visceri. E dopo quel supplizio il rombo del tuono, e poi il diluvio, e i cieli che si aprivano come gli sportelli del ricettacolo delle bombe, e l'acqua piovana che ne usciva a fiotti. E lui là, supino, sempre, guardando quell'acqua che precipitava verso di lui, senza raggiungerlo mai, nel suo sogno. Era questo che rendeva l'incubo ancor più angoscioso. Il suo sogno arrivava fino a quel punto, ma non proseguiva oltre, mai: s'interrompeva di colpo. Si sedette su una seggiola, nascose il volto tra le mani. «Che cosa succede, dopo? Perché la pioggia non mi viene mai addosso? Perché il sogno si spezza sempre un attimo prima che le gocce mi tocchino?» mormorò con voce rauca. «Se una volta, una sola volta, l'acqua inzuppasse il mio corpo, sono sicuro che non avrei più paura, che potrei camminare sotto la pioggia a testa nuda...» Dio, perché non piove? Alzò gli occhi al soffitto e urlò: «Forza, facciamola finita! Che piova, che piova subito! Dopo potrò distendermi i nervi... Datemi pace, pace!» Si sfregò il volto con mani tremanti. Sottovoce, mormorò: «Così non va; non posso starmene qui seduto ad aspettare. Aspettare. Aspettare! Non ce la faccio più!» Aperto l'armadio a muro, tirò fuori una bottiglia e la guardò contro luce: vuota. Vuota proprio nel momento in cui più sentiva il bisogno di un goccio di alcool, che forse gli avrebbe snebbiato il cervello... O, quanto meno, rincarando la dose, una buona sbronza lo avrebbe buttato sul letto, immerso in una specie di coma. Poi che diluviasse pure a volontà, una volta fatto il pieno non gliene sarebbe importato un accidente! Ma la bottiglia era vuota; la gettò nel cestino dei rifiuti e rimase a fissarla stupidamente. Di nuovo Anton si lasciò cadere su una seggiola davanti al tavolo e si tirò vicino carta e penna; ma quando il pennino d'oro della stilografica toccò il foglio, stridette, spruzzando inchiostro blu tutt'intorno. Ecco, non era nemmeno in condizione di scrivere una lettera!
Rabbrividì, alzandosi in piedi bruscamente, tanto che la seggiola si rovesciò indietro. La lasciò come stava. «Adesso esco», mormorò a denti stretti, «esco e vado a comprare una bottiglia di whisky. Di corsa. Devo farlo, altrimenti divento matto. Certe volte non mi prende così malamente, ma oggi ho bisogno di bere. Di prendere una sbornia.» Parlava da solo, scosso da un tremito convulso, mentre indossava un maglione color caffè e il soprabito nero. Scese le scale a rotta di collo e si precipitò in strada. Farò in tempo a tornare a casa prima che scoppi il temporale, pensò. «No, stavolta non mi frega», mormorò, pur sapendo quanto fosse traditrice la pioggia, con le sue goccioline che sfioravano come una carezza ma erano pestifere quanto il filtro di una strega. Aveva già tentato altre volte di eludere la pioggia, ma quasi sempre era stato gabbato; di tanto in tanto gli era riuscito di farla franca e allora si era sentito un dio, nel cuore gli si era accesa una fiamma di gioia, di trionfo. Erano momenti come quelli che gli davano la forza di vivere. Se la pioggia avesse sempre avuto la meglio, un giorno o l'altro si sarebbe ucciso. Il negozio era poco lontano. Già poteva vederla sfavillare, la rossa insegna al neon che faceva scintillare le bottiglie esposte in vetrina e gettava sul marciapiede un riflesso di luce rosata. L'emporio aveva un'aria accogliente, con tutti quei tubi fluorescenti porporini che brillavano come fari. Girò intorno alla grossa giardinetta parcheggiata proprio davanti al negozio ed entrò. C'era un altro cliente, la cui sagoma gli sembrò vagamente familiare: cappotto di pelo di cammello, spalle larghe, la mandibola massiccia leggermente azzurrata, voce cordiale. Al rumore della porta che Anton stava richiudendo si voltò. «Anton! Che mi venga un accidente! Abiti da queste parti?» «Ciao, Evans. Cosa stai facendo nel mio quartiere?» «Passavamo di qui, Betty ed io, e mi sono fermato a far rifornimento. Visto che c'è in aria un temporale abbiamo pensato bene di rifugiarci nella mia tana per una bevutella in santa pace.» Anton si voltò per dare un'occhiata fuori, al giorno grigio, al di là del cristallo della vetrina. Si strinse addosso il soprabito. «Già», disse agitato. «Era poco scoppierà il temporale. Sarà meglio che mi sbrighi, prima che si scateni. Sai, non mi piace farmi cogliere in mezzo alla strada dalla... pioggia.»
Evans Carrel annuì, mentre guardava il commesso intento ad avvolgere la bottiglia di whisky; improvvisamente si girò verso Anton esclamando: «Tony, perché non vieni con noi? A casa mia, voglio dire. Eh? Che ne dici?» «No, no, neanche pensarci...» Accompagnò il rifiuto con un sorriso di scusa. Non poteva farsi vedere da Evans e da Betty nelle condizioni di panico in cui lo riduceva la pioggia. Sbirciò di sottecchi Evans, invidiandone le mani grandi, abili, il volto severo ma illuminato da una bocca spesso sorridente. Tutto ad un tratto invidiò la forza serena del collega. Distolse lo sguardo, si rivolse al commesso: «Una bottiglia di whisky di segala, per piacere. Non importa la marca. No, da mezzo litro.» Mettendosi il suo pacchetto sotto il braccio, Evans gli sorrise. «Sicuro che non vuoi proprio venire? Non ti mettere in testa che faresti da terzo incomodo... Parola, ci faresti piacere a tutti e due! Allora, vieni o non vieni?» Quasi quasi l'idea lo tentò. Si sentì riscaldare il cuore, grato fin nel profondo per il gesto amichevole. Chissà, poteva anche funzionare: poteva darsi che in compagnia di altre persone riuscisse a dimenticare la bufera. Vorrei avere il coraggio di andare con loro, pensò, ridere e scherzare insieme a loro, magari davanti a un bel fuoco acceso nel caminetto... Sorseggiare piano piano il liquore ambrato, sentirne il benefico calore riscaldarmi i visceri, fare di me un uomo normale, espansivo e socievole. Magari era un buon sistema per dimenticare il temporale... Già, ma lo aveva sperimentato altre volte, con altre persone, e non aveva mai funzionato. No, era meglio evitare. Non era giornata. I nuvoloni erano troppo scuri, il cielo troppo minaccioso. «Scusami: sarà per un'altra volta. D'accordo, Evans?» «Naturale, come vuoi. Io credevo... Be', okay. Ci vediamo.» Evans agitò la mano, osservando Anton Markov attraversare di corsa la strada, sgambettare sul marciapiede rasente i muri, come un tapino. «Che tipo strambo», mormorò. «Mica lo capisco: pare spaventato, a volte. Come se si aspettasse da un minuto all'altro che spunti il babau per fargli la pelle.» Sospirò e si diresse verso la sua macchina. Reggendo uno specchietto, Betty stava rifacendosi la bocca col rossetto, labbra sporte in fuori. Finita l'operazione, si girò verso di lui e notò le sopracciglia aggrottate.
«Ho incontrato Anton, nell'emporio. Aveva un'aria così strana, mi ha lasciato perplesso.» «Ha paura della pioggia», disse lei, chiudendo con uno scatto il portacipria e infilandolo nella borsetta. «Della pioggia?» domandò con tono piatto Evans. «Sì, certa gente ha paura dei fulmini e dei tuoni; fissazioni puerili, le chiamo io. Ma della pioggia!...» Destreggiandosi nel traffico con la sicurezza dovuta a una lunga esperienza, diede un'occhiata alla ragazza seduta accanto a lui. «E tu, come fai a saperlo? A me è sempre sembrato un tizio piuttosto chiuso. Non dice mai niente; non parla di sé, della sua vita privata, intendo dire.» «Oh, è stato un giorno su per giù come oggi. Un acquazzone coi fiocchi ci ha presi per la strada, appena usciti dall'ufficio, e allora ci siamo riparati in un portone. Lui tremava come una foglia, tanto che ho pensato che stesse male. Poi ho notato i suoi occhi: quasi non si vedeva che il bianco e, rovesciati all'indietro, roteavano di qua e di là. Era pallido come un cencio lavato.» Scrollò le spalle e scivolò sul sedile per accostarsi di più a Evans, cercandone il caldo contatto. Poi continuò: «Mi sono spaventata, temevo gli prendesse una crisi di epilessia. Ma lui riuscì a dominarsi quel tanto che gli permise di spiegarmi che la pioggia lo terrorizzava. Pare a causa di un sogno che si ripete da quando era un ragazzino, o qualcosa del genere». «Già, già... Un sogno, eh?» Evans continuò a guidare nell'oscurità crescente, e i suoi pensieri sembravano accompagnare il ritmico movimento da destra verso sinistra e viceversa del tergicristallo, freneticamente alacre nel dare la caccia ai goccioloni che cadevano fitti sul parabrezza. Il lunedì seguente, Anton si accorse che di tanto in tanto Evans lo fissava con i suoi occhi scuri; se egli alzava lo sguardo, l'altro distoglieva il suo immediatamente. Dopo un po', il collega si avvicinò e si fermò accanto alla sua scrivania. «Stai a sentire, Tony... Non vorrei essere indiscreto, ma... Vorrei parlarti di una cosa... Della pioggia, ecco. Di te e della pioggia, voglio dire. Ti fa paura, non è vero?» Anton ebbe l'impressione che una mano di ferro gli torcesse i visceri. Serrò le labbra, il sangue cominciò a martellargli nelle vene. Sgomento
davanti al ridicolo, si trovò a rispondere di malagrazia. «Non credo che la cosa ti riguardi, Evans. In altre parole, se anche così fosse, fatti miei.» L'omone restò interdetto, a bocca aperta. Abbozzò un sorriso imbarazzato, strisciando i piedi per terra come un ragazzino colto in fallo. «Hai ragione, Anton. Ma non è che io voglia impicciarmi dei fatti tuoi, soltanto mi domando se non potrei darti una mano. Mi piacerebbe aiutarti, Tony. Sei un bravo ragazzo e a me sei molto simpatico, ecco.» Anton sentì una calda ondata di affetto salirgli dai precordi. Sulle sue guance ceree si diffuse un leggero rossore: si vergognava. «Scusami, Evans. Questa fissazione mi perseguita da tanto tempo che ormai mi ci sono abituato, ma è un argomento che non ho mai toccato con nessuno. Anni fa, quando andavo a scuola, i miei compagni mi pigliavano in giro, questo sì. Puoi figurarti...» «Come no?», esclamò Evans con convinzione. «Per essere sincero, da ragazzo io sarei stato uno dei primi a darti la baia, ero un tipo così, io. Quello che si usa chiamare un estroverso. L'anima di tutte le feste, sempre allegro, sempre pronto a dire quello che pensavo. Ma ora non più. Con gli anni per fortuna si matura, ci si scaltrisce, si imparano tante cose.» Si appollaiò su un canto della scrivania, facendo dondolare un piede calzato di marrone, scarpe all'ultima moda. Portava calzini derby e la piega dei suoi pantaloni grigi era impeccabile. «Ascolta, Tony, voglio spiegarti una cosa: anni fa, io insegnavo psicologia in uno di quei college a scartamento ridotto di cui non avrai certamente mai sentito parlare. Ho persino scritto un libro sulla psicologia analitica. E me l'hanno anche pubblicato, figurati, prima che aprissi gli occhi e mi rendessi conto che non era quella la strada per fare fortuna. Un bel giorno ho voltato pagina e mi sono messo a fare il rappresentante e così, finalmente, le mie cognizioni di psicologia mi sono servite a qualche cosa. «Che ne dici, se io tentassi di guarirti dalla tua fobia, Tony? Ricorrerei alla psicologia analitica; ne so abbastanza per non combinare guai. Esamineremmo quel tuo sogno mentre tu sei in stato di ipnosi e lo porteremmo in superficie. Quando si tratta di complessi, di fobie, bisogna parlarne, scoprirne l'origine: una volta trovate le cause, la cura è facile.» Anton sgranò gli occhi. «Tu credi che funzionerebbe? È tanto semplice?» «Ma certo! Bisogna scavare nel subcosciente, scoprire quale trauma nascosto nel tuo passato è all'origine del tuo sogno. La paura non è altro che
una reazione glandolare a un determinato stimolo. I neonati vengono al mondo con soltanto due tipi di paura: quella dei rumori assordanti e quella di cadere. E pensa un po' quante altre paure noi acquisiamo nel corso della vita! Ma anche per questo c'è la sua buona ragione: una prescienza atavica ci induce a guardarci dai cani idrofobi, dai maniaci omicidi, e via dicendo. Tu devi aver ereditato la paura della pioggia da qualcuno dei tuoi antenati: dobbiamo scoprire di cosa si tratta.» Anton si guardò le mani e rabbrividì. Nel suo sogno, le sue mani erano legate e la pioggia cadeva a picco su di lui ma non arrivava mai a toccarlo. Il sogno si interrompeva sempre in un determinato punto, non andava mai oltre. Sollevò gli occhi e disse: «Il mio sogno non ha niente a che vedere con la vita reale, Evans. È qualcosa di chimerico, come se un ricordo ancestrale si fosse smarrito nei meandri del mio cervello e non trovasse più la strada per andare ad incasellarsi al posto suo. Penso che ogni volta rivivo quanto è successo a uno dei miei antecessori.» «D'accordo. Meglio così, perché in tal caso non può concernerti personalmente.» Gli diede una pacca sulla spalla, con un sorriso incoraggiante. Quel giorno e l'indomani, Anton sbrigò il suo lavoro a cuor leggero, perché la speranza gli ardeva dentro con lo sfavillio di un'allegra fiamma. La sera andò al cinema e poi in una sala da ballo, tanto si sentiva in forma: passò tre ore deliziose, ballando con una rossetta incantevole. «Evans mi rimetterà in sesto senz'altro», si disse, mentre tornava a casa nella notte buia e fredda, mani in tasca, passo scandito e sicuro che martellava baldanzosamente il marciapiede. «Un uomo come Evans Carrel sa il fatto suo. Un professore di psicologia! Chi l'avrebbe mai detto?» Passarono i giorni. Un tardo pomeriggio, Evans si fermò accanto alla sua scrivania. «Scegli tu il giorno e l'ora, Tony. Betty vorrebbe partecipare anche lei; queste cose la interessano.» «Non ho niente in contrario», rispose subito Anton. «Un suo cugino è impiegato in un museo. Betty dice che l'ha messa al corrente di un mucchio di superstizioni a proposito della pioggia. Ha risvegliato la mia curiosità e anch'io ho studiato a fondo l'argomento.» «Studiare la pioggia?...» Anton era stupefatto. «Signore Iddio, stai lottando con questa faccenda da quando sei venuto al mondo... Non mi dirai che non ti è mai venuto in mente di leggere qual-
cosa che tratti della materia!...» Anton chinò la testa facendo cenno di no. Ora che Evans l'aveva messa in evidenza, la constatazione lo lasciò sbalordito. Perché non lo aveva fatto? Persino un deficiente avrebbe avuto quel minimo di buon senso per capire che qualche ricerca si imponeva. Imbarazzato, alla fine alzò gli occhi dicendo: «Che cosa hai scoperto?» Evans aggrottò la fronte, sporgendo il labbro inferiore. «Per dir la verità, non avevo idea che la materia fosse tanto vasta. Idrofobie, feste per propiziare gli dèi Chitoni, cinture per chiamare la pioggia, pietre per scongiurarla, sacrifici alle divinità pluvie. Riferimenti se ne trovano in tutte le antiche leggende, azteche, greche, celte, indiane, eccetera eccetera.» Anton era rimasto a bocca aperta. «Senti», proseguì Evans, «forse quanto sto per suggerire ti sembrerà esagerato, ma mi piacerebbe organizzare una specie di rappresentazione. Non hai detto che nel sogno impersoni una vittima destinata all'olocausto? Molto bene: che ne diresti di mettere in scena la cerimonia del sacrificio? Cercheremmo di ricostruire il rito per evocare la pioggia, per farti toccare con mano che è pura e semplice mistificazione, che non serve assolutamente a niente.» «Credi di riuscirvi?» «Farò del mio meglio. Betty mi darà una mano; pure lei ha scovato una buona quantità di riti peculiari. In quanto alle rane...» «Le fustigano con sottilissime verghe», sussurrò Anton a fior di labbra, labbra diventate improvvisamente esangui. «Le uccidono sferzandole fino a che muoiono. È una delle cose più raccapriccianti del mio sogno, quella di sentirle squittire.» Evans pareva a disagio, girava la testa di qua e di là come se d'improvviso il colletto gli fosse diventato troppo stretto, si torceva le mani. «Sì, capisco. Ma dobbiamo ricostruire esattamente il tuo sogno; mi procurerò delle rane vive per mettere in atto il sacrificio. Non è piacevole, lo so, ma la precisione è un fattore fondamentale.» Anton gli poggiò una mano sul braccio. «Evans, non sentirti in dovere di portare a termine questa faccenda. Non ti vedo nel ruolo di fustigatore di rane; non sei il tipo che potrebbe divertirsi a fare una cosa del genere. Lasciamo perdere tutto, è meglio.» «Non sia mai detto. Voglio guarirti, dovesse costare la vita a tutte le rane reperibili nella regione! Tu devi tornare alla normalità; se poi dovessi far
fiasco, voglio almeno sapere perché!» Il sabato seguente era una di quelle giornate di maggio in cui il cielo è una limpida volta color celeste, sospesa sulla terra in fiore l'aria, intiepidita dai raggi del sole, odora dei profumi della primavera e gli uccelli cinguettano, danzando tra il fogliame degli alberi. Anton canterellava sottovoce tra sé e sé, mentre, recandosi in ufficio, superava di buon passo un venditore ambulante che spingeva lentamente il suo cigolante carrettino a mano. Il calore del sole, penetrando attraverso il cappotto, galvanizzava le sue energie. «Oggi è il giorno adatto», disse, non appena vide Evans. Sbrigò il suo lavoro alla svelta, trasformando in alacrità la sua irrequietezza. Una volta finito, uscì nel vestibolo e fumò due sigarette una dietro l'altra, mentre dalla finestra osservava l'incessante traffico della città. Oggi è il gran giorno, pensò giubilante. Domani sarò un uomo libero! «Ehi!», squittì Betty, tirandolo per un braccio. «Sveglia! È un'ora che sei piantato qui. Ti abbiamo cercato dappertutto!» Non gli diedero neanche il tempo di scusarsi; uno a destra e l'altra a sinistra, lo presero sottobraccio e lo trascinarono verso l'ascensore. Gli arrivò alle narici il delicato profumo emanante dal maglione di lana di Betty e il leggero odore di tabacco della giacca di tweed di Evans. Mai, prima di allora, Anton si era reso conto di quanto fosse piacevole sentirsi vivo e normale, di quante cose si potessero gustare attraverso il tatto, il gusto, la vista. Tutto gli sembrava bello. Non trovò difficoltà a lasciarsi contagiare dalla loro rumorosa allegria. Nella grossa auto grigia di Evans, passò il braccio intorno alle spalle di Betty; le diede una sbirciatina di sottecchi, ammirando il levigato candore della pelle, e le lunghe ciglia che ombreggiavano i limpidi occhi grigi. Sicuro, se Evans aveva visto giusto, se ce la faceva a guarirlo, anche lui si sarebbe trovato una ragazza come Betty. E allora avrebbero potuto fare delle belle gite, tutti e quattro insieme. Aveva dei soldi da parte: non aveva mai avuto occasione di spenderli, prima. La pioggia aveva scoraggiato ogni sua iniziativa. «Sarà tutt'altra vita», disse loro, pieno di entusiasmo, il volto animato, non più pallido come sempre e senza quelle pieghe amare che la perenne paura gli aveva scavato intorno alla bocca. «Faremo delle scampagnate, andremo al mare. E magari Evans mi insegnerà degli esercizi ginnici per farmi anch'io un po' di muscoli...» Sorridendo, Betty gli batté sulla mano dei colpetti rassicuranti.
«Diventerai un altr'uomo, Tony. Aspetta e vedrai. Evans si è dato un da fare da matti...» «Lo so. E in qualche modo voglio ricambiare!» «Lascia andare», disse Evans con un largo sorriso. «L'ho fatto perché sono curioso di scoprire i tuoi gusti in fatto di donzelle; e voglio vedere come te la cavi a ballare, mica per altro!» Scoppiarono tutti a ridere e intanto la macchina scorreva sull'asfalto, potente e silenziosa; dopo un po' Evans prese una curva con maestria e si inserì su una strada di campagna. Il motore cominciò a sputacchiare, poi si spense, proprio mentre arrivavano in vista di un basso cottage bianco rallegrato da una fioritura di iris violetti disposti in fila parallelamente alla facciata. Sul retro, una terrazza lastricata di ardesia conferiva alla graziosa casetta l'aspetto di un'ancora galleggiante. Le persiane e la porta di un azzurro vivo, il batacchio e le maniglie di ottone brillante mettevano una nota squillante sul bianco della facciata. «Niente da fare», bofonchiò Evans con una risatella che mascherava l'irritazione, prendendosela con acceleratore e frizione. «È una settimana che ho in mente di far fare una revisione e non è vero che quest'accidenti ha scelto proprio oggi per piantarmi in asso!» «Il cottage non è distante, Evans», disse Betty. «Praticamente, siamo arrivati; per pochi passi non muore nessuno.» «Telefonerò all'officina perché mandino a prendere la macchina», rispose Evans scendendo e facendo strada in direzione della casa, giocherellando col portachiavi. Aprì la porta e la spalancò. «Avanti, entrate; io vado subito a preparare i beveraggi.» Anton si fermò di botto sulla soglia del soggiorno, al quale si accedeva salendo due gradini. I mobili erano stati rimossi. Sulle tavole del parquet lucidato a cera era sparsa della sabbia; qua e là facevano spicco alcune stuoie di paglia con disegni esotici, rossi, neri, gialli. Lungo le pareti erano poggiate canne di bambù intrecciate con corregge di cuoio. Nel centro della stanza, un tavolo rustico indubbiamente proveniente dalle isole dei mari del Sud. Sul ripiano di legno alcune pietre triangolari, iridescenti, di un pallore lunare, riflettevano i vividi rossi e violetti di alcune gemme che ornavano una lunga cintura. Accanto al tavolo, una lampada a stelo e una poltrona dall'alta spalliera. Anton si guardò intorno meravigliato, poi si girò verso Evans, che lo fissava ridacchiando.
«Tu... Dove diavolo sei andato a pescare questa roba?» «Dal cugino di Betty: lei lo ha convinto che ne aveva bisogno e lui le ha permesso di prendersela in prestito...» Betty prese in mano una delle pietre triangolari e la cintura rosso-viola. «Pietre e cinture sono autentiche: non so bene dove, le usavano durante i riti propiziatori per la pioggia. Jimmy mi ha detto in che posto, ma me ne sono dimenticata.» «Che ti avevo detto?», domandò Evans. «Tu non ne sapevi niente, ma nelle religioni arcaiche un sacco di cose sono collegate con la pioggia. Nella mitologia greca, Zeus, ovverosia Giove, è anche il dio della pioggia: da lui dipendono i fenomeni meteorologici. È il dio del cielo, Giove Tonante, comunemente chiamato Giove Pluvio. Gli antichi pagani celebravano le loro cerimonie sulle vette delle montagne appunto per essere più vicini alla dimora degli dèi.» Pur continuando a parlare, Evans andava avanti e indietro dalla cucina al soggiorno, portando vasi e secchi pieni di terra e brocche colme d'acqua. «A Creta le cerimonie avevano luogo sui monti Ida e Dikte; in Tessaglia, sull'Olimpo. E poi c'è la leggenda delle Danaidi, le cinquanta figlie del re d'Egitto che fecero fuori i loro cinquanta cugini che avrebbero dovuto sposare e furono da Giove spedite all'inferno dove, per punizione, devono eternamente attingere acqua con vasi sfondati. L'uso di vasi senza fondo è molto frequente nei riti pagani e questo affinché l'acqua si sparga sulla terra. Simbolismo per analogia, capisci? Imitano la realtà per provocare il fenomeno reale.» «Ma scusa... Abbiamo bisogno di far piovere?», domandò stupito Anton. «No, si capisce. Però voglio essere preparato, avere sottomano gli ingredienti che potrebbero eventualmente servire per riprodurre qualsiasi bizzarria tu escogiti, nel tuo sogno. Voglio dimostrarti che la liturgia feticista inventata dal tuo subcosciente non vale una cicca!» Ridacchiando, Betty costrinse Anton a sedersi nella poltrona. «Tu mettiti a sedere, Tony. Ci pensiamo noi, Evans ed io, a preparare tutto quello che serve. Tu pensa a star comodo: questo è il tuo compito.» Evans si mise a ridere. «Compito più facile del suo, credo che non esista al mondo: tutto quello che ha da fare è addormentarsi!» Anton ebbe la sensazione che la poltrona lo ghermisse, attanagliandolo. Poggiò la testa contro la spalliera, e allora gli parve che il sangue gli scorresse più tranquillo nelle vene, sentì i muscoli rilassarsi: era in buone mani,
nelle mani di amici intenzionati a guarirlo. Sorrise. Mentre Evans accendeva la lampada, che era poi un vero e proprio riflettore, Betty abbassò le veneziane e per completare l'oscuramento vi appuntò sopra alcune strisce di stoffa nera. La stanza era buia, intorno; il raggio incandescente del riflettore era puntato direttamente sugli occhi spalancati di Anton. Evans piazzò un ventilatore a pale davanti alla lampada, fece scattare un interruttore. Il ventilatore si mise in moto lentamente, e nel roteare parve trinciare la luce della lampada che sfolgorava dagli interstizi tra le pale, a intervalli regolari. Luce e ombra, punto e linea, luce e ombra, ombra e luce, ininterrottamente. Quell'alternarsi di sfolgorìo e di tenebre gli affaticò gli occhi; Anton sbatté le palpebre, stanco, illanguidito. «Guarda fisso la luce, Tony. Lascia che ti penetri nel cervello. Ecco, così... Ti fa venir sonno, vero?» Anton annuì. «Sicuro, sei stanco, tanto stanco... E allora, perché non dormi? Dormi, dormi... Se hai voglia di dormire, lasciati andare... Qui sei al sicuro, ci siamo noi, non può succederti niente di male... Dormi. Tony, dormi...» Luce intermittente. Mormorio di voci. Facoltà mentali intorpidite. «Dormi, dormi, dormi...» Occhi che si chiudono, escludendo il resto del mondo. Da una distanza infinita, una voce monotona: «Dormi... dormi...» Poi il nulla. No, non proprio il nulla. Qualcosa c'era. Ne vedeva il bagliore, come dal fondo di un lungo tunnel. Lingue rosso arancione che guizzavano protese verso l'immensa volta del soffitto. Gli parve che la sua vista si rischiarasse e notò davanti al rosso bagliore una forma in continuo movimento. Quel rosso bagliore fiammeggiante era un enorme fuoco. Anton giaceva in una caverna, gambe e braccia legate, la fronte madida del sudore gelido del terrore. Era poggiato su un fianco, il viso rivolto verso l'entrata della caverna: poteva così vedere la sacerdotessa, l'incantatrice di serpenti, che danzava davanti allo splendente falò. Un grosso rettile verdastro si attorcigliava alle candide braccia della vestale, e, alle spalle, le rosse lingue di fuoco oscillavano come se tentassero di imitare la mimica della danza della sacerdotessa. L'agile giuoco delle
sue gambe lunghe, eburnee, il volteggiare delle braccia levate alte verso il soffitto disegnavano nell'aria degli arabeschi in armonia con le contorsioni del serpente e il guizzare delle fiamme. Tutto appariva distorto, come visto attraverso una fitta cortina di pioggia. Persino la musica dei tamburi nascosti nell'oscurità della caverna perdeva il ritmo, rullava e tambureggiava seguendo un tempo fuori da ogni regola. Giovanissime fanciulle disposte in fila dietro la danzatrice agitavano le loro braccia levate verso l'alto con un movimento simile al flusso e riflusso delle onde. La sacerdotessa dai neri e lunghi capelli fluttuanti alzava ritmicamente, una dopo l'altro, i piedini graziosamente arcuati, quasi camminasse su un vasto braciere di carboni ardenti, avanzando, indietreggiando e poi ancora avanzando. Tra le mani dalle unghie lunghissime reggeva una giara vermiglia, modellata come un'enorme goccia di pioggia. Nello spazio illuminato dal vivido sfolgorio delle fiamme, quattro fanciulle avanzarono ondeggiando verso di lei. Vestivano lunghe tuniche svolazzanti; la prima era vestita di rosso, la seconda tutta di bianco, la terza era abbigliata in azzurro e l'ultima indossava una tunica chiazzata, perché rappresentava la nebbia e la pioggia filtranti tra i rami degli alberi, gocciolanti. Tra le mani unite a conchiglia, le ragazze reggevano zolle di terra. Dall'orcio vermiglio a forma di goccia, la sacerdotessa versò dell'acqua che al riflesso delle fiamme brillò come sangue; l'acqua intrise la terra che le accolite reggevano tra le palme a coppa, trasformandola in fango liquido che travasò, colando al suolo. A quella vista il prigioniero incatenato nella caverna prese a contorcersi, a divincolarsi, nel frenetico tentativo di liberarsi e fuggire. Sapeva ciò che sarebbe venuto in seguito. Sapeva e temeva: il terrore gli trafiggeva il corpo, facendolo spasimare. Di lì a poco sarebbe toccato a lui; a lui e alla fanciulla destinata a essere come lui offerta in olocausto. Le vide, grosse bolle negre, avanzare faticosamente, avvicinarsi con passo pesante. Ombre silenziose che si approssimavano sempre più: soltanto l'ansare della respirazione affannosa tradiva la loro presenza. Mani che lo afferrarono, sollevandolo. Egli urlò e l'eco della caverna ripeté il suo grido di agonia. Non poteva sfuggire alla stretta di quelle mani, troppo forti, troppo use ad agguantare creature rese folli dal terrore. Lo portarono verso il fuoco, aggirarono il rogo e lo posarono su un'ara di pietra lorda di macchie. Mentre lo incatenavano all'altare, le catene rugginose tintinnarono lugubremente. Gli occhi follemente roteanti della vittima scorsero il cielo, cupo e senza stelle.
Al suo fianco guizzò qualcosa di bianco: la ragazza. Il vento scompigliava i lunghi capelli biondi come il lino; gambe e braccia si agitavano freneticamente, senza cedere, senza concedersi sosta. La scagliarono sull'ara, accanto a lui. Udì il singhiozzo strozzante in gola, sentì la spalla nuda appoggiarsi alla sua, tremante. Le danzatrici si erano immobilizzate, ansanti. Poi la sacerdotessa e le sue aiutanti presero a versare acqua sul rogo finché, tra sibili e crepitii, le fiamme si smorzarono. Ben presto i sacrificandi sarebbero rimasti soli col dio della pioggia. La folla già stava ritirandosi a passi cauti, la schiena curva. I fedeli gettavano occhiate timorose alle figure dei due incatenati sull'ara. Lui poteva scorgere il bianco degli occhi sbarrati e il fremere delle spalle, quando qualcuno sussultava, passando loro vicino. Il fuoco si era spento del tutto. La sacerdotessa andò a prendere le rane legate con sottili vincastri e le posò sull'altare. Nella mano destra teneva stretto un fascio di sottilissimi giunchi. Lentamente, cominciò a fustigare le rane... «Aieeee!... Aieeee!...» L'invocazione della sacerdotessa sovrastò il gracidare delle rane agonizzanti. Testa rovesciata, viso rivolto verso il cielo, lei rinnovò il suo grido. Il brontolio del tuono rotolò in rumorose onde sonore attraverso il firmamento. Un abbagliante zig-zag squarciò i nuvoloni, trasformando per un istante le tenebre in luce abbacinante. Le verghe erano diventate di un vivido colore rosso e ancora si alzavano e si abbattevano, schizzando sull'altare gocce nauseabonde. Le rane erano immobili, ormai, e silenziose. Uno scoppio di tuono fece sussultare il suolo; persino l'ara traballò! Un rombo stentoreo di una potenza talmente sovrumana da annichilire chiunque l'avesse udito. La pioggia cominciò a cadere. Anton gridò... Anton aprì gli occhi. Davanti a lui, nascosta nella zona d'ombra dietro il chiarore del fuoco, una maga vestita di bianco, con un serpente arrotolato intorno alle candide spalle, lo fissava. La sua ombra arrivava ai piedi di Anton, la sua sagoma appariva enorme e indistinta, al guizzare delle fiamme.
Una mano gli strinse il braccio, costringendolo all'immobilità nella poltrona. Una voce sussurrò: «Sssst! È Betty!» La donna in bianco stava versando sulla terra riarsa contenuta in una grossa ciotola un filo d'acqua che alla luce rossastra del fuoco scintillava come sangue. Di lato, le rane ammorsate a una pietra sacrificale gracidavano ininterrottamente. «Cosa sta facendo?» articolò Anton. «Riproduce il tuo sogno. Sta ripetendo esattamente i gesti della sacerdotessa. Nel sonno, ci hai raccontato tutto ciò che succedeva, e hai risposto alle mie domande sulle parole e sui gesti del rituale.» «Oh! Però il mio sogno si è interrotto allo stesso punto di sempre, vero? La pioggia non ha fatto in tempo a toccarmi, non mi è caduta addosso. Ed è proprio di questo che avevo paura, che la pioggia inzuppasse il mio corpo!» Aggrottando la fronte, Evans sussurrò: «Strano. Infatti, il tuo sogno si è interrotto in quel momento. Perciò vogliamo vedere se riproducendo il rito succede qualche cosa». Anton guardò Betty bardata in quel costume esotico, finalmente mettendola a fuoco. Questa è una gabbia di matti, pensò. Quando sarò sveglio del tutto mi renderò conto dell'assurdità di funambolismi del genere. La paura che lo aveva angosciato durante il sogno stava rapidamente scomparendo. «Spero che funzioni», disse, con una risatina chioccia. «Zitto! Stai a vedere.» Anton dovette ammettere che Betty aveva imparato bene la sua parte, ascoltandolo farfugliare nel sonno. Ballava davvero esattamente come la sacerdotessa del sogno, con i medesimi movimenti delle braccia e delle gambe, con una sinuosità scattante del busto identica a quella dell'originale. Dopo avere inzuppato d'acqua la terra contenuta nella conca d'argilla, stava disponendo le rane sulla pietra sacrificale. Prese a fustigarle, e le rane emisero suoni acuti e lamentosi. Le sottili verghe erano rosse. Anton sentì una fitta acuta di dolore alle palme delle mani. Le stringeva a pugno con tanta forza che le unghie gli erano penetrate nella carne. Da dietro il fuoco, Betty lo fissava con occhi assenti. Stava mormorando qualcosa, con la voce della sacerdotessa del sogno. Ecco, Anton ricordava: era la formula rituale che sempre precedeva l'invocazione gridata.
«Aieeee! Aieeee!» Non accadde nulla. Rannicchiato nella poltrona, non credendo alle proprie orecchie, passandosi la lingua sulle labbra riarse, Anton non distoglieva lo sguardo da Betty, illuminata dalle lingue danzanti delle fiamme. Nessun rumore. Niente tuono. Niente scrosci di pioggia martellanti sul tetto, scatenati contro i muri. Evans accese la luce elettrica. Si trovava in un angolo della stanza e sulle labbra aleggiava un sogghigno divertito. Betty stava infilandosi una vestaglia, ricacciando indietro una ciocca di capelli ribelle. Anton trovò che aveva un'aria un po' stranita, ma poi vide il serpente di plastica e si mise a ridere. «Finito, tutto finito!», gorgogliò tra scoppi di compiaciuta ilarità. «E non è successo niente! Niente di niente!» Corse alla finestra, strappò le strisce nere e sollevò la veneziana. La luce dorata del sole lo inondò in pieno, gli riscaldò col suo tepore il volto, le braccia, il petto. Mani levate verso l'alto, egli si mise a girare in tondo come una trottola. «Sono libero! Sono libero!», gridava. Evans gli batteva manate sulle spalle, Betty rideva. Gli diede persino un bacio; però evitava con cura di guardarlo direttamente negli occhi. «Voi non avete idea di cosa significhi, per me! Non potete rendervi conto, impossibile! Soltanto un cieco che avesse riacquistato la vista potrebbe capire. Una vita intera. Quel sogno! Si ripeteva sempre, sempre... Ogni istante della mia esistenza vissuto con la paura che da un momento all'altro piovesse...» Evans distribuì i cocktail, esclamando allegramente: «Dobbiamo festeggiare con una bisboccia che faccia epoca! Che programma, per questa sera, Tony? Di' un po', Betty, non potresti rimediargli una dama? Si potrebbe andare tutti e quattro in qualche posto a ballare. Offro io.» «Oh, no, no, no! Tocca a me!» protestò Anton, battendosi una mano sul petto e ingoiando di un fiato il suo drink. «Voglio spendere un po' di quei soldi che sono andato economizzando, voglio godermeli.» «Figuratevi», arrossì leggermente, «figuratevi che ho nascosto cento dollari nel mio materasso, proprio con l'intenzione di spenderli per festeggiare con voi la mia guarigione, caso la faccenda fosse andata in porto!» Bevvero, chiacchierarono, risero. Guardando Betty, Anton commentò: «Ma lo sai che hai imitato alla perfezione la voce della sacerdotessa? E
la formula rituale che hai pronunciato prima del grido di invocazione! Meraviglioso. Tono e accento perfetti». Evans rise. «Tempo fa, Betty recitava in una compagnia di dilettanti.» Ancora una volta la ragazza si scostò dal volto una ciocca di capelli e le sue mani si agitarono nervosamente, quasi fosse incerta se dire o non dire qualcosa che le frullava in mente. Le sue pupille erano dilatate, gli occhi avevano un'espressione leggermente spaventata. «Veramente... io non ho detto niente... Voglio dire, non me ne ricordo. Curioso: ho l'impressione che la formula magica sia stata pronunciata da qualcun altro...» «Ma naturale», esclamò Evans. «Ti eri così immedesimata nel tuo personaggio che avevi perso il contatto con la tua identità reale. Qualsiasi buona attrice prima o poi ha dei momenti di grazia del genere.» Betty sorrise, poi si mise a ridere. «Non ci avevo pensato. Che stupida che sono!» «Sei meravigliosa», protestò Anton. «Hai collaborato a fare di me un uomo nuovo di zecca.» Tornò alla finestra e aprì i vetri, aspirando profondamente l'acuta fragranza dei garofani selvatici che crescevano tra l'erba del prato intorno al cottage. Rivolse un largo sorriso al cielo costellato di cirri trasparenti. Cielo a pecorelle... «E piova pure quanto vuole», gridò. «Non ho più paura. Ho visto il mio sogno farsi realtà e non è successo niente.» Bevve ancora un sorso, poi, con aria raggiante: «Devo fare una corsa a casa per cambiarmi di vestito». «Aspetta ancora un po'», disse Evans. «L'officina non ha ancora rimandato la macchina e da qui alla stazione del trenino ci sono quasi cinque chilometri.» «Una bella camminata, è quello che ci vuole. Mi farà bene. Parola, sono così felice di essere al mondo che una lunga passeggiata me la godrò proprio, non potete figurarvi come!» Betty scoppiò a ridere: «Mi fai venire la voglia di venire con te soltanto per il gusto di guardarti, Tony. Non ho mai visto nessuno così felice». «No, no, tu resta con Evans. Ci incontreremo alle otto all'angolo dell'ufficio. Questa sera faremo cosa da pazzi. Evviva noi tre!» Si voltò per un ultimo cenno di saluto. I due erano fermi sulla soglia: Evans aveva un braccio intorno alle spalle di Betty, che con la mano sinistra faceva roteare il suo bicchiere. Dietro a loro la lampada dell'ingresso
creava un gioco di luci e ombre dai riflessi bronzei. A tratti, la tiepida brezza primaverile faceva svolazzare le falde della giacca di Evans. Anton camminava sulla strada con passo danzante. Il sorriso non aveva abbandonato le sue labbra. Sparita la paura, che con la sua morsa gli aveva paralizzato il cuore. Si guardò intorno, osservò i campi, l'erba novella leggermente ondeggiante al vento, gli alberi con il fogliame di un verde tenero. Tutto, intorno a lui, era vivo e vitale, ed egli poteva goderne senza restrizioni. Per un istante pensò alle piante e ai fiori, e a come essi si nutrivano, esattamente come gli esseri umani. Chissà se anche le piante gustavano i loro alimenti quanto lui stesso, a partire da quel giorno, avrebbe gustato il suo cibo... Il loro cibo, consisteva in azoto, ossigeno e altri elementi chimici. Doveva farsi un po' di cultura su argomenti del genere, pensò. Ormai i suoi giorni e le sue notti appartenevano a lui solo e non più alla paura, perciò avrebbe avuto tempo a volontà. Doveva essere interessante scoprire in che modo la scienza aiutava la fertilità della terra. Si ricordò di aver letto in qualche parte che il corpo umano era composto di una mistura di elementi chimici, di cui l'acqua costituiva la parte preponderante. Per il gusto di sentire il vento arruffargli i capelli, si tolse il suo cappelluccio nero; lo gualcì tra le mani e ghignò, guardandosi. Finita l'era dei vestiti e dei cappelli scuri, per lui! «Voglio comprarmi una giacca sportiva, di quelle all'ultima moda, a grossi quadri», si disse, «e un paio di calzoni marrone chiaro, e stivaloni con la suola spessa, di caucciù. Da oggi in poi voglio darmi allo sport... caspita, praticamente la mia vita comincia oggi!» Un'ombra lunga oscurò la strada, davanti a lui. Sbigottito, guardò in alto. Un nuvolone era spuntato dal nulla, velando il sole. Strano, prima non ci aveva fatto caso. Be', ma perché preoccuparsi per una nube plumbea? Continuò il suo cammino allegramente, fischiettando un motivo che aveva imparato la sera prima, ballando con la rossetta deliziosa. Non era proprio il caso di aver paura di una nuvola nera! La macchia d'ombra si allargò sul terreno. Coprì campi e alture, alberi, prati e cespugli di fiori selvatici. Anton cercò di orientarsi: era pressappoco a mezza strada tra il cottage di Evans e la stazioncina. Poco più di due chilometri da una parte come dall'altra. Si guardò intorno, ma non vide che la distesa dei campi aperti; non un posto in cui rifugiarsi per ripararsi dalla pioggia. E stava per piovere, era evidente.
Bellicosamente, Anton sporse il mento in avanti, mordendosi a sangue le labbra per contenerne il tremito. Con voce soffocata, mormorò: «Forza, pioggia, vieni pure. Non mi fai più paura!» Riprese a camminare spavaldamente, ma il cuore gli martellava precipitosamente nel petto. Uno scoppio di tuono fece tremare il terreno sotto i suoi piedi, rimbombando con un boato fragoroso. Per un attimo rimase come inchiodato sulla strada polverosa. Poi uggiolò: «Dio, Dio, Dio... Tale e quale al rombo del tuono che sento nel mio sogno! Che cosa succede dopo, quando cade la pioggia? Non lo so, non lo so!» Si inumidì le labbra con la saliva e prese a correre. I suoi piedi martellavano la terra battuta, sollevando un polverone che lo soffocava. Dopo il primo possente clangore, il giorno sembrava immerso nel silenzio. Un silenzio gravido di attesa. Come un manto funebre, l'oscurità calò sul paesaggio circostante. La terra era ottenebrata da una contraffazione della notte. Anton quasi non vedeva dove metteva i piedi, ma continuò lo stesso a correre come un pazzo. La pioggia era imminente, da un momento all'altro sarebbe caduta, e non un posto dove rifugiarsi! Dapprima alcune gocce rade: se le sentì sul volto, sulle mani. Poi sempre più fitte, come in gara con lui che continuava a correre, a dirotto, picchierellando il terreno tutt'intorno, tambureggiando sulla terra battuta. Ogni goccia corrosiva quanto una stilla di acido, sulla sua carne. Gemendo sottovoce, scrollò la pioggia dalle sue mani. I suoi indumenti erano fradici, zuppi d'acqua. Freneticamente, si tolse giacca e camicia, si sfilò i pantaloni, lasciandoli cadere al suolo. Così poteva correre più in fretta, pensò. La pioggia gli faceva male, trafiggendogli il corpo, divorando la sua carne. Sì, aveva l'impressione che la pioggia se lo stesse divorando. Alzò una mano, per guardarla. Nelle tenebre, si vedeva ben poco, ma ciò che riuscì a scorgere gli strappò dalla gola un grido agghiacciante di orrore. La sua mano era diventata una cosa informe! Il pollice, le altre dita, erano spariti! Era rimasto soltanto un moncherino, come una pasta molle, una zolla tondeggiante. Si guardò il petto e vide che anche quello stava cambiando forma. E i suoi piedi, Dio del cielo, i suoi piedi!
Non erano più piedi; soltanto dei moncherini al posto delle caviglie. E lui, come un demente, si ostinava a proseguire, a trascinarsi su quei monconi... Ora sapeva, sapeva cosa succedeva dopo il titanico scoppio di tuono: cadeva la pioggia e divorava le vittime offerte in sacrificio. Cadeva a torrenti e dissolveva le loro carni, le spazzava via travolgendo il liquido vitale, rovesciandolo al suolo, affinché il terreno assorbisse gli elementi chimici contenuti nei loro corpi e la sua fertilità ne fosse incrementata. Da lontano, scorse la stazioncina, ma ormai non poteva più avanzare di un passo. Un po' più vicino, pareva ci fosse una baracca, una specie di capanna, ma non ne era sicuro, la sua vista era annebbiata. Del resto, che importava? Non aveva più né braccia né gambe con cui trascinarsi. Non poteva far altro che giacere dove si trovava e lasciare che la pioggia facesse di lui ciò che voleva. Gemette una volta, una sola, poi ammutolì. Ben presto non vi fu più nulla che potesse emettere un suono. Per alcuni giorni la scomparsa di Anton Markov fece notizia sui giornali. Betty e Evans si trovarono alla ribalta e non mancarono i commenti e le insinuazioni velenose, ma niente di concreto fu provato. Nelle vicinanze della stazioncina presso la quale abitava Mike Murphy circolarono chiacchiere di altro genere. A pochi metri dalla sua capanna, Mike aveva piantato un filare di rose. Quell'anno il roseto diede una fioritura di corolle rosse, rosa, bianche, di una magnificenza mai vista prima di allora. Tutti chiedevano a Mike come diavolo avesse fatto. Mike era troppo povero, non poteva permettersi di comprare dei fertilizzanti. CONDOMINIO CON LO SPETTRO di Gans T. Field Mi introdussi in una casa, ma quella casa non era una casa. A. A. MILNE Erano più di sei mesi che il giudice Pursuivant si riprometteva di visitare un certo casolare, un vecchio mulino abbandonato su cui correvano dicerie
tanto bizzarre, ma, ahimè, per l'Illustrissimo Signor Giudice non era mica tanto facile trovare uno spicchio di tempo da dedicare alle cose che più gli andavano a genio. Passò l'autunno, venne un gelido inverno. Le feste di Natale, Pursuivant le trascorse a Salem, non molto festosamente, per la verità, prestando la sua assistenza alla vedova di un amico, che stava passando i suoi guai per rientrare in possesso di una proprietà. A Capodanno si trovava a Harrisonville, su invito degli amici de Grandin e Trowbridge, che desideravano il suo consiglio nel tradurre certi vecchi documenti olandesi che sarebbe stato meglio non tradurre affatto. Al ritorno, puntando verso sud-ovest, diretto verso i patri lari, passò per Scott's Meadows; trovandosi sul posto, sebbene stesse già annottando e nell'aria vi fosse più di un presagio di neve, non seppe resistere alla tentazione di visitare seduta stante il mulino Criley. Il padrone della farmacia, situata sul così detto «corso» della cittadina, gli fornì le indicazioni sull'itinerario da seguire. Guidando con cautela, il giudice infilò una ripida carrareccia dal fondo stradale in condizioni disastrose, serpeggiante tra colline dai cocuzzoli incoronati di alberi scheletriti, poi prese per una specie di mulattiera selciata con lastroni di pietra. Come Dio volle, arrivò a un ponticello traballante, gettato sulle acque torbide e tumultuanti di un torrente: era giunto a destinazione, finalmente. Gli bastò un'occhiata allo stabile illuminato dagli ultimi raggi del sole per dirsi che i casi erano due: o aveva sbagliato strada, oppure aveva procrastinato troppo la sua visita. Gli avevano parlato di una costruzione stretta di base, alta e cadente: le rovine di un antico mulino, vecchie di duecento anni, ma che avevano l'aria di averne duemila. Quella villetta, invece, era pressappoco il contrario: nuova di zecca, rivestita di assicelle di legno marrone, bassa e asimmetrica, con una veranda a vetri e larghi finestroni. Un posticino molto ridente, avrebbe dovuto essere, ma in realtà non lo era. Pursuivant superò il ponticello e fermò la macchina davanti alla porta d'ingresso; scese e bussò. Fiocchi di neve cominciavano a sfarfallare intorno a lui. La luce si accese nella stanza sul davanti e di lì a poco un uomo aprì la porta: piccolo, magrolino, con un ciuffo di capelli grigi che gli ricadeva sulla fronte e un volto scavato e rugoso che lo faceva somigliare al fu Will Rogers. Indossava giacca da camera e pantofole. «Sì?» Il tono era quasi minaccioso. «Voglia scusarmi», disse Pursuivant, accennando un inchino con le sue
spalle massicce. «Ma questo non è il mulino Criley? La casa frequentata dai fantasmi?» «Fantasmi?!» fece l'ometto sulla soglia. «Ecco... Io... Ma che storia è questa?» Dopo di che, non rimaneva che una cosa da dire. Pursuivant scrollò i baffoni fulvi per far cadere i fiocchi di neve, e la disse: «Scusi il disturbo. A quanto pare ho sbagliato». D'improvviso, l'altro cambiò atteggiamento. «Oh, no, signore, lei non ha sbagliato. Questo era il posto che lei cerca. Le dirò, io ho costruito la casa sul terreno dove sorgeva il vecchio mulino. È da poco che è stata completata, mi ci sono installato alla fine di novembre... Senta: perché non entra? Mi scusi se prima sono stato scortese... Nervi, sa... Non avevo idea di chi potesse venire a bussare alla mia porta, così lontano dal resto del mondo...» La sua mano scheletrita si aggrappò a quella grande e robusta di Pursuivant. «Si accomodi, la prego! No, aspetti... Sta cominciando a nevicare; il garage è sul retro, c'è posto per un'altra macchina, oltre la mia. È aperto; infili la sua auto là dentro, così poi possiamo prendere un aperitivo insieme in santa pace. E magari, se vuole, può fermarsi a mangiare un boccone con me.» Desiderava proprio che Pursuivant si fermasse. Il giudice lo guardò fisso con i suoi occhioni azzurri ingannevolmente candidi, poi annuì. «Grazie. Accetto con piacere.» Messa al riparo l'auto, il giudice tornò indietro, mentre la neve infittiva. L'omino lo aspettava sulla soglia per fargli strada. «Come ha detto che si chiama, scusi?» Il giudice non l'aveva detto, ma fece finta di niente: «Pursuivant. Sono il giudice Keith Pursuivant. Ho l'hobby dei posti infestati dai fantasmi.» «Piacere. Io sono Alvin Scrope, giornalista a riposo, ex proprietario di un quotidiano di provincia, scapolo.» Nel frattempo erano entrati nel soggiorno, una stanza che aveva tutti i requisiti per soddisfare, in fatto di confort, ogni e qualsiasi istanza anche del più esigente degli scapoli. Sofà e poltrone imbottiti, tappeti spessi, quadri vivaci, lampade disseminate qua e là, uno scaffale zeppo di libri. Malgrado tutto, però, non era una stanza allegra; così come nell'aspetto
della casa all'esterno, mancava qualcosa. «Vorrà scusare il disordine», disse Alvin Scrope. «Il mio domestico mi ha piantato in asso il giorno di capodanno, così ho dovuto arrangiarmi e sbrigare io i servizi di casa, in questi ultimi giorni.» Prese da un tavolinetto una bottiglia di whisky e il sifone della soda, preparò due highballs e porse un bicchiere a Pursuivant. «Avremo una nevicata coi fiocchi. Le consiglierei, se permette, di passare la notte qui.» Pursuivant poggiò su una sedia cappotto e cappello. «Lei è davvero molto gentile», disse, chiedendosi nel frattempo, perché mai il suo ospite dapprima lo avesse quasi respinto in malo modo e poi si fosse fatto in quattro per farlo rimanere. Alvin Scrope diede una tiratina al ciuffo che gli ricadeva sulla fronte; poi, con una giovialità che suonava un po' forzata, proseguì: «Proprio come le dicevo, signor giudice, la casa sorge esattamente dove prima c'era il vecchio mulino. Le piace?» Il giudice incuneò la sua mole ragguardevole in una poltrona, poi bevve un sorsetto di whisky. «Come faccio a saperlo... Non l'ho ancora vista bene, sono appena entrato. E a lei piace, signor Scrope?» Altra tiratina al ciuffo. «Per dire la verità, nemmeno io lo so.» Bevve anche lui, prima di continuare. «Forse perché non ho termini di paragone: non ho mai avuto una casa tutta mia, prima. Ho passato la vita lavorando e il giornalismo è un mestiere che tiene continuamente sotto pressione... Adesso, con tanto 'tempo libero' a mia disposizione, mi sento come sperduto. Sa com'è... Ma è successo che quando sono venuto da queste parti la prima volta e ho visto il mulino in rovina e i dintorni ho pensato che questo fosse il posto ideale per costruirvi il mio ritiro.» «Ho sentito parlare del mulino e delle leggende connesse», azzardò Pursuivant, frugandosi in tasca in cerca della pipa. Come aveva sperato, il suo ospite diede subito la stura al racconto. «Mi risulta che la masseria fu costruita prima della guerra di Indipendenza. Il proprietario era un mugnaio, un certo Criley; sposato, con due figli, un maschio e una femmina.» «Le rincresce se prendo qualche appunto?» domandò Pursuivant, estraendo di tasca penna e taccuino. «Continui, signor Scrope.» «Dunque, un brutto giorno scoppiò la guerra. Il mugnaio e suo figlio si
arruolarono nell'esercito di Washington. Gli Inglesi sfondarono a New York dopo di che ci fu un periodo molto duro di alterne vicende, per cui nessuno poteva prevedere se l'avanzata degli Inglesi sarebbe stata contenuta o se essi si sarebbero impadroniti anche del resto del paese.» Pursuivant annuì. Conosceva quella fase tragica, disperata, della storia della sua patria. Dopo la prima sconfitta dell'esercito americano, la guerra aveva assunto il perfido carattere della guerriglia, con incursioni di sorpresa, imboscate, tradimenti. Gli episodi di crudeltà erano stati numerosi da entrambe le parti. Nathan Hale e John Andre, due autentici gentiluomini, impiccati come banditi. Altre tragedie, a migliaia. Tutta la zona intorno a New York e una parte del New Jersey erano state teatro di gesta raccapriccianti, che avevano dato origine a racconti da far venire i brividi. Scrope proseguì: «Nello stato di New York erano di stanza parecchi mercenari germanici originari dell'Assia, gli Assiani, li chiamavano, assoldati per combattere contro gli Americani, appunto». Pursuivant annuì di nuovo. Un suo antenato virginiano aveva combattuto a fianco di Washington, a Trenton. «Gli Assiani non erano dei combattenti molto valorosi», commentò. «Ogni regola ha la sua eccezione», ribatté recisamente Scrope. «Mi segue, sta prendendo appunti, signor giudice? Ignoro il nome dell'assiano in questione, ma il suo aspetto ci è stato tramandato dai racconti sulle sue imprese. Un pezzo d'uomo, pressappoco come lei, penso. Grande e grosso. Nella sua patria, in Germania, era famoso come cacciatore. Probabilmente era anche un criminale, e forse per questo si era arruolato, per sfuggire alla Giustizia. Sia come sia, era in grado di battere qualsiasi americano e proprio sul terreno in cui gli Americani eccellevano: caccia all'uomo e tiro.» «Questa mi pare un po' grossa», replicò Pursuivant. «Nelle truppe di Washington c'erano dei duri, con un lungo passato di lotte con gli Indiani.» «L'assiano li eclissava, gli Indiani. Si spogliava nudo come un verme, anche in pieno inverno, si dipingeva corpo e faccia coi colori dei Mohawk, e via che andava, combinando veri massacri. Tiratore infallibile, era un demonio anche nel maneggiare spada, ascia e coltello.» Scrope fece una pausa per spuntare coi denti un sigaro. «Seguire una pista, inseguire la selvaggina era un gioco, per lui, ed era capace di tenere a bada nello stesso tempo due soldati, anche di più, qualche volta. Piombava d'improvviso nelle fattorie e accoppava i civili, senza risparmiare né donne né bambini. Uno stato di servizio raccapricciante.»
