CORNELL WOOLRICH LA SPOSA IN NERO (The Bride Wore Black, 1940) Parte prima BLISS La donna «Julie, Julie mia.» Le parole ...
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CORNELL WOOLRICH LA SPOSA IN NERO (The Bride Wore Black, 1940) Parte prima BLISS La donna «Julie, Julie mia.» Le parole seguirono la donna giù per le quattro rampe di scale. Era il sussurro più tenero, il grido più potente che potesse uscire da labbra umane. Non valsero a fermarla, né a farla esitare. Quando Julie uscì nella luce del giorno, il suo viso era di un pallore mortale. E questo fu tutto. All'ingresso, la ragazza che aspettava con accanto la valigia si voltò e, mentre l'altra la raggiungeva, la guardò con occhi quasi increduli, come se stesse domandandosi dove avesse trovato l'energia per andare fino in fondo. La donna parve leggerle nel pensiero, perché rispose alla muta domanda: «È stato difficile dire addio, per me quanto per loro; solo che io era preparata, loro no. Ho avuto tante notti senza fine per farmi forte. Loro ci sono passati solo una volta, io ho dovuto passarci un'infinità di volte.» Poi, senza cambiar tono, continuò: «Preferirei prendere un tassì. Ce n'è uno laggiù.» Mentre la macchina si fermava, la ragazza tornò a guardare Julie con aria interrogativa. «Sì, puoi accompagnarmi, se vuoi» le disse. Poi rivolta al tassista: «Alla Grand Central Station.» Non si voltò a guardare la casa, la strada dalla quale stavano allontanandosi. Non guardò le mille altre strade, ben note, che seguivano, quelle che insieme formavano la sua città, il luogo dove era sempre vissuta. Dovettero aspettare un momento allo sportello della biglietteria, perché c'era qualcuno prima di loro. La ragazza le stava accanto, smarrita. «Dove andrai?» «Non lo so nemmeno io, in questo preciso istante. Non ci ho ancora pensato.» Aprì la borsetta, divise il rotolino di banconote che vi era contenuto in due parti uguali e tenne la più piccola in mano. S'avvicinò allo sportello e la spinse dentro. «Fin dove arrivo con questi, a tariffa normale?»
«Chicago... con novanta cents di resto.» «Allora, datemi un'andata semplice.» Si rivolse alla ragazza accanto a lei. «Adesso, puoi tornare da loro a dire questo, almeno.» «Non importa. Che differenza fa il nome di una località, quando non si può tornare indietro?» Rimasero sedute per un po' nella sala d'aspetto, poi scesero al marciapiede inferiore e sostarono un attimo, ferme vicino allo sportello della carrozza. «Adesso ci diamo un bacio, da brave vecchie amiche d'infanzia.» Le loro labbra si sfiorarono fugacemente. «Ecco fatto.» «Julie, che cosa posso dirti?» «Solo addio. Che altro si può dire a qualcuno... in questa vita?» «Julie, spero solo di rivederti, un giorno, presto.» «Non mi rivedrai mai più.» La pensilina fuggì via. Il treno sfrecciò nel lungo tunnel, poi riemerse nella luce del giorno, per imboccare un tratto sopraelevato, al livello dei piani superiori degli edifici, mentre le strade che incrociava scomponevano il paesaggio in tante sequenze. Il treno rallentò di nuovo, prima ancora di aver preso velocità. «Venticinquesima Strada» disse un conduttore all'interno della carrozza. La donna che se n'era andata per sempre, afferrò la valigia, si alzò e percorse il corridoio, come se quella fosse stata la fine e non l'inizio del viaggio. Era in piedi nel corridoio, pronta, quando il treno si fermò. Scese, s'avviò lungo il marciapiede verso l'uscita, giù per le scale per raggiungere il livello stradale. Comprò un quotidiano all'edicola della sala d'aspetto, sedette su una panca, aprì il giornale alle ultime pagine, dov'erano le inserzioni divise per argomento. Lo ripiegò a una larghezza comoda e seguì con un dito la colonna della rubrica: "Stanze ammobiliate". Il dito s'arrestò quasi all'inizio, senza badare molto ai particolari dell'annuncio su cui poggiava. La donna passò l'unghia sulla carta porosa, lasciando un segno. Infilò il giornale sotto un braccio, riprese la valigia e uscì per salire su un tassì. «Portami a questo indirizzo» disse, mostrando il giornale all'autista. L'affittacamere rimase un po' indietro, vicino alla porta aperta della stanza, aspettando il verdetto della donna. Questa si guardò intorno. «Sì, va benissimo. Vi pago subito le due prime settimane.»
L'affittacamere controllò il denaro e cominciò a scribacchiare una ricevuta. «Che nome, prego?» domandò, alzando gli occhi. Lo sguardo della donna guizzò alla sua valigia sulla quale le iniziali J.B., una volta dorate, erano ancora vagamente decifrabili tra le due serrature. «Josephine Bailey.» «Ecco la ricevuta, signorina Bailey. Spero che vi troverete bene. Il bagno è la seconda porta in corridoio, alla vostra...» «Grazie, grazie, lo troverò.» Chiuse la porta a chiave dall'interno, tolse cappello e cappotto, aprì la valigia, preparata da così poco tempo, per un viaggio di cinquanta isolati... o di una vita. C'era un armadietto metallico per i medicinali, macchiato di ruggine, sul muro sopra il lavabo. Lei si avvicinò e lo aprì, alzandosi sulla punta dei piedi, come a cercare qualcosa. Sull'ultimo ripiano, come aveva sperato in cuor suo, c'era una lametta da rasoio arrugginita, abbandonata da qualche pensionante. Tornò alla valigia e con la lametta tagliò un piccolo rettangolo intorno alle iniziali sul coperchio e grattò lo strato superficiale della cartapesta per farle sparire completamente. Poi frugò tra il contenuto della valigia ed eliminò le cifre di una sottoveste, quelle di una camicia da notte, di una camicetta, togliendo il monogramma dovunque lo trovasse. Cancellata la sua precedente identità, gettò la lametta nel cestino della carta straccia e si ripulì accuratamente le dita. Trovò la fotografia di un uomo, nella tasca sotto il coperchio della valigia. La tirò fuori e la tenne davanti agli occhi, fissandola a lungo: era un giovanotto, senza alcun tratto particolare. Non possedeva nulla di straordinariamente notevole: due occhi, un naso e una bocca come li hanno tutti. La donna lo guardò per parecchio tempo. Poi scovò una bustina di fiammiferi nella borsetta e portò la fotografia sul lavabo. Avvicinò un fiammifero acceso a un angolo e ve lo tenne finché non ebbe più nulla da stringere tra le dita. «Addio» disse in un soffio. Fece scorrere un getto d'acqua nel lavabo e tornò alla valigia. Tutto quello che era rimasto nella tasca sotto il coperchio era un foglietto di carta con un nome scritto a matita. C'era voluto molto tempo per riuscire ad averlo. La donna cercò ancora e tirò fuori altri quattro foglietti uguali. Li raccolse tutti, ma non li bruciò subito. Dapprima si mise a giocherellare con essi, con aria indifferente. Li appoggiò tutti sul ripiano della toilette, con il lato bianco rivolto in su. Poi li mischiò facendoli ruotare tra le di-
ta; ne prese uno e dette una rapida occhiata all'altro lato. Poi li rimise insieme e li bruciò allo stesso modo, sul lavabo. S'avvicinò quindi alla finestra e rimase a guardar fuori, le mani aggrappate alle estremità del davanzale sporgente. Sembrava protendersi verso la città là fuori, come qualcosa di incombente sulla città stessa. Bliss Il tassì frenò bruscamente davanti all'ingresso della casa-albergo dove Bliss abitava, facendolo scivolare in avanti sul sedile. Per lo scossone, l'alcool si agitò nel suo stomaco, non perché ce ne fosse molto, ma perché era stato mandato giù da poco. Fece per scendere, batté contro il tetto della vettura e il cappello gli si mise di sghimbescio. Lo raddrizzò, si frugò in tasca alla ricerca degli spiccioli e lasciò cadere una moneta sul marciapiede. Non era completamente sbronzo, non si era mai ridotto in quello stato. Era in grado di capire tutto quello che gli si diceva e che diceva lui stesso: si sentiva proprio bene. E poi c'era sempre il pensiero di Marge... pareva che andasse tutto magnificamente, in quel senso. Uno non andrebbe certo ad affogare nell'alcool una prospettiva del genere. Charlie, il portiere di notte, uscì dietro di lui mentre stava pagando l'autista. Charlie era un tantino in ritardo col suo cerimoniale dell'accoglienza perché era rimasto al suo banco, nel vestibolo, per terminare l'ultimo paragrafo di un articolo sportivo apparso su un rotocalco. In fondo, erano le due e mezzo del mattino, e nessuno è perfetto. Bliss si girò e disse: «Salve, Charlie.» «...'giorno, signor Bliss» rispose l'altro. Gli tenne aperta la porta e Bliss entrò. Adempiuti più o meno soddisfacentemente i suoi doveri, Charlie lo seguì. Sbadigliò e Bliss, pur senza averlo visto, sbadigliò a sua volta... un fenomeno che avrebbe interessato uno psicologo. C'era un pannello a specchio su un lato dell'ingresso; Bliss vi si avvicinò e si dette una delle sue occhiate di prammatica. Ce n'erano di due tipi: lo sguardo "ragazzi-mi-sento-un-dio-chissà-che-succede-stasera" ed era l'occhiata di uscita; lo sguardo "cielo-mi-sento-uno-straccio-che-gioia-andarea-nanna" e quella era l'occhiata del rientro. Bliss vide un uomo di ventisette anni, coi capelli color sabbia tagliati a spazzola, che gli restituiva l'occhiata. Erano tanto corti che alle tempie sembravano argentati. Occhi scuri, corporatura smilza, buona statura, sen-
za essere troppo alto. Un uomo che sapeva tutto di lui... Bliss. Non bello, ma chi voleva essere bello? Persino a Marge Elliott non importava che fosse bello o no. "Per me sei Ken e basta", aveva detto lei. Sospirò, dette un colpetto con l'unghia del pollice al fiore bianco ormai vizzo, ancora all'occhiello del bavero, e quello si disfece del tutto. Bliss tirò fuori un pacchetto di sigarette spiegazzato e se ne offrì una; poi, scoperto che ce n'era un'altra, la offrì a Charlie. Charlie l'accettò, forse calcolando che, dopo Bliss, non sarebbe rientrato più nessuno. Charlie era alto e un po' rotondetto al punto del suo equatore. Non ce la faceva mai a pulire bene la parte inferiore dei montanti d'ottone che sostenevano il baldacchino della porta; la parte mediana e la parte superiore, però, scintillavano sempre come gioielli, ed egli riusciva a controllare degli sbronzi turbolenti che pesavano due volte più di lui. Era portiere di notte nell'edificio, sin da prima che Bliss ci si stabilisse. Bliss gli andava a genio, e anche Charlie andava a genio a Bliss. Lui gli dava un paio di dollari a Natale e un altro paio glieli allungava nel corso dell'anno, a un quarto per volta. Non era quello, però, il motivo: il fatto era che gli piaceva. Bliss accese le due sigarette. Poi si voltò e fece per salire i tre gradini bassi che portavano all'ascensore automatico. Charlie esclamò: «Oh, quasi me ne dimenticavo, signor Bliss. Stasera è venuta a cercarvi una signorina.» «Ah sì? E chi era?» rispose Bliss, indifferente. Non era stata Marge, quindi non era realmente importante... non più. Si fermò e girò appena il viso, in attesa della risposta. «Mah!» rispose Charlie. «Non sono riuscito a farmelo dire. Gliel'ho chiesto due o tre volte, ma...» Si strinse nelle spalle. «Pareva che non volesse dirlo.» «Va bene» disse Bliss. E gli andava veramente bene. «Sembrava che volesse salire per aspettarvi nel vostro appartamento» aggiunse Charlie. «Oh no, non sognatevi di lasciarglielo fare» scattò Bliss. «Sono passati, quei tempi.» «Lo so; non lo farei mai, non preoccupatevi, signor Bliss» rispose Charlie, con tanta sincerità da commuovere. Poi aggiunse, scuotendo dubbioso la testa: «Quella, però, ne aveva una voglia pazza...» Qualcosa nell'intonazione di quelle parole sollecitò la curiosità di Bliss. «Che cosa volete dire?» Ridiscese dal gradino, trovandosi al livello di pri-
ma, e girò di più la testa e le spalle verso il portiere. «Be', era qui con me, un po' in disparte, vicino allo specchio, dopo che io vi avevo già chiamato al citofono senza aver ottenuto risposta, quando mi dice: "Potrei andar su ad aspettarlo?". «E io: 'Be', non so, signorina, non credo che dovrei...'. Ecco, cercavo di togliermela gentilmente dai piedi. E quella apre la borsetta, una specie di portafogli da sera che si teneva stretto, e comincia a frugarci dentro come se cercasse il rossetto, e ti vedo un bigliettone da cento dollari che mi faceva l'occhietto. Ecco, potete anche non credermi, signor Bliss, ma l'ho visto con questi occhi». Bliss ridacchiò, prendendolo bonariamente in giro. «E credete che cercasse di offrirvelo perché la lasciaste salire? Andiamo, Charlie...» E gli dette un colpetto col gomito. Niente poteva intaccare la serietà solenne e sincera di Charlie. «Io so che intendeva proprio quello, signor Bliss; non c'era da sbagliarsi da come l'ha fatto! Ha lasciato la borsetta ben aperta, e continuava a lavorarci sotto con le dita, per essere sicura di non spostarlo. Era bello steso, proprio in cima al resto. E poi, lei guardava dal bigliettone a me; mi guardava proprio negli occhi... e teneva persino la borsetta un po' discosta. Non proprio verso di me, capite, discosta solo un pochino, in modo che afferrassi bene le sue intenzioni. Insomma, faccio questo lavoro da troppo tempo, conosco tutti i segni e so distinguere.» Pensieroso, Bliss si grattò un angolo della bocca con l'unghia di un pollice. «Siete sicuro che non fosse solo un biglietto da dieci, Charlie?» La voce di Charlie salì quasi al falsetto mentre insisteva, offeso: «Signor Bliss, ho visto gli zeri su ambedue gli angoli.» Bliss si mordicchiò un labbro. «Be', che io sia dannato!» Finalmente si girò del tutto verso Charlie, come se intendesse discutere a fondo la faccenda. Charlie parve comprendere la necessità di continuare discorso. «Torno subito da voi, signor Bliss» disse, quando fuori si sentì il rumore di un tassì in arrivo. Uscì, fece il suo dovere con le portiere e tornò sulla scia di un uomo e di una donna in abito da sera, che qualche ora prima dovevano esser stati molto eleganti; ora, però, avevano perso completamente il lustro. Passando, fecero un lieve cenno del capo a Bliss, e lui lo restituì, con tutta la gelida indifferenza che, in città, caratterizza i rapporti tra vicini. I due entrarono nell'ascensore e sparirono. Non appena l'oblò di vetro della porta dell'ascensore fu nuovamente bu-
io, Bliss e Charlie ripresero il dialogo che avevano interrotto. «Allora, com'era? Era una che avevate già visto prima? Conoscete abbastanza bene la gente che frequento, i miei amici...» «Sì, certo» ammise Charlie «ma non riesco a ricordarmela. Sono sicuro di non averla mai vista prima. Posso solo dirvi che era un pezzo di figliola. E che pezzo!» «D'accordo, era un bel pezzo di figliola» convenne Bliss «ma che tipo?» «Be', era bionda.» Con fare da artista, Charlie disegnò nell'aria con le mani. Presumibilmente abbozzava una folta capigliatura. «Ma bionda bionda. Quel biondo giallo... Non quel colore fasullo, slavato che fanno le tinture... biondo biondo insomma.» «Biondo biondo» confermò paziente Bliss. «E... e occhi azzurri; quelli che ridono sempre, anche se non stanno ridendo. Era alta... ecco, arrivava col mento ai miei alamari. E... uhm, non troppo grassa, però non era nemmeno pelle e ossa... la misura giusta da abbracciare.» Bliss osservava l'estremità opposta del soffitto del vestibolo, mentre la descrizione continuava. «No, no» ripeteva, come se stesse passando in rivista i suoi ricordi. «La più somigliante che mi viene in mente è Helen Raymond, ma...» «No, ricordo la signorina Raymond» l'interruppe energicamente Charlie. «Non era lei; le ho chiamato il tassì un mucchio di volte.» Poi continuò: «Ad ogni modo, sapete perché sono sicurissimo che non la conoscete? Perché nemmeno quella signorina vi conosceva.» «Che cosa?» esclamò Bliss. «E allora, perché diavolo è venuta qui a chiedere di me e a tentare di entrare nel mio appartamento?» Charlie era rimasto indietro coi suoi programmi. «Non vi conosceva proprio» insistette con enfasi. «Ha tastato il terreno, mentre salivamo...» «Oh, allora la stavate portando su... Allora, era proprio un centone.» Charlie si schiarì la voce con aria di disapprovazione, rendendosi conto di aver fatto un passo falso. «No, signor Bliss, no» protestò con enfasi. «Dovreste conoscermi meglio. Non la portavo su. Però, sono entrato nell'ascensore con lei, facendo finta di volercela portare. Pensavo che forse quello era il sistema più spiccio per togliermela di torno: fingere che la stavo portando su e poi, all'ultimo momento...» «Sì, ho capito» commentò Bliss seccamente. «Be', entriamo insieme nell'ascensore, per andare ai quarto piano; mentre saliamo mi viene in mente quella rapina, sapete, quella che c'è stata qui
l'anno scorso, e mi son detto che era meglio non correre rischi. Così comincio a sballarle una descrizione fasulla di voi, proprio all'opposto di quello che siete in realtà, tanto per metterla alla prova. Le dico: "Ha i capelli rossi, vero? È piuttosto alto, poco meno di uno e novanta? Sono nuovo in questo posto. Voglio esser sicuro di aver imbroccato quello giusto, perché ci sono tanti inquilini, in questa casa". E quella se la beve tutta. "Sì, certo", risponde, "è proprio lui". E lo dice in fretta, per evitare che io capisca ch'era la prima volta che vi sentiva descrivere.» «Be', vorrei essere un...» disse Bliss, e continuò spiegando che cosa sarebbe voluto essere. «E quello mi è bastato» lo rassicurò Charlie virtuosamente. «S'era data la zappa sui piedi. Quando ha risposto così, mi sono detto: "Niente da fare, non ti faccio arrivare, con questo trucchetto". Però non le ho detto niente perché... be', era tutta in ghingheri e così via, non era il tipo che si può trattare in modo brutale. Così me la sono cucinata per bene, ho provato nella vostra porta una chiave che non entrava e quando non ha funzionato, ho fatto finta di non averne altre e di non poterla far entrare. Torniamo giù di nuovo e quella fa una bella alzata di spalle, come se non le importasse di non esserci entrata questa volta, perché tanto, prima o poi, ci riuscirà. Sorride e mi dice: "Un'altra volta, allora", e se ne va per la sua strada, a piedi com'era venuta. Era buffo anche il modo com'era vestita. Sono stato a guardarla fin quando non è arrivata all'angolo e non l'ho vista chiamare un tassì; se ne andava a piedi come se fossero le dieci del mattino. Poi ha svoltato l'angolo ed è sparita. O'Connor, il poliziotto, l'ha incrociata venendo in qua e ho visto che persino lui si è voltato a guardarla. Era proprio un bel pezzo di figliola.» «Come una nave che passa nella notte» notò Bliss. «Be', una cosa è sicura: si trattava di un trucco. Se io non la conosco, e ne sono sicuro dalla sua descrizione, e lei non conosce me, che cos'è tutta questa storia? Che diavolo andava cercando? Mi avrà preso per un altro.» «No, conosceva bene il vostro nome. Persino quello di battesimo. Appena entrata, mi ha chiesto del signor Ken Bliss.» «E non è arrivata in macchina?» «No, è arrivata proprio a piedi, da chissà dove, e se n'è andata com'era venuta. La cosa più strana che abbia mai visto.» Chiacchierarono ancora per qualche minuto, confidenzialmente, con il cameratismo tipico di chi discorre alle due e mezzo del mattino. «Eh, vivendo in una grande città come questa, se ne vedono di tutti i colori. Per
forza. Io lo so, signor Bliss. Ne ho viste parecchie anch'io, facendo questo lavoro. Matte che credono di conoscerti, matte che credono di essere innamorate di te e matte che credono che gli hai fatto qualcosa. Sareste sorpreso se sapeste quanti maniaci e pazzi da manicomio circolano liberi per la strada.» «E magari mi ritrovo con una di quelle appiccicata alle costole. È un pensierino allegro da portare a letto» commentò Bliss, con una smorfia. Si voltò e aprì la porta dell'ascensore. Scoccò a Charlie un sorriso falsamente timoroso al di sopra della spalla, prima che la porta si richiudesse. "Siamo arrivati al punto che un giovanotto solo non può più vivere in pace. Credo che dovrò sposarmi per trovare un po' di protezione." Ma i pensieri che portò con sé erano per Marjorie.. e per nessun'altra. La sera della festa per il fidanzamento di Marjorie, Corey si presentò a casa di Bliss alle otto e mezzo, molto prima che lui avesse cominciato a prepararsi. «Oh maledizione!» esclamò Bliss, fingendosi seccato, come si fa solo con gli amici intimi. «Ho appena finito di mangiare, non mi sono neppure fatto la barba.» «Ti ho chiamato in ufficio alle quattro e mezzo. Dove diavolo ti eri cacciato?» ribatté Corey, con la stessa brusca cordialità. Entrò e s'impadronì della poltrona più comoda, appoggiando una gamba sul bracciolo. Si sbarazzò del cappello, mirando al davanzale della finestra. Il cappello mancò il bersaglio, ma cadde su una bassa libreria che si trovava lì sotto. Corey non era un uomo brutto, senza essere però molto decorativo. Più alto di Bliss e un po' più magro, o forse era solo un'impressione dovuta alla sua altezza, capelli castano scuro e sopracciglia folte. Si atteggiava a sofisticato, ma era solo una vernice, sotto la quale affiorava il tipo primitivo. Ogni tanto, quella vernice mostrava una screpolatura dalla quale si poteva avere una fuggevole ed allarmante visione di rozza aggressività. A qualsiasi festa si andasse, lui era là, inquadrato in una porta, che scaldava il bicchiere con una mano. Qualsiasi ragazza alla quale si parlasse di lui, lo conosceva già... o aveva un'amica che lo conosceva già. La sua tecnica consisteva nell'attacco diretto, una sorta di Blitzkrieg, che aveva avuto successo anche nei casi più disperati. Se la verità fosse venuta a galla, non pochi personaggi altezzosi della città avrebbero miseramente abbassato la cresta. Corey cominciò a stropicciarsi le mani, in un'elegante esibizione di gioia maligna. «Bene, stasera ti fai prendere all'amo. Stasera ti lasci mettere il
marchio. Ti senti già mancare la terra sotto i piedi? Ci puoi scommettere! Sembri uno straccio!» «Credi che sia come te?» Corey si toccò ripetutamente il petto col pollice. «Dovresti essere come me. Sono l'unico fusto che non si fa incastrare in nessun modo.» «Dovresti fare il bagno più spesso. Forse, allora, avresti più offerte» brontolò Bliss in tono spregiativo. «Così poi fanno fatica a trovarmi quando si spengono le luci. Non sarebbe cortese. Allora, dov'eri questo pomeriggio? Volevo cenare con te.» «Ero fuori a comperare il fondo di bottiglia. Dove credevi...» Aprì un cassetto della toilette, tirò fuori una scatolina quadrata e ne aprì il coperchio a scatto. «Che ne dici?» Corey lo sollevò dal cuscinetto e ci soffiò sopra, ammirato. «Ehi! Questo sì che è un brillante!» «Lo credo bene, m'ha tirato a secco.» Bliss lo rimise nel cassetto con aria indifferente mirabilmente simulata, e cominciò a slacciarsi le bretelle. «Vado a farmi una doccia. Sai dov'è lo scotch.» Rientrò dopo circa venti minuti, completo di cravattino a farfalla. «Chi era la pulzella?» domandò pigramente Corey, alzando gli occhi dal giornale. «Quale pulzella?» «Il telefono ha squillato proprio mentre tu eri di là, e una ragazza ha chiesto di te. Ho capito che non era una delle tue vecchie amichette da come parlava. "Abita lì il signor Kenneth Bliss?". Le ho detto che eri occupato e ho chiesto se potevo fare qualcosa per lei. Neanche una parola, ha riappeso e basta.» «Strano.» Corey fece roteare lo scotch nel bicchiere. «Forse era una di quelle croniste mondane a caccia di pettegolezzi sul tuo fidanzamento.» «No, quelle di solito s'attaccano alla ragazza. Ad ogni modo, i genitori di Marjorie hanno già dato tutte le notizie che c'erano da dare. Che fosse lei?» aggiunse Bliss dopo un attimo di riflessione. «Lei, chi?» Bliss ridacchiò. «Non te l'avevo detto, ma credo di avere una ignota ammiratrice. Non molto tempo fa, è successa una cosa strana. Una sera, mentre ero fuori, una bella ragazza ha fatto di tutto per entrare qui. Il portiere, poi, me l'ha raccontato. Non aveva voluto dare il suo nome, né altre informazioni. Lui conosce quasi tutta la gente che frequento, sai come di-
ventano i portieri dopo un po', ed era sicurissimo di non averla mai vista. Era tutta agghindata in abito da sera, e lui l'ha giudicata, coi suoi occhi esperti, un vero tipo fuoriserie. Ma il fatto più buffo è che non è arrivata in macchina, è spuntata a piedi dalla strada, come se venisse dal nulla, tirata a lucido a quel modo. «Il portiere mi ha detto che ha aperto la borsetta, come per cercare il rossetto o roba del genere, e gli ha lasciato lustrare per benino gli occhi con un biglietto da cento dollari che stava proprio in cima. E dal modo come si comportava la ragazza, ha capito che il biglietto sarebbe stato suo se le avesse aperto la mia porta con la chiave universale». Corey sembrava scettico. «Vorresti dire che un portiere così, senza pensarci due volte, lascia perdere la possibilità di mettere le mani su un centone? Quello ti ha preso per il naso.» «Non ne sono sicuro. La somma è così fantastica di per se stessa che la faccenda, per me almeno, ha tutta l'aria di essere vera. Se voleva raccontare balle, era più probabile che parlasse di dieci o di venti dollari.» «Be', e allora che cosa ha fatto?... L'ha lasciata entrare?» «Da come ha parlato, ho capito che quel centone lo aveva tentato maledettamente; era stato lì lì per portarla su e lasciarla entrare. Però, prima di accontentarla, ha pensato che sarebbe stato meglio vedere se mi conosceva veramente. Ha cominciato a snocciolarle una descrizione fasulla, ch'era l'opposto della mia persona sotto tutti gli aspetti. Lei ci è cascata, ha detto che sì, ero proprio io, dimostrando così che non mi aveva mai visto in vita sua. «Questo ha rovinato tutto, naturalmente. Lui ha avuto paura di cacciarsi nei guai, ha fatto finta di non avere la chiave o roba del genere e se l'è tolta dai piedi con il maggior tatto possibile. Era troppo ben vestita perché facesse il villano. Quando la ragazza ha visto che non c'era modo di passare, ha sorriso, ha assunto un'aria indifferente e se n'è andata per la sua strada». Corey, nel frattempo, si era curvato in avanti, interessato. «Sei sicuro di non riconoscerla dalla descrizione che te ne ha fatto?» «Sicurissimo. E, come ti ho detto, nemmeno lei mi conosceva.» «Ma cosa andava cercando?» «Non voleva ripulire l'appartamento, questo è un fatto, perché voleva pagare cento dollari solo per il privilegio di entrare qui, e chiunque riesca a ricavare cento dollari di roba qui dentro è un mago.» A questo particolare, Corey fece un cenno di assenso.
Bliss balzò in piedi. «Andiamo» sorrise nervosamente. «Mi piace tutto del matrimonio, meno le cerimonie prima di arrivarci, come quella di stasera.» «A me, invece, quello che piace di più è il fatto che non mi succederà mai» commentò Corey. Si trovavano sul pianerottolo, aspettando l'ascensore, quando uno squillo di telefono filtrò da una porta chiusa, a poca distanza da loro. Bliss tese l'orecchio allenato. «Chiave di violino. È il mio. Meglio che faccia un salto dentro a rispondere, può darsi che sia Marge...» Tornò alla porta, si frugò in tasca alla ricerca della chiave, la lasciò cadere e dovette curvarsi per cercarla. Corey mise un piede nell'ascensore per trattenerlo. «Sbrigati, prima che qualcuno ce lo porti via» l'incitò. Bliss spalancò la porta. Il debole suono si alzò di colpo in uno squillo fragoroso, poi s'interruppe e non riprese più. Bliss uscì di nuovo e si richiuse la porta alle spalle. «Troppo tardi, hanno smesso.» Scendendo con l'ascensore, Corey insinuò: «Forse era ancora la bella misteriosa.» «Se era lei» brontolò Bliss «qualunque cosa voglia, la vuole sul serio.» Appartato con Marge in un angolo, lontano dagli altri partecipanti alla festa, Bliss si grattò la nuca con finta perplessità. «Vediamo un po', come si svolge la faccenda? Ho visto parecchi film e dovrei sapere come si fa. Be', teniamoci al vecchio sistema degli occhi chiusi, che è il più sicuro. Chiudi gli occhi e dammi un dito.» Marge gli porse prontamente il pollice. Lui lo scostò con una manata. «Non quello. Cerca di aiutare un povero disgraziato. Sono così nervoso che potrei...» «Ah, ho sbagliato dito? Dovevi essere più preciso. Come facevo a sapere se volevi morderlo o chissà che?» E poi l'anello. Le loro teste s'accostarono, guardandolo. Le loro mani intrecciarono un nodo d'amore. Marjorie e Ken fecero le fusa, tubarono e produssero vari effetti sonori che per loro avevano probabilmente un significato. Improvvisamente, entrambi si resero conto di uno sguardo fisso su di loro e voltarono insieme la testa verso la porta. Vi era inquadrata la figura di una ragazza, immobile. Portava un ampio abito nero a balze, dal quale le spalle vellutate sbocciavano senza essere deturpate da spalline. Un evanescente velo nero copriva i suoi capelli così incredibilmente biondi da sembrare cosparsi di fa-
rina di granturco. Un guizzo di cordialità, o forse di derisione, sparì dall'angolo della sua bocca prima che Bliss e Marge, potessero esserne sicuri. «Scusatemi» mormorò la ragazza e s'allontanò. «Che tipo strano!» esclamò Marge senza volerlo, continuando a fissare come ipnotizzata il riquadro vuoto della porta. «Chi è?» «Non lo so. Mi pare di averla vista arrivare con Fred Sterling e la sua compagnia, ma se me l'hanno presentata, non ricordo il suo nome.» Abbassarono ancora lo sguardo sull'anello, ma l'incanto era spezzato, il loro stato di grazia era svanito e pareva non riuscissero a ritrovarlo. La stanza non era più calda come prima. Sembrava che quello sguardo dalla porta l'avesse raggelata. Marge rabbrividì. «Andiamo a raggiungere gli altri» disse. La festa volgeva quasi al termine e lui e lei stavano ballando. Quei giri appena abbozzati e quei passetti di fantasia che servono solo come giustificazione per coprire una conversazione privata. Lui disse: «Be', allora prendiamo quell'appartamento nella Ottantaquattresima Strada. In fondo, se ce lo molla per cinque dollari in meno al mese, come ha detto... E con i mobili che ci daranno, potremmo sistemarlo in modo che sia...» E lei: «Quella ragazza in nero non ti toglie lo sguardo di dosso. Ogni volta che la osservo, ti sta divorando con gli occhi. Se fosse una qualsiasi altra sera, potrei cominciare a preoccuparmi.» Bliss girò la testa. «Non mi sta guardando.» «Lo stava facendo finché non ho attirato la tua attenzione su di lei.» «Insomma, chi è?» La ragazza si strinse nelle spalle. «Credevo che fosse venuta con Fred Sterling e la sua ghenga. Sai che lui fa sempre il suo ingresso con la scorta d'onore. Ma Sterling se n'è andato da un po' e lei è ancora qui. Forse ha deciso di restare anche se è rimasta da sola. Chiunque sia, mi piace come si comporta. Niente bardature di cattivo gusto. Continuo a osservarla, ha avuto guai per tutta la serata, povera figliola. Ogni volta che tenta di sgusciare da sola sulla terrazza, tre o quattro uomini prendono la sua fuga per un invito e le fanno il codazzo dietro. Dopo un minuto rientra, di solito dalla porta laterale, sempre da sola. Come faccia a liberarsi di loro così in fretta, non so, ma lei deve averne fatto un'arte. Subito dopo rientrano anche gli uomini, furtivamente, con lo sguardo vacuo che assumono di solito i ma-
schi quando vengono messi a posto. È un vero e proprio spettacolo.» Gli appoggiò leggermente una mano sul bavero della giacca, come segnale. Si fermarono a metà di un giro. «Qualcuno se ne sta andando, devo accompagnarlo alla porta. Torno subito, caro. Pensa a me, mentre sono via.» Lui la guardò allontanarsi, immobile come un pennone dal quale sia stata improvvisamente ammainata la bandiera; quando l'abito blu chiaro scomparve, a un'estremità della stanza, si voltò e si mosse nella direzione opposta per andare in terrazza a prendere una boccata d'aria. Si sentiva un po' sudato, sotto il colletto; comunque, ballando, s'accaldava sempre. Le luci della città guizzavano rapidamente sotto di lui come i raggi luminosi di una ruota deformata. Una luna perlacea, dai contorni sfumati, pendeva dal cielo come un grumo infuocato di tapioca, lanciato contro la notte da un bello spirito cosmico. Accese la sigaretta del "dopo-la-danzaaspettando-che-lei-ritorni". Guardando la città che una volta era stata sul punto di sconfiggerlo, si sentiva a meraviglia. "Adesso ho sistemato tutto", pensò. "Sono giovane. Ho trovato l'amore. Ho un buon avvenire. Il resto è fatto". La terrazza correva lungo tutto l'appartamento. A un'estremità, girava su un lato dell'attico, e la luna non poteva seguirla. Tutto buio, laggiù. Non c'erano nemmeno porte-finestre, ma solo qualche porta secondaria usata di rado, la cui solida struttura impediva alla luce di trapelare. Bliss si spinse dietro l'angolo, perché c'era una coppia dall'altra parte e non voleva starle tra i piedi. Si fermò esattamente sull'angolo retto formato dai due parapetti, e si trovò così ad avere due visuali invece di una. Poi, improvvisamente - doveva essere scivolata dalla porta laterale senza farsi scorgere - la onnipresente ragazza in nero si trovò là, a un metro o due. Guardava lontano, esattamente come lui. Un'apparizione fantastica come un busto di marmo candido che fluttuasse nell'aria senza piedistallo, giacché il nero del suo vestito si confondeva con l'oscurità. «Bella festa, vero?» disse lui. In fondo, vi partecipavano insieme. Pareva che la ragazza non ne volesse parlare; forse non era una festa tanto bella, per lei. In quell'istante, si avvicinò Corey, proteso alla conquista. Evidentemente, l'aveva tenuta d'occhio da un pezzo, ma la ruota delle possibilità gli aveva offerto solo allora l'occasione. La presenza di Bliss non l'imbarazzò per nulla. «Tu vai dentro» gli ordinò. «Non fare il porco, sei fidanzato.»
La ragazza l'interruppe in fretta. «Volete essere un angelo?» «Certo che voglio essere un angelo.» «Allora portatemi un whisky e soda con tanto ghiaccio.» Corey indicò Bliss. «Lui lo sa fare meglio di me.» «Avrà un sapore diverso, se lo preparate voi.» Era un amo primitivo, ma funzionò. Corey tornò con il drink. Lei prese il bicchiere dalle sue mani, lo poggiò sul bordo del parapetto, l'inclinò finché il bicchiere non si trovò a fondo in su, vuoto. Poi glielo restituì con aria grave. «Adesso andate a prendermene un altro.» Corey afferrò la situazione; sarebbe stato piuttosto difficile non afferrarla. La vernice di raffinatezza dell'uomo di mondo s'incrinò per un attimo e, sotto la crosta, si palesò uno di quegli squarci di rozza aggressività. Un'ondata di pallore si diffuse sul suo viso, indugiando più a lungo agli angoli della bocca, come in una chiazza esangue. Fece un passo avanti e protese le mani verso il collo della ragazza, in silenzio. «Ehi... piano.» Bliss si mosse rapidamente, gli bloccò le mani prima che potessero raggiungere la ragazza e le deviò in aria. Mentre ricadevano, Corey aveva già ripreso il controllo di se stesso; per maggior sicurezza le ficcò in tasca. Il rancore verbale esplose in ritardo, quando quello fisico era già stato rinfoderato. «Una mocciosa qualsiasi che crede di prendermi per il naso!...» Girò sui tacchi e se ne andò a grandi passi da dove era venuto. Bliss fece per seguirlo. In fin dei conti, chi era quella per lui? La mano della ragazza si mosse rapidamente per trattenerlo al suo fianco. «Non andatevene. Voglio parlarvi.» Lasciò ricadere la mano, non appena s'accorse di aver ottenuto il suo scopo. Bliss attese. «Voi non mi conoscete, vero?» «È tutta la sera che sto cercando di scoprire chi siete.» Storie, le aveva prestato meno attenzione degli altri uomini presenti. Era il complimento che doveva fare, e basta. «Mi avete già visto una volta, ma non lo ricordate. Ma io sì: eravate in macchina con altri quattro...» «Sono stato in macchina con altri quattro un mucchio di volte, tante volte che proprio non riesco...» «La targa era D 3827.» «Ho una memoria che fa schifo per i numeri.»