Nello scribacchiare sul suo taccuino, il giudice se lo figurava, quel barbaro. Attraverso gli occhi della fantasia, gli sembrava di vederne il colorito ritratto: un colosso nudo, il corpo dipinto di strisce rosse e nere, una grinta dall'ossatura massiccia, sopracciglia spesse e biondissime a tettoia sugli occhi obliqui. Nella cintura, un assortimento di armi varie. Chissà se l'Assiano aveva poi proprio quell'aspetto... Pursuivant caricò la pipa e ne infilò il bocchino sotto i baffoni. «Continui», incitò. «Le due donne, che erano rimaste sole nel mulino, odiavano e temevano quel bruto. Congiurarono ai suoi danni. Si finsero simpatizzanti con gli Inglesi e trovarono maniera di fare la sua conoscenza.» «Un bel fegato», commentò il giudice. La sua fantasia gli presentò una nuova sequenza di scene. Probabilmente era stata la ragazza a fare i primi approcci: formosa, con le guance arrossate dal venticello pungente, un bel pomeriggio aveva finto di incontrare per caso, su un sentiero di campagna, il bestione sanguinario. In fatto di galanteria, il mercenario doveva aver avuto la mano pesante: certo non aveva mancato di esprimere la sua ammirazione con un ghigno inequivocabile del suo ceffo brutale. La forosetta, sforzandosi di non tremare, doveva aver ricambiato il sorriso, con una leggera riverenza. «Una sera fu invitato a pranzo al mulino», continuò Scrope. «L'assiano indossò la sua migliore uniforme...» Chissà che aspetto bizzarro doveva aver avuto quel beccaio teutonico, in uniforme di gala: brache bianche e uose che gli modellavano le gambe muscolose, giacca rossa, bavero bianco e bottoni lustri, che gli fasciava il torace muscoloso... E quanto incongruenti, i capelli incipriati e l'alto colbacco da granatiere!... Scrope, nel continuare il suo racconto, stava avvicinandosi al punto culminante: «Non appena si fu seduto a tavola, una delle donne (non si sa se la madre o la figlia, i pareri sono discordi), gli piantò un trinciante da cucina nella schiena. In qualche modo le donne si liberarono del cadavere: forse lo murarono, o lo seppellirono in cantina, anche questo non si sa. Ma il suo fantasma tornò». «Quante persone lo hanno visto?» «Parecchie. La madre morì di spavento e la figlia buttandosi da una finestra dell'ultimo piano, prima ancora che finisse la guerra. Il figlio si uccise poco tempo dopo essere tornato a casa, alla fine delle ostilità. Del padre
non si ha notizia, probabilmente rimase ucciso in qualche combattimento. E così la famiglia fu liquidata. Il mulino restò abbandonato. Ma non è tutto: c'è un mucchio di altri aneddoti più recenti... Dieci anni fa, per scommessa, una ragazza di Scott's Meadows trascorse una notte tra le rovine. L'indomani vagava nei dintorni, completamente svanita: le aveva completamente dato di volta il cervello, non ragionava più.» «E malgrado ciò lei ha comprato il mulino?» «Già. Feci demolire completamente i vecchi muri e sulle fondamenta feci costruire questa casa. Be', dico, dovrebbe bastare per mettere fuori combattimento qualsiasi fantasma, non le pare, dottor Pursuivant?» «In genere, chi costruisce in luoghi che hanno la reputazione di essere infestati dagli spettri, preferisce bruciare il vecchio edificio, incluse le fondamenta», rispose il giudice. «Dipende da quanto uno presta fede alle storie di fantasmi. Ho l'impressione che lei non la prenda in ridere...» Scrope addentò il suo sigaro con tanta forza che quasi lo spezzò in due. «Perché, lei ci farebbe sopra due risate, se nel corso di sei settimane due servitori tagliassero la corda senza preavviso? Se qualcosa la seguisse ogni volta che va in cantina, qualcosa di gelido e di furtivo che non appena lei si volta non c'è più? Se giorno e notte si sentisse eternamente irrequieto, come quando si assiste a un dramma di Ibsen o si legge Poe?... C'è poco da ridere, caro giudice!» Pursuivant si sporse in avanti. «Lei si figura di vedere cose e udire suoni che la turbano?» «Esatto. Non che io abbia visto o sentito nel vero senso delle parole: soltanto un sussurro, un'ombra nei cantucci poco illuminati, quando mi trovo solo. Vorrei proprio», e Scrope si fece più tetro, «professare una delle vecchie religioni tradizionali. Un prete, con campanella, messale e incenso mi tirerebbe su il morale.» «Sicuro», concordò Pursuivant. «Si dà il caso che io conosca una vecchia formula esorcistica. Gliela offro per quello che vale, anche se non sono un sacerdote: può darsi che funzioni come antidoto, o, per lo meno, che abbia un benefico influsso psicologico.» Dapprima Scrope lo guardò in cagnesco, poi sorrise. Ignorava tutto, sull'argomento. Pursuivant si affrettò a fornire una spiegazione razionale. «Non sto tentando di fare di lei un proselito delle scienze occulte, signor Scrope. Però mi sembra che un esperimento di rito simbolico possa servire a ridimensionare la faccenda, a fornirle il gancio a cui appendere le sue preoccupazioni e scordarsele per il futuro.»
«Magari, porco diavolo!» esplose quasi gridando Scrope. «Forza, signor giudice. Si dia da fare!» Pursuivant posò sul tavolo pipa e bicchiere e si alzò in piedi. Anche Scrope si alzò dalla sua poltrona; nel far questo, indietreggiò e venne a trovarsi quasi davanti a una porta in ombra, che si apriva sul corridoio interno. Con tono solenne, il giudice cominciò a declamare l'esorcismo: «O voi, spiriti del male, in nome di Colui che sta nei cieli, io vi proibisco di avvicinarvi al giaciglio e a qualsiasi altra cosa di proprietà di quest'uomo... Nel nome del Signore vi scaccio dalla sua dimora, vi proibisco ogni contatto con la sua carne, il suo sangue, il suo corpo e il suo spirito. Che ogni maligna influenza abbandoni la sua persona, le cose che gli appartengono e torni a voi e in voi rimanga. Questo vi ordino, in nome della Santissima Trinità. Amen!» Tacque e il volto di Scrope s'illuminò improvvisamente di vivo sollievo; ma di botto l'espressione sparì, così come si spegne una lampada elettrica. L'esile corpo di Scrope vacillò, prese a indietreggiare. Dalle sue labbra partì un grido lacerante: «Lasciatemi! Lasciatemi!» Barcollando, camminò a ritroso verso la porta, poi si avvinghiò agli stipiti divincolandosi: pareva lottare con qualcuno che, afferratolo da dietro, tentasse di trascinarlo via. Pursuivant balzò verso di lui, ma, proprio in quell'istante, con passo malfermo, Scrope tornò verso il centro della stanza. Aveva gli occhi vitrei, le labbra smorte, il volto cereo. «Per poco non mi ha fregato», ansimò. «Cosa?» domandò Pursuivant, affrettandosi a versare in un bicchiere una buona dose di whisky. «Ma come, non ha visto? Quella larva enorme, con un braccio nudo e senz'occhi...» «Tenga, butti giù questo. Io non ho visto niente.» Ubbidiente, Scrope bevve; riprese un po' di colore. Prese a parlare in fretta, come uno che vuol convincere se stesso, più che gli altri, di qualcosa in cui spera. «Mi sono lasciato prendere la mano dalla mia immaginazione, vero?» «Crede?» Pursuivant riempì di nuovo il bicchiere del suo ospite. Ovviamente Scrope, affastellando parole su parole, tentava di non perdere la tramontana.
«Oh, ma è evidente, signor giudice. Ho dato via libera alla fantasia e ho preso per realtà ciò che era soltanto un'allucinazione. Si figuri, ero sicuro che si trattasse di una sorta di spettro... Ma dal momento che lei non l'ha visto...» «Il fatto che io non l'abbia visto», disse Pursuivant, raccogliendo la frase di Scrope, «non prova che non esista.» L'ometto aveva l'aria disorientata; Pursuivant continuò: «Per principio, non prendo mai niente per vero in senso assoluto. Questa faccenda mi ha l'aria di prospettarsi come una delle mie avventure predilette». «Ma stia a sentire!» Scrope si mise a parlare concitatamente, come se avesse di colpo perduto il controllo. «Lei stava recitando la formula magica proprio per scongiurare cose del genere. Come avrebbe potuto, quel... sì, il fantasma, osare...» «Il coraggio della disperazione. Per sfuggire all'annientamento. Aspetti qui.» Si avvicinò alla porta e sbirciò in corridoio: sulla sinistra, un vestibolo in penombra antistante la cucina, e un passaggio che conduceva alla stanza da bagno; a destra, due porte chiuse. Chiese cosa ci fosse dietro quelle porte. «Camere da letto», rispose Scrope, con voce più ferma. «Vuole che accenda la luce?» «No, grazie.» Pursuivant si inoltrò nel corridoio. Era come se si fosse internato in un banco di nebbia.... O meglio come se si fosse trovato tra densi vapori emanati da indumenti sudici e umidi stipati in un armadio a chiusura stagna. Pursuivant boccheggiò, affrettandosi ad entrare in cucina, dove accese subito la luce. Riprese a respirare normalmente; la traspirazione cessò di imperlargli i baffoni fulvi e le sopracciglia. «Tutto a posto?» stava chiedendogli Scrope. «Per il momento sì.» Il giudice si guardò intorno nella linda cucina maiolicata di bianco, con tanto di frigorifero e fornelli elettrici. La stanza più accogliente tra quelle che aveva viste fin lì. Tornò in corridoio ed entrò nella camera da letto che guardava sul retro della casa. «Quella è la mia stanza da letto», lo informò Scrope, dalla porta del soggiorno. Pursuivant si fermò qualche istante soltanto nella stanza, che era situata a fianco della cucina. Tornò ancora una volta in corridoio per lanciare un'occhiata nella sala da bagno. Una faticaccia, vincere quel senso di op-
pressione psichica e fisica che incombeva nell'atmosfera greve, nebulosa. Finalmente si avvicinò alla porta della camera da letto che guardava sul davanti della casa. Mano sulla maniglia, domandò: «Chi ci dorme, qua dentro?» «Lei, se accetta di passare la notte qui», rispose Scrope, mentre il giudice entrava nella stanza. In un primo momento Pursuivant ebbe l'impressione di aver ricevuto una botta in testa: le sue ginocchia si piegarono, la sua mente vacillò, annebbiata. Le pareti... Non erano diroccate, piene di crepe, mezzo smantellate? Le pareti sembravano roteargli intorno, nell'oscurità... Non perse la testa, si costrinse a rimanere ritto in piedi, allungò la mano per trovare l'interruttore e accese la luce. Aveva sbagliato. La stanza era moderna, tappezzata di carta satinata color crema e in teoria avrebbe dovuto risultare accogliente... Però la luce era fosca come se brillasse filtrando attraverso una fitta cortina di fumo. Un bel lettino a una piazza, un cassettone, una poltrona... Come poteva un arredamento del genere creare un'ombra tanto profonda nell'angolo più lontano? Ma era poi un'ombra? L'oppressione che aveva percepito nel corridoio era raddoppiata, nella stanza, gravando su di lui come l'acqua del mare grava su un sommozzatore in dispnea. L'interruttore scattò, senza che Pursuivant l'avesse toccato. La luce si spense bruscamente. Nel buio, qualcosa lo palpeggiò. Una mano... La scorse vagamente, ma non vide il braccio relativo. Ma c'era, il braccio? Pursuivant schizzò di lato, ma si impose di non scappar via. Nella spessa foschia, ora intravedeva una faccia, o per lo meno una testa, visto che soltanto i contorni erano delineati, non i lineamenti. Una bocca comunque doveva averla, perché egli percepì un alito caldo, udì un mormorio che si articolò in una sola parola: «Raus...» Fuori!, detto in tedesco. Pursuivant fissò quell'ovale che sembrava levitare sospeso nell'aria, cercando degli occhi in cui inchiodare i suoi. Intanto si sentì di nuovo toccare la spalla. Un tocco leggero, questa volta. Morbido. Un'altra voce, esitante, un soffio appena percettibile: «No... Resta... Sei venuto a portare la salvezza...» Il volto informe si era fatto più consistente e sotto si intravedeva una parvenza di corpo, un corpo massiccio quanto quello dello stesso Pursuivant. Un colosso piazzato a gambe larghe, due colonne che sembravano
modellate nella nebbia. E ancora una volta: «Raus!» Il giudice abbandonò la stanza, lasciando la porta aperta. Tornato in soggiorno, si sentì meglio; si asciugò il volto inondato di sudore. Riempiendo i bicchieri, Scrope domandò: «L'ha avvertito anche lei, eh?» «Sì, qualcosa. Per un momento, ho anche visto una forma.» Tacque, per mettere ordine nella ridda di impressioni. Poi: «Chi ha dormito in quella camera da letto?» «Nessuno. Il domestico, prima di tagliare la corda, metteva giù una branda in cucina. Questa notte, lei inaugurerà la mia stanza per gli ospiti, caro giudice. Tenga, facciamo un brindisi.» Fecero cincin e vuotarono i bicchieri. Poi affrontarono l'atmosfera soffocante del corridoio per trasferirsi in cucina. Rapido ed efficiente, Scrope preparò un pasto semplice ma sostanzioso: prosciutto, uova, patate fritte e caffè. Mangiarono sul tavolo di formica bianca. Pursuivant si comportò normalmente, come se la paura non lo avesse nemmeno sfiorato, quella sera. «Io ho affermato che gli Assiani non erano dei buoni combattenti», osservò, tendendo la tazza per un supplemento di caffè. «Però c'è da aggiungere che erano teutonici, e la Germania è sempre stata la patria della streghe e dei demoni. Basta leggere il Faust, il Phantasmagoria, i fratelli Grimm. E nella collezione dell'Old New York, che ora non si pubblica più, ho trovato la storia di come due mercenari dell'Assia affatturarono un agricoltore di Manhattan.» «Storia autentica?» «È riportata nelle memorie di George Rapaelje. Uno al quale bisogna fare tanto di cappello, quando si tratta degli annali della vecchia New York. Rapaelje sostiene di essere stato testimone oculare. Già, parecchi Assiani, radicatisi in Pennsylvania e nel New Jersey, praticavano correntemente la magia.» «Sicuro. Pensi un po' al racconto di Irving, quello del Cavaliere senza testa», rincarò Scrope. «Signor giudice, forse lei si è messo nei pasticci. Se quello scongiuro che lei ha recitato... Vorrei che non lo avesse fatto, visto che non ha funzionato!» Pursuivant guardò il suo ospite con aria molto grave. «Non ho finito. Va ripetuto tre volte, a distanza di un'ora l'una dall'altra.» Tirò fuori dal taschino del panciotto un cipollone d'oro. «La prima ora è trascorsa, pres-
sappoco.» Con passo fermo, anche se non proprio flemmatico, tornò in corridoio. Scrope si mise alle sue spalle. Ancora una volta, Pursuivant si sentì gravare addosso quel peso impalpabile, respirò a fatica, come per mancanza di aria pulita. Imperterrito, cominciò a recitare per la seconda volta la formula dell'esorcismo: «O voi, spiriti del male, in nome di Colui che sta nei cieli, io vi proibisco di avvicinarvi al giaciglio e a qualsiasi altra proprietà di quest'uomo. Nel nome del Signore vi scaccio...» Eccolo, era uscito dalla porta della camera da letto, ponderoso ma senza fare il minimo rumore. Una massa gigantesca curva in avanti pronta a scattare, che quando si raddrizzò si rivelò una sagoma alta e poderosa quanto quella dello stesso Pursuivant. Il giudice fu colto da profonda meraviglia, totale ma non sconvolgente. Nella penombra riuscì a distinguere soltanto una siluetta rozzamente umana, dai contorni sfumati... Se vestita o nuda, non gli era dato vedere. Come la volta precedente, una testa senza volto sormontava spalle da titano. Soltanto le dita della mano erano chiaramente visibili: scostate le une dalle altre, si protendevano minacciose. Più di tanto il giudice non riuscì a ravvisare, mentre continuava a recitare le parole dell'esorcismo fino alla fine: «... ogni influenza maligna abbandoni la sua persona e le cose che gli appartengono e torni a voi, e in voi rimanga. Questo vi ordino, in nome della Santissima Trinità. Amen.» La larva si buttò in avanti, pronta ad artigliare. L'arco di una porta non era il posto più indicato per impegnare battaglia, specie trattandosi di un avversario micidiale. Pursuivant balzò indietro, con una rapidità e una leggerezza incredibili per una mole come la sua, paragonabile a quella di un orso. Scrope, che era alle sue spalle, era già corso alla porta che immetteva all'esterno sul retro e tentava disperatamente di aprirla, gemendo, senza accorgersi che non aveva fatto girare la chiave nella serratura. «Venga!», gridava. «Scappiamo...» «Aspetti!» gli urlò in risposta Pursuivant. «Guardi...» Scrope si calmò e si voltò indietro. «Quell'orrore non c'è più», disse Pursuivant. «Mi è svanito davanti agli occhi mentre indietreggiavo.» Incrociò le manone sul dorso, aggrottando la fronte. Qualcosa di strampalato c'era, in tutta quella faccenda: troppo anticonformista, il com-
portamento del fantasma. Demoni, spettri e via dicendo, di solito si attengono ai loro schemi convenzionali... Quasi tutti i libri sull'argomento non dicevano forse che il modo migliore per domare uno spettro era quello di affrontarlo intrepidamente? Eppure, in quel caso le cose si erano svolte in maniera diametralmente opposta. Il nemico era scomparso nel preciso momento in cui lui e Scrope avevano tagliato la corda. Con le sopracciglia aggrottate, piantato sulla porta che immetteva nel corridoio restò a fissare il vuoto, come se in quel vuoto egli cercasse di leggere la soluzione dell'enigma. Però il corridoio vuoto non era. Nebulosamente, si intravedeva una sagoma sfumata, più piccola, più snella di quella dell'assiano. E la voce, la voce che aveva vagamente percepito nella camera da letto: «Ancora... ancora...» Poi, più nulla. Scrope si trascinò vicino a Pursuivant, scrutandolo attentamente. «Signor giudice, sarà che abbiamo avuto un'allucinazione? Tutti e due insieme?» Pursuivant si mise a ridere, scuotendo la testa leonina. «No, neanche pensarci, Scrope. Le persone soggette ad allucinazioni non vedono le stesse cose, e contemporaneamente, per di più.» «Suggestione di gruppo», suggerì Scrope, come cercando a forza un lenitivo, ma con un gesto di diniego, subito Pursuivant obiettò: «Senta, Scrope, io credo in una notevole quantità di cose stravaganti, ma non in questa. Non torni in corridoio, si sieda qui in cucina. Comincio a capire... o per lo meno a indovinare». Si sedettero attorno al tavolo, il giudice di faccia alla porta. «Il sempiterno intreccio, arcinoto e logoro per l'abuso che ne hanno fatto gli scrittori di racconti dell'orrore», disse. «Il fantasma dell'assassinato che si aggira nel luogo che gli è stato fatale...» Aguzzò gli occhi per spiare in corridoio, chiedendosi se avesse davvero visto un'ombra trasparente in movimento. «Comunque, non si discute, è qui: vendicativo e malevolo, pronto ad assalire.» «Proprio così», annuì Scrope con un sospirone. «È apparso a me, poi a lei, poi a tutti e due insieme!» «Il che conferma la supposizione numero due: la formula esorcistica sta per dare un risultato.» Scrope alzò gli occhi colmi di ansiosa implorazione. «È sicuro?»
«Su questa terra non si può mai essere del tutto sicuri di niente, però sta di fatto che la 'cosa' è alle corde. Sta cercando di batterci. Da quanto lei mi ha raccontato, deduco che precedentemente non si è mai manifestata in maniera tanto energica.» Scrope annuì ripetutamente. «Infatti. Vagava qua intorno, creando una sorta di atmosfera di perenne inquietudine che mise in fuga i due domestici, ma niente di paragonabile a quanto sta succedendo ora. Come giustamente ha detto lei, adesso ci si è messa per davvero...» «Si sente in pericolo», spiegò Pursuivant, con gli occhi azzurri fissi nel vano del corridoio. «E anche noi siamo in pericolo. Ma il fantasma deve affrontare la lotta da solo; mentre noi abbiamo degli alleati.» «Alleati?» fece eco Scrope. «Ho visto un'altra figura, o meglio, un accenno di figura. Due volte. Non minaccia; al contrario, implora. Vuole che proseguiamo e che vinciamo.» «Anch'io l'ho vista, credo», disse Scrope. «Ma se è uno spettro...» «Non le sembra logico che uno spettro possa desiderare di venire liberato dalle sue catene? Qua dentro altre persone, oltre l'assiano, hanno trovato una morte tragica. Due donne, mi pare che lei abbia detto. Ho udito una voce chiedermi di ripetere la terza e definitiva volta la formula dell'esorcismo. 'Ancora', ha detto.» «Ma... allora...» balbettò Scrope. «Anche gli spiriti delle due donne sono rimasti ancorati qui», proseguì Pursuivant, sicuro di sé. «Il demone che dimora qua dentro è troppo potente per permettere che fuggano, anche dopo la morte.» «Giudice!» ansimò Scrope facendosi cereo in volto. Due volte ingoiò la saliva, prima di continuare: «Ma si rende conto? Se succedesse qualcosa a noi due...» «Esatto», confermò Pursuivant, senza esitazioni. «Rimarremmo intrappolati anche noi. Per l'eternità. Me ne rendo conto perfettamente, ed appunto per questo dobbiamo andare fino in fondo... e uscire vittoriosi dalla battaglia.» Di nuovo si alzò e andò alla porta. Piedi esattamente sulla soglia, si chinò sporgendosi in avanti. Si tirò indietro con un balzo, come uno spettatore che si è avvicinato troppo alla gabbia di una bestia feroce. «È ancora lì», riferì. «In agguato. Lo sa anche lui, che l'ora della resa dei conti si sta approssimando.» Scrope scrutava la porta, occhi duri, labbra tirate. «Senta: avrei una mia teoria. Lo spettro non si sposta dalla parte centrale della casa: che dimori
nella cantina?» «Perché?» domandò il giudice. «Perché la cantina, le vecchie fondamenta, insomma, si trovano al disotto del bagno, del corridoio e della stanza degli ospiti; soltanto un cantuccio arriva fin sotto una parte della cucina, e...» «Accidenti, l'ha imbroccata, Scrope!» saltò su Pursuivant tutto elettrizzato. Scrope lo fissò sbalordito, mentre egli, pescata la stilo dal taschino del panciotto, si metteva a disegnare una specie di mappa sul ripiano del tavolo. «Guardi qui», esortò il giudice, continuando a disegnare. «La sua villetta si estende su una vasta superficie, le stanze sono grandi, perciò il basamento è largo, così, mettiamo.» Sottolineò un rozzo quadrato. «La cantina si trova pressappoco al centro, qui...» Segnò un rettangolino, nel mezzo del quadrato. «Sì, più o meno corrisponde», assentì Scrope. «Ma dove vuol arrivare?» «Benedett'uomo, non lo vede?» gridò Pursuivant, quasi sgarbatamente. «Quel rettangolo rappresenta la base dell'antica costruzione, che era stretta e alta, al contrario di questa che è bassa e vasta. Il fantasma infestava il vecchio mulino. La casa che lei ha fatto costruire, pur coprendo un terreno più ampio, include le fondamenta originali.» Buttò la penna sul tavolo. «Scrope, la sua casa è un condominio: in parte è sua, ma nell'altra parte spadroneggia il fantasma!» Sul volto dell'omino affiorò un'espressione che rivelava come egli avesse finalmente afferrato la situazione. Felice, si mise a farfugliare: «Ma questo cambia tutto! Siamo salvi! Se noi non entriamo in quella zona...» «E invece noi vi entreremo!» Scrope sgranò gli occhi, spaventato. Il giudice spiegò il suo piano: «La formula dell'esorcismo verrà detta per l'ultima volta proprio nella tana della bestia immonda, nel suo stabbio, per così dire. La distruggeremo per sempre, nel posto dove non ci può sfuggire». Un'altra ora passò. I due, che erano sempre in cucina, si alzarono. «Ci siamo», disse Scrope, dopo aver sbirciato il suo orologio da polso. «Senta, signor Giudice, lei pensa che io debba proprio venire con lei?» «Deve, sì», asserì Pursuivant. «Nella camera da letto che dà sul davanti
della casa, la creatura demoniaca deve affrontare senza possibilità di scampo l'esorcismo che segnerà la sua fine.» Uscì in corridoio dirigendosi verso la camera da letto. Scrope lo seguì tenendoglisi accostato, con passi incredibilmente pesanti, per una persona tanto mingherlina. Entrambi si fermarono nella penombra del corridoio. Che non era più un corridoio, lungo e stretto, odorante di nuovo, con l'intonaco dipinto di chiaro. Era un angolo di qualche cosa d'altro. A dispetto dell'oscurità, Pursuivant vedeva chiaramente che le pareti non sembravano più al loro posto. Si trovava in un locale ampio e in sfacelo, con alte finestre che arrivavano fin quasi al soffitto, dalle imposte che cadevano a pezzi. L'assito del pavimento, mezzo marcio, era disseminato di rifiuti e di calcinacci staccatisi dai cannicci. Il vento, sì, tirava il vento, lì, nel cuore della tranquilla casetta di Scrope, il vento penetrava ululando dalle crepe che si aprivano nei muri di quelle rovine in cui erano per così dire stati sospinti a forza... «Giudice», alitò Scrope, «lo riconosco: questo è il vecchio mulino... Era esattamente così, prima che lo abbattessero.» «Zitto», disse Pursuivant. Si diresse verso il punto in cui, secondo quanto ricordava, avrebbe dovuto esservi la porta della camera da letto. Ecco, vi si trovava di fronte: non vedeva assolutamente niente, ma la sua mano trovò la maniglia al tocco. I cardini cigolarono. Via aperta per inoltrarsi nella stanza che sorgeva sull'area del vecchio mulino. E anche qui tutto aveva un aspetto differente. Una sorta di luminosità verde-azzurra, come quella che filtra sul fondo di acque profonde, permetteva di vedere un ambiente ampio, dal soffitto alto, e con finestre molto grandi; non vi era traccia di sfacelo, però. La stanza pareva la stessa di prima, ma diventata improvvisamente quasi nuova, era perfettamente in ordine, ben sistemata; una stanza abitata, insomma. Intonaco verniciato, stipiti e davanzali bianchi candidi, alcune pelli di pecora stese sul pavimento a guisa di tappeti e mobilio solido. Anche in quella penombra da fondo marino, Pursuivant si accorse subito che si trattava di mobili antichi, se ne intendeva, lui. Ad esempio quel tavolo là in fondo, di legno scuro, massiccio, lustro. Anche le seggiole. Una tovaglia di un candore abbagliante era stesa sulla tavola preparata per il pranzo con posateria d'argento e porcellane. Qualcuno, no, qualcosa, sedeva a tavola, come in attesa di mettersi a mangiare. Il mercenario assiano, chiaro. O meglio, ciò che a suo tempo era stato il mercenario assiano.
Li guardava, dal suo posto a capotavola. E allora Pursuivant capì da dove proveniva quel chiarore acquatico. Emanava da quella larva informe, come da un'esca per accendere il fuoco impregnata di fosforo. Il giudice riusciva a malapena a distinguere i contorni sfumati, alcuni particolari appena accennati: la divisa dei soldati britannici del tempo antico, i capelli incipriati, un'eleganza che stonava, sul corpo di quel bruto. Il chiarore più intenso proveniva dal contorno della testa, sempre priva di volto. Per la terza volta, Pursuivant cominciò a recitare l'esorcismo: «O voi, spiriti del male, in nome di Colui che sta nei cieli, io vi proibisco di avvicinarvi al giaciglio...» La luce azzurrognola si affievolì. La larva si alzò e avanzò verso di loro. «Luce, Scrope», bisbigliò il giudice, tra una frase e l'altra della sua formula esorcistica. «Accenda.» Si collocò in posizione da sbarrare il cammino alla forma fluttuante che si stava avvicinando. «In nome del Signore...» continuò. Mani ferree lo afferrarono, mani diacce come acque putrescenti. Ebbe la sensazione che gli fosse stato scagliato contro qualcosa di immondo, di essere assalito da un animale dalla ferocia implacabile. Tentò di liberarsi. Il giudice Pursuivant era grande e grosso, ed era anche un atleta in gamba, ma aveva trovato un avversario alla sua altezza. Questi lo serrò alla gola con le mani di ghiaccio, nel tentativo di togliergli il respiro e, soprattutto, di impedirgli di pronunciare il resto della formula dell'esorcismo. Il giudice lo sentiva ansare e ringhiare, come uno di quegli animali mostruosi che la fantasia inventa durante gli incubi. Percosse coi pugni quel volto senza lineamenti, cercando di spingerlo indietro, respinse da sé le spalle nebulosamente delineate, ma invano: la creatura lo stringeva sempre più da vicino, tentando di strozzarlo. «La luce... non funziona!» urlò Scrope. Accese un fiammifero e diede fuoco a un pezzo di carta che trovò frugandosi in tasca. Alzò la piccola torcia. La luce rossastra sovrastò quella fosforescente e così Scrope poté vedere con che cosa Pursuivant stava lottando, in un corpo a corpo disperato. Urlò ancora più forte e si lasciò sfuggire dalle mani il pezzetto di carta in fiamme che fluttuò nell'aria e andò a finire tra le pieghe di una cortina. Un guizzo e una vampata di fuoco si levò alta. Pursuivant afferrò il polso algido e vigoroso del suo avversario e si liberò dalla stretta mortale. «... e in voi rimanga. Questo vi ordino, in nome della Santissima Trinità.
Amen!» L'esorcismo era compiuto. Con una brusca conversione il giudice fece uno scarto, afferrò per un braccio Scrope e, quasi sollevandolo da terra, lo trascinò via con sé. Si rifugiarono in soggiorno; la stanza era tale e quale come quando vi si erano trattenuti a conversare. Ma dietro a loro già spuntavano le lingue di fuoco, fiamme ruggenti e dilaganti, impressionanti come un altoforno. Scrope a malapena si reggeva in piedi, sembrava prossimo a svenire. Pursuivant lo scrollò, per costringerlo a dominarsi, a fare appello a tutte le sue forze: «Andiamo», gli ordinò. «Si spicci! Fuori, fuori! La casa sta andando a fuoco come un cestino di vimini». Uscirono all'aperto e il giudice aiutò Scrope ad appoggiarsi a un tronco d'albero. In quanto a lui, si precipitò nel garage e, prima una e poi l'altra, portò fuori le due macchine, parcheggiandole lontano, al riparo dalle faville sprigionate dai tizzoni ardenti. Tornò accanto al suo ospite. Le vampe dell'incendio uscivano dalle finestre del soggiorno, appiccando fuoco al rivestimento di assicelle di legno che ricopriva i muri esterni. Nevicava, ma i bioccoli erano così soffici che si scioglievano subito, in quella fornace, con sfrigolii appena percettibili. Scrope si diede una scrollata, come un cane che esce dall'acqua. Stava riprendendo il dominio dei suoi nervi, messi a dura prova da uno di quegli spaventi che lasciano il segno. «Non sarebbe il caso di andare in cerca di un telefono?» suggerì. «In città, c'è una squadra di pompieri volontari...» «No», rispose Pursuivant. «Niente pompieri. Lasci che la casa bruci da cima a fondo.» «Da cima a fondo?» Al riflesso rossiccio delle fiamme, il volto di Scrope sembrava più energico. «Già, ha ragione. Tutte le ragioni. Il fuoco distrugge i fantasmi. Poi posso ricostruirla di nuovo.» «Ricostruirla e godersela in pace. Le ripeto, la lasci bruciare. Andremo in macchina fino a Scott's Meadows e passeremo la notte nella locanda. Domani, se vuole, può venire con me e essere mio ospite a casa mia fin che non si sarà orientato su cosa vuol fare in futuro.» «Grazie. Accetto con piacere», rispose Scrope. Tacquero. La notte sembrava aver perso in parte la sua carica di orrore. Avvertirono un lieve fruscio, rapido, fuggevole. Un'ombra indistinta... No, le apparizioni erano due, e scivolarono velocemente davanti a loro, sfiorandoli come folate di fumo provenienti dal rogo che stava incenerendo la
villetta. «Grazie...» bisbigliarono due voci soavi colme di esultanza. Più che udirle veramente, Pursuivant ne percepì l'eco nel profondo del cuore. «Grazie...» Anche Scrope si era accorto del passaggio delle due forme nebulose, trasparenti. «Scommetto», commentò, «che gli spiriti di quelle povere donne sono stati finalmente affrancati dal giogo che le teneva.» Dall'epicentro della ruggente furia di fiamme che avvolgeva tra le sue spire l'intera costruzione, d'improvviso partì un suono raccapricciante: un grido, un bramito, un urlo... Inequivocabilmente umano, inequivocabilmente mascolino. Scrope si lasciò sfuggire un'imprecazione. «Quella voce... L'assiano?» «L'assiano, sì», confermò Pursuivant, lo sguardo fisso sul rogo. Un'altra sequela di ululati: traboccanti di terrore, al parossismo dell'angoscia. «Ma perché rimane là dentro?» domandò Scrope con voce rotta. «Gli altri due spettri ci hanno espresso la loro gratitudine per averli liberati; perché lui, invece, si ostina a restare abbarbicato a quei muri fino alla distruzione totale?...» S'interruppe bruscamente. «Ho capito», soggiunse poi, riacquistando in parte il suo sangue freddo. «Cioè?» domandò Pursuivant, voltandosi verso di lui. «Le due donne erano colpevoli di omicidio, sì, ma commesso per una buona causa; i loro spiriti, liberati dai ceppi che li tenevano incatenati là dentro, avranno la possibilità di raggiungere in qualche modo la pace eterna. Ma l'altro», e Scrope si voltò a sua volta a fissare l'incendio, «il mostro, non può sperare niente di simile. A nessun costo vorrebbe abbandonare la sua tana, anche se in fiamme: sa bene che quando ne sarà espulso dovrà affrontare qualcosa... qualcosa...» «Di infinitamente peggiore!» Fu Pursuivant a concludere la frase di Scrope. Una volta ancora il grido lacerante si alzò dal rogo, vibrando alto nella notte. Poi divenne un gemito, un rantolo che si spense nel nulla. Lo spettro era ammutolito per sempre. Le fiamme schioccavano al vento come vessilli di un esercito vittorioso. Più luminose, più festose. Spinti da un impulso subitaneo e concomitante, Pursuivant e Scrope scambiarono una vigorosa stretta di mano.
GLI OCCHIALI BLU di Stephen Grendon Arrivato a Cartagena, Jesse Brennan capì che quello dei viaggi, per lui era un capitolo chiuso. Vecchio, stanco, afflitto da una grave infermità diventata ormai troppo molesta, non era in condizione di riprendere i suoi vagabondaggi. La diagnosi di un medico confermò il suo presentimento: gli restava un mese di vita, forse, e forse anche meno. Cartagena era calda e inondata di sole; dall'alba al tramonto, l'Atlantico splendeva, immensa distesa di cobalto; gli antichi bastioni della città colombiana avevano un loro fascino particolare. La parte di lavoro che gli spettava, più che la sua parte, Brennan l'aveva fatta, dedicando una vita intera alle esplorazioni, peregrinando da un posto all'altro, frugando nei cantucci più remoti di questa nostra terra. Per la sua morte, nessuno avrebbe versato molte lacrime: non aveva parenti, soltanto alcuni vecchi amici sparsi per il mondo. Morire a Cartagena o in qualsiasi altro posto, per lui era la medesima cosa. E allora perché tornare in patria, negli Stati Uniti, e in pieno inverno, per di più? A lui, l'inverno non era mai andato a genio. No, no, meglio il cielo perennemente limpido e il mare perennemente in movimento! Restava da decidere cosa ne avrebbe fatto delle cianfrusaglie che aveva collezionato; le poche cose di valore voleva donarle ai colleghi che più gli erano cari. L'orologio a pendolo di pietra dalle origini misteriose, indiano, probabilmente, lo avrebbe mandato al Cairo, a Faulkner. Per Stuart andava bene il libro tedesco rilegato in pelle umana, una rara antichità. Rawlings avrebbe certamente gradito le curiose statuette di Burma, per rallegrare lo squallore della soffitta in cui viveva come un eremita, a Edimburgo. E per Vaclav, entrare in possesso dell'anello dei Borgia sarebbe stata una tale gioia da rendergli meno deprimente l'esistenza che conduceva a Praga. E gli occhiali blu? A chi regalarli? Ecco il problema! Il decrepito Mandarino cinese dal quale li aveva avuti era stato categorico, categorico e convincente, nel magnificare le meravigliose proprietà degli occhiali. Come e dove, si chiedeva di continuo Brennan, trovare qualcuno la cui anima fosse davvero immacolata, assolutamente monda di peccato, e che potesse perciò inforcare quelle lenti senza correre il rischio di attirarsi addosso chissà quale sciagura? L'interrogativo della scelta del destinatario degli occhiali lo assillò per
due giorni; impacchettati e spediti gli altri oggetti, erano rimaste soltanto le lenti blu. La seconda notte, al chiarore limpido della luna, finalmente trovò la soluzione: Alain Verneil! Sicuro, proprio l'ideale. Onesto al punto di andare contro i propri interessi, troppo sincero per discernere l'ipocrisia altrui, leale, fedele, virtuoso... Sissignore, in mano sua gli occhiali blu non avrebbero potuto far danno, dato e non concesso, bene inteso, che avessero veramente anche soltanto in parte le qualità che ad essi venivano attribuite. Non ricordava l'indirizzo di Verneil, e nemmeno riuscì a scovarlo tra le sue carte, ma dato che Verneil era stato e forse era ancora direttore di un museo di New Orleans, indubbiamente nell'elenco telefonico di quella città doveva esservi il suo numero e l'indirizzo. Brennan imballò accuratamente gli occhiali in una solida scatoletta di cartone e scrisse una garbata lettera di accompagnamento per il suo dono. «... me li ha ceduti un vecchio cinese, l'ultima volta che fui nel Tibet. Non so quanti anni abbiano, perché nemmeno lui lo sapeva con esattezza, più di cento senza dubbio. «Pare che siano stregati, e in un modo veramente peculiare. Se chi guarda attraverso queste lenti non è virtuoso nella completa accezione del termine, deve aspettarsi che gli succeda qualcosa di poco piacevole... Credo di aver capito che rischia di vedere se stesso in qualche precedente incarnazione, o in una vita anteriore, o qualcosa del genere, insomma, e che lo spettacolo non sarebbe allettante. Oppure che si realizza per l'incauto un mutamento di identità, con conseguente punizione delle colpe commesse in passato... Sai com'è, queste leggende sono nebulose. Con un certo rossore devo confessarti che personalmente non ho mai inforcato gli occhiali, tanto furono persuasive le asserzioni del vecchio Mandarino! 'Virtuoso' non sono mai stato, non parliamo poi di virtuoso al superlativo: al punto in cui mi trovo, posso permettermi il lusso di essere sincero, non ti pare?...» Indirizzò il pacchetto a Alain Verneil, New Orleans, Luisiana, USA. In un angolo scarabocchiò: «Ai buoni uffici della posta centrale. Inoltrare all'indirizzo attuale, per favore.» E spedì il plico. Non aggiunse l'indirizzo del mittente; Verneil avrebbe certamente capito subito chi era il «Jesse» che aveva scritto la lettera. Comunque, il fatto risultò irrilevante: prima ancora che il pacchettino giungesse a New Orleans, Brennan morì. Il pacchetto arrivò a New Orleans la vigilia del martedì grasso. Alla po-
sta centrale passò per la normale trafila ed essendo sprovvisto di indirizzo esatto fu inoltrato all'ufficio competente, insieme con altri plichi e lettere nelle stesse condizioni. Finì sulla scrivania di una funzionaria stucca e ristucca delle sue noiose mansioni e che non vedeva l'ora di arrivare alla fine della sua giornata lavorativa, sebbene al felice momento mancassero ancora parecchie ore. Giunse il turno del pacchettino proveniente da Cartagena e l'impiegata notò per prima cosa i francobolli, pensando quanto sarebbero piaciuti alla sua nipotina, che ne faceva collezione. Poiché dalla mattina alla sera non faceva che decifrare le calligrafie più disparate, aveva acquistato una certa facilità di interpretare gli scarabocchi che le passavano sotto gli occhi; la scrittura di Jesse Brennan, a prima vista chiaramente leggibile, in realtà aveva una certa tendenza alla trascuratezza: mancavano sempre i puntini sulle i, e le consonanti si legavano le une alle altre. Risultato: spostando gli occhi dai francobolli al nome scritto sul pacchetto, la donna lesse «Alan Verneul», invece di «Alan Verneil». Errore spiegabilissimo, visto che il nome di Alan Verneul era su tutti i giornali, dal Globe al Picayune, per avere egli vinto, proprio quel giorno, una delle più spettacolari cause di divorzio. Chi, se non qualcuno abitante in capo al mondo, in Colombia nientemeno, avrebbe potuto ignorare l'indirizzo del celebre avvocato? L'impiegata aggiunse via e numero civico sul pacchetto e lo spedì verso il suo destino. Quando gli occhiali arrivarono a destinazione, Alan Verneul stava telefonando. Che fine aveva fatto la mascherina che aveva ordinato? Sicuro che avrebbe dovuto già averla in sue mani, bella scoperta! Tornando dal tribunale, avrebbe dovuto trovarla insieme al costume e al resto degli orpelli necessari per mettersi in maschera; tutto, infatti, era lì, in perfetto ordine nella sua stanza, ma la mascherina non c'era. Purtroppo, ammise a malincuore il costumista, non ne aveva sottomano un'altra con cui sostituire quella mancante... Alla vista del pacchetto, Verneul tirò un sospiro di sollievo, pensando subito che si trattasse della bautta smarrita, la quale, invece, era da un pezzo sul volto color ebano di un buontempone negro che l'aveva trovata in strada, là dove era caduta scivolando dall'involto mandato dal costumista. Notando i francobolli stranieri, le speranze dell'avvocato svanirono. Comunque, aprì il plico, domandandosi chi mai potesse avergli scritto da Cartagena, dove non conosceva nessuno, dove non era mai stato. L'occhio gli corse subito alla firma: «Jesse». Forse Jesse Melanchton, che dopo aver
avuto la sua ora di celebrità in tribunale se l'era squagliata, filando nell'America del Sud? La lettera destò in Verneul una certa perplessità. Non dubitò che fosse veramente destinata a lui, perché Brennan, al solito, aveva scritto l'intestazione in maniera poco chiara, tanto che si poteva leggere Alan, Alain, oppure Allen. Per quale motivo dunque avrebbe dovuto pensare a un errore di persona? Sì, però, l'indirizzo di casa del suo avvocato, Melanchton avrebbe dovuto ricordarselo... Finalmente Verneul esaminò gli occhiali. Pur essendo un profano si rese conto che erano molto antichi; per accorgersene non c'era bisogno della precisazione contenuta nella lettera. Le lenti erano di una insolita sfumatura di azzurro opaco, una sorta di blu affumicato; mai gli era capitato di vederne di uguali, o anche soltanto di simili. In quanto alla montatura di argento, era certamente un raffinato lavoro di oreficeria eseguito a mano. Poggiò gli occhiali sul tavolino da toeletta e rilesse da cima a fondo la lettera. Una faccenda curiosa, senz'altro molto curiosa! E chiunque fosse il Jesse che aveva scritto quelle righe, in fatto di superstizione era un asso, anche questo era incontestabile! Messa da parte la lettera e la carta in cui era stata avvolta la scatoletta, stava per riporre in un cassetto anche gli occhiali, quando gli balenò un'idea improvvisa. Ancora una volta li esaminò bene bene: larghi, quadrati, avevano un ponticello sottilissimo, ma il resto della montatura era addirittura esagerato. Normalmente, non gli sarebbe certo passato per la testa di usarli, tanto erano eccentrici e fuori moda, ma nel caso particolare erano proprio quello che ci voleva. E nell'insieme non avrebbero stonato, visto che Verneul intendeva mascherarsi da «dandy» ottocentesco; il suo costume era una copia fedele degli abiti indossati dalla gioventù dorata della vecchia New Orleans. Quando, di lì a poco, egli si sarebbe mischiato alla folla che festeggiava il carnevale, gli occhiali azzurri avrebbero egregiamente sostituito la mascherina che era andata smarrita. Inforcò lo strano arnese e si guardò nello specchio per vedere come gli stava: non avrebbe potuto escogitare un sistema migliore per celare la parte superiore del suo volto. Lui vedeva benissimo, attraverso le lenti, ma i suoi occhi risultavano completamente schermati alla vista degli altri. Le ragioni per cui teneva tanto a non essere riconosciuto sotto il suo travestimento erano numerose. Mariti furibondi e altrettanto furibondi padri, per esempio, alcuni dei quali lo avevano minacciato di castighi di varia natura ma tutti esemplari. Inoltre, essendo un avvocato specializzato in divorzi, aveva una nutrita clientela femminile; ammesso che quando si reca-
vano da lui per la prima volta le sue clienti non fossero colpevoli di adulterio, lo erano senz'altro quando la causa era finita; lui aveva una spiccata tendenza a farsi pagare le parcelle in una moneta che non era denaro contante. I suoi successi forensi gli avevano attirato odii e invidie, i suoi successi con le donne gli avevano procurato inimicizie e gelosie. Ma la sua improntitudine non conosceva limiti e la sua faccia tosta gli imponeva di non indietreggiare davanti a nessun ostacolo. Indossato il costume, uscì; prese un taxi per farsi portare in prossimità del punto più animato della città, laddove la folla era più scatenata nel festeggiare per le strade il carnevale. Lasciato il taxi, si mescolò alle altre maschere: un bel tenebroso, alto, snello, attraente e ancora giovanile, sebbene avesse già raggiunto la quarantina. Dietro gli occhiali azzurri, i suoi occhi scrutavano tra la calca. Molte altre volte aveva partecipato ai carnasciali del martedì grasso. Non era una novità, per lui, ed egli non mirava certamente a dilettarsi della gaia atmosfera o ad assistere alle sfilate dei carri. I suoi propositi erano predatori e il suo sguardo dardeggiava in tutte le direzioni, in cerca di qualche donzella che dall'atteggiamento si prospettasse come una preda disposta a farsi irretire dal suo fascino. Gironzolò di qua e di là, senza fretta; era nel cuore della baraonda, aveva a disposizione tutto il tempo che voleva, non vi era motivo di non prendersela comoda. Aveva ore, avanti a sé, per fare la sua scelta e gettare il fazzoletto a una delle donne che volteggiavano danzando intorno a lui. Non passò molto tempo e gli venne fatto di pensare che mai la moltitudine gli era sembrata tanto intemperante e di un'allegria così sfrenata; curioso di vedere dove era andato a cacciarsi, si guardò intorno. Ebbe un bel guardare a destra e a sinistra, dopo un po' dovette riconoscere che non si orientava; chissà come, era capitato in un quartiere della città che gli era completamente sconosciuto, anche se qualche edificio, qualche particolare architettonico gli destavano l'impressione di non giungergli del tutto nuovi. Questa constatazione lo indusse a fermarsi e a scrutare l'ambiente circostante con occhio che, per deformazione professionale, era acuto e abituato a cogliere anche i minimi particolari. Il suo esame gli fece rilevare una quantità di cose sorprendenti. Non c'erano lampioni di nessun genere. Pur guardando lontano non si vedeva un solo veicolo moderno: persino i carri carnevaleschi erano trainati da cavalli. Stava facendosi buio e perciò molte maschere portavano in mano rozze
torce, fiaccole fatte alla bell'e meglio, mentre altri festaioli erano muniti di lanterne di un tipo inequivocabilmente antiquato. Man mano che notava questi particolari, la sua meraviglia aumentava, però non ebbe il tempo di soffermarsi a riflettervi sopra perché d'improvviso un colpetto di ventaglio sulla spalla lo costrinse a voltarsi ed egli si trovò occhi negli occhi con una fanciulla di splendida bellezza che teneva sollevata la mascherina appunto perché egli la potesse vedere in volto. «Ti stavo cercando», disse lei. Mistero, per Verneul. «Davvero?» rispose, non sapendo cos'altro dire. «Sei in ritardo.» «Sono venuto non appena mi è stato possibile». Verneul aveva deciso di stare al gioco, naturalmente. Quanto era bella! Una creola, pensò l'avvocato; certamente deve avere avuto qualche antenato di sangue misto. Occhi neri, vivaci ma impenetrabili come un oceano profondo, pelle soffice, vellutata, mani sdutte. Anche se portava un costume col davantino pieghettato e la crinolina, non era difficile accorgersi che la sua figura era superba. Verneul dimenticò all'istante la stranezza della via in cui era capitato. «Vieni», disse la fanciulla, allontanandosi rapidamente, guizzando tra un gruppo e l'altro della folla assiepata intorno. Verneul sentì il sangue pulsargli più veloce nelle vene. «Aspettami»; le gridò. Lei si voltò a guardarlo per un istante, poi proseguì il suo cammino. Anch'egli si mise a camminare in fretta, deciso a raggiungerla. La brama di conquista, un'eccitazione di cui conosceva i sintomi da molto tempo, lo elettrizzò: non pensò ad altro se non a inseguirla, sicuro che l'avventura sarebbe stata a lieto fine... Non si domandò nemmeno chi mai potesse essere la fanciulla, che sembrava conoscerlo, ma il cui volto a lui non era familiare; pensò soltanto che era bella, di una bellezza eccezionale, e che i suoi occhi, la sua bocca possedevano un fascino ossessivo... Nebulosamente, nel più intimo recesso del suo io profondo, però, egli percepì come la eco di qualcosa che non gli giunse del tutto nuovo, quasi che in un lontano passato egli avesse già conosciuto l'incanto di un romanzo d'amore con una donna come quella. Lei si apriva un varco tra la moltitudine, con grazia guizzante, agile. Strano, per quanto Verneul si affannasse, chissà perché non riusciva a raggiungerla. Sì, non la perdeva di vista, anzi, lei si era fermata un paio di volte, guardandolo con aria birichina, quasi volesse aspettarlo, ma non ap-
pena lui giungeva in prossimità, ecco che era di nuovo lontana. Ciò non ostante lui sorrideva, sorrideva beato. Nella notte di baldoria del martedì grasso, anno dopo anno, a Verneul era capitato spesso di dare la caccia a una conquista schizzinosa e, in un modo o in un altro, aveva quasi sempre strappato la palma della vittoria. Era convinto che avrebbe aggiunto anche il nome di quella sfuggevole damigella alla lunga lista dei suoi successi. L'inseguimento divenne sempre più accanito. Gradatamente, quasi inavvertitamente, la folla si era diradata; poi scomparve del tutto. Erano soli, loro due soli nella stradetta fuori mano; il bianco vestito di lei baluginava alcuni metri più avanti e la tiepida brezza portava a Verneul l'eco di una risata maliziosa. Era caduta la notte e nessun lume ne rompeva l'oscurità, ma questo non sembrava ostacolare l'andatura della giovane donna. Come un fuoco fatuo, guizzava, mantenendo una distanza regolare, più agile e più svelta di lui, procedendo nel buio con tranquilla sicurezza; egli, invece, inciampò più di una volta e per poco non cadde lungo disteso sull'acciottolato. Verneul non aveva la più lontana idea di dove si trovasse, e non gliene importava un bel niente. Non pensava che a raggiungere la donna che lo precedeva; dopo, vinta la battaglia amorosa, ritrovare la strada del ritorno sarebbe stata questione di minuti. Improvvisamente lei si fermò. Attese che egli le fosse quasi vicino, poi, con una piroetta, prese per un prato buio, circondato da cespugli; attraversatolo velocemente, salì i pochi gradini che conducevano all'ampia veranda che si stendeva lungo la facciata di una villa, aprì la porta ed entrò: la porta la lasciò spalancata, il che era un palese invito a seguirla. E Verneul la seguì. All'interno, malgrado l'oscurità, la vide sparire in una stanza dalla quale proveniva un tenue chiarore. La seguì ancora. Gli parve che appena entrato l'ambiente s'illuminasse di colpo. Udì la porta chiudersi alle sue spalle. La donna era in fondo alla stanza, vicina alla parete di fronte a lui. Ma tutto intorno egli era circondato da uomini, alcuni dei quali si erano disposti in modo da precludergli la ritirata verso la porta. Tutti in costume, in costume da pirati, senza possibilità di equivoci. Ma nessuno portava la bautta. E anche il volto della donna era scoperto e il sorriso era scomparso dalle sue labbra.
Per un momento il quadro rimase statico. Tutti fissavano Verneul con volti minacciosamente tesi, come si guarda un intruso la cui audacia merita una punizione. Avvertì una breve, acuta fitta di paura... Ma che diamine, in fin dei conti era la notte di martedì grasso, quei signori avrebbero di sicuro dimostrato un po' di comprensione! Oppure no?... C'era qualcosa di sinistro, nella silenziosa tensione che incombeva sull'ambiente. Si guardò rapidamente in giro, cercando con gli occhi un volto conosciuto. Non ne vide. L'immobilità del quadro si frantumò. Il cerchio si chiuse più strettamente attorno a lui, salvo proprio di fronte, dove al centro di un arco sedeva un uomo con baffi e pizzetto neri, vestito con l'eleganza di un «dandy» piuttosto pacchiano. Giocherellava con una pistola a canna corta di tipo antiquato. Guardava Verneul con indifferenza, disprezzo, ed evidente crudeltà. «Monsieur Verneul...» Non era una domanda, era una constatazione. «A quanto pare sono molto noto...» disse Verneul, tentando un sorriso. «Parli quando viene interrogato», ribatté seccamente l'altro. L'avvocato si sentì salire la mosca al naso. «Senta un po', lei: ammetto di essere penetrato in questa casa in maniera non molto ortodossa, aderendo a un invito indiretto della giovane signora, ma non per questo...» «Se non vado errato, a Monsieur Verneul è già successo altre volte, prima di questa sera, di penetrare in case altrui, inseguendo giovani signore», disse il tizio seduto in poltrona. «E ha costretto, con o senza autorizzazione delle interessate, molte di dette giovani signore a subire le sue galanterie.» Fece un cenno a un tale in piedi accanto a lui. «Signor Ariman, vuole avere la cortesia di leggere l'atto di accusa?» «Con chi ho l'onore di parlare?» domandò perentoriamente Verneul. Gli rispose un coro di risate. Il galantuomo seduto in poltrona si alzò e abbozzò un inchino canzonatorio. «Le porgo le mie scuse, Monsieur», disse, con una punta di inconfondibile disprezzo nella voce. «Sono Jean Lafitte, per servirla.» Verneul pensò che l'individuo recitava in maniera perfetta, davvero stupefacente. Poi disse: «Sono sicuro che lor signori vorranno perdonarmi. Dato che oggi è martedì grasso, non...» «Faccia silenzio», ordinò Lafitte. Poi, con la mano, fece un cenno ad Ariman. «Legga.» «Il sei febbraio dell'anno scorso l'imputato, facendo uso della violenza,
sedusse la sedicenne Claire Penchon», lesse Ariman con voce alta e chiara. «Il due marzo, Mademoiselle Julie Argenton, da lui resa gravida, si tolse la vita morendo affogata. Il diciotto aprile egli sedusse Madame Thérèse Munon, il cui marito, scoprendo di essere becco, sparò alla moglie e quindi si uccise. Il dieci maggio egli deflorò la diciassettenne Janise Bourgereau.» Verneul ebbe voglia di gridare per respingere quella ridicola lista di accuse, ma qualcosa di incomprensibile stava accadendo nel suo intimo, qualcosa che lo lasciò estremamente perplesso. Infatti, sebbene egli non conoscesse nessuna delle donne i cui nomi erano stati letti con tanta enfasi, innegabilmente, man mano che veniva pronunciato un nome, dal profondo della sua memoria scaturiva il ritratto di un volto femminile... Una ragazza di sedici anni, un'altra su per giù della stessa età, una donna sposata, e poi un'altra ragazza ancora... Volti che in un remoto cantuccio della sua mente egli riconosceva. Sentì urgere alle labbra delle parole, ma non erano parole di diniego... «Il Pubblico Ministero ha dimenticato di menzionare l'anno in cui sarebbero avvenuti i fatti di cui mi si accusa», disse meccanicamente. «Visto che siamo nel 1811, l'anno in questione non può essere che il 1810», rispose Lafitte. «Lei si preoccupa assai più della meticolosità della procedura di quanto si sia preoccupato della sorte delle sue vittime, Monsieur Verneul!» Verneul sentì che nel suo intimo la confusione era ingigantita fino a diventare caos. Aveva dunque una doppia personalità, se poteva ricordare fatti che sapeva non essergli mai accaduti? E come si spiegava questa storia di riferirsi al 1810 e al 1811, in pieno ventesimo secolo? «A quanto pare, Monsieur Verneul non ha ancora capito che sta subendo un processo», osservò Lafitte. «Processo?!» mormorò Verneul. «Signori, io sono completamente sconcertato...» «Lo credo, lo credo», ribatté Lafitte. «Chi preferisce le tenzoni amorose, in genere non è un buono spadaccino e si lascia dominare dalla paura più facilmente degli altri uomini. Non tema, lei sarà giudicato secondo giustizia. Che cosa può dire in sua difesa?» Alan Verneul non aprì bocca. C'erano, sì, delle parole che tumultuavano in qualche angolo segreto della sua mente, ma non trovavano sbocco, non gli arrivavano alle labbra. «Avanti, parli! È vero o non è vero che lei ha sedotto giovani e innocenti fanciulle?»
Non poté rispondere. Lafitte si rivolse ad Ariman: «Prenda nota che l'imputato ha ammesso la sua colpevolezza». Rivolgendosi di nuovo a Verneul, continuò: «E che ha indotto stolte donne maritate a commettere adulterio?» Nessuna risposta. «Altra ammissione. E ora sentiamo, Monsieur Verneul: è esatto che il sette del mese corrente lei ha aggredito e violentato Elisa Gautier, mia pupilla, qui presente?» Con un ampio gesto del braccio, Lafitte indicò la giovane donna che soltanto pochissimo tempo prima Verneul aveva inseguito e ardentemente desiderato. Egli avrebbe voluto dire, urlare che in vita sua non l'aveva mai vista prima di quel giorno, ma non ne fece nulla, perché in fondo in fondo non era veramente convinto. Gli sembrava che un ricordo di lei indugiasse nei recessi della sua memoria; da dove proveniva quella parvenza di ricordo? Non avrebbe saputo dirlo, non lo sapeva. Come diavolo era capitato in quella casa? Inseguendo la donna, certo... ma come era successo? Una parte del suo essere rivedeva le strade prive di illuminazione e trovava la cosa naturale, ma l'altra parte giudicava il fatto incomprensibile, sapeva che era un'assurdità. Cosa gli stava succedendo? In quale trappola macchinosa era caduto? Lafitte si era alzato in piedi. «Monsieur Paul Verneul, è disposto ad ascoltare la sentenza?» Voleva protestare, dire: «Il mio nome è Alan, Alan Paul», ma le sue labbra rimasero sigillate. Per la verità, in quel momento non era più sicuro di niente, nemmeno di riuscire a pronunciare una parola, a emettere un suono... Sì, perché, avendo abbassato gli occhi non aveva visto un normale pavimento, ma un terreno erboso folto di lunghi steli e lo spigolo di una pietra, una pietra che faceva pensare a una lapide. «... a morte», stava dicendo Lafitte. «L'esecuzione avrà luogo immediatamente.» All'istante, Verneul fu il centro di mira di una mezza dozzina di pistole di foggia antiquata, cane alzato, pronte a sparare. «Puntare», disse Lafitte agli uomini che, indietreggiando, avevano allargato il circolo intorno a Verneul. Questi era immobile, come paralizzato. Se almeno avesse potuto capire!... Qual era, il sogno?... Questo oppure l'altro? In cosa consisteva la realtà? Nel lontano mondo in cui egli era un avvocato di grido, o questo mon-
do del 1811, il mondo del «dandy» di New Orleans? Qual era la realtà? «Fuoco!» disse Lafitte. Una raffica di esplosioni. Per un istante, il mondo di Alan Verneul fu un turbinìo di blu, di uno strano blu opaco, affumicato. Lo trovarono in un vecchio cimitero abbandonato, in una zona periferica a sud di New Orleans, abbastanza lontana dal centro, ma non fuori dal perimetro della città. Morto. Come, nessuno riuscì ad accertarlo. Sul corpo aveva una mezza dozzina di contusioni, dei segni bluastri come se fosse stato colpito da dei proiettili, ma la pelle era intatta. Nel corso dell'inchiesta venne alla luce che Verneul era stato visto correre come un pazzo insinuandosi a gomitate tra la moltitudine che festeggiava il martedì grasso. Un passante occasionale lo aveva notato, ritto in piedi nel bel mezzo del cimitero: non vi era nessun altro, ma Verneul parlava da solo, gesticolando, tanto che il viandante, credendolo ubriaco, aveva tirato dritto. Risultò anche che il cimitero era situato sul terreno dove un tempo sorgeva una vecchia dimora di proprietà di Désirée Gautier, dimora che più di un secolo prima era stata teatro di una tragica sparatoria che aveva stroncato la vita di un antenato di Verneul. Quando lo trovarono, l'avvocato Verneul inforcava ancora gli occhiali blu. Alain Verneil, direttore del museo municipale, ebbe occasione di vederli e di comprenderne il valore, data la sua competenza. Se ne innamorò, e tanto fece, che un bel giorno riuscì a includerli nella sua collezione privata, dando così compimento al proponimento originario del fu Jesse Brennan. LA CASA DELL'ALDILÀ di Allison V. Harding Tutti sanno quanto sia difficile trovare delle camere; anzi, trovare anche una sola camera. Bene, nessuno però si rende conto di quanto problematica sia realmente la faccenda, finché non è costretto a cercarsi una camera. A nessuno sembrava interessare il fatto che io avessi perso il cappotto e la giacca nell'incidente automobilistico e che il grazioso visetto di Eve portasse un brutto taglio sullo zigomo, in seguito al volo dalla vettura. Entravo negli alberghi e nelle pensioni e dicevo: «Mi chiamo John Dew. Questa è mia moglie. Avete per caso una stanza libera?» «Tutto esaurito», rispondevano, squadrandomi dall'alto in basso e sorri-
dendo con quella odiosa aria di superiorità con la quale soltanto gli impiegati d'albergo sanno sorridere oggigiorno. Niente da fare. Neppure il racconto della nostra disastrosa esperienza, capitataci quella stessa mattina, suscitava un po' di simpatia, e tanto meno la buona volontà di procurarci un posticino su cui posare le nostre teste esauste. E così, ci trovammo a tremila chilometri lontani da casa e dagli amici, in una sconosciuta città della costa orientale, con poco denaro e le ombre della sera che calavano rapidamente. Fosse stato per me solo, mi sarei arrangiato, ma non potevo sopportare l'idea della mia giovane moglie che trascorreva la notte sulla panchina di una stazione della metropolitana, o che girava continuamente per la città a bordo di un autobus. L'unico impiegato d'albergo che incontrammo e che sembrava abbastanza umano (sebbene devo confessare che di questi tempi sono tutti dei gran maleducati) ci suggerì con fare confidenziale che la sola probabilità consisteva nel puntare in direzione del quartiere di Everglade, e che bussando di porta in porta, forse avremmo potuto trovare qualcosa. Così passammo le ultime ore di quel pomeriggio a trascinarci per le polverose e cupe strade di Everglade, con la sistematica accuratezza di un neopoliziotto al suo primo giro di ronda. Purtroppo, senza alcun concreto risultato per le nostre ricerche. Alla fine ci lasciammo cadere su una panchina della piazza per discutere seriamente della nostra situazione. Sebbene tentasse di sorridere coraggiosamente, vedevo che Eve era esausta. Avevamo bisogno di un sacco di cose ed era terribile dovercene restare seduti su quella panchina. L'indomani, avevo un importante appuntamento d'affari per il mio ufficio. Infatti, avevamo fatto quel lungo viaggio cercando di unire l'utile al dilettevole: eravamo in luna di miele e ne avrei approfittato per concludere il mio affare. Questa era una delle ragioni per cui, quel mattino dopo l'incidente avevamo deciso di non rivolgerci alla polizia, una decisione che, sebbene in quel momento non lo sospettassimo lontanamente, avrebbe dato un corso spaventoso alle successive ventiquattr'ore della nostra vita. Con aria distratta schiacciai una zanzara che mi si era posata sul polso e strinsi appassionatamente Eve fra le braccia. «Bene, tesoro, non possiamo certo restarcene qui tutta la notte.» Alla stazione, l'impiegato dell'Ufficio Assistenza Viaggiatori ci aveva detto gentilmente, ma senza darci molte speranze, che se più tardi, in serata, fossimo passati da quelle parti, forse avrebbe avuto qualche buona notizia per noi. Ci alzammo e riprendemmo a camminare. Era il crepuscolo. I
viali e le strade erano ormai avvolti nel buio e i lampioni già accesi rischiaravano poco o niente. Riconobbi alcune vie che avevamo percorso qualche ora prima: qui una donna aveva strillato: «Andatevene! Non abbiamo stanze da affittare.» Laggiù, il portiere di una casa ci aveva riso in faccia e poco lontano, un cagnolino nero s'era messo ad abbaiare furiosamente. Improvvisamente, la figuretta di Eve al mio fianco, s'irrigidì. Ci fermammo tutti e due, gli occhi fissi su un punto che il braccio teso di mia moglie m'indicava. Diametralmente, dall'altra parte della strada, c'era una casa. Una vecchia costruzione a quattro piani che pareva sul punto di crollare, con la facciata di pietra scura corrosa dal tempo e un alto portico. Ma fuori da una finestra al secondo piano, su una piccola spranga arrugginita, c'era un cartello bianco su cui spiccavano le parole: 'Camera da affittare'. Ci mettemmo a correre. Con il respiro ancora affannoso feci per alzare la mano e suonare il campanello, quando la porta s'aprì davanti a noi, come se qualcuno, all'interno, ci avesse visti avvicinarci alla casa. Un uomo con una massa di capelli castano-grigio che avevano tutta l'aria di aver bisogno del barbiere e un viso pallidissimo dall'espressione grave e solenne, stava in piedi dietro la porta. Era vestito elegantemente, troppo elegantemente per una casa simile, ragionai fra me, ma seppi tenere a freno la lingua. «La stanza da affittare è ancora...» Lui annuì. Fu allora che notai il giornale che teneva sotto il braccio. L'uomo vi gettò una rapida occhiata, poi il suo sguardo si spostò verso di noi e infine stirò le labbra nel pietoso tentativo di sorridere. Balbettai qualcosa sulla nostra disperata necessità di trovare un alloggio, ma fu il colpetto di gomito di Eve a farmi tacere, poiché il padrone di casa, se lo era, prestava scarsa attenzione alle mie parole. Tirai fuori una banconota da venti dollari e farfugliai: «È sufficiente?» Lui prese il denaro con fare distratto, poi si girò, facendoci cenno di seguirlo. La pesante porta si richiuse alle nostre spalle, tagliando fuori la città e i suoi rumori: L'interno della vecchia casa era anche più deprimente dell'esterno. Le pareti erano rivestite a pannelli di legno ingialliti dal tempo. Una lampada appesa al soffitto mandava una luce fioca nel vestibolo; al pallido riflesso della lampada seguimmo l'uomo che saliva lentamente su per le scale. Ci arrampicammo per tre rampe. Al quarto piano, l'uomo si fermò e ci indicò una porta. «Siamo al completo, in questo momento.»
Eve gli rivolse un cenno d'assenso e mormorò qualcosa su quanto fosse gentile da parte sua ospitarci a quell'ora di notte. La stanza non era gran che: due letti gemelli, una sedia e un tavolo con la superficie ornata di alcune strisce di tappezzeria sbiadita. «Sono il signor Melkin», si presentò la nostra guida. «Io sono John Drew, e questa è mia moglie», mi presentai a mia volta. «Benissimo», disse Melkin. «Ed ora vi prego di scusarmi, ma devo scendere a raggiungere gli altri.» Soli nella nostra stanzetta, la prima cosa che facemmo subito dopo esserci congratulati a vicenda, fu quella di toglierci le scarpe. «Sempre meglio di una panchina nel parco, tesoro», commentai con filosofia, notando lo sguardo critico che mia moglie lanciava alla camera. «Certo, Johnny, ma venti dollari!» Ci stiracchiammo e per un po' ci concedemmo il lusso di rilassarci. Mi venne l'acquolina in bocca al pensiero di una tavola imbandita. Lasciai Eve nella nostra camera e scesi gli scalini scricchiolanti. Al secondo piano c'era una vasta sala che occupava quasi tutto il piano. Dalla sala giungeva un suono di «voci». Mentre entravo nella stanza, la mia prima sensazione fu un certo imbarazzo per il mio aspetto poco ordinato, dal momento che tutti gli altri erano puliti, ben vestiti e in certi casi, perfino eleganti. Ma il signor Melkin non sembrava affatto vergognarsi di me. Il padrone di casa si fece avanti dall'angolo in cui si trovava in conversazione con un gruppo di uomini. Stavo per chiedergli se fosse possibile cenare, quando lui osservò: «Avete un aspetto sorprendentemente florido, sapete». Lo ringraziai e stavo per ricambiare il complimento come esige una conversazione cortese, ma in tutta onestà non ne fui capace. Il signor Melkin non aveva affatto un aspetto florido. Anzi, per la verità sembrava terribilmente giù di forma. E queste cose non si dicono, naturalmente. Poi lui disse che voleva presentarmi agli altri e io risposi che era un onore ma che temevo di essere impresentabile. «Vedete», mi scusai. «Ho perso giacca e soprabito in un incidente d'auto proprio stamattina.» «Certo, certo», m'interruppe il signor Melkin in tono quasi impaziente. «Come lui» soggiunse, indicando qualcuno con aria distratta nell'angolo della sala. Guardai. In fondo alla stanza c'era un uomo che al primo momento non
avevo notato. Anche lui era senza giacca, con il viso terribilmente sfigurato, le ferite che sembravano aperte, nella pallida luce della sala. Distolsi lo sguardo. Ora la voce di Melkin ronzava monotona mentre faceva le presentazioni. Sorrisi educatamente alle persone che via via mi venivano presentate, ma nella mente mi martellava una domanda: «Quando si mangia?» Gli ospiti della pensione avevano tutti un aspetto grigio e anonimo, tanto che se anche avessi cercato di ricordare i loro nomi, non ci sarei riuscito. Tornai a chiedermi perché mai una clientela così elegante e raffinata fosse andata a finire in quella casa vecchia e cadente. Colpa dei tempi, conclusi fra me. Un fatto era certo: non erano dei tipi animati. Non erano persone con cui avrei fatto volentieri una partita a poker, ecco. E anche le donne sembravano piuttosto insignificanti, con gli occhi freddi, quasi vitrei. Finalmente Melkin terminò di fare le presentazioni ed io colsi l'occasione per richiamare la sua attenzione, e chiedergli della cena. «Si potrebbe mangiare un boccone?» Lui mi fissò quasi scandalizzato, gettò indietro la testa spettrale e dichiarò in tono fermo e deciso: «Drew, noi non li apprezziamo affatto, certi scherzi». Scherzi, ragionai fra me. Li chiama scherzi. Caso mai, lo scherzetto l'ha fatto lui a me. Venti dollari per una notte in quella stanzetta pidocchiosa, esclusi i pasti. Il pazzo ero io, conclusi, perciò lasciai perdere la cena. Avrei portato Eve a mangiare in qualche ristorante; mi restavano ancora alcuni dollari. «Avete un magnifico aspetto», osservò una voce. Strani complimenti, faceva quella gente. Salii le scale a cercare Eve. Mia moglie passeggiava su e giù per la stanza con fare nervoso. «Credo che dovremo andar fuori a mangiare un boccone, tesoro», annunciai. «Ascolta, Johnny: quando sei sceso, è accaduta una cosa molto strana.» Le parole le schizzavano fuori dalla bocca. Mi accorsi che era sconvolta. «Sono entrate due donne. Perlomeno, quando ho alzato gli occhi, le ho viste in piedi accanto alla porta. Vestite di tutto punto, Johnny, con certi volti grigi e severi! Una ha detto: 'Questa è la signora Drew', e al mio cenno d'assenso, l'altra ha osservato: 'Avete un aspetto sorprendentemente florido'. Oh, Johnny, c'era qualcosa di terribile, in quelle donne. Sapevano perfettamente chi sono, poi si sono presentate e infine se ne sono rimaste lì
in piedi, a fissarmi. Mi guardavano in un modo orribile!» Le cinsi le spalle con un braccio. Mia moglie era una bambina impressionabile, dotata di una fertile immaginazione. «Forse cercavano solo di fare amicizia», suggerii. «Niente affatto. Quando si sono voltate per andarsene, una di loro...» Sul viso di Eve era apparsa una smorfia. «Davvero, Johnny, una di loro aveva un buco dietro la testa... un vuoto che ci avresti potuto infilare il pugno chiuso!» Sorrisi con indulgente superiorità maschile. «Probabilmente era un gioco di luce, tesoro.» «No, no, te l'assicuro, l'ho visto con i miei occhi. Era come se qualcuno le avesse scavato un buco nella testa!» «Be', sarà stata una ferita o qualcosa di simile», dissi, ridendo. «Non pensarci più. Sta' a sentire: ora usciamo a mangiare un boccone.» Lei dichiarò che pur di mettersi qualcosa nello stomaco era disposta a infilarsi di nuovo le scarpe. Scendemmo le scale senza far rumore. Nel vestibolo, incontrammo il signor Melkin. «Usciamo un momento a mangiare qualcosa», spiegai. «Torneremo fra poco.» Lui mi guardò fisso, il pallido viso privo d'espressione. E alla fine disse: «Di certo, state scherzando». Scossi la testa, seccato. Che razza di discorso era quello? Gli spiegai di nuovo che uscivamo per mangiare qualcosa e poi soggiunsi, quasi volessi dargli una giustificazione più valida per la nostra scappata notturna: «Inoltre, desidero comperare un giornale della sera». Lui rimase immobile, fissandomi con occhi penetranti. «Senza dubbio, avrete le vostre buone ragioni per questa vostra stranezza, signor Drew, ma vi avverto che il portone è chiuso. Per quanto riguarda il giornale della sera, credo di averne uno.» Si avvicinò a un cassettone e mi diede il giornale che gli avevo visto sotto il braccio, poco prima. Avevo una gran voglia di discutere, ma Eve mi prese per la manica e mi trascinò su per le scale. «Caro, sempre meglio che passare la notte sulla panchina nel parco! Non farci caso, se è un po' eccentrico. Comunque, non è più scorbutico di certi impiegati d'albergo che abbiamo conosciuto, non ti sembra?» Mi arresi con un sospiro. Non mi garbava affatto di sottomettermi ai de-
sideri di quel vecchio dalla faccia di formaggio, ma capivo che le parole di Eve erano dettate dal buonsenso, così risalii con mia moglie nella nostra cameretta. E ad ogni modo, era assai piacevole togliersi di nuovo le scarpe. Mia moglie si rannicchiò accanto alla finestra e io, dopo aver gettato un'occhiata da sopra la sua spalla alla via sottostante scarsamente illuminata, sedetti sul letto con il giornale della sera. Eve seguitò a chiacchierare com'era sua abitudine; le rispondevo a monosillabi, immerso com'ero nella lettura del resoconto sull'incontro di calcio. «Valley Street. Questa è Valley Street e Everglade Avenue, Johnny. Avrei giurato che eravamo già passati da questa strada, ma non ricordo di aver notato nessun cartello con l'annuncio della stanza da affittare. Chissà chi l'ha lasciata libera.» «Uhmm», risposi, seguitando a leggere i particolari della partita. «Anzi, per la verità non ricordo neppure questa vecchia casa», osservò Eve. «Uhmm...» Lei rimase silenziosa per un momento, lasciandomi così terminare di leggere l'articolo sportivo. Poi i miei occhi diedero una scorsa alla pagina del giornale. E si fermarono su un trafiletto. Qualcosa mi si contorse nello stomaco, mentre spalancavo la bocca, allibito. Il titolo diceva: DUE MORTI IN UN INCIDENTE AUTOMOBILISTICO 9 Agosto. Il signore e la signora John Drew di Briarville, California, sono morti oggi a Westville River, quando la loro macchina è uscita di strada, sulla Gormley Highway. I caratteri mi brillavano davanti agli occhi. «Che c'è, caro?» domandò Eve, al mio fianco. Ebbi sufficiente presenza di spirito da piegare il giornale, ma lei fu più lesta di me. Lesse il trafiletto e si lasciò cadere sul letto, accanto a me. «Johnny!» esclamò con voce rotta. «Oh, Johnny!» Le presi la mano. Volevo spiegarle che si trattava di un errore, che il mattino seguente saremmo andati di corsa alla centrale di Polizia a spiegare ogni cosa, volevo dirle di non essere così pallida, ma non riuscivo a spiccicare una parola. Poi qualcuno bussò alla porta e io balzai in piedi come una molla. Era Melkin. Il padrone di casa se ne stava immobile sulla soglia e mi fissava
con quei suoi occhi gravi e inespressivi. «Drew», disse l'uomo. «Voi siete nuovo di qui e vi sono alcune cose che devo spiegarvi sulle regole di questo posto. Vedete, questa non è una casa comune!» Il nostro ospite avanzò nella stanza e la pallida luce che cadeva dal soffitto accentuò il suo pallore, rendendolo quasi azzurrino. Un pallore che non aveva niente di terreno. Decisi di cogliere l'occasione di parlare prima che lui continuasse. «State a sentire», attaccai, con una smorfia che si proponeva di apparire un sorriso disarmante. «Rispetto le regole della pensione, ma è accaduto qualcosa che esige il nostro immediato intervento. Signor Melkin, mi dispiace, ma noi dovremo uscire per qualche minuto.» Notai che il viso del mio ospite si rannuvolava e mi affrettai a concludere il mio discorsetto. Del resto, date le circostanze, la mia richiesta era assolutamente ragionevole. «Vedete, si è verificato uno spiacevole equivoco che richiede di essere chiarito senza perder altro tempo.» Aprii il giornale e puntai il dito sul trafiletto che annunciava il nostro incidente automobilistico e il nostro «decesso». Pensavo che questo sarebbe stato sufficiente ad avvalorare le mie ragioni. Ma invece di mostrare il minimo interesse, Melkin gettò un'occhiata indifferente al trafiletto del giornale, poi i suoi occhi privi d'espressione si posarono di nuovo su di me, senza batter ciglio. Sul viso non c'era traccia di collera, ma solo espressione beffarda. Ripresi a parlare, sentendomi quasi imbarazzato al suono della mia stessa voce che echeggiava nella piccola stanza. Tentai di sorridere e dissi: «Vedete, il giornale dice che John Drew e sua moglie sono deceduti. Ora, essendo io John Drew in persona ed essendo questa mia moglie», precisai, dando un affettuoso pizzicotto al polso di Eve, «sento il dovere di recarmi alla centrale di Polizia per chiarire l'equivoco. Non abbiamo amici in questa città, ma se la notizia giungerà sulla Costa, potrebbero nascere dei guai». Melkin seguitò a fissarmi come se le mie parole non avessero alcun significato per lui. Mi eressi in tutta la mia statura, presi Eve per la mano e mi diressi verso la porta. Sono grande e grosso e di solito, alle parate, riesco sempre a vedere al di sopra delle teste degli spettatori. Sapevo di avere un'aria piuttosto minacciosa ed ero sicuro di poter battere facilmente il nostro strano padrone di casa. Tuttavia, lui si limitò a storcere con disprezzo
la bocca e dichiarò: «Non si può colpire un morto, sapete! Mi dispiace, ma non potete uscire». Inghiottii e mi fermai di colpo. «Ehi, aspettate un momento...» «Non potete uscire.» Afferrai di nuovo il giornale e picchiai il pugno sul trafiletto. «Vi ripeto che devo chiarire questo equivoco! Un fatto del genere potrebbe provocare un vero disastro!» Il proprietario della pensione piegò le labbra in una smorfia di scherno, poi sospirò. «Molti si comportano come voi», mormorò quasi a se stesso. «Ma con il tempo, vi abituerete. Tutti ci si abituano.» Parlando, aveva tirato le labbra sui denti gialli in quello che voleva apparire un sorriso. Poi Melkin si girò e si avviò verso la porta. Ero troppo sbalordito per far qualcosa. Alla fine, però, mi ripresi e gridai: «Melkin, mia moglie e io abbiamo intenzione di uscire da questo posto! Se volete che non torniamo, pazienza; ma noi dobbiamo assolutamente parlare con la polizia e mettere in chiaro questa storia.» Alla porta, lui si voltò a guardarci. «Non potete uscire. Anche gli altri impiegano un certo tempo ad abituarsi all'idea, ma prima o poi, tutti noi dobbiamo assuefarci. Dopo tutto, signor Drew, voi due siete morti, e questo lo sapete benissimo.» Uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Eve aveva il colore del signor Melkin, quando mi voltai a guardarla. La feci sedere sul letto, le strinsi le mani tremanti, sebbene anche le mie non fossero affatto salde. «Tesoro», sussurrai. «Quello è matto. Vedrai che usciremo di qui.» «Johnny, è così terribilmente pallido! Sai, appena l'ho visto, giù al pianterreno, l'ho notato subito che era pallido in modo spaventoso. Pallido come un morto! E quelle donne che sono venute a trovarmi!» Nascose il viso fra le mani tremanti, le piccole spalle scosse da un singulto. «Su, non essere sciocca», scattai, pronunciando parole di conforto con tutta la rapidità che m'era possibile, senza tuttavia smettere di pensare. Che cosa succedeva? Chi erano le persone in cui ero incappato, al piano inferiore? Persone? Creature! Misteriose creature, tutte quante con quel pallore innaturale. Consolai Eve ancora per alcuni secondi, poi con un balzo andai alla por-
ta. Mi aspettavo che fosse chiusa a chiave; invece, si aprì subito. Avanzai sul pianerottolo. Il corridoio che conduceva alle scale era quasi buio; ai lati, erano radunate alcune figure. Una dozzina, forse più. Feci un passo verso le scale e le figure quasi tutte di uomini, se così si potevano definire, si irrigidirono. Evidentemente, aspettavano me. Provai un senso di nausea che mi serrava lo stomaco. Anche nella penombra, potevo vedere che erano dei mostri, deformi e sfigurati, in un modo o nell'altro. C'era un uomo, o meglio ciò che era stato un tempo un uomo, con il cranio mezzo schiacciato. Un altro aveva la schiena piegata in due; un terzo era senza gambe, e così via. Mentre restavo fermo, con aria incerta, una delle strane creature cominciò ad avanzare verso di me. Indietreggiai rapidamente, mi rifugiai nella nostra camera e chiusi la porta, facendo scorrere il chiavistello. Avevo il terrore che Eve intuisse ciò che avevo visto, e cioè che non potevamo più lasciare quella casa, perché eravamo sorvegliati da uno strano assortimento di esseri che non avevano niente di umano. Capivo, ora, di essere capitato in una specie di manicomio. Mi allontanai dalla porta e cercai di rassicurare Eve con un sorriso. Fu un tentativo pietoso, lo capivo. Lo capì anche lei, ma il coraggioso sorriso che Eve mi ricambiò, servì a rinfrancarmi un poco. Un atto patetico, commovente da parte sua. Il cuore prese a martellarmi, pensando alla giovinezza e alla squisita bellezza di mia moglie, e alle orribili, mostruose figure fuori della porta. Sedetti vicino a lei e con voce sommessa le dissi: «Non preoccuparti, tesoro. Troverò il modo». Lei sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Che razza di posto è questo, Johnny?» «Non è certo il locale che avrei scelto per te», tentai di scherzare. «E allora cos'è, una specie di manicomio privato, forse?» Sicché, ci aveva pensato anche lei. «Non lo so», confessai. «E perché tutti sembrano così strani? Perché quel pallore?» Lo stesso pensiero mi persisteva nella mente. «Mancanza di sole e di vitamine», spiegai. Fummo interrotti da un colpo alla porta e da una voce dall'esterno. Era Melkin. «Drew», chiamò il padrone di casa. «Sì», risposi. «Ora avrete capito che sarebbe un errore tentare di lasciare questa casa.»
Non risposi. «Sono convinto che con il tempo arriverete a comprendere che tutto questo è per il vostro bene. Vedete, noi Anziani sappiamo perfettamente che la morte improvvisa racchiude particolari caratteristiche. Per esempio, anche dopo aver attraversato la barriera dell'Aldilà, uno continua a tentare di vivere, perlomeno psichicamente, secondo le dimensioni e le tradizioni di quando era in vita. Vi abituerete ad essere morti, Drew, voi e vostra moglie, e allora vi sentirete come tutti noi.» «Vi dispiacerebbe aprire per un attimo lo spioncino della porta?» domandai. Avevo notato la stretta apertura che spesso si trova nelle porte d'ingresso degli appartamenti cittadini. Sbirciai attraverso la fessura ma con un senso di disgusto vidi solo il volto cadaverico e le spalle di Melkin. «Ora», proseguì il padrone di casa quando vide il mio occhio contro lo spioncino, «metterò di guardia davanti alla vostra camera uno dei miei fedeli aiutanti, giusto per impedirvi di fare qualcosa di cui, diciamo, potreste pentirvi!» Fece un gesto con la mano, e subito da un lato del corridoio risuonò il rumore di un passo pesante. Improvvisamente, nella mia visuale si proiettò la grossa ombra di un uomo. Era certamente una delle figure che avevo visto ciondolare nel corridoio, poco prima: lo spettro mostruoso di un uomo con un viso brutale e un lato del cranio sfondato. Una vista incredibile e rivoltante, accentuata dall'assurdità di una cravatta a vivaci colori in cui spiccava il rosso, che il fantasma portava intorno al collo taurino. «Questo è Jacob», annunciò Melkin. «Resterà davanti alla vostra porta. Intanto, suggerirei a voi e alla vostra gentile signora di cominciare ad abituarvi all'idea di trovarvi nell'Aldilà. E spero, Drew, che ci scuserete per il nostro scherzo innocente, ma vedete, più presto vi sarete assuefatti alle regole, meglio sarà per tutti.» L'orribile Jacob sogghignò a tale affermazione e io abbassai di colpo lo spioncino. Mi posai un dito sulle labbra per indicare a Eve di non parlare, dopo di che sedetti con lei su uno dei due lettini, e insieme restammo ad ascoltare i suoni ovattati e impercettibili della casa che andavano facendosi sempre più tenui fino a cessare del tutto, finché non ci fu altro che il fruscio del vento, fuori della finestra. Il mio orologio segnava le due e trenta. Fu allora che iniziai un'accurata perquisizione della stanza, a piedi scalzi. Non trovai niente d'interessante. Non c'era neppure un mobile che fosse
sufficientemente pesante da servire come baluardo. Alla fine mi avvicinai alla finestra e l'aprii piano piano, un centimetro alla volta. Guardai fuori: una stretta sporgenza correva tutt'intorno alla casa. La strada sottostante, scarsamente illuminata, era assolutamente deserta, a quell'ora. Eve, che si era alzata dal letto e mi aveva seguito presso la finestra, si irrigidì quando intuì ciò che avevo in mente. «No, Johnny», sussurrò aggrappandosi al mio braccio. «Non possiamo uscire da quella parte!» «Vado a dare un'occhiata alle altre stanze», spiegai. Lei mi guardò con occhi supplichevoli. «Non c'è nessun pericolo, Eve», la rassicurai. «Ora siediti; tornerò subito.» Lei mi si aggrappò disperatamente al braccio cercando di trattenermi con tutte le sue forze, ma alla fine riuscii a convincerla e dopo averla baciata, mi issai cauto fuori dalla finestra. Se qualcuno mi avesse visto dalla strada e avesse avvertito la polizia, tanto meglio; ma sapevo che esisteva una sola probabilità su mille che un passante percorresse quella via, a un'ora così tarda. La finestra a destra della nostra era sbarrata, ma quando i miei occhi cominciarono ad abituarsi all'oscurità, potei vedere che si apriva verso un ripostiglio. Nello sgabuzzino c'erano solo scope, spazzoloni e scaffali zeppi di scatole ammucchiate alla rinfusa. Ritornai cautamente sui miei passi e proseguii nell'altra direzione. A sinistra, la mia fatica fu ricompensata dalla scoperta di una finestra aperta. Mi calai attraverso l'apertura e mi ritrovai in una stanza quasi identica alla nostra, ma con due porte. Una, ragionai, doveva dare sulle scale, l'altra era più piccola. L'aprii con cautela e davanti a me vidi un pozzo d'ascensore che scompariva nell'oscurità. Nel centro pendeva una corda robusta. Ricordai improvvisamente che certe vecchie case erano fornite di montavivande che dalle cucine salivano ai vari piani. Stavo per richiudere la porta del montavivande, quando da una stanza adiacente al pozzo dell'ascensore mi giunse un suono di voci. Quella di Melkin era inconfondibile. Il padrone di casa stava parlando con altre persone. Avrei giurato che le voci fossero alquanto eccitate, e ne ebbi una conferma quando sentii pronunciare il mio nome. Mi appoggiai alla porta e le voci si fecero più distinte. «Sciocco!» esclamò una voce in cui, oltre alla tonalità sepolcrale affio-
rava una nota di autorità. «L'annuncio della loro morte è stato uno degli stupidi errori che spesso commettono le autorità!» «Ma...» si scusò Melkin con voce lagnosa. «...avevo visto il trafiletto sul giornale e pensavo...» «Pensavate!» lo interruppe l'altra voce con una strana inflessione metallica. «Ora, naturalmente, lo sapete quello che dobbiamo fare, e subito!» Una terza voce si unì alle altre due per dare la sua approvazione. «Sì», disse Melkin. «Le persone che abitano questa casa dell'Aldilà devono essere morte. Se non lo sono... be', provvederò.» «Fatelo!» tuonò la voce autoritaria. «Subito», si affrettò a rassicurarla Melkin. Chiusi la porta il più rapidamente possibile e mi affrettai verso la finestra. Non riuscivo ancora a capire con esattezza che razza di posto fosse quello, ma sapevo ormai che avevamo a che fare con un branco di pazzi che intendevano assassinarci. Di questo non ne dubitavo. Raggiunsi la finestra della nostra camera e chiamai Eve con un cenno della mano, proprio nello stesso istante in cui Melkin bussava alla porta. Poi sentii che il padrone di casa impartiva un rapido ordine a qualcuno, probabilmente Jacob. Con un braccio intorno alla vita di Eve, presi a scivolare di fianco lungo la sporgenza; in quel momento la porta della camera si spalancò con uno schianto improvviso. Con gli occhi della mente, vidi le figure deformi e spettrali che si precipitavano nella stanza che avevamo lasciato. Spinsi mia moglie nella camera adiacente, mi calai dietro di lei; chiusi la finestra e tirai il chiavistello della porta. Ma ora che la mia mente galoppava con la rapidità della disperazione, sapevo che era solo questione di minuti, e poi quelle creature demoniache ci sarebbero piombate addosso. Già sentivo dei passi nel corridoio. Passi pesanti, cadenzati. Jacob, naturalmente, e gli altri. Ancora pochi metri e avrebbero sfondato anche questa porta. Con una piroetta, aprii la porticina che dava sul pozzo del montavivande e scossi leggermente la corda. Era una grossa fune, con un peso all'estremità. Con gesti frenetici, tirai su la carrucola e finalmente, gemendo e scricchiolando, il piccolo montacarichi a due ripiani emerse dal buio, arrivando al nostro livello. Non c'era tempo per le spiegazioni. Sollevai fra le braccia la morbida figuretta di Eve e la sistemai sul montacarichi. In quel momento, l'amavo più di quanto l'avessi mai amata. Niente isterismi, niente lacrime: solo quel visetto pallidissimo che si sollevava a guardare il mio volto.
Poi, intuendo ciò che stavo per fare, lei sussurrò: «Ti prego, Johnny! Vieni con me, oppure lasciami restare con te». Scossi la testa, e fu tutto. Ero io a decidere. Pregando silenziosamente per la sua incolumità, cominciai ad abbassare il rudimentale vassoio e il suo carico. Questo, se non altro, li avrebbe tenuti lontani per un po'. Fu in quel momento, prima ancora che risuonassero i colpi sordi alla porta, che scorsi il volto diabolico di Melkin alla finestra. Mentre Jacob, più lento di riflessi, frugava inutilmente nel corridoio, Melkin aveva previsto le mie mosse e mi aveva seguito sulla sporgenza della finestra. Come un giocatore di calcio, mi tuffai contro la finestra, sfondando i vetri e il telaio, calcolando di tenermi puntellato alla parte inferiore con le cosce e i piedi. Mossi ripetutamente le braccia in un delirio di disperazione. Lui non poteva sapere quale direzione avesse preso Eve. Sentii che le mie mani colpivano la solidità delle sue ginocchia, poi Melkin si staccò dalla sporgenza. Fu abbastanza facile, ma io provai un orribile senso di nausea. Non guardai giù, ma dal basso salì il tonfo sordo di un corpo che si abbatteva sul selciato, quattro piani più in basso. Ora non c'era tempo per le debolezze. La porta della stanza stava per essere sfondata dall'esterno; sentivo le imprecazioni di Jacob. E allora mi balenò un'idea; riaprii la porticina del montacarichi. Afferrai la fune con una mano, mentre con l'altra chiudevo la porta, poi mi calai nella buca, centimetro per centimetro, senza far caso ai filacci della corda che mi penetravano nelle dita. Da sopra, ma sempre più fievole mentre mi abbassavo nel buio, veniva il frastuono dei mostri che si riversavano nella stanza da cui eravamo fuggiti Eve e io. Finalmente i miei piedi toccarono il legno e la voce di Eve sussurrò: «Johnny?» «Tesoro. Dove siamo?» «Credo che sia una specie di scantinato», disse lei. Strisciai fuori, sgusciando fra la cima del montavivande e l'apertura del pozzo. Non fu un'impresa facile per un uomo della mia corporatura, e quando alla fine mi trovai in piedi accanto a mia moglie, avevo la camicia a brandelli. «E adesso andiamocene di qui!» Esplorammo il cammino nel buio assoluto, e da quanto potei tastare, ne dedussi che eravamo circondati da casse e contatori. A un certo punto in-
ciampai in qualcosa che, con mia somma gioia, scoprii essere un attizzatoio. Raccolsi l'oggetto e proseguimmo. «Se non altro, tesoro, quel Melkin non ci darà più fastidio», spiegai a mia moglie. «Mi son preso la briga di sistemarlo per sempre.» Eve non mi chiese i particolari, ma il pensiero di ciò che avevo fatto al nostro lugubre e crudele padrone di casa ormai non mi dava più la nausea. Per fortuna, eravamo dietro una pila di casse quando la porta della cantina, davanti a noi, si aprì di colpo. Tirai giù Eve, mentre la luce filtrava nel sotterraneo. Stavano arrivando. Uno di loro era Jacob. Sebbene i mostri non parlassero fra loro, potevo riconoscerlo dal passo pesante e cadenzato. Le figure avevano alcune torce e il fascio di luce delle loro lampadine tascabili frugava il buio a pochi passi dal punto in cui stavamo accovacciati. Il cuore mi balzò in gola quando qualcuno si appoggiò alla pila di casse che costituiva il nostro nascondiglio. Gli altri proseguirono; potevo vedere Jacob e altri due o tre. Poi, quasi il nostro respiro gli facesse da calamita, l'uomo appoggiato alla pila di casse si girò lentamente e inesorabilmente davanti a noi. Mi sollevai e lo colpii con l'attizzatoio, ancor prima che lui si fosse girato del tutto, ancor prima di vedere chi era. Perché se l'avessi visto, non avrei avuto la forza di sferrargli quel colpo potente. Era Melkin! Come posso descriverlo? Sfigurato come un uomo che abbia fatto un volo dal quarto piano per abbattersi sul selciato, ma era Melkin, vivo come prima. Vivo, dico? Fu allora che mi tornarono in mente le sue parole: «Non potete colpire un morto!» La forza del colpo che gli sferrai alla testa gli fracassò le ossa frontali e lo fece cadere all'indietro. Ma lui parve non accorgersi della ferita. «Corri, Eve!» urlai. «Corri verso la porta!» Lei ubbidì senza discutere, mentre io tornavo alla carica di Melkin, che mi fissava con quegli occhi vuoti e senz'anima, come se fosse Satana in persona. Fu l'urlo di Eve che mi fece girare di scatto. Mia moglie era andata a cozzare contro il grosso Jacob, che la sovrastava di mezza altezza. Quando lui sollevò le braccia per afferrare la figuretta di Eve, notai la grottesca cravatta a vivaci fiori rossi. Mi precipitai verso mia moglie e il mostro che cercava di ucciderla. Altre creature deformi e zoppicanti si erano radunate alle mie spalle, pronte ad assalirmi, ma i miei occhi erano fissi su Jacob e Eve. Colpii il mostro con l'attizzatoio, e lui lasciò andare Eve per avanzare verso di me, le mani allargate a ventaglio. Balzai di fianco per evitare la sua carica d'elefante e spinsi mia moglie verso la porta della cantina che ci stava quasi di fronte,
ormai. Lei corse e io feci per seguirla, ma Jacob, con rapidità sorprendente, ci raggiunse in fondo agli scalini che portavano alla porta. Mi tolse dalle mani l'attizzatoio come se si fosse trattato di un fuscello, e con l'altro braccio colpì Eve alle gambe. Lei, che si era rifiutata di salire la breve scaletta non vedendomi accanto a sé, cadde ansante sui gradini. Mi tuffai su Jacob e immediatamente mi resi conto che, sebbene fossi dotato di una forza notevole, non ce l'avrei mai fatta a competere con lui. Intanto, stavano arrivando gli altri, guidati da Melkin. Compresi che ci restavano pochi secondi, e poi saremmo stati prigionieri di nuovo e per sempre, in quella casa maledetta, popolata di orrori. Mi lasciai cadere lungo disteso e il mio assalitore, preso alla sprovvista, allentò la stretta per concentrare la sua attenzione su Eve, povera cara, che credendomi ormai allo stremo delle forze, tentava di venirmi in aiuto. Fu allora che balzai in piedi come una molla. Con un colpo di spalla feci perdere l'equilibrio a Jacob e allo stesso tempo afferrai Eve con un braccio. Il mostro tentò di agguantarmi con i suoi artigli, ma io gli cacciai le dita nel collo taurino, premendo disperatamente. Nella lotta, m'era rimasta in mano l'assurda cravatta a fiori rossi, ma Jacob, grazie al cielo, aveva perso completamente l'equilibrio ed era rotolato giù per gli scalini, abbattendo come birilli le figure che avanzavano, con Melkin in testa. Un istante più tardi, Eve e io riuscimmo a salire la breve scaletta e, chissà come, ci trovammo fuori, nella notte. Inciampando nel buio, prendemmo a correre come pazzi nelle vie deserte e sconosciute. Mi trascinavo Eve correndo senza fermarmi perché, per un momento, m'era parso di udire il rumore sordo e sinistro dei nostri inseguitori. Dopo un po', raggiungemmo un quartiere più illuminato ed Eve si appoggiò a me. «Non ce la faccio più», ansimò. La sorressi per il resto del cammino, fino alla più vicina stazione di Polizia. Ci fermammo un attimo per riprender fiato e, guardandoci in viso, tutti e due ci rendemmo conto che nessuno avrebbe mai creduto alla nostra fantastica storia. Decidemmo perciò di non parlare di quella recente, paurosa esperienza di poco prima, ma di sistemare soltanto la faccenda che si riferiva all'incidente automobilistico e alla nostra morte. Tenni il mio discorsetto al solito sergente seduto dietro il tavolino del posto di Polizia. Lui parve notevolmente seccato, ma alla fine ammise che talvolta possono verificarsi degli errori e che dopo tutto, quando una macchina va a finire nel fiume e viene ripescata con le portiere chiuse e le va-
ligie nel portabagagli, si presume che gli occupanti della vettura in questione siano morti annegati. Magari li avrebbero ripescati anche loro in qualche ansa del fiume; tutto qui, concluse con aria giuliva. Tuttavia, il sergente Truckett, così si chiamava il poliziotto, mostrò un certo interesse per la cravatta che mi spuntava dalla tasca destra della giacca. Era la cravatta di Jacob, la stessa che gli avevo strappato durante la lotta e che m'ero cacciato distrattamente in tasca. «È vostra?» s'informò il sergente. Elusi una risposta diretta e lui proseguì: «Buffo, sapete. Da queste parti, c'era solo un tale che andava in giro con una cravatta simile. Era un tipo strano, era. Andava matto per le cravatte a fiori rossi. Proprio come quella, signore. Avrei giurato che fosse una delle sue». «Chi era quel tale?» domandai. «Jacob, si chiamava. Era un campione di lotta libera. Una specie di gigante. È morto... be', circa un anno fa, in un incidente d'auto. Lui e il suo manager» Fu Eve che formulò la domanda che mi martellava nella mente. «Si chiamava Melkin, il suo manager?» Il sergente rispose con un cenno affermativo. «Scommetto che ne avete sentito parlare, eh? Dicono che la lotta libera sia uno sport disonesto, ma vi assicuro che è uno spettacolo grandioso. Ricordo che una volta questo Jacob...» Uscimmo nella strada. Misi un braccio intorno alla vita di Eve e piano piano riprendemmo a camminare. L'alba venava di rosa il cielo sopra la città. Senza dirci una parola, ma con reciproco consenso, dirigemmo i nostri passi verso la vecchia, sinistra casa a quattro piani. Passo passo, rifacemmo il percorso lungo la Everglade Avenue. Sei isolati, cinque isolati, poi tre, due e d'un tratto ci trovammo dall'altra parte della strada, nel punto in cui avevamo trascorso quella che sarebbe stata la più tormentata notte della nostra vita. Ripensandoci, credo di non essere rimasto sorpreso, e notai che neppure Eve lo era. Da allora non ne abbiamo più parlato, naturalmente. Senza dubbio l'avrete indovinato: all'angolo non c'era nessuna casa semidiroccata a quattro piani, alla luce del mattino. Non c'era niente. Neanche l'ombra di una casa. Solo uno spiazzo aperto, con qualche mucchio d'immondizie. Ho tuttora il trafiletto del giornale. Non capita spesso di leggere la notizia della propria morte. La sgargiante cravatta a fiori rossi? No, quella non
l'ho tenuta, perché appartiene a Jacob... ovunque si trovi! LA SIGNORA LANNISFREE di August W. Derleth A pensarci bene, non è molto quello che so del signor Lannisfree e di sua moglie, anche se ho lavorato per lui quasi un mese. Era un estraneo per me; vale a dire, lo era quando lasciai la città per seguirlo. L'agenzia mi aveva chiamato per chiedermi se ero disposto a lavorare in un posto isolato, in campagna. Non si trattava di un lavoro di fattoria. Dovevo semplicemente tener compagnia a un tale a cui era stato prescritto un po' di riposo e che non voleva trascorrere in solitudine il mese o poco meno, prima che sua moglie andasse a raggiungerlo. Avevo bisogno di quattrini, perciò accettai. Lui era venuto all'agenzia e voleva vedermi. «Per la verità desideravo un uomo più anziano», disse non appena entrai e mi presentarono. «Siete di carattere malinconico?» Risposi che non mi sembrava. Dipendeva da dove saremmo andati. «Nella regione dei laghi lungo la costa.» «Se di tanto in tanto potrò fare una scappata nei boschi, non mi sentirò affatto malinconico», l'assicurai. Lui parve diventare più cordiale, sebbene avesse tuttora uno sguardo imbronciato. Era un uomo di media statura, con una mascella decisamente volitiva e gli occhi duri. Si capiva a prima vista che era abituato a ottenere tutto ciò che si proponeva, e io ebbi l'impressione che gli spiacesse di doversene andare, ma che, chissà per quale ragione, dovesse partire per forza. Mi spiegò che non era molto loquace, che non era un tipo di compagnia, ma che gli occorreva qualcuno che si prendesse cura delle piccole faccende quotidiane. E questo qualcuno doveva essere un uomo, soprattutto per salvare le convenzioni sociali, dal momento che sua moglie l'avrebbe raggiunto non appena le fosse stato possibile. Possedeva un cottage su un lago, a nord della regione, e saremmo stati piuttosto isolati. Ma era il mese di giugno; avrei potuto pescare, se mi piaceva, e avrei avuto tempo sufficiente per me stesso, in previsione dei suoi malumori e dei suoi momenti di solitudine. Per la verità, era più di un cottage. Forse era stato costruito come tale, al principio, ma in effetti il signor Lannisfree vi aveva apportato numerose
migliorie e l'aveva ingrandito, cosicché ora aveva l'aspetto di una villa mal costruita. Nell'insieme era anche accogliente, nascosto com'era in un boschetto di querce e di cedri, non lontano dal lago, probabilmente a una distanza di duecento metri. Ebbi una camera tutta per me, ma vidi subito che prendermi cura della casa avrebbe significato maggior lavoro di quanto mi aspettassi, perché c'erano un ampio soggiorno, una veranda a vetri sul lato sud, dove il padrone di casa intendeva lavorare (ammesso che lavorasse), tre camere da letto e una cucina, oltre a un magazzino e alla veranda aperta. La casa era abbastanza lontana dalla strada, cosicché la polvere non costituiva un problema, come avevo creduto in un primo tempo. Così, le mie mansioni erano quelle di tener pulita la villa (il signor Lannisfree cucinava), badare al giardino e tenermi a portata di mano, nel caso che il mio padrone fosse in vena di chiacchierare o di giocare a scacchi, un gioco in cui era abilissimo e che m'insegnò con un garbo insospettabile in pochi giorni. Non mi aveva mai detto perché gli avessero ordinato quel periodo di riposo, ma sicuramente non aveva bisogno di dirlo: lo si vedeva subito che era un tipo nervoso, nonostante la sua mole. Non somigliava affatto a un avvocato, come era; somigliava più a un giocatore di calcio, e infatti saltò fuori che all'università faceva parte della squadra di calcio. Aveva cinquant'anni o poco più, ora, ma sembrava più giovane. Dopo un po', mi abituai ai suoi cambiamenti d'umore ma all'inizio ne fui piuttosto sconcertato. La prima volta che notai qualcosa fu durante la nostra seconda partita a scacchi, quando ormai avevo imparato a giocare senza che lui mi suggerisse quali pedine potevo spostare e quali no. Stavo pensando a una mossa e finalmente spostai una pedina. Lui non spostò la sua. Allora lo guardai di scatto e notai che se ne stava seduto quasi immobile, la grossa testa leggermente piegata da un lato. «Adesso tocca a voi, signor Lannisfree», gli ricordai. «Avete sentito niente, Jack?» mi chiese lui. «Be' no», risposi. «Cioè, niente tranne il grido di una strolaga, laggiù sul lago.» «Oh, era il grido di una strolaga?» «Sì», risposi. Il verso si ripeté e lui non batté ciglio; compresi allora che non era il grido della strolaga che credeva di aver udito. «Cos'era?» domandai, incuriosito. «Niente», tagliò corto lui, e fu tutto.