«Era parcheggiata in un garage di Exterior Avenue, nel Bronx. E nessuno l'ha mai più ritirata. Non è strano? Dev'essere ancora là, ridotta un ferrovecchio...» «Non ricordo niente del genere» disse Bliss, disorientato. «Però, ditemi, chi siete? C'è qualcosa in voi che mi elettrizza...» «Potrei provocare un corto circuito.» S'allontanò d'un passo o due, come se avesse perso il suo interesse per lui così, inesplicabilmente come l'aveva suscitato. Si tolse dal capo la sciarpa di velo e la tenne tesa davanti a sé, con le braccia larghe, lasciando che la brezza la facesse fluttuare. A un tratto, lanciò una breve esclamazione. La sciarpa era volata via. Le sue mani non si erano mosse e le dita erano ancora strette come se la tenessero alle estremità. Un filo metallico, invisibile nella notte, scendeva diagonalmente proprio là dove si trovava lei, fissato alla facciata sotto il parapetto da un piccolo isolante di porcellana. Lei gli scoccò un'occhiata piacevolmente sorpresa, poi si chinò, scrutando in basso. «Eccola, è lì. È impigliata in quel cosino bianco rotondo...» Sporse un braccio, brancolando nel vuoto. Un attimo dopo, si era drizzata con un sorriso deluso. «Non ci arrivo per un paio di centimetri. Forse voi riuscite a prenderla, perché avete le braccia più lunghe delle mie.» Bliss salì sullo spiovente e si accoccolò sui talloni, aggrappandosi al bordo interno per evitare di sporgersi troppo. Voltò la testa per cercare il velo. La ragazza si avvicinò alle sue spalle, con il palmo delle mani rivolto in fuori, come in un'ipocrita asserzione d'innocenza, poi avanzò rapida. Il leggero urto le strappò un respiro sibilante, un suono che era spiegazione, maledizione ed espiazione insieme. «Sono la signora Killeen!» Ken Bliss doveva aver sentito quel grido. Doveva esserci stato un lampo che si spense mentre si spegneva lui. La sporgenza era vuota; la ragazza e la notte l'avevano tutta per sé. Dalle finestre della terrazza, dietro l'angolo, giungevano risate e il ritmo di una rumba. Una voce, più alta delle altre, esclamò: «Resisti, ci sei arrivato!» Un attimo dopo, Marjorie le si avvicinò mentre rientrava. «Sto cercando il mio fidanzato...» Usava quella parola con orgogliosa aria di possesso, toccandosi l'anello con inconscia ostentazione, mentre parlava. «È là fuori?» La ragazza in nero sorrise gentilmente. «C'era, l'ultima volta che l'ho visto.» Attraversò la lunga stanza con passo deciso, ma senza fretta, attiran-
do più d'un ammirato sguardo maschile al suo passaggio. La cameriera e il maggiordomo non erano più di servizio nel guardaroba adiacente l'ingresso; riapparivano solo quando venivano chiamati. Proprio mentre la porta d'ingresso si chiudeva silenziosamente, il citofono cominciò a squillare e continuò per alcuni istanti. Marjorie rientrò dalla terrazza e si rivolse alle persone più vicine. «Strano, sembra che non ci sia, là fuori.» Sua madre, che aveva risposto al citofono, lanciò un urlo straziante. La festa era finita. Dopo la morte Lew Wanger scese dal tassì lasciando la portiera aperta e si fece strada a forza di gomiti in mezzo al gruppetto di spettatori silenziosi che si era raccolto intorno alla cosa. «Che c'è?» chiese al poliziotto, mostrandogli qualcosa che aveva tirato fuori dalla tasca interna della giacca. «Morto.» L'agente fece un cenno in direzione quasi verticale. «Da lassù a quaggiù.» Avevano requisito a qualcuno una copia di un giornale della notte e i vari fogli erano stati stesi l'uno vicino all'altro a formare un monticello per terra. Un piede, in una scarpa da sera, di pelle, con l'allacciatura all'interno, spuntava da un angolo del giornale. «Credo che lassù si stia svolgendo un party. Probabilmente ha bevuto un bicchiere di troppo, si è sporto più del necessario e ha perso l'equilibrio.» Tirò indietro un foglio del giornale, a beneficio di Wanger. Uno dei curiosi, che non immaginava di vedere uno spettacolo simile e si era spinto troppo vicino, voltò la testa, si portò una mano alla bocca per precauzione e indietreggiò in fretta. «Be'? Che cosa vi aspettavate? Violette?» gli gridò dietro il poliziotto in tono ostile. Wanger si accovacciò sui calcagni e prese ad aprire un pugno rigidamente contratto che usciva dall'estremità superiore destra del monticello. Finalmente riuscì a liberare ciò che sembrava uno sbuffo di fumo nero congelato. «Fazzoletto da donna» informò il poliziotto. «Sciarpa» corresse Wanger. «È troppo grande per essere un fazzoletto.» «Conosco il signore di vista» intervenne il portiere di notte dell'edificio. «Credo che gli Elliott annunciassero stasera il suo fidanzamento con la lo-
ro figlia. Abitano l'attico...» «Be', credo sia meglio che vada su a farla finita» sospirò Wanger. «Roba d'ordinaria amministrazione. Probabilmente non ci metterò più di dieci o quindici minuti.» All'alba, stava ancora martellando gli ospiti scarmigliati, esausti, allineati di fronte a lui. «E vorreste dire che nessuno di voi conosce il nome della ragazza, né l'ha mai vista prima di stasera?» Tutte le teste continuavano ad annuire monotonamente. «Nessuno le ha chiesto il nome? Ma, insomma, che razza di gente siete?» «A turno, ci abbiamo provato tutti» obiettò un uomo, con aria scoraggiata. «Ma non l'ha mai detto. Se la cavava sempre con una battuta tipo "Che cos'è un nome?"» «Okay, allora era una scroccona pura e semplice. Adesso, quello che voglio scoprire è perché è venuta al ricevimento.» In quel momento, entrò nella stanza la madre di Marjorie, e Wanger si rivolse a lei. «A proposito, non manca niente di valore, non è stato rubato nulla dall'appartamento?» «No» singhiozzò la donna «non è stato toccato nulla. Ho appena fatto un giro per controllare se mancava qualcosa.» «Quindi, non è stato il furto, il movente dell'intrusione. Secondo le vostre dichiarazioni, pare che la ragazza abbia evitato e scoraggiato voi giovanotti per tutta la sera; ha trattenuto Bliss fuori non appena ha avuto l'occasione di prenderlo da solo. Sempre secondo quanto avete detto voi» continuò, rivolto a Corey «pareva che lui non l'avesse riconosciuta dalla descrizione fornitagli dal portiere di casa sua. E quando Bliss è arrivato qui e finalmente l'ha vista, si è comportato come se la ragazza fosse una perfetta estranea. Ammesso che fosse la stessa. Nessuno ha qualcosa da aggiungere?» Nessuno aveva altro da aggiungere; era stata vista da parecchie persone, il che era già più che sufficiente. Mentre gli ospiti sfilavano tristemente uno per uno, dando il loro nome e indirizzo casomai li si volesse interrogare di nuovo, Corey si avvicinò a Wanger. Era pieno di alcool fino agli occhi, e nello stesso tempo freddamente lucido. «Ero il suo migliore amico» disse con voce roca. «Che cosa ne pensate? Cosa credete che sia stato?» «Be', ve lo dirò «rispose Wanger, preparandosi ad andare.» Non che voi abbiate più diritto degli altri a ricevere le mie confidenze; non c'è niente che dimostri che non si è trattato di un incidente... se non una cosa. Il fatto
che subito dopo la giovane sia sparita così in fretta, invece di rimanere qui e affrontare la buriana come tutti gli altri. Un altro particolare del suo comportamento che l'accusa è questo: quando la signorina Elliott l'ha incontrata sulla porta della terrazza e le ha chiesto se aveva visto Bliss, la sconosciuta ha risposto tranquillamente che era fuori, invece di urlare a squarciagola che era appena volato giù, come sarebbe stato logico. Naturalmente c'è sempre una possibilità: che lui sia caduto solo dopo che lei l'aveva già lasciato ed era rientrata. Contro questo, però, depone il fatto che lui ha trascinato con sé la sciarpa nera della ragazza. E questo rende molto verosimile la supposizione che lei fosse ancora con Bliss nell'istante in cui lui cadeva. Però, potrebbe aver lasciato cadere il velo, o averglielo dato da tenere, e poi essere rientrata. «Vedete, finora la faccenda è in equilibrio; qualsiasi cosa si possa portare a favore di una tesi, bilancia egregiamente ciò che si può portare a favore della tesi opposta. Quello che farà inclinare finalmente l'ago da una parte o dall'altra, per quanto mi riguarda, è il modo in cui si comporterà la ragazza. Se si presenta tra un giorno o due per svelare la sua identità e discolparsi, non appena viene a sapere che la stiamo cercando, c'è la probabilità che venga dimostrato essersi trattato di un incidente e che lei sia scappata solo per evitare la pubblicità, sapendo che qui era un'intrusa. Se continua a tenersi nascosta, e dobbiamo cercare di scovarla noi, credo che possiamo propendere per il delitto, senza essere troppo lontani dalla verità.» Intascò la descrizione della ragazza e altri dati che aveva raccolto. «In un caso o nell'altro la troveremo, non preoccupatevi.» E invece non la trovarono. Reparto accessori, Grandi Magazzini Bonwit Teller. Quindici giorni dopo. «Sì, questa è la nostra sciarpa da sera da dodici dollari. E solo qui da noi può essere stata acquistata. È un nostro articolo esclusivo.» «Benissimo. Adesso riunite le commesse. Voglio scoprire se qualcuna di loro ricorda di averla venduta a una donna di cui farò la descrizione disse Wanger.» Quando il personale addetto alle vendite fu riunito, e lui ebbe ripetuto la descrizione tre volte, una personcina timida, con gli occhiali, si fece avanti. «Io... io ricordo di aver venduto una di queste sciarpe nere a una bella ragazza che corrisponde a quei connotati, un po' più di due settimane fa.»
«Benone! Andate a prendere lo scontrino di vendita. Voglio l'indirizzo al quale è stato recapitato.» Un quarto d'ora dopo. «La cliente ha pagato in contanti e l'ha portato via con sé; non ha lasciato né nome né indirizzo.» «È il vostro sistema abituale di vendita, questo?» «No, cose come quella sono articoli di lusso, e di solito vengono consegnati a domicilio. In questo caso, però, la cliente ha chiesto espressamente di portarlo con sé. Ricordo il particolare.» Wanger pensò: "Tanto per non lasciar tracce". Dal rapporto di Wanger al suo superiore, tre settimane dopo: ...E da quel momento si sono perse le tracce della ragazza. Non un solo indizio che rivelasse chi fosse. Da dove venisse e dove andasse. Né perché l'ha fatto... se l'ha fatto lei. Ho indagato nel passato di Bliss nel modo più completo, sono risalito fin quasi alla prima ragazza che ha baciato, ma lei non compare in nessun momento. La testimonianza del portiere della casa di Bliss e quella del suo amico Corey sembrano dimostrare che effettivamente Bliss non conosceva la ragazza, chiunque fosse. Eppure, lei ha deliberatamente evitato e scoraggiato tutti gli altri partecipanti alla festa, e ha manovrato finché non è riuscita a trovarsi sola con lui sulla terrazza. Di conseguenza, l'ipotesi dell'errore di persona è poco plausibile. In ultima analisi, gli unici indizi che fanno pensare a una morte non accidentale sono lo strano comportamento di questa misteriosa donna, la sua successiva sparizione e il rifiuto di farsi viva per chiarire la situazione. D'altro canto, oltre a quelle citate, non ci sono indicazioni che si tratti di un omicidio. Dalla documentazione di Wanger su Ken Bliss: Deceduto in seguito alla caduta dalla terrazza del 17° piano, alle quattro e trenta del mattino del 20 maggio. Visto l'ultima volta con una donna sui ventisei anni, carnagione rosea, bionda, occhi azzurri, altezza circa 1 e 70. Identità sconosciuta. Ricercata per interrogatorio. Movente: non accertato se si tratta di delitto; in caso affermativo, passionale. Nessuna prova di una qualsiasi relazione tra i due. Testimoni: nessuno. Prove: sciarpa nera da sera acquistata da Bonwit Teller, il 19 maggio.
Caso rimasto insoluto. Parte seconda MITCHELL La donna Miriam - il suo cognome era stato dimenticato da tempo entro i confini dell'Helena Hotel - era una donna tarchiata, piena di spirito combattivo, con la carnagione color cuoio stagionato. Possedeva tre cose alle quali si teneva ferocemente abbarbicata: la sua cittadinanza britannica, acquisita passivamente e in modo del tutto casuale, essendo nata in Giamaica; un paio di orecchini fatti con monete d'oro e il suo "sistema" di pulire le stanze. Nessuno aveva mai fatto il benché minimo attentato alle prime due; quanto alle interferenze sull'ultima, i pochi tentativi che c'erano stati, erano miseramente falliti. La numerazione delle stanze non aveva nulla a che fare con il "sistema". Non c'entrava neppure la loro disposizione lungo lo scuro, scricchiolante corridoio, inframmezzato da pianerottoli. In effetti, si trattava più che altro di una cabala mistica, conosciuta soltanto dai più remoti angoli oscuri del suo cervello. Nessuno poteva immischiarsi in questa cabala, e comunque, non impunemente, non senza provocare una lagna lunga e perfida che echeggiava nell'interminabile labirintico corridoio, e che continuava, o pareva continuare, ancora per ore, un bel po' dopo che la causa era cessata. "Il quattordici viene dopo il diciassette", dichiarava Miriam. "Aspetterete fino a quando non avrò fatto il diciassette. Mai fatto prima il quattordici". E questa faccenda delle preferenze non aveva nulla a che vedere con le mance che, all'Helena Hotel, erano oltretutto un fenomeno piuttosto raro. Abitudine: questa era forse l'ipotesi più vicina a ciò che, tutto sommato, si riduceva a uno stato meramente emotivo di Miriam. Quando finalmente la ruota del sistema si spostò sul diciannove, all'ora designata, Miriam s'avviò per un tratto di corridoio particolarmente decrepito, che portava nella parte posteriore dell'edificio. Aveva in una mano un secchio di zinco e nell'altra un lungo manico, all'estremità del quale si potevano ancora scorgere sparuti ciuffetti di una qualche fibra. Si fermò davanti al diciannove, girò la chiave e la batté due volte contro la porta. Pura formalità, perché se il "diciannove" si fosse fatto trovare an-
cora dentro, sarebbe stato un oltraggio altrettanto grande quanto quello di ficcare il naso nel suo sistema. Non era mai successo che il "diciannove" si fosse trovato in camera, a quell'ora. A quell'ora, il "diciannove" non aveva il diritto di essere dentro. La formalità dei due colpetti di chiave non era dovuta a una scrupolosa osservanza del regolamento dell'albergo. Era anche quella un'azione automatica; Miriam non riusciva più a entrare in una stanza senza farlo. Perfino quando tornava nella sua camera ammobiliata, al termine della giornata, doveva immancabilmente battere una serie di colpetti alla porta, prima d'infilare la chiave personale nella serratura. Spalancò il battente con aria di sfida ed entrò in una stanza piccola e stranamente fredda e impersonale. Il disegno della moquette era ormai un ricordo. Solo una muffa grigio-verdastra copriva l'assito del pavimento. Un pozzo di ventilazione, coi suoi mattoni imbiancati a calce, bloccava la visuale a pochi metri dalla finestra; tuttavia, un raggio di sole riusciva a intrufolarsi quanto bastava per rovinare tutto. Senza quello, la stanza avrebbe avuto un aspetto migliore, se non altro avrebbe conservato un'illusione di pulizia, e non sarebbe apparsa traboccante di miriadi di particelle, come un reagente chimico. Sulla parete sovrastante il letto era allineata una bella serie di fotografie di ragazze, tutte incorniciate e sotto vetro. Miriam non si degnò nemmeno di alzare gli occhi su di esse. Molte erano appese là da anni; quella che adesso andava col "diciannove" non ci sarebbe mai arrivata su quel muro, pensò. Perché lei non poteva permettersi il lusso di farsi fare una fotografia, e lui non poteva permettersi il lusso di far montare la foto con vetro e cornice. E, comunque, su quella parete non c'era più posto e lui era troppo vecchio per cominciarne un'altra; e se non lo era, sarebbe dovuto esserlo. La qual cosa chiudeva la questione. Rifatto il letto, mentre la polvere turbinava freneticamente nel raggio di sole, Miriam accostò la porta, senza però richiuderla del tutto. Non c'era nulla di furtivo nel suo modo di agire, era piuttosto l'aria di sfida di chi si sente offeso. La espresse persino in parole, ad alta voce, tanto la sentiva profondamente. Nasconderlo sempre. Chi crede se lo voglia prendere? Si passò il dorso della mano sulle labbra per asciugarle, o forse semplicemente per prepararle. Aprì le ante dell'armadio, rovistò in un mucchio di camicie sporche in un angolo del fondo e, quasi avesse stanato un coniglio, tirò fuori una bottiglia di gin. Miriam non mostrò alcun segno di soddisfazione; parve, invece, indi-
gnata. «Chi crede che venga qui, se non io? Lui sa che nessuno ci viene, se non io! Uff, com'è sospettoso!» Scolò una buona sorsata. Poi si avvicinò al lavandino e aprì il rubinetto dell'acqua fredda. Con una destrezza che testimoniava il lungo esercizio, espose il collo aperto della bottiglia al getto, quel tanto che bastava a riportare il contenuto al livello originario, non di più, e lo ritrasse. Il che non era difficile come poteva sembrare; il livello era stato segnato a matita, e quei segni diffidenti, ben visibili sulla bottiglia di vetro smerigliato, la guidavano. Con un'altra sorsata corresse una lieve eccedenza di cui si era resa colpevole. Ora ansimava, quasi si sentisse perseguitata. «Vecchio miserabile! Vecchio sciagurato!» Si infiammò con passione giamaicana, accompagnando le parole con un leggero tintinnìo delle monetine d'oro degli orecchini. «Non mi piace la gente che non si fida di Miriam!» Rimise a posto la bottiglia, chiuse l'armadio e aprì la porta come prima; poi iniziò la seconda fase delle sue fatiche, che consisteva nell'attaccare a casaccio, con quel manico fornito di quattro peli, qualche punto alla base delle pareti, come uno che arpioni un salmone da una roccia, nel mezzo della corrente. Mentre era impegnata in questa manovra vagamente misteriosa, si rese conto di essere osservata. Girò la testa e vide nel corridoio una signora, ferma, che guardava attraverso la porta aperta. Miriam capì da una sola occhiata che la donna non abitava nell'albergo e la sua considerazione aumentò proporzionalmente. Il suo scarsissimo rispetto e l'aggressività verso quelli che vi abitavano uguagliavano solamente l'alta stima e il desiderio appassionato di essere gentile con coloro che non vi abitavano. Una distinzione netta, in ambedue i casi. «Desiderate il signor Mitchell?» domandò in tono di cordiale interesse. La signora era così distinta e aveva la voce dolce. «No» sorrise. «Ho fatto solo un salto qui per vedere una mia amica, ma non c'è. Stavo cercando l'ascensore, ma temo di essermi smarrita...» Miriam s'appoggiò al manico del suo spazzolone come un gondoliere veneziano si riposa sul suo remo, e sperò che la signora non se ne andasse subito. In effetti, la signora s'avvicinò quasi impercettibilmente alla soglia, rimanendo però fuori dalla camera. Dava l'impressione di nutrire un enorme interesse per Miriam e la sua conversazione. Era chiaro che Miriam si pavoneggiava, avvinghiata al manico dello spazzolone, in posa quasi estatica, avvolta nel raggio di sole ribollente di
pulviscolo. «Sapete» le confidò la signora, con un affascinante tono intimo dadonna-a-donna «sono convinta che si possa capire parecchio di una persona, solo guardando la stanza nella quale vive.» «Certo, avete proprio ragione» convenne Miriam di tutto cuore. «Prendiamo questa, per esempio... mentre voi la state riordinando e io ci passo davanti per caso. Non so niente della persona che ci vive...» «Il signor Mitchell?» suggerì Miriam, ormai semiipnotizzata. Aveva puntellato il mento sull'estremità arrotondata del manico. La signora ebbe un gesto noncurante. «Mitchell o qualsiasi altro nome... non lo conosco e non l'ho mai visto. Adesso, però, lasciatemi dire quello che mi suggerisce questa camera... e correggetemi se sbaglio.» Miriam dimenò le spalle con gioiosa anticipazione. «Avanti» la incoraggiò ansiosamente. Era eccitante quasi come farsi leggere la mano da un'indovina, gratis. «Non è molto ordinato. Quella cravatta attorcigliata attorno alla lampada...» «È uno sciagurato» confermò Miriam, aggressiva. «Non se la passa molto bene. Questo, però, lo potrei capire dall'albergo stesso. Non è molto costoso...» «Il signor Mitchell è in arretrato di un mese e mezzo con l'affitto, da otto anni» la informò Miriam. La signora fece una pausa, non come uno che cerchi di imporsi all'attenzione altrui, ma come uno che voglia soppesare attentamente le proprie parole prima di rischiare. «Non lavora» riprese infine. «C'è un'edizione del mattino del giornale di oggi nel cestino dei rifiuti. Lo vedo da qui. Evidentemente, si alza verso mezzogiorno, leggiucchia un po', prima di andar fuori per il resto della giornata...» Miriam annuì, affascinata, incapace di distogliere lo sguardo. Avrebbero potuto sfilarle il manico dello spazzolone da sotto il mento, e probabilmente lei sarebbe rimasta in quella posizione, senza fare una piega. «Sempre al verde, lui. Campa con una specie di pensione che riceve tutti i mesi, ma non so cos'è.» Scosse la testa, riverente. «Ehi, siete in gamba!» «È solo, non ha molti amici.» La signora alzò gli occhi sul muro. «Tutte quelle fotografie sono indice di solitudine, non di popolarità. Se avesse molti amici, non starebbe a gingillarsi con le fotografie.» Miriam non aveva mai considerato la faccenda da quel punto di vista. Per la verità, se lei avesse voluto dare un significato a quelle fotografie, il
che non era mai accaduto in tutti gli anni passati, avrebbe detto che dimostravano una certa morbosità oscena del loro proprietario. All'inizio, vedendole, aveva persino espresso la sua opinione ad alta voce con un «vecchio sporcaccione!». La signora riprese: «Anche se ha conosciuto veramente bene tutte quelle ragazze, ma non ci credo, le ha conosciute una alla volta, non tutte insieme. Ci sono le virgole sulle orecchie di subito dopo la guerra, e la testina ricciuta da bambola giapponese che era di moda poco dopo il '20, e i capelli lisci e lunghi fino alle spalle, di pochi anni fa...» Miriam aveva voltato la testa, guardava il muro dietro di sé; adesso, l'estremità dello spazzolone era appoggiata poco sopra un orecchio. Lei riuscì persino a grattarsi, spostando lentamente la testa avanti e indietro. «Non ha mai trovato la ragazza che cerca, altrimenti non ce ne sarebbero tante, Anzi, non ce ne sarebbe neppure una, se l'avesse trovata. Quelle, però...» Con le dita si picchiettò leggermente il labbro inferiore, pensierosa. «Mischiatele tutte assieme, formando un'unica fotografia, e forse potranno dirvi quello che lui aveva cercato...» «Vergogna!» esclamò Miriam, che evidentemente non aveva neppure sospettato che Mitchell avesse cercato qualcosa. Per lo meno, non qualcosa di cui si potesse discutere tra persone perbene. «Ha cercato il mistero. Un'illusione. Un genere di ragazza che non si può trovare in nessun angolo del mondo. Che non esiste se non nella propria immaginazione. Una creatura senza radici. Senza ieri e senza domani, remota, che aleggia sulla vita quotidiana, senza concretezza. Un'odalisca. Una Mata Hari.» «Una... che?» fece Miriam, pronta, voltando la testa. «Date solo un'occhiata. Nessuna di quelle ragazze assomiglia a quella che è, o piuttosto che era. Sbocciano da una morbida nuvola di tulle; hanno un bell'alone di nebbiolina fotografica, occhieggiano da un ventaglio di pizzo, ammiccano alla macchina fotografica riflesse in uno specchio, mordicchiano una rosa...» Sorrise appena, senza cattiveria. «Un uomo e i suoi sogni.» «Lui non ne pesca mai una come quella che vuole» insinuò Miriam. «Non si può mai sapere» sorrise la signora dalla soglia. «Non si può mai sapere.» Poi si rivolse a Miriam, con una deliziosa mossetta sbarazzina della testa. «Adesso ditemi la verità. Non ho indovinato quasi tutto?» «Sì, l'avete imbroccata in pieno» confermò Miriam.
«Visto? Ecco quello che intendevo. E questo vi dimostra che cosa può rivelare una stanza vuota.» «Eccome! Proprio vero!» «Be', adesso non devo distogliervi più dal lavoro...» Fece un piccolo cenno amichevole con le dita, un sorriso di commiato particolarmente caldo, e si allontanò... Quando la soglia rimase vuota, Miriam sospirò con rimpianto, appoggiò lo spazzolone al muro, andò sulla porta e guardò la signora che attraversava il pianerottolo e poi spariva a un gomito del corridoio. Sospirò ancora, più desolata che mai. "Che simpatica conversazione! E istruttiva, divertente! Peccato che sia finita così presto, doveva durare ancora un po'! Almeno finché non terminavo di rassettare un'altra stanza, per esempio". La porta dell'ascensore sbatté leggermente, invisibile al di là del gomito del corridoio. Adesso, lei se n'era andata veramente. Miriam tornò controvoglia nella stanza, al suo lavoro interrotto. «Proprio tanto carina» borbottò tra sé. «Però, scommetto che qui non la rivedrò più.» Mitchell Alla solita ora, Mitchell entrò nello squallido vestibolo dell'albergo, con il giornale ripiegato sotto il braccio. Si fermò al banco del portiere, per vedere se c'era posta, e l'impiegato gli lanciò quell'occhiata speciale, riservata a quelli cronicamente in arretrato di un mese e mezzo nel pagamento della pensione. C'erano tre lettere. La prima era un biglietto di Maybelle, la sua amichetta bionda del ristorante. La seconda si trovava lì per errore, era destinata alla casella superiore. La terza era una circolare o un conto. Mitchell l'aveva capito a colpo d'occhio, l'indirizzo era scritto a macchina e sulla busta non figurava il mittente. Non l'aprì subito proprio per questo: fiutava conti e annunci pubblicitari a distanza di un chilometro. Salì, chiuse la porta e diede un'occhiata circolare alla stanza. Ci viveva da dodici anni e in tutto quel tempo non aveva lasciato traccia della sua personalità. Dappertutto erano appese fotografie di ragazze. Una vera e propria galleria. Non che fosse un libertino; era un romantico, sempre alla ricerca del suo ideale. Voleva la donna affascinante, misteriosa: ventagli, appuntamenti segreti e roba del genere. E tutto ciò che aveva ottenuto erano state cameriere di Childs e commesse di Hearn. Tra poco, sarebbe stato
troppo tardi per trovare lei, e tra non molto non gliene sarebbe importato più nulla. Appese la giacca nella cui tasca la terza lettera si stagliava come una bianca cicatrice. Tirò fuori la bottiglia di gin da sotto le camicie sporche, in fondo all'armadio, dove la cameriera di colore non poteva trovarla. Se ne concedeva solo due dita, tutte le sere, dosandole in modo che durasse due settimane. Si cacciò in gola il collo della bottiglia, senza nemmeno toccare con le labbra quel dannato vetro. Era di nuovo sera, e non gli sarebbe mai capitato nulla di fantastico. Solo mediocrità. Una mediocre camera d'albergo; un uomo mediocre in maniche di camicia; gin mediocre, rimpianti mediocri. Pensò che poteva chiamare Maybelle, adesso o più tardi, e passare così la notte. Sapeva che sarebbe finita così. Era al punto che... o Maybelle o niente. Però sapeva che cosa lei avrebbe detto, che cosa avrebbe indossato, che cosa avrebbe mangiato. Birra e salsiccia di fegato. Prese il telefono e dette il numero della pensione di Maybelle. Doveva sempre aspettare che la sua affittacamere sbraitasse dalla tromba delle scale fino al quarto piano, perché Maybelle scendesse. L'aveva fatto tante volte che sapeva esattamente quanto tempo doveva darle. Depose il ricevitore, si avvicinò alla giacca per prendere le sigarette e vide la terza busta, intatta, nella tasca. La tirò fuori e l'aprì. Ne cadde un biglietto rosso. Non c'era nient'altro nella busta. Teatro Elgin. Palchetto A-1. Valido solo per la sera di martedì, eccetera. Quindi, quella sera stessa. In un angolo era indicato il prezzo: "Dollari 3 e 30". Non poteva essere buono; doveva esserci sotto qualche scherzo idiota. Lo girò e rigirò, ma non c'era nessuna trappola, né richieste di pagamenti supplementari. Il biglietto era autentico. Chi gli aveva spedito un omaggio del genere? Dal telefono, venivano dei raschianti suoni metallici. Lo riprese in mano. «Scende subito» stava dicendo l'affittacamere di Maybelle, su uno sfondo di rumori tipo clap-clap-clap. Maybelle scendeva sempre ciabattando. «Scusatemi» dichiarò lui con sicurezza «ho sbagliato numero. E riappese.» Cominciò a prepararsi. Il telefono squillò quando era arrivato alla fase «acconciatura capelli». Era Maybelle. «Mitch, mi hai chiamato tu, poco fa?» «No» rispose senza rimorsi.
«Be', stasera vengo a trovarti.» «Oh, no!» mentì lui piagnucolando. «Sono a letto con un inizio di raffreddore.» «Allora, devo fare un salto lì per tenerti compagnia?» «No, no» ribatté in fretta. «Potrei attaccartelo e perderesti una settimana di salario.» Riappese prima che Maybelle potesse tormentarlo con qualche altra gentilezza non richiesta. Quando arrivò all'Elgin e presentò il biglietto all'ingresso, era quasi sicuro che la maschera l'avrebbe sbattuto fuori. Invece accettò il biglietto, anzi, lo fece accomodare con una sfumatura di deferenza in più, perché si trattava di un buon posto. Allora il biglietto era valido, non c'erano più dubbi. Ma chi glielo aveva mandato? L'avrebbe trovato nel palchetto? Supponendo che ci fosse più di una persona, come avrebbe potuto capire qual era? Quando la maschera l'ebbe guidato fino alla porta, Mitchell scoprì con intimo disappunto che il palchetto era assolutamente deserto. Ogni palchetto era provvisto di quattro sedie ed era separato con delle tramezze su ambedue i lati da quelli attigui. Erano i posti nei quali si godeva maggior tranquillità, più che in qualsiasi altro settore del teatro, compresi i palchi veri e propri. Provava una strana sensazione a starsene seduto lì da solo, con le tre sedie vuote accanto, e continuava a guardarsi intorno per vedere se arrivava qualcuno. Sospettava persino che potesse venire la maschera a battergli sulla spalla per dirgli che c'era stato un equivoco e che doveva andarsene perché c'era della gente al botteghino che reclamava il suo biglietto. Ma non successe nulla del genere. Gli altri palchetti si riempirono uno dopo l'altro, ma nessuno s'avvicinò a quello, che si trovava al centro ed era il migliore. All'inizio dello spettacolo, quando le luci in sala si affievolirono, tuffando il pubblico in una penombra azzurrina, gli altri tre posti erano ancora vuoti, come se fossero stati acquistati in anticipo per essere sicuri che rimanessero liberi. Lo spettacolo cominciò e, mentre fascino e fantasia si dispiegavano davanti ai suoi occhi, Mitchell cominciò a dimenticare le strane circostanze che l'avevano condotto lì e a perdersi in quell'incantesimo. A un tratto, non sapeva a che punto del primo atto fosse arrivata, si accorse che c'era un'altra persona seduta accanto a lui. Non un bagliore della torcia della maschera, né un fruscio di abiti l'avevano avvertito. O, se c'erano stati, non se n'era accorto.
Non venne più nessuno a occupare gli altri due posti, proprio alle loro spalle. Non vide altro dello spettacolo, se non la prima parte del primo atto. Da quel momento in poi, non riuscì più a levarle gli occhi di dosso. Era bella, accidenti se era bella! Aveva i capelli rossi e un viso che sembrava una miniatura. Era avvolta in un mantello di velluto scuro, con la fodera più chiara: pareva che sbocciasse dalle pieghe come... come una ninfa da una conchiglia. Non avrebbe mai osato rivolgerle la parola, ma improvvisamente la donna si voltò verso di lui, una sigaretta tra le labbra, aspettando che gliel'accendesse. «Vi dispiace?» gli domandò, con un leggerissimo accento straniero. «Credo che si possa fumare, in questi palchetti.» E questo fu l'inizio della conoscenza. Aveva già preparato tutto prima che lei arrivasse. Non riusciva ancora a credere che avesse parlato seriamente, che venisse proprio a trovarlo. L'aveva suggerito lei; lui non si sarebbe mai sognato di... Le aveva spiegato come raggiungere la sua camera senza dover sottostare all'interrogatorio del portiere, usando la scala di servizio sul retro che solo i vecchi inquilini come lui conoscevano. Eppure, con tutto ciò, lei era riuscita a fargli capire, con molto tatto e abilità, che non ci sarebbe stata nessuna avventura. In fondo, era ovvio; non si ha un'avventura con il proprio ideale, lo si adora. Fece un passo indietro, osservando la camera per la decima volta. Tutte quelle fotografie di ragazze che aveva staccato dalla parete, dov'erano state appese per tanto tempo, avevano lasciato delle macchie giallastre. Perché tenere quelle contraffazioni, ora che aveva finalmente trovato l'originale? Si era procurato un paravento e l'aveva sistemato intorno al letto, eppure quella stanza era ancora uno stambugio da otto dollari la settimana. Si stropicciò nervosamente le mani. Si guardò ancora nello specchio per vedere come gli stava la cravatta nuova. Squillò il telefono e lui quasi inciampò nella fretta di arrivarci. Non veniva? Aveva cambiato idea? Si afflosciò subito, deluso, con una smorfia seccata. Era Maybelle. «Come va il tuo raffreddore? Mi sono preoccupata tutto il giorno per te, Mitch. Ho rubato un po' di brodo di pollo, la nostra pappa speciale da un dollaro. Te lo porto in un recipiente. È la cosa migliore quando si è a letto...» Mitchell si agitò rabbiosamente. Perdiana, proprio stasera! «Ma non mi avevi detto che avevi sempre il turno di notte, il giovedì?» ringhiò sgarba-
tamente. «Ho scambiato il turno con un'altra ragazza, per venire da te a curarti.» «No, un'altra volta. Stasera non posso vederti.» Maybelle cominciava a piagnucolare all'altro capo della linea. «Be', te ne pentirai.» Mitchell riappese bruscamente proprio mentre risuonava il delicato bussare che aveva atteso. Aprì e il sogno entrò, proprio come aveva sempre fantasticato che sarebbe avvenuto, un giorno, in qualche luogo. Era avvolta in quello stesso mantello di velluto che indossava a teatro. Non sapeva cosa dire e come comportarsi; non si era mai trovato con un ideale, prima d'allora. «Avete trovato subito quella scala?... Io... forse dovevo scendere e venirvi incontro all'angolo.» Accese la radio, ma c'erano i notiziari sportivi e si affrettò a spegnerla. Lei trasse una bottiglia di qualcosa dalle pieghe del mantello. Riusciva persino a rendere grazioso e sbarazzino quell'atto che, se compiuto da qualcun altro, sarebbe apparso terribilmente volgare. «Questo è per noi» spiegò. «Arak. È il mio contributo alla nostra serata.» La bottiglia non era stata ancora aperta; il collo era sigillato con la stagnola e lui dovette stapparla con un cavatappi. Era roba piuttosto forte, che ti metteva subito un paio di lenti rosa sugli occhi. Gli sciolse la lingua e lo fece parlare senza difficoltà, dicendo tutto ciò che gli veniva in mente. «Voi siete esattamente come ho sempre sognato che doveste essere. Sembrate persino uscita dalla mia testa.» «La donna veramente saggia è tutto per gli uomini. Si trasforma come il camaleonte, assume l'aspetto dell'ideale di un uomo. E tocca a lei scoprire qual è questo ideale. Quelle fotografie sulla parete dicevano chiaramente quello che voi cercate in una donna...» Mitchell lasciò quasi cadere il bicchiere che aveva in mano e la fissò con gli occhi sbarrati. «E come sapete che c'erano delle fotografie sulla parete? Siete già stata in questa stanza?» La donna inghiottì un sorsetto di liquore e tossì discretamente. «No» rispose «ma si capisce dalle macchie che c'erano delle fotografie. E chiunque fa una cosa del genere è un romantico e idealizza le donne...» «Ah!» esclamò lui, e poi: «È strano...» «Che cosa?» «Con la sola presenza voi trasformate questa stanza in qualcosa di caldo, di affascinante. Mi togliete vent'anni e mi fate sentire... come mi sentivo
quando, sotto le armi, passeggiavo in libera uscita per i boulevard ed ero sicuro che dietro ogni angolo avrei trovato...» «Che cosa?» «Non so, qualcosa di meraviglioso. Non mi è mai capitato, ma non m'importava, perché c'era sempre un altro angolo. Era l'idea che contava. Ho sempre desiderato di rivivere quella sensazione, ma da allora non ci sono più riuscito. Voi dovete possedere una magia.» «Bianca o nera?» Mitchell fece un sorriso vacuo. Evidentemente non aveva afferrato l'allusione. «Adesso devo andare.» Lei si alzò e si diresse verso il tavolino da toilette. «Un ultimo bicchierino. Penso che ce ne sia ancora abbastanza.» Alzò la bottiglia e la guardò controluce. Avevano usato il piano della toilette come tavolino. Riempì i due bicchieri, poi si fermò, e li lasciò lì, ben distanti. «Mi devo far bella... per la vostra ultima occhiata» disse, sorridendo. Un piccolo portacipria metallico si aprì di scatto nella sua mano. Lei si curvò verso lo specchio. Fece dei gesti affrettati e confusi che testimoniavano più che altro la buona volontà, perché per la maggior parte, per combinazione, finivano dappertutto tranne che sul naso. Stava proprio incipriando l'aria tra naso e specchio. Lui era rimasto seduto e le sorrideva con benevolenza un po' brilla. Non notò alcun cambiamento, ma forse l'arte dell'incipriarsi consisteva proprio in quello: nel fare in modo che non fosse troppo evidente. La donna prese i bicchieri e tornò verso di lui. Mitchell alzò gli occhi e la guardò con una devozione quasi divina. «Non riesco a credere che tutto ciò stia capitando proprio a me. Che voi siate veramente qui. Che vi curviate su di me, così, porgendomi un bicchiere. Che il vostro respiro aliti tra i miei capelli. Che ci sia un po' di dolcezza, come un solo garofano in una stanza, nell'aria intorno a me...» Nel frattempo, aveva posato il proprio bicchiere e lei il suo. «Quando uscirete da quella porta, saprò che non era vero. Vi sognerò stanotte, e domattina non saprò qual era il sogno e quale la realtà. Non lo so già adesso.» «Bevete» E quando lui fece per prendere il bicchiere sbagliato: «No, quello è il vostro, quello lì» disse con durezza inaspettata. «A che cosa brindiamo?» «Al sogno che verrà, che sia lungo e piacevole.»
Mitchell sollevò di scatto il suo bicchiere. «Al sogno che verrà.» Lei dette un'occhiata al bicchiere, quand'egli lo posò, mezzo vuoto. «Questo non è il nostro primo incontro» disse, assorta. «No, l'altra sera a teatro...» «No, non là. Mi avete già visto un'altra volta. Sui gradini di una chiesa. Ricordate?» «Sui gradini di una chiesa?» Mitchell ciondolava la testa come un ebete; la raddrizzò con uno sforzo. «Che cosa facevate sui gradini di una chiesa?» «Mi sposavo. Adesso ricordate?» Scolò distrattamente il bicchiere, assorto in ciò che lei stava dicendo. «E io c'ero al matrimonio?» «Oh, sì, eccome se c'eravate!» Si alzò di scatto e accese la radio. «A questo punto ci vuole un po' di musica.» Un rauco e maligno sassofono parve ringhiare nell'aria intorno a loro. La donna cominciò a volteggiare intorno a lui, girando sempre più veloce, con le gonne che le si gonfiavano intorno alle ginocchia. Nobody's sweetheart now, And it all seems wrong somehow. Mitchell si portò una mano alla fronte. «Non riesco a vedervi bene. Che succede? Sta andando via la luce?» Lei girava e girava sempre più veloce. La solitaria danza di trionfo e di morte. «La luce c'è ancora. Siete voi che ve ne andate.» Il bicchiere cadde, andando in frantumi sul pavimento. Mitchell cominciò a contorcersi, a portarsi le mani annaspanti alla gola. «Il mio petto... soffoco... chiedete aiuto... un dottore...» «Ormai nessun dottore potrebbe arrivare in tempo...» Adesso era una trottola, che pareva allontanarsi nella lunga prospettiva delle pareti. Gli occhi di lui si spegnevano e riuscivano a vederla come un bagliore luminoso; poi, come metallo che si raffredda, lei parve inghiottita per sempre dall'oscurità. Mitchell era a terra, ai suoi piedi, e gemeva rantolando con la schiuma alla bocca: «... Desideravo solo farvi felice...» Da molto lontano una voce bisbigliò: «Mi avete fatto felice... fatto felice...» Poi venne il silenzio.