La scoperta successiva fu che il mio padrone e ospite amava aggirarsi per la casa, durante la notte. Non che l'abbia mai visto, ma molto spesso ne avevo trovato le prove. Il peggio era che, come ben presto scoprii, lui non se ne ricordava affatto, e sospettava me di sonnambulismo. Fu circa una settimana dopo il nostro arrivo. Quel mattino il signor Lannisfree si alzò tardi e anch'io dormii più del solito. Lui si levò per primo e dopo un po' sentii che mi chiamava. Sembrava arrabbiato e spaventato. Balzai dal letto e andai nel soggiorno. Tutte le camere da letto davano sul soggiorno; erano piuttosto piccole ma accoglienti, con dei buoni letti e soffici materassi. Il signor Lannisfree stava in piedi davanti alla porta della sua camera, con un viso che rivelava chiaramente come fosse furibondo o si sentisse male. Oppure tutte due le cose. «Siete stato voi a far questo, Jack?» mi chiese. Vidi subito quello che intendeva. Qualcuno aveva passeggiato sul pavimento a piedi nudi, lasciandovi una fila di impronte umide; anche la maniglia della sua porta era bagnata. Sapevo di non essere uscito durante la notte; perciò voleva dire che era stato lui a camminare nel sonno, oppure che se ne era andato a fare una nuotata nel lago e non se ne ricordava. «Può darsi che abbia camminato nel sonno», dissi, sconcertato. «Avete anche l'abitudine di nuotare, nel sonno?» ribatté lui. «Se uno dorme, non può saperlo», replicai. «Su, ripulite», tagliò corto. Fu allora che scoprii qualcosa di assai strano. Il lago era una distesa d'acqua dolce, naturalmente, a circa dieci chilometri dalla costa del Maine; ma quando tornai nel soggiorno con uno strofinaccio per asciugare le chiazze umide e mi chinai per osservarle da vicino, notai che si trattava di acqua di mare. Sono nato a Gloucester e l'odore dell'oceano è come una seconda natura, per me. Non dissi niente al signor Lannisfree perché pensavo che potesse seccarsi. Ma cominciai a preoccuparmi. Non ci capivo niente, e per la prima volta cominciai a desiderare che sua moglie tornasse presto, per andarmene a casa. Lui faceva un gran parlare di sua moglie. «La signora Lannisfree ha detto, la signora Lannisfree ha fatto», sempre lunghi discorsi sulla signora Lannisfree. Ben presto riuscii a farmi il quadro della signora in questione, una ragazza franco-irlandese, assai più giovane del marito, quasi dieci anni, per la precisione: occhi azzurro intenso, capelli neri che lei portava sciolti e
lunghi fino alla vita, spiegò il signor Lannisfree. Secondo lui, era una bellissima donna. In quel periodo, la signora stava terminando di scrivere un libro e non poteva allontanarsi dalla località in cui aveva ambientato il suo romanzo, soprattutto per le consultazioni che poteva trovare nelle biblioteche del posto. I Lannisfree frequentavano una cerchia di artisti e scrittori, gente assai nota e di tutti i tipi. Mi parve piuttosto strano che, con tutto quello che m'aveva raccontato, lui non avesse una fotografia della moglie e glielo dissi. Il signor Lannisfree sorrise e mi spiegò che nessuna fotografia «poteva renderle giustizia»; ma aveva una piccola istantanea, che mi mostrò. Dovetti ammettere che era una donna bellissima, anche se probabilmente la foto non le «rendeva giustizia». «Non vedo l'ora di conoscerla», dissi. «Non posso biasimarvi; quasi tutti gli uomini lo desiderano. È sempre stata molto popolare.» Le giornate scivolavano via lentamente. Pulizia della casa, partite a scacchi, pesca. Talvolta, Lannisfree giocava una partita dietro l'altra; pomeriggi e serate intere al tavolino degli scacchi. Talvolta, al contrario, dava l'impressione di non voler parlare assolutamente; allora restava seduto per ore ed ore, con le sue scartoffie d'avvocato, nel portico o in veranda, lo sguardo sperduto in direzione dei boschi o del lago. E c'erano alcune volte in cui se ne stava seduto immobile, con la testa piegata da un lato, come se ascoltasse qualcosa. Più d'una volta rimasi a osservarlo senza farmi vedere. Si comportava in modo strano: lanciava intorno occhiate furtive, come se si aspettasse di veder comparire qualcuno. Qualche volta, invece, mi avvicinavo rumorosamente, e allora lui mi rivolgeva sempre le stesse domande: «Avete visto qualcuno gironzolare da queste parti, Jack?» oppure: «Sentite camminare qualcuno?» Io non avevo visto nessuno. Capivo che Lannisfree doveva soffrire di un forte esaurimento nervoso, e che per questo gli avevano ordinato un lungo periodo di riposo. Andammo avanti così per alcuni giorni. Poi accadde qualcosa che non seppi spiegarmi. Si ripeté la storia delle impronte umide sul pavimento e sulla maniglia della porta. Per la maggior parte delle volte, feci in modo di alzarmi prima di lui, in tempo per ripulire e asciugare le macchie prima che Lannisfree le vedesse; ma qualche volta capitò che lui si alzasse prima che le impronte fossero asciutte completa-
mente. Ebbene, il signor Lannisfree non ripete mai l'osservazione che m'aveva fatto alcuni giorni prima: guardava da un'altra parte, come se le macchie non esistessero. Non riuscivo a togliermi quel pensiero dalla mente. Avrei voluto parlargliene, ma ogni volta, nei suoi occhi leggevo sempre qualcosa che m'impediva di farlo. Avrei voluto anche chiedergli come mai uscisse di notte per andare a nuotare nel lago e tornasse a casa gocciolante di acqua di mare. Perché era acqua di mare; potevo sentire il sale sulle mani. Una volta l'assaggiai: era sale. Ormai non avevo più dubbi, ma come facesse non lo sapevo, sebbene qualche volta rimanessi seduto per lunghe ore a pensarci. C'era un ruscello che correva dal lago fino all'oceano; si trasformava in un piccolo fiume, prima di sfociare nell'Atlantico, ma naturalmente il ruscello era d'acqua dolce. Pensai che la cosa migliore fosse quella di coglierlo sul fatto. Così, ideai il mio piano e per tutta una notte non dormii, ma rimasi seduto nella mia camera con le orecchie tese. Non l'avevo sentito uscire, ma l'udii chiaramente ritornare. Lo sentii attraversare l'anticamera, camminando il più silenziosamente possibile; e stavo per saltar fuori e coglierlo di sorpresa, quando d'un tratto mi giunse una voce strana. «Roger», chiamò la voce. «Roger!» Era una voce di donna, quella che chiamava il signor Lannisfree e, a giudicare dalla vicinanza del suono, la misteriosa visitatrice doveva trovarsi davanti alla camera da letto di lui. Lo chiamava con voce urgente, ansiosa, in cui affiorava una nota di comando. «Roger!» La voce si era trasformata in un rauco sussurro. «Roger!» C'era qualcosa di agghiacciante, in quel suono. A momenti sembrava che la voce implorasse, per diventare autoritaria subito dopo, e infine certi momenti sembrava perfino che piangesse. Un'impressione terribile. Pensai che per tutto il tempo del suo soggiorno laggiù, in attesa della moglie, il signor Lannisfree avesse una relazione con un'altra donna. Ecco ciò che pensai. Perciò quella notte non uscii dalla mia camera, ma rimasi ad ascoltare, dietro la porta, in attesa che lui rispondesse. Ma lui non rispose una sola volta: rimase nella sua stanza, inquieto e agitato, e un paio di volte lo sentii gemere, come se fosse in preda a un brutto sogno. Il mattino dopo, c'erano di nuovo le impronte e la maniglia della porta era bagnata. Osservai accuratamente le chiazze e vidi che una non era molto confusa: sembrava un'impronta di donna. Ripulii il pavimento prima che Lannisfree uscisse dalla sua camera e quando lui si fece vedere, le impronte erano tutte asciutte.
Quel mattino il signor Lannisfree aveva un brutto aspetto, come se avesse dormito male. «Avete sentito niente stanotte, Jack?» mi chiese. Naturalmente, non volevo pensasse che avessi sentito qualcosa, nel caso avesse una tresca con qualche ragazza del vicinato. Perciò gli dissi che non avevo sentito niente. «Non mi avete chiamato, per caso?» insisté lui. «Non mi pare, a meno che non abbia parlato nel sonno», risposi. «Dicono che talvolta parlo nel sonno... ma non ricordo.» «No, di solito non parlate nel sonno.» Non riuscivo a capire che cosa fosse capace di vedere in un'altra donna, con una moglie bella come la sua, e cercavo di immaginare che cosa ne avrebbe fatto dell'«altra», quando, la signora Lannisfree fosse arrivata alla villa. D'accordo, ora sapevo da dove venivano quelle impronte, anche se non riuscivo a spiegarmi l'odore del mare. Probabilmente la donna abitava da qualche parte sul lago, veniva a nuoto fino alla riva ed entrava in casa. Questo giustificava ogni cosa... tranne l'odore del mare. Continuai a rimuginare così intensamente su quel mistero che non potei fare a meno di parlarne. «Signor Lannisfree, c'è qualche corso d'acqua salata, da queste parti?» «No, finché non si risale la costa.» «Sicuro?» «Conosco perfettamente questa regione. Potrei attraversarla a occhi chiusi. Perché?» «Perché...» In quel momento ebbi la sensazione di essere un perfetto imbecille. «Perché l'impronta sulla maniglia della vostra porta e le chiazze umide sul pavimento sono di acqua salata.» Lui arrossì, poi divenne pallidissimo. «Queste sono maledette sciocchezze», sibilò fra i denti. Andai in cucina, presi lo straccio che avevo adoperato per asciugare le chiazze e glielo tenni sotto il naso. «Sentite un po'», dissi. Lui annusò, mi guardò con una smorfia di disgusto e infine scosse la testa. «Puzza di acqua di mare», insistei. «È colpa della vostra immaginazione, Jack. Mettete via quella roba e non parliamone più.» Lo accontentai. Ma questo non cambiava niente. Quello strofinaccio era inzuppato di acqua di mare. Quando fu asciutto, vi si notava una leggera
crosta di sale. So distinguere l'acqua di mare al gusto, al tatto e all'odore. Sono nato a Gloucester, ripeto, e un ragazzo di Gloucester ce l'ha nel sangue, il salmastro. Non può sbagliare. Non dico di essere infallibile, ma in questo caso non potevo sbagliare. Quella era acqua di mare, oppure io non avevo mai assaggiato né toccato l'acqua di mare. Per tutta la giornata, il signor Lannisfree rimase silenzioso e di cattivo umore. Non lavorò, e l'unica volta che mi rivolse la parola fu quando mi avvicinai a lui e lo trovai seduto davanti al suo orologio da polso aperto, che fissava la minuscola fotografia della moglie. «Desidero che non parliate di questa storia alla signora Lannisfree, quando arriverà», disse. «Benissimo, non le dirò niente», lo rassicurai. Quella notte tutto ebbe fine. Era una splendida notte di luna piena, con qualche nuvola che il vento agitava nel cielo, e un meraviglioso profumo di pino nell'aria, una di quelle notti in cui non si vorrebbe mai andare a letto. Infatti, restammo alzati più del solito; giocammo due partite a scacchi, ma il signor Lannisfree sembrava distratto. Finalmente, verso le undici, ce ne andammo a letto. Ero stanco ma non avevo sonno. E provavo la stessa sensazione che qualche volta ci prende, quando si sa che deve accadere qualcosa. Ero certo che la donna sarebbe ritornata, e quella notte ero deciso ad aprire la porta e parlarle. Così rimasi disteso sul letto, perfettamente sveglio. Sentii che il vecchio orologio sulla mensola del caminetto in soggiorno batteva dodici colpi, poi uno, e poi ancora due. E finalmente udii la porta che s'apriva, la stessa della notte precedente; ora che ci ripenso, credo che fosse anche la stessa ora. Seguì un fruscio di passi smorzati sul pavimento, provenienti dalla porta esterna; i passi attraversarono il soggiorno, si fermarono davanti alla porta della camera di Lannisfree. E poi di nuovo la voce, la stessa della notte scorsa. «Roger!», chiamò la donna. «Roger!» Mi avvicinai alla porta della mia camera e l'aprii. Poi guardai fuori. Lei era in piedi, a dieci passi da me, e mi voltava la schiena. Era davanti alla porta del signor Lannisfree. Ma rimasi sorpreso... più di quanto immaginassi. Mi aspettavo di vederla in costume da bagno, e invece non lo era. Indossava abiti da viaggio, una specie di completo sportivo, simile a quelli che portano le donne per andare in ufficio. Dalla porta della mia camera potevo vedere che aveva avuto un incidente, poiché l'abito era inzuppato. Mi feci avanti nel corridoio e dissi: «Perché non entrate?»
Lei si girò lentamente. Sentii un brivido di gelo serpeggiarmi in tutto il corpo. La donna non parlò, ma rimase immobile a guardarmi. Poi fece un passo avanti e il suo volto fu illuminato da una lama di chiaro di luna. Mi accorsi allora che era la signora Lannisfree. «Scusate, signora Lannisfree», mormorai. «Dov'è Roger?» «Lo sapete che è là dentro», dissi, indicandole la porta. «La porta è chiusa a chiave.» «Posso darvi la mia chiave.» «Grazie.» Andai a prendere la chiave e gliela diedi. La sua mano era di ghiaccio e mi accorsi che le battevano i denti. Quando le tesi la chiave, ebbi modo di vederle gli occhi. Non erano come gli occhi dell'istantanea che il signor Lannisfree teneva nella cassa del suo orologio. Sembrava che non mi vedessero affatto: guardavano fisso attraverso il mio corpo e parevano appuntati su qualche cosa. Lei non li girò una sola volta, né distolse lo sguardo; seguitava a guardare fisso davanti a sé. Poi prese la chiave e si girò verso la porta, trafficando con la serratura. Mi sentivo quasi soffocare per l'odore di acqua di mare, tanto era forte; e mi parve che penetrasse anche sotto la porta della mia camera, quando vi ritornai. Fu in quel momento che sentii l'urlo del signor Lannisfree. Uno solo. Un grido terribile. Non credevo che rimanesse tanto sorpreso per il ritorno improvviso della moglie. Lannisfree urlò il nome di lei: «Myra!» Poi silenzio. Ora mi giungevano dei rumori ovattati; pensai che la donna si togliesse gli abiti inzuppati, ma dopo un po' la sentii uscire da quella stanza, fuori dalla casa. Aprii la finestra e gettai un'occhiata fuori; la luna era ancora alta e lucente, ma io non riuscivo a vedere niente. Andai sulla veranda e allora scorsi la donna che si avviava attraverso i boschi, in direzione del ruscello, allontanandosi dal lago. Non s'era tolta gli abiti bagnati, ma camminava diritta, in direzione opposta alla villa, e io potevo vederla nella luce della luna, esattamente come vedo voi in questo momento, con il viso e le mani inondati di luna. Quella notte non potei dormire, perché aspettavo che lei tornasse; e il mattino dopo, sul pavimento del soggiorno c'erano ancora le impronte umide e la maniglia della porta del signor Lannisfree era bagnata. Asciugai le macchie e aspettai che lui si alzasse. Ma Lannisfree non si fece vedere.
Alla fine, poiché non rispondeva ai miei ripetuti colpi alla porta, entrai nella stanza e lo trovai com'era quando arrivò lo sceriffo: morto nel suo letto, con quella lunga ciocca di capelli neri avvolta intorno al collo, così stretta che l'aveva strangolato! Questo avvenne esattamente sei ore dopo che avevo visto la signora Lannisfree. Ecco perché non ci credo, quando affermano che il signor Lannisfree aveva portato sua moglie al largo della costa del Maine, circa un mese prima, l'aveva spinta in acqua e l'aveva annegata perché era geloso dell'uomo di cui si diceva che la signora Lannisfree fosse innamorata. Non ci credo anche se hanno ritrovato il corpo della donna, perché io l'ho vista come vedo voi ora, con il viso e le mani illuminati dalla luna, che camminava nel bosco, in direzione del mare. E LORO RISORGERANNO di August W. Derleth e Mark Schorer Più di una volta, ho cercato di raccontare questa storia, ma non ci sono mai riuscito. Anche quando sapevo che tutto era finito, quando m'ero ritrovato su un lettino dell'ospedale universitario, perfettamente consapevole di quanto mi circondava, con quei visi ansiosi chini verso di me e il dottor Montague che mi osservava attentamente e mi spronava a parlare, non c'ero riuscito. I pensieri e le parole si mescolavano in una confusione inutile; capivo che quanto stavo dicendo erano solo incoerenti frammenti di frasi, parole senza significato. «Tentavo» di raccontare la storia così com'era avvenuta, e nella mia mente l'intera avventura era chiara come il giorno, ma non potevo tradurla in parole. Pensarono che avessi perso la ragione, e per un po' lo pensai anch'io. Alla fine, rinunciarono a curarmi e mi spedirono a casa. Non capivano che gli uomini talvolta attraversano esperienze così orribili da non essere in grado di parlarne in modo coerente. L'ultima di quelle esperienze risale a sei mesi fa, e ora ho intenzione di scrivere ciò che non sono mai stato capace di esprimere con le parole. Stan Elson e io eravamo studenti del quarto anno di medicina all'università del Wisconsin. Una sera della primavera scorsa avevamo lavorato fino a tardi in un laboratorio della Science Hall e appena terminato, Stan era uscito prima di me. Pioveva. Ero appena uscito anch'io e stavo scendendo di corsa gli scalini per raggiungere il mio compagno, quando Stan risalì la
gradinata. «Dove diavolo t'eri cacciato, Valens?» mi chiese, quando mi avvicinai a lui. «Perché non mi hai detto che ti saresti trattenuto ancora un po'? Sono rimasto qui sotto la pioggia, credendo che saresti arrivato subito. Se l'avessi saputo, ti avrei aspettato dentro.» «È successa una cosa straordinaria, Stan. Non ero a più di ottanta passi da te... ma scusa, devi averlo visto passare.» «Chi?» «Il vecchio che m'ha fermato nell'atrio. Avevo appena girato l'angolo e stavo per imboccare le scale, quando per poco non gli sono inciampato addosso; un tipo alto, molto pallido, vestito con abiti fuori moda: una lunga giacca a doppio petto nera, sciarpa, berretto di castoro. Aveva un ombrello verde. Devi averlo visto.» Elson scosse la testa. «Non ho visto nessuno.» «Strano. Avrei giurato che ti era passato davanti.» «Può darsi che si sia fermato nell'interno dell'edificio», osservò Elson, leggermente seccato. Cominciò ad avviarsi. Stavolta fui io a scuotere la testa. «No, non credo.» Mi tirai su il colletto dell'impermeabile e presi a camminare al fianco di Elson. Scendemmo fino alla strada e imboccammo la Langdon Street. La pioggia cadeva a raffiche sull'asfalto e serpeggiava nei canali di scolo in numerosi ruscelletti. Non parlavo, ripensando a quel tale che avevo visto nel corridoio. Alla fine, il mio silenzio fu interrotto da Stan. «Be', che cos'aveva di strano, l'uomo nell'atrio?» mi domandò con voce quasi irritata. «Oh, niente di definito», risposi. «Mi ha colpito perché sembrava un tipo bizzarro, ecco tutto. Mi ha chiesto se poteva dare un'occhiata ai laboratori della sezione anatomica e ha borbottato qualcosa sul suo interesse nel campo dell'anatomia. Mi ha colpito soprattutto il suo viso, così pallido; pareva il viso di un cadavere capitato per caso in un laboratorio.» Elson ridacchiò, divertito. «E tu che cosa gli hai detto?» «Gli ho spiegato che non avevo alcuna autorità, ma che per me poteva andare dove gli piaceva. Lui mi ha guardato con occhi riconoscenti e ha proseguito. Gli ho ripetuto che non mi assumevo nessuna responsabilità, se l'avessero trovato là dentro. Allora mi ha rivolto un sorrisetto e mi ha ringraziato di nuovo. Ma non m'è piaciuto lo sguardo di quell'uomo.» «Be', non pensarci più», suggerì Elson. «Stavo pensando a qualcosa che ho letto di recente», mormorai. Poi mi
interruppi di colpo e gettai un'occhiata a Stan. «Hai letto il Cardinal, in questi ultimi tempi?» Elson sorrise. «Non lo leggo da quand'ero matricola, Valens. Perché?» «Perché durante queste ultime settimane non ha fatto che pubblicare alcuni articoli veramente misteriosi. E io credo che quel tale vestito in modo così strano e con quell'ombrello verde, abbia a che fare con quegli articoli.» Elson si fermò di colpo sotto la pioggia e mi afferrò bruscamente per un braccio. «Valens!» esclamò. «Alludi per caso a quei pasticci che si sono verificati in laboratorio?» «Sicché, ne hai sentito parlare anche tu», osservai. «Circolano strane voci.» «Quelle cose orribili che sono cominciate a Columbia, e che poi si sono diffuse a Harvard, Yale e a tutte le università della costa orientale. Tutte invenzioni, messe a tacere in fretta e furia, e anche con un certo affanno secondo il mio modesto parere.» Risposi con un cenno affermativo. «Sì. Due giorni fa è accaduto all'università di Chicago, e in quelle del Northwestern e dell'Illinois. Lo capisci che cosa significa?» «Tu credi...» fece per dire Elson, ma io gli lessi la domanda negli occhi e lo interruppi bruscamente. «Due sono stati uccisi all'università di Columbia, sette a Harvard, cinque a Yale, quattro a Princeton. Devo proseguire? Li conosco tutti e, non occorre dirlo, non ho avuto le mie informazioni dai giornali perché 'so' che una buona parte delle notizie è stata soppressa. Alcuni amici mi hanno scritto, mettendomi al corrente degli avvenimenti. Quarantasette studenti di medicina sono morti per cause misteriose da quando sono cominciati i guai, nell'Ente. Quarantasette studenti trovati morti stecchiti, con una smorfia sul viso, e nessun segno di come possano esser stati uccisi! Ho seguito la faccenda. Ma questo non è tutto; non è successo solo nel nostro paese, ma per anni e anni, s'è verificato in tutto il mondo! Nel 1873 all'università di Edimburgo. Nel 1880 alla 'Guy's' di Londra. E cinque anni dopo a Vienna, poi alla Sorbona, Heidelberg, Bonn, in tutto il continente, in tutti i più importanti e famosi istituti di ricerche mediche. E adesso in America.» «Ma che cosa si nasconde dietro tutto questo?» m'interruppe Elson. «Non lo so. Ma ho la ferma intenzione di scoprirlo. E anche presto.»
Continuammo a camminare sotto la pioggia, senza parlare. Fui io a riprendere il discorso, e penso di aver comunicato al mio compagno l'eccitazione che provavo in quel momento. «Sai, Stan, credo di aver già visto quel vecchio.» «Dove?» «Non lo so. Non ne ho la più pallida idea. Ma voglio rivederlo.» Mi fermai di colpo, gettando un'occhiata alle file di case che fiancheggiavano la strada. Stavo già per augurare la buonanotte a Elson, poiché eravamo arrivati davanti alla casa in cui abitavo, quando mi accorsi con vivo disappunto di non avere più il mio prezioso libretto per gli appunti. «Ehi, Stan! Ho dimenticato il libretto degli appunti.» «Non ti serve mica stanotte, no?» «Sì, invece. Devo rivedere quel lavoro. È per domani.» «Vuoi tornare indietro?» «Temo di sì. Vieni anche tu?» «Ma sì. Tanto non ho di meglio da fare.» Girammo e tornammo indietro lungo la strada umida. La pioggia cadeva ancora fitta. Avevamo fatto appena pochi passi, quando incontrammo due nostri compagni di corso che erano rimasti in laboratorio a lavorare, quando noi due eravamo usciti. «Dove andate?» ci chiese uno. «Non hai visto per caso il mio libretto degli appunti sul tavolo, Asham? Devo averlo lasciato da qualche parte, in laboratorio.» «Non l'ho visto. Ora però, se ne sono andati tutti.» «Ma il laboratorio non è chiuso a chiave, no?» «Non era chiuso, quando noi siamo usciti. Ho visto il custode nell'atrio», soggiunse Dean, il più giovane dei due studenti. Risalimmo la strada verso la Science Hall, mentre Asham e Dean sparivano nella pioggia. «Credi che incontreremo il tuo pallido amico?» mi domandò Elson. «Non lo so. Probabilmente il custode l'avrà messo fuori, se l'ha visto vagare nell'edificio con quell'aria strana, come l'ho visto io.» Salimmo la scalinata di pietra che portava alla Science Hall e spingemmo la porta pesante. Le fioche luci dell'atrio sembravano le uniche accese in tutto l'edificio. Attaccammo la prima delle cinque rampe di scale che dovevamo salire quando, sollevando lo sguardo improvvisamente, ve-
demmo il vecchio con l'ombrello verde, in piedi davanti a noi. «Salve!» gridai. «Allora, avete trovato i laboratori?» Il sorriso fisso sul viso pallidissimo dell'uomo lasciò il posto a un'espressione corrucciata. «No, no», disse con voce soffocata. «Ho cambiato idea.» «Noi stiamo salendo», offrì Elson. «Volete venire con noi?» «No, no, grazie. Ritornerò in mattinata.» Ci guardò con occhi penetranti, poi ci passò davanti rapidamente, per scendere le scale. I suoi passi risuonavano pesanti, riecheggiando nel silenzio dell'edificio. Elson e io ci voltammo per seguirlo con lo sguardo. «Strano modo di camminare», osservò il mio compagno. «Pare una macchina», suggerii. La figura del vecchio scomparve nell'atrio sottostante. Sentimmo la porta d'ingresso chiudersi alle sue spalle. «Be', andiamo», propose Elson. Riprendemmo a salire le scale, quando una voce dietro di noi gridò: «Dove andate, ragazzi?» Ancora una volta ci fermammo per girarci. Era il custode. «Ho lasciato il libretto degli appunti nel laboratorio 5 e mi serve. Stavamo salendo per andare a prenderlo.» «Bene, stavo giusto per salire a chiudere. Vengo con voi.» Il custode si affiancò a noi e tutti insieme salimmo lentamente le cinque rampe di scale. Finalmente arrivammo presso la porta della stanza 5. Asham e Dean, che erano stati gli ultimi a uscire, avevano spento le luci, cosicché l'oscurità regnava completa. Ma la porta non era chiusa a chiave, e per un momento mi parve di udire un movimento furtivo nell'interno. Allora aprii la porta e accesi la luce. Per un minuto intero non mi accorsi di nulla; poi di colpo, come per una premonizione, mi fermai nel centro della stanza, sentendo che il sangue mi defluiva dal viso. «Stan! Signor Brown!» chiamai, senza muovermi. I due si precipitarono correndo nella stanza. «Mio Dio!» gridò Elson. Il custode rimase immobile, la bocca spalancata. Davanti a noi c'erano quattro cadaveri, puntellati in posizione naturale, duri e rigidi, con gli occhi vitrei e sbarrati che fissavano davanti a sé. Uno di loro era seduto, le dita irrigidite strette convulsamente sui braccioli della sedia. Un altro stava appoggiato alla parete, le ginocchia rigidamente piegate,
quasi fosse sul punto di cadere da un momento all'altro. Eppure non cadeva. Gli altri due erano forse i più orribili. Sedevano sull'orlo di un tavolo, l'uno a fianco dell'altro, come siedono solitamente gli studenti quando si prendono qualche minuto di riposo. Ma sui volti contratti di quei due morti c'era un'espressione spaventosa, un'espressione crudele che non era la solita di un cadavere da lungo tempo imbalsamato e conservato, ma piuttosto quella di individui morti da poco. Le loro labbra si sollevavano sui denti in un sogghigno pauroso, indescrivibile: così poteva ridere solo il demonio. Il custode fu il primo a ritrovare la voce. «Questo è uno scherzo idiota di Asham», disse. «Sciocchezze!» scattai. «Nessuno studente di medicina farebbe una cosa del genere. Questo non è certo lo scherzo di uno di noi. È qualcosa dall'esterno, qualcun altro.» E per tutto il tempo, un pensiero mi martellava nella testa: è già successo in Europa, e nell'Est, nell'Illinois, nel Northwestern, a Chicago. E adesso, qui da noi. «Vado a chiamare il dottor Montague», annunciò il custode, marciando verso la porta. «Voi due aspettate qui.» Elson mi guardò, con un'espressione d'incredulità sul viso. «Che cosa significa?» sussurrò. Scossi la testa. «Non lo so. Ma so che non sono stati Asham e Dean.» Mi allontanai rapidamente da Elson e dallo spettacolo che ci si parava davanti agli occhi, deciso a dimenticare l'orribile dubbio che mi aveva attraversato la mente. «Per fortuna la cella frigorifera era chiusa a chiave. Altrimenti, chissà che cosa sarebbe accaduto!» osservò Elson. Gli risposi con un cenno d'assenso. Un brivido d'orrore mi serpeggiò per tutto il corpo al solo pensiero. Dopo qualche secondo, il custode ricomparve. «È vostro, questo?» mi chiese bruscamente, raccogliendo un libretto d'appunti dal mio tavolo. Mi piegai in avanti e presi il libretto. «Il dottor Montague arriverà fra poco», annunciò il signor Brown. «Voi, ragazzi, volete aspettarlo? Altrimenti potete andare.» «Andiamo», suggerì Elson, in fretta. «Sì», risposi. «Devo finire questo lavoro stanotte.» Insieme, uscimmo dalla stanza. Pensieri pazzi mi turbinavano per la mente.
Il mattino successivo, una buona metà delle quattro ore di laboratorio trascorse in discussioni e commenti appena sussurrati sulla nuova storia pubblicata dal Cardinal riguardo i misteriosi avvenimenti che si erano verificati nel laboratorio 5, la notte prima. Alla fine, tuttavia, gli studenti si rimisero al lavoro. Ero occupato al mio tavolo, e lavoravo a fianco di Stan, quando improvvisamente vidi che la porta della stanza si apriva lentamente. Alla chiara luce del giorno, vedemmo l'uomo con l'ombrello verde e il volto cadaverico. Stava togliendosi dalla testa un antiquato cappello di castoro. Dietro le lenti dalla montatura quadrata, i suoi strani occhi infossati osservavano curiosamente il locale. Fece qualche passo avanti, muovendosi piuttosto incerto, spostando il corpo alto e ossuto con gesti brevi e scattanti, simili a quelli di un automa. Poi, d'un tratto, si rivolse allo studente più vicino alla porta, con voce bassa e gelatinosa: «Scusate, volete essere tanto gentile da indicarmi il dottor Montague?» Lo studente a cui s'era rivolto si girò di scatto al suono di quella voce viscida, e si ritrasse istintivamente di fronte a quell'uomo stranamente ripugnante, che sebbene non dovesse avere più di cinquant'anni, dava l'impressione di essere molto, molto più vecchio, di un'età che non si poteva tradurre in cifre. «Laggiù», mormorò lo studente alla fine, indicando il dottor Montague, in piedi presso il tavolo a cui stavo lavorando con Elson. Il vecchio si avvicinò al professore con il suo passo breve e incerto. Il dottor Montague alzò gli occhi. «Siete il professor Montague? Siete il preside della facoltà di anatomia, qui all'università del Wisconsin?» Che strano accento, osservai fra me. «Sì, sono il dottor Montague», rispose il professore. «Mi chiamo Brock. Dottor Septimus Brock. Esercito la professione in Scozia, ma attualmente sto visitando il vostro meraviglioso paese. Poiché m'interesso di ricerche mediche, ho scelto alcune località d'America in cui si conducono ricerche del genere.» Il vecchio indicò il laboratorio con un ampio gesto della mano. «Vorrei sapere se è possibile visitare i vostri laboratori.» Il professor Montague, che aveva squadrato lo strano visitatore con malcelata curiosità, parve ridestarsi improvvisamente e rispose: «Certamente, dottor Brock. Ora chiamo qualcuno che vi faccia da cicerone.» «Molte grazie, professore.» Elson e io eravamo rimasti in piedi presso il nostro tavolo, le orecchie
tese alla breve conversazione. L'improvvisa apparizione di un assistente ci costrinse a rimetterci rapidamente al lavoro. Elson, tuttavia, che era nervoso per natura, nel girarsi così bruscamente verso il suo cadavere per riprendere il lavoro interrotto, poco mancò che non tagliasse di netto la lingua del «modello» steso sul tavolaccio. Fu allora che avvenne qualcosa di veramente strano. L'uomo con l'ombrello, che aveva osservato la scena, balzò immediatamente al fianco di Stan. Lo fissò con occhi fiammeggianti e con voce gelida disse: «Voi sfigurate i morti!» Nel suo sguardo, c'era un'espressione di sconcertante malevolenza, che non sfuggì né a Elson né a me. Elson, che ne fu profondamente turbato, cercò di spiegare: «Mi dispiace. Ma vi assicuro che è stato un puro caso». Il professor Montague, che era rimasto presso il tavolo, aggiunse con voce indifferente e con un cenno della mano: «Va bene, Elson, non prendetevela. Son cose che capitano». Poi si girò verso l'uomo al suo fianco. «La vostra osservazione sul fatto di sfigurare i cadaveri, dottor Brock, mi sembra piuttosto insolita, venendo da un uomo di medicina.» Il vecchio si ricompose e con gesto indifferente agguantò il suo ombrello. «Certamente, dottor Montague. Evidentemente il mio non è un atteggiamento scientifico, temo. Ma mi è parsa una riprovevole sbadataggine.» Il dottor Montague annuì brevemente. A un suo cenno, un bidello che aspettava poco lontano si fece avanti. «La vostra scorta, dottor Brock. Mi auguro che troverete i nostri laboratori di sufficiente interesse per giustificare la vostra visita. Dite al bidello dove desiderate andare.» «Grazie, professor Montague. Siete veramente gentile.» Dopo di che, si rivolse al bidello e gli parlò sottovoce. Un attimo dopo, il bidello gli fece strada verso il breve corridoio che conduceva a un gruppo di laboratori più piccoli. E allora, per la seconda volta nella mattinata, accadde qualcosa di strano. Fu Elson a notarlo per primo. «Guarda Dean!» mi sussurrò con voce eccitata. Sollevai lo sguardo. Dean, un giovane pallido e molto sensibile, se ne stava in piedi e fissava il dottor Brock che si avvicinava al suo tavolo, gli occhi sbarrati che sembravano non vedere. Mi balenò per la mente il pensiero che qualcosa avesse sconvolto terribilmente il mio compagno, poiché lo vedevo reagire a un potente stimolo mentale, quasi uno stimolo ipnotico. Dean, evidentemente, stava lavorando, poiché stringeva nella mano un
grosso coltello da dissezione. Il dottor Brock passò davanti al tavolo di Dean, senza degnarlo di uno sguardo; ma lo studente si era girato completamente e seguitava a fissare il visitatore con uno sguardo innaturale. Poi, improvvisamente, accadde. La mano di Dean si alzò e, quasi il suo braccio fosse azionato da una molla potente, scagliò il coltello in direzione della schiena di Brock. Vi si conficcò con un orribile rumore sordo. Dean lanciò un grido improvviso e crollò sulla sedia. Poi la sua voce si levò nel silenzio del laboratorio e in tono isterico gridò: «Non ho potuto farne a meno. Non ho potuto!» Affondò il viso fra le mani e cominciò a singhiozzare selvaggiamente. Ma la cosa più strana fu l'atteggiamento del dottor Brock. L'uomo con l'ombrello si girò con calma, ignorando completamente il giovane accasciato sulla sedia e tutti noi, che guardavamo ammutoliti. Allungò il braccio dietro la schiena e ne levò il coltello, nello stesso istante in cui il dottor Montague gli si avvicinava di corsa. «Che succede?» Il dottor Brock sorrise, di quel suo caratteristico sorriso fisso e inanimato. «Assolutamente niente», rispose con voce soave. «Per fortuna, è affondato negli abiti.» In mano, reggeva il coltello. Era lucido e pulito come quando Dean l'aveva lanciato. Il dottor Montague afferrò la situazione con una sola occhiata. «Calmatevi, Dean!» ordinò scuotendo lo studente per una spalla. «Sarà meglio che veniate con me. Chiedo scusa per lo spiacevole incidente, dottor Brock. Spero non vi abbia turbato eccessivamente.» «Neanche un po'», replicò il vecchio. E, girandosi bruscamente verso il bidello soggiunse: «Andiamo?» Appoggiandosi al braccio del professore, Dean uscì dal laboratorio, mentre Brock e il bidello proseguivano per il corridoio. Fra gli studenti si levò un mormorio d'eccitazione. Elson si voltò verso di me, in grande agitazione. «Mio Dio, credevo che Dean l'avesse colpito!» «Avrei giurato che quel coltello gli fosse affondato nella schiena perlomeno di dieci centimetri!» mormorai afferrando il polso di Stan. Mi accorsi che la mano mi tremava terribilmente. Tutti e due ci voltammo con un movimento simultaneo e vedemmo il bidello che apriva la porta di metallo della cella frigorifera, dove tutti i cadaveri della facoltà di medicina stavano allineati contro le pareti, o fluttuavano nelle grandi vasche di conservazione.
Quella sera, dietro mio invito, Elson venne da me. Ero seduto alla scrivania, davanti a una fila di libroni di medicina; una lampada con uno schermo di vetro verde lasciava cadere direttamente la sua luce sul libro aperto che stavo sfogliando. Elson era sprofondato in un'ampia poltrona, nella grigia penombra di fianco alla scrivania, quasi nascosto nel buio della stanza, gli occhi che mi osservavano attentamente. Chiusi il libro con un colpo secco e mi girai verso Stan. «'So' di averlo visto da qualche parte. Se è una foto, quella che ho visto, sono quasi certo che si tratta di un'illustrazione in uno dei miei libri. Quest'anno non sono mai stato in biblioteca, e neppure durante gli ultimi mesi dell'anno scorso.» Presi un altro libro, un'enciclopedia medica illustrata, e cominciai a sfogliarla rapidamente. «Eccolo», annunciai dopo un po'. «Vieni qui, Stan.» Elson si alzò e venne presso la scrivania. Si chinò sopra la mia spalla e insieme cominciammo a leggere: «Brock Septimus, dottore in medicina, nato nel 1823 a Suncardin, Scozia. Laureato presso l'università di Edimburgo. Ha esercitato la professione in quella città per quattro anni, durante i quali scrisse e pubblicò due opuscoli e una monografia: 'I morti: come dobbiamo considerarli?'; 'Trattato sugli orrori della sezione anatomica'; e 'Quando l'Anima fugge, il Corpo muore?' Queste tre opere, in particolare l'ultima, sebbene attualmente fuori stampa, furono considerate il prodotto di una mente squilibrata, tanto che dopo un attento esame, il dottor Brock venne ricoverato nel Denham Asylum, un ospedale per alienati. Da questo ospedale, scomparve nel 1872, e la sua sparizione fu resa anche più misteriosa dal fatto che quel giorno l'ammalato giaceva nel suo letto di morte ed era troppo debole per camminare. Di lui non si ebbero più notizie, e si presume che abbia trovato la morte poco dopo la fuga miracolosa. Il caso del dottor Brock viene ricordato come una delle più sconcertanti sparizioni del mondo». Elson mi lanciò un'occhiata. «Che cosa ne pensi?» domandò. «Non voglio fare delle supposizioni, ma credo di cominciare a capire.» «L'uomo con l'ombrello verde...» «L'ho già visto», tagliai corto. «Lui o il suo ritratto. Probabilmente era il suo ritratto. Credo anche di averlo notato nella sua monografia: 'Quando l'Anima fugge, il Corpo muore?' Devo averla da qualche parte, in mezzo ai miei libri.» «Dove?» volle sapere Elson, ormai profondamente interessato.
Gli indicai la libreria contro la parete dietro la poltrona in cui era seduto fino a un minuto prima, ma non feci una mossa per avvicinarmi agli scaffali. «Perché non lo vai a prendere?» insisté Elson. Improvvisamente e senza ragione, rabbrividii. Provavo una strana sensazione, un senso di paura, una specie di presentimento che mi suggeriva di non andare a fondo, in quella storia. Mi girai a guardare Elson e gli spiegai rapidamente ciò che provavo. «Sciocchezze!» commentò lui bruscamente. «I tuoi nervi ti stanno giocando un brutto tiro, ecco tutto.» Mi alzai in piedi con uno sforzo e con passo rigido mi avvicinai alla libreria. Aprii il cassetto in cima e le mie dita cominciarono a frugare fra le carte che vi erano contenute. La monografia non c'era, e non la trovai neppure nel secondo cassetto. Era seminascosta nel terzo, dove riuscii a ripescarla solo dopo aver frugato fra le carte una seconda volta. Afferrai il volumetto e lo portai sulla scrivania, sotto la luce verde della lampada. Sulla copertina, sotto il titolo, spiccava il ritratto sbiadito di un uomo con gli occhiali dalla montatura quadrata; l'uomo somigliava in modo sorprendente al medico che si era recato nel nostro laboratorio quel mattino. Anzi, era lo stesso uomo, per la precisione. Eppure, l'individuo della copertina era vissuto cent'anni prima! Sedetti lentamente, allungai una mano esitante e voltai le prime due pagine della monografia. Non avevo nessuna voglia di leggere ciò che vi era scritto. Ma il testo sembrava balzarmi incontro, soprattutto le parole che spiccavano in neretto: «Nella vita, sono utili anche i corpi da cui l'anima s'è involata!» Elson rise, poco convinto. «Che strano modo di commentare l'impiego di un cadavere a scopo anatomico!» osservò. Lo guardai. «Tu la pensi così, Stan?» «Tu no?» Chiusi di colpo il volumetto e tornai a rabbrividire. «No», dissi. «Non credo. Ora ricordo con chiarezza questa storia... la ricordo perfettamente.» «Amico, io credo invece che tu abbia qualcosa che non va», si affrettò a dire il mio compagno. «Che ne diresti di un goccetto di gin? Mi stai trasmettendo tutte le tue sensazioni.» Con gesto impaziente, respinsi la sua proposta. «La monografia tratta del potere di animazione che certi aspetti della magia nera a noi poco noti possono avere sui cadaveri. E spiega il modo in cui l'anima può essere tra-
smessa da un corpo vivente al corpo risuscitato.» Parlavo più con me stesso che con Elson, ma d'un tratto guardai fisso il mio amico e soggiunsi: «Era pazzo, non credi?» «Matto da legare», si affrettò a confermare Stan. «È scomparso, dicono», continuai. «Ma non fu mai ritrovato. Non trovarono mai il cadavere.» «No, no! Quello no!» esclamò Elson, mentre il suo viso assumeva un'improvvisa espressione di terrore. «Quell'uomo non può essere Brock. Dovrebbe avere più di cent'anni, figurati! Non crederai realmente a ciò che stai pensando!» Ma io non l'ascoltavo. Era possibile che l'uomo fosse risuscitato? «Senti», mormorai bruscamente, afferrando il braccio di Stan. «Ha scritto qualcosa sui morti che sorgeranno contro i vivi, grazie al potere di questo misterioso influsso ipnotico. Eserciti di morti che possono risuscitare.» Ripresi la monografia e sfogliandola rapidamente, mi fermai all'ultima pagina. «Io ritornerò, e metterò le mani su di loro, ed essi si animeranno. Risorgeranno in gran numero, risorgeranno contro coloro che li hanno sfigurati, risorgeranno contro tutti i vivi e non ci saranno armi che potranno fermarli. Spazzeranno l'universo intero, uccidendo e distruggendo, e io sarò il loro signore e padrone; perché senza di me, senza la forza che io emanerò, moriranno e resteranno morti per sempre. O morti, attendete quel giorno! Io tornerò e voi risorgerete contro i vivi!» Elson mi scosse il braccio con gesto convulso. Gridava: «Questa è pazzia! È il farneticare di un pazzo!» Posai le mani sul tavolo perché mi girava la testa. «Lasciamo perdere questa storia, Valens», soggiunse Elson, con voce rotta. «Abbiamo da lavorare, stanotte, non dimenticarlo. Dobbiamo assolutamente finire quel lavoro.» «Sicuro», risposi, annuendo. «Non l'ho dimenticato. Sarà meglio, dunque, che ci affrettiamo a tornare in laboratorio. Sono quasi le nove.» Elson parve sollevato e dispiaciuto allo stesso tempo. Ero sicuro che per un momento pensasse che mi fossi lasciato prendere dai nervi, e allo stesso tempo si sentisse soddisfatto di non essersi lasciato andare alla propria immaginazione. Pure, sembrava stranamente a disagio, quando ci avviammo verso il laboratorio, lo stesso in cui era entrato il dottor Septimus Brock, quel mattino. Elson scrollò le spalle e non disse niente, senza dubbio temendo di far rinascere la mia eccitazione.
Entrammo nel laboratorio con una certa trepidazione, sebbene nessuno dei due mostrasse il proprio disagio. Ci mettemmo immediatamente al lavoro, pur senza averne voglia. Né lavorammo con particolare rapidità. Dopo un po', Elson si rizzò e accese una sigaretta. «Che ore sono?» mi chiese. «Le dieci», risposi, dopo aver gettato un'occhiata all'orologio. «Su questa dissezione del cuore, hai per caso...» «Ascolta!» lo interruppi. Avevo sentito qualcosa. «Che c'è?» «Stan, non hai sentito un rumore?» «No.» «Come se qualcuno parlasse in distanza?» «Non ho sentito niente. Valens, curati i nervi, dammi retta.» «Sì, hai ragione», convenni, con un brivido. Elson tornò a concentrarsi sul suo libretto d'appunti, pur lanciandomi occhiate furtive di tanto in tanto. «In questa dissezione del cuore», riprese a dire, «hai un taglio dell'orecchietta sinistra?» «Ascolta!» esclamai di nuovo, irrigidendomi sulla sedia. Stavolta, tutti e due udimmo un suono. E noi eravamo soli nel laboratorio, soli su tutto il piano dell'edificio. Qualcuno parlava con voce profonda, ma la voce pareva provenire da una certa distanza, fuori dello stabile, o da qualche volta sotto l'edificio. Eppure vi affiorava una tonalità terrificante, nell'immobilità che ci circondava. E alla voce faceva eco un altro suono, uno scalpiccio confuso e indistinto, morbido eppure perfettamente chiaro, come se numerose persone corressero a piedi scalzi su un duro pavimento. «Lo senti?» domandai. Elson mi rispose con un cenno affermativo. «Lo sento. Ma dov'è? E che cos'è?» Mi alzai e mossi lentamente verso la porta che dava nella sala delle vasche. Appoggiai l'orecchio contro il metallo. Poi, mentre mi giravo a guardare Elson, sentii che mi si svuotavano le vene. Socchiusi le labbra tremanti per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono. Avevo udito qualcosa, là dentro; misteriosi rumori che venivano da dietro la porta che immetteva nella sala dove si imbalsamavano i cadaveri. Elson stava venendo verso di me, ma io gli feci cenno di star lontano. Finalmente, riuscii a parlare, con una voce strozzata dall'orrore, rendendomi conto dell'impressione grottesca che dovevo fare su Stan. «È là dentro! I cadaveri. Qualcuno parla e cammina a piedi nudi!»
Mi allontanai dalla porta, respirando pesantemente. «Chiamiamo il custode», suggerì Elson. «Vado a cercarlo. Qualcuno dovrebbe esserci, giù.» «No, no!» mormorai, scuotendo la testa. «Nessun altro, Stan. Nessuno ci crederebbe e inoltre, credo che potremo cavarcela meglio da soli.» «Che cosa vuoi dire?» «Nessun altro sa del dottor Brock e di quella monografia.» Elson fece un gesto ansioso con la testa. «Che cosa dobbiamo fare?» domandò. «Andremo a dare un'occhiata in quella stanza, ma di qualsiasi cosa si tratti, nessuno deve vederci o sapere che siamo qui. Perciò non possiamo entrare dalla porta.» «C'è un'altra sala di anatomia, al piano superiore, proprio sopra la sala delle imbalsamazioni. Nel pavimento c'è una specie di pannello. Forse potremmo guardare di là.» «Hai una lampadina tascabile, Stan?» «Nel mio armadietto.» Elson andò presso il suo armadietto e ne levò la lampadina tascabile che vi teneva. Alla fioca luce della lampadina, ci facemmo strada nel corridoio immerso nell'oscurità, su per l'ampia scalinata. I rumori che avevamo sentito nel laboratorio ora non si sentivano più, ma quando arrivammo al piano superiore e attraversammo la porta della sala di anatomia, restando in piedi e immobili sopra la stanza dei cadaveri, riudimmo la voce bassa e profonda. Ora, però, lo scalpiccio di piedi nudi era cessato. Proiettai il fascio di luce della lampadina sul pavimento e lo diressi lentamente verso il centro della stanza; entro il suo raggio, scorgemmo il pannello. Avanzammo silenziosi e ci inginocchiammo accanto al riquadro nel pavimento. Ora la voce saliva chiara; e più distinta diventava, più misteriosa risuonava, una voce sepolcrale eppure con certe tonalità metalliche che ci agghiacciavano per l'orrore. La voce diceva qualcosa che noi non riuscivamo a capire; di tanto in tanto, altre voci rispondevano in coro. Posai la lampadina sul pavimento e tutti e due prememmo l'orecchio sul pannello. Sebbene non tutte le parole ci giungessero distinte, tuttavia, qualcuna saliva fino a noi: «...contaminati, sfigurati. C'è voluto tanto tempo perché tornassi, ma alla fine sono venuto. Altri attendevano di sentire il mio richiamo: un tempo l'hanno sentito anche loro, come lo sentite voi ora. Stanotte avete saggiato la vostra forza, avete provato i vostri arti e li avete trovati inerti... Alcuni hanno dubitato, ma sono morti. Il nostro scopo falli-
rà se io me ne andrò, poiché in me sta il potere che vi farà risorgere». «Questa è pazzia!» mormorò Elson, con il viso bianco come un cencio. «Non è pazzia», sussurrai. «È molto peggio: è magia, magia nera!» La voce profonda sotto di noi proseguì: «In tutta Europa hanno sentito il mio tocco, e ora aspettano il segnale che io trasmetterò attraverso lo spazio... e allora tutti risorgeranno in gran numero e distruggeranno ogni cosa, e la morte non avrà più alcun potere contro di loro». Le mie dita strisciarono silenziosamente sopra il pannello, cercando di aprirlo. La fessura nel pavimento si allargò di qualche centimetro; allora tutti e due avvicinammo la testa all'apertura. Dalla stanza sottostante saliva un balbettio eccitato; alla pallida luce della torcia che si rifletteva sulla superficie della sala delle imbalsamazioni, vedemmo una folla di corpi nudi e gocciolanti che si chinavano in avanti, accalcandosi intorno a una figura completamente vestita, ritta nel mezzo. L'uomo vestito di tutto punto era il dottor Septimus Brock e gli altri... gli altri erano i cadaveri che fino a poco prima fluttuavano nelle vasche, ora vuote! «Spegni quella lampadina!» sussurrai. Le dita di Elson si chiusero sulla lampada tascabile, che scivolò e cadde sul pavimento con un tonfo sordo. In quello stesso istante, Septimus Brock si alzò con un gesto improvviso e i suoi occhi vitrei si fissarono verso l'alto, mentre un braccio sollevato a metà gli copriva il viso. Ci tirammo indietro di colpo. Ci aveva visti? La luce era spenta, ora, e io riavvicinai rapidamente il pannello. Ci alzammo in piedi, e senza far rumore scivolammo fuori dalla stanza; al palli do riflesso della lampadina ci facemmo strada giù per le scale, fino al nostro laboratorio. Raccogliemmo i libretti degli appunti e uscimmo nella strada. Nessuno dei due parlò finché non fummo in Langdon Street. «Non ho capito esattamente a che cosa miri», osservò Elson. «Aspetta», risposi. «Il volumetto lo dice. Te lo farò vedere.» Quando fummo di nuovo nella mia camera, presi la monografia e rivolgendomi al mio compagno, cominciai a spiegare. «La sua teoria fondamentale è che lui possiede un potere che gli permette di animare i morti per suo uso personale, e contro questi corpi ogni arma comune è inutile. Credo che si tratti di un potere ipnotico autoindotto con l'aiuto della stregoneria, di cui Brock è stato appassionato studioso. La sua intenzione è semplicemente quella di organizzare i morti di tutto il mondo (e quale posto più adatto di un laboratorio d'anatomia per reclutare dei ca-
daveri?), ma prima di tutto gli occorre stabilire un contatto con loro, altrimenti il suo potere non avrà nessun valore. Ecco perché ha impiegato tanto tempo, tanti anni dalla sua fuga dal manicomio. Brock aspetta solo il giorno in cui i morti si leveranno contro i vivi, il giorno in cui potrà mandarli nel mondo per distruggerlo, grazie a questo suo potere.» «Ma il motivo?» insisté Elson. «È pazzo, pazzo da legare!» «Esiste anche il motivo», continuai. Tutto mi appariva chiaro, ora, e i miei pensieri seguivano un filo ben definito, dopo l'ultimo, tremendo choc che avevo ricevuto nel laboratorio. «Gli uomini mi hanno chiamato pazzo», lessi dalla monografia. «Anche ora, certuni pensano di rinchiudermi in un manicomio. Lo so perfettamente. E io aspetto, perché la mia vendetta sulla società sarà ancor più terribile, più tremenda, a causa di questa ingiustizia che mi brucia nel petto. Sicuro, perché io, Septimus Brock, ho il potere di dar vita ai morti. Li farò risuscitare e verrà il giorno in cui loro si leveranno contro la società che ha sempre considerato il mio lavoro come quello di un pazzo, contro la società che ha mutilato e sfigurato coloro che sono morti!» «Mio Dio!» mormorò Elson con voce strozzata, afferrandomi il braccio. «Il modo con cui mi ha guardato ieri, quando ho tagliato la lingua di quel cadavere! Il modo con cui mi ha guardato!» Il mattino dopo, fui svegliato da qualcuno che mi scuoteva energicamente. «Sei sveglio, Valens?» stava dicendo una voce. Mi tirai su sbadigliando e risposi con un cenno affermativo. Era Stan. Che continuava a parlare. «Ricordi ieri mattina, Valens? Il bidello... Septimus Brock?» Annuii di nuovo, senza capire del tutto. Poi presi il giornale che Elson mi porgeva e vidi che si trattava dell'edizione del mattino del Cardinal. Nella pagina interna, Stan aveva segnato a matita un piccolo trafiletto. «Ci è stato comunicato che Henry Peterson, un bidello della facoltà di scienze, ieri sera non è rientrato a casa. Le indagini condotte finora non hanno dato alcun risultato. Chiunque abbia notizie di Henry Peterson è pregato vivamente di mettersi subito in comunicazione con John Peterson, attraverso il Cardinal.» Elson mi lanciò una lunga occhiata con fare interrogativo. «Era Peterson il bidello che ha accompagnato Brock, ieri mattina», dissi in fretta. «Peterson è entrato nella sala delle imbalsamazioni. Ne è uscito?»
Elson scosse la testa. «Io non l'ho visto.» «Io neppure.» Presi di nuovo il giornale e rilessi il trafiletto. «E non ho visto uscire neanche Brock», soggiunsi. Elson si agitò nervosamente. «Valens, abbiamo realmente visto qualcosa, nella sala dei cadaveri, stanotte? Oppure pensi che sia stato solo la nostra immaginazione?» Lo guardai fisso. «Tu, cosa credi?» Balzai dal letto prima che avesse il tempo di rispondere e cominciai a vestirmi, lasciando Elson a bocca spalancata presso la scrivania. Mi girai bruscamente verso il mio amico e dissi: «Ascolta, Stan, stamattina io non vengo al laboratorio. Ho qualcosa da fare, qualcosa di più importante». «Posso sapere che cosa?» Dovevo dirlo a Elson? Decisi di metterlo al corrente della mia idea. «Solo un proiettile d'argento ha potere contro la magia nera, ho scoperto», spiegai, cercando di parlare con voce indifferente. «Sono proprio curioso di sapere se una pallottola d'argento potrebbe essere efficace sul corpo del dottor Brock.» Me ne andai, prima che Elson potesse rispondermi. Quella sera, era abbastanza tardi quando ritornai nella mia camera e trovai il biglietto che Elson vi aveva lasciato. Presi il foglietto e lessi: «Brock è venuto al laboratorio anche stamattina. Il dottor Montague mi ha detto che l'amico ha chiesto di noi, specialmente dello 'studente che ieri aveva tagliato quella lingua'. Chiamami appena ritorni.» Lessi il biglietto una seconda volta e subito la mia mano si sollevò quasi senza volerlo a sfiorare la tasca della giacca, come per accarezzare la pistola che vi era nascosta. Poi andai al telefono e composi il numero di Elson. Mi rispose una strana voce, che non era quella di Stan. «Sei tu, Asham?» domandai. «Sì. Chi parla?» «Valens. Dov'è Stan?» «È uscito dopo aver ricevuto il tuo biglietto.» «Il mio biglietto?» ripetei, stupito. «Quale biglietto? Scusa, vuoi ripetere, Asham?» «Ho detto che è uscito dopo aver ricevuto il tuo biglietto. Aspetta un momento.» Seguì un rumore che indicava come Asham avesse posato la cornetta ac-
canto all'apparecchio. Cos'era questa storia del biglietto? Buon Dio, forse... di colpo, ricordai qualcosa che avevo udito durante quel monologo irreale, laggiù nella sala dei cadaveri, la sera prima. 'Certuni hanno dubitato e sono morti!' In quello stesso momento, Asham tornò all'apparecchio per leggermi il biglietto: «'Stan, vieni subito nella sala numero 5 della Science Hall. Ho scoperto qualcosa.' Non sei stato tu a mandare questo biglietto, Valens?» mi stava chiedendo Asham. «In fondo, al posto della firma, c'è una V.» «Di solito, firmo sempre così i biglietti che lascio per Stan», risposi. «Ma stasera non gli ho lasciato nessun messaggio. Sei sicuro che sia arrivato stasera?» «Sicurissimo. Ehi, Valens, qualcosa non va? Anche Stan si comportava in modo strano e ho pensato che forse... Be', lo sai, uno non può fare a meno di avere dei brutti pensieri, no?» Lasciai cadere il ricevitore e spinsi lontano l'apparecchio. Non c'era tempo da perdere. Qualcosa di brutto era successo. Corsi fuori e mi avviai a passo rapido lungo la Langdon Street, verso la Science Hall. L'atrio era buio; solo un pallido riflesso usciva dalla finestra del laboratorio numero 5. Scivolai silenziosamente nell'edificio, mi fermai un secondo per ascoltare eventuali rumori, e non sentendone alcuno, salii rapidamente le scale, una rampa, due, trattenendo il respiro ad ogni scricchiolio. Non c'era luce nel corridoio, all'ultimo piano. Mi fermai incerto. Dovevo andare avanti? Non potevo sapere che cosa avrei trovato. La presenza della pistola nella tasca e il ricordo del proiettile d'argento mi rassicurarono. Andai avanti. Una figura scura si eresse improvvisamente accanto alla porta della sala 5. Per un attimo, mi tirai indietro, prima di proseguire. Era Elson. Allora avanzai rapidamente. «Stan», sussurrai. «Grazie a Dio stai bene! Che c'è?» Elson non rispose. Si mise un dito sulle labbra, indicandomi di far silenzio. Mi avvicinai. «Non è successo niente, vero?» chiesi, mentre il dubbio mi riassaliva ancora una volta. Elson agitò una mano, per indicarmi nuovamente di non parlare, il dito premuto sulle labbra incolori. D'un tratto, il terrore m'assalì. Feci scivolare la mano in tasca, sfiorando la pistola. Il viso di Elson era pallidissimo, gli occhi vitrei in modo innaturale, privi d'espressione, come se il mio amico fosse agghiacciato dall'orrore. Poi, con gesto improvviso, Stan posò la mano sulla maniglia della porta
e con la testa mi fece cenno di precederlo. Senza distogliere gli occhi dal suo volto, e camminando di fianco, entrai dalla porta socchiusa. Fu allora, quando avevo appena oltrepassato la soglia, che attraverso le labbra semiaperte di Elson, notai una cavità che mi riportò alla mente la visione terrificante di un cadavere senza lingua, di due occhi dallo sguardo feroce che fissavano Elson da sotto una massa di capelli bianchi e un vecchio berretto di castoro. Dio, che cosa era accaduto a Elson... alla sua lingua? Messo istintivamente in allarme, mi girai di scatto. Davanti a me vidi ciò che pareva essere un'interminabile moltitudine di cadaveri, e in testa un'alta figura vestita di una lunga finanziera: il dottor Brock. Allora compresi. Avevano attirato il mio amico lassù per punirlo di aver mutilato un cadavere, per fare di lui un esempio da mostrare al mondo. Dunque Elson... non era vivo, eppure camminava. Avvertii un lento movimento verso di me, poi Brock, sorridendo di un sorriso maligno, mi sibilò qualcosa. Sentii che la figura che era stato il corpo di Elson avanzava alle mie spalle, e nello stesso istante feci un balzo avanti, afferrando il polso del morto vivente che mi stava di fronte. Contemporaneamente, premetti il grilletto della pistola attraverso la tasca della giacca e come in un lampo, notai l'espressione di terrore agghiacciante su quel viso di cadavere sogghignante che teneva gli occhi fissi su di me. In mezzo ai tonfi dei corpi che cadevano, si levò un rumor di passi che salivano le scale di corsa. Poi non capii più nulla e mi lasciai affondare nell'opprimente oscurità che mi schiacciava da ogni parte. Aprii gli occhi e fissai il volto sorridente del dottor Montague, chino sul letto in cui giacevo. All'orecchio, mi giungeva una voce, la mia stessa voce da un'infinita distanza. «... l'hanno attirato lassù, per ucciderlo. Gli hanno levato l'anima dal corpo con la loro magia. La magia nera di Brock... Ma ora non sorgeranno mai più, mai più! Quella moltitudine infernale... e lui è morto per sempre.» Notai l'espressione d'ansietà sul viso del dottor Montague. Poi, improvvisamente, mi giunse la sua voce, che si rivolgeva a qualcun altro. «Datemi il giornale, per favore. Voglio vedere se gli provoca qualche reazione.» Conoscevo il dottor Montague e volevo dirgli: «Salve, dottore», ma non so perché, non ci riuscivo. Mi tennero un giornale davanti agli occhi, ma per me non aveva nessun significato. Niente. E di nuovo, udii la mia voce, più distinta ora, leggermente stridula, che tentava di raccontare ciò che era successo in maniera coerente. Credevo di aver parlato in modo abbastanza
chiaro, ma evidentemente m'era uscito di bocca soltanto un balbettio incomprensibile. Oppure no? Rimasi quattro giorni in quell'ospedale, quattro giorni durante i quali il mio cervello sembrava scoppiare per ciò che sapevo, mentre la mia lingua si rifiutava di parlare, nonostante il terribile desiderio di raccontare ogni cosa. Finalmente mi mandarono a casa. Ma anche ora, dicono che sono pazzo; eppure non hanno mai cercato di spiegarmi che cosa era accaduto. Neppure i giornali. I cadaveri erano stati spostati, dicevano i giornali; ma di certo, nessuno sapeva che i cadaveri erano usciti tutti dalle vasche, che erano tutti in piedi nel laboratorio numero 5, prima che venissero ritrovati sul pavimento. L'avevano visto, tutto questo? E perché non avevano spiegato il ritrovamento del cadavere di Henry Peterson, privo dei suoi abiti, in mezzo agli altri? Avevano parlato del rinvenimento del corpo di Stan, con la lingua mutilata. Come erano stati uccisi, nessuno lo sapeva. Non c'erano tracce di ferite esterne. Asham mi aveva seguito e mi aveva trovato lassù, dicevano i giornali: farneticavo come un matto, impugnavo una pistola da cui mancava un colpo; e, conficcato in uno dei tavoli, era stato ritrovato un proiettile d'argento. Perché nessuno aveva dato un significato a quel proiettile d'argento? E perché, soprattutto, non avevano dato nessun peso ai fatti? La polvere scura sul pavimento vicino a me, l'odore di decomposizione, i filacci di un vecchio abito, i resti di un paio d'occhiali di foggia antiquata, con la montatura quadrata, i frammenti di un vecchio ombrello verde, e infine, la prova conclusiva nella mia stessa mano, stretta convulsamente nel delirio, le ossa di un polso e di una mano che erano troppo vecchie per provenire dal laboratorio! «CHE VUOI, SPIRITO INQUIETO?» di Harold Lawlor Che vuoi, spirito inquieto, che nel chiarore della luna attiri i miei passi e mi additi la radura solitaria? POPE: Alla memoria di una signora infelice. Non molto tempo fa mi capitò di rileggere questi versi, e subito pensai che avrebbero potuto esser stati ispirati da Sharon Powell, compreso il tito-
lo. Non ho mai raccontato ciò che sapevo allora; anzi, per la verità, spesso mi sono chiesto che cosa sapessi, in realtà. Ora lo racconto quasi in una forma di catarsi mentale, affinché la mia mente, stanca di inutili congetture, possa finalmente rasserenarsi e concentrarsi su altri interessi. Ricordo che era una notte straordinariamente calda per essere solo il principio di maggio, la notte in cui il terrore colpì per la prima volta Ballard Powell. Ho pensato spesso che sarebbe stata assai più appropriata una notte tempestosa, con lampi, tuoni e scrosci di pioggia. E invece era una notte singolarmente serena e limpida, a dispetto di ciò che accadde in seguito. Avevo riportato Powell a Lake Forest da un concerto in città, e dopo averlo lasciato alla porta della sua immensa casa, avevo parcheggiato la macchina in garage e m'ero arrampicato su per la ripida scaletta che portava all'appartamentino di tre stanze che costituiva il mio alloggio di autistagiardiniere. Salendo le scale, m'asciugavo il sudore dalla fronte dopo essermi tolto il pesante berretto a visiera. Quando fui in casa, non persi tempo a levarmi la giacca di gabardine e la camicia. Faceva troppo caldo per lavorare al romanzo che costituiva il motivo principale per cui avevo accettato quell'impiego, dopo aver lasciato il college, l'anno precedente. Infatti lo stipendio, il vitto e l'alloggio erano abbastanza buoni, e poiché i Powell conducevano una vita piuttosto tranquilla, il lavoro mi lasciava tempo sufficiente per scrivere. Ma quella sera non mi andava di scrivere. Accesi la radio, mettendo il volume al minimo, e mi lasciai cadere sul divano con un sospiro, così come mi trovavo, in mutande e canottiera. Me ne stavo sdraiato, con l'idea di riposare solo un momento, con il vento che entrava a calde folate dalla finestra aperta, ma a un certo punto mi lasciai prendere dalla sonnolenza. Era passata da poco mezzanotte quando cominciarono a rimbombare i colpi sordi alla porta, sebbene non avessi sentito niente che li annunciasse. Ma ora qualcuno stava martellando la porta a pianterreno, e picchiava disperatamente sull'uscio di legno con tutti e due i pugni, a giudicare dal fracasso che saliva. L'urgenza che intuivo dietro quel martellare frenetico mi fece balzare in piedi di colpo, perfettamente sveglio. Mi precipitai giù per le scale con il cuore che mi batteva forte e aprii la porta. Ballard Powell mi cadde quasi addosso, gli occhi dilatati dal terrore, la testa girata sopra la spalla come se volesse guardare qualcosa nel giardino che si stendeva fra il garage e la grande casa, qualcosa che lo inseguiva inesorabile.
«Sprangate la porta!» balbettò con voce rauca. Non aspettò neppure di vedere se l'obbedivo, ma si arrampicò barcollando su per le scale fino al mio appartamentino come se il 'qualcosa' gli fosse tuttora alle calcagna. Non avevo visto niente nel giardino illuminato dalla luna, nel breve istante in cui avevo socchiuso la porta, ma non persi tempo e sprangai rapidamente l'uscio per seguire il mio principale al piano superiore. Ballard Powell si era lasciato cadere sul divano. Il respiro ansante gli usciva come un sibilo dai polmoni congestionati. Aveva il viso bagnato di sudore, ma lui non fece un solo gesto per asciugarselo. M'era difficile credere che quella figura scarmigliata e tremante fosse Ballard Powell. Era un uomo alto e snello, con gli occhi scuri, le tempie spruzzate di grigio, sui quarantacinque anni. Freddo, controllato, per niente emotivo, Powell in passato aveva sempre considerato tutto ciò che lo circondava con gelido distacco. «Che cosa è successo?» domandai. Lui scosse la testa. Non aveva ancora ripreso fiato per rispondere. Esitai un momento, poi andai presso la credenza e gli preparai un whisky, anche se temevo che lui non avrebbe approvato il fatto che il suo autista tenesse in casa dei liquori. Ma Ballard Powell non fece alcuna osservazione; si limitò a prendere il bicchiere con mano tremante e ne ingollò il contenuto con una sorsata sola, poi si umettò ancora le labbra improvvisamente e mi guardò senza espressione. «Che cosa è successo?» tornai a chiedergli. «Che cosa vi ha spaventato così?» Lui abbassò gli occhi, eludendo il mio sguardo. «Niente», borbottò. Niente! Lo guardai incredulo. «Cioè, ho creduto di aver udito qualcosa». Si asciugò il viso con un immacolato fazzoletto di lino, si raddrizzò la cravatta con mano tremante e mi sorrise debolmente. «Ma naturalmente non ho udito niente», mormorò quasi a se stesso. «Non è possibile. Sarebbe assurdo!» Tuttavia, non aveva il coraggio di guardarmi negli occhi, e questo mi stupì. Dava l'impressione di un uomo che cercasse di convincere se stesso: Powell 'non voleva credere' di aver sentito, qualunque cosa lo avesse impressionato a quel modo. «Ma cos'è che avete creduto di sentire?» insistetti. «Vi ho detto che 'non posso' aver sentito niente!» ribatté lui, irritato.
Ormai aveva ripreso il controllo e la fredda occhiata che mi lanciò voleva ricordarmi, lo capivo, che io ero soltanto il suo autista e pertanto non dovevo prendermi la libertà di tempestarlo di domande imbarazzanti. Mi strinsi leggermente nelle spalle. Dopo tutto, se Powell aveva deciso che 'niente' l'aveva spaventato al punto da farlo quasi impazzire di paura, non era affar mio. Perciò mi limitai a chiedergli: «Volete che vi accompagni a casa, signore?» Lui esitò. Credo che dapprima volesse rifiutare, essendomi ormai convinto che le sue paure erano infondate; ma alla fine, forse per ricordo del terrore di poco prima, acconsentì. «Be', forse sarà meglio, se non vi dispiace, Haines.» M'infilai una giacca leggera e insieme ci avviammo lungo il viale asfaltato che portava alla casa padronale. I giardini erano molto vasti, ben tenuti e cosparsi di cespugli lussureggianti. Per precauzione presi una lampadina tascabile da una delle vetture parcheggiate in garage, sebbene la notte fosse chiara e ci si vedesse perfettamente. A metà strada, Powell si lasciò sfuggire una risatina. «Mi dispiace di essermi lasciato prendere dai nervi. Devo avervi spaventato. A dir la verità, vi confesso che ho creduto di sentire un ladro nel giardino.» Sentivo i suoi occhi fissi su di me, quasi volesse studiare l'effetto delle sue parole. «Dopo che vi avrò accompagnato a casa, farò un giro in giardino e frugherò fra i cespugli», dissi. Ma non credevo una parola della ritardata spiegazione di Powell. Aveva avuto il tempo d'imbastire la sua storiella con la quale sperava di convincermi. Sapevo con certezza che Powell non era fisicamente un codardo e mi pare di ricordare di aver pensato, anche allora, che doveva esser stato qualcosa di più di un ladro a costringerlo a precipitarsi nel mio modesto alloggio sopra il garage, in uno stato di cieco terrore. Ma queste forse sono supposizioni sorte dopo l'avvenimento. Il viale curvava intorno agli alloggi della servitù e terminava, a sud, davanti a una grande terrazza di pietra sulla quale si aprivano le portefinestre del soggiorno. Fu mentre ci avvicinavamo alla scalinata della terrazza che l'udii. L'udì anche Powell. Deve averlo sentito. Ma credo che fingesse di non aver sentito niente, perché seguitò a camminare. Con fare ostinato. Deciso a proseguire, se io non davo cenno di aver sentito qualcosa. Forse pensava che si trattasse solo di uno scherzo della sua immaginazione.
Capisco ora quanto disperatamente deve averlo sperato! Ma io gli afferrai il braccio e sussurrai: «Ascoltate!» Fu sufficiente. Lui non riuscì a fingere oltre, neppure con se stesso. Impallidì e con voce rotta dalla disperazione sussurrò: «Oh, Dio! Lo sentite anche voi?» Gli risposi con un cenno affermativo; in quel momento m'interessava più il suono che veniva dalla terrazza che le reazioni di Ballard Powell. Usciva dal soggiorno. Un canto. Il canto che avevo ascoltato dozzine di volte ai funerali. Una donna con una morbida voce da contralto e stranamente familiare, cantava sottovoce Beautiful Isle of Somewhere. Ma c'era una nota lugubre in quel canto che usciva come ovattato dalla sala buia. Un brivido mi serpeggiò la schiena. Powell se ne stava quasi piegato in due, come uno che avesse ricevuto un pugno al plesso solare. «Io... io non posso andare avanti.» «Aspettate qui», dissi. Salii silenziosamente la scalinata di pietra, attraversai la terrazza, spinsi la portafinestra e mi fermai sulla soglia. La stanza era avvolta nella più completa oscurità, ma io ero già stato nella casa parecchie volte e sapevo dov'era il pianoforte: contro la lunga parete di fronte al caminetto. Puntai la lampadina tascabile verso il punto in cui sapevo si trovava il pianoforte e l'accesi. Il fascio di luce cadde sopra la tastiera. Che si muoveva. 'Qualcuno' stava suonando il piano, poiché vedevo i tasti che si abbassavano e si alzavano. E la voce seguitava a cantare. Ma nessuno era seduto sulla panchetta davanti al pianoforte! Frugai la stanza con il fascio di luce. «Chi è là?» dissi a voce alta e abbastanza scioccamente. Ora vedevo perfettamente che non c'era nessuno al pianoforte, nessuno nella sala. E naturalmente, non ricevetti alcuna risposta. La voce continuò a cantare indisturbata. E allora compresi. E un terrore superstizioso mi strinse la gola in una morsa. Rimasi immobile ad ascoltare, rabbrividendo. Era come se qualcuno mi facesse scorrere unghiate di ghiaccio proprio sulla spina dorsale. Ora capivo perché quella voce m'era parsa tanto familiare! L'avevo riconosciuta, ormai. E tale scoperta mi fece indietreggiare dalla sala, finché riattraversai la terrazza, ridiscesi la scalinata per ritrovarmi al fianco di Powell. Per fortuna, quando lo raggiunsi il canto cessò. «Quella voce!» sussurrai. «Era la signora Powell che cantava. Vi assicu-
ro che era la signora Powell!» Mi aspettavo che lui negasse. Mi augurai che negasse. Ma Powell si limitò a esclamare con voce quieta: «Oh, Dio!» Il suo viso, nel chiarore della luna, appariva livido di terrore. «Ma lei è morta. Lo sapete quanto me, che Sharon è morta da sei mesi.» Annuii con un gesto meccanico, sentendomi profondamente turbato. Che potevo dire? Era vero. Sharon Powell era morta da sei mesi, eppure la voce che avevamo udito era la sua. Vi affiorava una tonalità bassa e rauca, diversa dalle altre, una voce che una volta sentita non si poteva dimenticare. Ero sconvolto. Tengo a precisare che non sono dotato di uno spirito mistico. Sono convinto che quando uno è morto, è morto davvero. La sua vita è chiusa. Non sono d'accordo con gli spiritisti secondo i quali l'anima, lo spirito, l'essenza o come volete chiamarla, possa ritornare richiamata da un colpo di tavolino in una seduta spiritica, né possa mettersi a suonare le campane o indulgere a qualsiasi altra forma del genere. E se queste mie parole possono sembrare eccessivamente dure, è perché il caso Powell, dall'inizio alla fine, ebbe il potere di far vacillare ogni principio delle mie convinzioni. Pure 'dovevo' credere a ciò che vedevo con i miei occhi e a ciò che udivo con le mie orecchie! Powell mi riportò al presente afferrandomi convulsamente per un braccio. «Io... io non posso entrare.» Mi guardò con aria di sfida e soggiunse: «Chiamatemi pure codardo, se volete, ma io non posso entrare in quella casa. Passerò la notte da voi». Dio sa se potevo biasimarlo. Insieme, ripercorremmo il viale e ritornammo nel mio piccolo appartamento. E qui successe un fatto strano. Chiunque potrebbe pensare che avremmo passato il resto della notte a fare supposizioni e congetture, a chiederci che cosa poteva essere il fenomeno che avevamo visto e sentito. E invece no. Cedetti a Powell la mia camera da letto e dormii sul divano del soggiorno. Senza dire una sola parola su quanto era accaduto! Qualcosa nell'atteggiamento di Powell, una specie di cauto riserbo, mi impedì assolutamente di porgli qualsiasi domanda. Avevo la spiacevole impressione che, mentre la faccenda restava un mistero per me, Powell, al contrario, doveva saperne qualcosa, doveva essere a conoscenza di qualche particolare segreto che l'avrebbe aiutato a spiegare il mistero, se l'avesse voluto.
Ma lui non parlò. Il mattino portò con sé una sensazione d'irrealtà. Come se avessi sognato gli avvenimenti della notte precedente. Per cominciare, Ballard Powell non era nel mio alloggio, quando mi svegliai. Poco dopo l'alba, doveva aver ripreso coraggio sufficiente per andarsene e ritornare alla grande casa. Sarei arrivato a dubitare che era rimasto con me se non fosse stato per il letto sfatto: una prova che doveva aver trascorso una notte piuttosto insonne e agitata. Ma non avevo tempo per le congetture. Il mistero è per le ore della notte. Con il mattino, cominciano i doveri quotidiani, le mille faccende della vita. Alle otto e trenta portai la macchina davanti alla porta d'ingresso, come di consueto, pronto a condurre Powell in città. Il mio principale era consulente finanziario con uffici in La Salle Street, e sebbene con la morte della signora Powell fosse stato dichiarato erede universale di un ingente patrimonio, tuttavia seguitava a recarsi puntualmente in ufficio tutte le mattine. Quando uscì dalla porta principale della grande casa, sembrava avere il solito aspetto, a eccezione di un certo imbarazzo che mi parve di notare nel suo sguardo. Non fece alcuna allusione alla notte precedente, e io decisi che tutto sommato, non spettava a me riparlare della questione. Se lui era riuscito a dimenticare completamente il canto misterioso, Dio sa se io ero deciso a non pensarci più! Suppongo che se la cosa fosse finita lì, gli strani avvenimenti della notte sarebbero stati relegati nel limbo delle cose dimenticate, poiché la mente umana è propensa a dimenticare tutto ciò che è spiacevole ricordare. Ma quel pomeriggio accadde un fatto nuovo. Powell era uscito dall'ufficio prima del solito, così erano solo le quattro passate da poco quando ritornammo a Lake Forest. Powell s'era portato a casa parecchi incartamenti e mi aveva pregato di portarglieli nel suo studio. Erano numerose cartellette e pesavano alquanto. Lui mi tenne aperta la porta poiché io avevo le mani occupate e mi seguì quasi subito, tanto che entrammo quasi insieme nel vestibolo principale. Notai immediatamente qualcosa d'insolito. Un intenso profumo di tuberose, i fiori dei morti. E poi vidi da dove veniva il profumo. Sopra un cavalletto, di fronte alla porta d'ingresso, c'era una grande corona di fiori, con una striscia di velo color lilla su cui spiccava una scritta a lettere in oro. Una corona funebre. O perlomeno, somigliava in modo inequivocabile a una corona funebre.
Ci fermammo di colpo non appena la vedemmo, poi spinti tutti e due dalla curiosità, ci avvicinammo al cavalletto. Non credo che al primo momento Powell fosse allarmato. O perlomeno, non mostrò di esserlo. Appariva semplicemente stupito e sconcertato alla vista di un così macabro omaggio floreale, sistemato nell'anticamera della sua casa. Ma quando si chinò per leggere la scritta, mi accorsi che gli mancava il respiro. La scritta diceva: «Al mio caro marito BALLARD POWELL. Requiescat in pace». Stupore, dapprima. Poi, quando compresi il significato delle parole, provai una sensazione terribile, come se una mano di ghiaccio mi serrasse il cuore. Oh, la cosa appariva inoffensiva, in sé: una semplice, innocente corona di fiori. Era il suo significato implicito che assumeva un aspetto terribile, come se Powell fosse... morto. O stesse per morire? Erano alternative che non lasciavano dubbi. Powell inghiottì due volte rumorosamente nel silenzio che ci avvolgeva, prima di essere in grado di ordinare con voce rauca: «Portate quella roba nell'inceneritore, Haines, e distruggetela immediatamente!» Il suo volto aveva il pallore del latte. Levò di tasca il fazzoletto per passarselo sulle labbra e io notai che erano bluastre e tremanti. Fu solo per un senso di umanità che osservai: «Deve trattarsi di uno scherzo idiota». Poi sollevai corona, cavalletto e velo lilla. Powell mi lanciò un'occhiata strana. E di nuovo provai l'impressione che nel suo intimo avesse dei sospetti. Tuttavia si limitò a dire: «Sì. Sì, certo. Dev'essere così». Non riuscivo a immaginare quale altra teoria potesse addurre per giustificare la misteriosa presenza di una corona che suggeriva la sua prossima morte. L'odore di funerale delle tuberose era opprimente, insopportabile. Tirai un sospiro di sollievo quando scaraventai la corona nel forno dei rifiuti e rimasi a guardarla finché non si trasformò in cenere grigia. Quando rientrai nella casa per vedere se Powell avesse bisogno di qualcosa, lo trovai in biblioteca che stava interrogando la signora Giddings, la governante. «È stata consegnata appena mezz'ora prima del vostro ritorno a casa, si-
gnor Powell», stava dicendo la donna quando entrai. «Ho firmato la ricevuta, ma temo di non aver fatto caso al nome del fioraio.» «Ma avrete pure provato una certa curiosità, quando avete visto cos'era e l'iscrizione sul velo, no?» chiese Powell in tono accusatore. «Non l'ho vista, signor Powell», si scusò la donna. «Non so ancora cos'era, tranne che si trattava di un omaggio floreale. Era avvolta in un foglio di carta da imballaggio e l'ho messa in anticamera con l'idea di rimuovere la carta prima del vostro arrivo. Ma voi siete tornato presto, e non ho fatto in tempo a toglierla.» «Qualcuno deve pure aver rimosso la carta!» «Nessuno può averlo fatto», obiettò la signora Giddings. «È il giorno di libertà delle cameriere e io sono rimasta sola in casa finché voi e Haines siete tornati.» Powell parve scosso di fronte a tale affermazione, ma alla fine congedò la donna. Quando la governante fu uscita, sedette con espressione sconcertata, mordicchiandosi il labbro inferiore. Attesi pazientemente qualche minuto, prima di chiedergli: «Avete bisogno di altro, signore?» Lui rispose con un gesto distratto della mano: «Niente, Haines». Quando uscii dalla biblioteca, trovai la signora Giddings che mi aspettava nell'anticamera di servizio. Mi chiamò con un cenno della mano e quando la raggiunsi mi trascinò nel suo studiolo, dietro lo scalone principale. Lasciai la porta socchiusa. «In questa casa sta succedendo qualcosa di molto strano», dichiarò la signora Giddings a bassa voce. Sollevai le sopracciglia con fare interrogativo. «Non ho osato mostrare anche questo al signor Powell», proseguì la signora Giddings. «L'ho trovato oggi pomeriggio sul tavolino accanto al suo letto.» 'Questo' era un antico bracciale d'oro di fattura etrusca con alcuni topazi incastonati nel gioiello. Lo tenni nel palmo della mano, non trovandovi alcun significato. «Era della signora Powell», spiegò la governante. «Il signor Powell gliel'aveva comperato in Italia, quando vi si trovavano in viaggio di nozze. Me l'ha detto lei stessa, una volta che stavo ammirando il bracciale.» «Be', non ci vedo niente di strano, se il bracciale era sul comodino da letto del signor Powell», osservai. «Senza dubbio l'ha preso per esaminarlo e l'ha lasciato là.»
«No. Non può essere», ribatté la, signora Giddings scuotendo la testa. «Vedete, il bracciale venne seppellito con lei!» «Che cosa?!» «Fatemi vedere quel braccialetto», intervenne una voce. La signora Giddings e io sobbalzammo con aria colpevole, assurda. Powell era in piedi sulla soglia. Mi prese il bracciale di mano e l'esaminò attentamente. «È il suo!» confermò alla fine. «L'aveva al braccio, quando l'hanno seppellita!» Rimase in piedi, fissando il gioiello. L'espressione del suo volto non è descrivibile: non vi si leggeva più il terrore, ma solo sorpresa, dubbio, collera e una specie di sfida ostinata. Contro chi o che cosa, non lo capivo. Pose fine ad ogni ulteriore commento da parte mia e della governante, poi rivolgendosi a me, disse seccamente: «So che è la vostra serata di libertà, Haines, ma desidero che restiate nel vostro alloggio. Non ho intenzione di uscire ma... ma vorrei trovarvi in casa, qualora avessi bisogno di voi». Risposi che sarei rimasto, naturalmente. Avevo deciso di lavorare al mio libro, perciò la richiesta di Powell non interferiva affatto con i miei progetti. Tuttavia, mi chiesi che cosa si aspettava che accadesse Powell quella sera, per aver bisogno di me. Solo nel mio minuscolo appartamento, mi accorsi di non avere nessuna voglia di lavorare al libro. Così trascorsi la serata a ripassare mentalmente tutto ciò che sapevo dei Powell, in particolare della signora Powell, morta sei mesi prima. Tentavo di trovare un indirizzo che spiegasse gli sconcertanti avvenimenti delle ultime ventiquattr'ore. In vita sua, Sharon Powell non aveva certo ispirato paura a nessuno. Quando ero entrato a lavorare nella casa, lei era una vivace, graziosa signora dagli occhi ansiosi. Ed era innamoratissima del marito, se non ero cieco. Tutto il denaro era suo (secondo i pettegolezzi della servitù) e Powell era più giovane di quasi cinque anni della moglie. Nondimeno, l'amore per il marito aveva trasformato Sharon al punto da concedergli carta bianca in ogni campo. Tre mesi dopo il mio arrivo, cominciarono i guai. La signora Powell prese a lagnarsi di udire certe voci misteriose, la notte quando restava sola nella sua camera. Più d'una volta chiamò Powell, ma lui dichiarò di non udire nessuna voce. Poi cominciò a smarrire gli oggetti, diventò smemo-
rata. La sua mente sembrava vacillare e questo la preoccupava disperatamente. Diventò sempre più magra, più silenziosa e malinconica. Finché io stesso, un estraneo, mi accorsi del cambiamento. Nonostante la freddezza naturale del suo carattere, Powell si comportò in modo ammirevole. Avrebbe potuto impazientirsi facilmente per le stravaganze della moglie, e invece cercò sempre di rassicurarla, di confortarla. Spesso mi capitò di sentirli discutere della cosa, in macchina. La signora Powell piangeva disperata, e lui faceva del suo meglio per consolarla. Ma cominciavo a intuire il dubbio, nella voce di lui, come se anche Powell temesse che sua moglie sarebbe diventata pazza, prima o poi. La crisi cruciale ebbe luogo quando la signora Powell rubò una spilla alla sua migliore amica. Tutto fu messo a tacere, ma i domestici scoprono sempre la verità, se lo vogliono. Il furto era avvenuto durante un ricevimento offerto da quell'amica, e i Powell erano stati invitati. Erano rientrati da poco, quando l'amica aveva telefonato per dire che la spilla era sparita. Più tardi, la signora Powell aveva lasciato cadere la borsetta e fra gli oggetti sparsi sul pavimento c'era la spilla scomparsa! Powell l'aveva raccolta da terra e aveva fissato la moglie con un'addolorata espressione d'accusa. La signora aveva affermato di non ricordare di averla presa. Isterismo, dunque. Povera piccola donna! Doveva esser stato il colpo finale. Perché quella notte stessa, lei si era uccisa. Nel suo biglietto d'addio, aveva scritto che ormai era convinta di diventar pazza e che non poteva sopportare un destino così orribile. Powell era apparso annientato dal dolore per la morte della moglie. Tutti si erano meravigliati che un uomo così controllato e riservato potesse crollare in maniera tanto evidente. Ricordo chiaramente un episodio che aveva avuto luogo al funerale, tanto più che ora il ricordo mi ritornava alla mente con sgradevole insistenza. La signora Powell aveva sempre amato le camelie rosa. Poco prima che chiudessero la cassa, Ballard Powell con gesto quasi timido, aveva posto una camelia rosa nella mano della morta. Era stato un gesto infinitamente commovente, la muta testimonianza di un amore e di un dolore troppo profondi per essere espressi con le parole. Ed ora qualcuno, per una ragione inspiegabile e crudele, si divertiva a richiamare alla mente di Powell il ricordo della moglie che aveva tanto amato. Per quale scopo? Vagliai i fatti che conoscevo e tentai di giungere a una qualsiasi conclusione intelligente.
Se era stato un burlone di cattivo gusto (cosa che sospettavo fortemente) a mandare la corona e a mettere il braccialetto sul comodino da notte (senza dubbio doveva trattarsi di un'imitazione del gioiello), perché l'aveva fatto? E chi poteva essere? La signora Powell non aveva parenti né amici intimi. E per quanto riguardava la voce di Sharon Powell che cantava Beautiful Isle of Somewhere... be', per questo non c'era una spiegazione razionale! La faccenda andava oltre la mia comprensione. Quella sera non feci che passeggiare su e giù per il mio alloggio, aspettandomi di sentir bussare alla porta, o di ricevere una chiamata urgente da Ballard Powell. Ma per quella notte non si verificarono altri incidenti. Senza dubbio vi renderete conto come non mi sia possibile sapere ciò che passava per la mente di Ballard Powell durante quelle ore della notte. Ma ad un certo punto, dovette prendere una decisione. Il mattino dopo, mentre mi sbarbavo, suonò il telefono. Era la signora Giddings che chiamava dalla casa padronale. «Il signor Powell mi prega di avvertirvi che oggi non andrà in ufficio, ma che desidera la macchina per l'una in punto.» Riappesi la cornetta con aria pensierosa. In un anno, dacché lavoravo con lui, non era mai successo che Powell non andasse in ufficio in un giorno feriale ad eccezione dei tre giorni per la morte della signora Powell. All'una, quando il mio principale uscì di casa, c'era in serbo una sorpresa per me. «Al cimitero, Haines», ordinò Powell. Non era sua abitudine compiere visite regolari al camposanto. Dopo il funerale, l'avevo accompagnato al cimitero una sola volta, poco prima di Natale. Powell aveva portato una corona da deporre davanti alla lastra di marmo dietro cui la signora Powell dormiva il suo ultimo, lungo sonno nella cappella di marmo nero e bronzo. Stavolta, però, non ci fermammo per comperare nessuna corona e al Decoration Day mancavano due settimane. Powell doveva avere un'altra ragione per quella visita improvvisa. A eccezione di alcuni guardiani occupati a raccogliere i residui dell'inverno, il cimitero era deserto, quando vi giungemmo. Fermai la macchina davanti alla cappella dei Powell, che si ergeva su un tratto di terreno triangolare, formato dai tre viali che lo bordeggiavano.
Powell scese, e prese di tasca il mazzo di chiavi della cappella. Ma quando ebbe infilato la chiave nella porta di bronzo e cristallo, esitò e rivolgendosi a me, che ero rimasto seduto al volante, disse: «Volete venire con me, Haines?» Mi accorsi che era molto nervoso e che non aveva il coraggio di entrare solo. Che cosa si aspettava di trovare? Alquanto stupito, scesi dalla macchina e salii i tre scalini. Allora lui aprì la porta ed entrammo insieme. L'aria era piuttosto viziata, naturalmente, nonostante i ventilatori, e la corona che avevamo deposto a Natale era ormai avvizzita. Ma con la porta aperta e la luce che entrava dalla finestra della parete opposta, l'atmosfera non sembrava troppo deprimente. Osservavo il mio principale con una certa curiosità. Powell si chinò sulla lastra di marmo a sinistra e vi fece scorrere le dita. Sulla lastra si leggeva un'iscrizione: SHARON POWELL Nata l'11 settembre 1894 Deceduta il 23 novembre 1946 Powell continuava a esaminare attentamente le venature del marmo. Le giunture di cemento erano ormai perfettamente asciutte e non erano state manomesse da quando la salma era stata tumulata, se era questo che cercava di scoprire. Guardai da un'altra parte. Nello stesso giorno in cui era stata scolpita l'iscrizione sulla tomba della moglie, Powell aveva fatto incidere anche la propria, sul sepolcro a destra. Come l'altra, diceva: BALLARD POWELL Nato il 12 giugno 1899 Deceduto........ con la data della morte in bianco, naturalmente. Mi sembrava piuttosto lugubre vedere quella scritta, ogni volta che uno si recava al cimitero; come se quella riga lasciata in bianco attendesse il giorno in cui sarebbe stata completata. E mi sembrava impossibile che uno non fosse costretto a pensare a quando sarebbe giunto quel giorno! Sapevo, tuttavia, che era un'usanza abbastanza comune, specialmente quando, co-
me nel caso di Powell, l'unico superstite di una famiglia non aveva discendenti o altri parenti che potessero assolvere al pietoso incarico, dopo la sua morte. Lo sguardo mi cadde sulla tomba di Powell: e subito m'irrigidii con un senso d'angoscia improvvisa. Senza accorgermene, dovetti emettere un suono strozzato, perché Powell si girò nervosamente. Prima ancora che potessi parlare o indicargli la pietra tombale, i suoi occhi vi si posarono per leggere la scritta. La riga incompleta sulla lastra di marmo era stata riempita! Deceduto il 16 maggio 1947 Ma... il sedici maggio era 'domani'! Sentivo i muscoli della schiena come paralizzati da un gelido orrore. Se la vista di quell'iscrizione produceva in me una tale sensazione, si può facilmente immaginare quale fosse la reazione di Powell. Infatti, si appoggiò alla parete, il corpo scosso da un tremito, gli occhi sbarrati, la gola che emetteva suoni inarticolati. Mi afferrò il braccio; sentivo le unghie penetrarmi nei muscoli. «Portatemi... portatemi via di qui», sussurrò con voce rauca. Gli passai un braccio sotto l'ascella e sebbene lui si appoggiasse a me come un peso morto, riuscii a fargli scendere i tre gradini e a farlo salire in macchina. Poi gli presi il mazzo di chiavi dalle dita inerti, chiusi la porta della cappella, gli restituii le chiavi e infine uscii dal cimitero a gran velocità. Quando arrivammo alla villa, Powell era ormai in grado di entrare in casa da solo. Ma vedevo che si trovava in stato di choc, com'era prevedibile. Di certo, non si era aspettato di trovare la propria tomba completa della sua data di morte. E appariva chiaro, ormai, qual era stata la ragione della sua visita al cimitero. Voleva assicurarsi che Sharon Powell fosse nella sua tomba! Perché era convinto che fosse lei a sferrare quei continui attacchi ai suoi nervi. Pur essendo di natura piuttosto scettica mi sentivo sempre più perplesso. Anche ammettendo che i morti 'potessero camminare', perché mai Sharon Powell sarebbe dovuta ritornare per torturare un marito che aveva amato e che l'amava di un affetto profondo, seppure inespresso? Ricordavo ancora l'ultimo, commovente gesto dell'uomo che posava una
camelia rosa fra le mani della morta. Quel pomeriggio non vidi più il mio principale, ma durante la notte la signora Giddings mi chiamò al telefono dalla casa padronale. Sembrava preoccupata e al suono della sua voce sentii balzarmi il cuore in gola. «Che cosa succede?» le domandai. Ma non si trattava di ciò che temevo. «Il signor Powell s'è chiuso in biblioteca, oggi pomeriggio, appena tornato a casa, e credo che stia bevendo esageratamente», annunciò la governante. «Appariva così strano, quando è rientrato che io... io ho paura. Forse sarebbe bene che veniste qui, Haines, e cercaste di convincerlo ad andare a letto.» «Va bene, vengo subito.» Come entrai in casa, andai a bussare alla porta della biblioteca, mentre la signora Giddings mi girava intorno ansiosamente. Nessuna risposta. «Faccio un giro all'esterno», dissi alla governante, «per vedere se la finestra è aperta.» Avevo paura di ciò che avrei potuto trovare nella biblioteca e non volevo aver fra i piedi donne in preda a svenimenti. «Voi, signora Giddings, sarà meglio che andiate in camera vostra. Il signor Powell probabilmente non desidera farsi vedere in quello stato.» Lei accolse prontamente il mio consiglio, ben contenta di evitare ogni sorpresa spiacevole. La finestra della biblioteca era aperta e dopo aver sollevato il telaio scorrevole, mi fu facile scavalcare il davanzale. Accesi una lampada e tirai un sospiro di sollievo. Powell non aveva compiuto il gesto insano che avevo temuto, conoscendo il suo stato di totale depressione. Era incolume. Se ne stava sprofondato in posizione scomposta nella poltrona di cuoio ed era ubriaco fradicio. Non appena sentì che c'era qualcuno nella stanza, si sollevò leggermente. Mi fissò con occhi vitrei, fece per alzarsi, ma quando mi riconobbe si lasciò ricadere nella poltrona, con espressione sollevata. «La signora Giddings ha pensato che avrei fatto bene a venire qui per aiutarvi ad andare a letto», spiegai, calmo. «Non voglio andare a letto.» Aveva parlato con voce abbastanza chiara, considerando il notevole quantitativo di liquore che doveva aver ingollato. Le bottiglie vuote sparse intorno a lui lo testimoniavano. «Ho paura.» «Paura?» Lui si passò il dito sul naso, un tipico gesto da ubriaco, e mi guardò con occhi inebetiti. «Haines, i morti camminano?»
Fui colto di sorpresa. «Credo... credo di no.» Poi mi resi conto a che cosa volesse alludere e mi affrettai a soggiungere in tono convinto: «Cioè, no, certo che non camminano!» Lui scosse la testa, con un'occhiata di rimprovero e mi disse: «Avete detto bene la prima volta, Haines. Camminano. Lo so. E vi dico che 'ho paura'!» Mi parve di tornare indietro di parecchi anni, quando mia nonna era morta e io ero un bambino, e avevo avuto paura a dormire nella stessa casa in cui c'era il cadavere, quei tre giorni prima del funerale. Non volevo andare a letto e dovevo aver trasmesso i miei timori anche a mia madre, poiché in quell'occasione mi disse qualcosa che non ho mai dimenticato: «Sono i vivi di cui devi aver paura, Donnie. I morti non fanno male a nessuno». Con voce esitante, ripetei una frase del genere. Powell scosse la testa con fare ostinato. «Ma se qualcuno ha fatto del male ai morti, prima?» Mi scoccò un'occhiata trionfante, poi parve afflosciarsi alle sue stesse parole. Mandò un gemito di disperazione e cominciò a singhiozzare con un pianto da ubriaco. «Non ci avevo mai pensato, Haines! Io l'ho fatto!» Le parole gli uscivano copiose nel sollievo della confessione. «Non ho mai pensato che lei si sarebbe uccisa, Dio m'è testimonio! Volevo solo farla impazzire, per ottenere il controllo assoluto del patrimonio. Sono stato io a installare il microfono nella sua camera da letto, a spostare gli oggetti, a rubare la spilla! Ma giuro che non avevo nessuna intenzione di spingerla a fare quello che ha fatto!» Sicché, Powell aveva spinto sua moglie alla morte? Ma io credevo che l'amasse! Mi scostai da lui con un gesto di disgusto. Era stata solo una finzione, la parte che aveva sostenuto, aveva calcolato ogni mossa, compresa quella camelia rosa che le aveva deposto fra le mani di cera per allontanare ogni eventuale sospetto, mentre il suo cuore doveva esultare al pensiero che lei se n'era andata, lasciandolo padrone assoluto di tutto, finalmente! Ora, però, era ridotto a uno straccio. Mi chiesi chi l'avesse sospettato fin dal principio. Chi cercava di ora in ora di distruggergli i nervi con tanta astuzia, per fargli seguire la stessa strada che aveva seguito sua moglie? Pareva incredibile che queste ultime quarantott'ore potessero disintegrare un uomo controllato come Ballard Powell. Quasi senza volerlo, mi sentii addolcire un poco, mentre lo guardavo. Ormai il male era fatto, e poi, chi ero io per giudicare? Quasi provavo pietà per quell'uomo, la stessa pietà che si prova per una lucertola mutilata, ma
pur sempre disgustosa. Così, fui io che gli suggerii: «Forse è solo questa casa che influisce sui vostri nervi. Perché non ve ne andate? Ora, stanotte. Venite, vi accompagnerò al vostro appartamento in città». Un ultimo dovere, poi me ne sarei andato. Non volevo più rivederlo. I suoi occhi persero la loro fissità, quando cercò di concentrarsi sulle mie parole. Poi prese ad annuire ripetutamente, con lenti cenni del capo. «Sì. Forse andrà meglio. Forse 'lei' non sarà laggiù.» Strana, quell'ostinazione nel sospettare che dietro a tutta la faccenda ci fosse Sharon Powell. Per la prima volta credetti di capire il significato di una massima: «Il colpevole fugge quando nessuno l'insegue». Poiché il suggerimento di rifugiarsi nell'appartamento di città partì da me, suppongo che mi si possa attribuire la colpa di quanto seguì; ma io sono propenso a credere che fu inevitabile. Il viaggio in città gli fece smaltire notevolmente la sbornia. Era passata mezzanotte quando ci fermammo davanti alla casa d'appartamenti in Laek Shore Drive, e Powell sembrava quasi normale. Quando scese dalla macchina evitò il mio sguardo e io compresi che si era già pentito di essersi confessato con me con una certa impulsività. Ne ebbi subito la conferma. «Se salite con me, Haines, vi farò un assegno per quanto vi spetta. I vostri servizi non sono più richiesti.» Sorrisi con fare sprezzante. Sapevo che lo faceva per salvaguardarsi, per controbattere un'eventuale accusa da parte mia, nel caso dovessi spifferare ciò che sapevo. Chi avrebbe creduto alla storia di un autista scontento che lui era stato costretto a licenziare? In silenzio, salimmo con l'ascensore fino all'ultimo piano. L'appartamento-studio di Powell era piccolo per quanto si riferiva al numero delle stanze, ma i locali erano molto vasti. Il soggiorno, poi, era immenso e dava l'impressione di maggiore spazio grazie al tappeto giallooro che andava da una parte all'altra. La parete a sud era completamente fatta di vetro e si affacciava sul parco e il lago sottostanti. Powell aprì la porta e fece scattare l'interruttore della luce. La stanza parve balzar fuori dall'oscurità, come un palcoscenico. Restammo immobili dov'eravamo, agghiacciati. Io non ce la facevo più! Ogni luce della sala pareva mettere a fuoco i contorni della «cosa» sistemata davanti al caminetto, al centro della parete.