Lei accostò la porta alle sue spalle, sul punto di chiuderla definitivamente, ma rimase immobile, pietrificata, tenendola socchiusa di pochi centimetri, lasciando intendere che poteva rientrare, quando avesse voluto. Si guardarono in faccia, a meno di mezzo metro. Maybelle era bionda, formosa e sciatta, e aveva in mano una specie di cilindro, avvolto senza cura in carta da pacchi. La donna con il mantello di velluto le girò intorno con una specie di vivace sfida che suggeriva quasi l'immagine di un torero, e la scrutò attentamente, soppesandola. Parlò l'altra per prima, sporgendo le labbra umide, troppo rosse. «Ho portato questo per Mitch. Se non vuole vedermi, non è certo costretto... adesso capisco. Ma ditegli...» «Sì?» «Ditegli che gli raccomando di berlo intanto che è caldo.» La donna con il mantello di velluto lanciò un'occhiata al di sopra della propria spalla verso lo spiraglio della porta, troppo piccolo perché si potesse vedere qualcosa. «Vi hanno vista entrare proprio adesso, di sotto?» «Sì, certo.» «Hanno visto che portavate questa roba?» «Sì.» Come sarebbe stato facile attirarla nella stanza. Aveva spostato il paravento, sistemandolo intorno al cadavere, non appena aveva sentito il primo colpo alla porta che l'aveva messa in allarme. Come sarebbe stato facile, in quei due o tre secondi prima che quella stupida ciabattona trovasse il corpo, chiuderle la bocca per sempre, con quello stesso bicchiere dal quale lui aveva appena bevuto. Oppure lasciarla là, nei pasticci, troppo stupida persino per discolparsi. Si voltò verso di lei. La porta si chiuse definitivamente alle sue spalle. «Tornate da dove siete venuta. Andatevene di qui, e in fretta.» Non era una minaccia, ma un avvertimento. Maybelle si limitò a spalancare gli occhioni azzurri e fissarla stolidamente. «Svelta! Ogni minuto che passate qui da sola lo pagherete caro. Riportate giù il recipiente, intatto. Dite che non siete riuscita a entrare, radunate gente intorno a voi, proteggetevi!» Dette a Maybelle una spinta che la fece arretrare nel corridoio. Poi, lei si guardò indietro, sbalordita. «Ma che cosa c'è? Che cosa è successo?» «Il vostro amico è là dentro, morto, e l'ho ucciso io. Sto solo cercando di
evitarvi dei guai. Non ho niente contro... le altre donne.» Ma Maybelle non era rimasta ad ascoltarla fino in fondo. Cacciò una serie di urli, acuti come un'unghia che gratti un vetro, e sparì barcollando paurosamente. La donna con il mantello di velluto si mosse rapidamente, ma con una precisa economia di gesti che toglieva alla sua andatura il carattere di una fuga, verso la porta di servizio, all'altra estremità del corridoio, che dava sulla scala incustodita dell'albergo. Dopo la morte Il superiore di Wanger lo mise al corrente dell'accaduto solo dopo una settimana. Un certo Cleary ci aveva lavorato su nel frattempo, senza arrivare a nessuna conclusione. «Sentite un po', Wanger, è successo un caso strano all'Helena Hotel. Ho appena letto i rapporti che mi sono arrivati, e ho notato che ha certi particolari in comune con il caso Bliss. Ricordate, sei mesi fa o giù di lì? Così, a prima vista, non sembrano per niente simili. Su quest'ultimo non ci sono dubbi: è senz'altro un delitto. L'idea mi è venuta dal fatto che in entrambi i casi c'è una donna, che sembra essersi volatilizzata subito dopo. Infatti, non si è trovata traccia di lei. Sia in un caso sia nell'altro non si riesce a scoprire un movente, il che non è normale. A questo punto preferisco passare a voi i risultati delle indagini fatte da Cleary. Voi, infatti, conoscete già il caso Bliss, e Cleary no, e siete quindi in una posizione migliore per giudicare. Se riterrete di aver trovato qualche nesso, anche vago, ditemelo, e v'affiderò completamente l'incarico.» Cleary disse: «Ecco quanto sono riuscito a mettere assieme, in sette giorni di lavoro. Regge benissimo, ma non ha senso. È irrazionale quanto può esserlo l'atto di una pazza, ma ho la prova materiale che la donna non lo è, come potrete constatare voi stesso più tardi, quando avrete sentito tutto. Allora, Mitchell è morto per un pizzico di cianuro di potassio messo in un bicchiere di arak...» «Lo so. Ho letto il rapporto del medico legale.» «Qui ci sono le copie delle dichiarazioni dei testimoni. Potrete leggerle in seguito. Per ora ve le riassumo. Anzitutto, ho trovato un mezzo biglietto di teatro. Sapete, quella parte che viene restituita allo spettatore, che la deve conservare, dopo che il biglietto è stato strappato all'ingresso. L'ho trovato nella fodera di una delle sue tasche. Ho fatto delle ricerche ed ecco la
storia. Due sere prima della morte di Mitchell, una donna bellissima, dai capelli rossi, si è presentata al botteghino del Teatro Elgin e ha detto che voleva acquistare tutti i biglietti di un palchetto. L'impiegato le ha domandato per quale sera, e la donna ha risposto che per lei andava bene una sera qualsiasi. Le premeva solo di poter avere tutti i posti del palchetto. E questo era strano per due motivi: per quasi tutti i clienti, è la data la cosa più importante; prendono il posto migliore che riescono a trovare per il giorno che desiderano. Secondo, sembrava che il numero dei posti non la preoccupasse affatto; non ha chiesto se fossero tre, quattro o cinque. Voleva solamente tutto il palchetto per sé. L'addetto le ha dato i quattro posti per la prima sera in cui erano disponibili, cioè per quella immediatamente successiva. Naturalmente la faccenda l'ha colpito. «Due dei posti non sono stati usati. Il personale del teatro, quella sera, ha visto Mitchell comparire da solo e presentare un biglietto. Anche la donna che li aveva comperati si è presentata da sola, ma molto tempo dopo, quando il sipario si era già alzato da un pezzo». «Immagino che solo una persona sia in grado di testimoniare con certezza che si trattava della stessa donna che aveva acquistato i biglietti» intervenne Wanger. «Sì, l'addetto al botteghino. C'è una copia della testimonianza, fra quelle che vi ho dato. Aveva ormai chiuso il botteghino e per caso era lì sul mezzanino che si godeva lo spettacolo. Lei gli è passata vicino, salendo da sola, e lui l'ha riconosciuta senz'ombra di dubbio. Adesso arriva la parte più importante di tutta la faccenda. Ho interrogato la maschera di servizio ai palchetti. Quello che mi ha detto mi ha convinto che i due non si conoscevano assolutamente. La maschera ha prestato particolare attenzione alla donna, per diversi motivi. Tra l'altro perché ha meno persone da accompagnare delle maschere addette alla platea o alla balconata. La donna è arrivata molto tardi ed è rimasta ad aspettare fuori. Era eccezionalmente bella e arrivava da sola, il che gli è parso strano. Li ha osservati, se non intenzionalmente, per i motivi che ho detto, mentre lei si sedeva. Non si sono salutati neanche con un cenno. La maschera è rimasta a breve distanza dal palchetto abbastanza a lungo da esserne sicura. È certissima, in base all'esperienza che si è fatta in tanti anni di servizio, che non si conoscevano assolutamente. Secondo me, questo è la riprova. Se si conoscevano, Mitchell l'avrebbe aspettata nell'atrio, invece di salire per primo. Qualsiasi uomo si sarebbe comportato così, anche il più villano. Solo durante l'intervallo la maschera ha notato che avevano cominciato a parlare, ma con quel distac-
co con cui si parlano due persone che si sono appena conosciute. In altre parole, era un incontro fortuito.» «Se erano estranei, come aveva fatto la donna a fargli pervenire il biglietto? Lei li aveva acquistati e Mitchell ne aveva uno.» «Per posta, anonimamente. In una delle tasche di Mitchell ho trovato anche la busta. Poiché il biglietto era d'un rosso acceso, c'era un leggero scolorimento rosa, visibile all'interno della busta; evidentemente qualcuno con le mani sudate, all'ufficio postale o al banco dell'albergo, o forse lo stesso Mitchell, l'aveva maneggiata e inumidita, facendo sbiadire il colore. Ecco qui. «La donna è stata vista solo un'altra volta, dopo questa. Poi è svanita nel nulla. Non sono ancora riuscito a trovare una traccia. La notte dell'assassinio non è stata vista né entrare né uscire dall'albergo. Ma questo non è tanto strano come sembra, perché sul retro c'è una scala di servizio che dà su un vialetto ed evita di passare dall'atrio. La porta sul vialetto è a scatto e non può essere aperta dall'esterno, ma può darsi che sia stata lasciata socchiusa per farla entrare. Deve avertele suggerite lei, tutte queste precauzioni, dato che è arrivata con l'intenzione di uccidere Mitchell». «Voi avete appena detto che, dopo l'episodio del teatro, qualcun altro l'ha vista. Chi?» «La ragazza con la quale Mitchell faceva coppia fissa, una cameriera di nome Maybelle Hodges. È arrivata davanti alla stanza poco dopo che lui era morto, come risulta dall'esame medico. Quando ha bussato alla porta, è uscita la donna.» «E che cosa le ha detto?» «Ha ammesso di averlo ucciso e ha consigliato alla ragazza di tornare giù e di andarsene prima di trovarsi coinvolta nella faccenda.» Wanger si strofinò il mento, perplesso. «E voi pensate che questa dichiarazione sia attendibile?» «Sì, perché la ragazza ha dato una descrizione di quella donna che, sia per l'aspetto fisico sia per i vestiti, collima esattamente con quella fornita dal personale del teatro. Quindi, non può essersi inventata la storiella. E questo ci riporta alla questione accennata prima. La donna non è pazza; aveva un'occasione straordinaria per uccidere immediatamente la Hodges, non doveva far altro che lasciarla entrare nella stanza. Invece, l'ha messa in guardia. La faccenda è tutta qui. Abbiamo più materiale del necessario, però ci manca la chiave che dia un significato al tutto: non c'è un movente.» «Non si riesce a immaginarlo, almeno. Non si conoscevano, e lei spari-
sce come il fulmine dopo aver colpito» riassunse Wanger, contrariato. «Be', mi hanno incaricato di vedere se riesco a cavarne qualcosa. Per quanto mi riguarda, sono sicuro solo di una cosa: questo caso è legato a quello di Bliss, è la copia esatta.» Cameriera di colore, quarto piano, Helena Hotel: Non l'avevo mai vista prima; di sicuro non abitava in albergo. Quando l'ho vista ho pensato che forse andava a trovare qualcuno. Stava proprio passando per il corridoio, quel giorno. È stato... due settimane prima che succedesse. Forse più. Si ferma e guarda dalla porta aperta della camera del signor Mitchell che sto mettendo in ordine. Le chiedo se sta cercando il signor Mitchell. Lei mi risponde di no. Mi dice, però, che si possono capire tante cose su una persona e sulle sue abitudini, solo guardando la sua stanza. Parla così bene che è un piacere starla a sentire. Guarda le fotografie delle ragazze che lui ha appeso al muro e dice: "Gli piacciono le donne misteriose. Cercano tutte di sembrare qualcos'altro, per lui. Mordono le rose, guardano tra i ventagli di pizzo". E poi, prima che io riuscissi a trattenerla, se ne è andata e non l'ho più vista. Commesso del negozio di liquori Globe: Sì, ricordo di aver venduto questa bottiglia. Non ne vendiamo più di una all'anno: l'arak è un liquore poco comune. No, non l'ha chiesto lei. Mi è capitata tra le mani mentre cercavo sullo scaffale, e ho pensato che fosse una buona occasione per liberarmene, dato che lei aveva chiesto qualcosa fuori dell'ordinario e al tempo stesso assai forte. Ha detto che doveva fare un regalo a un amico, e più esotico era, tanto più soddisfatto sarebbe stato. Le avevo già mostrato la vodka e l'acquavite. Ha scelto l'arak e mi ha confessato che non l'aveva mai assaggiato. Inoltre ricordo bene un particolare; mentre usciva mi ha lanciato uno strano sorriso e mi ha detto: "In questi giorni mi scopro a fare tante cose che non ho mai fatto prima". No, non era nervosa; anzi, si è tirata volontariamente in disparte e mi ha detto di servire un uomo che voleva in gran fretta una bottiglia di rye, intanto che lei si decideva. Ha aggiunto che voleva scegliere con calma. Una settimana dopo, il superiore di Wanger disse: «Quindi ritenete che tra i due casi ci sia un nesso, non è vero?»
«Sì.» «Be', quale?» «Solo questo: nei due casi è coinvolta la stessa donna sconosciuta.» «Oh, no, è qui che vi sbagliate, non può essere» lo investì il capo. «Ammetto che anche a me era venuta un'idea simile, quando ve ne ho parlato la settimana scorsa. Ma non sta in piedi, non è possibile! Ho avuto il tempo di esaminare la descrizione della donna che è saltata fuori dalle indagini di Cleary e che lui mi ha mandato; ha fatto crollare tutto il castello di ipotesi. Prendete la pratica di Bliss e... Ecco, adesso confrontatele. Mettetele una accanto all'altra.» Pratica Bliss Capelli: biondi Altezza: 1,70 Carnagione: rosea Occhi: azzurri Età: circa 26 anni Parla in modo corretto
Pratica Mitchell Capelli: rossi Altezza: 1,75 Carnagione: olivastra Occhi: grigio-azzurri Età: circa 32 anni Parla con un leggero accento straniero
«Non c'è neppure un modus operandi che dimostri una certa somiglianza. Una ha spinto un giovane agente di cambio giù da un terrazzo; l'altra ha lasciato cadere del cianuro nel bicchiere di un miserabile fallito, in un albergo di quart'ordine. Per quanto ne sappiamo, non solo i due uomini non conoscevano la donna che ha provocato la loro morte, ma non si sono mai conosciuti tra loro. No, Wanger, credo che ci troviamo di fronte a due casi ben distinti...» «Uniti dalla stessa assassina» insisté Wanger, scettico. «Con queste due descrizioni, così diverse tra loro, mi pare proprio che star qui a discutere è come voler spaccare un capello in quattro. Eppure, tutte quelle differenze fisiche non contano molto. Se le esaminate un momento, vedrete quanto sia facile raggiungere il minimo comune denominatore. «Capelli biondi o rossi. Qualunque ballerinetta vi può spiegare quanto sia poco consistente una differenza di questo tipo. «Altezza uno e settanta, e uno e settantacinque. Se una portava un paio di tacchi particolarmente alti e l'altra un paio di scarpe sportive, potrebbe essere sempre la stessa donna. «Carnagione rosea e olivastra. Basta un po' di cipria ed è fatta.
«La differenza di colore degli occhi può essere un'illusione ottica creata dalle ciglia finte. «L'apparente differenza di età è un'altra variante che dipende da fattori esterni, come l'abito e il modo di fare. «Che altro c'è? Un accento particolare? Anch'io posso parlare con un dato accento, se voglio. «Non bisogna dimenticare, poi, che le persone che hanno visto la prima sconosciuta non hanno vista l'altra. Abbiamo testimoni per ciascuna delle due, separatamente. Ma non ne abbiamo uno per tutt'e due contemporaneamente. Non c'è modo di fare un confronto. Voi dite che non c'è somiglianza di modus operandi. Secondo me, c'è, eccome. Sono state diverse soltanto le circostanze e voi vi lasciate ingannare da questo, osservate queste sconosciute. Ambedue posseggono una brillante, quasi fantastica facoltà di sparire subito dopo; siamo quasi alla genialità. Tutt'e due studiano in anticipo la vittima, indagando sul suo ambiente e sulle sue abitudini. Una compare in casa di Bliss quando lui è fuori; l'altra ispeziona la stanza di Mitchell, sempre quando l'uomo è fuori. E che cos'è questo, se non un modus operandi? Insisto, per me si tratta della stessa donna, in tutt'e due i casi.» «Qual è il suo movente, allora?» ribatté il superiore di Wanger. «Non certo il furto. Mitchell era in arretrato di un mese e mezzo nel pagamento della pensione. Lei ha comperato un intero palchetto a tre dollari e trenta il posto, e ha buttato via due biglietti solo per avere la certezza di incontrarlo in circostanze favorevoli. Andrebbe benissimo la vendetta... ma Mitchell non la conosceva e lei non conosceva lui. Non solo non riusciamo a trovare un movente, ma non possiamo neppure applicare la solita spiegazione della mancanza di un movente. Non si tratta di una pazza. Aveva un'occasione d'oro per assassinare anche quella Hodges... cioè il tipo formoso, un po' ritardato, che attrae irresistibilmente gli omicidi congeniti. Invece ci ha rinunciato, le ha consigliato di svignarsela, per proteggerla.» «Il movente appartiene al passato, a un lontano passato» insisté ostinatamente Wanger. «Ho controllato minuziosamente il passato di Bliss e non ho trovato assolutamente niente.» «Allora mi dev'essere sfuggito qualcosa. È colpa mia, non del movente. Era là, e io non l'ho visto.» «Ci darà del filo da torcere. Vi renderete conto che anche questi due uomini, se fossero ancora vivi, non potrebbero gettare un po' di luce sulla
donna, o sul perché ha ucciso, dato che neppure loro la conoscevano, né, a quanto pare, l'avevano mai vista?» «Pensierino consolante» brontolò cupamente Wanger. «Non posso promettervi di trovare una soluzione, anche se mi avete affidato definitivamente l'incarico vi prometto solo che farò l'impossibile per arrivare a una soluzione.» Dalla documentazione Wanger su Mitchell (cinque mesi dopo): Prove: 1 busta, battuta a macchina su un esemplare in mostra in un negozio, senza che il personale se ne sia accorto. 1 bottiglia di arak, acquistata nel negozio di liquori Globe. Mezzo biglietto palchetto A-1, Teatro Elgin. Caso rimasto insoluto. Parte terza MORAN La donna Sapeva per esperienza che gli adulti fanno sempre quelle domande sciocche. Domande su cose talmente evidenti che già da un pezzo lui aveva imparato a considerarle definitivamente chiarite. Loro, però, esigevano sempre una risposta. Specie quando lui voleva fare qualcos'altro. Qualcosa che valesse veramente la pena, come far rimbalzare una palla grossa e con tanti colori lungo il marciapiede. E invece quella signora non lo lasciava andare. Si chinava con tante smorfie e non lo lasciava giocare. «Santo cielo, che palla grossa, per un ometto così piccolo!» Be', si vedeva benissimo che era una palla grossa. Perché doveva dirglielo? Perché non se ne andava a casa sua? «Quanti anni hai?» Perché voleva sapere quanti anni aveva? «Cinque e mezzo, vado per i sei.» «Guarda un po'. E di chi sei figlio?» Perché voleva sapere di chi era figlio? «Di mia madre e di mio padre» borbottò con aria condiscendente. Come poteva essere figlio di qualcun altro? «E come si chiama tuo padre, caro?» Ma non sapeva proprio niente quel-
la? «Signor Moran» rispose. «Che bambino adorabile.» Poi la signora aggiunse: «Hai fratelli e sorelle?» «No.» «Oh, che peccato! E non ne senti la mancanza?» Come faceva a sentirne la mancanza se non ne aveva mai avuti? Comunque, avvertì una cert'aria di critica nei suoi confronti per il fatto che non ne aveva, e cercò immediatamente di colmare la lacuna con qualche sostituto. «Però ho una nonna.» «Oh, che bello! E vive con te?» Proprio una cosa che la nonna non faceva mai, non lo sapeva? «Abita a Garrison.» Il nome gli fece venire in mente un altro sostituto, e lo gettò sul tappeto. «Ci abita anche mia zia Ada.» Ma quella donna quando l'avrebbe lasciato giocare con la palla? «Oh, così lontano!» si meravigliò lei. «Sei mai andato a trovarla?» «Certo che ci sono andato, quand'ero piccolo. Ma il dottor Bixby ha detto che facevo troppo rumore, e così la mamma ha dovuto riportarmi a casa.» «Il dottor Bixby è il medico di tua nonna, caro?» «Certo, va a visitarla spesso.» «Dimmi un po', caro, hai già incominciato ad andare a scuola?» Che domanda offensiva? Ma quanti anni credeva che avesse, accidenti, due? «Certo, vado all'asilo tutti i giorni» rispose, non senza orgoglio. «E che ci fai di bello, caro?» «Disegniamo i paperi, i conigli e le mucche. La signorina Baker mi ha dato una stella d'oro perché ho disegnato una mucca.» Ma perché non se ne andava e non lo lasciava in pace? Gli pareva che quell'interrogatorio durasse da ore. Avrebbe potuto far rimbalzare la palla fino all'angolo e ritorno, in tutto il tempo che gli aveva fatto sprecare. Cercò di sgattaiolare di fianco, e lei finalmente capì l'antifona. «Be', caro, corri a giocare, non voglio farti perdere altro tempo.» Gli dette due pacche affettuose sulla nuca e s'allontanò sul marciapiede, lanciandogli un sorriso cattivante di sopra la spalla. La voce di sua madre giunse all'improvviso da dietro la porta a rete, a pianterreno. Probabilmente era stata seduta là tutto il tempo. Quella rete, che faceva da schermo, permetteva di guardar fuori, ma non dentro; lui l'aveva scoperto parecchio tempo prima.
«Che cosa ti diceva quella bella signora, Cookie?» chiese benevolmente. Un adulto avrebbe avvertito una nota d'istintivo orgoglio per il fatto che il suo rampollo fosse così eccezionale, da attirare l'attenzione della gente che passava. «Voleva sapere quanti anni ho» rispose distrattamente. Rivolse subito la sua attenzione a cose più importanti. «Mamma, guarda. Guarda come la faccio andare in alto!» «Sì, caro, ma non troppo in alto. Potrebbe finire sulla grondaia.» Un attimo dopo, lui aveva già dimenticato quanto era accaduto. Due attimi dopo, anche sua madre l'aveva dimenticato. Moran Sua moglie gli aveva telefonato in ufficio mentre era fuori a pranzo e, al suo rientro, trovò un messaggio. La cosa non lo stupì perché succedeva piuttosto di frequente: ogni tre giorni, in media. Probabilmente, pensò Moran, sua moglie l'aveva chiamato perché le era venuto in mente di aver bisogno di qualcosa in città e voleva che lui, ritornando a casa, si fermasse a comperargliela. Ripensandoci, però, si rese conto che non poteva trattarsi di una cosa del genere perché, non essendo riuscita a raggiungerlo, avrebbe semplicemente detto alla centralinista di che cosa aveva bisogno. A meno che, naturalmente, non si trattasse di qualcosa che richiedesse istruzioni particolareggiate, che non potevano essere trasmesse di seconda mano. Impiegò la breve pausa del dopo pranzo per telefonare. «Vi passo vostra moglie, signor Moran.» «Frank...» La voce di Margaret suonò così carica d'emozione che lui capì subito, prima ancora che lei dicesse altro dopo il suo nome, che non si trattava solo di una commissione. «Ciao, cara, che c'è?» «Oh, Frank, sono tanto contenta che tu sia tornato! Sono preoccupata da morire, non so più che cosa fare! Ho ricevuto un telegramma da Ada, appena una mezz'ora fa...» Ada era la sorella nubile, su al nord. «Un telegramma?» disse. «Perché un telegramma?» «Be', aspetta un attimo, te lo leggo.» Ci volle qualche secondo; probabilmente doveva frugare nella tasca del grembiule e spiegarlo con una mano sola. «Dice: "Mamma colpita grave attacco, non spaventarti ma sugge-
riscono venire subito. Dr. Bixby d'accordo. Non tardare. Ada".» «Sarà di nuovo il cuore» disse lui, con un'intonazione non proprio compassionevole. Perché doveva seccarlo nel bel mezzo della sua giornata di lavoro per una cosa simile? La moglie aveva incominciato a piagnucolare in un tono basso e soffocato; che non era un pianto vero e proprio. Una specie di spruzzatina, tanto per mettere un pizzico d'ansia nelle sue parole. «Frank, cosa dici, devo fare una telefonata interurbana?» «Se vuole che tu vada là, faresti bene ad andarci» rispose lui secco. Evidentemente, lei voleva sentirsi dire quelle parole che si accordavano con i suoi desideri. «Credo che sarebbe meglio» convenne con voce lacrimosa. «Tu conosci Ada, è tutto tranne che un'allarmista. È sempre stata incline a minimizzare queste cose, prima d'ora. L'ultima volta che la mamma ha avuto un attacco, non me l'ha nemmeno fatto sapere finché non si è tutto risolto, per non farmi stare in pensiero.» «Non agitarti così. Tua madre ha già avuto attacchi analoghi e li ha sempre superati» cercò di farle notare. L'ansia di sua moglie aveva già preso un'altra direzione. «Ma come faccio, con te e Cookie?» Frank si irritò perché l'aveva paragonato al figlio di cinque anni, come se lui avesse bisogno d'aiuto! «Posso badargli io» rispose seccamente. «Non sono paralitico. Vuoi che mi informi su quale pullman puoi prendere?» «Ci ho già pensato io. Ce n'è uno alle cinque. Se prendo quello che parte più tardi, dovrei stare in ballo tutta la notte. Senti, Frank, mi vieni incontro alla stazione dei pullman?» «Va bene, va bene.» Cominciava a spazientirsi per quella lagna interminabile. Le donne non sono capaci di fare una telefonata breve ed essenziale. In piedi sulla soglia, c'era la segretaria che attendeva per consultarlo su qualcosa. «Frank, cerca di essere puntuale. Ricorda che dovrai riportare Cookie a casa con te; passo a prenderlo all'asilo, intanto che vengo in città.» Quando arrivò al terminal, puntuale come s'era fatto un dovere di essere, trovò Margaret che lo aspettava, con Cookie al suo fianco. Quest'ultimo cominciò a saltare, sottolineando l'importante informazione che doveva comunicare. «Papà, la mamma va via! Papà, la mamma va via!» Nessuno dei due gli diede retta, essendo quella una delle rare occasioni in cui non riusciva a monopolizzare gli inizi di una loro conversazione. «Che cosa hai fatto, hai pianto?» Moran investì la moglie. «Certo che hai
pianto, lo si vede dagli occhi. È sciocco comportarsi così.» Un torrente di consigli materni uscì dalla bocca di lei. «Senti, Frank, troverai la cena di Cookie pronta sul tavolo di cucina; devi soltanto riscaldarla. Mi raccomando, Frank, non dargli da mangiare troppo tardi, non gli fa bene. Ah, un'altra cosa, per stasera lascialo andare a letto senza bagno. Tu non sei pratico e ho paura che possa succedergli qualcosa nella vasca.» «Una sera senza bagno non sarà la fine del mondo» brontolò sprezzantemente Moran. «Frank, sarai capace di spogliarlo?» «Certo. Lo sbottono ed ecco fatto. Che differenza c'è tra i suoi vestiti e i miei? Sono più piccoli, e basta.» Il torrente di parole, però, continuava a scorrere senza interruzione. «Frank, non lo lascerei in casa da solo, se fossi in te. Se più tardi vuoi uscire, potresti far venire una delle vicine a dargli un'occhiata.» Una voce sepolcrale tuonò nel microfono sotto le alte volte della sala d'aspetto. «... Hobbs Landing, Allenville, Greendale...» «È il tuo, meglio che ti avvii.» Scesero lentamente verso il marciapiede di partenza. Il torrente si stava ormai esaurendo; arrivavano ogni tanto solo dei piccoli scrosci, ripensamenti concernenti il benessere personale del marito. «Frank, sai dove tengo le tue camicie pulite e le altre cose...» «Signori, si parte» annunciava l'autista del pullman. Lei gettò le braccia al collo del marito in una stretta inaspettata. «Ciao, Frank. Tornerò appena posso.» «Telefonami quando arrivi, così so che il viaggio è andato bene.» «Spero proprio di trovare la mamma meglio.» «Ma certo. Sarà di nuovo in piedi prima della fine della settimana.» Lei si accoccolò vicino a Cookie, gli sistemò il berretto, il colletto della giacca, lo baciò sulla fronte. «Mi raccomando, Cookie, fai il bravo bambino e ascolta quello che ti dice papà.» L'ultima cosa che disse, dai gradini dell'autobus, fu: «Frank, in questi ultimi tempi, Cookie ha preso l'abitudine di dire qualche piccola bugia. Ho cercato di farlo smettere; non incoraggiarlo...» Infine, dovette girarsi e proseguire perché altre persone stavano cercando di salire e lei bloccava il passaggio. L'autista le lanciò un'occhiataccia, mentre lei percorreva il passaggio e andava al suo posto; poi brontolò: «Per l'amor del cielo, faccio un viaggio di un paio d'ore verso il nord, non fino al confine messicano.»
Moran e rampollo si spostarono sulla piattaforma, fino al punto in cui lei si era seduta. Margaret non riuscì ad abbassare il finestrino; per fortuna, altrimenti sarebbe andata avanti indefinitamente con lo stesso ritmo di prima. Dovette accontentarsi di mandar baci e fare loro segnali d'istruzione da oltre il vetro. Moran riusciva a capirne solo una minima parte, ma fingeva il contrario, annuendo docilmente, perché lei si sentisse rassicurata. L'autobus cominciò a girare sul cemento con un rumore sibilante, stridente. Moran si curvò sulla sua riproduzione in sedicesimo ch'era accanto a lui, e sollevò una delle sue braccine ossute. «Fai ciao alla mamma!» gli suggerì. E manovrò goffamente la piccola appendice, come si fosse trattato di una minuscola pompa. Quando suonarono alla porta, Frank stava pensando a Margaret per l'ennesima volta, con un rispetto del tutto nuovo, quasi con devozione, perché riusciva a ottenere un risultato qualsiasi da un caos come quello, e non una volta sola, ma ogni santo giorno. «Come se non avessi da fare» ruggì ad alta voce «adesso arriva gente a gironzolarmi tra i piedi e a prendermi in giro.» Si era tolto giacca e cravatta, arrotolato le maniche della camicia per non sporcarle, e si era ficcato nella cintura uno dei grembiuli di Margaret. Era riuscito a far riscaldare la cena di Cookie (in fondo, così come l'aveva preparata Margaret, non c'era stato altro da fare che accendere un fiammifero e metterla sulla cucina a gas) e a far sedere Cookie a tavola, dopo lunghi inseguimenti. I risultati, però, terminavano lì. Come si fa a impedire a un bambino di usare il cucchiaio come se fosse una racchetta da tennis e di far schizzare dappertutto la roba da mangiare? Quando c'era Margaret, Cookie mangiava come un essere civile. Con lui, invece, faceva il tiro al bersaglio, con dei colpi che raggiungevano persino la parete opposta. Moran continuava a saltare da una parte all'altra, intorno a Cookie, cercando di parare i colpi micidiali che stavano facendo tutto quel disastro. Tentò con la persuasione... peggio che andar di notte. Cookie l'aveva messo in svantaggio. Il campanello della porta suonò un'altra volta; nel frattempo, Moran, occupatissimo, aveva già scordato il primo squillo. Disperato, si cacciò le dita tra i capelli, guardando da Cookie alla porta e poi ancora dalla porta a Cookie. Infine, come se avesse deciso che nulla poteva esser peggio di così, si mosse per andare ad aprire, ripulendosi uno schizzo di spinaci proprio sopra un sopracciglio.
Era una donna che non conosceva. Una signora, comunque. Lei evitò accuratamente di fargli capire che aveva visto il grembiule con i non-tiscordar-di-me azzurri in un angolo e si comportò come se lui avesse avuto un aspetto perfettamente normale. Era giovane e abbastanza carina, ma vestiva in modo tale che pareva volesse deliberatamente far ignorare quest'ultimo attributo, con un abito a giacca di lana blu, elegante ma semplicissimo. Aveva i capelli ramati, trattenuti severamente da una molletta o da un aggeggio simile, un viso all'acqua e sapone, e uno spruzzo di lentiggini, solo sulle guance, piuttosto in alto. Aveva un'aria cordiale e spontanea, quasi fanciullesca. «Abita qui Cookie Moran?» domandò con un sorriso amichevole. «Sì... ma mia moglie è partita proprio adesso...» rispose Moran confuso, chiedendosi che cosa volesse. «Lo so, signor Moran.» C'era un che di comprensivo, quasi di compassionevole, nel tono con cui lo disse. E ci fu anche una smorfietta sbarazzina, subito trattenuta, all'angolo della sua bocca. «Me ne ha accennato quando è passata a prendere Cookie. Per questo sono qui. Sono la maestra d'asilo di Cookie, la signorina Baker.» «Ah, sì!» rispose prontamente Moran, riconoscendo il nome. «Mia moglie mi ha parlato molto di voi.» Si strinsero la mano. Quella della signorina Baker era proprio la stretta energica e cordiale che ci si aspettava. «Veramente, la signora Moran non mi ha chiesto di venir qui, ma ho capito da come parlava che era preoccupata per voi due e ho deciso di venire lo stesso. So che è dovuta partire all'improvviso... quindi, se posso fare qualcosa...» Moran non si fece scrupolo di mostrare il suo sollievo e la sua gratitudine. «Oh, ma è gentilissimo da parte vostra!» esclamò con entusiasmo. «Siete la mia salvezza, signorina Baker, entrate!» Si ricordò troppo tardi del suo grembiulino a fiori, lo slacciò e lo nascose dietro di sé, appallottolato in una mano. «Ditemi un po', come si fa a farlo mangiare?» chiese confidenzialmente, chiudendo la porta e seguendola in corridoio. «Ho paura di mettergli il cibo in bocca, potrebbe soffocare...» «Vi capisco, signor Moran» rispose lei, confortandolo. Dette un'occhiata circolare quando raggiunse la porta della sala da pranzo e si lasciò sfuggire una risatina. «Vedo che sono arrivata al momento giusto.» Lui pensò che la stanza era ancora in buone condizioni, se paragonata alla cucina. Era là che s'era abbattuto il ciclone.
«Come va il giovanotto?» domandò la maestra. «Cookie, guarda chi c'è!» esclamò Moran, ancora in solluchero per quell'aiuto inaspettato che giungeva come manna dal cielo. «La signorina Baker, la tua maestra d'asilo. Non la saluti?» Cookie la scrutò per un lungo istante, con lo sguardo diritto e grave dei bambini. «Non è lei» dichiarò infine con calma. «Ma, Cookie!» lo rimproverò gentilmente la signorina Baker. S'accoccolò vicino al seggiolone, portando la sua testa all'altezza di quella del bambino. Gli appoggiò un dito sul mento e lo fece voltare. «Guardami bene in faccia.» Trovò il tempo di lanciare un sorriso indulgente a Moran, sopra la testa del piccolo. «Non riconosci più la signorina Baker?» Moran era imbarazzato per il bambino, e si sentiva come il genitore di un pargolo mentalmente ritardato. «Cookie, che cos'hai? Non riconosci più la tua signorina d'asilo?» «Non è lei» ripeté Cookie, senza distoglierle gli occhi dal viso. La signorina Baker guardò il padre, piuttosto stupita. «Che cosa gli succede?» domandò preoccupata. «Non si è mai comportato così, con me.» «Non so, proprio, a meno che... a meno che...» Gli tornò in mente un'osservazione fatta da sua moglie. «Proprio mentre partiva, Margaret mi ha avvertito che il bambino ha cominciato a dire piccole bugie; questa, forse, è una.» Mise una punta d'autorità nella voce. «Senti un po', giovanotto!...» Lei ammiccò di nascosto, deliziosamente; una specie di guizzo di disapprovazione. «Lasciate fare a me» mormorò. «Sono abituata ai piccoli.» Si vedeva che era una persona molto paziente con i bambini, che non perdeva le staffe in nessun caso. «Che cosa ti succede, Cookie, non mi riconosci più? Ma io conosco te...» Cookie rimaneva silenzioso. «Aspetta, credo di aver qualcosa qui...» Aprì la sua capace borsetta e tirò fuori un foglio di carta. Lo spiegò e quel foglio rivelò i contorni di un disegno, stampato e riempito a mano con le matite colorate. Cookie lo guardò senza mostrare segni d'orgoglio per la sua realizzazione. «Non ricordi di averlo fatto per me, stamattina... e che ti ho detto che era molto bello? Non ricordi che ti ho dato una stella d'oro per averlo fatto?» Questo, almeno, aveva un suono familiare alle orecchie di Moran, se non a quelle del suo rampollo. Parecchie volte, al suo rientro a casa, gli era stata data la notizia, col solito accompagnamento di saltelli. «Oggi ho preso la stella d'oro!»
«Siete proprio la signorina Baker?» domandò Cookie. «Su, via!» Gli tirò il lobo di un orecchio. «Certo che lo sono, piccino. Lo sai!» «E allora perché non sembrate la signorina Baker?» Lei sorrise a Moran, divertita. «Credo che alluda agli occhiali. All'asilo è abituato a vedermi con gli occhiali montati in tartaruga, ma stasera sono venuta senza. C'entra un po' anche la psicologia infantile. Lui è abituato a vedermi all'asilo, e non in casa sua. Io non appartengo a questo ambiente. Quindi...» allargò le braccia «... non sono la stessa persona!» Moran stava segretamente ammirando il suo atteggiamento scientifico nei riguardi dei bambini, e la profonda conoscenza sulla quale era ovviamente fondato, così diversa dai tentativi di avvicinamento di Margaret irrazionali ed emotivi. Lei si alzò in piedi. Evidentemente era dell'opinione che non si dovesse insistere troppo con un bambino recalcitrante; meglio convertirlo poco per volta al proprio punto di vista. Moran aveva sentito dire da Margaret che quello era il metodo col quale trattavano i piccoli, all'asilo. «State a vedere. Tra cinque minuti Cookie si sarà dimenticato di non conoscermi» gli promise allegramente, sottovoce. «Sapete come convincerli, i bambini, vero?» disse Moran, colpito. «Sono piccole personalità ben distinte, con i loro diritti, non degli adulti in via di formazione. Quest'ultimo era un vecchio ed errato assioma, che abbiamo rifiutato.» Si tolse cappellino e giacca e s'avviò verso la cucina devastata. «Lasciatemi un po' vedere cosa posso fare per aiutarvi. E la vostra cena, signor Moran?» «Oh, non preoccupatevi per me» rispose ipocritamente. «Più tardi posso fare un salto a una tavola calda.» «Per carità, non ce n'è affatto bisogno. Vi preparerò io qualcosa in un batter d'occhio. Ora leggete pure il giornale della sera. Da come è piegato capisco che non siete ancora riuscito a dargli un'occhiata, e dimenticate tutto il resto, proprio come se ci fosse qui vostra moglie.» Era una delle ragazze, pensò Moran, più carine, competenti ed equilibrate, che avesse mai avuto il piacere d'incontrare. Si diresse verso il soggiorno, srotolò le maniche della camicia e si sistemò comodamente dietro la pagina sportiva di un quotidiano della sera. Il viaggio pareva più lungo dell'estate precedente, quando lei e Frank erano andati a Garrison per l'ultima volta. Eppure Garrison non si era spo-
stata e neppure la città dove lei abitava. Il fatto era, pensò Margaret, che anzitutto stava facendo il viaggio da sola e che in secondo luogo lo faceva sotto sfavorevoli auspici. Frank le aveva procurato un posto vicino al finestrino e nessuno venne a occupare quello accanto; così le fu risparmiato anche il disagio di dover tenere in piedi una conversazione stentata con qualche benintenzionato compagno di viaggio, perché il rifiutarsi di conversare, come sapeva sin troppo bene, procurava un disagio ancora più ingrato, qual è quello di avvertire la presenza fredda e ostile della persona che ha subito l'affronto del rifiuto. Il paesaggio fuggiva all'indietro con il movimento ondulato della terra che viene arata, come se il pullman tracciasse un solco regolare nella terra stessa, ma portandosi dietro, intatti, alberi, case, siepi. Lei raccoglieva le immagini solo superficialmente, e i suoi occhi non le trasmettevano al cervello. Ogni dodici minuti, regolarmente, ricordava qualcosa che aveva dimenticato di dire a Frank: a proposito di Cookie, o della casa, o del lattaio o del fattorino della lavanderia. Ma poi - se ne rendeva conto lei stessa - se anche se ne fosse ricordata e gliel'avesse dette, a quell'ora il marito le avrebbe già dimenticate. Quel docile annuire dall'altra parte del finestrino dell'autobus non l'aveva ingannata: era stato troppo docile. Durante gli intervalli di quei dodici minuti, si preoccupava terribilmente per sua madre. Come si fa di solito, come fanno tutti. Si rese conto però che riusciva solo a star peggio, prevedendo guai in anticipo, immaginando il peggio prima che se ne presentasse la necessità. Sarebbe andato tutto bene, come aveva detto Frank. Doveva andar bene. E se avesse scoperto che non andava affatto bene, preoccuparsi prima del tempo non le sarebbe stato di alcun aiuto. Cercò di abbreviare il viaggio, di distogliere la mente da quel chiodo fisso, pensando ad altro. Ma non era facile, perché, non avendo il senso della pittura, uno scenario inanimato non le diceva nulla. E dato che, d'altra parte, non aveva mai nutrito un interesse particolare per lo studio della natura umana in astratto, che altro le rimaneva da fare su un pullman? Si chiese se non avrebbe fatto meglio a comperare un libro o una rivista alla stazione di partenza. Ma no, il libro e la rivista sarebbero rimasti abbandonati nel suo grembo, aperti a una certa pagina, per tutta la durata del viaggio. Non era mai stata una gran lettrice. Era tanto disperata da essere quasi patetica; cominciò a sommare le spese di casa della settimana precedente, poi quelle di due settimane prima. Le
cifre si confondevano nel suo cervello, diventando assurdamente prive di senso. Non riusciva a dimenticare quel piccolo, duro nodo di paura che le gravava sul cuore. Era già scesa la sera, e il panorama si era ristretto al minuscolo mondo tubolare nel quale era rinchiusa. Le altre persone intorno a lei nel pullman erano... le solite persone che ci sono nei pullman. Non c'erano spunti per pensieri elevati. Sospirò e desiderò di essere un'indiana, o chiunque fosse quella gente che riesce ad abbandonare il proprio corpo e ad arrivare prima di esso a destinazione, o qualcosa del genere. Non era molto sicura della meccanica del fatto. Verso le otto, fecero una sosta di dieci minuti a Greendale, e lei bevve una tazza di caffè al bar della stazione dei pullman. Per quanto riguardava Cookie, a casa, si rese conto che ormai il peggio era passato. O aveva un bel mal di pancia o Frank gli aveva dato da mangiare come si deve, quindi non c'era nulla di che preoccuparsi. Le parve inutile telefonare da lì a Garrison. Era già a due terzi di strada, e poi c'era il pensiero che, se avesse ricevuto notizie peggiori di quelle del telegramma, il resto del viaggio sarebbe diventato un tormento insopportabile. Meglio aspettare fino al suo arrivo e sapere tutto. Arrivarono alle dieci e mezzo in punto. Fu la prima a scendere, aprendosi un passaggio tra gli altri a forza di gomiti. Non fu delusa dal fatto che non ci fosse nessuno ad attenderla; capiva benissimo che Ada doveva aver da fare fin sopra i capelli, a casa. Non ci si poteva aspettare una cosa del genere, a quell'ora. La breve, ingannevole vita notturna di Garrison era in pieno fervore appena fuori della stazione degli autobus. Il che voleva dire che il cinema su un lato della strada e il drugstore sull'altro erano ancora illuminati. Superò un gruppo di ragazze che chiacchieravano, ferme sul tratto di marciapiede antistante l'entrata del drugstore. Una di loro voltò la testa per seguire con gli occhi il suo passaggio, e lei sentì che diceva: «Ma quella non è Margaret Peabody? Adesso...» S'affrettò sul marciapiede deserto, a testa bassa, nell'oscurità che la circondava. Meno male che quelle ragazze non l'avevano chiamata per sincerarsi della sua identità. Non voleva fermarsi a parlare con estranei. Potevano darle delle notizie, e lei non voleva che fossero loro a dargliele per prime. Voleva andare diritta a casa e saperle là, buone o cattive che fossero.
Ma c'era quella parola "adesso" che aleggiava nell'aria sopra di lei, urlando nel suo cervello. Che cosa, voleva dire? Che era già?... Camminò in fretta per Burgoyne Street, buia come una galleria, sotto una volta di alberi; girò a sinistra, proseguì per la lunghezza di due case (che lì, con molta approssimazione, volevano dire due isolati di città), girò nel ben noto vialetto lastricato, con i bordi sconnessi e insidiosi. Ogni lastra era più alta di una frazione di centimetro di quella contigua. Quante cadute, nei giorni maldestri dell'infanzia... Trattenne il respiro quando le si presentò davanti la facciata della casa. Oh sì, sì, c'erano troppe luci accese, troppe. Poi frenò il panico che la stava soffocando, lo respinse. Be', anche se la mamma fosse stata a letto con un attacco leggerissimo, Ada avrebbe lasciato accese più luci del solito, no? Ci sarebbe stata costretta, per poterla curare. Quando, però, fu nel piccolo portico imbiancato a calce, la paura l'assalì di nuovo. C'erano troppe ombre che andavano avanti e indietro, al di là delle tende abbassate; si sentiva il brusìo di troppe voci, come nei momenti di crisi, quando si chiamano i vicini. C'era qualcosa che non andava, là c'era troppo movimento. Allungò la mano e schiacciò il bottone del campanello con un dito che pareva di ghiaccio. Istantaneamente, il movimento aumentò. Una voce gridò: «Vado io!» e un'altra: «No, io!» Poteva sentirle chiaramente da fuori. Non era di Ada, una di quelle voci, stridula e resa irriconoscibile da un dolore irrefrenabile? Doveva essere la sua! Doveva essere isterica, tutti loro dovevano esserlo. Prima che il suo cuore avesse tempo di fare una capriola e ricaderle dentro come un masso, ci fu un rapido rumore di passi, come se qualcuno avesse tentato di trattenere qualcun altro. La porta si spalancò e dall'interno la investì un gran fascio di luce gialla. Vi si stagliavano contro due sagome irriconoscibili e grottesche, con strane forme in testa. «Sono arrivata prima io!» esultò la più piccola. «Io aprivo le porte prima che tu nascessi!...» Musica e suoni di voci allegre uscivano da dietro di loro, verso la quiete della notte campestre. Non le cadde il cuore, ma le cadde la borsa, con un tonfo, sul pavimento del portico. «Mamma!» ansimò in un sussurro appena percettibile. L'altra figura con il cappellino di carta era Ada. «Margaret, cara! Ma come hai fatto a ricordarti che era il mio compleanno? Oh, ma che bella sorpresa. Non avrei potuto chiedere di meglio...» Giocavano a non capirsi, loro tre. «Oh, ma Ada!...» Margaret Moran
stava protestando con voce incerta e bassa, che non era ancora capace di controllare per la sorpresa. «Ma come puoi comportarti così! Non sai quello che ho passato, mentre venivo qui! No, la salute della mamma è una cosa con la quale non hai diritto di scherzare. A Frank non piacerà proprio, quando lo verrà a sapere...» Un silenzio imbarazzato era calato sulle due donne, ferme sulla soglia. Si voltarono a guardarla. Margaret si trovava ora nell'ingresso illuminato con palloncini giapponesi. La vecchia signora arzilla domandò ad Ada con una buffa mossetta del capo: «Ma che cosa vuol dire?» Ada domandò contemporaneamente: «Ma di che diavolo stai parlando?» «Ho ricevuto un tuo telegramma, oggi pomeriggio. Dicevi che la mamma aveva avuto un altro attacco, e che dovevo venire subito. Hai persino fatto il nome del dottor Bixby.» Margaret Moran aveva cominciato a piangere un pochino per l'indignazione, una reazione naturale dopo la lunga tensione alla quale era stata sottoposta. La mamma intervenne: «Il dottor Bixby è qui. Stavo proprio ballando con lui, vero, Ada?» Il viso della sorella aveva perso il colorito acceso dall'eccitazione della festa ed era impallidito. Fece un passo indietro. «Non mi sono mai sognata di mandarti un telegramma» ansimò. Moran infilò di nascosto un dito sotto la cintura dei calzoni per stare un po' più comodo. «Margaret stessa non avrebbe potuto far di meglio» dichiarò entusiasticamente «e, dicendo questo, vi sto facendo il massimo delle lodi. Mia moglie vi diventerà amica per la vita, quando le dirò come siete arrivata qui e avete salvato la situazione. Appena torna, una sera dovete venire a cena da noi, ma senza darvi da fare.» Lei gettò un'occhiata ai piatti vuoti, con l'istintiva aria di approvazione della cuoca soddisfatta nel vedere che i suoi sforzi non sono stati sottovalutati. «Grazie» disse «il piacere è stato mio. Non riesco mai a fare un po' di cucina casalinga come vorrei. Ho una stanza al Woman Club sin da quando ho assunto questo lavoro a scuola, e là non c'è modo di farla. Naturalmente prima, a casa, cucinavamo tutte, a turno.» Si alzò lentamente e ammucchiò i piatti. «Adesso, signor Moran, ve ne state seduto e tranquillo qui o nella stanza vicina o dove vi pare. Io me la sbrigo in un batter d'occhio.» «Potete lasciarli stare» protestò Moran. «Domattina ci sarà la nostra donna, e potrà farli lei...»
«Oh, be'.» Si strinse nelle spalle con aria di rimprovero. «E poi, se c'è una cosa che non posso sopportare, sono i piatti sporchi in giro, sia che si trovino nella mia cucina, sia in quella degli altri. Avrò finito prima che ve ne accorgiate.» Un giorno o l'altro, pensò Moran guardandola affaccendarsi avanti e indietro, sarebbe diventata la preziosa mogliettina di qualche fortunato; c'era da meravigliarsi che non lo fosse già. Cosa diavolo succedeva ai giovanotti di quelle parti? Non avevano occhi per vedere? Andò in soggiorno, accese la lampada da tavolo e si sedette col suo giornale, per dargli una seconda scorsa, più approfondita. Si stava bene proprio come se ci fosse Margaret a casa, veramente; non avvertiva alcuna differenza. Tranne, forse, il fatto che la signorina non diceva così spesso: "Non far questo, non far quello", a Cookie. Forse non andava bene esagerare in questo senso, col bambino. Era un'insegnante, lei, doveva ben sapere il fatto suo. Le si presentò una volta sulla porta della sala da pranzo, con in mano un piatto che stava asciugando. «Quasi finito» annunciò allegramente. «Come se la passano, i due signori qui?» «Bene» disse Moran, guardandola al di sopra della spalla, dalla posizione semiinclinata presa in poltrona. «Sto aspettando una telefonata da mia moglie. Ha promesso di chiamarmi non appena arrivava, per dirmi come sta sua madre.» «Ci vorrà ancora un po', vero?» Lui guardò l'orologio, sulla parete di fronte. «Non prima delle dieci e mezzo-undici, credo.» «Vi preparerò un po' di succo d'arancia per domattina, non appena ho finito di mettere via questi. Lo lascio in un bicchiere nel frigorifero.» «Oh, ma non dovete disturbarvi...» «Non ci metto nemmeno un minuto. Cookie dovrebbe berlo tutti i giorni. È la cosa migliore, per i bambini.» Tornò di nuovo in cucina. Moran scosse la testa pensando: "Che ragazza in gamba!". Copkie era lì con lui, che giocava. Dopo un minuto o due, si alzò, andò alla porta che dava sul corridoio e rimase lì a guardar fuori, parlando con lei. Evidentemente anche la signorina era andata fin là, dalla porta della cucina all'altra estremità, mentre finiva di asciugare le ultime cose. Anche Margaret aveva l'abitudine di girare, quando era all'ultima fase dell'asciugatura. Cookie stava fermo, perfettamente immobile, mentre la guardava. Moran
sentì che le diceva: «Perché fate così?» «Per asciugarlo, caro» rispose lei con allegra semplicità. Moran l'udì solo nel subconscio, per così dire, con quella parte delle sue percezioni che non era assorbita dal giornale. Lei entrò un attimo dopo, agitando coscienziosamente un piccolo affilato coltello da frutta che doveva aver appena usato per tagliare e preparare le arance. Gli occhi di Cookie seguivano gli abili movimenti delle sue mani con quella concentrazione ipnotica che certe volte i bambini assumono riguardo le azioni più banali. A un certo punto Cookie voltò la testa e guardò con lo stesso rapimento indietro, nel corridoio, in un punto oltre il raggio della porta, dove si trovava lei un attimo prima. Poi tornò a guardarla. «Ecco, tutto finito» gli disse la donna, dandogli un colpetto con l'estremità dell'asciugamano. «Adesso gioco con te per cinque o dieci minuti, poi vediamo di metterti a letto.» A questo punto, Moran alzò gli occhi, per puro senso del dovere. «Sicura che non posso darvi una mano?» domandò, sperando in cuor suo che la risposta fosse negativa. Fu così. «Continuate a leggere il giornale» gli ingiunse lei amichevolmente. «Questo giovanotto e io giocheremo un po' a nascondino.» L'aveva mandata il cielo, senz'altro. Ecco, se si trattava di leggere il giornale in santa pace, era persino meglio aver lei intorno, che Margaret. Margaret era convinta che si potesse leggere il giornale e sostenere una conversazione nello stesso tempo. Così, bisognava piantare il muso o rassegnarsi a leggere due volte, e lentamente, ciascun articolo: la prima volta a scopo dimostrativo, la seconda per capirlo. Non che Moran avvertisse un desiderio di avventure extraconiugali; meglio avere Margaret, interruzioni o no. Ada cercò di zittire il brusìo degli ospiti. «Sssst! Per favore, un attimo di silenzio. Margaret è in corridoio, che cerca di telefonare a suo marito.» Per precauzione, chiuse anche le porte scorrevoli del salotto. «Da qui?» saltò su una delle ragazze con aria incredula. «Per amor del cielo, costa un mucchio di quattrini!» «Lo so, ma è sconvolta, e non posso certo rimproverarla. Chi può aver fatto una cosa del genere? È disgustoso fare uno scherzo simile a qualcuno...!» Una delle signore interloquì con incrollabile orgoglio campanilistico:
«So che nessuno della nostra comunità sarebbe capace di farlo. Tutti noi abbiamo una opinione troppo buona di Della Peabody e delle sue figliole...» E, subito dopo, guastò tutto soggiungendo: «Neppure Cora Hopkins...» «E hanno firmato col mio nome!» esclamò drammaticamente Ada. «Dev'essere qualcuno che conosce la famiglia.» «Hanno messo anche il mio, non ha detto così?» intervenne il dottor Bixby. «Come fanno a conoscermi?» Qua e là nella stanza vennero scambiate delle occhiate piene d'inquietudine, come se qualcuno avesse appena finito di raccontare storie di fantasmi. Una delle ragazze, appoggiata al davanzale, guardò dietro di sé, nell'oscurità e poi si mosse per avvicinarsi furtivamente al centro della stanza. «Si direbbe un telegramma diffamatorio» bisbigliò qualcuno con voce percettibilissima. Ada aveva riaperto di qualche centimetro le porte scorrevoli, sopraffatta dalla curiosità. «Gli hai parlato?» domandò dalla fessura. «Che cosa dice?» Margaret Moran fece scorrere le porte e rimase lì, indecisa. «La telefonista dice che il nostro numero non risponde. Frank potrebbe essere uscito, ma... guardate che ora è. E se è andato fuori, come ha sistemato Cookie? Non l'ha certo portato in giro a quest'ora. E poi, l'ultima cosa che mi ha detto è che non si sarebbe mosso di casa. Dovrebbe esserci qualcuno con Cookie per sorvegliarlo...» Cercò aiuto con gli occhi, prima da Ada, poi da sua madre e dal dottore, ch'erano i più vicini a lei. «Questa faccenda non mi piace. Non credete che dovrei tornare...» Si levò un coro di proteste preoccupate. «Adesso?» «Ma via, sei appena scesa dal pullman, sarai stanca morta!» «Oh, Margaret, perché non aspetti almeno fino a domattina?» «Non è questo... penso al telegramma. Non so, ho un brutto presentimento, non riesco a liberarmene. Una cosa del genere non è uno scherzo, è una cattiveria; qualcuno è in pericolo. Chiunque l'abbia fatto... be', non si può dire che cosa...» «Perché non riprovi ancora una volta?» suggerì pacatamente il vecchio medico di famiglia. «Forse nel frattempo sarà rientrato. Se poi lui non c'è ancora e desideri sempre tornare, ti accompagno alla stazione degli autobus; ho la macchina qui fuori.» Questa volta non chiusero le porte e non fu necessario pregare di far si-
lenzio. Quasi fossero stati d'accordo, scivolarono tutti in corridoio e formarono un ampio semicerchio intorno a lei e al telefono, ascoltando col fiato sospeso, in un silenzio pieno di solidarietà. La sua voce tremava un po'. «Centralino, datemi ancora la città. Lo stesso numero: Seville 7-6262.» Di tanto in tanto Frank Moran udiva dei passi nelle sue vicinanze e uno scoppio di risa trionfanti di Cookie e il "Ti vedo!" della signorina. Giocavano quasi sempre su e giù per il corridoio, appena fuori della porta. "Nascondino", pensò Frank, indulgente. Si dice che solo due cose non cambiano mai: la morte e le tasse. Dovrebbero aggiungerne una terza: i giochi dei bambini. Lei era capace di condurre anche quel gioco con calma e dolcezza, senza permettere che il bambino diventasse troppo violento. Doveva essere il tocco professionale. Si chiese quanto guadagnassero le insegnanti d'asilo. Lei era certamente brava. A un certo momento, ci fu una pausa di silenzio furtivo, d'agguato, una pausa un po' più lunga delle altre; alzò gli occhi e la vide nascosta appena dietro la porta della stanza. Era ferma, di schiena, e faceva capolino per guardare in corridoio. «Pronto?» gridò allegramente. La risposta di Cookie arrivò stranamente debole. «Non ancora, aspetta.» Pareva che la donna si divertisse come il bambino. Era il sistema giusto per giocare con i piccoli, pensò: impegnarsi con tutta l'anima. I bambini captano subito la mancanza d'entusiasmo; si capiva che Cookie andava già matto per lei. Evidentemente la vedeva in una luce diversa che a scuola, dove lei doveva mantenere un po' di disciplina. La signorina Baker voltò la testa e sorprese il suo sguardo d'approvazione. «È andato in quel piccolo ripostiglio sotto la scala» gli confidò, ammiccando. Poi aggiunse, più seria: «Non c'è pericolo, se va lì dentro?» «Pericolo?» ripeté Moran senza espressione. «Ma no... non c'è dentro niente, solo un paio di vecchi impermeabili.» «Pronto!» esclamò una voce soffocata. Lei girò la testa. «Arrivo!» disse, e sparì dalla soglia come un'ombra, com'era apparsa prima. Moran la sentì fare qualche domanda fasulla, per un minuto o due, all'inizio, per far durare più a lungo il piacere del gioco: poi un annaspare contro una superficie di legno e un suono smorzato di giulivo assenso. «Signor Moran!» Frank balzò in piedi e si avviò velocemente verso di loro. Ecco che cosa c'era in quel tono di voce: fretta. «Signor Moran» ripe-
té lei ancora due volte, prima che li raggiungesse. La donna stava tirando la vecchia maniglia di ferro della porta. Era pallidissima. «Non riesco ad aprire...» «Su, non spaventatevi così» la calmò. «Non è il caso.» Afferrò la maniglia di ferro e la sollevò appena di un centimetro. Il gancio si liberò e lui tirò il pesante battente di quercia che si apriva nella parete sotto la scala. Era alto circa la metà di una porta normale e un po' più largo. In basso, non toccava neppure il pavimento, perché c'era una soglia alta circa dieci centimetri. Cookie saltò fuori, tutto contento. «Visto? Avete cercato di tirare la porta verso di voi. Si chiude con un gancio a molla, perciò prima bisogna farlo scattare, tirando in su la maniglia.» «Adesso capisco. Sono stata una sciocca» si scusò lei, quasi timidamente. Si fece vento con una mano. «Non ve l'ho assolutamente fatto capire, ma ho preso uno spavento terribile! Caspita! Avevo proprio paura che si fosse bloccata e che Cookie soffocasse prima che...» «Oh, mi rincresce...» disse Moran contrito, come se l'avere una porta del genere in casa fosse una colpa. Sembrava che lei avesse voglia di continuare a parlarne quasi che nutrisse una morbosa curiosità. «Immagino che se fosse successo il peggio, in un attimo voi sareste riuscito ad abbattere la porta.» «Avrei dovuto prendere qualche arnese per farlo, certo» convenne lui. Parve sorpresa. Moran vide che gettava un'occhiata d'apprezzamento al suo robusto torace. «Non sareste riuscito ad abbatterla con una spallata?» Lui tastò il bordo della porta e lo spostò in fuori, in modo che lei potesse esaminarlo. «Oh no, questo è legno di quercia molto solido. Cinque centimetri di spessore. Guardate qua. È una cosa ben fatta. E poi, qui è un brutto posto, non c'è spazio abbastanza da nessun lato per prendere un po' di rincorsa. La distanza tra una parete e l'altra è di due metri al massimo. E il soffitto del ripostiglio segue l'inclinazione delle scale; non si può nemmeno stare ritti in piedi. Il ripostiglio è triangolare, a forma di cuneo, vedete? Se state dentro e alzate troppo il braccio all'indietro, sbattete contro il soffitto in pendenza, se state fuori contro lo spigolo del muro.» Improvvisamente, con grande sorpresa di Moran, lei aveva chinato la testa per passare sotto la porta bassa, entrando nell'oscurità del ripostiglio. Frank sentì che saggiava con le mani le spesse pareti. La donna tornò fuori dopo un attimo. «È ben fatto!» esclamò uscendo. «Però si soffoca, qui den-
tro, anche con la porta aperta. Quanto credete che potrebbe resistere una persona, se le capitasse di restarci chiusa?» Per una volta, la sua onniscienza mascolina fu colta alla sprovvista. Era chiaro che non ci aveva mai pensato. «Mah! Non so» rispose vagamente. «Un'ora e mezzo, due ore al massimo.» Diede un'occhiata al ripostiglio con interesse superficiale. «Oh, se è per questo, è a chiusura ermetica» ammise. Trasalì, inorridita all'idea che lei stessa aveva suggerito e cambiò argomento. In fondo, tutti hanno dei curiosi attimi di morbosità. Si chinò, prese Cookie sotto le ascelle e lo fece marciare con le gambette rigidamente lanciate in avanti, come un soldatino meccanico. «Allora, signore...» Si rivolse quindi a Moran: «Pensate che sia ora di metterlo a letto?» Cookie ricominciò con i suoi esercizi. Si stava divertendo troppo per arrendersi senza fare resistenza. «Ancora una volta! Ancora una volta!» «Va bene, ancora una volta, poi basta» concesse pazientemente la signorina Baker. Moran tornò alla sua poltrona, in soggiorno. Aveva già finito il giornale. L'aveva letto fino all'ultima riga, fino alle quotazioni delle azioni che non possedeva, ma che gli sarebbe piaciuto avere. Aveva letto persino le lettere al direttore su argomenti che non gli interessavano. Tirò fuori il sigaro offertogli dalla persona con la quale aveva pranzato, tolse l'involucro, l'annusò, lo ritenne degno d'essere fumato, e l'accese. Soffiò un anello di fumo azzurrino verso l'alto, profondamente soddisfatto. Rimase seduto per un attimo, in uno stato di assoluta beatitudine. Era un lusso che si godeva raramente e quasi non sapeva come comportarsi. La testa cominciò a ciondolargli. Se ne accorse subito e prese tempo per deporre il sigaro nel portacenere accanto a lui, in modo che non cadesse e non facesse un buco nel tappeto di Margaret. Cookie entrò in punta di piedi, portando in ciascuna mano una pantofola. «La signorina Baker dice di mettere queste, che starai più comodo» sussurrò, sibilando. «Oh, grazie» disse Moran. Si curvò ed effettuò il cambio. «Dille che mi sta viziando.» Cookie uscì in punta di piedi con le scarpe pesanti in mano, cautamente com'era entrato, benché il padre, oggetto delle sue attenzioni, fosse ancora inequivocabilmente sveglio. Moran si riappoggiò all'indietro e quando la testa ricominciò a ciondolare, non reagì. "Una ragazza come quella dovrebbe... dovrebbe stare nella
vetrina di un gioielliere...". Era pieno di buone intenzioni, ma... santiddio, dovergli stare seduta accanto ad ascoltarlo era come trovarsi sui carboni ardenti. «Sissignora, ho aiutato voi tre ragazze a venire al mondo. Ricordo come fosse ieri la notte in cui sei arrivata tu. E ora guardati qui, seduta accanto a me, cresciuta, sposata e con un figlio tuo...» "E piena di paura, tanta paura", pensava Margaret tristemente, sforzandosi di vedere l'autobus che parve non arrivasse più. «Sembra impossibile. O tu sei cresciuta troppo in fretta o io non mi sento abbastanza vecchio per la mia età; o l'uno o l'altro.» Lei rispose al riso smorzato del dottor Bixby con un pallido sorriso, alla debole luce del cruscotto. «Capisco» bofonchiò l'uomo. Le circondò le spalle con un braccio e le dette una strizzatina affettuosa. «Capisco. Sei sconvolta e preoccupata, e vorresti essere già a casa. Però ascolta, mia cara, non prenderla così. Andrà tutto benissimo. Deve andar bene. Come potrebbe essere altrimenti? Solo perché non risponde al telefono? Sciocchezze. Probabilmente sarà in casa di qualche vicino a scolare birra...» «Lo so, dottor Bixby, ma non posso farci niente. È colpa di quel telegramma. Ho un terribile presentimento e non riesco a liberarmene. Qualcuno ha mandato quel telegramma...» «Ma certo, certo» ridacchiò lui benevolmente «i telegrammi non si mandano da soli. Probabilmente qualche stupido incosciente del suo ufficio avrà pensato bene che tuo marito gli avrebbe reso la pariglia...» Non finì di esprimere il pensiero, perché non era troppo convincente. Lei guardava davanti a sé, verso l'autostrada che correva sul lato opposto della stazione degli autobus, dove il medico aveva parcheggiato la sua Ford. «È tardi, vero? Forse non ce ne saranno più, per stasera...» Continuava a premere un dito sui denti per sostituirlo subito con un altro. Il dottor Bixby la costrinse ad abbassare la mano e gliela tenne stretta fortemente in grembo. «Ti ho tolto quel vizio quando avevi sette anni. Non vorrai ricominciare daccapo, vero?» Guardò attraverso il parabrezza, non esattamente terso. «Ecco che arriva. Vedi quei due fari laggiù? Dev'essere proprio il pullman. Benissimo.» Lo svegliò qualcosa di morbido che gli strisciava contro le gambe, vicino al pavimento. Alzò il mento fino al secondo bottone della camicia e ab-
bassò gli occhi, confuso. Cookie scorrazzava a quattro gambe, come un animaletto. «Stai ancora cercando un posto per nasconderti?» s'informò affettuosamente. Il figlio sollevò gli occhi e lo rimproverò per non essersi tenuto al corrente degli eventi. «Non stiamo più giocando, adesso. La signorina Baker ha perso il suo anello. Io l'aiuto a trovarlo.» In quel momento, si sentì la voce di lei che diceva: «Trovato, caro?» Moran si riscosse, si alzò e uscì dalla stanza. Ricordava di averglielo visto al dito quando era arrivata. La porta del ripostiglio era spalancata, come se lei ci fosse già stata. Stava esplorando le pareti, in basso lungo il corridoio, leggermente china in avanti, le mani sulle ginocchia. «Non capisco come abbia potuto scivolarmi dal dito senza che me ne accorgessi» disse. «Oh, probabilmente sarà qui, da qualche parte. Mi rincrescerebbe perderlo perché me l'ha regalato mia madre, quando mi sono diplomata...» «E qui dentro avete già guardato?» suggerì Moran. «Ricordo che siete entrata e avete battuto sulle pareti...» Lei gettò un'occhiata distratta oltre la spalla, continuando la sua ricerca. «Ho già guardato lì dentro, ma senza fiammiferi non sono affatto riuscita a vedere se c'era.» «Aspettate un attimo, devo averne qualcuno. Guardo io...» Moran mise i piedi oltre la soglia, strofinò un fiammifero, creando un tenue bagliore dorato e s'accovacciò a terra, voltando la schiena. Il tonfo della porta echeggiò nel corridoio come un colpo di pistola. Dopo la morte «Allora, che cosa avete scoperto? Pare che stiate diventando il nostro esperto di omicidi-che-non-sembrano-omicidi-invece-lo-sono.» «Ma certo che è stato un omicidio! Ne sono sicurissimo. Come possono esserci ancora dei dubbi?» «D'accordo, ma non fate volare tutte queste carte dalla mia scrivania. Kling dice che i suoi uomini, quelli che si sono occupati del caso, non sembrano così sicuri, a questo proposito, come lo siete voi. Perciò ho chiesto a Kling se era d'accordo che voi ci metteste lo zampino. È stato molto gentile...» «Cosa?» La voce di Wanger uscì mezza strozzata.
«Cosa stanno cercando di fare? Vorrebbero dare ad intendere che quel tipo si è chiuso da solo per disp...» Con un gesto della mano, il superiore gli consigliò la calma. «Aspettate un attimo, non siate così suscettibile. Ecco quello che intende Kling, e io capisco perfettamente il suo punto di vista. È vero che la signora Moran ha ricevuto, o pretende d'aver ricevuto, un telegramma da uno sconosciuto, che l'ha firmato, però, col nome della sorella. Disgraziatamente non se n'è trovata traccia in tutta la casa, è scomparso, e così non è possibile accertare da dove è stato spedito. Può essere stato fatto qui in città e la moglie, turbata com'era, potrebbe non aver osservato il luogo di provenienza. È vero che il bambino continua a parlare di una signora che ha giocato con lui. I soli fatti che indicano chiaramente la presenza di una persona adulta, sono i fili del telefono tagliati e il biglietto sulla trapunta del bambino...» Wanger sporse il labbro inferiore con aria sdegnosa. «E lo stucco?» «Volete dire che il bambino non poteva arrivare sino alla parte superiore della porta con quella roba, vero? No, Kling mi ha detto che i suoi uomini l'hanno messo alla prova. L'hanno lasciato fare consegnandogli solo la scatola dello stucco e gli hanno detto: "Adesso vediamo se chiudi bene la porta, come ieri sera", poi si sono tirati indietro a guardare. Il bambino è arrivato più in alto che poteva; poi si è trascinato vicino lo sgabello, quello del telefono, vi è salito sopra, arrivando così tranquillamente con le mani alla fessura superiore della porta. Ora, se l'ha fatto la seconda volta, di sua spontanea volontà e senza che nessuno gliel'abbia insegnato, perché non avrebbe potuto farlo anche la prima?» «Puah!» Wanger si schiarì la gola, disgustato. «L'hanno sottoposto a un'altra prova. Gli hanno detto: "Figliolo, se il tuo papà entrasse nel ripostiglio, che cosa faresti: lo lasceresti uscire o lo lasceresti lì dentro?". E lui ha risposto: "Lo lascerei dentro a giocare con me".» «Ma quelli sono matti... Dove hanno il cervello? Immagino che il bambino avrà tagliato anche i fili del telefono e avrà scritto anche quel biglietto a stampatello maiuscolo...» «Mi lasciate finire? Non vogliono dire che il bambino abbia fatto tutto da solo. Sono inclini, però, a pensare che si sia trattato di un incidente e che dopo, qualcuno, spaventato, abbia fatto dei goffi tentativi per non rimanervi invischiato. L'ipotesi degli uomini di Kling è questa, ma ricordatevi che non è affatto definitiva, ci si stanno trastullando finché non salta fuori qualcosa di meglio. Moran aveva un'amichetta e alla moglie è stato spedito un telegramma fasullo per sgombrare il campo. Prima che la donna
arrivasse, Moran, solo col bambino, ha cominciato a giocare con lui. Per disgrazia si chiude nel ripostiglio e il diabolico bimbetto stucca la porta. Arriva la donna e Moran è morto soffocato. Lei perde la testa; ha una paura folle di rimanere coinvolta, data la sua particolare situazione. Mette il bambino a letto e lascia un biglietto senza firma sulla trapunta, per la moglie. Forse il telefono suona mentre lei è lì; ha paura di rispondere, allora non capisce più niente e taglia i fili. Secondo gli uomini di Kling, dopo aver aperto la porta e aver visto che Moran era morto, la donna dev'essere rimasta così sconvolta che ha fatto un frenetico tentativo di lasciare tutto come aveva trovato, richiudendo la porta del ripostiglio e riappiccicando persino lo stucco, in modo che sembrasse opera di un bambino e di nessun altro. In altre parole, un incidente seguito da un goffo tentativo di nasconderlo, fatto da qualcuno con la coscienza sporca.» «Puah!» commentò Wanger, pizzicandosi la punta del naso. «Bene, volete la mia opinione? Idiozie. E ora che cosa devo fare? Continuare o lasciar perdere?» «Continuate, continuate» consentì il suo superiore con aria distratta. «Mi terrò in contatto con Kling per questa faccenda. In fondo, voi non potete aver sempre torto.» Pareva che stessero giocando ai dadi, nella stanza, da come erano accovacciati tutti per terra, chini su qualcosa che si trovava al centro del pavimento. Non si riusciva a vedere cos'era, perché le loro ampie schiene toglievano completamente la visuale. Comunque, doveva essere qualcosa di molto piccolo. Di tanto in tanto, qualcuno alzava una mano per grattarsi la nuca. L'illusione era perfetta: mancava solo il suono secco dei dadi e il gergo dei giocatori. Un'agente della polizia femminile era in piedi sulla soglia e osservava la scena attentamente, senza però prendere parte all'azione. C'era qualcosa in lei che non andava, qualcosa che urtava il senso estetico. Faceva credere a chi la osservava dalla punta dei capelli fin giù, alla caviglia, che in basso si sarebbe biforcata in un paio di calzoni. E invece ai polpacci finiva in una sottana, e così l'armonia andava a pallino. Wanger, fermo dalla parte opposta della porta da cui era appena entrato senza farsi scorgere, rimase a guardare quello che succedeva, finché poté resistere. Infine si avvicinò a grandi passi, quando l'assembramento a quattro zampe si sciolse, lasciando scorgere il pigmeo in mezzo ai giganti. Cookie sembrava ancora più piccolo di quanto non fosse, tra quegli scimmio-
ni. «Non così! Non così!» protestò Wanger. «Volete fare il terzo grado a un bambino?» «E chi gli fa il terzo grado?» Wanger sapeva che non era così. Uno di loro intascò uno scintillante orologio da tasca che aveva fatto dondolare appeso alla catena con l'intenzione di affascinare il bambino, senza ottenere il benché minimo risultato. L'agente gettò indietro la testa e sogghignò. Cookie, con la diabolica abilità dei bambini nel fiutare la simpatia e utilizzarla a proprio favore, contrasse il viso in una smorfia da scimmietta e cominciò a piagnucolare. «Ecco, visto?» disse Wanger, girando uno sguardo accusatore per la stanza. «Tanto per cominciare, non sapete che i bambini hanno paura dei poliziotti? Ciascuno di voi è un nemico naturale per lui, e se poi gli state tutti addosso a quel modo...» «Ma siamo in borghese, no?» ribatté uno. «Non ha visto i distintivi, quindi come fa a saperlo?» «Il gigante conoscitore dei bambini» ridacchiò sotto i baffi un altro, mentre si avviava verso la porta. L'ultimo esclamò, con aria cupa: «Spero che voi abbiate più fortuna di noi. Accidenti, preferisco vedermela tutti i giorni con un rapinatore di quelli duri, piuttosto che con un moccioso come questo, che non capisce nemmeno quello che gli si dice.» «Lo capisce benissimo» grugnì Wanger. «Solo che bisogna saperci fare.» L'agente della polizia femminile fu l'unica a rimanere nella stanza, benché rappresentasse lei stessa un problema. La sua presenza incuteva terrore al bambino, più di tutti gli altri uomini messi assieme. Se appena mostrava di oltrepassare la soglia, Cookie si abbandonava a crisi isteriche. Wanger tirò vicino a sé una sedia, si sedette, divaricò le gambe e sistemò Cookie su una di esse. «Ricominciamo a giocare?» disse con sarcasmo l'agente. «Sono convinta che non era nemmeno sveglio quando è accaduto l'incidente, quella notte...» «Era sveglissimo. E poi, chi lo sta interrogando?» Cookie aveva subito familiarizzato con Wanger. Sorrise, un sorriso cattivante, forse un tantino interessato, alzando gli occhi su di lui. «Non ne hai più, di caramelle?»
«No, il medico ha detto che te ne ho già date troppe.» Wanger si accinse al lavoro. «Cookie, chi ha fatto entrare il tuo papà nel ripostiglio?» «Nessuno. Ci è andato da solo. Stava giocando.» «È lo stesso punto dove vi siete incagliato prima» lo informò la donna senza essere interrogata. Wanger voltò la testa furibondo. Non gli capitava spesso di perdere le staffe. «Fatemi il piacere di star zitta.» Tirò un profondo respiro preparandosi ad andare fino in fondo a quel che sapeva di voler fare. «Con chi stava giocando il papà, Cookie?» «Con noi.» «Sì, ma chi noi? Tu e chi altro?» «Io, lui e la signora.» «Quale signora?» «La signora.» «Quale signora?» «La signora che c'era.» «Sì, ma chi era questa signora?» «La signora che... la signora che...» Non che Cookie non volesse collaborare: era la logica di quel discorso che lo confondeva. «La signora che giocava con noi» concluse con un'ispirazione improvvisa. Ormai Wanger aveva quasi esaurito la scorta di fiato che aveva immagazzinato; ne lasciò sfuggire gli ultimi resti con un sibilo scoraggiato. «Visto come se la cava? Questo bambino non avrà bisogno di avvocati, quando sarà grande.» Wanger era di pessimo umore. «Statemi bene a sentire, signora McGovern. Se ficcate ancora una volta il becco in...» «In che cosa?» lo interruppe l'agente, sia pure in tono prudentemente basso. Wanger tirò fuori un notes nero. Poi tornò a rivolgersi al piccolo testimone, che faceva oscillare allegramente le gambe. «Allora, a che gioco giocavate?» «A nascondino!» trillò sicuro Cookie. Adesso era su un terreno familiare. «A chi toccava per primo?» «A me.» «E poi a chi toccava?» «Alla signora.» «E poi a chi?»
«Poi toccava al mio papà.» «Andiamo bene» mormorò Wanger. Scribacchiò in modo indecifrabile, appoggiandosi sul ginocchio sinistro e sostenendo Cookie con l'altro braccio: "Circonvenite". Cancellò con una croce e mise invece: "Circonvenuto". Cancellò di nuovo e scribacchiò ancora: "Attirato dentro durante il gioco a nascondino". Poi alzò gli occhi, esasperato. «Ma che diavolo! Non vuol dire niente! Com'è possibile che un'estranea, che il bambino non ha mai visto, entri in una casa e convinca un uomo adulto e vaccinato a giocare con lei... così, come se niente fosse!» Con un sorriso beffardo, l'agente mormorò a fior di labbra, tanto per essere sicura di non venire accusata di ficcare il becco: «Rimarreste di stucco, se lo sapeste. Ma i giochini non sono quelli che pensate voi.» Il libriccino colpì la parete di fronte e cadde a terra con un tonfo leggero. «Che cos'è successo?» domandò Cookie, seguendo il notes con sguardo interessato. «Un momento, voi siete convinto che il bambino non l'ha mai vista, vero?» tentò di ricordargli la donna, mettendo a repentaglio la sua incolumità. «Avete sentito che cosa ripete ogni volta!» le abbaiò contro irosamente Wanger. «Me lo sono scritto sei volte, in quel coso. Quella donna non si era mai fatta viva prima in casa loro.» Il bambino ricominciò a piagnucolare. «Non ce l'ho con te, Cookie» si scusò in fretta Wanger, dandogli dei colpetti affettuosi sulla schiena per tranquillizzarlo. Fu allora che tutto accadde all'improvviso. Cookie alzò gli occhi su di lui con l'incertezza di uno che ha appena visto scossa la sua fiducia in un'altra persona. «Con chi sei arrabbiato, allora? Sei arrabbiato con la signorina Baker?» «Chi è la signorina Baker?» «La signorina con cui giocavo.» Per un pelo Wanger non lo lasciò andare. «Finalmente sono riuscito a cavargli di bocca il nome! Avete sentito? E io non pensavo nemmeno che...» Il suo entusiasmo si afflosciò subito. Wanger si oscurò di nuovo in viso. «Macché, probabilmente è il nome fasullo che ha dato lei. È diventata la signorina Baker nel momento in cui è entrata in casa e ha smesso di esserlo nell'istante in cui è uscita. Se avessi
solo un'idea di quel che ha dato a intendere a Moran per entrare come se niente fosse, sarebbe già un aiuto.» «Una delle vicine?» suggerì l'agente della polizia femminile. «Abbiamo interrogato tutte quelle che abitano in un raggio di sei isolati. Cookie, che cos'ha detto la signorina Baker al papà, quando ha aperto la porta e l'ha fatta entrare?» «Gli ha detto salve» borbottò Cookie, sforzandosi coscienziosamente di rispondere a quello che gli era stato domandato. «Ecco che ricomincia la storia» sospirò la donna in tono rassegnato. Wanger lanciò un'occhiata in direzione delle scale. «Chissà se lei potrebbe essermi d'aiuto... Chiedete al dottore se è in condizione di scendere solo per un minuto. Ditegli che non voglio interrogarla. Voglio provare a chiarire una cosa alla quale ha accennato il bambino. La tratterrò un attimo solo.» «Non cercate di tormentare il bambino mentre sono fuori della stanza» l'ammonì la donna. «Non dovrei allontanarmi finché è qui con voi.» Tornò dopo un paio di minuti. «Il dottore non voleva, ma lei ha detto di sì. Scende subito.» Con Margaret Moran, entrarono anche il dottore e l'infermiera. La giovane donna camminava molto lentamente. Aveva il viso distrutto dal dolore. «Però, vi prego...» gli raccomandò il medico. «State tranquillo» lo rassicurò Wanger. Era una madre. Semidistrutta, ma sempre una madre. «Non lo stancherete troppo, vero?» Barcollò verso loro due, si chinò e baciò il bambino. Il medico e l'infermiera la sostenevano, ciascuno per un braccio. Wanger non aveva quasi il coraggio di continuare. Però, doveva farlo, presto o tardi. «Signora Moran, credo che voi non conosciate nessuna signorina Baker... Sto cercando di scoprire se esiste veramente questa persona o se è solo... Il bambino ha parlato di una certa signorina Baker...» Vide il viso della donna trasformarsi, prima che se ne accorgessero il medico e l'infermiera, ai quali lei voltava le spalle. Un attimo prima sarebbe parso impossibile che quel viso potesse esprimere nuove emozioni, eppure avvenne proprio questo. Una crescente espressione d'orrore, che superava tutto quello che lei aveva già sperimentato, parve stendersi sul suo viso come una patina gelida e vischiosa. Si premette le tempie con due dita, come per impedire che le scoppiasse la testa. «Oh, no... no!» bisbigliò. «Così ha detto il bambino» mormorò Wanger, quasi a malincuore.
«Oh, no... no!» Wanger interpretò esattamente quel diniego disperato: non la negazione dell'esistenza di una persona, la negazione dell'accusa... semplicemente perché era così inaudita. «Allora c'è...» insistette lui dolcemente. «Il bambino...» E indicò suo figlio, incapace di parlare. Le lacrime le sgorgarono irrefrenabili, non più lacrime di dolore, ma di terrore mortale. «La maestra... la maestra di Cookie...» Se c'era qualcosa che potesse rendere ancora più orribile l'accaduto, era proprio questo: svanito il mistero, diradate le nebbie in cui si erano dibattuti, sorgeva l'immagine di una giovane donna che stava vicino al suo bambino parecchie ore al giorno. La madre si accasciò; non era svenuta, le avevano semplicemente ceduto le gambe. L'infermiera e il medico la sostennero. Le fecero fare lentamente un mezzo giro, fino a portarla di fronte alla porta; poi, uscirono a piccoli passi. Margaret Moran non era in grado di aggiungere altro, ma non c'era altro da aggiungere. Ora, era tutto nelle mani di Wanger. Un attimo prima che la porta si chiudesse dietro quella patetica processione, il medico lo apostrofò stizzosamente, al di sopra della spalla: «Voi e i vostri colleghi mi date il voltastomaco.» «È inevitabile» rispose Wanger. «Bisognava farlo.» Era in mezzo a una nidiata di bimbetti, in un angolo separato dal resto del cortile della scuola, lontano dai giochi più violenti dei più grandicelli. Giocavano, marciando uno per volta sotto l'arco formato dalle braccia di due capofila, che li imprigionavano e li facevano dondolare avanti e indietro; poi veniva offerta loro, con un bisbiglio all'orecchio, la scelta tra due incalcolabili tesori, e ciascuno si metteva in fila dietro l'uno o l'altro dei capi, secondo la scelta che avevano fatto. Ai tempi di Wanger, nell'Undicesima Strada, non si erano mai divertiti a quel modo, e perciò non gli riusciva di seguire il gioco. Odiava il suo compito più di quanto non ne avesse mai odiati altri, anche se non si trattava ancora di un arresto, o di qualcosa che con l'arresto avesse la più remota somiglianza. Immaginò che fosse la vista dei bambini a farlo sentire così. C'era un che di brutale, quasi di sudicio, nel trascinarla via da lì, per scoprire se avesse spento una vita umana. Lei, accorgendosi di essere osservata, lasciò un attimo i bambini e gli si avvicinò. Aveva un corpicino slanciato e i capelli biondo rame; giovane, non più di ventiquattro o venticinque anni; carina dietro gli occhiali con la
montatura di tartaruga; senza di essi, sarebbe stata ugualmente carina, forse un tantino più austera; gli zigomi spruzzati di lentiggini: le stavano bene. «Aspettate uno di loro?» domandò cordialmente. «I bambini finiranno di...» Wanger aveva espresso il desiderio di presentarsi alla ragazza accompagnato, o meglio, guidato solo da un capogruppo, uno dei più grandicelli, che se n'era già andato. Non aveva spiegato al direttore di che cosa si trattasse; gli era parso più prudente. «Vorrei parlare proprio con voi» le disse. Cercava di svolgere il suo compito senza spaventarla inutilmente. In fondo, fino a quel momento, Baker era solo un nome isolato fornito da un bambino. «Sono Wanger, del Distretto di polizia...» «Ah!» Non sembrava particolarmente spaventata, solo sorpresa. «Se non vi dispiace, non appena sarete libera, vorrei che veniste con me a casa di Cookie Moran, il figlio di Frank Moran.» «Oh sì... povero bambino» disse lei con aria afflitta. Nel frattempo, il gioco s'era interrotto. I bambini erano fermi; i visini rivolti verso di lei in attesa di istruzioni. «Signorina Baker, adesso dobbiamo cominciare a tirare?» Lei gli lanciò uno sguardo interrogativo. «Finite pure la vostra lezione» disse Wanger. «Aspetto.» La signorina Baker tornò subito al suo lavoro; non pareva preoccupata. Batté seccamente le mani. «Benissimo, bambini, cominciamo. Pronti? Tirare!... Non così forte... Marvin, stai attento, strappi la manica a Barbara...» Più tardi, in classe, quando tutti i bambini erano stati felicemente imbarcati sull'autobus e spediti a casa, Wanger la guardò riordinare la cattedra dalla quale manteneva il dominio sui piccoli, riponendo con cura tutto nel cassetto. «I disegni con le matite colorate che i bambini fanno all'asilo, come quelli che avete qui, non li portano a casa tutti i giorni?» Era la domanda oziosa di un uomo che si trova a osservare qualcosa che non gli è familiare. O, per lo meno, ne aveva l'aria. «No. Li portano a casa alla fine della settimana. Il venerdì, facciamo ordine nei piccoli banchi e i bambini portano tutto a casa per mostrare alle madri i progressi che hanno fatto.» Rise in tono indulgente. Wanger prese a caso una delle tavole a colori: rappresentava un pettirosso fuori misura appollaiato su un ramo. Fece un risolino d'ipocrita ammirazione. «È il disegno della settimana scorsa o di questa?» Un'altra domanda oziosa, tanto per passare il tempo, un semplice argomento di conversazio-
ne, mentre lei si stava sistemando il cappellino. «È di questa settimana» rispose la signorina, dando un'occhiata al disegno. «È stato fatto lunedì pomeriggio.» E la sera di lunedì era stata quella... Presero un tassì per andare a casa Moran. Wanger era il più diffidente dei due. Continuava a guardar fuori dal finestrino. «Mi state portando là per qualche indagine o... o per un pietoso incarico?» gli domandò infine lei, con aria imbarazzata. Non era l'imbarazzo della colpa, ma l'incertezza di un'esperienza assolutamente nuova. «La solita procedura, non fateci caso.» Tornò a guardar fuori dal finestrino, come se i suoi pensieri fossero lontanissimi. «A proposito, eravate là, la notte in cui è accaduto il fatto?» Non sarebbe riuscito a dare meno importanza alla frase, neanche se avesse voluto. Non che si comportasse in modo eccessivamente prudente o non volesse impegnarsi: la situazione, al punto in cui era, non giustificava sistemi più bruschi. «In casa Moran?» Lei inarcò le sopracciglia, sbalordita. «Oh cielo, no!» Wanger non ripeté la domanda e la signorina non ripeté la risposta negativa. Una volta per uno poteva bastare. La signorina Baker aveva fatto la sua dichiarazione. Wanger aveva assistito a parecchi confronti, ma si convinse di non averne mai visto uno più drammatico di quello. Lei era completamente indifesa di fronte al bambino. E il bambino, a modo suo, era indifeso di fronte al mondo degli adulti. La salutò tutto felice, quando l'agente della polizia femminile lo portò dentro. «Ciao, signorina Baker!» Attraversò la stanza di corsa, l'abbracciò alle anche e alzò il viso per guardarla. «Oggi non sono potuto venire a scuola perché il mio papà è andato via. Anche ieri non sono potuto venire.» «Lo so, Cookie, abbiamo sentito la tua mancanza.» La signorina Baker si voltò verso Wanger, come a dire: "E adesso, cosa devo fare?". Wanger si sedette sui talloni e si sforzò di parlare in modo disinvolto. Era emozionato. «Cookie, ricordi la sera in cui papà è entrato nel ripostiglio?» Cookie annuì, tutto compreso. «È questa la signora che era in casa con voi?»