Una bara. Di bronzo. Vuota. Orribilmente suggestiva con il suo interno libero, quasi attendesse pazientemente di essere riempita! Inghiottii, sentendomi la gola arida. Un suono che era qualcosa fra un gemito e un singhiozzo uscì dalle labbra di Powell. Poi silenzio, un silenzio pesante, opprimente, mentre una folata di gelo sembrava serpeggiare per tutto l'appartamento. Ma il terrore non era niente a confronto del modo in cui si comportava Powell. Sollevò la testa e cominciò a parlare, in un mormorio lugubre, soprannaturale. «Sei tu, Sharon? Sei qui? Ora lo sai che... sono stato io!» E in quello stesso istante, udii qualcosa. Dio! Non vorrei risentire niente di simile! Una voce di donna cominciò a cantare in sordina, con un rauco sussurro. «Più vicino a Te, mio Signore! Più vicino a Te!» Powell fissava con occhi selvaggi qualcosa sopra la mia spalla. Mi girai di scatto. Non so che cosa o chi stava fissando. Io non vidi niente. «No!» urlò Powell. Indietreggiò lentamente, lo sguardo allucinato fisso su un Orrore senza nome. Poi voltò le spalle alla cosa orribile che avanzava verso di lui e corse ciecamente attraverso la stanza, per lanciarsi a capofitto contro l'immensa finestra, in un fracasso assordante di vetri infranti. Notai il cielo scuro, la figura più scura che per un attimo si stagliò nello sfondo e corsi anch'io verso la finestra, le braccia tese, quasi non fosse troppo tardi per fermare ciò che purtroppo era già avvenuto. Come fui presso la finestra, mi sporsi in fuori con cautela. Appena in tempo per vedere il corpo di Powell abbattersi al suolo, trentasei piani sotto. Ricordo tuttora con orribile chiarezza che rimbalzò pochissimo per l'urto, come una palla da tennis sgonfia. Cercai di reagire alla nausea che mi stringeva la gola. E la mia mente annebbiata tentò di coordinare tutte le cose in una volta. Il medico. La polizia. L'amministratore del palazzo. Dovevo chiamare qualcuno. Feci per correre al telefono. E poi mi fermai di colpo. Quasi rifiutandomi di credere ai miei occhi. Fino ad oggi, nessuno ha mai saputo cos'era ciò che vidi nel centro di quell'immenso tappeto. Non ho mai avuto il coraggio di raccontarlo, perché io stesso non sono mai riuscito a credere realmente come fosse entrato là dentro. Mi chinai e raccolsi l'oggetto. Commovente e grigio come la cenere di
un amore morto. Niente che facesse orrore. Niente che facesse ritrarre la mano in un gesto di paura. Solo una camelia rosa, lasciata cadere da... Che vuoi, spirito inquieto? LA MALEDIZIONE DELLA STREGA di Paul Ernst Questa è una strana storia di antiche credenze, o di miscredenze se preferite, proiettata nel ventesimo secolo; di avvenimenti bizzarri privi di un fondamento tangibile, di fatti reali su cui la mente sbalordita dell'osservatore possa soffermarsi; di avvenimenti che, secondo la logica, non potrebbero assolutamente verificarsi all'esterno delle copertine di quei vecchi libroni miniati a mano che trattano di «Magia Nera». Potete crederci o no. Per la verità, i giornali non vi credettero. Dalle loro colonne aride e banali, non traspariva alcun cenno che non rientrasse nella cronaca degli avvenimenti di tutti i giorni. La signora Boyd Barringer, moglie dell'ultimo discendente di quella famiglia Barringer che aveva impacchettato i propri beni puritani ed era sbarcata nel New England tanto tempo prima, era improvvisamente e misteriosamente scomparsa. Un fatto abbastanza normale, lasciavano sottintendere i giornali. Un marito non troppo premuroso, un ammiratore segreto... ed ecco che si prende il volo per lidi sconosciuti. Ma con tale insinuazione, i giornali sbagliavano, o perlomeno avevano ragione solo a metà. D'accordo, la signora Barringer aveva spiccato il volo verso lidi sconosciuti, ma non era stato per colpa di un marito troppo indifferente, e neppure a causa di una di quelle relazioni amorose che tanto spesso sconvolgono anche le famiglie più solide. Era un altro motivo che si nascondeva dietro la sua improvvisa sparizione, un motivo che risaliva a duecentotrenta anni prima, quando una vecchia donna che viveva a Salem, nel Massachusetts, morì improvvisamente di morte violenta. Tanto per cominciare, Boyd Barringer non era un marito indifferente. Nessun uomo al mondo aveva amato più profondamente o si era mostrato più affettuoso e sollecito verso la propria moglie. E Clara Barringer, a sua volta, adorava il marito di un amore completo e assoluto, al punto da considerare qualsiasi altro uomo con una semplice occhiata indifferente. Il loro matrimonio era la prova di questo amore reciproco e profondo. Clara, infatti, temendo la maledizione che sentiva incombere su di sé, non voleva recar dolore a Boyd; e per mesi e mesi aveva resistito alle insistenti
preghiere di lui perché diventasse sua moglie. E che lui continuasse a supplicarla incessantemente finché ebbe ragione delle sue paure, che lei alla fine acconsentisse, nonostante i timori che la turbavano, sta a indicare più di ogni altra testimonianza la profondità dei loro sentimenti. La scena durante la quale Boyd ebbe finalmente ragione dei timori della sua futura sposa, che non voleva fargli del male, fu una scena tempestosa sotto molti aspetti. «Clara» aveva detto quella sera Boyd in tono deciso, le mani saldamente strette sulle braccia della ragazza, mentre i suoi occhi cercavano quelli di lei. «Clara, c'è qualcun altro? Mi respingi perché nel tuo cuore c'è forse un altro uomo? Ti prego di dirmelo!» Clara aveva esitato un attimo prima di rispondere alla domanda. I suoi occhi avevano squadrato la figura di lui, quasi volesse imprimersi nella mente ogni particolare più insignificante; perché intendeva non rivederlo mai più, e voleva portarsi con sé l'immagine dell'uomo amato. Boyd era un tipo alto, robusto, con due ampie spalle piantate su un collo poderoso; aveva lineamenti marcati, quasi severi. Un tipico esemplare del mondo degli affari, si sarebbe potuto definire, un uomo di successo e destinato al comando, senza troppi sentimentalismi o debolezze per farsi strada in mezzo alle cose materiali della vita. Ma i suoi occhi contrastavano con l'aspetto generale: di un azzurro intenso, quasi simili agli occhi di una donna, con uno sguardo tenero e comprensivo. E quegli occhi conferivano una certa morbidezza anche alla bocca ferma e risoluta, smorzando la durezza del mento. Un uomo d'azione con gli occhi di un innamorato. Non c'è assolutamente da meravigliarsi se Clara aveva compiuto uno sforzo terribile per mormorare con voce piana la bugia che aveva lo scopo di allontanarlo da sé. Nondimeno, seguendo il proprio cervello invece del cuore, la ragazza aveva mentito. «Hai indovinato», aveva detto guardandolo negli occhi. «Amo un altro uomo. Ecco perché non posso sposarti.» Ma Boyd non si era lasciato ingannare. L'aveva fissata a sua volta negli occhi, quegli strani occhi dalla forma allungata, felina, e aveva sorriso con dolcezza. «Tu non mi dici la verità, Clara. Non è questa la ragione per cui non vuoi sposarmi. Stai forse pensando ancora alla fantastica maledizione che dovrebbe ricadere su qualche discendente della tua famiglia? Davvero vuoi
che questa leggenda fantastica ci separi per sempre, sapendo quanto ci amiamo?» «Non è una leggenda fantastica!», aveva esclamato Clara con voce rotta. «Guardami! Guardami bene! Non vedi i segni dell'antica profezia nei miei occhi, nella forma della testa, nel mio modo di camminare?» Era scoppiata a piangere selvaggiamente, le spalle già scosse da un'incipiente crisi isterica. Boyd aveva cercato di calmarla, di rasserenarla con la sua logica. «Su, andiamo», aveva suggerito. «Ammettiamo pure che questa storia vecchia di duecento anni abbia un fondo di verità. Concediamole l'onore di analizzarla in modo completo e definitivo, affinché il buonsenso prevalga. Sei troppo intelligente per credere ad una simile fiaba di vecchie comari, senza prove di sorta. Mostrami le prove, dunque, e raccontami l'intera storia. E se dopo che l'avrò ascoltata vorrò ancora sposarti e tu lo vorrai, dimmi che sarai mia moglie. Dimmi che lo sarai, cara, ti prego!» «Che cosa posso rispondere?» aveva sussurrato Clara. «Nessuno s'è mai trovato in una posizione simile. Ma voglio raccontarti tutta la storia, dal principio, invece dei brani e dei frammenti che ti ho rivelato finora. Aspetta qui un momento; salgo in soffitta, dove c'è un vecchio baule che contiene i documenti e le fotografie relativi alla storia della mia famiglia.» «Vengo con te. C'è un lume, lassù? Bene.» E Boyd l'aveva seguita su per le rampe di scale che terminavano sotto gli abbaini della vecchia casa di pietra... su verso la scoperta di una favola sorprendente, anche se incredibile. L'ambiente in cui una storia viene raccontata influisce notevolmente su chi l'ascolta. Alla piena luce del giorno, in qualche luogo forse più prosaico, Boyd avrebbe riso al racconto fantastico con o senza prove, come infatti aveva riso il mattino successivo. Ma lassù sotto i tetti, alla fioca luce di un'unica lampadina elettrica, dovette trascorrere un'ora poco piacevole ascoltando l'incredibile storia di Clara che riguardava una faida durata sette generazioni. La vasta soffitta era stata pavimentata, un tempo, ma ormai il pavimento era tutto rotto. Grosse travi coperte di ragnatele s'intrecciavano al debole chiarore della lampadina incrostata di polvere; il locale era zeppo di vecchie sedie e di tavoli con le gambe che parevano altrettanti tentacoli nella cupa penombra. Un luogo misterioso, lugubre, perfettamente intonato al racconto di Clara. In un angolo c'erano numerose ceste e cassoni; dietro richiesta di Clara,
Boyd aveva trascinato una di quelle casse sotto la luce. Dopo aver trafficato qualche minuto con la serratura arrugginita, era riuscito ad aprire la cassa che conteneva una miscellanea di vecchi indumenti, di fotografie e di carte ingiallite. «Nel 1692», aveva cominciato a raccontare Clara con voce monotona, «una vecchia solitaria viveva ih un tugurio alla periferia di Salem, nel Massachusetts. Si diceva che avesse un figlio da qualche parte, ma nessuno lo sapeva con certezza e lui non andava mai a trovarla. La vecchia si guadagnava da vivere coltivando un po' di verdura che vendeva o barattava con gli abitanti della città. «Doveva essere di aspetto piuttosto ripugnante, molto vecchia, rugosa, con un lungo naso adunco e il mento appuntito che quasi si toccavano come pinze, a causa della mancanza di denti. Non era molto pulita e la sua mente ogni tanto vaneggiava. Ma non faceva male a nessuno e nessuno la molestava; perlomeno, all'epoca in cui comincia la mia storia. «Anche gli antenati di mia madre vivevano a Salem, il clan di Manfred Jones. Fra gli altri bambini di questa famiglia, c'era una ragazzina dai capelli neri e dall'aria triste che si chiamava Emily. Una mia antenata... Ecco una sua fotografia di quando era bambina.» Clara aveva dato a Boyd una miniatura, alquanto sbiadita dal tempo, ma eseguita abilmente e ancora abbastanza chiara. Era il ritratto di una ragazzina di circa undici anni, sebbene gli occhi scuri e dall'espressione quasi cupa, sembrassero più vecchi. Boyd aveva esaminato il ritratto con interesse, poi l'aveva restituito in silenzio. «La vecchia donna di cui ti parlavo», aveva ripreso a raccontare Clara, «andava spesso a vendere la verdura alla casa dei Jones e aveva conosciuto Emily. Sembrava immensamente attratta dalla bambina. Ma Emily, forse perché ne aveva paura, non la poteva soffrire. Così accadde che un giorno, quando la vecchia le fece una carezza sui lunghi capelli neri, la piccola si divincolò furiosamente, tirando calci e graffiando come una bestiola, e corse via. Poi, da una certa distanza, cominciò a far boccacce alla vecchia, gridandole insolenze e parolacce. Certo, fu un gesto assai riprovevole, ma dopo tutto si trattava solo di una bambina. «Da quella scena, sorse l'ombra che da allora incombe sulla famiglia di mia madre. Perché la vecchia donna da allora cominciò a odiare la piccola Emily. E l'odio divenne reciproco. Emily Jones inventava scherzi e burle di ogni genere ai danni della donna e incitava i suoi piccoli amici a fare lo stesso. Anche questa è una cosa molto riprovevole, ma tutti i bambini sono
così. «Fu all'inizio della primavera di quell'anno che cominciarono a circolare strane voci sul conto della vecchia donna. I contadini si lagnavano perché dicevano che il bestiame si ammalava ogni volta che la vecchia guardava nella loro direzione. Un suo vicino affermava che la donna aveva lo sguardo del demonio. In breve, la vecchia divenne nota come la Strega di Salem. Tutti la evitavano. Nessuno comperava più o barattava la sua verdura e stava per morire di fame. «Le voci durarono circa un anno e forse la donna avrebbe potuto superare la diffidenza e i timori del vicinato se non fosse stato per Emily Jones. Con un'intelligenza superiore ai suoi undici anni, Emily assimilò tutte le chiacchiere riguardanti la vecchia che lei odiava con la petulanza dei bambini. E ogni volta che ascoltava qualche commento sulla donna, le tornava in mente quello che la 'strega' diceva sempre quando era particolarmente esasperata per le burle e i tiri giocati dalla bambina: «'Ti trasformerò in un gatto, Emily Jones! Ti trasformerò in un gatto, se non la smetti di darmi fastidio! La gente dice che sono una strega: ebbene, una strega può trasformare le ragazzine moleste in gatti. Ed è quanto farò anche a te, Emily Jones!' «Quella minaccia continuava a martellare nella mente della bambina, crebbe e ingigantì finché la piccola, un giorno, ebbe un'idea: supponiamo che io faccia finta che la strega mi stia trasformando davvero in un gatto! Che bello scherzo sarebbe! Chissà gli altri che cosa direbbero alla vecchiaccia! «Abbastanza adulta e intelligente per fare questo ragionamento, Emily, tuttavia, non si rese conto dell'estrema gravità del suo piano. Era troppo giovane, naturalmente, per capire quali conseguenze sarebbero nate per la povera vecchia. «E così la bambina mise in atto il suo piano. «Una sera, cominciò a camminare a quattro zampe sotto i tavoli e le sedie come fanno i gatti, miagolando e fingendo di graffiare con unghioni immaginari i fratelli e le sorelle. Leccava loro le braccia e si guardava intorno con fare subdolo, imitando un gatto con la bravura scimmiesca che possiedono i bambini per le imitazioni. «Naturalmente suo padre, Manfred Jones, rimase stupito. Anzi, spaventato. «'Emily!' gridò. 'Che cosa ti succede, in nome del cielo? Ti comporti come se fossi stregata!'
«'Ma io sono stregata!' fu la solenne risposta. 'La vecchia strega ha detto che mi avrebbe mutata in gatto. E adesso sento che mi sta trasformando.' «Manfred Jones era un uomo influenzabile. Inoltre, come la maggior parte degli adulti di quell'epoca, credeva nella stregoneria. Prese per vera l'affermazione della figlia e agì contro la cosiddetta strega con tutti i mezzi in suo potere. «Nell'aprile del 1692 chiamò a giudizio la vecchia donna in un pubblico processo presieduto da sei magistrati e da quattro ministri del culto. Così violente furono le sue accuse e così profondo l'astio verso la vecchia donna, che la condanna fu unanime. La poveretta fu accusata formalmente di essere una strega. Senza ulteriori udienze, fu gettata nella buia prigione della città. «La piccola Emily rimase terrorizzata per le conseguenze della sua burla crudele. Confessò di aver giocato uno scherzo atroce. Supplicò perché la vecchia fosse rilasciata, giurando di aver inventato ogni cosa. Ma nessuno le credette. Anzi, tutti dichiararono solennemente che le smentite di Emily erano un'altra prova della colpevolezza della strega. La vecchia aveva mandato il demonio alla bambina per costringerla a ritirare le accuse. «Il carceriere, un uomo ignorante e superstizioso, aggravò la disgraziata posizione della povera vecchia, accusandola di avergli fatto un sortilegio allo stomaco, poiché era tormentato da violenti crampi. E tale assurda, pazzesca accusa fu la goccia che fece traboccare il vaso. La cittadinanza di Salem era ormai terrorizzata e furibonda, al punto che inviò una delegazione ai magistrati, chiedendo che la strega fosse condannata a morte. «I magistrati esaudirono i voleri del popolo. E decretarono che la strega fosse impiccata. Per uno strano caso di telepatia, la vecchia megera ebbe il presentimento del suo destino. Nello stesso momento in cui veniva firmata la sentenza di morte, secondo le dichiarazioni del carceriere, la donna si mise a urlare e crollò svenuta sul pavimento della cella. E adesso viene la parte più strana del racconto... «Quando riprese conoscenza, la donna cominciò a misurare la cella a grandi passi, gridando e agitando i pugni. 'Vogliono impiccarmi!' gridava con la sua voce acuta e stridula. 'Vogliono ammazzarmi! E tutto per colpa di quella mocciosa dei Jones! Ha raccontato loro che l'avrei trasformata in un gatto. Per questo vogliono impiccarmi!' «E fu a questo punto, sempre secondo quanto riferì il carceriere, che la vecchia si fermò di colpo e sollevò le mani congiunte, come se pregasse. «'Vogliono ammazzarmi sulla parola di una bambina!' riprese a gridare
con voce rauca. 'Benissimo: la mia vendetta ricadrà sulla bambina. In nome di tutti i demoni dell'inferno, delle stelle che brillano nel cielo e degli spettri della magia di cui sono accusata, farò come ha dichiarato la bambina: la trasformerò in un gatto!' «E laggiù, nella cella della buia prigione, la vecchia strega si accasciò sul pavimento sporco e umido, chiuse gli occhi, mormorando parole incomprensibili. E nella casa dei Jones, Emily, ammalata per il rimorso e il terrore di ciò che aveva fatto, cominciò a trasformarsi sotto gli occhi esterrefatti della sua stessa famiglia. A ogni sillaba che la strega pronunciava a quasi un chilometro di distanza, la ragazza si dimenava convulsamente come se qualcuno la picchiasse. «Le pupille dei suoi occhi si dilatarono e infine presero la forma allungata di quelle di un gatto. Cominciò a strisciare a terra, miagolando e soffiando minacciosamente. E infine, sulle braccia e sul dorso delle mani le spuntò una peluria che a poco a poco divenne pelliccia! «Non sapremo mai con certezza quale cosa terribile sarebbe potuta accadere, perché il caso si concluse rapidamente nel Massachusetts, l'anno 1692. «La folla si riversò nella prigione con il decreto di morte, sfondò le porte e impiccò la strega a una trave della sua stessa cella. Poco prima del momento fatale, la vecchia scoppiò a ridere. Una risata terribile. 'Sì, impiccatemi pure!' urlò. 'Ma io avrò la mia vendetta. Dovessi aspettare fino alla settima generazione, avrò la mia vendetta!' «E poi la fine. Morì con una maledizione sulle labbra, la maledizione contro la famiglia che era stata la causa della sua esecuzione.» Con un brivido, Clara aveva affondato il viso fra le mani. E Boyd, pallido come un morto e con le labbra aride, l'aveva stretta a sé. «Una leggenda pazza e ridicola», aveva sussurrato. «Clara, per amor del cielo, non crederai ad una storia così mostruosa!» «I nostri antenati di Salem erano uomini forti, dalla mente equilibrata, Boyd. Se tanti di loro credevano nella stregoneria, se erano disperati al punto di sacrificare una vita umana per salvaguardarsi, significa che c'è qualcosa di vero nella Magia Nera, non ti sembra?» «Impossibile!» aveva ribattuto Boyd. Ma sul suo viso era apparsa un'ombra che smentiva l'esclamazione. «A ogni modo, le prove ci sono», aveva ripreso Clara, con aria desolata. «Prove terribili! Ecco i documenti della pubblica udienza durante la quale la strega fu giudicata colpevole. Ed ecco qua la sentenza di morte e il do-
cumento di Manfred Jones.» Gli aveva teso un pacchetto di carte ingiallite e aveva concluso: «Ma qui, Boyd, c'è la prova più determinante: un ritratto di Emily Jones diventata donna, parecchi anni dopo la maledizione della strega». Boyd si era accorto di rabbrividire quando aveva osservato la miniatura che raffigurava Emily ormai donna. Con intuito sorprendente, l'artista aveva colto i particolari più intimi di quel viso triste e cupo. Gli occhi, con la loro forma allungata e l'espressione ambigua, la strana forma della testa, la innaturale peluria che ombreggiava il delicato labbro superiore, tutto rivelava un'incredibile metamorfosi. Con gesto istintivo, Boyd aveva coperto la miniatura con la mano, per non vedere quegli occhi misteriosi che sembravano animarsi e fissarlo a lungo. «E anche i miei occhi, Boyd», aveva mormorato Clara, leggendogli nel pensiero. «Sono identici. E io... sono la settima generazione! La strega, esalando l'ultimo respiro, disse chiaramente 'la settima generazione'. Sono io, la settima generazione!» «Clara, calmati, tesoro.» Il volto di Boyd era pallido, ma deciso. «Ciò che temi non è possibile. Ridiamoci sopra, a questa ridicola storia, e dimentichiamola per sempre. Clara... vuoi sposarmi?» «Nonostante...?» «Nonostante la leggenda? Certo. Tutte le storie di streghe del mondo non potrebbero far vacillare il mio amore per te. Ti prego!» Le aveva teso le braccia e Clara, ancora dubbiosa e tormentata ma ormai stanca di portare il suo pesante fardello da sola, vi si era rifugiata e gli aveva promesso che l'avrebbe sposato. «Ancora una cosa», aveva detto Boyd prima di lasciarla. «Come si chiamava la vecchia strega? Mi piacerebbe fare alcune ricerche per vedere se il figlio che l'aveva abbandonata era reale o una sua invenzione. Potrebbe semplificare le cose.» «Non sono sicura del nome», aveva detto Clara lentamente. «I documenti in mio possesso sono contraddittori. La sentenza di morte era intestata a Joan Byfield. Ma sui documenti del processo era scritto Joan Basfield. Non so quale dei due sia corretto.» «Basfield!» aveva gridato Boyd, sbigottito. «Basfield! Clara, dimmi: è scritto con una esse o con due?» «Con una esse», aveva risposto Clara, stupita dal tono eccitato di lui. «Perché me lo chiedi?»
«Oh niente. Se si scrive con una esse o se il nome era Byfield, non può essere lo stesso. Diavolo! Non potrebbe esserlo in nessun caso! Che idea assurda!» «Ma di che cosa stai parlando, Boyd?» «Niente, cara», aveva ripetuto lui, evitando lo sguardo indagatore della ragazza. «Niente. Un pensiero sciocco, non vale la pena di parlarne.» Poi aveva sceso lentamente le scale, a testa china, sprofondato nelle sue riflessioni. La vita scorreva serena per Boyd e Clara Barringer. Convinto che l'ambiente influisce per metà su una mente turbata, Boyd aveva insistito perché Clara vendesse la vecchia casa di pietra, intestando la somma ricavata a nome della moglie, e poco dopo i due sposi si erano trasferiti a New York. L'apprensione era sparita a poco a poco dagli occhi di Clara, quegli occhi dalla strana forma e dalle pupille dilatate, e la giovane donna era diventata una moglie serena e affettuosa. Boyd era contento di credere che la vecchia storia che aveva afflitto Clara fin da quando era una ragazzina, fosse ormai dimenticata per sempre. I documenti ingialliti che parlavano di una certa strega di nome Joan Basfield o Byfield, la quale andava in giro a trasformare fanciulle inermi in altrettanti gatti, erano finiti nell'inceneritore, con il cerimoniale che il rito esigeva; e la miniatura della piccola Emily Jones aveva fatto la stessa fine, nel fuoco. Clara si muoveva contenta e felice nella grande casa accogliente che Boyd aveva acquistato a New York. E dopo due anni, durante i quali nessuna ombra era venuta a oscurare il loro amore, Boyd sentì che era giunto il momento di fare una richiesta... una richiesta che certamente avrebbe avanzato prima, se non avesse temuto che potessero nascere dei guai da una somiglianza di nomi. «Clara», disse una sera, con voce indifferente. «Abbiamo un sacco di camere, qui. Ti dispiacerebbe se facessi venire mia zia Jane per una lunga visita? È vecchia e sola al mondo, povera zia. Posso invitarla?» Clara sorrise. Sapeva che Boyd era molto affezionato alla sorella di sua madre. Ne parlava spesso. Era un'anziana signora, ora, ma di un'intelligenza sorprendentemente viva e acuta nonostante l'età, che aveva pochi amici e scarsi interessi al mondo. Anche la signora era assai affezionata all'unico nipote, Boyd. Clara si chiese distrattamente perché mai suo marito non l'avesse invitata prima, tanto più che era ansiosa di conoscere la vecchia si-
gnora che godeva della rispettosa ammirazione e dell'affetto di Boyd. «Sarò felice di averla con noi finché vorrà restare, caro», disse con voce gaia. «È un vero peccato che una persona anziana rimanga sola come lei. Ed è un peccato che non abbia un bravo marito con cui dividere la vita.» Boyd sorrise. «Temo che i giovanotti del suo tempo e le sue conoscenze avessero una paura folle di farle una proposta di matrimonio. Mia zia aveva una lingua piuttosto tagliente, e inoltre era troppo intelligente per essere una moglie docile e devota. Senza contare il suo caratteraccio. Ancor oggi è un vero ciclone, quando qualcosa la fa andare in collera o la sconvolge. Comunque, non si è mai sposata.» «Bene, le scriverò subito per invitarla, Boyd. Vuoi dirmi il nome completo e l'indirizzo? Tu la chiami sempre zia Jane, e non lo ricordo.» Questa, date le circostanze, era una domanda imbarazzante e Boyd l'aveva temuta, nonostante i due anni di serenità che avevano fugato il ricordo della vecchia strega dalla mente di Clara. Quando rispose, si sforzò di rendere la voce il più indifferente possibile. «Il suo nome», disse leggermente, «è Jane Evers Bassfield. L'indirizzo è... Clara!» Fece appena in tempo a sorreggere la moglie che barcollava e sembrava sul punto di svenire. Tuttavia, la giovane donna superò quel momento di debolezza dopo pochi minuti. «I nomi sono così simili», spiegò più tardi. «Joan Basfield la strega e Jane Bassfield, tua zia. Per un istante ho avuto paura. Mi dispiace di essermi comportata come una sciocca, Boyd.» «Temevo che il nome ti avrebbe turbata», confessò Boyd. «Altrimenti, avrei invitato mia zia molto prima. Ma ora che abbiamo chiarito anche quest'ultimo punto, credo di poter dire con tutta sicurezza che sei guarita delle tue superstizioni, se mi permetti di dire pane al pane.» Quando Jane Bassfield arrivò in seguito al suo invito, Clara si sentì anche più rassicurata. Era chiaro che l'anziana signora possedeva una mente eccezionale e un aspetto più che deciso, con quel mento fermo e quasi mascolino, il naso arrogante. E i suoi occhi erano di un grigio freddo che poteva trasformarsi in un grigio glaciale nei momenti di collera. Ma i suoi modi erano cordiali e affascinanti. «Erano due anni che morivo dalla voglia di conoscere la moglie di Boyd. Solo che non potevo piombare da voi senza essere invitata, e teme-
vo che non voleste avere fra i piedi una vecchia come me. Su, mostrami la mia camera, Clara, e vieni a raccontarmi come ti tratta Boyd. Se è un cattivo marito chiamerò gli spiriti a tirargli i piedi durante la notte!» Boyd si affrettò a rispondere alla domanda densa di turbamento che lesse immediatamente negli occhi di Clara. «Intende dire che disturberà il mio caffè del mattino con ripetuti colpetti sul tavolo della prima colazione», spiegò ridendo. «Zia Jane ha la fama di essere dotata di qualità medianiche.» «Davvero?» domandò Clara, fissando con occhi spalancati la vecchia e robusta signora. Qualcosa nella sua voce fece sussultare Boyd. Jane Bassfield si strinse nelle spalle con un gesto quasi mascolino. «Chi può dirlo?», ribatté, elusiva. «Tutti affermano che i fenomeni spiritici sono solo dei trucchi, tanto che comincio a crederlo anch'io. Ma molto tempo fa, ho scoperto che potevo difendermi dalle persone ignoranti e invadenti dichiarando che ero una 'medium'. Divenne, e lo è tuttora, una minaccia alla quale ricorro volentieri, quella di 'mandare gli spiriti' a chiunque tenta di infastidirmi. Cielo, bambina mia, non guardarmi a quel modo! Non voglio mica morderti!» Con gesto gentile posò la mano sulle dita gelide di Clara, fingendo di non vedere, quando la giovane donna si ritrasse istintivamente da lei. «Su, andiamo, mostratemi la vostra nuova casa. Devi aver fatto fortuna, Boyd, per comperare una dimora simile.» Due giorni dopo l'arrivo di Jane Bassfield, la cameriera di Clara, Agnes, si licenziò. Se ne andò alle undici di sera in preda al panico, annunciando la sua decisione, facendo le valigie in fretta e furia, e filando a gran carriera dal cancello principale nel breve giro di mezz'ora. A Clara non diede alcuna spiegazione. Alla sua cara amica Beulah, la cuoca, addusse una ragione così vaga e poco convincente da non sembrare neppure una ragione. «Non capisco che cosa ci sia di tanto strano nella vecchia signorina Bassfield», ribatté Beulah in risposta all'affermazione di Agnes che se ne andava per causa della zia del signor Barringer. «È una donna dalla mente eccezionale ed è un po' bizzarra, ma a parte questo mi sembra a posto.» «Oh, Beulah, avresti dovuto vedere ciò che ho visto io pochi minuti fa. Anche tu avresti tagliato la corda senza perder tempo, te l'assicuro!» «Che cosa hai visto?» «Ecco, sai che sono addetta al servizio della vecchia, da quando è arriva-
ta. Così, la signora Barringer mi aveva detto di portare su alla zia un bicchiere di latte caldo. Erano le dieci e mezzo, solo pochi minuti fa. Bene, ho fatto scaldare il latte, mi hai vista, no?, e sono salita. Ho bussato alla porta e non ricevendo risposta, sono entrata, pensando che la vecchia signora si fosse addormentata e che avrei potuto posare il bicchiere sul comodino da notte, per quando si fosse svegliata. Ma lei non dormiva. «Sono entrata senza far rumore e la vecchia non mi ha sentito, credo. Era seduta sul letto, con un berretto da notte in testa e aveva acceso solo la lampada piccola. E poi, Cielo che cosa ho visto!» «Be', che cos'hai visto?» chiese Beulah, impaziente. «Ombre!» esclamò Agnes con un terrore nella voce che sarebbe apparso assurdo se non fosse stato per il pallore del viso. «Cos'è questa storia delle ombre?» incalzò Beulah. «Lei stava seduta in modo che la lampadina da notte proiettava la sua ombra contro la parete di fronte. E che ombra! La punta del naso e il mento sembravano congiungersi. Il berretto da notte somigliava a... a, non so spiegartelo, Beulah. Tutto quel che posso dirti è che sembrava una vecchia strega!» «Andiamo!» la rimproverò Beulah. «Una donna adulta che dice queste cose!» «Ma questo è niente», proseguì Agnes, senza far caso all'osservazione dell'amica. «C'erano altre ombre che ondeggiavano intorno alla sua, sulla parete. Sembravano ombre di animali fantastici, tutti che si chinavano e danzavano intorno alla forma della sua testa, con il naso e il mento che si congiungevano. Allora ho guardato lei, e non la sua ombra, e non ho visto nessuna forma di animale. Erano solo le ombre che si potevano vedere sul muro.» Agnes s'interruppe per riprendere fiato. «E poi?» incalzò Beulah. «Non basta? La vecchia signora mi ha vista in piedi presso la porta e mi ha guardato come se volesse saltarmi addosso. Aveva gli occhi completamente bianchi, e mi ha ordinato: 'Fuori, tu!' E io sono scappata via. E adesso me ne vado di gran carriera, Beulah. Non voglio vivere in una casa con gente simile. Sul serio, quella dev'essere una strega!» Beulah era una donna pratica, un'anima semplice e accettò il racconto di Agnes con divertita indifferenza. Nondimeno, non fu capace di convincere Agnes a cambiare idea e a rimanere sotto il tetto dei Barringer. Fu poco dopo questo incidente che Clara cominciò a soffrire d'insonnia.
Non si trattava del solito disturbo di cui solitamente soffrono i malati d'insonnia, e cioè la riluttanza ad andare a letto; per Clara era diverso. La giovane donna aveva paura di lasciarsi andare al sonno; i suoi sogni erano così orribili! Da che cosa dipendessero quegli incubi, lei non sapeva spiegarselo. Perché non ricordava mai ciò che aveva sognato. Tutto quel che sapeva al mattino, era di aver fatto dei sogni spaventosi, che la lasciavano debole e turbata. Boyd conosceva ormai questi incubi più di quanto li conoscesse lei stessa; la sentiva mormorare, agitarsi in modo febbrile durante tutta la notte. E mettendo insieme i frammenti di quelle frasi mormorate durante il sonno agitato della moglie, considerando con un certo allarme l'effetto che producevano le parole di lei, un giorno decise di andare da uno specialista di malattie mentali. Al medico, raccontò la fantastica storia della maledizione che perseguitava Clara e gli riferì le frasi sconnesse che esprimevano il terrore di lei durante quelle notti d'incubo. Alla fine del racconto, lo specialista espresse la medesima opinione che s'era formato Boyd: sua zia, Jane Bassfield, doveva lasciare immediatamente la casa. «Poiché non c'è dubbio, mio caro amico, che la presenza di vostra zia e la strana rassomiglianza dei nomi abbia sconvolto i nervi di vostra moglie a un punto pericoloso. Davvero non saprei garantire del suo equilibrio mentale se l'elemento di disturbo, e cioè la signorina Bassfield, non venisse allontanato immediatamente!» «Voi pensate che tornerà come prima, una volta allontanata mia zia?» domandò Boyd con voce turbata. Per il medico, questo era un caso fra i più interessanti, ma Boyd pensava solo all'angoscia della sua adorata compagna. «Sono sicuro che si riprenderà perfettamente, quando vostra zia se ne sarà andata, signor Barringer.» Boyd esitò un istante prima di formulare la domanda successiva. Aveva l'impressione di comportarsi come uno sciocco, ma non poté trattenersi. «C'è qualche pericolo che... che questa faccenda diventi reale? C'è il rischio che...?» L'uomo arrossi imbarazzato. «Pericolo che la vecchia signora trasformi vostra moglie in un gatto?» La voce dello specialista era pesante di scherno. «Ma è assurdo, amico mio! Sarebbe una metamorfosi assolutamente incompatibile con le regole più elementari della biologia!» «Lo so che può sembrare ridicolo», confessò Boyd. «Ma se aveste visto
gli occhi di mia moglie, la notte scorsa! Erano subdoli come quelli di un gatto, enormi, con innumerevoli riflessi verdi e gialli.» «Signor Barringer, se non starete attento diventerete anche voi uno dei miei pazienti. Ma usate il cervello, amico mio! Provate a uscire nella via qui sotto, e osservate le macchine e i tram che sfrecciano su e giù; poi provate a ripetere: 'Ho paura che mia zia trasformi mia moglie in un gatto'. Se questo non vi farà scoppiare in una fragorosa risata dopo tre secondi, be', allora sarà meglio che torniate qui e vi affidiate alle mie cure.» Jane Bassfield accolse la vacillante spiegazione di Boyd meglio di quanto lui avesse sperato. Anzi, per la verità, sembrava quasi se l'aspettasse. «Temevo di non essere simpatica a Clara», sospirò la vecchia signora. «Ho cercato di diventare sua amica, ma lei sembra quasi aver paura di me. Me ne vado subito, naturalmente.» Con Clara, si mostrò assai comprensiva. «Mi dispiace tanto che tu non stia bene, cara. E mi dispiace di dovervi lasciare, te e Boyd, ma certi affari, a casa, esigono la mia presenza immediata.» Ma per un istante, poco prima della partenza del treno, la vecchia signora e Clara rimasero sole. E se Boyd avesse visto e udito ciò che avvenne fra le due donne, non sarebbe stato poi tanto sicuro che eliminando la presenza di sua zia, Clara sarebbe ritornata quella di prima. Con gli occhi che sprizzavano scintille di fuoco, la vecchia signora sussurrò una frase alla giovane donna. Una frase che fece impallidire mortalmente l'altra, confermando i suoi dubbi e che fornì l'unica spiegazione possibile alla sua mente confusa e turbata. «La distanza non mi fermerà, Clara 'Jones', e tu lo sai. Tu che conosci la storia di Joan Basfield!» Boyd era molto depresso, quel giorno. Fino all'ultimo aveva sperato di poter riconciliare sua moglie con la vecchia signora; ora, per colmo della sfortuna, Clara si era sentita improvvisamente male, tanto da non poterli accompagnare neppure alla stazione. La malattia di Clara Barringer, di cui parlarono anche i giornali, in seguito alla sua misteriosa scomparsa, persisté da quel momento in poi. Durante il mese successivo Boyd si recò spesso nello studio dello specialista per malattie mentali. «Non potrebbe trattarsi di un caso fisico, un tumore al cervello, una pressione delle ossa o qualcosa di simile?» domandò una volta al medico,
timoroso. «Perché me lo chiedete?» «Perché lei soffre di atroci mal di testa. Le ho fatto fare l'esame della vista e da quel lato tutto è a posto, perciò non può essere questa la causa delle emicranie.» «Che cosa dice la signora Barringer del suo mal di testa?» volle sapere il dottore. «Dice che è dovuto... ma è inutile che ve lo dica, tanto non vi sarebbe di nessun aiuto.» «Be', ditemi egualmente a che cosa lo attribuisce, vi prego.» «Ecco», rispose Boyd abbassando lo sguardo. «Mia moglie dice che le emicranie di cui soffre sono dovute al cambiamento della forma della testa. Afferma che il suo cranio sta diventando gradualmente più rotondo e più schiacciato, come quello di un gatto!» Il dottore scosse la testa. «Non ho mai visto né sentito parlare di una fissazione più insistente», commentò con un sorriso divertito. «Ma temo che non ci sia niente che noi possiamo fare. Probabilmente vostra moglie continuerà a soffrire di questi mal di testa, finché saremo in grado di curarla. Se soltanto potessi vederla!» Ma a questo, Boyd non voleva acconsentire. «Va su tutte le furie se solo le parlo di voi», confessò. «Non vi riceverebbe e non ammetterebbe per un solo istante che la sua mente vacilla.» Tuttavia, ben presto Boyd fu costretto a soddisfare la richiesta del medico che voleva visitare personalmente la sua paziente. «Clara», chiese ansiosamente un giorno alla giovane donna, «perché cammini in modo cosi strano, con le braccia penzoloni? Ti si curvano le spalle.» La voce di lei era stata più sconvolgente, nella calma disperata della sua risposta, più di qualsiasi crisi isterica a cui lui aveva avuto modo di assistere, e le parole della giovane donna lo avevano fatto correre di nuovo allo studio dello psichiatra. «Lo sai benissimo perché, Boyd», aveva risposto Clara. Non una parola di più, nessun tentativo di spiegargli il motivo o di rispondere alle sue parole di protesta. «Dovete venire a vederla voi stesso, dottore», supplicava Boyd più tardi. «È arrivato il momento di prendere dei provvedimenti drastici. Questa storia deve finire!»
«Descrivetemi come cammina, per favore.» «È molto difficile. Tutto quel che posso dirvi è che cammina come... come un animale. Le braccia penzoloni davanti a sé, unite insieme come se fossero zampe anteriori. E si china in avanti, cosicché le mani le arrivano quasi a livello delle ginocchia. E la sua stessa andatura è così mutata che ad ogni passo diventa sempre più goffa.» «Sempre quella fissazione del gatto», commentò il medico. «Verrò stasera come amico personale. Non lasciatele capire che mi presenterò da voi in veste professionale.» La visita si rivelò assolutamente infruttuosa. Dopo aver chiacchierato con Clara Barringer e dopo averla «sondata» quanto profondamente osava, il dottore si dichiarò piuttosto indeciso sul da farsi. E, come avviene quasi sempre in casi del genere, suggerì di consultare un altro specialista suo collega. Scrisse un nome e un indirizzo sul proprio biglietto di visita e lo porse a Boyd. «Andate da lui», consigliò lo psichiatra. «Il caso di vostra moglie ha superato i confini della mente per entrare in un campo puramente clinico. È meglio che la veda uno specialista in fisiologia e questo è l'uomo adatto. Ha compiuto certi studi sulle malattie delle ossa e penso che sia in grado di diagnosticare il disturbo che ha piegato e arrotondato in modo così evidente le spalle di vostra moglie.» Così, un altro famoso specialista entrò nella casa dei Barringer ed esaminò Clara con cura meticolosa. Stavolta Boyd non tenne celata alla moglie l'identità del visitatore. Non cercò di far passare il medico per un amico. Furono eseguiti prelievi di sangue e lo specialista se ne andò senza far commenti, per portare il suo problema in laboratorio e preparare la sua diagnosi. «Povero Boyd!» esclamò Clara con voce sommessa. «Non serve a niente, caro. Potresti risparmiare a entrambi tempo e dolore. Nessun medico può aiutarmi, a meno che non torni indietro di duecento anni e salvi la vecchia Joan Basfield da una condanna a morte per stregoneria!» «Clara, per amor di Dio!» Ma all'occhiata di lei, s'interruppe di colpo. Le conclusioni del secondo specialista non gettarono alcuna luce scientifica sul caso di malformazione della schiena e delle spalle di Clara. «Non c'è assolutamente niente d'irregolare nella signora Barringer, a quanto mi risulta», dichiarò il medico. «Eppure le spalle e la spina dorsale si piegano in modo decisamente irregolare», concluse.
Boyd fissò il dottore, sentendolo vagamente elusivo. «Siete certo che gli esami del vostro laboratorio non rivelino circostanze insolite?» insisté. Il medico si sfregò il mento barbuto. «Ecco, c'è stata una scoperta alquanto sconcertante», ammise, a disagio. «Tuttavia, sono propenso a credere che si tratti di un difetto del microscopio. Ho mandato a far revisionare lo strumento e ho consegnato il vetrino che stavo studiando a un laboratorio professionale, per un successivo controllo. Ma, naturalmente, deve trattarsi di un guasto del mio microscopio. Non possono esistere globuli di sangue come quelli trovati nel vetrino.» «Di che si trattava?» volle sapere Boyd, con voce tesa. «Be', nel prelievo di sangue erano presenti alcuni globuli che non... Mi riesce difficile spiegarvelo.» «Che non erano umani», suggerì Boyd, mordendosi le labbra per non perdere il controllo. «Sì», confermò il medico, guardandolo in faccia. «Esatto.» «Simili a quelli di un gatto?» La voce di Boyd era irriconoscibile. «Come diavolo l'avete indovinato?» si stupì lo specialista. Allora Boyd gli parlò delle fissazioni di cui Clara soffriva. «Ma è pazza!» dichiarò il medico. «Assolutamente pazza! Vostra moglie ha bisogno di qualcuno che sia qualcosa di più di un medico, amico mio. Perdonatemi se ve lo dico, ma dovrebbe essere affidata alle cure di una clinica per malati di mente.» «Le vostre scoperte al microscopio», insisté Boyd, «provano forse...?» «Non provano nessuna delle assurde, pazzesche eventualità che state suggerendo», lo interruppe il dottore. «In questi tempi di civiltà artificiale, l'umanità soccombe rapidamente a nuove malattie. Ammettendo che il mio microscopio sia perfettamente in ordine, ho avuto semplicemente la fortuna, dal mio punto di vista perlomeno, di essere in grado di annunciare una nuova scoperta nel campo della medicina, ecco tutto.» Ma non era tutto. Prima dello scadere di una settimana, il medico ebbe occasione di trovarsi di fronte a un nuovo, sconcertante problema scientifico. Sul corpo e sulle braccia di Clara Barringer era apparsa una bella e folta peluria! Con eccitazione distaccata, il medico prelevò numerosi campioni e si affrettò a esaminarli al microscopio, che gli avevano rimandato con l'assicurazione di un perfetto meccanismo tecnico. Esaminò attentamente i
campioni, poi telefonò a Boyd per pregarlo di recarsi di nuovo nel suo studio. «Non rassomiglia a nessun tipo di peluria che mi sia capitato di vedere», concluse lo specialista. «E non lo si può chiamare pelo. È 'pelliccia'!» Boyd non riuscì a spiccicare parola. Si limitò ad annuire, gli occhi chiusi, le labbra serrate. E senza parlare, uscì dallo studio del medico per recarsi direttamente alla stazione. Il colloquio che Boyd ebbe con sua zia, a un centinaio di chilometri di distanza, non diede risultati soddisfacenti. «Boyd, tu sei pazzo! È vero, la storia della famiglia di Clara è corretta: c'è stata una certa Joan Basfield, che fu impiccata per stregoneria a Salem nel 1692. Voglio dirti di più: ammetto di essere una discendente di quell'infelice donna, dal momento che suo figlio cambiò il nome in Bassfield, con la doppia esse, per ragioni che mi sono sconosciute. Ma per quanto riguarda l'assurdo, ridicolo incantesimo di cui parli...» «E così, tu discendi da Joan Basfield la strega!» l'interruppe Boyd, con voce eccitata. «E questa è la settima generazione. La settima generazione!» Si appoggiò allo schienale della sedia, quasi vergognandosi della propria irruenza. «Povero ragazzo!» mormorò Jane Bassfield, in tono indulgente. «Torna da Clara, ha bisogno di te. E portale i miei saluti affettuosi, con tutta la mia simpatia.» Sul treno che lo riportava a casa, Boyd cercò di non pensare al vago sorriso gelido e quasi irreale che gli era parso di cogliere sulla bocca della vecchia signora. Certamente si trattava di pura immaginazione. E lui si lasciava andare un po' troppo alla fantasia, ecco tutto. Sulla porta di casa, esitò un attimo prima d'entrare. Ecco che l'immaginazione gli giocava un altro brutto tiro. Gli sembrava di sentire la presenza palpabile di ombre ripugnanti, una presenza che incombeva sulla sua casa. Ma non ebbe il tempo di rimuginare su tale impressione. Mary, la domestica che aveva sostituito Agnes, spalancò la porta e gli fece cenno di entrare prima ancora che lui infilasse la chiave nella serratura. Evidentemente lo aspettava, e l'espressione di sollievo con cui la donna accolse il suo ritorno divenne quasi isterica. «Oh, signor Barringer, signor Barringer, qualcosa sta succedendo a vostra moglie! Qualcosa... qualcosa...» Boyd prese a scuotere energicamente la ragazza, che parlava con voce
sempre più stridula. Le afferrò le braccia e seguitò a scuoterla per evitare che si lasciasse andare a una crisi isterica. «Che cosa è successo?» domandò con voce rotta. «Avanti, parlate.» «Non lo so, cos'è successo. Qualcosa di strano, ecco. La signora è nella sua camera e non lascia entrare nessuno. Ha chiuso la porta a chiave!» «Perché ha chiuso la porta?» ripeté Boyd, con il viso pallido come un cencio e un atroce presentimento nel cuore. «È ammalata?» «No, non proprio. Non posso dire che stesse male. Era molto peggio!» Mary tirò su rumorosamente con il naso. «Che cos'aveva, dunque? Ditemi che aspetto aveva!» «Aveva un aspetto orribile, signor Barringer. Non riesco a spiegarvelo; ma meno di mezz'ora dopo che voi eravate partito, lei ha cominciato a 'cambiare'. Il pelo sulle braccia e sul corpo che avevate mandato ad analizzare dal dottore è diventato più lungo e più folto. E poi si è rimpicciolita.» «Rimpicciolita? Di che cosa state parlando, Mary?» «È così!» ripeté Mary, con voce acuta. «Si è come accartocciata, vi dico. Era seduta nella grande poltrona in biblioteca e dormiva. Sono entrata per darle un'occhiata quando lei si era appena appisolata, e poi di nuovo quando s'è svegliata. E ho visto il cambiamento. Vi dico che è diventata più piccola! Si era abbassata di quasi trenta centimetri, quando l'ho vista in piedi!» «Mary, riflettete a ciò che state dicendo!» gridò Boyd, scuotendo di nuovo la ragazza. «Non è possibile, vi siete ingannata!» «No, non mi sono ingannata. Era davvero più piccola. Gli abiti le arrivavano ai piedi, e le pendevano addosso al corpo. Ed era curva come non l'ho mai vista.» «Che cosa?» esplose Boyd, inumidendosi le labbra aride. «È stato quando è salita nella sua camera. Tutto a un tratto si è alzata. Io l'osservavo. Si è guardata nello specchio dell'anticamera, e poi ha lanciato un urlo come se qualcuno l'avesse pugnalata. E infine, prima che io potessi aprir bocca, s'è girata di scatto ed è volata su per le scale. Non correva, signor Barringer, 'volava'! E mentre saliva, teneva le mani così basse che toccavano gli scalini, tanto che dava l'impressione di camminare a quattro zampe, come un animale! E i suoi occhi...» Boyd non attese di sentire il seguito. Lasciò andare la ragazza di colpo, tanto che la poveretta per poco non cadde, e si precipitò su per le scale, fino alla camera di Clara. Non si fermò ad accendere la luce, ma seguitò a correre lungo il corridoio, guidato dalla lunga familiarità con la sua casa.
«Clara», chiamò, bussando alla porta della camera di sua moglie. Da sotto l'uscio non filtrava un filo di luce. La camera doveva essere avvolta nella più completa oscurità. Nessuno rispose. «Clara, sono Boyd. Apri la porta.» Ancora nessuna risposta. Non un rumore usciva dalla stanza buia. Boyd girò la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. «Clara, mi senti?» Picchiò i pugni sui pannelli della porta finché le nocche gli si spellarono, sebbene lui non si accorgesse del dolore. «Allora dovrò sfondare la porta», disse alla fine, parlando a voce alta e senza rendersi conto di quello che diceva. Nella stanza buia si udì un leggero movimento, poi una voce che non sembrava più quella di Clara. «Vattene! Oh, ti prego, va' via!» «Devo entrare, Clara.» «No, no! Va' via!» La voce risuonò acuta e stridente, quasi metallica. Come la corda di un violino pizzicata troppo forte. «Ma tesoro», insisté Boyd dolcemente, «cerca di capire. Se non ti senti bene, dovrò chiamare il medico. Non puoi restartene chiusa lì dentro. Hai bisogno di cure.» «Boyd, no!» «Preferisci che ti mandi Mary, se non vuoi che io entri?» «No!» «Clara, tesoro, ti prego.» «No, Boyd, no. Oh, vattene!» Boyd chiamò a raccolta tutta la sua calma per un ultimo tentativo. «Sfonderò la porta, se non apri.» «Boyd, non devi!» Con la spalla ancora dolorante e barcollando per lo sforzo, Boyd superò la porta scardinata ed entrò nella camera immersa nell'oscurità. Le tende erano tirate e questo, in aggiunta al buio naturale di una notte senza luna, rendeva la stanza simile a una buca nera. Tentò di frugare le tenebre aguzzando gli occhi, ma non riuscì a vedere niente. La sua mano annaspò lungo la parete, alla ricerca dell'interruttore della luce. Ma il gesto venne fermato dalla voce, la stessa voce che ricordava quella di Clara e che pure non sembrava più la sua. Al suono di quella voce, Boyd sentì le dita contrarsi, come se avesse toccato un pezzo di ghiaccio.
«Non accendere la luce! Per favore, non accendere! Qualsiasi cosa tu abbia in mente di fare, non accendere la luce!» Boyd trattenne il respiro, finché sentì che il petto gli scoppiava. La voce era venuta dal basso, quasi a livello del pavimento! Che cosa avrebbe visto, se avesse acceso la luce? Quale terribile sortilegio voluto da Joan Basfield, morta duecentotrent'anni prima, avrebbe preso forma? Meglio non entrare in quella stanza, meglio non rivedere il viso di sua moglie, piuttosto che affrontare la vista di ciò che temeva di trovare. Ma quelle erano sciocchezze! Cose simili non potevano accadere. Avrebbe acceso la luce e poi si sarebbe avvicinato a Clara dolcemente, per calmare le sue paure. Poi, quando lei si fosse ripresa, avrebbero sorriso insieme dei loro assurdi, impossibili terrori. Le sue dita ripresero a tastare la parete, in cerca dell'interruttore. «No! Non farlo!» supplicò la voce. Dalle profondità della mente di Boyd, qualcosa emerse di colpo, un pensiero di nessun significato, all'inizio, ma che a poco a poco divenne sempre più insistente. «Come... come sai ciò che sto facendo?» sussurrò alla fine. «È troppo buio perché tu possa vedermi. Io non ti vedo.» «Io vedo ogni tua mossa», rispose la voce. «Posso vedere in questa stanza buia, come tu riesci a vedere alla luce del sole.» «Ma come? È buio pesto, qui! Come puoi vedermi?» «Oh, Boyd», gemette la voce. «Lo sai benissimo perché posso vederti al buio, come alla luce. Lo sai benissimo!» «Non ci credo», rispose Boyd con voce rauca. «Ti dico che non ci credo! No!» Di nuovo le sue dita annasparono per trovare l'interruttore. «Adesso accenderò la luce.» «Non devi! Ti dico che 'non devi'!» Si udì uno scatto e la stanza s'inondò di luce. Per un attimo che gli parve un'eternità, Boyd rimase immobile presso la porta, fissando con occhi atterriti un piccolo corpo coperto di pelliccia che rabbrividiva e si raggomitolava nell'angolo. Poi uno scalpiccio di zampe. Il corpo flessuoso e felino sfrecciò accanto a lui, schizzò fuori dalla porta con un grido che era quasi umano. IL FANTASMA MOLESTO di Emil Petaja
I gabbiani, con il ventre sazio di uova di aringhe, sospesero il loro continuo volteggiare per andare ad appollaiarsi sull'insegna sbiadita di Tessa Alder, aggiungendo un tocco di realismo alla trovata pubblicitaria di Tessa, un po' lugubre ma commercialmente efficace, per attirare nel suo piccolo negozio di libri e di articoli per regalo i turisti e gli abitanti della città. Quel brav'uomo d'un padrone di casa non era disposto a far niente per migliorare le precarie e disastrose condizioni della facciata del doppio appartamento (o di qualsiasi altra parte dello stabile), perciò Tessa, con la sua naturale predisposizione per un acuto realismo e la sua innata stravaganza, aveva dipinto la scritta «L'antica bottega del Fantasma» sopra un vecchio pezzo di legno restituito dal mare e l'aveva sistemato sul muretto di mattoni, davanti alla finestra. Di tanto in tanto, quando qualche giovane coppia le chiedeva trattenendo il respiro chi fosse il fantasma che perseguitava il negozio e perché, lei improvvisava invariabilmente qualcosa di molto verosimile. Quel giorno, dopo che il cielo aveva riversato torrenti di pioggia parecchie volte, il tempo si era mantenuto burrascoso, con un ennesimo preannuncio di tempesta. Nell'interno del negozio, Tessa stava offrendo il tè alla sua amica Verbena Smith. «Qualche volta gli artisti prendono il veleno, non è così, Verbena?» stava dicendo Tessa, con la voce mite e dolce. Le due donne discutevano del film della sera precedente, un musical grandioso. Verbena Smith si lisciò il colletto color lavanda e sorrise incerta. Avrebbe voluto che Tessa non divagasse a quel modo. La gente le domandava spesso se per caso la sua amica Tessa Alder non fosse un po' tocca, e Verbena rispondeva con un «no» che non sempre suonava convincente. Ma le piaceva prendere il tè con Tessa e andare al cinema con lei. E poi Tessa era «vecchia», aveva sessantasette anni, mentre lei ne aveva solo sessantadue. «Ancora un po' di tè, cara?» offrì Tessa, con un timbro di voce soave, visto che Verbena non si curava di rispondere. Verbena scosse la testa e sorbì la bevanda dalla tazza a forma di guscio d'uovo. Canticchiando a bocca chiusa, Tessa allungò la mano per prendere dalla piccola stufa a carbone la sua teiera personale di terracotta e si versò una terza tazza. Verbena tossicchiò per nascondere un sorriso. Tessa era così strana! Avrebbe usato quella brutta teiera di terracotta anche se per gli ospiti tirava sempre fuori la graziosa teiera di porcellana con il copriteiera
rosso e giallo che la stessa Verbena aveva confezionato a maglia per l'amica, in occasione del Natale. Be', forse era un modo come un altro per indicare che gli ospiti dovevano essere trattati con riguardo. Verbena era disposta ad accettare una simile ipotesi. La smorfia che le si era incollata sulle labbra per celare tutto il suo lavorio mentale voleva essere un sorriso amabile. Era decisa a farsi gioco delle strane fantasie di Tessa, a prendere in giro la poveretta. «Qualche volta s'impiccano da soli», ridacchiò Verbena. «Chi? Ah, sì. Quello che intendevo dire, Verbena, è che gli artisti sono dei tipi bizzarri. Si buttano nel loro lavoro con tale intensità che poi, quando non riescono a vendere i loro quadri e nessuno si degna di guardarli...» Lasciò la frase in sospeso, sollevando le sopracciglia con un'espressione molto significativa. Verbena sorrise. «So a chi stai pensando. Alludi al giovanotto del piano di sopra.» «Il signor Teufel. Può darsi. Lui 'è' un artista e adesso che ci penso, non credo che venda molti quadri.» «Non ne vende affatto», precisò Verbena. «Parlavamo di lui non più tardi di ieri, al Ladies' Sewing Bridge Club.» «Oh, davvero?» «Il marito della signora Abernathy sa tutto di lui. Non può pagarsi l'affitto. Anzi, non può pagarsi niente. Ha tentato di ottenere un prestito dalla banca, ma il signor Abernathy non ha voluto concederglielo perché non ha garanzie. Figurati il tuo signor Teufel che offre uno dei suoi quadri fantastici come garanzia! Il signor Abernathy ha detto che se il signor Heckle, il droghiere, è così sciocco da accettare uno di quegli sgorbi in cambio di cibo, è padronissimo di farlo. Ma la sua banca, che sa quello che fa, non se lo sogna neppure.» «Povero signor Teufel.» Tessa scosse la testa e si riempì un'altra tazza. «Ma perché, dico io, non se ne va a lavorare?» commentò Verbena. «Oh, Tessa, c'è un altro gabbiano sulla tua insegna.» «Lascialo stare», ribatté Tessa. «E che altro fanno le care signore del Circolo in questi giorni, Verbena?» «Oh, stanno facendo cose meravigliose per la comunità, Tessa. Solo la nostra fiera benefica ha ricavato denaro sufficiente da poter piantare fiori lungo tutto il marciapiede e da tenere in vita perlomeno un altro anno il club degli 'Amici degli Animali'.»