Attesa. Alla fine fu lei a rompere il silenzio. «Ero io, Cookie?» Sembrava che il bambino non avesse nessuna intenzione di rispondere. La tensione divenne quasi insopportabile. La ragazza respirò profondamente, si chinò e prese tra le sue una manina del bimbo. «La signorina Baker era qui con te, la sera in cui papà è entrato nel ripostiglio, Cookie?» domandò ancora. Questa volta la risposta giunse improvvisa come se gli fosse saltata fuori di bocca. «Sì, c'era la signorina Baker. Hai mangiato col mio papà e con me, ti ricordi?...» Si rivolgeva direttamente a lei, non agli altri. La signorina Baker si drizzò lentamente; scuotendo la testa, incredula. «Oh no... non capisco...» La cerchia dei visi sembrava essersi stretta intorno a lei. Nessuno parlò. «Cookie, senti. Guardami...» «No, non influenzatelo, per favore» la interruppe Wanger, gentilmente, ma con fermezza. «Ma non ci provo nemmeno...» disse lei, smarrita. «Volete aspettarmi fuori, signorina Baker? Vi raggiungo tra un istante.» Quando la raggiunse, era seduta, tutta sola, su una sedia. Certo, c'era un uomo occupato a far qualcosa in una delle stanze vicine, dalla quale si poteva controllare la porta d'ingresso, ma questo lei non lo sapeva. La signorina Baker continuava ad aprire e chiudere la cerniera della borsetta, poi di colpo alzò gli occhi su Wanger e disse: «Non capisco proprio...» Wanger non fece nessun commento. Ora anche il bambino aveva testimoniato. E questo era tutto. Il poliziotto aveva in mano un disegno fatto con le matite colorate, per mostrarglielo: un enorme pettirosso su un ramo. «Mi ha già spiegato che questo è il disegno che ha dato loro da fare lunedì pomeriggio, e che i bambini portano a casa i loro lavori solo una volta la settimana, il venerdì.» Gli occhi della ragazza rimasero inchiodati sul foglio molto più a lungo di quanto non fosse necessario per una semplice identificazione. Wanger attese un attimo, poi lo ripiegò e lo mise in tasca. «Il disegno è stato trovato proprio in questa casa, signorina Baker, nelle prime ore del mattino di martedì. Come pensate che sia arrivato fin qui?» Lei fissava ancora il punto in cui c'era stato il disegno, prima che sparisse nella giacca di Wanger. «È probabile, naturalmente, che quel giorno il bambino l'abbia portato a
casa, senza permesso, prima ancora di ricevere il voto.» Il suggerimento l'aveva avanzato Wanger, quasi in tono dubitativo. La signorina Baker alzò gli occhi in fretta. «No... non credo che l'abbia fatto. L'avevo giustificato per tutta la giornata, perché fuori c'era la madre che aspettava per portarlo via con sé; potete chiedere alla signora Moran, ma...» «Già fatto.» «Oh bene, allora...» Si alzò. Il suo viso aveva ripreso un po' di colore. «Allora questo cosa dovrebbe essere, un giochetto di parole per mettermi in trappola?» Wanger scrollò la testa. «Pare proprio che questa faccenda mi abbia messo in una brutta posizione» continuò lei. «Affatto» protestò Wanger ipocritamente. «Perché dite una cosa simile?» La signorina Baker abbassò gli occhi sulla borsetta, l'aprì e la richiuse ancora una volta; poi si rialzò di colpo e sbottò con un vivace scatto d'impazienza: «Non si può certo dire che sia stato un confronto leale, quello di poco fa, a parte il fatto che non capisco perché doveva esserci un confronto.» Wanger era cortese fino all'affettazione. «Perché no? Il bambino non vi conosce abbastanza? Non vi vede cinque giorni la settimana? Per quel che mi riguarda non è stato conclusivo, questo potete dirlo, ma è stato lealissimo.» «Ma non capite? La mente di un bambino, di un bambino di quell'età, è sensibile come una pellicola. Rimane impressionata dalla prima immagine che le capita. Un attimo fa mi avete chiesto di non influenzarlo, ma voialtri l'avete senz'altro già fatto, forse senza intenzione, nei giorni scorsi. Vi ha sentito dire che io ero qui, e adesso crede che ci sia stata veramente. Nei bambini, la linea di separazione tra realtà e fantasia è molto...» Wanger ribatté in tono pacato e ragionevole: «Siete completamente fuori strada, se credete che l'abbiamo influenzato. Non avevamo mai sentito il vostro nome, nessuno di noi, finché non l'ha pronunciato il bambino per primo; quindi, come potrebbe averlo sentito da noi? Invece, abbiamo dovuto mandare a chiamare la signora Moran e farci spiegare chi eravate voi, quando il bambino l'ha detto per la prima volta.» La ragazza non batté i piedi a terra, ma ne mostrò il desiderio facendo un rapido gesto in avanti col corpo. «Ma cosa credete che abbia fatto... Volete
essere così gentile da dirmelo? Credete che me ne sia andata via così, senza dir niente a nessuno, quando è successo quell'incidente?» «Sentite, per favore...» Wanger protese le mani, in atteggiamento disarmante. «Mi avete già detto una volta che non eravate qui, e io non ve l'ho chiesto una seconda volta, vero?» «E io le ripeto che non ero in questa casa. E lo confermo. Non ci sono mai venuta prima d'oggi.» «Allora, chiuso l'argomento. Non c'è più nulla da dire o da fare, a questo proposito. In breve, raccontatemi che cos'avete fatto quella sera, poi abbiamo finito. Non avete nulla in contrario, immagino?» La signorina Baker si calmò. «No, certo.» «Senza offesa. È la procedura normale. L'abbiamo chiesto persino alla signora Moran.» Lei era tornata a sedersi. La calma era diventata riflessione. «No, certo...» La riflessione si trasformò in intima contemplazione. «No...» A un tratto Wanger si schiarì la gola. «Fate con comodo.» «Oh, scusate. Sembra che non ne faccia una giusta, eh?» Aprì e richiuse la cerniera della borsetta per l'ultima volta. «Ho mandato i bambini a casa alla solita ora, alle quattro. Quando me ne sono andata, dopo aver riordinato la mia scrivania, saranno state le quattro e mezzo. Sono rientrata nella mia stanza al Residence Club, e ci sono rimasta fin verso le sei. Mi sono riposata e ho lavato un po' di biancheria. Poi sono uscita per andare a cena in un posticino in fondo all'isolato. Immagino che vorrete sapere come si chiama questo locale, non è vero?» Wanger prese un'aria di scusa imbarazzata. «Si chiama "Da Karen Marie". È un piccolo ristorante, per poche persone. La proprietaria è una svedese. Poi ho fatto quattro passi e... saranno state le otto, quando mi sono infilata in un cinema...» «Probabilmente non vi ricordate quale» le suggerì lui benevolmente, come se fosse stata la cosa più insignificante del mondo. «Oh, sì, sì. Lo Standard. Ho visto Mr. Smith. Non vado molto spesso, al cinema, ma quando mi capita vado sempre allo Standard. Be', tutto qui, mi pare. Dopo il film sono tornata al Residence Club. Mancava poco a mezzanotte.» «Benissimo, tutto questo ci sarà molto utile. Vi ringrazio, siete stata esauriente. Adesso, non voglio più trattenervi...» L'insegnante si alzò, quasi malvolentieri. «Sapete che cosa vi dico, signor Wanger? Preferirei quasi non andarmene, in queste... circostanze. Mi
sentirei molto meglio se la faccenda si chiarisse in un modo o nell'altro mentre sono ancora qui.» Wanger agitò una mano. «Non c'è nulla da chiarire. Mi sembra che voi, in questa vicenda, abbiate le idee più chiare di quanto non le abbiamo noi. Non preoccupatevi. Andate pure e scordate tutta questa storia.» «Be'...» La ragazza si avviò, riluttante, guardando indietro sino all'ultimo, poi scomparve. Nell'attimo stesso in cui la porta d'ingresso si chiudeva dietro di lei, parve che una scarica elettrica, proveniente da una fonte invisibile, investisse Wanger. «Myers!» L'uomo che si trovava nella stanza in fondo al corridoio saltò fuori come un fantoccio a sorpresa. Wanger puntò due volte l'indice verso la porta. «Giorno e notte. Non lasciartela scappare neanche per un minuto.» Myers sparì in fretta, in cerca dell'uscita posteriore. «Brad!» chiamò ancora Wanger. Poi continuò intanto che la scala vibrava per la rapida discesa: «Parti in quarta. Vai allo Standard e controlla quale altro film hanno dato lunedì sera assieme a Mr. Smith. Questi doppi spettacoli hanno qualcosa di buono; ci sono utili per il nostro lavoro. Poi fai un salto da "Karen Marie". Vedi se la ragazza ha mangiato là. Ho intenzione di passare al setaccio questo alibi minuto per minuto e che il Padreterno l'aiuti se non è più che a prova di bomba!» Prima telefonata a Wanger, in casa Moran, venti minuti dopo. «Salve, Lew, parla Bradford. Allora, il titolo del secondo film è Cinque granellini di pepe. Sono venuto a sapere che qualcun altro si era fermato prima di me al cinematografo per chiedere la stessa cosa. La ragazza del botteghino non capiva il perché di tutto questo improvviso interesse per un riempitivo di seconda categoria.» «Chi era?» gli urlò Wanger all'orecchio. «Lei. La Baker. Me la sono fatta descrivere. Dev'esserci andata dritta filata non appena l'hai lasciata libera. Che ne dici?» «Dico che ci siamo» rispose Wanger, sbrigativo. «Continua a lavorarci sopra. Il bambino è appena saltato fuori a dire di che colore era vestita quella sera. Un'altra delle sue uscite a sorpresa, come quando ha sparato il nome di lei. Blu scuro, hai capito? Vai al Residence Club e vedi se ti riesce di sapere di che colore era vestita quando è uscita, lunedì sera. Può darsi che qualcuno l'abbia notata. E falla da furbo. Non voglio che lei senta puzzo di bruciato, finché non abbiamo finito di cucinarla. Sei solo un tizio che
si dà da fare perché ha preso una cotta per una ragazza di cui non sa il nome. Puoi arrivare fino a lei per eliminazione.» Seconda telefonata a Wanger, stesso luogo, mezz'ora dopo la precedente. «Ancora Brad. Ascolta Lew: quella ha un alibi che è peggio di un colabrodo. Credo che abbiamo messo le mani su qualcosa di consistente.» «Benissimo, continua a fare il giovane esploratore. Quando ci sarai dentro da quanto ci sono io, ti accorgerai che nel momento in cui credi di avere in mano il bandolo, è la volta che ti ritrovi con un bel pugno di mosche.» «Be', vuoi stare a sentire o me lo tengo per me?» «Bastardo, non diventiamo insolenti. Che roba è?» «La ragazza non ha mangiato da "Karen Marie", quella sera! All'inizio, la svedese che dirige il ristorante ha sostenuto che "oh zì, zì, è stata qvi mangiare". Be', dopo quel che è successo al botteghino del cinema, non so perché, mi è venuto un mezzo sospetto. Allora ho corso il rischio e mi sono lanciato. Ho fatto la faccia feroce e le ho detto: "Mi sta prendendo in giro, per caso? Crede che non sappia che la ragazza è stata qui e le ha detto di rispondere così, casomai qualcuno fosse venuto a chiederglielo? Senta un po', vuole mettersi nei guai o preferisce starne lontano?". Ha mollato subito. "Zì", ha ammesso intimidita. "Lei è stata qvi. Zono contenta di aiutare la ragazza, ma dato che lei lo za, non voglio mettere me nei guai". Ma aspetta, c'è dell'altro. Ho fatto un giretto nell'atrio del Residence Club. La ragazza dell'ascensore e l'impiegata al banco ricordano di averla vista passare, quella sera, ed era vestito... di blu scuro!» «Vieni da papà» disse Wanger, pieno di fervore. Terza telefonata a Wanger, il giorno successivo. «Lew? Salve, qui è Myers. Sono fuori della scuola. È sistemata per bene fino alle quattro di oggi pomeriggio; praticamente, le sto appiccicato addosso da ieri. Però c'è una novità e volevo che la sapessi subito. Può significare qualcosa, come può non voler dire niente. Ho cominciato a pedinarla quando è uscita dal Residence Club, poco fa, e mentre andava a prendere l'autobus ho notato che un fruttivendolo l'ha salutata amichevolmente e che lei ha risposto con un sorriso. Allora mi sono fermato un momento e l'ho
interrogato in fretta per non perdere il suo autobus. Mi ha detto che la ragazza aveva comperato da lui mezza dozzina di arance della Florida, lunedì sera alle sei. Mi sono ricordato quei due bicchieri di succo d'arancia trovati nel frigorifero di casa Moran il mattino successivo, che la signora non era riuscita a spiegare, dato che era sicurissima di non averli preparati prima di andare dalla madre.» «Mi sono ricordato anch'io la stessa cosa» disse Wanger. «Alle sei lei usciva di casa e non rientrava, stando al suo racconto. Deve aver portato le arance con sé in qualche posto. Adesso faccio un salto al Residence Club per scambiare due chiacchiere con la donna che ha fatto pulizia nella sua stanza. Per nostra fortuna, le bucce delle arance non si possono mangiare.» Wanger e il suo superiore. «Come va la faccenda, Lew?» «Sin troppo bene per essere vero. Ho paura che, a parlarne, vada tutto a farsi benedire. Che lo crediate o no, capo, dopo tanto correre dietro ai fantasmi, ho trovato finalmente una persona sospetta in carne e ossa. Le ho parlato e ho sentito le sue risposte. Continuo a pizzicarmi per esserne sicuro.» «Pizzicate la donna, sarà molto più utile.» «La ragazza ha tentato di raffazzonare un alibi con un cumulo di bugie. Ne ho sentite di storielle più o meno traballanti, ma questa è addirittura paralitica! Non era al ristorante dove aveva detto di essere stata, non era al cinema, ha lasciato la sua stanza indossando un abito blu scuro. Il figlio dei Moran l"ha identificata come la persona che è stata con lui e con suo padre quella sera. Nelle prime ore di martedì mattina è stato trovato in casa un disegno che il piccolo aveva fatto lunedì pomeriggio, e la signora Moran è certissima che il figlio non l'aveva, quando è andata a prenderlo. E per finire in gloria: la ragazza ha comperato mezza dozzina di arance della Florida dal fruttivendolo, vicino al Residence Club, verso le sei del lunedì pomeriggio, e se l'è portate... dove stava andando. C'erano due bicchieri di quella roba nel frigorifero dei Moran e la vedova sostiene di non esser stata lei a prepararli. In effetti, ricorda che teneva sempre delle arance in casa, ma allora, dove son finite quelle che ha comperato la Baker? Nella sua stanza non ci sono mai arrivate. Ho interrogato la donna delle pulizie, che mi ha detto di non aver portato via bucce d'arancia in tutta la settimana, e tanto meno semini secchi. Be', che ne dite?»
«Dico che è un ottimo colpo. Lasciate che si agiti ancora per... diciamo, ventiquattr'ore, così vediamo se si scava la fossa con le sue mani. Poi tenetevi pronto a beccarla. Ma non lasciatevela scappare a nessun costo. Statele appiccicato come una sanguisuga, giorno e notte...» «Parla Wanger, capo.» «Aspettavo la vostra telefonata. Credo sia meglio che portiate con voi la signorina Baker.» «È quello che sto per fare, capo. In questo momento sono nell'atrio del Residence Club. Volevo la vostra autorizzazione prima di salire in camera a prenderla.» «Benissimo, l'avete. Ho qui il rapporto di un tizio che conferma, sia pure parzialmente, la storia del bambino. Un certo Schroeder, che abita di fronte ai Moran, qualche porta più in là, dice di essere andato in camera da letto per tirare le tende e di aver visto chiaramente una donna che usciva dalla casa dei Moran poco prima di mezzanotte. Naturalmente non è riuscito a identificarla, a quella distanza, e al buio, ma credo che non ci sia più motivo di aspettare.» «Anch'io lo credo, considerando le sue passate sparizioni. Arriverò tra un quarto d'ora, venti minuti.» La ragazza dell'ascensore tentò di sbarrargli il passo. «Spiacente, ma i signori non possono salire nelle camere.» "Non sono un signore, sono un poliziotto", stava per ribattere Wanger, ma si trattenne. Doveva ammettere che quell'incontro non lo entusiasmava eccessivamente. «Ho avuto il permesso dal portiere» spiegò seccamente. La ragazza guardò verso l'estremità dell'atrio e colse il cenno furtivo di consenso a farlo salire. Wanger non aveva la minima intenzione di correre il rischio che la preda gli sfuggisse, facendola chiamare dal pianterreno. Al settimo piano, la ragazza gli aprì la porta dell'ascensore. «Aspettatemi, qui» disse Wanger «e niente passeggeri. Scendiamo senza fermarci.» La ragazza era tutta occhi, mentre lui percorreva il corridoio simile a quello di una casa. Si rendeva conto che quel poliziotto era lì per procedere a un arresto. Wanger bussò alla porta. «Chi è?», domandò la signorina Baker con voce tranquilla. «Aprite, per cortesia» rispose lui piano. Lei aprì subito; si vedeva che era sorpresa per aver udito una voce maschile. Dietro di lei, il lavabo era pieno di calze di seta.
«Vi dispiace seguirmi?» Wanger parlò in tono serio, ma non brutale. Lei fece: "Oh!", con un filo di voce. Wanger si fermò ad aspettare sulla porta aperta. La signorina Baker frugò nervosamente nell'armadio, cercando qualcosa per uscire, e non riuscì a trovarlo. «Non so perché non sono spaventata» balbettò. «Penso che dovrei esserlo...» Invece lo era terribilmente. Lasciò cadere l'ometto col soprabito e dovette spazzolare l'indumento, poi cercò d'indossarlo senza aver tolto l'attaccapanni. «Non vi succederà nulla, signorina Baker» disse Wanger con aria cupa. «Immagino che dovrò lasciar stare le mie calze, no?» «Penso di sì.» Lei aggrottò la fronte e, nel passargli accanto, tolse il tappo del lavandino. «Sarebbe stato meglio se avessi finito prima del vostro arrivo» sospirò. «Tornerò?» domandò prima di spegnere le luci. «O forse... forse dovrei portare qualcosa con me per la notte?» Era spaventatissima. Lui si chiuse la porta alle spalle. «Vedete, non sono mai stata arrestata prima» disse la signorina Baker conciliante, mentre si dirigevano verso l'atrio. Si muoveva a passettini nervosi accanto a quelli di Wanger, lunghi e lenti. «Adesso volete smetterla, eh?» troncò lui bruscamente, con una specie di lamentosa irritazione. Wanger entrò nella stanza in penombra e si accese una sigaretta. Le volute di fumo, allargandosi lentamente, impiegarono qualche secondo prima di raggiungere il cono di luce della lampada schermata, sopra la testa della ragazza. «Piangere non vi sarà affatto utile» disse, con fredda cortesia. «Non siete stata maltrattata in alcun modo. Se siete qui, la colpa è solo vostra.» «Non capite che cosa vuol dire tutto questo per me?» ribatté lei, rivolta al punto da cui era giunta la voce. «Per voi un arresto è cosa di tutti i giorni, una sciocchezza. Non potete capire che cosa si prova, quando si è nella propria stanza, tranquilli, sereni, in pace con tutti, e un attimo dopo qualcuno viene a prendervi e vi porta via. Vi porta via dal luogo dove vivete, davanti a tutti, per le strade... e quando arrivate, scoprite che vi sospettano di aver... di aver assassinato un uomo. Non posso sopportarlo, ecco! Stasera ho paura di tutti! Mi sembra di vivere in una di quelle favole che racconto ai miei bambini, divenuta improvvisamente realtà.»
Scoppiò in singhiozzi; poi tentò di abbozzare un sorriso, come per scusarsi. Un'altra voce si levò dalla zona d'ombra intorno a lei. «Credete che Moran si sia divertito, durante quella mezz'ora che è rimasto nel ripostiglio? Voi non l'avete visto, quando è stato tirato fuori, ma noi sì.» La ragazza si strinse la testa tra le mani, senza emettere un suono. «Cercate di essere meno brutale» mormorò Wanger. «La signorina è un tipo sensibile.» L'agente della polizia femminile, invisibile nell'ombra, fece schioccare la lingua per esprimere la sua opinione personale su quell'argomento. «Non sapevo che si trattasse di un assassinio. Non sapevo che fosse stato ucciso intenzionalmente» disse la ragazza. «L'altro giorno, quando eravamo dai Moran pensavo solo che si fosse trattato di un incidente, che lui fosse rimasto chiuso nel ripostiglio, non so come, e che il bambino non si fosse reso conto della gravità del pericolo, e poi, per evitare la punizione, come fanno i piccoli, avesse architettato la storia che io ero là.» «Questo non cambia, nulla» obiettò Wanger. «Non è di questo che stiamo parlando. Voi non avete mangiato dalla svedese. Non siete andata al cinema Standard. Però siete andata, dopo, in entrambi i posti, raccomandando di affermare che c'eravate stata. E poi vi chiedete perché vi trovate qui?» La ragazza, seduta, si stringeva le mani fino a farsi male. «Non mi ero accorta che mi facevate pedinare...» riprese la signorina Baker. «E non sospettavo che mi faceste pedinare così presto... Vi comportavate quasi da amico, quel pomeriggio...» «Non abbiamo l'abitudine di avvertire.» «Non sapevo che si trattasse di un assassinio; pensavo di trovarmi di fronte alla solita bugia di poca importanza di un bambino...» Tirò un profondo respiro. «Ecco... ero con mio marito. Si chiama Larry Stark e abita in Marcy Avenue, 420. Gli ho preparato la cena nel suo appartamento, e sono rimasta con lui tutta la sera.» Una dichiarazione che non fece nessuna impressione. «Perché non ce l'avete detto la prima volta che ve l'abbiamo chiesto?» «Ma non potevo, non capite? Sono un'insegnante. Se si sapesse che sono sposata, perderei il posto.» «Abbiamo mandato all'aria la vostra prima storiella; non ne è rimasta in piedi neanche una virgola. Naturalmente, adesso dovete fabbricarne un'altra. Perché dovremmo credere a questa più che all'altra?»
«Chiedetelo a Larry... Lui ve lo dirà! Vi dirà che siamo stati insieme tutta la sera.» «Certo che glielo chiederemo. E probabilmente ci confermerà la vostra versione. Ma il piccolo Moran dice che voi eravate insieme. E il disegno colorato dice che eravate insieme. E i due bicchieri di succo d'arancia nel frigorifero dicono che eravate insieme. E il vostro abito blu scuro dice che eravate insieme. E il vostro comportamento degli ultimi due giorni dice che eravate insieme. C'è di che schiacciarvi, ragazza mia.» Lei inspirò a fondo, senza dire una parola; poi abbandonò il capo all'indietro, sullo schienale. Una lama di luce giallastra proveniente dal corridoio tagliò la compatta oscurità intorno alla ragazza e una voce disse: «Il capo vi aspetta tutti e tre.» La sedia di Wanger scricchiolò, mentre lui si alzava e la spingeva indietro. «È un po' tardi per questo, adesso. Vi sarebbe andata meglio se aveste tirato fuori questa storia fin dall'inizio. Ricordatevi, signorina Baker, non vale quasi mai la pena di cambiar treno nel bel mezzo del viaggio: si potrebbe anche cadere tra l'uno e l'altro.» La sua mano si materializzò sul polso di lei, nel cono di luce che pioveva dall'alto. Piangeva di nuovo, silenziosamente, quando Wanger e l'agente della polizia femminile la portarono davanti alla scrivania del capo. «Così, è questa, la signorina?» In altre circostanze, sarebbe potuta sembrare una battuta di inizio quasi cordiale. Ma non era quella, l'intenzione. Il telefono che aveva accanto cominciò a squillare. «Un attimo solo» disse il capo. E poi: «Chi? Sì, Wanger, è qui, ma voi non potete usare questa linea. Insomma, che cosa...» Abbassò il ricevitore e guardò Wanger al di là della scrivania. «C'è una persona che vuole parlarvi a proposito della ragazza che avete portato qui. Su, sentite di che cosa si tratta.» Fece un cenno e l'agente della polizia femminile lasciò la stanza con la signorina Baker. «Sarà il marito» mormorò Wanger, girando intorno alla scrivania e prendendo il ricevitore. Una voce di donna disse: «Pronto, parla Wanger?» «Sì. Chi è...?» domandò cautamente.
L'altra voce troncò la sua come una forbice che tronchi un filo. «Lasciatemi parlare. Voi avete appena portato lì una ragazza del Residence Club. Una certa signorina Baker, una maestra d'asilo. Giusto? Be', volevo dirvi che non ha nulla a che fare con quanto è successo a Moran in quel ripostiglio. Non m'importa niente di quello che credete di sapere, o di aver scoperto.» Wanger cominciò a dimenarsi, mettendo una mano sul microfono e, al tempo stesso, segnalando al suo superiore di rintracciare l'apparecchio esterno. La voce pareva avere poteri telepatici. «Sì, sì, lo so. Volete rintracciare l'apparecchio dal quale sto parlando» commentò seccamente. «Riattacco subito, quindi è inutile che sprechiate il tempo. Allora, casomai vi sorgano dei dubbi, e mi crediate una pazza, vi dirò che sul biglietto appuntato sulla trapunta del piccolo Moran c'erano queste parole: "Avete un bravissimo bambino, signora Moran. Lo lascio qui dove sarà al sicuro fino al vostro ritorno, perché per nulla al mondo vorrei che gli capitasse qualcosa di male". La signorina Baker non può conoscerne il contenuto, perché voi, signor Wanger, non ne avete fatto parola. La loro radio è una Philco e Frank Moran leggeva il "Sun"; per la sua ultima cena gli avevo preparato uova strapazzate; nel ripostiglio c'erano due vecchi impermeabili; il suo sigaro è bruciato sino alla fine senza perdere la sua forma, vicino alla poltrona dove lui era seduto. Fareste meglio a lasciare libera la ragazza. Arrivederci e buona fortuna.» Clic. L'altro telefono sulla scrivania del capo squillò quasi nello stesso istante. «Telefono a gettoni del drugstore Neumann, angolo Ventitreesima e Dale Street!» Wanger strappò quasi la porta dai cardini e la lasciò spalancata. Sei minuti e diciotto secondi dopo, Wanger ansimava davanti alla faccia dello sbalordito proprietario del drugstore, strappato dal suo banco. «Chi ha telefonato dalla cabina di mezzo, dove la lampadina è ancora calda?» L'uomo si strinse nelle spalle. «Una donna. Come faccio a sapere chi era?» Dalla documentazione di Wanger su Frank Moran. Prove: 1 biglietto scritto a mano in lettere maiuscole, appuntato sulla trapunta del letto del bambino.
1 disegno colorato a matita, probabilmente l'imitazione di un disegno infantile eseguita da un adulto. Caso rimasto insoluto. Parte quarta FERGUSON La donna Non c'era molta gente alla mostra, sebbene fosse una personale. Forse non si era ancora fatto un nome; o forse era già noto, ma per la sua cattiva fama. E questo perché le sue opere non erano soltanto esposte nella galleria, ma si potevano trovare in qualsiasi edicola della sotterranea, in città, quasi ogni giorno del mese, appese di traverso a una molletta. Per venticinque centesimi, le si poteva portar via, a casa, e avere così non solo la copertina, ma tutta una rivista da leggere. E questo, qualsiasi persona addetta alla galleria poteva confermarlo, era indubbiamente un successo, ma nella direzione sbagliata. C'erano, però, alcune persone che erano venute lo stesso, non tanto perché fossero esposti i suoi lavori, quanto perché si trattava di una mostra d'arte. C'erano i soliti tipi: quelli che non si lasciano scappare una sola mostra, non importa di chi. Uno sparuto gruppo di dilettanti o, come loro avrebbero preferito essere chiamati, di intenditori, si aggirava con aria piena di sussiego, semplicemente per aver qualcosa di cui spettegolare al prossimo cocktail-party. Erano presenti un paio di mercanti d'arte, per non perdere l'occasione nel caso qualcuno mostrasse interesse per quel particolare artista. Anche due critici di mezza tacca avevano fatto la loro comparsa, per dovere d'ufficio. I giornali dell'indomani avrebbero dedicato alla mostra una mezza colonna; magari in tono incoraggiante, ma solo una mezza colonna. Poi c'erano due turiste di Keokuk, che erano andate alla mostra perché la sera successiva sarebbero ripartite, e quella era l'unica mostra che, col poco tempo che avevano a disposizione, potevano visitare; dovevano pur vederne almeno una mentre erano in città. Comunque, quello del pittore era un bel nome americano, facile da ricordare per parlarne alle amiche, a casa, il prossimo giovedì delle signore. E poi, c'era la studentessa di belle arti. La si poteva individuare in un attimo, bastava guardarla. Eccola che prendeva appunti o qualcosa del gene-
re. La tipica studentessa che se ne sta seduta a copiare nei musei gli antichi maestri. Molto seria, un'espressione famelica sul viso, occhiali cerchiati di tartaruga, una zazzeretta liscia sotto uno sciatto berrettino scozzese. Dimentica di quanto la circondava, lei procedeva assorta di tela in tela e di quando in quando faceva qualche misteriosa annotazione su un notes da pochi soldi. Doveva avere dei criteri di giudizio piuttosto personali. Concedeva solo un'occhiata alle nature morte, ai paesaggi e ai gruppi. I ritratti, invece, attiravano in modo particolare la sua attenzione. Si spostava di sala in sala, silenziosa come un topolino, tenendosi in disparte, quando qualcuno voleva dare un'occhiata d'assieme agli stessi soggetti scelti da lei. Nessuno la guardava due volte. Tanto per cominciare, gli intenditori tenevano un volume di voce talmente alto che era ben difficile accorgersi che ci fosse qualcun altro nelle vicinanze, mentre vi si trovavano loro. «Bah! Questi quadri sembrano delle fotografie. Pare di essere nel 1900. Come se Picasso non fosse mai esistito. Questi alberi sono semplicemente degli alberi. Non dovrebbero essere in cornice, dovrebbero stare in un bosco, con gli altri alberi. Che cosa c'è di straordinario in un albero che sembra proprio un albero?» «Giusto, Herbert! Non è disgustoso?» «Fotografie» ripeté l'intenditore, guardandosi attorno per assicurarsi di essere stato udito. «Istantanee!» ribadì la sua compagna, mentre passavano oltre, sdegnati. Una delle signore di Keokuk, leggermente dura d'orecchi, domandò alla sua amica: «Perché urlano tanto, Grace?» «Perché si sappia come loro interpretano i quadri» bisbigliò l'altra. La studentessa passò vicino senza farsi notare e non si fermò davanti agli alberi disprezzati che, dopo gli scherni che si erano attirati, sarebbero dovuti essere già vizzi e rinsecchiti. Gli intenditori si erano fermati e avevano tirato fuori i loro strali, questa volta davanti a un ritratto. «Non ti pare sia troppo pietoso, per parlarne? Ha dipinto la scriminatura tra i capelli della donna, e persino l'ombra del labbro inferiore. Perché star lì a fare un quadro? Perché non ha preso semplicemente una ragazza viva e non l'ha messa dietro la cornice vuota? Realismo!» «Oppure perché non ha appeso uno specchio e non l'ha intitolato Ritratto di passante? Naturalismo! Bah!»
La studentessa seguì i loro passi e questa volta fece un'annotazione, o meglio, un segno. Il notes che aveva con sé portava quattro parole scribacchiate: Nero, Biondo, Rosso e Castano. Sotto Nero c'era una lunga colonna di segni. Sotto Biondo ce n'erano soltanto due, e sotto le altre due classificazioni non ce n'era ancora nessuno. Evidentemente trascorreva il pomeriggio facendo il censimento dei diversi colori di capelli che si potevano trovare nei ritratti di quel pittore. I sistemi degli studenti d'arte sono piuttosto strani. Si avvicinava l'ora della chiusura della galleria. I mercanti d'arte se n'erano andati da un pezzo: non c'era pane per i loro denti. La roba era abbastanza buona, ma perché rischiare? I pochi rimasti fino all'ultimo si avviarono lentamente verso l'uscita. Emersero gli intenditori, che stavano ancora recriminando ad alta voce. «Che spreco di tempo! Ti avevo detto che dovevamo andare a vedere quel nuovo film francese, invece di questa roba!» È da osservare, però, che erano rimasti dentro finché c'era qualcuno nei paraggi ad ascoltare le loro disquisizioni. Le due turiste uscirono con l'aria severa di chi ha compiuto il proprio dovere. «Be', abbiamo mantenuto la parola» disse una, consolando la compagna. «Però ti fanno male i piedi, vero?» La studentessa fu l'ultima a uscire. Le annotazioni del suo blocchetto erano così suddivise: Nero 15; Biondo 2; Rosso 0; Castano 1. Si poteva trarre una conclusione dai diciotto ritratti esposti dal pittore: l'artista prediligeva i soggetti con capelli scuri. In ogni caso, lei sola, tra tutti i visitatori, mostrava di aver trascorso un pomeriggio soddisfacente e di aver fatto proprio quello che si era proposta di fare. Si abbottonò fino al collo il logoro cappottino e si avviò lentamente per la strada che stava diventando buia, per scomparire nell'anonimato dal quale era emersa. Ferguson Ferguson aveva appena finito di sistemare il cavalletto e la tela quando bussarono alla porta. «Un attimo solo» disse, e cominciò a tirar fuori i tubetti di colore a olio. Non aveva l'aspetto di un pittore. Forse perché nessun pittore, oggi, ha un aspetto che lo contraddistingua. Non aveva la barba, né il basco, né il camiciotto, né i pantaloni di velluto. Sfornava moltissime copertine di rivi-
ste ma, fra l'una e l'altra, amava fare roba seria, "per sé", come aveva l'abitudine di dire. Una parete dello studio era tutta a vetri: la luce che viene da nord... importantissima. Quella parete, però, non era verticale come le altre tre, era inclinata ad angolo, in modo da sembrare una via di mezzo tra la parete diritta e il lucernario. Ferguson andò alla porta e l'aprì. «Siete la nuova modella?» domandò. «Venite qui alla luce e lasciatevi guardare. Non so se potrete essermi utile. Avevo detto all'agenzia che volevo...» S'interruppe, trattenendo il fiato. Nel frattempo l'aveva portata in piena luce sotto la vetrata. «Ehi!» riprese infine, con un suono tra il fischio prolungato e il sibilo di riverente ammirazione. «Ma dove vi siete nascosta, finora? Giratevi un po', così. Forse non siete l'ideale per la pubblicità del ginger ma, bambina, so io come valorizzarvi! Voi siete proprio quello che avevo in mente per Diana Cacciatrice. Un'opera d'arte. Niente di commerciale. Penso che cominceremo immediatamente.» Lei aveva i capelli corvini, la carnagione ambrata e i suoi occhi, messi in evidenza da una sottile linea scura, parevano viola. «Per chi avete lavorato, ultimamente?» «Terry Kaufmann.» «Che intenzioni ha Terry, vuole accaparrarvi?» «Lo conoscete?» domandò lei. «Certo che lo conosco, quel vagabondo» rispose il pittore scherzosamente. Lei abbassò un attimo gli occhi, mordendosi un labbro. Poi tornò a guardarlo in viso, con rinnovata fiducia. Il pittore si stava strofinando allegramente le mani, felice per l'inaspettata scoperta. «Potrebbe esserci un unico punto debole. Com'è la figura?» «A posto, credo» rispose modestamente la ragazza. «Sarà meglio che controlli. Potete appendere i vostri abiti in quello spogliatoio. Troverete tutto ciò che voglio vi mettiate addosso. Il braccialetto d'oro va sul braccio sinistro; appuntate la pelle di leopardo in modo che l'apertura si trovi sul fianco. Si deve vedere la coscia.» La ragazza s'inumidì le labbra, portandosi timidamente una mano verso la spalla. «Tutto qui?» «Sì, è un seminudo. Perché? Avete già posato, no?» «Sì» confermò lei, il viso impassibile. S'avviò allo spogliatoio senza un attimo di esitazione. Ne uscì dopo circa cinque minuti, sempre sicura, ma col viso rigidamen-
te rivolto dall'altra parte. I suoi piedi nudi non facevano alcun rumore sul pavimento. «Bellissima!» esclamò il pittore con entusiasmo. «Peccato che queste cose non durino. Tra due anni sarà tutto finito. Cominceranno a trascinarvi da un cocktail-party all'altro e... Come vi chiamate?» «Christine Bell.» «Adesso salite lì sopra che vi mostro come dovete stare. Sarà una posa piuttosto dura da mantenere, ma la faremo a periodi brevi. Piegatevi in avanti, verso la tela, una gamba all'indietro. Quando la gente guarderà il quadro dovrà avere l'impressione che Diana balzi fuori dalla cornice. Braccio destro piegato davanti al corpo, come se stringeste qualcosa, così. Braccio sinistro all'indietro. Ecco. Immobile. Ferma, ferma. Voi state cacciando qualcosa, e vi preparate a scoccare la freccia. L'arco lo metterò dopo. Non potreste posare a lungo tenendolo teso, sarebbe uno sforzo insopportabile.» Iniziò a dipingere e non aprì più bocca. Alla fine della prima mezz'ora, la ragazza si lasciò sfuggire un lamento. «Va bene, smettiamo per cinque minuti» disse luì, distrattamente. Prese un pacchetto di sigarette, ne tirò fuori una, e lo gettò alla ragazza sul piedistallo. Lei lo lasciò cadere sul pavimento. Quando l'uomo si girò a guardarla, aveva il viso pallido per la stanchezza. Aggrottò la fronte, pensieroso. «Avete veramente esperienza?» «Oh sì, io...» L'interruppe un colpo alla porta. «Sto lavorando, tornate più tardi» gridò il pittore. Un altro colpo. Ferguson imprecò sottovoce e fece un passo verso la porta. Con un gesto supplichevole la ragazza sul piedistallo disse: «Signor Ferguson, ho un terribile bisogno di denaro: datemi una possibilità, vi prego. Probabilmente è la modella mandata dall'agenzia...» «Ma allora voi da dove spuntate?» «Mi trovavo da quelle parti perché avevo intenzione di farmi assumere, ma non c'era niente da fare. Avevano una lista di aspiranti lunga un chilometro. Poi ho sentito che telefonavano a una modella e le dicevano di presentarsi qui da lei. Allora sono corsa e l'ho richiamata da un telefono pubblico, facendole credere che era di nuovo l'agenzia. Le ho detto che c'era stato un errore, che non doveva presentarsi, e sono venuta io al suo posto. Adesso, credo che abbia scoperto tutto. Signor Ferguson, volete lasciarmi provare?» La sua espressione implorante avrebbe commosso un cuore di
pietra, a maggior ragione quello tenero di un artista, sempre sensibile alla bellezza. «Ve lo dirò tra poco.» Pareva che starsene serio gli costasse un certo sforzo. «Non fatevi vedere» sussurrò con aria da cospiratore. «Farò come Paride.» Andò alla porta, la socchiuse e guardò fuori, compiendo un'attenta valutazione critica. Girò una volta la testa a guardare la prima candidata, addossata alla parete, le braccia incrociate sul petto con inconscia - o cosciente? - maestria. Infilò una mano in tasca, ne tirò fuori una banconota spiegazzata e l'infilò nello spiraglio. «Pagatevi l'autobus, bambina, non ho bisogno di voi» disse rudemente. Tornò al cavalletto, cercando di rimanere serio. «Persino in questo lavoro non si risparmiano gli sgambetti!» ridacchiò. Finalmente il viso gli si distese in un largo sorriso. «Su, Diana, al lavoro!» Corey gironzolava nello studio. Si fermò davanti al cavalletto, il bicchiere di whisky in mano, e toccò il panno che copriva il quadro alla bell'e meglio. «E questo cos'è? Il tuo ultimo capolavoro? Posso guardare?» «Stai alla larga. Non mi piace che qualcuno guardi i miei quadri prima che siano finiti.» «Non hai bisogno di fare il modesto con me; non sono un rivale. Con quel che so dell'arte...» Sollevò la tela di sacco e rimase immobile, come inchiodato al pavimento. Notando quel lungo silenzio, Ferguson girò la testa. «Be', se ti mozza il fiato così, prima che sia finito, figuriamoci come sarà quando avrò passato il fissatore» commentò speranzoso. Corey scosse la testa, sovrappensiero. «No, sto pensando. Nel viso di questa ragazza c'è qualcosa che mi è vagamente familiare.» «Già, me l'aspettavo» commentò Ferguson seccamente. «Be', non riuscirai a strapparmi il suo numero di telefono, almeno non prima che abbia finito il quadro, se è questo che...» «No, parlo seriamente. Ho avuto come un lampo d'intuizione, quando ho sollevato la tela. Come quando hai una parola sulla punta della lingua e non riesci a tirarla fuori. Dove diavolo ho già visto quegli occhi gelidi e quella bocca così calda, dolce? Come si chiama?» «Christine Bell.» «No, non la conosco, almeno con questo nome. Te n'eri già servito qualche altra volta? Forse l'ho vista su una delle tue copertine.»
«No, è nuova del mestiere. La sto appena dirozzando, quindi non puoi averla vista.» «C'è qualcosa in quegli occhi e in quella bocca che mi stuzzica la memoria. Invece, la testa, i capelli, per esempio, non mi aiutano per niente a darle un nome. Dannazione, Ferg, sono sicuro di aver già visto questa ragazza da qualche parte.» Ferguson ricoprì il quadro e s'allontanò con l'amico. Corey, però, tornò sull'argomento più tardi, poco prima di andarsene, come se quel punto interrogativo gli avesse sempre occupato la mente. «Non dormirò finché non sarò venuto a capo di questa faccenda.» Si diresse verso l'uscita, voltandosi sino all'ultimo per lanciare occhiate perplesse al quadro coperto, finché la porta non si chiuse alle sue spalle. Lei ebbe un leggero sussulto, quando Ferguson mise la freccia nella cocca dell'arco e le sistemò l'arma tra le mani già in posa. «Che spavento, ieri, quando mi è sfuggita dalle dita! Ora ho paura perfino a toccarla!» Ferguson scoppiò in una risata. «Se il mio collo fosse stato cinque centimetri più indietro, dove doveva essere e dov'era stato fino a un attimo prima, ero spacciato. Mi ha salvato il fatto di aver chinato proprio in quel momento la testa verso la tela per concentrarmi su un particolare. Ho sentito lo spostamento d'aria vicinissimo alla nuca e subito dopo ho visto la freccia che vibrava, conficcata nell'intelaiatura di legno tra i due vetri del lucernario.» «Ma avrei potuto uccidervi, non è vero?» si dolse la ragazza, con gli occhi sbarrati. «Se mi aveste colpito nel punto giusto... nella vena iugulare, o al cuore... credo di sì. Ma non mi avete colpito, quindi perché preoccuparsi?» «Ma non sarebbe meglio se usassi una freccia con una difesa sulla punta, una specie di cappuccio di protezione?» «No, no. Io sono per il realismo. Riproduco gli oggetti con precisione e rigore, anche se si tratta della punta di una freccia. Adesso non innervositevi. È stato solo un incidente. Probabilmente, avete continuato a tendere sempre più la corda senza accorgervene, mentre cresceva in voi la tensione della posa; a un tratto, senza rendervene conto, avete rilassato i muscoli per cercare di riposarvi e la freccia è schizzata via! Ricordatevi di non tirarla fino in fondo.» Alla fine dell'intervallo di riposo, dopo essersi scambiati al volo il pacchetto di sigarette, come avviene per l'asciugamano tra gli atleti, la ragazza
osservò: «Strano che siate diventato un pittore.» «Perché?» «Si pensa sempre ai pittori come a persone perbene. O almeno, io l'ho pensato fino a questo momento.» «Ma io sono un tipo perbene. Cosa vi fa credere il contrario?» Lei mormorò, con voce tanto bassa da essere appena percettibile: «Forse lo siete adesso. Ma non siete stato sempre così.» Più tardi, quando si trovò di nuovo sul piedistallo, l'arco teso e puntato verso di lui, Christine Bell riprese: «Ferguson, voi rendete felice molta gente. Avete... avete mai ucciso qualcuno?» Il pennello si arrestò a mezz'aria, ma l'uomo non si voltò a guardarla. Fissò davanti a sé, come se vedesse una scena del passato. «Sì, ho ucciso» rispose con voce sommessa. Piegò un poco la testa, poi la raddrizzò e riprese a ritoccare. «Non parlatemi mentre lavoro» le ricordò semplicemente. E lei non parlò più. Nello studio regnava il silenzio e ben poche erano le cose in movimento: il pennello lungo e sottile tra le abili dita del pittore, la punta d'acciaio della freccia che si spostava lentamente all'indietro, mentre l'asticciola tendeva al massimo la corda. C'era qualcos'altro che si muoveva: un'ombra guizzava avanti e indietro nel cavo del braccio sinistro di lei, mentre i tendini sotto sforzo contraevano la pelle candida. Solo queste tre cose non erano immobili, nel silenzio teso e vibrante che regnava nella stanza. A un tratto si udì una serie di colpi alla porta dello studio e parecchie voci che gridavano: «Ehi, Ferg, facci entrare! È tardi, l'orario di lavoro è scaduto.» La punta della freccia scivolò impercettibilmente in avanti, oltre l'arco, mentre la corda si allentava a poco a poco. A lei sfuggì un sospiro così strano che l'uomo si girò per domandarle: «Che cosa c'è? Si è fatto tardi, non ve ne siete resa conto?» Lei si strinse nelle spalle e gli lanciò un sorriso tirato. «Oh sì, ma... già che eravamo in ballo, è un peccato che non abbiamo potuto finirlo.» Non si era mai vestita tra tante difficoltà. La porta dello spogliatoio non aveva serratura e, dopo la prima casuale scoperta che lì dentro c'era lei, gli amici di Ferguson cercavano ogni due minuti di entrare, per tormentarla. Persino Ferguson unì la sua voce all'allegro baccano. «Venite fuori, Diana! Non siate così timida; è tra amici.» Superato felicemente il momento critico del passaggio dalla pelle di leo-
pardo al nulla e poi alla sua biancheria, il peggio era passato. Eseguì il tutto appoggiandosi alla porta, che si apriva verso l'interno, e bloccandola col suo corpo mentre cercava di indossare gli indumenti. Ogni minuto o due la porta la spingeva un po' in avanti; lei la respingeva e continuava a vestirsi. Non le era mai capitato di infilarsi le calze a quel modo: era un vero esercizio acrobatico. A giudicare dai rumori che provenivano dallo studio, non si trattava di una irruzione di breve durata. Si stava trasformando in una faccenda che avrebbe tirato mattino, una specie di valanga, che raccoglieva sempre più gente man mano che andava avanti. Già due volte la porta esterna si era aperta con gran fracasso e nuove voci avevano strepitato: «Ah, ecco dove sei! Ero andato a cercarti da Mario e dato che non eri lì...» Lei sentì Ferguson che telefonava, sbraitando a pieni polmoni per superare il fracasso. «Pronto, Tony? Mandami su qualche fiasco di vino rosso. Si è abbattuto il solito uragano. Sì, sai bene quale.» Si levarono urla di protesta. «Quest'uomo fa quattrini a palate con la pubblicità, e tutto quello che ci offre è vino rosso!» «Champagne! Champagne! Champagne o ce ne andiamo tutti a casa!» «Già, proprio per questo non ce ne andiamo. Ah, ah!» La ragazza era ormai vestita. Si passò una mano sul viso, incerta, guardandosi attorno. Da lì si poteva uscire solo passando attraverso lo studio. Si voltò, aprì appena la porta, uno spiraglio, e guardò fuori. Erano già fitti come mosche... o meglio, davano quell'impressione, da come si muovevano incessantemente. Qualcuno aveva portato una specie di strumento a corda - evidentemente, come gli zingari, non amavano i dischi - e quel tale lo pizzicava energicamente, sebbene senza eccessiva abilità. Una ragazza stava danzando sul piedistallo della modella. Lei attese l'attimo propizio e, quando il percorso fra lo spogliatoio e la porta dello studio le parve più libero, sgattaiolò fuori della stanzetta, tagliò in diagonale l'angolo del vasto locale e tentò di uscire senza essere vista... o almeno senza essere interrogata. Il tentativo era destinato a fallire. Qualcuno strillò: «Guardate! Diana!» Fu un accorrere generale nella sua direzione, e lei si trovò al centro del gruppo, come travolta da un gorgo. Non badavano certo alle formalità. «Com'è bella! Ma guardate com'è bella!» «E tremante come una gazzella spaventata. Ah, Sonia, perché non tremi più così per me?»
«Ma io tremo, caro, tremo ancora; dalle risate, però, ogni volta che ti guardo.» Quando gli intrusi ebbero finito di farle i complimenti, lei riuscì a tirare in disparte Ferguson. «Devo andare...» «Ma perché?» «Non voglio che tutta questa gente mi... mi... veda... Non ci sono abituata.» Lui equivocò. «State parlando del quadro? Perché è un seminudo?» Trovò la cosa tanto carina che lo ripeté prontamente ad alta voce a tutti i presenti. Anch'essi trovarono la cosa carina; ecco ciò che avevano sempre cercato: l'insolito. Questo provocò la formazione di un altro gruppo intorno a lei. La ragazza di nome Sonia le prese le mani e le strinse con aria protettiva tra le sue, poi le accarezzò, come se avessero avuto qualche virtù nascosta. «Ah, è ancora così innocente!» esclamò senza intenzioni sarcastiche. «Niente paura, cara. Passa dieci minuti in compagnia del mio Gil e guarirai subito.» «E tu sei guarita?» domandò qualcuno. «No.» Alzò le spalle. «È stato lui a passare cinque minuti in mia compagnia e a guarire.» Erano tutti molto simpatici. Ferguson girò la tela verso il muro. «Nessuno si avvicini al quadro. Non ve lo faccio vedere.» «Secondo me è un busto» esclamò qualcun altro. «Tutto curve!» aggiunse con calore Sonia. Poi le diede una rapida strizzatina a un braccio. «Non te la prendere, cara.» Se il suo disagio avesse avuto l'origine che quelli immaginavano, non avrebbe potuto fare a meno di superarlo, tanta era la cordialità con cui cercavano di farla sentire tra amici. Dato, però, che aveva tutt'altra causa, lei non lo superò. Infine, accondiscese a sedersi sul pavimento, vicino alla parete opposta, da un lato un bicchiere di vino rosso, che non toccò, dall'altro un giovanotto ipersensibile che recitava qualche suo verso. Era lì, seduta, passivamente, ma i suoi occhi continuavano a calcolare la distanza tra se stessa e la porta dello studio. A un tratto, strinse spasmodicamente le mani, poi le riaprì lentamente. «Ah!» esultò il poeta. «Quest'ultimo verso vi ha colpita. La sua bellezza vi ha toccato il cuore. L'ho capito dal mutamento che ha subito il vostro viso.» Come sbagliava!
Corey era comparso dalla parte opposta della stanza, e ora se ne stava in piedi, immobile, sulla porta... attratto dalla festa. Fiutava le feste che si svolgevano anche in tutt'altra parte della città, come un segugio fiuta la sua preda. I secondi durarono minuti, i minuti durarono quarti d'ora. Gli occhi della ragazza, fissi sul pavimento, compirono lentamente, controvoglia, una parabola ascendente lungo la figura che era andata a fermarsi proprio davanti a lei. «Aspettate, lasciate che prima finisca» bisbigliò lei. I versi del poeta non erano mai stati tanto apprezzati, e non lo sarebbero stati mai più. Suole spesse, lavorate a mano. Pesanti scarpe marrone. Scarpe da dieci dollari. Poi gambe lunghe, e calzoni di tweed di disegno indistinto. Le mani... Una era appesa col pollice alla tasca della giacca, l'altra teneva una sigaretta. Al mignolo, anello con sigillo. Un'ombra dorata di peli sul dorso, visibili solo contro luce. Giacca a due bottoni, uno dei quali aperto. Adesso veniva il viso, veniva il viso! Non si poteva più evitare. La cravatta, il colletto, il mento. E il viso. I due sguardi si fusero nello stesso istante in cui l'ultimo verso si spegneva nel silenzio. Poi la voce gioviale di Ferguson, proveniente da un punto vicino a loro: «Scopritegli le carte, Diana!» Lei si alzò lentamente, prigioniera vicino al muro, al quale si appoggiò col dorso per sostenersi. «Non posso» disse, senza girarsi verso il punto da cui era giunta la voce «finché non mi dice di che si tratta e non si presenta.» «Eccoti servita la risposta!» esclamò Ferguson divertito. Corey non le staccava gli occhi di dosso, e lei non poteva distogliere lo sguardo, come se temesse di perderlo di vista un solo istante. «A parte gli scherzi, non vi ho già conosciuta?» disse lui. Anche se gli avesse risposto, anche se avesse voluto farlo, la risposta sarebbe stata soffocata dal coro di battute amichevoli che si levò intorno. «Guardate, persino le falene gli girano intorno.» «Dovresti dare un po' d'olio alla tua tecnica amatoria.» «Tutto qui, quel che il grande amatore riesce a dire?» «Be', non lo sapevi?» intervenne Sonia. «È così che si fa con le ragazze bene. Me l'ha raccontato una mia amica che frequentava i quartieri alti. Una sera se l'è sentito ripetere tre volte.» Corey rideva con loro, di se stesso. Era tutto intonato all'ilarità generale,
tranne che per quegli occhi gelidi e scrutatori che non abbandonavano la modella. La ragazza che loro schiacciavano contro il muro, scosse leggermente il capo, con un breve sorriso di dispiaciuto diniego. Rimase immobile un istante, poi sgattaiolò dall'angolo in cui Corey l'aveva sospinta e girellò per la stanza, sentendo che l'uomo alzava la testa per non perderla di vista, e che i suoi occhi la seguivano a ogni passo. Si rifugiò per un po' dall'altra parte dello studio, riparandosi dietro gli altri, quasi a porre uno schermo fra lei e Corey. Un quarto d'ora dopo, lui l'aveva nuovamente rintracciata e arrivava con un bicchiere di vino rosso, come pretesto. Lei parve irrigidirsi. Quando vide ciò che le stava portando, deglutì con sforzo, come se, a parte il fatto che l'uomo si stava avvicinando, quell'atto cortese nascondesse un pericolo. Infine, Corey la raggiunse e le porse il bicchiere; gli occhi della ragazza si dilatarono. Pareva che avesse paura di accettarlo ma anche di rifiutarlo; paura di bere il vino ma anche di posare il bicchiere senza assaggiarlo... come se qualsiasi cosa lei avesse fatto, potesse provocare un improvviso ricordo. Infine, prese il bicchiere, lo portò alle labbra, poi lo posò dietro di sé. «C'ero quasi arrivato, un attimo fa, quando vi ho dato il bicchiere, poi mi è sfuggito nuovamente» disse pensieroso. «Mi state torturando in modo spietato, smettetela!» s'infiammò lei con inaspettata violenza. Gli voltò le spalle ed entrò nello spogliatoio. Corey la seguì anche là, dopo una decina di minuti. Non stava commettendo nessuna scorrettezza. Lo spogliatoio era aperto a tutti, adesso. Lei si stava incipriando il naso con un piumino, davanti allo specchio, quando lo sentì avvicinarsi. Fino allora... Corey le arrivò alle spalle. Lei lo vide nello specchio, ma finse di non accorgersene. Fermo dietro di lei, le appoggiò le mani sui lati del viso, come cercando di cancellare la rigogliosa massa di capelli neri che l'incorniciavano. Lei se ne stava immobile, trattenendo il respiro. «Perché vi comportate così?» Non finse d'interpretare il gesto come una carezza. Lui sospirò e lasciò ricadere le mani. Non era riuscito a coprire tutta la capigliatura. Christine Bell si allontanò da lui, girandosi di tre quarti, incrociò le braccia a disagio, massaggiandosi gli avambracci, e chinò la testa. Era una
posa che suggeriva stranamente quella della penitenza. Ma non stava pensando a una penitenza. Vedeva l'immagine di un raschietto appuntito di Ferguson che doveva esser lì, da qualche parte. Vedeva la gente nella stanza vicina. E forse anche la via di scampo che correva diagonalmente dallo spogliatoio alla porta dello studio. Lui aveva finito di accendere una sigaretta, e parlò attraverso il fumo. «Non mi tormenterei così tanto, se i vostri capelli fossero diversi.» «Sono diversi» ribatté lei, tristemente. Con pericolosa tristezza, e sempre guardando a terra. «Ci arriverò. Mi verrà in mente quando meno me lo aspetto. Magari tra cinque minuti, magari più tardi, questa sera, prima che la festa sia finita. Magari ci vorranno giorni. Che cosa c'è? Siete pallida.» «Si soffoca, qui dentro. E poi, quel vino rosso... non ci sono abituata... specialmente a stomaco vuoto.» «Non avete mangiato?» domandò preoccupato. «No. Stavo posando, quando è piombata qui tutta quella gente e, dopo, non sono più riuscita ad andarmene. Lui fa finta di niente, ma io non ho preso nulla dalle dieci di stamattina.» «Be', che ne direste di uscire per andare a mangiare qualcosa con me? Anche se, a quanto pare, non ho fatto colpo...» «Perché non dovrei venire? Non ho niente contro di voi. Si accettano tutti i contributi con gratitudine.» «Non dite niente agli altri, altrimenti si appiccicheranno a noi.» «No» convenne lei. «È meglio che non ci vedano andare.» «Avete preso tutto? Una volta c'era il mio cappello, in quella pila. Vedo se mi riesce di tirarlo fuori senza dare nell'occhio. Ci troviamo alla porta.» I loro abili preparativi per l'uscita non passarono inosservati, come avevano sperato. Sonia transitò per caso, sbuffando nuvolette di fumo come una locomotiva che arranca su per una salita. «Guardati da lui» la consigliò. E lei, con un lampo negli occhi, rispose: «Non lo farò andare molto lontano... Basta che mi dica dove crede di avermi già visto.» «E nel caso ti venissero propositi suicidi, ecco... prendi il mio indirizzo. Domani puoi fare un salto da me e farci su un bel pianto, per cancellare una notte d'amore. Ti preparerò la mia bevanda speciale.» «Starò attenta.» Sonia si allontanò, seguita da una scia di pennacchi di fumo. Ci si aspettava di sentire da un momento all'altro il fischio di un treno.
Erano arrivati in fondo alle scale, quando furono fermati nuovamente. Udirono un calpestìo come se avessero alle calcagna almeno sei persone. Era solo Ferguson. «Senti, non potresti andare a caccia da qualche altra parte? Ho bisogno di lei per un quadro.» «Sei il proprietario della sua anima?» «Sì.» «Benissimo, perché è solo il corpo che io porto con me. Troverai la sua anima sulla tela.» Ferguson si aggiustò energicamente la cravatta. «Allora seguo anch'io il suo corpo.» Non erano apertamente aggressivi, ma si trovavano tutti e due in quello stato d'eccitazione che è l'esile confine tra antagonismo e ostilità. Lei sfiorò con la mano il braccio di Corey, come a chiedergli di lasciar fare a lei e tirò in disparte Ferguson, in modo che l'altro non potesse sentire. «Vado con lui per liberarmene. È il sistema più semplice. Voi cercate di liberarvi degli altri. Tornerò più tardi e finiremo il quadro. O forse avete bevuto troppo?» «Quella specie d'inchiostro rosso? Quello non si chiama bere.» «Be', allora non bevete più. Sarò di ritorno tra un'ora, un'ora e mezzo al massimo. Cercate di liberarvi e aspettatemi su.» «È una promessa?» «È più di una promessa; è un giuramento.» Senza aggiungere altro Ferguson si girò, avviandosi lentamente su per le scale. Corey girò l'interruttore e il soggiorno del piccolo appartamento s'illuminò. «Dopo di voi» la invitò con scherzosa galanteria. Christine Bell fece due passi con aria annoiata all'interno della stanza e si guardò attorno, quasi controvoglia, senza vero interesse. «Be', e adesso che cosa facciamo?» domandò improvvisamente. Corey lanciò il suo cappello in una direzione in cui non c'era nulla per sostenerlo. «Pare che non vi rendiate conto tanto in fretta di come vanno le cose, eh?» commentò, le labbra strette e l'aria infastidita. «Devo fare qualche disegnino?» Lei girò la testa di colpo. «No. Odio quella parola.» S'accostò a una porta buia. «Cosa c'è, là dentro?»
«L'altra stanza» borbottò l'uomo. «Andate a vederla da sola, se ci tenete. Vi metto in guardia, perché state facendo precipitare le cose. Dovreste aspettare ancora una decina di minuti.» Christine Bell accese la luce nell'altra stanza e scomparve dalla vista di Corey; poi la luce si spense e lei lo raggiunse nuovamente. Corey stava facendo roteare del whisky in fondo al bicchiere. «Non siete terrorizzata?» sogghignò. «È una camera da letto!» La ragazza gli rispose in tono sprezzante. «Si direbbe che siate voi a essere terrorizzato. Volete farvi coraggio con questa messinscena?» «Ne riparleremo tra qualche minuto... se avrete ancora fiato per parlare.» Lei si avvicinò a uno scrittoio e aprì un paio di cassetti. «È uno scrittoio» spiegò l'uomo, sarcastico. «Ha quattro gambe e serve per scriverci su.» Posò il bicchiere. «Vogliamo parlarci chiaro? Che cosa pensavate che sarebbe successo, quando avete accettato di venire qui da me? Al momento, non pareva che la cosa vi seccasse.» «Infatti. Ho accettato di venire qui solo perché non volevo che voi mi accompagnaste a casa.» «E che cosa nascondete a casa che io non dovrei scoprire?» Christine aprì un terzo cassetto e lo richiuse. «Scegliete voi. La mia cara vecchia mamma. O un bambino di sei mesi che mantengo facendo la modella. O forse solo il lavandino incrinato.» Corey s'allentò il colletto con tanta energia che il bottone saltò. «Be', me ne infischio del vostro passato. Io vi darò un futuro. Questo è tutto.» Lei aprì un quarto cassetto, guardò dentro e abbozzò un sorriso. «Sapevo che doveva essercene una da qualche parte. Ho visto una scatola di proiettili nell'altro cassetto.» Tirò fuori un'automatica. Corey si avvicinò, gli occhi fuori dall'orbita. «Mettetela giù! Può succedere una disgrazia.» «A me non capitano disgrazie» mormorò lei tranquillamente. Esaminò l'arma sul palmo della mano poi provò il grilletto. «È carica, maledizione!» «Allora non cercate di strapparmela. È sempre in casi del genere che parte il colpo. C'è anche la sicura abbassata.» Appoggiò la pistola sullo scrittoio davanti a lei, tenendo sempre il dito sul grilletto. Corey si trovava in uno stato d'animo in cui nemmeno un cannone gli avrebbe fatto paura. La strinse tra le braccia nascondendo il viso tra i capelli di lei. La mano della ragazza rimase tutto il tempo sullo scrittoio, stretta intorno all'arma. Finalmente, Corey sciolse l'abbraccio e lei lo colpì sulla faccia con la
mano libera, e con una smorfia che non era certo destinata a lusingare l'amor proprio dell'uomo. «Non baciatemi, idiota. Non sono qui in cerca d'amore.» «E che cosa cercate, allora?» «Niente... niente che vi riguardi. Non avete niente che io desideri, niente che... sia destinato a me.» Il suo atteggiamento fece afflosciare Corey come un pallone forato. La pistola scivolò sul ripiano dello scrittoio e lei si avviò con fare distratto alla porta d'ingresso, tenendo ciondoloni l'arma con un dito. «Tornate qui con quella pistola. Dove avete intenzione di andare?» «Solo fino alla porta di questa casa. Non so niente di voi. Voglio esser sicura di uscire di qui. La lascerò sulla soglia.» La voce di Corey tremava per l'offesa arrecata alla sua virilità. «Andatevene. A me le donne non mancano!» Sentì aprirsi la porta e, quando con un passo rapido si trovò nel piccolo ingresso, la pistola era proprio là, vicino alla porta, e sembrava che lo prendesse in giro. La sentì scendere le scale... ma con meditata decisione, non di corsa. Gli negava persino quella concessione al suo amor proprio ferito. «Riuscirò pure a sapere chi siete!» le gridò dietro furibondo. La risposta gli giunse dal piano sottostante. «Ringraziate il cielo di non esserci ancora riuscito.» Corey sbatté la porta con violenza tale che la casa tremò come per lo scoppio di una granata. Prese il bicchiere del whisky vuoto e lo scagliò contro la parete; subito dopo il portacenere di ceramica fece la stessa fine. La chiamò con tutti gli appellativi possibili, tranne che con quello di assassina, perché non gli passò nemmeno per la testa. La chiamò con tutti gli appellativi, tranne che con quello che si meritava. Meno di un'ora dopo, la stanza immersa nella più completa oscurità s'illuminò bruscamente, come per un flash. Corey era in pigiama a righe, tra un incredibile disordine di coperte, la mano tesa verso l'interruttore della lampada da notte. Sbatté le palpebre per difendere gli occhi dalla luce. I suoi capelli erano tutti arruffati. Una piramide di mozziconi di sigaretta colmava il posacenere che aveva accanto a sé e lui aggiunse l'ultimo alla montagnola con una mossa decisa e trionfante che lasciava capire come quella sigaretta avesse portato finalmente a un risultato. «Dannazione, sapevo di averla vista da qualche parte!...» mormorò.
L'orologio segnava le 3 e 20. Poi, quando le conseguenze logiche della sua scoperta gli si palesarono nella loro interezza, i suoi occhi si aprirono del tutto. Gettò le gambe fuori del letto. "La ragazza che era con Bliss, quella notte! Ha già ucciso un uomo! Devo avvertire subito Ferguson di stare in guardia!". Uscì dalla stanza a piedi nudi e tornò dall'ingresso, portando con sé l'elenco telefonico. Si sedette sul letto e fece scorrere il dito sulla colonna dei nomi che cominciavano con F, finché non trovò Ferguson. Guardò di nuovo l'orologio. Le 3 e 23. "Penserà che mi ha dato di volta il cervello", si disse, indeciso. "Be', gli telefonerò domattina. Sarà la prima cosa che farò. Chissà poi se è proprio la stessa ragazza. L'altra era bionda come il grano, e questa è nera come un corvo". E subito dopo, ritrovando la propria decisione: "In tutta la mia vita, non mi sono mai sbagliato su una faccenda del genere. Bisogna che lo dica a Ferg, e al diavolo l'ora!". Gettò per terra l'elenco telefonico, tornò a piedi nudi nell'ingresso e cominciò a comporre il numero dello studio di Ferguson. All'altro capo del filo il telefono continuava a squillare, ma nessuno rispondeva. Infine, Corey riappese e si massaggiò un paio di volte i capelli. A quell'ora, la festa doveva essere già finita. Forse, di notte, Ferguson non dormiva nello studio. Eppure no, ci dormiva; Corey ricordò di aver visto un letto in una delle stanze. Be', forse era andato da qualche parte con gli altri. Bisognava aspettare fino al mattino. Tornò a letto e spense la luce. Due minuti dopo era riaccesa, e Corey si stava infilando i calzoni. "Non so perché lo stia facendo", diceva fra sé, "ma non posso dormire, se non riesco prima a parlare con quel ragazzo". Si mise la giacca, attorcigliò la cravatta in qualcosa che assomigliava a un nodo e si chiuse la porta alle spalle. Scese, chiamò un tassì e diede l'indirizzo di Ferguson. Sul piano razionale, il suo comportamento non aveva alcuna giustificazione, dovette ammetterlo. Sarebbe diventato lo zimbello di tutti quelli che lo conoscevano. La spiegazione più gentile sarebbe stata ch'ero sbronzo e sofferente per un leggero attacco di delirium tremens. Andare in giro come un pazzo nel bel mezzo della notte, per dire a un tizio: "Stai attento che la tua modella vuol farti la pelle!". Ma ciò che lo tormentava era qualcosa d'irrazionale, che non riusciva a spiegare neppure a se stesso. Era un sospetto, una premonizione, una sensazione di pericolo imminente. Se Ferguson fosse stato fuori, lui gli avrebbe lasciato un biglietto sotto la porta.
"È la ragazza che si trovava con Bliss la notte in cui è morto. Tienila d'occhio". Doveva almeno dare a Ferguson la possibilità di difendersi. Quando finalmente si trovò davanti alla porta dello studio, bussò, ma anche stavolta non gli rispose nessuno. Notò qualcosa che confermò il suo sospetto: Ferguson non solo lavorava lì ma ci viveva pure. Un oggetto, una cosa da nulla... una bottiglia di latte, vuota, di fianco alla porta. Questo eliminava ogni dubbio. Le bottiglie di latte non si mettono fuori quando si esce, ma quando si rientra. Ferguson era dentro, era senz'altro dentro. Corey ebbe un tragico presentimento che non riuscì ad allontanare. Scese le scale e fece alzare dal letto il custode dell'edificio, senza badare alla ringhiosa accoglienza di costui. «Sì, sì, dorme di sopra, nello studio. Ma può darsi che sia fuori. Qualche volta, questi artisti sono capaci di stare alzati tutta la notte. Cosa c'è da agitarsi tanto?» «Voi mi aprirete quella porta» ansimò Corey, con una voce che non ammetteva repliche. «Se mi sono sbagliato, la responsabilità è mia. Ma non mi muovo di qui finché non mi avrete aperto quella porta, chiaro?» Il custode lo precedette su per le scale, brontolando. Fece tintinnare le chiavi e bussò inutilmente prima d'infilarne una nella serratura. Corey sapeva dov'era l'interruttore della luce. Fece scorrere la mano lungo la parete, al buio, lo trovò e lo girò. Rimasero immobili, guardando la lunga zona di luce, fino all'estremità opposta della stanza, dove i vetri scuri del lucernario s'inclinavano verso il basso e dove cominciava l'ombra della notte. Le sole parole proferite da Corey, con una voce stranamente piana, quasi sommessa, furono: «Lo sapevo.» Ferguson giaceva a terra, bocconi, proprio davanti al cavalletto. La mortale punta d'acciaio della freccia sporgeva dalla sua schiena, all'altezza del cuore, spinta ancor più in fuori dalla caduta del corpo. Sul petto, quando lo misero supino, la parte terminale piumata s'era spezzata nella caduta, e formava un angolo retto col resto dell'asticciola. Ferguson doveva essere girato verso il piedistallo, quando la freccia era partita, perché questa lo colpisse con tanta precisione al cuore. Sopra di lui meditava Diana cacciatrice, Diana assassina... ora senza viso. Quei lineamenti che avevano tanto tormentato Corey erano spariti. Al loro posto, un buco ovale nella tela. L'arco, con la corda non più tesa, pareva beffarli, appoggiato in bilico su un angolo del piedistallo. «Non sono arrivato in tempo» disse Corey amareggiato. «Lei mi ha preceduto. Ferguson doveva averla fatta posare nella notte, per finire il qua-
dro.» «Cosa credete che sia successo?» sussurrò il custode, in tono di timoroso rispetto, mentre se ne stavano davanti alla porta aperta dello studio, aspettando la polizia avvertita per telefono. «La corda le sarà sfuggita di mano per disgrazia e la freccia è partita?» «No» mormorò Corey. «No. L'ha ucciso Diana cacciatrice.» Dopo la morte «Poi è venuta da questa parte, così.» Corey si animava sempre di più, man mano che procedeva nella sua ricostruzione, come fa un buon attore quando ha un pubblico attento e assapora in pieno la sua parte. La sigaretta, che gli penzolava a un angolo della bocca, vibrava animatamente ogni volta che lui apriva bocca. L'impeto con cui si muoveva gli aveva fatto ricadere sulla fronte una folta ciocca di capelli. «Continuate» disse Wanger. «Lei comincia ad aprire i cassetti, uno dopo l'altro... E io, idiota, che non capivo. Credevo che lo facesse solo per tirare in lungo, per occupare le mani in qualche modo, per ammazzare il tempo come fanno le donne... finché non fosse colta di sorpresa dal mio assalto. In quel momento apre proprio il cassetto in cui c'è la rivoltella e la tira fuori.» «Aspettate un attimo...» Wanger scattò su dalla sedia e lo fermò con un rapido gesto. «Non toccatela. Forse possiamo rilevare le impronte digitali della ragazza. L'avete maneggiata dopo che l'ha toccata lei?» Corey fermò a mezz'aria la mano già pronta ad afferrare l'arma. «No, l'ho toccata solo per metterla via. Ma non ho finito di raccontarvi che cosa ha fatto dopo...» «D'accordo; prima, però, lasciatemela metter via. Voglio farla esaminare... col vostro permesso.» «Fate pure.» Rimase accanto a Wanger, mentre il poliziotto tirava fuori il fazzoletto, l'avvolgeva intorno alla pistola, che era nel cassetto, e lo rimetteva in tasca con tutto il contenuto. «Farò in modo che vi sia restituita» promise Wanger. «Non c'è fretta. Sono felice di darvi una mano.» Tornò al suo racconto. «Dunque, la ragazza giocherella con la pistola, io mi avvicino, l'abbraccio e lei...» Si sentiva di nuovo profondamente offeso, benché stesse solo ricostruendo la scena.
Wanger conclude, in segno di solidale comprensione: «Lei non ci sta.» «Non ci sta. Mi dice: "Non sono qui in cerca d'amore" e se ne va verso la porta, con la pistola. Io la seguo, vedo che ha lasciato l'arma dietro la porta, e che lei è già a metà delle scale. Le grido dietro che un giorno o l'altro sarei riuscito a scoprire chi era e lei risponde: "Ringraziate piuttosto il cielo di non esserci ancora riuscito".» Era impallidito per lo sdegno e la rabbia. «Quella piccola... le avrei mollato volentieri un ceffone. Non m'importa se una mocciosa mi tiene a distanza perché ha paura. Ma se c'è una cosa che mi manda in bestia è che la mocciosa mi tenga a distanza e nello stesso tempo mi prenda per il naso!» Wanger lo capiva perfettamente. Corey era stato adescato dalla piccola imbrogliona e assassina, per ragioni che lei sola conosceva, e poi si era visto sfuggire l'occasione che riteneva gli fosse dovuta. Per quel che i sentimenti personali di Wanger c'entravano con la questione, e non c'entravano per niente, quel Corey gli piaceva. Tamburellò con le dita sul bracciolo della poltrona. «Secondo me, ci sono tre spiegazioni possibili al fatto che sia salita con voi prima di tornare a uccidere il nostro amico, come aveva intenzione di fare. Primo: voleva liberarsi di voi prima che poteste avvertire Ferguson, metterle il bastone tra le ruote e mandarle a monte il suo progetto. Quando è arrivata qui, voi non avevate ancora scoperto chi era, così ha cambiato idea. Vi aveva allontanato dalla festa, e questa era la cosa più importante. Immaginava che avrebbe avuto tempo sufficiente per tornare indietro e far fuori Ferguson prima che voi ricordaste finalmente dove l'avevate già vista. Secondo: è venuta qui solo per procurarsi l'arma e usarla contro Ferguson. No, non regge; ho il cervello che va a due cilindri. La pistola l'ha lasciata dietro la porta. Terzo: be', alla festa voi le stavate appiccicato e la donna temeva che rimaneste dopo che gli altri se n'erano andati, e così ha scelto il sistema più semplice per mettervi fuori gioco: farvi fare la figura dell'idiota e poi piantarvi in asso.» Dall'espressione di Corey era evidente che quest'ultima osservazione non era esattamente di conforto al suo amor proprio, ma l'incassò bene. «Credo che la prima e la terza ipotesi messe insieme siano già un risultato soddisfacente, almeno per il nostro primo colloquio» riprese Wanger, preparandosi a uscire. «La ragazza è salita nel vostro appartamento perché voi le davate fastidio. Aveva intenzione di uccidervi se aveste scoperto la sua identità e di lasciarvi in pace in caso contrario; dato che non l'avete scoperta, la donna non vi ha fatto la festa. Domani, se potete venire, desi-
dererei riesaminare di nuovo con voi tutta la faccenda. Chiedete di me. Mi chiamo Wanger.» Quando tornò al Distretto di polizia, era l'alba e l'alba non è bella al Distretto, né dentro né fuori. Wanger era stanco, e quella era l'ora in cui le energie di un uomo scendono al livello più basso. Entrò nella stanza vuota del suo superiore, si sedette pesantemente alla scrivania e abbandonò la testa fra le mani. «Ma perché diavolo è venuta al mondo una donna simile?» ruggì. Di lì a poco rialzò la testa, tirò fuori la pistola che aveva preso in casa di Corey, l'infilò in una busta di carta pesante, la chiuse e vi scarabocchiò alcune parole quasi illeggibili: "Vedete un po' se vi riesce di cavarne qualcosa per me. Wanger". Prese il telefono. «Potete mandarmi un agente?» «Non ce n'è nessuno nei paraggi a quest'ora» rispose il sergente di servizio. «Cercate di trovarne uno.» Il novellino che si presentò aveva proprio l'aria di un ragazzino imberbe. «Da dove ti hanno tirato fuori?» borbottò Wanger a mezza voce. In fondo, tutti hanno una certa sensibilità. «Come mai ci hai messo tanto?» «Sono entrato in un paio di stanze sbagliate. Questo edificio è una trappola.» Wanger lo guardò con occhi stanchi. «Porta di là questa, e consegnala da parte mia. È una pistola. Quelli della Scientifica sanno che cosa fare.» Poi aggiunse, apprensivo: «Sarai capace di arrivarci?» Il novellino gonfiò il petto, punto nell'orgoglio. «Ma certo! Da quando mi trovo qui ci sono già andato due volte.» Si voltò, cercò di aprire la porta dal lato sbagliato, quello dove non c'era la maniglia ma i cardini, e la scrutò dall'alto in basso, come sospettasse che gli avessero giocato uno scherzo. Poi arrivò al nocciolo della questione, si spostò dalla parte dove si trovava la maniglia, l'afferrò e di nuovo non riuscì ad aprire la porta. «Togliti dai piedi» suggerì Wanger con pazienza angelica. «Non ti accorgi che stai bloccando la porta?» Era troppo stanco per prendersela. «Siete sempre sicuro di ciò che mi avete riferito l'altra sera?» disse Wanger, quarantott'ore dopo, all'inizio del secondo e più approfondito interrogatorio di Corey.
«Sicurissimo. Tranne i capelli, aveva gli stessi occhi e la stessa bocca della ragazza in nero che era alla festa di fidanzamento di Marjorie Elliott la notte in cui Bliss morì, due anni fa. Sarei pronto a giurare che è lei.» «La vostra testimonianza mi è doppiamente gradita; non è solo importante di per se stessa, ma sostiene anche una mia teoria personale nella quale ho sempre creduto. La donna è una sola, ed è sempre la stessa. Devo aggiungere, però, che nessuno condivide questa ipotesi.» Corey strinse un pugno e lo batté sul tavolo. «Se solo l'avessi scoperto prima, se avessi capito chi mi ricordava quel ritratto! Ma non ho fatto in tempo.» «Gli avreste senz'altro salvato la vita, se l'aveste scoperto solo un'ora prima, quella sera. Invece la carta buona è toccata alla donna. Voi siete riuscito solamente a sollecitarla, ad accelerare la faccenda, insistendo che l'avevate già vista. La donna vi ha identificato, localizzando il pericolo, rendendosi conto dell'ostacolo da superare. E ha ammazzato Ferguson... magari soltanto qualche minuto prima della vostra telefonata. È morto alle 3 e 21 del mattino. L'orologio si è fermato quando è caduto.» «Io avevo chiamato alle 3 e 22 o alle 3 e 23; avevo guardato l'ora!» Il viso di Corey si contrasse in una smorfia di angoscia. «Probabilmente la freccia si era appena conficcata nel suo cuore, e lui non era ancora caduto a terra.» «Non prendetevela così» cercò di rincuorarlo Wanger. «Ormai è finita, ed è troppo tardi. Quello che importa è che voi mi siete preziosissimo; siete ciò che finora ho cercato disperatamente, e adesso ho trovato. Voi non conoscete Mitchell, vero?» «No.» «Moran?» «Nemmeno.» «Però conoscevate almeno due di loro, se non tutti. Voi siete il primo testimone che abbiamo trovato che sia in una posizione tale da far coincidere due di questi episodi in modo da costituire un nesso tra di loro. Capite che cosa significa questo per noi?» Corey aveva l'aria perplessa. «Ma non li ho conosciuti contemporaneamente. Ho conosciuto Ferguson solo otto mesi fa, a un cocktail-party. A quel tempo Bliss era già morto.» Il viso di Wanger si allungò. «Perciò, stando anche alla vostra testimonianza, qualsiasi legame tra i due diventerebbe qualcosa di sentito dire, di seconda mano.»
«Temo proprio di sì. Anche Bliss l'ho conosciuto un anno o forse due prima che morisse. Allora, lui e Ferguson si erano persi di vista, avevano ciascuno un proprio mondo.» «Avevano mai litigato?» domandò Wanger, interessato. «No, vivevano in due mondi diversi, tutto qui. Occupazioni diverse, e quindi interessi diversi. Affari di borsa e arte. Una volta che avevano trovato ciascuno il proprio guscio, non avevano più avuto nessun punto di contatto.» «Nessuno dei due ha mai parlato di Mitchell?» «No, che io ricordi.» «E di Moran?» «No.» «Be', comunque c'entrano anche Mitchell e Moran» sostenne Wanger ostinatamente. «Per adesso, però, li lasceremo perdere e ci limiteremo agli altri due. Ecco che cosa desidero che voi facciate per me: voglio che scaviate nella memoria, che passiate in rassegna ogni particolare accenno che ciascuno dei due ha fatto nei riguardi dell'altro: Bliss di Ferguson e Ferguson di Bliss. Voglio che tentiate di ricordare perché questo accenno è stato fatto e a quale argomento era legato. Donne, cavalli, quattrini, non ha importanza. Chiaro? Sono convinto che c'è un punto in cui queste quattro vite, e forse altre ancora, s'intersecano. Dato, però, che non so chi sono gli altri, devo limitarmi ai quattro che finora conosco. Se riesco a trovare il punto di contatto, posso trovare le tracce della donna da allora, dato che non sono stato capace di trovare lei o il suo movente dal momento dei suoi delitti.» Wanger al suo superiore. «A dire la verità, per passare all'azione, farò qualcosa che vi sembrerà probabilmente un'idea suicida. Voglio eliminare la donna dai miei calcoli, trascurarla del tutto, come se non esistesse. Comunque, è solo una nube su tutta la faccenda. Io mi concentrerò sui quattro uomini. Se riesco a trovare il legame che li unisce, la donna entrerà automaticamente in campo, e probabilmente riuscirò anche a intuire il movente dei suoi delitti.» Il suo superiore scosse la testa con aria poco convinta. «Stiamo capovolgendo completamente il metodo delle nostre indagini. La donna commette degli assassinii e invece di concentrarci su di lei, ci concentriamo sulle vittima.»