«Povero signor Teufel.» Evidentemente, i pensieri di Tessa seguivano il corso di poco prima. «Perché dici così, Tessa?» Verbena trovava molto irritante quel modo di fare dell'amica. In effetti, aveva sperato di tutto cuore di poter ottenere, dalla sua visita all'amica, qualche notizia piccante da riferire alla riunione di quella stessa sera. «Di certo, tu devi sapere qualcosa sul conto del signor Teufel, qualcosa che noi non sappiamo. Qualche particolare 'interessante'.» «Non ascolto mai dietro le porte, io», ribatté Tessa. «No certo, ma...» Verbena rigirò la tazza con un gesto impaziente. «E del resto, non servirebbe, con il signor Teufel. Ha un grammofono che suona a tutte le ore, tenendolo al massimo volume. E da qui, si può udire ogni passo, il soffitto è così sottile.» Verbena posò la tazza e piegò la testa da un lato. «Non sento niente.» «Il signor Teufel dorme.» «Alle tre del pomeriggio?» si stupì l'altra. «Il signor Teufel dorme sempre fino alle quattro. Credo che gli piaccia dipingere di notte, sebbene avessi sempre creduto che gli artisti preferissero la luce del sole, a quella artificiale.» Verbena tirò su con il naso. «Per le porcherie che dipinge, non vedo proprio che differenza faccia. Quelle orribili chiazze di colore, senza un contorno ben definito!» «Ad ogni modo, vorrei proprio che dipingesse di giorno», sospirò Tessa. «Per riuscire a dormire, devo sempre mettermi un cuscino sulla testa, con tutto il fracasso e la musica selvaggia che fa!» «Riceve qualche visita?» domandò Verbena, chinandosi in avanti. «Qualche ragazza, forse?» «No, che io sappia. E del resto, dubito che qualcuno venga a fargli visita.» «Oh.» Verbena aveva ormai perso tutto il suo brio. Si alzò di colpo e dichiarò: «Be', cara, devo correre a casa a dar da mangiare a Poo». «Il tuo gatto», commentò Tessa, con voce indifferente. Le due amiche rimasero a chiacchierare ancora qualche minuto sulla porta della veranda stile rococò. Poi, Tessa rimase a guardare l'amica pettegola che camminava a passettini fra le pozzanghere rimaste nel patio di mattoni e che erano destinate a riempirsi fra non molto. Tutto a un tratto si
udì un pesante scalpiccio di passi, prima al piano superiore, poi giù per le scale. Il signor Teufel, magro e sparuto, passò correndo davanti a Verbena, con tale violenza che l'ombrello della signora volò via, andando a finire per terra oltre il marciapiede. Sul volto scarno del pittore apparve una smorfia che voleva essere un sorriso, quando si chinò per raccogliere l'ombrello e restituirlo alla proprietaria. Verbena mandò uno strillo e si tirò indietro, quasi il signor Teufel fosse stato un cobra. Allora il pittore corrugò la fronte e con aria accigliata borbottò: «Buh!» Verbena scappò via. Il signor Teufel si girò verso Tessa e le rivolse un largo sorriso. La donna sorrise a sua volta, poi entrò nel negozio e si versò un'altra tazza dalla teiera di terracotta. Dopo un po', mentre se ne stava seduta a osservare la luce che svaniva con le prime ombre della sera, con un gesto dettato dall'abitudine si rannicchiò nella poltrona. Il sole mandò un ultimo tripudio di luce, prima di tuffarsi dietro i Farallons. Elargì una pennellata di rosso acceso ad Alcatraz e alle popolose colline di San Francisco, tinteggiò di rosa la massa delle nubi che cingevano l'orizzonte, nella East Bay. Era uno spettacolo a cui assisteva tutti i giorni, eppure Tessa ne restava colpita ogni volta, ma ora, quando l'intensità del tramonto si affievolì e la Baia parve somigliare a un sudario, la donna fu scossa da un brivido. C'erano i gabbiani, molti gabbiani che volteggiavano ambigui nel cielo pesante. Sembravano avvoltoi e il loro grido, come l'ultimo bagliore del sole, non faceva che intensificare il malinconico preannuncio di morte. Tessa cominciò a pensare a Herb. Era l'ora in cui pensava sempre a lui. Si versò un'altra tazza di sherry dalla teiera di terracotta e lasciò che Herb dominasse i suoi pensieri. Lui ci sarebbe riuscito comunque. Ripensare al marito defunto presentava certi aspetti divertenti, tutto sommato. Forse perché da vivo, lei gli aveva permesso di tenere possesso assoluto delle proprie emozioni e dei propri pensieri. Sicuro. Herb era stato un uomo avido, da quel lato. Aveva sempre voluto che Tessa gli concedesse la massima considerazione, in ogni istante della giornata, anche quando si trattava dei pensieri più intimi di lei. E in un certo senso, Tessa l'aveva sempre assecondato. Non c'era ragione di credere che il carattere di Herb fosse cambiato, ora che era morto, anche se fisicamente se n'era andato.
No, Herb non poteva cambiare. Sarebbe rimasto egoista e vendicativo come al solito, finché non ci fosse stato più niente da arraffare. Naturalmente, lei l'aveva amato. Era bello, sfacciato, divertente. L'aveva affascinata completamente. Era stato in seguito, anni più tardi, che i tratti negativi erano diventati più evidenti e l'avevano come avviluppata in quello che apparentemente era un desiderio calcolato e studiato per soffocarla e schiacciarla. Ma Tessa non era tipo da lasciarsi schiacciare facilmente. Perché nonostante i suoi voli di fantasia e la sua svagatezza, Tessa era una donna pratica. Tanto pratica da farlo impazzire di rabbia, certe volte. Lei sì rifiutava di accettare pretesti e motivi superficiali, analizzandoli uno per uno. Vedeva ormai nell'intimo di Herb come se fosse fatto di plastica e dopo un po', questo portò l'uomo a odiarla. Non poteva più mentire con lei, né escogitare pretesti e scuse banali. Tessa intuiva sempre quello che c'era sotto sotto, e glielo diceva con la sua voce calma e dolce. Quando ebbe l'attacco cardiaco, soprattutto per eccessiva indulgenza verso se stesso nonostante i periodici, severi avvertimenti del medico, Herb se l'era presa con Tessa. Lei avrebbe dovuto fermarlo, moderarlo. Come avrebbe potuto, con un tipo caparbio e ostinato come lui, era un particolare che Herb non si era mai curato di prendere in considerazione. Doveva prendersela con qualcuno, e così se l'era presa con Tessa. Cominciò a tormentarla e a renderle la vita difficile con innumerevoli piccoli dispetti e angherie che avrebbero certamente distrutto e schiacciato una creatura meno coraggiosa della piccola Tessa. Herb aveva perso anche il suo aspetto affascinante. I lineamenti del viso, che in passato rivelavano una fierezza e una volontà eccezionali, si erano trasformati gradualmente, fino a diventare l'espressione della diffidenza e di un sadismo celato. Non era stato più in grado di lavorare e Tessa aveva investito il poco denaro che lui non aveva dissipato o speso in medici e medicine, nella «Bottega del Fantasma». Ed era riuscita a ricavarne qualcosa. Non molto, ma quel tanto che bastava per renderli indipendenti, se lei era cauta. L'esistenza in comune con Herb aveva lasciato a Tessa una sola cosa, buona o cattiva secondo l'interpretazione: le aveva lasciato una certa predilezione per lo sherry, anche se scadente. Lo sherry in parecchie occasioni si era rivelato un grande conforto; dopo che Herb si era ammalato, tanto ammalato da non poter far niente se non restarsene seduto in poltrona e lasciare che Tessa lo servisse di tutto punto mentre lui sbraitava sulle condi-
zioni del mondo, anche lo sherry era sparito. Niente più sherry per Herb: l'avrebbe ucciso. E allora, niente più sherry anche per lei, perché Herb non poteva berne. Era vero che non erano in condizioni di concedersi dei lussi, ma un bicchierino di sherry non avrebbe fatto gran differenza. Solo che Herb aveva detto di no, ed era semplicemente inammissibile contrariarlo. Herb era diventato intrattabile anche per altri aspetti. Non voleva che Tessa facesse una passeggiatina fino al molo, o che andasse al cinema, o che avesse delle amiche. Ogni minuto della sua esistenza doveva appartenere a lui. E Tessa, qualche volta, aveva desiderato un bicchierino di sherry, oppure le sarebbe piaciuto vedere l'ultimo film di Gregory Peck o ascoltare i pettegolezzi di Verbena. Le sarebbe piaciuto tanto, ecco. Ma Herb trovava sempre un'infinità di motivi logici (per lui) per cui sua moglie doveva rinunciare a queste cose. E allora, era molto più facile lasciarlo fare a suo modo. Era più facile restarsene in casa ad accudire a lui e ad ascoltare le sue lamentele e le sue imprecazioni, perché se lei non ubbidiva, Herb gliel'avrebbe fatta pagare, un giorno o l'altro. Questa insistenza nel vendicarsi per ogni minima contrarietà giunse a eccessi fantastici. Herb aveva la vista debole, tanto che ben presto non fu più in grado di leggere. Ma sembrava aver sviluppato una seconda vista per tutto quello che faceva Tessa. Lui doveva sapere tutto ciò che accadeva, anche ogni minima cosa. Non si fidava assolutamente della moglie. Sarebbe stato capace perfino di accusarla di volerlo avvelenare! Sicuro, così lei poteva metter da parte un bel gruzzoletto per sé, o per qualcun altro che si sarebbe intrufolato in casa più tardi. Perciò lui, Herb, aveva dovuto prendere le sue precauzioni. E soprattutto doveva prendersi la sua vendetta, anche quando le ragioni di tale comportamento esistevano solo nella sua immaginazione. Piccole cose, certo. Eppure tanti piccoli orrori, accantonati l'uno dopo l'altro, potevano portare una persona alla disperazione. Tessa aveva cominciato a sognare e nei suoi sogni non c'era mai posto per Herb. Ed essendo una persona essenzialmente pratica, i suoi sogni avevano preso a orientarsi verso la realtà. Herb era debole di vista. Per questa ragione e per altri motivi egoistici, lui aveva insistito per avere a portata di mano, sopra un grande tavolo rotondo e vicino alla sua poltrona, un'intera collezione di piccoli oggetti. Oltre alla medicina per il cuore, c'erano un vasetto con il sale, la mostarda, un album di fotografie e un caleidoscopio di altri innumerevoli oggetti.
Il giorno in cui Herb aveva preso una bottiglietta d'aceto e stava per riempirsi il bicchiere che Tessa gli aveva preparato per la medicina, le fantasticherie della donna avevano cominciato a prender forma. Sapeva che in bagno c'era un'altra boccetta con una medicina che non era veleno, ma che certamente avrebbe ucciso una persona ammalata di cuore. Sapeva anche come costringere Herb a servirsi da solo, quando fosse giunta l'ora di prendere la medicina. Tessa non voleva uccidere Herb. Oh, no. Ma avrebbe fatto in modo che si uccidesse da sé. La pericolosa boccetta trovò un posticino fra gli oggetti sistemati sul tavolo rotondo di Herb. E sarebbe stato divertente, osservare quanto tempo sarebbe occorso perché lui ne prendesse qualche goccia, credendo di prendere la solita medicina. Tessa aveva escogitato un'infinità di pretesti per uscire dalla stanza quando era l'ora della medicina, e aveva preso l'abitudine di spiare da dietro i tendaggi del soggiorno per vedere che cosa accadeva. Aveva sempre trattenuto il fiato, in quei momenti. Poi tirava un sospiro di sollievo, ogni volta che Herb prendeva la boccetta. Dopo parecchi mesi, aveva cominciato a tirare sospiri di sollievo, senza trattenere il fiato. Passò un anno o poco più. Un anno che le era sembrato assai più lungo. Tessa sognava più che mai. Non solo avrebbe riavuto il suo sherry, quando Herb se ne fosse andato per sempre, ma le sarebbe rimasto parecchio denaro per cavarsi i suoi capricci, sherry compreso. Durante quel lungo periodo di attesa e di fantasticherie, Tessa era giunta alla determinazione che «se» qualcosa fosse accaduto, lei non si sarebbe privata di nulla. Tutte le sere si sarebbe scolata il suo bicchierino di sherry. Sicuro! Finalmente era accaduto; ce l'aveva fatta. Tessa posò la tazza e si preparò a chiudere il negozio per la notte. Canticchiando in sordina alcuni brani di vecchie canzoni mescolate tutte insieme, tolse dalla finestra il cartello con scritto sopra «Aperto», chiuse la porta a chiave e spense la luce. Fuori, i gabbiani intrecciavano strani voli nel vento. La marea saliva contro il frangiflutti, e l'insegna del negozio scricchiolava dolcemente. Minuscole gocce di pioggia punteggiavano l'oscurità. Tessa si diresse verso il proprio letto tastando le pareti, i tendaggi, i contorni familiari dei vecchi mobili. Se ne andò a letto come una bambina. Non c'era niente al mondo che potesse impedirglielo. Non c'era Herb, con la sua voce querula e stridente, e neppure il signor Teufel, con la musica
selvaggia del suo grammofono e i suoi passi pesanti. Il signor Teufel era uscito. E il contenuto della teiera di terracotta le dava un senso di intimo calore e di contentezza. Ma d'un tratto, il calore svanì, e qualcosa di gelido come il ghiaccio entrò nella camera buia. Era la camera che lei e Herb avevano diviso per tanti anni. E adesso, quella ventata gelida la faceva tremare e rabbrividire, svegliandola completamente. Con uno sbadiglio, si mise a sedere sul letto. «Herb?» sussurrò, dopo un lungo momento. «Sei tu?» Nessun segno, tranne quella folata di gelo. Ma per una misteriosa ragione, lei «sapeva». Tutti gli anni trascorsi con lui, le avevano dato un sesto senso. Poteva «sentire» quegli occhi di un grigio sbiadito, sempre socchiusi, che l'osservavano senza posa, come quando era vivo. Cattivi, sospettosi, vendicativi. «Herb!» Non aveva paura, no. Ma era sconcertata e provava un senso di disagio. Non era bello da parte di Herb tornare indietro a quel modo. La voce di Tessa tagliò bruscamente l'oscurità: «Lo so che sei lì, seduto comodamente nella solita poltrona, com'era tua abitudine. Ebbene? Perché non rispondi?» Silenzio. Di colpo, lei capì che Herb era realmente seduto nella sua orribile poltrona. E pensare che aveva deciso di liberarsi di quella seggiola subito dopo il funerale, ma per una ragione o per l'altra non l'aveva fatto. «Herb Alder! Lo so che sei in questa stanza! Potresti anche farti vedere, no?» I muscoli del collo le si contrassero. Sapeva che qualcosa di strano stava per accadere. E infatti accadde. Sebbene la stanza fosse ermeticamente chiusa tanto da non lasciar filtrare un filo di luce dall'esterno, lei sapeva perfettamente in quale direzione guardare. E i suoi occhi si appuntarono da quella parte. La poltrona cominciò a brillare. Era una massa confusa e fosforescente dapprima, che a poco a poco prese forma fino a divenire la figura di Herb. Poteva vedere tuttora la poltrona dietro di lui, come se la figura fosse incisa sulla plastica. «Ce ne hai messo del tempo!» lo salutò Tessa. «Che cosa vuoi? Oh, capisco! Sei tornato per spiarmi, per controllare tutto quello che faccio, come prima. Bene, lascia che ti dica una cosa, Herb: ieri sera sono stata al cinema. Con Verbena. Sicuro, la vedo quasi tutti i giorni, da quando sei morto. E mi bevo anche lo sherry. Litri di sherry, Herb. Come tu non ti saresti mai sognato di lasciarmi bere. Ti va, l'idea, Herb?»
Alla figura seduta in poltrona l'idea non andava affatto. Infatti assunse una tinta rossastra e si allungò, quasi volesse toccarla. Tessa cominciò a ridere. «Cerchi di spaventarmi, eh? Lascia che ti dica un'altra cosa, Herb: non mi hai mai fatto paura, con i tuoi urli e i tuoi rimbrotti. Non mi hai mai fatto paura, e non me ne fai neppure adesso.» Non gliene importava niente dei gesti frenetici del fantasma. Aveva sempre desiderato di vuotare il sacco, con Herb. Ed ora che era morto, poteva levarsi anche quella soddisfazione. Con aria trionfante, riprese: «Da un bel pezzo ero stufa di te, Herb! Di te, dei tuoi stupidi sospetti e delle tue sfuriate idiote. Senza contare le tue ridicole vendette, quando eri convinto che ti trascurassi. Ebbene, mi son presa anch'io la mia piccola parte di vendetta! Lo sai come, Herb? Non te l'hanno detto, nel mondo in cui sei finito?» La figura spettrale s'increspò come le alghe fosforescenti nell'oceano in una notte senza stelle. «Sorpresa, sorpresa, Herb!» ridacchiò Tessa in tono quasi isterico, ora era giunto il momento di raccontare al marito tutto ciò che le stava sullo stomaco. «Sono stata io a ucciderti, Herb! Sono stata 'io' a mettere quella medicina sul tuo tavolo zeppo di cianfrusaglie! Ho dovuto attendere un bel po', prima che tu prendessi dal tavolo quella boccetta! Ma è stato un gioco che mi divertiva immensamente, mentre aspettavo. Che ne dici, Herb?» Herb espresse la sua disapprovazione allungandosi quasi fino al soffitto. Sembrava una torre luminescente che sprizzasse rabbia da tutta la sua altezza. Le sue labbra si muovevano, e sebbene non ne uscisse alcun suono, pareva dicessero: «Lo sospettavo. Ecco perché sono tornato. Ora che lo so con certezza...» «Che cosa credi di poter fare, Herb?» lo interruppe Tessa. «Che cosa puoi farmi?» Ricadde indietro sul letto, scossa dalle risate. Un pallido riflesso di luce filtrò nella camera, un tenue preannuncio del giorno che sorgeva. Una nuova folata di aria gelida spazzò per un secondo la stanza ancora avvolta nel buio, e poco prima che Herb svanisse, Tessa fu certa di sentirlo gracchiare con la sua voce stridente: «Io mi prendo sempre la mia vendetta, Tessa. Goditi la tua libertà, finché puoi, perché ti resta da folleggiare solo fino a domani sera...» Il giorno dopo, Tessa accudì svogliatamente ai consueti doveri quotidia-
ni. Nonostante cercasse di non pensarci, non riusciva a togliersi dalla mente quelle parole. Inoltre, sentiva la testa pesante, per le abbondanti libagioni del giorno precedente. Era stata una sciocca a dire a Herb di esser stata lei a ucciderlo! Che idiozia! E adesso lui, come al solito, voleva vendicarsi. Quella minaccia sussurrata con voce rauca: «Domani sera...» Non le lasciava molto tempo, davvero! Più ci pensava, più si sentiva invadere da un senso di disagio. Non aveva le idee molto chiare, riguardo a ciò che Herb avrebbe potuto farle, anche da morto. Ma non c'era dubbio che avrebbe fatto qualcosa. Andate a fidarvi di Herb. Chissà quale diavoleria stava escogitando. Il suo pasto frugale, composto di formaggio fatto in casa e di pesche sciroppate, fu interrotto bruscamente dal suono acuto della campanella sopra la porta del negozio. Tessa si affrettò verso la porta d'ingresso. «Desiderate?» Era una giovane coppia di sposi in luna di miele, che si erano lasciati incuriosire dalla strana insegna della bottega del Fantasma. «Scusate, il negozio è davvero abitato dagli spiriti?» cinguettò la sposina. «Sì», rispose Tessa, corrugando la fronte. Era stata un'idea piuttosto bizzarra, quella di inventare storie di fantasmi per i turisti. Un'idea che proprio non si rivelava molto felice, date le attuali circostanze. «Davvero?» balbettò la sposa novella. Il maritino la guardò con passione. «Ma chi è il fantasma che abita nella bottega?» s'informò. «Mio marito», rispose Tessa. «No!» La giovane sposa afferrò il risvolto della giacca del maritino e vi tuffò il viso per nascondere un sorriso. «Hai sentito, caro? Non è grazioso quel piccolo elefante cinese in vetrina?» «Se tu lo credi, amore. Ma perché viene qui, il fantasma?» Le labbra del giovanotto s'erano piegate in una smorfia di dubbio. «Vuole vendicarsi», spiegò Tessa, con voce leggera. «È stato assassinato ed è tornato per...» «Chi l'ha assassinato?» Il giovanotto cacciò fuori un dollaro per l'elefante. Tessa prese il denaro, gli occhi fissi sull'uomo. «Nessuno!» sbottò. «È solo una storia!» I due giovani sposi se ne andarono, commentando con voce sommessa l'originalità di quel negozio e della sua strana insegna. Tessa afferrò un og-
getto a portata di mano, con l'impulso di scaraventarlo dietro la coppia, ma poi si accorse che si trattava della teiera di terracotta, non completamente vuota. Allora si lasciò cadere sulla sedia accanto alla finestra e bevve un goccio. Dopo altre due sorsate cominciò a calmarsi. Doveva pensare. «Pensare». Che cosa avrebbe escogitato, Herb, e come poteva sventare i suoi piani, lei? Era già l'una passata. Non le restava molto tempo. Pensa in fretta, Tessa! Devi pensare in fretta. In quel momento, qualcosa s'insinuò nei suoi pensieri, interrompendone il corso. Musica. Musica infernale che scendeva dal piano superiore. A quell'ora! Il signor Teufel era già alzato e suonava quel maledetto grammofono. A una nenia che ricordava un canto funebre, seguì una cascata di note di musica selvaggia. Tessa non poté fare a meno di ascoltare. Dopo un po', la colpì il pensiero che il signor Teufel pareva voler fare una calcolata selezione di brani musicali. Una musica che faceva pensare a un susseguirsi di emozioni. E finalmente, quando una banale interpretazione di «Addio» cominciò a percuoterle i timpani, Tessa balzò in piedi. Quando il disco attaccò la melodia per la terza volta, la donna era al piano superiore che sbirciava attraverso le stecche di bambù della persiana dello studio. «Signor Teufel, no!» esclamò Tessa, a un certo punto. «Non dovete farlo!» Il giovane pittore era nello studio, occupato a impiccarsi alla trave centrale del soffitto. Tessa martellò la porta senza risultato; allora scese di corsa a prendere le sue chiavi e provò ad aprire. Una fra le tante, con l'aggiunta di un'energica spinta alla porta, le permise di entrare. Lo studio era vasto ma terribilmente disadorno. Il pavimento nudo e sporco lo rendeva anche più gelido; l'arredamento dell'artista consisteva principalmente di scatole di chiodi e di casse color arancione. Mancava decisamente la gaia atmosfera bohémienne che si trova solitamente negli alloggi dei pittori. Sul cavalletto, c'era un dipinto a olio, incompiuto, ma la tela era stata squarciata a metà, come se qualcuno vi avesse infierito in un momento di rabbia incontenibile. «Fermatevi, subito!» ordinò Tessa al giovane dal viso emaciato, che tentava ripetutamente di infilare la testa in un cappio rudimentale. «Perché dovrei fermarmi?» ribatté lui, guardandola dall'alto di una cassa
con sguardo corrucciato. «Prima di tutto, perché non si fa a quel modo», spiegò Tessa. «Si infila sempre prima il cappio intorno al collo, poi si fa un doppio nodo, e poi si salta... attento!» «Che cosa aspetti, amor mio?» gracchiava il grammofono, «... le foglie devono cadere, gli agnelli devono morire...». Tessa interruppe bruscamente la melodia sollevando la puntina del disco. Il pittore la guardò con aria inebetita, poi si lasciò cadere sulla cassa, restandovi seduto. Tessa attraversò la stanza a passo di carica; lo studio del signor Teufel era la riproduzione esatta della sua camera da letto, con la differenza che vi mancavano i mobili e aveva la trave nel centro. Sarebbe bastato ripulirlo un poco, appendervi qualche quadro e stendere sul pavimento un paio di tappeti, e lo studio avrebbe avuto un aspetto decente. La donna rivolse la propria attenzione all'artista. «Fate un sacco di rumore a tutte le ore», lo rimproverò con voce severa. «Non vi rendete conto che dovreste lavorare di giorno e dormire di notte?» «Allora perché non mi lasciate finire il lavoretto che avevo iniziato?» ribatté lui, amaro. «Facciamo una bella cosa: adesso voi scendete, e dimenticate ciò che avete visto, d'accordo?» Il suo volto s'illuminò di un pallido sorriso. «Non servirebbe a niente», osservò Tessa. «Quello di cui avete bisogno, sono i mobili. Questo posto somiglia a un granaio.» «Sicuro, ho bisogno di un sacco di cose, talento compreso.» Teufel si alzò in piedi e prese a misurare la stanza a grandi passi. L'eco dei suoi passi pesanti era per Tessa un suono familiare, sebbene, ora, le sembrasse più attutito di quando lo ascoltava a pianterreno. Camminare su e giù era una delle cose che il signor Teufel sapeva fare alla perfezione, mentre la sua mancanza di talento era il problema che lo arrovellava. «Chi dice che non avete talento?» Gli occhi penetranti di Tessa si spostarono su un angolo, dov'erano ammucchiate numerose tele. Come quella che si trovava sul cavalletto, le tele erano tutte squarciate. «Tutti lo dicono», rispose il pittore con voce irritata. «Ieri, era la mia ultima occasione per dimostrare a me stesso che un giorno o l'altro avrei potuto diventare un artista, un artista passabile. Un critico di Parigi si trovava a San Francisco. Tutti gli altri avevano dichiarato che non valgo un soldo bucato, ma Charles Demeaux non la pensa mai come gli altri critici. Una volta aveva aiutato un mio amico, una nullità come me, solo per la forza d'espressione che lui vedeva nei suoi dipinti. Il mio amico gli aveva parlato
di me e ieri m'era arrivata una lettera con la quale Charles Demeaux m'informava di esser disposto a concedermi un breve appuntamento, dal momento che oggi sarebbe partito. Ieri sera ho aspettato sotto la pioggia fino alle dodici e mezzo, finché lui è tornato a casa dallo spettacolo del balletto. Demeaux è stato molto gentile: mi ha imbottito di 'crêpes suzettes' e di innumerevoli bicchieri di vino, ma quando siamo arrivati a discutere dei miei quadri...» «Non gli sono piaciuti?» Una smorfia di desolato sconforto piegò le labbra dell'artista. «Non ha detto proprio così. È stato anche troppo gentile, troppo cortese. Ma il succo è questo: nessun talento. Nessuna espressione. Nessun futuro nell'arte. Niente!» Il signor Teufel aveva scritta sul volto la sua ossessione. Il suo mondo era crollato. Tessa fece un tentativo per confortarlo. «Devono pur esservi altri critici, diamine! Forse voi precorrete i tempi.» «Gli altri, può darsi; ma non io», ribatté il pittore arricciando le labbra. «Se non altro, io so essere onesto con me stesso. Non valgo niente. Non sono mai stato un artista e non lo sarò mai.» «Non capisco esattamente», confessò Tessa, quasi sottovoce. «No, non potete capire!» Il signor Teufel cominciava a scaldarsi. «Voi non sapete un accidente di queste cose, perciò perché non ve ne andate fuori dai piedi e non mi lasciate in pace? Nessuno capisce un accidente! Il mondo è pieno di imbecilli sadici che si fingono animati da buone intenzioni. Puah! Sganciate le vostre bombe atomiche! Più presto sarà, meglio sarà.» Tessa sbarrò gli occhi per lo stupore, poi li socchiuse. «E allora?» Il signor Teufel la guardò con aria beffarda. «Non andate a chiamare la polizia o qualcun altro?» «Nossignore», rispose Tessa. «Ho un lavoro per voi.» L'espressione sul viso del pittore le rivelò chiaramente che cosa ne pensasse l'artista, del lavoro. Ma Tessa si limitò ad attendere. «Bene, se sono costretto a ritardare il mio ultimo viaggio, immagino che dovrò pur mangiare qualcosa. Che genere di lavoro?» «Voglio che mi diate una mano a spostare dei mobili. Sì, ve li regalo, signor Teufel, in cambio di un piccolo favore.» Quella notte, Tessa dormì perfettamente. Era andata a letto raggiante di soddisfazione per aver compiuto una buona azione. Non c'era niente di più
soddisfacente, rifletté prima di lasciarsi andare dolcemente fra le braccia di Morfeo, quanto la consapevolezza di aver fatto del bene a un altro essere umano. Era quasi l'alba quando si svegliò con un sobbalzo. Il pensiero che l'aveva svegliata di colpo era la sensazione di aver dimenticato qualcosa, oppure di non aver sentito la sveglia o di aver lasciato acceso tutta la notte il termosifone a gas. «Qualcosa...» Eppure, ripensandoci, non era successo niente di tutto questo. Le molle del letto mandarono un gemito, quando si sollevò sui cuscini. Frugò il buio con occhi penetranti, ma non vide alcuna luce da nessuna parte. Eppure, aveva l'impressione che le fosse sfuggito qualcosa. «Herb?» Il suo sussurro vibrò nell'oscurità, ma non ottenne risposta. Poi un suono leggero, simile a un sospiro. Oppure era solo un gabbiano che scivolava silenzioso sulle acque cupe. Tessa preferiva credere che non fosse un gabbiano. Spinse da parte le coperte e lasciò scivolare le gambe sullo scendiletto. Cercò con la punta del piede le pantofole orlate di pelle di pecora e le calzò. Senza accendere la luce, trovò la vestaglia e se l'infilò, liberando dal colletto i lunghi capelli neri con un gesto abituale. Poi si diresse verso la porta. Si fermò un attimo ad ascoltare il risucchio della marea che si allontanava dalle rocce, poi a passi leggeri andò alla porta del signor Teufel e rimase in ascolto. Non sentiva niente. Infilò la chiave nella serratura e spinse la porta. Aveva udito strani rumori, là dentro, suoni e movimenti misteriosi. Ma ora c'era solo buio e una folata d'aria gelida, come se una tomba fosse stata aperta e richiusa. «Signor Teufel!» chiamò a voce alta. Sapeva esattamente dov'era il letto. Sapeva esattamente dove si trovava ogni mobile e ogni oggetto, poiché aveva regalato al signor Teufel la maggior parte dei mobili di quella stanza e aveva aiutato il pittore a disporli nel locale. «Siete lì, signor Teufel?» Nessuna risposta. «Herb?» Niente. Tessa mandò un profondo sospiro e tirò il cordoncino che accendeva la
lampada del soffitto. La stanza parve animarsi di colpo. Ecco. Laggiù c'era la grande poltrona di Herb che lei aveva regalato al signor Teufel. E vicino alla poltrona, il vecchio tavolino di Herb, quello che lui usava ingombrare di cianfrusaglie. Ora, però, c'era solo una boccetta vuota. Sulla bottiglietta non c'era etichetta, ma somigliava alla medicina che Herb aveva preso un tempo, e che poteva essere fatale anche per un cuore normale. Era stata un'imprudenza non averla gettata via e aver tolto scrupolosamente l'etichetta. Tessa non la toccò. Vi sarebbero rimaste le impronte digitali. Il letto era in gran disordine, come se il signor Teufel vi si fosse rivoltato in preda a dolori atroci, o sotto l'influsso ipnotico di qualche spettro perverso. Ma ora che era morto, il signor Teufel appariva calmo, sereno, in pace con il mondo... o sul punto di lasciarlo per sempre. Per un attimo, Tessa sorrise, come a un ricordo insistente. Poi con passo leggero uscì sulla veranda e chiuse la porta dietro di sé. Il cielo era più chiaro, ora. Ci sarebbe stato il sole, quel giorno, un bel sole caldo. Tessa si appoggiò alla colonna stile rococò e tirò un sospiro. Se Herb non fosse stato così ostinato nella sua vendetta! Ad ogni modo, ora poteva riposare in pace. E così pure quel caro signor Teufel. Era stato così deciso a morire. Chi può fermare un uomo determinato a fare ciò che ha fermamente e definitivamente deciso? E del resto, era molto meglio che impiccarsi. Nessuno avrebbe avuto grane. Herb aveva messo in atto il suo piano alla perfezione. La sua ironica vendetta consisteva nel costringere Tessa a bere la medicina che l'avrebbe uccisa. Solo che Herb non poteva sapere che Tessa aveva convinto il signor Teufel a cambiare appartamento quello stesso pomeriggio, e il povero Herb aveva la vista tanto debole! LA RAGAZZA-LUPO DI JOSSELIN di Arlton Eadie «L'arte è eterna, ma la vita è breve, e io sono affamato come il proverbiale lupo. Se avevi intenzione di restartene appollaiato su quella nuda collina, avrei provveduto a procurarci una tenda o qualcosa del genere per accamparci quassù per il resto dei nostri giorni!» Il mio sarcasmo fu del tutto sprecato poiché era diretto a orecchie che per il momento si rifiutavano di ascoltare: Alan Grantham non si prese neppure il disturbo di guardare nella mia direzione. Se ne stava seduto, fi-
gura indistinta in mezzo alle felci, chino sul suo cavalletto, dimentico di ogni cosa al mondo tranne le meravigliose tonalità del tramonto prolungato che lui stava eternando sulla tela davanti a sé, con tocchi febbrili e magistrali del suo pennello. Ora, l'entusiasmo artistico è certamente un'ottima cosa, sotto molti punti di vista, e io stesso mi lascio spesso prendere dal fervore dell'arte, a tempo debito, ma non sono certo il tipo da farsi incantare dalla bellezza di un tramonto, dopo una lunga e snervante giornata all'aria aperta. Anche un giovane pittore di paesaggi ha bisogno di nutrirsi, di tanto in tanto, e io ero affamato quanto stanco. Alan e io eravamo sulla via del ritorno, diretti alla piccola locanda dove avevamo preso alloggio, quando il mio amico aveva visto le tre torri dal tetto a cono del lontano Château de Josselin che si stagliavano nel giallo e nel cremisi del sole morente. Niente aveva potuto trattenerlo dal tirar fuori armi e bagagli e buttar giù uno schizzo della scena che l'aveva colpito. Credendo che si sarebbe accontentato di abbozzare semplicemente un'impressione di luce con poche pennellate, avevo acconsentito a fermarci. Ma quando le vivide sfumature del tramonto si erano fatte più intense, Alan si era lasciato prendere dall'entusiasmo. Lo schizzo era diventato sempre più elaborato, e io ero diventato sempre più affamato e impaziente di scoprire che cosa ci aveva preparato per cena la nostra brava locandiera. Inoltre, mancavano perlomeno cinque chilometri per arrivare alla locanda, e i viottoli fangosi di campagna non erano troppo piacevoli da percorrere al buio. Stavo dunque per esplodere, quando svuotai la pipa contro la pietra su cui ero rimasto seduto, e mi alzai in piedi deciso ad andarmene. «Tu vieni a casa?» borbottai con una voce che risvegliò l'eco delle colline circostanti. Stavolta Alan si degnò di guardarsi intorno. «Fra un minuto», rispose. «Ho quasi finito.» «Non dirmelo!» esclamai, sarcastico. «Ma ti prego, non rovinare il tuo prezioso quadro per colpa mia! Perché non aspettiamo ancora qualche minuto? Così potrai immortalare la luna e qualche stella, e far passare il tuo meraviglioso dipinto per un 'notturno'.» Il mio amico troncò ogni ulteriore osservazione da parte mia asciugando tavolozza e pennelli, e gettando il tutto nella cassetta dei colori. In pochi secondi mi aveva raggiunto sulla stradina di campagna, reggendo in mano la tela ancora umida.
«Tu non rimpiangerai di avermi aspettato, quando avrai ammirato questo quadro», annunciò Alan ridendo compiaciuto, e sollevando la tela per farmela vedere. «Ammirerò il tuo capolavoro alla luce del giorno», tagliai corto, «Dal momento che non sono un gatto o un gufo e neppure una talpa, non possiedo il dono di vedere al buio. E questo mi ricorda che avremo bisogno di tutte le nostre capacità visive per trovare la via del ritorno a Josselin. La serata minaccia di diventare nera come le fauci di un lupo, quando l'ultimo guizzo del tuo magnifico tramonto sarà svanito. Sarà meglio che ci sbrighiamo, altrimenti madame Boussac manderà fra le colline una squadra di soccorso, pensando che siamo stati rapiti dall'Ankou, la divinità della morte che secondo la leggenda popolare vaga sulle colline e le foreste, durante la notte.» «Oppure che siamo stati divorati da un branco di demoni», suggerì Alan con un sorriso. La frase aveva un suono sinistro, poiché non avevo mai sentito parlare di demoni che divorano i cristiani. Chiesi ad Alan che cosa significasse, ma lui scosse la testa. «Oh, si tratta di una delle numerose superstizioni del luogo», spiegò scrollando le spalle. «I contadini bretoni appartengono a una delle popolazioni più superstiziose d'Europa e la leggenda del demonio divoratore costituisce una fra le loro storie preferite. Ho ascoltato certi vecchi che ne parlavano seduti attorno al fuoco, nella sala comune della locanda. «Sono riuscito ad afferrare solo qualche parola qua e là, perché parlavano dialetto bretone; ma ciò che ho potuto capire aveva un significato vagamente lugubre, sebbene fossero tutte sciocchezze, naturalmente. «Se la gente di qui credesse la decima parte delle leggende del loro folklore, be', penso che dovrebbe vivere in costante stato di terrore, soprattutto dopo il cader delle tenebre!» «I bretoni sono onesti e gentili», affermai, spinto da un senso di giustizia. «Anche se la loro mentalità è come dire... rozza, violenta, un poco primitiva.» «In questo hai maledettamente ragione», convenne Alan, assolutamente convinto. «Infatti, a dispetto della loro provata cristianità, i nativi della Bretagna sono pagani fino alle ossa. Hanno chiese e santuari, è vero, ma hanno anche preistorici 'dolmen' e megaliti druidi, rozzi massi di pietra informe intorno ai quali talvolta si tengono riti paurosi, nelle notti di luna piena, mentre il prete della parrocchia russa beatamente nel suo letto. Tutte
le loro superstizioni e i loro culti sono essenzialmente pagani, e alcuni risalgono a epoche antecedenti le prime forme di civiltà. «La loro fervente credenza nei terribili loup-garous, o lupi mannari, è un'altra espressione della licantropia degli antichi greci. È curioso, fra l'altro, come sia diffusa questa particolare tradizione. La si ritrova in Norvegia, in Russia, in Francia, in Baviera e in tutta Europa, si può dire, senza contare che esistono alcune varianti della leggenda perfino in Asia, in India, in Africa e nel Sudamerica. Considerando l'universalità di tale credenza, secondo cui gli esseri umani sono capaci di assumere le forme di animali feroci, si sarebbe tentati di credere che potrebbe esservi un fondo di verità.» «Che cos'è quello?» gridai, fermandomi improvvisamente e indicando un punto con il braccio teso. In quello stesso punto, la strada proseguiva attraverso una fitta foresta di abeti torreggianti. Sopra le nostre teste, da ogni parte, s'intrecciavano grossi rami e pesante fogliame, chiudendo fuori il debole chiarore che ancora si attardava nel cielo incupito dalle ombre della sera, cosicché il nostro sentiero sembrava un nastro grigio circondato da un mare di ombre impenetrabili. Nel muro di nero fogliame che si ergeva a sinistra della strada, a una distanza di pochi passi dal punto in cui eravamo, avevo visto qualcosa... forse due occhi che brillavano di una luce rossastra, occhi tremendi, non umani, che potevano appartenere soltanto a qualche animale feroce in cerca di preda. «Guarda... quegli occhi!» esclamai con voce eccitata, afferrando il braccio del mio compagno. «Dove?» domandò Alan, guardando dappertutto, tranne che nella direzione giusta. «Laggiù.» Ma mentre parlavo, i due punti luminosi si oscurarono improvvisamente. Alan Grantham si girò e mi lanciò un'occhiata strana. «Mio caro ragazzo, tu stai sognando! Non riesco a vedere niente che abbia la minima rassomiglianza con degli occhi. Forse stai pensando così intensamente alla tua cena, che ti gira la testa. Sei sicuro che erano due occhi, quelli che hai visto, e non due frittelle di mele?» La sua risata ironica risuonò allegra e fragorosa; ma nell'attimo successivo si spense come una trasmissione radiofonica interrotta di colpo.