«Autodifesa. La donna ci terrà eternamente in scacco, come fa già da due anni. Se non si può infilare una porta, se ne infila un'altra. Anche se non conducono nella stessa stanza, almeno si è dentro.» «Be', cercate di entrarci, foss'anche dal camino» lo incoraggiò il capo. «L'unica cosa in questa faccenda che ha evitato un memorabile scacco, è il fatto che nessuno, dentro e fuori di qui, pare condividere la nostra opinione che i quattro assassinii abbiano un nesso tra loro. Presumibilmente, essere fatti fessi da quattro criminali in quattro occasioni diverse, è meno biasimevole per noi che essere fatti fessi dallo stesso criminale, per quattro volte consecutive.» Wanger stava scendendo i gradini del Distretto, quando andò a sbattere contro Corey, che li stava salendo. Quest'ultimo l'afferrò per un braccio. «Ehi, volevo appunto vedere voi.» «Come mai siete qui a quest'ora? Stavo per andarmene a casa.» «Ho giocato a carte fino adesso e... statemi a sentire: ricordate quegli accenni che mi avevate chiesto di farmi venire in mente? Bliss a proposito di Ferguson e viceversa? Be', me n'è venuto in mente uno e ho piantato di giocare a carte ed eccomi qui.» «Benissimo. Venite e sentiamo un po'.» Salirono insieme la scala. Wanger guidò Corey in una stanza vuota sul retro dell'edificio, e accese la luce. «A casa, me ne sento dire di tutti i colori, sia quando torno presto sia quando torno tardi» confessò. «Quindi, una mezz'ora in più non ha importanza.» «Ecco, non so se è quello che volete, comunque m'è balenata un'idea, e sono venuto sparato qui prima che mi sfuggisse di nuovo. Ci sono giunto per associazione d'idee. Stasera stavo giocando a poker con degli amici quando qualcuno spinge sul tavolo un mucchietto di fiches e dice: "Queste non sono per te". Mi è tornato in mente Ferguson. Stavamo giocando nel suo studio, una sera, e ricordo che spinse sul tavolo alcune fiches, accompagnandole con la stessa frase e questo mi ha richiamato alla mente un accenno che aveva fatto un'altra volta a Ken Bliss... questo è quello che mi avete detto di volere, no? Capite come funziona? Per associazione di idee, una volta che si comincia. Ferguson aveva detto: "Non mi è mai capitata una mano così, da quando facevo parte dei Diavoli del Venerdì". E io: "E chi erano questi Diavoli del Venerdì?". "Ken Bliss, io e un paio di altri amici avevamo formato una specie di club di giocatori, così, alla buona. Niente statuti, quote sociali o roba del genere; ci trovavamo il venerdì, giorno di paga per quasi tutti noi, per una bella serata a poker, ogni volta
nella casa di uno di noi, a turno. Poi salivamo tutti nella macchina di cui eravamo comproprietari, mezzi sbronzi, e andavamo a scorrazzare per la città, facendo un quarantotto". Questo è tutto quanto disse mentre quello di mano rimpiazzava gli scarti del giro. Allora, c'è qualcosa che può esservi utile?» Wanger gli assestò una pacca sulla spalla, tanto forte che Corey dovette aggrapparsi al tavolo per non perdere l'equilibrio. «È il primo colpo di fortuna che mi capita!» Wanger al suo superiore. «Bliss e Ferguson facevano parte di un club di giocatori di carte. A quanto pare, non è molto, eh? Ma è proprio quello che volevo sapere: il punto in cui le vite dei due uomini s'incrociavano.» «E quali conclusioni ne traete?» «Un filo solo non è molto, ma due fili incrociati sono molto più forti. Facciamo passare altri fili dallo stesso punto e avremo qualcosa che può cominciare a reggere. È così che sono fatte le reti. Adesso devo badare a una serie di problemi; devo scoprire la data, cioè l'anno, in cui è stato formato questo club di dilettanti. Devo rintracciare gli altri componenti, oltre a Bliss e Ferguson. Devo trovare in che giorno del mese cadevano quei particolari venerdì, quando cioè gli amici si trovavano assieme. Poi, controllerò accuratamente le date per cercare di scoprire cosa diavolo combinavano, quando, come diceva Ferguson, scorrazzavano per la città mezzi sbronzi. Può darsi che salti fuori dai verbali di qualche lontano posto di polizia. Quando avrò trovato tutti questi dati, partendo da quel punto, potrò cominciare a individuare la donna. Avrò almeno una base, non sarò così sospeso a mezz'aria come lo sono adesso.» «A parte questo» lo commiserò il superiore in via strettamente confidenziale «non avrete praticamente nulla da fare. Come pensate d'impiegare il tempo libero?» Dieci giorni dopo. «Allora, si procede?» «Sì, come una lumaca. Ho scoperto l'anno e il nome degli altri due Diavoli del Venerdì. Ma è saltata fuori una zona oscura che non mi piace. Può buttarmi all'aria tutta l'indagine, se non riesco a chiarirla, e in fretta.»
«Di che si tratta?» «Non trovo Mitchell. Non era membro del club; il suo nome non figura tra gli altri. Ho controllato a ritroso un mucchio di verbali della polizia, e finalmente ho trovato qualcosa, come immaginavo. Quattro uomini a bordo di una macchina furono arrestati un venerdì per schiamazzi, ubriachezza molesta e guida pericolosa: avevano mandato in frantumi una vetrina, lanciando una bottiglia vuota mentre ci passavano davanti, e infine avevano divelto un idrante. Tutti e quattro si sono fatti sessanta giorni di galera, hanno dovuto pagare i danni e, naturalmente, si sono visti ritirare la patente. Tre dei nomi elencati sul verbale erano quelli di Bliss, Moran e Ferguson. Per fortuna avevano fornito le loro vere generalità. Il quarto nome è nuovo: Honeyweather. Dal verbale, allora, ho rilevato i loro indirizzi di quel tempo. Per pescare questo Honeyweather, l'altro membro, non ci metterò molto. Ma se Mitchell era membro del club, doveva essere coinvolto anche lui nel pasticcio, ed è uno dei quattro che la donna ha fatto fuori. E quindi ho una paura maledetta che il club non abbia niente a che vedere con i delitti e che io stia prendendo un granchio colossale.» «Forse quella sera Mitchell era ammalato, o forse si era sentito male e l'avevano depositato a casa sua prima che si cacciassero in quel guaio; forse era fuori città. Io, però, non mollerei. Andrei fino in fondo alla faccenda. Per lo meno avete un appiglio sicuro per procedere, ed è meglio che niente.» Due settimane dopo. «Come ve la cavate, Wanger?» «Vedete che faccia ho? È quella di uno che sta per gettarsi da un ponte.» «Benissimo! Prima, però, dovete risolvere il problema degli omicidi della Donna Sconosciuta. Poi vi accompagnerò io stesso al ponte e non vi farò nemmeno pagare il passaggio.» «A parte gli scherzi, capo, è una faccenda complicatissima. Dopo il mio ultimo rapporto, ho finito di ricostruire tutto. Adesso la storia è completa, non manca niente. Ho persino colmato la lacuna di Mitchell. E adesso che ho finito... non ha senso, non ci può essere assolutamente d'aiuto. Ha tutti i lati negativi degli altri omicidi: non c'è un movente, nulla che possa spingere all'assassinio. Niente di quello che i quattro possono aver fatto, era tanto crudele, tanto brutale nei riguardi di qualcuno, da istigarlo a una vendetta sanguinosa, a rate.»
«Può darsi che quel qualcuno ci sia, e che voi non l'abbiate individuato. Comunque sentiamo il rapporto.» «Ho tentato di rintracciare quell'Honeyweather, il quarto socio, sulla scorta dell'indirizzo fornito la notte del quadruplice arresto. Ma l'ho perso completamente di vista; sparito dalla faccia della terra. Sono riuscito a seguire i suoi spostamenti fino a circa un anno dopo... e Dio sa se ne ha fatti, di spostamenti! Poi è sparito, svanito nel nulla... proprio come la donna... con la differenza che lei ha fatto delle apparizioni successive.» «Che cosa faceva?» «Pare che fosse un disoccupato cronico. Se ne stava seduto tutto il giorno nella sua stanza a martellare su una macchina per scrivere, secondo quanto mi ha detto la sua ultima affittacamere. Poi se ne andò senza farsi più vivo.» «Un momento... forse posso darvi una buona idea» disse il superiore. «Disoccupato... continuava a scrivere a macchina... secondo me, voleva diventare scrittore. Qualche volta queste persone cambiano nome, no? Vi hanno dato una descrizione esatta di questo Honeyweather?» «Sì.» «Fate il giro delle case editrici, e vedete se la descrizione si adatta a qualcuno che conoscono. E la faccenda di Mitchell? Avete detto di averla risolta?» «Infatti. Era il barista di un locale che gli altri frequentavano in quel periodo. Lo presero in macchina più d'una volta. Soprattutto, immagino, perché rubava al suo padrone le bottiglie di liquore. Così, nonostante non fosse membro del club, era quasi sempre presente quando andavano in giro a far baccano, dopo aver giocato a carte tutta la serata. Se non altro, questo non fa crollare la mia ipotesi, come temevo: quelle scorribande in macchina del venerdì sera rimangono il punto in cui le esistenze di quegli uomini s'intersecano. Ma rimane l'ostacolo più grosso: i quattro non sembrano colpevoli di atti che possano giustificare il movente dei delitti coi quali siamo alle prese.» «Ne siete sicuro?» «Sì, da quanto risulta dai verbali di polizia, in qualsiasi punto della cerchia urbana, in quel periodo. Ho fatto ricerche persino nelle zone limitrofe.» «Per me, hanno commesso qualcosa che è sfuggito all'attenzione della polizia, altrimenti adesso non sarebbero liberi come l'aria. Deve trattarsi di un delitto che i verbali ufficiali non attribuirono mai a quei tizi.»
«Direi di più» aggiunse Wanger, pensieroso. «Mi viene in mente adesso... Forse si tratta di un delitto che non si sono neppure accorti di aver commesso. Be', ho trovato il sistema per scoprire anche questo. Setaccerò gli archivi di tutti i giornali usciti nelle varie date dei loro incontri. Ci dev'essere una notizia da qualche parte, nascosta, sepolta in qualche angolino, che apparentemente non ha nulla a che fare con i quattro. Gli archivi ci sono per questo, e mi piazzerò lì. Più difficile diventa questo caso, più ci do dentro!» Wanger alla sezione impronte digitali della Scientifica, per telefono. «Be', che fine ha fatto quella pistola? L'avete persa? Sto ancora aspettando il rapporto.» «Quale pistola? Non ce ne hai mai mandata una. Di che diavolo stai parlando?» «Cosa? Vi ho mandato una pistola da esaminare, Dio solo sa quante settimane fa, e da allora non vi siete più fatti vivi. Sto infatti ancora aspettando! Che cosa credevate, che fosse un regalo di Natale? Ma che razza di laboratorio è il vostro? Dovevate restituirmela, o forse non lo sapevate? Siete una bella manica di sciagurati.» «Ehi, trombone, non abbiamo bisogno che qualcuno ci venga a insegnare il nostro mestiere. Chi ti credi di essere, il gran capo? Se ci hai mandato una pistola da esaminare, te l'abbiamo rispedita di sicuro. Ma come facciamo a restituirti una cosa, se non ce l'hai mai mandata?» «Senti, non alzare tanto la voce. Devo riavere la pistola, e la voglio!» «Be', dai un'occhiata alla tua scrivania e vedi se non la trovi dove l'hai lasciata!» Studio di uno scrittore di successo, tre settimane dopo. «Signor Holmes, c'è un signore qui fuori che insiste per vedervi, e non vuol rimandare a un altro giorno.» «Ormai dovreste saperla un po' più lunga. Da quanto tempo lavorate per me?» «Gli ho detto che stavate dettando al magnetofono, ma lui dice che non può assolutamente aspettare. Ha minacciato di entrare nel vostro ufficio se non fossi venuta a informarvi.» «Dov'è Sam? Chiamate Sam e ditegli di sbatterlo fuori! Se fa resistenza,
chiamate la polizia!» «Ma lui è la polizia, signor Holmes. Per questo ho pensato che fosse meglio venire a...» «All'inferno anche la polizia! Probabilmente avrò lasciato la macchina troppo a lungo davanti all'idrante o roba del genere. E proprio mentre sono nel bel mezzo della scena più importante del libro! Ma vi rendete conto che tutta questa discussione è stata registrata e che dovrò ricominciare dalla fine del pezzo precedente? Mi dispiace doverlo fare, signorina Truslow, ma voi avete infranto una delle principali e rigide regole che vi ho inculcato quando siete stata assunta per aiutarmi nel lavoro. Non dovevate disturbarmi per nessuna ragione al mondo, mentre stavo creando, nemmeno se il palazzo fosse andato a fuoco! Temo che da oggi in poi non avrò più bisogno di voi. Finite di battere quello che avete per le mani poi Sam vi darà la vostra liquidazione.» Poi rivolto all'intruso: «Chi siete voi? Che modi sono d'intrufolarsi con la forza qui dentro e provocare tanta confusione? Di che cosa volete parlarmi?» «Della vostra vita» ribatté Wanger. Parte quinta HOLMES La donna Erano in quattro nel dormitorio, e tutte nelle diverse fasi di vestizione per la notte. Una era sdraiata bocconi, con le braccia penzoloni in fondo al letto. Un'altra era appollaiata sul davanzale della finestra e si puntellava a terra con le dita di un piede, come impietrita in un passo di danza. La terza era seduta sul pavimento, col mento appoggiato alle ginocchia piegate e strette tra le mani. La quarta e ultima, l'unica che parlasse, occupava una, sedia, ma non era seduta, come s'intende normalmente: era distesa di traverso, come un abito. Un bracciolo le sosteneva i gomiti e l'altro le ginocchia. Stava leggendo un libro ad alta voce: "C'è una capanna tra gli abeti che attende il tocco di una mano femminile, signorina Judith", disse lui. Lei sorrise timidamente e il suo capo s'abbandonò sul petto dell'uomo, mentre le braccia di lui salivano lentamente per strin-
gerla a sé. A questo punto le spalle della lettrice fremettero estaticamente, come se stessero ricevendo l'abbraccio in questione. La ragazza lasciò scivolare languidamente il libro sul pavimento. «Scommetto che lui è proprio così» disse trasognata. «Forte e sicuro, con una punta di timidezza. Avete notato che continua a chiamarla signorina Judith sino alla fine, con una certa aria di rispetto?» «Scommetto che con te non si sarebbe comportato in modo altrettanto rispettoso.» «Meglio che tu non scommetta. Ci avrei pensato io a fargli smettere di essere così formale sin dal primo capitolo.» La ragazza sul letto osservò: «C'è dentro fino al collo.» «Ho sognato lui, stanotte. Mi salvava da un igloo che stava sprofondando.» Le altre ridacchiarono. «E che altro ha fatto?» «Non ha avuto il tempo di fare altro, perché la campana delle otto mi ha svegliato... accidenti!» «Fai girare un'altra sigaretta» disse qualcuna. «Ne è rimasta solo una.» «Che importa? Ce ne procureremo un altro pacchetto per domani sera.» «Sì, e non dimenticare che la prossima volta tocca a te. Questo pacchetto l'ho procurato io.» «Va bene, sì ricomincia! Dovremmo aprire nuovamente la finestra. Se il fumo arriva nel corridoio e viene la vecchia Fraser!...» La ragazza sulla sedia tirò un profondo sospiro. «Perché si diventa vecchie prima d'incontrare un uomo affascinante, prima che accada qualcosa d'eccitante?» «Sta ancora pensando a lui.» «Come fai a sapere che non è sposato e con trentadue marmocchi?» «So che non è sposato. Non può esserlo.» «E perché non può?» «Perché non sarebbe leale.» «Poverina, mi rincresce vederla soffrire così.» La ragazza sul letto esclamò in tono impaziente: «Oh, non fa altro che parlarne, e basta. Se si trovasse faccia a faccia con lui non saprebbe cosa fare e desidererebbe sparire.» La ragazza sulla sedia ribatté con aria di sfida: «Ah, la pensi così? Ti fa-
rei vedere io. Verrebbe in un batter d'occhio a mangiarmi nel palmo della mano.» La sua denigratrice continuò a stuzzicarla. «Scommettiamo che non riusciresti nemmeno a entrare dalla porta principale?» «E io scommetto il contrario, se decidessi di farlo. Quanto vuoi scommettere?» «Quanto vuoi scommettere tu?» «Io scommetto tutto il mio prossimo assegno mensile!» La ragazza sul letto lo squadrò con aria vendicativa. «D'accordo, il mio contro il tuo. O ce la fai o, d'ora in poi, la pianti di parlarne. Sono stufa di sentirtelo decantare.» «Sì, toglitelo dalla testa una volta per tutte» suggerì una delle meno arrabbiate. «È inutile continuare a struggerti in questo modo.» La ragazza sul letto obiettò: «Come faremo a sapere che dice la verità, quando torna?» «Vi porterò una prova.» «Porta una delle sue cravatte» suggerì scherzosamente una. «No, non va. Ho un'idea migliore. Deve portare una fotografia di loro due insieme.» «E il braccio di lui deve circondarla» precisò tutta eccitata quella seduta sul davanzale della finestra. «Vogliamo spendere bene i nostri quattrini.» «Bah!» sbuffò la ragazza sulla sedia, sicura di sé. «Questa è roba da educande. Le cose migliori non compariranno certo sulla fotografia. Se dovessi lavorarmelo sul serio, probabilmente mi seguirebbe fin qui al guinzaglio.» «Come te la batterai di qui?» «Ho già pensato a tutto, e so esattamente quello che devo fare. Sapete che fifa ha la signorina Fraser delle epidemie... Se una si fa vedere da lei con due macchie rosse in faccia, non vuole più averla tra i piedi. E i miei sono via, in questo periodo...» «Cerca di vincere, piuttosto» la commiserò una delle neutrali «o sarai ridotta al verde per trenta giorni filati... E non aspettarti che ti si presti un solo centesimo.» Quella raggomitolata sul pavimento balzò improvvisamente in piedi. «La Fraser!» avvertì in un sussurro. «Sta arrivando! Sento i suoi passi nel corridoio!» La camera fu un turbine agitato nel quale le ragazze si spostavano velocissime, incrociandosi.
Due di loro corsero alla porta di comunicazione con la camera accanto e raggiunsero i loro posti. Quella che era appollaiata sul davanzale della finestra si tuffò sul letto appena lasciato libero e sparì tra un gran rimescolio di coperte. L'ultima fu piantata in asso sulla sedia, con la sigaretta. Spense la luce e la brace della sigaretta disegnò nel buio delle spirali, in cerca di un punto dove posarsi. «Prendetela, prendetela!» bisbigliò freneticamente. «Tienila tu!» fu la spietata risposta. «Sei stata l'ultima ad averla.» Il puntino rosso descrisse una parabola oltre la finestra aperta, le coperte di un letto si agitarono una seconda volta, poi scese un silenzio opprimente. Un attimo dopo, la porta del corridoio si spalancò, e la testa di un'arcigna istitutrice fece capolino. Annusò sospettosa l'aria, rimase un attimo incerta, e infine si ritirò, sconfitta ma non convinta. Quando ebbe ispezionato anche la camera vicina e se ne fu andata, in quest'ultima riprese il dialogo, sussurrato ma non senza eccitazione. «Non ti pare che ci sia qualcosa di strano in lei? Voglio dire che non è come noi, sembra più vecchia.» «Sì, l'ho notato anch'io.» «In fondo, qui non c'è nessuno che la conosca veramente. I suoi genitori non l'hanno neppure accompagnata, quando è entrata; ho sentito dire dalla signorina Fraser che la sua domanda è stata ricevuta per posta e che è stata accolta per le raccomandazioni che aveva. Chi è? Da dove viene? Ce la troviamo improvvisamente qui, caduta dal cielo, e per giunta a metà del trimestre.» «Be', è stata trasferita.» «Questo lo dice lei.» «Nessuno ha mai visto i suoi genitori, e non riceve mai lettere da casa, come noi.» «Perché va pazza per quell'idiota di scrittore? Non ci vedo niente di straordinario.» «Lui ha una villa in campagna, non lontano da qui. Forse è venuta per questo... per essergli vicina.» «Magari non è nemmeno una studentessa.» Ci fu un attimo d'inespresse, inquietanti congetture. «Allora, chi è?» Holmes
Il macinino di Holmes procedeva alla solita velocità da lumaca, tenendosi sul bordo esterno della strada, col pastore tedesco seduto immobile sul sedile accanto a lui, quando il tassì gli sfrecciò accanto, nella sua stessa direzione. Holmes guidava lentamente, come era sua abitudine, per aiutare i processi della creazione. Aveva scoperto che riusciva a pensare parecchio, quando se ne andava a fare un giretto in macchina, senza una meta ben precisa. Non ne era sicuro, naturalmente, ma gli parve che il tassì trasportasse solo la ragazza seduta sul sedile posteriore. Il motivo di questa deduzione era che la nuca della ragazza era esattamente al centro del lunotto ovale della vettura: quando ci sono due o più passeggeri, di solito sono distribuiti sul sedile più regolarmente. Nel tempo impiegato a raggiungere la scorciatoia che portava alla sua proprietà, il tassì, a quella velocità, sarebbe dovuto già essere sparito all'orizzonte, invece, con sua grande sorpresa, quando lui arrivò in cima all'ultima salita, lo si vedeva ancora. Procedeva a un'andatura capricciosa, come se via via seguisse degli ordini contrastanti da parte della passeggera. Quanto il tassì arrivò all'altezza della stradina, dove spiccava un cartello "T. HOLMES - STRADA PRIVATA - VIETATO IL PASSAGGIO", si levarono da esso tre strilli acusticamente perfetti. Poco dopo si spalancò la portiera e la ragazza saltò, o fu gettata fuori, sul morbido tappeto erboso che costeggiava la strada. Fece una capriola completa, poi si fermò, con la faccia rivolta verso l'alto. Il tassi partì a tutto gas e sparì giù per la strada, mentre i fanalini di coda ammiccavano in modo sinistro. Un attimo dopo, Holmes rallentò fermandosi accanto alla ragazza e discese. Adesso era seduta di fianco, e si stringeva tra le mani una caviglia. Il pastore tedesco rimase irriguardosamente in macchina, come se fosse questa il suo vero amore, e non il padrone. «Vi siete fatta male?» Holmes si chinò su di lei, la prese sotto le ascelle e l'aiutò a rimettersi in piedi. La ragazza gli barcollò subito addosso. «Non posso reggermi su un piede. Cosa devo fare?» «È meglio che veniate un minuto a casa mia, in fondo a questa stradina.» L'aiutò a salire in macchina percorse la breve strada privata e l'aiutò nuovamente a scendere davanti a una fattoria, "restaurata secondo il gusto cittadino". Anche allora il cane non parve intenzionato a seguirli in casa, finché Holmes non si girò e brontolò: «Vieni dentro, stupido. Vuoi restar fuori tutta la notte?» Il cane uscì con un balzo dall'automobile e si avvicinò alla porta per conto suo, con l'aria di chi è libero di se stesso.
Al colpo dato alla porta, stile coloniale, venne ad aprire un uomo di colore, il quale salutò Holmes con la familiarità che nasce da anni di consuetudine. «Allora avete trovato un finale a sorpresa per il capitolo che vi tormentava?» «L'avevo già in mente» rispose Holmes, leggermente imbronciato «poi mi è di nuovo sfuggito. Questa signorina ha avuto un incidente, Sam, aiutami a farla scendere. Poi va' a sistemare la macchina.» I due la sostennero, percorrendo il vasto soggiorno rivestito di pannelli di pino, che si stendeva per tutta la larghezza della casa, con un gigantesco camino in pietra, a forma conica che, dal pavimento, raggiungeva il soffitto. Per l'esattezza, era la cappa che arrivava fino al soffitto, mentre l'apertura era poco più bassa di una spalla d'uomo. Quando arrivò davanti a una grande poltrona imbottita, posta proprio davanti al camino, con lo schienale rivolto alle fiamme rosa salmone, la ragazza fece per sedersi. L'uomo di colore le diede una leggera spinta in avanti, indicandone un'altra a pochi passi. «Questa no, è la poltrona che gli serve per ispirarsi.» Dopo essersi seduto, Holmes studiò la ragazza al bagliore del fuoco, aiutato dalla pallida luce elettrica che pioveva dal soffitto. Era giovane, e il solo fatto che tutto in lei cercasse di dare l'impressione contraria, mostrava quanto lo fosse veramente. Diciott'anni, diciannove al massimo. I capelli erano stati probabilmente biondi, quand'era bambina; ora stavano diventando castani, ma conservavano alcune sfumature dorate. Gli occhi erano azzurri. Quand'era caduta nella cunetta lungo la strada, al suo vestito erano rimasti attaccati rametti e foglie dai quali si ripulì sommariamente, quasi le rincrescesse prima di essere sicura che lui avesse notato com'era malconcia. «Che cosa è successo?» domandò, non appena Sam uscì per occuparsi della macchina. «La solita storia. Quando vedete una ragazza che salta fuori da una macchina senza aspettare che si fermi, potete trarre da solo le conclusioni.» «Ma era un tassì di città, no?» Gli venne fatto di pensare ch'era andato un po' troppo fuori mano per una faccenda del genere. «E anche le idee erano idee di città.» Pareva che la ragazza non volesse tornare più sull'argomento. «Credo sia meglio far venire un medico perché dia un'occhiata al vostro piede.» Lei non parve particolarmente ansiosa di seguire il suggerimento. «Se
non faccio sforzi, forse il gonfiore diminuirà.» «Ma non mi pare che sia gonfio» obiettò Holmes. Lei ritrasse la caviglia dietro l'altra, in modo da nascondere il gonfiore. Sam era tornato. «Sam, chi è il medico più vicino?» «Il dottor Johnson, credo. Non ci conosce. Posso chiamarlo, se volete.» «È tardi, forse non vorrà venire» osservò lei. Sam tornò per riferire: «Sarà qui tra mezz'ora.» La ragazza, un tantino smontata, si lasciò sfuggire un "oh!". Di lì a poco, mentre stavano aspettando, riprese: «Da tanto tempo mi chiedevo come foste voi.» «Oh, allora sapete chi sono?» «E chi non lo sa! Ho letto tutti i vostri libri!» Sospirò, piena d'entusiasmo. «E pensare che sono seduta nella stessa stanza con voi.» L'uomo sviò il discorso. «Basta con queste storie.» «Almeno siete come dovreste essere» proseguì lei, imperturbabile. «Voglio dire, che tanti di quei tipi che scrivono tutte quelle storie che grondano sangue, in realtà sono degli ometti magrolini e anemici, imbacuccati nelle coperte. Voi, invece, siete proprio un bell'uomo.» «E voi siete terribilmente sdolcinata» ribatté Holmes, con aria disgustata. Lo sguardo della ragazza vagò per il soffitto a travi che a tratti brillavano al riflesso delle fiamme come onde marine. «Vivete solo, in questa casa così grande?» «Vengo qui per lavorare.» Se era una garbata allusione, lei la ignorò. «Che razza di caminetto! Scommetto che ci si potrebbe stare dentro in piedi.» «Nei tempi passati, vi facevano affumicare prosciutti e tacchini. Ci sono ancora i ganci all'interno della cappa. È persino troppo grande, e ci vuole un mucchio di tempo prima che il fuoco arda come si deve. Ho cercato di ridurlo, rifacendo l'interno e mettendo una finta volta e i fianchi di zinco.» «Oh sì, infatti vedo quella specie di fessura tutt'intorno. Credevo che fosse un difetto delle pietre.» Sam stava smuovendo la legna con un pesante attizzatoio di ferro, quando il medico bussò alla porta. Il negro appoggiò l'attizzatoio al rivestimento in pietra e andò ad aprire. Holmes lo seguì nell'ingresso per accogliere il nuovo arrivato. Gli parve di sentire dietro di sé un gemito soffocato di dolore, ma il rumoroso ingresso del dottore lo distrasse. Un attimo dopo, quando entrarono, il viso della ragazza era contratto e
pallidissimo. L'attizzatoio di ferro giaceva sul pavimento, come se il suo stesso peso l'avesse fatto cadere. «Vediamo un po'» disse il medico. Tastò delicatamente la caviglia e la ragazza sussultò, le sfuggì un lamento inarticolato. Il dottore schioccò la lingua. Una bella contusione! Ma non è una distorsione. Sembra piuttosto che una delle piccole cartilagini sia stata schiacciata da qualcosa di pesante. Avvolgete la caviglia nel cotone idrofilo. Dovrete evitare di appoggiarvi su questo piede per un giorno o due, per dargli il tempo di sistemarsi. Persino mentre la piena del dolore le traboccava dagli occhi in due lenti rivoletti di lacrime, l'occhiata che diede a Holmes pareva contenere una nota di trionfo. Quando il medico se ne fu andato, Holmes disse: «Non so come faremo. La stazione è a quaranta minuti di macchina da qui, e non so nemmeno se ci sono ancora dei treni. Potrei portarvi fino in città, ma ci arriveremmo all'alba.» «Non potrei restare?» ribatté lei ansiosa. «Non vi disturberò.» «Non si tratta di questo. Sono scapolo e solo in casa. Anche Sam dorme fuori, sopra il garage.» «Uff!» sbottò sprezzante «basta il cane come chaperon!» «E... be'... la vostra famiglia non si preoccuperà, se passate fuori la notte?» Dalla gola della ragazza sfuggì una specie di risatina soffocata. «Oh sì, fra tre giorni. Quando sapranno che non sono stata a casa, ci sarò di nuovo.» Holmes diede un'occhiata a Sam e il negro gliela ricambiò. «Sam, prepara per la signorina la camera al pianterreno» disse infine. «Mi chiamo Freddie Cameron» chiarì la figurina infantile, rannicchiata nella poltrona. «È un diminutivo di Frederica.» Rimasero seduti in silenzio, mentre aspettavano che Sam preparasse la camera. Holmes fissava il pavimento, e lei fissava Holmes con tutto l'indissimulato candore di una bambina. «Perché tenete tutte quelle carabine e quei fucili da caccia, ammucchiati nell'angolo?» «Perché vado spesso a caccia, quando non lavoro.» «Sono carichi?» «Certo che sono carichi.» Attese un attimo, poi aggiunse: «Danno un terribile contraccolpo, quando fanno fuoco.» «'notte, signor Holmes, 'notte, signorina» salutò Sam, uscendo. La porta
principale si chiuse dietro di lui. Il silenzio divenne quasi denso, come qualcosa di cui si potesse sentire il sapore in bocca. «Perché non chiacchieriamo un po'?» suggerì lei, circa un quarto d'ora dopo. Gli occhi dell'uomo guizzarono un attimo su di lei, poi, come risposta, tornarono a fissare il pavimento. C'era un che di diffidente, in quella leggera deviazione dello sguardo. Lei si strinse nelle spalle, in atteggiamento difensivo, e guardò dietro di sé. «C'è un'atmosfera che affascina, in questo posto. È come se... come se dovesse accadere qualcosa.» «Infatti» convenne lui conscio. Si alzò e la lasciò senza aggiungere altro. Salì la scala che conduceva al piano superiore con decisione quasi dolorosa, a testa china, come ascoltasse molto attentamente. Un ceppo carbonizzato, che si stava raffreddando, esplose nel camino: Holmes raddrizzò le spalle, poi di nuovo si rilassò. Il silenzio, pesante, denso, scese ancora per cancellare quel suono di un attimo. La porta della sua stanza si chiuse. Sam entrò e li trovò seduti a tavola. «E questa che roba è?» esclamò, fingendosi offeso, ma con una nota velata di dispetto. «Gliel'ha preparata stamattina il boy numero due» disse Freddie Cameron «ma non ha avuto fortuna: lui non vuol mangiare.» «Starà pensando a una trama» suggerì Sam. Holmes gli lanciò un'occhiata sorpresa, come se l'osservazione fosse stata estremamente acuta. Riempì un piattino col contenuto della sua tazza e lo depose sul pavimento. Il pastore tedesco si avvicinò e aspirò rumorosamente il tutto. «Be', è finita questa trama?» volle sapere lei. «No» rispose Holmes, che stava guardando il cane «ma la finirò più tardi.» Prese la tazza, la vuotò e gliela porse per averne dell'altro. Si alzò, gettò un breve: «Ci vediamo stasera» e andò nel soggiorno. «Che cosa vorrebbe dire con quel ci vediamo stasera?» domandò lei stupita a Sam. «Che cosa dovrei fare, rimanere invisibile fino ad allora?» «Adesso va a creare.» Sam lo seguì, come se la sua presenza fosse necessaria per mettere le cose a posto. Lei rimase a guardare dalla poltrona. Sam spostò la "poltrona dell'ispirazione", la scrutò col capo inclinato, poi
la sistemò nuovamente con precisione millimetrica. «E ogni volta dev'essere esattamente nello stesso punto?» domandò lei, incredula. «Probabilmente non riuscirà a creare, se è spostata di tre millimetri.» «Silenzio!» le ingiunse perentorio Sam. «Se non è all'altezza del disegno diagonale del tappeto, lui si distrae.» Holmes era in piedi davanti alla finestra e guardava fuori, già perso per il mondo. Fece un brusco gesto di commiato, sollevando la mano dietro alle spalle. «Fuori! Sento che sta arrivando.» Sam si mosse in punta di piedi, con una fretta quasi comica, facendole cenni frenetici perché lo precedesse. Lei si fermò un attimo davanti alla porta chiusa, origliando senza ritegno. La voce di Holmes che filtrava era una cantilena monotona, mentre dettava al registratore. "Chinnok percorreva con la slitta l'immensa distesa di neve, e il suo viso, sotto il cappuccio di pelliccia, era la maschera della vendetta...". Sam non la lasciava in pace. «Non state così vicino, potreste far scricchiolare il pavimento.» Lei si allontanò a malincuore, zoppicando col piede protetto da una pantofola. «È così che funziona. È non ci dev'essere la minima variazione nei particolari, neppure nella posizione della poltrona.» Sam si appostò fuori della porta, orologio alla mano, un pugno alzato e pronto a battere. Attese finché non scoccò il sessantesimo secondo, poi abbassò il pugno. «Sono le cinque!» avvertì ad alta voce. Holmes uscì con l'aria spiritata, i capelli scomposti, la camicia aperta fino alla vita, i polsini sbottonati, le stringhe delle scarpe e la cintura slacciate. Una donna, piccola legnosa, che era seduta vicino alla porta, sotto la rastrelliera per i capelli, si alzò in piedi. Indossava un abito di tweed che le stava male e portava occhiali con la montatura d'acciaio. I capelli grigi erano tirati e raccolti sulla nuca, in una piccola crocchia, orribile a vedersi. «Sono la nuova dattilografa, signor Holmes. Il signor Trent spera che sarò più utile dell'ultima che vi ha mandato.» Attirata dalla rumorosa riapparizione di Holmes, la piccola Cameron si era affacciata alla porta della sua stanza. «Ho paura che il danno sia già stato fatto» rispose Holmes, lanciando un'occhiata alla donna. «Siete disposta a restare?» «Sì.» Indicò una vecchia valigia a soffietto, posata sul pavimento accan-
to a lei. «Il signor Trent mi ha spiegato che il lavoro deve essere fatto sul posto.» «Bene, sono contento che siate venuta. Ho già dettato al registratore sei capitoli. Non so se siete veloce, ma ci vorranno almeno tre o quattro giorni per mettervi in pari.» «Sono più diligente e precisa che veloce» osservò lei. «Sono orgogliosa di non aver mai sbagliato neppure una virgola nei miei dattiloscritti.» Holmes congiunse le mani con un gesto fiacco e le lasciò ciondolare davanti a sé. «Sam, la valigia della signorina... non ho capito il vostro nome...» «Kitchener.» «Porta la valigia della signorina Kitchener nella stanza del primo piano, sulla facciata.» Non appena fu solo, la Cameron gli si avvicinò con aria imbronciata. «Così, avremo un'ospite con noi per un po',» «Sembrate seccata.» «E lo sono.» Non scherzava più e si era fatta inquieta. «A una donna piace sentirsi la padrona in un posto, e questo era l'ideale.» Holmes le dette una lunga occhiata scrutatrice. «Ne sono perfettamente convinto» ribatté secco, voltandole le spalle. Più tardi, Sam disse: «Sarete circondato da femmine, qui! Forse lavorereste meglio in città, dove al confronto c'è pace e silenzio, signor Holmes.» «E io credo invece che diminuiranno rapidamente di numero» rispose Holmes, spazzolandosi i capelli davanti allo specchio. Quando Sam ebbe tolto i piatti del dessert, i tre commensali si misero a loro agio. Freddie Cameron aveva ancora l'aria imbronciata; durante tutto il pasto aveva tentato, con suo grande spasso, di dare a intendere all'altra donna di essere un membro legittimo della casa. «Sam» chiamò Holmes. Quando il domestico di colore si affacciò alla porta, gli disse: «È da molto tempo che non hai una sera di libertà?» «Da un pezzo. Ma è inutile che l'abbia qui, perché non c'è dove andare.» «Allora facciamo così: te ne offro io una in città. Ti accompagnerò alla stazione quando andrò a fare il mio giretto serale. Vorrei che facessi anche un salto nel mio appartamento a prendere alcune cose.» «Magnifica idea. Ma riuscirete a cavarvela senza di me, signor Holmes?» «Perché no? Sarai di ritorno in mattinata. La signorina Cameron può prepararmi qualcosa per colazione, come ha fatto oggi.»
Il viso della ragazza s'illuminò per la prima volta da quando era arrivata la dattilografa. «Oh, certo!» «E io potrò sistemare da solo il camino, quando sarò pronto per cominciare a lavorare, domattina. Bada che ci sia abbastanza legna sottomano.» Erano quasi le undici, quando tornò a casa, dopo aver lasciato il suo fedele servitore alla stazione ferroviaria. Il pastore tedesco, altero come sempre, era seduto sulle zampe posteriori, accanto a lui. La campagna era immersa nella quiete. La strada era deserta e quella sera nessun tassì di città l'aveva superato. Mise la macchina in garage e aprì la porta di casa con la sua chiave. Gli pareva strano, tant'era abituato ad avere Sam che sbrigava quelle piccole mansioni per lui. La ragazza era ferma ai piedi delle scale, in ascolto. Dal piano superiore gli giunsero dei suoni che parevano dei rochi singhiozzi di spavento. Lei sorrise, indicando la scala. «La vecchia zitella vi pianta in asso.» «Che intendete dire?» «Sta facendo fagotto; s'è presa uno spavento coi fiocchi. Qualcuno le ha gettato un sasso attraverso la finestra, consigliandole di cambiar aria.» «Perché non siete andata su a calmarla?» sbottò Holmes. «Non ce n'è bisogno. Si è precipitata giù con il camicione di flanella della nonna e praticamente mi è saltata in braccio in cerca di protezione. Quello che sentite adesso è solo la fine. Ho controllato gli orari dei treni per lei, visto che se la voleva squagliare così in fretta.» «Mi avrebbe sorpreso che non l'avesse fatto.» Freddie Cameron ignorò la frecciata. «Dev'essere opera di qualche ragazzaccio, non vi pare?» «Certamente» rispose lui, avviandosi su per le scale. «Guarda caso, però, non ce n'è uno nel raggio di vari chilometri.» La signorina Kitchener stava riempiendo la valigetta a soffietto, tra un'annusatina e l'altra alla boccetta dei sali. Sul tavolo c'era un sasso della grossezza di un pugno e, accanto, il pezzo di carta nel quale era stato avvolto, con il minaccioso messaggio scritto a matita. Holmes lesse: "Vattene da questa casa prima dell'alba o non vivrai abbastanza da pentirtene". Uno dei piccoli riquadri di vetro della finestra era rotto e mostrava una raggiera d'incrinature.
«Non vi lascerete spaventare da una sciocchezza del genere, vero?» domandò Holmes. «Oh, non riuscirei a chiudere occhio stanotte, dopo questa storia» rispose la donna, tirando su col naso. «soffro già abbastanza d'insonnia, anche in città.» «Ma è stato solo uno scherzo!» La signorina Kitchener interruppe i suoi preparativi, incerta. «Chi... chi credete...?» «Non ne ho idea» rispose lui risoluto, per evitare altre domande sull'argomento. «Avete guardato fuori per vedere se c'era qualcuno?» «Santo cielo, no! Sono corsa come una pazza giù per le scale, non appena ho finito di leggere il biglietto. Io... mi sento molto meglio adesso che siete tornato, signor Holmes. Quando c'è un uomo in casa, è un'altra cosa...» «Bene. Non voglio obbligarvi a rimanere, se siete ancora spaventata e a disagio. Vi accompagnerò alla stazione e potrete prendere il treno delle undici e tre quarti. Batterete a macchina il lavoro in città, la prossima settimana, quando tornerò. Siete libera di decidere.» Era evidente che la via di scampo che le era stata offerta, attirava la donna. Holmes notò che guardava con desiderio la valigia aperta. Poi lei trasse un profondo sospiro e strinse con ambedue le mani la sponda del letto, quasi a prendere coraggio. «No» disse «sono stata mandata qui a fare questo lavoro per voi, e non ho mai mancato al mio dovere. Rimarrò fino a quando non avrò terminato!» Ma, mentre pronunciava quest'ultime parole, lanciava una occhiata furtiva al vetro rotto. «Credo che vi troverete benissimo» disse gentilmente Holmes, con un mezzo sorriso che gli increspava appena un angolo della bocca. «La presenza del cane è un'ottima garanzia contro le intrusioni di sconosciuti. E la mia camera è in fondo al corridoio.» Fece per uscire, poi si voltò ancora sulla soglia. «Ci dev'essere in giro una piccola rivoltella, da qualche parte, in uno dei miei cassetti. Forse vi sentireste più sicura se la cercassi e ve la dessi per stanotte.» La donna lanciò un grido d'orrore, protendendo le mani in un gesto di ripulsa. «No, mi spaventerebbe più dell'altra faccenda. Non posso sopportare la vista delle armi da fuoco; ne ho una paura folle!» «Benissimo, signorina Kitchener» la tranquillizzò Holmes. «Rimanendo, dimostrate una notevole dose di coraggio, per quanto non ci sia nulla di che preoccuparsi, e non mancherò di parlarne col signor Trent.»