«Santo cielo!» esclamò, senza fiato. Una pallida ombra grigia era emersa dai cespugli del sottobosco che costeggiavano la strada e stava attraversandola lentamente, di traverso, dirigendosi verso le ombre, dall'altra parte. Il colore neutro della creatura si fondeva così completamente con la superficie del suolo, che era difficile distinguere la sua forma reale, nella fioca luce del crepuscolo. Avevamo l'impressione, più che vederla, di scorgere una forma lunga e snella, con un muso appuntito e le orecchie ritte. Nessuno dei due parlò finché la «cosa» non ebbe attraversato la strada a passi silenziosi e ritmati, per scomparire fra i cespugli, dalla parte opposta. «È solo un cane», mormorò Alan, con una voce in cui affiorava un sospiro di sollievo. «Accidenti, mi son preso una bella paura!» Lasciai cadere l'osservazione senza fare commenti, sebbene avessi i miei dubbi riguardo la sua affermazione. La fugace visione della creatura misteriosa mi aveva riportato alla mente ricordi spiacevoli sulla frequenza con cui i lupi ricorrono nelle leggende folkloristiche della zona. «Sicuro, era un grosso cane alsaziano», ripeté il mio amico. «Dev'essere scappato da qualche fattoria poco lontana.» Sapevo perfettamente che non c'era una sola fattoria o un cottage più vicino del villaggio di Josselin, a circa cinque chilometri di distanza, ma non avevo nessuna voglia di discutere. «Andiamo avanti», suggerii. «Pensi sempre alla tua cena?» rise Alan. Aveva torto. La prospettiva di gustarmi la cena ormai ritardata, aveva preso improvvisamente il secondo posto nei miei pensieri, per colpa della spiacevole apprensione suscitata dalla misteriosa apparizione fra i cespugli. Temevo infatti che la «cosa» avesse tutte le buone intenzioni di fare di me la «sua» cena! Ero pronto a scommettere che non si trattava di un cane. E se era un lupo, ebbene, avevo sentito dire che i lupi solitamente inseguivano la loro preda a branchi, e se le mie supposizioni erano fondate, fra non molto Alan e io avremmo avuto una convincente conferma del fatto. Fino a quella sera, una delle maggiori attrazioni della Bretagna consisteva nel privilegio che la maggioranza delle sue città e villaggi erano disertati dai turisti. Josselin, per esempio, il villaggio di cui avevamo fatto il nostro quartier generale, non vantava neppure un collegamento ferroviario a binario singolo con il mondo esterno, ed era veramente cosa insolita vedere un forestiero passeggiare lungo le sue strade pavimentate di pietra. In quel momento, tuttavia, non mi avrebbe dato fastidio vedere, una fila di
carrozze della «Cook» rumoreggiare nei paraggi; invece, a eccezione di noi due, sulla strada non si vedeva anima viva. Ed era probabile che nessuno apparisse all'orizzonte, poiché il viottolo non portava in nessun posto, ma si perdeva sulla cima di una collina vicina, sulla quale si ergeva un gigantesco megalito chiamato la «Tomba del Diavolo». Avevamo percorso circa un quarto di miglio in direzione del villaggio, e io cominciavo a sperare che i miei timori fossero infondati, quando l'eco di un lungo ululato, proveniente dal fitto della foresta, ci spinse ad accelerare il passo. «A quanto pare, il tuo cagnolino deve avere un amico a portata di mano!» osservai, rivolgendo al mio compagno un sorriso privo d'allegria. «Anzi, numerosi amici, direi», soggiunsi, mentre al primo ululato ne rispondevano altri. Molti altri, da varie direzioni. «Forse sta dicendo ai suoi fratelli e sorelle canini di correr qui a farsi fare una carezza sulla schiena da due artisti sorpresi dalle tenebre!» «Non parlare a quel modo!» si lagnò Alan. «A sentirti, uno penserebbe che non ci credi, che 'sono' cani!» «Francamente, non ci credo», risposi bruscamente. «Certo che sono cani», ribatté lui con voce impaziente. «Anche i cani ululano qualche volta, non lo sai?» «Sì. Qualche volta. Ma i lupi ululano sempre, specialmente quando chiamano a raccolta il branco per inseguire una preda.» «E chi immagini che stiano inseguendo?» sogghignò lui. «Oh», risposi con aria feroce. «Non so quel che intendi fare tu, ma io ho intenzione di correre a gambe levate verso il villaggio. Ti dirò di più: ho intenzione di scaraventare cavalletto e scatola dei colori, qui, nel fossato, per correre più veloce.» Alan scosse la testa ostinato, borbottando: «Accidenti! Mettersi a correre per pochi cagnacci bastardi!» Non ebbe il tempo di aggiungere altro, perché in quello stesso istante un pandemonio di ululati e di grida rabbiose si levò dietro di noi. Da oltre la curva della strada, avanzava un branco di una dozzina di lupi. La caccia era aperta e la preda eravamo noi! Venivano avanti con il muso abbassato sul sentiero che avevamo appena attraversato. I loro occhi mandavano un bagliore rossastro al riflesso della luna nascente, e i loro corpi lunghi e snelli si tendevano con agili balzi sul terreno, a una velocità sorprendente. Mi sentii cadere il cuore, quando mi
girai e notai la rapidità con cui avanzavano. Anche se ci fossimo messi a correre come un treno direttissimo, non avremmo mai potuto distanziare quell'orda a quattro zampe che procedeva compatta e rapidissima. «No, non serve mettersi a correre», osservai. «Non faremmo che perdere le nostre forze inutilmente. Se potessimo trovare un albero...» Mi guardai intorno nella speranza di scorgerne uno su cui arrampicarci, ma invano. I tronchi alti e diritti non offrivano il minimo appiglio e i rami che si protendevano verso l'alto erano decisamente fuori portata. Tuttavia, se avessimo potuto appoggiare la schiena contro qualcosa di solido, forse saremmo stati in grado di opporre resistenza al branco assalitore. Un grosso tronco d'albero, una pietra, un masso... I miei occhi, nel frugare il versante della collina in un'ultima, disperata ricerca, si posarono sui contorni di qualcosa che mandava un pallido riflesso grigio sotto il chiarore della luna. Era il monumento che coronava la cima della collina, il masso solitario di pietra informe conosciuto come «La Tomba del Diavolo». Se soltanto avessimo potuto raggiungere quel masso e arrampicarci sulla cima, forse saremmo riusciti a tenere a bada i lupi fin quando l'alba non li avesse ricacciati nelle loro tane, in mezzo ai boschi. «Lassù, lassù!» gridai al mio amico indicandogli il masso, e cominciando ad arrampicarmi su per il pendio. «La 'Tomba del Diavolo'! È la nostra unica speranza di salvezza!» Seguì allora una scalata da incubo, fra i rovi e le felci, sui sassi scivolosi e ricoperti di muschio, sulla ghiaia che ci faceva sdrucciolare a ogni passo. Non esisteva niente che somigliasse pur vagamente a un sentiero e in qualsiasi momento avremmo potuto trovarci il cammino sbarrato da qualche invalicabile muro di roccia. Non osavo fermarmi per guardare indietro, ma sentivo il coro dei sordi brontolii e degli ululati in sordina che partivano dal branco delle belve, man mano che ci allontanavamo dalla strada per arrampicarci sulla collina. Eppure, sebbene ormai fossimo perfettamente in vista, i lupi non puntavano verso di noi seguendo la via più breve. Secondo l'istinto tramandato di generazione in generazione, la loro tattica era la solita adottata da un branco. Guidati dall'odore, più che dalla vista, seguirono le nostre tracce fino al punto in cui avevamo lasciato la strada, prima di cominciare a galoppare su per la collina, dietro di noi. Buon per noi che seguirono la via più lunga. Se l'intelligenza di un lupo fosse stata in grado di comprendere la verità del dodicesimo teorema di
Euclide, e cioè che la somma dei due lati di un triangolo è maggiore del terzo, di certo i nostri assalitori ci avrebbero tagliato la ritirata. Ma anche così la nostra fuga sembrava destinata a concludersi disastrosamente. Solo una dozzina di metri ci separava ormai dall'avanguardia del branco, quando scavalcammo l'ultimo cespuglio con un balzo e cominciammo a correre sullo spiazzo che circondava le antiche colonne di pietra. Con un senso di sollievo che rasentava l'esultanza, notai che i fianchi del monolito, screpolati e corrosi dal tempo, sebbene ripidi, presentavano alcune fenditure che ci avrebbero permesso di appoggiare i piedi per arrampicarci fino alla sommità dove, per un certo tempo, saremmo rimasti al sicuro. «Ancora uno sforzo», ansimai. «Evviva! Per il momento le belve resteranno senza cena!» Ma il mio grido di trionfo si smorzò quasi subito in un gemito di spavento. Un altro lupo, di proporzioni enormi, era emerso dall'ombra della «Tomba del Diavolo» e avanzava diritto diritto verso di noi! Anche in quell'istante di stupore inorridito, rimasi colpito dallo splendido aspetto della bestia, sebbene avrei preferito ammirare le sue forme perfette dietro una gabbia di ferro. L'animale era indubbiamente di dimensioni assai più notevoli di quanto avrei immaginato potesse essere un lupo, tuttavia non era solo il corpo che suscitava la mia ammirazione; il suo pelo era morbido e lucido, i muscoli scattanti e ben delineati, e nei suoi occhi brillava un'espressione d'intelligenza quasi umana. A differenza del branco di belve affamate e ripugnanti che ci stavano alle calcagna, l'enorme creatura spiccava come un damerino immacolato in mezzo a un gruppo di straccioni vagabondi. Tutto ciò mi passò per la mente nella frazione del tempo che avrei impiegato a raccontarlo. Mi accorsi allora che era il momento di agire con prontezza, sebbene apparisse piuttosto difficile decidere con precisione che cosa potevo fare. L'unico oggetto in mio possesso che somigliava vagamente a un'arma era un coltello con una corta lama pieghevole, d'acciaio, che di solito usavo per grattar via i colori dalla tavolozza. Aveva la punta così larga e piatta che per abitudine lo tenevo in tasca, senza piegare la lama: comunque, era sempre meglio delle mani nude, per lo scontro che ormai sembrava inevitabile. Levai il coltello dalla tasca e ripresi a correre, avvolgendo intorno alla mano destra la sciarpa che portavo al collo, per proteggermi dalle zanne della belva che avanzava verso di noi. Poi, con il coraggio della dispera-
zione, mi lanciai contro il lupo che si ergeva fra noi e il nostro rifugio di pietra. Con mia immensa sorpresa, la belva balzò di fianco per evitarci, lasciando libero il sentiero verso la cima del mausoleo di pietra. Continuammo a salire correndo, non osando credere nella nostra buona sorte. Dopo alcuni momenti giungemmo in cima all'antico sepolcro, dove esausti e ansanti ci lasciammo cadere a terra, tre metri e mezzo sopra il branco dei lupi che ululavano e ringhiavano la loro rabbia feroce. Fu allora che si verificò il fatto più sorprendente di quella sera movimentata. Il lupo solitario, invece di unirsi agli altri nei loro tentativi di scalare la roccia, sferrò un improvviso assalto contro il resto del branco. Accovacciandosi sulle cosce, il pelo ritto sul collo, le zanne scoperte, tese improvvisamente il magnifico corpo e con un brontolio cupo e minaccioso si lanciò nel mezzo degli assalitori. Trattenni il respiro, aspettandomi di vedere il coraggioso animale dilaniato e sventrato davanti ai miei occhi. Erano dodici contro uno, una situazione disperata anche per un animale coraggioso come il grosso lupo. Pure, la furia del suo attacco parve seminare il terrore fra gli altri. Per alcuni secondi ebbi la confusa visione di un vortice di corpi avvinghiati e di fauci spalancate; poi, con un urlo simultaneo di terrore, l'intero branco abbassò la coda fra le gambe e i lupi corsero come impazziti a rifugiarsi fra gli alberi, seguiti da vicino dal solitario ma imbattibile campione che li aveva messi in fuga. Uno scoppio di risa convulse ci uscì dalle labbra quando inseguitore e inseguiti scomparvero nel fitto della boscaglia. «Ebbene, Fratello Lupo ci ha reso un grosso servizio, stavolta», osservò Alan con una risata che risuonò vagamente stridula. «Perché immagino che fosse un lupo, no?» soggiunse, lanciandomi un'occhiata dubbiosa. «E che altro, se no?» ribattei, stringendomi nelle spalle. «Sembrava troppo intelligente, troppo civilizzato, oserei dire. Quasi avesse compreso la nostra posizione e il pericolo che correvamo alla prima occhiata, e volesse fare il possibile per aiutarci. Ora, se si fosse trattato di un cane, potrei capire una simile dimostrazione di intelligenza e d'amicizia per l'uomo, ma... buon Dio, e quella chi è?» Seguendo la direzione del suo sguardo allibito, osservai qualcosa che a mia volta mi fece allibire. Dal punto in cui il branco di lupi era svanito nella foresta solo pochi minuti prima, si stagliava la figura di una ragazza alta
e snella. Credevo che gli avvenimenti della serata avessero ormai esaurito ogni mia capacità d'emozione, ma ora sentivo drizzarmi i capelli in testa per l'orrore, rendendomi conto che la ragazza in mezzo alla radura correva il pericolo di venire dilaniata e divorata. «Se i lupi hanno fiutato il suo odore...» cercai di dire. «Lei non sa quale pericolo corre!» gridò Alan, cominciando a scendere dalla roccia. «Dobbiamo avvertirla. Vieni, tu sai parlare il patois bretone meglio di me.» Contro ogni mia inclinazione e ogni espressione di buonsenso, mi ritrovai a ridiscendere il masso di roccia che avevo salito con un senso di gratitudine solo qualche minuto prima. Alan scoppiò a ridere, quando notò la riluttanza dei miei movimenti. «Non aver paura», disse in tono scherzoso. «Non c'è un solo lupo in vista e spero proprio che tu non sia tanto timido da temere di presentarti a una bella ragazza.» «Ma che diavolo ci fa una bella ragazza in mezzo ai boschi a quest'ora di notte?» borbottai, mentre toccavo il suolo. «È quanto ho intenzione di chiederle. Guardala!» mormorò sottovoce. «Che modella perfetta per una ninfa dei boschi!» Credo di aver provato qualcosa di più di un interesse puramente artistico, quando osservai attentamente la ragazza che si avvicinava. E quando le fummo di fronte, nel chiarore della luna, sentii mozzarmi il fiato. Il livello generale di bellezza fra i nativi della Bretagna è piuttosto elevato, ma la ragazza che ci stava davanti, eretta e immobile, era il simbolo della perfezione. I suoi lineamenti... come posso descrivere ciò che trascende ogni descrizione? Le parole diventano futili e prive di significato, se pronunciate per descrivere la radiosa creatura che era emersa davanti a noi nel mistero della notte. La sua bellezza sembrava ultraterrena: i capelli biondi le cadevano in una profusione di riccioli sulla fronte e sul collo, la pelle abbronzata dal vento e dal sole aveva riflessi di seta. L'abitino di cotone da pochi soldi che indossava poteva apparire uno straccetto addosso a un'altra, ma portato da lei sembrava un abito di gran classe. Le gambe lunghe e affusolate erano nude fino al ginocchio; i piccoli piedi non calzavano neppure i sabots di legno che solitamente portano anche le più povere contadine della regione. Somigliava più a una driade dei boschi che a una ragazza di campagna. Per una ragione che non volli appurare (ma forse era il ricordo delle mie
recenti paure) la sua calma m'irritò non poco. «Che cosa fate qui?» gridai, sfoggiando il mio zoppicante dialetto bretone. «Non lo sapete che ci sono i lupi, qua intorno?» Con mia grande sorpresa, lei rispose nel più puro francese. «Certo, M'sieu, che ci sono i lupi. Li ho appena...» esitò un secondo, poi concluse: «Li ho appena sentiti ululare. E voi, non vi sarete certo arrampicati sulla Tomba del Diavolo per ammirare il panorama, hein?» La sua calma m'impressionò. Conclusi che la ragazza doveva essere molto coraggiosa o molto stupida. Eppure sembrava in possesso di tutte le sue facoltà mentali, al punto da dar l'impressione di prendersi gioco di noi. Stavo per ribattere qualcosa che, se non altro mi avrebbe ridato un atteggiamento dignitoso, quando Alan mi prevenne. «Voi parlate francese!» esclamò il mio amico con una gaia risata. «Magnifico! Temevo di rimanere escluso dalla conversazione. Non avete avuto una fifa tremenda quando i lupi vi sono sfrecciati davanti per rifugiarsi fra quegli alberi laggiù?» La ragazza scosse la testa con gesto orgoglioso, quasi fiero. «Non avevo affatto paura, per me.» Alan Grantham sorrise. «Ma almeno, vi sarete sentita un po' nervosa, no? Siete stata molto gentile a fermarvi per vedere se eravamo salvi, ma non vi sembra che il vostro atteggiamento possa apparire un po' illogico? Eravamo sulla cima della roccia, capite, mentre voi eravate quaggiù, alla mercé di quelle belve. C'era un grosso lupo, in particolare, che ha messo in fuga gli altri, trascinandoli lontano dal masso. Forse l'avete visto, un bellissimo animale.» «Credete?» disse la ragazza con un rapido sorriso, quasi il complimento fosse rivolto a lei. «Sì, conosco l'animale di cui parlate, ma non ho paura di lui, mais non! A me non farà del male, e neppure a voi.» «A quanto pare, avete una certa confidenza con i lupi», osservai con una smorfia. «Forse siete in grado di dirci anche a chi farà del male e a chi no, la grossa bestiaccia?» La ragazza sollevò le spalle con gesto indifferente. «Calmez-vous, M'sieu. Lo so perché lo so, ecco tutto. Ci sono lupi e lupi», spiegò, mentre le labbra rosse si aprivano sui denti bianchissimi che brillarono al riflesso della luna. «Esattamente come ci sono uomini e uomini.» Tacque un attimo, poi concluse: «E ci sono donne e donne, alcune pericolose, altre no; alcune desiderose di fare del bene, altre che invece vogliono solo distruggere». S'interruppe bruscamente e, voltandoci le spal-
le soggiunse: «Andiamo, è molto tardi. Vi mostrerò una scorciatoia attraverso i boschi per ritornare a Josselin». «Attraverso i boschi!» ripeté Alan, spaventato. «Ma i lupi...» Lei si girò, con un improvviso gesto d'impazienza. «Non vi ho detto che non vi faranno alcun male?» disse fissando con i grandi occhi scuri il viso del mio amico. «Il branco, a quest'ora, è ormai lontano chilometri e chilometri.» «Ma il grosso lupo grigio?» insisté Alan, con voce sommessa. La ragazza abbassò gli occhi e lasciò cadere la domanda, voltando la testa, in modo che non le si vedesse il volto. «Venite sì o no?» domandò da sopra la spalla. «Non ho nessuna intenzione di lasciarvi andare in mezzo a questi boschi da sola!» dichiarò il mio amico in tono solenne. «Allons! Andiamo, dunque.» Infilò il braccio sotto quello di Alan con la stessa disinvoltura con cui un gatto salta in grembo a chiunque sia disposto a carezzarlo, e insieme presero a camminare attraverso lo spiazzo, verso i boschi. Li seguii in condizioni di spirito che non erano del tutto serene. Tutta quella faccenda era troppo misteriosa, per i miei gusti. Sorrisi ferocemente fra me e intanto mi chiedevo se il mio amico dal cuor leggero sarebbe stato altrettanto felice di affidarsi alla sua guida, se la ragazza sconosciuta fosse stata una strega senza denti, con una faccia simile a una noce secca. Giungemmo in vista del villaggio di Josselin senza ulteriori incidenti. I lupi sembravano essersi volatilizzati, come se non fossero mai esistiti sulla faccia della terra. Il silenzio di morte della grande foresta era interrotto solamente dallo scricchiolio dei nostri piedi sulle foglie secche e sugli aghi di pino che coprivano il sentiero. Alan e la sconosciuta aprivano il cammino, chiacchierando in tono gaio e senza posa. Non ho la più pallida idea di quale sia stato l'argomento di quella conversazione, ma suppongo che non abbiano parlato di politica. Io non ascoltavo. Avevo altre cose da pensare, mentre chiudevo la retroguardia, gli occhi che frugavano fra le ombre per captare il primo segnale della presenza di un lupo. Non riuscivo a convincermi che saremmo ritornati alla locanda senza altri incontri spiacevoli, finché non vidi le torri dell'antico Chàteau de Josselin, che parevano ammiccare poco lontano. La nostra misteriosa guida ci lasciò all'ingresso del villaggio, un fatto questo, di cui le fui profondamente grato, poiché non ero dell'umore più
adatto per cercare di spiegare alla nostra ciarliera ostessa cose che io stesso stentavo a credere. Notai, tuttavia, che la ragazza si congedò con un allegro au-revoir ad Alan, mentre a me rivolse solo un freddo e formale bon soir. «Hai intenzione di rivederla presto, la tua Demoiselle?» domandai al mio amico, quando fummo nella nostra camera, senza aver dovuto fornire troppe spiegazioni alla padrona della locanda. Alan annuì, mentre un leggero rossore gli saliva al viso dai bei lineamenti. «Domani», confessò. «Ehi, dico, non è meravigliosa?» «Sicuro, è meravigliosa», convenni piuttosto seccamente. «Ma si può sapere chi è?» «Si chiama Corinne e vive qui, nel villaggio.» «Bella spiegazione! Ma che accidenti stava facendo, sola in quel bosco?» Alan scoppiò a ridere. «Non lo so, e non me ne importa. Ringrazio solo la mia buona stella che lei fosse laggiù in quel momento.» «Altrimenti potresti esser morto, eh?» insinuai. «No», ribatté lui scuotendo la testa, con un sorriso che tradiva i suoi pensieri. «Altrimenti non avrei mai conosciuto Corinne.» Pronunciò il nome della ragazza con un tono di voce che non ammetteva repliche. Vedendo perciò che il mio giovane amico soffriva di un attacco d'amore a prima vista, feci l'unica cosa che mi restava da fare: mi girai dall'altra parte e andai a dormire. Il mattino dopo, recuperai la mia cassetta dei colori dal fosso in cui l'avevo lasciata cadere durante la fuga della sera prima e mi rimisi al lavoro. Ma Alan, evidentemente, aveva altri pesci da pescare. È vero che cercò di lavorare qualche minuto, con aria alquanto svogliata, ma la maggior parte del suo tempo fu assorbita dall'affascinante ragazza che non aveva paura dei lupi. Non occorre molto tempo perché una notizia si diffonda in un posto tranquillo e fuori del mondo come Josselin: dopo una settimana, la relazione sentimentale del giovane artista inglese era diventata la favola del paese. E se mai è esistito un uomo innamorato cotto, quello era Alan Grantham. Rimasi scarsamente sorpreso, perciò, quando dieci giorni dopo la nostra avventura notturna, il mio amico mi annunciò il suo prossimo matrimonio e mi pregò di fargli da testimonio.
In Bretagna, non c'è bisogno di mandare inviti alle nozze. Il notaio redige il contratto di matrimonio, annuncia la lieta novella e gli abitanti del villaggio accorrono in massa per augurare agli sposi lunga felicità, e per mangiare e bere tutto ciò che la giovane coppia può offrire alla popolazione. Il numero degli ospiti che si invitano, perciò, dipende più o meno dalle possibilità degli sposi. Confesso che ero piuttosto curioso di vedere quanta gente si sarebbe fatta invitare in occasione di questa particolare ricorrenza, anche perché, non so per quale ragione, avevo la vaga impressione che la bella Corinne non fosse molto popolare, nel villaggio. Gli altri giovani, infatti, l'evitavano apertamente. I contadini bretoni, probabilmente, si comportano come tutti gli altri nella propria cerchia familiare, ma con gli estranei, in particolare con i forestieri come noi, sono taciturni e diffidenti. L'individuo più garrulo e loquace di Josselin era, cosa abbastanza strana, l'unico uomo che secondo la. logica avrebbe dovuto tenere a freno la lingua. Si trattava infatti di un funzionario governativo, il pubblico notaio, l'uomo che, con la possibile eccezione del parroco del villaggio, sapeva tutto sulle storie di famiglia e gli affari privati di coloro che lo circondavano. Nicolas Didier era, naturalmente, un uomo di una certa educazione e perfino di una certa cultura, anche se superficiale. In gioventù, e di questo si era fatto premura d'informarmi subito dopo la nostra conoscenza, aveva studiato legge a Parigi; da alcune osservazioni casuali che il notaio lasciava cadere di tanto in tanto, avevo l'impressione che si considerasse un tantino superiore agli abitanti del villaggio, e questa era probabilmente la ragione per cui cercava sempre la compagnia di Alan e la mia, ogni volta che riusciva a trovare un pretesto. Ero giunto così alla conclusione che il signor Didier fosse un uomo di una certa abilità, il quale era stato destinato a un impiego governativo insignificante ma sicuro, in un ambiente che lui trovava particolarmente tedioso. La sera prima del matrimonio, Didier venne a trovarmi alla locanda, per avere alcuni particolari sul conto dello sposo che si dovevano trascrivere sul contratto di matrimonio. Alan, come al solito, era fuori, ma io fui in grado di fornirgli le informazioni necessarie. Sistemata la faccenda, il vecchio notaio non mostrò alcuna fretta di congedarsi. Rimase seduto a parlare del più e del meno, lanciando di tanto in tanto occhiate furtive alla credenza sulla quale erano in mostra numerose bottiglie che Alan aveva preparato per i prossimi festeggiamenti. Accolsi
la sua domanda inespressa e stappai una bottiglia di vecchio vino. «Beviamoci un buon bicchiere di vino in onore della coppia felice», proposi. Gli versai una dose generosa. Lui si scolò il vino con evidente soddisfazione, aggiungendovi un discorsetto che evidentemente teneva in serbo per occasioni simili. «Non ho l'abitudine di indulgere all'alcool, Monsieur», si schermì il vecchio. «Ma in un'occasione così propizia...» Seguitò a rigirare il bicchiere fra le dita sottili, guardando con aria sognante la bottiglia. Ora, quando un individuo insiste nel puntualizzare la propria estrema moderazione, di solito significa che è particolarmente disposto a bere la sua parte e magari un po' di più. «È un vero peccato rimettere il tappo a un vino così buono», osservai, prendendo la bottiglia. «Fatemi l'onore di gustare un altro bicchiere, vi prego.» «L'onore è tutto mio, M'sieur», mi rassicurò il vecchio notaio, mentre un leggero rossore gli copriva i lineamenti che ricordavano la pergamena. «E anche il villaggio di Josselin, ne sono certo, è onorato che il vostro stimato amico abbia scelto la sua consorte fra le ragazze del paese. Ma l'esimio Monsieur Grantham è uno straniero d'oltremare. Forse non conosce, e neppure ha sentito parlare delle nostre leggende e tradizioni. Non tutti avrebbero scelto la propria sposa fra le donne di Josselin!» Il suo atteggiamento e le sue parole mi costrinsero a guardarlo attentamente, oltre il tavolo illuminato dalla lampadina. Poi, spinto da un impulso improvviso, gli avvicinai la bottiglia ancora piena per tre quarti, con cordialità. «Servitevi, mon ami.» Come vidi che accoglieva l'invito con sorprendente rapidità, ripresi a parlare con voce indifferente. «Ah, sicché il vostro villaggio vanta delle leggende, hein?» Lui si affrettò a vuotare il bicchiere prima di rispondere. «Leggende?» ripeté con una voce sardonica densa di significato nascosto. «Ma foi! Altro che leggende, abbiamo! Strane cose sono accadute qui a Josselin, e non in un remoto passato, badate, ma di recente! Strane cose il cui significato è stato discusso da persone colte ed erudite, in solenne conclave; cose di cui eminenti professori hanno scritto libri interi, pesanti volumi, nel vano tentativo di scoprirne il significato. Ditemi, mon cher Monsieur, avete mai sentito parlare delle 'Donne di Josselin che abbaiano'?» Nei più profondi recessi della mia memoria si agitò qualcosa. Sicuro,
avevo sentito o letto quelle parole. Ma dove? E in quale occasione? Nel cervello mi ronzavano centinaia di dubbi inespressi e di sospetti formulati a metà, quando tornai a rivolgermi al vecchio avvocato. «Ditemi qualcosa di più riguardo queste donne che abbaiano.» «Volete che vi racconti la leggenda, o la verità?» ribatté lui, socchiudendo gli occhi. «Cominciamo con la leggenda.» Maître Didier si riempì il bicchiere e si sistemò comodamente sulla sedia. «Benissimo, M'sieur. Come la maggior parte delle favole di questo genere, anche la nostra storia risale a molto tempo fa, direi a circa duecento anni fa, ma probabilmente nacque assai prima. C'era una volta (vi prego di notare che comincia come tutte le fiabe del mondo) una mendicante che un giorno ebbe la ventura di passare per il villaggio di Josselin. Era vestita di stracci, affamata, sporca e scalza e in un fagotto pure di stracci, reggeva un bambino, suo figlio.» «Chi era la donna?» domandai. Ma il vecchio notaio si strinse nelle spalle mingherline e allungò la mano per riprendere la bottiglia. «Una versione della leggenda dice che era una strega, una potente incantatrice; un'altra versione parla addirittura di un personaggio che potrebbe identificarsi con la Madre di Dio, e il suo bambino nel Figlio Divino. Potete credere all'una o all'altra, come preferite. Le donne del villaggio erano al fiume, come avrete notato ogni giorno, intente a lavare i panni. La mendicante le supplicò di darle un po' di cibo e un rifugio, mostrando loro i piedi sanguinanti e cercando di suscitare la loro compassione reggendo alto il figlioletto che moriva di fame. Ma le donne di Josselin la cacciarono via con parole amare e crudeli; certuni dicono che arrivarono perfino a sguinzagliare i cani contro la povera creatura indifesa. Sia come sia, la donna e il suo bimbo furono scacciati dal villaggio. Dapprima la sconosciuta se ne andò quasi umile e mansueta, senza lagnarsi, ma quando passò davanti alla porta della chiesa gettò per caso un'occhiata al viso del suo bambino, e si accorse di stringere fra le braccia un cadavere! «Soltanto allora si girò verso le donne che l'avevano beffeggiata e scacciata. Depose il morticino sulla soglia della chiesa e avanzò verso di loro, gli occhi fiammeggianti d'odio attraverso le lacrime, le braccia sollevate in un gesto di minaccia furibonda. «'Donne di Josselin!' gridò. 'Sul corpicino del mio bambino morto, io vi lancio la mia maledizione: a voi, alle vostre figlie, alle figlie delle vostre
figlie. Siate maledette fino alla decima generazione! Possa l'Altissimo misericordioso e pietoso mostrare verso di voi la stessa pietà e la stessa misericordia che voi avete mostrato per me. Come lupi feroci, ci avete negato il cibo, come cani arrabbiati, ci avete scacciati dalle vostre porte. Ebbene, donne di Josselin, voi diventerete cani e lupi davvero!' E dopo aver scagliato la sua maledizione, la donna morì.» Il vecchio notaio s'interruppe e rimase immobile, fissando davanti a sé con gli occhi annebbiati, come se vedesse in un sogno la scena che aveva descritto con tanta vivezza. «Una triste storia», commentai. «Ma non è finita?» «No. Quella notte avvennero scene selvagge nelle strade di Josselin... suoni e rumori orribili, terribili, terrificanti, difficili da descrivere. Donne e ragazze corsero fuori dalle loro case, strappandosi di dosso gli abiti con frenetico abbandono, abbaiando come cani e ululando come lupi! E tali erano, non solo nell'aspetto esteriore, ma anche nel loro intimo. Si precipitarono tutte insieme nelle case da cui erano appena uscite, mentre i loro uomini restavano troppo paralizzati dal terrore e dallo stupore per intervenire, e quando ne riemersero di nuovo, ciascuna donna-lupo stringeva fra le zanne arrossate di sangue un bimbo giovanissimo, il proprio o quello di un'altra, che aveva ghermito dalla culla o dal lettino con la ferocia e la mancanza di pietà tipiche della belva in cui si era trasformata. Ma, notate bene, furono trucidati solo i figli maschi. Le femmine vennero risparmiate affinché, giunte alla maturità, ereditassero la terribile maledizione che era stata scagliata su di loro e la trasmettessero alle loro discendenti, come hanno fatto fino ad oggi. Questa, Monsieur, è la leggenda delle donne che abbaiano.» «Vi ringrazio di avermela raccontata con tanta chiarezza. E adesso volete dirmi qual è la 'reale' verità della storia?» Sulle labbra sottili di Didier apparve un sorriso enigmatico, mentre tornava a riempirsi il bicchiere con l'ultimo contenuto della bottiglia. «La verità non è tanto facile da definire», riprese con tono grave. «Un fatto è certo, ed è che alcune contadine di questo villaggio, le discendenti delle donne che beffeggiarono e scacciarono la mendicante, in determinate stagioni sono afflitte da una misteriosa malattia, o calamità o maledizione, chiamatela come volete. E qui abbandoniamo il regno della leggenda per avvicinarci ai fatti concreti e incontrovertibili. Troverete riferimenti alle donne che abbaiano in numerose opere scientifiche. Emeriti scienziati e dotti studiosi hanno dedicato anni e anni allo studio del fenomeno, sebbene
tutti abbiano tentato di trovare una soluzione che si adatti alle proprie teorie o alle proprie credenze. I teologi, per esempio, sono convinti che si tratti di una diretta visitazione di Dio. I medici sono egualmente convinti che i latrati e gli ululati siano causati da qualche oscura malattia ereditaria che produce movimenti spasmodici e contrazioni ai muscoli della gola. Gli psicologi avanzano la teoria che il fenomeno sia dovuto a qualche forma di autosuggestione o ipnotismo di massa. Gli antropologi affermano di trovare un parallelo, se non proprio una soluzione, nel totemismo delle razze selvagge e primitive, e seguono la credenza quasi universale secondo cui certi esseri umani sono capaci di trasformarsi in animali. La scienza, in breve, nel tentare di provare troppe cose, non prova niente. Vi ho elencato queste teorie contrastanti fra loro semplicemente per dimostrarvi che l'autenticità di questa terribile maledizione è sufficientemente attestata, al punto da meritare la più seria considerazione da parte di studiosi che di solito non inseguono ombre né indagano nelle favole. Per quanto riguarda una soluzione, be', come uomini di buonsenso non ci resta che accettare i fatti così come sono e spiegarli con il maggior discernimento possibile.» La mia mente ripensò al grande lupo grigio che vagava sulla Tomba del Diavolo, la creatura che era scomparsa nella foresta proprio nello stesso punto da cui, pochi momenti dopo, era emersa Corinne Lemerre, calma, fredda, senza mostrare il minimo segno di paura. E allora mi ci volle poco per convincermi che l'antica leggenda doveva avere un valido fondo di verità. Mi piegai in avanti e posando la mano sulla spalla del vecchio notaio dissi: «Sentite, mastro Didier, qual è la vostra teoria personale, riguardo la faccenda?» Sentii la spalla su cui poggiava la mia mano contrarsi leggermente. «Mère de Dieu! Se vi rivelassi i miei pensieri reconditi, voi pensereste che mi lascio andare alla più nera delle superstizioni, come un qualsiasi contadino ignorante. Io so soltanto che questa calamità, questa maledizione, se preferite chiamarla così, esiste tuttora fra noi. Ma la gente di Josselin non sbandiera pubblicamente la propria vergogna al mondo. Quando si avvicina il tempo della loro periodica trasformazione, le donne del villaggio si chiudono a chiave nelle loro stanze o vanno a nascondersi nel folto della foresta, dove nessun occhio umano vedrà l'orribile aspetto che assumeranno, dove nessun bimbo innocente correrà il rischio di essere dilaniato dalle loro zanne crudeli.»
Nel folto della foresta! Le parole mi martellavano nel cervello con diabolica insistenza. Non era stato in mezzo ai boschi che avevamo incontrato Corinne Lemerre? Il mio sfortunato amico stava forse per prendere in moglie un magnifico vampiro? Fra il turbinare dei miei pensieri, mi accorsi che il vecchio aveva ripreso a parlare. «Certainement, considerando il modo in cui il nostro terribile segreto è stato celato finora, non c'è da meravigliarsi se gli studiosi hanno potuto raccogliere esigui dati su cui basare le loro teorie», stava dicendo Didier. «Ecco perché stasera ho parlato con voi; voi, a vostra volta, potete avvertire il vostro amico.» «E convincerlo ad abbandonare mademoiselle Lemerre la vigilia del matrimonio?» gridai. «Doucement, doucement», protestò il vecchio. «Calma, mio impetuoso amico. Io sono l'ultimo uomo al mondo che voglia suggerirvi di far nascere uno scandalo, rompendo la promessa di matrimonio. Inoltre, non c'è niente da temere, per il momento. Il vostro amico non corre il minimo pericolo, poiché i lupi di Josselin non attaccano e non divorano gli uomini adulti. Sarà più tardi, quando arriveranno i figli, che comincerà la tragedia. Ora non occorre che voi ripetiate le mie parole al vostro amico; passeranno parecchi mesi, anni forse. Ma se vi stanno a cuore la sua felicità, la sua serenità di spirito, il suo equilibrio mentale, il giorno in cui nascerà suo figlio, il suo erede, raccontategli la leggenda delle donne di Josselin.» Dopo che il vecchio se ne fu andato, rimasi seduto a lungo accanto ai tizzoni morenti del caminetto, fumando incessantemente e pensando intensamente, mentre attendevo il ritorno di Alan. La mia mente affondava nel dubbio e nell'indecisione. Un momento ero deciso a raccontare ogni cosa al mio caro amico; e subito dopo, giuravo a me stesso che non una parola mi sarebbe uscita dalle labbra. Mi avrebbe creduto, se avessi parlato? E se anche avesse prestato fede alla mia fantastica storia, avrebbe avuto il coraggio di respingere la sua bellissima sposa, all'undicesima ora? E, soprattutto, avevo io il diritto di diffamare la reputazione di una ragazza giovane e bella, basandomi semplicemente sulla teoria campata in aria di un notaio misantropo che aveva sciolto la lingua grazie a una bottiglia di vino? Eppure, nel mio intimo, sapevo che la leggenda non era una semplice chimera. Ora che ero in possesso di un indizio, mi ritornavano alla mente
numerosi episodi, insignificanti e privi di valore in sé, ma che confermavano i miei dubbi. Ecco, per esempio, gli abitanti del villaggio avevano perfino un nome particolare per definire le donne ammalate: aboyeuses, 'abbaiatrici'. Avevo sentito sussurrare lo strano termine perlomeno una dozzina di volte, sebbene prima non avesse alcun significato per me. Mi alzai in piedi e tirai indietro la pesante tenda della finestra; premetti la fronte bruciante sui vetri freddi e appannati, e guardai fuori nella notte. C'era la luna piena, alta nel cielo senza nubi, che bagnava l'intera vallata del fiume di una luce d'argento. Oltre la riva del fiume, in fondo al villaggio, le tre torri dell'antico château si ergevano dalle acque lucenti, imponente monumento alla tirannia e al potere feudale. Più oltre, l'acqua del fiume si abbassava; intorno piccoli banchi erbosi formavano da tempo immemorabile il lavatoio pubblico del villaggio. Era stato laggiù che la mendicante senza casa aveva chiesto invano la carità. Nello spiazzo aperto, di fronte a me, c'era la chiesa dalla cui soglia la donna aveva scagliato la fatale maledizione. Con gli occhi della mente potevo vedere la figura affamata e macilenta, ritta in cima alla scalinata, che affrontava la folla delle donne urlanti come una furia vendicatrice, da sopra il cadaverino del figlio. Fu allora che compresi perché ora nessun mendicante chiedeva invano l'elemosina nelle strade di Josselin. Un leggero rumore sul marciapiede, immediatamente sotto la mia finestra, interruppe bruscamente il corso dei miei pensieri. Due persone stavano in piedi davanti alla porta della locanda e parlavano a voce bassa e intima. «Au revoir, ma chérie.» Era la voce di Alan, vibrante di profonda passione. «A domani!» «A domani», fu la risposta, sussurrata con voce così bassa che riuscivo appena a distinguere le parole. «Viens m'embrasser.» La voce di lei si smorzò in una risata soffocata; poi un bacio prolungato. Mi allontanai dalla finestra, sentendomi stringere il cuore. Come potevo parlare, ora? Come potevo privarli della loro felicità? Quella notte non riuscii a dormire. Il mattino dopo, erano sposati, uniti per sempre da un anello e dalla Bibbia. Anche la più calda e la più provata amicizia si affievolisce davanti al fuoco più intenso dell'amore. Ricevetti occasionali notizie da Alan durante la sua prolungata luna di miele in Italia, poi le sue lettere divennero sempre più brevi e arrivarono a intervalli sempre più lunghi, finché cessarono del
tutto. Mi fermai ancora un poco a Josselin per dare gli ultimi ritocchi al quadro a cui stavo lavorando. Poi partii, spostandomi attraverso il sud della Francia; varcai la frontiera della Spagna, dirigendomi dove la mia fantasia e il richiamo dello scenario naturale mi conducevano. Nuove scene, nuovi interessi e nuove speranze e ambizioni fecero sì che a poco a poco il ricordo di Alan Grantham e della sua misteriosa sposa si allontanasse dalla mia mente. Sotto il cielo inondato di sole della Castiglia, arrivai quasi a sorridere dei miei precedenti timori dovuti alla tragica leggenda delle donne-bestie di Josselin. Fu due anni più tardi, mentre sedevo davanti a una piccola posada sovrastante le acque impetuose del Tago, vicino a Toledo, che il ricordo del passato riaffiorò e mi sommerse come un invisibile mare di gelo. La grassa e sciatta padrona della locanda in cui alloggiavo mi consegnò una lettera che portava un francobollo inglese e numerosi indirizzi scritti a matita, che indicavano come la missiva mi avesse seguito di tappa in tappa per parecchie settimane. Il messaggio che vi era contenuto era breve ma denso di oscuro significato: «In nome della nostra vecchia amicizia, vieni subito. Ho bisogno del tuo consiglio e del tuo aiuto, come mai mi è capitato prima d'ora. Non oso tentare di spiegarti, poiché potresti credere che mi ha dato di volta il cervello. Ma vieni, ti supplico, vieni presto!» Sotto, c'era un post-scriptum scarabocchiato in fretta, che in realtà era più lungo del testo della lettera: «Corinne gode perfetta salute e ti invia i suoi migliori saluti. Ha sopportato molto bene la nascita del nostro bambino e sta diventando più bella che mai. Il piccolo è un delizioso fagottino, vispo e allegro: ti piacerà. L'abbiamo chiamato con il tuo nome. Dovrei sentirmi l'uomo più felice del mondo, eppure sono tormentato da timori che mi appaiono anche più terribili perché così grotteschi. Vieni presto, in nome della nostra vecchia amicizia!» Era un appello a cui non potevo restar sordo. Gettai un'occhiata al timbro postale: la lettera era stata imbucata quasi due settimane prima. Non ci vollero più di cinque minuti per fare i bagagli e pagare il conto. Attraversato il fiume, ebbi la buona fortuna di acchiappare al volo un treno che stava per partire dalla stazione di Toledo. Dovetti aspettare due ore a Madrid, ma il tempo perduto fu recuperato dalla rapidità del Trans-
Continental-Express che mi portò a Parigi, dove nelle prime ore del mattino, salii su un treno in coincidenza per la costa. Trenta ore dopo aver ricevuto il messaggio, scendevo la passerella del vaporetto che fa servizio sulla Manica, e stringevo calorosamente la mano che mi aveva richiamato in Inghilterra. «Ho ricevuto il tuo telegramma da Parigi», spiegò Alan, quasi volesse giustificare la sua inaspettata presenza sulla passerella di sbarco. «Non so dirti quanto mi senta sollevato ora che sei qui.» Stavo per dirgli che la sua lettera aveva vagato per il mondo, prima di arrivare a me, ma lui tagliò corto con una fretta che mi parve eccessiva. «Vieni.» Afferrò la mia valigetta e, ignorando il treno in attesa, si diresse ai cancelli d'uscita. «Ho fuori la macchina. Mentre guido, possiamo parlare. La mia casa si trova nella contea vicina, a pochi chilometri dal confine con il Sussex. Ci si arriva più in fretta con la macchina che con i treni locali.» Il lussuoso aspetto della macchina che ci aspettava pareva indicare che, di qualsiasi natura fossero i guai di Alan, non erano certamente di carattere economico. Azzardai un vago accenno a questo proposito mentre lui metteva in moto, ma Alan quasi ignorò la mia osservazione. «Oh, sì, non mi va poi tanto male. Ma ultimamente sono stato troppo preoccupato per dedicarmi seriamente al lavoro. Sai... non devi giudicarmi pazzo per ciò che sto per dirti, ma ricordi il grosso lupo grigio che vedemmo quella notte alla Tomba del Diavolo?» «Sì», risposi, con i nervi tesi per l'interesse. «Ebbene?» «Quella dannata bestiaccia mi ha seguito fin qui!» Riuscii a mettere insieme una risata, ma se il mio amico non fosse stato impegnato nella guida, credo che avrebbe notato i sentimenti che il mio viso doveva tradire. «Su, andiamo!» dissi, in tono leggero. «Non ti sembra un po' grossa, vecchio mio? È un bel salto, dalla Bretagna al Sussex, senza contare che in mezzo c'è un piccolo ostacolo chiamato la Manica!» «Me ne infischio se è lontano e se occorre attraversare il tuo ostacolo. Riconoscerei quella bestiaccia dovunque, e sono sicuro che l'animale gironzola nella nostra casa da settimane; per la precisione, da quando è nato il bambino.» Il bambino! Ecco un altro punto del racconto del vecchio notaio che si rivelava veritiero.
«È un maschio, vero?» domandai, più per guadagnar tempo che per altro. «Certo che è un maschio!» rispose Alan con orgoglio. «Non ti ho detto, nella mia lettera, che l'abbiamo chiamato come te?» «E tu temi che questo grosso lupo voglia far del male al bambino?» «Che altro?» ribatté lui, bruscamente. «La belva ha tentato una dozzina di volte di entrare nella nursery, ma fortunatamente ce ne siamo accorti in tempo e l'abbiamo cacciata via prima che potesse far danni. Ma il fatto più strano è che non ha mai cercato di attaccare gli adulti. Questo dovrebbe facilitare il nostro compito.» «Il nostro compito?» ripetei. «Sì. Tu devi aiutarmi a ricacciare la belva nella sua tana e a piantarle una pallottola nel cuore. Finché non la vedrò morta stecchita davanti ai miei occhi, non avrò la certezza assoluta che Corinne e il bimbo non corrono alcun pericolo.» Riuscii a trattenere la risata sardonica che mi premeva alle labbra. Mormorai qualcosa, Dio sa che cosa, e per il resto del viaggio, rimasi seduto in silenzio, o risposi solo a monosillabi. I pensieri cupi che mi si affollavano alla mente erano sufficienti per tener concentrata tutta la mia attenzione. Ancora una volta mi trovavo invischiato in un intrico di mistero e di pericoli, ma l'uomo accanto a me non poteva certo immaginare la reale natura del compito per cui aveva sollecitato il mio aiuto! Percorremmo una cinquantina di chilometri lungo la strada costiera; poi, in un punto non lontano dalla famosa località dove ebbe luogo la battaglia di Hastings, svoltammo verso l'entroterra. Venti minuti più tardi, la macchina varcava i cancelli di un lungo viale alberato, ed io ebbi la prima, fuggevole visione della casa. «Fattoria solitaria», si chiamava e il nome sembrava decisamente appropriato. La vecchia casa si ergeva su una collina, circondata da giardini ben tenuti, e sebbene per la sua posizione fosse alquanto esposta alle tempeste che ogni tanto si scatenavano dal mare, tuttavia godeva di una vista superba. A sud, si stendeva la lunga striscia della costa, da Beachy Head a Dungeness; ogni altro punto della zona era limitato dalle vaste colline gessose, desolate e deserte per la maggior parte, sebbene qua e là si potesse scorgere la sagoma indistinta del tetto di una fattoria isolata, fra le pieghe ondulate delle dune. La «Fattoria Solitaria», come diceva il nome, era stata costruita come
una solida casa colonica, sebbene appartenesse all'epoca della regina Elisabetta. Era un delizioso esemplare di architettura rurale del periodo, con i frontoni rivestiti in legno e bizzarri cantucci e angoli nelle stanze con le travi di quercia. I suoi tortuosi passaggi e corridoi erano provvisti di scale e scalette che andavano su e giù, tanto che spesso diventava difficile scoprire a che piano ci si trovava se non si sbirciava dalla finestra. In breve, era esattamente il tipo di costruzione che qualsiasi spettro con un certo rispetto per le antiche tradizioni, avrebbe scelto per le sue scorribande di mezzanotte. Stavo giusto per fare un'osservazione ironica a questo proposito mentre scendevo dalla macchina; ma dopo aver lanciato un'occhiata al volto teso e ansioso di Alan, mi trattenni. In quel momento, non sembrava dell'umore più adatto per apprezzare spiritosaggini di nessun genere. Senza dire una parola, il mio amico entrò nella casa e mi fece strada verso la grande cucina con il pavimento di pietra, ora trasformata in un accogliente soggiorno. Sulla porta, si fermò, lasciandosi sfuggire sottovoce un'esclamazione di sorpresa. «Toh, a quanto pare abbiamo visite.» Due uomini, entrambi robusti e con il volto arrossato, vestiti di giacche di tweed e ghette bianche, si erano alzati dalle sedie accanto al caminetto e stavano venendoci incontro. «Buongiorno, signor Grantham», salutò quello che sembrava il più anziano dei due, un tipo dalla barba grigia, sui sessant'anni. «Forse mi conoscete: sono Enoch Varden, della fattoria Vale, laggiù. Il mio amico, qui, è Sowerby, della...» «Sì, sì, vi conosco tutti e due», lo interruppe Alan con un gesto impaziente. «Immagino abbiate atteso il mio ritorno per dirmi qualcosa.» «È così, infatti», rispose l'uomo con la barba grigia, con un tono di voce in cui affiorava un curioso miscuglio di deferenza e di rabbia trattenuta. «Siamo qui per una faccenda alquanto spiacevole, signor Grantham.» S'interruppe per lanciare uno sguardo interrogativo nella mia direzione. «Chiedo scusa, ma questo signore è un vostro amico?» «Sicuro», rispose Alan calorosamente. «Il mio più caro amico. Non abbiate riguardo di dire in sua presenza ciò che avete da raccontare.» Il signor Varden sembrava piuttosto riluttante ad approfittare dell'invito. Rimase impalato davanti al caminetto, e seguitò a schiarirsi la gola a intervalli regolari, spostando il peso da un piede all'altro.
«State a sentire, signore», disse alla fine. «Io sono un tipo pacifico, uno di quelli a cui piace restare in buoni rapporti con i vicini, e mi auguro che accoglierete quanto sto per dirvi nel suo giusto verso. Tre notti fa, sono state uccise e dilaniate sette pecore alla fattoria di Sowerby, e stamattina ho scoperto che circa una dozzina di pecore del mio gregge avevano subito la stessa sorte.» «Davvero?» La voce di Alan non tradiva eccessiva sorpresa. «Veramente spiacevole. Immagino che siate venuto fin qui per avvertirmi che qualche bestia feroce si aggira nel distretto, è così?» Varden rispose con un rapido cenno del capo. «Siamo venuti per avvertirvi di tenere i vostri cani alla catena, durante la notte!» disse, in tono brusco. «Cani!» Alan rise fragorosamente. «Ma, buon uomo, io non ho cani. Mia moglie non può sopportare di vederseli intorno, e perciò non c'è un solo cane, qui nella nostra fattoria.» I due agricoltori lo fissarono con manifesta incredulità. «Neppure uno?» ripeté Sowerby, che apriva bocca per la prima volta. «Neppure uno», fu la decisa e ferma risposta del mio amico. «Dovete cercare altrove l'animale che fa strage dei vostri greggi.» Enoch Varden sollevò la mano nodosa e si grattò la testa. «Certo, se lo dite voi, signore, siamo costretti ad accettare la vostra parola...» «Con la più assoluta fiducia», concluse Alan, calmo. «Senza offesa, signore, senza offesa», si affrettò a soggiungere Varden. «Tuttavia, vi confesso che la cosa appare alquanto strana. Il vecchio Miles, il pastore del signor Sowerby, ha scoperto e seguito le impronte, il mattino successivo alla strage delle sue pecore. Il vecchio Miles, che non è un visionario, afferma che le impronte erano quelle di un grosso cane, il più grosso che abbia mai visto. In questo gli credo, poiché io stesso mi ero alzato alle quattro del mattino, dopo la razzia nel mio gregge, e avevo seguito le tracce per alcuni chilometri, sul terreno soffice.» «E dove conducevano, le tracce?» volle sapere Alan. «Diritto diritto a questa casa, signore. E, quel che è più importante, finivano qui! Erano chiare e distinte come i caratteri stampati sulla carta, e spiccavano sul terreno del vostro viale. Ve n'erano alcune perfino sugli scalini dell'ingresso principale. Impronte che entravano, ma che non uscivano dalla vostra casa!» Vidi che Alan Grantham impallidiva di colpo. Potevo immaginare la
tragica intensità dei suoi pensieri, in quel momento. «Dev'essere il grosso lupo grigio che ho visto aggirarsi intorno alla casa!» esclamò subito il mio amico. Alle sue parole, gli occhi dell'agricoltore divennero rotondi per lo stupore. «Lupo?» ripeté perplesso Varden. «E chi mai ha sentito parlare di lupi, sulle colline del Sussex? Non è possibile.» «Be', è così», ribatté Alan, stringendosi nelle spalle. «Può darsi che sia scappato da qualche parte, da un circo, per esempio. Ad ogni modo, il rimedio sta nelle nostre mani. Naturalmente, voi due avete dei fucili?» «Sissignore», risposero i due, insieme. «Bene, armate tutti gli uomini che potete, appostateli in attesa della belva. È quanto anche il mio amico e io intendiamo fare. Spero che avremo la fortuna di piantargli una pallottola in corpo!» Prima di sera, ci fu fornita la prova che la teoria del mio amico era esatta. L'identità del misterioso predone a quattro zampe venne ampiamente stabilita da un rappresentante della Squadra Mobile della Polizia della contea, il quale arrivò in motocicletta mentre stavamo ancora pranzando. «Sì, signore, si tratta di un lupo», dichiarò il poliziotto. «Uno dei nostri uomini di pattuglia ha visto la bestia mentre era di ronda. Un tale che si chiama Morris. È un vecchio soldato che ha prestato servizio nelle Forze di Spedizione in Russia e che ha avuto modo di vedere un sacco di lupi, nei paesi dove solitamente vivono. Ha notato l'animale che gli è passato vicino trotterellando sulla strada. Si dirigeva verso questa casa. Morris era disarmato, perciò non ha potuto far niente per fermarlo. Ma ha avuto modo di vederlo bene, ed è pronto a giurare che si tratta di un lupo e non di un grosso cane. Inoltre, è un lupo femmina, e deve aver avuto recentemente una figliata di cuccioli.» «Accidenti!» esclamò Alan. «Questo complica le cose. Dovremo setacciare la zona, per impedire che i piccoli crescano. La bestia li aveva con sé?» Il poliziotto scosse la testa. «No, ma aveva le mammelle gonfie di latte. Morris alleva cani e conosce i segni. Dice che di solito la maternità rende questi animali più feroci e più pericolosi. Per questo ho pensato di salire ad avvertirvi.» «Vi sono infinitamente grato, agente», disse Alan, allungando la mano con rapido gesto. Si udì un leggero fruscio di banconote.
«Grazie a voi, signore», ribatté il poliziotto, toccandosi la visiera del berretto. «Buonanotte.» Ascoltando la conversazione dalla porta della sala da pranzo, compresi che i miei dubbi avevano ora un'atroce conferma. La misteriosa lupa aveva partorito recentemente... e il bambino di Corinne aveva solo quindici giorni! Era l'ultimo e più convincente anello della catena di prove che dimostravano come la leggenda di Josselin non fosse un mito! Era giunto il momento di parlare. Di qualsiasi natura fossero le conseguenze della rivelazione, la mia coscienza non mi permetteva di tacere più a lungo. Si doveva correre il rischio di scatenare una tragedia, se si voleva evitare una tragedia più irreparabile. Come la porta si chiuse alle spalle del poliziotto, presi il mio amico per un braccio e lo trascinai nel suo studio, comunicante con la sala da pranzo. «E adesso che succede?» volle sapere Alan, vedendomi chiudere la porta. «Alan», dissi in tono gentile. «Sto approfittando del privilegio di un vecchio amico; ma credimi, è mio dovere rivelarti quanto sto per dirti. Corinne, la ragazza che hai sposato, è...» La mia mente lavorava freneticamente per trovare le parole adatte. «... non è come le altre ragazze.» «Come se non lo sapessi!» m'interruppe lui, con calore, senza intuire minimamente il significato delle mie parole. «È una perla inestimabile! Ringrazierò il cielo finché avrò respiro di averla messa sul mio cammino e di avermi permesso di legare la mia vita alla sua!» Il fervore della sua affermazione per poco non mi fece rinunciare al proposito che m'ero imposto. Il pensiero che proprio io, il suo migliore amico, dovessi trasformarmi nello strumento della sua amarezza, era come una coltellata al cuore. Ma ormai era troppo tardi, dovevo parlare. «Non è della sua bellezza che stavo parlando e neppure delle sue qualità morali», risposi. «C'è qualcos'altro, qualcosa di cui lei non ha nessuna colpa. Amico mio, la ragazza che tu ami così profondamente è...» «Non sarà mica morta!» Mi afferrò il braccio in una morsa che mi bloccò i muscoli. «Non dirmi che Corinne è caduta vittima di quel lupo maledetto! Non dirmi che è morta!» «Quanto sarebbe meglio!» esclamai senza volerlo. «Che cosa?» La sua stretta si rafforzò in uno spasimo. «In nome di Dio, che cosa intendi dire?» «Corinne Lamerre era, ed è tuttora...» Quattro colpi d'arma da fuoco, sparati in rapida successione proprio sot-
to la finestra troncarono le mie parole come una lama di coltello. Lieto dell'interruzione, che tuttavia costituiva solo un breve rinvio, mi precipitai verso la porta d'ingresso e la spalancai. Sui gradini, c'era un'alta e robusta figura in divisa azzurra. Era l'agente che ci aveva appena lasciati, e in mano stringeva una pesante pistola automatica. «Il lupo!» ansimò il poliziotto. «Passavo vicino ai cespugli quando l'ho visto balzar fuori da una delle finestre più basse. Aveva qualcosa in bocca. Sembrava un fagotto di indumenti.» «Mio Dio!» urlò Alan. «Il bambino! Dobbiamo seguirlo. Aspettate qui, mentre vado a prendere i fucili.» «Avete colpito l'animale?» domandai all'agente. «Credo di sì, ma c'era poca luce.» L'uomo proiettò il fascio di luce della sua lampadina tascabile sul sentiero coperto di ghiaia e mandò un grido. «Sì, l'ho colpito. Guardate, c'è del sangue sui sassi!» «Qua, tieni questo.» Alan mi cacciò fra le mani riluttanti un fucile da caccia, mentre con un balzo scendeva gli scalini. «È carico, ma non sparare finché non sei certo di non colpire mio figlio. Da che parte è andato?» domandò, mentre si affrettava a raggiungere il poliziotto. «Non saprei dirlo, signore. È scomparso fra le tenebre. Tuttavia, c'è una traccia, guardate!» Illuminò di nuovo il sentiero su cui si vedevano le impronte insanguinate. «È ferito gravemente, non può andar lontano», osservò Alan, afferrando la lampadina e spingendosi avanti. Ma subito dopo, si lasciò sfuggire un'esclamazione di disappunto. Le impronte voltavano bruscamente e finivano nei folti cespugli. «Dobbiamo separarci», sussurrò Alan con voce strozzata. «E setacciare i cespugli uno per uno. Sparate a vista, ma per amor di Dio, state attenti al bambino!» Eseguimmo i suoi ordini e cominciammo a seguire le tracce. Ma era un'impresa disperata, dar la caccia a una belva nel buio. Per un certo tratto, l'agente di polizia ed io avanzammo nella medesima direzione, tanto che ci ritrovammo in un piccolo spiazzo non lontano dalla casa. «È una caccia inutile», mormorò il poliziotto con aria truce. «Come cercare un ago in un pagliaio. Probabilmente a quest'ora il lupo è lontano chilometri e chilometri... e al vostro amico non resta che dire addio per sempre a suo figlio!» Le sue parole mi fecero nascere un'improvvisa ispirazione. «Può darsi che sia tornato in casa!» esclamai.
«In casa?» L'agente parve sorpreso. «Ma che idea!» «È soltanto un'idea, infatti. Ma penso che valga la pena di controllare. Volete tornare indietro con me?» «Se voi pensate che ne valga la pena, andiamo pure. Devo chiamare il signore?» domandò poi, indicando con un cenno del capo il punto in cui Alan stava frugando rumorosamente fra i cespugli. «Credo sia meglio di no», risposi. «Se i miei sospetti sono fondati, è meglio che resti fuori da ciò che sta per accadere.» Raggiungemmo la casa inosservati e senza perder tempo precedetti il poliziotto su per le scale. «Avevate ragione, signore!» gridò l'uomo, additando una macchia rossa su una porta dipinta di bianco. Annuii senza parlare e sollevai il fucile in posizione di sparo. La porta macchiata di sangue era quella che dava nella camera da letto di Corinne. La stanza era avvolta nell'oscurità, quando spalancai la porta, ma il sordo e minaccioso brontolio che accolse il nostro ingresso dimostrava indubbiamente che non era deserta. Feci scattare l'interruttore... e rimasi immobile di fronte all'incredibile spettacolo che mi si presentò davanti agli occhi. Non fu la vista del grosso lupo accovacciato sul letto che mi strozzò il respiro in gola con un suono che ricordava un singhiozzo: a questo ero preparato. No, la cosa che mi fece barcollare e tremare, fu la vista del minuscolo bimbo, che rannicchiato fra le zampe del gigantesco animale mandava balbettii di contentezza, mentre con i piccoli pugni carezzava il morbido pelo grigio. Il fucile mi cadde dalle mani, finì sul pavimento. Il mio cervello non riusciva a credere a quanto vedevano gli occhi. Poi, come un lampo improvviso, tutto mi apparve chiaro. L'amore materno, divino e incomparabile, aveva trionfato sulla terribile, antica maledizione: la grande lupa feroce stava allattando il suo bimbo che avrebbe dovuto dilaniare! Avevo compreso; ma il poliziotto alle mie spalle aveva occhi solo per la belva a cui davamo la caccia. Ebbi la rapidissima visione di una canna d'acciaio, mentre lui tirava indietro la mano pronto al tiro. «Non sparate, sciocco!» gridai, e spensi la luce per fargli sbagliar mira, nel caso non avesse compreso. Ma quando la luce si spense, l'oscurità fu rotta da una lingua di fuoco e il crepitio dell'arma automatica risuonò sinistro come un colpo di tuono in
miniatura. «Sciocco!» gridai di nuovo. «Che cosa avete fatto?» «Immagino di aver centrato quella...» La sua risposta si spense in un mormorio privo di significato, mentre riaccendevo la luce. Il lupo era svanito. Al suo posto, bianco come il marmo e immobile nella morte, c'era il corpo di Corinne Grantham, la ragazza che per sempre aveva rotto l'incantesimo malefico che da secoli pendeva su tutte le donne di Josselin. L'agente di polizia affrontò da uomo l'inchiesta che seguì. Il poveraccio zitto zitto, incassò la sua dose di rimbrotti sul «modo di maneggiare le armi senza la minima attenzione o cura». Tuttavia, ebbe il buonsenso di non pronunciare una parola sul lupo che s'era trasformato in donna al momento della morte. Probabilmente aveva immaginato che nessuno avrebbe creduto a una storia simile e non aveva alcuna voglia d'esser preso per bugiardo, oltre che per uno sbadato tiratore. Grazie all'appoggio incondizionato e generoso di Alan fui in grado di testimoniare che l'agente non era da condannare per la sua reticenza. Oggi, probabilmente, è il più ricco poliziotto del Sussex... a meno che non si sia ritirato dalla polizia da parecchio tempo, come credo. Il verdetto del coroner fu quello di «morte accidentale». E così la faccenda rimase chiusa fino a tutt'oggi. Alan Grantham, con l'animo combattuto fra il dolore per la morte della moglie e la gioia per aver ritrovato il figlioletto miracolosamente illeso, non ha mai sospettato la vera natura dell'«incidente disgraziato» che aveva pietosamente tagliato il nodo gordiano della trama sinistra in cui Corinne era invischiata. Non saprà mai la verità, fino al giorno in cui, oltre l'orizzonte della tomba, tutti i segreti del mondo saranno rivelati. FINE