La signorina Cameron era nell'angolo più lontano del soggiorno e rigirava tra le mani una carabina, quando lui, qualche attimo dopo, comparve inaspettatamente sulla soglia. Doveva essere sceso più silenziosamente di quanto avesse creduto. Holmes mise le mani dietro la schiena, sollevando il lembo posteriore della giacca. «Se fossi in voi, non giocherei con nessuno di quelli. Credo di avervi già detto ieri sera che sono tutti carichi.» Lei lo guardò, esitò un attimo prima di deporre l'arma, poi si girò verso di lui, stringendola sempre tra le mani, ma diagonalmente rispetto al suo corpo. Holmes non si mosse. C'era un bagliore nei suoi occhi, come se il suo coordinamento muscolare fosse pronto ad affrontare la necessità di un'azione fulminea; ma, oltre a questo, non mostrava in altro modo la sua tensione. La ragazza appoggiò il fucile contro la parete e si pulì ostentamente le mani. «Scusatemi. Pare che tutto quello che faccio sia sbagliato.» Le mani di lui si apersero e il lembo della giacca ricadde. «Oh no. Tutto quello che fate è giusto.» Si accomodò nella sua "poltrona dell'ispirazione", mentre la ragazza gironzolava incerta, alle sue spalle. «Do fastidio?» chiese. «Intendete dire al momento, o in senso lato?» «Al momento. In senso lato lo so benissimo che do fastidio.» «No, al momento non mi date fastidio. Non importa che siate qui.» «Dove potete tenermi d'occhio» completò lei, con una risata ironica. Alzò gli occhi al soffitto a travature. «Ha deciso di restare?» «Con vostro grande disappunto.» Freddie Cameron fece un sospiro ben calcolato. «Noi due, o ci capiamo troppo o non ci capiamo affatto.» Furono queste le ultime parole che vennero pronunciate nella stanza. Il fuoco si era smorzato sino a diventare un bagliore rossastro. Il resto della stanza era immerso in un'ombra azzurrina, nella quale solo i loro due visi si stagliavano, pallidi ovali nell'oscurità circostante. Un grillo cantava nel silenzio vellutato, là fuori. Poi Holmes si alzò, e si vide sollevarsi solo l'ovale del viso, mentre il resto del corpo era confuso nell'ombra. S'avviò verso la scala e salì facendo risuonare il lento ritmo del suo passo strascicato. La ragazza rimase nella stanza, con le braci che rosseggiavano e i fucili. Holmes chiuse dietro di sé la porta della sua camera, ma non accese la
luce. Era quasi impossibile localizzarlo nell'oscurità compatta. A un tratto, comparve qualcosa di bianco, là accanto alla porta. Due lunghe colonne e una specie di piccolo triangolo; si era tolto la giacca senza allontanarsi dal riquadro della porta. Fu spostata una poltrona e la bianca entità si sedette sempre lì, accanto alla porta. Una scarpa volò per qualche centimetro e fece il solito rumore delle scarpe che cadono; fu poi seguita dalla sua compagna. Il grillo continuava fuori, e il silenzio continuava dentro, e la notte continuava fuori e dentro. Solo una volta, un'ora prima dell'alba, una leggera corrente d'aria incorporea parve entrare nella stanza, non dalla finestra ma dalla porta... come se Holmes l'avesse appena socchiusa senza far fare il minimo rumore alla serratura. Una tavola del pavimento scricchiolò lontano, da qualche parte del piano inferiore. Forse era solo il legno che si contraeva per il freddo della notte. O forse qualcosa vi si era posato furtivamente sopra. Dopo, non si udì più alcun suono. Trascorso parecchio tempo, la leggera corrente d'aria cessò. Fuori, una civetta chiurlò su un albero e le stelle cominciarono a spegnersi. La Cameron si mostrò a colazione insolitamente vivace, forse perché se n'era occupata lei. Stava fischiettando allegramente, quando scese Holmes: uno straccio d'uomo con le guance nere per la barba non rasata e profonde ombre sotto gli occhi. La signorina Kitchener era già arrivata, tirata a lucido con acqua e sapone, dimentica delle sue trascorse paure notturne... fino al nuovo tramonto. «Le signore dovranno scusarmi» disse l'uomo mentre sedeva, passandosi una mano sul viso che pareva carta vetrata. «In fondo, siete in casa vostra» osservò Freddie Cameron. La signorina Kitchener si accontentò di fare un sorriso agro, quasi volesse sottintendere che non ci sono scuse per la scarsa cura della propria persona. Il pastore tedesco gli si avvicinò senza abbaiare, evidentemente memore del giorno prima. Holmes lo ignorò e Freddie Cameron bisbigliò così a bassa voce che lui fece fatica a sentirla: «Niente prova-anti-veleno, oggi?» L'uomo respinse la sedia: «Sam sarà di ritorno verso mezzogiorno, e riprenderà a occuparsi di tutto. Adesso vado nel mio studio e non voglio essere disturbato.» «Io vado su a battere a macchina» disse la signorina Kitchener. «Credo
che dalla vostra stanza non mi sentirete.» «Io, invece, dipingerò le uova di Pasqua» annunciò Freddie di malumore. Holmes si chiuse alle spalle la porta del soggiorno, gettò qualche pezzo di legna nel camino e accese sotto di essa un pezzo di giornale. Tolse la custodia di tela cerata dal registratore che si trovava sul tavolo e fece del suo meglio per sistemarlo, con un'aria incerta e confusa come se questo, assieme a tutti gli altri dettagli, fosse sempre stato affidato alla cure di Sam. Notò che la "poltrona dell'ispirazione" era leggermente spostata rispetto al disegno diagonale del tappeto. La rimise a posto, sorridendo tra sé, come burlandosi della sua mania. Poi prese il microfono unito all'apparecchio, e si appoggiò allo schienale: tutto era pronto per una giornata di fecondo lavoro. Tutto, tranne una cosa... Il registratore frusciò, in attesa. Il necessario flusso delle idee non veniva, l'ispirazione pareva inceppata. Holmes lanciò un'occhiata disperata ai libri che aveva scritto, disposti in fila su uno scaffale, chiedendosi come fosse riuscito a scrivere tanto. Una tavola del pavimento scricchiolò, vicina. Holmes si voltò di scatto, accigliandosi minacciosamente per la supposta interruzione. Nella stanza non c'era nessuno, oltre a lui, e la porta era ben chiusa come sempre. Alle sue spalle, le fiamme si facevano sempre più alte, riempiendo la cavità del camino di calore e di rossi bagliori. Cinque minuti dopo, Freddie Cameron voltò di scatto la testa e sorprese Holmes che la stava fissando intensamente dalla soglia. «Che... cosa è successo?» balbettò a disagio. «Niente isolamento, stamane?» «Pare che abbia incocciato in un vuoto d'aria. Venite con me. Voglio fare due chiacchiere. Può darsi che mi aiuterete a imbroccare la vena.» «Siete sicuro di volermi nel vostro sancta-sanctorum?» insistette lei, quasi intimorita. «Sicurissimo» ribatté Holmes, con voce secca. La ragazza s'avviò davanti a lui, tenendo la testa voltata e guardandolo. Quando furono entrati, Holmes chiuse la porta. «Sedetevi.» «In quella poltrona? Credevo che non fosse permesso a nessun altro...» «Questo lo dice Sam.» I suoi occhi la fissarono con uno sguardo penetrante. «Che differenza c'è tra questa poltrona e un'altra?» Pareva quasi che la domanda avesse un significato particolare. Freddie vi si lasciò cadere senza fare altre obiezioni. Holmes si accovacciò e aggiunse un altro paio di pezzi di legna al fuoco, che pareva comin-
ciare ad ardere bene solo allora, come se avesse dovuto attizzarlo un'altra volta. Poi si sedette di fronte a lei, sulla poltrona che Freddie aveva sempre occupato, quando si era trovata nella stanza le altre volte. Sembrava che la osservasse attentamente, come se non l'avesse mai vista. «Di che cosa devo parlarvi?» disse lei, a un tratto. Holmes non rispose e continuò a osservarla. Trascorse un minuto o due; l'unico rumore nella stanza era quello del costante crescendo del fuoco nel caminetto. «Che pensieri profondi!» esclamò lei, ironica. «Fatemi sentire un attimo la vostra mano» disse Holmes improvvisamente. Freddie gliela tese con gesto indolente. Il palmo era perfettamente asciutto e il polso fermo. L'uomo respinse la mano con tanta violenza che colpì il petto di Freddie. Balzò in piedi. «Forza, via subito da quella poltrona!» le ingiunse rudemente. «A momenti ci cascavo. A che gioco state giocando, ragazzina?» Prima che la ragazza avesse modo di rispondere, lui era già alla porta, l'aveva spalancata e le faceva imperiosamente cenno di uscire. «Ma che vi succede?» disse lei, in tono di rimprovero, arrivando sulla porta della sua camera, di fronte. «State alla larga per un po'; non entrate qui qualunque cosa vi capiti di sentire. Intesi?» La sua voce perse un po' del tono aspro e lui chiamò dalle scale, ritrovando la solita gentilezza. «Signorina Kitchener, potrei parlarvi un attimo?» Il coscienzioso ticchettio, leggero come la pioggerella su un tetto, s'interruppe subito e la donna scese senza esitazione, a piccoli passi. Holmes la invitò a entrare. «A che punto siete arrivata?» domandò, chiudendo la porta. «Sono a metà del primo capitolo» annunciò lei, raggiante di soddisfazione. «Sedetevi. Vi ho chiamata perché voglio cambiare il nome del protagonista in... no, sedetevi lì.» «Ma questa è la vostra poltrona, no?» «Ah, una qualsiasi va bene.» Holmes la costrinse a sedersi. La signorina si sedette rigidamente sull'orlo della poltrona. «Avrete del lavoro in più, cambiando il nome? Il protagonista è comparso col suo nome nella parte che avete copiato?»
La signorina Kitchener balzò nuovamente in piedi, piena di premura. «Aspettate un attimo, vado su a vedere...» Le fece cenno di sedersi. «No, non disturbatevi.» Poi riprese, vagamente sorpreso: «Stavate facendo proprio quel pezzo, come mai non ve ne ricordate? Be', comunque, mi è venuto in mente che nelle storie che si svolgono nel nord, i lettori sono abituati a identificare i personaggi franco-canadesi con i cattivi, e quindi sarebbe consigliabile... signorina Kitchener, mi ascoltate? Cosa c'è, vi sentite male?» «Fa troppo caldo in questa poltrona. Il calore del fuoco... non riesco a sopportarlo.» Improvvisamente, Holmes si protese e afferrò una mano della donna, prima che lei potesse ritrarla. «Credo che vi sbagliate. Come fate a dire che in questa poltrona fa troppo caldo? Le vostre mani sono gelide... tremano per il freddo!» Si accigliò. «Lasciate almeno che finisca il discorso.» Il respiro di lei si era fatto roco, come se avesse l'asma. «No, no!» Furono in piedi contemporaneamente. Holmes la spinse giù, per le spalle, fermamente ma senza brutalità, finché lei non ricadde nella poltrona. Questa volta la signorina Kitchener tentò di sfuggire di fianco. Holmes l'afferrò ancora una volta e l'inchiodò giù. Le caddero gli occhiali. «Perché siete così pallida? Perché state morendo di paura?» La donna sembrava in preda a convulsioni isteriche, incapace di ragionare. A un tratto balenò un coltello, forse tirato fuori da una manica, che si levò per colpirlo oltre lo schienale della poltrona. Lei fu rapida, ma lui fu più rapido ancora. Le afferrò il polso e glielo inchiodò sul bordo dello schienale; lo torse un poco e il coltello cadde, sfiorò il basso schermo davanti al fuoco e finì tra le fiamme, alle spalle della donna. «È un po' strano che una dattilografa porti in giro un aggeggio del genere. Vi serve per il lavoro?» La donna lottava furiosamente contro di lui; pareva che qualcosa la rendesse frenetica. Holmes non reagiva e si limitava a tenerla prigioniera sulla poltrona, inchiodandola con una mano intorno alla gola. Non le stava però di fronte, ma spostato su un lato. Lei sola era perfettamente in linea col caminetto. «Lasciatemi alzare... lasciatemi alzare!» «Quando avrete vuotato il sacco» ribatté Holmes. A un tratto, lei s'accasciò, parve che qualcosa dentro le fosse crollato e fu soltanto uno straccio di donna nella poltrona. «Là dentro c'è un fucile, sopra la volta di zinco... puntato su questa poltrona!... Da un momento
all'altro il caldo può farlo... Un fucile da caccia segato, carico...» «Chi ce l'ha messo?» incalzò Holmes. «Io. Svelto, fatemi alzare!» «Perché? Rispondete.» «Perché sono la vedova di Nick Killeen... e sono venuta per uccidervi, Holmes!» «È tutto» disse brevemente l'uomo, e si ritrasse. Tolse la mano troppo tardi. Quando lasciò la donna, un lampo accecante alle spalle della signorina Kitchener illuminò il viso di Holmes; poi ci fu un boato e una densa nuvola di fumo avvolse la donna, come se fosse stato aspirato tutto quello che c'era nel caminetto. Lei si agitò convulsamente ancora una volta, quasi tentasse di fuggire per istinto, poi s'afflosciò di nuovo, fissando Holmes attraverso la cortina di fumo. «Non avete un graffio» la tranquillizzò lui. «L'ho scaricato prima di riattizzare il fuoco una seconda volta, e ho lasciato soltanto la polvere. Mi ha salvato il registratore. Voi dovete aver urtato casualmente la levetta d'avvio, mettendolo in funzione, quando siete stata qui stanotte. La macchina ha registrato tutti i preparativi, dagli scricchiolii del pavimento fino a quando avete messo a posto la lastra di zinco nella volta del caminetto. Solo che non sapevo chi fosse di voi due; è per questo che ho dovuto fare la prova della poltrona.» La porta si spalancò e fece capolino il viso spaventato di Freddie Cameron. «Che cosa è successo?» Stranamente, Holmes fu più duro e deciso con lei di quanto non lo fosse stato con la donna nella poltrona; proprio come si fa con un cucciolo o con un bambino che non può essere ritenuto responsabile delle sue azioni. «Fuori dai piedi!» urlò. «Fuori dai piedi, dannata cacciatrice d'autografi, scolaretta adoratrice d'eroi! Altrimenti vengo lì, vi rivolto a pancia in giù sulle mie ginocchia e vi do tanti sculaccioni che avrete bisogno di unguento e cotone in un altro posto, oltre che alla caviglia!» La porta si richiuse ancor più velocemente di come s'era aperta, smorzando un'esclamazione d'attonita sorpresa. Holmes tornò alla misera figura accasciata nella poltrona. Pareva sospesa nel vuoto. Aveva perso una personalità e non ne aveva ancora trovata un'altra. La voce dell'uomo tornò al tono normale. «Che cosa avreste fatto a Freddie... nel caso la trappola avesse funzionato?» domandò incuriosito. La donna era ancora molto scossa, ma riuscì ugualmente a fare un debo-
le sorriso. «Assolutamente niente. Non era sulla mia lista, non avrebbe potuto danneggiarmi. Tutt'al più, l'avrei legata per potermene andare, e basta.» «Siete giusta almeno nel dare la morte» ammise Holmes a malincuore. L'osservò per un attimo, poi si allontanò per versarle un bicchierino, senza però voltare le spalle. «Prendete, sembrate a pezzi. Rimettetevi in sesto.» Alla fine, la donna riuscì ad alzarsi, vacillò e si appoggiò con una mano alla spalliera della poltrona. Gli parve di vederla rivivere davanti ai suoi occhi, riprendere colore e consistenza, come quei disegni che una volta erano stati dati a un bambino di nome Cookie Moran. L'energia vitale rifluì in lei. Non era più la creatura legnosa e fredda ch'era stata la signorina Kitchener, ma una donna più calda e luminosa. Per quanto i suoi capelli fossero ancora striati a bella posta di grigio e tirati sulla nuca, le ultime tracce della sussiegosa signorina Kitchener parvero staccarsi da lei, come se le fosse caduto di dosso un involucro trasparente. Si sarebbe detta una donna più giovane, più vibrante. Un donna che non conosceva la paura, una donna che sapeva accettare con grazia la sconfitta. Ma rimaneva sempre una specie di grazia vendicativa. «Bene, li ho fatti fuori tutti, tranne voi, Holmes. Nick mi perdonerà; in fondo, sono soltanto una donna. Forza, chiamate la polizia. Sono pronta.» «Sono io, la polizia. Holmes è stato spedito al sicuro qualche settimana fa e se ne sta tranquillo alle Bermude. Da allora ho preso io il suo posto, scorrendo i suoi vecchi libri e leggendo al registratore alcune pagine di essi. Aspettavo che vi faceste viva. Avevo paura che il cane mi tradisse; saltava agli occhi che non ero il suo padrone.» «Avrei dovuto accorgermene» ammise lei. «La sicurezza eccessiva mi ha reso imprudente. Tutto ha sempre funzionato perfettamente con gli altri... Bliss, Mitchell, Moran e Ferguson.» «Fate attenzione» l'ammonì seccamente lui. «Registro tutto.» E indicò il registratore che aveva ripreso a ronzare. «Mi prendete per un'imbrogliona da quattro soldi che vuol tenere nascosto ciò che ha fatto e cercare di cavarsela.» Nell'occhiata che gli diede c'era un senso di indicibile disprezzo. «Ne avete un bel po' da imparare sul mio conto! Io mi vanto di quello che ho fatto! Voglio gridarlo, voglio che tutti lo sappiano!» Con un passo rapido s'accostò al registratore e la sua voce, con un tono trionfante, recitò al microfono: «Ho spinto io Bliss verso la morte! Ho dato io il cianuro a Mitchell! Ho fatto morire io Moran, soffocato in un ripostiglio! E ho trapassato io il cuore di Ferguson con una freccia!
È Julie Killeen, che parla. Mi senti, Nick, mi senti? I debiti sono stati pagati... tranne uno! Ecco qui la colpevole, poliziotto. Adesso, fate il vostro dovere.» «Sedetevi un attimo» disse lui. «Non c'è fretta. Ho impiegato due anni e mezzo per acciuffarvi, qualche minuto in più non ha nessuna importanza. Voglio parlarvi.» E quando lei fu seduta, riprese: «Così, siete stata tanto gentile da registrare tutto per conto mio. Tutto, tranne una cosa. Avete dimenticato di dire il perché: qual era questo debito insoluto. Per combinazione lo so... adesso. L'ho ignorato per anni. Era quello che mi teneva le mani legate. L'ho scoperto al momento giusto... per salvare Holmes, comunque. Se non ci fossi arrivato, lui, il vero Holmes, sarebbe finito dove sono tutti gli altri.» «Per combinazione lo sapete!» Gli occhi della donna parevano sprizzare scintille. «Non potete saperlo, nessuno lo può. Avete vissuto quei momenti? Li avete visti coi suoi occhi? Un paio di righe scarne su un rapporto della polizia, dimenticato e coperto dalla polvere! Il mio cuore, però, sanguina ancora. È passato tanto tempo, ormai; il tempo vola. Eppure, basta che chiuda gli occhi e lui è ancora accanto a me, Nick, mio marito. E mi sento nuovamente sommersa dal dolore, dall'odio, dalla collera, da quel vuoto terribile e gelido. Basta che chiuda gli occhi ed è di nuovo ieri, quel giorno sepolto nel tempo e mai dimenticato.» Flashback «...Nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non vi separi?» «Sì.» «Vi dichiaro marito e moglie. Ciò che Dio ha congiunto, l'uomo non osi separare. Potete baciare la sposa.» Si volsero timidamente l'uno verso l'altra. Lei sollevò il velo dal viso, e chiuse gli occhi mentre le loro labbra si congiungevano nel bacio di rito. Adesso, era la signora Killeen, non più Julie Bennett. Gli invitati si affollarono intorno a loro; Nick e Julie si trovarono sommersi da un flusso ribollente di teste che si spostavano, da manate sulle spalle e da voci che si rallegravano. Nella confusione, gli occhi di lui continuavano a cercarla, quasi volessero dire: la cosa veramente importante per me sei tu. Poi si trovarono di nuovo fianco a fianco, il signore e la signora Killeen,
la mano di lei aggrappata docilmente al braccio di lui, mentre il suo passo s'accordava a quello del marito e i loro cuori battevano all'unisono. Si avviarono sotto le volte della lunga navata della chiesa, verso il portale spalancato, oltre il quale il futuro, il loro futuro, attendeva. Dietro di loro, a due a due, venivano le damigelle, come un'aiuola mobile di fiori gialli, azzurri, lilla, rosa. L'arco del portale si allontanò dalle loro teste, cedendo il posto a un cielo notturno, morbido come il velluto, impreziosito da una sola stella, quella della notte. La stella che prometteva tante cose, vita lunga, felicità e allegria; prometteva tante cose, ma... ammiccava, infida. Parenti e amici rimasero un po' discosti, indietro, come fossero complici di un malizioso complotto, mentre i due protagonisti cominciavano a scendere senza sospetti la breve e ampia scalinata davanti alla chiesa. La prima di una breve teoria di macchine, che si erano tenute pronte lungo la strada, ingranò la marcia e si mosse lentamente per prenderli a bordo. Dagli ospiti ammassati dietro di loro, sulla soglia della chiesa, si levò una folata di risatine soffocate. Le mani cercarono i sacchetti di carta e le prime manciate di riso cominciarono a piovere sui gradini. La sposa alzò un braccio per salvarsi dai chicchi e si strinse più vicina allo sposo. Si udivano gridolini di gioia, mentre l'aria s'imbiancava dei chicchi di riso. A un tratto, lo stridore improvviso di una frenata, e una grossa sagoma nera, resa indistinta dalla repentinità stessa della sua comparsa, sbandando, girò l'angolo della chiesa, sfiorò il marciapiede e quasi salì sui gradini. Poi, per qualche miracolosa manovra da guidatore folle, sterzò, tornò in carreggiata, lasciò scorgere per una frazione di secondo che si trattava di una berlina nera, e sparì a velocità sostenuta. Una serie di detonazioni assordanti avevano accompagnato tutta l'incredibile apparizione e i bagliori dei ritorni di fiamma la seguirono, riflessi di finestra in finestra, lungo i piani inferiori delle case sul lato opposto della strada. Nella scia della macchina, una nube soffocante di fumo nero avvolse i gradini della chiesa e coloro che vi si trovavano, come se di lì fosse passato uno spirito maligno, e cominciò a dissolversi, parecchio tempo dopo che i sinistri fanalini rossi della vettura erano spariti. Le risate e le grida scherzose si erano trasformate in suoni strozzati e attacchi di tosse. Poi ci fu un improvviso silenzio, quasi una premonizione. In quel momento, una voce pronunciò un nome. La sposa chiamò il marito: «Nick!» con una voce quieta e piena di terrore. Per un istante ancora tutti rimasero immobili, ai piedi della scalinata, fianco a fianco come erano u-
sciti dalla chiesa. Poi, improvvisamente, lei fu sola, e lui giaceva ai suoi piedi. Gli altri si mossero, si precipitarono giù per la scalinata, assiepandosi intorno a lei. In mezzo a tutti loro, il viso di Nick la fissava dal basso, come un sasso bianco posato sul fondo di un profondo stagno. C'era una minuscola macchia rossa, come una virgola, quasi all'orlo del suo velo candido. Lei continuava a fissarla, ipnotizzata. Il viso di Nick era immobile. No, non una virgola: un punto. E trascorsero i minuti, vuoti, senza significato. Lei era una statua in bianco. L'unica cosa ferma, immobile, nell'agitazione frenetica tutt'intorno. Le voci che gridavano suggerimenti le giungevano come da un altro mondo, incomprensibili. «Slacciategli la giacca! Portate via le ragazze! Mettetele sulle macchine e accompagnatele a casa!» Alcune mani si tesero verso di lei, cercando di condurla via. «Il mio posto è qui» mormorò senza espressione. «È stordita» disse qualcuno. «Non lasciatela lì, cercate di portarla con voi.» Julie fece un cenno, meccanicamente, e la lasciarono stare. Nel turbine di suoni, s'udì la voce metallica e sinistra di una sirena che s'avvicinava, volando per le strade. Poi si fermò. Una borsa nera aperta ai piedi di lei. «Morto» disse una voce bassa. Una ragazza urlò, lì vicino; ma non era Julie. La borsa nera le si avvicinò. «Ecco, prendete questa...» Lei li allontanò con un cenno della mano, quella che portava la fede nuziale d'oro. «Lasciatemi tenere un momento mio marito tra le braccia. Lasciate che gli dica addio.» S'inginocchiò accanto a lui, nella nube di tulle bianco che palpitava intorno al suo corpo, come un fiocco di neve portato dal vento. Le due teste si avvicinarono, come avrebbero dovuto fare per sempre, ma una sola era calda di tenerezza. I più vicini sentirono un leggero sussurro: «Non dimenticherò.» Poi lei fu di nuovo in piedi, l'unica eretta tra tutti loro; come il ghiaccio, come il diamante. Una damigella in lacrime la tirò disperatamente per una manica. «Ti prego, Julie, vieni via.» Non parve udirla. «Quanti erano in quella macchina, Andreina?» «Ne ho visti cinque, mi pare.» «Anch'io, e ho la vista molto buona. Che numero di targa aveva quella macchina, Andreina?» «Non so, non ho avuto il tempo...»
«Io sì: D-3827. E ho un'ottima memoria.» «Julie, non fare così, mi fai paura. Perché non piangi?» «Piango, ma tu non puoi vedere. Vieni con me, Andreina, voglio tornare in chiesa.» «Per pregare?» «No, per fare un giuramento. Un altro giuramento a Nick.» Dopo la morte «Allora fu così, e voi avete pagato il vostro debito» disse Wanger pensieroso. «E niente di ciò che possiamo farvi vi toglierebbe la soddisfazione di aver assolto il vostro compito, vero? Nessuna punizione che possiamo infliggervi vi toccherebbe... dentro, dove risiede il vostro tribunale, vero?» Julie Killeen non rispose. «Già, è quello che ho immaginato in tutto questo tempo, e adesso mi accorgo che avevo visto giusto. Sicuro, il carcere non sarebbe una punizione per voi e neppure la sedia elettrica. Non c'è ombra di rimorso nei vostri occhi e non c'è un fremito di paura nel vostro cuore.» «Succede esattamente così. Avete visto bene dentro di me.» «Lo Stato non può punirvi, eh? Ma io lo posso. Ascoltatemi, Julie Killeen. Voi non avete vendicato Nick. Avete creduto di farlo, ma non è stato così. La sera in cui Bliss, Mitchell, Ferguson, Holmes e Moran passarono in auto davanti alla scalinata della chiesa, ubriachi fradici, un uomo stava appostato a una finestra del primo piano di una pensione, sul lato opposto della strada, con una pistola. Aspettava che voi due usciste. Per un motivo qualsiasi non aveva potuto colpire Killeen mentre entrava in chiesa; forse la vettura con la quale Nick era arrivato gli era d'ostacolo sulla linea di tiro, forse c'erano troppe persone intorno a lui o era giunto troppo tardi sul luogo dell'agguato mortale. E così attese là. Non voleva che gli sfuggisse all'uscita. E andò proprio così. Alzò l'arma mentre voi e vostro marito scendevate i gradini. Mirò a Nick, premette il grilletto. La macchina vi passò davanti in quel momento, a tutta velocità, col tubo di scappamento che sparava come una mitragliatrice. Ma la pallottola dell'uomo colpì nel segno, passando sopra la capote dell'auto. Fu una coincidenza assurda; a farlo apposta, non ci sarebbe riuscito. Gli stessi riflessi dei ritorni di fiamma sulle finestre buie, aiutarono a mascherare il lampo dello sparo. Ecco la vostra punizione, Julie Killeen. Voi avete assassinato quattro innocenti che non avevano nulla a che fare con l'uccisione di vostro marito.»
Non era riuscito a scuoterla, con queste parole; ne era sicuro. La donna era ancora chiusa nella sua gelida impenetrabilità; i suoi occhi erano pieni d'incredulità. «Sì, ricordo» disse in tono aspro. «A quel tempo, i giornali suggerirono un'ipotesi fantastica come questa, indubbiamente incoraggiati da voialtri, che volevate mascherare la vostra inefficienza. C'erano già stati altri casi che non sono mai stati chiariti: Elwell, Dorothy King, Rothstein, e sempre per la medesima ragione: marciume nei posti sbagliati, corruzione nei posti giusti, intrallazzi. Ma non c'è mai stato un caso in tutta la storia della polizia che sia passato sotto silenzio come questo. Non fu mai interrogato alcun sospetto, dal principio alla fine. Come se fosse stato abbattuto un cane per la strada!» «Per quello che riguarda i nostri incoraggiamenti alla stampa, accadde esattamente il contrario. Facemmo di tutto per impedire ai giornali di parlare dell'uomo al di là della strada, e li imbrogliammo deliberatamente con la storiella di una pallottola vagante partita da qualche tetto, nella speranza che, standocene zitti, l'ignoto assassino avrebbe pensato di farla franca e così l'avremmo acciuffato più facilmente.» «Non l'ho creduto allora e non lo credo adesso! Ho visto con i miei occhi...» «Allora diciamo che la vostra era stata un'illusione ottica. Se a quel tempo foste venuta da noi, e ci aveste domandato come procedevano le indagini, vi avremmo dato soddisfazione una volta per tutte. E invece no, avete voluto compiere la vostra vendetta. Avete nutrito il vostro rancore e vi siete rifiutata di parlare con la polizia. Non ci avete passato l'informazione che era in vostro possesso, per quanto imprecisa fosse e l'avete usata per uccidere.» Julie gli lanciò un'occhiata di compiaciuta conferma. «Furono trovate delle bruciacchiature sulle tendine di quella finestra, di fronte alla chiesa. C'erano alcune persone nella casa, al piano superiore, che avevano sentito distintamente uno sparo sotto il pavimento, tra le detonazioni fuori, sulla strada. In fondo, erano in una posizione migliore della vostra per giudicare. Trovammo persino un bossolo vuoto, dello stesso calibro del proiettile estratto dal corpo di vostro marito, incastrato in una fessura del pavimento di legno. Sapevamo fin dall'inizio da dove era stato esploso il colpo; per questo non demmo la caccia alle automobili cariche di ubriachi. Sapevamo tutto, tranne chi era l'assassino. L'abbiamo scoperto solo di recente. Non volete sapere chi è? Non volete sapere almeno il suo nome?»
«Perché dovrei interessarmi ai giochi di prestigio che inscenate per mettermi con le spalle al muro?» «Adesso la prova è nei nostri archivi. È arrivata troppo tardi per salvare Bliss, Mitchell, Moran e Ferguson. Ma ora l'abbiamo. La prova scientifica, inconfutabile, documentata: una confessione firmata... Ne ho una copia in tasca. L'assassino è stato arrestato in città tre settimane fa.» Per la prima volta, lei non trovò le parole per una risposta dura. «Lo incontrerete quando verrete con me, tra poco. Penso che lo riconoscerete.» Sulla corazza d'indifferenza che la proteggeva era apparsa la prima incrinatura superficiale. Negli occhi di Julie comparve un'ombra di dubbio, di timore. Le sfuggì una domanda: «Chi è?» «Corey. Vi dice niente questo nome?» Julie rispose con angosciata lentezza. «Sì, ricordo questo Corey. Ha incrociato la mia strada due volte. La prima su una terrazza, durante una festa, quando mi portò un drink. Sarebbe stato facile... ma io lo mandai via per...» «Per assassinare Bliss, vero?» «Che secondo voi era uno che non mi aveva mai fatto del male e che non mi aveva mai vista prima di quella sera.» Si strinse la fronte tra le mani, poi riprese: «La seconda e l'ultima volta andai con lui nel suo appartamento, per qualche minuto. Ci andai perché era il sistema migliore per liberarmene. Ricordo di averlo persino minacciato con una pistola, per essere sicura di uscire indisturbata. Con la sua pistola.» «La pistola che uccise vostro marito. La pistola dalla quale partì il proiettile per Nick Killeen. Per l'errore di un pivello, è stata esaminata dalla sezione balistica anziché da quella dattiloscopica, alla quale dovevano mandarla per rilevare le vostre impronte. Corey ce l'aveva data proprio per questo. Ricordo che stavo dicendone di tutti i colori a quelli della sezione impronte perché non mi avevano mandato il rapporto su un'arma che non gli era mai stata consegnata, quando qualcuno mi telefonò dalla sezione balistica e mi disse: "La pistola che ci hai mandato presenta le stesse caratteristiche riscontrate sul proiettile estratto dal corpo di Nick Killeen. Pensiamo che volessi sapere questo, dato che non ci hai chiesto nulla di specifico". Dovetti constatarlo coi miei occhi, prima di crederci. Poi, per colmo d'ironia, arriva questo Corey per vedere se avevamo finito con la pistola e per chiederci se poteva riaverla. Non è più uscito di là. «Si era presentato spontaneamente per darci una mano. Aveva il porto
d'armi; solo che aveva commesso un eccesso di zelo nel consegnarci la pistola, per vedere se potevamo ricavarne le vostre impronte, Julie. Immagino che, dopo tutti gli anni trascorsi dall'uccisione di Nick, il suo senso di sicurezza fosse diventato ormai un'arrogante certezza. Pensava che nulla potesse... Ci volle un po' di tempo, ma finalmente riuscimmo a farlo confessare. Nei mesi precedenti avevo lavorato per conto mio su quello che noi tutti pensavamo fosse un caso completamente diverso, e m'ero imbattuto in un trafiletto piuttosto vago nei vecchi giornali della biblioteca, con la data di uno di quei giorni delle bisbocce dei Diavoli del Venerdì sera. Era solo una notiziola d'interesse umano, tragica per coloro che vi erano stati coinvolti, ma priva di particolare importanza. Uno sposo era stato fulminato da un proiettile vagante, probabilmente sparato da un tetto nelle vicinanze, proprio mentre usciva dalla chiesa dove si era svolta la cerimonia nuziale. Quella storia mi forniva Tunica ragione possibile per le uccisioni dei Diavoli del Venerdì sera, che avevano perso tre soci e il barista che si portavano dietro nelle scorribande. Non feci altro che tirare le conclusioni. Non vi era alcun accenno alla sposa-vedova, ma doveva essercene sicuramente una, giacché un uomo non si sposa da solo. «Così passammo sotto silenzio l'arresto di Corey e lo tenemmo praticamente isolato, per essere sicuri che voi non veniste a saperlo e sferraste così il seguente e ultimo attacco. Era facile indovinare quale sarebbe stato il vostro bersaglio, e io non feci altro che sostituirmi alla vittima. «Tuttavia, non riesco a capire come facevate a sparire tra l'una e l'altra... visita, per così dire. Come siete riuscita a svanire ogni volta, senza lasciare tracce, e ad attuare tutte quelle rapide trasformazioni di pettinature, di personalità? Sapevo che dovevate farvi viva ma, fino all'ultimo minuto, non sapevo da dove e in che modo. Era come voler prendere un fantasma». La donna rispose distratta: «Non c'era niente di straordinario. Probabilmente mi avrete cercato nei posti più nascosti, nelle pensioni e negli alberghetti a buon mercato. Invece, tutti i giorni mi trovavo a contatto con decine di persone che mi davano un'occhiata e basta. Vivevo in un ospedale. Vi dirò quale, se volete. È uno dei più grandi della città. Vivevo e lavoravo là e non avevo bisogno di uscire. I miei capelli erano sempre coperti, cosicché nessuno notava il loro colore. Quando ero fuori servizio, me ne stavo nella mia stanza e non incoraggiavo le amicizie con i colleghi. Quando giungeva il momento di... colpire ancora, mi procuravo una breve licenza, andavo via e tornavo dopo pochi giorni.» «E tutto per che cosa? Per niente.»
La donna respirava di nuovo a fatica, come prima, quand'era nella poltrona. Come se qualcosa si stesse sciogliendo dentro di lei, fin quasi a soffocarla. «E ho avuto in mano la pistola con la quale Corey aveva ucciso Nick! L'avevo davanti a me, in mio potere, e ho abbassato l'arma e sono andata a uccidere un innocente!» Fu presa da un tremito irrefrenabile, come avesse avuto una sensazione di freddo. «Ora sento il grido orribile di Bliss mentre cadeva dalla terrazza. Non lo sentii, allora. E sento il gemito di Mitchell. Li sento tutti, adesso!» La testa le cadde sul petto di schianto, come se il collo si fosse spezzato. Julie scoppiò in un pianto silenzioso. Parecchio tempo dopo, quando si fu ripresa, alzò gli occhi e domandò: «Ma perché l'ha fatto? Corey, voglio dire... Devo saperlo.» Un foglio di carta frusciò sotto la giacca di Wanger. Il poliziotto tirò fuori una copia della confessione, la spiegò e gliela porse. Julie lanciò solo un'occhiata all'inizio e in fondo all'ultima pagina, alla firma, poi gliela rese. «Ditemelo voi. Adesso vi credo, siete una persona leale.» «Vostro marito e Corey formavano un'associazione per delinquere; una piccola, interessante, lucrosa associazione per delinquere. I particolari sono qui, nella confessione.» S'interruppe un attimo. «Killeen ve lo aveva detto.» Lei annuì. «Sì, me lo aveva detto. Lo sapevo. Mi aveva detto tutto... tranne i nomi. Mi aveva detto che cosa gli sarebbe capitato se si fosse tirato indietro. Non gli avevo creduto. Allora non conoscevo ancora la violenza. Gli dissi che doveva scegliere: quella vita, o me. Non pensavo che fosse una cosa seria, non credevo che potesse esserlo. Lo amavo, lui ci mise un paio di settimane per pensarci su, e fece la sua scelta: me.» Per la prima volta, Julie Killeen guardava in viso Wanger. Parlava quietamente, come se stesse raccontando la storia di un'altra donna. «Cambiò casa e c'incontravamo di nascosto. Gli suggerii di andare insieme a chiedere protezione alla polizia, ma lui rispose che era invischiato come le persone che temeva. Disse che ce ne saremmo andati. Che ce ne saremmo andati subito, dalla porta della chiesa direttamente al piroscafo. Quella fu un'altra cosa sulla quale m'impuntai, il matrimonio in chiesa.» Sorrise cupa. «Vedete, l'ho ucciso io, in un certo qual modo. E questo accrebbe ancora più i miei obblighi, dopo.» Esitò un attimo, stanca; poi proseguì: «Disse che non saremmo tornati presto, forse non saremmo tornati che dopo parecchio
tempo... E infatti ce ne andammo... ma non insieme. Nessuno di noi due tornò mai. Sapevo che dovevo accettare quelle condizioni o rinunciare a tutto. Non era più questione di scelta, per me. Lo volevo, Dio come lo volevo. Stavo sempre sveglia di notte, dividendo in minuti e secondi il tempo che dovevo ancora vivere senza di lui. Così pareva più breve. Gli affari... mi promise che li avrebbe lasciati perdere, e questo è tutto ciò che la mia coscienza fu abbastanza forte da chiedergli.» «L'errore che avete commesso tutti e due» disse Wanger, quasi parlando tra sé «è stato quello di pensare che per lui fosse possibile abbandonare la partita. Avevano già parecchi omicidi alle spalle, commessi nel trattare i loro affari. Poi c'era il problema della suddivisione finale degli utili, che è sempre la difficoltà più grossa. Corey non poteva lasciarlo andare, erano legati l'uno all'altro.» La donna l'interruppe. Nella sua voce sommessa, vibrava la collera. «Lui fece marcia indietro. Non solo fece marcia indietro, cambiò gioco. Il signor Corey... l'uomo più elegante della città, ecco che cos'è diventato! Perché non poteva lasciar andare Nick? Perché l'ha ucciso?» Per la prima volta nella sua carriera, Wanger si trovava costretto a rispondere alle domande, anziché costringere gli altri a rispondere alle sue. C'era la disperazione di Julie Killeen che lo costringeva ad abbandonare le regole del solito gioco. «Sì, Corey abbandonò la partita. Ma quando lo fece, doveva fare i conti solo con se stesso, non dimenticatelo. Quando ci provò Killeen, c'era ancora Corey. E poi, anche il modo scelto da vostro marito era tutt'altro che rassicurante. Tagliò i ponti e si nascose, ascoltando probabilmente i vostri buoni consigli, ma sapeva tanto su Corey da mandarlo sulla sedia elettrica senza troppa fatica. Per non parlare delle svariate migliaia di dollari che Corey pensava gli fossero dovute. Corey aveva le sue ragioni, d'accordo. Sapeva che da quel momento non avrebbe avuto nemmeno un attimo di pace. Avrebbe avuto costantemente una spada sospesa sulla testa per ogni minuto della vita. Si diede da fare per liquidare Nick, quando le probabilità erano ancora buone, prima che Nick liquidasse lui. La chiesa era l'unico posto dove Corey era sicuro di trovare vostro marito. Probabilmente, prima di quel momento, Nick era sparito dalla circolazione.» «Se ne stava nascosto, ben nascosto» confermò lei con calma, quasi indifferente. «Nick aveva cambiato abitazione. Corey non sapeva chi era la ragazza, dove abitava.»
«C'incontravamo nel buio dei cinema, sempre in due posti dell'ultima fila.» «Tuttavia, alla fine Corey trovò un sistema: fece il giro di tutte le chiese, in cerca d'informazioni. Qualcuno parlò troppo e lui scoprì dove e quando sarebbe stato celebrato il matrimonio. Poi prese in affitto una stanza dalla quale dominava l'ingresso laterale della chiesa. Sapeva che Nick si sarebbe servito di quello. Portò con sé una pistola e un sacco di viveri e non si staccò da quella finestra per quarantott'ore filate. Pensava che l'ora della cerimonia poteva essere spostata all'ultimo momento per precauzione.» Nella stanza regnava il silenzio. Wanger pensava alla pallottola che aveva ucciso Nick Killeen, la pallottola che era passata sulla testa di cinque uomini e che tuttavia aveva provocato la morte di quattro di loro. Sospirò e guardò Julie. «Corey non seppe mai chi eravate voi, dal primo all'ultimo momento. Eravate solo quell'insignificante figuretta bianca, accanto al suo bersaglio. E nemmeno voi sapevate chi era l'uomo che una notte vi portò nel suo appartamento. Naturalmente, non sospettavate che avesse ucciso vostro marito.» Lei non replicò, pareva non aver sentito. «Dopo, Corey mandò una corona al funerale.» La donna rabbrividì e alzò una mano, come se Wanger l'avesse colpita. Il poliziotto capì che finalmente era riuscito a convincerla. Si alzò, le mise le manette chiudendole con delicatezza, quasi non volesse turbare le sue amare fantasticherie. Lei parve non accorgersene. «Andiamo» disse Wanger. La donna si alzò e allora si accorse dei ferri che le stringevano i polsi. Guardò Wanger e annuì gravemente. «Sì» disse Julie Killeen. «È ora che me ne vada.» FINE